Manuale di linguistica e di grammatica italiana 8860084652, 9788860084651

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Manuale di linguistica e di grammatica italiana
 8860084652, 9788860084651

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Michele Prandi Cristiana De Santis

MANUALE DI LINGUISTICA E DI GRAMMATICA ITALIANA

UTET UNIVERSITÀ

Indice UTET www.utetuniversita.it

XXV Introduzione XXIX Premessa - La grammatica: regole e scelte, strutture e funzioni 3 Proprietà letteraria riservata © 2019 De A gostini Scuola SpA - Novara 1“ edizione: febbraio 2019

I - Sulla soglia della grammatica: i segni, la comunica­ zione, le norme e gli usi P arte

5 Capitolo 1 - Un mondo di segni

Printed in lìaly

5 6 7 8

In copertina: iStock Grafico: Marco Fiorello, Matteo Rossi Art Director: Nadia Maestri

Tutti i diritti riservati. Nessuna parte del materiale protetto da questo copyright potrà essere riprodot-ta in alcuna forma senza l’autorizzazione scritta dell’Editore. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, com-ma4, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni ad uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume/fascicolo, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana, 108-20122M [email protected]

11

15

1.1 1.2 1.3 1.4

Che cos’è un segno Tipi di segni I segni della lingua come simboli I segni linguistici e gli indici: differenze 1.4.1 Gli indici identificano oggetti, i segni istituiscono concetti, p. 9 —1.4.2 Gli indici sono motivati, i segni sono arbitrari, p. 10 1.5 Le icone e gli indici nella lingua e nellacomunicazione 1.5.1 Icone nella lingua e nei testi, p. 11 - 1.5.2 Indici nella lingua, p. 13 - 1.5.3 Espressioni come indici di messaggi: la comunicazione, p. 13 1.6 L’interpretazione del messaggio 1.6.1 Le inferenze e il campo di interpretazione, p. 15 - 1.6.2 La relazione complessa tra significati e messaggi, p. 17

19 Capitolo 2 - La lingua italiana tra norma e usi 19

Stampa: M icrograf-M appano (TO)

Ristampe: Anno:

0 1 2019

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2.1 II concetto di norma 2.1.1 La grammatica come forma di canonizzazione, p. 21 2.1.2 Una norma in movimento, p. 24 25 2.2 Come cambia la lingua: l’innovazione e l’errore 2.2.1 Fattori interni di cambiamento: uniformità, distinzione, economia, ridondanza, espressività, p. 29 - 2.2.2 Fattori esterni di cambiamento: autorità, politicamente corretto, influssi di al­ tre lingue o dialetti, p. 30

VI

Indice

Indice

33 2.3

41 2.4

L’architettura dell’italiano contemporaneo 2.3.1 Standard, neostandard, substandard, p. 35, 2.3.2 Gli ita­ liani regionali, p. 39 La prospettiva storica: sintassi e testualità ieri e oggi

51 Parte II - La forma interna della lingua 53 Premessa 55 Capitolo 3 - Dalla parte del significante: il patrimonio di suoni dell’italiano 55 3.1 56 3.2 58 3.3

66 3.4 67 3.5

I fonemi L’articolazione dei suoni Le vocali e le consonanti 3.3.1 Le vocali, p. 59 - 3.3.2 Le semivocali (o semiconsonanti), p. 61 - 3.3.3 Le consonanti, p. 62 I suoni dell’italiano: la funzione distintiva Pronuncia e grafia dell’italiano 3.5.1 La scrittura dei suoni: l’alfabeto, p. 67 - 3.5.2 II patrimo­ nio comune e le differenze regionali, p. 70

73 Capitolo 4 - Dalla parte del significante: dalla sillaba all’enun­ ciato 73 4.1 La struttura della sillaba 75 4.2 La parola e l’accento 4.2.1 Sede dell’accento, p. 75 - 4.2.2 Parole atone: enclitici e proclitici, p. 76 76 4.3 Incontri di parole 4.3.1 Togliere suoni: elisione e troncamento, p. 77 - 4.3.2 Ag­ giungere suoni, p. 77 78 4.4 Fonologia dell’enunciato: l’intonazione 4.4.1 La curva melodica, p. 78 - 4.4.2 Le pause interne e gli accenti: il ritmo, p. 79

89 Capitolo 6 - Dalla parte del significato: il lessico 89 91 92 96

6.1 6.2 6.3 6.4

Le lingue plasmano i significati Concetti classificatori e concetti relazionali nel lessico Polisemia e omonimia La struttura del lessico 6.4.1 I campi semantici, p. 96 - 6.4.2 Opposti e contrari, p. 97 - 6.4.3 Sinonimi, p. 98 - 6.4.41 conversi e la relazione di para­ frasi, p. 99 - 6.4.5 Significati generici e significati specifici: iperonimia e iponimia, p. 100 —6.4.6 Solidarietà lessicali, p. 101 103 6.5 Espressioni complesse che valgono come parole: polirematiche ed espressioni idiomatiche 105 6.6 I prestiti 106 6.7 I lessici di specialità 108 6.8 Le definizioni 113

P arte

III - Sintassi della frase modello. La frase semplice

115 Premessa - La struttura sintattica della frase e il suo significato 117 Capitolo 7 - L’articolazione essenziale della frase: soggetto e predicato 117 7.1 119 7.2

Espressione nominale ed espressione verbale Soggetto e predicato 7.2.1 II soggetto, p. 119 - 7.2.2 Tipi di predicato, p. 121

123 Capitolo 8 - La struttura dell’espressione nominale 123 124 125 126

8.1 8.2 8.3 8.4

Una forma per tante funzioni Nomi propri e nomi comuni Tipi e funzioni dei determinanti di nomi L’uso dei determinanti: nomi numerabili e nomi di massa 8.4.1 Nomi collettivi, p. 128

131 Capitolo 9 - La struttura del predicato nominale 131 9.1 132 9.2

L’aggettivo II nome: nomi classificatori e nomi di processo

81 Capitolo 5 - Dalla parte del significato: la grammatica 81 83 85 87

5.1 5.2 5.3 5.4

La morfologia: parola e lessema La sintassi: frasi e enunciati II significato delle frasi La sintassi: il periodo

135 Capitolo 10 - La struttura del predicato verbale 135 10.1 I complementi del verbo 136 10.2 Verbi impersonali o zerovalenti 137 10.3 Verbi a un posto o monovalenti

vii

Vili

Indice

Indice

137 10.4 Verbi a due posti o bivalenti 10.4.1 Verbi a due posti transitivi: l’oggetto diretto, p. 137 10.4.2 Verbi a due posti intransitivi: l’oggetto preposizionale, p. 139 - 10.4.3 II complemento di argomento, p. 141 - 10.4.4 Verbi con complemento predicativo, p. 142 144 10.5 Verbi a tre posti o trivalenti: l’oggetto indiretto 10.5.1 Verbi transitivi e verbi intransitivi, p. 146 147 10.6 Le relazioni spaziali: relazioni concettuali come argo­ menti del verbo 10.6.1 Verbi di stato: il complemento di luogo, p. 149 - 10.6.2 Verbi di movimento e di spostamento: l’origine, il tragitto, la destinazione, p. 150 151 10.7 Verbi con valenza variabile 153 10.8 Enunciati senza verbo: la frase nominale

181 Capìtolo 14 - Le espansioni del nome

155 Capitolo 11 - Le costruzioni passive, riflessive e fattitive

199 Capitolo 15 - L e frasi completive come argomenti di verbi

155 11.1 La frase passiva e il complemento d’agente 157 11.2 La costruzione riflessiva 11.2.1 La costruzione riflessiva reciproca, p. 157 - 11.2.2 L’uso pronominale dei verbi, p. 158 - 11.2.3 Uso pleonastico e uso impersonale del pronome riflessivo, p. 159 160 11.3 Le costruzioni fattitive o causative

199 15.1 Frasi oggettive 15.1.1 Forma esplicita, p. 200 - 15.1.2 Forma implicita, p. 202 203 15.2 Discorso diretto e discorso indiretto 204 15.3 Frasi interrogative indirette 206 15.4 Frasi soggettive 15.4.1 Forma esplicita, p. 206 - 15.4.2 Forma implicita, p. 207 15.5 Frasi incidentali 207

163

Capitolo 12 - Il nucleo della frase e i suoi margini

163 12.1 Una struttura complessa e stratificata: il nucleo e le sue espansioni 164 12.2 II nucleo della frase come struttura gerarchica 165 12.3 Isolare il nucleo dai margini: dalla frase al testo

181 14.1 L’espressione nominale: nucleo e espansioni 182 14.2 Modificatori e complementi 14.2.1 Attributi e apposizioni, p. 182 - 14.2.2 I complementi del nome, p. 183 189 Conclusione - Codifica e inferenza nella messa in opera dei si­ gnificati 193

169 13.1 Margini del processo: le circostanze 13.1.1 Lo spazio: da complemento del verbo a circostanza, p. 170 - 13.1.2 II tempo: da circostanza a complemento del ver­ bo, p. 171-13.1.3 Causa e concessione, p. 172 172 13.2 Margini del predicato 13.2.1 Lo strumento, p. 174 - 13.2.2 II collaboratore dell’a­ gente, p. 175 - 13.2.3 II beneficiario e il fine, p. 176 176 13.3 Le espressioni eccettuative 177 13.4 Modificatori del verbo

IV - Sintassi della frase modello: il periodo come frase complessa

195 Premessa. Due funzioni per il periodo

209 Capitolo 16 - Frasi dipendenti da nomi e aggettivi 209 16.1 Frasi che modificano nomi: le relative 211 16.2 Frasi completive di nomi e aggettivi 215

169 Capitolo 13 - Le espansioni nella frase: margini esterni, margini interni, modificatori del verbo

P arte

P arte

V - Il testo tra coerenza e coesione

217 Capitolo 17 - L a frase semplice come segnale di un messaggio: funzione interpersonale e testuale 217 17.1 L’orientamento verso gli interlocutori 17.1.1 La frase non marcata, p. 217 - 17.1.2 Le forme marcate: frasi interrogative e imperative, p. 218 223 17.2 Orientamento verso il testo e il contesto: la prospettiva comunicativa 17.2.1 La prospettiva non marcata, p. 224 - 17.2.2 Strutture marcate, p. 225 - 17.2.3 La frase passiva, p. 227 - 17.2.4 La messa in rilievo del tema: le dislocazioni, p. 227 - 17.2.5 La messa in rilievo del fuoco: la frase scissa, p. 231 - 17.2.6 La relazione di parafrasi, p. 233

IX

Indice Indice

235 Capìtolo 18 - Al di là della frase: il testo e il discorso

269 Capitolo 24 - La coesione: i tempi verbali nel testo e nel discorso

235 18.1 Coerenza e coesione 238 18.2 Coerenza concettuale e coerenza testuale

269 24.1 Tempi e tempo 270 24.2 Tempi verbali e tonalità del testo 24.2.1 Tipi di testi: il mondo vissuto e il mondo della narrazio­ ne, p. 270 - 24.2.2 I rapporti temporali nel testo, p. 272 273 24.3 Tonalità temporali e tipi di testi 24.3.1 Tonalità discorsiva, p. 273 —24.3.2 Tonalità narrativa, p. 273 - 24.3.3 L’imperfetto, p. 275 276 24.4 Testi a tonalità mista

239 Capitolo 7 9 -1 fattori della coerenza testuale 239 19.1 La coerenza tra testo scritto e discorso orale 19.1.1 II testo scritto: tema e sviluppo tematico, p. 240 - 19.1.2 Il discorso orale: coerenza e interpretazione, p. 241 242 19.2 Coerenza tematica del testo e prospettiva comunicativa dell’enunciato 244 19.3 I fattori della coerenza alla base della coesione: referenti e processi 247 Capitolo 2 0 - La coesione: introdurre i referenti 247 20.1 Tipi di espressioni che introducono referenti 248 20.2 Nomi propri 249 20.3 Nomi comuni: articolo indeterminativo e determinativo 20.3.1 I dimostrativi, p. 250 - 20.3.2 Articoli determinativi e dimostrativi in apertura di testo, p. 251 252 20.4 Ellissi e pronomi 253 Capitolo 21 - La coesione: richiamare i referenti 253 21.1 Ripresa per ripetizione 254 21.2 Ripresa per sostituzione 21.2.1 Pronomi ed ellissi, p. 254-21.2.2 Nomi comuni, p. 255 257 Capitolo 22 - Deissi, anafora e tipi di testi 257 258 259 259 260

22.1 22.2 22.3 22.4 22.5

Deissi situazionale Anafora e catafora Deissi testuale Espressioni esclusivamente deittiche Due regimi testuali a confronto: il discorso vivente e il racconto 262 22.6 L’anafora: dalla realtà alla finzione 265 Capitolo 23 - La coesione: la continuità dei processi 265 23.1 Espressioni che riprendono processi 23.1.1 Pronomi ed ellissi, p. 266 - 23.1.2 Sintagmi nominali, p. 266

279

P arte

VI - Sul confine tra frase e testo: l’espressione delle rela­ zioni transfrastiche

281 Premessa 283 Capitolo 25 - Relazioni concettuali e forme di espressione 283 25.1 Frasi subordinate e relazioni concettuali: l’esempio della causa, del motivo e del fine 25.1.1 Causa e motivi: una questione di coerenza tra concetti, p. 284 - 25.1.2 Un microsistema di concetti condivisi, p. 286 287 25.2 Le forme di espressione delle relazioni transfrastiche 25.2.1 Connessione grammaticale e coerenza testuale, p. 288 -

25.2.2 La frase complessa subordinativa: codifica completa, ipocodifica, ipercodifica, p. 289 - 25.2.3 La giustapposizione: un ponte inferenziale tra processi, p. 290 - 25.2.4 Tipi di rela­ zioni anaforiche e nomi di relazione, p. 290 —25.2.5 Coordina­ zione, p. 293 295 Capitolo 26 - Relazioni formali tra processi: cooccorrenza e al­ ternativa 295 26.1 Due tipi di relazioni formali tra processi 299 Capitolo 27 - Le principali relazioni concettuali tra processi 299 27.1 Relazione avversativa 302 27.2 Relazioni temporali 27.2.1 Contemporaneità, p. 302 - 27.2.2 Anteriorità, p. 303 27.2.3

Posteriorità, p. 303

304 27.3 Relazioni causali 27.3.1 L’espressione nel periodo, p. 305 - 27.3.2 L’espressione nella sequenza, p. 306

XI

XII

Indice Indice

306 27.4 Motivi dell’azione 27.4.1 L’espressione di forma causale, p. 307 - 27.4.2 L’espres­ sione di forma finale, p. 308 - 27.4.3 L’espressione nella se­ quenza, p. 310 - 27.4.4 II fine si dice in molti modi, p. 311 — 27.4.5 Forme finali atipiche, p. 313 - 27.4.6 Motivi del pensa­ re e motivi del dire, p. 315 - 27.4.7 Frasi completive di conte­ nuto finale, p. 316 317 27.5 Relazione consecutiva 318 27.6 Relazione concessiva 27.6.1 L’espressione nel periodo, p. 319-27.6.2 L’espressione nella sequenza, p. 320 320 27.7 II ragionamento ipotetico: condizionale semplice e bicon­ dizionale 27.7.1 Le forme del periodo ipotetico, p. 321 -27.7.2 Le forme atipiche di periodo ipotetico, p. 324 - 27.7.3 La relazione con­ dizionale nella sequenza, p. 327 327 27.8 Frasi strumentali, esclusive, limitative, eccettuative 328 27.9 Frasi comparative 331 Capitolo 28 - La prospettiva nel periodo 331 333 335 336

28.1 28.2 28.3 28.4

Una dimensione in più: primo piano e sfondo La distribuzione del dinamismo comunicativo nel periodo Struttura del dinamismo comunicativo e coerenza testuale Primo piano e sfondo: i mezzi specifici del periodo

339

P arte

VII - Morfologia

341 Premessa 343 Capitolo 29 - La classificazione delle parole 343 29.1 Le classi di parole tra forme, funzioni e concetti 29.1.1 Le classi di parole: criteri di inclusione, p. 344 - 29.1.2 Le classi di parole: contenuti concettuali e funzioni caratteriz­ zanti, p. 345 347 29.2 La flessione: parole variabili e invariabili 349 Capitolo 3 0 -1 nomi 349 30.1 I nomi: proprietà grammaticali, funzione e contenuto concettuale 350 30.2 II genere dei nomi di animati

352 30.3 La flessione 30.3.1 Nomi difettivi, p. 353 - 30.3.2 Nomi sovrabbondanti, p. 353 355 Capitolo 31 - Gli articoli 355 356 357 358 358

31.1 31.2 31.3 31.4 31.5

Gli articoli: forme e funzioni L’articolo determinativo L’articolo indeterminativo

L’articolo partitivo L’articolo zero

361 Capitolo 32 - Gli aggettivi 361 32.1 Gli aggettivi tra modificazione e determinazione del nome 362 32.2 Gli aggettivi detti qualificativi 32.2.1 Gli aggettivi qualificativi, p. 362 - 32.2.2 Usi non quali­ ficativi di aggettivi qualificativi, p. 363 - 32.2.3 Gli aggettivi non qualificativi, p. 364 - 32.2.4 La flessione, p. 365 —32.2.5 II grado, p. 366 32.3 I cosiddetti aggettivi determinativi 370 32.3.1 Possessivi, p. 371 - 32.3.2 Dimostrativi, p. 372 —32.3.3 Indefiniti, p. 373 - 32.3.4 Interrogativi e esclamativi, p. 375 32.3.5 Numerali, p. 376 379 Capitolo 33 - 1 pronomi 379 33.1 I pronomi personali 33.1.1 Morfologia dei pronomi personali, p. 380 - 33.1.2 Uso delle forme atone e delle forme toniche, p. 383 - 33.1.3 Cumu­ lo di clitici, p. 386 388 33.2 I pronomi possessivi 388 33.3 I pronomi dimostrativi 389 33.4 I pronomi indefiniti 390 33.5 I pronomi interrogativi ed esclamativi 391 33.6 I pronomi relativi 395 Capitolo 34 - 1 verbi 395 34.1 Tipologia degli usi verbali 398 34.2 Tipi di verbi predicativi 400 34.3 La morfologia del verbo 34.3.1 Forma o diatesi, p. 400 - 34.3.2 Modo, p. 400 - 34.3.3 Tempo, p. 401 - 34.3.4 Aspetto, p. 403 - 34.3.5 Le coniugazio­ ni regolari, p. 403 - 34.3.6 I verbi irregolari, p. 404

XIII

XIV

Indice

Indice

409 Capitolo 35 - Le parole di collegamento: preposizioni e con­ giunzioni 409 35.1 Relazioni grammaticali e relazioni concettuali 410 35.2 Tipi di collegamento: subordinazione e coordinazione 411 35.3 Le preposizioni 35.3.1 Le preposizioni proprie, p. 411 - 35.3.2 Le preposizioni dette improprie, p. 413 -35.3.3 Le locuzioni preposizionali, p. 413 414 35.4 Le congiunzioni 35.4.1 Congiunzioni subordinative, p. 414 - 35.4.2 Congiunzio­ ni coordinative, p. 415 - 35.4.3 Locuzioni congiuntive, p. 416 419 Capitolo 3 6 - Gli avverbi 419 36.1 Modificatori del verbo, dell’aggettivo e dell’avverbio 420 36.2 Avverbi che non modificano il verbo: dalla funzione ideativa alla funzione interpersonale 36.2.1 Luogo e tempo, p. 421 - 36.2.2 Domande e risposte, p. 422 - 36.2.3 Avverbi anaforici, p. 423 - 36.2.4 II commento dell’atto di parola, p. 424 - 36.2.5 II grado negli avverbi, p. 427 429 Capitolo 37 - Tra linguaggio articolato e gesto: le interiezioni 431 Capitolo 38 - La formazione delle parole 431 38.1 Parole primitive e parole derivate 432 38.2 Parole composte 38.2.1 Verbo e nome, p. 433 - 38.2.2 Nome e aggettivo, p. 433 —38.2.3 Nome e nome, p. 433 - 38.2.4 Preposizione e nome, nome e complemento, p. 434 434 38.3 Parole derivate: alterazione 436 38.4 Parole derivate: trasposizione 438 38.5 Prefissoidi e suffissoidi

443

P arte

Vili - La valorizzazione estetica della lingua: le figure

445 Capitolo 39 - Le figure e le risorse della lingua 445 39.1 Le figure: suoni, costruzioni, contenuti 448 39.2 Le figure e le funzioni strumentali della lingua 451 Capitolo 40 - Le figure del piano dell’espressione 451 40.1 Figure di suono 40.1.1 Figure di suono codificate, p. 451 - 40.1.2 Paronomasia,

onomatopea e simbolismo fonico, p. 452 - 40.1.3 Figure di rit­ mo e accento: il verso, p. 454 - 40.1.4 Figure dette di costruzio­ ne, p. 458 - 40.1.5 Figure dell’espressione: la densità del mes­ saggio, p. 460 463 Capitolo 41 - Figure di contenuto: dal conflitto alle figure 463 41.1 II conflitto tra concetti 465 41.2 La contraddizione: l’ossimoro 467 41.3 L’incoerenza: sineddoche, metonimia, metafora 41.3.1 La distinzione tra sineddoche metonimia e metafora: il criterio grammaticale, p. 468 - 41.3.2 Sineddoche, p. 473 41.3.3 Metonimia, p. 474 - 41.3.4 Metafora: trasferimento, in­ terazione e proiezione, p. 475 - 41.3.5 Similitudine, p. 484 487 Capitolo 42 - Figure dell’interpretazione dei messaggi 487 42.1 II conflitto: dalla struttura della frase al testo e alla comu­ nicazione 488 42.2 Allegoria 489 42.3 Iperbole 489 42.4 Ironia 490 42.5 Litote 491 42.6 Domanda retorica 493 Glossario 505 Bibliografia 517 Indice analitico

XV

Indice dei box

XXXVIII Box P. 1 Codifica redazionale e codifica puntuale 6 Box 1.1 Lingua e linguaggio 8 Box 1.2 Significante e significato 10 Box 1.3 II concetto di arbitrarietà 15 Box 1.4 I gesti comunicativi 20 Box 2.1 II plurilinguismo medievale visto da Dante 22 Box 2.2 La grammatica scolastica 27 Box 2.3 Lapsus linguae, lapsus calami 32 Box 2.4 Stereotipi linguistici e grammaticali 42 Box 2.5 Dieci parole per dieci secoli 46 Box 2.6 Grammaticalizzazione e lessicalizzazione 48 Box 2.7 Regole e scelte in un passo dantesco 58 60 61 61 65 65 69 71

Box 3.1 Come trascriviamo i suoni: l’alfabeto fonetico in­ temazionale (IPA) Box 3.2 Dal latino all’italiano: le vocali Box 3.3 Alcune vocali dei dialetti italiani Box 3.4 Le vocali: variazioni regionali Box 3.5 Dal latino all’italiano: le consonanti Box 3.6 Le consonanti: variazioni regionali Box 3.7 La pronuncia delle lettere straniere Box 3.8 La pronuncia standard dell’italiano

74

Box 4.1 La struttura della sillaba in altre lingue e dialetti

82

Box 5.1 Morfi, morfemi, allomorfi

93 Box 6.1 Omofoni e omografi 94 Box 6.2 Parole e storia 99 Box 6.3 I geosinonimi 102 Box 6.4 Le parole fondamentali dell’italiano

XVIII

Indice dei box

Indice dei box

107 110 110

Box 6.5 I gerghi Box 6.6 Concetti endocentrici ed esocentrici Box 6.7 Tipi di dizionari

118 121

Box 7.1 II sintagma Box 7.2 La frase: « soggetto + predicato » o « verbo + argo­ menti »?

124 125 128

Box 8.1 L’articolo con i nomi propri Box 8.2 Dal nome proprio al nome comune (e viceversa) Box 8.3 Nomi concreti e nomi astratti

140 141 145 153

Box Box Box Box

182 184 185

Box 14.1 La posizione dell’aggettivo nel sintagma nomi­ nale Box 14.2 Quali « complementi » dobbiamo studiare? Box 14.3 La punteggiatura nella frase semplice

211 212

Box 16.1 Che tra pronome e congiunzione Box 16.2 La punteggiatura nella frase complessa

220 226 229 232

Box Box Box Box

237

Box 18.1 I tipi di testi

276

Box 24.1 II passato remoto nelle varietà regionali dell’ita­ liano

10.1 10.2 10.3 10.4

17.1 17.2 17.3 17.4

Le preposizioni: la doppia identità L’accusativo preposizionale II destinatario come meta metaforica La valenza nei dizionari

Gli atti linguistici L’ordine dei costituenti nella frase II tema sospeso o anacoluto Scritto e parlato

351 Box 30.1 II femminile dei nomi di professione e di carica 358 Box 31.1 Dal latino all’italiano e ai dialetti: laformazione degli articoli 363 Box 32.1 La modificazione obliqua 368 Box 32.2 Super-lativi alternativi 369 Box 32.3 Comparativi e superlativi opachi 374 Box 32.4 Gli indefiniti come quantificatori Box 33.1 II pronome soggetto in italiano antico e nei dia­ letti 383 Box 33.2 I pronomi allocutivi in italiano 385 Box 33.3 Lui o egli! 385 Box 33.4 Altri fenomeni di riassestamento del sistema pro­ nominale 386 Box 33.5 L’imperativo tragico 386 Box 33.6 Ci e vi: Pronomi o avverbi? 392 Box 33.7 II che polivalente

382

395 397 402 402

Box 34.1 Box 34.2 Box 34.3 Box 34.4

430

Box 37.1 Le interiezioni da una lingua all’altra

446

Box 39.1 Le figure e la lingua: trasgressione o valorizza­ zione? Box 39.2 I Cavalli di Wallenstein: l’anafora nel testo lette­ rario

449

291

Box 25.1 Espressioni anaforiche o congiunzioni coordi­ nanti?

297

Box 26.1 Due o in latino

300 300

Box 27.1 Lingue con due ma Box 27.2 II ma in apertura di frase

I verbi sintagmatici La modalità I verbi inaccusativi Valori modali dei tempi verbali

457

Box 40.1 Suoni e ritmi in libertà: filastrocche e cantilene

483

Box 41.1 Metafore, figure e sostituzione

XIX

GUIDA ALLA LETTURA Unmondodi sego'

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Ogni capitolo si apre con una breve introduzione che anticipa gli argomenti trattati, identificando così gli obiettivi dello studio

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I titoletti nel colonnino di servizio guidano lo studente nella comprensio­ ne del capitolo e nell’individuazione della parole chiave

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Gli esempi, numerosi ed evidenziati nel testo, aiutano lo studente a comprendere la teoria

Ulteriori materiali didattici e di approfondimento sono disponibili alla pagina web www. utetuniversita .it/prandi

L’editore ringrazia

Maria Patrizia Bologna, Università degli Studi di Milano Marina Castiglione, Università degli Studi di Palermo Dario Como, Università degli Studi di Piemonte Orientale Daniele D’Aguanno, Università di Napoli « L ’Orientale» Silvia Dal Negro, Università degli Studi di Bolzano Francesca Geymonat, Università degli Studi di Torino Rita Librandi, Università di Napoli «L Orientale» Elisabetta Mauroni, Università degli Studi di Milano Stefano Ondelli, Università degli Studi di Trieste Rosa Piro, Università degli Studi di Napoli «L Orientale» Giuseppe Polimeni, Università degli Studi di Milano Fabio Romanini, Università degli Studi di Trieste Silvia Verdiani, Università degli Studi di Torino Matteo Viale, Università degli Studi di Bologna Mirko Volpi, Università degli Studi di Pavia I loro preziosi consigli hanno contribuito alla realizzazione della nuova edizione di Manuale di Linguistica e di grammatica italiana. L editore ringrazia inoltre i docenti che hanno partecipato, con 1 loro consigli, alla realizzazione della prima edizione: Emilia Calaresu, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia Roberta Cella, Università di Pisa Fabiana Fusco, Università degli Studi di Udine Francesca Gatta, Università di Bologna Stefano Ondelli, Università degli Studi di Trieste Diego Poli, Università degli Studi di Macerata Francesca Santulli, Università IULM di Milano

Introduzione

Rispetto alla prima versione del volume, apparsa nel 2006 col titolo Le regole e le scelte. Introduzione alla grammatica italiana, e alla secon­ da edizione del 2011, Le regole e le scelte. Manuale di linguistica e di grammatica italiana, questa nuova edizione mantiene inalterati i pre­ supposti teorici e le scelte metodologiche: m particolare 1 idea di o rire una descrizione della grammatica italiana accompagnata da conside­ razioni di linguistica generale e di linguistica italiana, e di confronti puntuali con altre lingue europee. Anche rimpianto generale dell’opera, «a partire dal testo» - cioè dalle unità di senso e funzione alle parti del discorso - è rimasto inva­ riato. La sintassi della frase semplice e la trattazione delle relazioni transfrastiche rimangono il cuore pulsante del volume. Si tratta del re­ sto di un’impostazione la cui bontà è stata confermata dall’ampio nu­ mero di riprese che il manuale ha avuto negli ultimi anni. Rispetto alla precedente edizione, abbiamo alleggerito alcune parti la cui trattazione presentava digressioni e ripetizioni, e potenziato ι box monografici, con particolare riferimento alla linguistica italiana. In ge­ nerale, abbiamo cercato di rileggere e rivedere l’intero testo adottando una prospettiva dalla parte del ricevente, per migliorare la coerenza e la leggibilità dei capitoli. Abbiamo inoltre precisato alcuni concetti alla luce delle riflessioni che abbiamo maturato negli ultimi anni. Abbiamo mantenuto e aggiornato i riferimenti bibliografici com­ mentati, che mirano ad ancorare i problemi trattati ai tempi e alle tradi­ zioni culturali in cui è nato e si è sviluppato il loro studio nell’ambito della linguistica. Una delle novità significative del volume è la presenza di un capi­ tolo interamente nuovo, scritto da Cristiana De Santis (autrice anche dei box), dedicato alla variabilità linguistica. Alle scelte «di sistema», cioè, abbiamo voluto affiancare le scelte «di repertorio», data la loro rilevanza nella situazione linguistica italiana. Lo abbiamo fatto senza la pretesa di esaurire il tema (oggetto di trattazioni apposite m ambito sociolinguistico e storico-linguistico), ma con l’obiettivo di offrire una

XXVI

Introduzione

panoramica il più possibile ampia e problematica delle varietà disponi­ bili nello spazio comunicativo comune e nell’insieme dei testi traman­ dati dalla nostra tradizione. Al tempo stesso, il capitolo funge da rac­ cordo per le notazioni di linguistica italiana disseminate nel corso del testo (in particolare all’interno dei box numerati di argomento mono­ grafico). Il capitolo introduce inoltre una serie di concetti preliminari allo studio della grammatica: «norma linguistica», «uso», «errore», «eccezione», «variabile», che funzionano da chiave di lettura per l’in­ tera descrizione della lingua italiana, e che costituiscono un punto di riferimento ineludibile per chi debba insegnarla. Alle soglie della grammatica abbiamo mantenuto, riducendola all’essenziale, la parte dedicata alle proprietà differenziali dei segni linguistici e degli indici, fondamentale sia per definire l’oggetto della grammatica, sia per comprendere il funzionamento dei segni linguistici nella comunicazione, che è un processo essenzialmente indicale. Abbiamo deciso di spostare su piattaforma tutta la parte dedicata alla didattica (esercizi, verifiche, esempi di testi commentati), così da consentirne Γinterattività e l’aggiornamento. Abbiamo reintrodotto nel volume il capitolo sulle figure retoriche, che consideriamo parte della grammatica perché fa luce sull’uso creativo delle risorse, dal suono al ritmo, dalle strutture sintattiche alla relativa mobilità dei costituenti. Per questo stesso motivo, abbiamo potenziato i rimandi al capitolo aH’intemo della trattazione. Abbiamo infine inserito un glossario dei termini tecnici usati in questo volume, che in alcuni casi si discostano da quelli in uso nella tradizione grammaticale. Per tutti questi motivi, la presente edizione non si limita ad aggiornare le precedenti, ma affianca la prima {Le re­ gole e le scelte, 2006) e sostituisce la seconda (2011). Il destinatario ideale di questo manuale è lo studente universitario di linguistica italiana, di linguistica generale o applicata allo studio delle lingue, di traduzione e di interpretazione, ma anche l’insegnante di italiano e il formatore di insegnanti. Lo studente di italianistica tro­ verà i concetti abituali della grammatica italiana accompagnati dalle basi linguistiche che permettono di utilizzarli in modo non passivo ma consapevole. Lo studente di linguistica imparerà a usare, esemplificato sulla lingua madre, un sistema di categorie che potrà poi applicare alla descrizione di lingue diverse. L’insegnante di italiano, e a maggior ra­ gione il formatore di insegnanti, troverà in queste pagine lo spunto per una razionalizzazione della didattica della grammatica. Lo scopo di questa grammatica è prendere per mano lo studente, che all’inizio del suo percorso formativo si presenta tipicamente come un utente inconsapevole della lingua, e accompagnarlo passo dopo passo a condividere l’atteggiamento del linguista, facendogli acquisire

Introduzione

una consapevolezza sempre più profonda di come funziona un mecca­ nismo complesso, stratificato e differenziato. Gli autori ringraziano le colleghe e i colleghi che, dopo aver adottato e sperimentato con i loro studenti le due edizioni precedenti del volume, hanno fornito preziosi suggerimenti per migliorare la coerenza e le qualità didattiche del volume. Un ringraziamento particolare va a Ni­ cola De Blasi, Giuliana Fiorentino, Francesca Geymonat e Massimo Palermo per aver letto in anteprima e commentato il nuovo capitolo 2 di questa edizione. Ringraziamo inoltre tutti coloro che in modo diretto o indiretto hanno partecipato alla riflessione di anni che ha portato a questo manuale. . „ Dedichiamo questo lavoro a due appassionati maestri nello studio della lingua che ci hanno lasciati recentemente, grazie ai quali ci siamo incontrati: Maria Luisa Altieri Biagi e Fabrizio Frasnedi.

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Premessa La grammatica: regole e scelte, strutture e funzioni

La grammatica è tradizionalmente considerata un sistema di regole da imparare passivamente. Lo studio scientifico di una lingua (nel nostro caso quella italiana) e della sua grammatica rivela che le cose sono più complesse. Innanzitutto, ci sono regole e regole: ci sono regole pre­ scrittive, che ci dicono come dovremmo parlare, e ci sono regole de­ scrittive, che cercano di afferrare le regolarità che emergono dal nostro modo spontaneo e condiviso di parlare, cioè dall’uso. Inoltre, il nostro comportamento linguistico non consiste solo nel seguire delle regole, ma - in larga parte - nello scegliere, all’interno della gamma di risorse che la lingua ci offre, i mezzi di espressione che ci sembrano più adatti ai nostri scopi comunicativi. Nell’area delle scelte il parlante non si li­ mita a seguire passivamente regole ferree, ma diventa un soggetto atti­ vo di valutazione e di decisione. « Sapere una lingua» (avere una buo­ na competenza linguistica) vuol dire sia essere in grado di rispettare le strutture, sia riuscire a valorizzare con scelte libere e consapevoli le possibilità espressive che la lingua ci mette a disposizione. Va subito chiarito che le scelte possono riguardare due aspetti di­ versi del nostro comportamento linguistico. Da un lato, la conoscenza delle risorse che il sistema ci mette a di­ sposizione, dove per «sistema» intendiamo l’architettura della lingua italiana standard, intesa come il codice « diffuso in maniera indifferen­ ziata presso un’intera comunità linguistica» (Berruto, 2010), vista nei suoi diversi livelli di analisi: il livello dei suoni, quello delle parole, quello dei gruppi di parole e delle frasi, quello del testo. Dall’altro, la conoscenza delle variabili sociolinguistiche: delle possibilità cioè che abbiamo, in quanto appartenenti a una certa comu­ nità linguistica, di fare scelte collegabili al «repertorio», ovvero all’e­ sistenza di varietà di lingua legate allo spazio geografico (italiani re­ gionali, dialetti, lingue minoritarie) o allo spazio sociale e comunicati­ vo (registri linguistici, lingue speciali, gerghi; italiano scritto/parlato/ trasmesso/digitato). Inoltre, in quanto adulti scolarizzati, dovremmo avere consapevolezza delle scelte collegabili alla dimensione storica

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Premessa

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della lingua: le opzioni cioè che l’italiano - lingua di cultura con una tradizione scritta di lunga durata - ha contemplato nei secoli scorsi, e che la letteratura in molti casi ha contribuito a mantenere in vita. Facciamo subito un esempio: se dobbiamo usare il verbo chiamare, sappiamo che in italiano standard regge un oggetto diretto (chiamare qualcuno)·, un parlante dell’Italia meridionale, tuttavia, in un contesto familiare, potrà usare lo stesso verbo con una costruzione diversa {chiamare a qualcuno): si tratta di una variante regionale, che dobbia­ mo essere in grado di riconoscere come tale prima di bollarla come errore. Leggendo testi del passato, poi, possiamo imbatterci in forme del verbo che oggi appaiono cambiate: io chiamava, per esempio. In questo caso lo sforzo dovrebbe essere quello di cogliere, al di là della corrispondenza con la forma moderna {io chiamavo), la regolarità di paradigmi che in italiano antico prevedevano terminazioni diverse per la prima persona dell’imperfetto indicativo. Ogni descrizione del sistema basata su un uso normale e normato della lingua contemporanea tende a escludere queste varianti, che consideriamo magari trasgressioni, licenze, errori, senza chiederci in che modo entrino in relazione con la norma. In questa nuova edizione del manuale abbiamo scelto di ampliare lo sguardo, per portare l’at­ tenzione anche sui modi in cui la norma incontra una verifica negli usi. È evidente che le variabili di repertorio, dipendenti da fattori extra­ linguistici, sono più difficili da circoscrivere: formano infatti insiemi dinamici, permeabili tra di loro e non disponibili in modo omogeneo per tutti i parlanti. Al tempo stesso, una grammatica descrittiva che voglia rendere ragione delle scelte, oltre che delle regole, non può tace­ re del tutto l’esistenza di queste possibilità espressive, data la loro rile­ vanza nel sistema linguistico italiano, privo di quel «livellamento sin­ cronico» (Nencioni, 1989(1984)) che caratterizza altre lingue di cultu­ ra, e la cui descrizione non può perciò prescindere dallo studio della diacronia, della varietà e della tendenzialità. D’altra parte, 1’esistenza di studi specifici sul repertorio linguistico italiano renderebbe inutile una trattazione approfondita in questa sede. Per questi motivi, ci limiteremo a rendere conto nel capitolo 2 delle dimensioni della variazione che maggiormente influenzano l’uso del­ l’italiano, e dei principali fenomeni che ne sono interessati, rimandan­ do ad appositi approfondimenti bibliografici. I box inseriti nel corso della trattazione consentiranno di riflettere su alcuni dei fenomeni di variazione ai diversi livelli di analisi della lingua. Il discorso sulle scelte di sistema attraverserà invece l’intero volu­ me: lo sguardo che porteremo alle strutture, dalle combinazioni di suo­ ni alle combinazioni di frasi, sarà costantemente attento a coglierne

l’aspetto di maggiore o minore cogenza e 1’esistenza di ventagli di op­ zioni aperte alle scelte del parlante. Attraversare il territorio della grammatica vuol dire infatti affrontare aree dominate da regole non negoziabili e aree in cui si apre una libertà di scelta che va esercitata nella consapevolezza della funzione che una certa espressione lingui­ stica è chiamata a svolgere. Nello studio grammaticale difficilmente ci si spinge al di là del confine della frase, e la stessa frase è vista come un territorio retto da regole ferree. Quando si tratta invece di concatenare una serie di frasi per formare un testo, abbiamo la sensazione di essere completamente liberi. In realtà, come vedremo, ci sono ampi margini di scelta già al­ l’interno della frase. Inoltre, quasi tutti i compiti per i quali disponia­ mo di margini di scelta possono essere affrontati sia con 1 aiuto della grammatica —cioè all’interno della frase —sia collegando piu frasi per costruire un frammento di testo. Per questi motivi il nostro manuale seguirà una strada diversa da quella abituale nelle grammatiche: nell’area delle scelte, prima definiremo esattamente il problema con­ cettuale, cioè il tipo di concetto che vogliamo esprimere, e poi esplo­ reremo tutte le risorse disponibili per risolverlo, e cioè le risorse grammaticali e le risorse testuali.

1. Regole e scelte Quando parliamo di scelte all’intemo del sistema della lingua ci rife­ riamo a un aspetto centrale della grammatica, e cioè al fatto che la lin­ gua, oltre a imporci regole rigide, ci offre repertori ampi e differenziati di opzioni. All’occhio distratto di un osservatore non allenato, un’e­ spressione linguistica —per esempio una frase —si presenta con una superficie piatta. L’occhio allenato del linguista, viceversa, identifica strati che si costruiscono applicando regole rigide, non negoziabili, e strati che sono il punto di arrivo di scelte operate dal parlante e nego­ ziate, per così dire, con le risorse che la lingua ci offre. La grammatica delle regole e la grammatica delle scelte rimanda­ no a due grandi tendenze della linguistica contemporanea: la tendenza formalista e la tendenza funzionalista. La tendenza formalista vede nella lingua in primo luogo un sistema di strutture formali che funzio­ nano secondo regole interne. La tendenza funzionalista vede nella lin­ gua un repertorio di risorse lessicali e grammaticali al servizio del par­ lante.

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L'Idea di mettere in relazione le strutture della lingua con le funzioni alle quali le espressioni sono destinate è un’idea molto antica, che percorre il pensiero occidentale da Aristotele a Cassirer (1946), ma si afferma come idea guida della ricerca linguistica con la Scuola di Praga (Trubeckoj, 1939; Jakobson, 1963). I linguisti di Praga sono riusciti a identificare e studiare le unità di suono pertinenti delle lingue, le loro componenti e le strutture nelle quali entrano basandosi sulla loro funzione condivisa: la capacità di distinguere parole diverse con significati diversi. All’altezza dei suoni, tra forma e funzione c’è armonia: il suono linguistico riceve una forma interna e un’organizzazione in vista della funzione distintiva; la sua controparte funzionale - il significato - è a sua volta interna alla lingua. Se però passiamo alle espressioni complesse e al loro significato, lo studio basato su un criterio formale e lo studio basato su un criterio funzionale si divaricano. Per il formalista, la lingua è un sistema di strutture e di regole che si costruiscono dall’interno, secondo criteri propri, e si impongono al parlante. La tendenza formalista affonda le sue radici in Saussure (1916) ed è esplicitamente formulata da Hjelmslev (1943). In seguito, si sviluppa soprattutto negli Stati Uniti con Bloomfield (1933), Harris (1946; 1970) e Hockett (1958), e confluisce poi nella Grammatica Generativa (Chomsky, 1957; 1965; 1995). Per il funzionalista, la lingua è uno strumento flessibile al servizio del parlante e dei suoi proget­ ti. Le strutture della lingua non sono autonome, ma sono plasmate sotto la spinta di fattori esterni, e in particolare dalla sua funzione di strumento di comunicazione, che permette di esprimere i concetti e di renderne possibile l’acquisizione e la comprensione da parte di altri. Nel paradigma funzionale coesistono diversi orientamenti, a seconda dell’enfasi che viene data alle diverse funzioni esterne del linguaggio. La concezione strumentale del linguaggio risale a Buhler (1934). Tra i funzionalisti in senso stretto, segnaliamo Dik (1968; 1989/1997), Halliday e Hasan (1985), Givón (1984 e 2001). Per la variante cognitiva, la lingua è in primo luogo al servizio della concettualizzazione e le sue strutture riflettono l'organizzazione cognitiva dell’e­ sperienza (Langacker, 1987; Croft, Cruse, 2010). La variante tipologica individua nelle diverse funzioni della lingua il tertium comparationis che permette di confrontare tipi di strutture lingui­ stiche diverse come soluzioni diverse a problemi simili (Comrie, 1981; Croft, 1990, 2001; Haspelmath e altri, 2001; Banfi e Grandi, 2003, 2008a, 2008b; Grandi, 2003).

L’idea formale - la lingua è un sistema di strutture e regole rigide che si impongono al parlante - e l’idea funzionale - la lingua è uno strumento che offre alle scelte del parlante repertori di opzioni - sem­ brano incompatibili se applicate in blocco alla lingua nel suo insieme. Ma se osserviamo la struttura delle singole espressioni, ci rendiamo conto che c’è uno spazio per le regole e uno spazio per le scelte: ci so­ no regioni della grammatica che funzionano in un modo e regioni che funzionano nell’altro. Nella lingua, il parlante trova al tempo stesso regole alle quali deve sottomettersi e repertori di risorse pronte a venire incontro ai suoi progetti. Tra le aree di competenza di una grammatica delle regole rientrano certamente le strutture fonologiche, che selezionano e concatenano i

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suoni utilizzati dalla lingua per costruire e distinguere le parole, e le strutture morfologiche, che raggruppano i meccanismi di flessione declinazione e coniugazione - e di derivazione con cui sono costruite le parole. Queste aree non lasciano margini significativi di scelta, non possiamo cambiare a nostro piacere i suoni di una lingua, o la struttura di una sillaba. In italiano, per esempio, non esistono vocali come quel­ le che compaiono nel francese peur o nel tedesco Hutte. La forma delle parole o le coniugazioni dei verbi, ugualmente, devono essere accettate così come sono. Non possiamo dire, per esempio, i canes invece che i cani, bianchità invece di bianchezza, velocezza invece di velocità, o Ho rimasto solo. Se la fonologia si occupa di suoni e sillabe, e la morfologia di pa­ role, la sintassi ci fornisce i criteri per combinare le parole in modo tale da costruire frasi. Fino alle soglie della frase, non ci sono che rego­ le. All’interno della frase, le regole e le scelte si passano il testimone: la struttura sintattica di una frase si presenta come il risultato dell’ap­ plicazione di regole fino a un certo punto, e come il risultato delle scelte del parlante da quel punto in poi. La frase semplice ha un nucleo la cui architettura portante è rigida e non negoziabile. La forma di un soggetto o di un complemento og­ getto è quella che è. Il soggetto concorda con la forma verbale del predicato. La reggenza di un verbo va accettata così com è: rinunciare regge un complemento introdotto dalla preposizione a, diffidare vuole di, contare richiede su. Ma il nucleo di una frase semplice può essere arricchito, trasforma­ to o combinato con altri nuclei di frase. In primo luogo, il nucleo può essere arricchito da un variopinto ventaglio di espressioni la cui pre­ senza si giustifica per la loro capacità di soddisfare una funzione decisa dal parlante. Una frase semplice, inoltre, può essere trasformata in vari modi per adattare il suo contenuto a un particolare tipo di testo o a una precisa situazione comunicativa, conservando intatta l’ossatura del suo contenuto. I contenuti di due o più frasi semplici, infine, possono esse­ re collegati secondo relazioni concettuali come la successione tempo­ rale o la causa. La distinzione tra regole e scelte ha una ricaduta molto forte sulla descrizione grammaticale. Quando abbiamo di fronte delle regole, dobbiamo descriverle per come si presentano. Quando abbiamo a che fare con delle scelte, invece, dobbiamo prima isolare delle funzioni, e poi circoscrivere la gamma di strutture che la lingua mette a nostra di­ sposizione per ciascuna di esse. Il compito di una grammatica in que­ sto ambito non è imporre regole, ma aiutare chi si serve della lingua e chi lavora con la lingua a diventare sempre più consapevole delle scel­ te che gli si aprono, delle loro ragioni e delle loro implicazioni.

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Quando la grammatica non impone regole rigide ma offre repertori di opzioni, nessuna struttura grammaticale è assolutamente indispensabile per adempiere a una certa funzione; ogni forma può in teoria essere sostituita da forme concorrenti ed equivalenti. Rispetto alla grammatica delle regole, si capovolge il rapporto tra struttura e funzione. Nell’area di competenza della grammatica delle regole, una certa architettura strutturale si giu­

li e altri marginali. Il processo tagliare, per esempio, è un’azione che richiede due ruoli centrali; un agente che fa, e un paziente, che subisce; nella frase seguente, Giovanni esprime l’agente, la legna il paziente; 1.

Giovanni ha tagliato la legna.

stifica dall’interno, per ragioni di buona formazione della frase - di statica dell’edificio, se voglia­ mo usare una metafora architettonica. In un nucleo di frase, la presenza di un soggetto o di un complemento oggetto serve a garantire la buona formazione sintattica, esattamente come una colonna e un contrafforte sono funzionali alla stabilità di una navata gotica. Tutto questo non è influenzato immediatamente da funzioni esterne alla struttura. Che la navata gotica ospiti una chiesa o l’aula magna di un’università, la sua struttura portante è identica, e identica è la fun­ zione delle sue parti essenziali nel garantire la sua solidità. Nell’area di competenza della grammatica delle opzioni, viceversa, una certa struttura sintattica si giustifica dall’esterno, in quanto espressione al servizio di una funzione. La presenza di un complemento di mezzo in una frase d’azione, per esempio, non si giustifica a partire dalla strut­ tura sintattica del nucleo della frase, che ne può fare a meno, ma a partire dalla sua funzione di esprimere lo strumento di cui si serve l’agente per compiere l’azione. Cosi, per riprendere la nostra metafora architettonica, la presenza di un altare in una navata gotica si giustifica con la funzione liturgica. Se la chiesa è trasformata in aula magna, al posto dell'altare potremo trova­ re, per esempio, un tavolo e una fila di sedie. In questo modo, l’edificio risponde meglio alle sue nuove funzioni. La sua ossatura portante non è assolutamente intaccata, e tutto il resto può essere riadattato. Se queste osservazioni sono giuste, un’analisi degli strati opzionali della frase può essere intra­ presa solo a partire da una definizione delle principali funzioni che giustificano la loro presenza.

2. Strutture e funzioni Una frase ha una struttura sintattica e un significato, che chiameremo «processo», seguendo un uso che risale a Tesnière (1959) ►δ.β. Sia Γ impalcatura sintattica, sia il significato della frase sono strutture stra­ tificate, e possiamo pensare che diversi strati della struttura sintattica assumano funzioni diverse nella messa a punto del significato. Alcune parti della struttura della frase sono incaricate di costruire la struttura portante del processo, o di arricchirla di determinazioni accessorie, o di collegarla con altri processi. Altre parti sono incaricate di facilitare Γ inserimento del contenuto della frase nel testo, e più in generale nell’ambiente comunicativo al quale è destinato. Altre ancora sono in­ caricate di regolare il rapporto tra il parlante e il destinatario. Ripren­ dendo una distinzione di Halliday (1978), possiamo parlare rispettiva­ mente di una funzione ideativa, testuale e interpersonale. La funzione ideativa riguarda la messa in opera del processo. Il processo è come un dramma che coinvolge diversi ruoli, alcuni centra­

Una volta costruita l’impalcatura centrale, il parlante è libero di specificare un ampio ventaglio di ruoli marginali, dallo strumento al beneficiario e al fine, dal tempo al luogo. Per raggiungere questo obiet­ tivo, la grammatica non gli impone una regola, ma gli propone un ven­ taglio di opzioni alternative, funzionalmente altrettanto efficaci. Nel caso dello strumento, per esempio, potrà scegliere tra: con una scure, per mezzo di una scure, servendosi di una scure e così via. La funzione ideativa coinvolge strutture molto diversificate, e occupa la parte pre­ ponderante dello studio della frase. All’interno della frase, si divide tra la costruzione del nucleo, governata da regole, e il suo arricchimento, frutto di scelte del parlante. Inoltre la funzione ideativa scavalca ι con­ fini della frase e si estende al collegamento tra contenuti di frasi - tra processi - nei testi e nei discorsi. Quando collega i contenuti di frasi diverse con quei ponti concettuali che chiamiamo causa, o fine, o con­ cessione, il parlante può contare su una quantità incredibile di risorse sia grammaticali sia testuali. Prendiamo 1 esempio del fine. Nelle grammatiche tradizionali, studiamo che il fine si esprime con per e in­ finito presente, oppure con affinché o perché e congiuntivo presente o imperfetto. In realtà, il ponte concettuale che si chiama fine può essere costruito in centinaia di modi diversi, coinvolgendo in un caso come nell’altro decine di nomi che incapsulano la relazione, da scopo &pro­ getto, da obiettivo a intenzione, da volontà a desiderio, sogno o ambi­ zione (Prandi, Gross, De Santis, 2005): 2. Ho affittato una casa al mare per passarci le vacanze. ^ 2a. Ho affittato una casa al mare perché volevo (/avevo l’intenzione / il desiderio / i l sogno / il progetto, la speranza ... di) passarci le vacanze. _ . 2b. Ho affittato una casa al mare allo scopo (/con l’Intenzione / i l de­ siderio /la speranza /la prospettiva /la speranza/I illusione...) di passarci le vacanze. 2c. Volevo passare le vacanze al mare. Con questa intenzione (/pro­ posito /scopo /prospettiva /desiderio /sogno /speranza /illusio ­ ne) ho affittato una casa.

Alla funzione testuale fanno capo le manipolazioni che, senza al­ terare la struttura del processo, lo adattano all’ambiente comunicativo

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al quale è destinato - che impongono dunque al processo una prospet­ tiva comunicativa data, per usare una metafora corrente. Una frase co­ me 1, pag. XXVII, presenta il processo come se fornisse un’informa­ zione sull’agente, Giovanni. Supponiamo ora di voler presentare lo stesso processo dando però un’informazione sul paziente, la legna. Per raggiungere il nostro scopo, la lingua ci offre almeno due opzioni, che trasformano la struttura nucleare: la frase passiva (la) e la frase seg­ mentata (lb): la . La legna è stata tagliata (da Giovanni). lb . La legna, l’ha tagliata Giovanni.

Si tratta sempre della stessa azione; tuttavia, all’azione viene imposta una prospettiva comunicativa diversa. La f u n z i o n e i n t e r p e r s o n a l e interviene nella forma dell’espressio­ ne per definire la qualità della relazione tra parlante e destinatario. In una frase come 3, rivolta a un cartolaio, il condizionale vorrei non se­ gnala una sospensione della realtà del fatto, vincolata al verificarsi di una condizione, come nella frase 4: 3. 4.

Vorrei una penna stilografica. Se il tempo migliorasse partirei.

La penna la voglio davvero. Il condizionale, dunque, non è al servizio della funzione ideativa ma della funzione interpersonale: la sua presen­ za mitiga l’impatto della richiesta sull’interlocutore.

3. Relazioni grammaticali e relazioni concettuali Il confine tra il territorio delle regole e il territorio delle scelte, che si colloca all’interno della frase, rimanda a una differenza nel regime di c o d i f i c a , e cioè nel modo in cui le strutture sintattiche portano all’e­ spressione i contenuti concettuali. Le strutture linguistiche in generale, e quelle sintattiche in partico­ lare, manipolano concetti. Ma il rapporto tra espressioni linguistiche che hanno un significato - in particolare le frasi - e concetti è comples­ so. All’interno di ogni singola frase troviamo due strati di espressioni: fino a un certo punto l’espressione funziona come uno stampo capace di costruire attivamente concetti nuovi e relazioni nuove tra concetti; da un certo punto in avanti, l’espressione si limita a metterci in contat­ to con concetti, e relazioni tra concetti, che padroneggiamo indipen-

dentemente. In un certo senso, è come se nell’uso della lingua incon­ trassimo due grammatiche diverse: una grammatica delle forme di espressione e una grammatica dei concetti. Il nucleo delle frasi è formato da una rete di relazioni grammaticali la cui impalcatura formale, come abbiamo già osservato, si giustifica a partire da ragioni interne, di stabilità della costruzione. Il nucleo di una frase presenta certe proprietà formali indipendenti dai contenuti mutevoli che può ricevere. Una frase dalla struttura soggetto-verbo-comple­ mento oggetto, per esempio, può essere destinata all’espressione di un’azione (1) come di un’affezione, cioè una condizione prodotta da un evento indipendente dall’iniziativa del soggetto (2): 1. 2.

Giovanni ha tagliato la legna. Giovanni ha ricevuto una lettera.

L’impalcatura grammaticale della frase rimane immutata al variare dei concetti espressi. Negli strati periferici, la relazione tra forme e concetti si capovol­ ge. Se un ruolo marginale entra nella struttura della frase, è grazie alla sua funzione di mezzo di espressione al servizio di una relazione con­ cettuale coerente. Un’azione, per esempio, è disponibile a ricevere ruo­ li come lo strumento, il fine, il beneficiario, e questo giustifica la pre­ senza nella frase di espressioni al loro servizio: le . Giovanni ha tagliato la legna con la scure (/per il camino /p e r sua madre).

