L'oppio del popolo 8898860188, 9788898860180

"Quanti sono gli italiani che vivono di «cultura»? Sono - anzi siamo - milioni, ben piazzati nelle scuole di ogni o

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L'oppio del popolo
 8898860188, 9788898860180

Table of contents :
Altri titoli
Frontespizio
Introduzione
Capitolo primo
Capitolo secondo
Capitolo terzo
Capitolo quarto
Capitolo quinto
Capitolo sesto
Capitolo settimo

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dello stesso autore nel catalogo elèuthera

Da pochi a pochi appunti di sopravvivenza

Il cinema del no visioni anarchiche della vita e della società

Goffredo Fofi

L’oppio del popolo

elèuthera

© 2019 Goffredo Fofi ed elèuthera editrice

progetto grafico di Riccardo Falcinelli

il nostro sito è www.eleuthera.it e-mail: [email protected]

INTRODUZIONE

Fallimenti

Per chi si è occupato durante una vita di cinema, letteratura, teatro, arti, e di scuola, editoria, giornalismo, intervento sociale e intervento politico nella chiave di una militanza convinta e movimentista, non partitica – ma da dilettante più che da specialista e per gran parte da autodidatta, e dal basso e dal dentro, e rifuggendo da impegni istituzionali e dirigenziali ma in rapporto con le grandi agenzie della comunicazione per ragioni di sopravvivenza; per chi, non aspirando ad alcun potere, politico o intellettuale e tanto meno accademico, ha partecipato per più di cinquant’anni al lavoro di riviste estranee a ogni logica chiusa o di parte, e a gruppi che hanno considerato le riviste uno strumento per la circolazione di conoscenze e idee più esatte e più giuste, un incontro tra città e province, uno scambio tra generazioni, competenze e vocazioni, bene attenti a quanto si muoveva nel paese e nel mondo, e di conseguenza una base tra molte altre per la crescita aperta e dialogante di chi le faceva e di chi le leggeva; per chi ha più amato far scrivere gli altri (cercando di trovare la persona giusta e al momento giusto) e leggere i libri degli altri piuttosto che scriverne lui, stimando scarsa la sua preparazione ma imparando via via a collegare campi e fenomeni proprio grazie al lavoro di gruppo;

per chi ha creduto nel dovere dell’immaginazione sociologica, appresa da quelli che l’avevano teorizzata e da quelli che dimostravano di saperla applicare, scientemente o istintivamente, alle pratiche; per chi è cresciuto negli anni delle grandi speranze della nostra storia e dell’altrui, ed era convinto di potervi in qualche minimo modo contribuire; negli anni della ricostruzione, della Costituzione, della convinzione (montessoriana) che solo con l’educazione si potesse costruire e vivere una vera democrazia; gli anni delle rivoluzioni e delle guerriglie, della decolonizzazione, della «coesistenza pacifica» tra i due blocchi della guerra fredda, ma anche gli anni delle nouvelles vagues, e di una generazione che voleva contare e che si ribellò all’asfittica e classista (e razzista e maschilista) cultura ereditata dal passato, quella in definitiva della guerra fredda; per chi ha creduto nella cultura come strumento di emancipazione dei singoli e delle masse, muovendosi abbastanza agilmente in mezzo a loro quando si trattava di analfabeti, che erano in netta maggioranza sugli istruiti, di contadini e di migranti, che erano in netta maggioranza sugli operai di fabbrica, ma praticando da vicino anche questi ultimi; per chi ha cercato di agire dall’interno dei movimenti, per difenderne e diffonderne le idee migliori, con la conseguente pressione sui partiti, quando c’era la sinistra e per quanto ambigue fossero le sue scelte – pessime fra tutte quelle dei maniaci dello «sviluppo» e più tardi della privatizzazione e delle nuove tecnologie della «comunicazione»; per chi ha cercato anche affannosamente e spesso sbagliando di distinguere nel «nuovo» tra quel che sembrava portare libertà solidarietà pace e quel che al contrario annunciava nuove oppressioni (aiutato in questo da alcuni studiosi più attenti, e profondi, e radicali, e pescando in definitiva le osservazioni e gli stimoli migliori in due pensatori acutissimi e umani nel miglior senso del termine come Günther Anders e Christopher Lasch, il primo che ha saputo indicare i pericoli dei nuovi assetti di potere post-bellici e studiare e stimolare i

modi della lotta, e il secondo che ha saputo guardare in faccia la grande mutazione degli anni Ottanta-Novanta dello scorso secolo, la nascita di una nuova era, individuandone gli estremi pericoli nella complice «cultura del narcisismo» esplosa con il fallimento di tutti i movimenti di liberazione del dopoguerra, con il ripiegamento sull’«io minimo» e sgraziato delle nuove generazioni, sostenuto da un sistema finanziario e capitalistico di somma intelligenza e astuzia, un sistema che ha individuato nella cultura come manipolazione delle coscienze l’altra parte fondamentale – più che in ogni altra epoca precedente – del suo potere, imponendo il consumo di beni e modelli, di merci e di idee-merce); per chi ha cercato di capire il nuovo fenomeno delle migrazioni di massa, anche perché figlio di emigrati, i cui genitori sono sepolti in terra francese, e ha visto i modi più sani e più saggi di accogliere, rispettando le differenze e le culture, da parte di un paese che al contrario del nostro ha fatto una rivoluzione borghese e vissuto la Riforma; per chi crede di aver capito quanto avesse ragione Simone Weil quando diceva che il sogno dell’uomo del Novecento era di diventare una macchina eterodiretta, e ha potuto constatare il trionfo della tecnologia sulle coscienze, la capacità del potere di servirsi della cultura, chiamata abusivamente comunicazione, ai fini del dominio; e non esita a sottoscrivere lo slogan di una dozzina di giovani su milioni che considera Salvini un criminale; per chi non vede molta differenza oggi in Italia tra la massa degli intellettuali e quella degli operatori sociali – il primo che dicono «io io», e i secondi che dicono un piccolo «noi» poco convinto, anche se coprono ancora una funzione importante di aiuto a emarginati e sofferenti, nell’assenza (nell’assassinio) del welfare; per chi è arrivato alla convinzione, antica anche questa, che l’uomo è lupo all’uomo e che non è solo la società (la borghesia, dicevamo un tempo) a determinare la Storia («uno scandalo che dura da diecimila anni», diceva Elsa Morante, uno scandalo che si avvia presumibilmente alla sua fine, e ce

ne sono tutte le condizioni, lasciando forse spazio alla sopravvivenza di una sua infima parte tornata bensì alla più preistorica delle barbarie); per chi è disgustato dalle retoriche dei professori e dei guru e dei giornalisti e degli scrittori e dei registi di riuscire a far merce e carriera perfino dell’apocalisse, delle paure che tuttavia pervadono l’inconscio dei milioni e la coscienza dei pochi; per chi nonostante l’avvilimento dei fallimenti subiti e veduti, che hanno comportato la morte fisica e atroce di milioni di persone, crede sia un dovere continuare a resistere e lottare, secondo l’aureo insegnamento di Gramsci, da strappare però alla retorica dei suoi ipocriti elogiatori, del «pessimismo della ragione e dell’ottimismo della volontà»; per chi crede ancora nel dovere della sfida, della nonaccettazione del mondo così com’è, e ricorda con riconoscenza i grandi ribelli di tante generazioni che hanno cercato in passato i modi di difendere, tempo per tempo, verità, libertà, giustizia, pace, come cerca affannosamente di fare ancor oggi, anche se con più disperazione che in passato ma sempre col sentimento della necessità di reagire, più doverosa e indispensabile che mai, e tra loro considera con maggiore affezione chi ha cercato di ribellarsi con i modi della nonviolenza e della disobbedienza civile, senza peraltro disconoscere il valore di chi ha creduto che «solo violenza aiuta dove violenza regna»; dunque: per uno come me, e magari più intelligente e meno sconcertato di me, la cultura appare oggi come un campo di battaglia ancora possibile, ma fuori da ogni illusione di vittoria e partendo dalla constatazione, per cominciare, di quanto sia stato e sia facile per il potere di servirsi della cultura – che non è mai univoca anche se oggi si è riusciti a farla sembrare tale – cambiando di segno alla sua storia e illudendo milioni di persone che di cultura vivono di una sua forza ancora liberatoria, non evasiva e perfino necessaria. Facendone

facilmente dei complici nella manipolazione, nel dominio. È un lavoro, ancora una volta, di cui devono farsi carico minoranze salde nelle loro persuasioni, convinte della necessità e dell’urgenza dell’azione, nauseate dalle compromissioni universitarie e affini, dalla lotofaga insipienza dei predicanti e idealizzanti, degli accettanti. Da dove partire, da dove ricominciare? Il discorso è aperto, una volta che ci si sia liberati dalle menzogne e illusioni dell’epoca, e riguarda, a mio parere, anzitutto il terreno della scuola, dell’educazione. Di lì si può partire, anche in pochi, convinti che tra maestri e professori (perfino, forse, in qualche angolo appartato dell’università) ci sia ancora qualcuna o qualcuno che crede nelle possibilità liberatorie della conoscenza, della cultura, di una trasmissione, e soprattutto di un metodo di lavoro che dia all’educazione, in senso socratico, la necessità e la dignità che le si è data in passato, da parte anche allora di minoranze non-accettanti.

P.S. Ho scritto questo breve scritto e quelli che seguono in tempi diversi e su urgenze diverse, rileggendoli in vista di questa pubblicazione. Ne ho discusso con molti, soprattutto dentro la redazione della rivista «Gli asini», Nicola, Luigi, Sara, Federica, Giovanni, Maurizio, due Marco, Matteo, Damiano, Piergiorgio, Giancarlo, Fulvia, Franco, Marina, Emilio, Paola, Ginevra, Annetta, Luigi e tanti altri. Per mia immensa fortuna, le idee che seguono non sono soltanto mie… Sono grato alle amiche della redazione di elèuthera, Rossella e Sara Giulia, e soprattutto ad Andrea per aver sopportato i miei dubbi e incertezze sulla necessità di questa pubblicazione. Senza lo stimolo e aiuto di Emanuele Dattilo non mi sarei deciso a mettere insieme queste pagine, a darle alle stampe.

CAPITOLO PRIMO

Sullo sfondo

La vergogna… Scrivo di vergogna, ma scrivo anche perché mi vergogno. Fa bene ogni tanto rileggere qualcosa

di Kafka o, più indietro, di Dostoevskij. Di psicoanalisi so il poco che sanno tutti, ma anche Freud ha insistito come loro su un sentimento profondamente umano che attraversa le loro opere, se per umano intendiamo la sensibilità nei confronti dei mali del mondo e della miseria dell’uomo, e ha cercato di affrontarlo per liberarne almeno i singoli, non so con quanta convinzione. Parlo del senso di colpa, che penetra nei nostri sogni e incubi e ci fa sentire a disagio di fronte alle tragedie quotidiane, alle guerre e alle violenze, alle disparità economiche e sociali, alle sofferenze di masse di persone, ma anche alla nostra incapacità o non-volontà, singola o di tanti, di riuscire a far qualcosa per combatterle, alla nostra incapacità o impotenza nel reagire, o peggio, alla sensazione di essere volenti o nolenti complici di così tanta ingiustizia. Certi personaggi di Kafka e di Dostoevskij vorrebbero essere «innocenti di tutto», anche di cose che non dipendono certamente da loro e che accadono al di fuori della loro volontà, ma che, per il fatto che ci sono e per il fatto che noi non si fa niente affinché smettano di esserci, ci fanno vergognare di noi stessi, della nostra impotenza. Che sappiamo bene contenere una buona dose di viltà, perché è anche mancanza di «buona volontà». Sì, il singolo può far poco, nella pessima società in cui ci siamo ritrovati a dover vivere

(dopo anni in cui ci era sembrato possibile sperare in un mondo migliore, lottare per un mondo migliore), ma il fatto è che il singolo individuo, ciascuno di noi, io, sempre o quasi sempre ha smesso di cercare, ha smesso di tentare di far qualcosa che possa spezzare anche in minima parte questa impotenza, questo cerchio infernale. Ed è aiutato da tutto un sistema culturale e mediatico e politico a non vergognarsene, anzi a gloriarsene, a vantarsi del proprio egoismo, della propria supinità verso questo stato di cose, della propria miseria umana e morale, della propria rinuncia ad aspirare a dare un significato alla propria esistenza, della propria bassezza. Senso di colpa e vergogna per come va il mondo e per la nostra incapacità di reagire dovrebbero essere un dato di fatto collettivo, di massa. Ma sembrano scomparsi dall’orizzonte culturale in cui ci muoviamo, avvertiti da pochissimi tra i filosofi, gli artisti, i politici, quando invece erano il portato cosciente di un disagio che poteva ben trasformarsi in una tensione positiva, nella spinta a reagire, ad agire. Bisognerebbe forse, oggi, frequentare e fidarsi solo di chi sta per davvero a disagio in un mondo e in un tempo come questi, e che dimostra il suo starci male, e che cerca i modi, individuali e di gruppo, per vergognarsi di meno.

Il problema degli stupidi… Carte in tavola: sono un

pessimista, persino un catastrofista, tentato, se non fosse per le persuasioni che alcuni miei maestri mi hanno trasferito in passato, perfino dal nichilismo e in particolare dalla sfiducia nella mia intelligenza e nella mia capacità di trasferire ad altri le mie paure affinché sappiano contrastare meglio di quanto io non sia mai riuscito a fare l’immane male della Storia (e della Natura, nonostante essa sia prodiga più di doni che di minacce). Rileggo spesso La ginestra, la mia poesia (il mio trattato filosofico) preferita, e vedo nelle illusioni denunciate dal poeta le stesse oggi dichiarate o sbandierate: la fiducia nei «lumi» del progresso e della tecnica (e il feticismo dello sviluppo, caro alla nostra sinistra e causa della sua morte), la fiducia dei credenti in un bene superiore e in una ricompensa

del «ben fare» in questo o in altro mondo (assai forte nei cattolici che parlano volentieri di resurrezione e dimenticano la croce). Della tentazione del nichilismo ci si difende solo con un atto di sfida: quello di Gesù che rifiuta di condividere col diavolo – padrone del mondo – le sue ricchezze passando dalla sua parte, ma che è anche il gesto di sfida di tutti i buoni rivoluzionari di ieri e di sempre, è il «non accetto», per esempio, di Capitini ma anche, prima di lui, di migliaia di altri, su fino a Marx ed Engels, Gandhi e Tolstoj, Lu Hsun e Mao, Malatesta e Gramsci, Guevara e Freire, Malcolm X e Martin Luther King, Pasternak e Camus, Lumumba e Mandela, don Milani e l’attuale (destinato a perdere) papa, e di tutti i noti e ignoti, colti e incolti, forti o deboli nell’agire ma coscienti della indispensabilità del farlo, «uomini in rivolta» indignati dall’ingiustizia sociale ma anche, in qualche modo, come avrebbe detto Anna Maria Ortese, dalla constatazione di quanto sia «tarata» la creazione, e di quanto essa debba venir continuamente ripresa in mano dalla creatura più intelligente e più ambigua sorta dalla sua evoluzione, dal «caso» e dalla «necessità». Mi vergogno a rubar la voce ai filosofi e agli scienziati, ma so bene che farlo è obbligo di tutti, che per il fatto di vivere e avere avuto il dono dell’intelligenza, non è filosofo solo chi ritiene di esserlo ma lo è ogni nato al mondo, che prima o poi si trova per forza a dover ragionare sul senso del suo esserci e starci, e per mia immensa fortuna ho conosciuto tanti analfabeti più intelligenti e profondi, e talvolta più radicalmente angosciati dalle domande senza risposta, dei milioni di laureati e diplomati che hanno ricevuto dalle lotte dei primi il privilegio di poter studiare per farne nient’altro che chiacchiera o carriera. Non sono mai stato così pessimista come oggi sulle sorti del mondo e, in particolare, del mio paese. Scrivo queste pagine con apprensione, convinto della loro inutilità, per dovere di testimonianza e nella speranza di convincere qualche giovane lettore della gravità della situazione che stiamo attraversando e della ignobiltà delle proposte che gli adulti gli vanno facendo, chiedendogli di diffidare anche dei miei discorsi, che possono sembrare e in

parte probabilmente sono il frutto di un’esasperazione personale, visto che si è in pochi a condividerla. Sia primavera o sia autunno, sia estate o sia inverno, le preoccupazioni dei miei connazionali mi sembra siano quelle di «pensare ad altro», di non pensare. Tra una spiaggia e una città d’arte, godendo la sera, dopo una cena «genuina», uno spettacolo di piazza o la presentazione di un libro o la visione di un film all’interno di uno dei mille, dei diecimila festival e rassegne che ogni giorno e ogni notte volenterose associazioni e generosi enti locali hanno organizzato per loro, aggiornandosi, per non essere fuori moda, sulle trasmissioni radiofoniche e televisive o sulla lettura delle pagine culturali dei grandi giornali sopravvissuti, sull’incessante chiacchiericcio di un’infinità di laureati che si sentono in massa autorizzati a farlo. Tutto viene assorbito e digerito da questo infinito parlare scrivere filmare recitare disegnare, da questa fiera delle vanità che aiuta a digerire ogni male (finché è altrui), a tollerare o condividere gli infiniti modi in cui la stupidità umana prevale sull’intelligenza, il non-pensiero sul pensiero anche quando si presenta come pensiero, anche quando a dirci cosa siamo, da dove veniamo e dove stiamo andando sono guru e soloni il cui scopo è quello di farsi belli e di sentirsi o diventare importanti perché essi «sanno» (fingono di sapere) tutto su tutto, e dispongono delle ricette salvifiche che dovrebbero renderci felici, e rendere il pianeta un nuovo eden per tutti, l’uomo al centro, erede e padrone dell’universo. Che ci aiutano a farci accettare l’inaccettabile, tollerare l’intollerabile, dimenticare la realtà – e i mali che riguardano sempre gli altri, finché, prima o poi, non coinvolgeranno anche noi. E se la cultura, in tutte le sue forme non radicali, che non guardano all’origine dei mali e non ne cercano il rimedio, non fosse altro, oggi, che lo strumento privilegiato del dominio, lo strumento di cui il potere si serve per asservirci, per farci accettare l’inaccettabile?

Il problema degli stupidi: da Bonhöffer a Brancati…

Cito qui due autori estremamente differenti tra loro. Il primo è il teologo protestante Dietrich Bonhöffer, impiccato da Hitler

perché coinvolto nell’attentato del 20 luglio 1944. Nel suo ultimo testo – passato clandestinamente fuori dal carcere e intitolato La vita responsabile. Dieci anni dopo (ora in Lettere e scritti dal carcere, San Paolo edizioni, 2015, nella limpida traduzione di un giovane teologo scomparso ancor giovane, Alberto Gallas, di cui sono stato felicemente amico) – diceva che il problema maggiore del nostro tempo è il problema degli stupidi. Ecco due citazioni significative: «Contro il male è possibile protestare, ci si può compromettere, in caso di necessità è possibile opporsi con la forza; il male porta sempre con sé il germe dell’auto-distruzione, perché dietro di sé nell’uomo lascia almeno un senso di malessere. Ma contro la stupidità non abbiamo difese» (p. 49); «La qualità è il nemico più potente di ogni massificazione» (p. 63). Gli stupidi a cui pensava Bonhöffer «dieci anni dopo» – dieci anni dopo il legale avvento di Hitler al potere, frutto di libere elezioni, e questa dovrebbe essere una lezione per i fanatici della legalità – erano anzitutto i suoi connazionali, accecati dal nazismo e dalla sua propaganda. La stupidità si esalta di sé nel gridarsi, nel mostrarsi. All’opposto, la fatica della qualità comporta, diceva Bonhöffer, «saper gioire di una vita nascosta e avere il coraggio di una vita pubblica». Comporta la fatica di pensare con la propria testa e la fatica di imparare a «leggere» la realtà che ci circonda. Si pensa spesso alle riflessioni di Bonhöffer sugli stupidi e sulla qualità incontrando giovani, anche benintenzionati, che mi esprimono idee convenzionali, fritte e rifritte, di autogiustificazione e non di auto-formazione, sull’arte, su internet, sulla politica, sulla società, sull’Italia, sul mondo… Si tratta troppo spesso di frasi fatte, di opinioni banali (o imbecilli) diffuse dai media e da altri consimili fonti educative. Da pessimi educatori all’accettazione del mondo così com’è, e cioè del male del mondo. È da questo che Bonhöffer ha voluto metterci in guardia: la stupidità non è innata, è prodotta da un contesto, e oggi come ieri è quella di chi crede di pensare con la propria testa nel mentre propone idee che gli sono state propagandate, anzi ossessivamente imposte, dal potere e dalle

sue cinghie di trasmissione. Le prime vittime di queste «idee ricevute» (è paradossale come rileggendo Bonhöffer tornino alla mente quelle catalogate da Flaubert un secolo e mezzo fa!) sono proprio i giovani, stupidi loro malgrado, ma spesso così arroganti nella difesa della propria «creativa» stupidità. Contro la stupidità si perde sempre, diceva Bonhöffer. La stupidità è peggiore della peggiore delle violenze, perché è inattaccabile. Gli stupidi sono il problema del nostro tempo perché sono quelli che credono di pensare con la propria testa, mentre sono pensati dal potere, dicono le idee che sono loro imposte (nel caso del nazismo da Goebbels, attraverso la radio, il cinema, i giornali, la chiesa, la scuola: attraverso tutti i mezzi di comunicazione possibili). L’unica proposta vincente sul piano pubblicitario è l’ossessione con cui si veicola uno stesso messaggio. Questo metodo invero «totalitario» ha prodotto una nazione di stupidi. Oggi produce noi, la nostra cultura, i nostri modi di vivere e di pensare. L’altro autore è Vitaliano Brancati, di cui nessuno parla più, e che è stato un grande moralista moderno, e non solo un grande scrittore. Scrisse un testo in cui diceva che il problema dei politici era di occuparsi dei derelitti – chiamando derelitti gli oppressi di vario tipo. La politica ha come scopo quello di risolvere il problema dei derelitti, diceva; di far star bene la gente, i contadini e gli operai ma soprattutto i morti di fame, gli ultimi, gli oppressi. Lo scopo della cultura è invece quello di pensare agli stupidi, di aiutare gli stupidi a diventare intelligenti, a liberarsi della stupidità. Oggi, in modo maggioritario e imponente, sia la politica che la cultura sono fatte da stupidi, ed è questo a rendere così difficile operare in direzione contraria. Pensate ai nostri governanti e ai nostri dirigenti politici, ma pensate anche ai nostri intellettuali famosi, alla stragrande maggioranza dei critici, dei giornalisti, dei collaboratori delle pagine dei supplementi letterari, al chiacchiericcio radiofonico e televisivo, alle «tribù dei lettori» e degli spettatori, ai blog e affini: la stupidità è trasversale e ci colpisce tutti, ci riguarda tutti.

Diceva però Bonhöffer che bisognava stare attenti a non cadere nella tentazione del disprezzo per gli stupidi, perché se ci guardiamo allo specchio dobbiamo pur constatare di essere anche noi, in buona parte, degli stupidi. Di conseguenza, si tratta di liberare noi nel momento in cui cerchiamo di liberare gli altri; di svegliarci noi nel modo in cui cerchiamo di svegliare gli altri. E questo implica un forte strappo, un’autoanalisi radicale.

E oggi: i cretini intelligenti… Fu Leonardo Sciascia a

coniare, molti anni fa, la definizione di «cretini intelligenti» che sembrò valida per tanti intellettuali o aspiranti tali o sedicenti tali o banalmente tali (per collocazione professionale). Non ricordo più i termini del suo giudizio e della polemica, ma non credo ci si sbagli applicando la sua definizione a tanta gente che conosciamo o non conosciamo, a un mare di italiani vecchi e giovani; e i giovani di questo tipo sono oggi legione, a causa della scolarizzazione di massa che non si ferma alle elementari ma va avanti ancora per una decina o ventina d’anni. Anche se non faceva nomi, Sciascia aveva certamente in mente persone precise, ma le vedeva come punte di un iceberg, vedeva alle loro spalle una categoria, una massa. Oggi potremmo essere più precisi parlando di «cretini laureati», ma non solo. L’ostilità di Sciascia a questi saccenti ignoranti (giusta l’antica distinzione tra i sapienti, che «sanno» perché hanno studiato, i saggi, che «sanno» perché hanno vissuto, e i saccenti, che «non sanno» ma orecchiano e sbandierano accanitamente il loro non-sapere e non-vivere entrando in rapporto con quelli come loro, con quelli noti e discussi o amati da quelli come loro) è decisamente attuale, è più attuale che mai. E ha molto a che fare, io credo, con la definizione di «stupidità» coniata da Bonhöffer, che parlava pensando a una dittatura, ma sembrava già prevedere una democrazia, diciamo così, totalitaria, dove non c’era più bisogno, per governare, del manganello fascista o nazista e dove invece sarebbero stati

sufficienti, in regimi di relativo benessere, i mezzi di comunicazione di massa. La parola «comunicazione», lo si è detto e ripetuto molte volte, è stata una parola sacra, come quelle che le somigliano, ed è diventata solo nello scorso secolo una parola così importante, in politica e con la diffusione della cultura anche tra le masse popolari. La parola «comunicazione» è stata una parola prima santa poi ambigua e poi nefasta, quando la comunicazione delle conoscenze e delle idee e delle esperienze non è più servita a liberare le coscienze ma a condizionarle, quando gli analfabeti sono fortunatamente scomparsi ma gli alfabetizzati vecchi e nuovi si sono trovati rapidamente succubi di una cultura raramente elaborata da qualcuno che li amasse. Era importante che sapessero adeguarsi alle nuove leggi della produzione e poi, soprattutto, del mercato. La modernità lo esigeva per reggersi dinamicamente in piedi, e il sistema politico democratico, via via sempre più controllato dalla borghesia affarista e investitrice e insomma dai ricchi vecchi e dai ricchi nuovi, intuì immediatamente che lo sviluppo tecnico aveva bisogno di uno sviluppo culturale, però controllato attraverso i mezzi vecchi e nuovi della comunicazione, che cominciò allora a chiamarsi «di massa». Per di più la «cultura» e la «comunicazione», mescolandosi e progressivamente unificandosi, diventavano anche un settore economico vasto e differenziato, un modo di far circolare non solo idee ma anche denaro, con le varie branche di quella che venne presto chiamata, molto giustamente, «industria culturale». I programmi universitari del ramo chiamato «scienze della comunicazione», di recente elaborazione come quello delle «scienze della formazione» che hanno messo da parte l’antica «pedagogia», vi si sono adeguati e parlano molto chiaro, e la conoscenza è in essi decisamente asservita alla «comunicazione». Di che, poi? E soprattutto: da chi a chi? La comunicazione a senso unico e dall’alto al basso è uno strumento di governo essenziale, e anzi è quello essenziale, in quelle che ci si ostina a chiamare ancora col nome di

democrazie (non riuscendo sociologi e politologi – o non volendo – inventarne un altro adeguato alla loro involuzione e trasformazione). In passato era abituale sentir dire in ambiente proletario che le leggi venivano fatte dai ricchi per fottere i poveri e che niente ti viene mai dato, da chi sta sopra, gratuitamente; ma per un periodo abbastanza lungo e certamente molto intenso, quello successivo alla seconda guerra mondiale, gli anni della ricostruzione, sembrò che la democrazia avesse un senso forte e rassicurante, che le leggi venissero stabilite e votate, almeno nell’Europa occidentale, sulla spinta della parte maggioritaria della popolazione, fatta da operai e contadini, artigiani e impiegati. Tempo che fu. Oggi perfino l’economia ha cambiato volto, è diventata finanza, e la politica viene fatta più che mai da smaniosi di piccolo potere manovrati dal potere vero, un potere che sta nelle mani di pochissimi e che spesso non hanno volto, anche se Berlusconi ieri o Trump oggi ci ricordano che qualche volto ce l’ha ancora. Ed è un volto ributtante, di una volgarità che appartiene solo ai super-ricchi, è il volto della menzogna e della violenza. Intorno o sotto di loro, non contano più la destra o la sinistra, il modello è unico e ci si divide soltanto in correnti dello stesso partito, in onde della stessa corrente. Si governa, nelle «democrazie», con la manipolazione delle coscienze, avendo a disposizione pressoché tutto ciò che può servire a farlo: la scuola d’ogni ordine e grado e in primis l’università, molto spesso la chiesa e le chiese, la stampa, il cinema, la televisione, la radio, l’editoria, lo sport e il tempo libero, Ryanair e il turismo, e, per quel che riguarda i più mentalmente fragili, internet, i blog, i social, che più di ogni altro mezzo hanno come fine di illudere gli utenti, per l’appunto, di star pensando con la propria testa, nel mentre che si pensano idee e perfino si vivono sentimenti che hanno ben poco di autonomo. Ci siamo lasciati trasformare in robot di ossa e di carne, ma con sempre meno cervello e sempre meno cuore. Riflessi condizionati, teleguidati come nei più lucidi romanzi di previsione di Dick, di Ballard, di Sheckley… Cani di Pavlov, pronti ad azzannare il prossimo e felici di farsi del male da sé.

Sto esagerando? Non credo proprio, avendo visto il lento progresso di questa mutazione e ben sapendo quanto l’attrazione del conformismo – e dell’adagiarsi nel presente cercandovi nicchie non disturbate – sia enorme in ogni generazione di giovani (compresa, per quel che mi riguarda, quella assolutamente non idealizzabile del ’68). I più «stupidi», i più «intelligenti» dei «cretini», i più illusi di un individualismo che è di fatto impossibile se non dissociandosi dallo stato di cose presente sono forse quelli che più attivamente parteciperanno in futuro al massacro di chi non la pensa come loro, di chi non accetta questa «unica proposta di vendita» come ineluttabile e perfino gratificante, almeno per un certo numero di anni, prima di invecchiare e trovarsi costretti a confrontarsi col proprio fallimento, con la propria robotica solitudine e aridità, con quella morte dell’anima che precede di molto quella del corpo. Non si può non sentire una grande pena per questi nostri simili e prossimi, soprattutto se giovani, ma non si può che restare basiti di fronte alla loro partecipazione volontaria ed entusiasta al proprio massacro, al massacro della loro capacità di pensare e capire e a quella di sentire, mentre di certo non perderanno altrettanto facilmente la capacità di soffrire. È assodato d’altronde che il pensare e il capire (non il sentire) sono appartenuti storicamente piuttosto a minoranze che a maggioranze, e che soltanto dall’incontro tra chi sapeva e chi soffriva – per esempio, nelle rivoluzioni, dall’incontro «tra intellettuali e oppressi» – poteva nascere il nuovo: l’aspirazione al giusto e al vero, e perfino al bello, e la lotta per la sua realizzazione. Quel che c’è di nuovo è che ora le minoranze hanno di fronte, e sempre di più lo avranno, un nemico più insidioso che mai, cioè la massa dei «cretini intelligenti» nella cui schiera anche noi, per questo o quell’aspetto, ci siamo trovati a tratti ed è possibile che ci ritroveremo ancora a far parte, un rischio quotidiano che corrono maggiormente coloro che si fanno prigionieri delle mode e del loro ammaliante successo: ambiziosi di figurare in qualcosa, ricattati dalla paura della diversità e della solitudine.

Non essere «cretini» è più faticoso che mai, essere «intelligenti» è più difficile che mai, è molto più facile e provvisoriamente gratificante diventare anche noi dei «cretini intelligenti».

Ma davvero non c’è più niente da fare?… Ecco una

domanda angosciosa, che mi viene di pormi dopo aver letto e ascoltato tanti intellettuali e artisti italiani, e discusso con loro. Nei più intelligenti e stimabili, nei più esigenti e coerenti, è diffusa una convinzione che essi dichiarano oggi serenamente, come un dato di fatto irreversibile, incontrovertibile. Il mondo è arrivato a pochi passi dalla fine, essi pensano, e ogni tentativo di azione, ogni possibilità di riuscire a cambiare il corso delle cose, è inane, è superfluo, non serve a niente. Nel mentre giornalisti e politici si ostinano a credere e a farci credere che «tutto va ben, madama la marchesa», come recitava una proverbiale canzonetta francese mentre stava scoppiando la seconda guerra mondiale, e nel mentre «il popolo» si beve le loro chiacchiere e pensa – quando si azzarda a pensare con la propria testa, e questo non succede spesso – ai fatti propri, alla mera sopravvivenza del proprio «particulare», i più intelligenti tra i nostri artisti e pensatori sembrano ossessivamente preoccupati solo di apparire e di avere, o si comportano come «il popolo» esprimendo una saggezza che invita all’abbandono di ogni concreta speranza nel futuro. Di conseguenza: a «cedere le armi», ad aspettare la fine dedicandosi alle proprie opere, e a godere di quel tanto che rimane ancora da godere. In questo scenario da ultimi tempi, mancano – almeno sinora, o che si sappia – soltanto i flagellanti, forse perché nessuno ha voglia di pentirsi di altro che di non essersi divertito abbastanza, perché nessuno pensa di dover procedere a qualche «atto di coscienza» e dichiarazione di corresponsabilità, a riconoscersi qualche colpa e a provarne qualche rimorso. O forse, più probabilmente, perché non sono più molti quelli che credono alla vita eterna e al fuoco dell’inferno.

