Lo specchio vuoto. Fotografia, identità e memoria [3 ed.] 8858130197, 9788858130193

Niente è più astratto e sfuggente della nostra identità e nello stesso tempo niente è più esposto al giudizio altrui, è

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Lo specchio vuoto. Fotografia, identità e memoria [3 ed.]
 8858130197, 9788858130193

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Economica Laterza 834

I Libri del Festival della Mente serie diretta da Benedetta Marietti

Ferdinando Scianna

Lo specchio vuoto Fotografia, identità e memoria

Editori Laterza

© 2014, Fondazione Eventi e Iniziative Sociali s.r.l. Società strumentale di Fondazione Carispezia Published by arrangement with Marco Vigevani & Associati Agenzia Letteraria Edizioni precedenti: «Saggi Tascabili Laterza» 2014 Nella «Economica Laterza» Prima edizione novembre 2017

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Anno 2017 2018 2019 2020 2021 2022

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-3019-3

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

PREMESSA

Appena proponi a qualcuno di fargli un ritratto, quasi tutti mettono subito le mani avanti con una civetteria che mal nasconde una certa angoscia: “guardi che io vengo malissimo in fotografia. Non c’è niente da fare, proprio non sono fotogenico. Spero che lei faccia il miracolo, magari se mi coglie di sorpresa, ma mi pare molto difficile. Finora non è mai successo!”. Mai uno che affermi spavaldo che in fotografia viene una meraviglia. Una volta erano soprattutto le signore, ma oggi si può dire che, almeno in questo campo, gli “uomini hanno raggiunto la parità”. La “sindrome” è documentata praticamente fin dalla nascita della fotografia. “Il difficile sta nel rendere il sorriso”, registrava Flaubert alla voce dagherrotipo del suo Dictionnaire des idées reçues. Fotogenici, naturalmente, sono sempre gli altri. V

Lo schermirsi non si limita ad essere preventivo e non riguarda soltanto i professionisti del ritratto. Anche in famiglia vediamo nonne, zie, cugine, fuggire come conigli all’apparire di una macchina fotografica. La faccenda, poi, si complica nel momento in cui le fotografie vengono mostrate. Facce disgustate e risentite precedono l’inevitabile: “mio dio, sono venuta uno schifo!”. O il più frequente e rancoroso: “mi hai fatto venire uno schifo!”, che può arrivare al teatrale, inquietante strappo in mille pezzettini dell’incriminato ritratto. Di ritorno da Rovereto, dove ero andato per visitare una mostra di Antonello da Messina e dove ho potuto ammirare, oltre ai suoi dipinti più conosciuti, familiari e amati, anche dipinti dislocati tra Filadelfia, Washington e la Romania, sul treno in cui viaggiavo c’erano quattro donne di varia età che ritornavano da una gita. La loro conversazione, inframmezzata da molte risate, si esauriva tutta in gridolini di allegro orrore, nel reciproco mostrarsi, sui telefonini e sul display di una piccola macchina digitale, le fotografie che le une avevano fatto alle altre. Gridolini altrettanto allegramente contestati dalle autrici di quei ritratti, che invece li ritenevano riuscitissimi. E magari fosse finita lì. Con anaVI

logo fervore continuavano vicendevolmente a fotografarsi, nella speranza di contentare al contempo e l’amica soggetto del ritratto e sé stesse autrici del medesimo. Era uno spettacolo divertente e istruttivo sull’universale inflazione di senso in cui l’oggetto della comunicazione era la comunicazione stessa, progressivamente destituita di ogni valore di reale comunicazione. Non ho potuto fare a meno di chiedermi se anche Antonello da Messina, ritrattista sommo, abbia avuto a che fare ai suoi tempi con problemi simili, complicati dal fatto che i suoi committenti erano signori assai potenti... Io, non sommo pittore ma modesto fotografo, ho avuto spesso a che farci. È da molto tempo che non rispondo più con sprezzante sarcasmo a manifestazioni di questo tipo, una vera e propria nevrosi che qualche volta può assumere tonalità anche molto dolorose. Forse perché la lunga esperienza professionale e l’inevitabile riflessione che ha accompagnato la mia pratica di fotografo mi hanno fatto capire meglio l’origine di quelle inquietudini e di quelle paure e hanno addolcito le mie reazioni. Spesso mi imbarco in lunghe, rassicuranti e didattiche argomentazioni nel tentativo di spieVII

gare l’origine di questi comportamenti che, sia pure in forma solitamente più leggera e meno dolente, in un modo o nell’altro tutti manifestiamo di fronte a un nostro ritratto e a una pratica culturale un po’ magica che ci interroga, come poche altre, sulla nostra stessa identità. Sono le medesime caotiche e frammentarie argomentazioni che troverete in queste pagine e che negli anni ho espresso in conferenze, conversazioni e in libri, nei quali vado mettendo insieme le mie esperienze e le mie riflessioni sui rapporti tra fotografia, corpo, identità, memoria per cercare di dipanare il senso di quello che da oltre mezzo secolo è il mio mestiere. Ovviamente, io non sono né un filosofo né uno psicologo o un sociologo, e ancor meno uno di quegli amici neuroscienziati che mi hanno esposto ipotesi affascinanti e persino dato qualche inizio di risposta ad alcune delle molte domande che tutti continuiamo a porci sul nostro delicato rapporto con l’immagine, e in modo particolare con l’immagine di noi stessi. Sono soltanto un fotografo che condivide con voi le sue divagazioni.

LO SPECCHIO VUOTO Fotografia, identità e memoria

1 L’ETERNA GUERRA CON LO SPECCHIO

Dire corpo e dire fotografia è quasi un pleonasmo. La fotografia di questo si occupa, del visibile, dei corpi animati e inanimati, e ne ricava immagini. Ma qui ci riferiamo soprattutto a quella pratica della fotografia – il ritratto – che fin dai suoi inizi ha avuto successo strabiliante, forse perché risponde a un’esigenza umana ben precedente all’avvento della fotografia stessa. Esigenza che più di ogni altra ha a che fare, attraverso la rappresentazione del nostro corpo e del nostro volto, con la nostra identità: che è, come dire, con la nostra coscienza. Il forte legame tra l’immagine e la nostra identità è faccenda antichissima, direi che accompagna da sempre la vicenda della specie umana, ne rappresenta una caratteristica essenziale. Come forse testimoniano le impronte delle mani lasciate dai nostri progenitori sulle pareti delle caverne. Noi parliamo di immagine, e oggi sappiamo 3

(o crediamo di sapere) di che cosa parliamo. Ma non deve essere stato così immediato per i nostri antenati riuscire a capire che oltre agli oggetti del mondo che ci circondano, animati e inanimati, altri ce ne possono essere (ce ne sono): misteriosi, fantasmi del mondo che ci ingannano con la loro falsa realtà, illusioni di realtà: le immagini. Ma ancora più difficile deve essere stato comprendere questa falsa verità, questa relazione menzognera tra le cose del mondo e le loro immagini, quando la menzogna riguardava addirittura la nostra stessa immagine, il nostro corpo, il nostro volto, strutture fondamentali della nostra come dell’altrui identità. Si è trattato di una lunghissima e complessa elaborazione della nostra coscienza, sfociata in una vera e propria scoperta. Così lunga e difficile l’elaborazione e così determinante la scoperta da aver prodotto un mito importante della cultura occidentale: il mito di Narciso. Che cosa racconta questo mito, tanto per tenersi a Ovidio? Racconta di un giovinetto, bellissimo, che guarda nell’acqua di una fonte, e in quell’acqua vede l’immagine di un altro giovinetto, talmente bello che se ne innamora. In quella immagine Narciso non riconosce sé stesso. Vede un altro. 4

Da quell’abbaglio, da quella incapacità, sono nati un sacco di guai. Nel tentativo di raggiungere l’altro, che non riconosce come sé stesso, Narciso annega in quell’acqua che non sa essere specchio, e muore. E va bene che si trasforma nel bel fiore che porta il suo nome, ma, insomma, ci lascia la pelle. Non molti anni fa, durante una conversazione con Simona Morini sui rapporti tra fotografia e scienze cognitive, mi colpì moltissimo sapere che ci sono appassionanti studi di psicologia dell’infanzia che provano come ancora oggi ogni essere umano durante la prima infanzia ripercorra in un certo senso la complessa avventura simbolizzata dal mito di Narciso. Molto istruttivi in proposito sono alcuni filmati prodotti da una équipe di ricercatori francesi diretti da René Zazzo, che tra i molti esperimenti mostrano dei bambini mentre giocano davanti a una superficie specchiante, che è di fatto un falso specchio da dietro il quale il bambino viene filmato. Dopo un po’ il bambino scopre la propria immagine nello specchio. E la sua reazione è assolutamente identica a quella del Narciso del mito. La prima cosa che il bambino vuole fare con questo altro da sé che vede nello specchio è giocare. Tenta di raggiungere fisicamente 5

l’altro bambino, si avvicina, cerca inutilmente di toccarlo, poi, deluso, torna indietro e fa finta di niente, lo ignora. O meglio, finge di ignorarlo. Lo guarda di sottecchi. Quello non vuole giocare, e allora anche lui finge disinteresse. Sono necessarie molte e complesse evoluzioni del proprio rapporto con il mondo circostante perché, passo dopo passo, lentamente, si producano le difficili trasformazioni della coscienza che ci consentono di elaborare il concetto stesso di immagine. E infatti soltanto dopo che il bambino ha elaborato questo difficilissimo concetto, si passa all’altro, assai più complesso esperimento. Gli si impiastriccia il naso con un colore vivo. Quando il bambino scopre che anche l’altro bambino – quello dello specchio – ha il nasino sporco, si avvicina nuovamente per suscitare una relazione con lui, e visto che ha il nasino sporco prova a cancellargli la macchia. Il nostro bambino, dunque, continua a vedere il personaggio dello specchio come altro da sé anche quando capisce che non si tratta di un’altra persona, dal momento che quando lo tocca incontra una superficie liscia e fredda, qualcosa di diverso da un bambino vero, qualcosa che lui sta cominciando probabilmente a costruire 6

come quell’oggetto misteriosissimo che è l’immagine: una cosa che sembra, ma non è. Ci vorrà ancora molto tempo e molto lavoro della coscienza prima che il nostro bambino, vedendo di fronte a sé l’altro bambino con il naso impiastricciato, non vada più allo specchio per cancellare la macchia di colore ma porti la mano sul proprio viso per cancellarla. E la macchia miracolosamente scomparirà anche dal naso dell’altro bambino, quello che non si può toccare e che non vuole giocare. Il nostro bambino ha finalmente, e incredibilmente, capito che ha di fronte non un altro bambino ma sé stesso, un’immagine di sé stesso che lo rappresenta, lo replica. Una scoperta sconvolgente, che avviene non prima dei diciotto mesi. Lacan parla di “fase dello specchio” già a sette/otto mesi, ma gli scienziati che hanno studiato sperimentalmente il fenomeno lo collocano molto più avanti. Una scoperta che soltanto gli umani e alcune scimmie particolarmente evolute sono in grado di fare. Il cucciolo di uomo scopre che non solo gli altri vedono lui dall’esterno, ma che esiste un marchingegno che gli consente di vedersi dall’esterno. E forse arriva alla conclusione che anche quelli che lo guardano lo vedono come 7

