Felicità pubblica e felicità privata nel Settecento 886372461X, 9788863724615

Il tema della felicità conosce nel XVIII secolo una vera e propria esplosione nell'editoria e nella riflessione deg

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Felicità pubblica e felicità privata nel Settecento
 886372461X, 9788863724615

Table of contents :
La felicità del Settecento : relazione introduttiva - Rao, Anna Maria
La felicità delle lettere - Alfonzetti, Beatrice
Diritto alla felicità e leggi per essere felici : torsioni individualistiche della felicità nella dottrina giuridica - Birocchi, Italo
La felicità coniugale - Bizzocchi, Roberto
La felicità per tutti : Filangieri e l’ultimo Verri - Capra, Carlo
La felicità dei moderni fra Dichiarazioni e Costituzioni - Cazzaniga, Gian Mario
Felicità, ragione, interesse e dovere : aspetti della filosofia morale di Pietro Verri - Roter, Wolfgang
Felicità e infelicità delle donne nel Settecento : sensibilità, malattie nervose e passioni - Brambilla, Elena
Alle fonti della felicità : le terme di Abano fra intervento dello Stato ed interessi privati - Galtarossa, Massimo
Le felicità dell’amore e il piacere : materialismo, edonismo e passioni da La Mettrie a Sade - Quintili, Paolo
Due immagini antinomiche della felicità : l’eudemonismo privato di Casanova e l’utilitarismo pubblico di Pietro Verri - Bietolini, Nicola
Robespierre e la felicità - Marin, Marco
Le bonheur chez Kant - Ferrari, Jean
Felicità e infelicità di Giammaria Ortes - Anglani, Bartolo
David Hume e i filosofi che forniscono ricette per la felicità - Boccara, Nadia
Le Meditazioni sulla felicità di Pietro Verri : le ragioni di un titolo - Norci Cagiano, Letizia
Necessità del male e felicità del tutto : riflessioni nella scuola genovesiana - Matarazzo, Pasquale
Una fragile armonia : felicità e sapere nel pensiero di Antonio Genovesi - Passetti, Cristina
Riflessioni settecentesche sulle oasi felici del nuovo mondo - Buccini, Stefania
Felicità terrena e felicità celeste : gli elogi storici dei santi - Palmieri, Pasquale
Studio dell’uomo e felicità privata e pubblica nelle prolusioni liceali di G.B. Zandonella, 1808-1810 - Piaia, Gregorio
Temperamento e circostanze : il problema della felicità nei Nuovi dialoghi italiani dei morti di Giuseppe Pelli Bencivenni - Addobbati, Andrea
La vita felice dell’uomo savio : Saverio Mattei e il paradosso della felicità - Di Ricco, Alessandra
Città reali, città ideali : la felicità degli abitanti - Rossi Pinelli, Orietta
L’utilità delle Arti belle nella città del papa : tracce di una disputa - Adina Meyer, Susanne
Bellezza classica e felicità moderna : il palazzo reale di Caserta fra artificio e natura - Maglio, Emma
Variazioni sul tema del diritto alla felicità : Amsterdam e le città olandesi tra Gouden Eeuw e tardo Illuminismo - Trampus, Antonio
Felicità, e infelicità, sulle scene musicali tardosettecentesche : La clemenza di Tito di Mozart e Nina o sia La pazza per amore di Paisiello - Tufano, Lucio
Indice dei nomi -

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principi Rao, Felicità.qxp:Temi e testi - Fede.qxd 06/12/12 09.56 Pagina I

principi Rao, Felicità.qxp:Temi e testi - Fede.qxd 06/12/12 09.56 Pagina II

principi Rao, Felicità.qxp:Temi e testi - Fede.qxd 06/12/12 09.56 Pagina III

BIBLIOTECA DEL X VIII SECOLO 22 SERIE DELLA SOCIETÀ ITALIANA DI STUDI SUL SECOLO XVIII

FELICITÀ PUBBLICA E FELICITÀ PRIVATA NEL SETTECENTO a cura di ANNA MARIA RAO

ROMA 2012 EDIZIONI DI STORIA E LETTERATURA

principi Rao, Felicità.qxp:Temi e testi - Fede.qxd 06/12/12 09.56 Pagina IV

SOCIETÀ ITALIANA DI STUDI SUL SECOLO XVIII Comitato esecutivo Beatrice Alfonzetti (Presidente), Marina Formica, Rolando Minuti (Vicepresidenti), Alberto Postigliola (Segretario generale), Elena Agazzi (Tesoriere) Consiglio scientifico Lorenzo Bianchi, Lodovica Braida, Alessandra Di Ricco, Andrea Gatti, Rosamaria Loretelli, Renato Pasta, Paolo Quintili, Anna Maria Rao, Silvia Tatti, Walter Tega, Roberta Turchi, Corrado Viola (Membri cooptati: Lia Guerra, Cristina Passetti, Orietta Rossi Pinelli, Lucio Tufano) Collegio dei revisori dei conti Daniela Mangione, Elisabetta Mastrogiacomo, Valeria Tavazzi

Serie coordinata da Alberto Postigliola e Anna Maria Rao Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Discipline Storiche “Ettore Lepore” dell’Università degli Studi di Napoli Federico II

Tutti i diritti riservati © Novembre 2012 ISBN 978-88-6372-461-5

EDIZIONI DI STORIA E LETTERATURA 00165 Roma - via delle Fornaci, 24 Tel. 06.39.67.03.07 - Fax 06.39.67.12.50 e-mail: [email protected] www.storiaeletteratura.it

Indice del volume

La felicità del Settecento. Relazione introduttiva di Anna Maria R ao .

ix

Parte Prima Il Settecento e la felicità Beatrice Alfonzetti, La felicità delle lettere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

3

Italo Birocchi, Diritto alla felicità e leggi per essere felici: torsioni individualistiche della felicità nella dottrina giuridica . . . . . . . . . . .

31

Roberto Bizzocchi, La felicità coniugale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

51

Carlo Capra, La felicità per tutti: Filangieri e l’ultimo Verri . . . . . . . .

61

Gian Mario Cazzaniga, La felicità dei moderni fra Dichiarazioni e Costituzioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

77

Parte Seconda Interessi pubblici, passioni private Wolfgang Rother, Felicità, ragione, interesse e dovere. Aspetti della filosofia morale di Pietro Verri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

93

Elena Brambilla, Felicità e infelicità delle donne nel Settecento: sensibilità, malattie nervose e passioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

101

Massimo Galtarossa, Alle fonti della felicità: le terme di Abano fra intervento dello Stato ed interessi privati . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

133

vi

indice del volume

Paolo Quintili, Le felicità dell’amore e il piacere. Materialismo, edonismo e passioni da La Mettrie a Sade . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

157

Nicola Bietolini, Due immagini antinomiche della ‘ felicità’. L’eudemonismo privato di Casanova e l’utilitarismo pubblico di Pietro Verri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

179

Marco Marin, Robespierre e la felicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

197

Parte Terza R agione, morale, natura Jean Ferrari, Le bonheur chez Kant . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

211

Bartolo Anglani, Felicità e infelicità di Giammaria Ortes . . . . . . . . .

219



Nadia Boccara, David Hume e i filosofi che forniscono ricette per la felicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

239

Letizia Norci Cagiano, Le Meditazioni sulla felicità di Pietro Verri: le ragioni di un titolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

255

Pasquale Matarazzo, Necessità del male e «felicità del tutto». Riflessioni nella scuola genovesiana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

271

Cristina Passetti, Una fragile armonia: felicità e sapere nel pensiero di Antonio Genovesi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

287

Parte Quarta Cristianesimo e Lumi Stefania Buccini, Riflessioni settecentesche sulle oasi felici del nuovo mondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

301

Pasquale Palmieri, Felicità terrena e felicità celeste: gli «elogi storici» dei santi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

311

Gregorio Piaia, «Studio dell’uomo» e felicità privata e pubblica nelle prolusioni liceali di G.B. Zandonella (1808-1810) . . . . . . . . . .

333

indice del volume

vii

Andrea Addobbati, Temperamento e circostanze. Il problema della felicità nei «Nuovi dialoghi italiani dei morti» di Giuseppe Pelli Bencivenni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

349

Alessandra Di R icco, La vita felice dell’uomo savio: Saverio Mattei e il paradosso della felicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

371

Parte Quinta Spazi e scene Orietta Rossi Pinelli, Città reali, città ideali: la felicità degli abitanti . . . .

381

Susanne Adina Meyer, L’utilità delle Arti belle nella città del papa. Tracce di una disputa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

393

Emma Maglio, Bellezza classica e felicità moderna: il palazzo reale di Caserta fra artificio e natura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

405

Antonio Trampus, Variazioni sul tema del diritto alla felicità: Amsterdam e le città olandesi tra «Gouden Eeuw» e tardo Illuminismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

423

Lucio Tufano, Felicità (e infelicità) sulle scene musicali tardosettecentesche: La clemenza di Tito di Mozart e Nina o sia La pazza per amore di Paisiello . . . . . . . . . . . . . . . . . .

435

Indice dei nomi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Anna Maria R ao La felicità del Settecento

1.  La felicità dei Lumi. Da alcuni decenni, grazie anche alla riflessione di Albert Hirschman1, il rapporto tra felicità privata e felicità pubblica ha ritrovato nuova attenzione presso gli scienziati sociali e nell’analisi economica2. Hirschman lamentava che della questione si fossero occupati prevalentemente psicologi e sociologi e poco o niente gli economisti3. Tuttavia, più che la felicità – via via definita come benessere, o piacere o soddisfazione – al centro delle sue argomentazioni si collocava la polarità tra privato e pubblico. In polemica con le teorie economiche ancorate a modelli di scelta razionale degli individui, la sua ricostruzione è imperniata sulla nozione di delusione: è la delusione (nei confronti ora della ricerca della felicità privata ora dell’azione pubblica) che spingerebbe gli individui a un movimento pendolare, a uno spostamento dal privato al pubblico e poi di nuovo al privato. Di qui un modello ciclico, costruito sulla base sia dell’osservazione psicologica dei com-

1  A. Hirschman, Felicità privata e felicità pubblica, trad. it. di J. Sassoon e M. L. Bassi, Bologna, Il Mulino, 20032 (1a ed. or. Shifting Involvements. Private Interest and Public Action, Princeton, Princeton University Press, 1982). 2   Si vedano in particolare B. S. Frey – A. Stutzer, Economia e felicità: come l’economia e le istituzioni influenzano il benessere, trad. it. di V. Di Giovinazzo, Milano, Il Sole 24 ore, 2006 (ed. or. Happiness and Economics: How the Economy and Institutions affect Human Well-Being, Princeton, Princeton University Press, 2001) e poi i numerosi lavori di Luigino Bruni e Pier Luigi Porta, fra i quali: L. Bruni – P. L. Porta, Economics and Happiness: Framing the Analysis, Oxford, Oxford University Press, 2005; L. Bruni, Civil Happiness. Economics and Human Flourishing in Historical perspective, London, Routledge, 2006; Felicità e libertà: economia e benessere in prospettiva relazionale, a cura di L. Bruni e P. L. Porta, Milano, Guerini, 2006. Il tema di per sé non era del tutto nuovo, come ricordano questi stessi autori, con particolare riferimento al contributo di R. Michels, Economia e felicità, Milano, F. Vallardi, 1918. 3   Hirschman, Felicità privata e felicità pubblica, p. 38.

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Anna Maria Rao

portamenti umani, sia dell’indagine economica, sia della spiegazione storica. Particolare rilievo in questo modello Hirschman assegnava alla distinzione tra benessere e piacere proposta nel 1976 dall’economista americano di origine ungherese Tibor Scitovsky, per spiegare il cosiddetto «paradosso della felicità», in una «economia senza gioia»4: la tensione tra sovreccitazione e noia era, infatti, un altro modo per spiegare, da un lato, l’incessante ricerca della novità, e dall’altro, pressoché inevitabile, la delusione5. Sul piano della spiegazione storica, Hirschman – dichiarando che era stato Quentin Skinner a farglielo notare – riteneva che anche nel più lungo corso della storia si fosse realizzato uno spostamento: dal rilievo assegnato nel Rinascimento alle virtù civiche e al coinvolgimento negli affari pubblici – ancora presente alla fine del Settecento nel significato prevalentemente pubblico accordato al termine ‘felicità’ –, si era passati alla prevalente considerazione dell’interesse privato come strumento di stabilità sociale6. Inoltre, nel dibattito sul lusso del XVIII secolo trovava la conferma del rapporto diretto tra l’ampliamento della disponibilità di beni e l’ostilità nei confronti della nuova ricchezza materiale7. Un altro elemento, infine, va ricordato della sua analisi, che attingeva questa volta al sinologo americano Benjamin Schwartz: il suo modello ciclico privato-pubblico-privato non si applicava a società che avevano «a lungo fatto a meno di ogni concezione del bene pubblico come distinto dal bene privato, senza incontrare alcuna difficoltà». Era il caso della società cinese, dove l’ideale buddista offriva un’altra soluzione alla delusione nei confronti del privato: la riduzione delle ambizioni e dei desideri8. Movimento ciclico, spostamento, fasi: l’analisi economica e sociologica finiva in tal modo per spezzare un rapporto tra felicità privata e felicità pubblica che nel XVIII secolo aveva costituito, invece, un nesso pressoché indissociabile. E finiva per non cogliere che appunto per questo il Settecento aveva segnato una tappa peculiare e durevole nella storia plurisecolare della felicità e dei suoi interpreti. Proprio la peculiarità di questo nesso era stata al centro della mia proposta di dedicare al dibattito sulla felicità l’incontro annuale della Società

4   T. Scitovsky, L’economia senza gioia: la psicologia della soddisfazione umana, trad. it. di V. Di Giovinazzo, ed. it. a cura di L. Bruni e P. L. Porta, Prefazione di M. Bianchi, Roma, Città Nuova, 2007 (ed. or. The Joyless Economy, Oxford, Oxford University Press, 1976). 5   Hirschman, Felicità privata e felicità pubblica, pp. 47-48, 74. 6   Ibidem, pp. 156-157. 7   Ibidem, pp. 67-75. 8   Ibidem, pp. 86-87.

La felicità del Settecento

xi

italiana di studi sul secolo XVIII (che allora presiedevo), tenutosi poi ad Anacapri il 29-31 maggio 2008. In un ideale inventario di parole chiave settecentesche che ritenevo opportuno mettere al centro della riflessione e dei dibattiti della nostra Società, mi sembrava che la felicità occupasse un posto cruciale. Ben prima, del resto, lungo il filo degli anni, la proposta di affrontare questo tema si era più volte e da più parti riaffacciata, segno evidente non solo del suo particolare rilievo nel XVIII secolo ma anche della sua ricorrente e a volte bruciante attualità. Che si trattasse di un aspetto centrale lo confermava l’attenzione che aveva abbastanza costantemente ricevuto negli studi settecenteschi, che lo avevano periodicamente affrontato su un piano filosofico, storico, letterario. Quello di Robert Mauzi, del 19609, era stato il tentativo forse più ambizioso, con centinaia di autori censiti nei più vari ambiti della produzione letteraria in senso lato, dalla filosofia alla medicina alla teologia: «una sorta di enciclopedia del “bonheur”», avrebbe osservato Corrado Rosso, autore a sua volta di saggi sull’Illuminismo francese raccolti nel 1969 sotto il titolo Illuminismo felicità e dolore, con una cronologia che arriva a Simone Weil e una geografia del bonheur che spazia dalle relazioni franco-tedesche alla Svezia di Bonstetten e di Voltaire10. Mauzi sottolineava la sostanziale continuità del razionalismo morale tra Sei e Settecento. La novità fondamentale della riflessione settecentesca rispetto al passato stava a suo parere nel fatto che alla precedente confusione, dominante fin dall’antichità, tra la morale e la teoria della felicità, si era aggiunto un terzo termine, l’ordine sociale: felicità, morale, società erano ormai tutt’uno. Tuttavia, nonostante questa costatazione, Mauzi sceglieva di infrangere queste connessioni e di affrontare nella sua indagine solo il bonheur individuale e non quello collettivo, e paradossalmente dichiarava: «Un ouvrage qui aurait prétendu traiter ensemble les deux questions eût manqué d’unité»11. Nel suo lavoro il tema della felicità era comunque considerato quasi ossessivo nel Settecento, «la maggiore idea-forza in cui si sia espressa la coscienza degli uomini del secolo decimottavo»12. Lo confermavano i contributi di Corrado Rosso, con particolari approfondimenti sul dibattito italiano e

9   R. Mauzi, L’idée du bonheur dans la littérature et la pensée françaises au XVIIIe siècle, Paris, Armand Colin, 1960. 10  C. Rosso, Illuminismo felicità e dolore: miti e ideologie francesi, Napoli, Esi, 1969. La citazione è tratta dalla recensione a Mauzi, Il problema della felicità nel Settecento, ibidem, pp. 81-86: 82. 11  Mauzi, L’idée du bonheur, p. 14. 12   Rosso, Illuminismo felicità e dolore, p. 83.

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Anna Maria Rao

sui suoi rapporti con la produzione francese. Del dibattito italiano, infatti, solitamente ancorato alla pubblicazione del trattato Della pubblica felicità di Muratori (1749), Rosso ricordava in particolare la fortuna e le reazioni sollevate nel volgere degli stessi anni dal Saggio di filosofia morale di Maupertuis. Grazie anche alla traduzione pubblicata a Venezia nel 175613, il Saggio fu subito oggetto di accese controversie sui rapporti tra stoicismo e cristianesimo, che ne alimentarono la circolazione ulteriore. In proposito Rosso osservava: E stupisce, e diverte quasi, questo vario armeggiare di qua e di là, questo subitaneo accendersi di rivalità in margine a un libro che sembrava fosse fatto per piegare le umane cervici in una raccolta amarezza, temperata solo da una lontana speranza14.

Benché nel 1748 fosse già uscito il ben più esplicito Discorso sulla felicità di La Mettrie, fu il «libretto» di Maupertuis, nell’analisi di Rosso, a segnare «una data nella storia della coscienza settecentesca»15. Di tono tra il pascaliano e il romantico gli apparivano le considerazioni che vi si potevano leggere sulla vana ricerca degli uomini di mezzi e forme di distrazione da se stessi e dal «mal del vivere»: Tous les divertissements des Hommes prouvent le malheur de leur condition. Ce n’est que pour éviter des perceptions fâcheuses, que celui-ci joüe aux Echecs, que cet autre court à la Chasse: tous cherchent dans des occupations sérieuses, ou frivoles, l’oubli d’eux-mêmes. Ces distractions ne suffisent pas; ils ont recours à d’autres ressources: les uns par des liqueurs spiritueuses excitent dans leur Ame un tumulte, pendant lequel elle perd l’idée qui la tourmentoit; les autres par la fumée des feuilles d’une plante cherchent un étourdissement à leurs ennuis; les autres chassent leurs Peines par un suc, qui les met dans une espece d’Extase. Dans l’Europe, l’Asie, l’Afrique, et l’Amérique, tous les hommes ont cherché des remèdes au mal de vivre16.

13   Saggio di filosofia morale del signor di Maupertuis Tradotto dal francese, in Raccolta di trattati di diversi autori concernenti alla religion naturale e alla morale filosofia de’ cristiani, e degli stoici, vol. I, In Venezia, Appresso Pietro Valvasense, 1756, pp. ix-xxxii. 14   Rosso, Illuminismo felicità e dolore, p. 41. 15   Ibidem, p. 34. 16   Ibidem, p. 32. Così la traduzione italiana: «Tutti i divertimenti degl’uomini provano l’infelicità di lor condizione. Non per altro motivo, che per evitare fastidiose percezioni, quello giuoca agli scacchi, quell’altro corre alla caccia, tutti in occupazioni serie o frivole cercano l’obblio di loro stessi. Bastevoli non sono l’indicate distrazioni; sono gl’uomini ricorsi ad altri mezzi; gl’uni con spiritosi liquori risvegliano nell’anima loro un tumulto, che fintanto che dura, ella perde l’idea, che la tormentava; gl’altri col fumar delle foglie d’una pianta, cercano di rendere stupida la noja loro, ed insensibile; v’ha finalmente chi incanta le sue pene con un sugo, che lo pone in una specie di estasi. Nell’Europa, nell’Asia, nell’Affrica, e nell’America tutti gl’uomini, per altro sì diversi ne’ loro usi, hanno cercato rimedj al mal del vivere» (Saggio di filosofia morale del signor di Maupertuis, p. vi).

La felicità del Settecento

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Questo dibattito – e gli studi che se ne occuparono – restavano su un terreno di filosofia morale, di confronto tra l’epicureismo quasi provocatoriamente ostentato di La Mettrie e lo stoicismo di Maupertuis. Sia pure a una certa distanza, come se i lavori di Mauzi e di Rosso avessero almeno temporaneamente esaurito la questione17, altri studi seguirono questi primi importanti contributi degli anni Sessanta: mi limiterò a ricordarne rapidamente solo alcuni fra i più recenti. Innanzitutto, è significativo che le voci bonheur/félicité, happiness, felicità fossero presenti nei numerosi dizionari dell’Illuminismo pubblicati negli anni Novanta del Novecento. Frettolosamente evocata nella voce happiness del dizionario inglese a cura di Jeremy Black e Roy Porter18, attentamente esaminata da Michel Delon nel dizionario francese a sua cura19, più ampiamente analizzata da Philippe Roger nel dizionario italiano e francese a cura di Vincenzo Ferrone e Daniel Roche20, la felicità vi appariva oggetto di un dibattito che aveva segnato un netto mutamento rispetto al passato. Delon sottolineava soprattutto il processo di secolarizzazione tracciato da questo dibattito, la frattura segnata rispetto a una tradizione che collocava i valori supremi nella salvezza dell’anima o nella gloria del principe: la felicità individuale trovava ora piena legittimità, il piacere veniva riabilitato sul piano sociale e filosofico. Roger aggiungeva a questi aspetti il mutamento soprattutto di scala avvenuto nel Settecento, l’ampliamento del discorso dalla sfera ristretta dei dotti o dei teologi a un pubblico più ampio, la sua diffusione dalle corrispondenze epistolari alle accademie e ai caffè, dai poemi ai trattati. Attenti soprattutto al dibattito filosofico, entrambi prestavano poco o nulla attenzione ai nessi con la felicità pubblica e con le pratiche. Collocata nella prima parte del Dizionario curato da Ferrone e Roche, dedicata a Valori, idee, linguaggi, la voce di Philippe Roger si trovava anche material-

  Di Rosso si ricordino anche Moralisti del bonheur, Pisa, Libreria goliardica, 1977; Felicità vo cercando: saggi in storia delle idee, Ravenna, Longo, 1993. Significativo il titolo dei saggi a lui dedicati La quête du bonheur et l’expression de la douleur dans la littérature et la pensée françaises: mélanges offerts à Corrado Rosso, edités par C. Biondi (et alii), Genève, Droz, 1995. 18   S. Tomaselli, Happiness, in A Dictionary of Eighteenth-Century World History, ed. by J. Black, R. Porter, Oxford, Blackwell, 1994, pp. 316-317. 19   M. Delon, Bonheur, in Dictionnaire européen des Lumières, sous la direction de M. Delon, Paris, Puf, 1997, pp. 165-167. 20   P. Roger, Felicità, in L’Illuminismo. Dizionario storico, a cura di V. Ferrone e D. Roche, Roma-Bari, Laterza, 1997 (trad. fr. Le monde des Lumières, Paris, Le Grand livre du mois, 1999), pp. 40-49. Per una discussione di questi dizionari, particolarmente di quello curato da Delon, cfr. G. Imbruglia, Le voci dei lumi, tra Kant e Foucault, «Storica», IV (1998), pp. 115-131. 17

Anna Maria Rao

xiv

mente separata da voci come opinione pubblica, romanzo, economia politica, collocate nella terza parte, dedicata alle Pratiche. Ancora diversa la scelta operata nel «vademecum» dell’illuminismo curato da Gianni Paganini e Edoardo Tortarolo: qui il tema della felicità è piuttosto sospinto fra le righe di altre voci, organizzate in coppie di concetti opposti, e si affaccia particolarmente nella coppia Piacere e dolore, dove Girolamo Imbruglia, conformemente alle intenzioni dei curatori, ragiona più sulle ambivalenze, sui dubbi e le incertezze tra passioni e ragione, anziché confermare la tensione secolarizzatrice verso «la maggior felicità su questa terra»21. Dubbi e incertezze erano peraltro già al centro della sofferta indagine che Bronislaw Baczko aveva dedicato alla capacità dei Lumi di pensare insieme alla fatalità del male e all’utopia di una felicità da costruire per tutti e sulla terra, desacralizzando il Paradiso22. Il tema della felicità occupa dunque un posto di rilievo in quasi tutte le ricognizioni di temi illuministici. Tzvetan Todorov lo colloca nettamente al centro della sua analisi dello «spirito dell’illuminismo» e del processo di secolarizzazione: nel Settecento la ricerca della felicità prende il posto della ricerca della salvezza, si compie il «passaggio dal divino all’umano»23. Lettura diffusa, come si è visto, che colloca la felicità settecentesca nel solco di uno svolgimento che già Paul Hazard aveva posto al centro della crisi della coscienza europea24. Più sfumata, ironica e provocatoria la proposta di Robert Darnton, che nella sua «guida non convenzionale» al Settecento, dedica un apposito capitolo alla «ricerca della felicità». Di questa ricerca segnala le tensioni tra rinuncia stoica e impegno culturale e civile, utopia cristiana dell’Eden e un edonismo di cui rintraccia eredità tracimanti nell’attuale moltiplicarsi di centri benessere, vasche di idromassaggio, clini-

  G. Imbruglia, Piacere e dolore, in Illuminismo. Un vademecum, a cura di G. Paganini ed E. Tortarolo, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, pp. 168-181: 169. 22   B. Baczko, Job, mon ami. Promesses du bonheur et fatalité du mal, Paris, Gallimard, 1997. Désacraliser le Paradis è il titolo del cap. VI, che apre la seconda parte del volume, a sua volta intitolata Utopies: construire le bonheur. 23   T. Todorov, Lo spirito dell’illuminismo, Milano, Garzanti, 2007, p. 83. Di Todorov si ricordi anche Una fragile felicità: saggio su Rousseau, trad. it. di L. Xella, Bologna, Il Mulino, 1987 (ed. or. Frêle bonheur: Essai sur Rousseau, Paris, Hachette, 1985). 24   P. Hazard, La crise de la conscience européenne 1680-1715, Paris, Fayard, 1961, in particolare il cap. V della terza parte, Le bonheur sur la terre, pp. 274-284. Si veda l’Introduzione di G. Ricuperati alla trad. it. La crisi della coscienza europea, a cura di P. Serini, Torino, Utet, 2007, pp. vii-xxxviii. 21

La felicità del Settecento

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che dell’amore, che contrassegnano il nuovo culto dell’io25. Dal canto suo Giuseppe Giarrizzo, a conclusione del pressante appello a «fare i conti col Settecento», rivolto in occasione dell’incontro annuale della Società italiana di studi sul secolo XVIII tenutosi a Siracusa nel 2004, invitava «a chiedere al Settecento in che misura e con quale consapevolezza ha conquistato per sé e per noi un’idea di civiltà che non si identifica brutalmente con la trasmissione tecnologica del patrimonio naturale (…) e faccia dipendere la ‘felicità’ in quanto esito del proprio progresso dal diritto universale alla ‘felicità’»26. E ancora di recente, nel ripercorrere la trama dell’illuminismo, ha ricordato il suo appello a una filosofia fatta per rendere l’uomo «migliore e più felice»27. 2.  Una storia plurisecolare. Avevo già notato in apertura del Convegno di Anacapri del 2008 il moltiplicarsi di iniziative di studio e di pubblicazioni che facevano della felicità oggetto di analisi, con riferimenti quasi d’ufficio al momento settecentesco. Questa tendenza ha trovato ulteriori conferme negli anni seguenti, anche nella politica editoriale delle traduzioni28. In termini plurisecolari il tema è stato affrontato in alcune ricostruzioni recenti, non a caso più volte richiamate nei contributi pubblicati in questo volume: da quella di Fulvia de Luise e Giuseppe Farinetti, sviluppata per linee interne alla tradizione filosofica, seguendone con attenzione modelli e sviluppi29; a quella, più ironica e divulgativa ma altrettanto impegnativa, proposta da Darrin McMahon30; a quella, ancora più recente, di Antonio Trampus31, ugualmente immersa in una prospettiva storica di lungo perio-

  R. Darnton, L’età dell’informazione. Una guida non convenzionale al Settecento, trad. it. di F. Salvatorelli, Milano, Adelphi, 2007 (ed. or. George Washington’s False Teeth. An Unconventional Guide to the Eighteenth Century, New York, London, Norton & Co., 2003), cap. IV, La ricerca della felicità: Voltaire e Jefferson, pp. 107-125. 26   G. Giarrizzo, Fare in conti col Settecento, in Il Settecento negli studi italiani. Problemi e prospettive, a cura di A. M. Rao e A. Postigliola, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2010, pp. xiii-xviii: xvii-xviii. 27   G. Giarrizzo, Illuminismo, Napoli, Guida, 2011, p. 9 (dalla voce Homme dell’Encyclopédie). 28   Per es., la rapida rassegna filosofica di N. P. White, Breve storia della felicità, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008 (ed. or. A brief history of Happiness, Oxford, Blackwell, 2006). 29  F. De Luise – G. Farinetti, Storia della felicità. Gli antichi e i moderni, Torino, Einaudi, 2001. 30  D. M. McMahon, Storia della felicità. Dall’antichità a oggi, trad. it. di A. Cristofori, Milano, Garzanti, 2006 (ed. or. Happiness: A History, New York, Grove Press, 2006). 31  A. Trampus, Il diritto alla felicità. Storia di un’idea, Roma-Bari, Laterza, 2008. 25

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do ma con particolare attenzione al Sei e Settecento, definiti da de Luise e Farinetti «i due secoli d’oro della cultura moderna della felicità»32. In questa storia plurisecolare, Seneca, Epicuro, Cicerone, sant’Agostino costituiscono quasi un sostrato comune di riconoscimento e di identificazione, oltre a fornire chiavi di comunicazione interne alla ‘Repubblica delle lettere’. Accanto alla ricerca storica e filosofica altri filoni di studi si sono occupati del tema33. Oltre a quelli economici e sociologici, già ricordati, anche studi psicologici e politologici hanno sempre più spesso rivolto la loro attenzione alla ‘felicità’, richiamando non a caso l’interesse anche dei mezzi di comunicazione di massa. La correlazione tra benessere e delusione stabilita da Hirschman appare ora remota, ben altri motivi si sono andati accumulando di insoddisfazione, anzi di vera e propria infelicità pubblica, rendendo sempre meno accademiche e astrattamente ideali e sempre più frequenti le incursioni in materia. Può essere utile ricordarne alcuni esempi. Psicologia ed Economia della felicità è il titolo del Convegno organizzato nel 2007 a Roma dalla Scuola di specializzazione in Psicologia della salute dell’Università La Sapienza, con la partecipazione dello psicologo Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia34. In questa occasione Stefano Zamagni35 – si legge su «la Repubblica» –, cerca di spiegare come mai la politica «stenta a far tesoro degli studi sulla felicità»36. È ancora il quotidiano «la Repubblica» a ospitare un articolo del filosofo Maurizio Ferraris sul ‘felicismo’, infelice traduzione dell’altrettanto infelice ‘happyism’ dell’economista americana Deirdre McCloskey, teso a indicare una vera e propria «scienza della felicità», dotata di appositi indici di misurazione e classificazione di individui, gruppi, paesi37. Ed è ora lo stesso Ferraris a inaugurare, per lo stesso quotidiano, la collana da lui curata «Le domande della filosofia» con il volumetto dedicato alla Felicità38. Riscoperto, per così dire, da economisti e sociologi, il tema della felicità alletta anche giuristi e politologi, per non parlare delle aspirazioni architet De Luise – Farinetti, Storia della felicità, p. xv.   Si veda anche il numero di «Parolechiave», 13 (1997) dedicato a Felicità, dove il tema è affrontato dal punto di vista etico-filosofico, giuridico, antropologico. 34  Autore di Economia della felicità, Milano, Il Sole 24 ore, 2007. 35  Autore insieme a L. Bruni di Economia civile: efficienza, equità, felicità pubblica, Bologna, Il Mulino, 2004. 36  Così F. Ceccarelli sul quotidiano «la Repubblica» del 19 giugno 2007. 37  M. Ferraris, Felicismo. La nuova ideologia, «la Repubblica», 1 luglio 2012. 38   Felicità. Cos’è la ricerca della felicità?, La Biblioteca di Repubblica, Ariccia (Roma), Puntoweb, 2012. Il volumetto ripropone, fra gli altri, il testo di P. Fait, Che cos’è la felicità, tratto da Le domande della filosofia, a cura di P. Fait e S. Velotti, Roma-Bari, Laterza, 2004. 32

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toniche a case che siano «garanti della felicità»39. Nel volume intitolato La felicità della democrazia, un noto giornalista, il direttore de «la Repubblica» Ezio Mauro, e un altrettanto noto costituzionalista, Gustavo Zagrebelsky, dialogano fittamente per circa duecento pagine sui problemi attuali della democrazia, in Italia e nel mondo, intrecciando considerazioni a volte pessimistiche ma cruciali sul significato del termine e le sue variazioni e sulle pratiche politiche corrispondenti40. Poco o nulla, in realtà, vi si parla di felicità: al centro dell’attenzione è piuttosto la nozione del «bene comune», con le sue illusioni e le sue trappole41. Libertà, uguaglianza, opinione pubblica, rappresentanza, lavoro, diritti individuali e diritti sociali, cittadinanza e accoglienza, disincanto e spaesamento, sono le parole chiave che rimbalzano dall’uno all’altro. Solo alla fine viene introdotto il tema della felicità, correlata alla democrazia come «senso di soddisfazione per il dovere compiuto», o come conforto conviviale all’infelicità della condizione umana o, ancora, come compito dei governi, seguendo le aspirazioni illuministiche e le indicazioni della Dichiarazione americana di indipendenza42. A confermare l’attualità anche giuridica del diritto alla felicità concorre una recente sentenza – commentata dalla stampa con il titolo «negato diritto alla felicità» – che ha riconosciuto un risarcimento per il danno «da perdita di gioia per la nascita del primo figlio» a un padre che non aveva potuto assistere all’evento a causa di complicazioni ospedaliere43. In breve, come osservavo nel lanciare l’appello a presentare comunicazioni al Convegno di Anacapri, la ‘felicità’ è un tema cruciale del dibattito politico e filosofico settecentesco, dalle ricadute importanti nella più generale riflessione del mondo contemporaneo sui rapporti tra etica, politica, economia. Tema portante del pensiero settecentesco sul governo degli uomini e delle passioni, non a caso dal Settecento torna oggi a essere riproposto nel dibattito politico sulla democrazia e sui rapporti tra individuo e collettività. Basti pensare a alcuni degli interrogativi ricorrenti nella pubblicistica settecentesca italiana e europea: se il sapere dia felicità, se possano essere felici i pochi nell’infelicità dei più, se possano i governi o solo la fede assicurare la

39  A. de Botton, Architettura e felicità, trad. it. di S. Beretta, Parma, Ugo Guanda, 20116 (ed. or. The Architecture of Happiness, London, Penguin Books, 2006), p. 16. 40  E. Mauro, G. Zagrebelsky, La felicità della democrazia. Un dialogo, Roma-Bari, Laterza, 2012. 41  Cfr. ibidem, pp. 28-31. 42   Ibidem, pp. 234-237. 43  La notizia e la citazione sul quotidiano «la Repubblica» del 22 febbraio 2008.

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felicità e così via. Interrogativi fondamentali sui rapporti tra Chiesa e Stato, fede e ragione, individuo e società, governanti e governati. La composizione e la vocazione pluridisciplinari della Società italiana di studi sul secolo XVIII ha permesso di affrontare il tema intrecciando approcci, fonti e metodologie diversificate, come è indispensabile fare nei confronti di una questione che attraversa riflessione filosofica, letteratura, storiografia, pratiche di governo e forme di Stato, diritto, arti, e così via. Ed è questo, soprattutto, che distingue questa raccolta di saggi dalle altre numerose storie della felicità che ho in parte ricordato. Proprio di fronte al proliferare di interventi di varia provenienza e natura, mi era sembrato necessario fare appello non solo a studiare l’idea di felicità e il dibattito che su esso si svolse nel XVIII secolo, ma anche e soprattutto a occuparci concretamente degli uomini che quel dibattito alimentarono e quelle idee diffusero. Di occuparcene non solo sul piano della elaborazione e della manifestazione pubblica del loro pensiero, ma anche sul piano del mercato e del consumo di quelle idee, tanto più in quanto il tema, soprattutto dalla metà del Settecento, sembra assumere il carattere di una vera e propria moda, diffusa negli ambienti accademici, universitari, ecclesiastici, massonici, recepita e insieme alimentata da librai, editori, tipografi, accolta e rilanciata da quelle strategie editoriali e comunicative che furono parte integrante dei movimenti di pensiero settecenteschi, che si collocassero oppure no nel mondo dei Lumi. Si trattava di considerarli, quel dibattito e quelle idee, non solo sul terreno della elaborazione teorica, ma anche nel loro farsi largo dagli individui ai gruppi, farsi strada negli ambienti amministrativi, fra i sovrani, nelle corti, tradursi in pratiche di governo, per esserne poi di nuovo rinvigorite, rilanciate, o deluse. Bisognava osservarne le molteplici traduzioni e insieme le provenienze artistiche e letterarie, insomma le molteplici forme di espressione e di manifestazione. Ma si trattava anche di non perdere di vista la relativa autonomia e specificità di una elaborazione teorica che si nutre di contesti, aspettative, speranze e contrasti del momento, e, insieme, si alimenta del passato, più o meno consapevolmente, del lascito di autori diversi e delle diverse loro letture possibili. 3.  Il Settecento della felicità. Un’attenzione specifica al rapporto fra le idee e le pratiche veniva dedicata nella sezione intitolata «La felicità privata e pubblica», negli Atti del Convegno su Pietro Verri e il suo tempo tenutosi a Milano nell’ottobre 1997, pubblicati nel 1999 a cura di Carlo Capra44. Pochi anni dopo, nel 2005, era   Pietro Verri e il suo tempo, a cura di C. Capra, Bologna, Cisalpino, 1999.

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ancora all’illuminismo lombardo che guardava Wolfgang Rother nel volume intitolato La maggiore felicità possibile45: Rother riteneva anzi di potere individuare precisamente nel concetto di felicità il leit motiv filosofico dell’illuminismo dell’Italia settentrionale e centrale, presente nella scienza dell’uomo di Beccaria, nella filosofia morale e nella economia politica di Pietro Verri. Alla piena affermazione della felicità come diritto e alle sue molteplici dimensioni, morale, religiosa, politica, economica, era dedicato il volume, uscito nello stesso anno a cura di Cesare Vetter, La felicità è un’idea nuova in Europa46, che riprendeva nel titolo la celebre frase di Saint-Just del 3 marzo 1794, spesso citata ma poco specificamente indagata, come osservava il curatore nella sua introduzione. L’approccio di linguistica computazionale e le liste di frequenza del termine nelle opere di Robespierre, Marat, Saint-Just, permettevano qui di dimostrare come anche su questo terreno la rivoluzione francese costituisse uno snodo cruciale, «un momento di passaggio fondamentale dalla concezione liberale della felicità alle successive messe a punto in chiave democratica, socialista e comunista»47. Dimensione pubblica e privata della felicità, come si è già detto, anche e soprattutto in questi studi si mostrano strettamente correlate. Certo, anche nel corso del Settecento non mancano gli spostamenti (per riprendere il riferimento a Hirschman) da una felicità all’altra. Questi spostamenti sono particolarmente evidenti nel caso di Pietro Verri, come aveva mostrato Gianni Francioni e come ricordano in questo volume i contributi di Carlo Capra e di Wolfgang Rother: dalle Meditazioni sulla felicità del 1763 – efficacemente definito un «manifesto illuminista» – dove l’etica utilitaristica suggeriva la ricerca di un giusto equilibrio fra i desideri e il potere di realizzarli, ma stabilendo una connessione necessaria tra «la ricerca della felicità individuale e l’esigenza della felicità collettiva»; al Discorso sulla felicità del 1781, più ripiegato verso il primo dei due poli, ma senza dimenticare e rendendo anzi più esplicito il modello del sovrano buon legislatore, intento a «rappresentare la maestà della nazione e vegliare sulla felicità di essa»48; agli scritti del periodo rivoluzionario, in particolare i Primi elementi per somministrare al popolo delle nozioni ten-

  W. Rother, La maggiore felicità possibile. Untersuchungen zur Philosophie der Aufklärung in Nord-und Mittelitalien, Basel, Schwabe Verlag, 2005. 46   La felicità è un’idea nuova in Europa. Contributo al lessico della rivoluzione francese, Tomo I, a cura di C. Vetter, Trieste, Edizioni Università di Trieste, 2005. 47  C. Vetter, Introduzione, ibidem, pp. 9-19: 9-10. Si veda anche, più avanti, il contributo di Marco Marin. 48   G. Francioni, Metamorfosi della Felicità. Dalle Meditazioni del 1763 al Discorso del 1781, in Pietro Verri e il suo tempo, I, pp. 353-427: 362, 368, 405. 45

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denti alla pubblica felicità del 1791, nel quale Capra segnala una netta ripresa del secondo dei due poli. Lo stesso Francioni ha ricordato la fitta rete di debiti intellettuali riconoscibili nelle Meditazioni, tracciando così anche una sorta di inventario dei testi che alla metà del secolo contribuirono a una vera e propria esplosione del dibattito sul tema: La Mettrie e Maupertuis, Muratori e Rousseau (l’Émile), Montesquieu, D’Alembert, l’Encyclopédie, Helvétius e, prima ancora, Francis Hutcheson che nella Inquiry into the original of our Ideas of Beauty and Virtue (1725) aveva formulato quella definizione della «felicità per il maggior numero» che sarebbe poi riecheggiata da un testo all’altro lungo tutto l’arco del secolo49. Gli stessi uomini del Settecento notarono ben presto la ripetitività delle osservazioni sul tema. Pietro Verri, mentre pensava a rielaborare le Meditazioni del 1763, al fratello il 23 agosto 1777 scriveva: «Io non so come chi mi cerca a conoscere lo fa [non per l’Indole del piacere ma] per l’altro librettino sulla Felicità, eppure ivi essenzialmente ben poche idee nuove vi sono ma quasi tutto quello che vi si legge è stato pensato da altri»50. Milano e Napoli, Pietro Verri e Antonio Genovesi (e più tardi Filangieri), sono i centri e le figure ai quali anche in questo volume principalmente si guarda quando si considera il dibattito italiano sul tema51. A Napoli e nel Sud dagli anni Cinquanta è tutto un succedersi di titoli: dalle Lettere accademiche su la questione se sieno più felici gl’ignoranti, che gli scienziati di Antonio Genovesi (1764) 52, seguite a Palermo dalle Meditazioni su varj punti di felicità pubblica e privata di Isidoro Bianchi (1774)53, ai Ragionamenti economici, politici e militari riguardantino la pubblica felicità del principe di Strongoli Salvatore Pignatelli (1782-1783)54 alle Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di

  Ibidem, pp. 361-362.  Cit. in C. Capra, I progressi della ragione. Vita di Pietro Verri, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 436. 51  Confrontano Milano e Napoli L. Bruni, P. L. Porta, Economia civile and pubblica felicità in the Italian Enlightenment, «History of Political Economy», 35, 2003, pp. 361-385, assegnando al gruppo milanese, in particolare a Verri, una prospettiva eudemonistica, che assume la felicità individuale come punto di partenza, per approdare alla felicità pubblica; nel caso napoletano, analizzato attraverso gli scritti di Genovesi, vedono una particolare connessione tra felicità pubblica e economia civile. 52   Lettere accademiche su la questione se sieno più felici gl’ignoranti, che gli scienziati, dell’Ab.** al Signor Canonico**, In Napoli, nella Stamperia Simoniana, 1764. 53   I. Bianchi, Meditazioni su varj punti di felicità pubblica e privata, Palermo, presso Andrea Rapetti, nella Stamperia di Vincenzo Gagliani, 1774. 54   Ragionamenti economici, politici e militari riguardantino la pubblica felicità dedicati a S.M. la Regina delle due Sicilie dal Principe di Strongoli. Seconda edizione con moltissime 49 50

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Napoli di Giuseppe Palmieri (1787)55. Furono quelli gli anni, del resto, in cui dovunque in Europa vi fu una vera e propria esplosione della letteratura economico-politica legata a interrogativi scottanti sugli effetti delle trasformazioni economiche; e, al tempo stesso, una straordinaria crescita di un pubblico di lettori di questi testi, pronto a reclamare il proprio diritto di giudicare degli affari pubblici, a discutere di lusso, ricchezza e virtù… e di felicità56. La «bizzarra disputa» sulla questione «se vivano quaggiù in terra più felicemente gl’ignoranti, ovvero gli scienziati» – spiegava Genovesi nella dedica a Giustiniana Pignatelli – era nata in «una brigata di persone quanto signorili, altrettanto di nobile e celestiale intelletto (…) fosse per trapassare sollazzevolmente l’ore nojose, o, siccome io credo, per rivolger l’animo dalle presenti nostre miserie»57. E certamente furono le miserie indotte dalla grande carestia e dall’epidemia del 1763-1764 a dare a Napoli particolare vigore e drammaticità a un dibattito tutt’altro che ozioso: altro che benessere e lusso e crescita della disponibilità di beni… Questi c’erano, eccome, anche a Napoli, come ha messo in rilievo uno studio recente58: ma agli occhi di Genovesi – che certo non li condannava ma ben ne comprendeva il ruolo di stimolo produttivo – e, più tardi, agli occhi di Filangieri59, la circolazione di beni voluttuari e superflui non faceva che accrescere e rendere manifestamente più iniqua la divaricazione tra ricchi e poveri. Non poteva essere una pura esercitazione accademica parlare di forza e di dolcezza, di repressione e di istruzione in quegli anni, mentre folle di miserabili si riversavano a Napoli alla ricerca di pane, più rozzi, selvaggi e laceri degli ottentotti60. Nel testo genovesiano non vi erano dubbi sulla ‘felicità aggiunte, diviso in due parti, per Vincenzo Orsino, Napoli, 1783 (una prima edizione era uscita per Vincenzo Flauto nel 1782). 55   G. Palmieri, Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli, Napoli, fratelli Raimondi, 1787; Napoli, per Vincenzo Flauto, a spese di Michele Stasi, 1788. 56   È quanto osserva e ben documenta J. Shovlin, The Political Economy of Virtue. Luxury, Patriotism, and the Origins of the French Revolution, Ithaca and London, Cornell University Press, 2006. 57   Lettere accademiche, p. 5. 58  A. Clemente, Il lusso “cattivo”. Dinamiche del consumo nella Napoli del Settecento, Roma, Carocci, 2011. Al dibattito su lusso, commercio e morale ha dedicato i suoi studi K. Stapelbroek, Love, self-deceit & money. Commerce and Morality in the Early Neapolitan Enlightenment, Toronto, Buffalo, London, University of Toronto Press, 2008. 59   Si veda V. Ferrone, La società giusta ed equa. Repubblicanesimo e diritti dell’uomo in Gaetano Filangieri, Roma-Bari, Laterza, 2003. 60  Cfr. F. Venturi, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino, Einaudi, 1969, pp. 603-610; Id., Settecento riformatore, V, tomo I, La rivoluzione di Corsica, Le grandi carestie degli anni sessanta, La Lombardia delle riforme, Torino, Einaudi, 1987, pp. 221-305.

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delle lettere’61, ma non era soltanto ai savi – spesso null’altro che «filosofanti alla moda»62 – che si indirizzavano le preoccupazioni dell’autore, di fronte alle terribili condizioni degli strati popolari che aveva sotto gli occhi: Ne’ corpi politici un ignorante può assai tranquillamente vivere: ma all’ombra delle Leggi, e del savio governo, che sono la comune, e la più ferma sapienza. In un popolo selvaggio, e barbaro, dove manca questa comun ragione, il solo savio potrebbe viver felice, ch’è quanto dire, con minor miseria63.

Si misurava su questo terreno la frattura netta rispetto ai dibattiti di filosofia morale segnata da Genovesi, che spostava la questione su un terreno eminentemente e urgentemente politico e economico, anzi, di economia politica e civile64. Lo stesso ineludibile riferimento a Rousseau ribaltava le volgarizzazioni correnti che ne facevano un nemico delle lettere e delle arti e un difensore, quasi, dello stato selvaggio: Rossò ha svillaneggiato le lettere e i letterati. Pur vero: ma non perciò il sapere. Come avrebbe egli scritto il suo Emilio? Come il Contratto sociale? Libri, che hanno degli approvatori fino tra i nemici del sapere65.

Le Lettere di Genovesi disegnano un continuo contrappunto tra vero e falso, una sorta di elogio della distinzione, tra il vero e il falso savio, le vere passioni e le false: non le passioni, ma le false fanno l’uomo infelice. Le vere son destinate alla nostra felicità: e son tanto più dilettevoli, quanto sono più grandi e durevoli: quanto più si accostano alla ragione; che vale a dire, quanto più sono immutabili66.

Dall’ignoranza, appunto, derivavano queste false passioni, legate a forme e immagini chimeriche, a superstizioni, alle mode ridicole67.   Si veda più avanti il contributo di Beatrice Alfonzetti.   «Non si prende per savio, che un letterato, o un filosofante alla moda, i quali spesso si trovan’essere de’ più stolti abitanti del nostro pianeta, e perciò meschini, e infelici». Da questi distingueva «il vero savio»: «Chi è dunque colui, che io chiamo savio? E chi è lo stolto? Savio è chi ha molta, e vera, e soda cognizione delle cose di questo mondo, divine, naturali, umane: chi possiede la scienza del giusto e dell’ingiusto, dell’onesto e del disonesto: chi conosce le arti, per cui si vive, e sa servirsene: in brieve, chi ha ridotto a poter servire all’uomo i fatti della natura, e degli uomini, ma senza pedanterìa» (Lettere accademiche, pp. 10-11). 63   Ibidem, p. 7. 64  E. Pii, Antonio Genovesi dalla politica economica alla «politica civile», Firenze, Leo S. Olschki, 1984. 65   Lettere accademiche, p. 14. Sulle Lettere e il rapporto Genovesi-Rousseau si veda più avanti il contributo di Cristina Passetti. 66   Lettere accademiche, p. 28. 67   Ibidem, pp. 35-39. 61 62

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Echi significativi delle Lettere genovesiane si ritroveranno nella Vita felice dell’uomo savio di Saverio Mattei (1776), maturata alla fine di quegli stessi anni Sessanta che molto segnarono la vita pubblica e civile del Regno di Napoli e le relazioni tra la capitale e le province; e si ritroveranno più in generale nella scuola genovesiana68. Soprattutto, Genovesi spostava appieno sul terreno della proprietà e della disuguaglianza il problema della felicità individuale e pubblica, visto anche come gioco continuo di contrappesi tra le due propensioni naturali degli uomini alla socialità e alla cupidigia69. È Genovesi a coniare «una nuova figura sociale chiamata “amatore della pubblica felicità”», ponendo il letterato al servizio del bene comune70. Ed è un suo allievo, il giovane Giacinto Dragonetti, a rendere espliciti nel trattato Delle virtù e de’ premi (1766), gli obiettivi di felicità e di libertà della scienza politica: La scienza de’ Politici consiste in trovare il vero punto, fin cui gli uomini possano esser felici, e liberi. Certamente un tale inventore apporterebbe sommo utile alla società, tanto maggiormente, che ancora siamo incerti quale Governo sia migliore di quei che conosciamo71.

4.  La parola, le cose, il pubblico. Mancano indagini sistematiche sui problemi di vocabolario segnalati da Jean Ferrari nel suo contributo a questo volume. Lo studio delle traduzioni molto potrebbe contribuire in tal senso. Lo ricordava Rosso segnalando l’imbarazzo del traduttore francese di Locke di fronte alla sua uneasiness, resa poi con inquiétude 72. Meno problemi, forse, pose la traduzione delle Meditazioni verriane, le Pensées sur le bonheur del 1766. Poco sappiamo di happiness e felicity e non del tutto chiare sono le oscillazioni francesi tra

  Si vedano più avanti i contributi di Alessandra Di Ricco e Pasquale Matarazzo. Su Mattei rinvio anche alla voce di A. M. Rao, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 72, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, 2009, pp. 177-182, e alle relative indicazioni bibliografiche. 69  Così nelle Considerazioni su i fondamenti della civile società o sulle leggi dei corpi politici, opuscolo pubblicato postumo sulla «Scelta miscellanea» del gennaio 1784, riprodotto ora in appendice a R. Ajello, Attualità di Antonio Genovesi: sintesi globale della natura e critica della società italiana, «Frontiera d’Europa», X (2004), pp. 234-245: 234. 70   Pii, Antonio Genovesi, p. 38. 71   Cfr. A. M. Rao, «Delle virtù e de’ premi»: la fortuna di Beccaria nel Regno di Napoli, in Cesare Beccaria tra Milano e l’Europa, Convegno di studi per il 250° della nascita, MilanoRoma-Bari, Cariplo-Laterza, 1990, pp. 534-586: 569. 72   Rosso, Illuminismo felicità e dolore, p. 42. 68

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bonheur e félicité, presenti a volte nello stesso testo73, oltre che ricorrenti in vari titoli: dalla Félicité publique di Chastellux74 alla traduzione francese dell’opera di Giambattista Vasco La félicité publique considérée dans les paysans cultivateurs de leurs propres terres 75 e molti altri testi che non è qui possibile richiamare, presenti almeno in parte nell’opera di Mauzi. Significativa però la storia editoriale di testi come quello di La Mettrie, che abbiamo già ricordato col titolo Discorso sulla felicità. In realtà, l’opera fu dapprima premessa alla traduzione di La Mettrie del Traité de la vie heureuse di Seneca, pubblicato a Potsdam nel 1748 e poi rimaneggiato e riproposto con il titolo Anti-Sénèque ou le Souverain bien, apparso sempre a Potsdam nel 1750. Soltanto nel secondo tomo delle Oeuvres philosophiques pubblicate postume a Amsterdam nel 1753 l’Anti-Sénèque sarebbe diventato Discours sur le bonheur, per suggerimento, pare, dello stesso Maupertuis che nel Saggio di filosofia morale prese invece le difese dello stoico e dello stoicismo76. La vicenda non fa che confermare quanto bonheur/félicité, happiness, felicità fossero ormai al centro dell’attenzione dei lettori e degli editori. Soprattutto, dalla metà del secolo e particolarmente dagli anni Sessanta il termine pervade ormai largamente tutti i campi, tutti i discorsi, rompendo gli argini della filosofia morale e del calcolo delle passioni per dilagare nei campi del mercato e dell’economia, del lusso77, della coltivazione delle terre,

  Per es. in L. Genty, L’influence de la découverte de l’Amérique sur le bonheur du genre humain, Paris, Nyon l’aîné, 1787. 74   De la Félicité publique, ou Considérations sur le sort des hommes dans les différentes époques de l’Histoire, s.l., 1774. 75   La félicité publique considérée dans les paysans cultivateurs de leurs propres terres, Traduit de l’Italien Par M.r Vignoli, précédée de la Dissertation qui a remporté le prix à la Société libre & économique de St. Petersbourg, en l’année MDCCLXVIII. Sur cette question proposée par la même Société. Est-il plus avantageux à un Etat que les paysans possèdent en propre du terrain, ou qu’ils n’ayent que des biens meubles? Et jusqu’où doit s’étendre cette propriété? Par M.r Beardé de l’Abbaye. A Lausanne chez Franç. Grasset & Comp., MDCCLXX. 76  Cfr. La Mettrie, De la volupté. Anti-Sénèque ou le souverain bien. L’école de la volupté-système d’Épicure, Edition préfacée, établie et annotée par Ann Thomson, Paris, Desjonquères, 1996, p. 193. Si veda inoltre in questo volume il contributo di Paolo Quintili. 77   Su lusso e felicità, sempre utile La polemica sul lusso nel Settecento francese, a cura di C. Borghero, Torino, Einaudi, 1974. Si vedano inoltre M. M. Goldsmith, Liberty, luxury and the pursuit of happiness, in The Languages of Political Theory in Early-Modern Europe, edited by A. Pagden, Cambridge, Cambridge University Press, 19902, pp. 225-251; T. Wahnbaeck, Luxury and Public Happiness. Political Economy in the Italian Enlightenment, Oxford, Clarendon Press, 2004. 73

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della pastorizia, della medicina, della fiscalità, della religione cattolica e della religione massonica. Nasce anche una ‘felicità clinica’, indirizzata ai contadini, ai letterati, alle donne, per guarire e prevenire la malattia78. Ma l’indagine settecentesca sulla felicità, e più in generale sulle società umane, sulle passioni, sugli interessi, che oggi si frammenta nelle analisi specialistiche condotte da sociologi, psicologi, economisti, filosofi, storici e così via, si fondava su un approccio largamente unitario, oltre che universalistico. Proprio questa unitarietà era presente nella riflessione di Antonio Genovesi e la rendeva così densa sul piano sia delle interpretazioni sia delle soluzioni suggerite. Con la stessa intensità ricorreva nell’opera di un piemontese fortemente radicato nel movimento riformatore lombardo, Giambattista Vasco, La felicità pubblica considerata nei coltivatori di terre proprie (1769), un’opera che non può essere tralasciata in una sia pur sommaria ricognizione dei testi fondatori, in Italia, di un discorso sul rapporto tra felicità privata e felicità pubblica. Non solo in Italia, anzi, data la quasi immediata traduzione francese che abbiamo appena evocata, nella quale il suo testo, scritto in risposta al quesito che la Libera società economica di San Pietroburgo aveva lanciato nel 1767 sui vantaggi della proprietà contadina «per il bene pubblico», seguiva la dissertazione che era stata premiata, quella di Beardé de l’Abbaye79. Venturi osservava che tra «le numerosissime risposte (più di centocinquanta) suscitate da questo concorso, quella di Vasco si distingueva proprio per l’energia con cui spingeva fino in fondo l’ipotesi egualitaria»80. Un’energia che anche in questo caso, come in quello di Genovesi, era rafforzata dalla capacità di vedere globalmente e non in maniera settoriale i problemi economici. Verriano l’esordio: La felicità di una nazione consiste nella felicità dei nazionali. Così la misura generale della felicità di una nazione è la somma delle felicità dei membri che la compongono, divisa pel loro numero.

Per poi indicare immediatamente la proposta di un’equa ripartizione della proprietà terriera come l’unica atta a realizzare una «eguale distribuzione (…) delle felicità»: «Farò vedere nell’ultimo capo quanto sia più 78   Si vedano più avanti i contributi di Elena Brambilla e Massimo Galtarossa e i relativi riferimenti bibliografici. 79   Si veda sopra la nota 75. Su Beardé de l’Abbaye e il suo ‘patriottismo agrario’ cfr. Shovlin, The Political Economy of Virtue, pp. 114-115. 80  F. Venturi, Nota introduttiva a Giambattista Vasco, in Illuministi italiani, tomo III, Riformatori lombardi piemontesi e toscani, a cura di F. Venturi, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi, 1958, pp. 759-768: 761.

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egualmente distribuita la felicità fra i nazionali, se i contadini possedano terreni»81. Fontenelle, Verri, Beccaria, Rousseau, Genovesi, molti i richiami espliciti o riconoscibili in un testo che si poneva come obiettivo il ragionare della felicità non del savio o del dotto ma del maggior numero, non della soddisfazione o della moderazione dei desideri dei pochi ma del bene dello Stato e della nazione: «tutta questa filosofia difficilmente può essere abbracciata dalla maggior parte degli uomini»82. Legato alle diffuse teorie popolazioniste, ben presenti nelle preoccupazioni anche di Genovesi, al cuore del suo ragionamento si poneva la domanda di come collegare numero di abitanti, produzione e libertà. Vasco forniva così anche uno dei contributi più importanti al dibattito italiano contro la schiavitù e la tratta dei neri. Gli uomini dovevano essere liberi di coltivare le loro terre e di godere dei frutti del loro lavoro. Padroni dei loro fondi, i contadini avrebbero migliorato l’agricoltura e dunque la ricchezza dello Stato, la propria e la pubblica felicità: l’essere padroni dei terreni i contadini è cosa che interessa la felicità pubblica, anche per riguardo alla più uguale distribuzione di tutta la somma delle felicità di uno Stato. La disuguaglianza delle condizioni fra gli uomini si è una necessaria, inevitabile conseguenza della società (…) Ma il disprezzo che fassi dei poveri e dei plebei dagli uomini ricchi e potenti, questo è un vizio facilissimo bensì ad insinuarsi, ma che si potrebbe e dovrebbe distruggere.

Dura la vita di chi non possedendo terra e dovendo coltivare terre altrui si trovava esposto al pericolo di restare senza lavoro: Una malattia che sopravvenga, una disgrazia di qualunque genere basta per ridurre il contadino mercenario all’ultima miseria. Come potrà egli gustare i dolci piaceri dell’amore coniugale e paterno (…) se, stipendiato appena di quanto basta per un parco e tenue personale mantenimento, non avrà i mezzi giammai per provvedere alla sussistenza della prole ne’ suoi teneri anni? D’onde viene quella folla di miserabili che, alle prime nevi che scendono in terra, corrono in truppa ad innondar le città per procacciarsi il vitto o con furti o con questua? Vengono costoro dalla campagna…83.

Vagabondaggio, pauperismo, nelle campagne e nelle città, erano il drammatico contesto in cui Vasco, Genovesi, Filangieri producevano i loro scritti.

  La felicità pubblica considerata nei coltivatori di terre proprie, In Brescia, presso Giammaria Rizzardi, 1769, pp. 12-13. Ma cito da G. Vasco, Opere, a cura di M. L. Perna, Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1989, pp. 37-89: 41. 82   Ibidem, p. 42. 83   Ibidem, p. 63. 81

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Un altro aspetto va però ugualmente ricordato di queste produzioni, che nulla toglie alla loro ispirazione etica e civile: la loro destinazione anche allo scopo di mostrarsi e di farsi apprezzare nella ‘Repubblica delle lettere’ e, più concretamente, di farsi strada nelle università o negli apparati amministrativi, assicurando in tal modo anche un pieno riconoscimento all’economia e alla politica come scienze oltre che al lavoro e allo statuto di chi le praticava. Vasco, per esempio, cercò di usare le recensioni e la buona accoglienza fatta a questo suo scritto come titoli per concorrere alla cattedra di economia che Beccaria stava per lasciare84: è un esempio come altri del rapporto tra produzione editoriale, mode, mercato, e sbocchi per il lavoro del letterato che conviene tener presente anche nell’infittirsi del dibattito sulla felicità85. Nei toni a tratti angosciosi di questi scritti si può e si deve cogliere ancora un altro elemento. Nel dibattito si affacciava anche lo spettro delle conseguenze che infelicità e miseria potevano avere sulle generali condizioni della nazione, lo spettro di una rivoluzione: anche questo era motivo ispiratore di tanta produzione filantropica, che era al tempo stesso umanitaria e utilitaristica. Una rivoluzione l’aveva per così dire prevista, ad esempio, in riferimento all’Inghilterra, un altro grande protagonista dell’economia politica e dell’agronomia patriottica, Plumard de Dangeul, nel 1754, in una pagina che, come osservò Franco Venturi, «dovette colpire notevolmente Genovesi»: Si la corruption des membres qui représentent la nation en venoit à de tels excès, n’arriveroit-il pas alors que par une révolution forcée, la nation secoueroit le fardeau qu’elle ne pourroit plus porter et d’un désordre nécessaire, le premier ordre des choses renoitroit: à peu près comme dans le corps le mieux constitué si des humeurs vicieuses s’amassent avec le tems, la mesure étant venue à son comble, la maladie se déclare et le malade ne peut etre sauvé que par une crise violente86.

La predisse per così dire nel 1777, e catastrofica, anche Linguet: Mai le privazioni sono state più generali, più omicide per la classe che è condannata alle privazioni mai, forse, in mezzo alla sua apparente prosperità l’Europa è

 Cfr. M. L. Perna, Bibliografia, in Vasco, Opere, vol. II, p. 979.   In proposito rinvio a A. M. Rao, Intellettuali e professioni a Napoli nel Settecento, in Avvocati, medici, ingegneri. Alle origini delle professioni moderne, a cura di M. L. Betri e A. Pastore, Bologna, Clueb, 1997, pp. 41-60; Economia e morale nella scuola genovesiana, in Modelli d’oltre confine. Prospettive economiche e sociali negli antichi Stati italiani, a cura di A. Alimento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2009, pp. 179-188. 86   Cfr. F. Venturi, Nota introduttiva a Antonio Genovesi, in Illuministi italiani, tomo V, Riformatori napoletani, a cura di F. Venturi, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi, 1962, p. 22. Si tratta delle Remarques sur les avantages et les désavantages de la France et de la GrandeBretagne par rapport au commerce et aux autres sources de la puissance des états. 84 85

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stata più vicina a una sovversione totale, tanto più terribile perché la disperazione ne sarà la causa (...) qualche nuovo Spartaco, ardito per disperazione, illuminato dalla necessità, chiamando i suoi compagni di sventura alla vera libertà, spezzando le leggi omicide e ingannatrici che la fanno disconoscere, otterrà per gli uni una spartizione assoluta dei beni della natura, per gli altri la restituzione di quella dolce sicurezza che assicurava agli schiavi il riposo della mente in cambio della ricchezza che essi lasciavano ai loro padroni... 87.

In Francia il dibattito sulla felicità si intrecciò ben presto a quei disperati quanto inutili tentativi di risanare le finanze dello Stato e di riformare un sistema fiscale iniquo e inefficace che avrebbero infine portato alla rivoluzione del 1789. Che pagare le tasse possa essere bello e rendere felici non è stato soltanto l’infelice quanto inefficace slogan di recenti ministri delle finanze italiani nella lotta contro l’evasione ma anche il modo in cui è stato presentato dai mass media il risultato di ricerche di economisti e psicologi americani dell’Università dell’Oregon pubblicato su «Science». La ricerca, in realtà, non riguardava i versamenti al fisco ma le donazioni a scopi di pubblica utilità, e i ricercatori avevano riscontrato in questi casi l’alto grado di soddisfazione provocata da questi gesti88. Ma esplicitamente e direttamente ai metodi fiscali era dedicato alla fine del Settecento l’opuscolo di AdrienMaurice Duverdier, pubblicato nella fase culminante delle discussioni sulla riforma finanziaria in Francia, così intitolato: Essai sur le bonheur du peuple. Nouvelle méthode d’imposer le tribut en France89. Semplici e chiare le massime ispiratrici di un fisco equo: le imposte dovevano rispondere ai bisogni dello Stato e essere proporzionate alle facoltà dei contribuenti90. Si era ormai nel pieno di un dibattito che sembrò davvero coinvolgere tutti gli abitanti dell’esagono, quando tutti i francesi ebbero la parola91, e tutti la presero per parlare di felicità. Con fierezza rivendicava questa espansione di un dibattito ormai tutt’altro che astrattamente etico, religioso o filosofico, ma pienamente politico, l’opuscolo di Charles-Robert Gosselin in risposta alla questione posta dal 87   Cit. in D. Cantimori, Illuministi e giacobini, in La cultura illuministica in Italia, a cura di M. Fubini, Torino, Eri, 1957, pp. 272‑273. 88  Articolo pubblicato su «la Repubblica» del 20 giugno 2007, col titolo «“Pagare le tasse rende felici”. Ricerca a sorpresa dagli Usa». 89  A Amsterdam, MDCCLXXXVII. 90   «Les contributions doivent avoir deux caractères de justice: celui de remplir les besoins de l’Etat, & celui d’être proportionnées aux facultés respectives de tous ceux qui doivent y contribuer» (ibidem, p. 14). 91  Ovvio il riferimento a 1789. Les Français ont la parole, cahiers des Etats généraux présentés par P. Goubert et M. Denis, Paris, Julliard, 1964.

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re «En quoi consiste le bonheur des peuples, et quels sont les moyens de le procurer»: Jusqu’ici les riches & les écrivains mercénaires soudoyés par eux, ont été en possession de faire part au public de leurs rêveries touchant le bonheur des peuples. N’est-il pas temps qu’un homme sans titre, sans bien & sans ambition, fasse aussi connoître ce qu’il pense sur un article qui l’intéresse autant que personne, surtout quand il en est requis par un grand Roi qui ne cherche qu’à rendre ses sujets heureux (…) Voilà ce qui m’engage aujourd’hui à sortir de ma sombre obscurité pour mêler ma chetive voix à celles des Pitagore, des Socrate, des Platons, des Epicure, des Ciceron, des Grotius, des Loke, des Puffendorf, des Montesquieu, des Rousseau, des Mirabeau et de tant d’autres qu’il seroit inutile de nommer92.

In poche righe veniva così tracciato il bilancio di un dibattito plurisecolare, del suo momento settecentesco, della rottura rivoluzionaria93.

92  C.-R. Gosselin, Réflexions d’un citoyen adressées aux notables sur la question proposée par un grand roi: En quoi consiste le bonheur des peuples, et quels sont les moyens de le procurer? Ou sur cette autre: D’où vient la misère des peuples?, s.l. 1787, p. iii. 93  Al termine di queste note introduttive desidero ringraziare gli amici che molto mi aiutarono nell’organizzazione del Convegno di Anacapri e che molto di nuovo mi hanno aiutato nel lavoro editoriale per questo volume: Diego Carnevale, Domenico Cecere, Pasquale Palmieri, Alessandro Tuccillo.

Parte Prima il settecento e la felicità

Beatrice Alfonzetti La felicità delle lettere

a Giuseppe Giarrizzo

Il catalogo dello stampatore veneziano Giovan Battista Pasquali, oggi ricostruito, ci consente di verificare l’ampiezza e la politica culturale della nuova casa editrice, che affiancava nuovi autori, quali Antonio Conti, Francesco Algarotti, Ludovico Antonio Muratori, e classici, antichi e moderni, da Sallustio a Virgilio a Dante a Guicciardini1. In anni di fervore intellettuale ed editoriale, Pasquali era in grado di tenere il passo con i tempi, non arretrando di fronte ai rischi della censura e ai possibili veti dei revisori di Padova. Autori Pasquali come Giovanni Poleni e Giovanni Bianchi rivelano i campi verso cui si orientava soprattutto la stamperia: la scienza e l’architettura. Il primo è il celebre scienziato e professore dello studio di Padova, membro sin dal 1710 della Royal Society di Londra, di cui faranno parte Conti, Muratori, Orsi, Martello, ecc. Poleni ricopre nel tempo ben cinque cattedre, da quella di Astronomia a quella di Filosofia sperimentale, coltivando la passione per l’architettura e le antichità grecoromane2; il secondo è il naturalista riminese che fra le sue innumerevoli attività vanta il ripristino dell’Accademia dei Lincei3. Nei primi decenni, i libri pubblicati mostrano l’interesse verso questi ambiti, per il mondo inglese e Newton, come suggerisce il nome di Algarotti4. Non si tratta di saperi

1  M. Donaggio, Per il catalogo dei testi stampati da Giovan Battista Pasquali (1735-1784), «Problemi di critica goldoniana», II (1995), pp. 9-100. 2   Poleni è figura centrale del sapere architettonico qui in oggetto; qualche anticipazione in B. Alfonzetti, Conti e la fondazione del «Teatro Romano»: Lucio Giunio Bruto e Marco Bruto in scena, in Antonio Conti: uno scienziato nella République des lettres, a cura di G. Baldassarri, S. Contarini, F. Fedi, Padova, Il poligrafo, 2009, pp. 271-301. 3  Vd. la voce di A. Fabi, in DBI, pp. 104-112 che ricorda sì il fortunato De conchis, Pasquali, 1738, ma non Se il vitto pittagorico di soli vegetabili sia giovevole per conservare la sanità, sl. sd., ma Pasquali 1752, anno del censurato In lode dell’arte comica di Bianchi. 4  Cfr. la seconda edizione del Newtonianismo per le dame, ovvero dialoghi sopra la luce, i colori, e l’attrazione, Napoli, Giambattista Pasquali, 1739; il Saggio sopra l’architettura, in

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slegati, ma di una convergenza di più direzioni cui fa da collante una ricerca di carattere generale e in apparenza antitetica, che coniuga le più innovative teorie scientifiche con i recuperi dell’antico, fatto di collezionismo e antiquaria. Questa ricerca ci sembra avere il suo corrispettivo nell’insegna Pasquali, La Felicità delle Lettere o Litterarum felicitas, alla quale si dedicherà una particolare attenzione, oltre lo sguardo distratto dal rilievo delle edizioni, o dall’interesse per le arti figurative. Sotto la cenere covava il fuoco di domande pericolose sulla religione, la politica e la filosofia. Al centro di ogni interrogativo vi era la natura dell’uomo, come indicava l’Essay on man di Pope. Ora, proprio all’Inghilterra e alla cultura inglese guardava anche Pasquali, guidato e finanziato dal colto mecenate e collezionista, poi console, Joseph Smith, residente a Venezia dal 1700 sino alla morte (1770)5. La Felicità delle Lettere era la più grande importatrice di libri stranieri della Serenissima (Locke, Pope, Fontenelle, Malebranche, Buffon, Voltaire, Fielding, Richardson, ecc.) e, come libreria, il luogo fisico dove letterati e scienziati s’incontravano, uniti dalla ricerca incessante di saperi e di libri. La ditta Smith-Pasquali costituiva, dunque, a Venezia il centro di convergenza fra gli interessi per Palladio e quelli per Newton dello stesso Smith, riflessi dalle varie iniziative editoriali. Ai medesimi interessi erano improntate le sue committenze: per le sue residenze, per riprodurre disegni e incisioni di edifici palladiani e neopalladiani, per il monumento funebre a Newton; da non dimenticare inoltre la commissione fatta a Canaletto delle vedute di Venezia, dalle quali Antonio Visentini ricavò, con un lavoro calcografico, le acqueforti apparse nel Prospectus Magni Canalis Venetiarum del 1735. Si tratta di un’edizione importante per il sistema culturale che stiamo ricostruendo, quasi sicuramente approntata dalla stamperia Pasquali che la ripubblica ampliata nel 1742. L’edizione del 1735 non ha ancora l’insegna della Felicità delle Lettere, presente invece nelle successive6. L’insegna fu eseguita da Visentini che lavorava per Poleni e pare fosse stato proprio l’artista a mettere in contatto Smith col professore padovano, anche se i canali non mancavano, come si evince dalla rete dei frequentatori del salotto veneziano

Opere varie del conte Francesco Algarotti Ciamberlano di S.M. Il Re di Prussia e Cavaliere dell’ordine del merito, t. II, Venezia, Pasquali, 1757. 5  F. Vivian, Il console Smith mercante e collezionista, Vicenza, Neri Pozza, 1971; M. Infelise, L’editoria veneziana nel ’700, Milano, FrancoAngeli, 1989, pp. 162-165. 6  Cfr. Le prospettive di Venezia dipinte da Canaletto e incise da Antonio Visentini, a cura di D. Succi, Treviso, Vinello, 1984, pp. 1-16: 10-16.

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del futuro console. Anche Poleni come Smith era in corrispondenza col palladiano Lord Burlington e proprio a Visentini aveva chiesto di eseguire una serie di disegni per l’edizione di Vitruvio non ultimata. Certamente i nomi del catalogo Pasquali sono assai rinomati e non tutti rientrano nel nostro percorso, interessato soprattutto al progetto culturale legato alla nascita della stamperia-libreria, compendiato dalla marca tipografica La Felicità delle Lettere. Il suo significato è apparso legato all’Illuminismo, come per altro suggeriscono i titoli delle altre marche che caratterizzano l’esplosione dell’editoria veneziana attorno alla metà degli anni trenta: La Ragione (Pavini), La Scienza (Parinello e Zerletti), Il secolo delle Lettere (Bettinelli)7, senza dimenticare quello forse più significativo adottato dallo stampatore Simone Occhi: l’Italia, in linea con una serie di iniziative giornalistiche, editoriali e teatrali sul primato della ‘nazione’ italiana dopo la polemica Orsi-Bouhours. L’illustrazione della marca tipografica La Felicità delle Lettere raffigura una Minerva che tiene nella mano sinistra uno scudo poggiante in basso, mentre il braccio e la mano destra si levano in alto a reggere un libro indicato alla vista e verso cui converge lo sguardo della dea della Sapienza, che ha busto e viso in leggera torsione. L’immagine presenta alcune varianti, come si nota confrontando i frontespizi, i cui originali, insieme a quasi tutti gli altri disegni e incisioni di Visentini, si trovano nelle collezioni reali di Windsor Castle grazie all’acquisto da parte di Giorgio III di Hannover delle collezioni di Smith. Concordemente l’ideazione e la realizzazione della figura di Minerva sono attribuite a Visentini8. Alcuni dati, però, fanno pensare a una specie di creazione di gruppo, in cui accanto a Smith s’intravedono Poleni e Conti. Se a favore dell’ideazione di Visentini vi è una piccola stampa in cui è riprodotta una delle varianti della Felicità delle Lettere e che funge quasi da titolo della serie delle lettere dell’alfabeto – oggi al museo Correr – realizzate da Visentini per l’elegante stampa dell’Istoria d’Italia di Guicciardini, lo stesso paratesto dell’Istoria mette in dubbio tale attribuzione. Nell’«Avviso a’ lettori», Pasquali scrive di aver voluto ornare ogni libro dell’Istoria con vedute di Venezia e di aver «ordinato» che «ogni inizial Lettera una qualche fabbrica, o luogo cospicuo della Città medesima rappresentasse, il cui nome dalla Lettera stessa avesse cominciamento»9. Se, dunque, dietro Visentini   Infelise, L’editoria veneziana nel ’700, pp. 48-49.   Le prospettive di Venezia dipinte da Canaletto, p. 2. 9   Della Istoria d’Italia di M. Francesco Guicciardini gentiluomo fiorentino. Libri XX, Venezia, Pasquali, 1738; la dedica a Francesco Stefano di Lorena porta la data 31 gennaio 1739. Francesco Stefano è il primo principe regnante del continente iniziato alla massone7 8

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c’era Pasquali, accanto se non dietro Pasquali c’era Smith. In tal senso il marchio La Felicità delle Lettere assume un significato più complesso del semplice riferimento alle lettere dell’alfabeto10, anche perché la nuova marca tipografica risulta già realizzata prima dell’Istoria del Guicciardini, la quale anzi poté giovarsi della precedente ideazione, giocando sul doppio significato della parola ‘lettere’ (Fig. 1). La nostra ipotesi si fonda su una serie di dati. Innanzi tutto sul fatto che l’immagine di Minerva compaia in alcuni libri Pasquali precedenti l’Istoria del Guicciardini: nella Grammatica inglese di Ferdinando Altieri (1736); nella seconda edizione delle Lezioni di lingua toscana di Girolamo Gigli (1736); nell’edizione del Sallustio del 173711. Secondariamente, ci sembra probante l’assenza della nuova immagine di Minerva dal Prospectus Magni Canalis (1735), stampato quasi sicuramente da Pasquali, come le successive edizioni. Il frontespizio del Prospectus si rivela tuttavia prezioso insieme a quello dei Nova supplementa di Poleni al Thesaurus antiquitatum graecarum et romanarum di Gronow e Graeve, in quanto a partire da questi frontespizi sembra compiersi il processo che approda all’immagine Pasquali: una Minerva che risplende nel sole e che illumina perché allegoria della Sapienza in cui risiede la felicità dei sudditi e dei governanti, data appunto dalle lettere (il libro). Nel primo frontespizio, quello del Prospectus eseguito da Visentini su commissione di Smith12, vi è una doppia immagine femminile: le due figure si guardano e sono assolutamente speculari; quella di destra ha una vaga rassomiglianza con Minerva, però ha una clava in mano, quella di sinistra regge con la mano destra una lucerna a olio, mentre poggia braccio e mano sinistri su un libro; sul suo petto, inoltre, risplende un sole. Ai suoi piedi, poggianti su una cornucopia da cui sbucano fiori e monete antiche, sono raffigurati gli strumenti delle arti del disegno, della musica e del teatro; la figura con la

ria con una cerimonia presenziata da Lord Chesterfield e dallo stesso Desaguliers. Cfr. C. Francovich, Storia della massoneria in Italia. Dalle origini alla Rivoluzione francese (1974), Firenze, La Nuova Italia, 1989, pp. 34-35. 10  Così invece D. Succi, La felicità illuminata delle acqueforti di Antonio Visentini, in Le prospettive di Venezia dipinte da Canaletto, pp. 1-9. 11  Cfr. Donaggio, Per il catalogo dei testi stampati da Giovan Battista Pasquali (1735-1784), pp. 32-34, che non riporta la presenza o meno della marca tipografica. Nell’editoria veneziana si riscontra la presenza di Minerva: così ad esempio nelle edizioni dello stampatore Gualtiero Scoto dove Minerva è in coppia con Mercurio. 12  Visentini utilizzava la biblioteca di Smith: di qui la somiglianza con alcuni frontespizi di libri inglesi, ma soprattutto con il Rape of the lock di Pope. Cfr. Vivian, Il console Smith mercante e collezionista, p. 113.

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clava, invece, poggia un solo piede sulla cornucopia, mentre l’altro sembra toccare una faretra con accanto un arco, quasi a significare l’abbandono di una condizione primordiale (la caccia) e la sua possibile trasformazione nella Sapienza, della quale la seconda figura con lucerna e libro è allegoria13. Sotto la donna con la clava invece sono disegnati i simboli dell’architettura e della geometria, cioè il compasso, la squadra, il martello. Al centro e sotto il lunghissimo titolo del Prospectus campeggia il Leone alato che ovviamente rappresenta la Serenissima con i tre simboli del potere: militare (la spada), politico (la corona del doge), giudiziario (la bilancia). Nel secondo frontespizio, ideato dal Tiepolo per i Nova supplementa di Poleni (Fig. 2), vi è una Minerva seduta che tiene nella mano destra levata in alto una lancia e adagia la sinistra sullo scudo retto da un amorino in cui sono effigiate una pianta di ulivo, simbolo sia di Atena che della pace14, e una spada retta da due mani con all’estremità superiore una croce, quasi a significare la continuità fra Roma e la Cristianità. In basso sul lato destro vi è uno stendardo con l’immagine della lupa che allatta i due gemelli Romolo e Remo, mentre su quello sinistro vi sono la civetta, sempre in coppia con Minerva, un busto e un vaso di bronzo da cui pende una catena ornata di medaglie e sullo sfondo sinistro quasi sicuramente una veduta della chiesa di San Marco col Campanile, quasi a marcare lo stretto rapporto fra la repubblica di Venezia e quella romana, topos su cui ritornano in quegli anni molti letterati da Maffei a Martello a Conti ad Algarotti. D’altronde la connessione fra Vitruvio e Palladio, cui in ambito veneto Maffei, Algarotti e Poleni erano molto interessati15, sembrava provare questa eredità, al cui interno scena e teatro apparivano contigui all’architettura, tanto da far ritenere fondamentale il teatro. La Minerva dei Nova supplementa fatta incidere da Poleni e la Minerva che si farà allegoria della Felicità delle Lettere sembrano derivare inoltre da quanto segnalato in un noto repertorio simbolico di fine Cinquecento, dove 13  Così in C. Ripa, Iconologia, In Venetia, presso Cristoforo Tomasini, 1645: «Giovane in una notte oscura, vestita di color turchino, nella destra mano tiene una lampada piena d’olio accesa, et nella sinistra un libro», p. 545. Il sole connette la sapienza con la purezza (per il significativo richiamo al Pitagora morale, ibidem, p. 513) e soprattutto con la virtù: «Una giovane bella, et gratiosa, con l’ali alle spalle, nella destra mano tenga un’hasta, et con la sinistra una corona di lauro, e nel petto habbia un Sole». Ibidem, p. 671. 14   «È commune opinione, che gl’Antichi nell’immagine di Minerva con l’olivo appresso volessero rappresentare la Sapienza». Ibidem, p. 546. 15  Nel 1728, prima di conoscere Lord Burlington, Maffei progettava una scuola di architettura per insegnarvi anche Palladio. Cfr. S. Pasquali, Francesco Algarotti, Andrea Palladio e un frammento di marmo di Pola, in «Annali di Architettura», XII (2000), pp. 159-166: 160.

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alla voce Mulier si trova, fra le svariate occorrenze, anche quella che descrive Pallade con un’asta da un lato e un libro dall’altro e vi si spiega l’unione di armi e lettere nel segno di una respublica governata dal principe saggio, coadiuvato dal filosofo: Mulier armata sedens, et dextera hastam et sinistra librum, fig. Palladem, praeesse armis et literis et sign. respub. praeclarissime se habere cum principes homnies philosophantur, vel cum philosophi imperant; sign. etiam viros armis et literis excellentes16.

A sua volta, la fonte di questa descrizione mostra Pallade-Minerva seduta, con un’asta nella mano destra e un libro nella sinistra; lo scudo è posato a terra sul lato sinistro, mentre sullo sfondo destro vi è un tempio. L’emblema della statua insiste sul governo dei filosofi («Praeclarissimum si aut reges phlilosophentur, aut philosophi imperent»), secondo l’insegnamento di Platone, richiamato per altro nella «narratio philosophica», che vale la pena di leggere per inquadrare appieno le radici platoniche della nostra insegna proto-illuministica. Dopo aver ricordato il ruolo avuto dalle lettere nell’esercizio del potere politico e militare di Alessandro Magno, erano svelati il senso e l’origine dell’emblema ricondotto a una felicità di natura politica: Iam et multis ante saeculis alter Alexander qui Neoptolemus dictus est, apud Ennium philosophandum sibi necesse ait, sed paucis: nec enim ea sunt praecepta philosophiae, ut illis etiam in bello non possit esse locus. Et quanquam rempublicam gerentibus, rei militaris studia reliquis potiora esse debeant, felicem tamen eam rempublicam Plato praedicavit, in qua aut philosopharentur principes, aut Philosophi imperarent. Neque enim si praestantibus et magis viris in bello omnia sunt, neque si ea re civitatis moderatio maxime contineatur, minus tamen principibus viris enitemdum est, ut se philosophicis legibus pares esse velint17.

La metamorfosi di Atena-Minerva da allegoria dell’unione fra armi e lettere in allegoria della virtù congiunta alla sapienza è visibile, altresì, in una pergamena dipinta a Roma fra gli anni 1652-1654 dal bernese Joseph Werner a contatto con gli artisti italiani e francesi del classicismo romano (Carlo Maratti, Andrea Sacchi e lo stesso Nicolas Poussin). Atena-Pallade è ritratta in un interno che è un tripudio di segni classici, quali colonne, busti, statue, fra cui quella di Ercole; al centro è ben visibile la civetta che si affaccia quasi da un mappamondo, simbolo della conoscenza dell’universo.

 A. Ricciardi, Commentariorum symbolicorum, Venetiis, apud Franciscum de Francischis senensem, 1591, n. 358, c. 41r. 17   P. Coustau, Pegma, Lyons, Macé Bonhomme, 1555, pp. 132-133. Ringrazio Francesco Lucioli per avermi segnalato queste due fonti. 16

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Atena-Pallade tiene una mano sul volto mentre il gomito destro si appoggia su un libro a sua volta posato su una scrivania dove sono impilati altri libri. Lo scudo con il disegno di una medusa, adagiato lateralmente alla poltrona in cui siede la nuova Pallade, sembra quasi lasciato da parte, mentre la testa di un filosofo (Platone o più probabilmente Pitagora) guarda una mandola da cui spunta un cartiglio con un testo musicale, una tavolozza con pennelli e un compasso. Il tratto contemplativo della figura secentesca si trasforma in quello performativo dell’insegna Pasquali: il libro è l’oggetto in cui la Sapienza, un tempo in coppia con le armi, si è ormai del tutto trasfusa. Essa è virtù e pertanto un sole la illumina e dà felicità, come codificherà Muratori nel 1749 sottoponendo a un accomodamento cristiano la morale stoica e gli insegnamenti di Platone: La libreria della moral filosofia si stende a pochisimi libri degli antichi e non a molto de’ moderni. Di belle cose vi dirà un Seneca, un Epitteto, un Plutarco. Convien succiarne il buono, e correggere poi ciò che v’ha di difettoso negli Stoici colle massime purgate della morale cristiana. Son da stimare in questo argomento i trattati di Aristotele e di Cicerone; ma non bastano al bisogno. S’ha da ricorrere anche ai moderni (…). Quand’anche trascurassero i principi e magistrati il loro gran debito di proccurare la pubblica felicità, ove la persona privata ben sappia ed eseguisca ciò che insegna la filosofia cristiana (…). Per altro il vero filosofo non si sente mai il cuore inquieto per desideri di grandi o lucrosi impieghi, e sa anche sprezzarli (…). Contuttociò se ad uomini di probità conosciuta, di raro sapere e di merito particolare, fossero esibiti governi e dignità sublimi, sul riflesso ch’essi meglio di molt’altri potrebbero cooperare alla felicità de’ popoli, si può chiedere se fosse lodevole o no il pertinace rifiuto de’ pubblici impieghi18.

Muratori auspicava che prìncipi, ministri e letterati apprendessero l’arte del buon governo fondata su due categorie della filosofia morale: la virtù («l’unire insieme il proprio bene con quello della repubblica») e l’eroismo («il preferire al ben proprio quello del pubblico»). In questi «illuminati tempi» non soltanto il consigliere del principe, ma tutti i letterati dovevano avere quale «principal mira il migliorare» il proprio grande o piccolo mondo19. Seguendo l’esempio degli antichi, valevole sia in una repubblica che in una monarchia, Muratori poneva al centro del suo trattato lo studio della filosofia morale, dove per primo s’incontrava Platone con la sua indicazione del re filosofo quale perfetta condizione della repubblica. Per fare felice una repubblica, occorreva coltivare le lettere e le scienze, ma soprattutto 18  L.A. Muratori, Della pubblica felicità oggetto de’ buoni principi, a cura di C. Mozzarelli, Roma, Donzelli, 1996, pp. 62-63. 19   Ibidem, p. 40.

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che lo stesso principe o governante fosse un filosofo: «se fossero filosofi anche i regnanti, ne starebbono pur bene i popoli»20. D’altronde, già nel Trattato di filosofia morale del 1735, sin dalla prefazione Platone era posto in prima fila accanto al moderno Ficino, all’empio Epicuro, a Seneca, Epitteto, Tullio e Aristotele; era dunque giocoforza interrogarsi, anche sulla scorta dei moderni (Gassendi, Cartesio e seguaci) sulla felicità 21, che di lì a poco avrebbe trovato il posto giusto, risplendendo nell’insegna della libreria e della stamperia Pasquali, ubicata nel palazzo di Smith. E soltanto per un mancato accordo fra il segretario del modenese, Ercole Gherardi, e Pasquali, il Della pubblica felicità non avrebbe coronato la già considerevole presenza di Muratori nel catalogo dell’editore.. Muratori aveva molti aspetti in comune con gli altri autori Pasquali, attestati dai loro rapporti epistolari, fra cui quelli con Conti, uno dei più influenti ispiratori della linea editoriale, come fanno pensare alcune coincidenze, ad esempio quella che riguarda la pubblicazione della Monarchia di Dante. In una lettera del 1727 Conti aveva chiesto notizia a Muratori se davvero Dante, ritenuto di fazione ghibellina, avesse scritto il trattato sulla monarchia, esprimendo il desiderio di leggerlo. Muratori, oltre a soddisfare la richiesta di Conti, aggiungeva che lo scritto aveva ben poca relazione con la Commedia il cui autore di riferimento restava Virgilio22. Proprio fra il 1739 e il 1741 Pasquali avrebbe pubblicato le Opere di Dante e stampato clandestinamente, con falsa data di Colonia, la Monarchia. Dopo oltre due secoli di petrarchismo, Dante si avviava a prendere il posto di Petrarca proprio a partire dall’opzione controcorrente di Gravina, di Pansuti e di molti accademici Quirini che, nel distaccarsi nel 1711 dall’Arcadia, dominata dalla linea culturale di Crescimbeni, si erano ricollegati su tale punto alla recente ‘scoperta’ di Dante dell’Accademia della Crusca. L’iniziale fortuna di Dante non poggiava, però, soltanto su ragioni politiche poi espresse dallo straordinario appellativo di «ghibellin fuggiasco» coniato da Foscolo. Queste ragioni di carattere civile e politico avrebbero rafforzato, semmai, la scelta di Dante a partire da una nuova categoria estetica, che, sfuggita all’attenzione degli studiosi, mostra visibili legami con l’antropologia massonica: è la «fantasia architettonica», avanzata proprio da Conti e condivisa da Poleni, Algarotti, Maffei e da tutto l’entourage di Smith.

  Ibidem, pp. 11-13; p. 52; p. 61.   Ibidem, pp. vii-xxxix: xiii (Introduzione). 22  L. A. Muratori, Epistolario, edito e curato da M. Campori, VI, Modena, 1903, pp. 2653-2655. 20 21

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Dante era il perfetto esempio della fantasia architettonica, come Conti chiariva nella Prefazione a Prose e Poesie (Fig. 3). Accennando all’aspetto filosofico delle diverse composizioni raccolte, dal poemetto Il globo di Venere, al Proteo alle poesie eroiche ai progetti futuri di carattere teorico (dissertazioni sull’imitazione, l’allegoria, l’entusiasmo, i fantasmi poetici, ecc.), Conti affermava che la poesia poteva trattare oggetti veri, verosimili o possibili dilettevoli. Interprete di una poesia filosofica sulla scia di Gravina, Conti recuperava la definizione di Bacone secondo cui la poesia era il sogno della filosofia, un sogno che conteneva verità rappresentate sotto forma di simboli che andavano decifrati attraverso una lettura ipotetica delle allegorie. La grandezza di Dante risiedeva nel fatto che, non lasciandosi corrompere né dagli intenti adulatori dei poeti latini, né dalle poesie amatorie dei provenzali, «stese l’oggetto della Poesia a quanto v’era di più sublime, e nascosto nella Teologia rivelata e nella Filosofia scolastica». La poesia di Dante aveva trovato nei testi sacri la fonte da cui trarre alimento, superando tutti i poeti italiani venuti dopo, persino lo stesso Petrarca che, attratto dai provenzali e spinto dall’amore per Laura, «restrinse a questa sola passione l’Italiana Poesia»23. Nel far proprio il giudizio di Gravina, quello cioè di «lamentarsi di avere il Petrarca ristretto in troppo angusto giro l’immensità dell’oggetto proposto da Dante, e per cui poteva l’Italiana Poesia gareggiare con l’Orientale, non che con la Greca e la Latina», Conti leggeva la Commedia alla luce del De Monarchia, incurante del diverso parere di Muratori, ritenendola un mirabile incastro di sensi allegorici, in particolare di quello che inviluppa nella Storia del tempo il sistema della Monarchia ideata da Dante, e nel quale, per ridurre all’estremo i vizj e le virtù, che più o meno cospiravano, o si opponevano al suo disegno, ed alla sua vendetta, estende al sommo i gradi delle pene e dei premj24.

  Prose e Poesie del Signor Abate Antonio Conti Patrizio veneto, In Venezia, Giambattista Pasquali, 1739 (Prefazione, pp. non numerate). 24   Ibidem. Nell’incompiuto Discorso sopra la Italiana Poesia, Conti esprime il rammarico che Tasso, potenziale poeta architettonico, non avesse operato nel «felice secolo» di Galilei: «Se alcuno simile al Tasso ci fosse stato che nella Poesia avesse introdotta la Filosofia, il governo politico degli Stati, l’amministrazione delle Famiglie, le guerre, le sedizioni, e tutti gli alti effetti dell’ambizione o dell’amore, si avrebbero poemi utilissimi che istruirebbero l’uomo nella politica e nella morale, e come le storie e le scienze sarebbero da pregiarsi. Ma se a questo oggetto si unisse ancora quello della descrizione del Cielo, degli elementi, degli animali, delle piante, dell’uomo stesso, di cui tanti secreti ne scoprì la moderna Filosofia, e che tuttociò si dirige a manifestare la divina grandezza e la divina beneficenza, io non veggo qualaltra cosa di più sublime e di più utile possa proporsi nella Poesia». Cfr. Prose e Poesie, t. II (1756), pp. 239-240. 23

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Come gli antichi, che usavano l’allegoria chiara e oscura25, Dante aveva fatto ricorso anche alla seconda e poteva ben dirsi «immortale» nel campo della «poesia architettonica», l’unica veramente degna di rilievo, come mostrava il confronto con la poesia egiziana, greca e romana, ognuna delle quali rassomigliante «in parte all’architettura delle tre Nazioni». Oltre a essere una categoria estetica, la «fantasia architettonica» era una categoria antropologica che al suo interno comprendeva la poesia filosofica e morale, basata su grandi strutture, sull’idea di costruzione, sulla creazione e visioni di mondi. Un esempio era lo stesso poemetto di Conti, Il globo di Venere, classificato come un «sogno» e illustrato nella sua allegoria da Visentini. Ora, proprio questo complesso sapere antropologico sembra corrispondere perfettamente all’allegoria della Felicità delle Lettere che ne sarebbe un emblema. Ed è sempre Conti, il più lucido teorico del gruppo, a introdurci nell’uso della nozione di fantasia architettonica – poi applicata a Dante e in parte al Mondo creato di Tasso – in riferimento a Platone e alla derivazione della sua filosofia dalla cultura egiziana. L’erudizione e l’antiquaria svelavano qui il loro rilievo, in quanto la conoscenza degli usi e delle credenze di tutti i popoli antichi permetteva il confronto ‘arcano’ su politica e religione. Per questo, secondo Conti, era di fondamentale importanza il contatto con l’Egitto avuto da Platone, in quanto questo dato spiegava il suo metodo filosofico «poetizzante», basato su favole e miti, non diversamente dai libri cosiddetti poetici delle Sacre Scritture, cui si rivolgeva sempre più l’interesse di scienziati e letterati. I miti erano ritenuti depositari di saperi nascosti che, se non reggevano, come le storie dell’antico Egitto, al confronto con le Storie di Erodoto o di Diodoro di Sicilia, pur nondimeno alimentavano la «fantasia architettonica» che lo stesso Platone «sviluppò» nel tempo come «veramente adattata alla Poesia». In alcune mirabili espressioni del mondo poetico (Dante e Milton) poteva condensarsi tutto il sapere di un’epoca o di una civiltà. Nel suo complesso l’indagine sull’uomo non poteva prescindere dalla religione e dai legami nascosti con i misteri degli antichi culti. Per Conti ciò era provato dall’identità sostanziale fra Talete, Pitagora e Platone, tutti visitatori dell’Egitto, secondo un luogo comune giunto sino a noi, e sui quali avrebbe voluto scrivere un trattato per dimostrare «ch’egli è un solo sistema, ed è l’Egizio,

 Nel Trattato dell’allegoria Conti intendeva soffermarsi sui due tipi di allegoria «perché facilmente, o difficilmente s’intende il fine, che l’autore s’è proposto (…). Con l’allegoria chiara insegnavano gli antichi la morale a’ fanciulli, alle donne ed a tutto il popolo, ma ascondeano con l’oscura gli arcani della politica e della Religione». Cfr. Prose e Poesie. Prefazione. 25

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conservatoci da Plutarco nel libro d’Iside e d’Osiride»26. Basta scorrerlo, del resto, per comprendere che il cosiddetto platonismo di Conti è legato a questo libretto di capitale rilievo. Fattosi sacerdote dei misteri eleusini nel santuario delfico, Plutarco sembrava indicare, con la sua assimilazione della religione egiziana a quella greca e di queste allo stesso Platone, la via del «possibilismo gnoseologico»27. Alle soglie dell’Illuminismo e in pieno dibattito sulle possibili implicazioni meccanicistiche della scienza settecentesca, il sapere architettonico, che puntava a una archeologia antropologica, si allineava con il procedimento di Plutarco, postumo rispetto ai secoli della grande filosofia greca e basato sui continui paralleli fra i miti e le teorie dei filosofi, sull’appello alla filosofia e dunque sulla riflessione che portava a vedere alcune costanti nella spiegazione dei principi ordinatori del mondo: Come il sole e la luna e il cielo e la terra e il mare sono di tutti, anche se prendono nomi diversi, così anche le religioni e i modi di chiamare le divinità sono diversi da popolo a popolo a seconda delle singole tradizioni, e però tutti si riferiscono a una sola ragione prima, quella che ha dato ordine a questo mondo, e a una sola provvidenza che lo dirige28.

Più volte Conti fa riferimento al senso filosofico delle due divinità di Osiride e Iside e alle diverse letture datene nel tempo. In particolare questo mito, riletto anche da Plutarco alla luce di Zoroastro, era entrato a far parte della simbologia massonica. Esso insegna che, nella costante lotta fra le forze del bene e quelle del male, queste ultime saranno annientate e «la terra sarà pianeggiante e uniforme, ed esisterà una sola vita, una sola cittadinanza e una sola lingua per tutti gli uomini (…) e gli uomini troveranno la felicità». Questa era la convinzione «dei veri sapienti»29 che chiedevano alla divinità di partecipare della sua sapienza e ragione. E Iside, la «dea eletta per sapienza e desiderio di sapienza (…) alla quale più di ogni altra cosa competono il sapere e la scienza» custodisce nel tempio la sapienza, per trasmetterla agli iniziati che l’apprendono attraverso la durezza di «esercizi spirituali» il cui

  Ibidem.   Plutarco, Iside e Osiride, a cura di D. Del Corno, trad. e note di M. Cavalli, Milano, Adelphi, 20026, (cfr. Introduzione e Nota informativa, pp. 11-56: 46). 28   Ibidem, p. 134. 29   Ibidem, pp. 110-112. Osiride è assimilato al Sole e quindi alla rigenerazione (i cicli, le stagioni, ecc.); Iside, che con il suo amore trova il corpo dell’amato, colpito a tradimento dal fratellastro Seth, per procreare Horos, è la vita stessa. Osiride è raffigurato da un occhio; insieme a Iside e ad Horos da un triangolo: esso è il bene che sconfigge eternamente il male. Sul triangolo in Platone e sul tre numero perfetto, p. 122. 26 27

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fine «è la conoscenza dell’Essere primo»30. Per i Greci Iside coincideva con Artemide e la Luna, ma Plutarco accenna anche all’identificazione della dea quale figlia di Ermes o di Prometeo, «ritenuto l’inventore della sapienza e della preveggenza, Ermes a sua volta della grammatica e della musica», e più avanti alla sovrapposizione, nella città egiziana di Sais, di Iside con la statua di Atena. E soprattutto fa un cenno a come i re dell’antico Egitto praticassero il culto di Iside, acquisendo la sapienza e dunque la felicità del saggio: I re venivano eletti tra i sacerdoti oppure tra i guerrieri, perché queste due categorie erano degne di particolare onore, l’una per la sapienza e l’altra per il valore. E quando il re era scelto nella classe dei guerrieri, automaticamente passava a far parte di quella dei sacerdoti, e veniva iniziato alla loro filosofia31.

Il sapere architettonico sembra connotarsi sempre più come sapere della libera muratoria. A essa riportano tutti i legami e i testi di Conti, da Prose e Poesie al Globo di Venere, alle traduzioni e delle poesie di Lady Montagu e del Riccio rapito32 alla pubblicazione della raccolta postuma Le quattro tragedie presso l’editore fiorentino Andrea Bonducci di accertata fede massonica. Alla massoneria, inoltre, riconducono anche i vari frequentatori del salotto di Smith, da Algarotti a Maffei a Goldoni a Griselini, ai più giovani fratelli Memmo, ecc. Se incerta resta l’iniziazione massonica del filosofo padovano, ma non quella di altre figure a lui vicine in Italia e fuori33, espliciti sono i suoi scritti: egli appartiene di diritto alla cultura massonica. Questa sembra l’ipotesi più convincente che rende conto di atteggiamenti, posizioni teoriche, proposte, discorsi, riferimenti, altrimenti contraddittori, campati nel vuoto. Fra questi, non ultimo il costante richiamo a Platone e in proposito ci si chiede se davvero un newtoniano, un filosofo, che solo nel 1735 aveva subito il processo per ateismo34, potesse all’improvviso convertirsi all’ontologia pla  Ibidem, pp. 59-60.   Ibidem, p. 67 (subito dopo il riferimento ad Atena); ma vd. p. 61. 32  Le traduzioni della Montagu e del Riccio rapito furono stampate nel 1740 come appendice a Prose e Poesie, ma non pubblicate per ragioni di cautela, all’indomani dell’arresto per massoneria di Tommaso Crudeli. Sulla vicenda vd. i capp. di J.A. Ferrer Benimeli e di R. Pasta in La massoneria, Storia d’Italia. Annali 20, a cura di G.M. Cazzaniga, Torino, Einaudi, 2006. 33  Cfr. G.M. Cazzaniga, Conti e la Massoneria, in Antonio Conti: uno scienziato nella République des lettres, pp. 27-44; su Algarotti invece una lettera inedita dell’abate Tommaso Perelli del 15 gennaio 1734 accerta il suo ricevimento nella loggia anglo fiorentina di cui erano membri G.M. Buondelmonti, A. Cocchi, A. Niccolini e lo stesso abate. Cfr. Id., Pisa alfea e muratoria, catalogo della mostra Sovrani nel giardino d’Europa. Pisa e i Lorena, a cura di R. P. Coppini – A. Tosi, Pisa, Pacini, 2008, pp. 85-89: 86. 34  Cfr. J. Lindon, La ‘denonzia’ di Antonio Conti per ateismo, in Antonio Conti: uno scienziato nella République des lettres, pp. 45-70. 30 31

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tonica. Supponendo invece l’iniziazione o la contiguità di Conti con la massoneria, le contraddizioni si dissolvono in quelle di un’epoca e si capisce come all’interno del sapere architettonico s’incontri Platone con accanto Pitagora. E Platone, meditato sin dagli anni parigini di Conti, è il punto d’incrocio fra poesia e scienza e non costituisce un supposto approdo, anzi un «mistero»35. Per Conti, invece, e per tutti i cultori del sapere architettonico si davano corrispondenze simboliche o «convenienze» fra i vari sistemi fisicoastronomici e le cose platoniche36 e sempre alla luce di queste corrispondenze andavano lette molte opere poetiche. Così per portare un esempio fra i più significativi, «nelle Metamorfosi Ovidio ci conservò con l’idea del Poema Ciclico quella delle Trasformazioni Pittagoriche, cosa tutta Filosofica quando ben s’intenda»; i Pitagorici stessi del resto inventarono una favola per spiegare il cosmo la quale a sua volta poteva simboleggiare la forza di gravità di Newton e le implicazioni filosofiche derivate: Finsero (i Pitagorici) che nel principio delle cose vi fosse una moltitudine infinita di Amoretti che tra loro scherzando al fine s’incorporano in un solo Amore. Voleano significare con questo che le parti degli elementi nell’attrarsi scambievolmente s’uniscono a formare il mondo, in cui tutto è forza attrattiva se a’ Newtoniani si crede37.

Agli antichi filosofi ionici, che «inventarono le metamorfosi per dare un saggio allegorico delle virtù e de’ vizj di cui sono gli Uomini capaci», Conti dedicava uno dei sonetti eroici di Prose e Poesie nel quale chiedeva «d’esser per una di queste metamorfosi liberato dai vili affetti», riducendo così la distanza fra speculazione e abito morale con l’immergersi nel culto di Iside, quasi ne fosse novello sacerdote o sapiente («e l’amor celeste mostrandomi la virtù simboleggiata sotto il nome d’Isea, esaudisce il mio desiderio»), secondo quanto già raffigurato nella processione verso il tempio della dea nel Globo di Venere38. Secondo tale impostazione che attesta il possesso della

 Cfr. N. Badaloni, Antonio Conti. Un abate libero pensatore fra Newton e Voltaire, Milano, Feltrinelli, 1968, p. 8, p. 15; M. Ariani, Drammaturgia e mitopoiesi. Antonio Conti scrittore, Roma, Bulzoni, 1977, pp. 243-246. 36  Vd. la lettera a Monsignor Cerati che precede il Globo di Venere, in Prose e Poesie, I, p. 19, ideato mentre meditava su Fedro, Timeo e Repubblica, secondo gli insegnamenti ricevuti a Parigi dall’abate Fraguier e dal signor Rémond «esperti in cose platoniche». Vd. G. Giarrizzo, Massoneria e illuminismo nell’Europa del Settecento, Venezia, Marsilio, 1994, che inquadra Conti accanto a Maffei, Algarotti, Cocchi in una terza via tra meccanicismo e platonismo (p. 39). 37  Cfr. la lettera a Monsignor Cerati, p. 20. Per la precedente citazione vd. Prefazione. 38  Conti, Prose e Poesie, I, p. cxii. Un altro riferimento a Iside e a Plutarco alle pp. 356358. 35

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simbologia e della cultura massonica, la Prefazione a Prose e Poesie prospettava il confronto fra le scale dei matematici con cui si rappresentano le proporzioni della velocità, delle forze dei corpi, colore, suono, ecc., e la scala del Bello proposta da Platone. A differenza del filosofo greco, che aveva ridotto nel suo quinario tutte le cose ai corpi, alle forme, alle anime, all’intelletto e a Dio, vi si affermava di non ricercare l’armonia degli elementi nelle loro cagioni finali, ma di arrestarsi «alla varietà ridotta all’unità». Prose e Poesie sembrano condurre al senso centrale della Felicità delle Lettere: la felicità del sapiente, data per l’appunto dalle lettere nell’accezione più estesa, deve farsi governo, tradursi in politica. Era questo l’insegnamento più alto che Platone aveva lasciato e che Conti si prefiggeva di approfondire, alla luce del rilievo dato alla funzione delle leggi da Doria e Vico: Dio regge i corpi colle leggi del moto, e regge gli spiriti rendendo loro connaturale il lume del giusto e dell’onesto, e del bello per sé. In questo grado tratto prima delle leggi de’ corpi terrestri e poi de’ celesti, quelle della Meccanica, e queste dell’Astronomia somministratemi relativamente dalla bellezza del sistema del Mondo. Nelle leggi degli spiriti considero la legge, che S. Tommaso pur chiama naturale, e da cui sgorga il diritto naturale, il diritto della società, il diritto delle genti. In questo grado perciò scopro i fondamenti della Repubblica di Platone, che nell’ordine delle potenze dell’anima esprime quelle d’uno stato e così tratta in un medesimo tempo la morale e la politica. La bellezza dell’una e l’altra è da Platone sensibilmente rappresentata nel ritratto del Re Filosofo, come la difformità nel ritratto del Re Tiranno39.

La dedica di Prose e Poesie «All’Altezza Serenissima di Federico Cristiano Principe Reale di Polonia, ed Ereditario di Sassonia» era il compendio della struttura del libro, costruito su un architrave massonico. Essa segnalava che l’interlocutore avrebbe trovato «l’idee della virtù prima nel Globo di Venere generalmente ombreggiate, poscia applicate a casi particolari o nel politico o nel morale». Questi casi erano tutti poetici - ad eccezione delle Riflessioni su l’Aurora boreale - essendo la poesia portatrice di virtù e di sapienza nell’accezione platonica40. Più precisamente, mescolando le suggestioni dei moderni (da Gravina a Shaftesbury) con quelle degli antichi, la poesia era definita come un «sistema di fantasmi sommamente dilettevoli, rappresentativi di cose umane e divine, talora con allegoria, ma sempre con entusiasmo ed armonia, espressi ed applicati dalla facoltà civile ad insegnare la verità e la virtù»41.   Prose e Poesie. Prefazione.  Nella Dissertazione sul sogno, Conti discute la categoria di virtù secondo Wolff. Cfr. Prose e Poesie. Prefazione. Si noti che nel 1737 Pasquali pubblica la traduzione francese e quella italiana della Logica di Wolff. 41   Prose e Poesie. Prefazione. 39 40

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Oltre che con Platone, il sapere architettonico faceva i conti con Newton e seguaci, fra i quali soprattutto Hutcheson da cui Conti mutuava, nella Prefazione a Prose e poesie, il principio della derivazione della virtù dalla benevolenza secondo una lettura del filosofo inglese mediata dal massone Antonio Cocchi – benevolenza che costituiva uno dei fondamenti della massoneria speculativa: Parimenti a noi la natura diede l’amor proprio; con cui, cercando quel che c’è utile, ci conserviamo, e ci diede la benevolenza, con cui cerchiamo quello che è utile alla Società, per la conservazione della quale siamo non meno interessati, che per la nostra42.

Dalle corrispondenze simboliche fra la scienza, l’astronomia, le dottrine dei pitagorici e i miti platonici del Globo si passa al Proteo, idillio in stile profetico dato dall’entusiasmo, da ricondursi al furore poetico di Platone piuttosto che alla critica di Shaftesbury. Dedicato a Marco Foscarini, l’idillio scaturiva dall’identità di «cittadino» di Conti che si augurava che la sua patria diventasse «un soggetto degnissimo di Poemi» come lo era della storia, essendo Venezia superiore alle repubbliche greche per la durata del governo e per le virtù militari e civili, senza dimenticare il ruolo svolto di «mantenimento delle libertà d’Italia». Nella dedica, Conti mitizza la Serenissima in sostegno della politica culturale del futuro doge, rivolta fra l’altro a rilanciare le cose patrie, agganciandosi a Vienna. Sulla svolta di Conti verso il mondo germanico si ritornerà; qui basta rilevare, rispetto alla struttura del libro, la presenza di un testo che ribadiva il legame cittadino-patria, rubricato fra i doveri dei liberi muratori43. Rientrano nel sapere architettonico anche le due cantate, Timoteo, o gli effetti della Musica e Cassandra. La prima è un adattamento dell’ode di Dryden con l’aggiunta del coro; la seconda è un esperimento per una voce sola: entrambe già musicate da Benedetto Marcello secondo il genere di musica sacra ispirata ai Salmi e che induce Conti a ripristinare nelle tragedie i cori già espunti da Maffei e Martello. Conti ne parla nella dedica ad Ascanio Giustiniani, soffermandosi sull’importanza della musica presso i Greci con il richiamo a Platone e a Plutarco. Nel sottolineare con Bacone e Gravina la funzione dilettevole e civile dei simboli, come mostrava il mito di Orfeo, vero ingegno musico dotato di sapienza parimente a quello di Davide, Conti spiegava il rapporto fra cosmo e musica presso i pitagorici:

  Ibidem. Conti qui parafrasa una lettera di Antonio Cocchi a lui indirizzata del 6.3.1726 che si legge in Badaloni, Antonio Conti. Un abate libero pensatore, pp. 115-116. 43   Proteo. Idillio, in Prose e Poesie, pp. 5-6. Sui doveri verso la patria vd. la dedica di Prose e Poesie e quella del Marco Bruto. 42

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I Pittagorici assomigliarono l’armonia celeste alla lira, comparando i pesi affissi alle corde co i pesi de’ Pianeti, e gl’intervalli de’ suoni co gl’intervalli degli orbi, e quindi la lunghezza delle corde colle distanze de’ Pianeti agli orbi stessi44.

Il tentativo di recuperare la musica antica insieme alla rifondazione del teatro che esaltava la scena e l’architettura era del tutto consono con le istanze culturali del sapere architettonico45. Secondo tale visione, Conti pubblica in Prose e Poesie la sua traduzione dell’Athalie di Racine quale esempio di perfezione. Le forze del bene e del male si scontrano e proprio nel tempio, grazie all’opera dei sacerdoti, avviene il trionfo del bene, con la restituzione del regno al vero erede e il sacrificio dell’usurpatrice46. Il soggetto biblico della tragedia suggeriva il parallelismo con la poesia greca e latina di cui Conti dava alcune traduzioni (Anacreonte, Saffo, Simonide, Callimaco, Orazio, Virgilio, Callimaco-Catullo), segnalando il medesimo passaggio dal culto alla sapienza civile percorso da tutte le civiltà ed espresso dai suoi stessi sonetti disposti in tre ordini: dall’«oggetto venerabile e sublime de’ misterj» delle poesie sacre ai sistemi della nuova scienza delle poesie filosofiche alla varietà morale delle poesie eroiche che esaltavano le arti e la musica. Autore del Cesare (1726), Conti anticipava nella Prefazione il progetto ciclico sulla storia romana dalla fondazione della repubblica allo stabilimento della monarchia, facendo rappresentare al teatro San Samuele il Lucio Giunio Bruto (1743) e il Marco Bruto (1744), seguiti dalla stampa del Druso, tutti editi da Pasquali. Le indicazioni sceniche risentono della concreta esperienza teatrale e del recupero dell’architettura palladiana. Nel Druso la scenografia ricca di statue, templi e pitture, come le precedenti tragedie, prevede l’adozione delle tre porte modellate sulla scena di Palladio. La riscossa del teatro italiano contro la vantata supremazia di quello francese, per la quale si era adoperato tanto Maffei, trovava nell’idea architettonica del teatro l’arma vincente. Quale altra nazione poteva vantare la coppia Vitruvio-Palladio? Forse quella inglese che, tuttavia, con Inigo Jones, nel fare eccezione confermava la regola: Jones era stato allievo ideale di Palladio, cui si era ispirato nella straordinaria ideazione dei celebri edifici e teatri. Insieme a Palladio, Jones era diventato un artista del canone massonico anche per Maffei e Algarotti.  Cfr. la lettera a Monsignor Cerati, p. 18, p. 21.   Pur trattandosi soltanto di una ipotesi, credo che il teatro fosse connotato, dalla lettura massonica, come variante del tempio, cioè di un antico luogo di culto attraverso cui si era trasmesso il sapere iniziatico. 46  Cfr. Dissertazione su l’«Atalia» del Racine tradotta nella lingua italiana, ora edita in A. Conti, Versioni poetiche, a cura di G. Gronda, Bari, Laterza, 1966, p. 106. 44 45

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Alle soglie degli anni Quaranta, non era più in gioco la tragedia come testo letterario, bensì il teatro come edificio scenico (architettura) e come scena (scenografia). Il teatro si faceva sintesi di una ricerca complessa, in quanto allegoria non solo dei governi civili e della giurisprudenza come in Gravina47, ma anche della sapienza civile volta alla felicità dei popoli. E lo stesso Muratori si dichiarava soddisfatto, perché di «belle e savie tragedie» «non ne scarseggia l’Italia», mentre suggeriva ai «principi saggi» di incrementare la commedia sì da far diventare il teatro «una scuola segreta del ben operare e però utile alla repubblica»48. Come aveva intuito Maffei nel far recitare la compagnia di Riccoboni nell’Arena di Verona o nel teatro Olimpico di Vicenza, così per Conti il teatro italiano poteva finalmente guadagnare terreno, sul piano scenicoarchitettonico e su quello musicale, e proporsi nella sua unicità: In questo si vedrebbe in un’occhiata quali fossero le vesti de’ Romani secondo le diverse lor dignità, le acconciature del capo, e gli altri ornamenti delle donne; l’architetture de’ Palagj, de’ Templi, e i vari aspetti di Roma, i Vasi, le Statue, e mille altre cose, che ansiosamente si cercano ne’ libri degli antichi, quando mancano o le medaglie, o i bassi rilievi, o le reliquie delle rovine. Il Poeta profitterebbe de’ lumi somministrategli da’ Critici, ed ornerebbe magnificamente la Scena, cosa che assolutamente manca al Teatro francese non meno che l’armonia e la melodia necessaria al compimento ed alla continuazione della Tragedia49.

Letterati, filosofi e scienziati inseguivano lo stesso sogno. Smith con le riproduzioni di edifici palladiani, Poleni con le tavole e illustrazioni riprodotte da Palladio e da altri trattati cinquecenteschi fra cui la scena tragica del Serlio. Conti, Poleni, Smith e forse Maffei facevano mettere in scena al San Samuele l’Ulisse il giovane di Lazzarini, scomparso nel 1734 a Padova nella cui università aveva insegnato lettere latine e greche. L’Accademia dei Ricovrati era un luogo di conversazione e di elaborazione culturale da cui si diramava verso Venezia la poetica architettonica che affiancava Dante – di cui anche Lazzarini era sostenitore – al teatro antico, a Palladio, a Vitruvio. Qui nel dicembre del 1735 Giuseppe Bartoli allievo di Lazzarini e scelto come aiutante di Poleni nella cattedra di filosofia sperimentale, aveva recitato il Globo di Venere. Dagli scritti sul fenomeno dell’aurora boreale Poleni passava a quelli sul Teatro Olimpico o sulla cupola di San Pietro, lavorando

 Cfr. B. Alfonzetti, Il corpo di Cesare. Percorsi di una catastrofe nella tragedia del Settecento, Modena, Mucchi, 1989 (il cap. su Conti, pp. 135-200). 48  Muratori, Della pubblica felicità, p. 114. 49   Prose e Poesie. Prefazione. 47

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a un’edizione di Vitruvio lasciata interrotta. All’interno di questo sistema culturale che vedeva attivi Smith a Venezia, Poleni a Padova e Conti in entrambe le città, la stamperia Pasquali avrebbe mantenuto la stessa linea culturale dopo il divorzio da Smith (1760) e la scomparsa di Conti, Muratori e Poleni50. Si avranno così le edizioni di Giannone, Machiavelli, Dello spirito delle leggi di Montesquieu (1767), I quattro libri dell’architettura di Palladio (1768), ecc., per arrivare poi all’Elogio del Galileo di Paolo Frisi (1775) e al Del teatro (1773) di Francesco Milizia. Senza il sapere architettonico, non si capirebbe il racconto che vuole Conti capeggiare la «reazione antimodernista e antifrancese» a Venezia51 per il sostegno dato, da un lato, alla musica antica, ai salmi e cori, insieme ad Ascanio Giustiniani e a Benedetto Marcello, dall’altro, alla tragedia ultraclassicistica di Lazzarini e in genere al repertorio tragico andato in scena al San Samuele. Il fatto è che persino il più ‘spregiudicato’ Algarotti faceva parte della stessa rete: Smith, Pasquali, Conti, Poleni, Maffei, e i toscani Cocchi, Niccolini, Crudeli, Lady Montagu, Lord Burlington. E se Conti aveva tradotto le poesie della dama inglese, un componimento di quest’ultima compariva fra i versi omaggio al Newtonianismo per le dame nel quale, oltre a lodare lo stile giocondo con cui l’autore insegnava la filosofia di Newton, gli si rivolgeva con l’uso del linguaggio cifrato («So Eden rose, as we in Moses find, / (The only Emblem of thy happy mind) / Were ev’ry charm of ev’ry season meets, / the Fruit of Autumn mix’d with vernal sweets»), che ritorna soprattutto nei versi di B. Stillingfleet che non a caso appella Algarotti come un «Another Plato», cioè come uno di quei pochi maestri creati dalla Natura per ridurre la distanza fra il genio e gli illetterati 52. L’edizione Pasquali del Newtonianismo per le dame appariva nello stesso anno di Prose e Poesie, senza l’immagine di Minerva, ma con un’aquila tra volute di allori che Visentini probabilmente riprodusse dall’Ode for Musick di Pope, presente nella biblioteca di Smith. L’appartenenza al medesimo sistema culturale univa Algarotti ai rappresentanti di una cultura conside50  Almeno un cenno a Il tempio della Filosofia di Orazio Arrighi Landini da accostare al Sepolcro di Isacco Newton voluto da Smith. Arrighi Landini pubblica con Pasquali nel 1756 i poemi L’estate e La primavera improntati ai temi massonici della ciclicità e delle stagioni. 51  Così Gian Rinaldo Carli che considerava Conti come uno dei capi della «Setta Peripatetica»: testimonianza letta come «un’operazione sostanzialmente regressiva». Cfr. Ariani, Drammaturgia e mitopoiesi, p. 41, p. 84. 52   Versi in lode della presente Opera, in Algarotti, Newtonianismo per le dame. Fra i versi un sonetto di Voltaire che si concludeva con una visione illuminata e cosmica: «Ainsi que Vous il est le Dieu des Vers,/ Ainsi que Vous il repand la Lumiere:/ Voila l’objet des Vœux de l’Univers».

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rata fuori gioco da una prospettiva storiografica romantica e modernista. Invece nel Saggio sopra l’opera in musica (1755) si loda Benedetto Marcello e, nelle Rime, Lazzarini: «Spirto felice, onde pur è che questa/ Età riveggia il Sofocleo coturno/ Le scene passeggiar d’alto notturno/ Teatro in pompa tragica e funesta»53. Newtoniano, palladiano, massone, Algarotti non poteva essere che un autore Pasquali: prima della sua partenza per l’Inghilterra, Dresda e Berlino, con il Newtonianismo per le dame e al suo rientro con i Discorsi sopra differenti soggetti (1755) e soprattutto con le più volte edite Opere varie (1757) in due volumi, il cui frontespizio raffigurava una cetra sormontata da un compasso (Fig. 4). Musica e architettura si saldavano in Pitagora il cui sapere filosofico giungeva sino a Federico II, dedicatario dell’opera («Sire, ce n’est ni au Conquerant ni au Legislateur, c’est à l’Ecrivain et au Philosophe que je dedie cet ouvrage»54) e oggetto di un elogio massonico nel Saggio sopra l’architettura: E certo pare che questa Arte nobilissima capomaestra, come suona il suo nome, di molte altre, siasi ora ricovrata sotto l’asilo delle più alte e nobili persone. In Germania un Principe grandissimo va ornando quella Città che è la scuola di Marte con quelle fabbriche che sono il più bello ornamento di Roma e di Vicenza: E non isdegna di trattare egli medesimo la regola e il compasso con quella mano che sa trattare così animosamente la penna e la spada. Che se dopo un così grande esempio è lecito parlar d’altri; nel Conte di Burlington si è veduto a’ giorni nostri rivivere in Inghilterra un altro Inigo Jones55.

Nato come «un vero e proprio pamphlet anticartesiano»56, il Newtonianismo per le dame ritaglia soltanto una porzione del più ampio sapere architettonico, essendo rivolto a evidenziare la novità delle scienze moderne basate sullo «spirito d’osservazione» contro le chimere dei sistemi filosofici da Aristotele a Cartesio. Diversamente da Conti, Algarotti tendeva a negare il legame con gli Antichi e la stessa erudizione gli appariva una inutile zavorra per le nuove scoperte57. Tuttavia, al di là di un più netto pronunciamento per lo scienziato inglese, sono tante le convergenze da registrare. Intanto gli autori poetici sono gli stessi: il Virgilio dell’Eneide, la triade Dante, Ariosto, Tasso, gli inglesi Milton e Pope, il Voltaire dell’Henriade; come identico è il 53  F. Algarotti, Saggio sopra l’opera in musica. Le edizioni del 1755 e del 1763, a cura di A. Bini, Pisa, Libreria Musicale, 1989, p. xxvii; il sonetto su Lazzarini in Opere varie, II, p. 413. 54  Cfr. «A sa Maiesté le Roi de Prusse», ibidem, I. 55  Cfr. la dedica del Saggio «Al Sig. Senatore Conte Cesare Malvasia», ibidem, II. 56  F. Arato, Il secolo delle cose. Scienza e storia in F. Algarotti, Genova, Marietti, 1991, p. 47. 57   Newtonianismo per le dame, pp. 146-148.

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criterio di lettura: Swift «nelle più poetiche allegorie del mondo ci ha dato la più filosofica satira della Natura umana», Lucrezio è il poeta filosofo che ha trasposto in versi la «Filosofia degli atomi», l’unica scuola che tentò di far risorgere la filosofia sulle rovine di Aristotele58. La venerazione per l’autorità di quest’ultimo, sulla cui filosofia si era innestata la teologia, aveva bloccato per secoli il progresso della scienza sino a Galilei e Bacone. E se per Conti il Seicento italiano era il «felice secolo» di Galilei, lo scienziato toscano era restituito al suo ruolo di precursore da Algarotti: Infine dopo aver rovesciato l’Arabesco edifizio dell’Aristotelicismo, i fondamenti pose del solido Tempio che il gran Newton poi innalzò alla verità (…). Io chiamerei volentieri quest’Uomo il Czar Pietro il Grande della Fisica. Discese questi dal Trono per apprendere a regnare; depose quello il Letterario fasto per imparare a sapere. Cangiò l’uno la faccia della Terra, l’altro quella della Filosofia59.

Il paragone aveva il suo corrispettivo nella dedica del Newtonianismo per le dame ad Anna Ivanovna, erede ed emula della politica ‘europeista’ di Pietro il Grande. Preceduta da Vienna e Dresda, ora anche San Pietroburgo, insieme a Berlino, entrava nel circuito del mecenatismo regio a un passo dal riformismo. Di qui l’encomio di Algarotti che dava alla zarina addirittura il volto di una nuova Minerva («Del Russo Imperio tu Minerva, e Giove»), la quale, proteggendo le arti, la filosofia e la nuova scienza, rendeva felice il rinnovamento del suo regno. Il segno tangibile del cambiamento militare e culturale era la partecipazione alla guerra di successione polacca, conclusasi proprio negli anni 1738-1739, con il trattato di Vienna e la successiva pace di Parigi, a favore di Federico Augusto di Sassonia, sostenuto contro Francia e Spagna dalle nazioni che nel 1732 avevano stipulato la cosiddetta triplice alleanza (Austria, Prussia e Russia). E proprio questo schierarsi della Russia con le potenze della nuova linea del Nord faceva sì che l’encomio di Algarotti comprendesse anche gli eroi militari, dando nuovo vigore al mito delle nazioni libere contro quelle che incarnavano l’assolutismo e il conservatorismo. Non a caso, San Pietroburgo poteva dirsi liberata dai culti profani cioè dai «Cartesiani sogni» che ancora albergavano sulla Senna: 58  Cfr. ibidem, rispettivamente pp. 3-5, p. 193; pp. 22-25. In Milton e Bacone era già espressa la teoria newtoniana dell’attrazione (pp. 224-225). L’ed. berlinese dedicata a Federico II di Prussia elimina i riferimenti a Lucrezio, ma oppone Pitagora ad Aristotele (p. 11). Pasquali pubblica nel 1765 Della natura delle cose libri VI tradotti in verso toscano da Alessandro Marchetti con le osservazioni dell’abate Domenico Lazzarini, con falsa data di Londra. 59   Newtonianismo per le dame, pp. 15-16.

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Già nel tuo Petersbourg, deserto lido,/ Palude un tempo a’ pescator ricetto/ Ora Imperial Città d’Eroi nutrice,/ Dell’arti albergo, e di Minerva asilo,/ Ogni culto profano omai sbandito/ Teco dettare il gran Newton sue leggi/ Più Sacre ancor rese per te vedrassi60.

Il mondo illuminato che prometteva la felicità si chiamava Vienna o Londra, e Algarotti passando da Londra a Dresda non mancava di far notare la connessione fra Padova e Oxford: soltanto nelle loro rinomate università, aveva deposto «il velo» «La Misteriosa già Filosofia», vissuta nel silenzio dei chiostri e ora addirittura richiesta nelle corti. Era questo il punto fondamentale: al di là delle committenze di sovrani e collezionisti, il letterato sembrava chiamato a svolgere una funzione capitale, che trasformava l’institutio principis nella teoria politica del re filosofo. Dalla convergenza di politici e filosofi – «ma i re possono essere dei filosofi, ed i filosofi sono in quel tempo dei politici!» – nasce per l’appunto l’Illuminismo al quale la Massoneria «si prepara negli anni ’40 a fornire un contributo attivo»61. Come avrebbe spiegato chiaramente Algarotti, il filosofo poteva svolgere la funzione di Socrate, «il quale fu forse cagione che si emendassero parecchie leggi ed abusi ne’ governi del tempo suo, se non gli fu dato di essere fondatore di una nuova Repubblica»62. La dedica alla zarina Anna istituiva un ponte fra Oxford e Padova dove Algarotti aveva soggiornato più volte, prima dei viaggi in Toscana e del ‘ricevimento’ nella loggia anglo-fiorentina. Padova, con le sue scuole filosofiche al cui interno la «misteriosa» filosofia trasmessasi da Pitagora si era svelata, significava Conti, Poleni, Lazzarini. Venezia, invece, era al centro della dedica del Saggio sopra la pittura a Smith. Datata 20 maggio 1755, essa lasciava trapelare, come per altro quella del Filosofo inglese di Goldoni, incontri e conversazioni nelle residenze del console63. Con Federico II, il percorso che aveva spinto molti letterati, da Maffei a Conti, a volgere le spalle alle nazioni in cui regnavano i due rami dei Borbone per abbracciare il mondo ‘germanico’ sembrava compiuto: un «sapiente» era finalmente sul trono. L’auspicio espresso da Conti nella dedica al giovanissimo Federico Cristiano di Sassonia si era realizzato. E se gli omaggi delle Antiquitates Italicae di Muratori alla casa di Sassonia imparentatasi con gli  Cfr. «Alla Sacra Imperial Maestà di tutte le Russie», ibidem.  Cfr. G. Giarrizzo, Illuminismo, Napoli, Guida, 2011, pp. 15, 31. 62   Saggio sopra l’architettura, p. 224. 63  Cfr. «Al Signore Giuseppe Smith Console della Nazione Inglese in Venezia» del Saggio sopra la pittura, in Opere varie, p. 227. Cfr. F. Haskell, Mecenati e pittori. L’arte e la società italiana nell’età barocca, Torino, Allemandi, 20003. Su Algarotti il cap. 14°. 60 61

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Asburgo rientravano nelle alleanze della corte estense, la dedica di Conti, duplicatasi in quella del Lucio Giunio Bruto (1743) ad Anna Caterina di Sassonia, segnava un mutamento di prospettiva64. Esso faceva sistema con il progetto di rifondare il teatro in Italia che seguiva sia la via della scena che quella del libro e dell’editoria. Di qui la raccolta del Nuovo Teatro italiano (1743) che metteva assieme le più rinomate tragedie di quei decenni: l’Ulisse il giovane di Lazzarini, la Merope di Maffei, Il Cesare di Conti. Nell’operazione di promozione culturale di un teatro nazionale e romano, che aveva il supporto strategico dei due teatri di proprietà dei Grimani, Venezia era nuovamente in prima fila, dopo la riforma compiuta da Maffei, ancora attivo e presente sulla scena culturale, come attestano la dedica del Saggio sopra la lingua francese (1750) di Algarotti e quella del Molière di Goldoni. Questa svolta era in linea con la politica filo-imperiale di Marco Foscarini, ma anche con un trend avviato dall’iniziazione di Stefano di Lorena, quasi un’anticipazione dell’utopia platonica del re filosofo. L’elogio di Federico Cristiano di Sassonia, sia in Conti che in Muratori, non dimenticava però il nuovo Chirone, cioè «il saggio Ministro» che educava il giovane principe alle belle arti, alla prospettiva e all’architettura civile, preparandolo a regnare con la trasmissione di un sapere in ultima istanza morale: «Io son testimonio di vista quanto ella abbia profittato sotto una disciplina sì saggia; ed io non cesserò mai di dire che felice sarebbe l’Europa, se tutti i Principi fossero così educati»65. Erano le stesse virtù del ‘saggio ministro’, il torinese Joseph Anton Gabaleone di Salmour – poi conte di Wackerbarth – dimostrate durante gli incarichi di diplomatico e consigliere segreto alla corte di Dresda e che si riassumevano tutte nel dipinto eseguito, forse a Venezia, da Rosalba Carriera in cui l’uomo politico, assunto il compito di educatore del principe per volere di Augusto III, si era fatto ritrarre con un libro in mano66. Del resto allo stesso modo l’abate Ercole Gherardi, che seguiva presso Pasquali la stampa degli Annali d’Italia di Muratori (Fig. 5), tutti orientati

64  Cfr. Corte, buon governo, pubblica felicità. Politica e coscienza civile nel Muratori, Firenze, Olschki, 1996 (soprattutto i contributi di Ch. Weyers e F. Marri, pp. 55-86); A. Conti, Lettere da Venezia a Madame la Comtesse de Caylus 1727-1729. Con l’aggiunta di un Discorso sullo Stato della Francia, a cura di S. Mamy, Firenze, Olshki, 2003. 65   Prose e Poesie, I, pp. cx-cxi. Su questo argomento mi riprometto di ritornare. Intanto segnalo l’illustrazione di Van der Gucht per l’ed. inglese del Télémaque (The adventures of Telemachus, London, 1715): Atena tiene con la mano sinistra Telemaco e gli indica con la destra un tempietto in stile neopalladiano. 66  Cfr. W. Fastenrath Vinattieri, Sulle tracce del primo Neoclassicismo. Il viaggio del principe ereditario Friedrich Christian di Sassonia in Italia (1738-1740), in «Zeitenblicke», III (2003).

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per gli Asburgo contro Francesi e soprattutto Spagnoli67, raffigurava l’abate Conti, incontrato un giorno alla libreria della Felicità delle Lettere: Cavaliere d’alta statura, d’abito esterior clericale col collarino alla Franzese. Porta Parrucca. Grave nel contegno, civilissimo di tratto, pallido in faccia, non molto forzando, né verboso, ma però giusto e pronto nel favellare (…) Doveva piacere assai agl’Inglesi perché di poche ma sensate parole. Il trovai con un tomo di Malebranche in mano68.

Un libro in mano: in esso, mostrato dalla nuova Pallade-Minerva, risplendeva la promessa felicità dei popoli 69.

67  Cfr. L.A. Muratori, Annali d’Italia dal principio dell’era volgare sino all’anno 1749, Milano, A spese di Giambatista Pasquali, 1744-1749. 68  Lettera del 24.11.1742, in L.A. Muratori, Carteggio con Pietro E. Gherardi, a cura di G. Pugliese, Firenze, Olschki, 1982, p. 99. 69  Cfr. Conti, Lettere da Venezia a Madame la Comtesse de Caylus 1727-1729, pp. 130-131, p. 141.

Italo Birocchi Diritto alla felicità e leggi per essere felici: torsioni individualistiche della felicità nella dottrina giuridica

1. In contrasto con l’impressionante frequenza con cui il tema della felicità ricorre nella letteratura (anche politica ed economica) del Settecento, nei più significativi repertori di giurisprudenza allora circolanti si cercherebbe invano attenzione per quel tema (o per l’equivalente nelle lingue usate), di cui non di rado manca addirittura il lemma1. E in quei lessici giuridici nei quali si coglie qualche spunto (per lo più per i riferimenti al significato filosofico di bonum), ciò è dovuto all’ispirazione erudita e classica dei loro autori piuttosto che all’uso pratico2. Si direbbe che la felicità non fosse affare di cui si occupasse il giurista: non l’avvocato e nemmeno il magistrato, ma neppure il maestro d’Università, fosse egli intento a rimasticare le voluminose parti del corpus iuris o magari alle prese con il difficile insegnamento di quella nuova materia – il diritto patrio – che si affacciò nei programmi universitari alla fine del Seicento in Europa e che si diffuse nel corso del secolo successivo.  Vd., ad esempio, D. Toschi, Practicae conclusiones iuris, I-VIII, Romae, 1605-08; Dictionnaire civil et canonique contenant les etimologies, définitions, divisions & principes du droit françois conferé avec le droit romain et de la pratique accommodée aux nouvelles Ordonnances, Paris, 1688; C.-J. de Ferrière, Dictionnaire de droit et de pratique, spec. I, Paris, 1759; J.B. Denisart, Collection de decisions nouvelles et de notions relatives à la jurisprudence actuelle, spec. I, Paris, 1771; L. Ferraris, Prompta Bibliotheca canonica, juridica, moralis, historica…, I-VIII, Venetiis, 1772-1777: compilazioni di diversa estrazione, presenti con grande fortuna sullo scrittoio dei giuristi settecenteschi e complessivamente reputabili come opere di riferimento per le enciclopedie giuridiche dell’Ottocento (come è stato detto del testo di Denisart: P. Bonin, Denisart Jean-Baptiste, «Dictionnaire historique des juristes français XIIeXXe siècle», a cura di P. Arabeyre, J.-L. Halpérin, J. Krynen, Paris, 2007, p. 246). Il lemma ‘felicità’ non si riscontra nemmeno in un repertorio della prima metà dell’Ottocento come quello di F. Foramiti, Enciclopedia legale ovvero lessico ragionato, I-V, Venezia, 1838-40. 2  Ciò vale per B. Brisson, De verborum significatione (1557?), Halae Magdeburgicae, 1743 e soprattutto per J. Kahl (Calvinus), Magnum lexicon juridicum (1600), I-II, Coloniae Allobrogum, 1759. 1

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Ma la constatazione fatta implica solo che la felicità non rientrasse nella tradizione d’insegnamento e nelle trattazioni della dottrina pratica impegnata nel foro. In realtà, della felicità si occupava anche il mondo del diritto. Precisamente se ne interessarono coloro che guardavano ai principi del vivere civile, ai criteri fondativi dello Stato, alla finalità della legislazione: quanti oggi chiameremmo filosofi del diritto, e che allora erano indicati come giusnaturalisti o come cultori del diritto pubblico o di scienza della legislazione. E se ne interessavano i legislatori. Semplificando parecchio si può anche dire che la felicità non attraeva de iure condito, non tanto per insensibilità alle finalità dell’ordinamento, quanto perché, in una visione ipostatizzata del diritto, era dato per scontato che esso fosse diretto al bene, e poco importava che questo fosse oscurato o corrotto dalla prassi, giacché il piano della fattualità non incideva sul dover essere. Era comunque una visione che, mentre predicava l’autonomia tecnica del diritto, presupponeva la sua subordinazione ai principi etico-religiosi, considerati il prius che innervava le regole giuridiche, nonché le finalità per cui esse erano disposte. Si trattava in sostanza di intervenire con l’interpretazione del diritto esistente, depurandolo dagli ‘abusi’, connettendone le molteplici fonti, traendone le conseguenze insite nei principi. Perché la questione della felicità entrasse nelle discussioni dei giuristi occorsero due trasformazioni: la prima concerneva l’emergere di una visione per la quale il diritto fosse un’espressione storica e perciò mutevole e fosse considerato, in particolare, una costruzione artificiale dell’uomo, da apprestare per la sua utilità; la seconda riguardava la funzione del giurista, non più dedito solo all’interpretazione/applicazione del diritto, ma anche partecipe di questa costruzione, secondo una gamma di collocazioni diverse (consigliere o ministro del principe, membro degli organi legislativi, professore d’Università, intellettuale che partecipava alla formazione dell’opinione pubblica). Si può allora dire che occuparsi della felicità attraesse de iure condendo e sottendesse, se non sempre una visione riformatrice del diritto esistente, almeno una concezione critica e storica. D’altronde, se si trattava del diritto da costruire, inevitabilmente l’interesse si allargava all’analisi della società su cui intervenire, agli obiettivi da perseguire, alle condizioni da assicurare per l’ottenimento di quelle finalità. Il discorso giuridico sulla felicità conteneva perciò aspetti disciplinari differenti: quelli della filosofia morale, dell’economia o della politica, tra loro commisti. Il che, mentre complica le cose ed obbliga a guardare ad opere eterodosse o di confine, ci rende conto della constatazione di partenza: al giurista impegnato ad illustrare o applicare il diritto vigente il tema risultava

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respingente ed estraneo anche perché legato ad altre discipline e, per così dire, spurio rispetto alla formazione corrente. L’interesse per la felicità implicava dunque una trasformazione del bagaglio culturale del giurista che, accettando di riflettere sui cambiamenti da operare nel diritto, doveva cimentarsi anche sui principi etici fondativi e sugli spazi da accordare alla convenienza e all’utilità: è ciò che avvenne nel corso di un processo che si affermò tra Sei e Settecento. 2. Possiamo perciò distinguere il discorso degli antichi e quello dei moderni. Per antico intendo il modello dell’organizzazione statuale aristotelicotomista, ove la felicità coincide con il bene comune3. La città, ci dice Botero, è «una ragunanza d’uomini ridotti insieme per vivere felicemente»4; e la felicità consiste e si realizza appunto nel bene pubblico, dato dalla congiunzione tra il bene temporale (ovvero il mantenimento della pace civile e politica) e quello spirituale (ovvero il mantenimento della religione)5. Molto più complesso Suárez, che del resto si richiamava espressamente ad Aristotele e a S. Tommaso. Per il teologo spagnolo il fine dell’ordinamento politico era la felicità: non quella eterna, che per definizione era un fine sovrannaturale6, bensì quella civile, diretta a soddisfare il bene temporale della convivenza umana7. Questo fine riguardava il corpo sociale in quanto tale – era nettissima l’affermazione: «id quod ita pertinet ad privatam felicitatem ut non redundet in bonum communitatis, ad hanc potestatem vel legem civilem non spectat» – e i singoli solo indirettamente8.  Aristotele definisce la felicità come l’attività (e non la disposizione) dell’anima conforme a virtù, e d’altra parte la scienza politica, che ha il compito di raggiungere il sommo bene, mira a rendere gli uomini buoni e capaci di azioni belle (Etica Nic., I, 9, 1099b). 4   G. Botero, Delle cause della grandezza e magnificenza delle città, lib. I, I (nell’ediz. a cura di L. Firpo, Torino, Utet, 1948, p. 345). 5   G. Botero, Della ragion di Stato, lib. X, IX (nell’ediz. a cura di L. Firpo, Torino, Utet, 1948, p. 336). 6  F. Suárez, De legibus, III, 11, nn. 4 e 5 (in attesa che progredisca l’edizione italiana curata da F. Todescan, utilizzo quella bilingue, latina e spagnola, a cura di L. Pereña e V. Abril, Madrid, Consejo superior de investigaciones cientificas, 1975, pp. 148-150). 7   Suárez, De legibus, III, 11, n. 6 (pp. 150-151). Proprio perché tese a questo fine limitato, le leggi civili erano corrette e supplite, ad vitanda peccata, dalle norme canoniche. 8   Suárez, De legibus, III, 11, n. 7 (p. 153). E inoltre: «Addo tertio potestatem civilem legislativam, etiam in pura natura spectatam, non habere pro fine intrinseco et per se intento felicitatem naturalem vitae futurae, immo nec propriam felicitatem naturalem vitae presentis quatenus ad singulos homines, ut particulares personae sunt, pertinere potest. Sed eius finem esse felicitatem naturalem communitatis humanae perfectae cuius 3

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Entrando nel merito della materia che poteva essere oggetto della legislazione, Suárez distingueva tre aspetti della vita umana che dovevano ricadere su altrettanti poteri differenti. Essi riguardavano la persona a seconda che la si considerasse all’interno della comunità politica, della famiglia o come soggetto isolatamente preso; e rispettivamente i tre poteri che entravano in gioco erano quello politico, domestico (o economico) e monastico. Il governo domestico doveva essere rimesso essenzialmente alla prudenza di ciascun padre di famiglia, mentre quello monastico, il cui fine era la felicità privata, doveva essere affidato agli individui singoli, giacché l’ordinamento politico non doveva occuparsi degli atti interni9. La distinzione era netta e con risvolti apparentemente sorprendenti: sembrerebbe infatti aprire al principio di non ingerenza della legislazione statale nella sfera del singolo come membro della famiglia e in quella meramente privata. Ma non è così. Nella visione di Suárez, la mancata disciplina familiare dello Stato non significava affatto un disinteresse dello Stato, bensì significava che le regole per la famiglia, intesa anche come organismo economico, erano attinte altrove, in particolare dall’ordinamento della Chiesa, e se ne lasciava poi la loro specificazione al ‘capo naturale’, cioè al padre di famiglia. Quanto al disinteresse della legislazione statuale per gli atti interni, esso può apparire un’indicazione coraggiosa e in contrasto con gli ordinamenti vigenti. Questi, ad esempio, punivano comportamenti meramente interni e minaccianti solo la felicità individuale come la blasfemia e l’eresia. Ma poteva il più importante teologo cattolico del Seicento dare l’indicazione di espungere dal novero dei reati l’eresia e la bestemmia? In effetti Suárez non intendeva prendere le distanze dalla pratica degli ordinamenti, che invece si sforzò di consolidare attraverso la sua teorizzazione. Così a sostegno della legittimità della legislazione che puniva l’eresia e la blasfemia, adduceva due ragioni: ciò avveniva o per un impulso esterno, cioè per concessione e richiesta della potestà ecclesiastica che si rivolgeva al braccio secolare per eseguire le proprie norme (e dunque, in questo caso, le leggi civili ricevevano forza da un potere superiore); oppure perché le condotte vietate (eresia, ecc.) erano considerate perturbatrici della sicurezza dell’or-

curam gerit, et singulorum hominum ut sunt membra talis communitatis, ut in ea, scilicet in pace et iustitia vivant et cum sufficientia bonorum quae ad vitae corporalis conservationem et commoditatem spectant; et cum ea probitate morum quae ad hanc externam pacem et felicitatem reipublicae et convenientem humanae naturae conservationem necessaria est» (p. 152). 9   Suárez, De legibus, III, 11, n. 8 (pp. 153-154).

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ganismo politico, sicché diventava obbligatorio l’intervento dello Stato con leggi repressive10. Ma seguiamo ancora l’esposizione di Suárez sulla materia della legislazione. Con una critica esplicita a Machiavelli, il teologo affermava che le leggi civili dovessero avere un contenuto morale: come si potevano fare buoni cittadini se non si facevano buoni uomini11? Ebbene, in relazione ai fini della comunità la sfera di intervento era tracciata con margini piuttosto ampi, poiché lo Stato non doveva limitarsi a mantenere la giustizia12: le leggi dovevano promuovere altre virtù, come la fortezza e la temperanza. Per esempio, la fortezza era necessaria per la patria, la temperanza era necessaria contro le tentazioni dell’adulterio13. A questo punto l’impressione potrebbe essere opposta a quella precedentemente ventilata: sembrerebbe di scorgere i segni di uno Stato pervasivo che opera con le leggi per imporre comportamenti virtuosi. Ma sarebbe un’impressione esagerata. Secondo Suárez la legge civile doveva essere moderata e moralmente possibile per la maggior parte della comunità, sicché non doveva imporre tutte le virtù (ad esempio, la verginità)14. Così pure la legge civile non doveva punire tutti i vizi (ad es., la fornicazione semplice), se il comportamento non scandalizzava e non danneggiava la comunità15 o comunque se dal rigore del castigo nascesse il pericolo di mali maggiori: l’esercizio della tolleranza spettava alla prudenza del legislatore16. In definitiva il teologo prefigurava spazi piuttosto vasti per la legislazione civile e margini di intervento legati ai fini della comunità politica: mantenere la pace sociale e stabilire una morale civica17. 3a. Fu un modello di grande successo. Il discorso di Suárez si apriva alla modernità con la sottolineatura della valenza della legge come strumento generale del sovrano per intervenire efficacemente nell’ordinamento civile, ma complessivamente esso esprimeva il punto di vista ‘antico’.   Suárez, De legibus, III, 11, n. 10 (pp. 155-156).   Suárez, De legibus, III, 12, n. 7 (p. 171). 12   «Leges civiles non solum praecipiunt recta in materia iustititiae sed etiam in materia aliarum virtutum moralium, et similiter vetare possunt vitia contra omnes virtutes» (Suárez, De legibus, III, 12, n. 7 [p. 169]). In proposito cfr. P. Mesnard, Il pensiero politico rinascimentale (19512), trad. ital., I-II, Bari, Laterza, 1963-1964: II, p. 400 sgg. 13   Suárez, De legibus, III, 12, nn. 8-9 (pp. 172-173). 14   Suárez, De legibus, III, 12, nn. 11 e 16 (pp. 174 e 178). 15   Suárez, De legibus, III, 12, n. 12 (p. 174). 16   Suárez, De legibus, III, 12, n. 16 (p. 178). 17   Suárez, De legibus, III, 13, n. 3 (p. 187). 10 11

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Se è vero infatti che l’obiettivo della felicità non era considerato sovrannaturale, veniva data preminenza alla comunità sui singoli, poiché la società politica doveva essere fondata sui valori cristiani; e questo, mentre significava mantenimento di una organizzazione basata sulle diseguaglianze giuridiche e sul rispetto delle gerarchie, presupponeva che il raggiungimento della felicità richiedesse la convergenza tra religione e diritto. Esso poggiava su due pilastri, tra loro connessi: la religione come instrumentum regni e lo Stato come instrumentum religionis 18. Se ora andiamo nel Settecento e prendiamo in considerazione il discorso dei moderni, ci si prospettano diverse facce. In qualche modo ne è partecipe Gravina e con lui gli esponenti di una stagione di rinnovamento nell’ambito del diritto che, particolarmente vivace a Napoli ma con manifestazioni che tendono a diffondersi in tutte le regioni, si sforza di coniugare un nuovo interesse per la storia con l’esigenza di una guida per la prassi. La riscoperta della storia avveniva in funzione critica e conoscitiva ed era collegata a una tensione verso l’impegno civile, non più secondo orizzonti provinciali; era infatti anche riscoperta del classico, ricostruito nelle sue architetture essenziali, che nel campo del diritto proponevano i valori della libertà e delle istituzioni repubblicane. Lo studio dell’antica Roma consentiva ora di esaltare le virtù dell’uomo libero e responsabile, mostrando un lato della nobiltà fondato sul valore civico, ben diverso dalla nobiltà cetuale; consentiva altresì di apprezzare i valori legati alle autonomie e alla patria – Machiavelli veniva ora letto e citato direttamente –, anch’essi come espressioni di libertà. Di converso quello studio predisponeva alla critica degli istituti che si erano affermati nell’età del Dominato o nel periodo basso medievale, come il dispotismo nell’esercizio del potere o, in campo penale, il processo inquisitorio con i suoi tristi corollari: non era forse vero, come sin dal primo Settecento in Italia si cominciava a dire, che la Roma classica e persino quella della prima parte del Principato avevano dato vita ad un rapporto bilanciato tra i poteri, ben lontano dalla sperimentazione della massima princeps legibus solutus, giunta più tardi? E non più ci si appagava di trattare la tortura come un istituto di diritto vigente, che scontava una lunga continuità storica dalla compilazione giustinianea (D. 48.18: de quaestionibus) al processo inquisitorio romano-canonico, funzionale all’ordine giuridico che si andò stabilendo dal basso Medioevo: non era forse vero che i tormenti non erano applicabili ai cittadini romani liberi?

18   Ragguagli in I. Birocchi, La laicità in Italia: notazioni minime di uno storico, «Eadem utraque Europa», IV, 7 (2008), pp. 137-159.

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Domande che da Halle e Göttingen, da Leyden e Utrecht rimbalzavano in Italia, per essere però meditate e di nuovo rilanciate in Europa19. È chiaro comunque che la felicità non potesse concepirsi come opera della storia, bensì dell’immaginazione. Ce lo ricorda il filosofo dell’inquietudine – Pascal20 –, ma anche un giurista come Thomasius, che coniugava la felicità con il buon senso e la laicità, la storia con la fantasia 21. Il discorso nuovo derivava dalla congiunzione – che vedremo essere problematica e tutt’altro che lineare – tra due istanze: da un lato, la propensione a fare del proprium dell’individuo il fulcro dell’organizzazione sociale; dall’altro l’orientamento a utilizzare nell’ambito della politica e del diritto una rinnovata concezione di bene comune. Ciascuna di queste due istanze fu in concreto declinata molto liberamente, ma tutte le prese di posizione, comprese quelle più conservatrici – sul lusso, ad esempio – si muovevano su un orizzonte rinnovato: la soluzione giuridica presupponeva un discorso di tipo filosofico non più dato per scontato (perché espresso dalla religione), bensì costruito ed esposto. Ne derivava altresì la coscienza di una distinzione, che però era anche interrelazione, tra le sfere del diritto, dell’economia, della politica e della morale. Vediamo dunque come il riassetto del rapporto tra proprium dell’individuo e bene comune incidesse sul significato della felicità in seno al diritto22. 19   Si allude alla ripresa in Italia dei gusti storici eppure fortemente pratici dell’Usus modernus pandectarum, molto interessati al diritto pubblico e diffusi dal secondo Seicento in Germania e Paesi Bassi; in campo penale merita una menzione particolare l’opera di Anton Matthaeus II – un giurista tedesco che però insegnò a Utrecht – autore di un trattato umanistico sul diritto penale, che riscosse enorme fortuna non solo tra gli illuministi da Beccaria in poi, bensì anche dal primo Settecento e negli ambienti di quei pratici che si erano formati nello studio storico del diritto. È noto, d’altra parte, che le opere di Gravina e di Averani furono pubblicate per la prima volta in Germania e nei Paesi Bassi e che i principali testi di alcuni esponenti del neoumanesimo della generazione successiva (Rapolla, Di Gennaro) furono letti e recensiti – auspice Giannone – in quegli stessi Paesi. 20  F. De Luise-G. Farinetti, Storia della felicità. Gli antichi e i moderni, Torino, Einaudi, 2001, p. 202. 21   Basterebbe richiamarsi alle critiche da lui sollevate sullo studio del diritto e i programmi di riforma delle materie e dei contenuti dell’insegnamento che tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta furono alla base della innovativa fondazione dell’Università di Halle. In questa sede non occorre illustrare l’impianto pragmatico, ma provvisto di basi storiche e filosofiche, del giurista tedesco (una sintesi è in I. Birocchi, Alla ricerca dell’ordine. Fonti e cultura giuridica nell’età moderna, Torino, Giappichelli, 2002, pp. 221-232); per riallacciarsi al discorso sviluppato nel testo basti ricordare in particolare le sue riflessioni sulla formazione storica del processo inquisitorio e sulla tortura: entrambe punto di riferimento della scienza criminalistica per tutto il Settecento. 22  A. Trampus, Il diritto alla felicità. Storia di un’idea, Roma-Bari, Laterza, 2008, p. 160 sgg.

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Il proprium. A partire dalle sistemazioni tardo cinquecentesche – il riferimento obbligato è l’opera di Hugues Doneau (1527-1591), che ebbe utilizzazioni variegate da parte dei giusnaturalisti successivi, ma complessivamente con una curvatura individualistica – esso è il perno attorno a cui ruota l’ordinamento. L’esistenza del diritto, che è limite e regolazione della vita civile, si giustifica esattamente ed esclusivamente in funzione del proprium, inteso come tutto ciò che giuridicamente emana dal soggetto e costituisce un suo diritto: non solo la proprietà legata all’individuo, bensì anche i diritti di credito, nonché la libertà, l’onore e la dignità. Si trattava di presupposti che non entravano in gioco solo per rinnovare la visione del diritto privato: vi era sì un’attinenza immediata ai profili della circolazione dei beni attraverso la libertà contrattuale e testamentaria, ma la centralità del proprium influiva anche sulla trasposizione dell’impianto contrattualistico nell’ambito del diritto pubblico, con la correlativa interdipendenza di diritti e doveri tra sudditi e sovrani23. La nuova antropologia aveva riscontri più silenziosi, e non per questo meno significativi, in settori giuridici particolarmente debitori della perizia tecnica degli interpreti: si pensi alle Pratiche criminali, cioè alle opere dedicate alla procedura penale, nelle quali si manifestano importanti segni di uno spostamento a favore dei diritti della difesa: la ‘questione criminale’ che, come è noto, si afferma con forza nel corso del Settecento, in fondo implicava il superamento del principio per il quale l’ordine sociopolitico dovesse essere comunque tutelato con la repressione dei crimini (ne delicta remaneant impunita), per ricomprendere il correlativo principio derivante dalla nuova centralità dell’individuo, in funzione del quale l’ordinamento era predisposto (et innocens salvus fiat)24.   P. Verri, Meditazioni sulla felicità, in D.F. Vasco, Opere, a cura di S. Rota Ghibaudi, Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1966, pp. 91-92: «l’amore del piacere ha fatto uscire gli uomini dal primitivo stato d’indipendenza e gli ha radunati in società. Il patto sociale abolì il feroce muscolare dispotismo e, colla industriosa riunione di molte forze cospiranti, si venne a stabilire l’equilibrio fra gli uomini. Per far questo era indispensabile circonscrivere l’uso della naturale libertà d’ogni uomo con certe leggi fattizie, le quali sono uno sproprio di parte della libertà per sicurezza del resto. Il fine dunque del patto sociale è il ben essere di ciascuno che concorre a formare la società, il che si risolve nella felicità pubblica, ossia la maggiore felicità possibile divisa colla maggiore uguaglianza possibile». 24  Come rileva Martina Sammarco, in un lavoro di prossima pubblicazione su Tommaso Briganti. In nessuna delle Pratiche cui alludo – penso a quelle di Maradei, di Moro e, soprattutto, di Briganti (la più caratteristica dei nuovi indirizzi), tutte di estrazione napoletana – era posto l’obiettivo della felicità: ma basterebbe il loro richiamo a quell’autentico astro dell’illuminismo penale che fu il De criminibus di Anton Matthaeus, con l’esplicita esaltazione della libertà repubblicana e della responsabilità dell’individuo, per dar conto della torsione garantista di quelle Pratiche: da qui la compressione dell’arbitrio del giudice, la estensione 23

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Di più: nel proprium tendevano a essere comprese le passioni e gli interessi dell’individuo, ricondotti ad una presunta derivazione ‘naturale’: esattamente in quanto naturali, meritavano soddisfazione, anche se di segno egoistico e apparentemente in contrasto con la morale. Come è noto, sulla rilevanza delle passioni si discuteva, come pure sui limiti che legalmente dovevano essere imposti. Un giurista dalla forte impronta giansenista come Domat, ad esempio, proponeva una visione pessimistica in cui l’amor proprio era spiegato con la debolezza dell’uomo a seguito del peccato originale ed era incanalato entro un quadro conservatore della società gerarchica; e tuttavia anche la rigoristica visione del giurista amico di Pascal conteneva aperture significative allorché sottolineava la necessità di soddisfare, con gli strumenti del diritto, le propensioni naturali dell’uomo. Del resto, anche nelle costruzioni di impianto tomistico, come nel caso dello stesso Domat, la nuova rilevanza generalmente riconosciuta all’egoismo contribuiva a scardinare l’impianto statico proprio del modello antico: qualunque fosse l’ipotesi in merito alla uguaglianza o diseguaglianza naturale, emergeva una concezione mobile e orientata verso finalità individuali e secolari25. Non c’è dubbio che la felicità del singolo fu messa prepotentemente all’ordine del giorno; la sua ricerca diventava, per così dire, legittima. Ma poteva anche tradursi in principio dell’ordinamento e magari entrare nei programmi di governo? È vero che l’individuo tendeva a diventare un valore da tutelare in sé, ma il diritto è regola per i rapporti interpersonali, sicché la tutela potrebbe arrestarsi alla semplice protezione dell’analogo diritto a ricercare la felicità da parte di ciascun membro della comunità. Non solo: ma se la felicità consisteva nella soddisfazione delle passioni dell’uomo, essa era necessariamente un obiettivo instabile e mobile, non definibile precisamente o addirittura inafferrabile nei suoi contenuti. La celebre immagine di Hobbes, che evocava le passioni come competizione continua, corsa, era altamente simbolica26. Il dinamismo impresso nell’organizzazione sociale dal riconoscimento degli interessi egoistici come motore del sistema rischiava di non poter essere recepito dal diritto quale strumento razionale e perciò prevedibile di regolamentazione delle relazioni

del contraddittorio e del diritto di difesa, lo sfavore (o addirittura l’opposizione, nel caso del Briganti) nei confronti della tortura. 25   Sul contributo fondamentale di Hobbes a questa concezione mobile e interna all’uomo restano utili le pagine di C.B. Macpherson, Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese (1962), trad. it., Milano, Mondadori, 1982 , spec. p. 102 sgg. 26  De Luise-Farinetti, Storia della felicità, pp. 205-206 e 216.

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intersoggettive. Soccorreva però, a questo punto, l’altra istanza. Secondo le concezioni prevalenti, compito del diritto [rectius: della legge, per l’impatto immediatamente efficace che era ricollegato al provvedimento normativo espresso dall’autorità] diveniva quello di dare uno sbocco all’esigenza del soddisfacimento delle passioni con una disciplina che ammettesse l’egoismo di ciascuno contemperandone l’esercizio nell’interesse comune. Il nuovo significato di bene comune. Il disordine delle passioni era tale solo se si guardava ai motivi contingenti, e peraltro imperscrutabili, che singolarmente animavano l’agire umano; ma si asserì che gli egoismi potevano essere incanalati socialmente, ovvero controllati razionalmente, se fossero stati orientati verso un ancoraggio stabile e permanente, che costituisse una sorta di asse unitario attorno a cui in fin dei conti gli interessi si disponessero27. Questo elemento stabilizzante e unitario fu trovato nella proprietà28. La stessa immagine della rivalità continua che era generata dagli interessi e che, proiettata nei rapporti interstatuali, significava drammaticamente guerra29, tendeva nel Settecento a trapassare in una metafora più controllata e razionale, calcolata, quale era quella del gioco degli scacchi30. Di solito si sottolinea la trasformazione indotta sul piano economico dalla proprietà borghese, come elemento caratterizzante di un mercato di merci libere da condizionamenti. Ma ai fini che qui interessano importa rilevare l’aspetto giuridico, come forma di relazione astratta e cioè sottratta alla concretezza delle finalità contingenti che di volta in volta il suo titolare le assegnava. Sotto questo profilo la proprietà non significava semplicemente il libero godimento e l’assoluta disponibilità di un bene, bensì un punto di coagulo degli infiniti interessi individuali; era un bene in sé ed anzi il bene per eccellenza, proprio perché sub specie iuris era un’astrazione attribuibile a qualunque individuo e verso cui convergevano le aspirazioni di ciascun membro della società civile.