Cosa rispondere, dunque, ai più lucidi tra i nostri intellettuali e pensatori e artisti se non quel che da tempo immemorabile, quando non si pensava che il genere umano potesse aver fine, qualcun altro ha sostenuto con forte persuasione: sì, forse il mondo è del male, forse l’umanità non vuol saperne del libero arbitrio e della difficoltà che comporta lo scegliere l’altra parte, la parte del bene? Ma questo a noi non piace e non l’accettiamo, a questo stato di cose diciamo di no operando nella direzione contraria, nella direzione del bene. Agli intellettuali tranquillamente pessimisti che rinunciano a ogni lotta per far cambiare direzione alla storia fermandone l’orrore, o quantomeno per contrastarla per quel poco che si può, mi viene da rispondere con le parole di Aldo Capitini: mi dicono che il pesce grande mangerà sempre il pesce piccolo, che ci saranno sempre la malattia e la morte, l’ingiustizia e l’esclusione, la violenza e la guerra, ma una realtà come questa non va accettata, e bisogna fare tutto quel che si può per cambiarla, con quei mezzi che non ne perpetuino le logiche. È proprio in tempi brutti come quelli in cui ci hanno precipitato, e proprio perché temiamo che possano essere gli ultimi o i penultimi, che bisogna – più fermamente e più convinti che mai – dichiarare la nostra non-accettazione, cercando di trovare in quest’azione coloro che sentono come noi, e aiutando gli altri a sentire l’urgenza delle scelte più attive.

CAPITOLO SECONDO

Situazione della cultura

Le industrie che tirano… Qualche tempo addietro, aprendo

uno dei più importanti quotidiani nazionali, sono sobbalzato: le sue pagine centrali esaltavano la costruzione di droni come una grande possibilità per l’economia italiana di tirarsi su. Il giorno prima a Kunduz un drone aveva ammazzato ventidue tra bambini e medici in un ospedale, diciamo pure di guerra, di Medici senza frontiere. Sì, l’industria bellica è sempre stata un modo di tirarsi fuori dalle crisi economiche – vedi gli USA al tempo di Roosevelt. Sì, l’industria bellica è in Italia una delle industrie che non sono in crisi, al contrario. Partendo da questa constatazione mi è venuto di ragionare, con amici che ne sanno più di me, su quali sono i settori dell’economia italiana che non vedono crisi. L’industria delle armi, ed è una. L’industria che lavora per l’infanzia, anche quella non vede crisi, e fanno due. Il ramo della ristorazione, al tempo di Expo, con tutti i suoi addentellati, e su questo ci sarebbe molto da ragionare, in termini antropologici e non solo economici, e sono tre. Si tratta tuttavia di cose economicamente chiare, comprensibili, perfino misurabili. A questi tre rami, la mia ignoranza di economia ma una certa abbondanza di pratiche mi fa aggiungere quello dell’intervento sociale (il vasto campo del welfare non di Stato, con le contraddizioni che ne vengono ai «buoni» dal dover sostituire appunto lo Stato) e, ultimo ma non ultimo, quello della cultura. Se consideriamo la produzione e la diffusione di cultura – di conoscenze, di opere,

di spettacoli – come un tutto piuttosto coerente, come di fatto è, e aggiungiamo al numero degli addetti all’editoria, al cinema, al teatro, ai musei, alle mostre, ai festival, agli «assessorati alla cultura», anche «la comunicazione», la stampa, le radio, le televisioni, la pubblicità, parte del turismo, e se consideriamo cultura – è non può essere altrimenti – anche la scuola di ogni ordine e grado, e quella pubblica e quella privata, si arriva a centinaia di migliaia di persone, si sale a qualche milione di persone. Molti di noi fanno parte di questa massa, ma abbiamo coscienza della nostra funzione all’interno di un’economia in crisi? Della nostra forza potenziale e delle nostre enormi responsabilità? Ci rendiamo conto dell’altra funzione che questo sistema sociale ci chiede, non solo quella squisitamente economica ma quella di «distrarre» masse di persone affinché accettino il mondo così com’è? Nella nostra società, forse più che al tempo di Marx, anche se non lo si dice, l’economia è al centro di tutto. Perché gli economisti non parlano anche di noi??

Addetti

alla

cultura…

Uno dei pochi settori economicamente vitali, nel mondo di oggi, in grado attrarre milioni di giovani non solo come occasione di consumo ma come occupazione professionale, è quello della cultura – un mondo vario e impressionantemente vasto, sulla cui ricchezza e funzione si riflette troppo poco, e se è così c’è un motivo. In Italia sono 413mila, secondo i dati ufficiali, coloro che figurano come addetti a Cultura e Spettacolo. In senso stretto e strettissimo. Editoria e festival e cinema e teatro e musica. Questi dati non considerano le persone coinvolte come precari e occasionali, e le attività derivate, e i dipendenti degli assessorati alla cultura, e le società e associazioni che non rientrano specificamente nel ramo – per esempio la pubblicità, o anche, come ci appare ovvio, ogni ordine di scuola pubblica e privata. E non considerano i funzionari statali regionali provinciali. Né i giornalisti! e le radio e televisioni! e le grandi agenzie del digitale, i «motori di ricerca», internet… eccetera. A occhio, mi dice un amico statistico, la suddetta cifra va

almeno triplicata, anche se non esistono studi attendibili che ci dicano quanti sono di fatto a vivere di cultura, di produzione e trasmissione di cultura in tutte le sue forme. (Beninteso, c’è chi ne vive benissimo, e non sono tanti, c’è chi ne vive bene o benino, e sono tantissimi, e chi ne vive male o malissimo, tantissimi anche questi). Vale per l’Italia: quale altra industria, anche la più produttiva, riguarda così tanti dipendenti e un giro d’affari paragonabile a questo? E allargando lo sguardo, quanti vivono dei tanti rami della «cultura» in Europa, negli USA, in Giappone, nelle nazioni del pianeta «avanzate» o «arretrate» che siano? Di questo nei festival e sui giornali non si parla mai, per le implicazioni che ne scaturirebbero. La più vistosa è certamente d’ordine economico: l’industria della cultura e dello spettacolo, della trasmissione di notizie e conoscenze e fantasie, della pubblicità di merci e di idee per il tramite di parole scritte e dette, di immagini e di suoni, è tutt’altro che in crisi e regge il confronto con i rami più «seri» e solidi dell’economia mondiale, anche se ci si ostina a non considerarla primaria e a non considerarla in blocco, come un settore molto più unitario di quanto non sembri. L’economia ha bisogno dell’industria della cultura e della comunicazione, e di questo viviamo tutti noi che insegniamo scriviamo filmiamo recitiamo suoniamo redazioniamo stampiamo distribuiamo e via dicendo. Ma ne ha bisogno anche la politica, perché per governare servono sì gli strumenti tradizionali, quelli in uso nelle democrazie e quelli in uso nelle dittature, con le tante varianti intermedie, ma serve anche una cultura che consoli e distragga, che riempia e illuda, oltre a dar da vivere a un’infinità di persone. I libri e i giornali, gli spettacoli e le TV, le scuole e i festival… Perché non si parla mai di queste loro funzioni primarie, quella economica e quella ideologica, ugualmente indispensabili al sistema in cui e di cui viviamo?

Qualche cifra… «La sensazione è che tutto sia diventato

cultura» ha scritto un collaboratore di «Gli asini», amico di tante avventure, esperto di statistiche. Mi sembra utile riproporre i suoi dati, anche se tengono conto solo degli «addetti ai lavori» secondo le stime ufficiali e non della proliferazione di iniziative dette culturali di ogni tipo e genere:

«Il mito della valorizzazione del patrimonio culturale, in Italia, e la sua ‘torsione’ in termini produttivi ed economici sembra abbia fatto breccia. In tempi di magra (domanda calante, deflazione, ridimensionamento delle imprese, ristrutturazione del settore industriale e manifatturiero), si è cercato di raschiare il fondo del barile, alla ricerca spasmodica di spazi da mettere a valore e così ottenere un ritorno economico da tutti i patrimoni inerti di cui disponiamo. «La crisi ha, fra le altre cose, fatto scoppiare la ‘bolla’ del lavoro intellettuale, che in Italia non trova spazio in un sistema di impresa che non sa che farsene di laureati e a cui il sistema pubblico – nel passato primo datore di lavoro di questa categoria – ha sbarrato le porte essendo costretto, per mala gestione, a blocchi di turn over e a riduzioni della spesa. «Tuttavia, anche in tempi di crisi, il ‘mercato culturale’ ha retto, tant’è che secondo quanto riportano la Fondazione Symbola e Unioncamere, il Sistema Produttivo Culturale e Creativo oggi in Italia produce un valore aggiunto di circa 90 miliardi di euro e occupa qualcosa come 1 milione e 500mila persone. In sostanza, ogni 100 euro prodotti 6 sono riconducibili ad attività culturali e creative, e allo stesso modo ogni 100 persone occupate 6 sarebbero impegnate nella cultura. «Se si allarga la filiera e si vanno ad aggiungere le ricadute del Sistema su altre attività economiche contigue (per esempio alcune aree del turismo e ristorazione, o enogastronomia come si dice oggi), il valore prodotto raggiungerebbe la soglia dei 240 miliardi di euro, poco meno di un quinto del PIL totale (circa il 17%).

«Il mercato culturale ha retto anche perché la domanda di cultura ha sì subìto un calo negli anni recenti più critici, ma ha anche mostrato una forte elasticità nei momenti migliori di questo ciclo economico, che di momenti felici non ne ha regalati molti. «Fra il 2014 e il 2015 si è assistito così a un piccolo rimbalzo delle spese delle famiglie per consumi (+0,4%); fra le diverse categorie, la spesa alimentare aumenta dell’1,4%, la spesa per ‘ricreazione, spettacoli e cultura’ (secondo la definizione dell’ISTAT) aumenta invece del 4,1% e quella per servizi ricettivi e ristorazione (la filiera lunga di cui sopra) addirittura dell’11%. In sostanza, una famiglia spende in media al mese 2.500 euro, di cui 455 destinati ai consumi alimentari, 122 ad alberghi e ristoranti, 126 a spettacoli e cultura. «Se si prende l’ultimo dato e lo si moltiplica banalmente per il numero delle famiglie (poco meno di 26 milioni), si arriva a un valore della domanda mensile di 3,3 miliardi di euro che, sull’anno, diventano quasi 40 miliardi di euro. «Questa è solo una parte della torta da spartire; se si considera, in maniera molto grezza e approssimata, la spesa pubblica per cultura si aggiungono altri 20 miliardi di euro. «Tornando al lavoro e all’occupazione che il settore mette in moto, si potrebbero includere, in una nostra definizione di ‘cultura’ intesa come settore economico-sociale, anche tutte quelle persone che sono impiegate nell’area dell’istruzione, pubblica e privata. Si aggiungerebbe così un altro milione e 500mila occupati, portando la somma a circa 3 milioni. Cinema, stampa e TV dovrebbero all’incirca raggiungere la soglia dei 100mila addetti; altri 100mila sono riconducibili all’industria della stampa, mentre se consideriamo anche i servizi legati all’informatica, a internet, al digitale, ai servizi e alla consulenza per l’informazione, dovremmo più o meno prendere in esame altri 400mila occupati. Il totale sarebbe quindi intorno ai 3 milioni e 600mila, circa il 16% degli occupati. Un aspetto non secondario è però dato dal fatto che in quest’ambito il lavoro irregolare copre una quota vicina al

23%, contro una media di tutte le attività economiche che si ‘ferma’ al 15%. «Ma forse non basta. Il ‘contagio’ delle attività culturali oltre i confini tradizionali è anche spinto da un fenomeno tutto dentro il lavoro. Sotto i colpi della crisi, l’espansione del lavoro informale e del lavoro irregolare, la confusione fra lavoro e non-lavoro, la conseguente modifica sostanziale – la destrutturazione – del concetto di retribuzione, oggi molto più sfumata e meno riconducibile a prestazioni formali e contrattualizzate, hanno prodotto un’area grigia in cui proliferano posizioni lavorative temporanee ed estemporanee, fluide e difficilmente rappresentate dalle rilevazioni sull’occupazione. «Un segnale indiretto proviene dall’ambito del non profit, che oggi conta 301mila istituzioni in cui operano ben 4,7 milioni di volontari. Il non profit vale circa il 3% del PIL e occupa come dipendenti circa 680mila addetti dipendenti e 270mila lavoratori esterni. Se questi ultimi rientrano nell’occupazione esplicita, forse non tutta l’area del volontariato può essere strettamente riconducibile ad attività non retribuita. Fra il 2001 e il 2011, all’incremento del 43,5% nel numero delle istituzioni non profit presenti in Italia è corrisposto un aumento degli addetti del 39,1% e un parallelo aumento nell’utilizzo di lavoro esterno pari al 169%. «La progressiva organizzazione e strutturazione delle istituzioni dà conto di una trasformazione strutturale che ha esteso il perimetro delle attività e ha allargato il campo d’azione del non profit, soprattutto se si pensa alla crescente azione di sostituzione e di surroga dell’intervento pubblico che ha svolto nel sociale, nel welfare, nella salute, nella tutela dei diritti. «Per quanto riguarda la filiera culturale, questa offre lavoro a quasi 50mila addetti dipendenti, conta su 134mila lavoratori esterni e raccoglie circa 2,8 milioni di volontari. Poco più di 1 milione di volontari sono riconducibili ad attività sportive,

circa 800mila ad attività artistiche e il restante milione (o poco meno) ad attività ricreative e di socializzazione. «Paradossalmente, alla mercatizzazione di tante attività che prima consideravamo al di fuori della sfera economica e che oggi invece conteggiamo nella produzione di ricchezza, si è accompagnata una forte trasformazione del lavoro che ha però portato a una sua progressiva svalutazione e perdita di potere contrattuale e identità. Altrettanto paradossalmente, la filiera culturale, che tende inesorabilmente a sconfinare e che da molti viene indicata come il vero fattore di crescita futura per l’Italia, sembra invece lentamente adagiarsi a settore marginale o rifugio di tanta occupazione esposta a una progressiva dequalificazione».

Sopravvalutazione del lavoro culturale… Qualche anno

fa, decidemmo di aprire – io con Alessandro Leogrande e Anna Branchi, che facevano la rivista insieme a me – un numero di «Lo straniero» con un vecchio articolo di August Strindberg, il più grande degli scrittori dell’Europa del Nord dell’ultimo Ottocento e del primo Novecento, intitolato Sopravvalutazione del lavoro culturale. La sua attualità è relativa, ma il testo è nondimeno significativo per un vecchio dilemma su cui insiste il nostro presente: il lavoro umano non è mai stato aggredito e svilito come oggi, nell’epoca che ha visto il trionfo dell’economia finanziaria, e per «lavoro» si intende quello antico e che si pensava eterno, il lavoro manuale attraverso il quale l’uomo si è confrontato con la natura – minerale, vegetale, animale – per dominarla e plasmarla. Ma mentre al tempo di Strindberg, e prima e dopo, i proletari hanno saputo individuare facilmente la natura della loro oppressione, ribellandosi a coloro che li sfruttavano e alla macchina che pretendeva di sostituire le loro braccia, oggi essi non sanno più né capire né reagire, supini ai voleri dell’economia, del potere, dei «padroni». In particolare ciò accade là dove, tra di noi, il dominio di un ristretto gruppo di persone sulla massa degli uomini non viene più esercitato con la violenza fisica e la pesantezza delle leggi, che continuano

pur sempre a non essere «uguali per tutti», ma attraverso il condizionamento delle idee e degli ideali. E cioè attraverso il mercato e «la pubblicità», i mezzi di comunicazione di massa – televisione e giornalismo – e non solo la scuola o, come spesso è stato e spesso continua a essere, le chiese che predicano la rassegnazione. Ciò che è cambiato nelle società a cui apparteniamo è l’adesione di quasi tutti allo stato delle cose vigente, l’assenza di ribellione e, perlopiù, della coscienza stessa del dominio. E certamente il grande inganno messo in atto dal potere è stato quello della «cultura». Da un lato si sono fatti quasi scomparire il lavoro manuale, l’artigianato, la piccola proprietà contadina e il piccolo commercio, trasformando gli esseri umani da cittadini in consumatori di prodotti venuti da altrove, dalle multinazionali e dalle loro macchine, e lasciando al «locale» le briciole di un folklore alienato e alienante. Dall’altro si sono illusi i giovani, condannati a crescere in questa società, di essere liberi, di essere persone, perché invece del lavoro si offre loro la lusingante alternativa della «cultura»: l’illusione sorta dalla scolarità per tutti, di qualità scadente o pessima, di una «creatività» alla portata di tutti. Ed ecco la crisi della scuola pubblica e la diffusione delle scuole di teatro musica scrittura cinema eccetera per i giovani cresciuti negli ultimi trent’anni – in Italia il decennio craxiano e il conseguente ventennio berlusconiano, ma anche veltroniano: il trentennio che ha visto il trionfo delle «scienze della comunicazione» e delle succedanee «scienze della formazione», dell’attenzione spasmodica all’apparire piuttosto che all’essere, al successo e al denaro, alla definizione del sé attraverso ciò che si appare e ciò che si consuma, e non ciò che si è e soprattutto che si potrebbe essere. Oggi si governa soprattutto attraverso la manipolazione del consenso – in Italia in particolare, perché in Italia sono state spazzate via più facilmente, con il concorso decisivo della sinistra e delle sue organizzazioni politiche e culturali, le difese civili morali culturali che società più solide della nostra

nelle loro istituzioni e nelle loro tradizioni hanno invece saputo preservare: la saldezza di certi puntelli democratici, il riconoscimento dei diritti imprescindibili, l’intelligenza delle cose e la capacità dell’individuo di saper discernere il vero dal falso. Nel favorire la grande miseria dell’Italia contemporanea la cultura ha avuto e continua ad avere – ché non si vedono all’intorno cenni di risveglio – un peso enorme, non solo per la svalutazione del lavoro manuale e di ogni altro tipo di lavoro «non avanzato», e cioè a servizio diretto di un sistema di potere non solo nazionale, ma proprio per la formazione di un consenso generalizzato a questo nuovo sistema onnipervasivo. Né la crisi sembra avere la forza, almeno per ora, di aprire gli occhi agli anestetizzati che hanno collaborato e collaborano al proprio asservimento e alla propria sudditanza, se in tanti parlano di «cultura bene comune» (e non era forse «cultura» quella nazista o stalinista? non è cultura quella di Marchionne?) e credono in tal modo di essere, dentro quest’ordine, all’opposizione, e se in alto si parla di «beni comuni» della cultura e dell’arte pensando soltanto alla commercializzazione turistica delle opere e dei monumenti. Nonostante la crisi, si fa una gran fatica a liberarsi dell’imperio degli assessorati alla cultura che hanno inventato e portato al trionfo i festival di tutto, del sacro e del profano, dell’arte e delle scienze, della filosofia e dello spettacolo, vere e proprie orge dell’esibizionismo e della chiacchiera, speculari e però più «utili» delle sagre delle polpette dei carciofi della cioccolata all’accettazione del mondo così com’è. La cultura come passerella, il sapere come divertimento superficiale effimero indiscriminato. E si fa una fatica ancora più grande a liberarsi della dittatura culturale de «La Repubblica» o del «Corriere della sera» e delle misere gazzette di una fu-sinistra che ne copia e insegue modi e proposte. Di cultura come originalità del pensiero e delle opere ben pochi parlano. Di cultura come capacità di distinguere e interpretare per poter tornare ad agire nel proprio tempo, in questo tempo e luogo in cui ci è stato dato in sorte di vivere.

Di cultura come indispensabile radicalità della visione del presente e di responsabilità verso il futuro di cui questo tempo esige la nascita e la crescita coscienti, pena l’agonia (o morte) del pianeta. Insomma, di una cultura non servile ma autonoma e ribelle, di una nuova chiara coscienza delle contraddizioni del presente e della possibilità di intervenirvi lucidamente, con l’indispensabile passione e generosità. Di una cultura che svegli invece di addormentare. La sopravvalutazione del lavoro intellettuale è, nei nostri anni, la mistificazione di un’idea della cultura, quella cultura che il potere e i suoi amministratori considerano uno sfogo assai utile alla perpetuazione del dominio, al governo senza rischio delle persone e delle classi perché essa produce la supinità (e stupidità) dei sudditi. Le «tribù» di chi pretende di «creare» arte o cultura o di chi è sollecitato a fruirne – per esempio le «tribù dei lettori» – sono un aspetto essenziale del conformismo di questi anni, opportunamente manipolato. Non si tratta dunque, per noi, oggi, di rivalutare il lavoro non intellettuale (ammesso che ne esista uno!) quanto di rivalutare l’intelligenza degli individui e dei gruppi, chiamandoli a pensare e ad agire, nei fatti, per la liberazione propria e di tutti.

Capitali della cultura… Dell’importanza economica della

cultura nel mondo contemporaneo fanno fede due fenomeni ugualmente ambigui, discutibili: quello europeo e italiano delle «capitali della cultura» e quello internazionale, targato UNESCO, delle località, opere, tradizioni che vengono certificate come «patrimonio dell’umanità». Il primo discende dal secondo, ed è cosa recente, l’altro risale agli anni in cui l’UNESCO, persa del tutto la sua capacità post-bellica di promuovere e proteggere iniziative volte al pacifico incontro tra popoli e culture, è diventata una burocrazia internazionale secondaria, pur se economicamente prestigiosa e privilegiata, e ha dovuto inventarsi una qualche scusa per giustificare il suo aureo parassitismo…

Sono più di mille ormai i luoghi catalogati dall’UNESCO come patrimonio dell’umanità, e al primo posto c’è l’Italia (più di cinquanta) e al secondo la Cina. Il riconoscimento dell’UNESCO ha sempre effetti economici rilevanti, innanzi tutto sul turismo, e ciò spiega la quantità di rivendicazioni, e può far pensare anche a pressioni e interessi dietro certe scelte. La formula e le designazioni delle «capitali della cultura» partono anche da mediazioni politiche, ma chi può dire che coloro che paese per paese se ne occupano siano abbastanza liberi da pressioni politiche ed economiche? Cosa ne deriva per i luoghi prescelti? Notevolissimi finanziamenti europei o nazionali, possibilità di riorganizzare certi settori di pubblica utilità o di inventarne di nuovi, afflusso di turisti, e dunque molto lavoro per alberghi, ristoranti e affini ma anche per gruppi e organizzazioni culturali e artistiche. Uno studio di Marco D’Eramo (Il selfie del mondo, Feltrinelli, 2017) ha recentemente analizzato la crescita dirompente del turismo mondiale e i modi in cui nei nostri anni esso si è imposto. D’Eramo ha l’acume del sociologo, diciamo così, «militante», che finalmente studia i fatti fondamentali del nostro presente per capirlo e delucidarlo e quando necessario opporglisi, e non ci chiacchiera sopra tanto per chiacchierare e giustificare così la loro esistenza, come fanno tanti professori e giornalisti. Il suo è un libro appassionante ma ha anche qualcosa di angosciante, e il lettore può concluderne non irragionevolmente che il turismo di massa dei nostri anni – tutti che vanno dappertutto – è una delle cause dell’appiattimento di ogni esperienza e diversità, di ogni originalità culturale locale. Ma si potrebbe anche dire che è una delle cause, latamente, della «fine del mondo», o del trionfo di un mondo in delirio. Per tornare all’Italia, serve a qualcosa di buono la voga delle «capitali della cultura»? Può cambiare in meglio la vita cittadina di Pistoia, Matera, Palermo? preservare la loro bellezza? potenziare il loro sentimento comunitario e una loro generosa capacità di accogliere? C’è da dubitarne. La cultura prevista da queste investiture può avere una funzione

economica ma non renderà certo migliori le nostre città e più giusti i loro abitanti.

Come ci siamo arrivati… Gli assessori alla cultura della

sinistra, quando ancora contavano molto, prima di passar la mano alla destra – ed erano tra i peggiori nemici della cultura, insieme ai ministri della Cultura e della Pubblica Istruzione, e ai baroni universitari, e ai direttori dei grandi giornali – passavano il tempo a inventare occasioni di festa che chiamavano e chiamano «cultura». Il loro scopo, in sintonia con un progetto politico complessivo (cioè di ogni parte e partito), era ed è quello di divertire e di rendere tutto semplice, chiaro, rincuorante. Il residuo di religiosità e di autenticità che può attraversare la festa va circondato e neutralizzato da un aumento di proposte di svago sempre più invadente, che è anche un buon modo per realizzare il sogno dei demagoghi della democrazia: «a ciascuno un cavallo a dondolo», o meglio ancora una cinepresa, diceva l’inesauribile maestro di tutti i super-buonisti Cesare Zavattini, e se su un palco c’è chi recita salta danza suona canta e in platea, cioè in un cortile o in una caserma, in una corsia d’ospedale o in una piazza, c’è un pubblico che applaude, presto!, facciamo sì che quel pubblico possa diventare protagonista e possa anche lui, salendo sul palco o mostrandosi sotto i riflettori, cantare e zompare e ballare e recitare e sviolinare e ululare anche lui. Che democrazia sarebbe mai, altrimenti? Il trionfo è l’estate, quando non c’è paese e vicolo italiani che non abbiano il loro festival, variamente chiamato e variamente ricco di proposte, le più attraenti delle quali succursali delle TV, e con i divi delle TV. Dal tempo delle estati di Nicolini, che avevano il grande pregio della novità ma anche del gratuito e dell’effimero, e non erano del tutto coscienti di servire alla politica (perché la politica non si era ancora accorta che divertire il popolo era diventato il modo migliore per fotterlo); dal tempo della fondazione dei DAMS e delle «scienze della comunicazione», che invece sapevano perfettamente di rispondere a un progetto di mutazione in direzione dei bisogni

del potere, politico ed economico, e che hanno formato a centinaia gli assessori alla cultura e a decine di migliaia le loro corti – da quei tempi gli assessori e i ministri ci preparano lauti banchetti di cultura a base di canzonettisti ed esecutori di classica, di teatranti e cinematografici, di scrittori (gli ultimi e i più entusiasti convertiti ai vantaggi dell’esibizione e dello spettacolo), di artisti di varia competenza del primo secondo terzo quarto e ogni altro mondo e sotto-mondo. E a base di polpette e vino e angurie e piadine, in un bel minestrone variopinto il cui ultimo ingrediente è la Politica, cioè i divi della politica: ministri deputati segretari con il loro seguito di giornalisti e intellettuali iper-mediatici, facce di bronzo e culi di piombo delle reti televisive unificate nazional-popolari, veltroniane e berlusconiane e renziane e grilline e salviniane. Ci sarebbe anche da ridere, se venissimo da un altro pianeta, ma piombati in questo gran parco dei divertimenti o paese dei balocchi nazional-popolare, costretti a turarci le orecchie per proteggere i nostri timpani (e sì che i nostri eletti votarono un tempo una legge sull’inquinamento acustico!), pieni gli occhi di facce e di corpi luccicanti come alberi di Natale, di sfatti robot o morti viventi che recitano e copiano l’entusiasmo delle arene televisive e sportive, anche noi siamo costretti a non pensare, e in definitiva a non essere. Il paese ci appare allora attraversato tutto, ricco e balordo, da un’unica festa, girotondo di clown e corteo di ciechi, dove Brueghel e Fellini vanno fissando l’immagine della danza macabra definitiva, quella a venire, ma non troppo in là. È la grande Sagra dello Gnocco, come nell’ultimo film di Fellini, il Gran Carnevale Tricolore a cui si vorrebbe reagire con lo sberleffo e la distanza, se solo il Gran Carnevale non inseguisse e perseguitasse anche noi, schiavi anche noi della comunicazione e di quella che chiamano cultura, di cui ci facciamo talvolta complici per il bisogno di mangiare. La memoria ci spinge allora all’indietro, a quegli anni del boom che aprirono la sfilata, e a certe scene premonitrici e anche infantili, ma ancora tanto attuali, dei film del Sordi di quel tempo risvegliato: i calci alle automobili, gli schiaffi ai

Commendatori… Si sogna allora un film molto moralista in cui qualcuno osi ancora prendere a calci le automobili, buttare nella piscina i padroni e i direttori dei grandi giornali, certi vescovi e cardinali, tanti ministri e tutti, ma proprio tutti, gli assessori alla Kultura…

Il motel sull’orlo dell’abisso… Nell’avvicinarsi della

seconda guerra mondiale Bertolt Brecht definì sarcasticamente il modo in cui i filosofi della Scuola di Francoforte vi si preparavano «il Grand Hotel sull’orlo dell’abisso». Con facile battuta, si potrebbe parlare degli atteggiamenti messi in atto, di fronte alla crisi che si annuncia e sovrasta tutti, dagli artisti, saggisti, giornalisti, funzionari della cultura e delle politiche culturali italiani e in molto minor misura europei, come di un «motel sull’orlo dell’abisso». E c’è da stupirsi che tra le tante e geniali invenzioni dei nostri assessori alla cultura e dei loro consulenti non ci sia stato chi abbia pensato a un festival della crisi e magari dei possibili abissi, in mezzo ai tanti festival nuovi, dei sensi e della felicità, del pensiero e della parola (e cioè, come tutti, della chiacchiera), della religione e dell’etica, della storia e della matematica, della scienza e del diritto… Senza dimenticare i super-festival «storici» di Venezia e di Mantova. Pensavamo che, con la crisi iniziata nel già lontano 2008, con i tagli ministeriali, con la perdita di peso degli assessori alla cultura quali grandi procacciatori del consenso ai partiti, e insomma con le considerazioni che bisognerebbe far tutti su un regime e un’epoca morenti e la conseguente necessità di un cambio di rotta, pensavamo che anche la voga dei festival culturali, costosa e spettacolare e per forza di cose allegrotta (festival viene da festa) andasse scemando. E invece no, ogni anno ci sono più festival dell’anno precedente e i nuovi hanno titoli e temi, per distinguersi, sempre più originali e bizzarri. Sulle loro passerelle i nomi noti e meno noti, seri e meno seri della cultura italiana non cessano di sfilare e pontificare, applauditi da un pubblico ora scarso, quando i nomi non sono proprio famosi, anche se magari sono i più seri e quelli che

sarebbe più interessante ascoltare, e ora massiccio, quando sfilano i divi e super-divi della cultura e dello spettacolo – spesso super-pagati perché solo loro trascinano folle, come si dice, «da stadio», al contrario degli altri cui spesso non si dà che viaggio e ospitalità anche perché si accontentano di poter sfilare. Il motel – o il circo – sull’orlo dell’abisso? Certamente il paese non sembra ancora rendersi conto dei tempi che corrono, e il lungo trentennio 1980-2010 ha provocato un sonno/sogno collettivo che esclude nei più la capacità di rendersi conto e soprattutto di reagire. Si uscì da un altro e più pesante fascismo, il «ventennio» per definizione, grazie a una guerra mondiale e a due anni di guerra civile. Da questi trent’anni senza tragedia si esce castrati nelle nostre reazioni, e quand’anche qualcosa ce la faccia a muoversi, ecco che tutti i partiti e le istituzioni concordemente fanno quadrato e condannano senza discutere, sia che si tratti di un voto massiccio (il referendum, dei cui sbalorditivi risultati i partiti si sono serviti solo per aggiustare i rapporti tra loro: due cose in più a te e due in meno a me e sul fondo nulla che cambia), di una chiara manifestazione di disobbedienza civile o di una sassaiola – e in quest’ultimo caso il «sistema» si ricompatta con una rapidità supersonica. Ma è ben poco quel che si muove, anche se destinato ineluttabilmente a crescere, data la miseria della risposta istituzionale alla crisi qui e altrove. È chiaro – vedi gli USA – che i super-ricchi rifiutano assolutamente di poter essere loro a pagare per i guai che hanno combinato. È chiaro che coloro che sono preposti alla soluzione della crisi sono gli stessi che l’hanno provocata, e che i mezzi che usano sono gli stessi che hanno portato alla crisi. È chiaro che il loro ricatto è, ancora!, l’apologo di Menenio Agrippa. Siamo sulla stessa barca, dicono i potenti, e invece no, siamo su due barche diverse, e loro faranno di tutto perché ad affondare per prima sia la nostra. Che i tempi che si annunciano siano molto bui, che il ritorno dalle ferie sarà per i più o malinconico o spaventante, e per alcuni forse anche tragico, e che il governo del pianeta e

dell’Italia sia in mano a degli irresponsabili, dovrebbero essere cose ormai chiare a tutti. «¡Que se vayan todos!» hanno gridato a suo tempo gli spagnoli, mentre i motti della maggioranza del nostro popolo continuano a essere, più o meno, «chi se ne frega» e «pensa a te e alla famiglia tua», e quello degli intellettuali e artisti «che conta il resto, se posso esprimermi, se posso farmi conoscere e comprare?». Dunque: viva i festival e le feste e le sagre dell’estate – l’ultima estate buona per consumare ciò che resta dell’abbondanza di ieri? Quando l’estate è nel suo pieno e la festa – la grande fiera delle illusioni, il grande festival dei lotofagi – continua, dovrebbe essere un nostro dovere rovinare la festa a qualcuno. L’estate dura pochissimo, l’inverno è sempre vicino, è sempre più vicino e si annuncia interminabile, forse perfino eterno.