immagine. Insomma, che gli altri e noi stessi abbiamo un “dentro” (la coscienza), con cui sperimentiamo e apprendiamo non solo la visibilità, ma l’esistenza stessa del mondo. È una scoperta che possiamo definire tranquillamente l’atto di nascita della coscienza umana. Ma da questa scoperta nascono molti problemi... Narciso ci si buttò a corpo morto su quel bellissimo giovane, e ne morì. Ma il bambino che scopre che l’immagine di sé stesso è un qualcosa che è la cosa ma non è la cosa e poi attraverso questa immagine scopre sé stesso, comincia probabilmente sin da subito a porsi il problema di comunicare con gli altri attraverso questa immagine. Tanto più che sente dirsi frasi come “pulisciti che sei sporco”, “vieni che ti pettino, così sei brutto”, “adesso mettiamo il vestitino bello”. Scopre, insomma, che usando il corpo possiamo costruire l’immagine di noi stessi che offriamo al mondo. Sono trascorsi migliaia di anni dalle disavventure del bellissimo pastorello. Gli uomini hanno inventato tecnologie sempre più sofisticate per produrre superfici specchianti sulle quali osservare la propria immagine. Non sempre quello che vediamo ci fa innamorare, 8

salvo gli eterni narcisi. Tuttavia lo specchio ci permette di modificare la nostra immagine, per cercare di offrire agli altri quella che preferiamo, quella che vorremmo che gli altri vedessero come la verità di noi stessi, la nostra stessa identità. E spesso non solo gli altri. Questa immagine di noi stessi, nello stesso tempo concreta e immaginaria, continuiamo a costruirla ininterrottamente per tutta la vita, anche a nostro beneficio e rassicurazione. Dal mito di Ovidio siamo arrivati a Freud, che col termine “narcisismo” ha definito una patologia della coscienza: non più ignoranza di sé, ma ipertrofia della vanitosa coscienza di sé. Uomini particolarmente abili hanno sviluppato nel tempo la capacità di riprodurre su pietra, legno, tela, carta, e mille altri supporti, le sembianze umane in immagini. E sono stati soprattutto i potenti a commissionare il proprio ritratto, per offrire al mondo un segno della loro superiorità e della loro potenza, coltivando l’illusione che il potere delle immagini potesse assicurare loro la sopravvivenza nel tempo. Leonardo da Vinci scrisse che è con lo specchio che il buon pittore deve misurarsi, è dallo specchio che deve imparare per arrivare a 9

rappresentare con esattezza il mondo. Ma per quanto abilissimi, sono pochi i pittori in grado di competere con lo specchio nel restituire con assoluta esattezza l’aspetto della realtà dei volti e delle cose. Questi artisti, tuttavia, si rivelano capaci non solo di riprodurre con fedeltà le sembianze degli uomini e delle donne, ma abili anche nel mentire su ciò che questi uomini e donne vogliono offrire di sé al mondo. Del resto, anche di fronte a uno specchio, nessuno sa mentire meglio di chi si guarda. Oggetto di abissale mistero filosofico è lo specchio, come, tra gli altri, ci ha insegnato meravigliosamente Borges. E insopportabilmente labili, effimere sono le immagini che esso ci rimanda. Lo specchio ci pone metafisici interrogativi che molto hanno a che fare con le domande fondamentali della filosofia occidentale sull’essere e il non essere. Il pensiero filosofico ha tentato innumerevoli risposte a queste domande. Oggi le risposte forse più interessanti cominciano a balbettarle le scienze cognitive e neurobiologiche. Le neuroscienze non solo hanno modificato in maniera spesso sorprendente le idee che avevamo sui meccanismi delle nostre perce10

zioni, soprattutto quelle legate alla visione, ma stanno confermando in modo spettacolare che i processi cerebrali che hanno a che fare con le immagini sono determinanti per lo sviluppo della coscienza e dell’identità stessa. Insomma, siamo uomini anche perché produciamo immagini, e produciamo e consumiamo immagini perché siamo uomini, per costruirci come individui dotati di coscienza.

2 SCRITTURA DI LUCE O SCRITTURA CON LA LUCE?

L’“invenzione” della fotografia, realizzata nella prima metà dell’Ottocento quasi in contemporanea da alcune geniali personalità europee, rappresenta un’autentica rivoluzione nella cultura occidentale dell’immagine. E non solo dell’immagine. Prima di allora, la produzione di immagini era delegata a uomini dotati del dono di utilizzare al meglio, arricchendoli, i vari linguaggi per rappresentare il mondo. Dalle grotte di Altamira, sulle cui pareti i nostri antenati incisero graffiti, a Picasso, tutte le immagini che gli uomini hanno prodotto – e Dio sa quante ne hanno prodotte e per le più svariate ragioni – erano realizzate attraverso l’esperienza, il talento, qualche volta il genio degli uomini. E questo non vale solo per la pittura o la scultura, si parla di immagini anche per la letteratura, per la poesia e persino per la musica. 12

Il fatto di aver cominciato a produrre queste cose apparentemente inutili, le immagini, che non avevano a che fare con le funzioni biologiche primarie quali mangiare, accoppiarsi, ritardare il più possibile il momento della morte, eccetera, è stato determinante per la nostra sopravvivenza e prevalenza rispetto ad altre specie, anche umane. A prevalere è stato Homo sapiens. Con la fotografia, per la prima volta gli uomini possono produrre immagini non più realizzate dalla mano, ma direttamente “prelevate” dalla realtà, mediante un processo tecnico ottico-meccanico-chimico (oggi, elettronico). Ha scritto Alberto Savinio: “Quando la fotografia fu inventata, sembrò che il mondo da un alto sonno si levasse. L’invenzione della fotografia segna un punto di trasformazione nella storia dell’umanità, supera per certi riguardi la conquista di Costantinopoli, la scoperta dell’America, altre ‘chiavi’ di volta della storia. Se fatti di eguale momento si vogliono contrapporre a questa invenzione fatale, bisogna compulsare addirittura la storia del pensiero, cercare nell’archivio degli avvenimenti che hanno mutata non la faccia ma la psiche del mondo, citare il passaggio dalla Scolastica ai princìpi di filosofia nuova per opera di Sir Francis Bacon, 13

risalire, meglio ancora, a Socrate e alla scoperta della coscienza”. Che cosa è successo, come è successo, perché è successo? È successo che nella prima metà dell’Ottocento, in epoca positivista, cominciò ad affermarsi l’esigenza di una spiegazione scientifica del mondo, di misurarlo il mondo, insomma di costruirne un’idea non immaginaria, verificabile e quanto più possibile corrispondente alla realtà. In questo contesto, divenne fondamentale la ricerca di strumenti nuovi per una grande diffusione delle immagini che si producevano. “Gli uomini scoprono quello di cui hanno bisogno”, avrebbe detto Alberto Savinio. In quel momento storico serviva la fotografia e gli uomini la inventarono. In realtà, la parola invenzione è un po’ discutibile riferita alla fotografia perché in fondo la camera oscura esisteva già, i pittori la usavano da secoli: prima una stanza con un buco nella parete, poi un marchingegno con una lente che veniva già utilizzata per trasformare la realtà in immagine capovolgendola su una superficie. E si sapeva anche che esistevano in 14

natura materiali sensibili alla luce, che si annerivano quando la luce li colpiva. Nicéphore Niépce, considerato il primo inventore, cercava il cliché, uno strumento per stampare le immagini in tipografia, che poi sfociò nel dagherrotipo, dettagliatissima immagine unica su metallo. Dunque, le conoscenze basiche esistevano già. Quello che invece non si sapeva bene era come interrompere il processo di annerimento delle immagini convogliate attraverso un foro stenopeico (in seguito incrementato da un obiettivo) su una parete, e poi su una superficie sensibile alla luce. In definitiva, forse la vera novità consistette nell’uso dell’iposolfito di sodio, suggerito a Fox Talbot da Sir John Herschel, che propose anche di chiamare fotografia questa invenzione, questa nuova tecnologia – diciamo così – in grado di produrre delle immagini attraverso un’intermediazione ottico-meccanico-chimica, una macchina fotografica e un materiale sensibile. Si trattò letteralmente di una rivoluzione copernicana, quella che ci ha fatto scoprire che non è il Sole a girare intorno alla Terra, ma la Terra a girare intorno al Sole. Ribaltamento complicato da digerire, e len15

to, tanto è vero che a distanza di secoli continuiamo a dire: il Sole sorge, il Sole tramonta. Il linguaggio testimonia il radicamento di certe idee attraverso le quali abbiamo concepito e concepiamo il mondo. Idee religiose, filosofiche, scientifiche, molto difficili da cambiare. Con la fotografia, per la prima volta nella vicenda culturale dell’umanità – vicenda breve se misurata sui tempi lunghi dell’evoluzione, ma piuttosto estesa in rapporto alla durata dei nostri cicli culturali, della storia e soprattutto delle nostre vite –, muta radicalmente il nostro rapporto con il mondo e le sue immagini. Si dice che il fotografo fa le fotografie, ma è un abuso linguistico. Vero è che utilizza lo stesso strumento, il dito indice, che secondo gli affreschi di Michelangelo nella Cappella Sistina Dio ha metaforicamente usato per creare l’universo. Ma assai più umilmente il fotografo lo usa per schiacciare un bottoncino della macchina fotografica che per una frazione di secondo fa aprire una finestrina. In quella frazione di secondo, attraverso quella finestrina, la luce che il mondo riflette si iscrive dentro una superficie sensibile, che prima era uno strato chimico su una pellicola, adesso è un sensore elettronico, il quale viene 16

comunque modificato dalla luce che si riflette sulle cose e gli uomini e li rende visibili. Si parla di rappresentazione fotografica, ma il fotografo non “rappresenta”: si limita piuttosto a manipolare uno strumento che permette di registrare l’immagine. Questa operazione – e il risultato che ne deriva – è la fotografia. Il termine deriva dalla sintesi di due parole greche, phos/photos e graphia, ma cosa vuol dire esattamente? Vuol dire scrittura di luce o scrittura con la luce? Perché lì sta il busillis. Se interpretiamo la parola come “scrittura di luce”, allora noi fotografi siamo dei ricettori, siamo degli interpreti, dei lettori: è il mondo che con penna di luce scrive sé stesso mediante le onde luminose che lo colpiscono e che riflette. Non ho dubbi che, da uomo di scienza qual era, così la intendesse Sir John Herschel, e così la intendo anche io. Peraltro, è la definizione di fotografia che troviamo nel Tommaseo: “Arte del far che la luce disegni su un corpo a ciò preparato l’immagine degli oggetti”. Se invece interpretiamo la parola come “scrittura con la luce”, allora vuol dire che usiamo la luce per scrivere, siamo scrittori, ci poniamo sul versante dell’arte, dell’arbitrio, sublime se si vuole, ma pur sempre arbitrio. 17

