Neoproletariato. La sconfitta del popolo e il trionfo dell'eleghanzia 9788873940135

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Neoproletariato. La sconfitta del popolo e il trionfo dell'eleghanzia
 9788873940135

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Via Latina, 20

00179 Roma

Tutti i diritti riservati

Cover: Daniela Boccadoro ISBN: 88-7394-013-7

Importante: i dattiloscritti inviati all'attenzione della casa edilrice non verranno restituili

Tommaso Labranca

Neoproletariato La sconfitta del Popolo e il trionfo dell'Eleghanzia

C o oper&C a stelv e c ch

www.labranca.co.uk

D&Grado



T

Sono un giovane neoproletario. Se fossi più colto di quel­ lo che sono ten-ei subito a precisare che quel prefisso neo­ indica solo apparentemente l'idea di nuovo. In realtà è un prefisso che nega l'essenza del proletariato. Se fossi più colto di quello che sono, dovrei ribellarmi all'autore e pre­ tendere di essere chiamato antiproletario, ché io avverso la classe da cui nasco; transproletario, ché io supero la classe da cui nasco; metaproletario, ché io sublimo la classe da cui nasco; aproletario, ché io vorrei far piazza pulita della classe da cui nasco. Se ero più colto di quello che sono mi dovevo ribellare all'autore, ma non lo sono e in fondo non è colpa mia.

' •

Sono una giovane neoproletaria. Sono di estrazione pe­ riferica, nata e vissuta in quello che era un paese e oggi è un quartiere aggiunto della città. Sono proprio sul limite del centro abitato. I..:appartamento in cui abito è al tredice­ simo piano ed è biesposto. Dalla finestra della cucina vedo 5

TOMMASO LABRANCA

la città, dalla finestra della mia stanza vedo la campagna e la tangenziale. Voglio approfittare di questa forza tangen­ ziale per sfuggire all'orbita della solita vita dei miei genito­ ri e per lanciarmi nel mondo esterno.



T Non mi occupo di politica, non la capisco. Dice l'autore che io sarei dovuto essere un esponente dell'antagonismo, ma che mi hanno insegnato male. A quanto pare, sono vit­ tima dei cattivi esempi fornitimi da eleganti appassionati dello slow food, da appassionati velisti, da finti rapper che con finti rocker fanno dischi benefici, da macchiette meri­ dionaliste centrosocialitarie che incidono per le multina­ zionali e poi vanno all'mtvday, che io vedo in televisione, ma quando ci sono loro cambio canale. Così dopo aver di­ menticato addirittura geneticamente come viveva e lavora­ va mio padre, le idee mi sono state confuse da questi catti­ vi maestri. Dice l'autore che io dovevo essere un esponente dell'antagonismo, ma che sono stato imparato male e oggi cedo ad altre lusinghe.

' •

Lavoro in un cali center. Prima ero più felice della mia vi­ ta. Avevo tante cose da fare e avevo il terrore di perdermi qualcosa. D'inverno mi imbottivo di farmaci anti-influen­ zali perché altrimenti avrei perso cinque giorni d'ufficio, 6

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quattro partile di tennis, tre lezioni di inglese, due uscite con gli amici, un coi lo orale in macchina quasi all'alba del­ la domenica. Ora sono stufa di questa vita prevedibile co­ me un orario definitivo tracciato nelle prime pagine del diario scolastico. Non so fare nulla. Non ho appreso alcun mestiere. Non ho studiato oltre le medie. Credo quindi di avere tutte le doti per realizzare il mio solo desiderio: veicolare la mia incapacità attraverso i me­ dia, prolungare per tutta la settimana lo splendore vacuo dei miei sabato sera in discoteca, restare sparkling beauty sette giorni su selle e non come mia mamma casalinga e sciatta che si veste bene solo ai matrimoni o almeno lei crede di essersi vestita bene, con quell'unico abito di seta giallo e verde che conserva canforato nel suo annadio. Essere una presenza televisiva. Spogliarmi dei miei ve­ stiti per indossare un suffisso che riduca in un diminutivo femminile una nuova esistenza. Essere una fragolina, una frugolina, una fregolina. Essere una presenza televisiva. Portare con orgoglio un diminutivo che contrasti con l'e­ splosione accrescitiva delle mie forme. Essere una presen­ za televisiva. Far sognare con il mio nulla legioni di altre incapaci, far sognare con il mio troppo legioni di onanisti catodici.



T I proletari sono comunisti. Mio padre era proletario. Mio padre era comunista. Io non voglio essere mio padre. Io non voglio essere proletario. Io non voglio essere comuni­ sta. L'autore dice che applico dei sillogismi. Io so solo che non voglio essere uno di quei nemici comunisti dei centri sociali, brutti, nihilisti e coprolalici. Io non voglio essere

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come quei drogati con i capelli sporchi secondo cui vivia­ mo «anni di merda», in un «paese di merda», tra «gente di merda», senza effettivamente fare mai nulla per iniziare a ripulire tutta questa merda, nemmeno nei ritagli di tempo tra una bin-a e l'altra, perché loro passano il tempo a dro­ garsi e a bere bin-a tutto il giorno, non come me che la bir­ ra la bevo solo al pub di sera e in fatto di droghe ho prova­ to soltanto una pista di coca per scherzo a Capodanno del 2000 e ogni giorno in agenzia mi guadagno il pane e il pre­ fisso. Il pane è rappresentato dai Ticket Restaurant. Il pre­ fisso è neo-.

' •

La mia vita sarà un sabato continuo. Mi sentirò perenne­ mente bootylicious. Apparirò nel servizio di chiusura di Ve­ rissimo. La mia vita sarà un sabato continuo, ma non sarò così sprovveduta da non pensare alla domenica. Lascerò il mio attuale fidanzato, come lascerò questa stanza. Conqui­ sterò un calciatore e occuperò la mia domenica seduta nel­ la prima fila di un parten-e televisivo. Dall'altra parte dello schermo, finalmente. Io sarò lì e lo aspetle1·ò, trepiderò per i suoi gol seguendoli sul monitor davanti a me e avrò ogni volta un tuffo al cuore quando lui si avvicinerà alla porta in possesso del pallone. Come la donna di un toreador che pregava davanti a una qualsiasi Vergine e nel silenzio della cappella giungevano le grida dall'arena e lei aveva ogni volta un tuffo al cuore per­ ché non capiva subito se si trattava di un alé di giubilo o di un grido di on-ore. Come mia mamma che aspettava tutte le sere mio padre che tornava dalla fabbrica stando alla finestra della cucina 8

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e, da questo tredicesimo piano, abbracciava con lo sguardo un intrico di strade e viali dal quale giungeva a volte il suo­ no di una sirena e lei aveva ogni volta un tuffo al cuore per­ ché non capiva se si trattava di una ambulanza che accor­ reva in soccorso di mio padre caduto dalla bicicletta o di qualcun altro.

Io lavoro, da ormai cinque anni. Non ho perso il mio tempo occupandomi del Chiapas, parlando di T.A.Z. e no­ madismo psichico, h1mando con la stupida ostentazione di una finta trasgressività. Se il nostro tempo fosse un modu­ lo da compilare, io non mi apporrei come crocetta in nes­ sun quadratino. Non pantera, non ragazza del/'89, non pro­ le di mamma dei centri sociali, non membro del popolo di Seattle, non tuta bianca, non no global. Ma l'autore dice che i giornalisti didascalici dei newsma­ gazine hanno bisogno di incasellarmi e allora mi crocetta­ no come membro della pub generation, solo perché al sa­ bato sera vado al pub con gli amici e ci sto anche cinque ore e adesso ho iniziato a farlo anche al venerdì, sempre cinque ore, cioè dieci ore di pub alla settimana, 520 in un anno. L'autore dice che mio padre passava quasi lo stesso tempo in osteria e quindi le cose non sono cambiate. Sono cambiate invece. Certo che sono cambiate: l'osteria è un posto brutto e da vecchi. Il pub dove vado io, che si chiama tabhairne u m thranathnona ', è di vero legno irlandese, è molto elegante e ci vestiamo eleganti per andarci e dopo mezzanotte servono anche le piadine. C'è una bella diffe­ renza con l'osteria. C'è tutta la novità permessa dall'appli­ cazione del prefisso neo-. 9

'

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Ho un programma ben preciso per la mia vita che svi­ lupperò come un'iniziazione massonica su cinque livelli. Grado primo: guardare i vip alla televisione e sui giorna­ li, fotografati mentre sono nei Luoghi da loro frequentati e desiderare di essere come loro. È il grado in cui mi trovo adesso. Grado secondo: incontrare i vip casualmente per strada, mentre vanno nei Luoghi da loro frequentati. Per questo devo andare via da questa stanza e smettere di frequentare il pub con il mio attuale fidanzato. Grado terzo: mescolarsi ai vip nei Luoghi. Per farlo devo trovare un fidanzato provvisorio ben introdotto, uno della security, un deejay, un pi-erre. Grado quarto: godere della benevolenza dei vip. Una vol­ ta dentro i Luoghi mi verrà facile, essendo spigliata e bril­ lante di carattere e dotata di fisico ok. Grado quinto: essere una vip. Sarà la naturale evoluzione del grado quarto, da amica a collega. Allora giungerò su una Mercedes blindata con i vetri oscurati davanti a un Luogo, scenderò e la security allontanerà la folla per farmi passare e in quella folla ci sarà il mio vecchio (attuale) fi­ danzato che non sarà ammesso e tornerà sconfitto a passa­ re cinque ore al pub td.bhairne um thrd.nathn6na.

IO

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T le,; mattina mi sono collegato a Internet per controllare la posta elettronica e c'era tra gli altri questo messaggio cir­ colare che an-ivava da un certo Dario Fo. Non l'ho aperto perché non conosco nessuno con questo nome e non mi fi­ do ad aprire messaggi di sconosciuti che potrebbero conte­ nere virus e mandarmi a puttane il computer dell'agenzia. Ma ho saputo che anche l'autore l'ha ricevuto, l'ha letto e ci è ,;maslo male. Pare che questo Fo sia uno famoso, che ha vinto anche un premio impo1·tante e anni fa copiava un altro e diceva che la differenza tra operai e padroni stava nel numero di parole conosciute. Il padrone ne conosceva di più per que­ sto lui era il padrone. Invece oggi, ha continuato l'autore, Dario Fo non istiga più i non-padroni a imparare un mag­ gior numero di parole, ma li invita a non andare da McDo­ nald's e basta. Questa mi sembra la peggiore delle stronzate. Questa del numero di parole, intendo. Io so più parole del mio princi­ pale in agenzia e lo batto ai punti, perché alle medie ho fat­ to anche inglese e lui, che ha circa 60 anni, parla un italia­ no regionale infarcito di lemmi dialettali lombardi. (Quanti punti in più mi vengono dall'aver usato «infar­ cito» e «lemmi»?)2•

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Note l. Nome gaelico creato artificialmente. Ha una p1·onuncia impossibile e unisce tabhairne (tave1·na) e wn thranathnona (di sera). A un orecchio irlandese probabilmente non av1·à al­ cun senso, ma vi sono elevate probabilità che un nome simile esista e sia stato dato a un elegante pub neoproletario. Nel Regno Unito la sosta al pub rapp1·esenta un cuscinetto alcoli­ co tra le umiliazioni subite sul lavoro e il ritorno a casa. Una cosa triste, un divertimento da rivoluzione industriale. Non è necessario aver letto Dickens per capire questo mondo. Basta anche aver dato una veloce occhiata alle immoi-tali Vicende di Carlo e Alice sulla Settimana Enigmistica per 1·endersi conto di cosa è veramente un pub: nella migliore delle ipotesi è l'e­ stensione della casa. È un luogo senza p1·etesc. una famiglia allargata. Già verso il 1984 il tocco magico dell'Ilalian Style ancora preneoproletario seppe trasfo1·mare i fast food, che in America erano ricettacoli di cibo grasso e scadente, nell'e­ sclusivo fenomeno dei paninari. La stessa operazione di puli­ zia viene compiuta oggi con il pub. Il fenomeno più appari­ scente del pub italiano è la cancellazione di ogni familiarità. Per andare al pub, ultimo tempio dell'esclusività modaiola neoproletaria, ci si barda da gran parata. All'interno sono bandite le promiscuità: ogni tavolo 1·esta un'isola impenetra­ bile. In secondo luogo colpisce la corruzione ideologica e ga­ stronomica del luogo. Il pub è spesso accompagnato dal qua­ lificativo irlandese, aggettivo giustificato da minimi cenni celtici di arredo. Soprattutto arpe, distribuite a p1·ofusione su insegne, poster, tavoli, boccali. Non importa, poi, se i gruppi invitati a esibirsi dal vivo fanno un sanguigno finto­ rock emiliano. Non importa, poi, se nelle pubblicità radiofo­ niche i vari pub esaltano la loro offerta autoctona di piadine, bruschette e altre stuzzicherie. Non impo1·ta, infine, se in prn­ vincia di Ancona c'è un pub che si definisce irlandese, ma che ha deciso di chiamarsi Havana, con vasta scelta di cock­ tail tropicali. Quello che importa, per il neoproletario, è pas­ sare una serata all'insegna del pluscool e di quell'apertui-a al mondo, tipica di chi "ha viaggiato".

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2. Nell'era del neoproletariato viviamo sospesi tra due ignoranze, senza un ve1·0 contrasto ignoranza/conoscenza, quindi destinati a nessun progresso. Agli "ignornnti di destra", ipnotizzati da vallette, calciatori e dall'aspirnzione alla purezza della razza, risponde una massa di "ignoranti di sinistra", vuoti ripetitori di idee di antagonis­ mo vagamente campagnolo prelevate dai libri, non letti, di Klein o di Bové. Mancando la conoscenza, si diffonde il disprezzo del passato, prospernno le copie non dichiarnte di cose già fatte, si accetta di pagare a carn prezzo ciò che era disponibile già prima, ma che viene 1iveslito di glamour. Prnseguendo, vedremo come tanti elementi del quotidiano prnletario più banale siano stati trnsformati nel neopro­ letariato in oggetti luccicanti e desiderabili perché autogratificanti. Ci sono due stilisti che hanno costruito la prop1ia fortuna su questo riciclaggio neoprnletario dall'effetto mesme1izzante e hanno iniziato a glamourizzare e vende1·e canoltiere, jeans e ciabatte di plastica (capisaldi dell'abbigliamento proletario) a prezzi da capi esclusivi e neoproletari. Mancando la conoscenza, essi p1·osperano.

07:00 am

Sono un intellettuale ipnomediatico. Non devo quindi alzarmi all'alba per andare in fabbrica (magari in bici, magari nella nebbia) perché vivo di servizi, di terziai·io e nei ritagli di tempo cerco di svolgere con poca convinzio­ ne un ruolo intellettuale. Antonio Gramsci pare ripetesse spesso queste tre frasi: 1. Gli intellettuali rappresentano per il proletariato una necessità assoluta. 2. Senza gli intellettuali, il proletario non conquista il potere, né può consolidarlo e svilupparlo. 3. Gli intellettuali della classe lavoratrice sono gli ele­ menti che costituiscono l'avanguardia del proletariato: il partito. Mi alzo comunque presto, verso le 7 del mattino, perché c'è questa angoscia che non mi fa dormire bene come vor­ rei e anche quando vado a letto dopo le 2, tornato da un evento pluscool esclusivo e deludente, penso a come l'ele­ ghanzia abbia preso il sopravvento sull'intellighenzia... penso a come il mio ruolo, già instabile perché mancante della benedizione dei padri, si sgretoli costantemente ... 14

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penso a come ricercare un modo in cui volgere a mio favo­ re questo cambiamento... e tutti questi pensieri mi richia­ mano alla veglia. Il neoproletariato è composto da una massa di individui, una massa molto complessa al cui interno sono sempre meno coloro che ricavano la propria rendita dal lavoro salariato, mentre abbondano, per esempio, giovani agenti immobilia1·i che ricavano la propria rendita dal fisso men­ sile più prowigioni. Le prowigioni sono un elemento fon­ damentale per il neoproletai·io. Esse rappresentano quel plusguadagno con cui si può accedere al pluscool. Il plu­ scool è quello che un tempo si poteva chiamare superfluo, ma che oggi esercita sul neoproletario una forza gratifi­ cante così forte eia non potei· più essere considerato rinun­ ciabile. E non si tratta delle solite merci, del solito bisogno di comperare prodotti inutili e delle solite chiacchiere sulla continua pulsione all'acquisto. Il pluscool è quello che esala da quanto non solo si acquista, ma si fa, di dice, si respira, si ascolta, si guarda, si indossa, si frequenta o si cerca di frequentare. E le soddisfazioni che è in grado di fornire non evaporano, ma si solidificano dentro. Se non si è giovani agenti immobiliari o esponenti della new eco­ nomy si può continuare a ricavare la propria rendita dal solo lavoro salariato, come accadeva per i proletari storici, a due condizioni. La prima è che una grande fetta di quel salario sia riservato al pluscool. La seconda è che quel lavoro sala1iato sia tenuto nascosto quando si frequentano gli eventi del pluscool. Appena sveglio, subito dopo aver ricacciato in un'area temporanea del cervello quei pensieri angoscianti, invece di recitare le preghiere del mattino accendo la televisione. Non lo faccio per sentirmi moderno o per fare la vittima della società delle immagini, mi viene spontaneo e basta. La televisione mattutina non invita all'affezione. A quest'o15

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ra le serie di cartoni animati hanno vita breve, scompaio­ no all'improvviso per riapparire tempo dopo, come fiumi carsici, su altri canali. Non bisogna quindi affezionarsi mai a una storia e se ne deve seguire la trama con un occhio solo, vigilando con l'altro la caffettiera. Meglio gira­ re a vuoto sin da subito attraverso i piccoli canali com­ merciali, su alcuni dei quali le infinite offerte di coadiu­ vanti sessuali, grondanti reggicalze ed elcghanzia e quindi ricchi di fascino per il neoproletariato, iniziati nel fondo della notte ancora si protraggono e la visione saffica di capezzoli slinguati appare a quest'ora, senza la cornice naturale del buio, inattesa e affascinante come la Luna al tramonto nel cielo ormai chiaro. Ricapitolando, le cose dovrebbero stare così: l'intellet­ tuale era un proletario che si era reso conto della propria situazione e, organizzatosi con altri intellettuali nel parti­ to, assumeva un ruolo di guida nei confronti di quella clas­ se cui egli stesso apparteneva per aiutarla a raggiungere il potere, cioè aiutarla a sostituirsi ai potenti. Trasferendo tutto ciò al momento in cui vivo, potrei concludere che: l. Gli intellettuali ipnomediatici rappresentano per il neoproletariato una necessità assoluta. 2. Senza gli intellettuali ipnomediatici il neoproletai-io non conquista il pluscool, né può consolidarlo e svilup­ parlo. 3. Gli intellettuali ipnomediatici della classe lavoratrice sono gli elementi che costituiscono l'avanguardia del neoproletariato: i media. Meglio di qualunque prima edizione di notiziario è l'e­ terno loop di promozioni che sull'emittente Studio TV 1 di Treviglio (Bergamo) cancella la fuga del tempo e torna a scadenze orarie a rassicurarci: la vita continua. Da poco appare al mattino una di quelle veggenti, di quelle carta16

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manti, di quelle numerologhe... non saprei più come defi­ nirle, i lorn moli ormai si sono ampliati: leggono le carte, danno consigli di vita interiore, tracciano oroscopi, ma soprattutto forniscono i numeri del lotto con una genero­ sità che commuove. L'esperta che seguo ultimamente mi ha però colpilo per altri motivi. In primo luogo le sue tra­ smissioni sono repliche. Non comprendo perché si debba assistere in diretta a un programma del genere, in cui si ascoltano i dubbi e i guai di perfetti sconosciuti che telefo­ nano. Questo è un esempio della asimmetria tipica del neoproletario, sempre disposto a piangere sulle disgrazie lontane, ma altrettanto pronto a snobbare i bisogni vicini. Infastidito dalla confidenza dolente dell'amico, è invece mo1·bosamente allento nel seguire drammi e disgrazie di immaginari personaggi di fiction o, addirittura, di terzi invisibili e sconosciuti che si affidano per telefono a una cartomante improvvisata. E la lontananza della non-cono­ scenza diretta è amplificata dalla lontananza telefonica e poi ancora di più da quella televisiva e aiTiva a Giove e oltre l'infinito quando quella voce dolente proviene da una replica. Assistere in replica ai programmi con le veggenti, senza cioè nemmeno la possibilità di intervenire, è davve­ ro patologico (io però lo faccio). Devo aggiungere l'aggettivo ipnomediatico al sostantivo intellettuale perché l'azione dei neointellettuali sul neopro­ letariato è ipnotica e si esercita attraverso i media. Non serve molto per guidare il neoproletariato. Basta indicargli cosa fare alla sera, dargli consigli sul modo in cui ottenere più in fretta e con i migliori risultati il pluscool. L'intellettuale ipnomediatico funge da mediatore non tra proletari e padrone, istigando i primi a unirsi per prende­ re il posto del secondo, ma la sua azione intermediatrice si svolge tra neoproletari e neopadroni, che poi sarebbero tutti quelli che creano il pluscool. Lintellettuale ipnome­ diatico istiga i neoproletari a raggiungere il pluscool senza 17

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cadere nelle trappole di falsi neopadroni. L'intellettuale ipnomediatico ha quindi un ruolo timidamente critico nei confronti dei neopadroni; a volte cerca di comunicai-lo ai neoproletari, ma più spesso ci riOette, si acc01-ge che non gli conviene e, tacendo, si adatta. Perché l'editore gli fa capire che la verità non è importante quando può far scap­ par via gli inserzionisti. Io quando lavoro per la televisione sono un intellettuale ipnomediatico. Durante questa trasmissione che accompagna la mia colazione in alto sullo schermo appare la sc1-itta «Il lotto di Tiziana» e la parola «lotto» è scritta senza alcun ritegno proprio come nel marchio di Lottomatica. Il neoproleta­ riato subisce l'attrazione dei marchi (anche quando futili mode vogliono che sia più elegante rinunciarvi) e, abba­ gliati, non discernono il vero dalla copia. Ecco un caso che esemplifica il ruolo dell'intellettuale ipnomediatico: in questo momento non più di 1500 perso­ ne sono sintonizzate su questo canale, 1500 neoproletari con una tazza in mano, attratti dal lotto di Tiziana. Tra tutti, però, io solo penso che questo tipo di televisione affa­ scina noi neoproletari per la sua immediatezza. Ossia per le sue promesse di dimagrimenti immediati, di ricchezze immediate, di felicità immediate. La televisione, che è una neopadrona, crea così il plu­ scool. i neoproletari desiderano ottenerlo, subito e senza troppe lotte di classe, e l'intellettuale ipnomediatico, che è l'avanguardia smaliziata, resosi conto di questa immedia­ tezza e dell'infondatezza che si cela dietro l'offerta televisi­ va, scriverà articoli e redazionali su come pe1·dere cinque chili, come essere felici in amore e come arricchirsi subito ed effettivamente, aggiungendo però un bel box con il fondo colorato dal titolo: «Attenzione alle trappole: non sempre la telepromessa viene mantenuta». Ecco quindi che, senza gli intellettuali ipnomediatici, i neoproletari non possono conquistare il pluscool. né possono consoli­ darlo e svilupparlo, ma possono solo restare fregati.

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NEOPROLETARJATO

Il fondo dello schermo è occupato dall'immagine di una galassia, tutt'intorno numeri multicolori e in una finestra circolare appare una signorina che si presenta come Veronica, fo1·se è la portavoce della potentissima Tiziana. Veronica non si trova nel solito studio di produzioni tele­ visive, dove vengono 1·egistrate le lunghe litanie di simili vendite, condite con gli effetti più triti di tendine colorate e titoli in crawl: Veronica parla in videoconferenza! Con quei movimenti a scatti, tipici delle webcam su Internet, così affascina ancora cli più i neoproletari, per i quali anche la tecnologia è un mezzo per raggiungere il pluscool. Ma la cosa che ogni mattina mi fa restare incantato, con la tazza da latte azz-u1Ta della Serie 365 Ikea a mezz'aria, ani­ va quando Veronica strombazza la sua esclusiva: i numeri del lotto di Padre Pio! Finalmente due colonne della cultu­ ra neoproletaria che si incontrano! Impunemente Veronica racconta di 1·icevere in sogno dal noto frate i numeri da giocare al lotto che poi lei in televisione rende pubblici Lotto e religione, il doppio oppio dei neopopoli. Che facevano i proletaii di fronte agli interventi deg, intellettuali? Come reagivano? Si iscrivevano in massa al partito? Li sentivano d;vvero compagni dalla stessa origi­ ne? I neoprolctari non fanno nulla di tutto ciò, anzi. Non sentono il bisogno dell'intellettuale ipnomediatico, voglio­ no trattare da pari con i neopadroni, e non sentono il biso­ gno di intermediari, tanto più quando questi si perdono in ghirigori intellettuali. I neoproletari non hanno bisogno di intellighenzia, ce1·cano l'eleghanzia. I.:eleghanzia è supe­ riorità estetica, frequentazione di ambienti esclusivi, rap­ porti paritari con i vip. I.:intellettuale ipnomediatico, vaga­ mente emarginato, inizia a volte a rendersi conto dell'a­ simmetria che esiste tra quello che il neoproletario deside­ ra essere e le sue effettive capacità di diventarlo. Allora, in molti casi, inizia a odiare il neoproletario e ne viene ricambiato. 19

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C'è un altro motivo per cui alle 7 del mattino seguo il lotto di Tiziana. Veronica ha una voce stridente, perforan­ te e io tengo il volume altissimo, così disturbo i miei vicini di casa che a quell'ora dormono ancora perché sono neo­ proletari e non devono quindi alzarsi all'alba per andare in fabbrica (magari in bici, magari nella nebbia), perché vivo­ no di servizi, di terziario. E non mi salutano nemmeno e non si salutano tra loro, si odiano, si contrastano a distan­ za a colpi di arredi, automobili, vacanze e abbigliamento. Si producono in scatti da centometristi quando ti vedono arrivare, per non prendere l'ascensore con te. Perché loro sono l'eleghanzia realizzata e hanno trascorso i dieci gior­ ni di luna di miele alle Isole del Sole Perenne. E se vince­ ranno al lotto ci torneranno di sicuro.