La bruttezza non svanirà… Si era un tempo «poveri ma

belli». Oggi si è ricchi e brutti, dotati di notevoli capacità di acquisto ma irrimediabilmente destinati a una crescente bruttezza. E naturalmente, «la bruttezza non svanirà», come i sacchetti di plastica della nostra immondizia che, dicono gli scienziati, navigheranno per lo spazio anche dopo che la Terra sarà esplosa. L’ossessione dell’apparenza – la cura del corpo, il fitness, il piercing, i tatuaggi, la mania sia maschile che femminile per i cosmetici, i vecchi e le vecchie che imitano i giovani accentuando coi fronzoli la loro laidezza, gli interventi chirurgici che migliorano e restaurano a forza di silicone e di plastica, la proliferazione degli stilisti, la venerazione del look e del trendy, eccetera – hanno portato l’italica umanità, da Berlusconi in giù, a un elevatissimo grado di bruttezza. Dove troviamo ancora la grazia dei volti popolani del Bellini, di Piero della Francesca, di Leonardo, ma anche dei macchiaioli e dei fotografi Alinari? Ognuno vuole sentirsi e apparire unico, e fa di tutto in realtà per somigliare agli altri: il nonconformismo di facciata rende tutti conformisti allo stesso modo. Una pettinatura stramba, una veste più colorata, un tatuaggio in technicolor, un ornamento metallico in più non bastano a distinguere nessuno, dal momento che tutti

pretendono a distinzioni particolari, che tutti vogliono sentirsi, come dicono, «esclusivi». Voce del verbo «escludere». Soli nella massa. Una massa di soli. La bruttezza non svanirà neanche dall’ambiente. Le città si sono trasformate in garage e autopiste (diceva Carlo Levi che «la strada è la casa degli italiani»: quanti secoli fa?). I centri storici, lavati e sciacquati pietra per pietra, sono invasi da venditori di ninnoli tutti uguali, da Firenze a Katmandu passando per New York e Adelaide e magari anche per Macondo e Donogoo-Tonka e la contea di Yoknapatawpha… Musei dovunque, e dovunque turisti. E i pub al posto delle osterie, i McDonald’s al posto delle trattorie, delle latterie, delle friggitorie. Tutti uguali, ma tutti acchittati, disegnati e decorati da architetti DOC – o meglio: da scenografi zeffirelliani alla Gae Aulenti, che stuprò tante storiche piazze, da «creatori di luci» alla Vittorio Storaro, che illuminarono di un broadwayano «sublime» eccelsi monumenti storici, da archistar alla Renzo Piano, milanesi o giapponesi che siano, tutti presi dalle loro invenzioni speciali e dalla loro pretesa di unicità… Un pezzo dell’immensa rete collettiva della bischeraggine yankee che ha travolto il pianeta. Ma torniamo ai corpi, alle facce dei nostri connazionali. Se facce vere da qualche parte – vedi certo Sud, per esempio, o certe valli nascoste – se ne incontrano ancora, con i segni di antiche sofferenze, con individualità, caratteri, volti segnati dal DNA dei secoli andati, dalla fatica e dai dolori, si scopre ben presto che dietro quell’apparenza, quel ricordo, non c’è più alcuna individualità, che la mutazione è avvenuta prima dentro che fuori, e a camminare per Spaccanapoli abbiamo finito per incontrare – e ci sembrava impossibile, solo poco tempo prima! – le stesse facce robotizzate e vacue, ma con tanti ammennicoli e perline e creme e tentacoli, che si incontrano in corso Buenos Aires a Milano, a Somewhere in Ohio, o in qualsiasi via di qualsiasi Europa o America-non-latina… La bruttezza non svanirà. Anzi, aumenterà. Ogni epoca ha il suo kitsch? La nostra ha il kitsch dell’esibizione del brutto, del piacere del vuoto, della spavalderia dell’horror. Come diceva

Bruno Bettelheim, nel vecchio mito della Bella e della Bestia, che è variante di quello ancora più vecchio di Amore e Psiche, «il matrimonio della Bella con la Bestia esprime simbolicamente l’eliminazione della perniciosa frattura fra gli aspetti animali e quelli superiori dell’uomo»; nella fiaba «la Bestia rischia di morire per la sua separazione dalla Bella, che è sia la donna amata sia Psiche, cioè la nostra anima» (il corsivo è mio). A separazione ormai avvenuta per i più, a separazione in atto per quasi tutti i restanti, ad anima ormai persa, resta di noi la Bestia, tecnologica e truccata e modificata e rimaneggiata per il fine che chi, in questa società, detiene il potere, ha decretato deve primariamente appartenergli: consumare. «Apparire» vuol dire anche questo. La Bestia che siamo tornati a essere si trucca da Bella, ma non inganna altri che se stessa, perché la Bella si è ormai uccisa da tempo.

«Vermi, uscite dalla mela»… Del più parassitario dei

bordelli italiani, la televisione di Stato (e quella privata non scherza!), ieri democristian-comunista-socialista, oggi leghista-pentastellata (ah! come rivela la miseria della sua ispirazione ideale il nome stesso dei Cinque Stelle! dei «buoni a nulla capaci di tutto», avrebbe detto Leo Longanesi), non so parlare, perché da tempo ho smesso di guardare ogni televisione, e mi servo di quello strumento solo per caricarvi vecchi film e talvolta nuovi e marginali. Ma quando, tra gli ultimi giorni di luglio e i primi di agosto, i giornali diffondono le dichiarazioni delle imposte di dirigenti e personaggi della TV, si trasecola vedendo quanto guadagnano per il malaffare che compiono! In ogni caso, scandalosamente troppo. Certamente la RAI-TV è un’istituzione importante nella storia del paese (della sua ascesa e soprattutto della sua decadenza e mediocrità, per non dir peggio), e certamente i suoi dirigenti hanno avuto e hanno ancora, nonostante la concorrenza di internet, un ruolo considerevole nella nostra vita politica e culturale, anzi nel suo sfascio morale e politico. Certamente, infine, alcuni suoi opinion makers portano all’ente (statale, mai dimenticarlo) audience e pubblicità. Ma altrettanto

certamente e da decenni il loro ruolo è stato assolutamente nefasto per le sorti della democrazia e per l’intelligenza dei nostri connazionali, tornati a essere con l’enorme concorso dei media una plebe indistinta, di «pecore matte» e non di uomini e donne senzienti, di cittadini coscienti dei loro diritti ma che non dimenticano i loro doveri nei confronti della comunità tutta. Molti anni fa, nel secolo scorso, dal 1969 e per almeno uno o due decenni, era d’uso che i grandi e frequenti raduni a Roma di operai e proletari in lotta che venivano convocati dai sindacati a Piazza del popolo si dirigessero, a fine comizio, tutti o in parte, a viale Mazzini sotto la sede della RAI-TV. Sono decenni che i sindacati si guardano bene dal proporre simili cortei e dall’accettare simili slogan, anche loro pezzi di un sistema della complicità e del consenso. Può sembrare incredibile uno slogan di cui ho un forte ricordo, bizzarro e surreale quanto efficace, che chissà chi ha ideato. Scandendolo a dovere, rivolti ai dirigenti e funzionari di quella grande baracca, gli operai gridavano: «Vermi, uscite dalla mela». Molti di coloro che stavano e stanno al caldo nelle mele di via Mazzini e (con meno bambagia) di via Asiago sono dipendenti di un’azienda, né più né meno di tanti altri dipendenti di tante altre aziende, ma alcuni – e non sono affatto pochi, a considerare le sedi decentrate e i dipendenti girovaghi – hanno nella mela posti di responsabilità e di rispetto. Di responsabilità, appunto, da esercitare nei confronti della collettività, delle sue conoscenze, della sua cultura, della sua civiltà. È proprio per questo che non meritano il nostro rispetto, ma anzi il nostro disprezzo. Anche perché sono finiti lì, quelli più importanti, ma non solo loro, per via di lottizzazione e di raccomandazione, e alcuni in quanto «figli d’arte», per eredità. Molti di loro, in quanto lottizzati «di sinistra» o in quanto carrieristi in proprio provenienti dalle file di quella che volle chiamarsi «nuova sinistra», avrebbero dovuto difendere posizioni diverse da quelle della destra (o del centro), ma, come nella vita politica esterna alla «mela», le categorie di

destra e sinistra si sono confuse nel tempo, e quei dipendenti si sono riconosciuti come singoli membri di correnti interne a un unico centro, che vede al servizio di pochi (a loro volta al servizio di altri, esterni alla ditta) schiere di servi privilegiati. Accade oggi in tutte le società o quasi, ed è superfluo e inutile scandalizzarsene. Ma rimane in noi quel fondo di moralismo ereditato dai membri più sani della nostra storia civile e politica e culturale che ci porta a considerare i «pretoriani» come nemici. Anche e in particolare quelli provenienti dalle file della sinistra o della nuova sinistra, perché più abili nel mascherare la loro condizione di servi di lusso, pretendendosi ancora portatori e mediatori di valori. (È forse un caso se tanti ex militanti-dirigenti hanno cercato e trovato la loro collocazione post-sconfitta nei media, preservando fama e conquistando status e denaro in quanto esempi di avveduta accettazione del nuovo ordine? Anche questa è una storia vecchia e nota, facilmente confrontabile con quella di altri regimi). Tutto comprensibile: la carne è debole e la lotta non per la sopravvivenza, ma per una sopravvivenza di lusso e celebrata, è una delle poche realtà di cui si può esser certi che non avrà mai fine. Ma comprensibile non vuol dire lodevole. Ed ecco che le cifre, rese pubbliche per legge, della dichiarazione dei redditi ci certificano che alcune di queste mediocrità burocratiche e intellettuali – le più in alto nella scala degli organici o le più note al pubblico – guadagnano in un anno quanto dieci persone delle meglio integrate nella società e quanto trenta o cinquanta persone comuni, di quelle bensì garantite. Ecco che si scopre che tra i «sopra 200mila euro l’anno», e fino a 300mila e oltre, ci sono gli imbonitori e le imbonitrici da strapazzo delle trasmissioni più ascoltate e più corruttrici o, ad andar bene, più evasive, distraenti, idiote e pensate da idioti per idioti – ed è questa una delle più vistose realtà del nostro tempo, e delle più apprezzate dal potere finanziario. La cultura che questo suolo di servi ci ammannisce serve a fare di noi dei nuovi lotofagi.

È opportuno dunque mettere le carte in tavola, e che anche chi qui scrive dichiari il proprio reddito, che si aggira intorno ai 30mila euro annuali. Non ho beni al sole, vivo di poche collaborazioni o curatele editoriali e giornalistiche, e mi considero un privilegiato: non mi manca niente di quel che ho bisogno e mi resta anzi di che aiutare occasionalmente qualcuno che è meno fortunato di me. Ho amici (e famiglie!) che dichiarano 15-20mila euro l’anno e mi domando come riescano a farcela. Considerando queste differenze di reddito da un punto di vista «tradizionale», non resta che considerarle come differenze di classe, non in senso culturale, perché, per esempio, poco mi distingue per consumi culturali da molti miei ex amici che hanno fatto strada. Da questo punto di vista, le classi esistono e come! E se non considero lecito parlare di odio di classe, ché l’odio è una malattia dello spirito produttrice del peggio, certamente è lecito e doveroso parlare ancora di lotta di classe. E gridare coi proletari degli anni Ottanta ai pretoriani di viale Mazzini: «Vermi, uscite dalla mela».

Festa continua… Il tempo in cui i festival cinematografici

e letterari e i loro affini e collaterali avevano un significato attivo e propositivo è finito da tempo. O essi si trasformano in luoghi di confronto e discussione reali – sul modello, perché no?, dei seminari universitari, dei convegni di esperti cui il pubblico può accedere, riacquistando una dimensione attiva – o è bene che accentuino senza mezzi termini, allontanando in tal modo il pubblico pensante ed esigente, questa loro natura di fiera nel senso precipuo del mercato e dello spettacolo. Delle passerelle di nomi noti (e la notorietà, lo sappiamo bene, quasi mai vuol dire essere bravi o essere utili), presentati da noti giornalisti dei soliti giornali e TV, quando non sono loro i nomi noti, si è davvero stanchi, perché è da anni che si verifica che i loro discorsi non cambiano nulla nella testa delle persone. Se esse diventano più intelligenti accade più che mai per strade diverse e imprevedibili, legate soprattutto a esperienze e incontri personali e magari a letture scovate per vie diverse da

quelle della pubblicità e del divismo. Eppure si insiste, e ogni paesino, ogni quartiere di grande o media città, rivendica il suo festival, la sua sagra «culturale» da aggiungere a quelle mangerecce e vacanziere, o che le sostituisce, più «moderna» ed elevata. I festival sono da sempre delle vetrine per la produzione letteraria, cinematografica, teatrale. Hanno certo svolto una loro funzione, facendo incontrare lettori e scrittori, spettatori e registi, ma questa funzione, man mano che la società dello spettacolo li investiva e cooptava, l’hanno perduta scegliendo la grancassa e il mercato, la supinità alle mode, l’intreccio tra la produzione più recente e il turismo. E sempre di più il modello dominante è il più estremo: Mantova o Cannes. Gli editori hanno bisogno dei festival come ne ha bisogno chi sta nel cinema o nel teatro, e c’è ancora una massa di persone che non sanno che fare del loro tempo libero (della loro vita) e frequentano i festival per sentirsi anche loro intelligenti e al passo coi tempi (e cioè con le più recenti tra le proposte del mercato). Quando si tratta di cinema, c’è una corporazione che deve stare al passo con le novità, che deve vendere e comprare e che si trascina appresso una massa di piccoli intermediari o semplici parassiti (gli uffici stampa, i giornalisti degli articoli di colore e di contorno, i critici e sedicenti tali – una categoria che ha perso ogni funzione critica e ogni intelligenza critica –, gli studenti dei DAMS, i fanzinari, i blogghisti, gli animatori di altri festival e sagre…). (Un discorso a parte andrebbe fatto per le giurie, qualora si tratti di opere che concorrono a qualche premio, importante come pubblicità ai fini del successo nazionale o internazionale di un’opera, di un autore. Scomparsi i critici autorevoli, di cui il sistema mediatico ha mostrato di non avere più alcun bisogno, oggi restano come membri delle corporazioni o squillanti giornalisti o noiosi prof., che ragionano in funzione di alleanze e simpatie e di modelli consolidati). C’è ancora una massa di persone che crede di avere idee proprie consumando quelle altrui o più semplicemente applaudendo i «nomi» sponsorizzati da giornali e TV, da

internet, un tempo dall’aspirante ventriloquo Fazio e dagli antichi allievi di Abruzzese e di altri propagandisti del capitale. Questi luna-park (e Venezia non è l’ultimo, nel suo affannoso sforzo di inseguire i modelli vincenti, che sono poi i più spregiudicati, talora perfino i più corrotti di quanto si realizza in giro per il mondo) c’entrano ben poco con la cultura come produzione di idee nuove e importanti. Cioè della cultura come scelta, in rapporto diretto con la nostra vita e con le nostre convinzioni, e soprattutto con i nostri comportamenti, con la nostra capacità di discernere responsabilmente. D’altra parte, nel pieno dell’immane mutazione che il mondo sta vivendo, si ha pur bisogno di luoghi di incontro e di scambio, di formazione attraverso un’informazione mirata, del confronto con chi ne sa più di noi ma condivide le nostre stesse preoccupazioni. Non c’è da aspettarsi che a quest’ultimo bisogno – eminentemente minoritario e d’avanguardia – possa rispondere il mercato dei festival, tanto meno quelli apparentemente più ambiziosi, che chiamano in campo la mente e la scienza, i valori e la fede. Nel momento in cui questo modello sta implodendo, bisogna dunque mettere in discussione quel che ci sta dietro, i modelli e le pratiche della comunicazione vecchi e compromessi, che hanno finito per consolare quasi soltanto ebeti consumatori e produrne di nuovi. In tutto questo, internet e affini non possono e non devono avere un peso altro che genericamente consultivo: perché non si tratta di compiacere i consumatori che credono di pensare con la loro testa mentre accade esattamente il contrario (quelli che dicono a ogni pie’ sospinto «io penso che», ma che pensano quel che viene suggerito loro di pensare), ma di stimolare il confronto diretto, ovviamente il faccia a faccia tra i pochi e motivati, tra lettori e scrittori e saggisti, tra spettatori e registi, tra ascoltatori e musicisti. Un lavoro minoritario, certamente, e bisogna insistere su questo a costo di apparire anti-democratici in quanto nemici della democrazia del consumo e della manipolazione mediatica delle idee.

Potrebbero aiutarci nella ricerca di strade nuove i rari esempi di festival diversi, per esempio quello ideato e diretto da Tahar Chikhaoui dal 2013 – gli «incontri dei cinema arabi» – che cerca di dare visibilità a chi non ne ha e sostiene una generazione di giovani registi che vivono e agiscono in mezzo ai migranti e sulle frontiere, che filmano tra fiction e documentario essendo essi stessi parte dei cambiamenti epocali che vanno investigando. Parte, e non testimoni che ci campano su vendendo buonismo. Nasce una cultura nuova perfino in Italia, e più tra registi che tra saggisti e narratori e teatranti eccetera, ma i festival si attardano sull’ipocrisia della denuncia e del sentimento, dei piccoli guai e degli effetti speciali. Di un’autorialità vera o presunta purché, alla base, redditizia e meglio se milionaria. I festival letterari, in particolare, trasformano in saltimbanchi anche autori e pensatori considerevoli. In prima fila restano i profeti delle grandi proposte risolutorie, mentre gli specialisti della denuncia hanno finito per godere di uno spazio minore. Tra i primi e tra i secondi ci sono anche studiosi seri che dovrebbero però smetterla di accettare, se davvero sono tali, il gioco narcisistico e venale del successo e della fiera. C’è una cultura, più soffocata in Italia che altrove, che è da difendere e da promuovere, che sa guardare al mondo con lucidità e profondità e, spesso, con l’aspirazione a farsi corpo, intervento. Basta con la pubblicità, la vacua denuncia, il divertimento insulso, la superficialità, si ha bisogno di cose di sostanza, al passo con le necessità della sopravvivenza dell’uomo e del pianeta e di un’umana convivenza liberata dai pesi e ricatti del potere, dei poteri. Per capire e, di conseguenza, per fare. Se si vuole incidere su qualcosa, e aiutare gli altri aiutando se stessi, i mezzi e i fini devono tornare a coincidere anche in questo campo. Nel suo canto alla festa (cito dal Colloquio corale, 1956) Aldo Capitini ne proclamava l’importanza, la necessità, anzi la centralità, come momento massimo di esperienza della comunità, di comunicazione all’interno della comunità e tra la comunità e l’esistente, il creato, il vicino e il lontano, il

visibile e l’invisibile: «O festiva presenza, tu liberante / possibilità aperta all’impossibile / (che se ne stava impermalito lassù) / di solcare la pienezza del reale del mondo, / di trasformare i crepuscoli serali. / (…) Domenicale presenza, che fughi / gli eventi come polvere, e guidi per mano / le persone dalle mute scene, i fratelli / che si lamentavano strazianti su quel letto, / li conduci, angelo intrepido, qui». La festa così concepita, la domenica del riposo e dell’incontro con gli altri, la solennità che ci fa sentire uniti e ci apre all’oltre, che ci conferma e ci esalta, che ci abbraccia e ci sublima, è il punto più alto dell’esperienza del singolo, quello in cui egli può fonderla in quella degli altri, aprendosi al tutto e a tutti, oltre ogni limite condizionamento frontiera. Questo l’ideale, che è ancora nella memoria di molti anche se l’inganno rumoroso del consumo e dello stordimento ne ha turbato ogni eco. Capitini pensava a partire da una dimensione comunitaria oggi perduta, da una dimensione religiosa oggi mistificata, da un’idea di tempo libero e liberato drasticamente mutata da quando il tempo del lavoro è stato aggredito, ridotto e deresponsabilizzato. Oggi noi pensiamo alla festa – anche se in qualche luogo e momento se ne riesce a preservare quella serena bellezza che riempie e fa euforici – come a tutt’altro. Pensiamo alle «notti bianche» e agli stadi, alle discoteche e a certi cortei, ai festival e alle sagre, alle vacanze e al turismo, e alle grandi abbuffate di cibo e di cultura, perché senza «la cultura» le nostre masse malamente alfabetizzate si sentirebbero defraudate di un loro diritto. Ma naturalmente, proprio perché la sentono come un diritto, vogliono che la cultura venga loro sciorinata in tutta chiarezza, vogliono capire, per poter godere, e vogliono capire e godere per non essere inquietati in niente, dall’arte e da altro che li sovrasti. (Quando un tale, in un dibattito pubblico, accusò Jean-Marie Straub di «non rispettare i suoi diritti di spettatore, e cioè divertirlo e fargli capire», Straub rispose, con fiera convinzione: «Io non faccio film per lo spettatore, faccio film per il cittadino»).

Pubblicità, ha ancora ragione Godard?… Avete mai

conosciuto dei pubblicitari? È impossibile che chi ha a che fare con l’editoria di libri riviste giornali non ne abbia conosciuto qualcuno. C’è una differenza tra chi sta nella pubblicità (soprattutto chi la inventa) e chi si occupa di altri rami della comunicazione? Il dilemma si è posto molti anni fa, per esempio quando Vance Packard, sociologo americano, dette alle stampe nel 1957 un suo celebre saggio-inchiesta, I persuasori occulti (Einaudi 1958, tante volte ristampato), dimostrando la capacità dell’economia di influenzare e manipolare i gusti del pubblico, i loro acquisti. Pochi anni dopo Jean-Luc Godard, nel film Il maschio e la femmina (1966), trovò il modo di inserire nel montaggio una didascalia diventata presto famosa: «La pubblicità è il fascismo del nostro tempo». Niente scampo per i pubblicitari, si sarebbe detto, eppure quel mestiere si diffuse a dismisura e diventò uno dei più importanti, molto ambito da tanti giovani anche perché esaltato da molti studiosi (per esempio nel momento di massima diffusione dei DAMS) che vi vedevano il massimo della modernità. La verità sta nel mezzo? Si direbbe proprio di no, perché la pubblicità ha continuato a magnificare merci e prodotti d’ogni tipo, anche nefasti, e non solo prodotti ma anche idee, opinioni, modi di vivere. Immagini colorate ed eleganti, e spesso, molto spesso, corpi maschili e femminili di forte carica erotica, a volte persino corpi infantili. Per vendere qualcosa, bisogna dare un’idea di bellezza, armonia, libertà, forza, e persuadere che comprando e consumando quella tal cosa ci si distingue, ci si eleva, si è qualcuno. Non sono discorsi nuovi, ma spesso si resta sbalorditi, a volte perfino scandalizzati, sfogliando i magazine e i quotidiani che di pubblicità vivono, osservando quanti seminudi femminili o maschili essi propongano, e quanti meravigliosi paesaggi di sogno su cui sfrecciano libere e gioconde vetture di forme elegantissime, come se le città non esistessero e l’auto non fosse un prodotto eminentemente inquinante, e metropolitano. Non c’è nulla di sacro, per la pubblicità (ricordate la santa polemica di Pasolini sui jeans di marca Jesus, tanti anni fa?), e se esiste un codice sembra assai facile raggirarlo. Pensavo a

tutto questo vedendo una nuova pubblicità che evoca uno slogan degli anni Sessanta, «Make love not war», e che dice «Make love not walls». Uno slogan sacrosanto, ma che non è inventato da un movimento bensì da pubblicitari che vogliono venderci qualcosa, e dubito fortemente che possa trattarsi di qualcosa di socialmente utile. Con tutta la comprensione per certi pubblicitari che, come si dice, devono pur vivere anche loro, continuo a pensare che avesse ragione Jean-Luc Godard a diffidare della pubblicità e, nel dubbio, di ogni pubblicità.

Miseria dell’immaginario… La cultura ci assedia, e ci

ruba e corrompe il respiro né più né meno dell’automobile, ed è altrettanto diffusa onnipresente micidiale. Troppa cultura è niente cultura, e allora è opportuno ristabilire distinzioni di fondo. Non vale più quella tra cultura «alta» e «bassa», risucchiate entrambe dalla cultura «media» prodotta e diffusa e consumata e recensita sui giornali, e studiata all’università dall’immenso «ceto medio» che nei paesi ricchi è il ceto, e ha ai suoi margini «alti» dei super-ricchi che culturalmente sono la stessa cosa dei «medi» e ai suoi margini «bassi» non più «il popolo» ma solo miseria e disastro. Colonizzati da media voraci, miseria e disastro sono incapaci di produrre, da soli, cultura. La sola distinzione possibile è tra merce e arte, mentre non vale più quella tra comunicazione e arte, poiché arte può ben essere anche comunicazione ma non avendo la comunicazione come suo dovere, assillo, ricatto. Bisogna cominciare a distinguere molto duramente tra arte e comunicazione, oggi soprattutto, con internet e l’illusione di farsi da soli la propria comunicazione, trovare da soli il proprio pubblico. Ci sono un cinema-arte e un cinema-televisione-internet, una letteraturaarte e una letteratura-televisione-internet, un teatro-arte e un teatro-televisione-internet, un fumetto-arte e un fumettotelevisione-internet eccetera. In alcune arti, però, la distinzione è più forte, e per esempio il teatro o è arte o è teatro digestivo e aperitivo, intrattenimento, tempo libero per una popolazione che dall’uso del tempo libero è ossessionata. Prendiamo

dunque il teatro come esempio significativo. Può ben esistere un teatro divertente, nel nostro ricco Occidente, ma il suo rischio di essere «televisione» (intrattenimento, nell’immensa categoria del tempo libero in cui si sposano consenso e consumo) è, più che un rischio, una certezza. E sì che c’è qualche compagnia che pensa di far teatro imitando la televisione. La salvezza del teatro non può essere la stessa che può ancora offrirsi al cinema, al fumetto, alla letteratura anche all’interno del grande consumo (salvezza relativa, che non durerà per molto), anche perché il teatro è la meno individualistica delle espressioni, il teatro è gruppo. Se è vero che per fare teatro ci vogliono essenzialmente un testo un attore un pubblico, e che del testo si può fare a meno sostituendolo con azioni-testo (il teatro di parola sembra essere dovunque in estremo ritardo su tutto, annaspante e secondario); se è vero che il suo pubblico vero non può ormai che essere – finita ogni illusione di «alfabetizzazione» del ceto medio, ché è semmai il ceto medio ad aver analfabetizzato il teatro – minoritario, quasi marginale o marginale del tutto; allora l’attore è il perno e la sostanza del solo teatro possibile, un attore-attori, un attore-gruppo, un attore-famiglia, ma anche, perché no?, un attore-attore uno. Al singolare. Non si possono certo escludere forme di teatro altre, e da altrove. Qui e per molto tempo, per moltissimo tempo a venire, credo che il teatro debba cercare la sua dignità e la sua eccellenza in quello spazio dell’utopia concreta, immediata, che la sua diversità gli offre. Estremizzando, derivo dal presente e dai suoi insegnamenti la convinzione di un teatro-gruppo che cerca, nei possibili spazi marginali che la società gli permette (e anche quando non glieli permetta), il confronto con un pubblico che gli somigli, che possa somigliargli. Una «comunicazione» tra simili o che simili possono diventare. Luogo dell’anarchia realizzabile, della piccola comunità che limita all’indispensabile il suo commercio con il «sociale», che riduce all’essenziale le pratiche obbligate dell’essere, come animali sociali, come

«condannati alla società», ma che è pronta ad accettare ulteriori riduzioni di questo commercio. Estremizzando, quel che c’è di più appassionante e nuovo, al passo col tempo, del teatro mio contemporaneo, è la sua anima e parte anarchica, la sua capacità di esprimere bisogni e sogni che solo con l’arte (e mai con la sola «comunicazione») possono essere espressi: individuati sperimentati trasmessi. La sua qualità di gruppo che cerca altri gruppi, il «pubblico» diventando così non lo «spettatore» ma il «fratello», o quantomeno il cugino, o il possibile fratello. La sua vocazione è a esprimere una necessaria profondità o un’irriducibile alterità, pronta bensì ad aprirsi quando se ne creino le occasioni; a spostarsi quando certi spazi si chiudano; a mutare quando si reputi necessario mutare. Ma a partire, sempre, dall’orgogliosa coscienza di un’esigente diversità di bisogni e di progetti che si fanno vita, soprattutto quando si agisce dall’interno di una società di zombi, di meri consumatori. È possibile, questo, nelle altre forme di espressione? Nel cinema, bisognerebbe allora reinventare non solo un modo di farlo ma soprattutto un modo di diffonderlo. In letteratura, una marginalità editoriale precisa, un luogo di ricerca comune nonostante la solitudine che caratterizza ogni impresa letteraria. In musica, il rifiuto secco della musica come strumento di rimbambimento o isterico o dolciastro, e al suo posto la musica come ironia riflessione ricerca rimescolamento apertura, come altra consolazione semmai, del tutto opposta, perché spirituale e non orgiastica (basta con l’orgia, non se ne può più, se è il suo modello a dominare!), a quella del consumo pubblico favorito dagli enti e dalla pigrizia e passività del pubblico. Eccetera. Non escludiamo a priori, noi che siamo cresciuti alla conoscenza e alla cultura grazie alla cultura di massa e ai suoi artisti (grandi perché in comunione con i bisogni e con i sogni delle masse), che si possa tornare prima o poi a parlare di «comunicazione di massa» e di «cultura di massa», ma oggi e qui bisogna far altro, aprire e battere altre strade, nuove e dunque di necessità minoritarie.

Tornando al cinema, è forse un caso se le sole novità rilevanti nel campo del cinema sono la grande diffusione del documentario e, più costosa e faticosa, del disegno animato? Il secondo passa ancora per le sale, il primo no, si direbbe che non ne abbia più bisogno, o che ne diffidi. Se ne sono fatti produttori e diffusori editori, librerie ed edicolanti, e questa voga è la spia di un’insoddisfazione diffusa per ciò che offrono il cinema delle sale e la televisione, per la piattezza o scemenza dei loro prodotti. I generi cinematografici erano una volta davvero molti – western e gangster, melodramma e commedia, giallo e comico, fiaba e fantascienza, avventure esotiche e avventure di mare e corsari, divagazioni erotiche e scavi psicologici, kolossal e peplum, musical e opera lirica, religioso e catastrofico, storico e biografico, carcerario e bellico, di denuncia e di propaganda… – e toccò al cinema, tra la fine della prima guerra mondiale e la fine degli anni Settanta, di avocare a sé le acquisizioni più «democratiche» delle altre arti, la fotografia e la pittura, la letteratura e il teatro e, più tardi, la musica. Tutto questo dentro una rincorsa tecnologica che doveva fornire basi commerciali solide alle invenzioni dei registi e dei loro collaboratori, perché il cinema è stato un’espressione collettiva per eccellenza, e in movimento per definizione. Il tramite del divismo fu essenziale nella costruzione dell’immaginario di massa, nell’offerta di modelli di identificazione e di riconoscimento per tutti gli spettatori. Come disse in un grande racconto sul cinema il poeta newyorkese Delmore Schwartz, «nei sogni cominciano le responsabilità», e il sogno per eccellenza, per chi non aveva molte altre possibilità di immaginarsi altro e vedere un altrove, fu il cinema. Buñuel: si spengono le luci in sala ed è come se le nostre palpebre si abbassassero, si accende lo schermo ed è come se entrassimo in un’altra dimensione, dove l’inconscio è re. A ciascuno il suo sogno, a ciascuno il suo «divo» o «diva», a ciascuno la sua «stella», a ciascuno un eroe, un personaggio in cui identificarsi. Alcuni attori furono gli strumenti di un immaginario dalla portata inusuale e vastissima, per innumerevoli spettatori di più e più paesi, e almeno uno riuscì

a imporre la sua figura al pianeta. Grazie al muto, Chaplin/Charlot poté davvero «parlare» a ricchi e poveri, a maschi e femmine, ad adulti e bambini, a borghesi e proletari, a intellettuali e analfabeti, a bianchi e neri e gialli, a cattolici e protestanti e buddisti e musulmani e atei. Strumento di conoscenza e di allargamento della coscienza, esperienza mediata e conturbante, la cultura di massa si indirizzava alle masse e ne ricavava indicazioni per le sue variazioni e per nuove proposte. E sì, questo immaginario fu per molte generazioni «colonizzato dagli americani», come disse in un film del 1976 uno dei registi europei che più hanno coltivato il mito dell’America, Wim Wenders, per poi allontanarsene – troppo tardi – sdegnato. Ma è solo in tempi recenti che l’America è riuscita a piegare l’estro e la capacità di sfuggire ai condizionamenti delle censure ideologiche, che è stata di centinaia di registi, di grandi artisti del cinema, molti dei quali non avrebbero potuto essere altrettanto artisti con nessun altro mezzo, a loro modo espressione della cultura di massa e non solo produttori di cultura per le masse. Cosa è cambiato negli ultimi trent’anni nel «sistema dell’immaginario» cinematografico? Tutto. E tutto vuol dire che non si tratta solo di cinema, ma davvero di tutto. Si annaspa oggi in un trapasso confuso, dentro una mutazione che è anzitutto economica: i nuovi «rapporti di proprietà» che producono nuove forme di dipendenza; la «fine del lavoro» che lascia un tempo libero riempito in modi sempre più isterici o angosciosi; la politica-spettacolo e l’informazione-spettacolo e la cultura-spettacolo, la festa e il chiasso come ossessione, affinché ci si abitui a non pensare e ci si lasci cullare dalla pubblicità, nelle sue mille e onnipresenti forme; la perdita di senso di qualsiasi ipotesi utopica o progettuale, collettiva e di lunga scadenza, e cioè di qualcosa che dia un senso all’esistenza del singolo che non sia di mera sopravvivenza; il sentimento soggiacente di non contare nulla; la perdita di senso dell’esperienza; la traversata confusa da un passato che non viene più elaborato verso un futuro le cui forme collettive non si riescono più a ipotizzare. E in tutto questo, non poi così

secondaria, la perdita di senso del cinema, che non fu solo strumento di divertimento ma anche di conoscenza e di emancipazione. Non conta più, il cinema. È una forma secondaria e accessoria e perfino superflua nella strategia delle comunicazioni di massa gradite a chi intende determinare i nostri gusti e le nostre idee. La sala non è più il magico luogo cantato da scrittori e poeti, dove la fantasia spazia e ci si impregna degli odori e sudori di una folla cui apparteniamo, che sente sentimenti e sogna sogni comuni; è un luogo dove ciò che si rappresenta ha due modi e generi di base – il film a effetti speciali, la cinica commedia dei buoni sentimenti familiari, anzi familisti – ma un’unica finalità, che è quella della conferma e della passività, e non della curiosità e dell’apertura. Apertura a quale diversità, quando tutto è previsto e condizionato, e quando ormai lo scarso pubblico rimasto non tollera altro protagonismo che il suo, impotente e fasullo? Il nuovo immaginario è piatto e asservito, contempla solo super-eroi imperialisti e iper-macho, o un arido e insipido minimalismo sentimentale. E non vi trova spazio nulla che non venga contemplato in un più vasto progetto di invasione mediatica. Il nuovo immaginario è quello della saturazione di ogni momento dell’esistenza con un messaggio – un «consiglio per gli acquisti», un rumore, una notizia, un’immagine, un appello, un’imposizione (e sarebbe estremamente interessante studiare come la letteratura degli ultimi trent’anni sia tornata in auge a questi stessi fini: di riempimento, di inzeppatura dell’immaginario, consolante e stordente e ripetitiva; qui i «generi» ci sono ancora ma, scomparso l’alto e il basso, domina il «mediano» dell’ovvietà e del kitsch). Tra Blade Runner e il paese dei balocchi, cioè Disneyland, in una robotica e assordante cacofonia di solitudini vocianti senza scopo.