 A.O. Hirschman, Le passioni e gli interessi. Argomenti politici in favore del capitalismo prima del suo trionfo (1977), trad. it., Milano, Feltrinelli, 1979, spec. p. 19 sgg. 28  Uno spunto preciso che lega l’effetto dirompente della felicità all’elemento stabilizzante della proprietà è in De Luise-Farinetti, Storia della felicità, p. 201. 29  Ed era poi lo scenario esterno, dato dalla guerra dei Trent’anni, su cui si innestavano le riflessioni di Hobbes, peraltro ben collocate anche nelle vicende interne che passano come la prima rivoluzione inglese. 30  Nel Settecento in Europa la guerra appare ‘regolata’: uno strumento della politica, sotto la regia delle cancellerie. Ragionare, calcolare, combattere senza sfinire uomini e mezzi, trattare e negoziare (B. Colson, Les mutations conceptuelles de la guerre en Europe, du XVIIe siècle à nos jours, in La guerre et l’Europe, a cura di A.-M. Dillens, Bruxelles, Publications des Facultés Universitaires Saint-Louis, 2001, pp. 15-34: 19-21). 27

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Non c’è dubbio che, rispetto alle istanze di felicità – in sé caleidoscopiche, spesso radicali – la risposta fondata sul modello proprietario fosse molto riduttiva, oltre che scopertamente ideologica: cristallizzava quell’assetto che Rousseau lucidamente criticò nel Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini e tagliava fuori tutte le proposte di stampo utopico e comunitarie, spesso a loro volta attente a legare l’obiettivo della felicità a rinnovate forme economico-sociali di organizzazione. Un modello ideologico, borghese, e tuttavia moderno. Infatti, se esso accreditava la proprietà come espressione di un supposto ordine di natura, ne poggiava i fondamenti sul lavoro e le fatiche e ne riconduceva la tutela giuridica alla finalità della maggiore utilità che la forma di appropriazione privata prometteva: qui entrava in considerazione il soddisfacimento dei bisogni, addirittura calcolabili more geometrico. Al centro, insomma, veniva riconosciuto l’utile, individuale e anche sociale, che però si convertiva in ‘giusto’, e dunque in un bene da tutelare giuridicamente. Era inoltre un modello dotato di elasticità perché non si limitava a consolidare la posizione di chi fosse già proprietario, ma disegnava altresì un orizzonte capace di soddisfare le istanze di quanti, dotati di iniziativa, aspiravano a svolgere un ruolo attivo o a migliorare la propria condizione. L’obiettivo della felicità si tradusse, giuridicamente, nell’affermazione della proprietà, perno stabile che fu posto quale elemento ordinante e contemporaneamente cardine dell’ordinamento da riformare: il modello aspirava a contemperare dialetticamente il privato e il pubblico, la stabilità e la progettualità, l’utile e il giusto, i bisogni e le passioni, la libertà e le regole. A ben vedere il dibattito sulla felicità contribuì a rimettere pubblicamente il diritto nel posto che gli spettava tra le scienze sociali, non più nel luogo appartato della tecnica, della casistica e dei dogmi maneggiati dagli specialisti. La critica che in questo senso era stata sollevata con forza dal neoumanesimo ricevette nuovo slancio attraverso la penetrazione delle filosofie utilitaristiche. Per le problematiche giuridiche, soprattutto Helvétius riscosse successo e attrasse almeno per qualche aspetto anche coloro che non ne condividevano l’impianto radicale31: come è noto, fu subito letto e ispirò Beccaria e Pietro Verri, Dalmazzo Francesco Vasco e Genovesi. Così, dare ingresso alle passioni quale motore per il soddisfacimento dei bisogni, significava riconoscere l’egoismo e la facoltà di accumulare ricchezze e poneva il problema di

31   In generale L. Gianformaggio, Diritto e felicità. La teoria del diritto in Helvétius, Milano, Edizioni di Comunità, 1979.

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possibili limiti all’accumulazione32. Richiedeva inoltre di conoscere i bisogni, con un problema generalizzato di indagine, che pervase la politica. Era un problema tanto più spinoso in quanto entravano in considerazione bisogni che sempre meno avevano a che fare con la semplice spinta all’autoconservazione: in relazione alla felicità, anche il lusso era un bisogno. La ricerca dell’utile impose così l’affinamento dei metodi di studio, la specializzazione delle discipline e la nascita di nuove branche del sapere che ricevettero dignità di insegnamento autonomo. Inutile ricordare in questa sede le riforme dell’insegnamento universitario, soprattutto nel campo del diritto. Là dove, come nell’area tedesca, sin dalla prima metà del Seicento la materia pubblicistica aveva precocemente preso piede, si assiste allo sviluppo delle scienze camerali, considerate ordinate allo scopo (zweckmässig)33 e comprendenti l’economia, l’amministrazione e la finanza. Dal punto di vista del legislatore la domanda era: come intervenire in modo efficace, con la legge, per l’utilità comune? Più che come insegnamento, la scienza della legislazione si andò enucleando come contributo intellettuale, spesso criticamente proposto, in dialettica con l’esercizio del governo: ora consisteva in un insieme di principi e di consigli, come quelli espressi da Thomasius nelle Lectiones de prudentia legislatoria, pubblicate postume da un suo allievo nel 1740, o quelli enunciati da Montesquieu in certi passi de L’esprit des lois34; ora la scienza della legislazione si presentava nei termini di una proposta che scendeva nei contenuti, come nell’affresco complessivo costituito dalla medesima opera di Montesquieu o nel manifesto-testamento di Muratori o, più tardi, nel capolavoro di Filangieri. Un catalogo di queste opere sarebbe del resto impossibile, perché le commistioni che esse sottendevano produsse un numero infinito di titoli che dovrebbero esservi ascritti, tanto più che occorrerebbe considerare anche certi contributi apparentemente nascosti sulla funzione della legislazione e le sue modalità di espressione contenuti magari nei proemi delle compilazioni normative o dei trattati giuridici.

 Limiti sostenuti da Helvétius (cfr. Gianformaggio, Diritto e felicità, p. 105) e ripresi, con l’uso di una formula, da Genovesi (si rinvia a I. Birocchi, Uso y abuso de la cosa: el pensamiento de Genovesi (1713-1769) y de Lampredi (1731-1793) en el tema de la propiedad, in Entre hecho y derecho: tener, poseer, usar, en perspectiva histórica, a cura di E. Conte, M. Madero, Buenos Aires, Manantial, 2010, pp. 95-117: 99-101 e 113). 33   P. Schiera, Dall’arte di Governo alle Scienze dello Stato. Il cameralismo e l’assolutismo tedesco, Milano, Giuffrè, 1968, p. 334 e, più in generale, p. 331 sgg. 34   In particolare, Montesquieu, De l’esprit des loix, lib. XXIX, cap. XVI (nell’ediz. delle Oeuvres, Amsterdam et Leipsikc, 1765, III, pp. 281-287). 32

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Un’opera come Le droit des gens ou principes de la loi naturelle di Emer de Vattel (1758), che circolò ampiamente e fu citata al di là dei contenuti attinenti alla materia internazionalistica, comprendeva un capitolo dedicato al dovere del governante di procurare la felicità della nazione35. Soprattutto le linee essenziali del modello si colgono in quei Principes de la legislation universelle di Georg Ludwig Schmidt von Avenstein che, pubblicati anonimamente ad Amsterdam nel 1776, ebbero una immediata traduzione italiana (senese, alla macchia) e un successo clamoroso per la possibile utilizzazione nelle più diverse materie in cui l’opera spaziava36; ma l’impianto era ben coeso e si fondava appunto sulla tesi che la società civile fosse costituita per garantire la proprietà e che in essa ciascun soggetto cercasse la propria felicità37. Non è un caso che queste opere di scienza della legislazione abbandonassero la tradizionale espressione latina. 3b. Come detto, il modello si presentava molto elastico. Entro il paradigma precedentemente delineato la ricerca della felicità individuale si poté

35  E. De Vattel, Le droit des gens ou principes de la loi naturelle, lib. I, cap. XI (nell’ediz. Paris, 1856: I, pp. 133-147). Vi si legge: «Le bonheur est le centre où tendent tous les devoirs d’un homme et d’un peuple envers soi-même: c’est la grande fin de la loi naturelle. Le désir d’être heureux est le puissant ressort qui fait mouvoir les hommes; la félicité est le but où ils tendent tous, et elle doit être le grand objet de la volonté publique» (p. 134). Ha insistito sull’ispirazione eclettica della dottrina del giurista elvetico E. Jouannet, Emer de Vattel et l’émergence doctrinale du droit international classique, Paris, Pedone, 1998, pp. 33, 35 e passim. 36  L’importanza dell’opera, specialmente in rapporto a Filangieri, era stata segnalata in diverse occasioni da F. Venturi (basti citare la sua Nota introduttiva, ora in Illuministi italiani, II/2, Riformatori napoletani, Milano-Napoli, Ricciardi, 1997, p. 615) ed è stata confermata sia in relazione a lettori di eccezione come lo stesso Filangieri (Birocchi, Alla ricerca dell’ordine, pp. 523 e 535 e, sul rapporto con la dottrina filangieriana della bontà assoluta e relativa delle leggi, M. Ricciardi, The Absolute and the Relative Goodness of Laws, in P. Costa-C. De Pascale-M. Ricciardi, On Gaetano Filangieri’s The Science of Legislation, Edizioni della Laguna 2003-2004, «IRIS - European Journal of Philosophy and Public Debate», I, 1 April 2009, [http://ejour-fup.unifi.it/index.php/iris/article/viewFile/2867/2544], pp. 253-276: 273) e Cuoco (S. Nutini, Cuoco e Schmidt d’Avenstein, «Rassegna Storica del Risorgimento», LXXIV, 3 [1987], pp. 329-335), sia in relazione ad aree culturali particolari (ad esempio, la Sardegna: A. Mattone-P. Sanna, Settecento sardo e cultura europea. Lumi, società, istituzioni nella crisi dell’Antico Regime, Milano, FrancoAngeli, 2007, p. 222), sia in relazione a temi specifici (per la materia penale, a proposito di accusa e inquisizione, vd. E. Dezza, Accusa e inquisizione. Dal diritto comune ai codici moderni, Milano, Giuffrè, 1989, p. 154 sgg. Sull’opera vd. V. Becagli, Georg-Ludwig Schmidt d’Avenstein e i suoi Principes de la législation universelle: oltre la fisiocrazia?, «Studi settecenteschi», XXIV [2004], pp. 215-252). 37   G.L. Schmidt von Avenstein, Principj della legislazione universale, I-IV, Napoli, a spese dei fratelli Marotta, 1795, lib. II, cap. VII (I, pp. 194- 200) e passim.

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orientare secondo una visione del bene comune che di volta in volta assunse diverse colorazioni. Si può riconoscere una prima interpretazione (felicità repubblicana) per la quale il vivere civile doveva essere conforme ai principi etici: la felicità del singolo era pensata come una partecipazione virtuosa alla comunità. In tale visione non necessariamente si guardava all’etica cristiana e comunque si alludeva a un complesso di principi scelti in funzione della vita civile, distinti dalla religione e dunque laici. È il filone che innerva il costituzionalismo moderno che, come è stato recentemente dimostrato38, dalla metà del Settecento si sviluppa in Europa e negli Stati nordamericani. Un’altra interpretazione (felicità assolutistica) enfatizzò invece l’esigenza della coesione della società, facendo leva su una autorità che, fideisticamente assunta come mossa da principi razionali, imponesse forzosamente con la legge i valori contemperanti il benessere individuale e quello comune. Una parte notevole dei programmi dei governi cosiddetti illuminati vi si ispirò, sulla scorta anche delle ideologie tratte dalle opere giuridico-politiche che si sono prima menzionate; il codice prussiano del 1794, sbocco di un programma impostato e perseguito un cinquantennio prima da Federico II, ne è una manifestazione particolarmente rilevante. Una terza interpretazione (felicità liberale) preferì considerare il bene comune come la proiezione (se non come la somma) del bene dei singoli. Emergeva qui l’homo hoeconomicus, magari virtuoso, che però non era considerato solo attore nei processi produttivi. È vero che in questo indirizzo il discorso economico prevaleva e magari si specificava puntualmente rispetto a una situazione particolare: è il caso delle Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli di Giuseppe Palmieri. Ma anche nella interpretazione della felicità liberale, che in larga parte si manifesta nel pensiero fisiocratico, in generale il profilo dell’utilità non guardava solo all’economia bensì presupponeva la riorganizzazione del rapporto tra individuo e Stato e si faceva ordine politico39.

 A. Trampus, Storia del costituzionalismo italiano nell’età dei Lumi, Roma-Bari, Laterza, 2009. 39  All’interno di questa interpretazione si può probabilmente annoverare la posizione di Blackstone, per il quale la felicità è insita nell’ordine naturale, sicché rientrerebbe nella volontà divina che ognuno sia chiamato a perseguire la propria felicità (W. Blackstone, Commentaries on the Laws of England, I, Philadelphia, J.B. Lippincott Company, 1900, pp. 30-31 [= p. 41 ed. 1765]; cfr. P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, I. Dalla civiltà comunale al Settecento, Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 425 con la relativa nota, p. 654). 38

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Le ricette erano concretamente diverse. Complessivamente, tuttavia, esprimevano lo sforzo verso la costruzione di una nuova forma di cittadinanza: non si potrebbe afferrare il discorso sulla felicità di Genovesi o di Filangieri disgiungendo le Lezioni sul commercio dalla Diceosina o, rispettivamente, separando la prospettazione economica dal quadro politico-normativo. Tutte poi condividevano una fiducia assoluta nella legge, come strumento principale d’intervento per realizzare l’obiettivo della felicità: tanto erano diversificati gli atteggiamenti verso l’interpretazione della norma (tra i Verri e Beccaria, da un lato, e Genovesi, dall’altro, ad esempio), quanto convergenti quelli verso la funzione benefica della legge. Un mito, certamente, e tuttavia storicamente comprensibile. Si trattava di incidere sul tessuto sociale sulla base di conoscenze, programmi, obiettivi: impossibile affidarsi ai tempi lunghi della consuetudine. I modelli ci appaiono commisti e magari confusi. Siamo noi che li abbiamo costruiti con linee nettamente separate per i nostri scopi ermeneutici; come è ovvio, nel confronto con la pratica essi si dimostrano schemi di riferimento utili, al più, per un primo accostamento. Se si considerassero rigidamente i paradigmi prima delineati, del modello ‘antico’ si sentirebbe il retrogusto nel manifesto sulla pubblica felicità di Muratori e nella Diceosina di Genovesi e persino nella riforma penale predicata da Beccaria40. Ma il mestiere dello storico è diverso da quello del chimico e, se si vogliono ancora usare i paradigmi, nessun dubbio può sorgere sull’ascrizione di queste opere al discorso dei moderni. Per tutti, basti pensare al punto su cui si impernia la proposta di Beccaria, il principio di presunzione di innocenza, attraverso il quale, in un settore così sensibile come quello penale, la torsione individualistica del bene comune, la legalizzazione della ricerca della felicità, è evidentemente netta. 4. Per concludere vorrei accennare ad un problema, che è affrontato anche nel recente libro di Trampus41: le torsioni individualistiche di ‘felicità’ e di bene comune presupponevano una sorta di diritto alla felicità, oppure il riconoscimento di un diritto a ricercare la felicità? Probabilmente né l’una né l’altra ipotesi è valida, a meno di non trasportare indietro concettualizzazioni di tempi successivi, come quella che distingueva tra norma precettiva e programmatica.

40   Basti richiamarsi rispettivamente al ruolo della religione, alla famiglia come nucleo minimo costitutivo della società e ai risvolti in tema di pena. 41   Trampus, Il diritto alla felicità, passim.

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Da un lato non sembra che possa concepirsi una violazione del diritto alla felicità, né da parte dello Stato, né da parte dei singoli individui. La felicità era una direttrice e un punto di convergenza, si collocava entro un processo e non era perciò un dato giuridico rivendicabile: catalizzava i programmi anche senza che ci fosse una costituzione scritta e, anche quando recepita in una carta solenne, questa era comunque un testo che oggi chiameremmo ‘flessibile’. Dall’altro, a prendere sul serio la seconda prospettiva (diritto alla ricerca della felicità), si sfocerebbe in un’affermazione di scarsa o nessuna consistenza: riconoscere il diritto a ricercare la felicità è pressoché pleonastico, dal momento che è impossibile ipotizzare il divieto per la situazione opposta. E allora, poiché non è possibile vietare la ricerca individuale della felicità, è ovvio che rientra nella potestà di ciascuno ricercare la propria felicità, salvo che si tratta di un profilo irrilevante per il diritto. Ma il richiamo alla felicità ha un significato storico importante anche per la storia del diritto e non è affatto un concetto ornamentale o sfuggente, a prescindere dalla circostanza che si ritrovi in testi costituzionali notissimi. La sua indeterminatezza era pure la sua forza perché imponeva una interpretazione espansiva e coerente in tutti i settori: il principio di presunzione di innocenza si coniugava con la libertà di contrattare, la proprietà ‘libera’ implicava lo scioglimento di appartenenze corporative, il commercio si configurava come un’espressione dell’individuo libero, al pari delle sue opinioni. L’obiettivo di ‘felicitare’ la nazione – ovvero l’individuo pensato entro la comunità politica – coinvolgeva intimamente la legislazione e l’amministrazione, il diritto publico e quello privato, l’ordinamento interno e le relazioni interstatuali. ‘Felicità’ era parola atecnica, che però stava ben addentro al discorso giuridico, tutt’altro che catturato dalle nebbie della politica, secondo la miope interpretazione positivistica. Al contrario. Si pensi al problema della guerra, esorcizzato dal principio dell’equilibrio tra le potenze europee, che dominò dalla seconda metà del Seicento nella diplomazia e nella pratica internazionale: esso sì, un principio che atteneva alla politica e riguardante del resto una regione assai ristretta del globo quale l’Europa. In contrapposto, ecco però prospettarsi, dall’abbé de Saint-Pierre a Rousseau, a Kant, una riflessione progettuale che spostava il problema sul piano del diritto: la pace come obiettivo da istituire42, espressione di una felicità che riguardava 42  L’espressione è di Kant, come pure la sottolineatura, ed indica la coscienza del rivolgimento rispetto alle impostazioni sulla pace (e guerra) giusta (I. Kant, Per la pace perpetua, Milano, Feltrinelli, 1999, p. 53).

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i soggetti internazionali e che, nel diritto cosmopolitico di Kant, si apriva a quella di tutti i singoli uomini in questa terra. Nell’ambito del diritto, ‘felicità’ richiedeva una particolare consapevolezza e senso della costruzione. Quell’ordine che predicava la fisiocrazia sotto le finte bandiere della natura era in realtà una rete di valori tanto sentiti quanto artificiali e secolarizzati, come la metafora del contratto sociale chiaramente indicava. Con tutte le mediazioni della storia, il paradigma moderno della ricerca della felicità segnò l’avvento di un diritto laico43. Ogni lato della vita di relazione ne venne investito. Se siamo abituati ad associare il rovesciamento di prospettiva che avvenne nel mondo del diritto all’ambito penale – si parla correntemente di ‘problema criminale’ –, ciò si deve al fatto che in quel settore il rivolgimento fu particolarmente visibile per la presa immediata presso l’opinione pubblica. Ma lo stesso potrebbe dirsi per il commercio, e il rinnovato dibattito sulle usure che si agita in coincidenza con le discussioni sui temi criminalisti ne è una spia, sicché si può parlare anche di una questione commerciale, e così via44. Questioni iscritte nel mondo reale che passavano per letture molteplici, si nutrivano di storia, si immergevano nella prassi (criticata, ma acquisita), per giungere alle variegate proposte. Con diverse accentuazioni, vi rientra l’itinerario di Giannone, di Briganti e di Genovesi a Napoli e di Pompeo Neri e di Lampredi in Toscana. Il discorso della felicità può ben rappresentare una chiave interpretativa di questo lavorio anche nel campo del diritto. Esso esprimeva la tensione tra il singolo e l’ordinamento. Da un lato si raffigurava l’ordinamento come una tela di regole e istituzioni atta a garantire i diritti e a creare le condizioni del loro sviluppo45; era una funzione che poteva essere sancita con un patto costituzionale solenne, mentre era fondamentale lo strumento della legge, dotata di compiti educativi oltre che di forza precettiva46. Dall’altro il soggetto era visto nella sua individualità attiva, come partecipe della comunità, 43   Ha colto benissimo questo legame A. Vallone, Introduzione, in T. e F. briganti e altri minori, a cura di A. Vallone, Lecce, Milella, 1983, p. 28 sgg. 44   Ho provato ad argomentare questa tesi in I. Birocchi, La questione commerciale, in G. De Giudici, Interessi e usure. Tra dirigismo ed equità nella Sardegna di Carlo Emanuele III, Pisa, ETS, 2010, pp. 1-9. 45  Una chiara coscienza del delicato equilibrio è in Adam Smith, che distingueva tra funzioni rivolte all’attuazione della ‘giustizia’ (incentrate sul mantenimento dei diritti del cittadino) e funzioni di ‘polizia’ (tese a incrementare la prosperità): cfr. Costa, Civitas, I, pp. 420-422. 46  Come si mostra, ad esempio, nella Leopoldina, ovvero nella legislazione penale di Pietro Leopoldo, pensata quale articolazione, in un campo particolare, del patto fondamen-

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membro della patria, provvisto di senso civico. In sostanza si delineava un quadro in cui la felicità era il risultato di una combinazione ottimistica tra l’individuo, dotato di iniziativa e di passioni e animato dalla virtù repubblicana, e l’ordinamento. Il pensiero va a quegli affreschi che, dal primo Settecento, avevano ripreso insegnamenti classici e umanistici in una nuova riflessione filosofico-morale sulla funzione delle virtù e dei meriti e che, come nell’opera del giovane Dragonetti, avevano svolto il tema come proposta di una legislazione premiale atta a favorire lo sviluppo della società in chiave individualistica47. Se restiamo all’Italia di quegli anni la stessa raffigurazione ottimistica ed equilibrata (ma anche tormentata) si riscontra in opere tra loro diverse come la Diceosina e il De jure et officiis di Genovesi e La scienza della legislazione di Filangieri. Sul piano normativo, il progetto di costituzione per la Toscana di Pietro Leopoldo ne è forse il suggello. Solo un progetto, pure tormentato e sfortunato, si dirà. Ma anche i progetti fanno parte della realtà culturale; e le opere precedentemente indicate di Genovesi e di Filangieri rivelano a loro volta incompletezza e furono in parte pubblicate postume: come proposte di un itinerario mobile, che si arricchiva continuamente di riflessioni, aggiunte e note critiche su opere altrui, recensioni. Da questo punto di vista si possono accostare a quegli interventi sulla pubblica felicità che nel mezzo degli anni Sessanta videro protagonisti Pietro Verri e Dalmazzo Francesco Vasco, con l’intermediazione del contraddittore Fachinei: un insieme di prospettazioni, niente affatto frammentarie anche se programmaticamente parziali, nelle quali sarebbe agevole rinvenire le linee del paradigma moderno di felicità in senso giuridico48.

tale teso alla felicità: in molti articoli l’insistenza sulla funzione educatrice e civilizzatrice della legge è tanto ingenua quanto commovente. 47   G. Dragonetti, Delle virtù e de’ premi, Napoli, a spese di G.G., 1766 e vd. A.M. Rao, “Delle virtù e de’ premi”: la fortuna di Beccaria nel Regno di Napoli, in Cesare Beccaria tra Milano e l’Europa, Milano/Roma-Bari, Cariplo-Laterza, 1990, pp. 534-586. 48  Emblematica la lettura in parallelo delle Meditazioni sulla felicità (di Pietro Verri), Con note critiche (di Ferdinando Facchinei) e Risposta alle medesime d’un amico piemontese (di Dalmazzo Francesco Vasco) (1766), da un lato, e del Delle leggi civili reali (1766), dello stesso Vasco, dall’altro, dedicato alla critica ai principali istituti vigenti del diritto privato e alle riforme necessarie, in uno spirito che doveva governare l’intero ordinamento (e qui l’illuminista piemontese rinviava alla proposta di Beccaria in materia penale): «Due sono i principali fini delle leggi civili, fondati entrambi sovra quell’istesso principio: uno riguarda le leggi penali, e di questo altri prima di me ne ha sì saggiamente scritto ch’io non m’arrischio ad aggiungere cosa alcuna, né credo che qualora mi vi accingessi fossi per dire cose o non dette,

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La felicità era appunto un discorso che interessava de iure condendo: postulava la ‘soda’ conoscenza del mondo reale, si nutriva di fantasia e guardava al futuro.

o più utili di quelle che furon dette; l’altro, che riguarda le leggi che si chiamano in un senso più ristretto civili, e che io chiamerò reali, è di determinare la proprietà delle cose in modo che ciascheduno possa sapere ciò che gli appartiene ed assicurarne insieme al proprietario la tranquilla possessione» (le opere indicate si leggono in Vasco, Opere, rispett. pp. 51-105 e 107-148; citaz. a p. 110). Inutile sottolineare che sia in campo civile, sia in campo penale l’articolazione del modello si diversificava tra i molti autori che presero parte al dibattito.

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Il titolo del mio contributo suona, volutamente, un po’ ottocentesco: si pensa subito alla morale domestica, al romanzo borghese, all’aspirazione ad una realizzazione erotico-sentimentale e al suo frequente fallimento, con il corollario dell’adulterio, che è un tema drammaticamente centrale nella società e nella civiltà letteraria del secolo XIX. Ma la felicità coniugale è un progetto che prende corpo e si precisa nel quadro della cultura settecentesca, che poi lo trasmette come impegnativa eredità alla vita privata dell’età romantica. Parlo, s’intende, della ‘felicità’ in senso emotivo e individualizzato. In senso più generico il termine infatti si trova (con vari termini e concetti affini) ben prima del Settecento, nella lunga tradizione culturale della ‘economica’ biblico-senofontea-aristotelica: in una casa ben governata esiste un matrimonio ‘felice’, cioè la convivenza di una coppia feconda di figli e sostenuta da una sicura condizione patrimoniale; una coppia nella quale la moglie ubbidisce senza discussioni al marito, e fra i due esiste una netta distinzione di ruoli fra la sfera maschile dei rapporti con l’esterno e la sfera femminile della gestione domestica1. È importante ricordare che nella formazione di questa coppia nessuno si è sognato di tenere in conto le inclinazioni e i desideri dei protagonisti: un matrimonio ben assortito, e dunque felice, si deve fondare su interessi più seri e duraturi che non la passione amorosa, quali l’alleanza politica, la solidità finanziaria, e la compatibilità sociale delle famiglie coinvolte. È appunto nel Settecento, anzi proprio nel quadro della cultura (almeno in senso lato) illuministica che fa la sua comparsa sulla

 Una ricostruzione classica nel saggio di O. Brunner, La “casa come complesso” e l’antica “economica” europea (1958), in Id., Per una nuova storia costituzionale e sociale, a cura di P. Schiera, Milano, Vita e Pensiero, 1970, pp. 33-61. Per il caso italiano vd. D. Frigo, Il padre di famiglia. Governo della casa e governo civile nella tradizione della “economica” tra Cinque e Seicento, Roma, Bulzoni, 1985. 1

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scena coniugale una nuova idea di felicità, che comprende la soddisfazione degli impulsi d’amore. Nel mondo delle lettere, il principale responsabile di questo cambiamento è Rousseau. Non è stato l’unico e neppure il primo: già negli anni quaranta del secolo, infatti, due romanzi inglesi hanno proposto con efficacia il tema del matrimonio per amore. Nella Pamela di Samuel Richardson è addirittura una cameriera a riuscire nella conquista del cuore di un lord. Nel Tom Jones di Henry Fielding l’eroe figura per tutto il libro come un figlio illegittimo, e dunque anche lui socialmente un subordinato. In modo più ambiguo in Richardson, più francamente baldanzoso in Fielding, i due romanzi svolgono una parte importante del processo di affermazione dell’ideologia della felicità coniugale; e il loro successo presso il pubblico inglese del tempo mostra il grado di maturazione del problema al di là dell’ambito letterario2. Tuttavia l’impatto di Rousseau con la Nuova Eloisa (1761) è stato incomparabilmente superiore (tanto più se lo si consideri in rapporto con la prima parte delle Confessioni, nota grazie a letture pubbliche con una dozzina d’anni d’anticipo sulla stampa del 1782). Voglio dire che la tematizzazione della felicità sentimentale (dunque anche nel matrimonio) in senso moderno è inseparabile da quella dell’individuo come portatore di uno specifico profilo psicologico. È questo che rende Rousseau molto più periodizzante dei romanzieri inglesi. La Nuova Eloisa interpretò perfettamente un fermento diffuso, lo potenziò genialmente, e innescò coi suoi numerosissimi ed entusiasti lettori un dialogo destinato a far trionfare irreversibilmente al centro della sensibilità europea la preoccupazione per la felicità della vita erotica di coppia3. Non si trattava, naturalmente, di un’operazione tanto prudente; e di fatto la gente saggia che durante il Settecento, prima e dopo Rousseau, ebbe occasione di intervenire in materia continuò a sostenere le buone ragioni di un modello matrimoniale ben protetto dalle volubili istanze dei capricci amorosi. Come esemplificazione di simili interventi, che si contano a migliaia, propongo tre pareri rappresentativi di tipologie fra loro ben diverse di saggezza antisentimentale. Il primo si deve a un medico massone, Antonio Cocchi, attivo a Firenze. Il brano è tratto dal primo capitolo, intitolato Del diletto venereo e dell’amore, del suo trattato Del matrimonio, scritto nel 1733 e pubblicato postumo nel 1762:   Resta molto utile in proposito il libro di I. Watt, Le origini del romanzo borghese. Studi su Defoe, Richardson, Fielding (1957), Milano, Bompiani, 1997. 3   Il tema è al centro del saggio di R. Darnton, I lettori rispondono a Rousseau: la costruzione della sensibilità romantica (1984), in Id., Il grande massacro dei gatti e altri episodi della storia culturale francese, a cura di R. Pasta, Milano, Adelphi, 1988, pp. 267-319. 2

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Or veggiamo noi per la quotidiana osservazione questo amore tosto estinguersi ne’ mariti; e non è possibile, ch’eglino si mantengano lungamente nell’opinione, che la società connubiale esser possa loro fonte perenne di piacere, mentre l’esperienza fa lor conoscere il contrario, sì per le ragioni dette di sopra [abitudine], e sì ancora per la natural decadenza, e per lo peggioramento materiale del corpo femminile dopo i pochi anni della florida adolescenza4.

Il secondo è invece parte dei suggerimenti per la futura vita matrimoniale rivolti nel 1769 dall’imperatrice Maria Teresa d’Austria alla figlia Maria Amalia sistemata alla corte di Parma: La felicità del matrimonio consiste nella fiducia e nella compiacenza reciproca: la passione folle si disperde ben presto, ma occorre stimarsi ed essere amici l’uno dell’altro per essere felici nello stato matrimoniale, per poter sopportare le difficoltà improvvise di questa vita, e per la salute dell’anima, punto essenzialissimo ed unico in qualsiasi stato5.

Il terzo è scelto apposta per mostrare la vasta portata e la duratura presenza di questo modo di ragionare. Si trova infatti in una lettera fittizia, la n° 104 delle Relazioni pericolose di Pierre de Laclos: nel 1782 ha un senso ben evidente al pubblico attribuire alla libertina marchesa di Merteuil una strumentale raccomandazione antierotica destinata alla madre di una ragazza da marito: Non so, mia cara amica, se sono troppo prevenuta contro la passione, ma io la ritengo pericolosa anche nel matrimonio. Non disapprovo che un sentimento onesto e dolce venga ad abbellire il legame coniugale e ad addolcire in qualche modo i doveri che impone; ma non spetta a questo sentimento di formarlo, non deve, l’illusione di un attimo, determinare la scelta della nostra vita. Difatti per scegliere bisogna far dei confronti; e come è possibile quando un solo oggetto ci occupa interamente? Quando non possiamo conoscere nemmeno quello, travolti come siamo dall’ebbrezza e dall’accecamento?6.

La resistenza all’unione fra matrimonio e amore non si esercitava solo nell’ambito dei ceti sociali più alti. Al contrario: chi aveva poco, pochissimo o quasi nulla, doveva tenere anche in maggior conto l’aspetto materiale di una convivenza coniugale e della gestione di una famiglia. Un interessante studio della mentalità contadina a questo proposito, svolto sulla base dei

 A. Cocchi, Del matrimonio, a cura di M. Catucci, Pisa, ETS, 1991, p. 41.  Maria Teresa d’Austria, Consigli matrimoniali alle figlie sovrane, a cura di Arsenio Frugoni, Firenze, Passigli, 1989, p. 91. 6   P.-A.-F. Choderlos de Laclos, Le relazioni pericolose, a cura di M. Cucchi, Milano, Garzanti, 1998, p. 234. 4 5

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proverbi popolari, soprattutto in Francia, ha documentato la forza degli argomenti dell’opportunità e dell’interesse contro quelli dell’infatuazione amorosa. «La beauté, on n’en mange ni on n’en boit»; «La jolie femme ne te rendra jamais riche»; e così via7. Un bel romanzo pubblicato nel 1779 da Restif de la Bretonne, La vie de mon père, offre una testimonianza più elaborata del tema: anche un capofamiglia contadino impone al figlio un’alleanza matrimoniale diversa da quella cui propenderebbe il giovane innamorato. La diffusione, fra le popolazioni rurali europee, di varie forme di ammissione regolamentata di rapporti alla luce del sole fra una donna sposata e uomini diversi dal marito è una spia del bisogno di incanalare grazie a una valvola di sfogo controllata gli impulsi che si sapevano per definizione insoddisfatti dall’accoppiamento coniugale. La forma più coerente al progetto è la pratica del comparatico, specie nella versione, ben nota alla letteratura etnografica, del costume del comparatico di San Giovanni, che permetteva l’esistenza ufficiale di un amico d’elezione della donna maritata. Questi aveva il diritto di frequentarla con una certa dimestichezza, poteva ‘conversare’ con lei, la invitava al primo ballo nelle feste paesane, senza che tutto ciò turbasse, almeno in linea di principio, l’equilibrio della vita matrimoniale della donna, o di entrambi se anche il compare era a sua volta sposato8. Credo che a questo costume si debba accostare, nonostante la differenza degli ambiti sociali, quello nobiliare che ha preso il nome di cicisbeismo, dalla parola con cui verso la fine del Seicento si cominciò a chiamare in Italia la figura, che appunto allora si andava affermando, del cavalier servente della moglie di un altro. Non occorre insistere sull’importanza del cicisbeo nella civiltà letteraria del nostro Illuminismo: Goldoni, Parini, Alfieri sono solo i più illustri di una schiera di commentatori del costume. Del resto, con buona pace di una tradizione tuttora ben viva che attribuisce l’uso alla sola nobiltà italiana, sussiste un’evidenza schiacciante del fatto che cicisbei si trovavano, magari sotto altri nomi, anche in altri paesi d’Europa, per lo meno in quelli cattolici. Comunque sia, va subito messo in chiaro che il fenomeno era abbastanza complesso da non potersi ridurre alla sola dimensione erotica. La prima causa della proliferazione dei cavalier serventi stava di certo nell’impennata della sociabilità femminile tipica della vita mondana settecentesca, e più propriamente illuministica. Tutta la grancassa delle declamazioni – con  J.-L. Flandrin, Les amours paysannes (XVIe-XIXe siècle), Paris, Gallimard, 1993 (prima ed. 1975), p. 167. 8   Si può partire dal libro di A. Fine, Parrains, marraines. La parenté spiritelle en Europe, Paris, Fayard, 1994. 7

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temporanee e successive, italiane e straniere, sensate o deliranti – contro questo costume non deve far perdere di vista il dato fondamentale che esso era un modo di far partecipare le donne a una vita sociale extraparentale, fornendole di un accompagnatore fisso e impegnato nel suo compito e ruolo. Un’altra componente essenziale era quella demografico-patrimoniale: i nobili praticavano largamente il celibato per non frazionare le loro proprietà; sicché circolavano nel bel mondo molti maschi liberi, le cui sorelle stavano invece in monastero. Ciò detto, si può comunque senz’altro affermare che nel clima ideologico dell’Illuminismo il cicisbeismo fu adottato talvolta anche come un’occasione di soddisfazione di inclinazioni individuali escluse dalle ragioni che determinavano le trattative matrimoniali fra le famiglie. Non è davvero possibile azzardare delle valutazioni statistiche; certo è però che ci sono alcuni casi molto ben documentati di rapporti fra dama e cicisbeo, che paiono aver funzionato, più o meno positivamente per tutti, come contributo a un’esplicazione ben temperata del potenziale erotico (che non significa sempre e necessariamente attività sessuale) di uomini e soprattutto donne sottoposte a regole sociali ancora assai rigide9. In effetti, per tornare a Rousseau, la grande offensiva della seconda metà del Settecento per un matrimonio ‘felice’ fu, prevedibilmente, anche un’offensiva contro il matrimonio triangolare. La voce più famosa e illustre a questo proposito è quella dell’ex cicisbeo Pietro Verri alla vigilia del suo matrimonio con Maria Castiglioni. Ecco, per esempio, cosa scriveva a suo fratello Alessandro il 6 dicembre 1775: Io sono attualmente deciso con questi princìpi; ti dirò poi che sebbene io non abbia una passione per la nipote, però ho dell’amicizia per lei, e mi sento capace di occuparmi della sua felicità: la sua modestia, la nobiltà delle sue maniere e de’ suoi sentimenti, la virtuosa timidità sua, la facilità di arrossire, il suo buon senso, tutto mi promette una dolce compagna. La mia decisa intenzione è di essere l’amico e l’amante della moglie. Non mi piace una dissipazione, ma anzi una vita di famiglia. Dopo pranzo insieme al passeggio, la sera insieme al teatro nel nostro palco fisso; io non voglio più avere galanterie: a Londra sono felici i matrimoni perché vivono così, io non avrò rossore di amare la moglie e di occuparmi di lei.

Alla fidanzata si rivolgeva intanto negli stessi termini: «Vorrei insomma poter meritare da voi d’essere risguardato come il vostro amante e il vostro miglior amico, come io sarò unicamente occupato di voi e vi farò tutto il bene che sarà in mio potere». La realizzazione di questo progetto di felicità

9   In generale mi permetto di rimandare al mio libro Cicisbei. Morale privata e identità nazionale in Italia, Roma-Bari, Laterza, 2008.

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coniugale venne poi rievocata da Verri nello scrivere nel 1781 per la figlia Teresa, amatissima e allevata secondo i dettami della pedagogia russoviana, un toccante ricordo della madre, prematuramente morta in quell’anno: Più vivevamo insieme e più ci affezionavamo l’uno all’altro[a], e più ci studiavamo di renderci reciprocamente amabili colla compiacenza, co’ servigi, e colla più delicata amicizia (…) La sera eravamo al teatro, il dopo pranzo al passeggio, sempre uniti e sempre contenti della nostra unione. Io più e più volte diceva[o] a Maria che il momento in cui l’aveva[o] amata meno era quello dello sposalizio e che ora l’amava[o] più dell’anno scorso, e l’anno scorso più del precedente.

Il quadro è completato dai gusti letterari della giovane donna, che aveva prediletto i romanzi, ma non quelli ispirati al cinismo erotico, quale poteva essere il Candido di Voltaire, bensì, oltre all’immancabile Nuova Eloisa, quelli sentimentali inglesi come la Clarissa di Richardson: Sul proposito della lettura, ella gustò moltissimo la Nouvelle Heloyse di Rousseau e la Miss Clarice, e la lunghezza di quelle leggende non le dispiaceva. Pare ch’ella amasse la lettura di libri che avessero sentimenti e bontà, ella amava gli scritti di Rousseau, ed era prevenuta contro quei di Voltaire, parendole che quell’autore si prendesse giuoco di tutto e non scrivesse che per deridere; carattere che a lei, vera, sincera, sensibile, e senza ostentazione, non piaceva punto10.

Questi testi di Verri sono di estremo interesse, e forse anche più complessi di quanto non appaiano a prima vista. Merita una particolare attenzione il rapporto non scontato fra la sensiblerie russoviana e il cenno, rapido ma chiaro nella lettera al fratello, sull’assenza di passione per Maria. In Rousseau ci sono molte cose, fra cui ovviamente l’alta temperatura passionale su cui ha insistito Robert Darnton dando la parola ai ferventi ammiratori della Nuova Eloisa. Si ha comunque l’impressione che la versione italiana della felicità coniugale stemperasse però l’elemento amore/passione secondo una tradizione razionalistica che nella nostra cultura letteraria e non letteraria restava forte anche attraverso la fase più impetuosa dell’affermazione del Romanticismo. Certo non si può assumere il solo Verri a rappresentante di un’epoca, tanto più che nel 1781 egli aveva ormai 53 anni. Un esempio tratto dallo

10  Cito da P. e A. Verri, Carteggio dal 1766 al 1797, a cura di E. Greppi, F. Novati, A. Giulini, G. Seregni, 12 voll., Milano, Cogliati poi Milesi poi Giuffrè, 1911-1943, vol. VII, pp. 288-289; P. Verri, Scritti di argomento familiare e autobiografico, a cura di G. Barbarisi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003, pp. 293, 299, 303, 437. Per un approfondimento è fondamentale la biografia di C. Capra, I progressi della ragione. Vita di Pietro Verri, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 400-422.

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stesso contesto, la nobiltà milanese, ma due generazioni più tardi, tradisce in effetti un riscaldamento erotico assai maggiore. Mi riferisco alle lettere che Teresa Casati Confalonieri, nata nel 1787, scriveva a suo marito in viaggio per l’Europa; come questa del 14 luglio 1814, successiva alla morte del loro unico bambino: Quando eri a Vienna, avevo pure il mio Cecchino, il mio cuore si sfogava pure con quella povera creaturina, che divideva i miei affetti, ed il ravvisare in lui l’immagine del padre, mi dava pure una sorta di consolazione, nella tua assenza; ma ora mi ritrovo sola sola coi miei pensieri, i quali ti assicuro sono d’un genere ben triste, e mi trovo felice quando posso diminuire l’oppressione del mio cuore colle lagrime: ti assicuro che ne verso molte, e questa lettera ne è inaffiata. Non credermi, mio caro, indiscreta; sì, godo che ti diverti, non voglio esserti troppo a carico, ma oh Dio io non posso vivere separata da chi amo con vero trasporto, ho un vero bisogno d’amare e di poterlo dire a chi è l’oggetto del mio amore, e di sentirmi pure ripetere d’essere riamata; dimmi che m’ami davvero e che sei veramente mio, e porterai così un alleviamento alle mie pene11.

Va detto per altro che la stessa Teresa Casati, anche a parte il sicuro impatto emotivo della tragica perdita subita, era presumibilmente poco corrispondente a un modello di media temperie sentimentale dell’epoca, come sarebbe poi stata costretta a dimostrare nel resto della sua travagliata e breve esistenza. Il più famoso e più importante fra i suoi concittadini e (quasi) coetanei, Alessandro Manzoni, ha proposto un programma di felicità coniugale dove buon senso, ragionevolezza e autocontrollo prevalgono di gran lunga sull’abbandono al sentimento; e dove il rifiuto del libertinaggio galante non approda affatto alla legittimazione dell’amour/passion nell’ottica del Romanticismo europeo. Questo vale sia per la sua vita privata, caratterizzata da un matrimonio giovanile di esemplare regolatezza, sia soprattutto per il modello che ha potentemente propagandato presso i giovani promessi sposi del popolo italiano, invitandoli alla castità, alla compostezza e all’autodisciplina. L’illustrazione più chiara di come il distacco dalle pratiche matrimoniali d’Antico Regime in favore di un serio progetto di felicità coniugale non implicasse di per sé un’attitudine romantica è fornita dall’esperienza di un nobile pisano vissuto fra Sette e Ottocento, Lussorio Bracci Cambini, il quale nel 1789, resistendo alle pressioni familiari, rinunciò a un pingue appannaggio pur di poter sposare la ragazza su cui aveva messo gli occhi.

11   Carteggio del Conte Federico Confalonieri, a cura di G. Gallavresi, Milano, Ripalta, 1910-1913, vol. I, p. 219.

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Egli ha poi lasciato alcune testimonianze molto eloquenti sulla sua vita con la moglie, sull’impegno del loro rapporto e sulla riuscita della loro reciproca compagnia. Tali testimonianze rimandano ai canoni più tipici del decoro borghese e della domesticità familiare ottocentesca; ma non soddisfano affatto le attese che in materia di accensione sentimentale si potrebbero nutrire verso chi per ‘amore’ ha saputo dare un calcio a una fortuna12. C’è del resto una considerazione da fare, che non riguarda solo l’Italia, ma l’Europa, e che è decisiva per cogliere appieno il senso della vittoria che la felicità coniugale riportò – nel corso del secolo successivo alle opere di Rousseau – sul matrimonio d’interesse e sul libertinaggio ad esso collegato. Nell’insieme del modello che ho definito, con una semplificazione necessaria, russoviano, l’aspetto più specificamente erotico-passionale della polemica antigalante è stato l’arma più aggressiva ed efficace contro il frivolo cinismo di cicisbei e damine, e pur tuttavia non quello destinato a restare alla lunga davvero influente. Anche a causa di qualche esasperazione in senso libertino (Laclos, de Sade), l’erotismo in quanto tale, anche la passione troppo accesa, vennero presto affrontati, già all’inizio dell’Ottocento, come elementi potenzialmente sovversivi, e perciò meritevoli di repressione. Si realizzò allora una vera e propria medicalizzazione dell’eccesso passionale in corrispondenza con i primi passi della nascente psichiatria moderna. L’erotismo fu degradato a livello di una malattia, tanto che nella sua Monomanie érotique (1838) Jean-Étienne Dominique Esquirol, un padre fondatore della clinica psichiatrica, identificò la ‘normalità’ con la tranquilla routine del matrimonio borghese; al di fuori di tale norma risultavano deviazioni patologiche da curare e combattere sia la ninfomania carnale che la ‘mania’ sentimentale13. In Francia tale processo di disciplinamento e normalizzazione non è stato certo estraneo alla piega autoritaria assunta dall’ordine familiare nel passaggio dalla fase propriamente rivoluzionaria all’età napoleonica: la spinta iniziale verso una famiglia egualitaria fu infatti rapidamente ridimensionata dalla riaffermazione della gerarchia maschile e paterna e dal ristabilimento delle ragioni dell’ordine sociale a discapito delle istanze affettive degli individui14. La ‘felicità’ coniugale del matrimonio ottocentesco dev’essere

12   Ho ricostruito la sua storia nel libro In famiglia. Storie di interessi e affetti nell’Italia moderna, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 112-131. 13  Lucida trattazione nel saggio di M. Galzigna, Lo psichiatra e il libertino, in Storia delle passioni, a cura di S. Vegetti Finzi, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 213-242. 14   Il libro di riferimento al proposito è quello di L. Hunt, The Family Romance of the French Revolution, Berkeley-Los Angeles, University of California Press, 1992.

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intesa su questo sfondo. Un bel libro sull’educazione sentimentale e la vita matrimoniale dei giovani francesi della prima metà del secolo – per eccellenza «epoca del Romanticismo» secondo la definizione della stessa autrice – smaschera l’ipocrisia della scelta per amore e della convivenza accesa da una reciproca attrazione erotica. I ragazzi e le ragazze destinati a sposarsi si frequentavano e conoscevano ben poco prima delle nozze, e continuavano a venire accoppiati dalle famiglie sulla base di ragioni d’interesse e opportunità sociale15. La novità era che rispetto alle relative libertà concesse dalla cultura settecentesca della galanteria, gli sposi, o per dir meglio, le spose, pagavano l’esaltazione del loro ruolo domestico e materno con la rinuncia a quel grado di spregiudicatezza e indipendenza che era connesso alla pratica della ‘conversazione’ illuministica. Non si tratta, ovviamente, di una vicenda solo francese. Alla regolatezza erotica del Romanticismo italiano ho già fatto cenno. E ci si potrebbe diffondere a lungo sul caso tedesco; fra l’altro sulla scorta di una densa monografia sull’affettività coniugale presso la borghesia di Amburgo dal 1770 al 1840, che è entusiasticamente e simpateticamente incentrata sull’idea del trionfo dell’amore nel matrimonio: proprio la ricostruzione ricca di dettagli e approfondimenti fornita dall’autrice finisce infatti col documentare in maniera convincente come i confini e le convenzioni di un ambiente sociale condizionassero le inclinazioni, le scelte e i comportamenti degli individui16. A questo proposito è importante sottolineare un punto cruciale: si capisce che un matrimonio apertamente o comunque indirettamente combinato non deve per forza risultare infelice; ma il nesso troppo facilmente istituito fra libertà individuale e felicità coniugale richiede una revisione profonda. Come ha dimostrato un altro importante libro sulla Germania, la maturazione del liberalismo borghese non è stata per nulla inconciliabile con lo svolgimento di un processo di subordinazione femminile nel matrimonio: «La parabola dalla repressione alla libera scelta è totalmente inadeguata a comprendere quel mondo»17. Per concludere, la diffusione della proposta russoviana nel campo della vita privata e familiare ha percorso un cammino solo parzialmente corri-

15   G. Houbre, La discipline de l’amour. L’éducation sentimentale des filles et des garçons à l’âge du Romantisme, Paris, Plon, 1997. 16  A.-C. Trepp, Sanfte Männlichkeit und selbständige Weiblichkeit. Frauen und Männer im Hamburger Bürgertum zwischen 1770 und 1840, Göttingen, Vandenhoeck und Ruprecht, 1996. 17   I.V. Hull, Sexuality, State, and Civil Society in Germany, 1700-1815, Ithaca and London, Cornell University Press, 1996, cit. da p. 47.

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spondente alle premesse. È come se delle due facce della medaglia del rifiuto della troppo superficiale felicità propria del matrimonio galante – libera esplicazione della passione erotica esclusiva e serietà d’impegno coinvolgente – alla lunga nel matrimonio borghese ottocentesco sia rimasta davvero importante solo la seconda. Del resto, bisogna prender atto che senza la base di una reale indipendenza materiale e di una reale parità di diritti, la conquista di una vera libertà dei sentimenti non poteva che restare illusoria. Questo messaggio vibrante che Mary Wollstonecraft ha affidato nel 1791 alla sua Rivendicazione dei diritti della donna mantiene, a più di due secoli di distanza, tutto il suo valore18.

 M. Wollstonecraft, I diritti delle donne, a cura di F. Ruggieri, Roma, Editori Riuniti, 1977.

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Numerosi sono i motivi di interesse di un confronto tra la grande opera di Filangieri rimasta incompiuta, la Scienza della legislazione (1780-1788), e la contemporanea e successiva evoluzione del pensiero politico di Pietro Verri, dalla pubblicazione, nel 1781, dei tre Discorsi sull’indole del piacere e del dolore, sulla felicità e sull’economia politica, alla ricca produzione di argomento politico ispirata dalla Rivoluzione francese e dalle sue ripercussioni in Italia, che si trova ora per la prima volta raccolta e integralmente pubblicata nel volume VI dell’Edizione Nazionale delle Opere1. Si tratta, innanzi tutto e senza alcun dubbio, dei due massimi esponenti rispettivamente dell’Illuminismo meridionale e di quello lombardo, dopo la morte di Genovesi e il ripiegamento di Beccaria nella routine del lavoro d’ufficio. In secondo luogo, è comune a entrambi gli autori l’aspirazione a un nuovo ordine politico e civile, la ricerca di una costituzione capace di assicurare la pubblica felicità non più come oggetto dei buoni principi, secondo la formula muratoriana, ma come espressione dei diritti dell’uomo e dell’affermazione delle idee di libertà e uguaglianza. Un’altra certezza riguarda la conoscenza che ciascuno dei due ebbe delle opere dell’altro e la reciproca stima da entrambi professata, attestate non solo dallo scambio di lettere dell’estate 17802, ma

1   P. Verri, Scritti politici della maturità, a cura di C. Capra, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2010 (d’ora in poi semplicemente Scritti politici). A questa raccolta si rinvia qui una volta per tutte, così come agli altri studi verriani di chi scrive, in particolare: C. Capra, Le citoyen Verri et le général Bonaparte, «Annales historiques de la Révolution française», 313 (1998), pp. 431-448;“La mia anima è sempre stata repubblicana”. Pietro Verri da patrizio a cittadino, in Pietro Verri e il suo tempo, a cura di C. Capra, 2 voll., Milano, Cisalpino, 1999, vol. I, pp. 519-540; Id., I progressi della ragione. Vita di Pietro Verri, Bologna, Il Mulino, 2002; Id., L’ultimo Verri, in Les écrivains italiens des Lumières et la Révolution française, sous la dir. de C. Del Vento et X. Tabet, «Laboratoire italien», IX (2009), Lyon, ENS éd., 2010, pp. 19-34. 2  Una lettera di Verri a Filangieri del 26 agosto 1780, di ringraziamento per l’invio del primo volume della Scienza della legislazione, si conserva nel Museo Civico Gaetano Filangieri

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dai riferimenti molto elogiativi contenuti nel carteggio tra i fratelli Verri3 e nel libro II della Scienza della legislazione, dove Pietro Verri è definito «uno scrittore molto sensato» e le sue Meditazioni sull’economia politica «una ragionatissima opera»4. Non è da trascurare infine lo stimolo che viene dalla fioritura di studi recenti sia su Filangieri che su Verri, e in particolare dalla pubblicazione di una nuova edizione, riccamente annotata, della Scienza della legislazione e della Edizione Nazionale, ormai vicina al completamento, di tutte le opere di Pietro Verri. Il tema della felicità attraversa tutta la produzione del Verri, dalle giovanili Meditazioni sulla felicità alla loro rielaborazione in un testo sostanzialmente diverso, il già citato Discorso sulla felicità del 1781 e poi agli scritti del periodo rivoluzionario (1789-1797), il più importante dei quali si intitola Primi elementi per somministrare al popolo delle nozioni tendenti alla pubblica felicità. Il divario fra le Meditazioni sulla felicità e il Discorso sulla felicità riguarda non soltanto la mole del testo, triplicata nella stesura più tarda, ma il tono dell’esposizione, assai più pacato e disteso in quest’ultima, e la sostanziale emarginazione in essa della felicità pubblica, definita, secondo la celebre formula di Hutcheson «la maggiore felicità possibile divisa con la maggiore eguaglianza possibile»; in primo piano è ora una felicità privata identificata con «l’allontanarci dalla infelicità» e conseguibile, mediante una condotta di vita regolata e l’accorta moderazione dei desideri e delle passioni, solo dal saggio, consapevole che «la felicità considerata come una

di Napoli, 28. 44; la risposta di Filangieri, datata 19 settembre 1780, è nell’Archivio Verri presso la Fondazione Raffaele Mattioli di Milano (d’ora in poi AV), cart. 270; è integralmente pubblicata in F. Berti, La ragione prudente. Gaetano Filangieri e la religione delle riforme, Firenze, Centro Editoriale Toscano, 2003, pp. 52-53. 3   Il I luglio 1780 Pietro scriveva ad Alessandro: «L’introduzione [della Scienza della Legislazione] mi ha rapito colla sublimità dello stile, colla energia de’ liberi sentimenti, e colla vastità della carriera che ti presenta» (Carteggio di Pietro e Alessandro Verri dal 1 gennaio 1780 al 26 marzo 1781, a cura di G. Seregni (vol. XI della pubblicazione del Carteggio promossa dalla Società Storica Lombarda), Milano, Giuffrè, 1940, p. 89). Verri manifestava qui una certa delusione per il seguito dell’opera («a dirtela, dopo una magnifica facciata non mi trovo tanto bene come mi aspettava nel palazzo»), ma si ritrattava pochi giorni dopo (5 luglio): «Due o tre de’ primi capitoli m’avevano indisposto, ora sono quasi alla fine del primo tomo e sono contentissimo di quel galantuomo: ha testa grande, ha sentimenti grandi, ha un ammasso di cognizioni, e fa un’opera che fa onore all’Italia» (ibidem, p. 92; e cfr. anche pp. 111, 161). 4   G. Filangieri, La scienza della legislazione. Edizione critica diretta da V. Ferrone, 7 voll. Venezia, Centro Studi sull’Illuminismo europeo “Giovanni Stiffoni”, 2003-2004 (d’ora in poi indicata semplicemente come SdL) , vol. II, a cura di M.T. Silvestrini, p. 90; ibidem, p. 209 nota a.

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quantità positiva e segregata dal male è un sogno»5. La posizione centrale del Discorso sulla felicità nella triade dei Discorsi pubblicati dall’editore milanese Marelli nel 1781 è così commentata da Gianni Francioni, nella nota introduttiva al testo pubblicato nel volume III dell’E.N.: Si trattava, come si vede, di un ordine logico ben preciso: alla Felicità, che era stato l’originario oggetto della sua riflessione filosofica, veniva ora affidata «anche materialmente», entro il trittico, una «posizione centrale», in modo che il lettore potesse essere gradualmente guidato dall’analisi del piacere e del dolore e dall’affermazione della determinante preminenza di questo nella vita umana, all’individuazione dei modi in cui, diminuendo la somma dei dolori, ci è consentito di vivere un’esistenza il meno infelice possibile, alla traduzione pratica, infine, di tali principi entro la dimensione politica ed economica che può consentire la felicità collettiva6.

Tale ripiegamento su un ideale di vita appartato e in certo modo aristocratico riflette certamente una presa di distanza dagli obiettivi e dai modi delle riforme asburgiche, in cui il Verri aveva creduto intensamente fino al 1771. Ma nel corso degli anni ’80 tale atteggiamento lascia il posto prima a una ritrovata fiducia nelle potenzialità del ‘grande progetto’ di Giuseppe II; poi, in seguito alla brutale messa a riposo decretata per il Verri nel 1786, a un definitivo distacco dai moduli dell’assolutismo illuminato; infine a un’adesione entusiastica, mai smentita neppure negli anni di Robespierre e del Terrore, ai principi del 1789. La felicità privata viene dunque nuovamente in larga misura riassorbita dalla felicità pubblica: nel già citato catechismo rivoluzionario del 1791, Primi elementi per somministrare al popolo delle nozioni tendenti alla pubblica felicità, in sei su otto occorrenze della parola felicità questo termine è preceduto o seguito dall’aggettivo pubblica (senza contare locuzioni analoghe come ben pubblico o ben generale della nazione). Felicità è una parola chiave anche nell’opera di Filangieri a partire dai due scritti dei primi anni ’70, Della morale dei legislatori e La morale pubblica, che ci sono noti solo attraverso un riassunto di Isidoro Bianchi, il primo, e una presentazione-annuncio redatta dallo stesso autore, il secondo. L’affermazione che «l’interna felicità di una nazione non può essere che

5  L’operetta giovanile, pubblicata anonima nel 1763, si può ora leggere in una bella edizione curata da G. Francioni, Meditazioni sulla felicità, Como-Pavia, Ibis, 1996; lo stesso Francioni ha poi curato l’edizione critica del Discorso sulla felicità all’interno del volume III dell’Edizione Nazionale, I “Discorsi” e altri scritti degli anni Settanta, a cura di G. Panizza e altri, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2004; vd. per le citazioni nel testo ibidem, pp. 197-199. 6   Discorso sulla felicità, p. 163.

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l’effetto di una buona legislazione», fatta da Filangieri nel 17757, potrebbe servire da epigrafe per la Scienza della legislazione, dove la parola felicità ricorre più di cento volte, senza contare i sinonimi, gli aggettivi ecc. Oggetto dell’opera, si legge nell’Introduzione, «è di analizzare distintamente tutti gli anelli che compongono quella misteriosa catena colla quale la legislazione deve condurre gli uomini alla felicità» e nel libro II Filangieri confessa di ritenersi «solo incaricato d’una missione espressa per rivelare a’ popoli quali siano i princìpi della loro felicità»8. Molte volte si ripete che ciò che conta non è la felicità di pochi, ma la «felicità dei popoli», la «felicità pubblica» o la «felicità nazionale»; e la felicità pubblica, si chiarisce nel libro II, «non è altro che l’aggregato delle felicità private di tutti gli individui che compongono la società»9. È significativo che questa affermazione sia fatta all’interno del libro II della Scienza della Legislazione, che riguarda «le leggi politiche ed economiche», cioè, diremmo noi, i provvedimenti di natura economico-sociale atti a garantire la prosperità e il benessere della nazione. Si suole sottolineare l’impianto fisiocratico di questa parte dell’opera di Filangieri10. Ma, come bene scrive Maria Teresa Silvestrini nella Nota al testo premessa al volume II dell’Edizione critica diretta da Vincenzo Ferrone, L’uso delle fonti e la composizione del testo (…) suggeriscono l’impressione che la struttura del volume sia costruita attraverso una sorta di assemblage di idee economiche selezionate all’interno del dibattito contemporaneo sulla base di un’opzione politica di fondo che (…) identificava la felicità pubblica con l’abbondanza di popolazione e di ricchezze, l’equità sociale e la libertà economica11.

Sembra probabile che l’influsso delle Meditazioni sull’economia politica di Pietro Verri (che Filangieri possedeva nell’edizione napoletana del 1771, esemplata sulla Princeps di Livorno dello stesso anno) vada al di là dei temi individuati in precedenza dalla stessa curatrice, cioè lo stato presente della popolazione europea, la libertà di commercio dei cereali e le manifatture12, e investa la visione d’insieme dell’economia e del suo ruolo in una moderna

 Lettera pubblicata nelle «Novelle letterarie» di Firenze, numero del 9 giugno 1775, riportata in Berti, La ragione prudente, p. 138. 8   SdL, vol. I, a cura di A. Trampus p. 38; vol. II, p. 253. 9   SdL, vol. II, p. 235. 10  Vedi per tutti D. Fiorot, Alcune considerazioni sulle idee economiche e sociali di Gaetano Filangieri, negli atti del convegno Gaetano Filangieri e l’illuminismo europeo, Napoli, Guida, 1991, pp. 337-359. 11   SdL, vol. II, p. viii. 12   SdL, p. vii. Cfr. anche Berti, La ragione prudente, pp. 323-326. 7

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società commerciale. Analogo nei due autori, e comune per la verità alla scuola fisiocratica, è già il presupposto di una naturale socialità dell’uomo e quindi il rifiuto di un’origine contrattualistica dello stato sociale; il passaggio dalla società naturale alla società civile è per Filangieri il frutto di una comune volontà di uscire dalla precarietà e dall’insicurezza e di conferire a una persona morale, a un governo, la forza necessaria per garantire a tutti la conservazione e la tranquillità, oggetto rispettivamente delle leggi politiche ed economiche e delle leggi criminali13. Nel Discorso sulla felicità Verri, allo stesso modo, prescinde dall’immaginaria «associazione primitiva», considerata nient’altro «che una finzione la quale niente ha di comune co’ nostri dritti» e si sofferma invece sul graduale processo attraverso il quale «venne abolito il feroce muscolare dispotismo e così si venne a circoscrivere il numero delle azioni di ciascun uomo, vietandogli quelle che si opponessero alla sicurezza e pace d’un altro uomo (…) Così ciaschedun uomo si spropriò di parte della sua indipendenza per acquistare la libertà»14; Filangieri avrebbe certo condiviso questa tesi, come avrebbe sottoscritto la perentoria affermazione contenuta nei Primi elementi, p. 68: Il selvaggio può vivere bensì indipendente e senza leggi, ma non può mai essere libero, il che suppone una convenzione sociale, e la forza pubblica pronta a soccorrere ognuno contro dell’ingiustizia (…) Non è dunque vero che l’uomo nasca libero, ei lo diviene per effetto della perfettibilità della sua specie15.

Se la libertà può dunque esistere solo in una società civile, al riparo delle leggi che garantiscono l’esercizio dei diritti naturali, alla sua progressiva affermazione un potente impulso è venuto dallo sviluppo delle manifatture e dei traffici. Oggi, proclama Filangieri, uno spirito di permuta e di ricchezza agita la terra e da per tutto non si pensa che ad essere in pace e ad arricchirsi. Chi non vede qual diversità di princìpi deve produrre nel sistema della legislazione questa prodigiosa rivoluzione nell’interesse, nell’indole e nel genio de’ popoli? Che ne sarebbe oggi d’una repubblica, le leggi della quale bandissero, come in Sparta, l’oro e l’argento, proibissero la navigazione ed il commercio, avvilissero l’agricoltura e le arti (…)?16.

Altrove osserva:

  SdL, vol. I, pp. 30-31.  Verri, I “Discorsi”, pp. 238-240. 15  Verri, Scritti politici, p. 652. 16   SdL, vol. I, p. 136 13 14

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Oggi le nazioni più ricche sono quelle ove i cittadini sono più laboriosi e più liberi. Non sono più dunque oggi da temersi le ricchezze, anzi sono da desiderarsi, e il principale oggetto delle leggi deve essere di richiamarle, giacchè queste sono il solo sostegno della libertà de’ popoli, della libertà politica al di fuori e della libertà civile nell’interno degli Stati17.

E dunque dovere dei governi moderni è quello di togliere tutti gli ostacoli che si oppongono alla crescita della popolazione e alla prosperità non solo dell’agricoltura, ma anche delle manifatture e dei traffici. Tra questi ostacoli, per quanto riguarda la popolazione, sono la concentrazione in poche mani della proprietà fondiaria, da combattere con la soppressione di fedecommessi e primogeniture, con la riduzione della manomorta ecclesiastica, con la soppressione degli eserciti permanenti, con la lotta al celibato e all’incontinenza. Per quanto riguarda invece l’agricoltura e le altre attività economiche, la prima regola è «ingerirsi quanto meno si può, lasciar fare quanto più si può»18: di qui la condanna di tutti i vincoli al commercio e all’esportazione dei cereali e di tutti i divieti e le imposizioni che intralciano la libera iniziativa e deprimono l’industria (come i monopoli e le corporazioni, l’inefficacia delle leggi contro i fallimenti dolosi, l’onerosità e l’irrazionalità dei dazi indiretti). Non c’è bisogno di un’analisi particolareggiata per dimostrare la vicinanza di queste tesi a quelle sostenute negli scritti del Verri, anche se rimangono estranee al disegno di Filangieri le definizioni e le analisi verriane relative al denaro, al prezzo, al valore ecc. Basterà accennare ad alcuni temi particolari. La dicotomia denunciata dal Filangieri nella struttura sociale di tutte le nazioni contemporanee, divise fra «i proprietarii e i non proprietarii, ossia i mercenari (…) due classi di cittadini infelicemente inimiche tra loro», delle quali la classe più numerosa inevitabilmente soccombe agli interessi della prima19, ha un preciso riscontro nell’osservazione di Verri secondo cui «Il mondo è quasi tutto diviso in due classi: la piccola è di quelli che ne impone, la grande è di quelli che ciecamente si sottomettono»20 (una fonte comune potrebbe essere un passo di De l’homme di Helvétius, VI. 5). Identico è il rimedio suggerito, quello di favorire una più equa ripartizione delle fortune e quindi un aumento progressivo del numero dei proprietari non con violazioni del diritto di proprietà (comune è il rifiuto del giubileo ebraico, delle leggi di Licurgo o delle leggi agrarie romane), ma con leggi indirette come   SdL, vol. II, pp. 82-83.   SdL, p. 87 19   SdL, p. 31. 20  Verri, I “Discorsi”, p. 253. 17 18

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l’abolizione di primogeniture e fedecommessi o la lotta contro la manomorta ecclesiastica. La preferenza per le leggi indirette è espressa anche più avanti da Filangieri con parole letteralmente calcate su una massima di Verri: «In una nazione ben regolata (…) gli uomini vanno direttamente e obliquamente vanno le leggi», mentre il contrario avviene in una nazione mal regolata 21. Tutto preso dal Verri, spesso con citazioni letterali, è il capitolo XI sulla libertà del commercio dei cereali. Ma un’altra citazione quasi letterale, non individuata dalla curatrice, è nel capo XXVI (Degli urti che si potrebbero dare al commercio dopo essersene tolti gli ostacoli), dove Filangieri dichiara, a sostegno dell’utilità di un buon sistema di comunicazioni e di trasporti: «Avvicinate gli uomini, e voi li renderete industriosi ed attivi; separateli e voi li renderete tanti selvaggi incapaci di avere l’idea stessa della loro perfettibilità»22. Anche l’atteggiamento verso le tesi fisiocratiche, accolte da entrambi gli autori ma con alcune riserve e correzioni, rivela non pochi punti di contatto. Verri critica decisamente la nozione di «classe sterile» applicata agli addetti ai settori secondario e terziario dell’economia, non solo dimostrando che un prodotto netto si ricava così dalla produzione e dalla vendita dei manufatti come dalla produzione e vendita delle derrate agricole, ma adducendo la maggiore facilità con cui si arricchiscono gli artigiani rispetto ai coltivatori del suolo: mentre il contadino «discende da venti generazioni di contadini ugualmente poveri quanto egli è, e sarebbe una strana ventura s’ei finisse i suoi giorni più agiatamente di quello che gli ha cominciati (…) l’artigiano per poco che sia abile e giudizioso cangia il suo destino, e s’egli non può godere d’una sorte migliore, la prepara almeno a’ figli suoi»23. Filangieri definisce l’agricoltura fisiocraticamente «la sola sorgente (…) assoluta ed indipendente delle ricchezze»24, ma poi si dilunga sui benefici dell’industria e del commercio non solo per impiegare l’eccedenza di popolazione, ma per aggiungere il superfluo al necessario che ci viene dalla terra. La trattazione delle pubbliche finanze, che occupa un buon 21   SdL, cit., vol. II, p, 99: cfr. il passo delle Meditazioni sull’economia politica di Verri: «In una nazione ben regolata (…) gli uomini vanno direttamente e obliquamente vanno le leggi» (Edizione Nazionale delle Opere, vol. II, Scritti di economia, finanza e amministrazione, a cura di G. Bognetti, A. Moioli, P.L. Porta, G. Tonelli, tomo 2, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2007, p. 511). 22   SdL, vol. II, p. 187: cfr. Verri, Meditazioni, in Scritti di economia, t. 2, p. 497: «L’uomo isolato è timido, selvaggio e inetto; (…) ma una unione di moltissimi uomini ammucchiati, condensati e ristretti in piccolo spazio si anima, e fermenta, e perfeziona, e spande tutto intorno l’attività, la riproduzione e la vita». 23  Verri, Meditazioni, p. 404. 24   SdL, vol. II, pp. 83-84.

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quarto (cap. XXIX-XXXVI) delle Meditazioni verriane e 7 dei 38 capitoli che compongono il libro II della SdL, presenta pure molti tratti comuni, dalla giustificazione del tributo, da Verri definito come «una porzione della proprietà che ciascuno depone nell’erario pubblico, affine di godere con sicurezza la proprietà che gli rimane», formula ripresa da Filangieri secondo il quale i membri che compongono la società «debbono sacrificare una porzione della loro proprietà per la conservazione dell’altra»25, alla critica della capitazione, che per l’uno e per l’altro costituisce una grave violazione della libertà civile26. Filangieri prende di peso dal Verri la teoria della traslazione necessaria dell’imposta fondiaria a tutti i consumatori e la spiegazione del perché essa va pagata dal proprietario e non dal colono, che farebbe molto più fatica a rivalersi sul primo, anche se poi argomenta a favore dell’imposta unica sulle rendite dei terreni sostenuta dai fisiocratici, mentre Verri critica l’imposta unica in quanto intaccherebbe il valore capitale dei fondi e vorrebbe affiancarle «una ben regolata tariffa» sull’importazione e l’esportazione delle merci27. A parte questa e altre divergenze di non grande rilievo, accomuna i due scrittori la concezione della finanza non più come arte del buon governo, ma come parte integrante della scienza economica e dunque coinvolta nella sua costituzione in settore autonomo di riflessione e di elaborazione, nella definizione di un suo specifico statuto scientifico. Che poi il contributo del Verri, in campo economico e finanziario, superi di gran lunga per organicità e sistematicità l’appassionata perorazione del Filangieri, è cosa che non stupisce quando si ricordi il giudizio di Schumpeter che il nome di Pietro Verri dovrebbe essere compreso in qualunque elenco dei più grandi economisti, e quando si consideri che i punti di forza del napoletano stanno piuttosto, oltreché nella visione politica generale, nella riflessione sul diritto penale e nelle proposte in campo educativo. Ciò che conta è che all’interno di quella visione l’economia si presenti anche per lui come il regno della libertà, come il luogo privilegiato dell’espressione della società civile, motore di un progresso che il governo non deve e non può fare altro che secondare e indirizzare verso la pubblica felicità.

  Si vedano rispettivamente Scritti di economia, t. 2, p. 517; e SdL, II, p. 195.  Verri: «Dovunque paghi l’uomo e non il possessore, ivi è violata radicalmente la libertà civile; le idee morali della Nazione saranno in pericolo, perché continui esempj della forza pubblica esercitata contro gl’innocenti le distruggeranno» (Scritti di economia, t. 2, p. 526); Filangieri: «La libertà del cittadino verrebbe ad essere violata in tutta la sua estensione. Tutte le idee morali del popolo sarebbero in pericolo, perché continui esempi della forza pubblica esercitata con violenza sopra gl’innocenti le distruggerebbero» (SdL, II, p. 200). 27   Meditazioni, capp. XXXIII-XXXIV; cfr. SdL, vol. II, pp. 209 e sgg. 25 26

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Veniamo ora agli aspetti più propriamente politici, nei quali il rapporto di dipendenza si inverte, per ragioni innanzi tutto cronologiche. Filangieri scrive prima della Rivoluzione francese, e non può quindi prescindere dall’orizzonte dell’assolutismo monarchico, anche se si sforza di trovare un equilibrio tra il potere demiurgico del principe legislatore e l’auspicio di una partecipazione del cittadino alla vita della polis, tra le lodi tributate a Federico II, a Caterina II o all’impero cinese, e l’entusiastica ammirazione per le conquiste degli insorti nordamericani. Ho espresso altrove la mia preferenza per l’interpretazione dell’opera filangieriana offerta dal libro di Ferrone su I profeti dell’Illuminismo, dove si tien conto della «cifra ambigua» del progetto filangieriano, «in cui convivevano aneliti democratici e frequenti concessioni al dispotismo (sia pure illuminato)»28, rispetto a quella contenuta nel più recente La società giusta ed equa (2003), tutta incentrata sul repubblicanesimo di Filangieri e su un «costituzionalismo illuministico» polemicamente contrapposto agli indirizzi politico-giuridici dominanti nella Rivoluzione francese29; e non ho mutato parere. Va tuttavia dato atto a Ferrone di avere posto nel giusto risalto, nell’opera più recente, la «centralità dei diritti dell’uomo nel pensiero costituzionale e politico di Filangieri», della cui opera la piattaforma giusnaturalistica «rappresenta certamente una delle chiavi di lettura fondamentali»30. Il tema dei diritti dell’uomo è sviluppato da Ferrone soprattutto in relazione al libro III della Scienza della Legislazione, quello sulle leggi penali: a proposito delle quali sottolinea giustamente la diversa interpretazione del diritto di punire, derivante per Filangieri dalla traslazione alla collettività dell’originario diritto dell’individuo all’autoconservazione e alla difesa, rispetto all’origine contrattualistica sostenuta da Beccaria. Ma di chiara impronta giusnaturalistica è anche la teoria della sovranità di Filangieri, che tuttavia rifiuta il pactum subjectionis teorizzato da Pufendorf e dalla sua scuola e considera invece la sovranità come «un potere che dev’essere indivisibile» e che deve rimanere «sempre unicamente nel popolo», e di cui il monarca è semplice amministratore,

 V. Ferrone, I profeti dell’illuminismo. Le metamorfosi della ragione nel tardo Settecento italiano, Roma-Bari, Laterza, 1989, p. 355. 29   Il rinvio è a C. Capra, Repubblicanesimo dei moderni e costituzionalismo illuministico: riflessioni sull’uso di nuove categorie storiografiche, in «Società e storia», 100-101 (2003), pp. 355-371; cfr. la replica di V. Ferrone sulla stessa rivista, 104 (2004), pp. 401-407. Per altre critiche all’unilateralità dell’interpretazione più recente di Ferrone cfr. G. Pecora, Il pensiero politico di Gaetano Filangieri, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007. 30  V. Ferrone, La società giusta ed equa. Repubblicanesimo e diritti dell’uomo in Gaetano Filangieri, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 100 e passim. 28

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non proprietario assoluto: «ancorchè la forza l’abbia fatto salire sul trono, ancorchè i suoi titoli siano quei della conquista, senza il posteriore consenso del popolo egli non sarà mai il sovrano dello stato, egli ne sarà l’inimico»; «il popolo, tra le mani del quale è inalienabilmente la sovranità, è il solo che possa legittimarne l’esercizio nella persona dell’amministratore, che noi chiamiamo re e monarca»31. Tale radicalismo non si estende però alla struttura del governo monarchico, delineata soprattutto nel primo libro, né al processo di formazione delle leggi, giacchè non è prevista alcuna forma di rappresentanza stabile dei cittadini-sudditi, ma solo una magistratura di nomina regia «depositaria delle leggi» che è l’unico corpo intermedio, qualifica negata invece alla nobiltà ereditaria che, spogliata nello stato ideale filangieriano di privilegi e diritti feudali ma pur sempre esistente, si configura come semplice «rango intermedio»32. Né la menzione delle «leggi fondamentali» come limite all’autorità del monarca, né la critica del «governo misto» britannico, né infine le attribuzioni del «censore delle leggi» (una magistratura già proposta dal Filangieri nelle giovanili Riflessioni politiche stese nel 1774 a commento della legge che imponeva ai giusdicenti la motivazione delle sentenze) sono sufficienti a configurare una partecipazione istituzionale della nazione all’esercizio della sovranità, di cui pure è titolare esclusiva. Come scrive Ferrone, «Insieme con altri importanti protagonisti della cultura del tardo Illuminismo Filangieri affidava tale compito soprattutto alla nascente opinione pubblica, a quello strano tribunale della ragione invisibile e irresistibile che pareva esser diventato improvvisamente una delle istituzioni politiche più interessanti delle monarchie europee di fine secolo»33, e alla libera stampa che sarebbe dovuta esserne il baluardo e l’organo principale. Il tema della rappresentanza e della transizione della sovranità al popolo si sarebbe posto in termini ben altrimenti chiari e perentori a partire dal 1789, e tra i primi a rendersene conto in Italia fu Pietro Verri, entusiastico lettore di Filangieri, ma anche di Rousseau e di Mably e probabilmente di Sieyes, con il quale ha in comune non pochi principi e valori34. Già in Alcuni pensieri sulla rivoluzione accaduta in Francia, di poco successivi alla presa della Bastiglia, egli applaudiva all’insurrezione popolare che aveva posto

31   SdL, III, pp. 174, 180-181. Filangieri non teorizza però come Locke il diritto di resistenza del popolo nel caso di infrazione del patto da parte del sovrano. 32   SdL, I, p. 100. 33  Ferrone, La società giusta ed equa, p. 65. 34  Alcune di queste affinità sono state da me indicate in una nota introduttiva agli scritti sulla Rivoluzione francese in Scritti politici, pp. 601-602.

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fine al dispotismo e vedeva «le cose di Francia ridotte a un segno che non può mancargli il premio della libertà». Già erano compiuti i passi più importanti, la formazione di una Assemblea Nazionale rappresentativa e la rivendicazione da parte sua del potere legislativo, e si intravvedeva prossima la promulgazione di una costituzione che in pochi anni avrebbe reso la Francia «la nazione più forte, più ricca e più felice d’Europa»; e l’esempio non poteva mancare di essere contagioso, giacchè «Ora la luce sta riposta nel cuor dell’Europa; non può a meno ch’ella non influisca sugli altri governi»35. Di tono diverso, e più moderato, sono gli scritti redatti dal Verri nel 1790, in connessione con l’invito rivolto ai sudditi lombardi dal nuovo imperatore Leopoldo II, di cui erano note le propensioni costituzionali, perché rivolgessero al trono le loro istanze. Secondo l’anziano riformatore, bisognava cogliere l’occasione per chiedere al sovrano una costituzione che garantisse le proprietà e la stabilità degli ordinamenti mediante l’elezione da parte della classe possidente di un corpo rappresentativo che facesse argine al potere assoluto; le attribuzioni di questa assemblea erano però lasciate volutamente nel vago anche nel più esteso e complesso di questi testi, i Pensieri sullo stato politico del Milanese nel 1790, giacchè il bersaglio era qui il «dispotismo ministeriale» piuttosto che quello esercitato direttamente dal monarca, e l’obiettivo era quello di un bilanciamento e di un controllo reciproco tra il governo (l’autorità che rappresentava a Milano il monarca assente) e i rappresentanti della nazione: «il Governo, perché i Rappresentanti non si arroghino parte di sovranità sul Popolo; i Rappresentanti, perché la sovranità non se l’arroghi il Governo, [ma] resti tutta illesa presso d’un benefico Monarca»36. Solo alla fine, nell’ammonimento rivolto ai nobili perché non pretendessero di «arrogarsi soli la rappresentanza della città», tornava ad affacciarsi l’alternativa rivoluzionaria: «Se trascuraste di procurare una costituzione custodita da un corpo indistruttibile (…) voi stessi sarete autori d’una rivoluzione funesta e della carnificina de’ vostri concittadini; giacchè il dispotismo così va sempre a terminare, e chiunque ha occhi ne scorge l’epoca non rimota»37. Il carattere strumentale di questa moderazione, intesa a ottenere il massimo possibile all’interno del vigente ordine monarchico, è dimostrato dal ben diverso tono di un altro gruppo di scritti di poco posteriori, riferibili all’epoca in cui pareva consolidarsi la ‘rivoluzione dei Lumi’ operata dall’Assemblea Nazionale Costituente. Spicca fra gli altri il già citato catechismo  Verri, Scritti politici, p. 471.  Verri, Scritti politici, p. 415. 37  Verri, Scritti politici, p. 425. 35 36

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rivoluzionario intitolato Primi elementi per somministrare al popolo delle nozioni tendenti alla pubblica felicità, composto probabilmente nell’autunno 1791, a ridosso della promulgazione della prima costituzione francese38. L’operetta è permeata da una nuova fiducia nei ‘progressi della ragione’ e nel messaggio che gli uomini di lettere, i filosofi, possono diffondere anche fra gli strati inferiori della popolazione, non solo in Francia, ma anche in Italia, nonostante il plurisecolare abbrutimento causato dalla tirannide e dalla superstizione: «aprite un campo libero alla ragione, e vedrete comparire la felicità pubblica» è l’auspicio del Verri39, il quale non pensa più soltanto a una minoranza di saggi e neppure al «maggior numero» degli scritti giovanili, ma all’intera collettività. Fortemente riduttiva e fuorviante appare quindi l’interpretazione recente di Antonio Trampus secondo cui questo scritto verriano è caratterizzato pur sempre da una impostazione «riformatrice e moderata» e propone un’idea di pubblica felicità «ormai anacronistica e superata dagli eventi»40. Lo scopo dell’operetta è indicato nel breve preambolo in quello di «gettare i semi di una conversione» nella nazione italiana, fino ad allora gemente «sotto il peso della falsa politica e della superstizione» e oggetto perciò del «disprezzo dell’Europa»41. Il primo dei quattro dialoghi in cui si articolano questi Primi elementi ha per oggetto il fondamento e la natura del governo, il secondo tratta della libertà, mentre il terzo e il quarto vertono su «i mezzi, co’ quali si possa condurre gradatamente un popolo alla libertà». In realtà però i temi si intrecciano e si rincorrono lungo tutto l’arco dello scritto, ruotando attorno ad alcune questioni fondamentali. La prima è certamente che cosa si debba intendere per rivoluzione («un cambiamento rapido ed essenziale nella forma del Governo» è la risposta del Verri42), di quali ne siano le cause (l’ambizione in quelle promosse da un uomo solo, l’insopportabilità dei mali in quelle di origine popolare, le sole ad essere di fatto considerate), e quali gli effetti: la tirannia nel primo caso (e qui Verri

  Gennaro Barbarisi, che per primo lo ha pubblicato, lo attribuisce al 1791-92 (P. Verri, Delle nozioni tendenti alla pubblica felicità, a cura di G. Barbarisi, Roma, Salerno Editrice, 1994, pp. 11-12); ma vedi a pp. 602-603 della mia nota introduttiva al testo, riedito in Verri, Scritti politici della maturità, le ragioni che inducono a spostare più indietro, all’autunno 1791, il termine ante quem per la composizione. 39  Verri, Scritti politici, p. 638. 40  A. Trampus, Il diritto alla felicità. Storia di un’idea, Roma-Bari, Laterza, 2008, pp. 202203. Un’analoga sottovalutazione del contributo di Verri alla costruzione di una piattaforma democratico-liberale si trova in un lavoro successivo di Trampus, Storia del costituzionalismo italiano nell’età dei Lumi, Roma-Bari, Laterza, 2009. 41  Verri, Scritti politici, p. 629 42   Ibidem. 38

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pensa certamente a Giuseppe II) la libertà nel secondo. È questo il caso della Francia, ma è chiaro che Verri pensa all’Italia quando scrive: quando il cattivo governo, soffocando i germi delle virtù, degrada le nazioni, e riduce gli uomini a dover arrossire in faccia dell’Europa colta della propria patria, basta una sola scintilla di onore per sentire che una rivoluzione sarà un bene insigne, e produrrà un nuovo ordine di cose promovendo la pubblica felicità43.

Più estesa, anche se di scarsa originalità, è la definizione dei princìpi su cui si basa il governo prodotto da una rivoluzione popolare: in primo luogo la sovranità della nazione, da cui sola «dipende cambiare il suo governo, e stabilire la libertà»44. Benché la forma monarchica fosse conservata nella costituzione approvata a Parigi il 4 settembre 1791, Verri non ne fa una questione pregiudiziale, come dimostra il passo seguente: D. Ma credete voi necessario che vi sia un Re? R. Non lo credo: ma credo necessario che vi sia un Governo, una Constituzione, e la Nazione radunata sempre. D. Come può una Nazione trovarsi radunata? R. Non lo può altrimenti che per mezzo de’ suoi rappresentanti scelti dai distretti a liberi voti degli abitanti45.

Altri princìpi sono l’eguaglianza dei diritti tra tutti i cittadini, esclusa ogni distinzione basata sulla nascita, ma esclusa anche ogni pretesa di redistribuzione delle fortune; la divisione dei poteri secondo la lezione di Montesquieu; infine la distinzione tra libertà individuale (un sinonimo di libertà civile) che «può godersi anche sotto di un governo dispotico», e libertà politica, che «non si può godere se non sotto di una Constituzione»46. Ma il problema che più appassiona il Verri è come si possa predisporre alla libertà una «nazione corrotta e schiava» come quella italiana. Il vero interlocutore del Verri è in realtà il ceto dei «filosofi», cioè degli «uomini virtuosi e illuminati», «maestri de’ loro simili», ai quali, viene ripetuto come una specie di Leitmotiv, spetta «gettare i semi per la riforma» che il tempo si incaricherà di sviluppare: «gli scritti loro qualora annunzino le verità importanti, e le espongano bene, sicuramente coll’andare degli anni fanno ger-

 Verri, Scritti politici, pp. 639-640.  Verri, Scritti politici, p. 634. 45  Verri, Scritti politici, p. 646. Poco più avanti (p. 649) Verri torna sul’argomento, per sostenere che «uno Stato anche vasto può reggersi assai bene senza un Re. Tutta l’America settentrionale è in questo caso». È questo uno dei rari luoghi in cui Verri menziona la rivoluzione delle colonie nordamericane contro l’Inghilterra. 46  Verri, Scritti politici, p. 642. 43 44

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mogliare le verità, le dilatano, e finalmente gli Autori diriggono il mondo»; infatti «l’opinione regola il mondo, e i libri regolano l’opinione»47. Il tema pascaliano dell’opinione regina del mondo è svolto dal Verri, qui e altrove, in senso schiettamente illuministico: siamo di fronte, come in Filangieri, all’opinione pubblica considerata come un tribunale della ragione, dinanzi al quale sono chiamati a rispondere i sovrani non meno che gli ecclesiastici o i militari (è presente anche qui la nota antimilitaristica tipica del Verri come del Filangieri)48. All’impero dell’ignoranza, della superstizione, del fanatismo si oppone, come già nelle Meditazioni sulla felicità, l’inesorabilità dei «progressi della ragione» (altro Leimotiv dell’operetta) che può ricondurre alla virtù perfino una nazione «timida e avvilita» come la nostra: L’Inghilterra, un tempo rozza e barbara, ora è la maestra dell’Europa. L’Italia, un dì domatrice d’Europa, Maestra, Signora de’ popoli, ora giace nel letargo e nell’abjezione. E perché da quest’abjezione non potrebb’ella mai risorgere? E perché non potrebb’ella aprir gli occhi dopo il lungo sonno? (…) Togliete la catarata agli uomini, date loro un intelletto sgombrato dai fanatismi di una cattiva educazione, e vedrete aperta la strada ai lumi e alla perfezione, e quindi alla libertà49.

Non vi è cenno nei Primi elementi del Verri a un programma di riforme dell’istruzione, che occupa tanto spazio nella Scienza della legislazione. Più che a influire sulle nuove generazioni, egli pensa evidentemente a un’azione immediata per illuminare gli italiani già adulti, così da evitare le funeste conseguenze («uno sconvolgimento, una disordinata licenza, una anarchia funesta»50) che potrebbero altrimenti verificarsi qualora il contagio rivoluzionario si propagasse al di qua delle Alpi. E quanto radicati fossero in proposito i timori del Verri ce lo dicono tanti passi delle sue lettere al fratello Alessandro, in cui si arriva a riproporre l’assolutismo illuminato come l’unica forma di governo idonea ad affrontare una simile realtà. Ma non appena lo sguardo si sposta dall’Italia alla Francia, si riaccendono nel suo animo l’entusiasmo e la speranza in un futuro migliore. Significativa è la convinzione espressa da Pietro al fratello Alessandro l’8 dicembre 1792, dopo la svolta radicale impressa alla Rivoluzione dalla giornata del 10 agosto e alla vigilia del processo al re Luigi XVI:

 Verri, Scritti politici, pp. 640, 658, 665.  Cfr. C. Capra, “L’opinione regina del mondo”. Percorsi dell’evoluzione politica e intellettuale di Pietro Verri, in Letteratura italiana e cultura europea tra Illuminismo e Romanticismo, a cura di G. Santato, Ginevra, Droz, 2003, pp. 111-131. 49  Verri, Scritti politici, pp. 654-655. 50  Verri, Scritti politici, p. 665. 47 48

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La mia professione di fede in questa materia è che la tirannia è un male gravissimo o sia ella esercitata da uno, o da pochi, o dai molti. Che esercitata dai molti dura meno e non è mossa da invidia né suole insultare alla virtù. Che gli uomini anche poveri sono della nostra famiglia, ed hanno lo stesso dritto che abbiamo noi alla felicità. Che non vi è di spregevole e d’abietto che il vizio. L’esperienza mi ha fatto trovare più ragione, virtù e merito nelle persone popolari, e ne’ nobili ho trovato vizi mascherati 51.

Non possiamo escludere che nello scrivere queste righe Pietro Verri avesse presente la celebre formulazione della costituzione statunitense che riconosceva a tutti gli uomini, creati uguali, il diritto inalienabile alla ricerca della felicità. Uguaglianza e libertà erano in ogni caso, per Filangieri come per l’ultimo Verri, le condizioni irrinunciabili per l’esercizio di un tale di diritto. «L’uomo non può essere felice senza essere libero», aveva scritto Filangieri52, che aveva trovato anche una formula suggestiva per descrivere l’uguaglianza possibile in una «ben costituita monarchia»: non l’eguaglianza delle facoltà, ma «l’eguaglianza della felicità in tutte le classi», preannuncio della égalité des jouissances invocata dai rivoluzionari francesi, un’eguaglianza conseguibile «quando ogni cittadino in uno Stato può, con un lavoro discreto di sette o otto ore per giorno, comodamente supplire a bisogni suoi e della sua famiglia»53. Nell’ultimo Verri (soprattutto quello del 1796-97, del quale non ho qui potuto parlare, un Verri duramente avverso alla propaganda giacobina,) l’accento cade forse più sulla libertà, accuratamente distinta ora in libertà civile e libertà politica, che sull’uguaglianza54; anche se merita di essere citata qui una frase contenuta nell’ultimo scritto da lui pubblicato prima di morire, Lettera del filosofo N.N. al monarca N.N.: «Il vivere è nojoso o si viva coi superiori, ovvero cogli inferiori. La uguaglianza è la sola che ammette società, gioia, cordialità»55. In Filangieri, come è stato di recente ben sottolineato da Dario Ippolito, l’ispirazione liberale e lockeana così forte in Verri, la difesa delle libertà e dei diritti individuali contro ogni autorità, sia pure all’interno di un ordi51  Edizione Nazionale delle Opere di Pietro Verri, Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, vol. VIII, a cura di S. Rosini, tomo I, p. 196. 52   SdL, vol. IV, p. 35. 53   SdL, vol. II, p. 238. 54   «Appunto questo è il capo d’opera della Legislazione – scrive Verri nei Primi elementi, in Scritti politici, p. 644 – d’evitare i due estremi. Se troppo dai al Governo, sarà obbedito, ma dipenderà sempre da esso degradare gli uomini alla schiavitù. Se gli dai poco, lo discrediti, la forza pubblica non è riunita, la nazione s’espone ai disordini interni dell’anarchia, e si rende debolissima a fronte delle nazioni sue rivali». 55  Verri, Scritti politici, p. 845.

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namento repubblicano, è meno costante, meno intransigente, a causa sia della sua «concezione assolutistica della sovranità», sia di una «prospettiva spiccatamente razionalistica e legicentrica» che affida alla legge, come aveva insegnato Helvétius, il compito rivoluzionario di plasmare una cittadinanza virtuosa, dirigerne i costumi e le passioni al fine di suscitare politicamente «l’amor della patria» e «l’amor della gloria»56. Questo divario è forse il portato di due diverse esperienze, di due differenti percorsi culturali e umani: nell’ormai anziano riformatore milanese non albergava la stessa fede nella capacità della legge di plasmare l’uomo nuovo, di indirizzare gli interessi e le passioni verso il bene della collettività, che animava il nobile napoletano scomparso in giovane età. Rimaneva in lui un fondo di antropologia pessimistica, un’amara sfiducia nei concittadini e nei connazionali che si esprime in tante pagine del carteggio e in tanti scritti intimi e autobiografici. È significativo che mentre i volumi della Scienza della Legislazione conquistavano una gloria europea, Verri dopo il I tomo della Storia di Milano (1783) e fino all’invasione francese non pubblicasse più nulla (a parte il doveroso elogio dell’amico scomparso, Paolo Frisi, uscito nel 1787), nemmeno quel catechismo rivoluzionario che pure mirava secondo le sue intenzioni a spargere i semi di una conversione. Né Verri né Filangieri comunque, nonostante le oscillazioni e le contraddizioni che in entrambi gli scrittori si possono trovare, confusero mai il diritto alla felicità (meglio sarebbe dire alla ricerca della felicità) con il dovere di essere felici, o di dirsi felici; nella tensione dialettica tra libertà e uguaglianza, in cui si può riassumere gran parte della politica dei Lumi così come di quella del periodo rivoluzionario, entrambi rifiutarono sempre, almeno in linea di principio, di sacrificare la prima alla seconda.

56  D. Ippolito, Le dimensioni della «democrazia»: un itinerario meridionale tra Illuminismo e repubblicanesimo, in Il linguaggio del tardo Illuminismo. Politica, diritto e società civile, a cura di A. Trampus, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2011, pp. 191-209. Tratti illiberali, o non compiutamente liberali, della visione di Filangieri emergono soprattutto nel libro IV della SdL (Delle leggi che riguardano l’educazione, i costumi e l’istruzione pubblica) e nel libro V (Delle leggi che riguardano la religione).

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Nella Dichiarazione di Indipendenza dei tredici Stati Uniti d’America del 4 luglio 1776 compare fra i diritti inalienabili dell’uomo il diritto alla ricerca della felicità: «Noi riteniamo che queste verità siano di per sé evidenti, che tutti gli uomini sono creati uguali e che sono dotati dal loro Creatore di certi inalienabili diritti fra i quali quelli alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità»1. Il testo riprende una prima stesura di Thomas Jefferson2, ispirata ad un teismo lockiano riletto attraverso i moralisti scozzesi, poi fatta propria dalla commissione redigente con alcune modifiche proposte da Adams e da Franklin, ma nella cultura dei congressisti che adottarono il testo e, ancor più, nella accezione prevalente che il testo ricevette, i diritti naturali provengono da un patto originario fra l’uomo e dio e come tali precedono ogni possibile forma di patto sociale fra gli uomini. Si tratta di un postulato di teologia federalista che verrà reso popolare da pamphlets rivoluzionari dell’epoca, fra cui ci limitiamo qui a ricordare quelli di Thomas Paine: La società è prodotta dai nostri bisogni e il governo dalla nostra malvagità; la prima promuove la nostra felicità positivamente unendo insieme i nostri affetti, il secondo

  «We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable Rights, that among these are Life, Liberty, and the Pursuit of Happiness». The Unanimous Declaration of the thirteen United States of America, in La Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, a cura di T. Bonazzi, Venezia, Marsilio, 1999, p. 68; sulla storia del testo vedi ibidem, pp. 85-91, e cfr. P. Maier, American Scripture. Making the Declaration of Independence, New York, Knopf, 1997. 2   Per un confronto fra la bozza di Jefferson, poi sottoposta ad un comitato formato da John Adams, Benjamin Franklin, Thomas Jefferson, Robert R. Livingston e Roger Sherman, ed il testo approvato dal Congresso, vd. D. Armitage, The Declaration of Independence. A global History, Cambridge-London, Harvard University Press, 2007, pp. 157-164 e 165-71; vd. anche Il pensiero politico e sociale di Thomas Jefferson: saggio introduttivo e antologia di testi, a cura di M. Sylvers, Manduria, Lacaita, 1993 pp. 166-171. 1

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negativamente tenendo a freno i nostri vizî (…). Il governo, come gli abiti, è l’emblema dell’innocenza perduta; i palazzi dei re sorgono sulle rovine delle dimore del paradiso. Senso comune, 1776. Prima che una qualche forma istituzionale di governo fosse conosciuta, esisteva dall’inizio dei tempi un patto fra l’uomo e Dio. A questo patto preesistente devono conformarsi tutte le leggi, che non possono presumere di conformare il patto a leggi che, in quanto umane, vengono dopo (…). Diritti dell’uomo, 17913.

Questo diritto alla ricerca della felicità ritorna poco dopo nel testo della Dichiarazione di Indipendenza, là dove si afferma che ogni qual volta una forma di governo tende a distruggere questi fini è diritto del popolo modificarla o abolirla e istituire un nuovo governo, fondandolo su tali principî e organizzandone i poteri nel modo che appaia più conveniente a realizzare la propria sicurezza e felicità4.

Avremmo torto a pensare che la felicità del popolo qui richiamata sia erede diretta della felicità pubblica cara ai riformatori settecenteschi, tema che riprenderemo più avanti, poiché qui non si tratta di un diritto che discende dalla sovranità ai sudditi ma che ascende ad essa da cittadini costituenti che la legittimano istituendola, si tratta cioè del diritto del popolo a darsi una costituzione che sia per tutti garante di diritti naturali imprescrittibili, fra cui appunto la ricerca individuale di felicità. Troviamo già presente la stessa diade Happiness and Safety, oppure in forma rovesciata Safety and Happiness, in molti progetti statali di Dichiarazioni e di Costituzioni delle tredici colonie inglesi5: Dichiarazione dei Diritti della Virginia, giugno 1776: «art. III: la migliore [forma di governo] è quella che può produrre al più alto grado la felicità e la sicurezza (…)». Si noti che all’art. I era proclamato, dopo il godimento [enjoyment] dei diritti alla vita, alla libertà e alla proprietà, quello «di cercare e di ottenere felicità e sicurezza» [pursuing and obtaining happiness and safety].   Th. Paine, Common Sense, M.D. Conway ed., (The Writings), New York, Putnam’s Sons, 1896, repr. New York, Burt Franklin, 1969, I, p. 69 e Rights of Man, ibidem, p. 263. 4   «(we hold…) That whenever any Form of Government becomes destructive of these ends, it is the Right of the People to alter or to abolish it, and to institute new Government, laying its foundation on such principles and organizing its powers in such form, as to them shall seem most likely to effect their Safety and Happiness». La Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, pp. 60-70. Questo passo verrà poi ripreso da Mirabeau nel 1788 in un appello Ai Batavi, cfr. infra a n. 6, e nell’agosto 1789 all’art. 3 del testo del Comitato dei Cinque da lui diretto. 5  Cfr. La Déclaration des Droits de l’Homme et du Citoyen, St. Rials éd., Paris, Hachette, 1988 pp. 495-517; vd. anche Le carte dei diritti, a cura di F. Battaglia, Firenze, Sansoni, 1946 pp. 35-105. 3

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Preambolo alla Costituzione della Pennsylvania, settembre 1776: «(…) il popolo ha diritto di cambiare [il governo] con un atto della volontà comune e di prendere le misure che paiano necessarie per produrre la sua sicurezza e la sua felicità (…)»; e Dichiarazione dei Diritti, art. I: «[diritto] di cercare e di ottenere felicità e sicurezza» [pursuing and obtaining happiness and safety]. Preambolo alla Costituzione del Massachusetts, marzo 1780: «(…) il popolo ha diritto di cambiare il governo e di prendere le misure necessarie per la sua sicurezza, la sua prosperità e la sua felicità (…)»; e Dichiarazione dei Diritti, art. I: «[diritto] di cercare e di ottenere la loro sicurezza e felicità» [seeking and obtaining their safety and happiness]. Costituzione del New Hampshire, 1784 (Parte I. Bill of Rights), art. II: «(…) il godimento e la difesa della vita e della libertà, il diritto di acquistare, possedere e proteggere la proprietà e, in una parola, di cercare e ottenere felicità» [seeking and obtaining happiness].

Il diritto alla ricerca della felicità, presente come abbiamo visto in gran parte dei progetti delle singole colonie che si venivano facendo Stati, non verrà peraltro ripreso né nella Costituzione del 1787 né negli emendamenti o Bill of Rights del 1789-91. Ritroveremo invece la felicità, richiamata in una forma dove sentiamo l’eco della Dichiarazione americana, nell’appello dell’aprile 1788 Ai Batavi del conte di Mirabeau: «(…) il popolo, per la cui felicità viene istituito il governo, ha il diritto inalienabile di riformarlo, di correggerlo o di cambiarlo totalmente quando la sua felicità lo esige»6. Qui incontriamo altresì un’anticipazione dei lavori che porteranno alla Dichiarazione dei Diritti francese del 26 agosto 1789, in un testo a nostro giudizio ancor poco valorizzato nella pur sterminata letteratura sulle origini intellettuali e politiche dei testi rivoluzionari francesi. Troviamo ancora il diritto alla felicità, al di là di una sua ripetuta presenza in tutta la letteratura settecentesca precedente, con un dossier assai ampio che non tocchiamo qui7, in altri testi francesi coevi sulla rivoluzione americana, pensiamo ad esempio ai lavori di Condorcet:

6  Art. III: «Le peuple, pour le bonheur de qui le Gouvernement est institué, a le droit inaliénable de le réformer, de le corriger, ou de le changer totalement lorsque son bonheur l’exige». Aux Bataves, sur le Stathoudérat, s. l. 1788, p. 116, cit. in La Déclaration des Droits de l’Homme et du Citoyen, St. Rials éd., Paris, Hachette, 1988, pp. 519-520. e 7  Cfr. R. Mauzi, L’idée de bonheur dans la littérature et la pensée française au XVIII siècle, Paris, Colin, 1960 e repr. Genève, Slatkine, 1979; A. Jellamo, Il diritto alla felicità, in «Parolechiave», 13 (1997): felicità, pp. 33-57; F. De Luise-G. Farinetti, Storia della felicità.

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(…) quando si parla di felicità di una nazione collettivamente, non si possono intendere che due cose: o una sorta di valore medio, visto come risultato della felicità e dell’infelicità degli individui, o i mezzi generali di felicità, cioè di tranquillità e benessere che il suolo, le leggi, l’industria, i rapporti con le nazioni straniere, possono offrire alla generalità dei cittadini. Basta avere qualche idea di giustizia per sentire che ci si deve attenere al secondo senso. Gli strumenti generali della felicità per l’uomo in società si dividono in due classi: la prima comprende tutto ciò che assicura e che estende il libero godimento dei suoi diritti naturali; la seconda racchiude gli strumenti per diminuire il numero dei mali cui l’umanità è soggetta dalla natura. De l’influence de la Révolution d’Amérique sur l’Europe (1786) 8.

Ritroviamo infine il diritto a cercare la felicità in molti progetti francesi di Dichiarazione dei Diritti dei primi mesi del 1789, dove rileviamo la presenza di lemmi come bonheur oppure félicité générale, progetti che porteranno al testo definitivo della Dichiarazione dei Diritti del 26 agosto, poi fatto proprio con poche correzioni formali dalla Costituzione del 3 settembre 1791: Progetto personale di Mounier, fine luglio 1789, «art. II: Ogni governo deve avere per fine la felicità generale (félicité générale). Esso esiste nell’interesse di coloro che sono governati, non di coloro che governano» 9. Primo progetto di Sieyès, 20-21 luglio 1789: «L’oggetto dell’unione sociale è la felicità (bonheur) degli associati». Reconnoissance et exposition raisonnée des Droits de l’Homme et du Citoyen, «art. II: L’oggetto di una società politica non può essere che il più grande bene di tutti». Déclaration des Droits…10. Progetto presentato da Mounier a nome del primo Comitato di Costituzione, 27 luglio 1789, «art. I: Tutti gli uomini hanno una inclinazione invincibile verso la

Gli antichi e i moderni, Torino, Einaudi, 2001, vd. in particolare pp. 489-500; A. Trampus, Il diritto alla felicità. Storia di un’idea, Roma-Bari, Laterza, 2008. 8  De Luise – Farinetti, Storia della felicità, pp. 455-456; il testo di Condorcet qui citato, L’Influence de la Révolution d’Amérique sur les opinions et la législation de l’Europe (…) par un habitant obscur de l’ancien hémisphère (…) (dédié) à M. le Marquis de La Fayette qui à l’âge où les hommes ordinaires sont à peine connus dans leur société, a mérité le titre de Bienfaiteur des deux Mondes uscì anonimo (vol. IV, pp. 237-283) nella raccolta, anch’essa anonima, ma di Filippo Mazzei, Recherches historiques et politiques sur les États-Unis de l’Amérique septentrionale Où l’on traite des établissements des treize Colonies, de leurs rapports & de leurs dissensions avec la Grande-Bretagne, de leurs gouvernements avant & après la révolution &c. par un citoyen de Virginie. Avec quatre Lettres d’un Bourgeois de New Heaven (sic) sur l’unité de la législation, vv. I-IV, À Colle (…) 1788; il luogo d’edizione “À Colle”, in realtà Parigi (chez Froullé, libraire, quai des Augustins…), faceva riferimento alla proprietà di Mazzei in Virginia, vicina a Monticello, proprietà e abitazione di Jefferson. Sui rapporti di collaborazione fra i due e sul ruolo di Mazzei fra Toscana, Virginia e Parigi cfr. G.M. Cazzaniga, Les hommes éclairés de l’Europe et de l’Amérique…, «Carrefour», XXIV (2002), n. 1, pp. 59-72. 9   La Déclaration des Droits de l’Homme et du Citoyen, St. Rials éd., p. 606. 10   Ibidem, pp. 595 e 602.

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ricerca della felicità (recherche du bonheur); è per pervenirvi unendo i loro sforzi che hanno formato società e stabilito Governi. Tutti i governi devono dunque avere come fine la felicità generale [félicité générale]»11. Progetto del Sixième Bureau, fine luglio 1789, « art. I: Ogni uomo riceve dalla natura il diritto di badare alla propria conservazione e il desiderio di essere felice (heureux); art. II: Per assicurare la propria conservazione e procurarsi il benessere, ogni uomo riceve dalla natura alcune facoltà. La libertà consiste nel pieno e intero esercizio di queste facoltà»12.

Nella Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino peraltro il diritto alla felicità non compare, se non in chiave ottativa nel preambolo, dove si dice che vengono esposti «(…) in una dichiarazione solenne (…) i diritti naturali, inalienabili e sacri (…) a tutti i membri del corpo sociale (…) affinché le rimostranze dei cittadini, ormai fondate su principî semplici e incontestabili, volgano sempre al mantenimento della Costituzione ed alla felicità di tutti (bonheur de tous)». Né verrà richiamato nella Costituzione del 3 settembre 1791. Questa scomparsa del diritto alla ricerca della felicità dai diritti inalienabili dell’uomo che vengono affermati nelle due Costituzioni americana e francese non sembra sia stata fatta finora oggetto di particolari ricerche. Vorremmo allora provare a riflettere sui significati di felicità nella letteratura del tempo per giungere a qualche ipotesi sulle ragioni della iniziale comparsa e successiva scomparsa, che saremmo tentati di dire definitiva se non comparisse nuovamente nella Costituzione giacobina del 24 giugno 1793 nella forma di felicità comune, espressione e fine della sociabilità umana: «art. 1: Il fine della società è la comune felicità [bonheur commun…]. Il governo è istituito per garantire all’uomo il godimento dei suoi diritti naturali e imprescrittibili»13. Questo testo, ancora ripreso nella Costituzione della Repubblica ligure, sarà destinato a non comparire più né nella Costituzione del 5 fruttidoro anno III (22 agosto 1795) né nelle Costituzioni francesi successivamente varate fino ad oggi14.

  Ibidem, pp. 607 e 613.   Ibidem, p. 621. 13   Les constitutions de la France depuis 1789, Présentation par J. Godechot, Paris, Garnier-Flammarion, 1979, p. 80. 14   Si avrà ancora una eco debole del diritto alla ricerca della felicità nell’art. 1 del Preambolo alla Costituzione del 4 novembre 1848, dove si parla di «più elevato grado di benessere»: «La France s’est constituée en République (…) elle s’est proposée pour but de marcher plus librement dans la voie du progrès et de la civilisation (…) et de faire parvenir 11 12

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Abbiamo prima distinto diritto alla felicità, in quanto diritto naturale individuale, da felicità pubblica. Ma anche quest’ultima categoria chiede di essere storicizzata. Non v’è dubbio che l’origine romana, dalla dea Felicitas, il cui santuario principale stava in Campidoglio come Felicitas Publica, richiami un ordine cosmico al cui interno l’ordine umano va situato, e non v’è dubbio che per molto tempo la felicità pubblica sia apparsa come dovere e compito del sovrano, buon pastore che riceve da Dio il compito di badare al benessere del proprio gregge. Ma nella riflessione politica e giuridica dei Lumi l’accezione di felicità pubblica muta non poco, con un progressivo passaggio dal diritto naturale di cui il sovrano è garante nei confronti dei propri sudditi ai diritti naturali15 di cui l’individuo è titolare e che esercita nella forma della cittadinanza. Questo passaggio è già in atto in un tardo esponente dell’Aufklärung cattolica, nonché convinto libero muratore, come Isidoro Bianchi che nelle sue Meditazioni su vari punti di felicità pubblica e privata, destinate a sorprendente fortuna non solo nazionale, scriverà che «non v’è sovrano, il quale non sappia che è soltanto sul trono per rendere felici i suoi popoli (…)» e poco dopo preciserà che «Le forme del governo, la legislazione, le scienze, l’economia politica, la virtù e l’industria dei privati cittadini, il genio delle arti, l’educazione e la morale sono per ciò dire tante parti della felicità pubblica (…)»16. Negli stessi anni altri uomini dei Lumi vengono esprimendo questo passaggio come vero e proprio mutamento di paradigma. Si viene allora affermando un’accezione di felicità pubblica che implica la ricerca di un sistema di legislazione volto a garantire l’esercizio in società dei diritti naturali dell’uomo e la rimozione degli ostacoli per la sua realizzazione nella forma storica della cittadinanza, unione dei due significati già richiamati nel passo tous les citoyens (…) à un degré toujours plus élevé de moralité, de lumières et de bien-être». Les constitutions de la France depuis 1789, p. 263. 15   Sul passaggio dal diritto naturale ai diritti naturali come momento interno al filone giusnaturalistico cfr. N. Bobbio, Teoria generale della politica, Torino, Einaudi, 1999, pp. 443-445. 16   I. Bianchi, Della felicità. Meditazioni…, a cura di B. Gamba, Venezia, Tipografia di Alvisopoli, 1825, pp. 21-22; il testo uscì come Meditazioni su vari punti di felicità pubblica e privata, stampato a Palermo nel 1774 rielaborando articoli comparsi su «Notizie de’ Letterati», Palermo 1772-73, ed ebbe poi sette edizioni successive con rielaborazioni e tre traduzioni in danese (1774), tedesco (1775) e francese (1779). Nei testi muratorî Bianchi riprenderà queste tesi assegnando ai liberi muratori una funzione privilegiata di ricerca filosofica e di stimolo per progetti riformatori («I Liberi Muratori si occupano nella ricerca delle più utili verità, cioè a dire di quelle grandi verità, che sole possono contribuire a rendere felici gli uomini (…)», Dell’instituto dei veri liberi muratori, Ravenna, presso Pietro Mart. Neri, con licenza de’ Super., 1786 (l’autore è appunto padre Isidoro Bianchi, già Pietro Martire Bianchi, la stampa è presso Lorenzo Manini a Cremona) e repr. Longo, Ravenna 1980, p. 58).

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succitato di Condorcet nonché lontano archetipo del novecentesco welfare state. Di questo nuovo paradigma che lega felicità e progressi dello spirito umano sono per altro verso testimonianza le posizioni di coloro che, ostili alla filosofia dei Lumi, vedono invece nella semplicità dei costumi e nell’assenza di mutamenti il criterio regolativo di una vita buona17. In questa visione della civilisation come incivilimento, come progressi cumulativi fondati sulla riforma dei governi e sull’innovazione tecnologica, progressi che sono opera e insieme conferma di una perfettibilità della natura umana, si incontrano e si intrecciano gli esiti del filone giusnaturalistico e del filone sensistico-utilitaristico. Valgano poche citazioni. Se ogni uomo tende alla felicità, ogni società si propone lo stesso fine: ed è per essere felice che l’uomo vive in società. Perciò la società è un insieme di uomini riuniti dai loro bisogni, per lavorare di comune accordo alla loro conservazione e alla loro comune felicità (…). Per esercitare diritti sui suoi membri la Società deve assicurare loro protezione, leggi che tutelino le loro persone, i loro beni. Finché mantiene questi impegni, la Società non può, senza essere ingiusta, privare il cittadino della felicità che si è impegnata a procurargli (…). Se la società deve garantire ai suoi membri fedeli la giustizia, la libertà, la felicità, coloro che essa rende depositari della sua autorità sono solo gli esecutori delle sue intenzioni (…). Il sovrano non è altro che il guardiano e il depositario del contratto sociale, ne è l’esecutore (…). Barone d’Holbach, Système social (1773)18.

Nello stesso anno era stato pubblicato postumo De l’Homme di Helvétius, dove la felicità pubblica (bonheur public) viene intesa come aggregato (composé) di tutte le felicità particolari, mentre le cause dell’infelicità diffusa vengono fatte dipendere dall’imperfezione delle leggi e dal riparto troppo diseguale delle ricchezze19, una visione della felicità fatta propria in quegli anni, con echi anche linguistici evidenti, da Gaetano Filangieri, vedasi il Libro II della Scienza della Legislazione (1780):

  In questo quadro la felicità dei popoli nordasiatici apparirà ad Abraham-Hyacinthe Anquetil-Duperron minacciata dallo «changement, ennemi éternel du bonheur», cfr. Id., L’Inde en rapport avec l’Europe, Paris, an VI (1798) t. 1, p. 60, cit. in R. Minuti, Oriente barbarico e storiografia settecentesca. Rappresentazioni della storia dei Tartari nella cultura francese del XVIIIº secolo, Venezia, Marsilio, 1994, p. 46 n. 31. 18   P.-H. barone di Holbach, Système social ou principes naturels de la morale et de la politique, avec un examen de l’influence du gouvernement sur les moeurs, Londres 1773 e repr. Hildesheim-New-York, Olms, 1969, t. II, cap. 1, pp. 4-6. 19  Cl.-A. Helvétius, De l’Homme, de ses facultés intellectuelles, et de son éducation (1769), à Londres, chez la Société Typographique, 1773, rééd. Paris, Fayard, 1989, t. II, Section VIII: De ce qui constitue le bonheur des individus; de la base sur laquelle on doit édifier la félicité nationale, nécessairement composée de toutes les félicités particulières, pp. 659 e 665. 17

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La felicità pubblica non è altro che l’aggregato delle felicità private di tutti gli individui che compongono la società. Allorché le ricchezze si restringono fra poche mani, allorché pochi sono i ricchi e molti sono gli indigenti, questa felicità privata di poche membra non farà sicuramente la felicità di tutto il corpo, anzi come ho detto ne farà la rovina 20.

Non dissimili discussioni e considerazioni andavano maturando anche in molte Colonie dell’Arcadia e ne troveremo testimonianza nel discorso tenuto a Roma il 23 ottobre 1776 da Giovanni Cristofano Amaduzzi, Biante Didimeo in Arcadia, sulla necessità d’un ritorno dell’Arcadia alla tradizione filosofica dell’Accademia, una «tradizione di ricerca del vero» capace di distruggere gli errori dominanti e contribuire ai «progressi dello spirito umano» ed alla «pubblica felicità»21. Si tratta di riflessioni che erano già state anticipate da Pietro Verri in un bel saggio del 1763, dove leggiamo: Il fine dunque del patto sociale è il ben essere di ciascuno che concorre a formare la società, il che si risolve nella felicità pubblica o sia la maggior felicità possibile divisa colla maggiore uguaglianza possibile (…) la legislazione più perfetta di tutte è quella dove i doveri e i diritti di ogni uomo sieno chiari e sicuri, e dove sia distribuita la felicità colla più eguale misura possibile su tutti i membri 22.

Ritroveremo ancora l’unione di pieno esercizio delle facoltà e di massima estensione sociale di esso nel passo già citato di Condorcet sull’influsso della Rivoluzione Americana in Europa, che così continuava: «La felicità di una società è tanto più grande quanto più questi diritti vi ineriscono con la più grande estensione ai membri dello Stato»23. In questo nuovo contesto la felicità pubblica tende allora ad essere sussunta nella ricerca individuale della felicità, essendone solo il quadro storico ed istituzionale che ne permette la realizzazione. Gli echi del dispotismo illuminato, in cui gli uomini dei Lumi avevano inizialmente posto il loro progetto riformatore per poi ritrarsene delusi, sono ancora abbastanza vivi

20   G. Filangieri, La Scienza della legislazione. Edizione critica, a cura di V. Ferrone, Centro Studi sull’Illuminismo europeo “Giovanni Stiffoni”, Libro II: Delle leggi politiche ed economiche, a cura di M. T. Silvestrini, s. l. [ma Venezia] 2004, p. 235. 21   G. C. Amaduzzi, Discorso filosofico sul fine ed utilità delle Accademie, in Livorno per i torchi dell’Enciclopedia [forse: Roma, Tipografia De Propaganda Fide], 1777. 22   P. Verri, Meditazioni sulla felicità (1763), a cura di G. Francioni, Como-Pavia, Ibis, 1996, p. 61. 23   «Le bonheur d’une société est d’autant plus grand, que ces droits y appartiennent avec plus d’étendue aux membres de l’Etat…», Condorcet, L’Influence de la Révolution d’Amérique, citato in La Déclaration des Droits de l’Homme et du Citoyen, St. Rials éd., n. 132, p. 456.

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da sconsigliare l’utilizzo privilegiato di questa categoria, che viene piuttosto a porsi ora come strumento e dunque ad esser rifusa con quella di felicità tout court. Se questa lettura sembra a noi presentare una qualche validità, resta tuttavia ancora tutta da spiegare la finale rimozione della categoria di felicità dal dettato costituzionale francese. Ci soccorre a questo riguardo uno dei progetti di Dichiarazione dei diritti, quello di Brissot del primo maggio ’89, là dove avendo affermato all’art. II che: «Tutti gli uomini sono nati liberi ed eguali nei diritti», egli rileva in nota che: «Bisogna definire la parola libertà: si intende con ciò il diritto che ogni uomo ha di sviluppare, per la sua felicità, le sue facoltà fisiche, morali, intellettuali (…). L’eguaglianza dei diritti (…) è la facoltà, in tutti i cittadini, di godere ugualmente di tutti i vantaggi della Società, di tutti i diritti civili e politici»24. Troviamo una sintetica eco di questa accezione di libertà nel succitato art. II del progetto del Sixième bureau, fine luglio 1789: «Per assicurare la propria conservazione e procurarsi il benessere, ogni uomo riceve dalla natura alcune facoltà. La libertà consiste nel pieno e intero esercizio di queste facoltà»25. In questo quadro di coerente pensiero liberale le categorie di libertà ed eguaglianza finiscono per esaurire i diritti naturali, per cui tutti gli altri diritti non sono che condizioni storiche, giuridiche, politiche e sociali necessarie per l’esercizio di questi diritti e per la libera autopoiesi che ne consegue, ciò che deve caratterizzare la vita dell’individuo in Società e quindi permetterne la ricerca di felicità. Il ricondursi progressivo della felicità pubblica alla felicità individuale e della felicità individuale al libero esercizio delle libertà individuali ed allo sviluppo della personalità che ne consegue può forse motivare la storia del finale dettato costituzionale negli Stati Uniti, che di perseguimento della felicità non parlerà più esplicitamente, e la storia di culture politiche ed istituti giuridici che ne sono derivati, anche se per altro verso la figura del Presidente ha mantenuto la funzione di garante supremo del patto originario fra l’uomo e Dio, al di sopra delle leggi ordinarie e dei patti fra nazioni, una eredità di teologia federalista che ancora avvenimenti recenti hanno non felicemente riproposto.

24   «Tous les hommes sont nés libres & égaux en droits (…). Il faut définir le mot liberté: on entend par là, le droit qu’a tout homme de développer, pour son bonheur, ses facultés physiques, morales, intellectuelles (…). L’égalité de droits (…) est la facultè, dans tous les citoyens, de jouir également de tous les avantages de la Société, de tous les droits civils & politiques». Le project de déclaration de Brissot de Warville (1er mai 1789) in La Déclaration des Droits de l’Homme et du Citoyen, St. Rials éd., p. 563. 25  Cfr. supra, n. 12.

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Ma la storia della Costituzione francese del ’91 richiede a parer nostro un supplemento di riflessione. Abbiamo già richiamato l’appello Ai Batavi di Mirabeau e la Dichiarazione dei diritti in esso contenuta, che per un verso riprende passi delle Dichiarazioni americane e per un altro verso anticipa la Dichiarazione del 26 agosto 1789. Qui il diritto alla felicità è ben presente. Ma proprio Mirabeau presenterà il 17 agosto 1789, a nome del Comitato dei Cinque, un progetto di Dichiarazione dei Ditti dell’Uomo in Società dove è presente una diversa filosofia politica. Ne riportiamo qui i primi quattro articoli, scusandoci per la lunghezza della citazione: art. Iº: Tutti gli uomini nascono liberi e uguali, nessuno ha più diritto di altri di far uso delle sue facoltà naturali o acquisite; questo diritto, comune a tutti, non ha altro limite che la coscienza stessa di colui che lo esercita, che gli impedisce di farne uso a detrimento dei suoi simili art. 2º: Ogni Corpo Politico riceve l’esistenza di un contratto sociale espresso o tacito, per cui ogni individuo mette in comune la sua persona e le sue facoltà sotto la suprema direzione della volontà generale, e nello stesso tempo il Corpo riceve ciascun individuo come porzione art. 3º: Tutti i poteri a cui una Nazione si sottomette emanando da essa stessa, nessun individuo può avere autorità che non derivi espressamente da essa. Ogni associazione politica ha il diritto inalienabile di stabilire, di modificare o di cambiare la Costituzione, cioè la forma del suo governo, la distribuzione e i limiti dei diversi poteri che lo compongono art. 4º: Il bene comune di tutti e non l’interesse particolare di un uomo o di una qualsivoglia classe di uomini è il principio e il fine di tutte le associazioni politiche. Una nazione non deve dunque riconoscere altre Leggi che quelle espressamente approvate e ammesse da essa o dai suoi rappresentanti, sovente rinnovati, legalmente eletti, sempre in essere, frequentemente riuniti, agenti liberamente secondo le forme prescritte dalla Costituzione26.

Questo progetto di Dichiarazione susciterà critiche di segno diverso ed alla fine sarà il progetto del Sixième Bureau ad essere adottato come base di discussione per la redazione definitiva della Dichiarazione dei Diritti. Ma se alcuni degli articoli contenuti in questo progetto verranno fatti propri dal testo finale, sembra a noi che l’ispirazione del testo definitivo riprenda piuttosto quella del progetto presentato da Mirabeau a nome del Comitato dei Cinque, riprendendone integralmente il preambolo e mantenendone il rousseauianesimo di fondo, che in particolare l’articolo secondo esprimeva.

  La Déclaration des Droits de l’Homme et du Citoyen, St. Rials éd., pp. 747-748.

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Abbiamo iniziato la nostra riflessione ricordando le radici teologiche federaliste della Dichiarazione d’Indipendenza e della Costituzione americana, dove i diritti individuali, fra cui il diritto alla ricerca della felicità, sono garantiti da un patto fra l’uomo e Dio che precede il patto sociale. Nel progetto del Comitato dei Cinque invece una tempesta rousseauiana spazza i progetti precedenti portatori di diritti individuali, fra cui la ricerca della felicità, insediando al centro dell’azione costituente il bene comune e la volontà generale, una teoria rivoluzionaria della sovranità una e indivisibile in cui non c’è più posto per l’autopoiesi del singolo uomo ma solo per la sussunzione del cittadino, porzione virtuosa della sovranità popolare, nella volontà generale e nella sua opera legislatrice volta alla restaurazione della natura umana socievole. Si capisce allora che per la felicità individuale lo spazio si faccia esiguo e i tempi si facciano lunghi, almeno finché il processo di rigenerazione del genere umano, corrotto da un cattivo processo di civilizzazione, non sia stato condotto a termine. Possiamo aggiungere una ulteriore riflessione: la Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino distingue fra uomo e cittadino, una distinzione che non sempre viene rilevata in tutte le sue implicazioni, a loro volta diverse a seconda della cultura giuridica e politica dei costituenti. Se la teoria della sovranità presuppone diritti naturali individuali dell’uomo che la cittadinanza deve inverare, la ricerca della felicità difficilmente potrà essere assente da questi diritti. Ma se la sovranità, nella forma della sovranità popolare, si realizza in un processo costituente i cui due pilastri sono il corpo dei rappresentanti e l’identità spirituale della nazione, allora l’esercizio dei diritti individuali, fra cui la ricerca della felicità, subirà una torsione, non solo temporale, la cui natura ed estensione dividerà e tuttora divide le teorie costituzionali francesi e non solo francesi 27. Questa natura polisemica del passaggio dall’uomo al cittadino non è dunque così semplice da interpretare: la volontà generale dovrà aspettare la Costituzione dell’anno I (24 giugno 1793) per rimettere la felicità comune al posto di comando, da cui verrà rovesciata pochi mesi dopo per non comparire più né come diritto individuale alla felicità né come felicità comune

27   Su una possibile lettura tripartita delle culture costituzionali negli anni ’89-’94 fra un filone moderato-liberale à la Sieyès, fondato sulla rappresentanza, un filone democratico razionale à la Condorcet, fondato sull’istruzione pubblica ed un filone rousseauiano-giacobino fondato sulla virtù, tendente a unificare privato e pubblico, cfr. L. Jaume, Les équivoques de la souveraineté sous la révolution française, in G. M. Cazzaniga et Y.-Ch. Zarka (sous la dir. de), Penser la Souveraineté à l’époque moderne et contemporaine, Pise-Paris, Edizioni ETS - Librairie philosophique J. Vrin, 2001, vol. I, pp. 329-345.

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nelle successive versioni costituzionali francesi. Questa assenza si ripeterà nella successiva elaborazione costituzionale di altre nazioni europee, ed è significativo che anche nei testi costituzionali sovietici, che del filone rousseauiano e della categoria di felicità comune portano tracce, la felicità non compaia mai28. Inizia qui una lunga storia tormentata che va oltre il nostro tema e di cui siamo tuttora figli. Basti un solo esempio: siamo abituati a sistemi rappresentativi in cui non vi è mandato vincolante per gli eletti dal popolo. Ciò determina qualche problema, come avvenne in una recente legislatura italiana in cui circa un terzo degli eletti cambiò collocazione di gruppo parlamentare per mutati convincimenti non sempre di teoria costituzionale. Ma è negli anni e nei progetti di cui abbiamo finora parlato che questa storia ha avuto inizio: il rappresentante, dal momento in cui entra a far parte dell’assemblea, dove dibatte e legifera insieme agli altri rappresentanti, non rappresenta più una parte, non rappresenta il programma e il gruppo di interessi per cui è stato eletto, bensì rappresenta il tutto che si ricostituisce armonicamente nel confronto con gli altri eletti, rappresenta il popolo che si ricostituisce nella sua autentica natura socievole, con una parusìa di ciò che Rousseau chiamava la volonté générale. La sovranità popolare è una e inalienabile, per cui il mandato al rappresentante costituisce soltanto il distacco temporaneo di una «porzione di volontà generale», come affermerà Sieyès, anche se sarà poi lo stesso Sieyès a introdurre la distinzione fra potere costituente e potere costituito, cercando così di salvare l’inalienabilità della sovranità e quella dei diritti naturali imprescrittibili. La rappresentanza mediante elezioni, forma della democrazia occidentale moderna, esprime una concezione organicistica del corpo elettorale e dei rapporti fra i suoi rappresentanti. In questo senso, come abbiamo avuto occasione di affermare in altra sede, «L’ekklesìa, l’assemblea del popolo di Dio (…) costituirà l’archetipo della democrazia occidentale destinato colle sue metamorfosi a vivere lungamente nella modernità»29. 28  Cfr. Le carte dei diritti, ed. cit., Russia, pp. 201-216; la felicità riapparirà peraltro in una costituzione del Giappone (3 novembre 1946) all’art. 13: «Tutte le persone che costituiscono il popolo saranno rispettate come individui. Il loro diritto alla vita, alla libertà ed al perseguimento della felicità, entro i limiti del benessere pubblico, costituiranno l’obiettivo supremo dei legislatori e degli altri organi responsabili del governo». Il testo, pur iniziando con «Noi, popolo giapponese …» venne elaborato da giuristi dell’esercito statunitense d’occupazione e dagli occupanti imposto al parlamento giapponese, per cui va considerato un esercizio di scuola giuridica piuttosto che il prodotto di un processo costituente. 29   G. M. Cazzaniga, La democrazia come sistema simbolico, «Belfagor», LV (settembre 2000), fasc. 5, pp. 537-544: 538.

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Questa storia, che in Europa ha visto l’ingresso delle masse nella vita politica e ha visto la nascita del welfare state e della democrazia costituzionale come primi inveramenti storici dei modelli di felicità pubblica, sembra oggi volgere al termine con la crisi dei partiti di massa come soggetti della politica, con la crisi dei sistemi rappresentativi fondati sul potere legislativo e con la crisi fiscale degli stati-nazione indotta da bolle finanziarie e globalizzazione dei mercati. Oggi la governabilità, detta anche governance, assunta come valore primario, restituisce al potere esecutivo e amministrativo poteri un tempo esecrati, restringe l’autonomia del potere giudiziario e privilegia sistemi elettorali maggioritari, fondati sullo spoils-system, in un processo di tecnicizzazione che produce un notabilato privo di progettualità politica, mentre la sofferenza e la diseguaglianza sociale tornano a crescere. I tempi per la felicità pubblica sembrano nuovamente allontanarsi.

Parte Seconda interessi pubblici, passioni private

Wolfgang Rother Felicità, ragione, interesse e dovere. Aspetti della filosofia morale di Pietro Verri*

Con l’etica del dovere di Kant si compie, nella storia della filosofia morale, un cambio di paradigmi che porta dai concetti teleologici dell’etica, elaborati sin dall’antichità nelle forme più svariate, a una spiegazione deontologica della moralità delle azioni. Per i teleologi il télos dell’azione virtuosa consiste nella felicità, sia in quella propria, cioè nella felicità privata, sia in quella degli altri o della polis, cioè nella felicità politica o pubblica. Per i deontologi, invece, il déon è del tutto indifferente rispetto allo scopo formando così l’idea del motivo puro dell’agire. Per Kant non è lo scopo dell’azione a essere buono, bensì soltanto la buona volontà, indipendentemente dalle conseguenze e dai risultati dell’azione1. Pietro Verri, sviluppando la sua filosofia morale nel Discorso sull’indole del piacere e del dolore e nelle Meditazioni sulla felicità, appare, a prima vista, come classico rappresentante dell’eudemonismo, se non persino edonismo, e dell’utilitarismo, quindi di quell’etica che si trova agli antipodi di concezioni deontologiche. Tuttavia, questa prima impressione inganna. La filosofia morale di Verri – e questa è la mia tesi – necessita di un giudizio differenziato. In seguito, cercherò di dimostrare, primo, che l’eudemonismo di Verri è attraversato, relativizzato e trasceso da un discorso morale razionale e, secondo, che Verri sviluppa, tramite la formulazione di un prototipo dell’imperativo categorico, un’etica del dovere prima di Kant.

  Si ringrazia Maria Pia Scholl-Franchini per l’assistenza nella traduzione del saggio.   I. Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten (1785, 17862), in Werke, a cura di W. Weischedel, Francoforte, Suhrkamp, 1968, vol. VII, pp. 18-19: «Es ist überall nichts in der Welt, ja überhaupt auch außer derselben zu denken möglich, was ohne Einschränkung für gut könnte gehalten werden, als ein guter Wille. (…) Der gute Wille ist nicht durch das, was er bewirkt, oder ausrichtet, nicht durch seine Tauglichkeit zu Erreichung irgend eines vorgesetzten Zweckes, sondern allein durch das Wollen, d.i. an sich, gut». *

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1.  Calcolo della felicità e ragione. Al livello dell’antropologia, per Verri sembra accertato che gli uomini per natura tendono alla felicità. La costituzione stessa dell’uomo gli fa provare felicità nella sensazione del piacere, mentre il dolore nuoce alla felicità. In corrispondenza con il concetto quantificabile della felicità, espresso nella concezione verriana della felicità pubblica come «maggiore felicità possibile»2, la felicità concreta può esser definita come relazione tra piacere e dolore. Da questa definizione proporzionale della felicità consegue l’impossibilità di una perfetta «assoluta felicità», relegata da Verri come «sognata beatitudine» nel regno delle illusioni. Considerata l’irraggiungibilità della beatitudine, l’attuale condizione su questa terra appare all’uomo ancor più misera e insopportabile3, ma, in realtà, la sua condizione è di gran lunga peggiore. Infatti, la prima frase delle Meditazioni sulla felicità compromette il titolo dell’opera, allorché – con riferimento al Discorso sull’indole del piacere e del dolore e riassumendone, per così dire, il risultato – la conditio humana appare determinata, in primo luogo, dal dolore, quindi non dalla felicità, bensì dall’infelicità. Verri inizia, dunque, così le sue Meditazioni sulla felicità: «Se la condizione dell’uomo è tale che qualunque sia lo stato suo, o di propizia o di avversa fortuna, sempre la somma delle sensazioni dolorose che avrà sofferte sarà maggiore della somma delle sensazioni piacevoli (…), per necessità converrà dire che non può darsi nell’uomo la felicità pura e costante, ed all’incontro può darsi la miseria e l’infelicità»4. In questo modo, sin dall’inizio del suo discorso sulla felicità, Verri manifesta rispetto alla felicità un fondamentale scetticismo con cui assume un motivo dell’Émile di Rousseau: «Toujours plus de souffrances que de joüissances; voilà la différence commune à tous. La félicité de l’homme ici-bas   P. Verri, Discorso sulla felicità (1763/1781), in Edizione nazionale delle opere di Pietro Verri, vol. III, I «Discorsi» e altri scritti degli anni Settanta, a cura di G. Panizza, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2004, p. 241 (d’ora in poi Verri, Discorso sulla felicità, Edizione nazionale). Sul tema cfr. W. Rother, La maggiore felicità possibile. Untersuchungen zur Philosophie der Aufklärung in Nord- und Mittelitalien, Basel, Schwabe, 2005, pp. 121-126. 3  Verri, Discorso sulla felicità, Edizione nazionale, p. 197. 4   Ibidem. Qui Verri si riferisce al suo calcolo generale di piacere e dolore che si conclude a favore di quest’ultimo: cfr. il suo Discorso sull’indole del piacere e del dolore (1773/1781), in Edizione nazionale, vol. III, pp. 98-99; Rother, La maggiore felicità possibile, pp. 88-101; Id., «Il dolore è il principio motore di tutto l’uman essere». Pietro Verri e Cesare Beccaria al di là della felicità, in Il secolo dei Lumi e l’oscuro, a cura di P. Giordanetti, G. Gori e M. MazzocutMis, Milano, Mimesis, 2008, pp. 71-84; Id., Lust. Perspecktiven von Platon bis Freud, Basel, Schwabe, 2010, pp. 76-94. 2

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n’est donc qu’un état négatif, on doit la mesurer par la moindre quantité des maux qu’il souffre»5. La contraddizione tra l’aspirazione umana alla felicità e una felicità soltanto negativa, definibile come assenza di male, apre un varco attraverso cui la ragione può penetrare nel discorso morale. Lontanissimo dalla ricerca della massima felicità possibile, l’uomo, di fronte alla sua misera condizione, è costretto a chiedersi: in qual modo e con quali mezzi è possibile ridurre l’infelicità realmente esistente? La risposta di Verri che segue a una concezione simile sviluppata da Pierre-Louis Moreau de Maupertuis è: soltanto «il retto uso della ragione» può contribuire alla riduzione della nostra infelicità. Così, l’infelicità appare come il risultato della sproporzione tra i nostri desideri e i mezzi e accorgimenti per esaudirli. Le misure necessarie per combattere l’infelicità consistono nella riduzione dei desideri, ossia nell’abbandono dei desideri irrealizzabili, o nell’estensione del «potere», cioè dei mezzi necessari alla loro realizzazione, oppure nella combinazione dei due procedimenti6. Tuttavia, la morale di Verri non si esaurisce in un calcolo della felicità che semplicemente strumentalizza la ragione, non si limita a una strategia volta a evitare l’infelicità. Verri combina la doppia strategia di Rousseau7, basata sulla riduzione del desiderio e l’estensione del potere, con la massima pedagogica dell’esercizio precoce dell’uso della ragione, affermando: «e vedremo che certamente gli uomini assai meno sarebbero infelici se facessero, singolarmente nella loro prima età, un uso continuato e intenso della loro ragione per esaminare i loro interni movimenti, e ridurre a sistema ed a principj le proprie azioni»8. Perché con l’ausilio della ragione possiamo sia liberarci dai desideri che la contraddicono, sia procurarci i mezzi atti a realizzare i desideri realizzabili9. La strategia della riduzione del desiderio implica un’analisi razionale dell’umano desiderare. Quanto è determinante la ragione rispetto al nostro desiderare appare, per esempio, allorché l’aspirazione alla ricchezza diventa, 5   J.-J. Rousseau, Émile ou de l’éducation (1762), texte établi par C. Wirz, présenté et annoté par P. Burgelin, in Œuvres complètes, Paris, Gallimard, 1969, vol. IV, p. 303. 6  Verri, Discorso sulla felicità, Edizione nazionale, pp. 197-200. P.-L. Moreau de Maupertuis, Essai de philosophie morale (1749), s.l., s.n., 1751, pp. 52-56. 7   Rousseau, Émile, p. 304: «Ce n’est pas précisement à diminüer nos désirs; car ils étoient au dessous de nôtre puissance (…). Ce n’est pas non plus à étendre nos facultés, car si nos désirs s’étendoient à la fois en plus grand raport, nous n’en deviendrions que plus misérables: mais c’est à diminuer l’excés des désirs sur les facultés, et à mettre en égalité parfaite la puissance et la volonté». 8  Verri, Discorso sulla felicità, Edizione nazionale, p. 200. 9   Ibidem, p. 274.

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senza il freno della ragione, avidità insaziabile e quindi causa d’infelicità. Soltanto la ragione è in grado di liberarci dal circolo vizioso che consiste nel fatto che la nostra infelicità reale risveglia in noi il desiderio di felicità e che questo desiderio ci rende – in fondo – infelici, perché proviamo desideri irrealizzabili. Nella strategia della riduzione dell’infelicità, la distinzione tra «bisogni reali» e «bisogni chimerici» occupa una posizione centrale e anche rispetto alla felicità essa è essenziale per Verri per il quale la felicità che ci procura grandi ricchezze è soltanto «chimerica felicità»10. L’accrescimento del potere che, accanto alla riduzione del desiderio, è la seconda via razionale della felicità presenta un lato fisico-psichico e un lato morale. Il primo fondamento del nostro potere consiste sia nella condizione fisica il cui mantenimento dipende da un rapporto razionale con i nostri piaceri corporali (temperanza nel mangiare e nel bere), sia nell’aumento delle forze fisiche (pratica dello sport). Questo incremento accompagna, a sua volta, la stabilizzazione psichica e lo sviluppo della capacità di resistenza rispetto ai molteplici desideri che ci assediano. In tale contesto, la ragione funge – per così dire – da coordinatrice del meccanismo psico-fisico volto all’ottenimento della felicità11. Inoltre, per la riduzione dell’infelicità il benessere di anima e corpo è integrato dal benessere morale che consiste nella «coscienza tranquilla» o «buona coscienza». Verri la definisce come «il sentimento della conformità delle azioni nostre colla giustizia»12, intendendo con questo agire secondo giustizia esattamente ciò che per Kant è l’osservanza della legge, intesa come «principio oggettivo, valevole per ogni essere razionale»13. «La giustizia» – afferma Verri – «comprende la fedele obbedienza alle leggi»14. Egli distingue tra le «leggi fissate dall’Autore dell’Universo» che «sono semplici e invariabili» e le leggi istituite dagli uomini che sono affette da «debolezze» ed «errori» e forse infiltrate dalle «mire private»15. Con l’istanza della coscienza, tenuta a seguire la legge morale assoluta, Verri introduce nella sua etica un elemento aprioristico che si situa al di là del calcolo della felicità edonistico-utilitaristico e anticipa tratti essenziali dell’etica del dovere

  Ibidem, pp. 202-205.  Cfr. ibidem, pp. 223-224. «Così l’uso attento della ragione può conservare ed accrescere la robustezza de’ nostri muscoli e con essa la forza dell’animo, e quindi renderci più disposti ad agire e respin­gere i mali non solo, ma resistere e pareggiare un numero di desideri» (ibidem, p. 224). 12   Ibidem, pp. 224, 226. 13   Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, p. 51. 14  Verri, Discorso sulla felicità, Edizione nazionale, p. 226. 15   Ibidem. 10 11

Felicità, ragione, interesse e dovere

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di Kant. E se Verri scrive «la mera ragione può contenere l’uomo nella strada della giustizia morale»16, allora abbandona, in fondo, ogni etica della felicità, fonda l’agire morale nella ragione e prepara una proto-forma dell’imperativo categorico. 2.  L’imperativo verriano e la conciliazione di dovere e interesse. Nel contesto delle Meditazioni sulla felicità, la virtù figura in posizione centrale: «La virtù» – scrive Verri – «è la base della felicità»17. Con il motivo della virtù si pone la questione delle istanze morali normative. Verri distingue tre istanze per la moralità e l’agire morale: le leggi divine, le leggi civili e le leggi dell’onore. Alla problematica suscitata dal fatto che queste istanze – valutando una stessa situazione in modo del tutto differente – possano entrare in concorrenza tra loro Verri dedica il paragrafo Di alcuni contrasti fralle leggi18. Se, per esempio, qualcuno mi ha offeso, la religione mi impone di perdonarlo, la legge civile mi prescrive la via legale, mentre la legge dell’onore mi consiglia di vendicarmi e di esigere soddisfazione19. Ma Verri intende la legge divina – o meglio «le immortali leggi prescritteci dalla Divinità»20 – non tanto quale legge religiosa e nemmeno quale diritto naturale, come argomenta Noris Raffaelli nella sua edizione21. Piuttosto, come oso affermare, egli vede nella legge divina, per così dire, un’istanza giuridica aprioristica, anteposta sia a ogni legge naturale e civile, garante della felicità pubblica, sia alle leggi d’onore concernenti la felicità privata. «La prima di tutte le leggi» – asserisce Verri – «è la divina: è mio dovere di sacrificar tutto all’ubbidienza di un Essere maggiore di tutti»22. La forma di questa legge è pensata come «principio oggettivo» e «imperativo» in senso kantiano, essendo il contenuto di questa legge il dovere che Kant, più tardi, definirà come «necessità di un’azione per rispetto della legge»23 e che Verri formula come imperativo della moralità: «Il mio dovere è pure di non mancare mai alla virtù»24.

  Ibidem, p. 229.   Ibidem, p. 233. 18  Cfr. ibidem, § V. Sull’argomento cfr. Rother, La maggiore felicità possibile, pp. 126-132. 19  Cfr. ibidem, p. 233. 20   Ibidem. 21   P. Verri, Discorso sulla felicità, introduzione e note di N. Raffaelli, Firenze, Felice Le Monnier, 1963, p. 41, nota 1: «il V. assume per sinonimi i vocaboli divino e naturale». 22  Verri, Discorso sulla felicità, Edizione nazionale, p. 235. 23   Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, p. 51. 24  Verri, Discorso sulla felicità, Edizione nazionale, p. 235. 16 17

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Con il concetto del dovere le Meditazioni sulla felicità di Verri sfociano, all’improvviso, in un discorso che si situa a una distanza massima da una morale eudemonica dell’interesse. Verri ne è cosciente e tenta con una locuzione dialettica di pensare le due concezioni di interesse e dovere nel loro rapporto reciproco. Definisce allora il dovere come «una emanazione d’interesse». In senso analitico, il rapporto appare come la relazione gerarchica – e Verri lo scrive esplicitamente – tra «genere» e «specie»: l’interesse abbraccia tutte le azioni utili, mentre il dovere è la parte delle azioni utili in conformità con la legge. Vale a dire: la differenza specifica che fa di un’azione utile un’azione conforme al dovere sta nella consonanza con la legge morale. La gerarchia di genere e specie implica il fatto che non ogni interesse è un dovere. Infatti, esistono azioni rispetto alle quali la legge è indifferente, sicché abbiamo la libertà di agire in questo o in quel modo. Ma – e questo è il risultato dell’argomentazione di Verri – «interesse (…) contrario alla legge non è possibile»25. «Non è possibile», ciò significa che un interesse contrario alla legge rappresenta una contraddizione in sé, rimanendo tuttavia reale, fatto questo che nessuno può contestare. Così, Verri giunge a un concetto differenziato di interesse, riconducendo «l’interesse momentaneo contrario alla legge», la cui esistenza è evidente, al «bollore delle passioni» che trattengono temporaneamente l’uomo dal «ragionare» e possono, in tal modo, indurlo ad abbandonare la via della giustizia. Ma, ogni uomo che con animo tranquillo e coscienza lucida viola il proprio dovere dà la prova più lampante che è affetto da «un vizio nella facoltà ragionatrice»26. In questa ottica, la violazione del dovere e la viziosità appaiono come mancanza di competenza, non tanto morale, quanto razionale. Di conseguenza, Verri ripete la tesi socratica secondo cui «la maggior parte dei mali si fanno per ignoranza»27. Ed è con ottimismo illuminista che Verri guarda alla fine dell’ignoranza, perché con il progredire dell’illuminismo e con la crescente «perfezione del ragionamento» gli uomini seguiranno i principi oggettivi della morale e della giustizia28. Se l’interesse purificato dalla ragione non può entrare in contraddizione con la legge, allora si capisce anche che l’interesse è sistematicamente legato

  Ibidem, pp. 235-236.   Ibidem, p. 236. 27   Ibidem, p. 261; Platone, Protagoras, 357 d-e. 28   «quindi quanto più si accosta l’uomo alla perfezione del ragionamento, tanto più sarà nella strada della giustizia religiosa» (Verri, Discorso sulla felicità, Edizione nazionale, p. 228). 25 26

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al dovere, così che il dovere è «una emanazione d’interesse». Quindi, l’agire morale e virtuoso si fonda parimente sul dovere e sull’interesse: è nell’interesse dell’uomo morale compiere il proprio dovere e osservare la legge divina che per Verri costituisce, in maniera assiomatica, la somma istanza per l’agire virtuoso29. E, nella sua comprensione della legge divina, Verri anticipa quella differenziazione che Kant farà nella prefazione alla Religione entro i limiti della sola ragione con la sua proposta di «una dottrina della religione puramente filosofica», ossia una «teologia filosofica»30. Verri anticipa dunque Kant, escludendo esplicitamente dal concetto di virtù «gli atti del culto religioso». Si tratta allora esclusivamente di «quella classe di azioni che per consenso generale degli uomini, in ogni tempo, in ogni luogo, costantemente furono considerate virtuose: perdonare generosamente all’inimico, essere fedeli, grati, liberali, umani, valorosi, giusti», insomma: «l’esercitare gli atti utili in generale agli uomini»31. L’utilitarismo verriano si deduce dunque dalla ragione oppure dalla religione entro i confini della ragione. Così come coincidono dovere e interesse, così coincidono pure ragione e utile. La legge divina appare, in tal modo, come la legge di una ragione utilitaristica che prova «un costante desiderio» di compiere il proprio dovere che consiste nel «fare cose utili in generale agli uomini»32. All’aspetto essenzialmente altruistico dell’utilitarismo verriano, espresso nella massima dell’impegno per l’utile degli altri, corrisponde, a livello politico, un utilitarismo contrattualistico. Lo scopo del contratto sociale è la felicità e il benessere degli individui formanti la società. La somma della felicità degli individui acquisisce così una nuova qualità in quanto felicità universale, in quanto «felicità pubblica» che Verri – rifacendosi alla nota formulazione di Francis Hutcheson della massima felicità per il massimo numero33 – definisce come la «maggiore felicità possibile ripartita colla maggiore uguaglianza possibile»34. La felicità pubblica, ampliata rispetto a Hutcheson con l’aspetto della massima uguaglianza, forma per Verri l’istanza fondamentale della legislazione politica. Là, dove le leggi positive tendo-

 Cfr. ibidem, p. 235.   Kant, Die Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft (1793, 17942), in Werke, vol. VIII, pp. 657, 655. 31  Verri, Discorso sulla felicità, Edizione nazionale, p. 236. 32   Ibidem. 33   «Action is best, which procures the greatest happiness for the greatest number» (F. Hutcheson, An inquiry into the original of our ideas of beauty and virtue, London, J. Darby, Wil. and John Smith, 1725, treat. II, sect. III 8, p. 164). 34  Verri, Discorso sulla felicità, Edizione nazionale, pp. 241-242. 29 30

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no al bene pubblico, inteso come felicità individuale o privata, ripartita nel modo migliore fra tutti i membri della società in base a criteri ugualitari, là, i diritti e i doveri di ognuno sono regolati in maniera legalmente vincolante. E siccome le leggi mirano unicamente all’acquisizione della felicità pubblica convergente con l’interesse comune, sta nell’interesse di ogni membro della società che le leggi – che, a queste condizioni, non potranno «mai essere in contraddizione colla virtù»35 – siano osservate. 3.  Conclusione. A questo punto, Verri può sembrare un esponente dell’eudemonismo utilitaristico, ma costatiamo che si tratta di un eudemonismo dedotto dai concetti di ragione e dovere. Se Verri, al di là del principio del piacere e del calcolo della felicità, fonda la sua morale sull’assioma secondo cui «la mera ragione può contenere l’uomo nella strada della giustizia morale», esiliando così ogni principio empirico fuori dalla morale, e se egli formula l’imperativo secondo cui «il mio dovere è pure di non mancare mai alla virtù», allora egli viene a trovarsi in stretta prossimità di Kant. E se interpreta il dovere come «emanazione d’interesse» e dimostra che un interesse «contrario alla legge non è possibile», abolisce dialetticamente le contraddizioni tra motivo di felicità e motivo di ragione, tra interesse e dovere. In questo modo, nella filosofia morale di Verri, si idea una sintesi tra etica teleologica della felicità e pura etica del dovere, ancor prima che quest’ultima sia stata sviluppata da Kant.

  Ibidem, p. 243.

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Elena Brambilla Felicità e infelicità delle donne nel Settecento: sensibilità, malattie nervose e passioni

Il poeta e il romanziere, scriveva Giuseppe Maria Galanti in una sua breve e leggera operetta del 1780, Osservazioni intorno a’ romanzi, alla morale e a’ diversi generi di sentimento, sviluppa tutti que’ gran movimenti, de’ quali l’animo umano è capace; egli promuove la sensibilità, il germe più prezioso della natura umana, e in conseguenza dispone gli animi alle virtù sociali; laddove i vani speculatori [s’intende soprattutto teologi] ci trasportano fuori della nostra sfera, e ci rendono quasi sempre frenetici, e stravaganti1.

L’amabile Galanti, se lodava dunque la moda dei romanzi tanto vituperati dal clero, manteneva però un vistoso e significativo silenzio su Rousseau; e citava come poeti e romanzieri gli esponenti di una scrittura più dolce e un poco attardata, per l’Italia Metastasio, per la Francia Arnaud e Marmontel2. A proposito del «lugubre e tristo» Arnaud – romanziere allora di successo ma oggi dimenticato3 – collegava i romanzi alle lagrime, frutto di commozione sentimentale: Gli animi (…) sfortunati e sensibili, a’ quali la tenerezza è la loro dolce vita, mettono nel piangere tutto il lor diletto, la loro consolazione. Le lagrime, che fanno il piacere e la consolazione delle anime sensibili, nascono da un’abbondanza di cuore, da principj di tenerezza, che sono i sentimenti primitivi della natura: e sono ben diverse da quelle, che derivano da debolezza o pusillanimità. O sensibilità, sensibilità,

  G.M. Galanti, Osservazioni intorno a’ romanzi, alla morale e a’ diversi generi di sentimento, Introduzione di E. Guagnini, Napoli, Vecchiarelli Editore, 1991 (ed. orig. 1780, reprint III ed. Napoli, Merande, 1786), p. 22. Per suggerimenti su alcune fonti letterarie ed epistolari, ringrazio Carlo Capra e in specie Daniela Maldini Chiarito. 2   Galanti, Osservazioni intorno a’ romanzi, p. 33. 3   Tra i molti romanzi (ma anche tragedie, noir, teatro) del prolifico François-ThomasMarie de Baculard d’Arnaud (1718-1805), ricordiamo Les Époux malheureux (1746), Les Épreuves du sentiment (1773-1775), Euphémie, Les amants malheureux, Rosalie; un’edizione di Oeuvres in otto tomi, Paris, Moutard poi Ballard, 1781-1783. 1

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dono divino e celeste! La terra non sarebbe un soggiorno di tristizie e di miserie, se tu regnassi in tutti i cuori (…)4.

La sensibilità era dunque per Galanti segno distintivo e positivo del Settecento; ma è probabile che il napoletano non avesse alcuna idea dello spessore che il concetto aveva avuto in una letteratura medica che si può far partire dalla fine del secolo precedente. La medicina tradizionale degli umori, nonostante le ricerche anatomiche di Galeno, aveva spiegato anche la melancholia, come tutte le alterazioni dell’animo, in termini di squilibrio degli umori. Ma dopo che Cartesio aveva emancipato l’anima dalla sua aristotelica consustanzialità col corpo; dopo che aveva posto le passioni nei sensi e non nel cuore, ed elevato il cervello a sede di un’anima razionale e cogitante, non sensitiva e passionale, si era affermata la sua concezione meccanicista della sensibilità e delle passioni, strettamente legate agli organi dei sensi e rielaborate dal cervello e dal sistema nervoso, non da un’anima vitale coestensiva col corpo. Cartesio aveva spostato il conoscere attraverso i sensi dalla mente al corpo, superando il concetto aristotelico di un «sensorio comune» – collocato nel cuore e nella regione cardiaca – che elaborava le ‘impressioni’ portate dai sensi; al cuore aveva sostituito nella teoria delle sensazioni il sistema nervi-cervello5, e con una classica immagine meccanica aveva paragonato le fibre o canali del sistema nervoso alle canne di un organo, o a un sistemi di tubi per creare giochi d’acqua. Alle ipotesi cartesiane avevano fatto seguito, tra fine Sei e Settecento, le applicazioni dei medici inglesi: gli studi anatomici di Thomas Willis6, e le   Galanti, Osservazioni intorno a’ romanzi, pp. 35-36.  Come errore primario della concezione tradizionale, Cartesio denunciava che l’anima fosse identificata con la vita nel corpo, intuitivamente equiparata al calore e al movimento dell’animato rispetto al freddo e all’immobilità del cadavere: «un errore considerevolissimo in cui sono caduti parecchi, (…) è la prima causa che ha impedito che non si sia potuto bene spiegare fin qui le passioni e le altre cose che appartengono all’anima. Esso consiste in ciò che, vedendo che tutti i corpi morti sono privi di calore e quindi di movimento, si è immaginato che era l’assenza dell’anima che faceva cessare quei movimenti e quel calore. E così si è creduto, non senza ragione, che il nostro calore naturale e tutti i movimenti dei nostri corpi dipendano dall’anima». René Descartes, Le passioni dell’anima, P. I, art. V, in Opere scientifiche, vol. I, La biologia, a cura di G. Micheli, Milano, Utet, 1966, pp. 255-256. 6  Di Willis (1621-1675), va ricordata in particolare la Cerebri Anatome, cui accessit Nervorum descriptio et usus (1664), e il trattato (noto come De morbis convulsivis), Pathologiae cerebri et nervosi generis specimen, in quo agitur de morbis convulsivis et de scorbuto, in T. Willis, Opera omnia, vol. I, Lugduni, Sumptibus J. Antonij Hueguetan, 1681, in part. cap. I, De spasmis sive motibus convulsivis in genere, pp. 437-450. Sul suo trattamento del sistema e dei mali nervosi R. G. Frank jr., Thomas Willis and His Circle: Brain and Mind in Seventeenth Century Medicine, in The Languages of Psyche, a cura di G.S. Rousseau, Berkeley, University of California Press, 1990, pp. 107-146. 4 5

Felicità e infelicità delle donne nel Settecento

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osservazioni di Thomas Sydenham7 avevano modificato in modo radicale e definitivo la classica visione medica della sensibilità, legandola ormai indissolubilmente alla struttura e al funzionamento delle ‘fibre’ nervose. Vennero a completare il disegno opere della scuola medica italiana a cavallo tra Sei e Settecento, soprattutto con Baglivi, che consacrò nel linguaggio, prima medico, e poi corrente, proprio il termine ‘fibre’. Nella sua opera del 1702 (ma 1700), Specimen quatuor librorum de fibra motrice et morbosa8, Baglivi (1668-1707) «annunciava la sua fisiopatologia solidista, secondo cui quasi tutti i fenomeni fisio- e patologici erano riconducibili alle parti solide del corpo umano, la cui unità elementare individuò nella fibra»9. In Francia la scuola ‘vitalista’ di Montpellier10, in Germania Van Helmont e Stahl11, in Inghilterra Whytt12 sostennero che l’azione dei nervi, concepiti

7  Di Sydenham (1624-1689), oltre alla classificazione delle malattie secondo i sintomi, ad es. nella Praxis medica experimentalis, sive opuscula universa (…) nunc primum in unum collecta volumen, (…) repurgatum, Lipsiae 1695, trad. ingl. 1707, va ricordata, del 1782, una Dissertatio epistolaris sull’isteria. Cfr. G.G. Meynell, A bibliography of Dr. Thomas Sydenham (1624-1689), Folkestone, Winterdown, 1990. 8   Georgii Baglivi, De fibra motrice, et morbosa; nec non de experimentis, ac morbis salivae, bilis, & sanguinis. Ubi obiter de respiratione, & somno. De statice aeris & liquidorum per observationes barometricas, & hydrostaticas ad usum respirationis explicata. De circulatione sanguinis in testudine, ejusdemque cordis anatome. Epistola ad Alexandrum Pascoli, Perusiae, apud Costantinum, 1700; seconda edizione come Specimen quatuor librorum De fibra motrice et morbosa (…) in quibus de solidorum structura, (…) Et obiter de experimentis, ac morbis salivae, bilis, & sanguinis (…), Romae, typis Io. Franc. Buagni, sumpt. Io. Andreoli in Foro Pasquini, 1702. 9   R. G. Mazzolini, I lumi della ragione. Dai sistemi medici all’organologia naturalistica, in Storia del pensiero medico occidentale. 2 Dal Rinascimento all’inizio dell’Ottocento, a cura di M.D. Grmeck, Roma-Bari, Laterza, 1996, p.163-164. Vd. anche J. Riskin, Science in the Age of Sensibility. The Sentimental Empiricists of the French Enlightenment, Chicago-London, Chicago University Press, 2002; anche G. Sutton, Science for a Polite Society. Gender, Culture and the Demonstration of Enlightenment, Oxford, Westview, 1995. 10   Sulla scuola vitalistica di Montpellier E. Williams, A Cultural History of Medical Vitalism in Enlightenment Montpellier, Aldershot, Ashgate, 2003; anche R. Rey, Naissance et développement du vitalisme en France de la deuxième moitié du dix-huitième siècle à la fin du Premier Empire, Oxford, The Voltaire Foundation, 1999; per la medicina nell’Encyclopédie, M. Sozzi, Il medico contro la morte. L’Encyclopédie e la concezione illuministica del morire nella seconda metà del XVIII secolo, in Il medico di fronte alla morte (secli XVI-XXI), a cura di G. Cosmacini e G. Vigarello, Torino, Fondazione Ariodante Fabretti Onlus –«Tanatologica», 2008, pp. 79-110. 11   Su J.B. Van Helmont, paracelsiano (1579-1644), G. Giglioni, Immaginazione e malattia: saggio su Jan Baptiste van Helmont, Milano, FrancoAngeli, 2000; su Stahl (1660-1734), teorico del ‘flogisto’, vitalista, F. P. De Ceglia, Introduzione alla fisiologia di Georg Ernst Stahl, Lecce, Pensa Multimedia, 2000. 12  Di Robert Whytt (1714-1766, studi a Edinburgo e Leida) vanno menzionate in particolare, sulla scia di Willis e degli studi successivi, le Observations on the Nature,

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come canali, era da attribuire agli «spiriti nervosi» che vi fluivano; ma se ciò correggeva quanto di troppo meccanico e materialista vi era nell’ipotesi cartesiana, non si abbandonò comunque l’idea-base di Cartesio, che la sensibilità derivava dagli organi periferici della sensazione, trasmessa dal reticolo nervoso al cervello (e non all’aristotelico «sensorio comune» nel cuore); e che il cervello inviava quindi, sempre per il tramite dei nervi, le risposte così ai sensi, come alle fibre muscolari per le reazioni di movimento13. Proviamo a riassumere brevemente i tre stadi e modi nei quali furono affrontati, nella vicenda storica della medicina, i maux des nerfs, ossia l’ipocondria o melancholia negli uomini14, e soprattutto – che è quanto qui più ci interessa – i disturbi nervosi delle donne. La medicina ippocratico-galenica li classificava sotto due nomi, come vapori o come soffocazione della matrice: in entrambi i casi attribuiva la causa a disturbi del sistema riproduttivo, e in particolare a due patologie non troppo diverse. In un caso, si faceva risalire la causa del male al ritardo o sospensione patologica delle mestruazioni, che, ritenute innaturalmente nel corpo, avrebbero esalato vapori acri e velenosi, compromettendo tutto l’equilibrio sia corporeo sia mentale delle donne. In un secondo caso, si cercava la causa nella forzata e innaturale inattività dell’utero, concepito come una sorta di animale vivo e semovente in agguato nel corpo della donna: se era insoddisfatto perché non poteva realizzare la sua naturale vocazione, esso dava luogo a disturbi sovente spettacolari. La frustrazione delle funzioni uterine poteva consistere o nell’assenza di generazione e parto (secondo Ippocrate), o nella mancata produzione del seme femminile grazie alla soddisfazione sessuale dell’orgasmo, ritenuto indipensabile alla generazione (secondo Galeno). Causes, and Cure of those Disorders which have been COMMONLY called NERVOUS HYPCHONDRIAC, or HYSTERIC, To which are prefixed some Remarks on the Sympathy of the Nerves, by ROBERT WHYTT, M.D., F.R.S., Physician to his Majesty, President of the Royal College of Physicians, and Professor of Medicine in the University of Edinburgh, Edinburgh, T. Becket; P. Hondt, London; J. Balfour, Edinburgh, 1765, in part. sui sintomi pp. 224-328, e vari altri studi sulla fisiologia nervosa. 13   Per una breve ma esauriente sintesi dei progressi del dibattito nel Settecento, da Willis e Whytt sino a Haller e Bonnet vd. la Analyse des Fonctions du Système Nerveux, Pour servir d’Introduction à un Examen Pratique des Maux de Nerfs, par M. De la Roche, Docteur en Médécine de la Faculte de Genève, A Genève, Chez Du Villard Fils & Nouffer, 1778. 14   Il classico è Robert Burton (1577-1640), Anatomy of Melancholy, Text, ed. by T. C. Faulkner, N. K. Kiessling, R. L. Blair; Commentary, by B. Bamborough with M. Dodsworth, Oxford, Clarendon Press, 1989-1999, trad. it. R. Burton, Anatomia della malinconia, a cura di J. Starobinski, Venezia, Marsilio, 1983; a partire da B. R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno e la melanconia. Studi di storia della filosofia naturale, ragione e arte, trad. it. Torino, Einaudi, 1983.