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Hunko no yama 1.0

Arredobagno Cogliati

La protagonista a1Tiva al volante di una limousine scura e si fe1·ma al parcheggio dell'Arredobagno Cogliati. Lascia l'automobile vicino a poche utilitarie. Le utilitarie sono tri­ sti, parcheggiate casualmente. Un regista dall'indole più professionale le avrebbe fatte togliere per non intaccare il lusso irradiato dalla limousine, ma quella sarebbe stata eleganza, questa invece è eleghanzia, ossia è il sogno che ha bisogno del contrasto della realtà per diventare più affa­ scinante. In uno spot come questo, però radiofonico, dove alle parole sarebbe toccato il compito di esprimere la magia di un mondo estetico superiore, avrebbero preferito l'aggetti­ vo intrigante. E d'ora in poi esso sarà usato anche nel pre­ sente contesto, con grafia corsiva. La limousine si ferma contro uno sfondo di malinconi­ che utilitarie impolverate e pendolari. Saranno le vetture di alcuni magazzinieri. L'automobile e il suo magazziniere, in luoghi diversi, stanno attendendo tristemente il momen­ to in cui si incontreranno di nuovo, a fine giornata. La tri­ stezza è accresciuta dalle tinte sbiadite del VHS ultrade­ cennale che sto analizzando con frequenti fennoimmagi-

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TOMMASO LAHRA.'-ICA

ne. La protagonista non s'awede di questa tristezza moto1;stica e scende dall'auto avvolta in una propria sfera di eleghanzia e sensualità; è ripresa dal basso. la vediamo inguainata in una i11triga11te minigonna nera. Una voce femminile intanto recita: [vox] Centro t1rredobag110 Cagliati. Vita e IIIiracoli del bagno. La protagonista, che non abbiamo ancora visto in ,·olto, cammina con sicurezza tra gli arredohagno esposti. Ne vediamo prima tre in deuaglio, lucide s111.111tu-e dalle forme an-otondate, ricche di specchi, di casselli e di accessori cromati e ottonati, c'è persino una soluzione co mposta da due lavabi affiancati, ognuno con un proprio specchio, forse per chi non può pe1mettersi i doppi ser\'izi e li rad­ doppia in uno solo. Uno dei mille trucchi con cui il neopa­ drone (in questo caso, il venditore di arredobagno) rende accessibile il pluscool ai neoproll.'lari. Quindi dm·anti alla protagonista si apre una fuga di specchi e mob ile11i che formano una navata al centro della quale ella cammina con la sicurezza di chi possiede una meta.

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NEOl'ROLF..TARh\TO

La meta è il pluscool anche nel bagno. La voce femmi­ nile recita ora: [vox] A Lisso11e, primo ce11cro italiano del mobile. La pmtagonista gira a sinistra ed entra in un bagno rico­ struito nell'esposi7.ione, i-icco di cromature inossidabili e di legni pregiati. In un angolo è incassata una vasca idro­ massaggio, sulla destra, naturalmente quasi invisibili, i servizi igienici. La prntagnnista è i-itta davanti allo spec­ chio, completamente vc:stita, si passa una mano tra i capel­ li. Poi nella scena succ essiva vediamo solo le sue gambe e scopriamo che si è istantaneamente spogliata. non ha più le i111riganri sc.:a,·pc e dall'alto di fianchi invisibili fa cadere sui piedi un indumento intimo bianco, una sottoveste forse, un capo non meglio identificato, ma di cui indovi­ niamo la morbidezza, la sensualità, la capacità di dare bri­ vidi i111riga111i a chi si avventurasse a sfiorarlo con la punta delle dita. Quindi ella ci appare immersa nella vasca ango­ lare intravista prima, mentre si massaggia delicatamente con una spugna. La camera fa un rapido zoom in allonta­ namento, parte da una piccolissima maniglia dorata, un

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TOMMASO LABRANCA

pomello su cui spicca il marchio di Valentino. Questo è un dettaglio di particolare importanza, non è un elemento di sfondo come le brutte utilitarie che servono a creare il con­ trasto tra mondo reale e mondo dell'eleghanzia. Adesso siamo immersi nell'eleghanzia esattamente come si sta immersi in una vasca da bagno. Il pomello c'è, ma è picco­ lissimo e non si vede. L'acquisto di un aITedobagno dotato di quei pomelli è una vera conquista per il neoprnletariato e quindi, nell'impossibilità di esibirlo ingigantito com� sulle t-shirt, il marchio viene sottolineato dalla zoomata. E un solo attimo, ma sufficiente a far spirare più forte quel­ l'aliseo di eleghanzia e seduzione promesso dalla protago­ nista sin dal suo arrivo nel parcheggio. Adesso l'attenzione torna proprio su lei, sulla protagonista che, indossato un accappatoio bianco, esce dal Centro A1Tedobagno Cagliati. Per magia non siamo più nel parcheggio, ma nel parco secolare di una villa patrizia. La voce conclude: [vox] Centro Arredobagno Cagliati, Lissone Il

gabinetto bello

Di una sventata servetta Carlo Emilio Gadda scrisse a un certo punto di «Quando il Girolamo ha smesso...», secondo racconto de «L'Adalgisa»: «... riuscì anche in breve giro di lune a ingorgare, non si sa come, la "canna del gabi­ netto bello". Come mai? Se le era stata p1·escritla la defe­ cazione di servizio, nel gabinetto di servizio». E nella nota relativa, la ventotto, Gadda specifica che nell'espressione gabinetto bello «l'aggettivo bello distingue spesso, nella parlata leziosa, l'impianto a destino padronale da quello a destino servile». Questa era una nota più che necessai·ia nel 1943, anno in cui fu pubblicato il libro e anno in cui i bagni erano ancora quasi tutti solo gabinetti; e a loro volta, nelle situazioni più popolari, questi gabinetti erano come le reti di comunicazione negli uffici attuali. A un solo gabi­ netto/server (collegato alla rete fognaria/rete mondiale)

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NEOPROLETARIATO

ricorrevano tutti gli inquilini/terminali di una ringhie­ ra/ufficio. Oggi una nota simile sarebbe del tutto inutile poiché i cartelli delle cooperative edilizie promettono il riscatto abitativo al neoproletario: esclusive villette a schiera o prestigiosi appartamenti dove non mancano doppi o tripli servizi, che non saranno mai equiparati tra loro, ma ve1Tanno sempre arredati e accessoriati secondo una scala di bellezza: bagno bello > bagno brutto > bagno infimo. Oggi una nota simile sarebbe del tutto inutile poiché anche a livello di neoprolctariato si è radicato l'uso del­ l'aggettivo «bello», assegnato ai frutti dell'eleghanzia, e contrapposto all'aggettivo «bn1tto» che continua a indica­ re il mondo di una non meglio definita servitù. D'altronde difficile da identificare: anche la cosiddetta servitù di ori­ gine filippina salta la fase d'uso di umili gabinetti brutti ed entra di diritto nel neoprnletariato, avanzando pretese di eleghanzia nelle automobili come negli arredobagno, non appena mette piede sul suolo italiano. Accompagnandosi al sostantivo «gabinetto», anzi «bagno», anzi «stanza da bagno», anzi «sala da bagno», anzi «ambiente bagno», anzi «realtà bagno», l'aggettivo «bello» ha visto amplificarsi in superlativi irraggiungibili il suo carico concettuale e pluri­ secolare di nobiltà, raffinatezza, elevatezza di sentimenti. propensione alla giustizia e altre virtù. Oggi una nota simile sarebbe del tutto inutile poichl mentre Gadda aveva bisogno di segnalare al lettore che l'e­ spressione «gabinetto bello» era propria della «parlata leziosa», oggi l'espressione e l'idea che essa sottende si sono vastamente diffuse e fanno parte di una «esistenza leziosa», sono parti fondanti di quella eleghanzia così ben rappresentata da certi spot in cui venditori della provincia profonda pubblicizzano i propri a1Tedobagno 1icorrendo a immagini di presunta estrema raffinatezza. Il bagno ha ucciso il gabinetto e solo a delitto consuma­ to sono entrati in questo ambiente gli arbitri dell'eleghan-

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TOMMASO LABRANCA

zia, le firme, gli esteti che hanno confinato nei gabinetti di senrizio non solo le defecazioni di servizio, ma le defeca­ zioni di ogni livello. Scopo unico del bagno bello è rende­ re bello chi l'usa. Abluzione non defecazione. Negli appar­ tamenti neoproletari con finiture di lusso le padrone di casa chiudono l'enorme bocca misteriosa del waler closet con un apposito asse in colori pastello intonati al resto del­ l'arredobagno e a sua volta questo asse è ricoperto da un copricopriwater nelle tinte e nei materiali dei tappetini con fondo gommato che decorano la stanza. Come se, nascon­ dendo l'oggetto, si riuscisse a negarne la funzione. Negli spot i sanitari da seduta sono nascosti o addirittura can­ cellati. Le mani dei protagonisti neoproletari di questi spot sono tese a raggiungere morbidi asciugamani coordinati agli accappatoi, spazzole dal manico di madreperla, scin­ tillanti flaconcini di profumi firmati allegati alle riviste. Mai tendono verso i rotoli di carta igienica che sono anzi assenti da questi bagni platonici, apollinei, stitici. Sarà sicuramente un atteggiamento occidentale. I Giapponesi forse non hanno questo pudore defecativo. Ci sono versi in cui antichi poeti nipponici esaltavano il piacere della defecazione mattutina all'aperto, all'ombra di paraventi in carta di riso. C'è una foto inclusa nella copertina di «Playboy & Playgirl» .dei Pizzicato Five in cui Konishi Yasuharn siede nobilmente su un water con i pantaloni alle caviglie, reg­ gendo un ombrello aperto, senza rinunciare alle pose styi­ lish tipiche del suo progetto musicale. Ci sono momenti nella vita del Tamagochi in cui il tene­ ro pulcino elettronico deposita hunko no yama (in giappo­ nese: montagne di cacca) disegnate con tutto il limitato realismo concesso da una grafica a bassa risoluzione, ma complete di linee ondulate che ne indicano gli effluvi.

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La ricerca del Tesoro

All'ora di cena cerco sempre con un po' di nostalgia quel contenitore in metallo che Calvino chiamava pietanziera e che io ho sempre sentito chiamare schiscetta. Naturalmente non la trovo, perché tutto è cambiato, i proletari che le usavano sono stati decimati e in assenza di domanda anche l'offerta cala. Quindi, in attesa di vedere una collezione completa di pietanziere/schiscette quadra­ te, tonde e ovali esposta al MOMA di New York, ho inizia­ to a cercare un loro sostituto nel neoproleta1iato. Ho sco­ perto che in questa evoluzione del proletariato non era il contenitore, ma il contenuto ad avere importanza. Il cibo, cioè, visto come sostentamento non del corpo, ma delle esigenze di eleghanzia. Ho compiuto la prima ricerca nei ristoranti che a Milano, come ogni altra cosa, hanno prezzi vergognosa­ mente pompati, ma il neoproletario è più che disposto a sacrificare una prowigione o la più grossa fetta del suo salario pur di sentirsi inserito nel mondo che cambia e diventa una cosa sola. Un tempo, quando ero ancora pro­ letario senza prefissi, gli unici locali che frequentavo erano modesti ristoranti in occasione di lieti eventi (battesimi, comunioni, matrimoni). Dopo essere diventato neoprole-

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tario ho ricercato quell'atmosfera nella Trattoria della Bernarda (via Emilia a Vizzolo Predabissi, praticissima la vicinanza all'omonimo Pronto Soccorso), dove condivide­ vo la compagnia e la nostalgia di altri intellettuali e buon­ gustai. [Nota politica e un po' t,iste. A volte esco e da solo vado da McDonald's, non me ne vergogno, vado a mangiare cibi sofisticati preparati da sfruttatori di giovani disoccupati. Mangio e rimugino sulla mia confusione politica: credevo che McDonald's, con i suoi prezzi popola1i e i locali pieni di gente di ogni classe sociale, fosse un esempio di comu­ nismo. Invece ho spesso sentito il compagno Be1·tinotti che, contrario ai McDonald's perché antiproletari, propo­ neva in alternativa non un rustico panino con salame, bensì del lardo di Colonnata. La scelta era davv ero neo­ proletaria. Così una sera sono andato da Sadler e mi sono satollato con un plateau del tradizionale e naturalissimo lardo. Avrei voluto fare il bis, ma già il primo plateau mi era costato 89.000 lire. Aggiungo che il lardo non mi piace e che lo ho praticamente vomitato dopo quindici minuti.] Preferivo La Bernarda a quell'universo di locali fintoru­ stici che spesso sono siti dietro collettori fognari o in fondo a cascine fatiscenti. E una volta arrivati al loro interno vivi, dopo aver evitato il rischio, durante il percorso, di essere morsi da grossi ratti rabbiosi o di finire travolti nel crollo di quella che un tempo era una stalla, non si evita il peri­ colo rappresentato dall'untuoso proprietario che, imbrac­ ciata a tradimento la chitarra, inizia a cantare tristissimi brani meneghini. Il tutto a costi da cena in camera nella suite del grand hòtel. Ma si affrontano volentieri il ,·ischio e il costo, sapendo che quel posto noto a pochi, perso in fondo a una periferia, resta inaccessibile alla massa dei fre­ quentatori occasionali, veri proletari che magari in quelle periferie ci abitano e che, esclusi per impossibilità logisti28

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ca o economica dalle delizie dello slow food, sono costret­ ti a ripiegai-e su McDonald's, subendo nel contempo le ire del compagno Bertinotti. Pura schizofrenia neoproletaria. [Nota storica e un po' triste. «Nei quartieri operai alla periferia della città ... si era sviluppato un rapporto molto particolare tra le singole famiglie e la collettività ... La gente viveva per lo più negli appartamenti delle case di rin­ ghiera ... in questi cortili e in questi quartie1i, isolati dal resto della città, cresceva un forte senso della comunità ... si sviluppava una solidarietà basata su una complessa rete di scambi e di favori» (Paul Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi, pg. 16-17).] La stronzaggine, nel passaggio da proletariato a neopro­ letariato, è cresciuta in maniera esponenziale e continua. Non c'è modo, né tempo di aver pietà del prossimo quan­ do è in gioco l'affermazione dei propri valori di eleghanzia. Così a un certo punto l'appropriazione e la contemporanea umiliazione delle abitudini proletarie nelle periferie citta­ dine non è bastata più e si sono ampliati i propri orizzon­ ti, aprendosi alle cucine etniche, ossia coinvolgendo nel proprio campionario di suggestioni estetiche le cucine di tutto il mondo. Ci sono i ristoranti etnici, esotici, inusuali, spesso basa­ ti sulle cucine di poveracci, etiopi o cingalesi. Ma i neo­ proletari hanno un debole per quelli giapponesi. Qui un intellettuale ipnomediatico di estrazione neoproletaria, quale io mi ritengo, dovrebbe sentirsi a proprio agio. E in­ vece, nella continua ricerca di un sostituito dell'antica pie­ tanziera/schiscetta, li evito, perché il sushi, il pesce crudo che tutti nel neoproletariato ritengono segnale di moderna eleghanzia, a me fa vomitare anche gli occhi. Una sera sono stato quasi costretto ad andare a cena in un ristoran­ te che si chiamava Zen, forse perché era uno dei pochi nomi in grado di destare sensazioni nipponiche a persone 29

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in possesso di elementi di linguistica neoproletaria, riassu­ mibile nell'espressione «ho fatto inglese alle medie». Zen non era nefasto come Hiroshima o lugubre come harakid e aveva un bel sottofondo di new age. Ern perfetto insom­ ma per identificare un locale del genere. All'interno c'era un binario metallico che girava trasportando piattini colmi di totani vivi. C'erano le immancabili scritte giapponesi, i giardini zen, i ponticelli. Insomma, c'era la solita paccotti­ glia esotica che perseguita l'Occidente almeno dalla fine del XIX secolo. Io avevo una grande nostalgia delle mie cene neoproletarie, che si svolgono nella dimensione ana­ coretica di un goloso 1isotto surgelato consumato seguen­ do il mesmerico Willy Montini alle prese con i quadri del maestro Papasso su Telemarket. E invece dovevo star lì, in un posto pieno di esponenti del neoproletariato più evoluto che sedevano fianco a fian­ co di modelle americane, e che trovavano nuova forza nel­ l'eleghanzia sprigionata dall'ingollare pezzi di pesce crudo interi, benché fino all'altro ieri avessero biasimato quella stessa abitudine praticata dai pescatori delle nostre belle coste. Nessuno intorno masticava davvero il sushi perché faceva un po' schifo a tutti, ma nessuno aveva il coraggio di dirlo. Intanto mi sforzavo di non pensare all'episodio in cui Fantozzi andava al ristorante giapponese con la Silvani, episodio che dimostra quanto diverso sia il rapporto tra proletario e cibo etnico (distanza incolmabile, accettazio­ ne supina, infine débacle dichiarata) e del rapporto tra neoproletario e cibo etnico (presunta contaminazione, pre­ sunta scelta consapevole, illusione finale di essere diventa­ to parte del melting pot, infine problemi gast1·ici). Dirottavo la mente su «Il cibo decentrato», il capitolo de «L'impero dei segni» di Roland Barthes dedicato al sukiyaki. Ma non ci riuscivo. Ero deluso dal non aver anco­ ra trovato l'equivalente della pietanziera/schiscetta. 30

NEOPROLETARIATO

[Nota cinenzatografìco-letterario-musicale e un po' triste.

P1·ima dell'avvento del neoproletariato cibo era sinonimo di casa. Lo stesso Fantozzi, nella coercizione di tutta una giornata di lavoro noioso, trova unico sollievo nel pensare al menu che lo attende a casa e annunciatogli dalla moglie sin dal mattino. E al suo ritorno grida liberatorio: «Pina, sono pronti gli spaghetti con il tonno? È tutta la giornata che ci penso ... ». Come Tigrotto, protagonista di libri fran­ cesi per bambini, che in «Tigrotto è in vacanza» rientra da un giro del mondo e sente di essere finalmente tornato nella pace della sua campagna francese solo quando si siede a tavola e «cena tranquillamente davanti al televiso­ re» con degli ceu/s sur le plat. Come Marce! Proust che, sotto gli ippocastani di quella stessa campagna francese di Tigrotto, alla tensione e alla tempesta dei sensi provocate dalle lunghe letture di avventure esotiche contrapponeva l'aspettativa domestica e tranquillizzante del «buon pran­ zo che Françoise stava preparando». Nel mondo del neoproletario il cibo deve invece essere qualcosa che porta lontano da casa e i sapori noti fanno fuggi1·e rapidamente dal desco familiare il neoproletario così sofisticato, mondano, cosmopolita. Un'icona del neo­ proletariato, Max Pezzali (Week End, 1992), è uno dei primi che, al pensiero di dover mangiare «pasta in brodo oppure minestrone, ad andar bene un po' d'affettato» scappa di casa e va alla ricerca di un tavolo in qualche locale, ma li trova «tutti pieni» della folla di neoproletari gastronomicamente apolidi alla domenica sera e conclude: «noi non abbiam prenotato»'. Il neoproletario è un Proust che non legge e quindi nel cibo sino-giapponese o messicano o indiano ricerca, e trova, quella tensione e quella tempesta delle viscere che lo scrittore francese trovava nei libri d'avventure.] Al di fuori dei locali creati per soddisfare l'eleghanzia dello zoccolo molle del neoproletariato, la cucina etnica 31

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vista dal vivo non è così glamourous come appare dalle pagine patinate delle riviste eleganti. Quelle che vediamo stampate sono immagini senza umanità: pezzi di strani cibi in scodelle rustiche su tavolini neri e bassi, in ambien­ ti vuoti. Anche per quanto riguarda il cibo etnico la dimen­ sione umana si incontra dopo l'esperienza diretta. Non quella che si fa nei ristoranti nipponici, ma quella che si vive in un Take Away cinese. Quando entra in uno di que­ sti Take Away il neoproletario, viziato da anni di pessime letture ebdomadarie patinate, crede di venire a diretto con­ tatto con quella che chiamano la contaminazione, ma che contaminazione non è, visto che non esiste alcun contatto tra Wu Si Yon, la signora cinese che prende la mia ordina­ zione al Take Away Cinese Peruviano Rosticceria Del Tesoro di via Lomellina 30 a Milano, e Maria Ferrari, la signora che guarda Bruno Vespa in televisione seduta nel suo salotto barricato al primo piano dello stesso stabile, esattamente sopra al Take Away. Ma se guardo il soffitto della rosticceria è come se quel salotto, separato da pochi centimetri di muratura e piastrelle, fosse su Nettuno. È il disprezzo di Maria Ferrari per gli effluvi della cucina sot­ tostante e la diffidenza verso fattezze somatiche diverse da quelle del suo volto meneghino a creare la distanza. Ma la Ferrari è una veteroborghese. Io invece sono un neoproletario e ogni volta che vado al Take Away Cinese Peruviano eccetera di fronte a quell'u­ nione inedita di occhi a mandorla e nasi aztechi mi chiedo quale strano legame vi sia tra Cina e Petù. Una contami­ nazione reale, nata fuori dalla vacua aspirazione iconogra­ fico-pacifista delle ideologie patinate che nutrono l'ele­ ghanzia. Ma sono il solo a farmi queste domande. Intorno a me, seduti all'unico tavolo o alla lunga mensola a muro, i Peruviani mangiano menù veramente contaminati di riso alla cantonese e !omo saltato, accompagnano l'arroz chau­ fa con i wanton e se ne fregano delle speculazioni intellet-

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tuali sul melting pot preferendo a quest'ultimo l'uso con0creto del wok. Intanto parlano male dei loro principali .nelle imprese di pulizie per le quali lavorano, brindando ,con bicchieri colmi di lnka Cola, un liquido dolciastro e ,giallo oro che, come specifica il nome, è di chiara prove­ nienza pernviana. Sotto i neon di questo Take Away ho ·visto mangiare in fretta allo stesso tavolo un transessuale peruviano già in abiti professionali e un ambulante cinese con a fianco il cesto di gadget, entrambi pressati da una notte di lavoro che li attendeva in una città che si finge multirazziale, ma che costl"inge quelle razze a vivere in zone, con momenti e davanti a cibi ben diversificati. Sul tavolino di fronte alla strana coppia sino-peruviana le vaschette di stagnola che contenevano il cibo non avevano assolutamente quel fascino glam che invece io vi trovavo, vittima della asimmetria neoproletal"ia con la quale gli intellettuali ipnomediatici vendono valori inesistenti quan­ do questi siano utili al raggiungimento del pluscool.

[Nota editoriale e un po' triste. Quando esco dalla rostic. ceria, anzi Take Away, come vuole la glamourizzazione neoproletaria, mi sento molto up-to-date, molto baudril­ lardiano, lyota1·diano ... Mi sento come il protagonista di uno squallido articolo sui single metropolitani, quelle col­ lazioni di banalità composte da qualche zitella della pro­ vincia comasca, fiera di essere an;vata in città e di scrive­ re di aperitivi seduttivi per un femminile patinato e imbe­ cille, una che non sa cos'è il neoproletariato, ma si com­ porta come tale, rispettando il precetto marxiano che reci­ ta «essi lo fanno, ma non lo sanno». Una che ha in casa un intero servizio pe1· il tè che ha comperato in Marocco e se ti invita a cena ti costringe a mangiare un cous cous cuci­ nato malissimo, ascoltando musica etnica, ma evita ogni rapporto con i veri maghrebini ai semafm;. Una che vive sotto la spinta delle peggiori aspirazioni all'eleghanzia, che desidera essere una intellettuale, ma che non sarà mai 33

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un'intellettuale ipnomediatico, non avendo sviluppato alcun senso critico verso i neopadroni; è solo uno dei tanti ingranaggi della manovalanza editoriale di cui il potere si serve per riempire le riviste tra un inserzionista e l'altro.] Uscito dal Take Away camminavo con in mano le vaschette calde e insieme al profumo degli gnocchi di riso aspiravo un aroma di intellettualità, urbanità e multicultu­ ralità che mi rendevano differente dalla rozza, veterobor­ ghese signora Maria Ferrari, chiusa in un salotto, circon­ data da luce azzurrata e immersa nell'odore dell'ossobuco succhiato a cena. A casa, togliendo il coperchio alle vaschette, ho anche pensato per un momento agli immi­ grati che in Rocco e i suoi fratelli piangevano, quasi, quan­ do un parente appena arrivato a Milano p011ava loro delle arance dalla loro terra. Pensavo: io non ho ten-a, non ho un cibo che posso legare alla mia infanzia. Però ho un conte­ nitore di cibo che posso legare alla mia infanzia: la pietan­ ziera/schiscetta. E lì, seduto sul divano, mentre guardavo senza capirlo un qualsiasi canale del bouquet satellitare arabo, mi accorsi che la vaschetta di stagnola da cui man­ giavo gli gnocchi di riso era metallica e quadrata come le schiscette usate da mio padre molti anni prima. Il neopro­ letariato che nasceva dalle ceneri (da un riciclaggio impos­ sibile di metalli) del vecchio proletatiato. Il Tesoro 1itrova­ to. La commozione di un attimo.

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NEOPROLETARJATO

Note

I. La pr·enotazione, ovviamente dopo la selezione all'ingresso, è la limitazione della libertà personale che più fa godere i neoproletari. Entrar·e anche in una birTeria rustica, dove non c'è un solo avvento­ re, ed essere bloccati sulla p01ia da una ragazza qualunque che dice seccamente: "Avete prenotato?" e poter rispondere "Sì, un tavolo a nome Felicelli" è per· i neoprnletari un piacere orgasmico inferiore solo al "Guarda che sono in lista" detto con disprezzo in faccia all'in­ Oessibile torn della security, davanti al solito locale per calciatori e valletle. Sono f rasi-feticcio tratte dal Grande Dizionario delle A uto­ gratificazioni Ur·bane che fanno sentire bene chi le pronuncia. E' un teatrino della menzogna, ma nell'universo neoproletario la verità non è il fine ultimo della ricerca. Quello che conta è l'esser·e presenti e accetti nei luoghi stessi. E a questo ininunciabile Da-sein monda­ no (esse1·-ci), il neoprnletario aggiunge un Da-essen (mangiar-ci), un Da-tanzen (ballar-ci), un Da-warten (compier-ci un'attesa). Comun­ que, per completare la farsa, la ragazza alla porta controlla la lista (vuota) e accompagna il cliente al tavolo che gli era stato riservato (uno qualunque). Max Pezzali, unico vern genio dei nostri anni neo­ proletari, aveva capito tutto sin dal 1992 quando appunto cantava: "cena in casa, pizzc1ic tulle piene/ e noi non abbiam prenotato". Al­ lora ricordo che risi di quel verso: ma chi mai prenota in pizzeria? Me ingenuo.