Effetto

nausea…

Constatano in tanti, anche se pubblicamente se ne tace, la decadenza delle scuole di scrittura, di cinema e d’altre arti, così come di quelle di

giornalismo. Non ho numeri da dare, parlo per sentito dire e perché conosco e frequento qualcuno dei giovani che di queste scuole sono allievi. Eppure molte resistono, con un numero consistente di allievi o aspiranti tali, pubbliche o private, e si ostinano a promettere facili carriere. La grande illusione degli scorsi decenni, che ha avuto l’epicentro nell’abnorme sviluppo dei DAMS, era che fosse molto facile trovare una collocazione gratificante in cui poter «esprimere la propria creatività», in un’economia dominata dal consumo del superfluo e dalla comunicazione. Mai così tanti giovani furono convinti che fosse possibile, anzi sicuro, lavorare in campi in cui si sarebbe guadagnato bene divertendosi, vedendo gratificato il proprio narcisismo. Il sogno è durato trent’anni, il risveglio è stato brutale. Con la crisi di quel tipo di economia, una generazione e mezza di giovani italiani si è trovata a dover fare i conti con una dura realtà, essendo del tutto impreparati ad affrontarla. Per una minoranza di loro, è stato duro riciclarsi nei pochi settori attivi dell’economia – tra i quali si è dovuto annoverare anche l’ingresso nella politica, uno dei pochi settori dove era ancora possibile una carriera! – o ai suoi margini, e questo è stato facile solo per i «figli di papà» e per i più arditi e cinici dei giovani, i più preparati – lo diciamo con ironia – alla darwiniana struggle for life. Per tutti gli altri, è stato molto difficile sfuggire alla frustrazione, o non lasciarsi andare alla depressione. Diverso è il caso, mi sembra, della generazione successiva, che già nell’adolescenza ha dovuto confrontarsi con la crisi, e che sta cercando faticosamente una strada da percorrere tra mille insidie e trabocchetti. Il campo della cultura e dello spettacolo continuano a illudere tanti di loro, anche perché non ci sono molte altre prospettive economiche, all’intorno. Non ci si aspetta più niente dalle istituzioni, tanto meno dai DAMS, ma si è attratti dal mondo pur sempre, nel suo disordine, più creativo – non quello degli assessorati e delle istituzioni, nazionali o locali, ma piuttosto quello più attraente e per il momento più facile, dell’editoria, della scrittura, del cinema. Scrivere un libro o girare un documentario o un lungometraggio è più facile di una volta (costa poco, un

circuito c’è, ma dura anche poco, quasi niente…). Un mare di artisti, o presunti tali, e di «tecnici», smaniosi di esprimersi nelle arti e in genere non troppo preparati, si aggira affannosamente nel limbo delle poche possibilità. Sopravvivono perché il superfluo ha una sua logica e suoi canali, e sopravvivono meglio, come sempre, solo due categorie di giovani: quelli che hanno un vero talento e che riescono nonostante tutto a metterlo in campo e a farlo riconoscere, sia pure nell’ambito di consuete minoranze, a esprimerlo (e sono, per fortuna, molti); e quelli che sanno muoversi con più accortezza, i più aggressivi e ruffiani. E i meglio protetti, ancora una volta i soliti «figli di qualcuno». Molti romanzi (non film) hanno affrontato più o meno bene questa realtà, da quelli sul precariato in avanti, ma la loro capacità di incidere, che vorrebbe dire di convincere i più, di far cambiare rotta al mercato e ai mediatori o finanziatori della cultura, di cercare e trovare un pubblico non corrotto e drogato, rimbecillito dalla quantità delle proposte ignobili o semplicemente insulse e inutili, è risibile. Massima e varia la produzione, minima e controllata la possibilità di diffusione, di far circolare le opere migliori, di farsi conoscere e apprezzare, di poter continuare a realizzare prodotti non compiacenti e superflui.

Tutti scrittori… Enrico Franceschini, giornalista culturale a

«la Repubblica», ha raccolto tempo addietro per Laterza quaranta interviste fatte nel corso degli ultimi anni a quaranta scrittori, quasi tutti inglesi, con qualche americano e israeliano e russo. Ci sono tra loro alcuni giganti, da Amoz Oz a J. G. Ballard, da Aleksandr Solženicyn ad Abraham Yehoshua, e molti sconosciuti che dapprima incuriosiscono e poi risultano appartenere a specie conosciute e abbondanti, quelli che la Morante avrebbe definito scriventi e non scrittori. Per tutti o quasi la scrittura sembra venire prima della vita, come ben riconosce il titolo del libro: Vivere per scrivere, dove il «per» è debitamente evidenziato. Ne deriva, per chi legge queste

dichiarazioni, per chi legge la storia di queste vocazioni, una perplessità e una sorta di vasto sconforto. E se questa dello scrivere – un’attività che mai nella storia passata è stata così massiccia, così invadente e così sfrenata com’è oggi – non fosse che un’ennesima «astuzia del capitale» (se spontanea o calcolata non importa), mirante a perpetuare un dominio, una sudditanza? Se scrivere fosse ormai un altro modo di «aiutare le masse» – oggi in buona parte alfabetizzate, anzi diplomate e laureate in molti paesi soprattutto «occidentali» – a non pensare invece che a pensare, a non guardare in faccia i problemi enormi del presente, le sue disparità, i suoi orrori, a trovare gratificazioni del tutto secondarie che niente incidono sulla realtà, sulla vita, se non in direzione dell’accettazione del mondo così com’è? Appartengo anch’io alla schiera dei «lettori forti», appartengo anch’io alla schiera degli scriventi e pubblicanti, anche se ho sempre provato più piacere a far scrivere gli altri che non a scrivere io e ho preferito occuparmi di riviste, come strumento di gruppo, come rete di persone che scrivono di ciò che fanno, che sono curiosi dell’altro e cercano verità, e magari anche una realtà migliore di questa. Per una sete di collegamenti e in vista di comportamenti, di modi di essere e di agire. Ma questo non toglie che bisogna guardare con perplessità o sconforto alle illusioni degli scriventi e dei leggenti (spesso molto simili e vicini tra loro, a volte e sempre più spesso la stessa persona), che bisogna guardare alla scrittura e alla lettura come a «droghe» non poi così secondarie, grazie alle quali si può diventare certamente più intelligenti ma anche, e pericolosamente, più acquiescenti all’andamento del mondo così come lo guidano i potenti, diventandone passivamente complici. Complici del tremendo andamento della storia, di questa storia. Se il verbo non si fa carne, cioè presenza e intervento nella storia per renderla migliore, per riscattarne la tragedia, è grande il rischio che rimanga inerte chiacchiera, ciarla, evasione. E, a ben guardare, colpa.

Ciò

nonostante…

Girando l’Italia si scoprono continuamente persone belle, generose, attive e in vario modo responsabili nei confronti del contesto in cui si muovono. Piccoli gruppi, che si occupano in modo sensibile e tollerante del prossimo che non ce la fa, del bene davvero comune e non di quello della corporazione o del clan di appartenenza, e dove la differenza di età o di fede finisce per contare poco, anche quando i più sono cattolici, poiché tutto l’accento è posto sul fare, anzi sul «ben fare». Il ceto non conta, perché la maggioranza di noi italiani o europei appartiene ormai a una piccola borghesia diffusa, una sorta di classe unica da cui viene il peggio ma anche il meglio di questi anni, e da cui viene anche la vasta truppa degli ignavi che raramente si pronunciano pubblicamente. La perlustrazione di questo mondo e la riflessione su questo mondo sono ancora da fare, perché gli studiosi si occupano d’altro e non sempre hanno occhi per vedere e mente per capire: sono più curiosi dei libri che delle persone e del vistoso che del nascosto e pudico. E sarebbe invece necessario studiare meglio chi sono queste persone, in particolare i giovani, e cosa le muove, e quanto nelle loro motivazioni profonde viene dall’interesse economico in un’epoca di scarse possibilità lavorative (un’occupazione, «benefica» anche se retribuita male o malissimo, è sempre meglio di un inerte far niente) più che da un ideale, da convinzioni etiche, e magari anche, pur se rarissimamente, politiche. Su questo bisognerà tornare, ma c’è un altro fenomeno proprio di questi ultimissimi anni o mesi sul quale bisognerebbe riflettere: quella parte della generazione dei, grosso modo, quarantenni che è molto più attiva e vitale nei campi della creazione artistica che non in quelli della politica. Si vedono dei film assai belli, responsabili e coinvolgenti (di Rohrwacher, Marcello, Minervini, Munzi, Segre…), si leggono graphic novels e libri illustrati per bambini o per adulti (Mattotti, Negrín, Muñoz, Gipi, Fior, Sanna, Zerocalcare…) e romanzi (Lagioia, Cognetti, Terranova, Falco, Vasta, Orecchio, Maino, Franzoso, Caminito, e dei più anziani Siti, Montesano, Mari, Di Stefano, Giacopini…), si

seguono inchieste e analisi (da quelle di Alessandro Leogrande, il più promettente e «politico» degli investigatori della realtà sociale contemporanea, purtroppo un nostro immedicabile lutto, a quelle di Tobagi…), che dimostrano una vitalità della nostra cultura nella quale non osavamo sperare dopo gli anni berlusconiani, quelli di una cultura che si dichiarava «di sinistra» ma che era imbevuta dei più marci modelli berlusconiani. La cultura si porta meglio della politica, ma la sua vitalità non risolve i problemi che nascono dalla separatezza della politica – un mondo a parte che sembra procedere per conto suo e su binari abituali, auto-referenziale e corrotto nell’intimo, nei modelli come nelle pratiche.

Quando eravamo «impegnati»… Mi ha scritto tempo fa

un conoscente marchigiano per chiedermi di rispondere a un questionario sulla figura dell’intellettuale «impegnato» oggi, e su come farla tornare in auge, nel caso io pensi che questo sia necessario e importante. È una vecchia storia, gli ho detto, con idee così antiche e stantie da risultare perfino irritanti. Intanto perché si parlava di «impegno», anche litigando sui suoi possibili significati, mentre la definizione di quale fosse il «pegno» veniva data per scontata, era sempre sottaciuta, o rimaneva estremamente generica, non veniva mai approfondita. E poi perché il mondo è cambiato e il tempo ha tolto ogni forza a quei discorsi, sicché chi oggi cerca di riportarli in vita ci sembra perfino ridicolo, con la sua autoinvestitura di portavoce di chissà chi e chissà che, con i suoi inutili e retorici appelli e firme, e concreto solo quando deve difendere qualche privilegio, per l’appunto, degli intellettuali (vedi le ricorrenti proteste per i tagli alla cultura). E però, nonostante tutto questo, nonostante la sua inattualità, la storia dell’impegno ha avuto in passato una sua dignità, e una sua tragica storia. Se si pensa al destino degli artisti e intellettuali che negli anni Venti e Trenta del Novecento hanno cercato faticosamente di mettersi a servizio della parte buona della storia – la difesa dei proletari, dei senza-nome, dei perseguitati, degli oppressi, degli oppositori politici, dei liberi

pensatori, dei reietti d’ogni sorta e sesso – e alle loro vicende, c’è ancora di che rabbrividire: destini tragici, tra carceri patiboli lager gulag, persecuzioni e disperazioni che portarono molti fino al suicidio. Si trattava di una storia non nuovissima neanche allora, ma che certamente non era mai stata così «mondiale» e così terribile. Sballottati tra ideali rivoluzionari e realtà sovietiche, ribellioni individuali e ribellioni di masse, guerre tra nazioni e guerre civili, fascismi e nazismi e comunismi e democrazie borghesi rigidamente capitaliste e tutt’altro che egualitarie (con timide ed effimere speranze negli incerti e manipolati «fronti popolari» e nei tentativi di welfare come risposta alla grande crisi), e ovviamente, i più, tra aspirazioni di partenza e cedimenti brutali alle logiche del potere, servili da subito o servili per costrizione… gli «intellettuali» ne sono usciti con le ossa rotte. E il secondo dopoguerra ne ha riproposto, nella vulgata della sinistra occidentale, non più che una parodia, mentre altrove la guerra fredda, lo stalinismo, il colonialismo e i nuovi poteri post-coloniali confermavano i precedenti ricatti e le precedenti oppressioni, i precedenti opportunismi e i precedenti eroismi, le precedenti violenze, subite o fatte subire. Quel che è cambiato è che l’evoluzione della società «globale» ha via via dilatato la figura dell’intellettuale facendone moltitudine, come direbbe chi di teorie non si stanca di inventarne e di camparne. La scolarizzazione ha reso tutti «intellettuali» e quasi tutti «artisti», le singolarità si perdono nel mare magnum della chiacchiera giornalistica, universitaria, liceale, pubblicitaria, politica, sacerdotale – tutti imbonitori di qualcosa, e il «pegno» non è più la libertà delle culture e la giustizia di classe, nell’impastarsi e imbastardirsi delle classi, ma esclusivamente la propria affermazione, la propria sopravvivenza: il successo e il denaro. E non «la gloria» – come dice un bel romanzo di Emmanuel Carrère che cerca di ridar valore al «ceto medio» universale (Vite che non sono la mia, Einaudi, 2011) – intesa come soddisfazione della dignità e bellezza di un’impresa affrontata per amor di

giustizia e di verità, per il bene comune. (Di questo dovrebbero tener conto anche gli scrittori nuovi, «il loro nome è legione», che cercano affannosamente di ridarsi ideali non volgari, ma ricadendo paro paro nelle consuete beghe rivendicative e generazionali e tranquillamente subendo tutti i ricatti di un «sistema» che dovrebbero mettere in discussione…). Ci sono ancora in giro per il mondo figure di «intellettuali» che rispondono al vecchio modello – alcuni davvero grandi – e che sono in sostanza coloro che studiano pensano creano in modi necessari al futuro di tutti. Essi sono spesso meno noti di quanto meriterebbero, e non sono poi molti. È però l’enorme quantità di sedicenti o cosiddetti intellettuali a sconcertare e spaventare: milioni di professori, giornalisti, guru, funzionari e artisti, milioni di «creativi» che ne fanno la parodia… e si può andare sul sicuro scegliendo per tutti loro (e per noi!) un’altra definizione più adeguata: quella di operatori sociali, o di tranquillizzatori sociali, che possono essere di sinistra e di centro e di destra, perché nel grande rimpasto collettivo di questa categoria si è fatto difficile distinguere (si è massa, e una massa che arranca e grida e sgomita confusamente). Tra gli operatori sociali vanno insomma compresi anche gli operatori culturali, si è tutti «sovrastrutturali» e funzionali a questo sistema economico e politico, alle logiche attuali del dominio. Ma solo ammettendo che la distinzione con gli «strutturali», nell’economia politica della post-modernità, sia ancora valida. Per i più saggi e presenti e utili di loro – e per tutti noi – dovrebbe valere, nel giudizio su chi si è e su ciò che si fa, la lezione del romanzo di Carrère: collocarsi modestamente tra coloro che pensano alla vera gloria – che si conquista attraverso il ben fare e che può efficacemente e senza problemi restare ignota ai più («fa’ quel che devi, accada quel che può» dicevano gli antichi greci e ci ha ripetuto Salvemini) – e non al personale successo e al proprio benessere (anche di famiglia, anche di clan).

CAPITOLO TERZO

Senza amore né rabbia

Spiegare ai nipoti… Prima di lasciarci, Luciano Gallino –

un economista serio, di area olivettiana, che a suo modo era stato anche un ottimo letterato e aveva tra l’altro tradotto uno dei capolavori della letteratura del Novecento, Uomo invisibile di Ralph Ellison – aveva scritto un libro, non l’ultimo, intitolato Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegati ai nostri nipoti, a nipoti reali e non immaginari, in cui diceva che la lotta di classe c’è ancora, nel mondo contemporaneo, ma che ormai sono soltanto i ricchi a farla, contro i poveri. I poveri non la fanno più, gli oppressi non si ribellano più – quantomeno in Occidente – e non si assiste, almeno da noi, nemmeno a quella rivolta dei ceti medi che ipotizzò Ballard nei suoi libri di fantascienza sociologica, se non nella versione dei cosiddetti populismi, che hanno ormai in Italia una storia lunga e che non finirà presto (da Di Pietro a Berlusconi a Grillo a Salvini… e altri seguiranno scavalcando questi). L’oligarchia – cioè l’uno su non so quanti milioni di persone che controlla il potere mondiale, che controlla il denaro, che controlla in definitiva tutto quel che è possibile controllare – procede secondo una sua strada, che è distruttiva e alla lunga anche auto-distruttiva, e che permette di ipotizzare perfino una fine dell’uomo o il ritorno a una selvaggeria primordiale. Gallino era un sociologo, che però si intendeva assai bene dei giochi dell’economia. Io ne capisco poco, ma quel tanto che basta, e constato che sono quattro i settori dell’economia

contemporanea – penso all’Italia, ma non solo – che «tirano», che non sono in crisi: il primo è il mercato delle armi, e l’Italia è dentro questo meccanismo molto più profondamente di quanto non pensiamo (il bresciano vive in parte di questo); il secondo è il mercato che riguarda i bambini, che non è mai stato così vasto in passato; il terzo è il mercato del cibo, e non ci insisto perché tutti ne sappiamo qualcosa; il quarto è per l’appunto il settore dell’economia di cui ci stiamo occupando, la cultura, attualmente il più vasto di tutti. È la cultura la vera grande industria del nostro tempo, nel mondo occidentale. Insisto: siamo centinaia di migliaia di persone, considerando insegnanti, artisti, amministratori, funzionari (di Stato o della SIAE)… cinema, teatro, musica, musei, festival… televisione, giornali, radio… impiegati e operai coinvolti in questo campo… e tutto il resto, compreso, in vari modi, il cosiddetto mondo del sociale. Quelli che sono riconosciuti come addetti alla cultura e allo spettacolo sono relativamente pochi, qualche artista, qualche giornalista e qualche professore universitario. Nel mondo occidentale, bisogna pur constatarlo, «l’oppio del popolo» è oggi la cultura, non più la religione, anche se è cultura anch’essa e non sempre della migliore… La cultura serve, nel mondo occidentale, a manipolare le coscienze, a imporre dei modelli di vita, anzitutto quelli dell’american way of life diventati dominanti in tutto il mondo, anche tra chi dice di disprezzarli o cerca di difendersene proponendo ossessivamente ai propri connazionali una tradizione quasi altrettanto inaccettabile. Susan Sontag diceva che gli americani hanno portato nel mondo la peste, appunto l’american way of life. E hanno avuto enormi mezzi a disposizione per imporla, riuscendo finalmente a trasformare gli esseri umani in macchine di facile manipolazione. Non è stato facile né immediato, ma alla fine ci sono riusciti egregiamente, gli va riconosciuto… Simone Weil diceva che il sogno dell’uomo del Novecento era di diventare una macchina. Questo sogno si sta realizzando, siamo diventati o stiamo tutti diventando delle

macchine: ci indirizzano dove vogliono e ci fanno fare quello che vogliono, ci fanno pensare (e comprare) quello che vogliono. E se i giornali e la TV sono forse un residuo, nondimeno sono ancor oggi – insieme a internet – il più vero e il più profondo strumento del fascismo del nostro tempo. In un ambito come questo, gli intellettuali che pensano, autonomamente o in gruppo, il funzionamento del potere e magari i modi di contrastarlo, possono essere facilmente condizionati dal potere, che li isola o li compra con le regole (economiche) del riconoscimento e delle carriere. Il potere li usa come servi, bensì illudendoli di una pretesa autonomia e autorevolezza, ed essi stanno al gioco, non lo mettono in discussione, non cercano nemmeno qualche forma di doppiezza, fanno di tutto per essere accettati, hanno imparato nel tempo i modi per stare al gioco fingendo un’autonomia che non hanno. Si accontentano delle gratificazioni – l’osso del cane ubbidiente – che gli vengono date con molta generosità: in immagine (fama) e benessere (carriera e denaro).

Dentro la mutazione… Ho avuto la grande fortuna di non

aver fatto l’università: i miei non se lo potevano permettere e quando ho provato a entrarci – estate 1955, appena diplomato maestro, a magistero a Firenze – c’era il numero chiuso e una sorta di esame di ammissione, con un’incredibile massa di concorrenti, e venni facilmente silurato. La conseguenza fu che scrissi a Danilo Dolci in Sicilia e andai a lavorare con lui: dovevo starci tre mesi e ci sono stato tre anni, e quell’esperienza e quegli incontri mi hanno cambiato la vita. Capitini insisteva perché mi iscrivessi a magistero a Palermo, e una mattina andai a dare un’occhiata, ma il disordine che vi regnava mi convinse in un lampo a rinunciarci: meglio far scuola ai bambini e agli analfabeti nella mia baracca del Cortile Cascino, dove c’era da imparare (e anche, perché no?, da insegnare) molto molto di più che ritornandomene a scuola. Questa diffidenza fu attenuata da molti egregi professori che conobbi in seguito. C’era ancora una generazione di veri Maestri alcuni dei quali mi trattarono generosamente, da

amico. Tre di loro, quando li conobbi, insegnavano a Cagliari, dove erano stati mandati per un motivo o per l’altro in una sorta di esilio. Diversi tra loro per convinzioni, non lo erano per morale: Capitini, De Martino, Cases, figure per me molto importanti. È anche il confronto con quelli venuti dopo, con quelli di oggi, con l’università di oggi, a spaventarmi. L’università è una sorta di complicata istituzione a carattere, diciamolo, più o meno «mafioso», dove l’interna burocrazia, per il poco che se ne capisce dall’esterno, ha regole molto più complicate di quelle delle mafie e delle multinazionali, e dove riuscire a entrare tra i garantiti e i rispettati vuol dire un’attesa di anni, spesa nel servire piccoli boss pomposi e nello scopiazzare, per l’obbligo di produrre testi su testi, libri di altri: da dieci saggi già editi tirarne fuori uno nuovo… Vi è infatti l’obbligo di «produrre», e cioè di scrivere tonnellate di testi che raramente servono «la scienza», ma solo la riproduzione di un sistema, di privilegi e di vanità. Prendo l’esempio di tre campi che mi stanno molto più a cuore di altri, e nei quali impazza l’approssimazione e la chiacchiera, che si fanno vistose quando il tal prof. viene scoperto da quelli, mettiamo, di «la Repubblica» o del «Corriere»: o si ammucchiano tra loro (guardandosi in cagnesco) in inutili riviste fatte da loro e per quelli come loro, o vengono giubilati da supplementi culturali codini, sempre all’inseguimento delle mode imposte dall’industria della cultura. Questi campi riguardano in particolare l’infanzia e il modo in cui questa società la considera; la pedagogia e la psicologia; e la sociologia. Campi a circuito interno, a discorso chiuso, che hanno a che fare con i loro oggetti, cioè l’evoluzione della società, i suoi funzionamenti, o i temi centrali dell’infanzia e dell’adolescenza, della crescita e della formazione delle nuove generazioni, dei nuovi nati al mondo. In essi sembra si obbedisca sempre e soltanto, nei fatti e nelle parole, solo a un potere, a un «sistema» che ha bisogno di servi compiacenti, mai autonomi e ribelli, e principalmente di consumatori, soprattutto di consumatori. Il consumo è un

oppiaceo potente, e la cultura deve contribuire alla sua durata crescita prosperità. Nonostante vi siano al suo interno insegnanti di buona volontà, che faticosamente cercano di far bene il lavoro per cui vengono pagati, è la massa, è l’insieme, è il meccanismo che conta. Varrebbe forse la pena di segnalare l’azione dei migliori, gratificandoli per il poco possibile, come da sempre ho cercato di fare, per quanto possibile e per quanto ne so, nel lavoro delle riviste. Ma è il blocco che conta. E la constatazione del peso di un’istituzione che sembra irriformabile, destinata a rimanere, con aggiustamenti burocratici nel corso del tempo, la stessa di ora. Salvo un risveglio degli studenti, le vittime, per ora impensabile. L’università non ha dunque alcun peso se non nella sua qualità più bassa e servile. Salvo che nei grandi centri di ricerca dove la scienza è decisamente al servizio del potere, e da questo è generosamente foraggiata, e dove gli scienziati studiano per davvero. E su questa forma, bensì «storica» e antica, della cultura bisognerebbe soffermarsi e saperne di più, finito il tempo in cui si sperava (ridicolmente) di coinvolgere gli scienziati chiamandoli a «servire il popolo» essendo, come si sognò per un certo tempo, «esperti e rossi». La pedagogia è stata dominata in Italia da cattedre molto bolognesi e molto comuniste e da politici ossessionati, alla Napolitano o alla Berlinguer ministro della scuola (non il povero Enrico, morto sul campo del dovere, vittima, non diversamente da Moro, di una Storia, in quegli anni, losca come nei tempi peggiori, e che ebbe per complici perfette le sedicenti Brigate Rosse). Vi dominano le ideologie dello sviluppo, vi domina l’idolatria verso gli ultimi ritrovati della tecnologia, della macchina. Lo sviluppo, lo sviluppo, lo sviluppo… una cantilena ossessiva, che ha portato i comunisti e ha portato noi elettori ricattati dalla logica del meno peggio e da una finta democrazia a constatare infine la morte della sinistra. Per suicidio. E se è vero che le nostre mani erano fragili (i movimenti degli anni Sessanta e le rivoluzioni di prima e durante non hanno saputo esprimere modelli di azione

e di organizzazione diversi da quelli del passato, e si sono affidati a leader inattendibili, mossi quasi tutti dall’abituale ossessione del potere), è anche vero che il potere aveva tutti i mezzi per distruggere o per corrompere, e ha saputo farlo benissimo… Tutto questo ha contribuito o è stato condizionato da una mutazione, economica e culturale, rapidissima e travolgente. Chi ha capito meglio la mutazione in corso negli anni Ottanta ed esplosa nei Novanta è stato un sociologo statunitense, Christopher Lasch, mai abbastanza lodato e studiato (La cultura del narcisismo, L’io minimo…). I nuovi e vecchi capitalisti (e i milioni di loro servi) hanno fatto leva su due armi: la finanziarizzazione dell’economia (con conseguenze quali la globalizzazione e le risposte «barbariche» alla globalizzazione, e cioè al dominio dei paesi più ricchi) e la comunicazione, la cosiddetta comunicazione, cioè l’illusione di comunicare grazie alle nuove tecnologie, strumento di controllo e soprattutto di condizionamento, di abbrutimento, di isolamento. Parodia della comunicazione. Su questi due fronti non c’è stata in Italia nessuna risposta significativa, e se qualcuno ha provato a discuterne (dall’interno dell’università, e tanto basti!), è stato per infilarsi in un nuovo segmento del mercato culturale, quello della finta messa in discussione astratta e generica: pura retorica! Sganciata, come sempre e come prevedibile, da qualsivoglia protesta-proposta attiva, e cioè politica. Da qualsiasi forma di disobbedienza civile. Criticare senza nessuna pratica conseguente è facile e gratificante, ma non serve ad altro che ad alimentare chiacchiere e mercato, e non c’è forse niente di più disprezzabile di chi cavalca la tigre di un presunto dissenso per farsi strada nel vasto mondo della «cultura» e della «comunicazione». È la cesura assoluta tra teorie e pratiche, tra pensiero e azione, quel che di peggio l’università insegna ai suoi allievi, corrompendoli (e castrandoli) in aeternum.

Quando morì Steve Jobs… Non mi colpì in modo diverso

il pianto giovanile sul cadavere di Steve Jobs – muoiono anche i «grandi» e i «benefattori dell’umanità», se Dio vuole e grazie alla Natura e a quell’effetto del Capitale chiamato Cancro – di quello senile di qualche anno fa sul cadavere di Gianni Agnelli (che in famiglia aveva avuto, peraltro, qualche esempio dell’effetto del Capitale – in Italia primariamente la sua FIAT – chiamato Cancro). La stessa incoscienza, la stessa imbecillità. E se allora ci scandalizzò vedere come i vecchi operai piangessero il loro sfruttatore – effetto del Cancro chiamato Televisione – non ci doveva scandalizzare meno vedere tanti giovani piangere uno degli artefici della loro alienazione dall’intelligenza del mondo e dalla possibilità di essere se stessi, coscienti e ragionanti, e capaci di intervenire sul destino che la società degli Steve Jobs ha deciso per loro. Il paradosso maggiore sarebbe stato constatare che tra gli stupidi orfanelli di Steve Jobs ci fossero anche dei giovani che nello stesso periodo andavano manifestando contro Wall Street e l’alta finanza manipolatrice e distruttrice – l’1% della popolazione mondiale, come ha detto sensatamente la Klein, che campa alle spalle del 99%. Si potrebbero accampare contro Jobs molte ragioni tradizionali di ripulsa, per esempio lo sfruttamento dei lavoratori cinesi, per esempio il costo dei suoi strumenti rispetto a quelli di altre case, per esempio l’ossessione del lucro su ogni cosa brevettata, per esempio l’adesione alla diabolica considerazione antica di certo puritanesimo americano che ha sempre visto nel successo economico di un individuo un segno divino (protestantesimo come anima del capitalismo, Weber dixit), con la ripetizione più attuale e post-moderna del mito del self-made man, «dall’ago al milione». Eccetera. Ma quello che più mi colpì nel lutto sconsiderato per Jobs è che fossero i giovani a piangerlo e con le stesse modalità riservate in passato per un Elvis Presley, un James Dean e magari un Che Guevara, o un’altra delle faccette stampate sulle loro canottiere (pardon, t-shirt), e però con una convinzione diversa e maggiore, che sembrava andasse ben

oltre il banale discorso delle mode e del consumismo di miti che periodicamente attraversano le società americanizzate. Perché i giovani sembrava pensassero davvero di dover qualcosa a Steve Jobs, per la loro possibilità di usare i suoi strumenti e di ricavarne diletto, conoscenza e comunicazione con un prossimo loro specchio. Come se il diletto rendesse più intelligenti e padroni di sé, la conoscenza enciclopedica e l’immediatezza delle notizie fossero sinonimo di cultura viva, e la comunicazione mettesse davvero in relazione con l’altro e permettesse uno scambio, un’interazione, un’azione. Come se i «mezzi» diventassero il «fine» che dichiarano nel momento stesso in cui lo tradiscono e negano, in cui creano nuove dipendenze, nuove droghe della coscienza, invece che una comunicazione che veda solidali in progetti comuni di liberazione. C’è poco da sperare, in una gioventù così succube dei media, e oggi non soltanto del loro discorso ma dei loro strumenti «democratizzati», alla portata di (quasi) tutti. L’unico effetto davvero positivo che è possibile riconoscere ai nuovi mezzi messi sul mercato dal «titano» Jobs (Il titano fu il titolo di un mirabile e dimenticato romanzo di Theodore Dreiser sulla figura del Capitalista americano, e l’impalcatura delle vicende alla Jobs non è affatto cambiata da allora) è quello di aver ridotto sensibilmente, forse enormemente, l’impatto della televisione. Ma proprio come i nuovi mezzi alla Jobs ne sono la continuazione, così il fatto di possedere un proprio apparecchio televisivo portatile con i programmi più vari, con un diluvio di programmi, di avere una specie di televisione propria emittente-ricevente, non è un segno certo di liberazione ma piuttosto di nuova e sempre più capillare, e più astuta, sudditanza. Sì, Jobs è un’altra incarnazione del Grande Fratello immaginato da Orwell. Schiavi della macchina che pensa per noi, come sempre? Diventare macchine, diceva la Weil, era nelle aspirazioni dell’umanità moderna, e in modi più raffinati e completi anche oggi è nelle aspirazioni dell’umanità post-moderna, con le sue avanguardie giovanili. Steve Jobs e i suoi compari e rivali non

sono dei benefattori dell’umanità, ma i più attuali e furbi degli oppressori.