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In tutti i casi, la sofferenza dell’utero provocava il suo muoversi inquieto nel ventre, quasi si distaccasse dagli ormeggi e vagasse liberamente nel corpo: il che si credeva causa dei sintomi di quella che ancor oggi chiamiamo isteria, o meglio grande isteria, dai gonfiori del ventre, all’oppressione cardiaca, sino al bolo isterico, alle convulsioni e alla catalessi. E vale la pena di ricordare che i galenici avevano anche elaborato una cura dell’isteria, consigliando che ostetriche o altre donne mature provocassero volutamente l’orgasmo ungendo e sfregando le parti sofferenti – un rimedio ancora attestato nel XVI secolo, e secondo un recente studio sino in pieno Seicento15. L’interpretazione dell’isteria come «soffocazione della matrice» aveva dunque una storia millenaria. Ma non fu solo la medicina ad occuparsi degli spettacolari disturbi nervosi caratteristici, in particolare, della ‘grande isteria’: in piena Controriforma, mentre medici pii e devoti vietavano inorriditi l’antico rimedio galenico per la sua incitazione alla lussuria16, frati esperti d’esorcismo scambiavano i fenomeni di grandi convulsioni e di trance, di ecolalia e catalessi, che si accompagnavano alle forme più acute del disturbo, con sintomi di possessione diabolica17. Come ha mostrato un classico studio di Walker, nel periodo delle guerre di religione in Francia spettacoli pubblici di esorcismo, nei quali gesuiti o cappuccini facevano ‘parlare’ i demoni che possedevano giovani donne, vennero usati come propaganda per otte-

 F. Alfieri, Da Granada a Cremona, dal matrimonio al chiostro: un caso di abuso dei doctores tra morale e scienza medica, ms. provvisorio. Ringrazio la dott. Fernanda Alfieri per avermene consentita la consultazione. Sulle convulsioni attribuite, ancora a fine Settecento in Francia, a maleficio o possessione, L. Wilson, Women and Medicine in the French Enlightenment. The Debate over Maladies des femmes, Baltimore and London, The Johns Hopkins University Press, 1993, Cap. VI, Ignorant and Superstitious of Overly Refined? The Convulsive Female in Physicians’ Critiques of Culture, pp. 125-159 (sulla corrispondenza dei medici di provincia colla Société Royale de Médécine). 16   Su questa cura mi permetto di rimandare a E. Brambilla, Patologie miracolose e diaboliche nelle Quaestiones medico-legales di Paolo Zacchia, in Paolo Zacchia. Alle origini della medicina legale 1584-1659, a cura di A. Pastore, G. Rossi, Milano, FrancoAngeli, 2008, pp.138162: 144-145, e (con qualche sopravvalutazione della novità della cura) G. Romeo, Esorcisti, confessori e sessualità femminile nell’Italia della Controriforma, Firenze, Le Lettere, 2000. 17  D.P. Walker, Possessione ed esorcismo. Francia e Inghilterra fra Cinque e Seicen­to, Torino, Einaudi, 1981; G. Romeo, Inquisitori, esorcisti e streghe nell’Italia della Contro­ riforma, Firenze, Sansoni, 1990; A. Biondi, Tra corpo e anima: medicina ed esorcistica nel Seicento (l’«Alexicacon» di Candido Brugnoli), in Disciplina dell’anima, disciplina del corpo, disciplina della società, a cura di P. Prodi, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 397-416; O. Niccoli, L’esorcista prudente. Il Manuale exorcistarum ac parochorum di Fra’ Candido Brugnoli da Sarnico, in Il piacere del testo. Saggi e studi per Albano Biondi, a cura di A. Prosperi, M. Donattini, G.P. Brizzi, Roma, Bulzoni, 2001, vol. I, pp. 193-217. 15

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nere conversioni al cattolicesimo; l’interpretazione della grande isteria come possessione demoniaca non cominciò a essere seriamente contestata che tra fine Seicento e prima metà del Settecento18, e la credenza continua endemica ancor oggi19. Vale la pena di sottolineare che medici galenici ed esorcisti non si scontrarono né misero alla prova le loro opposte epistemologie: le spiegazioni teologiche in termini di possessione ebbero forse, nel Seicento, il sopravvento su quelle galeniche in termini di «soffocazione della matrice», ossia di ostruzione dell’utero, ma senza che l’una si preoccupasse di confutare l’altra: la coesistenza fu semmai raggiunta col ritirarsi dei medici dal campo in cui operavano gli esorcisti. Può a questo punto apparire più chiaramente evidente quale profonda, epocale rivoluzione scientifica fosse operata da Cartesio con la sua nuova teoria dei rapporti sistema nervoso-cervello; e non credo sia eccessivo affermare che qui ebbero la loro prima origine non solo le teorie sensiste di fine Seicento e del Settecento, da Locke a Condillac, ma anche le nuove teorie, osservazioni e ricerche mediche sulle malattie nervose soprattutto femminili. Nel Settecento il sistema nervoso si poteva intendere o come una rete di fibre vibranti, o come un sistema circolatorio percorso da ‘spiriti nervosi’; ma in entrambe le ipotesi era paragonabile ad un insieme di canne o canali che trasmettevano (per impressione negli ‘spiriti nervosi’, oppure per vibrazione delle fibre) gli effluvii suoni e immagini ricevuti dai sensi e li trasportavano al cervello; il quale rispondeva inviando attraverso il sistema nervoso, per vibrazioni o quasi per scosse elettriche, comandi ai muscoli per contrarli e indurli alla risposta di movimento. Anche le passioni e le emozioni, nella fisiologia cartesiana, venivano spostate a prodotto non della mente ma dei sensi, accese dalle sensazioni provocate dagli effluvii esterni e condotte, attraverso i nervi, non al cuore ma al cervello: le passioni sensibili si spostavano dall’anima al corpo nel quale operavano i sensi 20.

 E. Brambilla, La fine dell’esorcismo: possessione, santità, isteria dall’età barocca all’Illuminismo, «Quaderni storici», XXXVIII (2003), pp.117-163. 19   W. Behringer, Le streghe, Bologna, Il Mulino, 2008 (ed. orig. Witches and Witch-Hunts. A Global History, Cambridge, Polity Press, 2004). 20  Descartes, Le passioni dell’anima, pp. 95-111 per la vista, pp. 72-83 per il rapporto sistema nervoso-moto muscolare (con le metafore dell’organo e dei giochi d’acqua); cfr. W. Riese, Descartes’ Ideas of Brain Function, in The History and Philosophy of Knowledge of the Brain and its Functions. An Anglo-American Symposium, Oxford, Basil Blackwell, 1958, pp. 115-135. 18

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Nell’Encyclopédie la voce Sensibilité, Sentiment 21 fu affidata a un medico della scuola vitalista di Montpellier, Henri Fouquet22, che ne trattò a lungo e minutamente in termini esclusivamente medico-scientifici, citando sì gli antichi, ma facendo in realtà cominciare la storia degli studi sui nervi e sulla sensibilità da Willis e da Van Helmont; e che si preoccupò di distinguere la sensibilità studiata nella fisiologia dalle manifestazioni patologiche, di cui si potevano distinguere gli effetti sui diversi organi del senso: La sensibilité (…) étant distribuée par doses à toutes les parties organiques du corps, chaque organe sent ou vit à sa manière, et le concours ou la somme de ce vies particulières fait la vie en génèral, de même que l’harmonie, la symmétrie et l’arrangement de ces petites vies fait la santé. Mais lorsque cette distribution et cette action économique de la sensibilité se trouvent dérangées par l’indisposition des nerfs ou des parties organiques, ce dérangement est l’état que l’on appelle de maladie (…)23.

In quest’accezione la malattia stessa veniva definita, anziché come ippocratico squilibrio degli umori, come un disturbo della sensibilità, a sua volta prodotto da una disturbata attività dei nervi o degli organi. Ma più comune era considerare la sensibilità in termini soltanto nervosi; i disturbi della sensibilità venivano così a coincidere specificamente con i maux des nerfs, non con l’alterazione della salute in generale. Nel Settecento si considerò la sensibilità, nel senso generico in cui la intendeva Galanti, come virtù propria del secolo, fondamentale nella donna e nell’uomo civilizzati24. Jaucourt la definiva nell’Encyclopédie: Disposition tendre et délicate de l’âme, qui la rend facile à être émue, à être touché (…) la mère de l’humanité, de la generosité; elle sert le mérite, secourt l’esprit, et entraîne la persuasion à sa suite.

  Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, par une Société de gens de lettres, mis en ordre et publié par M.r***, T. XV, Neufchastel, Chez S. Faulcher et C.ie, s.d., pp. 38-52. Dall’edizione on line di Gallica; anche http://portail.atilf.fr/ cgi-bin/getobject_?p.112:38./var/artfla/encyclopedie/textdata/IMAGE/. 22   Per una biografia di Fouquet e la ristampa della sua voce per l’Encyclopédie: Essai sur le pouls, par rapport aux affections des principaux organes (…) ouvrage augmenté d’un Abrégé de la doctrine et de la pratique de Solano,(…) et d’une Dissertation sur la théorie du pouls, traduite du latin de M. Fleming(…), par Henri Fouquet. Nouvelle édition, augmentée de l’article: «Sensibilité» inséré dans l’«Encyclopédie», par le même, et précédée d’une notice biographique sur l’auteur par M. T.-t., Montpellier, A. Seguin, 1818. 23   Encyclopédie, T. XV, voce Sensibilité, p. 42. 24   Parte della brevissima voce dell’Encyclopédie su Sensibilité (Morale), di D. J., ossia Jaucourt, T. XV, p. 52. 21

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Sensibilità non era dunque bonheur nella definizione morale; era piuttosto causa prossima o remota di malattia nella definizione medica. Il Settecento produsse una consistente letteratura medica, che poneva la sensibilità alla base di una nuova, più positiva e ben più delicata idea di malattia nervosa, rispetto alle antiche teorie del ‘furore uterino’ o della possessione diabolica. L’idea di sensibilità, approfondita in medicina e accolta in morale e in società come tratto o male distintivo delle anime delicate, rinnovava completamente la tradizione classica, sia medica che teologica, secondo la quale erano state affrontate e spiegate nei secoli precedenti le malattie nervose; e precisiamo che distinguiamo qui i disturbi nervosi dalla vera e propria follia, che sia gli antichi sia gli scienziati del Settecento sapevano ben distinguere a livello di osservazione ed esperienza. Certo è che il Settecento presenta, rispetto ai secoli precedenti, un indubbio primato quanto al numero delle opere mediche dedicate ai mali di nervi: dapprima alle malattie proprie dei «letterati» e «della gente applicata e sedentaria», secondo il titolo di un’opera del 1762 di Giuseppe Maria Pujati25 e di un’altra del 1770 dello svizzero Tissot26; poi soprattutto ai maux des nerfs

  Della preservazione della salute de’ Letterati e della gente applicata e sedentaria, Opera postuma di Giuseppe Antonio Pujati (…) data in luce da Anton-Gaetano suo Figlio, In Venezia, Presso Antonio Zatta, 1762, e 17682. Pujati si dilunga sui cosiddetti ‘non naturali’ ippocratico-galenici e in particolare veglia e sonno, moto, camminare, star in piedi e positura del corpo, ballo, suono e musica (no ai fiati!), cavalcare, caccia, barca, declamare e leggere ad alta voce … Ma non dice nulla sulle donne dato che non sono ‘letterate’. Sugli svaghi ed esercizi in rapporto ai ‘non naturali’ della medicina classica A. Arcangeli, Passatempi rinascimentali. Storia culturale del divertimento in Europa (secoli XV-XVII), Roma, Carocci, 2004, pp. 51-55 e passim. 26   Samuel Auguste André David Tissot (1728 - 1797), medico calvinista di Losanna, chiamato all’Università di Pavia da Giuseppe II, scrisse in francese e fu molto alla moda: fu assai noto per scritti come l’Avis au peuple sur sa santé (prima ed. 1764), L’onanisme (1769, decima edizione 1775). Di lui vanno ricordati in questo contesto l’Essai sur les maladies des gens du monde, Par M.r Tissot D.M., A Lausanne, Chez François Grasset & Comp., 1770, pp. 73-79 sui Maux des nerfs (trad. it. Saggio intorno alle malattie, a cui è soggetta la gente dedita a’ piaceri del mondo, cioè i cittadini, che vivono lautamente con agio e lusso. Opera del sig. Tissot (…) Arricchita degl’indici de’ trattati, e delle cose piu notabili. Tradotta dal francese, Napoli, nella stamperia ed a spese di Gaetano Castellano, 1771); anche Avis aux gens de lettres et aux personnes sédentaires sur leur santé, traduit du latin de M. Tissot, Paris, J.-T. Hérissant fils, 1767 (trad. da un Sermo inauguralis de valetudine litteratorum, trad. it. Della salute de’ letterati (…) Traduzione dal francese, Milano, appresso Giuseppe Galeazzi regio stampatore, 1768, chiaramente sulla stessa vena di Pujati, vd. nota precedente); e l’autonomo Traité des nerfs et de leurs maladies, 2 tomi, Avignon, Chambeau, 1800, il primo dedicato a confutare la teoria delle fibre nervose come canali in cui scorrono gli ‘spiriti animali’, il secondo alle cause remote delle malattie di nervi (simpatia tra organi, influenza delle passioni) e ai loro 25

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come mali tipici delle donne nelle loro funzioni riproduttive, in continuità con le spiegazioni classiche della proclività femminile a questo tipo di mali, ma su basi trasformate dalla nuova inventariazione delle cause: legate ormai assai meno all’utero, alle soppressioni dei mestrui, alle funzioni maternali della gravidanza, del parto e dell’allattamento27, e assai più alle delicate relazioni tra sistema nervoso e cervello. Una rivoluzione nella concezione medica della sensibilità, e in particolare della delicatezza femminile, si ripete nei medici specialisti e autori di opere in proposito: da Raulin a Beauchêne, da Pressavin a Roussel28, già commentati brevemente ma con acume da Hoffmann in un capitolo del suo classico La femme dans la pensée des Lumières29. I progressi realizzati nella ricerca anatomica e nell’osservazione medica da Willis e Sydenham e sistematizzati da Boerhaave30, tra secondo Seicento e primi del Settecento, furono accolti e rimasero a caratterizzare in modo relativamente univoco le concezioni settecentesche dei rapporti tra sistema rimedi, non senza una parte ancora espressamente dedicata alle ‘malattie della matrice’, ossia ai disturbi nervosi legati alle funzioni femminili, mestruo gravidanza parto allattamento. 27  Vedi nota precedente; anche la voce Vapeurs (sempre di Jaucourt) nell’Encyclopédie, T. XVI, pp. 836-837; e la scelta dei temi, frequente nei trattati sulle malattie nervose, che partono sì dai disturbi della sensibilità, dal cervello ai nervi al diaframma, ma la completano quasi sempre con capitoli più tradizionalmente dedicati ai mali di nervi connessi a gravidanza, parto e allattamento. 28   Joseph Raulin, Traité des affections vaporeuses du sexe, avec l’exposition de leurs symptômes, de leurs différentes causes, et la méthode de les guérir, Paris, J.-F. Hérissant, 1758; Jean Baptiste Pressavin, Nouveau traité des vapeurs, ou Traité des maladies des nerfs, dans lequel on développe les vrais principes des vapeurs, Lyon, Vve Reguilliat, 1770; Edme-Pierre Chauvot de Beauchêne, De l’Influence des affections de l’âme dans les maladies nerveuses des femmes, avec le traitement qui convient à ces maladies, Montpellier et Paris, Méquignon l’aîné, 1781; Pierre Roussel, Système physique et moral de la femme; suivi du Systême physique et moral de l’homme, et d’un fragment sur la sensibilité, (…) précédeé par l’Éloge historique de l’Auteur par J.-L.Alibert, Médécin de l’Hôpital Saint-Louis et du Lycée Napoleon, sixième edition (…) À Paris, Chez Caille et Ravier Libraires, 1813. 29   P. Hoffmann, La femme dans la pensée des lumières, préf. de G. Gusdorf, Paris, Editions Ophrys – Association des publications près les Universités de Strasbourg, 1977, in part. il commento a Raulin, pp. 184-185. 30  Di Hermann Boerhaave (1668-1738) in ed. postuma le Praelectiones academicae de morbis nervorum, quas ex auditorum manuscriptis collectas edi curavit Jacobus Van Eems, Lugduni Batavorum, P. Vander Eyk et C. de Pecker, 1761; la Dissertatio de usu ratiocinii mechanici in medicina, Lugduni Batavorum, H. Teering, 1709; e tra le sue opere più influenti gli Aphorismi de cognoscendis et curandis morbis, in usum doctrinae domesticae digesti, Lugduni Batavorum, apud J. Vander Linden, 1709, tradotto in francese e divulgato in tutta Europa col commento di Gerhard van Swieten, e le Institutiones medicae, in usus annuae exercitationis domesticos digestae, Editio altera prima longe auctior, Lugduni Batavorum, ex officina Boutesteniana, 1727.

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nervoso e sensibilità, soprattutto nelle donne. Si può a questo livello citare un solo, importante progresso osservativo-anatomico, che influenzò in modo decisivo sia le concezioni e il linguaggio medico, sia il linguaggio comune che in certa misura ne derivava, introducendo nella terminologia specifica e corrente sui mali di nervi un termine nuovo, quello di irritabilità, grosso modo traducibile con contrattilità: proprietà riscontrata nei muscoli e posta alla base del movimento, anche indipendentemente dagli stimoli ricevuti dalle innervature del sistema nervoso. Nel 1751 infatti il grande scienziato, medico e anatomista svizzero Albrecht von Haller concluse, sulla base di una serie di esperienze sui rapporti tra stimoli nervosi e contrazioni muscolari, che i muscoli erano dotati, come materia vivente, ma in certa misura anche subito dopo la morte, di una specifica proprietà: quella di essere irritabili, ossia di contrarsi automaticamente, se stimolati non solo dai nervi, ma anche da strumenti irritanti e stimolanti come punte o aghi. La materia muscolare, insomma, era dotata di irritabilità, come il sistema nervoso lo era di sensibilità31. In termini scientifici, la scoperta di Haller diede luogo a una controversia assai seria tra sostenitori del meccanicismo materialista puro, come La Mettrie, e coloro invece che, come Haller, vedevano nella proprietà irritabile o contrattile dei muscoli una prova, piuttosto, della dipendenza della ‘macchina’ umana da principi spirituali non interamente ad essa riconducibili32. Ma resta vero il fatto che i due termini, sensibilità e irritabilità, furono recepiti dai non specialisti, e travasati nel linguaggio più comune di descrizione delle malattie, come termini piuttosto intercambiabili che opposti: lo notava già acutamente Michel Foucault, che peraltro confondeva a sua volta irritabilità (dei muscoli) e sensibilità (dei nervi)33:

31   Per la risonanza delle scoperte di Haller (1708-1777) anche in Italia vd. ad es. Sull’insensibilità e irritabilità di alcune parti degli animali, Dissertazione de’ Signori Haller Zimmerman e Castell, trasportate in lingua italiana dal P. Gian Vincenzo Petrini delle Scuole Pie, Lettore di Filosofia e Matematica in Collegio Nazareno, colle Lettere del P. Urbano Tosetti sullo stesso argomento, In Roma, nella Stamperia di Giovanni Zempel presso Monte Giordano, 1765. Sul dibattito A. Dini, Il dibattito sulla teoria dell’irritabilità in Italia 17551767, in «Bollettino filosofico (Università della Calabria)», 7, 1987, Sez. I, pp. 67-85; sulla fisiologia ed embriologia di Haller M.T. Monti, Congettura ed esperienza nella fisiologia di Haller: la riforma dell’anatomia animata e il sistema della generazione, Firenze, Olschki, 1990. 32  Un’opposizione con sottintesi non troppo dissimili (per non parlare dell’a-scientifico mesmerismo) fu poi anche quella che oppose Luigi Galvani ad Alessandro Volta nella controversia sull’«elettricità animale», 1791-1792, su cui vd. M. Piccolino, M. Bresadola, Rane, torpedini e scintille. Galvani, Volta e l’elettricità animale, Torino, Bollati Boringhieri, 2003. 33  M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, trad. di F. Ferrucci, Milano, Rizzoli, 1963, p. 321-322.

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Fatto curioso ma indubbiamente caratteristico del pensiero medico nel XVIII secolo, nell’epoca in cui i fisiologi si sforzano di delimitare quanto più è possibile le funzioni del sistema nervoso (sensibilità e irritabilità; sensazione e movimento), i medici utilizzano confusamente queste nozioni nell’unità indistinta della percezione patologica, articolandole secondo un tutt’altro schema di quello proposto dalla fisiologia. Sensibilità e movimento non sono distinti. Tissot spiega che il bambino è più sensibile di ogni altro perché tutto in lui è più leggero e più mobile (Tissot, Traité des nerfs, t. I, p. II, p. 27434); l’irritabilità, nel senso in cui Haller intendeva una proprietà della fibra nervosa è confusa con l’irritazione, intesa come stato patologico di un organo provocato da un’eccitazione prolungata. Si ammetterà che le malattie nervose rappresentano stati di irritazione [stimolo, donde cure antistimolanti, bagni, oppio] legati alla mobilità eccessiva della fibra (…) Ma se la nozione di «fibra irritata» ha davvero questa funzione di confusione concertata, essa consente d’altra parte, nella patologia, una distinzione decisiva. I malati nervosi sono i più irritabili, cioè i più sensibili: tenuità della fibra, delicatezza dell’organismo, ma anche un’anima facilmente impressionabile, cuore inquieto, simpatia troppo viva per tutto quanto avviene intorno. Questa specie di risonanza universale, insieme sensazione e mobilità, costituisce la prima determinazione della malattia. Le donne, che hanno la «fibra fragile», che si lasciano facilmente trascinare, nel loro ozio, dai vivi movimenti della loro immaginazione, sono colpite dai mali di nervi più spesso dell’uomo, «più robusto, più secco, più bruciato dai lavori» (Tissot, Traité des nerfs, pp. 302, 278-279).

Non indugeremo qui ad analizzare i molti trattati che, in Inghilterra e in Francia, dopo Haller e con un addensamento negli anni 1760-1770, descrivono la malattia e ne passano in rassegna i sintomi35; basti dire che essi erano esempi del tono più lieve e moderato col quale si trattava ormai delle malattie di nervi, rispetto alla tradizione medica classica e tanto più all’ancor precedente sapere teologico su possessione ed esorcismo. I medici settecenteschi, soprattutto quelli francesi della scuola di Montpellier, affrontavano le malattie nervose in termini clinici sì, ma in tono quieto e senza drammaticità, utilizzando abbondantemente i nuovi termini messi in circolo dalla ricerca recente: sensibilità, mobilità, irritabilità, variamente attribuite alle fibre nervose e/o muscolari36. Un esempio eloquente può esser fornito da

 Le cit. sono di Foucault; per la cit. completa dell’opera di Tissot vd. supra, nota 26.  Vd. supra, note 12-13, 26-28. 36   Tissot, Discorso preliminare, in Sull’insensibilità e irritabilità di alcune parti degli animali, p. 11, così propone ad es. i rimedi: «[nelle] cagioni, e la cura delle malattie convulsive, tanto intimamente legate alle isteriche, (…) gli specifici rimangono del tutto annientati. Altro non s’ha da fare, che soddisfare a due indicazioni, levare lo stimolo, e sminuire l’Irritabilità» (corsivi miei). 34 35

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Beauchêne (1781, 1783)37, che mostra la confusione facile a prodursi tra quei termini, dal più tardo Roussel (1809,1813)38, o ancora dal precoce Joseph Raulin (1758)39, che Hoffmann ha analizzato a fondo nel suo capitolo dedicato al pensiero medico sui mali nervosi delle donne. Certo, come ancora osservava Foucault, a causa della nuova spiegazione fondata sui disturbi del sistema nervoso, e quindi della sensibilità, il significato morale delle ‘malattie nervose’ si altera profondamente (…) Ormai si è malati per troppo sentire (…) Ma [si è] anche molto più colpevoli, poiché tutto ciò a cui ci si è attaccati nel mondo, la vita che si è condotta, gli affetti avuti, le passioni e le immaginazioni presenti, coltivate con troppa compiacenza, si fondono nell’irritazione dei nervi, trovandovi sia il loro effetto naturale che la loro punizione. Tutta l’esistenza finisce per essere giudicata su questo grado di irritazione: abuso di cose innaturali, vita sedentaria di città, lettura di romanzi, spettacoli teatrali, zelo smodato per le scienze, «passione troppo viva per il sesso» o masturbazione (…) la punizione [del malato di nervi] è per la «colpevolezza» più profonda: quella che gli ha fatto preferire le monde alla natura40.

37   Beauchêne, De l’influence des affections de l’ame dans les maladies nerveuses des femmes, pp. 46-49: «Le vice de ces facultés dépend de la résolution ou de la concentration des forces sensitives et motrices. Dans le premier cas, la sensibilité étant trop émoussée, et la mobilité sans force, on éprouve des foiblesses, des langueurs, la pusillanimité, la terreur de la mort, etc. Les stimulus n’ont plus qu’une action foible sur les nerfs; tous les organes auxquels ils se distribuent, ne produisent que des mouvements lents et pénibles; les sécretions et les excrétions sont languissantes. La paralysie locale ou générale, complette ou incomplette, peut devenir le produit de ce vice, suivant que la puissance motrice et sensitive, qui se distribue aux muscles par le moyen des nerfs, sera affectée, ou suivant encore que la mobilité ou la sensibilité seront plus ou moins lésées dans l’action particulière à chaque organe (…) [Nel secondo caso al contrario] la concentration de ces mêmes forces productrices du sentiment et du mouvement, doit donner les affections vaporeuses que j’ai appelées sympathiques. La cause morbifique, (…) agissant sur un organe, y établit un centre de sensibilité, dont la sphère d’action sera d’autant plus grande, que la cause stimulante sera plus forte; ce qui produira un foyer d’irritabilité, d’où les mouvemens se dirigeront sur les organes les plus sympathiques avec celui qui est le centre de leur action: alors l’équilibre est détruit dans la distribution des forces sensitives et motrices, et les symptômes vaporeux naissent en foule. La sensibilité exaltée dans les organes sympathiques, les expose à une irritabilité toujours prochaine à l’occasion du moindre stimulus; les odeurs les plus foibles produisent les agitations les plus violentes. L’ame, toujours disposée à être remuée fortement, est livrée aux désordres les plus affreux, par la cause la plus légère. Les organes qui ne sont pas doués de la même sympathie, restent au contraire dans l’inertie et la foiblesse, parceque ils sont privés du principe de la sensibilité et de la mobilité…» (corsivi miei). Vd. anche supra, nota 28. 38   Roussel, Systême physique et moral de la femme, ma quelle del 1809 e 1813 sono la quinta e sesta edizione, vd. supra, nota 28. Su di lui Hoffmann, La femme dans la pensée des Lumières, pp. 141-152. 39  Vedi supra, note 28, 29. 40  Foucault, Histoire de la folie, pp. 323-324.

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Sarebbe facile, in effetti, moltiplicare – anche prima di Rousseau - le citazioni dai trattati sulle malattie nervose che ne attribuiscono tutta la (presunta) diffusione e frequenza alle pratiche malsane della vita cittadina, agli eccessi del raffinamento nelle corti e agli stimoli della civiltà, comparandoli con la (pretesa) salute delle campagne e robustezza di nervi dei villici41, e indugiando in confronti compiaciuti tra la (presunta) solidità delle fibre dei contadini, che coltivano solo desideri semplici, e i tormenti prodotti dalla continua moltiplicazione di impressioni, ambizioni e desideri che irritano le ‘fibre’ delle troppo raffinate dame della buona società. Cercheremo ora di vedere se, e in che misura, il discorso medico venne recepito e applicato in questa buona società, sia in Francia sia in Italia; e ci limiteremo a esporre qualche esempio, reperito in modo un po’ casuale, della sua traduzione in discorso filosofico, letterario, epistolare o autobiografico, col solo scopo di capire se e come il discorso medico influenzò o anche rispecchiò l’interpretazione che gli uomini e soprattutto le donne davano dei propri mali, identificandoli con le malattie nervose descritte nei trattati medici. Pare certo che dal discorso medico si trasferì nel linguaggio corrente non solo il riferimento a ‘fibre’ e ‘nervi’, sensibilità, irritazione e irritabilità; ma che si identificò largamente la serie di malesseri, dei quali i medici stessi, come Tissot42, facevano responsabili le passioni dell’animo e gli eccessivi stimoli della vita mondana, con la tendenza alle ‘convulsioni’ o ai ‘vapori’ – termini coi quali si indicavano, genericamente, manifestazioni che andavano dai disturbi della volontà e dell’umore a veri e propri attacchi isterici, ma ormai limitati a sintomi relativamente blandi: dall’eccitazione alla spossatezza, dal passaggio incontrollato dal riso al pianto, al rigore, al tremito e al bolo isterico. Questi maux des nerfs erano generalmente attribuiti, dal discorso medico e morale settecentesco, alla più grande sensibilità e delicatezza delle ‘fibre’ delle donne, più tenere di quelle maschili e paragonabili semmai a quelle dei bambini. In questi termini appare evidente che era facilissimo, ed anzi ricercato e coltivato, lo slittamento del discorso dal piano più propriamente fisiologico-medico, verso l’accezione più latamente sociale: a rilevare che la donna, quanto più era degna di ammirazione e amore non solo e non tanto per la sua bellezza, quanto per le sue doti di sensibilità, fragilità, delicatezza psicologica e morale, tanto più era fatalmente portata, 41  Ad es. Beauchêne, De l’influence des affections de l’ame dans les maladies nerveuses des femmes, Introduction, pp. 2-4; Tissot, Essai sur les maladies des gens du monde, pp. 40-41. 42  Vd. supra, nota 26, e per l’analogo Pujati nota 25.

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da queste medesime doti, a cadere in stati di sofferenza nervosa, ipersensibilità, e infine a divenire vittima di mali di nervi, vapori e convulsioni. In questa versione più comune sensibilità e irritabilità procedevano dunque in senso opposto alla ‘ricerca della felicità’. Come scrisse l’abate Galiani sin dall’esordio del suo Croquis d’un dialogue sur les femmes, la donna non era che un «animal naturellement foible et malade»43. In concreto gli scritti sia filosofici, sia soggettivi di cui sono riuscita a trovar traccia – in maggioranza degli anni 1780 e successivi – che parlano di convulsioni e febbri nervose, deliqui e spossatezze, e più in generale di mali prodotti dalle passioni piuttosto che dagli organi, ossia di origine – diremmo noi – psicosomatica piuttosto che fisica, non sono affatto univoci nel legare le ‘convulsioni’ all’infelicità femminile; ed anzi propongono diversi e opposti rimedi per superare le malattie nervose e approdare al bonheur – quasi non si trattasse di curare il corpo ma l’anima, e di sottoporla a una giusta disciplina o indirizzo, che la conduca al sospirato stato di salute con un regime di cura piuttosto morale che fisica. Se questa è la direzione più raffinata e complessa che possono prendere le riflessioni sul rapporto tra fisico e morale, tra mali di nervi e passioni, allora possiamo subito metter da parte le commedie di aperta satira e critica di costume, come La finta ammalata di Carlo Goldoni e Le convulsioni di Francesco Albergati Capacelli, che non penetrano nelle pieghe psicologiche dei maux des nerfs. Più garbata, la commedia di Goldoni44 si limita a leggere nella malattia nervosa della protagonista una finzione per nasconderne la vera causa, che è l’infelicità prodotta dall’amore non corrisposto per il medico che la cura. Goldoni si concentra sull’abusata satira della medicina, ponendo in contrasto due medici intriganti e interessati a coltivar malattie, anche immaginarie, pur di trarre dagli ingenui clienti un ricco onorario, col buon medico Onesti, oggetto dell’amore della finta ammalata. Onesti rifiuta di prender sul serio i suoi sintomi e ordina moto, viaggi e distrazioni – com’è comune tra i medici convinti che i mali di nervi non siano che finzione più o meno consapevole. E tuttavia, non c’è dubbio che i sintomi siano anche prodotto di una passione repressa o réfoulée; ma il tema è appena sfiorato e il dénoûment è assai semplice: l’innamorata confessa l’amore nascosto, il buon padre consente il matrimonio e la malattia scompare, a riprova che non era appunto che finzione.   Opere di Ferdinando Galiani, a cura di F. Diaz, L. Guerci, Illuministi italiani, vol. VI, Milano-Napoli, Ricciardi, 1975, p. 635. 44  C. Goldoni, La finta ammalata, In Bologna, per Girolamo Corciolani ed eredi Colli a S. Tommaso d’Aquino, 1759. 43

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Ancora più elementare, per non dir quasi rozza, è la trama de Le convulsioni di Albergati Capacelli45, superficiale ritratto dei costumi del secolo: vi è messa alla berlina una partenza per la villeggiatura nel corso della quale la capricciosa protagonista non esita a ricorrere al ricatto di deliqui e convulsioni per ottenere ciò che vuole, ma in questo caso solo per vanità e frivolezza: non partirà sinché non son pronti gli abiti alla moda, e – con la solita frecciata all’usatissimo e riprovatissimo costume del cicisbeo – non partirà sinché al marito troppo debole non si affianca l’amante, simbolo di status e motivo di superficiale soddisfazione emotiva46. Passiamo da un estremo all’altro, ed esaminiamo Le rêve de d’Alembert di Diderot47. Il grande filosofo, autore anche di un volume di Eléments de physiologie, conosce bene le teorie mediche di Montpellier, tanto che pone a dialogare, con se stesso e con Mademoiselle de l’Espinasse, il medico Théophile de Bordeu48, collega di Henri Fouquet, che abbiamo già incontrato come autore dell’articolo medico Sensibilité, Sentiment, per l’Encyclopédie. Diderot condivide con loro l’idea che per vincere le malattie nervose occorra rafforzare i «fasceaux de fibres» (nervi) che conducono le sensazioni al «reseau central» (cervello) e trasmettono gli impulsi ai sensi e alle membra; anche se non sempre sembra distinguere chiaramente nervi e muscoli, uniti nelle innervature (come del resto si riscontra non di rado anche nei trattati medici). Occorre dunque, per Diderot, rafforzare i fasci di fibre e il loro centro per non esser dominati dai vapori e dalle convulsioni. Ne offre un esempio alquanto impressionante un aneddoto posto all’inizio del Rêve49, che tratta di una malattia nervosa attribuita alle tradizionali cause legate alla riproduzione:

 F. Albergati Capacelli, Le convulsioni farsa, In Venezia, s.n.t., 1796.   Sulla stessa lunghezza d’onda, di biasimo per la pretesa sensibilità delle donne e il loro vizio di circondarsi di spasimanti o cicisbei, il trattato, che si presenta come medico ma è in realtà satirico, Le convulsioni delle signore di bello spirito, di quelle che affettan letteratura e dell’altre attaccate dalla dolce passione d’amore, MALATTIA DI QUESTO SECOLO, con l’Anatomia di alcuni Cuori, e Cervelli di esse, del signor dottor Giovanni Pirani di Cento, In Venezia, Graziosi, 1794. Sui cicisbei vd. nota 80. 47  D. Diderot, Rêve de d’Alembert, in Oeuvres philosophiques. Textes établis, avec introductions, bibliographies et notes, par P. Vernière, Paris, Editions Garnier, 1956, in part. pp. 356-357. Per qualche utile anche se sommario commento nell’ottica che qui interessa, Anne Vincent-Buffault, The History of Tears. Sensibility and Sentimentality in France, Houndsmille, Macmillan, 1991 (I° ed. Paris, Editions Rivages, 1986), pp. 44-45. 48   Hoffmann, La femme dans la pensée des Lumières, pp. 130-141. Su di lui vd. D. Boury, La philosophie médicale de Théophile de Bordeu, Paris, Champion, 2004. 49  Diderot, Rêve de d’Alembert, in Oeuvres philosophiques, pp. 347-348. 45 46

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Une femme tomba à la suite d’une couche, dans l’état vapoureux le plus effrayant; c’étaient des pleurs et des ris involontaires, des étouffements, des convulsions, des gonflements de gorge, du silence morne, des cris aigus, tout ce qu’il y a de pis: cela dura plusieurs années. Elle aimait passionémment, et elle crut s’apercevoir que son amant, fatigué de sa maladie, commençait à se détacher; alors elle resolut de guérir ou de périr. Il s’établit en elle une guerre civile dans laquelle tantôt c’était le maître qui l’emportait, tantôt c’étaient les sujets. S’il arrivait que la réaction des filets du réseau fût égale à la réaction de leur origine, elle tombait comme morte; on la portait sur son lit où elle restait des heures entières sans mouvement et presque sans vie; d’autres fois elle en était quitte pour des lassitudes, une défaillance générale, une extinction qui semblait devoir être finale. Elle persista six mois dans cet état de lutte. La révolte commençait toujours par les filets; elle la sentait arriver. Au premier symptôme elle se levait, elle courait, elle se livrait aux exercices les plus violents; elle montait, elle descendait les escaliers; elle sciait du bois, elle bêchait la terre. L’organe de sa volonté, l’origine du faisceau se roidissait; elle se disait à elle-même: vaincre ou mourir. Après un nombre infini de victoires et de défaites, le chef resta le maître, et les sujets devinrint si soumis que, quoique cette femme ait éprouvé toutes sortes de peines domestiques, et qu’elle ait essuyé différents maladies, il n’a plus été question de vapeurs.

Il metodo di cura sembra dar ragione a coloro che contrapponevano la robustezza e ‘insensibilità delle fibre’ dei contadini alle delicatezze dei cittadini. In effetti Bordeu e Diderot non sembrano considerare la sensibilità né come una virtù positiva, né come un segno di superiore intelligenza: al contrario. Per Bordeu la «sensibilité, (…) ou l’extrème mobilité de certains filets du réseau est la qualité dominante des êtres médiocres». E insiste: quesqu’un être sensible? Un être abandonné à la discrétion du diaphragme50. (…) Un mot touchant a-t-il frappé l’oreille, un phénomène singulier a-t-il frappé l’oeil, et voila tout à coup le tumulte intérieur qui s’élève, tous les brins du faisceau qui s’agitent, le frisson qui se repand, l’horreur qui saisit, les larmes qui coulent, les soupirs qui suffoquent, la voix qui s’interrompt (…) plus de sang-froid, plus de raison, plus de jugement (…).

L’uomo saggio, se ha la sfortuna di aver ricevuto questa sensibilità o impressionabilità, dovrà far di tutto per dominarla e riprendere il controllo

  Ibidem, pp. 357-358. La teoria viene da Théophile de Bordeu, Recherches anatomiques sur la position des glandes et sur leur action, Paris, G.-F. Quillau père, 1751, che afferma di seguire J.B. van Helmont, Ortus medicinae, id est initia physicae inaudita (…) Editio nova (…), Amsterodami, apud L. Elzevirium, 1652. Anche Diderot, negli Eléments de physiologie, fa del diaframma un organo dell’emotività (seguendo probabilmente colui che fu il primo a sostenerlo, Willis): «Il y a sympathie marquée entre le diaphragme et le cerveau…Si le diaphragme se crispe violemment, l’homme souffre et s’attriste. Si l’homme souffre et s’attriste, le diaphragme se crispe violemment…» (Oeuvres, T.IX, p. 322). 50

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della ragione sui moti scomposti delle passioni corporee51. Diderot ritornerà anche altrove su quest’opposizione tra genio lucido ed essere sensibile: «La sensibilité n’est guère la qualité d’un grand génie (…) Ce n’est pas son coeur, c’est sa tête qui fait tout»52. Mademoiselle de l’Espinasse si scandalizza, nel Rêve, di questo attacco alla virtù del secolo; ma è proprio grazie a tale ‘virtù’, ribatte il medico, che ella stessa non avrà mai pace e resterà sempre una bambina: C’est pour n’avoir pas travaillé à lui rassembler que vous aurez alternativement des peines et des plaisirs violents, que vous passerez votre vie à rire ou à pleurer, et que vous ne serez jamais qu’un enfant.

La competenza medica e la profondità filosofica di Diderot possono cedere il passo a descrizioni meno scientifiche, che dan voce alla convinzione maschile che i ‘vapori’, come nelle commedie, anche nella vita non sian che volubilità e ricatto. Nei suoi Mémoires, Marmontel non si discosta dallo stereotipo dell’uomo seduttore e cacciatore, che a stento riesce a districarsi dalle molte amanti che lo adorano e insieme lo perseguitano. Narrando come, in due mesi, debba sciogliersi dai molti legami galanti in cui è impigliato, volendo lasciare la capitale su invito di una delle sue amanti, che gli offre una sua villa perché possa dedicarvisi in pace alla scrittura, Marmontel narra dei ‘vapori’ della più tenace delle sue liaisons , le cui crisi di nervi ci descrive in un pezzo di bravura ricco tanto di luoghi comuni maschilisti quanto di accurati dettagli clinici: Mais ce que vous devez savoir, c’est que les perfides douceurs dont j’étoit abreuvé furent mêlées des plus affreuses amertumes; que la plus seduïsante des femmes étoit en même temps la plus capricieuse; que, parmi ses enchantements, sa coquetterie inventoit à chaque instant quelque moyen nouveau d’exercer sur moi son empire; (…) qu’elle sembloit se faire un jeu d’avoir en moi, tour à tour, l’amant le plus hereux, et le plus malhereux esclave. Nous étions seuls, et elle avoit l’art de troubler notre solitude par des incidens imprévus. La mobilité de ses nerfs, la vivacité singulière des esprits qui les animoient, lui causoient des vapeurs, qui seules auroient fait mon tourment. Lorsqu’elle étoit dans le plus brillante d’enjouement et de santé, ses accès lui prenoient par des éclats de rire involontaires; au rire suc-

51   «Le grand’homme, s’il a malheureusement reçu cette disposition naturelle, s’occupera sans relache à l’affaiblir, à la dominer, à se rendre maître de ses mouvements et à conserver à l’origine du faisceau tout son empire (…) il regnera sur lui même et sur tout ce qui l’environne (…) Les êtres sensibles ou les fous sont en scène, il est au parterre; c’est lui qui est le sage», ibidem. 52  Diderot, Rêve de d’Alembert, p. 358 nota, sulla distanza secondo Diderot del «génie lucide et de l’être sensible».

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cédoient une tension dans tous ses membres, un tremblement et des mouvements convulsifs qui se terminoient par des larmes. Ces accès étoient plus douloureux pour moi que pour elle-même; (…) heureux si ses caprices n’avoient pas occupé l’intervalle de ses vapeurs! 53

Prima di passare a qualche esempio dei rapporti tra sensibilità e felicità (o infelicità) che emergono con voce più diretta dalle opere e dai carteggi di donne letterate, soffermiamoci ancora su due casi maschili, più seri di quello del frivolo Marmontel: i casi di Rousseau e di Alfieri , che smentiscono almeno in parte l’ipotesi che i ‘vapori’ fossero malattie fatte oggetto del discorso degli uomini, ma sofferte esclusivamente dalle donne. Entrambi, Rousseau e Alfieri, superano una vera e propria malattia nervosa durante l’adolescenza o la prima gioventù, in un momento in cui stentano a trovare la loro vera vocazione. Rousseau, nell’«ardeur de la jeunesse», soffre di essere inoperoso e di non avere di una donna, e «brûlant d’amour sans objet», si sente in colpa verso la madre da cui vuole comunque separarsi. L’eccessivo esercizio cerebrale negli scacchi si trasforma in debolezza e quindi in una vera e propria malattia: je fus pris non de l’ennui, mais de la mélancolie; les vapeurs succédèrent aux passions; la langueur devint tristesse; je pleurais et soupirais à propos de rien; je sentais la vie m’échapper sans l’avoir goutée (…)

Le cure materne complicano la malattia di distacco, ma proprio la madre lo cura e lo salva mentre egli geme che morirebbe felice tra le sue braccia. Una malattia già romantica e un poco torbida, ma non grave; tipica del fresco egoismo e della volontà feroce di auto-affermazione di Rousseau54. Più seria, senza dubbio, la depressione nervosa in cui cadde nel 1773 il giovane Alfieri, ribellione réfoulée non solo contro l’apparente vacuità della sua esistenza oziosa di cadetto, ma soprattutto contro l’avvilente ‘servitù’ in cui era caduto come cavalier servente di una dama torinese. La malattia non

53   Mémoires de Marmontel, publiés avec préface, notes et tables par M. Tourneaux, T. Ier, Paris, Librairie des Bibliophiles, 1891, Livre III, pp. 189-190. 54   J.-J. Rousseau, Les Confessions, Préface de J.-B. Pontalis, Paris, Gallimard, 1959-1973, L.V (1732-39), pp. 283-284. Sul sentimentalismo, in quanto distinto dalla più fisica sensibilité, J. McGann, The Poetics of Sensibility: a Revolution in Literary Style, Oxford, Clarendon Press, 1996, p.33: «In so far as a distinction was maintained between sensibility and sentimentality, sensibility was the more primitive of the two. An affect of instinct and ‘animal spirits’, its signs appear as the body’s most primitive registrations: blushes, tears, sighs and faintings, blind and involuntary responses. Sentimentality, by contrast, was a sophisticated acquirement, a sympathetic understanding gained through complex acts of conscious attention and reflection. Achilles’ wrath is naïve, Rousseaus’reveries, sentimental».

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risolve però, in questo caso, l’impasse sentimentale e psicologica. Risanato, ricorda tristemente Alfieri, «ripigliai tristemente le catene amorose». Citiamo dalla sua Vita 55: Alla fine del ’73 ebbi una malattia non lunga, ma fierissima, e straordinaria al segno che i begl’ingegni, che in Torino non mancano, dissero argutamente ch’io l’avea inventata esclusivamente per me. Cominciò con lo dar di stomaco per ben trentasei ore continue, in cui non v’essendo più neppur umido da rigettare, si era risoluto il vomito in un singhiozzo sforzoso, con una orribile convulsione del diaframma che neppur l’acqua in piccolissimi sorsi mi permettea d’ingojare. I medici, temendo l’infiammazione, mi cacciarono sangue dal piede, e immediatamente cessò lo sforzo di quel vomito asciutto, ma mi si impossessò una tal convulsione universale, e subsaltazione dei nervi tutti, che a scosse terribili ora andava percuotendo il capo della testiera del letto, se non me lo teneano, ora le mani e massimamente i gomiti, contro qualunque cosa vi fosse stata aderente. Né alcunissimo nutrimento, o bevanda, per nessuna via mi si poteva far prendere, perché all’avvicinarsi o vaso o instromento a qualunque orifizio, prima anche di toccare la parte era tale lo scatto cagionato dai subsulti nervosi, che nessuna forza valeva a impedirli; anzi, se mi voleano tener fermo con violenza era assai peggio, ed io ammalato anche dopo quattro giorni di totale digiuno, estenuato di forze, conservava però un tale orgasmo di muscoli, che mi venivano fatti allora degli sforzi che non avrei mai potuti fare in piena salute (…) Finalmente nel sesto la convulsione si allentò, mediante le cinque o le sei ore il giorno che fui tenuto in un bagno caldo di mezz’olio e mezz’acqua. (…) La rabbia, la vergogna, e il dolore, in cui mi facea sempre vivere quell’indegno amore, mi aveano cagionato quella singolar malattia. Ed io, non vedendo strada per me di uscire di quel sozzo laberinto, sperai, e desiderai di morirne.

La malattia nervosa di Alfieri appare senza dubbio strettamente collegata al suo stato psicologico, e caratterizzata da tutti i sintomi delle ‘convulsioni’. Ma senza commentar più oltre – il testo in fondo si commenta da sé – passiamo finalmente ai modi nei quali il linguaggio medico dei maux des nerfs si travasa nel linguaggio comune e nella vita giornaliera di alcune donne del Settecento. Un buon esempio, perché medio e non eccezionale, ci viene fornito da una voce italiana, forse più tipica delle voci eccezionali sinora ascoltate. Nelle molte centinaia di lettere del carteggio inedito di una salonnière, la bergamasca Paolina Secco Suardo Grismondi, in Arcadia Lesbia Cidonia (1746-1801), conservato in parte nella biblioteca Angelo Maj di Bergamo, in parte in un archivio privato a Meda, le molte lettere dirette

55  V. Alfieri, Vita scritta da esso, a cura di L. Fassò, Edizione nazionale delle opere, Asti, Casa dell’Alfieri, 1951, vol. I, Cap. XIV, Malattia e ravvedimento (1773), pp. 139-140.

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a Clementino Vannetti e a Saverio Bettinelli ci trasportano in un circuito blandamente letterario, provinciale e relativamente attardato. Esso, da un lato, mostra come prevalgano ancora la moda ‘sonettante’ dell’ultima riforma d’Arcadia ad opera di Gioacchino Pizzi, e lo svago del teatro dilettante56; dall’altro come si viva secondo una consuetudine di divertimenti in città e in villa, ben lontani così dalle brillanti conversazioni parigine, come dagli impegnativi temi della philosophie e della politica di modello francese. Qui si ammettono il teatro, la poesia e un poco di musica ad affiancare le ben più comuni occupazioni del gioco e dell’ozio. Ma Paolina dev’esser donna abbastanza intelligente e ambiziosa, e non si accontenta di regnare in questo piccolo mondo provinciale e salottiero; né, d’altronde, è stata educata allo studio prolungato e concentrato. Sin troppo celebrata per le sue poesie57, sempre in cerca di fama come letterata e salonnière, non passa però mai il confine da dilettante a professionista. Tra le distrazioni della vita mondana di rado la musa le fa visita; e quando si lascia dominare dalla neghittosità subito si giustifica attribuendone le ragioni all’eccessiva ‘sensibilità’, causa di una salute sempre cagionevole che la obbliga all’ozio58. Così scrive ad esempio a Vannetti da Bergamo l’ 8 settembre 1784:

 E. Graziosi, Presenze femminili: fuori e dentro l’Arcadia, in Salotti e ruolo femminile in Italia tra fine Seicento e primo Novecento, a cura di M. L. Betri, E. Brambilla, Venezia, Marsilio, 2004, pp. 67-96: 82. 57   Paolina Grismondi a Verona, in G. Biadego, Da libri e manoscritti. Spigolature, Verona, Libreria H.F. Muenster, 1883, pp. 75-100; F. Tadini, Lesbia Cidonia. Società, moda e cultura nella vita della contessa Paolina Secco Suardo Grismondi (Bergamo, 1746-1801), Bergamo, Moretti & Vitali, 1995 (dove è pubblicato anche un gruppo di lettere); M. Cavazza, Lesbia e Laura: donne spettatrici e donne sperimentatrici nell’Italia del Settecento, in Lorenzo Mascheroni. Scienza e letteratura nell’età dei Lumi, a cura di M. Dillon Wanke, D. Tongiorgi, Bergamo, Bergamo University Press-Edizioni Sestante, 2004, pp. 157-176. Paolina, secondo Clementino Vannetti (vd. nota seguente) risulta autrice di sonetti e «bellissimi sciolti agli amici sul tema [si noti] della sua infermità e successiva guarigione»; riceve Elogi da Saverio Bettinelli e dal conte Pietro Moroni; sua è l’Ode del Sig. Le Brun al conte di Buffon tradotta in ottava rima dalla contessa Paolina Secco-Suardo Grismondi fra le pastorelle arcadi Lesbia Cidonia, Bergamo, Nella stamperia Locatelli, 1782; e in sua memoria saranno pubblicate le Poesie della contessa Paolina Secco-Suardo Grismondi fra le pastorelle arcadi Lesbia Cidonia, Bergamo, Dalla stamperia Mazzoleni, 1822. 58   Traggo le citazioni da B. Carcano, «Minerva et Venus in una». Il carteggio di Paolina Grismondi Secco Suardo con Saverio Bettinelli e Clementino Vannetti (1782-1798), tesi di laurea, rel. E. Brambilla, Università degli Studi di Milano, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1990/1991. Gli originali sono nella Biblioteca Angelo Mai di Bergamo, MMB 828-831, 448 lettere a Paolina di 91 corrispondenti in 4 volumi; le lettere a Clementino Vannetti, 1782-1794, nella Biblioteca Civica di Rovereto, Accademia degli Agiati, fondo Vannetti, e in microfilm nel fondo Paolina Secco Suardo Grismondi nell’Angelo Maj di Bergamo; le lettere a Saverio Bettinelli, 1782-1798, 56

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anche fra la quiete dolce della Villa ove ho passato gran parte della scorsa cocentissima stagione non ho fatto che viver oziosa; quasi affatto lasciando ogni studio in abbandono. Ma ho voluto espressamente starmene in un ozio sì perfetto, anzi l’ho dovuto, per vedere se la mia salute potesse trarne conforto e lena, come in fatti s’è trovata a tal rimedio oltremodo obbligata. Ora io potrei scrivere di star benissimo se gli ultimi passati tumultuosi giorni [della Fiera annuale] non m’avessero già un po’ troppo affaticata59.

E sullo stesso tono il 23 aprile 1785: La tua Lesbia, oh mio dolce Vannetti, ti estima, ti onora, e ti ama; non posso dir rallegrati che ha lasciato il letto, siede, e passeggia mentre trovomi tuttora inferma. La leggera, lenta mia febbre non ha per anco da me fatto partenza. I medici però la credono semplicemente convulsiva, e di nessuna fatal conseguenza60.

Sicché non a torto Vannetti le risponde sforzandosi di scuoterla dall’ozio e di impegnarla nella composizione poetica: Voi siete nata a far vie più brillare la nostra lingua coll’eleganza della prosa, e coi vezzi del verso; avete una fantasia gentile, qual conviensi al vostro sesso; un giudicio degno del nostro, un cuore sensibilissimo [corsivo mio], molto studio, grand’uso del mondo, ed un invidiabile ozio. È dunque vano ogni timore, nessun pretesto vi scusa: se non iscrivete, se non pubblicate, voi, Lesbia mia, siete rea. Godo di vostra salute infinitamente, lodo al sommo le vostre scorse per le amene ville a bear gli amici del vostro aspetto; ma perché render infruttuose con un’umiltà irragionevole sì belle occasioni di risvegliar dal sonno la polverosa cetra, che già lagnasi forse del vostro crudele abbandono (…)? Due villeggiature io feci lo scorso autunno, ed amendue s’ebbero qualche tributo di versi.

E un mese dopo torna alla carica proponendo, contro le presunte, «lente febbri convulsive» che inabilitano l’amica bergamasca, cure che sanno di impazienza maschile61 contro l’ozio e le piume nelle quali la malata si compiace di avvolgersi e di ricever visite:

nell’Archivio privato Antona-Traversi di Meda: 4 volumi rilegati (gli stessi probabilmente da lei ordinati insieme a Giuseppe Beltramelli), contenenti rime e lettere autografe, incluse 246 lettere a Bettinelli. Cfr. L. Ricaldone, Bettinelli e le donne, in Saverio Bettinelli. Un gesuita alla scuola del mondo, Atti del convegno, Venezia 5-6 febbraio 1997, a cura di I. Crotti, R. Ricorda, Roma, Bulzoni, 1998, pp. 95-107; R. Troiano, Paolina Grismondi. Note sulla scrittura femminile del Settecento (con un’Appendice di documenti inediti), in Studi in onore di Antonio Piromalli, a cura di T. Iermano, T. Scappaticci, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, pp. 292-326. 59  Carcano, «Minerva et Venus in una», p. 239. 60   Ibidem, p. 252. 61  Assai più rozzo e diretto, nel bollare convulsioni e disturbi nervosi come finzioni, il medico Giovanni Pirani nel già cit. trattato Le convulsioni delle signore di bello spirito, pp.

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qual vita è cotesta per voi, se siete costretta a languir tanti mesi sotto le coltri; e qual vita è per me, se io non posso rivolger a voi il pensiero, che tosto l’idea de’ vostri mali mi contamini? Il nostro dottor Fontana62, per altro, fratello de’ due sì celebri professori di Pavia, e di Firenze, espertissimo Medico, al quale ho io chiesto parere sulla vostra febbre nervosa per mia quiete, e che vi estima oltre ogni dire, non sa approvare, che vi trattenghiate a letto più lungamente. «Questo (dicevami egli) è più un vantaggio per chi visita la bella Dama, che per la Dama stessa, essendo tai febbri niente affatto pericolose, ma ostinatissime, ove si accarezzino col tepore del letto. Io dunque per me le prescriverei quattro cose con infallibil certezza di pronta guarigione: e queste sono, abbandonar di botto le piume, far gran moto ogni giorno in carrozza, cibarsi parcissimamente, e sopra tutto far all’amore. Oh quest’ultimo poi è il rimedio più sicuro, il rimedio solenne, ed eroico, col quale ho io più volte guarito dei Letterati, e son guarito io medesimo. Faccia all’amore la nostra Contessa, e non dubiti punto, ch’ella guarirà presto prestissimo». Ecco, mia Lesbia, il decisivo consulto, il quale però non finisce di piacermi per l’ultimo articolo. Perché mi piacesse anche per questo, bisognerebbe ch’io fossi costì. Vi giuro, ch’io allora sarei il primo a farvelo osservare colla maggiore esattezza63.

La lettera di Vannetti, solo apparentemente severa, si chiude poi con la raffica d’obbligo di complimenti e di platoniche, ma non troppo, allusioni amorose. Ma che qualcosa, al di là delle coquetteries con amici e spasimanti, si celasse dietro l’inazione di Paolina risulta assai chiaro quando, per una combinazione imprevista di circostanze, ella può lasciar Bergamo per un viaggio che la conduce da Milano, a Genova e di qui in Toscana: di colpo stentiamo a riconoscere la neghittosa poetessa afflitta da lenta «febbre ner-

69-70, così riferisce le parole di una signora romana in cura da lui: «“Se io non conoscessi d’esser fatta per gli uomini, e non sentissi stimolarmi continuamente a cercare tutti que’ mezzi, che possano procurarmi la loro stima, ed amore; se non provassi frequentemente quell’affanno, che provo, qualora veggo spesse volte riuscir vani, ed inutili questi mezzi, ed a fronte di tante mie cure, e pensieri; io credo di certo che totalmente risanerei da queste molestissime Convulsioni”. (…) Io le risposi: “ma Signora quando voi dunque a queste cose la causa attribuiate de’ vostri incomodi, questo mi sembra, permettetemi, un male di fantasia, da cui potete perciò guarire ogni volta che coll’aiuto della ragione guidate la volontà”». 62   Giuseppe, fratello di Felice Direttore del Museo di Storia Naturale di Firenze, e di Gregorio professore di matematica avanzata a Pavia. 63  Carcano, «Minerva et Venus in una», pp. 253-254, Rovereto, 4 maggio 1785. Sul conflitto tra il desiderio di notorietà come autrice e il timore di uscire sconfitta dal confronto con letterati a lei superiori, sull’origine del ‘lato oscuro’ della personalità di Paolina vd. le pertinenti osservazioni di L. Ricaldone, Il secolo XVIII come laboratorio della modernità, in A. Chemello, L. Ricaldone, Geografie e genealogie letterarie. Erudite, biografe, croniste, narratrici, épistolières, utopiste tra Settecento e Ottocento. Saggi, Padova, Il Poligrafo, 2000, pp. 25-26.

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vosa», e ci troviamo di fronte a una donna allegra, interessata, instancabilmente curiosa e attiva. Ozio coatto, gabbie dorate sono dunque alla base di una celata quanto profonda insoddisfazione femminile anche nei circoli più privilegiati. La ‘sensibilità’ delle donne, nel Settecento, non è affatto incoraggiata nelle svolte decisive della loro vita: non la passione, non l’amore, ma il calcolo e la ragione devono governarle nel momento tra tutti più cruciale, la scelta del marito. Ciò che Pietro Verri teme di più per la figlia Teresa – del tutto tipico in questo – è che si faccia guidare dalla passione anziché dalla ragione in questa scelta decisiva: La scelta del marito è il principalissimo oggetto e se v’è momento nella vita in cui abbiate bisogno di tutto il soccorso della ragione egli è quello in cui vi determinate a legarvi con nodo indissolubile ad un uomo dalla volontà di cui deve dipendere il vostro bene o mal essere. Conseguenza di ciò è importantissima cosa che non siate appassionata e che la determinazione sia fatta a sangue freddo. Fate ogni sforzo e usate ogni possibile industria per non innamorarvi prima di sceglierlo. Se le voluttà e le sole sperate delizie del letto vi guidano all’altare Teresina mia siete sedotta da una chimera. Quando i piaceri fisici sono il principal fine cui miriate colle nozze, vi annunzio che poco dopo colla abituazione svaporeranno e non troverete maggiore voluttà nel toccare vostro marito di quello che proviate nel toccare voi stessa. Ma quando la conosciuta conformità di genio, la dolcezza del costume, la probità de’ sentimenti, la benevolenza che un giovane ha per voi tranquillamente vi persuadono che avrete in quello un amico, un compagno amoroso, un consolatore, un discreto confidente, e un amante, (…) allora la voluttà viene animata dal sentimento, la gratitudine, la voglia di rendere beato l’amico del vostro cuore, il desiderio di piacergli sempre più la rendono stabile e saporita. Così vissi io con la mia Maria vostra buona madre (…)64.

Se il Settecento è il secolo della sensibilità non lo è però delle passioni: la felicità che si addita alle donne non sta nell’esaltarne le sensazioni ma, tutt’al contrario, nel raggiungere la pace dell’anima mediante il controllo delle passioni. Lo ha colto assai chiaramente Robert Mauzi, citando Madame de Lambert e Madame de Puisieux come portavoci di una concezione del bonheur tutta incentrata sulla rinuncia alle passioni, sulla «immobilité de la vie heureuse»65. Anche Madame de Lambert scrive alla figlia non troppo diversamente da Verri:

  P. Verri, “Manoscritto” per Teresa, II ed. a cura di G. Barbarisi, Milano, LED-Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, 1999, pp. 186-187. 65   R. Mauzi, L’idée du bonheur dans la littérature et la pensée françaises au XVIIIe siècle, Genève-Paris, Slatkine Reprints, 1979 (Paris 1960), pp. 338-385. La citazione è il titolo di un capitolo. 64

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Ne nous croyons hereuses, ma fille, que lorsque nous sentons les plaisirs naître au fond de notre âme (…) le bonheur est dans la paix de l’âme (…) Il faut fermer toutes les avenues aux passions (…) Il faut craindre ces grands ébranlements de l’âme, qui préparent l’ennui et le dégoût (…) Il faut préserver le coeur et l’esprit de tout commerce excessif avec l’imagination, préférer les plaisirs modérés (…) aux plaisirs vifs (…) la santé et l’innocence (…) à (…) aucune passion ardente66.

Lo stesso Rousseau, adorato dalle donne perché riconosce anche a loro il diritto alla passione67, non assolve però Julie dall’avervi ceduto, e quando ne dipinge la felicità è pur sempre nei termini di un raggiunto equilibrio tra ragione e passioni, che molto deve alla moderazione e alla rinuncia: Julie a l’âme et le corps également sensibles. La même délicatesse règne dans ses sentiments et dans ses organes. Elle était faite pour connaître et goûter tous les plaisirs, et longtemps elle n’aima si chèrement la vertu même que comme la plus douce des voluptés. Aujourd’hui qu’elle sent en paix cette volupté suprême, elle ne se refuse aucune de celles qui peuvent s’associer avec celle-là: mais sa manière de les goûter ressemble à l’austérité de ceux qui s’y refusent, et l’art de jouir est pour elle celui des privations; non de ces privations pénibles et douloureuses qui blessent la nature, mais des privations passagères et modérées qui conservent à la raison son empire, et servant d’assaisonnement au plaisir en préviennent le degoût et l’abus. (…) Un objet plus noble qu’elle se propose encore en cela est de rester maîtresse de

66  Anne Thérèse de Marguenat de Courcelles, Marquise de Lambert, Avis d’une mère à sa fille, in Oeuvres, 2° éd., Lausanne, M.-M. Bousquet, 1748, p. 59, 89, 72-73, cit. da Mauzi, L’idée du bonheur, pp. 338-341. 67   G. May, Rousseau’s ‘Antifeminism’ Reconsidered, in French Women and the Age of Enlightenment, ed. S. I. Spencer, Bloomington, Indiana University Press, 1984, pp. 309-317: May nota giustamente che la passione che ebbero per le figure femminili di Rousseau (Julie e soprattutto Sophie), donne non certo timide e sottomesse, come Madame de Roland, Madame De Stäel e George Sand, fu dovuta al fatto che esse ritennero che Rousseau ne avesse compreso il diritto all’amour-passion, ne avesse rivalutato la dignità anche indipendentemente dal tradizionale spirito di sottomissione e sacrificio; esse ritenevano insomma che nessuno avesse capito e valorizzato quanto lui il diritto anche delle donne ai sentimenti e alla passione. Vd. anche J. McManners, Morte e illuminismo. Il senso della morte nella Francia del XVIII secolo, Bologna, Il Mulino, 1984 (1981), p. 639: «come donna, come moglie e come madre (e come esempio del modo in cui si doveva affrontare la morte) Julie divenne l’idolo della generazione conquistata dalla sensibilité, che precedette l’avvento della Rivoluzione». Per un significativo esempio dell’affermarsi, tra 1780 e 1800, del matrimonio d’amore, modello nuovissimo per l’Italia e anche la Francia (già prevalente invece in Inghilterra) si veda il delizioso carteggio tra due sposi torinesi di fine secolo: «Fidel amant, sincer ami, tendre époux». Uomini, valori e patrimoni delle nobiltà d’antico regime nella corrispondenza di Casimiro e Marianna San Martino di Cardè (1795), a cura di T. Ricardi di Netro, pref. di D. Maldini Chiarito, Torino, Laboratorio di studi storici sul Piemonte e gli Stati Sabaudi- Silvio Zamorani Editore, 2003.

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soi même, d’accoutumer ses passions à l’obéissance, et de plier tous ses désirs à la règle. C’est un nouveau moyen d’être heureuse; car on ne jouit sans inquiétude que de ce qu’on peut perdre sans peine; et si le vrai bonheur appartient au sage, c’est parce qu’il est de tous les hommes celui à qui la fortune peut le moins ôter68.

E per tornare all’Italia, l’immagine del bonheur femminile quale ce lo dipinge ancora Pietro Verri, nell’elogio postumo e idealizzato della rimpianta moglie Marietta, appare fondata su di una (secondo Pietro del tutto naturale) calma e assenza di passioni: Maria aveva un naturale felice, niente in lei si faceva per impeto o scossa, forse l’organizazione69 era la base di questa prudenza (…). Ella non aveva né timori grandi, né voglie violente, né passioni che la agitassero, si equilibrava cautamente colle persone alle quali aveva a fare, e poco inquieta sull’avenire, niente sedotta dalla imaginazione cercava di passare in pace e tranquillità un giorno dopo l’altro (…) La calma del di lei animo e l’assenza o almeno la poca forza delle passioni in lei lasciavano il di lei ingegno sempre disposto a conoscere la verità, e conosciuta ch’ell’era non si lasciava affascinare da verun genere di seduzione…Un amante l’avrebbe trovata fredda, ma discreta e buona; ma un libertino non avrebbe ardito di pensare nemmeno a sedurla per quanto fosse amabile e bella, perché da tutte le di lei maniere spirava modestia e una virtù tanto più sicura quanto che appariva impastata col carattere suo70.

Qui siamo ancora condizionati dal linguaggio maschile: questo è ciò che gli uomini del secondo Settecento desiderano nelle donne, e che dipingono come frutto della loro natura71. Se già nella pur moderatamente letterata Paolina Grismondi si è intravisto ben altro spessore d’insoddisfazione, e una   J.-J. Rousseau, La nouvelle Heloïse, V.me Partie, Lettre II à Milord Edouard (ed. a cura di M. Launey), Paris, Garnier-Flammarion, 1967, p. 409. 69   Il termine sembra rimandare a letture mediche: la buona organizzazione delle componenti solide e fluide del corpo, come base e presupposto della salute, è sostenuta anche dal celebre Tissot (vd. supra nota 26), molto tradotto in italiano, ad es. nell’Avviso al popolo sulla sua salute (…) Tradotto dal francese nell’italiano idioma. Dal professore (…) Vincenzo Garzia, diviso in due tomi, e tratto dall’ultima edizione francese, alla quale vi è aggiunta la traduzione della prefazione in tedesco linguaggio del signor Hirzel, In Napoli, presso Benedetto Gessari, 1764 (altre ed. tradotte 1770, 1771, 1775). 70  Verri, “Manoscritto” per Teresa, pp. 6-7. 71   Galanti, Osservazioni intorno a’ romanzi, p. 52, sostiene «esser state le donne da un ottimo provvedimento di Dio formate per dilettare gli uomini, per rendere dolci e umani i loro costumi, e per portarli, con un commercio di spirito, di gusto e di sentimento, alle virtù sociali. Naturalmente esse sono allegre, vivaci ed avide di piacere. Il loro carattere è dolce, ingenuo, leggero, voluttuoso. Sono portate per li sentimenti teneri e delicati, e quasi non mai per le gran passioni». Ma alla fine del saggio cade anche lui, contraddittoriamente, nella solita invettiva contro i cicisbei, p. 87 sgg. 68

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‘calma’, un ozio che erano forse frutto di rimozione e di réfoulement, piuttosto che di felice indole naturale, potremo trovare in qualche esempio sia italiano sia francese sintomi più netti di distanziamento da questo soave cammeo. Anzitutto, occorre sottolineare che la sensibilité è ben lungi dall’essere la base principale delle malattie e degli umori femminili. In molti dei più noti epistolari delle salonnières francesi essa non fa neppure la sua comparsa. Molte soffrono di malattie fisiche anche gravi. Chi scorra ad esempio le ultime lettere a Ferdinando Galiani di Madame d’Épinay72, afflitta d’idropisia e ormai non lontana dalla morte, troverà accenni ai suoi gravi mali fisici, ma proposti con una brevità e discrezione che badano soprattutto a minimizzare, o almeno a volgere anche il male in filosofia: Je ne sais comment j’ai la force de vous écrire ces quatre mots. J’ai depuis dix ou douze jours une fluxion dans la tête qui me fait des douleurs insupportables, et surtout depuis hier, où elle s’est jetée sur les dents. Je suis hébétée exactement, et je ne me réveille que par rage. Je crains bien de passer un hiver douloureux. Les maux qui attaquent la tête sont pour moi les plus cruels, et ceux auxquels toute ma philosophie échoue73.

Tornando al rapporto tra sensibilité e bonheur, dovremo registrare dopo il 1760 la decisa svolta che imprime nei loro rapporti il pre-romanticismo roussoviano: nei suoi romanzi sensibilità e passione fanno tutt’uno, e se la ragione le vince, il cuore denuncia però che un ben ingiusto sacrificio è stato così compiuto. Come ha scritto Antonio Trampus74 a proposito de La nouvelle Heloïse Giulia cerca la propria felicità cercando di guidare passione e sentimenti verso una forma di progressiva stabilizzazione, che però viene continuamente messa in crisi ogniqualvolta le pare di aver raggiunto un equilibrio. In realtà, quindi, non è felice, ma si nutre dell’illusione di poterlo essere, ricorrendo all’immaginazione. Quando alla fine Giulia muore, questo evento esprime la rivendicazione estrema dei sentimenti negati, che si manifesta nell’ultima sua lettera a Saint-Preux contenente una dichiarazione postuma d’amore (…).

Imboccata ormai questa via, concluderemo volgendoci di nuovo a voci femminili, per considerare la concezione che hanno della felicità tre impor-

72   Gli ultimi anni della signora d’Épinay. Lettere inedite all’abate Galiani (1773-1782), a cura di F. Nicolini, Bari, Laterza & figli, 1933. 73   Gli ultimi anni, p. 69, À Paris, le 15 novembre 1773. È stato giustamente notato da Edward Shorter che prima delle rivoluzioni recenti della medicina sembra che assai più alta fosse la soglia di tolleranza del dolore. 74  A. Trampus, Il diritto alla felicità. Storia di un’idea, Roma-Bari, Laterza, 2008, pp. 165-166.

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tanti protagoniste del secolo: Émilie du Châtelet, Luisa Stolberg contessa d’Albany e Madame de Staël, l’una ancora a metà secolo, le altre al passaggio tra Sette e Ottocento, tra sensibilità e passione romantica. E va subito detto che tutte e tre mettono al centro della loro concezione della felicità, ben lungi dal ridurla a sensibilità nervose e ozi delicati, due condizioni o diritti che le collocano ben lontane dalle convenienti idee maschili sulla femminile ‘delicatezza delle fibre’: il diritto allo studio e quello alla passione. In un bellissimo, breve scritto attribuito da Mauzi al 1747, il Discours sur le bonheur, Émilie du Châtelet mostra di non condividere neppur lontanamente la concezione così diffusa nel secolo, secondo la quale la felicità consiste nella moderazione e nel controllo delle passioni: Il faut commencer par se bien dire à soi-même et par bien se convaincre que nous n’avons rien à faire dans ce monde qu’à nous y procurer des sensations et des sentiments agréables. Les moralistes qui disent aux hommes: réprimez vos passions, et maîtrisez vos désirs, si vous voulez être heureux, ne connoissent pas le chemin du bonheur. On n’est heureux que par des goûts et des passions satisfaites; [je dis des goûts], parce qu’on n’est pas toujours assez heureux pour avoir des passions, et qu’au défaut des passions, il faut bien se contenter des goûts75.

Certo, Madame du Châtelet riconosce che lasciar libero corso alle passioni è anche e forse anzitutto fonte di dolore e non di felicità; analizza con straordinaria modernità e consapevolezza, non a caso, il dolore che le ha procurato il graduale spegnersi della passione per lei di Voltaire, mentre ella lo amava ancora; e ripercorre nei termini più razionali e insieme più sensibili il duro cammino che ha dovuto percorrere per giungere, alla fine di quell’amore, a una relativa serenità, a un equilibrio fondato sull’accettazione e la rassegnazione. Si tratta a mio avviso di un autentico, piccolo capolavoro, anche per il modo estremamente aperto e diretto col quale Émilie riflette sulla sua vicenda: una ‘scrittura dell’io’ di raro equilibrio tra soggettività e oggettività. Ma Émilie è una donna eccezionale non solo per il rapporto con Voltaire. Si ritiene anzi definita, prima di tutto, non dall’amore ma dalla passione per lo studio. Le sue avanzate conoscenze scientifiche, la sua dedizione alle matematiche e la sua familiarità con la lettura concentrata dei libri balzano alla fine chiaramente in primo piano nel Discours sur le bonheur; e la 75   Gabrielle Émilie Le Tonnellier du Breteuil, marquise du Châtelet, Discours sur le bonheur, Édition critique et commentée par R. Mauzi, Paris, Société d’ Édition “Les belles lettres”, 1961, pp.4-5 (sono state eliminate le note critiche al testo dell’editore). Vd. Emile du Châtelet: Rewriting Enlightenment Philosophy and Science, eds. J.P. Zinsser, J.C. Hayes, Oxford, Voltaire Foundation, 2006; Madame du Châtelet. La femme des Lumières, sous la dir. de É. Badinter, D. Muzerelle, Paris, Editions de la BNF, 2006.

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conclusione, se una ve ne dev’essere, è che tra tutte le passioni proprio quella per lo studio non tradisce mai, e può assicurare una ragionevole felicità, che è insieme una dichiarazione d’indipendenza: Par cette raison d’indépendance, l’amour de l’étude est de toutes les passions celle qui contribue le plus à notre bonheur. (…) Il est certain que l’amour de l’étude est bien moins nécessaire au bonheur des hommes qu’à celui des femmes. Les hommes ont une infinité de ressources pour être heureux, qui manquent entièrement aux femmes (…) les femmes sont exclues, par leur état, de toute espèce de gloire, et quand, par hasard, il s’en trouve quelqu’une qui est née avec une ame assez élevée, il ne lui reste que l’étude pour la consoler de toutes les exclusions et de toutes les dépendances auxquelles elle se trouve condamnée par état76.

La sensibilità che ci ha accompagnato per tutto il corso del secolo, ancora assai vicina, ai suoi inizi, al discorso medico, di ordine fisiologico-anatomico, piuttosto che ai temi della sensibilità letteraria e sentimentale, al volgere verso l’Ottocento assume piena autonomia, e viene ormai decisamente declinata come sensibilità aperta alla passione, in termini pre-romantici o pienamente romantici. Giulia Beccaria, mentre segue con apprensione i gravi mali di nervi del figlio Alessandro, già diagnosticabili come vere e proprie nevrosi del comportamento, assicura di scrivere «col core sulla penna»77. Allo stesso modo Madame de Staël, nel carteggio che intesse con Vincenzo Monti durante il suo viaggio in Italia del 1805 (quello da cui nascerà il celebre romanzo Corinne ou l’Italie), lungi dal voler frenare l’esuberanza del suo cuore insiste  Emilie du Châtelet, Discours sur le bonheur, pp. 20-21.   G. Beccaria, «Col core sulla penna», Lettere 1791-1841, a cura di M.G. Griffini Rosnati, Premessa di C. Carena, Milano, Centro Nazionale Studi Manzoniani, 2001 («Quaderni Manzoni» II), ad es. lettera a Sophie Condorcet, (Brusuglio) 30 juillet (1817), p.120: «Que vous dirais-je de notre bien aimé Alexandre? Votre tendre et active sollicitude accroit mes regrets; il est toujours de même ne pouvant pas faire un pas seul non a cause de faiblesse mais par une crainte convulsive qui ne le laisse pas maître de lui (…) Il saisit toutes les occasions pour se distraire, mais il faudrait des distractions a sa maniere qui n’est pas celle de tout le monde»; e ancora, Parigi 26 giugno 1820, Giulia a Luigi Tosi, pp. 257-258: «Ella saprà la malatia grave di Aless. Lei s’immagini come abbiamo passato queste settimane, Enrichetta ed io, che oggi appunto sono tre settimane da che è amalato a letto. Grazie a Dio il male principale cioè l’infiamazione al cervello ed al petto è svanita ma i nervi indeboliti sono al sommo e così non può fin’ora vedere un meglio deciso». Ha rifiutati i bagni proposti da un medico «che si dice bravissimo» e vuole tornare a Brusuglio, ma i medici dicono «che sarebbe un’imprudenza e che con questi caldi eccessivi non è possibile (…) Egli ora sta alzato tutto il giorno ma, Dio santo, legge e legge e su questo per pietà non si può dir niente e certo tutto il male principale viene dalla sua applicazione che potrebbe divenir fatale. Questo sfogo sia tra noi perché assolutamente non se ne può parlare». 76 77

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sul suo «enthousiasme», assicura il poeta della sua «susceptibilité d’amitié»; ma teme che entusiasmo e «amicizia appassionata»78 possano venir fraintese in un paese dove ancora prevalgono, sull’espressione diretta e sincera dei sentimenti, ipocrite e compassate bienséances – specie nel triangolo tra dama, marito e cavalier servente, ancora in uso nei salotti italiani malgrado Rousseau. De Staël, roussoviana fervente conquistata all’amore romantico79, disapprova e mette in ridicolo un simile costume80; e vi contrappone in se stessa la libera espressione della passionalità, chiave di volta per comprendere la sua grandezza e originalità di scrittrice. Al perfetto ma un po’ freddo poeta Monti, che le ha vantato i pregi della poesia fondata sull’immaginazione, ossia sul libero ricorso alle favole neoclassiche, ribatte che per lei vale tutto il contrario: «Mon imagination est toute dans mon coeur; mon talent comme mon caractère viennent de là»81. Tanto Germaine Necker quanto Emilie du Châtelet hanno ben chiare le dure rinunce cui sono costrette le donne, soprattutto se dotate di grande intelligenza, dal ruolo che vien loro attribuito dalla concezione medica e morale settecentesca: tanto più sensibili quanto più deboli e fragili sono le loro ‘fibre’, quanto più adatte a sentire che a fare o pensare. Paolina Grismondi sembra accettare il suo ruolo, eppure soffre di esser costretta in uno stereotipo; donne più colte e più decise di lei lo rifiutano. Madame de Staël, nel suo saggio De la littérature considerée dans ses rapports avec les institutions sociales, dedica un intero capitolo ai conflitti delle donne scrittrici82. Come Madame du Châtelet si considera definita dalla sua vocazione,

78  Madame de Staël, Correspondance générale, texte établi et présenté par B. W. Jasinski, T. V, P. II, Le Léman et l’Italie, 19 mai 1804-9 novembre 1805, Paris, Hachette-CNRS, 1985, a Vincenzo Monti, Turin 19 juin [1805], p. 599; anche allo stesso, Chambéry, 23 juin [1805], p. 605. 79  May, Rousseau’s ‘Antifeminism’ Reconsidered. 80   Per la critica ai cicisbei vd. ad es. Mme de Staël, Corinne ou l’Italie. Texte établi, présenté et annoté par S. Balayé, Paris, Honoré Champion, 2000 (Oeuvres complètes, Série II, Oeuvres littéraires, t.III), Livre VI, Ch.II, pp. 132-133; E. Brambilla, Salotti, intrattenimenti e amori tra fine Settecento e primo Ottocento. Dall’epistolario di Vincenzo Monti con dame letterate, in Dall’origine dei Lumi alla Rivoluzione. Scritti in onore di Luciano Guerci e Giuseppe Ricuperati, coordinamento di D. Balani, D. Carpanetto, M. Roggero, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2008, pp. 79-104; sul tema vd. ora R. Bizzocchi, Cicisbei. Morale privata e identità nazionale in Italia, Roma-Bari, Laterza, 2008. 81  Madame de Staël, Correspondance générale, T. V, P.II, Le Léman et l’Italie, a Vincenzo Monti, Naples, 8 mars [1805], p. 513. E ancor prima, allo stesso, Rome, 13 fevrier [1805]: «l’impulso del core détérmine et déterminera toujours ma vie», p.498. 82  Madame de Staël, De la littérature considerée dans ses rapports avec les institutions sociales, édition critique par Paul van Tieghem, T. Ier, Genève, Droz-Paris, M.J.Minard, 1959, Cap.IV, «Des femmes qui cultivent les lettres», pp. 331-342, su cui vd. S. Balayé,

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in questo caso non scientifica bensì letteraria, che vuole alimentata dalle sue passioni; e, tipica esponente della sensibilità romantica, non crede più nella ricerca del bonheur come prodotto di passioni soltanto piacevoli: «le malheur est plus fécond mille fois que toutes les joies de ce monde, et le coeur humain n’est jamais sondé jusqu’au fond que par la douleur et la pitié»83. Una donna che certo non ha la grandezza delle due appena ricordate, ma che non è da meno di loro nel rifiutare lo stereotipo della delicata fragilità femminile, tanto più ammirata quanto più è passiva e impotente, è, contemporanea di Madame de Staël, Luisa Stolberg contessa d’Albany: celebre non solo come compagna d’Alfieri, ma anche per il salon che tenne a Firenze84 e per la sua insolita cultura. Nel suo carteggio del 1799-1800 con un’altra salonnière, l’amica Teresa Regoli Mocenni di Siena, Luisa d’Albany non solo non nasconde la sua scarsa stima per la ‘sociabilità’ italiana con le sue tipiche ‘conversazioni’ serali, ma dice chiaramente che per esservi ben accette le donne colte devono – com’è del resto prevedibile – nascondere accuratamente la loro cultura: Il faut dans ce monde se faire pardonner les bonnes qualités qu’on peut avoir, et surtout l’esprit e l’instruction, dans un petit pays [Siena] où tout le monde est ignorant, surtout les femmes, et où on croit que ceux qui lisent sont des impies (…). Pour moi je prends la compagnie du soir comme un délassement, et je m’amuse des sots, que j’ai en grand nombre, comme si c’était des gens d’esprit; j’en tire parti, et jamais je ne parle de ce que j’ai lu ni de ce que je sais: aucune femme ne peut m’accuser de lui avoir jamais fait connaître que j’ouvrais un livre85.

Anche Luisa Stolberg, in conclusione, non crede che la felicità consista nella sensibilità, nutrita da compagnie, salotti e conversazioni; anche la sua idea di bonheur è l’indipendenza che si acquista – cosa assai difficile per una donna, ma non impossibile – con la passione per lo studio e la compagnia dei buoni libri, quasi un nuovo genere di devozione laica:

Madame de Staël ou comment être femme et écrivain, in Ead., Madame de Staël. Écrire, lutter, vivre, Genève, Droz, 1994, pp. 13-23; C. Herrmann, Corinne, femme de génie, in «Cahiers staeliens», N.S, 35, 1984-1, n.° monogr. Madame de Staël: lectures de femmes, pp. 60-76. 83  Madame de Staël, Correspondance générale, T. V, P. II, Le Léman et l’Italie, Rome, 16 mars [1805], p. 517. 84  M.T. Mori, Salotti. La sociabilità delle élite nell’Italia dell’Ottocento, pref. di M. Meriggi, Roma, Carocci, 2000, pp. 84-87 e passim. 85   Lettres inédites de la Comtesse d’Albany à ses amis de Sienne (1797-1820). Matériaux pour servir à l’histoire d’une femme et d’une société, T. Ier, Lettres è Teresa Regoli Mocenni et au chanoine Luti, Mises en ordre et publiées par L.-G. Pélissier, Paris, Albert Fontemoing Editeur, 1904, n. 86, 28 décembre 1799, pp. 227-228.

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Il faut avouer une chose: qu’il y a un grand attrait, pour qui aime les livres et la littérature ou les sciences, qui nous dégoûte de tout le reste; parce que c’est un plaisir si indépendant, et qui transporte l’âme dans une région qui la sublime, et lui fait regarder les choses de ce monde avec mépris. Je trouve, que cette passion a beaucoup d’analogie avec la dévotion: elle est toute d’imagination; l’une est prophane, et l’autre est spirituelle86.

  T. Ier, Lettres è Teresa Regoli, n. 115, 5 juillet 1800, p. 294.

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Massimo Galtarossa ALLE FONTI DELLA FELICITÀ: LE TERME DI ABANO FRA INTERVENTO DELLO STATO ED INTERESSI PRIVATI*

L’importanza della diffusa presenza dell’arte medica per la salute e la vita dei sudditi era già stata richiamata nel 1749 nei precetti di Ludovico Antonio Muratori nell’opera Della pubblica felicità mutata, più che dai Lumi, dal moralismo cristiano e dall’ideale di chiesa primitiva come uno specifico campo d’attività del principe1. Nel corso del XVIII secolo la salute non solo si carica di un valore positivo, ma essa viene presentata come il fondamento stesso di quella felicità che, secondo lo svizzero protestante Samuel-Auguste Tissot, autore del Saggio sopra le malattie delle persone del gran mondo tradotto a Venezia nel 1770, può e deve essere ricercata sulla terra mutando il sistema di vita e vivendo in accordo con la natura 2. D’altra parte la ricchezza ne facilitava il raggiungimento, perché l’orrore della malattia minacciava la ‘pubblica felicità’ dei contadini impoveriti, secondo quanto scriveva in quel periodo l’abate vicentino Alberto Fortis in una recensione all’opera di Giambattista Vasco su La felicità pubblica Questo saggio è stato pubblicato con il titolo Stato veneziano e Studio patavino nei progetti sulle Terme padovane (1765-1783), «Archivio veneto», Serie V, CLXXI (2008), pp. 95-122. Abbreviazioni: AAUP = Archivio Antico dell’Università di Padova; ASPd = Archivio di Stato di Padova; ASV = Archivio di Stato di Venezia; BMCV = Biblioteca del Museo Civico Correr, Venezia; BUPd = Biblioteca Universitaria, Padova. 1  L.A. Muratori, Della pubblica felicità oggetto de’ buoni principi, a cura di C. Mozzarelli, Roma, Donzelli, 1996, pp. 89-95; P. Del Negro, Italia, in L’Illuminismo. Dizionario storico, a cura di V. Ferrone e D. Roche, Roma-Bari, Laterza, 1987, p. 436; V. Ferrone, La società giusta ed equa. Repubblicanesimo e diritti dell’uomo in Gaetano Filangieri, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 335. 2   Saggio sopra le malattie delle persone del gran mondo opera del sig. Tissot dottore medico, In Venezia 1770, cc. 81-84, citato da G. Olmi, Salute e malattie della “gente di mondo” al tramonto dell’Antico Regime, in Il luogo di cura nel tramonto della monarchia d’Asburgo: Arco alla fine dell’Ottocento, a cura di P. Prodi e A. Wandruszka, Bologna, Il Mulino, 1996, p. 33. *

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considerata ne’ coltivatori di terre proprie, apparsa a Brescia nel 17693. Negli anni Ottanta del Settecento il lessico dei lumi era ormai penetrato negli strati culturali elevati della Repubblica di Venezia risparmiati o quasi dalle riforme4. A Verona si diffonde e si precisa, sotto forma manoscritta, il tema della ‘felicità clinica’, cioè il problema dell’indicare i mezzi per godere del piacere della salute e mitigare le sofferenze di un’umanità che si ricercava liberata delle malattie5. In questo senso gli anni fra il 1765 ed il 1779 rappresentano un periodo significativo sul piano scientifico ed organizzativo nella storia culturale della Repubblica di Venezia. Nel quadro della più vivace attività didattica dello Studio patavino vengono istituite due cattedre: l’una ad indirizzo idrologico, ad Thermas Aponenses (1768), e l’altra ad indirizzo storico, ad scribendam historiam Aponensium (1769), coeve a una fase di sviluppo dei cosiddetti bagni, che acquistano un rilievo e un’importanza di livello superiore con evidenti riflessi di natura economica e sociale6. Un decreto del Senato veneziano del settembre del 1770 conferma l’attenzione del governo per l’educazione dei sudditi, che rientrava negli interventi intesi ad assicurare la felicità. Anzi, nella ristrutturazione degli edifici del soppresso ordine dei gesuiti per l’istituzione delle scuole pubbliche, si affermava che per gli inve-

3   Illuministi italiani. Riformatori delle antiche repubbliche, dei ducati, dello Stato Pontificio e delle isole, a cura di G. Giarrizzo, G. Torcellan e F. Venturi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1965, p. 322; L. Ciancio, Autopsie della Terra. Illuminismo e geologia in Alberto Fortis (1741-1803), Firenze, Olschki, 1995, pp. 167-239. 4  Del Negro, Italia, p. 437. 5  Del resto l’idea di felicità era penetrata nel Veneto nel lessico delle classi sociali elevate attraverso le traduzioni francesi dell’opera Le bonheur (1796-1797) di Helvétius, a cura dell’abate Perini, e attraverso le recensioni dei giornali veneziani, in particolare del «Giornale enciclopedico» (1774-1789), come elemento rivelatore dell’eco del pensiero dei ‘filosofi’ italiani, quali Pietro Verri e Matteo Palmieri, nel Veneto. Cfr. P. Preto, L’Illuminismo veneto, in Storia della cultura veneta (6 voll. in più tt.), vol. 5: Il Settecento (in 2 tt.), Vicenza, N. Pozza, 1985-1986, t. I (1985), pp. 20-21 e 33-35; A. Olivieri, La felicità dello Stato e del cittadino nella cultura veronese e la Rivoluzione francese, in Tra conservazione e novità. Il mondo veneto innanzi alla Rivoluzione del 1789. Atti del convegno di Verona (11 dicembre 1989), Verona, Accademia di agricoltura, scienze e lettere, 1991, pp. 75-76. 6   Significativamente il Mingoni proponeva che il nome del professore alle Terme fosse stampato nel rotulo dietro gli altri professori di medicina nel seguente modo: ad exercendam medicinam practicam in thermis patavinis exe D. Joseph Mingoni patavinus. A mense junio usque ad medium septembris in thermos immorabitur operam medicam egris ibi degentibus pretiturus, et quecunque ad rectam thermarum administratione pertinent moderatutus: ASV, Riformatori dello Studio, b. 36, c. 669v.; cfr. L. Premuda, La medicina, in Storia della cultura veneta, vol. 5: Il Settecento, t. II (1986), pp. 258-259.

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stimenti «dovrà supplire la cassa opere pie, non essendovi opere di carità né più diffusa, né più interessante di questa per la pubblica e privata felicità»7. Secondo un’esauriente informazione settecentesca dal titolo Saggi intorno le cose sistematiche dello Studio di Padova (1769-1771) attribuibile al cancelliere artista Matteo Giro, si parla delle Terme d’Abano come fonti salubri perché «era tanto pronta, e mirabile la guarigione, che sembrava in essi soli raccolta tutta la medicina»8. La carta topografica dei bagni disegnata dal pubblico perito Giacomo Savio nel 1765 si inserisce in quella ricerca intesa ad «acquistare una giusta idea della salubrità, e piacevolezza di quel soggiorno, [impossibile] senza conoscere le posizioni dei luoghi, i loro rapporti, e le loro vicinanze o distanze», perché «in qualunque modo la si voglia raccontare, quindi, la felicità ha bisogno di essere rappresentata»9. In questa congiuntura la riscoperta del valore salutare di tale luogo si viene a coniugare con le esigenze direttive della politica economica ad indirizzo mercantilistico intrapresa dalla Repubblica di Venezia. Non a caso, l’opera dell’inglese James Steuart, An inquiry in to the principles of political economy (1767), conosciuta presso il circolo del console a Venezia Smith, intuiva l’organicità funzionale dello spazio urbano padovano, di cui in particolare si soffermava sull’importanza dell’aumento della circolazione del denaro nella città portato dall’intensificarsi dell’afflusso dei turisti forestieri in visita a Padova10. In effetti a Venezia negli anni Sessanta del Settecento si riscopre il valore delle terme come ‘tesoro’ della natura, attraverso le quali è possibile intraprendere politiche economiche capaci di attrarre dagli Stati esteri numerosi forestieri ammalati e allo stesso tempo di migliorare la bilancia commerciale con il ‘trattenere il denaro’ dei propri sudditi, bisognosi di cure termali, entro i confini dello Stato aristocratico11.  ASV, Riformatori dello Studio, b. 37, c. 124, Decreto del Senato alla data 18 settembre 1770; e ibidem, b. 38, c. 665, Decreto del Senato alla data 20 gennaio 1773 m.v. 8  AAUP, b. 586, c. 47; e M. Giro, Saggi intorno le cose sistematiche dello Studio di Padova, a cura di P. Del Negro e F. Piovan, Treviso, Antilia, 2003, p. 62. Cfr. P. Del Negro, Il Settecento fino alla caduta della Repubblica, in L’Università di Padova nei secoli (1601-1805). Documenti di storia dell’Ateneo, a cura di P. Del Negro e F. Piovan, Treviso, Antilia, 2002, p. 266. 9   BUPd, cod. 2224, c. 147; BMCV, Mss. Donà delle Rose 340, Riformatori dello Studio, fasc. 8, Terme Padovane; cfr. A. Trampus, Il diritto alla felicità. Storia di un’idea, Roma-Bari, Laterza, 2008, p. 36; sul Savio, R. Piva, Le confortevolissime terme. Interventi pubblici e privati a Battaglia e nelle terme padovane fra Sette e Ottocento, a cura di F. Toffanin, Battaglia Terme, La Galiverna, 1985, p. 21; Id., Le terme, in Battaglia Terme. Originalità e passato di un paese del padovano, a cura di P.G. Zanetti, Battaglia Terme, La Galiverna, 1989, p. 141, nota 18. 10  L. Puppi, Il Prato della Valle in età moderna, in Prato della Valle. Due millenni di storia di un’avventura urbana, a cura di L. Puppi, Limena, Signum, 1986, pp. 111-112. 11  ASV, Senato, Terra, b. 2455, «Scrittura» dei Riformatori dello Studio di Padova del 30 giugno 1767 allegata al Decreto del Senato del 23 luglio 1767. 7

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Questo percorso sulle fonti della felicità, come testimonia il caso delle acque termali, non era ignorato dagli antichi che ne avevano fatto uno dei poli della ricerca filosofica, ma venne ripensato dai medici del Settecento all’interno della consapevole riscoperta del ruolo della cultura classica12. Il medico Giuseppe Mingoni, allievo del Morgagni, che ricoprì a partire dal 1767 la neo-istituita cattedra delle Terme di Abano, scriveva che le terme avevano allora perduto la consacrazione agli dèi, che erano narrate da Erodoto nelle sue Storie, cioè l’erezione di un altare ad Ercole nelle Terme della Tessaglia13. Ai medici moderni – continuava Mingoni – si sarebbe piuttosto dovuto rinnovare l’ammonimento di Plinio a quei romani che ricorrevano con troppa facilità all’uso delle acque termali nelle malattie più disparate o di difficile guarigione14. Era vero che Platone nel sesto libro della Repubblica assegnava la custodia delle acque piovane all’ufficio dei sopraintendenti alle campagne e ordinava dei bagni pubblici mantenuti caldi per il sollievo degli anziani, delle persone stanche e degli ammalati, al posto delle prescrizione dei medici, ma – concludeva il medico padovano – altra cosa erano i cambiamenti introdotti nelle parti del corpo umano dall’acqua calda rispetto alle acque minerali per le sostanze minerali contenute in quest’ultime, il cui utilizzo poteva essere salutare o pericoloso al corpo umano15.

 Cfr. BMCV, Mss. Cicogna 1110, Lettera intorno la visita fatta dagli Eccellentissimi signori Riformatori dello Studio di Padova l’anno 1771, M. Stürmer, Frammenti di felicità. Classicismo e rivoluzione, Bologna, Il Mulino, 1989, pp. 10-11 e 59; P. Roger, Felicità, in L’Illuminismo. Dizionario storico, pp. 57 e sgg. 13  ASV, Riformatori dello Studio, b. 520, Relazione dell’Acqua Ispida - Mingoni del 26 novembre 1771. Ridimensionato sul piano scientifico e sul piano didattico l’insegnamento del Mingoni a vantaggio del Mandruzzato: «il personaggio più qualificato che nel corso del Settecento si fosse applicato con serietà scientifica e con profonda passione al problema del termalismo euganeo», secondo Premuda, La medicina, p. 261. Cfr. L. Bonuzzi, Mandruzzato Salvatore, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1960, vol. 68 (2007), pp. 589590. La preparazione professionale del medico padovano inizia ad essere rivalutata con la scoperta delle sue relazioni manoscritte, come appunto quella sull’acqua di Ispida, da A. Bassani, Giuseppe Mingoni (? - Padova 1796), in Professori e scienziati a Padova nel Settecento, a cura di S. Casellato e L. Sitran Rea, Treviso, Antilia, 2002, pp. 581-588: p. 587. Per un giudizio lusinghiero del Morgagni sul Mingoni, ASV, Riformatori dello Studio, b. 35, c. 39, Padova alla data 25 maggio 1767. Sulla lettura di Erodoto, cfr. A. Olivieri, Erodoto nel Rinascimento. L’umano e la storia, Roma, L’Erma di Bretschneider, 2004, p. 183; sulle terme Erculee, vedi in particolare la lettera di Francesco Griselini a Serafino Calindri, in Illuministi italiani. Riformatori delle antiche repubbliche, dei ducati, dello Stato Pontificio e delle isole, p. 190. 14  ASV, Riformatori dello Studio, b. 520, Relazione dell’Acqua Ispida - Mingoni del 26 novembre 1771. Sull’avversione di Plinio nei confronti dei medici, Muratori, Della pubblica felicità, p. 89. 15  ASV, Riformatori dello Studio, b. 520, Relazione dell’Acqua Ispida - Mingoni del 26 novembre 1771. 12

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Queste considerazioni, se da una parte lasciavano intravedere i progressi acquisiti nelle conoscenze chimiche delle proprietà delle acque termali nel Settecento da parte del gruppo di studio dell’Università di Padova, perché per concepire la Istoria de’ bagni di Abano il professore dello Studio Bartolomeo Lavagnoli utilizzerà le stesse espressioni dettate dalla prudenza medica del secolo dei lumi, d’altra parte esse confermavano che anche per la medicina il connubio fra le scienze e le discipline umanistiche appariva privilegiato16. Di questa concezione si faceva interprete nel 1766 lo scrittore Girolamo Zanetti, custode della pubblica Libreria di Venezia, che dava notizia del ritrovamento nei poderi del nobile padovano Dondi Orologio, in prossimità della parrocchiale di Abano, di un’antica statua romana in buona conservazione e fattura attribuita per congettura al dio della medicina Esculapio, scoperta dal professore di medicina teorica dello Studio di Padova Pimbiolo17. Un ritrovamento, quello di «nobili avanzi di romane antichità», quasi non casuale, perché sembrava rispondere al dubbio degli scettici sul perdurare dell’esistenza di queste «salutifere fonti» memori dei «tempi felici» dell’antica grandezza delle Terme, la cui perdurante vitalità in quegli anni era corroborata da numerosi casi di guarigione da gravi malattie18. Del resto la domanda «se le virtù delle terme fossero ancora le stesse di una volta» l’aveva chiaramente posta nel 1752 in una Scrittura ai riformatori

 V. Giormani, Chimica del ‘700: un gruppo di ricerca dell’Università di Padova, in «Studi veneziani», n.s., XV (1988), pp. 271-297: p. 296. Per la chimica e la storia naturale prive di superstizioni, cfr. BUPd, cod. 2224, cc. 147-148. Cfr. anche A.M. Rao, Intellettuali e professioni a Napoli nel Settecento, in Avvocati, medici, ingegneri: alle origini delle professioni moderne (secoli XVI-XIX), a cura di M.L. Betri e A. Pastore, Bologna, Clueb, 1997, p. 51; Olivieri, La felicità dello Stato, p. 66. 17   G. Zanetti, Di una statua disotterrata appresso gli antichissimi Bagni d’Abano e d’altre antichità ivi scoperte nel presente anno mdcclxvi, In Venezia 1766, cc. iv e vi: cfr. AAUP, b. 595, Bagni d’Abano (1761-1799), fasc. Bagni d’Abbano, «Scrittura» di Antonio Zanetti del 28 maggio 1766; si veda anche la lettera al segretario dei riformatori Davide Marchesini del professor Antonio Pimbiolo del 14 maggio 1766, Piva, Le confortevolissime terme, p. 23. In realtà si trattava della statua di un dignitario ritratto come una divinità delle acque: Per una storia di Abano Terme, a cura di B. Francisci, Abano Terme, Biblioteca Civica – Centro culturale, 1983-, Parte I: Dall’età preromana al Medioevo, p. 70. Sulla congettura che riunisce ed offre un ordine logico ai materiali raccolti dall’osservatore in assenza di ‘autorità’, A. Olivieri, Sul moderno e sul libertinismo. La storia come congettura, Milano, FrancoAngeli, 2006, p. 27; sul nesso statue, pensiero medico e religioso, Id., Gerolamo Cardano: il pensiero medico e il pensiero riformato, in Le trasformazioni dell’Umanesimo fra Quattrocento e Settecento. Evoluzione di un paradigma, a cura di A. Olivieri, Milano, Unicopli, 2008, p. 147. 18   Zanetti, Di una statua disotterrata, c. v. 16

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dello Studio di Padova una commissione di professori, fra i quali figurava Giambattista Morgagni19. I riferimenti alla cultura classica nelle ricerche di questi medici erano continue. Qualche anno prima del Mingoni, nel 1765, era stato il Pimbiolo in una sua «Scrittura» sullo stato delle terme ad indicare come modello da seguire Ippocrate. Adottando l’esempio del medico greco, la nuova figura di storiografo assistente delle terme avrebbe orientato lo stile e il metodo delle storie mediche che avrebbe elaborato annotando le circostanze necessarie e individuali che formavano il vero carattere delle malattie. I riformatori dello Studio avevano infatti incaricato il Pimbiolo di riferire la maniera di liberare le terme dallo squallore e dalla desolazione in cui erano cadute e di garantire ad esse una durevole e permanente celebrità. Il Pimbiolo, riprendendo una tradizione d’indagine risalente almeno ai primi anni Cinquanta, studiò le qualità delle fonti termali e le cure prestate ai pazienti in un’ottica comparativa; come modello di riferimento si avvaleva del Trattato de’ bagni di Pisa del medico Antonio Cocchi. Nel disegno di restaurare i bagni e ristabilire l’uso delle acque termali attribuite dalla «singolare felicità di questo sito» e per facilitare il godimento a tutto il genere umano, il medico padovano era attento che niente mancasse: «alla utilità, al comodo, ed al piacere» dei sudditi, consigliò un regolare approvvigionamento alimentare, la pubblicità delle virtù curative con delle opere storiche e la direzione dei medici nelle cure termali per non lasciare gli ammalati all’arbitrio degli amministratori, che «quasi imprigionavano» i degenti per più tempo assai del necessario, aggravandoli con prezzi eccessivi e applicando indifferentemente ai malati del fango riciclato senza distinguere le varie specie di esso riconosciute dai medici di differente virtù ed efficacia 20. Era tuttavia da porsi la questione se era sufficiente la memoria del passato per avviare la ripresa dei bagni. Il professore dello Studio Pimbiolo, che aveva un unico pensiero rivolto al rilancio delle terme, scambiava delle lette AAUP, b. 736, c. 222v.   BMCV, Mss. Donà delle Rose 340, Riformatori dello Studio, fasc. 8, Terme Padovane, «Scrittura» appartenente al restauro delle Terme Padovane diretta agli Eccellentissimi ed Illustrissimi Riformatori dello Studio di Padova da Antonio Pimbiolo publico professore di medicina teorica. Altra copia in AAUP, b. 595, Bagni d’Abano (1761-1799), fasc. Bagni d’Abano, con lettere al segretario dei riformatori Marchesini, del 14, 20 e 22 maggio 1766. Su questi temi e problemi, già nel decennio precedente, una testimonianza straordinaria è rappresentata dalla biografia del medico Buonafede Vitali, sul quale cfr. G. Cosmacini, Il medico saltimbanco. Vita e avventure di Buonafede Vitali, giramondo instancabile, chimico di talento, istrione di buona creanza, Roma-Bari, Laterza, 2008, pp. 116-123. Sulla circolazione del pensiero di Ippocrate, Olmi, Salute e malattie, p. 38. 19 20

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re con il nunzio padovano Roberto Bonfio, cioè con il nobile rappresentante del consiglio della città della terraferma stabilmente domiciliato a Venezia, e con alcuni patrizi interessati all’argomento, ma – secondo l’informata opinione del Bonfio – poteva solo sperare in un rimborso delle spese sostenute per le ricerche intraprese, il passaggio a una cattedra primaria e un’ispezione sulle terme qualora venissero rilanciate, ma non poteva avere altre certezze21. Infatti è ora finalmente possibile rispondere al quesito precedente con l’esame dei carteggi fra il nunzio residente della città di Padova e i Deputati ad Utilia dello stesso Consiglio cittadino per le trattative con le magistrature veneziane, che furono alla genesi dell’importante decreto del Senato della metà del 1767, che accordava la «pubblica protezione» alle Terme d’Abano. Fin dal luglio del 1766 è il Bonfio che avverte i Deputati ad Utilia della città di Padova dell’attenzione a Venezia per il rilancio delle Terme d’Abano con il progetto di edificare delle apposite costruzioni e la destinazione di un medico per seguirne l’andamento, per cui suggerisce al Consiglio cittadino la convocazione del Pimbiolo presso la Banca dei deputati per ascoltarlo e domandarsi se era il caso di intervenire direttamente presso le magistrature della Dominante22. Interpellato il Pimbiolo, i deputati, che in questa circostanza individuano un mezzo per influire sulle vicende dello Studio, danno commissione al nunzio di favorire l’iniziativa volta, fra l’altro, alla «commune salute»23. Eppure – secondo il nunzio – in questa materia occorreva molta prudenza nel modo di procedere, cioè parlando con il segretario dei riformatori Marchesini e il patrizio Memmo, che era molto interessato al discorso, perché si domandava se era più opportuno esporre a voce il ringraziamento e la raccomandazione dei deputati padovani ai riformatori dello Studio, oppure elaborare un memoriale ben concepito o ancora parlare con qualcuno dei patrizi del magistrato in privato24. In questa ricerca della felicità clinica appare suggestivo pensare che la svolta in questo tentativo di ‘rinascimento’ termale nel periodo intercorso fra la ricognizione del Pimbiolo e il decreto del luglio 1767 dipendesse da un colloquio fra il Bonfio e uno dei nuovi riformatori dello Studio di

 ASPd, Nunzi e ambasciatori, Lettere ai Deputati ad Utilia (1764-1766), b. 178, lettera alla data 29 agosto 1766. 22   Ibidem. 23  ASPd, Deputati ad Utilia, Lettere dei Deputati ai Nunzi (1764-1768), b. 180, lettera alla data 2 agosto 1766. Sul rapporto fra lo Studio e i deputati della città, cfr. Giormani, Chimica del ‘700, p. 289. 24  ASPd, Nunzi e ambasciatori, Lettere ai Deputati ad Utilia (1764-1766), b. 178, lettera alla data 3 agosto 1766. 21

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Padova Sebastian Zustinian nel dicembre del 1766. Il patrizio, quando sarebbe entrato nel mese di carica in cui cioè era deputato a presentare le proposte di legge, intendeva avanzare l’argomento di far risorgere le Terme. In quei giorni lo Zustinian accolse il rappresentante di Padova nella propria abitazione perché era caduto dalle scale e si trovava a letto dolorante25. Contemporaneamente i deputati ad Utilia di Padova avrebbero fatto partecipe il provveditore veneziano in città del contenuto del memoriale di supplica consigliato dal Zustinian, da portare nel Collegio dei Savi, nell’eventualità che il rappresentante veneziano fosse stato interpellato dal Senato, con un’informazione consultiva, sulla questione in esame26. In questi carteggi emergevano in maniera drammatica alcuni limiti dello Stato veneziano. Le città del dominio veneto si erano da tempo rese conto che, se volevano difendere gli interessi dei ceti che vi predominavano, non potevano fondarsi sulla mediazione dei rettori veneziani, così oscillanti nelle loro decisioni da prendere fra le parti in causa, ma dovevano avere a Venezia una propria rappresentanza, istituita ufficialmente, con una sede stabile: cioè il nunzio27. Inoltre la scarsa rapidità del processo decisionale sul tema delle terme padovane dipendeva dalla magistratura dei riformatori dello Studio, il cui operato era rallentato e discontinuo negli intenti per la frequente mutazione dei patrizi che ricoprivano le cariche28. In definitiva come testimoniano le critiche inusuali del professore dello Studio Mingoni verso i rettori veneti a Padova, che prestavano troppo credito alle lamentele dei comuni per la realizzazione dei lavori stradali a loro richiesti, l’esempio di Abano si configura come un straordinario laboratorio politico per annotare l’efficacia dell’azione del governo veneziano a metà Settecento nelle relazioni fra il centro e la prima periferia29. Del resto per rilanciare le Terme non c’era da farsi illusioni sulla difficoltà di un intervento da realizzarsi anche sul piano architettonico30. A

  Ibidem, b. 179, lettera alla data 12 dicembre 1766. Cfr. A. Hirschman, Felicità privata e felicità pubblica, Bologna, Il Mulino, 1992, p. 76. 26  ASPd, Nunzi e ambasciatori, Lettere ai Deputati ad Utilia (1767-1768), b. 179, lettera alla data 12 e 13 maggio 1767. Il memoriale padovano del 13 maggio 1767, in ASV, Riformatori dello Studio, b. 35, c. 38. 27   G. Cozzi e M. Knapton, La Repubblica di Venezia nell’età moderna. Dalla guerra di Chioggia al 1517, Torino, Utet, 1986, p. 219. 28  ASPd, Nunzi e ambasciatori, Lettere ai Deputati ad Utilia (1764-1766), b. 178, lettera alla data 29 agosto 1766. 29  ASV, Riformatori dello Studio di Padova, b. 37, c. 265, Informazione del professore dello Studio Giuseppe Mingoni ai riformatori dello Studio da Padova del settembre 1770. 30  Cfr. Ciancio, Autopsie della Terra, p. 82 e sgg; P. Boucheron, L’architettura come linguaggio politico: cenni sul caso lombardo nel secolo XV, in Linguaggi politici nell’Italia del 25

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titolo di esempio, nel 1770 l’uso di una camera nel convento dei padri di Monteortone, e della scuderia per i cavalli, per il pubblico professore alle terme Mingoni mal si conciliava con le esigenze della clausura, per cui venne aperta una porta per consentire alla moglie e alle inferme di entrare senza dover passare per il chiostro anche se, a dir la verità, la foresteria del monastero – aggiungeva il medico padovano – era stata convertita dai frati in un’aperta locanda in cui promiscuamente alloggiavano sia uomini e sia donne31. Il problema dell’architettura dei bagni era correttamente impostato dal riformatore napoletano Francesco Milizia nei suoi Principi di Architettura civile apparsi per le edizioni Remondini di Bassano nel 1785. Mentre ci crediamo tanto superiori agli antichi romani – scriveva il Milizia – andiamo poi a curare i malanni in tuguri a Nocera, a Pozzuoli, a Pisa, a Lucca. Almeno i famosi bagni di Spa e di Plombiers, se non imitavano la sontuosità dell’architettura romana delle terme, erano almeno degli edifici grandi e comodi in maniera conveniente a fabbriche come quelle termali, che erano destinate alla ‘pubblica utilità’ dei cittadini32. Nell’imminenza dell’approvazione del decreto in Senato, il riformatore Giustinian aveva spiegato al nunzio Bonfio che la presentazione di un memoriale, con cui il Consiglio cittadino di Padova spiegava il suo desiderio per il rilancio delle Terme, sarebbe stata un’utile operazione per la positiva soluzione della questione, tanto più che aveva delle prove che i proprietari dei fondi ad Abano, interessati alla vicenda, avrebbero edificato per conto proprio gli edifici termali previsti nel progetto. I medici delle Terme sarebbero stati pagati dalla cassa dello Studio. Insomma la città di Padova non avrebbe dovuto sborsare alcuna spesa, anzi ne avrebbe guadagnato con l’estrazione e il commercio dei pregiati sali minerali33. Forse era proprio il Giustinian il destinatario di una lettera del medico Mingoni, di alcuni gior-

Rinascimento. Atti del convegno di Pisa (9-11 novembre 2006), a cura di A. Gamberini e G. Petralia, Roma, Viella, 2007, pp. 3-53. 31  ASPd, Studio patavino, b. 193, Lettere del magistrato de’ Riformatori dello Studio in proposito delle Terme padovane. 32  F. Milizia, Principi di Architettura civile, tomo secondo, Bassano 1785, c. 336; e Illuministi italiani. Riformatori delle antiche repubbliche, dei ducati, dello Stato Pontificio e delle isole, pp. 529-582. 33  ASPd, Nunzi e ambasciatori, Lettere ai Deputati ad Utilia (1767-1768), b. 179, lettera alla data 11 maggio 1767. Cfr. ASPd, Deputati ad Utilia, Lettere dei Deputati ai Nunzi (17661768), b. 180, lettere alla data 12 e 13 maggio 1767. Nel 1773 i Provveditori alla Sanità di Padova s’informano sul sale estratto dalle acque di Abano che fosse di sicura provenienza: C. Ferrari, L’Ufficio della Sanità di Padova nella prima metà del secolo XVII, Venezia, Tipografia Libreria Emiliana, 1909, p. 26.

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ni prima, che rispondeva alla richiesta di un’eccellenza per un’indagine sui documenti confermanti le ragioni del possesso dei religiosi e dei nobili ai bagni di Abano. Il medico specializzato nelle cure termali spiegava all’anonimo corrispondente che i beni erano prevalentemente di natura allodiale, per cui il pubblico non avrebbe dovuto spendere niente nel restauro delle fabbriche, ma nemmeno in quello degli acquedotti. Il Mingoni considerava queste situazioni «delle combinazioni felici di accidenti per ridonare col mezzo di vostra eccellenza un tesoro così prezioso a tutto l’uman genere, e consolare finalmente una abbattuta famiglia qual è la mia»34. All’origine dello specifico provvedimento del luglio del 1767 c’era un parallelogramma di forze e d’interessi convergenti. Nell’itinerario di approvazione del decreto risultò determinante il tentativo di ‘risorgimento’ delle terme coltivato nella cerchia del potente senatore Andrea Tron che figura sia fra i riformatori dello Studio, firmatari della Scrittura proponente l’intervento, e sia come savio grande in settimana nel decreto che venne deliberato in Senato. L’intenzione del governo veneziano era di approntare «un piano facile ed accettabile», che consentisse di aumentare l’afflusso di persone alle terme, ormai in completa decadenza, conferendo la «pubblica protezione» ai bagni, cioè emanando delle leggi e degli ordini particolari. La questione era di interesse pubblico perché riguardava un «tesoro» che tendeva alla preservazione della salute degli uomini, al «decoro» dello Stato e ad un attivo e vantaggioso commercio, che si sarebbe accresciuto per la frequenza e l’aumento delle presenze dei forestieri. Un recupero del «buon uso» dei bagni che sarebbe passato attraverso un’adeguata pubblicità all’estero mediante una fine ricostruzione storica, la conoscenza delle virtù curative dei fanghi e la divulgazione delle osservazioni scientifiche condotte dai medici alle terme35. In definitiva occorreva la ‘pubblica protezione’ dello Stato, attraverso l’operato dei riformatori dello Studio di Padova e del rettore veneziano. Per realizzare il progetto occorreva obbligare i proprietari ad aumentare le fabbriche delle Terme e con esse l’offerta dei servizi: predisporre opportune sistemazioni alberghiere, fissate tariffe a stampa e un vitto abbondante. Occorrevano nuove strade ed argini sistemati, che permettessero di rendere sicure le comunicazioni, e la possibilità di servizi religiosi vicini. Soprattutto occorreva creare la nuova figura di medico delle terme con abitazione nel luogo d’estate e delle sicure competenze per sottrarre gli ammalati all’arbitrarietà delle cure degli   BUPd, cod. 2224, c. 297r. e v., lettera del 22 aprile 1767.  ASV, Senato, Terra, b. 2455, «Scrittura» dei riformatori dello Studio di Padova del 30 giugno 1767 allegata al Decreto del Senato del 23 luglio 1767; cfr. Premuda, La medicina, pp. 258-264. 34 35

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amministratori con manifesti pericoli di frodi e della salute dei pazienti. Era quindi plausibile il dialogo fra Rosina, la custode del bagno delle donne, e la vedova Violante riportato nell’opera buffa di Carlo Goldoni, I bagni d’Abano (1752), sulle pretese avanzate dai custodi alle terme per un ruolo professionale paragonabile a quello dei medici36. Si trattava di interessanti passaggi, perché il ripristino della ‘felicità’ di questi luoghi poneva il problema della garanzia della vita dei forestieri che erano intervenuti alle terme per curarsi37. Nel giro di pochi anni i decreti del Senato si susseguono. Nel gennaio del 1770 il Consiglio dei Pregadì, sempre nell’intento di incrementare l’afflusso di malati che erano stimati tre anni dopo l’introduzione di queste leggi a poco meno di trecento, di cui duecento provenienti dai paesi all’estero (intendendo con questa designazione anche i sudditi trentini), rinnovò la commissione ai rettori di Padova. Il rappresentante veneziano, con l’assistenza dei comuni interessati e della vicaria di Arquà, doveva far sistemare e rendere praticabili le strade, compresa quella detta dei Cipressi, che giungeva ai bagni di Abano attraverso Mezzavia, per difendere le terme dalle frequenti inondazioni delle acque e per la comodità dei viaggiatori forestieri. Il problema della praticabilità delle vie di comunicazione sarà una delle questioni strutturali dello Stato veneziano a fine secolo e questi dispacci anticipano i temi dei lavori della Deputazione alle strade istituita nel 178938. In questa direzione il rettore padovano dispose di consolidare gli argini, cioè fra Tencarola e San Martino, e di ridare degli ordini per il restauro delle abitazioni private dei nobili padovani che in prossimità delle terme potevano essere trasformate in alloggi per i bagni. In questo piano d’azione le fonti vennero riparate e depurate in modo tale da collegare in un regolato sistema le sei ville, in cui erano situate le fonti d’acque termali distanti fra loro non più di sette miglia39.

36  C. Goldoni, I Bagni d’Abano, con introduzione di B. Brunelli, Abano Terme, Azienda autonoma di cura, 1957, cc. n.n.: «VIOL.: Siete medica forse. / ROS.: Oh sì, signora. Son tre anni che sento il medico parlare. Abbiamo insieme fatte esperienze sulla pelle altrui. E son giunta a saperne quanto lui». 37  ASV, Senato, Terra, b. 2455, «Scrittura» dei riformatori dello Studio di Padova del 30 giugno 1767 allegata al Decreto del Senato del 23 luglio 1767. Cfr. Ferrone, La società giusta ed equa, pp. 334-342: p. 335. 38  F. Venturi, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino, Einaudi, 1969, pp. 417 e sgg.; M. Borgherini-Scarabellin, Il magistrato dei Cinque Savi alla Mercanzia dalla istituzione alla caduta della Repubblica. Studio storico su documenti d’archivio, Venezia [Padova], A spese della Regia Deputazione [A. Milani], 1925, p. 41; e G. Gullino, Atlante della Repubblica veneta 1790, Venezia, Istituto veneto di scienze, lettere e arti, 2007, p. 31. 39  ASV, Senato, Terra, b. 2488, Relazione dei riformatori dello Studio di Padova dell’11 marzo 1769 allegata al Decreto del Senato del 16 marzo 1769; e ASV, Senato, Rettori, b.

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Dell’esercizio medico il professore Mingoni doveva fornire un resoconto annuale con l’elenco di tutti i malati sottoposti alle sue cure e con i risultati delle terapie adottate40. A leggere il Catalogo delli ammalati che furono alle Terme l’anno 1771, si scopre nei 322 individui che lo compongono un’umanità variegata sia per provenienza sociale (5 patrizi veneti, nobili della terraferma, religiosi regolari ed ebrei) e sia geografica (13 inglesi, trentini e milanesi). Se è pure presente un cavaliere di Savoia ammalato di melanconia, le principali patologie sono i dolori reumatici e le paralisi di un’umanità veramente sofferente immersa nel dolore41. Secondo le osservazioni medico-pratiche alle terme si curava anche la sterilità e proprio nel racconto del medico arabo Avicenna, definito dal professore dello Studio Alberto Colombo come «favoloso», secondo il quale alle donne i bagni sono sconvenienti per il «cocente bollore», comprendiamo tutta la novità di questa nuova visione della medicina pratica, con l’istituzione della cattedra Ad Thermas aponenses, che contraddistingue i nuovi insegnamenti specialistici42. Mancava in quell’elenco il residente inglese a Venezia John Strange allora in contatto con gli scienziati veneti ed interessato agli studi geologici, in particolare sulle origini vulcaniche dei Colli Euganei, identificabile con quel «signore d’Inghilterra» studioso di «storia naturale», che in una sua lettera del 1771, attribuita al professore dello Studio Alberto Colombo, affermava che con le sue pubblicazioni sui bagni avrebbe recato molto piacere «alla Repubblica letteraria»43. Si trattava, è bene dirlo, di una stima calcolata per difetto degli individui riportati in

328, «Scrittura» dei riformatori dello Studio di Padova del 22 gennaio 1770 m.v. allegata al Decreto del Senato del 1 febbraio 1770 m.v. 40   Premuda, La medicina, pp. 259-260. 41  ASV, Riformatori dello Studio, b. 520, Catalogo delli ammalati che furono alle Terme l’anno 1771. Cfr. C. Rosso, Illuminismo, felicità, dolore. Miti e ideologie francesi, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1969, pp. 27-54 e 66-86; R. Darnton, L’età dell’informazione. Una guida non convenzionale al Settecento, trad. it. di F. Salvatorelli, Milano, Adelphi, 2007, p. 121; e R. Pasta, Una provocazione riuscita: la storia antropologica di Robert Darnton, in R. Darnton, Il grande massacro dei gatti e altri episodi della storia culturale francese, a cura di R. Pasta, Milano, Adelphi, 1988, pp. 377-399. 42   BMCV, Mss. Cicogna 1110, Lettera intorno la visita fatta dagli Eccellentissimi signori Riformatori dello Studio di Padova l’anno 1771; cfr. B. Bertolaso, Sulla cattedra “Ad Thermos Aponenses” (1768-1806) nello Studio padovano, in «La clinica termale», XIII (1960), p. 7. 43   BMCV, Mss. Cicogna 1110, Lettera intorno la visita fatta dagli Eccellentissimi signori Riformatori dello Studio di Padova l’anno 1771; cfr. E. Vaccari, I Colli Euganei nella storia delle scienze della terra: episodi settecenteschi, in I Colli Euganei, a cura di F. Salmin, Sommacampagna, Cierre, 2005, pp. 284-286. Per le lettere scritte da Strange fra giugno e novembre del 1771 da Abano a Targioni Tozzetti a Firenze e, forse, ad Antonio Vallisneri, vedi A calendar of the correspondence of John Strange, F.R.S. (1732-1799), edited

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questo catalogo, perché il medico Mingoni non aveva potuto visitarli e registrarli tutti per un’influenza nel mese di agosto e per la distanza di domicilio intercorsa fra gli ammalati44. Nell’elenco non erano riportate le patologie dei patrizi e di alcuni eminenti personaggi sia per la «religiosa segretezza» che contraddistingueva la professione medica e sia per evitare che in futuro questi infermi non manifestassero al Mingoni il loro effettivo stato di salute45. Rientrava nell’elenco degli ammalati dell’anno 1779 anche Giacomo Casanova in una condizione quindi ben diversa di quella spensierata dell’avventuriero delle «ore oziose, delle quali abbondano in Abano quelli che non vi vanno che per far uso de’ bagni», ospite a villa Morosini, in cui dedicava al neoeletto doge Polo Renier un libello contro Voltaire46. Il bilancio dell’esperienza di recupero della «mondezza» delle fonti e di «purità» delle acque, come ricerca di una sorta di galateo penetrato nelle terme, che in un certo senso paragonava il medico ad un perito, era a quella data in definitiva piuttosto amaro47. Nel marzo del 1769 una Scrittura dei riformatori dello Studio di Padova, su informazione del Mingoni, denunciava ancora l’abitudine dei frati del convento e dell’oste di Monteortone di portare il pollame alle terme per spennarlo e dell’oste di lavare le budella di vitello e «castradi» nelle sorgenti, i cui ammalati dovevano immergersi fino alla bocca. Sopravviveva altresì la pratica di riciclare il fango delle cure che, ormai privo di benefiche sostanze minerali, veniva immediatamente applicato ai nuovi ammalati suscitando comprensibili sensazioni di ripugnanza e di nausea fra coloro che erano sottoposti alle applicazioni mediche48. Eppure un differente risultato, che è testimoniato dai carteggi privati che scoprono il valore delle terme come luoghi di socialità e di affetti coniugali, già descritti da Carlo Goldoni, in cui cioè ricercare l’intensità dei sentimenti e dei piaceri, coltivare affinità e amicizie, è documentato dai carteggi conservati negli

with an introduction by L. Ciancio, Londra, The Wellcome Institute for the History of Medicine, 1995, p. 49. 44  ASV, Riformatori dello Studio, b. 520, lettera del 26 novembre 1771. 45   Ibidem, b. 36, c. 350. 46   G. Peretti, Ai bagni d’Abano Casanova cerca di demolire Voltaire, «Padova e il suo territorio», CXXIII (2006), p. 41. 47  AAUP, b. 586, c. 51v. Cfr. Olivieri, La felicità dello Stato, p. 63; I. Botteri e D. Romagnoli, Introduzione a Le forme del vivere civile tra Medioevo e modernità. Temi, fonti, storiografia, in «Cheiron», XXXVIII (2002), pp. 7-13. 48  AAUP, b. 595, Bagni d’Abano (1761-1799), fasc. Bagni d’Abano, c. 51v.; ASV, Riformatori dello Studio, b. 36, cc. 246r.-246v., Informazione del professore dello Studio Giuseppe Mingoni ai riformatori dello Studio (1769).

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archivi privati e anche dall’apertura del caffè, che risulta presente nella carta topografica del 177149. Gli epistolari privati dei decenni seguenti spiegano in che modo raggiungere la felicità50. Della consuetudine annuale del conte padovano Girolamo Polcastro di recarsi ai bagni d’Abano (fra l’altro era un proprietario di bagni), è testimonianza una sua lettera con l’amico arciprete di Loreggia, don Giuseppe Valle, del luglio del 1794, che pronosticava al nobile un lungo soggiorno «godendo» le sorgenti vicino all’amata51. In una lettera del conte piemontese di Frosasco al segretario ducale Giuseppe Maria Giacomazzi, del febbraio 1796, erano spiegate le ragioni della sua mancata venuta ai bagni d’Abano. Su consiglio del suo medico il nobile piemontese si era risoluto ad andare l’estate successiva ai bagni di Lorich in Svizzera, nel Vallese. Ma il suo progetto originario sarebbe stato invece di andare ad Abano presso Padova; però in estate l’amico non sarebbe stato più nella vicina Venezia e poi il medico gli aveva detto che quelli svizzeri erano più efficaci per la sua patologia. Nell’indecisione erano stati la compagna e il padre, dello stesso parere del medico, a inclinare l’ultima decisione del conte di Frosasco52. Eppure fra il 1770 e il 1773 le Terme di Abano ricevono nuova attenzione da Venezia. Rientrano cioè fra i temi trattati per il rilancio dell’Università nella visita ufficiale dei riformatori dello Studio di Padova nell’aprile 1771. I magistrati veneziani, che non dimoravano a Padova – erano 97 anni che non venivano nello Studio, si lamentava l’astronomo Giuseppe Toaldo – compirono questa ispezione a Padova su sollecitazione del rettore Giulio Antonio Contarini, sembra per dissapori fra i lettori e i professori dell’Università giurista, ma anche alle Terme padovane presentando al Senato una relazione sull’assetto che i nuovi istituti ed insegnamenti dell’Università artista erano venuti allora configurandosi53. Le disposizioni emanate relative ai bagni

  P. Ghedina, “Dilettose venete fonti”. Le terme di Abano, Montegrotto, Battaglia, Galzignano e Teolo, in Alle fonti del piacere. La civiltà termale e balneare fra cura e svago, a cura di N.E. Vanzan Marchini, Milano-Venezia, Leonardo Arte-Regione Veneto, 1999 [stampa 1998], p. 108; Giro, Saggi intorno, p. 211. Cfr. ancora AAUP, b. 595, alla data 7 marzo 1769; e Bertolaso, Sulla cattedra “Ad Thermos Aponenses”, p. 7. 50   Roger, Felicità, p. 41. 51   R. Marconato, La famiglia Polcastro (secoli XV-XIX). Personaggi, vicende e luoghi di storia padovana, Camposanpietro, Lions Club, 1999, pp. 306-307. 52   BMCV, cod. Cicogna 3214-3215, Lettere di diversi al conte Giuseppe Giacomazzi, lettera alla data 20 febbraio 1796. 53  ASV, Senato, Rettori, b. 329, Relazione della visita all’Università di Padova del 8-20 aprile 1770, del 16 maggio 1771. Cfr. A. Gloria, Il territorio padovano illustrato (4 voll.), Bologna, Atesa, 1983 [II ried. anast.], vol. II, p. 34; A. Favaro, I Riformatori dello Studio 49

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d’Abano si muovevano in due direzioni intese a rimediare alle rilevate irregolarità. In primo luogo c’era la notizia che i portatori dell’acqua della Vergine commettevano delle frodi; in passato nel 1765 il medico Pimbiolo aveva scritto che di frequente l’acqua miracolosa della sorgente dei Colli veniva sostituita con della semplice acqua di fosso raccolta a caso54. I riformatori emanarono un proclama che, oltre alla presenza delle «fedi pubbliche», prescrivevano che ogni vaso dovesse essere riempito sul posto, bene otturato e chiuso con il sigillo della magistratura e con l’iscrizione di «acqua della Vergine», il cui benefico effetto era stato recentemente scoperto per cui erano destinate ad una maggiore frequenza d’utilizzo rispetto alle altre, affidando l’esecuzione di queste operazioni di certificazione ai padri di Monteortone55. In secondo luogo i riformatori dello Studio con un altro proclama proibirono che gli amministratori subalterni delle terme usassero a propria discrezione le ‘stufe’ e le ‘ventose’ sugli ammalati senza un preciso ordine dei medici. La pessima gestione dei custodi, che venivano considerati inesperti, avidi e orientati unicamente a trarre il maggior profitto possibile dal loro mestiere, si riversava sull’organizzazione delle cure. Queste persone applicavano il fango comune ai pazienti in luogo dei medicamenti minerali e trattenevano le persone nei bagni per più tempo rispetto a quello che era loro necessario. Queste disfunzioni mettevano in secondo piano quella figura di professore medico assistente delle Terme, un ruolo professionale presente pure nei bagni di Lucca e di Pisa, che era il primo atto dell’intervento programmato dalla Repubblica per fornire un tangibile sostegno alla ristrutturazione dei bagni. Un medico pubblico era necessario per dirigere l’uso delle acque, per dare indicazione ai chirurghi, al personale ausiliario,

di Padova in visita magistrale all’Università nell’aprile 1771, in «Atti e memorie della Regia Accademia di Scienze Lettere ed Arti in Padova», n.s., XXXIV (1917-1918), pp. 45-60; G. Gennari, Notizie giornaliere di quanto avvenne specialmente in Padova dall’anno 1739 all’anno 1800 (2 voll.), con introduzione, note ed apparati di L. Olivato, Cittadella, Rebellato, 1982-1984, vol. I, pp. 73-76; P. Del Negro, L’Università in Storia della cultura veneta, vol. 5: Il Settecento, t. I, p. 54; e la lettera alla data 29 marzo 1771 in Giuseppe Toaldo e il suo tempo nel bicentenario della morte. Scienze e lumi tra Veneto e Europa. Atti del convegno di Padova (10-13 novembre 1997), a cura di L. Pigatto, presentazione di P. Casini, Cittadella, Bertoncello Artigrafiche, 2000, p. 226. 54  ASV, Senato, Rettori, b. 329, Relazione della visita all’Università di Padova del 8-20 aprile 1770, del 16 maggio 1771; BMCV, Mss. Donà delle Rose 340, Riformatori dello Studio, fasc. 8, Terme Padovane, «Scrittura» appartenente al restauro delle Terme padovane diretta agli Eccellentissimi ed Illustrissimi Riformatori dello Studio di Padova da Antonio Pimbiolo publico professore di medicina teorica. 55   Premuda, La medicina, p. 264.

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come gli «acquai», e i «bagnai», per soccorrere gli ammalati. Solo a questa competente figura i medici degli altri Stati avrebbero saputo a chi indirizzare e a chi confidare la cura dei loro malati. I riformatori dello Studio avrebbero riconosciuto in questo funzionario, attraverso una periodica e regolare corrispondenza d’ufficio, l’interlocutore privilegiato del rinnovato controllo medico-politico delle Terme56. L’ideologia che era alla genesi di queste disposizioni emanate dai riformatori dello Studio, dietro suggerimento del Mingoni, partiva dal presupposto che la regolamentazione dei comportamenti dei lavoratori alle Terme e la corrispondenza fra le aspettative del potere curativo dei medicinali, come i recipienti dell’acqua della Vergine, per la quale erano state rilasciate nel 1769 dai padri di Monteortone mille «fedi», e il contenuto effettivo dei contenitori avrebbero fornito le garanzie per la credibilità all’estero dell’intervento pubblico alle Terme e per la raggiunta soddisfazione dei pazienti pervenuti in esse57. La Lettera per via di saggio storico di un abate con interessi medici, attribuita dal catalogo Cicogna al professore dello Studio Alberto Colombo, indirizzata a un amico, un certo Rossi, si presenta come un’inedita descrizione della visita dei riformatori dello Studio del 1771, ricca e dettagliata. Rispetto alle fonti conosciute cambia la sequenza dei luoghi visitati: ad esempio, per primo è l’ospedale, sono riportate le orazioni dei docenti, particolare curioso nella valutazione dello scrittore non è posto l’accento al problema considerato centrale dalla letteratura critica sull’organizzazione dei collegi universitari. Dal documento in esame è chiaro che le Terme padovane rappresentano un luogo di estremo interesse per la magistratura veneziana sia per le imminenti soppressioni degli ordini religiosi, come il monastero di San Daniele (voci circolanti a Padova attribuivano alle prossime liquidazioni della proprietà ecclesiastica l’ispezione dei riformatori dello Studio al monastero di San Giovanni di Verdara a Padova) e sia per il carattere di laboratorio di medicina sperimentale, che assumevano le ricerche sulle proprietà minerali delle acque termali di Abano in sintonia con le applicazioni mediche introdotte nelle cure degli ammalati all’Ospedale di San Francesco. In effetti nel caso delle Terme d’Abano, in questa inedita Relazione della visita dei riformatori dello Studio, il centro della narrazione è individuato nelle ricerche chimiche del «professor» Giovanni Fabris58.  ASV, Senato, Rettori, b. 329, Relazione della visita all’Università di Padova del 8-20 aprile 1770, del 16 maggio 1771. 57  ASV, Riformatori dello Studio, b. 36, cc. 345v. e 346v. 58   BMCV, Mss. Cicogna 1110, Lettera intorno la visita fatta dagli Eccellentissimi signori Riformatori dello Studio di Padova l’anno 1771. Cfr. Professori e scienziati, pp. 726, 733 e 735. 56

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Il Fabris era uno speziale di Padova, che era stato assunto dal 1762 come aiutante al museo di storia naturale di Antonio Vallisnieri Junior. Spinto dall’uso medico del sale minerale a Venezia e nella Terraferma, dalle notizie del rilancio pubblico delle Terme padovane e dall’incoraggiamento di diversi professori che possiamo identificare fra coloro che producono le «fedi» di attestazione delle virtù curative del sale minerale di Abano riportate nella sua supplica per la concessione del privilegio di produzione (come il professore di medicina pratica in Ospedale Giovanni Dalla Bona, quello di chirurgia Girolamo Vandelli, il medico fisico Giuseppe Mingoni), il Fabris si dedicò allo studio del sale d’Abano. Le virtù curative di questo sale descritto fin dal Trecento dal medico padovano Iacopo Dondi Orologio nel suo trattato De causa salsedinis aquarum (Venezia 1553), avevano spinto il Fabris a chiedere ed ottenere nel luglio del 1766 un diritto di privativa per l’estrazione del sale per dieci anni, non per secreto, ma con l’ausilio di mezzi chimici. Nelle intenzioni del richiedente, che aveva in tal senso acquistato due campi ad Abano per l’impianto della fabbrica con una ruota da molino, si sarebbero analizzate le proprietà di questo sale e messo in produzione un ritrovato che avrebbe dovuto sostituire i più famosi sali di Modena e d’Inghilterra. Furono verosimilmente i costi d’esercizio dell’impresa, per i quali il Fabris, privo di capitali iniziali, si era indebitato, e l’ostilità del Mingoni, che fecero naufragare questo interessante progetto di sviluppo delle Terme, non privo di una connotazione mercantilistica, che era attentamente seguito dalla magistratura veneziana dei riformatori dello Studio59. Il soggiorno a Padova dei riformatori dello Studio era stato chiesto dal rettore della città Contarini. E proprio le Relazioni al Senato di fine mandato dei rappresentanti veneti nella città della Terraferma consentono di fare un rendiconto di un quinquennio di interventi statali alle Terme perché, come ben si esprime, nel dicembre del 1772, il capitano e vice podestà Francesco Rota trattano «qualunque circostanza che aver può qualche rapporto con i premurosi riguardi della pubblica, e privata felicità» e in particolare «sopra le arti, ed il commercio, da cui dipende il bene delle

 AAUP, Sacro collegio filosofi e medici, b. 421, cc. 299-306v.; ASV, Provveditori alla sanità, b. 585, alla data 19 gennaio 1766 m.v.; ibidem, b. 587, «Scrittura» di Giovanni Fabris da Padova del 22 dicembre 1774; ASV, Senato, Terra, b. 2473, alla data 11 giugno 1768. Sull’argomento R. Berveglieri, Inventori stranieri a Venezia (1474-1788). Importazione di tecnologia e circolazione di tecnici artigiani inventori. Repertorio, Venezia, Istituto veneto di scienze, lettere e arti, 1995, pp. 8-53. Su Giovanni Dondi Orologio, G. Ongaro, La medicina nello Studio di Padova e nel Veneto, in Storia della cultura veneta, vol. 3: Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza, N. Pozza, 1981, p. 85. 59

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nazioni, e la vera felicità dei Stati»60. Non bisognava tuttavia avere delle false aspettative. Nel marzo del 1775 un suo successore, il rettore Giovanni Benedetto Giovanelli, affermava che soltanto un costante intervento dello Stato e l’accorpamento delle Terme all’Università di Padova poteva arrestarne la decadenza che gli interessi privati, benché stimolati dalla ‘pubblica protezione’, non erano stati in grado di approdare a dei duraturi e tangibili risultati61. Un quadro sulle «famose e sfortunate Terme» sostanzialmente suggellato anche dal provveditore straordinario Andrea Memmo l’anno dopo, nel 177662. Eppure proprio al Memmo, uscito da una delle più antiche famiglie del patriziato veneziano, personalità di natura aperta ed irrequieta, che seppe prendere immediata consapevolezza dei motivi e dei problemi ideali del suo tempo, rinvigorendo così un patrimonio tradizionale di abilità e di consumata arte politica, dobbiamo delle brevi Viste politiche sopra varie parti del governo di Padova la maggior parte delle quali bisognose di lumi, e di ben maturi esami dell’aprile-maggio 177563. Si trattava di appunti stesi come promemoria prima dell’assunzione della carica a Padova delle varie questioni che intendeva affrontare e tradurre in termini di azioni e di leggi e che erano i moti e i risultati delle sue meditazioni e del suo impegno. In questa fitta ed articolata sequenza di propositi sono numerosi i punti di una futura politica di decoro e di igiene urbana e di prestigio individuale a Padova, che erano finalizzati anche a ragioni turistiche, come la sistemazione delle strade e del Prato della Valle rendendo la città un’attrattiva «deliziosa» per i forestieri e poi anche l’agganciamento del progetto d’interventi sul Prato con la «restaurazione generale de’ bagni d’Abano» perché questo nuovo polo urbano avrebbe sostenuto e rilanciato l’espansione della città in direzione meridionale64. Un piano per il quale la magnificenza degli antichi costituiva un ulteriore presupposto ideologico, perché il ritrovamento di pezzi di marmi greci e di iscrizioni nel corso di lavori su un fosso presso il Prato 60   Relazioni dei rettori veneti in Terraferma (14 voll.), a cura dell’Istituto di storia economica dell’Università di Trieste, Milano, Giuffrè, 1973-1979, vol. IV: Podestaria e capitanato di Padova, ibidem, 1975, pp. 599 e 602. 61   Ibidem, p. 615. 62   Ibidem, p. 636. 63   G. Torcellan, Nota introduttiva, in Illuministi italiani. Riformatori delle antiche repubbliche, dei ducati, dello Stato Pontificio e delle isole, pp. 195 e 197; Preto, L’Illuminismo veneto, pp. 4-6. 64   Puppi, Il Prato della Valle, pp. 117-118; G. Torcellan, Una figura della Venezia settecentesca: Andrea Memmo. Ricerche sulla crisi dell’aristocrazia veneziana, Venezia-Roma, Istituto per la collaborazione culturale, 1963, pp. 112-118.

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della Valle sembrava comprovare l’ipotesi che nel passato, per il frequente concorso di forestieri alle Terme padovane, la strada che collegava la città ad Abano fosse lastricata65. Lo stato della questione delle Terme era dettagliatamente affrontato nel dispaccio del Memmo del 17 aprile. Il problema principale era lo stato degli interventi sulla manutenzione delle strade ora integrati con la sorveglianza di una deputazione di Presidenti ai lavori alla strada di Abano formata da nobili padovani. Nel dettaglio rappresentava comunque un’esperienza eccezionale la concessione alla Repubblica della strada privata del marchese Zan Antonio Dondi Orologio, costruita comprando e permutando terreni e lunga quasi un miglio in perfetta efficienza, costeggiata di alberi alti e frondosi, che avrebbero costituito un «delizioso passaggio» per gli ammalati e sarebbe stata arricchita dalla creazione di giardini66. Per il Memmo l’agire sociale del Dondi Orologio rappresentava quella via esemplare di superamento dell’interesse privato, che si poteva incrementare, stimolando l’emulazione degli altri padovani possessori di beni ai bagni nell’inseguire l’esempio del marchese. Nell’idea del patrizio veneto il Dondi Orologio avrebbe dovuto essere pubblicamente elogiato con la remissione della tassa sul campatico. Secondo il pensiero del Memmo il fine ultimo di queste iniziative era di attirare un gran numero di persone e formare delle città, dove erano prima dei poveri villaggi, secondo le indicazione tratte dalle Istituzioni politiche del Barone di Bielfeld67. In generale le Terme di Abano erano riproposte dal Memmo con una funzione terapeutica e assistenziale insieme a una più ampia politica ospedaliera di riforma, che tendeva ad estinguere i piccoli ospedaletti territoriali e caritativi, promuovendo la costruzione di un nuovo ospedale, presto attuato nella vecchia sede dei gesuiti. Questo progetto avrà la sua realizzazione,

  BMCV, Mss. Cicogna 1110, Lettera intorno la visita fatta dagli Eccellentissimi signori Riformatori dello Studio di Padova l’anno 1771. 66  M.P. Leone, Dalla “Casa grande di Statio” al “Palazzo Orologio”: le vicende storiche attraverso le fonti archivistiche, in Il “Palazzo dominicale in Abbano” tra terme e campagna. Villa Comunale Bassi Rathgeb ex Zasio già Dondi Orologio e Secco, a cura di D. Ronzoni, Abano Terme, Museo civico, 2007, pp. 24-25. 67  ASV, Riformatori dello Studio di Padova, b. 520, fasc. Abano Terme, «Scrittura» al Senato del podestà straordinario Andrea Memmo del 17 aprile 1776. Sulla nozione di interesse, Roche, Felicità, p. 47; Trampus, Il diritto alla felicità, pp. 161-167; e soprattutto S. Cerutti, Processo ed esperienza. La nascita dei corpi di mestiere a Torino tra Sei e Settecento, in Giochi di scala. La microstoria alla prova dell’esperienza, a cura di J. Revel, Roma, Viella, 2006, p. 181. Per gli interessi del patriziato veneziano, Preto, L’Illuminismo veneto, pp. 4-6. 65

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dietro varie proposte, con il lavoro di Domenico Cerato68. E proprio al titolare della cattedra di architettura civile (1771) a lungo consulente per lo Studio di Padova ed amico del Memmo, per il quale si occupò della progettazione ed esecuzione delle opere per il Prato della Valle, dobbiamo la costruzione dell’oratorio presso le Terme di Abano, la cui ubicazione sui terreni della nobile famiglia Cortesi era stata scelta di comune intesa con il medico Mingoni69. Si trattava di un’operazione particolarmente sentita dai fedeli, perché la chiesa parrocchiale era distante un miglio, era scomoda per l’orario e per le cure, in un paese senza cavalli e dove non si trovava nemmeno un religioso con un altare portatile per celebrare la messa70. Eppure sul significato della costruzione dell’edificio nel sistema di regolazione dei bagni il Mingoni spiegava che «la mancanza d’una chiesa ad Abano pone in costernazione tante persone che spingono la pietà sino alla superstizione, e la festa interrompono la medicatura, per andare a piedi nelle ore più calde a cercare una messa, a un miglio di distanza; ciò che in alcuni impedisce la guarigione, e produce in altri maggiori incomodi. La farcitura d’una picciola chiesa rimedierebbe a tal disordine»71. In definitiva un insopprimibile bisogno di religiosità, per cui si assisteva ad uno spostamento di fatto della razionalità medica nella sfera della credenza72. Investire o fare indagini alle terme doveva essere molto allettante. Nell’anno 1755 anche Angelo Pisani, professore di medicina pratica, supplicava i riformatori dello Studio di potersi dedicare a delle ricerche presso i bagni73. Tuttavia è in una serie di appunti, non datati, attribuibili al Pimbiolo, in cui erano esaminate le terme inglesi di Bath, ma anche di Turnbridge, che veniamo a sapere l’idea del professore dello Studio di concepire una ‘società’ simile a quella che si occupava dei teatri a guadagno per gestire il rilancio economico delle Terme con diritto di osteria, «beccaria», «pistoria» e «sta-

 M. Brusatin, Pubbliche virtù del provveditore straordinario Andrea Memmo: la costruzione del Prato della Valle di Padova, in Venezia e la Terraferma attraverso le relazioni dei rettori. Atti del convegno di Trieste (23-24 ottobre 1980), Milano, Giuffrè, 1981, p. 117. 69   BUPd, codice 2224, c. 269, «Scrittura» dei riformatori dello Studio di Padova del 28 febbraio 1778 m.v.; AAUP, Bagni d’Abano (1761-1799), b. 595, fasc. Oratorio di Abano. Cfr. inoltre ASV, Riformatori dello Studio di Padova, b. 520, fasc. Oratorio e sacerdote alle Terme d’Abano; A. Ferrighi, Domenico Cerato, in Professori e scienziati, pp. 45-64. 70  ASV, Riformatori dello Studio, b. 520, fasc. Abano Terme, lettera s.d. 71   BMCV, Mss. Donà delle Rose, Riformatori dello Studio, b. 340, fasc. Terme padovane, lettera del 14 gennaio 1775 m.v. 72  V. Ferrone, I profeti dell’Illuminismo. Le metamorfosi della ragione nel tardo Settecento italiano, Roma-Bari, Laterza, 1989, p. 9. 73  AAUP, Bagni d’Abano (1761-1799), b. 595, fasc. Bagni d’Abano. 68

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zio», prelazione nell’acquisto e la permuta di terreni, il miglioramento delle comunicazioni con l’innovativo taglio di una via fluviale da Padova fino ad Abano, il mantenimento, da parte della società, di un medico e di un chirurgo. Non erano tuttavia applicabili ad Abano i metodi comunemente usati, laddove i bagni si trovavano in zone urbane. Abano e i vicini Colli Euganei, pur avendo molte case, erano divise e distanti, le strade erano di campagna, spesso in cattivo stato, insomma mancavano i fondamenti della cultura urbana74. Tuttavia queste strategie favorivano la ricerca del profitto privato con la permanenza degli ammalati alle terme non solo per la propria salute, ma anche per la comodità e l’amenità del luogo75. Significativa la scelta di analizzare l’esperienza di Bath, perché le ragioni del successo della città inglese stavano nella combinazione di medicina e di divertimento sfruttato energicamente da parte di imprenditori locali76. Era infatti dall’Inghilterra che provenivano le iniziative più originali. Informato del favorevole pronunciamento del Senato per le Terme padovane nel giugno del 1769, il medico Bartolomeo Dominicetti, dotato di privilegi regali per l’uso di macchine inventate per la costruzione di nuovi bagni ed esperimentate a Bristol e a Londra, si era offerto alla Repubblica di ritornare in patria con i suoi capitali per impiantare una fabbrica privilegiata ad Abano, con la richiesta d’esenzione dalle tasse per 50 anni. Ciononostante, nel 1784 la pratica era ancora ferma alla magistratura dei Provveditori alla sanità77. Tuttavia i motivi dell’insuccesso, a pochi anni di distanza dalla proposta di questo ambizioso progetto societario del Pimbiolo, che non venne portato avanti, sono molteplici anche se il più rilevante va forse rintracciato nella mancata integrazione fra la nobiltà della Terraferma e il patriziato della Dominante, per cui la motivazione agli investimenti produttivi sulle Terme padovane era un’iniziativa veneziana che proveniva in definitiva dall’esterno della realtà urbana del Consiglio cittadino78.

74  Leone, Dalla “Casa grande di Statio”, p. 11. Il medico Mandruzzato definisce Abano «villa borgata». 75  AAUP, Materie diverse con Indice, b. 642, cc. 474-477v. 76   R. Porter, Strategie terapeutiche, in Storia del pensiero medico occidentale (3 voll.), Roma-Bari, Laterza, 1993-1998, vol. II: Dal Rinascimento all’inizio dell’Ottocento, a cura di M.D. Grmek, ibidem, 1986, p. 354. 77  ASV, Riformatori allo Studio, b. 36, cc. 274-276v.; ASV, Provveditori alla sanità, b. 586, Commissione alla data 8 marzo 1784. 78  A. Tenenti, Prolusione, in Investimenti e civiltà urbana secoli XIII-XVIII. Atti della IX Settimana di studi di Prato (22-28 aprile 1977), a cura di A. Guarducci, Grassina-Bagno a Ripoli, Le Monnier, 1989, p. 17.

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Anche l’operazione economica della nobile famiglia padovana dei Polcastro con il restauro di una casa, il riutilizzo di due bagni abbandonati e l’introduzione di una stufa, un luogo di ristoro, una scuderia, con le sue pertinenze era valutato poco più di mille ducati79. Le iniziative di altri gruppi sociali tuttavia non mancarono. Nel luglio del 1769 il Senato si era nuovamente interessato al problema, riservandosi di esprimere un parere sopra la supplica dei canonici regolari di San Daniele in Monte, che chiedevano licenza di prendere a livello, cioè a prestito, 2.000 ducati per completare la fabbrica costituita da due edifici, da una parte i bagni a un solo piano con quattro tepidari e quattro bagni e dall’altra gli alloggi a due piani con sedici stanze e una fabbrica laterale per la servitù e i cavalli e le carrozze, per gli ammalati presso le Terme, per un investimento complessivo che si diceva importasse complessivamente 14.000 ducati80. La notizia del positivo pronunciamento del governo a favore del complesso termale aveva infatti stimolato diverse azioni private. I padri di Monteortone avevano investito 5.000 ducati, i canonici di San Daniele avevano aperto una bottega di caffè e il professore dello Studio Mariani prese a livello e restaurò la casa dell’ospedale di San Francesco ad Abano sempre per ospitare i forestieri81. Le successive iniziative riformatrici, come la soppressione delle congregazioni religiose, alle quali apparteneva il monastero di San Daniele, se interruppero il flusso degli investimenti di capitale degli enti religiosi, allo stesso tempo aprirono l’accesso alle Terme ai nobili padovani, ai patrizi e ai cittadini veneziani82. Nel 1771 era lo stesso medico Mingoni che, in una sua lettera ai riformatori dello Studio per assicurare l’alloggio agli ammalati, garantendo la manutenzione degli acquedotti e l’apertura dei bagni che erano stati chiusi, si candidava come acquirente delle proprietà del soppresso convento di San Daniele83. Secondo una lettera del nunzio padovano Bonfio dell’agosto del 1765, la vicenda dei bagni d’Abano stava molto a cuore ad Andrea Memmo malgrado, secondo un’altra lettera, fosse osteggiata dal procuratore di San 79   BMCV, Mss. Cicogna 1110, Lettera intorno la visita fatta dagli Eccellentissimi signori Riformatori dello Studio di Padova l’anno 1771. 80  ASV, Senato, Rettori, b. 328, «Scrittura» dei riformatori dello Studio di Padova del 22 gennaio 1770 m.v. allegata al Decreto del Senato del 1° febbraio 1770 m.v.; BMCV, Mss. Cicogna 1110, Lettera intorno la visita fatta dagli Eccellentissimi signori Riformatori dello Studio di Padova l’anno 1771. 81   Ibidem. Cfr inoltre ASPd, Corporazioni religiose soppresse, Monasteri del territorio, Monteortone S. Maria, b. 8. 82   Ghedina, “Dilettose venete fonti”, pp. 102-111. 83  ASV, Riformatori dello Studio, b. 520.

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Marco Morosini che, proprietario di parte dei fondi aponensi, non era molto disposto all’impresa per l’incertezza del buon esito dell’operazione84. Il progetto interessava invece ad Andrea Tron e al segretario David Marchesini, il patrizio che in quegli anni si faceva portavoce di un tentativo di rinnovamento economico favorendo i cosiddetti capitalisti, i cui interessi erano da lui rispettati e favoriti attraverso la concessione della nobiltà delle città della Terraferma ai mercanti imprenditori del lanificio. Tuttavia appare significativo che questa cultura economica non era condivisa dal Morosini, che non voleva invece assumersi il rischio dell’investimento. Malgrado il nobile detenesse la piena proprietà dei fondi nel padovano, esitava ad organizzare la produzione dei servizi alle Terme85. Eppure vi furono altre persone pronte a mettersi in gioco, come quel dottor Giovanni Paolo Olivier de Baseggi, che aveva accumulato venticinque anni di esperienze in medicina e chimica in Italia e in Europa, era stato professore alle terme di Modena e aveva pubblicato tre trattati medico-pratici, fra i quali uno dedicato alle analisi su varie sorgenti minerali corredato con delle osservazioni mediche, che con una supplica ai riformatori dello Studio si candidava ad assumere la carica, allora inesistente, di pubblico direttore delle Terme (eccettuate quelle padovane sottoposte al Mingoni) per tutta la Terraferma veneta86. Era sempre l’abile Mingoni che nei suoi resoconti ai riformatori dello Studio registrava puntualmente le abitudini nuovamente introdotte. Il medico padovano, con l’esperienza maturata sui temi e problemi del termalismo, contribuiva ad ispirare nuovi e originali progetti di investimenti economici87. L’allestimento di trenta e più stanze ‘da padrone’ e i dodici bagni con i loro camerini del nobile Orologio avevano sconcertato l’economia dei bagni, perché, rispetto alle grandi vasche comuni, aveva costruito singoli camerini, uno di fianco all’altro. Questa scelta architettonica dava spazio al recupero

 ASPd, Nunzi e ambasciatori, Lettere ai Deputati ad Utilia (1764-1766), b. 178, lettera alla data 10 e 29 agosto 1765. 85   G. Tabacco, Andrea Tron e la crisi dell’aristocrazia senatoria a Venezia, Udine, Del Bianco, 19802 [I ed. Trieste, Istituto di storia medioevale e moderna-Stabilimento d’arti grafiche Smolars, 1957], pp. 172-174. Cfr. P. Lanaro, Il mercante e l’imprenditore. L’evoluzione storica attraverso il lessico, in «Annali di storia d’impresa», II (2007), pp. 212-213. 86  ASV, Riformatori dello Studio, b. 520, fasc. Medici alle Terme, cc. n.n. 87   Ibidem, lettera alla data 11 agosto 1783: Mingoni riferendo dell’Orologio affermava: «io ho procurato sempre di animare l’idea grandiosa di questo signore e li ho somministrati tutti i lumi, e direzioni ricercatemi». Sull’utilità di un mercato settimanale – poi introdotto dal Dondi Orologio – il giorno di mercoledì, che mancava nella vicaria di Arquà, si soffermerà anche il Mingoni: ASV, Riformatori dello Studio, b. 36, c. 345r. 84

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del senso del pudore e dell’intimità88. Era da chiedersi se la raffigurazione del bagno comune promiscuo presente nelle stampe dell’epoca rappresentava un momento del processo di civilizzazione89. A dire la verità, se già la presenza di un bagno in comune all’aperto rappresenta una forma più sfumata di intimità fra i sessi, ancora una volta ci soccorre la testimonianza di Carlo Goldoni, che parlava dell’esistenza ad Abano di due reparti con i relativi custodi Marubbio e Rosina, di bagni riservati agli uomini e di altri riservati alle donne, e ce li rappresenta nel suo libretto90. Le «scritture» del pubblico perito Giacomo Savio nel 1765 e la supplica del dottor Bartolomeo Dominicetti facevano comunque esplicitamente riferimento ad una divisione fra i sessi nelle loro proposte architettoniche per i bagni ad Abano. È importante sottolineare che i bagni separati appaiono chiaramente appartenere alla cultura delle Terme padovane prima dello stabilimento Orologio91. Nel 1783, in un’altra lettera, il Mingoni faceva notare l’affermarsi di un nuovo tratto di civili maniere, anche dal punto di vista medico-alimentare nell’abbondante trattamento a tavola, con il pane fresco, che si era allora affermato alle Terme padovane92. Prima dell’acquisto del veneziano Todeschini dei bagni appartenenti ai beni ex-ecclesiastici, gli ospiti erano maltrattati da un direttore «che si tiranneggiò tutti crudelmente» nell’uso del vitto, sia per la quantità sia per la qualità, per cui gli ospiti partivano tutti disgustati e decisi a non più tornare ad Abano, ma quell’anno tutti partivano se non contentissimi. Nel 1783 questa diversità nella percezione della felicità nasceva dal fatto che quell’anno il proprietario, non avendo trovato a chi affittare l’albergo, lo aveva gestito direttamente, con il suo fattore, scegliendo un direttore «di cognizione e polite maniere, il quale sa conciliare le convenienze dovute a forestieri, con li onesti vantaggi del proprietario»93.

88   Ghedina, “Dilettose venete fonti”, p. 38; ASV, Riformatori dello Studio, b. 520, «Scrittura» anonima: «indecente ancora per l’uomo, e per la donna, che dopo il bagno, o fangatura, o altro, convenga passar per la strada in tale stato di vista della bottega, e dei passeggeri, al sole, alla piova, ed all’aria burrascosa, che sopragiunge». 89   I Colli Euganei, p. 46. 90   Goldoni, I Bagni d’Abano, cc. n.n.; H.P. Duerr, Nudità e vergogna. Mito del processo di civilizzazione, Venezia, Marsilio, 1991, p. 56. 91   BMCV, Mss. Donà delle Rose 340, Riformatori dello Studio, fasc. Terme padovane, «Scrittura» di Giacomo Savio del 1765; e ASV, Riformatori dello Studio, b. 36, c. 276. 92  ASV, Riformatori dello Studio, b. 520, fasc. Medici alle Terme, cc. n.n.; ad esempio, per la mancanza del servizio di posate poteva succedere che una comitiva non poteva andare a pranzo se il gruppo precedente non aveva terminato di mangiare: cfr. Olivieri, La felicità dello Stato, pp. 74-75. 93  ASV, Riformatori dello Studio, b. 520, lettera alla data 11 agosto 1783.

Paolo Quintili LE FELICITÀ DELL’AMORE E IL PIACERE. MATERIALISMO, EDONISMO E PASSIONI DA LA METTRIE A SADE

Oh Happiness! Our Being’s End and Aim! Good. Pleasure. Ease. Content! Wate’er thy Name! A. Pope

1.  Il neologismo «Esthétique». Nella seconda metà del secolo XVIII, il «Supplemento» dell’Encyclopédie (1776-1777) registra l’entrata in uso di un neologismo: «Esthétique». L’articolo è tratto dall’opera del pedagogista e matematico svizzero-tedesco Johann Georg Sulzer (1720-1779), il quale pubblicò nella seconda metà del secolo una Allgemeine Theorie der Schönen Künste1. L’Enciclopedia presenta la nuova disciplina come «una scienza che ha preso forma solo da pochi anni: è la filosofia delle belle arti». Scienza dei sentimenti: interessante è la spiegazione etimologica che dà in seguito Sulzer, introdotta da un avversativo: «ovvero la scienza di dedurre dalla natura del gusto la teoria generale e le regole fondamentali delle belle arti». Sulzer conclude: «il termine deriva dalla parola aìsthesis che significa “sentimento”. Pertanto l’estetica è, propriamente, la scienza dei sentimenti». Sappiamo nondimeno che aìsthesis ha un significato assai più ampio: vuol dire sensibilità, sensazione, percezione e anche intendere, capire con i sensi. Il «vero fine» di tutte le arti sarebbe dunque quello di suscitare un certo tipo di sentimento. Sulzer, filosofo accademico di stampo alquanto conservatore, conclude sul senso necessario da dare a tale scienza nuova: «il fine più importante delle belle arti è di suscitare un sentimento vivo del vero e del buono (v. Beaux-arts, nel “Supplemento”)». «È dunque necessario che la loro teoria si fondi su quella dei sentimenti e delle nozioni confuse che si acquisiscono per mezzo dei sensi». Sulzer giunge a parlare di una psicologia delle belle arti, che deve andare alla ricerca delle fonti del piacere legato

  In 2 voll., Leipzig, Weidmannschen, 1771-1774.

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alla finzione e all’imitazione. Che cos’è il piacere nell’arte? «Il primo passo consiste nel determinare il fine e l’essenza delle belle arti (v. Beaux-arts); poi, dopo essersi convinti che il loro scopo principale è di riuscire a dominare l’animo per mezzo di sensazioni piacevoli e spiacevoli (…) è necessario risalire all’origine del sentimento e dedurre dalla natura dell’anima cos’è il piacere, anche riferendosi ai filosofi che se ne sono occupati». Malgrado l’intento conservatore che ispira l’articolo del «Supplément» dell’Encyclopédie, per una strana convergenza di vedute, tale approccio all’estetica centrato sul sentimento di piacere si approssima all’ideale «moralistico» libertino dell’arte. Un’inattesa (ma non desueta) eterogenesi dei fini fa sì che un programma di ricerca nuovo viene qui a delinearsi. Sulzer abbozza una sorta di programma di lavoro per i critici e i filosofi, che in buona misura viene seguito, in ambito francese, già da Julien Offroy de La Mettrie (1709-1751) e, più tardi, da Donatien-Alphonse-François de Sade (1740-1814). Sul tema del piacere e dei modi di generare, stimolare, accrescere godimento (jouissance), nel lettore, attraverso l’istinto mimetico prodotto dalla narrazione, attraverso la lettura, il romanzo libertino aveva fatto scuola. Vediamo, dunque, in che senso si può parlare, nel caso dei due autori menzionati, di un’estetica libertina. 2.  L’oggetto storico «estetica libertina». Ci domandiamo anzitutto: è possibile individuare una vera e propria «estetica filosofica libertina» in quanto tale? È possibile cioè una riflessione sull’arte in genere che tenga conto, in prima istanza, del suo rapporto con l’essere dell’uomo come ente naturale finito, alla ricerca incessante di godimento (jouissance) e di felicità (bonheur)? Quale ruolo gioca, in tale contesto, il sentimento (fisico e morale) di piacere e dispiacere nella fruizione sociale e, in ultima istanza, politica, dell’opera d’arte? Su tali questioni s’interrogherà, durante la tempesta rivoluzionaria, l’opera del Divin Marchese. Si tratta di considerare in cosa consista la specificità, quell’oggetto storiografico particolare che Jean-Marie Goulemot ha chiamato: «ces livres qu’on ne lit que d’une main». Ovvero si tratta d’indagare L’Enfer della letteratura libertina nel secolo XVIII2, e il rapporto tra i libri e l’immaginazione produttiva.

  J.-M. Goulemot, Ces livres qu’on ne lit que d’une main. Lecture et lecteurs de livres pornographiques au XVIIIe siècle, Paris, Minerve, 1991 (II ed. 1994); a questo libro sono seguite numerose edizioni erudite di testi libertini e pornografici del Settecento, prima fra tutte l’edizione delle Œuvres di Sade nella collana della Gallimard-Pléiade. 2

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Partiamo da Jean-Jacques Rousseau, cui si deve la colorita formula dei «libri da una mano sola». Nelle Confessioni (libro I), Rousseau svela a se stesso i propri peccati «di lussuria», e il lettore è eretto a nuova autorità morale, in luogo del sacerdote. Si tratta della lettura di testi libertini. Quei cosiddetti «libri pericolosi» svolsero un ruolo fondamentale nell’esistenza e nella formazione del giovane philosophe. Rousseau è il solo a parlare apertamente di tali testi in riferimento a sé: a furia di liti, di botte, di letture clandestine e mal scelte, divenni d’umore taciturno, selvatico; la testa cominciava ad alterarsi, e vivevo da vero lupo mannaro (…); e il caso assecondò cosi bene il mio umore pudico, che dovevo oltrepassare i trent’anni prima che buttassi gli occhi su uno di quei libri pericolosi che una bella Dama dell’alta società trovava scomodi in quanto, diceva, non si posson leggere che con una mano sola3.

Un’importante esposizione alla Biblioteca Nazionale di Francia, a Parigi, ha di recente fatto il punto sulla situazione bibliografica riguardante questo genere di testi: L’Enfer de la Bibliothèque Nationale. Eros au secret4. Sono state esposte al grande pubblico, per la prima volta con completezza e competenza bibliografica, le ricche collezioni di testi proibiti che dalla prima metà dell’Ottocento – su suggerimento di Napoleone – vennero rinchiuse sotto la collocazione speciale denominata Enfer. Soppresso nel 1969, l’Enfer della Biblioteca Nazionale di Francia è risorto nel 1983, ad opera degli studiosi e degli specialisti, che hanno dato vita alle grandi edizioni contemporanee di Sade e altri, arricchendosi di 58 titoli 5. Un’edizione italiana recente ha raccolto un paio di questi testi, basandosi sulle recenti edizioni critiche dei filosofi libertini, non del solo Enfer6. In cantiere è un secondo volume, sugli scrittori e i filosofi della seconda metà del Settecento, di cui parleremo e di cui riferiamo qui rapidamente l’«Indice»: S.-J. de Boufflers (1738-1815), [Alina] La regina di Golconda (1761); I. de Charrière (1740-1805), Il nobile (1762); R. de la Bretonne (1734-1806), Il curato patriota (1790); P.-A. C. de Beaumarchais (1732-1799), Gli amori di Charlot e Toinette (1789); Anonimo rivoluzionario, La Messalina francese (1790); D.A.F. de Sade (17401814), Francesi! ancora uno sforzo se volete essere repubblicani (1795); Alina e 3   J.-J. Rousseau, Confessioni, trad. it. a cura di F. Filippini, introduzione di R. Guiducci, Milano, Rizzoli, 1996, vol. I, p. 58. 4  La mostra si è tenuta a Parigi, dal 2 dicembre 2007 al 22 marzo 2008. 5   L’Enfer de la Bibliothèque. Eros au secret, Catalogo della mostra a cura di M.-F. Quignard e R.-J. Seckel, Paris, BNF, 2007. 6   J.O. de La Mettrie-D. Diderot, L’arte di godere. Testi dei filosofi libertini del XVIII secolo, a cura di P. Quintili, Roma, Manifestolibri, 2006.