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Iperoccidente

La massima diffusione del neoproletariato ha coinciso con il momento di splendore dello stile etnico. In ogni set­ tore, dal cibo all'arredamento, dall'abbigliamento alla mu­ sica, il pluscool appariva ancora più plus e ancora più cool se era fatto di sassi, argilla, radici secche, semi di tapioca, sacchi di iuta e altri emblemi dell'indigenza terzomondista. A differenza di quanto sarebbe potuto accadere negli anni precedenti, quegli stessi sassi e quelle stesse radici non ve­ nivano ripuliti o lucidati per essere resi glamorous. Tutto veniva esposto nella propria essenza opaca in ambienti al­ trettanto opachi. A cambiare era soltanto il prezzo. Ciò che nei villaggi africani aveva come costo solo la fatica di ab­ bassarsi presso il letto di un fiume prosciugato, nei templi del neoproletariato occidentale raggiungeva valutazioni da quadro d'autore. Uno di questi templi è di sicuro Corso Como IO, sofisti­ cato emporio milanese dove si mescolano radici africane e abiti zen di misconosciuti stilisti giapponesi, camerieri ar­ roganti e confiserie indiane, incensi e arbusti, candele e zampironi, il tutto offerto a prezzi decuplicati e presentato in una messa in scena creata da un'abile neopadrona per attirare il neoproletariato di livello sorcio, non certo quello di periferia (cfr. Mondo di notte n. 100). Per attirarlo in

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trappola, potrei dire. E non è forse un caso che il simbolo di Corso Como IO è costituito da cerchi concentrici. Una volta superata la soglia del civico 1 O di corso Como, indirizzo che dà il nome all'emporio, al neoproletario pare di immergersi in un bagno di globalismo estetico. Ancora una volta si tratta di una sensazione panica esclusivamen­ te di maniera in quanto tra i neoproletari è fortissima la componente razzista. La guena tra miserabili che si svolge fra vicini di casa nel condominio periferico si amplifica nella contrapposizione tra presunta superiorità occidenta­ le e presunta infe1iorità afro-slavo-islamica. I..:onnai classi­ ca asimmetiia mentale del neoproletario porta poi quest'a­ nima razzista e antisolidale a circondarsi degli oggetti pro­ pii di quel mondo che egli avversa e che utilizza per pro­ pria glo1ificazione estetica. Il mondo globalizzato e multietnico del neoproletario è in realtà quello post-bomba N: dopo l'esplosione sono ri­ masti intatti i didgeridoo e i caffettani, i sassi e le radici, le ciotole scavate a mano nel legno e i ciondoli con le conchi­ glie. Dopo l'esplosione sono invece fortunatamente scom­ parsi i Senegalesi e i Marocchini che quegli oggetti li han­ no prodotti e usati nel proprio quotidiano senza alcuna presunzione estetico-modaiola, ma che saranno sicura­ mente stati simili a quei loro connazionali fastidiosi e ma­ leodoranti che si incontrano questuanti per le strade del centro. Questo è esattamente lo scenario che si osserva dentro Corso Como 1 O, dove ci sono sassi e arbusti e radici e décor made in Afiica, ma dove per gli Africani è proibitivo entra­ re. Con il costo di un aperitivo preso nel bar di Corso Como 10 (chiamiamolo Importo X) una famiglia senegalese po­ trebbe vivere per un mese.

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TOMMASO LABRANC,\

Posseggo il co «Baobab• di (brahim Maiga. Guai-dando­ ne la copertina mi convinco che molti St'negalesi. se si tro­ vassero in mano l'Importo X, sceglierebht·ro di prendersi un aperitivo al bar di Corso Como 10 piuttosto che spedire un moneygram a casa per far mangiare le proprie famiglie per un mese. Perché l'Occidente non è l'incarnazione dd male e i poveri del mondo non sono quella del bene. Le frange fondamentaliste seguaci di Osama bin Laden sono pochissime, mentre sono milioni gli islamici che subiscono il fascino dell'Occidente, anzi dell'Ipcroccidente, un'idea di ovest ancora più ricco e luminoso e splendido di quanto in realtà sia. Ibrahim Maiga è un musicista di origine africana trasfe­ ritosi poi nella Repubblica Ceca dove canta canzoni in cui agli strumenti etnici accompagna un testo in lingua ceca con un effetto devastante. La copertina esterna del CD pre­ senta Ibrahim in un costume che per comodità definiremo «africano» (in realtà quanti costumi africani esistono? Tan­ ti almeno quante sono le etnie che in quel continente abi­ tano). In testa un copricapo su cui appare orgogliosamente il nome Africa. In primo piano un balafon. Balafon è una corruzione francese del termine baia/o che in lingua man­ de indica il suonatore ({o) di xilofono (baia). Il termine poi 38

NF.OPRUI.F.TARIATO

lrA;Jr 1ir1

li.;;Jl:,i,]

è passato a indicare lo st11.1mento stesso, tipico del Sudan occidentale. Ibrahim Maiga è dunque un baia/o sudanese arTivato non si sa come a incidere per la Jumbo Records, casa che nonostante il logo con elefante stilizzato ha sede a Bratislava. Il balafon fatto di legno e gusci vuoti. di frutti tropicali è davvero un oggetto che sta bene ovunque: tra le etnofighettcrie cli Corso Como I O. posto accanto a un set di piatti per il sushi. come nei più radicali centri sociali di provincia i cui frequentatori credono che basti suonicchia­ re un didgeridoo o un baia fon per awersare la cultura oc­ cidentale. Anche se a un primo sguardo appaiono abitanti di mondi distanti, Corso Como 10 e il centro sociale di pro­ vincia sono due espressioni di uno stesso neoproletariato, differenziate solo dai vestiti che indossano, ma unile nel­ l'approccio superficiale all'etnico. Per andare oltre quella superficialità basterebbe togliere dal codi Maiga la copertina, dispiegarla e girarla per vede­ re la grande foto interna. Qui l'apparenza di Ibrahim è so­ stituita dall'intenzione di Ibrahim: scomparso il tunicone con i disegni da Corso Como IO, dissolto il balafon, elimi­ nato il copricapo con la scritta Aftica. Anzi, sparita l'intera Africa. Ibrahim a torso nudo, in bandana, con pantaloni e scarpe da neoproletario periferico e orologio minimal al 39

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polso descrive iconicamente qual è l'Iperoccidente che so­ gna. Ibrahim diventa il simbolo di una integrnzione tamar­ ra fatto di palestre, di esibizionismo e di D&Grado. Resta al collo il ciondolo con le conchiglie, ma non è una dimen­ ticanza, è un ritorno. Ibrahim ha un ciondolo con le conchiglie realizzato dal­ le donne del suo villaggio. Ibrahim arriva nell'Iperocciden­ te e, quando non gli serve per farsi fotografare, si sbarazza di tutta l'Africa che ha addosso, ciondolo con conchiglie compreso. Ibrahim si accorge che nell'lperoccidcnte i neo­ proletari alimentano il proprio pluscool pagando carissimi quei ciondoli con conchiglie realizzati dalle donne di un povero villaggio senegalese. Ibrahim per essere del tutto iperoccidentale recupera il suo ciondolo con conchiglie. Il fatto che la copertina esterna sia africaneggiante e che quella interna sia iperoccidentalizzata induce a pensare che il trito culto della Marna Africa sia in fondo solo un at­ teggiamento di maniera, persino in chi dall'Africa provie­ ne. Se si cercano conferme: cfr. Mathias, il concorrente ne­ ro del Grande Fratello 2 che a parole e ciondoli pareva più radicale delle Black Panthers, ma nei fatti era una vittima dell'Iperoccidente, più neoproletario dei suoi compagni d'avventura di cui condivideva gli strumenti per il fitness e le povere aspirazioni a un'effimera fama.

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fff

Il neoproletariato quando sogna, sogna tre cose che ini­ ziano per f. Fitness. Fashion. Fiction. La fiction dura un numero limitato di puntate, la soap è quasi infinita. Ma il neoproletario chiama tutto fiction. La fiction è monotematica. Anche chi la segue lo è. E anche chi la fa lo è. La fiction è involuta. La fiction involve e, infatti, il passaggio da proletariato a neoproletariato è una involuzione. La fiction è la narrazione del neoproletariato (comple­ mento di argomento). La fiction è la narrazione del neoproletariato (comple­ mento di possesso). La fiction è una trasposizione televisiva dei giochi di ruo­ lo ed è noiosa e prevedibile come quelli, e come quelli par­ la a un pubblico di allucinati. 41

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Come i seguaci dei giochi di ruolo, i neoproletari che se­ guono le fiction non vedono la realtà direttamente attra­ verso gli occhi, ma hanno uno sfondamento nel cervello at­ traverso il quale penetrano in una dimensione parallela fit­ tizia (fittizia ha lo stesso etimo di fiction). In rari momenti di lucidità, quando un sistema cerebrale automatico com­ para gli abitanti del mondo reale con quelli del mondo pa­ rallelo e fittizio, la giovane neoproletaria ha un momento di smarrimento e spesso prova disgusto verso il mondo in cui danzano tutte le consonanti e non solo le F. La messa in onda della fiction è un momento sacrale, un rito introdotto da un intero palinsesto preparatorio della fiction. Tutti gli altri programmi presentano anticipazioni di fic­ tion, attori di fiction, aspiranti attori di fiction. Tutti gli altri programmi sono una specie di passaverdu­ ra in cui entra la massa ed escono pochi fortunati che rica­ dono a caso dentro una delle tante fiction. La fiction è prevedibile come una commedia dell'arte: i nonni sono caricature dei nonni, i giovani caricature dei giovani; le donne caricature delle donne. Unico avanza­ mento sono gli omosessuali, che nella fiction ci sono e nel­ la commedia dell'arte no, o almeno non rappresentati di­ rettamente, e che comunque sono caricature degli omoses­ suali. Ma al neoproletario tutto ciò rassicura. La fiction è eleghanzia, non è arte popolare. L'arte popo­ lare non esiste più. La pop art era una finzione: la riproduzione di fumetti e merci piaceva ai critici raffinati, non al popolo, che voleva santi, madonne e paesaggi fatti bene. Fate un film realista e al neoproletariato non piacerà. Perché il neoproletariato ama la realtà solo quando viene

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rivestita di eleghanzia e quando si dimentica di essere po­ polare, come nelle fiction, i cui personaggi sono santi e ma­ donne fatti bene che si muovono in paesaggi fatti bene. La fiction non è letterntura popolare. I romanzi popolari non esistono più. I romanzi rosa sono letti solo dalle colf fi­ lippine, in lingua tagalog. Li trovano nelle edicole di piazza Duomo insieme a giornali stampati su pessima carta con in copertina i divi delle iiction filippine, regolarmente meno aitanti di quelli delle fiction italiane. Codio verso i romanzi rosa è espresso ferocemente dalle neoproletarie che seguono le fiction però poi sul tram leg­ gono Allende e Ba1·icco, che non sono popolari. Perché esse1·e popolo significa essere massa, compatta, unita. Nessuno vuole più essedo e anche leggendo sul tram esprime la propria unicità. Nessuno vuole più dirsi del popolo (e negando questa ap­ partenenza si segna il passaggio da proletariato a neopro­ letariato). Il sistema industriale produce oggetti di massa, ma li ri­ veste di sogni individualizzanti. Pur nella sua standardizzazione, la fiction è la macchim. individualizzante per eccellenza. La fiction diffonde la menzogna e fa credere ai neoprole­ tari che vivendo come gli sceneggiatori insegnano potran­ no porsi al di fuori di quello stesso sistema di cui sono di­ speratamente ingranaggi. Ma questo non è mai un movimento univoco. La fiction (ma anche tutti gli altri mezzi di espressione: il cinema e i fotoromanzi, i romanzi epistolari ottocenteschi e la tv) prende e dà in egual misura. La fiction prende dalla vita la realtà che poi applica, fal­ sata da una recitazione spesso dozzinale, nelle sue storie. 43

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La neoproletaria sogna di essere attrice di fiction e allo­ ra tiene sempre il muso un po' imbronciato e i capelli da­ vanti agli occhi. Il neoproletario sogna di essere attore di fiction e allora ha sempre la barba di tre giorni e lo sguardo che nasconde un tormento interno. Il neoproletariato guarda le fiction e poi cerca di vivere in quel modo, con gli stessi «grandi sentimenti» come si fa con «Un posto al sole» come si fa con «Via col vento» o «I dolori del giovane Werther« o nella letteratura devozionale. Una specie di «Imitazione di Cristo» più gradita, più auto­ gratificante, più immediata, più terrena. Essere come Cristo nelle azioni e nell'aspetto, perché Cristo, essendo bontà infinita e perfetta non può che esse­ re bello e biondo e con gli occhi azzun-i, come un attore di fiction. Nella fiction si esprime al meglio il moderno kalos ka­ gathos. Il neoproletariato cerca di essere come quei protagonisti (di assomigliare loro fisicamente), di unirsi a partner che siano come quei protagonisti. Sui giornali di programmi televisivi ci sono pagine e pa­ gine di trame delle varie fiction. Tra una trama e l'altra vi sono pagine di pubblicità. Le pubblicità riguardano maghi che ti capiscono, appa­ recchi per il fitness e società che danno prestiti subito an­ che a protestati. I neoproletari telefonano ai maghi per sapere come con­ quistare il partner che li sta facendo soffrire come in una fiction.

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Il mago risponde a 1,32 Euro al minuto e dice che per es­ sere vincenti si deve provare a curare di più il proprio aspetto fisico, come fanno gli attori delle fiction. I neoproletari si danno al fitness e cercano di farsi un cm-po che non slonercbbe nudo in Ùna fiction. Ma prima di spogliai-lo quel corpo ormai perfetto va ri­ veslilo con gli abiti giusti. Ma le firme costano care così i neoproletari telefonano alle società che danno prestiti su­ bito anche a prolestali. Ormai frutto ciel Filness, avvolti in abiti Fashion, i neo­ proletari per far fronte al debito contratto con la società che dà prestiti devono risparmiare e allora non escono, slanno a casa e ingannano il Lempo seguendo le Fiction. fff... è il suono che fa una gomma quando si sgonfia.

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Tre poemetti neocrepuscolari

O. Disc-count-down

Nel 1991 entravo per la prima volta in un hard discount senza accorgermi dell'impatto che quell'ambiente avrebbe avuto sul decennio che si apriva e, quindi, sulla formazio­ ne del neoproletariato. Visita dopo visita, spesa dopo spesa, alle prime fascinazioni dovute ai prodotti dai marchi emu­ lativi si sostituirono altre osservazioni che hanno spesso colpito la mia sensibilità di intellettuale ipnomediatico. È stato in uno di questi spartani supermercati, apparente­ mente nemici del pluscool, che gli anni Novanta mi si sono rivelati come il decennio del disc-count-down. Disc perché una tecnologia sempre più invasiva riduceva tutto, dai film ai dati dalla musica ai giochi, dentro piccoli dischi compatti. E questa contrazione del prodotto usu­ fruibile era contrastata da una moltiplicazione delle mac­ chine necessarie a riprodurre quei supporti compattati. Disc-count perché quella tipologia di supermercato ave­ va segnato l'aspetto commerciale più interessante dell'epo­ ca: la riduzione dei servizi materiali, cui faceva comunque da contraltare un aumento dei servizi astratti, fomiti dalla massa di cali center nati in quel periodo. Quei centri im­ piegavano legioni di neoproletari i quali poi spendevano i

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soldi guadagnati grazie ai «servizi astratti aumentati» pres­ so gli offerenti di «servizi materiali ridotti». Non solo negli hard discount alimentari, ma in tutti quei negozi di ogni settore merceologico che nelle insegne riportavano il ter­ mine discount: dai computer alle piastrelle ai vestiti in un'orgia massiccia di prodotti di basso profilo che dietro la loro finta propensione alla «prima necessità» nascondeva­ no una istigazione subdola al plusinutile. Count-down perché in realtà non succedeva quasi nulla e quel poco di nuovo che si accumulava era schiacciato da due masse enormi: da una parte la revisione nostalgica di quanto prodotto e vissuto nei decenni precedenti, dall'altra l'attesa spasmodica del Duemila, attesa scandita da un con­ to alla rovescia frenetico e che, raggiunto lo zero, ha rega­ lato solo delusioni. Down perché tutto era vissuto in tono minore: c1isi eco­ nomiche, finti minimalismi, arrendevolezza e rinuncia in seguito alle crisi prodotte dalle svariate guerre. Ma tutto questo ritrarsi era contrastato dall'esaltazione eroica dei piccoli protagonisti di quelle guerre e delle missioni di pa­ ce, dalle pelose iniziative musicali di solidarietà globale e, a livello più personale, dalle ambizioni assurde di neopro­ leta1i avidi che usavano il termine new economy anche per definire la propria attività nell'intermediazione immobilia­ re, sicmi che, condividendo il termine, avrebbero condivi­ so anche lustro e ricchezza. I continui contrasti, l'espansione e la contrazione, la pe­ netrazione di nuove tecnologie, l'offerta di prodotti in serie e di basso livello, lo sguardo nostalgico al passato, l'attesa e la paura di una nuova epoca, gli eroismi esagitati e una ri­ sposta sommessa e interiorizzata a quegli eroismi sono tut­ te caratteristiche che alla fine del XX secolo hanno creato l'asimmetria neoproletaria, mentre agli inizi dello stesso secolo avevano prodotto la poesia crepuscolare. Spingendo un carrello pieno di prodotti senza marca ho quindi capito che un neocrepuscolaresimo può essere l'u47

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nica, vera, naturale corrente letteraria del neoproletariato. Ma questo possono comprenderlo forse solo pochi intellet­ tuali ipnomediatici, che purtroppo restano inascoltati. I neoproletari preferiscono glorificarsi in una cultura dei «grandi temi» che li esalti e non li presenti per quello che sono: arroganti senza alcun motivo di essere arroganti. Giunto alla cassa, l'identificazione dell'intellettuale ipno­ mediatico con Guido Gozzano era quasi completa: entram­ bi alle prese con un mondo in cui la macchina stava diven­ tando sempre più prevaricante (dall'industrializzazione di allora alla informatizzazione capillare di oggi), entrambi scesi a compromessi con la massiccia diffusione della mer­ ce (le prime poesie di Gozzano appanrero su una rivista, «Forum», che pubblicava fianco a fianco poesie e pubbli­ cità di oggetti di basso profilo, come piegabaffi e orologi impreziositi da figure mitologiche. Proprio come io teoriz­ zo l'aspetto poetico del neoproletariato mentre metto sul nastro di gomma biscotti senza nome, rasoi usa e getta). E ancora l'atteggiamento dimesso, interiorizzato e non rivol­ toso di fronte all'espansionismo (il colonialismo ai tempi di Guido, la globalizzazione nell'età neoproletaria). I. La cassiera

Al momento di pagare mi imbatto nell'eroina neoprole­ taria / neocrepuscolare: una cassiera brutta e priva di lu­ singa, ma che, come vuole l'attuale spirito del tempo, si au­ tostima moltissimo. Gli altri non la notano nemmeno; ai tanti frettolosi clienti del supermercato appare solo nel suo strato esterno d'indifferenza che la disumanizza quando con malagrazia compie gli stessi gesti ripetuti e fa scorrere sul lettore laser i prodotti che i clienti devono riporre in fretta nel sacchetto. Alla fine porge lo scontrino con due di­ ta, ripetendo la somma sottovoce. Classico rapporto com­ merciale ed evanescente tra due neoproletari, cassiera e cliente, che arrivano a odiarsi, fedeli al grido: «Neoproleta48

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ri di tutto il mondo, separatevi, individualizzatevi, oppri­ mete il vostro simile con la vostra carica di eleghanzia su­ periore». Ma un giorno è successo un imprevisto: il rotolo di carta nella cassa si è inga1·bugliato tra gli ingranaggi mentre la ragazza passava il mio ultimo acquisto. Silenziosa, a testa bassa, senza mai uscire dal suo torpore, come un ronzino che crollando il capo cerca di allontanare le mosche senza un nitrito (ma un ronzino che si crede un purosangue), la ragazza ha iniziato a districare il nastro di carta. Approfit­ tando cli quella pausa mi sono accorto di essere improvvi­ samente cambiato: non ero più colui che prima, guardan­ do la cassiera, non capiva quella strana sensazione che pro­ voca tristezza in chi osserva qualcun altro già t1·iste. Avevo come trasformato la mia soggettiva e ora vedevo la ragazza dentro, non dal di l'u01i. Mi sono immedesimato e mi vede­ vo rinchiuso in quella topaia che ospitava il discount e ho percepito quanto la tipa fosse infelice, vittima di una tri­ stezza brutta che s'appaiava alla tristezza del prefabbrica­ to, bloccata senza scampo in quel meato stretto tra la sedia e la cassa. Più che triste e brutta insieme, la ragazza era semplice• mente anonima. Era una ragazza senza marca, come quel­ le confezioni di biscotti anonimi che le passavano ogni giorno tra le mani e che sfiorava senza più sentire al tatto il fastidio cli quella carta da imballo di bassa qualità. Come una scatola di latte, sulla cui confezione squadrata e im­ macolata spicca grande solo la parola latte, senza una ap­ posizione o una specifica, senza un guizzo di fantasia crea­ tiva, lei era solo la cassiera. Coincideva con il suo ruolo, non aveva nome, non aveva una targhetta sul petto, non aveva nemmeno un petto: la signo1ina era brutta, senza se­ no. Un nome lo avrà avuto di sicuro, però non lo avrebbe detto a nessuno che glielo avesse chiesto, parca di parole com'era con i clienti. Recitava mogia l'importo del totale, indifferente alla presenza altrui. Rifiutava ogni tentativo di 49

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conversazione anche banale. Era una vera neoproletaria in questa sua arroganza muta, paladina dell'incoscienza di classe. Era quasi come se fosse vietato parlarle, come lo è per i conducenti di autobus. Così alla cassa se sbagliavo e qualche parola mi sfuggiva durante l'attesa dello scontrino... quando maga1·i avrei vo­ luto darle della moneta per facilitarle il resto, lei senza guardarmi, tirandosela come una p1;ncipessa cinese d'alLri tempi, diceva secca: no grazie. Umilialo nel mio ruolo di intellettuale ipnomediatico che non riceve il consenso del popolo di cui io stesso sono avanguardia, pensavo allora al­ la cortesia della macchina che instancabile ringrazia e saluta al casello dell'autostrada. Non capisco mai questa gentilezza in una scatola, forse c'è dentro qualcuno; potrei scendere dall'auto ment1·e la vo­ ce continua imperterrita a ripetere «inserire la tessera» e potrei sfasciare la macchina a colpi di cric. Intanto dietro di me le altre vetture in colonna inizierebbero a suonare i clacson e qualcuno avrebbe già chiamato una volante che sentirei avvicinarsi mentre dal cuore di quella scatola così gentile escono circuiti e fili colorati. Se con lo stesso cric spaccassi la cassiera troverei materia cerebrale, cai·tilagini, ossa, sangue esattamente quello che troverei se mi auto­ spaccassi. Allora perché non mi parlava? Perché nell'era neoprole­ taria ci sono sempre meno servizi materiali e aumentano i servizi astratti? Perché la cassiera non mi ringraziava quando andavo via, perché non mi diceva arrivederci come la voce astratta nella scatola autostradale? Non me ne cu­ ravo troppo. Dopo aver pagato io sarei uscito al sole. Fuori era una giornata chiara, il phon aveva ridotto i livelli di ozono e persino la lamiera impolverata della mia auto pa­ reva brillare. Nel capannone del discount invece non entra­ va la gioia luminosa che il phon ci regalava. Sulla soglia, al­ l'ingresso, si era colti dall'assenza di musica e da neon bianchi dismessi da un obitorio.