Nello sciame… La lettura del denso, breve, illuminante

saggio di un filosofo coreano che vive a Berlino, Byung-Chul Han (Nello sciame. Visioni del digitale, Nottetempo, 2015), può confermare l’ostilità di chi diffida della voga di internet in tutte le sue forme, e dei telefonini polivalenti, e insomma di tutte le applicazioni delle nuove tecnologie alla comunicazione tra gli esseri umani. La stessa parola «comunicazione» ha cambiato col tempo di significato, e da parte (importante) della vita di una persona sembra esserne diventata quella fondamentale, totalizzante. Han ci mette in guardia, avendoci ragionato senza paraocchi, da un punto di vista insieme orientale e occidentale. Guai a non comunicare! Se non si comunica, ci si sente annichiliti, si è spinti a comunicare pena la non-esistenza da un contesto che non abbiamo scelto, che ci è stato imposto dal «progresso». Ma che cosa comunichiamo? E come? E perché? Pochi se lo chiedono, mentre tanti si danno un gran daffare a dirci, a colpi di slogan, che se non comunichiamo non siamo. Il «progresso» ci ha dato cose importanti per «comunicare»: la ruota, la stampa, l’automobile, il telegrafo e il telefono, la radio e la televisione e tutti i loro infiniti derivati. Ma ci si dimentica che prima di quelli, ab initio, ci fu la parola – il verbo – e di conseguenza la parola venuta da un pensiero, la parola pensata che chiedeva, che informava, che nominava, che cantava, e che ci permetteva di esprimere le nostre convinzioni e acquisizioni, i nostri bisogni e insieme la nostra reazione a quelli altrui. Ma col tempo, dei mezzi di comunicazione della modernità si sono impadroniti imprenditori privati e pubblici (lo Stato) e la comunicazione è diventata a senso unico: ci sono loro che ci parlano, e ci stimolano in modi palesi o in modi occulti (I persuasori occulti di Vance Packard fu un best-seller degli anni Cinquanta-Sessanta e lo leggemmo in molti, ma presto dimenticandolo) a fare quello che loro volevano facessimo (a

comprare, anche le idee). Nati per uno scopo, i «media» hanno finito per servirne un altro: la propaganda diretta e quella indiretta di un modello di vita e non la comunicazione. Ma il progresso divora sempre se stesso, non si ferma mai, ed ecco la grande invenzione recente: internet, il digitale. Non si comunica più dall’alto in basso, ci si dice, ma paritariamente, perché a ognuno è permesso di scrivere dire disegnare quel che gli pare. Uno sfogatoio universale – per il meglio (raro, e in genere pudico) e per il peggio (tantissimo, e sempre esplosivo) che ognuno si porta dentro: di ambizione, di frustrazione, di rivendicazione. Miliardi di narcisi «si esprimono», parlano e non ascoltano. È la truffa più grande del nostro tempo, dice con molta pazienza e con molta saggezza il nostro bravo giovane filosofo coreano-berlinese. E dice anche che i più gabbati di tutti sono i giovani.

I padri arzilli e i figli sdraiati… Qualche anno fa scoppiò

sulle nostre gazzette un palloso dibattito, bensì istruttivo, sul libro in cui un uomo di successo venuto da sinistra, Michele Serra (Gli sdraiati, Feltrinelli, 2016), se la prendeva col figlio, un adolescente «sdraiato» che non si entusiasmava di niente di quel che piaceva a suo padre. Serra mise il dito su una grande piaga, solo che non si accorse, o finse di non accorgersi, di quanta responsabilità avesse la sua generazione nell’abulia dei figli che aveva tirato su, nella loro fiacca sopravvivenza priva di valori, altri dal tirare a campare tra gingilli elettronici e amici privi come loro di vitalità o, meglio, privi di fiducia nella possibilità di far qualcosa di vitale, di poter contribuire a un futuro migliore di questo presente. Andare a fondo sulle responsabilità della generazione di Serra porterebbe a una dichiarazione di fallimento per la parte centrale della generazione del ’68 (i leader e dintorni, non i gregari), che ha saputo meglio barcamenarsi negli anni Settanta e Ottanta conquistando una fetta di potere non indifferente nella «società dello spettacolo», nei media, e non altrove.

Ogni generazione, e dunque ogni gioventù, è alla fin fine conformista. Si lascia guidare dalle sue minoranze più attive, nel bene o nel male, e segue le mode. Quanti sessantottini ho conosciuto che in altri tempi avrebbero seguito altre mode? Anche tra gli adulti c’è da sempre chi segue la corrente, ma allora si tratta di una «zona grigia» che può anche avere le sue ragioni, secondo la diffidenza antichissima verso una Storia di cui si è vittime inascoltate – «chinati giunco che passa la piena»… Quanto di tutto questo ci sia nella gioventù odierna è difficile da individuare, mentre è più facile vederne le abulie, il conformismo nei confronti di un mercato che non è mai stato così accorto e totalizzante come oggi, provocando in alcuni una sudditanza fanatica e in altri, pochi, disinteresse e sfiducia verso scopi e speranze collettivi. I pochi, all’interno delle ultime generazioni, che si dedicano a qualcosa di utile per gli altri e per tutti, devono vedersela con una situazione moralmente vischiosa, che nasconde a volte dietro le dichiarazioni umanitarie degli interessi di gruppo, la sopravvivenza in tempi dove il lavoro è mutato o non c’è. Ci sarebbe anche da chiedersi, per finirla con Serra, quanto ci sia negli «sdraiati» e nei «connessi» di oggi di un’inconscia resistenza passiva nei confronti della società fasulla a cui i padri hanno troppo facilmente e vilmente ceduto.

Viaggiare serve a qualcosa?… Mi capita spesso di

parlare con dei giovani italiani che vanno e vengono da più parti del mondo, e che sanno le lingue. La mia generazione, soprattutto se di origini modeste (si diceva così, un tempo), le lingue non le sapeva, e ancora adesso il mio inglese fa schifo (lo leggo e ho osato perfino tradurlo, ma a parlarlo mi perdo, come col mio spagnolo), e se una lingua straniera la conosco, il francese, è perché i miei furono costretti dalla necessità, nei lontani anni Cinquanta del Novecento, a emigrare oltr’alpe. I giovani di oggi sanno tutti o quasi l’inglese e non sono pochi quelli che sanno il tedesco e lo spagnolo – mentre il francese è passato di moda. Essi si muovono agilmente tra un paese e

l’altro e passano tranquillamente da una lingua all’altra, e io ne sono felice per loro e, per dir tutto, li invidio. Ciò non toglie che mi dia sempre un gran fastidio l’abuso dell’inglese, di un inglese spesso molto approssimativo, quando si leggono i titoli dei giornali e si ascoltano i giornali-radio e i tele-giornali, e si parla di economia, di finanza, di spettacolo, di fatti della vita, di tutto… Vedo comunque in questo non un segno di apertura al mondo. È vero che l’inglese, con l’arabo lo spagnolo il cinese, è la lingua più parlata dagli esseri umani e non da adesso, ma l’arabo, lo spagnolo, o il cinese non sono affatto così invadenti come l’inglese, o meglio, l’americano. Aveva ragione quel personaggio di un film degli anni Settanta, Nel corso del tempo di Wim Wenders (quando potevamo ancora considerarlo «uno dei nostri»), a constatare, canticchiando qualche canzone rock, che «il nostro inconscio è colonizzato dagli americani». Non considero la civiltà statunitense il punto più alto nella storia dell’umanità, anzi vedo gli USA come uno dei paesi dalla morale più riduttiva, e culturalmente-militarmente-economicamente come uno dei più chiusi e prepotenti nei confronti delle altre culture, la cui aggressività aumenta a misura della sua paura di essere surclassato da paesi (o imperi) emergenti (o ri-emergenti). Quello americano non è il migliore way of life del mondo, anche se ci ha ammaliato con la pubblicità del suo benessere, e penso che oggi perfino Tocqueville e la Arendt non lo vedrebbero più come il più alto modello di democrazia… A occhio, direi che l’invasione dell’americano sia stata favorita da una generazione più colonizzata dell’attuale, quella degli anni Ottanta e Novanta infiltratasi nei gangli del potere e al suo servizio, quella che è ormai d’uso chiamare «berlusconiana» o, meglio, «salvinian-trumpiana»: non gli «americani a Roma» alla Sordi del dopoguerra, ma gli «americani a Roma e a Milano» del giornalismo e della pubblicità e della politica, al seguito dei brutali mercanti e affaristi del grande potere. Sono forse loro la vera «generazione perduta» dell’Italia recente, che comprende, è

ovvio, anche i Veltroni e i Renzi, i Di Maio e le Raggi, e i fascisti di oggi e di sempre.

Vincenti e perdenti… È impressionante, parlando con dei

giovani «normali», scoprire quanto essi amino i winners, i vincenti. Dai protagonisti di film furbi e mediocri, che alla fine possono stupidamente gridare «ce l’abbiamo fatta», ai supereroi da fumetto, della stessa pasta, e perfino a politici «arrivati» e che li fregheranno. Credo sia questo il segno di un fallimento politico e pedagogico delle generazioni che ieri hanno voluto tentare di cambiare le cose in una direzione egualitaria e in nome della solidarietà con i perdenti, i losers, ed è un paradosso se si pensa che i non-vincenti sono almeno almeno il 90% degli abitanti del pianeta… Certo, non è bello essere o pensarsi perdenti, o immaginare, se giovani, di doverlo diventare. È più consolante farsi illudere dai propagandisti di una società diseguale che ti raccontano come anche tu potresti diventare un vincente: ricco, famoso, importante, potente come le star dello spettacolo, della cultura, della politica, dell’economia… Basta volere, no? Questa fantasia, stimolata e fatta circolare soprattutto tra i giovani, è tra le più nefaste delle molte propagandate dalla cultura e dal potere odierni. In campi più difficili da districare, viene chiamata «meritocrazia», e il verbo più usato per chi ce la fa o tenta di farcela è «emergere». Le parole e i verbi contano, anche se non sempre il loro significato è quello letterale: per esempio, si sa fin troppo bene, nel caso di meritocrazia e di emergere, che questo sistema premia rarissimamente il merito e assai più frequentemente l’appartenenza a un’élite pre-esistente, oppure gli individui più aggressivi, e che emergere vuol dire aver sgomitato con più durezza e cinismo, e con il massimo disinteresse per gli altri, vedendo i simili e i vicini solo come rivali. Personalmente, diffido da sempre dei vincenti – se non altro perché, come diceva un maestro, bisogna rifiutarsi di «gareggiare», bisogna resistere e agire senza sentirsi in concorrenza con nessuno. In letteratura (a partire da Hemingway) e in cinema, la figura del

perdente è stata assai presente negli anni Trenta, dopo la grande crisi, e nei Quaranta e Cinquanta a causa della guerra e dei suoi reduci – che avevano ben compreso gli inganni della cultura dominante, gli inganni del potere. Poi è tornato di moda il vincente, nelle sue forme più risibili, e super-eroi sono diventati i divi dell’economia e della politica più ancora di quelli della cultura e dello spettacolo. Poveri vincenti, in verità, quando appena si scruti il loro privato, prigionieri della vanità il cui successo pubblico ha spesso alle spalle la miseria dei rapporti col prossimo, a partire dal più vicino, e il continuo doversi guardare alle spalle, la durezza della lotta con concorrenti duri e infidi come sono loro. E l’alcol, e le droghe. Ma l’assurdità maggiore è quella delle masse di giovani ineluttabilmente destinate, in quell’ottica, a perdere, che fanno già parte, senza rendersene conto, del numero dei perdenti, dei sacrificabili, ma che idealizzano i vincenti e sognano di imitare le figure più odiose o più false tra di loro, e tra i coetanei o i maggiori.

Unici ma uguali… Girando per le nostre città grandi e

piccole, settentrionali o meridionali, di mare o di montagna, si è spesso divertiti e spesso irritati dall’incrociare per strada, nei bar, negli uffici, una quantità di persone che mettono in mostra con molta spavalderia vestiti strambi, accessori vistosi, capigliature «artistiche», tatuaggi e piercing ostentati. Si tratta in prevalenza di giovani, ma le mezza età non scherzano e neanche gli anziani, soprattutto le anziane. La parola d’ordine sembra essere quella di mostrare una presunta diversità, originalità. Domina il cattivo gusto, una vistosa ed esibita pacchianeria. Tutti diversi ma in realtà tutti eguali? La domanda è inquietante. E fa tornare alla mente il vecchio libro di uno studioso inglese, Dick Hebdige (che aveva sui trent’anni quando lo scrisse), uscito in patria nel 1979 e pubblicato in Italia da Costa & Nolan, la cui ultima edizione risale al 2008. Si chiamava nell’originale Subculture. The meaning of style, e in italiano Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale. Il

titolo italiano è migliore dell’inglese. In Inghilterra c’è peraltro una ricca storia di studi di antropologia della cultura popolare e della vita quotidiana (cultural studies) che ha origini fabiane e studiosi formidabili come Richard Hoggart e Raymond Williams (in Francia si va da Pierre Bourdieu a Marc Augé, in Italia il terreno viene esplorato da pochi decenni e molto malamente, soprattutto da saccenti antropologi, non diversi dai giornalisti del costume salvo che nel linguaggio). Quel che ricordo del libro di Hebdige, esplorazione delle mode e culture giovanili e in particolare di quelle più minoritarie, è una tesi condivisibile: di fronte alle culture dominanti e al loro repressivo conformismo ci sono sempre state minoranze che le rifiutavano, non nascostamente ma in tutta evidenza, dai merveilleux della Rivoluzione francese, che con la loro dichiarazione di estraneità e col loro esibizionismo finirono per essere massacrati, ai teddy boys o blouson noirs o ragazzi beat degli anni Cinquanta del Novecento. Solo che allora si trattava appunto di giovani non ossequienti alle mode riconosciute, e il loro era pur sempre un gesto di rivolta, l’affermazione orgogliosa di un’alterità. Ma oggi che è buona parte della maggioranza della popolazione a esibirsi oltre le età – a inventarsi voghe e stili, a «truccarsi» per dimostrare di avere una personalità, a pretendere di «essere» attraverso l’«apparire» – non di rivolta si tratta ma di un altro tipo di conformismo, che svela non solo la massiccia e becera volgarità dei ricchi come dei poveri, ma anche l’insicurezza di molti, di tanti che non sanno più chi sono.

Ribellarsi è giusto ma… Mi ha molto impressionato

tempo addietro la lettura di un’inchiesta/saggio di Maddalena Gretel Cammelli, sociologa, sui Fascisti del terzo millennio, edito da Ombre corte, una piccola casa editrice di Verona che merita attenzione per le sue scelte, di delicata commistione accademico-militante. Le dobbiamo tra l’altro la bellissima intervista con Enzo Traverso Che fine hanno fatto gli intellettuali?, su cui i giovani intellettuali italiani e aspiranti tali dovrebbero riflettere.

Il sottotitolo del libro della Gretel è Per un’antropologia di Casa Pound. Tutti ormai sanno cos’è Casa Pound e le preoccupazioni che ha destato e continua a destare in chi segue la cronaca politica del nostro paese: un luogo romano che ha ramificazioni altrove e che raccoglie giovani di fede fascista molto attivi e spesso turbolenti. Ma che, almeno nei suoi fondatori e dirigenti, ha dimostrato di avere molte ambizioni per l’appunto intellettuali. Su di esse il libro riflette a partire da dichiarazioni e interviste con i giovani neofascisti, da cui il prefatore Jonathan Friedman deduce, scoprendo l’acqua calda, che il fascismo «lungi dall’essere totalmente estraneo all’ideologia occidentale è piuttosto una parte di essa». Più interessanti sono le considerazioni sue e dell’autrice sulla vicinanza di certe spinte alla ribellione contro l’ordine di cose esistenti che, nel tempo, hanno finito per far sembrare vicine le motivazioni «di destra» e quelle «di sinistra» dei giovani più inquieti e irrequieti. Caduta la distinzione tra destra e sinistra con il recupero della sinistra, e a maggior ragione della destra, nella grande attrazione centrista del pensiero e nelle pratiche che dominano da anni la politica odierna – un pensiero e una pratica che un tempo avremmo chiamato borghesi/capitalisti e che oggi è meglio chiamare oligarchici – restano ai margini di questo modello forme di ribellione destinate a essere sempre più estreme e minoritarie, sempre più aggressive. La ribellione dei giovani fascisti somiglia in questo, nelle modalità organizzative e nelle azioni che ne conseguono, ad altre ribellioni che affermano valori diversi. E siccome, almeno in Italia, non esiste che in misura minima una ribellione di sinistra con ideali più forti e giustificati, va da sé che la proposta neofascista ha molte chances e può attirare molti giovani. Anche, purtroppo, per quel che conserva di culto della violenza. Rattrista e preoccupa che i giovani non attuino altre forme di ribellione – per esempio quelle nonviolente, di disobbedienza civile, e in genere quelle che esprimono e praticano un’immediata solidarietà con le parti della società abbandonate a se stesse dal sistema di potere oligarchico. Solidarietà attiva, organizzata, coerente di fini e di mezzi, «politica». Aperta al dialogo, ma pronta all’azione

chiarificatrice ed esigente. Sì, «ribellarsi è giusto», come è sempre stato giusto, contro le ingiustizie del potere, ma bisogna anche scegliere il tipo di ribellione, ragionare su cosa si intende per giusto, e qui, sul rapporto tra fini e mezzi, le distinzioni devono essere ancora molto nette.

L’io come malattia… Rileggo periodicamente Rimbaud.

Quanti sono i giovani che lo leggono e meditano, e condividono la sua sete di assoluto e la sua rivolta contro i valori della società borghese? Generazione dopo generazione, si continua ad aspettare un nuovo angelo di verità che dica il vero e lo pratichi, che guardi al mondo con amore scandalizzato ma esigente e amoroso, nella rivelazione della sua bellezza come della sua bruttezza, e che lo faccia senza nessuna concessione al proprio ego, senza la spinta all’autoaffermazione che caratterizza oggi quasi tutti, specialmente tra gli acculturati. È la corsa a una qualsiasi forma di successo la molla che guida decine centinaia migliaia di giovani, in un mondo in cui è altissimo il numero di chi ha studiato e in cui ai giovani non si offrono lavori concreti ma le illusioni di un terziario fatto di chiacchiere scritte o dette, di immagini e di suoni facilmente riproducibili, e i modelli sono quelli di chi «ce l’ha fatta» e dice o è detto sulle pagine delle gazzette, e dentro lo schermo delle TV dei video dei computer dei cellulari. A questa sorta di imposizione epocale, ambientale, che cattura una gran parte dei giovani, si aggiunge da tempo una particolare deviazione della psicologia collettiva, indotta dal tipo di società che noi adulti siamo i primi ad accettare e che essi non mettono in discussione, o solo alcuni e raramente, a parole. Io la chiamo «orgoglio», col vecchio nome di un «peccato» che oggi considero, per un giovane che si apre all’età adulta, il più mortale di tutti. Questa malattia colpisce in particolare coloro che hanno ambizioni intellettuali, e li perde e costringe in una sorta di parodia dell’individualismo: io penso, io scrivo, io recito, io filmo, io disegno, io canto, o ancora io mi faccio un blog, io apro un sito – una droga la cui

diffusione è al massimo – e mi basta questo per illudermi di essere qualcuno, di esistere in quanto IO. L’eccesso di amor proprio produce persone antipatiche e nefaste. In un’epoca in cui gli intellettuali adulti fanno lo stesso, e di conseguenza contano meno di niente nell’opinione di chi detiene il potere, che li considera come servi di cui è facilissimo comprare mente e anima, per spremerli e poi gettarli, l’individualismo di cui ci si illude è una finzione risibile, è una parodia. Milioni filosofano e creano, ma la loro critica dell’esistente è mera finzione, è accettazione e non critica. Si è pensato tanti anni fa a un «potere giovanile», si parlò dei «giovani come classe» quando il loro disagio divenne azione e rivolta, ma si tratta di tempi lontanissimi, di quando si pensava ancora di poter incidere sulla Storia, di cambiarla. Poi anche il ’68 si è sciolto come neve al sole, e quel che resta, nella società più massificata che mai si sia vista, è la parodia dell’individualismo, una truffa in cui i giovani – soprattutto quelli che non hanno sofferto o visto soffrire e che non sanno guardare e confrontare – sono una turba di io fasulli, tra i quali, però, si può continuare a sperare, come è giusto e indispensabile, che ci possa essere qualcuno con la lucidità, la passione, la compassione di un nuovo Rimbaud, un profeta giovane che sappia capire i giovani e vederne le angosce, stimolarne l’ansia di rivolta. Di giustizia, di bellezza, di verità…

Una moda nuova, l’inchiesta… Nel maggio francese del

’68, fu molto presente tra gli studenti in lotta la paura della récupération. Avevano ben presente, soprattutto quelli di Sciences-Po e di Beaux Arts, la forza di quel meccanismo per il quale tu inventi una cosa nuova e disturbante, procedi ad azioni che rompono un ordine, elabori e proponi nuovi modelli e nuove idee e dopo un po’ ti accorgi che la cultura ufficiale (i giornalisti, gli intellettuali di mestiere, le riviste ufficiali e più diffuse, le case editrici, le gallerie d’arte, le compagnie teatrali e i produttori cinematografici, le radio e le televisioni…) ci salta addosso, per il suo «naturale» bisogno continuo di «carne

fresca» da buttare sul mercato. La macchina infernale del capitale non sta mai ferma, e si serve di tutto, può recuperare anche chi, in partenza, le si voleva nemico. Il capitale è anarchico, diceva un tale, molto più degli anarchici di scelta e convinzione! Ed è una «famiglia» dove il «nuovo» è d’obbligo; e dove ci si divora a vicenda. È insito nella natura del capitale, è regola che i nuovi arrivati (i «figli») soppiantino (anche e soprattutto divorandoli) i già insediati, i «padri». In una corsa continua. Si pensa a questo vedendo, nel piccolo del mondo culturale, qui e altrove, come tutto il nuovo venga così facilmente recuperato, e cioè addomesticato, castrato. È accaduto – è l’esempio che, oggi per oggi, mi sta più a cuore – anche per un «genere» per la cui rinascita e diffusione credo di aver fatto qualcosa. Parlo dell’inchiesta sociale, della narrazione d’inchiesta e della commistione tra letteratura-sociologiagiornalismo, così produttiva in passato, almeno dal tempo di La situazione della classe operaia in Inghilterra di Engels, anche se un grande maestro in questo campo, Ryszard Kapuściński (e con lui i suoi allievi, e con lui una sua pari, Svetlana Aleksievič), si spingeva molto più indietro, su fino a Erodoto. Nel secondo dopoguerra, per il bisogno di conoscere chi eravamo dopo vent’anni di oscurantismo fascista, non si ebbero solo saggi importanti, ma anche inchieste fondamentali, o inchieste a metà, tra diario e romanzo, autobiografia-inchiesta-letteratura. Penso, sulla scia del Cristo di Levi, alle opere di Montaldi, Cagnetta, Scotellaro, Dolci, Bianciardi-e-Cassola, Passeri, Vallini, ma anche di Bufalari, Maria Giacobbe, Lorenzo Barbera e altri ancora; e a maestri come Giacomo Debenedetti e Soldati e Arbasino; e a giornalisti dalla penna d’oro come Camilla Cederna, Enzo Forcella, Giorgio Bocca, Gianni Brera eccetera. Nel campo più specifico dell’inchiesta sociale a cavallo con la sociologia (e con il modello lontano della «scuola di Chicago») l’ultimo grande nome è stato senza dubbio quello di Alessandro Leogrande, precocemente scomparso nel

novembre del 2017 a soli quarant’anni. Le sue inchieste su Taranto, sul caporalato in Puglia, sui migranti venuti in Italia da Est o da Sud, sull’affondamento della nave albanese Katër i Radës da parte della nostra marina militare eccetera, restano memorabili, fanno già parte del ristrettissimo numero dei grandi libri italiani degli ultimi decenni. (Tra gli amici molto più giovani di me che ho visto morire precocemente, devo ricordare con Alessandro un personaggio che molto gli somigliava, Alexander Langer, ma anche altri e diversi come Mauro Rostagno, Marco Lombardo-Radice, Luca Rastello e, più «vecchia» di poco, Fabrizia Ramondino. E Peppino Impastato, che non ho conosciuto, ma che considero vicino in quanto lettore di due riviste nostre, «Quaderni piacentini» e «Ombre rosse». Non c’è giustizia nella sorte, e davvero sono i migliori a essere scomparsi, i davvero giovani di una o due generazioni piuttosto vili). Ma ecco che anche la narrazione d’inchiesta è diventata una moda, per i famelici giovani arrampicatori intellettuali dei nostri anni, più o meno dotati, più o meno coscienti del contesto in cui si muovono. E siccome i giornali non pagano le inchieste, che costano, per venir bene, tempo e denaro (viaggi, alberghi, pasti), e la televisione ne fa delle mini-farse, restano le case editrici. Le banche dicono loro che la priorità non è vendere, la priorità è che il denaro circoli, e dunque più si stampa e meglio è, anche se ogni quindici giorni i banconi delle librerie cambiano merce e quella portata via finisce presumibilmente al macero. È un perenne e impressionante rogo dei libri, ben diverso da quelli dell’Inquisizione e da quelli raccontati da Bradbury in Fahrenheit 451! Eppure tutti smaniano per pubblicare e il numero degli scriventi potrà eguagliare ben presto (ecco un buono spunto per un romanzo di fantascienza, e se qualche aspirante scrittore leggerà queste righe vedremo anche questo!) quello dei laureati e diplomati, mentre quello in toto dei lettori potrebbe risultare già adesso inferiore a quello degli scrittori. C’è dunque abbondanza, anche, di inchieste, di narrazioni dove il protagonista è l’autore medesimo e non una sua

invenzione (in generale, inventare vicende e personaggi davvero significativi è dono di pochi, per i più basta pescare nelle storie di famiglia e di vicinato…), e si confronta con un problema, con uno scandalo, con un gruppo di marginali sofferenti, o semplicemente con un settore poco raccontato della società. Sono dunque nati e si sono diffusi e si vanno diffondendo tanti nuovi specialisti dell’inchiesta, stacanovisti dell’inchiesta scritta o filmata (che vengono dalle università, e dai fallimentari corsi di giornalismo, e dai baricchevoli corsi di scrittura, e dalle colonne del «manifesto», e dai blog che si nutrono di se stessi) che non stanno fermi un minuto, e se per caso hanno qualche guaio (diplomaticamente risolvibile) a una frontiera o con una polizia, ecco che vengono baciati dalla fama e dal crowdfunding. Non so quanto Alessandro Leogrande ne sarebbe stato felice, lui che credeva nell’inchiesta per capire e per cambiare, per mobilitare, per incitare a risposte attive, partecipate. E non (o non solo) per farsi conoscere e apprezzare.

I «persuasi»… Abbiamo seguito in tanti, con un sentimento

d’orrore e con compassione profonda, la vicenda di Giulio Regeni, che ha riempito a lungo le pagine dei giornali e non ci ha mai acquietato. Abbiamo conosciuto nel corso degli ultimi decenni molti giovani come Giulio Regeni, che peraltro vari amici hanno conosciuto di persona e di cui ci hanno parlato con ammirazione. E si continua a essere preoccupati pensando a quei giovani che, come lui animati da una sorta di sincero idealismo, si sono buttati in imprese delicate, dentro organizzazioni nazionali o internazionali che, bene o male, a volte in modi velleitari e confusi, si occupano però dei mali del mondo e degli esseri umani che più soffrono dei suoi disastri. O meglio: dei disastri provocati dai potenti del mondo, con la complicità forzata o manipolata dei loro popoli. Ma del contesto in cui avvengono tragedie come quella di Regeni è giusto parlino quelli che hanno seguito quotidianamente il corso per dovere professionale, come l’ammirevole avvocatessa Alessandra Ballerini, e sono andati

e vanno sul posto, conoscono gli ambienti, studiano le forze in campo e capiscono le loro mosse e le loro logiche (non sono poi molti, e vale la pena di ricordare, tra le poche firme attendibili, quelle di un «vecchio» come Bernardo Valli e di un giovane come Fulvio Scaglione). I giovani di cui parlo sono quelli che decidono di dedicare anni della loro vita in Africa o America Latina o Asia, e oggi, in molti, nei paesi arabi tra Nord Africa e Medio Oriente, ad assistere materialmente gruppi sventurati presi nelle spire delle guerre e delle dittature e variamente perseguitati, ma anche a condividere conoscenze utili all’autonomia e allo sviluppo di quelle popolazioni, generalmente di fedi e identità minoritarie, che i poteri locali trattano peggio: minoranze religiose o etniche, o semplicemente poveri tra i più poveri – popolazioni che abbisognano di assistenza tecnica e culturale, di medici e di agronomi, di insegnanti e di protezione e conforto. Conosciamo ragazzi e ragazze (e, nelle organizzazioni di stampo cattolico, se credenti e non credenti importa poco) con una formazione professionale adeguata o privi di qualunque formazione professionale adeguata, maschi e femmine, e ci è capitato di recente di discutere con alcuni giovani francescani che già pensano a dove e a cosa vogliono fare, in tempi brevi, non appena possibile, fuori d’Italia, mossi dall’idea e si direbbe anzi da un bisogno quasi fisico di poter essere utili agli altri. Non vogliono il quieto vivere di un mestiere e di una carriera, neanche quello delle parrocchie, e non ambiscono neppure, come tanti, a un qualche successo, a una qualche fama, magari solo «blogghista». Il loro individualismo, quando è forte, è piegato da una volontà non meno forte di «servire». Le loro inquietudini possono a volte avere un fondo di insoddisfazioni più nevrotiche che morali, ma che cos’è la nevrosi se non l’incapacità di adattarsi a una società i cui modelli giudichiamo, nel nostro intimo, sbagliati? Questi giovani sono, insomma, tra i più simpatici che abbiamo potuto conoscere in questi anni, anche se talvolta ci ha messo in ansia la fragilità di qualcuno di essi, e ci è sembrato che in alcuni (soprattutto tra quelli di alcune associazioni meno rigorose) la

spinta primaria non fosse quella del servizio, ma quella di un qualche spirito di avventura, e soprattutto quella tesa a riempire un tempo e a cercare una collocazione. I giovani non sono in quanto tali portatori di nuovo e di giusto, sono molto spesso conformisti, seguono la corrente, subiscono le mode, e devono scontare presto o tardi amare sconfitte o amate compromissioni. Ma ci sono pur sempre quelli, membri di più solide «minoranze etiche», pronti a subire le conseguenze della loro volontà di perseguire il giusto e il vero e del loro disinteressato amore del prossimo. Sono questi i giovani da ammirare e sostenere, giovani «persuasi», di cui Giulio Regeni è stato, secondo la testimonianza di chi lo ha conosciuto, un esempio bellissimo, una persona da amare e da piangere.