L’impalcatura di relazioni concettuali coerenti precede l’espressione grammaticale e la giustifica. Uno strumento, per esempio, dal punto di vista concettuale ha una struttura costante: si tratta di un oggetto di cui si serve un agente per compiere un’azione. La sua espressione, vice­ versa, è variabile. Da un lato, come abbiamo già visto, uno strumento può essere espresso in molti modi. Dall’altro, una stessa espressione può esprimere ruoli diversi: se nella frase le sostituissi all’azione di tagliare la legna l’azione di uscire, l’espressione con la scure non sa­ rebbe più coerente con uno strumento, ma si limiterebbe a esprimere un oggetto che l’agente porta con sé. Se riflettiamo sulla terminologia usata correntemente in grammati­ ca, questa differenza emerge con una certa chiarezza. I nomi dei com­ plementi che formano il nucleo della frase sono astratti e vuoti, e non dicono nulla sul loro contenuto: complemento oggetto, complemento di termine. Questo accade perché le singole espressioni non codificano

XXXVII

XXXVIII

Premessa

Manuale di linguistica e di grammatica italiana

immediatamente un ruolo del processo (per esempio il paziente) ma una relazione grammaticale vuota (per esempio il complemento ogget­ to). I nomi dei complementi che formano la periferia, viceversa, rinvia­ no immediatamente al loro contenuto: complemento di mezzo, di fine, di causa, di luogo, di tempo e così via. Questo accade perché la singola espressione codifica non una relazione grammaticale vuota, ma imme­ diatamente un ruolo: per esempio lo strumento.

Box P.l - CODIFICA RELAZIONALE E CODIFICA PUNTUALE La codifica è la proprietà per cui le espressioni veicolano il loro contenuto. Ma che cosa si­ gnifica realmente veicolare un contenuto? A partire dalle osservazioni fatte fin qui, possiamo immaginare la codifica come un vettore che può essere orientato in due sensi: o dall’espres­ sione al contenuto, o dal contenuto all’espressione. Nel nucleo della frase, la codifica va dall’espressione al contenuto: una rete di relazioni grammaticali cattura, per cosi dire, i concetti coinvolti, e impone loro uno stampo formale in­ dipendente. Le relazione soggetto-verbo, per esempio, può applicarsi sia a concetti coerenti (per esempio un essere umano che compie un’azione, come in 3) e sia a concetti incoerenti (come in 4, in cui la stessa azione è attribuita a un essere inanimato): 3. Giovanni sogna. 4. La luna sogna. Di questa capacità della lingua di creare significati che non replicano concetti indipendenti si nutrono il linguaggio figurato (in primo luogo le metafore) e di qui la creazione fantastica, dalle favole alla fantascienza e le creazioni scientifiche. La codifica che va dall’espressione al contenuto la chiameremo codifica relazionale, perché crea una rete di relazioni grammati­ cali capace di imporsi ai contenuti. Negli strati periferici della frase, la codifica va dal contenuto all’espressione: l’espressione si mette al servizio di relazioni concettuali accessibili indipendentemente, e impone loro un marchio che le rende riconoscibili nel momento in cui le porta nella struttura della fra­ se. Un’azione come tagliare la legna è pronta a fare posto al ruolo periferico di strumento. Un’espressione come con la scure porta questo ruolo nella frase e ci mette in grado di riconoscerlo, almeno fino a un certo punto (cfr. esempio le , pag. XXXVII). La codifica che va da un contenuto alla sua espressione la chiameremo codifica puntuale, perché si fonda sulla capacità di una singola espressione di rendere riconoscibile una relazione concettuale. La codifica puntuale ha una proprietà interessante: dal momento che ha il compito di rendere riconoscibili relazioni concettuali coerenti che sono accessibili indipendentemente, possia­ mo immaginare che un’espressione possa assolvere a questo compito in modo più o meno adeguato. In altre parole, la codifica puntuale non è una grandezza assoluta, ma una grandez­ za graduata. La qualità della codifica, in particolare, dipende dal contenuto più o meno spe­ cializzato della parola di collegamento, che nella frase semplice è in genere una preposizione. Tra le preposizioni, alcune hanno un contenuto capace di codificare in modo univoco una relazione concettuale data (è il caso di nonostante, che ha sempre un’interpretazione con-

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cessiva), mentre altre si fermano molto al di sotto di questa soglia (è il caso di con: se nella frase le sostituissi con suo fratello a con la scure non avrei più l'espressione dello strumen­ to, ma del collaboratore dell’agente). Possiamo parlare di codifica piena nel primo caso, di ipocodifìca o sottocodifica nel secondo. Quando la codifica linguistica è insufficiente, è disposta a passare il testimone al ragionamento - all’inferenza - che arricchisce il contenuto codificato fino a raggiungere una relazione coerente (► Panelli, Conclusione). Accanto alla codifica piena e alla sottocodifica possiamo immaginare un grado di codifica alto: I’ipercodifica. In questo caso, l’espressione non si limita a dare voce a un contenuto concettuale accessibile indipendentemente tramite l’inferenza, ma lo arricchisce di sfuma­ ture più specifiche. Nello studio grammaticale troveremo moltissimi esempi di ipercodifica, soprattutto nelTambito delle relazioni tra processi (► Parte VI ). Per una discussione sul concetto di codifica si rimanda a Ferrari e Prandi (in De Santis et alii, 2014).

4. La frontiera mobile tra frase e testo Se nel descrivere gli strati periferici della frase partiamo dalle relazioni concettuali per poi identificare il repertorio di mezzi disponibili per l’espressione di ciascuna, ci rendiamo conto di un fatto ovvio trascura­ to dalle grammatiche: i ruoli periferici del processo e le relazioni tra processi possono essere indifferentemente specificati aH’intemo di una singola frase o aH’estemo, in una dimensione testuale. Dato un processo come 1, tutti i ruoli esterni al nucleo formato dal soggetto, dal verbo e dal complemento oggetto (Giovanni ha tagliato la legna) possono essere affidati a una frase indipendente, giustapposta alla prima in modo da formare un piccolo testo coerente (la): 1. Ieri sera Giovanni ha tagliato la legna per sua madre. la . Giovanni ha tagliato la legna. È accaduto ieri sera. L’ha fatto per sua madre.

Se passiamo alle relazioni tra processi - come la causa, la conces­ sione o il fine - la divisione del lavoro tra frase e testo si fa ancora più vistosa. Da un lato, le proposizioni subordinate che esprimono queste relazioni possono essere tutte staccate dal processo principale e sposta­ te in una dimensione testuale: 2. 3.

Il torrente è straripato. È successo a causa delle forti piogge. Giovanna si è iscritta all’Università. L’ha fatto per diventare avvo­ cato.

Dall’altro lato, e soprattutto, nel momento cui colleghiamo con un ponte concettuale due processi indipendenti, possiamo affidare i prò-

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Premessa

cessi a frasi a loro volta indipendenti in grado di formare un testo coe­ rente. Le opzioni destinate all’espressione del fine che abbiamo già visto M , per esempio, si dividono equamente tra il periodo e il testo. Queste ultime mostrano che, quando si tratta di collegare processi, la grammatica diventa a sua volta un’opzione, in quanto entra in concor­ renza con strategie di ordine testuale: 4.

Volevo passare le vacanze al mare. Con questa intenzione (/pro­ posito /scopo /prospettiva /desiderio /sogno /speranza /illusio ­ ne...) ho affittato una casa.

Ancora una volta, le ripercussioni sull’analisi sono enormi. In pri­ mo luogo, il repertorio di strumenti messi a disposizione del parlante può essere studiato in tutta la sua latitudine e la sua eterogeneità strut­ turale. Di questa ricchezza, nelle grammatiche non c’è traccia: in nome di un primato delle regole, si scambia una delle tante soluzioni - la proposizione subordinata introdotta da per, affinché - per il problema. Inoltre, ci renderemo conto che lo studio dei ponti concettuali tra pro­ cessi, e più in generale delle relazioni concettuali, è molto più interes­ sante e rivelatore se viene spostato dalla frase al testo.

5. Struttura della grammatica La grammatica è lo studio delle relazioni, delle costruzioni e delle ar­ chitetture che troviamo nelle espressioni, e del loro rapporto comples­ so con i contenuti concettuali. Tutto sommato, in questa grammatica ritroveremo più o meno gli stessi temi che ci aspettiamo di incontrare: l’indice, alla fine, non sarà molto diverso da quello di altre grammati­ che. La novità consisterà piuttosto nel tentativo di razionalizzare rim ­ pianto della grammatica alla luce dei criteri che abbiamo appena espo­ sto. Questo si tradurrà in un’attenzione più sistematica alla relazione tra la struttura delle espressioni e il loro contenuto, tra le regole e le scelte, tra la frase e il testo. Le strutture che incontreremo avranno un nome noto, ma noi cercheremo di capire se sono formate da espressio­ ni vuote o da contenuti pieni, se sono obbligate o frutto di scelte, archi­ tetture frastiche o architetture testuali, e ogni volta cercheremo di de­ scrivere ciascuna di queste realtà con criteri adeguati. In due punti i criteri che abbiamo esplicitato nelle pagine preceden­ ti ci porteranno a modificare l’ordine abituale dei capitoli: la trattazio­ ne della morfologia occuperà non la prima ma l’ultima parte della de­ scrizione; Tanalisi delle relazioni transfrastiche, tradizionalmente parte

Premessa

dell’analisi del periodo, sarà preceduta dallo studio della coerenza e della coesione testuali. La morfologia si fonda sulla delimitazione di classi di parole —le tradizionali parti del discorso - che si distinguono e si caratterizzano in positivo a partire dalle funzioni diverse che ricevono nella frase sem­ plice e complessa, e, qualche volta, addirittura nell’organizzazione del testo e del discorso coerenti. Per questo, cercare di definire un nome, un verbo o un aggettivo senza averlo visto in azione nelle strutture nelle quali occorre e svolge le sue funzioni è come definire una colon­ na o un arco senza aver mai visto un edificio. Viceversa, le strutture delle espressioni complesse, e in particolare la sintassi essenziale delle strutture portanti della frase, hanno l’evidenza intuitiva di una costru­ zione - di un tempio greco o di una cattedrale gotica. In questo modo, lo studio fine a cui le parti del discorso saranno sottoposte nella sezio­ ne di morfologia si appoggerà a una base intuitiva solida, che evita i noti ostacoli di una definizione aprioristica. Una parte consistente della sintassi del periodo, come abbiamo vi­ sto, costringe entro i limiti davvero stretti di una delle sue soluzioni - il periodo - lo studio dei ponti concettuali che possiamo costruire tra di­ versi contenuti di frasi, tra diversi processi. Ma sappiamo che questi ponti possono essere costruiti anche nel testo, mobilitando le risorse della coerenza e della coesione. Solo se avremo già inserito nel nostro orizzonte le risorse testuali, dunque, potremo esplorare in tutta la sua latitudine e varietà il ricchissimo repertorio di risorse grammaticali e testuali che la lingua ci offre per costruire ponti tra processi. Quest’ultima scelta presenta, inoltre, un vantaggio collaterale: la descrizione delle strategie di costruzione della coerenza e della coesio­ ne dei testi non sarà più un capitolo separato, frettolosamente aggiunto alla grammatica come un corpo estraneo, ma sarà parte integrante di una descrizione accurata delle risorse della lingua —un sistema di risor­ se che collabora con la grammatica in senso stretto alla soluzione di problemi funzionali comuni.

XLI

Manuale di linguistica e di grammatica italiana

Parte I Sulla soglia della grammatica: i segni, la comunicazione, le norme e gli usi

Un mondo di segni CAPITOLO

1

I segni costituiscono le unità minime della comunicazione e formano il nostro ambiente culturale nello stesso senso in cui la crosta terrestre e l’atmosfera rappresentano il nostro ambiente naturale. La lingua fa parte di questo ambien­ te: è un sistema di segni. Quando viene usata per comunicare, entra in sinergia con tutti gli altri segni. Allo stesso tempo, la lingua ha una struttura complessa - una sua grammatica - che la distingue da tutti gli altri sistemi di segni. La natura dei segni linguistici è quella di simboli che rimandano al contenuto per condivisione. Tuttavia, la comunicazione è essenzialmente uno scambio di indici, e nella comunicazione i segni linguistici si comportano come indici. Per questo è importante distinguere che cosa, all'interno della comunicazione, è di competenza degli indici e che cosa è di competenza dei segni linguistici. In questo modo, potremo definire con esattezza l’oggetto della grammatica, che caratterizza i segni linguistici ma non gli indici.

ì. i Che cos’è un segno Un s e g n o è q u a l c o s a c h e r i m a n d a a q u a l c o s ’ a l t r o . Il segno consiste in una p a r t e f i s i c a , percepibile attraverso i sensi, e un c o n t e n u t o ; ci permette di riferirci a una cosa, a un fatto o a un pensiero senza dover stabilire un contatto fisico. La lingua è un sistema di segni, il più complesso e il più caratteri­ stico della specie umana. I segni linguistici sono entità complesse che si formano a partire da unità più semplici: combinando un numero limitato di suoni nettamen­ te distinti tra di loro, otteniamo un numero illimitato di parole o espres­ sioni che rimandano a dei concetti. In questo senso si dice che il lin­ guaggio umano è un linguaggio a r t i c o l a t o , che può essere cioè suddi­ viso in unità d i s c r e t e di complessità decrescente; questa è una prima differenza rispetto ai linguaggi animali, che sono invece sistemi di co­ municazione c o n t i n u i . I linguaggi animali sono inoltre ripetitivi, men­ tre il linguaggio umano è caratterizzato dalla p r o d u t t i v i t à , cioè dalla

La lingua come sistema di segni

Caratteristiche del linguaggio umano

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possibilità di creare segni e messaggi sempre nuovi. Il linguaggio uma­ no si caratterizza anche per la libertà dagli stimoli esterni e - come vedremo meglio nel capitolo seguente - per il distanziamento, ovvero la possibilità di formulare messaggi relativi a realtà lontane nello spa­ zio e nel tempo. Un’altra caratteristica del linguaggio umano è la tra­ smissibilità culturale: grazie al patrimonio di segni e concetti accu­ mulato dalla sua lingua, ognuno di noi può beneficiare dell’esperienza delle generazioni precedenti, ed è in grado di entrare in una cultura e in uno stile di vita già organizzati.

Box 1.1 - LINGUA E LINGUAGGIO Per lingua si intende ciascuno dei sistemi simbolici, basato su segni vocali (o in alcuni casi - come nelle lingue segnate dei sordi - gestuali), propri di una certa comunità e trasmessi culturalmente (non ereditati biologicamente). Il linguaggio è la facoltà propria dell’uomo di acquisire in modo naturale e spontaneo una (o in alcuni casi, come nelle situazioni di bilinguismo, più di una) lingua.

1.2

Tipi di segni

La scienza che studia i segni e il loro scambio nella comunicazione è la semiotica, dal greco seméion, «segnale». Ci sono tantissimi tipi di segni: segni naturali, che l’uomo inter__________ preta, e segni artificiali, che l’uomo produce. Tra i segni artificiali, i segni artificiali operiamo due distinzioni. Dal punto di vista deH’atteggiamento del ___ l volontari parlante, distinguiamo segni involontari e segni volontari o intenzio­ nali. Dal punto di vista della relazione tra segno e contenuto distinguia­ mo tre tipi principali di segni: gli indici, le icone e i simboli. Gii indici

Gli indici attirano l’attenzione su qualcosa che è vicino al segnale. Sul­ la base della natura del segnale e del contenuto, distinguiamo due fa­ miglie principali di indici. Ci sono indici semplici che si riferiscono a oggetti. L’esempio più caratteristico, che dà il nome a questo tipo di segni, è il dito puntato su un oggetto. E ci sono indici più complessi che rinviano a pensieri a loro volta complessi: un esempio è il fumo che segnala un incendio.

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CAPITOLO 1 - Un mondo di segni

Parte I - Sulla soglia della grammatica: i segni, la comunicazione, le norme e gli usi

Le icone (dal greco éikon, « immagine ») rinviano a un oggetto per so­ miglianza. Un ritratto di una persona, per esempio, è un’icona: ricono­ sciamo la persona perché il ritratto è somigliante. La somiglianza è una relazione complessa, che spesso contiene elementi di convenzionalità. Per identificare laghi e fiumi su una carta geografica occorre conoscere alcune convenzioni della cartografia. Queste convenzioni, tuttavia, for­ niscono la chiave per cogliere delle somiglianze tra i segni e gli ogget­ ti raffigurati. Fanno parte delle icone anche i diagrammi, che raffigu­ rano non un oggetto ma una relazione tra oggetti: un esempio di dia­ gramma è l’uso di due rettangoli di superficie diversa per raffigurare il rapporto tra il prodotto interno lordo e il debito pubblico di uno Stato. Il rapporto tra le superfici dei due rettangoli riproduce esattamente il rapporto quantitativo tra le due grandezze.

I simboli non sono collegati a un contenuto né da vicinanza, come gli indici, né da somiglianza, come le icone: alla base del funzionamento dei simboli c’è la condivisione da parte degli utenti. I simboli riman­ dano a un contenuto semplicemente perché tutte le persone che li usa­ no sono d’accordo sulla relazione tra un certo segno e un certo conte­ nuto. Un cartello di divieto di sosta - un cerchio blu bordato e sbarrato di rosso - non ha nessun rapporto naturale con il suo contenuto - il divieto di parcheggiare un’auto. Se rinvia esattamente a questo conte­ nuto, è solo perché cosi stabilisce il codice della strada, e tutte le perso­ ne che appartengono al gruppo sociale in cui vale questo codice sono d’accordo su questo legame e lo riconoscono.

i. 3

Le icone: immagini e diagrammi

I simboli

I segni della lingua come simboli

I segni linguistici sono certamente simboli. Se in italiano il nome mela significa il concetto «mela» non è né perché la parola mela assomiglia in qualche modo a una mela, né perché è vicina a una mela, ma sempli­ cemente perché tutti i parlanti dell’italiano accettano questo legame, lo condividono e fanno affidamento sulla sua solidità.

I segni linguistici come simboli

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Parte I

Sulla soglia della grammatica: i segni, la comunicazione, le norme e gli usi

Box 1.2 - SIGNIFICANTE E SIGNIFICATO Il segno linguistico presenta due facce tra loro inseparabili, come un foglio o una moneta. Chiamiamo significante la faccia fisicamente percepibile del segno (la catena di suoni che dà luogo a una parola), significato il contenuto concettuale a essa associato.

La parola segno è usata in semiotica e in linguistica in due accezioni diverse. I semiotici la usano in un’accezione generica, per designare qualsiasi relazione nella quale qualcosa sta per qualcos'altro-, il concetto di segno nell’accezione generica include dunque gli indici e le icone (Eco, 1973/1975). I linguisti, invece, lo usano in un’accezione specifica, per designare un tipo particolare di segni distinti dagli altri: quei particolari simboli che sono i segni linguistici. Nell’ac­ cezione specifica, dunque, il concetto di segno si oppone agli indici e alle icone. La distinzione tra simboli, indici e icone è stata messa a punto dal filosofo americano Ch. S. Peirce (1932/1980). La distinzione tra simboli e indici, tuttavia, è molto più antica, e risale ad Aristotele. Nel trattato Dell’espressione, Aristotele distingue il segno linguistico o symbolon («suono della voce, significativo per accordo ») dall’indice o seméion, che instaura una relazione tra due oggetti o fenomeni simultaneamente dati in condizioni tali che dall’uno (per esempio dal fumo) si risale all’altro (al fuoco). La definizione del concetto ristretto di segno linguistico, come anche la distinzione tra i suoi due piani, quello del significante (e quello del significato), risale al linguista ginevrino F. de Saussure (1916/1967: Parte I, cap. 1). Il segno di Saussure è un simbolo nel senso di Aristotele e Peirce. Aggiungiamo che nell'uso corrente la parola simbolo si discosta parecchio dal significato che ha in Aristotele e Peirce: i simboli sono considerati immagini convenzionali di concetti astratti (un esempio è la bilancia come simbolo della giustizia). D’ora in avanti useremo la parola segno nell’accezione ristretta di «segno linguistico», che si contrappone a - e può essere confrontato con - indici e icone.

La collaborazione

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Nella comunicazione linguistica, o comunicazione verbale, i segni e gli indici lavorano in sinergia. Per questo è importante capire due cose: che i segni linguistici hanno una struttura completamente diversa da quella degli indici e che, nella comunicazione, i segni collaborano con gli indici e in molti casi si comportano come indici.

CAPITOLO 1 - Un mondo di segni

1 .4.1

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Gli indici identificano oggetti, i segni istituiscono concetti

L’indice si riferisce a un oggetto: la mela che ho davanti. Il segno cir- La relazione coscrive un concetto: nel caso specifico, il segno istituisce un criterio econtemjtcT6 ° che permette di raggruppare oggetti simili in una classe. L’indice segnala l’oggetto qui e ora, cioè in una dimensione con­ tingente. Il dito non può indicare un oggetto che non sia presente. Quando cessa di indicare, d’altra parte, non è più un indice - non è più un segnale. Il segno significa un concetto per un tempo lungo: indipen­ dente dal qui e dall’ora. Il segno mela significava il concetto «mela» ieri e lo significherà domani. Dato che non si applica a un oggetto particolare, ma a un concetto, il segno linguistico funziona anche in assenza dell’oggetto e addirittura anche se non esiste alcun oggetto che corrisponda al concetto: la parola chimera significa «chimera» anche se le chimere non esistono. Un concetto, in altre parole, può esistere anche se non ci sono gli oggetti corrispondenti. È un primo esempio del rapporto complesso che esiste tra espressioni linguistiche, concetti e oggetti dell’esperienza. La relazione tra l’indice e l’oggetto è estrinseca: l’oggetto è fuori dall’indice. Non c’è nulla nel dito indice che lo predisponga a puntare su una mela piuttosto che su un mazzo di carte. Tutto può essere indi­ cato da un dito, purché alla sua portata e alla portata del destinatario. La relazione tra il segno e il concetto è intrinseca. Il concetto è interno al segno: il concetto «mela» è inseparabile dalla catena di suoni mela. Per questo Saussure sostiene che il significato fa parte del segno esat­ tamente come la sua veste sonora, cioè il significante. Il segno è forma­ to dall’unione tra significante e significato. I segni, specialmente quan­ do sono complessi, si chiamano anche espressioni. Il loro significato si chiama anche contenuto.

Se i concetti fossero indipendenti dai loro segni, esterni, tutte le lingue dovrebbero avere gli stessi concetti, e cambierebbe solo il suono delle parole. Ma non è cosi. Molti concetti sono effettivamente simili da una lingua all’altra: il concetto «mela», per esempio, lo ritroviamo abba­ stanza simile in francese (dove si chiama pomme) in tedesco (dove si chiama Apfel), in inglese (dove si chiama appiè). Tuttavia, non possiamo dare per scontato un fatto del genere, perché

1.4 I segni linguistici e gli indici: differenze

ogni lingua è in grado di ritagliare i concetti a modo suo. Per chi parla italiano, un bosco è una superficie coperta da una vegetazione arborea più con­ sistente che in una macchia o in una brughiera, meno estesa di una foresta, naturale (se è

Per distinguere i segni dagli indici, osserveremo due esempi confronta­ bili: la parola mela, come esempio di segno linguistico, e un dito pun­ tato che indica una particolare mela, come esempio di indice.

artificiale abbiamo un parco), non coltivata (in questo caso abbiamo un frutteto), situata in climi dove non troviamo la giungla o la savana, e cosi via. Insomma, se noi vediamo dei boschi nella realtà, è perché la nostra lingua dispone della parola bosco, e nello stesso tempo possiede altre

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CAPITOLO 1 - Un mondo di segni

Parte I - Sulla soglia della grammatica: i segni, la comunicazione, le norme e gli usi

parole che designano altri tipi di superfici coperte di vegetazione: foresta, macchia, parco e cosi via. Per chi parla un’altra lingua, la realtà del bosco può essere diversa. [M u , Molti concetti sono come sono perché nella lingua esistono certe parole e non altre. Questa è la miglior prova del fatto che il significato è inseparabile dal significante e forma insieme a quest’ultimo il segno. Il significato di un segno linguistico è un concetto, ma non un concetto qualsiasi: è un concet­ to che dipende per la sua esistenza dalla disponibilità di un significante. Questo non implica che non possiamo immaginare concetti indipendenti dai significanti linguistici. Semplicemen­ te, questi concetti non sono significati di parole. Se un concetto è un significato, è insepa­

te dal latino classico iucus. Essa suonerebbe luco. Siccome si opporrebbe comunque a macchia, foresta, parco, frutteto, ritaglierebbe nella realtà lo stesso concetto che ora per noi è inseparabi­ le dalla parola bosco. Tuttavia, una volta che un insieme di suoni e un concetto si sono saldati - una volta che il concetto «bosco» si è unito alla catena di suoni bosco - il parlante dell’ italiano non può che accettare questo dato di fatto. Il concetto di arbitrarietà è stato introdotto da Saussure (1916) e precisato da altri studiosi, tra i quali Benveniste (1939).

rabile dal significante con il quale è collegato nel segno. L’idea che i concetti ricevono una forma nella lingua nasce da Saussure (1916) e riceve una formulazione esplicita in Hjelmslev (1943/1968).

La capacità di creare concetti, propria dei segni linguistici in gene­ rale, è ancora più evidente se pensiamo alle parole che non descrivono oggetti visibili e sensibili, che potremmo anche indicare, ma realtà im­ materiali. Parole come virtù o coraggio a quali oggetti rinviano? Non esistono oggetti chiamati virtù o coraggio; esistono persone che possia­ mo definire virtuose o coraggiose nel momento in cui la nostra lingua dispone di questi significati. Senza concetti come «virtù» o «corag­ gio» non riusciremmo a individuare nella realtà comportamenti virtuo­ si o coraggiosi. Oppure pensiamo a libertà, progresso, bellezza... Paro­ le come il tedesco Sehnsucht, l’inglese longing, lo spagnolo desengano sono casi estremi, non traducibili in modo diretto. 1.4.2

Gli indici sono motivati, i segni sono arbitrari

___________La relazione tra l’indice e l’oggetto è motivata da ragioni esterne: nel L’arbitrarietà del caso del dito puntato, la vicinanza fisica. La relazione tra il segno e il segno linguistico suo significato, viceversa, non è motivata da ragioni esterne alla lin­ gua. Il significante mela significa il concetto «mela» perché così stabi­ lisce la lingua italiana e tutti i parlanti dell’italiano sono d’accordo su questa relazione. Si tratta di una relazione tutta interna alla lingua, pri­ va di ragioni esterne, definita arbitraria.

Box 1.3 - IL CONCETTO DI ARBITRARIETÀ In linguistica, arbitrario non significa «lasciato all’iniziativa del soggetto», come in filosofia mo­ rale, ma semplicemente «non motivato da ragioni esterne», quindi «regolato dall’interno della lingua» e, di fatto, «condiviso dalla comunità dei parlanti». Per renderci conto di questo fatto, possiamo fare un’ipotesi di «fanta-storia della lingua». Immaginiamo che la parola che indica il «bosco», invece di derivare dalla parola germanica latinizzata buscus, fosse derivata direttamen-

Una relazione motivata è trasparente: un giapponese identifica l’oggetto indicato da un dito esattamente come un parlante dell’italia­ no. Una relazione arbitraria è inaccessibile a chi non conosca una certa lingua: un giapponese che non parla italiano non è in grado di stabilire il significato di mela. Un indice funziona all’interno di una situazione condivisa che si fa e si disfa sul momento, che Buhler (1934) ha definito campo di indicazione. Gli indici più semplici funzionano all’interno di un campo visivo condiviso. Un segno funziona invece all’intemo di una lingua.

______ il campo

i .5 Le icone e gli indici nella lingua e nella comunicazione Studiando la struttura delle espressioni linguistiche e, in particolare, il loro uso comunicativo, possiamo scoprire numerosi esempi di icone e, soprattutto, di indici. La comunicazione è un processo complesso, nel quale le espressioni linguistiche interagiscono con altri tipi di segnali. Mentre la presenza di icone nelle espressioni linguistiche è saltua­ ria e marginale, la funzione degli indici nella comunicazione è fondamentale e insostituibile. Uno degli aspetti più sorprendenti della comu­ nicazione verbale è proprio questo: pur essendo diversi da tutti i punti di vista, i segni e gli indici collaborano a un compito comune. La co­ municazione non sarebbe quella che conosciamo se non ci fosse questa strettissima sinergia tra i segni e gli indici.

i. 5 .i Icone nella lingua e nei testi Il significante di alcune parole - per esempio scricchiolare, cigolare, soffiare - sembra assomigliare al loro contenuto: il suono ci sembra dunque un’icona del contenuto. Si tratta delle cosiddette parole onoma­ topeiche. Nel costruire i discorsi, inoltre, ci divertiamo talvolta a sugge-

Parole iconiche: le onomatopee

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rire una certa somiglianza tra i significanti delle parole e le cose che de­ signano: si tratta del fenomeno noto come «simbolismo fonico», am­ piamente documentato nelle poesie di Giovanni Pascoli. Ecco due esempi: Nella notte scrosciò, venne dirotta La pioggia, a strisce stridule infinite: e il tuono rotolò da grotta a grotta (da La notte, in Primi poemetti) Col vento via le vane foglie vanno (da / due alberi, in Nuovi poemetti).

Ideòfoni

Altri fenomeni di Iconicità

Si tratta di fenomeni che non hanno nessuna incidenza sulla struttura della lingua, mentre acquistano valore nei testi, in particolare in quelli poetici. Un caso ancora più evidente di somiglianza tra significante e signi­ ficato si ha nei cosiddetti ideòfoni, parole che ricalcano nella loro for­ ma rumori (tic-tac dell’orologio, bum di un oggetto che cade, uffa co­ me esclamazione di impazienza ecc.) o versi di animali (bau-bau del cane, coccodè della gallina ecc.). Più importante per il funzionamento delle espressioni è il fatto che alcune relazioni tra espressioni riflettono relazioni localizzabili al li­ vello del contenuto. Un primo esempio è costituito dal fenomeno del raddoppiamento o reduplicazione espressiva, ovvero la ripetizione di un’espressione per significare accrescimento quantitativo del contenuto o intensificazione del significato: per esempio bello bello («molto bello »), piano piano (« molto piano »), cammina cammina (« dopo aver molto camminato »), senti senti (per esprimere stupore o fastidio rispetto a quanto si è sentito). Un altro esempio è offerto dalla cosiddetta iconicità sintattica, ov­ vero da quei casi in cui la successione lineare di due enunciati rispec­ chia come un diagramma la successione temporale degli eventi indica­ ti. Nella frase seguente: Giovanni prima si è alzato, e poi ha fatto cola­ zione: Giovanni si è alzato e ha fatto colazione.

Torneremo su questo argomento quando parleremo delle relazioni tra processi e della loro espressione Slflial

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CAPITOLO 1 - Un mondo di segni

Parte I - Sulla soglia della grammatica: i segni, la comunicazione, le norme e gli usi

1.5.2 Indici nella lingua

Nel momento in cui un’espressione è effettivamente usata nella comu­ nicazione, alcune delle parole che contiene funzionano come indici (e vengono perciò chiamate indicali o deittiche): hanno la funzione di identificare oggetti presenti intorno a noi, punti dello spazio circostan­ te o momenti del tempo misurati in rapporto all’atto di parola. Se, per esempio, sentiamo una frase come la seguente, è facile in­ tuire che qui, esattamente come un dito puntato, identifica un punto dello spazio vicino a quello dove si trova il parlante:

Espressioni deittiche

Ho portato qui la bottiglia.

Allo stesso modo funziona il pronome sottinteso io, che indica, qui e ora, la persona che parla nel momento in cui parla. Parole come io, tu, questo, quello, oggi, qua identificano, nel momento stesso in cui ven­ gono pronunciate, la persona che parla, il destinatario del messaggio, oggetti vicini a loro, il momento e il luogo in cui l’atto di parola ha luogo. La lingua contiene nel suo vocabolario alcune parole destinate a essere usate come indici, che ci invitano ogni volta a cercare 1 oggetto a cui si riferiscono direttamente intorno a noi, sulla scena comunicativa. Se torniamo al nostro esempio, anche l’espressione la bottiglia ci chiede di identificare nello spazio circostante una bottiglia particolare, proprio quella: come se dicessi Portamela e la indicassi con il dito. Più in generale, la maggior parte delle espressioni costruite combinando un nome comune e un articolo o un altro determinante - espressioni come quella mela o il cane di Luca - funzionano come indici, che nella co­ municazione servono a identificare cose e persone di cui stiamo par­ lando, cioè referenti. Un’espressione come quella mela ha una funzione simile a quella di un indice puntato. Diversamente da quest’ultimo, però, contiene un segno, e quindi un concetto. Usando l’espressione, pertanto, non ci li­ mitiamo a identificare un oggetto presente, ma lo qualifichiamo anche come mela. La forza e l’efficacia della comunicazione linguistica stan­ no proprio nella sua capacità di combinare in una sinergia potentissima l’elasticità dell’indicazione, capace di adattarsi ogni volta alle mutevoli condizioni d’uso, e la durata dei concetti nel tempo, sottratti ai vinco­ li del qui e dell’ora. 1.5.3 Espressioni come indici di messaggi: la comunicazione

Le espressioni linguistiche usate nella comunicazione - che chiamere­ mo enunciati - contengono indici per una ragione profonda: la comu-

L'enunciato

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La comunicazione come scambio di indici

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nicazione stessa è uno scambio di indici. Capire questo punto è impor­ tante per una comprensione corretta non solo dei meccanismi della comunicazione ma anche della struttura delle espressioni, e soprattutto del loro significato. Osserviamo un esempio. Un padre guarda suo figlio con un’aria un po’ seccata e dice: Il li­ bro è per terra. L’enunciato del padre ha un significato unico e chiaro: si riferisce a un oggetto appartenente alla classe dei libri e gli attribui­ sce la condizione di essere per terra. Il destinatario del messaggio, ov­ viamente, deve capire questo significato, ma non basta. Deve anche identificare esattamente a quale libro suo padre si riferisce e perché suo padre si riferisce a questo libro e gli attribuisce la condizione di essere per terra. Deve quindi identificare un oggetto, o referente, e un mes­ saggio, cioè un’intenzione comunicativa: il contenuto di un pensiero che l’emittente vuole condividere con lui. Identificare referenti è la funzione delle espressioni indicali che compaiono in un enunciato, per esempio il libro. Mettere il destinatario sulle tracce di un messaggio di un’intenzione comunicativa - è la funzione dell’enunciato nel suo insieme. L’intenzione comunicativa che spinge una persona a comunicare il contenuto del messaggio - e il significato dell’espressione che usa sono due realtà diverse. Nel nostro esempio, possiamo immaginare che il padre stia dando a suo figlio un’informazione utile a rintracciare il libro. Ma possiamo anche immaginare che lo rimproveri per la sua tra­ scuratezza, oppure che gli ordini di raccogliere il libro e metterlo al suo posto. Il figlio deve identificare l’intenzione di suo padre - il messag­ gio - a partire dal significato dell’espressione. La comunicazione è un’azione collaborativa che coinvolge esseri umani: un emittente formula un pensiero nella sua mente e cerca di portare un destinatario a condividerlo. Per fargli in qualche modo arri­ vare il suo pensiero sotto forma di messaggio, si serve di uno strumen­ to. L’espressione linguistica dotata di significato è il più importante e il più raffinato di questi strumenti. Per ottenere il suo scopo, il padre avrebbe potuto dire al figlio Raccogli il libro!, oppure semplicemente lanciargli un’occhiata allusiva indicando il libro. In quest’ultimo caso, il figlio avrebbe dovuto capire il messaggio senza l’aiuto di un’espres­ sione linguistica e del suo significato. Che cosa hanno in comune un’espressione linguistica e un gesto nel momento in cui sono usati nella comunicazione? Hanno in comune il fatto che il destinatario li interpreta come segnali che lo guidano verso un’intenzione comunicativa. Detto con parole più precise, hanno in comune la proprietà di essere indici di un messaggio.

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Box 1.4 - 1GESTI COMUNICATIVI Accanto alla componente verbale, nella comunicazione parlata acquistano grande importan­ za alcuni gesti prodotti intenzionalmente dagli interlocutori e dotati di un contenuto condi­ viso. Si tratta di gesti realizzati soprattutto con le mani-braccia-spalle e /o con espressioni del viso, che possono sia accompagnare un’espressione linguistica (gesti coverbali) e sia sostituirla (gesti autonomi). La gamma dei gesti usati dagli italiani è molto ampia e varia. ^ Anche i gesti, come le espressioni verbali, possono avere valore deittico (un esempio è l’indice puntato), iconico (per esempio disegnare delle virgolette o delle parentesi con le mani), simbolico (un esempio è il gesto di OK). I gesti simbolici possono avere più significati, proprio come le parole: il gesto della «mano a carciofo» o «a tulipano», per esempio, può voler dire sia «che vuoi?» e sia «che dici?». Si tratta inoltre di gesti codificati che hanno un certo valore in una determinata comunità linguistica: il gesto citato, per esempio, nel Nord Africa ha un significato completamente diverso: «aspetta». I gesti simbolici possono variare anche a livello regionale: per dire «no», gli italiani scuotono la testa a destra e sinistra, per dire «si» la muovono invece dal basso verso l’alto e vicever­ sa; un siciliano per dire «no» userà il gesto dell'heac/ toss, in cui la testa viene mossa dal basso verso l’alto. Questo gesto, di area mediterranea, può essere accompagnato da un leggero schiocco della lingua. Anche i gesti, come le parole, possono inoltre cambiare nel tempo oltre che nello spazio, nella Commedia Dante fa compiere a un dannato (Vanni Fucci) un gesto osceno («gesto delle fiche», consistente nell’inserire il pollice tra indice e medio) oggi caduto in disuso. Il gesto del «dare il cinque», di origine americana, ha recentemente sostituito gesti tradizio­ nali usati nel nostro Paese come la pacca sulla spalla, la stretta di mano o le mani alzate in segno di esultanza. Quando un sistema di gesti simbolici prevede anche una grammatica, cioè un sistema di regole per combinarli, può dare luogo a vere e proprie lingue, come la LIS, Lingua Italiana dei Segni, usata dalla comunità italiana dei sordi.

i.6 L’interpretazione del messaggio i.6.i Le inferenze e il campo di interpretazione Il significato di un’espressione, come uno strattone, non è ancora il mes- La « r a z io n e saggio, ma è interpretato dal destinatario come un indice che, attivando e )e jnferenze una catena di ragionamenti - o, con un termine tecnico, di inferenze - lo mette sulle tracce di ciò che il parlante vuole dire, e cioè del messaggio. Per capire meglio questo punto immaginiamo una scena domesti­ ca. La moglie non trova il gatto, e chiede al marito: Hai visto il gatto? Il marito risponde: La finestra è aperta. Se il messaggio coincidesse con il significato dell’espressione, la risposta sarebbe fuori tema - m termini più precisi, sarebbe incoerente: a una domanda sul gatto si ri­ sponde con un’affermazione sulla finestra. Ma tutti ci rendiamo conto che le cose non stanno così. Probabilmente il marito vuole suggerire

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Il campo di interpretazione

che il gatto è scappato dalla finestra che dà sui tetti. Questo messaggio è coerente con la domanda, ma ovviamente non coincide con il signifi­ cato della frase. La moglie, partendo dal significato, e ragionando sul rapporto tra la finestra aperta sulla quale verte la risposta e il gatto sul quale porta la domanda, arriva alla conclusione che il gatto è scappato dalla finestra. Il punto di arrivo di questo ragionamento non è altro che il messaggio. Per mettere a fuoco il rapporto tra 1’espressione, il suo significato e il messaggio, cerchiamo di capire che cosa ha davvero fatto la moglie. La moglie ha capito il significato della frase, e si è resa conto che non era coerente con la domanda. A questo punto, ci ha ragionato sopra sullo sfondo di alcuni fattori concomitanti a lei ben presenti - la posi­ zione della finestra, le abitudini del gatto —e lo ha interpretato corret­ tamente come un segnale della fuga del gatto. Se avesse visto la fine­ stra aperta con i suoi occhi, sarebbe arrivata alla stessa conclusione: 1 avrebbe considerata come un segnale da cui risalire, con un ragiona­ mento del tutto simile, alla fuga del gatto. Nessun indice è in grado di funzionare da solo. Gli indici semplici, che rimandano a oggetti, hanno bisogno di essere collocati in un cam­ po di indicazione ί»1.4.21. Gli indici più complessi, che rimandano a messaggi, hanno bisogno di essere collocati in un campo di interpre­ tazione. Un campo di interpretazione contiene conoscenze, pensieri e immagini che il parlante deve avere presenti al momento dell’interpre­ tazione. Nel nostro esempio, il contenuto della frase La finestra è aper­ ta prende posto tra le conoscenze condivise sulla conformazione della casa e sulle abitudini del gatto per formare la premessa di un ragiona­ mento la cui conclusione è che il gatto è scappato dalla finestra. Un campo di interpretazione non si offre all’interprete, ma deve essere in parte costruito, selezionando tra i pensieri, le conoscenze e le immagini disponibili quelli che sembrano più adatti - più pertinenti - in quel particolare momento. Anche se ha una struttura contingente, effìmera come la forma di una nuvola, un campo di interpretazione non è una semplice giustapposizione di dati ma una struttura. Delle strutture, condivide la proprietà essenziale: la capacità di dare un valore ai suoi costituenti, e in particolare un valore di messaggio all’enunciato. Siamo ora in grado di sintetizzare la complessa sinergia tra segni e indici, codifica e ragionamento, che rende possibile l’avventura della comunicazione. Il parlante che vuole comunicare un messaggio costruisce un’e­ spressione. In base al codice della lingua condivisa, questa espressione codifica un significato che, a suo modo di vedere, è adatto allo scopo. Il destinatario del messaggio non si accontenta di decodificare, cioè di capire, il significato dell’espressione che ha percepito, ma cerca di

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CAPITOLO 1 - Un mondo di segni

Parte I - Sulla soglia della grammatica: i segni, la comunicazione, le norme e gli usi

identificare il messaggio che il parlante vuole trasmettergli, interpre­ tando il significato come un indice sullo sfondo di un campo condivi­ so. La comunicazione non è un gioco meccanico di codifica e decodi­ fica, ma una forma complessa di azione, o meglio di cooperazione, i cui protagonisti si impegnano attivamente per ottenere uno scopo con­ diviso. Nella comunicazione non entrano solo le abilità linguistiche e le conoscenze. La comunicazione chiede un coinvolgimento delle per­ sone, e in primo luogo la loro volontà di capirsi. Come in qualsiasi azione umana, nella comunicazione c’è un investimento etico. La riu­ scita della comunicazione è un compito morale condiviso dal parlante e dal destinatario.

L’intuizione sulla natura indicale della comunicazione è stata formulata indipendentemente dal filosofo Edmund Husserl e dall’antropologo Bronislaw Malinowski. Husserl (1900/1962: I Ri­ cerca: 300) scrive che «nel discorso comunicativo, tutte le espressioni funzionano come indici [,Anzeichen]. All’ascoltatore essi servono come segnali dei pensieri di chi parla». Malinowski (1923/1952: 307) giunge indipendentemente alla stessa conclusione. La dimensione etica dello scambio comunicativo è messa in luce da Grice (1975), che descrive l’azione comunicativa come un comportamento razionale ispirato dal principio di cooperazione, e una serie di «massi­ me» che ne discendono. La natura inferenziale della comunicazione è sottolineata da Sperber e Wilson (1986).

1.6.2

La relazione complessa tra significati e messaggi

Tradizionalmente, concetti come «letterale» e «non letterale» si appli­ cano al significato delle espressioni. Tuttavia, è importante capire che ciò che può essere letterale o non letterale non è il significato dell’e­ spressione ma la sua relazione con il messaggio. Un messaggio può coincidere con il significato dell’espressione alla quale è affidato, o allontanarsene in misura più o meno grande. Quando il contenuto del messaggio coincide con il significato dell’enunciato abbiamo un inter­ pretazione letterale: questo accade ad esempio quando l’enunciato La finestra è aperta risponde alla domanda Hai chiuso la finestra? Si ha un’interpretazione non letterale quando il messaggio ha un contento diverso dal significato dell’enunciato: questo accade ad esempio quan­ do l’enunciato La finestra è aperta risponde alla domanda Dove è il gatto?

Interpretazione letterale e non letterale

La lingua italiana tra norma e usi CAPITOLO

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In questo capitolo introdurremo alcuni concetti preliminari allo studio della grammatica: «norma linguistica», «uso», «errore», «eccezione», «variabile». Af­ fronteremo quindi il tema della variabilità dell’italiano: come ogni lingua, infatti, l’italiano è mutato (e continua a mutare) nel tempo e presenta fisionomie varie sia nelle diverse aree della penisola sia nelle diverse situazioni, dipendenti anche dall'estrazione sociale dei parlanti e dal contesto in cui si trovano a in­ teragire. Individueremo cosi una gamma di varietà di lingua a disposizione del parlante che formano il cosiddetto «repertorio linguistico». La definizione delle varietà più rilevanti nello spazio linguistico italiano ci permetterà di circoscrivere meglio lo «standard» di riferimento per la descrizione grammaticale. Ci soffer­ meremo in particolare sulle varietà i cui tratti sono stati identificati con più sicu­ rezza e che maggiormente caratterizzano i parlanti italiani: gli italiani regionali (con un cenno ai dialetti italiani e alle lingue minoritarie). Daremo quindi conto di alcuni cambiamenti che hanno interessato l’italiano specialmente ai livelli della sintassi e della testualità, che sono al centro della trattazione sincronica in questo volume.

2.1

II concetto di norma

Ogni descrizione grammaticale di una lingua si basa, in modo più o meno esplicito, su un insieme di regole proprie a una determinata co­ munità linguistica, relative all’uso «normale», cioè statisticamente prevalente presso i parlanti in un determinato momento storico, e «normato» sulla base di regole condivise della lingua in questione. L’insieme di queste regole è ciò che definiamo norma linguistica. Anche quella linguistica è una norma sociale che serve a dare sicurezza alle aspettative sul comportamento linguistico altrui. Come tutte le norme sociali, la norma linguistica è una convenzione, storicamente variabile, che stabilisce di volta in volta ciò che è accettabile e ciò che va invece sanzionato: di fatto, la norma linguistica si dà insieme alla possibilità della sua violazione. L’entità della sanzione (di tipo morale)

La norma linguistica come norma sociale

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Parte I

Sulla soglia della grammatica: i segni, la comunicazione, le norme e gli usi

è legata alla reazione dei rappresentanti della norma, laddove questa sia esplicitamente codificata dai grammatici e regolamentata e tutelata dalle istituzioni (Accademie, scuole). La reazione, inoltre, è tanto più consistente quanto più elevata è la sensibilità linguistica della comuni­ tà e quanto più conservatore è Γatteggiamento comune nei confronti della lingua; quando questo arriva a condannare qualsiasi cambiamen____________c^e possa alterare la fisionomia della lingua si parla di «purismo». La nascita della L’idea che le lingue siano soggette a norme si consolidò nella conorma lin g u is ta s c ie n z a e u r o p e a d u r a n te q Rinascimento: il costituirsi della norma ap­ pare strettamente legato al costituirsi delle identità nazionali e allo svi­ luppo della consapevolezza che le diversità linguistiche in Europa co­ stituivano realtà autonome e complesse, non una semplice degenera­ zione dell’unità classica. In Italia, data la frammentazione politica, la spinta a dotarsi di una grammatica venne dall’esigenza letteraria di superare il latino, che fino ad allora era considerato la grammatica per eccellenza. Il volgare (lingua del volgo, cioè conforme all’uso dei par­ lanti) si nobilitò attraverso un processo di selezione e individuazione di un modello linguistico di riferimento (jH3ox z7ij). La norma venne configurandosi come un insieme di regole e precet­ ti scelti tra gli usi di una lingua secondo un ideale socioculturale ed estetico: nella Francia del XVI secolo, il «buon uso» della corte reale; in Italia, l’uso prestigioso dei migliori autori: il fiorentino scritto da Petrarca e Boccaccio, come proposto da Pietro Bembo nelle Prose della volgar lingua (1525). La nascita, nei secoli XVI e XVII, delle Accade­ mie e dei primi vocabolari delle lingue europee (1612: prima edizione del Vocabolario dell Accademia della Crusca) contribuirà a sancire la forza cogente del modello e a diffonderlo presso le élite intellettuali.

Box 2.1 - IL PLURILINGUISMO MEDIEVALE VISTO DA DANTE La situazione di plurinlinguismo diffuso, owero l’assenza di un volgare unitario (effetto del pluricentrismo della penisola, priva di una sede egemone del potere politico), è ritratta da Dante in un trattato latino scritto intorno al 1304-1305, rimasto inedito fino al sec. XVI: il De vulgarì eloquentia. Il trattato, che doveva comprendere quattro libri, fu interrotto al XIV capitolo del libro II. Dopo aver affrontato temi come l’origine delle lingue a partire dalla confusione babelica e la differenziazione delle parlate europee (di cui intuisce l’origine comune), Dante si concentra sulla «lingua del si» e sulla necessità di elaborare il parlare materno, la lingua naturale del popolo («volgare»), in modo da renderla adatta a esprimere contenuti elevati. Nel cap. X del libro I, Dante traccia una sorta di cartina linguistica dell’ Italia, individuando i confini più significativi (come la dorsale appenninica) e identificando 14 volgari principali. Tra questi il poeta cerca un volgare «illustre», che possa cioè dare «lustro» a chi lo usa nella

CAPITOLO 2 - La lingua italiana tra norma e usi

scrittura, essendo al tempo stesso sovraregionale («cardinale», cioè funzionante come un cardine intorno al quale ruotinogli altri volgari), parlato nelle corti («aulico»), regolato da una «curia» ristretta di sapienti («curiale»). La ricerca viene descritta come la caccia a una «odorosa pantera», i cui segni si trovano ovunque ma che non si lascia afferrare. Dante appare consapevole del fatto che lingue na­ turali mutano nel tempo e nello spazio, al punto che le parlate possono differenziarsi perfino da un capo all’altro della stessa città. Nella Commedia Dante tornerà sul tema della variabilità temporale: persino l’ebraico parlato dal primo uomo diventa, nella testimonianza di Adamo, una lingua peritura, che si era già persa al tempo di Babele: le lingue infatti non sfuggono al destino comune delle costruzioni umane - mutare al mutare dei gusti (Par. XXVI, 123-132). In questo quadro, assumono grande rilievo quei dotti, come i poeti siciliani della corte di Federico II (di cui Dante conosceva i testi in versioni toscanizzate dai copisti del tempo), che riescano a dar forma a una lingua depurata dai tratti municipali: un modello di lingua letteraria esportabile e imitabile. Lo stesso latino, del resto, è considerato da Dante una costruzione dei dotti: una locutio secondaria, artificiale e immutabile. Negativo è invece il giudizio che Dante dà del fiorentino del tempo. Eppure, grazie anche al modello offerto dalla produzione letteraria dantesca, proprio il toscano acquisterà le caratte­ ristiche di volgare latium, esteso all’intera penisola.

Intorno al concetto di norma ruoteranno le « questioni della lin- Le questioni gua » ricorrenti nella nostra storia: da quella cinquecentesca, di natura della lingU— squisitamente letteraria, che vide il predominio di Bembo e Γ afferma­ zione di uno standard basato sull’imitazione del fiorentino del Trecen­ to, a quella settecentesca, di natura più filosofica, che insieme alla po­ lemica antifrancese affrontò per la prima volta (con Melchiorre Cesa­ rotti) il problema generale delle lingue e del loro funzionamento. Il capitolo ottocentesco della questione, divenuta di natura civile e politi­ ca, vide l’affermazione del modello manzoniano, basato sul fiorentino dell’uso vivo, come lingua unitaria per la nazione. Nuove e nuovissime questioni linguistiche attraversano anche il Novecento per arrivare fino ai giorni nostri. 2.1.1 La grammatica come forma di canonizzazione

La grammatica, che noi oggi percepiamo come «sistema» relativa- Grammatica mente compatto, è il risultato di una dinamica di processo in cui agi- e letteratura scono varie spinte: politiche, geografiche, culturali, dottrinali. Model­ lata a partire da una tradizione millenaria, risalente almeno al sec. Ili a.C., fin dai suoi esordi essa appare legata all’esigenza di individuare una serie di regole per interpretare testi letterari esistenti e per scriver­ ne di nuovi. Il rapporto tra grammatica e letterarietà è duplice: se da un

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Parte I - Sulla soglia della grammatica: i segni, la comunicazione, le norme e gli usi

lato la grammatica si nutre di lingua scritta e di letteratura, dall’altro essa contribuisce a creare il canone letterario attraverso la scelta degli __________ _ esempi citati a supporto delle regole. La grammatica La grammatica, dunque, si configura come strumento di autorità -------- a_scuola sia in quanto « forma della canonizzazione » sia in quanto cardine nella trasmissione del sapere e nella formazione culturale europea: la sua presenza nelle istituzioni scolastiche fa sì che essa costituisca il primo schema di lettura e interpretazione della lingua scritta e insieme il vei­ colo ideale per qualsiasi contenuto. Box 2.2 - LA GRAMMATICA SCOLASTICA Il rapporto tra grammatica e scuola è estraneo alla nascita della grammatica italiana, che ai suoi esordi rappresenta uno strumento letterario, legato allo sviluppo della stampa e alla necessità di regolarizzare l’uso scritto della lingua. Tale rapporto si fa tuttavia strettissimo nell’Ottocento, quando l’istruzione elementare è resa gratuita e obbligatoria: la grammatica diventa strumento di alfabetizzazione e acquista maggior rilievo il criterio della correttezza grammaticale, che nelle trattazioni grammaticali dei secoli XVI e XVII era solo una com­ ponente della scrittura d’arte. Le grammatiche scolastiche, concepite sempre con occhio rivolto al latino (autentico «letto di Procuste» in cui far rientrare a forza regole e paradigmi dell’italiano), introducono inoltre le tecniche di analisi (grammaticale e logica) finalizzate all’acquisizione delle categorie grammaticali e sintattiche. Se queste categorie rimangono in larga parte valide e costituiscono il perno dell’insegnamento grammaticale, il modo di definirle è oggi profondamente cambiato grazie agli apporti della linguistica moderna. Ciononostante, molte grammatiche scolastiche perpetuano cate­ gorie valide per le lingue classiche ma non per quelle moderne (si veda la casistica dei com­ plementi: fc.Boxi4.2s), nonché pratiche di analisi linguistica ormai considerate anacronisti­ che perché basate su criteri eterogenei, concettuali e formali. La grammatiche scolastiche, inoltre, anche quando danno spazio alla variabilità della lingua, tendono (nelle spiegazioni e negli esercizi) a dare un’idea troppo spesso monolitica e statica dell’italiano. Rientrano nella tradizione scolastica anche la condanna di pseudo-errori (a me mi) e il fissarsi di regole logicizzanti fcz.2.

La continuità nella storia

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Nel contesto italiano, la canonizzazione del fiorentino trecentesco, ovvero la scelta di un modello lontano dall’uso vivo e basato su una varietà coltivata da una cerchia limitata di scrittori, ha avuto una serie di conseguenze di rilievo. In primo luogo va citata la stabilità diacro­ nica dell’italiano, lingua che per secoli ha avuto un uso prevalente­ mente scritto: un destino che le ha consentito di rimanere struttural­ mente vicina al fiorentino trecentesco (nonostante alcune differenze) e che ci consente oggi di leggere gli autori prerinascimentali senza biso­ gno di studiare la grammatica dell’italiano antico (possibilità scono­ sciuta a un francese o a un inglese).