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Valcour, ovvero il romanzo filosofico (1788-1795). Nell’«Appendice»: articoli «Libertino» e «Libertinaggio» et al. nei dizionari dell’età moderna. In questo ricco quadro letterario e filosofico del «libertinaggio» del Settecento è possibile seguire la genesi di un’estetica libertina, prendendo a modello il primo e l’ultimo dei testi elencati: la fiaba del cavaliere de Bouffler su Alina, regina di Golconda, e il romanzo filosofico d’età rivoluzionaria di Sade, Alina e Valcour. Entrambi i personaggi omonimi (non a caso) sono alla pervicace ricerca della propria felicità terrena e materiale. La domanda implicita è posta a più riprese al lettore: cos’è e dov’è la «vera felicità» di Alina? Il personaggio è afferrato in una ricca rete di conquiste, perdite, cadute e risalite, tra la mala e buona sorte (bon-heur). Dopo la terza ripetizione e smarrimento, il narratore/amante della fiaba di Boufflers ritrova Alina nel deserto, vecchia e felice, ed ella si unisce a lui. Il narratore/ amante confessa che solo dopo il giorno dell’ultimo rincontro – è cioè il giorno stesso in cui questo racconto viene narrato – egli ha conosciuto il vrai bonheur e ha così davvero cominciato a vivere. Scopre la felicità in «un leggero lavorio di dolci riflessioni e di teneri sentimenti». Eccoci offerto un primo schema dell’amore libertino e l’estetica narrativa che lo sottende. La linea di tensione narrativa è opposta nei due autori presi in considerazione. In Boufflers, Alina, regina di Golconda: evento/ripetizione  agnizione  smarrimenti del cuore e dello spirito  memoria di piacere (felicità). In Sade, Alina e Valcour: evento/ripetizione  agnizione/disconoscimento  smarrimenti del corpo e della mente  memoria di violenza-piacere (infelicità). Sade è un Boufflers rovesciato: fa leva sul momento negativo dell’agnizione – in cui la vittima sacrificale protagonista scopre d’essere stata ingannata e patisce le sofferenze inflittele dal (falso) amante-carnefice – che dà vita a una rappresentazione di memoria di piacere-violenza in cui il lettore non riesce a identificarsi, ma che pur sempre riconosce. 3.  La finzione, il piacere, la realtà. L’archetipo libertino del romanzo. È un meccanismo che sta al cuore del romanzo libertino sei-settecentesco, di cui J.-J. Rousseau aveva dato conto nelle Confessioni. Il philosophe apprende, grazie al piacere del romanzo (e al romanzo di piacere), la procedura di passaggio all’immaginario, di trasmutazione della realtà nella finzione. È qui sbozzata una nuova estetica del romanzo: La mia fantasia inquieta elesse un partito che mi salvò da me stesso placandomi la nascente sensualità; quello cioè di nutrirmi delle situazioni che mi avevano interessato durante le letture, di richiamarmele, variarle, combinarle, farle talmente mie da diventare uno dei personaggi che immaginavo (…), da scorgermi sempre nelle

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posizioni secondo me più gradevoli, da far si, in una parola, che lo stato fittizio in cui riuscivo a pormi mi facesse scordare lo stato reale di cui ero tanto scontento7.

Il philosophe individua il meccanismo universale che regge, in età moderna, la finzione romanzesca e ne legittima una nuova estetica. Estraneazione dal reale e inquietudine creativa: Rousseau riconosce il nesso tra gli affetti (passioni) e le funzioni intellettuali (fantasia, immaginazione) all’origine del racconto romanzesco: lo stesso carattere misantropico e scontroso del Filosofo vi è legato. «Basti, per ora, aver registrato l’origine e la causa prima di un’inclinazione che ha modificato tutte le mie passioni, e che, arginandole in se stesse, m’ha sempre reso pigro a fare perché troppo ardente a desiderare». In realtà, Rousseau registra, entro i confini dell’evento biografico, la psicologia stessa della finzione narrativa: la creazione di desiderio attraverso la mimesis. Un esempio è il «folle bacio» di Julie, nel grande romanzo La nuova Eloisa, evento che occorre come in una sorta di dimensione immaginifica, non reale8. Rousseau riparlerà, ancora nelle Confessioni, di quest’impulso alla finzione: Quest’amore delle cose immaginarie e questa facilità di occuparmene finirono col disgustarmi del tutto di quanto mi stava intorno, e determinarono in me la propensione alla solitudine che da allora m’è rimasta sempre (…). In seguito si vedranno spesso i bizzarri effetti di questa disposizione tanto misantropica e tetra in apparenza, ma che in effetti procede da un cuore troppo affettuoso, troppo amorevole, troppo tenero, il quale, non essendo riuscito a trovarne altri simili fra quanti esistono, è costretto a nutrirsi di finzioni9.

Ecco messe a fuoco le radici storico-concettuali essenziali del romanzo, non solo libertino (ma quest’ultimo in modo preminente) e la nuova estetica che lo precede. Si diffonde, dunque, tra Sei e Settecento, la forma-romanzo di soggetto fantastico o «borghese». È un genere letterario che si pone accanto alle forme classiche del poema in prosa e in versi, d’argomento religioso, cavalleresco o mitologico, che stimola l’affermazione di un tipo nuovo di narrazione, i cui primi modelli risalgono al secolo XVII (Cyrano, Sorel, Nicolas Chorier, Richardson, ecc.). Una sorta di macchina letteraria di produzione del desiderio, la quale accentua, radicalizza e insieme rende

  Rousseau, Confessioni, vol. I, p. 59.   J.-J. Rousseau, Giulia, o la Nuova Eloisa. Lettere di due amanti di una cittadina ai piedi delle Alpi, introduzione e commento di E. Pulcini, trad. it. di P. Bianconi, Milano, Rizzoli, 1992, pp. 74-76. 9   Rousseau, Confessioni, vol. I, p. 59. 7 8

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palese la dinamica costruttiva propria del romanzo in quanto tale. «La proie pour l’ombre», dirà Goulemot. Far prendere, al massimo grado, l’inganno, la finzione per la realtà, la preda per l’ombra, suscitando un effetto fisico di piacere e di desiderio. È l’effetto radicale ed eminente del romanzo ma soprattutto della lettura di «quei libri che si leggono con una mano sola» – e il modo di funzionamento esemplare della letteratura: la «mimesis desiderativa» della finzione inaugura la nascita del racconto erotico-pornografico. L’osceno («ciò che sta dietro la scena»), il perverso, il violento, ecc., non il solo «bello», divengono anch’essi l’oggetto dell’arte. Il secolo dei Lumi, come per l’estetica, costituisce un luogo storico di fondazione. È messo in gioco un nuovo archetipo della finzione. La tesi forte che intendo sostenere qui è dunque la seguente: la forma del romanzo libertino (erotico e/o pornografico) del Settecento, lungi dal costituire una «letteratura di nicchia», rivolta a un certo pubblico, separata dalla letteratura «alta», rappresenta, al contrario, una forma archetipica della narrazione romanzesca moderna. Di questa raccoglie, condensa e amplifica i meccanismi formali ed estetici che producono l’effetto di finzione. Il piacere del romanzo libertino è insomma un modello narrativo, utile ad afferrare il senso del romanzo moderno tout court. Forma letteraria che s’impone di concerto con l’impresa filosofica dei Lumi, dalla quale è storicamente indissociabile. Vediamo in che termini. 4.  Un’«età della Ragione»? Il materialismo edonistico di La Mettrie. In questo contesto, sono molti i philosophes che fanno letteratura libertina, cercando di sedurre i lettori, con le arti della narrazione, al verbo della raison. Ma di cosa si tratta precisamente in questi «romanzi filosofici libertini»? La Mettrie esordisce sul tema del piacere, proprio nel suo ultimo libello, intitolato La Volupté (1745), riedito due volte, con i titoli: L’Ecole de la Volupté (1746) e infine L’Art de Jouir (1751). Si tratta di un testamento spirituale: Piacere! Sovrano Signore degli uomini e degli Dèi, dinanzi a cui tutto scompare, anche la ragione: tu sai quanto il mio cuore ti adori e tutti i sacrifici che t’ha offerto. Non so se meriterò di condividere gli elogi che ti dono; ma mi crederei indegno di te, se non fossi attento ad assicurarmi la tua presenza e a render conto, a me stesso, di tutti i tuoi benefici. La riconoscenza sarebbe un ben magro tributo; aggiungo anche l’esame dei miei sentimenti più delicati10.

La filosofia edonista-epicurea di La Mettrie sottomette la ragione ai sensi. Una nobile servitù della ragione alla scuola dei sensi. La Mettrie

  Ibidem, p. 115 (corsivo nostro).

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rifiuta di collocare il proprio edonismo sullo stesso piano della letteratura pornografica, di cui all’epoca si erano già avuti i migliori esempi (L’Académie des Dames, Dom B***, ecc.). Ma la sua filosofia parla la medesima lingua: «Dio delle anime belle, piacere fascinoso, non permettere che il tuo pennello si prostituisca a voluttà infami, o piuttosto a dissolutezze indegne che fan gemere la Natura in rivolta. Che dipinga i soli fuochi del figlio di Cipride, ma li dipinga con trasporto»11. Eros, figlio di Afrodite, parla la lingua della Voluttà, che è un moto dell’animo, trasporta, eccita e prepara i sensi a superare la ragione, senza umiliarla. Ecco che La Mettrie parla delle «manovre della voluttà» in rapporto al discorso razionale; ossia la ragione, il discorso, il racconto, operano per la chiarificazione, la purificazione dei sensi. Numerosi sono i luoghi in cui il rapporto ragione/sensi è di subordinazione: «che questo Dio vivente, impetuoso, serva la ragione degli uomini solo per farla dimenticare»; «che non ragionino se non per esaltare i loro piaceri e lasciarsene penetrare»; «che taccia la fredda Filosofia, per ascoltarmi»; «sento le rispettabili manovre della Voluttà». Questi così espressi sono i caratteri propri del materialismo edonistico libertino di La Mettrie. L’estetica libertina del piacere amoroso in La Mettrie, che non concerne la sola opera dell’arte, ma l’esperienza umana nel suo insieme, ha come sfondo ideale la filosofia medica e materialistica dell’autore. Che cos’è il materialismo? Eccone, in breve, i caratteri principali, esposti dal punto di vista dell’autore: (1) materialità dell’«anima»; (2) passività della natura umana, più esposta al dolore che al piacere; (3) primato della natura (fisica) sul pensiero (metafisica, morale); (4) individualità irriducibile dei piaceri. La Mettrie, sulla base di questi caratteri o principi materialistici affermati, costruisce un’etica-estetica dell’esistenza tutta propria. Quella libertina e materialista (la parte e il tutto) è anzitutto una vera e propria etica-estetica dell’esistenza, scelta di valori diversi cui improntare l’esistenza, e nuovi in rapporto alla tradizione. La Mettrie ebbe, per questo, un’esistenza esemplare, fu uno fra i più grandi avventurieri della ragione dell’età dell’Illuminismo12. Di famiglia agiata – il padre era notaio – La Mettrie fu allievo, in Olanda, del maestro della scuola medica eclettica, Hermann Boerhaave (1668-1738), di cui tradusse in francese le Istituzioni di medicina (Paris 1739-1740). L’opera che lo rese celebre come filosofo eterodosso fu L’Uomo-Macchina, scritto nel 1747, dopo la Storia naturale dell’anima (1745). Qui La Mettrie impresse una   Ibidem.  Cfr. A. Thomson, Materialism and Society in the Mid-Eighteenth Century: La Mettrie’s Discours Préliminaire, Genève, Librairie Droz, 1981. 11 12

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svolta decisiva alla sua filosofia verso una concezione monistica dell’essere umano: unità di anima e corpo, negazione della spiritualità e immortalità dell’anima, affermazione, alla Spinoza, dell’unità della sostanza e determinismo in psicologia e fisiologia delle funzioni organiche. Un determinismo della felicità. L’uomo è un essere ferramente e interamente determinato dalla Natura e dalle sue leggi. Tali leggi lo obbligano a cercare la felicità. L’Uomo-Macchina offre dunque un’analisi dei fenomeni psicologici che fa economia dell’«ipotesi inutile» di un’anima separata dal corpo. Tutto è corpo nell’uomo: «la natura ci ha creati tutti unicamente per essere felici; si tutti, dal verme che striscia fino all’aquila che si perde nelle nubi. Per questo la Natura ha dato a tutti gli animali una parte di legge naturale, una parte più o meno raffinata a seconda di quanto lo permettono gli organi costruiti in determinati modi di ogni animale»13. Vien meno, in base a questo ragionamento, il dualismo delle sostanze mente-corpo, a vantaggio di una riflessione sull’«organo dell’anima». In virtù di quest’etica-fisiologica eudemonistica, il ‘Sommo Bene’, per l’uomo, è dunque la felicità. In virtù di essa, le funzioni «alte» della conoscenza e della ragione, che i filosofi riconducono all’attività di una sostanza pensante inestesa (res cogitans) e immateriale (Cartesio), in realtà sono spiegabili in termini di fenomeni organici sensibili. Si tratta, in particolare, di fenomeni dell’«organo dell’anima» per eccellenza: il cervello. Un organo determinato dalla Natura a un solo scopo: trovare la felicità, fuggire il dolore, cercare il piacere. 5.  La Mettrie contra Cartesius. Nel titolo «Uomo-Macchina» risuonava con chiarezza il riferimento polemico alla teoria cartesiana degli animali-macchina. Cartesio aveva affermato che tutti gli animali, ad eccezione dell’uomo, sono privi di «anima» – da lui identificata (e ridotta) al puro pensiero (cogito). Animali = pure macchine. La Mettrie intende rimarcare il fatto che l’uomo, come gli altri animali, prima sente, poi pensa: «sento ergo sum». Nella sua costituzione organica, l’uomo obbedisce alle stesse leggi della materia sensibile, cui sono sottoposti gli altri enti fisici in natura, animali e piante. Uomini e bestie sono perciò entrambi «macchinali», anche se la loro struttura fisico-organica è ben diversa dal meccanismo e dalle macchine che aveva concepito Cartesio. Questa serie di opinioni eterodosse valsero al philosophe non poche noie. 13   J.O. de La Mettrie, L’uomo macchina, in Id., Opere filosofiche, a cura di S. Moravia, Roma-Bari, Laterza, 1992, p. 208.

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La Mettrie era abituato a un’esistenza assai movimentata, con condanne a morte in contumacia, roghi di libri, fughe rocambolesche. Si rifugiò prima a L’Aia, dove cercò di sfuggire al mandato di cattura spiccato contro di lui a causa dell’Histoire naturelle de l’âme (1745). Poi da L’Aia a Potsdam, presso la corte di Federico II, al castello Sans-Souci («Senza-Preoccupazione»). Era in compagnia di un altro esule famoso, François-Marie de Arouet, già noto con il nome di Voltaire (1694-1778) e poteva dirsi «senza preoccupazioni»: aveva salva la vita. Ma si annoiava a morte in Germania. Ecco la genesi delle ultime operette morali. Accanto agli scritti medico-filosofici, La Mettrie scrisse infine, a Potsdam, opere di carattere etico-morale, tentando di rinsaldare ed estendere la nuova concezione dell’uomo nel mondo e di porre in luce l’antropologia implicita nella nuova visione della natura vivente, animale e umana. Nel 1748 La Mettrie aveva lavorato ad un’altra operetta scandalosa, che non mancò di suscitare le ire dei benpensanti e del clero. Il Discorso sulla felicità o del Sommo Bene, riedito a Berlino nel 1750 con il titolo di Anti-Seneca o il Sommo Bene. Nella «Prefazione» del 1750 – scritta a Potsdam – La Mettrie riafferma la propria etica-estetica libertina: piacere (breve e puntuale)  voluttà (piacere lungo)  felicità (piacere permanente). La felicità diventa un compito, un dovere dell’uomo, ancor prima che un diritto. Tale asserto avrà non poche conseguenze di rilievo nell’ambito della filosofia morale. Nel 1749 il Presidente dell’Accademia di Berlino, P.-L. Moreau de Maupertuis (1698-1759), amico di La Mettrie, originario anch’egli di SaintMalo, pubblicò un Saggio di filosofia morale che fece molto rumore14. Vi si affermava la tesi di «aritmetica morale» che nel calcolo della somma dei beni e dei mali nell’esistenza umana, i mali prevalgono sempre. Dunque, il piacere e la ricerca dei beni diventano una sorta di dovere morale. Ecco sintetizzata, in una formula algebrica, l’«equazione della felicità» secondo Maupertuis, in cui per ‘mf’ s’intendono i «momenti di felicità», per ‘md’ i «momenti di dolore», per ‘Pc’ s’intendono i piaceri del corpo, per ‘Pa’ i «piaceri dell’anima», con ‘t’ il tempo della loro durata e con ‘i’ la loro intensità, ‘p’ è il piacere, ‘d’ il dolore e ‘F’ la felicità. Il risultato è sempre di segno negativo, i dolori del corpo (‘Dc’) come i dolori dell’anima (‘Da’) aumentano d’intensità col tempo, mentre i piaceri del corpo diminuiscono. Sola eccezione: i piaceri dell’anima – ricerca della verità, pratica della giustizia – i quali aumentano d’intensità (+ ‘Ip’) nel tempo del loro esercizio:

14  Cfr. P.-L. M. de Maupertuis, Saggio di filosofia morale, trad. it. a cura di D. Bosco, Milano, Il Melograno Editore, 1999.

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l’aritmetica dei piaceri

l’equazione della felicità

secondo maupertuis

mf = i(p) . tpx md = i(d) . tdy

F = (mf 1 + mf n) - (md 1 + mdn) (md 1 + md n) < (mf 1 + mf n) -i2

-i1

-in

+i

1

Pc = t - Ip Pa = t . +i

1

Dc - da = t .

+i2

+i2

+in

+Ip

+i +Id

La Mettrie raccoglie la sfida del raffinato epicureismo di Maupertuis, che s’accompagnava a un’antropologia pessimistica da lui essenzialmente condivisa, e nella «Prefazione» dell’Anti-Seneca afferma risolutamente il suo primato dei piaceri: Ho cercato di diminuire la somma dei mali, come gli Stoici, bandendo i rimorsi e i puerili e falsi timori di un avvenire chimerico, che ci impediscono di gustare in pace le dolcezze di questa vita e che di conseguenza sono dei veri mali, che dico! dei veri tormenti. Ho voluto, come Epicuro, o come i suoi seguaci, aumentare la somma dei beni, seminando dappertutto il gusto delizioso dei piaceri, degli amori, e in una parola di tutte le voluttà15.

Il trattatello del 1745-1746 L’Ecole de la Volupté venne dunque ripreso da La Mettrie, dopo la lettura del Saggio di filosofia morale dell’amico Maupertuis, e trasformato nell’Arte di Godere (1751), ossia in una ricca e poetica disciplina dei piaceri. La Mettrie vi espone schiettamente il proprio a-moralismo derivato dagli studi di medicina. È un materialismo che concepisce la felicità, sulla scia della lezione epicurea, come il prodotto di una libera disciplina dei sentimenti organici di piacere. Piaceri che ruotano attorno agli istinti dell’Eros – nella forma della libera sessualità, fatta non di sola tattilità, ma di fantasie e di ragioni poetiche e intellettuali – sganciate da prescrizioni metafisiche d’ordine teologico-politico-morale. Negli stessi piaceri fisici – e per La Mettrie tutti i piaceri hanno una natura fisica – andava trovata una dimensione di universalità e di condivisibilità che li innalzasse al rango di valori, da esporre e da proporre, in linea di principio, a tutti 15   J.O. de La Mettrie, Il sommo bene, a cura di M. Sozzi, Palermo, Sellerio, 1993, pp. 51-54.

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gli uomini. Tali valori edonistici singolar-universali – come li potremmo chiamare – sono quelli che possono essere descritti e conosciuti da tutti, in prima persona, nella forma delle technai amorose. L’Arte di Godere è legata inscindibilmente a quelle technai. Non il puro piacere indifferenziato, non il piacere «da porci», bensì i piaceri (al plurale) d’amore in generale, afferrati dalla prospettiva della loro riproducibilità tecnica. Come una vera e propria «Scuola della Voluttà». L’eros dunque – non quello grezzo, bensì quello esercitato e maturato alla «Scuola della Voluttà» – offre una forma di universale etico naturale. Un eros raffinato e raccontato. È comune a tutti gli uomini, e funge anche da modello per la famiglia di istinti positivi su cui fondare le leggi delle società civili. La Mettrie modifica la struttura e l’ispirazione del testo del 1751, rispetto alle precedenti versioni. Entrano in gioco, con maggiore efficacia, quei piaceri di fantasia, legati alla poesia, all’immaginazione e alla reciprocità del sentire. Piaceri che hanno effetti corporei altamente sensibili e che nella precedente redazione del 1745 (La Volupté) erano posti in una prospettiva più marginale. L’accento va dunque alle technai, alle arti del produrre, e soprattutto del dare piacere. Il godere (jouir) è qualcosa, si, di unicamente corporeo (e dunque di individuale) – anche nella sua forma intellettuale – ma va coltivato, appreso, insegnato, condiviso. Il piacere è cioè sottoponibile ad una disciplina in cui la ragione svolge un ruolo chiave, non di sovrana conduttrice, ma di abile strumento degli istinti dell’eros. La ragione è «schiava delle passioni», affermerà Hume16, e il medico materialista già è senz’altro d’accordo con lui. Quali sono i modelli di quest’edonismo filosofico? Il modello è principalmente uno, quello pagano, greco-romano antico, rivisitato con grande originalità. Le maniere per esercitare al meglio il proprio impero, Eros le apprende dalla ragionevolezza, dalla «Scuola della Voluttà». Scuola che il philosophe incarna, finalmente, nel grande modello pagano illustrato dalla poesia greca e romana. L’Arte di Godere racconta le vicende amorose di immaginari personaggi mitologici, attualizzati al fine di mostrare le varie technai del dare e del ricevere piacere. La Mettrie descrive gli intimi impulsi corporei – dei quali, non ci si stancherà mai di ripeterlo, la fantasia e la riflessione fanno parte – gli  Cfr. D. Hume, Trattato sulla natura umana, in Id., Opere, vol. I, a cura di A. Carlini, E. Lecaldano ed E. Mistretta, Roma-Bari, Laterza, 1987, p. 462: «non parliamo né con rigore, né filosoficamente quando parliamo di una lotta tra la passione e la ragione. La ragione è, e deve solo essere, schiava delle passioni e non può rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella di servire e di obbedire a esse». 16

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istinti vitali che guidano le scambievoli esperienze erotiche dei personaggi. Le fonti sono dichiarate: Epicuro, Lucrezio, Virgilio, Ovidio, Petronio, ecc., ampiamente citati o parafrasati nel testo. Ma c’è dell’altro. La Mettrie riutilizza persino un testo d’amore di un poeta bizantino poco noto, Eustathius Macrembolites (sec. XII d.C.), autore di un poema erotico dal titolo Gli amori d’Ismenio e d’Ismene, nella traduzione francese di P.-F. Godard de Beauchamps, Les Amours d’Ismène et d’Isménias (Paris 1743), fonte fino ad oggi trascurata. L’amore bizantino: l’attesa, i preliminari di fantasia vissuta, che fanno tutto il piacere dell’amore, sono messi in rilievo dal libertino anche con l’occhio, sempre vigile, del medico indagatore delle pulsioni fisiche. È il piacere di un erotismo non consumato, ma perennemente atteso. Un libertinismo assai raffinato, dunque, e molto erudito, quello di La Mettrie. Innumerevoli sono i rinvii taciuti ai classici, rielaborati di fantasia, ma fin dal principio del trattatello viene eletto a nume tutelare un personaggio contemporaneo già mitizzato: la bella Ninon de Lenclos (1620-1705), soprannominata dai suoi ammiratori e seguaci ‘Notre Dame des Amours’. Celebre donna di mondo e grande corrispondente epistolare, di cui ci restano le stupende lettere indirizzate agli amici-amanti: il marchese di Sevigné e un altro singolare scrittore libertino dell’età di Luigi XIV, Charles de SaintÉvremond (1614-1703). 6.  Il «Sistema di Epicuro» in La Mettrie. Accanto all’Arte di Godere, il filosofo collocherà un altro scritto che riuscì a rieditare nelle Œuvres philosophiques: il Sistema di Epicuro (1750), già apparso nel 1748 con il titolo Storia naturale degli animali. Approfondendo le riflessioni lucreziane sull’origine della vita e ribadendo il rifiuto di ogni finalismo provvidenzialistico, La Mettrie vi riafferma il piacere di vivere e una forma di voluttà condivisa. I piaceri fisici più alti, quelli legati all’eros, sono riassorbiti (non annullati) e compresi alla luce della philìa, l’amicizia epicurea, luogo di condivisione delle gioie della vita. In questa forma è possibile un’estensione e un’universalizzazione ulteriore del piacere individuale, che pur resta circoscritto nei confini di un «giardino» a cui accedono ancora pochi esprits forts. La Mettrie, tuttavia, non s’era limitato a fare l’elogio del «Sistema di Epicuro». Aveva anche in qualche modo derogato dalle sue regole ortodosse relative all’ordine dei piaceri, valutando legittimi tanto i piaceri raffinati quanto quelli «dissoluti». I tipi di piaceri dipendono dai tipi individuali di temperamenti e di caratteri. E a proposito del carattere dell’uomo volgare, «voluttuoso e dissoluto», invitandolo ad obbedire alla propria natura, senza

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rimorsi o falsa coscienza, La Mettrie giunse ad affermare, nell’Anti-Seneca: «cogli dunque le buone occasioni quando e dove si presentano; godi del presente; dimentica il passato che non è più, e non temere l’avvenire. Pensa che il grano seminato fuori del campo è sempre grano; che un chicco perduto vale per la natura quanto una goccia d’acqua per il mare; che tutto ciò che la diletta è piacere e che soltanto il dolore è contro natura». La Mettrie non esitò a lasciare libertà ai piaceri anche più sregolati, in quello che è stato definito un «inno sfrenato alla voluttà»17: Che la polluzione e il godimento, lubrici rivali, si succedano a turno e ti facciano notte e giorno sciogliere per la voluttà, rendendo la tua anima, se è possibile, altrettanto vischiosa e lasciva quanto il tuo corpo. Insomma, giacché non hai altre risorse, sfruttale: bevi, mangia, dormi, russa, sogna e se qualche volta pensi, fallo tra una bevuta e l’altra, e sia sempre un pensiero rivolto al piacere del momento presente, o al desiderio riservato per l’ora seguente.

Quest’inno alla libertà dei sensi non venne bene accolto dagli stessi philosophes, Diderot, in particolare, che bollò La Mettrie di impudente e buffone18. Ma il diritto alla dissolutezza, purché socialmente innocuo, veniva riaffermato. Il senso era chiaro: ai «porci» va lasciata la libertà di godere «da porci», a condizione che non nocciano ad altri e senza pretendere che obbediscano ai dettami di un’impossibile (per loro) virtù morale universale, eguale per tutti: «nel caso poi che, non contento di eccellere nella grande arte del piacere, la crapula e la dissolutezza non siano per te voluttà abbastanza intense, la sporcizia e l’infamia siano il tuo retaggio, ti ci puoi voltolare dentro, come i porci, e sarai felice come loro»19. Lo scandalo, presso la corte di Federico II a Potsdam, all’uscita del volumetto contro Seneca fu grande. Il piacere, secondo La Mettrie, non dipende dalla volontà, ma si forma a partire dall’esperienza sensibile vissuta di ciascuno. Si procede a passi spediti verso l’immoralismo di Sade. Nessun uomo è libero di scegliere ciò che gli piace o no. La vita che ha vissuto e la sua macchina organica, insieme, hanno già scelto per lui, l’hanno determinato a godere di un certo genere di piaceri e non di altri. L’«inno sfrenato» alla voluttà individuale dell’Anti-Seneca troverà infatti, più tardi, ampie risonanze nell’opera «immoralistica» di Sade. Ma con17  Cfr. R. Mauzi, L’idée du bonheur dans la littérature et la pensée françaises au XVIIIe siècle, Paris, Albin Michel, 1994 (I ed. 1974), cap. VI, § 7: «Le scandaleux bonheur de La Mettrie», pp. 249-253. 18  Cfr. D. Diderot, Saggio sui regni di Claudio e Nerone e sui costumi e gli scritti di Seneca, trad. it. di S. Carpanetto e L. Guerci, con una nota di L. Canfora, Palermo, Sellerio, 1987, p. 229. 19   J.O. de La Mettrie, AntiSeneca, in Id., Opere filosofiche, p. 357.

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teneva già in La Mettrie delle implicazioni ideologiche assai conservatrici. L’individualismo edonistico, per quanto temperato dalle istanze epicuree della philìa, era anche l’invito ad un piacere che obbedisce alle sole differenze fisiche, singole, di temperamento di ciascun individuo – in nome di una «felicità organica» primaria. Si teneva fermo, come criterio-limite di sanzione, l’utilità sociale e nulla di più. Ciò dovette apparire (e non poté non apparire) come intollerabilmente provocatorio anche ai pensatori più progressisti. In primo luogo, si rompeva il fronte illuministico – allora in costruzione – della lotta per una morale laica, senza sanzioni ultraterrene, in nome dell’equazione, di matrice bayleiana, materialismo = ateismo = virtù senza dogmi. In secondo luogo, La Mettrie rivendicò la propria appartenenza alla tradizione del «libertinismo erudito», di stampo conservatore ed elitistico, cui fece risolutamente ritorno nelle ultime opere. Viene chiamato in causa F. La Mothe Le Vayer (1588-1672) – nel «Discorso preliminare» che La Mettrie appose all’edizione delle Opere (1751). Come La Mothe Le Vayer, La Mettrie arriva a distinguere una doppia verità: quella del medico e del filosofo, che afferma schiettamente il proprio materialismo, praticandolo. E quella del popolo che, non comprendendo le difficili trame della philosophie, va affidato alla guida della morale e della religione, strumenti politici di controllo delle coscienze («duplice freno a cui si è poi prudentemente aggiunto quello dei supplizi»), ai fini dell’obbedienza alle leggi. 7.  La rivolta e la sfida di Sade. Il Marchese de Sade, pur stimando il pensiero e l’opera di La Mettrie, ne prende le distanze su questo punto essenziale della doppia verità. Il «piacere» diviene un valore assoluto dell’esperienza umana e si estende, in modo universale, al di là di ogni confine di classe, di razza, di società e di sesso. Occorre tenere ferme le differenze organiche individuali, non reprimerle, addirittura legittimarle, nella misura in cui esse non abbiano ricadute nocive sul terreno sociale. Senza aprire le porte a quella specie di atomismo estetico dei piaceri che consegna l’uomo nelle mani dei «magistrati» o dei «tiranni». Sade è un pensatore della Rivoluzione francese, che è stato riscoperto, nella sua piena importanza storica, solo da pochi decenni. L’edizione critica delle Œuvres in tre volumi, nella collana Gallimard-Pléiade, è terminata solo una decina d’anni fa. L’edizione della Corrispondenza, in 27 volumi, s’è conclusa nel dicembre del 2007! L’editore Gallimard, per lanciare l’uscita del primo volume delle Opere, nel 1990, trovò una formula pubblicitaria

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geniale: «Sade: l’Inferno, su carta da Bibbia! [L’Enfer, sur papier Bible]»20. Ed è al cuore dell’Enfer, in effetti, che il motto era ben calibrato: l’opera di Sade costituisce il nucleo centrale dell’Enfer della Biblioteca Nazionale di Francia, con oltre 100 titoli. La narrativa di Sade intende testimoniare le «sventure della virtù» morale che l’uomo conosce in una società di per sé corrotta e ingiusta, quando intende agire «rettamente». È il tema di Justine (1791) riedita più tardi come La nouvelle Justine, ou les malheurs de la vertu, suivie de l’histoire de Juliette, sa sœur, ou les prospérités du vice (1797). Sventure della virtù, prosperità del vizio, il libertinaggio di Sade si fa conoscere come denuncia chiara e descrizione esplicita dell’assoggettamento delle coscienze alle dinamiche del vizio che la società dei privilegi impone. La violenza del piacere è quella stessa del mondo storico che la produce, assoggettando gli uomini alla tirannia di un mondo le cui le regole di giustizia valgono solo per i deboli. Il ‘disassoggettamento’ dei soggetti può avvenire allora solo riconoscendosi interamente nella logica feroce della violenza (detta, da allora, sadica) di un sistema sociale fondato sulla sopraffazione dei forti e sul non-diritto (privilegio). Il ‘disassoggettamento’, in tale contesto, avviene sempre, Sade lo dimostra, al livello di un piacere solitario. Un soddisfacimento erotico-egotico a spese dell’altro, da cui si ricava piacere senza consenso. Metafora della tirannia, subita e insieme smascherata. La definizione del «sadismo» che dà lo stesso Sade è eloquente, è una denunzia del male nel piacere: «i malvagi si compiacciono allo spettacolo dei mali che essi causano, e ciascuna delle gradazioni del dolore nel quale assorbono le loro vittime è per loro un godimento». Tale spettacolo è messo in scena, organizzato, narrato nel romanzo sadico-libertino. Il piacere è frutto (rappresentato) di una violenza sistematica e tecnicamente organizzata (Le 120 giornate di Sodoma, 1784-1789). Ecco l’effetto di scandalo, l’immoralità e la «prosperità del vizio» dichiarati, descritti, osservati. Il chiasmo del piacere e del male. In una delle confessioni al Prefetto di polizia di Parigi Sade dichiarò, ed è una confessione della dinamica che sta alla base della violenza rappresentata: «Si, io sono un libertino. Ho immaginato tutto l’immaginabile in quel genere, ma non ho sicuramente fatto tutto quello che ho immaginato e sicuramente non lo farò mai. Sono un libertino ma non un criminale, né un assassino». Sade mette in luce la dinamica della sopraffazione e dello sfruttamento che anche la società rivoluzionaria, di lì a poco, avrebbe ereditato e trasferito sul

20  Cfr. D.-A.-F. de Sade, Œuvres (3 voll.), édition établie par M. Delon, Paris, Gallimard, 1990-1998, vol. I: «Sade philosophe», par J. Deprun, ibidem 1990 (vol. 2: 1995; vol. 3: 1998).

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piano dei rapporti produttivi nel sistema della fabbrica industriale capitalistica21. Simone de Beauvoir, negli anni Cinquanta del secolo scorso, si chiese: «Faut-il brûler Sade»? La risposta è ovviamente no22. Le opere di Sade sono la voce più tragica di denuncia e di messa in scena – non c’è l’una senza l’altra – di quanto il sistema dei privilegi teneva gelosamente celato: la violenza sopraffattrice del Bene e del Vero, false apparenze del Male. Sade si fa così portavoce di un materialismo radicale e di una paradossale visione anti-religiosa e controepicurea della realtà: il piacere, nell’ingiustizia generale, genera dolore. Visione espressa in drammi e racconti, per lo più postumi, scritti in carcere. Sade, uscito di prigione nel 1794, alla caduta di Robespierre, era in miseria; attorno al 1800, tentava di guadagnarsi da vivere con l’attività di letterato «rispettabile». Aveva già dato alle stampe (anonimi) i capolavori libertini. Decide quindi di dare alle stampe una raccolta di ‘novelle tragiche ed eroiche’ precedute da una riflessione sulla forma-romanzo, un’«idea» sui romanzi in generale che gli vale da manifesto di una poetica nuova: Idée sur les Romans par D.A.F. Sade, auteur d’Aline et Valcour. Sono I crimini dell’amore: genitivo soggettivo e oggettivo. È qui messa in luce un’estetica del romanzo libertino che dà corso sistematico alle idee vagamente messe a fuoco da Rousseau nelle Confessioni. È il capolavoro teorico di Sade, vero e proprio manifesto-apologia del romanzo libertino, in particolare, come la forma più elevata di narrazione, nella linea dell’affermazione di una forma-romanzo generale: «opera affabulatrice composta secondo le più singolari avventure della vita degli uomini», che deve suscitare un mimetico istinto di piacere o di orrore nei confronti del vizio e del male. La finzione garantisce la realtà. Affermò Sade: Devo infine rispondere al rimprovero che mi venne rivolto quando apparve Aline et Valcour. I miei pennelli, si disse, sono troppo forti, presto al vizio tratti troppo odiosi; se ne vuole conoscere la ragione? Non voglio far amare il vizio. Io non ho, come Crébillon e Dorat, il progetto pericoloso di far adorare alle donne i personaggi che le ingannano; voglio, al contrario, che li detestino; è il solo mezzo che possa impedire loro di restarne vittime.

Sade prosegue, a parlare di morale e di colore dell’«inferno»: e per riuscirvi, ho reso quelli tra i miei eroi che seguono la carriera del vizio, talmente spaventosi che sicuramente non ispireranno né pietà, né amore. In questo, oso dirlo, divento più morale di coloro che si sono permessi di abbellirli. Mai, insomma,

 A. Casilli, La Fabbrica libertina. De Sade e il sistema industriale, Roma, Manifestolibri, 1996. 22  Cfr. S. de Beauvoir, Faut-il brûler Sade? La Pensée de droite, aujourd’hui. MerleauPonty et le pseudo-sartrisme, Paris, Gallimard, 1955 (II ed. 1972). 21

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lo ripeto, mai dipingerò il crimine se non sotto i colori dell’Inferno. Voglio che lo si veda a nudo, che lo si tema, che lo si detesti. E non conosco altro modo per riuscire allo scopo che mostrandolo con tutto l’orrore che lo caratterizza.

Sade, a quell’epoca, si trovava attaccato su più fronti dai suoi avversari e conclude, contro di loro, a difendere le «prospettive più pure» del suo romanzo: Sventura a coloro che adornano di rose quell’orrore. Le loro prospettive non sono altrettanto pure e io non le copierò mai. Che non mi si attribuisca più dunque, secondo quei sistemi, il romanzo di J***: mai ho fatto simili opere e sicuramente mai ne farò. Solo degli imbecilli o dei malvagi possono sospettarmi o accusarmi ancora di esserne l’autore, nonostante le mie smentite, e d’ora in poi la sola arma con la quale combatterò le loro calunnie sarà il più sovrano disprezzo23.

Nell’Idea sui romanzi Sade tenta di fondare la sua poetica su un’analisi della genealogia naturale del bisogno di finzione, radicato nella «natura umana». Una genesi materiale della forma narrativa come suscitatrice di desiderio, e in tale senso come forza vitale. Non ne dubitiamo: fu nelle regioni della terra che per prime riconobbero degli Dèi che presero forma i romanzi e di conseguenza fu in Egitto, culla certa di ogni culto. Appena gli uomini ebbero supposto l’esistenza di esseri immortali, li fecero agire e parlare; da quel momento, ecco delle metamorfosi, delle favole, delle parabole, dei romanzi. In una parola, ecco delle opere di finzione, non appena la finzione s’impossessa dello spirito degli uomini 24.

Sade afferma l’universalità della forma-romanzo, sulla base di un’analisi antropologica dei bisogni umani di finzione. Una forma universale della narrazione: «vi furono dunque romanzi scritti in tutte le lingue, presso tutte le nazioni, il cui stile e i fatti si trovarono calcati tanto sui costumi nazionali, quanto sulle opinioni ricevute da quelle nazioni»25. La natura dell’uomo è determinante: «l’uomo è soggetto a due debolezze che dipendono dalla sua esistenza, che la caratterizzano. Ovunque bisogna che preghi, ovunque bisogna che ami; ed ecco la base di tutti i romanzi; l’uomo ne ha fatti per dipingere gli esseri che implorava. Ne ha fatti per celebrare coloro che amava».

 D.-A.-F. de Sade, Les Crimes de l’amour, nouvelles héroïques et tragiques précédées d’une Idée sur les romans, texte établi et présenté par M. Delon, Paris, Gallimard, 1987, p. 51 (traduzione nostra). 24   Ibidem, p. 28. 25   Ibidem, p. 30. 23

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Terrore e amore sono le passioni naturali e universali di base che imprimono una forma specifica alla finzione romanzesca. Una tesi libertina e materialista, che fu propria anche di d’Holbach: «i primi, dettati dal terrore o dalla speranza, dovettero essere cupi, giganteschi, pieni di menzogne e di finzioni. Tali sono i racconti che Esdra compose durante la cattività di Babilonia. I secondi, pieni di delicatezza e di sentimenti; come il romanzo di Teagene e di Cariclea, di Eliodoro [di Efeso, III sec. d.C.]». La storia del romanzo ha conosciuto, secondo Sade, un progresso genetico nella forma, dalla paura fino all’amore. Fino alla forma mimetica e appassionata del racconto «romantico» libertino, che costituisce la forma suprema della finzione, la più vicina al mondo reale: «siccome l’uomo pregò, siccome amò ovunque, su tutti i punti del globo che abitò vi furono romanzi, cioè opere di finzione le quali talora dipinsero gli oggetti favolosi del suo culto, talora quelli, più reali, del suo amore»26. Sade ci offre una rassegna della storia di tale progresso del romanzo, da Apuleio ai contemporanei, giudicati e apprezzati in base al grado formale di forza di espressione degli istinti naturali, alla base dello stesso impulso narrativo ‘finzionale’. Il grande modello del romanzo inglese e Rousseau qui occupano un posto di primo piano. Richardson, Fielding, ci hanno insegnato che lo studio profondo del cuore umano, vero dedalo della natura, solo può ispirare il romanziere, la cui opera deve farci vedere l’uomo non solo per quello che è o che si mostra (è il dovere dello storico), ma tale quale devono renderlo le modificazioni del vizio e tutte le scosse delle passioni. Occorre dunque conoscerle tutte, impiegarle tutte, se si vuol lavorare a questo genere; là abbiamo anche imparato che non si suscita interesse solo facendo trionfare sempre la virtù 27.

Da questa constatazione Sade prende le mosse per difendere le proprie scelte di poetica, a vantaggio del roman noir libertino28. Il primato del «romanzo nero», che dipinge il vizio e la corruzione, consiste in una sua maggiore prossimità alla forza autentica della natura del cuore umano. Una medesima antropologia negativa, affine a quella di Maupertuis e di La Mettrie, si fa luce in queste pagine. «La conoscenza più essenziale che esso   Ibidem.   Ibidem, p. 38. 28   Ibidem. «Infatti, quando la virtù trionfa, poiché le cose sono come devono essere, le nostre lacrime s’asciugano prima di colare; ma se dopo le prove più dure vediamo infine la virtù sconfitta dal vizio, le nostre anime indispensabilmente si dilacerano e avendoci l’opera commosso eccessivamente, avendo, come diceva Diderot, insanguinato i nostri cuori al rovescio, deve senza dubbio produrre quell’interesse che solo ci assicura gli allori». 26 27

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esige è certamente quella del cuore umano. Ora, questa importante conoscenza (…) la si può acquisire solo attraverso le disgrazie e i viaggi. Bisogna aver visto uomini di tutte le nazioni per conoscerli bene e bisogna esserne stati le loro vittime per saperli apprezzare»29. Sade conclude, con scandalo, a definire la figura del vero romanziere, come un figlio incestuoso della natura: Oh tu che vuoi percorrere questa spinosa carriera! Non perdere mai di vista che il romanziere è l’uomo della natura. Essa l’ha creato per essere il suo pittore e se non diventa l’amante di sua madre fin dal momento in cui questa l’ha messo al mondo, che non scriva affatto, non lo leggeremo mai. Ma se prova questa sete ardente di dipingere tutto, se dischiude con un fremito il seno della natura per cercarvi la propria arte e attingervi i suoi modelli, se ha la febbre del talento e l’entusiasmo del genio, segua pure la mano che lo guida, ha indovinato l’uomo, lo dipingerà30.

Questa poetica di Sade richiede l’eccesso, il culmine, l’oltraggio stesso dei sensi come ‘oltrepassamento’ dei loro limiti, mezzo per esprimere la forza della natura, attraverso il genio che la sente in tutti i suoi aspetti. È il cosiddetto «intensivismo» sadiano. Dominato dalla tua immaginazione, cedigli: che essa abbellisca ciò che vedi. Lo sciocco coglie una rosa e la sfoglia; l’uomo di genio la respira e la dipinge: ecco chi noi leggeremo. Ma consigliandoti di abbellire, ti proibisco di allontanarti dalla verosimiglianza: il lettore ha diritto ad infastidirsi quando si accorge che si vuole esigere troppo da lui; vede che si cerca di ingannarlo; il suo amor proprio ne soffre, non crede più a nulla, dal momento in cui sospetta che lo si vuole ingannare. Non contenuto da alcuna diga, d’altronde, usa a tuo agio del diritto di attentare a tutti gli aneddoti della storia, quando la rottura di tale freno diventa necessaria ai piaceri che ci prepari31.

L’estetica narrativa di Sade richiede quindi la rottura delle regole consuete del genere, a vantaggio della forza dell’immaginazione mimetica. Il maggiore choc dato o ricevuto. Non regole, ma slanci: il genio. «Una volta schizzato il tuo abbozzo, lavora ardentemente ad estenderlo, ma senza confinarlo nei limiti che all’inizio esso sembra prescriverti. Diventerai magro e freddo con questo metodo. Sono slanci (élans) che vogliamo da te, non regole. Supera i tuoi stessi piani, variali, aumentali; solo lavorando vengono le nuove idee (…). Una cosa sola esigo da te: di sostenere l’interesse fino all’ultima pagina32.

  Ibidem, pp. 43-44.   Ibidem, p. 44. 31   Ibidem, pp. 44-45. A proposito d’«intensivismo», cfr. J. Deprun, Sade Philosophe, in Sade, Œuvres, vol. I., p. lxv. 32   Ibidem, pp. 45-46. 29 30

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Con queste tesi innovative Sade ispirò un gran numero di scrittori romantici dell’epoca (Stendhal, Balzac). Il «romanzo romantico», in tal senso, ossia poeticamente, gli deve molto. L’eroina della novella Faxelange, ossia i torti dell’ambizione nei Crimini dell’amore «aveva una di quelle specie di figure romantiche, ciascun tratto delle quali dipinge una virtù: una pelle bianchissima, begli occhi blu, la bocca un po’ grande ma ben ornata, un corpo docile e leggero e i più bei capelli del mondo»33. Dopo il romanticismo, i decadenti e il simbolismo. Per un’estetica dell’eccesso. L’interesse del modello narrativo proposto da Sade stava nel primato assegnato a una «natura» a-morale, paradigma di verità, di energia morale che eccede i limiti dell’umano, in tempi di generale povertà creativa. La natura, più strana di quanto i moralisti non ce la dipingano, straripa ad ogni istante dagli argini che la politica di costoro vorrebbero assegnarle. Uniforme nei suoi piani, irregolare negli effetti, il suo seno sempre agitato somiglia alla bocca di un vulcano dal quale si slanciano, volta a volta, pietre preziose che servono al lusso degli uomini o sfere di fuoco che li annientano. Grande, quando popola la terra di Antonini e di Titi; spaventosa, quando vomita gli Andronichi e i Neroni, ma sempre sublime, sempre maestosa, sempre degna dei nostri studi, dei nostri pennelli e della nostra ammirazione34.

Nell’inno «Ai Libertini e ai voluttuosi di tutte le età e di tutti i sessi», l’autore della Filosofia nel Boudoir (1795) non manca di ricordare l’ispirazione pessimistica e materialistica della propria filosofia. Una filosofia pessimistica della libertà assoluta: «il cinico Dolmancé vi serva da esempio; spingetevi lontano quanto lui, convincetevi alla sua scuola che solo estendendo la sfera dei suoi gusti e delle sue fantasie, solo sacrificando tutto alla voluttà, quell’infelice individuo conosciuto sotto il nome di ‘uomo’, e gettato suo malgrado in questo triste universo, può riuscire a seminare qualche rosa sulle spine della vita»35. La storia degli effetti della filosofia sadiana (i migliori effetti) si esprime al meglio nella produzione della corrente poetica surrealista, negli anni Trenta del Novecento in Francia, che ne aveva appena riscoperto le opere, grazie al lavoro poetico-filologico di Apollinaire. C’è un futuro surrealistico per l’opera di Sade, che inaugura la sua rivalutazione novecentesca, ai tempi dell’effettiva realizzazione del progetto-incubo sadiano di un «crimine storico perfetto», al tempo dei nazi-fascismi europei. È il canto e la denuncia della violenza che

  Sade, Les Crimes de l’amour, p. 53 (traduzione nostra).   Ibidem, p. 47. 35  D.-A.-F. de Sade, La philosophie dans le boudoir, in Id., Œuvres, vol. III, p. 3. 33 34

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«apre una breccia nella notte morale» e schiude nuove prospettive di libertà, come affermò magnificamente il poeta André Breton: Le marquis de Sade a regagné l’intérieur du volcan en éruption / D’où il était venu / Avec ses belles mains encore frangées / Ses yeux de jeune fille / Et cette raison à fleur de sauve-qui-peut qui ne fut / Qu’à lui / Mais du salon phosphorescent à lampes de viscères / Il n’a cessé de jeter les ordres mystérieux / Qui ouvrent une brèche dans la nuit morale / C’est par cette brèche que je vois / Les grandes ombres craquantes la vieille écorce minée / Se dissoudre / Pour me permettre de t’aimer / Comme le premier homme aima la première femme / En toute liberté / Cette liberté / Pour laquelle le feu même s’est fait homme / Pour laquelle le marquis de Sade défia les siècles de ses grands arbres abstraits / D’acrobates tragiques / Cramponnés au fil de la Vierge du désir36.

36  A. Breton, Le Marquis de Sade, in L’Air de l’Eau, in Œuvres complètes, t. II, éd. par M. Bonnet, Paris, Gallimard, 1992, p. 756.

Nicola Bietolini DUE IMMAGINI ANTINOMICHE DELLA ‘FELICITÀ’. L’EUDEMONISMO PRIVATO DI CASANOVA E L’UTILITARISMO PUBBLICO DI PIETRO VERRI

La nozione classica di felicità è dibattuta già nella tradizione più antica tra un’accezione eminentemente interiore e idealizzata, riconducibile alla matrice semantica ed etimologica della eudemonia, e una prospettiva invece tutta esteriore e materialistica, che si riscontra nell’etimo lessicale del termine latino felix1. Secondo la ricostruzione filologica scrupolosa di McMahon, la etimologia greca del termine che designa la felicità umana comprende due componenti semantiche fondamentali: Unendo il greco eu («bene») e daimon («dio, spirito, demone»), eudaimonia contiene l’idea di fortuna (perché avere un buon daimon dalla propria parte, uno spirito guida, significa essere fortunati) e l’idea di divinità (perché il daimon è un emissario degli dei che custodisce ciascuno di noi e agisce, invisibile, in nome degli Olimpi)2.

Nel Settecento si registra un incremento dell’interesse filosofico per questo tema, sotto l’impulso di una visione critica e problematica del rapporto tra l’uomo e il mondo, alla ricerca di una chiave di lettura razionale e avulsa da ogni pregiudizio di carattere metafisico. Si delinea in modalità sempre più complesse e problematiche una linea di tendenza incline a individuare una matrice naturale e concreta, e non più soprannaturale e astratta, della felicità; di conseguenza si profila all’orizzonte illuministico, sotto una prospettiva lucidamente razionalistica ed equanime, la questione tipicamente moderna del diritto alla felicità, cioè della pari dignità di tutti gli uomini nel perseguire scientemente l’appagamento dei propri bisogni essenziali e

  Si rimanda tra gli altri a F. De Luise – G. Farinetti, Storia della felicità. Gli antichi e i moderni, Torino, Einaudi, 2001; D. M. McMahon, Storia della felicità: dall’antichità a oggi, Milano, Garzanti, 2007; A. Trampus, Il diritto alla felicità: storia di un’idea, Roma-Bari, Laterza, 2008. 2  McMahon, Storia della felicità, p. 17. 1

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nell’agognare il raggiungimento di un soddisfacente stato di benessere, fisico e psichico, imprescindibile dalla agiatezza economica3. Ne consegue una riproposizione in termini critici e polemici verso le concezioni preesistenti del nodo filosofico-morale relativo al rapporto tra la virtù, cioè la perfezione morale, contigua alla idealizzata e impalpabile eudemonia di origine platonica, e la concreta e sensibile prosperità economica e sociale. Il miglioramento delle condizioni sociali e la diffusione di un moderato benessere materiale sono ritenuti indici tendenziali fondamentali per la instaurazione del principio filantropico illuminista, strenuamente difeso da Rousseau e sostenuto, tra gli altri, da Bentham, da Chastellux, da Helvétius, da Hutcheson, e, come esamineremo in seguito, da Verri; la formula etico-filosofica si riassume nel motto della «maggiore felicità del maggior numero» di individui, che legittimamente reclamano eguali diritti e una condizione paritetica rispetto alla comunità sociale che li ospita4. Da un altro versante della sterminata galassia di correnti filosofiche settecentesche, il meccanicismo, filiazione autonoma e quasi anomala del filone illuminista, deriva un ideale edonistico e ateistico di felicità, sostanzialmente indifferente alle sistemazioni teoretiche della dottrina morale, rigorosamente deterministico e antiprovvidenzialistico, rappresentato dalla concezione dell’uomo-macchina elaborata da La Mettrie, sulla falsariga dell’atomismo democriteo-platonico mediata dalla dottrina epicurea5. Questa tendenza antimoralistica e antiteologica prevede la riduzione della variabile qualitativa della felicità alla costante quantitativa del piacere, soggettivo ed eslege, tendenzialmente aproblematico rispetto al dilemma della assiologia morale e dei criteri valutativi per i comportamenti individuali. La Mettrie inneggia alla felicità animalesca e istintiva, rivendicando la liceità della felicità persino nel ricorso ad atti criminosi e disdicevoli, e postula la virtuale omogeneità fisiologica dell’uomo e della bestia, per i quali «la natura ha usato una sola e medesima pasta, di cui ha variato soltanto i lieviti»6. L’ideatore della conce3  Faremo riferimento in particolare alla linea interpretativa delineata da McMahon: cfr. ibidem, pp. 224-285. 4   Per un valido compendio storico-critico delle fonti filosofiche settecentesche cfr. ibidem, pp. 224-251. 5   Per un profilo storico-critico si possono consultare A. Punzi, I diritti dell’uomo-macchina: studio su La Mettrie, Torino, Giappichelli, 1999; G.A. Roggerone, Il contro illuminismo di La Mettrie, Lecce, L’Orsa Maggiore, 1972; K.A. Wellman, La Mettrie: medicine, philosophy and enlightenment, Durham, London, Duke University Press, 1992. 6  Cfr. J. Offray De La Mettrie, L’uomo macchina in Id., L’uomo macchina. L’uomo pianta. L’Anti-Seneca ossia Discorso sull’infelicità, trad. it. e cura di G. Preti, Milano, SE, 1990, p. 44. Vedi anche ibidem, pp. 37-46.

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zione più lucidamente amorale del panorama speculativo settecentesco proclama l’affrancamento della eudemonia dalla pratica stoica della astinenza e promuove l’esaltazione incondizionata del godimento sfrenato nelle libagioni e nei banchetti, del piacere fisico e sensuale immediato, mentre denuncia la inutilità delle problematiche morali relative alla dicotomia tradizionale tra bene e male, ritenendole sterili discussioni astratte e ventilando l’avvento di uno stadio evolutivo umano ateistico, sovranamente equidistante sia dall’etica religiosa della teodicea che dal principio squisitamente illuministico della filantropia razionalistica: Se l’ateismo, diceva, fosse generalmente diffuso, tutti i rami della religione sarebbero distrutti e sradicati.(…) La natura, ora infetta da veleno sacro, riprenderebbe i suoi diritti e la sua purezza. Sordi ad ogni altra voce, i tranquilli mortali non seguirebbero che i consigli spontanei della loro individualità; gli unici che non si possano disprezzare impunemente e che siano in grado di condurli alla felicità per i dolci sentieri della virtù7. Che la polluzione e il godimento, lubrici rivali, si succedano a turno, e facendoti notte e giorno sciogliere per la voluttà rendano la tua anima, se è possibile, altrettanto vischiosa e lasciva quanto il tuo corpo. Finalmente, poiché non hai altre risorse, sfruttale: bevi, mangia, dormi, russa, sogna; e se qualche volta pensi, che sia tra una sbornia e l’altra, e sempre o al piacere del momento attuale o al desiderio riservato per l’ora seguente!8 Dunque poiché il piacere dell’anima è la vera fonte della felicità è evidentissimo che in rapporto alla felicità il bene e il male sono in sé molto indifferenti, e che chi trovi una maggiore soddisfazione nel fare il male sarà più felice di chi ne troverà una minore a fare il bene9.

Alla ricerca spontanea delle gioie erotiche, e della soddisfazione dei desideri fisici, affrancata da ogni aprioristico concetto di limite e di misura, si consacra, con alcune distinzioni più astrattamente lambiccate che concretamente osservate, anche Casanova, abbracciando entusiasticamente, l’epicureismo libertino e narcisistico, professato nella Storia della mia vita e accentuato in termini messianici e paganeggianti nel Saggio sulla materia10:

 La Mettrie, L’uomo macchina, p. 51.  La Mettrie, L’Anti-Seneca, ibidem, pp. 93-149; qui pp. 140-141. 9   Ibidem, p.118. 10  Cfr. a titolo esemplificativo La Mettrie, L’uomo macchina, pp. 29-30; 53-59; passim e G. Casanova, Storia della mia vita, 2 voll., trad. it. dal franc. di D. Bartalini Bigi e M. Grasso, a cura di P. Bartalini Bigi, Roma, Newton, 1999, I, pp. 36-37; II, p. 507 (d’ora in poi SMV). Vedi anche G. Casanova, Saggio sulla materia in Id., Pensieri libertini, a cura di F. Di Trocchio, Milano, Rusconi, 1990, pp. 293-299. 7 8

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Coltivare i piaceri dei sensi è stata per tutta la vita la mia principale occupazione; non ne ho mai avuta una più importante. Sentendomi nato per il sesso diverso dal mio, l’ho sempre amato, e me ne sono fatto amare il più possibile. Ho amato con entusiasmo la buona tavola, e mi sono appassionato a tutte le cose fatte per eccitare la curiosità11. Questo Campioni era un uomo al di sopra del suo mestiere. Era fatto per la buona compagnia, cortese, compiacente, scaltro, spregiudicato, amante delle donne, della buona tavola, del gioco d’azzardo, prudente, discreto, coraggioso e in grado di vivere in tranquillità sia quando la Fortuna lo assecondava sia quando gli era avversa. Fummo entrambi felicissimi di incontrarci là12. Allorché l’esempio, e la dottrina insegnata dai preti, avranno reso generale la conoscenza di questa verità il genere umano vedrà che Dio ci ha fornito egli stesso il vero mezzo di fargli piacere, facendo piacere agli uomini, capirà cosa significano realmente le parole homo homini Deus, e concepirà finalmente l’idea che deve avere della natura spirituale di un essere onnipotente spirituale il quale, creando l’uomo, non può aver voluto dar vita che a degli esseri capaci di rendersi perfettamente felici con mezzi semplici, e conformi alla loro natura umana, e alla loro intelligenza13.

Dal comune denominatore del sensismo derivano dunque concezioni distinte, persino antitetiche, della felicità. Vogliamo soffermarci sulla netta contrapposizione tra lo spirito libertino ed edonistico professato da Casanova nei suoi scritti filosofici e autobiografici14 e l’atteggiamento filantropico e utilitaristico insito nella dottrina del bene pubblico sposata con entusiasmo da Pietro Verri e sviluppata incessantemente fino agli ultimi saggi composti sulla scia degli eventi rivoluzionari francesi15. Verri teorizza la necessità impellente di una rivoluzione, necessitata dalla indegnità morale del governo dispotico e corrotto in carica; appellandosi

  SMV I, p. 36.   SMV II, p. 523. 13   G. Casanova, Saggio sulla materia, p. 299. Vedi anche ibidem, pp .295-296. 14   Sulla filosofia casanoviana si possono consultare F. Di Trocchio, La filosofia dell’avventuriero: Giacomo Casanova oltre libertinismo e illuminismo in Giacomo Casanova tra Venezia e l’Europa, a cura di G. Pizzamiglio, Venezia, Leo S. Olschki, 2001, pp. 109-145; Id., Introduzione a Casanova, Pensieri libertini, pp. 5-56. 15   Sulla formazione filosofica e sul pensiero verriano si segnalano tra gli altri E. Sala Di Felice, Felicità e morale in Pietro Verri, Padova, Liliana, 1970; G. Francioni, Per conquistar paese alla ragione: saggi sui Verri e sul Caffè, Napoli, Bibliopolis, c1999; Id., Metamorfosi della felicità: Dalle Meditazioni del 1763 al Discorso del 1781 in C. Capra (a cura di), Pietro Verri e il suo tempo, Bologna, Cisalpino, 1999, pp. 353-427; C. Capra, I progressi della ragione: vita di Pietro Verri, Bologna, Il Mulino, 2002. Sulla ultima fase della evoluzione filosofica verriana si segnala G. Scianatico, L’ultimo Verri. Dall’Antico Regime alla Rivoluzione, Napoli, Liguori, 1990. 11 12

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ad un binomio di valori irreprensibili secondo la mentalità conservatrice settecentesca, vale a dire onore e virtù, che funge da avallo lessicale illustre per caldeggiare la riforma radicale della legislazione vigente, inadeguata a garantire pari diritti a tutti i cittadini, e proporre la istituzione di dispositivi giuridici ed etici atti a diffondere uniformemente la pubblica felicità: Ma quando il cattivo governo, soffocando i germi delle virtù, degrada le nazioni, e riduce gli uomini a dover arrossire in faccia dell’Europa colta della propria patria, basta una sola scintilla di onore per sentire che una rivoluzione realmente sarà un bene insigne, e produrrà un nuovo ordine di cose, promovendo la pubblica felicità16. Anime incallite sotto il giogo della schiavitù, uomini giacenti nel letargo della abjezione, svegliatevi, mirate la virtù, la verità, la felicità pubblica; cessate di seminare coll’esempio vostro que’ funesti papaveri prudenziali, che perpetuano il sonno obbrobrioso del vostro paese17.

La meditazione del Verri sulla origine antropologica e materialistica della felicità parte dal presupposto sensista che, per citare l’Introduzione al Discorso sull’indole del piacere e del dolore, «la sensibilità dell’uomo, il grande arcano, al quale è stata ridotta come a generale principio ogni azione della fisica sopra di noi, si divide e scompone in due elementi, sono amor del piacere e fuga dal dolore»18. Casanova concorda nella sua introduzione alla Storia della mia vita e anche nel corrispettivo passo della prefazione scritta originariamente per l’autobiografia sulla matrice edonistica di ogni benessere ma assegna la priorità non al dolore, bensì al piacere come movente essenziale dell’agire umano e garanzia di una felicità duratura e serena, in radicale antitesi rispetto alla nozione problematica verriana di felicità imperfetta e transeunte: Coltivare i piaceri dei sensi è stata per tutta la vita la mia principale occupazione; non ne ho mai avuta una più importante. Sentendomi nato per il sesso diverso dal mio, l’ho sempre amato, e me ne sono fatto amare il più possibile. Ho amato con entusiasmo la buona tavola, e mi sono appassionato a tutte le cose fatte per eccitare la curiosità19. Come si può non rimpiangere questo mondo, dove le pene, se vi sono, non sono che un intermezzo dei piaceri? Piaceri immancabili, dei quali godiamo ogni giorno.

  P. Verri, Delle nozioni tendenti alla pubblica felicità, Roma, Salerno Editrice, 1994, p. 44.   Ibidem, p. 47. 18   P. Verri, Introduzione a Discorso sull’indole del piacere e del dolore in Id., Del piacere e del dolore ed altri scritti di filosofia ed economia, a cura di R. De Felice, Milano, Feltrinelli, 1964, p. 7. 19   SMV, I, p. 36 16

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Guai a chi, disconoscendoli, non s’impegna ad aumentarne le attrattive; e sciocco colui che non ne rimpiange l’irreparabile perdita 20. Se la condizione dell’uomo è tale che qualunque sia lo stato suo o di propizia o di avversa fortuna, sempre la soma delle sensazioni dolorose che avrà sofferte sarà maggiore della somma delle sensazioni piacevoli (…) per necessità converrà dire che non può darsi nell’uomo la felicità pura e costante, ed all’incontro può darsi la miseria e l’infelicità 21. Se da principio si è osservato dovere ogni uomo nel corso della vita più soffrire che godere, e la miseria essere più vicina all’uomo che non la felicità; almeno contro di questa dura verità riporremo l’altra più ridente, ed è che i mezzi per sottrarci alla infelicità si vanno moltiplicando, e che gli antenati nostri vissero a peggiori condizioni che non viviamo noi 22.

Verri ribadisce la imprescindibile relazione che lega la felicità umana individuale alla realizzazione contestuale e compresente del bene comune, in accordo a un principio razionalistico della realizzazione umana che pone un limite all’appagamento dei desideri materiali e di possesso di beni terreni da parte del singolo e postula l’intangibilità etica della sfera di interessi collettivi della comunità, e individua la prosperità economica e il benessere materiale come condizione principe della realizzazione individuale. Citiamo tre osservazioni significative tratte rispettivamente dal Discorso sulla felicità, che rielabora in forma più composta e organica le tesi già espresse nelle precedenti Meditazioni sulla felicità, dall’articolo Gli studi utili, in cui l’illuminista milanese propugna l’importanza cruciale, accanto alle discipline tradizionali, dei nuovi studi di carattere forense e medico, e infine dal Discorso sulla felicità, in cui viene puntualizzato l’aspetto propriamente etico-prescrittivo della dottrina eudemonica verriana: Chiunque sei che possiedi un moderato patrimonio, se ti è odiosa l’infelicità, se brami di passare la tua vita il meglio che si può, stabilisci i confini a’ tuoi desiderî, e sia questo il dio Termine sacro e inviolabile posto dalla sapienza 23. La legge e la medicina sono due scienze che ben maneggiate possono essere utili all’uman genere24.

  G. Casanova, Prefazione rifiutata in Id., Pensieri libertini, pp. 47-56: 51.  Verri, Discorso sulla felicità, in Id., Del piacere e del dolore, p. 73. 22   Ibidem, p. 116. 23   Ibidem, p. 76. 24  Verri, Gli studi utili in Id., Opere varie, a cura di N. Valeri, Firenze, Le Monnier, 1947, I, p. 102. 20 21

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Se un ragionatore esatto mi ricercherà cosa significhi questa voce dovere, io mi accontenterò, quand’anche si voglia renderla un’emanazione d’interesse. Interesse sia quella general voce che comprende le azioni che ci sono utili, e dovere sia quella porzione delle utili azioni che sono conformi alle leggi; il primo sia il genere, l’altro la specie25.

La definizione filosofica della infelicità segue in Verri i principi della saggezza platonica e della moderazione stoica e corregge in ottica razionalisticoilluminista il concetto epicureo del piacere: Tutti adunque gl’infelici i quali soffrono l’angustia di bramare i tesori e di accumularli, e ne sopportano le lunghissime cure, le umilianti mortificazioni, il sacrificio frequente della loro probità; sono infelici appunto perché non ragionano abbastanza, perché non vedono esattamente bene gli oggetti ai quali corrono dietro; e se la ragione venisse esercitata nell’esame importantissimo di noi medesimi, sarebbero tolti dalla lunga lista degl’infelici tutti i molti che vi sono per avidità di ricchezze26. L’uomo adunque facendo buon uso della ragione datagli dall’Essere Eterno appunto per farne buon uso, può liberarsi e prevenire una folla di desideri tormentosi di ricchezza, e così guardarsi da una moltitudine di lacci che lo trascinano, se è spensierato, all’infelicità 27.

La equipollenza aprioristica tra infelicità e ignoranza, cioè limitatezza di orizzonti conoscitivi, corrisponde, senza rilevanti distinzioni critiche, alla interpretazione di Bentham e di Chastellux, in base ai quali di ogni azione si può stabilire se sarà utile o meno al genere umano, a seconda della sua potenziale capacità di procurare piacere o dolore alla maggior parte dei soggetti umani investiti delle sue conseguenze pratiche28. Casanova sorvola superficialmente sulla importanza di focalizzare in termini univoci il concetto di virtù, che nel suo lessico filosofico eclettico e sincretico assume svariate, spesso ambigue e ineffabili, risonanze teoriche, intermedie tra teismo naturale e libertinismo filosofico, con venature di edonismo trascendentale e di eudemonismo platonicheggiante e residui influssi

  Ibidem, pp. 97-98.   Ibidem, p. 77. 27   Ibidem, pp. 79-80. 28  Cfr. J. Bentham, An introduction to the principles of morals and legislation, edited by J.H. Burns e H.L.A. Hart, Oxford, Clarendon Press, 1996, pp. 10 e 54 sgg.; e F.-J. Marquis de Chastellux, De la Félicité publique, ou Considérations sur le sort des Hommes dans les differentes époques de l’histoire, Amsterdam, Chez Marc-Michel Rey, 1772, pp. 10 sgg.; 54 sgg.; passim. Per un approfondimento di tali fonti rimandiamo a McMahon, Storia della felicità, pp. 242-247. 25 26

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della ortodossia teologica dottrinaria, per altro degradata a mero strumento di potere politico e di accreditamento sociale. La marcata connotazione aristocratico-cortese e antirivoluzionaria della posizione casanoviana sull’etica pubblica si evince chiaramente dai seguenti passi: Dirò inoltre che, poiché tutto ciò che ho fatto è ormai fatto, non potevo fare diversamente. Avrei potuto fare in altro modo se non fossi stato dominato dalla passione. Questo ragionamento non è ostico come sembra, perché è assolutamente impossibile che l’uomo indeciso si determini ad agire se non in forza di una passione che prevale sulle altre. La virtù consiste nel saper soprassedere fin quando l’indecisione ha termine29. Dio non può esigere dalle sue creature altro che l’esercizio delle virtù di cui ha posto il germe nella loro anima, e non ci ha dato niente che non abbia il fine di renderci felice: amor proprio, desiderio di lode, spirito di emulazione, forza, coraggio, e una facoltà di cui nessuna tirannia può privarci: quella di ucciderci, se per un calcolo, giusto o sbagliato, abbiamo la sventura di trovarci una soluzione vantaggiosa30.

Verri si professa strenuo fautore dello stoicismo e della virtù intesa non come portato dottrinario cristallizzato nella tradizione religiosa, ma come profonda integrità d’animo e incrollabile perseveranza nel perseguire scientemente in tutto il proprio agire terreno il bene comune: «Due sono le sorgenti dell’umana virtù, e sono il bisogno della stima generale e la compassione»31; «Perciò l’animo virtuoso sarà quello che ha un costante desiderio di fare cose utili in generale agli uomini»32. Verri precisa la sua peculiare nozione di virtù in un importante passo del Discorso sulla felicità, riecheggiando opinioni antiche e moderne relative alla liberalità, alla amicizia, alla probità, alla magnanimità e all’altruismo, secondo una gamma di fonti che svariano dai filosofi classici al nucleo semantico classicisticoaristocratico cinquecentesco della cortesia e della onestà fino al versante utilitaristico e progressista dell’illuminismo: Mi si cercherà pure cosa io intenda di significare colla parola virtù. Io non intendo di comprendere sotto questo vocabolo gli atti del culto religioso, ma unicamente di significare quella classe di azioni che per consenso generale degli uomini in ogni tempo, in ogni luogo, costantemente furono considerate virtuose: perdonare generosamente all’inimico, essere fedeli, grati, liberali, umani, valoro-

  Prefazione rifiutata, p. 53.   SMV I, p. 37. 31  Verri, Discorso sull’indole del piacere e del dolore, p. 23. 32  Verri, Discorso sulla felicità, p. 98. 29 30

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si, giusti, e, per comprendere il tutto più brevemente, l’esercitare gli atti utili in generale agli uomini 33.

Casanova rifugge invece la rigida disciplina morale insita nella teoria pirroniana della moderazione e della continenza delle passioni e, pur apprezzandone gli intenti nobili ed edificanti, liquida di fatto lo stoicismo come una dottrina irrealizzabile, che ingenera un insanabile contrasto con il buon senso comune, dettato dalla cogente esperienza di pulsioni egoistiche insopprimibili: Lo stoicismo di Zenone e l’atarassia dei Pirroniani offrono alla nostra mente delle considerazioni straordinarie. C’è chi le esalta, chi le deride, chi le ammira e chi le canzona, e anche i saggi le accettano con qualche riserva. In realtà, chiunque debba giudicare della possibilità o impossibilità di una pratica morale, deve sempre partire dalla propria esperienza, poiché non può in buona fede ammettere l’esistenza di una forza interiore in altri se non ne sente almeno il germe dentro di sé34. L’abstine e il substine sono il carattere distintivo del buon filosofo, ma le sofferenze materiali che affliggono lo stoico non possono certo essere minori di quelle che tormentano l’epicureo, e le disgrazie sono più cogenti per chi le dissimula di quanto lo sono per chi trova un reale sollievo nei lamenti35.

Verri attribuisce alla propria nozione di ragione il ruolo di supremo arbitrato giurisprudenziale, in grado di dirimere le controversie tra singole posizioni egoistiche e istintuali, secondo una linea interpretativa decisamente allineata con le correnti utilitaristiche settecentesche. Riconosce alla facoltà giudicante umana un duplice merito: la capacità di alleviare gli stati dolorosi e la qualità di moderare gli individualismi. La ragione rileva il giusto mezzo filosofico tra l’azione raffrenante esercitata sulla bramosia di potere e di denaro dalla virtù stoica della morigeratezza, che impone di contentarsi dei beni posseduti, e l’impulso stimolante per il libero perseguimento del profitto suscitato dall’ambizione all’arricchimento personale: Se però né tutti i dolori morali, né la maggior parte di essi è sperabile di prevenirli coll’uso della sola umana ragione, ella è però cosa certa che varî possono da quella essere scemati, come io dissi36. La ragione ci ha abituati a correggere la illusione ottica e giudicare dell’estensione anche degli oggetti lontani senza sottrarvi dalla vera grandezza: la stessa

  Ibidem.   SMV, I, p. 599. 35   Ibidem. 36  Verri, Discorso sull’indole del piacere e del dolore, p. 28. 33 34

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ragione ci può abituare a correggere l’illusione dell’ambizione e preservarci dall’ingannevole giganteggiare di minimi oggetti quasi insensibili per loro stessi. È legge inviolabile che sempre i beni che si possedono si pregiano meno de’ beni che si ambiscono; ma la differenza diminuendo a misura che sappiamo far uso della nostra mente per esaminare questi oggetti importantissimi della nostra felicità37.

Verri interpreta la facoltà razionale come un fattore equilibratore rispetto alla componente irrazionale e istintuale della natura umana, un parametro di giudizio equanime e temperante, in grado di preservare l’uomo dall’eccesso di desiderio e dai bisogni illusori, che rischiano di deviare la legittima volontà individuale di appagare le esigenze reali del singolo individuo verso una perniciosa e chimerica felicità alimentata dall’appetito insaziabile di possesso materiale di beni e dall’ipertrofico consumo psico-fisico di sensazioni piacevoli: L’eccesso de’ nostri desiderî sopra il potere è la misura della infelicità (…) Ma siamo noi padroni di diminuire i desiderî nostri; siamo noi arbitri di accrescer il nostro potere? (…) Ma il premunirci contro l’insidioso assalto delle passioni prima che esse ci abbiano scossi e trasportati nel chimerico mondo dell’immaginazione;(…) è sicuramente entro i confini della nostra volontà, come è in mano nostra l’accrescere il poter nostro con varî mezzi che andremo esaminando; e vedremo che certamente gli uomini assai meno sarebbero infelici se facessero singolarmente nella prima età un uso continuo e intero della loro ragione per esaminare i loro interni movimenti, e ridurre a sistema ed a principî le proprie azioni 38. Il vero interesse nostro ben conosciuto si reca il disinganno sulla chimerica felicità delle grandi ricchezze, ed ecco svelto un gran ramo de’ nostri desiderî i più difficili a giammai pareggiare col potere, perché grandeggiano sempre più progredendo39.

Casanova invece non si pone il problema della autolimitazione della propria ambizione, né si interroga sulla opportunità di porre un freno alla portata materiale e alla ricaduta morale del desiderio, sia esso rivolto verso la gloria letteraria oppure orientato verso un oggetto erotico: Non possiamo avere altri doveri all’infuori di quelli che la natura, figlia unica di Dio, ci prescrive. Egli ci ha messo in cuore la religione naturale: coloro che la violano sono dannati, quelli che la seguono sono sicuri d’essere felici. Le pene o le ricompense dopo la morte esistono solo per fede; ma la filosofia ci mostra le pene

 Verri, Discorso sulla felicità, p. 86.   Ibidem, pp. 74-75. 39   Ibidem, p. 78. 37 38

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e le ricompense immancabili di questa vita. Il genere umano detesta il malvagio e ama il giusto. L’uomo non può essere felice che nell’esercizio della virtù40. Se nel desiderio che ho di riuscire piacevole mi ingannassi, confesso che ne sarei dispiaciuto, ma non abbastanza da pentirmi di avere scritto, giacché niente potrà far sì che non mi ci sia divertito41.

Casanova rifiuta l’ottica razionalista e morale dell’illuminismo e ritiene che la vera felicità scaturisca da un connubio mirabile tra sensi e accensione spirituale, percepibile a livello di intuizione metafisica e irriducibile a premesse etiche prestabilite, privilegiando l’aspetto edonistico ed estetico dell’appagamento individuale e dotandolo di un’arcana valenza sacrale di ascendenza neoplatonica venata di provvidenzialismo: Qualsiasi cosa mi dicesse Henriette la trovavo sempre più incantevole e il suo spirito mi affascinava anche più della sua bellezza. Avevo l’impressione che all’ufficiale francese facesse piacere che io mi innamorassi di lei; e credevo che la ragazza non chiedesse di meglio che cambiare amante. (…). Henriette era completamente d’accordo con me. Insomma mi inebriavo già per la mia futura felicità. (…) Seduto di fronte a lei i miei occhi potevano guardarla senza che io dovessi girare la testa per procurarmi questo piacere, che è certamente il più grande che un innamorato possa avere senza che alcuno possa contestarglielo42. Come il Creatore della Natura ha impresso in ogni cosa un grado di perfezione, che rende meravigliosa la natura intiera, e degna del suo creatore, così anche deve un artefice in ogni linea, e ad ogni tratto di pennello lasciar una traccia della sua mente, acciò che la sua opera venga dagli altri Uomini riconosciuta degna produzione di un’anima razionale43.

La formazione rigorosamente materialistica e antimetafisica di Verri lo induce invece a liquidare l’arte come un mezzo consolatorio per attenuare il dolore innominato – secondo un procedimento fisiologico esclusivamente legato ad un’ottica utilitaristico-sensista che oscura le implicazioni catartiche aristoteliche insite nello slancio creativo – inventato dagli uomini per surrogare artificialmente la felicità e addirittura destinato ad estinguersi nel caso paradossale, in cui gli ostacoli empirici che si oppongono alla realizzazione umana individuale e collettiva dovessero improvvisamente esaurirsi:

  SMV, I, p. 50.   SMV, I, p. 38. 42   SMV I, p. 341. 43   G. Casanova, Pensieri sopra la bellezza e sopra il gusto nella pittura in Giacomo Casanova tra Venezia e l’Europa, pp. 321-329: 329. 40 41

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La musica, la pittura, la poesia, tutte le belli arti hanno per base i dolori innominati; in guisa tale che, se io non erro, se gli uomini fossero perfettamente sani e allegri, non sarebbero nate mai le belle arti44. Ogni uomo entusiasta, ogni uomo che appassionatamente ama o una scienza o una bell’arte, o un mestiero, o cosa qualunque, non l’ama per altro se non perché egli è originariamente infelice con sé medesimo, e tanto più avidamente ama i mezzi per sottrarsi, quanto è maggiore la somma dei dolori innominati ch’ei soffre abbandonato a sé medesimo45.

Verri sottopone ad una sua personale rilettura critica l’aspetto più noto del patto sociale ideato da Rousseau, accettando senza riserve i principi della riduzione del desiderio individuale e della espansione del potere di controllo razionale sulle bramosie egoistiche46, ma rifiutando categoricamente la tesi dell’egualitarismo primitivo, che postulata un fantomatico status naturale prestorico dell’uomo; l’illuminista milanese richiede l’applicazione ferrea al liberalismo economico delle teorie giusnaturaliste e ipotizza la armonia virtuosa tra diritto positivo e diritto naturale, cioè tra leggi e interesse comune: Il fine adunque dell’immaginario patto sociale è il ben essere di ciascuno che concorre a formare la società; il che si risolve nella felicità pubblica, ossia nella maggiore felicità possibile ripartita colla maggiore uguaglianza possibile.(…) Ivi le leggi non possono mai essere in contraddizione colla virtù, perché le leggi tendono alla felicità pubblica; e la virtù, avendo per oggetto gli atti utili in generale agli uomini, non si può mai cercare la felicità pubblica con atti dannosi generalmente al genere umano47. Io non dirò che tutti gli Stati d’Europa abbiamo deposto la barbarie antica: ognuno però conosce che si è di molto scemata, e con essa l’infelicità: giacché si può bensì disputare se (…) lo stato selvaggio sia più fortunato dello stato di incivilimento, ma nessuno disputerà se lo stato di barbarie e corrotta società sia più misero dello stato di società colta e legittima48.

Mentre la rilettura di Verri si rivela criticamente protesa ad adattare il modello rousseauviano alla situazione filosofica italiana e rifiuta l’illusorio

 Verri, Discorso sull’indole del piacere e del dolore, p. 38; vedi anche tutta la sezione del trattato dedicata alle belle arti: cfr. ibidem, pp. 38-48. 45   Ibidem, p. 41. 46   Su questi aspetti cardine del pensiero rousseauviano, si confrontino tra loro Verri, Discorso sulla felicità, pp. 74-75 e J.-J. Rousseau, Emilio, trad. it. e cura di A. Visalberghi, Roma, Laterza, 20086, pp. 56-58 e Id., Il contratto sociale, trad. it e cura di R. Gatti, Milano, BUR, 2005, pp. 66-68. 47  Verri, Discorso sulla felicità, p. 100. Vedi anche ibidem, pp. 116, 120. 48   Ibidem, pp. 119-120. 44

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arrovellamento circa il ritorno di un’utopica età dell’oro, topos attribuito superficialmente al pensatore ginevrino, come marchio distintivo del suo sistema filosofico, Casanova, invece, aborrisce a priori per istintiva avversione umana e incompatibilità intellettuale la concezione libertaria e progressista espressa dal pensatore ginevrino, arroccandosi su una posizione decisamente conservatrice e sdegnosamente filo-aristocratica: In quei giorni, la marchesa d’Urfé desiderava conoscere J.J. Rousseau, ci recammo a fargli visita a Montmorency, portandogli della musica da copiare, che lui riusciva a fare egregiamente. Prendeva il doppio di chiunque altro, ma garantiva di farlo senza errori. Allora viveva di quel lavoro. Ci sembrò un uomo di grande senno, di maniere semplici e modeste, ma che non mostrava segni particolari di distinzione né per l’aspetto né per l’intelligenza. Non era propriamente una persona simpatica. Ci parve un po’ scortese, e non ci volle molto perché la signora d’Urfé lo giudicasse rozzo.(…) Ritornammo a Parigi ridendo delle stranezze del filosofo49. G. G. Rousseau famoso recidivo, eloquentissimo scrittore, filosofo visionario che assume arie di misantropia e ambisce di apparire un perseguitato, scrisse una prefazione alla sua Nuova Eloisa veramente unica: insulta il lettore e tuttavia non l’indispone. (…) non ha mai scritto come si parla e, invece di ragionare in base a un sistema, emette aforismi, risultanti dalla casuale concatenazione delle sue bollenti circonlocuzioni e non dalla fredda ragione. I suoi assiomi sono paradossi buoni a far starnutire lo spirito, ma saggiati alla coppella del discernimento, si disperdono in fumo50.

Verri constata che è impossibile ipotizzare l’avvento di modello di società perfetta il cui governo sia retto solo ed esclusivamente da uomini disinteressati a fini personali e dove, come egli dice, «ogni atto della podestà pubblica sia una spinta verso la pubblica felicità» e si possa assicurare a priori che la «classe d’uomini presso i quali ne viene depositato l’esercizio non travii mai, non declini e non ne abusi»51. Verri sceglie di modulare la soluzione istituzionale sulle effettive esigenze civili e sulla mentalità corrente del ceto egemone del suo tempo, cercando un’alleanza strategica tra due polarità metodologiche divergenti nell’approccio alla questione discriminante del bilanciamento armonico tra benessere pubblico e eudemonia privata: leggi civili e leggi dell’onore. Queste due nozioni originariamente antitetiche risultano concilia  SMV I, p. 738.   G. Casanova, Fuga dai Piombi. Il duello, a cura di G. Spagnoletti, Milano, Rizzoli, 1998, p. 25. 51  Cfr. Verri, Discorso sulla felicità, p. 101. 49 50

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bili secondo l’ottica riformista moderata e liberale del Verri, ispirata alla sua attività sperimentatrice sul concreto articolarsi delle forme istituzionali, ma sorretta anche da un’inesausta fiducia nella naturale propensione dei soggetti umani alla aggregazione sociale, quando essa comporti un’azione benefica e gratificante per il soddisfacimento dei bisogni individuali. L’illuminista milanese auspica, con sorprendente accento moderato, non la cancellazione definitiva, ma la ragionevole emarginazione della autorità divina dal fulcro nevralgico della meditazione umana, e postula l’assorbimento del diritto positivo e legislativo codificato nell’alveo universale e virtuale della onorabilità sociale, principio accettato dalla categoria unanime dei benpensanti e promosso ad archetipo primigenio dell’etica umana, voce universalmente riconosciuta nella semantica lessicale settecentesca, e dunque stimolo potenzialmente imparziale e unanimemente accettabile alla convergenza spontanea e libera degli interessi particolari nell’utile generale: Abbiamo le immortali leggi prescritteci dalla divinità. Abbiamo le leggi civili; abbiamo quelle dell’onore. Gli uomini in alcuni casi sí fattamente le hanno combinate, che sembrano cozzare e distruggersi a vicenda. Ho ricevuto un’offesa; la religione mi ordina di perdonarla; la legge civile mi prescrive come debba far punire l’avversario dal giudice; l’onore mi eccita a vendicarla col mio braccio. Sono fra il peccato, il supplizio e l’infamia52. Fra questi due estremi trovansi comunemente le società; onde, per risolvere ne’ casi di conflitto fra le leggi civili e quelle dell’onore, sarà da calcolare, se facciamo più male agli uomini, indebolendo col fatto nostro le leggi dell’onore, ovvero indebolendo le leggi civili. Le prime tanto più diventano utili agli uomini in generale, quanto meno lo diventano le seconde; anzi le prime s’annienterebbero e diverrebbero superflue, quanto più le seconde si accostassero allo scopo della istituzione sociale; perché essendo l’onore la legge dell’opinione universale degli uomini, ed opinando in questa parte coi liberi suffragi tutti i membri della società per accordare stima o disprezzo alle azioni, a misura che sono o generose e nobili, ovvero abbiette e codarde, non potrebbe mai l’opinione universale libera degli uomini disapprovare l’obbedienza alle leggi che tendono anche alla maggior felicità di ciascun uomo, per quanto è possibile combinare gli interessi di tutti 53.

Il richiamo all’imprescindibile archetipo semantico dell’onore è tipico della cultura cortese settecentesca e ricorre insistentemente anche nella argomentazione etico-morale delle ardite tesi libertine casanoviane, fino a costituire un autentico discrimen idealizzante tra ‘bene’ e ‘male’ avulsi dalla

  Ibidem, p. 96.   Ibidem, pp. 101-102.

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morale religiosa e dall’etica filosofica e riportati ad una conciliante e conformista etichetta comportamentale: Io desideravo arrivare a possedere Henriette pacificamente e in tutta tranquillità, trovando un modo amichevole e salvando l’onore. La ragazza non aveva che il vestito da uomo che la copriva, e neanche uno straccio da donna; nemmeno un camicia. Usava quelle del suo amico. E questo mi riusciva del tutto nuovo e misterioso54. Appena fummo di ritorno all’albergo, chiesi all’ufficiale se contava di andare a Parma col postale o con una carrozza. Mi rispose che non possedendo una carrozza preferiva andarci col postale. «Io ne ho una molto comoda», gli dissi, «e vi offro i due posti dietro, se non vi è sgradita la mia compagnia». «Ne sono onorato. Vi prego di proporre questa soluzione a Henriette». «Volete, madame Henriette, accordarmi l’onore di accompagnarvi fino a Parma?» «Ne sarei contentissima, perché potremmo conversare; ma il vostro compito non sarà semplice, poiché dovrete spesso farci da interprete». «Lo farò con vero piacere, dispiaciuto semmai che il nostro viaggio sia troppo breve. Ne riparleremo a cena. Permettete intanto che provveda a concludere alcune faccende»55.

La sintesi oculata di un’impostazione progressista illuminista e di nodi tematici ancora legati alla contingente arretratezza istituzionale italiana viene identificata da Verri nel binomio fondante ragione/virtù, ispirata ad una saggezza stoica passata attraverso il filtro della socievolezza aristocratica, in modo da ingenerare nel soggetto umano il vivo senso di una filantropia naturale e solidale, propizia, e non avversa, alla realizzazione della felicità individuale nel giudizioso rispetto della sfera di interesse complessiva dell’organismo civile. In tal senso, risultano emblematiche del suo modus operandi speculativo le seguenti asserzioni: La virtù è la base della felicità, siccome si è osservato, e nelle varie leggi alle quali siamo soggetti, talvolta trovansi degli inviluppi così intralciati che fa d’uopo di molto uso della ragione per ritrovare il filo delle azioni nostre e preservarci da’ rimorsi 56. In queste spinosissime situazioni trovandosi l’uomo anche buono e virtuoso, talvolta è in pericolo di fare una scelta di cui poi s’abbia a pentire ed averne rimorso. La riflessione però mi può dare il filo per rettamente condurmi 57.

  SMV I, p. 341.   SMV I, p. 339. 56  Verri, Discorso sulla felicità, p. 96. 57   Ibidem, p. 97. 54 55

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In un articolo tratto da «Il Caffè» e intitolato Sulla spensieratezza nella privata economia, Verri coniuga l’apprezzamento oculato e il godimento assennato del patrimonio ereditario, indice inequivocabile della continuità della stirpe tradizionale, con il culto illuminista della beneficenza pubblica, ipotizzando una fusione della nobiltà di origine con la nobiltà d’animo, che si tradurrebbe in un generoso e alacre mecenatismo, più scientifico che artistico, verso i più fulgidi talenti creativi e i più produttivi ingegni del proprio mondo: Se coloro i quali hanno ottenuto in retaggio un pingue patrimonio, possedessero la difficil arte di ben goderlo, quanto non potrebbero eglino migliorare la loro condizione! Quante virtù, quante nobili qualità, le quali rimangono sterili e celate da quella implacabile necessità che limita i patrimoni ristretti, non potrebbero mai risplendere nella più chiara luce, e lasciare un glorioso nome dopo una gloriosa vita per le pubbliche e private beneficenze!58 Felice quella città in cui trovasi unito nella stessa persona un vivo e illuminante amore del merito ad un vasto patrimonio! La sua casa diventa l’asilo di tutti quegli ottimi cittadini, che o fanno o promettono onore alla lor patria; ivi ritrovano grata ospitalità tutti gl’ingegni i quali coltivano con amore qualunque parte della vasta serie delle umane cognizioni, dalla più sublime astronomia sino all’ultima delle belle arti: (…) Da tal lumi assistito, il ricco amatore del merito vedesi circondato dalla più colta e rispettabile compagnia, di cui egli è l’anima e il promotore59.

Si tratta di un orientamento umanistico, fondato sullo spirito libero di coesione sociale e sulla limitazione reciproca ed equilibratrice degli egoismi faziosi e scevro di complicazioni intellettualistiche o di dogmatismi ideologici. Tale visione equanime e umanistica si esprime compiutamente nella conclusione del suo intervento, foriera di insegnamenti avveduti circa la indipendenza morale del saggio dalle diatribe astratte sulla verità metafisica e la sua neutralità rispetto a questioni logico-scientifiche esorbitanti dalla propria facoltà di comprensione. Verri ribadisce la autonomia di giudizio che deve essere custodita scrupolosamente dall’uomo illuminato rispetto alle posizioni antitetiche della inciviltà barbarica e del servilismo conformista: La felicità non è fatta che per l’uomo illuminato e virtuoso. (…) La ragione ci fa conoscere che è il nostro interesse l’essere virtuosi; che la virtù sola può condurci a vivere men male i nostri giorni. (…) L’uomo saggio resta egualmente distante e

 Verri, Sulla spensieratezza nella privata economia in Id., Opere varie, pp. 111-112.   Ibidem, pp. 112-113.

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DUE IMMAGINI ANTINOMICHE DELLA ‘FELICITÀ’

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dall’inurbanità e da quella servile passività che lo dispone ad essere mero stromento di chi ardisce di adoperarlo60. In ogni nazione il saggio esamina prima di determinarsi; si determina prima di agire; ha un carattere suo; (…) ricerca in tutto di sviluppare i primi elementi delle proprie idee affine di preservarsi dall’errore; e fra le verità possibili sente che la più importante e dimostrata di tutte è, che deve cercare la propria felicità61.

Verri attribuisce addirittura alla figura innominata del filosofo, abbozzata in termini paradigmatici in un allusivo articolo breve apparso su «Il Caffè» nel 1764, una sentenza semplice quanto emblematica della propria concezione etica intesa come concreta prassi di indagine dei bisogni essenziali dell’uomo, avulsa da qualsiasi velleità astratta e metafisica, o da pretese di sistematicità, ma altrettanto estranea ad interessi di parte od a calcoli egoistici: «Il filosofo ha approvato il mio parere. “Ebbene”, disse, “conviene essere frivolo per principio, siamolo di buona grazia. La verità più grande di tutti è che convien cercare costantemente la propria felicità”»62. Casanova concorda nel ribadire l’importanza cruciale della felicità umana, accentuando tuttavia la dimensione individuale del tema e investendola di una valenza edonistico-erotica sconosciuta alla matrice dell’eudemonismo platonico, elemento filosofico costante delle sue errabonde escursioni speculative alla ricerca di una stabilizzante e acclarata fons auctoritatis etico-morale: Così la divina Henriette mi dava lezioni di filosofia ragionando meglio di Cicerone nelle Tusculanae; però conveniva che quella felicità duratura si poteva verificare solo per due persone innamorate, che vivessero insieme, ambedue sane, intelligenti, sufficientemente ricche, senza altri obblighi, oltre quelli verso se stessi, e che avessero gli stessi gusti, presso a poco il medesimo carattere e il medesimo temperamento63. Se è vero che tutti noi possediamo un invisibile essere benefico che ci sospinge verso la nostra felicità, come talvolta accadeva a Socrate, mi si consentirà di credere – senza che qualche lettore rida di me – che io fui spinto verso quella casa dal mio buon genio?64

Possiamo concludere che, pur nel comune interesse per la definizione di un ideale moderno e praticabile di eudemonia, e nonostante la ricorrente presenza nel lessico filosofico di entrambi di un ventaglio ristretto di parole chiave emblematiche della cultura settecentesca, quali onore, virtù, ambizio Verri, Discorso sulla felicità, pp. 121-123.   Ibidem, p. 124. 62  Verri, La fortuna dei libri, in Id., Opere varie, I, pp. 33-35: 35. 63   SMV I, p. 357. 64  Casanova, Fuga dai Piombi, p. 171. 60 61

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ne, Casanova e Verri si distinguono per la diversa declinazione teorica della questione e per il differente orientamento prospettico che focalizza la rispettiva concezione del dilemma tra l’appagamento dei desideri individuali e la promozione della prosperità sociale. Alla nozione ‘democratica’ e virtuosa, sintetizzata dall’illuminista milanese sulla base della lezione filantropica e progressista rousseauviana, si contrappone la concezione ‘aristocratica’ ed edonistica del libertino veneziano, influenzato dalle antimoralistiche teorie meccaniciste lamettriane ed attestato nettamente al di qua dello spartiacque decisivo, tracciato dalla corrente utilitaristica e contrattualistica dell’illuminismo settecentesco, tra la sfera privata e la dimensione pubblica della felicità umana.

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La nozione di felicità in Robespierre1 è una nozione multiforme e sfaccettata, che trova le sue scaturigini nel complesso dibattito che attraversa il XVIII secolo2. Sotto questo aspetto Robespierre dimostra di recepire a fondo la lezione di Rousseau, il quale resta il suo principale referente non solo ideologico3. Altre fonti culturali rintracciabili nella produzione robespierriana sono Montesquieu (in particolare in merito alla tipologia delle forme di governo) e Mably (in merito al legame vertu-bonheur). La felicità robespierriana presenta una divaricazione forte rispetto alle successive teorizzazioni liberali già in nuce nella Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti del 17764. Infatti il progetto robespierriano non contempla, sul piano economico-sociale per esempio, il perseguimento della felicità, da parte dell’individuo, attraverso l’incremento della ricchezza personale e l’aumento continuo ed illimitato del ciclo produzione-consumi, ma tenta di saldare le spinte individualistiche con l’interesse comune, tenta, attraverso l’educazione e

1   Per un primo orientamento, cfr. La felicità è un’idea nuova in Europa. Contributo al lessico della Rivoluzione francese, a cura di C. Vetter, t. I, Trieste, Eut, 2005; C. Vetter, A proposito di felicità, Rivoluzione francese, banche dati e linguistica computazionale, nella rivista elettronica «Revolution Française.net, Epistémologie», mis en ligne le 7 février 2007: http:// revolution-francaise.net/2007/02/07/107-proposito-felicita-rivoluzione-francese-banchelinguistica-computazionale. 2  Cfr. R. Mauzi, L’idée du bonheur au XVIIIe siècle, Paris, Colin, 1960; F. De Luise-G. Farinetti, Storia della felicità. Gli antichi e i moderni, Torino, Einaudi, 2001; D.M. McMahon, Storia della felicità. Dall’antichità a oggi, Milano, Garzanti, 2007 (I ed. 2006). 3  Cfr. Il “Rousseau” dei giacobini. Studi in onore di A.M. Battista, Urbino, Edizioni Quattro Venti, 1988. 4   Per le interpretazioni della duplice valenza del significato di felicità all’interno della Dichiarazione d’Indipendenza, cfr. H. Arendt, Sulla rivoluzione [I ed. 1963], Milano, Edizioni di Comunità, 1983, pp. 138, 144 e sgg.; M. Barbato, Thomas Jefferson o della felicità, Palermo, Sellerio, 1999, pp. 79 e sgg.

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le leggi, di creare un ‘uomo puro’ (‘virtuoso’, ‘giusto’)5, nel quale l’interesse privato coincida con l’interesse pubblico. Nel progetto di Robespierre, la felicità non è, come nell’impostazione utilitaristica, la somma delle felicità empiriche a cui i singoli individui arrivano attraverso il piacere o la soddisfazione di qualsiasi bisogno, ma è la sintesi armonica di felicità individuali, costruite attraverso l’esercizio della virtù6. La virtù, in questo senso, è anche, e soprattutto, ciò che lega il cittadino alla comunità, alla società civile, in ultima istanza alla nazione e alla rivoluzione. Robespierre – in definitiva – rovescia l’impostazione dell’utilitarismo7. Non ciò che è utile è morale, ma ciò che è morale è utile. Più in generale la felicità robespierriana è un combinato disposto di aspetti economici, sociali, politici, morali, religiosi. Nello specifico è una felicità sobria, quasi pauperistica, ascetica, diffusa uniformemente su tutto il corpo sociale (politico), condivisa, proiettata sugli aspetti morali, spirituali, affettivi, politici della vita. Una felicità comunitaria, a priori non etnica o nazionalistica, aperta in direzione dell’universalismo e non dimentica della presenza del dolore nel mondo. La felicità ed i percorsi individuali sono, secondo l’autore, costitutivamente non conflittuali, né fra loro, né con gli interessi e la felicità del corpo politico. La cifra conflittuale è bandita dalle teorizzazioni robespierriane (è impossibile esista il conflitto, in una società ben costruita, armonizzata), in quanto la ricerca della felicità non viene stimolata, come nell’impostazione utilitarista, attraverso la rimozione degli ostacoli al perseguimento degli interessi del singolo, ma viene promossa attraverso l’intervento della politica. Le leggi, strumento d’educazione, in questa prospettiva, insegnano, premiando la virtù e punendo il vizio. È una felicità (e un’educazione), quindi, imposta dall’alto, alla quale il cittadino deve solamente adeguarsi rendendola parte di sé (modello di esistenza sociale, postulato come unico, vero, razionale). Nella realtà del processo storico questa impostazione ha portato a risultati autoritari. Sicuramente quelle che sono comunemente intese, in sede storiografica, come ‘circostanze’8,

 Non compare mai in Robespierre l’espressione «homme nouveau». Compare invece la lessia complessa «hommes nouveaux» due volte, in due discorsi dell’anno II. In entrambi i casi ha valenza negativa e corrisponde a ‘rivoluzionari del giorno dopo’. Cfr. anche La felicità è un’idea nuova in Europa, p. 134. 6  Cfr. F. Thuriot, La conception robespierriste du bonheur, «Annales Historiques de la Révolution française», CXCII (1968), pp. 207-226: p. 207. 7   Per un primo orientamento, cfr. F. Fagiani, L’utilitarismo classico da Bentham a Sidgwick, Cosenza, Busento, 1990. Per una versione recente dell’utilitarismo, cfr. P. Singer, La vita come si dovrebbe, Milano, Il Saggiatore, 2001. 8   Sulla teoria delle ‘circostanze’ e per un bilancio storiografico in merito, cfr. C. Mazauric, Jacobinisme et Révolution, Paris, Messidor, 1989, pp. 59-63; Id., Terreur, in A. Soboul, Dictionnaire historique de la Révolution française, publié sous la direction scien5

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hanno influito sull’apprezzamento di Robespierre nei riguardi della violenza, ma i risultati terroristici sembrano consustanziali al suo progetto politico. Andiamo ad analizzare più da vicino le caratteristiche della felicità robespierriana partendo dal rapporto fra la nozione di felicità pubblica e quella di felicità privata nel pensiero politico dello statista di Arras. Robespierre non dimostra alcun interesse nei confronti della felicità individuale di impronta liberale. La «félicité privée» robespierriana non è mai la felicità dell’individuo solitario, isolato, diviso dai suoi simili. Per Robespierre l’uomo è (e deve essere) calato nella società (egli parla di «vocation immortelle de l’homme à l’état social»)9. Non si tratta di promuovere la felicità dell’uomo preso singolarmente, ma di incrementare – attraverso mezzi politici – la felicità del cittadino. La felicità dell’individuo non è la felicità empirica (perseguire il piacere, soddisfare i bisogni), ma è la felicità che il cittadino prova e consegue attraverso l’esercizio della o delle virtù. È una felicità che non è schiacciata sul lato economico della vita, ma che si articola soprattutto attorno a elementi sociali, politici, religiosi, morali. È una felicità dal forte contenuto etico, imprescindibile per costruire una società giusta. Si capirà facilmente che se è vero, come è vero, che la felicità del singolo si può riassumere, principalmente, come la felicità del cittadino virtuoso, la felicità pubblica assume nel discorso robespierriano valore politico centrale. Ma come intendere la formula ‘bonheur public’? L’accezione di felicità pubblica, che è possibile riscontrare in Robespierre durante tutto il corso della sua carriera politica, coincide con l’accezione prevalente nel XVIII secolo. Bonheur public, félicité publique indicano la felicità complessiva della comunità politica (corps politique, corps social, patrie, nation, peuple, nel lessico di Robespierre). Nell’impostazione di Robespierre la comunità politica è concepita come composta da cittadini, per i quali interesse privato ed interesse pubblico coincidono10. Bonheur public e félicité publique sono, secondo Robespierre, la «sintesi armonica» («heureuse

tifique de J.-R. Suratteau et F. Gendron, Paris, Puf, 2006 (I ed. 1989), pp. 1020-1025; M. Vovelle, La Rivoluzione francese 1789-1799, Assisi (PG), Guerini, 2002, p. 29 e sgg. 9  M. de Robespierre, Sur la liberté de la presse [9 mai 1791], in Œuvres de M. Robespierre (d’ora in poi Œuvres), in 11 tt., Paris, Phénix Éditions, 1910-2007, t. VI, pp. 319-334: p. 320. Come è noto, nel 2000 è stata prodotta una copia anastatica dei primi 10 voll. delle Œuvres. 10  Cfr. le riflessioni di Remo Bodei in merito alla nozione di ‘fraternità’ in epoca rivoluzionaria come «serena rinuncia all’interesse privato», in Id., Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità: filosofia e uso politico, Milano, Feltrinelli, 2007 (I ed. 1991), p. 412.

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harmonie»)11 delle felicità individuali dei singoli cittadini, felicità individuali che costitutivamente non confliggono né fra loro, né con gli interessi e la felicità del corpo sociale. Per connotare la felicità complessiva del corpo sociale, Robespierre usa anche le espressioni bonheur social, bonheur général, bonheur de la société, bonheur politique, bonheur de tous (che rinvia, come è noto, alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789), bonheur commun (che rinvia all’articolo primo della Déclaration des droits de l’homme et du citoyen del 1793), félicité commune, félicité générale. C’è da aggiungere che dal dicembre 1792, le espressioni bonheur public e félicité publique tendono ad indicare anche la salvezza dello Stato (della «révolution», del «gouvernement révolutionnaire») dagli attacchi dei nemici interni ed esterni. Tendono a coincidere e a sovrapporsi alle nozioni di sûreté publique, salut public, liberté publique. Nel discorso del 3 dicembre 1792, Sur le jugement de Louis XVI, tutte queste espressioni risultano affiancate e danno la misura dello slittamento semantico della nozione di felicità pubblica12. È in questo periodo, infatti, che si evidenzia lo scarto tra una fase in cui l’attenzione della politica è rivolta alla salvaguardia (alla felicità) dei cittadini13 e un’altra in cui il fine principale diventa salvare lo Stato (il governo rivoluzionario) dai nemici interni ed esterni. Contemporaneamente si produce, 11  L’espressione compare nei discorsi del 10 gennaio 1792 (in Œuvres, t. V, p. 208) e del 14 giugno 1793 (ibidem, t. IX, p. 561). 12  M. de Robespierre, Sur le jugement de Louis XVI, in Œuvres, t. IX, pp. 120-136: p. 129: «la peine de mort en général est un crime, et par cette raison seule, que, d’après les principes indestructibles de la nature, elle ne peut être justifiée, que dans les cas où elle est nécessaire à la sûreté des individus ou du corps social. Or, jamais la sûreté publique ne la provoque contre les délits ordinaires, parce que la société peut toujours les prévenir par d’autres moyens, et mettre le coupable dans l’impuissance de lui nuire. Mais un roi détrôné au sein d’une révolution, qui n’est rien moins que cimentée par les lois; un roi dont le nom seul attire le fléau de la guerre sur la nation agitée; ni la prison, ni l’exil ne peut rendre son existence indifférente au bonheur public; et cette cruelle exception aux loix ordinaires que la justice avoue, ne peut être imputée qu’à la nature de ses crimes (…). Je vous propose de statuer, dès ce moment, sur le sort de Louis. Quant à sa femme, vous la renverrez aux tribunaux, ainsi que toutes les personnes prévenues des mêmes attentats. Son fils sera gardé au Temple, jusqu’à ce que la paix et la liberté publique soient affermies». 13  M. de Robespierre, Sur la Constitution [10 mai 1793], in Œuvres, t. IX, pp. 494-510: pp. 501-502: «Fuyez la manie ancienne des gouvernements de vouloir trop gouverner; laissez aux individus, laissez aux familles le droit de faire ce qui ne nuit point à autrui; laissez aux communes le pouvoir de régler elles-mêmes leurs propres affaires, en tout ce qui ne tient point essentiellement à l’administration générale de la république. En un mot, rendez à la liberté individuelle tout ce qui n’appartient pas naturellement à l’autorité publique, et vous aurez laissé d’autant moins de prise à l’ambition et à l’arbitraire».

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radicalizzandosi durante l’anno II, un processo secondo il quale il governo rivoluzionario viene a definirsi, progressivamente, come l’unico interprete e l’unico promotore di un progetto di vita, definito dai protagonisti come giusto, virtuoso, felice, razionale. I mezzi per portare a compimento questo progetto finiranno per essere quelli terroristici. Tenendo presente la convinzione robespierriana che tutti i fini ultimi siano compatibili fra loro e, anzi, si implichino gli uni gli altri (monismo etico), è facile a questo punto comprendere come il terrore sia la logica risposta a delle conflittualità imprescindibili, interne alle società di ogni tempo, conflittualità non comprese nella loro realtà e viste, invece, come il segno tangibile dell’intervento attivo di una forza malvagia (i viziosi, i corrotti, i contro-rivoluzionari)14. Osservando il pensiero robespierriano da questa prospettiva, ritengo si possa affermare che, secondo l’autore, non esistano nella società forze che prescindano dalla volontà umana. La rivoluzione è, in questo senso, una lotta fra la volontà dei virtuosi e la «mauvaise foi»15 dei viziosi (si può scorgere chiaramente una visione manichea del mondo). Alla luce di questa fede nell’onnipotenza e onnipresenza della volontà non risulta strano che il governo rivoluzionario possa ergersi come nuovo Prometeo, portatore, per l’uomo, di un futuro migliore, legittimato in quanto unico vero interprete, nell’auto-rappresentazione dei protagonisti del governo rivoluzionario, della volontà popolare, l’unica vera fonte del potere16. È possibile approfondire l’analisi sullo sviluppo in chiave terroristica17 della rivoluzione, riflettendo su uno dei significati di libertà positiva presenti nel pensiero di Robespierre. La libertà come autonomia. Essere liberi  Cfr. anche Bodei, Geometria delle passioni, p. 409: «Questi uomini devono destreggiarsi all’interno di una logica antagonista e disgiuntiva, fondata su una rigida regola di esclusione, sull’aut-aut per cui ogni divergenza diventa tradimento, incomponibile inimicizia che esige decisioni o tagli immediati». 15   Sono 49 le occorrenze di mauvaise foi nel corpus degli 11 voll. 16   Per un primo orientamento sulla posizione di Robespierre nei confronti della sovranità popolare e sulle strategie adottate, cfr. G. Rudé, Robespierre, Roma, Editori Riuniti, 1981 (I ed. 1975), pp. 104 e sgg. 17  Come è noto, il Terrore, nelle parole di Robespierre, non è che una declinazione della virtù: cfr. Id., Sur les principes de morale politique qui doivent guider la Convention Nationale dans l’administration intérieure de la République [17 pluviôse an II, 5 févr. 1794], in Œuvres, t. X, pp. 350-367: «Si le ressort du gouvernement populaire dans la paix est la vertu, le ressort du gouvernement populaire en révolution est à la fois la vertu et la terreur: la vertu, sans laquelle la terreur est funeste; la terreur, sans laquelle la vertu est impuissante. La terreur n’est autre chose que la justice prompte, sévère, inflexible; elle est donc une émanation de la vertu; elle est moins un principe particulier, qu’une conséquence du principe général de la démocra14

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significa obbedire a leggi che ci si è dati. È questa l’accezione più ristretta della nozione di autonomia e come tale è riscontrabile nella produzione di Robespierre. Così interpretata coincide con la partecipazione politica. L’autonomia, però, come ha giustamente sottolineato Isaiah Berlin, può allargarsi nella direzione dell’autonomia del sé razionale, di un sé razionale superiore e contrapposto all’io empirico. La teorizzazione della rivoluzione come lotta tra virtù e vizio e le nozioni di ‘sospetto’ e ‘nemico del popolo’18 – di per sé e soprattutto per come vengono interpretate da Robespierre – implicano tale allargamento. In questo senso il governo rivoluzionario può anche definirsi apportatore di libertà (oltre che di felicità) in quanto miglior interprete, rispetto agli stessi individui, dei loro desideri e fini ultimi. Robespierre non arriverà mai ad affermare formalmente la legittimità di una dittatura; accusato, si difenderà con energia e convinzione19, ma, dal mio punto di vista, la sfiducia progressiva nei confronti del popolo e le affermazioni riguardanti la maggioranza e la minoranza all’interno del parlamento inglese sembrano portare, nella sostanza, verso soluzioni dittatoriali 20. Tornando al cuore dell’idea di felicità robespierriana, come si è già accennato più volte, essa è intimamente legata all’idea di virtù. Robespierre afferma nel Discours sur les peines infamantes del 1784: «La vertu produit le bonheur, comme le soleil produit la lumière»21. Ogni uomo – secondo lui – ha dentro di sé gli elementi per realizzare la propria felicità e quella del corpo sociale. In particolare egli afferma nel Discours au peuple réuni pour la fête de l’Être suprême (20 pratile anno II, 8 giugno 1794) che: «Il [l’Être suprême] a créé l’univers pour publier sa puissance; il a créé les hommes pour s’aider, pour s’aimer mutuellement, et pour

tie, appliqué aux plus pressants besoins de la patrie» (p. 357). Sul rapporto felicità-terrore nel pensiero di Robespierre, cfr. le recenti messe a punto di Vetter, A proposito di felicità. 18   Grazie alla pubblicazione del t. XI delle Œuvres (a cura di F. Gauthier) è possibile correggere le datazioni lessicografiche contenute in La felicità è un’idea nuova in Europa, pp. 323-324, da me redatte: «ennemi du peuple» (juin 1790), in Lettres de M. de Robespierre à M. de Beaumets, in Œuvres, t. XI, pp. 318-329: 321; «ennemis du peuple» (janv.-mars 1789), in À la Nation artésienne. Sur la nécessité de réformer les États d’Artois, ibidem, pp. 205-245: 221. 19  Cfr., per esempio, M. de Robespierre, Réponse à l’accusation de Louvet [5 nov. 1792], in Œuvres, t. IX, pp. 77-104; Id., Contre les factions nouvelles et les députés corrompus [8 thermidor an II, 26 juil. 1794], in Œuvres, t. X, pp. 542-586. 20  Cfr. C. Vetter, Dictature: les vicissitudes d’un mot. France et Italie (XVIIIe et XIXe siècles), nella rivista elettronica «Révolution Française.net, Mots», mis en ligne le 1er mars 2008: http://revolution-francaise.net/2008/03/01/212-dictature-vicissitudes-mot-france-italie-xviii-xix-siecles. 21   In Œuvres, t. I, p. 31.

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arriver au bonheur par la route de la vertu»22. La virtù – promossa dalla comunità politica – permette di creare una società felice. Ci sono da notare, però, alcune oscillazioni: in alcuni momenti Robespierre esprime l’idea che la virtù è connaturata all’uomo, in altri sembra che egli ritenga fondamentale, per lo sviluppo della virtù, l’educazione: «Régler sa vie, se plier au joug d’une exacte discipline, sont encore deux habitudes importantes au bonheur de l’être social. Elles ne peuvent se prendre que dans l’enfance; acquises à cet âge, elles deviennent une seconde nature»23. Ma che cosa intende Robespierre per virtù? La virtù è ciò che lega il cittadino ai suoi simili, alla patria, alle leggi. L’uomo virtuoso è, nel contempo, felice. La virtù civica o virtù pubblica è la madre di tutte le virtù. Essa è amore della patria, amore dell’uguaglianza, «préférence de l’intérêt public à tous les intérêts particuliers»24. È amore della patria, della Repubblica, della democrazia (i tre termini, nelle formulazioni più mature del pensiero robespierriano, si equivalgono). È «la force de l’âme», che rende il cittadino capace dei sacrifici per la patria, per la Repubblica, per la democrazia. La virtù civica/virtù pubblica promuove ed in essa si riflettono tutte le virtù: «l’amour de la patrie suppose encore ou produit toutes les vertus»25. Il discorso presenta chiaramente dei caratteri di circolarità. Un elenco delle virtù cui fa riferimento Robespierre nel corso della sua attività politica può fornire una buona esemplificazione di che cosa egli intenda con questa lessia. Considero particolarmente interessante distinguerle secondo il rapporto che hanno con la sfera pubblica e con la sfera privata. Le virtù pubbliche in rapporto allo Stato/alla politica sono: la bonne foi, le civisme, le courage, le désintéressement, l’héroïsme, la honnêteté, le patriotisme, la probité, la sagesse, le stoïcisme, l’union, l’amour de (pour) la patrie, l’amour de (pour) l’égalité, l’amour de (pour) la justice, l’amour de (pour) la liberté. Le virtù pubbliche in rapporto agli altri cittadini (virtù relazionali) sono: l’amitié, la charité, la générosité, la magnanimité, le respect, l’amour de (pour) l’humanité. Nella lista delle virtù pubbliche bisogna annoverare anche una virtù di guerra: la valeur. Anche il courage alle volte è espresso come una virtù di carattere militare.   Ibidem, t. X, p. 481.  M. de Robespierre, Sur le plan d’éducation nationale de Michel Lepeletier [29 juil. 1793], in Œuvres, t. X, pp. 10-42: 21. 24   Robespierre, Sur les principes de morale politique, p. 353. 25   Ibidem. 22 23

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Virtù che si possono considerare sia pubbliche che private (o in parte pubbliche ed in parte private) sono: le bon sens, la gloire, la modération, la patience. Le virtù private individuali sono: la candeur, la frugalité, la modestie, la naïveté, la pudeur, la temperance. Le virtù private con chiaro riferimento alla sfera domestica e familiare (virtù private relazionali) sono: la chasteté, la foi (o fidelité) conjugale, l’amour paternel, la tendresse (o l’amour) maternel(le), la piété filiale. Le virtù fanno parte del mondo interiore di ogni cittadino ma sono centrali (e si esplicitano) nella vita pubblica: nel rapporto dell’individuo con l’altro, la comunità e lo Stato. Nello stesso ambito interiore dell’uomo si collocano anche i sentimenti religiosi, basilari per la felicità del cittadino robespierriano (i quali presentano anch’essi una cifra di ‘utilità sociale’). Le sfere morale e religiosa dimostrano di avere molti punti di contatto. Nello stesso modo in cui la morale si rende esplicita attraverso il comportamento pubblico dell’uomo, anche la sfera religiosa deve rendersi esplicita. L’esempio macroscopico, oltre alla carità nei confronti dei propri simili, è la volontà di riunire tutto il popolo in una grande festa pubblica dedicata all’Essere Supremo, il 20 pratile anno II. Robespierre, personalmente, crede con fermezza all’esistenza di Dio e all’immortalità dell’anima. Ma ciò che è più importante – secondo lui – è che le due idee presentino dei vantaggi sia per l’individuo – come consolazione, come sprone alle virtù private, come supporto nei momenti difficili – sia per la comunità. Quindi è possibile affermare, senza forzare i testi, che la loro funzione a favore della comunità risulta essere preminente rispetto alla loro verità, sulla quale, in ogni caso, Robespierre non ha dubbi. Ciò è chiaro quando egli afferma: «Si Dieu n’existoit pas, il faudroit l’inventer»26. Alla luce della prospettiva religiosa, la felicità robespierriana dimostra di essere verosimilmente più che una felicità mondana, una felicità ultraterrena. Nelle parole di Robespierre, il dolore non può mai essere completamente espunto dalla condizione dell’uomo, ma le anime dei giusti e dei buoni (dei cittadini virtuosi) verranno ricompensate e troveranno la piena felicità, in quanto immortali, nella vita dopo la morte. L’atmosfera cui siamo rimandati è quella dei valori deisti, ma la fonte precipua può essere individuata nella Profession de foi du vicaire savoyard contenuta nell’Émile di Rousseau.

26  M. de Robespierre, Pour la liberté des cultes [1er frimaire an II, 21 nov. 1793], in Œuvres, t. X, pp. 193-201: 197.

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Va sottolineato, sia pure di sfuggita, che le questioni di cui si è parlato ora devono essere distinte dal fenomeno della sacralizzazione della politica, presente anch’esso nella produzione robespierriana. Esemplificazioni lessicali si possono individuare in espressioni come: amour sacré de la patrie, saint amour de la patrie, Sainte Montagne. Pur avendo una forte connotazione sociale, gli aspetti trattati finora sono quelli maggiormente legati a una dimensione intima, individuale del progetto di felicità che Robespierre intende realizzare. Affrontando ora il discorso da un altro punto di vista, si vedrà che alcune declinazioni riguardanti il lato materiale dell’esistenza risultano essere allo stesso modo importanti per delineare la felicità del cittadino robespierriano. Come ho già accennato, sul piano economico Robespierre non segue il percorso dei fisiocratici, degli Idéologues alla Condorcet, o della nascente economia politica che si ispira a Smith, i quali affermano che la virtù economica risiede nell’espansione, in maniera continua ed illimitata, del mercato e della quantità totale di ricchezza 27. Diversamente egli crede che l’aisance, l’abondance, la prospérité siano entità statiche e che solamente la cattiva distribuzione dei beni implichi la povertà diffusa. L’assunto di fondo è che «le sol de la France produit beaucoup au-delà de ce qui est nécessaire pour nourrir ses habitans»28. Queste affermazioni mettono in risalto un tratto fortemente antimoderno del progetto economico di Robespierre, tratto che viene confermato anche dal dato lessicale. Le parole-chiave della nascente economia politica (divisione del lavoro, mercato, produzione) sono, infatti, poco presenti nelle Œuvres e mantengono sempre un significato generico. Altra conferma viene dalla declinazione che Robespierre dà alla nozione di progresso, la quale non viene connotata da elementi riconducibili alla sfera economica, ma si rivolge soprattutto alle dimensioni morale, politica e sociale dell’esistenza. Nella pratica, la dimensione economica della felicità del cittadino – il bien-être – ha il suo limite verso il basso nel diritto all’esistenza e nella soddi-

  In merito, cfr. La guerre du blé au XVIIIe siècle. La critique populaire contre le libéralisme économique au XVIIIe siècle, Montreuil, Les éditions de la passion, 1988; F. Gauthier, Robespierre critique de l’économie politique tyrannique et théoricien de l’économie politique populaire, in De la Nation artésienne à la République et aux Nations. Actes du colloque (Arras, 1-3 avril 1993), Lille, Centre d’Histoire de la Région du Nord et de l’Europe du Nord-Ouest, Université Charles de Gaulle-Lille III, 1994, pp. 235-243. 28  M. de Robespierre, Sur les subsistances [2 déc. 1792], in Œuvres, t. IX, pp. 109-120: pp. 110 e 118. 27

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sfazione dei bisogni vitali primari, i confini verso l’alto si stemperano in un ideale di vita sobria e frugale. Il cittadino di Robespierre trova la felicità nel consumo di beni materiali essenziali, non è alla rincorsa di consumi sempre maggiori e sempre più confortevoli e raffinati. Il lusso e la ricchezza rimangono elementi corruttori, generatori di vizi. Il cittadino robespierriano è, invece, produttore e consumatore, soprattutto, di beni relazionali (rapporti sociali virtuosi sinceri e genuini)29. Socialmente il cittadino robespierriano è descritto come un piccolo produttore indipendente (un artisan, un laboureur), un piccolo commerciante onesto (un boutiquier patriote), un salariato (salarié, prolétaire). Egli può, attraverso il lavoro, soddisfare le necessità fondamentali della vita, in primo luogo il diritto alla sussistenza. La comunità in cui vive (comunità egualitaria anche se non egalitarista) è bastata sui valori della fratellanza e della solidarietà. È una comunità in cui la politica interviene riducendo le disuguaglianze eccessive e assicurando a tutti lavoro, istruzione, tutela di fronte alla malattia e alla vecchiaia. A questo proposito gli articoli del Progetto di Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino dell’aprile 1793 risultano essere molto significativi 30. È una comunità dove il bonheur dovrebbe essere «partagé, frugal (…) accessible à tous»31.

  Sulla nozione di beni relazionali si rinvia a Felicità ed economia. Quando il benessere è ben vivere, a cura di L. Bruni e P.L. Porta, Milano, Edizioni Guerini e Associati, 2004; L. Bruni, L’economia la felicità e gli altri. Un’indagine su beni e benessere, Roma, Città Nuova, 2004, in particolare pp. 102-105; L. Bruni e S. Zamagni, Economia civile. Efficienza, equità, felicità pubblica, Bologna, Il Mulino, 2004. 30  Cfr.  Déclaration des droits de l’homme et du citoyen proposée par Maximilien de Robespierre [24 avril 1793], in Œuvres, t. IX, pp. 463-469: «Art. X: La société est obligée de pourvoir à la subsistance de tous ses membres, soit en leur procurant du travail, soit en assurant les moyens d’exister à ceux qui sont hors d’état de travailler. Art. XI: Les secours indispensables à celui qui manque du nécessaire sont une dette de celui qui possède le superflu: il appartient à la loi de déterminer la manière dont cette dette doit être acquittée. Art. XII: Les citoyens, dont les revenus n’excèdent point ce qui est nécessaire à leur subsistance, sont dispensés de contribuer aux dépenses publiques. Les autres doivent les supporter progressivement, selon l’étendue de leur fortune. Art. XIII: La société doit favoriser de tout son pouvoir les progrès de la raison publique, et mettre l’instruction à portée de tous les citoyens» (pp. 465-466). 31   Questi termini vengono usati da Jean Bart in riferimento alla formula ‘bonheur commun’, presente, come è noto, nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1793. Cfr. J. Bart, Le but de la société est le bonheur commun, in Les déclarations de l’an I, Paris, Puf, 1995, pp. 133-143: 136. 29

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Le opzioni sociali proposte da Robespierre sono, in definitiva, molto vicine a quelle che si possono riscontrare in alcuni documenti della sanculotteria. Sono in sintonia con le istanze egualitarie della sensibilità popolare32. Dal concetto di felicità robespierriano non può essere espunta la dimensione politica, la quale si realizza, fondamentalmente, attraverso l’esercizio della sovranità popolare. Nel concreto, attraverso il voto, la partecipazione alla vita delle sezioni e delle società popolari, il controllo dei «mandataires», il diritto di petizione, l’inclusione nei ranghi della Guardia Nazionale e – in estrema ratio – il diritto di insurrezione. Rientrano all’interno della dimensione politica della felicità del cittadino i temi della république, della démocratie e della patrie, nozioni che, nel rapporto Sur les principes de morale politique del 17 piovoso anno II (5 febbraio 1794), vengono fondamentalmente identificate. È interessante altresì sottolineare come prima di questo discorso il termine democrazia stenti ad entrare nel lessico politico robespierriano, influenzato dall’uso fondamentalmente negativo che ne fa Rousseau. Ai termini patria, repubblica, democrazia, Robespierre contrappone il despotisme, il cui significato non ha più alcun riferimento alla tipologia delle forme di governo elaborata da Montesquieu. Il dispotismo – nel lessico robespierriano – viene ad indicare non solo ogni potere che non ha legittimità nella sovranità popolare, ma anche ogni potere nemico della morale. In estrema sintesi si può affermare che l’assimilazione che Robespierre fa tra repubblica e democrazia risulta essere un’originale saldatura di spunti provenienti da Rousseau e da Montesquieu. Da Rousseau Robespierre prende l’idea che la sovranità spetta unicamente ed esclusivamente al popolo. Rifiuta – nei risultati ultimi della sua teorizzazione – la definizione di democrazia proposta nel Contratto sociale. Da Montesquieu mutua le caratteristiche della democrazia, indicandola – in base al criterio rousseauiano della sovranità – come unica forma legittima di governo e quindi come unica forma che può assumere la république. In merito alla patrie, infine, Robespierre – come lo stesso Rousseau in molti suoi scritti e in piena sintonia con la tradizione repubblicana – propone un’interpretazione politica e non culturale o etnica. Nel campo semantico di patrie è fondamentale il nesso con la liberté. La liberté rende la patrie una nation.

32   Secondo Thuriot, La conception robespierriste du bonheur, p. 223, è dalla prima metà del 1793 che l’idea robespierriana di ‘bonheur public’ acquista un contenuto sociale forte. In precedenza avrebbe avuto principalmente un contenuto politico-istituzionale.

Parte Terza ragione, morale, natura

Jean Ferrari Le bonheur chez Kant

Je veux d’abord remercier vivement les organisateurs de ce colloque en particulier Anna-Maria Rao et Alberto Postigliola d’avoir invité un collègue qui s’exprime en français et propose une communication sur un philosophe allemand dont le rigorisme en morale paraît peu compatible avec la recherche du bonheur qui a motivé le XVIIIème siècle. N’y a–t-il pas là chez Kant lui-même un paradoxe dans la mesure où il fut l’un des plus illustres représentants des Lumières. Son opuscule de 1786, Réponse à la question: qu’est-ce que les Lumières?, a été et demeure à nos yeux la charte de ce mouvement qui a donné son nom à l’entier de la période. La sévérité de sa morale, qui en fait un adversaire de la libération des mœurs, paraît en totale opposition avec l’esprit de liberté, pour ne pas dire de libertinage, qui caractérise le XVIIIème siècle. Comme l’écrit Jean Starobinski dans son livre, L’invention de la Liberté: «Le libertinage (…) représente l’une des expériences possibles de la liberté; il procède d’une insoumission de principe sans laquelle, d’autre part, le travail sérieux de la réflexion n’aurait pu se développer. Ce siècle (du moins chez ses représentants les plus qualifiés) se voulait libre pour la chasse au bonheur comme pour la conquête de la vérité. Libre jouissance, mais aussi libre examen»1. Le libre examen constamment revendiqué par Kant paraît en contradiction avec les principes de sa morale. La question du bonheur permet, me semble-t-il, d’éclairer ce dilemme et de montrer à la fois l’importance et la riche complexité de l’idée de bonheur chez Kant. C’est à coup sûr dans l’œuvre même, par delà les clichés que ses adversaires ont voulu imposer à la postérité, qu’il faut rechercher les lieux où apparaissent cette idée et le rôle qu’elle joue à différents points cruciaux de la doctrine. D’emblée se distinguent les vues qui relèvent de l’éthique par lesquelles je commencerai et celles de l’anthropologie que Kant publiera tout

  J. Starobinski, L’invention de la liberté, Genève, Skira, 1964, p. 10.

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à la fin de sa vie. Concernant le bonheur, le Bien, la langue allemande dispose d’un nombre élevé de termes qui permettent de fines différenciations dont Kant s’est lui-même félicité2. Evoquer l’arbre sémantique du bonheur chez Kant, c’est déjà entrer dans les concepts principaux de sa morale qu’il faut d’abord éclairer pour comprendre la place qu’y occupe le bonheur. Qu’est-ce que le Bien, das Gute, qu’est-ce qui est bien? Rien, pour Kant, de ce qui relève de l’utilité, ni entretient un rapport quelconque avec la réussite d’une action, la recherche du bonheur ou même de la perfection. Seule est absolument bonne la volonté d’agir, non pas conformément au devoir, mais par devoir. La raison pratique pose le Bien comme quelque chose qui vaut inconditionnellement pour tout être raisonnable. Et la bonne volonté est bonne en elle-même par sa seule intention d’agir par devoir. «Elle est [dit Kant] non pas l’unique Bien, mais le Bien suprême [das höchste Gut] condition dont dépend tout autre bien, même toute aspiration au bonheur [nach Glückseligkeit]»3. Le Bien ainsi entendu comme Gut ne saurait se confondre avec le Bien comme Wohl qui désigne le bien-être et une certaine forme de bonheur qu’il n’est pas interdit de rechercher4. Mais le Bien, das Gut, ne saurait être lié de quelque manière que ce soit à la sensibilité et au plaisir. La loi morale pratique, seule, par ses caractères de nécessité, d’universalité, d’autonomie, détermine a priori, la valeur ‘bonne’ d’une action qui a pour maxime l’obéissance au devoir formellement entendu. D’où les distinctions bien connues entre l’impératif hypothétique, impératif de prudence, qui subordonne une fin à des moyens à mettre en œuvre, et l’impératif catégorique qui oblige absolument et conduit aux maximes de l’action qui lui est soumise: par exemple: «Agis toujours comme si la maxime de ton action devait être érigée par ta volonté en loi universelle de la nature»5. L’on conçoit aisément ici que les idées que chacun se fait du bonheur sont si diverses qu’aucune ne conviendrait universellement. Surtout, tout ce qui s’introduirait, dans l’intention morale, comme fin sensible ou rationnelle, en corromprait la valeur au point que – Kant l’envisage – peut-être aucune action n’a encore été faite par pure bonne volonté. Reste que le jugement:  «Il n’y a de véritablement

2   I. Kant, Critique de la raison pratique, in Œuvres philosophiques, sous la direction de F.Alquié, Paris, Bibliothèque de la Pléiade, 3 voll., 1980-1985, vol. II, p. 680. 3   I. Kant, Fondements de la métaphysique des mœurs, in Œuvres philosophiques, vol. II, p. 254. 4   Kant, Fondements de la métaphysique des mœurs, p. 257. 5   Ibidem, p. 285.

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bon que la bonne volonté»6 demeure pour Kant un fait de raison universellement reconnu. Toutefois, dans sa forme la plus haute: la pure volonté morale d’agir par devoir, c’est-à-dire en définitive par vertu, l’idée de Bien est-elle épuisée? Non, car, avec cette faculté de désirer supérieure, l’homme possède aussi une faculté de désirer inférieure, déterminée par des mobiles empiriques comme l’idée que chacun se fait du bonheur avec les plaisirs sensibles et intellectuels qui en sont inséparables. Au paragraphe 83 de la Critique de la Faculté de juger, Kant reconnaît que le bonheur est la fin naturelle dernière de l’homme, même si la nature ne l’a pas privilégié à cet égard comme le montrent toutes les catastrophes naturelles qui s’abattent sur lui, tremblements de terre, cyclones, épidémies, et la perversion de sa propre nature qui l’entraîne vers des malheurs pires encore. Kant écrit: qui plus est l’absurdité de sa nature le transporte dans des maux qu’il s’invente luimême, et le plonge, avec ses semblables, par l’oppression de la tyrannie, la barbarie des guerres, etc., dans une telle détresse, et lui-même travaille tellement (…) à la destruction de sa propre espèce, que, même avec la plus bienveillante nature en dehors de nous, la fin de celle-ci, à supposer que cette fin soit le bonheur de notre espèce, ne pourrait pas être atteinte sur terre par un système de la nature, parce que la nature en nous n’y est point prédisposée7.

Toutefois, l’homme étant le seul être de la nature, parce que doué d’entendement et de volonté, capable de se donner à lui-même ses propres fins et de plier la nature à celles-ci par la culture, ne saurait renoncer à son aspiration au bonheur. Le bonheur serait, selon l’une des définitions qu’en donne Kant, «la satisfaction de toutes nos inclinations (tant extensives quant à la variété, qu’intensive quant au degré et aussi protensive quant à la durée)»8. Ainsi entendu, le bonheur serait inatteignable sur cette terre, mais il demeure le mobile principal de ce que Kant appelle la loi pragmatique, principe empirique de prudence qui enseigne par l’expérience quelles sont les inclinations à satisfaire et les moyens naturels pour atteindre cette satisfaction. A l’évidence cette loi entre en conflit fort souvent avec la loi morale qui nous commande la manière dont nous devons nous conduire pour être vertueux et Kant ajoute: «pour devenir ainsi digne du bonheur»9. C’est dire que le bonheur, s’il n’est pas la fin absolue, demeure une fin qu’on peut sup  Kant, Fondements de la métaphysique des mœurs, p. 250.   I. Kant, Critique de la faculté de juger, in Œuvres philosophiques, vol. II, p. 1233. 8   I. Kant, Critique de la raison pure, in Œuvres philosophiques, vol. I, p. 1366. 9   I. Kant, Sur le lieu commun: il se peut que ce soit juste en théorie ; mais en pratique, cela ne vaut rien, in Œuvres philosophiques, vol. III, p. 256. 6 7

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poser être effectivement poursuivie par nécessité naturelle: «être heureux est nécessairement ce que réclame tout être raisonnable mais fini; c’est donc aussi un motif déterminant inévitable de la faculté de désirer»10. Kant ne demande donc pas que l’on renonce au bonheur, «à cette conscience qu’a un être raisonnable de l’agrément de la vie, conscience qui accompagne sans interruption toute son existence»11 et le terme employé est toujours Glückseligkeit. Ce peut être même une sorte de devoir «que de songer à son bonheur car, d’une part le bonheur auquel appartiennent l’habileté, la santé, la richesse, donne des moyens de remplir son devoir, et d’autre part, la privation du bonheur (par exemple la pauvreté) est source de tentations d’y manquer»12. Dès lors «la raison pratique ne demande pas qu’on renonce à toute prétention au bonheur, mais seulement que, dès qu’il s’agit de devoir, on ne le prenne point en considération»13. En ce qui concerne l’intention morale, certes, mais, puisque la vertu nous rend digne d’être heureux, n’y aurait-il pas absurdité pour la loi morale elle-même que le bonheur soit posé sans aucun rapport avec la vertu, comme un idéal jamais réalisé? C’est ici qu’intervient une exigence rationnelle que Kant appelle un intérêt de la raison et qui s’exprime par l’idée du Souverain Bien, Höchstes Gute. Kant en reprend l’idée aux morales antiques, malgré les ricanements de Voltaire qui écrit dans La Raison par l’Alphabet: «L’Antiquité a beaucoup discuté sur le souverain bien; autant aurait-il fallu demander ce que c’est que le souverain bleu ou le souverain ragoût, le souverain marcher, le souverain lire, etc.»14. Kant l’entend dans un sens nouveau. Il s’agit d’une idée a priori, universelle et nécessaire, dont on pourrait trouver cependant un écho dans l’expérience avec le scandale que représente pour la raison l’homme vertueux en condition de malheur, et le méchant en condition de bonheur. Ni la vertu seule, ni le bonheur ne font le Bien suprême qu’il est permis d’espérer si la conduite a répondu aux exigences de la loi morale. Ainsi le souverain Bien est un idéal de la raison pure pratique par lequel nous lions le bonheur et la vertu, presque toujours en opposition dans l’expérience morale caractérisée par son combat contre les inclinations sensibles que Kant appelle pathologiques. Il rejette donc à la fois la morale d’Epicure et le plaisir comme sa fin suprême, et la sagesse des Stoïciens pour lesquels la   Kant, Critique de la raison pratique, p. 635.   Ibidem, p. 631. 12   Ibidem, p. 721. 13   Ibidem. 14  Voltaire, La raison par l’alphabet, s. l., 1776, p. 82. 10 11

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vertu seule assure le bonheur, comme si l’homme pouvait être heureux dans le taureau de Phalaris. Or une telle liaison de cause (la vertu) à l’effet (le bonheur) n’est pas au pouvoir de cet être raisonnable, mais fini, qu’est l’homme15. Elle le serait sans doute de la part d’un vouloir parfait qui aurait en même temps la toute-puissance. C’est pourquoi cette exigence rationnelle du Souverain Bien, sans l’existence duquel la loi morale perdrait toute signification, conduit chez Kant aux postulats de la raison pratique que sont l’existence de Dieu et l’immortalité de l’âme. L’on pense ici à la Profession de foi du vicaire savoyard: «Quand je n’aurais d’autre preuve de l’immortalité de l’âme que le triomphe du méchant et l’oppression du juste en ce monde, cela seul m’empêcherait d’en douter»16. C’est par l’idée du bonheur, composante essentielle du Souverain Bien, que s’imposent les postulats de la raison pratique et que s’ouvre un accès à la métaphysique, refusé jusque là à la raison théorique. A s’en tenir, comme nous l’avons fait jusqu’ici, à l’éthique kantienne, deux idées du bonheur ont été dégagées, la première est celle d’un idéal inatteignable ici-bas, et cependant nécessaire qui fait partie de ce Summum Bonum auquel nous aspirons et dont la vertu nous rend digne, et la seconde, comme une très lointaine image de la première, sans connotation morale, désigne l’état agréable que donnent les plaisirs sensibles et intellectuels tant chez ceux qui sont favorisés par la fortune (le terme est ici Glück) que pour ceux qui savent au mieux utiliser les dispositions de leur nature. C’est cette dernière forme de bonheur qui fait l’objet de l’anthropologie que Kant appelle pragmatique parce qu’elle «explore ce que l’homme, être libre de ses actes, fait ou peut et doit faire de lui-même»17. L’intérêt de la perspective kantienne est ici de reprendre l’opposition entre vertu et bonheur, mais avec l’intention de la dépasser et d’en trouver la meilleure combinaison possible dans les relations sociales. S’il existe des devoirs envers soi-même comme par exemple l’estime de soi en tant qu’être rationnel habité par la loi morale, il y a des devoirs envers autrui comme de contribuer, autant qu’il se peut, à son bonheur. Il s’agit donc ici d’accorder l’agrément de la vie, Wohlleben, que chacun apprécie à sa manière et une forme de vertu que ne s’y oppose pas. C’est ce que Kant appelle l’humanité,   Kant, Critique de la raison pratique, p. 742.   J.-J. Rousseau, Emile, in Œuvres complètes, 5 voll., sous la direction de B. Gagnebin et M. Raymond, Paris, Bibliothèque de la Pléiade, 1969, vol. V, p. 589. 17   I. Kant, Anthropologie d’un point de vue pragmatique, in Œuvres philosophiques, vol. III, p. 939. 15 16

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Humanität, c’est-à-dire «une orientation de pensée qui unit le bien-vivre et la vertu dans le commerce du prochain»18. Il en résulte «la jouissance d’un bonheur policé [Genuss der gesitteten Glückseligkeit]» hautement estimable19. Il est clair qu’ici la vertu qui compose avec le bonheur a un autre visage que celui de la raison pure pratique, illustrée par la mise en scène dramatique d’un gibet que l’homme vertueux se doit de choisir plutôt que de porter un faux témoignage20. Ici le bonheur recherché n’est plus celui du Souverain Bien, mais l’effet d’une sagesse qui naît du contentement de soi, Selbstzufriedenheit, et du plaisir que donnent les relations sociales lorsqu’elles sont inspirées par l’amour et le respect du prochain. Kant examine alors diverses circonstances de la vie où peut s’éprouver cet équilibre délicat entre le bien-vivre en société et la vertu ainsi comprise. Il évoque la musique, le jeu, la danse pour s’attarder enfin longuement sur le repas, en donnant des règles très précises de son déroulement, ce qui indique, comme l’ont rapporté ses biographes, une longue pratique en la matière: «Le bien-vivre qui semble encore le mieux [am besten] s’accorder à cette humanité est un bon repas pris en bonne compagnie [eine gute Mahlzeit in guter Gesellschaft]»21 et il ajoute dans une parenthèse, «si possible porteuse de diversité». Nous sommes loin du portrait souvent présenté du philosophe solitaire et maussade. Kant dit même ici que «manger seul est malsain pour le savant qui philosophe»22. A travers les descriptions qu’il donne de ce repas dont le nombre de convives ne doit pas être inférieur à celui des Grâces ni supérieur à celui des Muses, de fines analyses mettent en relief les divers ingrédients de la réussite: la qualité culinaire des mets et des vins certes, mais le mélange des professions et des sexes qui provoquent des conversations dont «le plaisir pris en compagnie est si profitable à la culture morale même, la confiance régnant entre les convives, l’entrain de la compagnie, le respect et la bienveillance réciproques»23, et Kant de conclure: Si insignifiantes que puissent paraître ces lois de l’humanité raffinée, surtout lorsqu’on les compare avec celles de la pure moralité, tout ce qui favorise la sociabilité, fût-ce sous la simple forme de maximes et de manières plaisantes, n’en est pas moins pour la vertu un habillement avantageux qu’il convient de lui recommander,

  Kant, Anthropologie d’un point de vue pragmatique, p. 1093.   Ibidem. 20   Kant, Critique de la raison pratique, p. 643. 21   Kant, Anthropologie d’un point de vue pragmatique, p. 1094. 22   Ibidem, p. 1095. 23   Ibidem, p. 1097. 18 19

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même dans une perspective sérieuse. Le purisme du cynique et la macération de l’anachorète, coupés du bien-vivre social, sont des caricatures de la vertu qui n’engagent pas à sa pratique24.

Telle est la forme kantienne de la felicità privata qui n’a pas toujours été prise en considération dans l’œuvre de Kant, tant a longtemps prévalu le rigorisme de sa morale. Resterait à s’interroger sur la présence du thème de la felicità privata dans ses travaux de philosophie politique. Rares sont les textes où Kant évoque le bonheur futur de l’humanité, futur car, pour le présent, Kant ne voit que les effets funestes de la folie des hommes. Dans l’Anthropologie d’un point de vue pragmatique, il loue ces esprits raisonnables et cultivés qui, au milieu des guerres, présentent au genre humain «pour les siècles à venir, la perspective d’un état de bonheur [Glückseligkeitzustand] qui ne connaîtra pas de retour en arrière»25. Sans doute le bonheur du genre humain est compris, au moins d’une manière implicite, dans le progrès des Lumières auquel Kant était tellement attaché. Mais il n’est jamais donné dans son œuvre comme la fin ultime de l’histoire. Le progrès va vers le mieux [zum Besseren] qu’il prophétise dans le Conflit des Facultés et dont il voit le signe dans le jugement porté par ses contemporains sur la Révolution française26, s’énonce à travers les concepts cardinaux de sa philosophie politique: liberté, égalité, soumission à la loi, assurée par la constitution républicaine à l’intérieur des Etats et, à l’extérieur, établissement d’un droit des gens et d’un droit cosmopolitique qui, universellement reconnus, assureront la paix perpétuelle, condition du progrès moral de l’humanité. Ainsi le bonheur ne se décrète pas par des lois. Il ne fait pas partie du vocabulaire politique de la Doctrine du Droit de Kant, ni d’ailleurs du Contrat social de Rousseau, même si ce dernier a consacré quelques fragments politiques au bonheur public. Que serait la félicité publique? Faudrait-il faire la somme des petits bonheurs de chaque citoyen ou lui trouver des signes comme la prospérité et la multiplication des naissances, comme semble le dire Rousseau dans le Contrat social? L’on pourrait sans doute transposer à la société ce que disait Kant de la nature: même la plus bienveillante et la plus puissante nature ne saurait satisfaire tout le monde, tant les souhaits de bonheur sont différents parmi les hommes. Il y aura toujours des heureux et de mécontents.

  Kant, Anthropologie d’un point de vue pragmatique, p. 1097.   Ibidem, p. 1092. 26   I. Kant, Le conflit des facultés, in Œuvres philosophiques, vol. III, p. 894. 24 25

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Par contre, Kant, comme l’avait fait Rousseau avant lui, a énoncé, ce qui me paraît le plus important, les conditions de possibilité du bonheur civique en dénonçant les causes des malheurs publics: l’inégalité, la tyrannie, les guerres, qui doivent disparaître, non pas d’un coup comme chez Rousseau, mais par des réformes successives des Etats et de leurs rapports, en marche vers les Lumières. Tel était, dans le camp des Anti-Lumières, le point de vue d’un auteur, l’abbé Gros de Besplas dont l’ouvrage, signalé par Mauzi, Les causes du bonheur public 27, aurait pu faire l’objet d’une communication lors de ce colloque. Il s’agissait, pour cet auteur peu connu, de réunir toutes les conditions pour assurer aux peuples un bonheur qu’il appartenait aux seuls gouvernants de leur octroyer. L’analyse de tout ce qui concourt au bonheur public le conduisait à prôner une réforme générale des sociétés et de la conduite des princes qui les gouvernent, la finalité de toute société bien gouvernée étant le bonheur de tous. J’en termine ici. J’ai tâché de montrer que la question du bonheur chez Kant était moins simple qu’il n’y paraissait d’abord, que son concept se déclinait selon des registres différents mais qu’en tous cas, il jouait, tant dans l’éthique que dans l’anthropologie, un rôle déterminant. Kant reconnaît que le désir de bonheur est commun à tous les hommes, même si chacun l’entend de manière différente. Elle est d’abord une idée de l’imagination à laquelle se plie l’entendement pour tenter de la satisfaire. Mais c’est aussi une idée de la raison pure pratique dans sa pensée du Souverain Bien: la raison exige cet accord ultime entre la vertu et le bonheur et énonce les postulats de la raison pratique sans l’espérance desquelles la loi morale deviendrait absurde. Enfin, si l’idée de bonheur dans sa définition idéale ne saurait se réaliser dans aucune expérience, elle a une sorte de substitut dans ce que Kant appelle ‘l’humanité’. C’est alors une autre image du philosophe de Königsberg qui apparaît, attentif aux conditions concrètes de l’existence humaine dans la communauté des vivants, à travers cet éloge du ‘bien vivre ensemble’, accord réussi des exigences de la nature et des progrès de la culture, qui, en définitive, est favorable à la moralité.

27   J.-M. Gros de Besplas, Les causes du bonheur public, ouvrage dédié à Monseigneur le Dauphin, Paris 1768.

Bartolo Anglani Felicità e infelicità di Giammaria Ortes*

La caratteristica principale dell’opera di Giammaria Ortes sta nella scissione fra teoria e prassi, o meglio nella negazione assoluta della prassi, e nella nozione di sapere negativo che ne risulta. La scienza, per Ortes, non può migliorare il mondo e nemmeno produrre qualche modificazione concreta ed utile di esso, ma può e deve dissolvere criticamente le illusioni e le immaginazioni fallaci degli uomini, con procedimenti che possono ricordare la «critica dell’ideologia» di Marx. L’accostamento tra il pensatore tedesco e l’abate veneziano è meno antistorico di quanto si possa pensare se si ricorda che Marx, dopo aver letto l’Economia nazionale di Ortes nella raccolta Custodi mentre preparava il primo libro del Capitale, osservò che l’economista veneziano era «scrittore originale e intelligente» e che quelle teorie sul rapporto tra ricchezza e popolazione delineavano lucidamente «l’antagonismo della produzione capitalistica come legge universale di natura della ricchezza sociale». Del testo ortesiano, in particolare, Marx sottolineò la frase in cui l’autore sperava di «meritar qualche lode, se in luogo di progettar sistemi inutili per la felicità de’ popoli» si limitava «a investigare la ragione della loro infelicità» (Economia, p. 52). La raccolta Custodi conteneva gli scritti dei maggiori scrittori italiani di economia politica (Galiani, Verri, Carli, Genovesi), tutti in vari modi ispirati a un rapporto tendenzialmente organico tra la riflessione teorica e la prassi e in particolare, per il tema che ci interessa, impegnati a indagare le forme concrete con le quali realizzare

*  Abbreviazioni dei titoli delle opere di Giammaria Ortes citate: Calcolo = Calcolo sopra la verità dell’istoria e altri scritti, a cura di Bartolo Anglani, Genova, Costa & Nolan, 1984; Costituzioni = Delle diverse costituzioni nazionali, a cura di Maurizio Bazzoli, Milano, FrancoAngeli, 2004; Economia = Della economia nazionale. Delle scienze utili e delle dilettevoli per rapporto alla felicità umana, a c. di Oscar Nuccio, Milano, Marzorati, 1970. Alcune pagine di questo intervento, e in particolare quelle conclusive, sono riprese dalla mia Introduzione a Calcolo.

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o per lo meno perseguire la felicità pubblica: una felicità che non era più un’utopia astratta ma un modello concreto per i governi e un’aspirazione altrettanto concreta per i popoli. Ortes, solo fra tutti, partiva dal rifiuto netto di ogni rapporto possibile fra la scienza economica e la politica, e sosteneva che il compito della filosofia non poteva essere quello di illudere gli uomini con i miti della felicità possibile ma quello di disingannarli e di spiegar loro le ragioni dell’infelicità. Ammaestrati dalle dure lezioni della storia, oggi possiamo permetterci di osservare a nostra volta che, se avesse tenuto sempre presenti queste obiezioni alla scienza positiva della felicità, Marx avrebbe evitato di costruire un edificio utopico e millenaristico pieno di buone intenzioni ma del tutto irrealizzabile. E se Ortes avesse potuto leggere le opere di Marx, certamente avrebbe scaricato sul Manifesto il peso dei suoi sarcasmi e l’avrebbe ricompreso nel numero delle illusioni dalle quali il vero scienziato dovrebbe disingannare gli uomini, ma avrebbe considerato Il Capitale un’opera fondamentale di critica e di svelamento delle false illusioni umane. Si tratta di una immaginazione anacronistica e paradossale, naturalmente, alla quale ci lasciamo andare per qualche istante, mentre sul piano della storia delle idee rimaniamo fermi al fatto che Marx avvertì la densità e la pregnanza dei paradossi ortesiani e ne conservò la traccia nelle pagine del suo opus magnum, anche se si guardò bene dall’accettare integralmente il succo teorico che essi secernevano implacabilmente. Se li avesse fatti propri sino in fondo, egli avrebbe dovuto concludere che la scienza è inutile, e che inutile in particolare è quella branca del sapere che si chiama economia politica. Pur praticandola, o proprio perché la praticava da maestro, Ortes sapeva bene che le sue stesse riflessioni non potevano avere alcun effetto su un mondo in cui la prassi degli intellettuali e dei governi era ispirata al «falso»: che cioè le sue «dottrine economiche» erano «certe in se stesse» ma erano «impossibili a praticarsi, attesa la pratica di essa economia già per lungo uso e per vizio comune depravata e stravolta»1. Per conoscere l’origine di una posizione tanto netta bisognerà fare qualche passo indietro e tornare all’Ortes relativamente giovane che, sotto il motto «Chi mi sa dir s’io fingo?», sottopone a «calcoli» matematici probabilistici alcuni temi fondamentali del sapere, come i giochi, la storia, i vizi e le virtù e, appunto, i beni e i mali ossia la felicità e l’infelicità. Il rifiuto della   Copia di lettera scritta addì 29 gennaio 1785 ai signori Novellisti Letterari di Firenze, l’autore del libro de’ Fedecommessi, non stampato in Venezia e non pubblicato: edita a parte, come foglio volante, a Venezia, in risposta ad un articolo delle «Novelle Letterarie» del 17 dicembre 1784; in Collezione Custodi, Scrittori classici di economia politica. Parte moderna, t. xxvii, Milano, 1804, pp. 398-400. 1

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felicità come orizzonte concreto e possibile dell’umanità nasceva in Ortes non certo da motivazioni religiose o morali ma da «calcoli» integralmente materialistici. L’abate non era certamente un asceta nemico dei piaceri, se si pensa alla sua passione per la musica, per la letteratura e per il teatro. Come scrive nel Calcolo sopra il valore dell’opinioni (1754), «ogni uomo per natura è portato al piacere de’ sensi», e «ogni uomo ancor bambino, mosso dal desiderio, stende la mano a quell’oggetto ch’egli giudica fra tutti il più atto a soddisfarlo» (Calcolo, p. 122). Ma, mentre la maggior parte dei filosofi sviluppa da questa asserzione delle teorie coerentemente materialistiche, Ortes ne conclude che proprio nell’aspirazione innata degli uomini al piacere si annida la radice dell’infelicità. I rapporti tra gli uomini, ciascuno dei quali tende al proprio godimento, sono regolati necessariamente dalla forza e dal timore. Procedendo dai rapporti a due ai rapporti a tre fino ai rapporti complessi della società, il piacere diventa sempre più un oggetto misterioso e inattingibile in un mondo paralizzato dai desideri contrastanti di ciascuno: Ma se [gli uomini] saran moltissimi, per quanto uno sia più forte dell’altro tolti separatamente, ciascun d’essi sarà ugualmente forte che l’altro paragonati entrambi alla forza unita di tutti. Il timor pure di ciascheduno uguaglierà il timore di ciascun altro, per esser questo timore proporzionale alla forza di tutti paragonata alla forza di ciascheduno. Essendo dunque tutti ugualmente forti e ugualmente timidi, nessuno contrasterà l’altro, ma l’arbitrio sulla scelta degli oggetti piacevoli resterà indeciso e nessuno conseguirà il piacere a cui dalla natura è invincibilmente portato (Calcolo, p. 123).

Da questa impasse l’umanità può uscire, illusoriamente, con lo strumento dell’Opinione, che è «tanto necessaria alla società» quanto è «inseparabile dagli uomini l’inclinazione al piacere». Grazie all’opinione, che è un modo premarxiano di definire l’ideologia, sembra agli uomini che «la forza di tutti» sia «impiegata a favor di ciascuno» (Calcolo, p. 123). Sembra solo, però, perché nella realtà le cose non stanno così: l’opinione «è tutto ciò che passando per il pensiero umano acquista credito dall’umano giudicio, come di cosa atta a raffrenare la pubblica forza col pubblico timore o a far servire il timore altrui in difesa del proprio». In questo modo nasce «l’universale fiducia», ossia l’illusione, che la forza di tutti sia impiegata a favore di ciascuno, mentre in realtà le forze di tutti sono utilizzate «a favore di uno solo» grazie al «pretesto» della virtù o dell’eroismo e di altri valori civici, i quali coprono con l’ideologia il dominio di uno o di pochi sulla società (Calcolo, p. 124). La «vera virtù», una qualità «d’origine tutta celeste» che, «non essendo né timida né voluttuosa», non può unire «gli uomini per il fin del piacere» (Calcolo, p. 124), è priva di ogni influsso sulla vita umana, la quale si fonda sulla scissione irreparabile tra il mondo celeste e quello

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reale. Il mondo reale è regolato dalla forza, dalla violenza e dal timore, ossia da passioni scatenate da un desiderio originario che paradossalmente, per la forza dell’opinione, cede il passo ai «piaceri d’opinione» o, come si direbbe oggi, alla forza del conformismo. Sono i meccanismi dell’ideologia e del consenso che circa due secoli dopo Gramsci ha analizzato, com’è noto, meglio di Marx. Ma la posizione di Ortes è del tutto originale, giacché egli da un lato riconosce la funzione sociale delle ideologie mentre dall’altro continua a considerarle false e degne solo di una critica negativa. Le opinioni possono nascere solo in società e sono indispensabili al funzionamento e al perpetuarsi della società. La sola «opinione» naturale, fondata cioè sulla natura umana, sarebbe quella relativa alla ricerca del piacere dei sensi, ma la società corrompe e distorce quel desiderio originario e sostituisce ad esso il piacere dettato dall’opinione. Così, l’uomo «è portato d’ordinario a far più conto de’ piaceri d’opinione che di quelli di senso e ad accumular quelli a costo di questi, come l’avaro accumula il danaro a costo di soffrir d’inedia» (Calcolo, p. 125). Tra le opinioni ce n’è sempre una «dominante», in cui si racchiude il senso di ciascuna epoca: dopo le epoche egemonizzate dall’ideologia della «Conquista», del «Lusso», del «Platonismo» eccetera, è arrivato il tempo «occupato dall’opinione dell’Ozio, che domina a’ nostri giorni sovra tutte le altre in Italia». La successione di tante opinioni diverse dimostra «l’uguale vanità di tutte esse» ma conferma che il valore su cui ciascuna di esse si fonda è «quello delle ricchezze» (Calcolo, pp. 130-131). Con una forzatura, leggera benché non del tutto impropria, si potrebbe concludere che per Ortes l’opinione dominante è sempre quella della classe dominante. A rendere dominante un’opinione infatti non è mai la sua coerenza né la sua fondatezza storico-teorica ma la sua organicità agli interessi di chi in quel momento è egemone (‘ricco’) nella società. La sola felicità che appaia in qualche modo fondata su aspirazioni naturali dell’individuo è dunque la felicità del singolo, che però come abbiamo visto si scontra con l’aspirazione analoga di tutti gli altri esseri umani e diventa così irrealizzabile. Quando si trasforma in aspirazione alla felicità collettiva, quella che i filosofi chiamano «pubblica felicità», l’aspirazione alla felicità individuale diventa un mito, un «pretesto» che serve all’opinione dominante, come pretesti sono la virtù e l’eroismo, coperture di interessi, di forze e di violenze sociali. La pubblica felicità è il pretesto per giustificare l’ideologia del lusso, «che a suo tempo consisteva in un trionfo militare o in uno spettacolo di gladiatori come ora consiste in una festa da ballo o in una cena data in un casino». «Stante la condizione umana», conclude Ortes, «essa felicità ugualmente che la libertà negli uomini congregati insieme non consistono che in una perpetua sollecitudine di procurarsela, senza mai

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conseguirla» (Calcolo, p. 132). La felicità, come la libertà, la virtù, l’eroismo e così via, è nient’altro che uno dei tanti miti che si succedono nella storia umana senza che uno sia più vero degli altri. La felicità è impossibile perché il mutamento delle opinioni dominanti non produce un progresso dal male al bene o dal peggio al meglio ma un circolo perpetuo di falsità e di illusioni. Tra non molto tempo l’opinione ora dominante cadrà e sarà sostituita da un’altra, che «non sarà certamente di questa più sensata», e «i nostri posteri s’inganneranno assai se si giudicheranno più avveduti o men ragionevoli di noi» (Calcolo, p. 133). Anche l’idea del progresso è un’illusione. Da questa base teorica Ortes parte per contestare il concetto di pubblica felicità. Due anni prima egli aveva steso il Calcolo, che poi pubblicò come seconda parte del trattato, sopra i dolori e i piaceri della vita umana, in cui aveva affermato la naturalità del dolore e la natura occasionale del piacere. In una nota rimasta manoscritta, eliminata per autocensura dal testo pubblicato a Venezia nel 1757, aveva ricordato che la sua teoria, secondo cui «tutto ciò che volgarmente si chiama piacere» non è altro «che una rimozione del dolore o del dispiacere», egli l’aveva comprovata «colla esperienza e colla osservazione perpetua» (Calcolo, p. 141). Il piacere non poteva che avere una qualità negativa e relativa, e si trasformava rapidamente in dolore: «Insomma, qualunque cosa acquista pregio dal nostro desiderio e tanto più riesce grata quanto estingue in noi un desiderio più ardente. Ogni desiderio poi è un bisogno e ogni bisogno è un dolore» (Calcolo, p. 142). Giunto però alla «conclusione», Ortes avvertiva che «non tutte le dottrine suddette» dovevano «presumersi d’un’esattezza geometrica», e che la sola verità affermabile «con asseveranza» era che l’uomo è «soggetto per natura al dolore e non al piacere». Tutto il resto era opinabile. E per occultare nelle sue righe le tracce di pensatori non troppo ortodossi, alimentando così la leggenda circa la natura «autogenetica» delle sue idee2, egli dichiarava solennemente «di non aver seguitato alcun autore e di non aver consultato che la [sua] propria esperienza e i [suoi] sensi, in un’età di mezzo, con un temperamento indolente e non prevenuto», per affermare che «tutti i dolori e i piaceri di questa vita non son che illusioni» e che «tutti i raziocini umani non son che follìe», concludendo che «quando poi dico tutti, non eccettuo i miei calcoli» (Calcolo, pp. 147-148). Con questa giravolta finale, Ortes scatenava la sua predisposizione per il rovesciamento, per il gioco e per il paradosso, che non era semplice gusto barocco per i paralogismi brillanti ma rappresentava vistosamente la contraddizione originaria di un pensiero che voleva pensare

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 M. Bazzoli, Introduzione a Costituzioni, p. 22.

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contemporaneamente la razionalità della geometria e la follia della natura umana. A far le spese di questa contraddizione lacerante erano la nozione e la speranza stessa della felicità. Quando dichiarava di «non aver seguitato alcun autore», Ortes cercava di allontanare dal suo capo le accuse di materialismo e di ateismo che invece lo colpirono. Un recensore avanzò infatti su di lui «il sospetto e il timore di Fisioneista»3. Ortes era molto più informato sulla produzione filosofica e scientifica moderna di quanto amasse riconoscere, e i suoi tentativi di nascondere le piste non reggono ad un’indagine sia pur sommaria. In altre sedi ho cercato di documentare i rapporti intrattenuti dall’abate con la tradizione libertina e con la riflessione materialistica del Seicento e del primo Settecento4. Egli aveva letto certamente Spinoza, Hobbes, Bayle, nomi ‘maledetti’ che nessuno citava ma che tutti conoscevano. E non poteva non essere informato delle opere di La Mettrie, almeno di quelle raccolte nell’edizione curata dallo stesso autore uscita nel 17515, dal momento che la situazione editoriale delle opere non raccolte nell’edizione citata (fra cui soprattutto il Discours sur le bonheur, conosciuto come Anti-Sénèque, uscito in tre diverse edizioni con titoli leggermente modificati dal 1748 al 1751) è troppo complessa per autorizzare ipotesi più precise. Sapeva perciò, molto probabilmente, su quale base antropologica il pensatore di Saint-Malo, autentica «pecora nera» tra i contemporanei philosophes, avesse fondato la teoria del suo «scandaloso piacere»6, e certamente conosceva l’aura maudite e il disprezzo che circondava la figura dell’«apologeta del vizio»7. E aveva letto sicuramente l’Essai de philosophie morale di Maupertuis, uscito per la prima volta a Berlino nel 1749, anche se quando scrisse i suoi Calcoli non   «Novelle della Repubblica Letteraria» di Venezia, 27 agosto 1757, p. 274. Sulle forme e sui modi con cui l’apologetica cattolica nel Seicento e nel Settecento attaccò il pensiero eterodosso con accuse di ateismo, cfr. ora lo studio di G. de Liguori, L’ateo smascherato. Immagini dell’ateismo e del materialismo nell’apologetica cattolica da Cartesio a Kant, Firenze, Le Monnier Università, 2009. 4  Oltre che all’Introduzione a Calcoli, posso rinviare a: L’Apologista libertino. La religione ‘atea’ di Giammaria Ortes, in Foi et raisons dans l’Europe des Lumières, textes rassemblés par C. Prunier, vol. 3, «Le Spectateur Européen / The European Spectator», 2001, pp. 141-69. 5  Cfr. J.O. De la Mettrie, Œuvres philosophiques, Londres (ma probabilmente Berlin), chez Jean Nourse, 1751. Il testo dell’ed. è riprodotto in La Mettrie, Œuvres philosophiques, t. i, Texte revu par F. Markovits, «Corpus des Œuvres de Philosophie en langue française», Paris, Fayard, 1987. 6   R. Mauzi, L’idée de bonheur dans la littérature e la pensée françaises au xviiie siècle, Paris, Michel, 1994, p. 249. 7  F. De Luise – G. Farinetti, Storia della felicità. Gli antichi e i moderni, Torino, Einaudi, 2001, p. 350. 3

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ne conosceva la versione riveduta pubblicata nel 17568. Senza internarmi in analisi troppo puntuali circa le influenze e gli imprestiti tra i pensatori suddetti e l’abate veneziano, mi basta ribadire che la pretesa «autogenetica» avanzata dall’autore qui e altrove appare del tutto infondata, dal momento che il suo approccio alle questioni dell’antropologia, dell’analisi del corpo umano, dei sentimenti, dell’immaginario e così via, acquista senso solo all’interno del grande filone antistoico ed antisenechiano, libertino e materialistico, di cui Ortes aveva avuto conoscenza piena fin dalla gioventù grazie ai rapporti intrattenuti con l’abate Conti. Come l’adesione a tale filone si conciliasse con la fede religiosa e, più tardi, con la stesura di opere che troppo sbrigativamente sono state definite «teocratiche», è un problema assai complicato che non può essere discusso qui (per il quale rimando ad alcune osservazioni contenute nel mio saggio citato sulla religione ‘atea’). La conoscenza della letteratura ateistica e libertina da parte di Ortes non può dunque essere messa in discussione, così come non possono esserci dubbi sul fatto che quella conoscenza si tramutò in adesione ad alcuni princìpi fondamentali e soprattutto alla fisiologia dell’homme machine, promossa e autorizzata dall’adesione giovanile al pensiero cartesiano che, benché superata nell’età adulta, costituì pur sempre il paradigma logico-conoscitivo del suo pensiero. Niente di strano che egli, come del resto tanti pensatori anche più importanti di lui, non amasse confessare il «debito» contratto nei confronti della fisiologia lamettriana e soprattutto nei confronti della «diagnosi realistica della natura convenzionale e fittizia della morale» condotta dal filosofo eterodosso9. Quello che però è necessario sottolineare qui, ai fini del tema che ci riguarda, è che tale adesione avviene in forme originali e rovesciate che permettono ad Ortes di non rimanere un semplice ripetitore dell’ideologia materialistico-libertina. Date quelle premesse materialistiche e sensualistiche, il ‘sistema’ lamettriano non può non produrre un’etica conseguente. Lo scopo manifesto di La Mettrie era di dimostrare «à combien peu de frais, et de combien de façons, on peut être heureux»10, e di innalzare un inno alla voluttà e all’arte di godere11:

 Cfr. Œuvres de Mr. De Maupertuis. Nouvelle Édition corrigée et augmentée. T. Premier, à Lyon, Chez J.-M. Bruyset, 1756. 9  De Luise – Farinetti, Storia della felicità, p. 353. 10  La Mettrie, Anti-Sénèque, ou discours sur le bonheur, in Œuvres philosophiques, t. ii, Texte revu par F. Markovits, «Corpus des Œuvres de Philosophie en langue française», Paris, Fayard, 1987, p. 291. 11  Cfr. [Id.], La Volupté, par Mr. Le Chevalier de M***, Capitaine au régiment Dauphin [1746]; L’Art de jouir [probabilmente 1751], in Œuvres philosophiques, t. ii. 8

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Plaisir, Maître souverain des hommes et des dieux, devant qui tout disparaît, jusqu’à la raison même, tu sais combien mon cœur t’adore, et tous les sacrifices qu’il t’a faits. (…) Dieu des belles âmes, charmant plaisir, ne permets pas que ton pinceau se prostitue à d’indignes voluptés, ou plutôt à d’indignes débauches qui font gémir la nature révoltée. Qu’il ne peigne que les feux du fils de Cypris, mais qu’il les peigne avec transport. Que ce Dieu vif, impétueux, ne se serve de la raison des hommes que pour la leur faire oublier; qu’ils ne raisonnent que pour exagérer leurs plaisirs et s’en pénétrer; que la froide Philosophie se taise pour m’écouter. Je sens les respectables approches de la volupté12.