CAPITOLO QUARTO

Che fine hanno fatto gli intellettuali

Complicità… La fine degli intellettuali nella loro funzione di

ricerca del vero e del giusto all’interno di una società qualcuno di loro ha anche provato a spiegarla, e lo ha fatto egregiamente, ma quasi mai in Italia, negli ultimi decenni, e semmai solo quando si trattava di intellettuali nostri che studiavano e scrivevano in contesti meno conformisti del nostro, in Europa o nelle Americhe. La fine dei nostri intellettuali risale, credo, agli anni Ottanta dello scorso secolo, quando sono andati via via scomparendo gli ultimi rappresentanti della generazione cresciuta nella guerra e nella ricostruzione, una generazione che a considerarla adesso ci appare invero straordinaria, la migliore che il paese abbia avuto, intellettuali (nel cui numero considero ovviamente gli artisti) che un ruolo da svolgere hanno voluto e hanno avuto, e hanno continuato a esercitarlo sino alla fine. Chi erano, in Italia, gli intellettuali? Non tanto i professionisti della cultura, quanto individui che sono stati per vocazione e professione artisti o studiosi, anche, tra loro, certi giornalisti, che sono riusciti a parlare alla nazione, a un pubblico molto vasto, additando i problemi aperti e le responsabilità che ne conseguivano per tutti. Essi si assumevano coscientemente una responsabilità civile nei confronti della società. Figure come quelle nessuno le vuole più, e non esistono più: gli intellettuali italiani di oggi, per il 99% o il 999‰, non sono paragonabili

neanche da lontano a quelli che abbiamo conosciuto in passato, sono divi e divetti, funzionari noti o non noti (e i divi non meno funzionari dei funzionari) di un preciso sistema di potere, che si regge come non mai sul consenso di un popolo bensì alfabetizzato, spesso laureato. (La stessa parola «sistema» sarebbe anch’essa da rivalutare e ristudiare, tuttavia ancora in una chiave «marcusiana»). Come dice un saggio proverbio, oggi, con eccezioni rarissime, gli intellettuali «attaccano l’asino dove vuole il padrone», o meglio, attaccano se stessi dove vuole il padrone, e non scalpitano se non per farsi avanti, per apparire e per avere. Lunga è la fila di quelli che vorrebbero farsi attaccare, interminabile e fitta di nuovi arrivati, anno per anno e generazione per generazione. C’è una complicità di fatto – di tutti, non solo degli intellettuali – con lo stato di cose presente. E mancano alternative, mancano del tutto segnali di risveglio di questa o quella parte della società, e per cominciare dei più giovani, che sembrano anzi i più alienati, i più consenzienti, i più conformisti, i più volontariamente complici. Certo, in questo la colpa forse maggiore, se proprio si deve parlare di colpa, è della sinistra, e in primis del Partito comunista italiano, che ha ucciso voluttuosamente ogni residuo di tradizione socialista e auto-difensiva nel suo statalismo forsennato e nella sua idolatria del progresso e della tecnica, della «modernità», distruggendo in tal modo ogni possibile alternativa al modello sviluppista-capitalista, bancario-finanziario in cui siamo (ci hanno) precipitati. Questa complicità ha finito bensì per riguardare tutti, perché tutti abbiamo tratto qualche vantaggio da questa situazione, in particolare coloro che vivono di cultura, «funzionari marginali» del sistema, operai soddisfatti della fabbrica della cultura. La complicità dipende da tante cose. Dipende per esempio dal fatto che tutti «tengono famiglia». Tutti teniamo famiglia, gruppo, associazione, corporazione, clan, mafia; tutto il mondo va avanti per queste strade. E famiglia, gruppo, associazione, corporazione, clan, mafia indicano nel senso comune esattamente l’opposto della parola «comunità». La

parola «comunità» è stata una parola molto importante, ma la parola «comunicazione» – tra i tanti derivati da «comune»: comunanza, comunella, comune inteso come municipio e luogo di vita, comunismo, comunione (anche in senso religioso) e Comune nel senso della Comune di Parigi – ha sopraffatto tutti e ha stravolto completamente la primaria definizione di «mettere in comune», di «stare in comune», di «volersi bene in comune», di «vivere in comune», di comunità, assumendo il significato di propaganda, pubblicità, distrazione, imbonimento. Questo stravolgimento ha avuto per il potere un’importanza strategica, e ne è conseguito che la cultura e lo spettacolo e internet, per esempio, fanno parte del sistema del dominio, ne sono lo strumento privilegiato, più perfino della polizia e delle armi. Servono, va ribadito anche ossessivamente, per addormentare le coscienze e non per risvegliarle. Affinché noi si sia felici (non pensare toglie le preoccupazioni e mette a tacere gli assilli della coscienza, i dubbi della mente, la ricerca delle soluzioni), ci riempiono, alla lettera, di musiche, di immagini fisse o in movimento, di parole, di scritture, di voci assolutamente non necessarie, di tutto il superfluo possibile, di tutto quanto possa servire a non farci pensare. Il potere ci ama, e sa che se pensiamo rischiamo il disagio, l’infelicità. In casi estremi, ci sono gli psicofarmaci. Più oltre, ci sono o torneranno a esserci, i manicomi e le prigioni. E visto che noi non pensiamo, loro possono fare di noi quello che vogliono. L’ambiguità della parola «cultura» sta nel fatto che per reagire a tutto questo noi abbiamo bisogno di cultura. Ma il problema è: quale cultura? Una cultura di opposizione al mondo così com’è, e alle idee e pratiche che ci vengono imposte, anche se si finge che siano solo proposte.

In casa dell’impiccato… Diceva Franco Fortini: di che

parlare, se non di corda, in casa dell’impiccato? Penso alla funzione che potrebbero ancora avere quelli tra noi che, non artisti, sono quantomeno dei critici o si vogliono tali, o

semplicemente sono lettori e spettatori attenti a ciò che accade, a chi cerca, a chi qualcosa sa forse anche trovare. Il nostro impiccato ha, fortunatamente, ancora dei sussulti e, se si taglia la corda, può essere rianimato, riportato in vita. Parliamo della critica. Il vantaggio che ha la critica teatrale rispetto ad altri settori come letteratura e cinema è quello di avere dei profeti di ieri ancora vivissimi, miracolosamente giovani e attuali. Molto più del cinema: il cinema ha ancora degli esempi, dei registi, ma non ha più dei teorici convincenti. Come la letteratura. Nel cinema, dopo la morte di Serge Daney, però onnivoro e succube dell’esistente e privo dell’indispensabile visionarietà dei profeti, non c’è in giro chi dica cose di cui i registi possano servirsi, con cui non possano non confrontarsi. Nella critica cinematografica conosco in Italia (ma altrove non è meglio) solo tre o quattro eccezioni, e per il resto dei tremendi professori universitari e dei critici-informatori, in sostanza dei pubblicitari. Il teatro se la passa, almeno in Italia, certamente peggio del cinema, essendo finita la grande epoca (anni Ottanta-Duemila) del «teatro di ricerca», del teatro che batteva in vitalità ogni altra arte e aveva, meraviglia!, un pubblico reale, vicino, ricettivo e reattivo. Ma mentre la letteratura è come quella cinematografica, è dentro la produzione, una rotella nel percorso della merce, il teatro invece ha ancora dei profeti a cui rifarsi e da cui è possibile ripartire, dei morti che sono molto più vivi dei vivi. Ha un punto di partenza straordinario, Rimbaud, quando dice «bisogna essere assolutamente moderni», uomini del proprio tempo, attivi nel proprio tempo. A noi è data solo questa vita, e di questa vita dobbiamo fare un uso adeguato; bisogna partire da questo, non rinviare al futuro o avere nostalgie del passato. Saper trarre ispirazione dal profondo della realtà, dal non-visto ma ben-presente. Su questa scia, perché gira e rigira tutti a Rimbaud si sono rifatti, ci sono stati Antonin Artaud, Jerzy Grotowski, Julien Beck-Judith Malina, Carmelo Bene, Tadeusz Kantor, Peter Brook, l’Odin Teatret, qualche tedesco, ben pochi francesi… Già i primi cinque mi bastano: se uno vuole fare teatro oggi, a rileggere i loro scarni manifesti, le loro persuasioni, i loro messaggi, c’è ancora da apprendere

l’essenziale, il via, la spinta a ricominciare, a riprendere e a continuare. Messaggi scarni, perché dal punto di vista teorico non è che essi hanno fatto come Stanislavskij, che scrive e prescrive tutto un metodo. Loro ti dicono il senso, ti dicono la ragione, la direzione. Vanno subito al nodo. E ti danno perfino la possibilità di avere uno sguardo diverso dal loro, perché quello che dicono rispetto al loro tempo vale oggi, è utile oggi e proprio oggi. Quello che hanno scritto Bene, Grotowski, Beck-Malina e Artaud, secondo le loro diverse sensibilità, è di un’attualità straordinaria. Se si leggono, per esempio, i testi giovanili di Grotowski, ci accorgiamo di quanto siano vivi, di come non riguardino la Polonia degli anni Cinquanta ma l’Italia del 2019 e il brave new world in cui siamo entrati. Si tratta sempre di un discorso minoritario, si tratta sempre di un discorso da pochi a pochi. Guai a pensare in termini di masse, di successo, di fama. I nostri maestri si sono ben guardati dal prometterci tutto questo, sono i cattivi maestri che lo hanno fatto, proponendo macabre illusioni e accettando i ricatti sudici e meschini della società dello spettacolo, l’idolatria della falsa comunicazione. Diversi teologi hanno scritto che ogni epoca ha il compito di ridefinire Dio, a partire dai suoi bisogni più profondi. L’assenza di Dio, diceva Carmelo Bene, è il nodo attorno a cui ricercare, è quest’assenza a dar sostanza alle nostre ambizioni. Forse quel che il papa attuale va cercando di fare – così detestato dai preti-burocrati, che sono milioni, e dai burocrati d’ogni ramo – è di ripensare il messaggio cristiano, una sfida esemplare, proprio in termini di sfida, che sono quelli più detestati dal quieto vivere dei credenti. Il problema non è l’aldilà – il premio o la condanna, il Paradiso o l’Inferno – ma l’aldiqua, ché il regno di Dio o è di questa terra o non è. Un regno – o meglio, una repubblica socialista! – di uguali, di solidali, e di attenti (gli intellettuali, i sapienti, i comunicatori, privilegiati per censo o per acume) agli «stupidi» e ai «derelitti». Ma se si tenta da parte di alcuni di ridefinire Dio in rapporto a quest’epoca, credo che allo stesso modo vada ridefinita

anche l’arte. Di che arte ha bisogno il nostro tempo? È impressionante constatare come dagli anni Sessanta in poi, da quando è morta l’idea di un mondo migliore, non ci siano più gruppi di artisti che scrivano manifesti, che sentano di avere una visione e un progetto comuni e lo gridino al mondo. Tutto il Novecento e l’Ottocento sono pieni di manifesti, di artisti che si mettevano insieme e scrivevano cosa dovevano essere il teatro, la pittura, la musica, la letteratura, la poesia, il cinema… Oggi non lo fa più nessuno, tutti monadi e tutti ridicoli maestrini auto-sufficienti. «Ognuno per sé e Dio contro tutti»… il Dio che non c’è, il Dio che è morto… È nostro compito anche quello di affrontare quest’enorme problema di ridefinire che cos’è l’arte oggi, che cosa può e deve essere, di che arte il mondo, questo mondo, ha bisogno. Bisogna ricominciare di qui, ma questo vuol dire mettersi in discussione, buttare alle ortiche tante esperienze passate, ricominciare quasi da capo. Una gran fatica, che va fatta stando bene attenti a non farsi turlupinare dai falsi profeti, dai megalomani e dai furbi che propongono novità fasulle, di superficie, dentro la catena del commercio e della comunicazione. Ché a ogni generazione ne spuntano, presentandosi magari (in Francia, in Danimarca, negli USA) come nuovi Rimbaud e senza pagarne lo scotto dell’aver troppo osato e dell’essere stati respinti dal mondo. L’insuccesso, spesso, conta più del successo, nella possibilità di inventare (e di riconoscere) il nuovo. Se non si affrontano questi rischi, non si va da nessuna parte. E ovviamente, quando la mettiamo in termini così brutali, tutti i discorsi sulla comunicazione finiscono per sembrare comici. I profeti dei DAMS si sono fottuti da soli, e c’è solo da rallegrarsene, ma sono pochi, in giro, ad avere avuto o ad avere il coraggio di scomunicare la comunicazione, pochi e benemeriti. Ancora di meno sono, felici di stare nello «sciame», quelli che reagiscono in modo intelligente a internet e ai suoi Profeti/Magnati. Si lavori cercando un’altra comunicazione possibile, muovendosi in un’altra direzione: diamoci scopi adeguati ai bisogni del tempo in cui viviamo, ai

bisogni di questo tempo. Se non lo facciamo, siamo semplicemente dei complici e dei vili. Magari intelligenti, magari bravissimi, ché conosciamo tra i complici anche delle teste infinitamente più intelligenti delle nostre, teste che scrivono e dicono cose di grande interesse e perfino utili, ma indifferenti a quel baricentro, a quell’altra esigenza. Si lasciano vivere, anche bene. Si accontentano, beati loro. Non credono più in nessuna possibilità di contrastare la china, anche se sanno che è una china mortale. Si accontentano di quel che passa quel che chiamano Storia: l’economia, le oligarchie del potere, le loro burocrazie. Finché dura, riescono persino a trarre da questo una sorta di drogata felicità. Si tratta invece, ripeto, di definire cosa dovrebbe e potrebbe essere l’arte in rapporto al nostro tempo, rispetto ai suoi bisogni più veri e profondi e dunque più tragici, più disperati. Solo chi è disperato è autorizzato a parlare di speranza, diceva Heinrich Böll, uno scrittore che abbiamo molto amato per la sua capacità di vedere il nero e di cercare il bianco. E interpelliamo l’arte, ricorriamo all’arte anche per ridefinire e cercare la e le comunità, il comune e la Comune, il comunismo e la comunione.

Cultura, critica, arte… «Quale cultura» vuol dire anche, e

forse soprattutto, «quale arte». L’arte ha sempre avuto un’enorme funzione in ogni società, ma anche per questo va ogni volta messa in discussione, rapportata all’epoca, al presente. Questa funzione esige oggi di essere ridiscussa. Dalla base. Platone diceva che l’arte è il perturbante, è ciò che incute timore, che mette a disagio, che costringe a pensare, a mettersi o rimettersi in discussione. Oggi quel che la cultura e l’arte propongono è esattamente l’opposto: non «perturbano» più, non turbano ma consolano, non producono pensiero ma imitazione e non-pensiero. In modi che sono peraltro sempre più rozzi, plateali, ruffiani. La cultura è stata anche, quando minoritaria, il punto più alto di un’opposizione al mondo così com’è; diceva infatti che

possono esserci mondi altri, che ci sono altri territori da esplorare che ci riguardano, chiari o confusi ed economici o culturali. Oggi la comunicazione ha totalmente soppiantato l’arte. (E mi viene in mente cosa diceva un vecchio maestro, Luis Buñuel, che vedeva in atto nel mondo contemporaneo – e si era negli anni Settanta del Novecento – i quattro cavalieri dell’Apocalisse, che erano per lui la scienza, la tecnologia, la sovrappopolazione e, ultima ma non ultima, la comunicazione, che chiamava ancora informazione). Non contempla alcunché di radicale, serve a imbonire rassicurare conformare, ad allontanarci dalle preoccupazioni per le cose serie, anzi a nascondercele o mistificarle. Nel corso degli ultimi decenni ha definitivamente soppiantato la stessa comunicazione tradizionale, plurisecolare, e ha distrutto quelle forme di comunicazione che esprimevano una dialettica forte tra l’alto e il basso. Mi spiego: è esistita in Italia, fino agli anni Ottanta del secolo scorso, una cultura che era il popolo, perlopiù analfabeta, a produrre direttamente, diversa da quella dei «letterati». Sono un vetero-populista e me ne vanto, un populista di quando un popolo c’era, da cui c’era da imparare e per il quale valeva la pena di lottare. Grazie a una lunga vita e a una grande curiosità, ho visto e ascoltato le sceneggiate, i giocolieri e i cantanti di piazza, i cantastorie e i contastorie, il circo, i grandi comici, i comici dialettali locali milanesi piemontesi triestini napoletani siciliani… Ho letto fotoromanzi e fumetti, il «Guerin Meschino», la Pia de’ Tolomei del Sensani, le vite di Beatrice Cenci e di Rita da Cascia. Ho amato i film di Monicelli e di Freda e di Matarazzo, di Totò e di Maciste… (Di Monicelli e di Freda e di tanti altri scrittori registi attori cantanti amati nell’adolescenza sono riuscito, adulto, perfino a diventare amico). Ho visto come un popolo creava una propria cultura, una cultura con cui quella borghese e dominante scendeva obbligatoriamente a patti. Il cinema ha sempre trattato con questa cultura bassa derivandone cose che nei migliori dovevano servire a farla crescere, a farla maturare; far maturare la coscienza delle persone, delle popolazioni, del popolo.

La parola «presa di coscienza», su cui si è basato tutto il socialismo ottocentesco, oggi non ha più corso, è diventata un’espressione totalmente desueta – ma oggi la battaglia da fare è ancora quella per una presa di coscienza, anche minoritaria, di ciò che il popolo è diventato, che è oggi, di ciò che siamo noi, piccola borghesia generica, succube, condizionata e oppressa. E con nessuna voglia di rimettersi o di mettersi in gioco. Anni fa venne in Italia, e lo accompagnai in giro, Colin Ward, un grande teorico e studioso anarchico inglese, che si occupava – come tutti i grandi anarchici – di educazione, cioè di pedagogia, e di urbanistica, cioè di città, della polis. In una piccola manifestazione pubblica, uno dei giovani presenti gli chiese quale fosse la sua personale definizione della parola «anarchia». La risposta mi turbò molto, e ho continuato a tenerla presente anche come una sorta di definizione dell’arte oggi: «una forma di disperazione creativa». Mi sembrò e mi sembra una definizione bellissima. Non mettere le bombe, ma guardare lo stato delle cose, spaventarsene e cercare di pensare a cosa si dovrebbe fare per reagire a tutto questo. Nessuna protervia, nessun trionfalismo in questa risposta. Sempre pensando agli intellettuali di una volta che ho avuto la fortuna di conoscere e di frequentare, quelli che ormai sono morti, tutti o quasi tutti, la generazione cresciuta sotto il fascismo e una o perfino due guerre mondiali, sono forse le idee di due donne ad avermi provocato e coinvolto di più, quelle di Elsa Morante e di Anna Maria Ortese. Due piccoli libri raccolgono alcuni loro testi d’occasione però fortemente teorici, della prima Pro o contro la bomba atomica, della seconda Corpo celeste, editi entrambi da Adelphi. Nella conferenza che dà il titolo al suo libro, Elsa Morante diceva che il poeta, ma direi «l’uomo di cultura» per estensione, è una specie di San Giorgio che combatte contro il «drago dell’irrealtà». E cos’era per lei l’irrealtà e cosa dovevano fare il poeta, l’artista? «Impedire la disintegrazione della coscienza umana nel suo quotidiano e logorante e alienante uso col mondo. Restituirle di continuo, nella confusione irreale e

frammentaria e usata dei rapporti esterni, l’integrità del reale o, in una parola, la realtà». Diceva che i nemici della realtà sono tanti, e che «il sistema della disintegrazione ha i suoi funzionari, segretari, parassiti, cortigiani», ma quando le si chiedeva di fare degli esempi, lei rispondeva: «È ovvio: da un lato la bomba atomica, dall’altro la televisione». Da un lato una scienza e una tecnologia che producono un – prima inimmaginabile – strumento di morte, e dall’altro la comunicazione, una tecnologia che annienta la coscienza.

Lo spazio letterario… Il filone forse più produttivo nella

letteratura della seconda metà del Novecento trova origine anch’esso negli anni Trenta delle dittature e della cultura di massa. Anche il «post-moderno» nasce lì, da autori (un esempio per tutti, tra i più trascurati e pionieristici: Nathanael West) che portano il loro sguardo sulla disintegrazione dell’esperienza individuale dentro la «grande macchina». Non ci sarebbero Pynchon e De Lillo, Houellebecq e Carrère, Siti e Montesano e cento altri senza West. Ma tutta l’ansia del romanzo che sa di non poter essere più romanzo come comprensione e ordinata narrazione del mondo, anche in Italia ha avuto a che fare con quella svolta e con i due eventi cruciali del disvelamento della morte borghese (guerra, ingiustizia) e della capacità del capitale di sopravvivere e governare (industria culturale, manipolazione del consenso). È pur sempre contro visioni «totalitarie» del governo dell’uomo che l’artista si ribella, riaffermando ostinatamente la sua soggettività, la sua volontà di preservare la libertà del suo pensiero e del suo sentire contro i «1984» di ogni sorta. Ma la rivolta ultima delle nouvelles vagues ha portato, ci hanno spiegato i più accorti degli antropologi-sociologi statunitensi (penso soprattutto a Lasch), a nuove illusioni e anche a nuove manipolazioni: con il «narcisismo di massa», favorito dalla fine di tutte le speranze di poter avere prima o poi una società migliore, solidale o anche «socialista»; favorito dalla capacità di continuamente aggiornarsi della produzione e della pubblicità; e favorito in Occidente dalla scolarizzazione di

massa e dalla produzione massiccia di laureati. Ed ecco che si moltiplicano i piccoli Kerouac del turismo di massa, i piccoli Hesse della new age, i piccoli Rimbaud del centro sociale ghettizzato, i piccoli super-ometti della politica e delle arti, e i milioni di sensibili e delicati fiorellini minimali dell’attenzione alla propria piccola, anzi infima esperienza e infima cultura mediana e benestante (la massa degli scrittori occidentali di oggi, fatti a stampo in Italia come dovunque). Aggiungete a questo il ricatto della «comunicazione» contrapposto all’originalità e profondità dell’espressione, dello stile, o per dir meglio il ricatto della «comunicazione di massa», con il suo rozzo universo di finzioni consolatorie – che solo alcune più irrequiete figure hanno saputo usare «al contrario» (penso, nel «genere» fantascienza, tuttora il più necessario, a Dick e a Ballard e a Vonnegut) – e l’onnipresenza di un «mercato» gestito da monopoli abilissimi, e avrete la triste constatazione che oggi la letteratura, come tutte le arti, viene costantemente «recuperata» nell’ordine del mercato. Esso solo è infine dominante, e di per sé cinico, anziché «anarchico» come voleva essere a suo modo das Kapital. Questo finisce per riguardare non solo i nostri Strega Campiello Viareggio eccetera, ma anche tutti i talenti che negli anni Ottanta e Novanta ci hanno fatto sperare, nel grande rimescolamento degli equilibri politici e demografici e nell’affermazione dei meticciati culturali, in una rinascita della letteratura. La vera novità ci sembrò allora questa – ed eravamo davvero in pochi a proporla e indicarla ai lettori italiani, sopraffatti da editori e critici sempre molto conformisti, che si accorgono del nuovo quando già sta ammuffendo. Accadde infatti che la «globalizzazione» si impadronì dei nuovi scrittori, di tutti i continenti e paesi, e li impose come modelli di una letteratura non più originale e nuovamente massificata: perlopiù esotica e anglofona, destinata a un pubblico mondiale e dunque secondo strade presto codificate, perché il successo sta nelle variazioni interne allo standard, nelle copie più spregiudicate, nelle varianti più insistite di un unico modello. Tutto, dai pomodorini

geneticamente modificati ai computer e ai jeans strappati, deve andar bene per tutto il mondo, per il mercato globale. Tutti coloro che scrivono, hanno d’altronde fatto l’università e le scuole di scrittura e sanno scrivere decentemente delle imitazioni di altri scriventi altrettanto decenti, secondo regole codici canoni protetti o promossi dall’industria editoriale. La qualità e l’intima differenza – so di ripetermi – tra arte e comunicazione sono l’ultima delle preoccupazioni, vanificate dalle esigenze del mercato. Sopravvivrà la letteratura alla nuova massificazione della cultura? Quali strade le restano, se gliene restano, che non abbia ancora percorso? All’intorno, non ci sono segni di grandi novità, ma eterni ritorni su strade battute, rivelatesi di scarsa efficacia rispetto alla letteratura imposta dal mercato, all’astuzia dei suoi funzionari e alla «stupidità» dei suoi adepti. Forse è di una letteratura molto più intellettuale, che sappia darsi finalità etiche gravi e che non voglia soggiacere al ricatto della comunicazione che il mondo ha bisogno, anche se si fa di tutto perché non sappia di averne bisogno. Qualcuno ha detto che è anche nei nuovi sistemi di comunicazione che una creatività non immediatamente «consumista» potrebbe ancora risorgere. Ma i fatti l’hanno subito smentito. C’è qualcuno o qualcuna che scrive un romanzo, c’è spesso qualcuno che lo colloca ed è l’agente letterario, c’è qualcuno che lo legge e decide di pubblicarlo cioè l’editore e il suo staff, c’è qualcuno che lo stampa e non conta niente, c’è qualcuno che lo presenta ai librai ed è il distributore con i suoi promotori, c’è qualcuno che lo mette in vendita ed è il libraio, e c’è qualcuno che lo compra e poi se lo legge, oppure lo colloca su uno scaffale della sua libreria e lo dimentica lì. Ma intanto l’ha comprato e ha remunerato in tal modo il libraio, il promotore, il distributore, lo stampatore, l’editore e il suo staff, l’agente letterario e finalmente l’autore. Che prende, più o meno, dal 5 al 10% del prezzo di copertina. Se il libro è un successo, l’editore sopravvive più degnamente o prospera, e con lui il venditore il libraio l’autore. Ma perché il possibile compratore possa sapere che il

tal libro è uscito ed esserne incuriosito, altre figure devono intervenire, quelle che propagandano il libro (ufficio stampa, pubblicità) e quelle che, dalle colonne di giornali e riviste e da radio e televisioni, «recensiscono» il libro, lo riassumono, lo difendono o lo vituperano. In nome, spesso, non della qualità del risultato e della vitalità del progetto, ma più spesso in nome di un’appartenenza: di clan, di gruppo culturale, di collocazione ideologica o politica. Non c’è di che scandalizzarsi, è stato più o meno sempre così. Ma se si spezza un equilibrio tra le parti, succede come in politica quando la divisione dei poteri non è più rispettata, o come in economia quando in certi regimi non risulta da un libero gioco di forze ma è condizionata dai poteri più forti, che stabiliscono il bello e il cattivo tempo. Non si può dire che vi sia oggi in Italia un regime condizionante (per «regime» non intendo soltanto un potere unico, è ovvio, ma piuttosto un sistema), ma che vi sia un’aura condizionante, questo sì. E l’elemento più fragile della catena del libro mi pare sia proprio quello di coloro che erano i mediatori per eccellenza, in un tempo ormai andato, e che oggi contano poco e a volte niente: i critici letterari. Erano i «critici» la garanzia di un rapporto abbastanza sano tra produzione e consumo, gli esperti del cui giudizio ci si poteva fidare, e che, anche e soprattutto nello scontro dei gusti e delle idee, aiutavano il lettore a orientarsi, a scegliere. I critici sono mutati assieme a tutto il resto. È mutata l’editoria, sopraffatta dal marketing; sono mutati i lettori, sopraffatti dalla cultura dominante che possiamo tranquillamente chiamare «America» e «internet»; e perché mai non avrebbero dovuto cambiare anche i critici? Il loro spazio si è ristretto, la critica militante è andata scomparendo (nonostante l’ostinato Simonetti…), l’accademia ha dilagato e soprattutto ha dilagato quell’insieme di processi che possiamo chiamare «pubblicitari» di cui i giornali e le riviste sono vittime e alfieri, causa ed effetto. Il critico disperatamente si aggrappa alla particella di originalità che gli è permessa (che è solo di clan, che richiede, anzi esige, «l’appartenenza», una qualche affiliazione, non fosse che

generazionale), ma di fatto è una specie, come si diceva un tempo, di «velinaro», di passaparola, di accessorio pubblicitario anche (e forse soprattutto) quando lo si incita a inventare «la polemica». È compensato in questa sua dimissione o abiura dal ruolo, che spesso è ancora, ma sempre più raramente, vocazione, dalla «appartenenza»: diventa giurato di premi, funzionario di enti, consulente di feste, presentatore di eventi, con una maggior visibilità pubblica ma con la perdita secca della propria individualità e capacità di giudizio. Una volta nel meccanismo, il meccanismo ti protegge, il meccanismo ti castra. Al primo polo, quello dello scrittore, anche lì la mutazione ha portato i suoi effetti. L’acculturamento di massa, e la fine della divisione del lavoro come per secoli era stata socialmente codificata, hanno portato al dilagare della scrittura. Troppi scrivono: per il successo, per il denaro, per lo sfogo di frustrazioni inerenti alla perdita di significato dell’esperienza individuale e della sua particolarità. Credono che scrivere li nobiliti e possa renderli famosi e possa aprire a possibilità di lavoro. È la democrazia, ma non è esattamente quella per cui le passate generazioni e i più vecchi tra noi hanno lottato. Di più: chi scrive somiglia da matti a chi legge, e somiglia a chi sceglie, edita, stampa, diffonde, vende, propaganda, recensisce. È come se si trattasse sempre della stessa persona, perché i gusti sono diventati sempre più gli stessi dato che sono gli stessi le scuole i consumi i condizionamenti di cui quasi tutta la società si è fatta prigioniera. Non c’è troppo da scandalizzarsi né da deprimersi per tutto questo. Così è, e l’unica cosa che è ancora consentita al libero lettore, pensatore, recensore, se ancora ce ne sono (e ce ne sono, ma quanti?) è quella di: a) non mentire, continuando a saper riconoscere i talenti e trascurare i «prodotti» salvo che egregi nell’uso della formula e profondi di un loro nascosto discorso, sapendo che l’arte è più che «comunicazione» ma può anche essere tale, come un tempo, e ancora di recente, è spesso stata; e non farsi fregare

dai tanti vistosi o sotterranei ricatti dei meccanismi produttivicommerciali, anche se questo naturalmente ha un costo; b) non aver paura di esser parte di una minoranza anche infima; c) inventarsi spazi liberi, anche se poveri e appartati, di produzione e diffusione; d) non dar retta alle mode e grida degli scriventi e teorizzanti di successo, mettendo invece il dito nella piaga, cercando la verifica; e) continuare a studiare, e a leggere i classici, perché il confronto permette, non facendosi scolorare dalla mutazione, di veder meglio la qualità o, se novità deve essere, la novità; f) insistere nel voler riconoscere, tra le merci, ciò che merce non è, o non è solo merce. Non è semplice, ma è consigliabile provarci, se davvero si pensa di aver qualcosa da capire e da dire, e da dire ad altri.

Parlando d’arte… La sfera della politica quale oggi è

praticata e concepita non può più appartenerci, o meglio: essa ci esclude. C’è una grande palla di vetro dentro la quale si incontrano mescolano scontrano gli uomini della politica e dei media: è lì dentro che oggi si fa politica, ma a starci dentro sono in pochi, e se vi si entra è per cooptazione o per una spinta personale o di gruppo all’arrembaggio, per una volontà di entrarvi che presume la conoscenza e comprensione dei suoi meccanismi, anche se solo intuitiva. Il contatto con gli uomini comuni che viene proposto dall’interno di questa sfera è quello dello spettacolo della politica, e in tempi di crisi governative, del sondaggio (e del «mi piace» o «non mi piace» su internet), del voto. E basta. Da questa sfera io cittadino comune sono escluso, nessuno è interessato a chiedermi di «fare politica», di responsabilizzarmi anch’io nei confronti della res publica. E c’è anche chi si auto-esclude per scelta, ci sono pochi – e mi

metto fra quelli – che avrebbero la possibilità di entrare in quella sfera ma non ritengono cosa buona farlo. Il solo altro modo possibile di fare politica – a parte quello dell’occulto, che tuttavia è anch’esso più dentro che fuori dalla sfera, e quello, invero centrale, di chi davvero comanda e sta oltre, sopra la sfera, il mondo dei semidei, dei «padroni» di sempre anche se più nascosti e protetti che in passato – è infine un modo di base: ed è la politica dello spazio municipale, locale. Essa è importante e lodevole quanto più si rende autonoma dalla sfera ed elabora modi utili e positivi di intervenire nelle realtà più specifiche difendendoli dalle pressioni e invasioni che partono dalla sfera. Si riesce a essere «cittadini» solo localmente; il rapporto tra il locale e il nazionale è saltato, la mediazione è truccata. Ma naturalmente si possono riprodurre su scala locale tutti i modi e le storture del centro. E si possono, inventandosi associazioni e rotary palesi o mascherati, scegliere i servi giusti da inviare al centro, in parlamento. Esiste poi lo spazio del «sociale», e non parlo dell’infinita varietà di attività inutili, superflue, dannose cui i nostri connazionali si dedicano, quanto di quel sociale attivo e serio espresso da gruppi che si occupano dell’aiuto e dell’assistenza agli emarginati e ai deboli (immigrati, malati, bambini, tossicodipendenti eccetera), e che si inventano, per sopravvivere, le attività economiche, perlopiù cooperative, dette del terzo settore. Queste minoranze hanno molto lottato e molto proposto, ma la crisi dello Stato sociale, gli attacchi portati allo Stato «assistenziale» dal thatcherismo (berlusconiano e non solo), le hanno costrette sulla difensiva, impedendo loro di poter esprimere istanze di avanguardia, proposte trainanti. L’avvento dell’Ulivo le ha poi trascinate con sé nel corso dei suoi «successi», facendone una base elettorale importante, una mediazione importante per il consenso di giovani disoccupati e sottoccupati, promettendo sicurezza tramite fondi UE o altri, e di fatto condizionando e svilendo le associazioni e i gruppi a partire dai loro opportunistici leader (cattolici perlopiù e perlopiù preti),

niente affatto preoccupati della perdita di identità e di tensione ideale e morale delle iniziative, ma solo della loro buona sopravvivenza economica e della loro stabilizzazione legale – ancora da vecchio Stato assistenziale, appena un po’ «restaurato». Queste minoranze avrebbero dovuto allora reinventarsi, ma ne hanno perso l’occasione, e sono precipitate nelle lotte intestine, nella concorrenza sleale, nella guerra tra poveri. Resta lo spazio dell’arte (e della cultura). È dunque solo in questo spazio, come in lontanissimi tempi, che è oggi possibile esprimere istanze di radicalità nei confronti dello «stato delle cose», visto che dal politico, dal sociale, dal culturale non è venuta fuori nessuna visione profonda e convincente, e tanto meno un qualche «progetto»? Dallo spazio della politica sono state espulse totalmente o quasi la morale e la capacità di progetto, insieme al riscontro con la realtà e con la possibilità di indirizzarla al meglio o di predisporre le condizioni perché il meglio possa affermarsi. Lo spazio del sociale si è fatto vieppiù ambiguo – ché è uno dei rarissimi in cui un giovane possa infilarsi per una qualche sopravvivenza economica e trovarvi le motivazioni di lotta per sé e non solo per gli altri – e chi ne fa parte è manipolato dalla politica e dai media o assediato dalle leggi, dalle scelte economiche centrali che mirano a colpire, come quasi sempre, chi meno possiede. Lo spazio dell’arte sembra dunque essere rimasto l’unico nel quale sia ancora possibile dire la paura e l’angoscia di fronte a una realtà che non ci piace e non si condivide; dire il peso del limite, e il negativo e la morte magari per esorcizzarli; dire il bisogno di rapporti diversi e liberati e più giusti, prefigurando una realtà migliore e modi di essere e di sentire non omologati; e dire, naturalmente, il sogno e l’incubo e il mistero, il non-detto e il non-dicibile, e l’utopia, infine, e la tensione che supera il contingente, il bisogno di una rottura dell’ordine imposto dalla realtà (fisica, ma anche sociale, ma anche economica e politica, ma anche culturale)…

Si ha insomma bisogno, in arte, di un radicalismo non gratuito, e di un’assunzione di responsabilità alte e maggiori – mentre ciò che si continua a propinare sono pasticcini mielati, meschine malinconie, finte denunce, effetti speciali, fantasie morbose, spettacolarizzazioni del male, eccitanti anestetici, una per niente eccitante congerie di droghe e affini. In Italia, per nostra fortuna, esistono ancora esperienze che esprimono questa inconciliabilità e alterità. Ma meno in letteratura che negli altri campi. Qui le eccezioni al conformismo «buonista» o «cattivista» (c’è stata anche una voga «cannibalica», ma non c’è più neanche quella) sono rarissime, e vengono, mi pare, perlopiù dalle aree meno omologate e più difficili del paese, mentre dalla ricca piccola borghesia alfabetizzata, dai figli del benessere che hanno studiato qui o altrove, arrivano miopie conformi e prestampati di scarsa qualità, ma che tutti gli editori si contendono e tutti i giornali discutono. Naturalmente ciò che è radicale divide, è fatto per dividere. Ma seguire le regole della superficialità critica e morale delle maggioranze e dei loro rappresentanti istituzionali non porta lontano. Se non si ha il dono (o la condanna) di essere veri artisti (non «creativi» secondo la logica dell’iper-democrazia culturale e del «narcisismo di massa», ma proprio artisti – che, come è ben noto da sempre, sono pochi in ogni generazione), si ha il dovere di riconoscere quelli che lo sono o hanno i numeri per diventarlo, e sostenerli, difenderli, criticarli, studiarli.