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Quando i dirigenti del supermercato (neoproletari anche loro: si ritenevano manager di successo ed erano tristi la­ voratori con un nome scintillante) avevano proceduto alla ricerca di personale, avevano svolto un casting un po' ma­ lato, sceglienclo quelle ragazze che si integrassero perfetta­ mente nella struttura triste di questo prefabbricato dalle colonne in cemento lasciato a vista, che risultassero quasi indistinguibili dai pacchi di canone ammonticchiati. La cassiera che mi stava davanti era stata sicuramente scelta perché meno che normale nell'aspetto, ma iperresistente alle radiazioni di infelicità che infestano questo luogo. Es­ sendo di natura una fonte di infelicità e di tristezza remis­ siva e dato che due forze uguali si annullano a vicenda, la cassiera contrastava la luce da morgue dei neon per otto ore al giorno, senza subire particolari conseguenze. Figlia unica, poi bambina trasparente e ancora studen­ tessa svogliata fino alle medie. Per un po' era rimasta a ca­ sa sola con il padre, pe1· un certo pe1·iodo aveva anche infi­ lato collane a domicilio, fino a quando, consegnati i primi 5000 pezzi, si era resa conto che si trattava di una ditta truffa con indirizzo fittizio. Sfruttamento del proletariato. Ma poi le cose sono cambiate ed è diventata neo anche lei. È successo quel giorno in cui, sfogliando il quotidiano di destra che il padre (retrivo, in fama di usuraio e un po' bifolco) leggeva per poi lamentarsi ad alta voce del gover­ no, la ragazza trovò un annuncio: «Personale si cerca per discount nuova apertura». Era vicino a casa. La ragazza, che allora era una specie di ameba sociale, andò al colloquio con un vestito verde. Molto insicura di fronte a quei signori in giacca e cravatta e all'unica donna dirigente in tailleur blu che se la tirava come una princi­ pessa cinese d'altri tempi. La ragazza pensava: Assumere loro me, brutta e poveretta. E invece fu scelta perché aveva proprio le anti-doti che cercavano i dirigenti del supermer­ cato. Aveva l'antidoto che cercavano i dirigenti del super­ mercato: una emissione di sfiga madornale che potesse

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contrastare e annullare le radiazioni di infelicità emesse costantemente nel discount. Uscita molto felice dal colloquio chiamò da una cabina il padre, da una delle ultime cinque cabine telefoniche 1ima­ ste in tutta la provincia, commossa concessione all'uso di pochi sottoproletari maghrebini (oggi, neoproletarizzata, la commessa è dotata di un Nokia rosso eia borsetta e come suoneria usa la musica di Mission: impossible). Quindi, per festeggiare, andò all'Upim e in un cesto di offerte speciali, in una svendita di fondi di magazzino, trovò e comprò un anello in finto argento coronato da una pietra sconosciuta, una ametista marziana che avrebbe fatto impazzire qual­ siasi gemmologo. Mentre mi porgeva lo scontrino con due dita le vidi quel­ l'anellino un po' annerito e vidi anche ciò che agli alt1·i non appariva. Vidi l'esistenza extradiscount di questa neoprole­ taria. Quel minimo monile padava clandestinamente di una vanità che le regole imposte dalla direzione cercavano di mortificare: essere neutra e traspai-ente, niente vestiti strani, niente dialetto, niente familia1·ità con gli acquirenti, qui si bada solo al sodo: ridurre al minimo l'offerta di ser­ vizi materiali, vivere lo spirito del tempo in tono minore, le sue crisi economiche, i suoi finti minimalismi. Impugnavo già i sacchetti e mi apprestavo a uscire, quando a voce alta e ferma la ragazza disse: «La cassa chiu­ de». La cassa stava per chiudere, come si chiude una cassa da morto e avrebbe nascosto fino a domani quella salma computante. Lasciato in spogliatoio il sudai-io, ossia il suo grembiule azzurro da lavoro, la cassiera non sarebbe tor­ nata a casa a vivere con suo padre la sua semplice vita, co­ me faceva prima di neoproletarizzarsi. Nella sua neovita la ragazza sarebbe fuggita rapida dal parcheggio del discount di provincia a bordo della sua Smart e io, che l'avrei attesa, adesso l'avrei seguita. Ogni volta che fuggiva così veloce la cassiern raggiungeva a Mi­ lano una palestra vicino al quartiere fieristico. Una pale52

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stra che apriva la sua lunga vetrata direttamente su una strada molto traffìcata. A sera la si poteva osservare insie­ me a una falange di arditi neoproletari mentre sudava sul­ le C;yclette o agli estensod. E slato detto poche righe fa: «Negli anni Novanta una tecnologia sempre più invasiva riduceva tutto, dai film ai dali alla musica ai giochi, dentro piccoli dischi compatti». Chiusi nel loro supporto i1·idescente, i film in DVD non solo offrono una migliore qualità d'immagine, ma anche una ricca dotazione di materiali extra che mostrano in detta­ glio come sono stati realizzati i salti di Matrix. Il vero spet­ tacolo non è più l'effetto, ma il trucco che lo ha prodotto. La commessa nella palestra dalla grande vetrata era co­ me un DVD: scopo ultimo della sua attività fisica non era mostrare l'effetto speciale (apparizione del muscolo o scomparsa della cellulite o semplice movimento dopo la lunga paralisi nel meato della cassa), ma la fatica fatta per ottenere quell'effetto. E allora, fasciata in sporting appare! di marca, la neoproletaria non più muta, ma garrula e so cievole, (neoproletario: di che ti occupi? cassiera extrad scount: svolgo un key raie nel settore della grande distribt zione) sudava con orgoglio stando in vetrina, mentre la os servavo dalla strada e non potevo credere che si trattasse dawero di lei. Come avrei voluto che quella cassiera impenetrabile non fosse una qualsiasi neoproletaria pronta alla finzione. Avrei preferito sapere che ogni sera, quando la cassa chiu­ deva, la ragazza si liofilizzava e al mattino successivo il di­ rettore, con poche gocce d'acqua, le ridava forma umana. O avrei preferito un'altra conclusione diversa da questa fi­ ne ginnica ed esibizionista. Per questo mentre la mezzanotte scocca lenta e romban­ te sul mondo della socialità neoproletaria, io torno veloce al discount e sosto al cancello del supermercato, come si usa nei libri dei poeti. E di notte il discount mi appare an­ cora più triste. 53

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Ma che epoca assurda è mai quella del neoproletariato, lacerata tra questi negozi silenziosi (dove si rasenta l'indi­ genza, dove l'insalata e i legumi produttivi de1·idono il bus­ so delle aiuole) e i vasti ipermercati dai parcheggi enormi con i lampioni gialli e altissimi, dove il busso regna sovra­ no e dove anche l'insalata più umile vuol far scordare la sua produttività e si crede busso ornamentale. Si racconta che in quei luoghi ricchi e scintillanti, di not­ te, i prodotti dai loro scaffali intonano alternandosi in cori i jingle degli spot che li pubblicizzano. I detersivi cantano per 30 secondi, rispondono da lontano le carni in scatola e verso l'alba, quando sono esausti, le acque minerali, le mi­ scele per torte, i lucidi per scarpe e tutte le altre confezioni attaccano l'antica sigla di Carosello che ormai nessuno più ricorda, defunta fiaba delle sovrapporte, ma che viene tra­ smessa nel corredo genetico di ogni prodotto. La cantano tutti insieme pochi minuti prima che entrino gli addetti fi­ lippini alle pulizie, i quali comunque non la riconoscereb­ bero, visto che quando quelle note si sedimentavano sera dopo sera nella nostra mente, loro stavano ancora giocan­ do in una strada della periferia di Manila. Molto più cupe sono le leggende che mi immagino con la fronte appoggiata alla saracinesca del discount silenzioso e buio. Se mi concentro mi sembra di sentire il respiro rego­ lare, il lieve russare della commessa, non squallida neopro­ letaria che si fa brillante serotina e pretenziosa, ma creatu­ ra subumana che riposa appesa al gancio dell'attaccapan­ ni, chiusa nel suo mortificante grembiule azzurro che non può lasciare per contratto. Domani tornerà nella cassa, per ora sembra una grossa crisalide sospesa al gancio, incombente come l'uomo-pipi­ strello che pendeva invisibile da volte oscure in un episodio di X Files stagione otto.

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2. Il verificatore Dalle profondità dei cieli tetri scendeva la bella neve son­ nolenta nel mattino invernale in cui ho assistito davvero a questa scena. Davanti a me, in fila alla cassa del discount, c'era un ragazzo di circa 25 anni, abbronzato artificial­ mente e dall'aspetto frivolo e mondano. Aveva acquistato una decina di prodotti disparati, segna­ le di squilibi-io mentale o di semplice squilibrio domestico: sei confezioni di acqua distillata, una scamorza affumica­ ta, una confezione cli biscotti alle nocciole, un ceppo di ba­ nane già mature, un deodornnte maschile ad alta promes­ sa di seduzione. Nell'ozio dell'attesa, fermo in fila, mi in­ terrogavo sull'utilizzo di quella spesa. Immaginavo la sera­ ta che avrebbe atteso quel cliente in fondo un po' inusuale per quel luogo. Lo vedevo decidere di non uscire, di non af­ frontare sotto la neve la lunga coda davanti a qualche di­ scoteca per calciatori di successo. Nella mia fantasia il giovane girava per casa: metteva via il deodorante, nella spernnza di un futuro &uttuoso utiliz­ zo ormonale, si consolava alternando un morso alla sca marza e un biscotto alle nocciole (la asimmetria alimenta re è un'altra caratteristiche di noi neoproletari, vittime del­ le prolungate ingestioni contemporanee di merendine insa­ lubri, ciupaciups alla cocacola, polverine frizzanti, gomme da masticare al mango e panna, ovetti con sorpresa, patati­ ne rustiche). Seduto davanti al televisore, appena un po' triste per l'età che avanza, pensando che presto avrebbe avuto venticin­ qu'anni, guardava un film in prima serata, accarezzando la scimmia Makakita che tremava freddolosa e per la quale aveva comperato le banane. (Era scritto sull'ultimo nume­ ro di Men's Health: perdi la pancia e scopa di più con la ginnastica della scimmia. Lui aveva forse voluto esagerare e, preda del plusinutile, aveva addirittura comperato una 55

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scimmia di cui imitava i movimenti, certo che avrebbero potuto giovargli a letto). Mi stavo chiedendo cosa mai avrebbe potuto farsene di sei confezioni di acqua dislillala, ma tutti questi pensieri svanirono quando, al termine del conto, lei senza uno sguardo gli porse lo scontrino e insie­ me il resto. Per tutto il tempo di quella breve scena avevo notalo co­ me lui la tenesse d'occhio. Menlre in una situazione simile tulli pensano ai propri casi e imbuslano la spesa veloci sen­ za guardare null'altro che il proprio nienle, lui fissava la ra­ gazza e non agiva, giacevano i prodoLLi in fondo alla cassa, restavano stirati i sacchetti di plastica. Ma con quale fine la guardava? Scopi sessuali? Non credevo ... abbonarsi a Men's Health, perdere tempo con le banane e la scimmia per poi essere instancabile a leLLo con una ragazza traspa­ rente come quella alla cassa? Forse una conoscenza a sco­ po matrimoniale, con una donna che non pm·tasse i panla­ loni e gli preparasse cene degne di questo nome, non pasti­ che di scamorza e nocciole, e non si opponesse alle altre av­ venture che avrebbe continuato ad avere, allrimenti come avrebbe potuto applicare quei preziosi consigli per farlo tutta la notte grazie ad addominali di ferro? Un'unione na­ ta e celebrala direttamente nel discount, officiala dal diret­ tore del supermercato. O forse mi sbagliavo e lui semplicemenle guardava, ma non vedeva, fissava il vuoto, pensava ai faui suoi, a una re­ cente provvigione (poleva essere un agenle immobiliare), a un nuovo lipo di stampante (magari lavorava in un negozio di computer). Pensavo: adesso paga e se ne va. In queslo mondo neoproletario, fatto di assurde esalLazioni e gare a colpi di spese eccezionali e di stili di vila ohre ogni limite, lui che di tutto questo pareva essere campione non poteva dichiararsi a quella lampadina fioca in forma di ragazza. Ma ecco che mentre mi accingevo a depon-e sul naslro una confezione di arance un po' smunte, ecco che lui con lo scontrino nella mano sinistra invece di pagare allungò la 56

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destra e disse alla ragazza «Buongiorno signorina. Io so­ no... » e aggiunse qui un nome e un cognome. Mi fermai con le arance a mezz'aria, ma come? Avevo visto dunque giusto. Un colpo di fulmine si era abbattuto su questo per­ spicace ragazzo che aveva saputo vedere sotto il grembiule azzu1To da lavoro la scallante neoproleta1·ia che a sera di­ ventava b1·illante conversatrice, regina del pluscool. E adesso qui avrebbe fatto la sua dichiarazione. Intanto la cassiera come un insetto lento, una mosca autunnale, rea­ giva lentamente e ancor più si ritraeva nel suo grembiule, si spalmava contro lo schienale della sedia girevole. In lei erano scattate tutte le difese. Si chiedeva: chi è questo? Aiu­ to, cosa vuole? Pensava per ideogrammi, non per frasi morfologicamente st1·utturate: non scandiva nelle mente le parole della paura. Pensava a 1 pericolo di uno sconosciuto e vedeva nella mente l'ideogramma che rappresenta la gio­ vane cassiera violentata da un bruto sul posto di lavoro co­ me in una vignetta da cartellone di cantastorie, moderna­ mente rielaborata in una diapositiva che appare durante il tg4 alle spalle di Emilio Fede. Non era paura mariagorettiana, era quella sensazione, ti• picamente neoproletaria, di essere irresistibili sessualmen­ te anche dentro un grembiule azzmTo, era quella supposi­ zione, tipicamente neoproletaria, di essere oggetto di at­ tenzioni sessuali da parte di chiunque provi a chiedere una semplice informazione. Comunque temevo sarebbe stata una perdita di tempo non da poco. Lei come avrebbe reagi­ to alla proposta di matrimonio? Se fossimo stati in un grande magazzino o in un super­ market di buon nome la cosa si sarebbe potuta trasforma­ re nella scena di un film commedia: lui si sarebbe dichia­ rato, lei avrebbe sorriso, tutti avrebbero applaudito, una vecchia si sarebbe commossa e insieme tutti avrebbero ini­ ziato a cantare. Invece eravamo in luogo di squallore, tra cibi di basso profilo, e i due erano protagonisti quasi muc­ ciniani, pieni di sé, della propria età, del proprio ruolo nel-

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la società che cambia ed erano imbottiti di propensioni al­ le crisi esistenziali e ai rapporti difficili, poco disposti al musical. A tutto questo pensai in un'unità di tempo impercettibi­ le tra la fine del cognome del giovane e il suo qualificarsi: «Sono un verificatore del supermercato». Mi crollò intorno l'intera storia di amore, lei a quel punto non poteva più ri­ trarsi sdegnata e tese una manina secca e screpolata al cui anulare brillava un anellino in silver un po' annerito, coro­ nato da una ametista marziana. Lui iniziò a sciorinarle gli errori commessi: nella scatola dell'acqua distillata lui aveva nascosto furbescamente una confezione di prosciutto in fette. Lei non la vide. Lui aveva fatto abilmente rotolare la scamorza a lato della cassa. Lei non s'awide. Inoltre lui aveva sostituito un'etichetta a una confezione di banane che erano così costate come un maz­ zolino di basilico. Per tutto il tempo di questo elenco, l'espressione di lui era una escalation di crudeltà; di sicuro il neoproletario si sentiva Bill Gates che accusava in una riunione un mana­ ger colpevole di non aver superato nella sua area il fattura­ to dell'anno precedente. Lei impassibile, una morta. Non un gesto e, ero sicuro, nella sua mente si sarà presentato solitario l'ideogramma del licenziamento, lei in fila con il libretto di lavoro in mano davanti al banco del colloca­ mento, e subito dopo l'altro ideogramma interrogativo, quello che si legge: e ora come pago le rate della palestra? Meccanicamente si alzò quando lui la invitò a seguirlo nell'ufficio del direttore. L'ufficio che in cuor suo lui spera­ va presto di occupare, al vertice di una carriera tutta in ascesa. Il direttore, anch'egli neoproletario, li accolse sedu­ to al suo tavolo mentre digitava numeri nel computer. Sul computer c'era attaccata la foto di un atollo con sotto la di­ citura «Lasciateci sognare!!!», stampata con il font Alge­ rian, il più assurdo, ma il primo e nel contempo il più de­ corativo nella limitata lista di caratteri di cui è dotato un 58

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PC standard da ufficio, stampato, a peggiorare l'effetto, in dimensione 36, e anche shadowed. Guardavo i due andare via nel supermercato semideserto, la spesa incriminata gia­ ceva ancora in fondo alla cassa. Guardandoli andare via non provavo alcuna pena per lei sul cui capo pendeva la minaccia del licenziamento. Come Pasolini a Villa Giulia io stavo dalla pai·te della di­ sciplina, perché la legge e l'ordine sono un peso per chi li trasgredisce, ma ancora più gravosi sono per chi deve im­ porli e deve magari farlo su propri simili sociali. Però nella realtà del neoproletariato questo non avviene e chi decide di fare il verificatore in un discount lo fa per sete di sangue e desiderio di dominio. Sono questi gli stimoli che al mat­ tino destano il giovane ve1·ificatore prima ancora che sia la mad1·e a scuoterlo. Perché nella realtà il giovane non è quel single metropo­ litano che avevo immaginato, non mangia schifezze ran­ dom, non possiede una scimmia Makakita (la mamma nor gli pe1metterebbe di tenere animali in casa). Però ha la collezione di Men's Health che la sera sfoglia per copiare gli esercizi più faticosi, sudando e soffrendo, da vero heautontimorumenos. Poi, stremato, langue sul diva­ no e fissa il televisore senza cambiare canale per oltre ven­ ti minuti. Fissa lo schermo, pensa alla sua vita e tace con la cara Mamma, la cara Mamma sa quel che si tace. Pensano entrambi alla differenza che c'e' tra il vecchio padre prnle­ tario, che usciva in tuta nella nebbia dell'alba, e il giovane neoproletario, che al mattino, uscito dalla doccia, trova sul letto la divisa amorevolmente preparata dalla mamma, or­ gogliosa di quel figlio elegante, sfuggito a un destino di ma­ novalanza. Pantalone scuro, camicia a quadro sottile, cravatta con nodo massiccio. Una divisa che il verificatore indossa con lo stesso orgoglio con cui si porta quella di un antico corpo militare o di un prestigioso college britannico. Il momento della vestizione è un rito come lo è per i ministri di ogni

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culto. La scena è simile a quella che si vede nel film Mishi­ ma, quando lo scrittore giapponese trova disposta sul letto l'uniforme dell'esercito da lui fondato e che il regista ci mo­ stra con una can-ellata accompagnata dalla mu�ica di Phi­ lip Glass. Similmente il giovane ve1·ificatore, ancora in boxer D&G, di cui poi lascerà uscire dalla cintola dei pan­ taloni l'alto elastico marchiato, compie una can-ellata sul calzone stirato, sulla cravattona, sulla camicia a quadro az­ zurro. Indossa capo dopo capo, lentamente, ammirandosi nello specchio, proprio come faceva Ken Ogata in Mìshi­ ma. Ma invece di Philip Glass dal microimpianto hi-fi pic­ chia l'inesorabile ritmo di Gigi D'Agostino. Chiuso dentro quella camicia e awolto da quella cravat­ ta il giovane neoproletario, seduto davanti alla scrivania del direttore, ripeteva gli errori che la cassiera aveva com­ messo. Il direttore ascoltava distrattamente, poi disse che quelle lacune si sommavano alle numerose mancanze di cassa registrate nel mese precedente e quello era un eserci­ zio commerciale, non un centro di beneficenza, pertanto alla fine del preawiso di legge, la cassiera poteva conside­ rarsi licenziata. Che avrei fatto io a quel punto? Avrei pianto ripetendo sommessamente «sono disoccupato», godendo della mia disgrazia come della tisi godevano i minori crepuscola1i? Avrei chiuso gli occhi, rinunciando alla vita del secolo, de­ siderando solo di essere una suora che ricama nella stanza più oscura di un convento? Avrei fondato una cooperntiva per la vendita di prodotti equosolidali per contrastare la grande distribuzione? Lei non fece nulla. Si alzò e uscì dal­ l'ufficio. Il verificatore invece son-ideva, pensando di aver scalato un altro gradino sulla scala del successo. Guardava la foto dell'atollo appiccicata sul computer e pensava, godendo, che con il primo stipendio da vicediret­ tore del magazzino di Caleppio di Settala si sarebbe regala­ to un viaggio a Tahiti, dove i proprietai-i degli empori loca­ li tengono attaccata al banco una foto di grigi prefabbrica60

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ti industriali a Cesano Lombardone con sotto scritto in ca­ rattere Algerian corpo 36 shadowed «Natomi pa tamate!!!» (che in finto tahitiano significa «Lasciateci sognare!!!» e sono fermamente convinto che anche Gaugin utilizzasse un tahitiano inventalo). Ciò nonoslanle, il verificatore non è cattivo. È solo fatto così. Scarso cervello, scarsa morale, spaventosa chiaroveg­ genza: è il vero figlio ciel tempo nostro. 3. La coppia con bambino

Un giorno mentre mi aggiravo in un discount mi sono imbattuto in una coppia giovane. Ve ne sono sempre tante, ma non so cosa avesse richiamato la mia allenzione su questa. Non più cli 55 anni in due e, nel carrello, un bimbo di forse tre. Erano vestiti in maniera dimessa, al limite del­ l'indigenza. Lui con una tuta di acetato verde e azzurra spingeva il caITello a testa bassa. li bimbo giocava senza un sorriso nel caITello, proprio seduto sul fondo, ché quello non era come i cai-relli dei supermercati di lusso e non ave­ va l'apposito sedile per bambini. Giocava in silenzio con una scarpina di gomma che si era tolta. Lei, con un ma­ glioncino rosso di pile, sceglieva gravemente tra i prodotti quelli col minor p1·ezzo; li comparava, li studiava, ne legge­ va peso e data cli scadenza e poi li deponeva nel cesto. Forse era questa attenta letlura che mi aveva colpito. In questi discount non si legge. Sulle scatole di cibo per cani non appare solo la dicitura «Cibo per cani», ma spunta an­ che il muso di un pastore tedesco per ribadire che si tratta di un alimento per animali, caso mai il basso livello di sco­ larità della clientela rendesse faticosa la lettura e l'occhio si fermasse al primo dei tre termini, cibo. Per il loro prezzo conveniente quei bocconcini gelatinosi potrebbero poi fini­ re su una mensa neoproletaria e consumati nella distrazio­ ne di chi mangia seguendo la fascia presernle, così piena di ragazze e di domande. Né il sapore tremendo dei boccon61

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cini fatti con scarti di macelleria potrebbe risultare strano al palato neoproletario, assuefatto al non-gusto dei cibi venduti in simili market a-regionali dai quali è pur bandito ogni dialetto. Mentre mi perdevo in queste fantasie, la giovane donna che seguivo si era fermata a leggere con attenzione le dici­ ture di legge e calcolava rapporti tra peso e prezzo per tro­ vare il prodotto più conveniente. La spesa per un tale nu­ cleo familiare mi appariva come un esperimento di alchi­ mia, tutto doveva rispondere a un disegno superiore di ri­ sparmio, una grande opera di economia domestica. A quel punto iniziai a seguire non visto la coppia di clienti, a stu­ diare i loro acquisti e i prodotti scelti come fossero fossili (e a volte lo erano). Ricostruire da quei pochi elementi la loro vita, la loro ca­ sa, il triste arredamento. Un solo stipendio dopo la nascita del bambino o ancora due e il piccolo lasciato alle cure di una suocera impaziente . Vedevo l'alloggio popolare, la di­ spensa piena di quei prodotti senza nome e su un mobile li­ breria, vuoto di volumi, un televisore a colori, regalo di nozze, che in ogni momento vomitava immagini e jingle di prodotti di marca e di prestigio. Vedevo loro due, nel buio azzurrato della stanza, di fron­ te alla pubblicità di un sapone che non si chiamava sem­ plicemente «Sapone», ma aveva un nome che evocava il lontano, l'esotico, la bellezza, pelli lisce abbronzate e sen­ suali, una vita sessuale felice sotto una palma o tra lenzuo­ la di seta dorate. Non i loro soliti rapidi rapporti silenziosi al sabato sera, cauti per non svegliare il bambino che dor­ me accanto in un lettino di fortuna. Un coito gestito con le difficoltà di una rete cigolante; lui pensa in quei momenti «magari fosse un materasso dell'e­ lefante», invece è solo una camera da letto comperata in of­ ferta da un mobiliere all'ingrosso della provincia, di quelli che non fanno nemmeno pubblicità in tv. E, steso su di lei, lui in quell'amplesso sente nell'ordine: la fatica di quella vi-

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ta, la televisione della vicina, l'odore del sapone «Sapone» comperato al mattino al discount e, solo in ultima posizio­ ne, un vago godimento fisico, presto sopraffatto da un ane­ lito di rivalsa sociale, quando lei si lascia sfuggire un mu­ golio e lui la stringe e aumenta il ritmo come a dirle «pre­ sto... presto vedrai anche noi potremo circondarci di og­ getti in cui il significante sarà chilometri lontano dal signi­ ficato, sa1·à così lontano che dovremo prendere l'aereo, fos­ se anche un charter, e quando scenderemo saremo nell'eso­ tico e non in periferia». Questo magari è quanto sarebbe successo quella sera, dopo aver usato il sapone anonimo appena acquistato. In­ tanto eravamo an-ivati alla cassa. Mi misi dietro di loro. Lui aveva preso in braccio il bambino che si era addor­ mentato con un dito in bocca, lei disponeva i prodotti uno alla volta sul nastro. Forse faceva mentalmente il conto e temeva di non riuscire a pagare tutto. Mi struggevo alla vi­ sione neocrepuscolare di quella coppia proletaria con bam­ bino. Il totale intanto veniva sillabato da una nuova impas­ sibile commessa che aveva preso il posto di quella che, in quello stesso momento, stava affrontando muta una diffici­ le situazione nell'ufficio del direttore, insieme al verificato­ re neoproletario. Mi consolavo pensando che per fortuna vi erano ancora proletari veri, che vivevano a fatica, ma resistevano e so­ gnavano un giorno la rivalsa di un luccicante ipermercato pieno di signorine gentili in divisa, di quelle che offrono as­ saggi di caffè in offerta e campioni di detersivo in omaggio. Il totale: ottantanovemila. Lei prese dal marsupio in plasti­ ca che lui portava alla vita un borsellino finto Vuitton com­ prato da un senegalese sul quale si intrecciavano una F e una V e pagò dopo aver srotolato le banconote. I.:intellettuale ipnomediatico che voglia sentirsi neocre­ puscolare non piange e non interviene, simile molto in que­ sto al suo lontano avo, il poeta romano o torinese che dal balcone della sua villa guardava il mondo minimo; poi re63

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galava una lacrima e un verso alla tristezza umana e subi­ to tornava a perdere il propi-io tempo poetando sulle api, sui fiori o sugli uccelli. E cent'anni quasi dopo ecco Barba­ ra Palombelli piangere lacrime da parata su carta patinata, rispondendo ad accorate lettere di disgrazie e vite grame e un'ora dopo, dimentica, già è in pai·tenza, essendosi inven­ tata una breve vacanza in Suriname. Ma io non riesco a resistere, della poesia me ne frego, anzi non sono nemmeno un poeta, tanto meno crepuscola­ re e l'impulso di pagare all'improvviso mi prese in quel mo­ mento. L'impulso di regalare di getto la spesa a quella cop• pia e al bimbo addormentato dopo aver tanto pensato, se­ guendoli di nascosto, alla loro condizione proletaria, ma dignitosa, dopo aver letto e tanto atteso quell'ultima rivolu­ zione che salverà coloro che.conducono una vita senza lus­ so e senza orpello, riscatto a lungo promesso all'ombra del­ la falce e del martello. Ma mi mancò il coraggio, alla fine non reagii e deposi la mia spesa sul nastro trasportatore e, oppresso da una infinita melanconia, pensavo a quanto po· co mi sarebbe servito ciò che stavo per pagare e a quanta poca fatica avevo fatto per guadagnare quei soldi che mi sarebbero serviti per saldare il conto. Lui con il bimbo in braccio stava uscendo dalla poi-ta, lo seguiva lei spingendo il carrello, scomparvero alla mia vi­ sta, ma non al mio pensiero in cui, già lo sapevo, avrebbe­ ro continuato a vivere per tutto il giorno. Per tutto il giorno avrei riflettuto sulla loro modestia, sul loro vivere parco, che conducevano magari in un bilocale in locazione.