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CAPITOLO 2 - La lingua italiana tra norma e usi

Dal punto di vista del grammatico, questa continuità comporta un andirivieni costante tra passato e presente: la descrizione sincronica, infatti, non può prescindere dallo spessore storico dell’italiano. La no­ stra lingua ha mantenuto in vita molte forme e costrutti del passato, in particolare nella varietà letteraria, che si configura spesso come un in­ sieme di scelte stilistiche più che come un’unità organica, e nel cosid­ detto «italiano scolastico», che ha caratteristiche conservatrici e spes­ so artificiali. La coscienza di questa continuità è del resto presente an­ che nel sentimento linguistico degli italiani, che tendono a rifiutare operazioni di traduzione « da un italiano all’altro » (di ammodernamen­ to linguistico) di testi classici dei secoli scorsi. Al tempo stesso, il perdurante contrasto tra la lingua scritta unitaria di marca letteraria e la frammentazione degli usi parlati (dai diversi volgari italiani ai dialetti locali e regionali) ha portato a distinguere nettamente «uso colto» e «uso popolare» della lingua: l’uso cui la norma fa riferimento è quello dei parlanti colti, anche se l interesse per le parlate popolari, specie fiorentine, ha attraversato la nostra storia linguistica e ha portato allo sviluppo di una ricca letteratura dialettale «riflessa». Dal punto di vista del grammatico, questa opposizione crea interferenza tra «regola descrittiva», basata sull’osservazione delle regolarità interne al sistema, e «regola prescrittiva»: chi tenta di de­ scrivere la lingua si trova infatti a essere (o a essere percepito) come un legislatore, capace di discemere tra usi più o meno adeguati, ed è co­ stretto a rendere conto anche di pseudo-regole perpetuate dalla tradi­ zione. Questa particolare storia ha comportato altresì una precoce divari­ cazione tra «uso scritto» e «uso parlato», alimentando l’idea che il parlato sia meno normato dello scritto. L’esperienza scolastica, basata sullo studio di una «grammatica senza parlato» (Voghera, 2017), cioè di un insieme di regole prive di riferimenti agli scambi reali, ha fatto sì che nella nostra coscienza di parlanti si fissasse l’antitesi tra «parlato» (spontaneo, immediato, disordinato ecc.) e «grammatica» (costruita, stabile, ordinata ecc.). Una delle conseguenze di questa opposizione è una sorta di « doppia morale linguistica » del parlante italiano: le esigen­ ze di efficacia e vicinanza comunicativa ci portano spesso a trasgredire, con un senso di colpa più o meno vigile, le «buone regole» nel parlato, specie in situazioni di scambio simmetrico (per esempio nel dialogo amicale), e viceversa ad assumere posture normative nello scritto e nel dialogo asimmetrico (per esempio nella relazione educativa). Proprio l’analisi delle correzioni degli insegnanti ha portato all’in­ dividuazione di una «norma interiorizzata» o «norma sommersa» che orienta i nostri giudizi, basata sull’immagine (letteraria) della lin­ gua che ci siamo fatti negli anni di scuola. È legata a questo tipo di

Uso colto e popolare

Uso scritto e uso parlato

La norma scolastica

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Norma di fatto e norma di diritto

Parte I - Sulla soglia della grammatica: I segni, la comunicazione, le norme e gli usi

CAPITOLO 2 - La lingua italiana tra norma e usi

norma la tendenza a condannare forme considerate «ridondanti» in nome di un logicismo astratto: non si dice a me mi; non si dice ma pe­ rò-, non si inizia un periodo con E o con Ma... Di qui anche l’avversio­ ne tutta italiana per le ripetizioni. La norma interiorizzata va distinta sia dalla «norma implicita» (la norma di fatto, basata sulla nostra esperienza di parlanti) sia dalla «norma esplicita» (la norma di diritto, codificata dalle grammatiche); va detto che quest’ultima si è allontanata dall’idea di una serie di rego­ le date a priori sulla base di un modello di lingua, per avvicinarsi all’i­ dea di un insieme di regole definite a posteriori, a partire dagli usi.

da rendere inutilizzabile l’antica norma della tradizione scritta e lette­ raria. Va comunque detto che il controllo è più forte nelle situazioni comunicative più formali, e in particolare nell’uso scritto della lingua, in cui una norma di riferimento è richiesta e seguita dagli utenti a pre­ scindere dalle oscillazioni.

2.1.2 Una norma in movimento L'italiano dell’uso medio

La norma in movimento

A partire dalla seconda metà del secolo scorso, la lingua italiana è di­ ventata progressivamente lo strumento principale della comunicazione quotidiana privata e pubblica, scritta e parlata, per la maggior parte degli italiani. Al tempo stesso, il canone letterario è stato progressiva­ mente affiancato o accantonato da nuovi modelli, diffusi dai mass me­ dia tradizionali (giornali, radio, cinema, tv) e dai nuovi media (Inter­ net, telefonia mobile, social media). Questo processo di omogeneizza­ zione, relativamente rapido e non lineare, è il risultato di un insieme di forze, aumento del tasso di scolarità, incremento degli scambi interre­ gionali, riduzione del divario sociale e generazionale, crisi di gerarchie stilistiche, di canoni metrico/retorici e di generi letterari, conguaglio linguistico realizzato dai media, pressione di altri modelli linguistici e culturali. La loro somma vettoriale ha prodotto una diffrazione della norma in più norme, adatte alle diverse situazioni comunicative. La norma dell’italiano contemporaneo è di fatto una norma flessi­ bile e in movimento, in cui accanto a uno standard alto troviamo un neostandard tipico dell’uso medio e varietà substandard tipiche degli usi più informali (J2.3f). Affrontando il periodo ipotetico, per esempio vedremo che l’italiano ha due sistemi: uno standard a tre forme (realtà, irrealtà, possibilità) e uno substandard a due forme (realtà e irrealtà), che prevedono l’uso di modi e tempi diversi (Γ»27.7/ϊΤ) . Il problema che deve affrontare il grammatico, o il linguista alle prese con la descrizione del sistema grammaticale, è dunque in primis 1 identificazione di tendenze unitarie insieme con i limiti di oscillazio­ ne entro i quali si muove la norma. La norma, del resto, è più o meno stabile a seconda dei livelli di lingua presi in esame: se a livello (orto)grafìco le regole sono relativa­ mente unitarie perché codificate da secoli e insegnate a tutti senza in­ certezze, nei settori della morfologia, della sintassi e del lessico la quantità dei fenomeni di ristrutturazione all’interno del sistema è tale

2.2 Come cambia la lingua: l’innovazione e l’errore La stabilità della norma, anche in una situazione particolare come quella italiana, non può prescindere dall’instabilità (fisiologica) del si­ stema. Ogni lingua è soggetta infatti a cambiamenti: alcuni di questi sono cambiamenti «di deriva», percepibili cioè solo sul lungo perio­ do. Il sistema dei pronomi, per esempio, ha subito ristrutturazioni non solo per quanto riguarda l’inventario delle forme, ma anche rispetto alle regole di combinazione: in italiano antico il pronome atono non apriva mai una frase (Levossi, non Si levò) e, nelle sequenze di prono­ mi atoni, il pronome diretto precedeva quello indiretto (il/lo mi tolse, non me lo tolse). Fanno parte dei cambiamenti di lunga durata anche fenomeni « carsici » come il riemergere di forme condannate in passato dai grammatici (lui soggetto, gli per a lei/loro), che si accompagna a un generale indebolimento della distinzione tra forme soggetto e forme complemento (a favore di queste ultime) nel sistema dei pronomi (per i pronomi personali la distinzione di caso è salda solo per la prima per­ sona: io, me, mi ecc.). Altri mutamenti possono essere invece definiti «meteorologici», perché percepibili nel più breve periodo (nell’arco di una generazione): è il caso dell’uso emergente di piuttosto che per alternative non prefe­ renziali (es. la legge è uguale per tutti: semplici cittadini piuttosto che politici), di forme come da subito, della combinazione di preposizione e articolo partitivo (per dei...) o dell’accentazione di parole non con­ forme all’etimologia (rubrica per rubrìca, incavo per incavo, èdile per edile ecc.). In ogni caso, la lingua non cambia per fenomeni «sismici»: se le innovazioni lessicali sono continue, la grammatica cambia lentamente e spesso impercettibilmente sotto la pressione dell’uso. La sensibilità nei confronti del cambiamento linguistico varia a seconda dei parlanti, nei quali inoltre agisce spesso un «istinto linguistico conservatore», che li porta a chiedere una norma e a pretenderne il rispetto anche quando, più o meno consapevolmente, partecipano al cambiamento della lingua. Non dobbiamo dimenticare che spesso chiamiamo «errore» una forma innovativa destinata a imporsi in futuro. Un caso famoso, da

Cambiamenti nel lungo periodo

Cambiamenti nel breve periodo

Errori oggi, regole domani

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Parte I - Sulla soglia della grammatica: i segni, la comunicazione, le norme e gli usi

questo punto di vista, è YAppendix Probi, una lista di 227 errori di lati­ no compilata da un maestro intorno al sec. IV (riportata in calce a un manoscritto contenente testi del grammatico Probo) che testimonia l’e­ voluzione del latino classico verso forme impostesi poi nel volgare (si prescrive di usare columna non colomna, lancea non lancia, calida non calda, aqua non acqua). In generale, quelle che consideriamo in­ novazioni sono spesso forme già esistenti in varietà basse, che risalgo­ no verso lo standard perdendo il loro grado di marcatezza (Berruto 2016: 32). Lo stigma che colpisce una forma ritenuta sbagliata può attenuar­ si nel tempo: la condanna del cosiddetto «che polivalente» (ί*βοχ33.7), ammesso nelle scritture dei primi secoli e poi emarginato dopo la codificazione cinquecentesca, ha finito per essere limitata ai casi più vistosi di relativo indeclinato, via via che l’uso anche letterario ha legittimato forme come il che temporale (il giorno che ti ho incon­ trato). Una regola di tipo « descrittivo » va dunque considerata come il ri­ sultato di una generalizzazione degli usi, valida finché il suo valore predittivo non è contraddetto da una «eccezione», cioè da un fatto im­ prevedibile e occasionale (come le forme irregolari dei verbi), oppure dall emergere di un fatto linguistico nuovo, inizialmente percepito co­ me deviante, che forza i limiti della regola.

L’idea che la lingua in uso abbia una sua «struttura» che può essere studiata per come si pre­ senta agli utenti risale a due distinzioni di Saussure (1916/1967): da un lato, alla distinzione tra la lingua (/angue) come struttura e la miriade di eventi di parola (p a r o le ) ; dall’altro, alla distinzione tra una prospettiva d ia c r o n ic a , che studia i mutamenti della lingua nella storia, e una prospettiva

s in c r o n ic a ,

CAPITOLO 2 - La lingua italiana tra norma e usi

ficazione) è Tesi (2005 e 2007). Il concetto di grammatica come «forma della canonizzazione» è ripreso da Lughi (1981). Un volume recente che ricostruisce la pluralità degli approcci nella storia delle grammatiche italiane è Antonelli, Motolese, Tomasin (2018). Sui rapporti tra scritto e parlato nella codificazione grammaticale si rimanda a Voghera (2017). Sul rapporto tra gram­ matica tradizionale e linguistica moderna si rimanda a Colombo e Graffi (2017).

Il concetto di norma ci permette di delimitare i concetti contigui di «corretto» e «scorretto»: è scorretto (è un «errore») ogni comporta­ mento linguistico che si allontana dalla norma codificata dalle gram­ matiche sulla base dei criteri da queste adottate, e che viene valutato dalla maggioranza dei parlanti come una violazione del buon uso. Non sempre tuttavia le forme giudicate improprie e inappropriate pregiudi­ cano o ostacolano la comunicazione. ____________ A rigore, inoltre, è corretto parlare di errore di lingua solo nella Errori fase in cui un parlante sta imparando una lingua: per le forme verbali dl apprendimento «regolarizzate» dai bambini sulla spinta dell’analogia (io leggio, ho aprite) o per certe forme tipiche dell’italiano «popolare» (o dei semi­ colti) come i congiuntivi vadi, facci, dichi, resi celebri dai film comici. Costituiscono errori di apprendimento anche le segmentazioni ine­ satte del parlato (/ ’aradio, il lalbero), la selezione casuale degli artico­ li (/' amici, un sport), le concordanze a senso (tutta la famiglia lo cono­ scevano), i comparativi sovrabbondanti (più migliore), lo scambio di ____________ modi verbali (se lo saprei te lo direi). Questi errori derivano effettiva- Errori di esecuzione mente dalla mancata conoscenza della norma linguistica. Diverso il caso degli scivoloni occasionali o lapsus: errori di esecuzione com­ piuti da parlanti che sono in grado di correggersi.

che guarda al sistema, alla sua struttura e al suo funzionamento,

indipendentemente da come si è formato. Il concetto di «norma», in rapporto con il «sistema» di una lingua e con il complesso degli «usi» linguistici individuali

( p a r o le ) ,

è stato elaborato da

Box 2.3 - L A P S U S

L IN G U A E , L A P S U S C A L A M I

Per una sintesi sul concetto di «norma linguistica», anche in prospettiva storica, rimandiamo

Il la p s u s , etimologicamente uno «scivolone» (dal lat. la b i) , è un errore involontario che con­ siste nel sostituire o nell'omettere uno o più suoni, o addirittura intere parole, quando si parla (la p s u s lin g u a e ) o quando si scrive (la p s u s c a la m i) . A differenza dell’errore linguistico propriamente detto (che deriva dalla mancata conoscenza, e quindi dalla violazione sistema­ tica, di una regola grammaticale), il lapsus si presenta come un’infrazione occasionale, che non mette in forse la conoscenza della forma corretta (e quindi la possibilità di correggersi). È possibile fornire una casistica dei lapsus più ricorrenti in italiano: riguardano porzioni brevi di enunciati e sono basati su meccanismi come l’anticipazione ( d is a n im a per d i s a m in a ) e la ripetizione di suoni ( R o m o lo e R e m o lo ) , oltre allo scambio di suoni (come in t o n t o per t a n t o o t r e s c a per fr e s c a ) . Si tratta di meccanismi che sono alla base anche dei giochi linguistici (zeppa, cambio, scarto ecc.), nonché di errori ortografici molto frequenti ( a e r e o p o r t o per a e ­

a D’Achille (2011). Una trattazione di storia della lingua italiana attenta alla questione della

r o p o r t o , m e t e r e o lo g ia

Eugenio Coseriu (1971). Sulla norma linguistica come norma sociale è utile leggere anche Mura­ ro (1979/1973) e Weinrich (1989). Il concetto di «sentimento della norma», è stato sviluppato da Serianni (2006) a partire dal concetto di «giudizio del parlante» (Parisi, 1972). A Serianni si deve anche il concetto di «norma interiorizzata» a scuola (Serianni, 2010), influenzata dalle cor­ rezioni degli insegnanti (Serianni e Benedetti, 2015). Sui cambiamenti della norma nell’italiano contemporaneo è utile la lettura di Renzi (2012), cui dobbiamo la distinzione tra i diversi tipi di cambiamento in atto nella lingua contemporanea. L’idea di lingua come risultato sistematico di «derive» storiche (per cui chi è trascinato in un punto dalla corrente non si rende conto delle spinte che subisce e della direzione del movimento) è mutuata da Sapir (1921/1969).

norma (tanto da basare la propria periodizzazione sul carattere più o meno esplicito della codi-

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per

m e t e o r o lo g ia ) .

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Parte I

Sulla soglia della grammatica: i segni, la comunicazione, le norme e gli usi

Al di là delle implicazioni emotive del lapsus, considerato rivelatore di impulsi inconsci, questo tipo di «errore» appare linguisticamente condizionato da fattori contestuali come la posizione dei certi suoni nella catena parlata (in sillaba tonica e al confine di parola, per esempio). Non va dimenticata inoltre l’incidenza di fattori esterni come la disattenzione e la fretta: all’origine dei lapsus nella lingua scritta ci sono spesso banali errori di battitura, sempre più frequenti in tempi di scritture rapide e tastiere miniaturizzate.

In tutti gli altri casi abbiamo a che fare con forme percepite come devianti rispetto ad alternative considerate (più) «corrette» sulla base di parametri esterni alla lingua: si tratta cioè di variabili compresenti ___________ nel «repertorio» della comunità linguistica; in sostanza, modi diversi Varianti regionali di dire la stessa cosa, ciascuno correlato a determinati parametri socia­ li (J fll]). Facciamo un esempio relativo alla pronuncia: la realizzazione aspirata di alcune consonanti nel toscano, pur non essendo considerata un errore, non fa parte della pronuncia standard dell’italiano; neppure 10 scempiamento delle consonanti tipico della pronuncia veneta, o il loro raddoppiamento nella pronuncia campana, è percepito come errore (semmai come marca regionale), a meno che non abbia effetti sulla grafia (mancato uso o uso sovrabbondante delle doppie) t»Box 3.6,1. Lo stesso discorso vale per il lessico: il bambino (parola di origine toscana) sarà chiamato, a seconda delle regioni, cinno, toso, citto, creatura, pic­ cirillo e così via. Un ultimo esempio relativo alla sintassi: in alcune aree dell’Italia meridionale è normale usare il verbo stare come ausiliare al posto di essere e il verbo tenere al posto di avere. Si tratta di varianti regionali, che dobbiamo essere in grado di riconoscere come tali prima di bollarle come errori, anche perché le varietà socio-geografiche sono ___________ quelle più strettamente connesse all’identità del parlante italiano. Arcaismi Benché in italiano le forme arcaizzanti (specie a livello lessicale) siano rivestite di un’aura di preziosismo, a volte sono inevitabilmente percepite come deviazioni: è il caso di forme normali nel passato come 11pronome cui in funzione di oggetto diretto, o il verbo sospirare usato come transitivo.

Sul concetto di errore in prospettiva funzionale (e sulla rivalutazione della sua importanza per l’indagine linguistica) si rimanda a Frei (2011/1929). Sulla dialettica tra norma, eccezione, errore sarà utile leggere Sgroi (2010) e Grandi (2015).

Il lettore non dovrà dunque stupirsi se forme e costrutti bollati co­ me «errori» sono accolti in questo volume: si tratta spesso di fenomeni

CAPITOLO 2 - La lingua italiana tra norma e usi

significativi che possono permettere di rivelare dinamiche di sistema e di individuare tendenze in atto nell’italiano contemporaneo. Anche dal punto di vista didattico - almeno se adottiamo un approccio scientifico (non dogmatico) alla grammatica, basato su ipotesi e verifiche - l’erro­ re acquista un suo ruolo, in quanto consente di riorientare la riflessione ogni volta che questa venga falsificata dall’esperienza. Ricordiamo inoltre che in questo volume, come in tutte nelle gram­ matiche scientifiche dell’italiano, la presenza di e s e m p i (ed eventual­ mente di controesempi, preceduti da un asterisco se considerati non grammaticali) non è finalizzata a stabilire gerarchie di valore né a san­ cire inclusioni ed esclusioni.

2.2.1 Fattori interni di cambiamento: uniformità, distinzione, economia, ridondanza, espressività Se rimaniamo all’interno del sistema e adottiamo un punto di vista fun­ zionale, corretta è ogni forma che risulta adeguata alla funzione che è chiamata a svolgere. Lungi dall’essere considerato un aspetto patologi­ co della lingua, l’errore riveste da questo punto di vista un particolare interesse in quanto può colmare vuoti o « insufficienze » della lingua stessa: ne è un esempio l’uso del pronome gli con valore di « (a) loro », favorito dalla difficoltà di loro di funzionare come clitico (frBox 33.4) Anche l’uso di piuttosto che come connettivo disgiuntivo debole per esprimere un’alternativa non preferenziale, se da una parte costituisce una forzatura logico-grammaticale, dall’altra mette a disposizione del parlante un segnale che funziona come elemento additivo negli elenchi esemplificativi (De Santis, 2001). La pressione normativa, inoltre, tende a soffocare esigenze legitti­ me dei parlanti quali l’economia, la distinzione, 1 espressività. Ciò che ci spinge a parlare, e a parlare in un certo modo, infatti, è sicuramente il desiderio di esprimerci e di farci comprendere, ma spesso conta an­ che la volontà di rafforzare il messaggio, o il desiderio (più o meno consapevole) di differenziare il nostro modo di parlare: per esprimerci meglio di quanto non siamo soliti fare abitualmente quando la situazio­ ne lo richiede, o viceversa in modo più informale se la situazione lo consente. Oppure per aderire o resistere a mode linguistiche: emblema­ tico l’uso di piuttosto che, avversato dai grammatici ma adottato in modo irriflesso anche da parlanti colti. Nella storia di ogni lingua, del resto, agiscono sì forze interne co­ me la razionalizzazione e la semplificazione dei paradigmi, finalizzate alla coerenza del sistema grammaticale, ma contano anche la pressione esterna legata a condizionamenti di vario genere (sociali, politici, cul­ turali), nonché fattori quali la selezione fortuita e l’oblio casuale di

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Parte I - Sulla soglia della grammatica: i segni, la comunicazione, le norme e gli usi

Economia e ridondanza

Il fattore espressività

forme, con conseguente aggiustamento delle forme residuali e delle loro funzioni nei paradigmi. Per economia linguistica vengono eliminati doppioni (oggi dicia­ mo vorrei e non vorrìa, sorella e non sirocchia, giovane e non più giovine, lacrime e non lagrime-, scriviamo province e non provincie, ciliegie e non ciliege)-, in molti casi, tuttavia, la pressione dell’analogia ha dato luogo a nuovi doppioni (per esempio l’aggettivo famigliare, modellato su famiglia, accanto alla forma etimologica familiare). In generale, la lingua italiana appare a tutt’oggi ricca di varianti grafiche 0obbedire/ubbidire, obiettivo/obbiettivo ecc.), che si estendono anche ai paradigmi verbali (devo/debbo, temei/temetti, visto/veduto), creando un’ampia «zona grigia» tra forme corrette ed errori. In senso opposto all’economia linguistica spinge il bisogno di espressività, che reagisce all’usura semantica rafforzando le forme di­ sponibili, a volte tramite elementi che alcuni sentono come pleonastici {assolutamente sì in luogo di sì; questo qui in luogo di questo). Un esempio tipico di rafforzamento pronominale condannato dalla norma scolastica è a me mi, che in realtà è una forma di focalizzazione liT7i l naturale nel parlato e diffusa anche nello scritto di media formalità; meno stigmatizzato il tipo dì questo ne, che pure è costruito nello stes­ so modo. Un’analoga discrasia di giudizio si riscontra nella facilità e durezza con cui vengono sanzionati gli errori nei plurali dei nomi in -eia e -già rispetto alla tolleranza spesso accordata a forme prive dalla -i- diacritica come sognarne, insegnarne ecc. In generale, comunque, l’errore di ortografia, nella comunità italiana, pur non compromettendo la comprensione, espone alla sanzione sociale più di quanto non fac­ ciano forme «nazional-popolari» di congiuntivo (venghino) o «snobi­ smi » come il citato piuttosto che.

2.2.2 Fattori esterni di cambiamento: autorità, politicamente corretto, influssi di altre lingue o dialetti

Regole scolastiche

La compresenza di più forme nella nostra lingua è spesso giustificata tentando di suddividere, più o meno artificiosamente, gli ambiti d’uso delle forme concorrenti: è il caso della distinzione proposta da alcuni tra obiettivo aggettivo e obbiettivo nome, o tra i diversi valori aspettua­ li legati all’alternanza dell’ausiliare {ha piovuto/è piovuto, ho vissuto/ sono vissuto). In altri casi, la prevalenza di una forma sull’altra è dovu­ ta alla creazione di una regola unificante: la forma provincie, per esem­ pio, fedele all’etimo latino, è stata progressivamente abbandonata nel XX secolo via via che nella scuola si è affermata la regoletta sul plura­ le dei nomi in -eia e -già che prevede l’inserimento della i grafica solo se il suono palatale è preceduto da vocale (la grafia provincie rimane,

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CAPITOLO 2 - La lingua italiana tra norma e usi

come residuo storico, nel nome della Cariplo, Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde). È legato all’insegnamento scolastico anche il fissarsi dell’uso di esso per referenti non umani. Risale al secolo scorso la regolamentazione dell’uso degli apostrofi e degli accenti grafici (compresa la distinzione tipografica tra accento grave e acuto in fine di parola) secondo criteri razionali utili per disambiguare le forme. Va detto che su questi aspetti dell’ortografia, oltre all’azione uniformante della scuola, negli ultimi decenni ha agito anche l’influenza dei corret­ tori ortografici inseriti nei programmi di videoscrittura. In alcuni casi, il prevalere di una forma è legato all’esempio auto­ revole di qualche autore del passato: si fa risalire a Manzoni l’afferma­ zione dell’imperfetto in -o {andavo) in luogo della forma in -a {io an­ dava, prevalente nei secoli precedenti) e l’arretrare dei pronomi egli ed ella in funzione di soggetto a vantaggio di lui e lei (fE0*i§II)· Un caso più recente è quello della grafia sé stesso, promossa da un grammatico (Luca Serianni) per distinguere in modo stabile il pronome sé dalla congiunzione se, a prescindere dalla posizione tonica o atona del pro­ nome. Limitati nella storia dell’italiano gli interventi normativi dall’alto, legati a una politica linguistica esplicita: ricordiamo, in età fascista, la sostituzione del pronome di cortesia Lei col Voi e l’eliminazione del grafema j usato per rendere la i semivocale, oltre alla lotta contro i fo­ restierismi: provvedimenti senza effetti significativi sul lungo periodo. Meno costrittivi gli interventi di questi ultimi anni a favore di un uso non sessista della lingua: ne è un esempio la raccomandazione delle doppie forme nei moduli burocratico-amministrativi {il/la sottoscritto/a) ai fini della visibilità del genere femminile, o la promozione dell’uso del femminile dei nomi di professione e di carica flt>Box30.i]). Un’altra tendenza tipica della lingua contemporanea è l’uso «po­ liticamente corretto», ovvero il ricorso a perifrasi {operatore sanita­ rio al posto di infermiere, operatore scolastico al posto di bidello), a litoti {non udente per sordo, non vedente per cieco), a raddoppiamenti di forme {le colleghe e i colleghi) per attenuare e rendere meno espli­ cito (o viceversa più evidente) il riferimento a gruppi sociali soggetti a discriminazione. Anche la pressione di altre lingue può determinare una concorren­ za di forme e costrutti inizialmente percepita come minaccia alla pu­ rezza della lingua: è il caso della frase scissa è... che..., la cui fre­ quenza in alcuni secoli è dovuta al modello del francese, o della co­ struzione grazie per dirmelo, con l’infinito presente anziché passato (grazie per avermelo detto sarebbe la forma corretta in italiano), dif­ fusasi recentemente sul modello dell’inglese (un calco ancora più evi­ dente è il tipo grazie di non fumare, con la preposizione di al posto di

Regole d’autore

Interventi di politica linguistica

Il politicamente corretto

Influsso di lingue straniere

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Box 2.4 - STEREOTIPI LINGUISTICI E GRAMMATICALI Per s t e r e o tip o si intende un metodo di stampa con una gabbia tipografica fissa; per meta­ fora, il termine indica ogni forma di giudizio schematico o di pregiudizio che blocca e rende indifferenziato al proprio interno un gruppo o una categoria di persone. Lo stereotipo ha un ruolo importante nella comunicazione perché permette, sulla base del «senso comune», di categorizzare individui ed eventi, semplificando e generalizzandone le caratteristiche. Se nell’antichità era valorizzato sotto forma di to p o s (luogo comune), oggi lo stereotipo è considerato negativamente proprio per l'eccesso di semplificazione, che rischia di ingabbia­ re e irrigidire le identità sociali in etichette precostituite. Molti interventi relativi a un uso «politicamente corretto» della lingua hanno come obietti­ vo proprio quello di eliminare stereotipi linguistici che veicolano preconcetti diffusi in una comunità, di cui i parlanti sono più o meno consapevoli. In italiano, per esempio, usiamo termini che riconducono a stereotipi etnici: tu r c o «incomprensibile», t e d e s c o «rigido», b e d u i­ n o «trasandato», r a b b in o «avido», g e n o v e s e «tirchio». Altri termini riflettono stereotipi sociali basati su giudizi negativi o riduttivi di alcuni lavori: s c a r i c a t o r e d i p o r t o , s c ia m p is t a , p o r t ie r e . Particolarmente osteggiati sono oggi gli stereotipi di genere, considerati forme di «sessismo linguistico»: p r im a d o n n a , f e m m in u c c ia , is t e r ic a , s e s s o d e b o le ecc. Molti di questi stereotipi si sono cristallizzati in modi di dire e proverbi: c h i d ic e d o n n a ..., d o n n a a l v o la n te ... Lo stereotipo può riguardare anche la codificazione grammaticale: nella maggior parte delle grammatiche, per esempio, si parla del nome come parte del discorso chevariapergenereeper numero. In realtà ogni nome ha un genere intrinseco e varia per numero (ίϋ·30.ΐ)). Solo i nomi di esseri animati hanno forme diverse per il maschile e il femminile: la forma femminile, tuttavia, non va considerata come derivata dal maschile, ma come forma autonoma. Del resto, anche il maschile, all’occorrenza, può essere formato sul modello di un femminile: d iv o , c a s a lin g o .

per). Questi «calchi», evidentemente, non sono dovuti tanto a bisogni espressivi quanto al prestigio delle lingue vicine, da cui provengono soprattutto prestiti lessicali, che oggi Γ italiano non adatta più alle proprie abitudini fonomorfologiche (fanno eccezione i verbi, che con­ tinuano a formarsi aggiungendo alla parola presa in prestito la desi____________ nenza -are). Influsso dei dialetti Se l’influsso delle lingue straniere è connotato da prestigio, diversa è la stima di cui gode il modello offerto dai dialetti; spesso le costru­ zioni bollate come errori derivano proprio da interferenza con forme dialettali: è il caso, nei parlanti meridionali, di imparare nel significato di insegnare, di quando che sostituisce quanto, dell’uso transitivo di verbi intransitivi (salire/scendere la spesa), dell’estensione dell’ausi­ liare essere (sono mangiato invece di ho mangiato). Nel paragrafo successivo [»Ζ3ΐ ci occuperemo specificamente di usi stratificati che possono emergere in determinati momenti storici, a se-

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CAPITOLO 2 - La lingua italiana tra norma e usi

Parte I - Sulla soglia della grammatica: i segni, la comunicazione, le norme e gli usi

conda del luogo e di altre variabili legate al contesto comunicativo, o nell’esperienza linguistica di parlanti alle prese con una «tastiera» di varietà di lingua o, addirittura, con più lingue compresenti nel reperto­ rio della comunità di appartenenza.

2.3

L’architettura dell’italiano contemporaneo

Con «varietà di lingua» si intende la concreta realizzazione di un si­ stema linguistico presso un gruppo di parlanti; una varietà è definita da un insieme di tratti linguistici o variabili (relative all’ambito fonologi­ co, morfologico, lessicale, sintattico, testuale) che tendono a comparire insieme in un determinato momento e luogo, in relazione a certi fattori sociali. Va detto che le varietà sono insiemi mobili e permeabili: la combi­ nazione dei tratti che le costituiscono, cioè, non è stabile. Alcuni tratti possono essere ascritti contemporaneamente a più varietà; il grado di marcatezza (e quindi di riconoscibilità) di un tratto, e la configurazione che gli insiemi di tratti assumono nell’uso sono soggette a mutamento. In generale, comunque, si riconoscono cinque dimensioni principa­ li di variazione: una relativa alla storia (dimensione diacronica, lungo l’asse del tempo), e quattro relative alla sincronia, che agiscono cioè contemporaneamente in un dato momento storico. -

Varietà e variabili linguistiche

Dimensioni di variazione

la dimensione diatopica o geografica, legata allo spazio, la dimensione diastratica, collegata alla stratificazione sociale, la dimensione diafasica, collegata alla situazione comunicativa; la dimensione diamesica, collegata cioè al canale (fonico-acustico nel caso della lingua orale, visivo nel caso della lingua scritta) e al mezzo di comunicazione (per la lingua orale: radio, tv, telefono, dispositivi di riproduzione; per la lingua scritta: carta stampata, supporto digitale).

Il mutamento storico di una lingua è oggetto di studio della linguistica storica e della storia della lingua; delle altre dimensioni si occupa la sociolinguistica, che ha come oggetto privilegiato di studio la lingua contemporanea. Negli ultimi decenni, tuttavia, la prospettiva variazionale tipica degli studi sociolinguistici è stata estesa alla diacronia, portando ad attenuare la contrapposi­ zione tra italiano unitario scritto e letterario da una parte e dialettofonia prevalente dall’altra: le testimonianze dei viaggiatori stranieri in Italia e di italiani che si muovevano da un luogo all’altro della penisola hanno mostrato infatti l’esistenza di un italiano parlato usato nella comunicazio­ ne pratica anche prima dell’Unità, pur con caratteristiche instabili e inevitabilmente venato di coloriture locali (Testa, 2014; De Blasi, 2014; Trifone, 2017).

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La diatopia, nella realtà sociolinguistica italiana, è da considerare come la dimensione di variazione primaria: il fattore che differenza maggiormente i parlanti italiani è infatti la riconoscibilità dal punto di vista della provenienza geografica (almeno per quanto riguarda le suddivisioni principali della penisola: Nord, Centro e Sud), legata in parti­ colare all’intonazione (la «cadenza») e alla pronuncia di alcuni suoni, oltre che a differenze nel lessico. All’interno della dimensione diatopica interviene la diastratia, ovvero la tendenza ad adeguare il proprio modo di parlare alle forme tipiche della classe sociale di appartenenza, della fascia di età, del genere, del grado di scolarizzazione, del ruolo professionale, del livello di conoscenza di un dato argomento. Ogni italiano parlerà così un italiano regionale più o meno colto o popolare, più o meno specialistico. All’interno delle due dimensioni di variazione geografica e sociale agisce la diafasia: il parlante ha cioè a disposizione un ventaglio di scelte di « registro » (metafora musicale) che adeguerà al livello di for­ malità della situazione comunicativa in cui viene a trovarsi. Una di­ mensione secondaria della diafasia, riguardante gruppi limitati di par­ lanti che condividono un insieme di competenze o funzioni è rappre­ sentata dalle lingue speciali o sottocodici (l»6.7eBox 6 .5!'). Riprendendo un paragone utilizzato dagli studiosi, possiamo consi­ derare il parlante «competente» dell’italiano alla stregua di una perso­ na che sappia cambiarsi d’abito a seconda dell’occasione. La variazione diamesica è particolarmente rilevante in Italia, dato il carattere prevalentemente scritto della lingua fino al secolo scorso; si tratta però di una dimensione trasversale alle altre, che può essere iso­ lata solo a fini di studio. In generale, rispetto al parlato, lo scritto tende al polo formale e colto e alla neutralizzazione delle differenze geogra­ fiche, anche se le contaminazioni tra scritto e parlato - oggi sempre più numerose, anche per influsso dei nuovi media —hanno in parte riconfi­ gurato la rete di rapporti. Risulta pertanto opportuno distinguere il mezzo (fonico/grafico) di realizzazione del messaggio dalla concezio­ ne scritta/parlata del messaggio, data dall’insieme delle scelte lessicali, sintattiche, testuali, che possono essere più o meno elaborate e pianifi­ cate e caratterizzate da maggiore o minore vicinanza comunicativa con l’interlocutore (Berruto in Masini e Grandi, 2017: cap. 11). Distingue­ remo così uno « scritto grafico » (comunicazione scritta tradizionale), uno «scritto fonico» (lettura di testi, recitazione), un «parlato fonico» (parlato conversazionale spontaneo) e infine un «parlato grafico» (scritture digitali brevi, rapide e interattive). Sui rapporti tra scritto e Peso relativo dei fattori di variazione

CAPITOLO 2 - La lingua italiana tra norma e usi

Parte I - Sulla soglia della grammatica: i segni, la comunicazione, le norme e gli usi

Limitandoci alle varietà sociolinguistiche che possiamo identifica­ re all’interno dello spazio linguistico italiano, va detto che esse non

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sono ugualmente accessibili e disponibili a tutti i parlanti, e di conse­ guenza risultano possedute o dominate in misura diversa. In particola­ re, se le varietà geografiche e sociali possono essere considerate «nati­ ve», cioè acquisite dal parlante nell’ambito della socializzazione pri­ maria, le varietà diastratiche (il dominio dei registri linguistici) sono tipicamente costruite, in quanto collegate all’apprendimento scolastico e alla possibilità di entrare in contatto con situazioni formali e testi elaborati. Come insegnano i teorici dell’analisi della conversazione, inoltre, le identità sociali possono essere negoziate a seconda dei con­ testi di interazione: sono gli interlocutori, infatti, a rendere rilevanti certi tratti in determinate situazioni (i giovani, per esempio, useranno il gergo giovanile nell’interazione tra pari). 2 .3.1

L’architettura dell'italiano: standard, neostandard, substandard

Nella Figura 2.1 vediamo le varietà di italiano riconosciute da Gaetano Berruto nella sua ultima sistemazione, collocate in uno spazio tridi­ mensionale definito dalle 3 dimensioni principali della variazione (diatopia, diastratia, diafasia): italiani regionali, italiano colto, italiano po­ polare, italiano (scritto) formale, italiano (parlato) informale. L’asse verticale (diastratia) e quello obliquo (diafasia) sono orien-

Fig. 2.1 Architettura delle varietà di italiano (da Berruto 2011a)

Le varietà principali dell’italiano

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Le lingue delle minoranze

Parte I - Sulla soglia della grammatica: i segni, la comunicazione, le norme e gli usi

CAPITOLO 2 - La lingua italiana tra norma e usi

penisola sono tre: quella che congiunge idealmente La Spezia e Rimini (separando l’area settentrionale da quella centrale); quella che va da Roma ad Ancona e separa l’area mediana da quella meridionale; quella che congiunge Taranto e Ostuni in Puglia e taglia la Calabria tra Dia­ mante e Cassano, individuando l’area meridionale estrema. Come mostrano le indagini periodiche istat sugli usi linguistici de­ gli italiani, basate su autodichiarazioni degli intervistati, i dialetti ap­ paiono particolarmente vitali nel Nord-Est e nel Sud; nelle restanti re­ gioni l’italofonia è prevalente anche nelle relazioni familiari. Negli ultimi decenni, tuttavia, si assiste a un recupero dei dialetti, usati anche dalle giovani generazioni come codice secondario della socializzazio­ ne tra pari, nelle scritture esposte (in particolare nelle insegne di attivi­ tà commerciali) e in ambiti nuovi della comunicazione pubblica come la pubblicità, la musica dei gruppi, la socialità mediata da Internet. I risultati delle indagini intemazionali relative alla literacy (cioè al livello effettivo di alfabetizzazione) hanno inoltre dimostrato che il possesso dell’italiano è in molti casi problematico anche negli italofoni dichiarati. Nello spazio linguistico italiano troviamo, oltre all’italiano e ai dialetti, almeno una trentina di altre lingue parlate da gruppi più o me­ no ampi. Alcune di queste sono tutelate come minoranze linguistiche (L. 482 del 1999) e utilizzate a livello locale nell’amministrazione (per esempio nella toponomastica) e nella scuola. Le tre lingue minoritarie principali, riconosciute fin dalla metà del secolo scorso, sono il france­ se della Val D Aosta, il tedesco dell’Alto Adige, lo sloveno del Friuli. Tra le minoranze riconosciute più di recente troviamo: il franco-pro­ venzale in Val d’Aosta, Piemonte e in alcuni comuni di Puglia; il pro­ venzale in alcuni comuni piemontesi e calabresi (Guardia Piemontese); alcuni dialetti tedeschi (walser in Val d’Aosta; mòcheno e cimbro in alcune valli del Trentino e del Veneto); il ladino delle valli dolomitiche; l’albanese (arbèresch) nel Molise e in alcuni paesi di Calabria e Sicilia, il croato (nanas) in alcuni paesi del Molise; il catalano di Al­ ghero; il neogreco (grico o gricànico) in Salento e Calabria. A queste si aggiungono le lingue delle minoranze diffuse (sinti e rom, per esempio) e le lingue delle nuove minoranze: in primo luogo le lingue immigrate, parlate dalle comunità allòfone presenti nella peni­ sola (romeni, albanesi, marocchini, cinesi, singalesi, ucraini ecc.) e in secondo luogo le lingue veicolari (come il francese per i magrebini, o l’inglese per i filippini). Di fatto, la maggior parte dei parlanti italiani gestisce un repertorio plurilingue, all’interno del quale alcune varietà possono caricarsi di un significato identitario. Nel parlato non è raro assistere a commutazioni di codice: a passaggi cioè da una lingua all’altra, o dalla lingua nazio-

naie al dialetto (e viceversa), realizzati in modo più o meno consapevo­ le alTintemo dello stesso evento comunicativo.

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Punto di partenza e di riferimento per la sociolinguistica dell'italiano sono i lavori di Gaetano Berruto (1987, 1995, 2004, 2011a, 2011b, 2017) e, da ultimi, Berruto e Cerruti, 2011; 2015. Sul valore sociale delle scelte linguistiche cfr. Cerruti in Masini e Grandi (2017: cap. 10). Utile anche D’Agostino (20122) per un inquadramento delle dinamiche linguistiche e sociali nell’i­ taliano contemporaneo. Per un quadro d’insieme sulla variabilità linguistica si veda il recente Fiorentino (2018). Sui rapporti tra italiano e dialetti si rimanda a Marcato (2007); sugli italiani regionali si veda l’ottima sintesi di De Blasi (2014); sul plurilinguismo nella realtà italiana si rimanda a Marcato (2012); sull’italiano popolare, con riferimento ai vecchi e nuovi semicolti, si veda Lubello e Nobili (2018: cap. III). Una visione d’insieme completa e aggiornata, che com­ prende anche un quadro della presenza dell’italiano nel mondo, è contenuta in Palermo (2015). Sull’analisi della conversazione si rimanda a Orletti (1994) e Fele (2007). Che la diatopia sia la dimensione principale della variazione linguistica nel territorio italiano è confermato dal fatto che anche la LIS (lingua italiana dei segni) presenta molte varietà geografiche, anche se oggi l'uso sempre maggiore in contesti formali e l’insegnamento esplicito hanno avviato un processo di standardizzazione (Di Renzo e Volterra in Masini e Grandi, 2017: cap. 28).

2.3.2

Gli italiani regionali

Per « italiano regionale » si intende un italiano che varia su base geo­ grafica, per effetto del contatto e della «interferenza» con i dialetti lo­ cali. La variazione regionale non si adegua necessariamente ai confini amministrativi anche se, dopo l’istituzione delle Regioni come realtà amministrativa nel 1970, c’è stata un’azione di conguaglio a livello regionale, evidente anche nella tendenza dei dialetti a convergere verso soluzioni di koiné. I livelli di lingua più interessati dalla variazione regionale sono la fonetica e il lessico: tendiamo a pronunciare le stesse parole con ca­ denze e articolazioni diverse; ci riferiamo agli stessi oggetti con paro­ le diverse o diamo alle stesse parole significati diversi. Nel corso del­ la trattazione, affronteremo via via alcuni di questi aspetti: le varia­ zioni regionali nel sistema vocalico (F bq¥ 3ÌI| e in quello consonantico ( > b o x 3.6 ì); i geosinonimi e i geoomonimi ( ► B o x 6 .3 ). Affronteremo anche alcuni aspetti della morfosintassi: la costruzione preposizionale di alcuni verbi transitivi (iiqx tolj), l’uso di tempi verbali come il passato remoto (flox24Tf). Aggiungiamo qui alcuni fenomeni che ri­ guardano la morfosintassi: la realizzazione diversa di uno stesso suf­ fisso (al toscano -aio si oppone il romanesco -aro; al toscano -ino corrisponde nel nord-ovest il suffisso diminutivo -etto e nel sud -uccio,

L'italiano nelle regioni

Variazione regionale di lingua

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Diffusione dei tratti regionali

Prestigio degli italiani regionali

mentre -ilio è tipico del campano); l’uso dei verbi tenere e stare in luogo di avere ed essere come ausiliari; il ricorso a perifrasi progres­ sive diverse rispetto a stare + gerundio (essere qui/lì che + indicativo in piemontese; essere dietro a + infinito in veneto; stare a + infinito nelle varietà centrali); la posposizione del verbo tipica del siciliano (Montalbano sono); l’espressione del pronome soggetto (F box 33.tri: la scelta del pronome allocutivo Lei/ Voi (jtiBòx 33.2)1. Gli italiani regionali sono presenti nell’intero territorio italiano: nessuna varietà infatti (compreso il toscano, che pure costituisce la ba­ se dello standard italiano) è esente da tratti percepiti come caratteristici di una certa zona o addirittura di una certa città, nel caso delle grandi realtà urbane di Milano, Roma, Napoli. Ciascun parlante italiano che voglia aderire alla norma, dunque, dovrà fare uno sforzo più o meno grande di «sprovincializzazione», attenuando alcuni tratti della pro­ nuncia o accertandosi che una certa parola sia correttamente intesa: un fiorentino, per esempio, dovrà ridurre la «gorgia», cioè la realizzazio­ ne aspirata di alcune consonanti ®§òx5D e, trovandosi fuori regione, eviterà di chiedere di un trombaio per sistemare Pacquaio. Ogni italiano, almeno nelle situazioni formali, ha tuttora la sensa­ zione di dover entrare in un abito tagliato su un corpo diverso dal suo. Al tempo stesso, se fino a cinquant’anni fa l’aspirazione a una lingua comune portava a valutare negativamente il parlato (e ancor più lo scritto) che si allontanasse da un’ideale uniformità, oggi è cresciuta la tolleranza verso la coloritura regionale, come conseguenza di una mag­ giore conoscenza delle reciproche specificità e delle diverse realizza­ zioni di uno stesso fatto linguistico, favorita anche dai vecchi e nuovi mezzi di comunicazione. Perfino nella dizione dei professionisti della parola (politici, attori, giornalisti, presentatori) traspare la provenienza regionale, che spesso è anzi consapevolmente usata come segno di distinzione: tornando al paragone con l’abito, la moda casual ha attenuato il rigore del dress code. Di fatto, un controllo eccessivo della pronuncia o un’evidente ricercatezza lessicale tende oggi a essere vista con sospetto più che con ammirazione. Ciò non toglie che in alcuni contesti, come quello scolastico, sarebbe opportuna un’educazione al controllo dei regiona­ lismi, specie quando questi possano ostacolare la comprensione o in­ terferire con la grafia e con altri aspetti della correttezza grammatica­ le. Un’adeguata consapevolezza delle specificità regionali, inoltre, permetterà di evitare fenomeni di ipercorrettismo che spesso sono all’origine di espressioni artificiose etichettate come «italiano scola­ stico». Potremmo chiederci se, nell’italiano contemporaneo, ci siano va­ rietà percepite come più prestigiose di altre. A differenza di quanto

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CAPITOLO 2 - La lingua italiana tra norma e usi

Parte I - Sulla soglia della grammatica: i segni, la comunicazione, le norme e gli usi

accade in altri Paesi, la capitale (Roma) non rappresenta il centro lin­ guistico dell’Italia. Alcune tendenze livellatrici rivelano anzi il peso delle varietà settentrionali: la diffusione della pronuncia sonora di -sin posizione intervocalica (ìfrBox 3.sT), l’uso dell’articolo davanti ai nomi propri di persona fi»Box 8.1 j), l’uso di piuttosto che negli elenchi. Le varietà centrali e meridionali, tuttavia, risultano particolarmente vitali e sfruttate nella rappresentazione scenica, e non solo a fini di caratte­ rizzazione comica. Anche le varietà regionali, non meno dell’italiano nel suo insieme, vanno viste come realtà in movimento, in cui possono affermarsi pro­ nunce diverse (per esempio casa pronunciato con la -s- sonora al sud) o voci nuove, che a loro volta possono traghettare nella lingua naziona­ le: pensiamo ai tanti nomi di prodotti locali esaltati dall’enogastronomia, o a espressioni messe in circolo dai giovani, come il ligure/romanesco sciatta «stai tranquillo», o l’aggettivo figo, ormai diffuso nella variante sonorizzata anche a sud. Più che alla coloritura regionale, comunque, oggi il prestigio lin­ guistico è affidato alla padronanza (o all’ostentazione di conoscenza) di altre lingue, in particolare dell’inglese.

2.4

Varietà in movimento

La prospettiva storica: sintassi e testualità ieri e oggi

Lo studio della lingua nella sua dimensione diacronica comprende la grammatica storica, ovvero l’analisi dell’evoluzione delle forme c dei costrutti dal latino all’italiano, con eventuali osservazioni estese ai dialetti. Nelle trattazioni di grammatica storica, la parte più cospicua è occupata dalla fonetica e dalla morfologia; minore l’attenzione rivolta al lessico (ma la storia delle parole è oggetto anche degli studi di lessi­ cologia ed etimologia: l»Box 2.5ì) e ai livelli della lingua che abbiamo posto al centro del nostro volume: sintassi e testo. Proprio questi due livelli, tuttavia, meritano particolare attenzione dato che sono in larga parte sfuggiti alla stabilizzazione legata alla codificazione cinquecen­ tesca, anche perché a lungo considerati di pertinenza principalmente della logica e della retorica (questa comprendeva infatti la disposino, la riflessione sulla disposizione efficace della parole nella frase e delle frasi nel discorso o orazione). I cambiamenti che la lingua ha subito al livello sintattico e testuale meritano una particolare attenzione in quan­ to appaiono legati non solo a processi evolutivi interni, ma anche a pressioni esterne, come l’influsso di altre lingue, e a dinamiche di cir­ colazione discorsiva, quali il rapporto tra parlato e scritto, o le esigenze espressive legate a particolari generi testuali.

Variazione storica e livelli di lingua

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CAPITOLO 2 - La lingua italiana tra norma e usi

Parte I - Sulla soglia della grammatica: i segni, la comunicazione, le norme e gli usi

Ai mutamenti fonetici e lessicali dedicheremo approfondimenti specifici nel corso del volume (► B o x 3,2, 3 . 5 , 6.2) , con un cenno anche ai cambiamenti che hanno investito bordine degli elementi nella frase du­ rante il passaggio dal latino all’italiano in seguito allo sgretolamento del sistema dei casi (pBox 17.2) . In questo paragrafo cercheremo invece di riflettere in generale sui cambiamenti che hanno portato all’attuale architettura del testo e del periodo in italiano e al ventaglio di risorse oggi a disposizione del parlante e dello scrivente.

Per una descrizione essenziale della grammatica storica italiana rimandiamo a D’Achille (2001) e Patata (2002). Oggi disponiamo anche di quadri d’insieme dedicati alla grammatica dell’italiano antico (il fiorentino del Trecento): Renzi e Salvi (2010) e, con particolare riguardo alla sintassi, Dardano (2013). Anche per questo aspetto (come per la variabilità linguistica), sintesi efficaci e aggiornate sono contenute nelle voci dell’Enciclopedia dell’Italiano (Simone, 2010-2011). Una sintesti recente dell’«italiano scomparso» è Coletti (2018).

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Orchestra (XVI), dall’analogo termine latino, a sua volta derivato dal gr. o r k h é o m a i «danzo», usato dagli antichi per indicare lo spazio scenico destinato al coro. Il termine appartiene al lessico musicale italiano, che si costituisce in questo secolo e verrà esportato nelle princi­ pali lingue europee. Cannocchiale (XVII), composto di c a n n o n e e o c c h ia le , termini con i quali Galileo definiva lo strumento ottico di sua invenzione, uniti insieme nel 1611 da Giuseppe Biancani. L’italiano diventa lingua della scienza e forgia 0 risemantizza parole per nuovi oggetti e concetti. Etichetta (XVII-XVIII), dallo spagnolo e t iq u e t a «cerimoniale», a sua volta dal fr. é t iq u e t t e nel significato di «prescrizione». Direttamente dal francese deriva il significato di «marca» (ant. fr. est iq u e r «attaccare», dal neerl. S t ik k e n ) . Il significato musicale è un calco dell’ingl. (r e c o r d ) la b e l. Burocrazia (XIX), dal fr. b u r e a u c r a t ie , comp. di b u r e a u «ufficio» e - c r a t ie «-crazia». Un esem­ pio dell’influsso linguistico e culturale del francese nel Sette-Ottocento. Computer (XX), dalTingl. (to) c o m p u t e , a sua volta dal lat. c o m p u t a r e (c o n - «con» e p u t à r e «calcolare») attraverso il fr. c o m p u t e r (verbo). Dal lat. c o m p u t a r e vengono Tit. c o m p it a r e e c o n t a r e . Esempio di «cavallo di ritorno», come d ig it a le (ingl. d ig it a i, dal lat. d ig it a lis , che in it. ha dato d it a le ) : parole che il latino ha dato all’inglese tornano all’italiano come prestiti non adattati.

Box 2.5 - DIECI PAROLE PER DIECI SECOLI Tregua (XI), dal longobardo * t r e w w a (cfr. ted. mod. T r e u e «fedeltà»). Anche g u e r r a viene dal germanico w e r r a «mischia» (sec. XII, cfr. ted. mod. w ir r w a r r «confusione») che soppianta il lat. b e llu m (facilmente confuso con l’aggettivo b e llu s ) . Con la caduta dell’impero crolla anche il monopolio romano sull’arte bellica. Messo da parte V e q u u s , il cavallo dei generali trionfanti, rimane il c a b a llu s , cavallo da lavoro usato nei campi. Cattivo (XII), dal lat. cristiano c a p tiv u s ( d ia b o li), «prigioniero (da c a p è r e ‘prendere’) del demo­ nio, malvagio». Esempio dell’influsso del latino cristiano sulla semantica dell’italiano (come anche il verbo p a r a b o l a r e «esprimersi per parabole», che è diventato il nostro p a r la r e ) . Donna (XIII), dal lat. d o m in a «padrona di casa (d o m u s )»; l'innalzamento di d o n n a nella poe­ sia stilnovistica (che usa anche m a d o n n a , riduzione di m ia d o n n a , sul modello del proven­ zale m id o n z ) determina il conseguente abbassamento di f e m m in a con riferimento alla sfera sessuale, nell italiano antico esisteva anche il maschile d o n n o (da cui l’appellativo, nobiliare e religioso, d o n ) . La contrapposizione d o n n a / d o n sopravvive a Sud. Dal diminutivo d o m in ic e lla deriva d o n z e lla (in italiano antico esisteva anche d o n z e llo ) . Fiasco (XIV), dal gotico fla s k (cfr. ted. mod. fle tc h e n «intrecciare»): la bottiglia ricoperta di vimini intrecciato era una novità per la civiltà latina. Il significato di «fallimento» viene dalla commedia deH’arte (fine XVII) e si diffonde come italianismo in tutta Europa nella prima metà del sec. XIX grazie al prestigio dell’opera italiana. Zero (XV), dall'arabo s i f r «vuoto, zero» (da cui anche c if r a ) attraverso il lat. mediev. Esempio di arabismo scientifico, insieme a tanti nomi in a l- (a l g e b r a , a lg o ­ r it m o , a l c h i m i a . . . ) , prefisso che deriva dall’adattamento della forma araba dell’articolo determinativo.

z é p h y ru (m ).

Una premessa è necessaria: la prospettiva storica dei fatti di lin- 11fattore storico gua, a maggior ragione nei settori della sintassi e della testualità, ci ------ !---------permette di ricostruire antecedenti, ma non necessariamente di trovare spiegazioni a usi e funzioni attuali: il che, per esempio, nasce come pronome ma è indubbio che in italiano contemporaneo abbia anche funzione di congiunzione. Alcuni linguisti considerano oggi questa funzione come prevalente poiché di fatto anche il pronome relativo funziona da elemento di collegamento, grazie al riferimento anaforico a un nome della frase reggente; nelle relative restrittive, inoltre, il che non è un semplice introduttore di frase ma un elemento fondamentale per la funzione referenziale del nome che espande (►Box ie.fi). La di­ stinzione tra che pronome e che congiunzione si coglie dunque meglio se usciamo dalla prospettiva storica e guardiamo al sistema con uno sguardo ad ampio raggio. In alcuni casi, l’indagine storica ha il merito di consentirci di rico­ struire la vita sotterranea di forme «carsiche» represse dalla norma e riemerse nella lingua contemporanea: è il caso del che indeclinato, usa­ to come elemento di giunzione passepartout ►Box33.7. In generale, guardare al passato alla luce delle categorie messe a punto dalla linguistica moderna ci consente di avere una percezione diversa di fenomeni studiati in prospettiva puramente grammaticale.

44 La sintassi ad arcate dell'italiano antico

Il ruolo dell’anafora nel collegamento tra frasi

Parte I - Sulla soglia della grammatica: i segni, la comunicazione, le norme e gli usi

L’obbligatorietà del pronome soggetto in italiano antico ([►box33.1 11. per esempio, si presenta come un elemento di discontinuità sia rispetto al latino e sia rispetto all’italiano moderno, meglio comprensibile se let­ to come strategia di mantenimento del riferimento anaforico, e quindi di coesione testuale, all’interno di una sintassi che affida alla giustapposi­ zione (successione di frasi, ripetizione di elementi) più che alla forma del periodo la costruzione dei testi; nelle frasi interrogative, invece, la presenza del pronome posposto al verbo ( Vuoi tu...'?) sarà da leggere co­ me strategia per marcare l’intenzione comunicativa in assenza di altri segnali (intonazione, punteggiatura). Rientrano in questo quadro altri fenomeni tipici della sintassi tran­ sfrastica dell’italiano antico, che tentano di ovviare alla perdita delle strutture subordinative tipiche del latino classico costruendo strutture sequenziali paragonabili a quelle dei portici medievali, messi a con­ fronto con le piazze rinascimentali. È tale la cosiddetta paraipotassi, ovvero il ricorso a una congiunzione di appoggio (e) o a un avverbio anaforico (sì) anteposti alla reggente quando questa è preceduta da su­ bordinata (S'io dissi ilfalso e tufalsasti il conio, Dante). Si tratta di re­ gole o usi che vanno ricondotti a una fase della storia della lingua italia­ na caratterizzata da una relativa permeabilità tra parlato e scritto, e che precede l’introduzione della stampa con la conseguente regolarizzazio­ ne dei segni di punteggiatura - ai quali oggi affidiamo spesso la funzio­ ne di legamenti, oltre che di pause, nella lingua scritta (1»βοχ ie . 2l). Un altro fenomeno significativo, osservabile nelle forme di espres­ sione della finalità in italiano, è il collegamento transfrastico tramite elementi anaforici. Per ovviare alla perdita dell 'ut latino, prima che si affermino e stabilizzino nuove congiunzioni (perché, affinché), le frasi finali nella prosa antica sono introdotte da locuzioni come a ciò che o per ciò che. In queste espressioni, tra la preposizione e il che introdut­ tore della frase subordinata si inserisce un elemento cataforico (ciò) che anticipa il contenuto della frase che segue, garantendo la coesione anche e soprattutto per l’orecchio. Dopo il XV secolo, queste locuzioni verranno univerbate e daranno luogo alle congiunzioni acciocché e perciocché (oggi disusate ma sopravvissute a lungo nella lingua lette­ raria), anche prive dell’elemento cataforico (acché) o ridotte al solo che, razionalizzato dagli editori moderni tramite l’accentazione (che, riletto come forma aferetica di perché). Contemporaneamente, a partire dal XIII secolo, si sviluppa e si amplia una ricca gamma di locuzioni costruite intorno a un nome predicativo incaricato di anticipare e tema­ tizzare il contenuto della subordinata come effetto di volontà, intenzio­ ne, progettualità, sentimento del soggetto, così da limitare l’estensione del generico che. Fa parte di questa gamma di strumenti testuali pre­ stati alla subordinazione (legamenti a catena) in primo luogo a fin

CAPITOLO 2 - La lingua italiana tra norma e usi

che (che darà luogo ad affinché), in cui il termine fine (metafora locati­ va) è chiamato a rinforzare il generico valore direzionale della preposi­ zione a. Troviamo quindi una serie di locuzioni preposizionali usate per introdurre le finali implicite: a/per intendimento dì, con intento di, con/a intenzione di, con proposito di, con/per/nel desiderio di, per paura/timore di e così via. Tutte queste espressioni sono in larga parte sopravvissute nell’italiano contemporaneo e sono oggi usate soprattut­ to nei testi narrativi, che indulgono volentieri allo scavo psicologico, o in testi vincolanti come quelli giuridici, in cui l’interpretazione finale deve essere guidata nel dettaglio. Queste locuzioni, peraltro, sono pronte a rimettersi al servizio della coesione testuale: basta inserirvi un dimostrativo con funzione anaforica o cataforica (a talfine, con questa intenzione ecc.) (Prandi, Gross, De Santis, 2005). Anche la cosiddetta coniunctio relativa - legatura latineggiante ti­ pica della prosa dei primi secoli, in cui era possibile iniziare un periodo con un pronome relativo genericamente connesso al contenuto della frase precedente - può essere oggi letta in chiave testuale, come strate­ gia di anticipazione cataforica del tema: «Così adunque visse e morì ser Ceppatello da Prato e santo divenne, come avete udito; il quale [cosa che] negar non voglio esser possibile lui esser beato nella presenza di Dio» (Boccaccio, Dee., I, 1).