Non si potrebbe immaginare dichiarazione più estranea allo spirito di Ortes: non solo per l’entusiasmo, sconfinante nel proselitismo, dal quale come abbiamo visto il nostro abate si teneva ben lontano, ma soprattutto per l’invito a sottoporre la ragione e la filosofia all’imperio del piacere. Se accoglieva in gran parte le premesse materialistiche dei libertini e del loro splendido erede settecentesco, Ortes rifiutava recisamente tutte le implicazioni pratiche e morali che potevano scaturirne. O, più semplicemente, egli considerava irrealizzabili quel piacere e quella felicità che al filosofo francese apparivano a portata di mano (e di corpo) almeno per gli individui privilegiati in grado di programmare le loro esistenze ai fini del piacere e della felicità senza essere angustiati dalle miserie e dalle disgrazie che colpivano la maggior parte degli esseri umani. Per Ortes invece il piacere e la felicità erano impossibili per l’umanità intera, a causa di una logica oggettiva e implacabile. Per questo il suo pensiero ha una torsione drammatica sconosciuta a La Mettrie ed a tutti gli apologeti dell’ateismo o comunque del libertinismo ‘classico’. Egli non può accettare la dimensione ‘militante’ della conoscenza filosofica, ossia rifiuta un sapere che produca nuove illusioni destinate ad aggiungersi alle illusioni che già angustiano il mondo degli uomini. Quella proposta da La Mettrie era pur sempre una commistione tra morale e filosofia, anche se nel suo caso la morale proposta era non quella repressiva del fanatismo religioso bensì quella gioiosa del libertinismo. Quando si abbandonava a proporre il piacere come regola di vita, La Mettrie contraddiceva la sua stessa tesi circa la separazione tra verità e giustizia. Egli infatti aveva scritto che la Filosofia «a pour objet ce qui lui paroît vrai, ou faux, abstraction faite de toute conséquence», mentre il Legislatore «ne s’occupe que du juste et de l’injuste», e che insomma mentre la Morale «conduit à l’Équité, à la Justice, etc.», la Filosofia, «tant leurs objets sont divers», conduce «à la Vérité»13. A Ortes non poteva non parere incongruo proporre una morale   [Id.], L’Art de jouir, p. 299.  La Mettrie, Discours préliminaire, in Œuvres philosophiques, t. i, p. 13.

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fondata sulla filosofia, e sia pure su una filosofia ‘vera’, in quanto per lui gli oggetti delle due discipline restavano separati e in ogni caso la Verità non poteva influire sui comportamenti umani ‘reali’. Ma, soprattutto, ciò che non poteva non suscitare la sua ostilità era l’idea che la felicità potesse essere affare di pochi individui privilegiati, capaci, per cultura o per il possesso di ricchezze, di estraniarsi dal sistema generale dell’infelicità umana. Circa un ventennio dopo i Calcoli sui piaceri e sui dolori (nel 1774), Ortes – scelta definitivamente la strada della riflessione economica – pubblicò l’opera citata all’inizio, Della economia nazionale, e l’aprì con un Discorso preliminare in cui riprese con maggior forza argomentativa le osservazioni giovanili sull’infelicità. Il punto di partenza stava nella convinzione che l’economia nazionale fosse «un tal affare da non poter migliorarsi in modo alcuno per cura particolare qualunque», e che «tutti i tentativi di alcuni intesi a collocarla in un sistema migliore, in ordine al provvedimento o all’accrescimento de’ beni», fossero destinati a «dover riuscire a inutili sforzi». Egli era convinto che «la massa de’ beni comuni» fosse proporzionale al «bisogno» di ogni nazione, e che non potesse «sopra questo bisogno crescer nemmen di un pelo» (Economia, pp. 41-2). Non avendo competenze precise per discutere la fondatezza scientifica di tale convinzione, che Ortes argomentava con sillogismi acuti nelle pagine seguenti, mi limito a coglierne le implicazioni più ampiamente filosofiche notando che quei «paradossi» inducevano il pensatore ad affermare che l’idea tanto diffusa del rapporto tra profitti degli individui e crescita della ricchezza nazionale fosse una finzione, una maschera ideologica dello squilibrio crescente tra le parti della popolazione. «L’equivoco» di «promuovere il bene particolare col pretesto del comune» stava non «nell’ignorare che quel utile cada sul particolare», ma «nel non badare, che non è possibile accrescere le sostanze in alcuni senza generare in altri altrettanta mancanza di quelle» (Economia, p. 46). In séguito ad una catena argomentativa di cui faccio grazia ai lettori (soprattutto perché in queste opere della maturità e della vecchiaia il discorso ortesiano non è più quello secco ed essenziale privo di compiacimenti retorici e a suo modo brillante e paradossale svolto nei «calcoli», ma un discorso arido e spesso ripetitivo), Ortes arrivava a collocare il problema dell’economia nazionale in rapporto a quello della felicità e della infelicità nel quadro della sua filosofia negativa: Dopo aver osservato l’economia nazionale esser tale per se stessa da non poter migliorarsi per accortezza particolare qualunque di filosofo o di legislatore, ognuno intenderà che se io prendo a ragionare di essa, ciò non sarà certamente per additarne le vie migliori o più opportune per migliorarla, come volgarmente suol farsi; ma sarà ciò per manifestarla soltanto altrui ne’ fenomeni reali, quale procede da sé

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come effetto proveniente da cagioni immutabili ed eterne. (…) E crederò eziandio di meritar qualche lode, se in luogo di progettar sistemi inutili per la felicità de’ popoli, mi limiterò a investigare la ragione della loro infelicità, questa però da me così chiamata in conformità alla comune credenza, per cui quelli si appellan felici che più abbondano di sostanze e quei più infelici che più ne mancano, dovendo io pure adattarmi alle comuni espressioni quando voglia esaminare la comune costituzione (Economia, p. 52).

Ortes dunque accetta i termini di «felicità» e di «infelicità» solo per adeguarsi al vocabolario in uso, ma di fatto ne rifiuta i significati correnti. Per lui gli uomini più provvisti di «sostanze» sono solo «carichi di un peso inutile che son costretti a scaricar sui vicini», mentre «quei che diconsi più mancarne non ne mancano altrimenti finché sussistono». Le idee di felicità e di infelicità sono prodotto dell’«immaginazione»; e l’«afflizione» prodotta da esse può essere dissipata dalla conoscenza del vero, che egli si propone di perfezionare (ivi, p. 52), senza mai illudersi che tale lavoro di critica possa estendersi alle masse o comunque alla gran parte degli uomini. «Io so che chi parla a tutti non parla a nessuno», ribadisce, «e un autore che con un libro s’indirizza al pubblico, dovrebbe sapere che il pubblico comunemente non sa leggere e men sa scrivere, ancorché ei sia certamente più sensato, più saggio e più rispettabile di qualsivoglia autore che pretenda con un libro istruirlo» (Economia, pp. 52-53). L’obiettivo polemico di Ortes era ormai il pensiero riformatore, che vent’anni prima non possedeva ancora quella dimensione e quella fisonomia assunte dopo gli anni Sessanta. Sempre allo scopo di confondere le tracce, Ortes metteva in un sol fascio tutti i tentativi intellettuali e politici compiuti «da un secolo a questa parte», ma non c’è dubbio che la curvatura del suo discorso dipendesse prevalentemente dal dibattito sulle riforme tra economisti e intellettuali e poteri pubblici. Se la discussione inutile sull’«economia comune» datava almeno da un secolo, infatti, gli aspetti più grotteschi di essa erano assai più recenti: Certo è che non mai si è tanto versato sui modi di accrescer codesti beni, quanto al presente con società e accademie istituite, con progetti, dissertazioni e volumi stampati, e quel che più sembra valere, con problemi sciolti e con calcoli dimostrati, a questo proposito sull’agricoltura, sulle arti, sul commercio, sulle finanze. Eppure non mai si è nemmen stato tanto all’oscuro, quanto al presente, dei modi coi quali tutti e ciascuni in una nazione sussistono, che è pur la cognizione che dovrebbe preceder tutto quello (Economia, p. 53).

La ragione dell’insufficienza del pensiero economico stava nel fatto che gli economisti usavano il «calcolo» per calcolare «oggetti particolari» senza badare al sistema generale. E così i loro calcoli, «per riguardare appunto oggetti particolari, riempion la mente di splendide immagini, e le lusingano con ispe-

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ciose speranze di future ricchezze», e per questo «sono accolti, applauditi e coltivati da tutti»; mentre i calcoli dei veri «geometri», esercitati «sulle verità reali e a tutti comuni», poiché non promettono «più di quel che possono attendere» e rispettano «tanto il ricco che il povero, e tanto il sovrano che la nazione», rimangono «negletti» da tutti (Economia, p. 53). Ortes in questo modo accusava il pensiero economico degli illuministi e dei riformatori di illusionismo apologetico e di ciarlatanismo, mentre rivendicava al suo metodo la capacità di ottenere la «verità» senza lasciarsi viziare da interessi di parte: Eppure questo dovrebbe essere il distintivo della verità dalla menzogna, qualora essa istruisse più di quel che lusingasse e persuadesse più di quel che apportasse diletto, giacché la verità e la ragione non è mai stata più del ricco che del povero e non ha mai distinto persona (Economia, pp. 53-54).

La «verità» di Ortes, sempre in contrasto con l’ideologia progressista del secolo, non poteva essere comunicata «ad ognuno», stante l’impossibilità da parte della grande massa di comprenderla. Così, invece di affidarsi «alle lodi e al biasimo di molti», l’abate preferiva affidarsi «a quei pochi soltanto che par che nel leggere meditano molto, e che lontani dai pubblici affari sono al caso di concepirli meglio degli altri», nonché a coloro «che non ne hanno interesse, e che nell’esaminarli, nel consigliarli e nel condurli non sono distratti da privati riguardi» (Economia, p. 54). E tuttavia, questa scelta elitaria non deve apparire tanto stravagante e contraria al pensiero di intellettuali tanto più impegnati di lui. Quella verità che nella sua mente si presentava limpidissima, invariabile negli anni e nei decenni, era infatti uno dei poli che ad intervalli si presentavano alla coscienza di un illuminista riformatore come Pietro Verri. Se Ortes avesse potuto leggere ciò che l’intellettuale milanese scriveva nelle sue carte private e nelle lettere al fratello Alessandro, avrebbe notato con soddisfazione che i dubbi sull’efficacia delle riforme, e sulla possibilità stessa che il pensiero potesse influire sulla realtà, erano molto più diffusi di quanto egli immaginasse, e proprio tra gli intellettuali progressisti. La differenza incolmabile tra le sue idee e quelle di Pietro Verri rimaneva comunque nel fatto che in Verri i dubbi sull’impegno dell’intellettuale e le tentazioni di starsene per suo conto, oscillando tra la vocazione a fare intera la sua parte di «cittadino» e la tentazione di rinchiudersi nel suo guscio come una «lumaca», nascevano non già da premesse assolute e invariabili ma dall’esperienza concreta e drammatica di un intellettuale che continuava a misurarsi con l’impegno di riformare la società14. 14  Mi permetto di rinviare al mio saggio La lumaca e il cittadino. Pietro Verri e la Rivoluzione nel carteggio con Alessandro (1794), «Rassegna della letteratura italiana», (2008),

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Oggi sappiamo che, a suo modo, Ortes tentò di progettare una specie di sapere positivo, ossia di una scienza della politica che non fosse solo ‘negativa’. La seconda parte della Economia nazionale, rimasta inedita per due secoli e recentemente pubblicata a cura di Maurizio Bazzoli con il titolo Delle diverse costituzioni nazionali15, permette di conoscere quale fosse per Ortes il modello positivo dell’ordinamento politico: quello delle «costituzioni naturali», costruite (come scrive il curatore) «secondo i princìpi dell’ordine naturale». Questo è il primo modello costituzionale, quello preferito da Ortes. Il secondo modello è quello delle «costituzioni artificiali politiche», nate dall’«inevitabile allontanamento» dal modello naturale e costruite «mediante l’“arte politica”»; il terzo, nato non già da qualche mutamento del primo ma dalla degenerazione totale di esso, è quello delle «costituzioni artificiali dispotiche, nelle quali i princìpi ispiratori dell’ordinamento naturale sono totalmente contraddetti e annullati»16. Poiché in questa sede è impossibile ripercorrere nella sua integralità la struttura complessa (ancorché ripetitiva e didatticamente esplicativa) dell’argomentazione ortesiana, basterà osservare che l’impostazione ‘positiva’ della riflessione ortesiana svela ben presto il suo immancabile risvolto ‘negativo’. Infatti la felicità, che consiste sostanzialmente in un buon governo, è possibile solo nelle «Nazioni Naturali», in cui gli uomini s’uniscono per vivere esternamente in conformità alla ragione e forza loro e a tutti gli altri uomini comune interna, e pertanto non ammettono fra loro ragione o forza particolare esterna che contrasti colla comune o con altra particolare, quale escludono intieramente d’infra loro (Costituzioni, p. 49).

Il modello ideale di società per Ortes è quello di una società che per brevità potremmo definire ‘organica’, anch’essa in certo modo «autogenetica», in cui vige il massimo accordo tra il «particolare» e il «comune». Tale accordo è assicurato dal primato della «Religione», per la quale ogni nazione intende esprimere una ragione e forza comune interna a tutti comune, manifestata per dichiarazione al Governo mediante alcuni segni esterni convenuti fra tutti per la pratica de’ quali ciascun professa d’essere agli altri unito per conformità di ragione e di sentimenti interni (Costituzioni, p. 49). 2, pp. 407-23, nonché al volume «Il dissotto delle carte». Sociabilità, sentimenti e politica tra i Verri e Beccaria, Milano, FrancoAngeli, 2004, in cui questi temi sono affrontati in termini più ampi e al tempo stesso più analitici. 15   Rimando alla densa Introduzione del curatore per tutte le notizie relative alla storia e alla struttura del manoscritto, conservato insieme con altre carte ortesiane in un fondo dell’eremo di Camaldoli. Ricordo solo che secondo Bazzoli il ms dev’essere datato fra il 1775 e il 1778-9 (Bazzoli, Introduzione a Costituzioni, pp. 15-16). 16   Ibidem, p. 21.

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Si vede agire qui il paradigma tipicamente ortesiano, erroneamente assimilato da alcuni studiosi a un modello classicamente teocratico, secondo il quale la «Religione Cristiana e Cattolica» costituisce il vero fondamento delle società. Tale paradigma infatti, per quanto possa suonare fastidioso alle nostre orecchie modernamente laiche, è integralmente politico e non contempla alcun assoggettamento degli individui ai riti e alle credenze della religione: è insomma, a suo modo, ‘laico’, in quanto considera la religione non come un apparato statale di dittatura teologica ma come la sola istituzione politica capace di garantire la libertà. Solo in questo tipo di società esiste la felicità, che per Ortes coincide dunque con la libertà: Perché poi la libertà e felicità umana sta nel poter operare ciascuno esternamente in conformità ai propri sentimenti interni e comuni, tali nazioni possono appellarsi pienamente libere e felici giacché in esse ciascuni operano in conformità a quel di che sono persuasi nell’interno e pertanto non servono a nessuni né sono nelle loro azioni contrastati da alcuni per esser ciascuni liberi quanto gli altri (Costituzioni, p. 49).

Ma tale stato «naturale» ha la stessa consistenza reale del rousseauiano stato di natura, giacché esiste solo come punto teorico di paragone per misurare il grado di decadenza o di corruzione delle società realmente esistenti. Al secondo livello, quello delle «nazioni artificiali politiche», gli uomini «si uniscono istessamente per vivere all’esterno in conformità alla ragione e forza loro e a tutti comune interna», ma «soffrono fra loro la ragione e forza particolare a quella comune e ad ogni altra particolare contraria». Il conflitto, che per la teoria liberale moderna è sostanza vitale delle società, è visto da Ortes come il virus che intacca l’unità organica delle nazioni «naturali». È questo, forse, il lato più ‘rousseauiano’ del pensiero ortesiano. Il «Principato», che è l’istituzione necessaria per mediare gli interessi diversi, «particolari», per far valere l’interesse «comune», ossia generale, è costretto a difendere la «Religione» con «forza particolare esterna dagl’insulti d’ogni altra forza particolare». In tali società «v’a dunque libertà e felicità come nelle naturali» ma in modo precario17. Esiste comunque in esse un equilibrio che viene invece rotto definitivamente nelle «nazioni artificiali dispotiche», in cui gli uomini, «rinunziando alla ragione e forza loro e a tutti gli uomini 17   Immagino che il ms sia stato trascritto non fedelmente, o che lo stesso Ortes componendolo abbia saltato qualche verbo, perché così com’è riprodotto nell’edizione di Bazzoli la frase che contiene questo concetto è zoppicante. Non avendo il ms sotto gli occhi, non sono in grado di decidere se l’errore sia del trascrittore o dello stesso Ortes che non aveva dato l’ultima mano alla sua opera. In ogni caso, penso che un controllo più accurato, e soprattutto la consulenza di studiosi più avvezzi alla grafia ortesiana, avrebbero ridotto di molto gli errori e i tanti puntini fra parentesi quadre che costellano l’edizione.

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interna e comune, adottano qualche ragione particolare nell’interno, e s’uniscono a sostenerla anche nell’esterno». In tali nazioni il potere si concentra nelle mani del «solo Principato», il quale «rappresenta quella ragione e forza particolare e la sostien a fronte di ogni altra particolare da quella diversa che volesse contrastarla» (Costituzioni, p. 50). In quest’opera, dunque, Ortes compie un tentativo notevole per elaborare una teoria ‘positiva’ del potere, e infatti formalizza una nozione di «consenso» (Costituzioni, p. 62 e passim) che va oltre il significato di «opinione» usato nelle opere precedenti e diventa un fattore decisivo del governo. Ogni governo, infatti, si basa sulla distinzione e sull’equilibrio tra «persuasione» e «forza», teorizzato da Ortes in un frammento più tardo che sintetizza in poche pagine la farraginosa argomentazione delle Costituzioni nazionali18. Undici anni dopo, e cinque anni prima di morire, il vecchio Ortes (che nel 1785 aveva settantadue anni) pubblicò un’altra operetta, Delle scienze utili e delle dilettevoli per rapporto alla felicità umana. Ragionamento diviso in più capi (che non fu però l’ultima sua creazione, visto che proprio nell’anno della sua morte egli stampò le Riflessioni sulla popolazione delle nazioni per rapporto all’economia nazionale). Sempre convinto che il còmpito della filosofia fosse quello di «disingannare l’uomo, con fargli apprender gli oggetti quai sono in se stessi, spogli d’ogni esagerazione o caricatura ad essi aggiunta dall’immaginazione, affine di farli comparire maggiori o minori di quel che sono per diletto maggiore de’ sensi» (Economia, p. 369), ossia fedele all’idea di un sapere critico e negativo che non si proponesse di illudere gli uomini con «chimere» metafisiche (Economia, p. 382), Ortes tentò di dare un profilo più sistematico e generale alle sue riflessioni, tenendo da parte per una volta la complessità e l’aridità dei calcoli di scienza economica. L’uomo, che solo cinque anni prima aveva pubblicato un’opera grevemente teocratica (benché sempre coerentemente ‘atea’) come Della religione e del governo dei popoli, e l’anno prima la difesa Dei fedecommessi a famiglie e a chiese e luoghi pii, continuava a ritenere che «né l’immaginazione nell’apprender gli oggetti né l’intelletto nel giudicarne possono prescinder dai sensi», poiché «col prescindere dai sensi l’immaginazione non apprenderebbe cosa alcuna, e non apprendendo l’immaginazione cosa alcuna l’intelletto non avrebbe cosa di che giudicare, e quella e questo rimarrebbero in perfetta inazione inutili e oziosi nell’uomo non diverso allora da un sasso» (Economia, p. 389). L’equilibrio tra immaginazione e intelletto rimane però assai difficile da 18  Cfr. Dell’autorità di persuasione e di forza fra loro divise, in Calcolo, pp. 198-206. Il frammento, già edito da E. Cicogna in Trattatelli inediti di G. M. Ortes (Portogruaro, 1853) in forma non corretta, è datato nel ms al 1 settembre 1788.

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mantenere, in quanto «gli uomini tutti o per la massima parte» si trovano «disposti più per l’utile e dilettevole falso che per il vero», ed amano «più le illusioni dell’immaginazione che le verità dell’intelletto», poiché «principiando l’uomo l’uso dell’immaginazione dalla nascita e l’uso dell’intelletto a 20 anni dopo», non c’è da meravigliarsi «se gli uomini in tutta la lor vita fan più conto di quella che di questo», e se preferiscono «le illusioni dell’immaginazione alle quali son di tanto tempo più avvezzi alle verità dell’intelletto» (Economia, pp. 424-425). Chi dunque chiederà un quadro riassuntivo delle motivazioni teoriche dell’ultimo Ortes, se vorrà convincersi di quanto sia difficile etichettare una volta per sempre come reazionario l’esito di questo pensiero tormentato, dovrà rifarsi a questo trattato in cui i luoghi fondamentali del sistema ortesiano vengono passati in rassegna, e dove il rapporto tra intelletto ed immaginazione diviene la chiave di volta di un sistema analitico che non è solo di economia politica. Qui, alla ideologia géometrisante fin troppo alla moda Ortes contrappone la sua «scienza geometrica», richiamando l’esempio dell’eretico Galileo ed i pericoli corsi dallo scienziato che si proponga di demolire le immaginazioni e le illusioni delle riforme: Se non che, siccome l’applicare la geometria alle scienze fisiche e naturali apportò più inquietudini e suscitò persecuzioni a quel vero filosofo per parte de’ falsi fisici e filosofi d’allora, così l’applicarla al presente alle scienze politiche, economiche e legali de’ nostri giorni dovrebbe apportar inquietudini e suscitare persecuzioni molto più gravi ad ogni vero filosofo che ciò tentasse, per parte de’ falsi filosofi politici de’ tempi presenti. Quando poi dico applicare la geometria alle scienze politiche, intendo di essa bene applicata: perciocché vi hanno al presente più politici tanto illuminati quanto lo sono a conoscere d’essere la geometria necessaria alle loro scienze; e i libri specialmente di economia politica sono pieni di calcoli. Perché però i politici non son poi tanto illuminati quanto a saper applicare la geometria alle lor scienze, e quindi è che in luogo di applicarla agli affari della nazione comuni la applicano ai particolari del sovrano, di ecclesiastici o di altre specie di persone particolari che non son affari comuni nazionali: ond’è che con quei calcoli stessi, coi quali si figurano di provare il vero, vengono bene spesso a provare geometricamente il falso (Economia, pp. 401-402).

In quest’opera Ortes pronuncia parole definitive circa il proprio sistema delle illusioni: sulla felicità, sul rapporto tra intelletto e immaginazione, sull’utilità del sapere, sulle riforme; e in particolare conferma la sua concezione critico-negativa della scienza in termini teoricamente pregnanti benché in forme significativamente contraddittorie. L’ispirazione materialistica del primo periodo, se non sta più in primo piano, rimane sullo sfondo come un orizzonte costitutivo del discorso e

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non è stata sostituita da pasticci spiritualistici, ed appare adesso piuttosto integrata da suggestioni lockiane e sensistiche. Ora il problema per Ortes non è più quello di come nascano le sensazioni e si diffondano nella macchina umana, ma quello di come l’immaginario partecipi costitutivamente all’esperienza conoscitiva del vero. Non più «Chi mi sa dir s’io fingo?» ma «Sol la scienza del ver giova ed alletta», recita adesso l’epigrafe del libro: ma la scienza in questione è pur sempre una scienza negativa – ossia la ricognizione e la potatura delle conoscenze immaginarie che non solo ricrescono da ogni parte ma si trovano intrecciate alla conoscenza intellettuale – fondata rigorosamente sulla tesi che «tutte le cognizioni sono negative e indirette, vale a dire consistono nell’intelletto ch’esce d’inganno dopo essere stato ingannato dall’immaginazione, ingannata anch’essa dai sensi», e sulla contrapposizione intelletto/immaginazione che è anche funzionalità reciproca, dal momento che l’immaginazione è in ogni caso il primum della conoscenza (Economia, pp. 371–375). E così ora il progetto conoscitivo ha come punto di riferimento fondante quello «di consistere tutte le cognizioni umane nell’uscire dal falso e non nell’entrare nel vero, e d’esser tutte negative e non già positive» (Economia, p. 383). Anche il sistema delle opzioni politiche esce precisato e meglio articolato da questo scritto, dal quale risulta come nell’ultimo periodo della sua riflessione Ortes avesse aperto una dimensione utopica positiva e propositiva che andava inclinando verso una forma di solidarismo cristiano, populistico-radicale, lontano dal suo tradizionale hobbesismo cinico-geometrico. Si era ormai fatta sempre più strada nel suo pensiero l’idea che, ferme restando certe condizioni generali di produzione della politica, l’uso corretto dell’interesse proprio comportasse lo sviluppo dell’interesse generale e viceversa. Anche in questo approdo estremo e forse inaspettato della meditazione ortesiana, quello che conta per noi è vedere come quel solidarismo nascesse non su una visione addomesticata, apologetica e scioccamente ottimistica della meccanica sociale, ma sulla verità razionale che l’uomo, il quale ragioni non in base alle spinte miopi dell’«amor proprio» immediato ma sull’analisi disincantata del rapporto necessario tra interesse proprio bene inteso e interesse comune, non potrà non arrivare geometricamente a persuadersi della coincidenza delle due cose: Tutto ciò fa conoscere che, per essere dunque un tal utile e dilettevole vero per ciascuni, dee esserlo ancora per tutti; e che nessuna felicità può per ciascuno appellarsi veramente tale quando non sia a tutti comune. Tanto avviene per disposizione di Dio e di natura, per cui di tutti gli uomini se ne forma quasi un solo nel quale la felicità e la prosperità di un membro influisce in tutta la sua persona. (Economia, p. 431).

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Così Ortes, al termine della sua indagine, arrivava a pensare un «dover essere» utopistico, e non meno irrealistico sol perché fondato sull’intelletto e non sull’immaginazione. Ma il realismo ortesiano, se sollecitava la nascita dell’utopia, ne decretava poi l’impossibilità concreta in un mondo ancora irrazionale: l’utopia, che è pur fondata sul vero di ragione, «nella pratica» diviene irrealizzabile perché il reale finisce per manifestarsi nella sua riottosa irrazionalità. Il cieco amor proprio di ciascuno fa prevalere ogni volta il godimento di una felicità individuale, immediata e immaginaria, sulla ricerca faticosa della sola felicità possibile fondata sull’analisi scientifica della realtà: Ora una tal condizione, per cui ciascun sia felice senza altrui danno, non è generalmente serbata; mentre è certo che ciascuni, nel procurarsi l’utile e dilettevole maggiore per se stessi, o nel rendersi così felici e contenti, non curano se da ciò ne risulti danno o offesa negli altri o se altri nella propria o nell’altrui nazioni restino più infelici e scontenti (Economia, p. 431).

Ed è per questo che la felicità, che pur sarebbe a portata di mano, si rivela irraggiungibile: Tutto ciò fa conoscere che nella pratica non v’ha dunque sulla terra utile e diletto alcun vero in nessuno, perché sempre amareggiato in ciascuno da rancore e afflizione o sofferta in se stesso o veduta negli altri e partecipata da loro. E ciò non per difetto di natura ma per errore degli uomini (…) (Economia, p. 432).

Sull’onda di tale convinzione Ortes si spinge per la prima ed ultima volta ad immaginare possibile l’età dell’oro, «creduta finta dai poeti perché non mai avvenuta»: Ma che nondimeno essa possa avvenire, e non sia questa come più altre finzioni poetiche favolose e impossibili, apparisce da quel che s’è detto: cioè che, perché essa avvenisse, basterebbe che la maggior parte degli uomini fossero giusti come sono ingiusti, o che si contentasser ciascuni d’esser felici senza offesa di altri come si contentan d’esserlo con altrui offesa; ciò che non sarà mai dimostrato essere impossibile (Economia, p. 432).

Era l’ultimo scherzo che l’immaginazione geometrica potesse giocare al vecchio e disingannato abate: fare in modo che il sogno dell’età dell’oro si intrufolasse attraverso i calcoli, come una qualsiasi combinazione di carte, nel suo raziocinio infallibile. Se geometricamente si dimostrava che la felicità non era impossibile, e che anzi essa si fondava sullo stesso meccanismo sociale inteso secondo ragione, ecco che la non impossiblità si traduceva senza residui nella possibilità. Dunque, anche in questa emersione estrema e inattesa dell’utopia, il calcolo ortesiano non cessava di poggiarsi sul «reale»

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delle cose. In fondo le domande erano ancora le stesse del «giovanile» Calcolo dei piaceri e dei dolori, come uguali erano le conclusioni circa la prevalenza del dolore e del negativo nella vita umana, e solo più contraddittorie e oscillanti, a testimonianza di un intelletto che aveva cessato di compiacersi per la propria abilità nello scoprire la necessità del dolore e tentava al tempo stesso di credere e discredere, di affermare e negare. Gli ultimi capitoli di Delle scienze documentano la condizione contraddittoria e drammatica del pensiero ortesiano, lacerato da antinomie che si possono solo rincorrere a vicenda senza mai giungere a ricomporsi per davvero. Credendo di fare ancora «scienza», il vecchio abate faceva in realtà «discorsi» e girava intorno al nocciolo duro del reale, profondamente incredulo che le cose stessero davvero nei termini in cui egli le conosceva. Così, argomentava, se stando alla ragione la felicità individuale è impossibile e quella collettiva è la sola possibile, accade che nella pratica la felicità individuale si realizzi al prezzo di un compromesso con l’immaginazione, mentre la felicità collettiva si allontana sempre più nel dominio dell’utopia. L’unica felicità possibile è allora quella di secondo grado, imperfetta e immaginaria, concludeva Ortes con parole che portano il segno della persistenza di domande laceranti al di là delle verità geometriche (o proprio grazie ad esse): All’istesso modo in un comune naufragio seguito per imperizia, per imprudenza o per isventura, non manca ciascuno di afferrare una tavola sulla quale sostenersi lui solo e salvarsi, per non intieramente perire cogli altri. Infatti, nella situazione nella quale si trovan gli uomini di non godere della felicità comune suddetta, toltine alcuni pochi che perciò si danno ai delitti e talvolta alla disperazione e ne son puniti da altri o da se stessi, tutti gli altri suppliscono a quella comune felicità che manca coll’altra particolare suddetta che empie il luogo di quella; e di questa particolare felicità, mista a infelicità fra il pianto e le risa proprie ed altrui, ciascun si mostra qual più qual meno pago e contento. È ben vero che, laddove quella prima felicità comune per essere esente da infelicità potrebbe essere (quando ciò fosse) vera e reale, questa seconda particolare, per essere mista a infelicità, non può appellarsi che falsa e immaginaria (Economia, p. 433).

Tanto laceranti, quelle domande, da indurlo a contraddirsi dopo neanche dieci pagine circa il ruolo della natura nell’infelicità umana. Leopardi ci metterà dieci anni ad incolpare la natura dopo averla difesa come madre buona; Ortes impiega poche pagine per scoprire che quando ancora una simile felicità vera, comune e possibile ad aversi si avesse nella pratica, non potrebbe questa stessa dirsi perfetta, e ciò non per colpa allora degli uomini ma per necessità di natura, in guisa che la condizione umana presente sia quella o d’essere felici immaginariamente per propria colpa o d’esserlo imperfettamente per necessità di natura (Economia, p. 436);

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e che, in sintonia perfetta con l’esistenza di un sapere solamente negativo, anche la felicità non può essere in fin dei conti che negativa: A questo modo, siccome non v’hanno positive e perfette cognizioni umane, così non v’ha positiva e perfetta felicità umana; anzi, siccome tutte le cognizioni umane parlando esattamente dovrebbero considerarsi come se fossero negative, così l’umana felicità dovrebbe considerarsi come negativa anch’essa, in guisa che nessun uomo potesse nella vita presente chiamarsi positivamente sapiente e felice, e potesse al più di lui dirsi tenersi da infelicità e da ignoranza lontano. Queste verità poco certamente convengono colle dottrine fastose e superbe del presente secolo (…) (Economia, p. 437).

Il vecchio e impassibile geometra del Calcolo dei dolori e dei piaceri si era convertito all’utopia solo per impadronirsi di una misura ancora più severa e inquietante di calcolo della infelicità umana. Ciò che la geometria forse semplicistica dei calcoli giovanili aveva verificato sulla macchina fisicoimmaginaria dell’individuo – essere il piacere nient’altro che la cessazione o l’assenza del dolore – si confermava profondamente vero trent’anni dopo, e perciò insuperabile dai miti fastosi e superbi del secolo, sulla scala più grande della società e della stessa natura della «condizione umana».

Nadia Boccara David Hume e i filosofi che forniscono ricette per la felicità

Il principio morale del perseguimento della felicità, sanzionato dall’Illuminismo, è un imperativo fondamentale anche per il filosofo scozzese David Hume. In polemica con quei filosofi che riducono la vita a formulazioni dogmatiche e forniscono ricette per raggiungere la felicità, egli dichiara che le generalizzazioni in questo campo sono lontane dalla realtà. 1.  I filosofi sono una specie a parte? Ho sempre cercato di trasmettere agli studenti l’idea che i filosofi non appartengono a una specie a parte, ma che sono prima di tutto uomini, come tutti gli altri esseri mortali. Essi si servono della ragione, ma hanno anche un corpo, delle emozioni, dei sentimenti, delle passioni. Tutte queste loro parti si esprimono in vari modi, hanno un loro linguaggio che essi devono imparare ad ascoltare. Il corpo del filosofo può essere sano, ma si può ammalare, ha dei bisogni che deve imparare ad assecondare1. Per far comprendere agli studenti l’umanità dei filosofi, mi sono servita di un passo di una lettera di David Hume in cui il filosofo racconta che nel periodo che va dal 1729 al 1734, che segna la nascita del Trattato sulla natura umana, rimase vittima di una particolare malattia che si manifestò come uno stato di malinconico torpore e di cupa apatia2. La lettera indirizzata a un medico fa parte di un epistolario che si compone di oltre seicentosessanta

  Ho descritto la metodologia d’insegnamento della filosofia, messa a punto con la scrittrice e esperta in metodologie autobiografiche Francesca Crisi nel libro N. Boccara, F. Crisi, In viaggio verso casa. Dalle immagini del romanzo alle parole della filosofia, Roma, CISU, 2007. 2  Mi riferisco alla lettera che Hume spedì nella primavera del 1734 a un dottore la cui identità è controversa. La lettera viene considerata come una sorta di scrittura autoanalitica, di confessione del proprio stato mentale e fisico. Cfr. David Hume. The letters of David Hume, a cura di J. Y. T. Greig, Oxford, Clarendon Press, 1932, 2 voll., I. A proposito della «malattia dello studioso» si veda M. Simonazzi, La malattia inglese. La melanconia nella tra1

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lettere, nelle quali Hume si intrattiene con famigliari, amici studiosi del suo tempo, rivelando molto di sé sia come filosofo che come uomo. Egli racconta che nel periodo in cui si dedicò allo studio in solitudine, nacque in lui uno stato malinconico dal quale si liberò dedicandosi a un tipo di vita più attivo. Per trovare quella che gli era sembrata «una nuova strada di ricerca», aveva rinunciato a «ogni altro piacere e occupazione», aveva cominciato a curarsi ma aveva sbagliato terapia. Sopraffatto dall’inquietudine, pensò di curarla come un’indolenza del carattere. Raddoppiò così l’applicazione agli studi e arrivò a logorare ancora di più le poche forze che gli rimanevano. Riflettendo su ciò che altri filosofi morali del passato avevano affermato sulla morte, la povertà, la vergogna, la sofferenza, arrivò alla conclusione che gli atti di volontà, atti della ragione attuati in solitudine, possono risultare pericolosi, perché logorano lo spirito, la mente e il corpo. Nella chiusa del Trattato sulla natura umana, facendo un bilancio del viaggio filosofico intrapreso, che lo aveva portato a vivere una situazione di solitudine e di malinconia, in cui si «torturava il cervello con sottigliezze e sofismi», egli osserva che la sua mente riusciva a distendersi solo stando a tavola, facendo conversazione con gli amici. Questi passi di Hume mostrano come egli si sia interrogato su questioni che riguardano la propria vita e a partire dalle sue riflessioni abbia costruito delle teorie. La riflessione su di sé, sul proprio stato fisico e mentale, sul suo stato di malinconia lo ha portato a dichiarare, in un primo tempo, di non voler più rinunciare ai piaceri della vita per seguire ragionamenti filosofici che gli procuravano quello stato di malessere; d’altra parte, egli aveva notato di non poter più reprimere quella curiosità naturale per la filosofia e il desiderio di diffondere il suo sapere non solo alle persone colte, ma all’umanità intera. Partendo da queste considerazioni, Hume arriva a teorizzare di preferire la conversazione alla solitudine, conversazione che non va identificata con gli intrattenimenti salottieri. Egli ritiene di essere portato naturalmente, per sua conformazione, ad affidarsi alla guida sicura della filosofia, sa altresì che questa sua passione va esercitata con rigore nel mondo della conversazione affrontando argomenti di storia, di poesia, di politica. 2.  Assecondare la propria passione. Nell’epoca in cui rinuncia alla professione legale verso cui la famiglia lo aveva avviato per intraprendere quella del filosofo, Hume si convince, come dizione filosofica e medica dell’Inghilterra moderna, Bologna, Il Mulino, 2004 e N. Boccara, David Hume et le bon usage des passions, Paris, L’Harmattan, 2006.

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abbiamo visto, che la ragione non è in grado di governare le passioni, soprattutto se esercitate in solitudine, e si rende conto altresì che la mente può trovare la felicità, solo assecondando la propria passione predominante. Egli racconta di essersi dedicato con entusiasmo alla ricerca della verità, di aver rinunciato per questo ad ogni altro piacere e occupazione per chiudersi in uno studio solitario che gli aveva procurato in un primo tempo una grande felicità, ma lo aveva anche condotto alla malattia. Infatti tutto il suo ardore sembrò estinguersi e a nulla era valso il tentativo di migliorare il suo carattere facendo ricorso a riflessioni che si rivelarono pericolose: Venivo rafforzandomi continuamente con riflessioni contro la morte, la povertà, la vergogna, la sofferenza e tutte le altre calamità della vita. Senza dubbio questi mali sono oltremodo utili quando sono uniti con una vita attiva, giacché l’occasione, congiunta con la riflessione, penetra nell’anima e fa in modo da procurare una profonda impressione, ma nella solitudine essi non servono ad altro scopo che a logorare lo spirito e la forza della mente che, non incontrando resistenza, si perde nell’aria come il nostro braccio che fende il vuoto3.

3.  Che cosa modifica la mente? Riferisce Hume nella lettera prima citata che il programma di miglioramento della propria salute basato su riflessioni e su atti volontaristici non ebbe esito positivo. Egli si convinse così che le riflessioni generali sulle calamità della vita non aiutano a sopportare le avversità e che «le riflessioni della filosofia, sono troppo sottili e vaghe per trovare posto nella vita comune o per riuscire a sradicare un affetto»4. Continuando la strada della sperimentazione di sé, il filosofo scozzese si dichiara scettico nei confronti delle pretese della ragione e della filosofia a governare il corpo e le passioni. Dopo aver osservato che le riflessioni solitarie lo avevano portato ad ammalarsi e a contrarre la malattia dello studioso, concepisce «un modo nuovo» di stabilire la verità e «una nuova scena di pensiero». Se gli uomini, egli osserva, sono guidati più dal temperamento che dalle regole generali è facile desumere che la filosofia non può in nessun modo modificare la condotta e che il filosofo non sa come rivolgersi a una persona che, ad esempio, trae soddisfazione solo «da oggetti bassi e sensuali» o cede «a passioni maligne, che non sente il rimorso che lo spinge a dominare le sue

  Hume, To (Dr. George Cheyne), p. 14.   Ibidem, p. 14.

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inclinazioni viziose» e che non possiede «quel senso o quel gusto necessario per farle desiderare un carattere migliore»5. Il beneficio principale che risulta dalla filosofia, osserva Hume, è quindi indiretto. È certo che l’attenzione alle scienze e alle arti liberali addolcisce e umanizza il carattere e «nutre quelle delicate emozioni in cui consistono la virtù e l’onore»6. Dal momento poi che l’educazione e l’abitudine hanno la capacità di modificare la mente rispetto alla sua struttura originaria, la filosofia e l’arte insensibilmente «affinano il carattere e ci indicano quelle disposizioni cui dovremmo sforzarci di giungere per mezzo di una costante inclinazione della mente e di una consolidata abitudine»7. Egli afferma di non poter riconoscere altre funzioni alla filosofia e di nutrire dubbi per le esortazioni e consolazioni che piacciono tanto ai filosofi speculativi. Egli crede che il filosofo non sia «una persona astuta», capace di fare magie e stregonerie e che non ci possa istruire sui fini da raggiungere, ma solo sui mezzi di cui servirsi per conseguirli. Altro difetto delle riflessioni filosofiche raffinate è quello di diminuire o, addirittura, di estinguere assieme alle passioni viziose anche quelle virtuose: il risultato è quello di rendere la mente del tutto indifferente e inattiva. Invano si cerca di dirigere il loro influsso in una sola direzione: il risultato è quello di diffondere nell’anima una universale insensibilità8. 4.  Motivi che influenzano la volontà. Poniamo l’attenzione ora sulle esperienze che Hume attraversa nella giovinezza, esperienze che lo porteranno a concepire il suo punto di vista intorno «ai motivi che influenzano la volontà». Verso l’inizio del 1729 Hume contrasse, come abbiamo visto, quella che egli definisce la tipica «malattia dello studioso», che gli fece estinguere tutto il suo ardore, lo rese inquieto e privo di forze. Egli si era sottoposto a logoranti riflessioni sulle calamità della vita, quali la morte, la povertà, la vergogna. Aveva sperimentato di persona in quell’occasione che la ragione è incapace di governare la passione, soprattutto se esercitata in solitudine. Aveva compreso che vi sono argomenti o ragioni che si possono usare con

 D. Hume, The Sceptic, in Philosophical works, a cura di T. H. Green e T. H. Grose, London 1886, ristampa anastatica 1964, III, p. 578. 6   Ibidem, p. 578. 7   Ibidem, p. 579. 8   Ibidem, p. 581. 5

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qualche forza o con qualche influenza sulla passione. Infatti egli arriva a fare questa generalizzazione: ogni uomo consulta il proprio ‘gusto’ per determinare la propria condotta e si serve della ragione solo per vagliare i mezzi più sicuri per conseguire il suo oggetto. La ragione intesa in senso stretto, cioè a dire il giudizio di verità e di falsità, non può mai essere di per sé un motivo per la volontà, né può avere alcuna influenza se non colpisce una passione ossia un’affezione. Le relazioni astratte di idee sono oggetto di curiosità, non di volizione, mentre i dati di fatto, quando non sono né buoni né cattivi, quando non suscitano né desiderio né avversione, sono del tutto indifferenti e non possono considerarsi come motivo di un’azione, siano essi noti o ignoti, percepiti correttamente o erroneamente. L’elenco dei passi humiani riguardanti i motivi che influenzano la volontà potrebbero continuare a lungo e potrebbero essere utilizzati per avere una conoscenza più compiuta e più soddisfacente di quello che il filosofo scozzese in pieno Settecento ha effettivamente sostenuto a questo riguardo. Tale consapevolezza può portarci a rivedere la vulgata dell’Illuminismo e del modo in cui in esso si sarebbe guardato alla ragione e alle passioni. Riprenderemo questa questione più avanti. Concentriamoci ora sul fatto che Hume sostiene che la ragione non può esercitare nessun influsso sulla volontà. Quest’affermazione viene fatta nel Trattato sulla natura umana, in quel passo molto citato in cui si dice: non c’è nulla di più comune in filosofia, e anche nella vita quotidiana, che parlare del conflitto tra passione e ragione per dare la palma alla ragione, e per affermare che gli uomini sono virtuosi solo nella misura in cui obbediscono ai suoi comandi. Si sostiene che ogni creatura razionale ha l’obbligo di regolare le proprie azioni secondo i dettami della ragione; e che nel caso in cui ci sia qualche altro motivo o principio che pretenda di determinare la sua condotta deve opporsi a esso finché non sia completamente domato o almeno conciliato con quel principio superiore. La maggior parte della filosofia morale, antica e moderna, sembra fondarsi su quel modo di pensare; e non c’è nulla che offra maggior spazio sia alle disquisizioni metafisiche, come alle declamazioni popolari, quanto questa presunta superiorità della ragione sulla passione (…) non parliamo né con rigore né filosoficamente quando parliamo di una lotta tra la passione e la ragione. La ragione è, e può solo essere, schiava delle passioni e non può rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella di servire e obbedire a esse9.

Ecco come Hume arriva a sostenere l’importanza delle componenti passionali e sentimentali nella motivazione del desiderio per il conseguimento della felicità. 9  D. Hume, A Treatise of human nature, in Philosophical Works, vol. II, 1, II, sez.3, pp.193-195.

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5.  Felicità e amor di sé. Hume ritorna a più riprese su questo argomento. La passione – si legge nel Trattato sulla natura umana – è, in primo luogo, un’esistenza originaria che non può essere ostacolata dalla verità e dalla ragione poiché la contraddizione consiste nel disaccordo fra le idee, considerate come delle copie, e gli oggetti che esse rappresentano10. Solo i giudizi dell’intelletto hanno un riferimento con la verità e con la ragione. Da ciò consegue che le passioni possono essere contrarie alla ragione solo se accompagnate da un giudizio falso. In questo senso egli sostiene che non vi è differenza tra passioni ‘ragionevoli’ e passioni ‘irragionevoli’: esiste solo una passione che ha una sua autonomia dalla ragione e quindi da ogni calcolo. Egli arriva a contestare qui il principio secondo il quale ogni passione, anche se disinteressata, sarebbe la modificazione dell’amor di sé e ad affermare nel Trattato, a proposito dell’egoismo: Ho la sensazione che, generalmente parlando, le rappresentazioni di questa qualità si siano spinte troppo lontane, e che le descrizioni dell’umanità che certi filosofi si compiacciono tanto di dare a questo proposito siano tanto lontane dalla realtà quanto le storie di mostri che incontriamo nelle favole e nei romanzi. Ben lungi dal ritenere che gli uomini non abbiano effetto per tutto ciò che va al di là di loro stessi, ritengo che, sebbene sia raro trovare un uomo che ami una certa persona più di se stesso, pur tuttavia è ugualmente raro trovare una persona in cui tutte le affezioni benevole unite insieme non riescano a superare quelle egoistiche11.

Hume riprende questo tema nella Ricerca sui principi della morale, in particolare nell’Appendice II, in un passo chiave per comprendere il rapporto tra passioni e raggiungimento della felicità, che il filosofo dedica al tema dell’amor di sé: C’è un principio che si suppone prevalga fra molti e che è assolutamente incompatibile con qualsiasi virtù o sentimento morale; e poiché esso non può derivare se non dall’inclinazione più depravata, così a sua volta esso tende ad incoraggiare ulteriormente tale pervertimento morale. Questo principio sostiene che ogni benevolenza è semplice ipocrisia, ogni amicizia un inganno, il desiderio del pubblico bene una buffonata, la felicità un trucco per procurarsi fiducia e confidenza; e sostiene che mentre tutti noi, in fondo, tendiamo soltanto al nostro privato interesse, vestiamo quelle belle maschere per distogliere gli altri dallo stare in guardia ed averli così meglio esposti alle nostre astuzie e macchinazioni12.

  Hume, A Treatise, p. 195.   Ibidem, p. 260. 12  D. Hume, An Enquiry concerning the principle of morals, in Philosophical Works, vol. IV, p. 266. 10 11

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In contrasto con l’ipotesi egoistica, Hume ribadisce che anche all’osservatore più superficiale risulta che vi siano delle disposizioni come la benevolenza, l’amore, l’amicizia e la generosità che hanno le loro cause e i loro effetti ben distinte da quelle delle passioni egoistiche. Nel caso degli animali si trova che essi sono capaci di grande benevolenza nei riguardi della loro prole e non c’è in questo caso nessun sospetto di dissimulazione. Ma se si ammette una benevolenza disinteressata nelle specie inferiori, perché non la si può accettare anche in quelle superiori? L’ipotesi che ammette una benevolenza disinteressata, distinta dall’amor di sé, ha realmente in sé maggior semplicità ed è più conforme all’analogia della natura di quella che pretende di risolvere ogni sentimento di amicizia e di umanità nell’amor di sé (…). Se non vi fosse appetito di sorta antecedente all’amor di sé, tale inclinazione non potrebbe mai esplicarsi, poiché in tal caso avremmo provato pochi ed esigui piaceri o dolori ed avremmo una modesta felicità o infelicità da perseguire o da evitare13.

È quindi la natura che ci imprime un’originaria inclinazione verso una passione. E questa passione viene perseguita senza calcolo: l’utile che eventualmente se ne può ricavare non costituisce il movente dell’azione. L’utile, pur non costituendo un movente all’azione, ha la funzione di ‘sostenere l’immaginazione’ e di concentrare di più la nostra attenzione. Infatti le nostre azioni, per avere effetto su di noi, devono essere accompagnate da un’idea di utilità. Per cui «un uomo estremamente ricco e niente affatto incline all’avarizia, per quanto provi piacere a cacciare pernici e fagiani, non prova nessuna soddisfazione a cacciare corvi e gazze; ciò in quanto giudica i primi adatti ai banchetti e i secondi del tutto inutili»14. Dal momento che l’utilità che si ricava dall’azione non può costituire il movente dell’azione e che la passione non viene assecondata per calcolo, non è lecita la distinzione che di solito viene fatta tra le cosiddette passioni egoistiche e le passioni altruistiche. Afferma infatti Hume nella Prima Ricerca I filosofi sono stati soliti dividere tutte le passioni della mente in due classi, le egoistiche e quelle improntate a benevolenza; e si è supposto che esse stessero costantemente in opposizione e in contrasto; e si è pensato che le passioni improntate a benevolenza non potessero conseguire il loro oggetto se non a spese delle passioni egoistiche. Fra le passioni egoistiche venivano classificate l’avarizia, l’ambizione, la vendetta; fra le passioni improntate a benevolenza venivano classificate l’affetto

  Ibidem.  Che il bottino della caccia sia commestibile è una condizione per fissare la nostra attenzione e dar così direzione e forza alla nostra attività mentale. 13 14

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naturale, l’amicizia, il desiderio del bene pubblico. I filosofi possono ora avvertire l’improprietà di questa divisione. È stato trovato al di fuori di ogni controversia, che anche le passioni, comunemente considerate egoistiche, spingono la mente fuori di se stessa, direttamente verso l’oggetto; che sebbene la soddisfazione di queste passioni ci dia godimento, tuttavia la prospettiva di questo godimento, non è la causa della passione, ma, al contrario la passione è antecedente al godimento e, senza la prima, non potrebbe il secondo; che le cose vanno esattamente nello stesso modo per le passioni chiamate di benevolenza e che per conseguenza un uomo non è più interessato quando cerca la propria gloria di quando desidera la felicità del suo amico, né uno è più disinteressato quando sacrifica la sua tranquillità e il suo benessere al bene pubblico di quando s’affatica per il soddisfacimento dell’avarizia e dell’ambizione15.

Hume fa qui proprio l’insegnamento di Joseph Butler nell’affermare che, mentre l’amor di sé è un principio razionale che ha bisogno della riflessione e del calcolo, le passioni, al contrario, spingono l’uomo immediatamente verso l’oggetto esterno senza alcun calcolo del piacere e del danno che la considerazione di tale passione procurerà a se stessi e agli altri16. È questa immediatezza e originalità delle passioni che impedisce la distinzione tra passioni egoistiche e altruistiche. Perseguendo i propri oggetti, gli uomini sono spesso causa della loro rovina, ma non per questo si possono considerare egoisti. L’azione per Butler diventa cattiva soltanto quando permettiamo a tali passioni che oltrepassino certi limiti, ossia quando trascuriamo la preminenza del principio di riflessione o di coscienza. L’appagamento di un desiderio può essere immorale a patto che sia sottoposto al controllo e alla guida della riflessione. Butler nei Sermoni si domandava in che cosa si distingua l’amor di sé dalle altre affezioni e dai loro rispettivi oggetti. Nel Sermone XI si legge che l’amor di sé desidera la felicità o il bene privato e che nel raggiungere queste consiste il proprio soddisfacimento. Le passioni o istinti particolari invece sono diretti alle cose esterne, distinte dal piacere che deriva da esse. Esiste quindi prima il rapporto tra l’oggetto e la passione e poi ne discende il piacere. Solo chi possiede la passione per la vanità avrà piacere che lo lodino. Butler quindi non distingue le passioni egoistiche da quelle altruistiche, dal momento che ritiene che esiste prima di tutto la passione (vanità, ambizione, avarizia, benevolenza) la quale fa diventare nostro bene e nostra felicità l’oggetto verso cui tende. Non si tende quindi all’oggetto per il piacere che se ne trae, ma per l’originaria struttura della nostra mente che ci fa puntare verso

  Hume, An Enquiry, pp. 12-13, nota 1.   J. Butler, Fifteen sermons preached at the Rolls Chapel, London 1726; tr. it. I quindici sermoni, Firenze 1969, sermone XI. 15 16

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l’oggetto. E non si punta verso l’oggetto per soddisfare l’amor di sé, ma per soddisfare l’appetito, la passione che è antecedente all’amor di sé. La felicità, afferma Butler, non consiste nell’amor di sé. Infatti il desiderio di felicità non è la felicità più che il desiderio di ricchezza sia il godimento di essa. Si può amare se stessi con l’appetito più totale e sconfinato e tuttavia essere estremamente infelici. Se l’amor di sé ci prende totalmente e non lascia adito a nessun altro principio, non ci può essere la felicità e il godimento di alcun genere. Infatti la felicità consiste nel soddisfacimento di particolari passioni. E per ottenere la felicità si deve supporre l’esistenza di particolari passioni. L’amor di sé ci spinge ad ottenere e ad assicurare il nostro bene ma non fa sì che questo o quello sia il nostro interesse. Quest’ultimo infatti è già costituito per natura. La felicità consiste quindi nell’appagamento di certi appetiti. E l’amor di sé può mettersi all’opera per soddisfarli. La felicità o il godimento non hanno una connessione immediata con l’amor di sé, ma derivano solo da tale appagamento. Butler sostiene che «ogni particolare inclinazione, fra cui la benevolenza, serve all’amor di sé con l’essere lo strumento del godimento privato; e che, sotto un rispetto, la benevolenza contribuisce di più all’interesse privato, cioè al godimento o soddisfazione personale, che qualsiasi altra delle comuni particolari inclinazioni, poiché in un certo senso essa trova in sé il suo appagamento»17. Hume quindi, proprio perché ha fatto suo l’insegnamento di Butler, afferma nel passo sopraccitato della Ricerca sull’intelletto umano: «un uomo non è più interessato quando cerca la sua propria gloria di quando desidera la felicità del suo amico». Da ciò deriva quindi che il filosofo scozzese non distingue tra passioni egoistiche e passioni improntate a benevolenza, in quanto anche quelle che comunemente vengono chiamate egoistiche, spingono la mente al di fuori di se stessa, direttamente verso l’oggetto. Interessante risulta dunque l’analisi fornita da Hume dell’origine della motivazione, perché mostra come l’uscita dall’egocentrismo e del solipsismo sia garantito dalle passioni. Quest’analisi, come accennavo all’inizio, serve anche indirettamente a contestare la presunta indifferenza degli Illuministi nei confronti della vita passionale «in pieno Settecento e in pieno Illuminismo, troviamo che David Hume (…) sviluppa una serie di analisi e di conclusioni del tutto inconciliabili con questa concezione volgare dell’Illuminismo e del modo in cui in esso si sarebbe guardato alla ragione e alle passioni»18.   Ibidem, p. 165.  E. Lecaldano, Ragione e passioni secondo David Hume: una concezione illuministica?, «Rivista di filosofia», LXXXVI (1985), pp. 53-54. 17 18

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6.  Felicità pubblica e giustizia. Nell’analizzare la natura dell’impulso che porta l’uomo ad associarsi, David Hume polemizza con coloro che prendono le mosse da una massima politica (per esempio l’egoismo) e presumono di presentare la propria massima come la sola rispondente ai presupposti storici e ideali della società umana19. Seguendo l’indicazione di tener separati questi due piani, Hume è pronto ad ammettere la forza dell’interesse personale, del self-interest, l’impulso che porta l’uomo ad associarsi. Egli sostiene nel terzo libro del Trattato che nessuna affezione della mente ha né una forza sufficiente né una direzione adatta a controbilanciare l’amore del guadagno e a rendere gli uomini dei membri adatti alla società, facendoli astenere dai beni altrui. Pur ammettendo ciò, il filosofo illuminista si discosta da coloro che considerano l’egoismo come l’unica vera qualità presente nell’uomo20. Da una parte, egli afferma, si può riconoscere la generosità verso gli altri come affezione dell’anima che ha una sua esistenza indipendente dal self-interest e non un camuffamento di quest’ultimo, e, dall’altra, la si deve considerare troppo debole per controbilanciare l’amore per il guadagno e far astenere gli uomini dai beni altrui. Tale scopo è raggiunto proprio dal self-interest. Infatti questa passione, che originariamente è contraria all’unione necessaria alla società, con un semplice atto di riflessione pone rimedio alla sua naturale tendenza a cambiare direzione. Una volta che ci si accorge che il principale motivo di turbamento nella società sorge da quei beni che chiamiamo esterni e dal loro passaggio da una persona ad un’altra, poniamo rimedio a questa instabilità, mediante una convenzione tra tutti i membri della società, conferiamo stabilità al possesso di quei beni esterni e lasciamo che «ognuno goda in pace di tutto ciò che riesca ad acquisire casualmente o con il suo lavoro»21. L’idea di giustizia non è per Hume un principio naturale in grado di ispirare agli uomini un’equa condotta reciproca, ma è un principio artificiale della mente umana. E ciò nel senso che nella struttura originaria della nostra mente, la nostra attenzione è limitata solo a noi stessi, in secondo luogo ai parenti ed infine solo debolmente raggiunge gli estranei e le persone che ci sono indifferenti. L’uomo, con un atto di riflessione, si rende conto che

  G. Giarrizzo, David Hume politico e storico, Torino, Einaudi, 1962, p. 21.   Sono tornata più volte ad analizzare la tesi di Hume in saggi e ne Il buon uso delle passioni, di cui si veda anche la già citata versione francese rivista e aggiornata dal titolo David Hume et le bon usage des passions. 21   Hume, A Treatise, p. 262. 19 20

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attraverso la società può supplire ai suoi bisogni e ‘sente’ l’interesse pubblico come interesse comune. Ho posto l’accento sulla parola ‘sentire’ in questo passo humiano, proprio per sottolineare che per quanto attiene alla morale, questo filosofo illuminista non si riferisce a verità astratte, ma al sentire. Questa affermazione, sia detto per inciso si ritrova in un altro grande illuminista quale Montesquieu, il quale, nelle Lettere Persiane, riguardo alla questione morale «se la felicità degli uomini si fonda sul piacere e le soddisfazioni dei sensi o sulla pratica della virtù», risponde per bocca del protagonista Usbek: «Non ho creduto di dover ricorrere a ragionamenti astratti, per soddisfare la tua richiesta, ci sono verità di cui non basta essere convinto. Bisogna sentirle: tali sono le verità morali»22. Il rimedio quindi per Hume non viene dalla natura, ma dall’artificio. La natura fornisce con il giudizio e con l’intelletto un rimedio a ciò che di irregolare e svantaggioso c’è nelle affezioni. Infatti quando gli uomini, in seguito alla prima educazione nella società, si sono resi conto del fatto che il principale motivo di turbamento nella società sorge dai cosiddetti beni esterni, attuano una convenzione tra tutti i membri della società. Questa convenzione non ha la natura di una promessa, ma nasce dalla consapevolezza generale per l’interesse comune che induce i membri della società a regolare la propria condotta mediante regole. L’interesse personale è una passione che, se lasciata incontrollata, è nemica dell’interesse pubblico, mentre se è corretta dalla riflessione, ne determina l’origine. Questa passione viene così limitata nella sua immediatezza in vista di un bene più grande. Si stabiliscono le regole della giustizia per correggere la parzialità delle passioni e attuare la conciliazione tra il bene pubblico e bene privato. La giustizia non corregge solo la parzialità delle passioni egoistiche, ma limita la parzialità di tutte le passioni, sia egoistiche che altruistiche. La convenzione non ha il carattere del patto, ma è solo il frutto della consapevolezza che tutti i membri della società esprimono l’un l’altro e che li induce a disciplinare la loro condotta in base a certe regole. I membri della società non modificano la loro condotta in base a un atto della ragione, dal momento che quest’ultimo sarebbe incapace di disciplinare la volontà, ma introducendo delle regole di giustizia che modificano gli interessi individuali. La passione dell’interesse personale riesce a frenare se stessa mediante una regola semplicissima e ovvia, che stabilisce appunto la stabilità del 22   Si veda a questo riguardo la lettera 11 delle Lettere persiane di Montesquieu e il paragrafo «Motivi che hanno spinto a partire» in N. Boccara, F. Crisi, Filosofia e autobiografia. Studenti in viaggio nelle Lettere persiane, Viterbo, Sette Città, 2003, pp. 63 sgg.

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possesso. Ma se questa riflessione è talmente ovvia, risulta evidente che gli uomini non potranno restare a lungo nella condizione selvaggia che precede la società. Lo stato di natura, di cui parlano i filosofi, come pure l’età dell’oro, inventata dalla fantasia dei poeti, non è altro che una semplice finzione filosofica che non ha mai avuto alcuna realtà e mai avrebbe potuto averne. Non corrisponde a verità, né la descrizione di uno stato di natura pieno di guerra e di violenza, disciplinato e limitato da un atto razionale, né l’immagine di un’età felice, caratterizzata da sentimenti affettuosi, dalla simpatia e dalla compassione. Hume mostra di non sopravvalutare la primitiva età dell’oro, a partire dalla quale tutta la storia successiva si configurerebbe piuttosto come un processo di decadenza. Egli riconosce, altresì, alla finzione dell’età dell’oro un’utilità: quella di indicare l’origine della giustizia nell’egoismo e nella limitata generosità degli uomini. 7.  Anti-utopia in politica: premesse per il mantenimento della pace. Definisco la posizione di David Hume come anti-utopica. Se l’utopia, come la stessa etimologia della parola in parte indica (luogo che non esiste), è posta in uno spazio e tempo ideali, non per questo la sua origine è fantastica. Se si definisce l’utopia come proiezione di quella realtà che l’ha prodotta, non solo diventa l’origine prima di ogni altra utopia ma anche il termine necessario di confronto. Ora, il confronto utopia-realtà può portare, in senso negativo, alla negazione totale della realtà stessa e quindi ad una netta antitesi tra istanze utopiche e istanze reali, nel senso che le prime non si preoccupano minimamente di presentarsi su un piano assolutamente normativo ideale e dunque di difficile se non impossibile attuazione. Laddove questo stesso confronto, in senso positivo, offrirebbe all’utopia la possibilità di utilizzare, sviluppandoli fino in fondo, quelle idee e quei valori non ancora realizzati e soddisfatti dalla realtà concreta e che ne rappresentano le aspirazioni e i bisogni più rilevanti. Dunque l’utopia, da una parte, se nega la realtà, si presenta come schema ideale-normativo di essa, dall’altra, se ne sviluppa le aspirazioni e i bisogni, presenti in essa ancora in potenza, si presenta come una forza prorompente e rivoluzionaria rispetto alla base reale su cui agisce23. Il significato ora attribuito al termine utopia chiarisce la prospettiva di un discorso sull’anti-utopia. Infatti l’anti-utopia utilizza, negandoli, gli stessi 23   Si veda K. Mannheim, Ideology and Utopia, Routledge e Kegan, London 1953, tr. it. a cura di A. Santucci, Ideologia e utopia, Bologna, Il Mulino, 1957, p. 201.

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elementi su cui si basa l’utopia, da una parte si presenta come rifiuto idealenormativo e, dall’altra, come rifiuto della presenza nella realtà storica dei valori ideali che la trascendono. Inoltre, l’anti-utopia come tale accetta il solo piano reale ed è interessata ad un’indagine che prescinde da ogni contenuto non specificamente reale, cioè astratto. L’indagine humiana risponde al carattere specificamente reale dell’anti-utopia e lo conferma in quanto si propone di «ricercare dentro i limiti della capacità umana la verità che giace nascosta in profondità tanto recondite»24. Inoltre l’utopia istaura con la realtà un rapporto statico e non dialettico, nel senso che nega la realtà nel momento in cui si pone a confronto con essa, l’atteggiamento humiano, che fonda i suoi presupposti sull’osservazione e l’esperienza, si pone ad un livello di comprensione della realtà. In altre parole l’opera humiana si basa su una concezione descrittiva e non prescrittiva o normativa della realtà, quale è appunto l’utopia. Ciò significa che il filosofo illuminista prende le distanze, in politica, dalle analisi di chi, come Hobbes, riporta l’adozione di una qualsiasi massima a un astratto sistema di valori. Di contro a un’unica massima, egli rivendica la varietà delle massime politiche25. Anche il problema dell’origine dello Stato è utilizzato da Hume per criticare l’astrattismo della concezione contrattualistica, quale quella sostenuta da Hobbes, cui contrapporne la tesi convenzionalistica. Hume afferma che l’origine del governo è dovuta al fatto che «gli uomini non sono in grado di porre radicalmente rimedio, in loro stessi o negli altri, a quella ristrettezza d’animo che fa loro preferire ciò che è presente a ciò che è lontano». È questo il principio per cui gli uomini agiscono così spesso in contrasto con i loro interessi e preferiscono un banale vantaggio presente al mantenimento dell’ordine della società; e allora essi si sottomettono alla necessità di rispettare le leggi della giustizia e dell’equità per il mantenimento dell’ordine nella società. «Il governo è, dunque, un’invenzione estremamente vantaggiosa e, addirittura in certe circostanze, assolutamente necessaria all’umanità», ma «non tuttavia sempre necessaria, né è impossibile che gli uomini riescano a tenere per un certo tempo in vita la società senza ricorrere a tale invenzione»26. La condizione di una società senza governo non solo è una delle più naturali per l’uomo, ma addirittura, gli uomini possono vivere in società senza governo. Se il governo è un’invenzione, o, per meglio dire, una convenzione, che gli uomini stabiliscono fra loro, convinti della sua necessità quando un aumento delle ricchezze e dei beni giunge a turbare il   Hume, A Treatise, I, p. 306.   Si veda a questo proposito Giarrizzo, David Hume politico e storico, p. 21. 26   Hume, A Treatise, II, p. 304. 24 25

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godimento della pace e della concordia, esso, tuttavia, non è indispensabile al primo apparire della società. Per Hobbes, l’umanità senza governo andrebbe incontro ad un continuo «bellum omnium contra omnes», in quanto solo lo stato sarebbe in grado di porre un freno all’egoismo del singolo inteso come principio di ogni azione; per Hume il governo non assolve la stessa funzione indicata da Hobbes, anche se riconosce come molla all’agire umano l’interesse. L’egoismo in Hobbes è un egoismo astratto, la cui azione, presupposta anche in mancanza di effetti concreti, instaura la necessità di far coincidere la nascita di una qualsiasi società con quella del governo; in Hume al contrario l’egoismo è concreto, cioè reale solo nel momento in cui agisce e per gli effetti concreti che produce instaura la necessità della nascita del governo. La ricerca humiana fonda quindi le sue proprie norme di volta in volta sulla conoscenza dei fatti e sullo studio empirico della natura umana, laddove i sostenitori dei presunti diritti naturali mirano a scoprire qualche legge suprema della natura umana, avente valore assoluto ed universale, da cui si possono ricavare tutte le altri norme particolari. Si nota dunque nella realtà descritta da Hume, la mancanza di assoluto, nel senso che l’esistenza non possiede né una sua motivazione, né valori definiti. Ciò nonostante vi è spazio in lui per una politica come scienza nel quadro di un ‘conservatorismo razionalistico’, che mira a rendere il sistema di governo indipendente dal caso e a regolare la cosa pubblica nello spirito dell’ordine e della moderazione. Il legislatore intelligente non deve mirare a cambiare la natura, rendendo, ad esempio, gli uomini totalmente altruisti, ma deve sfruttare, le qualità fondamentali della natura, tenendo presente l’influsso delle passioni e dell’abitudine27 . Coraggio quindi quello di Hume nel non cercare sostituti all’assoluto. Un coraggio però non eroico, ma carico di inquietudine. Egli si propone di smascherare non una presunta originaria natura egoistica dell’uomo camuffata, quanto di riconoscere l’esistenza della passione dell’interesse personale. Questa per altro è accompagnata da affezioni benevole, distinte dalla prima, ma non tanto forti da far cambiare la direzione alla passione. La passione dell’interesse personale infatti riesce ad autodisciplinarsi. Egli afferma che i sostenitori del principio dell’egoismo incorrono in errore perché trasformano l’impulso che porta l’uomo ad associarsi in una massima che, in quanto principio razionale, non può determinare la volontà. Ciò che 27   Queste argomentazioni sono presenti in un saggio di Bronislaw Baczko, dal titolo italiano Hume: la natura umana e l‘assenza dell’assoluto, che ho consultato presso l’editore Laterza con l’assenso dell’autore.

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può determinare la volontà è infatti solo la passione. Per formare la società non è solo necessario che sia di per sé vantaggiosa, ma anche che gli uomini si accorgano di questi vantaggi; ed è impossibile giungere a ciò solo grazie allo studio e alla riflessione. Per fortuna ai rimedi e ai bisogni che sono sentiti come remoti e oscuri, si unisce un altro bisogno, che essendo di più immediata soddisfazione, potrà essere considerato il principio primo e originario della società umana. Questo bisogno è l’appetito tra i sessi che unisce gli uomini fino a quando non nascerà il legame tra i genitori e la loro prole. Nasce così una società più numerosa e con il tempo l’abitudine e il costume, agendo sulle tenere menti dei giovani, li rendono consapevoli dei vantaggi che possono trarre dalla società e pian piano li rendono adatti ad essa. 8.  La mente non dispone di risorse in se stessa che procurino la felicità. Il filosofo scozzese ci presenta dunque nel Trattato un uomo prevalentemente fatto di istinti, abitudini, passioni tra le quali di più basso profilo è il ruolo della ragione. «Si tratta di passioni, istinti e abitudini che lo scienziato della natura umana deve riconoscere nella loro molteplicità tentando poi di farne emergere somiglianze e correlazioni associative»28. Il self interest spinge gli uomini verso la società. Ciò vale però solo quando la società è ristretta: quanto più grande è la società, tanto più debole diventa l’interesse personale come motivo di ubbidienza. È la simpatia che media il passaggio dall’obbligo naturale alla moralità. La simpatia fa in modo che l’uomo partecipi emotivamente dei sentimenti dell’altro anche se estraneo. Essa è un principio che rende attraenti gli oggetti verso cui tende l’egoismo. Noi entriamo infatti, per la forza dell’immaginazione, in contatto con gli interessi degli altri e troviamo la stessa soddisfazione che gli oggetti provocano spontaneamente in loro. Nulla ha il potere di scuotere di più la mente che la compagnia degli altri uomini29. Se l’uomo ha la tendenza naturale a fuggire la solitudine è perché ogni piacere languisce se non è goduto in compagnia, come pure qualsiasi dolore diventa intollerabile. È grazie a questo principio, che accomuna e vivifica ogni passione che ci muove, orgoglio, ambizione, desiderio di sapere, concupiscenza, che la vita affettiva dell’uomo non si esaurisce in se medesima, nella propria individualità, ma mostra l’attitudine a rivivere gli stati d’animo altrui e a superare i confini

28  E. Lecaldano, Hume e la nascita dell’etica contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 79. 29   Hume, A Treatise, II, p.141.

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della propria soggettività. Hume invita nel saggio L’epicureo ad abbandonare tutte quelle pretese che ci vogliono rendere felici «per la sola consapevolezza che si sta facendo il bene» e ci inducono a «disprezzare ogni aiuto e soddisfazione che può venire dagli oggetti esterni». La mente non dispone di risorse in se stessa tali che procurino felicità: una volta priva di occupazione e gioie esterne, dovrà sprofondare in un triste letargo. Dal momento che la mente non dispone di risorse che procurino felicità, i saggi filosofi non ci possono indicare la strada della felicità. Solo consultando le passioni e le inclinazioni si riconoscono i dettami della natura30. Per rispondere ai grandi interrogativi che la mente gli pone naturalmente, Hume sceglie la filosofia e non la superstizione. Infatti, mentre la prima «si contenta di assegnare nuove cause e principi ai fenomeni del mondo visibile», la seconda «ci apre un mondo suo proprio e ci presenta spettacoli, esseri, oggetti del tutto nuovi»31. La guida sicura a cui ci si deve affidare è la natura umana, unica scienza dell’uomo. Hume combatte dunque il primato della ragione astratta sulla realtà concreta della storia e si dichiara contrario sia ai miti finalistici sia a quelli delle origini.

 D. Hume, The Epicurean, in Philosophical Works, vol. II, p.550.   Hume, A Treatise, II, p. 550.

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Letizia Norci Cagiano LE MEDITAZIONI SULLA FELICITÀ DI PIETRO VERRI: LE RAGIONI DI UN TITOLO

Questo mio intervento consiste in una serie di domande che pongo a me stessa e a chi legge, per giungere ad una questione principale: perché Pietro Verri ha intitolato Meditazioni il suo primo trattato sulla felicità? La prima domanda riguarda le Lettres persanes di Montesquieu, cioè la prima opera importante del primo dei grandi philosophes cui Verri si ricollega, ed è la seguente: chi è felice nelle Lettres persanes? Non certo l’ombroso Usbek, tormentato dalla gelosia e dall’incapacità di contrastare uno stato di cose che in coscienza non condivide, ma che in realtà contribuisce ad aggravare; tutte le sue riflessioni e le sue critiche sui comportamenti dell’Occidente – ma anche dell’Oriente – non servono a regolare la sua condotta nei confronti di quel microcosmo che è il serraglio di Isfahan. Non certo il beffardo Rica, che si adatta con una certa facilità ai costumi occidentali, senza cessare di coglierne i lati assurdi o ridicoli; e neppure Roxane che, pur essendosi incamminata sulla strada della felicità nel rifiuto dell’odioso dispotismo del serraglio e in conformità con le leggi della natura, è costretta a darsi la morte. Morte dignitosa, ma non serena perché mentre Roxane attende lucidamente gli effetti del veleno, i suoi ragionamenti sono inaspriti dall’odio e dallo spirito di vendetta. Gli unici felici, nelle Lettres persanes, sembra che siano i Trogloditi del celebre apologo delle lettere XI-XIV, e soltanto in una fase transitoria delle loro vicende. La felicità dunque non si troverebbe né in Oriente, né in Occidente, ma in un luogo fuori dallo spazio e dal tempo, in un’Arabia favolosa di epoca assai remota e comunque fuori dalla storia. A questo proposito si potrebbe aprire una digressione sullo sviluppo, nel Settecento, dell’indagine sulle origini, volta verso un passato perduto e non documentabile, alla ricerca di fondamenti comuni (una lingua unica, una

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religione unica) che appartengono, in un’epoca originaria, all’universalità dell’umano, al di là di ogni etnocentrismo1. I Trogloditi di Montesquieu, costituendo una società organizzata e in relazione con altre popolazioni, non corrispondano alla visione dell’uomo primitivo di Rousseau; mi sembra anche che, dato il loro carattere astratto e favoloso, non suscitino neppure quegli interrogativi pratici che Genovesi porrà nelle Lettere accademiche domandandosi se sono più felici gl’ignoranti o i dotti. L’unica indicazione vaga che si può raccogliere riguarda la collocazione orientale di un passato originario e inteso come bene perduto. Secondo il Montesquieu delle Lettres persanes, la felicità si trova dunque in questo luogo primitivo e immaginario – luogo non luogo – che è il paese dei Trogloditi, in un momento privilegiato che sta in bilico fra un passato di egoismi e rivalità e un futuro imminente in cui il giogo della virtù, diventato pesante, verrà trasferito sulle spalle di qualcuno che alleggerisca gli altri dalla responsabilità di essere virtuosi. La felicità, proiettata in un luogo e in un tempo la cui dimensione resta puramente ideale, è colta come un passaggio veloce, uno stato di equilibrio instabile che si raggiunge grazie ad un percorso faticoso. Il difficile processo di evoluzione dei Trogloditi può dunque apparire, fuori metafora, come una ricerca intellettuale verso un traguardo che si sfiora, ma resta sfuggente, o come la tensione spirituale di un musicista verso l’esecuzione perfetta 2. Anche Voltaire, nella Princesse de Babylone, parla di un popolo felice, quello dei Gangaridi, remoto e primitivo anche rispetto all’antica Babilonia dove vive la protagonista Formosante, e che – in quanto regno che fa parte della storia – condivide tanti difetti della Francia di Luigi XV. Il paese dei Gangaridi, guidato da un re pastore, è invece simbolo di una felicità primigenia che accomuna uomini e animali in un linguaggio comune: «Je ne suis qu’un volatile – dice la fenice a Formosante – mais je nacquis dans le temps que toutes les bêtes parlaient encore, et que les oiseaux, les serpents, les ânesses, les chevaux et les griffons s’entretenaient familièrement avec les hommes»3.

  Sul tema dell’etnocentrismo resta attuale, fra tanti, il volume di Tzvetan Todorov, Nous et les autres. La réflexion française sur la diversité humaine, Paris, Seuil, 1989. 2   Rinviamo su questo argomento alle considerazioni di Corrado Rosso sulla felicità nella ricerca: non la verità che qualche uomo possiede, ma la pena per raggiungere la verità fa il valore morale dell’uomo. Cfr. il capitolo La felicità della ricerca: Diderot e Lessing, nel suo Illuminismo, felicità, dolore, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1969, pp. 3-26. 3  Voltaire, La Princesse de Babylone (1768), cap. III. La si legga in Id., La princesse de Babylone et autres contes, a cura di P. Grimal, Paris, Colin, 1963. 1

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Tuttavia questo regno è sfuggente, come il figlio del suo re, Amazan, che Formosante insegue attraverso l’Asia e l’Europa. Negli slanci dell’inseguimento, nell’acquisizione di conoscenza e di saggezza attraverso le tappe del viaggio, si possono individuare i momenti più alti e felici di una conquista che, una volta realizzata – Formosante raggiunge e sposa Amazan – perde molte delle sue attrattive. Fra l’altro, Amazan e Formosante non sembrano più propensi a stabilirsi nel regno dei Gangaridi4. Ancora una volta la felicità non si presenta come una promessa, ma come una ricerca consapevole della necessità di assumersi alcune pesanti responsabilità, per giungere soltanto a degli stadi insoddisfacenti che conosceranno elevazioni e cadute, come avviene per i Trogloditi, e più tardi, in modo diverso, per i Romani delle Considérations; o come avviene per Formosante che trova e perde le tracce di Amazan. E non sfuggono le analogie con la quête di Bougainville che sul filo dei suoi viaggi avventurosi elabora percorsi mentali che non sono alternativi alle sue esperienze marinare, ma il frutto di adattamenti tra ciò che ha visto e un ideale di bonheur condiviso dai filosofi del suo tempo. Tutti conoscono la sua descrizione di Tahiti come un paradiso in terra, dove gli uomini vivono secondo natura o meglio secondo un’idealizzazione della vita primitiva molto diffusa nella cultura contemporanea, che Diderot utilizzerà nel suo Supplément, ma che Bougainville nega o ridimensiona in altre parti dello stesso Voyage o nel suo diario di bordo5. Egli ci offre così la conferma che anche in un luogo remoto nello spazio e nel tempo come Tahiti (apparente incarnazione dei regni vagheggiati da Montesquieu e da Voltaire), non è la dimensione concreta che va considerata, ma la portata intellettuale e dialettica che scaturisce da un esercizio mentale di confronto tra realtà e ideale, alla ricerca di modelli sempre più alti di compromesso, cioè di equilibrio tra un’aspirazione e le possibilità effettive di metterla in pratica. Questa sarebbe poi anche l’idea di fondo delle Meditazioni sulla felicità di Verri, secondo cui la felicità consisterebbe nel pareggiare i desideri col potere di realizzarli6.

 Cfr. ibidem, cap. XI.  Cfr. l’Introduzione di Lionello Sozzi a L. A. de Bougainville, Viaggio intorno al mondo, con il Supplemento al Viaggio di Bougainville di Denis Diderot, Milano, Il Saggiatore, 1983. 6   In questa operazione sarà più facile diminuire i desideri che non aumentare il potere, secondo una saggia massima di Montaigne. Cfr. P. Verri, Meditazioni sulla felicità, Londra [ma Livorno], s.n.t, s.d. [ma 1763], p. 6. La pubblica felicità equivarrebbe invece alla «maggior felicità possibile divisa colla maggiore eguaglianza possibile» (ibidem, p. 17). Lo stesso filo di pensiero riappare pochi mesi dopo nelle Considerazioni sul lusso. 4 5

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La conquista della felicità si configurerebbe quindi come un cammino progressivo verso una condizione migliore, che può essere intesa su piani diversi: pratici, intellettuali, spirituali. Questo cammino può essere diretto in profondità, per scavare nella storia più remota verso le origini universali dell’uomo, o verso le risonanze più profonde del suo essere; oppure verso il futuro, verso nuove conquiste dello spirito, della mente o della società. I due percorsi spesso vanno di pari passo, secondo l’andamento intrecciato di una doppia rampa che sale e che scende7. A questo punto si pone la seconda domanda: è possibile assimilare il processo appena descritto alla pratica della meditazione? Si tratterebbe naturalmente di meditazione profana, intesa come attività di riflessione e di ricerca orientata verso una conoscenza di sé (secondo un modello che va da Socrate a Shaftesbury)8, che in questo caso si estende alla conoscenza dell’uomo universale (i suoi comportamenti, ma anche i suoi processi interiori), nel perseguimento di una meta – la felicità, o se vogliamo, la felicità sulla terra – nel suo aspetto ideale, ma anche circostanziale (la sua possibile applicazione nella realtà spaziale e temporale). Anche se studi recenti hanno segnalato l’interazione dell’idea di meditazione con linguaggi filosofici, letterari, musicali, così da coglierne il più ampio irraggiamento culturale anche in ambito profano, il secolo XVIII appare restio ad utilizzare una pratica che comunque si pone all’intersezione tra il tempo e l’eterno, tra la carne e lo spirito. Una consultazione sommaria di repertori bibliografici rivela in Francia uno scarso uso del termine ‘méditation’/‘méditations’ nella denominazione di opere a carattere non strettamente religioso nel periodo illuministico9; tuttavia vi sono scritti con titoli diversi, che possono rientrare nel genere delle meditazioni, a partire dalla Introduction à la connaissance de l’esprit humain di Vauvenargues (1746) fino alle Rêveries di Rousseau (1782). Probabilmente il termine, legato a una tradizione religiosa e filosofica con finalità non necessariamente pragmatiche, mal si adatta alla razionalità concreta del secolo dei Lumi.

 L’immagine è tratta da B. Papasogli, Premessa a Né sacra né profana. La meditazione tra linguaggi filosofici e letterari, Roma, Edizioni Studium, 2006, p. 7. 8   Il passaggio dalla filosofia antica alle pratiche meditative moderne è analizzato nel celebre studio di Pierre Hadot, Exercices spirituels et philosophie antique, Paris, Études Augustiniennes, 1981. 9   Le ruines, ou Méditations sur les révolutions des empires di C.F. de Volney (à Paris, chez Desenne au Palais Royal, 1791) e le Méditations sur la Révolution française rédigées en forme de prière dell’abbé R. de Fabry de Landas (Londra-Bruxelles, Le Chalier, 1794) esulano dal periodo di cui ci stiamo occupando. 7

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In Italia invece abbiamo due testi interessanti, anche per il prestigio dei loro autori, che si presentano apertamente come meditazioni: le Meditazioni filosofiche sulla religione e sulla morale di Antonio Genovesi (1758) e le Meditazioni sulla felicità di Pietro Verri (1763)10. Giungiamo così all’ultima domanda: perché Pietro Verri ha intitolato Meditazioni il suo primo saggio sulla felicità11? Perché ha deciso di esporre in questa forma il delicato processo razionale che porta a «districarsi» e quindi ad individuare dei comportamenti che conducano l’uomo verso la felicità, mentre riserva, in quel medesimo periodo, delle meno coinvolgenti Considerazioni ad argomenti più concreti quali il commercio o anche il lusso12? Infine, quanto questa formula può ricollegarsi a quei processi d’indagine adottati dai philosophes che ho cercato di individuare nelle pagine precedenti? Le Meditazioni sulla felicità, come è noto, vengono stese tra il giugno e il luglio del 1763, quando Pietro ha trentacinque anni, e pubblicate anonime a Livorno verso la fine di quell’anno13. In quest’opera confluiscono rifles Forse non per caso queste opere vedono la luce nei due grandi centri intellettuali dell’Italia illuminista: Napoli e Milano. A queste si può aggiungere la Meditazione filosofica su l’ateismo, e pirronismo antico, e moderno proposta in un ragionamento di Tommaso Vincenzo Falletti (Roma, Stamperia di Generoso Salomini, 1776). Non consideriamo invece, per ragioni cronologiche, le Meditazioni filosofiche di Bernardo Trevisan (Venezia, appresso Michiel Hertz, 1704), né le Meditazioni su varj punti di felicità pubblica e privata di Isidoro Bianchi («coll’aggiunta di un Discorso sopra la morale del sentimento del medesimo autore», Lodi, nella Regia stamperia di Antonio Palavicini, 1779), in quanto corollario dell’opera di Pietro Verri. 11  Fra tutte le pubblicazioni italiane e francesi sulla felicità, non sono riuscita ad individuare, nel periodo considerato, altre ‘meditazioni’ (almeno per quanto riguarda il titolo). Se percorriamo, ad esempio, le oltre cinquanta pagine di bibliografia di Robert Mauzi, L’idée du bonheur dans la littérature et la pensée françaises au XVIIIe siècle, Genève-Paris, Slatkine Reprints, 1979 (I ed. Paris, Colin, 1960), pp. 659-713, troviamo dei ‘traités sur le bonheur’, degli ‘essais’, delle ‘réflexions’, dei ‘discours’, ma nessuna ‘méditation’. Stesso risultato ha dato lo spoglio di repertori italiani. 12  Le Meditazioni sulla felicità sono scritte in immediata successione alle Considerazioni sul commercio dello Stato di Milano e precedono di pochi mesi le Considerazioni sul lusso. Il coinvolgimento profondo che comporta una ‘meditazione’ è implicito nel primo significato della parola greca ‘meleéth’, da cui deriva il termine, che è ‘cura’, ‘sollecitudine’, ‘presa a cuore’. 13   Su quest’opera si vedano, in particolare, R. Steiner, Le «Meditazioni sulla felicità» e il significato della loro doppia relazione nella storia del pensiero di Pietro Verri, in «Giornale storico della letteratura italiana», LXXXIV (1967), vol. CXLIV, nn. 446-447, pp. 368-419; G. Francioni, Metamorfosi della “ felicità”: dalle «Meditazioni» del 1763 al «Discorso» del 1781, in Pietro Verri e il suo tempo (2 voll.), a cura di C. Capra, Bologna, Cisalpino, 1999, vol. I, pp. 353-428, rifuso in parte nella Nota introduttiva al Discorso sulla felicità, in P. Verri, I discorsi e altri scritti degli anni Settanta, vol. III dell’Edizione Nazionale degli Scritti di Pietro Verri, 10

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sioni avviate da Verri all’epoca del suo giovanile interesse per il teatro14, ed elaborate nelle Pensées (pubblicate postume, e solo parzialmente)15, dove già appaiono alcune considerazioni sulla «métaphysique du cœur de l’homme» e si rivela il debito dello scrittore nei confronti dei philosophes, fra cui Montesquieu, Rousseau ed Hélvetius, di cui legge il De l’Esprit nel 176016. Riccardo Steiner coglie in quest’opera un primo tentativo di dialogo che Pietro instaura con i filosofi del suo tempo, ma soprattutto con se stesso, con il suo ‘alter ego’ rappresentato dalla sua educazione e dal suo ambiente sociale17; la sua elaborazione delle teorie illuministiche lo rivela buon osservatore, ma anche pensatore indipendente, così come si manifesta nell’attività della «Società dei Pugni». Le Meditazioni sulla felicità sono scritte in immediata successione alle Considerazioni sul commercio dello Stato di Milano di cui costituiscono una specie di complemento morale. Con questa operetta Verri vuole infatti fornire una cornice etica al suo disegno politico, ai suoi progetti di riforma intesi a realizzare la pubblica felicità facendo coincidere il benessere dei cittadini e la prosperità dello Stato. Se gli echi dei philosophes, e in particolar modo di Rousseau, appaiono chiaramente nelle affermazioni di base delle Meditazioni di Verri, egli è pronto ad intraprendere un cammino individuale lungo gl’incerti sentieri dell’universo morale; e questo cammino procede, anche se in modo alquanto discontinuo, secondo le formule della meditazione; formula, o almeno titolo, cui Pietro ricorre anche in altre occasioni: in alcuni manoscritti di argomento economico, Meditazioni mie sul commercio fatte in Vienna 1760

Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2004, pp. 155-194. A questi contributi rinviamo per una bibliografia più generale su Pietro Verri. 14   Prefazione al Teatro comico del Sig. Destouches dell’Accademia francese novellamente in nostra favella trasportato [dalla contessa Serbelloni], I, Milano, Agnelli, 1754; vedi anche gli estratti della corrispondenza tra Pietro Verri e Giorgio Giulini a proposito di questa prefazione, pubblicati da Stefano Baia Curioni, Per sconfiggere l’oblio. Saggi e documenti sulla formazione intellettuale di Pietro Verri, Milano, FrancoAngeli, 1988, pp. 11-13. 15   Scritte sullo scorcio degli anni Cinquanta e pubblicate in parte in P. Verri, Milano in Europa, a cura di M. Schettini, Milano, Cino del Duca, 1963, pp. 118-140. 16  Come ha dimostrato Carlo Capra, I progressi della ragione. Vita di Pietro Verri, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 160. 17  Cfr. Steiner, Le «Meditazioni sulla felicità» e il significato della loro doppia relazione, p. 373: «questo suo primo tentativo di dialogo [le Pensées], che prima ancora d’essere con i suoi filosofi, che sentiamo circolare tra queste righe, come reagenti necessari a far precipitare intuizioni ancora informi, è un dialogo che Pietro ha fatto con se stesso».

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seguite da Elementi del commercio18, e ancora nel 1771 con le Meditazioni sull’economia politica19. In un secondo tempo i due argomenti (la felicità e l’economia politica) verranno rielaborati in una forma nuova passando dalla meditazione al discorso20. E anche su questa metamorfosi sarebbe interessante indagare perché, come vedremo tra poco, Verri, allievo dei gesuiti, conosceva il significato del termine ‘meditazione’ in tutte le sue accezioni ed era in grado di utilizzare l’ars meditandi anche attraverso i suoi aspetti meno evidenti. Avendo già trattato questo argomento in altra sede21, mi limiterò a toccare cinque punti significativi dell’ars meditandi utilizzata da Pietro nel suo trattato sulla felicità. 1.  Introspezione. L’impianto pratico delle Meditazioni sulla felicità («una sorta di breviario morale dell’uomo virtuoso improntato ai principi di un’etica utilitaristica», secondo la definizione di Gianni Francioni)22, non esclude l’importanza degli aspetti introspettivi. Per fissare fra noi e gli uomini le migliori relazioni possibili per la nostra felicità – osserva Verri nel corso del suo trattato – conviene conoscerci e conoscer gli uomini. Per conoscer noi stessi non cercheremo il voto degli altri, ma il nostro: le passioni e l’imbecillità degli uomini, ora cercano di deprimerci, ora d’innalzarci. Nessuno meglio di noi sa se intendiamo le opere di que’ primi genj, che onorano l’ingegno umano, né v’è termometro più sicuro di questo per decidere del nostro ingegno. Nessuno meglio di noi sa se ci sentiamo a scuotere al racconto di un’azione generosa, e se ci sdegnamo in vista d’un’azione vile e viziosa, né v’è termometro più sicuro di questo per decidere della elevazione del nostro cuore; le nostre azioni a nessuno sono più note che a noi stessi: se la certezza non comincia in noi non è possibile che siamo mai fermi o sicuri di veruna dimostrazione23.

18  Edizione della Fondazione “Raffaele Mattioli” per la Storia del Pensiero Economico di Milano, Archivio Verri, 374.8 e 373.1.12, pp. 187-202. Si cita da Francioni, Nota introduttiva al Discorso sulla felicità, p. 155. 19   P. Verri, Meditazioni sulla economia politica, Livorno, nella Stamperia dell’Enciclopedia, 1771 (II ed. ibidem, 1772). 20   P. Verri, Discorsi sull’indole del piacere e del dolore, sulla felicità e sull’economia politica, Milano, Marelli, 1781. 21  L. Norci Cagiano, Le Meditazioni sulla felicità di Pietro Verri (1763). Brevi considerazioni, in Né sacra né profana. La meditazione tra linguaggi filosofici e letterari, pp. 163-182. 22  Francioni, Nota introduttiva al Discorso sulla felicità, p.156. 23  Verri, Meditazioni sulla felicità, p. 21.

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Nel corso delle Meditazioni sulla felicità la tendenza a volgere lo sguardo su se stesso e ad esaminare la propria coscienza, va dunque di pari passo con l’impegno dimostrativo ed educativo. 2.  Carattere progressivo. Un altro elemento della meditazione che possiamo tener presente è il suo carattere progressivo, di cammino che porta per gradi a uno stadio superiore. Questa progressione, tradizionalmente tutta interiore, nel trattato di Verri è destinata a sconfinare nel mondo esteriore, estendendosi alla società, alle nazioni, all’Europa. Le Meditazioni rispecchiano la fiducia nel progresso e la convinzione che i moderni abbiano maggiori possibilità di accostarsi alla felicità24, ricollegandosi in questo modo agli sviluppi settecenteschi della Querelle des Anciens et des Modernes25. L’immagine della doppia rampa, in cui un percorso discendente s’intreccia con quello che sale, può dunque coincidere con due direttrici di senso opposto: la prima, rivolta verso l’interno, scava nelle profondità dell’animo umano, l’altra guarda all’ascesa sociale verso una condizione migliore. È evidente che in entrambi i casi Verri procede a una originale applicazione del processo meditativo a fini pratici: la meditazione (ratio) non è considerata come ancella della contemplazione (intelligentia), ma mezzo – in cui egli ha fiducia – per «accostarsi allo stato di essere felice». Sotto questo aspetto il processo meditativo è applicato, paradossalmente, a fini pratici. 3.  Potere di persuasione. Nella consapevolezza di appartenere a una nuova generazione avente diritto alla ragione, Verri rivela un’esigenza di miglioramento della società che scaturisca da analisi rigorose dell’animo umano, dei meccanismi della volontà, del desiderio, del timore (elementi questi che lo ricollegano alle sue letture francesi), e manifesta una vocazione di educatore e di guida26, 24   Questa convinzione verrà esplicitata nel Discorso sulla felicità dove, alla domanda «se gli uomini che attualmente vivono abbiano maggiori mezzi per accostarsi alla felicità di quelli che le circostanze passate offrirono ai nostri maggiori», Verri risponde, dopo molte argomentazioni, che tutto sommato «i mezzi nostri per sottrarci alla infelicità si vanno moltiplicando, e che gli antenati nostri vissero a peggiori condizioni che non viviamo noi» (§ VII, 24). Lo si legga nell’edizione a cura di Noris Raffaelli, Firenze, Le Monnier, 1963. 25  L’evoluzione della ‘querelle’ nel XVIII secolo è stata mirabilmente illustrata da Marc Fumaroli e da Jean-Robert Armogathe nel loro commento a La Querelle des Anciens et des Modernes, Paris, Folio Gallimard, 2001. 26   Questo aspetto è messo in rilievo dal suo primo biografo, Isidoro Bianchi: Elogio storico di Pietro Verri, Cremona, Manini, 1803. Sui biografi di Pietro Verri, da Isidoro Bianchi

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che mette a contributo anche le sue esperienze presso il Collegio dei Nobili di Parma27. Proprio dai gesuiti Verri aveva appreso l’arte di utilizzare la meditazione come mezzo di persuasione destinato ad un vasto pubblico. Marc Fumaroli ha ben illustrato come, a partire dalla fine del XVI secolo, la meditazione, sempre più volta ad intenti morali, grazie fra l’altro all’opera dei gesuiti, abbia assunto anche il ruolo persuasivo della retorica: «Et s’il est vrai que, par plus d’un côté, la quête méditative, associée au silence, semble tourner le dos à l’éloquence, à sa discursivité extérieure et publique, elle partage avec elle la même finalité qui est de persuader, de modifier le jugement, la volonté, la conduite de ses “récepteurs”» 28. D’altra parte, la funzione pratica della meditazione non è mai venuta meno anche in quei periodi della storia della spiritualità in cui la meditatio è stata considerata soprattutto come tappa necessaria, come «armatura e ponte», verso lo stadio superiore della contemplatio29. Gli stessi Esercizi di Sant’Ignazio altro non sono, secondo gli autorevoli studi di Pierre Hadot30, che una versione cristiana della tradizione grecoromana; nello stesso modo, l’opera di meditazione dei grandi autori francesi tra Cinquecento e Seicento (dai Sonnets di Sponde, ai Tragiques di d’Aubigné, fino agli scritti di Montaigne e di Descartes) mira a rovesciare radicalmente le cattive abitudini del lettore per avviarlo su una nuova strada, non attraverso una servile imitazione, ma attraverso una rielaborazione a propria misura. Osserva Marc Fumaroli: «En ce cas, le chef-d’œuvre de l’âge de la méditation est bien l’œuvre de Montaigne, dont le titre même est synonime

fino a Franco Venturi, vedi G. Ricuperati, Pietro Verri e gli specchi in Pietro Verri e il suo tempo, vol. I, pp. 3-46. 27   Scuola che, secondo una lettera di Pietro al padre, offriva studi che gli sembravano propri a condurre «verso la felicità» (lettera del 12 gennaio 1748, conservata nell’Archivio Andreani Sormani Verri, riportata da Baia Curioni, Per sconfiggere l’oblio, p. 48). Pur tenendo conto delle precauzioni con cui Pietro si rivolge generalmente al padre, mi sembra che sia fuori dubbio il giudizio positivo nei confronti del Collegio di Parma, giudizio che contrasta con l’opinione critica espressa generalmente da Verri nei confronti dell’educazione nei collegi (cfr. Steiner, Le «Meditazioni sulla felicità» e il significato della loro doppia relazione, p. 374, nota 1). 28  M. Fumaroli, L’École du silence. Le sentiment des images au XVIIe siècle, Paris, Champs-Flammarion, 1998, p. 184. 29  Vedi su questo punto i recenti contributi di S. Stroppa, Meditazione e riflessione (sul controverso rapporto tra meditatio e contemplatio), di F. Trémolières, Haine de la méditation? Notes sur les enjeux d’une querelle théologique, e di G. Perrotti, Tempo della meditazione e tempo della contemplazione nel quietismo italiano, in La Meditazione nella prima età moderna, «Rivista di storia e letteratura religiosa», XLI (2005), n. 3. 30  Cfr. Hadot, Exercices spirituels et philosophie antique.

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de Méditations: c’est le travail persévérant, et au fond très méthodique, de la parole sur soi-même et à propos de soi-même, un exercice d’éclaircissement et de transfiguration qui se propose au lecteur comme un entraînement non à imiter servilement, mais à refaire pour soi-même»31. Se, forse, non conosceva i poeti ‘barocchi’ francesi, certamente Pietro aveva praticato gli Esercizi di Sant’Ignazio e aveva letto Montaigne32; gli erano dunque chiare le potenzialità della meditazione in un’opera riformatrice ed era in grado di discernere, accanto agli aspetti coinvolgenti e persuasivi, anche le capacità educative di una forma rigorosa, fondata essenzialmente sul ragionamento logico. Da questo punto di vista aveva sotto gli occhi anche l’esempio di tanti trattati medici o scientifici scritti in forma di meditazione, secondo un’abitudine abbastanza diffusa nell’Europa del Settecento33. Le potenzialità della meditazione nell’ottica di un rovesciamento radicale di cattive abitudini e di istradamento su vie diverse non dovettero dunque sfuggire a Verri quando si accinse ad opere ‘riformatrici’ come le Meditazioni sulla felicità, o le altre meditazioni sul commercio e sull’economia politica. 4.  Respiro e rigore. Verri conosce il modo di procedere della meditazione, il suo ampio respiro, il suo ritornare sugli argomenti per sviscerarli ed approfondirli, ma anche il suo rigore logico. Nel suo trattato sulla felicità, che non presenta né una particolare struttura, né una partizione in paragrafi o capitoli, le idee si succedono con un certo disordine, come vengono alla mente, con ritorni e ripensamenti, proprio come se l’autore cercasse anche di chiarirle a se stesso, rivolgendole ed esaminandole34. In questo modo di procedere possiamo trovare le tracce di quel respiro della meditazione così ben descritto da  Fumaroli, L’École du silence, p. 185.   Sulle letture di Verri all’epoca delle Meditazioni sulla felicità vedi Francioni, Nota introduttiva al Discorso sulla felicità, p. 165. 33   Tra le meditazioni su argomenti rigorosamente scientifici, opera per lo più di autori tedeschi o inglesi, possiamo ricordare, a titolo d’esempio, le Meditationes philosophicae de methodo mathematico, di Gottlieb Friedrich Hagen (Norinbergae, Ioannis Stein, 1734), le Meditationes de motu vertiginis planetarum, di Johann Albrecht Euler (Petropoli, typis Academiae Scientiarum, 1760), o ancora le Meditationes analyticae di Edward Waring (Cantabrigiae, typis Academicis excudebat J. Archdeacon, 1776). 34   Si tratta dell’insieme di pensieri da cui prende origine la filosofia di Verri, che ritroviamo poco dopo negli articoli del «Caffè» e che saranno in seguito ripresi, ampliati e ben strutturati in capitoli nel Discorso sulla felicità. Sul passaggio dalle Meditazioni al Discorso sulla felicità vedi lo studio esaustivo di Gianni Francioni nei suoi due saggi Metamorfosi della “ felicità” e Nota introduttiva al Discorso sulla felicità. 31 32

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Christian Belin nell’Avant-propos della sua Conversation intérieure, di quel ritorno del pensiero su se stesso nella profondità e nella durata35. Si tratta tuttavia di un respiro ansante, di un periodare nervoso che rivela l’urgenza di una ricerca in atto: «J’écris des pensées sur le bonheur, peut-être croiant le trouver en arrangeant mes idées»36. Da questo punto di vista l’operetta di Verri può essere accostata alle molte meditazioni sacre o profane (da Montaigne a Pascal, per non citare che le più celebri) che procedono senza ordine apparente, ma sempre nel conseguimento di uno stadio superiore del pensiero o/e della morale. Di questo sforzo di elevazione della mente – con tutti i suoi limiti – Pietro è ben consapevole. Annoterà infatti sul frontespizio della copia che ha riservato per sé: «Queste meditazioni sono molto belle e grandi: temo che la piccolezza del volume non le lasci nell’oscurità. In ogni caso, siccome non sono capace di scrivere meglio, così sappia chi legge che questo è il mio sublime, ossia che questo è il confine della elevazione della mia mente; e di più che queste sono cose che io credo tutte vere»37. La convinzione di aver raggiunto il massimo delle sue possibilità intellettive verrà smentita da Verri quando deciderà di ampliare in forma più compiuta la sua operetta giovanile estendendo le sue riflessioni a campi più vasti, nel disegno della celebre trilogia dei Discorsi sull’indole del piacere e del dolore, sulla felicità e sull’economia. Nel Discorso la sua visione sarà più realistica e la tensione verso la felicità si trasformerà in allontanamento dal dolore; l’argomentazione si farà più articolata e più coerente, ma verranno meno quel movimento ascensionale e quella partecipazione affettiva che caratterizzano le Meditazioni. Per molti anni Verri continuerà a rimpiangere lo slancio creativo, i tratti appassionati e vibranti, il non-finito del suo primo trattatello sulla felicità: Ho cominciato a rifondere le mie Meditazioni sulla Felicità; ma, per dirtela, mi sento a mancare il coraggio ponendovi mano; vedo che vi pongo maggior metodo e chiarezza, vedo che faccio un’operetta più voluminosa; ma forse perde quella vibratezza e que’ tocchi maestri isolati che fanno il suo merito; forse lo schizzo è più

 Ch. Belin, La Conversation intérieure. La Méditation en France au XVIIe siècle, Paris, Champion, 2002, pp. 10-12. 36  Lettera di Pietro Verri a Giovanni Battista Biffi del 26 giugno 1763, citata da Steiner, Le «Meditazioni sulla felicità» e il significato della loro doppia relazione, p. 371. 37   Cose varie, buone, mediocri, cattive del conte Pietro Verri, fatte ne’ tempi di sua gioventù, raccolta manoscritta dove sono state incollate le pagine a stampa dell’edizione del 1763 delle Meditazioni sulla felicità (Fondazione “Raffaele Mattioli” per la Storia del Pensiero Economico di Milano, Archivio Verri, 373.I, p. 3). Anche su questa raccolta vedi Francioni, Nota introduttiva al Discorso sulla felicità, p. 157. 35

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pittoresco del quadro finito; forse quell’aborto di libro dà l’idea ch’io possa farne uno migliore solo che il voglia, e il libro disingannerà38.

Anche a questo proposito vengono in mente le osservazioni di Christian Belin quando parla degli aspetti fantasiosi della meditazione che non è soggetta alla tirannia della «raison raisonnante», ma contempla un prolungamento affettivo dell’attività mentale: le emozioni interferiscono con il ragionamento, «la pensée compose avec le désir»39. L’immediatezza e l’apparente disordine delle Meditazioni sulla Felicità non vanno tuttavia a scapito della lucidità, come nota Élie Fréron, che è tra i pochi lettori francesi dell’epoca ad aver considerato quest’opera con vera attenzione: «Il y a de l’esprit dans cette production; quelque fois l’auteur quitte le raisonnement pour se livrer à son imagination; en général ses réflexions sont sages; il n’apprend rien de neuf, mais il présente avec beaucoup d’ordre et de clarté des idées qu’on retrouve dans plusieurs écrits, où elles sont noyées dans des longueurs et souvent obscourcies par un appareil métaphysique»40. L’elogio di Fréron tocca un punto interessante: la capacità di dare coerenza logica a un’opera che fa delle concessioni all’immaginazione e che non si appoggia su una struttura predefinita, ma lascia il pensiero fluire liberamente pur tornando e ritornando su alcuni punti, con lo scopo di approfondirli da una parte e di renderli chiari e persuasivi dall’altra. La fiducia di Verri nelle capacità della logica, per la quale era naturalmente portato, si rivela in pieno nelle Meditazioni sulla felicità a partire dall’epigrafe, «Victrix fortunæ sapientia», ma soprattutto nell’incipit che ha tutta l’apparenza di una dimostrazione matematica: «L’eccesso de’ desideri sopra il potere è la misura della infelicità: le operazioni dunque da farsi per accostarci allo stato di un essere felice sono o diminuire i desiderj, o accrescere il potere, o l’uno e l’altro insieme. La somma de’ desiderj dipende dalla primitiva sensibilità, e dall’ordine delle idee; la somma del potere dipende dalle Leggi fisiche, e dalla volontà degli esseri pensanti»41.

38  Lettera di Pietro al fratello Alessandro del 3 novembre 1766, pubblicata in Viaggio a Parigi e a Londra (1766-1767). Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, a cura di G. Gaspari, Milano, Adelphi, 1980, p. 35. 39   Belin, La Conversation intérieure, pp. 13-14. 40   É. Fréron, recensione alle Meditazioni sulla felicità, in «Année littéraire», 1766, t. I, pp. 145-169; e t. VI, pp. 340-348. La citazione è riportata da Alessandro nella lettera a Pietro del 13 marzo 1767: Viaggio a Parigi e a Londra, p. 364. La fortuna delle Meditazioni fu in generale inferiore alle attese di Pietro: anche su questo argomento vedi la sintesi fornita da Francioni, Nota introduttiva al Discorso sulla felicità, pp. 157-158. 41  Verri, Meditazioni sulla felicità, p. 2.

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Come in ogni dimostrazione matematica, e come in ogni meditazione, anche qui il ragionamento tende a progredire, a indagare sull’essenza delle cose e a metterle in rapporto fra loro; tuttavia, questa operazione presenta dei limiti che Stefano Baia Curioni ha ben analizzato: l’argomentazione appare non tanto come una certificazione, quanto piuttosto come arte di convincere42, e torniamo così alle considerazioni di Fumaroli sul valore retorico della meditazione in età moderna, e si comprende la coesistenza, nelle Meditazioni del Verri, di rigore logico e di libero fluire del pensiero e dell’argomentare. 5. Aspetti della sensibilità, che sfuggono alla logica. Mi sembra che gli elementi con cui il rigore scientifico di Pietro viene a scontrarsi si possano ricondurre a tre: le leggi morali (in cui introduce l’elemento del piacere, «la voluttà vivissima» di praticare il bello, rivelando il suo debito verso la metafisica sensista di Maupertuis), le leggi divine e la sensibilità, su cui si dilunga nella seconda metà del suo trattato. Qui la visione di Verri sembra dilatarsi; è ammirevole ad esempio la dimensione europea a cui riconduce le sue considerazioni, ma anche la sua tendenza ad abbracciare l’intero arco del vivere sociale. Questo allargamento di orizzonti non esclude tuttavia un processo verticale che trova le sue punte là dove entra in gioco la sensibilità. Se l’ars meditandi conduce, per tradizione, verso mete sempre più alte fino ai limiti della ragione, anche questa operetta, attraverso la sua ruminatio di cose già dette da altri, porta alle soglie di prospettive vertiginose: Verri lascia intravedere le possibilità di un ordine sociale, determinato da esigenze profonde dell’animo umano, che esulano dalle convenzioni e dai canoni della tranquillità e del buon senso. È quanto percepisce subito Ferdinando Facchinei, editore abusivo e polemico delle Meditazioni sulla felicità, nella sua lettera introduttiva. Quest’opera, dice, «è tutt’altro che Meditazioni sulla Felicità, (…) ma è come quei saltatori che al contrario dei ballerini che danno piacere, fanno sempre stare in spavento. Ma come i saltatori, questi autori riescono solo se trattano cose pericolose» 43. Probabilmente, per Facchinei gli argomenti pericolosi erano quelli più strettamente legati alle questioni sociali; mi sembra tuttavia che non sia da

  Baia Curioni, Per sconfiggere l’oblio, p. 53.   P. Verri, Meditazioni sulla felicità, s.l. [ma Venezia], s.n.t. [ma Stamperia Antonio Zatta], 1765. L’opera è pubblicata, con introduzione e note critiche, da Ferdinando Facchinei che la attribuisce all’autore del Dei delitti e delle pene. 42 43

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sottovalutare la rischiosità – e cioè gli esiti imperscrutabili – di certi approfondimenti di Verri sulla sensibilità umana. Sorprende, in particolare, il contrasto tra l’intuizione di una «secreta connessione» – che sembra sfuggire a qualsiasi definizione – e l’affermazione finale che riduce il sentimento morale a una legge fisica, al «moto curvilineo della umana sensibilità»; viene allora spontaneo chiedersi se veramente la meditazione di Verri si conclude con un atto di fede nella razionalità umana. Se così fosse, verrebbe meno una delle funzioni proprie della meditazione, quella di ponte verso uno stadio di conoscenza superiore, di illuminazione di punti oscuri della coscienza. Mi sembra tuttavia che i confini della sensibilità che ci prospetta Verri non siano perfettamente riconducibili ad una formula matematica, ma lascino intravedere degli abissi insondabili, non soltanto sulla scia di Rousseau e dei philosophes («Nous marchons dans la nuit au-dessous de ce qui est écrit là-haut», fa dire Diderot a Jacques le Fataliste)44, ma anche in anticipo sugli sviluppi della sensibilità romantica lombarda. L’impresa di Verri, anche se non riuscita in pieno nei suoi intenti (le Meditazioni sulla felicità sono piene di contraddizioni e restano in qualche modo una ‘incompiuta’) resta originale e suscettibile di approfondimenti: molto infatti si potrebbe ancora dire sulla sua decisione di organizzare in forma di meditazione le molteplici istanze che si rivelano nella ‘quête du bonheur’ – dalla ricerca interiore alle sue applicazioni pratiche – attraverso le fasi di un Illuminismo europeo (e in particolare francese e lombardo), in cui il problema della felicità si presenta con una centralità che sconfina quasi con l’ossessione. Appendice bibliografica A Elenco di alcuni testi significativi di ‘meditazioni’ (esclusi quelli di Pietro Verri citati nelle note), editi nel XVIII secolo (in ordine alfabetico): I. Bianchi, Meditazioni su varj punti di felicità pubblica e privata, coll’aggiunta di un Discorso sopra la morale del sentimento, Lodi, nella Regia Stamperia di Antonio Palavicini, 1779; L.-A. de Caraccioli, La conversation avec soi-même, à Rome, chez les Heritiers de Jean Laurent Barbiellini libraires, & imprimeurs a Pasquin, 1753-1754; R. de Fabry de Landas (abbé de), Méditations sur la

  Ricordiamo che tutto il progetto dell’Illuminismo comporta un principio d’incertezza. Montesquieu, Voltaire e molti altri philosophes affermano l’esistenza di aspetti imperscrutabili dell’uomo, legati alla sua stessa libertà o al suo anelare verso forme di felicità non realizzabili sulla terra, come ho cercato di accennare all’inizio di questo intervento. 44

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Révolution française rédigées en forme de prière, Londra-Bruxelles, Le Chalier, 1794; T.V. Falletti, Meditazione filosofica su l’ateismo, e pirronismo antico, e moderno proposta in un ragionamento, Roma, Stamperia di Generoso Salomini, 1776; A. Genovesi, Meditazioni filosofiche sulla religione e sulla morale, Napoli, Stamperia Simoniana, 1758; L.A. Muratori, Della pubblica felicità, Lucca [ma Venezia], s.n.t., 1749; J.-J. Rousseau, Les rêveries du promeneur solitaire, Londra [ma Parigi], [Cazin], 1782; B. Trevisan, Meditazioni filosofiche, Venezia, appresso Michiel Hertz, 1704; L. de Clapiers, marquis de Vauvenargues, Introduction à la connaissance de l’esprit humain, Paris, chez Antoine-Claude Briasson, rue S. Jacques, à la Science, 1747 (I ed. 1746); C.F. de Volney, Le ruines, ou Méditations sur les révolutions des empires, à Paris, chez Desenne au Palais Royal, 1791. Si veda infine É. Fréron, recensione alle Meditazioni sulla felicità di P. Verri, in «Année littéraire», 1766, t. I, pp. 145-169, e t. VI, pp. 340-348. B Tra le meditazioni religiose diffuse in ambito gesuitico intorno agli anni della formazione di Pietro Verri, vedi a titolo d’esempio: (1) le Meditazioni sopra alcune verità cristiane estratte dalle opere di alquanti Autori Francesi e Spagnuoli della Compagnia di Gesù (2 voll.), Venezia, per Giovan Battista Recurti, 1740, nelle quali i temi trattati sono suddivisi in cinquanta capitoli, ognuno dei quali ha una sua compiutezza: inizia con argomentazioni chiare e razionali sul tema prescelto, formula una preghiera, fornisce consigli per riflettere, meditare e fare un esame di coscienza e si conclude con formule di pentimento e buoni propositi; (2) il Ristretto di meditazione per tutti i giorni dell’Anno, a profitto principalmente delle Persone Religiose. Dato in luce da un Sacerdote della Compagnia di Gesù, Venezia, per Niccolò Pezzana, 1753, dove la scansione è cronologica: il libro si divide in due semestri suddivisi nei giorni dell’anno, cominciando con la prima domenica di Avvento, mentre un passo del Vangelo, in latino, fornisce il tema della meditazione, seguono tre considerazioni su quello che la Chiesa propone quel giorno di meditare, e si conclude con un consiglio di comportamento. C Tra le meditazioni su argomenti rigorosamente scientifici, opera per lo più di autori tedeschi o inglesi, possiamo ricordare a titolo di esempio: G.F. Hagen, Meditationes philosophicae de methodo mathematico, Norinbergae, Ioannis Stein, 1734; J.A. Euler, Meditationes de motu vertiginis planetarum, Petropoli, typis Academiae Scientiarum, 1760; E. Warning, Meditationes analyticae, Cantabrigiae, typis Academicis excudebat J. Archdeacon, 1776. D Elenco di alcuni studi significativi sulle Meditazioni sulla felicità di Pietro Verri: R. Steiner, Le Meditazioni sulla Felicità e il significato della loro doppia relazione nella storia del pensiero di Pietro Verri, «Giornale storico della letteratura italiana», LXXXIV (1967), vol. CXLIV, nn. 446-447, pp. 368-419; G. Francioni, Metamorfosi della “ felicità”: dalle «Meditazioni» del 1763 al «Discorso» del 1781, in Pietro Verri e il suo tempo (2 voll.), a cura di C. Capra, Bologna, Cisalpino, 1999, vol. I, pp. 353-428, rifuso in parte nella Nota introduttiva al Discorso sulla felicità, in P. Verri, I discorsi e altri scritti degli anni Settanta, vol. III dell’Edizione Nazionale degli Scritti di Pietro Verri, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2004, pp. 155-194.

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E Per una bibliografia più generale su Pietro Verri: S. Baia Curioni, Per sconfiggere l’oblio. Saggi e documenti sulla formazione intellettuale di Pietro Verri, Milano, FrancoAngeli, 1988; G. Ricuperati, Pietro Verri e gli specchi, in Pietro Verri e il suo tempo, vol. I, pp. 3-46, con una ricca bibliografia relativa ai biografi di Verri, da Isidoro Bianchi (di cui cfr. l’Elogio storico di Pietro Verri, Cremona, Manini, 1803) fino a Franco Venturi; C. Capra, I progressi della ragione. Vita di Pietro Verri, Bologna, Il Mulino, 2002. F Sul genere letterario della ‘meditazione’: Ch. Belin, La Conversation intérieure. La Méditation en France au XVIIe siècle, Paris, Champion, 2002; M. Fumaroli, L’École du silence. Le sentiment des images au XVIIe siècle, Paris, ChampsFlammarion, 1998; P. Hadot, Exercices spirituels et philosophie antique, Paris, Études Augustiniennes, 1981; La meditazione nella prima età moderna, «Rivista di storia e letteratura religiosa», XLI (2005), n. 3. G Sul tema della felicità e sulle sue declinazioni nel Settecento si vedano i classici: R. Mauzi, L’idée du bonheur dans la littérature et la pensée françaises au XVIIIe siècle, Genève-Paris, Slatkine Reprints, 1979 (I ed. Paris, Colin, 1960); C. Rosso, Illuminismo, felicità, dolore, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1969.

Pasquale Matarazzo Necessità del male e «felicità del tutto». Riflessioni nella scuola genovesiana

A partire dal contributo di Antonio Genovesi al dibattito sull’origine e la giustificazione della presenza del male, a Napoli si assiste ad uno slittamento dei termini ideologici che avevano circoscritto fino ad allora il problema del perseguimento della felicità. Non più, o almeno non soltanto, un beneficio individuale legato ai disegni della Provvidenza, ma un obiettivo da conquistare e condividere in un quadro concettuale rinnovato e permeato dalla riflessione sui diritti imprescrittibili dell’uomo, primo fra tutti la libertà1. Anche in relazione a tali tematiche, assume un significato rilevante il confronto con la letteratura europea del Settecento, avviato su sollecitazione del primo titolare della cattedra di Commercio e Meccanica da alcuni suoi allievi. Esso costituiva un aspetto non secondario dell’«universo comunicativo» attraverso il quale Genovesi intese favorire l’affermazione di un’«intensissima attività editoriale» quale mezzo di diffusione di una nuova cultura che contribuisse a spezzare il tradizionale monopolio del sapere2. Nelle pagine che seguono ci si sofferma sull’attività dell’avvocato Felice Lioy. Originario di Terlizzi, in Terra di Bari, assiduo frequentatore delle lezioni dell’abate salernitano, nel 1769 tradusse e pubblicò un’opera di Soame Jenyns – A Free Enquiry into the Nature and Origin of Evil – edita in Inghilterra nel 1757 e più volte ristampata3, tutta protesa a valorizzare in chiave politica

1  Cfr. A. Trampus, Il diritto alla felicità. Storia di un’idea, Roma-Bari, Laterza, 2008, in part. p. 150. 2  M.L. Perna, L’universo comunicativo di Antonio Genovesi, in Editoria e cultura a Napoli nel XVIII secolo, a cura di A.M. Rao, Napoli, Liguori, 1998, p. 392. 3  Londra, R. and J. Dodsley. Nel corso del Settecento fu inserita anche in The works of Soame Jenyns, esq., in four volumes, ed. C.N. Cole, London, T. Cadell, 1790. A Free Enquiry sarebbe stata tradotta anche in Francia nel 1791 dal polemista controrivoluzionario Antoine de Rivarol e destinata indistintamente al re, ai monarchici e ai democratici perché giudicata capace di offrire motivi di consolazione «à tous les partis»: Essai sur la nécessité du mal, tant physique que moral, politique et religieux, par Soame Jenyns, membre du Parlement

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i canoni dell’ordine organico e gerarchico che costituivano l’armatura della società di antico regime. La traduzione di Lioy4 consente di verificare, in concreto, l’emergere di letture diverse della letteratura contemporanea – segnatamente di quella inglese – sia rispetto allo stesso Genovesi, ancora legato ai canoni interpretativi propri della sua generazione, sia all’interno della cosiddetta «scuola genovesiana»5: letture diverse da cui scaturivano possibilità di conservazione o trasformazione della società. Proprio la scuola genovesiana avrebbe scoperto a Napoli, dopo la drammatica esperienza della carestia degli anni 1764-65, le profonde crepe della crisi dell’antico regime e, quindi, la necessità di misurarsi con una realtà conflittuale che imponeva di scegliere tra modelli sociali differenziati o, addirittura, antagonisti. Il mutato contesto culturale in cui occorre collocare l’edizione napoletana del testo inglese trova la sua origine più prossima nella distinzione formulata nella premessa agli Elementi del commercio – le lezioni tenute all’Università di Napoli tra il 1757 e il 1758 – tra la morale di Dio e la morale dell’uomo. Quest’ultima, riguardante i «nostri comodi e la presente felicità nostra»6, rifondata e riqualificata nei suoi tratti discriminanti, costituiva una vera e propria scienza7, al suo interno distinta in tre diverse componenti: l’etica, che studia le modalità attraverso cui l’uomo può trasformare i «naturali istinti ed affetti» in virtù e, cioè, nella «sola cagione vera della nostra felicità»; l’economia, che considera l’uomo come «capo e principe della sua famiglia» ed insegna ad amministrare accortamente le proprie ricchezze; la politica, che «risguarda [l’uomo] come capo e sovrano del popolo» e lo addestra a

Britannique pendant 38 ans: traduit de l’anglois par M. de Rivarol, chez Gattey, libraire au Palais-Royal, n. 14, Paris, 1791. Oggi si dispone di una ristampa anastatica dell’edizione del 1757, pubblicata in British Philosophers and Theologians of the 17th & 18th Centuries, ed. R. Wellek, New York e London, 1976. 4   Libera ricerca intorno la natura, ed origine del male del cavaliere Samuele Genyns, Napoli, Stamperia Simoniana, 1769. 5  Un variegato gruppo dai confini temporali e spaziali fluttuanti, caratterizzato da tratti sociali, culturali e politici non riducibili ad una univoca estrazione, ma solo sovrapponibili a quelli del cosiddetto «ceto mezzano» di cui l’autore delle Lezioni di Commercio aveva più volte parlato, senza mai giungere ad una definizione precisa. Già F.S. Salfi ne aveva tratteggiato un profilo: Sulla scuola di Genovesi in Id., Elogio di Antonio Serra primo scrittore di economia civile, Milano, 1802. Il testo è ora disponibile in L. Addante, Patriottismo e libertà. L’Elogio di Antonio Serra di Francesco Salfi, Cosenza, Luigi Pellegrini, 2009, pp. 221-225. 6  A. Genovesi, Delle lezioni di commercio o sia di economia civile con elementi del commercio, a cura di M. L. Perna, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 2005, p. 3. 7  Cfr. V. Ferrone, La società giusta ed equa. Repubblicanesimo e diritti dell’uomo in Gaetano Filangieri, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 131-133; A. Trampus, Storia del costituzionalismo italiano nell’età dei Lumi, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 149-153.

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«ben regolarlo»8. Il titolare della cattedra intieriana, dalla fine degli anni Cinquanta e con maggior vigore nella seconda metà del decennio successivo, tentò di innovare i termini del rapporto tra filosofia morale ed economia, riflettendo sulla funzione sociale del commercio sulla scorta delle Ricerche intorno alle prime origini della scienza morale, vergate trent’anni prima da Celestino Galiani9. In tale prospettiva è opportuno sottolineare il valore di autentico momento di svolta rappresentato dal largo diffondersi degli scritti di Mandeville, che conobbero numerose traduzioni ed innescarono vivaci dibattiti10. Profondamente convinto della necessità di realizzare in concreto l’auspicio muratoriano della pubblica felicità quale elemento caratterizzante di un modello di società in cui l’interesse privato permanesse in equilibrio con quello pubblico11, Genovesi provava a confrontare l’adattabilità del criterio formulato da Mandeville per le società mercantili – olandese e britannica in particolare – ad un contesto ancora feudale come quello del regno borbonico, criticando l’esplicita proposta mandevilliana di una morale di tipo economicistico, irrimediabilmente svincolata dai condizionamenti evangelici e dalla tradizione cristiana. Oltre a prefigurare per ogni uomo un naturale anelito alla felicità (nel senso di utilizzo delle «sue facoltà e forze per suo comodo e per la sua felicità») per ottenere un vantaggioso tasso di benessere individuale, misurato sul rapporto tra il bene e il male12, non tralasciava di considerare la dimensione collettiva della felicità. Poggiando le sue riflessioni sull’assunto

  Genovesi, Delle lezioni di commercio, p. 3. Cfr. P. Zambelli, La formazione filosofica di Antonio Genovesi, Napoli, Morano, 1972, pp. 753-755. 9  Cfr. K. Stapelbroek, Commerce and Morality in Eighteenth-Century Italy, in «History of European Ideas», XXXII (2006), 4, pp. 361-366; e Id., Love, Self-Deceit, and Money. Commerce and Morality in the Early Neapolitan Enlightenment, Toronto, University of Toronto Press, 2008. Su C. Galiani rimane fondamentale V. Ferrone, Scienza, natura, religione. Mondo newtoniano e cultura italiana nel primo Settecento, Napoli, Jovene, 1982. 10   B. Mandeville, La favola delle api. Ovvero, vizi privati, pubblici benefici con un saggio sulla carità e le scuole di carità e un’indagine sulla natura della società, a cura di T. Magri, Roma-Bari, Laterza, 1997. Cfr. Private Vices, Publick Benefits? The Contemporary Reception of Bernard Mandeville. A Collection of 16 books, articles, pamphlets etc. written mainly during the 1720s in response to the Fable of the Bees, ed. J. M. Stafford, Solihull, Ismeron, 1997 e I. Hont, Jealousy of Trade. International Competition and the Nation-State in Historical Perspective, Cambridge (Massachusetts), Harvard University Press, 2005, pp. 185-200. 11  L.A. Muratori, Della pubblica felicità oggetto de’ buoni prìncipi, a cura di C. Mozzarelli, Roma, Donzelli, 1996. 12   Scriveva infatti: «Ogni uomo è per natura sensitivo e pensante; per natura ama di esserci, e di esserci quanto può più senza dolore. Per natura appetisce tutto quel che stima poterlo alleggerire dal dolore, dall’afflizione, dalla noia e dal disagio» (Genovesi, Delle lezioni di commercio, p. 274). 8

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della naturale socievolezza degli uomini, invitava a concepire la felicità di ciascuno in relazione a quella degli altri, di tutti gli altri membri di «una società ragionevole e conveniente ad esseri per natura pietosi e ragionevoli, tendenti alla felicità delle parti e del tutto». Era la stessa società a configurarsi nell’impianto teorico dell’abate salernitano come il più rilevante strumento, «ingenerato e ordinato dalla natura», attraverso cui sarebbe stato possibile per ognuno e per tutti procurarsi la propria felicità13. Il genovesiano tema della generale interdipendenza di ogni parte dal tutto che, dal piano delle forze fisiche e naturali si estendeva a quello sociale ed economico, è stato recentemente riproposto con vigore e proficuamente accostato agli orientamenti empiristici della cultura e della pubblicistica gius-politica inglese14. Genovesi coglieva la visione ottimistica di una società in grande espansione nelle opere di politici e poeti come Henry St. John, visconte di Bolingbroke15 e Alexander Pope16, che con «altri autori inglesi», stando a quanto affermava in un’annotazione alla traduzione del Cary, condividevano quell’«atteggiamento cooperativo», grazie al quale l’Inghilterra godeva di un regime politico e di una organizzazione socio-economica in grado di assicurare la felicità dell’intera nazione17. L’ammirazione nei riguardi di una società ben ordinata ed efficiente, dove l’integrazione tra i diversi segmenti che la componevano appariva quanto   Genovesi, Delle lezioni di commercio, pp. 278-278: 283.  Cfr. R. Ajello, Attualità di Antonio Genovesi: sintesi globale della natura e critica della società italiana, in «Frontiera d’Europa», X (2004), 2, pp. 5-233. Il saggio è seguito dalla pubblicazione di un importante testo genovesiano, edito per la prima volta nel 1784 nella «Scelta miscellanea»: Considerazioni su i fondamenti della civile società o sulle leggi dei corpi politici (pp. 234-245). 15   Per un primo approccio alla figura dell’uomo politico inglese si vedano le stimolanti introduzioni dei curatori a Bolingbroke, L’idea di un re patriota, a cura di G. Abbattista, Roma, Donzelli, 1995 e a Henry Saint-John visconte di Bolingbroke, Sul governo, a cura di E. Capozzi, Napoli, A. Guida, 1997. 16   Quest’ultimo particolarmente noto a Napoli grazie alle traduzioni realizzate nella capitale del regno borbonico del Saggio sull’uomo (presso Moscheni e compagni, 1742 e per i tipi di D. Terres, 1768), del Riccio rapito (a spese di un amico di Andrea Bonducci, traduttore toscano dell’opera, 1760) e delle Pastorali (nella stamperia di G. Giaccio, 1767). 17   «Perocché, come nei corpi fisici la sanità è la robustezza dipende dalla scambievole unione e influenza de’ suoi membri, per la medesima maniera la sanità e la forza e la felicità de’ corpi nasce dalla strettissima unione e dal comunicarsi i loro consigli, le loro forze e i loro beni quelle famiglie che gli compongono, e questa dal reciproco loro amore, ch’è amor del pubblico, cioè di tutto il corpo civile, [ciò] che i filosofi addomandano virtù eroica, (…) quella che i piccoli Stati ha ingranditi ed i grandi conservati»: A. Genovesi, «Annotazione terza» a J. Cary, Storia del commercio della Gran Bretagna, con un ragionamento in universale e alcune annotazioni riguardanti l’economia del nostro Regno, 3 voll., Napoli, Gessari 1757-1758, ora in Id., Scritti economici, vol. I, a cura di M.L. Perna, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 1984, pp. 498-499. 13 14

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mai salda, trovava modo di esprimersi anche nella copiosa corrispondenza epistolare del titolare della cattedra intieriana. Scrivendo intorno alla metà del Settecento a Ferrante de Gemmis – suo antico allievo tornato nella natia Terlizzi e cognato di Felice Lioy – lo sollecitava a leggere e tradurre le opere a stampa pubblicate in Inghilterra perché ancora conservavano l’«antico fervore» e si distinguevano dai troppi libri in circolazione, editi solo per «ridurre in piccoli compendii, ma chiari e metodici, le fatighe de’ grandi uomini del secolo passato»18. L’interesse di Genovesi per quanto veniva emergendo nell’ambito della cultura inglese del Settecento è rinvenibile anche in relazione al problema dell’origine e della giustificazione della presenza del male. Al dibattito apertosi a Napoli sulla questione19, egli stesso prese parte attiva con un’articolata dissertazione, De origine malorum, inserita nel quinto volume degli Elementa metaphysicae del 1763, dove riprendeva il titolo già utilizzato dal vescovo anglicano William King in uno scritto che riteneva alla base della Teodicea di Leibniz20. Pur accettando una spiegazione razionale del male, l’autore napoletano eludeva volutamente il nodo teologico e, sulla scorta dell’attento esame di scrittori antichi e moderni, desumeva che i mali fossero parte integrante dell’ordine naturale e funzionali alla conservazione dello stesso. Nella Dissertatio de origine malorum non infrequenti erano i richiami a Mandeville e a Bolingbroke. All’autore della Favola delle api veniva riconosciuta la puntuale analisi del peso degli interessi particolari nel regolare i rapporti in società e le stesse leggi economiche, mentre in Bolingbroke e nel suo «fidus alumnus»21, il poeta Alexander Pope, Genovesi trovava il motivo della ‘pienezza’, consustanziale alla teoria della grande catena dell’essere. Proprio nell’adesione all’idea secondo la quale non vi sono vuoti o salti nella raffigurazione dell’universo e della natura – idea che consentiva di assorbire e quindi risolvere almeno il problema dei mali dipendenti dall’essenza finita delle cose – è possibile rinvenire le ragioni dell’interesse dell’abate verso un’opera come A Free Enquiry into the Nature and Origin of Evil.

  Genovesi a F. de Gemmis, Napoli 21 giugno 1755, in A. Genovesi, Autobiografia, lettere e altri scritti, a cura di G. Savarese, Milano, Feltrinelli, 1962, p. 95. 19  Cfr. P. Addante, Il problema del male nella cultura napoletana del ‘700, «Progresso del Mezzogiorno», XVII (1993), 1, pp. 91-144. 20  Cfr. E. Pii, Antonio Genovesi. Dalla politica economica alla «politica civile», Firenze, L. S. Olschki, 1984, p. 150. 21  A. Genovesi, Disciplinarun metaphysicarum elementa mathematicum in morem adornata, vol. V, Bassano, Remondini, 1779, p. 367 (cfr. Pii, Antonio Genovesi, p. 153). 18

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Soame Jenyns era un tipico placeman governativo, più volte rieletto in Parlamento a partire dal 1741, grazie al legame di patronage che lo legava al duca di Newcastle, ministro degli affari ecclesiastici di Giorgio II, impegnato a promuovere rapporti di intesa e collaborazione tra il governo britannico e la chiesa anglicana22. La sua produzione editoriale appare notevolmente condizionata dalla lunga esperienza parlamentare e dall’aver fatto parte di alcuni organismi di grande rilevanza nel sistema istituzionale inglese del Settecento come il Board of Trade. Pienamente inserito nell’oligarchia whig, sempre più votata, nel corso del Settecento, alla mera conservazione di un potere caratterizzato da inerzia riformatrice ed impegnato a difendere lo status quo, esaltando i valori dell’ordine e dell’autorità23, Jenyns si mostrava poco sensibile nei confronti delle rivendicazioni di eguaglianza, di libertà personale, del diritto di resistenza nei confronti delle autorità costituite. L’autore inglese inseriva le proprie analisi e proposte non soltanto nella pubblicistica che dedicava ai problemi del debito pubblico, alla tassazione delle colonie americane, ai progetti di riforma parlamentare e ad altre tematiche politiche ed economiche, ma soprattutto in alcuni scritti aventi ad oggetto questioni di carattere morale e religioso24. Venti anni dopo aver pubblicato per la prima volta la ricerca sulle origini del male, avrebbe dato alle stampe un testo sull’evidenza intrinseca del cristianesimo, A View of the Internal Evidence of the Christian Religion (London, 1776), una vibrante difesa della religione, priva di intenti sistematici ma in linea con l’apologetica rinnovata del tardo Settecento e mirata a confutare le posizioni deistiche e dei freethinkers25. L’opera ebbe una notevole fortuna editoriale, come testimoniano le successive edizioni inglesi

  Sul punto si vedano le puntuali considerazioni di G. Sanna, La chiesa d’Inghilterra nel secolo dei Giorgi. Le prospettive culturali e gli studi storici dall’Ottocento a oggi, «Cromohs» (Cyber Review of Modern Historiography), 2003, 8, [http://www.cromohs.unifi.it/8_2003/sanna.html]. 23   Si rivela proficuo consultare a riguardo G. Abbattista, Studi recenti sulle ideologia politiche nell’Inghilterra del secolo XVIII, «Società e storia», 1987, 36, pp. 416-419; Id., Parlamento, partiti e ideologie politiche nell’Inghilterra del Settcento. Temi della storiografia inglese da Namier a Plumb, «Società e storia», 1986, 33, pp. 619-642. 24  Le notizie biografiche sono tratte da R. Rompkey, Jenyns, Soame, in Oxford Dictionary of National Biography, vol. 30, Oxford, 2004, pp. 26-28. Allo stesso studioso canadese si deve il più ampio studio ad oggi disponibile: R. Rompkey, Soame Jenyns, Boston, Twayne, 1984. Sulle posizioni assunte da Jenyns nella sua azione politica e parlamentare si vedano P. Langford, A Polite and Commercial People. England 1727-1783, Oxford, Clarendon Press, 1989, pp. 67-68, 449-450, 470-471, 600-601; G. Abbattista, Imperium e libertas. Repubblicanesimo e ideologia imperiale all’alba dell’espansione europea in Asia (1650-1780), in Ideali repubblicani in età moderna, a cura di F. De Michelis Pintacuda e G. Francioni, Pisa, ETS, 2002, pp. 213-216. 25  Cfr. Rompkey, Jenyns, Soame, p. 26. 22

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e le traduzioni realizzate in Francia, Polonia e Grecia, alle quali bisogna aggiungere quella promossa a Palermo nel 183626. A Free Enquiry si presenta sotto forma di una raccolta di sei lettere indirizzate ad un supposto interlocutore, la prima delle quali serve da introduzione alle successive dedicate ad esaminare l’essenza e l’origine di una determinata tipologia di mali. L’autore distingue tra mali d’imperfezione, mali naturali, male morale, mali politici e religiosi, ricorrendo cioè ad una suddivisione che, in seguito, sarebbe stata proposta anche nella Diceosina27. Il testo, al centro di alcune delle più suggestive pagine della classica opera di Arthur O. Lovejoy28, va annoverato tra le teodicee razionaliste, tipiche dell’ottimismo settecentesco. In esso è possibile riconoscere la sostanziale adesione dell’autore alla teoria della grande catena dell’essere, adottata in precedenza da Pope nel Saggio sull’uomo che direttamente avrebbe ispirato Jenyns, soprattutto nelle conclusioni orientate a dimostrare l’assoluta necessità dei mali sociali e delle disuguaglianze29. Non è questa la sede per approfondire il significato e le implicazioni di una teoria che considerava il cosmo come un’organica gerarchia di forme viventi, articolata senza soluzioni di continuità da quelle più semplici ed elementari a quelle più complesse, fino all’ens perfectissimum, quale meta verso cui tendere. Ci si limita soltanto a sottolineare come una tale ipotesi interpretativa si fondasse su alcuni concetti che ne costituivano l’ineliminabile base teorica di supporto e di plausibilità: l’idea di pienezza, secondo cui l’universo risulta pervaso di creature diverse, senza che fra di loro esista alcun salto o vuoto; l’idea di continuità, nel senso dell’esistenza di una catena che tiene insieme tutti gli esseri presenti nell’universo e costituisce un continuum; il principio di ragion sufficiente, per il quale ogni cosa che esiste ha in se stessa la ragione della propria esistenza30. Di un tale comples-

  Esame della evidenza intrinseca del Cristianesimo di Soamo Jenyns, Palermo, Reale Stamperia, dietro il Convento del Carmine Maggiore, 1836. La traduzione compiuta da p. Benedetto Saverio Terzo da Monreale era dedicata a p. Benedetto d’Acquisto. 27  Cfr. A. Genovesi, Della Diceosina o sia filosofia del giusto e dell’onesto, edizione a cura di N. Guasti, presentazione di V. Ferrone, Venezia, Centro di Studi sull’Illuminismo europeo “Giovanni Stiffoni”, 2008, pp. 23-25. 28  A. Lovejoy, La grande catena dell’essere, traduzione di L. Formigari, Feltrinelli, Milano, 1966 (l’edizione originale americana è del 1936), in part. pp. 196-243. Si veda inoltre B. Willey, La cultura inglese del Seicento e del Settecento, Bologna, Il Mulino, 1975 (ediz. orig., London, 1965-1967), pp. 346-357. 29  Cfr. Rompkey, Soame Jenyns, p. 33. 30  Cfr. R. Festa, Tempo e ragione: il Settecento di Arthur O. Lovejoy, in La reinvenzione dei lumi. Percorsi stotriografici del Novecento, a cura di G. Ricuperati, Firenze, L.S. Olschki, 26

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so argomentativo costituisce corollario diretto l’asserzione secondo la quale tutti gli esseri creati sono posti in una scala gerarchica data una volta per tutte, statica e non sovvertibile, in quanto funzionale alla stessa esistenza del cosmo. Nel quadro dell’armonica concezione newtoniana dell’universo, l’uomo costituiva il fondamentale anello intermedio della catena, il «punto di transizione dalle forme puramente senzienti dell’essere alle forme intelligenti»31. Pur con tutti i suoi limiti, l’essere umano non poteva mancare in quanto ciò avrebbe reso lo schema incompleto e quindi imperfetto. Suo dovere era allora quello di restare al proprio posto e, nella consapevolezza che il mondo in cui viveva costituiva il migliore di quelli possibili, di non mettere a repentaglio l’ordinata continuità delle creature, cercando di trascenderla in vista del perseguimento di finalità non compatibili con la necessaria ed inalterabile graduazione. Da tali presupposti derivavano, più o meno direttamente, diversi elementi spendibili in implicazioni di ordine etico e sociale che la traduzione napoletana dell’opera di Jenyns contribuì a diffondere in un ambiente culturale e politico in cui la lezione della Diceosina cominciava a far sentire i suoi effetti32. A realizzare la versione dall’inglese di A Free Enquiry si dedicò Felice Lioy, giovane giurista e fervente massone, a partire almeno dal 176833. Attraverso incarichi sempre più prestigiosi, egli sarebbe divenuto esponente di primo piano della libera muratoria regnicola sotto giurisdizione «inglese», fino a giungere, nel 1773, al grado di Gran Segretario della autonoma Gran Loggia Nazionale delle Due Sicilie, Lo Zelo, presieduta dal principe di Caramanico. Lo stesso Lioy avrebbe dimostrato disinvoltura e abilità nel compilare, nel 1776, una fortunata memoria difensiva in favore dei fratelli arrestati e inquisiti da Tanucci, più volte tradotta e ristampata ma anche causa di un lungo esilio34. 2000, pp. 57-87. 31  Lovejoy, La grande catena, p. 203. 32  Cfr. Ferrone, La società giusta ed equa, pp. 350-351. Sulla rilevanza della Diceosina nella cultura illuministica napoletana degli ultimi decenni del XVIII secolo insiste anche N. Guasti, Antonio Genovesi’s Diceosina: Source of the Neapolitan enlightenment, «History of European Ideas», XXXII (2006), 4, pp. 385-405. 33   Il suo nome compare in un piedilista datato ottobre 1768, contenente i membri della loggia napoletana Parfaite Union e pubblicato in E. Stolper, La Massoneria settecentesca nel Regno di Napoli, in «Rivista massonica», 1975, 7, pp. 419-422. 34   Per un primo approccio alla complessa figura di Felice Lioy si possono consultare S. Fini, Un massone pugliese del secolo XVIII, in «Annuario del Liceo Statale Nicola Fiani di

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Nel 1769 Lioy riuscì solo parzialmente a completare il lavoro, arricchendolo, tuttavia, di significative annotazioni e stampandolo a proprie spese, non senza pesanti riflessi sulle sue «povere finanze»35. La prematura morte di Genovesi e, soprattutto, il mancato sostegno di Tanucci, resero travagliato l’iter editoriale, nonostante il parere favorevole dei revisori espresso già nel 1767. Una lettera di Lioy allo stesso ministro di Ferdinando IV testimonia limpidamente le ragioni che non consentirono di portare a compimento il lavoro intrapreso. Esse vanno individuate nella ostinata opposizione di non meglio precisati «Teologi impostori» che giudicarono inopportuno che queste supreme scienze siansi messe a giorno e rendute in un libriccino di pochi fogli di stampa accessibili alla comunità del genere umano, appunto perché temono che da ciò ne possa derivare un sistema di etica e di morale chiaro, utile e stabile, talmente che, propagandosi gli onesti e filosofici pensieri dell’Autore, potrebbe per avventura accadere, che essi [i teologi] perdessero la massima parte di giurisdizione sopra lo spirito popolare la quale tutta dipende dalla superstiziosa anarchia e dalle tenebre, in cui eglino tuttogiorno travagliano che il popolo marcisse, al fine di trarre profitto e vantaggio dalla sua ignoranza ed infelicità36.

Autodefinitosi «Patrioto [sic] dell’Universo, ed amico di tutta la razza umana», il traduttore dedicava l’opera a Vittoria Guevara, dei duchi di Bovino, già duchessa di Maddaloni, all’epoca principessa di Caramanico, in quanto consorte di Francesco d’Aquino, futuro gran maestro della massoneria napoletana e viceré di Sicilia. La donna, dotta e in grado di comprendere testi in lingua inglese, aveva un animo pregno «di tutte le virtù sociali» e già «purgato da’ pregiudizi, e dagli errori» che ancora affliggevano gran parte dei sudditi di Ferdinando37. Nelle pagine dedicatorie sembra di poter cogliere la volontà di anticipare le linee guida di un progetto politico-culturale ben più ampio, per ora solo avviato, di cui l’edizione napoletana di A Free Enquiry costituiva il primo tassello e nel quale alla lezione genovesiana si

Torremaggiore (FG)», I, 1973-1974 e 1974-1975, pp. 119-130; G. Valente, Feudalesimo e feudatari in sette secoli di storia di un comune pugliese (Terlizzi 1703-1779), vol. VI, Molfetta, Mezzina, 2004, pp. 168-176; R. Di Castiglione, La Massoneria nelle due Sicilie e i “ fratelli” meridionali del ‘700, vol. II, Saggio di prosopografa latomica: Città di Napoli, Roma, Gangemi, 2008, pp. 220222 con ulteriori riferimenti bibliografici. Un’accurata ricostruzione del soggiorno parigino di Lioy, sulla scorta di documenti inediti, è in P.-Y. Beaurepaire, L’autre et le frère. L’etranger et la Franc-maçonnerie en France au XVIIIe siècle, Paris, H. Champion, 1998, pp. 111-118. 35  F. Lioy a B. Tanucci, 16 luglio 1770, Archivio di Stato di Napoli, Casa Reale Antica, f. 1313. 36   Ibidem. Cfr. Ajello, Attualità di Antonio Genovesi, pp. 141-142, 225-227. 37   Libera ricerca intorno la natura, ed origine del male, dedica del traduttore, p. 2.

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intrecciavano stimoli chiaramente riconducibili alla pratica e alle discussioni proprie del complesso mondo latomistico partenopeo38. Pur disponendo di una traduzione limitata alle prime tre lettere redatte da Jenyns e non comprensiva delle altrettante successive che contenevano le riflessioni dedicate all’origine e ai tratti distintivi dei mali morali, politici e religiosi, le pagine edite a Napoli consentono di ricostruire le linee essenziali del messaggio che Lioy intendeva veicolare in riferimento alla «troppo astrusa ed antichissima questione dell’origine del male»39 e al complesso rapporto tra il male presente nel mondo e la felicità degli uomini. L’opera di Jenyns gli appariva un valido ausilio sia per valutare i mali «senza alcuna alterazione», sia per «misurarne (…) la connessione (…) col bene e colla felicità del Tutto». Essa poteva contribuire a «sgombrare dalla mente degli uomini il gran numero de’ mali, che crea la fantasia e la di loro presunzione» e li aiutava a concentrare l’attenzione sui mali cui erano «realmente esposti», i soli veri artefici «produttivi della loro felicità e di quella di milioni di esseri loro compagni»40. Pubblicare l’opera in lingua italiana poteva rivelarsi un valido ausilio per provare ad amplificare, grazie all’adozione di un linguaggio efficace, la trasmissione di un’idea forte della cultura massonica. A giudizio dell’allievo di Genovesi il processo di conoscenza si realizzava concretamente attraverso graduali avvicinamenti alla verità, con un susseguirsi di tappe propedeutiche, riservate soltanto ad un gruppo ristretto ed elitario di individui. Coerentemente, l’avvocato pugliese limitava il pubblico destinatario della sua traduzione a non meglio specificati «affezionati patrioti», accomunati dall’essere consapevoli del fatto che lo sviluppo della ragione si realizzasse «per gradi, e lentamente» e non dovesse rappresentare un patrimonio di tutti come gli sembravano proporre quegli scrittori contemporanei impegnati a recidere negli uomini «ogni suggezione» e a «piantare lo stendardo dell’empietà, e della Irreligione». Una simile errata convinzione, una volta realizzata, avrebbe generato «la confusione e la rivolta: e quindi l’Universale Anarchia (…) il più terribile e tristo flagello della razza umana»41.

 Oltre al ponderoso lavoro di G. Giarrizzo, Massoneria e illuminismo nell’Europa del Settecento, Venezia, Marsilio, 1994, si vedano E. Chiosi, Massoneria e politica, in Napoli 1799. Fra storia e storiografia, Atti del convegno internazionale, Napoli, 21-24 gennaio 1999, a cura di A.M. Rao, Napoli, Vivarium, 2002, pp. 217-237; A.M Rao, La Massoneria nel Regno di Napoli, in Storia d’Italia, Annali 21, La Massoneria, a cura di G.M. Cazzaniga, Torino, Einaudi, 2006, pp. 513-542. 39  Lioy a B. Tanucci, 16 luglio 1770. 40   Libera ricerca, dedica del traduttore, p. 3. 41   Libera ricerca, prefazione del traduttore, pp. 9-10. 38

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Nella Prefazione Lioy avvertiva che nel testo di Jenyns la questione della Rivelazione divina non aveva ricevuto adeguato rilievo, pur essendo considerata «un sistema di morale il più ragionevole, e di Religione il più sublime». Questa sottovalutazione era però giustificata, in quanto l’autore inglese si proponeva di convincere gli empi e i miscredenti e «guadagnarli alla Religione col mezzo della ragione» e, pertanto, il suo sforzo ben si prestava a «servire di rischiaramento alle più astruse questioni della Teologia Cristiana». Valeva, allora, la pena di rendere fruibile per un pubblico non in grado di leggerla in lingua originale, un’opera capace di far «sentire la necessità e la spedienza dei mali» e di spingere «tranquillamente» gli uomini a rassegnarsi «all’alto ed imperscrutabile ministerio del Governo Teocratico»42. Commentando i passi salienti della prima lettera, dedicata a spiegare l’origine e la natura del male «in generale», il traduttore si preoccupava di contestare le interpretazioni, sedimentatesi nel tempo, in riferimento alle ipotesi avanzate dagli storici antichi circa le condizioni del mondo «nella sua infanzia». Era del tutto errato e fuorviante ritenere che «i primi Uomini fossero stati Dii, e cioè infinitamente perfetti». Occorreva invece studiare con rigore «i frammenti storici» ed osservare attentamente i «monumenti fisici» per comprendere l’autentico significato e le conseguenze indotte dalle «rivoluzioni avvenute sopra questo nostro Pianeta or in una contrada, or in un’altra». I terremoti, le inondazioni e ogni altro naturale cataclisma «andarono sempre accompagnati dalle [rivoluzioni] morali» e spinsero i pochi sopravvissuti a vagare «pieni di spavento e di terrore» alla spasmodica ricerca di una soluzione per placare l’ira della «Divinità» che essi credevano di aver provocato «colla riforma de’ loro costumi». Scambiare una situazione così drammatica per un modello di vita improntato ai canoni dell’innocenza e della semplicità «figlie de’ bisogni naturali», costituiva un grave stravolgimento della verità storica, di cui si erano resi colpevoli non pochi filosofi e poeti rimasti incantati da un supposto e mitico «secolo d’oro», nel quale avrebbero regnato «lo stato di felicità e la natural perfezione»43. L’adozione di un rigoroso metodo d’indagine, che consentisse di vagliare adeguatamente le fonti storiche dell’antichità, poteva rivelarsi un utile strumento per confermare quanto postulato dalla «cristiana teologia» circa la non veridicità delle tesi tendenti ad accreditare l’originaria, assoluta perfezione dell’uomo. Al contrario, il male esiste da sempre e, tenute ferme le spiegazioni teologiche incentrate sulle conseguenze del peccato di Adamo, risultava

  Libera ricerca, pp. 13-14.   Libera ricerca, pp. 30-31, nota di Lioy.

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del tutto legittimo che ci si fosse impegnati ad «investigarne la cagione». Bene quindi aveva fatto Soame Jenyns ad indicare la causa dell’esistenza del male non in un «difetto nella potenza del Creatore», ma nella «necessaria imperfezione degli Esseri creati», giungendo cioè a fornire una spiegazione che non si discostava dalle tesi esposte da Genovesi nella dissertazione del 1763, De origine malorum, esplicitamente citata. Tuttavia, Lioy mostrava di essere molto attento a sottolineare quello che riteneva essere l’apporto originale fornito all’esame del problema dal suo «amico e maestro, profondo e candido teologo, e Filosofo italiano»44, evidenziando le differenti posizioni di Leibniz e Pope45. Questi ultimi, infatti, avevano sostenuto un sistema secondo il quale «tutto va per lo meglio sopra l’articolo di fede della scala degli esseri superiori ed inferiori, più e meno felici»; Genovesi, invece, aveva proposto una spiegazione «parto della ragione umana e delle idee che ci abbiamo della natura delle cose»46. La puntuale annotazione riprendeva un famoso passo della Metafisica italiana, già anticipato nella dissertazione latina sull’origine dei mali, nel quale l’abate salernitano riconduceva l’ordine e l’armonia dell’universo alla legge di attrazione e di collisione degli enti. Tale regola agiva non soltanto in ambito cosmologico, ma rendeva plausibile la coesistenza tra le parti in tutti i molteplici sistemi di cui la realtà è costituita e quindi anche in ambito morale e politico47. Essa era inoltre chiamata in causa per spiegare l’origine del bene e dei mali che «per una spezie di fatalità dell’Essenze limitate, dal medesimo fonte» scaturivano. Pur introducendo un’ipotesi non contemplata da Jenyns, l’avvocato di Terlizzi mostrava di condividere in pieno la teoria della catena dell’essere e, implicitamente, le idee di completezza e pienezza che ne costituivano gli ineliminabili attributi. Pertanto, non riteneva di dover circoscrivere le chiarissime argomentazioni enucleate dall’autore inglese che dichiarava «impraticabile» qualunque ragionamento teso ad «escludere dalla Creazione la necessaria inferiorità di alcuni esseri in paragone degli altri»48. Il vincolante rispetto del principio della continuità rendeva l’universo un sistema ordinato secondo una rigida subordinazione, in cui «la felicità del tutto dipende totalmente dalla giusta inferiorità delle sue parti». In tale qua-

  Libera ricerca, pp. 36-37, nota di Lioy.  Dei versi del poeta inglese riportati da Jenyns, Lioy offriva la traduzione del Castiglioni, giudicata da Genovesi fedele all’originale: cfr. Genovesi, Della Diceosina, p. 101. 46   Libera ricerca, p. 60, nota di Lioy. 47  Cfr. M.T. Marcialis, Legge di natura e calcolo della ragione nell’ultimo Genovesi, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», XXIV (1994), 2, pp. 315-340, pp. 317-320. 48   Libera ricerca, p. 61, nota di Lioy. 44 45

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dro, a giudizio del traduttore, la felicità costituiva l’unico marcatore in grado di distinguere effettivamente «il valore della esistenza di tutti gli Esseri». Perfettamente consapevole delle ricadute sul piano sociale delle asserzioni presenti nel testo tradotto, Lioy introduceva un significativo paragone. Così come non poteva ritenersi segno di differenziazione tra gli animali «la grandezza dell’elefante» o «la forza del leone», allo stesso modo tra gli uomini non erano «la povertà o la ricchezza, il governare o l’obbedire» che facevano «l’uno superiore all’altro». Aveva quindi pienamente ragione Soame Jenyns nel ribadire, con forza, che l’universo costituiva «un sistema, la cui essenza consiste nella subordinazione; una scala di Esseri, che discende per insensibili gradi dall’infinita perfezione all’assoluto nulla»49. Nelle pagine di A Free Enquiry un passaggio chiave può essere individuato nella convinzione dell’autore inerente al fatto che esistesse «qualcosa nell’astratta natura della pena conducente al piacere» e che «i patimenti degl’individui [fossero] assolutamente necessari alla universale felicità»50. Pur essendo «la bilancia della felicità (…) eguale dappertutto»51, questo non autorizzava a considerare ogni membro della compagine sociale beneficiario del diritto di ambire ad un eguale livello di felicità. Anzi, proprio per salvaguardare l’armonico risultato della sommatoria tra le singole felicità dei membri differenti del corpo sociale, secondo gli apologeti dello status quo52, non era lecito ricorrere a strumenti potenzialmente in grado di livellare le diseguali felicità esistenti, in quanto essi si sarebbero rivelati perturbatori dell’ordine voluto da Dio e fondato su una rigida disposizione gerarchica. Proiettare l’ordine sociale sullo schermo dell’intero cosmo, considerandolo una porzione della struttura immutabile del creato, consentiva di fissare in una necessaria e statica gerarchia anche i rapporti all’interno della società53. Essi apparivano dati una volta per tutte e non suscettibili di modificarsi, ricorrendo a strategie riequilibratrici delle differenze. In

  Libera ricerca, pp. 56-57.   Ibidem, p. 115. 51   Ibidem, p. 67, nota di Lioy. 52  L’espressione è mutuata da B. Willey, La cultura inglese, p. 350. 53   Interessanti considerazioni sul tema dei rapporti di gerarchia nella società inglese del XVIII secolo sono in M.L. Pesante, Contro l’uguaglianza civile. Discorsi inglesi sulla gerarchia nella seconda metà del Settecento, «Rivista storica italiana», CXVII (2005), 2, pp. 448-493. Per un quadro più generale si veda Il pensiero gerarchico in Europa. XVIII-XIX secolo, a cura di A. Alimento e C. Cassina, Firenze, L.S. Olschki, 2002. 49

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particolare, Jenyns rifletteva sull’incommensurabile contributo regolatore fornito dall’ignoranza in seno alla società di antico regime. La «mancanza della cognizione» nei poveri e in coloro che nascevano per essere addetti agli «affari i più duri e servili della vita» rappresentava «il solo oppio capace di infondere quella insensibilità» necessaria ad accettare la propria condizione di miseria e sopportare le fatiche cui erano destinati. Si trattava di un vero e proprio «cordiale amministrato dalla graziosa mano della Provvidenza» che non ammetteva di essere rifiutato, ricorrendo ad una «mala intesa ed impropria Educazione»54. Coerentemente, quindi, si scagliava contro ogni ipotesi di allargamento del diritto all’istruzione che avrebbe minato la «giusta subordinazione»55, irrinunciabile «sostegno della società»56. L’allievo genovesiano sposava in pieno la tesi esposta, anche perché gli sembrava sostanzialmente contigua all’elitaria concezione del sapere che stava facendosi strada in alcune logge napoletane e che intendeva la vera conoscenza come un patrimonio riservato a pochi iniziati, da custodire e sottrarre ai più. Lioy considerava «l’educazione ben regolata (…) madre del buon ordine, e della felicità delle nazioni»57, e segnava così una netta discontinuità rispetto all’amato maestro, fino alla fine convinto assertore di un programma di pubblica educazione dal quale nessuno fosse escluso e, pertanto, formidabile garanzia della salvaguardia dei diritti naturali, in quanto «ogni uomo ha diritto a sapere la legge; ogni uomo è costretto a conoscere le regole de’ suoi costumi e i principi e gli strumenti della vera pietà: giova ad ognuno essere istruito nelle utili conoscenze»58. In realtà, la traduzione operata da Felice Lioy si collocava in un momento di svolta per quanto riguarda le proposte e gli interventi nel campo dell’istruzione. Alla fine degli anni Sessanta, soprattutto dopo l’espulsione dei gesuiti, sembravano delinearsi quelle condizioni, non soltanto, finanziarie per recepire a livello istituzionale i progetti di riforma degli studi elaborati dal primo titolare della cattedra di Commercio e Meccanica59. Anche   Libera ricerca, pp. 67 e 69.   Ibidem, p. 81. 56   Ibidem, p. 69. 57   Ibidem, p. 69 nota di Lioy. 58  A. Genovesi, Dialogo degli studi, edito in G.M. Monti, Per la storia dell’Università di Napoli, Napoli, F. Perella, 1924, pp. 122-128, cit. in E. Chiosi, Lo spirito del secolo. Politica e religione a Napoli nell’età dell’illuminismo, Napoli, Giannini, 1992, p. 84. 59   Sui dibattiti e gli interventi nel campo dell’istruzione relativamente alla seconda parte del XVIII secolo indispensabile risulta ancora oggi A. Zazo, L’istruzione pubblica e privata nel Napoletano (1767-1860), Città di Castello, Il solco, 1927. Cfr. anche A. Broccoli, Educazione e politica nel Mezzogiorno d’Italia (1767-1860), Firenze, La nuova Italia, 1968. Tra gli studi più 54 55

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il variegato mondo della massoneria regnicola non rimase insensibile alle novità che la realtà politico-istituzionale presentava. Il tema dell’istruzione impegnò alcuni tra i più rappresentativi esponenti, allo stesso tempo, della fratellanza e della scuola genovesiana. Esso fece emergere una divaricazione nella strategia perseguita tra chi, come Lioy e più tardi Antonio Planelli60, riproponeva, anche se con modalità in parte inedite, la conservazione degli equilibri consolidati e chi, al contrario, si sforzava di ipotizzare soluzioni aperte ad una ridefinizione delle gerarchie sociali, attraverso lo strumento della formazione intellettuale e professionale. Tra questi ultimi si collocava l’abate Antonio Jerocades61, instancabile nell’attività di proselitismo a favore della libera muratoria. Nel Saggio dell’umano sapere ad uso dei giovanetti di Paralia62, opera «animata da una forte carica eversiva della società di ordini e del privilegio di nascita»63, Jerocades insisteva sulla necessità di un’istruzione utile e pratica che fosse in grado di assicurare adeguati sbocchi professionali e di contribuire efficacemente a creare i presupposti per un profondo ed incisivo rinnovamento sociale.

recenti si veda Chiosi, Lo spirito del secolo, in part. il cap. III, Intellettuali e plebe, pp. 79-106. Per un quadro di riferimento aggiornato M. Lupo, Tra le provvide cure di sua maestà. Stato e scuola nel Mezzogiorno tra Settecento e Ottocento, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 11-58. 60  Cfr. Saggio sull’educazione de’ principi del cavaliere Antonio Planelli dell’ordine gerosolimitano, Napoli, presso G. M. Porcelli, 1779. 61  Manca purtroppo una monografia esauriente che lo riguardi. Si vedano comunque A. Simioni, Le origini del risorgimento politico dell’Italia meridionale, 2 voll., Ristampa anastatica con indice dei nomi e dei luoghi a cura di I. Del Bagno, Napoli, Società Napoletana di Storia Patria, 1995, vol. I, pp. 311-316; F. Tigani Sava, Antonio Jerocades. Contributo bibliografico, in La Calabria dalle riforme alla restaurazione, 2 voll., Atti del VI Congresso storico calabrese, Catanzaro, 29 ottobre-1 novembre 1977, Catanzaro, Società Editrice Meridionale, 1981, vol. II, pp. 635-713; A. Accorinti, Antonio Jerocades patriotta e letterato, Catanzaro, Ursini, 1996; Antonio Jerocades nella cultura del Settecento, con introduzione di L.M. Lombardi Satriani, Atti del Convegno di Parghelia dell’8 settembre 1996, Reggio Calabria, Falzea, 1998. 62  Napoli, Stamperia Simoniana, 1768. 63  A.M. Rao, Illuminismo e massoneria: Antonio Jerocades nella cultura del Settecento, in Le passioni dello storico. Studi in onore di Giuseppe Giarrizzo, a cura di A. Coco, Catania, Edizioni del Prisma, 1999, pp. 481-510: 488.