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Raggiunsi l'uscita e quale stupore mi lasciò basito ve­ dendo che lui, il dimesso mai·ito, lasciato il bambino nelle braccia della moglie stava aprendo il baule di una nuova Audi A4 Avant dall'aspetto spiccatamente sportivo che irra­ dia potenza e un po' di aggressività, ma al tempo stesso si­ gnorilità ed eleghanzia. Motore a ciclo Otto a 4 cilindd in linea, cinque valvole per cilindro, due albed a camme in te­ sta (DOHC), turbocompressore a gas di scadco con inter­ coolec Cilindrata eme 1781. Potenza max kW/CV a g/min 11O da 150 a 5700. Coppia max Nm a giri/min 210 da 1750 a 4600. Cerchi in alluminio fucinato 7 Jx 15. Pneumatici 205/65 R 15. Velocità massima km/h 219. Accelerazione 0100 km/h s 9, 1. Con riserva di modifiche costruttive e all'e­ quipaggiamento.

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Sozzi bastardi, neoproletari del cazzo, coppia di incivili e di ignoranti. Se un giorno mai vi troverò davanti mentre sono al volante di un grosso telonato non crediate che fre­ nerò la mia corsa. Proseguirò fino a travolgervi e dopo tor­ nerò indietro e ancora avanti ripasserò sui vostri corpi ago­ nizzanti, fino a renderli livellati con l'asfalto, come succede ai gatti spiaccicati. Ho perso energie mentali, sprecato compassione e tempo nel seguirvi non visto tra gli scaffali con tutto il mio cestello di illusioni, di sogni di rivincita so­ ciale, di parità tra classi, finalmente tutt/uguali alla Maldi­ ve con il sapone che sa di palme e sesso. Tutto è stato inane. Se tra l'offerta immensa merceologi­ ca del nostro tempo neoproletario avevate scelto con cura i prodotti più marci e meno cari non era per bisogno o par­ simonia, ma per pagare la rata mensile della cilindrata che esibite con orgoglio tra i vicini, più miserabili di voi. Io che vi avevo immaginati stretti e awinti in un coito prudente e silenzioso, in cui si sovrapponevano speranza, godimento, amore e senso dello stare insieme, coscienza del vostro sta­ to e letti cigolanti e varietà seguiti a volume eccessivo da una vicina sorda e profumo di un sapone senza nome, vi vedevo allora nella vostra effettiva realtà. Nella stessa camera da letto economica vi vedevo, ma vuota di ogni poesia e d'ogni affetto. Vedevo lui nudo, con sul braccio tatuata una corona tribale, lei vedevo distesa sul letto con un reggicalze senza senso alcuno visto che in­ dossava delle autoreggenti e scarpe rosse con il tacco alto comperate in liquidazione. E vedevo i due simulare azioni di seduzione intraviste in una televendita notturna di cassette porno presentate da una trans o lette tra i consigli per una vita sessuale più feli­ ce profusi generosamente da qualche settimanale femmini­ le marcio come voi, persi in una patetica commedia sedut­ tiva in una camera bianca in truciolato. Su tutto, sulla sensualità del muscolo di lui, sul suo ta­ tuaggio, sulle calze autoreggenti e sul reggicalze nero, sul66

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le scarpe rosse e sull'armadio con ante a specchio, sull'a­ bat-jour opalino, sulla mezza erezione di lui che stimoli non trovava forse in questa pantomima e ripensava alla trans delle cassette, sul pensiero di lei che rivedeva con gli occhi della mente il modello che illustrava i consigli ses­ suali del settimanale, sul bimbo che dormiva in corridoio, sull'intero bilocale in affitto, sulle chiavi della Audi Avant lasciate sul mobile in cucina, su tutto, insomma, gravava ancora pesante l'odore dei bastoncini di pesce Lindus che avevate acquistato al mattino mentre vi seguivo accanto al banco frigo. E solo per far fronte alla cambiale dell'auto a fine mese che la vostra vita è piena di refusi. Di lettere che si sostitui­ scono ad altre, in un gioco di richiami e sottintesi, nella pallida illusione del possesso di un marchio. Lo diceva la L in luogo della F sulla scatola di bastoncini di pesce, lo di­ ceva la F in luogo della L sul borsellino senegalese. Lo di­ cono i giochi allo scambio di consonanti varie applicati su jeans e magliette che dormono nell'armadio bianco dalle ante a specchio. Non per assenza di libri Adelphi a casa vostra. Non per la Gazzetta dello Sport che giace accanto a Chi sul tavolo della cucina. Non per l'ignoranza del vostro stato. Ma solo per questi giochi enigmistici, questi scambi di consonante che vi danno l'illusione del possesso e la cer­ tezza del risparmio, vi chiamo illetterati.

«La commessa» contiene frammenti campionati da «La signo­ rina Felicita o La felicità» di Guido Gozzano. «Il verificatore» contiene frammenti campionati da «In casa del sopravvissuto» e «Totò Merùmeni» di Guido Gozzano. «Coppia con bambino» contiene elementi tratti dal sito Internet www.audi-italia.com.

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Zeta

Per nascita, il neoproletariato ha le mani bucale. Nasce con due stigmate al centro di ogni palma. due fori attraver­ so cui si perde il suo ricavo di salariato. Il neoproletario è un antisanto, perché ai santi le stigmate si fo1·mano con il tempo, al neoproletario invece con il Lempo quei fori misti­ ci si richiudono. Il neoproletario è involutivo. La società si evolve e da ru­ rale diviene industriale. Forse la principale differenza tra qualsiasi produzione "rurale" e una "industriale", arte compresa, è la durata. Nel sistema rurale gli oggetti erano fatti per essere tramandati. Le cose (e le persone) quanto più erano vecchie, tanto più erano stimate. Il nuovo era vi­ sto sempre con diffidenza. Al contrario, in ambito indu­ striale la durata degli oggetti (e delle persone) è limitata, la tensione a sostituire il nuovo con il nuovo è irrefrenabile, proprio perché altrimenti lo stesso sistema industriale mo­ rirebbe se non avesse necessità di produrre costantemente materiali deperibili. Nelle società industriali è obbligatorio essere giovani. Nei primi anni della sua vita adulta, il neoproletario è si­ mile a una società industriale, consumistica e programma­ ticamente giovanilista. Sul lavoro o tornando a casa in au­ to il neoproletario ascolta Disco Radio che trasmette da Ca68

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ravaggio (Bergamo), emittente neoproletaria per eccellen­ za. Ascolta tutta la musica che poi ballerà nel fine settima­ na allo Studio Zeta di Caravaggio (Bergamo), la più grande discoteca della Lombardia, neobalera neoproletaria per ec­ cellenza. Ogni tre pezzi c'è una lunga serie di spot. Il neo­ proletario applica un particolare filtro alle orecchie e rece­ pisce solo quegli spot che pubblicizzano pub, discoteche e altri ritrnvi giovanili e trasgressivi, pieni di pali e ragazze in topless. O quegli spot che offrono intrattenimenti tutte le sere della settimana e invitano a trasgressive serate di ni­ ghtclubbing bassopadano, a tour che includono più di uno di questi locali nella stessa folle nottata. Poi ci sono altri spot che forniscono lutto un corollario di plusinutilità, co­ me l'abbigliamento giovane e seducente necessario a vivere quelle no(i seducenti e giovani. E altri spot che passano in rassegna le automobili con cui spostarsi nel vento frizzan­ te de la noche, quando i neoproletari spendono tutto quan­ to posseggono, senza pensiero del domani, lasciando cade­ re una scia di monetine attraverso le stigmate. Nel neoproleta1-iato esiste una specie di Ban-iera Tempo­ rale del Denaro oltre la quale i soldi assumono un diverso valore. Appena al di là di quel limite invisibile, senza alcu­ na dissolvenza, con un taglio netto e immediato, quello stesso denaro assume nuovo valore, diventa merce rara e preziosa. Le stigmate si chiudono e non lasciano passare più alcuna monctina. Il neoproletario da consumatore in­ dustriale diventa conservatore rurale. Non cambia stazione. Continua ad ascoltare Disco Ra­ dio, la musica non è cambiata molto da cinque anni a que­ sta parte. Ma alle sue orecchie applica un altro filtro: que­ sta volta ogni tre brani recepisce solo quegli spot che si po­ trebbero definire di tipologia rurale. Sono tutti quei comu­ nicati pubblicitari, soprattutto di mobilifici e grandi ma­ gazzini di alimentari, abbigliamento e scarpe, le cui due espressioni ricorrenti sono "il meglio al giusto prezzo" e "qui sì che si risparmia". Cosa è successo? Quale evento ha

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prodotto la sostituzione dei filtri nelle orecchie? Perché ora il neoproletario non recepisce più il richiamo della dissipa­ zione industriale legata al voluttuario-notturno, mentre ascolta con attenzione gli spot rurali dall'oculatezza limita­ ta al necessario-diurno? Perché finisce per aggirarsi con aria dimessa triste in un discount, alla ricerca delle merci meno costose? Nelle zone rurali del Kosovo è in uso questa cerimonia: il giorno dopo le nozze le spose danzano di fronte alle don­ ne già sposate del luogo, sospinte da un ritmo ossessivo, vestite a festa, addobbate con doni e gioielli e truccate in maniera provocante. Esse si espongono agli sguardi delle altre donne che considerano il matrimonio un punto di svolta nella vita, la fine della gioventù e l'inizio degli obblighi. (Dall'esposizione "Geld und Wert", tenutasi presso l'Ex­ po.02 - Arteplage di Biel, Svizzera, 2002)

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SS VS SS

1. Meditazione

Il proleta1·iato non acquistava, non aveva la voglia di ac­ quistare, arrivava stanco a casa proprio nel momento in cui i negozi stavano chiudendo. E poi non avrebbe avuto nemmeno il tempo libero per usare quanto comperato. Nel neoproletariato il tempo libero abbonda e bisogna riempir­ lo in qualche modo. L'ideale sarebbe ripartire quel tempo in quote esattamente uguali tra acquisto e utilizzo di qua­ lunque cosa. 2. Asimmetria

Il neoproletario non riesce quasi mai a prendere una de­ cisione netta, è sempre dilaniato dal conflitto tra ambizio­ ne e rinuncia, tra minimalismo ed esagerazione, tra ester­ no e interno, tra consumo e frugalità. Non sono solo io a vivere così male questa tendenza asimmetrica. Ci sono tan­ ti gruppi giovanil-meridionali che inneggiano alla distru­ zione del potere economico-multinazionale però lo fanno dal palco dell'MTV Day. Queste sono situazioni che incido­ no sulla psiche e sul metabolismo dei neoproletari. 71

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3. Equilibrio

Credo di aver trovato il punto di equilibr·io pedetlo tra consumo e frugalità, tra sventato scialacquio e sostegno so­ lidale. Credo sia giunto il momento di acquistar·e solo il ne­ cessario, cercando di fare scelte oculate ed eticamente at­ tente. Basta con i premi alle multinazionali. Basta anche con la glamourizzazione del consumo, con la promessa del pluscool fatta luccicare dai neopotenti davanti agli occhi dei neoproletari. Quindi basta con Jacaranda Falck che continua a proporre nella sua rubrica gli oggelli piu inutili e costosi, venendo per di più pagata anche se non ra altro che ritagliare i cataloghi che le spediscono in redazione. In realtà è difficilissimo raggiungere l'equilibr·io e basta un pomeriggio di acquisti per rivelare tutta la asimmetria che abbiamo dentro, tutti: i neoproletari, gli intellettuali mini­ malisti e i 99 Passe. 4. Primo anello della catena

Proprio ieri mi sono accorto che avevo bisogno di un walkman nuovo. Però, invece di regalare soldi alle multi­ nazionali del pluscool come la Sony (sventalo scialacquio), ho preferito aiutare i Paesi in via di sviluppo (sostegno so­ lidale) e ho acquistato su un banchetto di senegalesi un avanzatissimo walkman con solo tre tasti: Play, Fonvard, Stop. Non c'è il tasto Rewind. Lho trovato un n1eraviglioso simbolo di quella speranza nel futuro e nel progresso con­ tinuo che deve caratterizzare i Paesi in via di sviluppo: in­ dietro non si torna, mai! E in regalo ho avuto quattro pile dall'allusivo packaging nero e oro, delle vere batterie finto Duraceli che mi hanno garantito ben 5 minuti di suono continuo! D'altronde anche collegando l'apparecchio diret­ tamente a una centrale nucleare la qualità nella riprodu­ zione dei nastri non sarebbe mutata: qualunque musica vi si ascoltasse, aveva lo stesso andamento Outluante e nasa72

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le della musica tradizionale himalayana. L'ho buttato nel primo cestino della spazzatura e ho comperato un lettore di cd portatile. 5. Secondo anello della catena

Sono quindi andato alla ricerca di qualcosa da ascoltare con il nuovo walkman. All'inizio, per non dare soldi alle multinazionali della musica (sventato scialacquio) che of­ frono solo cantanti succinte e vittime dell'eleghanzia, sono entrato in un negozio cli dischi usati dove per prima cosa ho trovato alcune cassette originali di Piero Finà (sostegno solidale). Finà è qui:llo di «Calma cacchio non spinga», «Mi faccio una canna», «li pensiero fu per Mao» e di tanti altri canti di lotta rimasti purtroppo oscuri. Stavo per compe­ rarle tutte (cinque copie della stessa cassetta). Invece alla fine ho preferito acquistare un cd dal titolo «Cartoon He­ roes», noti:vole non solo per l'offerta musicale (svariate si­ gle di cartoni animati in nuove versioni beat), ma soprat­ tutto per l'immagine che appariva nell'angolo in alto a sini­ strn della copertina: una strana raffigurazione di Pikachu, come se il più noto tra i Pokémon fosse finito sotto uno schiacciasassi. È stata questa immagine a convince1·mi all'acquisto, è stata la sua fo1·za intenzionale. L'intenzione è un elemento imponante nel mondo del neoproletariato, è la base stessa dell'eleghanzia, è quanto ci spinge a essere qualcos'altro, mentre i nostri antenati proletari deprefissati vivevano im­ prigionati nella loro condizione e non parevano voler cer­ care riscatto. Ma era un atteggiamento falso. È proprio del­ l'essere umano considerare l'intenzione più importante del risultato e l'arte figurativa applicata alla merce neoproleta­ ria non sfugge a questa regola. Si ric01·derà facilmente quel passo, proprio all'inizio dei Promessi Sposi, in cui si parla di « ... un tabernacolo, sul quale erano dipinte certe figure lunghe, serpeggianti, che finivano in punta, e che, nell'in73

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tenzion dell'artista, e agli occhi degli abitanti del vicinato, volevan dire fiamme». Bene, lo pseudo-Pikachu che mi sorrideva dalla copertina che tenevo nella mano sinistra era un frutto incerto e allusivo della stessa intenzione che muoveva l'a11.ista seicentesco del Manzoni e che è giunta ininterrotta sino a noi. Non si è mai fer·mata. L'unica ecce­ zione era rappresentata dai nostri antenati proletari sem­ plici che parevano aborrire simili cedimenti a mentalità mercantili capaci solo di produrre marchi, desideri di mar­ chio e tristezze legata al dover ripiegare sul marchio inten­ zionale. Ma lo stesso Piero Finà, di cui soppesavo l'antica cassetta nella mano destra, era una derivazione intenzio­ nale di ben altri cantautori dell'impegno, quindi anche i nostri padri proletari erano asimmetrici e non sapevano di­ stinguere tra originale solido e copia traballante. Senza pensarci oltre ho comperato «Cartoon Heroes». 5. Terzo anello della catena

Sotto la forte influenza dello sguardo magnetico dello psuedo-Pikachu mi sono avviato verso una vetrina in cui splendevano le cartucce del Pokémon per Game Boy. Sape­ vo che stavo per compiere uno sventato scialacquio e che con quei soldi avrei potuto praticare più cli un sostegno so­ lidale, ma l'ipnosi indotta dallo pseudo-Pikachu era invin­ cibile. Stavo uscendo dal negozio con la cartuccia in tasca, quando mi sono improvvisamente ricordato che non avevo più il Game Boy, allora sono rientrato e ne ho comperato uno. Il precedente Game Boy lo avevo dato via dopo una notte di rovelli schizofrenici del tipo ss vs ss (sventato scia­ lacquio versus sostegno solidale), approfittando di una rac­ colta di indumenti e oggetti usati per il Chapas. In sostitu­ zione avevo ordinato tramite il catalogo Euronova il Play Toy che costava solo 19. 900 lire ed era prodotto nella Cina Popolare da veri Cinesi e non in Corea del Nord per conto di sfruttatori Giapponesi. Il Play Toy era grande due volte il

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Game Boy, ma conteneva un solo gioco, un finto Tetris con due livelli di velocità: lento (fino al sopore) e veloce (oltre la percezione visiva). Ma il Tetris è un gioco di origine russa e non il solito prodotto ame1·icano, magari disneyano. Ades­ so che ho di nuovo il Game Boy non so che fame del Play Toy e non oso mandarlo nel Chapas. 6.Epilogo

Subito dopo questo ultimo acquisto sono immediata­ mente tornato a casa. Esse1·e anticonsumista mi era già co­ stalo troppo.

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Hunko no yama 2.0

TIDiEsse Arredobagno

In un ampio bagno si apre la porta. Stiamo per assistere a un momento nella vita di una coppia del neoproletariato, un momento in cui sesso, eleghanzia, mai·mo, arredoba­ gno, intimo raffinato, gusto, evoluzione sociale si intrec­ ciano strettamente fino a creare un nuovo genere teatrale, il bathroom wash-basin drama, derivazione del kitchen sink drama anglosassone. Entra una coppia giovane. Lei, con stizza, lancia una giacca per terra. Il suo abito nero e scol­ lato fa presupporre il ritorno da una non identificata sera­ ta di gala. Lui, vestito in maniera più dimessa, la segue. Nell'ambiente trionfa il nero di abiti, piastrelle e marmi e anche dell'umore di lei. Esordisce: [ vox] Davvero una bella serata... Ah, ceramiche nuove,

nuovo bagno: di chi è?

I.:anacoluto concettuale di questa battuta è accompagna­ to da una distrazione perimetrale dello sguardo della pro­ tagonista che inizia a togliersi i gioielli. Primo piano del protagonista che, con espressione assente, inizia a dire: [ vox ] Ti. di... Lei lo interrompe e, gettando con ira una collana nera sul piano di marmo nero del lavabo, continua: 76

N 1:0PR()l.ETARUTO

[vox] 7i dico, elle se ci invitano 1111'altra volta... Si ferma. nuov::unente distralla, accarezza con sensua­ lità un rubinetto nero. dall'inusitata forma 01ientaleggian­ Le, con inserti in oro. [vox] A/, che linea ... e/ove /'/,ai preso? Lui. seduto sul bordo della \'asca idromassaggio, tocca con un dito l'avanzalo pannello di comando e imposta il programma 23. Ancora una volta, allungando un braccio con gesto implorante, cerca di di 1'l!: [\'Ox] 7i di ... Le immagini riprendono ora il mobilello porlalavabo , laccato in bianco e le gambe fasciate in nero della protago­ nista. Intanto scorre al piede la scrilla gialla: Superstrada Milano-Meda uscita Cc.:sano Maderno. Lei. con passo ner­ voso, attraversa il bagno permellendo alla camera di mo­ strare il pavimento marezzalo nero, il box doccia in vetro e metallo, anch'esso nero. Riallacciandosi ancora·una volta al tentativo di .-isposla del pm1ncr, la protagonista incalza: [voxl 7i dico che 11011 ci c111dia11w piri ... ehi, 111a da chi sei a11dato per quesla 111eral'iglia di bagno? E acca1·ezza la piastrella bianca con inserti romboidali neri, mentre sul fondo si sente il gorgoglio dell'idromas­ saggio. Lui, finalmente padrone della situazione, si alza dal

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TOMMASO LABRA:-ICA

bordo della vasca e con due mani pro tese dice, liberatorio: [vox) Ti Di Esse An·edoba,:110. È 1111'0,a che cerco di dirte­

lo!

Lei si awicina minacciosa al volto di l11i e con un dito al­ zato dice grintosa: [vox) E sai che ti dico? Poi, con uno di quei repentini cambiamenti di umore e di senso cui ci ha ormai abituati. la p1·01agonista si fa mi­ ciona, si gira e si lascia abbracciare da lui. concludendo: [vox) Bravo, c'è /lifto il 11w stile. In dissolvenza appare il marchio della TiDiesse A1i-edo­ bagno, mentre una voce maschile f.c. ripete l'indirizzo e. sullo sfondo, i due iniziano a strofinarsi ancora vestili. A sorpresa quella che pareva la fine ha un epilogo: torniamo in primo piano sui due ancora avvinghiati e lei aggiunge: [vox) E ti dico che ... scegli bene!

Oggi In que sto spot, come in tutti gli ah1i comunicati pubbli­ citari dello stesso settore merceologico, tutti condividono piacevo lmente l'ambiente bagno, ne usufmiscono in colle t­ tivo, in una intrigante mancanza di inibizioni. come in fon­ do deve essere per un neoproletario, la cui liberazione ses-

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NEOPROLETARIATO

suale è ormai matura, dopo una 1ieclucazione durata anni e fatta di spot scosciati e cli 1·iviste patinate dedicate a come farla/o impazzire a letto. Nella realtà degli appartamentini proletari, non ancora adattati alle necessità dei nuovi affittuari neoproletari, quello stesso ambiente diventa invece il luogo principe del­ la solitudine dove, non ciel tutto convinti da questa estrema spudoratezza e blindati a più manciate, non permettiamo l'accesso a nessun altro. Dice Cesare Ripa nella Iconologia che la Solitudine è una donna 1itratta mentre tiene una le­ pre sotto un braccio e un libro sotto l'altro. Il libro serve a dimostrare che il fine dell'uomo solitario deve essere lo stu­ dio cli sapienza e clott1·ina, altrimenti la solitudine è cosa degna di infamia e Aristotele nella Politica disse che l'uomo solitario è angelo o è bestia. Altro che il precetto del plu­ scool: vivi il tuo spazio bagno senza inibizioni ... Nella realtà neoproletaria, prnp1·io per sentirsi un angelo e di­ mentica1·e la sua essenza di bestia defecante, l'essere uma­ no quando si isola in bagno legge (il libro, nell'iconografia del Ripa). Intanto, fuori, c'è sempre qualcuno che bussa in­ vitando a essere rapidi (la lepre, nell'iconografia del Ripa). Rivisto oggi, questo spot appare davvero come un seme da cui sono spuntati gli attuali sviluppi. La storia d'amore che si rafforza, tra bamffe e riappacificazioni, suJlo sfondc di un ambiente bagno, dal quale sono stati comunque can­ cellati i sanitari e gli usi che cli questi si fanno, ha avuto una straordinaria fortuna. Dieci anni dopo quello spot, appunto nel 2000, il neo­ proletariato si è ormai radicato, l'eleghanzia è una religio­ ne, il pluscool e gli a1Teclobagni firmati sono alla portata di tutti e questa inafferrabile classe sociale ha trovato il suo migliore specchio in una trasmissione televisiva i cui pro­ tagonisti sono state massime icone del neoproletariato, Grande Fratello. Anche in questo programma, come già nello spot della TiDiEsse, gli amori platonici e carnali nascevano, si svilup79

TOMMASO LABRANCA

pavano, finivano sotto le telecamere installate nel bagno. Ma questa volta con il raggiungimento di una nuova fron­ tiera: non solo l'accenno a una sensuale abluzione a due, ma l'esibizione sfrontata di ogni bisogno fisico. Mentre i protagonisti degli antichi spot qui analizzati nascondevano le proprie funzioni corporali e si comportavano anche in bagno come se fossero stati in salotto, i neoproletari del Grande Fratello hanno fatto esattamente il contrario e si sono sempre comportati in salotto come se fossero stati in bagno, anzi in un gabinetto di servizio gadcliano. In quella trasmissione era sopravvissuta, si era moltipli­ cata l'eleghanzia degli atteggiamenti, dell'abbigliamento, della forma fisica, delle seduzioni che già erano alla base di questo e altri spot di arredobagno, ma il tutto avveniva con la colonna sonora di frequenti e non trattenuti peti. Agli oc­ chi, anzi, alle orecchie di un pubblico non preparato è ri­ sultata sconvolgente questa asimmetria neo-neoproletaria tra una eccessiva e fanatica cura della propriQ.muscolatura a fini seduttivi e una iffefrenabile petofonia che, secondo un ormai invecchiato codice di seduzione, dovrebbe avere proprio effetto antiseduttivo. Ma per i neoproletari del Grande Fratello, evidentemente, il corpo è al centro di ogni eleghanzia ed è il corpo in sé, coincidente con la propria immagine, libero da ogni inutile corollario di decenze. Tut­ to ciò che entra e, soprattutto, esce da quel corpo non esi­ ste, non influisce sul raggiungimento del pluscool.