Derivano da un nesso relativo con valore anaforico anche le locuzioni dopo di che, per cui (che equivalgono a e dopo, per questo), tuttora usate come connettivi testuali. Un discorso analogo può essere fatto per il nesso con ciò sia cosa che, tipico della prosa letteraria a partire da Dante, e che ritroviamo ad apertura del Galateo di Baldassarre Castiglione per introdurre un’am­ pia campata periodale con una causale anteposta alla principale (e da questa separata grazie a una serie di relative e incidentali incassate Lu­ na dentro l’altra): «Con ciò sia cosa che [dal momento che] tu incominci pur ora quel viaggio del quale io ho la maggior parte, sì come tu vedi, fornito, cioè questa vita mortale, amandoti io assai, come io fo, ho proposto meco medesimo di venirti mostrando quando un luogo e quando altro... »

Un altro fenomeno testuale rilevante che può spiegare alcuni cambia­ menti di valore subiti dalle congiunzioni nella storia è il cosiddetto arricchimento inferenziale ( p s i i ) . Un esempio è dato dalla con­ giunzione poiché·, nell’italiano contemporaneo poiché codifica una re­ lazione di causa o motivo, ma tradisce il suo antico valore di successio-

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L’interazione di sintassi e testualità

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Box 2.6 - GRAMMATICALIZZAZIONE E LESSICALIZZAZIONE Il fenomeno per cui un elemento lessicale come f in e è diventato parte di un’espressione e poi di una parola con funzione grammaticale (a f f in c h é ) è definito dai linguisti grammaticalizzazione. Si tratta di un fenomeno diacronico, dovuto a spinte interne al sistema. Molte delle preposizioni cosiddette «improprie » sono termini lessicali che gradualmente si sono svuotati del significato originario per mettersi al servizio di una relazione grammaticale: erano nomi v ia e t r a m it e , forme verbali m e d ia n t e e d u r a n t e (participi presenti) e t r a n n e (da t r a in e , imperativo di t r a r r e «togliere»). Anche alcune preposizioni proprie sono state interessate dal fenomeno (►Box 10.3). Il nostro articolo indefinito viene dalla grammaticalizzazione del numerale u n o , così come l’articolo partitivo è il risultato del cambiamento di funzione dalla preposizione d e l; l’articolo determinativo italiano, invece, viene dal dimostrativo latino ille (►Box 31.1 . Gli avverbi in - m e n t e sono il risultato della grammaticalizzazione di costruzioni latine all’ablativo (es. c la r a m e n t e «con mente chiara» diventa c h i a r a m e n t e ). Sono il risultato di processi di grammatica­ lizzazione anche alcuni tempi verbali dell’italiano come il passato prossimo ( h o a m a t o si è sviluppato da una perifrasi latina con valore di «ho, possiedo qualcosa che si trova nello stato di oggetto di amore»), il futuro semplice (a m e r ò viene dalla perifrasi modale a m a r e h a b e o «ho da amare»), il condizionale ( a m e r e i viene dalla perifrasi a m a r e h a b u i «ebbi da amare»). Il processo inverso è la lessicalizzazione, cioè la trasformazione in elemento lessicale di una parola o espressione che aveva una funzione diversa: a c a p o diventa a c c a p o , le c c a le c c a (imperativo reduplicato) diventa le c c a le c c a . Sono frutto di lessicalizzazione molti sostantivi nati da participi presenti (s t u d e n t e , in s e g n a n t e ) . La lessicalizzazione riguarda anche parole formate tramite suffissi che perdono il loro valore: per esempio il suffisso diminutivo -in o in b a m b in o o il suffisso -e tto in r o s s e tto . Sono trattate come lessicalizzazioni anche le fusioni di elementi grammaticali che danno luogo a congiunzioni univerbate: p o i c h e diventa p o ic h é , s e b e n e dà luogo a s e b b e n e .

ne temporale; in Dante, il valore di successione temporale della locu­ zione poi che è ancora vivo ("►BoxTf). Lo stesso processo, consistente nell’inferire una relazione causale a partire da una relazione successio­ ne temporale, giustifica l’uso odierno delle congiunzioni dacché, giac­ ché e della locuzione dal momento che con valore causale (De Santis, 2008). Tendenze " el CdeMa sintassi

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Questo spaccato diacronico mostra come l’evoluzione delle strutt u r e s in ta ttic h e non sia un processo sempre lineare. Sicuramente è possibile individuare dei momenti di « svolta » nell’arco della nostra storia linguistica: -

l’affermarsi dello « s t i l e p e r i o d i c o » o «circolare», che tende a chiudere in un’unica campata un ampio giro di idee, via via che la tradizione letteraria si allontana dal parlato e si dota di modelli guardando anche all’indietro, cioè alla complessa sintassi latina;

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CAPITOLO 2 - La lingua italiana tra norma e usi

Parte I - Sulla soglia della grammatica: i segni, la comunicazione, le norme e gli usi

’affermarsi dello s t i l e s i n t a t t i c o b o c c a c c i a n o nel X V I secolo, con la preferenza accordata a lunghi periodi ricchi di subordinate incas­ sate, incisi, inversioni, in cui vengono eliminati gli elementi consi­ derati superflui per l’occhio ai fini del raccordo tra le frasi, - il propendere, a partire dal XVII secolo, per un periodare più sciol­ to e lineare, su influsso del francese ma anche della razionalizza­ zione sintattica realizzata dagli scrittori di scienza come Galileo, - il tentativo manzoniano e, per altri versi, dei raccoglitori ottocente­ schi di novelle popolari di colmare il divario tra lingua scritta e lingua parlata, anche diffondendo forme iconiche di ripetizione, come il tipo cammina cammina pronte a mettersi al servizio della connessione transfrastica (De Santis, 2014); - il definitivo snellimento dei periodi attuato dalla lingua dei giorna­ li e la diffusione di uno s t i l e s p e z z a t o , paratattico e ricco di nominalizzazioni a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, - la riduzione della gamma di congiunzioni e di modi verbali nel periodare contemporaneo dell’uso medio; - le nuove forme di testualità (brevi, frammentate, stratificate) diffu­ se dalle scritture digitali. I

Si tratta di linee di tendenza chiare, che non escludono tuttavia l’accavallarsi e intrecciarsi di campi di forze, la persistenza dell’antico e i ritorni di vecchie forme con nuove funzioni, le forzature sintattiche dovute a calchi da altre lingue, i travasi tra scritto e parlato e tra generi testuali diversi. Esaminiamo ancora un esempio: la perdita della costruzione infini­ tiva del latino (accusativo più infinito: puto teprobum esse) viene com­ pensata dall’estendersi della costruzione che + indicativo (ritengo che sei onesto), ma la coreferenza dei soggetti consente di tornare a una costruzione con finfinito (ritengo di essere onesto). L’italiano, separan­ do il modo dell’ipotesi (congiuntivo) da quello della condizione (il con­ dizionale, sconosciuto al latino), e spostando in larga parte sui verbi modali {potere, volere, dovere) il compito di esprimere valori come la possibilità e la non realtà, mette a disposizione della subordinazione completiva anche il congiuntivo, a sottolineare la stretta dipendenza (implicazione) della frase dal verbo (ritengo che tu sia onesto-, voglio che tu sia onesto). La tendenza, nell’italiano contemporaneo, ad aggira­ re le costruzioni col congiuntivo, considerate particolarmente onerose, fa sì non solo che si tomi all’indicativo al posto del congiuntivo (costru­ zione sociolinguisticamente connotata come bassa), ma che si riformu­ li la frase in modo da eludere la subordinazione (ti ritengo onesto). Nella subordinazione completiva (nelle frasi soggettive, oggettive e interrogative indirette) il congiuntivo è un modo selezionato da alcuni

Il congiuntivo nella storia

CAPITOLO 2 - La lingua italiana tra norma e usi

Parte I - Sulla soglia della grammatica: i segni, la comunicazione, le norme e gli usi

__________ Linguistica, fll0l° it. filo ; NlVE(M) > n é v e ; TÈLA(M) > té la ; SÉPTE(M) > s è t t e ma PÉDE(M) > p ie d e ; FÀBULA(M) > fa v o la ; MARE > m a r e ; NÒVE(M) > n ò v e ma BÓNU(M) > b u o n o ; VÒCE(M) > v ó c e ; CRÙCE(M) > c r ó c e ; MURU(M) > m u r o . Ricordiamo che anche in italiano le vocali possono avere una lunghezza diversa (cioè una durata maggiore o minore) a seconda della posizione all’interno della parola (sono brevi tutte le vocali atone, quelle accentate in fine di parola e quelle accentate in sillaba chiusa; sono lunghe le vocali accentate in sillaba aperta), ma questa caratteristica non ha valore fono­ logico (perché non distingue parole con significati diversi, come accadeva invece in latino).

3.3.2 Le semivocali (o semiconsonanti)

_________

Le semivocali 1)1 e /w/ hanno un suono simile a quello delle vocali Iti e “ Ini ma si distinguono da queste ultime per una pronuncia più chiusa, e quindi più debole, e per la durata più breve. Confrontiamo a questo proposito il suono trascritto u in buono con la vocale trascritta u in tubo e il suono trascritto i in piano con la vocale trascritta i in vino (vocale). Sono chiamate anche approssimanti perché sono prodotte con avvici­ namento, ma senza contatto, degli organi articolatori. Come le conso­ nanti, le semivocali si pronunciano appoggiandosi alle vocali, con le quali formano dei dittonghi M.1 . Per questo sono chiamate anche

Vmantì

62

Parte II - La forma interna della lingua

semiconsonanti. Per essere più precisi, si parla di semiconsonanti quando sono seguite da una vocale tonica (es. buòno), di semivocali quando seguono una vocale tonica (es. càuto).

63

CAPITOLO 3 - Dalla parte del significante: il patrimonio di suoni d e ll’italiano

base dei denti superiori) e la palatale IfJ, sonora, come in figlio (se l’articolazione si situa all’altezza del palato). Infine, facendo vibrare la punta della lingua contro la base dei den­ ti superiori si ottiene la dentale vibrante Ir/, sonora, come in rito.

Consonanti vibranti

3.3.3 Le consonanti La classificazione delle consonanti

I suoni consonantici, cioè quelli articolati con il canale vocale chiuso o semichiuso, possono essere: -

sonori o sordi: accompagnati o no da vibrazione delle corde vocali; orali o nasali: nel primo caso il passaggio dell’aria si limita alla bocca, nel secondo interessa anche la cavità nasale; continui o momentanei (occlusivi). Nell’articolazione delle consonanti continue il passaggio dell’aria è costante, anche se in qualche caso ostacolato (si ha «frizione»); nell’articolazio­ ne delle momentanee è dapprima bloccato (si ha «occlusione») e poi di colpo sbloccato.

La frizione e l’occlusione possono verificarsi in diversi punti della cavità orale, dalle labbra fino al velo palatino, secondo la posizione della lingua e delle labbra. A seconda del punto di articolazione, le con­ sonanti si suddividono ulteriormente in labiali, dentali, palatali, velari. È dalla combinazione di tutti questi fattori di differenziazione che prendono forma le consonanti dell’italiano. Consonanti continue

Consonanti fricative

Consonanti laterali

Nell’articolazione delle consonanti continue il passaggio delParia è ostacolato senza essere bloccato. Il rumore caratteristico delle continue è un brusio o un ronzio. Tra le consonanti continue distinguiamo le fricative, le laterali e le vibranti. Le fricative risultano da una frizione, un attrito provocato dal pas­ saggio dell’aria in una fessura. Se la fessura si situa tra i denti superio­ ri e il labbro inferiore, abbiamo le consonanti labiodentali /{/ (sorda come in fieno) e /v/ (sonora come in voce). Se la fessura si apre tra la punta della lingua e la radice dei denti superiori, abbiamo le fricative dentali dal caratteristico suono sibilante: /s/ (sorda, come in sarto) e /z/ (sonora come in asilo). Se la frizione si produce tra la lingua e il palato, abbiamo la consonante palatale /J7 (sorda come in sciame'). Se la lingua si dispone in modo da permettere il passaggio dell’aria solo da uno o da entrambi i lati della bocca, abbiamo le consonanti la­ terali: la dentale /!/, sonora, come in [ago (se la lingua si appoggia alla

Consonanti occlusive orali

Bloccando completamente e poi sbloccando improvvisamente il pas­ saggio dell’aria in un punto della cavità orale si produce un rumore caratteristico simile a uno scoppio: sono le consonanti occlusive. Spo­ stando il punto di articolazione dalle labbra ai denti superiori e al velo palatino, otteniamo due serie parallele comprendenti ciascuna una con­ sonante bilabiale, una dentale e una velare: una sene sorda - /p/, Iti, /k/ - e una sonora - Ibi, Idi, /gl. Le consonanti occlusive formano un gmppo molto compatto, che sfrutta intensamente poche differenze ar­ ticolatone:

Tipi di consonanti occlusive

Consonanti nasali

Le consonanti nasali si articolano bloccando l’uscita dell’aria dalla bocca e facendola defluire dalla cavità nasale: esse sono dunque occlu­ sive in quanto l’aria è bloccata nella cavità orale, ma al tempo stesso continue, perché l’aria defluisce dal naso. Le consonanti nasali sono tutte sonore. A seconda del punto in cui il passaggio dell’aria è blocca­ to nella cavità orale distinguiamo tre consonanti nasali: la bilabiale /m/ di modo (l’aria è bloccata dalla chiusura delle labbra), la dentale Ini di nave (la punta della lingua blocca l’aria premendo contro i denti supe­ riori), la palatale /p/ di gnomo (il dorso della lingua aderisce al palato). Una variante della consonante Ini di cui avremo occasione di riparlare £ 3-4] è il suono velare che trascriviamo [η] e che troviamo in banco·, si articola spingendo il dorso della lingua contro il velo palatino.

Tipi di consonanti nasali

Consonanti affricate

Le consonanti affricate si situano, per il loro modo di articolazione, a metà strada tra le occlusive e le fricative. Nella loro emissione, il pas­ saggio dell’aria viene dapprima bloccato interamente, come nell arti-

Tra occlusive e fricative: le affricate

64

Parte II - La forma interna della lingua

colazione delle occlusive, e poi sbloccato solo in parte e ostacolato, esattamente come nell’articolazione delle fricative (in IPA le affricate sono indicate con la combinazione di due simboli: quello di un’occlu­ siva seguito da quello di una fricativa). Se l’occlusione e la successiva frizione si producono tra la punta della lingua e la base dei denti superiori, si articolano i suoni dentali /1s/ (z sorda, come inforza) e /dz/ (z sonora, come in zero)·, se si produ­ cono tra il dorso della lingua e il palato, si ottengono i suoni palatali Ifl (c sorda, come in cena) e /(%/ (g sonora, come in giallo). Consonanti allungate La lunghezza consonantica

Per distinguere le parole in italiano non si sfruttano solo le differenze di suono, ma anche le differenze di lunghezza delle consonanti: pala e palla, note e notte,fato sfatto, tufo e tuffo, per esempio, sono coppie di parole distinte con significati distinti. La lunghezza consonantica, cioè, ha valore fonologico in italiano. Le consonanti italiane, con poche ec­ cezioni, possono essere pronunciate brevi (trascritte semplici) o lunghe (trascritte doppie). La lunghezza non ha valore distintivo quando non c è opposizione tra breve e lunga: in posizione intervocalica, per esem­ pio, la /z/ è sempre breve mentre le consonanti /ts/, /dz/, UU, /p/, /J7 si pronunciano sempre lunghe (almeno nella varietà standard). In IPA |PBox 3,y le consonanti allungate sono indicate di solito me­ diante i due punti. Consonanti sonoranti

Il grado di sonorità delle consonanti

Le consonanti possono essere distinte anche in base al grado di sonori­ tà. Questa distinzione è rilevante per la formazione delle sillabe in ita­ liano In italiano le consonanti più sonore sono le cosiddette liquide (la laterale lì/ e la vibrante Ir/) e le nasali (/n/ e Imi), che non hanno una controparte sorda e vengono chiamate anche sonoranti. Su una scala di sonorità decrescente si collocano le fricative (rispettivamente sonore e sorde), le affricate (rispettivamente sonore e sorde) e le occlusive (rispettivamente sonore e sorde).

Box 3.5 - DAL LATINO ALL’ITALIANO: LE CONSONANTI Il passaggio dal latino all’italiano ha comportato numerosi riassestamenti nel sistema con­ sonantico. È scomparso il suono / h / (corrispondente a H nella grafia latina), owero la fricati­ va laringale sorda (lo stesso suono aspirato, realizzato mediante l'accostamento delle corde vocali all’interno della laringe, che troviamo nel toscano: ►Box3.a!). Altri invece se ne sono aggiunti, come le consonanti palatali, che erano suoni sconosciuti al latino: in primo luogo / f / e M / (in latino i grafemi C e G avevano sempre suono velare; in italiano hanno invece di norma suono palatale davanti ad e ed /: di qui la necessità di ricorrere ai digrammi eh e g h , in cui il grafema h non corrisponde a nessun suono, per segnalare la natura eccezional­ mente velare della consonante in parole come c h in a o g h ir o )] in secondo luogo /J /, / A / , / W (suoni corrispondenti in italiano ai grafemi s c ( i), g l ( i ) e g n ( i) , che in latino erano pronunciati / s k /, / g l/ e /g n /). Sono innovazioni del sistema italiano anche le affricate dentali / s / e /d z/ (usate in parole derivate da lingue germaniche o dal greco) e la fricativa labiodentale sonora N I (la V in latino era pronunciata come la semiconsonante /w /). Si noti che queste conso­ nanti, in italiano, possono essere anche l’esito dell’evoluzione di particolari nessi latini (es. /tf/ può anche essere l'esito di un TI latino seguito da vocale: la t iu m > L a z io ).

Box 3.6 - LE CONSONANTI: VARIAZIONI REGIONALI Le differenze tra lo standard e le varietà regionali consìstono più nella distribuzione dei fone­ mi consonantici che nel loro inventario. Ecco le variazioni più significative: • la scelta tra la sorda / s / e la sonora / z / e in posizione intervocalica: in casa, per esempio, la s è sonora nelle varietà settentrionali, sorda in quelle meridionali; il toscano, invece, distingue la realizzazione sonora (di chiese, plurale di chiesa) da quella sorda (di chiese, voce del verbo chiedere). Anche nel caso delle affricate dentali /ts / e / dz/, in posizione

66

iniziale il toscano distingue la realizzazione sorda di zio da quella sonora di zona, mentre nelle varietà settentrionali troviamo solo la realizzazione sonora; nelle varietà meridionali solo quella sorda; il raddoppiamento di / / / , /k/, / j i / in posizione intervocalica, tipico delle varietà centrali e meridionali, è assente in quelle settentrionali;

67

CAPITOLO 3 - Dalla parte del significante: il patrimonio di suoni d e ll’italiano

Parte II - La forma interna della lingua

Un’altra variante posizionale della nasale /n/ è la nasale labioden­ tale [iq] che si trova prima delle consonanti labiodentali /il e Ivi (es. in infido e invidia). Fenomeni come l’allofonia si spiegano con il modo di articolazione dei suoni: 1 suoni che si sus­

la realizzazione della laterale palatale / k/ intervocalica, pronunciata / \ \ / in alcune varietà settentrionali, / j j / in alcune varietà centro-meridionali;

seguono in una sequenza tendono ad adattarsi l’ uno all’altro e a ridurre, compatibilmente con la funzione distintiva, la loro distanza articolatoria. L’articolazione di un fonema può cambiare da una posizione all’altra sotto l’influsso dei suoni contigui: in anche, per esempio, il punto di

il raddoppiamento consonantico sia all’interno di parole (es. in tutto, pacco) che tra due parole (es. a(c)casa: *4.3.2,); le varietà settentrionali tendono invece allo scempiamento.

articolazione del fonema nasale retrocede fino a coincidere con il punto d’articolazione della

Le varianti regionali sono ricche di suoni fricativi assenti nello standard: in toscano troviamo per esempio i suoni [φ], [Θ] e [h], usati al posto di / p / , / t / e / k / per effetto del fenome­ no chiamato gorgia in parole come capo, rata, baco, (acre) e il suono [3], usato al posto dell affricata /d z / in posizione intervocalica (es. agente pronunciato con lo stesso suono che troviamo nel finale di garage).

consonante velare che lo segue. In questo modo, / n / diventa / q / . Il criterio per identificare i fonemi è stato messo a punto nell’ambito della Scuola Linguistica

1

Praga da Trubeckoj (1938) e Jakobson (1963), le cui intuizioni sulla struttura del fonema sono confluite nello strutturalismo americano e nella grammatica generativa: cfr. Jakobson, Fant e Halle (1952), Chomsky e Halle (1968). Tra le sintesi, segnaliamo Hyman (1975) e, piu recen­ temente, Odden (2005). Sull’italiano, Schmid (1999), Mioni (2001), Canepari (2003), Albano Leoni e Maturi (2004), Maturi (2006), Nespor e Basile (2008).

3.4

I suoni dell’italiano: la funzione distintiva

Ciò che distingue un suono qualsiasi (per esempio una s lunga pronun­ ciata come richiesta di silenzio: sssssss!) da un fonema come la /s/ di sogno, è la funzione. La funzione dei suoni linguistici consiste nel dif­ ferenziare le diverse parole della lingua che presentano significati di­ versi: è una funzione distintiva * 3.1 . Non tutti i suoni distinti che produciamo nella catena parlata sono fonemi in grado di distinguere parole. Per capire se una differenza tra suoni ha funzione distintiva occorre verificare se, sostituendo un suono --------- all altro in una parola, si ottiene o no una parola diversa (è la cosiddetnStazione ta pr0va di im m utazione). La differenza tra i suoni /t/ e Id o /d/ o Per esempio, è in grado di distinguere parole: tane/cane, porto/ porco, vado/vago, dare/gare sono coppie minime. La differenza tra i suoni /n/ e [13] è del tutto simile a quella tra /d/ e /g/: il punto di artico­ lazione di [η] è posteriore a quello di Id, esattamente come il punto di articolazione di /g/ è posteriore rispetto a quello di /d/. Questa differen­ za è familiare a ogni parlante dell’italiano, che pronuncia diversamente la n di nave, cane e la « di panca, fango. Tuttavia, i suoni [n] e [η] non sono due fonemi distinti perché la loro differenza non è in grado di di­ stinguere due significanti: se pronunciamo la [q] di fango come in na­ ve, non otteniamo una parola diversa, ma la stessa parola pronunciata — _— . in modo inconsueto. I suoni [n] e [q] non costituiscono due fonemi diAiiòfoni stinti ma due varianti posizionali, o allofoni, dello stesso fonema (/n/): due realizzazioni la cui differenza dipende dalla diversa posizione che un suono occupa tra altri suoni della catena.

3.5

Pronuncia e grafia dell’italiano

L’italiano si è formato e diffuso per secoli come lingua letteraria, affi­ data quasi esclusivamente a testi scritti ( f P e r questo motivo la grafia delle parole ha influenzato moltissimo la pronuncia. In partico­ lare, i suoni che hanno una corrispondenza chiara con le lettere tendo­ no a formare un patrimonio comune a tutti i parlanti, mentre i suoni che non sono distinti nella grafia possono differenziarsi notevolmente - sia nella loro realizzazione, sia nel loro utilizzo funzionale - ne e varie regioni italiane. Prima di proseguire il nostro esame dei suoni dell’italiano e del loro valore funzionale dobbiamo quindi fermarci a considerare le norme che ci permettono di fissarli nella scrittura, e le conseguenze che queste norme hanno avuto sull’uso stesso dei suoni. 3.5.1 La scrittura dei suoni: l’alfabeto

_______

L’alfabeto è il patrimonio di simboli grafici (detti grafemi, o, più semplicemente, lettere) di cui dispone una lingua per trascrivere 1 propri fonemi. Il nome alfabeto deriva dal nome delle prime due lettere dell’alfabeto greco: alfa e beta. L’alfabeto italiano dispone di 21 lettere - cinque per le vocali, quindici per le consonanti, più una lettera muta, h - più cinque lettere provenienti da altri alfabeti (latino, greco, lingue germaniche), di cui ci

igrafemi^

68

si serve per trascrivere parole prese in prestito da altre lingue. Le lette­ re sono ordinate convenzionalmente in una sequenza che va dalla a alla z. L’ordine alfabetico è il criterio con cui si ordinano le parole nei dizionari. Ecco come si presenta l’alfabeto italiano completo delle let­ tere prese in prestito: A

B

C

D

E

F

G

H

1

J

K

L

M

N

0

P

Q

R

S

T

u

V

W X

a

b

c

d

e

f

è

h

i

j

k

1

m

n

0

P

q

r

s

t

u

v

w

Y

z

X y

z

Fig. 3.2 L’alfabeto italiano

Corrispondenza tra grafem i e fonemi

69

CAPITOLO 3 - Dalla parte del significante: il patrimonio di suoni d e ll’italiano

Parte II - La forma interna della lingua

L’alfabeto italiano non mette in corrispondenza biunivoca suoni e lettere. Da un lato, non dispone di un numero di simboli sufficiente per distinguere tutti i suoni: c, per esempio, può trascrivere, secondo la posizione, sia l’occlusiva velare sorda /k/, sia l’affficata palatale sorda /f/. In compenso, il nostro alfabeto può disporre di più di una lettera per trascrivere lo stesso suono: l’occlusiva velare sorda /k/, per esem­ pio, può essere trascritta c ,c h o q secondo la posizione. In generale, tuttavia, le differenze tra pronuncia e grafia in italiano sono relativamente limitate rispetto a lingue come il francese e l’ingle­ se (il sistema grafico dell’italiano, cioè, è considerato piuttosto «coe­ rente»). La mancanza di corrispondenza tra lettere e suoni non si ripercuote in modo identico su tutti i suoni: una parte dei suoni è in corrisponden­ za biunivoca con altrettante lettere; alcune distinzioni tra suoni vengo­ no comunque salvaguardate ricorrendo ad artifici grafici; altre diffe­ renziazioni, infine, sono interamente trascurate dalla grafia, e vanno perdute |»>3.5.2l· S uoni in corrispondenza biunivoca con lettere:

(ma china)·, giro (ma ghiro); in alcuni casi (come nei sostantivi cielo, effigie o nei plurali femminili in -eie o -gie) è inserita una i muta tra la consonante palatale e la e. I digrammi eh e gh sono usati anche davanti alla i che corrisponde alla semiconsonante /j/: chiaro, ghianda. L’alfabeto italiano trascrive con digrammi e trigrammi le conso­ nanti palatali nasali (/ji/), laterali (IfJ) e fricative (/J7) - rispettivamente gn(i), gl(i) e sc(i) gnomo e insegniamo; figli &figlio; scena e scienza. D ifferenze di suono trascurate dalla grafia.

Nella grafia italiana vanno perdute le differenze seguenti: - i grafemi e e o trascrivono indifferentemente le vocali aperte e (/ε/) ed ò {hi) e le corrispondenti chiuse è {lei) ed ó {lo/); - i grafemi 5, z trascrivono indifferentemente le consonanti sorde /s/ e lisi, e le corrispondenti sonore /z/ e IdzJ. Queste ultime differenze si sono diffuse in modo non uniforme nel­ le varietà dell’italiano. In questo modo, gli artifici di trascrizione han­ no influenzato moltissimo la pronuncia dei suoni. A

/a /

B

N

c

D

E

F

N li/

/d /

/e/ /£ /

IV

G

H

/g/

0

745/

1

N /!/ 0

L

M

71/

/m /

N /n/ [η]

Imi

0 /o / /o /

P

Q

/P/

7K7

R

N

S /s/

M

T

u

V

z

N

M M

M

/*/

M

Tab. 3.4 Corrispondenza tra grafemi e suoni in italiano

Il simbolo 0 nella tabella indica che il grafema ha solo valore dia­ critico: è il caso di h, che non corrisponde a nessun suono, e di i, che può limitarsi a segnalare la natura palatale di un suono come /tf/, Afe/, l/J, /ji/ e /J7 (in questo caso non corrisponde a nessun suono nella pro­ nuncia standard).

vocali: a, i, u consonanti: b, d,fi l, m, n,p, r, t, v D ifferenze foniche salvaguardate grazie ad artifici di trascrizione.

I grafemi c e g trascrivono suoni velari (rispettivamente /k/ e/g/): -

davanti a a ,o ,u (a meno che non sia inserita una i muta): calde (ma cialde), gusto (ma giusto)·, davanti alla semiconsonante /w/: cuore (e quadro), guardare. davanti a consonante: crampo, clamore, grosso, globo·, trascrivono suoni palatali (rispettivamente /f/ e / sp. es-pa-da\ lat._sta-tum

►sp. es-ta-do). Sull’uso della vocale prostetica i m

italiano (all’interno di sequenze come in Ispagna o per iscritto) *4.3.2. In angloamericano abbiamo sillabe il cui nucleo può essere costituito da una consonante sonorante (es. la liquida nella seconda sillaba di lit-tle e la nasale nella seconda sillaba di gar-c/err in entrambi casi, la e indica infatti una vocale indistinta). In alcuni dialetti italiani meridionali, per effetto della sincope delle vocali atone diverse da a, possiamo trovare sillabe formate da una sola consonante nasale (sillaba iniziale del sicilia­ no ntisu) o che hanno come nucleo una sonorante (sillaba centrale del napoletano srogar).

4.2

La parola e l’accento

Da un punto di vista fonologico, una parola è formata da una o piu sillabe: è un monosillabo o un polisillabo. Una di queste sillabe è pro­ nunciata con un’intensità maggiore e porta l’accento: virtù, amico, ato­ mo. La sillaba accentata, detta sillaba tonica, risalta sullo sfondo delle sillabe atone. La diversa posizione dell’accento può differenziare due parole (ancora e ancóra) o due forme grammaticali della stessa parola: cerco e cercò. L’accento italiano è di tipo intensivo, viene cioè realizzato con un aumento della forza espiratoria durante la pronuncia di una vocale. L’accento è un elemento definito soprasegmentale perché si col­ loca al di sopra della sequenza dei suoni: è una proprietà della sillaba e non del singolo segmento o fonema vocalico. In IPAÌEÌ9ÌH1 si indica con un apice posto prima della sillaba su cui cade 1 accento. Sulla rilevanza dei fenomeni soprasegmentali nelle figure retoriche di suono»40.i|.

4.2.1 Sede dell’accento Come mostrano gli esempi, l’accento in italiano è mobile, ha cioè una posizione variabile, definita per ogni singola parola. Possiamo trovare l’accento: -

Box 4.1 - LA STRUTTURA DELLA SILLABA IN ALTRE LINGUE E DIALETTI

-

La struttura della sillaba può cambiare da una lingua all’altra. In italiano possiamo trovare a inizio di parola un nesso sibilante + occlusiva (spada, stato). In spagnolo, alle parole latine che iniziavano con questo nesso si è anteposta una vocale d'appoggio, detta vocale prostetica

-

sulla sillaba finale nelle parole tronche: città, virtù, verrò, cosi; sulla penultima sillaba nelle parole piane: iìq-re, colloca-re, pe-na, caval-lo; sulla terzultima sillaba nelle parole sdrucciole: a-to-mo, m-dice, simpa-ti-co, cre-de-re; sulla quartultima e persino sulla quintultima nelle parole bi- o trisdrucciole: ye-ne-ra-no, con-si-de-ra-no, or-di-na-lo, or-dina-me-lo. Queste parole di solito, oltre all’accento primario,

La parola fonologica

L'accento in italiano

76

Parte II - La forma interna della lingua

portano anche un accento secondario sulla prima o sulla secon­ da sillaba. Nelle parole composte ciascuno dei due componenti mantiene il pro­ prio accento (es. por-ta-ce-ne-rè). Nell’italiano parlato contemporaneo si nota una tendenza all’arretramento dell’accento in alcune parole trisillabiche (come mostra la diffusione di pronunce del tipo èdile per edile, rubrica per rubrica, àmaca per amaca ecc.), anche nei prestiti (es. IsIam per IsIàm, mignon per mignon, pèrformance per performance ecc.).

4.2.2 Parole atone: enclitici e proclitici In italiano alcuni monosillabi sono pronunciati senza accento proprio e si appoggiano alle parole circostanti: si tratta dei clitici (dal greco klino, «mi appoggio») A seconda della posizione, distinguiamo due famiglie di clitici: i proclitici, che si appoggiano alla parola seguente (es. mi pare), e gli enclitici, che si appoggiano alla parola precedente, che è di norma un verbo all’imperativo o all’infinito; in questo caso, la grafìa incorpora il clitico nella parola d’appoggio: prendilo, prenderlo, dimmi, dirmi, salutiamoci, salutarci. I clitici possono cumularsi: te lo mando', ci si abitua (cumulo di proclitici); diamo-slie-lo. andiamo-ce-ne (cumulo di enclitici).

4.3 Incontri di parole Fenomeni di eufonia

La lingua italiana è molto sensibile all’eufonia, cioè a un incontro ar­ monioso dei suoni che si susseguono nella catena parlata. Nella conca­ tenazione delle parole, i parlanti intervengono sul confine tra le parole, aggiungendo o togliendo suoni, allo scopo di evitare quanto più possi­ bile iati violenti tra vocali, e gruppi consonantici estranei alle norme e alla sensibilità dell’italiano. Queste tendenze eufoniche hanno un valo­ re diseguale nelle diverse varietà di italiano: in generale sono meno sentite al Nord rispetto al Centro e al Sud, e la loro applicazione tende a restringersi nell’italiano contemporaneo. Alcune di queste tendenze, tuttavia, sono molto vitali, e altre sono diventate norme obbligatorie nella lingua scritta. In generale, comunque, nella lingua contempora­ nea si evidenzia sia un regresso dei suoni aggiuntivi (i iniziale di ap­ poggio, d eufonica) e sia una tendenza a ridurre l’impatto di elisione e troncamento, così da rafforzare l’autonomia sintattica e la riconoscibi­ lità delle parole.

77

CAPITOLO 4 - Dalla parte del significante: dalla sillaba all’enunciato

4.3.1 Togliere suoni: elisione e troncamento

_________

Si ha elisione quando la vocale finale di una parola cade davanti alla w » -----vocale iniziale della parola successiva. L’elisione è segnalata dall apo­ strofo nel testo scritto. Tipico è il caso degli articoli, delle preposizioni articolate e degli aggettivi davanti ai nomi: ['uomo', nell uomo; beli uo­ mo. Nella grafìa, l’elisione è obbligatoria nei casi che abbiamo esem­ plificato. È invece facoltativa con l’articolo indeterminativo ( m ’om­ bra, una ombra) e con alcuni pronomi atoni proclitici in posizione di complemento oggetto: m ’invita, mi invita; faspetta, ti aspetta; / atten­ de, lo attende (ma le arriva un pacco). Alcuni polisillabi terminanti in vocale preceduta da liquida (/, r) o nasale (m, n) possono perdere la vocale finale davanti a parola che co­ mincia con una vocale ma anche, più spesso, con una consonante E ι ------- —— troncamento: color nocciola, gran caldo, sottil argomento, qual e. I ronc!T----troncamento non è segnalato dall’apostrofo nella grafia. In alcune combinazioni di parole, o locuzioni, il troncamento si e cristallizzato. amor proprio, ben detto, benfatto, malfatto. L’elisione e il troncamento hanno funzioni simili, ma sono fenomeni fonologie, diversi. L elisione avviene solo davanti a vocale, il troncamento davanti a vocale e consonante. Il troncamento ri­ spetta la frontiera di parola, mentre l’elisione la ignora. Nel discorso parlato, la consonante finale della parola elisa fa sillaba con la vocale iniziale della parola successiva: ,’uo-mo u-n om-bra nel-l’ar-ma-dio, bel-l'uo-mo. Il troncamento, viceversa, fa coincidere la frontiera sillabica con la frontiera tra le parole (che indichiamo con una doppia barra): s o M il//a r - g o - m e n - to g ^ ^ co-lor//noc-cio-la. È questa la ragione per cui, nella grafia, l’elisione e segnalata dall apostrofo, il troncamento no. .. . Non bisogna confondere il troncamento come processo di adattamento fonico reciproco d, pa­ role contigue nella frase con la presenza nella lingua di parole tronche indipendentemente dalla loro posizione. Nel lessico troviamo forme come po' per poco, oppure le forme De per Cene, mo per modo, ca' per casa (perlopiù arcaiche e di uso raro). Nella flessione troviamo forme come da’ per dai, di' per dici, fa’ per fai, va’ per vai, sta’ per stai.

4.3.2 Aggiungere suoni

___________

Il raddoppiamento sintattico si ha quando, nel discorso orale, si rad- » . « iament0 doppia la consonante iniziale di una parola che segue un monosillabo -----------------proclitico terminante in vocale: ac-casa, dac-capo. Il raddoppiamento sintattico è diffuso e vitale nelle varietà del Centro-Sud, mentre e sco­ nosciuto al Nord, tranne che nei casi in cui si è fissato nella grafia (giacché, davvero, sebbene, soprattutto, ecc.). La congiunzione e (più raramente o) e la preposizione a possono

78

Parte II - La forma interna della lingua

La d eufonica

La vocale prostetica

Fenomeni intonativi

essere collegate alla vocale iniziale della parola successiva, soprattutto se è identica, tramite una d chiamata eufonica, in particolare nello scritto quando le vocali contigue coincidono: Era ed è iscritta al corso-, Vado ad accendere il gas. L’inserimento della vocale i (detta vocale prostetica) tra la prepo­ sizione in (o per) e il nome successivo iniziante con sibilante più oc­ clusiva è ormai in disuso (es. in iscuola, in istato d ’assedio), ma resiste per iscritto.

Le domande totali chiedono all’interlocutore di pronunciarsi sulla verità o sulla falsità di un fatto; sono domande a cui si risponde m blocco- sì, no, non so. Queste domande presentano un tipico profilo ascendente, poiché il tono della voce si innalza progressivamente fino alla fine:

4.4 Fonologia dell’enunciato: l’intonazione

Con le domande parziali si chiede all’interlocutore di completare con un’informazione mancante un quadro altrimenti noto. Esse presen­ tano un profilo ascendente sul segmento interessato alla domanda, e un profilo discendente sul segmento dato per conosciuto:

Un enunciato - cioè una porzione di testo compresa tra due pause - pur essendo costruito con unità foniche discrete, ha sempre una cornice fonica unitaria. Ogni enunciato è segmentato in blocchi che non sono pronunciati con la stessa intensità: alcuni sono evidenziati rispetto ad altri. L’enunciato nel suo insieme presenta una curva melodica che può alzarsi, abbassarsi, o rimanere costante. Per questi fenomeni fonologici si parla in senso lato di intonazione. L’intonazione è certamente un veicolo privilegiato dell’affettività, della carica emotiva che accompagna i nostri messaggi. Gioia, ira, stu­ pore, attrazione o repulsione verso il contenuto comunicato o verso gli interlocutori traspaiono in modo diretto e inequivocabile dalle modula­ zioni dei nostri messaggi. Tuttavia, questa prerogativa appariscente non deve farci dimenticare le funzioni più propriamente linguistiche dell’intonazione: i fenomeni di intonazione danno un contributo im­ portante all’identificazione del messaggio. 4.4.1 La curva melodica

Enunciati dichiarativi

La curva melodica degli enunciati, modulando l’altezza della voce nel­ l’emissione di un enunciato, segnala aspetti importanti del suo contenuto. Un profilo discendente della melodia (da un’altezza media si scen­ de a un tono più basso) caratterizza un enunciato dichiarativo conclu­ so, un’asserzione: Piero è arrivato.

Enunciati interrogativi

CAPITOLO 4 - Dalla parte del significante: dalla sillaba all enunciato

Le domande sono enunciati che, invece di dare informazioni, le richiedono. A seconda dell’estensione dell’informazione richiesta si distinguono domande totali e domande parziali «-17,1.2 Ciascuno di questi tipi di domanda ha un profilo melodico caratteristico.

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Piero è arrivato?

Chi è arrivato? Un profilo piatto, percepito come sospeso, segnala che l’enunciato non è completo, e invita l’interlocutore a completare l’informazione con i dati a sua disposizione. ------------------------ -

Se Piero è arrivato...

Come possiamo osservare dagli esempi, i segni di interpunzione posti al termine di ogni enunciato (punto fermo, punto interrogativo puntini di sospensione e punto esclamativo) cercano di riprodurre il valore comunicativo dei diversi profili melodici, segnalando 1 intona­ zione assertiva, interrogativa, esclamativa o sospensiva di un enuncia­ to; si tratta del valore «prosodico» dei segni di punteggiatura.

4.4.2 Le pause interne e gli accenti: il ritmo I diversi enunciati che compongono un discorso sono separati da pau­ se. Gli enunciati di una certa lunghezza presentano a loro volta una segmentazione interna, sempre segnalata da pause, in unità comunica­ tive. Le unità comunicative, che sono funzionali alla scansione del messaggio, sono anche unità ritmiche caratterizzate da un profilo fone­ tico unitario, e in particolare da una distribuzione caratteristica degli accenti di intensità: in genere l’accento più intenso è 1 ultimo di ogni unità. L’enunciato seguente comprende tre unità comunicative separa­ te da pause:

Il valore prosodico dei segni di interpunzione

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Parte II - La forma interna della lingua

L’altro g io rn o // a Bologna / / Giulia ha visitato San Petronio.

Nel testo scritto le pause sono rese dalla punteggiatura:

Dalla parte del significato: la grammatica CAPITOLO

L’altro giorno,

a Bologna,

5

Giulia ha visitato San Petronio.

Anche questa caratteristica dei segni di punteggiatura (virgola, punto e virgola, punto fermo) rientra nel valore prosodico. Del valore logicosintattico dei segni di interpunzione ci occuperemo nella Parte III Box 14,31e nella parte IV jp6óxie.al.

La scansione in unità comunicative e la distribuzione degli accenti sono funzionali alla prospet­ tiva comunicativa, per la quale la lingua ci offre anche strumenti sintattici f a 7.2 j

In qualche caso, una distribuzione diversa delle pause e delle unità comunicative e intonative dà luogo a significati diversi, come nelle seguenti coppie di enunciati: Chi parte, / / presto torna. Chi parte presto, / / torna.

Quando Maria chiama, / / Silvia è sempre di buon umore. Quando Maria chiama Silvia, / / è sempre di buon umore.

L’ambito della grammatica si estende dalla parola alla frase. La morfologia classifica le parole in gruppi caratterizzati da proprietà grammaticali simili (le parti del discorso) e analizza la struttura grammaticale interna delle parole in termini di flessione, derivazione, composizione. La sintassi studia le regole che governano l’uso delle parole nella costruzione di frasi semplici e complesse (periodi). In questo capitolo anticiperemo alcuni concetti di morfologia e sintas­ si. Della morfologia (classificazione delle parole in parti del discorso e procedi­ menti di formazione delle parole) ci occuperemo più distesamente nella Parte VII; alla sintassi sono dedicate le Parti Ili, IV e VI.

5.1

La morfologia: parola e lessema

L’unità di base della morfologia (che vuol dire propriamente «studio della forma») è la parola. La parola è la più piccola unità linguistica autonoma dotata di un significato proprio, capace di combinarsi co­ me un’unità con altre unità. Della parola possiamo dare più definizioni. Dal punto di vista fonologico, l’identità di una parola è data dai suoni che la compongono e dall accento: forme come parlare, porlo, parlò, parli, parla sono parole fonologiche distinte. Dal punto di vista lessicale, una parola è identificata dal suo signi­ ficato. La parola lessicale è chiamata lessema. Le diverse forme di un lessema condividono tutte uno stesso significato, che è descritto nel dizionario. I dizionari non riportano le parole fonologiche (per esem­ pio parla o parli) ma i lessemi, le cui forme variabili sono idealmente comprese sotto una forma convenzionale, detta forma di citazione (o lemma). Per il verbo la forma di citazione e 1 infinito, parlare. Per i nomi è il singolare: uomo, donna. Per gli aggettivi è il singolare ma­ schile: buono. L’operazione che porta dalle forme variabili o flesse di una parola alla forma di citazione si chiama lemmatizzazione. I lesse­ mi possono essere semplici (quando sono formati da una sola parola fonologica) oppure complessi (quando sono formati da più parole fo­ nologiche: ferro da stiro, prendere in prestito).

La parola lessicale o lessema

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CAPITOLO 5 - Dalla parte del significato: la grammatica

Parte II - La forma interna della lingua La parola grammaticale: variabile/ invariabile

Radice e desinenza

Dal punto di vista morfologico o grammaticale, una parola può esse invariabile o variabile (cioè sottoposta a declinazione o flessio­ ne) a seconda della parte del discorso alla quale può essere ricondotta (nomi, articoli, aggettivi, pronomi e verbi sono parole variabili; avver­ bi, preposizioni e congiunzioni sono invariabili; le interiezioni non so­ no propriamente parti del discorso perché funzionano come veri e pro­ pri enunciati ►37 ). Nel caso delle parole invariabili, la parola coincide con la parola fonologica: qui, oggi, perché. Nel caso delle parole varia­ bili, 1 identità della parola è data dall’appartenenza delle diverse forme fonologiche a un lessema comune. Forme come parlare, parlo, parli, parla sono forme flesse di una stessa parola, in quanto varianti di uno stesso lessema, portatore di un significato lessicale comune. Come risulta dagli esempi, la maggior parte delle parole variabili dell’italiano può essere analizzata in una parte stabile, chiamata radice e una parte variabile, chiamata desinenza. La radice si ricava facil­ mente dalla forma di citazione (pari-are; can-e, bell o) e ricorre di norma in tutte le forme di uno stesso lessema (ant-o, ant-erei, ant-assi, am-erò ecc.). Alla radice è affidata l’identità del lessema. La desinenza trasmette le informazioni grammaticali. Queste informazioni sono in­ dipendenti dal significato lessicale del singolo lessema, e sono applica­ te sistematicamente dalla grammatica a intere classi di parole: le deter­ minazioni di genere e numero interessano tutti i nomi e gli aggettivi, molti dei quali ricevono anche una determinazione di grado; le deter­ minazioni di tempo, modo, persona, numero si applicano alla totalità dei verbi, e così via.

Box 5.1 - MORFI, MORFEMI, ALLOMORFI Radice e desinenze vengono chiamate, con un termine tecnico, «morfemi». Il morfema è, come il fonema e il lessema, un’entità astratta: si tratta dell’unità minima della lingua portatrice di significato, costituita da uno o più fonemi. In ogni parola troviamo almeno un morfema. La maggior parte delle parole italiane è costituita da due o più morfemi: un morfema lessicale (o radice) portatore del significato lessicale (es. cari- con significato di «animale domestico ecc. » nella parola cane) e un morfema grammaticale (o desinenza) por­ tatore delle informazioni grammaticali (es. -e con significato di «singolare» in cane). Esempi di parole costituite da un solo morfema sono: ieri, che, virtù, bar. I morfemi grammaticali sono poche decine; i morfemi lessicali sono invece centinaia di migliaia. Ogni morfema può entrare in combinazione con altri morfemi e formare nuove parole, fermo restando il suo significato. Una categoria intermedia tra i morfemi lessicali e quelli gramma­ ticali è rappresentata dai morfemi derivazionali, che servono a formare parole derivate: se combiniamo can- con il morfema -il- (che vuol dire «relativo a»), oltre che con -e, otteniamo per esempio canile.

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Quando il morfema viene considerato dal punto di vista delle diverse forme fonologiche che può avere, si parla anche di morfo. Due varianti formali dello stesso morfema vengono chia­ mate allomorfi: in alcune parole, il morfema che ha il significato di «cane» si presenta nella forma cagn- (es. cagna, femminile di cane, o cagnesco); i due morfemi can- e cagn- sono esempi di allomorfi. Il morfema è l’unità di base della grammatica, il lessema - la parola considerata per il suo significato e nella sua forma più generale - è l’unità di base del lessico.

5.2

La sintassi: frasi e enunciati

L’unità di base della sintassi (da una parola greca che vuol dire « siste­ mazione insieme ») è la frase. — ---------------Prima di essere un termine tecnico della descrizione linguistica, Definizioni di frase frase è una parola di uso corrente, come albero o tavolo·. Quella frase non mi è piaciuta, Finisci la frase, o Non parlare per frasi fatte. Quan­ do usiamo il termine frase nei discorsi quotidiani, mobilitiamo due im­ magini diverse: - dal punto di vista della funzione, la frase è considerata come unità costitutiva di strutture comunicative più complesse (testi e discorsi), in grado di trasmettere un messaggio indipendente; - dal punto di vista della struttura la frase è vista a sua volta co­ me una costruzione complessa, ottenuta combinando elementi più semplici. Nella prima accezione, la frase può essere definita, prendendo a p r e s t i - ------------------to un termine dell’architettura, come un « modulo » dei testi e dei di- La nase^^ scorsi, cioè come parte di una configurazione più ampia che la c o n tie - ------------------ne. Nella seconda accezione, la frase può essere definita come una struttura grammaticale costruita combinando le parole secondo schemi formali. La frase intesa come modulo di un testo è chiamata enunciato, per differenziarla dalla frase propriamente detta, intesa come costruzione grammaticale. La frase è una struttura sintattica completa in tutte le sue parti, co­ struita secondo le regole della grammatica. È un segno complesso, co­ struito combinando segni semplici, e come tale ha un significato a sua volta complesso anche se isolata da un testo o da un discorso precisi. L’enunciato è un frammento di testo o di discorso compreso tra due segni di interpunzione forte (punto fermo, interrogativo o esclama­ tivo) o tra due pause importanti. Grazie all’appoggio che gli fornisce il contesto, riesce a soddisfare la sua funzione - trasmettere un messag­ gio - anche se è grammaticalmente incompleto.

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Parte II - La forma interna della lingua

La frase è una struttura fuori dallo spazio e dal tempo, mentre l’e­ nunciato è impegnato in un atto di comunicazione contingente. Grazie al radicamento in un ambiente comunicativo, molte parole ed espres­ sioni che vi si trovano funzionano come indici ( f i ) che identificano persone, cose, momenti del tempo e luoghi. Per la stessa ragione, l’e­ nunciato funziona in blocco come indice di un messaggio. Isolato da un testo o da un discorso preciso, perde la sua capacità di trasmettere un messaggio. Quando studiamo l’enunciato, non studiamo una strut­ tura complessa ma una funzione, e ci collochiamo nel mondo degli in­ dici scambiati tra un parlante e un destinatario durante un atto di comu­ nicazione.

Per esemplificare la differenza tra frase ed enunciato basta scomporre un testo qualsiasi nei suoi moduli, cioè nei segmenti separati da una pausa importante o da un segno di interpunzione forte. Osserviamo, per esempio, un brano del romanzo di Carlo Cassola II taglio del bosco:

Germano si raddrizzò asciugandosi il sudore. «Com’è andata la caccia?» chiese. «Male», rispose l'uomo; e con un gesto indifferente tirò fuori un fagiano.

Quasi nessuno dei moduli di cui si compone questo brano corrisponde a ciò che chiameremmo una frase nella descrizione sintattica. Il secondo modulo comincia con un chiese senza sog­ getto. Chi chiese? Un’espressione come questa funziona solo se fa parte di un testo, che la sostiene e aiuta a capirla. Se torniamo indietro nel nostro testo, siamo in grado di scoprire chi chiese: è Germano, uno dei boscaioli di cui il romanzo racconta le vicende. Il modulo successivo - Male - è un avverbio, e modifica il contenuto del verbo di una frase che possiamo recuperare dalla domanda di Germano: come se avessimo La caccia è andata male. D’altra parte, se so­ stituissimo ai moduli originali le frasi complete, il brano assomiglierebbe a una lista di frasi più che a un testo. La grammatica descrive le frasi complete, e non gli enunciati incompleti o frammentari come li troviamo nei testi o nei discorsi. Le frasi descritte dalla grammatica si presentano come oggetti molto diversi dagli enunciati che troviamo nei testi e nei discorsi reali. Gli enunciati che trovia­ mo nei testi sono equivalenti funzionali di frasi. Le frasi che studiamo nella grammatica hanno valore in quanto modelli degli enunciati che troviamo nei testi e nei discorsi. Come modelli,

85

CAPITOLO 5 - Dalla parte del significato: la grammatica

5.3

II significato delle frasi

Possiamo definire la frase come l’unità minima in grado di trasmet­ tere un significato completo, anche al di fuori di un testo o di una si­ tuazione comunicativa. Ma in che cosa consiste questo significato? Vediamo un esempio: Il gatto insegue una lucertola in giardino.

La struttura grammaticale della frase coinvolge un certo numero di re­ ferenti (nel nostro esempio, un gatto e una lucertola) in una connessio­ ne determinata (la connessione per cui è il gatto che insegue e la lucer­ tola che è inseguita). Il significato di una frase è indissociabile dalla struttura grammaticale: dipende cioè dal modo in cui le parole si combinano e dal tipo di rapporti che esse stabiliscono, e non può essere ridotto alla somma dei significati delle parole che compongono la frase stessa. Più in particolare, il significato della frase è indissociabile dalla presenza di parole capaci di mettere in relazione altre parole dando a luogo a una struttura complessa. Il linguista francese Lucien Tesnière (1959) ha chiamato il signifi­ cato di una frase «processo» e lo ha paragonato a un «piccolo dram­ ma », alla cui messa in scena contribuiscono in modo caratteristico tut­ te le parti principali —i costituenti —della frase. In una frase della forma più tipica, è il verbo che funge da elemen­ to portante della struttura: rappresenta infatti il canovaccio che contie­ ne allo stato embrionale le caratteristiche essenziali del processo, for­ nendo un’indicazione sul numero e sulla natura dei personaggi richie­ sti, chiamati argomenti. Inseguire, per esempio, disegna un processo con due argomenti: un inseguitore, che agisce, e un inseguito, che su­ bisce. Il verbo contiene il progetto di un processo, per così dire. Solita­ mente, però, non è in grado di formare una frase da solo. Il verbo è un termine insaturo che ha una sua valenza, cioè che attiva dei legami che hanno bisogno di essere «riempiti» da un certo numero di argo­ menti perché il processo prenda forma.

Il significato della frase come «processo » verbale

Il verbo e i suoi argomenti

le frasi ci aiutano a scoprire l’impalcatura strutturale che si trova anche dietro l’enunciato più frammentario. L’enunciato Male del frammento di testo citato, per esempio, viene identificato come il modificatore del verbo sullo sfondo di una frase modello come La caccia è andata male, esattamente come la testa che vediamo spuntare da una siepe viene attribuita alla persona che non vediamo grazie a un modello condiviso di persona.

La distinzione tra termini «saturi » e «insaturi », formulata da Frege (1891) e ripresa da Tesnière (1959), può essere chiarita utilizzando come esempi il verbo e l'espressione nominale. Un verbo contiene in embrione il progetto di un’intera frase, ma paga questo privilegio con l’in­ capacità di funzionare da solo, cioè senza essere completato da un certo numero di espressioni nominali: è un’espressione insatura. Il verbo ricevere, per esempio, evoca una scena di un certo tipo, che tuttavia si precisa solo quando esplicitiamo chi riceve, che cosa riceve e chi lo dà (es.