La domanda da farsi… è dunque «di che arte ha bisogno il

nostro tempo?». Non mi pare siano in molti a tentare di rispondervi, oltre i ricatti delle mode e del mercato. Parliamo di teatro, cinema e letteratura, considerando i campi che posso dire di conoscere un po’. Che senso ha occuparsi di queste cose oggi? L’arte è una cosa fondamentale quanto la religione e la rivoluzione, e appare oggi più viva della politica.

Credo si debba partire dalla convinzione che, come dice il titolo del libro postumo di Luca Rastello, Dopodomani non ci sarà, domani ci sarà ancora ma dopodomani chi lo sa? Ed è solo partendo da questa ipotesi che si può, credo, affrontare il problema del «che fare?» anche in arte, partendo dall’ipotesi non proprio fantascientifica di uno scontro finale con le «forze del male», che è bensì uno scontro perduto in partenza, perché del fronte del bene non si hanno buone notizie, esiste solo il fronte del male, e gli scontri del male col male sono i soli a risultare certi… Se non ragionano su questo, e sulle possibilità che si hanno ancora di intervenire, per quanto scarse, a cosa servono il teatro, il cinema, la musica, se non a rallegrare le nostre agonie e a farci dimenticare che si è sull’orlo dell’abisso? Se si pensa a chi ci governa, c’è davvero da spaventarsi, e però cantiamo, balliamo, suoniamo, scriviamo, facciamo trasmissioni radiofoniche, sbaviamo su internet, occupandoci di tutto ciò che è effimero e «attuale», vivendo alla giornata, convinti che domani sarà un altro oggi simile a questo spensierato oggi. Credo sia utile partire, per ogni discussione seria, dalla possibilità di un disastro pre-finale, un’ipotesi molto concreta, forse l’unica che può spingerci ad agire. Pensiamo alla storia delle arti nel primo o nel secondo dopoguerra, dopo il massacro di milioni e milioni di persone. All’epoca, gli artisti hanno risposto rifiutando la cultura borghese, la tradizione borghese che aveva portato il mondo al massacro, e si è avuto il fenomeno delle avanguardie, nel secondo dopoguerra quello delle nouvelles vagues in quasi tutte le forme d’espressione. Del resto, chi era Godard se non un bambino che aveva vissuto gli anni della guerra? Allora, dopo la guerra, bisognava porsi il problema di come evitare che il massacro si ripetesse, e ragionare su cosa proporre per cambiare il mondo in qualche direzione migliore, di come combattere per riuscirvi. Si riproponeva, non solo agli artisti, l’eterna domanda: «che fare?». Dopo l’ultima guerra ci sono stati anni gloriosi, come dicono gli economisti, perché l’economia tirava, c’era speranza.

Erano gli anni della decolonizzazione, di Gandhi e dell’India, di Mao e della Cina, di Guevara e dell’America Latina, ma anche dell’URSS – che invece di sposare queste nuove rivoluzioni voleva controllarle o bloccarle, servendosene per i suoi interessi, anche in modi subdoli e feroci – e anche degli USA, patria dell’imperialismo capitalista, dove però una generazione nuova propose nuove speranze. È stato, nonostante tutto, per la storia del mondo, un momento di formidabile vitalità, nella convinzione di essere nel giusto e nella convinzione che ce l’avremmo fatta, che avremmo vinto. Gli anni di Camus, Weil, Arendt, Brecht, Tarkovskji, Grotowski, Beck, Beckett, Rossellini, Ronconi, i Beatles, il rock, Dylan, Kurosawa, Ōshima, Calvino, Morante, Ortese, Beauvoir, Volponi, Pasolini, Licini, Schifano, Cortázar, Rulfo, Arno Schmidt, Böll, Grass, Achebe, Grossman, la pop-art, eccetera eccetera eccetera. Forse fu Beckett il più lucido nel capire quel che sarebbe venuto dopo, quel che si andava preparando. Per la narrativa italiana il periodo tra il 1945 e il 1970 fu un’epoca di capolavori, opera di autori maggiori e anche di quelli detti minori, una letteratura oggi diventata, con le poche eccezioni che sappiamo e alle quali siamo da sempre attenti e contigui, di una mediocrità assoluta. Oggi la letteratura è un disastro, il teatro quasi, mentre il cinema, chissà perché, miracolosamente resiste. Noi abbiamo oggi il cinema migliore in Europa, uno dei migliori del mondo, ma ovviamente non è quello ufficiale sponsorizzato dalle banche e dai salotti inter-partitici romani. Ci si chiede: perché questa grande vitalità del cinema e non, mettiamo, della letteratura? La prima spiegazione è che il cinema impone un rapporto con gli altri e con la storia, mentre la letteratura invece impone solo il rapporto con il computer, i manuali di sceneggiatura delle TV, le malaugurate scuole di scrittura. Si producono merci, per di più scadenti. Nel teatro è più o meno lo stesso, anche se il teatro è comunque gruppo e si confronta comunque direttamente con un suo pubblico, oltre le passerelle dei festival.

Bisogna chiedersi il perché di queste differenze. Perché non c’è una generazione che in qualche modo attraversi le varie forme artistiche e senta l’urgenza di dire quel che il potere non vuole si dica? Di fatto, c’è una censura del mercato, che va dalle sale cinematografiche agli editori, che vogliono una merce rapidamente deperibile perché questo fa girare i soldi e accontenta le banche. In teatro, resistono pochi luoghi di incontro e confronto (e grande è il dispiacere per la decadenza di luoghi necessari come fu, per esempio, Santarcangelo di Romagna). Ci sono alcuni outsider, è vero, alla Morganti, ma quanti? E quanti cercano e non si chiudono narcisisticamente in una presunta diversità? Ci sono poi, sempre in teatro, dei simpatici gruppetti che però non riescono a interpretare e vivere coscientemente l’epoca, anzi, quasi sempre, non gliene importa niente e si divertono a fare cose più o meno carine per un pubblico altrettanto privo di vasti ideali… E non è diverso da quel che fanno tanti giovani scrittori, ai quali importa credere di esistere ma non di creare qualcosa che davvero riesca a interpretare e raccontare il nostro tempo, il suo fondo, le sue ipocrisie e censure. Basta raccontarsi, non raccontarlo! Mentre Minervini, Marcello, Rohrwacher, Garrone, Savona, Ferrente e altri ancora sono persone che pensano a un’arte per questa nostra epoca e proprio per questa, un’arte che metta il dito nelle piaghe dell’epoca, nel suo nascosto e nel suo palese, e affronti i suoi problemi, le sue finzioni, le sue incertezze, le sue paure. I ricchi sono contenti e stanno bene, chi ha di che vivere non pensa al domani. La produzione artistica e culturale ne consegue, in una mediocrità che vuol dire medietà. Si scribacchia in maniera decente, si raccontano cose spesso vagamente interessanti, però quello che manca è lo stile, mancano scrittori distinguibili dagli altri per il modo di scrivere; autori che si scontrano con la pagina e cercano un proprio linguaggio. Una volta questo era imprescindibile. Uno che si metteva a scrivere doveva inventarsi un modo di scrivere diverso dagli altri, e se non lo faceva finiva nel mare magnum delle mode, del consumo. Anche del neorealismo, per esempio. I veri capolavori di quell’epoca sono alla Rossellini o

alla Fenoglio, quelli che escono dal neorealismo, dalle correnti dominanti. Il più grande scrittore italiano era forse Gadda, che detestava il neorealismo, che si diceva barocco. Perché ora c’è questo appiattimento? Un tema vale l’altro, come la famiglia (il tema più banale), il ritorno a casa, chi-ammazza-chi, ma il tutto è a un livello di piattezza nel linguaggio, nella scrittura. E viene dalla piattezza dell’esperienza di chi scrive. Lo stesso problema c’è nel cinema ufficiale, quello «romanesco», dove usano tutti lo stesso linguaggio. La grandezza del cinema italiano sono gli autori con un’impronta, che cercano un loro stile, non solo un tema interessante e appetibile. C’è disinteresse del pubblico per il cinema, cosa che non avviene con la letteratura e, per motivi più comunitari e ristretti, per il teatro. Il legame pubblico-cinema è saltato da trent’anni. L’ultimo momento rilevante sono stati gli anni Settanta, un momento che in Italia portava le masse a vedere i poliziotteschi e gli spaghetti western, Lino Banfi e il porno, ma che in America dava Kubrick e Altman… Di fronte alla crisi del cinema i produttori americani intelligenti davano spazio alla novità e cercavano gli autori emergenti, ma poi hanno smesso perché il cinema è stato inglobato dalle banche di New York, che hanno rinchiuso il cinema in progetti di investimento che comprendono i gadget e in ruolo secondario le televisioni. Il cinema in quanto rapporto con il pubblico non c’è più: il rapporto è stato annientato attraverso la pubblicità. I film hollywoodiani, quelli grossi, investono in pubblicità almeno un terzo del budget, e stiamo parlando di miliardi. C’è un sistema economico che diventa, anche se non esplicito, piano politico. In fondo la letteratura e il teatro sono ancora versioni marginali, individuali o inter-individuali, ma il cinema è come i giornali, è uno strumento di manipolazione delle coscienze che fa parte del piano del capitale. Cosa vuoi che sia il budget della Mondadori rispetto a quello della Warner Bros o della Banda Spielberg? E da quel punto di vista, c’è un’idea di che cosa la gente debba vedere che ha due poli: il cinema spettacolare o il super-spettacolo, che può essere tante altre

cose compreso il web. Ma non è più un pubblico, perché non è più una comunità; sono esseri isolati, «sciame» come direbbe Byung-Chul Han. Per cui il cinema o è minoritario, e si assume questa vocazione, o entra in quegli altri meccanismi; in mezzo ci sono solo il para-televisivo e le serie. Il cinema è morto per come l’abbiamo conosciuto dai Lumière alla fine degli anni Settanta, è scomparso perché senza pubblico non può esistere. I registi dovrebbero allora rendersi conto di essere un’avanguardia che ha un’estrema retroguardia alle spalle: il cinema è oggi in pieno dentro la crisi, ma può contribuire a cercare e a offrire delle risposte. Se i fenomeni del passato hanno avuto un ruolo e un’importanza, è stato perché erano fenomeni sociali. Su questa strada anche il teatro ha forse ancora qualcosa da offrire, mentre la letteratura continua solo come intrattenimento. Una letteratura di ricerca in Italia oggi non c’è, non ci sono sperimentazioni, non ci sono gruppi, non ci sono manifesti. Nel cinema sì, e in questo sta la sua grandezza ma anche il segno della sua sconfitta sociale.

CAPITOLO QUINTO

Pedagogia e profezia

Benché giovani… Si intitolava La scuola è finita un piccolo,

prezioso libro edito dalle edizioni Sonda: una ventina di cartelle o poco più accompagnate da una breve intervista all’autore, un parigino che ha superato i cinquant’anni, che fa l’insegnante e dichiara con un giusto orgoglio che è questa la sua vocazione. Molto diffuso in Francia, soprattutto nel mondo della scuola, non mi pare che in Italia nessuno abbia voluto accorgersene, tanto meno gli insegnanti. Yves Grevet – che può anche sembrare un anti-Pennac, perché anti-seduttivo – scrive romanzi per ragazzi, tra i quali una trilogia pubblicata sempre da Sonda, La Casa, L’Isola e Il Mondo, che possiamo ascrivere al genere della fantascienza, e piuttosto alle distopie che non alle utopie, poiché vi si ipotizza un futuro in cui la vita non è affatto facile per chi vi deve crescere. Di futuro parla anche La scuola è finita, un racconto didascalico che tratta di un futuro probabilmente vicino, senza calcare le tinte e senza prediche ricattatorie. Che tipo di futuro, per la scuola? Tre modelli. Una scuola per i figli dei ricchi, che li addestra alla gestione del comando. Una scuola per i figli dei poveri, che li addestra a qualche mestiere considerato basso e che agisce di fatto, nonostante le forme, come un luogo di lavori obbligati, forzati, dove gli insegnanti si chiamano «promoter pedagogici», invece che prof o maestro, e gli allievi vengono chiamati «bambini aziendali» dagli studenti delle scuole dei ricchi. E infine una

terza scuola, clandestina o «della Resistenza», che è quella che vecchi insegnanti tardo-umanisti e genitori che non accettano il modello di società imposto dal potere e dalle sue regole inventano e frequentano, con tutti i rischi in cui incorre chi si mette fuori della legge. I suoi insegnanti «rischiano ogni giorno la galera per l’esercizio illegale dell’insegnamento e pesanti multe per furto di manodopera infantile». «All’inizio del ventunesimo secolo la gente», dice la piccola protagonista, «la gente non è stata in grado di rifiutare quello che le veniva imposto. (…) La maggior parte dei grandi dice che ormai è troppo tardi. Ma i miei compagni e io sogniamo tutti di cambiare questo stato di cose, e ci siamo ripromessi di riuscirci un giorno». Il quadro delineato da Grevet può diventare reale? È molto pessimista, ma niente affatto improbabile. La messa in guardia è utile, indispensabile.

La scuola come zona grigia… È bene insistere: la scuola

è a pieno titolo una parte consistente e rappresentativa della «zona grigia» della società italiana. Non da adesso ma da sempre, e adesso più che mai. Cosa intendiamo per «zona grigia»? Semplicemente gli ignavi, coloro che si lasciano vivere e accettano lo stato di cose presenti ritagliandosi una fetta di sopravvivenza, per sé e per i propri cari, secondo l’ordine stabilito dall’alto, da chi comanda e decide, sulle loro spalle. Tutto comprensibile e tutto, se vogliamo, giustificabile, ma non se riguarda coloro che dovrebbero occuparsi delle nuove generazioni, prepararli ad affrontare la vita e le sue asperità, impartir loro «il pane del sapere» che vuole anche dire, o voleva dire, saper distinguere il bene dal male. Si discusse a lungo, un tempo, sulle origini della scuola pubblica: l’avevano voluta le classi dirigenti per avere mano d’opera adeguata alle esigenze dello sviluppo, o invece erano state costrette le classi dirigenti a «inventarla» dalla spinta popolare, dalle lotte della classe operaia? Probabilmente la verità stava nel mezzo: senza le lotte il potere, se appena ne può fare a meno, non concede un bel niente, ma se si tratta di

un potere intelligente, esso deve tener conto delle esigenze dello sviluppo, non può avere a disposizione per i suoi piani solo degli analfabeti. Probabilmente ci sono stati dei momenti, anche lunghi, dopo l’Unità e con l’affermazione del movimento operaio e socialista, in cui gli interessi degli operai e quelli dei padroni hanno coinciso. Lo stesso è accaduto negli anni della ricostruzione, nel secondo dopoguerra, e questo ha significato un incontro positivo, uno slancio collettivo: l’istruzione era una necessità per tutti, e non poteva essere riservata ai figli della classe dirigente, ai figli dei «padroni». Insomma, la scuola è stata una necessità e un progresso per tutti, ed è questo ad averle dato l’aura di nobiltà di cui ha potuto ammantarsi per più di un secolo. E alla scuola si sono dedicati, scegliendola come loro campo d’azione (si pensi in particolare, fino alla riforma Gentile, alle elementari e all’università ma non solo), delle persone profondamente o abbastanza motivate, persuase. La scuola è stata uno strumento di conoscenza e di coscienza di sé per i «figli del popolo lavoratore», è stata uno strumento di civiltà. I «lumi» sono discesi verso le basi secondo vecchi sogni e utopie, per abbattere le barriere di classe, per permettere al popolo di sapere e, sapendo, di difendersi. Col tempo si è creata una netta divisione tra le «elementari» e le «superiori», parole che rimandano alla scala sociale e non solo all’età degli allievi. I «figli del popolo» sono stati esclusi – fino a tempi recenti, diciamo fino a don Milani e al vituperato ’68 – dalle «superiori», riservate ai figli della piccola borghesia, mentre la borghesia al timone ha avuto da sempre il gusto e il privilegio di potersi inventare le proprie scuole, spesso affidate a ordini religiosi particolarmente sensibili alla formazione della classe dirigente, per motivi su cui non è il caso di insistere (peraltro, come è sempre stato della chiesa, ci sono stati ordini religiosi che si sono dedicati, con risultati alterni, alla formazione del popolo). Col tempo, come abbiamo visto, la «vocazione» ha riguardato una parte sempre più piccola degli insegnanti, e tra questi in

maggioranza i maestri elementari e molto meno i professori di scuola media e superiore. Col tempo, gli insegnanti delle superiori si sono fatti «vestali delle classi medie», secondo un’ideologia e un sistema di valori meschinamente ristretti, e ha prevalso tra loro l’ideologia del «posto fisso» e «statale» (secondo la vecchia convinzione che «lo Stato non fallisce mai»). Col tempo, quella che già era una parte molto consistente e anzi maggioritaria del ceto pedagogico si è ingrandita a dismisura. Per un insegnante bravo e «con vocazione», quanti imbecilli non abbiamo tutti conosciuto nelle nostre esperienze di scolari? Una maggioranza per la quale potrebbe valere la battuta che il dottor Johnson, di gradita memoria, riferiva all’esercito: come l’esercito, anche la scuola era diventata l’ultima spiaggia dei falliti altrove. Compresi, purtroppo, sessantottini e post, con la bandiera rossa facile facile e la chiacchiera ancora più facile. Una scelta di plumbea e soddisfatta mediocrità. Questa professione è stata però sottoposta, nel ventennio berlusconiano, a una sorta di decadenza obbligata. Se prima le agitazioni degli insegnanti potevano perfino mettere in crisi i governi, da un certo punto in avanti nessuno le ha più prese sul serio, a cominciare dai «riformatori» della sinistra (o, per dir meglio, dai membri del Partito comunista e poi dei suoi affannosi e inutili avatar). E si è arrivati, dopo gli illusi soloni del PCI, all’ascesa al ministero e al governo di amici e amiche pescati nella corte del Signor Presidente. Ma questo dipendeva anche dal fatto che la scuola contava e conta sempre di meno e che si trattava e si tratta semplicemente di liberarsene. La nuova economia e la nuova finanza prevedono un’oligarchia di eletti, molti pretoriani e molti lacchè specializzati al loro servizio, e una massa amorfa e sterminata, e se fosse il caso sterminabile, di servi privi di competenze. Finita l’agricoltura, finito l’artigianato, finita perfino la fabbrica, la cultura non ha più bisogno di basi e riferimenti materiali e di classe: resta lo strumento centrale del dominio sulle coscienze, ma è anche un aspetto fondamentale della nuova economia. La sua attuale natura è fatta di superficialità,

dell’onnipresenza della pubblicità, della costrizione consenziente al non-pensiero da parte delle masse. Dell’incapacità per tutti di saper collegare i fenomeni, di vedere la realtà. E per i pochi che ancora sanno vederla, della sensazione di assoluta impotenza, più o meno compiaciuta, accettata. La cultura, come oggi il potere la intende, non è più conoscenza (e conoscere, diceva un saggio, può far molto soffrire), ma – più di quanto lo sia mai stata – uno strumento di ottundimento delle coscienze tramite il divertimento, il consumo, l’illusione narcisistica della straparola sul web. Così i nostri figli e figlie e i loro padri e madri (e nonni e bisnonni) non hanno più bisogno della scuola, bastano loro internet e il mercato. Diverso è evidentemente il caso dei figli degli oligarchi e dei loro servi, che si danno scuole debitamente e costosamente «private». Ecco quindi che gli insegnanti non servono più, e che di loro ci si può liberare senza fatica. Si arrangino, come fanno tutti: il futuro è precario ma non appartiene certo al precariato. A meno che il precariato non «prenda coscienza» e si ribelli. Però non solo sul piano economico (anche perché protestare e scioperare non serve più a molto, in una «fabbrica» svuotata di necessità, e nessuno sembra disposto ad ascoltarti tra i politici che ti hanno chiesto, da anni e anni fregandoti, di farti rappresentare da loro), ma proprio sul piano di una cultura insieme rinnovata (adeguata all’epoca che viviamo) e antica, cioè fondata sui valori di fondo della convivenza umana. Che non sono certamente quelli dei demagoghi di turno, ma quelli a partire dai quali la parte migliore dell’umanità ha lottato da sempre: l’uguaglianza nell’equilibrato riconoscimento dei bisogni e dei meriti (e il punto d’arrivo è ancora: da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo le sue necessità… anche se cum grano salis), l’equilibrio delle risorse nel rispetto della natura, la convivenza e la solidarietà tra simili e diversi, e in definitiva «l’amore del prossimo» (il punto di partenza, diceva don Milani), anche perché il prossimo siamo noi. La brutalità della società attuale – e bisogna ormai diffidare immediatamente di coloro che si ostinano a difenderla, che non osano metterne in discussione le

basi, cioè né più né meno che il capitalismo – non permette rinvii. Al periodo di lotta che prima o poi dovrà pur riaprirsi, stante la politica asservita alla finanza, il ceto pedagogico non darà certamente un grande contributo, perché nel frattempo esso si è frantumato e avvilito, ha perso la voce, non si è ancora ripreso dallo choc dopo aver constatato di non contare più niente. Eppure… Eppure la zona grigia non è mai stata uniforme, non lo era ieri e non lo è oggi. Va dagli abbrutiti senza rimedio agli anestetizzati che potrebbero anche risvegliarsi dal loro sonno lungo e ottuso. Al suo interno, perfino all’interno del ceto pedagogico, ci sono disagi, sensibilità, istanze che possono produrre qualche novità, o meglio: che possono contribuire alla resistenza e contribuire all’attacco. Anche qui, però, bisogna che gli insegnanti migliori si liberino finalmente della loro presunzione di contare ancora qualcosa, della convinzione di essere bravi e necessari, e di esser loro (alcuni ci credono davvero!) che tengono alta la bandiera della conoscenza e perfino della socialità! È solo a partire dalla constatazione della propria inutilità e viltà che potrebbero ancora contribuire a qualche novità, o quantomeno a rompere le scatole al potere, da cui si sono lasciati usare e annichilire per non aver compreso le mutazioni cui il nuovo contesto economico li e ci costringeva, e per non aver saputo contrapporvisi. Diciamolo: il ceto pedagogico non è una categoria di cittadini particolarmente simpatica. Ho un sacco di amici che ne fanno parte, e alcuni mi rimproverano mentre altri mi approvano. Ma se sto a sentire i loro sfoghi e racconti, il mio malumore e la mia diffidenza non fanno che aumentare. D’altronde, esistono forse delle categorie di cittadini che siano particolarmente simpatiche in quanto tali, compresi gli operai di fabbrica? Ho trovato dovunque la consueta distinzione tra maggioranza e minoranza. E penso a tutte le inutili manifestazioni di solidarietà con questa o quella categoria in lotta cui ho preso parte nella mia vita, e di cui oggi mi capita spesso di pentirmi…

È vero quel che si dice, e ci si dice tra amici quando si evocano i nostri anni di formazione, che abbiamo tutti conosciuto qualche insegnante che ci ha stimolato e aperto le idee, che ci ha aiutato molto anzi moltissimo. (Per mio conto, confesso di averne incontrata una sola, alle magistrali, ed era, guarda caso, un’insegnante allieva di Gentile che si diceva fascista: una, nei molti anni sofferti sui banchi di scuola tra elementari, medie e superiori, e tra tanti scaldacattedra ascoltati per obbligo). Tutti dobbiamo qualcosa a un certo insegnante, a una certa insegnante, ma mai agli insegnanti come categoria, e se dobbiamo qualcosa alla scuola è solo perché essa è diventata ben presto un luogo, bensì obbligato (la «scuola dell’obbligo»), di incontri tra bambini e ragazzi da un lato e figure di adulti che non erano genitori o parenti dall’altro (fuori della scuola questi incontri si sono fatti rari, e determinati dagli adulti, non dal caso e dalla comunanza di bisogni, dal vicinato e dalla strada). Da questo si è imparato, e anche molto, nel bene e nel male. In modo del tutto residuale questo è vero ancora oggi, ed è più rilevante di ieri in quanto «fuori della scuola», e cioè «nella vita», è accaduto che la «vita» si è impoverita, si è ritratta anzi rattrappita, si è involgarita trascurando i bisogni reali dei bambini a favore di quelli imposti e fittizi del mercato, e le esperienze d’incontro si sono, per i più, estremamente ridotte. Il paradosso post-moderno della scuola è che essa, che ieri strappava i più ad altre esperienze, non sempre meno valide, permette oggi ai più esperienze certamente povere ma che sostituiscono, per quanto male, un immenso vuoto di esperienze. E ancora oggi, nella scuola, è possibile incontrare un adulto che ci comprende meglio dei nostri genitori, che sa aiutarci meglio dei nostri genitori. Succede, succede ancora; è vero, è verissimo. Ma questo non fa che acuire il nostro disagio quando si parla di scuola e di insegnanti. E se ieri era possibile distinguere tra gli ordini di scuola e considerare le elementari come un luogo pieno di «insegnanti con vocazione» dotati di una qualche preparazione per il loro lavoro, specialmente da quando si cominciò a parlare di «scuola attiva» e di «metodo globale», mi si dice oggi che

neanche questo è più così vero, e che le elementari, il più utile e anzi indispensabile degli ordini scolastici, si vanno riempiendo di insegnanti senza vocazione e senza preparazione, preoccupati anzitutto, quanto a metodi di insegnamento, di opprimere i loro allievi di compiti da fare a casa. A ogni modo, anche nel caso in cui uno Stato e una società sempre più oligarchici e manipolatori decidessero di fare a meno della scuola pubblica (e sta già accadendo), le elementari resterebbero indispensabili: che i comuni cittadini sappiano «leggere, scrivere e far di conto» è utile anche a chi li comanda e ammaestra, no? Diverso è il discorso per le medie, almeno le inferiori, che coprono l’età più delicata di tutte, cioè il passaggio dalla minorità alla maggiore età. Qui, tradizionalmente, gli insegnanti non erano tenuti ad avere una preparazione specifica, di tipo pedagogico e didattico, e tanto meno di tipo psicologico. E sì che «l’età evolutiva» ne ha di problemi da affrontare, di salti da compiere, di tormenti da provare! Più, credo, di qualsiasi altra età della vita. Questo in passato, perché negli ultimi decenni i nostri pedagogisti l’hanno posta al centro della loro attenzione, con scarsa considerazione per la psicologia – che la chiamava, studiandola, «pubertà» – e con grande considerazione per la didattica. Ma se consideriamo la pedagogia come una scienza unica, che può riguardare perfino l’educazione (o rieducazione) degli adulti, allora è giocoforza constatare l’abissale differenza tra i pedagogisti di ieri e quelli delle «scienze della formazione» di oggi, più tecnicistiche che umanistiche. Sono poche le collane di pedagogia presenti sul mercato oggi, molte erano quelle di ieri, e il loro taglio appare, al confronto, molto diverso. Quelle di ieri abusavano spesso di discorsi retorici e generici e a volte di un umanesimo un po’ melenso, ma avevano alla base una forte spinta ideale soprattutto sul fronte laico (e penso alla straordinaria collana dei «pedagogisti antichi e moderni» della Nuova Italia di Firenze voluta dai Codignola) e una fortissima esigenza democratica. Anche nell’insistenza sui metodi dell’insegnamento, che trovarono in arditi insegnanti «qualsiasi» delle elementari (e nel formidabile gruppo storico

del Movimento di cooperazione educativa) degli avveduti sperimentatori e innovatori, il cui lavoro era in stretta sintonia con le riflessioni dei pedagogisti migliori, i più attenti alla realtà concreta della scuola, che insomma frequentavano la scuola, entravano nelle classi e dialogavano con gli insegnanti e verificavano, studiavano, soprattutto imparavano. Quelle di oggi sono di un tecnicismo esasperato, e di un fondo ideologico che ha le sue radici nello «sviluppo» capitalistico e comunistico di ieri, in una sorta di neofordismo che li ha posti decisamente, soprattutto quelli venuti dall’area comunista, «dalla parte dei padroni» invece che da quella dei servi. Penso in particolare, fino ad appena ieri, a quella del CIDI edita dalla Bruno Mondadori, nonostante alcuni autori o gruppi moralmente e pedagogicamente più esigenti, e penso alla mole infinita di calcoli e chiacchiere perfettamente dimenticabili prodotta dai vari IRSAE, istituti regionali, così spesso parassitari, che si sono occupati di medie e superiori, ribaltando le priorità pedagogiche del passato e in qualche modo contribuendo a declassare le elementari, togliendo loro peso e valore. Anche perché i «professori» delle medie e superiori che si sono sempre sentiti superiori ai «maestri» trovavano, nell’ascesa del ceto medio, nella cetomedizzazione del paese, un terreno assai fertile per affermare una loro centralità. Con il malaugurato aiuto della «leva» del ’68, che fu pochissimo portata a farsi «maestra» e molto portata a farsi «professoressa», nonostante si dichiarasse donmilaniana. In definitiva, il passaggio è stato, nel corso del tempo e a partire dagli anni del «miracolo economico», da una pedagogia «calda» a una pedagogia «fredda», dall’accento posto sulla formazione dell’individuo, della sua personalità e dell’autonomia delle sue scelte, all’accento posto sul suo posto nell’economia del paese, nella convinzione rivelatasi risibile di uno Stato in grado di modernizzarsi perpetuamente e di assorbire personale specializzato. Magari accostandosi ai più raffinati rami della semiologia e a una creatività da pomeriggio televisivo domenicale! E la scossa portata a suo tempo dalla

crisi non ha affatto prodotto ripensamenti o portato i «pedagogisti alla bolognese» a migliori consigli… Il risultato è la grande miseria e inutilità della pedagogia contemporanea, con eccezioni davvero rare, anche perché i vecchi pedagogisti sono morti e i giovani tardano a spuntare, imbracati nelle illusioni che hanno coltivato, da cui si sono fatti affascinare. O, come hanno detto due intellettuali colti e spiritosi come Fruttero e Lucentini, per la «prevalenza del cretino». O, come avrebbe detto in modo più angosciato Elsa Morante, per l’«irrealtà» della società contemporanea.