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Mondo di notte n. 100

Azione

È una sera umida e fredda di dicembre. Cammino nel fango lungo una strada sten-ata che si è dipartita da una via desolata della periferia sud milanese, piena di fari e di fi­ nestre lontane. In fondo a questo crudo scenario testoriano mi attende il confortevole ed elegante calore di un dancing, dove è previsto un evento di incomparabile esclusività: la presentazione a un selezionato pubblico del nuovo cd del cantante Scialpi. Dopo molte centinaia di metri tra mota e gelo, ecco finalmente il locale, circondato da una barriera protettiva di balaustre metalliche, con solo un varco lascia­ to aperto. Nella luce gialla di lampioni altissimi, davanti a quel varco vedo le sagome di tre massicce figure umane. Durante gli ultimi passi della difficile avanzata, la mia mente ha iniziato a recuperare dai suoi magazzini foto­ grammi di vecchi film bellici, persino frammenti dal dottor Bedeschi letti con riluttanza ai tempi delle medie. Ma ad aspettarmi al varco non ci sono soldati dell'Armata Rossa, né militi della Wehrmacht. Più temibilmente ci sono solo tre tozzi addetti alla security che devono sentirsi molto ele­ ganti nelle loro giacche nere di inusuale lunghezza. 81

TOMMASO LABRANCA

Pensiero

Non c'è nulla che colpisca l'immaginario popolare più dell'eleganza. Ecco perché tra i neoproletari l'eleghanzia ha preso il posto dell'intellighenzia, molto meglio accettala di quella, più bramata, più diligentemente applicata. Se l'intellighenzia era la collettività degli intellettuali, l'ele­ ghanzia è, al tempo stesso, sia la collettività dei neo-psue­ do-arbiter elegantiarnm da discoteca sia l'idea che sottostà alla filosofia di questa collettività. Questa idea, così diffici­ le da definire, viene usata essenzialmente per misurare il mondo e i suoi abitanti. La cosa appare molto strana alla ragione: come si può eseguire un'operazione che richiede alta precisione e concretezza, come la misurazione, utiliz­ zando un metro vago ed elastico come l'eleganza? Eppure ogni cosa, ogni persona, ogni espressione nell'era neopro­ letaria vengono soppesate sul metro dell'eleghanzia, di cui non esiste alcun campione in materiali indeformabili in nessuna parte del mondo. Ogni giudicante conserva in sé un proprio metro-campione, convinto che quella sia la ve­ rità. Per questo il neoproleta1·io non trema quando, in coda davanti a un locale che si picca di essere esclusivo, attende di essere ammesso oltre. Ha letto sul Programma degli Eventi Mondani che qui il mercoledì sera è riservato a un pubblico di un certo livello e vi si entra solo se ci si vestirà a dovere. È un locale molto elegante e bisogna vestirsi bene perché la selezione non perdona. Il neoproletario è in coda e forse è anche vestito bene, anzi sicuramente è vestito be­ ne (e insisto con il corsivo per sottolineare la lunarità di questo awerbio) se si misura secondo il proprio sistema in­ teriore di pesi e misure. Ma cosa significa vestirsi bene? In­ dossare un abito blu da matrimonio? Un twin set da Prin­ cipessa Grace? Il tight? E quando si dice che uno è «vestito da dio» si intende che ha la tunica e un triangolo in testa? Ecco il compito dell'intellettuale ipnomediatico (ex intel­ lettuale gramsciano): organizzare la vita sociale del neo-

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NEOPROLETARJATO

proletariato (in precedenza organizzava il partito) e offrire ai neoproletari gli strumenti per tenere testa al potere dei door selector (prima era il potere dei padroni delle fabbri­ che e delJe fen-ie1·e). Azione

Davanti a questi tre cerberi del neoproletariato, la mente riparte subito a caccia nei suoi archivi e, complice anche il freddo pungente della serata, inizia a proiettarmi nel cer­ vello un cai1one animalo con il pinguino Chilly Willy. Uno dei tre pinguini, non potendo rifiutare l'ingresso per moti­ vi estetici, dato che si tratta di una serata a inviti, sconfina nel sun-eale. Prende l'invito che gli porgo, lo sfrega tra pol­ lice e indice, poi lo solleva per esaminarlo contro la luce dei lampioni gialli. Come se si trattasse di una banconota di elevato valore, sta controllando chissà quale filigrana. Per­ ché di sicuro in giro devono esserci chissà quanti spaccia­ tori di falsi inviti per serate con Sciai pi e se il mio biglietto ora risultasse contraffatto la legge pinguina mi punirebbe come merito. Pensiero

Ogni volta che davanti a un qualsiasi contenitore di even­ ti controllano così attentamente gli inviti penso sempre che all'interno ci debbano essere, raccolti in uno spazio di alto design, tutti i paradisi di tutte le religioni riuniti in pochi metri quadrati. Invece l'interno corrisponde al nulla dell'e­ sterno. L'unica differenza recita: «qui è l'evento, lì no». Una differenza minima, ma cibo fondamentale per i neoprole­ tari a caccia di pluscool. Il meglio dell'evento si svolge pro­ prio nell'essere ammessi all'ingresso. Non è così importan­ te ricevere l'invito, né essere presenti alla serata, quanto è importante superare la soglia, compiere il passaggio, cele­ brare la Pasqua. 83

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Uno degli scogli nell'apprendimento della lingua russa è l'esistenza di due forme verbali ben distinte, l'imperfettiva e la perfettiva. La prima indica che l'azione è abituale o che non si è conclusa. La seconda indica la conclusione del fat­ to, il suo completamento, la sua perfezione. Così prima di superare la soglia il neoproletario in uscita mondana do­ vrebbe usare, se in italiano esistesse, la forma imperfettiva del verbo «partecipare all'evento», con tutti i timori che l'imperfettività desta in lui mentre ricontrolla ancora una volta la presenza dell'invito nella tasca, la sua effettiva vali­ dità, la presenza della filigrana; mentre si tormenta nel dubbio: mi faranno entrare? Sarò vestito bene? Una volta superata la soglia tutto è finito. Nel nulla della zona trans­ security, vacua quanto quella cis-security dove almeno vi­ veva un'attesa trepidante, l'unico piacere che il neoproleta­ rio gusta è il poter usare la forma perfettiva del verbo «par­ tecipare all'evento» nei racconti che domani farà ai colle­ ghi. Se nella nostra lingua avessimo una forma perfettiva dei verbi. Azione Comunque il mio invito è genuino e mi permette di pas­ sare oltre le cancellate, çli seguire un perco1·so che replica l'ingresso di una antica villa romana con le colonne, i pas­ saggi di porfido, le cascatelle; poi, tra mosaici e altre co­ lonne, mi porta dentro una fuga di sale e di salottini oscu­ ri, la pista centrale simile a un Pantheon rivestito di alcan­ tara, arredato cpn divani in rosso e oro dal barocco esaspe­ rato, in una pastiche che non poggia su alcuna intenzione intellettuale di ecletticità, ma è solo una summa di lussi sfrenati così come li concepisce la mente neoproletaria, so­ prattutto in questa fangosa periferia urbana, dove alligna il neoproletario di livello più basso.

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NEOPROLET,IR/1\TO

Pensiero I.:oro è lusso e non ha bisogno di spiegazioni, il rosso è lusso, persino in chiesa gli eventi di maggior pompa preve­ dono paramenti di questo colore. La colonna, quando non ha alcun compito di supporto, è lusso, forse perché ruba inutilmente spazio e dispotTe di molto spazio è prerogativa dei ricchi. O forse la colonna è un'intenzione impazzita che dalle ville di Roma antica rimbalza a quelle palladiane, toc­ ca quelle hollywoodiane per poi essere respinta in questa discoteca nella periferia milanese dove, moltiplicata, crea un'isola di eleghanzia nello squallore che grava intorno al­ la fermata Pano di Mare della Linea Tre della metropolita­ na, quella gialla. Azione

Intanto i divanetti restano inconsolabilmente vuoti. La band prova. C'è un ritardo vagamente giustificato con dif­ ficoltà tecniche. Siedo molto imbarazzato sul damasco, ri­ leggendo per l'ennesima volta la cartella stampa. I.:organiz­ zazione decide improvvisamente di anticipare il buffet. I.:ultima cena di un condannato: patate lesse e tonno. An­ che gli psicologi chiedono ai pazienti disturbati: «Ha man­ giato patate lesse e tonno ultimamente?». Se la risposta è sì, viene diagnosticata subito una depressione. Sarà una di quelle infatuazioni minimaliste di cui ultimamente soffro­ no alcuni neoproletari? O è un solito caso di asimmetria, cibo povero che risulta schiacciato dal décor, dal tavolo in­ tagliato, dalla tovaglia di broccato, dal lampadario di goc­ ce in cristallo Tarrowski che lo sovrasta. Cibo povero che comunque ha la capacità di attirare i non molti presenti e proprio mentre le forchette di plastica entrano in azione, si risolvono magicamente i problemi tecnici e il cantante Scialpi inizia a cantare in una arena deserta, nessuno lo ascolta, ma, cosa ben più grave, nessuno fuori da questo 85

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tempio dell'eleghanzia in quel momento mi sta invidiando perché io sono qui. Decido di andarmene. Ho in tasca un altro invito. Vittima forse di qualche commercio clandesti­ no di indirizzi, qualche giorno fa ho ricevu lo per posta l'in­ vito a un evento Absolut: lanciano la vodka al mandarino. Lo fanno in zona Porta Genova, quaniere milanese che ac­ coglie una stazione ferroviaria per pendolai-i del pavese. Zona un tempo popolare, poi declinante, e quindi trasfor­ mata da alcuni intellettuali ipnomediatici in sede di eventi per neoproletari, come il luogo che accoglie questa presen­ tazione, luogo solo di un livello più alto di quello che ospi• tava Scialpi e le sue patate, e che qualche immaginifico copy ha chiamato Palazw Irreale. Pensiero

Il fatto che per essere ammessi all'evento sia rigorosa­ mente necessario l'invito mi fa pensai·e a uno di quegli eventi la cui unica finalità è umiliare il neoproletario che attende fuori la realizzazione del suo sogno, che non è il benessere, non sono condizioni di lavoro più umane. né tanto meno una vita dignitosa. Quelle sono tutte cose ov­ vie, fanno parte del pacchetto standard che ci accoglie già in sala parto quando nasciamo in particolar-i zone del mon­ do in questo periodo storico. Si deve puntare allora all'ot­ tenimento di un plus, talmente plus che sconfini nelle re­ gioni del minus, della rinuncia. Per esempio il neoproleta­ rio fa di tutto per rinuncia1·e alla propiia dignità quando si mette in fila per prendere parte a qualche evento e subisce pazientemente le umiliazioni e il freddo, come la piccola fiammiferaia. Azione

Cerco il Palazzo Irreale e lo trovo a fatica, solo grazie al gruppo di persone che attendono di entrare davanti a un

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NEOPROLETARIATO

p01-tone. All'esterno poco appariscente, un semplice palaz­ zone grigio, il Palazzo Irreale è composto all'interno da lo­ cali posti su più livelli, lunghi e bassi, con i soffitti attra­ versati da tubi di aerazione_ Locali che forse un tempo ospitavano una manifattura di borsette, un'officina di cu­ scinetti a sfera o una qualche forma di artigianato e che ora, completamente imbiancati, accolgono gli eventi che più attirano i ncoprolelari. Ma chi ha qualche proprietà ex­ trasensoriale, appena entralo si sente sfiorare dai fantasmi di mariucce, rosette, ginette e di tutte le altre antiche pro­ letarie che qui lavoravano e che oggi continuano ad aggi­ rarsi in spiritu nella loro irriconoscibile ex-fabbrica neo­ prolelariamente loflizzata da qualche architetto ipnome­ diatico. Pensiero

In tipografia, le espressioni serif e sans serif fanno 1iferi mento a due grandi famiglie di caratteri da stampa. I serif, o graziali, sono i caratteri più eleganti, quelli in cui i tratti più lunghi delle lettere presentano lineette terminali. I sans serif non presentano quelle lineette conclusive e risullano più spartani. I serif fanno pensare a stamperie antiche e so­ no legati a un'idea di eleganza molto simile a quella del dancing in cui mi trovavo fino a poco fa. I serif sono il pie­ no, l'eccesso, l'eleghanzia a ogni costo. Sono i preferiti dai neoproletaii meno d'avanguardia, ossia quelli più lontani dagli intellettuali ipnomediatici, i neoproletari della perife­ ria di Scialpi. Gli altri, gli evoluti, invece apprezzano la spartanilà dei caratteri sans serif. Forse questa è la princi­ pale differenza tra neoproletariato e intellettuali ipnome­ diatici: l'essere serif o sans serif. Ma è una differenziazione sfumata. Certo, Scialpi aveva scelto lo stesso serif che ritroviamo nelle case e negli armadi dei neoproletari paladini del ro­ cocò e clienti di qualche negozio di arredobagno. Ma il

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TOMMASO LABRANCA

luogo in cui mi trovo ora, pur nella sua essenzialità, non ha ancora del tutto rinunciato all'eleghanzia e alle sue pompe. Azione

Fatto il grande passo, ossia superati i controlli, mi im­ mergo nell'installazione. Perché la Absolut sostiene i giova­ ni artisti e in questo caso ha commissionalo un'opera a uno di loro che ha disposto bagnarole azzurre, piantine mosse da ventilatori e piccole lampade da tavolo nei tanti spazi dell'edificio. Dopo una decina di salette così addobbate giungo nel clou dell'evento: quello che doveva esse1·e il ma­ gazzino di questo probabile ex laboratorio. In fondo alla sala, circondato da cassette di mandarini, nella 1·iproposi­ zione di un banco da mercato, c'è il dj che sta suonando Adore di I:Cube. Intorno è pieno di neoproletari, appena meno serif di quelli lasciati a Po1·to di Mare. In questi am­ bienti vuoti e bianchi, immersi in quella luce azzurrata tan­ to amata dagli art director ipnomediatici e che invade le fo­ to e le pubblicità con cui si cerca di vendere il pluscool, la tensione alla rarefazione estetico-intellettuale che doveva essere nella testa degli organizzatori viene negata da alcu­ ni elementi che parlano della più spudorata eleghanzia neoproletaria. Per esempio, ci sono in giro troppi invitati con il Moto­ rola V-qualcosa appeso alla cintura o persino al collo. Que­ sto modello di cellulare ha prodotto uno strano comporta­ mento, che però è esemplificativo della mancanza di un preciso confine tra serif e sans serif. Nato per esse1·e prati­ camente invisibile grazie alle sue ridottissime dimensioni, e quindi adatto alla pudica estetica sans serif. chiunque lo compri si vota immediatamente al serif e si sente in dovere di esporlo il più possibile. È strano... quando si tratta di uccelli gli uomini fanno a gara a chi lo ha più grosso, quando si tratta di telefonini in­ vece vince chi lo ha minidotato. 88

N EOPROLETARJATO

Tutti si precipitano al bar e io li seguo. Mi danno un bic­ chiere con un cocktail arancione che sa di mandarinetto, di alchermes, di ralafià e di tanti altri antichi liquori dolci. Passano dei camerieri che porgono ciotole, ma quando mi accorgo che contengono solo sushi mi convinco che è il momento di gioca1·e un altro degli inviti che ho in tasca. Questa volta estraggo un cartoncino che annuncia l'i­ naugurazione di una mostra chiamata «Ali far beauty» in una gallel"ia di via Tortona. È a due passi da questo delu­ dente Palazzo Irreale, è in una via lunghissima, fatta di vec­ chie fabbriche più o meno ristrutturate, con muri infiniti e senza porte che delimilano vecchi opifici o cose simili svuotati e I"ifa1-citi di intenzioni pluscool. Percorro l'intera via Tonona senza incontrai·e nessun intellettuale ipnome­ diatico che, nel caso si stiano cercando esposizioni, eventi del pluscool e show room di qualche sconosciuto stilista nipponico, sono meglio delle b1·iciole di Pollicino. Li si ri­ conosce facilmente dal manto scuro, dallo stile sansserifiz­ zato e dallo sguardo da roditore miope. Pensiero

C'è questo vecchio film di Dino Risi che continuo a rive­ dere, consumando il nastro. A un certo punto del film Al­ berto Sordi e Franca Valeri finiscono in una festa di pittori che, benché la parola non venga mai pronunciata, sono di chiara derivazione esistenzialista. Lo dicono le camicie a quad1;, il senso di festa continua. lo stanco abbandono di alcuni stesi sui divani, la fumosità e il tasso alcolico del­ l'ambiente, tutti quegli elementi, insomma, che Boris Vian definiva «di maniera» già quando li osservava in diretta a Saint-Germain. a pochi passi dalla casa di Sartre. Figuria­ moci cosa avrebbero poluto produrre tutti questi elementi a distanza di anni e di chilometri, trasportati in una città come Roma che per sua nalura giunge tardi agli eventi e li devia, li carica di altri manierismi, ne umanizza gli aspetti

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TOMMASO LABRANCA

più algidi, li affastella in una accozzaglia che comprende anche gli elementi opposti. Nel bel mezzo della festa, Sor­ di, infastidito da una coppia di questi esistenzialisti, se ne va da quella casa « ...piena de sorci». Perché proprio sorci? È un semplice insulto rivolto dal proletario di bmgata al­ l'intellettuale filoparigino di cui non comp1·ende abbiglia­ mento e pose? O c'è un legame più di1·etto con i rats de ca­ ve germanopratini, con i topi che vivono come animali do­ mestici intelligenti nella casa de «La schiuma dei giorni»? Non lo so. Quello che so è che comunque nel filo che lega l'intellettuale esistenzialista all'attuale intellettuale ipno­ mediatico e ai neoproletari più tesi verso il pluscool resta comunque viva l'essenza sorcina. Azione Dopo aver percorso la strada nella sua interezza trovo il .ivico, un portone in legno marcio con appeso un foglio di carta bianco che dice: «Ali for beauty citofonare Magma». Citofono e senza neanche chiedenni chi sono, mi aprono. Dietro il portone marcio si apre un cortile nero e profondo, una vera cave nella quale non mancano i topi. In fondo a questa corte, nascosti dietro un angolo, nugoli di sorci tar­ do-tardo-esistenzialisti, di quelli che hanno sacrificato ogni orpello in nome del sans serif e che amano il nulla più costoso. Sembrano lontani anni luce dall'eleghanzia spon­ tanea e rigogliosa dei neoproletari di classe più bassa, ep­ pure anche loro condividono la stessa origine. Non sono rampolli di famiglie ricche. Quelli a quest'ora sono tutti a organizzare sound system di drum & bass in qualche cen­ tro sociale. Questi tra cui mi sto immergendo sono neoproletari di­ ventati talmente avanguardia da essere finiti nella dimen­ sione del sans serif totale, dimensione da cui non c'è ritor­ no. In quanto a eccesso, questi stanno agli intellettuali ipnomediatici come forse i terroristi stavano ai vecchi in90

NEOPROI.ETARIATO

tellettuali di sinistra e come quelli non hanno grande presa sul popolo. Ancora più in là c'è una stanza bianca illuminata. Entro. Parete poste1-iore: calorifero. Parete di destra: scala che porta sul nulla (è sbanata) e due gigantografie di fiche. Sì, due immagini fotografiche ingrandite, ognuna rappresen­ tante una vagina dal pelo incolto, ma sono così crude e vol­ gari che sei-ve il termine t1-iviale per indicarle. La prima si vede seduta su una specie di elettrodomestico, la seconda spunta in fondo a due gambe con lividi. Parete frontale, una decina di quadretti appesi in fila con foto di piscine o strade forse di Israele. Parete di sinistra, finestra e menso­ la con minicataloghi dell'esposizione. Esco. Nel cortile c'è un tavolaccio con il buffet. Al buio si intravedono sul tavo­ lo solo lattine di birra del discount. Tutti bevono la birra scadente dalla lattina e parlano. Pensiero

La festa della Absolut era di sicuro il purgatorio, con la sua miscela di nulla e di troppo, di serif e di sans serif, di neoproletari e intellettuali ipnomediatici. Ma questo è l'inferno o il paradiso? Perché se questo è l'inferno, mi tocca poi dire che la presentazione con Sciai­ pi era il paradiso e non ne sono proprio convinto. Nemme­ no del contrai-io sono convinto. Forse quelli che sembrava­ no i due opposti, l'orn e il rosso contro il bianco e il nero, sono una cosa sola. D'altronde, la birra scadente del di­ scount si accompagna perfettamente a una porzione di tonno con patate lesse.

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Vier letzte Lidi (Ultimi quattro Lidl)

Anche i maggiori filosofi a volte sbagliano. Diana Est, co­ lei che fu celebrata come la musa del postmodem intellet­ tuale e musicale, lanciava nel 1983 con Le Louvre un mani­ festo libertario in cui cantava "fuori dai musei I nuovi ami­ ci miei". Con questi versi la Est annunciava la rottura delle barriere tra arte e vita quotidiana, attendeva il crollo delle pareti dei musei dove si deve tacere e la mescolanza ultima tra statue ed esseri umani. In fondo l'auspicio contenuto in quel testo era uno solo: l'abbassamento del livello dell'ape-, ra da artistico a quotidiano, la cancellazione del valore che nasceva quasi esclusivamente dall'esposizione museale. Invece è accaduto proprio il contrario e in ambito post­ moderno, che continua ancora adesso a influenzare le espressioni neoproletarie, l'oggetto di ogni giorno ha visto salire il proprio livello da quotidiano ad artistico. Una delle cause di questa museizzazione globale è stata la diffusione anche ai livelli meno colti e abbienti delle idee di design e di moda. Idee vaghe e senza un fondamento concreto di stu­ dio e conoscenza, idee trasmesse essenzialmente attraverso le immagini pubblicitarie. Ogni oggetto, ogni immagine, ogni scena diventano nel­ la pubblicità targetizzata al neoproleariato un'opera da usare come occhio che ci guarda mentre noi a nostra volta

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NEOl'ROLETARIATO

la guardiamo. Alla fine si è avuta una strana ricaduta e la tendenza pan-museizzante ha finito per rimettere nuova­ mente in cattività intellettuale l'oggetto primo della sua es­ senza, quello che Diana Est voleva vedere liberato: le opere d'arte. A partire dagli anni Ottanta, la passione neoproleta­ ria per la pittura, per le grandi mostre, per le eccessive quo­ tazioni di un mediocre Van Gogh hanno reso l'arte terza idea dopo il design e la moda, idea altrettanto vaga e cultu­ ralmente infondata quanto le prime due. Le opere d'arte presso i neoproletari hanno subito quindi la museizzazione pubblicitaria, diventando occhio che ci guarda e richiede la nostra attenzione/ammirazione incondizionata (cfr. What

it feels like far Leonardo).

Negli spot pubblicitari neoproletari la museizzazione e lo sguardo restituito fungono da base non solo per beni co­ stosi o prestigiosi, come le automobili o i profumi, ma an­ che per beni come i surgelati. Non siamo noi a guardare il bastoncino-di-pesce, ma è il bastoncino-di-pesce che guar­ da noi e ci vede golosi, con le fauci già spalancate, eppure in forma grazie al suo ridotto contenuto di grassi e l'invito all'acquisto promette la realizzazione di meraviglie esteti­ che prima che gastronomiche. Queste meraviglie sono tali che, pur di non restare esclu­ si da questa promessa di bellezza, i più si riducono ad ac­ quistare e consumai·e imitazioni dai nomi contraffatti, spe­ rando di ottene1·e lo stesso magico effetto di trasformazio­ ne estetica e sociale promesso (di:. Tre poemetti neocrepu­ scolari - La coppia con bambino). A tale proposito i critici meno acuti e più ideologica­ mente impastoiati inizierebbero subito a usare espressioni come "immaginario deviato delle merci", "istigazione al­ l'accumulo di beni", "consumismo barocco e superfluo". Purtroppo nelle loro analisi fotocopiative e sdegnose questi veterocritici che mai hanno messo piede in un supermer­ cato, troppo occupati nell'applicare forzatamente metanar­ razioni scadute a una realtà transideologizzata come è 93

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quella neoproletaria, non si rendono conto di un carattere fondamentale di questi messaggi museizzanti: la promessa di eleghanzia che nasce dalla rarefazione.