Ora, il problema è che entrambe le interpretazioni convivono legittimamente in questa invenzione problematica, ambigua e così centrale nella cultura contemporanea. Tanto che Eric Hobsbawm, nel suo libro Il secolo breve, con la naturalezza con cui può farlo uno storico afferma una cosa di cui per tantissimo tempo, vuoi per ignoranza vuoi per malafede, non si erano accorti gli addetti ai lavori: la fotografia e il cinema sono stati i linguaggi fondamentali del XX secolo. Linguaggi che hanno cambiato la nostra relazione con il mondo, le nostre relazioni affettive, il nostro rapporto con la memoria, persino le convinzioni scientifiche che per lunghissimo tempo hanno governato il nostro rapporto con la realtà. La fotografia è talmente penetrata nelle più intime fibre della nostra cultura e della nostra vita quotidiana che se scomparisse di colpo, ha scritto qualcuno, non saremmo più neanche in grado di andare a prendere il tram sotto casa. Una caratteristica peculiare della fotografia è che essa non soltanto ci offre, di una cosa, di un volto, ciò che è visibile, ma di quel volto, di quella cosa, l’immagine immobilizza, preserva, un istante. La fotografia, insomma, è un fatto tecnologicamente e concettualmente nuovo perché ol18

tre a darci conto di un frammento di immagine del mondo, ne costituisce anche una fetta di spazio-tempo. Noi mostriamo una fotografia di nostra madre morta e diciamo: “questa è mia madre”. Ciò che di fatto mostriamo è un pezzettino di carta dove vediamo un’immagine nella quale riconosciamo nostra madre, ma quell’immagine è anche, è soprattutto, un’istantanea, come si dice. Oltre all’immagine, quel pezzettino di carta contiene un istante irripetibile di tempo, di vita, ma che si impone come reale, della vita di nostra madre. È questo che rende le fotografie così strazianti, è questo che ci spinge a custodirle nel portafoglio, nell’album di famiglia. La fotografia ci ha fatto illudere che l’invocazione faustiana “fermati tempo!” fosse finalmente a portata di mano, che potessimo davvero fermarlo il tempo, almeno per un istante. Grandiosa illusione, rivelatrice dell’inquietudine della cultura occidentale e peculiare della sensibilità contemporanea. Illusione impossibile, lo sappiamo, quella di fermare il tempo, eppure... Una delle più approfondite e affascinanti riflessioni sulla fotografia è quella che ha fatto Ro19

land Barthes nel suo citatissimo La camera chiara. Un saggio, si dice, ma più che un grande saggio di semiologia a me è sempre sembrato uno straordinario romanzo sull’elaborazione del lutto. Muore sua madre e Barthes racconta che questo lutto lo spinge a cercare nell’album di famiglia, ma anche tra le carte che si accumulano nei cassetti, una fotografia della madre nella quale poterla riconoscere come la ricorda, come lo strazio del lutto pretende di ritrovarla. Facendo questo viaggio Barthes si interroga su che cosa è la fotografia, e non è un paradosso che alla fine del viaggio, che condividiamo con lui, questa immagine, questo deposito di memoria Barthes li riconosca in una fotografia che nel libro non ci mostra: è una immagine di sua madre bambina, colta in un jardin d’hiver. Un’immagine, quindi, di prima che il destino avrebbe fatto diventare sua madre quella bambina. È, questo, un altro fantastico aspetto della fotografia: come se qualunque istante della vita di un uomo, di una donna, potesse riassumere tutta una vita, tutto il senso di una vita. Proprio come nell’Aleph immaginato da Borges: piccola sfera cangiante, del diametro di due, tre centimetri, eppure capace di contenere lo spazio cosmico senza che la vastità ne 20

soffra. Viene da chiedersi se non vi si possa leggere una magica analogia con l’obiettivo della macchina fotografica. E come nell’entelechia, di cui in un memorabile saggio sul tema del ritratto fotografico e dell’identità, Il volto sulla maschera, ci parla Leonardo Sciascia: istante nel quale si discioglie un’idea del tempo quale si dispiega in quella linea che da sant’Agostino arriva a Borges. In un ritratto, la materializzazione – solidificata, mineralizzata – dei più ardui problemi che il pensiero umano da secoli declina, delle più ardue fantasie. Tutto quel che sarà è già stato. Il tempo sottratto al tempo e in attesa del tempo. E ancora, come in Giorgio Agamben, per il quale la fotografia è il luogo del giudizio universale, dove il mondo è rappresentato come appare nell’ultimo giorno. Come in quel giorno, la folla degli umani è presente ma non si vede, perché il giudizio concerne solo una persona, una sola vita, quella e non un’altra, immortalata dall’angelo nell’istante finale. Un istante immortalato, che contraddice la Storia, il tempo cronologico e che rappresenta la cifra dell’infinita ricapitolazione di un’esistenza. Come se, nel momento in cui quella vita muore, quell’istante fotografico potenzialmen21

te contenesse tutti gli istanti che compongono una vita: Tel qu’en lui même, enfin, l’éternité le change, scriveva Mallarmé, la morte trasforma ogni uomo. La madre di Barthes era già sua madre ancor prima di diventare donna, quando ancora era una bambina, e lo scrittore in quella fotografia di donna-bambina la riconosce probabilmente con maggiore intensità che in altre immagini in cui aveva raggiunto la fisionomia che lui da figlio ricorda.

3 IL TEMPO MOBILE DELLE FOTOGRAFIE

Ma questo che cosa significa? Significa, afferma Barthes, che la fotografia soltanto questo ci dice: ciò è stato. A dire il vero, io non sono mai stato convinto da questa affermazione. La mia esperienza di fotografo, ma anche di persona che si è trovata a cercare, attraverso le fotografie, di elaborare il lutto per la morte di persone che avevo amato, mi ha insegnato che così non è. Trovarsi di fronte a un’immagine di tuo padre, di una persona cara morta, ma anche di una persona viva che ti ha tradito, che hai perduto, non ti dice “ciò è stato” ma ti ribadisce, in una sorta di lancinante presente, che “ciò non è più”. Non ti consola. Insomma, questa esperienza, mia ma credo di tutti, mette in crisi l’idea stessa che una fotografia possa fermare il tempo. Anche le fotografie accumulano il tempo, non lo sospendono, e non restano immobili, cambiano. 23

Cambiano perché noi cambiamo e le vediamo in maniera diversa ogni volta che le guardiamo. Ma io arrivo a sostenere che le fotografie nel tempo cambiano esse stesse. Provate a guardare la fotografia di un fidanzato che vi ha mollato o che vi ha tradito: vi accorgerete che apparirà molto diversa da quando la conservavate gelosamente nel portafoglio per tirarla fuori con affetto e tenerezza. Lo dico spesso a chi si mostra disgustato da un proprio ritratto fotografico. “Mettilo via, e ritiralo fuori tra dieci anni. Vedrai come sarà cambiato”. Provate a guardare una vostra fotografia che non vi piaceva, della quale vent’anni fa avete detto: “ma come sono venuto/a male!”. Ci sono molte probabilità che pensiate: “beh, però, ero proprio carino/a”. Dunque le fotografie cambiano, e cambiamo noi che le guardiamo, perché quell’istante è sì prelevato dal flusso di tempo in maniera obiettiva, diciamo così, ma è anche il prodotto di un incrocio tra caso e necessità: e questo implica anche chi eri tu, chi era il fotografo, com’era il mondo intorno a voi nel momento in cui la fotografia è stata scattata. A un mio libro di riflessioni sulla fotografia ho voluto dare il titolo Obiettivo ambiguo 24

perché così è la fotografia: nello stesso tempo ambigua e obiettiva. La fotografia, in quanto frutto della temperie scientifico-positivista, ci dà l’illusione di documento inoppugnabile, di verità incontrovertibile: le fotografie vanno a finire persino nelle aule dei tribunali, o meglio sono andate a finire nei tribunali, perché oggi il loro carisma di verità è stato messo in crisi dalle tecnologie digitali – credo, giustamente. Oggi sappiamo che la fotografia come prova incontrovertibile è un’illusione. La fotografia mostra, non dimostra, come ho scritto in un mio breve saggio sui rapporti tra Etica e fotogiornalismo. Una fotografia può mostrarti il morto, ma l’assassino ce lo mettiamo quasi sempre noi. Il rituale con cui scattiamo una fotografia o ci offriamo all’obiettivo è sempre problematico, ambiguo, perché in gioco non c’è soltanto la macchina, l’obiettivo, la superficie sensibile, sia essa elettronica o analogica: c’è anche il fotografo, l’arbitrio delle sue scelte tecniche che sono anche scelte etiche ed estetiche, lo stato d’animo della persona fotografata in quell’istante, le storie che entrambi hanno alle spalle. In un testo chiave del 1967, Pittura di ritratto e fotografia, Mario Praz ci metteva in guar25

dia dal pregiudizio che un ritratto eseguito da un pittore sia un’interpretazione e quindi una deformazione, e che una fotografia, al contrario, sia obiettiva e dica la verità. Il fotografo è sempre dietro questo marchingegno e fa delle scelte. Un po’ più vicino, un po’ più lontano, con un obiettivo piuttosto che con un altro, con una pellicola anziché con un’altra, con una certa luce invece che con un’altra. Per non dire del processo fotografico, in cui non c’è solo il momento della ripresa, ma si susseguono fino al risultato finale molte altre fasi. Quando ancora si utilizzava la pellicola l’immagine veniva sviluppata e poi, per ragioni di carattere tecnico, stampata, restituita dal negativo al positivo, rovesciata per renderla diritta, con maggiore o minore contrasto, nitida o leggermente mossa o sfocata. E nello stamparla, questa fotografia, dispieghiamo un arbitrio straordinario, a partire dal più plateale: quello di proporre in bianco e nero immagini che riteniamo, senza porci troppe domande, tracce della realtà nonostante manchino di una proprietà fondamentale della realtà stessa, e cioè il colore. La fotografia, figlia della scienza, ha rincorso il colore sin dai suoi inizi, considerando la sua assenza una grave carenza tecnica. Alla fine 26

il colore è stato trovato, sperimentato, trasformato, migliorato; e oggi viene utilizzato anche in forma elettronica e digitale. Nel frattempo, però, forse perché nella nostra cultura fotografica si erano depositate moltissime elaborazioni visive ed estetiche che la precedevano – dal disegno alle acqueforti, alle litografie... –, la fotografia ha fatto in tempo, prima di trasmigrare verso il colore, ad elaborare un linguaggio del bianco e nero autonomo, un linguaggio che ancora utilizziamo e riceviamo come se fosse scontato, addirittura naturale. È soltanto perché ci siamo adattati a questa mancanza di colore o perché in fondo – come ci spiegano i neurobiologi – abbiamo sempre saputo che il colore è arbitrario, pura invenzione cerebrale? Sembra che il nostro cervello riceva le immagini in bianco e nero, insieme alle informazioni sulla lunghezza d’onda della luce che le cose riflettono, le quali ci permettono di decodificarne il colore. È la nostra mente, poi, rielaborando tutte queste informazioni, che ci fa dire che quella rosa è rossa o che quegli occhi sono azzurri. Ma quando diciamo rosso, a quanto pare, ciascuno di noi intende una cosa diversa, senza contare che le cose – mentre le guardiamo – cambiano di colore, al sole o 27

all’ombra, di mattina o di notte, alla luce naturale o artificiale. Eppure noi continuiamo a dire, e a “vedere”, una ragazza con una maglietta rossa e gli occhi azzurri, anche se quei colori di fatto cambiano continuamente. Anche i colori delle fotografie sono cambiati molto negli anni. Basta guardare una immagine a colori di appena qualche decennio fa per constatare quanto approssimativo e arbitrario fosse il colore che pure allora ci soddisfaceva, che ritenevamo perfettamente corrispondente alla realtà colorata del mondo. Paradossalmente, nonostante si pensi che le immagini fotografiche a colori ci forniscano maggiori informazioni sulla realtà e siano quindi documentariamente più attendibili di quelle in bianco e nero, proprio per la loro arbitrarietà, e per convenzione acquisita (la fotografia è una traduzione della realtà e noi traduciamo la traduzione), spesso percepiamo le fotografie in bianco e nero come più attendibili di quelle a colori.