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/ vincitori ricevono il premio Nobel dal Re di Svezia). Un’espressione nominale, per parte sua,

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CAPITOLO 5 - Dalla parte del significato: la grammatica

Parte II - La forma interna della lingua

5.4

La sintassi: il periodo

ha una funzione più umile: si limita a portare sulla scena un argomento (es. il premio Nobel, il Re di Svezia). Questa funzione, tuttavia, riesce a soddisfarla da sola: è un’espressione satura. Un’espressione è dunque satura quando riesce a assolvere alla sua funzione elettiva da sola, insatura quando ha bisogno di essere completata da altre espressioni. A un livello più alto, un verbo che ha ricevuto tutti i suoi argomenti, e cioè una frase, è un’espressione satura, poiché è in grado di assolvere alla sua funzione: ideare un processo. In quanto espressione satura, una frase può essere ripresa in un testo da un’espressione nominale a sua volta satura (nell’esem­ pio il pronome lo): I vincitori ricevono il premio Nobel dal Re di Svezia. Lo sapevi? Un’espressione nominale priva di un verbo di forma finita può avere un significato compiuto (es. / vincitori del premio Nobel con il Re dì Svezia) e può funzionare per esempio come didascalia di una foto, ma non può essere considerata una frase perché è priva di una struttura predicativa

(Pili)· L’espressione degli argomenti, cioè degli elementi necessari per completare il significato del verbo, e quindi per formare una frase mi­ nima, è affidata a nomi propri, a nomi comuni preceduti da un articolo, o a pronomi, in qualche caso introdotti da una preposizione. Si tratta delle stesse espressioni che, nell’enunciato, funzionano come indici. In una frase come la seguente gli argomenti sono affidati a Giorgio, un libro, a un amico: Giorgio ha regalato un libro a un amico.

Una volta inserite in una frase, tuttavia, queste espressioni non si limitano a identificare tre referenti, ma, sotto la regia del verbo, asse­ gnano a ciascuno un ruolo, una parte da recitare nel dramma: rispetti­ vamente il molo di donatore (Giorgio) di oggetto scambiato (il libro) e di destinatario (a un amico). Un processo formato dal verbo e dai suoi argomenti può essere poi inquadrato da un certo numero di espressioni che specificano le circo­ stanze esterne in cui si situa. Tesnière paragona le circostanze alla sce­ na del dramma, e cita come esempio le espressioni dello spazio e del tempo (in neretto): La settimana scorsa, a Torino, Lucia ha visitato il museo egizio.

Affronteremo più in dettaglio questi aspetti nella Parte III, dedicata alla sintassi della frase modello.

Dal punto di vista della sintassi, il periodo ha la stessa struttura di una frase semplice. In più, contiene frasi semplici in alcune sue posizioni, e cioè come argomenti o come espressioni facoltative e marginali. Mentre la frase semplice dà forma a un processo semplice, un periodo dà forma a un processo complesso. Negli esempi seguenti, 1. è una frase semplice, che ha come complemento oggetto (in neretto) un espressione nominale; 2. è una frase complessa che ha come comple­ mento oggetto (in neretto) una frase introdotta da che, formata da un verbo e dai suoi argomenti; 3. è una frase complessa nella quale 1 espressione della causa (in neretto) è affidata a una frase introdotta da perché. 1. Giovanni ha visto Annalisa. 2. Giovanni ha visto che Annalisa è arrivata. 3 . Il merlo è volato via perché è stato disturbato dal gatto.

Il periodo si definisce perciò come una frase complessa ottenuta occupando uno o più costituenti di una frase semplice con una o più frasi. Un modulo del testo - vale a dire un enunciato - può avere come modello sia una frase semplice, sia un periodo.

La definizione di periodo

Dalla parte del significato: il lessico C A P I T O L O

6

Il lessico (da un termine greco che vuol dire «[libro] delle parole») è il patrimonio di parole di una lingua: si tratta di un insieme aperto, continuamente ampliabile grazie ai meccanismi di formazione delle parole, alle estensioni di significato e ai prestiti da altre lingue. Il lessico non è un magazzino in cui le parole sono accumulate alla rinfusa, ma una struttura ordinata, all’interno della quale le parole si organizzano sulla base di relazioni tra i loro significati.

6.1

Le lingue plasmano i significati

Lo studio delle parole lessicali (o lessemi) prende il nome di lessico­ logia ed è una branca della semantica, o scienza dei significati lingui­ stici. La semantica si divide tra i significati semplici dei lessemi e i si­ gnificati complessi delle costruzioni sintattiche, in primo luogo delle frasi. In questo capitolo studieremo il significato dei lessemi riuniti nel lessico. . . I lessemi ci mettono in contatto con un grande patrimonio di con­ cetti che, in linea generale, condividiamo con i parlanti di lingue diver­ se. Tuttavia, il lessico di una lingua non si limita a immagazzinare un patrimonio di concetti già dati, ma li elabora e li trasforma, fino a con­ ferire loro una fisionomia specifica, che può essere più o meno diversa da quella che troviamo in altre lingue. Quando traduciamo da una lin­ gua all’altra, ci accorgiamo immediatamente che i confini tra i signifi­ cati delle parole non coincidono sempre esattamente: ogni lingua fini­ sce con il ridisegnare i concetti a modo suo. Osserviamo la Tabella 6.1, che illustra, limitandosi ai lessemi principali, il trattamento dell’area concettuale «albero, legno, bosco, foresta» in danese, tedesco, france­ se, italiano (da Hjelmslev, 1943). Come risulta dalla tabella, il danese presenta due lessemi: uno co­ pre l’area dell’italiano albero, l’altro l’area di bosco qforesta, mentre l’area di legno è condivisa da entrambi. L’area di albero è identica in tedesco, francese e italiano. Il francese bois copre l’area di legno e, parzialmente, di bosco. Il tedesco Holz copre esattamente l’italiano le-

La semantica lessicale

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CAPITOLO 6 - Dalla parte del significato: il lessico

Parte II - La forma interna della lingua

casi introduce distinzioni specifiche all’interno di esperienze condivise (come fa il francese nel caso dei fiumi) e in altri ancora si limita a dare un nome a cose e concetti evidenti (i nomi dei fiori, degli alberi e degli animali domestici, per esempio, sono generalmente confrontabili nelle diverse lingue: mucca, faggio o rosa) E S 3 ·

6.2

gno, mentre Wald copre forèt e una parte di bois. La somma di bosco e foresta copre l’area del tedesco Wald. Foresta, d’altra parte, ha un uso più ridotto del francese forèt. Lo spazio concettuale appena descritto non è un caso isolato. In francese verve significa «vetro», ma anche «bicchiere» o «lente». Il vetro di una finestra, invece, si dice vitre o carreau. La parola inglese glass significa « vetro », « oggetto di vetro » (in primo luogo « bicchiere »), e, al plurale, « occhiali » o « binocolo », mentre per il vetro di fi­ nestra si usa pane, che significa anche «pannello». Il tedesco Glas, che vale «vetro», «bicchiere», «lente», «specchio», si usa anche per il vetro della finestra, che si dice Fensterglas. Dove in italiano basta dire fiume, in francese occorre sapere se il fiume si getta direttamente in mare (fleuvé) o se è affluente di un altro fiume (rivière). Analogamen­ te, la scala di un edifìcio è escalier, mentre la scala a pioli è échelle. Gli inglesi sono famosi per le loro battute sul tempo: in questo caso si tratta del tempo atmosferico, weather, il tempo che passa, invece, è time, mentre il tempo verbale è tense. Una serie analoga si trova in te­ desco: Welter è il tempo atmosferico, Zeit il tempo che passa, Tempus il tempo dei verbi. Prima di tradurre in tedesco il verbo potere occorre chiedersi se equivale a «essere in grado» o a «avere il permesso»: nel primo caso si usa kònnen, nel secondo diirfen.

Tutte le lingue sono ugualmente capaci di descrivere i contenuti dell’esperienza, ma nessuna dispone esattamente degli stessi significati. Questo non implica che i concetti non siano con­ frontabili. Se possiamo identificare con chiarezza le differenze anche minime tra i valori lessicali nelle diverse lingue è proprio perché disponiamo di una solida base di concetti comuni, fornita in primo luogo da un patrimonio di esperienza e di cultura in gran parte condiviso. A dati di esperienza in larga parte comuni, ogni lingua applica uno stampo specifico, che in qual­ che caso crea concetti specifici come quello tedesco Stimmung o quello arabo di Jihad, in altri

Concetti classificatori e concetti relazionali nel lessico

Prima di studiare il lessico, occorre introdurre una distinzione fondamentale tra due tipi di concetti diversi per struttura e funzione, che hanno un rapporto diverso con gli oggetti dell’esperienza e ricevono nel lessico un trattamento diverso. I concetti classificatori classificano referenti: raggruppano cioè oggetti individuali (persone, animali e cose) in classi, oppure circoscri­ vono masse di sostanze omogenee. «Cavallo», «mela», «bambino» sono esempi di concetti classificatori del primo tipo, «acqua» e «sab­ bia» del secondo. I concetti relazionali coinvolgono referenti (che possono essere diversi tipi di esseri) in relazioni, attribuendo loro delle qualità o impe­ gnandoli in processi. «Verde» è un esempio di concetto relazionale del primo tipo, «correre» e «maturare» del secondo. La distinzione tra concetti classificatori e concetti relazionali è fon­ damentale per la grammatica e per il lessico. In grammatica, permette di far luce sulle funzioni e sulle proprietà morfologiche e sintattiche delle classi di parole (le parti del discorso) c in particolare di nomi, verbi e aggettivi. I concetti classificatori sono tutti contenuti di nomi, mentre i concetti relazionali sono tipici dei verbi (i processi) e degli aggettivi (le proprietà). Nella costruzione del­ la frase, i concetti relazionali sono specializzati nel fornire il canovaccio, mentre i concetti classificatori tendono a fornire gli argomenti EH3· Nel lessico, la distinzione è preliminare a una definizione corretta dei significati dei lessemi. Definire un concetto classificatorio significa in primo luogo chiedersi che tipi di oggetti designa, anche se poi, per rispondere in modo esaustivo a questa domanda, occorre anche consi­ derare in quali relazioni può entrare (per definire il nome albero, per esempio, occorre capire sia quali proprietà inerenti distinguono un al­ bero da un’erba, da una pianta e da un arbusto, sia che cosa è sensato che accada a un albero - nasce, germoglia, cresce - e che cosa è sensa­ to fare con un albero: per esempio piantarlo, potarlo, tagliarlo). Definire un concetto relazionale, viceversa, significa innanzitutto definire la sua relazione con altri concetti. In presenza di un concetto relazionale come « potare » o « alto » non c è qualcosa di cui ha senso

Concetti che classificano referenti

Concetti che mettono in relazione referenti

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CAPITOLO 6 - Dalla parte del significato: il lessico

Parte II - La forma interna della lingua

chiedersi che cos è. Di un aggettivo o di un verbo isolato non ha senso dare una definizione; viceversa, possiamo definire le diverse relazioni che un aggettivo o un verbo intrattengono con diversi tipi di oggetti. Un aggettivo come fresco, per esempio, ha un significato diverso quan­ do è applicato al clima, al pane (per inciso, il pane fresco è caldo), al burro, al latte, a un viso... Un verbo come prendere funziona in modo diverso a seconda della natura del complemento oggetto: prendere il pane significa « comprarlo », prendere un bicchiere di vino significa «berlo », prendere una medicina significa « ingerirla», prendere il tre­ no significa «servirsene» o «riuscire a salirvi », prendere l ’autostrada significa «imboccarla»... Il caso di prendere una decisione è ancora diverso. 1 espressione in blocco significa più o meno «decidere» (si tratta di una « costruzione a verbo supporto » Jip§). Che senso avrebbe definire un aggettivo comqfresco o un verbo come prendere al di fuo­ ri di queste relazioni? Ognuna di queste relazioni ha un posto diverso nella struttura del lessico jfc$Ae|.

Polisemia e omonimia

6.3

Finora abbiamo parlato del significato dei lessemi come se ogni lesse­ ma avesse un solo significato. In realtà, nella maggior parte dei lessemi coesistono diversi significati. I termini relazionali dei quali abbiamo appena parlato —l’aggettivo fresco e il verbo prendere —sono esempi di lessemi con più significati; ma non è difficile trovarne anche tra i termini classificatori. Nel lessema ala, per esempio, coesistono molti significati diversi: -

-

La polisemia: più significati per una stessa parola

con ala possiamo designare in primo luogo una parte del corpo degli uccelli utilizzata per volare; per estensione, designiamo le parti dei velivoli artificiali che hanno una funzione analoga; un’ala è anche un’appendice laterale di un edificio o di uno schieramento (di un esercito in formazione o di una squadra in campo) e un individuo che occupa quella posizione; possiamo avere infine un’ala di un partito o di un movimento: una corrente i cui ideali e progetti si situano ai lati, o ai margi­ ni, dello schieramento principale.

Quando un lessema presenta diversi significati distinti diciamo che è polisemico (dal greco, propriamente «che ha più significati»); i di­ versi significati sono detti accezioni; nei dizionari le diverse accezioni di un lessema polisemico sono elencate all’interno di una stessa voce.

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La polisemia è un fenomeno che riguarda la maggior parte delle parole del lessico di una lingua, e quindi del dizionario che lo descrive. ----------------La polisemia si distingue dall’omonimia (dal greco, propriamente Ljomonimia: « stesso nome »), che è l’identità di due significanti che hanno ciascuno per par0|e un significato proprio. Quando c’è omonimia, ci sono due lessemi di- identiche_____ stinti (che nei dizionari costituiscono due voci autonome). Un esempio chiaro di omonimia è dato dalla parola foro·, questa parola fonologica nasconde due lessemi, ciascuno dei quali ha un significato autonomo. forol significa « buco »,foro2 significa «piazza principale di una città romana».

Box 6.1 - OMOFONI E OMOGRAFI All’interno dell’omonimia possiamo distinguere l’identità di significante fonico o omofonia (dal greco, propriamente «stesso suono») e l’identità di significante grafico o omografia (dal greco propriamente «stessa grafia»). In italiano si hanno pochissimi casi di omofoni non omografi, cioè distinti nella grafia. Il caso più tipico riguarda alcuni monosillabi pronunciati in modo identico ma distinti nella grafia per la presenza o l’assenza di accento grafico o di apostrofo: per esempio di (preposizione), di' (imperativo del verbo dire), dì (sinonimo di giorno). Si hanno alcuni casi di omografi distinti nella pronuncia in relazione alla posizione dell’accento e alla pronuncia delle consonanti e delle vocali. La forma ancora, per esempio, confonde nella grafia due lessemi distinti dall'accento nella pronuncia: àncora (attrezzo delle imbarcazioni) e ancóra (avverbio). La forma scritta foro rinvia a due lessemi che molte varietà dell’italiano distinguono nella pronuncia aperta o chiusa della vocale e: fóro come buco e fòro come piazza. La distinzione tra omografi e omofoni diventa importantissima nelle lingue come il francese o l’inglese, la cui grafia si discosta dalla pronuncia effettiva. Il francese, per esempio, e ric­ chissimo di omofoni che sono invece ben distinti nella grafia. Il caso limite è probabilmente il significante fonico francese / ver/ , a cui corrispondono cinque parole diverse, distinte nel significato e nella grafia: ver (verme), vers (verso), veri (verde), vair (grigio-azzurro), verre (ve­ tro, bicchiere); vers è, in piu, un esempio di omografia tra nome e preposizione, esattamente come l’italiano verso.

Davanti a una parola fonologica che presenta svariati significati, con che criteri decidiamo se abbiamo un caso di polisemia (un solo lessema con diversi significati) o di omonimia (lessemi distinti che hanno significanti casualmente identici ma significati distinti)? L’omonimia è un fenomeno che investe il significante: i significan­ ti di due parole distinte, con significati distinti, coincidono perfetta­ mente nel suono, nella grafia o in entrambi. Per questo, i significati di due lessemi omonimi non hanno nessun rapporto 1 uno con 1 altro. I significati del lessema forol (buco) eforo2 (piazza principale di una

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Parte II - La forma interna della lingua

città romana), per esempio, non hanno nessun rapporto: come due per­ sone che per caso si chiamano entrambe Giovanni Rossi. La polisemia, viceversa, è un fenomeno che investe il significato: il significato di una parola si estende e si ramifica in una confederazione di concetti interrelati. Le accezioni di un lessema polisemico appaiono imparentate e possono essere ricondotte Luna all’altra nella storia della lingua come nella coscienza dei parlanti. Le varie accezioni del lesse­ ma coda per esempio, possono essere riportate all’accezione principale («parte del corpo di un animale») per estensione analogica: una coda davanti allo sportello di una biglietteria o in autostrada ricorda nella forma la coda di un animale.

Tra polisemia e omonimia c’è una differenza funzionale profonda. L’omonimia è un fenomeno «patologico»: i significanti rinunciano al loro compito istituzionale di tenere distinti significati di­ versi. Per questo I omonimia è tollerata al di sotto di una certa soglia, ma la sua generalizzazione sarebbe la morte della lingua. La polisemia, viceversa, è un fenomeno «fisiologico», che permet­ te di estendere il patrimonio di significati senza moltiplicare i significanti, valorizzando la capacità di selezione dei contesti d’uso e le strategie di creatività concettuale condivise dagli utenti, in particolare le relazioni metaforiche e metonimiche. È quello che succede quando la parola a/a passa dall’ambito dell’anatomia degli animali all’aeronautica, all’architettura, al linguaggio dello sport e della politica. La polisemia, a differenza dell’omonimia, non è un fenomeno circoscritto a pochi casi isolati, ma - come abbiamo già detto - interessa la maggior parte delle parole. Alla radice della polisemia troviamo lo stesso meccanismo che entra in funzione nella creazione delle figure retoriche di contenuto, e in particolare della metafora (►41,31). L’uso della parola coda per designare la fila davanti a un botteghino si basa su un’operazione simile a quella che ha permesso a Pascoli di chiamare lagrime le gocce di pioggia (nella poesia II giorno dei morti): in entrambi i casi, una parola è trasferita in un ambito concettuale diverso da quello abituale per dare forma a un concetto nuovo attraverso un concetto conosciuto: la fila è vista come la coda di un animale, le gocce come lacrime. La differenza tra l’attribuzione di una nuova accezione a un lessema e i suoi usi figurati non è nel procedimento di creazione, ma nel valore dal punto di vista della lingua. Gli usi figurati vivi come versare il silenzio non modificano il significato delle parole. Le estensioni cristallizzate, accolte cioè dalla comunità dei parlanti e immesse nell’uso comune (pensiamo a versare una somma), si convertono invece in accezioni autonome, che coesistono con le altre accezioni di un lessema polisemico.

Box 6.2 - PAROLE E STORIA Nella loro dimensione storica, le parole possono essere studiate dal punto di vista dell’evo­ luzione del significante e del significato. Lo studio dell’origine (cioè della forma più antica cui si può risalire nella storia di una parola e del significato originario ad essa associato) prende il nome di etimologia.

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Dal punto di vista del significante, uno dei fenomeni caratteristici dell’italiano, almeno fino “ ecolo scorso, è rappresenta» dada polimorfla. ovvero la ricchezza di forme concorrenti (Chiamate «.danti gt.ffche) di una stessa parolai lacrima e lagrima giovar* e ciò e uffizio, dovrebbe e dovria. deggio e deODo 0 devo, duolo e doglia 0 dolore ecc. Oggi a maggior parte di queste varianti sono uscite dall'uso e sono considerate arcaismi, tenuti in vita solo dai testi letterari. Anche nell’italiano contemporaneo permangono pero coppie di varianti: si pensi a forme come ulivo e olivo, familiare e famigliare, obiettivo e o b b ie ttiv , Ri,o e cdiio, sopravalutare e sopravvalutare, sovrattassa e soprattassa, nonostante e ciò nonostante ecc. In alcuni casi le varianti si sono specializzate per ind ca referenti diversi: si pensi a doglia, che indica oggi solo il dolore del parto, oppure ai plur ossa (del corpo umano) e ossi (degli animali). Un altro fenomeno interessante è quello degli allotropi, ovvero due parole di forma diversa (e normalmente anche di significato diverso) derivate da una stessa parola latina secondo una diversa trafila: popolare, cioè per trasmissione ininterrotta dal latino all italiano e con processi di adattamento fonetico, oppure colta, cioè avvenuta in un secondo momento per effetto di un recupero da parte dei dotti e con maggiore fedeltà a„a forma latina Ecco alcun esempi: dal lat. discus sono derivate due parole italiane, il popolare desco e colto disco dal lat vitium il popolare vezzo e il colto vizio: dal lat. plebs il popolare pieve e il colto plebe. Q uest fenomeno è all’origine anche dei derivati da basi divergenti: ,’aggettivo cornspo dente a mese, per esempio, non è *mesl/e. come ci si aspetterebbe, ma mensile (dal lat. mensilis); l’aggettivo riferito a fiore è floreale ecc. Un fenomeno interessante è quello dei «latinismi latenti» (Burgassi e Guadagnmi, 201 ). s i , Γ . ™ parole oggi di uso comune, che in itaiiano antico erano invece rare e avevano Significati non sempre coincidenti con quelli odierni, li verde educare, per e s e m p i* » , usato come latinismo al posto del più comune nutricare: lo stesso dicasi per un agge facile (sii antichi preferivano dire agevole). Lo studio etimologico ci mette del resto di fronte a molte parole che, pur mantenendo stessa forma, hanno cambiato il loro significato: abbiamo già fatto l’esempio di doglia, un altro esempio è gentile, che in italiano antico voleva dire «nobile di nascita», eoe appar­ tenente a una famiglia importante (lat. gens) e solo in un secondo momento e passato a indicare un modo affabile di comportarsi con gli altri. Numerosissimi sono gli esempi di estensione metaforica del significato passato sono all’origine del fenomeno della polisemia (es. il nome della candela d, cera e passato anche a indicare un tipo di posizione ginnica, i, muco che cola da, naso, ,’umta di misura dell’intensità luminosa, una parte del motore a scoppio ecc.). *, — , invece, solo fa— sono collegati su, piano etimologico: un caso ,n cu. Ciò si verifica è quello della trasposizione, cioè del passaggio di una parola da una forma grammaticale all’altra: da verbo a nome (es. sapere > il sapere, vivere > ,1 vivere e , viveri , da aggettivo a nome (es. caldo > il caldo), da aggettivo ad avverbio (es. forte in parlare fort ), ecc. ►38.4

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Parte II - La forma interna della lingua

6.4

La struttura del lessico

Ogni lessema è un segno semplice, con un significante e un significato, o più precisamente una o più accezioni. Studiando il lessico ci interes­ siamo al significato dei lessemi. Nei dizionari, le parole sono elencate in ordine alfabetico per facilitare la loro ricerca. Casa, per esempio, viene dopo cartuccia e prima di casacca. Tuttavia, se vogliamo capire come è organizzato il lessico, non è alle relazioni tra i significanti che dobbiamo guardare, ma alle relazioni tra i significati. Dato il lessema casa, non ci interessa la vicinanza casuale tra i significanti grafici casa, cartuccia e casacca, ma la relazione tra il significato «casa» e i signi­ ficati «villa», «palazzo», «stamberga», «capanna»; tra «casa» e « edificio »; tra « casa » e « costruire », « demolire », « restaurare », « ri­ strutturare». Nel lessico, i significati dei lessemi si inseriscono in una rete ordinata di relazioni che cercheremo di ricostruire nei suoi aspetti essenziali. L idea che i significati ricevano un valore non solo dalla loro relazione con l’esperienza, ma anche dalle loro correlazioni con i significati concorrenti nel lessico della lingua è stata formu­ lata da Saussure (1916/1969). Per il concetto di «campo semantico», che analizzeremo nel prossimo paragrafo, si può rimandare a Trier (1931; 1932; 1934) e a Lyons (1963; 1977), che descrive i diversi tipi di correlazioni tra i valori all'interno dei campi semantici. Per un'introduzio­ ne generale alla semantica lessicale si vedano Cruse (1986; 2000) e Jezek (2011).

6.4.1 /

____________ i campi semantici

campi semantici

Il significato «casa» è delimitato dai significati «villa», «palazzo», «capanna», ma non da «fiore» o «farfalla». Non tutti i significati pre­ senti nel lessico si limitano a vicenda. Perché due o più significati si li­ mitino a vicenda, occorre che si situino all’interno di uno stesso ambito concettuale, che abbiano cioè una specie di massimo comun denomina­ tore. «Casa» è limitato da «palazzo» e «villa» perché tutti questi lesse­ mi rientrano in uno spazio concettuale comune, che comprende l’insie­ me delle costruzioni destinate all’abitazione stabile di esseri umani. I significati che si spartiscono un determinato spazio concettuale formano un campo semantico. Le parole che compongono un campo semantico hanno una base concettuale comune su cui si innestano diffe­ renze specifiche, caratteristiche di ogni singola parola. I verbi bisbiglia­ re, gridare, urlare si dividono, insieme ad altri verbi, uno spazio con­ cettuale comune delimitato dal significato di parlare. Si differenziano perché ognuno di essi arricchisce e modifica in modo specifico questo massimo comun denominatore: bisbigliare significa «parlare sommes­ samente », gridare « parlare forte » e urlare « parlare fortissimo ».

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CAPITOLO 6 - Dalla parte del significato: il lessico

I significati di un campo semantico formano un paradigma: si escludono cioè a vicenda, e la specificazione di uno dei valori esclude la specificazione dei suoi concorrenti. Tra ι valori di un paradigma va­ le la relazione o...o. Un certo animale, per esempio, o è un cane, o e un gatto, o è un coniglio, e così via. La relazione paradigmatica, di for­ ma o... o, si distingue dalla relazione sintagmatica, di forma e... e. Mentre i valori di un paradigma si escludono a vicenda, ι valori di un sintagma si combinano per formare una struttura. Data una struttura come mela matura, per esempio, mela e matura sono in relazione sin­ tagmatica, perché concorrono a formare una stessa struttura, mentre mela,pera,pesca... da un lato, matura e acerba dall’altro, sono in cor­ relazione paradigmatica.

Relazioni paradigmatiche e sintagmatiche

6.4.2 Opposti e contrari

I significati dei lessemi appartenenti a uno stesso campo sono necessa­ riamente in relazione tra loro. Vediamo le relazioni più importanti os­ servando paradigmi di aggettivi. . . Diciamo che due termini si oppongono quando isolano ι punti estre­ mi di un’area concettuale. Nell’area della vita, per esempio, vìvo e mor­ to sono le due opzioni estreme. I due termini si oppongono in quanto un individuo non può essere nello stesso tempo vivo e morto. In piu tra due termini come vivo e morto c’è un’opposizione esclusiva e totale, un individuo non può che essere vivo o morto; non esiste una terza possibilità; i due termini vengono definiti opposti o complementari. Due aggettivi come caldo e freddo si oppongono nel senso che definiscono due valori antitetici: un liquido, per esempio, non può es­ sere allo stesso tempo caldo e freddo. Tuttavia, questa opposizione non è esclusiva: un liquido può essere né caldo né freddo, ma tiepido \ clima può essere né caldo né freddo ma mite, e cosi via. Caldo efreddo sono i due poli di una serie continua. Sulla dimensione del calore non abbiamo, come accade invece per la dimensione della vita, due termini che si oppongono senza possibilità intermedie, ma una sene di termini che formano una scala graduata. L’opposizione fra ι termini po ari (caldo efreddo) è mitigata da un concetto intermedio (ftepi^.Inoltte, abbiamo diverse gradazioni di caldo (torrido, afoso) e di freddo (fre­ sco, gelido). Tra due termini come caldo e freddo^ c’è un opposizione graduata; i due termini vengono definiti contrari o antonimi.

Opposizioni esclusive: gii opposti

Opposizioni graduate: i contrari

L'opposizione tra due concetti può essere graduata anche se nel lessico non esiste un valore intermedio. Tra bello e brutto, per esempio, non c’è un valore intermedio paragonabile a t/ep/do. Eppure, ci rendiamo conto che bello e brutto sono i due poli di una sene continua: unapersona può essere né bella né brutta; possiamo immaginare tantissime gradazioni d, bellezza e di brut-

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tezza, ed è questa proprietà che ci permette di dire, per esempio, che una persona è più bella di un’altra. Alcune coppie di aggettivi esprimono i due valori estremi di qualità misurabili con un metro non assoluto, ma relativo ai referenti a cui si applicano. Tra grande e piccolo, giovane e vecchio, alto e basso, per esempio, esiste un’escursione variabile a seconda dei nomi a cui si applicano. Un grande villaggio è più piccolo di una piccola città; un piccolo elefante è già un grande animale, certamente più grande di un grande gatto.

6.4.3 Sinonimi La relazione di sinonimia

Denotazione e connotazione

Due o più termini sono sinonimi quando la differenza tra i loro signifi­ cati è talmente piccola che sembrano perfettamente intercambiabili: per esempio mormorare, sussurrare e bisbigliare-, sveglio e desto-, ca­ po e testa-, foro e buco-, gatto e micio. Tra il significato di due parole, tuttavia, non c’è mai una coinciden­ za perfetta. Consideriamo il caso di testa e capo: entrambi designano l’estremità di un corpo e, per analogia, l’estremità e la parte più impor­ tante di oggetti e organismi vari. Negli usi estesi, però, le due parole si dividono i compiti; testa si è specializzata per l’informazione «estre­ mità», mentre capo si usa quando si vuol sottolineare l’importanza o la preminenza: abbiamo così la testa del treno o di un ponte e il capo di una squadra, di un cantiere o di un ufficio. Analogamente, possiamo dire che c’è un buco nel bilancio di una ditta, ma non diremmo mai che c’è un foro. I sinonimi non sono lessemi con significato uguale, ma lessemi che presentano una differenza di significato molto piccola. Uno dei criteri di differenziazione più importanti tra sinonimi rientra in quella funzio­ ne del linguaggio che viene chiamata funzione espressiva. Quando scegliamo le parole, ci preoccupiamo non solo di designare correttamente gli oggetti; talvolta vogliamo anche far trasparire il nostro atteg­ giamento emotivo verso gli oggetti. I lessemi micio e gatto, per esem­ pio, sono entrambi adatti per designare un gatto; tuttavia micio si di­ stingue da gatto perché, oltre a designare l’animale, segnala i senti­ menti del parlante nei suoi confronti. La parola gatto ha una funzione esclusivamente denotativa (si limita cioè a riferirsi all’animale), men­ tre micio ha in più una funzione connotativa: al di là della designazio­ ne di un oggetto, è in grado di evocare la disposizione affettiva ed emotiva di chi parla.

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CAPITOLO 6 - Dalla parte del significato: il lessico

Parte II - La forma interna della lingua

Box 6.3 - I GEOSINONIMI Un caso particolare di sinonimi è rappresentato dai cosiddetti geosinonimi o sinonimi re­ gionali: parole diverse che si riferiscono a uno stesso oggetto, usate in varietà geografie e diverse dell’italiano. L’oggetto di legno che usiamo per appendere gli abiti e chiamateirne*to o appendiabiti nel Nord, gruccia in Toscana e stampella o croce nel Centro-Sud, H pezzo di tessuto che si usa per lavare I pavimenti è chiamato straccio a Nord e nel Centro-Sud, cencio in Toscana; il luogo in cui vengono sepolti i morti viene chiamato cimitero nel Centro-No d camposanto ai Sud; il padre viene chiamato affettuosamente papa nelle maggior parte deHe regioni italiane, ma babbo in Toscana e in altre regioni del Centro. Babbo costituisce anche un esempio di geoomonimo, cioè di parola usata con la stessa forma ma con significato di­ verso a seconda delle regioni: in Sicilia, infatti, babbo è un aggettivo sinonimo di .stupido». Un altro esempio di geoomonimo è dato dal verbo chiamare, che in Piemonte può voler dire «chiedere» (es. chiamare il conto). I geosinonimi sono molto abbondanti in ambiti della vita materiale come i nomi dei cib (p esempio dei pesci, di alcuni frutti, della pasta, dei dolci) e dei mestieri tradizionali (come il falegname o l’idraulico).

6.4.4 / conversi e la relazione di parafrasi

___________ _

I lessemi conversi sono termini a prima vista opposti; se però li satana- i conversi---------mo in modo adeguato, possono designare due processi equivalenti. Comprare e vendere disegnano una relazione che comprende due in ìvidui - il compratore e il venditore - e un oggetto scambiato. Basta invertire i ruoli degli individui messi in relazione per poter esprimere la stessa transazione sostituendo i verbi. Le frasi la e lb descrivono esattamente lo stesso scambio: la . Giorgio ha venduto la moto a Paolo. lb . Paolo ha comprato la moto da Giorgio.

Anche tra i concetti classificatori troviamo coppie di conversi: un padre, per esempio, si caratterizza per la sua relazione con un figlio e un figlio si caratterizza per la sua relazione con un padre. Per questo le frasi 2a e 2b descrivono la stessa relazione: 2a. Paolo è figlio di Remo. 2b. Remo è padre di Paolo.

La disponibilità di coppie di conversi è sottomessa ai capricci del lessico. Così, esistono due conversi di dare (prendere e ricevere) ma nessuno di prestare (e si supplisce con farsi prestare o prendere a prestito). Qualche volta, addirittura, uno stesso verbo può esprimere una relazione

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CAPITOLO 6 - Dalla parte del significato: il lessico

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e il suo converso: affittare, per esempio, significa sia «dare in affitto» che «prendere in affitto». Naturalmente, i due significati avranno costruzioni diverse. Il lessico è pieno di simili lacune, asimmetrie e doppioni. Le lingue si differenziano molto per quel che riguarda la disponibilità di conversi. In francese e in inglese, per esempio, esistono verbi distinti per «dare» e «prendere a prestito»: rispettivamente prètere emprunter, lend e borrow. Per «dare in affitto» e «prendere in affitto» abbiamo un solo termine in francese, louer, e due termini in inglese (/et e reni) e in tedesco (vermieten e mieter)).

Tra i processi costruiti intorno a due termini conversi si ha una re­ lazione di parafrasi (dal greco, propriamente «frase vicina»): 3a. Giorgio ha venduto la moto a Paolo. 3b. Paolo ha comprato la moto da Giorgio.

La parafrasi è una relazione simile alla sinonimia. Si parla di para­ frasi per i significati complessi delle frasi come si parla di sinonimia per i significati lessicali. Come la sinonimia, la parafrasi non è un’i­ dentità di significato, ma una somiglianza più o meno grande accom­ pagnata da differenze relativamente trascurabili. Nel nostro caso, la struttura del processo - la distribuzione dei ruoli tra i referenti - è la stessa, ma cambiano il suo orientamento e la gerarchia dei ruoli. Tutte le frasi che cambiano la prospettiva di un processo senza incidere sulla sua struttura portante sono in relazione di parafrasi |m 7.2.6!·

6.4.5 Significati generici e significati specifici: iperonimia e iponimia Tutti i lessemi di un campo semantico condividono una parte di signi­ ficato comune, che qualche volta coincide con il significato di una pa­ rola. La pervinca e il garofano, per esempio, hanno in comune il fatto di essere fiori; il significato della parola fiore coincide cosi con ciò che tutti i diversi tipi di fiore hanno in comune:

cato più generale, garofano e pervinca hanno significati piu specifici. Parallelamente, fiore è adatto a designare un numero di oggetti mag­ giore rispetto a pervinca e a garofano: tutti 1 garofani e le pervinche, infatti, sono fiori, ma non tutti i fiori sono garofani o pervinche. I ter­ mini più specifici vengono chiamati iponimi (dal greco, propriamente «nome che sta sotto») del termine più generale. Il termine più generale è chiamato invece iperonimo (dal greco, propriamente «nome che sta sopra»). Tutti i coiponimi di uno stesso termine iperonimo formano un campo semantico. . .. La relazione di iponimia coinvolge anche i concetti relazionali. «Carminio», «cremisi», «scarlatto» sono iponimi di «rosso»; «mor­ morare», « sussurrare», « gridare» sono iponimi di «parlare». La relazione tra iperonimi e iponimi mostra che il lessico ha una struttura gerarchica.

Iponimi e iperonimi

6.4.6 Solidarietà lessicali

______

Le relazioni che abbiamo analizzato finora coinvolgono parole che non Lejeiaziom compaiono insieme nel testo, ma che possono essere sostituite 1 una ----------all’altra: si tratta di relazioni di tipo paradigmatico. Le solidarietà les­ sicali, viceversa, si stabiliscono tra parole simultaneamente presenti nella stessa espressione: si tratta di relazioni di tipo sintagmatico o combinatorio. Le restrizioni che limitano la combinazione tra un termi­ ne relazionale, tipicamente un verbo o un aggettivo, e un argomento, tipicamente una classe di nomi, sono chiamate solidarietà lessicali Un buon esempio è fornito dai versi degli animali. Ogni volta che sentiamo il verbo abbaiare non possiamo non pensare a un cane; mia­ golare invece ci fa pensare a un gatto, nitrire a un cavallo, belare a una pecora. Tra il verso, per esempio abbaiare, e la specie animale, per esempio i cani, c’è solidarietà lessicale. Alcune solidarietà lessicali si ritrovano abbastanza simili nelle diverse lingue: e il caso dei versi degli animali. Altre, possono essere molto specifiche e imprevedibili. In tedesco, per esempio, come abbiamo già visto, sia essen che fressen traducono il verbo mangiare, ma hanno solida­ rietà lessicali diverse: essen si usa con gli esseri umani, fressen con gli ammali. In olandese, il

FIORE rosa

Fig. 6.1

garofano

tulipano

pervinca

viola

verbo soffiare si traduce con un verbo specializzato quando ha come oggetto il naso.

Iperonimia e iponimia

Come appare dallo schema, tra i significati «pervinca» e «fiore» non c’è la stessa relazione che c’è tra «pervinca» e «garofano», «ro­ sa», «tulipano», «viola». «Pervinca» si oppone a «garofano», «ro­ sa», «tulipano», ma, come loro, contiene « fiore»: fiore ha un signifì-

Le diverse accezioni di un lessema polisemico hanno solidarietà lessicali diverse ed entrano in relazioni lessicali diverse. Detto del cli­ ma, fresco si oppone, su due versanti, a caldo e freddo-, detto del pane, si oppone a raffermo-, detto del burro, si oppone a rancido-, detto del latte si oppone, secondo il contesto, a avariato 0 a conservato-, detto di

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Parte II - La forma interna della lingua

un viso, o è sinonimo di giovanile e si oppone a sciupato, avvizzito, o è sinonimo di naturale, e si oppone a truccato, artefatto. Duro è sinoni­ mo di raffermo quando è detto del pane, ma di severo o addirittura di spietato se è detto di una persona (un padre duro sarà probabilmente severo, un bandito duro sarà probabilmente spietato). Di nuovo, ci ren­ diamo conto che la polisemia dei lessemi relazionali è correlata non solo alla loro appartenenza a paradigmi diversi, ma anche alla loro di­ sponibilità a ricevere argomenti diversi.

• parole di alta disponibilità: altre 2.500 parole indispensabili nella comunicazione, (es. abbastanza, grazie, dispari, freddo, aceto, applauso, autobus, barbiere, bolletta, forfora, forbice, geometria, annusare, copiare, divorziare, emozionare ecc.). Si tratta di parole che compaiono meno spesso nei testi, ma che sono sentite dai parlanti come aventi una disponibilità pari o perfino superiore ai vocaboli di maggior uso; sono ricavate da indagini effettuate sul campo. • parole di alto uso: 2.937 parole circa, note a chi abbia almeno un livello medio di istruzione (es. benché, tranne, talvolta, ovvero, arrivederci, voialtri, agenzia, autostrada, biblioteca, cioccolata, desiderio, scoperta, bollire, commentare, eliminare, esclamare, ras­ somigliare, abile, amaro, antipatico, anziano, costoso, laico, ecc.). E stato calcolato che

Le solidarietà lessicali sono state studiate da Porzig (1934) e Coseriu (1967). Le solidarietà

coprono il 6% circa dei nostri testi e discorsi.

lessicali non devono essere confuse con le condizioni di coerenza, chiamate «restrizioni di selezione» a partire da Chomsky (1965). Le solidarietà lessicali sono restrizioni combinatorie specifiche di una lingua data, che tracciano confini all’interno dei concetti coerenti, mentre le condizioni di coerenza sono condivise da tantissime comunità linguistiche, forse da tutte, e stabiliscono quali concetti sono coerenti. Il fatto che per il verso delle cicale la lingua italiana abbia un verbo speciale (frinire) è un dato del lessico italiano, che si basa su una relazione con­

103

Al vocabolario di base vanno ad aggiungersi circa 30.000 parole, note a chi abbia un livello medio-alto di istruzione, che formano il cosiddetto vocabolario comune e coprono il restante 8% dei nostri testi discorsi. Nel loro insieme, vocabolario di base e vocabolario comune for­ mano il vocabolario corrente, al di là del quale si collocano le parole appartenenti ai lessici

verla. Se trasgrediamo una condizione di coerenza, viceversa, ci rendiamo conto che non esiste

di specialità ►6.7 . Le parole più frequenti in una lingua sono tendenzialmente quelle piu stabili nel tempo e attraverso le generazioni. Tuttavia, i forti cambiamenti avvenuti nella società italiana negli ultimi decenni hanno reso opportuno un aggiornamento del vocabolario di base. Nel Nuovo vocabolario di base (De Mauro e Chiari, 2016), a parità di unità, parecchie centinaia di pa­ role sono uscite dal vocabolario di base perché meno usate che in passato, e sono entrate altrettante parole che in passato o erano meno usate (è il caso di molte parole volgari) o

una formulazione linguistica corretta, perché la lingua traccia le sue frontiere lessicali all’interno

addirittura assenti (per esempio web).

cettuale coerente preventivamente acquisita: le cicale, a differenza delle pietre, emettono un verso caratteristico. Se trasgrediamo una solidarietà lessicale, è possibile una riformulazione corretta: se qualcuno mi dice che un gatto frinisce, posso sempre correggerlo: un gatto miagola. Questo perché la lingua fornisce, per ogni esperienza coerente, le parole appropriate per descri­

dei concetti coerenti e non fornisce le parole per descrivere concetti incoerenti: di fronte all’af­ fermazione che La luna sorride, per esempio, ci rendiamo conto che non si tratta di un semplice scambio di lessemi, ma di un concetto inconcepibile. Per questo una frase come La luna sorride rimane incoerente anche se la traduciamo in un’altra lingua (cfr. Prandi, 2004: cap. 7).

Box 6.4 - LE PAROLE FONDAMENTALI DELL’ITALIANO L analisi dei rapporti paradigmatici e sintagmatici tra le parole ci aiuta a comprendere in che modo le parole si richiamano tra di loro e in che modo si amplia, per aggiunte successive, il nostro vocabolario (cioè l’insieme di parole effettivamente usate da un parlante o da una comunità linguistica, che costituisce un sottoinsieme del lessico di una lingua). Si deve a Tullio De Mauro l'elaborazione del cosiddetto vocabolario di base (De Mauro, 1980), cioè una lista che comprende le parole condivise da tutti i parlanti della nostra co­ munità linguistica: si tratta di circa 7.500 parole, che possono essere considerate le più frequenti dell’italiano, cioè quelle che ricorrono più spesso nei nostri testi scritti e parlati. Si articola al suo interno in: parole fondamentali: circa 2.000 parole frequentissime (come a, basta, bene, e, il, io, vivere, bello, casa) che, da sole, coprono l’86% dei nostri discorsi e dei testi che scriviamo quotidianamente; sono ricavate dall’analisi statìstica di un campione di testi di una lingua;

6.5

Espressioni complesse che valgono come parole, polirematiche ed espressioni idiomatiche

Il significato complesso di un’espressione complessa conserva, in ge­ nere, i significati delle parole che la compongono: il suo significato è composizionale. Il significato di un’espressione comspanino al pro­ sciutto, per esempio, esprime una relazione tra i significati di panino e prosciutto-, lo stesso vale per un’espressione come avere una casa in montagna, che conserva i significati di avere, di casa e di montagna. Ci sono però anche espressioni complesse il cui significato non è desu­ mibile dal significato delle singole parole che le compongono. Un’espressione come sedia a rotelle, per esempio, non indica qual­ siasi sedia dotata di rotelle, ma un particolare oggetto che permette ai disabili di spostarsi. Tuttavia, può ancora essere definita un tipo di se­ dia. Espressioni come avere il vento in poppa si comportano in modo ancora diverso. Avere il vento in poppa significa più o meno « essere in un momento favorevole». Nel suo significato non c è traccia del signi-

104

Espressioni polirematiche e idiomatiche

ficaio di vento e di poppa; quindi, deve essere imparato come se fosse il significato di una parola sola, e per questo l’espressione si trova nel dizionario come se fosse un singolo lessema. Le espressioni complesse come sedia a rotelle, che funzionano dal punto di vista del significato come lessemi singoli, sono chiamate polirematiche (dal greco «più parole»). Quelle che hanno un significato imprevedibile a partire dalle singole parole che le formano - le espressioni come avere il vento in poppa, vuotare il sacco, piantare in asso, stare fresco, patata bollente ecc. - sono chiamate espressioni idiomatiche. Anche dal punto di vista sintattico, le polirematiche, a differenza di altri tipi di espressioni complesse, tendono a formare un unico blocco, che si caratterizza per la fissità dei costituenti. Posso dire panino al prosciutto, ma anche al salame, con la mortadella ecc.; posso dire inoltre panino piccolo al prosciutto. Nel caso di sedia a rotelle, invece, non posso né cambiare i costituenti (i due nomi e la preposizione che li lega) né inserire un aggettivo aH’intemo dell’espressione (dirò pertanto sedia a rotelle elettrica'). L’esistenza di lessemi polirematici riguarda tutte le parti del discor­ so, anche se le classi più numerose sono quelle dei nomi e dei verbi. Il significato delle espressioni idiomatiche non ha rapporto con il significato delle singole parole, ma nella maggior parte dei casi ha una relazione trasparente, metaforica o metonimica [Mi.3|, con il significato composizionale dell’espressione. Per un navigatore a vela, per esem­ pio, avere il vento in poppa implica essere in condizioni di navigazione ideali: la relazione è metonimica. Se poi dall’ambito della navigazione passiamo alla vita, grazie a un concetto metaforico condiviso come « la vita è un viaggio», arriviamo al significato idiomatico dell’espressio­ ne: « essere in un momento favorevole ». Ci sono però anche espressio­ ni idiomatiche divenute opache perché si è persa memoria della loro motivazione. Portare il soccorso di Pisa, per esempio, vuol dire aiuta­ re qualcuno quando è troppo tardi. L’espressione allude certamente a un fatto storico, ma non si sa più nemmeno se i pisani, nell’episodio al quale l’espressione allude, siano stati soccorsi tardi o abbiano dato il loro aiuto in ritardo. La cosa interessante è che, una volta che sappiamo il suo significato, un’espressione idiomatica funziona benissimo anche se è opaca.

Queste combinazioni sono state trascurate sinora dalla grammatica perché considerate «ecce­ zioni» imprevedibili (nonché ostacoli alla traduzione). Le combinazioni lessicali sono diventate tuttavia negli ultimi decenni oggetto di opere lessicografiche apposite (dizionari delle colloca­ zioni, dei modi di dire ecc.) [Pìì ìó x b J

I · A partire

dagli anni Ottanta, inoltre, un gruppo di linguisti

cognitivisti statunitensi ha sviluppato un modello definito «grammatica delle costruzioni» (Con-

105

CAPITOLO 6 - Dalla parte del significato: il lessico

Parte II - La forma interna della lingua

struction Grammar) che rivaluta il ruolo delle combinazioni fisse anche in prospettiva grammaPer un’introduzione sintetica ai problemi dell’idiomaticità si veda Gross (1996). Sui concetti metaforici che motivano le espressioni idiomatiche, cfr. Casadei (1996). Per una introduzione alla grammatica delle costruzioni cfr. Masini (2017).

6.6

I prestiti

In un mondo nel quale la circolazione di idee e oggetti non conosce frontiere, il prestito linguistico assume un’importanza crescente. Il pre­ stito è un fenomeno complesso, nel quale la spinta della parola stranie­ ra a entrare nell’uso è contrastata dalla tendenza della lingua d’arrivo ad assimilarla alle proprie strutture grammaticali e fonologiche. Gli esiti di questo conflitto sono molto diversi. Ci sono parole che sono ormai entrate nel lessico italiano mantenendo nell’essenziale la loro forma. Bar e sport, per esempio, fanno ormai parte del lessico standard dell’italiano; lo stesso vale per i più recenti computer o tablet. Tuttavia, saranno sempre riconosciute come corpi estranei rispetto ai lessemi autoctoni. Queste parole sono chiama­ te prestiti integrali. All’estremità opposta della scala ci sono parole che sono state completamente assimilate alla struttura dell’italiano. Si tratta di presti­ ti integrati. La parola canguro, per esempio, ha una forma tipicamente italiana, e nasconde perfettamente la sua origine dall’inglese kangaroo, a sua volta preso a prestito da una lingua indigena australiana.^ ^ Tra i due estremi abbiamo una gamma ricchissima di prestiti adat­ tati, per i quali possiamo immaginare vari gradi di adattamento. Ca­ mion, per esempio, mantiene la grafia francese ma adatta la pronuncia, senza però mascherare la sua origine straniera. Chimono, viceversa, adatta anche la grafia: la lettera k della translitterazione standard del giapponese è sostituita dal gruppo eh (ma è diffusa anche la grafia ki­ mono). Settore adatta la morfologia, aggiungendo al verbo inglese set la desinenza italiana, che permette di coniugarlo; chattare adatta la morfologia ma non la pronuncia. Si ha un calco quando, invece di una parola, si prende a prestito uno schema di costruzione, riempiendolo di materiale autoctono. An­ che i calchi possono essere adattati in misura variabile alla struttura della lingua di arrivo. Per esempio l’inglese skyseraper (letteralmente cielo-grattatore) dà il francese gratte-ciel e l’italiano grattacielo, nei quali l’ordine originale è capovolto per essere adattato alla lingua di arrivo. L’italiano ferrovia, viceversa, riproduce l’ordine originale

——----- — Tipi c!^^st,tl -------------

------ — (calchi____

106

Parte II - La forma interna della lingua

dell’inglese railway e del tedesco Eisenbahn, mentre il francese chemin defer e il romancio viafer adattano anche l’ordine dei componenti. Il prestito è un fenomeno comune, in misura più o meno ampia, a tutte le lingue e a tutte le epoche storiche. L’italiano contemporaneo accoglie con grande facilità prestiti da lingue straniere, in particolare dall’angloamericano (come in passato dallo spagnolo o dal francese), mantenendone inalterata la grafia (ma spesso adattandone la pronun­ cia); a differenza che in passato, inoltre, oggi i prestiti non sono solo di necessità, legati cioè all’introduzione di nuovi oggetti o concetti, ma anche di lusso, legati cioè a ragioni di prestigio linguistico: si spiegano così coppie di sinonimi come manager e dirigente, capo e leader, outlet e spaccio.

6.7

Le terminologie specialistiche

Strategie di arricchimento terminologico

I lessici di specialità

Una lingua naturale dà forma a concetti di lungo periodo tracciando frontiere lessicali specifiche e relativamente stabili nel tempo. Per for­ mare questo patrimonio, la lingua ha impiegato secoli, con un processo talmente lento che il parlante nemmeno lo percepisce. Ci sono però ambiti nei quali la lingua non riesce a modellare l’esperienza con i suoi tempi, ma deve rincorrere un sistema di concetti e oggetti in rapida formazione, magari provenienti da un ambiente linguistico diverso. Si tratta dei settori tecnici o specialistici, in cui fioriscono le termi­ nologie o lessici di specialità ovvero gli insiemi di termini propri di quel settore in particolare. Questi termini (soprattutto nomi, semplici o complessi) servono a individuare nel modo più neutro e diretto possi­ bile oggetti o concetti molto specifici e riconoscibili indipendentemen­ te; tendono perciò a essere monosemici, puntano cioè a un legame univoco tra significante e significato, garantito dalla condivisione da parte di un gruppo di utenti specializzato, che forma un sottoinsieme della comunità linguistica. Le diverse nomenclature (per esempio quella medica, economica, giuridica, informatica, ecc.) formano sottoinsiemi speciali del lessico di una lingua. Nei lessici di specialità sono molto frequenti i prestiti. Pensiamo al lessico del computer. Il computer nasce in una società dove si parla inglese. Inoltre, l’inglese è la lingua dominante della scienza e della tecnologia, la lingua più usata nella diffusione commerciale dei pro­ dotti e la lingua parlata dal maggior numero di potenziali clienti. In una situazione del genere l’italiano, collocato al margine di tutto il proces­ so, non ha letteralmente il tempo di aggiornare il suo vocabolario. I parlanti, che non trovano nella loro lingua le parole di cui non possono

CAPITOLO 6 - Dalla parte del significato: il lessico

107

fare a meno, finiscono così con l’usare le parole disponibili sul merca­ to, cioè le parole inglesi. Parole come computer, desktop, file, web, chat, sono normalmente usate dai parlanti dell’italiano, ma la loro ve­ ste fonetica tradisce la loro origine esotica: si tratta di prestiti. Il prestito non è l’unica strategia di cui una lingua si può servire per rispondere alla domanda pressante di nuove parole in tempi rapidi. Un’altra strategia è l’estensione metaforica del significato di parole già disponibili. Se osserviamo le parole inglesi citate, ci rendiamo con­ to che sono quasi tutte metafore: desktop indica scrivania e web la rete, in un’accezione già usata nel lessico delle telecomunicazioni. La poli­ semia è un’alternativa efficace alla creazione di parole nuove. Anche le parole italiane sito o navigare hanno subito un simile processo di estensione semantica. Più rare le neoformazioni, ovvero le parole formate all interno di un sistema linguistico attraverso meccanismi come la derivazione e la composizione: un esempio recente è rappresentato dall inglese blog, contrazione di web-log, ovvero « diario in rete ». Le lingue di specialità contengono numerose sigle. Tutti conoscia­ mo sigle come RAI, ONU, AIDS. Le sigle nascono come abbreviazioni di termini descrittivi complessi e ingombranti (per esempio Organizza­ zione delle Nazioni Unite), ma diventano ben presto termini autonomi, di cui spesso si ignora l’origine. Chi, per esempio, ricorda che cosa si nasconde dietro la sigla RAI? Le sigle sono molto diffuse in ambito informatico: pensiamo solo a cd, dvd, ram, adsl ecc. Sulle lingue di specialità e la terminologia, si vedano Cabré (1998; 2000 e 2003), e, in italiano, Cortelazzo (1994) e Gualdo e Telve (2012). Sul prestito, si veda Gusmani (1986).

Box 6.5 - I GERGHI Il particolare tipo di linguaggio usato in certi ambienti (per esempio quello medico o burocra­ tico) è chiamato spesso gergo, con allusione al carattere oscuro della terminologia. A rigore, per g e r g o si intende in linguistica un tipo di linguaggio usato dai membri di un gruppo (tipicamente vagabondi, professionisti ambulanti, malviventi, appartenenti a sette religiose o politiche) allo scopo di rafforzare la propria identità di gruppo e, in alcuni casi, di non farsi capire dagli estranei. 1 gerghi sono fondati su trasformazioni convenzionali delle parole (spesso basate sull’estensione metaforica) e sull'inserimento di parole nuove. Alcuni esempi del gergo carcerario: a r g o m e n t o «arma», b e lla «evasione», c o n f e t t i «pallottoe», e r b a «ergastolo» ecc. Viene considerato un gergo anche quello giovanile, caratterizzato da una grande variabilità temporale (termini in uso trent’anni fa, come m a t u s a , s o n o oggi caduti in disuso; l’esclamazione s c ia lle è invece di diffusione recente) e spaziale (si pensi ai nume­ rosi sinonimi regionali dell’espressione

m a r i n a r e la s c u o la ) .

108

CAPITOLO 6 - Dalla parte del significato: il lessico

Parte II - La forma interna della lingua

Le definizioni

6.8

Strategie di definizione lessicale

Lo scopo di una definizione consiste nell’esplicitare il significato di un lessema, o, più spesso, nel caso di lessemi polisemici, delle sue acce­ zioni. Il significato di un lessema è un concetto e, come tale, fa parte di una rete nella quale entrano non solo altri significati linguistici ma, più in generale, altri concetti. La definizione, in un certo senso, cerca di portare alla luce questa rete di relazioni, in parte interne alla lingua, e in parte esterne, riportando il concetto da definire ai concetti dati per noti con i quali entra in contatto. Ogni definizione fa leva, con un dosaggio che varia in linea di principio da lessema a lessema, in parte sulla rete di relazioni con altri significati aH’intemo della lingua, e in parte su un patrimonio di con­ cetti e di oggetti accessibili all’esperienza del parlante. Osserviamo qualche esempio di definizione e commentiamo gli elementi che la compongono. Pialla: strumento da falegname, formato da uno scalpello inclinato in­ cassato in un ceppo di legno; serve per spianare o lisciare le superfiei di legno.

-

-

-

strumento : è un iperonimo di pialla, che situa il lessema nel suo campo. Siamo all’intemo della struttura del lessico italiano, e facciamo leva su ciò che sappiamo delle parole. Le informazioni che seguono, viceversa, ci portano fuori dal lessico, e fanno leva sulla struttura di un’esperienza esterna facilmente accessibile; da falegname: informazione su chi usa lo strumento; formato da uno scalpello inclinato, incassato in un ceppo di legno: descrizione di un esemplare tipico dell’oggetto (il ceppo potrebbe essere anche di metallo o di plastica). serve per spianare o lisciare le superfiei le legno: funzione del­ lo strumento. Nella descrizione degli strumenti, e in generale degli oggetti artificiali, la funzione è il dato costante, che defi­ nisce l’identità dell’oggetto. È la funzione, per esempio, che ci porta a chiamare pialla uno strumento dal ceppo di metallo o di plastica invece che di legno.