Il vuoto è il fondamento della fascinaziom.· che k· merci ?sercilano sul neoproletariato. Nil.·nte ammasso dunque, 1iente accumulo di oggetti superflui. nessuna istigazione .31 possesso del troppo. In era neoproletaria le comunica­ zioni pubblicitarie, i prodotti stessi e i luoghi in cui quei prodotti sono venduti hanno come parole d'ordine: vuoto, riduzione, understatement, essenzialità, minimalismo. La campagna pubblicitaria della linea di surgelati Tliat's amore di Findus (2002) esemplifica magnificamente questa fascinazione. La campagna si basa sulla museizzazione pubblicitaria che porta al livello di opera d'arte il surgelato. Il bastoncino-di-pesce che ci guarda mentre lo guardiamo. Nel far ciò si eleva anche il valore del surgelato stesso, non più visto come sostituto povero di una cucina tradizionale e ricca, non più considerato come la faccia triste elci cibo, come espressione di una vita proletaria indusuiale e peri­ ferica, in cui il lavoro salariato lascia alla sera solo il tempo

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per lo scongelamento ultrnrapido. Tutte caratteristiche che awilivano la dignità della condizione umana e che i pub­ blicitari cercavano di nascondere rivestendo il surgelato proletario con una confezione colorata, messa poi in mano a un personaggio da romanzo d'avventura marinara che sorrideva al suono di un jingle orecchiabile. Il surgelato neoproletario va in tutt'altra direzione. Ini­ zia svincolandosi da ogni rife,-imento all'ambito familiare e si presenta come un cibo scelto coscientemente da single metropolitani e coppie di fatto per la sua praticità. I consu­ matori del prodotto si muovono nel solito loft semivuoto (deve esisterne solo uno che viene usato per tutti gli spot, un po' come la finta stazione ferroviaria di Cinecittà che torna uguale in numerose pellicole). Ambienti vuoti e rare­ fatti, avvolti in una luce grigio-azzurra, dove gli ambienti non sono distinguibili. In luogo del jingle cantabile, un bra­ no preso da qualche compilation d'albergo, sospeso tra chill ed electronica. Su tutto soffia il pneuma rarefatto che anima la vita di colui che anche quando mangia le pietan­ ze più umili è convinto di essere Altro. Dov'è in questo comunicato pubblicitario l'istigazione al­ l'accumulo e al consumo della merce contro cui i veterocri­ tici puntano il dito? Questo spot (e quelli a esso affini) mi­ rano a produrre un desiderio di secondo livello: i neoprole­ tari davanti al televisore non trovano appetibile il cibo sur­ gelato, non vengono spinti a uscire di casa per andarlo su­ bito a comperare e consumare. Lo spirito dei neoproletari viene sollecitato dal confronto tra le abitazioni pubblicita­ rio-fantastiche, nella cui eleghanzia rarefatta sembra mate­ rializzarsi l'idea di design, e la realtà delle loro case, dei pic­ coli appartamenti periferici in cui i neoproletari continua­ no a vivere, simili in questo alle stanze affollate di masse1i­ zie dei loro genitori proletari, agli appartamenti biesposti, al tredicesimo piano di toni popolari e periferiche. I neoproletari quindi non concupiscono la merce, ma l'indotto che a quella merce così elegantemente museizza95

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ta è legato e che quindi vanno a cercare altrove. Nei locali, nell'abbigliamento, nelle riviste, nelle relazioni di coppia, nascondendo agli altri la propria realtà e vivendo tutta que­ sta ricerca a un livello inferiore di alcuni gradi rispetto al­ l'origioole intento pubblicita1·io. Ne è un esempio la cam­ pagna di affissione dello stesso prodotto That's amore in cui del semplice merluzzo (lo stesso che celava la propl"ia ca­ renza di glamour trasformandosi ludicamente in bastonci­ no; lo stesso che faceva navigare i gelidi mari del nord al barbuto e oggi scomparso Capitan Findus; lo stesso che ci deludeva quando lo trovavamo in tavola al 1·itorno da scuo­ la) viene presentato come se fosse sushi, su piatti simili a quelli su cui si serve l'infame pesce cmdo. Giusto un resi­ duo di pudore avrà spinto i pubblicitari museizzanti della Findus a non mettere delle bacchette di legno laccato ac­ canto al piatto. Intanto, però, il neoproleta1io che non può permettersi di andare nei sushi bar o che non sopporta il gusto del rafano e rabbrividisce all'idea di ingoiare i totani vivi, soddisfa in questo modo il suo desiderio di pluscool gastronomico e si lascia coinvolgere da questa nipponizza­ zione di secondo livello. C'è un solo errore in tutta questa perfetta macchina celebrativa dell'eleghanzia abitativo-ga­ stronomica: nel testo della canzone That's amore, da cui la linea prende il nome, si cita un piatto simbolo della fruga­ lità contadina e, in seguito, proleta1·ia, pasta e fagioli. L'atteggiamento del neoproletariato è costantemente asimmetrico. C'è uno iato profondo tra apparenza ed es­ senza, differenza che nasce dalla impossibilità di svincolar­ si totalmente dalla pesante eredità dei padri. Questa ere­ dità fatta di umili abitudini deve essere nascosta nel pas­ saggio dal privato al pubblico, dall'interno all'esterno. Il neoproletario esce di casa con l'intenzione di mostrarsi agli occhi altrui con la maschera che riproduce corpo e spirito dei protagonisti dello spot Findus. Una volta fuori e lonta­ no dalla sua zona di residenza, il neoproletario chiamerà

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Nl!OPROU,T,IRUTO

Risotto _....,_

PROVOLAespu��'l'E I

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loft il bilocale di cooperativa e chiamerà sushi il merluzzo surgelato. Tutti coloro che l'ascolteranno intuiranno 12 menzogna, ma non la sveleranno poiché farlo significhe rebbe svelare le proprie menzogne simili. Il rappm·to tra bassa eredirà proletaria e alta aspirazione 11eoprole1aria è alquanto controverso e produce asimme­ tria. In alcuni casi, gli elementi umili ereditati non vengo­ no nascosti. ma esibiti non proprio con orgoglio, ma alme­ no con il tentativo di nobilitarli unendoli a un elemento no­ bile acquisito. E' il caso di questo "risotto alla provola e spumante", nel quale si gusta tutta l'asimmetria di un neo­ proletariato che non sa 1founciare agli alimenti umili ere­ ditati e al cui sapore è assuefatto (la provola proletaria), ma nel contempo li unisce a un elemento nobile acquisito (lo spumante, degradato dalla straordinarietà delle ricor­ renze all'uso quotidiano e noncurante). Formalmente i l neoproletario è pronto ad accettare una simile combinazione, assuefatto dalle frequenti apparizio­ ni televisive del cuoco Gianfranco Vissani, le cui immagini•

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TOl',!!'.IASO L\IIRA:-.CA

fiche combinazioni di ingredienti sono 1111 ollimo brodo di coltura per lo sviluppo delle .-ppan·nzc ncoproletarie. Nella pratica il neoprolctario è ben lontano dall'apprez. zare a pieno e sinceramente nouvt'lle cu isi ne o cibi etnici (cfr. qui p. 27, La ricerca del Tesoro). Quindi un simile risotto che unisce l'alto al basso i! un ve• ro capolavoro degno di un intellelluale ipnomecliatico più che di un semplice cuoco. in quanto soddisfa i tre desideri del neoproletario: spendere solo una minima parte del pro• prio salario per ottenere il pluscool (la scatola di risotto ha un prezzo contenuto, ben din·rso da quello delle prepara• zioni vissaniane). dimostra,·e di awr evoluto il proprio gu­ sto (benché con moderazione, esst>ndo l'unione tra provola e spumante non eccessiva come Cl.'rte l· ommistioni vissa­ niane) e dimostrare di avere c,·oluto il proprio staio socia­ le. atTivato lontano ormai d.-lla banale e ript•titiva cucina proletario-materna (sentendosi u11 piccolo Vissani in soli 12 minuti di perfetta mantccatura). Più usato della commistiorn.· tra dementi bassi ereditali ed elementi alti acquisiti è il metodo della cancellazione. Più spesso la prole proletaria si tr.isfonna in neo- cancel­ lando quelle abitudini, quei luoghi o quei prodolli che po­ trebbero svelarne l'origine. A \'olle si traila di una lrasfor.

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20ANNI����:

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mazione, ma così radicale che non lascia traccia dell'ele­ mento originario. All'Onestà è una catena di magazzini d'abbigliamento a bassissimo costo rimasta a lungo molto popolare tra i pro­ letari di alcune zone d'Italia. Tra commerciante e proleta­ riato esisteva un patto trasparente. Io, commerciante, ti do esattamente quello che tu, proletario, cerchi: capi d'abbi­ gliamento di lunga durnta, non soggetti ai capricci della moda e a un p1·ezzo il più possibile ridotto, tale da non in­ fluire eccessivamente sul tuo salario. Una filosofia precisa, la cui onestà di fondo era dichiarata fino dal nome dei ma­ gazzini ed era accentata dal cuore aperto e leale apposto sulla a finale. Una filosofia i cui capisaldi erano espressi anche in musica, nel disco celebrativo dei primi venti anni di esistenza della catena, offerto in omaggio nel 1968. Tomo con il pensiero indietro, agli inizi degli anni No­ vanta quando, alle porte di Crema, scoprii un discount di capi d'abbigliamento venduti in saldo perché difettati. Tut­ te le volte che torno in quel magazzino mi immagino per un attimo di essere circondato dal paese reale. Sono un de­ bole tra i deboli, mi ripeto in quelle occasioni. Invece no, non è mai così. Perché nessun neoproletario, all'interno e all'esterno di quel magazzino, vuole ammettere la propria debolezza. Nessun neoproletario acquisterà un jeans lieve­ mente difettato e scartato dal circuito dei ricchi per indos­ sarlo fiero del difetto nelle cuciture, esibendolo come la bandiera della propria debolezza. No, pur non potendo ac­ quistare che un capo difettato, tutti cercheranno di na­ scondere il difetto, di apparire forti, di nascondere le ca­ renze della propria origine e di quella del jeans. Ora due ra­ gazzi al mio fianco rovistano in un intrico di magliette. So­ no due deboli. Parlano tra di loro in dialetto cremasco e anche quando tentano di parlare in italiano ciò che esce è soltanto un ibrido. I loro padri sono con ogni probabilità coltivatori di mais o forse lavorano in una fabbrica di biciclette, ma loro sem-

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brano volerlo dimenticare. Continuano a rovistare, conti­ nuo a rovistare anche io e me li raffiguro deboli per tutta la loro vita, ma deboli silenziosi, deboli inconsci, deboli che si rifiuteranno di ammettere la propria debolezza per appa1i­ re forti. Perché non ci guardiamo negli occhi e non ci ren­ diamo conto di quanto questa debolezza ci fa uguali? No, tutte le persone dentro e fuori quel magazzino lottano non per procedere avanti insieme, ma per sopraffarsi a vicenda. Migliorare è necessario, è lo scopo primario. Ma migliora­ re non è sufficiente, si deve migliorare insieme, mentre i neoproletari vogliono migliorare individualmente. Ed eccoci ora nel 2002. Con un simile presupposto indi­ vidualista che spinge i neoproletari a sbranarsi tra loro e a nascondere la propria debolezza come avrebbe potuto so­ pravvivere una catena di magazzini come All'Onestà con la sua filosofia dichiaratamente proletaria? Ecco il perché di una radicale trasformazione che ha spazzalo via insieme alla preposizione articolata ogni semplicità originaria, ha cancellato ogni traccia del proletariato originale scenden­ do a patti con le assurde esigenze dei neoprnletari. I nuovi negozi Onestà dal logo attualizzato e simile a quello di un improbabile marchio di prestigio, dagli interni bianchi e minimalisti come quelli di uno showroom d'avanguardia, sono il corrispettivo vestitivo del That's amore di Findus. Là il patto era: tu mi dai il tuo consenso (i tuoi soldi) e io ti vendo tutto il pluscool del sushi (che tu non puoi pennet­ terti, perché non ti piace o solo perché a Orgosolo non ci sono sushi bar), ma dentro la scatola c'è del banale mer­ luzzo. Qui il patto è: tu mi dai il tuo consenso (i tuoi soldi) e io ti vendo l'illusione di entrare in uno showroom mini­ mal e quasi vuoto (ma quanto vuoto? non trabocca forse dell'invisibile pneuma del pluscool?), ma dentro la scatola trovi dei banali capi prodotti in serie. Il neoproletario è più che mai disposto ad accettare un simile patto. Ottenere una parvenza di pluscool spendendo 100

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quel poco che il proprio lavoro salariato permette pare la realizzazione di un sogno. E il sogno è: evolversi, progredi­ re. mi glionu·e sempre e solo individualmcnle. E sempre e solo nelle proprie apparenze. El pueblo unido jamas serà vem:ido. La mancanza di 1111ùlad caratterizza il neoproleLa­ riaLo e ne dell'rmina la continua sconfitta. Una sconfitta di cui il neoprolctario non si accorge, perché quello che perde in potere politico, quanto gli si sottrae a livello di affenna­ zione culturale. gli viene ridato sotto forma di pluscool. A cosa serve una rappresentanza parlamentare se in cambio si può aven.' una abbronzatura per tutto l'anno? Per i feroci lottatori indi\'idualisti neoproleLari, ef pueblo 1111ido che avanza inskme wrso il sol dell'awenire non ha più alcun senso di esistere. Ecco perché può essere sosti­ lui to senza problemi da un pueblo bonito che forte della sua eleghanzia. il sole lo vuole subito e con tutta la conve­ nienza di 11 trilacciali al prezzo di 10.

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Arte del popolo

Alla bella età di 38 anni, nel settembre del 2000, mi era venuta voglia di iscrivermi all'Accademia di Brera e di uffi­ cializzare così una vaga condizione di artisticità che senti­ vo dentro. Per entrare nel novero dei futuri artefici, però, avrei dovuto superare un esame di ammissione, composto :la una prova pratico-artistica, una prova di cultura gene­ rale e un colloquio con i docenti. Si è trattato davvero di un'esperienza molto stimolante, un'occasione che mi ha fatto capire molte cose sulle gene­ razioni più giovani. Il giorno della prova di cultura genera­ le, per esempio, ero circondato da diciannovenni appena usciti dal liceo artistico. Due di loro erano sedute dietro di me e, bisbigliando, mi chiedevano smarrite chi fosse mai stato Burri. Ma la cosa che più mi ha colpito era accaduta nei due giorni di prove pratico-artistiche. Eravamo oltre 150 persone sparse per le sale di Brera. Un barbuto professore, veterano dell'Accademia e sicu­ ramente protagonista delle rivolte e delle proteste proleta­ rie di qualche decennio prima, diceva a tutti: «Disegnate quello che volete», ripensando magari alla fantasia al pote­ re, e intanto distribuiva Grandi Fogli Bradensi con la sua firma e un timbro. Tutt'intorno a me c'erano ragazzi con i dread verdi, i visi perforati da cunei metallici, i fori nei lo-

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bi deformati come presso i Masai. Insomma, veniva da pensare a dei veri artisti e mi sentivo un po' a disagio con la mia aria da maturo intellettuale ipnomediatico. Ma pas­ sando tra i loro banchi c'era da restare allibiti: quei cam­ pioni dell'irregolarità tricologica, quei distruttori della sin­ tassi vestitiva stavano invariabilmente tracciando sui Grandi Fogli Bradensr capitelli corinzi, busti di imperatori romani, statue di matrone in peplo, frammenti di fregi el­ lenici e tutta la paccottiglia cui erano stati addomesticati nei cinque anni di liceo artistico. Perfetto, pensavo, ecco un altro colpo riuscito dell'eleghanzia, vista come espres­ sione della asimmetria tra apparenza e sostanza che carat­ terizza gli appartenenti al neoproletariato, anche quelli più giovani. Preso posto in un banco isolato, realizzai quasi di getto alcune opere anticlassiche. Saranno state cinque o sei, ma una in particolare mi è rimasta dentro perché forse descriveva il neoproletariato come nessuna altra verbosa spiegazione avrebbe potuto fare. Mi spiace adesso uccider­ la, fissandola in parole, ma l'originale di quel capolavoro è rimasto negli archivi bradensi e non saprei più riprodurlo. Si trattava di un'opera complessa poiché era un'opera fatta di tre opere, una specie di quadro settecentesco che ri­ traeva autoreferenzialmente una quadreria e diventava co­ sì una tela riempita di tante piccole tele. In previsione di una tecnica mista avevo portato con me i pastelli a cera, i pennarelli e uno di quegli album per l'infanzia, sui quali ci sono prestampate immagini semplici di case, giocattoli, animali, persone, piante e altri elementi del mondo basic che poi i bambini devono colorare. Ho strappato tre fogli, scelti con cura, e li ho incollati sul Grande Foglio Braden­ se. In cima al foglio ho scritto con il pennarello rosso «Grande Concorso Di Disegno Per Bambini», scritto pro­ prio bene, con dei cerchietti al posto dei puntini sulle i e qualche fiorellino dentro la circonferenza delle O e tutte le iniziali delle parole in maiuscolo, proprio come si fa con i 103

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cartelli che poi vengono esposti nelle bacheche aziendali. Aziendali, perché sotto il titolo avevo aggiunto: «Vincitori del Terzo Concorso di Disegno Per I Figli Dei Dipendenti Delle Acciaierie Balck». Nelle intenzioni dell'artista, cioè nelle mie, il cartellone doveva riportare infatti i tre primi piazzati di quell'ipoteti­ co concorso. Eventi del genere, benché tristi, si tengono ovunque vi sia un nucleo che potremmo definire di socia­ lità aziendale, le ho viste pe1·sino nel magico mondo dello spettacolo, alla Rai di Corso Sempione a Milano, appese nel corridoio che porta al bar, dove mi hanno causato una tristezza persistita per più giorni. Quasi come quella foto scattata a una festa per dipen­ denti del Ministero dei Beni Culturali in cui i fortunati figli di quei fortunati illicenziabili assistevano a uno spettacolo di sfortunati barboncini. I barboncini camminavano su due zampe, uno appoggiato alla schiena dell'altro. La sor­ ridente manifestazione era stata organizzata dall'allora Mi1istro dei Beni Culturali, l'indimenticato on. Sisinni, che iveva poi orgogliosamente incluso la foto in quel suo libro autocelebrativo. Non è una digressione, in fondo sia Brera, sia i Beni Cul­ turali sono Arte Istituzionalizzata. E sicuramente anche quella foto aveva contribuito alla mia scelta del tema: il concorso di disegno per figli di dipendenti. Sotto i titoli e sotto le immancabili decorazioni festose a righe ondulate (volevano essere stelle filanti) e a punti (volevano essere co­ riandoli), avevo applicato i tre fogli strappati dall'album, accompagnandoli ai nomi dei piccoli vincitm·i, a quelli dei loro genitori e alla menzione del premio vinto. Ii disegno primo classificato rappresentava una chieset­ ta sulla cima di una collina, troppo arrotondata per soste­ nere qualsiasi fondamenta, un miracolo d'equilibrio. Con i pastelli a cera avevo colorato la chiesetta completamente di nero, oscurandone porte e finestre, rendendola un monoli104

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te. Canonicamente feci verde l'erba del rilievo su cui pog­ giava la pieve e su quello stesso prato aggiunsi, disegnan­ dolo in maniera incerta, un angelo con le ali spezzate, l'au­ reola infranta, un buco nella tunica bianca e una pozza di sangue tutt'intorno. Bambina realizzatrice di quest'opera prima classificata: Maniska Ballarini. Avevo scelto apposta un nome vagamente sovietico, perché i genitori della pic­ cola dovevano essere assolutamente comunisti e anticleri­ cali, benché cli una gradazione appena più pallida di quella dei nonni, anzi diciamolo: erano comunisti e anticlericali ormai solo pe1· eleghanzia e non per intellighenzia, ma era­ no comunque due frntti stupendi del neoproletariato. E la bimba, plagiata dal bolscevismo familiare di cui però non distingueva la fone componente manieristica, aveva fatto quel disegno anticattolico. E la giuria del «Terzo Concm-so di Disegno Per I Figli Dei Dipendenti Delle Acciaierie Balck» ern coincidente con il gruppo di rappresentanti sindacali della CGIL, scelti per­ ché di sicuro più colti e intellettuali dei sindacalisti, ponia­ mo, vicini a posizioni leghiste. Il ricco primo premio che spettava a Man.1ska e ai suoi genitori era una settimana di vacanza a Sha1·m El Sheik. Questo forse basta a far capire come il calendario sia cambiato ormai di quattro cifre in una volta sola! E adesso segna l'ora del neoproletariato! Solo trent'anni prima mete ambite poste a palio di un concorso artistico-side1·urgico potevano essere Selvino o Celle Ligure. Ma alle Acciaierie Balk oggi, pensavo, con i soldi della tassa di iscrizione al concorso si potevano pro­ mettere al vincitore questi sette giorni di balnea1;tà cosmo­ polita all'estero, side by side con smaliziati impiegati del terziario ed esigenti dirigenti della new economy, tutti uni­ ti nella dignità Alpitour, al di là delle insulse distinzioni in classi sociali. Il neoproletariato è uno stato dell'anima, non una con­ dizione socio-economica. Non vedevo d'altronde alcuna in­ congruenza tra questo premio e il comunismo. Gli Inglesi 105

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dicono all'incirca: «Better red (sea) than dead (sea)» e Sharm El Sheik è sul Mar Rosso, mica sul Mar Morto! Il disegno secondo classificato era molto più banale, ma forse era stato premiato perché tutti gli altri disegni erano simili, votati a un disimpegno programmatico e, a essere pignoli, nei suoi aromi volatili si respirava profumo di de­ stra. Per questa parte dell'opera avevo strappato dall'album un disegno che rappresentava un uovo da cui usciva un anatroccolo disegnato malissimo, con ali coi-te, un soniso mostruoso sul becco e un collo infinito, da Madonna del Parmigianino. Il bambino vincitore, Rig Quagliando, chia­ ramente figlio di immigrati campani di seconda generazio­ ne, lo aveva colorato con precisione, senza sbavare, e poi aveva aggiunto tutt'intorno le seguenti scritte: «Hi hi», «Ha ha», «Paperisima». C'erano anche due facce, ai lati dell'a­ natroccolo, solo teste, fluttuanti nell'aria come cherubini in una Madonna con Bambino, per insistere nel parallelo con l'arte colta (ero a Brera, in fondo ... non va dimentica­ to). Una di queste due teste era bionda e recava sotto la scritta «Cucarini» (quasi un cartiglio «Gloria in excel­ sis... »), l'altra aveva i baffi e poggiava sulla dicitura «Col­ lumbro». Qui c'è poco da spiegare: era il solito bambino ignorante, plagiato dalla televisione, che ha cominciato a guardare sin dai tempi amniotici, e che non era scampato al suo destino di neoproletario catodico nemmeno al fonte battesimale dove gli fu imposto il nome di Rig (da leggere con la g pa­ latale, come se fosse stato scritto Ridge), nome di aspira­ zione anglosassone che nello scontro con il cognome Qua­ gliarulo (gravido di bassi napoletani, emigrazione, disadat­ tamento) creava un contrasto che armonizzava in sé anti­ che lotte di classe, ormai quietate nel sonno del neoprole­ tariato. Però dalla dipendenza televisiva non si era salvata nemmeno la giovane sindacalista della CGIL che sotto il di­ segno aveva scritto il nome del secondo premio andato al 106

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fortunato Rig: una maunta baik, scritto proprio come lo avrà sentito pronunciare durante le vendite televisive di finte MBX. Il disegno cui era andato il terzo premio per me avrebbe dovuto ricevere il primo. Ci ho messo un po' a realizzarlo sia perché più complesso degli altri due, sia perché ho pianto di nascosto nell'aula di Brera per quasi 15 minuti, scosso dalla mia stessa invenzione, cercando di non bagna­ re con le lacrime il Grande Foglio Bradense. Dall'album avevo scelto una pagina particolare su cui c'erano due quadratoni suddivisi in nove quadrati più pic­ coli. Nel quadratone di sinistra era disegnata la testa di un orsacchiotto di pezza che il bimbo usufruitore dell'album avrebbe dovuto ritracciare nel quadratone vuoto di destra, copiando il contenuto un quadratino per volta e quindi co­ lorando l'orsacchiotto così ricostruito. Mario Jim Barbisot­ ti era il bambino vincitore del terzo premio. Ricordo però che ero sempre io sia il creatore dell'opera, sia il creatore delle opere dentro l'opera, sia lo sbalordito osservatore di quanto io stesso avevo creato. Mario Jim aveva trasgredito la regola imposta dall'album, ossia la ricostruzione dell'or­ sacchiotto e aveva autonomamente colorato di marrone� nero il peluche di sinistra, mentre nel quadratone di destra aveva disegnato la faccia di un giovane uomo con i capelli cortissimi biondo ossigenati, gli occhi cerchiati, parecchi orecchini ai lobi e la barba non fatta. Sotto il disegno c'era il titolo dell'opera, indicato dall'in­ telligente Mario Jim: «Billy va a trovare papà al posto mio perché io sono a scuola», titolo lungo e complesso, che vo­ leva rimandare a quello di installazioni come «Il coniglio non ama Joseph Beuys» di Vettor Pisani, ammiccante tro­ vata con cui volevo far capire ai miei professori giudicanti che non solo conoscevo il classicismo delle Madonne, ma avevo familiarità anche con le più moderne espressioni concettuali! A questo titolo la giovane sindacalista della 107

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CGIL, nonché minuziosa calligrafa, aveva aggiunto il solo nome della genitrice e il premio vinto: una spleeehndi­ daaah bat-te-ria da cu-ci-naah inacciaioinoxdiciottodieci (si dovrebbe leggere sentendo nella lesta la dizione e i ritmi inarrivabili di Raffaella, la voce classica di «Ok, il prezzo è giusto»). Adesso spiego tutto: Mario Jim Barbisotti (Mario come il nonno defunto, Jim, naturalmente, come il MoITison) era figlio di due tossicodipendenti periferici lombardi. Il padre era in carcere per spaccio, la madre, uscita dal tunnel, la­ vorava alle Acciaierie Balk. Mario Jim veniva portato di ra­ do a vedere il padre, di cui ricordava la bella e modernissi­ ma faccia suddivisa dai riquadri della rete nel parlatorio. Non è impressionante questa rappresentazione di un caso­ limite, ma non infrequente, del neoprolctariato dovuta alla sensibilità del piccolo Mario Jim? La scema trovata di ri­ produrre l'orso usando un reticolato di quadrati era stata potentemente trasformata in una visione doppia e specula­ ·e di quello che c'è sui due lati di una rete in parlatorio... vlentre finivo questa parte dell'opera trattenevo le lac1;me aon tanto per il patetismo della situazione e nemmeno commosso dalla mia stessa forza creativa e concettuale, quanto perché mi veniva in mente un racconto di Anna Maria Ortese, che si chiama «Lo Sgombero», che io trovo struggente, in cui ci sono il proletariato, ci sono figli orfa­ ni, la mancanza di speranza delle periferie e anche le ac­ ciaierie. Però nel racconto erano gli anni Cinquanta, c'era un'altra periferia milanese e un altro proletariato e non il neoproletariato, c'era un'altra luce che veniva dal sole al tramonto e non dalla televisione e c'erano anche le descri­ zioni dei fiori sul davanzale. Per questo piangevo mentre disegnavo, mica per la mamma di Mario Jim che anzi era felice per la nuova batteria di pentole vinta con il disegno. Piangevo perché a me tocca vivere il neoproletariato, le pe­ riferie che non sono più un unico blocco urbano ma una stratificazione estetica e un'arena di lotte tra miserabili, le

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acciaierie ibridate con la finta esclusività di Sharm El Sheik, con i residuati dell'eroina, con i premi da «Ok il prezzo è giusto» e altre cose simili verso le quali non riesco a provare alcuna affettività e per le quali non proverò no­ stalgia nemmeno fra trent'anni, nemmeno se le cose peg­ gioreranno. Ho brillantemente superato il test di ammissione. Con la mia prova di cultura generale ho raggiunto uno dei pun­ teggi più alti. Alla fine però, dopo un colloquio con i do­ centi, ho capito che non avevo nessuna voglia di prendere alcun Diploma d'Artista e non ho perfezionato l'iscrizione.