4 MODIFICARE IL PRESENTE, CANCELLARE IL PASSATO

Non c’è dubbio che l’irruzione della fotografia nel panorama della nostra vita abbia messo in crisi o quantomeno problematizzato il rapporto tra l’immagine di noi stessi e il mondo investendo un aspetto delicatissimo e assolutamente centrale per ciascuno di noi: la nostra identità. Naturalmente, la relazione tra noi – noi in quanto immagine – e l’uso che di questa immagine facciamo come strumento di comunicazione con gli altri, non è cominciata con la fotografia. Da sempre gli uomini hanno utilizzato il proprio corpo, l’immagine del proprio corpo, per comunicare con gli altri. Una delle pratiche più antiche è stata quella di usare il corpo per dipingervi sopra delle immagini, con lo scopo di modificarlo a fini magici, religiosi, o anche, e soprattutto – come io penso – di seduzione. Questo tipo di pratiche, seguite dalle innu29

merevoli rappresentazioni dei corpi, dei volti, da tutta l’enorme tradizione pittorica del ritratto, erano pur sempre determinate dalle abilità tecnico-espressive del pittore, di colui che produceva l’immagine. I ritrattisti erano considerati tanto più bravi quanto più riuscivano a realizzare, della persona rappresentata, dipinti o disegni il più possibile somiglianti. E a un pittore, uno scultore, non si chiedeva semplicemente una speciale competenza di carattere tecnico, manuale e artistico nel produrre quelle immagini, gli si chiedeva anche capacità fantastica. Dal passato più antico ci arrivano soprattutto ritratti dei potenti. Questi ritratti presentano caratteristiche diverse nelle varie civiltà, caratteristiche che nel tempo si sono molto modificate. Nella cultura figurativa egiziana, ad esempio, i ritratti non sono realistici, l’immagine del faraone è in un certo senso un segno simbolico, è sempre di profilo, i suoi occhi sono più grandi degli occhi degli altri personaggi. La diversa dimensione degli occhi definisce la posizione occupata nella gerarchia sociale. Ma nonostante le immagini del faraone avessero carattere sostanzialmente simbolico, questo non impediva di vederle come riferite al personaggio rappresentato. Tanto è vero che spesso il nuovo fara30

one, che magari aveva fatto uccidere il precedente per impadronirsi del potere, ordinava di scalpellare accuratamente l’immagine del suo predecessore, in una feroce damnatio memoriae che è arrivata fino ai giorni nostri, fino alle spettacolari cancellazioni staliniane degli assassinati dal potere. Una damnatio memoriae, peraltro, non molto diversa dal gesto apparentemente banale di strappare la fotografia della fidanzata che ci ha mollato o da quello, assai più inquietante, di stracciare le immagini di noi stessi che non ci piacciono, che pensiamo non ci rappresentino o non ci rappresentino più. Damnatio memoriae di una parte della nostra stessa vita. Un Narciso rovesciato, che si riconosce sì nell’immagine di sé che la fotografia gli rimanda, ma la rifiuta, al punto di farla a pezzi, di ucciderla. (Per non dire delle pratiche magiche, per nulla scomparse, che implicano la trafittura con spilli dell’effigie del nemico odiato fino al rogo simbolico...) Questo perché, in maniera più o meno consapevole e drammatica, sappiamo che l’idea che di noi si fanno gli altri passa attraverso l’immagine, e proprio per questa ragione vorremmo imporre l’immagine che di noi ci costruiamo noi stessi. 31

La fotografia ha reso alla portata di ciascuno la damnatio memoriae che per secoli è stata praticata da tutti i poteri e che è spesso al centro della Storia, con la esse maiuscola, che di qualche potere è pur sempre al servizio. Ricordo un terribile racconto di Milan Kundera in cui un uomo che ha avuto una relazione di cui si vergogna profondamente con una donna bruttissima e odiosa, passa il resto della sua vita nell’ossessiva ricerca e cancellazione di lettere, fotografie, di qualsiasi traccia che provi l’esistenza di quella relazione. Non basta che quella relazione sia finita, morta e sepolta, bisogna che non sia mai esistita. Allo stesso modo non bastava a Stalin aver fatto uccidere a picconate Trotski, bisognava anche cancellarlo dal passato, da tutte le fotografie, soprattutto da quelle in cui erano insieme. Quest’ansia di modificare il presente e di cancellare la parte di passato che non ci piace più, si è subito scontrata con la fotografia, che fin dalla sua irruzione nella cultura occidentale si è imposta con il pregiudizio di essere prova incontrovertibile della realtà. Quasi suo magico clone. Quando ti trovi di fronte al ritratto che di te ha dipinto un pittore, puoi dire: “quello è un 32

cane di pittore e mi ha fatto venire male, non sa fare i ritratti, il ritratto non mi assomiglia affatto”. Di fronte a una fotografia le cose si complicano. Il rifiuto può diventare isterico, perché la natura tecnologica delle fotografia si è imposta culturalmente con il prestigio e il pregiudizio dell’inoppugnabilità scientifica. Non puoi dire di una fotografia: “non sono io, non gli assomiglio”. Ma come non gli assomigli? È una fotografia, la macchina era davanti a te, una fotografia non mente...

5 LA SOMIGLIANZA, INVENZIONE MODERNA

Come abbiamo visto, era privilegio di personaggi ricchi e potenti lasciare dietro di sé, come segno della propria potenza, oltre a monumentali opere architettoniche e funerarie a loro dedicate anche immagini di sé prodotte dalla speciale e ricercatissima abilità di coloro che avevano il talento di saper ritrarre. In società rimaste socialmente, religiosamente e politicamente pressoché immobili per secoli, come quella egiziana, questi ritratti si offrivano quasi come stilemi simbolici. Con molta approssimazione, e riferendosi alle culture di cui siamo eredi, si può affermare che solo a partire da società più articolate, ad esempio quella greca, la rappresentazione dei potenti ha cominciato ad uscire dall’astrattezza simbolica avvicinandosi alle fattezze della persona effettivamente ritratta. 34

Prescindendo dalle numerose immagini particolarmente vivide rinvenute in alcune tombe etrusche, è però solo con la civiltà romana che i ritratti scolpiti, per fare un esempio, rappresentano effettivamente la persona a cui si riferiscono. Nei ritratti che sono arrivati fino a noi possiamo riconoscere Cesare, Seneca, e tanti altri personaggi, come persone concrete, con le loro caratteristiche e persino con i loro difetti. È soltanto con la divinizzazione di Ottaviano Augusto che le immagini che lo rappresentano si fanno più astratte. Ma abbandoniamo questi goffi, tripli e quadrupli salti storico-culturali, di cui chiedo venia, e torniamo a tempi più recenti e più vicini all’epoca in cui nacque la fotografia. È con la Rivoluzione francese, con l’insorgere di nuovi soggetti sociali, con la nascita e lo sviluppo della borghesia, che classi nuove, uomini nuovi scoprono di avere una nuova e orgogliosa idea della propria identità, non soltanto in quanto individui ma anche in quanto appartenenti a gruppi sociali in ascesa. In virtù di queste profonde trasformazioni, anche l’esigenza e la produzione di ritratti cambiano molto. Non è un caso che la nascita della fotografia abbia praticamente coinciso con questa 35

trasformazione sociale e culturale e che la borghesia la riconobbe come invenzione simbolo del proprio trionfo politico e culturale. Il governo francese comprò l’invenzione dall’abile Daguerre e nel 1839 il ministro scienziato Arago la offrì al mondo, pronunciando un celebre discorso in parlamento. Da allora, sono quasi due secoli, le immagini fotografiche ci accompagnano e ci definiscono durante l’arco dell’intera nostra esistenza: dalla sala parto alle fotoceramiche delle tombe. La moda frenetica del ritratto, peraltro, si era diffusa già prima che il fulmineo successo della fotografia contribuisse a moltiplicarne e democratizzarne la pratica. Penso, ad esempio, alle silhouettes, ai cammei, così in voga tra la borghesia e la piccola nobiltà all’inizio del XIX secolo. Tutte le signore di Parigi portavano al collo un cammeo, incastonato in oro o argento, o lo commissionavano per farne dono ai propri amanti. Erano decine e decine gli atelier di ritrattisti specializzati nella realizzazione di cammei. Ma cominciavano a essere commissionati, e a trovare un posto d’onore nelle abitazioni, anche i ritratti dipinti dei padroni di casa. E non solo nelle dimore dei nobili e dei borghesi di Parigi o di Londra: anche nelle case delle città di provincia, 36

anche in quelle più modeste dei piccolo-borghesi e dei contadini benestanti troneggiavano sulle pareti i ritratti del padre e della madre. Poi arriva la fotografia e sconvolge ogni cosa. Nel giro di pochi decenni, in Europa, oltre 35.000 pittori di ritratti furono costretti ad abbandonare la loro professione o dovettero riconvertirsi in fretta e furia diventando fotografi ritrattisti. Perché la fotografia era più veloce, perché era più a buon mercato, certo, ma soprattutto perché il nuovo ceto sociale in ascesa non chiedeva al ritratto di svolgere la stessa funzione simbolica e celebrativa che interessava i potenti e le classi dirigenti del passato: chiedeva qualcosa di molto più “borghesemente” realistico, chiedeva ritratti riconoscibili, somiglianti. E sulla somiglianza, in effetti, molti tra i pittori ritrattisti non potevano certo competere con la fotografia, per quanto abili fossero. Dal confronto, la fotografia uscì vittoriosa. Ma vinse anche e soprattutto perché aderiva molto meglio alla trasformazione della relazione culturale con la propria immagine e al nuovo senso simbolico della propria immagine prodotti dall’insorgere di nuovi rapporti sociali tra gli individui e le classi, e soprattutto dalla nascita 37

dell’individuo e dalla sua consapevolezza sociale e culturale di essere protagonista della storia. Lo storico francese Philippe Ariès argomenta con un esempio illuminante il nuovo ruolo dell’individuo nella società borghese emergente. Sino a un certo momento storico, osserva Ariès in Storia della morte in Occidente, alla fine della loro vita i potenti venivano seppelliti in magnifiche e sontuose tombe all’interno di importanti chiese. L’Europa è piena di queste tombe monumentali, che ancora oggi visitiamo come opere d’arte. L’uomo comune, invece, veniva seppellito in terra consacrata nel recinto delle chiese. Non si avvertiva alcuna esigenza di ricordare il luogo dove il proprio corpo veniva consegnato alla fine della vita, di un qualsiasi segno che rammentasse l’individuo che vi era seppellito. Tutt’al più, ma avveniva di rado, si piantava una croce su un cumulo di terra. Ma da un certo punto in poi, con l’insorgere della consapevolezza della propria importanza sia individuale che sociale, nei cimiteri si diffusero non solo le croci ma anche scritte con il nome del defunto e, a poco a poco, piccole lastre con un’iscrizione e magari anche un fregio, un abbellimento, una preghiera. Fino all’arrivo 38

della fotografia, che ha trasformato i cimiteri in un formidabile archivio di volti. Adesso sappiamo che in quella tomba è seppellito un tale, uomo o donna, che si chiamava così e così, che è vissuto in un determinato periodo di tempo, che aveva quell’aspetto. Non è certo una piramide, o una illustre tomba etrusca, ma è pur sempre una piccola sfida all’eternità. Questa pratica, come si comprende bene, cambia completamente le carte in tavola: è in gioco qui non solo il senso della relazione che ognuno di noi ha con sé stesso e con la propria identità, ma anche con i propri cari, con il mondo, e persino il rapporto di ciascuno con la morte. Perché anche dopo la morte, attraverso il conquistato diritto all’immagine, ognuno rivendica la propria individuale e irriducibile identità. Un’esigenza, questa, che la pittura non avrebbe forse potuto soddisfare. Non è un caso che sul terreno della rappresentazione dei volti, sul terreno propriamente del ritratto, la fotografa abbia velocemente soppiantato la pittura. Furono in molti allora, fra gli intellettuali, a pensare che l’avvento della fotografia avrebbe decretato la fine della pittura. Lo pensarono soprattutto alcuni cattivi pittori, come 39