109

Freddo: che comunica una sensazione contraria a quella del caldo.

Una definizione tutta interna al lessico, tuttavia, sarebbe una tauto­ logia, in grado solo di esplicitare le relazioni formali tra lessemi. Se la burla è un tipo di scherzo, che cos’è uno scherzo? Se il freddo è l’op­ posto del caldo, che cos’è il caldo? In altre parole, c è un momento in cui qualsiasi definizione deve abbandonare la struttura interna del les­ sico di una lingua per confrontarsi con un’esperienza condivisa. La definizione dei termini relazionali, ovviamente, tiene conto dei concetti che entrano nella relazione. La definizione di un verbo, per esempio, si appoggia in primo luogo alla caratterizzazione del tipo se­ mantico degli argomenti (persona, oggetto naturale, artefatto, evento, luogo). Nella seguente definizione, la relazione con il soggetto rimane implicita: Saltare: sollevarsi di slancio da terra rimanendo per un attimo con entrambi i piedi privi di appoggio e ricadendo poi sul punto di partenza 0 poco più lontano.

Non così in abbaiare, che si dice dei cani, o mietere, che significa tagliare il grano. . . . 1 verbi polisemici prendono argomenti appartenenti a tipi concet­ tuali diversi per ogni accezione. Maturare si applica ai frutti, e, meta­ foricamente, alle persone in fase evolutiva, o a concetti astratti come progetti o idee: siamo in presenza di tre accezioni diverse. Per definire un processo O D può essere essenziale riferirsi non solo ai protagoni­ sti, ma anche a ruoli periferici o marginali o addirittura alle circostan­ ze. Avvitare significa serrare, fermare con viti (strumento), salare si­ gnifica trattare un cibo console per dargli sapore o per conservarlo (strumento e fine); lessare significa cuocere nell’acqua (luogo). Analizzando la definizione di pialla, ci siamo resi conto di un altro problema che interessa i con­ cetti che classificano oggetti concreti: gli oggetti che raggruppiamo - le pialle, le case, i pesci, gli uccelli - sono molto diversi tra di loro, e un concetto che permettesse di includerli tutti sarebbe talmente povero da non dirci nulla di interessante sugli oggetti stessi. Pensiamo agli uccelli: è difficile pensare a un uccello senza pensare al volo. Ora, ci sono uccelli, come gli struzzi, i

Ci sono casi nei quali la definizione sembra tutta interna al lessico, basata cioè su sinonimi: Burla: scherzo, specialmente non maligno e offensivo

pinguini e i tacchini, che non volano. Ma se per fare posto a questi ultimi eliminiamo il volo dalla definizione, il concetto di uccello si impoverisce in misura non tollerabile. Su questo problema hanno riflettuto, prima dei linguisti, gli psicologi cognitivi, che sono interessati a come gli esseri umani costruiscono e utilizzano spontaneamente i concetti. Noi costruiamo modelli idealizzati, stereotipici, che stabiliscono quali sono le proprietà che un oggetto dovrebbe soddisfare per

o su opposti:

appartenere in pieno alla categoria. Al tempo stesso, usiamo questi modelli in modo ragione-

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Parte II - La forma interna della lingua

CAPITOLO 6 - Dalla parte del significato: il lessico

111

vole. Ci rendiamo conto che non tutti gli oggetti corrispondono all’ideale: ci sono oggetti che si awicinano di più e altri meno. Verso questi ultimi siamo tolleranti, li accettiamo come esemplari marginali senza per questo mettere in discussione il concetto. Il modello ideale è chiamato dagli psicologi cognitivi e dai lessicologi prototipo. Rispetto al prototipo, gli esemplari si dispongono lungo una scala che va dagli esemplari più centrali a quelli più marginali. Il concetto di prototipo si deve alla psicoioga E. Rosch (1973; 1978). Per le sue applicazioni in linguistica, si vedano Taylor (1989) e Kleiber (1990).

Box 6.6 - CONCETTI ENDOCENTRICI ED ESOCENTRICI Nel lessico di una lingua troviamo concetti la cui identità si appoggia sulla rete di relazioni lessicali interna alla lingua, e concetti la cui identità dipende prevalentemente da una re­ lazione stabile con gli oggetti dell'esperienza esterna - che possiamo chiamare rispettiva­ mente concetti «endocentrici» ed «esocentrici » (Prandi, 2004). Osserviamo due esempi: il paradigma di verbi francesi che traducono l’italiano sbucciare come esempio di concetto endocentrico, e il nome rosa come esempio di concetto esocentrico. Il francese ha quattro equivalenti del verbo italiano sbucciare per l’accezione «togliere la buccia»: oltre al generico peler, troviamo éplucher (per le patate), écosser (per i legumi) e décortiquer (per le castagne). Il valore di ciascuno dei significati del francese dipende dalla sua correlazione con i valori concorrenti e dalle solidarietà lessicali più che dalla relazione con l’esperienza dello sbuccia­ re. per definire ciascuno dei termini dobbiamo tener conto dei suoi concorrenti. Un concetto come rasa, invece, dipende in modo essenziale dalla stabilità della sua relazione con una classe di fiori ben definita nell’esperienza, mentre la correlazione con gli altri lessemi del campo (come viola o gelsomino) è trascurabile: per questo possiamo definire rosa senza riferirci ad altri tipi di fiori. Se il lessico francese perdesse improvvisamente i valori éplucher e décortiquer, il valore (e dunque la definizione) di écosser cambierebbe in profondità. Se tre nomi di fiori andassero perduti, viceversa, il valore di rosa non cambierebbe, perché il lessema continuerebbe a designare la classe ben identificata delle rose. Come mostrano gli esempi, i concetti esocentrici riguardano soprattutto nomi di oggetti concreti.

Box 6.7 - TIPI DI DIZIONARI Le parole di una lingua sono raccolte e descritte, sia dal punto della vista della forma che dal punto di vista del significato, nei dizionari (chiamati anche vocabolari). La redazione di un dizionario comporta necessariamente una scelta delle parole da includere (che formano il cosiddetto lemmario). I dizionari generali o dell’uso raccolgono in ordine alfabetico tutte le parole di uso comune insieme a una selezione di parole tecnico-specialistiche, regionali, di uso raro e letterario, o attestate solo in testi antichi. I dizionari dell’italiano in commercio hanno un’ampiezza che varia dalle 50.000 parole (per le edizioni minori) alle 100.000-150.000 (per le edizioni correnti) e forniscono, all’Interno di ogni voce, informazioni fonologiche, morfologiche, sin­ tattiche e semantiche sul lemma. Oggi i dizionari generali sono disponibili sia in versione cartacea, sia in versione elettronica (su cd-rom, su web, tramite applicazioni per dispositivi mobili).

Accanto ai dizionari generali o dell’uso esiste poi una serie di dizionari speciali, sempre or­ dinati alfabeticamente, che sviluppano un tipo particolare di informazione riportata in modo sintetico nei dizionari generali: - dizionari dei sinonimi e dei contrari; - dizionari di ortografia e pronuncia; - dizionari etimologici, che ricostruiscono l’origine e la storia delle parole; - dizionari storici, che seguono l’evoluzione della parola nel tempo, corredandola di citazio­ ni tratte da testi scritti; - dizionari dei modi dire e dei proverbi; - dizionari dei neologismi o parole nuove, entrate di recente in una lingua; - dizionari specialistici (per esempio di linguistica, di informatica, del linguaggio medico, giuridico ecc.); - dizionari enciclopedici, che includono tra i lemmi anche nomi propri (di persona, di luogo ecc.) e aggiungono alle informazioni sul significato notizie di carattere enciclopedico; - dizionari bilingui o multilingui, che riportano la traduzione delle parole da e verso una o più lingue straniere; . „ . , - dizionari inversi, in cui le parole sono riportate in ordine alfabetico inverso, cioè partendo dall’ultima lettera: utile ai poeti per trovare le rime o ai pubblicitari per creare i loro mes­ saggi; - dizionari delle concordanze, cioè repertori alfabetici delle parole contenute in una o piu opere di un autore, con indicazione dei relativi contesti. Hanno invece una struttura non alfabetica, o solo parzialmente alfabetica, alcuni tipi di dizio­ nari che costituiscono un valido supporto allo sviluppo della competenza lessicale; - dizionari visuali: grazie a una serie di illustrazioni (di ambienti della vita quotidiana, della natura e della scienza) corredate dalla relativa nomenclatura, ci permettono di risalire facilmente a nomi di oggetti e delle loro parti; - dizionari analogici: raggruppano le parole per famiglie intorno a una parola-guida (nome, verbo o aggettivo), sulla base di un criterio logico o concettuale: l’appartenenza a uno stesso campo semantico o a una certa nomenclatura; le parole-guida sono disposte in ordine alfabetico. Questo tipo di dizionario è utile per trovare parole che non conosciamo o che non ricordiamo, a partire da un’altra parola che invece ci è nota e che ha un significato collegato alla parola ricercata; si tratta del dizionario che rispecchia più da vicino il modo in cui le parole sono organizzate nel lessico e nella nostra mente; - dizionario delle collocazioni (o delle combinazioni lessicali) si tratta di un tipo nuovo di dizionario che, a partire da una base (costituita da un sostantivo, da un verbo o un avver­ bio), consente di trovare le parole che con la base formano una combinazione frequente o consolidata dall’uso. Il lemmario di un dizionario di questo tipo è molto simile a quello di un dizionario analogico; la trattazione delle voci si concentra però sulle solidarietà les­ sicali, trascurando gli altri tipi di rapporti tra i significati. Per una sintesi relativa all’italiano si rimanda a Della Valle (2005).

Parte III Sintassi della frase modello. La frase semplice

Premessa La struttura sintattica della frase e il suo significato

La struttura sin ta ttica di una frase è una costruzione stratifica ta , for­ m ata da un nucleo di relazioni gram m aticali e da diversi strati di mezzi di espressione al servizio di diverse funzioni. Le relazioni gram m aticali che form ano il nucleo rientrano in una gram m atica delle regole. Tutti gli altri strati rientrano in una gram m atica delle scelte, e si organizzano sulla base delle funzioni delle quali sono al servizio: in particolare, le funzioni ideativa, te stu ale, interpersonale (►Premessa ^P. 2). Nello stu­ dio della sintassi della frase , ognuno di questi strati di s tru ttu re deve essere analizzato con criteri diversi. Nei prossim i capitoli studierem o in particolare le strutture s in ta ttich e impegnate n e ll’ ideazione del pro­ cesso. Le strutture al servizio della funzione te stu a le saranno studiate nel Capitolo 1 7 .2 . Le s tru ttu re al servizio della funzione interpersonale saranno stu dia te nel C apitolo 1 7.1 . Ogni frase sem plice ha un nucleo, form ato dal soggetto e dal pre­ dicato, nom inale o verbale. Tutte le espressioni che si collocano alla periferia del nucleo, e che chiam erem o «margini», hanno la funzione di esprim ere relazioni concettuali accessibili indipendentem ente: per esem pio le coordinate spaziali e tem porali del processo, lo strum ento o il beneficiario di un’azione. Per ognuna di queste relazioni concettuali, la lingua m ette a nostra disposizione un repertorio più o meno am pio di form e di espressione. In ogni frase, inoltre, troviam o un certo numero di espressioni no­ m inali. Indipendentem ente dalla sua posizione, nel nucleo o negli strati periferici della frase, l’espressione nom inale ha una sua stru ttu ra , fa tta a sua volta di un nucleo (nome e determ inante) e di una periferia (mo­ dificatori e com plem enti). Accanto alle frasi sem plici troviam o le frasi com plesse, o periodi, che studierem o in due m om enti d istin ti. Ci sono frasi com plesse che presentano frasi incassate al loro interno come com plem enti di verbi o soggetti di predicati, e frasi com plesse che occupano la posizione di m argine. La funzione delle subordinate in posizione di m argine - col­ legare processi saturi - non è però esclusiva del periodo, ma è con­ divisa con un ventaglio di opzioni te stu a li. Per questo le subordinate con funzione di margine saranno studiate dopo che avremo analizzato i m eccanism i di coerenza e coesione che sono alla base della creazione dei te sti.

L’articolazione essenziale della frase: soggetto e predicato CAPITOLO

7

In questo capitolo studieremo la struttura della frase semplice, cioè il modo in cui le parole si raggruppano in unità intermedie (chiamate sintagmi) per for­ mare una frase. L’individuazione di queste unità intermedie - e in particolare del sintagma nominale e del sintagma verbale, che rappresentano i costituenti immediati della frase - è il presupposto necessario per poter descrivere una frase, cioè per attribuire le relazioni grammaticali fondamentali (soggetto e pre­ dicato) ai suoi costituenti.

7.1

Espressione nominale ed espressione verbale

La frase è l’unità di base della sintassi, dotata di una struttura sintattica completa e capace di trasmettere un significato compiuto (che abbiamo chiamato « processo ») anche al di fuori di un testo o di una situazione comunicativa. Le frasi hanno una struttura che mette in relazione delle parti in un tutto complesso. L’essenziale di questa struttura è già presente nelle frasi più semplici, come:

Struttura essenziale della frase

Fido abbaia.

In questa frase, che ha una struttura sintattica completa, isoliamo facilmente due parti, entrambe essenziali per formare la sua struttura: Fido e abbaia. Nel nostro esempio, sono due parole in grado di identi­ ficare le due parti essenziali che le frasi più semplici condividono con le frasi più complesse: una parte nominale {Fido) e una parte verbale {abbaia). Le parti di una struttura grammaticale sono chiamate costi­ tuenti. Più spesso, tuttavia, i costituenti non sono parole singole ma unità complesse o espressioni: al posto di Fido possiamo trovare, per esem­ pio, Il cane, Un cane, Quel cane, Il cane del mio vicino e così via. So­ no tutte espressioni nominali, e più precisamente sintagmi nominali.

I costituenti della frase

118

Parte III - Sintassi della frase modello. La frase semplice

Al posto di abbaia possiamo trovare mangia la zuppa, si avvicina al padrone, porta il giornale al padrone. Sono tutte espressioni verbali, e più precisamente sintagmi verbali. L’espressione nominale si chiama così perché contiene tipicamente un nome o un pronome. L’espressione verbale si chiama così perché contiene almeno una forma di un verbo. L’espressione nominale e l’e­ spressione verbale sono i costituenti immediati della frase. Questi due costituenti immediati si trovano in ogni frase. Nella terminologia standard si usano le etichette sintagma nomina­ le e sintagma verbale in modo convenzionale per indicare non solo i sintagmi veri e propri - per esempio il cane - ma anche le parole - per esempio Fido - che hanno la stessa distribuzione dei sintagmi equiva­ lenti. L’analisi del nucleo della frase è al tempo stesso formale e distribuzionale: formale, in quanto le relazioni grammaticali che formano il nucleo sono insensibili alla pressione dei contenuti con­ cettuali che di volta in volta le riempiono; distribuzionale in quanto identificare la struttura del nucleo significa identificare un certo numero di posizioni, e, per ciascuna posizione, le classi di espressioni abilitate a occuparle: tutte le espressioni abilitate a occupare una stessa posizione hanno la stessa distribuzione (formano cioè una classe distribuzionale). Il sintagma nominale e il sintagma verbale sono classi distribuzionali. Il criterio distribuzionale è stato elaborato nell’ambito della linguistica statunitense da Bloomfield (1933), Harris (1946), Wells (1947), Chomsky (1957), Hockett (1958).

Box 7.1 - IL SINTAGMA Le espressioni complesse vengono chiamate con il termine tecnico di «sintagmi». Il sintagma è una combinazione minima di lessemi che può funzionare come un costituente all’interno della frase. Si tratta dunque di un’unità intermedia tra le singole parole e le frasi. Le singole parole, infatti, formano una frase solo grazie alla mediazione dei sintagmi. I costi­ tuenti immediati della frase sono tipicamente sintagmi. I sintagmi principali sono il sintag­ ma nominale (SN), il sintagma verbale (SV) e il sintagma preposizionale (SP). Il sintagma nominale ha come perno un nome: la rosa, questo piatto. Il sintagma verbale coincide con il predicato e contiene almeno una forma verbale, che però non è necessariamente il perno del sintagma (nel predicato nominale è al servizio del nome): pota il melo; è uno scrittore. Il sintagma preposizionale è un sintagma nominale introdotto da una preposizione: di un libro; con questo trapano.

119

CAPITOLO 7 - L’articolazione essenziale della frase: soggetto e predicato

7.2 Soggetto e predicato In una costruzione, i diversi costituenti hanno funzioni diverse. Nella frase: Fido abbaia.

il sintagma nominale Fido ha la funzione di soggetto. Il sintagma ver­ bale abbaia ha la funzione di predicato. Il sintagma nominale e il sin­ tagma verbale sono categorie definite per la loro forma, che studiere­ mo nei prossimi capitoli. Il soggetto e il predicato sono categorie defi­ nite per la loro funzione, o categorie funzionali. Studiando la funzio­ ne, non ci chiediamo più come un’espressione è fatta, ma che posizione occupa nella struttura della frase. Nel caso del predicato, l’identificazione è immediata perché il pre­ dicato coincide con il sintagma verbale, che è unico per ogni frase. Nel caso del soggetto, invece, l’identificazione è più complessa perché nel­ la struttura di una frase possiamo trovare tanti sintagmi nominali, che hanno tutti la stessa forma ma funzioni diverse: il soggetto è uno di questi. Il soggetto è il sintagma nominale che occupa la posizione di costituente immediato della frase, controparte del predicato. Dato che si definiscono per il loro posto in una rete di relazioni, le categorie funzionali —il soggetto, il predicato, ma anche il complemen­ to oggetto e altri complementi che studieremo nei prossimi capitoli —si chiamano anche relazioni grammaticali. Le relazioni grammaticali, come vedremo, si identificano non grazie al loro contenuto concettua­ le, ma grazie alle loro proprietà formali relazionali. 7.2.1

II soggetto

Le lingue come l’italiano e le altre principali lingue d’Europa si carat­ terizzano per il fatto che l’espressione del primo argomento di qualsia­ si tipo di verbo e di processo si presenta con la stessa forma indipen­ dentemente dal ruolo che è destinato ad assumere. Se paragoniamo le due frasi: 1. Le stoppie bruciano. 2. Il contadino brucia le stoppie.

ci rendiamo conto che il ruolo del sintagma le stoppie è lo stesso nelle due frasi, ed è diverso dal ruolo di il contadino in 2. Ciononostante, lingue come l’italiano codificano allo stesso modo il primo argomento in entrambe le frasi: le stoppie in 1 ha la stessa forma di il contadino in 2.

Categorie funzionali o relazioni grammaticali

I costituenti immediati della frase: soggetto e predicato

120

Ruoli del soggetto

Parte III - Sintassi della frase modello. La frase semplice

Altre lingue del mondo fanno una scelta diversa. Se Pitaliano fosse una di queste lingue, codificherebbe allo stesso modo le stoppie in 1 e 2 e in un modo diverso il contadino in 2. Le lingue come l’italiano hanno un allineamento tra ruoli e relazioni grammaticali detto «accusativo»; le lingue del secondo tipo hanno un allineamento detto «ergativo». Le lingue accusative privilegiano le gerarchie formali e marcano allo stesso modo il soggetto indipendentemente dal ruolo (agente o paziente). Le lingue ergative privilegiano le gerarchie semantiche e marcano in modo diverso l’agente e il paziente. Nelle lingue come l’italiano, tutte le frasi hanno un soggetto, e il soggetto ha una forma propria, indipendente dalle caratteristiche dei diversi tipi di predicato con i quali può occorrere: è un’espressione nominale (cioè un nome proprio, un nome comune accompagnato da un determinante, o un pronome R I ) . Per questo siamo già in grado di definire le proprietà formali qualificanti del soggetto prima di studiare i diversi tipi di predicato. Il soggetto è una relazione grammaticale vuota, che non è vinco­ lata a un ruolo preciso nella struttura concettuale del processo. In ogni processo il soggetto porta sulla scena il protagonista, ma per conoscere il profilo del protagonista occorre conoscere le proprietà concettuali del canovaccio che recita. Il soggetto può avere nel processo descritto dal verbo un ruolo ([>-34.2.Tab· 13.2Ddi agente (se è responsabile dell’a­ zione espressa dal verbo, come nell’esempio 1), o di paziente (se subi­ sce le conseguenze dell’evento espresso dal verbo come in 2), 0 di esperiente (se sperimenta l’evento, come in 3), oppure può funzionare come supporto di una proprietà (4), o di una classificazione (5): 1. 2. 3. 4. 5.

Giovanni Giovanni Giovanni Giovanni Giovanni

corre. soffre. ascolta una sinfonia. è biondo. è uno studente.

CAPITOLO 7 - L’articolazione essenziale della frase: soggetto e predicato

121

tipo di predicato, e segnala il fatto che il soggetto, prima di essere un argomento di questo o quel tipo di verbo, è un costituente im­ mediato della frase. 2) Il soggetto concorda in persona e numero con la forma verbale del predicato. Questa proprietà conferma il rango del soggetto co­ me controparte del predicato in quanto costituente immediato della frase. In caso di passivizzazione, si trasforma in costituente perife­ rico, la cui specificazione è a sua volta facoltativaliHt.il: il comple­ mento di agente (lOb) o di causa efficiente (1 lb): 10a. Carlo ha comprato il giornale > lOb. Il Giornale è stato comprato (da Carlo). I l a . Il vento ha sradicato il pioppo > l l b . Il pioppo è stato sradicato (dal vento).

3) La posizione non marcata del soggetto è quella pre-verbale, con l’eccezione di alcuni verbi intransitivi con ausiliare essere (come arrivare), chiamati «inaccusativi», con i quali è normale che il soggetto sia posposto al verbo [?Β οχ 34·3|. 7.2.2 Tipi di predicato

Tutte le frasi hanno un predicato. Tuttavia, è impossibile descrivere la struttura del predicato in termini generali, come abbiamo fatto con il ___________ soggetto. Esistono infatti due tipi fondamentali di predicato e, all’inter- Predicato verbale no di ciascun tipo, tantissime forme diverse. I l tipo di predicato dipen- e nomina e---------de dal suo termine principale: se si tratta di un verbo avremo un predi­ cato verbale, se si tratta di un nome o di un aggettivo avremo un pre­ dicato nominale. La varietà delle forme per ciascun tipo dipende dalle proprietà del termine principale, e in particolare dalla valenza.

Box 7.2 - LA FRASE: «SOGGETTO + PREDICATO» 0 «VERBO + ARGOMENTI»? Come si riconosce il soggetto

Un sintagma nominale non viene riconosciuto come soggetto per­ ché è agente o paziente o esperiente, ma perché gode di certe proprietà grammaticali formali indipendenti. Osserviamo le principali. 1) La specificazione del soggetto è obbligatoria (almeno sotto forma di pronome personale) in alcune lingue —per esempio in francese, inglese, tedesco - e facoltativa in altre: per esempio in italiano, spagnolo, latino. In italiano il soggetto (soprattutto quando si tratta di una seconda o di una terza persona) può essere sottinteso ji>33.i I. Questa proprietà vale per tutti i soggetti, indipendentemente dal

Nella nostra analisi abbiamo fatto interagire modelli diversi di descrizione della frase. Da un lato il criterio formale di tipo distribuzionale, che identifica nella frase una serie di posizioni occupate da sintagmi che hanno tra loro un rapporto di dipendenza. Secondo questo criterio la frase può essere descritta come combinazione di un sintagma nominale (SN) che gode di pro­ prietà particolari (come l’accordo col verbo del sintagma verbale) e un sintagma verbale (SV). F= SN + SV Questa prospettiva è superficialmente simile alla prospettiva tradizionale di tipo logico-se­ mantico (che risale ad Aristotele), per cui il significato della frase può essere descritto come

122

Parte III - Sintassi della frase modello. La frase semplice

La struttura dell’espressione nominale il risultato di una «predicazione»: nella frase c’è sempre «qualcosa di cui si parla» (il sogget­ to, etimologicamente «sottoposto», cioè posto sotto l’attenzione del predicato) e «qualcosa che viene detto (predicato) » intorno a quel soggetto.

C A P I T O L O

8

F = soggetto + predicato Tuttavia, noi abbiamo ridefinito il soggetto e il predicato in termini funzionali e relazionali: soggetto e predicato sono due relazioni grammaticali (semanticamente vuote), identificate dai costituenti immediati della struttura della frase. La struttura soggetto-predicato è l'unica che abbia una natura interamente formale: qualsia­ si frase ha questa forma indipendentemente dal suo contenuto concettuale. Quando però descriviamo il predicato, ci rendiamo conto che la sua forma dipende dalla struttura del processo, e in particolare dal numero degli argomenti. Per questo, la sua descrizione non può fare a meno di basarsi sulla struttura del processo, e in particolare sulla valenza del verbo, che specificherà il numero e il tipo di argomenti necessari per formare un processo. F = verbo + argomenti Nella nostra impostazione, la valenza interviene solo sulla struttura formale del predicato. La struttura SN-SV, soggetto-predicato, è identificata grazie a criteri formali; quella V-Arg (che identifica la struttura interna del predicato) è identificata grazie a criteri funzionali. A diffe­ renza della relazione soggetto-predicato, la struttura interna di un predicato risponde alla funzione di portare all'espressione gli argomenti del verbo, che rispondono alla sua valenza. Possiamo sintetizzare tutto ciò confrontando il grafico ad albero, che illustra la struttura ge­ rarchica di una frase semplice, e il diagramma che collega il verbo ai suoi argomenti:

8 .i

Una forma per tante funzioni

Un sintagma nominale può avere la forma di: -

F

SN soggetto 1° argomento

VERBO

In questo capitolo studieremo le regole di costruzione del sintagma nominale, e in particolare l’uso dei determinanti a seconda del tipo di nome che funziona da perno, o testa, del sintagma nominale. Guarderemo dunque al «nucleo» del sintagma nominale. Studieremo gli altri elementi che possono arricchire il nu­ cleo del sintagma nominale nel Capitolo 14 (altri nomi, aggettivi, complementi del nome) e nel Capitolo 16 (frasi relative).

Qualcuno è entrato in giardino. Cercavamo loro.

SV predicato

SN (o SP) complemento 2° argomento

un pronome:

SN (o SP) complemento 3° argomento

V

un nome proprio:

Fido abbaia. Ho chiamato Marco.

-

un sintagma in senso stretto, composto da un nome comune preceduto da un articolo (come il) o da un altro determinante (come il dimostrativo quello)·.

Il vicino ha liberato quel cane.

Arg. 1

Arg. 2

Arg. 3

Per una ricostruzione storica dell’opposizione tra i due modelli di frase nelle diverse scuole lin­ guistiche (grammatica generativa statunitense, strutturalismo francese) si rimanda a De Santis, 2016.

In una frase possiamo trovare diversi sintagmi nominali con fun­ zioni diverse. Nella frase seguente, tutte le espressioni in neretto sono sintagmi nominali: Il fratello del (di+il) mio amico ha riparato la serratura di questo arma­ dietto con un temperino.

Forme del sintagma nominale

124

8.2

Nomi propri e nomi comuni

I nomi propri designano direttamente un individuo: una persona, un animale, una città, un paese. Alcuni nomi propri designano ogni volta lo stesso individuo: si tratta di quasi tutti i nomi geografici {Milano, Pantelleria) e di alcuni nomi di persona {Dante, Raffaello) usati per antonomasia. Gli altri nomi propri, di persona e di animali, si riferisco­ no a un unico individuo ogni volta che vengono usati, ma non ogni volta allo stesso: esistono infatti numerosissimi Giovanni o Fido. In ogni caso, il nome proprio è capace da solo di formare un’espressione nominale:

BOX 8.2 - DAL NOME PROPRIO AL NOME COMUNE (E VICEVERSA) Un procedimento molto sfruttato nella formazione delle parole è il passaggio di un nome proprio a un nome comune (con conseguente assegnazione di un genere e di articolo ac­ cordato). In molti casi si tratta di nomi di artefatti battezzati in onore del loro inventore: la biro, il cicerone, il dedalo, la mansarda, il pullman, il sandwich. Vi sono poi nomi comuni che derivano dal nome del luogo di provenienza: il gorgonzola, il chianti, i bermuda, il bikini. Un caso particolare è quello dei nomi commerciali che dalla marca passano a indicare il prodot­ to in generale: lo scottex, la nutella, il lego. Derivano da nomi di personaggi di invenzione (di romanzi, fumetti, film) termini come la perpetua, un superman, un rambo. Diffusi anche i passaggi dal nome comune al nome proprio, per effetto dell’antonomasia (letteralmente «cambio di nome»): la Signora (per indicare la Juventus), il Colle (per indicare il Quirinale, sede della Presidenza della Repubblica Italiana), il Cavaliere (per indicare Silvio Berlusconi).

Giovanni è partito. Non trovo più Fido. Nicola studia a Perugia.

li determinante I nomi comuni designano concetti generali o classi di oggetti. Per del nome diventare un sintagma nominale, un nome comune ha bisogno di un determinante. Le seguenti frasi contengono espressioni nominali complete:

8.3

Tipi e funzioni dei determinanti di nomi

I principali determinanti di nomi comuni sono: -

Il treno è partito? Ho incontrato un amico.

Box 8.1 - L’ARTICOLO CON I NOMI PROPRI Alcuni nomi non si lasciano catturare dalla distinzione tra nomi propri e comuni. Si tratta di nomi geografici come il Po, il Cervino, la Toscana, il Canada, ecc., che vogliono l’articolo come i nomi comuni. Ci sono poi nomi propri di città con l’articolo incorporato (scritto con iniziale maiuscola): per esempio II Cairo, La Spezia, L'Aquila. I nomi propri di persona - nomi e cognomi - sono preceduti dall’articolo in due casi: o quan­ do il nome proprio è citato come il rappresentante per eccellenza (per antonomasia) di una classe di individui (es. Luigi non è un Dante per dire che non è un grande poeta), oppure quando la vita o l’opera di un individuo viene idealmente suddivisa in parti (es. il giovane Manzoni, il Manzoni degli anni parigini); in questo caso il nome è accompagnato da un ag­ gettivo o da un complemento. L’uso dell’articolo con il cognome di personalità della letteratura, dell’arte e della scienza (il Carducci, il Caravaggio) è caduto in disuso (si preferisce dire Carducci, Caravaggio). L’uso dell’articolo con i nomi propri di persona è frequente nell’ Italia settentrionale: il Gio­ vanni, l’Andrea, la Paola, per influsso dei dialetti: in molti dialetti del Nord i nomi propri prendono l’articolo.

125

CAPITOLO 8 - La struttura de ll’espressione nominale

Parte III - Sintassi della frase modello. La frase semplice

gli articoli, distinti in determinativi {il e la nelle varie forme); indeterminativi {un nelle varie forme); partitivi {del nelle va­ rie forme) |»311.

Articoli e altri determinanti

Gli articoli partitivi non vanno confusi con le preposizioni articola­ te, formate dalla fusione a livello grafico di una preposizione e di un articolo: per esempio sul {su + il); dalla {da + la). Il cane del droghie­ re contiene una preposizione articolata: del = di + il; compra del pane contiene l’articolo partitivo del. -

i dimostrativi: questo, quello nelle loro varie forme feszs.fi i numerali cardinali: due, sei, cento, ecc. SM SS gli indefiniti di quantità {poco, molto, alcuni, ecc.) e di qua­ lità {qualsiasi, qualunque, ecc.): 6 H J S gli interrogativi ed esclamativi {quanto, quale, ecc.): l„>-32.3.4j .

Gli articoli e gli altri determinanti di nomi hanno diverse funzioni ^^'°^'Γ|Τΐίη3ηίβ contemporaneamente. Dal punto di vista grammaticale, la presenza di .------------- -— un determinante è indispensabile per fare di un nome comune un espressione nominale. Dal punto di vista semantico, il determinante per­ mette di usare un concetto generale (la classe delle biciclette, la sostan­ za acqua) per identificare un referente particolare: questa bicicletta, un p o ’ d ’acqua. Dal punto di vista comunicativo, la scelta del determinan-

126

Parte III - Sintassi della frase modello. La frase semplice

te fornisce al destinatario del messaggio informazioni preziose per l’i­ dentificazione corretta dei referenti: l’articolo è in grado di segnalare, per esempio, se il referente è conosciuto da entrambi i protagonisti del­ la comunicazione {la bicicletta), sconosciuto al destinatario o a en­ trambi {una bicicletta), vicino {questa bicicletta) o lontano {quella bicicletta). Nei prossimi paragrafi parleremo della funzione semantica dei determinanti. Della funzione comunicativa e testuale parleremo più avanti 1I-21. 22L

CAPITOLO 8 - La struttura dell’espressione nominale

127

1. L’acqua è fondamentale per la sopravvivenza. 2. Passami l’acqua. 3. L'acqua salata del mare.

Nel caso dell’articolo indeterminativo, un ombrello designa un in­ dividuo della specie degli ombrelli; u n ’acqua (generalmente accompa­ gnato da un aggettivo), significa «un tipo di acqua»: 3. Nelle Prealpi c’è un'acqua calcarea.

8.4

Nomi di oggetti individuali

Nomi di massa Nomi collettivi

L’uso dei determinanti: nomi numerabili e nomi di massa

Abbiamo visto che i nomi comuni non nominano immediatamente un referente individuale, ma designano concetti generali, che vengono collegati al referente individuale grazie al determinante. Ci sono due tipi di concetti generali con i quali i determinanti si comportano in modo diverso: le classi di individui {uomo, cavallo, sedia, casa) e le masse di sostanza {acqua, aria, sabbia, bronzo, ferro). Una classe raggruppa oggetti individuali - o, più semplicemente, individui - ben distinti, ciascuno dei quali ha una forma caratteristica e un’individualità distinta. Questa proprietà ci permette, tra l’altro, di con­ tarli: due ombrelli, alcuni ombrelli, tanti ombrelli. I nomi che designano oggetti distinti, che possiamo contare, si chiamano n o m i n u m e r a b i l i . Una sostanza si presenta come una massa omogenea e indistinta, senza forma. Pensiamo all’acqua. L’acqua si trova naturalmente in quantità distinguibili - laghi, fiumi, pozzanghere, bicchieri, caraffe, secchi, gocce - ma queste quantità sono ben diverse dagli individui: di una sostanza possiamo isolare diverse quantità, che possiamo sommare o dividere, ma non c’è nulla da contare. I nomi che designano masse di sostanza si chiamano n o m i d i m a s s a . Una classe a parte è quella dei n o m i c o l l e t t i v i , che designano gruppi di individui come se fossero masse: di persone {folla, pubblico), di animali {gregge, stormo), di co­ se {mobilio). I determinanti funzionano in modo diverso con i nomi numerabili e con i nomi di massa. Osserviamo alcuni esempi. Se dico l ’ombrello, penso a un ombrello particolare, distinto da tutti gli altri ombrelli. Se dico l ’acqua, invece, posso pensare a tre possibilità: l’acqua nella sua generalità, cioè la sostanza acqua (esempio 1); una quantità determina­ ta di acqua (esempio 2, con riferimento a una precisa quantità di acqua che è sotto gli occhi dell’interlocutore); un tipo di acqua (esempio 3: in questo caso il nome è accompagnato da un aggettivo o da un comple­ mento):

La differenza tra nomi numerabili e nomi di massa è evidente in presenza di determinanti di quantità. Gli indefiniti di quantità si usano al singolare con i nomi di massa - molta acqua, tutta l ’acqua, un p o ’ d ’acqua - e al plurale con i nomi numerabili: alcuni ombrelli, molti ombrelli, tutti gli ombrelli. Lo stesso vale per le espressioni complesse di quantità che contengono un nome: un sacco di crusca, di patate; un secchio di malta, di ciottoli-, una sporta di farina, di noci. Gli articoli partitivi funzionano come espressioni di quantità: dell’acqua, del vino, dell’oro, della sabbia-, degli ombrelli, delle sedie. La differenza tra nomi numerabili e nomi di massa diventa chiaris­ sima se osserviamo alcuni nomi che possono essere usati per designare sia un individuo sia una massa di sostanza. Se dico l ’abete posso pen­ sare a un particolare albero (esempio 4) oppure al legname in generale (esempio 5): 4. Sediamoci sotto l’abete. 5. L’abete si scheggia facilmente.

Nomi come vitello, manzo, agnello (animale o carne), spalla, co­ scia (parte dell’animale o taglio di carne) si comportano allo stesso modo: la frase 6 si riferisce a due individui; la frase 7 si riferisce a una quantità indefinita di carne di vitello: 6. Nella stalla di mio nonno ci sono due vitelli. 7. Mi dia del vitello.

In inglese la distinzione tra nomi numerabili e nomi di massa è più chiara che in italiano: quando designa la sostanza nel suo insieme, il nome di massa non ha articolo, esattamente come un nome proprio: gold, water, flour. La distinzione risale a Jespersen (1909/1954: § 5.225), che critica la tendenza tradizionale documentata da Sweet (1891-1898) a privilegiare I opposizione tra nomi astratti e nomi concreti |»Box &Jl·

128

Parte III - Sintassi della frase modello. La frase semplice

Box 8.3 - NOMI CONCRETI E NOMI ASTRATTI I nomi concreti raggruppano persone, animali, cose, sostanze che popolano il nostro mondo fisico e che scopriamo con i nostri sensi: una sedia si può spostare; si beve un bicchiere d’acqua e ci si disseta; una persona si può vedere, si può sentirne la voce. Queste esperien­ ze dirette sono escluse dal mondo dei nomi astratti: essi designano concetti ai quali non possiamo dare un contenuto immediato con i nostri sensi. Non vediamo né tocchiamo idee, vizi, virtù: vediamo persone che compiono azioni più o meno virtuose, e siamo circondati da una quantità di oggetti nati dall’idea di un inventore. I concetti astratti sono fondamentali per la nostra esperienza, perché ci aiutano a introdurre distinzioni e a mettere ordine, ma hanno con l’esperienza un rapporto indiretto. Nonostante la sua grande importanza nel costruire la nostra esperienza, la distinzione tra nomi concreti e nomi astratti non ha riflessi a livello linguistico: i nomi astratti entrano nella frase accompagnati dagli stessi determinanti dei nomi concreti. Coraggio, per esempio, si comporta come acqua, e riceve le espressioni di quantità al singolare: molto, poco coraggio-, un po' di coraggio, del coraggio. Un nome come peccato si comporta come ombrello: molti peccati, i sette peccati capitali, dei peccati. Un nome come virtù si comporta a volte come ombrello (le sette virtù cardinali, le virtù curative delle piante) e a volte come acqua (molta virtù, poca virtù). Ai nomi astratti e concreti applichiamo non solo gli stessi determinanti, ma anche gli stessi verbi e aggettivi, come osserva Vendler (1970: p. 91): «.Un’opinione è come un bambi­ no: la concepiamo, l’adottiamo, la abbracciamo, la nutriamo e la accarezziamo; possiamo considerarla illegittima, abbandonarla e ripudiarla». Sono tutte metafore, ormai entrate nel nostro lessico come accezioni figurate dei verbi e aggettivi in questione Μ ϋ > 1 Come scrive Weinrich (1963: p. 330), si tratta di metafore che non è possibile evitare quando si parla di concetti astratti. Tra i nomi astratti occupano un posto di rilievo i nomi che designano azioni e avvenimenti: nomi come arrivo, partenza, fuga, battaglia. Dal punto di vista della scelta degli articoli, i nomi di avvenimento si comportano come ì nomi numerabili: usiamo abitualmente espres­ sioni come la partenza, una partenza, motte partenze, mentre sarebbe difficile trovare un contenuto accettabile a un’espressione nominale come un po’ di partenza.

8.4.1 Nomi collettivi I nomi collettivi presentano un insieme di individui come se formasse­ ro una massa indistinta. Una folla è un insieme di persone, una man­ dria è un insieme di bovini, la biancheria è un insieme di articoli in tessuto. Alcuni nomi collettivi sono grammaticalmente singolari, come mandria ofolla; altri sono grammaticalmente plurali, come le posate o le stoviglie. Alcuni raggruppano esseri omogenei: per esempio folla o mandria. Altri raggruppano cose diverse tra loro, accomunate da una funzione: il nome verdura, per esempio, raggruppa frutti come i pomo-

CAPITOLO 8 - La struttura dell’espressione nominale

dori, tuberi come le patate, radici come le carote, intere piante come il sedano. Ciò che tutte queste cose hanno in comune è l’uso che ne fac­ ciamo in cucina. Pur essendo frutti, per esempio, i pomodori sono con­ diti come l’insalata e non serviti alla fine del pasto come le mele. Con i determinanti, alcuni nomi collettivi si comportano come no­ mi di massa, altri come nomi numerabili. Folla e biancheria, per esem­ pio, si comportano come acqua : diciamo poca folla, molta folla, della folla più facilmente che poche folle, molte folle, delle folle. Mandria e gregge, invece, si comportano come ombrello : non diciamo poca man­ dria, molta mandria, della mandria, ma poche mandrie, molte man­ drie, delle mandrie.

129

La struttura del predicato nominale C A P I T O L O

9

In questo capitolo studieremo i predicati nominali, in cui il termine principale, dal quale dipende la struttura e la funzione dell’intero predicato, non è un verbo, ma un aggettivo o un nome (chiamato, in entrambi i casi, nome del pre­ dicato) che si accorda con il soggetto. Sia l’aggettivo, sia il nome, tuttavia, non possono formare un predicato senza il supporto di una forma verbale (copula o verbo supporto).

9 ,i

L’aggettivo

Se il termine principale è un aggettivo, il predicato nominale ha la fun­ zione di attribuire al soggetto una proprietà. L’aggettivo - detto n o m e d e l p r e d i c a t o —è collegato al soggetto da una forma del verbo essere che funziona come c o p u l a F mJI: si limita cioè a collegare l’aggettivo al soggetto al quale si riferisce e con il quale si accorda: Fido è nero (/vivace /socievole).

L’aggettivo può essere accompagnato da un avverbio che lo modi­ fica: Fido è molto vivace.

La struttura del predicato dipende dall’aggettivo. Anche gli agget­ tivi, come i verbi e in generale i concetti relazionali, possono richiede­ re, oltre al soggetto, un complemento: Fido è uguale a Paco (/avido di zuppa).

Ricordiamo che il verbo essere può essere usato anche con funzio­ ni diverse dalla copula: come ausiliare (1) o come verbo predicativo ( 2)

!►10.6.11

L’aggettivo come nome del predicato

132

CAPITOLO 9 - La struttura del predicato nominale

Parte III - Sintassi della frase modello. La frase semplice

1. Fido è morto. 2. Fido è nella cuccia.

II nome: nomi classificatori e nomi di processo

9.2

Nomi classificatori come predicati

5a. 3. 4a. 6.

Ci sono due tipi di nomi che possono entrare in un predicato nominale come nomi del predicato: i nomi che classificano individui - come pietra, olmo, lucertola, bambina - e i nomi che designano processi come viaggio, ordine, regalo. Sui tipi concettuali di nomi ritorneremo più avanti giofil. Se il termine principale è un n o m e c l a s s i f i c a t o r i o , il predicato ha la funzione di rendere esplicita l’appartenenza del soggetto a una clas­ se (1) o di identificare due designazioni di uno stesso individuo (2). In entrambi i casi contiene una c o p u l a : 1. Fido

è un alano.

2 . Giorgio è l’amico di Nicoletta.

Il nome del predicato può essere occupato anche da un pronome maschile, che non concorda con il soggetto:

Giovanni ha fatto Giovanni ha fatto Giovanni ha dato Giovanni ha dato

133

II regalo di un libro a Maria. un viaggio in Grecia. a Paolo il consiglio di partire. (/sostenuto) l’esame di Linguistica.

Tanto la copula quanto il verbo supporto hanno due funzioni. In primo luogo, trasformano il nome o l’aggettivo in predicato. Un nome può essere o la testa un sintagma nominale (esempi 7 e 8) o il termine principale di un predicato (esempi 9 e 10). La funzione di predicato richiede la presenza, a seconda del caso, di una copula (9) o di un ver­ bo supporto (10): 7. Questo cane nero. 8. Il viaggio di Giovanni in Marocco. 9. Questo cane è nero. 10. Giovanni ha fatto un viaggio in Marocco.

In secondo luogo, trattandosi di forme verbali, fanno da supporto alle informazioni grammaticali tipiche dei verbi, che nomi e aggettivi non possono veicolare, ma che non possono mancare in una frase, i tempi e i modi. Mentre la nozione di copula risale all’antichità, lo studio dei verbi supporto è recente: si vedano

una psicoioga? Sì, lo è. Sono psicologhe? Sì, lo sono. è

Nomi di processo come predicati

I

n o m i d i p ro c e s s o

prendono un verbo diverso dalla copula: un

v e r b o s u p p o r t o l» 3 4 .f i:

Daladier, 1978; Gross, 1987; 1993; Giry-Schneider, 1987; per una sintesi in lingua italiana: Cantarini, 2004. Nella linguistica inglese il fenomeno è segnalato da Vendler (1970: p. 91), che parla di tight verbs, «verbi (semanticamente) leggeri». Nella traduzione dei verbi supporto è importante tenere conto della loro dipendenza dal nome predicativo. Immaginiamo di dover tradurre in tedesco la costruzione prendere una decisione. Se so che in tedesco decisione si traduce Entscheidung ma ignoro il supporto corretto, non devo

3. Giovanni ha fatto un viaggio in Grecia. 4. Giovanni ha dato un consiglio a Paolo. 5. Giovanni ha fatto un regalo a Maria.

comunque cercare prendere sul dizionario, ma decisione. Se cerco prendere troverò certamente verbi predicativi come nehmen o greifen, ma difficilmente troverò il supporto adatto a Enscheidung. Alla voce Entscheidung, viceversa, un buon dizionario mi darà il supporto appropriato, treffen, che nel suo uso predicativo significa «incontrare». Anche in lingue vicine, come il francese,

Verbi supporto

Alcuni verbi supporto sono specializzati per la funzione e hanno un uso molto ristretto: per esempio bandire (un concorso) o comminare (una pena). I più usati, dare e fare, non sono verbi particolari, ma usi particolari di verbi. Per sapere quando un verbo funziona da supporto c ’è un criterio sicuro: la struttura del predicato, e in particolare la presenza di argo­ menti, non dipende dal verbo, ma dal nome, che è il termine principale del predicato. Nelle frasi seguenti, per esempio, la presenza di dare e fare non incide sulla struttura del predicato, che dipende rispettiva­ mente dai nomi regalo (5a), viaggio (3), consiglio (4a) ed esame (6):

il supporto adatto a un certo nome può cambiare: in italiano diciamo fare una doccia, in francese si dice prendre une douche.

La struttura del predicato verbale C A P I T O L O

IO

In questo capitolo studieremo la struttura del predicato verbale in relazione al tipo di verbo predicativo intorno al quale è costruito. A seconda della valenza del verbo (cioè del numero di argomenti, posizioni che devono essere riempite per completare il significato del verbo), il predicato sarà costituito dal solo verbo (verbi impersonali e verbi a un posto), o dal verbo seguito da uno o più comple­ menti (verbi a due posti e a tre posti, transitivi o intransitivi). Nella posizione di complemento del verbo (cioè di argomento diverso dal soggetto) incontreremo sia relazioni grammaticali - complemento oggetto diretto, oggetto preposiziona­ le e oggetto indiretto - sia relazioni concettuali (i complementi di luogo, collegati al verbo da preposizioni scelte di volta sulla base del loro contenuto). Nella posizione di complementi del verbo possiamo trovare anche pronomi e in alcuni casi avverbi.

ìo.i I complementi del verbo Per costruire un predicato occorre un verbo. Per costruire un predicato verbale, il verbo deve essere un verbo p r e d i c a t i v o , cioè un verbo che articola un processo. Nella tradizione grammaticale si identifica il predicato con il solo verbo: si tratta di un’analisi non corretta perché il verbo da solo non è sempre in grado di svolgere la funzione di un predicato, cioè di forma­ re una frase insieme al soggetto. A seconda della valenza del verbo, il predicato può contenere, oltre al verbo, uno o più complementi. Ci sono verbi che sono pronti a formare una frase da soli: si tratta dei v e r b i i m p e r s o n a l i (o z e r o v a l e n t i ) come piove, nevica. I verbi che hanno bisogno di uno o più argomenti si dividono in m o n o v a l e n t i o a un argomento (esempio 1 ) , b i v a l e n t i o a due argomenti (esempi 2, 3), t r i v a l e n t i o a tre argomenti (esempio 4): 1. 2. 3. 4.

Il cane Il cane Il cane Il cane

abbaia. raggiunge il padrone. si fida del padrone. ruba un boccone al gatto.

Il predicato verbale: verbo predicativo e suoi complementi

Classificazione dei versi predicativi: la valenza

136

Il primo argomento occupa la posizione di soggetto; gli altri entra­ no con il verbo nel predicato. Mentre la forma del soggetto è identica per ogni tipo di frase, la forma dei complementi del verbo cambia in relazione al verbo. Rincorrere, per esempio, esige un’espressione no­ minale (5); concorrere, invece, richiede la preposizione a (6), mentre diffidare richiede di (7): 5. Il cane rincorre il padrone. 6. I cittadini concorrono alle spese dello Stato. 7. Maria diffida della sua amica.

Sono queste le ragioni per cui non si può studiare la struttura del predicato senza tener conto della valenza del verbo.

137

CAPITOLO 10 - La struttura del predicato verbale

Parte III - Sintassi della frase modello. La frase semplice

L’italiano, viceversa, ammette di sottintendere il soggetto anche quando designa un argomento, ed è quindi naturale che un verbo senza argomenti si usi senza il soggetto. Tuttavia, quando per qualche ragione abbiamo bisogno di specificare un argomento (per esempio quando usiamo il verbo meteorologico con significato figurato), anche i verbi impersonali possono ricevere un soggetto: Piove acqua sporca'. Fioccano brutti voti.

10.3 Verbi a un posto o monovalenti I verbi a un posto formano da soli un predicato e, con il soggetto, formano immediatamente una frase. I verbi a un posto sono per definizione i n ­ t r a n s i t i v i [►10 .5 .1 !· Ecco alcuni esempi di verbi monovalenti, affiorare, nascere, crescere, morire,pranzare, cenare, delirare, deperire, tremare, riposare, scoppiare, starnutire, sbadigliare, abbaiare, miagolare.

Verbi con solo il soggetto (intransitivi)

io.2 Verbi impersonali o zerovalenti Alcuni processi, in primo luogo i fenomeni meteorologici, sono de3Γsoggetto scritti come Privi di argomenti. I verbi che designano questi processi ----------- vengono chiamati i m p e r s o n a l i . I verbi impersonali più usati in italiano sono: piovere, nevicare, brinare, grandinare, tuonare, lampeggiare. Esattamente come i verbi impersonali si comportano alcuni predicati che designano processi analoghi: fa freddo, fa caldo. Verbi senza

Il fatto che un fenomeno meteorologico come la pioggia sia descritto come un processo senza argomenti è una caratteristica della sua codifica linguistica. Se invece di piove, per esempio, diciamo cade le pioggia, descriviamo lo stesso fenomeno come un processo con un argomento: il soggetto di cadere. L’arabo funziona più o meno cosi; per codificare il processo meteorologico offre infatti due costruzioni: una formata da un verbo che traduce grosso modo piovere e che ha come soggetto il cielo, e una che ha come soggetto la pioggia e come predicato un verbo di movimento, come cadere o precipitare.

10.4 Verbi a due posti o bivalenti I verbi a due posti prendono, oltre al soggetto, un secondo argomento come complemento. A seconda della forma del loro secondo argomen­ to, i verbi a due posti si distribuiscono in due sottoclassi principali: transitivi e intransitivi. 10 .4.1 Verbi a due posti transitivi: l’oggetto diretto

I verbi a due posti transitivi hanno come secondo argomento un’e. -, „ ,. .. spressione nominale, il complemento oggetto diretto: Il cane raggiunge il padrone. Gianni ha restaurato il mobile.

Nella funzione di oggetto diretto possiamo trovare anche un prono­ me personale atono fr-334 Lsolitamente anteposto al verbo:

In inglese, francese e tedesco i verbi impersonali hanno un soggetto grammaticale, la cui espressione è obbligatoria: non diciamo rains ma it rains, non pleut ma il pleut, non regnet ma Es regnet. Anche queste lingue descrivono la pioggia come un processo senza argomenti. In queste

Il cane lo ha raggiunto. Carlo mi ama.

lingue, tuttavia, nessuna frase può discostarsi dalla frase modello di forma soggetto-predicato. La forma del soggetto però è rigida: si tratta di un pronome di terza persona singolare, nel ge­ nere meno caratterizzato: il neutro per l’inglese e il tedesco, il maschile per il francese (che non

Il pronome personale posposto crea un effetto comunicativo parti­ colare: un fuoco marcato di tipo contrastivo |gti7-ji3ì|:

ha neutro). In queste lingue, dunque, la differenza tra verbi impersonali e verbi personali non è nella struttura grammaticale della frase, ma nel contenuto del soggetto: nella frase II arrive, il

Carlo ama

me (e non

un’altra persona).

pronome il si riferisce a qualcuno o qualcosa che arriva. Nella frase II pleut, il pronome il non si riferisce a nulla. Lo stesso discorso vale per le espressioni tedesche e inglesi corrispondenti.

Ecco alcuni esempi di verbi a due posti transitivi: creare, costruire,

Forme dell’oggetto diretto

-------------------

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Ruoli dell’oggetto diretto

CAPITOLO 10 - La struttura del predicato verbale

Parte III - Sintassi della frase modello. La frase semplice

restaurare, distruggere, produrre, consumare, accendere, spegnere, lodare, biasimare, insultare, amare, odiare, ferire, curare. Come il soggetto, il complemento oggetto è una r e l a z i o n e g r a m ­ m a t i c a l e v u o t a . Un’espressione nominale non viene riconosciuta co­ me un complemento oggetto perché è paziente o risultato, ma perché gode di certe proprietà formali indipendenti. Una volta identificato su basi indipendenti, il complemento oggetto riceve un ruolo [►fab. 13.2I sulla base del contenuto del verbo. In particolare, può ospitare il ruolo di paziente, 0 obiectum affectum, se subisce l’azione come in 1 o in 2, o di risultato dell’azione, o obiectum effectum, come in 3: 1. Giorgio ha picchiato Luca. 2. Giorgio ha riparato il motorino. 3. Giorgio ha costruito uno scaffale.

Ritroveremo il complemento oggetto diretto anche nella costruzio­ ne dei verbi transitivi a tre posti Ffos]. Alcuni verbi intransitivi accettano una forma di complemento og­ getto a condizione che questo si limiti a rendere esplicito il contenuto del verbo:

Il complemento oggetto diventa soggetto di una frase passiva: 4a. Giorgio ha lavato i piatti > 4b. I piatti sono stati lavati da Giorgio. 5a. Giorgio ha pesato le mele > 5b. Le mele sono state pesate da Giorgio.

Per distinguere questo complemento dal vero e proprio comple­ mento oggetto si parla di complemento o g g e t t o i n t e r n o . Come si vede dagli esempi, il nome che funziona da oggetto interno è sempre accom­ pagnato da un aggettivo o da un complemento. Verbi a due posti intransitivi: l’oggetto preposizionale

La seconda sottoclasse di verbi bivalenti comprende i verbi a due posti i n t r a n s i t i v i che reggono, come secondo argomento, un espressione preposizionale: Fido ubbidisce a mio padre.

Se un’espressione nominale che segue il verbo non è un comple­ mento oggetto, la trasformazione è bloccata: la frase 6, per esempio, non si può volgere al passivo dato che l’espressione nominale tutta la notte non è un complemento del verbo ma un circostanziale di tempo I»13.1.2|; lo stesso vale per le frasi 7 e 8: due chili e 180 centimetri non sono oggetti diretti ma espressioni di quantità: 6. Carla ha letto tutta la notte. 7. Le mele pesano due chili. 8. Il letto misura 180 centimetri.

L’oggetto diretto occupa normalmente la posizione post-verbale. Può essere dislocato, cioè spostato all’inizio della frase, prima del sog­ getto, ma in questo caso deve essere ripreso all’interno della frase da un pronome. La ripresa è obbligatoria sia per i verbi che richiedono un oggetto obbligatoriamente espresso (come cercare nell’esempio 9a) sia per i verbi con i quali l’oggetto può essere sottinteso (come par­ cheggiare nell’esempio IOa): 9a. Gianni cerca il gatto. IOa. Giorgio ha parcheggiato (la macchina). 9b. Il gatto, Giorgio lo ha cercato tutta la notte. lOb. La macchina, l'ha parcheggiata Giorgio.

L’oggetto interno dei verbi monovalenti

Dormire un sonno profondo (/il sonno dei giusti). Vivere (/una vita di stenti).