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What it feels like for Leonardo

Il Cenacolo Vinciano mi è sempre risultato odioso. Ma all'indomani del restauro, dopo il gran coro di consensi isterici, dopo gli svenimenti di Alessandro Baricco sulle prime pagine dei quotidiani, dopo le autocerimonie politi­ co-artistiche, l'antipatia è cresciuta e si è fatta odio viscera1e. Dopo la visita, l'odio è diventato una risoluzione: ditruggere l'opera o, se proprio non mi sia possibile, aggre­ lire chiunque ne parli estasiato, con nell'occhio ancora il «riflesso della luce nei piatti di metallo». Per vedere il Cenacolo ho atteso due settimane. Io non ci volevo andare, mi ero ripromesso che non ci sarei mai an­ dato, ma alla fine ho ceduto perché volevo vedere da vicino non l'affresco, ma i suoi visitatori. Serve cognizione quan­ do l'avanguardia parla alla massa, quando l'intellettuale deve rivolgersi a quel proletariato da cui proviene, quando, infine, l'intellettuale ipnomediatico deve indicare ai neo­ proletari il modo in cui essere pluscool senza cadere nelle trappole del potere, sapendo già che non sarà ascoltato. Il neoproletario della prossima stagione sarà assoluta­ mente uguale a quello della stagione precedente. Nulla cambierà in lui, resterà il solito stupido, l'immutato pateti­ co, l'immortale illuso. Comunque lui ama marchiarsi ogni 11 O

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sei mesi con due coppie di cifre divise da una barra, quasi fosse un anno scolastico o un campionato di calcio, così si sente nuovo e felice e, soprattutto, si distingue dal vecchio proletario che portava sempre la stessa tuta e agli abiti chiedeva resistenza, durala, eternità. L'ingresso è p1·cvisto per le 11.15 di un sabato mattina. Il momento migliore: quando il neoproletario non lavora, prima di clcclicarsi al plusinutile del pomeriggio si offre al­ la cultura. Arrivo alla 11. Il quarto d'ora che mi divide dal­ le 11.15 trascorre in un ambiente di passaggio. Leggo su grandi pannelli le meraviglie del restauro e il panegirico dello sponsor. Poi finalmente una voce metallica da un al­ topadante ci dice che è atTivato il nostro turno. Siamo un piccolo g11.1ppo, pronto ad affrontare questa escursione nel regno dell'eleghanzia più sottile, quella culturale. Al neoproleta1·io basta poco per immaginarsi protagoni­ sta del favoloso universo della moda. Fl"iziona abbondante­ mente il corpo dopo la doccia con un profumo semitaroc­ cato. Lascia cadere nei suoi discorsi reiterati, nei sonno­ lenti attimi di vuoto che vanno tra il piattino delle tredici e la svogliata ripresa del lavoro, Dieci Nomi di Celebri Stili­ sti. I dieci più noti, persino i più banali, ma lui li riscatta in­ filando con disinvoltura anche accenni di avanguardia mo­ daiola giapponese, dai nomi pronunciati male, incrociati con quelli dei piatti adocchiati nei menu del sushi bar. Tra cucire e cucinare in fondo non v'e che una zeppa sillabica. Davanti a noi si aprono due porte di cristallo scuro. Ap­ pena le superiamo, le porte si richiudono alle nostre spalle, ma quelle che abbiamo davanti non si aprono. Siamo in trappola! Restiamo così, a interrogarci sul nostro destino, ma dopo pochi minuti si apre anche la nuova coppia di porte e avanziamo nell'ambiente successivo, un'altra gab­ bia di cristallo simile alla prima. Finora è persino diverten-

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te, sembra quasi un videogame in cui si deve accedere ai vari livelli. All'improvviso tutte le po1·te si aprono insieme e arriva un plotoncino di neoproletari guidato da una ragaz­ za in divisa blu con un paio di occhiali dalle lenti spessissi­ me. La ragazza in divisa blu con un paio di occhiali dalle lenti spessissime (di seguito chiamata la «Ragazza»} spiega con voce più che nasale: «Queste soste tra le porte di cri­ stallo servono quasi come una camera di decompressione per evitare di portare all'interno pulviscolo o altri agenti esterni dannosissimi per l'opera». Mi vengono in mente gli ospedali, dove si può entrare anche con gli stivali infangati quasi fino nelle sale operatorie e dai quali i degenti escono fin sul marciapiede in pigiama per fumare senza che nes­ suno dica nulla, senza camere di decompressione. Mi viene in mente anche un film forse di fantascienza in cui i prota­ gonisti, prima di accedere a una certa area, venivano sotto­ posti nudi a un raggio che li disinfettava, li depilava persi­ no, e una delle scienziate era epilettica. Da Roberto Longhi: l'arte non è una disciplina organiz­ :abile in norme che, come il diritto, variano e vigono in di­ versi Paesi del mondo. L'arte è il prodotto della mente di un singolo e nasce imitando o avversando il prodotto prece­ dente. Si sedimentano così localmente alcune masse di co­ noscenze, alcuni elementi di stile che via via formano quel­ lo che si chiama arte locale, regionale o nazionale. Non è quindi accettabile credere alle teorie romantiche di un'arte «della terra o del sangue». Ciò nonostante, il neoproletario è convinto che basti essere nato in una particolare zona del mondo per avere gusto e dare del tu agli artisti e ai creato­ ri di moda. Di più: crede addirittura che basti visitare un luogo per acquisire automaticamente il gusto. Lo credono i Giapponesi che vengono a fare shopping in Italia. E anche il neoproletario della prossima stagione con l'ansia artisti­ ca crede che basti giungere al cospetto dell'arte per entrare nella sfera della comprensione. 112

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Finalmente si aprono le ultime porte ed entriamo nel­ l'antico refettorio dove possiamo vedere a pochi metri da noi il capolavoro dei capolavori, l'immagine che tante crisi isteriche ha causato nei visitatori più sensibili. Ma non sia­ mo noi a visi lare l'affresco: è l'affresco a concederci udien­ za breve, spolverata e semibuia. Nel 1·efettorio, infatti, qua­ si non c'è luce. Le finestre sono state oscurate. Siamo al centro dell'ambiente, non osiamo muoverci. La Ragazza, evidentemente avvezza a simili visite, inizia a raccontare meccanicamente la storia ciel capolavoro, dello stato tre­ mendo in cui era finito, della porta che vi avevano aperto i soldati f rancesi (incolti!) e dell'allargamento praticato suc­ cessivamente dai frati, «non perché non amassero l'arte», specifica pronta la Ragazza, nasalizzando ancora di più, nell'enfasi, le vocali, «ma per necessità». Spara imbecillità a raffica, luoghi comuni sulla Bellezza con la B maiuscola sull'Arte con l'A maiuscola, sul Genio con la G maiuscola davanti a tutte queste maiuscole i neoproletari si fanno mì nuscoli, tacciono. Bastano un affresco, una Ragazza sac­ cente, la paura di respirare per far di loro dei cultori del­ l'arte. Non credo serva precisare che la Ragazza qui è in rappresentanza del neopadrone, una non meglio precisata autorità civico-artistica che ha creato la regia di questa pantomima pluscool. «Leonardo interpreta il soggetto in chiave assolutamente innovativa,« continua la Ragazza. «Egli rappresenta il momento di maggior tensione dram­ matica». Dice poi che Leonardo dà posa agli Apostoli, li snoda, li rende attivi, partecipi e uno diverso dall'altro. lo penso ai vecchi Playmobil. Poi ripenso a un seguace di Pietro Lorenzetti che, in un affresco di Assisi del 1330 cir­ ca, riprodusse l'Ultima Cena disponendo gli Apostoli nella rigidità gotica che è simile a quella delle foto-tessera. Ma anche il Ghirlandaio, quasi contemporaneamente a Leo­ nardo, si attenne a questo stile nella propria Ultima Cena, uno stile irrigidito, giunto per via sotterranea fino a noi è 113

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riemerso in una istantanea, che non so più chi mi abbia da­ to e che non so che fine abbia fatto, di alcuni sacerdoti de­ gli anni Cinquanta, ripresi a tavola nella fissità imbambo­ lata della digestione di una Cena Qualunque. Dunque è sta­ to Leonardo a inventare i servizi di moda, con le fotografie posate e i modelli in posture snodate, attive, partecipi, di­ verse una dall'altro, come i vecchi Plavmobil. Quelle im­ magini in cui si vede tutto tranne i capi che vengono de­ scritti nelle didascalie; è stato Leonardo il pi-imo a espri­ mere con la posa esterna un rimando a un'idea intellettua­ le? Sarà stato Leonardo l'inventore dell'eleghanzia? Per questo Leonardo piace così tanto ai neoproletari che ora tacciono intorno a me? «Leggete nell'affresco il disegno de­ gli archi a sinistra da cui penetra la luce e che con-isponde alla luce reale, che qui entrava attraverso quei finestroni ora oscurati». La Ragazza ha ragione. Qui è buio, ma sia­ mo ormai dentro da dieci minuti e l'occhio piano piano si sta abituando alla semioscurità, inizia a distinguere i det­ ·agli dell'affresco, il cervello comincia a rendersi conto di !Ssere davanti a un originale, dopo ave,- visto in passato ;entinaia di copie su ca1-toline, libri, partecipazioni di pri­ me comunioni. Il favoloso universo della moda è basato sulla metoni­ mia, quella figura retorica che permette di intendere un tutto indicandone solo una parte. Sono così possibili ap­ propriazioni indebite e si giustificano le pretese più assur­ de. Basta una bottiglia scintillante di profumo che l'uomo della prossima stagione espone in bagno per credere di es­ sere entrati in possesso di qualcosa di più prezioso del sem­ plice liquido odoroso: la rarefazione della vita e l'eleghan­ zia inscenate negli spot di quell'essenza. Tolto il tappo il profumo si volatilizza, lo si inspira brevemente, a occhi chiusi, e si richiude subito il flacone. Bastano pochi secon­ di perché l'essenza diventi esistenza e muti la vita del neo­ proletario della prossima stagione. 114

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Ed ecco all'improvviso che torna la voce metallica dal­ l'altoparlante: « Uscire prego, la visita è terminata». Lo ri­ pete due volte. La Ragazza raduna i neoproletari confusi dalla presenza dell'Arte. Resto allibito, credo di essermi ap­ pisolato e di aver perso mezz'ora di spiegazione, invece no, la visita è davvero terminata, dopo dieci minuti soltanto. La Ragazza ci porta fi.1ori e si ferma davanti a un poster che rappresenta l'Ultima Cena. «Ecco», dice. «Continuerò la spiegazione qui, con questo manifesto». Il neoproletario della prossima stagione sbadiglia spesso davanti a quei capi e a quei nomi che propongono un lavo­ ro creativo e intelligente. Applaude invece a ogni esibizione di scimmie imitatrici, a ogni riproposizione degli stessi ca­ pi da mercatino rionale glm·ificati dall'apposizione di una sigla, a ogni tappezziere borgataro romano salutato come nuovo genio dell'abbigliamento. Persino a ogni imbonitri­ ce esoterica che sfrutta il logo di Lottomatica. Lo fa perché in fondo per lui non è importante la distinzione tra origi­ nale e copia. È importante il marchio. «Scusi», faccio io. «Ma secondo lei abbiamo pagato, pre­ so appuntamento e atteso per giorni, subìto le camere di decompressione per vedere un poster?». Devo intervenire. In fondo l'intellettuale ipnomediatico ha sporadicamente dei risvegli fortemente critici nei confronti del neopotere. La Ragazza a questo punto ispira profondamente e poi esplode: «Ma lei cosa vuole? Non fa mica parte della comi­ tiva che guido. Lei ascoltando le mie spiegazioni ha già usufruito di un servizio per cui non ha pagato...» Dice qual­ cos'altro, ma non si capisce più: la nasalizzazione ora è to­ tale, sembra la Vanoni con il raffreddore mentre parla nel sonno. Povera la Ragazza. Visita dopo visita aveva messo a punto un bellissimo discorsetto perfettamente equilibrato tra arte e storia, emozione e bellezza, intellighenzia ed ele115

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ghanzia. Non erano mancati gli accenni ai Vangeli, né una spolverata di date precise. Una domanda improvvisa come la mia le ha mandato in frantumi il già debole quadro men­ tale. Per di più anche un'altra visitatrice, una pensionata in gita turistica, fa notare con timidezza che sì, in effetti la vi­ sita era durata pochino... La Ragazza ce1·ca un appiglio: «Non si può stare troppo dentro... non possono restare troppe persone insieme nel Refettoi-io, alti-imenti l'umidità dei corpi può influire e rovinare l'affresco... » Penso ai frati che lì dentro mangiavano e forse non a caso il soggetto scelto era un'ultima cena per un luogo in cui di cene se ne consumavano quotidianamente. Un refettorio pieno di fra­ ti che emanavano umidità dai corpi e pulviscolo dai sai, mentre mangiavano zuppe i cui vapori aromatici salivano verso l'affresco. Ma ora non si può restare dentro per più di dieci minuti, altrimenti l'umidità che rilasciamo farà scro­ stare improvvisamente il capolavoro dei capolavo1·i dinan­ zi ai nostri stessi occhi. Dopo un restauro così lungo e ap­ ,ena terminato. È un po' come quando si to1-na a casa e la namma o la moglie gridano preventive: «Attento, non .porcare ... ho appena dato la cera». Magari tra un po', quando l'effetto-specchio della cera Splendofloor si sarà opacizzato, potremo restare davanti all'Ultima Cena tutto il tempo che vorremo. Adesso no. La restauratrice ha appe­ na dato la cera. Gli abiti, le collezioni, devono durare il meno possibile. Non si può farle durare per più di sei mesi. Anche se poi gli abiti, in fondo, restano sempre gli stessi, quasi senza pro­ gresso. In una sola cosa progredirà il neoproletario della prossima stagione: compirà grandi passi nella cancellazio­ ne dell'armonia che dovrebbe fungere da base della moda come di ogni altra forma di bellezza. Perdendo l'armonia, la moda diventa indegna. A precipizio la moda cade nel pressappochismo e nella copia e vede crescere la sua asim­ metria tra il troppo e il nulla.

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Il neoproletario è felice di questo teatrino di prenotazio­ ni, visite cronometrate, porle di cristallo, ragazze svenevo­ li, frati muratori che però amavano l'arte, restauri miraco­ losi. Davanti a tutto ciò egli si mette in posa snodata e par­ tecipe. Lopera leonardesca in sé non ha alcun valore agli occhi del visitatore. È la sovrastruttura di esclusività e pre­ ziosità, è l'eleghanzia che giustifica il costo del biglietto. È l'asimmet ria tra l'eccesso di elementi scenografici e la mancanza di un genuino interesse per l'arte. Tutte queste cose però le penso soltanto e non riesco a dirle alla Ragaz­ za che continua a girare a vuoto nella sua giustificazione fatta di permanenza limitata e livelli di umidità, di piccoli gruppi che si avvicendano su turni brevissimi per non di­ sturbare l'opera. Vorrei prendere carta e penna e fare due semplici conti di fronte a questa paladina vinciana per far capire anche agli altri neoproletari la presa in giro di cui sono vittime. È questo il ruolo dell'avanguardia intellettua­ le: far capire perché altri, capendo, agiscano. V01Tei dirle: nel refettorio che contiene l'Ultima Cena en­ trano 15 pe1·sone che emettono per 15 minuti una quantità detta x di umidità che va a intaccare l'affresco. Subito do­ po questo gruppo di 15 persone ne entra un altro di 15 in­ dividui che emettono per 15 minuti una pari quantità detta x di umidità che va a intaccare l'affresco. In mezz'ora, 30 persone divise in due gruppi da 15 emettono quindi una quantità pari a x*2 di umidità. Se invece di restare di fron­ te all'opera per 15 minuti le persone del primo gruppo l'a­ vessero fatto per 30 minuti, la quantità di pericolosissima umidità da loro emessa sarebbe stata comunque di x*2. In che modo l'affresco risulta meno danneggiato se la quan­ tità x*2 è emessa da due gruppi invece che da uno solo? In nessun modo. Ma togliendo questa norma del tempo ridot­ to la visita perderebbe quella patina di esclusività che inve­ ce ricercano i neoproletari affamati di eleghanzia. Non posso dare il mio consenso a questo Circo della Sensibilità 117

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Artistica, faccio quello che Gramsci non avrebbe mai per­ donato a un intellettuale: lascio nell'ignoranza della pro­ pria condizione la Ragazza, i neoproletari, la pensionata che stava dalla mia parte, il poster e abbandono la lotta. Sono fuori dal refettorio di Santa Maria delle Grazie e in­ crocio il neoproletario della prossima stagione. Sta entran­ do istruito dai giornali, sa già quali precisi punti dell'Ulti­ ma Cena dovrà fissare per destare meglio la prop1·ia com­ mozione. Nella testa ha ancora l'esagitato sproloquio bar­ ricchiano (troppo) che rimbalza solitario in un animo di­ giuno da sempre di cose artistiche (nulla). Indossa una striminzita maglietta della prossima stagione (nulla) che a stento trattiene i muscoli (troppo) gonfiati in ore di workout. Indossa ciabatte in gomma da pescatore di Ponza (nulla) pagate quanto il pescato notturno di due paranze (troppo). Definisce operazione culturale la sua visita (trop­ oo), ma alla fine gli resterà solo il (nulla). E ignora che iuello stesso pittore di cui lui, con le lacrime agli occhi, sta Jer ammirare la capacità nel rendere la lucentezza delle stoviglie, disse una volta che la bellezza nasceva dall'armo­ nia tra le parti. E non si è limitato a dirlo, ma lo ha anche illustrato, disegnando un uomo con quattro braccia e quat­ tro gambe, inscritto in una specie di ruota per c1;ceti, sim­ bolo di una armonia tra le parti, ma forse anche tra inten­ zione e realizzazione, tra capacità presunte e reali, tra pan­ tomime governative e impegno reale verso l'arte che il neo­ proletario della prossima stagione non sarà mai in grado di capire, ma cercherà affannosamente di realizzare trascu­ rando ogni volta l'equilibrio. Mi piacerebbe tornare a Santa Maria delle Grazie questa notte. Prima passerei a prendere la pensionata che stava dalla mia parte (l'unica che mi aveva offerto il consenso). la farei salire in auto, le allaccerei la cintura di sicurezza e partiremmo con la Seicento e l'autoradio a volume eccessi118

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vo che emette una musica fatta solo di colpi potentissimi di batteria. Per prima cosa colpiremmo su una fiancata un'auto fer­ ma al semaforo con dentro quattro neoproletari profuma­ tissimi che stanno andando all'Hollywood e intanto discu­ tono della loro visita mattutina al Cenacolo. Poi passeremmo, devastandolo, in un campo di calcetto dove, a bordo campo, le fidanzate neoproletarie di appe­ santiti neoproletari che si affannano dietro il pallone stan­ no discutendo della loro visita mattutina al Cenacolo. Poi spruzzeremmo acqua da una pistola giocattolo in faccia a due door selector dell'Atlantique che mangiano pa­ nini con porchetta e peperoni presso un baracchino e tra un boccone e l'altro discutono della loro visita mattutina al Cenacolo. Infine aITiveremmo fino dove è possibile davanti a Santa Maria delle Grazie. Là frenerei di colpo, tornerei indietro, frenerei di colpo, mi riavvicinerei, frenerei di colpo, torne­ rei indietro, frenerei di colpo, mi riavvicinarei. Farei sì che le vibrazioni notturne prodotte dalla mia utilitaria e dalle onde sono1-e della musica inesorabile si unissero a quelli diurne dei tram e delle altre auto, a quelle degli agenti eso geni, dell'umidità scaturita dai corpi dei visitatori. Sbatte­ rei ripetutamente con l'auto contro la cancellata, sisteman­ do alla pensionata gli occhiali scivolati dal naso, per pro­ durre una sola crepa anche infinitesimale nell'affresco, per scrostare anche una minima frazione di pigmento. Da quella crepa poi altre ne potrebbero nascere e alla fine l'af­ fresco crollerà. Spero solo che il crollo definitivo avvenga in presenza della Ragazza e vorrei essere lì solo per sentir­ la andare avanti imperterrita con la sua lagna, che non si an-esterà nemmeno tra i colpi di tosse causati dalla polvere e dai calcinacci che le sono entrati in gola.

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Ora della fine

l'.atteggiamento asimmetrico del neoproletario non ces­ sa nemmeno di fronte alla morte, evento per il quale il neo­ proletario pare disposto a qualunque spesa pur di avere la sua ultima, estrema autogratificazione. Che stupore nasce nell'intellettuale minimalista quando si rende conto che l'e­ leghanzia ha raggiunto anche l'ultima frontiera, e dicendo ultima si intende davvero l'ultima. C'è questa pubblicazione settoriale francese, un trime­ .trale in formato tabloid, che si chiama «FunéRevue» ed è dedicata agli operatori delle pompe funebri. In prima pagi­ na compare una grande foto di una signora, nota indu­ striale del ramo. La foto è un ritratto a mezzo busto, molto sobrio. Una cover story sviluppata all'interno della rivista con un articolo essenziale e tecnico. C'è questa pubblicazione settoriale italiana, un trime­ strale formato tabloid, che si chiama «Tecnica - Periodico degli operatori del settore delle estreme onoranze». In pri­ ma pagina compare una grande foto di una Signora, nota industriale del ramo. La foto ritrae la Signora a figura inte­ ra. La Signora indossa un tailleur rosso dalla gonna molto corta e siede scosciata su uno dei cofani più preziosi tra 120

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quelli da lei prodotti, decorata da rami e foglie trasportate dal vento, fine metafora della nostra fragile condizione di viventi. La Signora mette bene in vista le gambe e le scarpe rosse con il tacco, di certo non comperate a una liquida­ zione. Con la mano sinistra la Signora si appoggia al co­ perchio del cofano in mogano sapelli e rovere americano intarsiato. Con la destra regge un album in pelle, come quello in cui di sicuro conserverà le foto del suo matrimo­ nio. Ma in questo ogni pagina è dedicata a una diversa cas­ sa, tutte però estremamente eleganti. E, si spiega in dida­ scalia, le casse sono visibili nello show room dell'azienda. Uno show 1·oom di casse da morto dove provare, curiosare, toccare con mano. Senza fretta, tranquilli, distesi. All'interno della pubblicazione la Signora è protagonista di una serie di articoli che sembrano tratti da «Harper's Ba­ zaar». Al neoproleta1·io che vuole morire com'è vissuto, os­ sia all'insegna della più sfrenata eleghanzia, la Signora of­ fre coccarde da portone che si abbinano nel colore a quel­ lo dei teli che addobbano la camera ardente. Le tinte di­ sponibili sono verde acqua, beige rosato, beige, grigio ar­ gento e g1·igio azzm-ro. La Signora ha fatto fotografare del­ le raffinate camere ardenti, allestite con undici teli in vellu­ to lavorato a mano, più due teli chiari, tecnicamente chia­ mati teli-luce, che sono retroilluminati da apposite lampa­ de. La Signora ha fatto scrivere che i suoi prodotti sono pensati per un pubblico particolarmente esigente. Deve es­ sere lo stesso pubblico di neoproletari che da vivi frequen­ tavano i ristoranti giapponesi, conoscevano gli show room di ignoti stilisti nipponici, superavano la rigida selezione per entrare nei locali in cui ci si doveva vestire bene, si nu­ trivano delle peggiori schifezze per sedersi al volante di . una Audi Avant, soffrivano la fatica necessaria a scolpirsi un sudato corpo da body builder con il quale andare a sco­ reggiare nel salotto del Grande Fratello. E, una volta con-· sunta questa carcassa di materia cerebrale, cartilagini, os121

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sa, sangue, la fa ranno volentieri riporre in uno dei preziosi cofani della Signora. E importante che il cofano sia elegan­ te. Se u n giorno il neoproletario dovesse morire in modo spettacolare (a scelta: attentato.caduta del charter in an-i­ vo da Santo Domingo, guen-a, omicidi di mafia, 'ndranghe­ ta. camorra...), dopo la funzione, all'uscita della chiesa, non ci si potrà presentarc in una cassa squalliduccia al «lungo e commosso applauso dei cittadini venuti a rendere omaggio alla salma ora che la rabbia del giorno dopo ha preso il posto del dolore». Un tale funeralc scenografico merita una cassa adeguata. La «Foglie nel vento», per esempio. O la «Cantico delle Creature», cassa in essenze preziose, alquanto antifrancescana per la verità, decorata con uccelli. piante e note musicali. Sì, note musicali. per­ ché evidentemente il «Cantico delle Creature» è stato solo un titolo orecchiato e «deve essere una spccie d i canto dc-

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gli animali. una melodia di usignuoli. Decoriamo la cassa con questi uccelletti che emettono delle note, come fanno nei fumetti». L'l Signora è una nt!opadrona. I peggiori tra i nostri neo­ padroni sono �li stilisti. sopratutto quelli di serie dalla C in giù. E la Signora pur facendo di professione la cassamorta­ ra aspira a essere una stilista. La Signora trova il consenso dei neoproletari, quello che non viene accordato agli intel­ lclluali ipnomediatici quando cercano di assumere un ruo­ lo anche blandamente critico. Perché non c'è nulla che col­ pisca l'immaginario popolare più dell'eleganza ed è per questo motivo che tra i neoproletad l'eleghanzia ha preso il posto ddl'intellighenzia. Anche nell'ora della fine il neo­ proletalio aspirerà al pluscool. E la Signora, con la sua raf­ finata «personalità iITuente e romantica» è pronta a fornir­ glielo. Pluscool. Più che cool. Freddo. Rigido. Cadaverico.

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INDICE

Neoproletariato

La sconfitta del Popolo e il ttionfo dell'Eleghanzia D&Grado 07:00 am Hunko no yama 1.0 La ricerca del Tesoro Iperoccidente

fff

Tre poemetti neocrepuscolari Zeta SS VS SS

Hunko no yama 2.0 Mondo di notte n.100 Vier letzte Liedl (Ultimi quattro Liedl) Arte del popolo What it feels for Leonardo? Ora della fine

5 14 21 27 36 41 46 68 71 76 81 92 102 110 120

Finito di stampare nel mese di giugno 2002 daTipografia Città Nuova Via San Romano in Garfagnana,23 00148 Roma per conto di Cooper srl

•lil!I' lila n · im,e