Paul Delaroche, che pronunciò la celebre frase: “Dopo la fotografia, la pittura è morta”. La sua, certamente, visto che è passato alla storia soprattutto per questa frase imbecille. Altri, come Baudelaire, si abbandonarono ad invettive che oggi ci appaiono profetiche inquietudini contro un’invenzione che, simile a una stella cometa, annunciava la nascita della società di massa, che il poeta aborriva. Non era morta la pittura. Cominciava, piuttosto, a morire quella pittura alla quale per secoli era stato affidato il compito precipuo di descrivere la realtà. Liberata da quel ruolo, la pittura si avviava verso una fase nuova della sua storia. Che ritroviamo tutta nella formidabile risposta di Picasso a quanti gli obiettavano che il suo ritratto di Gertrude Stein non era somigliante. “Gli assomiglierà”, rispose, sprezzante e fulminante. Una risposta che è una sintesi filosofica, ideologica, culturale, storica, e che segna il passaggio da un tempo in cui la pittura aveva il compito di rappresentare la realtà a un tempo in cui quest’incombenza la pittura l’ha passata alla fotografia, che l’ha accolta con troppa spensierata leggerezza, portandosene dietro anche il fardello di ambiguità. 40

Questa contrapposizione – falsa contrapposizione, in realtà – tra pittura e fotografia nella prima metà del XIX secolo, è stata determinante nel farci comprendere perché la fotografia sia entrata da protagonista nelle problematiche dei rapporti tra immagine e identità. Sempre Picasso, in modo meno criptico, in una conversazione con Brassaï dichiarava: “Per quale motivo adesso mi dovrei mettere davanti alla cattedrale di Rouen per farne un disegno il più possibile vicino a quella che è la realtà visiva della cattedrale di Rouen quando, con una macchina fotografica, ottengo un’immagine nella quale è possibile distinguere persino quale mattone è rotto sulla facciata?”. Allo stesso modo doveva pensarla Monet che, dopo l’avvento della fotografia, usa la cattedrale di Rouen come Morandi usa le bottiglie: non certo per descriverle, ma come strumento per esprimere la propria visione estetica del mondo. Sull’altro fronte c’era la fotografia, portatrice di nuove istanze di natura scientifica e culturale che ne esaltavano il carattere di documentazione. Un nuovo, parziale malinteso, di cui sin dal principio soffre una certa fotografia, e 41

soprattutto certi fotografi, che si sentono umiliati di non essere considerati artisti. Ed eccoci a un altro, drammatico problema di identità. Parzialmente fondato, persino. Perché ambigua – lo abbiamo detto – è la fotografia, che spesso ha sfruttato il proprio carisma di documento per raccontare storie che non stanno né in cielo né in terra. Atteggiamento, questo, che oggi ha finito con il prevalere, ansiosi come sono i fotografi di essere ammessi nei musei. Del resto, si sa, quando le cose muoiono di solito finiscono nei musei. Perché meravigliarsi se con la fotografia è successa la stessa cosa? Visto che non sembra servire più alla funzione storico-culturale per la quale è nata e alla quale ha assolto per quasi duecento anni, oggi si delegano alla fotografia solo ruoli estetici, la si apparenta alla pittura: sbagliando grossolanamente, credo, perché l’immagine fotografica è cosa completamente diversa dall’immagine dipinta, come vado dicendo ormai da mezzo secolo.

6 E QUESTO È NIENTE: NON L’HAI VISTO IN FOTOGRAFIA!

Il fondamentalismo positivista che accompagnò la nascita della fotografia produsse deliri che non si sono fermati nemmeno davanti ai peggiori razzismi. Personaggi come Lombroso, ma anche scienziati di primissimo ordine come Sir Francis Galton, inventore della eugenetica, hanno utilizzato la fotografia per tentare di avvalorare le più cervellotiche e inquietanti teorie. Per esempio sul terreno della lotta alla criminalità. Sosteneva Galton: “Oggi disponiamo di un nuovo, straordinario strumento di documentazione e analisi del reale. Perché non usarlo per studiare, capire, catalogare i criminali in modo da poterli meglio combattere?”. Pensate all’identikit. Fino a non moltissimo tempo fa era un incerto e farraginoso procedimento: c’era un testimone che diceva: “quell’uomo aveva i capelli corti, li aveva bion43

di, aveva il naso schiacciato, eccetera. Sulla base di queste aleatorie informazioni uno specialista eseguiva un disegno. E il testimone negava o confermava: “no, era diverso”; “sì, mi pare che il colpevole assomigli a questo disegno”. Oggi abbiamo i computer, e sofisticatissimi programmi che arrivano a stabilire con un margine elevato di plausibilità quanto può essere cambiata la fisionomia di una persona a partire da una fotografia di trent’anni prima. All’origine di tutto questo c’è un enorme, secolare, formidabile sforzo di natura scientifica, ma anche politica e sociale, che ha utilizzato la fotografia di ritratto dapprima come strumento per catalogare i delinquenti fin nei minimi dettagli – naso, occhi, orecchie, sopracciglia – nel tentativo di identificare le caratteristiche salienti del Criminale (con la C maiuscola). E poi ha escogitato marchingegni terribili e impressionanti, persino affascinanti: partendo da un certo numero di immagini di criminali che magari avevano commesso lo stesso tipo di delitto, Sir Galton cercava di ottenere un’immagine unica utilizzando una tecnica grazie alla quale, stampando a basso contrasto una dopo l’altra le varie immagini di questi criminali, in sovrapposizione sullo stesso foglio di carta sen44

sibile, i tratti comuni dei vari volti prevalevano producendo una specie di ritratto medio del “criminale dei criminali”. Un risultato scientifico – a detta di Galton – che consentiva di capire che cosa avessero in comune le facce di questi criminali, che tipo di fronte, che tipo di naso... Dietro questa delirante antropologia criminale c’era la vecchia illusione che il volto sia lo specchio dell’anima: i delinquenti non possono che avere tutti delle facce ripugnanti, che è poi quello che pensa la gente, pensava Lombroso e pensava anche Sir Galton. Un’idea dura a morire visto che ancora oggi ci imbattiamo in nuovi deliri pseudoscientifici che pretendono di aver identificato il gene dell’intelligenza, della matematica, dell’alcolismo, e, naturalmente, anche della criminalità. Questa ossessione di identificare il criminale, nata come autodifesa, attraverso la fotografia si è mutata in un’ansia talmente generalizzata che nelle nostre società socialmente strutturate le persone devono tutte circolare con in tasca un documento che si chiama (guarda caso) carta di identità, sul quale è incollata una piccola fotografia che prova che noi siamo chi diciamo di essere. A quella piccola foto l’apparato so45

ciale attribuisce il ruolo di certificare ciò che di più delicato ci appartiene, ovvero la nostra identità. Anzi, in un certo senso, per la società quella fotografia, più che certificarla, contiene la nostra identità. Se un poliziotto ci ferma per una infrazione e ci chiede la patente o la carta di identità, ciò che pretende è che noi assomigliamo alla fotografia più che la fotografia assomigli a noi. Tu devi assomigliare alla fotografia altrimenti non sei tu. Sembra una pura faccenda di ordine pubblico, ma ha invece una portata culturale enorme, perché significa che la nostra società, a un certo momento della sua storia, ha deciso di delegare all’immagine e non più alla persona il concetto stesso di identità. Straordinaria e per molti versi stravolgente conseguenza dell’incredibile invasione sociale della fotografia. È possibile che questa specifica utilizzazione stia per concludersi. È assai probabile, infatti, che fra non molto al posto della fotografia ci sarà un chip dove sarà registrato il nostro DNA, forse la struttura dell’iride, la storia delle nostre patologie, e persino le idee politiche che abbiamo professato in gioventù, i nostri piatti preferiti, i libri che leggiamo e come ci piace fare l’amore. Insomma, credo proprio 46

che la conclusione della formidabile avventura storico-culturale della fotografia sia prossima. Qualcuno dice: colpa del digitale. Ma il digitale è una conseguenza, non la causa, di questa perdita di funzione storico-culturale che la società occidentale ha affidato alla fotografia, concepita come traccia della realtà, ponte tra noi e il mondo, tra noi e noi stessi. È da qualche decennio ormai che questo cambiamento si produce sotto i nostri occhi. Per troppo successo, per eccesso di successo, la fotografia – insieme ai suoi figli, perché il cinema è figlio della fotografia, e lo stesso la televisione, perfino internet nella sua alluvione di immagini viene da quel ceppo lì – ha finito con l’approdare a una specie di non senso, alla perdita di significato della propria funzione. Ed è finita al museo. A Baudelaire, al quale dopo tanto tempo si rimproverano ancora le sue invettive contro la fotografia, da genio qual era non dovette sfuggire un evento tanto importante per la modernità, ma probabilmente capì che quella nuova invenzione sarebbe diventata un asse portante della cultura della società di massa e ne denunciava le possibili potenzialità e i pericoli. C’è una storiella che mi sembra riassumere 47

efficacemente quella che è diventata la nostra relazione con la fotografia e più ancora con l’immagine in rapporto alla nostra identità. La racconta McLuhan in Understanding media: the extension of man (1964), e precisamente nel capitolo La fotografia. Il bordello senza muri. Un’amica incontra una signora che ha un bellissimo bambino nella carrozzina, le si avvicina e le dice: “Oh, che bel bambino hai!”. E la mamma risponde con orgoglio: “E questo è niente: non l’hai visto in fotografia!”. Può sembrare una barzelletta, ma la dice lunga sul completo rovesciamento della nostra relazione con l’immagine, che oggi viviamo. Non più immagini del mondo, immagini di noi stessi, ma immagini al posto del mondo, immagini al posto di noi stessi. Di fronte a qualche suo ritratto ogni tanto mia moglie mi accusa: “non sai fotografare le donne”. Magari ha ragione, eppure ho anche fatto il fotografo di moda, per la miseria, e mi è anche andata piuttosto bene. In realtà, quel che mia moglie vuole dire è che in quelle foto non si trova bella come si aspettava che io la vedessi. Il nostro rifiuto dell’immagine di noi stessi di fronte a una foto che ci è stata fatta da un fotografo rivela uno strascico del rancore per 48