I veri maestri… È un bel momento per un educatore

quando scopre che la persona che ha contribuito a formarsi – a formarsi, non a formare – è diventata più brava del suo maestro (o, va da sé, della sua maestra). Parlo, è ovvio, di allievi/e giovani di maestri/e adulti, di giovani e di adulti e non di bambini e di adulti, e parlo più di gruppi e associazioni e iniziative e carriere, anche di seminari e palestre, anche di centri professionali e centri di ricerca, che non di scuola. Nella scuola penso soprattutto all’università, ma queste osservazioni possono riguardare anche i licei, o almeno a certi insegnanti più bravi o più «carismatici». È su questo punto che si distingue, mi pare, il vero educatore dal mediocre e dal cattivo educatore. Nel mondo e nella scuola di oggi si incontrano soprattutto figure del secondo tipo, educatori che nel loro settore sono talvolta anche bravi ma che, in conseguenza delle mille frustrazioni che tutti prima o poi si è costretti a subire (la società permette solo a pochi di «emergere» e di «diventare importanti»), danno peso a se stessi più che a coloro per cui lavorano, anche se il fine, la ragion d’essere del loro lavoro è proprio il raggiungimento dell’autonomia da parte del loro allievo o destinatario, secondo la vecchia legge non scritta di «aiutare gli altri affinché si aiutino da sé». L’educazione ha da essere «generativa», dicevano Diotima e il suo allievo Socrate… E invece è una delle maggiori storture di ogni consesso umano quella per cui nessuno, salvo gli arrivisti della società dello spettacolo e della politica-spettacolo (e a volte

perfino dell’educazione), sembra avere quel che ritiene di meritare. Il risultato, in educazione, è che le frustrazioni del maestro finiscono sempre per ripercuotersi sull’allievo. Il cattivo «maestro» non tollera che il suo allievo ne abbia altri altrettanto importanti. Anche se nessun maestro vero ha avuto nella vita un solo maestro. Si rilegga all’inizio dei Ricordi di Marco Aurelio il lunghissimo elenco di persone da cui il saggio imperatore dice di avere imparato qualcosa, e se di morale o di scienza e tecnica o di pratiche specifiche o altro ancora non cambia, ma qualsiasi onesta autobiografia di un personaggio importante e di una persona perbene finisce per dirci questa stessa cosa. L’aver avuto un solo maestro andrebbe dunque considerato come una perdita, anche se ce n’è stato uno che ha influito più di ogni altro ed è diventato per l’allievo un modello, il punto di riferimento principale. Ci sono dunque maestri che tendono a riprodursi nei loro allievi e cercano di farne, consciamente o inconsciamente, cloni o servi (la seconda strada è la più affollata). E altri che, anche soffrendo se un loro allievo finisce per prendere una strada diversa da quella da loro sperata o si accosta ad altri insegnamenti che si aggiungono ai suoi e a volte li sostituiscono, pensano soprattutto alla maturità del loro allievo, e vedono nella sua autonomia un effetto positivo del proprio insegnamento. È di questi Maestri che oggi si ha più bisogno, proprio perché sono soprattutto gli altri, i fabbricanti di cloni e di servi, ad abbondare.

Elogio degli analfabeti… Di recente Ginevra Bompiani,

narratrice e saggista e fondatrice delle edizioni Nottetempo, ha raccontato in un aureo libretto, L’ultima apparizione di José Bergamín, la figura di un grande intellettuale spagnolo (cattolico professante, anche se di lui si diceva che fosse più incuriosito dall’azione di Satana che da quella di Dio), il quale ha passato la metà o quasi della sua vita in esilio perché si schierò a suo tempo dalla parte della Repubblica. È un ritratto affettuoso e acuto che mi ha fatto tornare alla mente un saggio di quel maestro dell’aforisma, Decadenza dell’analfabetismo.

Siamo davvero convinti che un analfabeta sia meno intelligente di un alfabetizzato? Ho conosciuto anch’io Bergamín, che collaborò tra l’altro con Luis Buñuel al soggetto di L’angelo sterminatore, ma non è di lui che voglio parlare, né del libro che lo ricorda. Piuttosto della condizione degli alfabetizzati, anzi dei laureati, nel nostro paese. Giovanni Solimine, generoso specialista in archivi e biblioteche, ha scritto un saggio molto documentato sul «costo dell’ignoranza in Italia», Senza sapere (Laterza, 2014), pieno di dati sulla decadenza dell’istruzione nel nostro paese. Il saggio, contrariamente ad altri, tiene conto anche della qualità e del livello dell’istruzione, e si chiede dunque se «convenga ancora andare a scuola». Riprende cose che diceva a suo tempo anche un grande linguista ed educatore come Tullio De Mauro. Per mia esperienza diretta, posso dire di aver conosciuto tantissimi analfabeti (in Umbria, in Sicilia, in Sardegna, in Abruzzo…) e di essermi trovato benissimo in loro compagnia, discutendo di maggese e di sodo, di meteorologia e di geografia, di storia e di popoli (di migrazioni), di filosofia e religione, per le grandi domande che tutti si fanno o si facevano su chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo, che erano i contadini e pastori analfabeti i primi a porsi. Il grande poeta spagnolo Miguel Hernández, autodidatta, morto nelle prigioni di Franco, aveva vissuto infanzia e giovinezza facendo il pastore, e intitolò la sua prima raccolta di versi Perito en lunas, perito nel senso in cui si parla per esempio di «perito agrario»… In questo gli analfabeti (e, ripeto, i contadini) sono stati per secoli ben più colti dei letterati e dei legulei, certamente più «scienziati» e più «filosofi» di loro. Più dei giovani letterati di oggi, certamente, perché: che tipo d’istruzione ricavano dalla scuola e in particolare dall’università i nostri giovani laureati? Ha, questa istruzione, una sua reale necessità o non è troppo spesso qualcosa di bizantino e di superfluo? Serve davvero, come promette, a trovare un lavoro? Rende gli individui più coscienti dei loro doveri, dei loro diritti, e più disposti a ragionare sui problemi di tutti, a cercarne soluzioni? L’italiano «normale» non vota «per discernimento», constata Solimine, ma per suggestione. I

figli dei ricchi non studiano in Italia e l’uguaglianza delle opportunità che la nostra Costituzione reclama è un’illusione. E così via. Siamo messi male in rapporto a molti altri paesi, ma Solimine, e tanti con lui, sembra ancora fidare in qualche buongoverno futuro che ristabilisca regole di parità e di civiltà, e proponga un sistema di istruzione qualitativamente adeguato a un’idea di democrazia che a me pare sconfitta da tempo. Il potere – chiamiamolo pure con il suo nome e non con le perifrasi della sociologia accademica! – è nelle mani di pochi, e questi pochi non amano né la democrazia né l’educazione, amano solo i propri privilegi (e quelli dei loro figli) e pensano solo ai modi per conservarli, anzi per accrescerli. Molti anni fa Eduardo De Filippo si rivolse ai giovani napoletani gridando loro: «Fuitevenne!», andate via dalla vostra città, da questo paese! È quello che tanti giovani oggi fanno, né onestamente si può dar loro torto.

CAPITOLO SESTO

Il «sociale» senza politica

Il sociale non pensa… Il cosiddetto «sociale», l’area

vastissima dell’intervento sui problemi più gravi della nostra società messo in atto verso le categorie di persone meno protette, l’area formata dalle tante associazioni e dai tanti gruppi di quello che un tempo si definiva volontariato, non riesce a crescere e a farsi movimento, a trovare linee comuni, obiettivi comuni. Tante cose unirebbero queste associazioni e questi gruppi, ma è come se non volessero rendersene conto, come se pensassero che divisi possono sopravvivere meglio, come – e questo è più grave – se si annidasse tra loro uno spirito di concorrenza non meno egoistico di quello dei padroni del mondo. È colpa dei tempi, si dice, ed è vero. I tempi ci hanno dato la parcellizzazione delle esperienze, la fine o la miseria corporativa ed egoistica delle grandi organizzazioni, in particolare di quelle politiche e di quelle sindacali, la morte del welfare voluta dal potere economico e accettata da quello politico. Ma anche il dominio della tecnica e della chiacchiera (detta spesso cultura!), la fine del lavoro come lo hanno inteso le passate generazioni, la disoccupazione e il precariato giovanile. La lotta per la sopravvivenza è tornata ad avere aspetti darwiniani, e si sopravvive anche fondando iniziative benefiche, a volte solo tappabuchi, a volte solo superflue come la grandissima parte di quelle della cosiddetta comunicazione, e qualche aiuto le associazioni più

accorte riescono a trovarlo nell’Europa dei bandi, nelle fondazioni internazionali e a volte nazionali (che servono a tener buoni coloro che si è voluto immiserire), e in quel che resta delle nostre istituzioni. Per una parte di loro, la cosa che viene prima di tutte le altre è, anche se non osano dirlo ad alta voce, la propria sopravvivenza, mentre secondario è l’aiuto che si dà a chi ne ha bisogno. Le meglio quotate sono quelle che sanno fare progetti approvabili e finanziabili, che sanno leggere i bandi europei, che sanno servirsi di bravi commercialisti, che sanno tenere buoni rapporti con qualche gruppo politico e soprattutto con banche e istituti finanziari. Ognuno per sé, dunque, nonostante gli sforzi delle associazioni più serie, in genere d’area cattolica. Anche se sono sempre d’area cattolica molte delle più accentratrici. Il sociale non esprime oggi un suo pensiero, non ha teorie solide, analisi precise del contesto, utopie concrete (e anche non concrete!)… Si direbbe proprio che il sociale non pensa e non studia, e questo è un suo limite insostenibile e imperdonabile. Vasta è la chiacchiera buonista, che va dal minimo al massimo, dal particolare fin troppo preciso al generale fin troppo astratto, ma davvero c’è bisogno di altro. Di un pensiero che leghi e dia forza, che spinga ad agire insieme per il bene di tutti. E se questo non viene da questa parte della società, ce n’è forse un’altra da cui potrebbe oggi venire? Dunque, anche il «sociale» partecipa del «culturale» e vive contraddizioni simili e simili abbandoni e viltà. Ognuno per sé… Ma quantomeno si tratta di organizzazioni, anche se più sono grandi e più sono, se private, compromesse e «retoriche», o ipocrite. E si tratta di gruppi, anche quando piccoli ed egoisti, ma pur sempre gruppi, insiemi. Si tratta non di tanti «io» all’arrembaggio ma quasi sempre di persone che sono partite con degli ideali, contemporaneamente verificando la povertà di proposte che questa società riserva ai giovani e alle persone «di buona volontà»; e si sono date da fare, hanno cercato e trovato dei fondi o individuato dei mini-mecenati, e i più abili le grandi organizzazioni nazionali e internazionali,

banche e fondazioni; e si sono scelte il terreno su cui intervenire, i diseredati di cui occuparsi, qualche volta con una notevole dose di cinismo, o perfino (ne conosco, e lo considero un peccato veniale) di humour. Hanno trovato un ragioniere generoso o ben pagato che si è specializzato rapidamente nello stender «progetti» da presentare alle varie commissioni del parlamento europeo per averne dei finanziamenti. Si sono trovati da soli un posto di lavoro… I principi su cui si chiedeva loro di conformarsi erano (sono) piuttosto generici, dichiararsi «buoni», individuare i soggetti specifici dell’intervento, specificarne le modalità, e comportarsi «secondo le leggi» comunitarie, soprattutto quelle di base economica, ché le altre sono piuttosto dichiarazioni di principio. Ci sono anche gruppi che sono diventati grandi e potenti in virtù di… mafia, quelli che si sono accaparrati, ben protetti da giudici amici che si dicono tutti d’un pezzo (talora, i piemontesi, con più di un sospetto di tradizionale diffidenza anti-meridionale), la massima parte dei beni sequestrati dallo Stato alle organizzazioni criminali, meridionali anzitutto ma con le note ramificazioni al Centro e al Nord. Le banche riciclano impunemente dovunque, e sono le banche a guidare il gioco dell’economia attuale, e sono anche loro, con le loro fondazioni, a finanziare i «buoni». Una parte secondaria e per certi aspetti commovente del «sociale», quella più intellettuale, è formata dagli «esperti», beninteso di sinistra o di quel che ne resta, che si riuniscono periodicamente per analizzare e studiare le malefatte del capitale, e spiegano ai capitalisti cosa dovrebbero fare se fossero persone perbene, cioè non capitalisti! Ciò detto, oso dire che mentre della cultura odierna questo paese potrebbe oggi farne a meno (perfino di buona parte delle istituzioni pedagogiche, e anzitutto di tanta parte parassitaria dell’università), del sociale no, non se ne può fare a meno, per quanto misero e moralmente approssimativo esso sia, visto il criminale abbandono da parte dello Stato dei suoi doveri di assistere chi non ha e sta male, piccoli o grandi, nati qui o

altrove, di qualsivoglia lingua e religione e colore della pelle. Visto il tradimento della Costituzione attuato dai partiti politici e in particolare dagli ultimi arrivati, iniqui e faziosi, culturalmente disinvolti e moralmente spregiudicati, in una parola: ignobili, se non ci fosse il «sociale» intere categorie di deprivati se la passerebbero ben peggio di quanto oggi non accada. Insomma, di qualcuno che pulisca il culo alle vecchiette, che assista i malati, che protegga i bambini, che dia da mangiare agli affamati e da bere agli assetati, un letto e un tetto a chi non lo ha, e medicine e consigli e protezione legale – di tutto questo si ha un gran bisogno, e se a farlo non sono le piccole e grandi organizzazioni del «sociale» o, in primis, la chiesa cattolica con le sue parrocchie non rette da preti integralisti, chi lo fa? (Si assiste oggi nel mondo cattolico al paradosso di un papa, detestato dalla maggior parte dei parroci e dei «credenti», che deve fare il capo di questa chiesa ma che vorrebbe contemporaneamente riformarla!). La chiesa vuol dire anche la Caritas, una delle poche istituzioni indispensabili che agiscono sul territorio nazionale, e di cui voglio ricordare per l’ammirazione e l’affetto che gli ho portato un personaggio straordinario come monsignor Luigi Di Liegro, con altri preti o perfino vescovi (penso a un ex vescovo che conosco e ammiro da molti anni, monsignor Raffaele Nogaro in Terra di Lavoro) coraggiosamente minoritari: preti di frontiera e non preti burocrati come sono i preti nella loro stragrande maggioranza. Non dobbiamo altresì dimenticare quanto del meglio del sociale sia oggi finanziato da un’altra chiesa, la piccola chiesa riformata dei valdesi, grazie all’otto-per-mille che gli è affidato da tanti laici, ma anche da tanti cattolici, che sanno giudicare dell’uso che ne vien fatto). Insomma, il sociale dice comunque, anche quando fatto di piccoli gruppi poco significativi e poco incisivi, un noi e non un io, e si occupa (bene o male che sia) di chi sta peggio di noi. La palma della viltà è nelle mani degli intellettuali, insieme a quella dell’egoismo sociale e, di fatto, non agendo,

della complicità politica con chi oggi guida il gioco, i Salvini e i Cinque Stelle «buoni a nulla capaci di tutto».

CAPITOLO SETTIMO

Che fare?

La tentazione del nichilismo… Evocazioni e invocazioni,

citazioni e messaggi che erano anche indicazioni concrete sul «che fare». Entrare nel pratico, assumersi delle responsabilità. Soprattutto oggi, non è questione di inventarsi delle utopie: non è più il tempo delle utopie, il mondo va freneticamente in discesa e quali utopie positive ci possiamo immaginare? Sì, è pieno di guru che ci dicono che andando in bicicletta invece che in automobile cambierebbe tutto, ma intanto passano tranquillamente dalla bicicletta all’automobile o all’alta velocità… C’è una complicità della prassi che riguarda tutti e che è molto difficile da spezzare. Oggi non abbiamo bisogno di utopia, ma forse è solo questione dei modi in cui si può reagire a una situazione estrema in cui il problema è quello di una sopravvivenza attiva, del non arrendersi anche se sappiamo che le cose girano male e malissimo. Il pensiero critico è utile, serve, e non può essere fine a se stesso, altrimenti si cade nel compiacimento di quelle persone che hanno capito tutto, ma che si guardano bene dal praticare quello che sembra abbiano capito e che si esimono dal tirarne le conseguenze e cercare (non da soli) quel che si potrebbe ancora fare. La vera tentazione del nostro tempo, credo per tutti noi, se ci guardiamo un minuto allo specchio o ci pensiamo la mattina prima di alzarci, è quella del nichilismo. Quella di riconoscere che non c’è più niente da fare, che il mondo ha preso una

china irreversibile, che non ci sono più alternative credibili, speranze da proporre, lotte nelle cui possibilità di successo si può ancora credere. Ogni tanto mi vengono, e me ne spavento, e me ne vergogno, delle botte di simpatia per quei ragazzini americani che una mattina si svegliano, constatano ancora una volta quanto il mondo faccia schifo, quanto non gli piaccia farne parte, e decidono se fare una strage o ammazzarsi, e quasi sempre prima fanno una strage e poi si ammazzano… È chiaro che la simpatia non è per la loro scelta, ma per la loro angoscia di fronte al mondo che si trovano davanti. Ovviamente è compito di tutti, e in particolare di chi si dice intellettuale, cercare forme di resistenza a tutto questo, e modi per contrastare la china e l’abulia, l’amoralità o la violenza che dipendono anche dalla nostra assenza. Ma non si può negare che il nichilismo, ogni tanto, ci attrae, che anche noi ci ritroviamo travolti da queste dinamiche, da questi meccanismi. Il problema vero è dunque quello di resistere e di come resistere, di non lasciarsi fregare da questo mare di ricatti, di rompere le scatole e di dare degli esempi. Qui si apre il grande discorso della disobbedienza civile, che non è il caso di rifare qui, anche se è fondamentale. Perché bisogna pur ripartire dalle grandi domande. Che sono poi le grandi domande, diceva Tolstoj, che fanno i bambini: «perché sono al mondo?», «perché ci sono i maschi e le femmine?», «perché ci sono i ricchi e i poveri?», «perché le stelle girano e noi non giriamo?», «perché siamo nati umani e non animali o vegetali?», «e perché in quest’epoca e non in un’altra?»… Bisognerebbe ripartire da questi interrogativi basilari, primari, essenziali. Ma anche: «perché il mondo è, o è diventato, quello che è?». Queste domande ogni analfabeta del passato prima o poi se le poneva, ma si direbbe che oggi «la cultura» abbia distrutto questa necessità, inventando montagne di parole mistificanti, per farci accettare ciò che al potere piace che noi accettiamo, nascondendocene lo squallore, la crudeltà, la perfidia…

Migranti… Un sentimento che sopravvive di rado, in questa

Italia grigia o nera, è quello della vergogna. Certamente non la provano i nostri politici, la loro stragrande maggioranza, ma altrettanto certamente non la provano i nostri connazionali, tutti in difesa dei propri piccoli o grandi privilegi e preoccupati piuttosto dell’accusare gli altri delle proprie inadempienze, ipocritamente incapaci di ragionare sulle proprie viltà. Siamo davvero così pochi a provar vergogna per come vanno le cose, anche con la nostra complicità diretta o indiretta? Un particolare sentimento di vergogna è quello che ho provato negli ultimi giorni di fronte alle sparate del ministro dell’Interno e dei nuovi governanti, eletti da un popolo che ha perso da tempo il senso della realtà e della solidarietà con chi più ne ha bisogno, e l’idea che esistano dei doveri verso chi soffre più di noi, che è colpito infinitamente più di noi dalle ingiustizie della società, della storia, della natura. Più ancora mi sono vergognato di appartenere (quante altre volte me ne sono gloriato!) alla categoria di persone che si dicono ancora di sinistra ma si comportano all’incontrario, o che si occupano, in modi differenziati, di chi ha più bisogno, dei malati, degli emarginati, dei poveri, dei bambini… degli immigrati. Sono – siamo – milioni a occuparci in vario modo del prossimo e spesso, molto concretamente, a viverne. Per esempio, in quanti sono – siamo – a occuparci degli immigrati in Italia? Quante le iniziative, le associazioni grandi e piccole, i gruppi spontanei e quelli maggiori riconosciuti dallo Stato, dall’Europa? Con un ragguardevole giro di denaro. Ma le centinaia di migliaia di persone, collegate in migliaia di associazioni che proprio degli immigrati si occupano, come hanno reagito in questi giorni alle sparate del ministro Salvini? In altri tempi saremmo scesi in piazza in massa, avremmo fatto picchetti davanti al parlamento, avremmo organizzato scioperi e manifestazioni. E cosa avrebbero fatto i sindacati, indegni oggi del loro passato e perfino del loro nome? E «gli intellettuali» avrebbero scritto articoli di fuoco. A onor del vero, le sole dichiarazioni degne di quel passato che ho letto sono state quelle di Saviano, in altri momenti peggio che fiacco. Tutte queste cose avremmo ancora la forza per farle, ma non ne abbiamo la volontà:

stiamo a vedere, emettiamo qualche generico comunicato, ci diciamo tra di noi la nostra indignazione… Anche di questo oggi mi vergogno, non solo della miseria morale e politica di chi ci governa, e non vedo chi, singolo o gruppo, voglia uscire dal suo piccolo e squallido egoismo.

Intorno a Ignazio… Un libro italiano recente che mi ha

appassionato non è un romanzo ma un saggio storico, La vocazione di Adriano Prosperi (Einaudi, 2016), una seria ricerca sulla Compagnia delle Opere nel Cinque-Seicento e sui suoi primi adepti, le loro storie, il loro ingresso nella storia. Ma non è tanto il grande tema della vocazione quanto quello dei suoi modi di farsi scelta di vita, o di essere sollecitata e assistita da un gruppo, da un «ordine», che desta nel lettore domande e inquietudini, peraltro tutte odierne anche se nate dal confronto tra quel ieri e questo oggi. Mi è sembrato – parlo da ignorante e da profano – che da quelle storie si potesse ricavare un’attualità, un insegnamento per i nostri giorni. Non credo di essere il solo a vedere delle grandi somiglianze tra il travaglio della società nel nascente «evo moderno», aperto dalla scoperta dell’America, e quello del nostro «evo postmoderno», aperto dalla globalizzazione, che non è solo fenomeno politico ma anche culturale a causa dei nuovi mezzi e modi di comunicare, a causa di internet. Sant’Ignazio mandò per il mondo giovani preparati a intervenire nella novità del tempo, all’altezza della novità del tempo. L’epoca che il mondo sta vivendo (dagli anni Novanta in poi, ma iniziata prima, in forme meno evidenti) esige nuovi modi di rapportarsi. Credo, insomma, che il nostro tempo avrebbe bisogno, se non di un Ignazio (ma perché no? una geniale intuizione del papa attuale è stata di far incontrare nella sua stessa persona Ignazio e Francesco: una modernità e una perennità, un modo di stare nella storia ma cercando insieme di starne fuori, un modo di sempre), almeno di gruppi o movimenti che sapessero accogliere e indirizzare quei giovani intenzionati a essere fino in fondo positivamente attivi nella novità dell’epoca. E cioè dalla parte del bene o di quello che

essi pensavano fosse il bene, un’azione che ogni volta va ridefinita e riconquistata nelle sue priorità e nei suoi bisogni, quelli di sempre e quelli contingenti e dominanti, compresi quelli emergenti o di cui si intuisce l’affermazione. Ancora una volta individuando bene le vecchie e le nuove forme di ingiustizia. In difesa degli oppressi, e anche di tutti coloro che sono oppressi culturalmente, e sono spesso complici della loro stessa oppressione, e nel progetto di una società migliore. Essere all’altezza di tutto questo non è certamente facile, ma è a questo che dovrebbero puntare gli educatori, senza attardarsi nelle solite pastoie corporative e nelle finzioni ideologiche consolatorie. Insomma, il nuovo tempo richiede organizzazioni nuove, «esploratori» della realtà che vogliono capirlo nella sua novità, attenti tanto alla novità che alla diversità che incontrano, di popoli e lingue, di storia e di cultura. Ci vorrebbe un Ignazio di oggi, non necessariamente credente e cristiano e che dunque lavorasse ad maiorem Dei gloriam – dando di Dio una definizione diversa da quella del suo tempo e più attenta al presente e al futuro, e avendo del sacro una concezione adeguata a quest’epoca, nella convinzione che è sulla terra che la partita si gioca, e dunque collegando il sacro né più né meno che al socialismo – e che spedisse nel mondo giovani «persuasi», attenti al nuovo e al diverso e rispettosi del nuovo e del diverso, e saldi nell’ideale di un nuovo incontro «globale» tra gli oppressi e tutti gli «uomini (e donne) di buona volontà». Entrare in un mondo nuovo rifiutandone le ingiustizie e le prepotenze, avanguardie (ebbene sì!) di una nuova umanità e di una nuova convivenza, tra gli uomini e con le creature, tra l’ideale cristiano e quello socialista (che per me sono assai vicini), e quello, infine, ecologico!

Contadini… Una recente trasmissione di Radio Rai 3, la

lettura serale del romanzo di Ignazio Silone Fontamara, ha ottenuto un successo inatteso: decine di telefonate, di messaggi di approvazione e di entusiasmo dei tanti ascoltatori che non lo conoscevano, data l’ignavia del nostro attuale sistema

scolastico e di quasi tutto il «ceto pedagogico», medie e superiori e professori universitari in testa, che di Silone credo conoscano a malapena il nome. Da qui la sorpresa, l’entusiasmo. Fontamara, pubblicato dapprima in Svizzera, dove Silone era fuggito per evitare la galera fascista, racconta il mondo contadino italiano, un mondo poco mutato nei secoli e però simile a quello dei contadini di tutto il mondo, perché il rapporto del contadino con la terra e con la natura, con le stagioni e, purtroppo, con i padroni della terra e i mediatori e i commercianti, cambia di poco da epoca a paese. Fu Silone stesso a raccontarmi tanti anni fa che in Jugoslavia il libro fu tradotto tempestivamente, ma la censura politica ne vietò la diffusione convinta che Silone fosse lo pseudonimo di uno scrittore del posto (e il traduttore del libro passò i suoi guai, come l’editore), il quale lo aveva ambientato oltre-Adriatico per confondere la polizia, ma non i lettori… Dialogando con un capo-villaggio in Bengala meno anni fa – ed essendo io venuto come milioni di miei connazionali dalla campagna, ero curioso dell’economia contadina e dei modi di coltivazione del riso e del suo mercato – egli mi chiese alla fine di parlargli dei contadini italiani. E quando gli dissi che l’agricoltura tradizionale (nata con l’uomo!) da noi era scomparsa, per via delle multinazionali industrializzatrici e livellatrici, per via dei supermercati, egli esplose: «Ma siete matti!», tradusse per me il mio accompagnatore, «senza i contadini il mondo si ferma, il mondo non va avanti! Chi vi nutrirà, chi nutrirà i vostri figli?». Di recente sono usciti i numeri speciali di due riviste, «Meridiana» (Agricoltura e cibo) e «Parolechiave» (Cibo), che, al di là del delirio attuale sul cibo, parlano delle mutazioni in corso e delle condizioni di milioni e milioni di contadini – e sì, il problema ci riguarda tutti, e i contadini ci sono ancora, e sono più sfruttati che mai. È anche uscito un altro sostanzioso volume dello storico Adriano Prosperi, Un volgo disperso. Contadini d’Italia nell’Ottocento (Einaudi, 2019), che ha il solo torto di non dar rilievo alla «antropologia» contadina,

come non fossero mai esistiti Cristo si è fermato a Eboli e Fontamara. Andrebbe letto insieme a quei due capolavori, che hanno raccontato una «civiltà contadina» da noi defunta ma ancora vivissima in Asia, Africa, America Latina, sulla quale ci informa magnificamente. E andrebbe letto – sul presente, sull’oggi – insieme a un altro saggio, Food governance di Nora McKeon (Jaca Book, 2019). Alla fine di Fontamara i contadini sconfitti dagli agrari e dai fascisti si interrogavano sul futuro facendosi l’eterna domanda dei tempi oscuri: «che fare?», la domanda che tutti oggi dovremmo di nuovo porci!

Il pronome noi… È un caso strano e preoccupante quello

delle due studentesse, Roberta veneta e Franca calabrese, che si sono trovate in Val di Susa nel 2013 per ricerche inerenti le loro tesi di laurea, processate poi a Torino per aver partecipato alle manifestazioni dei no-TAV ma assolte perché nei video era evidente la loro marginalità di osservatrici, anche se la prima è stata condannata a due mesi con la condizionale per aver usato a volte, nella sua tesi di laurea, il pronome noi riferito a se stessa e ai membri dei no-TAV: «Concorso morale», ha detto il PM, che aveva chiesto, bontà sua, nove mesi di carcere per entrambe! Ora, a parte il fatto che si torna in tutta evidenza a ridar fiato al «reato d’opinione» di vergognosa memoria (gli anni del fascismo, ma anche quelli della guerra fredda), colpisce anzitutto quel rimando al «concorso morale» con gruppi che lottano per l’affermazione delle loro idee (che in questo caso considero personalmente giuste, visti i danni che porterebbero i TAV all’ambiente, vista la generale dannosità dei TAV secondo esperti il cui parere rispetto e condivido). Questi gruppi praticano, a parte un’esigua minoranza di violenti, i metodi di lotta della disobbedienza civile. (Un’immagine di qualche anno fa mi torna sempre alla mente, quando si parla della Val di Susa, quella dei sindaci della valle, eletti democraticamente e secondo la legge, che fronteggiavano con tanto di fascia tricolore una sovrabbondanza di celerini in

divisa, armati e col volto coperto, invisibile: dov’era lo Stato, qual era lo Stato?). A colpirmi è in particolare la condanna del noi. Che non indica solo la volontà di partecipare attivamente alle scelte di fondo di una società, ma è un valore che considero prioritario, soprattutto in un’epoca come la nostra che favorisce stimola premia le forme più odiose dell’individualismo, del narcisismo, dell’affermazione individuale, e questo non solo nel mondo dello spettacolo, condannato al gioco delle apparenze e della fama, ma anche in quello della vita quotidiana e della politica, dove immagine e pubblicità contano più delle idee, della sostanza, del valore del singolo. La parola noi è sacra quando non è la parola dell’appartenenza, del noi contro altri noi, quando è invece la parola della solidarietà, dell’incontro, del ridimensionamento dell’io dentro il gruppo, del fare insieme, dell’ideare insieme, del soffrire insieme, del gioire insieme. E del lottare insieme. Quali che siano le motivazioni della preoccupante sentenza torinese, è legittimo vedervi l’attacco a un valore sociale e morale fondamentale: il noi aperto della comunità, il noi dell’azione per affermare insieme ciò che consideriamo giusto, il noi della comunione con gli altri e per gli altri.

Ritorno alla politica?… Sarà anche vero che la politica

non è la più degna attività a cui può dedicarsi un individuo. Robert Musil disse nel 1935 che sì, la politica riguarda tutti, ma anche l’idraulica riguarda tutti e lui, se in casa saltava un tubo, chiamava l’idraulico. Mah! (Gli alti burocrati in Italia sono assenti perché non esiste, come altrove in Europa, una scuola che li formi, e la riforma dello Stato invocata da tanti non c’è stato governo che abbia osato affrontarla, e se dovesse accadere sarà a opera di quella destra a cui un popolo senza memoria e senza dignità si è ormai disgustosamente consegnato). Bisogna constatare ogni giorno – piangendo e a tratti, per disperazione, ridendo – la scomparsa di un popolo (che

perlomeno negli anni del secondo dopoguerra stava finalmente crescendo) e la morte per suicidio della sinistra, forse la principale responsabile di tanta sciagura (PCI in testa, con i suoi politici e i suoi intellettuali). C’è bisogno di una politica fatta da minoranze attive, pensanti, coscienti, determinate. Nonviolente, ma nella direzione trascurata dai nonviolenti di oggi, ovvero l’applicazione concreta dei principi della nonviolenza alla politica che Gandhi chiamava disobbedienza civile. Non basta non fare il male e non mentire, occorre anche non collaborare al male, con chi il male lo fa. C’è bisogno, ora come non mai, di una politica che, rimessa sulla strada giusta da minoranze coscienti e ragionanti, minoranze dai forti principi ma anche dagli ottimi studi, possa rinascere dall’azione di pochi e determinati disobbedienti (non di quelli di una stagione, non come un’altra forma di narcisismo tra cento altre…), di «pessimisti della ragione ma ottimisti della volontà» che sappiano individuare – e non è affatto difficile – un «che fare?» di oggi, per le condizioni e i bisogni di oggi. E di domani. Di difesa della natura, del pianeta, del vivente. Di economia austera e solidale. Di massima attenzione agli umiliati e offesi dalla storia, dall’economia, dalla politica, dalla cultura. Dal potere del denaro. Una politica che può rinascere solo a partire da minoranze determinate, e dall’individuazione dei bisogni veri e non di quelli introiettati dalla cultura del capitale e manipolati dal capitale, una politica che elabori e pratichi forme di disobbedienza civile individuali, di gruppo, collettive, nella direzione della liberazione delle coscienze e dell’individuazione del bene comune… Sono sogni, lo so, ma sognare il giusto è molto importante e qualcosa bisogna pur fare, mentre i soloni e i guru di oggi ci parlano d’altro, anche quando fingono di parlarci di questo. Bisogna ripartire dai piccoli e grandi e coscienti no, individuali e di gruppo e collettivi; dai piccoli e grandi e coscienti sì, individuali e di gruppo e collettivi. È sempre un io che deve ribellarsi, in principio, ma nel senso del noi: «Mi rivolto dunque siamo», ci ha detto Camus, che tanti citano e nessuno prende più sul serio. Forte è l’urgenza dell’agire,

l’urgenza di nuove forme di militanza in una direzione di apertura e di radicalismo fortemente etico. Aspettare è essere complici, aspettare finisce per essere, lo si voglia o no, una forma di collaborazione al male, ai crimini quotidiani del potere. Sta agli individui e ai piccoli gruppi, come sempre è stato, ricominciare e chiedersi ancora una volta «che fare?». Nella certezza che le risposte arriveranno da sole, una volta in cammino.