10.4.2 Proprietà dell'oggetto diretto

139

I più significativi tra i verbi a due posti intransitivi richiedono cia­ scuno una p r e p o s i z i o n e p r e c i s a , che non può essere sostituita, per esempio rinunciare, aderire, ricorrere, ubbidire esigono a (esempi 1-3), dipendere richiede da (4), optare vuole per (5), influire e contare prendono su (6 e 7), collaborare regge con (8): 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

Hai rinunciato a una buona occasione. Abbiamo aderito a un’iniziativa benefica. Ricorreremo a mezzi estremi. Dipende da te. Giorgio ha optato per il tempo pieno. Conta su di me. Nessuno ha mai influito su di lui come sua madre. Maria collabora con un quotidiano.

Possiamo chiamare questo complemento, introdotto da una prepo­ sizione richiesta dal verbo, o g g e t t o p r e p o s i z i o n a l e . Come il soggetto e l’oggetto diretto, l’oggetto preposizionale è una r e l a z i o n e g r a m m a t i c a l e v u o t a . Il criterio che ci permette di stabilirlo è il comportamento della preposizione. Quando codifica una relazione concettuale, la preposizione è scelta in funzione del suo contenuto, che

L’oggetto dei verbi con reggenza preposizionale

140

Parte III - Sintassi della frase modello. La frase semplice

contribuisce a definire il profilo della relazione. Se viceversa la prepo­ sizione non è scelta, ma imposta dal verbo, si svuota del suo contenuto: l’unica conclusione è che codifica una relazione grammaticale vuota, il cui contenuto discende dal verbo.

Box 10.1 - LE PREPOSIZIONI: LA DOPPIA IDENTITÀ Osserviamo il diverso comportamento della preposizione su quando codifica una relazione concettuale (1) e quando codifica una relazione grammaticale (2). 1. Il gatto è sul tavolo. 2. Giovanni conta sulla tua presenza. Nella frase 1 la preposizione codifica la relazione per cui il gatto è sopra il tavolo: la preposi­ zione su è stata scelta all’interno di un paradigma di preposizioni concorrenti (sotto, accanto, dietro, ecc.) che avrebbero tracciato relazioni spaziali diverse. Nella frase 2, viceversa la preposizione su non è scelta all’interno di un paradigma, ma imposta dal verbo, che non lascia alternative: non possiamo sostituire su con sotto, e nemmeno con sopra-, parallelamente, la preposizione non codifica una particolare relazione spaziale, perché in effetti non c è nessuna relazione spaziale da esprimere: la preposizione codifica semplicemente una relazione grammaticale vuota tra il verbo e il suo complemento; sarà il verbo contare a dare un contenuto alla relazione. Nonostante la presenza di una preposizione, l’oggetto preposizionale si comporta esatta­ mente come l’oggetto diretto: non ha un contenuto proprio e riceve un contenuto che di­ scende dal verbo. Il fatto che certi verbi hanno l’oggetto diretto mentre altri ricevono una preposizione è un dato da accettare come tale. Verbi dal significato simile possono essere l’uno transitivo e l’altro intransitivo, o avere preposizioni diverse: temere per esempio è tran­ sitivo, diffidare è intransitivo e regge di, mentre guardarsi regge da; rinunciare regge a, de­ sistere regge da, privarsi richiede di. Ugualmente, verbi dal significato simile si comportano diversamente in lingue diverse. Aspettare in italiano è transitivo: il suo equivalente tedesco warten regge la preposizione auf (su), mentre l’inglese wait regge for (per). Anche in italiano antico troviamo esempi di costruzione transitiva di verbi preposizionali: le quali andavano ragionando [dicendo] tra loro queste parole (Dante). Accanto a e pregandoli che giudicassero iajm ia visione (Dante), con verbo transitivo, abbiamo Neun uomo può giudicare de le cose che debbono avenire (Bono Giamboni), con verbo intransitivo. La differenza tra una preposizione che introduce una relazione grammaticale vuota e una preposizione che introduce una relazione concettuale piena ha importanti implicazioni traduttive. Nel primo caso non si traduce la preposizione, ma il verbo, e poi si verifica come si costruisce questo verbo nella lingua di arrivo. Di fronte a un’espressione come dipende da te, per esempio, il traduttore verso l’inglese identificherà il verbo depend come traducente corretto, e prenderà atto della sua reggenza: it depends on you. Nel secondo caso, vicever­ sa, si traduce la preposizione, cercando nella lingua d’arrivo una preposizione in grado di salvaguardare il suo contenuto. Di fronte a una frase come II gatto è sul tavolo, occorre in

CAPITOLO 10 - La struttura del predicato verbale

141

primo luogo identificare la relazione spaziale pertinente, e poi chiedersi come renderla nella lingua d’arrivo: in inglese, per esempio, occorrerà scegliere tra on («sopra» con contatto), over («sopra» senza contatto) o above («sopra» senza contatto e non sulla verticale).

Box 10.2 - L’ACCUSATIVO PREPOSIZIONALE Il complemento oggetto preposizionale che accompagna i verbi intransitivi non va confuso con una costruzione tipica dell’Italiano parlato in alcune regioni centro-meridionali (ma anche in Sardegna, nell'isola d’Elba e nell’area di Trieste), chiamata accusativo preposizionale. Si tratta dell'uso della preposizione a davanti a un normale oggetto diretto di un verbo transi­ tivo, quando il referente dell’oggetto è una persona: Senti a me (ma Senti le campane), Ho visto a tuo padre (ma Ho visto il film). Questo stesso tipo di costruzione, che serve per differenziare gli oggetti diretti riferiti a per­ sone (o, per estensione, agli animali) da quelli riferiti a inanimati, si ritrova in lingue romanze come lo spagnolo e il portoghese (anche in queste lingue la preposizione che introduce l’oggetto diretto è a, derivata dal latino ad) e in rumeno (in cui si usa la preposizione pe, derivata dal latino per).

10 .4.3 II complemento di argomento

I verbi a due argomenti intransitivi non prendono tutti un oggetto pre­ posizionale, introdotto da preposizione imposta dal verbo e priva di contenuto proprio. In alcuni casi la preposizione è scelta, e lo è per il suo contenuto. In questo caso, non siamo in presenza di una relazione grammaticale vuota, ma della codifica diretta di una relazione concet­ tuale. Questo comportamento caratterizza in blocco le espressioni spa­ ziali usate come argomenti ►io.6i, ma interessa anche altri verbi. Il verbo riflettere, ad esempio, prende un complemento introdotto da una preposizione che si comporta in modo opposto rispetto all’og­ getto preposizionale. La preposizione è scelta all’interno un paradigma di opzioni - su, intorno a, circa, a proposito di, riguardo a; Gianni ha riflettuto a lungo sulla (/intorno alla / riguardo alla) tua proposta.

Inoltre, entra nella costruzione con un significato specifico: se sce­ gliamo su, in particolare, vediamo metaforicamente la riflessione come uno sguardo dall’alto; se scegliamo intorno, come una sorta di circum­ navigazione dell’argomento. Dato che la forma di espressione è motivata dal contenuto concet-

142

Parte III - Sintassi della frase modello. La frase semplice

tuale, possiamo ritrovare la stessa espressione con lo stesso ruolo in una costruzione diversa. Troveremo così il complemento di argomento con i verbi a tre argomenti (1) - ma anche come complemento di un nome (2) [M4.2,2Ì:

CAPITOLO 10 - La struttura del predicato verbale

-

verbi appellativi come chiamare, soprannominare, ecc.

I genitori hanno soprannominato Francesco «Ciccio».

1. Mario mi ha informato sulla (/intorno alla / riguardo alla) tua pro­ posta. 2. Giovanni ha scritto un libro su (/intorno a) Manzoni.

verbi elettivi come eleggere, nominare, ecc.

Hanno eletto Stefano presidente.

10.4.4 Verbi con complemento predicativo

Il complemento predicativo del soggetto

Alcuni verbi hanno una valenza più complessa: oltre a prendere uno o due argomenti, applicano a un argomento - il soggetto o il comple­ mento oggetto - un complemento predicativo, che funziona come un predicato nominale (Strik Lievers, 2012). I verbi che applicano il complemento predicativo al soggetto sono verbi intransitivi a un argomento. I più significativi esprimono fasi di un processo, come diventare o rimanere, o valori percettivi o modali, come sembrare o apparire·. 1. Giorgio è diventato un provetto scalatore. 2. Giorgio sembra un provetto scalatore.

Ci sono poi verbi come nascere, morire o arrivare che non richie­ dono il complemento predicativo ma lo ammettono: 3a. 3b. 4a. 4b.

Il complemento predicativo deU’oggetto

Giorgio è nato il 22 febbraio. [Uso predicativo normale] Giorgio è nato stanco. [Uso con complemento predicativo] Giorgio è arrivato da dieci minuti. Giorgio è arrivato stanco.

La parentela tra il complemento predicativo e il predicato nominale è evidente: al compiersi del processo (1), Giorgio è uno scalatore pro­ vetto; in (4b) Giorgio è stanco nel momento in cui arriva. I verbi che applicano il complemento predicativo all’oggetto sono verbi transitivi. I più caratteristici sono: — verbi di giudizio come giudicare, credere, ritenere, ecc. Ritengo Giorgio pazzo.

-

verbi di percezione come vedere, sentire, ecc.

Ti vedo stanco.

verbi causativi come fare, rendere, ecc.

Giulia ha reso Andrea padre.

II complemento predicativo può essere preceduto da come, in qua­ lità di, per: Ho scelto Luca come mio aiutante.

Se volgiamo il verbo da attivo in passivo, il complemento oggetto si trasforma in soggetto, e il complemento predicativo dell’oggetto in complemento predicativo del soggetto: Chiamavano Marat l’amico del popolo. > Marat era chiamato l’amico del popolo.

Se facciamo entrare il verbo in una costruzione causativa IM1.3, viceversa, il complemento predicativo del soggetto diventa comple­ mento predicativo dell’oggetto: L'attesa ha fatto diventare Giulio impaziente.

Lo stesso spostamento del complemento predicativo si osserva con le coppie di verbi conversi F6.4.41: sembrare e ritenere sono verbi di giudizio conversi, intransitivo il primo, transitivo il secondo. Le frasi 2a e 2b sono equivalenti; nel primo caso il complemento predicativo {pazzo) si applica al soggetto di sembrare, nel secondo caso al comple­ mento oggetto di ritenere: 2a. Giorgio mi sembra pazzo. 2b. Ritengo Giorgio pazzo.

143

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Parte III - Sintassi della frase modello. La frase semplice

CAPITOLO 10 - La struttura del predicato verbale

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10.5 Verbi a tre posti o trivalenti: l’oggetto indiretto Con i verbi a tre posti, un terzo argomento si aggiunge al soggetto e al primo complemento del verbo: Ho regalato il libro a Paola. Adatterò il comportamento alla situazione.

Il complemento oggetto Indiretto

Con questi verbi troviamo diversi tipi di costruzioni. La costruzione più tipica nella quale troviamo i verbi a tre posti include, oltre al soggetto, un complemento oggetto diretto e un com­ plemento preceduto dalla preposizione a, detto o g g e t t o i n d i r e t t o : Giacomo ha offerto un caffè a Luca.

Come l’oggetto preposizionale, l’oggetto indiretto ha la forma di un’espressione preposizionale. Se ne distingue per due proprietà: in primo luogo, mentre l’oggetto preposizionale completa un verbo in­ transitivo, ed è quindi un’alternativa all’oggetto diretto, l’oggetto indi­ retto completa un verbo transitivo, e si aggiunge all’oggetto diretto. Per questo la costruzione con l’oggetto indiretto si chiama anche c o ­ s t r u z i o n e d i t r a n s i t i v a . In secondo luogo, mentre la forma dell’oggetto preposizionale è controllata dal verbo reggente, l’oggetto indiretto ha una forma propria: è sempre introdotto dalla preposizione a. La costruzione ditransitiva caratterizza in primo luogo due grandi classi di verbi: i verbi di comunicazione, o v e r b i d i d i r e (per esempio dire, raccontare, riferire), e i v e r b i d i d a r e (per esempio dare, donare, regalare, affidare, prestare). Ci sono però verbi che, pur avendo un contenuto del tutto diverso, richiedono la stessa costruzione: per esem­ pio rubare, togliere, adattare, sottomettere, paragonare: Giacomo ha rubato i guanti a Luca. Lorenza ha tolto una macchia al vestito. Cesare sottomise la Gallia a Roma. Giovanni paragona suo figlio a Mozart.

Ruolo dell’oggetto indiretto

Se limitiamo la nostra attenzione ai verbi di dire e dare, l’oggetto indiretto sembra direttamente collegabile a un ruolo preciso del processo (i» T a b . 13.21): il d e s t i n a t a r i o del messaggio o del dono, visto come se fosse la meta di un movimento (da qui la denominazione tradizionale di c o m p l e m e n t o d i t e r m i n e ) . Se la costruzione ditransitiva fosse limi­ tata ai verbi di dire e di dare, la conclusione ovvia sarebbe che l’ogget­ to indiretto codifica non una relazione grammaticale vuota ma una re­ lazione concettuale piena (il ruolo di destinatario).

Box 10.3 - IL DESTINATARIO COME META METAFORICA Tra un destinatario e una meta c'è una contiguità stretta: in 1 vediamo un destinatario perché si tratta di una persona, mentre in 2 vediamo una meta perché si tratta di un luogo: 1. Lorenza ha spedito un pacco a Simona 2. Lorenza ha spedito un pacco a Roma. La struttura del movimento, tuttavia, è la stessa nei due casi. Inoltre in entrambi i casi trovia­ mo la preposizione a, che sembra partecipare attivamente alla codifica del destinatario come partecipa attivamente alla codifica della meta. La sensazione è rinforzata se si considera l’origine della costruzione: la forma dell’oggetto indiretto deriva dalla forma latina ad + accu­ sativo, che in latino entra in competizione con l’espressione classica dell’oggetto indiretto: il caso dativo. Invece di Dixit e/'s, per esempio, si comincia a dire Dixit ad illos (documentato per esempio nel Vangelo di S. Luca, 6, 9-10), esattamente come si diceva Caesarad flumen exercitum duxit («Cesare condusse l’esercito al fiume»). Lo scambio di messaggi e di doni è visto metaforicamente come lo spostamento di un oggetto, e il destinatario come la meta. Nel passaggio dal latino alle lingue romanze come l'italiano, in seguito alla scomparsa del caso dativo, l’espressione a + sintagma nominale diventa l’unica forma di espressione dell’oggetto indiretto. In questo modo, l’espressione puntuale di una relazione concettuale piena - la meta prima, il destinatario poi - si è trasformata nell'espressione di una relazione grammaticale vuota: si è cioè «grammaticalizzata» *Box2.6 (cfr. Hopper e Traugott, 1993; Heine e Kuteva, 2002; Fedriani e Prandi, 2014).

Nonostante derivi dall’espressione della meta di un movimento, l’oggetto indiretto non è una forma di espressione diretta del destinatario ma una relazione grammaticale. La prova è nel fatto che molti verbi che reggono l’oggetto indiretto non hanno come terzo argomento un destinatario. Nel caso di rubare, il ruolo codificato dall’oggetto indi­ retto non è un destinatario ma una fonte: Giacomo ha rubato i guanti a Luca.

Verbi come sottomettere, adattare e paragonare, addirittura, sono completamente estranei a ogni idea di movimento. La conclusione è che anche l’oggetto indiretto codifica in realtà una relazione gramma­ ticale vuota, pronta ad accogliere il ruolo di volta in volta coerente con il verbo che la occupa. Più in generale, una relazione grammaticale non ha una relazione biunivoca con un ruolo, ma riceve il suo valore di re­ lazione grammaticale dalla sua posizione in una costruzione. Nella funzione di oggetto indiretto possiamo trovare anche un pro­ nome personale atono IFiUL solitamente anteposto al verbo:

146

Giacomo gli ha rubato j guanti.

I verbi di comunicazione descrivono tutti lo scambio di un messag­ gio tra un emittente e un destinatario, e presentano quindi gli stessi tre argomenti: il parlante, il destinatario e il contenuto del messaggio. Cio­ nonostante, non tutti entrano nella costruzione appena descritta. Con il verbo informare, per esempio, il destinatario (in neretto negli esempi) è affidato all’oggetto diretto (1), mentre con parlare è affidato all’og­ getto indiretto (2): 1. Ho Informato Gianni della tua proposta. 2. Ho parlato a Gianni della tua proposta.

È un altro esempio del fatto che non c’è relazione biunivoca tra una relazione grammaticale e un ruolo. Il messaggio è espresso in entrambi i casi dal complemento di argomento {►tòÌ4Ì3l che possiamo incontra­ re anche con verbi trivalenti di comunicazione. Tra questi verbi, il comportamento di discutere è il più interessan­ te. Discutere descrive una comunicazione simmetrica tra due interlo­ cutori. Questa struttura può essere codificata in diversi modi: possiamo cumulare i due ruoli con un soggetto coordinato (3), plurale (4) o col­ lettivo (5), oppure tenerli distinti, affidando un interlocutore al sogget­ to {Mario) e l’altro a un complemento {con Gianni) che esprime il col­ laboratore dell’agente (6), ovvero una relazione concettuale introdotta da con o insieme a fM3.2.2|. Anche l’argomento della discussione am­ mette un’espressione duplice: o come complemento oggetto diretto (4, 6) o come complemento di argomento (3, 5): 3. 4. 5. 6.

Mario e Simona hanno discusso del progetto. I delegati hanno discusso il progetto. Il Senato ha discusso intorno a quel progetto. Mario ha discusso il progetto con Gianni.

10.5.1 Verbi transitivi e verbi intransitivi Limiti della distinzione tra transitivi e intransitivi

CAPITOLO 10 - La struttura del predicato verbale

Parte III - Sintassi della frase modello. La frase semplice

La distinzione dei verbi in transitivi e intransitivi è importantissima per la sintassi: i verbi transitivi ricevono il complemento oggetto e ac­ cettano la forma passiva. Tuttavia, non è sufficientemente accurata per Tanalisi del predicato verbale, in quanto tanto i verbi intransitivi quan­ to i verbi transitivi sono classi non omogenee. Tra i verbi transitivi ci sono sia verbi a due argomenti (1) sia verbi a tre argomenti (2 e 3): 1. Mio fratello ha costruito una libreria. 2. Ho regalato un libro a mio figlio. 3. Ho spedito un libro in Francia.

Tra i verbi intransitivi ci sono, oltre agli impersonali (4), sia verbi a un posto, privi di complementi (5) sia verbi a due posti (6 e 7), sia verbi a tre posti (8), che ricevono complementi diversi dal complemen­ to oggetto: 4. 5. 6. 7. 8.

Piove. Mio nipote è cresciuto. Non rinuncerò alle mie opinioni. Vado a casa. Ho discusso con Maria del nostro futuro.

D’altro canto, nella storia dell’italiano è documentata l’oscillazio­ ne tra usi transitivi e intransitivi di uno stesso verbo (Jezek, 2010: 92 ss.) ►goxfo"f. Anche nell’italiano contemporaneo, inoltre, troviamo casi di verbi intransitivi come obbedire che accettano la forma passiva (De Santis, 2018). Costruzioni transitive di verbi intransitivi sono dif­ fuse poi negli italiani regionali [►551. valenza

numero e tipo di argomenti

categorie di verbi

zerovalenti o impersonali

0

verbi intransitivi meteorologici

monovalenti (a un posto)

soggetto (SN)

verbi intransitivi come sbadigliare

soggetto (SN) + oggetto diretto (SN)

verbi transitivi come lavare

soggetto (SN) + oggetto preposizionale (SP)

verbi intransitivi come ubbidire (a), dipendere {da), consistere {in)

bivalenti (a due posti)

trivalenti (a tre posti)

soggetto (SN) + oggetto diretto (SN) + oggetto indiretto (SP o pronome)

verbi transitivi (ditransitivi) di dire e di dare

soggetto (SN) + sintagma preposizionale (SP) + sintagma preposizionale (SP)

verbi intransitivi come discutere con qualcuno di qualche cosa

Tab. 10.1 La classificazione dei verbi predicativi basata sulla valenza

io.6 Le relazioni spaziali: relazioni concettuali come argomenti del verbo Le relazioni spaziali non sono relazioni grammaticali vuote ma relazio­ ni concettuali piene. Per l’espressione delle relazioni spaziali, il parlan­ te dispone di un’ampia scelta di preposizioni, ciascuna delle quali trac-

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eia una relazione diversa: in città, su una collina, lungo ilfiume, vici­ no alfiume, dietro il palazzo comunale, davanti alla chiesa. Nell’espressione delle relazioni spaziali troviamo preposizioni pro­ prie {a, da, in, su, per) ma soprattutto preposizioni improprie (sopra, sotto, dentro, fuori, lungo) e locuzioni preposizionali (vicino a, lontano da, in cima a, di fronte a, sulla destra di ecc.). L’uso delle preposizioni proprie è rigido con i nomi propri e con alcuni nomi comuni come casa, scuola, chiesa. Per esempio, si dice in chiesa ma non a chiesa, mentre a casa e in casa hanno significati di­ versi. Si dice (ci troviamo) da Mario e non a Mario, (abito) in Germa­ nia ma a Norimberga. Anche con questi nomi, tuttavia, la scelta delle preposizioni improprie e delle locuzioni è libera: (abito) nei pressi di Norimberga, lontano dal centro, e così via. Tra le locuzioni preposi­ zionali, molte contengono un nome, e sono quindi capaci di raggiunge­ re un grado di precisione molto alto: sulla cima di una collina, sul fianco di una collina, ai piedi di una collina. L’espressione delle relazioni spaziali può essere affidata anche a un a v v e r b i o d i l u o g o . L’avverbio di luogo sta all’espressione preposi­ zionale come il pronome sta all’espressione nominale: L à ho visto uno scoiattolo. Abito qui da tre anni. Vado laggiù domani. Ci vado domani.

Quando pensiamo alle relazioni spaziali, pensiamo in primo luogo a quelle che Tesnière (1959) chiama le «circostanze» che dall’esterno inquadrano un processo, esattamente come le scene inquadrano un dramma. Dato un processo completo, posso collocarlo in un certo luo­ go: l’evento, per esempio, può aver luogo a Roma, dietro il Colosseo, al ristorante. Tuttavia, le relazioni spaziali o locative possono entrare nel nucleo del processo come argomenti di alcuni verbi. Si tratta di verbi che hanno la prerogativa di esprimere processi nei quali lo spazio ha un ruolo di protagonista: i v e r b i d i s t a t o , che collocano oggetti nel­ lo spazio (per esempio abitare, trovarsi), e i v e r b i d i m o v i m e n t o e d i s p o s t a m e n t o , che disegnano traiettorie nello spazio (per esempio an­ dare e mandare). Il comportamento delle relazioni spaziali ha due conseguenze importanti.

processo presenta, accanto a relazioni grammaticali vuote costruite sulla base di regole rigide come il soggetto o il complemento oggetto, relazioni concettuali piene, codificate in modo diret­ to da una preposizione scelta grazie al suo significato. In secondo luogo, le relazioni concettuali - a differenza delle relazioni grammaticali - non hanno un profilo grammaticale distintivo: le relazioni spaziali con funzione di argomenti hanno la stessa forma grammaticale delle relazioni spaziali collocate all’esterno del processo. Un verbo di stato come abitare, per esempio, accetta come argomenti (1) le stesse espressioni che possono fornire a un processo (2) le sue circostanze spaziali: 1. Giovanni abita in città (/su una collina/lungo il fìume/dietro il Comune/davanti alta chiesa). 2. Giovanni ha incontrato Maria in città (/su una collina/lungo il fium e/dietro il Comu­ ne/davanti alla chiesa). Questo significa che non possiamo più contare su criteri formali per tracciare il confine tra il nucleo del processo (verbo e argomenti) e gli elementi periferici che lo arricchiscono, lo situano nello spazio e nel tempo, lo collegano con altri processi. Come vedremo in seguito, per tracciare il confine dovremo utilizzare criteri concettuali, che sono sensibili non alla correttezza grammati­ cale delle costruzioni regolate da regole, ma alla coerenza concettuale delle scelte del parlante

1»12.31.

10.6.1 Verbi di stato: il complemento di luogo I verbi di stato sono verbi i n t r a n s i t i v i che localizzano il soggetto in un punto dello spazio, e per questo ricevono un c o m p l e m e n t o d i l u o g o . Sono verbi di stato, per esempio, abitare, risiedere, trovarsi, stare, vi­ vere (nell’accezione prossima ad abitare). Per disegnare in modo esatto la relazione spaziale, possiamo sce­ gliere da un ampio repertorio di preposizioni (proprie e improprie) e di locuzioni. Inoltre, le relazioni spaziali possono essere cumulate senza limiti: Giovanni abita in città (/sulla cima di una collina/dietro il Comune/ vicino al fiume). Il vento frusciava nei giardini e negli orti a pie’ delle case, dentro la cinta delle mura di Siena (F. Tozzi)

Quando è usato come verbo di stato (con significato di «trovarsi»), il verbo essere è un verbo predicativo a due argomenti, e forma con il complemento di luogo un predicato verbale:

In primo luogo, l’espressione delle relazioni spaziali appartiene alla grammatica delle scelte an­ che quando il loro posto è nel nucleo del processo, tra gli argomenti del verbo: il parlante pensa a una relazione spaziale e sceglie la preposizione che meglio si presta a portarla all’espressio­ ne. Come nel caso del complemento di argomento, ma in misura molto più ampia, il nucleo del

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CAPITOLO 10 - La struttura del predicato verbale

Parte III - Sintassi della frase modello. La frase semplice

Il treno è in stazione.

Complementi di luogo come argomenti di verbi di stato

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Osserviamo l’uso di esserci, che può significare «essere presente» (1), «aver luogo» (2) o «esistere» (3): 1. Mario non c’era. 2. Ci sarà una festa. 3. Dio c’è.

10.6.2 Verbi di movimento e di spostamento: l’origine, il tragitto, la destinazione

Complementi di luogo come argomenti di verbi di movimento

CAPITOLO 10 - La struttura del predicato verbale

Parte III - Sintassi della frase modello. La frase semplice

I verbi di movimento e di spostamento ci permettono di tracciare il moto di un corpo nello spazio. I verbi di movimento sono verbi intransitivi. Il corpo che si muo­ ve è designato dal soggetto; l’origine, il tragitto e la destinazione del movimento sono designati da sintagmi preposizionali: Paolo è andato a casa. Il muratore è salito sul tetto. La mamma torna dalla città.

In posizione di soggetto di verbi di movimento troviamo in primo luogo persone e animali, capaci di moto autonomo, e quindi agenti. Possiamo però trovare anche artefatti come macchine, automi, oppure oggetti che si muovono per cause naturali. La lingua considera questi corpi alla stregua di oggetti semoventi: Il fiume esce dal lago.

Un gruppo di verbi è specializzato nell’esprimere un movimento involontario, per esempio rotolare, cadere e precipitare: Il sasso è rotolato a valle. Un fulmine è caduto sul campanile. Un grande masso è precipitato sulla strada.

Luca ha messo il gatto sul tavolo. Paolo ha tolto il ghiaccio dal frigorìfero. I bambini gettavano sassi nello stagno. I treni trasportano ogni anno milioni di persone.

A differenza dei verbi di stato, che situano un oggetto o un proces­ so nello spazio in modo statico, i complementi dei verbi di movimento e di spostamento disegnano lo spazio in modo dinamico: il luogo di­ venta cioè destinazione (1,2, 3), origine (4, 5) o tragitto (6, 7) del mo­ vimento o dello spostamento. 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Vado al cinema. Vado verso Genova. Paolo ha buttato i vestiti sul letto. La marmotta è uscita dalla tana. Giovanni ha tolto il ghiaccio dal frigorifero. Passeggio per i giardini pubblici. I soldati trasportavano le casse di munizioni attraverso la brughiera.

Più complementi di luogo possono cumularsi nella stessa frase: 8. Andremo da Milano a Costanza attraverso lo Spluga. 9. Trasporteremo i viveri dal rifugio al campo attraverso il canalone. 10. L’azienda ha trasferito la sede (da Roma a Milano). 11. Olga ha tradotto un romanzo dal russo (in italiano).

Nello specificare e nel combinare i diversi complementi di luogo non siamo completamente liberi. Con andare, per esempio, possiamo specificare la meta senza specificare la fonte ma non vicever­ sa: posso dire Vado a Torino, Vado da Milano a Torino, ma non Vado da Milano. Con venire, invece, è possibile specificare soltanto la fonte (Vengo da Treviso) o la meta (Vengo a casa alle due). Quando cumulano diversi complementi di luogo, i verbi transitivi di spostamento possono rice­ vere anche quattro o addirittura cinque argomenti. Nonostante questo, non parliamo di verbi a valenza 4 o 5, in quanto i diversi complementi di luogo danno una realizzazione multipla di una singola posizione locativa.

Anche i soggetti animati, quando sono usati con questi verbi, non sono visti come agenti, ma come corpi che subiscono il movimento: Giovanni è caduto dalla scala a pioli. Il ragazzo è rotolato in fondo alla scarpata. Il soldato colpito precipitò dalle mura. Complementi di luogo come argomenti di verbi di spostamento

I verbi di spostamento sono verbi transitivi. Il corpo in movimento compare in posizione di oggetto diretto, mentre in posizione di soggetto compare l’agente o la forza che imprime il movimento:

151

io.7 Verbi con valenza variabile Abbiamo già osservato il comportamento di discutere 19.2 . La virgola tra soggetto e verbo, per esempio, può essere funzionale a isolare un soggetto con valore contrastivo (che si oppone cioè a un’al­ ternativa attivata dal contesto): 13. L’amica di Paola, [non Paola] mi ha chiamata. Anche il punto fermo viene talora usato (nella prosa espressiva novecentesca di ambito gior­

Non va usata neppure per separare il predicato dai suoi margini interni (4).

nalistico e letterario) per dinamizzare la frase, isolando singoli costituenti frasali: 4. Ho sollevato la ruota della moto con un cric da automobile. Può essere invece usata per separare dal nucleo i margini esterni del processo: circostanze temporali (5), spaziali (6), causali (7). La presenza o meno dei segni di punteggiatura può dipendere dalla collocazione (relativamente libera) dei margini all’interno della frase (5, 5a, 5b; 6, 6a): 5. Durante la lezionef.) la mia classe fa sempre molto chiasso. 5a. La mia classe fa sempre molto chiasso durante la lezione. 5b. La mia classe, durante la lezione, fa sempre molto chiasso. 6. Nel paese in cui vado in vacanza, si tiene ogni anno una sagra diversa. 6a. Ogni anno, nel paese in cui vado in vacanza, si tiene una sagra diversa. 7. Per colpa di uno di noi, siamo stati puniti tutti.

14. Scorse il poeta allontanarsi. Con la ragazza, (Gadda) La virgola può essere usata con valore prosodico anche per isolare un vocativo: 14. Paola, potresti comprare il giornale? 15. Fido, seduto! Rientrano nell’uso prosodico della punteggiatura anche segni come il punto interrogativo (14), il punto esclamativo (15) e i puntini di sospensione che si usano a fine frase per se­ gnalare rispettivamente: l'intonazione interrogativa (di domanda), esclamativa (di ordine, o

La virgola di norma non separa le espansioni del nome dal nome che espandono (un libro molto interessante), a meno che non vogliamo creare un enunciato nominale (8), né i modi­ ficatori del verbo dal verbo che espandono (9). 8. Interessante, questo libro. 9. Ho letto con grande interesse il libro che mi hai prestato. Può essere invece usata nel caso di elenchi (per separare per esempio sintagmi nominali giustapposti anziché coordinati tra di loro: 10) e di incisi: è il caso di certe apposizioni, che si racchiudono tra due virgole (11):

per indicare sorpresa) e sospensiva (per indicare incertezza) M .4 . In questo caso, i segni di punteggiatura cumulano più funzioni: delimitare i confini della frase, suggerirne l’intonazione e marcare un atto linguistico (domanda, ordine, ecc.). All’interno della frase semplice possono anche essere usati altri segni (come virgolette e apici) per segnalare il cambio di status delle parole (citazioni, significati particolari). Virgolet­ te e trattini sono usati anche per delimitare battute nel discorso diretto (►15.2 ). In generale, è utile ricordare che le regole di punteggiatura sono applicate in modo accurato soprattutto nei testi «rigidi» (norme, istruzioni), in modo più libero nei testi cosiddetti «elasti­ ci» (testi letterari), in cui possono essere sperimentati usi creativi dei segni di punteggiatura ►Box 18.1. Nei casi, inoltre, in cui il segno di punteggiatura è facoltativo (per esempio quan­ do si tratta di separare il nucleo di frase da un'espansione: es. 6), l’uso può dipendere an­ che da fattori come lo stile personale, la densità delle informazioni, la vicinanza di altri segni. Sull’uso della punteggiatura nella frase complessa ►Box 16.2.

10. Nella mia dispensa non mancano mai: latte scremato, fette biscottate, mar­ mellata all'arancia. 11. Dante, autore della Divina Commedia, morì a Ravenna nel 1321. Al posto della virgola, per separare gli incisi possono essere usati i trattini o le parentesi tonde. Per introdurre un elenco all’interno della frase si usano i due punti (10), che sono usati anche per introdurre battute nel discorso diretto (>15.2 ) o, nell’ambito del testo, per collegare due enunciati collegati logicamente (12): 12. Prediche inutili: ha fatto di testa sua. Teniamo sempre presente, comunque, che un conto è parlare di frase modello, un conto è parlare di enunciato, che è inserito in un testo e per questo ha una sua prosodia

m .4

e

Codifica e inferenza nella messa in opera dei significati CONCLUSIONE

A questo punto siamo in grado di fare alcune riflessioni finali sui di­ versi regimi di codifica all’interno della frase, e sul rapporto che i di­ versi regimi di codifica intrattengono con il ragionamento coerente. Nella struttura della frase, i diversi costituenti nominali e preposi­ zionali finiscono con il codificare ciascuno un ruolo. Data una frase come la seguente, a ognuno dei costituenti principali corrisponde un ruolo nel processo |» tab . 1 3 . 2 una circostanza temporale (ieri sera), l’a­ gente (Giorgio), un obiectum affectum, cioè un oggetto modificato dal­ l’azione espressa dal verbo (la mensola), lo strumento (con la carta vetrata): Ieri sera Giorgio ha pulito la mensola con la carta vetrata.

Tuttavia, non tutte le espressioni codificano i ruoli allo stesso mo­ do. Ci sono espressioni che codificano immediatamente una relazione concettuale, ed espressioni che codificano immediatamente una rela­ zione grammaticale vuota, che riceverà un ruolo solo in quanto argo­ mento del verbo. Nel nostro esempio, l’agente e il paziente non sono codificati immediatamente, ma con la mediazione di una relazione grammaticale: rispettivamente il soggetto e l’oggetto diretto. In pre­ senza di un verbo come pulire, il soggetto e l’oggetto ricevono come contenuto rispettivamente l’agente e il paziente. Tra le circostanze temporali e lo strumento da una parte e le loro espressioni dall’altra, c’è viceversa una relazione diretta: Dopo cena

Giorgio

ha pulito

la mensola

con la carta vetrata

sintagma preposizionale

sintagma nominale

verbo predicativo

sintagma nominale

sintagma preposizionale

0

soggetto

oggetto diretto

0

tempo

agente

obiectum affectum

strumento

processo

190 Codifica relazionale e codifica puntuale

Parte III - Sintassi della frase modello. La frase semplice

Quando la relazione tra un’espressione e un ruolo è mediata da una re­ lazione grammaticale, come nel caso del soggetto o dell’oggetto, pos­ siamo parlare di una codifica relazionale. Quando la relazione tra un’e­ spressione e un ruolo è diretta, priva della mediazione di una relazione grammaticale, possiamo parlare di codifica puntuale Ρ Ι^Γ ρΠ . Nella codifica relazionale, la struttura grammaticale dell’espressio­ ne fa parte di una costruzione dalla struttura formale che precede logi­ camente il contenuto e ne è del tutto indipendente; nella codifica pun­ tuale accade il contrario: il contenuto precede logicamente la forma di espressione e la influenza. In presenza di codifica relazionale, la rete di ruoli previsti dal pro­ cesso verbale è calata in uno stampo formale autonomo, indeformabile dai contenuti, costruito dalle relazioni grammaticali. Con un paragone suggestivo, il linguista danese Otto Jespersen (1924) scrive che le rela­ zioni grammaticali sono «bifronti» come Giano, rivolte da una parte alla forma sintattica della frase e dall’altra ai contenuti concettuali. Il soggetto, per esempio, codifica un ruolo (nel nostro esempio l’a­ gente) non in quanto sintagma nominale, ma in quanto soggetto: non sulla base della sua struttura interna, ma sulla base della sua relazione con la struttura grammaticale della frase nel suo insieme. È questa la ragione per cui il soggetto e l’oggetto diretto codificano ruoli diversi (nel nostro esempio l’agente e il paziente, o obiectum affectum). Il sog­ getto e l’oggetto hanno la stessa struttura interna (sono entrambi sin­ tagmi nominali) ma hanno relazioni diverse con la struttura grammati­ cale della frase: il soggetto è costituente immediato della frase e con­ troparte del predicato; l’oggetto diretto è un complemento del verbo, e come tale costituente del predicato. Il potere di codifica non dipende dalla struttura interna delle due espressioni, che è identica, ma dalle loro proprietà relazionali, che sono diverse. In presenza di codifica puntuale, un’espressione data entra nella frase non in quanto termine di una relazione grammaticale vuota, ma come mezzo per rendere riconoscibile una struttura concettuale - un ruolo. Ora, quali sono le proprietà di un’espressione che ci permettono di identificare il ruolo che esprime? La risposta cambia a seconda che consideriamo gli argomenti o i margini. Gli argomenti, sia quelli codificati con la mediazione di relazioni grammaticali, sia quelli codificati in modo diretto grazie alle preposi­ zioni, veicolano un ruolo identificato dal verbo che li controlla. È que­ sta la ragione per cui la codifica riesce sia nel caso in cui la preposizio­ ne dà un contributo attivo —come in riflettere su una proposta —sia quando la preposizione è vuota, come in rinunciare a una vacanza: in entrambi i casi, il ruolo affidato al complemento sarà comunque iden­ tificato a partire dal significato del verbo.

CONCLUSIONE - Codifica e inferenza nella messa in opera dei significati

Nei margini questo non si verifica, perché il controllo verbale vie­ ne meno. I margini sono relazioni concettuali indipendenti, che hanno la funzione di arricchire il contenuto del processo; sono scelti dal par­ lante, e l’unica restrizione alla quale è sottoposta la loro specificazione è il criterio della coerenza concettuale. Il loro contenuto, di conseguen­ za, è imprevedibile. La frase Luca ha riparato la bicicletta, ad esem­ pio, esprime un’azione satura, completa. Questo nucleo di azione è di­ sponibile a ricevere diversi ruoli marginali coerenti - per esempio il luogo, il tempo, il collaboratore dell’agente, il fine: Ieri sera, in ga­ rage, Luca ha riparato con Andrea la bicicletta per la corsa di doma­ ni. Dato che non è circoscritto da un controllore esterno, il contenuto di un ruolo marginale non potrà che essere identificato grazie alle pro­ prietà intrinseche della sua forma di espressione: per esempio ieri sera, in garage. L’identificazione di un ruolo dipende in primo luogo dal contenuto della preposizione. In un processo esteso come Mario ha potato le rose nonostante la pioggia, il nucleo del processo - Mario ha potato le rose - è collegato a un margine con valore di circostanza concessiva grazie al contenuto della preposizione nonostante. La preposizione nonostan­ te, in effetti, codifica tutti gli ingredienti concettuali della relazione concessiva: la realtà dei due eventi - la potatura delle rose e la pioggia - la loro successione nel tempo e l’idea implicita che la pioggia avreb­ be dovuto, contrariamente a ciò che la frase descrive, impedire la pota­ tura. Tuttavia, il comportamento di nonostante non è la regola: la mag­ gior parte delle preposizioni non ha un contenuto abbastanza preciso da codificare fino in fondo una e una sola relazione concettuale. Un esempio significativo, come abbiamo visto è la preposizione con. A differenza di nonostante, con non è in grado di codificare una e una sola relazione concettuale. In questo caso la codifica puntuale ha bisogno di essere integrata dal ragionamento coerente: nel punto in cui finisce la capacità di codifica della preposizione subentra l’inferenza. Mentre la codifica si fonda sul significato della preposizione, l’inferen­ za si basa sui contenuti concettuali. Data un’azione come pulire la mensola, ad esempio, con la carta vetrata porta a inferire lo strumento perché si riferisce a un oggetto adatto a questo ruolo, mentre con Ma­ rio porta a inferire il collaboratore dell’agente perché si riferisce a una persona. A partire dalle nostre osservazioni sui diversi regimi di codifica possiamo fare ora una riflessione generale sulla grammatica e sulla lingua. La grammatica non è una monarchia assoluta che risponde a un principio e a uno solo, ma una confederazione di strutture diverse e complementari: nel nucleo, troviamo relazioni grammaticali insensibi­

191

192

Parte II! - Sintassi della frase modello. La frase semplice

li alla pressione dei concetti; ai margini, troviamo espressioni strumen­ tali, al servizio di relazioni concettuali coerenti e modellate da essi. Una lingua incapace di dare forma ai pensieri in modo creativo grazie a strutture grammaticali autonome non sarebbe la lingua che conosciamo. Al tempo stesso, la lingua non sarebbe pensabile se il suo funzionamento non potesse appoggiarsi a un sistema di concetti condi­ visi indipendentemente: gli stessi che fanno da bussola alla nostra vita quotidiana. Riprendendo un’idea celebre di Humboldt (1836), la lingua può essere definita in un senso passivo come érgon, cioè come espres­ sione strumentale di concetti preesistenti, e in un senso attivo come enérgeia, cioè come forza creatrice. È perciò naturale che, nell’idea­ zione del processo, la codifica relazionale indipendente dai concetti e la codifica puntuale motivata dalla loro struttura si dividano il lavoro. La frontiera tra l’area della codifica relazionale e l’area della codi­ fica puntuale non coincide con la frontiera tra argomenti e margini, dato che, come abbiamo visto E pS , alcuni argomenti di alcuni verbi si danno immediatamente come relazioni concettuali. Il caso più signifi­ cativo è quello dei verbi di stato, movimento e spostamento che reggo­ no complementi di luogo. All’intemo dell’area della codifica puntuale, la struttura dell’e­ spressione nominale è il regno della codifica di grado basso, e quindi dell’arricchimento inferenziale. Come abbiamo osservato |m 4.2.2!, la relazione tra il nome e il complemento di specificazione è in grado di esprimere i più svariati contenuti sotto la pressione dei concetti coin­ volti, e quindi esclusivamente sulla base dell’inferenza e della sua ca­ pacità di valutare la coerenza dei concetti e dei contesti.

Parte IV Sintassi della frase modello: il periodo come frase complessa

Premessa Due funzioni per il periodo

La struttura che nella tradizione gram m aticale italiana si chiam a perio­ do è una frase com plessa, cioè una frase che contiene tra i suoi co sti­ tu en ti alm eno una frase. Se partiam o dalla struttura della frase sem ­ plice, ci rendiam o conto che tu tti i suoi c o stitu e n ti principali possono essere occupati da strutture di frase, e quindi da processi: le posizioni di soggetto, com plem ento del verbo, m argine del predicato, margine d e ll’ intero processo (circostanza). Persino i m odificatori del verbo e del nome possono essere occupati da intere frasi:

Come succede n e ll’analisi logica con la nozione di «com plem ento», la tradizionale analisi del periodo tende a confondere n e ll’ idea di subor­ dinazione e di frase subordinata relazioni gram m aticali e concettuali profondam ente diverse: in particolare, argom enti, margini del processo e del predicato, espansioni del nome. Come nella frase sem plice, an­ che nella struttura del periodo il com pito più urgente è distinguere le frasi subordinate che entrano nel nucleo del processo com e argom enti del verbo a ffidati a relazioni gram m aticali (soggetto o com plem ento del verbo) dalle frasi subordinate che occupano una posizione m arginale, come espansioni d e ll’ intero processo o del predicato, o come espan­ sioni di un nome. C hiam erem o completive le frasi subordinate che entrano nella struttura portante del nucleo di una frase com e soggetti o com plem enti

196

Parte IV - Sintassi della frase modello: Il periodo come frase complessa

Premessa. Due funzioni per il periodo

del verbo, margini le frasi subordinate che espandono il processo prin­ cipale e lo collegano a un altro processo. Nel periodo 1 la frase subordinata introdotta da che funziona come com pletiva, e in particolare com e com plem ento oggetto d iretto del ver­ bo temere. Nel periodo 2, la frase subordinata introdotta da perché è un m argine che esprim e la causa del processo principale ( Giovanni ha

perso il treno): 1. Luca teme che Giovanni abbia perso il treno. 2. Giovanni ha perso il treno perché fa sveglia non ha suonato. La distinzione tra frasi com pletive e m argini è il prim o passo da com piere sulla strada di un’analisi adeguata della frase com plessa. Tuttavia, questo prim o passo non è sufficiente: occorre fare una ri­ flessione in profondità sulla funzione radicalm ente diversa delle due strutture. Quando un periodo contiene una frase com e argom ento (come sog­ getto o com e com plem ento del verbo) restiam o a ll’interno della s tru ttu ­ ra di una singola frase, e quindi di un singolo processo, solo più com ­ plesso. Per soddisfare questa funzione (costruire un processo) la frase non ha alternative. Siam o n e ll’am bito di una gram m atica delle regole. Quando una frase riceve u n ’altra frase com e espansione, viceversa, non siam o più a ll’ interno della struttura di una singola frase , e quindi di un singolo processo, ma stiam o collegando il contenuto di due frasi, e quindi due processi indipendenti. Per soddisfare questa funzione (col­ legare due processi), il periodo non è l’unico strum ento che la lingua ci offre. Siam o dunque n e ll’am bito di una gram m atica delle scelte. Posto che ciascuno dei due processi può essere ideato da una frase indipen­ dente, per costruire un ponte che li colleghi possiam o scegliere sia tra un ventaglio di connessioni gram m aticali (e quindi di periodi), sia tra un ventaglio di strategie te stu a li. Le espressioni seguenti, per esem pio, sono tu tte in grado di esprim ere una relazione di causa: 3. La strada si è allagata perché è piovuto. 3a. È piovuto e per questo la strada si è allagata. 3b. È piovuto. Per questo la strada si è allagata. 3c. È piovuto. La strada si è allagata.

Nello schem a seguente sono riassunte le principali differenze tra le subordinate com pletive come Luca teme che Giovanni abbia perso il treno e le subordinate con funzione di margine come Giovanni ha perso il treno perché la sveglia non ha suonato:

Alla luce di queste osservazioni, è chiaro che non possiam o studiare con gli ste ssi strum enti le subordinate com pletive e i margini. Come il soggetto e i com plem enti del verbo, le com pletive sono al tem po ste sso argom enti del verbo e relazioni gram m aticali. Studiare le frasi com pletive significa dunque identificare un gruppo di verbi che ri­ chiedono o am m ettono come argom ento una frase, e studiare la form a gram m aticale che il verbo le im pone. Non tu tti i verbi am m ettono una subordinata come soggetto o com e com plem ento, e la sua form a varia in funzione del verbo. Lo studio delle frasi com pletive è un capitolo dello studio della valenza dei verbi. I m argini sono uno dei mezzi che la lingua ci offre per m ettere in relazione un processo sem plice com pleto con un altro processo ugual­ m ente sem plice e com pleto. Lo stu dio dei m argini a ll’ interno del perio­ do, di conseguenza, è solo un capitolo dello studio dei mezzi di espres­ sione che perm ettono di collegare processi. Frasi com pletive e m argini sono strutture non confrontabili, né sul piano d e ll’espressione né su quello delle funzioni. Per questo motivo vanno stu dia te con criteri diversi e in m om enti diversi. Affronterem o le frasi com pletive subito dopo la frase sem plice per­ ché rappresentano un capitolo della costruzione della frase m odello e del suo significato (si tra tta di frasi che saturano un verbo o un predica­ to). Il collegam ento tra processi, ciascuno affidato a una frase com ple­ ta, sarà invece studiato in una sezione apposita (Parte VI), successiva

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198

Parte IV - Sintassi delia frase modello: Il periodo come frase complessa

allo studio della coerenza e della coesione dei testi (Parte V) perché dovrà fare posto non soltanto ai mezzi grammaticali (periodo), ma an­ che alle strategie testuali, fondate sulla coerenza e sulla coesione delle concatenazioni di processi semplici.

Le frasi completive come argomenti di verbi CAPITOLO

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La nostra impostazione (Prandi, 1996; 2013; De Santis et al., 2014; De Santis, 2016) si distingue non solo dalle grammatiche tradizionali, ma anche dalla più recente letteratura spe­ cialistica, che tratta la subordinazione come un fenomeno unitario: un esempio significativo è Cristofaro (2003). Si vedano inoltre Shopen 1985(2006), Lehmann (1988) sulla subordinazione in generale, e Kortmann (1997) sulla subordinazione non completiva. In questo capitolo studieremo la struttura delle frasi complesse che contengo­ no al loro interno una frase completiva che funziona come argomento del verbo principale: in posizione di soggetto avremo completive soggettive, in posizione di oggetto completive oggettive o interrogative indirette. Analizzeremo inoltre un tipo di frase indipendente (chiamata incidentale) che si inserisce come una parentesi all’interno di un’altra frase.

i5.i Frasi oggettive Chiamiamo frasi completive oggettive le frasi che svolgono, all’inter­ no del periodo, la funzione di complemento del verbo:

Le frasi oggettive come complemento del verbo

Giovanna mi ha detto che Marco è stato promosso.

I verbi che reggono frasi oggettive appartengono tutti all’area se­ mantica dell’attività percettiva, cognitiva e, in generale, psicologica dell’essere umano. Con tutti questi verbi, la posizione di soggetto è occupata da un essere umano, mentre la posizione di complemento è occupata da un processo, e quindi da una frase. Ecco i tipi principali: -

verbi di percezione: per esempio

vedere, s e n tire , a cco rg e rsi,

com prendere, ric o rd a re , dim enticare',

-

verbi relativi all’espressione linguistica: per esempio d ire , s c ri­

-

verbi relativi alla conoscenza: per esempio sapere, apprendere,

-

verbi di giudizio: per esempio credere, pensare,

vere, racco nta re, d ic h ia ra re , a ffe rm a re , asserire, annunciare', im parare', rite n e re , sup­

p o rre , im m aginare',

-

verbi di volontà: per esempio volere, esigere, lasciare', verbi di stato d’animo: per esempio tem ere, desiderare, ra rs i, ra lle g ra rs i, m e ra v ig lia rs i, p re o c c u p a rs i.

augu­

Tipi di verbi reggenti

200

Parte IV - Sintassi della frase modello: Il periodo come frase complessa

Un posto a parte meritano i verbi performativi, che in certi usi non hanno la funzione di descrivere, ma di compiere l’azione che designa­ no: promettere, ordinare, intimare, proibire, permettere, ma anche consigliare, suggerire, incitare -VBox 17TI. 15.1.1

Indicativo e congiuntivo nelle oggettive esplicite

Forma esplicita

Le frasi oggettive esplicite sono introdotte dalla congiunzione che (o, in certi casi, come). Il verbo può essere coniugato all’indicativo, al congiuntivo o al condizionale. La scelta tra 1 indicativo e il congiuntivo non è libera ma è imposta dal verbo. La selezione del modo non ha nulla a che fare con la natura dell’evento espresso nella subordinata, in particolare con la sua realtà o non realtà. Osserviamo gli esempi. In 1 la subordinata è all’indicati­ vo e il suo contenuto è dato come reale (Giovanni è partito); in 2 la subordinata è al congiuntivo, e il suo contenuto è dato come non reale (non so se Giovanni sia partito o no); in 3 la subordinata è al congiun­ tivo, ma il suo contenuto è dato come reale (Giovanni è partito): 1. So che Giovanni è partito. 2. Temo che Giovanni sia partito. 3. Rimpiango che Giovanni sia partito.

Il modo che compare nella frase oggettiva (indicativo o congiunti­ vo) non è il risultato di una scelta, ma è imposto da una regola. In pra­ tica, vale per il modo del verbo della frase oggettiva (e, come vedremo, della soggettiva) quello che abbiamo già osservato per la preposizione che introduce i complementi preposizionali i»Box io.H. Nel momento in cui codifica una relazione grammaticale di soggetto o oggetto, il modo verbale non dà un contributo proprio alla costruzione del significato, ma contribuisce solo a tracciare una relazione vuota che sarà riempita dal verbo. Così, l’oggetto di temere è coerente solo se esprime un fatto non reale, mentre l’oggetto di rimpiangere lo è solo se esprime un fatto reale (presuppone cioè la realtà del fatto). In genere reggono il congiuntivo i verbi di giudizio, di volontà e di stato d’animo. Ecco qualche esempio: 4. Vedo che hai comprato un nuovo vestito. 5. Giorgio mi ha detto che Piero ha vinto un premio. 6. So che non hai ancora spedito la lettera. 7. Temo che Piero non sia ancora arrivato. 8. Spero che il mio telegramma lo raggiunga in tempo. 9. Mi meraviglio che tu non sia arrivato prima. 10. Mi rallegro che tu abbia vinto la gara.

201

CAPITOLO 15 - Le frasi completive come argomenti di verbi

Alcuni verbi, come sapere, ricordare, affermare, vedere, reggono di preferenza il congiuntivo quando sono negati: 11. 12. 13. 14. 15.

Non Non Non Non Non

sapevo che Giovanni fosse già arrivato. ricordo che Giovanni mi abbia telefonato. vedo come tu possa raggiungerlo. so come tu possa riuscire. dico che tu non sia all’altezza.

Con alcuni verbi possiamo effettivamente scegliere tra l’indicativo e il congiuntivo. In questi casi, potremmo pensare che la scelta abbia delle conseguenze sul significato. Con dire, ad esempio, è facile pensa­ re che il parlante che sceglie l’indicativo (16) faccia suo l’oggetto della diceria, mentre il parlante che sceglie il congiuntivo (17) ne prenda le distanze. 16. Dicono che Matteo è scappato di casa. 17. Dicono che Matteo sia scappato di casa.

Ugualmente, sembra naturale pensare che credere regga l’indicati­ vo quando esprime una certezza ( 18) e il congiuntivo quando esprime un’ipotesi (19): 18. Credo che Gesù è risorto. 19. Credo che Giovanni studi medicina.

In realtà, uno studio accurato del rapporto tra usi e credenze ha di­ mostrato che questa correlazione non esiste. La correlazione tra modi e contenuti sarebbe comunque disturbata da fattori di registro. Molti par­ lanti tendono a evitare il congiuntivo, mentre altri lo scelgono per ri­ spettare uno standard elevato. In entrambi i casi, la scelta non ha nes­ suna correlazione con il contenuto della subordinata (si veda Sgroi, 2010: p. 108; 2013). La scelta del condizionale, invece, è indipendente dal verbo della principale, e risponde a due funzioni diverse: conferisce al fatto un valore ipotetico (20) o colloca la frase subordinata nel futuro in rela­ zione a un tempo passato della principale (21): 20. Credo che Giovanni verrebbe volentieri (se tu lo invitassi/se aves­ se tempo eco.). 21. Credevo che Giovanni sarebbe venuto.

Il futuro rispetto a un punto del passato può essere espresso sia dall’indicativo futuro (22), sia dal condizionale passato (23):

L’uso del condizionale

202

Parte IV - Sintassi della frase modello: Il periodo come frase complessa

22. Affermavano che Giorgio verrà. 23. Affermavano che Giorgio sarebbe venuto.

Nel primo caso, la subordinata esprime un fatto futuro rispetto al momento in cui si parla; nel secondo, un fatto futuro rispetto al mo­ mento di cui si parla, ma passato rispetto al tempo in cui si parla. 15.1.2

Forma implicita

La forma implicita della frase oggettiva si costruisce con Tinfinito, preceduto dalla preposizione di o a: 1. Condizioni d'uso delle oggettive con soggetto implicito

Giovanni spera di avere fortuna. Alberto crede di aver superato l’esame. Ti consiglio di scappare. Gli ha impedito di parlare.

A regolare il meccanismo di controllo del soggetto implicito è l’o­ rientamento del contenuto del verbo. I verbi hanno come oggetto azio­ ni o atteggiamenti che possono essere di competenza delPemittente 0credere, sperare, dubitare) o dell’interlocutore (consigliare, impedi­ re). Il soggetto implicito della subordinata è controllato dal soggetto della principale, che designa l’emittente, con il primo tipo di verbi, e dal complemento che designa l’interlocutore con il secondo. Il caso più chiaro è quello dei verbi performativi IfcBox'iz.fi. che impegnano qualcuno ad agire. Alcuni, come promettere, impegnano l’emittente, e quindi il soggetto. Altri, come ordinare, impegnano il destinatario, in posizione di complemento. Con i primi, il soggetto del­ la frase oggettiva implicita coincide con il soggetto della principale (6, in cui il soggetto di venire è io); con i secondi, il soggetto della frase oggettiva implicita coincide con il complemento della principale (7, in cui il soggetto di venire è tu, che nella principale ha funzione di ogget­ to indiretto): 6.