la ferita che la fotografia ha inflitto al nostro amor proprio, e così piuttosto che ammettere che assomigliamo a quella frazione di secondo della nostra vita congelata in un’immagine nella quale non ci riconosciamo, preferiamo pensare che il fotografo che l’ha scattata sia un cane. Cosa spesso vera, fra l’altro. Ma casca l’asino quando, per fretta o per comodità, ci sediamo di fronte a una macchinetta automatica per fare le fotografie per il passaporto. Dentro quella cabina ci sentiamo al sicuro, il fotografo non c’è (che poi non è vero perché il programma di quella macchina l’ha pur sempre progettato un tecnico). Dunque ci sediamo, leggiamo le istruzioni, facciamo girare il seggiolino per mettere gli occhi all’altezza richiesta, c’è una luce a destra e una luce a sinistra perché l’immagine sia illuminata in maniera omogenea, guardiamo davanti a noi, schiacciamo il bottone e dopo otto/dieci secondi parte il flash. Quanto sono lunghi dieci secondi? Che cosa succede in quei dieci secondi? Succede che cerchiamo di offrire allo specchio che nasconde l’orribile marchingegno di un fotografo assente e senza emozioni la parte di noi stessi che 49

vorremmo mostrare. Ma è più facile mentire a uno specchio che a un cinico marchingegno fotografico. Il più delle volte vengono fuori immagini di tipo stitico in cui abbiamo stampato sulla faccia un sorriso falso; e quella immagine ce la portiamo dietro sulla carta di identità per cinque anni, con quel sorriso idiota che non immaginavamo nemmeno che la nostra faccia potesse produrre. Facce da criminali lombrosiani, di solito. Proprio per lo sguardo impersonale della macchina, che molto si avvicina a quello del poliziotto quando, dopo un arresto, manovra con criteri costanti il dispositivo inventato da Bertillon per le foto segnaletiche, con gli stessi intenti di neutralità “umanitaria” e egualitaria che la ghigliottina aveva durante la Rivoluzione francese. Insomma, nella solitudine del gabbiotto per autoritratti salta fuori con tutta evidenza il problema dell’apparente neutralità dell’occhio della macchina fotografica. Tu puoi fare il cretino davanti allo specchio come Walter Chiari, Alberto Sordi o Checco Zalone, ma se lo specchio a un certo punto, paf! ti fa una foto mentre fai il cretino, allora pensi: per la miseria mi sono fatto fregare, cioè ti senti responsabile tu, non 50

puoi accusare nessuno di essere un cane di fotografo. Il paradosso è che l’ambiguità di questo istante documentariamente incontrovertibile è che la sua arbitrarietà – forse casuale, benché programmata – è consustanziale alla fotografia. Fox Talbot la fotografia l’aveva addirittura chiamata calotipo, per metterci dentro l’idea di bellezza. Del resto, che la fotografia dovesse avere anche un intento estetico è un’idea partorita insieme alla fotografia stessa. Il fondamento scientifico traballa. Perché l’intento estetico è sempre una modifica, se non una mistificazione, della realtà. Anche perché, soprattutto in tema di ritratto, l’esattezza scientifica viene auspicata dai criminologi, dai poliziotti, ma temuta dagli innocenti... Per mia nonna il miglior fotografo del suo paese, Bagheria, era quello che le ritoccava meglio le rughe, quello che le faceva un ritratto che assomigliasse a come lei sperava di essere. Non quello che la mostrava tale e quale era. Il ritratto, in fotografia, ha sempre obbedito a ipocrisie nient’affatto sottili. Gli chiediamo il prestigio dell’esattezza tecnica e poi speriamo, pretendiamo, che questa esattezza sia manipolata, truccata, allo stesso modo in cui la manipolavano i pittori di corte. 51

Il trucco, il maquillage, lo sappiamo, è una pratica che affonda le sue origini erotico-rituali nella notte dei tempi e precede di millenni l’arrivo della fotografia. Ma la fotografia ha offerto a chi si fa fare un ritratto, e all’ideologia del trucco, sofisticatissime e sempre più perfezionate tecniche di ritocco, nuovi, tortuosi e molto spesso ipocriti alibi. C’erano geni del ritocco ancora prima che nascesse il ritocco elettronico di photoshop. Al mio paese c’era un fotografo apprezzatissimo perché con abilissime manipolazioni sapeva addirittura “resuscitare” i volti dei clienti fotografati da morti. Ma sappiamo che molti sforzi sono stati consacrati, più che a resuscitare i morti, a ringiovanire e abbellire i vecchi e i brutti, fino a quel “maquillage” della storia che consiste nel far scomparire dalle fotografie certi vivi. Stalin docet. Milan Kundera, nel Libro del riso e dell’oblio, ci racconta che il senso della storia della Cecoslovacchia del dopoguerra si trova nella foto ufficiale di Klement Gottwald, appesa per anni sulle pareti di tutti gli uffici statali del Paese. Il colbacco che Gottwald indossa in quella foto apparteneva a Vlado Clementis, che glielo aveva prestato perché quel giorno faceva un gran freddo. In origine Clementis figura52

va accanto a Gottwald, su quel balcone. Poi, quando lo uccisero scaraventandolo fuori dalla finestra, Clementis venne cancellato anche da tutte le immagini. Il suo colbacco, però, rimase sulla testa di Gottwald. Bene, o tu sai che quel colbacco apparteneva a Clementis o non sai nulla sulla menzogna della storia ufficiale e criminale della Cecoslovacchia comunista. Il ritocco come menzogna, insomma. Modificare i documenti per interesse politico e di potere, ma anche per interesse personale, psicologico, di vanità, di seduzione. Far mentire le fotografie su noi stessi come su noi stessi mentiamo davanti allo specchio. Una pratica che ha avuto pesanti conseguenze sul nostro modo di usare le immagini in politica, nella nascita e nell’esplosione del divismo, nella pubblicità, nel giornalismo, ora nei social network. Con Facebook siamo arrivati ad inventare persino l’album di famiglia. Le conseguenze hanno investito anche la cosiddetta realtà. Nell’era della post-fotografia si può cominciare a parlare di post-realtà, di pseudofatti, secondo la precoce intuizione di Gillo Dorfles. Perché limitarsi a ritoccare un negativo o un’immagine fotografica o inventare l’album di 53

famiglia, quando possiamo cambiare il nostro volto, il nostro corpo, per offrire direttamente la falsa realtà di noi stessi che desideriamo? C’è ancora chi dubita che la chirurgia estetica sia figlia del ritocco fotografico? In un futuro non credo lontano, chi non vorrà modificare parti del proprio corpo che non gli piacciono sarà considerato uno strambo, reazionario fondamentalista della svalutatissima realtà.

7 CHE FINE HA FATTO IL CORPO?

Parecchi anni fa, nel corso di un’intervista il regista Marco Ferreri mi raccontò che in un suo film aveva voluto affrontare la speciale difficoltà, se non la drammatica alienazione, della vita in quegli agglomerati che nascono nelle periferie di quasi tutte le megalopoli del mondo. Aveva scelto come location per alcune scene una zona emblematica della periferia parigina, Nanterre. Girando – mi disse – si accorse che era difficilissimo far coincidere visivamente il racconto dello squallore di quelle vite con l’immagine delle architetture e del paesaggio urbano nel quale si svolgevano. Cercando di spiegarsi la ragione di ciò che gli sembrava frutto di una sua incapacità, a un certo punto capì che la difficoltà nasceva soprattutto dal fatto che quelle architetture non erano state progettate perché dentro ci si potesse vivere, e quindi raccontare 55

delle vite: quelle strutture urbanistiche erano state progettate per essere fotografate. Si imponevano come oggetti, immagini, non come luoghi della vita. Ed ecco che torna alla mente l’azzeccatissima osservazione di McLuhan, appena citata, che per me descrive in maniera efficacissima l’inizio dell’era nella quale viviamo. Da allora – mi sembra – tutto viene progettato per essere fotografato, o fotografato perché produca immagini che non alle cose assomiglino ma, con i necessari e sempre più sofisticati programmi di ritocco, alle fotografie per le quali quelle cose sono state progettate. Da un po’ di tempo, e non è un paradosso, persino le fotografie vengono fatte per essere fotografate. Il premio di fotogiornalismo Pesaresi è stato vinto di recente da un autore che ha ri-fotografato dalla Rete e dai social network immagini scattate da varie persone durante le primavere arabe. L’autore lo ha ammesso esplicitamente, rivendicando l’operazione “concettuale”. Jon Rafman, fotografo canadese anch’egli premiato, ricava le sue immagini da situazioni che seleziona all’interno di Google Street Earth e le espone in prestigiose gallerie. A proposito 56

di Rafman, il “National Geographic” si è chiesto che cosa significhi fare il fotografo oggi. È una domanda che ci poniamo in tanti. Fino a non molto tempo fa, assistevamo di tanto in tanto a polemiche con taluni fotografi di paesaggio, soprattutto urbano, che eliminavano sistematicamente dalle scene fotografate ogni traccia umana, come in un mondo sopravvissuto alla bomba a neutroni. Un “fondamentalista” di questa poetica è arrivato persino a scrivere indignato a un suo collega, anche lui fotografo di ambienti urbani contemporanei, rimproverandolo di aver lasciato nelle scene un qualche essere vivente. Del resto, anche molti ritratti di persone realizzati da prestigiosi fotografi-artisti appaiono oggi disabitati dalla vita. Il blog del mio amico Michele Smargiassi continua a ospitare dibattiti sull’etica del fotogiornalismo, sulla liceità degli interventi di photoshop sulle immagini vincitrici del World Press Photo, addirittura sulla utilità che quelle immagini raccontino un qualsiasi fatto. E la percentuale di quelli che sostengono che non gliene importa nulla o che il dibattito sulla documentarietà della fotografia sia superato, mi sembra crescere ogni giorno in proporzione geometrica. 57

Personalmente, sono per una fotografia – anche di paesaggi, anche di architetture – che sia di reportage, una fotografia che si proponga come racconto e memoria della realtà. Cioè della vita. A un mio compaesano, Massimiliano Serradifalco, che a Natale mi ha regalato un piacevole libro dal titolo Weblandscapes, con paesaggi ottenuti ri-fotografando frammenti da Google Earth, ho ricambiato gli auguri per il nuovo anno, sperando – gli ho scritto – che quello che ci accingiamo a vivere sia davvero un imprevedibile, forse felice forse terribile, anno nuovo e non, magari, un vecchio anno “usato”, registrato da un qualche marchingegno di Google. Dei cosiddetti destini della fotografia, a dire la verità, non mi importa moltissimo. Del destino della realtà, invece, continua a importarmi abbastanza. Quindi anche del destino del corpo. A proposito del quale assistiamo di tanto in tanto al ritorno di tormentoni giornalistici o pseudofilosofici del tipo: il corpo è scomparso, c’è ancora, tornerà? Il corpo starà pure scomparendo, ma il processo di beatificazione di Giovanni Paolo II, per fare un esempio, ha implicato per ragioni rituali l’esumazione del corpo. Santa diventa 58

l’anima, il corpo però è lì, il corpo è reliquia (e si pensi all’enorme importanza delle reliquie nella storia del cattolicesimo). Forse la fotografia ha traghettato, con la velocità con la quale oggi avviene ogni cosa, l’epoca del corpo nell’epoca dell’immagine. E oggi l’immagine è reliquia. Se i militari boliviani di Camiri avessero avuto un po’ più di cultura figurativa non avrebbero fotografato il cadavere di Ernesto Guevara come in una mantegnesca deposizione del Cristo, creando un’immagine-reliquia che ha fatto il giro del mondo facendo definitivamente assurgere il Che nell’empireo dei martiri della libertà e della giustizia. Chi possiede il corpo del martire possiede le chiavi del potere, dichiarò un generale argentino a proposito del cadavere di Evita Perón. Il corpo fa paura. Quello di Bin Laden è stato buttato nell’oceano, in un luogo cioè dove non possa diventare meta di pellegrinaggi o essere trafugato, come avvenne con quello di Mussolini, e persino di Mike Bongiorno – ammesso che di questo volessero fare una reliquia. Barack Obama non solo ha disposto che il cadavere fosse inabissato nell’oceano, ma che nemmeno 59

le foto del cadavere dovessero essere mostrate. Perché? Perché l’immagine ha preso il posto del corpo. E allora non basta più far sparire il corpo, anche l’immagine deve scomparire, come se con questo gesto si volesse cancellare la molesta realtà, presente e passata. Del resto, non compiamo anche noi lo stesso gesto, quando strappiamo in mille pezzi la foto della fidanzata che ci ha traditi o una foto di noi che ci sembra non corrisponderci? Deleghiamo sempre più all’immagine la nostra identità, e del nostro corpo facciamo un’icona ritoccandolo all’infinito. Operazione magica che si pratica da millenni, ma che oggi è diventata una prassi.