Cristina Passetti Una fragile armonia: felicità e sapere nel pensiero di Antonio Genovesi*

Parve ad Apollo che si potesse ormai con assai conoscenza di causa decretare. Perché cominciò, «Visis actis…», quando Iri l’interruppe, presentandogli l’aureo volume de’ fati, dove si lesse alla pag. 1670 questo dettato di Giove: «La stoltezza è da un pezzo il sommo bene de’ mortali di laggiù. I soli stolti si tengon felici. Adunque condanno tutt’i popoli stati finora selvaggi alla miseria di studiare; meritano questa pena per essersi infastiditi della loro felicità: e tutt’i culti e savi a tornar selvaggi, per premio delle loro lunghe e inutili fatiche. Item, condanno all’oblio gli Atti della presente causa siccome scritti negli accessi della stoltezza»1.

Nell’aprile 1752, in una lettera indirizzata a Romualdo de Sterlich, suo corrispondente da Chieti, Antonio Genovesi, pur riaffermando l’importanza della libertà di filosofare, di fronte a chi credeva ad esempio che «per meglio meditare» bisognasse accecarsi, osservava: «Dio ci ha dato una ragione per conservarci, non per distruggerci: ond’è che gli studi, i quali servono a formar la ragione, debbono servire così come quella a conservare, e rendere, se si può, felice la vita umana». Nella stessa lettera constatava inoltre con amarezza come vivessero «più saggiamente di noi i più schifi animali, i quali sieguono la natura e non il capriccio», mentre all’uomo, «a questo animale più illustre», era «riserbato che il suo sapere

  Il testo, per gentile concessione della curatrice dei presenti Atti, è stato pubblicato in anticipo sulla «Rivista storica italiana», CXXI (2009), n. 2, pp. 857-868. 1  A. Genovesi, Decreto di Apollo, in Lettere accademiche su la questione se sieno più felici gl’ignoranti che gli scienziati [1769], in Id., Autobiografia, lettere e altri scritti, a cura di G. Savarese, Milano, Feltrinelli, 1962, pp. 357-564: 549-550. *

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fosse una filosofia di vanità, aerea, senza realità, e spesso al professore istesso nocevole»2. Due anni più tardi ci sarebbe stata la ‘svolta’ economica, e le questioni inerenti funzioni e forme della conoscenza sarebbero emerse chiaramente a partire dal Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze 3, trovando poi nelle opere della maturità la definitiva formulazione che indicava nelle scienze fisiche gli strumenti atti a indagare e a descrivere l’esistente, mentre nelle scienze morali – suddivise al loro interno in etica, economia e politica – i mezzi con i quali, da un lato, suggerire nuovi percorsi di crescita economica per il suo arretrato paese; dall’altro, progettare per esso un modello sociale diverso che, nel provvedere «ai nostri costumi e bisogni», fosse in grado di attuare la «miglioria dell’uomo» e compierne la felicità mondana4. Tuttavia, è evidente come il nesso sapere-felicità costituisse anche prima del 1754 il principale nucleo tematico della riflessione genovesiana, il cui obiettivo, dichiarato sin dall’inizio del suo magistero universitario, era quello di impiantare nel Regno di Napoli una società cristianamente più giusta e armonicamente organizzata. Persuaso, infatti, che si potesse fare un’apologetica razionale servendosi di pochi e semplici postulati ispirati, in particolare, all’evangelismo dei Padri della Chiesa, già nelle opere ‘metafisiche’ degli anni Quaranta l’abate aveva avanzato l’idea della necessità di sviluppare un paradigma conoscitivo che fosse, nel contempo, scientificamente valido e socialmente utile, di dare vita cioè a un sapere ‘pratico’ e non dogmatico, basato sui dettami della moderna scienza galileiano-newtoniana e in grado di realizzare la pubblica felicità, purché se ne sapesse trarre profitto5. I con A. Genovesi, Lettere familiari, in Id., Autobiografia, lettere e altri scritti, pp. 43-225: lettera «A Romualdo Sterlich, Chieti» del 29 aprile 1752, pp. 69-71: 69. Per «professore» si intende qui, col significato etimologico del termine, ‘colui che proferisce’. 3  A. Genovesi, Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze [1753], in Ragionamento sopra i mezzi più necessari per far rifiorire l’agricoltura del p. ab. d. U. Montelatici (…), colla Relazione dell’erba orobanche (…) del celebre P.A. Micheli, con un Discorso di A. Genovese (…), dedicato al sig. d. B. Intieri, Napoli, Simoniana, 1754. Il Discorso sta in Genovesi, Autobiografia, lettere e altri scritti, pp. 227-276. 4   Sui campi d’azione delle discipline morali – etica, economia e politica –, cfr. A. Genovesi, Delle lezioni di commercio, o sia di economia civile, con Elementi del commercio, ed. critica a cura di M. L. Perna, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 2005, Parte I, «Proemio», pp. 261-269. 5  A. Genovesi, Elementa metaphysicae mathematicum in morem adornata. Pars prior: Ontosophia, Napoli, Tip. Gessari, 1743; Pars secunda: principia psycheosophiae (1747) contenente una dedica a papa Benedetto XIV; Pars tertia: principia theosophiae naturalis (1751); infine Pars quarta: de principiis legis naturalis (1752). L’ed. definitiva uscì con lo stesso titolo, accresciuta in 5 tt., presso la Tip. Simoniana, nel 1760-1763. Id., Elementorum artis logico2

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cetti di «felicità collettiva» e «felicità individuale» percorrevano quindi tutta la sua produzione intellettuale, nella quale la duplice accezione del termine «felicità» si evidenziava sempre in rapporto al tema della conoscenza, il cui carattere essenziale era individuato nel principio di utilità. È noto come in Genovesi questo principio riferito al sapere in generale fosse emerso soprattutto grazie al serrato confronto critico da lui stesso intrapreso con l’empirismo lockiano e con autori ritenuti pericolosi nell’ambito dell’ortodossia cattolica6. Ma per l’elaborazione del concetto di sapere utile, altrettanto importante si era rivelata la giovanile lettura delle muratoriane Riflessioni sopra il buon gusto – come testimonia la sua prima Autobiografia7 –, oltre ovviamente al dialogo a distanza che i due pensatori instaurarono a seguito della pubblicazione della Metaphysica,

criticae, 5 voll., Napoli, Palumbo, 1745, cui seguirono: II ed. rivista Napoli, s.n.t., 1749; III ed. Napoli, Gessari, 1753; infine IV ed. Napoli, Gessari, 1758. Il testo latino fu tradotto in italiano con il titolo Logica per gli giovanetti (cfr. qui nota 12). 6  Ne ho io stessa discusso nel mio Verso la rivoluzione. Scienza e politica nel Regno di Napoli (1784-1794), presentazione di A. M. Rao, Napoli, Vivarium, 2007. Su questo, sia inoltre permesso rinviare a C. Passetti, La ‘rivoluzione epistemologica’ di Antonio Genovesi (17451769), in Le metamorfosi dei linguaggi nel Settecento, a cura di C. Borghero e R. Loretelli, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2011, pp. 23-33; e Id., «Saper leggere e scrivere, ed un poco d’abbaco»: il modello sociale di Antonio Genovesi, in Modelli d’oltre confine. Prospettive economiche e sociali negli antichi Stati italiani, a cura di A. Alimento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2009, pp. 131-146. Ma, in relazione al principio di utilità, non va sottovalutata, a mio parere, l’analisi che Genovesi fece delle opere di Spinoza. Penso in particolare a un passo dell’Etica che l’abate ben conosceva, dove si legge: «Poiché la ragione nulla esige contro la natura, essa dunque esige che ciascuno ami se stesso, ricerchi il proprio utile, ciò che è veramente utile, e appetisca tutto ciò che conduce veramente l’uomo ad una perfezione maggiore, e, assolutamente parlando, che ciascuno si sforzi di conservare il proprio essere, per quanto dipende da lui (…). Di poi, giacché la virtù non è altro che l’agire secondo le leggi della propria natura (…) ne segue (…) che la felicità consiste per l’uomo nel poter conservare il proprio essere (…) donde segue che gli uomini che sono guidati dalla ragione, cioè gli uomini che cercano il proprio utile sotto la guida della ragione, non appetiscono nulla per sé che non desiderino per gli altri uomini, e perciò sono giusti, fedeli e onesti». Cfr. Parte IV: Della servitù umana, Scolio alla Proposizione XVIII: cito dall’ed. Sansoni, Firenze, 19842, pp. 439-441. Per un commento sul concetto spinoziano di utile si veda R. Bodei, Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità: filosofia e uso politico, Milano, Feltrinelli, 20066, pp. 341 e sgg. 7  Due sono le autobiografie genovesiane. La prima, scritta tra il 1749 e il 1750, riportava gli eventi biografici dell’autore dalla nascita all’arrivo a Napoli nel 1738; la seconda, composta tra il 1755 e il 1756, ne accentuava invece il passaggio agli studi di economia. Entrambe recano lo stesso titolo: Vita di Antonio Genovese. Per l’Autobiografia II si veda Genovesi, Autobiografia, lettere e altri scritti, pp. 1-42; per l’Autobiografia I cfr. P. Zambelli, La formazione filosofica di Antonio Genovesi, Napoli, Morano, 1972, pp. 797-860 (il richiamo a Muratori è a p. 811).

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nella cui «Appendix» del 1744, contro la barbarie delle lettere praticate in Italia, l’abate salernitano faceva pubblico appello proprio al Muratori8. Da parte sua, il Vignolese, che menzionò la Logica latina di Genovesi sia nel trattato Della forza della fantasia umana, sia nell’opera Della pubblica felicità9, decideva volontariamente di scrivergli il 18 maggio 1747, non solo per dimostrargli il proprio apprezzamento riguardo al suo «apparato d’erudizione» e alla sua «sodezza di giudizio», ma anche e soprattutto per incitarlo a proseguire nel rinnovamento degli studi italiani nel loro complesso, senza cioè limitarsi ai soli studi metafisici: l’uso del metodo critico, con il quale «in bell’ordine» Genovesi aveva esaminato e confutato gli autori «i più rinomati fra gli oltramontani ed anche i prevaricatori», doveva invero essere esteso alle scienze fisiche. «La conclusione intanto – assicurava Muratori – è che l’opera e l’esempio suo contribuiranno assaissimo al moto degl’ingegni italiani per sempre più depurare la filosofia e ridurre il sapere entro que’ limiti che si convengono ai nostri corti intelletti, se pure non si udiran fulmini di chi da per tutto paventa rovina della religione. Voglio sperare ch’ella penserà anche alla fisica»10. La comunanza di vedute tra Genovesi e Muratori emergeva inoltre per altri elementi tematici contenuti, in particolare, nel trattato muratoriano sulla felicità, dov’era spiegato che la felicità dei singoli così come quella dell’intera collettività si sarebbe potuta raggiungere attraverso il costante esercizio della «virtù della giustizia» da parte del sovrano11. Nella Diceosina, questa «virtù della giustizia» diventava «arte del giusto e dell’onesto», un’arte (o una ‘filosofia morale’) che per Genovesi doveva essere coltivata non soltanto dal sovrano, bensì da tutti gli individui appartenenti al corpo sociale, dato che ciascun essere umano era in grado di conquistare, servendosi dei propri «due interni principi motori», vale a dire «[del]l’amor proprio e [del]l’amor delle spezie, che potrebbero dirsi forza concentriva e forza espansiva», quell’equilibrio che, proiettato sul corpo sociale stesso, costituiva il presupposto indispensabile alla realizzazione della «felicità

  Genovesi, Metaphysica, Pars prior, «Appendix», Napoli, Gessari, 1744, p. 17.  Cfr. L.A. Muratori, Della forza della fantasia umana, Venezia, Pasquali, 1745, cap. XVIII; Id., Della pubblica felicità, s.l. [ma Venezia], s.n.t. [ma Albrizzi], 1749, cap. XIII. 10   «Lettera ad Antonio Genovesi in Napoli», in Dal Muratori al Cesarotti, vol. I: Opere di L. A. Muratori (2 tt.), a cura di G. Falco e F. Forti, Milano-Napoli, Ricciardi, 1964, t. II, pp. 1998-2000: 1999. 11  L. A. Muratori, Della pubblica felicità oggetto de’ buoni prìncipi, a cura di C. Mozzarelli, Roma, Donzelli, 1996, capp. I-II, pp. 9-21. 8 9

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nell’uomo e nelle nazioni»12. Dunque, a differenza di Muratori, Genovesi pensava che non si potesse più contare solo su una visione pedagogica che calava dall’alto il suo messaggio culturale, ma occorresse costruire, giusto intorno al tema del sapere, una salda connessione tra le diverse componenti sociali, facendo sì che tutte le «classi», tutte le «famiglie» e tutti gli «individui» interagissero fra loro in modo armonico, avviando quel progresso civile e quello sviluppo economico necessari a conseguire la privata come la pubblica felicità. D’altra parte, la funzione che in termini di «pubblica felicità» dovevano svolgere per Muratori anche i ministri del governo e il ceto intellettuale rappresentava un altro motivo ricorrente nelle opere genovesiane, a partire dal già ricordato Discorso del 1754 fino alle Lezioni di commercio, nelle quali il Salernitano aveva più volte illustrato i tratti distintivi del «savio» – colui che si fa tramite tra sapere e bisogni, colui che educa, che esercita cioè un’arte ai fini della pubblica e privata felicità, colui che può definirsi «amatore» della felicità –, il cui ruolo sociale attivo veniva posto in stretta connessione con il problema delle forme della società civile e dello stato di natura, sul quale tornerò fra poco13. Sempre per quanto concerne il rapporto Muratori-Genovesi, si è sostenuto come persino per l’aspetto della teoria economica l’opera Della pubblica felicità sia stata un «incunabolo» delle idee genovesiane14. Mi pare un’affermazione che non ha trovato ancora sufficienti riscontri, tanto più che la scoperta, da parte di Muratori, dell’economia era venuta essenzialmente dal confronto con la cultura napoletana e in modo particolare con il pensiero di Carlantonio Broggia, col quale corrispondeva da tempo e dal quale aveva ricevuto un abbozzo manoscritto di quella Vita civile economica (1745) che

 A. Genovesi, Della Diceosina, o sia Della filosofia del giusto e dell’onesto [Napoli, Simoniana, vol. I, 1766; vol. II, 1771, postumo], a cura di F. Arata, Milano, Marzorati, 1973, pp. 42-44 (nuova ed. a cura di N. Guasti, introduzione di V. Ferrone, Venezia, Centro di Studi sull’Illuminismo europeo «G. Stiffoni», 2008). Analoga affermazione in Id., Logica per gli giovanetti [Napoli, Simoniana, 17661 e 17692]: cito dal vol. I, pp. 248-249, dell’ed. in 2 voll., con le Vedute fondamentali sull’arte della logica di G. D. Romagnosi, Torino, Società editrice della Biblioteca dei Comuni italiani, 1835 (vol. I, Logica di Genovesi; vol. II, Vedute di Romagnosi). 13  Cfr. su questo punto E. Pii, Antonio Genovesi. Dalla politica economica alla «politica civile», Firenze, Olschki, 1984, pp. 225-230; si veda inoltre Passetti, «Saper leggere e scrivere, ed un poco d’abbaco», in particolare pp. 141-142. 14  Mi riferisco alle affermazioni di Zambelli, La formazione filosofica di Antonio Genovesi, p. 155. 12

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Broggia avrebbe voluto far stampare fuori da Napoli15. Indagare in questa direzione sarebbe tuttavia molto interessante anche alla luce di quanto osservava Cesare Mozzarelli nella sua introduzione a una recente edizione del trattato Della pubblica felicità circa la generale ‘sordità’ manifestata da Muratori verso le prospettive della scienza economica in materia, appunto, di pubblica felicità. «Per inciso – chiosava Mozzarelli – ci si può chiedere en passant se la sordità di Muratori alle prospettive della scienza economica non si possa forse leggere come rifiuto di una competenza specialistica che si propone come tendenzialmente autoreferenziale e assoluta, come nuova metafisica potremmo dire»16. Un rischio, a mio parere, che Genovesi aveva probabilmente percepito, dal momento che scelse di qualificare la sua ‘scienza del commercio’ in termini di ‘economia civile’17. Insomma, mossi entrambi dall’aspirazione a dar vita a una filosofia moderna e antiscolastica che tenesse conto del contemporaneo dibattito europeo, accettandone le istanze valide e rigettandone gli attacchi alla religione, Genovesi si dimostrava assai più spregiudicato e aggiornato di Muratori di fronte alla cultura illuministica europea18. Temi come la fede nel razionalismo scientifico e nel sapere quale utile strumento di progresso economico, si intrecciavano nel suo pensiero con l’idea solidaristica, dall’evidente matrice muratoriana, di una società nella quale la religione cristiana avrebbe dovuto tutelare i deboli, contenere le spinte egoistiche provenienti dalle classi aristocratiche o espresse dagli stessi sovrani, moderare infine i costumi a favore di una sempre troppo fragile pace sociale. Si trattava di un intreccio che indusse il Salernitano a intervenire con vigore nell’acceso dibattito generatosi in Europa a metà Settecento sul ruolo da attribuire alle

15  Cfr. M. Schipa, Muratori e la cultura napoletana del suo tempo, «Archivio storico per le province napoletane», XXVI (1902), n. 4; L. Dal Pane, Di un’opera sconosciuta di C. A. Broggia e del suo carteggio con L. A. Muratori, «Giornale degli economisti e Annali di economia», n.s., XVII (1958), pp. 638-661. 16  C. Mozzarelli, «Introduzione» a Muratori, Della pubblica felicità, pp. vii-xxxix: xxv. 17  L’idea di Genovesi era quella di costruire una scienza economica su base storica, che investisse tutti i problemi, individuali e collettivi, della vita associata. Per questo egli inquadrava il concetto di economia nei termini di ‘economia civile’. Secondo Pii, che ha definito l’economica civile genovesiana come «politica civile» (Pii, Antonio Genovesi, p. 19), fu in tal modo che l’abate sciolse il problema del come conservare l’autonomia dell’ordine naturale all’interno dello sviluppo economico, ponendosi così a metà strada fra Hume e i neo-mercantilisti francesi (e Melon) da un lato, e Montesquieu (con la sua legge dello sviluppo storico dei popoli) e Rousseau dall’altro lato (ibidem, pp. 84-90). Per questi problemi si veda anche il mio «Saper leggere e scrivere, ed un poco d’abbaco». 18  Al riguardo, cfr. le considerazioni di Pii, Antonio Genovesi, p. 24.

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scienze e alle arti ai fini dello sviluppo civile delle nazioni, un dibattito che fu alimentato dall’uscita del primo Discorso di Rousseau e che, grazie alla diffusione clandestina delle sue opere, dilagò anche nella nostra penisola raggiungendo il punto più caldo negli anni Sessanta, a seguito della traduzione in italiano di quel tanto avversato pamphlet19. In tale contesto, gli scritti che meglio rappresentavano la posizione assunta da Genovesi erano il Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, che costituiva il manifesto del suo nuovo magistero economico, e le Lettere accademiche su la questione se sieno più felici gl’ignoranti che gli scienziati, nelle quali, immaginando uno scambio epistolare fra un abate e un canonico, venivano riprese argomentazioni già esposte in due lettere inviate all’amico ed ex allievo Giuseppe Torallo proprio sul problema felicità-sapere20. Ma, mentre nel primo l’attenzione programmatica al nesso cultura-società mirava alla ricerca di quegli elementi di rinascita che il sapere scientifico (arti e tecniche) poteva mettere in moto per arrivare a definire le linee di una realistica proposta di riforme; nel secondo scritto, dove la scelta epistolare offriva maggiore libertà di discussione, quel che più interessava all’abate era lo sgombrare il campo dal falso mito di una perfetta ‘età dell’oro’, di difendere cioè la civiltà e – di conseguenza – il sapere quale strumento che aveva storicamente determinato lo stesso processo di civilizzazione dei popoli, contro coloro i quali guardavano al mondo primitivo come a un modello. Tant’è che, se nel Discorso il confronto polemico con Rousseau poté restare implicito, nelle Lettere accademiche affiorò in maniera chiara, acuito dal fatto che Genovesi, pur dando prova di aver capito l’importanza della critica rousseauiana alla società d’antico regime, nonché di aver colto le   J.-J. Rousseau, Discours sur les sciences et les arts [Discours qui à remporte le prix a l’Académie de Dijon], à Génève, chez Barillot et fils, 1750. Come ha chiarito S. Rota Ghibaudi, La fortuna di Rousseau in Italia (1750-1815), Torino, Giappichelli, 1961, pp. 47 e sgg., il dibattito sull’«eccesso di civiltà» era stato originato dalla posizione assunta da Rousseau proprio nel suo primo Discorso; dibattito che proruppe in Italia a seguito della pubblicazione in italiano dell’opera: cfr. Discorso che ha riportato il premio dell’Accademia di Dijon, in Raccolta di opuscoli scientifici tradotti da diversi celebri autori francesi e inglesi (2 tt.), traduzione dell’ab. Antonio Meloni, Ferrara, all’Insegna del Sansone, 1760, t. I, parte I. 20   Il canonico Giuseppe Torallo, già allievo e poi amico di Genovesi, era professore di matematica nelle scuole del Gesù Vecchio e apparteneva a quel circolo di aristocratici terlizzesi, tra i quali l’avvocato Felice Lioy e la colta dama Orsola Garappa, che faceva capo a don Ferrante De Gemmis e alla sua famiglia. Per la genesi dell’opera genovesiana, cfr. Genovesi, Lettere familiari, lettere «Ad Orsola Garappa, Terlizzi» del 27 febbraio e 19 marzo 1768, rispettivamente pp. 211-213 e 213-215. Altre notizie in A. Montariello, Le «Lettere accademiche su la questione se sieno più felici gl’ignoranti che gli scienziati» di Antonio Genovesi. Varianti d’autore, contesto storico, ricezione dell’opera, Napoli, Giannini, 2004. 19

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ragioni profonde delle tesi sostenute anche nel Discorso sull’ineguaglianza21 e di avere perciò accettato l’analisi del Ginevrino, non ne poteva parimenti condividere le conclusioni. La disputa accademica su chi fossero più felici tra gli ignoranti e gli scienziati prendeva avvio dall’esame della condizione morale umana e avanzava, nelle prime lettere, per contrapposizioni: buono/cattivo, giusto/ingiusto, virtuoso/vizioso; contrapposizioni che impedivano però di dare soluzione al quesito. L’abate passava allora dalla «lite di testa a testa» al confronto di realtà antitetiche, per chiedersi se fossero più felici i popoli selvaggi o i popoli colti, affrontando in tal modo a viso aperto Rousseau, ma più esattamente i «molti Rousseau che son qui tra noi, ancorché ignoranti di ogni letteratura»22, allo scopo di mostrare quale fosse il reale valore della cultura nella società umana. Dunque, nelle Lettere accademiche, Genovesi rifletteva sul problema della funzione del sapere quale più alta e connaturata manifestazione della ragione umana, facoltà sublime che offriva all’uomo la possibilità di approssimarsi al suo creatore, come avrebbe detto nelle successive Scienze metafisiche per gli giovanetti, dove, non a caso, tornava la questione del rapporto tra felicità e conoscenza23. E a chi, come a Orsola Garappa, la terlizzese «dama filosofa» che a lui si rivolgeva per comprendere i motivi che lo avevano spinto a scrivere quell’opera, spiegava di averlo fatto al solo scopo di chiarire come non potesse essere «che la ragione bene istrutta da render gli uomini uomini: non ci è idea, né senso di libertà, dove non è bene istrutta

21   J.-J. Rousseau, Discours sur l’origine, et les fondemens de l’inégalité parmi les hommes, à Amsterdam, chez M.-M. Rey, 1755. Anche quest’opera venne premiata dall’Accademia di Digione. 22  Lettera di Genovesi «Ad Orsola Garappa, Terlizzi», p. 214. 23  Cfr. [A. Genovesi], Delle scienze metafisiche per gli giovanetti dell’ab. ***, Napoli, Simoniana, 1767 [nuova ed. postuma, 1770], in particolare cap. IV: Della felicità, in cui i punti di riferimento del rapporto sapere-felicità erano ripresi, da un lato, dalle argomentazioni presentate nella I ed. delle Lettere accademiche (1764), dall’altro in quelle poste nella I ed. della Logica italiana (1766). Si vedano al riguardo i commenti di F. Arata, Antonio Genovesi. Una proposta di morale illuminista, Padova, Marsilio, 1978, specie pp. 59-60; e di Montariello, Le «Lettere accademiche» di Genovesi, la quale osserva come l’abate vi avesse affermato «che le lettere e le scienze rendono la vita dell’uomo più vicina allo stato di felicità, raggiungibile peraltro pienamente soltanto sul piano spirituale con la grazia di Dio» (p. 44). Al riguardo, avverto tuttavia che il mondo dell’aldilà interessava Genovesi nei termini di puro atto di fede. Per questo la teologia, che aveva posto tra le scienze metafisiche, doveva – come si legge appunto nella Logica italiana (p. 239) – «studiarsi a rappresentare la divinità e l’ordine che tiene nel governo di questo mondo, per quell’aspetto che può meglio riempirci di virtù»; doveva cioè occuparsi – scriveva nelle Lezioni di commercio (p. 261) – soltanto della «prima ragione» e dell’«eterna felicità», ossia della salvezza dell’anima.

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e sfolgorante ragione. Ora la ragione bene istrutta sono le buone cognizioni, le scienze, le arti utili»24. Motivi per i quali l’immagine dell’uomo vittima del progresso e quindi infelice, con cui era sintetizzato il punto di vista rousseauiano, veniva risolutamente respinta assieme all’idea che per essere felici si dovesse ristabilire l’armonia primigenia col ritornare allo stato di natura. A fornirgli prova certa del fatto che le popolazioni selvagge di tutto il mondo sopravvivessero immerse nella noia e nella miseria, incapaci di rapporti sociali, erano stati in particolare i resoconti di viaggio nei paesi africani, americani e asiatici, con i quali l’abate arricchiva la discussione delle Lettere accademiche. Quei popoli, puri «cacciatori, pastori, vagabondi», non conoscevano «lettere, leggi, polizia, arti, culto religioso», al punto che – spiegava – tra essi «pochi arrivano all’ultima età: e questi pochi debbono passare per tanti mali, che la sola ferocia e la disperazione può superarli. Amabile felicità degli animali!». In realtà, «i lupi, le volpi, gli orsi», vivevano assai «meglio e più felicemente» di Cafri, di Patagoni o di Groenlandi. Si arrivava così al centro della trattazione, momento in cui Genovesi stabiliva, da un lato, che la condizione materiale dei popoli selvaggi rispecchiava la loro rozzezza spirituale, dall’altro, che simile condizione l’avevano conosciuta gli stessi europei. Lo testimoniavano i racconti degli antichi scrittori: in passato anche Italiani, Galli, Germani e Britanni erano stati «così meschini e miseri come quelli». Il che, oltre a confermarlo sul fatto che «ogni popolo è infelice, dove s’ignorano le arti, e dove non se ne professa altra che quella di ammazzare o disumanare i nostri fratelli», gli faceva dire: «selvaggio e infelice son per me termini sinonimi, purché mel permetta M. Rossò»25. Nelle Lettere accademiche, la parte del Ginevrino era tenuta dal canonico, il quale, opponendosi alla diffusa opinione secondo cui nelle nazioni colte tutte le famiglie vivrebbero bene e sarebbero felici, asseriva: «Ho veduto anche io (…) de’ Samoiedi, de’ Lapponi nell’Appennino, nella Sila: e ve n’ha assai in tutta Europa (…). La schiavitù in cui son tenuti da’ ricchi (…), vi par’egli piccolo male?»26. L’osservazione risultava più che pertinente e metteva in evidenza come le distanze tra i popoli selvaggi e i popoli civili non fossero poi tanto grandi, se nel cuore del mondo civilizzato c’erano uomini i cui modi di esistenza li assimilavano allo status dei selvaggi e dei primitivi. La prospettiva storica che aveva reso possibile a Genovesi rappresentare i selvaggi come l’infanzia del genere umano, momento iniziale di quel percorso che aveva portato gli antichi popoli europei alla civiltà, trovava qui una  Lettera di Genovesi «Ad Orsola Garappa, Terlizzi», p. 215.   Genovesi, Lettere accademiche, pp. 398, 400, 401, 404-405 (corsivo nel testo). 26   Ibidem, p. 410. 24 25

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saldatura con il problema politico della povertà, rendendo superfluo il confronto tra popoli selvaggi e popoli colti. Ed era proprio a questo punto che egli dava prova di aver messo a frutto la vera lezione rousseauiana, rispetto alla quale continuava comunque a sostenere l’assurdità di una soluzione che si prospettasse come un ‘ritorno ai boschi’. Rispondendo al canonico, l’abate diceva: «mi piace quando un filosofo dichiara guerra aperta al vizio. Fin qui voglio bene al vostro amico Rossò. M’ingaggio anch’io, e mi fo compagnone. Ma come veggo strapparsi la parrucca, lacerarsi gli abiti, correr nudo e con una fiaccola in mano metter fuoco a’ palazzi, alle reggie, a’ templi, alle città, gridando furiosamente “Boschi, boschi, boschi”, mi segno e scappo via cercando asilo»27. Piuttosto, chiedeva retoricamente al canonico, «volete sapere questa povertà donde nasce? Perché non è poi di suolo, di clima, di cause accidentali, che sarebbe la vera, ma di costituzione politica»28. La causa dell’infelicità non stava quindi nel progresso, ma nelle cattive leggi, nell’inadeguata educazione, nell’invecchiato costume29. Analogamente, il sapere non era affatto la fonte dei mali che la miseria incarnava, bensì la loro cura. Era assurdo, infatti, pensare che gli uomini potessero essere umani e felici nel bisogno, nella schiavitù e nell’ignoranza. Erano le arti a fornire il necessario per vivere umanamente e in armonia, e di queste occorreva «arma[r]e le mani; arma[r]e il cerebro (…). Arti, arti, canonico. Finché vi mancheranno, o saranno rozze e poche, o attraversate, vi sarà sempre un gran popolo affamato, assiderato, disteso, piova o nevighi, sulla nuda terra, per gli antri o di sotto degli sporti: e questo popolo sarà sempre ladro, furbo, traditore, feroce: ma per bisogno»30. Glielo aveva insegnato l’esperienza della lunga crisi economica consumatasi tra il 1759 e il 1764, poi conclusasi con la «spaventevole carestia» nell’anno di uscita – il 1764 appunto – della prima edizione dell’opera. E dunque: «arti, arti, arti: istruzioni, istruzioni»31, era quanto occorreva per soddisfare le esigenze fondamentali della vita di tutti, accanto a interventi sulla struttura socioeconomica del paese e sulla ripartizione delle proprietà.

  Ibidem, pp. 511-512.   Ibidem, p. 489. 29  Cfr., ad esempio, ibidem, p. 488, il seguente passo: «è la povertà, è la miseria, è il bisogno, è l’ignoranza che o fa degli uomini crudeli e sanguinari, o spianta le famiglie, spopola le nazioni, impoverisce a poco a poco piccoli e grandi, e ‘l Sovrano in fine. Opprime lo spirito, deturpa le arti e le sbarbica: rende le nazioni prima schiave, poi le caccia in campagna, siccome bestie feroci». 30   Ibidem, pp. 485-486. Per «attraversate» si deve intendere ‘ostacolate’. 31   Ibidem, p. 487. 27 28

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Il confronto critico con Rousseau attuato nelle Lettere accademiche aveva, pertanto, rafforzato in Genovesi la convinzione che la cultura costituisse l’irrinunciabile strumento per dare alla vita associata un’armonica e, per quanto possibile, durevole struttura. Di conseguenza, l’apporto di arti e scienze diventava necessario per la creazione di un nuovo ed equilibrato sistema politico che, nel ridistribuire terre e ricchezze, fosse attento sia a non produrre nuove disuguaglianze sociali, sia ad attenuare progressivamente le disparità fra ricchi e poveri, sino a sedare il conflitto tra gli interessi individuali e di ceto, da una parte, e quelli dell’intera collettività, dall’altra32. Per lui, infatti, essere un popolo ‘civile’ significava sforzarsi di acquisire una sempre maggiore cultura tanto sul piano collettivo, quanto su quello individuale, poiché i progressi di una nazione si misuravano nella crescita complessiva di civiltà di un popolo così come nel grado e nella capacità di realizzazione della felicità per i singoli all’interno di una stessa comunità politica. Avendo sempre ben presente la questione sociale, Genovesi ribadì perciò continuamente nel corso degli anni l’idea della necessità della cultura e del sapere utile, ponendo, come ha spiegato ad esempio Mario Rosa, «in termini più che mai problematici il rapporto tra le arti, le scienze e la felicità», senza riuscire a risolvere in concreto «le profonde fratture, reali e ideali, che attraversavano la società e la cultura napoletana»33, ma lasciando comunque un’importante e ricca eredità alla successiva generazione di riformatori.

32   Genovesi rigettava come negativa ogni conflittualità sociale, ma con ciò non mirava a realizzare un ordinamento sociale rigido. La sua proposta puntava infatti all’affermazione di una società dinamica, alla mobilità verticale degli individui, al miglioramento continuo dell’esistenza di ciascuno e di tutti attraverso l’uso consapevole delle conoscenze. Importante per lui era il saper profittare del sapere: vero significato dell’invito a fare il proprio bene assieme a quello dell’intera collettività descritto a più riprese nelle sue opere con la metafora delle due forze, concentriva ed effusiva, in equilibrio tra loro, già richiamate prima. 33  M. Rosa, La Chiesa e gli Stati regionali nell’età dell’assolutismo, in Letteratura italiana (9 voll.), diretta da A. Asor Rosa, Torino, Einaudi, vol. I, Il letterato e le istituzioni, 1982, pp. 257-389: 387.

Parte Quarta Cristianesimo e Lumi

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Il dibattito settecentesco sulle Americhe, esemplarmente riassunto da Gerbi1, segue un corso contiguo a quello sulla felicità pubblica e privata dipanandosi sul versante sia laico che religioso. Pur professando ideologie diverse, intellettuali e missionari giungono sovente alla comune convinzione che l’indiano è un selvaggio, sia esso cattivo o buon selvaggio: risanabile nel primo caso e, quindi, potenzialmente felice, incorregibile nel secondo perché già categoricamente felice. Questa dicotomia va interpretata alla luce di due Weltanschauungen dominanti che nel corso del secolo si integrano e si completano: una prospettiva ispanocentrica che, ignorando i possedimenti inglesi, divide il continente in «America messicana o settentrionale» e in «America peruana o meridionale»2 e una concezione religiosa che postula l’equivalenza americano/non cristiano/selvaggio ed europeo/ cristiano/civile. Nelle nozioni di America e Americhe si intersecano due visioni ideologiche diverse, ma funzionali come documenta il missionario Filippo Salvatore Gilij: «Sotto diverse forme e sotto diversi punti di vista va considerata l’America. V’è la selvaggia, v’è la civile. La prima è quella in cui dimoran solo gli Americani. L’altra è quella che per mezzo di savie leggi e per puliti e cristiani usi introdottivi, in un cogl’Indiani ridottovi, occupano gli Spagnoli»3. La riflessione del Gilij non si limita solo a rimarcare la distinzione geografica fra due Americhe, ma va oltre alludendo alla netta separazione   A. Gerbi, La disputa del Nuovo Mondo. Storia di una polemica, Milano-Napoli, Ricciardi, 1955. Dopo la riedizione del 1983, apparsa presso la medesima casa editrice, l’opera è stata pubblicata nel 2000 a Milano presso Adelphi. 2   V. Coronelli, Biblioteca universale sacro-profana o sia gran dizionario, III, Venezia, Tivani, 1703, col. 109. 3   F.S. Gilij, Saggio di storia americana o sia naturale, civile, e sacra de’ regni, e delle province spagnuole di terra-ferma nell’America meridionale, Roma, Luigi Perego erede Salvioni, 1780, I, p. xxi. 1

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fra due distinte fasi esistenziali degli indiani, una preistorica e infelice e una storica coincidente con la conversione, capace di renderli «civili da rozzi, da sfacciati vergognosi, da quali fiere selvagge, uomini ragionevoli» 4 e, infine, da bruti indolenti, individui idonei alla felicità. Già ai suoi esordi cinquecenteschi, la disputa sulla natura degli americani è viziata da questo duplice inquadramento del ‘prima’ e ‘dopo’ conversione e, accanto all’identikit negativo di un indiano assediato dalla barbarie dei primordi, si affianca quello positivo di un selvaggio concepito come possibile neofita e disciplinato cristiano. Tuttavia, se da un lato gli indigeni acquistano connotati positivi perché ricettivi alla parola di Dio, dall’altro il loro stile di vita in apparenza privo di leggi, governi e convenzioni conferma ad intellettuali laici, o moderatamente laici, la presenza di una morale naturale e di una felicità primitiva insite allo «stato di natura». La leggenda dei secoli aurei viene, in tal modo, a trovare nel primordiale universo degli americani un referente storico e geografico e a presentarsi come specchio inquietante del remoto passato dell’umanità. Prossima all’idealizzazione dello stato selvaggio che troverà nel primitivismo rousseauiano la sua esposizione più provocatoria, è la condanna degli europei, responsabili di aver impietosamente profanato l’età aurea americana e di aver invalidato la categoria dell’alterità sradicando dagli indigeni ogni cognizione di appartenenza5. Muratori, riecheggiando Guicciardini6, lamenta che «tutte quelle isole e provincie di terra ferma si trovavano all’arrivo degli Spagnuoli piene di gente, quanto mai può essere terra abitata nel mondo; e gente la maggior parte semplice, e senza malizia, paziente e pacifica»7. Convenendo con Las Casas sulla riprovevole barbarie degli spagnoli che, dimentichi non solo del Vangelo, ma anche «dell’essere d’uomo», avanzarono «a guisa di lupi fra mansuete pecorelle», l’erudito modenese fa coincidere la dissoluzione della metastorica felicità dei popoli americani con la Conquista. Unico rimedio all’ostinata violenza degli spagnoli è, allora, cercare di restituire agli americani il loro paradiso perduto, ma con gli interessi maturati nel corso di più di due secoli infamati da irragionevoli persecuzioni. A garantire un accesso privilegiato alla vera felicità è la professione di un cristianesimo autentico, profondo e incontaminato come quello del «famo-

  Ibidem, I, p. xxi.   Su questo punto cfr. S. Greenblatt, Marvelous Possessions. The Wonders of the New World, Chicago, Chicago University Press, 1993, p. 70. 6  Cfr. F. Guicciardini, Storia d’Italia, Bari, Laterza, II, p. 8. 7  L.A. Muratori, Il Cristianesimo felice nelle Missioni dei Padri della Compagnia di Gesù nel Paraguay, in Venezia, Presso Giambatista Pasquali, 1743, I, p. 8. 4 5

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so imperio gesuitico del Paraguay in cui lo spirito di partito fa rivivere la prima età dell’oro»8. Nella discussione che divide gli americanisti del Settecento fra sostenitori del primitivismo e promotori del progresso, gli intellettuali italiani si uniformano soprattutto alla seconda corrente e, non a caso, la civiltà amerindia più ammirata è quella degli Incas che, da Algarotti e Parini fino a Carli, si presenta come una precoce e vigorosa infatuazione della ragione illuminata. L’ormai scomparso impero degli Incas offre non solo una viva risorsa all’immaginario settecentesco, ma anche un alibi per trasferire il discorso eudemonistico in uno spazio esotico irreprensibile anche se adombrato dal cordoglio per una civiltà ormai estinta e inviolabile. L’elogio dello stato Incas non è ispirato dalla consueta meraviglia suscitata dall’oro e all’argento, ma dall’ineccepibile modello etico-politico peruviano, illustrato con ammirazione da Algarotti nel Saggio sopra l’imperio degli Incas del 1753: Vide il Perù per lo spazio di più di dugento anni risplendere sopra il suo cielo il secol d’oro, non già immaginario e poetico, ma istorico sibbene e reale; e non poteva non prosperare moltissimo quell’imperio, dove il principe era la mente del comune, le cui membra operavano a norma de’dettami di quella: dove erasi saviamente provveduto contro all’ozio che snerva gli stati, la varietà delle sette che gli conturba, e i pericoli delle guerre esterne che gli sottomettono; dove la religione e le leggi erano sotto la tutela delle armi; dove infine si era pervenuto a riunire insieme ubbidienza perfetta e intera contentezza del popolo; lapis della politica trovato solamente dagl’Incas nel Perù, e dai Gesuiti in appresso nelle missioni da esso loro fondate nel vicino regno del Paraguay9.

Quasi trent’anni dopo l’elogio di Algarotti, l’armoniosa coesistenza di felicità pubblica e privata vigente presso gli antichi peruviani, induce un riformatore illuminato come Gian Rinaldo Carli ad avversare i propugnatori della tesi della degenerazione americana capitanati da Buffon e De Pauw e a patrocinare l’impareggiabile sapienza politica degli Incas. Ritirandosi nel suo studiolo per «stordirsi» dalle «moleste cure» giornaliere e dimenticarsi della sua «fisica ubicazione», Carli compie attraverso le Lettere americane (1780) un viaggio ideale fra gli antichi peruviani e si dichiara fervido ammiratore dei legislatori Incas. I «Patagoni della politica» hanno reso tutti i sudditi felici non solo instaurando disciplina religiosa e deferenza nei confronti dello stato, ma soprattutto impedendo le insidiose conseguenze   Il costume antico e moderno di tutti i popoli, a cura di G. Ferrario, Firenze, Vincenzo Batelli, 1826-1828, III, p. 228. 9  F. Algarotti, Saggio sopra l’imperio degl’Incas, in Saggi, a cura di G. Da Pozzo, Bari, Laterza, 1963. 8

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della perfectibilité umana. Il principio astratto che ha da sempre animato gli statisti del nostro emisfero («Facciamo una società felice, e rispettabile, e voi altri per conseguenza sarete felici»), non vigeva presso gli antichi peruviani: «Al contrario gl’Incas dissero: Facciamo felici gli uomini in particolare, in modo che nessuno abbia da desiderare il meglio; e per conseguenza la società sarà forte e felice»10. Presentandosi come una proiezione dello spirito riformatore settecentesco, il ben congegnato impero Incas induce l’erudito istriano ad una candida confessione: «Io sono talmente ripieno dell’idea del governo dell’antico Perù, che mi pare d’essere un peruviano, o almeno parmi di desiderare che in qualche altro luogo del nostro globo si architettasse un sistema uguale per potervi andare a godere una piena felicità in questo resto di vita che mi avanza, lontano dai popolari tumulti, e al coperto di quelle tempeste che nel procelloso mare della politica, pieno di scogli e di sirti, sono talvolta inevitabili anche dai naviganti più esperti»11. Fiducioso nelle risorse terapeutiche della ragione e «tutto convinto degli immancabili destini dell’uman genere verso la felicità»12, Carli glorifica una società ideale «che non aveva bisogno né delle nostre leggi, né della nostra cultura, né di noi»13 per essere felice. Nel passato gli Incas avevano ottenuto «il fine di rendere tutti i loro sudditi felici e contenti», ma nel presente assumono la dimensione paradigmatica di un meccanismo sociale e politico impeccabile. Inevitabilmente, il paragone fra i vestigi della compianta civiltà precolombiana e le strutture dolenti della società coeva causa un turbamento della coscienza eurocentrica di fin de siècle, comportando un riesame degli ineccepibili statuti cristiano-umanistici e della nozione di eudemonia. I sintomi della divergenza ideologica dalle convenzionali concezioni di progresso e civiltà si presentano su più fronti. Se nell’ultimo ventennio del Settecento Carli persegue con Le lettere americane un itinerario nostalgico fra le gloriose ceneri degli assennati peruviani, Pietro Chiari, rilanciando il primitivismo rousseauiano, indica nei «privilegi dell’ignoranza» l’assoluta felicità dell’ indigeno del Nuovo Mondo: Così in ogni situazione, dove un essere umano può ritrovarsi, ed anche nelle più disfavorevoli, vi sono annesse delle virtù particolari, vi sono effetti, che la situazione medesima ispira, ed una specie di felicità ch’essa comunica. La natura con la più

  G.R. Carli, Delle lettere americane, Firenze, Cosmopoli, 1780, II, p. 286.   Ibidem, I, 182. 12  E. Sestan, Il mito del buon selvaggio americano e l’Italia del Settecento, in Europa settecentesca e altri saggi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1951, p . 4. 13   Delle lettere americane, op. cit., I, p. 208. 10 11

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benefica intenzione concilia l’uomo con il suo stato; e le sue idee con i suoi desideri non si stendono fuori della società, in cui egli vive. 14

Felice perché libero, l’americano è per Chiari dotato «di uno spirito insuperabile d’indipendenza, sostenuto dalla natura e regolato da’ lumi della ragione naturale»15. Come rilevano anche i Burke, l’inclinazione congenita verso l’autonomia è il tratto peculiare del selvaggio: «La libertà nella sua maggior estensione è la passion favorita dagli Americani: a questa sacrificano ogni cosa. Essa è quella, che una vita piena d’incertezza e di bisogno rende loro sopportabile; aggiungasi poi che l’educazione loro è diretta in tal maniera da fare che essi amino quanto mai si può una tal disposizione»16. Ma il miraggio di una felicità primitiva, rianimato dalla Storia degli stabilimenti europei in America apparsa a Venezia nel 1763 e dal mito di Tahiti, scoperta da Samuel Wallis nel 176717, salvo alcune eccezioni, non sembra irretire la maggioranza degli intellettuali italiani. La Storia dei Burke, il cui secondo volume è in gran parte dedicato alle colonie inglesi, contribuisce al delino della prospettiva ispanocentrica e a spostare l’inquadratura verso i possedimenti settentrionali del continente, allargando gli orizzonti geografici e promuovendo una revisione della dominante omologia di ‘Americano’ e ‘Selvaggio’18. Con il lento dissolversi di un Nuovo Mondo uniforme, le Americhe si dissociano gradualmente dall’accezione di sauvagerie per coincidere, infine, con la giovane repubblica degli Stati Uniti. Il processo è, tuttavia, lungo e tortuoso, spesso contraddittorio e refrattario ad una logica lineare.

  P. Chiari, I privilegi dell’ignoranza. Lettere d’una Americana ad un Letterato d’Europa, Venezia, Bassaglia, 1784, I, p. 34. 15   P. Chiari, La donna che non si trova o sia le avventure di Madama Delingh scritte da lei medesima e pubblicate dall’Abate Pietro Chiari, Venezia, Pasinelli, 1768, p. 167. 16   W. ed E. Burke, Storia degli stabilimenti europei in America, Venezia, Novelli, 1763, I, p. 198. 17  L’assoluta innocenza primigenia dell’arcipelago polinesiano convince Bougainville di aver trovato la «franchise de l’âge d’or» (Voyage autour du monde par la frégate du Roi La Boudeuse et la flûte l’étoile en 1766, 1767, 1768, et 1769, Neuchâtel, Imprimerie de la Société Typographique, 1772, II, p. 22) e invita il capitano Cook a riflettere sulla beata semplicità degli isolani (J. Cook, Storia de’ viaggi intrapresi per ordine di S.M. Britannica dal Capitano Giacomo Cook, Napoli, La Nuova Società Letteraria e Tipografica, 1784, II, p. 395): «Ed esaminando infatti quel che nel mondo, chiamasi felicità, ei non pare che vi abbia altra nazione, il di cui stato tanto sia desiderabile, quanto quello di questi popoli». 18  Cfr. P. Del Negro, Il mito americano nella Venezia del Settecento, Padova, Liviana, 1986, p. 59. 14

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I Burke illustrano un quadro elegiaco della Pensilvania, la colonia inglese che trasmette al traduttore italiano un anelito di evasione verso una «buona, gloriosa, e libera patria». L’oasi felice pensilvana, avulsa dall’impietoso meccanismo degenerativo delle Americhe avallato da eminenti storici del secondo Settecento come Raynal e Robertson, deve la propria fondazione non ad uno scrittore di morale, né ad un filosofo di primo rango, né ad un inventore, ma ad un uomo di buon senso, William Penn, che in qualità di «fondatore di una così solida repubblica, merita grandi onori da tutto l’uman genere»19. Alle origini del mito pensilvano e quacchero sono le lettere Sur les Quakers di Voltaire incluse nelle Lettres anglaises (1734) in cui è lodata l’isola pensilvana per la messa in pratica della tolleranza religiosa e per la preferenza accordata alla morale, piuttosto che alla dottrina. Penn impersona per Voltaire il promotore di un rinnovato cristianesimo primitivo e l’ideatore di una moderna età dell’oro («pouvait se vanter d’avoir apporté sur la terre l’âge d’or dont une parle tant et que n’a vraisemblament existé qu’en Pennsylvanie»20) su cui riverberano i duttili principi di un deismo ormai senza frontiere. Regolata dall’unica legge dell’«amore fraterno», Filadelfia rappresenta l’urbe ideale per la singolare integrazione delle fasce sociali come indicano i Burke: Fra i selvaggi d’America è sorta pressoché improvvisamente, sulla fine del secolo scorso, una città il cui recinto non è per anco circoscritto, e che non cessa di ampliarsi di giorno in giorno a norma delle tracce che le vennero da principio segnate. Il suo nome è Filadelfia, e l’amore fraterno è l’unica legge fondamentale; le sue porte sono ognora aperte a chichessia, e sebbene il fondatore ne abbia espressamente escluso due razze d’uomini, l’ateo e lo sfaccendato, sembra che questa esclusione medesima non sia stata che comminatoria, perché se esistesse un ateo nel resto dell’universo, egli si convertirebbe entrando in una città ove tutto è così bene ordinato, e se vi nascesse un infingardo, avendo costui del continuo sott’occhio tre amabili sorelle, l’opulenza, la scienza, e la virtù, che sono figlie del travaglio, s’invaghirebbe ben tosto di esse, e si argomenterebbe di ottenerle dal padre loro21.

Anche Antonio Genovesi con realismo loda le istituzioni pensilvane perché in grado di inserire i cittadini nell’ingranaggo economico prevenendone i bisogni: Guglielmo Penn, il grande padre della Pennsylvania, nuova maniera di repubblica, né preveduta da Aristotile, pensò anche meglio, cioè da quacchero. È una legge fondamentale in Filadelfia che ogni ragazzo, il quale sia giunto a dodici anni, sia   Burke, Storia degli stabilimenti europei, II, p. ix.  Voltaire, Lettres philosophiques ou lettres anglaises, Paris, Gallimard,1986, p. 19. 21   Compendio della prefazione di Monsieur Barbeau Dubourg alla traduzione francese delle opere del Dottor Beniamino Franklin, Milano, Marelli, 1774, p. 9. 19 20

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plebeo o nobile, vi debba prendere qualche mestiero; affinché il popolo non sia di peso agli altri; e il ricco o nobile se si arrovesci la fortuna, non abbia a morire nella mendicità, o rodere le corde del corpo politico22.

Il merito di aver istituito un’isola di pace e di fratellanza senza guerre, senza conquiste e, soprattutto, sotto la vigilanza di un’inalterabile libertà di coscienza, induce lo stesso Raynal ad osannare la concezione di vita dei Quaccheri: Que feroient d’ailleurs des François, des Espagnols, s’ils entroient dans la Pensilvanie, les armes à la main? A moins qu’ils n’égorgeassent dans une nuit ou dans un jour tous les habitans de cet hereux pays, ils n’étoufferoient pas le germe & la postérité des ses hommes doux & charitables. La violence a des bornes dans ces excès; elle se consume & s’éteint comme le feu dans la cendre de ses alimens. Mais la vertu, quand elle est dirigée par l’enthousiasme de l’humanité, par l’esprit de fraternité, se ranime comme l’arbre sous le tranchant du fer. Les méchans ont besoin de la multitude pour exécuter leur project sanguinaires. L’homme juste, le quaker, ne demande q’un frere pour en recevoir de l’assistance ou lui donner du secours. Allez, peuples guerriers, peuples esclaves & tyrans, allez en Pensilvanie; vous y trouverez toutes les portes ouvertes, tous le biens à votre discrétion; pas un soldat, & beaucoup de marchands ou de laboureurs. Mais si vous les tourmentez ou les vexez ou les gênez, ils s’enfuiront, & vous laisseront leurs terres en friche, leurs manufactures délabrées, leurs magazines déserts. Ils s’en iront cultiver & peupler une nouvelle terre; ils feront le tour du monde, & mourront en chemin plutôt que de vous égorger ou de vous obéir. Qu’aurez-vous gagné, que la haine du genre humain & l’exécration des siècles à venir?23

A differenza di Raynal, convinto dell’esemplarità della mansuetudine dei pensilvani, Vincenzio Martinelli, individua nell’arrendevolezza e nel mancato ricorso alle armi il punto nevralgico dell’ideologia quacchera. Pur riconoscendo che «la Pennsylvania è la regione, si può dire, dell’amor fraterno» e che è «un soggiorno di quel secolo d’oro, che i poeti ci hanno tanto ingegnosamente figurato», Martinelli dichiara che «questa felicità non può essere durabile, perché i Quaccheri, che fanno il maggior numero dei Pensilvani non si difendono»24. In una novella morale, Guglielmo Penn, il gesuita Francesco Soave contrappone il pacifismo dei quaccheri della Pensilvania alla spietatezza dei

22  A. Genovesi, Lettere accademiche, in Autobiografia, lettere e altri scritti, a cura di G. Savarese, Milano, Feltrinelli, 1962, p. 445. 23   G.T. Raynal, Histoire philosophique et politique des établissements & du commerce des Européens dans les deux Indes, Genève, Les Libraires des Associées, 1775, III, p. 611. 24  V. Martinelli, Istoria del governo d’Inghilterra e delle sue colonie in India e nell’America settentrionale, Firenze, Cambiagi, 1776, p. 89.

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Conquistadores del passato. L’autore si augura che i concittadini di Penn possano «aver sempre dinanzi agli occhi i sublimi esempi di lui» e conservarsi eternamente puri: Per ben diversa maniera in quelle infelici regioni, ove apersero gli Europei sì abominevol teatro di crudeltà, e di rapine, seppe condursi un altro inglese, il cui nome nella memoria dei posteri viverà immortale. Guglielmo Penn ottenuto da Carlo II Re d’Inghilterra il possesso di quella parte dell’America settentrionale, che Pensilvania dal suo nome e dalle molte selve che v’erano, fu poi chiamata, invece di straziare que’ miseri, com’altri fecero, altra cura non ebbe, che di sollevarli, e colla sua umanità, e cogli atti frequenti di sua beneficenza eterno oggetto divenne della loro ammirazione, e del loro amore25.

Il sentimento umanitario dei quaccheri pensilvani è avvalorato dalla risoluzione di affrancare gli schiavi, non tollerando «che in una popolazione dove ad ognuno era per istituto lasciata la libertà delle azioni» i «poveri mori dovessero essere forzati al giogo della schiavitù»26. Luigi Castiglioni, il quale nella primavera del 1785 inizia il suo lungo viaggio nell’America settentrionale, nota che nel capoluogo pensilvano «i costumi degli abitanti non sono diversi da quelli delle città vicine, e massime di Nuova York, se non in ciò che riguarda la Società dei Quaccheri, che formano in Fildalfia la maggior popolazione». Castiglioni percepisce, comunque, una preoccupante decadenza dei costumi quaccheri da addebitare allo spirito rivoluzionario. I quaccheri sono stati corrotti dalle «conseguenze naturali di una guerra civile» e, di conseguenza, è mutato «il sentimento del pubblico che aveva di loro la migliore opinione». Pur individuando coloro che «conservano i loro primi costumi» senza seguire «i cangiamenti prodotti negli altri dalla infelicità dei tempi», di giorno in giorno «si diminuisce il numero dei Quaccheri, maritandosi le giovani con persone d’altre sette, di modo che nel corso di poche generazioni, non esisterà più in America se non il nome d’una società, a cui dee la Pennsylvania le sue floride campagne, e

  F. Soave, Guglielmo Penn, in Novelle morali, Napoli, Marotta, II, 1796, p. 88.  Martinelli, Istoria del governo d’Inghilterra, p. 91. Sul medesimo soggetto cfr. G. Parini, La Gazzetta di Milano, a cura di A. Bruni, Milano-Napoli, Ricciardi, 1981, II, p. 611: «I nostri quaccheri hanno dato una prova singolare del loro amore per l’umanità. Il maggior numero di quelli, che risiedono in questa colonia, hanno di comun consenso donata la libertà a tutti i negri loro schiavi. A che serve, disse uno di essi, il reclamare contro la tirannia del parlamento britannico, quando siamo noi egualmente tiranni, tenendo in schiavitù degli esseri a noi simili, solo perché han nera la pelle, e nasce loro la lana sul capo? Desideriamo che le altre società religiose seguano l’esempio de’ Quaccheri loro confratelli» (Lettera datata: Filadelfia, 30 agosto 1769). 25 26

RIFLESSIONI SETTECENTESCHE SULLE OASI FELICI DEL NUOVO MONDO

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Filadelfia la preminenza sulle altre capitali degli Stati Uniti»27. Alla deificazione della felicità pensilvana con tutte le sue varianti si contrappone, dunque, l’invito al ridimensionamento da parte di coloro che, come Castiglioni, possono obiettare e rettificare il carattere assiomatico del mito grazie alla conoscenza diretta dell’America inglese. L’esortazione ad una valutazione realistica della felicità d’oltreoceano viene soprattutto dal «filadelfico saggio» Beniamino Franklin, il quale puntualizza che l’America si regge sulle virtù personali di ciascun cittadino e che non è il paese immaginato dagli europei: «In una parola l’America è la terra di fatica, e in verun modo quello che gli Inglesi chiamano Lubberland, e i Francesi paese di cuccagna, ove le strade lastricate sono di mezze pagnotte, le case coperte di frittelle, ed ove gli uccelli volano mezzo arrostiti, gridando, venite mangiatemi»28. Accolto dagli italiani, forse troppo precipitosamente, come il difensore della libertà americana e l’ideatore del primo sistema politico moderno, Franklin presenta l’immagine di un paese governato da una solida etica del lavoro e da un sistema rigorosamente meritocratico: Molto meno sarà convenevole ad una persona l’andare colà, che non abbia altra qualità fuorché quella della sua nascita. In Europa questa ha infatti il suo valore; ma codesta è una derrata che non può condursi ad un peggiore mercato quanto a quello di America, ove il popolo non ricerca a uno straniero quello egli è, ma cosa può egli fare29.

Ma è proprio la contiguità fra ideali libertari e convinzioni eudemoniste ad alterare le proporzioni del mito e a ricomporlo in un universo rurale popolato da agricoltori-soldati, ispirati da un viscerale slancio verso la libertà. L’amore per l’indipendenza sorge proprio dalla simbiosi fra i coloni

27   L. Castiglioni, Viaggio negli Stati Uniti dell’America settentrionale fatto negli anni 1785, 1786, e 1787, Milano, Marelli, 1790, I, p. 166. Alludendo alla degenerazione dei Quaccheri, Castiglioni scrive (ibidem): «Così si conservarono fin tanto, che attiravano sopra di essi gli occhi della moltitudine, ma cessata essendo la meraviglia prodotta dalla novità, cessò pure il loro fervore, e la semplicità delle loro maniere fu d’indi in poi continuamente alterata. Si tralasciarono i contorcimenti, si abbandonò la pretensione di essere ispirati, e si sostenne solamente il diritto comune a tutti di parlare nelle chiese. Anche le donzelle, vedendo che non era più soggetto d’ammirazione il loro modesto vestito, studiarono di risvegliare l’attenzione degli uomini, coll’adottare abiti di stoffa, e dare un maggior risalto alla loro bellezza, per mezzo d’una studiata semplicità. Queste mutazioni ne’ loro principi, non erano molto importanti infino al tempo della rivoluzione, in cui divennero maggiori, e di più grande conseguenza». 28   B. Franklin, Osservazione a chiunque desideri passare in America; e riflessioni circa i selvaggi dell’America settentrionale, Padova, Conzatti, 1785, p. 13. 29   Ibidem, p.11.

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Stefania Buccini

e la natura, persuasione non soltanto di Vittorio Alfieri30, ma anche delle generazioni future, come conferma Carlo Botta nella Storia della guerra dell’indipendenza degli Stati Uniti d’America. «Vivendo, e dilettandosi della vita contadina, sotto i propri occhi, dalle sue proprie terre, e spesso per le sue mani» il colono «vede nascere, crescere, prosperare e maturarsi tutte le cose al vivere dell’uomo necessarie», perciò trovandosi «al di fuori di ogni soggezione e dependenza»31. Questa convinzione trova riscontro nella beata esistenza degli abitanti del villaggio rurale di Viomino, situato sulla sponda orientale del fiume Susquehanna nel Connecticut: Tutti vivevano nell’aurea mediocrità, né il proprio prodigalizzando, né l’altrui desiderando. Occupati di continuo nei camperecci lavori, fuggivano l’ozio e la noja, i malori ed i vizi, che lo seguitano. Era là insomma una vera immagine, o rappresentazione di quell’età, che gli antichi poeti favoleggiando chiamano col nome dell’oro32.

L’agognata vittoria delle colonie e l’avvento di un’onorata democrazia di coltivatori e soldati guidati dal prode Giorgio Washington promuovono la sostituzione del vecchio mito di un’America primitiva e immatura, specchio dell’infanzia dell’umanità, con quello nuovo di un’America libera e ormai giudiziosa, pronta a additare un prospero futuro tutelato dai diritti inalienabili dell’uomo, quali la vita, la libertà e il perseguimento della felicità. Il preambolo della Dichiarazione d’Indipendenza del 1776, epigrafe di un Settecento ormai prossimo al tramonto, non delude, dunque, le aspettative dei nostri illuministi, ma presagisce anche la straordinaria tenacia di un mito, quello della felicità americana che, nonostante la sua natura ancipite, non si arrenderà nei tempi a venire.

30   «Ogni bifolco in pro’ guerrier converso/Per la gran causa io miro;/E la rustica marra e il vomer farsi/Lucido brando, che rotante in giro/ Negli oppressor fia immerso» (L’America Libera, Ode I, vv 113-117). 31   C. Botta, Storia della guerra dell’indipendenza degli Stati Uniti d’America, II, Milano, Oliva, 1850, I, p. 50. 32   Ibidem, II, p. 177.

Pasquale Palmieri Felicità terrena e felicità celeste: gli «elogi storici» dei santi

Nel 1803, nel pieno della prima restaurazione borbonica, fu pubblicata a Napoli una voluminosa raccolta di biografie, intitolata Elogi storici di alcuni servi di Dio che vissero in questi ultimi tempi e si adoperaron pel bene spirituale e temporale della città di Napoli1, scritta dal religioso oratoriano Pietro Degli Onofri, ex-gesuita, già autore di diversi scritti tra i quali la Vita di Santo Leucio primo vescovo di Brindisi2, l’Elogio estemporaneo per la gloriosa memoria di Carlo III3, la Vita del servo di Dio Francesco D’Anna4. L’ «annotazione storica» presente nelle pagine introduttive ripercorreva brevemente il dibattito che ebbe luogo tra sostenitori e detrattori del libro: se i primi, infatti, ammirarono «lo zelo veramente divino» col quale i protagonisti esercitavano il loro «apostolato a pro de’ napoletani», gli altri si burlavano di «siffatte operette spirituali» ritenendo che i contenuti fossero unicamente riconducibili ai pregiudizi e alle «imposture de’ frati». Pietro Degli Onofri rispondeva a queste aspre critiche affermando di essersi «discostato dalla via battuta da altri istorici di simili materie» e di aver dato «una cert’aria di 1  Una parte consistente del presente contributo è confluita nel mio testo I taumaturghi della società. Santi e potere politico nel secolo del Lumi, Roma, Viella, 2010. Si propongono, in questa sede, ulteriori indicazioni sulle evoluzioni del genere letterario degli «Elogi storici» dei candidati santi alla fine del XVIII secolo. Il testo cui si fa riferimento è P. Degli Onofri, Elogi storici di alcuni servi di Dio che vissero in questi ultimi tempi e si adoperarono pel bene spirituale e temporale della città di Napoli, Napoli, tip. Pergeriana, 1803. 2   P. Degli Onofri, Vita di Santo Leucio primo vescovo di Brindisi composta da Pietro D’Onofrj prete dell’oratorio di Napoli e dedicata alla maestà del re delle Due Sicilie per uso degli abitatori di detta nuova popolazione di Santo Leucio nel distretto di Caserta, Napoli, Raimondi, 1789. 3   P. Degli Onofri, Elogio estemporaneo per la gloriosa memoria di Carlo III Monarca delle Spagne e delle Indie, Napoli, tip. Pergeriana, 1789. 4   P. Degli Onofri, Succinte notizie della vita del servo di Dio P. Francesco D’Anna prete dell’oratorio di Napoli compilate da Pietro D’Onofrj prete della medesima congregazione e dedicate a S.E. il signor cavalier Acton, Napoli, Morelli, 1790.

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novità» ai suoi panegirici arricchendo i soggetti trattati con diverse notizie inedite che avrebbero stimolato la curiosità dei lettori. Per esperienza so che le leggende devote sono poco ai dì nostri pregiate, anzi son rigettate come cose noiose, insipide, esagerate: la qual cattiva sorte non incontra mica i favolosi romanzi, né le amorose poesie, né le seducenti Istorie, né le pestifere opere di que’ autori che ci vengono di là da monti e di là da mari 5.

Pur disprezzando «il Rousseau, il Voltaire, l’Ambert, il signor Linguet, (…) la monarcomachia del Machiavello, il trattato della Fratellanza ed Uguaglianza, l’Egoismo», i «naturalisti, materialisti, indifferentisti, deisti, ateisti» e tutti gli autori che seducevano «i semplici ed il sesso imbelle», l’oratoriano era ben consapevole del fatto che tali libri venivano letti «con tutta attenzione, come tanti quinti Evangelij» anche da persone di alto rango, i quali li baciavano e li riponevano «ben custoditi nelle scanzìe delle loro eleganti librerie»6. Per far concorrenza a tanti «titoli capricciosi e stravaganti»7, egli fece frutto della lettura degli scritti del gesuita svedese Lorenzo Ignazio Thjulen che, in età rivoluzionaria, contaminò i moduli tradizionali della controversistica con i linguaggi agili e fruibili della narrativa, ma anche con gli strumenti comunicativi della moderna cultura filosofica, apportando significative modifiche a un genere letterario ormai prevedibile e tempestato dagli stereotipi8. L’operazione incontrò anche il consenso del censore Luigi Mercogliano, il quale, interrogato dal Cappellano Maggiore per un parere circa la concessione dell’Imprimatur all’opera, commentò entusiasticamente la scelta di percorrere «una via non battuta da altri». Scriveva il 26 agosto del 1803:

 Degli Onofri, Elogi storici, pp. v-vi, x.  Degli Onofri, Elogi storici, p. xvi. 7  L’autore elencava anche alcuni di questi titoli, aggiungendo i suoi commenti: «L’Esame della Religione (ma da quanto in qua la religione è stata mai soggetta all’Esame di un privato? Punti decisi dalla Chiesa, dai Concilij, dai Santi Padri, massime sostanziali della Fede Cattolica dovranno soggiacere agli scrutinij di costoro? Dovrà formarsene un nuovo esame? Dovrà di nuovo pronunciarsene la definitiva sentenza?). (…) Lo spirito delle leggi (ma con qual fronte chi toglie ogni ius, ogni diritto, si avrà ardire di citare al proprio tribunale le leggi quantunque umane e non divine?), Le virtù dei Pagani (non nego che alcuni di essi siano stati in qualche senso virtuosi. È lodata presso i gentili la rettitudine di Seneca (…), ma non vi è mai stata, né vi può essere tra i pagani vera virtù), Il Patriottismo (l’amore della patria è lodevole, ma dee incominciar dalla religione e da Dio, e poi di mano in mano stendersi secondo i gradi della cognizione)» (Ibidem, p. xvi). 8  Cfr. A. Guerra, Il vile satellite del trono. Lorenzo Ignazio Thjulen: un gesuita svedese per la Controrivoluzione, Milano, FrancoAngeli, 2004. 5 6

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[L’autore] adesca i curiosi a non gittare [le vite dei candidati santi] dalle loro mani, come la sorte è ai dì nostri di siffatte opere, ma a scorrerle tutte con piacere e avidità. Premette intanto un breve elogio al servo di Dio (…), indi fa seguire un’aggiunta di annotazioni, le quali, mettendo in lume migliore e più definito l’azion accennata, tanti riportano avvenimenti particolari, tante riferiscono notizie patrie, analoghe tutte al soggetto di cui si parla, che non può esser a meno che chi comincia non voglia terminar la lettura senza nojarsi9.

La raccolta presentava, quindi, degli evidenti elementi di discontinuità col passato e poteva avere un destino diverso dalle altre biografie devote, nella maggior parte dei casi bersagli di taglienti giudizi e stroncature, non solo perché prendeva in prestito alcuni schemi narrativi tipici della letteratura profana, ma anche perché inseriva le azioni dei protagonisti in un preciso contesto socio-politico, i cui caratteri principali erano ben conosciuti e potevano suscitare la viva partecipazione del pubblico. Gli intenti che erano alla base dell’opera non sembravano divergere molto dalle peculiarità indicate nell’Enciclopedia da d’Alembert, secondo il quale gli «elogi storici» si distinguevano dagli «elogi oratori» anteponendo la ricostruzione della verità storica alla vena creativa e riflessiva dell’estensore. Proprio nel corso del Settecento, del resto, le rigide definizioni stilistiche della panegiristica, soprattutto quando si trattava di vite di santi, incontravano l’esigenza di preservare la verosimiglianza della narrazione al fine di costruire solide basi sulle quali innestare l’esposizione di massime e precetti morali10. L’ansia di assecondare le esigenze del mercato, tuttavia, favoriva non di rado l’emergere di pesanti contraddizioni. Risale al 1754 la pubblicazione di una delle prime biografie del celebre predicatore ligure Leonardo di Porto Maurizio. L’autore Raffaele da Roma definiva il suo scritto come una storia priva di «eleganza di stile, o intreccio di erudizione, o sublimità di concetti». Affermava, quindi, senza remore: I Regolamenti che lo stesso P. Leonardo prescriveva a se stesso, e agli altri (…) si sono portati in fine del libro per non troncare il filo di quella tessitura di Storia, che tanto a chi legge suol riuscir di piacere.

Non curandosi della possibilità di sollevare sospetti sull’attendibilità della sua opera, l’agiografo dichiarava espressamente di voler compiacere

 Degli Onofri, Elogi storici, p. xviii.   Sulla definizione di ‘elogio storico’ maturata negli ambienti illuministi e sulle evoluzioni settecentesche della letteratura panegiristica e agiografica, specie per quanto riguarda gli ambienti filo-gesuitici, cfr. A. Trampus, I Gesuiti e l’Illuminismo. Politica e religione in Austria e nell’Europa centrale, Firenze, Olschki, 2000, pp. 112-118. 9

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i suoi lettori con una narrazione godibile, prima ancora che edificante11. Le contaminazioni fra i diversi generi letterari – romanzi, biografie devote, saghe epico-cavalleresche – diventavano sempre più feconde, di fronte a un mercato librario in rapida trasformazione, impegnato a soddisfare le esigenze di una clientela che cercava, allo stesso tempo, un gradevole intrattenimento e una precettistica morale di facile fruizione. La Vita del maniscalco fiorentino Gaetano Pratesi, data alle stampe nel 1756, conteneva un esordio centrato sull’esposizione di intenti programmatici. Gli autori Tommaso Veracini e Giovancarlo Barsotti intendevano infatti superare «le regole prescritte della pura e semplice Storia». I modelli latini e greci – secondo loro – proponevano racconti «digiuni affatto d’ogni riflessione». Solo scrittori come Erodoto, Livio, Plutarco avevano saputo abbellire i loro scritti con «detti sentenziosi, forti ragioni, sagge e mature considerazioni» capaci di trasmettere ai lettori l’amore per la terra natia e la voglia di imitare gli uomini valorosi. L’opera si configurava come una pesante requisitoria contro un secolo descritto a tinte fosche, segnato dalla decadenza dei costumi, dall’abuso della condizione nobiliare e dell’abito ecclesiastico, dall’attaccamento ai piaceri mondani. Stando alla ricostruzione proposta, Gaetano frequentava le carceri per insegnare la religione cristiana ai detenuti, si occupava della cura dei malati e aiutava le ragazze-madri costrette ad allevare da sole i loro bambini. Lavorava con abnegazione «tra gli osceni discorsi e le bestemmie di gente scostumata», fornendo un esempio di virtù ai nullafacenti e spingendoli «all’adempimento de’ loro doveri»12. La biografia di Domenico Maria Falcini, pubblicata nel 1760, era presentata dall’autore Raimondo Maria Corsi come un semplice «ragguaglio storico» privo di aneddoti strabilianti, «visioni straordinarie, fatti strepitosi». Lo spettacolo dei riti di giustizia era al centro della narrazione. Il candidato santo assisteva i condannati a morte facendo accettare loro la pena estrema con rassegnazione e pentimento. Riusciva ad avere successo laddove i confortatori fallivano, ponendo di fronte ai rei la terrificante immagine del demonio che scalpitava per impadronirsi delle loro anime. Sulle scale del patibolo, si rivolgeva ai padri di famiglia affinché distogliessero i loro figli

11   Raffaele Da Roma, Vita del servo di Dio p. Leonardo da Porto Maurizio missionario apostolico de’ Minori Riformati, Venezia, Simone Occhi, 1754, p. x. L’opera ebbe un’enorme fortuna editoriale: fu ripubblicata a Genova (Gexiniana, 1754), Firenze (Stamperia Imperiale, 1754), Roma (Lorenzo Barbiellini, 1754). 12   G. Barsotti, T. Veracini, Vita del Servo di Dio Gaetano Pratesi manescalco fiorentino, Firenze, Moucke, 1756. pp. xii, 2-4, 7, 81-82, 111, 155-157.

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dal commettere furti, omicidi e altri reati. Si impegnava inoltre a «comporre le differenze» fra casati che erano «ostacolo alla conclusione de’ parentadi», cercando allo stesso tempo di favorire la celebrazione di matrimoni per evitare scandali provocati dai «prolungati innamoramenti»13. Nel 1783 vedevano la luce a Lucca le Memorie della vita del servo di Dio Giuseppe Ignazio Franchi. L’autore, l’oratoriano Domenico Pacchi, affermava di voler produrre «uno di quegli Elogj, che il moderno gusto Franzese, non per sussidio alla verità ed all’istoria, ma bensì per una nuova forma di leggiadra eloquenza ha saputo delicatamente introdurre nella nostra Italia». Egli sembrava conoscere bene gli ingredienti necessari: «sagacità e destrezza nel collocare le cose, forza e vivezza nel lumeggiarle, e sentenziosa gravità nello esporle», ma anche fedeltà ai «candidi e sinceri fatti», in piena consonanza coi metodi dell’esposizione storica14. Due anni più tardi veniva pubblicato a Torino l’Elogio istorico del padre D. Onofrio Natta, romito camaldolese. L’autore non rivelava la sua identità, ma rivolgeva un entusiastico encomio alla casa regnante dei Savoia e dichiarava apertamente di voler emulare «le profane istorie» che accendevano forti passioni nei sudditi: I fasti della religione, e le istorie de’ popoli conservarono ai secoli futuri l’onorata memoria di que’ grand’uomini, che segnalarono con gloriose imprese i loro nomi, o nella pace, o nell’armi. I più nobili tra’ cittadini furono destinati a tramandare a’ posteri le famose gesta degli eroi, che colla santità delle leggi stabilirono gli incerti costumi delle nazioni, o ne difesero col loro valore i confini da’ nimici oltraggi.

L’azione pastorale del candidato santo, al pari delle imprese dei grandi condottieri del passato, era considerata come un supporto necessario per la stabilità degli apparati statali, a dispetto dei messaggi dell’«orgogliosa filosofia» che non riconosceva agli eroi della Chiesa la capacità di esercitare una «tacita censura del libero e sfrenato costume»15. Risale invece al 1797 la pubblicazione dell’Elogio istorico del sacerdote Francesco Maria Gatteschi che operava nelle terre toscane del Casentino. Secondo l’anonimo autore, «la di lui Santità doveva servire di Spettacolo al Mondo» e di esempio agli altri ministri dell’altare. Quando i suoi doveri lo 13   R.M. Corsi, Vita del servo di Dio Domenico Maria Falcini Settimo Guardiano della Congregazione della Dottrina Cristiana, Firenze, Moucke, 1760, pp. viii, 49-55. 14  D. Pacchi, Memorie della vita del Servo di Dio P. Giuseppe Ignazio Franchi, preposito della Congregazione dell’Oratorio di Firenze, Lucca, Bonsignori, 1783, pp. 3-4. 15   Elogio istorico del padre D. Onofrio Natta de’ marchesi del Cerro romito camaldolese della Congregazione di Piemonte, Torino, G. Briolo stamp. e libr. della Real Accademia delle Scienze, 1785, pp. 1-2, 4-5.

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spingevano ad «attraversare le pubbliche Strade», egli «eccitava il rispetto, e la venerazione anche negli animi più dissipati, e mondani». Provvedeva a «estinguere gli abusi che sorgevano nel suo Popolo, o nelle particolari Famiglie», «non pensava che a rimuovere gli scandoli, ad avanzare la pietà». Riusciva – leggiamo sempre nella partigiana narrazione – a «liberare il Ceto Ecclesiastico dai lacci della più seducente, e insieme più vergognosa passione, ed a frenare le lingue sacrileghe dei Libertini». La semplicità era la caratteristica fondante della sua predicazione, ma gli procurava anche frequenti accuse di faciloneria. Nella terminologia dell’opera ritroviamo le medesime espressioni che, di lì a qualche anno, saranno care a Pietro Degli Onofri: il candidato santo poneva al centro dei suoi pensieri «i bisogni Temporali, e Spirituali del suo Popolo»16. Le strategie narrative messe in campo dall’autore napoletano si pongono dunque al culmine di una tradizione settecentesca complessa e variegata, non priva di riflessioni teoriche volte a trasformare il genere agiografico e a rafforzarne le potenzialità comunicative. Lo stesso Degli Onofri, del resto, già diversi anni prima della pubblicazione degli Elogi storici, si era dimostrato scrittore prolifico e metamorfico, capace di tenere testa alle ragioni della committenza, ma anche di assecondare il gusto dei lettori. Nel 1778 fu incaricato dall’arcivescovo napoletano Filangieri di comporre una spiegazione semplice e facilmente fruibile dei benefici derivanti dalla pubblicazione della Bolla della Crociata, grazie alla quale, in cambio di una donazione in denaro stabilita per tre diverse fasce di reddito, i fedeli potevano ottenere uno ‘sconto’ sulle discipline penitenziali assegnate loro durante la quaresima e acquisivano la facoltà di scegliersi il confessore in due momenti particolari della loro vita, anche per l’assoluzione dai casi riservati17. Nel 1789 Degli Onofri diede alle stampe l’Elogio estemporaneo per la gloriosa memoria di Carlo III monarca delle Spagne e delle Indie, col quale intese celebrare i meriti di un sovrano che aveva posto le virtù cristiane alla base del suo regno ed era riuscito ad attraversare indenne le grandi trasformazioni di un’epoca «volubile», regalando ai suoi sudditi «una stagion placidissima nel più rigido verno». L’opera conteneva una ricca serie di annotazioni che, per detta dello stesso autore, erano finalizzate a risparmiare «il tedio a chi   Elogio istorico del sacerdote Dott. Francesco M. Gatteschi nella Terra di Strada in Casentino, nato il dì I febbraio dell’anno 1716 e morto il dì 17 Settembre 1796, Pisa, Ranieri Prosperi Stamperia Arcivescovile, 1797, pp. 15, 18, 20, 23, 34, 44. 17  E. Chiosi, Chiesa e editoria a Napoli nel Settecento, in Editoria e cultura a Napoli nel XVIII secolo, a cura di A.M. Rao,Napoli, Guida, 1998, pp. 328-331. 16

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non gustasse di periodi e di retorica eloquenza e fosse solo amante di fatti e d’istorie». Si cercava quindi di trarre un profitto spirituale dai lettori disattenti, abituati a porre la loro attenzione a «libretti volanti», talvolta «regalati per far raccolta» e destinati a restare «ne’ caffè su de’ soffà o tavolini, alla discrezione degli oziosi e degl’impazienti in far più lunghe anticamere», ad essere gettati «appena veduta l’edizione, osservato il frontespizio, saputone lo stampatore, criticato tutto senza prima leggere ed intendere»18. L’Elogio del sovrano borbonico – in piena consonanza con gli altri numerosi scritti dello stesso genere prodotti durante l’antico regime – era caratterizzato dai toni morbidi tipici della letteratura agiografica e proponeva una lettura del contesto storico-politico saldamente ancorata ai presupposti sacrali sui quali si poggiava l’istituto monarchico, ma presentava anche importanti elementi di specificità che meritano una riflessione, principalmente per il loro stretto legame con la successiva produzione dell’autore19. La compenetrazione tra potere laico ed ecclesiastico che aveva caratterizzato l’epoca della controriforma negli stati cattolici, infatti, era stata messa pesantemente in discussione dal pensiero settecentesco. Il richiamo a una concezione dell’assolutismo fondata sull’inscindibilità dell’unità sociale da quella religiosa, sul connubio tra la volontà del re e i disegni divini che si realizzavano attraverso l’operato della Chiesa, era da interpretare come un’aperta polemica verso la modernità. In altre parole, emergeva la condanna dei progetti riformatori del secolo dei Lumi, che avevano minato equilibri consolidati e rischiavano di compromettere il destino delle nazioni. Gli esponenti della cultura cattolica intransigente, anche di fronte alla minaccia rivoluzionaria, si preparavano a raccogliere i primi frutti importanti della propaganda anti-illuminista e della ‘lotta contro i mali del secolo’, trovando, tanto negli elogi di alcuni monarchi che nella costruzione di nuovi profili di santità, un valido laboratorio per la codificazione di alcune linee ideologiche portanti.

 Degli Onofri, Elogio estemporaneo, pp. iv e ix, p. lxvii.   Sulla sacralità dell’istituto monarchico, cfr. S. Bertelli, Il corpo del re: sacralità del potere nell’Europa medievale e moderna, Firenze, Ponte delle Grazie, 1995. Sulla tradizione degli elogi dedicati a Carlo di Borbone tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta del Settecento e, più in generale, sugli elementi caratterizzanti del rapporto tra intellettuali e potere monarchico durante i primi anni della Rivoluzione francese, cfr. A.M. Rao, Dalle élites al popolo: cultura e politica a Napoli nell’età dei Lumi e della Rivoluzione, in R. De Simone (a cura di), Napoli 1799, Napoli, Di Mauro, 1999, pp. 36-39. Molto simile all’opera di Degli Onofri, specie nelle strategie espositive, il panegirico composto da O. Gaetani, Elogio storico di Carlo III re delle Spagne, Napoli, Stamperia Reale, 1789. 18 19

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Anche in altre aree dell’Europa cattolica, come nota Antonio Trampus, la tradizione elogiativa, specie negli ambienti filo-gesuitici, mutava le sue funzioni affiancando ai consueti toni celebrativi nuovi contenuti culturali tesi ad affermare precise visioni delle vicende storiche e dei problemi più urgenti che affliggevano il corpo sociale, attraverso l’uso di tecniche espositive ben riconoscibili dai diversi componenti della ‘Repubblica delle lettere’. La morte dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria, avvenuta nel 1780, fu seguita dalla stesura di un sostanzioso numero di ricostruzioni biografiche intrise di significati morali, politici e religiosi che formavano la base di una «battaglia politica di prima linea volta a riaffermare il ruolo del clero e a porre un freno alle istanze giurisdizionalistiche giuseppine»20. Maria Teresa, non diversamente da Carlo di Borbone, era descritta come baluardo della cristianità contro la diffusione dell’ateismo e dell’anarchia spirituale, mentre i rapporti tra Chiesa e Stato divenivano nuclei fondanti di trattazioni tese a sostenere istanze filocurialiste in uno dei momenti più delicati della parabola riformista, dimostrando che anche forme comunicative fortemente ancorate al passato come gli elogi potevano diventare efficaci strumenti di lotta politica. Nel 1791 Degli Onofri, dopo aver composto la Vita di Santo Leucio primo vescovo di Brindisi, dedicata a Ferdinando IV e destinata agli abitanti della colonia regia di S. Leucio nel distretto di Caserta, pubblicò le Succinte notizie della vita del servo di Dio Padre Francesco D’Anna prete dell’oratorio di Napoli, dedicandole al cavalier Acton, uomo capace di distinguersi, prima ancora che per la spada, per «la pietà, la religione, il rispetto del santuario»21. Era evidente, in queste pagine, l’influenza delle novità proposte da un certo numero di autori di vite di santi tardo-settecenteschi, orientati ad abbandonare gli inimitabili modelli di perfezione che avevano dominato la scena lungo tutta l’età della Controriforma e a proporre un’eroicità dall’aspetto più umano, potenzialmente riproducibile da ogni devoto nella sua quotidianità22. Era altrettanto palese l’influenza di alcuni nuclei tematici centrali delle

  Trampus, I Gesuiti e l’Illuminismo, pp. 120-121, 130.   P. Degli Onofri, Succinte notizie della vita del Servo di Dio Padre Francesco D’Anna, Napoli, Morelli, 1790, p. iv. 22  Cfr. R. De Maio, L’ideale eroico nei processi di canonizzazione della Controriforma, in «Ricerche di storia sociale e religiosa», 2 (1972), pp. 132-160; R. De Maio, Religiosità a Napoli, Napoli, Esi, 1997, pp. 144-148, 328-339; M. Caffiero, Religione e modernità in Italia (secoli XVII-XIX), Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2000, pp. 11-24; M. Caffiero, Dall’esplosione mistica tardo barocca all’apostolato sociale, in Donne e fede. Santità e vita religiosa in Italia, a cura di L. Scaraffia e G. Zarri, Bari, Laterza, 2004, pp. 20 21

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celebri opere morali di Alfonso Maria de’ Liguori, tese a inserire dinamicamente la prassi religiosa nel contesto più ampio dei comportamenti sociali. Pur contenendo degli importanti elementi di rottura con il passato, tuttavia, la scrittura agiografica di Pietro Degli Onofri rimaneva in buona misura ancorata agli schemi tradizionali, ma i segni di crisi dell’antico regime e l’ondata rivoluzionaria proveniente dalla Francia erano destinate a cambiare radicalmente le carte in tavola, portando significative metamorfosi anche all’interno di un genere letterario cristallizzato. Gli Elogi dei servi di Dio che operarono per il «bene spirituale e temporale della città di Napoli», scritti in seguito agli sconvolgimenti del triennio 1796-1799, si poggiavano su concezioni politiche e dottrinali già espresse dal religioso nelle sue opere precedenti, ma si arricchivano di prospettive apologetiche maturate nel contesto delle insorgenze popolari che avevano attraversato l’Italia giacobina e napoleonica. La prima biografia contenuta nella raccolta pubblicata nel 1803 era quella del padre Francesco De Geronimo della Compagnia di Gesù, nato a Taranto il 17 dicembre del 1642 e morto a Napoli 73 anni più tardi, dichiarato venerabile dalla Chiesa cattolica. Nel corso del XVIII secolo diversi autori si erano dedicati a questo notissimo predicatore, tra i quali i suoi confratelli Carlo Stradiotti23, Carlo De Bonis24, Simone Bagnati25, che furono anche i principali sostenitori del suo processo di beatificazione, definendo un profilo di santità fondato sulla virtù della carità, in linea con la tradizione dell’ordine ignaziano26. Degli Onofri prese in prestito alcuni nuclei tematici fondamentali dai suoi predecessori riservando molto spazio all’azione pastorale del candidato santo che riuscì a convertire un gran numero di infedeli,

327-373; P. Giovannucci, Genesi e significato di un concetto agiologico: la virtù eroica in età moderna, in «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», 2 (2004), pp. 433-478. 23  C. Stradiotti, Della vita del p. Francesco di Geronimo, della Compagnia di Gesù, libri due, scritta, e dedicata dal p. Carlo Stradiotti della medesima Compagnia, Venezia, Tomasini, 1719. 24  C. De Bonis, Vita del venerabile padre Francesco Di Geronimo della Compagnia di Gesù tradotta nell’idioma italiano da quella che nell’anno 1734 diede alla luce in lingua latina il p. Carlo De Bonis della medesima compagnia, coll’aggiunta delle notizie venute da quell’anno fin al 1746, Napoli, Muzi, 1747. 25   S. Bagnati, Vita del servo di Dio P. Francesco di Geronimo della Compagnia di Gesù, nuovamente scritta dal P. Simone Bagnati della medesima compagnia per le nuove notizie delle sue virtù, e grazie impetrate da Dio. Libri tre, Napoli, Mosca, 1725. 26  Cfr. E. Novi Chavarria, Il governo delle anime. Azione pastorale, predicazione e missioni nel Mezzogiorno d’Italia (secoli XVI-XVIII), Napoli, Editoriale scientifica, 2001, pp. 269-290; G. Sodano, Modelli e selezione del santo moderno. Periferia napoletana e centro romano, Napoli, Liguori, 2002, pp. 88-99.

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donne di malaffare, giovani boriosi e miscredenti, richiamando all’osservanza ritiri e conservatori femminili affidati a direttori spirituali incapaci o inadeguati, mettendo pace tra diverse famiglie nobili inclini alla vendetta e alla sopraffazione27. La figura di Francesco De Geronimo, tuttavia, nella ricostruzione dell’oratoriano, si arricchiva di ulteriori caratteri anti-moderni. La sua azione era tesa a ricomporre le numerose lacerazioni che attraversavano il tessuto sociale del Regno, indirizzando verso il medesimo scopo gli affari spirituali e temporali, nel tortuoso e complesso tentativo di condurre i sudditi-fedeli all’abbandono del peccato e al rispetto della legge. Le attestazioni di stima che ebbero per lui l’elettore di Magonza Lotario Francesco Schönborn, il principe Carlo Alberto di Baviera, l’imperatore Carlo VI e, non ultimo, il re delle Due Sicilie Carlo di Borbone, dovevano essere considerate come la dimostrazione tangibile delle sue virtù eroiche e propiziarne la scalata verso l’onore degli altari. Tuttavia, l’approvazione canonica di quattro miracoli avvenuti per sua intercessione non era stata sufficiente a raggiungere questo traguardo e le ragioni di questo fallimento andavano ricercate unicamente nei «tempi critici e contrari alla Compagnia di Gesù, della cui religione il Venerabile Servo di Dio, per esserne individuo, tanto si gloriava». Gli esiti della procedura di beatificazione, secondo Degli Onofri, erano legati al destino dell’Europa e del mondo intero: solo mettendo fine al «rovinoso sconvolgimento» della Rivoluzione era possibile placare l’ira di Dio contro i peccati e la tracotanza degli uomini, con la certezza che il «Venerabile Padre Francesco posto in su l’altare» sarebbe diventato il simbolo di «sì fausto e desiderato avvenimento». Gli Elogi storici continuavano con la Vita di un altro membro dell’ordine ignaziano, Gianbattista Cacciottoli, nato a Castrovillari il 21 ottobre del 1668, devoto fin dagli anni dell’infanzia all’Arcangelo Michele, il quale, secondo quanto raccontavano i devoti, gli era apparso in sogno e lo aveva «eletto promulgatore delle sue glorie». Le «carceri della Vicaria, per ampiezza di recinto e per moltitudine di delinquenti assai note in Napoli ed altrove, furono il vasto campo aperto allo zelo e alla carità» del gesuita, così come il porto e i quartieri malfamati, dove diventò un punto di riferimento per la popolazione anche in momenti particolarmente drammatici come il terremoto del 20 marzo 1731 che colpì la città di Foggia e parte dell’Irpinia. Il padre Cacciottoli, «nuovo Gioele», circolava per le strade della capitale «disciplinandosi a sangue», svolgeva le sue missioni nelle galee «ove disponeva le infelicissime turbe a

 Degli Onofri, Elogi storici, pp. 32-35.

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viver cristianamente» e «tal carità usava anche con gli schiavi turchi, i quali per sì fatta amorevolezza, gli corrisposero con amor tanto robusto che ne rispettavan le parole e disponevansi ad abbracciar la Cattolica Religione». Non perdeva occasione per predicare nelle piazze, specialmente nei giorni in cui si svolgeva il mercato, spesso frequentato da gente turbolenta e rivoltosa, per «mantenerla (…) timorata di Dio, ma ancora ubbidiente alla maestà del Sovrano». Fu vicinissimo a Carlo di Borbone, che gli assegnò l’«incombenza di applicarsi alla conversione delle meretrici, offrendo il braccio di sua real potestà in tutto ciò che, a tal fine, si riputasse giovevole» e «ogni assistenza di birreria e soldatesca a por freno a chiunque osasse di frastornar le suddette femmine dall’ascoltar la divina parola, o dal convertirsi»28. La biografia di Giambattista Cacciottoli, morto il 10 ottobre del 1742 tra l’adorazione dei fedeli che lottavano per prelevare dei pezzi di stoffa dai suoi abiti e ricavarne delle reliquie, non diversamente da quella di Francesco De Geronimo, tendeva chiaramente a sottolineare la produttività di un rapporto collaborativo tra istituzioni laiche ed ecclesiastiche, al fine di eliminare le storture che caratterizzavano la vita sociale e ridurre i sudditi all’obbedienza al proprio principe. Le argomentazioni dell’autore culminavano, tuttavia, in un esplicito atto d’accusa alle politiche riformiste che, incuranti della pubblica felicità, avevano ridimensionato gradualmente il peso delle prerogative del clero nella gestione della vita pubblica: durante la Rivoluzione, si era avvertita la grave mancanza di zelanti religiosi – primi fra tutti i gesuiti – capaci di arginare la riottosità di alcuni gruppi sociali difficilmente gestibili, lasciando lo Stato sguarnito delle sue colonne portanti, privo di protezione. Finisco lettor carissimo con farvi riflettere come di tempo in tempo volle il Signor Dio che nella città di Napoli vi fosse un qualche suo servo palese e popolare che assistesse al popolo, faticasse a suo vantaggio sì spirituale che temporale, come brevemente si è veduto in questo breve elogio del padre Cacciottoli ed in queste succinte aggiunte. È questo mancato, tra le altre nostre disgrazie, nella passata anarchia e sconvolgimento. Molto avrebbe giovato pel buon costume29!

La raccolta di Pietro Degli Onofri proponeva, di seguito, la biografia di Francesco Pepe che nacque a Civita del Molise, in Diocesi di Guadalfiere il 17 febbraio del 1684 da una famiglia agiata che lo destinò agli studi nelle scuole della Compagnia di Gesù. Il popolo, durante le prediche, pendeva

 Degli Onofri, Elogi storici, pp. 15-16, 80, 82-86, 90, 105-106, 109-110; Degli Onofri fa probabilmente riferimento ai provvedimenti presi dal governo borbonico nel settembre del 1737 e nel maggio dell’anno successivo. 29  Degli Onofri, Elogi storici, pp. 93-94, 129. 28

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dalle sue labbra, lo venerava come un santo e si infervorava assistendo alle sue sanguinolente auto-flagellazioni, cercando di strappargli le vesti intrise di sangue che si ritenevano dotate di poteri taumaturgici. I riti e le processioni da lui organizzate erano caratterizzate da una meticolosa attenzione agli aspetti scenografici fondata sulla preferenza per le ambientazioni notturne che consentivano di sfruttare al meglio gli effetti dei contrasti tra luci e ombre, dal costante richiamo ad aspetti lugubri e luttuosi finalizzati a coinvolgere emotivamente i partecipanti, in piena consonanza con le linee-guida tracciate dalla pastorale gesuitica nel corso del secolo XVII30. Nei giorni del miracolo di S. Gennaro – leggiamo ancora negli Elogi – specialmente quando l’attesa della liquefazione del sangue diventava lunga e snervante, col popolo che si «mettea in costernazione ed in terrore», il gesuita contribuiva a placare gli animi e, con i suoi discorsi, rafforzava la fede e scongiurava il verificarsi di disordini. Il tema del culto del patrono offriva a Degli Onofri l’occasione di accentuare il suo livore controrivoluzionario: «Presentemente ciò non si vede. Si vede bensì una somma indifferenza e non curanza: né nella Cappella del tesoro, nel tempo dell’ottava, vi è quel concorso di gente come prima, riducesi a poche donnicciuole, né quell’anzietà di sapere se si è fatto o no il miracolo. La devozione si è molto rattrappita»31. Il candidato santo si scagliò contro i libri «perniciosi», propagatori di «infami» calunnie nei confronti del clero e «del Vicario di Gesù Cristo in terra, il Sommo Pontefice», trovando anche in questa battaglia l’appoggio di Carlo di Borbone che «fé subito emanar dispaccio fulminantissimo di prevenzione» ai revisori delle opere stampate a Napoli e «fé subito levar d’uffizio chi presiedea allora alla dogana» per aver permesso la circolazione «di stampe inique, specialmente delle opere di Voltaire e delle lettere giudaiche». Considerando l’importanza del commercio per il benessere economico del paese, Carlo di Borbone, poco tempo dopo il suo arrivo, volle risistemare il porto della capitale per renderlo «capace di ogni sorta di bastimenti», cominciando a «maneggiare trattati di corrispondenza» volti a incentivare la crescita del volume di scambi. Grazie a queste novità diversi operatori economici di nazione ebraica decisero di recarsi nel Regno e «al loro arrivo videsi pubblicato ai 13 febbraio dell’anno 1741 un editto di 37 articoli di

30  Degli Onofri, Elogi storici, pp. 130-132, 143-145. Sugli aspetti scenografici di riti e processioni, cfr. O. Niccoli, La vita religiosa nell’Italia moderna, Roma, Carocci, 1999, pp. 169-177. Sulle polemiche suscitate dalle metodologie pastorali sviluppate nell’ambito della Compagnia di Gesù tra XVII e XVIII, cfr. Mario Rosa, Gesuitismo e antigesuitismo nell’Italia del Sei-Settecento, in «Rivista di storia e letteratura religiosa», 2 (2006), pp. 247-281. 31  Degli Onofri, Elogi storici, p. 168.

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privilegi per anni 50 e 5 di proroga», che fu accolto con costernazione dal popolo napoletano: era «già prossima la festa di S. Gennaro e si temea» che il patrono, adirato per questa inconcepibile concessione agli infedeli, non avrebbe concesso il consueto miracolo32. Forte del suo strettissimo rapporto con i ceti più umili, Francesco Pepe riuscì a diventare il principale intermediario tra i sudditi e il re, il quale, informato dei gravi disordini che stavano per verificarsi e convintosi ad anteporre «la pace e la tranquillità» al «vantaggio» economico, ordinò «al marchese di Monteallegro ed al conte di Santostefano, suo primo ministro ed educatore» di revocare immediatamente il provvedimento. Anche la ricostruzione di questo evento, secondo Degli Onofri, aiutava a fornire delle risposte ad alcuni problemi che caratterizzavano il suo presente e che potevano essere additati come cause del ‘disastro’ rivoluzionario. Non v’ha dubbio che il miscuglio delle differenti nazioni che professano diverse religioni non sia un grande incentivo alla corruttela dei costumi. Non vò io in ciò provarlo con la divina scrittura e con l’Istoria Sacra e profana, ma solamente con quello che non a molto è a noi accaduto pel guasto e sconvolgimento sofferto nel brevissimo governo prima acefalo, senza capo ed anarchico, e poi per 4 mesi e 22 giorni repubblicano, che fu motivo di introdursi a Napoli differenti nazioni e di culto diverso. Or dopo l’accaduto i napoletani non son più quelli di prima, timorati di Dio, fedeli, cordiali, disinteressati? Oibò! (…) Or ci rubbiamo, ci assassiniamo e ci mangiamo l’un con l’altro33.

Altro motivo posto a sostegno dell’eroicità delle virtù del candidato santo gesuita fu il suo ruolo centrale nella lotta alle logge dei Liberi Muratori che avevano raccolto, negli anni Quaranta del secolo, un numero sempre maggiore di adepti, trovando nella Lettera apologetica del principe di S. Severo Raimondo di Sangro un chiaro manifesto ideologico. L’agiografo passava in rassegna tutte le ipotesi che si formulavano all’epoca sull’origine della massoneria – secondo alcuni le radici della setta andavano cercate al tempo delle Crociate, secondo altri bisognava risalire ai tempi di Salomone o addirittura alla preistoria – tacciandole puntualmente come fandonie e chiamando a sostegno della sua tesi l’autorità di Ludovico Antonio Muratori, il quale raccontava che nel XVII secolo

 Degli Onofri, Elogi storici, pp. 194-196. Sull’editto che assegnava privilegi agli Ebrei, cfr. R. Ajello, Carlo di Borbone, re delle Due Sicilie, in Carlo di Borbone. Lettere ai Sovrani di Spagna, a cura di I. Ascione, vol. I, Ministero per i beni e le attività culturali, Direzione generale degli Archivi, p. 43. 33  Degli Onofri, Elogi storici, pp. 196-197. 32

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fu ritrovato il piano ed il disegno dell’istituto massonico del famoso Cromwell in Inghilterra, vago e presuntuoso di farsi autore di una setta abilissima a corromper il mondo ed abbatter l’Altare e il Trono. (…) I sovrani e molto più i pastrori stavan in un continuo batticuore, che sotto il segreto di tali adunanze, renduto impenetrabile per preso giuramento, si covasse qualche magagna pericolosa, e forse pregiudiziale alla religione, alla pubblica quiete ed ai buoni costumi34.

Il nunzio Ludovico Gualtieri, alla metà del secolo XVIII, aveva richiamato spesso l’attenzione dei suoi superiori sulla difficilissima situazione del regno, denunciando i tentativi «di annichilire i diritti della Santa Sede», e individuando nella Camera di S. Chiara e nel Delegato della Real Giurisdizione i principali artefici della presunta usurpazione35. La questione dei Liberi Muratori gli aveva destato notevoli preoccupazioni, ma, come testimoniano le relazioni che egli produsse in quegli anni, la sua premura principale rimase la salvaguardia dei diritti della Chiesa e il rispetto dei patti concordatari, gravemente lesi, secondo lui, dai decreti del 1746 che, abolendo le procedure inquisitoriali, avevano di fatto sottratto ai religiosi gran parte delle loro prerogative giurisdizionali sulle cause «in materia di eresia»36. Mentre il papa, con la bolla Providas del 18 maggio 1751, rinnovava la condanna del 1738, Francesco Pepe sfruttò abilmente l’ottima reputazione di cui godeva presso la famiglia reale borbonica e un costante rapporto di corrispondenza con lo Stato pontificio che gli permetteva di scavalcare l’intermediazione dello stesso nunzio apostolico37. La sua capacità di agitare gli animi del popolo era ben conosciuta anche dagli esponenti più in vista dell’esecutivo, come si evince dalle parole dense di ironia di Bernardo Tanucci, indirizzate a Bartolomeo Corsini:

34  Degli Onofri, Elogi storici, pp. 200-207. L’autore aggiungeva in queste pagine anche una lunghissima nota per scagionare l’ordine gerosolimitano dalle accuse di connivenza con le logge dei Liberi Muratori. Dedicò ai cavalieri anche un’intera opera intitolata Succinto ragguaglio dell’origine, progresso, e stato presente del sacro Ordine gerosolmitano con un ristretto di tutte quante le vite de’ gran maestri. Opera del p. Pietro D’Onofrj dell’Oratorio diretta a tutti que’ giovani cavalieri, che vogliono ascriversi ad un sì rispettabile ordine, e che subito bramano di aver così in generale una compita e giusta idea del medesimo, Napoli, Raimondi, 1791. 35  E. Del Curatolo, L’editto carolino contro la Massoneria (1751) nel quadro dei rapporti tra Regno di Napoli e Santa Sede, in «Clio», 23 (1987), pp. 39-40. La fonte è tratta dall’Archivio Segreto Vaticano (abbr. ASV), Nunziature di Napoli, 5 settembre, 3 novembre 1750. 36  ASV, Segreteria di stato, Napoli, relazione di Ludovico Gualtieri del 18 aprile 1752, b. 236, f. 235; cfr. P. Palmieri, Il lento tramonto del Sant’Uffizio. La giustizia ecclesiastica nel Regno di Napoli, in «Rivista storica italiana», CXXIII (2011), pp. 26-70. 37  Cfr. Del Curatolo, L’editto carolino, pp. 38-41.

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(…) il padre Pepe grida tra poco che sarem subissati, perché i Liberi Muratori hanno lo spirito folletto e vanno ogni settimana invisibilmente in Inghilterra, e tornano e portano discorsi e massime contrarie alla religione e alla monarchia. Il peggio è che predica lo stesso per le strade e i paglietti e i libertini si vagliono di tali caricature per togliere il credito alle invettive e allo zelo38.

Se il gesuita aveva ormai conquistato la ribalta, affiancato da altri celebri predicatori come Gregorio Rocco e Alfonso de’ Liguori, Ludovico Gualtieri rimase dietro le quinte, mantenendo una visione lucida dei problemi che caratterizzavano la contesa e la consapevolezza delle ragioni per cui il governo napoletano era titubante nel rendere esecutiva la condanna pontificia della massoneria. Si avvertiva, infatti, il pericolo di riaprire margini di azione che avrebbero permesso ai tribunali ecclesiastici di operare con i modi del Sant’Ufficio e di ledere il primato regio. Il ruolo delle magistrature laiche nella vicenda restava centrale e, anche intorno alla formulazione esatta del provvedimento statale contro le logge, si giocava una partita importantissima, nella quale, come era già successo pochi anni prima, fu decisivo l’operato del Delegato della Real Giurisdizione Niccolò Fraggianni. L’esecutivo borbonico trasferì la gestione della condanna delle sette sotto le esclusive competenze dello Stato ribadendo, con un chiaro indirizzo anticurialista, la subordinazione delle autorità religiose alle magistrature regie39. Seguendo il deformante racconto di Pietro Degli Onofri, la formulazione dei decreti anti-massonici del 10 luglio 1751 ci appare come il risultato di una perfetta collaborazione tra Chiesa e Stato, finalizzata a reprimere alcuni dei maggiori centri di produzione di idee ‘perniciose’ per la salute delle due istituzioni portanti della società di antico regime. Per controbattere a chi credeva nelle dicerie secondo le quali alcune riunioni dei massoni avevano goduto persino della presenza del pontefice Benedetto XIV, l’oratoriano trascriveva una lettera di quest’ultimo al servo di Dio. Vi sarete più volte posto a ridere a caschioni nel sentir dire che io ancora son Libero Muratore ed ascritto a una delle principali Loggie; e fu bella tempo fa che fummi portato a vedere un grosso libro manoscritto di un morto (ma pentito) Libero Muratore, col catalogo esatto di tutti i socij ed i fratelli, tra i quali soggetti molto rispettabili ci ero Io; ed Io lessi il mio nome coi miej proprj occhi con avermi posto sul naso un nuovo occhiale: Lambertino di Bologna or Papa col nome di Benedetto XIV. La volete più graziosa? Che ne dite, mio caro padre Pepe? Ecco

  B. Tanucci, Epistolario, vol. II (1746-1752), a cura di R.P. Coppini e R. Nieri, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1980, p. 621, 13 febbraio 1751. 39  Cfr. A.M. Rao, La Massoneria nel Regno di Napoli, in G.M. Cazzaniga (a cura di), Storia d’Italia. Annali 21. La Massoneria, Torino, Einaudi, 2006, pp. 513-542. 38

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come tirano ad accreditar le loro unioni e combriccole, per far sempre buon partito contro del sacerdozio e del principato.

Gli Elogi storici non esitavano a stabilire una rapporto di causalità tra la diffusione delle logge segrete e le rivoluzioni, identificando i settari degli anni Quaranta come i padri del giacobinismo. L’autore esprimeva il suo sdegno nei confronti di chi, avendo constatato di non poter «abbattere e levar i sovrani», ora li adulava promettendo rispetto; lanciava, quindi, il suo grido di accusa: «Coerenza, o Massoni!»40. Alcuni degli eventi più significativi della storia politica settecentesca entravano prepotentemente nelle pagine dell’agiografia e andavano a inasprire i toni della polemica controrivoluzionaria nel clima della prima restaurazione41. I profili dei nuovi santi gravitavano intorno al loro ruolo trainante nella ricostruzione dei rapporti tra Chiesa e Stato, gravemente lacerati dall’affermazione delle istanze giurisdizionaliste che avevano minato la confluenza di intenti che aveva contraddistinto il sistema di potere affermatosi nell’età della Controriforma. L’espulsione dei gesuiti, avvenuta nel 1767, era stata, senza dubbio, un altro momento drammatico di questa parabola, pagato, secondo l’agiografo oratoriano, a carissimo prezzo dalla monarchia, che si era privata di una fondamentale barriera protettiva contro il dilagare della disobbedienza. Francesco Pepe, stando alle parole di Pietro Degli Onofri, aveva rivelato, in diverse occasioni, profezie sul futuro dell’intero Regno, orfano dell’ordine ignaziano. Oh povera Napoli! Che eccidio si vedrà in te! Per le strade si vedrà correre il sangue; i cadaveri saranno d’impedimento al camminare, la fede traballerà, la miseria angustierà tutti. Ma io non ci sarò (…). Ma voi si, per vostra disgrazia vi ci ritroverete: onde da ora fatevi un buon capitale di virtù sode per resistere al mal costume e mantenervi fedeli a Dio, alla Chiesa ed al Sovrano.

La morte del candidato santo, avvenuta il 18 maggio del 1759, fu accompagnata da grandi manifestazioni di cordoglio42. Le notizie contenute nella biografia sono confermate dalla relazione del nunzio Pallavicini, che informava il Segretario di Stato pontificio di una folla enorme accorsa a rendere omaggio alla salma, composta principalmente da individui del

 Degli Onofri, Elogi storici, pp. 214-217.  Cfr. L. Guerci, Uno spettacolo non mai più veduto nel mondo. La Rivoluzione francese come unicità e rovesciamento negli scrittori controrivoluzionari italiani (1789-1799), Torino, Utet, 2009. 42  Degli Onofri, Elogi storici, pp. 149-152, 243. 40 41

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«basso popolo» che, con strumenti di ogni genere, avevano fatto a pezzi un confessionale, solitamente usato dal defunto, per «la pia premura di averne qualche porzione»43. La scomparsa del «Geremia dolente» che aveva orientato tutta la sua azione evangelizzatrice a «esortare il popolo a pregar Iddio e ad essere fedele» ai monarchi e aveva preannunciato ai suoi concittadini i disastri futuri, fu rimpianta, secondo Degli Onofri, in maniera molto più amara dalle poche persone devote sopravvissute fino al 1799, che avvertirono la mancanza di un pastore capace di guidarli durante il «disumano sconvolgimento» dell’anarchia44. Gli Elogi storici si chiudevano con la biografia di Gregorio Rocco, il domenicano noto per aver dotato la città di un sistema di illuminazione. Nato a Napoli il 4 ottobre del 1700, entrato nel convento della Sanità, Rocco fu ammesso alla solenne professione di fede all’età di 19 anni, dopo aver frequentato le scuole dei gesuiti. Cominciò quindi a operare «negli angoli più vili» della città «ove un velo tenebroso» soleva «sovente coprire il delitto ed il disordine», scegliendo «per iscopo del suo apostolato» l’«ultima classe del popolo, la gente più scostumata e mancante affatto di educazione», spesso dotata di uno «spirito sedizioso e tumultuante» molto temuto dai ceti benestanti. Degli Onofri affermava senza mezzi termini che il candidato santo, pensando «al comun bene della religione, della società e dello stato», divenne «l’uom del popolo presso la Corte e l’uom della Corte presso il popolo, (…) l’arbitro della plebe presso del Sovrano e l’arbitro del Sovrano presso della plebe»45. Durante le eruzioni del Vesuvio il religioso domenicano «trameschiavasi tra l’immenso popolo confuso e spaventato» e, col solito bastone in una mano e il crocifisso nell’altra, come «un general comandante alla testa d’un grande esercito in attuale azione di fiero combattimento», ad alta voce «incoraggiava tutti a ricorrere a Dio, a detestare i peccati, cagion unica di tal castigo». L’8 agosto 1779, durante l’arciepiscopato di Filangieri, mentre il vulcano minacciava una terribile catastrofe, fu in grado di frenare il panico popolare e, vedendo che qualcuno minacciava di bruciare le residenze del clero diocesano se l’ordinario non avesse acconsentito a far uscire la statua del patrono, si mise a capo di una processione che raccolse

 ASV, Segreteria di Stato, Napoli, b. 251, ff. 362-363. Relazione del nunzio apostolico Pallavicini del 19 maggio 1759. 44  Degli Onofri, Elogi storici, p. 169. 45   Ibidem, pp. 253-259, 261, 267-268. 43

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un enorme numero di partecipanti riuscendo prodigiosamente a frenare la colata di lava46. La ricostruzione dell’azione pastorale di Gregorio Rocco, al pari di quelle degli altri protagonisti degli Elogi, coinvolgeva direttamente le iniziative del potere borbonico. Secondo Degli Onofri, Maria Amalia di Sassonia sostenne diversi progetti del domenicano, come la fondazione di ritiri per fanciulle pericolanti, di istituti di assistenza, del Real Albergo dei poveri e la realizzazione di un sistema di illuminazione nelle strade della capitale. Rocco si recò di persona alla reggia di Portici per parlare con Carlo e gli consigliò di scavalcare tutti i filtri dell’apparato burocratico-amministrativo, costantemente descritto come ostacolo alla realizzazione delle volontà del sovrano. Maestà – egli disse – la tanto desiderata e necessaria illuminazione di notte per la città, quantunque ordinata e comandata per la pronta esecuzione, è svanita e non si effettuerà. Tutto va in piani, in progetti e in prove, ma nulla si conchiude e si conchiuderà giammai perché il demonio si ci è posto di mezzo. Dia Vostra Maestà a me la licenza e permesso di illuminare Napoli di notte, che io lo farò subito, senza che né la città, né la real Tesoreria si interessi neppur di un grano; così potrà effettuarsi, Maestà, (…) e lasciate che faccia Dio per mezzo mio47.

In pochissimo tempo, sosteneva Degli Onofri nella sua ridondante e capziosa ricostruzione, si installarono le luci che resero le strade sicure e percorribili anche di notte. Le lampade furono poste accanto a tutte le immagini sacre nascoste dal buio e si piantarono numerose croci affinché diventassero stimoli visibili a tutto il popolo per intraprendere la via della salvezza. Proprio queste croci simboleggiavano il ritorno di un’epoca aurea, nella quale la fede cattolica era stata capace di resistere alle persecuzioni degli «antichi tiranni imperatori», dimostrando che Cristo aveva scelto di morire con le spalle a Gerusalemme per rivolgere il volto non solo verso Roma, che doveva diventare la cattedra della sua fede, ma «ancor verso Napoli ed i Regni delle due Sicilie, per così sempre difenderli dagli attacchi spirituali e temporali». Allo stesso modo, se le insegne della fede furono divelte durante la rivoluzione del 1799 per far posto agli alberi della libertà, esse guidarono le armate del cardinale Fabrizio Ruffo di Bagnara a rientrare trionfalmente nella capitale.

 Degli Onofri, Elogi storici, pp. 438-457 bis. A partire da questo passo, l’edizione originale del testo di Pietro Degli Onofri presenta una numerazione disordinata delle pagine, ripetendo, in alcuni casi, 2 o 3 volte la medesima indicazione. 47   Ibidem, pp. 375-378. 46

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E tosto l’inimico fuggì a quella sorpresa, come fuggono i fanciulli alla vista del lor maestro, nell’atto che si stan dividendo le ciambelle rubate. La mattina seguente per tutte le finestre e i balconi sventolarono le bandiere col segno della Croce, e tutti i secolari, Ecclesiastici, Religiosi e donne un tal segno si posero sugli abiti e i cappelli. All’avviso che tosto volò a Palermo, ov’erano i nostri adorabili sovrani, del fatto succeduto, somma fu l’allegria, e la pia e religiosissima nostra Regina si pose subito con le Reali principesse a ricamar una ricca bandiera bianca col segno della Croce in mezzo di color rosso e col motto d’intorno mostrato a Costantino In hoc signo vinces. (…) Oh, quanto critiche circostanze in cui eravamo oppressi e tiranneggiati da nemici interni ed esterni48!

Nella prospettiva dell’autore, il successo della controrivoluzione offriva una prova concreta del fatto che «non solamente le religioni monastiche, ma ancora i particolari religiosi e monaci» avevano posto le basi per recare «de’ gran vantaggi allo stato». Degli Onofri spiegava gli eventi della storia recente ricollocando l’operato della Chiesa e della monarchia in un itinerario provvidenziale. Il suo punto di vista era fondato su un’idea di società esattamente antitetica a quella proposta dal movimento riformatore: il clero e gli ordini religiosi dovevano recuperare un ruolo centrale nell’opera di assistenza ai ceti disagiati e alle fasce marginali della popolazione, ma soprattutto nella ricostruzione di una base di consenso politico-devozionale in grado di sostenere il potere regio nella difficile battaglia controrivoluzionaria. Attraverso l’artificiosa mitizzazione del regno di Carlo di Borbone e Maria Amalia di Sassonia, sovrani in grado di ‘riconoscere’ la santità di Gregorio Rocco e di Francesco Pepe fino ad affidare a loro il compito di salvaguardare il prestigio e la funzione coagulante della monarchia in un paese disgregato e afflitto da numerose piaghe sociali, si denunciava la fine di un’altrettanto mitica epoca di idillio fra i ministri della fede e le autorità laiche e si affermava la necessità di ricucire un’alleanza vincente contro il «fare dissoluto, immodesto, inverecondo», la «ruberia, la falsità, il genio feroce» dei ‘miscredenti’49. In seguito al semestre repubblicano, il governo borbonico, nella sua politica di riavvicinamento alla Chiesa, sposò integralmente le tesi dell’apologetica cattolica intransigente, secondo le quali le responsabilità della deflagrazione sovversiva erano da imputare, oltre che all’insubordinazione di una nobiltà dotata di eccessivi margini di influenza sul territorio, alla diffusione del «moderno sedizioso filosofismo» colpevole di aver minato il rispetto

 Degli Onofri, Elogi storici, pp. 378-379, 391-392.   Ibidem, pp. 269, 383.

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per la religione e le istituzioni50. I librai della capitale, sia pur con l’evidente scopo di declinare le loro responsabilità, presentarono il 14 settembre del 1799 un esposto alla Real Camera di S. Chiara, denunciando la circolazione incontrollata di «infetti libri» che diffondevano massime inosservanti del buon costume «ne’ cuori dell’incauta gente»51. Il clima di sospetto sempre più diffuso in seguito alla violenta repressione anti-giacobina, favorì la diffusione di numerosi scritti filo-monarchici nei quali finì sotto accusa la collaborazione tra intellettuali e potere che, sia pur a fasi alterne, si era affermata nel corso dei decenni precedenti. Il ritorno dei sovrani doveva accompagnarsi alla rivalutazione delle funzioni del ceto clericale e nonostante alcuni annosi motivi di contrasto con la Santa Sede non accennassero a trovare stabili soluzioni (Pio VII, nel luglio del 1800 chiese inutilmente la reintroduzione dell’omaggio della Chinea, mentre i programmi di riduzione dei vescovati e il dominio sulla città di Benevento restavano questioni aperte), la ristrutturazione dei tribunali portò i segni evidenti della reazione. Fu creata una nuova giunta ecclesiastica affidata al vescovo di Capaccio monsignor Torrusio, uno degli uomini di fiducia del cardinal Ruffo, e a Francesco Migliorini, che divenne anche titolare della Segreteria dell’Ecclesiastico, uno degli organi trainanti delle politiche anticurialiste, chiarendo, fin dal suo insediamento, di voler riparare agli incalcolabili danni che i ministri di Dio avevano sofferto negli ultimi quarant’anni dai nemici della monarchia e della religione. I tumulti sollevati dalla restaurazione delle amministrazioni comunali calabre furono sedati da vescovi e padri missionari, mentre processioni, celebrazioni di feste patronali e proclamazioni di nuovi santi protettori accompagnarono, nelle diverse province del Regno, il ritorno all’ordine preesistente52. Questi cambiamenti socio-politici, realizzatisi nel giro di pochissimi mesi, portarono le loro pesanti conseguenze anche sullo svolgersi della vita religiosa e sulla promozione di nuovi profili di santità. È importante notare come l’opera di Pietro Degli Onofri dedicasse pochissimo spazio ad alcuni 50   G. Scamolla, Sermoni morali, apologetici, polemici contro il moderno sedizioso filosofismo dell’abbate Giuseppe Scamolla, Chieti, Grandoni, 1800. Cfr. A.M. Rao, La prima restaurazione borbonica, in A.M. Rao - P. Villani, Napoli 1799-1815. Dalla Repubblica alla monarchia amministrativa, Napoli, Edizioni del Sole, 1994, pp. 154-163. 51  Archivio di Stato di Napoli, Real Camera di S. Chiara, Bozze di consulta, XV, 896. I librai, oltre a scagionarsi dalle responsabilità che potevano essere loro imputate per la circolazione di libri «infetti», miravano ad ottenere il monopolio del commercio dei testi a stampa attraverso la chiusura della «Piazza de’ negozianti librai», ma la loro domanda fu respinta. Cfr. Rao, La prima restaurazione borbonica, p. 156. 52  Cfr. ibidem, pp. 154-159.

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aspetti che l’agiografia aveva costantemente ritenuto centrali nelle vite dei candidati alla gloria degli altari, primo fra tutti il potere di operare guarigioni. L’autore attribuiva ai suoi servi di Dio la capacità di comunicare con i ceti più umili, di raggiungere i meandri più nascosti delle città alla ricerca di peccatori da convertire, di coadiuvare il potere regio nell’opera di disciplinamento dei sudditi. Il loro potere taumaturgico, oltre a guarire gli individui dalle infermità, era volto alla cura dei mali della società. Per queste ragioni la formulazione dei profili degli aspiranti santi non poteva prescindere da un’attenta osservazione delle scelte compiute, di volta in volta, dalle autorità laiche: col mutare delle strategie politiche anche le scale di valori in base alle quali si apprezzavano le gesta e le funzioni sociali dei paladini della fede subivano una metamorfosi. Lo stesso concetto di eroicità, pur essendo un’eredità del passato, non poteva essere considerato come una categoria stabile e immutabile, poiché subiva l’influenza del contesto di riferimento. I promotori dei nuovi culti proponevano, tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, un vistoso spostamento del baricentro delle rappresentazioni mentali della santità, puntando sulle doti socialmente operative dei loro eroi e mutuando, talvolta, i termini della proposta agiografica dal linguaggio controrivoluzionario. Questa produzione andrebbe letta, quindi, non solo come una semplice controffensiva alla diffusione del pensiero laico sviluppatasi sul filo dell’assimilazione dei concetti di modernità e decadenza, ma anche come il frutto di una cultura che, pur conservando un solido legame con una tradizione dottrinaria fortemente ipostatizzata, era capace di trasformarsi dall’interno, assorbendo strumenti comunicativi e strategie argomentative dell’universo illuminista. Gli schemi della storia sacra non potevano rimanere immuni agli esiti della ‘storia civile’ e, oltre a ricondurre nei tragitti disegnati dalla provvidenza l’apocalisse rivoluzionaria, dovevano necessariamente fare i conti con tanti altri momenti critici che avevano segnato le relazioni tra la Chiesa di Roma e il Regno nel corso del Settecento, dimostrando una volta di più che la ridefinizione delle identità religiose rimaneva inscindibile dall’evoluzione delle identità politiche. Se le gerarchie della società di antico regime rimanevano una fedele espressione della volontà divina, anche la felicità terrena continuava ad essere un’immagine speculare della felicità celeste.

Gregorio Piaia «Studio dell’uomo» e felicità privata e pubblica nelle prolusioni liceali di G.B. Zandonella (1808-1810)

Quale ricaduta sul piano scolastico-educativo – ovvero nella scuola pubblica sorta dalla Rivoluzione francese e poi riorganizzata da Napoleone – ebbe il tema della felicità pubblica e privata, così centrale nella cultura illuministica? Alcune indicazioni si potrebbero ricavare, ad esempio, da un esame delle prolusioni liceali, rivelative delle finalità culturali e ideologiche che il regime napoleonico assegnava al grado più alto della scuola pubblica, prima di accedere ai riformati corsi universitari. Ci limitiamo qui a un campione assai circoscritto di questa particolare sezione della ‘letteratura dei prefetti’, facendo riferimento al Liceo di Belluno, capoluogo del neonato Dipartimento della Piave, durante il breve periodo in cui il Veneto fu annesso al napoleonico Regno d’Italia in seguito alla pace di Presburgo (26 dicembre 1805). Istituito con il reale decreto del 25 luglio 1807, che estendeva a tutti i capoluoghi dei dipartimenti veneti il decreto del 14 marzo 1807, il nuovo Liceo della Piave iniziò la sua attività il 22 aprile 1808, subentrando alle scuole comunali, che a loro volta avevano sostituito il collegio dei gesuiti dopo la soppressione della Compagnia (1773). Esso ebbe breve durata, giacché con il ripristino della dominazione austriaca venne soppresso nel 1815 per ragioni di economia e solo con l’unione al Regno d’Italia la città di Belluno poté disporre nuovamente di un liceo statale, che fu intitolato al grande Tiziano Vecellio1.   Per notizie più dettagliate mi permetto di rinviare al mio contributo L’eredità dei “Lumi” al Liceo napoleonico di Belluno, in Educazione e ricerca storica. Saggi in onore di Francesco De Vivo, a cura di R. Finazzi Sartor, Padova, Alfasessanta, 1995, pp. 27-61, pp. 27-28. Per un inquadramento storico-istituzionale e culturale cfr. S. Bucci, La scuola italiana nell’’età napoleonica. Il sistema educativo e scolastico nel Regno d’Italia, Roma, Bulzoni, 1976; C. Salmini, L’istruzione pubblica dal Regno Italico all’Unità, in Storia della cultura veneta, VI: Dall’età napoleonica alla prima guerra mondiale, Vicenza, Neri Pozza, 1986, pp. 59-79; Vita religiosa e cultura in Lombardia e nel Veneto nell’età napoleonica, a cura di G. De Rosa e F. Agostini, Roma-Bari, Laterza, 1990; Venezia e le terre venete nel Regno Italico. Cultura e 1

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La traccia più rilevante lasciata dal primo liceo bellunese è rappresentata da una serie di opuscoli a stampa contenenti i discorsi d’inizio e fine anno, che, al di là dei toni retorici dovuti alle circostanze, presentano un progetto culturale decisamente innovativo. I testi in questione sono complessivamente sei e si riferiscono agli anni 1808-1811. Si tratta di quattro prolusioni e di due discorsi per il conferimento dei premi, di cui sono autori tre docenti del liceo bellunese: gli abati Giambattista Zandonella, Giuseppe Cabrusà e Giuseppe Grones2. Un comune filo conduttore passa attraverso questi discorsi: è il tema illuministico del progresso delle scienze e delle arti, collegato in maniera più o meno stretta al tema della «felicità» delle nazioni; ed è questa prospettiva, culturale ed insieme etico-politica, che costituisce il messaggio ripetutamente lanciato alla gioventù studiosa del Dipartimento della Piave, entro un contesto ideologico che mira all’esaltazione del regime e alla glorificazione del «genio» napoleonico. Su questa base comune i tre autori s’inseriscono ognuno con un proprio taglio specifico, più filosofico nello Zandonella e nel Grones, più retorico-politico nel Cabrusà. In effetti i due discorsi pronunciati all’inizio e alla fine dell’anno scolastico 1809-1810 dal veronese Giuseppe Cabrusà, professore di fisica e reggente, nonché uomo di lettere3, rientrerebbero maggiormente nello riforme in età napoleonica, a cura di G. Gullino e G. Ortalli, Venezia, Ist. Veneto di Scienze Lettere ed Arti, 2005; Stato, cultura e società durante il Regno Italico, 1805-1814, a cura di G.E. De Paoli e F. Zucca, Pavia, Gianni Iuculano, 2007. 2   Influenza dell’analisi dell’idee sui progressi dello spirito umano. Prolusione dell’Ab. Zandonella Giovanni Battista, Professore di analisi, e di filosofia morale nel Liceo di Belluno. Il Discorso sopra l’instituzione dei licei, recitato nella distribuzione de’ premi, Belluno, nella Tipografia Tissi, s. d. [1809], pp. 38 (il Discorso occupa le pp. 27-38); Dell’influenza delle scienze, e delle belle arti sulla felicità delle nazioni. Discorso pronunciato nell’apertura delle scuole il dì 15 novembre 1809 dall’Abb. Giuseppe Dr Cabrusà, Professore di Fisica, e Reggente del Liceo di Belluno, Belluno, Stamperia Tissi, s. d., pp. 18; Lo studio dell’ uomo base della privata e pubblica felicità. Prolusione alla filosofia morale dell’Abate Giovannni Battista Zandonella, Professore nel R. Liceo della Piave, recitata il 20 giugno 1810, Belluno, Tipografia Tissi, s. d., pp. xxxviii; Dell’influenza della protezione de’ governi sui progressi delle scienze e delle belle arti. Discorso pronunciato nella solenne distribuzione de’ premj fatta il dì 31 agosto 1810 dall’Ab. Giuseppe Dr Cabrusà, Professore di fisica e Reggente del Liceo di Belluno, Belluno, Tipografia Tissi, s. d., pp. 28; Le matematiche influiscono per se stesse allo sviluppo delle umane cognizioni. Prolusione recitata nell’’aula del R. Liceo di Belluno il giorno 8 giugno 1811 da Giuseppe Grones, PP d’elementi d’algebra e geometria, membro dell’Ateneo di Venezia, Belluno, Tipografia Dipartimentale, 1812, pp. 74. Cfr. A. Buzzati, Bibliografia Bellunese, Venezia, Tip. dell’Ancora, L. Merlo, 1890 (rist. anast. Belluno, Nuovi sentieri, 1983), nn. 702, 710, 721, 722, 734. 3   Il Cabrusà (1770-1836) aveva compiuto gli studi al seminario di Verona e si era laureato in ambo le leggi all’Università di Padova. Fu insegnante a S. Vito del Friuli e quindi a Belluno, ove rimase per alcuni anni anche dopo la soppressione del liceo. In seguito fu nominato par-

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standard dei discorsi inaugurali e premiativi, laddove le prolusioni dello Zandonella (e ancor più quella del Grones) richiamano piuttosto la struttura e l’impegno delle «memorie» accademiche. Nel primo discorso del Cabrusà, Dell’influenza delle scienze, e delle belle arti sulla felicità delle nazioni, con dedica al prefetto Alessandro Frosconi, l’influsso della cultura sullo sviluppo delle nazioni viene illustrato con una serie di esempi tratti dalla storia antica (sulla scorta delle Vite di Plutarco) e moderna, con riferimento alla Russia di Pietro il Grande e all’Inghilterra di Elisabetta I4. Passando dall’«autorità della storia» alla «voce della ragione», l’abate Cabrusà mostra come in una nazione ben governata l’estensione dei «lumi» (soprattutto delle scienze, con le loro applicazioni tecniche) comporti uno sviluppo della produzione manifatturiera e quindi delle esportazioni verso l’estero, ed auspica che anche l’Italia possa così porre fine al monopolio delle manifatture inglesi. Questo taglio politico si fa ancor più scoperto nelle pagine seguenti, in cui si esaltano le virtù militari dei francesi e dei loro «giovani generali», giacché una nazione prospera e civilizzata deve possedere «una forza capace di garantire la propria felicità». Dalla Francia il discorso si sposta all’Italia, rilevando i progressi compiuti grazie a Napoleone e replicando, fra le righe, a quanti avevano nostalgia per i tranquilli e «felici» tempi dell’antico regime (e dovevano essere stati in molti a Belluno, nel corso di quell’anno 1809, a rimpiangere il quieto vivere della Serenissima, turbati com’erano dagli affanni e dai costi materiali di una guerra in casa: le vicende della quinta coalizione interessarono infatti, sia pure marginalmente, anche il Dipartimento della Piave, che fra l’aprile e l’ottobre 1809 fu percorso ed occupato alternativamente da truppe austriache e napoleoniche, e minacciato per di più da incursioni delle bande tirolesi ed ampezzane collegate ad Andreas Hofer). Osserva in proposito il Cabrusà: «L’Italia credevasi, son già tre lustri, felice»; in realtà essa era divisa in numerosi Stati e «godeva di quella tranquillità,

roco a Pieve d’Alpago e quindi a Motta di Livenza, ove morì. Su di lui si veda l’Elogio funebre del fu reverendiss. Arciprete di Motta don Giuseppe dottor Cabrusà. Pronunziato nel giorno anniversario della di lui morte, il IV luglio 1837, da donn’Angelo Rizzi Arciprete in S. Donato di Piave, già Professore d’instruzione religiosa nello I. R. Liceo di Venezia (…), Treviso, Tip. Andreola, 1837, pp. 39, ricco di enfasi ma assai parco di notizie biografiche. 4  Cabrusà, Dell’influenza delle scienze, pp. 5-8. Il Cabrusà sembra qui riecheggiare il Discorso di Antonio Genovesi sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, ove il grande sviluppo culturale e politico della Francia e della Moscovia è ricondotto all’azione dei rispettivi sovrani Luigi XIV e Pietro il Grande (Illuministi italiani, vol. V, Riformatori napoletani, a cura di F. Venturi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1962, pp. 99-100). Naturalmente la Francia del Re Sole, ossia dell’ancien régime, non era più proponibile come modello: di qui il richiamo all’Inghilterra di Elisabetta I quale esempio di governo autocratico ed illuminato.

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che è l’effetto della debolezza, anziché la conseguenza della vera prosperità». Privi di un mecenate, i suoi ingegni erano costretti ad emigrare, mentre nei «collegi», cui era affidata l’istruzione secondaria, ci si limitava sovente all’«educazione sociale» – ossia, per dirla col Parini, all’educazione del «giovin signore» – e dominava la «letteraria anarchia». In molte città, come a Belluno, le arti e le scienze languivano, ad onta dei grandi esempi del passato, e mancavano adeguate istituzioni scolastiche. Era inevitabile, data la situazione, che le armate francesi non trovassero resistenza, ma fortuna volle «che nel Vincitore medesimo trovammo il Padre». Ed ecco che, per eliminare «sì fatali disordini», Napoleone istituisce i licei e le scuole distrettuali, cantonali e comunali ad essi subordinate, mirando a che «il possidente più ricco, ed il villico più cencioso abbiano in pronto gli stessi mezzi per erudirsi»5. Questo abile discorso di propaganda ideologica, inteso a normalizzare gli animi dei giovani alunni dopo i trambusti bellici e a ricaricarli di forti motivazioni, prosegue ponendo l’accento ora sulle opere di sviluppo civile ora sulla preparazione alla guerra, secondo uno schema ideologico che, elaborato da Napoleone, sarebbe poi servito da modello culturale ed educativo anche al regime fascista. Alla celebrazione dei progressi conseguiti negli ultimi anni dal Regno Italico nel campo scientifico e tecnologico si accompagna così il fermo invito all’addestramento militare, diretto a ogni alunno che non abbia «nella sua fisica costituzione la natura a madrigna»; infatti «vuol Napoleone che a lui debba la sua felicità e la sua sicurezza l’Italia, esigendone i popoli e nelle scienze eruditi e addestrati nelle armi»6. L’immagine di una «Italia felice» e avviata a recuperare l’antico splendore, con cui si chiude questo discorso inaugurale, ritorna nel discorso Dell’influenza della protezione de’ governi sui progressi delle scienze e delle belle arti, pronunciato dallo stesso Cabrusà, nella sua veste di reggente, alla fine di quell’anno scolastico 1809-1810 in occasione della «solenne distribuzione de’ premi». Dedicato ad Augusto Agosti, podestà di Belluno, questo discorso fa da pendant al precedente, con il consueto corredo di grandi esempi storici e di sperticati elogi al «Genio immortale e maraviglioso» di Napoleone. Quanto alla lunga ed impegnativa prolusione dell’abate Giuseppe Grones7, che è dedicata al nuovo prefetto Francesco Ferri e che dovette

 Cabrusà, Dell’influenza delle scienze, p. 14.   Ibidem, p. 16. Sulla disciplina militaresca che vigeva nei licei cfr. Bucci, La scuola italiana nell’età napoleonica, pp. 51-61. 7  Nato a Venezia nel 1780, dopo aver insegnato elementi di algebra e geometria al Liceo bellunese il Grones sarebbe stato trasferito all’I.R. Liceo-convitto “Santa Caterina” di Venezia quale docente di matematica, ed a Venezia morì il 2 giugno 1838. Esperto di pro5 6

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mettere a dura prova le capacità di resistenza dei giovani auditori, essa accenna dapprima ai vantaggi che le discipline matematiche apportano alle professioni, alle tecniche e alle scienze (dall’astronomia all’idraulica, dall’architettura alla chimica), per poi soffermarsi su un vantaggio meno palese dei precedenti, ma di grande rilevanza sul piano formativo. Esso consiste nella capacità di «aggiustare l’intelletto», per cui «le matematiche, rendendo l’uomo severo analista, lo dirigono, senz’accorgersi, nel luminoso sentiero del vero». Un risultato – precisa l’autore sulla scorta della psicologia di Charles Bonnet – che è accessibile solo a quanti dispongono di buone doti intellettuali, ed è invece precluso a coloro «ai quali fu avara Natura nel conferire i sui doni»; e questo perché «ne’ primi le matematiche assecondano le disposizioni che hanno le fibre del cerebro d’essere regolarmente mosse, dal cui successivo e regolare movimento (secondo il profondo Bonnet) risulta che vengono portate all’anima le idee e le nozioni relative a’ loro archetipi, nel che la verità appunto consiste; laddove ne’ secondi, dovendo esse reagire alla naturale irregolarità di movimento delle fibre medesime, devono agire contro natura»8. Lo sviluppo della capacità di analisi (con una lunga digressione sull’analisi infinitesimale) è dunque è al centro della prolusione del Grones: è lo stesso tema che tre anni addietro l’abate Giambattista Zandonella aveva trattato in una prospettiva multidisciplinare e meno “tecnica”, in un’ottica più direttamente ispirata alla «privata e pubblica felicità». Lo Zandonella (1767-1836) era nativo di Dosoledo in Comelico, all’estremità settentrionale del Dipartimento della Piave, e avrebbe poi insegnato storia ecclesiastica alla Facoltà teologica dell’Università di Padova dal 1815 sino alla morte,

blemi idraulici, matematico e filosofo, già nel 1810 aveva pubblicato a Venezia un volume di Ricerche metafisico-matematiche sulla lingua del calcolo, in cui è ripreso e proseguito il ‘quadro’ abbozzato dal Condillac nell’opera La langue des calculs (1798). Più avanti compose un Saggio di filosofia teoretica (Venezia, Alvisopoli, 1828), ch’ebbe l’onore di essere recensito, con valutazioni contrastanti, dal Tommaseo e dal Romagnosi. Al pari dello Zandonella, il Grones viene collocato da Eugenio Garin entro la fitta schiera dei «ben morti e ben modesti operai della cultura» che caratterizza il panorama filosofico italiano del primo Ottocento (E. Garin, Storia della filosofia italiana, Torino, Einaudi, 1978, p. 1060). Su di lui si veda pure G. Berti, Censura e circolazione delle idee nel Veneto della Restaurazione, Venezia, Deputazione di storia patria per le Venezie, 1989, pp. 427-428. 8   Grones, Le matematiche, p. 8. Sul rapporto tra le fibre cerebrali e i processi intellettivi si era soffermato anche l’abate Jacopo Pellizzari nel suo Saggio d’un piano di educazione (Venezia 1778), ove si sottolinea in particolare l’influenza che un buon insegnamento delle matematiche ha «per la pubblica e privata felicità»; cfr. I. Tolomio, Jacopo Pellizzari (17321817) abate illuminista, «Critica storica», XVIII ( 1981), pp. 637-641, p. 652.

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avendo tra i suoi allievi il giovane Antonio Rosmini9. Nel primo dei suoi tre discorsi, Influenza dell’analisi delle idee sui progressi dello spirito umano, egli affronta il tema in veste di docente di «analisi» (oltre che di filosofia morale), in linea con la riforma introdotta sin dai tempi del Direttorio, quando nelle istituzioni culturali e nei programmi scolastici la tradizionale filosofia a sfondo metafisico era stata sostituita con l’«analyse des sensations et des idées», detta anche logique, allo scopo di adeguarsi alle istanze di rigore gnoseologico e metodologico largamente diffuse dal Condillac e poi riprese e sistematizzate dagli Idéologues10. D’altro canto in Italia il Condillac aveva già trovato un abile divulgatore nel padre Francesco Soave, i cui fortunatissimi manuali tennero a lungo banco, com’è noto, nelle scuole e negli stessi seminari ecclesiastici. Lo Zandonella offre così nel suo discorso un sintetico tableau della cultura illuministica, che prende avvio dai moderni fondatori del metodo dell’analisi delle idee (da Bacone e Locke a Condillac, Charles Bonnet e d’Alembert) per poi rilevare gli effetti positivi che tale metodo ha portato nel campo della riflessione politica (con Machiavelli, Montesquieu, Beccaria e Filangieri), dell’economia (con Galiani, Hume, Adam Smith, Pietro Verri), della storiografia (con Voltaire, Robertson, Hume, Denina e Condillac), del diritto (con Grozio, Pufendorf e lo svizzero Emmer de Vattel, uno dei fondatori del diritto pubblico internazionale). L’influsso del metodo analitico sui «principi del gusto», ossia sull’estetica, si avverte poi in Charles Batteux e quindi in Condillac, nello scozzese Hugh Blair (autore di un celebre corso di retorica, apparso nel 1783 e tradotto dal Soave nel 1808), nel padre Pierre Brumoy, che pubblicò Le théâtre des Grecs (1730). A costoro lo Zandonella aggiunge, per i loro studi sull’arte pittorica, l’artista boemo Anton Raphael Mengs e il Winckelmann, nonché gli italiani Luigi Lanzi,

9  Cfr. A. Gambasin, Giambattista Zandonella e la cattedra di storia della Chiesa all’Università di Padova (1815-1836), «Archivio Veneto», s. V, vol. CXXIV (1985), pp. 39-74 (in part. p. 44, ove si precisa che la nomina a professore presso il liceo della Piave è datata 9 gennaio 1808; in precedenza lo Zandonella, che aveva studiato al seminario di Udine e si era laureato in ambo le leggi a Padova nel 1801, aveva insegnato filosofia e quindi dogmatica al seminario di Ceneda); Berti, Censura e circolazione delle idee, pp. 102, 429, 430, 441, 498, 500. Cfr. inoltre il nostro lavoro In margine alla formazione padovana del Rosmini: l’abate G.B. Zandonella, in Id., Le vie dell’innovazione filosofica nel Veneto moderno (1700-1866), Padova, CLEUP, 2011, pp. 207-227. 10  Cfr. S. Moravia, Il pensiero degli idéologues. Scienza e filosofia in Francia (1780-1815), Firenze, La Nuova Italia, 1974, p. 311; Bucci, La scuola italiana nell’età napoleonica, p. 24; A. Canivez, Dalla lectio alla scuola liberale: prospetto dell’insegnamento della filosofia in Francia, in Il corpo insegnante e la filosofia, a cura di G. Dalmasso, Milano, Jaca Book, 1980, pp. 103-135, in part. pp. 122-125.

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autore della Storia pittorica dell’Italia (1795-1796), e Francesco Algarotti, il celebre autore del Newtonianismo per le dame, che compose anche delle Lettere sulla pittura11. Pubblicato di seguito all’Influenza dell’analisi dell’idee, il Discorso sopra l’instituzione dei Licei presenta un’angolatura diversa. L’attenzione viene ora concentrata sulla politica culturale e scolastica di Napoleone, emulo degli antichi legislatori ed educatori (Licurgo, Solone, Pitagora) e nemico dichiarato della «tenace nebbia dell’ignoranza» che per secoli ha oppresso i popoli. Ben consapevole del ruolo sociale che il regime napoleonico riconosce agl’intellettuali, lo Zandonella rileva che alla base di questo «profondo, ed esteso sistema di educazione» v’è il riconoscimento dei «diritti dell’uomo», del principio di eguaglianza e del principio, non meno importante, del merito: difatti è solo con Napoleone, «giusto aprezzatore dei talenti», che anche i cultori delle lettere, delle scienze e delle arti sono «egualmente onorati» e posti sullo stesso piano di militari, magistrati e sacerdoti. V’è un altro presupposto alla politica educativa di Napoleone: la convinzione, ereditata anch’essa dall’Illuminismo, «che la felicità non è se non la ragione cui serve come condottiera la luce della sapienza». Questo tema è sviluppato dallo Zandonella in un’ampia nota, in cui si proclama con forza il nesso felicità-verità e si sottolineano i benèfici effetti dell’incivilimento, con una critica finale alle posizioni roussoiane: «Quanto dunque non erra Rousseau nel sostenere che le arti, e le scienze abbiano confluito alla infelicità degli uomini?»12. Di qui il progetto d’istruzione con i suoi diversi livelli, dai «primi passi» (in particolare è l’aritmetica che «sviluppa la ragione del popolo, egli calcola da per se stesso i suoi interessi, e così si sottrae alla cupidigia degli scaltri raggiratori, ed agli artifizi del prepotente padrone») alle scuole secondarie; infatti, «lasciato il giovine a se stesso sarebbe nutrito con assurdi, e fastidiosi metodi i quali per tanto tempo infestarono le tenere menti rendendole incapaci di più aprirsi a quelle luminose, e concatenate idee, che forman le pensatrici teste». Ed ecco, allora, l’istituzione dei licei, grazie alla quale «le scienze alla fine divengono nostre concittadine, e benefiche educatrici»13. Ai temi di filosofia morale e politica è consacrata l’altra prolusione dello Zandonella, Lo studio dell’uomo base della privata e pubblica felicità. La prolusione si apre con un excursus storico che riprende una prospettiva cara alla storiografia ‘critica’ delle Lumières. Alla condanna in blocco dei «vaneg  Zandonella, Influenza dell’analisi dell’ idee, pp. 12-21.   Zandonella, Discorso sopra l’instituzione dei licei, pp. 28-29. 13   Ibidem, pp. 30-31. 11 12

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gianti» sistemi metafisici ideati dagli antichi Greci si contrappone infatti il riconoscimento del loro perenne primato nel campo della riflessione etica: «Tra la folla degli imponenti delirj della immaginosa, e colta Grecia chi non riconosce gli essenziali servigj resi al genere umano dai cultori della Morale Filosofia, la quale stabilì l’eterne basi su cui si appoggiano tutte le istituzioni della veneranda antichità, e de’ moderni legislatori?»14. Come in un’ideale galleria, sfilano così i grandi maestri di moralità, da Licurgo e Solone a Socrate, Platone, Aristotele, Zenone lo stoico, sino a Marco Aurelio. L’età medievale, «involta nelle tenaci nebbie dell’ignoranza», è saltata a piè pari, com’era consuetudine in tanta storiografia illuministica, visceralmente critica nei riguardi del pensiero scolastico. È in Italia che, dopo il secolo di Dante, Petrarca e Boccaccio, furono ripresi gli studi di filosofia morale, applicati all’«arte sì malagevole di governare i popoli»; fu infatti Machiavelli che, mettendo a frutto la sua esperienza politica e le sue riflessioni sull’antica Roma, «ideò efficaci leggi, onde richiamare l’Italia stracciata dalle fazioni, e fluttuante tra le diverse forme di governo, ad una indipendente, e felice esistenza». Lo Zandonella presenta quindi, con grandi elogi, quattro autori italiani del Settecento: il «profondo» Vico, Antonio Genovesi, il bolognese Francesco Maria Zanotti (che nel 1754 aveva pubblicato la Filosofia morale secondo l’opinione de’ Peripatetici) e il friulano Jacopo Stellini, professore di etica all’Università di Padova, del quale è apprezzato l’uso del metodo analitico; manca invece ogni riferimento alla Filosofia morale del Muratori15. Corroborato da questo quadro storico, il quale «dimostra ad evidenza la somma utilità, che deriva dall’intima cognizione dell’uomo considerato ne’ suoi molteplici aspetti», il nostro professore affronta il tema centrale della prolusione. È il tema della «scienza dell’uomo», già espresso nel precetto delfico Nosce te ipsum e che viene ora riproposto con le parole di Alexander

  Zandonella, Lo studio dell’uomo, p. v.   Zandonella, Lo studio dell’uomo, pp. ix-xi. Del Vico, in particolare, lo Zandonella nota che «con una vasta erudizione penetrando nella notte dei secoli vide le origini delle divine, ed umane cose dalla Gentilità ricercate, e discoperte nella Sapienza Poetica. Trovò ne’ due poemi di Omero il Diritto Naturale della Grecia, e nelle leggi delle dodici tavole il diritto naturale del Lazio. Con non interrotto ordine di cagioni ed effetti osservò, che le Nazioni procedono con costante uniformità in tutti i loro varj, e sì diversi costumi, e da ciò deduce tre spezie di naturali diritti» (Zandonella, Lo studio dell’uomo, p. x). Sulla presenza del Vico nella cultura veneta del tempo cfr. P. Zambelli, Un episodio della fortuna settecentesca di Vico: Giacomo Stellini, in Omaggio a Vico, Napoli, Morano, 1968, pp. 365-415; G. Santinello, Vico e Padova nel secondo Settecento (Sibiliato, Gardin, Colle, Cesarotti), in Id., Tradizione e dissenso nella filosofia veneta fra Rinascimento e modernità, Padova, Antenore, 1991, pp. 200-213. 14 15

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Pope, nel cui celebre Essay on Man (1733) avevano trovato espressione poetica alcuni temi caratteristici della cultura settecentesca: «Non è da porre in dubbio, che lo studio proprio dell’uomo sia l’uomo misto di lume, e di oscurità, di grandezza, e di bassezza, come osserva Pope, caos di ragionamento, e di passioni, creato in parte per innalzarsi, ed in parte per cadere; ma più grande per la sua ragione di tutto ciò, che abbaglia la nostra vista nell’universo, di cui egli è il più risplendente ornamento»16. Lo «studio dell’uomo» nella sua duplice dimensione, etica e politica, è dunque «la base della privata, e pubblica felicità». Ma che cos’è la felicità? Di fronte alle diverse concezioni espresse dagli antichi filosofi (cirenaici e stoici, platonici e peripatetici) lo Zandonella adotta un atteggiamento eclettico, volto a «cogliere dalle scuole il meglio per comporre la nozione della felicità»; la quale è fatta consistere «in una costante, e piacevole contentezza di animo, e nel soddisfacimento dei nostri desideri conforme all’ordine stabilito dall’Autore supremo». I mezzi per conseguirla sono «la continua direzione delle nostre facoltà, onde la nostra macchina [ossia il corpo, concepito meccanicisticamente] divenga vigorosa, agile, e pronta; lo sviluppo dell’essere pensante ad oggetto principalmente di conoscere i doveri, ed i diritti dell’uomo; l’esercizio di tutti quegli affetti, che stringono i socievoli nodi», dando cosi origine alla vita associata. In tale prospettiva è dato spazio anche alla dimensione religiosa; infatti la felicità «non può essere disgiunta dall’idea di una vita futura, di cui siamo convinti dal sentimento e dalla ragione, e la prospettiva della immortalità serve di eccitamento possente a sostenerci nel costante esercizio di tutti i doveri»17.

  Zandonella, Lo studio dell’uomo, p. xii. Cfr. Saggio sopra l’uomo, di Alessandro Pope. Tradotto dall’originale inglese in prosa italiana, Venezia, stamperia Graziosi, 1788, p. 31 (Lettera seconda): «Lo studio proprio dell’uomo è l’uomo. Egli collocato in una specie d’istmo, ente di uno stato misto, oscuramente illuminato, grossolanamente grande, (…) caos di raziocinio e di passioni, (…) creato in parte per sollevarsi, in parte per cadere». Per qualche raffronto sul tema dello «studio dell’uomo» (con il rituale richiamo al precetto delfico Nosce te ipsum) cfr., ad es., L.A. Muratori, La filosofia morale, e altri scritti etici inediti ed editi, a cura di P.G. Nonis, Roma, Edizioni Paoline, 1964, p. 11 e segg. (cap. I: «Utilità e necessità dello studio dell’uomo»); F. Soave, Istituzioni di logica, metafisica ed etica, Milano, G. Marelli, vol. IV, «Prefazione», p.n.n.: «La scienza dell’uomo, che tale sopra le altre a buon diritto è chiamata quella, che tutta aggirasi intorno a lui solo, che l’ammaestra a conoscer se stesso, che l’istruisce ne’ suoi doveri». 17   Zandonella, Lo studio dell’uomo, p. xiii. Sulla felicità quale obiettivo primo dell’etica si veda, ad esempio, Jacobi Stellini Opera omnia, Patavii, Joh. B. Penada, 1778-1779, vol. I, p. vii («Egli è manifesto che l’unico fine della morale non è che l’acquisto dell’umana felicità naturale»); Id., Scritti filosofici, a cura di P.A. Rocco, Milano, Bocca, 1942, p. 185. 16

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Il presupposto per raggiungere la felicità è costituito dal riconoscimento del valore e, ad un tempo, dei limiti della nostra umana condizione. Nell’affacciarsi al pieno uso delle sue facoltà, l’uomo ha innanzitutto il dovere «di conoscere qual sia la sua natura, e il posto assegnatogli da Dio nell’immensa catena degli esseri, ed i rapporti con tutti gli oggetti, che lo circondano. Quanti fatali sistemi non trassero l’origine dalla ignoranza delle qualità, e confini all’uomo stabiliti!». Qui lo Zandonella riprende con vigore l’idea della grande catena dell’essere e la conseguente etica della medietas, quale via media fra l’antropologia materialistica di Lucrezio o di Helvétius e l’eccessiva esaltazione dell’uomo compiuta da taluni filosofi. Ed è per questa via che «impariamo a conoscerci, ed evitando gli scopi della temeraria baldanza, e della tremante pusillanimità ci manterremo nel posto dalla Natura fissato, e quindi useremo i mezzi relativi, ed idonei all’acquisto di una maggior perfezione»18. Fissate così le premesse, lo Zandonella traccia la via alla felicità, che con rigorosa graduazione passa attraverso l’esercizio fisico (atto ad evitare l’innaturale «mollezza» e le malattie del corpo), il saggio e calcolato uso della «sensibilità» (contro ogni eccesso voluttuoso) e l’esercizio della ragione, di cui è ribadito il valore, in larvata polemica con Rousseau; ed è interessante, in tale contesto intriso di idealità illuministiche, il richiamo alla conoscenza storica nella sua duplice funzione, confutatoria ed esemplare: Si vanti pure la felicità della ignoranza, si preferisca per amor di sistema la selvaggia vita alla colta, la storia delineandoci con veri colori lo stato della società ne’ varj tempj della sua esistenza abbatte queste scientifiche chimere, e possentemente ci chiama a coltivare la ragione, senza di cui andiamo obbliqui, e traviati, e non ravvisiamo la verità sovente nascosta, e mista coll’errore sotto ingannevoli sembianze. L’Istoria c’invita in modo particolare allo studio dell’Etica scienza, che abbracciava ne’ migliori tempi la Politica, e la pubblica Economia, e ci offre l’esempio dei primi Filosofi, che furono Legislatori, e nel mentre stesso i Padri, i Sacerdoti, e gl’Istruttori delle Nazioni19.

Questo interesse civile sembra ispirato direttamente dal Genovesi, di cui lo Zandonella riecheggia (senza per altro menzionarlo) un passo del Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, pubblicato nel 175320. Di qui l’esortazione a sottrarre la filosofia morale alle «sottigliezze delle scuole» e   Zandonella, Lo studio dell’uomo, pp. xiii-xiv.   Ibidem, p. xvii. 20   «La prima e la più antica filosofia delle nazioni non fu che etica, economica, politica. I primi filosofi furono in un tempo istesso i legislatori, i padri, i catechisti, i sacerdoti delle nazioni» (Illuministi italiani, p. 91). Va rilevato che queste osservazioni del Genovesi costituivano un topos assai diffuso nella storiografia illuministica. 18 19

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alle «frivole dispute», per trasferirla «nel teatro della vita ad essere maestra de’ costumi», giacché il buon abate Zandonella è fermamente convinto che «al filosofo, che medita sulla natura dell’uomo, e sopra i suoi diritti e doveri, la verità fra lo strepito degli errori schiude un vastissimo campo tutto luce, tutto evidenza, tutto utilità». Dall’analisi dell’umana natura è così possibile «attingere l’idea dei primitivi diritti dell’uomo; diritti cioè alla sussistenza, alla maggior perfezione dell’essere suo, diritti all’onore, alla libertà, alla difesa, al governo di se stesso, diritto di affidarlo con equi patti a straniera mano, e di rivocarlo se per romperli della forza abusa». Con quella rigorosa chiarezza di cui era stato maestro il Condillac, il nostro autore trae poi le conseguenze sociali di questa dichiarazione degli umani diritti, appellandosi all’idea della grande catena dell’essere per conferire alle sue conclusioni la forza di una legge di natura: «Dagli effetti rimontando ai princìpi, con sicura analogia deduce esistere ne’ suoi simili un essere pensante, quindi i medesimi diritti, gl’istessi positivi e negativi doveri. Queste luminose, e semplici idee direttrici costanti in tutte le situazioni sì varie presentano una retta, ed immutabile legge, che incatena tutti gli esseri, avvicina i cittadini, e formano di tutto un popolo una sola famiglia; legge da cui dipende l’equilibrio, e la pace dell’universo»21. Procedendo nella sua analisi dell’uomo, lo Zandonella accenna all’amor proprio, «possente molla» del nostro comportamento, e al suo correttivo, «il sentimento di simpatia», che è fonte di reciproco piacere; ed ecco la rassegna dei vizi (l’orgoglio, l’amore per il potere, la brama di ricchezze, l’ambizione, «gl’innumerevoli mali della intemperanza, del giuoco e della inclinazione al delicato sesso», l’ira, l’odio e l’invidia), ai quali sono contrapposte la benevolenza e la «sacra e venerabile amicizia, nome sì profanato nei secoli di lusso e di corruzione». Lo Zandonella ricorre qui esplicitamente alla Théorie des sentiments agréables (1736) di Louis-Jean Lévesque de Pouilly, che contiene un’accurata descrizione delle facoltà e dei sentimenti ed elabora una teoria del piacere fondata sulla pratica dei doveri e sulle gioie dello spirito, le uniche in grado di assicurare un’esistenza tranquilla e felice22. Nella seconda parte della prolusione l’analisi si sposta sulla «pubblica felicità», altro cavallo di battaglia della cultura settecentesca. Con sintesi rapida e non priva di efficacia, lo Zandonella prende l’avvio dalla ben nota sentenza di Platone sui governanti-filosofi, riletta in chiave illuministica, per poi ribadire – contro Rousseau e Hobbes e sulla scia di Montesquieu – che

  Zandonella, Lo studio dell’uomo, p. xviii.   Ibidem, pp. xix-xxvi.

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la vita in società è connaturata all’uomo. Ed è indagando la natura umana che il filosofo, «ministro della ragione», trova «scolpiti» quei sentimenti ed affetti (dalla «tenerezza paterna» all’«orror della solitudine» e all’«amor del mutuo commercio») che sono alla base della vita sociale e fanno fronte alla sequela di guerre, discordie e ingiustizie «che ad ogni passo egli è astretto a divorare in silenzio». Da tali princìpi il filosofo deduce gli «indelebili diritti dell’uomo» (tra cui l’eguaglianza), ignorati dai legislatori e filosofi dell’antica Grecia, i quali approvarono la schiavitù e considerarono leciti comportamenti inumani e barbari. Rovesciando la prospettiva iniziale, che vedeva negli antichi sapienti i maestri di moralità, lo Zandonella contrappone così al passato l’età presente, esaltando in Napoleone colui che seppe assicurare a tutti i cittadini la giusta eguaglianza e dignità, eliminando nel contempo gli eccessi della rivoluzione. È una pagina che vale la pena di riportare per esteso, dato il suo carattere esemplare sotto più aspetti: per il culto della personalità di cui è oggetto Napoleone, per il ruolo sociale e ideologico attribuito alla filosofia, ma soprattutto per il rilievo che viene dato all’introduzione del Codice napoleonico; un rilievo che denota non solo lo spirito di propaganda (di cui la scuola liceale, diretta a formare la futura classe dirigente, era veicolo privilegiato) ma anche la consapevolezza della grande portata economico-sociale di un corpus legislativo che incideva a fondo sull’immobilismo della società veneta e in particolare bellunese, aprendo grandi prospettive ai nuovi ceti emergenti: Da questa scena d’orrore volgiamo lo sguardo a quest’epoca avventurata in cui la Filosofia è moderatrice non meno dei pubblici affari che delle leggi, all’epoca di Napoleone destinato a rivendicare i diritti dell’uomo dalle cieche, ed assurde instituzioni. Dotato Napoleone d’uno sguardo penetratore fino dal principio della sua carriera militare e civile, studia l’uomo nella Storia, e più utilmente in mezzo dei campi, e nel vortice di una popolosa Capitale sconvolta fino alle fondamenta da una rivoluzione, in cui agirono le furie avide di sangue, il cupo artifizio, ed il nero tradimento. (…) Tra il tumulto, ed il fragore delle armi, tra le molteplici e gravi negoziazioni qual fu la prima cura dell’animo generoso di Napoleone? Intollerante delle disordinate leggi, partendo dalla luminosa idea, che ogni saggio governo dee egualmente proteggere e legare tutti i cittadini, sostiene non la chimerica eguaglianza metafisica, che confonde le fortune, gli onori, e le condizioni; ma nel breve codice dettato dall’equità imperiosamente vi fa dominare la morale eguaglianza, senza di cui una parte dei membri opprime l’altra, vi trionfa il dispotismo, e la società si annienta. Per lui, delle scienze e delle arti ristauratore supremo, il suddito vede la dottrina riprendere i suoi diritti, aperta la via degli onori e del comando a qualunque sorta di utili ingegni, ed alle eminenti virtù. Dal Codice sono abrogate le odiose ereditarie distinzioni, per cui gli uni vuoti di merito orgogliosi procedevano, e gli altri ne soffrivano l’umiliante spettacolo. Al lavorator nelle officine, nei campi,

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al commerciante ora pure appartiene il possesso della terra, un dì eternamente fissato dalle barbare leggi del feudalismo agli esseri inutili, insultanti nel lusso ed in una vile inerzia l’industrioso cittadino. Agli occhi della imparziale legge la vita e l’onore dei sudditi è egualmente stimata, e le prepotenti ricchezze non osano più modificare e sospendere le severe pene (…)23.

Parrebbe, a questo punto, che con l’apoteosi del Codice napoleonico il discorso sulla «morale filosofia» fosse giunto a conclusione. Esso viene invece articolandosi e problematizzandosi ulteriormente, giacché lo Zandonella rileva che l’appoggio fornito alle leggi «dalla pubblica potenza, e dai vigili magistrati» non è sufficiente a «reggere agli urti incessanti delle indisciplinate passioni», a meno che le leggi non siano sorrette dai buoni costumi, secondo il detto oraziano Quid leges sine moribus? Vane proficiunt. Ritornano allora, e questa volta in positivo, gli exempla dell’antichità: l’Egitto, Sparta e l’antica Roma fondarono la loro potenza sull’onestà dei costumi, che «guastò il cuore dei Romani», come rilevò Montesquieu. Ma non è certo il modello spartano, nella moderna versione presentata da Rousseau, che lo Zandonella vuole proporre ad una società in espansione qual è quella napoleonica. In linea con le sue premesse teoriche, egli osserva che un «legislatore guidato dai luminosi, ed immutabili princìpi della natura» non «bandirà il lusso», non «confinerà i bisogni al semplice necessario» e tanto meno «cambierà i secoli di civilizzazione in quelli di rozzezza», poiché «il tentar una tal opera sarebbe un non conoscere le generali inclinazioni dell’uomo, ed un lottare invano contro la naturale progressione della società»24. Da buon educatore, fiducioso nella propagazione dei lumi e fedele esecutore della politica scolastica di Napoleone, lo Zandonella affida il compito di riformare i costumi della nazione al sistema educativo pubblico, che con la sua uniformità di princìpi, d’insegnamenti e di metodi è l’unico in grado di far progredire la mentalità e quindi i costumi dell’intero corpo sociale: Il Legislatore esercitando il pubblico diritto toglie l’educazione dalle mani private, e la modella sulla constituzione del Governo, unico mezzo come osserva Aristotele di ritenerlo fermo contro l’umane vicissitudini. Pochi, e sodi principi regolatori de’ sentimenti, e delle maniere all’unisono con le leggi producono felici conseguenze;

  Zandonella, Lo studio dell’uomo, pp. xxvii-xxix.   Zandonella, Lo studio dell’uomo, p. xxx. Il dibattito sul lusso fu, com’è noto, uno dei temi più diffusi nella pubblicistica del XVIII secolo. Si veda, ad esempio, l’apologia del «lusso moderato, o sia d’una certa proprietà di vivere delle nazioni ingentilite», svolta dal Genovesi nel cap. x della parte I delle Lezioni di commercio o sia d’economia civile, pubblicate nel 1765-1767 (cfr. Illuministi italiani, pp. 177-208; G. Barbini, Il lusso. La civilizzazione in un dibattito del XVIII secolo, Padova, CLEUP, 2009, pp. 268-276). 23 24

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quindi il Legislatore dirigge [sic] lo spirito umano, e lo richiama dalle vane speculazioni agli oggetti, che direttamente influiscono sulle prosperità de’ popoli. Lungamente addimesticati i giovani con le scienze, allora sorgerà una generazione di teste pensanti, per usar l’espressione del Genovesi, e non di memoranti, le quali lasciano sussistere tutti gli antichi errori contrarj ai princìpi della vita politica. Queste uniformi, e luminose idee sparse nella massa del popolo formeranno la stessa maniera di pensare, di sentire, di passionarsi, e quindi sorgerà il carattere delle nazioni, e si svilupperà tutta la forza fisica, e morale dello Stato25.