Con i verbi performativi, l’orientamento del verbo influisce sulla scelta tra forma esplicita e implicita della frase oggettiva. I verbi orien­ tati sul soggetto ammettono sia la forma implicita (8) sia la forma esplicita (9, 10) della frase oggettiva: 8.

Ti prometto di venire. 9. Ti prometto che verrò, 10. Gli promise che sarebbe venuto.

I verbi orientati sul destinatario, invece, preferiscono la forma im­ plicita (11, 12); quando, raramente, prendono la forma esplicita, il ver­ bo è al congiuntivo (13):

Giovanni crede di aver vinto la gara.

Il soggetto deH’oggettiva non è espresso (è implicito) ma è control­ lato da un argomento della principale. La forma implicita della frase oggettiva si usa solo quando il suo soggetto coincide con un argomento del verbo principale. Per alcuni verbi questo argomento è il soggetto (2, 3); per altri verbi, è un complemento (4, 5): 2. 3. 4. 5.

203

CAPITOLO 15 - Le frasi completive come argomenti di verbi

Ti prometto di venire, 7. Ti ordino di venire.

11. Ti ordino di venire. 12. Ti consiglio di venire. 13. Gli ordinò che venisse.

Il verbo dire prende la frase oggettiva alla forma esplicita quando è usato come verbo di parola (14), come raccontare; prende invece la forma implicita quando è usato come verbo performativo, come ordi­ nare o consigliare (15): 14. Giorgio mi ha detto che il fieno si è bagnato. 15. Giorgio mi ha detto di raggiungerlo.

Come dire si comportano gli altri verbi di comunicazione, come scrivere, telefonare, urlare.

i 5.2 Discorso diretto e discorso indiretto I verbi di dire {dire, raccontare, narrare, ma anche scrivere, esclama­ re, mormorare, soggiungere) ci permettono di riportare, nella frase og­ gettiva, discorsi pronunciati da noi stessi o, più tipicamente, da altri. In entrambi i casi si ha discorso indiretto; nel secondo, si ha discorso riportato: il parlante traduce un discorso altrui nelle proprie parole: la . Giorgio ha detto che verrà domani.

La funzione di riportare discorsi può anche essere assicurata con mezzi diversi, e cioè con la trascrizione diretta di questo discorso, ac­ compagnata da opportuni artifici intonativi (una pausa) o grafici - i due punti (:), i trattini (-) e le virgolette («... »). In questo caso si parla di discorso diretto:

Le oggettive che riportano un discorso

204

Parte IV - Sintassi della frase modello: Il periodo come frase complessa

lb . Giorgio ha detto: «Verrò domani».

il passaggio dal dlSCair°nd![etto

---------------

La distinzione tra discorso indiretto e diretto implica un contratto diverso tra parlante e destinatario. Nel discorso diretto, il parlante si comporta come se trasferisse nel suo testo l’enunciato dell’altro, nella forma esatta in cui è stato pronunciato. Nel discorso indiretto, invece, il parlante ammette esplicitamente che la sua è una riformulazione del discorso dell’altro. Il contenuto del discorso dell’altro è trasferito non solo nelle parole del parlante, ma anche nella sua sfera personale, nel suo spazio e nel suo tempo. Questo trasferimento comporta un adatta­ mento di tutte le espressioni deittiche che si riferiscono alla persona (persona verbale, pronomi personali, aggettivi e pronomi possessivi), allo spazio e al tempo (tempi e modi verbali, avverbi di tempo e di luogo): Ieri Maria mi ha detto:

«lo

verrò

laggiù

domani»

Ieri Maria mi ha detto che

lei

sarebbe venuta

qui

oggi

Il discorso diretto e il discorso indiretto sono soltanto due delle numerose modalità del discorso riportato, e più in generale della presenza della parola d’altri nell’enunciato, ovvero del fenome­ no che i linguisti chiamano «polifonia »: si vedano Ducrot (1980), Sakita (2002), e, per l’italiano, Mortara Garavelli (1985) e Calaresu (2004).

15.3

Frasi interrogative indirette

Come il discorso indiretto, le frasi interrogative indirette sono un tipo particolare di frasi oggettive, rette da una particolare classe di verbi. Otteniamo una frase interrogativa indiretta quando subordiniamo frasi interrogative (totali, parziali, o disgiuntive: i l ? T.S) a un verbo che esprime una domanda (per esempio chiedere, domandare), come nell’esempio 1, oppure a un verbo di conoscenza e di percezione in forma negativa (2), interrogativa (3) o imperativa (4): 1. 2. 3. 4. Interrogative dirette totali e parziali

Ho chiesto a Luca se viene al cinema. Non so se Luca viene al cinema. Sai se Luca viene al cinema? Dimmi se Luca viene al cinema.

Le domande totali (o a risposta chiusa: sì o no) e disgiuntive (che propongono un’alternativa tra due possibilità) sono introdotte da se:

CAPITOLO 15 - Le frasi completive come argomenti di verbi

5. 6. 7. 8.

Gli ho domandato se Giovanni andrà al concerto. Chiedi ad Alfredo se preferisce birra o vino. Non se Luca verrà al cinema oppure no. Sai se Andrea è a casa o in ufficio?

Le domande parziali (o a risposta aperta) sono introdotte dagli stessi avverbi, pronomi e determinanti che useremmo nelle domande dirette corrispondenti: 9. Chiedi a Alfredo che cosa preferisce. 10. Gli ho domandato a quale concerto andrà Giovanni.

Oltre che da verbi di domanda, le frasi interrogative possono essere rette anche da verbi di conoscenza e di percezione in alcuni loro usi, negativi (11-13), interrogativi (14) o imperativi (15-17): 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17.

Non so perché Aldo è partito. Non ho visto se c’è ancora pane. Non mi hai detto come verrai. Sai dove è andato Aldo? Dimmi se Giorgio verrà. Fammi sapere quando sei in casa. Guarda se c’è pane.

Il verbo sapere, quando è negato, può introdurre sia una frase og­ gettiva (18), sia un’interrogativa indiretta (19): 18, Non sapevo che Giovanni sarebbe venuto. 19. Non sapevo se Giovanni sarebbe venuto.

Il presente della prima persona singolare non so ammette un’inter­ rogativa indiretta (20) ma non un’oggettiva (21) perché uno stesso sog­ getto non può affermare di ignorare (dicendo non so) ciò che afferma come certo (Giovanni è arrivato): 20. Non so se Giovanni è arrivato. 21. *Non so che Giovanni è arrivato.

Le oggettive rette da alcuni verbi, tra cui vedere, sapere, dire, pre­ sentano la stessa ricca gamma di espressioni di collegamento che tro­ viamo nelle interrogative indirette: 22. So (/ho visto/m i hanno detto) che cosa hai fatto (/dove sei andato/quando sei andato a casa/perché hai fatto questo/come stai).

205

206

Parte IV - Sintassi della frase modello: Il periodo come frase complessa

i5.4

Frasi soggettive

CAPITOLO 15 - Le frasi completive come argomenti di verbi

207

o colloca la frase subordinata nel futuro in relazione a un tempo passa­ to della principale (6):

Le frasi soggettive occupano la posizione di soggetto: 1. Mi spiace che Piero sia assente. Tipi di verbi reggenti

Prendono come soggetto una frase i seguenti tipi di verbi: -

i verbi e i predicati che constatano un fatto: risulta, è un fatto, è ovvio, accade, succede, si dà il caso; i predicati di giudizio: è bello, è giusto, è preoccupante', i verbi che esprimono stati d’animo nella forma impersonale: mi preoccupa, mi rallegra, mi angoscia-,

Inoltre, possiamo considerare soggettive le frasi rette dalle forme impersonali dei verbi che reggono frasi oggettive jris.il. dal momento che in italiano il complemento oggetto della forma attiva (2) diventa soggetto nella forma impersonale (3): 2. Da casa mia io vedo le montagne. 3. Da casa mia si vedono le montagne.

15.4.1

Indicativo e congiuntivo nelle soggettive esplicite

5. È probabile che Giovanni sarebbe partito (se sua madre glielo aves­ se chiesto). 6. Era certo (ieri) che Giovanni sarebbe partito.

Forma implicita

I verbi performativi alla forma impersonale prendono di regola la for­ ma implicita (1,2); fanno eccezione alcuni performativi orientati verso il soggetto (3):

Verbi che accettano una soggettiva implicita

1. Si ordina di abbattere le costruzioni abusive. 2. Si consiglia di non consumare la frutta contaminata. 3. Si garantisce che la merce importata è di prima qualità.

I verbi impersonali di giudizio, di percezione e conoscenza nella forma mi piace, mi sembra ammettono la forma implicita quando il soggetto della frase subordinata coincide con il referente del pronome personale {mi, ti, gli, ecc.) presente nella frase principale (come in 4a, 5a, 6a, ma non in 4b, 5b, 6b):

Forma esplicita

La forma esplicita della frase soggettiva è introdotta dalla congiunzio­ ne che. Il verbo può essere all’indicativo, al congiuntivo o al condizio­ nale. Come per le frasi oggettive, la scelta tra l’indicativo e il congiunti­ vo è imposta dal verbo, e non ha nulla a che fare con la natura dell’e­ vento espresso nella subordinata, in particolare con la sua realtà o ir­ realtà. In 1 la subordinata è all’indicativo e il suo contenuto è dato co­ me reale; in 2 la subordinata è al congiuntivo, e il suo contenuto è dato come non reale. In 3 e in 4, la subordinata è al congiuntivo, ma il suo contenuto è dato come reale: 1. 2. 3. 4.

15.4.2

È risaputo che Giovanni è partito. È probabile che Giovanni sia partito. Mi spiace che Giovanni sia partito. È una fortuna che Giovanni sia partito.

La scelta del condizionale, invece, è indipendente dal verbo della principale. È una scelta del parlante, e risponde alle due funzioni già segnalate per le oggettive: o conferisce al fatto un valore ipotetico (5),

4a. 4b. 5a. 5b. 6a. 6b.

Mi piace pescare. Mi piace che tu vada a pescare. Ti rallegra vedermi soddisfatto. Ti rallegra che io sia soddisfatto. Gli spiace vederti partire. Gli spiace che tu parta.

Le forme impersonali come si dice, si pensa, si crede ammettono solo la forma esplicita della frase soggettiva: 7. Si dice che l'inverno sarà freddo.

15.5

Frasi incidentali

Le frasi incidentali sono frasi indipendenti - dichiarative, ma anche interrogative o imperative » i 7.1s - inserite all’interno di un’altra frase in modo da interrompere il suo sviluppo. L’interruzione è segnalata da due pause forti e, nel testo scritto, da una coppia di virgole, di trattini o di parentesi (da cui il nome di frasi parentetiche):

Frasi indipendenti che creano un inciso o parentesi

208

Parte IV - Sintassi della frase modello: Il periodo come frase complessa

1. Lo scrittoio, mi sembra, starebbe meglio in quell’angolo. Funzioni delle incidentali

Nei casi più tipici, la parentetica introduce un commento intorno al contenuto della frase che la ospita. Nell’esempio 1, il parlante presenta la sua affermazione come un suo parere negoziabile. La presenza della parentetica finisce così per modificare in profondità il messaggio lan­ ciato all’interlocutore. In altri casi (2, 3) la frase incidentale realizza invece una vera e propria intrusione di un tema estraneo: 2. L’anno scorso - erano altri tempi - ci siamo visti sul lago. 3. Giorgio - era con noi al mare, ti ricordi? - arriva domani.

Frasi dipendenti da nomi e aggettivi CAPITOLO

16

In questo capitolo studieremo un tipo particolare di frasi che dipendono da nomi e che hanno funzione di espansioni di nomi (frasi relative) o di comple­ mento di nomi o aggettivi.

i6.i

Frasi che modificano nomi: le relative

Le frasi relative sono espansioni di nomi. Una frase relativa è collegata al nome che modifica, detto nome antecedente, da una forma del pro­ nome relativo (che nell’esempio 1; per le altre forme del relativo - a cui, di cui, il quale ecc. - IMS)0 da un avverbio di luogo {dove nell’e­ sempio 2):

La frase relativa come espansione di un nome

1. Il libro che mi hai regalato. 2. La vaile dove sono nato.

Per la loro forma e la loro funzione possiamo distinguere due tipi di frasi relative: le relative appositive e le relative restrittive. Le relative appositive o attributive o descrittive attribuiscono una proprietà, un’azione o un fatto a un referente già identificato indipen­ dentemente: 3. Giorgio, che tu conosci bene, verrà da noi domani. 4. La Rocca di Angera, che mi piacerebbe visitare con te, appartiene alla famiglia Borromeo. 5. La consegna dei premi, che avverrà domani alle cinque, è attesa con emozione dai candidati.

Le relative appositive hanno una funzione simile a quella delle in­ cidentali: 3a. Giorgio - lo conosci bene - verrà da noi domani.

Relative appositive

210 Relative restrittive

Parte IV —Sintassi della frase modello: Il periodo come frase complessa

Le relative restrittive o limitative contribuiscono a identificare il referente del nome antecedente restringendo la sua portata grazie alla proprietà, all’azione o all’evento che descrivono: 6 . Cerco il libro che mi ha regalato Giovanni (proprio quello, non un altro). 7. La casa che ho deciso di affittare è stata costruita nel Medio Evo. 8. Vorrei una casa che fosse abbastanza spaziosa per tutta la fami­ glia.

I due tipi di frase relativa sono distinti nella forma: -

-

-

le relative restrittive sono strettamente legate al nome antece­ dente, mentre le relative appositive sono generalmente separate da una pausa (da una virgola nel testo scritto); le relative restrittive sono introdotte solo dalle forme di che, mentre le relative appositive accettano le forme di il quale, tranne quando il pronome ha funzione di complemento oggetto della frase relativa; le relative appositive sono sempre all’indicativo o al condizio­ nale, mentre le restrittive possono prendere il congiuntivo (8):

Confrontiamo i due esempi seguenti: 9. Elimina i libri che sono inutili. 10. Elimina i libri, che sono inutili. Funzioni dei due tipi di relativa

L’esempio 9 contiene una relativa restrittiva, essenziale per identi­ ficare il nome perché ne restringe l’estensione: solo i libri che sono inutili vanno eliminati. L’esempio 10 contiene invece una relativa ap­ positiva, che attribuisce una proprietà - l’inutilità - a una classe di og­ getti identificabili in modo indipendente: i libri in generale. Come mo­ stra l’esempio 10, le relative appositive possono anche collegare due processi: nel nostro esempio, la proprietà attribuita al nome diventa il motivo per cui i libri dovrebbero essere eliminati. Notiamo che la sostituzione del pronome che con il quale è possi­ bile in 10 ma non in 9. Tuttavia, se nella relativa che ha funzione di oggetto anziché di soggetto (come in 11 e in 12), la sostituzione con il quale è bloccata anche nella relativa appositiva:

CAPITOLO 16 - Frasi dipendenti da nomi e aggettivi

Box 16.1 - C H E TRA PRONOME E CONGIUNZIONE Il pronome relativo cumula le funzioni di pronome anaforico, che riprende il nome antece­ dente ►21.2.1 , e di congiunzione, che collega una frase subordinata alla principale. Questo cumulo di funzioni è possibile proprio perché il punto di attacco della subordinata alla princi­ pale coincide con il nome antecedente del pronome relativo. Se a questo cumulo di funzioni aggiungiamo l’identità fonetica e grafica tra la forma più usata del pronome relativo e la congiunzione che, ci rendiamo conto delle difficoltà che presenta l’uso corretto dei pronomi relativi. Rientra in questo quadro la diffusione del cosiddetto c h e polivalente ►Box 33.7. In una costruzione come 1, le due funzioni del pronome relativo si scindono: che funziona come congiunzione, mentre la ripresa anaforica è affidata al pronome personale gli. 1. Il ragazzo che gli hanno rubato il motorino è andato alla polizia. La presenza del pronome anaforico avvicina questo tipo di frase introdotta dal che polivalen­ te a un’incidentale: la . Il ragazzo - gli hanno rubato il motorino - è andato alla polizia. La costruzione con il che polivalente può essere dunque spiegata come una fusione tra una relativa e un’incidentale. In italiano la costruzione appartiene a un registro substandard (►2.1Ì). Tuttavia ci sono lingue, come le lingue semitiche, che costruiscono in questo modo la forma relativa standard. Sulla frontiera tormentata tra pronome relativo vero e proprio e congiunzione si situa, oltre al che polivalente, un certo numero di costruzioni non ritenute scorrette ma non sempre trasparenti dal punto di vista sintattico e morfologico. Innanzitutto, la forma che può inne­ starsi, invece che su un nome, su un pronome tonico; in questo caso, che funziona come un pronome relativo vero e proprio: 2. lo che ho fatto tanto per lui. 3. Tu che lo conosci bene. Quando si innesta su un pronome atono, che ha un comportamento più sfuggente: la frase 4 può essere interpretata sia come equivalente di 4a (con il che relativo) e sia come equiva­ lente di 4b (con il che congiunzione): 4. Lo videro che cercava di scappare. 4a. Videro lui che cercava di scappare. 4b. Videro che (lui) cercava di scappare.

i6 .2 11. Elimina i libri che hai già letto. 1 2 . Tieni i libri migliori, che ti verrà voglia di rileggere.

211

Frasi completive di nomi e aggettivi

Mentre la frase relativa può comparire con qualsiasi tipo di nome, le frasi subordinate che funzionano come complementi hanno una distri­ buzione ristretta.

212

Parte IV - Sintassi della frase modello: Il periodo come frase complessa

Con i nomi di oggetti troviamo tipicamente frasi implicite che de_____ _a nomi scrivono la destinazione funzionale dell’oggetto: arance da spremere, macchina da cucire, yogurt da bere. Alcuni nomi relazionali, invece, sono in grado di costruire interi processi complessi grazie alla loro capacità di saturare un argomento con una frase implicita o esplicita. L’esempio più interessante è quello dei nomi legati agli atteggiamenti cognitivi o emotivi. In questi casi, la forma implicita segnala che il soggetto della completiva è lo stesso dell’atteggiamento descritto dal nome (1,2), mentre la forma esplicita caratterizza un contenuto indipendente (3-5):

CAPITOLO 16 - Frasi dipendenti da nomi e aggettivi

213

Completive rette

1. 2. 3. 4. 5. Completive rette da aggettivi

L’ idea di Gianni di partire In vacanza. La paura di cadere dalla scala. L’idea che la terra ruoti intorno al sole. L’ idea che II voto è un diritto di tutti. La paura che i terroristi colpiscano l’Italia.

Gli aggettivi possono reggere frasi dipendenti, con un valore tra il consecutiVo e il finale: 6. Matto da legare. 6. Pronto da mangiare. 7. Capace di dirigere un'azienda.

La presenza o meno della virgola tra antecedente e pronome distingue le relative appositive (5) da quelle restrittive (4) >16.1. 4. Cerco il libro che mi hai regalato. 5. Il mio libro preferito, che regalo a tutti gli amici, è Alice nel paese delle meravi­ glie. La virgola è talvolta usata per separare due frasi collegate logicamente: 6. In ogni cosa c’è una crepa, è così che entra la luce. La virgola è usata, in alternanza con parentesi tonde e trattini, per isolare le frasi incidentali (>15.5 ). Nell’ambito del testo, la virgola è spesso usata dopo avverbi anaforici (come infatti, comun­ que, tuttavia). Quando si trovano all’inizio di una frase, gli stessi avverbi sono preceduti da un punto fermo o da un punto e virgola. Il punto e virgola (oggi sempre meno usato e sostituito dalla vìrgola o dal punto fermo) può essere usato, con valore di pausa intermedia, per separare i componenti di un elenco quan­ do questi sono particolarmente complessi: 7. «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali: attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento ammi­ nistrativo: adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento» (Costituzione Italiana, art. 5) I due punti sono usati nel periodo per introdurre un elenco o un discorso diretto; nell’ambito della giustapposizione di enunciati hanno valore causale (8) o esplicativo (9):

Box 16.2 - LA PUNTEGGIATURA NELLA FRASE COMPLESSA Diamo qui alcuni criteri per l’uso della punteggiatura nella frase complessa secondo criteri logico-sintattici.

8. Sono stanca: andrò a letto presto. 9. La luce è spenta: starà dormendo.

Il punto fermo segnala di solito la fine del periodo. Può essere usato anche nell’ambito della giustapposizione di enunciati che sono collegati a livello concettuale >-25.3.3 . 1. Paolo ha avuto un incidente in moto,. Si è rotto una gamba. Sulla funzione testuale del punto >19.2 . Uno stacco più forte rispetto al punto fermo è realiz­ zato dal punto e accapo, che segnala la fine di un capoverso all’interno di un testo. La virgola può essere usata all’interno del periodo per separare la reggente dalla subordina­ ta quando quest’ultima ha valore di margine esterno: 2. Quando arrivai al rifugioQ il sole era già tramontato. 3. Dato che sei arrivato in ritardo!,) ti toccherà aspettare. La virgola non separa mai la reggente dalle subordinate completive (soggettive e oggettive) >15.1,15.3.

Per un’analisi dei segni di punteggiatura in prospettiva comunicativo-testuale, cioè in rap­ porto al modo in cui un ciascun segno collabora alla costruzione o al significato del testo, si rimanda a Ferrari, 2017 e Ferrari et alii, 2018.

Parte V Il testo tra coerenza e coesione

La frase semplice come segnale di un messaggio: funzione interpersonale e testuale CAPITOLO

17

Nel momento in cui viene enunciata, la frase non è più vista come risultato di un processo di costruzione, ma come parte integrante di una struttura più am­ pia (di un testo o di un discorso) che la include e le conferisce il suo valore. Il suo significato, a sua volta, è visto come il segnale di un messaggio orientato verso l’interlocutore che deve interpretarlo. In questo capitolo prenderemo in esame una serie di frasi che non si limitano a ideare un processo ma ne adattano il contenuto alle principali funzioni inter­ personali (la domanda, la richiesta, l’ordine, la promessa) grazie a determinati strumenti grammaticali, prosodici e lessicali. La frase inserita in un circuito comunicativo (l’enunciato) deve anche imporre al processo una prospettiva comunicativa specifica per inserirlo coerentemente nella progressione del testo che lo ospita. In questo capitolo analizzeremo an­ che l’orientamento della frase verso il testo e il contesto e i mezzi di codifica di cui la lingua dispone per imporre a uno stesso processo diverse prospettive comunicative.

i 7 .i L’orientamento verso gli interlocutori In questo paragrafo metteremo a confronto la struttura di una frase nu­ cleare, priva di un valore comunicativo particolare (e perciò definita «non marcata» o neutra) e pronta ad assumerne svariati, con strutture di frase marcate, caratterizzate da un orientamento verso gli interlocu­ tori (frasi interrogative e imperative), e quindi al servizio della funzio­ ne interpersonale. 1 7 .1.1

La frase non marcata

Le frasi modello che abbiamo studiato nei capitoli precedenti sono le più povere di forma perché contengono tutti i mezzi per l’ideazione del processo e solo quelli. Una frase come la seguente, per esempio, ci presenta un oggetto (un libro) e lo localizza su un tavolo: Il libro è sul tavolo.

La frase dichiarativa priva di valore comunicativo specifico

218

Parte V - Il testo tra coerenza e coesione

Queste frasi sono definite anche frasi assertive o dichiarative o enunciative. Questo nome però può trarci in inganno: può indurci a pensare che le frasi cosiddette assertive siano specializzate per fare asserzioni, e cioè per compiere un tipo specifico di azioni linguistiche diverse dagli ordini e dalle domande. In realtà, come segnali nella co­ municazione, le frasi dette assertive sono neutre, o, con un termine tecnico, non marcate. Questo significa che si presentano come pure e semplici espressioni di processi. A differenza delle frasi marcate, non contengono strutture grammaticali o intonative specializzate, in grado di codificare funzioni comunicative specifiche. Proprio perché non co­ dificano nessun valore comunicativo in particolare, le frasi assertive possono assumerne molti. Un enunciato come 1 può limitarsi a descri­ vere la posizione del libro, ma può anche prestarsi a veicolare una do­ manda (la) o un ordine (lb): 1. Il libro è sul tavolo. la . Che cosa devo fame? lb . Spostalo.

Le frasi marcate sono al tempo stesso caratterizzate da proprietà strutturali supplementari rispetto alla pura e semplice costruzione del processo e orientate in modo esplicito verso scopi comunicativi più precisi: le . ld . le . lf.

17.1.2

Fare domande: le frasi interrogative

Il libro è sul tavolo? C’è un libro sul tavolo? È sul tavolo, il libro? Dov’è il libro?

Le forme marcate: frasi interrogative e imperative

Rientrano tra le frasi marcate in vista della funzione interpersonale i tipi di frase che codificano, nella loro struttura grammaticale, nel loro profilo melodico Im a ìì , o in entrambi, la volontà del parlante di in­ fluenzare il comportamento degli interlocutori. Appartengono a questo gruppo le frasi interrogative e imperative. Il ventaglio di usi che queste frasi ammettono è meno vasto che per le frasi semplici, ma più vasto di quello che si potrebbe pensare. Le frasi interrogative presentano una struttura grammaticale o melodica tale da codificare un atto di domanda alla quale Γ interlocuto­ re è sollecitato a rispondere. La domanda può interessare l’intero con­ tenuto della frase oppure solo un costituente. Su questa base si distin­ guono due tipi di interrogativi e:

CAPITOLO 17 - La frase semplice come segnale di un messaggio

Le interrogative totali (o a risposta chiusa): sottopongono all’interlocutore un processo completo nelle sue parti, di cui il parlante non co­ nosce il valore di verità (vero o falso), e richiedono una risposta di conferma (sì) o di smentita (no):

219 Interrogative a risposta chiusa

Piove? I bambini dormono? Hai comprato il pane? Hai dato il libro a Lucia?

Una frase interrogativa totale si differenzia da una frase enunciati­ va solo nel profilo melodico o, nella lingua scritta, per la presenza del punto interrogativo: è un esempio significativo dell’importanza dei fat­ tori prosodici nel parlato; Le interrogative parziali (o a risposta aperta): chiedono all’interlocu­ tore di completare con un tassello sconosciuto al parlante un processo che il parlante lascia incompiuto: la frase 1, per esempio, chiede di conoscere l’agente. La risposta lo fornisce o come frammento isolato (2a) o come costituente evidenziato - fuoco - (2b) sullo sfondo dell’informazione data come nota nella domanda i» i7 .2 .i [:

Interrogative a risposta aperta

1. Chi ha rotto il vaso? 2a. Il gatto. 2b. Il gatto ha rotto il vaso.

Sul piano grammaticale, le interrogative parziali si caratterizzano, oltre che per il loro particolare profilo melodico, per l’uso di avverbi, pronomi e aggettivi specializzati (dove, quando, come, chi, che cosa, quale, quanto ecc.) collocati di preferenza in posizione iniziale e al tempo stesso di fuoco |»32.3.4l: Dove hai messo il tappeto? Quando arriva Marta? Come pensi dì arrivare? Chi ha bussato? Che cosa hai saputo? Quale vestito devo mettermi?

A queste due tipologie di frasi interrogative si aggiungono le inter­ rogative disgiuntive, in cui il parlante invita l’interlocutore a scegliere tra due alternative. Le domande disgiuntive possono essere totali (3) o parziali (4):

Interrogative che propongono un’alternativa

220

Parte V - Il testo tra coerenza e coesione

3. Sara viene o no? 4. Il vino, lo preferisci bianco o rosso?

CAPITOLO 17 - La frase semplice come segnale di un messaggio

221

esempio, non codifico nessuna azione sociale in particolare, ma provoco ugualmente una legittima aspettativa e mi impegno a soddisfarla.

Dare ordini: le frasi Le frasi imperative presentano una struttura grammaticale e melo---------,mperatlve dica che consente di esprimere in primo luogo un ordine (5-6), oppure un divieto (7-8), indirizzato all’interlocutore:

5. 6. 7. 8.

Portami i compiti. Andiamocene. Non vada via. Non tormentare il gatto.

Le frasi imperative si riconoscono innanzitutto dal modo del verbo: l’imperativo alla seconda persona singolare (5) e plurale, il congiunti­ vo alla prima plurale (6) e alla terza singolare (7); quando l’ordine ri­ volto a una seconda persona singolare è espresso in forma negativa, si usa rinfittito preceduto dal non (8). Quando si danno ordini a sé stessi (9) si usa la seconda persona:

Ci vediamo domani. L’azione che ho compiuto è una promessa; l’espressione che ho usato ha acquistato la forza illocutiva di promessa. Oltre alla grammatica, anche il lessico contribuisce a codificare atti linguistici grazie alla disponibilità di verbi specializzati. Oltre che con frasi indipendenti, le domande e gli ordini possono essere introdotti da proposizioni subordinate a verbi come chiedere, o r d i n a r e , che orientano in modo diretto l’interlocutore sulle intenzioni del parlante: Ti chiedo se verrai domani. Ti ordino di lasciare questa casa. Mentre le strutture di frase marcate sono solo due, i verbi in grado di codificare azioni linguistiche sono numerosi: da d i c h ia r a r e a p r o m e t t e r e , da c o n s ig lia r e a r a c c o m a n d a r e , da s c o m m e t t e r e a g i u r a r e . Una frase come lb codifica lo stesso impegno (la stessa promessa) che la frase dichiarativa la lascia inferire al destinatario. la . Verrò domani. lb . Ti prometto che verrò domani.

9. Rassegnati, vecchio mio.

Le frasi imperative sono prive di soggetto, anche se possono pre­ sentare una forma di vocativo, che esplicita il destinatario dell’ordine andando a occupare la posizione che il verbo, quando è coniugato in una forma diversa dall’imperativo, assegna al soggetto: Vattene, tu. Tu, vattene.

Box 17.1 - GLI ATTI LINGUISTICI Le domande e gli ordini rappresentano esempi di ciò che possiamo fare con le parole per agire sugli altri: si tratta dunque di azioni sociali. Possiamo definire un'azione sociale come un intervento che modifica i rapporti tra le persone. Le azioni linguistiche (o atti linguistici) sono casi particolari di azioni sociali compiute utilizzando espressioni come strumenti. Quan­ do un’espressione viene usata per compiere un atto linguistico, si dice che acquista una forza illocutiva: per esempio, la forza di domanda o di ordine. Una domanda o un ordine sono certamente azioni linguistiche, in quanto creano attese, obblighi, diritti, impegni reciproci. Sono anche azioni in qualche modo privilegiate, in quanto codificate da tipi di frase specializzati. Tuttavia, non sono certamente le sole forme di azione che possiamo compiere parlando. Se mi rivolgo a un amico con l’espressione seguente, per

I verbi che codificano azioni linguistiche sono chiamati verbi performativi (dal verbo inglese «compiere azioni») per una loro particolare caratteristica: usati alla prima persona dell’indicativo presente, non descrivono un'azione, ma la compiono, impegnando il parlante. Mentre la frase 2a descrive un atto di promessa, 2b è una promessa che impegna diretta-

p e rfo rm ,

mente il parlante: 2a. Giovanni mi ha promesso di venire. 2b. Ti prometto di venire. L’identità tra l’enunciazione di un’espressione e l’azione corrispondente risulta in modo particolarmente diretto dall’osservazione di alcune formule rituali o istituzionali. Quando il sacerdote pronuncia la 3, il bambino è battezzato: quando il giudice pronuncia la 4, l’impu­ tato è condannato: 3. Ti battezzo. 4. Ti condanno. Le idee di «azione linguistica» e di «verbo performativo» risalgono a Austin (1962), mentre la prima descrizione completa degli atti linguistici e delle loro «condizioni di felicità» risale a Searle (1969); cfr. Sbisà (1978), Caffi (1994; 2002). La riflessione sul linguaggio come strumento di azione sociale rientra nel campo della pragmatica linguistica: cfr. Levinson (1983), Conte (1983), Bertuccelli Papi (1993), Andorno (2005), Bazzanella (2005). La prag­ matica linguistica studia la dimensione contingente e pratica dello scambio comunicativo e

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Parte V - Il testo tra coerenza e coesione

delle azioni linguistiche. Mentre la grammatica è il territorio delle strutture sistematiche di lunga durata, delle regole e delle opzioni, la pragmatica è il territorio degli eventi contingenti, delle decisioni e delle azioni dei parlanti, e delle massime di ordine pratico, morale, che le ispirano.

Atti linguistici diversi corrispondenti a uno stesso messaggio

Il fatto che alcune costruzioni grammaticali e alcune parole specia­ lizzate orientino l’interlocutore sul tipo di azione che il parlante inten­ de compiere non deve ingannarci. La distanza tra significati codificati e valori di messaggio è sempre molto grande. Per dare un ordine o fare una domanda non è necessario usare frasi imperative o interrogative. L’enunciato seguente può veicolare una ri­ chiesta di portare la moto in cortile:

CAPITOLO 17 - La frase semplice come segnale di un messaggio

223

13. Sta’ bene. 14. Dio te ne renda merito.

Un discorso analogo vale per i verbi performativi: la frase seguen­ te, per esempio, può essere una terribile minaccia: Ti prometto che non finirà qui.

Queste osservazioni ci riportano alla distanza tra significati delle frasi e messaggi, e confermano un’idea che ci è familiare: la grande varietà di espressioni diverse alle quali possiamo affidare i nostri mes­ saggi, e la grande varietà di messaggi diversi che una stessa espressio­ ne può veicolare. La forza illocutiva, dunque, non fa parte del signifi­ cato di un’espressione, ma è un valore che si attiva nel campo, nella dimensione indicale HÉ1.4[.

La moto è in strada.

Per promettere o consigliare, analogamente, non c’è bisogno di usare i verbi performativi corrispondenti. Anzi, le occasioni sociali nelle quali un verbo performativo è una scelta appropriata sono piutto­ sto rare nella vita quotidiana. La frase seguente può essere un modo efficace di dare un consiglio: lo al tuo posto scriverei una lettera.

Inversamente, con una stessa espressione (anche marcata, come le interrogative o le imperative, o caratterizzata dalla presenza di un ver­ bo performativo) possiamo compiere svariati atti comunicativi diversi tra di loro. Oltre a domande, le interrogative possono esprimere richie­ ste: la 10 non chiede un’informazione ma un favore, più o meno come la forma imperativa IOa; la 11 può essere una richiesta di informazione ma anche un rimprovero per un rientro tardivo; la 12 può non essere una domanda totale, ma un suggerimento o un ordine (magari minac­ cioso), oppure un modo ironico, beffardo, per affermare che la finestra è aperta (in quest’ultimo caso è una domanda retorica). 10. Mi presti la bicicletta? IOa. Prestami la bicicletta, per favore. 11. Che ore sono? 12. È chiusa la finestra?

Oltre a ordini veri e propri, le frasi imperative possono esprimere esortazioni, auguri, desideri. La 13 non è un ordine, la 14 non è un or­ dine dato direttamente a Dio:

i 7.2 Orientamento verso il testo e il contesto: la prospettiva comunicativa Le frasi che studieremo in questo paragrafo sono strutture marcate orientate verso l’ambiente comunicativo che le accoglie. L’ambiente comunicativo può essere un testo o un discorso sullo sfondo di un con­ testo. Quando sarà necessario, distingueremo il c o n t e s t o in senso lato dal c o t e s t o , cioè dalla catena di frasi che con la frase data forma un testo. Le strategie di adattamento dei contenuti delle frasi all’ambiente comunicativo formano un insieme di opzioni giustificate dalla f u n z i o ­ n e te s tu a le .

1. Che cosa hai comprato alla stazione? 2. Questo giornale, l’ho comprato alla stazione. 3. Alla stazione, ho comprato questo giornale

La risposta 3 è coerente con la domanda 1, mentre 2 è incoerente - fuori tema. Viceversa, sarebbe coerente con una domanda come la: la . Dove hai comprato quel giornale?

Entrambe le frasi costruiscono lo stesso processo, ma lo presentano secondo due gerarchie comunicative diverse. La 2 parla del giornale come se fosse un tema condiviso, e della stazione come se si trattasse di un’informazione rilevante, mentre la domanda 1 dava la stazione

Cotesto e contesto

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CAPITOLO 17 - La frase semplice come segnale di un messaggio

Parte V - Il testo tra coerenza e coesione

La distribuzione del rilievo comunicativo nella frase: la prospettiva

come dato condiviso e chiedeva un’informazione nuova destinata a es­ sere soddisfatta dal giornale: di qui l’incoerenza. La 3, viceversa, è una risposta coerente perché rispetta la gerarchia comunicativa della do­ manda: come la domanda, presenta la stazione come un dato condiviso e propone il giornale come informazione rilevante. Ricorrendo alla nostra esperienza visiva, possiamo dire che ogni frase impone al suo contenuto complesso una specifica prospettiva co­ municativa, che attribuisce ai suoi segmenti un diverso peso comunica­ tivo. La prospettiva comunicativa è al servizio della coerenza dei te­ sti e degli scambi comunicativi.

17.2.1 La prospettiva non marcata La progressione regolare nella frase nucleare: i’articolazione in tem a e rema

Se osserviamo una frase semplice come la seguente, ci rendiamo conto che il messaggio che veicola presenta un rilievo interno: il parlante ci invita a identificare una persona (Giovanni) e ci comunica un’informa­ zione che lo riguarda (ha comprato il giornale). Giovanni

ha comprato

tema = soggetto

rema = predicato

il giornale.

fuoco

Il fuoco come picco comunicativo

Giovanni è il tema - in francese thème, in inglese theme o topic - della frase, ciò su cui il messaggio verte; ha comprato il giornale è il rema - in francese rhème o propos, in inglese comment —e rappresenta il contributo vero e proprio dell’enunciato al progresso della comunica­ zione. Nella frase semplice non marcata, il tema coincide con il sogget­ to, il rema con il predicato. Notiamo che l’italiano tende a mettere il tema in apertura di frase (a costruire «da sinistra»), A differenza del tema, il rema presenta a sua volta un rilievo inter­ no, una progressione del peso comunicativo che porta gradualmente a un punto culminante, definito fuoco - in francese foyer, in inglese /òcus - con una metafora ottica: il giornale. Il fuoco di una frase nuclea­ re rappresenta il punto culminante del rema. La struttura prospettica del messaggio nella frase nucleare può es­ sere definita «non marcata» sulla base di due proprietà strutturali: -

-

non comporta l’investimento di mezzi strutturali specializzati, espressamente destinati a influire sulla prospettiva. La prospet­ tiva della frase nucleare dipende esclusivamente dal fatto di presentare i suoi costituenti secondo un ordine dato; presenta un equilibrio perfetto tra i vari segmenti del messag­ gio (tema, rema e fuoco). Dal tema, che identifica il punto del

225

messaggio dotato del peso comunicativo più basso, si sviluppa una progressione regolare che culmina nel fuoco, il costituen­ te dotato del peso comunicativo più alto.

17.2.2 Strutture marcate La lingua ci offre numerosi mezzi, intonativi e sintattici, per costruire frasi capaci di imporre al messaggio prospettive specializzate, o mar­ cate. Le strutture marcate in vista della funzione testuale hanno due pro­ prietà caratteristiche, che sono antitetiche alle proprietà delle forme non marcate: -

-

La prospettiva marcata nella frase

la prospettiva risulta dall’investimento di mezzi linguistici specializzati, che si aggiungono a quelli impiegati per la co­ struzione del processo; in seguito all’intervento di mezzi specializzati, l’equilibrio na­ turale tra tema, rema e fuoco può essere alterato, e in certi casi sconvolto in modo radicale.

I mezzi linguistici al servizio della prospettiva si distinguono in mezzi prosodici e mezzi sintattici. Tra i mezzi prosodici direttamente impegnati nella prospettiva co­ municativa !►4.4.21 segnaliamo l’accento di intensità. In una struttura non marcata, l’accento di intensità cade sul costituente più a destra (in neretto), che identifica il fuoco come punto di arrivo della progressione comunicativa:

Mezzi prosodici al servizio della prospettiva

Piero ha comprato una moto.

L’accento di intensità è però in grado di spostarsi su ogni costi­ tuente della frase, trasformandolo in fuoco marcato (in neretto negli esempi): Piero ha comprato una moto (e non, per esempio, Luca). Piero ha comprato una moto (e non l’ha, per esempio, presa in pre­ stito).

Il fuoco può essere sottolineato dall’uso di un avverbio focalizzatore 1»36.2.4!(proprio, anche, addirittura, solo, soltanto ecc.): Nicola ha trovato soltanto un vecchio libro.

Anche l’avverbio di negazione non agisce sul fuoco: nella frase

Mezzi lessicali

226

CAPITOLO 17 - La frase semplice come segnale di un messaggio

Parte V - Il testo tra coerenza e coesione

seguente il non non nega che Piero abbia letto l’articolo, ma che lo abbia fatto con attenzione: Piero non ha letto l'articolo con attenzione. La focaiizzazione

____contrastiva

___________ Mezzi sintattici

Oltre a dissociare il fuoco dalla sua sede naturale, l’uso marcato dell’accento di intensità sconvolge l’equilibrio comunicativo dell’e­ nunciato. Il fuoco evidenziato non è più il punto di arrivo di una pro­ gressione regolare ma si erge come un picco su uno sfondo neutro, dal profilo comunicativo piatto. La distinzione tra tema e rema scompare. Come mostrano gli esempi, la funzione del fuoco marcato è ten­ denzialmente contrastiva. Il fuoco marcato si oppone a un’opzione al­ ternativa in qualche modo attiva nel contesto: nei casi più tipici, rap­ presenta una convinzione dell’interlocutore che il parlante corregge. Per questo motivo è chiamato anche focalizzazione contrastiva. Tra i mezzi sintattici al servizio della prospettiva comunicativa segnaliamo il cambiamento dell’ordine dei costituenti.

Box 17.2 - L’ORDINE DEI COSTITUENTI NELLA FRASE Una delle caratteristiche che differenziano le lingue del mondo (e permettono di raggrupparle sulla base di criteri definiti tipologici perché fanno riferimento a caratteristiche interne di natura morfologica o sintattica che permettono di individuare tipi diversi di lingue) è rappre­ sentato dall'ordine non marcato dei costituenti principali della frase nucleare. In italiano, come del resto nella maggior parte delle lingue europee, l’ordine non marcato è del tipo SVO: il soggetto (S) precede il verbo transitivo (V); l’oggetto diretto (O), e in generale i complementi del verbo, lo seguono. In latino l’ordine non marcato era SOV, ma erano teoricamente possibili 6 tipi di ordine: SVO, SOV, VSO, VOS, OSV, OVS. Il sistema dei casi permetteva infatti di distinguere il soggetto (che aveva la desinenza del nominativo) dall’oggetto (che aveva la desinenza dell’accusati­ vo). La caduta del sistema dei casi nel passaggio dal latino all’italiano causò un irrigidimento dell'ordine dei costituenti. In una frase transitiva, per riconoscere il soggetto e l’oggetto diventò necessario fare riferimento alla posizione rispetto al verbo: il soggetto anteposto e l'oggetto posposto. In una frase come la seguente, dunque, sarà Gianni a inseguire Paolo e non viceversa: Gianni ha inseguito Paolo. I mezzi che studieremo (frasi passive, segmentate e scisse) hanno precisamente la funzione di alterare l’ordine non marcato dei costituenti. Sul tema si veda Ferrari, 2012.

buzione dei ruoli del processo tra le categorie funzionali. Studieremo quindi le strutture che agiscono direttamente sulla prospettiva senza intaccare la struttura del processo, distinguendo tra strutture che evi­ denziano il tema (le dislocazioni) e strutture che, come 1 accento di intensità, evidenziano il fuoco (le frasi scisse). 17.2.3

La frase passiva

Nella frase passiva, la progressione comunicativa si sviluppa esatta­ mente come nella frase attiva: il tema coincide con il soggetto, il predi­ cato forma il rema che culmina con il fuoco. Quello che cambia è la correlazione tra ruoli del processo e relazioni grammaticali: il paziente lascia la posizione di oggetto diretto per occupare quella di soggetto, liberata dall’agente: 1.

Il giornale è stato comprato da Giovanni.

In una frase attiva il protagonista dell’azione (il ruolo che occupa il posto di soggetto) è l’agente. In una frase passiva, invece, il protagoni­ sta è il paziente, mentre l’agente è marginalizzato, cioè espulso dalla rete di relazioni grammaticali che forma il nucleo della frase ÉH3· Questa ristrutturazione ha delle conseguenze importanti sulla pro­ spettiva comunicativa: il paziente, in quanto soggetto, diventa tema. Quanto all’agente, può essere specificato o soppresso: se è specificato, coincide con il fuoco (la); se è soppresso, il fuoco arretra (lb). la . Il giornale è stato comprato da Giovanni. lb . Il giornale è stato comprato.

È importante sottolineare che la diatesi passiva non va considerata esclusivamente una proprietà grammaticale o lessicale del verbo (ci sono verbi transitivi come avere che non ammettono passivo jMjyQ. e viceversa verbi intransitivi come obbedire che lo ammettono (*,34.3.1 IX ma una proprietà funzionale della frase: la presenza del passivo in un testo dipende da una scelta del parlante ed è funzionale a creare una certa prospettiva dell’evento. 17.2.4 La messa in rilievo del tema: le dislocazioni Le strutture marcate che agiscono direttamente sulla prospettiva comu­ nicativa operano secondo due direttrici:

Tra le strutture sintattiche destinate a costruire prospettive comuni­ cative marcate analizzeremo in primo luogo la frase passiva, che modi­ fica la prospettiva comunicativa in modo indiretto, agendo sulla distri­

227

La frase passiva come mezzo per promuovere a tem a il paziente

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Parte V - Il testo tra coerenza e coesione

-

le categorie della prospettiva si dissociano dalle categorie fun­ zionali: qualunque costituente della frase può diventare il tema o il fuoco di un enunciato. — 1 equilibrio tra tema, rema e fuoco si altera o addirittura si spezza. Promuovere a tem a un costituente: la dislocazione a sinistra

Tra le strutture marcate che evidenziano il tema segnaliamo in pri­ mo luogo la dislocazione a sinistra. Tutti i costituenti principali di una frase possono essere spostati nella posizione iniziale, prima del sogget­ to, e assumere un valore di tema. Il tema anticipato è separato dal cor­ po della frase da una pausa, e forma un’unità comunicativa indipen­ dente: la frase risulta segmentata. Possono essere collocati senza difficoltà in prima posizione: le espressioni di circostanza (1), le determinazioni accessorie interne al predicato, come lo strumento (2) o il fine (3), complementi locativi dei verbi di stato, di movimento e di spostamento (4) e l’oggetto indi­ retto (5): 1. 2. 3. 4. 5.

La dislocazione a sinistra dell'oggetto

La notte scorsa non sono riuscito a dormire. Con questo trapano riuscirai a bucare il cemento. Per la carriera farei questo e altro. In montagna vado sempre d ’estate. A me nessuno ha detto niente.

Si noti che, quando è promosso a tema, l’oggetto indiretto espresso da un pronome personale è usato nella forma tonica (da mi si passa a a me). L’oggetto diretto impone una ripresa pronominale obbligatoria nel corpo della frase: 6. Quel libro, l ’ho trovato al mercatino delle pulci. 7. La braciola, l’ ha mangiata il gatto. 7a. La braciola è stata mangiata dal gatto.

La dislocazione a sinistra dell’oggetto (es. 7) condivide la prospet­ tiva comunicativa della frase passiva (7a) e costituisce di fatto un’alter­ nativa alla passivazione, specie nel parlato. Nel parlato, la ripresa pronominale dell’elemento anticipato può estendersi anche all’oggetto indiretto (5a) e ai locativi (4a): 4a. In montagna ci vado sempre d’estate. 5a. A me nessuno mi ha detto niente.

CAPITOLO 17 - La frase semplice come segnale di un messaggio

229

L’anticipazione dell’oggetto senza ripresa pronominale è possibile solo con valore di fuoco contrastivo, associato a un uso marcato del­ l’accento di intensità l i 7.2.21: 7b. La braciola ha mangiato il gatto (e non le polpette).

Box 17.3 - IL TEMA SOSPESO O ANACOLUTO Una struttura simile alla dislocazione a sinistra è il cosiddetto tema sospeso (hanging topic in inglese), che si ha quando troviamo un complemento preposizionale (nell’esempio 1, della lingua) dislocato come semplice espressione nominale (in la , la lingua)', questa espressione appare slegata sintatticamente dal verbo e isolata da una pausa. Sarà la ripresa pronomi­ nale (in questo caso ne), a definire la relazione corretta con il nucleo (ne equivale a di essa): 1. Ciascuno si serve della lingua a modo suo. la . La lingua, ciascuno se ne serve a modo suo. Questa disposizione a tema «fluttuante», chiamata tradizionalmente anacoluto (dal greco anakólouthon, «che non segue») non è un errore ma una risorsa al servizio della prospettiva. L’esempio citato, tra l’altro, è del grande linguista Ferdinand de Saussure e nella letteratura italiana gli esempi sono numerosissimi, da Boccaccio a Manzoni («Lei sa che noi altre mo­ nache ci piace di sentir le storie per minuto»).

La posizione di tema dislocato a sinistra può essere occupata da più di un costituente. Nell’enunciato seguente, per esempio, compaiono due costituenti dislocati, entrambi con valore tematico: 8. A Giorgio, la macchina l’hanno rubata la notte scorsa.

Il tema spostato non prende il posto del soggetto ma occupa una posizione libera. Per quel che riguarda il comportamento del soggetto, possiamo immaginare diverse opzioni. Il soggetto può essere sottinteso (9), oppure spostarsi nel rema in posizione di fuoco (9a); in questo ca­ so, la frase con oggetto dislocato presenta la stessa prospettiva di una frase passiva con agente espresso (9b): 9. Quel libro, l'ha trovato ai mercato delle pulci. 9a. Il giornale l'ha comprato Giovanni. 9b. Il giornale è stato comprato da Giovanni.

Se il soggetto è specificato nella sua posizione abituale (10), la frase presenta due temi: uno esterno (il costituente dislocato) e uno in­ terno (il soggetto):

230

CAPITOLO 17 - La frase semplice come segnale di un messaggio

Parte V - Il testo tra coerenza e coesione

10. Quel libro, Giovanni l’ha trovato al mercato delle pulci.

Quando la prima posizione è occupata da un circostanziale, la fun­ zione è simile a quella del tema per certi versi, dissimile per altri. Un tema in senso stretto cumula due funzioni: identifica il grado più basso della progressione comunicativa, e introduce nell’enunciato un sogget­ to di discorso, cioè una persona o una cosa su cui il discorso verte. Quando a essere dislocata è una circostanza, come in 11, solo la prima funzione è soddisfatta: 11. Ieri notte, la polizia ha arrestato un pericoloso latitante. Il s e t ti n g : una circostanza spaziale o temporale in posizione di tem a

La circostanza rappresenta il punto più basso della progressione informativa; tuttavia, non introduce un soggetto di discorso ma circo­ scrive le condizioni in cui si svolgerà il processo. Nell’esempio 11, Ieri notte non identifica, come la polizia, un tema, ma fornisce all’azio­ ne la sua cornice temporale. Quando a occupare la posizione tematica è un circostanziale di luogo o di tempo, si parla di setting. Così come può presentare un cumulo di temi in posizione iniziale, una frase può presentare anche un cumulo di espressioni che fanno da setting (opportunamente separate da virgole nello scritto): Ieri notte, a Milano, dopo anni di ricerche, la polizia ha arrestato un pericoloso latitante.

Oltre ai costituenti nominali e preposizionali, anche il verbo princi­ pale della frase può essere tematizzato con una struttura sintattica mar­ cata simile alla dislocazione, come in una celebre canzone di Enzo Jannacci: Vederci, non vedeva un’autobotte, ma sentirci non sentiva un acci­ dente.

La dislocazione a destra del tem a

Un altro tipo di struttura, speculare alla dislocazione a sinistra, è la dislocazione a destra del tema, preceduto da una pausa: 12. L’ha mangiata il cane, la braciola. 13. Ho comprato il tappeto del soggiorno, in Colombia.

L’elemento dislocato a destra, cioè dopo il verbo, assume il valore di un chiarimento, di una precisazione. Si noti che, in assenza della pausa, il circostanziale della frase 13 (in Colombia) sarebbe il fuoco (13a): 13a. Ho comprato il tappeto del soggiorno in Colombia.

231

Nelle frasi interrogative con l’oggetto dislocato a destra, frequenti nel parlato, la pausa può anche mancare: Lo mangi il pesce? Ci vieni in montagna?

17.2.5

La messa in rilievo del fuoco: la frase scissa

La struttura marcata che evidenzia il fuoco, la cosiddetta frase scissa —in francese phrase clivée, in inglese cleft sentence —, è una perifrasi del tipo è x (l’elemento focale) che...

Mettere in evidenza il fuoco: la frase scissa

1. Il cane ha mangiato la braciola. la . È il cane che ha mangiato la braciola.

La frase scissa (2) isola il fuoco (il cane), al quale conferisce un rilievo massimo, e proietta il resto del messaggio su uno sfondo piatto, privo di rilievo interno. Come nel caso dell’accento di intensità, il fuo­ co non è più il punto culminante del rema, e la stessa distinzione tra tema e rema scompare, appiattita sullo sfondo. La frase scissa isola sintatticamente il fuoco scindendo in due parti la frase non marcata (1). La seconda parte della frase può essere anche di forma implicita, introdotta da a e con il verbo all’infinito: 2. È stato quel ragazzo a rubarmi la borsa.

La frase scissa col che può isolare anche costituenti diversi dal sog­ getto: l’oggetto diretto (3), l’oggetto indiretto (4), i complementi di luogo (5), ecc. 3. È la braciola che ha mangiato il cane. 4. È a mio fratello che l’ho detto. 5. È a Venezia che voglio andare.

La frase scissa può essere inoltre usata per isolare un’intera frase (6), anche negativa (7) o interrogativa (8): 6. È che non lo sopporto. 7. Non è che ci creda molto. 8. Non è che mi presteresti la macchina?

Una struttura simile alla frase scissa è la pseudo-scissa, che capo­ volge l’ordine del fuoco e dello sfondo, come si vede dal confronto tra (2a) e (2):

La frase pseudo-scissa

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Parte V - Il testo tra coerenza e coesione

2a. Chi mi ha rubato la borsa è quel ragazzo. 2. 6 stato quel ragazzo a rubarmi la borsa.

Le frasi presentative non hanno tema, e hanno la funzione di in­ trodurre un referente nuovo in posizione di fuoco (9), o comunque in posizione Tematica (10): 9. C’era una volta un re 10. C’è una persona che chiede di te.

Box 17.4 - SCRITTO E PARLATO I fenomeni comunicativi che abbiamo analizzato (focalizzazione contrastiva, tema sospeso, frasi segmentate con dislocazione a sinistra e a destra, frase scissa) sono considerati tipici della sintassi del parlato. Nel parlato, infatti, ricorrono più spesso che nello scritto, con varie funzioni che abbiamo di volta in volta indicato: mettere in rilievo all’interno del discorso il centro di interesse; introdurre un chiarimento o una rettifica; mettere in primo piano il setting di un evento; stabilire un rapporto confidenziale con l’interlocutore e così via. Rispondono inoltre a caratteristiche generali della comunicazione parlata, come la scarsa pianificazione del discorso (è il caso dell’anacoluto) e l'esigenza di ripetizioni e di elementi ridondanti, come i pronomi di ripresa, che facilitino il controllo della sintassi dell’enunciato e aiutino l'interlocutore a identificare senza ambiguità i referenti. Nella tradizione grammaticale e nell'insegnamento scolastico questi fenomeni (attestati in italiano fin dalle origini) sono stati bollati come scorretti. Oggi questi fenomeni sono diffusi anche nello scritto di media formalità e abbondano nella narrativa contemporanea, attenta alla mimesi del parlato non soltanto nei dialoghi. La sintassi del parlato può essere definita una «sintassi in tempo reale» (Voghera, 2017), che sfrutta la giustapposizione più che la subordinazione e preferisce frasi brevi (anche di tipo nominale) e strutture sequenziali (poi, allora) che consentono di procedere per addizio­ ne, evitando di sovraccaricare la memoria. Altri fenomeni tipici della sintassi del parlato sono: le concordanze a senso, cioè l’uso di un soggetto plurale con un verbo singolare (1) op­ pure di una forma verbale al femminile con un soggetto maschile (2): 1. Tanta gente parlano male di te. 2. La maggior parte degli invitati sono arrivati in ritardo. • l’uso di elementi deittici, che ancorano il discorso al contesto; • l’uso dei cosiddetti segnali discorsivi (es. ma, dunque, bene, insomma), ovvero di ele­ menti che, parzialmente svuotati del loro significato proprio, sono utilizzati con funzioni pragmatiche: per marcare l’inizio o la fine del discorso, per attenuare o enfatizzare la por­ tata di ciò che si dice, per assicurarsi dell’attenzione da parte del destinatario. I segnali discorsivi contribuiscono, insieme con gli accorgimenti prosodici, a bilanciare la disconti­ nuità sintattica tipica del parlato, assicurando la coesione dei messaggi.

CAPITOLO 17 - La frase semplice come segnale di un messaggio

17.2.6 La relazione di parafrasi

Le manipolazioni che abbiamo studiato (frase passiva, dislocazioni, frase scissa) creano famiglie di frasi in relazione di parafrasi |gj