8 UNO, NESSUNO, CENTOMILA

A rintracciarne la storia, l’idea di fotogenia è un concetto che si è andato costruendo dall’inizio del secolo scorso. Ma già Flaubert aveva inserito tra i luoghi comuni della sua epoca quello che nelle fotografie non si è mai somiglianti. E nel dizionario delle idee comuni di Longanesi e Brancati si legge: “Nelle fotografie vengo sempre un orrore”. Un’idiozia inestirpabile, dunque? Ma che cosa vuol dire questo? Che ciascuno di noi ha nei confronti della propria immagine un narcisismo mentale per cui rifiuta la verità dell’immagine fotografica? (Coco Chanel, verso i 56 anni, dichiarò che i suoi rapporti con gli specchi si erano trasformati in una guerra cruenta.) Di tutte le immagini fotografiche o soltanto di quelle di sé stesso? Secondo me la faccenda è più complessa. “Quando uno si guarda in uno specchio e 61

poi se ne va – scrive Massimo Bontempelli in La scacchiera davanti allo specchio – crede che tutto sia finito. Niente affatto, lui se ne va per i fatti suoi e non ci pensa più; ma nello spazio invisibile corrispondente a quello specchio rimane la sua immagine. E mentre lui nel mondo un giorno o l’altro muore e il suo corpo, fino al giudizio universale, scompare, nello spazio dietro lo specchio la sua immagine dura, credo, eternamente”. “Noi possiamo guardarci allo specchio – dice Oscar Wilde – come Dorian Gray guardava sé stesso, delegando al ritratto il degrado morale dell’anima, il decadimento del corpo”. Sia Oscar Wilde che Bontempelli, però, parlano in realtà di una immagine fissa, il ritratto, che non può essere quella dello specchio. Non c’è tempo nell’immagine dello specchio. È la fotografia, separata da noi, che introduce il tempo e lo sguardo dell’altro, che ci propone un passato-presente, che ci interroga su un destino. Guardando la vecchia fotografia di un bambino sorge spontanea la domanda di Barthes: che ne sarà stato? Sarà stato felice? Sarà ancora vivo? Domande tutte al futuro anteriore. Che riguardano l’uomo, non l’immagine. Non potremmo porre le stesse domande all’immagine riflessa in uno specchio. 62

È soltanto attraverso un rovesciamento fantastico tra la vita e una fotografia che possiamo supporre un’immagine che evolve, invecchia e muore, al posto di un uomo vivo che facendosi immagine conserva e fissa la propria bellezza, innocenza e gioventù. Uno, nessuno, centomila. Uno specchio terribile, uno specchio che non ci riflette, ma ogni volta ci rimanda un’immagine di noi tanto diversa quanto diverse e numerose sono le persone che ci guardano: come nel racconto di Primo Levi, Il fabbricante di specchi, nel quale Timoteo inventa un marchingegno (lo Spemet) che, applicato sulla fronte dei suoi interlocutori, crea uno specchio nel quale non sé stesso vede chi lo guarda, ma un’immagine di come l’altro vede lui. Una prigione dalle sbarre infinite, ciascuna costituita dagli sguardi degli altri, ognuno dei quali ti vede come lui ti immagina, non come sei. Vivere nell’occhio della gente, sicilianissimo assillo, che ti obbliga a vivere sempre sul palcoscenico e a indossare perennemente una maschera, ossessione centrale del senso stesso del teatro che Pirandello ha trasformato in metafora della coscienza moderna. Perché specchiarsi è voler restare soli, come il Vitangelo Moscarda di Uno, nessuno e cen63

tomila di Pirandello. Non si può condividere l’immagine che ci rimanda lo specchio, perché lo specchio istantaneamente annulla il tempo e ci lascia solo lo spazio. Io sono io, questo ci dice lo specchio. Ma paradossalmente ci insinua anche il sospetto che ci sia un altro mondo dietro lo specchio, dove vive un nostro doppio, l’immagine di noi che in quello specchio sempre ritroviamo. Tentazione irresistibile per Mattia Pascal, e per la Alice di Lewis Carroll, di attraversarlo lo specchio e tentare di vivere altre vite forse possibili dall’altra parte, anche correndo il rischio di non tornare più indietro. Lo specchio provoca terrori che hanno lasciato molte tracce nella letteratura. Incubo al quadrato è quello di specchiarsi in uno specchio che non ti riflette. Come Dracula, come i fantasmi. O in uno specchio dove le cose e le persone riflesse, all’opposto di Alice, abbandonano lo specchio ed entrano nel mondo reale introducendo grandi perturbamenti. “Sarebbe da inventariare – ha scritto Leonardo Sciascia – il posto e il ruolo che gli specchi hanno nella letteratura, e specialmente da Uno, nessuno e centomila in poi”. In realtà, di fronte a questo oggetto miste64

riosissimo che ha molto a che fare con la fotografia, continuiamo a comportarci come il Narciso del mito. C’è un bellissimo poema di Borges nel quale il poeta si domanda: che cosa fa lo specchio quando io non sono lì? E com’è che ogni volta che io gli passo davanti immancabilmente mi riflette? E che cosa riflette lo specchio quando io non ci sono? E lancia l’ipotesi che lo specchio si ricordi di tutte le immagini che in lui si sono riflesse, di tutti gli uomini che gli sono passati davanti, distratti, in lacrime, o radiosi e compiaciuti. Per me queste riflessioni di Borges sono una straordinaria metafora della fotografia. Forse le fotografie sono davvero le memorie di tutti gli specchi che hanno riflesso le cose, i volti e le immagini di tanti uomini. Forse quelle immagini sono davvero uscite dagli specchi. Per una volta non siamo noi che abbiamo rotto lo specchio per andare a cercarvi dietro chissà quale verità nascosta di noi stessi e del mondo, ma è la labile verità delle immagini di noi stessi che è uscita per invadere il mondo, per invadere i nostri album di famiglia, per problematizzare il nostro rapporto con la memoria sino all’inflazione nullificante che oggi viviamo. 65

Chi e che cosa riflettono gli specchi, si domanda il poeta, quando io non sono davanti a loro? E che cosa non li fa mai mancare all’appuntamento ogni volta che gli passo davanti, anche se ogni volta l’immagine che riflettono è diversa? Come è impossibile bagnarsi due volte nelle stesse acque di un fiume, altrettanto impossibile è che lo specchio, nel tempo, restituisca di noi la stessa immagine ogni volta che vi passiamo davanti. Oliver Wendell Holmes, intellettuale americano contemporaneo di Baudelaire, ma diversamente da lui innamorato della fotografia, definì la nuova invenzione: specchio con memoria. Ma l’immagine fotografica di noi stessi è uguale a quella che ci rimandano gli specchi? Sembra uguale, ma non lo è. Fissa non solo l’immagine di noi, ma anche un istante del tempo della nostra vita. Non cambia ogni volta che vi passiamo davanti come fa il riflesso nello specchio e tuttavia, lo abbiamo visto, è fissa e contemporaneamente mobile anche lei. Ci pone le stesse domande, ma in maniera diversa. Che l’immagine fotografica sia molto diversa da quella che di noi stessi ci rimanda lo specchio lo dimostra il fatto che il bambino, anche dopo che è riuscito a riconoscere sé stesso nel riflesso 66

dello specchio, ha ancora bisogno di tempo per arrivare a riconoscersi in una fotografia. L’immagine fotografica, infatti, non vive, come quella dello specchio, raddoppiando i nostri gesti e forse il nostro stesso flusso di coscienza. Ha bisogno di un nuovo processo di decodificazione, di un ulteriore difficile salto nel processo di coscienza. La sua funerea immobilità ci sorprende e ci inquieta. Ci rimanda a una immagine di noi stessi cristallizzata, che immobilizza un istante. Ma si possono fermare gli attimi, si possono immobilizzare? La fotografia ci ha dato questa illusione, ma soprattutto ci ha consentito di fare un passo avanti decisivo verso una diversa elaborazione della coscienza di noi stessi. E questo perché sembrava rispondere a una antichissima, fondamentale domanda esistenziale e filosofica: che cos’è questa cosa misteriosa che mi fa sentire dentro di me che io sono io, che gli altri sono gli altri? Abbiamo visto che è attraverso l’esperienza dell’immagine, e dell’immagine di noi stessi, che riusciamo a salvarci dal mortale errore di Narciso. Non è un caso che quel fantastico meccanismo di trasformazione delle esperienze in dati che modificano la nostra coscienza e 67

costruiscono i ricordi, cioè la memoria, cioè la nostra stessa identità, cominci soltanto dopo che noi riconosciamo nello specchio la nostra immagine. Tutto quello che ci è successo prima continuerà forse ad esistere in zone non facilmente accessibili del nostro inconscio, ma non lo ricorderemo: i ricordi veri e propri si costruiscono solo a partire dal momento in cui prendiamo coscienza di noi stessi. Forse l’intervallo di tempo e di crescita interiore che occorre a un bambino da quando riconosce sé stesso in uno specchio a quando si riconosce in un’immobile fotografia implica che nella fotografia il bambino riconosca anche quell’operazione che da poco ha cominciato a compiere: elaborare esperienze, trasformarle in ricordi, essere in grado di recuperarli. Forse perché gli “atomi” di sensazioni che registriamo e sparpagliamo nel nostro cervello in attesa di recuperarli come mattoni con cui ricostruire i ricordi assomigliano in un certo modo a fotografie. Immobilizzati istanti di vita. Milan Kundera nel suo libro L’immortalità ci offre questa ipotesi letterario-fotografica. Nel tentativo nostalgico di ricordare le donne avute nella sua vita, Rubens, il personaggio del romanzo, scopre che la memoria non filma, la 68

memoria fotografa. Ciò che Rubens ha conservato di quelle donne sono fotografie mentali, mentali istantanee dei loro amplessi amorosi. I ricordi non soltanto li elaboriamo, li inventiamo. Racconta il grande fotografo ritrattista Richard Avedon: “Quando ero un ragazzo la mia famiglia dava grande importanza alle nostre foto-ricordo. Le pianificavamo, ne facevamo la regìa. Ci vestivamo bene, posavamo davanti a macchine costose, a case che non ci appartenevano, prendevamo in prestito cani. Ho contato undici cani diversi presi in prestito in un solo anno nel nostro album di famiglia. Ed eravamo, invariabilmente, sorridenti. Tutte le foto di famiglia erano costruite in qualche modo come un’enorme bugia su ciò che eravamo. Ma rivelavano la verità su ciò che avremmo voluto essere”. Dagli specchi alle immagini, dalle immagini alla coscienza, siamo arrivati al nodo centrale della memoria. E dei rapporti tra fotografia e memoria cercheremo di dipanare qualche filo più avanti. Ma ora torniamo per un attimo alla mia autodifensiva solidarietà con gli eternamente scontenti dei propri ritratti. Hanno torto, naturalmente; ma hanno anche, almeno qualche volta, ragione. Vediamo di capire perché. 69