Il richiamo al Genovesi e alla contrapposizione fra «teste pensanti» e «memoranti», tipica della tradizione sperimentalistica italiana (si pensi alla contrapposizione tra «filosofi» e «dottori di memoria» nel Dialogo dei massimi sistemi) è una spia significativa del retroterra culturale del nostro autore. Per altro verso sarebbe interessante un confronto con le tesi sull’istruzione pubblica elaborate dal Filangieri nel quarto libro de La scienza della legislazione (1780-1785) e dal Condorcet nel suo celebre Rapport e nell’ultima parte dell’Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain. È da notare, tuttavia, che lo Zandonella è assai lontano dal Condorcet per il ruolo positivo che egli attribuisce alla religione nella riforma dei costumi. Neppure l’educazione meglio ordinata è infatti sufficiente a tenere a bada le umane passioni e «i loro eterni conflitti, e trionfi sulla ragione». In polemica con quanti, durante la Rivoluzione, avevano tentato di sostituire al cristianesimo il culto filosofico dell’astratta ragione, lo Zandonella ribadisce l’indispensabile funzione politico-sociale della religione, soprattutto nei riguardi delle classi più misere, esposte alle tentazioni della rivolta sociale26. Di qui l’esaltazione del cristianesimo, la cui «sublime morale» unita a un «energico, e semplice linguaggio», accessibile a tutti, ha persuaso – a detta dell’autore – anche il genio di Napoleone, che «nel silenzio delle passioni fissa estatico lo sguardo nel sacro codice, e resta convinto, che umana saggezza non può architettare un sì perfetto piano». Le preoccupazioni apologetiche dell’abate Zandonella vengono così a coniugarsi con la politica di pacificazione con la Chiesa cattolica sancita dal Concordato del 1801: il codice napoleonico e il «sacro codice» della Scrittura sono i due pilastri sui quali deve fondarsi una società ordinata e aperta al progresso. Ed è interessante notare come, al di là dei cambiamenti di regime politico e ideologico, questa sensibilità per gli effetti sociali e ‘progressisti’ della religione cristia-

  Zandonella, Lo studio dell’uomo, p. xxxi. Cfr. A. Genovesi, La logica per gli giovanetti, Bassano, Remondini, 1774, p. xii, ove si proclama con forza: «Le scuole debbono servire a far teste per la repubblica, non pedanti, né disputanti per gli caffè». 26   Zandonella, Lo studio dell’uomo, pp. xxxii-xxxiii. 25

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na rappresenti – al pari dell’adesione alla filosofia sensistica – una costante nello Zandonella, che in un’altra prolusione, tenuta vent’anni dopo nell’aula magna dell’Università di Padova, avrebbe trattato il tema Alla religione cristiana devesi precipuamente il perfezionamento nella metafisica, nell’etica e nel diritto di natura e delle genti27. Le idee illuministiche di ‘progresso’ e di ‘pubblica felicità’ vengono così riprese ed adattate al clima della Restaurazione.

27   Tenuta il 6 dicembre 1829 e «accolta con soddisfazione del pubblico», questa prolusione venne data alle stampe a Padova l’anno seguente (cfr. Gambasin, G.B. Zandonella, pp. 47 e 49 nota).

Andrea Addobbati Temperamento e circostanze. Il problema della felicità nei «Nuovi dialoghi italiani dei morti» di Giuseppe Pelli Bencivenni

1. L’introspezione, a fronte dei rovesci della fortuna, è la chiave di ogni felicità possibile, specialmente per coloro ai quali è stata negata dalla natura una buona disposizione d’animo; è questa la convinzione che guidò Giuseppe Pelli Bencivenni nel corso della vita. Uscito dai ranghi della nobiltà fiorentina, il Pelli fu un intellettuale di una certa rilevanza nella vita culturale toscana (e italiana) del secondo ’700. Nel 1758, terminati gli studi in legge, iniziò la sua carriera di funzionario granducale dalla Segreteria di Stato, ricoprendo da principio incarichi per i quali si sentiva poco tagliato. Dal 1763 fu censore delle stampe, un impegno che meglio si confaceva alla sua divorante passione per la lettura. Passò poi, nell’ultima stagione della vita, a dirigere la Galleria degli Uffizi. Fu inoltre redattore delle «Novelle letterarie», prima affiancando Giovanni Lami, e poi sostituendolo alla guida della rivista1. Alla sua ampiezza di vedute, che gli fruttò una profonda conoscenza delle opere degli illuministi, mancò forse un pizzico di arditezza.   Per il profilo biografico si veda: R. Zapperi, G. Bencivenni Pelli, in Dizionario biografico degli italiani, VIII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1966, pp. 219-22. Sulla sua attività giornalistica e letteraria: M.A. Timpanaro Morelli, Sul contributo di G. Pelli alle «Novelle letterarie» e alla «Toelette», in Autori, stampatori, librai per una storia dell’editoria in Firenze nel secolo XVIII, Firenze, Olschki, 1999, pp. 192-207; Id., Persone e momenti del giornalismo politico a Firenze dal 1766 al 1799 in alcuni documenti dell’Archivio di stato di Firenze, in «Rassegna degli Archivi di stato», XXXI (1971), pp. 400-473, passim; R. Pasta, Editoria e cultura nel Settecento, Firenze, Olschki, 1997, pp. 193-223; Id., «Ego ipse (…) non alius». Esperienze e memorie di un lettore del Settecento in Scritture di desiderio e di ricordo. Autobiografie, diari, memorie tra Settecento e Novecento, Milano, Angeli, 2002, pp. 187-206. Su Pelli censore: S. Landi, Il governo delle opinioni. Censura e formazione del consenso nella Toscana del Settecento, Bologna, il Mulino, 2000, pp. 111-114, 233-241, 246-253 e passim. Sulla sua opera come Direttore degli Uffizi: F. Borroni Salvadori, A passo a passo dietro a Giuseppe Bencivenni Pelli al tempo della Galleria, in «Rassegna Storica Toscana», 1983, pp. 3-53, 153-206; M. Fileti Mazza - B. Tomasello, Galleria degli Uffizi 1775-1792. Un laboratorio culturale per Giuseppe Bencivenni Pelli, Modena, Panini, 2003. 1

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Quando ebbe tra le mani il Dei delitti e delle pene fu colto da un contrasto di sentimenti, diviso com’era tra l’ammirazione per il Beccaria, di cui riconobbe la profondità di dottrina e il coraggio intellettuale, e col quale stringerà un intenso rapporto epistolare; e il rincrescimento per la propria indolenza e irresolutezza, perché quel libro contro la pena di morte lo aveva meditato più volte, e ne aveva disteso anche un piano, rimasto però malinconicamente in un cassetto2. La lettura del De l’Esprit lo lasciò sconcertato. Fu favorevolmente impressionato dalla geometria argomentativa del filosofo francese, ma il non troppo velato spirito anticristiano che traspariva ad ogni pagina lo spaventò. Così, non appena poté si disfece di quel libro compromettente, vendendolo – scrisse – «ad uno meno scrupoloso di me»3. Questa ridicola presa di distanza era in realtà una prova, la più evidente, dell’altissima stima che il Pelli nutriva segretamente per lo scandaloso Helvetius. Quando anni dopo, nel 1776, i suoi Nuovi dialoghi italiani dei morti furono posti all’Indice, lo «scrupoloso» fiorentino trovò motivo di compiacimento nello scoprire che nel decreto di condanna il suo libretto si trovava in compagnia di opere ben più importanti e impegnative, come l’Histoire philosophique et politique des établissemens et du commerce des Européens dans les deux Indes del Raynal, e un’opera postuma, il De l’Homme, del grande Helvétius4. Conosciamo le impressioni di lettura del Pelli, insieme ad un profluvio di altre sue riflessioni, intime e meno intime, grazie alle Efemeridi, un diario di un’ampiezza assolutamente spaventosa, tenuto, giorno dopo giorno, con una meticolosità ammirevole5. Sono anni che gli studiosi si avvalgono di questa fonte monumentale per studi di storia letteraria e culturale, ma è solo di recente, con la monografia di Silvia Capecchi, che se n’è tentata un’analisi complessiva nell’ambito del genere autobiografico6. Come le Efemeridi in senso proprio, che registrano giornalmente le variazioni delle grandezze astronomiche, la magnitudine, le coordinate, le apparizioni di corpi celesti, così anche il diario del Pelli è un accumulo di dati ricavati dalla metodica osservazione di sé e dei propri riferimenti esistenziali; lo

  Efemeridi, I, XII, p. 115.   Ibidem, I, III, p. 30. 4   Ibidem, II, IV, c. 615v. 5   Buona parte delle Efemeridi sono ora disponibili in Internet grazie a una meritoria inziativa di Renato Pasta. I volumi riguardanti il periodo 1759-1782 (serie I e II) sono stati integralmente digitalizzati da uno stuolo di informatici e pubblicati a cura di Luca Frassinetti sul sito della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, all’indirizzo: http://www.bncf.firenze.sbn.it/pelli/ 6   S. Capecchi, Scrittura e coscienza autobiografica nel diario di Giuseppe Pelli, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2006. 2 3

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strumento di costruzione dell’identità, dei ricorsi della memoria, dell’esame di coscienza periodico: la pietra di paragone di ogni bilancio, sempre provvisorio, della propria permanenza nel mondo. Rispetto alle incessanti riflessioni autobiografiche, i Nuovi dialoghi italiani dei morti, uno dei pochi scritti pelliani dati alle stampe, sono un guizzo felice della fantasia. Una fantasia coltivata a lungo, sin dalla giovanile lettura dei fondatori del genere: Luciano, Fénelon, e soprattutti l’amato Fontenelle, i cui deliziosi Dialogues des morts il Pelli si divertì a tradurre quand’era ancora studente a Pisa7. È un’idea semplice e straneante quella che seduce il Pelli: poter interrogare i morti, come fu concesso ad Ulisse e a Dante, i cui versi – Parlando cose che ’l tacer è bello/ Sì com’era ’l parlar colà dov’era – sono giustamente a commento dell’incisione nell’antiporta dell’opera, in cui è raffigurata la triste imbarcazione di Caronte. Potersi dislocare, almeno con l’immaginazione, nel regno delle ombre, significa annullare il tempo, annichilirlo, trasferirsi in un luogo in cui al bilancio di ciascuna esistenza, e anticipatamente della propria, non potrà più opporsi il limite della provvisorietà, né le distorsioni prospettiche dell’amor proprio e delle passioni terrene. In un certo senso i Dialoghi dei morti sono il termine ideale della diuturna fatica delle Efemeridi. Sono il tentativo impaziente di precorrere il tempo con l’immaginazione, un gioco per uscire fuori di sé ed osservarsi senza inquietudini nel racconto degli uomini e delle donne illustri, un artificio letterario che permetterà, contrariamente alle Efemeridi, di stilare un bilancio che possa dirsi definitivo.

7   «La lingua francese mi è stata occasione di molti piaceri, perché in essa ho letti molti libri scritti con una certa delicatezza, che sola è propria di quella nazione. Fra’ primi che mi capitassero alle mani furono i Dialoghi dei morti del signor Fontenelle. Appena gli lessi che tosto mi posi a tradurli nel tempo che ero a studio in Pisa, e con non poca fatica mi riuscì di terminare il lavoro nello spazio di più mesi. Vi fu chi si era preso l’assunto di fare stampare questa mia traduzione, ma poi per un contrattempo s’interruppe il trattato con mia soddisfazione, perché tutte le volte che ho riletto questo volgarizzamento l’ho ritrovato assai inferiore all’originale, essendo lo stile di esso ripieno di una certa vivacità che mal si conserva nel trasportarlo in altra lingua. Se mai per qualche motivo m’inducessi a lasciare uscire al pubblico questo mio lavoro, [Non accadde.] credo che converrebbe ornarlo con delle annotazioni per schiarire la storia a cui ne’ Dialoghi si allude, come ho detto nella mia prefazione, ma io per ora persisto nel proposito di tenerlo riposto nel mio scrigno. Del resto quest’operetta è, e sarà sempre una di quelle che maggiormente stimo, perché non mi diparto mai dalla lettura di essa senz’aver qualche cosa appreso per mia instruzione. La mia traduzione contiene ancora quella del Giudizio di Plutone sopra detti Dialoghi, ch’è una critica la più graziosa che mai sia stata fatta ad alcun libro». Efemeridi, I, I, Memoria della vita al 29 agosto 1759, pp. 44-46. Tra parentesi quadre le glosse che l’autore stesso apportò al testo anni dopo.

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2. Il problema della felicità è presupposto a tutte le annotazioni giornaliere delle Efemeridi, ed è anche l’unica realtà di cui il Pelli cercherà di afferrare le variazioni di grandezza attraverso una stringente contabilità. Nessuna definizione gli parrà mai soddisfacente. In perpetua contraddizione con se stesso, alla fine dovrà riconoscere che non è dato all’uomo di fissare un punto fermo a questo proposito. La sua è una personalità del tutto moderna, incapace di concepire una condizione di stabile appagamento, e afflitta semmai dal senso della precarietà, che lo porta, come tutti i moderni, ad identificare la felicità nel processo, forse vano, dell’autoaffermazione individuale, in una ricerca costantemente sospinta dal desiderio e sempre sul punto di smarrirsi, di perdere la bussola, a causa del contrasto delle passioni. La pratica ossessiva dell’autoanalisi (che trarrà maggior forza e motivazioni dalla lettura dei Saggi di Montaigne) mira a discernere, con la precisione di cui Pelli è capace, tutto quello che nella vita soggiace al controllo della volontà da ciò che invece le sfugge. La sorveglianza attenta dei confini della propria capacità di azione, mentre preserva dalle delusioni, è per noi la spia più evidente delle fondamenta stoiche su cui il Pelli si avviò a costruire la propria esperienza di vita8. Nello stesso tempo, la teoria aristotelica dei temperamenti, così come fu rivisitata negli Elementi di filosofia morale dell’Eineccio, gli permette uno scarto da qualsiasi torsione eroica dello stoicismo. Le inclinazioni del temperamento – che nel suo caso erano dovute ad una «prevalenza della bile nera» – possono precludere quella saldezza d’animo, quella calma interiore, in cui gli stoici scorgono la vera virtù. Per Pelli infatti non è onesto predicare l’indifferenza, come se di fronte alle alterne vicende della fortuna fosse davvero possibile scansare le esaltazioni e gli avvilimenti. Le passioni alle quali siamo predisposti non sono in alcun modo contrastabili, possono tutt’al più essere variamente indirizzate dalla ragione, e sempre con grande difficoltà. Nel lungo autoritratto morale premesso alle Efemeridi, Pelli si descrive come un malinconico, pronto alla collera, ma timido. «Ho studiato molto me stesso – scrive – ed in conseguenza il carattere del mio cuore»9. La malinconia, «che soffoga ogni azione generosa e magnanima», lo rende piuttosto incline alla tristezza, e questa – osserva il Pelli – «non è che un affetto del timore, essendo un’oppressione che prova l’anima allor quando ha perduto, ovvero teme di perdere un ben che possiede. Pochi sono i giorni che passo senza che da essa mi vengano, or più or meno amareggiati i più semplici pia8   Sulla concezione stoica della felicità: F. de Luise – G. Farinetti, Storia della felicità. Gli antichi e i moderni, Torino, Einaudi, 2001, pp. 123-139. 9   Efemeridi, I, I, Memoria della vita al 29 agosto 1759, p. 66.

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ceri, e non perda quella quiete che forma l’unica nostra mondana felicità»10. La prevalenza dei momenti tristi su quelli felici è una condizione che Pelli indaga nelle sue cause fisiologiche, nelle alterazioni che possono venirle dall’abitudine, ma che alla fine accetta con una certa dose di rassegnazione. Sia nel diario che nei Dialoghi dei morti, questa concezione fatalistica della felicità, data dall’impronta del temperamento, ricorre con una certa frequenza, sebbene non sia l’unica. Di certo è la stessa che aveva Fontenelle, il quale, diversamente dal Pelli, si rallegrava delle buone disposizioni che scorgeva in se stesso e si reputava perciò un uomo molto fortunato11. Maria Stuarda nei Dialogues fontenelliani dice allo sventurato Davide Riccio che «le bonheur est comme la santé: il faut qu’il soit dans l’homme, sans qu’ils l’y mettent; et s’il y a un bonheur que la raison produise, il ressemble à ces santés qui ne se soutiennent qu’à force de remèdes, et qui sont toujours très foibles et très incertains»12. Fontenelle, si sa, sprizzava salute, in tutti i sensi. Era nato nel 1657, ed era ancora vivo quando il giovane Pelli, nel 1753, giunse a diagnosticarsi la ‘malattia’ nelle sue inedite Riflessioni morali sopra la felicità13; in seguito ammetterà di essersi fatto prendere la mano dal suo temperamento malinconico. Della prevalenza dei momenti tristi sui felici il fiorentino si sentiva   Ibidem, p. 68.   «Le persone più illuminate – scrive il Pelli nel 1761 – convengono che la felicità sia piuttosto in gran parte un effetto del temperamento che della situazione in cui si ritrovano gli uomini. Doppo molte riflessioni ancor io sono venuto in questo sentimento, e la propria, e l’altrui esperienza mi ha finalmente convinto di ciò. In fatti quanti sono contenti in uno stato in cui altri non mostrano punto di esserlo? Noi stessi un giorno siamo soddisfatti della nostra situazione, in un altro siamo scontenti. Perché la situazione contribuisca alla nostra felicità non solamente bisogna che sia buona rispetto a sé, ma è necessario ancora che sia buona relativamente al nostro carattere. So bene che pochi sono quei temperamenti i quali nella propria costituzione posseggono il fondamento della loro felicità, poiché i rammarichi che si sentono fanno pur troppo conoscere che infiniti hanno il cuore scontento, non so poi se sempre a ragione; ma pure ve ne sono, ed un solo, che se ne possa contare mostra la verità dell’addotto sentimento. Quello che scrive in più luoghi l’abate Trublet di monsieur de Fontenelle (nelle Memorie per servire alla storia della di lui vita) e quello che questo stesso filosofo cantava di se medesimo nella più gran vecchiaia (Ved. le dette Memorie p. 305), ci assicurano ch’egli era appunto di questo temperamento, e buon per lui, che di più ebbe la sorte di trovarsi situato bene anche rispetto al suo carattere. Se niuna cosa può invidiarsi a ragione una è certo il vedere in alcuno un simil temperamento; ma se la Provvidenza a pochi ha fatto questo dono, a tutti ha data una dose di piaceri che temperano le amarezze della vita, e che appresso a poco bilanciano i mali, ed i beni». Ibidem, I, V, pp. 113-115. 12   B. Le Bovier Fontenelle, Nouveaux dialogues des morts (1683) in Œuvres complètes, Paris, Fayard, 1990, I, p. 195. 13   Efemeridi, I, I, Memoria della vita al 29 agosto 1759, p. 47. 10 11

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intimamente convinto, ma poi temette di essere rimasto troppo influenzato, forse, dall’Essai de philosophie morale di Maupertuis, così, raccogliendo proprio i suggerimenti del teorico del mal de vivre, cominciò a tenere una stretta contabilità giornaliera dei piaceri e dei dolori: «volli fare sopra di me un’esperienza – scrive nella premessa alle Efemeridi –, e questa fu di segnare giornalmente nel mio Lunario quei giorni che averei passati bene, male, e mediocremente con certe cifre facili a notarsi (: bene, ø: mediocremente, : male.)»14. È il ‘feliciometro’ del Pelli. La diagnosi iniziale, dopo tre anni di misurazioni, risultò sorprendentemente sbagliata: Questo sperimento (…) mi mostra che quantunque il mio temperamento mi porti ad esser più tristo che allegro non ostante sono più assai i giorni ne’ quali sono stato bene assolutamente che quelli nei quali sono stato affatto male, e che più di tutti sono quelli che posso dire aver passati mediocremente, cioè parte in quiete, parte in tristezza15.

3. I giorni passati alla scrivania impegnato nella composizione dei Nuovi dialoghi italiani dei morti sono contrassegnati di solito da un bel ‘’ nelle Efemeridi. Pelli si era ripromesso di comporre un’opera del genere già da molti anni, sin dai tempi in cui si cimentò nella traduzione dei dialoghi di Fontenelle, ma si decise a prendere la penna in mano soltanto nell’estate del 1761, per scrivere, sotto l’impressione della guerra dei Sette Anni, un dialogo pacifista tra Grozio e Montesquieu16. L’autore dello Spirito delle Leggi rimprovera all’olandese di aver offerto ai sovrani molte speciose giustificazioni al loro spirito di conquista, e gli rinfaccia, come tutto il giusnaturalismo più tardo, a cominciare da Pufendorf, il grave errore di aver   Ibidem, I, I, p. 69.   Ibidem. L’esperimento continuò tutta la vita. Le annotazioni giornaliere delle Efemeridi sono regolarmente precedute dal segno che indica lo stato d’animo. La fallacia delle impressioni immediate, smentite dall’esperimento, si spiega secondo il Pelli col fatto che il sentimento del dolore è più vivo di quello del piacere: «Ho letta poi nell’articolo Xenophanes di Bayle la lunga annotazione F ove ragionasi di questa materia, e dove l’autore è portato a decidere con Plinio, lib. VII cap. 4, che “mortalium nemo est felix”, e non mi sono potuto mutare, parendomi di essere fra coloro che nella sua seconda osservazione (p. 521) ammette sentir più bene che male. Per altro anche in questa materia Bayle ragiona con molta forza, e sostiene quello che quasi tutti gli uomini credono per poca riflessione sopra loro stessi», Ibidem. 16   « Martedì a dì 25 detto (Agosto). In quest’oggi, benché mi ritrovi roco, ed afflussionato, non ostante ho composto un Dialogo fra Grozio, e Montesquieu, che non mi è riuscito male, e che raffazzonerò per farlo vedere agli amici. Egli è sul gusto di quelli di Fontenelle, ma un poco più lungo. Se vedrò di esserci riuscito sufficientemente, ne comporrò degli altri in certi giorni, ne’ quali mi ritroverò tagliato a scrivere con qualche vivacità. È qualche poco piovuto». Ibidem, I, V, pp. 169-70. 14 15

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«supposto il Gius delle genti volontario, che è lo stesso che il prendere il capriccio, l’ignoranza, e l’instabilità delle Nazioni per regola del giusto e dell’onesto»17. La loro è una discussione spassionata, senza acredine, come si addice a dei morti, ai quali poco importa «che i vivi muoiano nel loro letto o alla guerra». Solo ai morti è dato il privilegio dell’apatia: «il mio stato – dice Montesquieu – non può invidiare quello di un vivente, e per quanto bene sia stato sulla terra, ove ho saputo trovare quella Felicità, che possiamo godervi per causa di quell’ottimo temperamento ancora, di cui mi dotò la Natura, e di quelle favorevoli circostanze, nelle quali vissi, non ostante conosco per prova che è meglio esser morto, che dover morire»18. È qui, in questa battuta finale, l’idea di fondo che guiderà la composizione di tutti gli altri dialoghi. Nei due anni seguenti il Pelli riuscì a sottrarre ai suoi impegni di funzionario un po’ di tempo da dedicare alla stesura della sua operetta. «Le mie incumbenze – scrive – certamente possono sospendere, ma non impedire affatto i miei più geniali studi, a’ quali spero che potrò sempre trovar tempo da occuparmi, perché veramente sono le mie delizie»19. Riuscì a scrivere rapidamente i primi dodici dialoghi, e anche qualcun altro, come il dialogo tra Luigi XIV e l’abate di Saint-Pierre, che alla fine sarà espunto dalla raccolta. Poi venne l’incarico di censore granducale che lo costrinse ad interrompere il lavoro per qualche anno. Nel frattempo poté leggere ed apprezzare i Dialogues of the Dead di Lord Lyttelton, nella traduzione francese di de Joncourt; non gli parvero affatto inferiori a quelli di Fontanelle,

17   G. Pelli Bencivenni, Nuovi dialoghi italiani de’ morti. Con l’aggiunta di tre altri dialoghi tradotti dal francese, Cosmopoli, 1770. Si vende in Firenze al Negozio Allegrini, Pisoni & Comp., p. 16. 18   Ibidem, pp. 20-21. Nel 1769 così il Pelli scriveva nelle Efemeridi: «Il perfetto per mille indizi pare bandito da questa terra. Verità funesta, che disgusterebbe chiunque dall’entrare nella carriera di questa vita, se fosse interrogato prima di nascere. Ma tutti i piaceri che si hanno nel corso del nostro vivere? Alla morte sola si può fare il calcolo di essi, e sarebbe stato un uomo molto esatto quello che si fosse messo in grado di farlo. Ma quando si nasce siamo noi in alcuna probabilità che possa la vita riuscire a nostro vantaggio? In somma noi navighiamo in un mar burrascoso a caso, viaggiamo in una foresta che non sapevamo di dover trovare, sediamo ad un pranzo in cui non sappiamo se le vivande saranno di nostro gusto, ecc. ecc. In somma noi siamo individui che siamo causa ed effetto, che ci è ascoso il nostro destino, che abbiamo del grande, e del brutale, che nel buio vantiamo il nostro vigore, la nostra bellezza, la nostra abilità a degli altri ciechi, che prevenuti in nostro favore, per sentimento, non paventiamo nel nostro corso ostacoli, se non quando gli sentiamo; che centri dell’universo ci crediamo nella felicità, nell’ignoranza, e nella presunzione, ed insetti nel dolore, nella scienza, e nell’abbattimento ecc. ecc.». Efemeridi, I, XXIV, pp. 88-89. 19   Ibidem, I, VII, p. 69.

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ed anzi li giudicò meritevoli anch’essi di esser presi a modello20. Più volte, senza riuscirvi, cercò di riprendere il lavoro. Tradusse e fece tradurre alcuni dialoghi francesi apparsi sul «Mercure de France», poi destinati ad essere inseriti in appendice ai suoi Nuovi dialoghi italiani21, e si convinse che la migliore ricetta per comporne di piacevoli ed istruttivi stava tutta nel saper trovare un contrasto di caratteri o di costumi: «Ha avuta ragione Voltaire – scrive nel 1769 – a sostenere nel settimo trattenimento de’ suoi moderni dialoghi intitolati L’ABC che l’Europa moderna vale assai di più dell’Europa antica, e questo soggetto potrebbe essere meglio trattato con dei curiosissimi paralleli fra i costumi dei trapassati, ed i nostri; fra i vizi che già trionfavano, e quelli che ora lussoreggiano tra noi; fra le maniere di chi fu, e quelle di chi è»22. Finalmente, nella primavera del 1770, amici ed estimatori insistettero perché scrivesse gli ultimi dialoghi e desse tutta la raccolta alle

  « Domenica a dì 16 detto (Maggio 1762). In questa campagna ho letto un libro venuto qua ora, ed intitolato Dialogues des morts traduits de l’anglois par monsieur le professeur de Joncourt. À l’Haye 1760 in 8°. Mi è infinitamente piaciuto, perché i dialoghi sono sul gusto di quelli che io stesso vado lavorando, e contengono belle massime piene di virtù, e di buon senso. Certamente quei di Fontenelle non sono affatto migliori né più instruttivi, onde mi serviranno per modello. [Ci sono altre traduzioni di questi dialoghi inglesi che ne contengono dei nuovi fatti dall’autore doppo questo tempo.] [Sono di milord Lillethon (sic)]. In verità per aver veduti questi nuovi dialoghi non stimo di dover lasciare il mio lavoro, perché io introdurrò in Italia quello ch’è stato fatto solamente in francese, ed in inglese». Ibidem, I, VII, pp. 97-98. Tra parentesi quadre le glosse che l’autore stesso apportò al testo anni dopo. Anche questi dialoghi apparvero in forma anonima. Ed. or.: G. Lyttelton, Dialogues of the Dead, London, Printed for W. XISandby, 1760. 21   Si tratta del dialogo tra Pietro il Grande e Carlo XII di Emer de Vattel (1714-1766) contenuto nei Mélanges de littérature, de morale et de politique, Neufchatel 1760. «L’autore – scrive il Pelli – è quello che fece l’applaudita opera Sopra il diritto delle genti» (Efemeridi, I, VIII, p. 36); di un dialogo tra Alessandro e Diogene, pubblicato anonimo sul «Mercure de France» del dicembre 1763 (ibidem, I, XI, p. 93), e del dialogo tra Diana di Poitiers e Ircilia di Nicolas Bricaire de La Dixmerie (c. 1730-1791), apparso sullo stesso periodico nel dicembre 1770. A proposito di quest’ultimo dialogo il Pelli ci ha lasciato nelle Efemeridi una annotazione interessante: «Mi è assai piaciuto, e molto più di alcuni che ne lessi nel Caffè, opera periodica che si pubblicava in Milano, essendomi anche parsa giusta la conseguenza con cui si chiude, in bocca della seconda (Ircilia), che vi sono “des circostances bien épineuses pour la vertù, et qu’il ne faut s’enorgueillir de rien”, doppo aver detto la prima antecedentemente che la virtù delle femmine è attaccata a poco, che un nulla “la dérange”, un nulla “la fortifie” e che “telle succombe aujourd’hui, qui eût résisté hier. Tel se montre austère dans un moment d’humeur, qui seroit volupteux dans un accès de gaîté”. Chi ha pratica del mondo, – conclude il Pelli – ha piacere a rammentarsi che l’esperienza gli conferma certe verità che legge» (ibidem, I, XXV, pp. 116-17). 22   Ibidem, I, XXIII, pp. 113-14. 20

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stampe23. In un mese ne compose altri otto, e ben presto poté spedire il manoscritto allo stampatore. La raccolta apparve ai primi di luglio preceduta da una premessa che ne giustificava l’anonimato col consueto espediente del manoscritto ritrovato, opera di «un nostro Bello Spirito passato all’altra vita pochi anni addietro»24. Anche il luogo fittizio di edizione – Cosmopoli   «ø A dì 8 detto (aprile 1770) (…) Sono stato quasi obbligato a permettere la stampa de’ miei Dialoghi de’ morti…onde s’imprimeranno quanto prima. Dei fatti ne ho levati due, ed alcuni altri ne ho corretti, per cancellarvi certi tratti troppo arditi, e che potrebbero dispiacere, o produrmi del male. Per mantenerne il numero, ed accrescerlo ancora se potessi, oggi ne ho fatti due dei nuovi, cioè quello di Pomponio Attico, e Carlo V e quello del dottor Swift, e fra Paolo Sarpi, con più la lettera a nome dello stampatore a chi volesse leggere. Si vedrà ch’esito averanno. Penso nelle mie Novelle di sferzagli curiosamente per divertirmi». Ibidem, I, XXV, pp. 164-65. Tra gli estimatori, il «pievano Lastri», che poté leggere le prime composizioni già nel 1761 (ibidem, I, V, p. 176). Su Marco Lastri, Pievano di Signa, membro di diverse accademie scientifiche e letterarie, e redattore col Pelli delle «Novelle Letterarie» si veda M.P. Paoli, Lastri Marco in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2004, LXIII, pp. 810-13. I due dialoghi espunti sono il dialogo fra Luigi XIV e l’abate Saint-Pierre, composto il 27 e 28 agosto 1761 (ibidem, I. V, p. 171); e forse il «Dialogo fra una meretrice, ed un ministro di stato per provare che tutto è lo stesso», composto intorno al 16 agosto 1766, e subito cestinato perché «troppo ordinario il soggetto, e da farmi coll’universale poco merito» (ibidem, I, XVIII, p. 38). 24   Pelli Bencivenni, Nuovi dialoghi, p. iii. Così il Pelli annuncia nelle Efemeridi l’uscita dei Dialoghi: « A dì 28 detto (Giugno 1770) (…) Sono finalmente in luce i miei Dialoghi de’ morti (…) in un tometto in 8° di p. 195 compresi tre dialoghi tradotti dal francese, i primi due da me tempo fa, l’ultimo di fresco dall’abate Merlini. L’edizione è elegante, e con un rame in principio che mostra la barca di Caronte con dei gruppi di morti alle rive della palude Stigia, e sotto due versi di Dante canto IV dell’Inferno «Parlando cose che ‘l tacere è bello, / Sì com’era ‘l parlar colà dov’era». Starò a sentire il giudizio del pubblico, [Furono proibiti a Roma.] intanto mi sono divertito a fare per le mie Novelle Letterarie un articolo in cui dico con libertà quello che veramente ne penso, come se parlassi di un altro scrittore. In fatti nell’avvertimento dello stampatore ho detto che sono parto di un bello spirito cosmopolitano (giacché Cosmopoli è la data del libro) morto pochi anni addietro, con altre invenzioni per burlare, divertirmi, e coprirmi, ma nelle Novelle mostrerò di dubitarne. Nell’indice dei Dialoghi vi ho spiegato l’argomento per mostrare che furono fatti con qualche scopo, ma veramente i più gli ho scritti come venivano sotto la penna. In un esemplare vi farò delle correzioni secondo il capricci (sic). Ed ecco in pubblico una mia opera non seria, ma galante. Starò a sentire con gusto se si vorrà indovinare a chi appartenga. Dirò in fine che fuori del primo e del ventesimo tutti gli altri dialoghi sono disposti com’è piaciuto allo stampatore, non con l’ordine con cui furono scritti, o che forse si sarebbe potuto seguitare avendo riguardo alle materie indicate nell’indice». Efemeridi, I, XXVI, pp. 50-52. Tra parentesi quadre le glosse che l’autore stesso apportò al testo anni dopo. L’indice del volume risultò il seguente (tra parentesi riporto, quando nota, la data di composizione): 1) Luciano ed Erasmo. Merito di Dialoghi fra Persone morte; 2) Grozio ed il Barone di Montesquieu. Della Guerra (25 ago. 1761); 3) La Marchese di Pompadour ed il P. F. Girolamo Savonarola. Quali devono essere i Caratteri della virtù; 4) Il Reggente Duca d’Orleans ed il Cardinale Bosco. Carattere 23

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– non era una trovata tanto originale, e certo si confaceva allo spirito dei lumi. Mi piace però immaginare che non le fosse estraneo il clamore che faceva allora sulle piazze di tutta Italia il Cosmopolitano, un ciarlatano e cavadenti sul cui straordinario successo il Pelli si trovò più volte a riflettere, fino ad immaginare di poterne fare un personaggio dei suoi dialoghi: «mi era venuto in capo – scrisse nel 1759 – di formare un dialogo fra lui, il re di Prussia, il signor di Voltaire e qualche femmina famosa nei nostri tempi, in cui restasse provato che in tutte le professioni ha gran parte l’impostura»25. In tutte le professioni, non esclusa quella di letterato. Non aveva ancora finito di comporre gli ultimi dialoghi che già progettava di pubblicarli anonimi per poi prendersi la soddisfazione di recensirli con un articolo firmato sulle «Novelle letterarie» e farsi delle matte risate alle spalle dei lettori 26. I Nuovi dialoghi avrebbero comunque fatto del rumore. Ebbero anche delle vere recensioni, in gran parte positive, sul «Nuovo Corrier Letterario» e su «L’Europa letteraria» di Venezia, mentre l’impostura architettata per sviare i sospetti – in realtà, una dissimulazione onesta – riuscì nel suo intento; ci

dei Grandi e dei Cortigiani; 5) Alcibiade e Carlo I re d’Inghilterra. Se serva la Prudenza a fare de’ Felici; 6) Cesare e Bruto. Dell’Amor di Patria e della Libertà (29 ago. 1761); 7) Pomponio Attico e Carlo V. Pregi della Vita privata (8 apr. 1770); Alessandro Magno e Cristina di Svezia. Del Cuore umano considerato moralmente; 9) Il Calzolaio Reinart ed Eleo Ippia. Della Vita oziosa; 10) Il D. Swift e F. Paolo Sarpi. Del Merito degli Uomini (8 apr. 1770); 11) F. Sisto da Siena e F. Cipolla. Della Superstizione (12 apr. 1770); 12) P. Sanchez e Monna Nonna de’ Pulci. De’ Casuisti (12 apr. 1770); Mademoiselle de Gournay e Ninon de Lenclos. Della Pudicizia; 14) Costanza de Cezelli e Sibilla Duchessa di Normandia. Criterio per giudicare delle Operazioni degli Uomini; 15) Margherita de’ Valois e Maria de’ Medici. Del Matrimonio; 16) L’Ab. Anton Maria Salvini e Galileo Galilei. Delle Belle Lettere (18 apr. 1770); 17) Frine e Fontenelle. Del Merito delle Donne Galanti; 18) La Marchese de Manzera e la Contessa d’Esterle. Delle diversità che si osservano ne’ Caratteri; 19) Valeria Messalina ed Ottavia. Della Forza delle Passioni Femminili; 20) Guglielmo Pen e Licurgo, poi Mercurio. Delle Leggi (15 apr. 1770). Seguono i tre dialoghi tradotti dal francese citati alla nota 19. Le preferenze dell’autore andavano ai dialoghi II, VI, XII, XIV, XVI e XVIII «che sono i più studiati, ed i più piacevoli», cfr. «Novelle Letterarie», in Firenze nella stamperia Allegrini, Pisoni & Comp., 1770, I, p. 430. 25   Efemeridi, I, II, p. 1. 26  Così il Pelli recensiva i suoi dialoghi: «…sono scritti con una fantastica vivacità, e sul gusto francese, cioè senza molto studio, senza molta riflessione, e con dei tratti brillanti d’ingegno, che dimostrano piuttosto lampi di talento che solidità ferma di pensare. Con questo giudizio non si vuole deprimere il merito dell’opera, perché anzi dimostra che gl’Italiani ancora sanno scrivere per istruire, e per allettare le persone meno profondamente addottrinate, e che vivono nel mondo, e che chi le compose aveva delle vedute giuste, ed una facilità d’esprimersi e d’insinuarsi con chi legge». «Novelle Letterarie», 1770, I, p. 429.

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fu persino qualcuno che gli scrisse per chiedergli se per caso non conosceva il nome del «bello spirito cosmopolitano»27. 4. Il primo dei venti dialoghi pelliani mette in scena Luciano di Samosata, il fondatore del genere, ed Erasmo da Rotterdam, l’autore dei Colloquia, il quale confessa di aver tratto ispirazione «in più cose» da Luciano28. Pelli

27   «A dì 8 (Agosto 1770) (…) Quando si ricevono delle lodi senza brigarle, e quando queste lodi non sono incenso ad un nome, non si resiste dall’amor proprio alla intensa consolazione che ne prova. Io sono stato nel caso. Nel Nuovo Corrier Letterario di Venezia del dì 4 stante num. XXX p. 236 si dà notizia de’ miei Dialoghi de’ morti, si presenta il sunto di dieci, si promette di parlare degli altri a fine di far conoscere il fondo di buona filosofia, che spira il restante, ed in principio in specie si dice: “Un talento svegliato, una facilità di riflettere sopra tutto, una franchezza di dire ogni cosa, uno stile purgato ma semplice, e naturale, in fine uno spirito di combinazione per contrapporre dei caratteri, che risaltino, e che interessino, siccome sono doti che si richieggono a giudizio dell’autore medesimo per ben riuscire in questo genere di componimento, così tutte possiamo assicurare di averle rilevate in questa sua opera interessante insieme, ed instruttiva”. Chi ha scritto così non sapeva se veramente l’autore era morto, o vivo; dunque gli sono piaciuto sinceramente». Efemeridi, I, XXVI, p. 85. E un paio di mesi più tardi: «A dì 9 (Ottobre) (…) Al giornale di Venezia intitolato l’Europa Letteraria al presente lavora fra gli altri l’abate Giulio Perini mio amico. Egli lesse i miei Dialoghi dei morti, gli trovò meritevoli di qualche censura, me ne scrisse per saperne l’autore, glielo feci storiare, finalmente glielo scopersi, ma glielo scopersi quando già era stampato quello che voleva dire dei medesimi nel volume per settembre prossimo passato p. 93 e seg. In conseguenza mi scrisse nel dì 15 detto contestandomi il dispiacere di non aver parlato di essi, come credeva che gli convenisse. Io ne risi, e gli replicai amichevolmente dicendogli che avevo piacere che avesse fatto l’estratto di tal libro senza sapere che fosse mio, perché così averebbe scoperto quello che veramente pensava, mentre in caso diverso averebbe giudicato con del riguardo per amicizia, per politezza ecc. Ho poi letto detto estratto, e ho trovato che loda l’incognito autore, e che solamente gli fa alcune critiche che io non sento affatto giuste. Averebbe voluto che mi fossi più investito dello stile proprio, e del naturale delle persone introdotte a parlare, ma gli esempi poi che adduce non mi paiono a proposito. Ma io sono troppo indifferente per le mie cose per sentire alcun dolore vivo, se altri onestamente mi critichi». Ibidem, I, XXVI, pp. 146-47. 28  Nel 1759 Pelli elogiava i dialoghi erasmiani, pur trovando reprensibili le critiche anticlericali che vi sono contenute, e non immaginando che un giorno una sua opera sarebbe stata posta all’Indice proprio per questa ragione: «I Dialoghi di Erasmo sono notissimi, e vi sono pochi letterati che non gli abbiano letti. La purità della lingua latina in cui sono scritti, e le materie, e insegnamenti per lo più salutari sparsi nei medesimi formano il loro pregio. Io, che con gran piacere gli ho scorsi, dirò che in essi vi sono dei precetti per tutt’i generi di persone, e per tutti gli stati della vita, che i caratteri vivi delineati sono mirabili, e che tutto ciò che alle persone pie è dispiaciuto è forse perdonabile al tempo, ed alle congiunture in cui si ritrovava Erasmo, ma che averebbe meglio fatto a sopprimere tanta maldicenza contro i religiosi, ed i frati, ed altre persone nelle mani dei quali è la religione, e che finalmente certe espressioni rozze, e caricate sono da scusarsi in lui, il quale visse in un paese, ed in un tempo

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affida a questi due grandi antecessori il compito di esporre i propositi dell’opera e le ragioni che inducono un autore a far discutere dei trapassati. Luciano esordisce confessando di non essere troppo contento dei suoi dialoghi. È reduce da una discussione con un autore moderno, morto di recente – Fontenelle –, il quale lo ha fatto riflettere sui difetti dei suoi morti: «quello che diletta in bocca di un vivo – avrebbe detto il segretario dell’Académie de Sciences – non può esser proprio in bocca ad un morto»29. E in effetti, sembra che i morti di Luciano non abbiano ben compreso la loro nuova condizione, sono ancora troppo vivi, «ricordano i beni del mondo e ci si abbarbicano»30, tanto che Menippo il Cinico, un personaggio centrale nei dialoghi lucianeschi, si sente in diritto di tormentare i suoi colleghi di sventura con frecciate di sarcasmo. La critica è forse un po’ ingenerosa; quell’attaccamento alla vita è un’espediente satirico del tutto consapevole e non privo d’efficacia in Luciano, mentre l’autore al quale potrebbe più giustamente muoversi l’addebito di aver dipinto dei morti troppo vivi è semmai Fénelon, i cui dialoghi dei morti, non meno famosi di quelli di Luciano e Fontenelle, sono l’opera di un precettore interessato più che altro ad impartire insegnamenti morali al suo giovane allievo, il Duca di Borgogna, prendendo spunto dalla vita dei grandi personaggi storici31. Tanta seriosità pedagogica è estranea a Luciano, e anche al Pelli, che, infatti, non rammenta mai Fénelon tra le sue fonti d’ispirazione. Per il fiorentino, la decisione di cimentarsi nel genere del dialogo nasce dal desiderio di coniugare l’utile al dilettevole: un proposito che non è alla portata di tutti; bisogna che l’autore abbia «un talento svegliato (…) – dice Luciano ad Erasmo – una franchezza in dire ogni cosa, uno stile purgato, ma semplice e naturale, in fine uno spirito di combinazione per contrapporre dei caratteri che risaltino, e che interessino»32. Ci vuole insomma del «genio»; il letterato che ne fosse

in cui non era sparsa tutta quella cultura che regna di presente, ed una polizzia che il nostro secolo farà distinguere da ogni altro dei passati. Dico poi che s’Erasmo non avesse detto male dei frati non sarebbe stato tanto letto. Piace assai più la satira, che il panegirico, perché quella adula la nostra superbia, questo mortifica il nostro orgoglio. Sarebbe bene che fatta una scelta dei dialoghi migliori, e più sani, si dessero questi a leggere ai fanciulli per fargli apprendere quei semi di morale che vi sono così bene insinuati, nel tempo che imparano la lingua latina». Ibidem, I, I, p. 104-05. 29   Pelli Bencivenni, Nuovi dialoghi, cit. p. 3. 30  Luciano, Storia vera. Dialoghi dei morti, Introduzione, traduzione e note di M. Vilardo, Milano, Mondadori, 2007, §3. Alcuni morti si lamentano di Menippo con Plutone, p. 99. 31  F. Fénelon (de Salignac de la Mothe), Dialogues des morts anciens et modernes, suivis des contes et fables. Composés pour l’éducation d’un prince, Paris, L. Tenré-Boiste, 1822. 32   Pelli Bencivenni, Nuovi dialoghi, p. 3.

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carente è bene che si accontenti di scrivere dei libri di storia33. È vero che il dialogo è un genere senza impegno, ma richiede sempre una certa felicità di scrittura, per il piacere del lettore e prima ancora dell’autore, il quale, se vorrà riuscire, dovrà prendere la penna in mano per il solo gusto di scrivere, senza secondi fini tranne quello di «passar il tempo». Comporre dei dialoghi è «un grazioso compenso (…) – dice Luciano – nel quale una persona di capacità trova tutto il suo pascolo. Quando mi mettevo a scrivere uno de’ miei dialoghi ero l’uomo più contento del mondo, e vi lavoravo con tanto gusto, come se avessi fatta qualunque cosa la più piacevole»34. Il tema della felicità attraversa tutti i dialoghi del Pelli. Il fiorentino mette faccia a faccia la Marchesa di Pompadour e Girolamo Savonarola per dimostrare che non c’è rapporto immediato tra felicità e virtù; chiama a discutere Alcibiade con Carlo I d’Inghilterra per farli convenire sul ruolo che ha l’imponderabile nelle faccende umane, e su come la prudenza non possa mai essere garanzia di felicità; mette in contrasto Messalina ed Ottavia per escludere che la felicità possa ridursi al piacere dei sensi. È impossibile in questa sede passare in rassegna tutti i dialoghi pelliani. Mi pare però indispensabile richiamarne almeno un paio, quelli che per la questione che qui ci interessa mi sembrano più significativi. Nel dialogo IX, incentrato sulle soddisfazioni della vita pratica, Pelli mette faccia a faccia un sofista del IV secolo a.C., Ippia d’Elide, e una persona comune, l’unica a prendere la parola nei dialoghi: il calzolaio Reinart35. In realtà, Jacopo Matteo Reinold, o Reinart, non è un artigiano qualunque, ma l’esempio personificato della virtù del lavoro; deve la sua uscita dall’anonimato al grande onore che ricevette da Federico II di Prussia, il quale, calzava le sue opere d’arte e, quando non poté più farlo, volle scrivere un Discorso fatto per suo passatempo, che è in effetti un’orazione funebre dedicata a chi per anni gli aveva risparmiato il mal di piedi. Mentre esprimeva gratitudine per l’arte di Reinart, il Discorso di Federico era anche, più in generale, un elogio della dedizione al lavoro. Il re amico degli illuministi insisteva sul vantaggio della Patria, e sulle soddisfazioni che anche le persone comuni potevano ricavare dall’applicarsi coscienziosamente al proprio mestiere; nello stesso tempo era un modo per polemizzare con l’ignavia e l’indolenza del baronato prussiano: «Semidei

33  Dice Erasmo: «A chi ha poco ingegno riesce meno difficultoso un soggetto serio, che un soggetto piacevole, e per questo a chi senza capitali volesse lasciare un Libro che sempre fosse letto consiglierei a scrivere la Storia, dandoli per unico precetto di scriverla senz’adornamenti, e senza parzialità». Ibidem, p. 7. 34   Ibidem, p. 8. 35   Ibidem, pp. 60-66.

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sulla terra – scriveva Federico, rivolgendosi all’aristocrazia –, Potenze, che la Provvidenza ha stabilite per governare vaste province con umanità e saviezza, vergognatevi che un povero calzolajo vi confonda, e vi insegni i vostri doveri; che l’esempio della sua vita laboriosa v’ammaestri di ciò, ch’esigon da voi questi popoli che dovete render felici»36. Il Pelli, che conosceva questa curiosa operetta per la traduzione che ne aveva fatta l’Algarotti nel 176037, pensò che sarebbe stato interessante mettere a confronto il virtuoso della calzatura, celebrato da Federico come un vero filosofo («Il suo primo studio era quello di conoscer se stesso»)38, e Ippia di Elide (o Eleo Ippia), un filosofo antico noto tra l’altro per tenere in gran pregio le abilità pratiche, al punto di vantarsi di saper fare le scarpe. Pur essendo un estimatore delle arti meccaniche, il filosofo-calzolaio è sorpreso che un gran re abbia voluto onorare l’arte di Reinart, mentre il calzolaio-filosofo, che non distingue le occupazioni umane secondo un’assoluta gerarchia di valore, ma solo in ragione dei risultati, non ci trova niente di straordinario: tra un calzolaio e un ministro che consiglia le risoluzioni di un principe non c’è alcuna differenza di merito: «stavo con la medesima tensione di spirito a lavorare nella mia bottega – dice –, come stanno i ministri nei loro gabinetti»39. Ippia però non è convinto che le due occupazioni possano stare alla pari, perché «qualunque (…) mestiere meccanico esige meno cose, che la professione di uomo di governo». Reinart allora è costretto a chiarire il suo pensiero. La fortuna non ha niente a che vedere con il merito dell’uomo; l’importante è la dedizione, e tanto basta per riuscir bene sia come artigiano che come governante. Siccome poi non risulta che gli uomini di governo si preparino con profondi studi prima entrare in carica, si dovrà

36  M. di F.G.R. di P. [Maestà di Federico il Grande Re di Prussia], Discorso fatto per suo passatempo, Fantasianopoli [Lucca], 1760, p. 11. 37   « Lunedì a dì 1° (Dicembre 1760) (…) Comparve tempo fa un Discorso, o Elogio funebre fatto da Federigo II re di Prussia in morte di ser Iacopo Matteo Reinart maestro calzolaio ecc. Ora è stato tradotto in italiano, e stampato in Lucca con la data di Fantasianopoli 1760 in 4°. Io l’ho letto, e comprato, e nel tempo stesso ho ammirata la schiribizzosa fantasia di questo sovrano, maraviglioso, e particolare in tutte le sue cose. Se il calzolaio è tal quale si descrive, era un buon cristiano; se tutto è finzione almeno si è saputo inalzare un artefice di poca considerazione alla pari de’ grandi con le lodi di cose usuali, e comuni, ma bene ingrandite, forse per gettare un ridicolo sopra tutto il genere di questi componimenti. L’orazione ha de’ bei tratti, una satira fine contro i vizi, dei precetti veri, ed un’eloquenza solida. Comunque sia è un bel trattare la penna, e la spada come Federigo, che apparisce grande anche a’ nemici, e bell’ingegno anche nelle piccole cose». Efemeridi, I, III, pp. 182-83. 38  Federico, Discorso, p. 16. 39   Pelli Bencivenni, Nuovi dialoghi, p. 61.

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riconoscere che al loro posto qualsiasi uomo, purché coscienzioso, possa far miglior figura40. Certo che un ministro è più importante di un calzolaio, ma «almeno (…) accordatemi – dice Reinart –, che se avessi avuta la sorte di arrivare a qualche posto luminoso (…) averei adempito il mio Ufizio niente peggio che il mio mestiere». «Puo essere» – replica Ippia – «Ma in quelli dei quali parlavi è probabile che il genio supplisse allo studio». E qui Reinart dissente nella maniera più assoluta: il genio è «quell’istinto che gli uomini credono di portare nel Mondo, e col quale suppongono di poter riuscire senza applicare». Di solito si pensa che il genio sia «quel non so che» che dà «le regole del bello e del buono» quando è «accompagnato dal gusto», ma in effetti sono tutte fantasie. Per Reinart esiste soltanto il raffinamento delle arti. Appellarsi al genio il più delle volte è un modo per discriminare gli uomini a prescindere dal merito: è solo impostura; del resto tra i primi a cianciare di genio e di gusto ci sono le crestaie, i sarti e «tutti quelli che sudano per far comparire belle le donne che non lo sono»41. Quale che sia l’origine di questo benedetto genio, studio o ispirazione, a Reinart pare evidente che gli antichi ne possedessero meno dei moderni: «le scarpe antiche (…) erano fatte peggio delle mie». Viene messo così a confronto l’uomo universale dell’antichità («sapevo – dice Ippia – la Musica, la Geometria, le Belle Lettere, la Poesia, la Fisica, la Morale, la Politica e poi tutte le Arti che bisognavano per vestirmi»42) e l’uomo moderno, i cui progressi sono il portato dello studio e dell’applicazione all’interno di una più accentuata divisione del lavoro. «Chi possedeva a mio tempo le prime cognizioni – afferma infatti Reinart –, sdegnava di apprendere le seconde, e lasciava ad altri la cura di provvederlo di quello che vi facevi Voi medesimo, probabilmente per avarizia». Ma all’accusa di avarizia Ippia replica indignato: «Nò per avarizia; per non star mai in ozio, e per aver sempre da lavorare intorno qualche cosa, giacché la medesima applicazione stanca chiunque». La condanna della vita oziosa trova il calzolaio pienamente d’accordo, e in 40   «Sì, o Signori – scrive Federico II –, un calzolajo può esser nato un grand’uomo, e perciò qualunque mestiere utile non è ignobile; la maniera con cui viene esercitato può ancora elevarlo. V’ha più merito a ben lavorare un campo, far dei buoni drappi o delle scarpe comode, che a mal amministrare la giustizia, intricar le finanze, non saper condurre distaccamenti alla guerra, o lasciarsi levare la vittoria da un nemico più valoroso, o più abile; non v’ha nulla di abbietto nella condizione d’un uomo che a noi somministra soccorsi per nostri indispensabili bisogni». E anzi, c’è di più, perché: «chi governa saviamente con ordine e applicazione la sua bottega e la sua casa, governerebbe medesimamente una città, una provincia, e non dissimilmente, un reame». Federico, Discorso, pp. 8-9. 41   Pelli Bencivenni, Nuovi dialoghi, p. 63. 42   Ibidem, p. 64.

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più gli offre il destro per polemizzare con la moderna società della conversazione, i cui seguaci, gentiluomini e dame, ambiziosi e begli spiriti, hanno soltanto parole di disprezzo per le occupazioni meccaniche, e poi pretendono di scansar la noia discorrendo. Il dialogo si avvia così alla conclusione, cantando le lodi della laboriosità. Sono le attività utili e creative che conferiscono dignità e pienezza di senso alla vita degli uomini: «so bene – dice il calzolaio – che quando non avevo da lavorare, consumavo male le mie ore, e che non vivevo momenti più felici, che quando stavo applicato nella mia bottega». «Avevi ragione – chiosa il filosofo –. La natura non ci ha fatti per stare in ozio; vuole che si fatichi, ed a questo prezzo vende quella poca di Felicità che si può avere nel Mondo»43. La vita secondo natura, di derivazione stoica, è qui identificata nella condizione degli umili, intesa, cristianamente, come la più felice; ed è per di più coniugata con una visione integralmente positiva delle arti utili che troviamo, prima che nel Pelli, nel cattolicesimo riformatore del Muratori44.   Ibidem, pp. 65-66. «Tutte queste considerazioni (sulla vanità della gloria) – scrive il Pelli nel 1761 – mi convincono sempre più che non dobbiamo faticare se non per adempire a’ nostri doveri, e per occuparci nel tempo che stiamo in vita, acciò l’ozio non induca la noia di se stessi, o non ci renda rei di più delitti al cospetto del Creatore. Per questo fine scrivo, compongo, leggo, persuasissimo esser tutto questo una follia del mondo, e non mi acquistar con ciò né un merito maggiore, né una felicità più compita di un montanaro, che pascola i suoi armenti fra i dirupi di una solitaria montagna senza curare l’aura vana della gloria, e senza mettersi in pena di esser rammentato doppo morte. Se molti potessero tornare in vita resterebbero sorpresi vedendo quanto sono state vane le fatiche che usarono per immortalar sé, e le cose loro, e per dar leggi a quelli che dovevano venire». Efemeridi, I, VI, pp. 62-63. 44   Sul Muratori, così scrive il Pelli nel 1765: «Fra le opere utili delle quali l’Italia è sommamente debitrice all’incomparabile Muratori io conto sopra tutte le altre la Filosofia Morale, e i trattati Della carità cristiana, Della regolata devozione, e Della pubblica felicità. Sono questi libri di un vantaggio grandissimo, ed i primi tre doverebbero essere nelle mani di tutti, l’ultimo in quelle di chi governa, e di chi consiglia i principi. Non aveva il Muratori felicità di stile, e maniera di esporre le cose con quella galanteria, ordine, e vivacità che si trova nei libri specialmente dei francesi, ma sapeva più di questi, ed aveva il possesso delle dottrine vere, e buone che senza inorpellatura portano in fronte il loro carattere, ed a chiunque ha ragione si fanno per tali conoscere. Io non posso non confessare che un uomo della tempra, e capacità del Muratori pochi se ne sono dati, e pochi se ne daranno, ma il più bel pregio di lui è stato l’avere ambìto di essere un letterato utile, e virtuoso, e di aver lasciate dopo di sé delle opere che l’ignoranza, e la cabala può solamente non apprezzare. Non faccio paragoni, ma meno hanno giovato, e gioveranno al mondo, molti parti di sublimi ingegni che il più si stimano, di quello che abbiano fatto, e sieno per fare i quattro sopranominati del Muratori. Questi porrei avanti ai giovani con svellere dalle loro mani l’Emilio, la Nuova Eloisa, l’Esprit ecc. ecc. ecc., ne’ quali quel poco di buono che vi è sta mescolato con molto veleno. È vero che ho stima dell’ultimo libro che ho nominato, ma so non ostante quello che ha di cattivo, e so di più che non doverebbe esser letto in un’età così fresca. Sono alcune volte triviali le cose 43

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La stessa valorizzazione della vita pratica è spesso presente nelle Efemeridi, contrapposta talvolta all’infelicità della vita speculativa. Per esempio, il 6 luglio del 1760 il Pelli, di ritorno da una visita ai suoi poderi, scrive: Sono stato molte ore a vedere i miei contadini segare [i.e. mietere], ed oh con qual piacere ho veduta la loro sollecitudine, ed il loro buono umore in mezzo alla penosa fatica. Questo penoso esercizio non risparmia i fanciulli, le femmine ancor gravide, e la vecchiaia. Non ostante, queste persone, che nelle città credono di avere un giusto diritto di vivere più delicatamente, nulla soffrono ad occuparsi con i più robusti, ma nell’adempire il precetto della natura di spargere i loro sudori per procacciarsi il pane si mantengono sani e godono quella felicità che negli altri stati, o non si trova, o non si crede esservi, perché sono situazioni forzate per l’uomo 45.

5. Concludo accennando al dialogo XX e ultimo della raccolta, che verte sul rapporto tra la felicità pubblica e le leggi46. Un tema simile non poteva che essere dibattuto da due grandi legislatori: il quacchero William Penn e il laconico Licurgo. Entrambi convengono sulla necessità di legiferare in conformità alla natura dell’uomo, ma si dividono quando si tratta poi di stabilire

che dice il Muratori, ma le verità sono vecchie, e ovvie, e quando solo si vuol cercare la novità si va incontro al paradosso, all’empietà, all’errore». Efemeridi, I, XIV, pp. 13-15. 45   Efemeridi, I, V, pp. 71-72. E sulla vanità della vita speculativa: «Bisogna che io confessi che ad onta delle fatiche che ho fatte per imparar qualche cosa, e delle cognizioni che ho apprese nella lettura di molti buoni libri, ancora non so se sia più felice di un ignorante agricoltore, o di una semplice villanella. So bene che l’ornar lo spirito di verità necessarie, e dilettevoli, sollevar l’anima alla bellezza della vera gloria, imparare a conoscere gli uomini tali quali sono facendoli vedere tali quali sono stati, e tali quali dovrebbero essere, renderci più umani, più generosi, più giusti illuminandoci sopra i nostri doveri, e sopra i legami dell’umanità, sono l’effetto dello studio quando è bene ordinato al dire degli autori dell’Enciclopedia all’articolo Étude; so che se noi fossimo affatto ignoranti averemmo un male di più, e non saremmo liberi da tutti quelli che ci tormentano; so che gli uomini culti, se fanno il male lo fanno meno crudamente de i selvatichi, e so mille altre cose di questo genere che riempiono le repliche fatte al discorso del celebre Rousseau contro le scienze, ma con tutto questo provo in me verificarsi quanto dice l’Ecclesiaste cap. 1: “In multa sapientia, multa (…) indignatio, et qui addit scientiam, addit dolorem”, quantunque vivamente conosca quanto sia inferiore a quello che parla in detto libro. Gran Dio! Eppure è vero che in tutto si risente la debolezza nostra, che la felicità non è che in Voi, che sono frivolezze tutte le nostre occupazioni, e menzogne le proteste che facciamo di non cercar altro ne’ buoni studi che illuminare la mente. Ah che pieno di confusione prostrato avanti di Voi vi supplico per quella bontà, ch’è uno degli essenziali attributi della vostra infinita grandezza, che vi degnate dissipare dalla mia mente quelli errori che la ingombrano, e che possono essere la sorgente della mia eterna infelicità, acciocché con mio discapito non passi il mio tempo dietro alle apparenze di una scienza che non Vi piaccia, e che non mi abusi indegnamente di quei doni che mi avete dati, e che mi dovrebbero meritare i Vostri riguardi». Ibidem, I, I, pp. 183-84. 46   Pelli Bencivenni, Nuovi dialoghi, pp. 154-63.

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quale sia questa natura. Per Licurgo, che qui propriamente rappresenta il punto di vista di Hobbes, l’uomo è fatto per la guerra: sciolto da ogni vincolo è incapace di generosità47. Il quacchero, convinto invece dell’istinto sociale degli uomini, riconduce le discordie e le violenze alle condizioni materiali e alla paura. Sparta era una terra sterile circondata da vicini minacciosi, la Pennsylvania al contrario è ubertosa, e gli Irochesi, secondo Penn, ebbero solamente vantaggi dalla «progettata Repubblica»; non avrebbero potuto «paventare alcuna cosa». L’uomo, dice Penn, non nasce malvagio, ma può diventarlo, anche per colpa delle cattive leggi: …subito che è nato ha diritto a sussistere. Poiché ha in se qualche cosa di più degli Animali, vuole anche sussistere felicemente, cioè più lontano possibile dalla nativa miseria, dal disagio, dal dolore. La Natura gli ha dato un istinto per conservarsi, lo ha provveduto di un grado sufficiente di forza, di attività, di durabilità per sostenersi contro tutto quello che gli può nuocere. In oltre gli ha suggerito quanto è necessario perché pensi a mantenere la specie. Fin qui non è da più dei Bruti. Ma poiché non deve vivere come essi, ma in società, è concorsa la ragione a dettargli che può garantire quest’istinto con delle Leggi, che deve raccomandarne l’esecuzione ad una Potestà provveduta di forza coattiva, e che deve cedere qualche porzione della sua libertà per assicurarsi maggiormente la propria esistenza48.

L’uomo di William Penn – che qui somiglia moltissimo a quello di Helvétius – vuole essere felice, ma s’inganna se pensa di poterlo essere grazie alle leggi. Accade più spesso il contrario, perché le leggi, che possono tutt’al più renderlo giusto, sono di due generi: le leggi di natura, o «primarie», e le leggi «fattizie», o «secondarie», e queste ultime quando non sono rigorosamente dedotte dalle prime «possono essere eccedenti, ed in conseguenza aggravarlo troppo»49. Dopo questo richiamo un po’ scolastico alle fondamenta del giusnaturalismo, e dopo aver accennato una critica della giurisprudenza, Penn riconduce la felicità pubblica ai buoni costumi, che solo l’esempio può stabilire «con spargere una general nozione del Bene»50. A Licurgo che chiede spiegazioni il quacchero chiarisce che la nozione di

  «Non saprei con tutto questo spiegare – dice Licurgo –, come poteste Voi credere che avessero un vero senso alla Pace. Io conobbi che sono portati a farsi la Guerra, e n’ebbi mille riprove, osservando quello che accade fra Uomo e Uomo sciolto da ogni Legge, rilasciato a se stesso, operante per semplice istinto». Ibidem, p. 155. 48   Ibidem, pp. 156-57. 49   Ibidem, p. 158. 50   Sull’importanza dei costumi Licurgo è ovviamente d’accordo con Penn: «Trovo in tutto quello che mi dite la ragione di molte cose, che feci per felicitare gli Spartani». Ibidem, p. 159. 47

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Bene coincide con «tutto quello che conduce a mantenere, a conservare una cosa che esiste, ed a conservarla, e mantenerla in quello stato nel quale, avendo sentimento, sarebbe contenta di esistere». L’istinto di autoconservazione, che al di là degli individui si presume che debba risiedere in tutti gli enti morali, e quindi nella società nel suo complesso, può anche innescare delle dinamiche competitive, senza avere con ciò degli esiti necessariamente distruttivi, come crede Licurgo; il più delle volte gli sforzi antagonisti finiscono per placarsi in una condizione di equilibrio, perché l’uomo non è mai vissuto nell’ipotetico stato di natura («non ho fin qui trovati degli uomini come le fiere»), e nella «Società l’intreccio delle relazioni lega i diversi interessi, difende dai reciproci attentati, dirige l’Amor proprio a riflettersi, ed a rifrangersi scambievolmente»51. Stabilito che gli interessi individuali e quello generale sono portati dalla ragione ad armonizzarsi, Penn distingue in maniera fin troppo dottrinaria la legge dal patto: la prima è una conseguen  Ibidem. Nelle Efemeridi il Pelli si mostra dubbioso in proposito: «Dicevo ieri che non è fattibile che al privato interesse di tutti si riunisca il pubblico vantaggio. M’a ben mirare ciò segue, perché appunto non è diverso l’interesse privato dal pubblico se non nell’opinione di chi, formando se stesso centro dell’universo, a questo vuole che tutte le cose facciano capo per cooperare alla propria felicità, o sia all’adempimento di tutte le sue possibili voglie. Di qui è che non è fattibile detta unione, perché non è se non ipotetica la distinzione di vantaggio pubblico, e privato, ed al più può dirsi che il primo sia puramente apparente, ma che il secondo deva con sincerità riconoscersi per sostanziale, e per vero. Lunga inchiesta sarebbe il togliere questo pregiudizio dagli uomini avvezzi da tanto tempo a sostenere questa distinzione che tanto solletica l’amor proprio, ma per altro sarebbe facile impresa il provare che al privato non può essere utile quello che al pubblico nuoce, giacché niuno può riguardarsi per isolato nel mondo». Efemeridi, I, XII, p. 59. E qualche tempo dopo: «Quando riflettiamo che l’effetto delle leggi doverebbe essere “la massima felicità divisa nel maggior numero”, e quando dopo di ciò prendiamo fra mano i codici delle nazioni, ci sentiamo commuovere a considerare quanto questi smentiscono il detto principio. Non vi è che il solitario filosofo, il quale veda queste verità, e solo alcuno che trovandosi ad agire è non ostante persuaso della medesima nel tempo che osserva gli ostacoli frapposti ad essa deve confessare che questi ostacoli sono per quattro quinti originati dalla volontà degli uomini o cattivi, o ignoranti che sono stati, sono, e saranno sempre i più odiosi nemici della felicità umana. E siccome nei governi sempre di questi ve n’è un gran numero, i quali con le loro massime adulano le passioni, così i buoni mescolati con essi sono impotenti a fare quello che stimano il meglio. Di qui rilevasi una nuova ragione per credere che la felicità umana è una chimera, poiché bisognerebbe cominciare da ripopolare il mondo di anime virtuose, o almeno da riporre sul trono, e vicino ad esso persone di quella probità che doverebbero essere, ma che non si è trovata, né si trova nel mondo. Che perciò? Il meglio per la propria quiete è la vita solitaria coerente alle leggi, essendo la meno pericolosa, e la meno soggetta ai capricci altrui, siccome con tutta verità riflette l’autore delle Meditazioni sulla felicità (Pietro Verri), mentre ogni altra riforma è immaginaria, ed impossibile ad eseguirsi nelle circostanze in cui siamo noi altri mortali». Ibidem, I, XIV, pp. 47-48. 51

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za logica, un corollario, «dell’essenza dell’uomo nello stato in cui il Creatore lo ha posto su questo Globo», mentre il secondo decide della forma politica di una società, e basta che sia conforme alla natura e liberamente stipulato. Nel bel mezzo della discussione, entra però bruscamente in scena un terzo personaggio, Mercurio, latore di un messaggio del Padre degli Dei. Giove, stanco delle lamentele degli uomini, ha deciso, infatti, di incaricare i due legislatori della stesura di un Codice delle leggi migliore di quelli progettati da Platone e da vari altri filosofi, i quali da vivi, «quando erano rivestiti di passioni, di pregiudizi, di errori, composero, pare per i morti, cioè per uomini sciolti di ogni qualitade umana»52. È sperabile che Penn e Licurgo, proprio perché appartenenti ormai al mondo spassionato delle ombre, sappiano fare qualcosa di meglio. I due, quindi, partono per mettersi subito al lavoro, ma non sanno, i poveretti, che le loro fatiche, prima di essere ratificate dal consiglio degli Dei, dovranno, per un decreto inesorabile del Destino, essere approvate da Momo, la personificazione del sarcasmo, del biasimo e della critica. E questo perché, superata la censura di quel malizioso cavillatore, non ci sia proprio più niente da criticare; così come dovrebbe essere per tutti i benefici ricevuti dal Cielo, anche se gli uomini, incapaci di riconoscerli come doni della Provvidenza, continuano, a torto, a trovarli manchevoli e insoddisfacenti. La condanna della presunzione umana e l’invito a rimettersi ai disegni divini non valsero a salvare il Pelli dalla censura ecclesiastica. I dialoghi sulla casuistica, sulla superstizione, sugli abusi e sulle ipocrisie del clero regolare furono trovati reprensibili dalla congregazione dell’Indice, e condannati nel 1776. Il Pelli la prese con rassegnazione e ironia; nelle Efemeridi rivendicò la perfetta onestà della sua operetta, colpevole unicamente di aver messo a nudo la falsa coscienza dei suoi censori: «Potrei scherzare molto sopra di ciò, ma non tutto quello che si dice va scritto. Il vero è per altro che la cosa mi ha fatto ridere, essendo sicuro che nei medesimi rispettavo la religione, e solo mi occupavo a dar la berta ai frati che dirigono le penitenti, ai casuisti, ed a simil sorta di persone che si abusano del loro sacro ministero»53. D’altra

  Pelli Bencivenni, Nuovi dialoghi, p. 162.   Efemeridi, II, IV, p. 615v. «Io non voglio moralizzare, né riformare il mondo – scrive ancora il Pelli –, perché questo è un impegno ridicolo, ma (…) Questo è come parlano gli uomini più sensati, in bocca dei quali pure esce un “ma”, monosillaba tanto significante nell’idioma italiano, francese ecc. Da questo genio che tutti hanno d’insegnare agli altri nascono i predicatori, i confessori, i maestri di scuola, i progettisti ecc. Appena un cinque per cento di costoro fanno la professione per puro zelo, e per puro dovere del loro stato. Molti la fanno per vivere, e tutto il resto per primeggiare sopra gli altri loro simili. Questo pensiere 52 53

la felicità nei «Nuovi dialoghi italiani dei morti» di Pelli Bencivenni

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parte, trovava conforto nel successo crescente tributato dal pubblico ai molti seguaci di Luciano e Fontenelle54. Qualche mese dopo la condanna dell’Indice ebbe modo di leggere… …un libretto stampato l’anno scorso a Bouillon, in 8°, intitolato Nouveaux dialogues des morts recueillis de divers journaux et choisis avec soin. Sono da quaranta dialoghi sul gusto de’ miei, a riserva dell’ultimo fra il duca di Bourgogna e l’abate di Fénelon ch’è come un piccolo trattato delle diverse sorte di governo. Gli altri sono per lo più gustosi, succinti, vibrati. Or mai la moda dei dialoghi dei morti è troppo sparsa sicché non bisogna che pensi altrimenti accrescere i miei, e già i medesimi hanno avuto bastante nome, quando sono stati posti all’Index. Del resto persisto in credere che questo genere di composizione sia adattissimo a dire delle cose buone, e a dirle con vivacità, e spirito, a far il processo al genere umano, ad analizzare la storia, a dipingere i veri caratteri di coloro che hanno un gran nome. In bocca dei morti molte verità non sono pungenti, e sono giustificate. Fra questi vi è di ogni genere di persone, e si possono verisimilmente accostare assieme facendole parlare con sincerità, e confidenza55.

potrà scandolezzare, ma gli uomini coprono il loro interno, ed odiano chi penetra in esso, e si prende la libertà di smascherarlo. Questo mio linguaggio mi ha fatta meritare la censura fulminata contro i miei poveri Dialoghi». Ibidem, II, IV, pp. 622. 54  Non tutti, s’intende, in grado di uguagliare quei grandi modelli. Nel 1768, ad esempio, il Pelli dopo aver letto i quattordici dialoghi dei morti pubblicati a Lucca tre anni prima dal bresciano Giuseppe Colpani, alcuni dei quali erano già apparsi su «Il Caffè», così annotò sulle Efemeridi: «Ho poi letti i (…) Dialoghi del Colpani. Non mi vergogno dei miei, e gli trovo benché non male scritti, languidi, ordinari, e secchi. Fontenelle veramente è originale, e chi lo ha copiato ha molto mal copiato un superbo quadro. Il nostro Colpani è ancora fra i copisti più mediocri…». Ibidem, I, XIX, p. 55. 55   Ibidem, II, IV, p. 713. La raccolta citata dal Pelli ebbe due edizioni, a Bouillon per la Société typographique, nel 1775 e 1777.

Alessandra Di R icco LA VITA FELICE DELL’UOMO SAVIO: SAVERIO MATTEI E IL PARADOSSO DELLA FELICITÀ

I Paradossi di Saverio Mattei consistono in una raccolta di dieci epistole morali di modello oraziano, il cui titolo allude ai Paradoxa stoicorum di Cicerone. La loro ispirazione è marcatamente senechiana (con particolare riguardo al dialogo De vita beata), e il Mattei vi affronta il tema della felicità alla luce dei principi dell’insegnamento morale stoico, ricollocando nel quadro della problematica moderna il classico argomento del rapporto tra felicità e virtù1. 1. I Paradossi furono stampati a Siena nella seconda metà del 1776 dal Pazzini Carli2. In questa prima edizione erano preceduti da una dedica al conte Firmian nella quale si esaltava la «filosofica moderazione» nelle «pubbliche cure» del ministro asburgico: virtù che, dice il Mattei, consentiva al Firmian di apprezzare «queste agli occhi del volgo / piene di stranezza / agli occhi di un filosofo / piene di verità / epistole morali». Anno e luogo di pubblicazione, scelta del tipografo e del dedicatario suggeriscono che, per dare in luce il suo libretto nei mesi in cui a Napoli imperversavano le polemiche sul processo ai liberi muratori e sul caso Pallante, l’autore si fosse affidato alla filiera di amicizie facenti capo al partito filoaustriaco, amicizie che dal circolo dei fratelli Di Gennaro portavano, per il tramite del Bertola e dello Zacchiroli, all’editore del «Giornale letterario di Siena»3.   Ho ritenuto opportuno mantenere la dimensione e la struttura dell’intervento presentato al Convegno, nel quale anticipavo alcuni risultati parziali di uno studio più ampio che ha ora preso forma definitiva nel saggio Saverio Mattei poeta satirico, apparso nel volume L’amaro ghigno di Talia. Saggi sulla poesia satirica, Lucca, Maria Pacini Fazzi, 2009, pp. 85-123. 2  Cfr. I Paradossi. Epistole morali di Saverio Mattei, Siena, Vincenzo Pazzini Carli, 1776. 3   Sulla presenza a Napoli di Aurelio de’ Giorgi Bertola negli anni delle persecuzioni e del «trionfo massonico» (1775-78) cfr. G. Giarrizzo, Aurelio de’ Giorgi Bertola massone, in A. Battistini (a cura di), Un europeo del Settecento. Aurelio de’ Giorgi Bertola riminese, Ravenna, Longo Editore, 2000, pp. 26-28. La stretta collaborazione, editoriale e giornalistica, che si 1

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Alessandra Di Ricco

Dell’edizione senese delle epistole si servirà qualche anno dopo Giovanni Antonio Ranza per riprodurle nel 1781 in un volumetto della sua Tipografia Patria, volumetto che le vede unite, sotto il titolo di Satire del conte Gozzi e dell’avvocato Mattei, ai sermoni del veneziano4. A lavorazione già iniziata, il Ranza aveva però potuto avvalersi anche della prima stampa napoletana dei Paradossi, apparsa nel frattempo, sul finire del 1780, nel terzo tomo del Saggio di poesie latine, ed italiane (…) di Saverio Mattei messo fuori dal tipografo Giuseppe Maria Porcelli5, volume che proseguiva, con una raccolta di scritti giovanili, sia in verso che in prosa, la precedente edizione del Saggio, uscita dalla Stamperia Simoniana nel 1774 e riproposta dal Porcelli. Si avvale da ultimo dell’edizione del Ranza il disinvolto tipografo veronese Pietro Bisesti (noto per una riproduzione non autorizzata di poesie del Monti e confezionatore in proprio di un falso montiano)6. I Paradossi di Saverio Mattei napoletano da lui pubblicati nel 1807 sembrano quindi por fine alla fortuna di questo testo, rimasto in ombra rispetto alla ben più conosciuta produzione del Mattei biblista e filosofo della musica. 2. Se la stampa dei Paradossi data il 1776, la loro stesura risale, non esclusivamente ma per la maggior parte, a circa un decennio prima, all’epoca, cioè, nella quale l’autore si era ritirato a Montepavone, nella natia Calabria ulteriore, dopo aver compiuto i propri studi giuridici e letterari a Napoli7. E lì, nel ritiro provinciale, per interrompere – dice – l’immane fatica della traduzione dei Salmi, della quale tra il 1766 e il 1767 erano usciti i primi due tomi, si era dato a comporre le sue epistole morali8. In quale stato d’animo il Mattei vivesse questa condizione di agiato possidente dedito agli studi, instaura nel corso del 1776 tra Bertola e Zacchiroli, approdato in Toscana dopo essere stato costretto ad abbandonare Napoli, si disegna sullo sfondo di una rete di appoggi e protezioni massoniche, la stessa che porta lo Zacchiroli a sostituire Bertola alla direzione del «Giornale letterario» di Siena (cfr. A. Di Ricco, Bertola, Zacchiroli, la «Biblioteca Galante» e la morale del sentimento, «Studi italiani», a. XIV (2002), fasc. 1-2, pp. 212-214). Il principale terreno d’incontro tra il Bertola e il Mattei fu il culto per Metastasio (cfr. Di Ricco, Saverio Mattei, p. 94). 4  Cfr. Satire del conte Gozzi e dell’avvocato Mattei, Vercelli, dalla Tipografia Patria, 1781. 5  Cfr. Saggio di poesie latine, ed italiane colla traduzione della famosa elegia Sopra la chioma di Berenice. Colle osservazioni critiche, ed Astronomiche di Saverio Mattei, Napoli, Giuseppe Maria Porcelli, 1780 6  Cfr. C. Chiancone, Vincenzo Monti e la cultura veneta, in G. Barbarisi e W. Spaggiari (a cura di), Vincenzo Monti nella cultura italiana, vol. III, Monti nella Milano napoleonica e postnapoleonica, Milano, Cisalpino – Istituto Editoriale Universitario, 2006, p. 593 e pp. 603-604. 7  Cfr. Di Ricco, Saverio Mattei, p. 89. 8   È quanto il Mattei afferma in una nota dell’edizione di Siena, riprodotta anche dal Ranza (cfr. Satire del conte Gozzi, p. 78).

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ma relegato, nel pieno della giovinezza, ai margini della vita civile, lontano dallo «stato socievole delle gran città» (come gli faceva notare in una lettera il Genovesi), è presto detto nell’esordio di una delle epistole, dove scrive: Dunque non vuole il ciel, che presso all’onde del placido Sebeto in dolce pace scorrano i giorni miei? Qui dunque oscuro viver degg’io, mentre i miei Salmi girano, e sono del padre i figli assai più noti?9

Non a caso, il titolo originario delle epistole morali dettate a Montepavone era Della vita felice dell’uomo savio, un titolo che, traducendo le aspirazioni di libertà intellettuale in termini di stoicismo senechiano, risarciva ideologicamente il letterato dalla frustrazione della lontananza dallo «stato socievole». Ma una volta traslocate nel «gran mondo» della capitale del Regno, le verità del codice morale dell’«uomo savio» non potevano non acquistare la veste ciceroniana di «paradossi», come il Mattei ci spiega nella prefazione: Veramente che solo il Savio sia felice; che solo il savio sia libero, e schiavi i Viziosi; che l’Ambizioso, l’Avaro, l’Iracondo, l’Effemminato non possano esser felici; che debba ognuno contentarsi del proprio stato, non sarebbero in verità oggi più Paradossi; e tutti dopo i lumi non solo della Filosofia, ma della Religione dovrebbero esserne persuasi. Pur per la vita, che continuamente si mena, contraria a queste massime, è cagione che si abbiano come Paradossi specialmente da coloro che vivono, come dicesi, nel gran mondo. Tali a me non sembravano, quando nell’ozio delle domestiche mura godeva nella solitudine de’ comodi ben molti lasciatimi da’ maggiori; quando contento d’essere il primo, fra gli ultimi, non avea la sciocca ambizione di esser l’ultimo fra i primi per vivere nella Capitale10.

Ciceroniana è anche la sprezzatura che sottende l’idea dell’‘operetta’ scritta «per interrompere la gravissima fatica della traduzione de’ Salmi»: un equivalente del parvum opusculum composto da Cicerone in atteggiamento ludens, in margine ad opere costate un ben più prolungato impegno11. Un’operetta, tuttavia, (e anche qui alla stessa stregua dell’opusculum: un parto minore, ma non indegno né di chi lo riceveva né di chi lo aveva composto)12 che serviva al

9  Avverto che le citazioni dai Paradossi sono tutte tratte dall’edizione Ranza. Cfr. qui Epistola III. Al Signor Rousseau, p. 78. 10   Satire del conte Gozzi, pp. 61-62. 11  Cfr. Paradoxa Stoicorum, proemio 3 e 5: «Ego tibi illa ipsa, quae vix in gymnasiis et in otio Stoici probant, ludens conieci in communes locos»; «Accipies igitur hoc parvum opusculum lucubratum his iam contractioribus noctibus, quoniam illud maior vigiliarum munus tuo nomine apparuit» (l’allusione è al Brutus). 12  Cfr. la conclusione del proemio: «Hoc tamen opus in acceptum ut referas nihil postulo: non enim est tale ut in arce ponit possit, quasi Minerva illa Phidiae, sed tamen ut ex eadem officina exisse appareat».

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Mattei per dialogare letterariamente con alcuni personaggi illustri, raggiunti grazie alla fama dei Salmi e divenuti suoi corrispondenti abituali, come il Metastasio o il vescovo riformatore di Cortona Giuseppe Ippoliti, oppure per rivolgersi a coetanei come Carlo Castone Rezzonico (nato come lui nel 1742), al quale lo accomunava l’idea, di matrice graviniana, di una poesia restituita al suo originario statuto di filosofia e teologia tradotta in immagini. Ma le epistole gli servivano anche per collegarsi idealmente con i protagonisti della cultura dei Lumi, individuati come destinatari: Voltaire, Rousseau, Formey, Beccaria, d’Alembert. E mentre l’epistola al celebre intagliatore di gemme Giovanni Pikler era l’occasione per dare una lettura in chiave massonica del mito dell’età dell’oro, definito una invenzione dei poeti prefigurante «(…) l’idea / della felicità, de’ dì beati, / che gode ognor chi ha la virtù per guida»13, quella indirizzata a Sergej Gerasimovič Domašnev, oltre che fungere da elogio del principe illuminato, qui l’«(…) altera, e grande / emola delle Amazzoni guerriere / (…) la Donna che la Russia adora»14, ci segnala la vicinanza del Mattei a quegli entusiasmi filoellenici e filorussi che avevano animato tanti napoletani da quando le navi del conte Orlov avevano cominciato a incrociare nel Mediterraneo15. 3. Mentre però Mario Pagano aveva reagito alla vittoria di Cesmé gettando d’impulso sulla carta una «tumultuaria» orazione latina nella quale celebrava l’ammiraglio russo e proiettava il suo trionfo sullo sfondo di un’Ellade risorta all’antico splendore16, lo stesso classicismo di scuola indicava al Mattei una via diversa per tradurre in moduli antichi il suo ragionamento sulla contemporaneità. Favorito in questo dalla reclusione nell’otium di Montepavone, sceglieva la forma paradossale della scrittura morale, saltando il moderno Ortensio Lando per rifarsi direttamente a Cicerone, e adottando l’atteggiamento spirituale e lo stile dell’Orazio satirico. Dunque: un ideale ispirato alla moderazione delle passioni e alla filosofica autosufficienza (metriótes e autárkeia), espresso con l’arte divagante del sermone, da lui tradotta in endecasillabi sciolti accentuatamente prosastici, voluti così per rendere uno stile «spezzato, familiare, senza l’artificio svelato del poeta»17.

 Cfr. Epistola IX. Al Signor Picle, p. 118.  Cfr. Epistola VIII. Al Sig. Domascheneff, p.112. 15  Cfr. F. Venturi, Settecento riformatore, III, Torino, Einaudi, 1979, pp. 111-132. 16   Sull’Oratio ad comitem Alexium Orlow di Francesco Mario Pagano cfr. le pagine di Venturi sopra citate. 17  Le riflessioni del Mattei sullo stile dei suoi sciolti sono affidate soprattutto alla Lettera dell’Autore al Signor Giuseppe M. Porcelli, premessa al Saggio di poesie latine, ed italiane con 13 14

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In altre parole: il sermo humilis, che il Mattei vedeva adeguato al genere di poesia da lui prescelto, e vedeva, al tempo stesso, sfigurato dai poeti della scuola lombarda (gli eredi dei tre eccellenti moderni autori), che nelle loro epistole in versi si sforzavano in ogni modo di rendere difficile e artificioso un metro che invece era fatto per comunicare ragionando18. 4. Nell’indice presente nell’edizione Porcelli testé ricordata, ciascuna epistola è accompagnata da un titolo esplicativo che rende l’idea delle verità morali illustrate nei Paradossi. I titoli e i relativi destinari sono i seguenti: Se son più i beni o i mali (a Voltaire), In che consista la felicità (a Rezzonico), Dell’ambizione (a Rousseau), Dell’invidia (a Formey), Dell’ira (a Beccaria), Dell’amore (a Metastasio), Del tempo perduto (a d’Alembert), Delle ricchezze (a Domašnev), Della saviezza necessaria per esser felice (a Pikler), Della religione necessaria per esser savio (a monsignor Ippoliti). Anche se la connessione tra argomento e destinatario non risulta necessariamente cogente (tant’è che l’autore confessa di avere «cambiate le direzioni di alcune», nel tempo intercorso tra la stesura e la pubblicazione) il destinatario moderno ha comunque la funzione di far valere nel presente il codice morale antico, ritagliato sulla lezione di Seneca. Così, ad esempio, d’Alembert è l’ultima incarnazione del savio che non spreca il suo tempo in occupazioni e studi inutili, e Beccaria è il prosecutore delle riflessioni senechiane sul disordine e la violenza, privata e sociale, scatenati dall’ira (che acceca l’umanità del giudice). Ad ogni modo, il filo conduttore della riflessione morale è l’equivalenza di virtù e felicità. E forse non è un caso che l’epistola che più esplicitamente stringe intorno a questo argomento sia quella indirizzata al Rezzonico: Quanto ci è di mortali, ognun felice / viver vorrebbe; eppur non c’è nel mondo / fra’ mortali un felice! Onde ciò fia, / saggio illustre Gaston? Tu che le antiche / carte, e moderne ognor rivolgi, e il tempo / sani pensieri meditando passi / non ozioso, il sai tu forse?19

Come a indicare che la ricerca della nuova-antica definizione della felicità era la battaglia comune della loro, giovane e non oziosa, generazione. Ma se in questa epistola il modo di proporre l’ideale dell’autarchia stoica, con l’evocazione finale e aneddotica di Diogene, è schematico e ingenuamente scolastico, altrove il Mattei mostra di aver affinato la sua lettura moderna del

tre Dissertazioni ed una Raccolta d’Iscrizioni, t. III, Napoli, Giuseppe Maria Porcelli, 1780, p. vii (da cui è tratta la citazione). 18  Della questione ho più diffusamente trattato in Saverio Mattei, pp. 118-123. 19  Cfr. Epistola II. Al Signor Conte Gastone della Torre di Rezzonico, p. 72.

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rigorismo stoico. Infatti Voltaire, convocato a dirimere il classico confronto tra il riso di Democrito e il pianto di Eraclito, non può che schierarsi dalla parte di Democrito, e spalleggiare l’atteggiamento del poeta, improntato a una erasmiana e ariostesca ironia nei confronti delle debolezze dell’umanità. Se la felicità coincide con la virtù, il vero filosofo è colui che si tiene a metà strada tra stoicismo estremo ed estremo edonismo, e non cessa di ridere delle «follie del volgo»: cosicché l’«amico» Voltaire veniva invitato a temperare con la pratica della virtù la ricerca del piacere, ricerca giustificata e legittimata dalla presenza del bene nell’ordine provvidenziale del mondo. Alla domanda «Se son più i beni o i mali» Mattei rispondeva dunque mettendo in guardia contro la rappresentazione della condizione infelice dell’uomo data dai «moderni malcontenti filosofi», e invitava a «rifare il calcolo più esatto», così da arrivare a concludere che que’ pochi mali che interrompono i beni, quando sanno soffrirsi con pazienza, o non son mali, o servono talora, nella musica come dissonanze passaggiere, che più grate fan poi le consonanze20.

5. Per designare Rousseau Mattei adatta la perifrasi dispregiativa che il Parini aveva utilizzato per Voltaire, cosicché il pariniano «O della Francia Proteo multiforme»21 diventa «O della Francia illustre Stoico». Ma al tempo stesso Mattei mantiene la linea pariniana dell’abbinamento tra Rousseau e Voltaire come calco di quello classico tra Diogene e Aristippo, che si trova anche in Orazio: O della Francia illustre Stoico insegnami, / come tu dal tumulto e dallo strepito / sai ritirarti, e ritrovar pur sai / solitudine ancor dentro Parigi! / Tu sprezzi onori, tu ricchezze e comodi; / tu ti togli degli uomini al commercio, / e con severo esempio inimitabile / la vita trai del tollerante Cinico, / nell’atto che Voltaire, il tuo grand’emolo, / qual Aristippo gode dell’amica / sorte i favori, e caro anche a coloro / che di serto real cingon la fronte22.

È certo, però, che come Orazio si orientava verso la libertà adattabile alle richieste del potere di Aristippo e contro la presunzione autarchica di Diogene23, così il Mattei propende verso la morale mondana di Voltaire, e dice di volere «l’uomo in società, non in disunion fra’ boschi»24. C’è poi,

 Cfr. Epistola I. Al Signor de Voltaire, pp. 70-71.  Cfr. Il Mattino (1763), v. 598. 22  Cfr. Epistola III. Al Signor Rousseau, pp. 78-79. 23  Cfr. Hor., Epistulae, I, 17, 13-15. 24  Cfr. Epistola III. Al Signor Rousseau, p. 79. 20 21

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comunque, «un ribelle pensiero», che lo distoglie dalla tentazione di imitare il disprezzo dei vani allettamenti del mondo ostentato dal ginevrino: il pensiero – dice – che «mi va ricordando a mio dispetto / che tu in Parigi, ed in Calabria io sono»25. Spunti antirousseauiani si trovano anche nell’epistola a monsignor Ippoliti, sotto forma di polemica contro quei filosofi che, senza aggiungere a noi neppure «un picciol grado» di felicità, «(…) sol faticano / per mostrar che felici al par di noi / sono i selvaggi ancor»26. Si riaffaccia qui la polemica genovesiana contro i corifei del mito del buon selvaggio, e il sarcasmo del poeta si abbatte senza pietà sulla loro mal riposta filantropia: Questi filosofi / si chiamano degli uomini gli amici, / cioè gli amici de’ selvaggi, e barbari, / che gratissimi a’ lor benefattori / marmorei monumenti innalzeranno27.

6. Sono queste alcune delle verità che costituiscono il codice della Vita felice dell’uomo savio. La retorica del paradosso, esibita nei versi giovanili, si esercita però anche al di fuori della poesia. Si intitolerà infatti Paradosso politico e legale l’opuscolo del 1787 col quale il Mattei, sapendo di trattare «una verità contraria alle opinioni del volgo, ma uniforme alla ragione e alla buona Filosofia»28, si schierava a favore della «dolcezza delle pene» e della costituzione leopoldina. La sua adesione alle tesi sostenute nel libro Dei delitti e delle pene si era d’altra parte tempestivamente annunciata fin dall’Epistola indirizzata al Beccaria, nella quale la senechiana condanna dell’«ira» era diventata un atto d’accusa contro i giudici inumani, contro la tortura e la pena di morte, scambiate per «zelo» contro i delitti: Ceppi, catene, eculei, orride e scure carceri a punir l’uom, che reo si crede, non bastan dunque? Ed affrettar dovrassi quella, che non chiamata alfin pur viene, morte a troncar innanzi tempo i fili della misera vita? Ah, non è questo contro i delitti un zelo: è un’ira, ond’arde già contro i delinquenti il cor del giudice 29.

  Epistola III. Al Signor Rousseau, p. 84.  Cfr. Epistola X. A Monsignor Ippoliti, p. 128. 27   Epistola X. A Monsignor Ippoliti, p. 128. 28  Cfr. Che la dolcezza delle pene sia giovevole al fisco più che l’asprezza. Paradosso politico, e legale di Saverio Mattei, p. 9. Su questo opuscolo ha richiamato l’attenzione A. M. Rao, «Della virtù e de’ premi»: la fortuna di Beccaria nel Regno di Napoli, in Cesare Beccaria tra Milano e l’Europa. Convegno di studi per il 250° anniversario della nascita promosso dal Comune di Milano, Bari, Cariplo-Laterza, 1990, pp. 534-586. 29  Cfr. Epistola V. Al Sig. March. di Beccaria, p. 90. 25 26

Parte Quinta Spazi e scene

Orietta Rossi Pinelli Città reali, città ideali: la felicità degli abitanti

Quanto mi era spiaciuta Parigi al primo aspetto, tanto mi piacque subito l’Inghilterra, e Londra massimamente. Le strade, le osterie, i cavalli, le donne, il benessere universale, la vita e l’attività di quell’isola, la pulizia e comodo delle case, benché piccolissime, il non vi trovare pezzenti, un moto perenne di denaro e di industria sparso egualmente nelle province che nella capitale; tutte queste doti vere ed uniche di quel fortunato e libero paese, mi rapirono l’animo a bella prima, e in due altri viaggi, oltre quello, che io vi ho fatti finora, non ho variato mai più il parere, troppo essendo la differenza tra l’Inghilterra e tutto il rimanente d’Europa, in queste tante diramazioni della pubblica felicità, provenienti dal miglior governo. Onde, benché io allora non ne studiassi profondamente la costituzione, madre di tanta prosperità, ne seppi però abbastanza osservare e valutare gli effetti divini1.

Con questa partecipata riflessione Vittorio Alfieri contribuiva a consacrare, sin dal suo primo viaggio del 1768, il primato di Londra e del Regno Unito per le loro «tante diramazioni della pubblica felicità!». Londra, e il Regno Unito suscitarono – nel corso del Settecento – particolari apprezzamenti da parte dei sudditi dello Stato sabaudo, ma senza dubbio l’eccezionalità dell’esperienza politica, culturale, scientifica, e imprenditoriale di quel paese, che dal 1695 aveva sancito la libertà di stampa, suscitò ammirazione e non poche invidie in una ben più larga fascia di intellettuali europei. Ricordo solo l’ammirazione che il prestigio goduto dagli intellettuali d’oltre Manica suscitò in Voltaire, durante il suo esilio a Londra tra il 1726 e il 1729, ed anche l’apprezzamento di Montesquieu per le libertà di cui usufruivano i sudditi britannici «Non tocca a me scoprire se gli inglesi godano o meno di questa libertà. Mi basta poter dire che essa è contenuta nelle

1  Cfr. Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso, Firenze 1821, Milano, Garzanti, 1974, p. 122.

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loro leggi, e non vado oltre»2. La Gran Bretagna poteva essere attraversata anche dagli stranieri, senza controlli, coercizioni, porte, mura e dazi, come raccontava con stupore un viaggiatore prussiano a metà settecento: «Niente mura, niente porte, nessuna sentinella, nessuna guarnigione. Si attraversano città e paesi altrettanto liberamente e senza ostacoli che se si viaggiasse in aperta campagna»3. Se poi andiamo a riguardare i numerosi dipinti dai toni luminosi che Canaletto, nei quasi dieci anni che risiedette a Londra (1746-56 con due ritorni nel 1750 e nel 1753) dedicò alla capitale britannica, ci troviamo di fronte a una serie di paesaggi urbani sobri, eleganti, dalle ampie prospettive che nulla avevano a che spartire con le nebbiose, sudice, uggiose atmosfere con cui, un secolo dopo, Charles Dickens descriverà la città che insistentemente fece da scenario ai protagonisti dei suoi romanzi. Uno dei motivi che può spiegare giudizi tanto positivi sulla Londra settecentesca è – credo – da rintracciare nella effettiva capacità dei molti artefici delle trasformazioni che la grande capitale ha subito nel corso del secolo, di corrispondere – in parte – almeno alle tante indicazioni e suggestioni che una vasta letteratura sul tema della città seppe produrre nel corso del secolo, in chiave sia teorica, che normativa, che utopistica. Se, infatti, nei secoli precedenti erano stati pensati modelli di città ideale e l’utopia aveva calato in improbabili costruzioni urbane altrettanto improbabili modelli sociali (Campanella, La Città del Sole), nel XVIII secolo il tema della città come istituzione e il suo concreto assetto urbano divennero oggetto di analisi molto concrete e di proposte realistiche. Gli obbiettivi prioritari erano da un canto il decoro, ma non meno qualificante la creazione di infrastrutture capaci di contribuire sia allo sviluppo economico che al benessere degli abitanti4. I contrasti naturalmente non mancarono, così una serie di visioni catastrofiste si opposero ad altrettante forme di grande ottimismo. Le città reali erano gravate in effetti da non pochi pesanti problemi irrisolti, ma il

 La citazione è tratta da L’ascesa della Gran Bretagna e della Russia (1688-1713/1725), a cura di J.S. Bromley, «Storia del mondo moderno», VI, Milano, Garzanti, pp. 265-266, traduzione di The Rise of Great Britain and Russia, «The New Cambridge Modern History», VI, Cambridge, Cambridge University Press, 1970. 3  La citazione è tratta dalla Introduzione di L. Conetti alla edizione italiana di L. Sterne, La vita e le opinioni di Tristram Shandy, Gentiluomo, Milano, Mondadori, 1992, pp. xx, senza nessuna ulteriore precisazione. 4   Su questo tema ho scritto in Le arti nel Settecento europeo, Torino, Einaudi, 2009, soprattutto nei capitoli II e III. 2

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partito dei detrattori era condizionato ancor più dall’adesione intellettuale alle coeve e fiorenti teorie antiurbane che, se avevano una antica radice nel misticismo religioso, nel Settecento si ritagliarono una dimensione decisamente laica e si saldarono alla altrettanto vivace e dirimente polemica contro il lusso5. Fra i più noti e convinti detrattori della città ci fu naturalmente Rousseau, che stando alle Confessioni sembra sia stato se non indotto per lo meno confermato nelle sue posizioni antiurbane dalla bruciante delusione che provò nel suo primo viaggio a Parigi (nel 1732): Mi ero figurato una città tanto bella quanto grande, di aspetto imponente dove si trovassero vie superbe, palazzi di marmo e d’oro. Entrando nel sobborgo di SaintMarceau non vidi che viuzze sudice e fetide, brutte casupole annerite, un’aria di sudiciume, miseria, mendicanti, carrettieri, rammendatrici, venditrici di tisane o di cappelli vecchi. Questo aspetto mi colpì in modo tale che (…) mi è rimasto sempre un disgusto segreto per il soggiorno in quella capitale6.

Di molte città, nel corso del Settecento, ci sono rimasti resoconti ora ricchi di convinti apprezzamenti, con punte che arrivarono alla consacrazione di un mito come nel caso di Roma, ora grevi di notazioni sul degrado sociale, morale e ambientale; e neppure a queste ultime sfuggì la stessa Roma (da De Brosse alle pagine dell’Encyclopédie). I giudizi erano in gran parte condizionati dal retroterra culturale di ciascun visitatore o abitante. La contrapposizione tra vita rustica e vita urbana, tra la salubrità dell’aria campestre e «le tristi e oziose acque e il fetido limo» che incombevano sugli abitanti delle città fu, per esempio, condivisa anche da Parini che descrisse il disgusto, l’angoscia, il segreto senso di solitudine emanato dal labirinto di stradine della sua Milano; una città buia, caotica, sporca, pericolosa; un vasto deserto fatto di rumori, di fumo e di fango7. Ma voglio tornare a Londra, perché – nel corso del secolo dei Lumi – questa megalopoli ha veramente rappresentato un laboratorio molto fertile, sotto numerosi punti di vista, ed anche da quello della costruzione di un modello di città rispondente – come già ho accennato – almeno in alcune

  I. De Pinto, Essai sur le luxe, Amsterdam 1762, p. 7: consulente economico e finanziario dello Stadolder Guglielmo IV, fu esperto di problemi coloniali e autore di progetti di riforma della Compagnia delle Indie Occidentali sia per l’Olanda che per la Gran Bretagna. Cfr. C. Borghero, La polemica sul lusso nel Settecento francese, Torino, Einaudi, 1976, passim. 6   J.-J. Rousseau, Confessions, trad. it. Le Confessioni, Torino, Einaudi, 1978, p. 174, scritte tra il 1764 e il 1770 ma pubblicate postume a Ginevra tra il 1780 e il 1789. 7  Ne fa cenno G. Macchia nella Prefazione a N.-E. Réstif de la Bretonne, Le notti di Parigi, 1788-89, Roma, Editori Riuniti, 1982, pp. ix-xvi, l’edizione originale è del 1788-89. 5

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sue parti, alle numerose istanze che i teorici dell’architettura e alcuni utopisti andavano elaborando sotto diversi cieli. Certamente la grande ricchezza che si andava accumulando senza sosta nelle mani dei mercanti come dell’aristocrazia anglosassone (tra le più attive e imprenditoriali del continente) concorse a trasformare un tragico evento, l’incendio del 1666 che coinvolse gran parte della City, in una proficua occasione per ripensare l’assetto urbano di un’area di vitale importanza. Quella parte di città destinata ad ospitare i luoghi deputati ai negotia e le residenza dei detentori della ricchezza nazionale. Il piano regolatore che la Corona, nella persona di re Carlo II Stuart, aveva da subito commissionato a Christopher Wren; un piano grandioso, molto ben articolato, molto dettagliato, che non riuscì tuttavia a vincere le resistenze dei gruppi sociali emergenti, ben rappresentati in Parlamento, intolleranti dei vincoli calati dall’alto. All’architetto restò, tuttavia, l’incarico di erigere la monumentale Saint Paul e ricostruire in stile ‘moderno’ le molte chiese danneggiate dall’incendio. Molti suoi allievi diretti, di cui ricordo N. Hawksmoor e J. Gibbs insieme ad altri altrettanto grandi architetti come i fratelli Adam, sir J. Soane o J. Nash, ebbero modo – nel corso del XVIII secolo – di imprimere tuttavia un segno profondo alla struttura e all’immagine della capitale. Non un piano urbanistico unitario, quindi, ma neppure la caotica affermazione di esigenze particolari. La ricostruzione e poi l’ampliamento di Londra procedette sulla base di una serie di regolamenti appositamente predisposti. Si procedette infatti a preventive suddivisioni in lotti dei terreni edificabili, ceduti in locazione ai costruttori, con la clausola condizionale che gli edifici di uno stesso lotto dovessero rispondere a dei principi stabiliti da appositi Building Acts, che regolavano l’ampiezza delle strade, l’altezza degli edifici, l’impianto stilistico degli affacci. La ricostruzione della City procedette, almeno nei primi decenni, con qualche lentezza e prudenza laddove ancora sopravviveva l’antico tracciato medievale, ma il sistema della lottizzazione progressiva portò, verso la fine del XVIII secolo ad una sostanziale trasformazione dell’intera zona con una destinazione amministrativa, rappresentativa, monumentale. Nel tessuto urbano della City restava tuttavia un edificio imponente quanto dall’aspetto tetro e minaccioso, la prigione del Newgate, ampliata nel 1770-78, in forma di vera e propria fortezza da G. Dance8, assieme ad alcune strutture di carattere assistenziale che stridevano con il nuovo impianto di rappresentanza, commerciale e residenziale che andava prendendo corpo dall’inizio del secolo. Forse il simbolo più

 La struttura venne abbattuta solo nel 1902.

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autentico del rinnovamento urbano era incarnato dal grandioso edificio della Banca di Inghilterra, iniziato nel 1734, ma fortemente trasformato e ampliato a partire dagli anni Novanta, da sir John Soane, un architetto visionario con forti ascendenze piranesiane. La stessa medievale London Tower venne isolata e trasformata in un vero e proprio luogo della ‘memoria’ storica della città. Nella seconda metà del secolo, il London Bridge venne liberato dalla superfetazione di casupole popolari e fatiscenti che ne riducevano il passaggio. Slarghi e piazze eleganti e dai perimetri regolari davano respiro alla griglia di strade per lo più perpendicolari tra loro. Con questa scelta condivisa si voleva creare una viabilità funzionale al traffico, in una città che si avviava ad accogliere un milione di abitanti alla fine del secolo. Allo stesso tempo si desiderava realizzare spazi piacevoli da percorrere anche a piedi. Penso che proprio questo edificare per aree circoscritte ma omogenee abbia favorito un’ulteriore novità nel laboratorio urbanistico londinese: una sorta di specializzazione socio-economica di singole zone, tese a definire una sorta di apartheid morbido ma ben percepibile, governato da impalpabili linee di confine tra un’area abitata ed un’altra. Una innovazione destinata ad un grande successo nella maggior parte delle capitali ottocentesche europee, ancora impossibile da realizzare nei tanti centri-palinsesto segnati da forti impianti medievali. Sempre a Londra, a partire dagli anni Trenta, ad esempio, fu avviata l’edificazione di un’area residenziale di lusso, destinata essenzialmente all’aristocrazia terriera e imprenditoriale. Allo scopo vennero destinate due aree poco edificate del West End, confinanti con Hyde Park e Saint James Park. Le nuove strade erano ampie, tracciate seguendo uno schema ortogonale, interrotte da slarghi e piazze rettangolari, tutte dotate di verde pubblico al centro. Gli edifici, sottoposti anche questi ad apposite normative, venivano realizzati per blocchi, lungo ampie strade o a perimetro di belle piazze. I regolamenti garantivano l’uniformità dell’alzato e dei materiali di costruzione, soprattutto per le facciate. Queste, per lo più ispirate ad un sobrio stile neopalladiano, realizzate, sia in pietra rivestita a stucco romano (un materiale luminoso in polvere di marmo e grassello, adottato dai costruttori inglesi verso la metà del secolo, molto usato anche in epoca vittoriana), sia in coade stone, un nuovo tipo di terracotta, chiara e molto più resistente e duttile del mattone, creata da un gruppo di ricercatori diretti da un’abile imprenditrice, la signora Coade. Un settore di città omogeneo e molto elegante che si innestava, verso la City, nella zona dei tribunali, nei pressi di Lincoln Hill. Già verso il 1750, a nord est del West End era stato realizzato, inoltre, un quartiere destinato ad una middle class di professionisti, mentre lungo il margine verso il Tamigi, si stava sviluppando un’area piuttosto ristretta ma

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molto ben qualificata, con una concentrazione di alberghi e di strutture per teatri e concerti con al centro Covent Garden. Gli edifici governativi si affacciavano verso il Tamigi in prossimità della London Tower e ad ovest in direzione di Westminster Abbey. La definizione per funzioni e per ceti sociali della città proseguiva nei quartieri periferici che circondavano l’intera città ad eccezione del West End, e che si sviluppavano massimamente oltre il limitare nord e nord est della City, con officine tessili e capanni per la produzione e commercio dei metalli, frammisti alle relative abitazioni popolari. Al di qua del Tamigi, in direzione sud, si trovavano molte concerie e botteghe di mercanti di pellami. Le sponde del Tamigi erano quasi per intero occupate dai docks, con rimesse per le navi e magazzini per lo stoccaggio delle merci. Naturalmente queste ultime erano aree ad alta densità abitativa e a bassa qualità architettonica. Nella stessa grande metropoli convivevano realtà fortemente dissonanti. Tuttavia, al di là di questa spartizione territoriale, ancora inespressa nella città storiche della vecchia Europa, Londra offriva un modello di efficienza e innovazione anche sotto il profilo dell’attenzione alla qualità della vita quotidiana, affrontando, con una certa sistematicità, problemi come la pavimentazione, l’igiene, l’illuminazione delle strade. Problemi che cominciavano ad occupare con grande risalto pagine e pagine di letteratura specializzata, ma che ancora con molta lentezza venivano affrontati – e tanto meno risolti – altrove. La testimonianza di un architetto e teorico francese, Pierre Patte, a proposito della condizione igienica in cui versavano molte città, tra cui Parigi a metà del secolo, restituisce efficacemente lo stato delle cose: Esaminando con attenzione una grande città, quello che mi colpisce è, in primo luogo, vedere i liquami scorrere in canali scoperti prima di confluire nei pozzi ed esalare, lungo il loro passaggio, ogni sorta di dannosi odori; poi c’è il sangue delle macellerie che scorre in mezzo alla strada, che offre spettacoli orribili e rivoltanti. Qui c’è un intero quartiere appestato da scarichi delle latrine; là c’è una quantità di carrette infangate, che si impadroniscono giornalmente delle strade per eliminare i rifiuti, e che indipendentemente dal loro aspetto lurido e disgustante, creano ogni sorta di ostacoli al traffico; più lontano avete occasione di vedere, al centro di luoghi affollati, ospedali e cimiteri fonti di epidemie, che contagiano le case con i germi delle malattie e della morte. Altrove noterete che i fiumi che attraversano le città, le cui acque sono bevute dagli abitanti, rappresentano il luogo di scarico di tutte le fognature e di tutti i rifiuti9.

9   P. Patte, Mémoires sur les objets les plus importants de l’Architecture, Paris 1765, p. 6, citato da G. Simoncini, La città nell’età dell’illuminismo. Le capitali italiane, Firenze,

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Anche il Tamigi raccoglieva i liquami e la spazzatura cittadina, ma una serie di decreti cercarono di migliorare, naturalmente soprattutto nelle aree residenziali e ministeriali, questo gravissimo problema, che la ricerca medica aveva ormai connesso direttamente alle più terribili epidemie. E con decreto si cercò anche di conferire un adeguato decoro delle strade che nel 1762 fu regolato da un apposito Westminster Paving Act, che stabiliva i criteri a cui doveva rispondere la vasta opera di pavimentazione della città. Analoghi decreti avevano avviato l’uso di illuminare alcune strade durante la notte. Un fattore di sicurezza, che cominciava ad essere praticato anche in altre città capitali come Parigi, ma che per esempio a Roma si realizzerà solo un secolo dopo, durante il pontificato di Pio XI, con grande resistenza dei romani che difendevano il loro diritto all’anonimato, almeno nelle ore notturne. Ho già fatto cenno a come l’impegno per favorire il benessere pubblico e la pubblica felicità non abbia coinvolto naturalmente l’intera capitale britannica, ma solo le aree di pregio. La Londra popolare, quella dell’East End e del sud, mostrava una facies decisamente sgradevole e lontana dalla ricerca del benessere e della felicità dei cittadini. Diciamo che a rendere davvero invivibili le aree appena citate concorsero almeno due fattori; da un canto esse rappresentarono l’approdo naturale della pesante e costante migrazione dei diseredati delle campagne. Le cifre parlano chiaro: la già eccezionale popolazione di Londra nel 1750 contava ben 650.000 unità, alla fine del secolo arrivò a 950.000 abitanti. Dall’altro l’insediamento, nelle stesse aree, di officine, di rimesse, di fabbriche, frammiste a bettole, locande di infimo livello, caseggiati che si susseguivano senza ordine, strade e piazze prive di verde pubblico, e ancor più numerosi ospizi, orfanotrofi e ospedali. Di queste periferie ci ha lasciato una cruda testimonianza visiva soprattutto William Hogarth, ma se ne trova traccia nei tanti magnifici romanzi a sfondo moralistico sociale10, usciti nel corso del secolo. Quantunque io preferisca essere molto prudente nell’attribuire statuto di prova sia alle immagini che alle fonti letterarie, se non dopo una loro attenta contestualizzazione, resta pur verosimile che una certa rispondenza tra la Londra dei sobborghi e quella che fa da sfondo ai temi pedagogici e moralizzanti di Hogarth deve

Olschki, 1996, pp. 25-26. In Francia l’illuminazione urbana non ebbe, comunque, inizialmente vita facile. Simoncini ricorda, inoltre, che Milizia raccomandava di trasferire fuori città tutti gli edifici che comportavano elevate concentrazioni di persone, come le prigioni, gli alberghi dei poveri e perfino i teatri. 10   Su questa Londra devastata dal malessere ambientale ha scritto un interessante volume E. Cockayne, Hubbub, Flith, Noise & Stench in England 1600-1770, New Haven and London,Yale University Press, 2007.

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pur essere esistita. L’artista vi dedicò una serie di incisioni destinate ad un’alta tiratura, con titoli come La via del Gin, La via della Birra (1751), I Tempi (1762) o ancora I quattro stadi della crudeltà (1751). Hogarth ha collocato gli abbrutiti protagonisti dei suoi exempla moralia sullo sfondo di un degrado urbano senza speranza, quello appunto della working class e dei diseredati espulsi di recente dalle campagne. La sua è una città fatiscente, caotica e sovraffollata, segnata da ogni genere di violenza; le strade sono dissestate, prive di illuminazione, ricettacolo di ogni lordura; i vasi da notte vengono svuotati direttamente dalle finestre; gli edifici sono fatiscenti, addossati gli uni agli altri senza alcuna regola, senza neppure l’ombra di un antico decoro. Le abitazioni sconnesse si sovrappongono a sgangherate officine, a sovraffollati cantieri, a oscure rimesse e a miserrime osterie. I protagonisti delle immagini di Hogarth, che si autodefinì «a comic history painter» sono sostanzialmente inconsapevoli dello stato in cui si trovano, sono corrotti e abbandonati a se stessi da una sorda insensibilità che sembra dipendere da un altrove. Il degrado morale è tuttavia scandito da un disordine generale, che ha proprio nella struttura urbana la sua più esplicita denuncia. Se la Londra reale era quindi una città profondamente ambivalente, divisa tra aree di impensabile benessere e innovative soluzioni urbane che per obbiettivo primario avevano la comodità e la felicità dei cittadini abbienti, di contro ad aree degradate e brulicanti di figure spesso ridotte all’abbrutimento, in altre città europee ci si poneva comunque il problema di come migliorare le condizioni strutturali ed ambientali dei centri urbani. Almeno sulla carta. Esiste infatti una ricca ed interessantissima produzione letteraria che ha adottato uno schema narrativo utopistico per diffondere proposte e indicazioni tutt’altro che fuori del tempo e senza luogo. Proposte che volevano incidere nelle coscienze e nella ricerca di prospettive innovative sul piano sociale, partendo dalla radicale trasfigurazione degli assetti urbani. Ricorderò solo due testi molto diversi tra loro ma ugualmente significativi per quella specie di sortilegio profetico che colpisce noi lettori a distanza di due secoli e mezzo. Penso alla Parigi immaginata da Louis Sebastien Mercier, quale si configura nel romanzo utopistico in forma di sogno, L’an 2440, del 1770. L’autore sembra credere, almeno un po’, nella possibile realizzazione delle sue istanze visionarie; sembra credere nella forza inarrestabile della verità, nel diritto alla felicità. Proprio per questo convincimento l’azione del suo racconto viene collocata sì in un tempo a venire ma in una città reale. Nella sua Parigi trasformata, di lì a 760 anni, dalla saggezza degli uomini che avevano saputo fare tesoro degli insegnamenti della storia, utilizzandoli a beneficio della collettività. Seicentosettanta anni potevano apparire sufficienti in una

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visione sostanzialmente messianica della storia (anche se laicamente declinata) per realizzare in terra l’eguaglianza, la giustizia, la libertà, la fraternità. La Parigi del 2440 sarà totalmente irriconoscibile per decoro, salubrità e magnificenza, e la società che la abita sarà del tutto in sintonia con la nuova immagine urbana per semplicità dei costumi, abolizione del lusso cui si contrappongono decoro e comodità. Ogni individuo sarà libero di scegliere la propria professione, e ogni tipo di lavoro sarà apprezzato e rispettato. Nessun produttore di beni materiali o immateriali verrà più condizionato dal potere del denaro. L’ordine etico e razionale dell’utopia di Mercier coinvolgeva sopra ogni cosa la forma della città. La Parigi del 2440 sarà, infatti, una città dalle strade spaziose e illuminate, dagli incroci ampi, dalle magnifiche piazze adorne di fontane, rallegrata da filari di alberi e da parchi aperti ai cittadini, e perfino le coperture delle case saranno occupate da giardini pensili per la bellezza della città e la felicità dei residenti. Una città ricca di musei e biblioteche pubbliche, di ponti monumentali, di Istituti e Accademie dedicate alla cultura e alle scienze, ma anche una città priva di vetture, il cui uso sarà ridotto alle sole comprovate necessità di anziani e di malati, indipendentemente dal rango sociale di appartenenza. Anche le prigioni scompariranno e al posto della Bastiglia, demolita, si sarebbe aperta una magnifica pubblica piazza. Non sarebbero serviti neppure gli ospedali perché laddove la società sarà ben governata non ci saranno né reati né malattie. Con molta probabilità la Parigi trasfigurata dal piano di Haussmann, a meno di un secolo di distanza dal suo scritto, sarebbe piaciuta a Mercier. Appena più radicale ma non meno radicata nel mondo reale, l’utopia politica contenuta nella Conspiration pour l’égalité dite de Babeuf, una delle più organiche utopie antiurbane, maturata tra il 1793 e il 1796, scritta da un giacobino robespierrista evolutosi in comunista egualitario, il livornese Filippo Buonarroti, affiliato a Babeuf nella «congiura degli Eguali» che nella primavera-estate del 1796 avrebbe voluto rovesciare il Direttorio ed instaurare in Francia una società comunista. Buonarroti conobbe la deportazione e poi l’esilio ma seguitò a mettere a punto la sua costruzione sociale, che vide le stampe solo nel 1828 ma appartiene in tutto e per tutto al clima degli anni Novanta. Nel progetto di Buonarroti la città reale veniva descritta in termini roussoiani, come il luogo dove ineguaglianza e sfruttamento trovavano il massimo adempimento. La condanna tuttavia coinvolgeva solo le grandi città, e nella Conspiration l’autore proponeva un diverso modello abitativo, nella forma di nuclei residenziali e produttivi sparsi nel territorio, collegati da una rete stradale efficiente, capaci di inglobare e valorizzare i lavori agricoli. Quindi non l’abolizione delle città, ma una diversa distribu-

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zione dell’abitare, proprio come si sperimenterà ai primi del Novecento, con la realizzazione di ‘città giardino’ in opposizione al congestionamento delle capitali storiche. Nel nuovo ordine che sarebbe seguito alla rivoluzione degli Eguali, Buonarroti poneva le arti e le scienze al servizio delle nuove conquiste umane, perché il loro contributo avrebbe facilitato e addolcito la vita di ogni giorno. Nei piccoli centri che avrebbero sostituito le grandi e corrotte città, le scuole, i musei, i servizi, sarebbero stati gli unici monumenti emergenti: La magnificenza dell’architettura e delle arti (…) sarà riservata ai magazzini pubblici, agli anfiteatri, agli stadi, agli acquedotti, ai ponti, ai canali, agli archivi alle biblioteche, [ mentre i castelli e i palazzi] simboli viventi di una società che si regge sull’ingiustizia [avrebbero lasciato posto] alla salubrità, alla comodità ed alla proprietà di tutte le abitazioni, disposte con uguale simmetria, per il piacere dell’occhio e per il mantenimento dell’ordine pubblico11.

Per concludere, posso solo ricordare che le istanze utopistiche come quelle manifestate dalla letteratura teorica sulla città ebbero modo di materializzarsi davvero alla fine del Settecento, ma non in Europa bensì nel nuovo mondo. La costruzione ex novo di Washington, capitale dello Stato dell’Unione, avviata nel 1792 nel desolato delta del Potomac, ai confini dello Stato della Virginia, realizzò il sogno di ogni utopista come di ogni progettista di planimetrie urbane. Una città immensa ma egualitaria predisposta alla sperimentazione di ogni forma di pubblica felicità perché destinata ad accogliere la materializzazione della più grande utopia che il secolo dei Lumi avesse saputo immaginare, una società paritaria dove i poteri erano in mano ai rappresentanti del popolo. A disegnarne la pianta fu un francese «ispirato», come lo definirà di lì a cinquanta anni Dickens: Pierre Charles l’Enfant, volontario nella guerra di indipendenza americana. Il suo progetto costruito su un tessuto di ampie strade ortogonali veniva animato e spettacolarizzato da una griglia sovrapposta di viali diagonali che nell’incrocio con il reticolo sottostante generava ampie piazze circolari aperte a raggiera sul territorio. La divisione del potere legislativo da quello esecutivo veniva enfatizzato dalla disposizione a L dei due principali palazzi del potere, il monumentale Campidoglio e la più discreta Casa Bianca. La simbologia era semplice e chiara. La città doveva essere immensa, sin nella sua originaria progettazione, perché pensata per le generazioni future e, di fatto, resterà a lungo sovra dimensionata. Scriverà Dickens, nelle note del suo Viaggio in America:

11  F. Buonarroti, Histoire de la Conspiration pour l’Égalité dite de Babeuf, 1828, trad. it. Cospirazione per l’eguaglianza detta di Babeuf,Torino, Ricciardi, 1971, p. 160.

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Chiamata talvolta la Città delle Magnifiche Distanze, potrebbe essere chiamata con maggiore appropriatezza la Città delle Magnifiche Intenzioni: perché è solamente nel gettare lo sguardo a volo di uccello dalla cima del Campidoglio che uno può comprendere fino in fondo le grandi idee del suo progettista, un francese ispirato. Viali spaziosi che cominciano da niente e conducono a nessun luogo: strade, lunge parecchie miglia, che non hanno bisogno che di case e di abitanti; edifici pubblici che per esser completi hanno bisogno solo di un pubblico12.

12  C. Dickens, American Notes, London 1842, trad. it. America, Roma, Editori Riuniti, 1982, p. 135.

Susanne Adina Meyer L’utilità delle Arti belle nella città del papa. Tracce di una disputa

Fioriscono ora le Arti in Germania, in Francia, in Ispagna, e fioriscono anche molto in Inghilterra. Questo a mio credere succede non già per virtù delle stelle, ma bensì per opra di quei tanti Sovrani, e Cavalieri privati, che a tutta possa le promuovono, le coltivano, le sostengono. La metà, ed anche meno che si facesse in Italia, basterebbe a esimerci dal pericolo, ch’io veggo imminente, che noi Italiani non abbiamo un giorno (che nemmen credo molto lontano) ad andare a dirozzarci, non dico in Inghilterra, ma forse forse in America. Rideranno, lo so, taluni del mio vaticinio, ma io mi son già dichiarato di non credere alla forza degli Astri, né a quella della Scienza, che Divina, o Divinatoria chiamata, fa girar a molti il cervello1.

Nel corso del XVIII secolo, mentre la filosofia sensista andava scoprendo, o piuttosto riscoprendo, il valore del piacere individuale dell’arte, una discussione parallela riguardò il valore collettivo, e dunque morale e/o economico, della produzione artistica, investendo direttamente le questioni fondamentali della distinzione tra ‘Arti belle’ e ‘Arti utili’ e della gerarchia tra i diversi generi artistici codificata nel corso del secolo precedente. Sarà proprio il dibattito su quanto l’arte dovesse – o non dovesse – contribuire al ‘vantaggio generale’ e alla ‘pubblica utilità’ della società a scardinare quella scala di valori – insieme etici, sociali ed economici – che aveva supportato il

1   B. Cavaceppi, Raccolta d’antiche statue busti teste cognite ed altre sculture antiche scelte restaurate dal cavaliere Bartolomeo Cavaceppi scultore romano, vol. III, Roma, nella stamperia di Marco Pagliarini, ora ripubblicato in S. A. Meyer, C. Piva, Dell’arte di ben restaurare. La Raccolta d’antiche statue (1762-1768) di Bartolomeo Cavaceppi, Firenze, Nardini editore, 2011, p. 142. Una prima versione parziale del presente contributo, con il titolo «Discorso intorno alle Belle Arti in Roma». Arte e pubblica utilità nel Settecento, è pubblicata in Incontri. Storie, immagini, testi, a cura di G. Capriotti e F. Pirani, Macerata, Eum, 2010, pp. 203-215.

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sistema delle arti dalla Controriforma in poi, trasformando in modo sostanziale lo statuto delle arti stesse e con esso il ruolo dell’artista. Tale crescente consapevolezza del possibile contributo delle arti agli obiettivi economici della società nel corso del Settecento può, o forse deve, essere letta alla luce delle teorie economico-filosofiche illuministe che identificavano la ‘pubblica felicità’ con il ‘bene pubblico’ e con il ‘vantaggio generale’2. In seguito a simili impostazioni teoriche, le creazioni artistiche nelle loro sempre più diversificate articolazioni iniziarono ad essere considerate un fattore importante del processo produttivo della ‘ricchezza delle nazioni’. È questo, ad esempio, un elemento centrale nella polemica – di natura etica ed economica – sul lusso, o meglio sull’arte come bene di consumo3. Il contributo delle arti alla prosperità degli Stati, attraverso l’impulso dato al commercio e alle manifatture, rappresentava uno dei punti cardine del movimento delle ‘accademie riformate’ in Europa che conobbero un enorme sviluppo anche numerico, dopo la metà del XVIII secolo4. Il sostegno istituzionale e finanziario richiesto dalle nuove istituzioni didattiche poteva infatti essere ora motivato non tanto con ragioni di ‘gloria’ e di ‘decoro’ ma proprio con la concreta ricaduta economica per lo Stato. Come scrisse Christian Ludwig von Hagedorn nel 1763, in una memoria redatta in occasione della riapertura dell’Accademia di Dresda di cui era stato nominato direttore generale: «All’arte si può guardare anche da un punto di vista commerciale (…) mentre ritorna ad onore di un paese produrre artisti eccellenti, non è meno utile incrementare la domanda dall’estero dei propri prodotti industriali»5.

2  A. Trampus, Il diritto alla felicità. Storia di un’idea, Roma-Bari, Laterza, 2008; L. Bruni, P. L. Porta, “Economia civile” and “Pubblica felicità” in the italian Enlightenment, «History of Political Economy», 35 (2003), supplement, pp. 361-385. 3  O. Rossi Pinelli, Le arti nel Settecento europeo, Torino, Einaudi, 2009 (I ed. Torino, UTET, 2000); R. Wirtz, Kontroversen über den Luxus im ausgehenden 18. Jahrhundert, «Jahrbuch für Wirtschaftsgeschichte», 1 (1996), pp. 165-175; M. North, Genuss und Glück des Lebens. Kulturkonsum im Zeitalter der Aufklärung, Köln-Weimar-Wien, Böhlau, 2003. 4   Per questo movimento rimando al classico studio di N. Pevsner, Academies of Art. Past and Present, Cambridge, Cambridge University Press, 1940, trad it. Le Accademie d’arte, introduzione di A. Pinelli, Torino, Einaudi, 1982, in part. pp. 157-209; sul tema vedi anche E. Castelnuovo, Arte, Industria, Rivoluzioni. Temi di storia sociale dell’arte, Torino, Einaudi, 1985 (II ed. aggiornata con una postfazione di O. Rossi Pinelli, Pisa, Edizioni della Normale, 2007); per la Germania cfr. Kunst und Aufklärung im 18. Jahrhundert. Kunstausbildung der Akademien, Kunstvermittlung der Fürsten, Kunstsammlung der Universität, catalogo della mostra (Halle-Stendal-Wörlitz, 2005), a cura di M. Kunze, Ruhpolding, Rutzen, 2005. 5  Cit. in Pevsner, Le Accademie d’arte, pp. 168-169; su Hagedorn vedi P. Griener, La connoisseurship européenne au service de la création artistique allemande. Les Lettres de Christian

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Concretamente, l’insegnamento accademico a Dresda doveva essere calibrato sui bisogni della manifattura di porcellana di Meissen e delle stamperie di Lipsia, aprendo l’insegnamento anche alle «ramificazioni minori dell’arte, come il paesaggio, gli animali, i fiori» con l’esplicita finalità di aumentare la circolazione del denaro, l’afflusso di visitatori stranieri e l’esportazione di prodotti nazionali6. Come ha sottolineato Nikolaus Pevsner nel classico studio Academies of Art. Past and Present, questo passaggio rappresentò una svolta fondamentale per il nesso stretto che si venne a creare all’interno di molte istituzioni accademiche tra sperimentazioni formali e tecnologiche da un lato e riflessioni economico-sociali dall’altro. Un processo, questo, da cui Roma, la capitale delle arti, sembra a prima vista restare sostanzialmente estranea. Qui l’istituzione accademica rimane di fatto ostile lungo tutto il Settecento a tale movimento, anzi i discorsi programmatici letti in occasione delle premiazioni dei vincitori dei concorsi dell’Accademia di San Luca fanno trapelare più volte il netto rifiuto di una qualsiasi contaminazione tra ‘arti belle’ e ‘arti utili’7. Tuttavia, nel corso del secolo, anche nell’Urbe si articola un discorso sull’utilità dell’arte, sia per la città sia per i suoi abitanti, che certo non sostituisce ma accompagna quello dominante intorno al suo valore etico e ideologico, avviato fin dal Rinascimento poi ampliato e differenziato nei secoli successivi. Accanto alla riflessione in campo artistico, finalizzata all’esaltazione della magnificenza di Roma, del primato della Chiesa, e alla difesa, sul piano estetico, dei principi del classicismo riassunte nella celebrazione della città come ‘Tempio del buon gusto’8, si avviò, a partire dal terzo decennio del secolo, una discussione sempre più serrata sull’importanza che la produzione e il consumo di opere artistiche avevano per l’economia e la società dell’Urbe e dello Stato della Chiesa. Un dibattito in parte oggi riconoscibile nelle tracce lasciate nei documenti ufficiali, come i bandi e gli editti promulgati dal Governo pontificio, tesi a tutelare l’immenso patrimonio archeologico, storico e artistico dal pericolo di Ludwig von Hagedorn (1755), in Théorie des arts et création artistique dans l’Europe du Nord du XVIe au début du XVIIIe siècle, a cura di M.-C. Heck, F. Lemerle, Y. Pauwels, Villeneuve d’Ascq, Université Charles-de-Gaulle Lille 3, 2002, pp. 333-352. 6   Pevsner, Le Accademie d’arte, p. 169. 7  Un elenco completo delle relazioni a stampa delle cerimonie di premiazione dei concorsi accademici in Aequa potestas: le arti in gara a Roma nel Settecento, catalogo della mostra (Roma, Accademia di San Luca, 2000), a cura di A. Cipriani, Roma, De Luca, 2000, pp. 153-154. 8  L. Barroero, S. Susinno, Roma arcadica capitale delle arti del disegno, «Studi di storia dell’arte», 10 (1999), pp. 89-178.

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una eccessiva dispersione legata alla vendita di singole opere o addirittura di intere collezioni ad acquirenti esteri9. A differenza di analoghi provvedimenti del secolo precedente, nell’editto emanato nel 1733 dal cardinale camerlengo Alessandro Albani, durante il pontificato di Clemente XII Corsini (1730-1740), tra le ragioni di una più rigorosa legislazione nel campo della tutela non figura più in primo piano l’obiettivo di conservare ‘la magnificenza’ e lo ‘splendore’ di Roma ma piuttosto il compito per lo Stato, dalle ricadute economiche concrete, di combattere il «grave pregiudizio del pubblico decoro di quest’Alma Città a cui sommamente importa il conservarsi in essa le Opere illustri di Scoltura, e Pittura, e specialmente quelle, che si rendono più stimabili, e rare per la loro antichità»10. Si sottolineava, infatti, che la «loro conservazione», oltre ad essere funzionale all’erudizione sacra e profana, costituiva un fattore imprescindibile per l’«incitamento ai Forestieri di portarsi alla medesima Città per vederle, ed ammirarle», dando «norma sicura di Studio a quelli, che si applicano all’esercizio di queste nobili Arti con gran vantaggio del pubblico, e del privato bene»11. Il lungimirante collegamento fra tutela e progetto culturale, attento alla domanda crescente di artisti e viaggiatori, fu ripreso e intensificato nel successivo editto del cardinale Silvio Valenti Gonzaga emanato nel 1750, contenente nuove norme di «proibizione della estrazione delle statue di marmo, o metallo, pitture, antichità e simili», rivolte a «ogni Persona tanto ecclesiastica, quanto secolare di qualsivoglia stato, grado, e condizione, ancorché richiedesse specialissima menzione»12. A differenza dei precedenti provvedimenti, veniva ora però esplicitamente esclusa dal divieto di esportazione prevista dalla normativa la produzione dei pittori viventi «non eccedenti il valore di scudi cento che si vogliano trasportare fuori di Roma per comodo delle vicine Ville, o nello Stato Ecclesiastico, ed anche fuori, ad effetto di dare maggior incitamento a i Professori, ed alla Gioventù, che si applica a questa nobil’Arte». Per queste opere, infatti, la licenza di esportazione veniva concessa automaticamente e «gratis in tutto»13. Si comincia, dunque, anche da un punto di 9  A. Emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei Beni Artistici e Culturali negli antichi stati italiani 1571-1860, Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1996; V. Curzi, Bene culturale e pubblica utilità: politiche di tutela a Roma tra Ancien Régime e Restaurazione, Bologna, Minerva, 2004. 10   Proibizione dell’estrazione delle statue di marmo, o metallo, pitture, antichità e simili (1733), in Emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti, p. 72. 11   Ibidem. 12   Proibizione della estrazione delle statue di marmo, o metallo, pitture, antichità e simili (1750), in Emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti, pp. 76-84: p. 76. 13   Ibidem, p. 78. Sul cardinale Valenti Gonzaga cfr. L. Spezzaferro, Dalla collezione privata alla raccolta pubblica: Silvio Valenti Gonzaga e la Galleria dei quadri in Campidoglio, in

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vista legislativo, a delineare una distinzione fra arte del passato e produzione artistica coeva e quindi fra tutela del patrimonio e sostegno del mercato d’arte contemporanea14. Facilitare il permesso di esportare alcuni anni dopo evidentemente non era più considerato sufficiente, visto il consiglio inviato nel 1770 dal cardinal Alessandro Albani a Giovan Battista Visconti sull’opportunità di abolire anche il dazio doganale per le opere «moderne», vale a dire eseguite da artisti viventi, in uscita dalla città: Qui unita rimette il card. Alessandro Albani al sig. Abate Visconti copia del noto editto di cui originale stampato esiste nella Biblioteca Casanatense. Ardisce lo scrivente dare per suo mezzo un consiglio all’Em. Sig. Card. Camerlengo ed è di togliere affatto il pagamento alla Dogana delle opere moderne di qualunque prezzo sieno che si estraggono, e ciò per animare i forestieri a far lavorare in Roma e così introdurre denaro nel paese15.

Anche la letteratura odeporica ci restituisce oggi un quadro eloquente della percezione di Roma quale ‘Museo d’Europa’, quale luogo in cui era possibile sperimentare visivamente la stratificazione diacronica della storia e dell’arte. Mentre l’occhio straniero dedica la sua attenzione soprattutto ai grandi modelli del passato, intesi come fondamenta ineludibili per ogni vero progresso estetico ed etico della cultura, intellettuali e funzionari romani riflettono sulla necessità di tutelare l’arte del passato e promuovere la nuova produzione artistica anche attraverso istituzioni e norme giuridiche adeguate. La pubblica utilità delle opere d’arte finisce per giocare un ruolo centrale nella ridefinizione del loro statuto giuridico e determina la necessità di mediare fra diritti dei proprietari e interesse della collettività. In questo processo può essere inserita anche la nascita dei primi musei pubblici, svincolati sia sul piano organizzativo-istituzionale sia su quello architettonico da ogni legame con le proprietà delle famiglie nobiliari. Nel 1733 l’acquisto da parte dello Stato della collezione di Alessandro Albani ne evitò l’esportazione fuori città e portò alla fondazione del Museo Capitolino di antichità, con la sistemazione, a cura dell’architetto Filippo Barigioni e del

Ritratto di una collezione: Pannini e la galleria del cardinale Silvio Valenti Gonzaga, catalogo della mostra (Mantova, Galleria Civica di Palazzo Te, 2005), a cura di R. Morselli, Milano, Skira, 2005, pp. 91-98. 14   Sull’esportazione da Roma di opere d’arte di artisti viventi nella seconda metà del secolo cfr. S. A. Meyer, S. Rolfi Ožvald, Le fonti e il loro uso: documenti per un atlante della produzione artistica romana durante il pontificato di Pio VI, in Una miniera per l’Europa, a cura di M.C. Mazzi, Roma, Istituto Nazionale di Studi Romani, 2008, pp. 77-143. 15   Biblioteca Apostolica Vaticana, Ferrajoli 881, Carte Visconti, Carte di Giovan Battista, c. 103r, cit. in Meyer, Rolfi Ožvald, Le fonti e il loro uso, p. 89.

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marchese Alessandro Capponi, delle sculture nelle sale del piano nobile di Palazzo Nuovo 16. L’istituzione viene salutata da Muratori, in una lettera del 22 maggio 1737 al suo primo direttore, Capponi, come «gran servigio (…) alla gloria di N.S. ed insieme al Pubblico» per aver «liberato dal pericolo di perdersi, o di passare in città straniere tante belle reliquie dell’antichità»17. A questo primo esempio di museo pubblico ne seguiranno nel corso del secolo altri e importanti, come la Pinacoteca Capitolina, creata sotto il pontificato di Benedetto XIV, e il museo Pio-Clementino in Vaticano, istituzioni che segnarono la trasformazione delle collezioni private in Musei pubblici, di conseguenza il passaggio, come ha osservato Luigi Spezzaferro, dell’opera d’arte da bene privato a bene pubblico18. Alla fine del secolo sarà l’avvocato Carlo Fea, già curatore della prima edizione italiana della Storia dell’arte presso gli antichi di Johann Joachim Winckelmann19, a proporre una sintesi delle riflessioni romane sull’importanza per la città eterna del patrimonio storico e della nuova produzione artistica in un Discorso intorno alle belle Arti in Roma, svolto davanti all’accademia dell’Arcadia il 14 settembre 1796 e pubblicato nel 1797. Fea

 O. Rossi Pinelli, Per una “storia dell’arte parlante”. Dal Museo Capitolino (1734) al Pio-Clementino (1771-91) e alcune mutazioni nella storiografia artistica, «Ricerche di storia dell’arte», numero monografico dedicato a Intellettuali ed eruditi tra Roma e Firenze alla fine del Settecento, a cura di L. Barroero e O. Rossi Pinelli, 84 (2004), pp. 5-23. Sulla fondazione del Museo Capitolino cfr. inoltre: E. Kieven, “Trattandosi illustrar la patria”. Neri Corsini, il “Museo Fiorentino” e la fondazione dei Musei Capitolini, «Rivista storica del Lazio», 9 (1998), pp. 135-144; Statue di Campidoglio. Diario di Alessandro Gregorio Capponi (1733-1746), a cura di M. Franceschini, V. Vernesi, Città di Castello, Edimond, 2005. 17  Lettera cit. in Kieven, “Trattandosi illustrar la patria”, p. 135. La fondazione del museo e la reazione di Muratori vanno lette alla luce di alcuni episodi verificatisi negli anni precedenti che avevano visto la partenza da Roma di importanti collezioni come quella Chigi e la prima collezione Albani, entrambe acquistate e in gran parte dal Principe elettore di Dresda, per ricordare solo gli esempi più eclatanti. Una approfondita panoramica delle dinamiche e delle traiettorie che regolavano la esportazione delle opere d’arte da Roma in M. C. Mazzi, Una miniera per l’Europa, in Id., Una miniera per l’Europa, pp. 1-75. 18   Spezzaferro, Dalla collezione privata. 19   Storia delle arti del disegno presso gli antichi di Giovanni Winkelmann, tradotta dal tedesco e in questa edizione corretta e aumentata dall’Abate Carlo Fea, 3 voll., Roma, Stamperia Pagliarini, 1783; su questa edizione cfr. S. Ferrari, L’eredità culturale di Winckelmann: Carlo Fea e la seconda edizione della Storia delle arti del disegno presso gli antichi, «Roma moderna e contemporanea», numero monografico dedicato a La città degli artisti nell’età di Pio VI, a cura di L. Barroero e S. Susinno, 10 (2002), 1-2, pp. 15-48; Id., Christian G. Heyne e la ricezione di Winckelmann nell’Italia del secondo Settecento, «Neoclassico», XIX (2001), pp. 75-101; su Fea cfr. R. T. Ridley, The Pope’s archaeologist. The Life and Times of Carlo Fea, Roma, Quasar, 2000. 16

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partiva dalla domanda «Cosa deve alle belle arti Roma moderna, e l’Europa intera?»20. Sotto la pressione della drammatica situazione politica – solo il giorno precedente, il 13 settembre 1796, il Sacro Collegio aveva respinto il progetto di trattato di pace tra la Santa Sede e la Francia negoziato a Firenze21 – e dell’attacco francese all’integrità del patrimonio culturale romano con la consegna di cinquecento codici della Biblioteca Vaticana e di cento opere d’arte in seguito all’armistizio di Bologna stipulato nel giugno precedente, Fea dava alle stampe un pamphlet che egli stesso definiva un breve trattato di «economico-politiche riflessioni», chiaramente influenzato dalla lettura delle Lettres à Miranda di Quatremère de Quincy, testo con cui l’intellettuale francese aveva invano tentato di contrastare il piano di un massiccio spostamento di opere d’arte dall’Italia a Parigi e pubblicato la prima volta proprio nel 179622. Tirando in qualche modo le conclusioni degli effetti di quasi un secolo di politica pontificia volta alla tutela e alla promozione delle arti, Fea avvertiva che Roma non doveva loro solo il «lustro» ma anche l’incremento della popolazione e «il sostentamento di forse trentamila de’ suoi abitanti, li quali o in esse si occupano direttamente o indirettamente». E per rafforzare tale affermazione aggiungeva: Se uno scultore, se un pittore, se un architetto dimora qui, se ci fa un’opera qualunque ella siasi, quanta gente non viene da lui impiegata e quasi mantenuta? Padroni di case, servitori, venditori di commestibili, indoratori, ottonari, ferrari, colorari, falegnami, intagliatori, ebanisti e infiniti altri se n’approfittano23.

20  C. Fea, Discorso intorno alle belle Arti in Roma. Recitato nell’Adunanza degli Arcadi il dì XIV. Settembre, Roma, Stamperia Pagliarini, 1797, p. vi; O. Rossi Pinelli, Tutela e vantaggio generale: Carlo Fea o dei Benefici economici garantiti dalla salvaguardia del patrimonio artistico, in Pio VI Braschi e Pio VII Chiaramonti. Due Pontefici cesenati nel bicentenario della Campagna d’Italia, atti del convegno internazionale (Cesena 1997), a cura di A. Emiliani, L. Pepe, B. Dardi Maraldi, Bologna, CLUEB, 1998, pp. 155-163; P. Griener, Carlo Fea and the defense of the “Museum of Rome” (1783-1815), «Georges-Bloch-Jahrbuch des Kunsthistorischen Instituts der Universität Zürich», 7 (2000), pp. 96-109. 21   Sugli eventi politici romani tra il 1796 e il 1799 cfr. D. Armando, M. Cattaneo, M.P. Donato, Una Rivoluzione difficile. La Repubblica romana del 1798-1799, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2000. 22  A. Ch. Quatremère de Quincy, Lettres sur le préjudice qu’occasionneroient aux arts et à la science, le déplacement des monumens de l’art de l’Italie, le démembrement de ses écoles, et la spoliation de ses collections, galeries, musées, etc., Paris, Desenne, 1796, ripubblicato in Lo studio delle arti e il genio dell’Europa (1796-1802). Scritti di A. C. Quatremère de Quincy e di Pio VII Chiaramonti (1796-1802), a cura di M. Scolaro con un saggio di A. Pinelli, introduzione di A. Emiliani, Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1989. 23  C. Fea, Discorso intorno alle belle Arti in Roma. Recitato nell’Adunanza degli Arcadi il dì XIV. Settembre, Roma, Stamperia Pagliarini, 1797, p. xviii.

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I viaggiatori e i «gran signori» introducevano un ulteriore flusso di denaro «con cui vivono altre moltissime persone». La spoliazione delle opere d’arte si presentava, in tale prospettiva, non solo come un oltraggio alla ‘magnificenza’ di Roma, o come la distruzione del «museo generale (…) deposito completo di tutti gli oggetti propri allo studio delle arti», tanto deplorato da Quatremère24, ma come una vera e propria calamità economico-sociale, portando alla disoccupazione, allo spopolamento e all’aumento della delinquenza a causa dell’impoverimento di ampie fasce della popolazione: Ora supponiamo, che all’improvviso si dovessero abbandonare o in tutto, o in massima parte le belle arti, e ci mancasse questo fondo sì valutabile di entrate, che si farebbe all’improvviso tutti quelli che ne profittavano, che ne vivevano? (…) Or potrebbero tutti questi infelici ridursi all’angustia estrema e alla disperazione: o dovrebbero emigrare, o dovremmo armare i comodi e tranquilli abitanti per garantirci dalle loro violenze e rubamenti. (…) Ah quanto è facile il dar dei consigli, o dei precetti, e moralizzare per chi non calcola, o non prova i funesti effetti della miseria in una grande società 25.

Il testo, forse, era stato pensato da Fea anche come occasione per sensibilizzare gli intellettuali europei sulla gravità della spoliazione del patrimonio romano, scegliendo un linguaggio quasi forzatamente ‘illuminista’ che suonava come un disperato tentativo di tradurre una decennale riflessione romana nel più aggiornato pensiero filosofico ed economico coevo. Va sottolineato, tuttavia, che nel caso di Roma Fea escludeva esplicitamente ogni utilità per la ‘felicità della patria’ da un incremento delle ‘arti di lusso’, per le quali non v’erano né strutture produttive né mercato. Ribadiva, invece, la centralità di una produzione artistica destinata prevalentemente all’esportazione. Una produzione alimentata dal continuo flusso di collezionisti, eruditi, sovrani, ricchi ‘pellegrini’, Grand Tourists presenti in città, e destinata ad un mercato artistico quasi completamente autonomo, a differenza di molte altre capitali europee, da meccanismi di controllo da parte dell’istituzione accademica. L’Indotto del Grand Tour, legato alla ricchissima offerta di riproduzioni della città, dei monumenti e delle opere in incisioni, ad acquarello, in mosaico, in gesso, in bisquit o in sughero26; ai restauri e alla produzione di copie e perfino di falsi, era una   Lo studio delle arti, p. 119.  Fea, Discorso intorno alle belle Arti, pp. xviii-xix. 26  A. Pinelli, L’indotto del Grand Tour settecentesco: l’industria dell’antico e del souvenir, in Viewing antiquity: the Grand Tour, antiquarianism and collecting, «Ricerche di storia dell’arte», 72 (2000), pp. 85-106; vedi anche Id., Souvenir. L’industria dell’antico e il Grand Tour a Roma, Bari, Laterza, 2010; G. Pagano de Divitiis, Il Grand Tour fra arte ed economia, 24 25

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risorsa economica importante che ruotava intorno a una fitta trama di botteghe artigiane e di studi di pittori, scultori e architetti presente soprattutto nei rioni centrali della città, come Campo Marzio e Regola 27. Un articolato mondo di professionisti della promozione artistica – antiquari, critici, ciceroni, agenti, mercanti e banchieri specializzati nella spedizione di opere d’arte – assunse un ruolo sempre più preponderante all’interno del sistema artistico romano nel corso del Settecento28. La fiorente editoria d’arte, vivacizzata dalle sperimentazioni di Giuseppe Vasi e Giovan Battista Piranesi e, in particolare, dalla nascita a Roma alla metà degli anni Ottanta delle prime riviste specializzate in campo artistico (il «Giornale delle Belle Arti» e le «Memorie per le Belle Arti»), si propose come nuovo e potente mezzo di comunicazione tra gli artisti e il pubblico29. Come scrisse Ennio Quirino Visconti, che pure sul piano generale valutava negativamente il livello della vita culturale nello Stato della Chiesa negli ultimi decenni del secolo XVIII, constatandone l’arretratezza e l’immobilismo, a Roma «le nazioni (…) s’affollano alla madre comune delle sacre dottrine e delle belle arti, e vi portano quella varietà di cognizioni e di gusti che poi col confronto si schiariscono e si raffinano, e formano di questa città un pubblico de’ più illuminati d’Europa»30.

in Economia e arte secc. XIII-XVIII, atti della “Trentatreesima Settimana di Studi” dell’Istituto Internazionale di Storia Economica “F. Datini” (Prato, 2000), a cura di S. Cavaciocchi, Firenze, Le Monnier, 2002, pp. 281-302; G. Michel e O. Michel, Le commerce des oeuvres d’art à Rome au XVIIe siècle, «Les cahiers d’histoire de l’art», 2 (2004), pp. 41-47. 27   S. Rolfi Ožvald, Gli ateliers e la città: mercato di immobili e presenze artistiche nella Roma di fine Settecento, in I luoghi della città. Roma moderna e contemporanea, a cura di M. Boiteux, M. Caffiero e B. Marin, Rome, École française de Rome, 2010, pp. 199-241. 28   Promuovere le arti: intermediari, pubblico e mercato a Roma fra XVIII e XIX secolo, a cura di S. Rolfi Ožvald – S. A. Meyer, numero monografico di «Ricerche di storia dell’arte», 90 (2006); P. Coen, Il mercato dei quadri a Roma nel diciottesimo secolo: la domanda, l’offerta e la circolazione delle opere in un grande centro artistico europeo, Firenze, Olschki, 2010; Mazzi, Una miniera per l’Europa. 29   Sul «Giornale delle belle arti e dell’incisione antiquaria, musica e poesia», 5 voll., Roma 1784-1788 e le «Memorie per le belle arti», 4 voll., Roma 1785-1788, cfr. L. Barroero, Periodici storico-artistici romani in età neoclassica: le «Memorie per le Belle Arti» e il «Giornale delle Belle Arti», in Roma “Il Tempio del vero gusto”. La pittura del Settecento romano e la sua diffusione a Venezia e a Napoli, atti del convegno Internazionale di Studi (Salerno-Ravello, 1997), a cura di E. Borsellino e V. Casale, Firenze, Edifir Edizioni, 2001, pp. 91-99. 30  E.Q. Visconti, Stato attuale della Romana Letteratura, in E.Q. Visconti, Due discorsi inediti con alcune lettere e con altre a lui scritte, Milano, G. Resnati, 1841, pp. 25-48. Su questo brano, scritto da Visconti nel 1785, cfr. le osservazioni di Barroero, Periodici storicoartistici romani, p. 91.

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Riassumendo, alla rilettura rivoluzionaria del nesso winckelmanniano ‘bello ideale/libertà politica’31, fondamento teorico della spregiudicata politica di ‘acquisizione’ di opere d’arte da parte della Francia, Fea cercò di contrapporre l’utilità delle ‘arti belle’ (escludendo esplicitamente le manifatture) per il benessere economico della società. In questa direzione andava anche una rapida recensione del testo di Fea pubblicata nel 1805 sulle «Göttingschen Gelehrten Anzeigen» da Johann Dominicus Fiorillo, in cui veniva positivamente sottolineata la tesi espressa da Fea che «pittura, scultura e architettura, in forma eccellente, in ogni società civile sono fenomeni del benessere»32. Non era un caso, visto che Fiorillo, professore a Göttingen, nel suo ambizioso progetto didattico e scientifico per una Storia dell’arte europea individuava le «ruote motrici della storia» nei mutamenti sociali ed economici, in aperta polemica con la «Ideen-Epedemie» scatenata da Winckelmann e dai suoi seguaci. In un contributo presentato al convegno del 1997 sui due pontefici cesenati, Pio VI Braschi e Pio VII Chiaramonti, Orietta Rossi Pinelli ha sottolineato i forti legami tra il testo di Fea del 1797 e l’editto del 1802 emanato dal cardinale Doria Pamphili, voluto da Pio VII ma scritto materialmente dallo stesso Fea, in cui veniva «consacrata, in termini inequivocabili, la nozione di un patrimonio artistico come prezioso retaggio di testi e memorie appartenenti alla comunità piuttosto che come appannaggio dinastico e ancor meno come bene di lusso»33, con riferimento esplicito al ‘vantaggio economico’ prodotto dalle opere d’arte. Ma anche un ‘rivoluzionario’ come Giuseppe Bossi nel 1805, a Milano, in un discorso programmatico intitolato Sulla utilità politica delle Arti del disegno letto all’Accademia di Brera, ren Vedi É. Pommier, La rivoluzione e il destino delle opere d’arte, in A. Ch. Quatremère de Quincy, Lettere a Miranda, a cura di M. Scolaro, Bologna, Minerva, 2002, pp. 63-118. 32   J. D. Fiorillo, recensione a C. Fea, Discorso intorno alle belle Arti in Roma. Recitato nell’Adunanza degli Arcadi il dì XIV. Settembre, Roma, 1797, «Göttingschen Gelehrten Anzeigen», 78 (1805), p. 776; su Johann Dominicus Fiorillo, professore alla Georg-August Universtät di Göttingen e il suo progetto storiografico di una Geschichte der zeichnenden Künste europea dall’epoca post-antica alla fine del XVIII secolo, cfr. S. A. Meyer, La storia delle arti del disegno (1798-1820) di Johann Dominicus Fiorillo. Con una antologia di scritti, Bologna, Minerva, 2001, p. 16. Su Fiorillo cfr. anche L. Carletti, Johann Dominicus Fiorillo. Un pittore di storie all’Università di Gottinga, «Polittico», 3 (2004), pp. 157-168; C. Schrapel, Johann Dominicus Fiorillo. Grundlagen zur wissenschaftsgeschichtlichen Beurteilung der “Geschichte der zeichnenden Künste in Deutschland und den vereinigten Niederlanden”, Hildesheim, Olms, 2004. 33   Rossi Pinelli, Tutela e vantaggio generale, p. 155; Id., Carlo Fea e il chirografo del 1802: cronaca giudiziaria e non, delle prime battaglie per la tutela delle Belle Arti, «Ricerche di storia dell’arte», 8 (1978-1979), pp. 27-40. 31

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deva omaggio al ‘modello romano’, alla capacità di Roma di trarre vantaggi economici dal suo peculiare sistema artistico: Insegnatemi al contrario in quale parte della terra, se non è inospita affatto e selvaggia, esista una città, che raccolga importanti opere di Arti Belle, e che per la sola affluenza degli stranieri che accorrono ad ammirarle, non pareggi in prosperità le città più favorite da altro genere di prerogative e d’industrie? Ma se tanto giovano per tanti lati al pubblico ben essere le Arti antiche, egli è facile il giudicare quali vantaggi possansi ritrarre dalle recenti ben dirette, ed animate, considerandole anche soltanto riguardo al commercio, e come privilegiato onorevolissimo mezzo di attrarre l’oro straniero senza uscita di veruna preziosa materia». Da questa osservazione risulta evidente, conclude Bossi, quanto «le Arti del Disegno per la loro pubblica utilità siano meritevoli della protezione di ogni saggio governo34.

34   G. Bossi, Sulla utilità politica delle Arti del Disegno, discorso letto all’Accademia di Brera, Milano 1805, in Id., Scritti d’arte, a cura di R. P. Ciardi, 2 voll., Firenze, Studio per Edizioni Scelte, 1982, vol. I, pp. 35-43, pp. 9-10.

Emma Maglio BELLEZZA CLASSICA E FELICITÀ MODERNA: IL PALAZZO REALE DI CASERTA FRA ARTIFICIO E NATURA

Tutta la suntuosità di quella maestosa Reggia non giugneva ad appagar pienamente il genio di quel Monarca. Egli è un’osservazione perenne e costante, che la più grande magnificenza negli edifici, gli apparati della più sopraffina eleganza, e del lusso più squisito, lasciano sempre nell’animo umano qualche estrinseco desiderio, cui essi a soddisfar non bastano. Spesso si vede l’uomo abbandonar le auree abitazioni, ed uscire dalle rumorose città, per rintracciar nella solitudine della campagna il bello della natura, che di pura gioia e contento il riempie1.

Osservare un’opera d’arte alla ricerca di una sensazione di felicità, ricevere appagamento nel contemplare un dipinto, nel girare attorno ad una scultura, nell’esplorare un manufatto architettonico è un’esperienza che appartiene al privato di ognuno. Ma la felice composizione e realizzazione delle arti in un’opera può divenire, oltre che ragione di piacere individuale, veicolo privilegiato per mettere in scena il potere e rafforzarne i simboli. Il Palazzo Reale di Caserta rappresenta un valido esempio dell’uso delle arti in senso politico e celebrativo, giacché fu fortemente voluto da Carlo di Borbone per conseguire un obiettivo strategico e simbolico: completare un sistema di siti reali dove il re potesse dedicarsi alla prediletta arte venatoria e, al contempo, fissare la stabilità del potere regio in un momento storico di generale riassetto degli equilibri europei, in cui il Regno di Napoli cercava di affiancarsi alla Spagna e alla Francia come potenza di rango europeo2. 1  L. Vanvitelli jr., Descrizione delle Reali Delizie di Caserta, Napoli, co’ tipi di Angelo Trani, 1823, p. 26. 2  Una esauriente presentazione del contesto napoletano e delle riforme attuate da Carlo di Borbone, nel quadro della costruzione di una corte europea a Napoli, è proposto da A.M. Rao, I Borbone a Napoli: la fondazione della monarchia «nazionale», in Luigi Vanvitelli e la sua cerchia, a cura di C. de Seta, Napoli, Electa, 2000, pp. 27-34.

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L’intero complesso casertano, guardando oltre le ragioni storiche e politiche che ne hanno attestata la realizzazione, si inserisce come elemento nodale anche nella evoluzione della tipologia del giardino, alla luce della sua funzione estatico-contemplativa e del rapporto fra natura e artificio, sempre presente e condotto ad esiti differenti secondo il momento storico considerato3. 1. In questo percorso, un dato ricorrente dal Medioevo all’Età moderna è l’identificazione del giardino come luogo ‘altro’, rifugio quasi onirico dalla realtà e, nella iconografia, come luogo protetto e recintato4, dove signori e sovrani potessero godere delle bellezze della natura, dei suoi frutti e dei suoi svaghi. Furono i Normanni ad introdurre nei propri territori, nel XII secolo, il principio orientale del giardino recinto, provvisto di padiglioni quadrangolari oppure ottagonali ed arricchito da sapienti giochi d’acqua5. Qualora invece non fosse progettato per la semplice contemplazione del paesaggio e per lo svago raffinato, il giardino diveniva meno costruito e faceva da scenario alle battute di caccia. Il giardino medievale diventò dunque strumento per l’esaltazione dell’immagine del potere: Federico II si serviva dei suoi loca solaciorum, dei suoi serragli di animali esotici e dei suoi parchi per impressionare ospiti, ostaggi e prigionieri illustri: questi luoghi ameni costituivano una sorta di nuovo Eden che era fondamento della sua teologia imperiale6. Ma il tratto peculiare del giardino fra Duecento e Trecento è che esso si connotò come luogo catartico, modello di bellezza assoluta dove

3   Per una analisi complessiva del giardino occidentale nei suoi sviluppi a partire dal Medioevo, si veda F. Pizzoni, Il giardino. Arte e storia, Milano, Leonardo Arte, 1997, dove l’autore ripercorre la storia del giardino, visto quale significativo spaccato dell’umanità e ne analizza le tecniche di rappresentazione nel tempo. 4  Cfr. F. Bocchieri, Il giardino storico: conoscenza, tutela, restauro, valorizzazione, in Giardini Regali. Fascino e immagini del Verde nelle grandi dinastie dai Medici agli Asburgo, a cura di M. Amari, Milano, Electa, 1998, pp. 13-28: p. 13. L’autore si sofferma sull’etimo della parola ‘giardino’ nella sua dipendenza dal volgare ‘zardino’ o ‘iardino’, come termine di formazione gallo-romana, già testimoniato dal latino giardinum sin dal X secolo e inteso come luogo recintato. 5   Si osservi a questo proposito come la realizzazione di giardini e padiglioni abbia trovato successivamente grandiosi sviluppi nel mondo iranico e soprattutto nella città di Esfāhān, dove il palazzo e il giardino di Hāsht Behesht (‘degli Otto Paradisi’), sul lato orientale della Chāhār Bagh Abbāsi, diedero le direttrici di espansione della città safavide (XVII secolo). 6  Una disamina approfondita sul ruolo dei loca solaciorum nella politica federiciana si trova in M.S. Calò Mariani, Loca solaciorum, in Federico II. Enciclopedia Fridericiana (3 voll.), Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2006 (voll. I-II) e 2008 (vol. III), vol. II, pp. 209-215.

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veniva a ristabilirsi l’antico accordo tra uomo e natura e in cui fiori e piante servivano a offrire significati allegorici7. Un luogo, dunque, dedicato alla felicità e all’intimità di ognuno, in cui profumi e colori scandivano il cammino dell’osservatore. Ben diverso, invece, il contenuto simbolico e materiale del giardino rinascimentale: ai fiori subentrò progressivamente un disegno sempre più geometrico, in armonia con una società nuova votata ad un nuovo razionalismo economico e ad un potere capitalistico oligarchico, come accadeva nella Firenze medicea. Nei giardini «si faranno (…) cerchi, semicerchi ed altre figure geometriche in uso nelle aree degli edifici, limitati da serie d’allori, cedri, ginepri, dai rami ripiegati e reciprocamente intrecciati»8: un richiamo forte alla geometria e ai temi legati alla classicità, in puro spirito dell’Umanesimo, con l’obiettivo di costruire un ‘giardino armonico’ raffinato ed elitario che veniva realizzato per la prima volta per mano di un architetto. Nacquero in quel periodo splendidi giardini pensili arricchiti da pergolati e colonnati, dove la vegetazione decorava e disegnava l’ambiente9; l’iconografia di questo periodo concorreva a definire la forma archetipica, nitidamente scandita da forme quadrangolari, di uno spazio cintato che rifletteva «l’aver strappato alla selvaggia foresta naturale un lembo di terra da destinare ad un paradiso di piaceri intellettuali e sensuali»10. A partire dal Quattrocento la componente naturale si legò in modo sempre più stringente al disegno del territorio. La progettazione dei giardini seguiva di pari passo (ed anzi, spesso governava) la pianificazione del paesaggio in quanto ne costituiva il tramite con gli spazi interni, in equilibrio tra l’espressione di una natura libera e le forme di una natura addomesticata. Sovrani e papi s’impegnarono allora per realizzare parchi sempre più splendidi, richiamando presso la propria corte artisti acclamati ed architetti di giardini, ai quali veniva demandata la traduzione delle esigenze rappresentative ed estetiche dei committenti. Particolare fortuna conobbe nel periodo

 Cfr. M. Amari, Miti e modelli del giardino del re, in Giardini Regali, pp. 29-42: p. 31.  L.B. Alberti, De re aedificatoria, libro IX, cap. V, 1450. 9  Un esempio ragguardevole lo fornisce Amari, Miti e modelli del giardino del re, p. 31. Uno degli artisti rinascimentali che si dedicarono all’architettura dei giardini fu Michelozzo. Egli, rifacendosi ai modelli classici, trasformò la villa di Careggi (1459) innalzando sui terrazzi del palazzo splendidi giardini pensili: una flora rigogliosa convive con fontane e statue allegoriche di Saturno, Bacco, Minerva e altre figure mitologiche, mentre agli angoli cavalli di bronzo sono montati da cavalieri con banderuole segnavento. 10  C. Acidini Luchinat, Alle origini del “ritratto di giardino”, in Giardini Regali, pp. 159164: p. 159. 7 8

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rinascimentale l’elemento scultoreo: riproduzioni di Venere, Ercole, Apollo e altre figure mitologiche arricchivano infatti fontane ed angoli di giardini. Tuttavia l’elemento di primo piano durante tutto il periodo rinascimentale fu certamente l’acqua: sempre presente nel giardino a partire dal Medioevo, fra Cinque e Seicento diventò protagonista grazie ai progressi dell’idraulica. Se fino al Quattrocento, infatti, la sua presenza era stata immobile negli specchi d’acqua, adesso si muoveva, zampillava, scompariva e fuoriusciva da artificiali grotte, in un meccanismo spesso complesso di deviazioni e movimenti anche contro la gravità. Inoltre l’acqua si circondava di figurazioni del mondo marino (spugne, scogli), terrestre (isole, montagne) e mitologico (pesci, delfini, mostri, divinità), fino alle compiute rappresentazioni scultoree seicentesche. Così l’arte diveniva pienamente strumento politico: nella reggia del Re Sole sarebbe stato «lo spazio ad avere il compito di (…) sottolineare l’immensità, se non addirittura la mancanza, di confini: della natura e della monarchia assoluta»11. L’immensità del giardino, dal punto di vista iconografico, non poteva che essere rappresentata con visioni amplissime: le vaste prospettive a volo d’uccello, già utilizzate per raffigurare il giardino rinascimentale, divennero il mezzo più congeniale alla presentazione del giardino barocco e furono inizialmente impostate su un punto di vista ed un punto di fuga centrali. La veduta a volo d’uccello rimase in uso per tutto il Settecento per rappresentare le vaste creazioni simmetriche e geometriche di gusto tardo-barocco, variando spesso il punto di fuga da centrale a laterale, per meglio cogliere i volumi12: si tratta del cosiddetto ‘taglio diagonale’, che era stato messo a punto nell’ambito della pittura veneta cinquecentesca e che fu rapidamente mutuato per la sua efficacia di spettacolare sintesi prospettica dai pittori barocchi, prima di giungere ai vedutisti romantici ottocenteschi. Solo con la veduta diagonale divenne possibile controllare visivamente l’immensa organizzazione paesaggistica e idraulica della Reggia di Caserta. Si sarebbe dovuto attendere il Settecento avanzato perché divenissero connotati costanti del ‘ritratto di giardino’ gli studi sui mutevoli effetti della luce del giorno: lo testimonia il dipinto di Antonio Joli, Inaugurazione della cascata del parco della Reggia di Caserta, alla presenza della corte sotto un cielo crepuscolare. Il Settecento costituì dunque il momento di sintesi dell’arte, ma anche delle acquisizioni precedenti e delle tecnologie applicate all’arte del giar-

 Amari, Miti e modelli del giardino del re, p. 36.  Cfr. Pizzoni, Il giardino. Arte e storia, pp. 130-131.

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dino. Sicché, da un lato grazie ai Savoia e dall’altro con i Borbone, videro la luce due delle massime realizzazioni in fatto di parchi reali: Amedeo Castellamonte progettò per il duca di Savoia Carlo Emanuele II la villa della Venaria (1658-1679), mentre Luigi Vanvitelli diede forma ai desideri di Carlo di Borbone realizzando il palazzo e il parco di Caserta (1752-1780). Qui furono disposti tutti gli elementi essenziali di un linguaggio decorativo che si era ormai consolidato a livello internazionale. Alle planimetrie rigorose e razionali si accompagnavano significati allegorico-simbolici espressi nelle forme, nelle essenze e nelle sculture, che convergevano tutti al medesimo obiettivo: celebrare il potere e, parti integranti di questo, la bellezza e la felicità di vivere la natura e di goderne i frutti. Fu poi l’Inghilterra ad assumere il ruolo di guida europea nella concezione dei nuovi giardini di spirito romantico, in pieno accordo con la mutata sensibilità di fine secolo: alla natura addomesticata e ‘geometrizzata’ si sostituì progressivamente una natura selvaggia e libera, che s’impossessava del paesaggio riducendo le opere dell’uomo a rovine da contemplare nell’intimo del raccoglimento. Così, nella pratica, il giardino all’inglese (1786-1790) nel parco di Caserta, voluto da Maria Carolina moglie di Ferdinando IV, concretizzava con eleganza e precisione i nuovi dettami del giardino ‘non costruito’ dominato dalla natura incontrastata, una tipologia che sarebbe divenuta la norma per i giardini ottocenteschi. 2. Carlo di Borbone fu un sovrano attivissimo nel favorire con ogni mezzo lo sviluppo del Regno. Il suo impegno a costruire, anche fisicamente, una nuova monarchia13, si realizzò anche attraverso la progettazione di «universi verdi»14: i complessi di Capodimonte (progettato da Antonio Medrano e Ferdinando Sanfelice) e Caserta costituiscono rispettivamente l’inizio e il culmine di questa sua politica. Mentre il progetto di Capodimonte rappresenta il primo esempio napoletano di costruzione del territorio attraverso la natura, quello di Caserta fu il segno paesaggistico più forte: la Reggia doveva

 Cfr. P. Macry, Carlo di Borbone e il progetto di una corte europea per la nuova monarchia, in Luigi Vanvitelli e la sua cerchia, pp. 35-38. Lo sforzo per erigere adeguate opere di rappresentanza va letto nell’ottica dell’obiettivo di creare una monarchia forte e indipendente sul piano geopolitico, che non avrebbe potuto dunque fare a meno dei luoghi, dei simboli e dei riti propri della regalità. Una coerente immagine di come l’architettura s’inserisse da protagonista nella politica della nuova monarchia si ritrova in A. Venditti, Architettura neoclassica a Napoli, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1961. 14  A. Giannetti, Il giardino napoletano. Dal Quattrocento al Settecento, Napoli, Electa, 1994, p. 95. 13

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porsi infatti come cerniera tra il paesaggio evocato dal parco, immenso ma definito, e quello costruito sulla piazza antistante il palazzo. Coprendo un arco cronologico che va dall’insediamento della monarchia borbonica fino all’Unità d’Italia, sotto molteplici aspetti Caserta è stata la vera «casa dei re di Napoli»15. Una casa che fu ideata e progettata sfidando le maggiori realizzazioni edilizie reali dell’epoca e che, a detta di numerosi viaggiatori e visitatori, superava in splendore ogni altra opera coeva. Scriveva Juan Andrés, letterato e storico gesuita settecentesco: «io non ho visto (…) altri siti reali di potenti Principi; ma ho sentito dire che nessuno dei Palazzi di Spagna, Francia, Germania e altre nazioni d’Europa eguaglia la magnificenza di quello di Caserta»16. Il progetto di Vanvitelli per Caserta si pose sin da subito come innovativo rispetto alla precedente tradizione napoletana, nel cercare di coniugare il ritorno alla classicità con la qualità decorativa tipicamente tardo-barocca; Vanvitelli infatti utilizzò l’ordine architettonico in modo razionale e funzionale, come comandavano i teorici dell’architettura e come indicavano i primi scavi di Pompei ed Ercolano, ma il mondo neoclassico era ancora agli inizi perché Vanvitelli potesse consapevolmente assumere l’antico come modello assoluto, la qual cosa si sarebbe realizzata solo nel tardo Settecento; certamente, però, l’architetto non ignorava i recenti passi della cultura europea, sia sotto il profilo teorico che per quanto riguarda le realizzazioni17. La distanza dal progetto di Versailles, una delle massime realizzazioni seicentesche in fatto di giardini reali, è tanto più evidente: in Francia gli elaborati parterres de broderie e à l’anglaise, poco ‘naturali’ nell’impianto perché sottoposti all’esibizione del potere; a Caserta una netta separazione del giardino rispetto al bosco. Ancora, laddove Versailles esemplifica il giardino francese che chiude allo sguardo l’orizzonte, contenendolo in una ‘prospettiva controllata’ che domina la natura, Caserta invita a dominare

  G. Petrenga, Introduzione a Casa di Re. Un secolo di storia alla Reggia di Caserta 17521860, a cura di R. Cioffi, Milano, Skira, 2004, p. 19. 16   Gl’incanti di Partenope, a cura di V. Trombetta, Napoli, Guida, 1996, p. 77. Il volume ha tradotto e pubblicato per la prima volta in Italia le quattro lettere napoletane facenti parti del carteggio che Juan Andrés indirizzò al fratello a Valencia. Andrés (1740-1817), in seguito alla soppressione dei gesuiti nel 1773, compì una serie di viaggi in Europa e nel 1785 approdò a Napoli. Suo intento era mettere insieme una storia universale delle letteratura, opera che scrisse fra il 1782 e il 1799 e che pubblicò col titolo Dell’origine, dei progressi e dello stato attuale di ogni letteratura (3 tt.), Napoli, nel Gabinetto letterario [I ed. napoletana], 1796-1797. 17  Cfr. G. Cantone, Juvarra e Vanvitelli: l’architettura dal tardo Barocco al Neoclassicismo, in Luigi Vanvitelli e la sua cerchia, pp. 46-52. 15

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tutto l’intorno: mentre il viale d’acqua tende a chiudere la prospettiva del giardino con la sua successione di fontane e con la cascata che in parte copre la veduta complessiva, lo sfondo del monte riapre il dialogo con la campagna circostante. In sostanza, dunque, nessun reale parallelismo è plausibile fra Versailles e Caserta, due progetti autonomi per retroterra culturale e politico. I modelli cui Vanvitelli si rifece sono altri, a partire dall’Escorial e dal Palazzo Reale di Madrid, costruito su progetto di Juvarra, fino alla Granja di San Ildefonso18. Quest’ultima opera, posta a ridosso delle montagne di Segovia, è un palazzo sorto sul sito di un antico monastero: è immerso nella natura e il vasto parco è adornato da numerose fontane; un lago artificiale alimenta una serie di cascate che scendono in linea retta. La natura è sapientemente addomesticata a tal punto da sembrare libera e selvaggia: questo carattere di ricercata naturalità si ritrova appieno nel parco di Caserta. Un riferimento non secondario per Vanvitelli fu quello dei giardini sabaudi. La cosiddetta «corona di delitiae»19, cioè di parchi e residenze reali, faceva parte di un più vasto progetto ideato da Emanuele Filiberto a sostegno dell’opera di formazione del nuovo Stato sabaudo, dopo il trasferimento della capitale a Torino (1663). Non deve stupire come, in questo periodo, i giardini e le ville fossero il luogo privilegiato della vita di corte, dell’educazione e degli svaghi dei nobili: si trattava di vere e proprie maisons de plaisance, strumenti accattivanti finalizzati al rafforzamento della dinastia e all’affermazione dello Stato. Esprimere con l’architettura e con la disposizione del verde una felicità raggiante che fosse il più possibile pubblica, dunque visibile, diventò quindi un’operazione necessaria che connotava le residenze pensate per la felicità privata dei regnanti.

 Cfr. V. De Martini e J.M. Morillas Alcazar, Gli spazi costruiti di Carlo di Borbone fra Madrid e Caserta, in Casa di Re, pp. 57-84: pp. 57-58. Gli autori sostengono la forte presenza di riferimenti e modelli spagnoli nell’opera casertana alla luce dello stretto legame fra Madrid ed Elisabetta Farnese, madre di Carlo di Borbone, rispetto alla relazione con la Francia; tanto più dopo che l’infanta Maria Aña Victoria, inviata a Parigi per andare sposa al Delfino di Francia, il figlio di Luigi XV, era stata da lui rifiutata e rimandata a Madrid (1725), i rapporti tra Francia e Spagna si erano notevolmente raffreddati e rifarsi al modello francese per antonomasia appare assai poco probabile. 19  M. Macera, Le delitiae sabaude, in Giardini Regali, pp. 85-90: p. 86. La ‘corona di delitiae’ sabaude è costituita dai siti di Lucento, Mirafiori, dalla vigna del cardinal Maurizio (poi Villa della Regina), dal Parco del Valentino, dalla vigna di Madama Reale, dai castelli di Rivoli e Moncalieri, Racconigi, Agliè, Covone e Pollenzo, dalla Venaria Reale e dalla palazzina di caccia di Stupinigi. 18

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Concentrando l’attenzione sull’intero impianto, l’immagine planimetrica del complesso di Caserta è insieme imponente e suggestiva nella successione incalzante degli spazi aperti e costruiti: piazza, palazzo, Via d’acqua e cascata, allineati lungo l’asse Nord-Sud, si dispongono rigorosi a realizzare la progressiva elisione dell’architettura a favore della natura.

Fig. 1. Caserta, vista planimetrica del Palazzo Reale e del parco.

Il sito fu scelto da Carlo e da Maria Amalia, conquistati dall’amenità del luogo e dalla ricchezza delle acque20. Le maggiori modifiche attuate da Vanvitelli rispetto al primo progetto riguardarono proprio il disegno del parco: nella prima idea, infatti, esso doveva avere una geometria più complessa, legata alla tradizione del giardino italiano rinascimentale-barocco, con un viale centrale e comparti geometrici decorati da fontane, pergolati e sculture; l’impianto doveva concludersi con un casino-belvedere alla sommità. La prima parte del parco ha oggi un disegno più semplificato ma risponde pienamente ai desideri di Carlo, amante della campagna e della caccia: «congiungere alle bellezze della arti (…) le delizie della natura per [poter] rintracciar nella solitudine della campagna il bello della natura, che di pura gioia e contento il riempie»21. Ed era una pura gioia tutta intima e personale, derivata dalla semplice contemplazione dell’allestimento del parco, ma fortemente intenzionale e progettata. La costruzione del parco continuò dopo la morte del suo autore e Ferdinando IV incaricò il figlio di Vanvitelli, Carlo, di ultimare il progetto paterno, realizzare i gruppi scultorei delle fontane e creare un parco più piccolo, il giardino inglese (1782-1786).

 Cfr. la Descrizione del sito del Reale Palazzo di Caserta e dell’incominciamento dell’opera, in L. Vanvitelli, Dichiarazione dei disegni del Reale Palazzo di Caserta alle Sacre Reali Maestà di Carlo re delle Due Sicilie e di Gerusalemme, infante di Spagna, Duca di Parma e Piacenza, Gran Principe ereditario di Toscana, e di Maria Amalia di Sassonia Regina, Napoli, nella Regia Stamperia, 1756. 21  Vanvitelli jr., Descrizione delle Reali Delizie di Caserta, p. 26. 20

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Fig. 2. Caserta, parco, gruppi scultorei nella fontana di Diana e Atteone (foto dell’Autore).

La Via d’acqua, lunga più di tre chilometri, è introdotta dalla piccola fontana Margherita e si compone di quattro grandi bacini, con terrazze collegate da rampe e scale; l’intero percorso si sviluppa progressivamente in una graduale ascesa prospettica e rivela tutta la forza costruttiva di un’architettura che si serve dell’acqua, degli alberi, dei prati, come delle pietre e dei marmi per combinare diversi elementi e disporli nei piani prospettici, all’interno di spazi e profondità scenografici, secondo un logico ordine compositivo. Al termine della prima vasca, in un’esedra semicircolare, l’acqua scroscia dalle bocche di tre delfini. Ben diversa è la fontana successiva: in un’ampia esedra poligonale, con due rampe simmetriche che salgono al centro, una larga cascata interrompe il prospetto ad archi e fornici concluso da una balaustrata; davanti a questa sorta di criptoportico ci sono le figure dei Venti. Nel progetto iniziale era prevista la presenza del gruppo di Eolo in atto di sprigionare, per volere di Giunone, i venti contro Enea ma l’intero complesso scultoreo non fu mai completato. La fontana fu terminata nel 1785 ad opera di un gruppo di scultori tra cui Gaetano Salomone, Angelo Brunelli, Andrea Violani, Paolo Persico e Pietro Solari. Nei due bacini seguenti, entrambi opera del solo Salomone, appaiono invece basse rapide: nel primo, avente sei vasche e detto Zampilliera, è la dea Cerere con le Nereidi, i fiumi Anapo e Simeto, i Tritoni e i Delfini; nell’altro, con ben undici vasche, il gruppo di Venere e Adone con cacciatori e ninfe. Nell’ultimo piazzale, infine, si trova la grande vasca ellittica in cui l’acqua precipita dalla grotta artificiale sul colle. Protagonisti sono Diana con le

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sue ninfe e Atteone che, trasformato in cervo, viene azzannato dai cani. Le statue, veri tableaux vivants, risaltano sui banchi di rocce raccordando l’acqua e il verde. Vanvitelli scelse per la statuaria temi mitologici tratti dalle Metamorfosi di Ovidio22, logicamente influenzato dal clima culturale che comandava un ritorno alla classicità attraverso il recupero delle sue tematiche, dei suoi protagonisti e dei suoi miti. In questo nuovo modo d’intendere l’arte e, nella fattispecie, di recuperare l’antico scardinandolo da ogni metafisica e sottoponendolo al lucido sguardo della ragione, la natura, da modello rivelatore oggetto di mimesis, diventava materia da plasmare per creare perfezione, bellezza, diletto, in una operazione di tipo sensistico23. L’ordine antico e il suo sistema di ornamento nel dominio dell’architettura, come la storia o la mitologia in quello della pittura, della scultura, della letteratura o della musica, si affermarono più che mai come un’emanazione delle bellezze naturali del mondo, reinventate per mano dell’artista24. Così le sculture del giardino di Caserta, eleganti e flessuose come in un balletto e concepite per intrattenere un rapporto dialettico fatto di continui rimandi con l’edificio, sorridono e dialogano tacitamente con l’architettura e ne sono completamento, realizzando la pura soddisfazione dell’intelletto25. Il giardino ingloba il «Bosco Vecchio», antica preesistenza del parco cinquecentesco del Palazzo Acquaviva, residenza dei principi feudatari di Caserta. Nel giardino degli Acquaviva esisteva la torre Pernesta, detta Castelluccia, di origine cinquecentesca e restaurata nel 1819: si tratta di una costruzione ottagonale con bugnato a fasce e ponte levatoio che, secondo il progetto borbonico, doveva servire ai giochi di guerra dei giovani principi.  Cfr. Giannetti, Il giardino napoletano, p. 99.  Fu Parini a sviluppare tra i primi la filosofia del sensismo, che indicava la poesia come creatrice di diletto sensistico, appartenente alla natura. Da qui una nuova concezione della realtà sensibile della natura, celebrata dal nuovo classicismo settecentesco e manifestata anche nelle arti figurative. Si veda, per le teorizzazioni in campo storicistico: F. Tessitore, Nuovi contributi alla storia e alla teoria dello storicismo, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2002. Per una panoramica sulla visione pariniana della poesia e della letteratura: E. Bonora, Parini e altro Settecento. Fra Classicismo e Illuminismo, Milano, Feltrinelli, 1982; e G. Barbarisi, L’amabil rito. Società e cultura nella Milano di Parini, Bologna, Cisalpino, 2000. Per gli aspetti del sensismo in arte e architettura, nel più generale recupero dell’antico e dell’esistente nel Settecento: P. Panza, Antichità e restauro nell’Italia del Settecento. Dal ripristino alla conservazione delle opere d’arte, Milano, FrancoAngeli, 2002. 24  Cfr. D. Rabreau, I Disegni di Architettura nel Settecento, Parigi, Bibliothèque de l’Image, 2001, p. 88. 25  Cfr. Civiltà del ’700 a Napoli. 1734-1799 (Catalogo in 2 voll.), Firenze, Centro Di, 1979, vol. I, p. 110. 22 23

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Poco più a nord c’è la peschiera grande, ovvero una grande vasca con un isolotto centrale che doveva servire da sfondo alle battaglie navali, occasioni di divertimento e di apprendimento per i giovani Borbone26. Ultimo elemento del grande parco in ordine di realizzazione, vero e proprio luogo di delizie, il giardino inglese si estende su un territorio in leggero pendio a oriente del giardino vanvitelliano, nel luogo individuato nel 1786 dal giardiniere e botanico inglese John Andrew Graefer. Il luogo era già stato scelto da Vanvitelli per ospitare un portico ornato con parterres all’inglese e con le due fontane di Amore e di Psiche. L’idea moderna di un giardino ‘all’inglese’ nacque, trent’anni dopo, su richiesta della regina Maria Carolina. Nell’arco di pochi anni furono fatti arrivare a Caserta alberi e piante mediterranei ed esotici, furono costruite speciali serre allo scopo di creare un giardino botanico; si costruirono il criptoportico con le sette statue antiche della collezione Farnese e le statue provenienti dagli scavi di Pompei; a monte vennero realizzate le antiche rovine del tempio dorico, a valle furono realizzati il laghetto di Venere e quello dei Cigni e, poco lontano, il tempietto romano e il labirinto voluto da re Ferdinando. Nel giardino inglese tutto si stacca dall’impianto geometrico del resto del parco e mostra il gusto già romantico del giardino segreto tardo-settecentesco27. Con Ferdinando IV la Reggia visse dunque un secondo, fortunato momento di vita (anche se la famiglia reale preferì a Caserta la piccola residenza di San Leucio, connotata da un’atmosfera più intima e campestre): nel giardino inglese il promeneur solitaire poteva incamminarsi non visto, percorrere i viali irregolari, affrontare le asperità del terreno, conoscere prospettive nuove e cangianti, in una mescolanza di natura e antichità. Il verde qui non è più utilizzato in senso architettonico, anzi lo è nella misura in cui esso viene lasciato libero di ammantare il paesaggio e quindi, in un certo senso, di ‘costruirlo’. Il secondo dato essenziale è che il parco d’ispirazione vanvitelliana esprime con vigore il potere dello sguardo e al contempo la felicità del controllo di quello sguardo, cosicché l’osservatore percepisce di muoversi liberamente nella fluidità degli spazi aperti e conclusi, ma viene realmente guidato e condotto dallo spazio, che ad ogni passo regala prospettive fortemente progettate. La felicità ispirata dall’impianto del giardino inglese, invece, risente della sensibilità dell’intima soggettività che, sottratta al controllo (visivo e simbolico) della mole del palazzo, costruisce prospettive e percorsi e misura autonomamente l’orizzonte.  Cfr. A.M. Romano, Il parco di Caserta, in Giardini Regali, pp. 125-130: p. 127.  Cfr. F. De Filippis, Il Palazzo Reale di Caserta e i Borboni di Napoli, Napoli-Cava de’ Tirreni, Di Mauro Editore, 1984 (ristampa della I ed., ibidem 1968), p. 40. 26 27

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3. Il progetto per Caserta doveva congiungersi direttamente alle trasformazioni urbane che avrebbero coinvolto l’intera città. Nel primo progetto presentato da Vanvitelli, infatti, cinque direttrici territoriali, a cui era demandato il disegno dei nuovi quartieri, dovevano convergere attraverso la antistante piazza ellittica all’ingresso del palazzo, in uno slancio che attraverso la reggia avrebbe percorso il giardino. Nell’edificio furono previsti anche quattro padiglioni angolari turriti, una cupola centrale in posizione dominante ed alcuni motivi decorativi a festoni lungo la trabeazione tra le finestre, tutti mai realizzati; anche il progetto legato alla nuova città ebbe pochi sviluppi, tanto che ne vennero realizzati solo alcuni isolati. Per il resto, il palazzo corrisponde sostanzialmente ai disegni originari. Lo stile delle facciate, superata la plasticità e l’esuberanza barocca, si rifà ai sobri ed eleganti palazzi rinascimentali italiani. Sull’alto basamento stanno i due ordini di finestre che, assolute padrone della partitura della superficie muraria nella facciata principale, sono invece intervallate a lesene scanalate nella facciata sul parco: cresce l’effetto chiaroscurale e plastico di questo secondo prospetto, che assume quindi massimo rilievo. «È insensibile chi non prova diletto al contrasto euritmico di tante masse»28. Ancor più dei prospetti la pianta «mostra magnificenza, simmetria ed euritmia (…); un tutto che nel vederlo rapisce non solo gl’intelligenti nell’arte, ma gl’ignoranti ancora, producendo una grata sensazione che appaga l’intelletto»29. Una vera e propria dichiarazione, in sintesi, dell’intento di allietare qualunque visitatore, sia nobile che popolano. In pianta appaiono compiutamente i tratti del classicismo tardo-barocco conservatore, che convivono e si esaltano accanto ai nuovi orientamenti dell’architettura settecentesca: il gusto per la geometria pura, il rapporto intimo tra architettura e paesaggio in una definizione reciproca dei loro ruoli nello spazio, la disposizione scenografica degli ambienti per stupire e suscitare diletto. È questo il dato più importante che accomuna Caserta agli esempi coevi enunciati in precedenza, ma nessuna di quelle grandi residenze fu disegnata con la stessa logica stringente30. La forma in pianta è rettangolare e simmetrica con quattro cortili uguali; il braccio centrale minore, con il gioco di ombre e luci, è una vera galleria, «una delle parti più felici del palazzo»31, che collega l’edificio al parco fisicamente e visivamente

 Vanvitelli jr., Descrizione delle Reali Delizie di Caserta, p. 17.  Vanvitelli jr., Vita dell’architetto Luigi Vanvitelli, Napoli, co’ tipi di Angelo Trani, 1823, pp. 47-48. 30  Cfr. R. Wittkower, Arte e architettura in Italia. 1600-1750, Torino, Einaudi, 19932, p. 340. 31   Vita di Luigi Vanvitelli, a cura di M. Rotili, Napoli, Società Editrice Napoletana, 1975, p. 175. 28 29

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e che diventa un cannocchiale ottico che attira lo sguardo dell’osservatore a traguardare la profondità dell’edificio e seguire l’asse prospettico del giardino. A metà della galleria è il celebre vestibolo ottagonale, intersezione di varie direttrici angolari: è in questo punto del palazzo che l’architetto concreta al massimo livello tutti gli elementi della tradizione scenografica sei-settecentesca. Dal vestibolo sale la «Scala Regia», maestosa e luminosa ed esaltata dalle volte affrescate con la Reggia di Apollo. In cima alla prima rampa tre nicchie ospitano altrettante statue: la Verità, la Maestà Regia (il ritratto di Carlo, raffigurato con il capo coronato e lo scettro in mano, in groppa a un leone) e il Merito. Le due rampe laterali conducono invece, in un continuo moltiplicarsi di visuali prospettiche, al vestibolo ottagonale superiore, concluso da una volta ellittica aperta al centro da un oculo ovale: questo elemento fu creato per ospitare inizialmente una invisibile cantoria, da cui dovevano diffondersi felicissimi canti per le occasioni solenni, e per inquadrare la parte centrale della cupola superiore, laddove è affrescato il Parnaso con i tondi delle Stagioni. Dal vestibolo superiore si accede ai due Appartamenti, il Vecchio e il Nuovo32, con anticamere e sale private riccamente affrescate33, nelle quali si possono ancora rintracciare «sotto gli orpelli abbaglianti (…) le salde membrature e le nitide partiture architettoniche vanvitelliane»34. Vanvitelli aveva previsto quattro appartamenti maggiori (per il re, la regina, la principessa e il principe) e quattro minori per gli infanti. Nello specifico l’Appartamento Vecchio, ultimato nel 1787, è preceduto da tre anticamere: la Sala degli Alabardieri, la Sala delle Guardie del corpo e la Sala di Alessandro. Seguono gli ambienti di pranzo e ricevimento, il salotto e il fumoir, le quattro sale delle Stagioni (così denominate in ragione delle volte affrescate), lo studio, la toeletta della regina, due sale affrescate dal Fischetti ed infine la biblioteca. La Sala di Alessandro rappresenta anche l’anticamera per l’Appartamento Nuovo, completato durante il Decennio francese, che è composto dalla sala del trono e dalle sale di Astrea e di Marte. Vanvitelli realizzò anche un teatro di corte, una struttura a ferro di cavallo inglobata nel palazzo al centro del lato nord. Se Carlo non amava affatto la musica e l’opera, con Ferdinando IV il teatro ebbe vita intensa, alternando rappresentazioni di prosa e musica con can-

 Cfr. Vita di Luigi Vanvitelli, pp. 183-186.  La distribuzione degli appartamenti è rimasta identica a quanto si registra nella Dichiarazione di Luigi Vanvitelli, essi hanno solo cambiato funzione: in quelli che dovevano essere gli appartamenti della regina Maria Amalia si trova attualmente la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. 34   Vita di Luigi Vanvitelli, § 4: «Aggiunte e commento. La Reggia di Caserta», p. 186. 32 33

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tanti e attori celebratissimi: vi furono messe in scena numerose opere, tra cui alcune commedie goldoniane35. Felice connubio delle arti, quindi, tra cui anche la musica e il teatro, per il diletto dei sovrani e dei loro ospiti. Ma soprattutto le arti figurative trovarono qui compiuta espressione: la fabbrica di Caserta divenne, più che un cantiere, una feconda «officina internazionale»36, popolata da artisti e artigiani che, con i loro contributi, permisero lo sviluppo dei nuovi dettami della pittura settecentesca: Vanvitelli s’inseriva pienamente nella corrente del classicismo sei-settecentesco e fu legato in modo particolare alla tradizione romana, giacché a Roma si era formato come artista, del barocco più accademico. A questo portato si sovrappose la nuova tendenza, imperante in Europa, della ‘francesizzazione’ dei modelli culturali e artistici, destinati, in tutta la penisola e particolarmente a Roma e Napoli, a modernizzare gli schemi tardo-barocchi alla luce di posizioni di più ampio respiro. Riflettono questo cambiamento nel gusto le Allegorie presenti nella Reggia: l’Allegoria della Verità di Francesco De Mura, l’Allegoria dell’Innocenza di Giuseppe Bonito, l’Allegoria della Pace e dell’Amicizia di Stefano Pozzi e l’Allegoria della Religione di Pompeo Batoni, tutte opere significative nel quadro di una generale evoluzione della pittura napoletana. Si tratta dei primi passi di una tendenza che nel secolo successivo avrebbe sviluppato una forte impronta di soggettività ed una decisa sperimentazione visiva, a discapito dell’idea di un’arte al servizio, automaticamente ma sempre su un profilo altissimo, della celebrazione del potere regio. Nelle Allegorie sono infatti ormai oltrepassate le pose barocche e le metafore della rappresentazione: le figure si fanno più leggiadre, le espressioni di felice contemplazione estatica, le atmosfere insieme lievissime e vibranti. Durante il regno di Ferdinando IV erano presenti sul cantiere artisti locali di sicuro spessore, da Francesco Liani a Fedele Fischetti37; di quest’ultimo sono notevoli le rappresentazioni affrescate dell’Estate, nella volta della Sala delle Guardie del corpo, e della Toletta di Venere, nella volta del boudoir della regina, nell’Appartamento Vecchio: colori caldi e tenui, assieme a numerose cornicette con motivo di festoni intrecciati a nastri, costituiscono lo sfondo per le figure luminose e leggiadre, dalle espressioni gioiose ed eteree, che sono in atto di pettinare e agghindare Venere.  Cfr. De Filippis, Il Palazzo Reale di Caserta, p. 35.  F. Mazzocca, Un’officina internazionale: artisti stranieri alla corte di Ferdinando IV e Maria Carolina, in Casa di Re, pp. 121-128: p. 121. 37   Per un’analisi esaustiva dell’opera del Fischetti si veda, fra gli altri, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1997, vol. 48, ad nomen. 35 36

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Fig. 3. Caserta, Palazzo Reale, Appartamento Vecchio: F. Fischetti, Toletta di Venere (foto dell’Autore).

In secondo luogo affluirono a Caserta alcuni maestri stranieri, Jacob Philipp Hackert e Johann Heinrich Wilhelm Tischbein su tutti, i quali impressero scelte decisive verso il neoclassicismo di respiro più europeo; essi, divenuti veri pittori di corte, riuscirono a proporre nuovi modelli tali da scardinare o rinnovare profondamente la gerarchia esistente tra i generi pittorici. In particolare Hackert realizzò per Ferdinando IV una serie di rappresentazioni dei porti del Regno, eseguite dal vero durante un viaggio che l’artista compì in Puglia nel 1788 e conservate in gran parte a Caserta: questo progetto nasceva dall’esigenza «di rappresentare, di proiettare, attraverso i colori e le immagini ciò che in realtà non vi era e non vi sarebbe potuto essere in una Monarchia militarmente debole, divisa tra insularità e peninsularità, in declino economico e sociale, quale quella del Regno delle Due Sicilie alla vigilia dei moti del 1799»38: l’obiettivo era costruire, a fini politici

  G. Petrenga, Le peintre de chasses. Hackert e l’iconografia portuale tra propaganda e arte nella Reggia di Caserta, in Jacob Philipp Hackert: la linea analitica della pittura di paesaggio in Europa, a cura di C. De Seta, Napoli, Electa, 2007, pp. 139-142: p. 139. Hackert viaggiò da Manfredonia a Taranto e rappresentò fra gli altri i porti di Barletta, Bisceglie, Brindisi, Gallipoli, Palermo e Messina, condensando una lucida analisi paesaggistica che rappresenta oggi una preziosa testimonianza per rileggere la storia dei luoghi oltre che quella sociale e culturale ripresa dal vero. Grazie ai dipinti eseguiti da Hackert e grazie alle rappresentazioni dello stesso Palazzo Reale di Caserta, come Il giardino inglese di Caserta, il genere della veduta conquistò la stessa dignità della pittura di storia; mentre nell’arte sperimentale di Tischbein il ritratto e la rappresen38

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e celebrativi, un’immagine positiva del Regno attraverso l’espressione di un progresso economico e sociale visibile. Inoltre lo sviluppo di una fitta rete di scambi artistici fra gli artigiani napoletani impegnati nella realizzazione degli interni reali con le maestranze attive nelle altre corti europee permise al cantiere un respiro più marcatamente internazionale: la produzione delle raffinate sete39, per esempio, era prevalentemente improntata ai modelli francesi, mentre dalla Lombardia arrivavano stuccatori e da Firenze ebanisti di origine tedesca. 4. Malgrado la concentrazione di artisti e gli intenti ambiziosi che concorsero alla sua realizzazione, la Reggia di Caserta rimase solo, come concorda la storiografia più recente, «il vertice maestoso e sopra misura di quell’insieme di “delizie” e di siti reali che corrispondono meglio non solo alla infaticabile passione venatoria di Carlo e poi di Ferdinando, ma ai riti, alle simbologie, alle pratiche quotidiane alle quali viene via via adattandosi una sovranità che non riesce (…) a trovare le misure giuste per costruire o rinnovare il proprio modello di esercizio del potere»40. Il modello di potere proprio dei reali borbonici, che inevitabilmente si rifaceva al proprio passato e custodiva l’eredità dei suoi predecessori, dovette per necessità confrontarsi con nuovi elementi di complessità, sia nell’amministrazione del regno che nella pratica della sovranità: era infatti inattuale ed impensabile, ormai, concepire una totale dedizione del sovrano alla propria vita pubblica e alla esibizione costante della regalità, com’era accaduto con Luigi XIV. Nel Settecento, infatti, il sovrano tendeva a separare nella propria giornata i tempi e i luoghi di ogni attività41: il tentativo di Vanvitelli tazione degli animali valicarono per la prima volta le soglie che ne facevano una pittura di rango minore per assumere un’inedita forza conoscitiva e critica rispetto alla realtà. 39  La Manifattura Reale di San Leucio, avviata durante gli anni Settanta del XVIII secolo da Ferdinando IV, costituisce l’esempio più rilevante nel processo di riorganizzazione economica del Regno. Si vedano a questo proposito: Lo bello vedere di San Leucio e le manifatture reali, a cura di N. D’Arbitrio, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1998; M. Battaglini, La fabbrica del re: l’esperimento di San Leucio tra paternalismo e Illuminismo, Roma, Edizioni Lavoro, 1983; L. Mongiello, San Leucio di Caserta: analisi architettonica, urbanistica e sociale, Bari, Laterza, 1980. 40  L. Mascilli Migliorini, Forma e storia di una sovranità, in Casa di Re, pp. 29-38: p. 34. Il più vasto progetto riguardante la nuova capitale Caserta non vide grandi sviluppi e questo insuccesso non è da attribuirsi unicamente ai limiti contingenti del governo borbonico e alla partenza di Carlo per la Spagna, ma va ascritto ad un motivo più generale di cambiamento d’identità della stessa ‘città capitale’, in funzione delle più moderne e illuminate politiche di decentramento delle funzioni amministrative e di governo a livello europeo. 41  Cfr. Mascilli Migliorini, Forma e storia di una sovranità, p. 35. L’articolazione della Reggia prova a riflettere, non senza elementi di contrasto, questa suddivisione tra vita pub-

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nel progetto casertano fu proprio quello di far coesistere gli spazi rappresentativi con l’ambiente domestico nel quale il re, lasciati tutti gli apparati simbolici, poteva ritrovare la propria dimensione famigliare e più ‘umana’. Si tratta di una distinzione tipologica molto rilevante, tanto più che a Vanvitelli spettò il compito di concretarla con i mezzi in suo possesso: renderla visibile attraverso un edificio, uno spazio. Nutrito com’era degli insegnamenti di Vitruvio, Alberti, Bramante e Palladio, e maturato presto «un gusto particolare per la solidità ed eleganza degli edifici, ed un’avversione per ogni difetto contrario»42, Vanvitelli aveva fatte proprie le posizioni sul ruolo dell’architettura che Francesco Algarotti avrebbe compiutamente espresse alla fine del Settecento: «l’Architettura (…) non è la Poesia, la Pittura, e la Musica, le quali hanno dinanzi il bello esemplificato; ed essa non l’ha. Quelle non hanno in certa maniera che ad aprir gli occhi, contemplare gli oggetti che sono loro dattorno, e sopra quelli formare un sistema d’imitazione. L’Architettura al contrario dee levarsi in alto coll’intelletto, e derivare un sistema d’imitazione dalle idee delle cose più universali»43. Questa concezione dell’arte del costruire, legata a doppio filo con un nuovo ideale di bellezza (che nel Settecento divenne atto critico, scelta razionale), ne consacrò il ruolo pubblico, finalizzato al bene della società e all’espressione del potere. Tutto questo assunse valore fondativo per Vanvitelli e gli permise di assecondare appieno la volontà del suo committente: Caserta riflette chiaramente una compartimentazione strategica di ruoli e di momenti, di spazi pubblici e privati, finalizzata a separare, funzionalmente e simbolicamente, i luoghi della felicità pubblica e di quella intima e familiare. Entrambi i momenti, gli spazi, i ruoli possedevano per il progettista lo stesso grado di importanza: da un lato gli spazi domestici dei Reali Appartamenti, l’intimità religiosa della cappella, i viali del giardino; dall’altro il fasto della Sala del Trono, lo splendore del teatro di corte, la maestosità del Palazzo e del suo parco, le sue acque scroscianti e le sue sculture ridenti. Tutto questo doveva dare corpo, come infatti riuscì a fare, a due esigenze ugualmente rilevanti: un diritto alla felicità individuale, tanto del sovrano quanto del visitatore di ieri e di oggi, e un dovere alla felicità collettiva, alla felicità del controllo e della celebrazione del potere, in una parola alla felicità del consenso. blica e vita privata del monarca introducendo spazi di distribuzione e corridoi privati per consentire il facile passaggio dei reali dagli ambienti di ricevimento o di pubblica rappresentazione ai loro appartamenti. 42  Vanvitelli jr., Vita dell’architetto Luigi Vanvitelli, p. 5. 43  F. Algarotti, Saggio sopra l’Architettura, Venezia, Stamperia Graziosi, 1784, p. 21.

Antonio Trampus Variazioni sul tema del diritto alla felicità: Amsterdam e le città olandesi tra «Gouden Eeuw» e tardo Illuminismo

Come i lavori stessi del convegno promosso dalla Società italiana di studi sul secolo XVIII su «Felicità pubblica, felicità privata» stanno a dimostrare, il tema della felicità – una volta sottratto ad imperanti mode culturali e a letture astrattamente sociologiche – si rivela spesso uno strumento interpretativo particolarmente utile per indagare sui differenti contesti storici attraverso ambiti disciplinari anche molto diversi tra loro. Per comprendere continuità e discontinuità nella cultura settecentesca può essere allora utile lo studio del modo attraverso il quale il mondo dei Lumi riuscì a tradurre il linguaggio filosofico della felicità non solo in nuove concettualizzazioni giuridiche, ma anche in una serie di immagini e rappresentazioni sociali, capaci di spostare l’attenzione verso l’agire quotidiano e verso i luoghi nei quali poter concretamente misurare il dilatarsi delle libertà a mano a mano conquistate. L’obiettivo delle pagine che seguono è di mostrare come il linguaggio della felicità, nutrendosi di alcune sue radici seicentesche, fu capace di proporre agli uomini del XVIII secolo alcune rappresentazioni urbane entro le quali poter esercitare attivamente un diritto alla ricerca della felicità1. Si assistette così alla trasformazione delle utopie di città felici in modelli reali di città costruite programmaticamente dall’uomo e in funzione dell’uomo, giovandosi di particolari codici e segni linguistici, tra cui l’organizzazione degli spazi, l’uso dell’acqua o degli alberi, simboli di vita, di rinnovamento e di perpetua rigenerazione, presenti costantemente anche nella letteratura coeva sino al tardo Illuminismo2.

 La presente ricerca rientra nel quadro di un più ampio progetto sui linguaggi e i simboli del tardo Illuminismo europeo finanziato dal MIUR-PRIN, esercizio 2007 e attraverso fondi di ricerca di ateneo dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. 2   Per alcune metamorfosi del linguaggio della felicità mi permetto di rimandare al mio Il diritto alla felicità. Storia di un’idea, Roma-Bari, Laterza, 2008, pp. 36-58; altri percorsi 1

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Il caso preso in considerazione è quello delle città olandesi considerate come archetipi della moderna città felice. Attraverso queste città, infatti, la cultura sei e settecentesca riuscì a instaurare un rapporto diretto fra l’aspirazione alla felicità e una scienza della legislazione capace di realizzarla, all’interno di un dibattito europeo che stava secolarizzando l’idea di felicità rompendo con gli schemi provvidenzialistici e con i rigidi dettami della morale cristiana, come la vicenda della «ricerca della felicità» inserita nella dichiarazione di indipendenza americana sta a dimostrare3. Peraltro, come ha osservato Bernard Lepetit, proprio l’età dei Lumi è l’epoca nella quale – complici anche le definizioni contenute nell’Encyclopédie – la città venne presentata non più solo come uno spazio organizzato, preordinato, razionalmente distribuito, ma fu riconosciuta anche nelle sue variabili multiformi, nella sua naturale tendenza a mutare e ad evolversi, oppure a decadere fino a presentare i segni tipici di un corpo malato economicamente e socialmente4. La città veniva considerata dunque quasi come una creatura vivente, come un corpo capace di svilupparsi di pari passo con l’emancipazione dell’uomo moderno e con le metamorfosi della felicità. Fra tutte le città d’Europa, furono le città «di fondazione» ad attrarre maggiormente lo sguardo degli uomini dei Lumi; la loro storia era recente e di conseguenza il legame con l’antico, che significava anche usi, costumi, ordinamenti giuridici da superare, più tenue5. Le città di fondazione apparivano come il luogo nel quale l’uomo moderno riusciva a instaurare un rapporto nuovo con il territorio, con la natura e con i propri simili, ispirandosi a criteri di armonia, di utilità e di ragione. Le città olandesi per molti aspetti precorsero questa filosofia, diventando un modello per la letteratura e per l’urbanistica, come numerosi esempi stanno a dimostrare: basti pensare alla costruzione tardo settecentesca della Trieste asburgica, direttamente ispirata dall’esempio di Amsterdam, anche se poi nel caso adriatico i canali non

linguistici sono ricostruiti da E. Fechner, L’arbre de la liberté: objet, symbole et signe linguistique, «Mots», 15 (1987), pp. 23-42, sintesi del più ampio lavoro di Id., Les arbres de la liberté. Symbole et réalité à travers les Archives parlementaires, Mémoire de maîtrise sous la direction de M. Vovelle, Paris, IHRF, 1985, 2 voll. 3   J. Lewis, Happiness, in J. P. Greene-J. R. Pole, The Blackwell Encyclopaedia of the American Revolution, Cambridge Mass., Blackwell Reference, 1994, p. 641; Trampus, Il diritto alla felicità, pp. 190-193. 4   B. Lepetit, Città, in V. Ferrone – D. Roche, L’Illuminismo. Dizionario storico, RomaBari, Laterza, 20083, pp. 361-362. 5  M. Berengo, L’Europa delle città. Il volto della società urbana tra Medioevo ed età moderna, Torino, Einaudi, 1999.

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furono scavati per ragioni economiche e vennero sostituiti da ampie strade lastricate6. 1.  Amsterdam, mito della città felice. Sin dal tardo Cinquecento Amsterdam cominciò ad affacciarsi alla cultura europea come immagine di una città costruita a misura del cittadinomercante grazie a una straordinaria convergenza di istituzioni, di uomini, di favorevoli circostanze politiche, accompagnate da una notevole fioritura artistica che la pose ben presto al centro dell’attenzione mondiale. Rispetto alla casualità e al disordine urbanistico dei centri abitati di stampo medievale, questa si presentava invece come frutto della razionalità e della programmazione, architettonica, sociale ed economica. Già dal 1565 vennero fissate regole – destinate a durare tre secoli – che prevedevano determinate proporzioni tra lunghezza, larghezza delle strade e dimensioni dei terreni edificabili; imponevano un servizio igienico per ogni appezzamento e istituivano persino speciali funzionari municipali preposti al controllo della qualità di ogni singolo palo di fondazione delle case. Questo grande disegno urbanistico fu dovuto per la maggior parte a Daniel Stalpaert (1615-1676), l’architetto e ingegnere che ideò una topografia sviluppata per cerchi concentrici attorno al dam (diga) sul fiume Amstel, funzionale a una precisa distribuzione sociale e produttiva. Stalpaert non era soltanto un architetto di buon nome (aveva costruito tra l’altro l’arsenale della Compagnia olandese delle Indie occidentali), ma era anche un esponente di spicco della comunità protestante e quindi di quell’ideologia mercantile e calvinista capace di esprimere le raggiunte fortune economiche attraverso un civile decoro7. Lungo i tre grandi e principali canali monumentali della città vennero collocate le maggiori case di commercio e le dimore dei mercanti più ricchi e, a mano a mano che si procedeva verso l’esterno, seguivano le abitazioni della piccola borghesia e degli artigiani. Fatta la lottizzazione dei terreni, l’iniziativa delle edificazioni veniva poi lasciata ai singoli, ma sempre entro un ordine prestabilito: i canali dovevano rimanere larghi tra i 24 e i 26 metri, separati dagli edifici con una sponda pavimentata a tre corsie. Ciascun edificio, generalmente diviso in cinque piani, ciascuno di tre luci, doveva occupare un’area larga 6   Per le progettazioni urbanistiche e l’apporto di ingegneri fiamminghi e olandesi cfr. E. Godoli, Trieste, Roma-Bari, Laterza, 1984, pp. 57-108; F. Caputo – R. Masiero, Trieste e l’Impero: la formazione di una città europea, Venezia, Marsilio, 1988, pp. 129-196. 7   W. Kuyper, Dutch Classicist Architecture. A survey of Dutch Architecture, Gardens and Anglo-Dutch Architectural Relations from 1625 to 1700, Delft, Delft University Press, 1980, pp. 97-99.

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circa 8 metri, mentre tra il retro di un edificio e l’altro doveva rimanere una distanza minima di 50 metri, per cui – alla fine – ogni edificio si ritrovava ad avere anche uno spazio verde di circa 8 metri per 25. Un singolo lotto di terreno poteva essere coperto da costruzioni per non più del 56 per cento, il che creava un rapporto quasi equivalente tra parti edificate e aree verdi8. Quest’immagine della città dinamica, ordinata, in continua espansione e quindi – nel senso sopra descritto – «felice», non era destinata ad esaurirsi con la fine del «Gouden Eeuw», il «secolo d’oro» della cultura olandese, ma si sarebbe perpetuata ancora nel Settecento. Gli scrittori e i poeti olandesi che celebravano la città, più che descriverla come una seconda Roma o Venezia, la presentavano come la nuova Arcadia dell’Olanda settentrionale (Noordhollandsche Arcadia), come la città-giardino che ricostituiva l’Eden perduto. Non però nella forma mitica della città ideale: Amsterdam, anzi, veniva proposta come il paradigma della città nella quale poteva trovare dimora quel nuovo tipo di uomo felice dell’età moderna che era il cittadinomercante, il mercator sapiens lodato in una famosa predica da Kaspar van Baerle (Caspar Barlaeus), teologo e umanista attivo nell’ateneo cittadino. La topografia urbana, con il suo ritmo di cerchi concentrici all’interno dei quali la ricchezza degli edifici si degradava dal centro alla periferia, simboleggiava la doppia condizione in cui veniva a trovarsi ogni suo abitante: quella dell’uguaglianza, determinata dall’essere cittadino all’interno di un contesto politico fortemente intriso di repubblicanesimo, nel quale le forme di partecipazione politica garantite dalle leggi municipali consentivano di misurare e verificare i risultati dell’agire individuale; e quella del merito, visibile architettonicamente dalla gerarchia degli edifici che esprimevano le capacità imprenditoriali e i talenti personali dei loro proprietari. Al viaggiatore settecentesco quest’immagine veniva offerta molto distintamente e in varie forme. Uno degli esempi forse più evidenti risale agli anni ottanta del Settecento ed è dato da un celebre atlante urbanistico di Pieter Fouquet, apparso nel 1783: una guida della città in forma di tavole topografiche e vedute con didascalie bilingui, in olandese e francese9. Ciò che più incuriosisce di questo atlante, è l’ordine con il quale erano state poste le diverse tavole, per offrire un vero e proprio percorso di lettura della città e

8  E. Taverne, In ‘t land van belofte: in de nieue stadt. Ideaal en werklijkheid van de stadsuitleg in de Republiek 1580-1680, Maarssen, Gary Schwartz, 1978, pp. 29-48, 127-171; Trampus, Il diritto alla felicità, pp. 56-58. 9   W. Nijhoff-F. W. D. C. A. Van Hattum, Met Fouquet door Amsterdam. Geillustreerd met 103 reproducties van de gravures vorkomende in de z.g. Nieuwe Atlas van Fouquet, Amsterdam, Minerva, 1966.

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della sua storia: alla prima tavola raffigurante la topografia di Amsterdam con il suo attuale e progettato sviluppo urbanistico, seguivano quelle dedicate alle porte d’accesso, al municipio sede dei cittadini-governanti, alla borsa dei cittadini-mercanti, ai luoghi in cui si tiene mercato, alle sedi delle compagnie di commercio, e infine alle chiese e alle opere assistenziali. Tutto suggeriva, insomma, l’idea di una società moderna e mercantile, capace di riconoscere i meriti, di rimediare alle ingiustizie sociali e di farsi carico degli emarginati attraverso istituzioni assistenziali, ospedali, ospizi. La città si presentava dunque come una realtà costruita a misura dell’uomo «felice», dove la felicità veniva intesa come la capacità della persona di realizzarsi attraverso la propria opera, entro le garanzie offerte da un sistema di buone leggi e dalla possibilità di godere collettivamente dei benefici raggiunti. Ma era l’intera società olandese a presentare se stessa come una società felice, attraverso una cultura e una letteratura che sapevano anche prendersi gioco delle inevitabili difficoltà della vita quotidiana, delle differenze sociali che pur rimanevano, delle distanze tra città e campagna e persino delle tensioni fra il potere dei ceti urbani e quello aristocratico della corte all’Aja10. 2.  Le città olandesi come città alberate. A scorrere la vasta letteratura odeporica del Sei e Settecento sembra che uno dei criteri adottati per misurare il grado di felicità di una città fosse la presenza e la numerosità di alberi. Essere felici significava sempre più spesso un ritrovato rapporto con la natura, pur se addomesticata alle funzioni del vivere civile. Ma il confronto con la natura poteva portare a riconciliarsi con una primitiva età dell’uomo e a riflettere su quali elementi – nel nostro caso di tipo floristico – fossero connaturati al territorio e all’identità di un popolo11. La società olandese sembrava così anticipare di un secolo l’atto di fede laico nei confronti dell’albero proclamato a fine Settecento da Louis-Sebastien Mercier: «Planter un arbre, c’est faire confiance à la terre, c’est un acte d’espoir, de confiance en l’avenir. Un acte de charité pour les générations à venir qui pourront cueillir ses fruits lorsque nous ne serons plus là»12. 10   R. Dekker, Lachen in de Gouden Eeuw. Een geschiedenis van de Nederlandse humor, Amsterdam, Uitgeverij Weredlbibliotheek, 1997, pp. 141-143. 11   S. Schama, Landscape and memory, New York, Vintage Books, 1995, pp. 81-100, che si riferisce al caso germanico. 12  Citato in B.V. Voskuil, Bomen voor Oranje, ‘s-Gravenhage, SDU Uitgeverij Koninginnegracht, 1991, p. 15.

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Nelle Province Unite, come si è accennato, questa concezione affondava le sue radici più indietro nel tempo, in un umanesimo che si nutriva della lezione vitruviana e di una concezione laica del rapporto tra felicità e morale, poi ampiamente ripresa nella seconda metà del Seicento. Ne è un esempio l’Hofwijck, la casa estiva del celebre letterato Constantijn Huygens (15961687) che fu anche ispiratore e segretario dello stadhouder Frederik Hendrik. Il progetto di questa casa con i suoi giardini, posti nelle immediate vicinanze dell’Aja, è una dimostrazione di come il rapporto tra l’uomo e la natura potesse raggiungere un livello di compenetrazione e di sublimazione utile a riconciliare l’uomo moderno con la natura e non a caso Hofwijck sarebbe divenuto un modello, anche letterario, cui ispirarsi. Nella visione di Huygens, la casa e il giardino alberato, esteso a nord-est e a sud-ovest, presentavano un’organizzazione antropomorfa, che imitava fedelmente la meccanica del corpo umano: la casa - al centro di questa topografia - rappresentava il cuore mentre la biblioteca, immediatamente sopra, simboleggiava la testa, sede del pensiero. Il giardino si sviluppava tutt’intorno come gli arti del corpo umano, fino a costruire un’immagine perfettamente sovrapponibile alla rappresentazione del corpo umano13. Analogamente, dal punto di vista urbanistico e geografico, anche la città di Amsterdam - posta nella parte settentrionale della provincia dell’Olanda – poteva rappresentare il cuore del paese, l’elemento pulsante di un corpo sociale, politico ed economico che si sviluppava per cerchi concentrici fino a raggiungere tutte le periferie del paese14. L’esistenza di rive, strade e viali alberati fu sempre una caratteristica costante nella storia delle città olandesi, che dalle raffigurazioni sei e settecentesche appaiono molto più ricche di verde rispetto ai giorni nostri. Doppie file di alberi percorrevano il Buitensingel di Amsterdam e numerosi boschetti vennero piantati all’esterno delle porte cittadine nella seconda metà del XVII secolo15. La maggior parte degli alberi consiste oggi in olmi, collocati dopo il 1918 a seguito della grafiosi, una malattia fungina che si diffuse rapidamente all’inizio del Novecento distruggendo le specie preesistenti16. In origine, invece, tutta la città era punteggiata da tigli. Amsterdam

 M. Glaudemans, Amsterdams Arcadia. Ontdekking van het achterland, Nijmegen, SUN, 2000, pp. 54-58; R.J. Van Pelt, Mens en kosmos in Huygens’ Hofwijck, «Oase», XLI (1994), pp. 16-18. 14   Glaudemans, Amsterdams Arcadia, pp. 58-59. 15   J. H. Kruizinga – J. A. Banning, Amsterdam van A tot Z. Encyclopedisch handbook voor een ieder die van Amsterdam houdt, I, Amsterdam, A. J. G. Strengholt’s uitgeversmaatschappij n.v., 1966, p. 80. 16   Ibidem, I, pp. 234-235. 13

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– scrisse nel 1662 Melchior Fokkens in una nota guida della città intitolata Beschrijvinge der wijdt-vermaarde Koop-stadt Amstelredam – doveva essere il luogo più adatto a far riposare il viaggiatore e il mercante affaticati dai viaggi e dai negozi; lì si poteva passeggiare godendo della vista e dell’ombra, soprattutto d’estate, di alberi dalle chiome lussureggianti. Queste verdi passeggiate («groene wandelingen») si erano meritate persino una cantata in versi, nella quale Amsterdam veniva ricordata come la città decorata di porta in porta con verdi tigli («de stad is deur en deur bepronkt met groene linden»), sotto la cui ombra si poteva conversare e fare affari grazie ad un’atmosfera ritenuta – non senza una certa enfasi – unica al mondo17. Se si considera poi il fatto che i boschi olandesi di origine medievale erano stati ampiamente decimati e che il ripopolamento arboreo era avvenuto attraverso specie non autoctone, importate anche con notevoli costi, si può comprendere perché gli alberi svolgessero nella cultura olandese una funzione altamente simbolica nella rappresentazione del benessere economico e dell’operosità umana nel riconquistare le terre alle acque18. Gli alberi lungo le rive di Amsterdam erano oggetto di particolare cura e protezione: un’ordinanza del 30 gennaio 1759 fissava regole molto precise, stabilendo che nessuno potesse piantarne senza la supervisione e l’autorizzazione delle guardie forestali (‘houtvesters’); che ciascun albero venisse affidato alle cure dei proprietari delle case prospicienti, con l’obbligo di rasatura a proprie spese almeno una volta all’anno, d’estate e anteriormente al primo settembre; che invece la potatura venisse fatta solo per cura dell’autorità cittadina; che nessun contadino o cittadino potesse legarvi carri o cavalli e che non vi si avvicinassero né asini né capre per il rischio di danneggiarli con gli escrementi; che non vi venissero appoggiati materiali di sorta; che non vi venissero conficcati chiodi o altri oggetti in ferro e che non venissero legate corde, tra albero e albero, per stendere panni o per asciugare altre cose19. Il caso di Amsterdam non è isolato: la medesima filosofia animò nel corso del Seicento il grandioso piano di riorganizzazione urbana della città di Utrecht ideato nel 1624 da Paulus Moreelse, architetto e pittore; il progetto prevedeva la realizzazione di grandi viali alberati al di fuori della città, mentre, nel centro, le due sponde murate del Reno dovevano essere arric-

17  M. Fokkens, Beschrijvinge der wijdt-vermaarde Koop-stadt Amstelredam, Amsterdam, Door Markus Willemsz. Doornick, 16622, pp. 96-97. 18  E. De Jong, “Nederlantze Hesperide’: Tuinkunst in de tijd van Willem en Mary 16501702, «Journal of Garden History», 8 (1988), pp. 21-22. 19  A. J. D’Ailly, Boomen langs de stadsgrachten, «Amstelodamum. Maandblad voor de kennis van Amsterdam», IX (1922), pp. 36-37.

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chite da una doppia fila di tigli. Lungo gli altri canali Moreelse volle una doppia fila di querce e faggi, da riproporre anche in una serie di spazi aperti e in particolare in una vasta piazza da intitolare all’albero («Boom Pleyn»). Anche in questo caso, gli alberi dovettero essere acquistati e importati, impegnando dunque le finanze cittadine per offrire un segno del prestigio raggiunto dall’aristocrazia urbana20. Non a caso l’esempio più prestigioso di parco alberato sarebbe divenuto nel Settecento olandese lo Huis ten Bosch, la residenza estiva dello Stadhouder a pochi chilometri dall’Aja, ristrutturato tra il 1747 e il 1779 e direttamente collegato allo Haagse Bos, ciò che restava dell’antica foresta estesa tra ‘s-Gravenzande e Alkmaar21. 3.  Il linguaggio del tardo Illuminismo: «Felix meritis». La cultura olandese del tardo Illuminismo e quella mercantile di Amsterdam sintetizzarono il tema della felicità attraverso un’invenzione particolare, quella del «Felix meritis», il nome di una società letteraria attribuito poi anche all’edificio che la ospitava al numero 324 della Keizersgracht, la riva prospiciente uno dei canali più antichi della città. La società «Felix meritis» venne fondata nel 1777 nel culmine di un processo di fioritura culturale, letteraria ed artistica che coinvolse l’intera Repubblica delle Province Unite e che portò ad una scoperta della sociabilità come strumento particolarmente efficace in un processo di emancipazione civile e sociale22. «Felicità» e «merito» diventavano quindi due parole d’ordine, di ascendenza tipicamente illuminista, adatte a spiegare lo spirito con cui la nuova borghesia cittadina, ormai culturalmente cresciuta e capace di misurarsi sullo scenario europeo, poteva rappresentare se stessa. La società «Felix meritis» – costituita da un gruppo di commercianti e intellettuali che già aveva animato il gruppo «Sapientia et Libertate» dall’inizio degli anni Settanta – si articolò da subito in cinque sezioni dedicate rispettivamente al commercio, alle scienze naturali, al disegno e alla musica, cui si aggiunse due anni dopo una per la letteratura. Dotatasi di statuti di chiara impostazione democratica23, si affermò ben presto come un centro di riferimento importante per la vita cittadina, con lo specifico scopo di offrire ai commercianti, cioè a  E. Taverne, In ‘t land van belofte: in de nieue stadt. Ideaal en werklijkheid van de stadsuitleg in de Republiek 1580-1680, Maarssen, Gary Schwartz, 1978, pp. 242-265. 21  F. Schmidt, Paleizen voor prinsen en burgers. Architectuur in Nederland in de achttiende eeuw, Zwolle, Waanders Uitgevers, 2006, pp. 77-89. 22   W. W. Mijnhardt, Tot Heil van’t Menschdom: Culturele genootschappen in Nederland 1750-1815, Amsterdam, Rodopi, 1988. 23  L. Gompes-M. Ligtelijn, Spiegel van Amsterdam. Geschiedenis van Felix Meritis, Amsterdam, Stichting Felix Meritis & Rozenberg Publishers, 2007, pp. 17-29. 20

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coloro che si erano distinti principalmente per merito, tutto ciò che poteva contribuire a completare una dimensione terrena della felicità anche attraverso l’arte e le scienze. La sintesi di questo progetto culturale si ritrova nel palazzo progettato e costruito dall’architetto Jacob Otten Husly sulla Keizersgracht tra il 1786 ed il 1787, ispirato alle forme neoclassiche di Winckelmann, che sarebbe divenuto uno dei primi edifici di natura polifunzionale, comprendente sale di lettura, sale da concerto, aule per esperimenti scientifici e ateliers artistici24. 4.  L’Olanda di Pilati e Torcia. Un’ulteriore testimonianza della circolazione di questi linguaggi della felicità si ritrova nelle opere sull’Olanda dei protagonisti italiani dell’età dei Lumi, in particolare in quelle di Carlantonio Pilati e di Michele Torcia. Pilati descrisse le città olandesi in diversi testi composti durante i suoi lunghi soggiorni olandesi 25. In particolare nelle Lettres sur la Hollande (1780) ad Amsterdam viene riservato uno spazio considerevole sin dal primo tomo, che contiene un’ampia descrizione di questa città commerciale, giocata soprattutto attraverso un confronto con Londra e con Venezia 26. Il paragone con Londra serviva ad esaltare la virtù mercantile, la moderazione e le buone leggi olandesi rispetto agli eccessi, al lusso e alla cultura del consumo inglese. Quello con Venezia serviva a confrontare due modelli di repubblicanesimo, quello virtuoso degli olandesi con quello antico, ostentato e fragile della Serenissima. Anche da questo punto di vista, Amsterdam con i suoi abitanti appariva lo specchio – Pilati lo spiegava bene sin dalle prime pagine del libro – di ciò che qualunque viaggiatore, sensibile ai pericoli del dispotismo e alle vessazioni delle tirannie, avrebbe potuto notare appena messo piede sul suolo olandese: lì gli abitanti erano al riparo da tutto ciò e apparivano felici grazie alle loro buone leggi e alle ricchezze commisurate ai bisogni. Erano, insomma, i «mortali» più felici della terra perché per soddisfare le loro necessità non erano obbligati a sottostare al giogo del dispotismo. C’è però un altro tema che serpeggia lungo tutta l’opera per emergere in più luoghi con particolare forza, ed è quello della straordinaria armonia che gli olandesi avevano saputo mantenere con la natura, tanto nell’ambiente   Gompes-Ligtelijn, Spiegel van Amsterdam, pp. 27-29.   Per riferimenti più ampi rinvio a A. Trampus, Dal giusnaturalismo alla politica del diritto: Carlo Antonio Pilati e l’Olanda, in S. Ferrari-G. P. Romagnani, Carlantonio Pilati: un intellettuale trentino nell’Europa dei Lumi, Milano, FrancoAngeli, 2005, pp. 158-192. 26  C. A. Pilati, Lettres sur la Hollande, I, a’ La Haye, chez J. H. Munnikhuizen & C. Plaat, 1780, pp.196-202. 24 25

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domestico, quanto nel lavoro e nell’industria. Una natura rappresentata da vaste distese di campi, da orti e da frutteti, ma punteggiata anche da alberi, che diventavano un elemento inconfondibile del paesaggio olandese. Le strade erano tutte «d’ordinaire bordés des deux côtés d’une ou de plusieurs rangées d’arbres très hauts et très touffus, de sorte qu’au printemps l’odorat est extrêmement flatté par un parfum agréable qu’exhalent les fleurs, et que pendant une bonne partie de l’année la vuë est récréée par la verdure»27. Erano proprio queste file d’alberi, più che le strade in se stesse, a condurre «de ville en ville et jusques de village en village». Analoghe espressioni si ritrovano nell’ammirata descrizione dell’Aja: «Imaginez-vous une ville qui a sept mille maisons toutes près-propres et très bien entretenues, dont les principales rues sont percées de canaux ornés des deux côtés d’un ou de deux rangs d’arbres qui donnent un ombrage agréable et qui sont assez éloignés des maisons pour ne le pas incommoder»28. All’Aia tutto era in sintonia con gli alberi: «deux superbes promenades embellies de plusieurs rangées des plus beaux tilleuls», un boschetto «touffu percé d’allées magnifique», a meridione «une belle route ornée de grands arbres qui vous conduit à un beau village» e a nord «une autre route plus belle, encore bordée de quatre rangées d’arbres»29. Al confronto, le altre città d’Europa non potevano rivaleggiare: né Parigi, né Londra e nemmeno Napoli, che aveva solo la riviera di Chiaia, il molo e la piazza del Maschio Angioino «qui ne sont bonnes que pour la nuit, puisqu’il n’y a pas un seul arbre»30. Le mete che Pilati annotava poi nella sua visita dei dintorni e che dunque segnalava al lettore corrispevano pienamente a questa filosofia della natura; lungo la Scheveningseweg, la strada collegata alla vicina località marittima di Scheveningen, «bordée de chaque côté d’une double rangée d’arbres des plus hauts, des flus touffus, des mieux entretenus qui l’on puisse voir», si poteva raggiungere il Sorghvliet, la splendida proprietà acquistata nel 1643 dal poeta e politico Jacob Cats in mezzo alle dune e da lui trasformata in un’oasi di verde31. La famiglia Bentinck, che l’aveva acquisita nel 1675, l’aveva poi arricchita di giardini, boschetti, cascate e piscine. Aperta ai visitatori, incantava anche Pilati, che si soffermava sulle sue delizie, sulla «belle forêt»,

  Ibidem, I, p. 15.   Ibidem, I, p. 28. 29   Ibidem, I, p. 29. 30   Ibidem, I, pp. 30-31. 31  C. S. Oldenburger-Ebbers, A. M. Backer, E. Blok, Gids voor de Nederlandse Tuin- en Landschapsarchitectuur, Deel West: Noord Holland / Zuid Holland, Rotterdam, Uitgeverij De Hef, 1998, pp. 306-308. 27 28

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sulle «petites collines plantées d’arbres étrangers», sui «parterres ornés de plantes exotiques»32. Si tratta di parole molto simili a quelle utilizzate da Michele Torcia nel suo Sbozzo del commercio di Amsterdam (1782). Giova in questo caso ricordare, sulla scia di Franco Venturi e di Anna Maria Rao, che la consonanza di temi e linguaggi fra Pilati e Torcia non è casuale: non solo avevano vissuto entrambi in Olanda negli anni sessanta, ma erano tra loro direttamente legati da rapporti di conoscenza, di amicizia e di corrispondenza. Non stupisce quindi che entrambi usassero l’espediente retorico di elogiare il modello politico delle Province Unite per sottoporre indirettamente a critica quello britannico33. E, come ha notato Anna Maria Rao, il terreno su cui Torcia conduceva il suo confronto tra le regioni meridionali e l’Olanda era tutto politico, volto a elaborare un programma di riforme economiche e antifeudali che si gioca sul piano delle innovazioni giuridiche e dello studio delle forme di governo. Con questa chiave di lettura possiamo riaprire le pagine dello Sbozzo del commercio di Amsterdam notando che ancora una volta una delle prime cose che si imponevano all’attenzione del lettore era proprio la descrizione fisica e politica della città. La storia urbana diventava un modo per mettere in concorrenza dispotismo e costituzione, in forma addirittura più esplicita rispetto alla raffinata prudenza di Pilati. Il testo di Torcia si apre infatti proprio con una concisa descrizione dell’assetto politico olandese e con la considerazione che «quando il dispotismo avrà spiantato la costituzione municipale di questa città, l’edifizio della libertà batava crollerà da se stesso»34. La descrizione di Amsterdam sembra poi coincidere perfettamente con l’immagine della città felice degli scrittori olandesi: «L’aspetto ridente delle sue fabbriche, la larghezza de’ suoi canali, l’immensità del suo porto, i suoi moli, le sue porte, i suoi ponti, i suoi arsenali, le sue chiuse, le sue dighe, la sua figura, i suoi alberi stessi, tutto in una parola concorre a renderla la città la meglio artefatta dell’Universo»35 . Torcia usava l’aggettivo «artefatta», come a sottolineare che la città e le sue leggi erano create   Pilati, Lettres sur la Hollande, I, pp. 44-45.  F. Venturi, Settecento riformatore, I, Da Muratori a Beccaria, Torino, Einaudi, 1969, pp. 606, 616 e IV/2, La caduta dell’Antico Regime (1776-1789). Il patriottismo repubblicano e gli imperi dell’Est, Torino, Einaudi, 1984, pp. 559-563; A. M. Rao, Un “letterato faticatore” nell’Europa del Settecento: Michele Torcia (1736-1808), «Rivista Storica Italiana», 107 (1995), pp. 647-726; cfr. anche R. Tufano, Michele Torcia: cultura e politica nel secondo Settecento napoletano, Napoli, Jovene, 2000, p. 31. 34  M. Torcia, Sbozzo del commercio di Amsterdam, Neustad d’Italia [Napoli], s.e., 1782, p. 3. 35   Ibidem, p. 4. 32 33

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dall’uomo per l’uomo e, pur con molto pudore nell’uso della parola «felicità», utilizzata per lo più per connotare il repubblicanesimo olandese36, accompagnava la descrizione di Amsterdam e dei suoi abitanti da una serie di aggettivi che sottolineano la peculiarità del luogo: la città è ridente, l’attività degli olandesi è «infaticabile», l’economia «inimitabile», la politica cittadina «ammirabile» e così via. Va notata, poi, la singolarità del riferimento agli alberi all’interno di un lungo elenco di manufatti quali le fabbriche, i canali, il porto, i moli, le porte, i ponti, gli arsenali e altro; quasi a sottolineare che anche la presenza degli alberi obbediva ad una logica che vedeva comunque trionfare la ragione, l’ingegno dell’uomo e la sua creatività nel comporre il paesaggio, come appare anche dalla descrizione del paesaggio olandese, delle case e dei giardini «ornatissimi di viali, di viste, di peschiere, di boschetti tutti artifiziali»37. E giacché lo Sbozzo di Torcia è famoso pure per il riferimento che si fa al «giovine filosofo Filangieri»38, non sarà inutile ricordare che anche nel primo volume della Scienza della legislazione (1780) si accennava alla felicità olandese, allorquando Filangieri esaltava la capacità degli olandesi di individuare nel commercio «l’unico appoggio della loro libertà», tale da consentire loro di far crescere il paese nonostante occupasse per sua natura «un posto così infelice»39. Nell’intricato panorama italiano delle torsioni settecentesche della felicità – per riprendere un’efficace espressione di Italo Birocchi – la costante attenzione della cultura europea e di quella italiana per il caso olandese rimaneva così uno spunto importante di riflessione, facendo intravedere una dimensione della felicità legata non più solo al mito antico della tolleranza religiosa, ma anche ad una cultura moderna del buon governo e della ritrovata armonia tra l’uomo e l’ambiente.

 Ad es. ibidem, pp. 62 e 64.   Ibidem, p. 97. 38   Ibidem, p. 16. 39   G. Filangieri, La scienza della legislazione. Edizione critica, I, a cura di A. Trampus, Venezia-Mariano del Friuli, Edizioni della Laguna, 20042, p. 36 37

Lucio Tufano Felicità (e infelicità) sulle scene musicali tardosettecentesche: La clemenza di Tito di Mozart e Nina o sia La pazza per amore di Paisiello

Il lemma felicità gode di ininterrotta fortuna nell’ambito della poesia per musica e, in particolare, nel comparto della librettistica; e ciò non soltanto a causa della pregnanza concettuale e delle risonanze emotive a esso collegate, ma anche per la sua perfetta spendibilità metrica. L’ultimo verso delle strofe destinate ai pezzi chiusi deve sfoggiare immancabilmente una clausola tronca, meglio ancora se la vocale in rima è la a, con il suo colore chiaro e la fonazione aperta. Felicità è termine che si presta perfettamente allo scopo, e il suo frequente impiego in posizione caudale porta alla cristallizzazione di un vero e proprio topos: topos longevo, se nel 1839 Donizetti, in cerca di nuovi modi di scrittura, comminerà solennemente il «bando alle solite cadenze felicità felicità felicità»1. L’icastica espressione del compositore bergamasco testimonia come la parola riecheggi con insistenza e con marcato rilievo nel lessico selezionatissimo del melodramma, non senza un effetto di usura. Alla lunga, l’inflazione prodotta dall’impiego ormai meccanico del significante divora il significato, lasciandone lo scheletro in balìa delle frenetiche ripetizioni che attanagliano fino al parossismo le ultime battute delle cabalette e delle strette. Nelle pagine che seguono, tuttavia, rinuncerò a seguire le sorti della felicità-parola, che si prolungano senza soluzione di continuità fino alla moderna musica di consumo, e mi limiterò a qualche osservazione sulla felicità-concetto attraverso l’esame – necessariamente sommario – di una coppia di opere della fine del XVIII secolo, selezionate tra le tante meritevoli d’attenzione: La clemenza di Tito di Wolfgang Amadeus Mozart (1791)

 Così la lettera a Johann Simon Mayr datata Parigi, 8 aprile 1839, pubblicata in G. Zavadini, Donizetti. Vita, musiche, epistolario, Bergamo, Istituto italiano d’arti grafiche, 1948, n. 319, pp. 494-495, p. 494. Su questo spunto cfr. il bel saggio di G. Pagannone, Tra «cadenze felicità felicità felicità» e «melodie lunghe lunghe lunghe». Di una tecnica cadenzale nel melodramma del primo Ottocento, «Il saggiatore musicale», IV (1997), pp. 53-86. 1

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e Nina o sia La pazza per amore di Giovanni Paisiello (1789-1790). Trascelti in ragione della lunga frequentazione e della conseguente dimestichezza che ho con essi, tali lavori non pretendono di rappresentare in modo esaustivo l’universo complesso e multiforme del melodramma tardosettecentesco, ma aspirano semmai a proporre esempi significativi – e per certi versi emblematici – di tendenze estetiche ed esigenze culturali di più vasta portata. Va subito osservato come il dittico così assemblato risulti decisamente sghembo. Gli oggetti che lo compongono occupano posizioni lontane nella tassonomia dei generi teatrali, e difatti vennero utilizzati in contesti e con obiettivi assai diversi. La clemenza di Tito è uno dei lavori più apprezzati entro il corpus dei drammi di Pietro Metastasio. Il libretto2 nacque per la corte viennese e venne messo in scena per la prima volta con le note di Antonio Caldara il 4 novembre 1734 per festeggiare l’onomastico dell’imperatore Carlo VI. Al pari degli altri titoli del poeta cesareo, la Clemenza conosce una vasta circolazione europea, con decine e decine di intonazioni realizzate da compositori grandi, minori e minimi. La longevità, come al solito, si accompagna a complesse vicissitudini testuali, attraverso le quali l’architettura drammatica e il tessuto poetico vengono adattati alle mutevoli esigenze dei tempi e dei luoghi, degli interpreti e dei committenti, delle mode e delle occasioni3. Scorciato e variamente aggiornato da Caterino Mazzolà, raffazzonatore abile e discreto, il libretto giunge fino a Mozart, che lo mette in musica in occasione dell’incoronazione a re di Boemia dell’imperatore Leopoldo II, celebrata a Praga nel settembre del 17914. È questo il setting al quale farò riferimento, sia per la propinquità cronologica rispetto a Nina, sia per la qualità e l’efficacia del rivestimento sonoro. La Clemenza ha un’intrinseca vocazione celebrativa ed è geneticamente predisposta a esaltare le virtù necessarie all’esercizio del potere sovrano. Il suo testo poggia su una salda impalcatura ideologica5 ed è arricchito da una sontuosa connota-

 Lo si legga in P. Metastasio, Drammi per musica, a cura di A.L. Bellina, 3 voll., Venezia, Marsilio, 2002-2004, vol. II, Il regno di Carlo VI, 1730-1740, pp. 373-444. 3  Cfr. H. Lühning, Titus-Vertonungen im 18. Jahrhundert. Untersuchungen zur Tradition der Opera seria von Hasse bis Mozart, Köln, A. Volk - Laaber Verlag, 1983. 4  La bibliografia sulla Clemenza mozartiana è ricchissima; basti qui rinviare all’agile ma puntuale monografia di J.A. Rice, W. A. Mozart, «La clemenza di Tito», Cambridge, Cambridge University, 1991; importante è inoltre lo studio di S. Durante, The chronology of Mozart’s «La clemenza di Tito» reconsidered, «Music & Letters», LXXX (1999), pp. 560-594; sulla ricezione dell’opera cfr. E. Senici, «La clemenza di Tito» di Mozart. I primi trent’anni (1791-1821), Turnhout, Brepols, 1997. 5  Cfr. W. Seidel, Seneca - Corneille - Mozart. Ideen- und Gattungsgeschichtliches zu «La clemenza di Tito», in Musik in Antike und Neuzeit, herausgegeben von M. von Albrecht 2

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zione cerimoniale. Vedremo tra poco quale spazio abbiano in esso la felicità pubblica e quella privata. Prodotto del tutto diverso è Nina o sia La pazza per amore di Paisiello, «commedia in prosa ed in verso per musica» che vide la luce nel 1789 in forma d’atto unico per la residenza reale di San Leucio, presso Caserta, e l’anno dopo venne articolata in due parti con l’aggiunta di nuovi pezzi chiusi per il teatro napoletano dei Fiorentini (per comodità di riscontro, nel presente contributo farò sempre riferimento a questa seconda versione)6. Origine e destinazione d’uso non potrebbero essere più lontane da quelle del capolavoro di Mozart. Nina appartiene infatti al mondo dell’opera comica, sia pure riprogettata in direzione psicologizzante e larmoyante. Niente rito, niente pompa imperial-regia, ma una vicenda semplice e lineare, che deriva – ed è un fatto significativo – da un modello francese, vale a dire l’omonima «comédie mêlée d’ariettes» di BenoîtJoseph Marsollier des Vivetières e Nicolas-Marie Dalayrac, eseguita a Parigi nel 1786 e proposta in italiano al Teatro Arciducale di Monza nel 17887. La traduzione del testo letterario approntata da Giuseppe Carpani per la ripresa lombarda venne utilizzata anche da Paisiello con poche modifiche di Giambattista Lorenzi. Dalla fonte la partitura del maestro tarantino eredita un tratto morfologico affatto eccezionale rispetto alle convenzioni italiane: l’alternanza di numeri musicali e dialoghi parlati, secondo la formula comique d’oltralpe. L’eterogeneità delle creazioni artistiche che ho deciso di accostare, oltre che palese, è del tutto intenzionale. Ho scelto a bella posta lavori appartenenti a tradizioni spettacolari differenti per mostrare come il teatro musicale settecentesco accolga istanze disparate e, attraverso la molteplicità delle proprie manifestazioni, contribuisca all’elaborazione dei valori dominanti e dei codici comportamentali. L’opera, infatti, va vista non come mero specchio nel quale si riflettono le forme simboliche della società coeva, ma come componente culturale attiva, che partecipa – nei modi e con i mezzi che le und W. Schubert, Frankfurt am Main, Lang, 1987, pp. 109-128 (trad. it. Seneca - Corneille Mozart. Questioni di storia delle idee e dei generi nella «Clemenza di Tito», in Mozart, a cura di S. Durante, Bologna, Il Mulino, 1991, pp. 345-366). 6   Sulle due redazioni d’autore sia permesso il rinvio a L. Tufano, «Nina o sia La pazza per amore»: note e osservazioni tra filologia e drammaturgia, in Giovanni Paisiello e la cultura europea del suo tempo, atti del convegno (Taranto, 20-23 giugno 2002), a cura di F.P. Russo, Lucca, Libreria Musicale Italiana, 2007, pp. 151-178. 7  La partitura monzese è stata pubblicata di recente: Nina ossia La pazza per amore, commedia d’un atto in prosa ed in verso, e per musica (Monza 1788), edizione critica a cura di D. Daolmi, Milano, LED, 2006.

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sono propri – alla costruzione, alla verifica e all’incessante trasformazione dei principi etici, oltre che dei modelli estetici. Semplificando, si potrebbe affermare che Nina e Tito incarnano le due fondamentali accezioni del termine felicità sulle quali la trattatistica settecentesca alacremente dibatte: quella personale da una parte e, dall’altra, quella collettiva. La composizione di Paisiello rivendica il diritto alla felicità privata, mentre la Clemenza è un monumento alla felicità pubblica, o meglio un manuale d’istruzioni per imparare a subordinare la felicità privata a quella pubblica, con al fondo l’idea – alla quale Metastasio un po’ finge di credere, un po’ crede davvero – che l’una si risolva nell’altra e che la seconda sia presupposto e garanzia della prima. Un rapido accenno alle vicende rappresentate potrà servire a evidenziare la differenza appena descritta. Per riassumere la fabula di Nina e coglierne il peculiare carattere, mi affido volentieri alle acute parole di Giuseppe Carpani. «Qui tutto è natura, semplicità e sentimento»8, esordisce l’accorto traduttore, e in quest’affermazione non mi sembra fuori luogo riconoscere l’impronta di Rousseau9: di un Rousseau liofilizzato, ridotto a slogan, ma proprio per questo ormai assimilato e definitivamente metabolizzato. Carpani prosegue: Una bennata ed ingenua fanciulla, cui rapito venendo d’improvviso il legittimo amante perde l’uso della ragione e lo riacquista riacquistando l’amante, forma tutto il soggetto della presente commedia, di nodo, se pur ve n’ha uno, semplicissimo, ma di una finezza poi senza pari; tutto è interessante nella Nina: un volger d’occhio, un gesto, una parola tronca può importar molto; perciò è brevissima, non si potendo per longo tempo sperare nelle numerose adunanze quella attenzione scrupolosa che è tanto necessaria a simil sorta di rappresentazioni10.

 Così l’Avvertimento del traduttore che compare nel libretto monzese: NINA / ossia / / commedia d’un atto / in Prosa, ed in Verso, e per Musica / Tradotta dal Francese / da rappresentarsi / nel teatro di monza / L’Autunno dell’anno 1788. / dedicata / Alle LL. AA. RR. / il serenissimo arciduca / FERDINANDO / Principe Reale d’Ungheria, e Boemia, Arciduca d’Austria, / Duca di Borgogna, e di Lorena ec., Cesareo Reale / Luogo Tenente, Governatore, e Capitano / Generale nella Lombardia Austriaca, / e la / serenissima arciduchessa / MARIA RICCIARDA / BEATRICE D’ESTE / principessa di modena. / [doppia linea tipografica] in milano / [linea tipografica] / Appresso Gio. Batista Bianchi Regio Stampatore / Colla Permissione (d’ora in poi Nina 1788), pp. 7-9, p. 8. 9  Cfr. F. Degrada, «Nina», la follia, l’utopia e il rimpianto dell’eden perduto, in Nina, o sia La pazza per amore, programma di sala (Milano, Teatro alla Scala, stagione lirica 1988-1989), Milano, Edizioni del Teatro alla Scala, 1989, pp. 47-89. 10   Nina 1788, p. 8. 8

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In effetti, rispetto alle complicazioni d’intreccio tipiche dell’opera italiana sia seria che comica, Nina presenta una singolare e quasi disarmante linearità. È la fida governante Susanna a illustrare l’antefatto dell’azione nella prima scena della pièce. Ella spiega come Nina si fosse legata d’affetto al giovane Lindoro, il quale, a sua volta, educato, si può dire, colla damina, non poté a meno d’innamorarsene. Il padre, piacendogli assai il giovinetto per le sue qualità veramente belle, lo lusingò di dargliela in isposa. Difatti tutto era di già accordato, fissato perfino il giorno delle nozze, quando un pretendente più ricco e di nascita più rinomata si presenta al Conte, gli domanda la figlia. L’incauto padre si lascia piegare; la parola vien ritirata; vane sono le lagrime, le preghiere, i lamenti11.

Di fronte alle insistenze dei due innamorati separati dalla crudele decisione, Susanna aveva propiziato un incontro nel parco e si era recata all’appuntamento insieme a Nina: Inoltrati di poco, scopriamo Lindoro che s’affrettava verso di noi; già ne distinguevamo la voce, quando odesi a un tratto anche quella del suo rivale. S’accendono ambidue all’improvviso incontro, subito metton mano alle spade; io mi slancio ad arrestarli, ma tardi. Lindoro dà un grido, ed eccolo a terra immerso nel proprio sangue. Nina a tal vista mi piomba tramortita a’ piedi, ed al primo aprir degli occhi, oh dio! chi il crederebbe? le si fa innanzi spietatamente il padre che, tenendo per mano l’uccisor di Lindoro, le intima di riconoscerlo per suo sposo12.

A seguire, la governante descrive un vero e proprio shock e si sofferma in dettaglio sulla sintomatologia della povera Nina: La disgraziata fanciulla, immobile a questa voce tra lo sdegno e lo spavento, vuol parlare e non trova parole, vuol piangere e le lagrime s’inaridiscono sugli occhi. Dopo un torbido girar di sguardi, tremito universale la sorprende, impallidisce, contorcesi, s’alterano i tratti del suo volto, e Nina non è più Nina; la ragion l’abbandona, si confondono le sue idee, frenetica, sconnette e cade in un ostinato delirio. Il povero padre, ravveduto allora e colla disperazione nel cuore, non potendo reggere a questo spettacolo, parte e mi lascia l’infelice sua figlia nelle mani; e Nina, più interessante, più rispettabile che mai, offre a chiunque la vede una vittima deplorabile dell’amore e della severità13.

/ commedia / in prosa, ed in verso per musica, / / Nel Teatro de’ Fiorentini per seconda / Opera di quest’anno 1790. / [fregio] / in napoli mddcxc. / per vincenzo flauto / Regio impressore (d’ora in poi Nina 1790), p. 10. 12   Nina 1790, pp. 10-11. 13   Nina 1790, p. 11. 11

 NINA /

o sia

/

la pazza per amore

tradotta dal francese./ da rappresentarsi

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La protagonista resta immersa in uno stato di astrazione, nel quale il terribile trauma subito è come rimosso e il tempo si consuma nell’attesa mesta e struggente del ritorno dell’amato: Nina avea totalmente perduta la memoria di ciò ch’era avvenuto; il solo pensiero del suo Lindoro tenero e fedele, l’immagine sola di lui da tanto tempo a lei cara, non si cancellò mai dal suo animo e tutta l’occupa in oggi. Ella lo crede in viaggio e sempre in procinto di arrivare. Vedete quel piccolo poggio che là si sporge sulla strada? Ebbene, là si reca ogni giorno ad aspettarlo; né freddo, né sole, né ira di stagione valgono a distornarla di là. Vi si mette a sedere, vi porta un mazzetto di fiori raccolto per lui e, quando l’ora è passata, esce in un sospiro, sparge qualche lagrima e se ne torna lentamente a casa colla seducente speranza che arriverà all’indomani14.

L’infelicità di Nina assume dunque i contorni di una vera e propria psicopatologia. È opportuno soffermarsi un poco su tale ‘malattia’, in quanto essa rinvia a una specifica concettualizzazione della sofferenza mentale. Se a Monza (e poi a Napoli) diventa «pazza per amore», a Parigi Nina nasce «folle par amour». L’aggettivo francese sembra individuare con maggior precisione la particolare natura del suo male, che chiaramente non è l’antica isteria, bensì una più moderna malinconia15. Nina non è forsennata, nemmeno quando, nella scena I.8, si abbandona a un vero e proprio «delirio» (il termine è espressamente indicato in partitura). La sua è piuttosto un’alienazione che attecchisce e dilaga a causa dell’eccessiva sensibilità; quest’ultima, tuttavia, viene presentata nell’azione come un tratto positivo e, anzi, come una manifestazione della nobiltà d’animo del personaggio. Su un soggetto che dunque è reso vulnerabile dalla sua stessa virtù, il conflitto tra inclinazione personale e costrizione esterna produce un effetto di disgregazione psichica. Perfino il Conte, ormai tormentato dai rimorsi, ammette: «E voi, fantasmi vani di grandezza e di nome, come potei mai credervi capaci di render felice un cuore a dispetto d’Amore che l’avea sì fattamente allacciato?» (scena I.3)16. Lindoro, che in realtà è sopravvissuto allo scontro e si è poi ristabilito, ritorna all’inizio del secondo atto con la speranza di riabbracciare Nina. Venuto a conoscenza dello stato in cui versa la fanciulla, nella scena II.5 egli invoca con un’accorata preghiera il soccorso di Amore, l’unica entità in grado di innescare il necessario processo ‘terapeutico’:

  Nina 1790, pp. 11-12.  Cfr. S. Castelvecchi, From «Nina» to «Nina»: psychodrama, absorption and sentiment in the 1780s, «Cambridge Opera Journal», VIII (1996), pp. 91-112. 16   Nina 1790, p. 13. 14 15

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(…) Nume, perdona; eccomi a’ piedi tuoi. Pietoso nume, pon fine a’ nostri mali. Ah tu deh brilla dell’errante fanciulla alla mente agitata, e tu la calma vi riconduci, Amor. Se cari ognora ti sono i cuor che accendi, saggia qual era un dì Nina mi rendi17.

Vorrei aggiungere che, nonostante l’iniziale maiuscola, l’Amore citato dal Conte e implorato da Lindoro non è il tradizionale personaggio mitologico con ali e frecce che, sempre volubile e lezioso, compare in tante espressioni figurative e poetiche del secolo XVIII. È, invece, la personificazione di un sentimento autentico, profondo e positivo, capace e – soprattutto – meritevole di assurgere al ruolo di guida dell’esistenza soggettiva. L’incontro con Lindoro consente a Nina di riacquistare gradualmente la memoria e la coscienza di sé. Il Conte garantisce ai due innamorati che non si opporrà più alla loro unione, ma nella scena II.7 la protagonista, appena rinsavita, ha bisogno di un’ulteriore rassicurazione circa il proprio destino: Nina E sarà Nina felice? Tutti Sì, felice alfin sarà18.

Il percorso disegnato dalla pièce è estremamente chiaro. Uno stato iniziale di felicità ‘naturale’ (Nina ama riamata Lindoro) viene drammaticamente incrinato dalla forza delle convenzioni sociali (il Conte sceglie un partito più vantaggioso per la figlia), ma è infine ripristinato grazie al pieno riconoscimento delle ragioni del cuore (l’happy end conclusivo). In Nina, dunque, la felicità è un fatto tutto individuale e privato, e anzi la sfera pubblica si manifesta solo negativamente come prevaricazione rispetto alla spontaneità del sentimento. Se Nina è figlia dello stato di natura, Tito è il campione della ragion di stato. Nota è la vicenda ideata da Metastasio e resa più compatta e serrata da Mazzolà. Vitellia, figlia del deposto imperatore Vitellio, vuole vendicarsi di Tito, che considera un usurpatore. A tal fine convince il riluttante Sesto a ordire un attentato ai danni del sovrano. Dopo esitazioni varie e iterate dilazioni, il piano viene posto in atto e i cospiratori appiccano l’incendio al Campidoglio, scatenando il terrore in città. Nella confusione che ne deriva,   Nina 1790, p. 36.   Nina 1790, p. 46.

17 18

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Sesto crede di vibrare un colpo mortale contro l’imperatore, ma in realtà ferisce Lentulo, un altro congiurato che si è rivestito delle insegne del potere. Incredulo di fronte al tradimento, Tito interroga personalmente Sesto, senza tuttavia riuscire a scoprire le vere motivazioni del gesto efferato. Egli sembra sul punto di pronunciare la giusta condanna, quando Vitellia sopraggiunge a rivelare di essere la vera istigatrice del delitto. Ciò nonostante, Tito decide di seguire la propria indole e con un atto di somma clemenza perdona tutti i responsabili del complotto. Negli ultimi versi pronunciati dal protagonista (scena II.17) si trova sintetizzato il messaggio fondamentale che l’opera intende propalare: (…) Congiuran gli astri, cred’io, per obbligarmi a mio dispetto a diventar crudel. No, non avranno questo trionfo. A sostener la gara già m’impegnò la mia virtù. Vediamo se più costante sia l’altrui perfidia o la clemenza mia. Olà, Sesto si sciolga; abbian di nuovo Lentulo e i suoi seguaci e vita e libertà; sia noto a Roma ch’io son lo stesso e ch’io tutto so, tutti assolvo e tutto oblio19.

Nel corso dell’azione l’esaltazione delle qualità proprie del perfetto regnante imbriglia severamente i sentimenti, le aspirazioni e le pulsioni. I protagonisti positivi si sacrificano in nome del bene altrui e accettano che la loro felicità personale sia posposta, mortificata, ovvero trascesa in una dimensione superiore. Di contro, nei personaggi connotati negativamente – ai quali tuttavia non è preclusa la possibilità di una riabilitazione conclusiva – il desiderio di affermazione personale è un principio nefasto, che tende ad assumere la forma di una smania irrazionale e distruttiva. Così accade con Vitellia, che tenta di far eliminare il sovrano perché è abbagliata dall’orgoglio e dalla bramosia di rivalsa, e con Sesto, che per amore si lascia strumentalizzare da Vitellia fino a tradire il principe benefico. Tito, invece, è emblema della rinuncia, come dimostra anzitutto il suo atteggiamento verso il tema coniugale. L’imperatore – sotto le cui spoglie   la clemenza / DI TITO, / dramma serio per musica / in due atti / da rappresentarsi / nel teatro nazionale / di praga / nel settembre 1791. / in occasione di sollenizzare / il giorno dell’incoronazione / di sua / maesta l’imperatore / LEOPOLDO II. / [linea tipografica] / nella stamperia di nob. de schönfeld (d’ora in poi Clemenza 1791), pp. 52-53. 19

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sceniche si cela l’idealizzazione del monarca illuminato – cambia per tre volte i propri progetti matrimoniali: allontana Berenice, principessa di Giudea, perché Roma «una sua figlia / vuol veder sul (…) soglio»20; per lo stesso motivo sceglie poi Servilia, sorella di Sesto, ma dopo che costei gli palesa l’amore che nutre per Annio, decide di impalmare Vitellia. Ogni volta Tito è mosso da considerazioni di opportunità politica, non da un sentimento genuino; alla fine egli rinuncia del tutto alle nozze e, con esse, all’appagamento affettivo. Il suo ideale di felicità consiste infatti nel giovare ai propri sudditi. Sin dalle prime battute dell’opera, Sesto mette in risalto la filantropia paternalistica dell’imperatore dicendo di lui: «Inutil chiama, / perduto il giorno ei dice / in cui fatto non ha qualcun felice»21. Il concetto viene ribadito con scoperto intento pedagogico nella prima, grande aria che Mozart affida a Tito (scena I.4). Il recitativo che la precede è suggellato strategicamente da un interrogativo retorico: «Se mi negate / che benefico io sia, che mi lasciate?». Il testo del pezzo chiuso fornisce la limpida risposta: Del più sublime soglio l’unico frutto è questo, tutto è tormento il resto e tutto è servitù. Che avrei se ancor perdessi le sole ore felici ch’ho nel giovar gli oppressi, nel sollevar gli amici, nel dispensar tesori al merto e alla virtù?22

Il monarca è solo, unico esemplare di una specie eletta, ‘altro’ rispetto alla collettività che governa, prigioniero di una dimensione «sublime», appunto, che di fatto gli impedisce di realizzarsi come individuo e discioglie completamente l’uomo nel ruolo. Il suo esempio contagia Annio, che è disposto a rinunciare all’amore per Servilia quando apprende che costei è stata scelta da Tito per sedere sul trono di Roma. La (cattolicissima) sequenza dei sacrifici è però interrotta proprio da Servilia, e trovo molto significativo che sia una donna a spezzare la catena delle figure remissive, sempre pronte a tacitare le proprie volizioni pur di giovare a qualcun altro. Di fronte all’imperatore che le ha appena comunicato la decisione di sposarla,   Clemenza 1791, p. 13.   Clemenza 1791, p. 6 22   Clemenza 1791, p. 16 (corsivo mio). 20 21

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la sorella di Sesto riesce a trovare la forza della sincerità e del sentimeno – o meglio, la forza che scaturisce dalla sincerità del sentimento – e confessa di non poter più disporre liberamente del proprio cuore perché lo ha donato già da tempo ad Annio. Cugina carnale di Nina, Servilia si ritaglia dunque uno scampolo di felicità privata in una vicenda tutta rivolta a proclamare il primato del bene pubblico. Femminile sembra essere la via che porta al cuore e al riconoscimento dei suoi diritti. La breve incursione tra le pagine di Nina e di Tito non sarebbe completa se non accennassi alle conseguenze sonore che derivano dalle premesse fin qui esaminate. La componente musicale, infatti, non è elemento secondario ed esornativo, ma ingrediente essenziale nella confezione dei principi e dei valori che innervano le due opere. Paisiello, soprattutto quando maneggia il personaggio di Nina, costruisce brani di grande espressività attraverso una straordinaria economia di mezzi23. La protagonista canta con il linguaggio del cuore, come risulta evidente in particolare nella romanza «Il mio ben quando verrà» (scena I.6). Si tratta di un brano giustamente famoso, capace di tratteggiare con grazia e verità la sensibilità dolente della fanciulla. «Semplicemente vestita, con capelli sciolti e con un mazzetto di fiori in mano», Nina si aggira per il giardino con «passo (…) ineguale e, sospirando, senza far motto, va poi a sedere»24; crede di riconoscere Lindoro in un pastore di passaggio, corre al cancello, ma poi si accorge dell’errore e comunica attraverso il canto la conseguente desolazione insieme con l’auspicio di poter rivedere l’amato. Si osservi almeno l’attacco del numero (Esempio 1)25. Sul flusso morbido e regolare delle terzine, il flauto e l’oboe si dividono equamente il compito di anticipare la melodia; nei due strumenti risuona la voce della natura, che sembra non solo accogliere Nina nel proprio grembo, ma partecipare alla sua sofferenza e condividere la sua attesa. La protagonista non riprende alla lettera la linea enunciata dai fiati e, giunta alle parole che descrivono la sua triste condizione («a veder la mesta amica»), sfiora inaspettatamente il colore scuro della tonalità di la minore, generando così un’increspatura attraverso la quale la consapevolezza fa breccia nell’illusione. Ma la parentesi dolente è subito richiusa, e Nina ritorna alla luminosità del fa maggiore per vagheg Cfr. F. Lippmann, «Il mio ben quando verrà». Paisiello creatore di una «nuova semplicità», «Studi musicali», XIX (1990), pp. 385-405. 24   Nina 1790, p. 17. 25  Cito dall’autografo paisielliano, custodito presso la Biblioteca del Conservatorio S. Pietro a Majella di Napoli alla segnatura Rari 3.1.20-21 (olim 15.1.1-2), vol. I, cc. 75r-84v. 23

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Esempio 1. G. Paisiello, Nina o sia La pazza per amore, «Il mio ben quando verrà», bb. 1-24.

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giare l’idea della gioia futura; non a caso, la felicità sperata viene evocata attraverso l’immagine di un paesaggio naturale intriso di sole e di vita, che corrisponde perfettamente alla rinascita interiore prodotta dall’amore. Mozart, alle prese con l’esemplarità dei ragionamenti e dei comportamenti di Tito, assegna all’imperatore arie impeccabili, ma quasi impersonali26. Più in generale, la Clemenza è tutta intessuta di ammonimenti politici e di precetti di virtù, che risultano perfettamente funzionali all’obiettivo del delectando iuvare. In tal modo lo svago melodrammatico si trasforma in un potente strumento di propaganda, che assevera ed esalta il potere costituito. Di contro, nella partitura mozartiana resta poco spazio per l’effusione affettiva, con la cospicua eccezione del duetto di Annio e Servilia «Ah perdona al primo affetto» (scena I.5), rapido sguardo gettato sull’intimità di due innamorati che non riescono a far tacere la voce del sentimento. L’occasione politica comporta inoltre il dispiegamento di una grandiosa pompa rituale, che marca la centralità del momento pubblico e ufficiale a scapito della sfera privata. Si esamini ad esempio l’avvio del coro «Che del ciel, che degli dei» (scena II.16), che accompagna l’entrata nell’anfiteatro dell’imperatore, «preceduto da’ littori, circondato da’ senatori e patrizi romani e seguito da’ pretoriani»27. Il brano (Esempio 2)28, che costituisce una magistrale rappresentazione sonora dell’idea archetipica di regalità, offre un ottimo esempio di quella funzione attiva della musica nell’elaborazione e nella trasmissione dei valori collettivi alla quale accennavo in apertura. Il passo del corteo viene regolato da un andamento maestoso; le sonorità scintillanti dell’orchestra al gran completo (flauti, oboi, fagotti, corni, trombe e timpani in aggiunta agli archi) saturano lo spazio della cerimonia e instaurano un clima di solennità, cui concorrono anche i ritmi puntati, contrassegno della grandeur delle corti d’antico regime almeno dai tempi di Lully e di Luigi XIV; la quattro voci, infine, intonano il testo in perfetta omoritmia e con scansione rigorosamente sillabica, così da restituire chiare e distinte le parole con le quali i sudditi 26   Sul trattamento vocale del personaggio di Tito cfr. le osservazioni di A.L. Bellina, Da Leopoldo I a Leopoldo II. In margine alla «Clemenza di Tito», in Il melodramma di Pietro Metastasio. La poesia, la musica, la messa in scena e l’opera italiana nel Settecento, atti del convegno (Roma, 2-5 dicembre 1998), a cura di E. Sala Di Felice e R.M. Caira Lumetti, Roma, Aracne, 2001, pp. 493-509, pp. 507-508. 27   Clemenza 1791, p. 50. 28  Cfr. l’edizione critica a cura di F. Giegling, Kassel, Bärenreiter, 1970 («Neue Mozart Ausgabe», II/5/20), pp. 283-290. La partitura autografa è stata recentemente riprodotta: La Clemenza di Tito K. 621. Facsimile of the autograph score, 2 voll., introductory essay by H.J. Kreutzer, musicological introduction by S. Durante, Los Altos, The Packard Humanities Institute, 2008.

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Esempio 2. W. A. Mozart, La clemenza di Tito, «Che del ciel, che degli dei», bb. 1-20.

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salutano il principe e riconoscono l’origine divina del suo potere. Questo coro non solo aderisce in modo fedele alla congiuntura drammatica, ma crea un’aura sonora che avvolge e illumina tanto Tito sulla scena quanto Leopoldo II tra il pubblico, e contribuisce in misura determinante a fissare il tono e l’atmosfera dei festeggiamenti praghesi del 1791. Il brano, insomma, non si limita a ‘rispecchiare’ in termini musicali il concetto di sovranità, ma lo instaura, lo definisce e lo potenzia attraverso la straordinaria capacità di suggestione concessa al canto e all’armonia. Nel capiente contenitore del teatro musicale del tardo Settecento, Nina o sia La pazza per amore e La clemenza di Tito dischiudono scenari diversissimi. Il primo titolo afferma la liceità dell’aspirazione alla felicità privata, il secondo ribadisce il primato della felicità pubblica. E se diverse sono le premesse e le finalità delle due partiture, diversi sono pure i modi di fruizione e gli effetti che da esse scaturiscono. Di nuovo semplificando, vorrei sostenere che la Clemenza è parenetica, mentre Nina è empatica. Nell’opera mozartiana l’azione è esemplare e produce – o dovrebbe produrre – ammirazione e imitazione dei comportamenti virtuosi; nella creazione di Paisiello l’azione è coinvolgente e produce immedesimazione. La compenetrazione comincia già sul palcoscenico, in quanto pervade quei primi ‘spettatori’ delle sventure di Nina che sono i villani e le villanelle29, e attraversa poi la quarta parete per propagarsi nelle sale dei teatri che ospitarono – e ospitano – l’esecuzione del lavoro paisielliano. La storia esecutiva di Nina è infatti punteggiata da numerose testimonianze circa l’inedito coinvolgimento emotivo del pubblico: un pubblico, che, soprattutto nella sua componente femminile, guardava con partecipazione alle pene di una fanciulla ridotta alla follia dalle tragiche conseguenze di un matrimonio imposto30. Nella Clemenza, invece, l’ufficialità del protocollo di corte – della corte di Tito immaginata nella finzione

 Nella scena I.4 il personaggio di Giorgio esprime bene la partecipazione collettiva ai tristi casi di Nina; si veda in particolare il testo dell’aria, nella quale egli spiega al Conte con quanta affettuosa premura l’intera collettività guardi al mutevole stato psicologico della fanciulla: «Del suo mal non v’affliggete, / lieta e sana tornerà. / Me lo dice il cor, credete, / sì bel fior non perirà. // Se vedeste, mio signore, / quando par che meglio stia / come tutta in allegria / la contrada se ne va. // Ognun salta, ognun s’accende, / chi dà baci, chi li rende … / Oh che festa! Oh che piacere! / Più bel giorno non si dà. // Ma se torna l’adorata / padroncina in viso mesta, / torna mesta e sconsolata / tutta la comunità. // Ma che dico? Allegramente, / non temete, guarirà» (Nina 1790, p. 15). 30   Sulla ricezione dell’opera di Paisiello e sul coinvolgimento emotivo del pubblico rimando al mio Da «Nina» a «Belisa»: contagi veneziani (1788-1794), «Musicalia. Annuario internazionale di studi musicologici», III (2006), pp. 119-146. 29

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scenica, così come della corte storica di Leopoldo II – frena e dissecca l’espansione emotiva. Naturalmente non sto mettendo in discussione l’eccezionale valore musicale della composizione; parlo bensì della possibilità di ‘simpatia’ tra spettatore e personaggio. Di fronte alla clemenza dell’imperatore romano ci si inchina, di fronte alla pazzia di Nina ci si commuove. Entro il perimetro dell’opera comica, dunque, la ricerca della felicità soggettiva acquista piena cittadinanza ed efficace legittimazione estetica. La vicenda di Nina non propone una palestra ideale di virtù astratte, ma mostra in concreto gli effetti deleteri della felicità negata e quelli benefici della felicità riacquistata. Segno che una nuova sensibilità verso i bisogni dell’individuo si sta facendo strada nella coscienza europea.

INDICE DEI NOMI1

Abbattista Guido, 274n, 276n Abril Vidal, 33n Accorinti Antonino, 285n Acidini Luchinat Cristina, 407n Acton John Francis Edward, 318 Adam fratelli (James, John, Robert, William), 384 Adams John, 77 e n Addante Luca, 272n Addante Pietro, 275n Agosti Augusto, 336 Agostini Filiberto, 333n Agostino d’Ippona, santo, xvi Ajello Raffaele, xxiiin, 274n, 279n, 323n Albani Alessandro cardinale, 396-397 Albany vedi Stolberg-Gedern Luisa contessa d’ Albergati Capacelli Francesco, 114-115 Alberti Leon Battista, 407n, 421 Alcibiade, 358n, 361 Alembert Jean-Baptiste Le Rond d’, xx, 313, 338, 374-375 Alessandro Magno, 10, 358n Alfieri Fernanda, 105n Alfieri Vittorio, 54, 118-119, 130, 310, 381 en Alfonzetti Beatrice, xxiin, 3n, 22n Algarotti Francesco, 18n, 21, 23-24, 26-28, 303 e n, 339, 362, 421 e n

Alighieri Dante, 3, 7, 13, 15, 22, 24, 340, 351, 357n Alimento Antonella, xxviin, 283n, 289n Alquié Ferdinand, 212n Altieri Ferdinando, 6 Amaduzzi Giovanni Cristofano, 84 e n Amari Monica, 406-408 Anacreonte, 21 Andrés Juan, 410 Anglani Bartolo, 219n Anna Caterina di Sassonia, 28 Anna Ivanovna imperatrice di Russia, 26-27 Anquetil-Duperron Abraham-Hyacinthe, 83n Apollinaire Guillaume, 176 Apuleio Lucio, 174 Arabeyre Patrick, 31n Arata Fidia, 291n, 294n Arato Franco, 24n Arcangeli Alessandro, 108n Arendt Hannah, 197n Ariani Marco, 18n, 23n Ariosto Ludovico, 24 Aristippo, 376 Aristotele, 11-12, 24, 26, 33 e n, 340, 345 Armando David, 399n Armitage David, 77n Armogathe Jean-Robert, 262n

 Con la collaborazione di Domenico Cecere e Pasquale Palmieri.

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Arnaud François-Thomas-Marie de Baculard d’, 101 e n Arrighi Landini Orazio, 23n Ascione Imma, 323n Asor Rosa Alberto, 297n Aubigné Théodore Agrippa d’, 263 Averani Giuseppe, 37n Babeuf François-Noël, 389 Backer Anne Mieke, 432n Bacone Francis, 13, 20, 26 e n, 338 Baczko Bronislaw, xiv e n, 252n Badaloni Nicola, 18n, 20n Badinter Elisabeth, 127n Baerle Kaspar van, 426 Baglivi Giorgio, 103 e n Bagnati Simone, 319 e n Baia Curioni Stefano, 260n, 263n, 267 e n, 270 Balani Donatella, 129n Balayé Simone, 129n Baldassarri Guido, 3n Balzac Honoré de, 176 Bamborough John Bernard, 104n Banning Jacobus Alphonsus, 428n Barbarisi Gennaro, 56n, 72n, 83n, 123n, 372n, 414n Barbato Maurizio, 197n Barbini Giuseppe, 345n Barigioni Filippo, 397 Barlaeus Caspar vedi Baerle Kaspar van Barroero Liliana, 395n, 398n, 401n Barsotti Giovancarlo, 314 e n Bart Jean, 206n Bartalini Bigi Pietro, 181n Bartoli Giuseppe, 22 Bassani Angelo, 136n Bassi Maria Luisa, ixn Batoni Pompeo, 418 Battaglia Felice, 78n Battaglini Mario, 420n Batteux Charles, 338n Battistini Andrea, 371n Bayle Pierre, 224, 354n

Bazzoli Maurizio, 219n, 223n, 230-231 Beardé de l’Abbaye, xxiv-xxv Beauchêne Edme-Pierre Chauvot de, 109 e n, 112-113 Beaumarchais Pierre-Augustin-Caron de, 159 Beaurepaire Pierre-Yves, 279n Beauvoir Simone de, 172 e n Becagli Vieri, 43n Beccaria Cesare, xix, xxvi-xxvii, 37n, 41, 45, 48n, 61, 69, 338, 350, 374-375, 377 Beccaria Giulia, 128 e n Behringer Wolfgang, 106n Belin Christian, 265n, 266 e n, 270 Bellina Anna Laura, 436n, 446n Beltramelli Giuseppe, 121n Benavides y Aragón Manuel conte di Santostefano, 323 Benedetto XIV (Prospero Lambertini) papa, 288n, 325, 398 Bentham Jeremy, 180, 185 e n Bentinck, famiglia, 432 Berengo Marino, 424n Beretta Stefano, xviin Bertelli Sergio, 317n Berti Francesco, 62n, 64n Berti Giampietro, 337-338 Bertola de’ Giorgi Aurelio, 371-372 Bertolaso Bartolo, 144n, 146n Berveglieri Roberto, 149n Betri Maria Luisa, xxviin, 120n, 137n Bettinelli Saverio, 5, 120-121 Biadego Giuseppe, 120n Bianchi Giovanni, 3 e n Bianchi Marina, xn Bianchi Isidoro, xx e n, 63, 82 e n, 259n, 262n, 268, 270 Bianconi Piero, 161n Bielfeld Jacob Friedrich von, 151 Biffi Giovan Battista, 265n Bini Annalisa, 24n Biondi Albano, 105n Biondi Carminella, xiiin Birocchi Italo, 36n, 37n, 42-43, 47n, 434

indice dei nomi

Bisesti Pietro, 372 Bizzocchi Roberto, 129n Black Jeremy, xiii e n Blackstone William, 44n Blair Hugh, 338 Blair Rhonda, 104n Blok Eric, 432n Blondel Enrichetta, 128n Bobbio Norberto, 82n Boccaccio Giovanni, 340 Boccara Nadia, 239-240, 249n Bocchieri Franco, 406n Bodei Remo, 199n, 201n, 289n Boerhaave Hermann, 109 e n, 163 Bognetti Giuseppe, 67n Boiteux Martine, 401n Bolingbroke Henry St. John visconte di, 274-275 Bonazzi Tiziano, 77n Bonducci Andrea, 17, 274n Bonfio Roberto, 139, 141, 154 Bonin Pierre, 31n Bonito Giuseppe, 418 Bonnet Charles, 104n, 337-338 Bonnet Marguerite, 177n Bonora Ettore, 414n Bonstetten Charles-Victor de, xi Bonuzzi Luciano, 136n Bordeu Théophile de, 115-116 Borgherini-Scarabellin Maria, 143n Borghero Carlo, xxivn, 289n, 383n Borroni Salvadori Fabia, 349n Borsellino Enzo, 401n Bosco Domenico, 165n Bossi Giuseppe, 402-403 Botero Giovanni, 33 e n Botta Carlo, 310 e n Botteri Inge, 145n Boucheron Patrick, 140n Boufflers Stanislas-Jean, 159-160 Bougainville Louis Antoine, 257 e n, 305n Bouhours Dominique, 5 Boury Dominique, 115n

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Bracci Cambini Lussorio, 57 Bramante Donato, 421 Brambilla Elena, xxvn, 105-106, 120n, 129n Bresadola Marco, 110n Breteuil Gabrielle-Émilie Le Tonnellier du, marquise du Châtelet, 127-129 Breton André, 177 e n Bricaire de La Dixmerie Nicolas, 356n Briganti Tommaso, 38-39, 47 Brisson Barnabé, 31n Brissot de Warville Jacques-Pierre, 85 Brizzi Gian Paolo, 105n Broccoli Angelo, 284n Broggia Carlantonio, 291-292 Bromley John Selwin, 382n Brumoy Pierre, 338 Brunelli Angelo, 413 Brunelli Bruno, 143n Bruni Arnaldo, 308n Bruni Luigino, ix-x, xvin, xxn, 206n, 384n Brunner Otto, 51n Brusatin Manlio, 158n Bruto Lucio Giunio, 9n Bruto Marco Giunio, 9n, 358n Bucci Sante, 333n, 336n, 338n Buffon Georges-Louis Leclerc, 4, 303 Buonarroti Filippo, 389-390 Buondelmonti Giuseppe Maria, 17n Burgelin Pierre, 95n Burke Edmund, 305-306 Burke Edward, 305-306 Burlington Richard Boyle, 5, 8n, 23-24 Burns James Henderson, 185n Burton Robert, 104n Butler Joseph, 246-247 Buzzati Augusto, 334n Cabrusà Giuseppe, 334-336 Cacciottoli Gianbattista, 320-321 Caffiero Marina, 318n, 401n Caira Lumetti Rossana Maria, 446n Caldara Antonio, 436

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indice dei nomi

Calindri Serafino, 136n Callimaco, 21 Calò Mariani Maria Stella, 406n Campanella Tommaso, 382 Campori Matteo, 12n Canaletto Giovanni Antonio Canal detto, 4-6, 382 Canfora Luciano, 169n Canivez André, 338n Cantimori Delio, xxviiin Cantone Gaetana, 410n Capecchi Silvia, 350 e n Capozzi Eugenio, 274n Capponi Alessandro, 398 Capra Carlo, xviii-xx, 56n, 61n, 69n, 74n, 101n, 182n, 259-260, 269-270 Capriotti Giuseppe, 393n Caputo Fulvio, 425n Caraccioli Louis-Antoine marquis de, 268 Caramanico Francesco d’Aquino principe di, 278-279 Carcano Bruna, 120n Carena Carlo, 128n Cariclea, 174 Carletti Lorenzo, 402n Carli Gian Rinaldo, 24, 219, 303-304 Carlini Armando, 167n Carlo I Stuart re d’Inghilterra, 358n, 361 Carlo II Stuart re d’Inghilterra, 308, 384 Carlo V d’Asburgo imperatore d’Austria, 357-358 Carlo VI d’Asburgo imperatore d’Austria, 320, 436 Carlo di Borbone re di Napoli, III come re di Spagna, 317-318, 320-322, 328329, 405 e n, 409, 411-412, 417, 420 Carlo Alberto di Baviera principe, 320 Carlo Emanuele II di Savoia, 409 Carnevale Diego, xxixn Carpanetto Dino, 129n, 169n Carpani Giuseppe, 437-438 Carriera Rosalba, 28 Cartesio vedi Descartes René Cary John, 274 e n

Casale Vittorio, 401n Casanova Giacomo, 145, 181-191, 195196 Casati Confalonieri Teresa, 57 Casellato Sandra, 136n Casilli Antonio, 172n Casini Paolo, 147n Cassina Cristina, 283n Castellamonte Amedeo, 409 Castelnuovo Enrico, 394 Castelvecchi Stefano, 440n Castiglioni Giovanni, 282n Castiglioni Luigi, 308-309 Castiglioni Maria detta Marietta, 55, 125 Caterina II imperatrice di Russia, 69 Cats Jacob, 432 Cattaneo Massimo, 399n Catucci Marco, 53n Catullo Gaio Valerio, 21 Cavaceppi Bartolomeo, 393n Cavaciocchi Simonetta, 401n Cavalli Marina, 16n Cavazza Marta, 120n Cazzaniga Gian Mario, 17n, 80n, 87-88, 280n, 325n Ceccarelli Filippo, xvin Cecere Domenico, xxixn Cerati Gaspare, 18n, 21n Cerato Domenico, 152 Cerutti Simona, 151n Cesare Gaio Giulio, 358n Cezelli Costanza de, 358n Charrière Isabelle de, 159 Chastellux François-Jean de, xxiv, 180, 185 e n Châtelet Émilie du vedi Breteuil Gabrielle-Émilie Le Tonnellier du Chemello Adriana, 122n Chesterfield Philip Dormer Lord, 6n Chiancone Claudio, 372n Chiaramonti Barnaba, vedi Pio VII Chiari Pietro, 304-305 Chiosi Elvira, 280n, 284-285, 316n Chirone, 28

indice dei nomi

Choderlos de Laclos Pierre-AmbroiseFrançois de, 53n, 58 Chorier Nicolas, 161 Ciancio Luca, 134n, 140n, 145n Ciardi Roberto Paolo, 403n Cicerone Marco Tullio, xvi, xxix, 11, 195, 371, 373-374 Cicogna Emanuele, 232n Cioffi Rosanna, 410n Cipriani Angela, 395n Clemente Alida, xxin Clemente XII (Lorenzo Corsini) papa, 396 Coade Eleanor, 385 Cocchi Antonio, 17n, 18n, 20 e n, 23, 52-53, 138 Cockayne Emily, 387n Coco Antonio, 285n Coen Paolo, 401n Cole Charles Nalson, 271n Colombo Alberto, 144, 148 Colpani Giuseppe, 369n Colson Bruno, 40n Condillac Étienne Bonnot de, 106, 337338, 343 Condorcet Marie-Jean-Antoine Caritat marchese di, 79-80, 83-84, 87n, 205, 346 Condorcet Sophie, 128n Conetti Lidia, 382n Contarini Giulio Antonio, 146, 149 Contarini Silvia, 3n Conte Emanuele, 42n Conti Antonio, 3, 5, 8, 12-13, 15-19, 21-24, 26-28, 30 Conway Moncure Daniel, 78n Cook James, 305n Coppini Romano Paolo, 17n, 325n Coronelli Vincenzo, 301n Corsi Raimondo Maria, 314-315 Corsini Bartolomeo, 324 Cortesi famiglia, 152 Cosmacini Giorgio, 138n Costa Pietro, 43-44, 47n

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Coustau Pierre, 10n Cozzi Gaetano, 140n Crébillon Claude-Prosper Jolyot de fils, 172 Crisi Francesca, 239n, 249n Cristina Alessandra Maria di Svezia, regina, 358n Cristofori Alberto, xvn Cromwell Oliver, 324 Crotti Ilaria, 121n Crudeli Tommaso, 17n, 23 Cucchi Maurizio, 53n Cuoco Vincenzo, 43n Custodi Pietro, 219-220 Curzi Valter, 396n Cyrano de Bergerac Savien, 161 D’Acquisto Benedetto, 277n D’Ailly Antoine Jean, 429n Dalayrac Nicolas-Marie, 437 Dalla Bona Giovanni, 149 Dalmasso Gianfranco, 338n Dal Pane Luigi, 292n Dance George, 384 Dangeul Louis-Joseph Plumard de, xxvii Daolmi Davide, 437n Da Pozzo Giovanni, 303n D’Arbitrio Nicoletta, 420n Dardi Maraldi Biagio, 399n Darnton Robert, xiv-xv, 52n, 56, 144n De Baseggi Giovanni Paolo Olivier, 155 De Botton Alain, xviin De Brosse Charles conte di Tournay, 383 De Ceglia Francesco Paolo, 103n De Felice Renzo, 183n De Filippis Felice, 415n, 418n De Gemmis Ferrante, 275 e n, 293n De Geronimo Francesco, 319, 326-327 De Giudici Giuseppina, 47n Degli Onofri Pietro, 311-313, 315-330 Degrada Francesco, 438n De Jong Erik, 429n Dekker Rudolf, 427n

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indice dei nomi

De La Roche François, 104n Del Bagno Ileana, 285n Del Bosco cardinale vedi Dubois Guil­ laume Del Corno Dario, 16n Del Curatolo Elia, 324n De’ Liguori Alfonso Maria, 319, 325 De Liguori Girolamo, 224n Del Negro Piero, 133-135, 147n, 305n Delon Michel, xiii e n, 171n, 173n De Luise Fulvia, xv-xvi, 37n, 39-40, 79-80, 179n, 197n, 224-225, 352n Del Vento Christian, 61n De Maio Romeo, 318n De Martini Vega, 411n De Michelis Pintacuda Fiorella, 276n Democrito, 376 De Mura Francesco, 418 Denina Carlo, 338 Denis Michel, xxviiin Denisart Jean-Baptiste, 31n De Paoli Gianfranco Emilio, 334n De Pascale Carla, 43n De Pauw Cornelius, 303n De Pinto Isaac, 383n Deprun Jean, 171n, 175n De Rosa Gabriele, 333n Desaguliers John, 6n Descartes René, 12, 24, 102 e n, 104, 106 e n, 164, 263 De Seta Cesare, 405n, 419n De Simone Roberto, 317n Dezza Ettore, 43n D’Holbach Paul-Henry Thiry barone di, 83 e n, 174 Diaz Furio, 114n Di Castiglione Ruggiero, 279n Dickens Charles, 382, 390-391 Diderot Denis, 115-117, 159n, 169 e n, 174n, 257, 268 Di Gennaro Antonio, 372 Di Gennaro Aurelio, 37n Di Gennaro Domenico, 372 Di Giovinazzo Viviana, ix-x

Dillens Anne-Marie, 40n Dillon Wanke Matilde, 120n Dini Alessandro, 110n Diodoro Siculo, 15 Diogene di Sinope detto il Cinico, 375376 Di Ricco Alessandra, xxiiin, 372n Di Sangro Raimondo principe di Sansevero, 323 Di Trocchio Federico, 181n Dodsworth Martin, 104n Domašnev Sergej Gerasimovič, 374-375 Domat Jean, 39 Dominicetti Bartolomeo, 153, 156 Donaggio Monica, 3n, 6n Donato Maria Pia, 399n Donattini Massimo, 105n Donizetti Gaetano, 345 Dondi Orologio Giovanni, 137, 149n Dondi Orologio Iacopo, 149 Dondi Orologio Zan Antonio, 151 Doneau Hugues, 38 Doornick Markus Willemsz, 429n Dorat Claude Joseph, 172 Doria Paolo Mattia, 19 Doria Pamphili Giuseppe Maria, 402 Dragonetti Giacinto, xxiii, 48 e n Dryden John, 20 Dubois (Del Bosco) Guillaume cardinale, 357n Duerr Hans Peter, 156n Durante Sergio, 436-437, 446n Duverdier Adrien-Maurice, xxviii Eineccio vedi Heinecke Johann Gottlieb Eliodoro di Efeso, 174 Elisabetta I Tudor regina d’Inghilterra, 335 Emanuele Filiberto di Savoia-Carignano, 411 Emiliani Andrea, 396n, 399n Epicuro, xvi, xxix, 12, 166, 168, 214 Épinay Louise d’, 126 Epitteto, 11-12

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Eraclito, 376 Erasmo da Rotterdam, 357n, 359-361 Erodoto, 21, 136 e n, 314 Espinasse Jeanne Julie Éléonore de l’, 115, 117 Esquirol Jean-Étienne Dominique, 58 Euler Johann Albrecht, 264n, 269 Fabi Angelo, 3n Fabris Giovanni, 148-149 Fabry de Landas Raimond de, 258n, 268 Facchinei Ferdinando, 48n, 267 e n Fagiani Francesco, 198n Fait Paolo, xvin Falaride, 215 Falcini Domenico Maria, 314 Falco Giorgio, 290n Falletti Tommaso Vincenzo, 259n, 269 Farinetti Giuseppe, xv-xvi, 37n, 39-40, 79n, 179n, 197n, 224-225, 352n Farnese Elisabetta, 411n Fassò Luigi, 119n Fastenrath Vinattieri Wiebke, 28n Faulkner Thomas C., 104n Favaro Antonio, 146n Fea Carlo, 398-400, 402 Fechner Erik, 424n Federico II di Hohenzollern re di Prussia, 24, 26-27, 44, 63, 69, 165, 169, 361-363 Federico II di Svevia imperatore, 406 Federico Augusto di Sassonia, 26 Federico Cristiano di Sassonia, 19, 27-28 Fedi Francesca, 3n Fénelon François de Salignac de la Mothe, 351, 360 e n, 369 Ferdinando IV di Borbone re di Napoli, 279, 318, 409, 412, 415, 417-420 Ferrari Ciro, 141 Ferrari Jean, xxiii Ferrari Stefano, 398n, 431n Ferrario Giulio, 303n Ferraris Lucio, 31n, 141n

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Ferraris Maurizio, xvi e n Ferrer Benimeli José Antonio, 17n Ferri Francesco, 336n Ferrière Claude-Joseph de, 31n Ferrone Vincenzo, xiii e n, xxin, 62n, 64, 69-70, 84n, 133n, 143n, 152n, 272-273, 277-278, 291n, 424n Ferrucci Franco, 110n Festa Roberto, 277n Ficino Marsilio, 12 Fielding Henry, 4, 52, 174 Filangieri Gaetano, xx-xxi, xxvi, 42, 43n, 45, 48, 61-70, 74-76, 83-84, 338, 346, 434 e n Filangieri Serafino, 316, 327 Fileti Mazza Miriam, 349n Filippo II d’Orléans, 357n Finazzi Sartor Rosetta, 333n Fine Agnès, 54n Fini Salvatore, 278n Fiorillo Johann Dominicus, 402 Fiorot Dino, 64n Firmian Carlo di, 371 Firpo Luigi, 33n Fischetti Fedele, 417-419 Flandrin Jean-Louis, 54n Fokkens Melchior, 429 e n Fontana Felice, 62n Fontana Giuseppe, 62 e n Fontana Gregorio, 62n Fontenelle Bernard Le Bovier de, xxvi, 4, 351 e n, 353-354, 356n, 358n, 360, 369 e n Foramiti Francesco, 31n Formey Jean-Henri-Samuel, 374-375 Formigari Lia, 277n Forti Fiorenzo, 290n Fortis Alberto, 133 Foscarini Marco, 20, 28 Foscolo Ugo, 12 Foucault Michel, 110-112 Fouquet Henri, 107 e n, 115 Fouquet Pieter, 427 Fraggianni Niccolò, 325

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Fraguier Claude-François, 18n Franceschini Michele, 398n Francesco Stefano di Lorena, 5n, 28 Franchi Giuseppe Ignazio, 315 Francioni Gianni, xix-xx, 63 e n, 84n, 182n, 259n, 261 e n, 264-267n, 269, 276 Francisci Bruno, 137n Francovich Carlo, 6n Frank Robert G. jr, 102n Franklin Benjamin, 77, 309 e n Frassinetti Luca, 350n Fréron Élie, 266 e n, 269 Frey Bruno S., ixn Frigo Daniela, 51n Frisi Paolo, 23, 76 Frosconi Alessandro, 335 Frugoni Arsenio, 53n Fubini Mario, xxviiin Fumaroli Marc, 262-264, 267, 270 Gabaleone di Salmour Joseph Anton, 28 Gaetani Onofrio, 317n Gagnebin Bernard, 215n Galanti Giuseppe Maria, 101-102, 107, 125n Galeno di Pergamo, 102, 104 Galiani Celestino, 273 e n Galiani Ferdinando, 114 e n, 126, 219, 338 Galilei Galileo, 13n, 26, 233, 358n Gallavresi Giuseppe, 57n Gallimard, editore, 170 Galtarossa Massimo, xxvn Galvani Luigi, 110n Galzigna Mario, 58n Gambasin Angelo, 338n, 347n Gamberini Andrea, 141n Garappa Orsola, 293-295 Garin Eugenio, 337n Gassendi Pierre, 12 Gatteschi Francesco Maria, 315 Gatti Roberto, 190n

Gauthier Florence, 205n Gendron François, 199n Gennari Giuseppe, 147n Gennaro, santo, 322, 323 Genovesi Antonio, xx-xxiii, xxv-xxvii, 41, 42n, 45, 47-48, 61, 219, 256, 259, 269, 271-275, 277-280, 282 e n, 284n, 287-295, 297 e n, 306-307, 335n, 340, 342 e n, 345-346, 373 Genty Louis, xxivn Gerbi Antonello, 301 e n Geremia profeta, 327 Ghedina Paolo, 146n, 154n, 156n Gherardi Pietro Ercole, 12, 28 Giacomazzi Giuseppe Maria, 146 Gianformaggio Letizia, 41-42 Giannetti Anna, 409n, 414n Giannone Pietro, 23, 37n, 47 Giarrizzo Giuseppe, xv e n, 18n, 27n, 134n, 248n, 251n, 280n, 371n Gibbs James, 384 Giegling Franz, 446n Gigli Girolamo, 6 Giglioni Guido, 103n Gilij Filippo Salvatore, 301 e n Gioele profeta, 320 Giordanetti Piero, 94n Giorgio II Augusto di Hannover re d’Inghilterra, 276 Giorgio III di Hannover re d’Inghilterra, 5 Giormani Virgilio, 137n, 139n Giovanelli Giovanni Benedetto, 150 Giovannucci Pierluigi, 319n Giro Matteo, 135 e n Giulini Alessandro, 56n Giulini Giorgio, 260n Giuseppe II d’Asburgo-Lorena imperatore d’Austria, 63, 73, 108n Giustiniani Ascanio, 20, 23 Glaudemans Marc, 428n Gloria Andrea, 146n Godard de Beauchamps Pierre-François, 168

indice dei nomi

Godechot Jacques, 81n Godoli Ezio, 425n Goldoni Carlo, 17, 27-28, 54, 114 e n, 143 e n, 145, 156 e n Goldsmith Maurice Marks, xxivn Gompes Loes, 430-431 Gori Giambattista, 94n Gosselin Charles-Robert, xxviii-xxix Goubert Pierre, xxviiin Goulemot Jean-Marie, 159, 162 Gournay Marie de, 458n Graefer John Andrew, 415 Graeve Johann Georg, 6 Gramsci Antonio, 222 Grasso Maurizio, 181n Gravina Gianvincenzo, 12, 13, 19-20, 22, 36-37 Graziosi Elisabetta, 120n Greenblatt Stephen, 302n Greene Jack P., 424n Greig John Young Thomson, 239n Greppi Emanuele, 56n Griener Pascal, 394n, 399n Griffini Rosnati Grazia Maria, 128n Grimal Paul, 256n Grimani famiglia, 28 Griselini Francesco, 17, 136n Grmek Mirko Dražen, 103n, 153n Gronda Giovanna, 21n Grones Giuseppe, 334-337 Gronow Jacob, 6 Gros de Besplas Joseph-Marie-Anne, 218 en Grozio Ugo, xxix, 338, 354 e n, 357n Guagnini Elvio, 101n Gualtieri Ludovico, 324-325 Guarducci Annalisa, 153n Guasti Niccolò, 277-278, 291n Gucht Michael Van der, 28n Guerci Luciano, 114n, 169n, 326n Guerra Alessandro, 312n Guevara Vittoria, 279 Guicciardini Francesco, 3, 5, 6, 302 e n Gullino Giuseppe, 143n, 334n

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Gusdorf Georges, 109n Hackert Jacob Philipp, 425 e n Hadot Pierre, 258n, 263 e n, 270 Hagedorn Christian Ludwig von, 394 en Hagen Gottlieb Friedrich, 264n, 269 Haller Albrecht, 104n, 110-111 Halpérin Jean-Louis, 31n Hart Herbert Lionel Adolphus, 185n Haskell Francis, 27n Hawksmoor Nicholas Hayes Julie, 384 Hazard Paul, xiv e n Heck Michèle-Caroline, 395n Heinecke Johann Gottlieb (Eineccio), 352 Helvétius, Claude-Adrien, xx, 41-42, 66, 76, 83 e n, 134n, 180, 260, 342, 350, 366 Herrmann Claudine, 130n Hirschman Albert O., ix-x, xvi, xix, 40n, 140n Hobbes Thomas, 39 e n, 40n, 224, 251252, 343, 366 Hofer Andreas, 335 Hoffmann Paul, 109 e n, 112 e n, 115n Hogarth William, 387-388 Hont István, 273n Houbre Gabrielle, 59n Hull Isabel V., 59n Hume David, 167 e n, 239-254, 292n, 338 Hunt Lynn, 58n Husly Jacob Otten, 431 Hutcheson Francis, xx, 20, 62, 99 e n, 180 Huygens Constantijn, 328 Iermano Toni, 121n Ignazio di Loyola, santo, 263-264 Imbruglia Girolamo, xiii-xiv Infelise Mario, 4n, 5n Ippia di Elide (o Eleo Ippia), 358n, 361363 Ippocrate di Kos, 138 e n

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indice dei nomi

Ippoliti Giuseppe, 374-375, 377 e n Ippolito Dario, 76-77 Jasinski Béatrice Watson, 129n Jaucourt Louis de, 109n Jaume Lucien, 87n Jefferson Thomas, 77 e n, 80n Jellamo Anna, 79n Jenyns Soame, 271 e n, 276-278, 280-284 Jerocades Antonio, 285 Joli Antonio, 409 Joncourt Elias de, 355-356 Jones Inigo, 21, 24 Jouannet Emmanuelle, 43n Juvarra Filippo, 417 Kahneman Daniel, xvi Kant Immanuel, 46-47, 93 e n, 96-97, 99-100, 211-218 Kiessling Nicolas K., 104n Kieven Elisabeth, 398n King William, 275 Klibansky Raymond, 104n Knapton Michael, 140n Kreutzer Hans Joachim, 446n Kruizinga Jacobus Henricus, 428n Krynen Jacques, 31n Kunze Max, 394n Kuyper Wouter, 425n Laclos vedi Cho­derlos Pierre-AmbroiseFrançois de La Mettrie Julien Offray de, xii-xiii, xx, xxiv e n, 110, 158-159, 162-174, 180181, 224-226 Lambert vedi Marguenat de Courcelles Anne-Thérèse marquise de Lambertini Prospero vedi Benedetto XIV papa Lami Giovanni, 349 La Mothe Le Vayer François de, 170 Lampredi Giovanni Maria, 47 Lanaro Paola, 155n Landi Sandro, 349n

Lando Ortensio, 374 Langford Paul, 276n Lanzi Luigi, 338 Las Casas Bartolomé, 302 Lastri Marco, 357n Lavagnoli Bartolomeo, 137 Lazzarini Domenico, 22-24, 27-28 Lecaldano Eugenio, 167n, 247n, 253n Leibniz Gottfried Wilhelm, 275, 282 Lemerle Frédérique, 395n Lenclos Anne Ninon de, 168, 358n L’Enfant Pierre Charles, 390 Leonardo di Porto Maurizio, 313 Leone Maria Patrizia, 151n Leopardi Giacomo, 236 Leopoldo II d’Asburgo-Lorena imperatore d’Austria, 47-48, 71, 436, 448449 Lepetit Bernard, 424 e n Lesbia Cidonia vedi Secco Suardo Grismondi Paolina Lévesque de Pouilly Louis-Jean, 343 Lewis Jan, 424n Liani Francesco, 418 Licurgo, 66, 338, 340, 358n, 365-368 Ligtelijn Merel, 430-431 Lindon John, 17n Linguet Simon-Nicolas-Henri, xxvii, 312 Lioy Felice, 271, 272, 275, 278-285, 293n Lippmann Friedrich, 444n Livingston Robert R., 77n Locke John, xxiii, xxix, 4, 70n, 106, 338 Lombardi Satriani Luigi Maria, 285n Lorenzi Giambattista, 437 Loretelli Rosamaria, 289n Lovejoy Arthur Oncken, 277 e n. Luciano di Samosata, 351, 357n, 359-361, 369 Lucioli Francesco, 10n Lucrezio Caro Tito, 26 e n, 168, 342 Lühning Helga, 436n Luigi XIV di Borbone re di Francia, 168, 335e n, 355, 357n, 408, 420, 446

indice dei nomi

Luigi XV di Borbone re di Francia, 256, 411n Luigi XVI di Borbone re di Francia, 74 Lully Jean-Baptiste, 446 Lupo Maurizio, 285n Lyttelton George, 355-356 Mably Gabriel Bonnot de, 70, 197 Macchia Giovanni, 383n McCloskey Deirdre Nansen, xvi McGann Jerome, 118n McMahon Darrin M., xv e n, 179-180, 185n, 197n McManners John, 124n Macera Mirella, 411n Machiavelli Niccolò, 23, 35-36, 338, 340 Macpherson Crawford B., 39n Macrembolites Eustathius, 168 Macry Paolo, 409n Madero Marta, 42n Maffei Scipione, 8 e n, 12, 17-18, 20-23, 27-28 Magri Tito, 273n Maier Pauline, 77n Maldini Chiarito Daniela, 101n, 124n Malebranche Nicolas, 4, 30 Mamy Sylvie, 28n Mandeville Bernard de, 273 e n, 275 Mandruzzato Salvatore, 136n, 153n Manini Lorenzo, 81n, 270 Mannheim Karl, 250n Manzoni Alessandro, 57, 128 Maradei Francesco, 38n Marat Jean-Paul, xix Maratti Carlo, 10 Marcello Benedetto, 20, 23-24 Marchesini Davide, 137-139, 155 Marcialis Maria Teresa, 282n Marco Aurelio Antonino, 340 Marconato Ruggero, 146n Marelli, editore, 63 Marguenat de Courcelles Anne-Thérèse marquise de Lambert, 123-124 Marin Brigitte, 401n

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Maria Amalia d’Asburgo, 53 Maria Amalia di Sassonia, 328-329, 412, 417 Maria Aña Victoria di Borbone, 411n Maria Carolina d’Asburgo regina di Napoli, 409, 415 Maria Stuart (Stuarda) di Scozia, 353 Maria Teresa d’Asburgo imperatrice d’Austria, 53 e n, 318 Marin Marco, xixn Markovits Francine, 224-225 Marmontel Jean-François, 101, 117-118 Marri Fabio, 28n Marsollier des Vivetières Benoît-Joseph, 437 Martello Pier Jacopo, 3, 8, 20 Martinelli Vincenzio, 307 e n Marx Karl, 219-222 Mascilli Migliorini Luigi, 420n Masiero Roberto, 425n Matarazzo Pasquale, xxiiin Mattei Saverio, xxiii e n, 371-377 Matthaeus Anton II, 37-38 Mattioli Raffaele, 61n, 262n, 265n Mattone Antonello, 43n Maupertuis Pierre-Louis Moreau de, xii-xiii, xx, xxiv, 95 e n, 165-166, 174, 224-225, 267, 354 Mauro Ezio, xvii e n Mauzi Robert, xi e n, xiii, xxiv, 79n, 123-124, 127 e n, 169, 197n, 218, 224n, 259n, 270 May Gita, 124n Mayr Johann Simon, 435n Mazauric Claude, 198n Mazzei Filippo, 80n Mazzi Maria Cecilia, 397-398, 401n Mazzocca Fernando, 418n Mazzolà Caterino, 436, 441 Mazzolini Renato Giuseppe, 103n Medici Maria de’, 358n Medrano Antonio, 409 Melon Jean François, 292n Meloni Antonio, 293n

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indice dei nomi

Memmo Andrea, 17, 139, 150-152, 154 Memmo Lorenzo, 17 Mengs Anton Raphael, 338 Menippo il Cinico, 360 Mercier Louis-Sebastien, 388-389, 427 Mercogliano Luigi, 312 Meriggi Marco, 130n Merlini Giuliano, 357n Mesnard Pierre, 35n Messalina Valeria, 358n, 361 Metastasio Pietro, 101, 372n, 374-375, 436 e n, 438, 441 Meyer Susanne Adina, 393n, 397n, 401402 Meynell Geoffrey Guy, 103n Michel Olivier, 401n Michele arcangelo, 320 Micheli Gianni, 102n Michelozzo (Bartolomeo Michelozzi), 407n Michels Robert (Roberto), ixn Migliorini Francesco, 330 Mijnhardt Wijnand W., 430n Milizia Francesco, 23, 141 e n, 387n Milton John, 15, 24, 26n Mingoni Giuseppe, 134n, 136 e n, 138, 140-142, 144-145, 148-149, 152, 154155 Minuti Rolando, 83n Mirabeau Honoré-Gabriel de Riqueti conte di, xxix, 78-79, 86 Mistretta Enrico, 167n Moioli Angelo, 67n Mongiello Luigi, 420n Montagu Mary Wortley, 17 e n, 23 Montaigne Michel Eyquem de, 257n, 263-265, 352 Montariello Alessandra, 293-294 Montealegre Josè Joaquin, 323 Montesquieu, Charles-Louis de Secondat baron de, xx, xxix, 23, 42 e n, 73, 197, 207, 249 e n, 255-257, 260, 268n, 292n, 338, 343-345, 354-355, 357n, 381

Monti Gennaro Maria, 284 Monti Maria Teresa, 110n Monti Vincenzo, 128-129, 372 Moravia Sergio, 164n, 338n Moreelse Paulus, 429-430 Morgagni Giambattista, 136 e n, 138 Mori Maria Teresa, 130n Morillas Alcazar José Maria, 411n Moro Domenico, 38n Moroni Pietro, 120n Morosini Marco, 155 Morselli Raffaella, 397n Mounier Jean Joseph, 80 Mozart Wolfgang Amadeus, 435-437, 443, 446-448 Mozzarelli Cesare, 11n, 133n, 273n, 290n, 292 e n Muratori Ludovico Antonio, xii, xx, 3, 11-13, 22, 23, 27-28, 30n, 42, 45, 133 e n, 136n, 269, 273n, 289-292, 302 e n, 323-324, 340-341, 364-365, 398 e n Muzerelle Danielle, 127n Napoleone Bonaparte, 159, 333, 335336, 339, 344-346 Nash John, 384 Natta Onofrio, 315 Necker Anne-Louise-Germaine Madame de Staël, 124n, 127-130 Neri Pompeo, 47 Newcastle Thomas Pelham-Holles duca di, 276 Newton Isaac, 3, 4, 18, 20, 23, 26-27 Niccoli Ottavia, 105n, 322n Niccolini Antonio, 17n, 23 Nicolini Fausto, 126n Nieri Rolando, 325n Nijhoff Willem, 426n Nonis Pietro Giacomo, 341n Norci Cagiano Letizia, 261n North Michael, 394n Novati Francesco, 56n Novi Chavarria Elisa, 319n Nuccio Oscar, 219n

indice dei nomi

Nutini Stefano, 43n Occhi Simone, 5 Oldenburger-Ebbers Carla S., 432n Olivato Loredana, 147n Olivieri Achille, 134n, 136-137, 145n, 156n Olmi Giuseppe, 133n, 138n Omero, 340n Ongaro Giuseppe, 149n Orange Nassau Frederik Hendrik, 428 Orazio Flacco Quinto, 21, 374, 376 Orlov Aleksej Grigor’evič, 374 Orsi Gian Giuseppe, 3, 5 Ortalli Gherardo, 334n Ortes Giammaria, 219-237 Ovidio Nasone Publio, 18, 168, 414 Pacchi Domenico, 315 e n Paganini Gianni, xiv e n Pagannone Giorgio, 435n Pagano Francesco Mario, 374 e n Pagano de Divitiis Gigliola, 400n Pagden Anthony, xxivn Paine Thomas, 77, 78n Paisiello Giovanni, 435-438, 444-445, 448 en Palladio Andrea (Andrea di Pietro della Gondoletta detto), 4, 8 e n, 21-23, 421 Pallante Gennaro, 371 Pallavicini Lazaro Opizio, 326-327 Palmieri Giuseppe, xxi e n, 44 Palmieri Matteo, 134 Palmieri Pasquale, xxixn, 324n Panizza Giorgio, 63n, 94n Panofsky Erwin, 104n Pansuti Saverio, 12 Panza Pierluigi, 414n Paoli Maria Pia, 357n Papasogli Benedetta, 258 Parini Giuseppe, 54, 303, 308n, 336, 376, 383, 414n Pascal Blaise, 37, 39, 265

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Pasquali Giovan Battista, 3-6, 11, 12, 19n, 21, 23-24, 26n, 28 Pasquali Susanna, 8n Passetti Cristina, xxiin, 289n, 291n Pasta Renato, 17n, 52n, 144n, 349-350 Pastore Alessandro, xxviin, 105n, 137n Patte Pierre, 386 e n Pauwels Yves, 395n Pazzini Carli Vincenzo, 371 Pecora Gaetano, 69n Pélissier Léon Gabriel, 130n Pelli Bencivenni Giuseppe, 349-369 Pellizzari Jacopo, 337n Penn William, 306, 308, 358n, 365-368 Pepe Francesco, 321, 323-326, 329 Pepe Luigi, 399n Perelli Tommaso, 17n Peretti Gianluigi, 145n Pereña Luciano, 33n Perini Giulio, 134n, 359n Perna Maria Luisa, xxvi-xxvii, 271n, 272n, 274n, 288n Perrotti Gabriele, 263n Petralia Giuseppe, 141 Petrarca Francesco, 12, 13, 340 Petrenga Giovanna, 410, 419 Petronio (Tito Petronio Nigro), 168 Pesante Maria Luisa, 283n Pevsner Nikolaus, 394-395 Piccolino Marco, 110n Pietro I Romanov imperatore di Russia, 26, 335 e n Pietro Leopoldo d’Asburgo-Lorena vedi Leopoldo II d’Asburgo-Lorena Pigatto Luisa, 147n Pignatelli Giustiniana, xxi Pignatelli Salvatore principe di Strongoli, xx Pii Eluggero, xxii-xxiii, 275n, 291-292 Pikler Giovanni, 374-375 Pilati Carlantonio, 431-433 Pimbiolo Antonio, 137-138, 147n, 152 Pinelli Antonio 394n, 399-400 Pio VI (Giannangelo Braschi) papa, 402

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indice dei nomi

Pio VII (Barnaba Chiaramonti) papa, 330, 402 Piovan Francesco, 135n Piranesi Giovan Battista, 401 Pirani Francesco, 393n Pirani Giovanni, 115n, 121n Pisani Angelo, 152 Pitagora di Samo, xxix, 8n, 11, 15, 18, 24, 26n, 27, 339 Piva Chiara, 393n Piva Raffaella, 135n, 137n Pizzamiglio Gilberto, 182n, 189n Pizzi Gioacchino, 120 Pizzoni Filippo, 406n, 408n Planelli Antonio, 285 Platone, xxix, 10-12, 15-20, 98n, 136, 340, 343, 368 Plinio il Vecchio (Gaio Plinio Secondo), 136 e n, 354n Plutarco di Cheronea, 11, 16-18, 20, 314, 335 Polcastro Girolamo, 146 Polcastro, famiglia, 154 Pole Jack Richon, 424 Poleni Giovanni, 3-6 e n, 8, 12, 22-23, 27 Pommier Édouard, 402n Pompadour Jeanne Antoinette Poisson marchesa di, 357n, 361 Pomponio Attico Tito, 357n, 358n Pontalis Jean-Bertrand, 118n Pope Alexander, 4, 6n, 23, 24, 157, 274275, 277, 282, 341 e n Porcelli Giuseppe Maria, 372, 375 Porta Pier Luigi, ix-x, xxn, 67n, 394n Porter Roy, xiii e n, 153n Postigliola Alberto, xvn Poussin Nicolas, 10 Pozzi Stefano, 418 Pratesi Gaetano, 314 Premuda Loris, 134n, 136n, 142n, 144n, 147n Pressavin Jean Batpiste, 109 e n Preto Paolo, 134n, 150-151 Prodi Paolo, 105n, 133n

Prosperi Adriano, 105n Prunier Clotilde, 224n Pufendorf Samuel von, xxix, 69, 338, 354 Pugliese Guido, 30n Puisieux Madeleine d’Arsant de, 123 Pujati Anton-Gaetano, 108 e n Pujati Giuseppe Antonio, 108n, 113 Pulcini Elena, 161n Punzi Antonio, 180n Puppi Lionello, 135n, 150n Quatremère de Quincy Antoine-Chrysostôme, 399-400, 402n Quignard Marie-Françoise, 159n Quintili Paolo, xxivn, 159n Rabreau Daniel, 414n Racine Jean, 21 Raffaele da Roma, 313-314 Raffaelli Noris, 97 e n, 262n Ranza Giovanni Antonio, 372-373 Rao Anna Maria, xvn, xxiiin, xxviin, 48n, 137n, 211, 271n, 280n, 285n, 289n, 316-317, 325n, 330n, 377n, 405n, 433 e n Rapolla Francesco, 37n Raulin Joseph, 109 e n, 112 Raymond Marcel, 215n Raynal Guillaume-Thomas-François, 306307, 350 Regoli Mocenni Teresa, 130 Reinart (Reinold) Jacopo Matteo, 358n, 361-363 Rémond de Monmort Pierre, 18n Renier Polo, 145 Retif de la Bretonne, Nicolas-Edme, 54, 159, 383n Revel Jacques, 151n Rezzonico della Torre Carlo Castone, 374-375 Rials Stéphane, 78-80, 84-86 Ricaldone Luisa, 121-122 Ricardi di Netro Tomaso, 124n

indice dei nomi

Ricciardi Antonio, 10n Ricciardi Mario, 43n Riccio Davide, 353 Riccoboni Luigi, 22 Rice John A., 436n Richardson Samuel, 4, 52, 56, 161, 174 Ricorda Ricciarda, 121n Ricuperati Giuseppe, xivn, 263n, 270, 277n Ridley Ronald T., 398n Riese Walther, 106n Ripa Cesare, 8n Riskin Jessica, 103 Rivarol Antoine de, 271n, 272n Robertson William, 306, 338 Robespierre Maximilien, xix, 63, 172, 197207 Rocco Gregorio, 325, 327-329 Rocco P. Antonio, 341n Roche Daniel, xiii e n, 133n, 151n, 424n Roger Philippe, xiii e n, 136n, 146n Roggero Marina, 129n Roggerone Giuseppe Agostino, 180n Rolfi Ožvald Serenella, 397n, 401n Romagnani Gian Paolo, 431n Romagnoli Daniela, 145n Romagnosi Gian Domenico, 291n, 337n Romano Anna Maria, 415n Romeo Giovanni, 105n Rompkey Ronald, 276n, 277n Ronzoni Daniele, 151n Rosa Mario, 297 e n, 322n Rosini Sara, 75n Rosmini Antonio, 338 Rossi Giovanni, 105n Rossi Pinelli Orietta, 394n, 398-399, 402 en Rosso Corrado, xi-xiii, xxiii e n, 144n, 256n, 270 Rota Francesco, 149 Rota Ghibaudi Silvia, 38n, 293n Rother Wolfgang, xix e n, 94n, 97n Rotili Mario, 416n Rousseau George Sebastian, 102n

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Rousseau Jean-Jacques, xx, xxii e n, xxvi, xxix, 41, 46, 52, 55-56, 58, 70, 88, 94-95, 101, 113, 118 e n, 124-125, 129, 159-161, 172, 174, 180, 190-191, 197, 204, 207, 215n, 217-218, 256, 258, 260, 268-269, 292-297, 312, 339, 342343, 345, 365n, 374-376, 383 e n, 438 Roussel Pierre, 109 e n, 112 Rudé George, 201n Ruffo di Bagnara Fabrizio, 328, 330 Ruggieri Franca, 60n Russo Francesco Paolo, 437n Sacchi Andrea, 10 Sade Donatien-Alphonse-François de, 58, 158-160, 169-177 Saffo, 21 Saint-Évremond Charles de, 168 Saint-Just Louis-Antoine de, xix Saint-Pierre Charles-Irenée Castel abbé de, 46, 355, 357n Sala Di Felice Elena, 182n, 446n Salfi Francesco Saverio, 272n Sallustio Crispo Gaio, 3, 6 Salmini Claudia, 333n Salomone Gaetano, 413 Salvatorelli Franco, xvn, 144n Salvini Anton Maria, 358n Sammarco Martina, 38n Sanchez Tomás, 358n Sand George, 124n Sanfelice Ferdinando, 409 Sanna Guglielmo, 276n Sanna Piero, 43n Sansevero vedi Di Sangro Raimondo principe di Santato Guido, 74n Santinello Giovanni, 340n Santostefano vedi Benavides y Aragón Manuel conte di Santucci Antonio, 250n Sarpi Paolo, 357n, 358n Sassoon Joseph, ixn Savarese Gennaro, 275n, 287n, 307n

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indice dei nomi

Savio Giacomo, 135 e n, 156 e n Savonarola Girolamo, 357n, 361 Saxl Fritz, 104n Scamolla Giuseppe, 330n Scappaticci Tommaso, 121n Scaraffia Lucetta, 318n Schama Simon, 427n Schettini Mario, 260n Schiera Pierangelo, 42n, 52n Schipa Michelangelo, 292n Schmidt Freek, 430n Schmidt von Avenstein Georg Ludwig, 43 e n Schönborn Lotario Francesco, 320 Schrapel Claudia, 402n Schubert Werner, 437n Schumpeter Joseph, 68 Schwartz Benjamin Isadore, x Scitovsky Tibor, x e n Scianatico Giovanna, 182n Scolaro Michela, 399n, 402n Scoto Gualtiero, 6n Secco Suardo Grismondi Paolina (Lesbia Cidonia), 119-122, 125, 129 Seckel Raymond-Josuè, 159n Seidel Wilhelm, 436n Seneca Lucio Anneo, xvi, xxiv, 12, 169, 312n, 375 Senici Emanuele, 436n Serbelloni Maria Vittoria Ottoboni, 260n Seregni Giovanni, 56n, 62n Serini Paolo, xivn Serlio Sebastiano, 22 Sestan Ernesto, 304n Sevigné Henri marchese di, 168 Shaftesbury Anthony Asley Cooper conte di, 19-20, 258 Sherman Roger, 77n Shorter Edward, 126 Shovlin John, xxin, xxvn Sibilla di Conversano duchessa di Normandia, 358n Sieyes (Sieyès) Emmanuel-Joseph, 70, 88 Silvestrini Maria Teresa, 62n, 64, 84n

Simioni Attilio, 285n Simonazzi Mauro, 239n Simoncini Giorgio, 386n, 387n Simonide, 21 Singer Peter, 198n Sisto da Siena, 358n Sitran Rea Luciana, 136n Skinner Quentin, x Smith Adam, 47n, 205, 338 Smith Joseph, 4-6 e n, 12, 17, 22-23, 27 e n, 135 Soane John, 384, 385 Soave Francesco, 307-308, 338, 341n Soboul Albert, 198n Socrate, xxix, 27, 195, 258, 340 Sodano Giulio, 319n Solari Pietro, 413 Solone, 339, 340 Sorel Charles, 161 Sozzi Lionello, 257n Sozzi Marina, 103n, 166n Spaggiari William, 372n Spagnoletti Giacinto, 191n Spartaco, xxviii Spencer Samia I., 124n Spezzaferro Luigi, 396n, 398 Spinoza Baruch, 164, 224, 289n Sponde Jean de, 263 Staël Madame de vedi Necker AnneLouise-Germaine Stafford John Martin, 273n Stahl Georg Ernst, 103 e n Stalpaert Daniel, 425 Stapelbroek Koen, xxin, 273n Starobinski Jean, 104n, 211 e n Steiner Riccardo, 253n, 259-260, 265n, 269 Stellini Jacopo, 340-341 Stendhal Henri Beyle, 176 Sterlich Romualdo de, 287-288 Sterne Laurence, 382n Steuart James, 135 Stillingfleet Benjamin, 23 Stolberg-Gedern Luisa contessa d’Albany, 127, 130

indice dei nomi

Stolper Ed, 278n Stradiotti Carlo, 319 e n Strange John, 144 e n Stroppa Sabrina, 263n Stürmer Michael, 136n Stutzer Alois, ixn Suárez Francisco, 33-35 Succi Dario, 4n, 6n Sulzer Johann Georg, 157-158 Suratteau Jean-René, 199n Susinno Stefano, 395n, 398n Sutton Geoffrey, 103n Swift Jonathan, 26, 357-358 Sydenham Thomas, 103 e n, 109 Sylvers Malcom, 77n Tabacco Giovanni, 155n Tabet Xavier, 61n Tadini Francesco, 120n Talete, 15 Tanucci Bernardo, 278-280, 324-325 Targioni Tozzetti Giovanni, 144n Tasso Torquato, 13n, 15, 24 Taverne Ed, 426n, 430n Teagene di Reggio, 174 Tenenti Alberto, 153n Terzo Benedetto Saverio, 277n Tessitore Fulvio, 414 Thjulen Lorenzo Ignazio, 312 Thomasius Christian, 37, 42 Thomson Ann, xxivn, 163n Thuriot Fabrice, 198n, 207n Tiepolo Giambattista, 8 Tigani Sava Francesco, 285n Timpanaro Morelli Maria Augusta, 349n Tischbein Johann Heinrich Wilhelm, 419 e n Tissot Samuel-Auguste-André-David, 108 e n, 111 e n, 113 e n, 125n, 133 Tito Flavio Vespasiano imperatore romano, 441-444, 446, 448 Tito Livio, 314 Toaldo Giuseppe, 146

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Todescan Francesco, 33n Todeschini Federico, 156 Todorov Tzvetan, xiv e n, 256n Toffanin Fiorenzo, 135n Tolomio Ilario, 337n Tomaselli Sylvana, xiiin Tomasello Bruna, 349n Tommaseo Niccolò, 337n Tommaso d’Aquino, 19, 33 Tonelli Giovanna, 67n Tongiorgi Duccio, 120n Torallo Giuseppe, 293 e n Torcellan Gianfranco, 134n, 150n Torcia Michele, 431-434 Torrusio Vincenzo, 330 Tortarolo Edoardo, xiv e n Toschi Domenico, 31n Tosi Alessandro, 17n Tosi Luigi, 128n Trampus Antonio, xv e n, 37n, 44-45, 64n, 72 e n, 76n, 80n, 126 e n, 135, 151n, 179n, 271-272, 313n, 318 e n, 394n, 424n, 426n, 431n, 434n Trémolières François, 263n Trepp Anne-Charlott, 59n Trevisan Bernardo, 259n, 269 Troiano Rosa, 121n Trombetta Vincenzo, 410n Tron Andrea, 142, 155 Trublet Nicolas-Charles-Joseph, 353n Tuccillo Alessandro, xxixn Tufano Lucio, 437n Tufano Roberto, 433n Vaccari Ezio, 144 Valente Gaetano, 279n Valenti Gonzaga Silvio, 396 e n Valeri Nino, 184n Valle Giuseppe, 146 Vallisnieri Antonio junior, 149 Vallone Aldo, 47n Valois Margherita de, 358n Vandelli Girolamo, 149 Van Hattum Frans W.D.C.A., 426n

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indice dei nomi

Van Helmont Jean Baptiste, 103 e n, 107, 116n Vannetti Clementino, 120-122 Van Pelt Robert-Jan, 428n Van Swieten Gerhard, 109n Van Tieghem Paul, 129n Vanvitelli Carlo, 412 Vanvitelli Luigi, 409-412, 414-418, 420421 Vanvitelli Luigi junior, 405n Vanzan Marchini Nelli Elena, 146n Vasco Dalmazzo Francesco, 38n, 41, 48-49 Vasco Giambattista, xxiv-xxvii, 133 Vasi Giuseppe, 401 Vattel Emer de, 43 e n, 338, 356n Vauvenargues Luc de Clapiers de, 258, 269 Vecellio Tiziano, 333 Vegetti Finzi Silvia, 58n Velotti Stefano, xvin Venditti Arnaldo, 409n Venturi Franco, xxin, xxv e n, xxvii e n, 43n, 134n, 143n, 263n, 270, 335n, 374n, 433 e n Veracini Tommaso, 314 e n Vernesi Valerio, 398n Vernière Paul, 115n Verri Alessandro, 45, 55, 56n, 62n, 74, 266n Verri Pietro, xix-xx, xxvi, 38n, 41, 45, 48 e n, 55-56, 61-76, 84 e n, 93-100, 123 e n, 125, 134n, 180, 182-196, 219, 229, 255, 257 e n, 259-270, 338, 367n Verri Teresa, 56, 123 Vetter Cesare, xix e n, 197n, 202n Vico Giambattista, 19, 340 e n Vigarello Georges, 103n Vignoli Jean (Giovanni), xxivn Villani Pasquale, 330n Vincent-Buffault Anne, 115 Violani Andrea, 413 Virgilio Marone Publio, 3, 12, 21, 24, 168

Visalberghi Aldo, 190n Visconti Ennio Quirino, 401 e n Visconti Giovan Battista, 397 Visentini Antonio, 4-6, 15, 23 Vitali Buonafede, 138n Vitellio Germanico Aulo imperatore romano, 441 Vitruvio Marco Pollione, 5, 8, 21-23, 421 Vivian Frances, 4n, 6n Volney Constantin-François de Chassebœuf de, 258n, 269 Volta Alessandro, 110n Voltaire François-Marie Arouet, xi, 4, 23n, 24, 56, 127, 145, 165, 214, 256, 257, 268n, 306, 312, 322, 338, 356, 358, 374-376, 381 Von Albrecht Michael, 436n Voskuil Bruno V., 427n Vovelle Michel, 199n, 424n Wahnbaeck Till, xxivn Walker Daniel Pickering, 105 e n Wallis Samuel, 305 Wandruszka Adam, 133n Waring Edward, 264n Washington George, 310, 390 Watt Ian, 52n Weil Simone, xi Weischedel Wilhelm, 93n Wellek René, 272n Wellman Kathleen, 180n Werner Joseph, 10 Weyers Christian, 28n White Nicholas P., xvn Whytt Robert, 103-104 e n Willey Basil, 277n, 283n Williams Elizabeth A., 103n Willis Thomas, 102-104 e n, 107, 109, 116n Wilson Lindsay, 105n Winckelmann Johann Joachim, 338, 398, 402, 431 Wirtz Charles, 95n Wirtz Rainer, 394n

indice dei nomi

Wittkower Rudolf, 416n Wolff Christian, 19n Wollstonecraft Mary, 60 e n Wren Christopher, 384 Xella Laura, xivn Zacchiroli Francesco, 371, 372n Zagrebelsky Gustavo, xvii e n Zamagni Stefano, xvi, 206n Zambelli Paola, 273n, 289n, 291n, 340n Zandonella Giambattista, 333-347

Zanetti Antonio, 137n Zanetti Girolamo, 137 e n Zanetti Pier Giovanni, 135n Zapperi Roberto, 349n Zarka Yves-Charles, 87n Zarri Gabriella, 318n Zavadini Guido, 435n Zazo Alfredo, 284n Zenone di Elea, 187, 340 Zinsser Judith P., 127n Zucca Fabio, 334 Zustinian Sebastian, 140

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biblioteca del xviii secolo Ultimi volumi pubblicati

10. Modelli d’oltre confine. Prospettive economiche e sociali negli antichi Stati italiani, a cura di Antonella Alimento, 2009, pp. xliv-328 (serie “Società italiana di studi sul secolo XVIII”). 11. Scritture dell’io tra pubblico e privato, a cura di Renato Pasta, 2009, pp. xxxiv-288 (serie “Settecento italiano”). 12. Mario Rosa, La contrastata ragione. Riforme e religione nell’Italia del Sette­cen­ to, 2009, pp. xvi-252 (serie “Settecento italiano”). 13. Il Settecento negli studi italiani. Problemi e prospettive, a cura di Anna Maria Rao e Alberto Postigliola, 2010, pp. xviii-534 (serie “Società italiana di studi sul secolo XVIII”). 14. Claudio Donati, Ecclesiastici e laici nel Trentino del Settecento (1748-1763), pre­­fazione di Marcello Verga, 2010, pp. xii-340 (serie “Settecento italiano”). 15. Romano Gatto, Libri di matematica a Napoli nel Settecento. Editoria, fortuna e diffusione delle opere, 2010, pp. x-218 (serie “Settecento italiano”). 16. Le carte vive. Epistolari e carteggi nel Settecento, Atti del primo Convegno internazionale di studi del Centro di Ricerca sugli Epistolari del Settecento Verona, 4-6 dicembre 2008, a cura di Corrado Viola, 2011, pp. xxii-594 (serie “Società italiana di studi sul secolo XVIII”). 17. Spazi e tempi del gioco nel Settecento, a cura di Beatrice Alfonzetti e Ro­ber­ta Turchi, 2011, pp. viii-416 (serie “Società italiana di studi sul secolo XVIII”). 18. Le metamorfosi dei linguaggi nel Settecento, a cura di Carlo Borghero e Ro­sa­ maria Loretelli, 2011, pp. x-224 (serie “Società italiana di studi sul secolo XVIII”). 19. Il linguaggio del tardo Illuminismo. Politica, diritto e società civile, a cura di Antonio Trampus, 2011, pp. viii-264 (serie “Settecento italiano”). 20. Bartolo Anglani, «L’uomo non si muta». Pietro Verri tra letteratura e auto­ biografia, 2012, pp. xxvi-178 (serie “Settecento italiano”). 21. Anna Maria Rao, Lumi Riforme Rivoluzioni. Percorsi storiografici, 2011, pp. xii-300 (serie “Settecento italiano”). 22. Felicità pubblica e felicità privata nel Settecento, a cura di Anna Maria Rao, 2012, pp. xxx-474 (serie “Società italiana di studi sul secolo XVIII”).

Finito di stampare nel novembre 2012 dalla Grafica Editrice Romana srl Via Carlo Maratta, 2/b - Roma Tel./Fax 06.57.40.540 [email protected]