Il rifiuto, spesso isterico, di una fotografia in rapporto all’immagine di sé che si ha e si vorrebbe offrire agli altri implica un rifiuto della sostanza di inoppugnabile riproduzione del visibile con la quale la fotografia – tecnologicamente, se non ontologicamente – si è imposta fin dalla sua apparizione. Ma questo rifiuto ha una sua legittimità, perché la fotografia non è soltanto riproduzione dell’aspetto visibile del suo oggetto, è anche trancio di tempo: solo di quel frammento di secondo è traccia inoppugnabile, di come quell’oggetto appariva in quell’istante, in quella situazione fisico-psichica, che può essere, che anzi inevitabilmente è, diversa da quella dell’istante precedente o successivo. E allora, come si può pretendere di attribuire a quell’istante gratuito e ambiguo, bello o brutto che sia, un valore di emblematica verità della nostra identità nell’intero flusso di un’esistenza? È dunque comprensibile il nostro rifiuto, salvo poi, come ho detto, riguardare quella immagine a distanza di tempo e scoprire che siccome nel frattempo l’idea che di noi stessi abbiamo costruito è cambiata, perché sono comparse le prime rughe, la pelle non è più brillante, sono scomparsi i capelli, eccetera 70

eccetera, quell’immagine che ci appariva così menzognera rispetto all’immagine complessiva che di noi stessi avevamo, adesso la accettiamo come il prelievo di un istante che vorremmo corrispondesse al complesso deposito di mutazioni che ha determinato il nostro presente. Insomma, vale la famosa battuta di Woody Allen: da una certa angolatura, in una certa luce, in certe condizioni psicologiche, specialmente da giovane, potevo sembrare quasi bello. Dunque l’immagine che di noi stessi e degli altri abbiamo (e viceversa) non è quasi mai – direi mai – l’immagine di un solo istante. È il senso di una magnifica invettiva di Giovanni Arpino, Contro la fotografia: “Ritengo le fotografie bugiarde, maligne, velenose. Qua scavano, là gonfiano. Tradiscono sempre. Rifanno la faccia umana senza un briciolo di umana tolleranza. La peggiore macchina che l’uomo abbia in uso è quella destinata a partorire fotografie. Detesto vedermi allo specchio mentre mi rado, figuriamoci dentro un pezzo di carta... Le fotografie hanno sempre torto. La fotografia vera non esiste, finché uno non è morto e composto per sempre, e addio”. Non c’è macchina fotografica (o altra macchina, o nastro d’elettroencefalogramma, ecce71

tera) che possa catturarci al completo. Perché nessuno di noi – è questo il senso dell’invettiva di Arpino – vive e offre di sé un’immagine che dura un solo istante. Noi andiamo costruendo di noi stessi, come degli altri, e gli altri di noi, un’immagine che è il risultato mutevole di una sommatoria complessa, contemporaneamente obiettiva e arbitraria, delle tante immagini di noi stessi che tutte le mattine vediamo allo specchio, nelle fotografie o magari nelle vetrine che per un attimo ci riflettono mentre passiamo. Lo stesso avviene per i nostri familiari, per i nostri compagni di vita o di lavoro, con cui abbiamo frequenza quotidiana. Più che vederci nello specchio o più che vedere i nostri familiari ogni volta che sono davanti a noi, noi ogni volta li “riconosciamo” a partire da quella sorta di stabile fotografia mentale che è la memoria che di loro abbiamo costruito. A volte, non sempre, si può produrre uno scarto che ci fa reagire proprio come una macchina fotografica. In tal caso soltanto vediamo quell’istante. Il nostro o l’altrui pallore dopo una notte insonne. I segni di una malattia nel volto di un amico che magari ci erano sfuggiti per mesi e soltanto quando si accumulano ci diventano visibili. L’improvvisa presa di coscienza 72

del mutare della fisionomia di un bambino. Oppure passare davanti a una vetrina specchiante e vedere un signore che ci sembra di conoscere, per poi di colpo scoprire con sorpresa che quel tipo siamo noi, ma che, al primo sguardo, aveva qualcosa di familiare e di bizzarro al contempo, in rapporto all’immagine apparentemente precisa e fissa che abbiamo di noi stessi e del mondo. Immagini che viviamo nella certezza della loro continuità e ripetizione, e che improvvisamente si rivelano per quello che sono: una finzione del nostro cervello, un’illusione. Illusione di avere di noi e degli altri un’immagine definita e costante, ma anche illusione, persino, del flusso temporale nel quale sembra scorrere il mondo. Perché sostanzialmente noi percepiamo soltanto innumerevoli “atomi” di sensazioni e con prodigiosa fulmineità li ricompattiamo come immagini costanti, o viceversa li montiamo in vertiginosa sequenza trasformando in un film i molti istanti percepiti. L’idea compatta, di un continuo presente, che abbiamo di noi stessi è un trucco, un inganno della nostra corteccia cerebrale che ci fa apparire come un nastro ininterrotto quella che invece è una sequenza frammentata, una collezione di fotogrammi. È una delle prime 73

cose, fra le tante altre, che mi ha insegnato il mio amico Edoardo Boncinelli. Insomma, voi mi vedete muovere le mani, o accendere la pipa, ma si tratta di un imbroglio: in realtà il nostro cervello riceve a velocità vertiginosa le immagini che il mondo ci offre, i suoni che un altro emette parlando, o trasforma in parole i segni che compongono il testo che spero stiate leggendo, e questi suoni e segni che compongono parole vengono fulmineamente assemblati, diventano frasi, e queste frasi altrettanto velocemente messe insieme le percepiamo come un discorso sensato, ma tutto in realtà arriva dentro il nostro sistema nervoso sotto forma di atomi di percezioni con i quali facciamo il montaggio. Siamo noi, il nostro cervello, la nostra corteccia cerebrale che costruiamo il film. Non potremmo vivere la nostra relazione con il mondo se non fossimo capaci di elaborare tutti questi istanti in termini di continuità e in termini di memoria. Noi, la nostra coscienza, la memoria. In questa triangolazione, identità, memoria e coscienza sono forse la stessa cosa.

9 MEMORIA È FOTOGRAFIA

Io faccio il fotografo, e ho sempre pensato che fotografia fosse in qualche modo sinonimo di memoria. E penso anche che la fotografia abbia avuto un impatto radicale su questa struttura fondamentale della coscienza e che abbia rappresentato una rivoluzione nella maniera stessa di concepire e praticare quella complessa serie di processi – volontari e involontari – della nostra corteccia cerebrale che chiamiamo appunto memoria. La fotografia si è talmente radicata e intrecciata col nostro modo di essere e di vivere che molto spesso non ci rendiamo conto di quanto abbia cambiato la nostra maniera di pensare, di scrivere, di ricordare e tanto altro ancora. Negli ultimi anni vado cercando, per quello che le mie povere competenze mi consentono, nei libri e nella generosità di amici neuroscienziati, risposte affidate in passato a teorie psi75

cologiche o filosofiche che oggi molto meno ci soddisfano. E così ho chiesto ad Edoardo Boncinelli, a Stefano Cappa, e ad altri amici neuroscienziati di partire da una definizione di memoria. Che cosa è la memoria? La prima reazione di Stefano Cappa, per esempio, l’ho avvertita come una affettuosa sciabolata, forse per rimettermi al mio posto di fotografo: la memoria è qualunque fenomeno lasci una traccia nella nostra mente, nel nostro cervello. Ma ha aggiunto subito: “la prima cosa che dico ai miei studenti è che la memoria non è una fotografia!”. Una bella botta alla mia idea di sinonimo... Questa precisazione abbisogna però di un corollario. Oggi sappiamo che non esiste, nel nostro cervello, una scatola dove si depositano i ricordi che poi andiamo a recuperare. Il ricordo non è un recupero puro e semplice della traccia, è un complesso fenomeno ricostruttivo. Le tracce non si depositano in un solo luogo, si diffondono in un certo senso in tutto il cervello, e poi c’è l’attività basata sulle nostre esperienze, le nostre aspettative, sul nostro stesso mutare proprio a causa di queste esperienze registrate dal nostro cervello, che fa sì che noi letteralmente costruiamo il ricordo 76

recuperando dalle tracce ciò che in quel momento ci serve. È giusto quindi distinguere con nettezza questo meccanismo dall’idea che normalmente ci facciamo della fotografia – un’idea che, a parer mio, nasce da pregiudizi speculari tra fotografi e neuroscienziati. Per lungo tempo alcune funzioni cerebrali ci sono state spiegate tramite similitudini molto grossolane: meccanismi della memoria come semplice recupero, da una specie di magazzino, dei ricordi ivi stoccati, come pacchi in una soffitta. Oppure, a proposito della visione, ricorrendo a parallelismi del tipo apparato visivo=macchina fotografica, occhio=obiettivo, area occipitale del cervello = pellicola e via di seguito. Pregiudizi speculari, appunto. Visto che siamo partiti da una definizione, diciamo che la definizione tecnica di memoria potrebbe essere applicata rigorosamente anche alla fotografia: si intende per fotografia, parafrasando Tommaseo, tutto ciò che attraverso l’apparato ottico, chimico, elettronico della macchina fotografica, lascia una traccia sul materiale sensibile che lo riceve. Però, è soltanto questo la fotografia? È anche questo, certo, ma non solo. 77

Nella fotografia non c’è soltanto la traccia, diciamo, di quello che la luce, riflettendosi sul mondo, rende visibile e poi, attraverso la fatidica finestrina aperta dall’otturatore scrive, imprigiona su una superficie sensibile. Già di per sé, infatti, questa semplicissima operazione è molto ambigua: tanto per incominciare, attraverso quella finestrina non entra tutto il reale. Entra solamente quella parte di realtà che il fotografo mediante varie manipolazioni sceglie di fermare e immagazzinare. Una di queste è, per esempio, l’inquadratura. E vedremo quanto la pratica, il concetto stesso di inquadratura, possano avere a che fare con le operazioni che il nostro cervello compie nell’acquisire i ricordi. Il funzionamento dei meccanismi cerebrali della memoria è oggi uno dei campi dove la scienza è andata più avanti, spingendosi fino all’analisi delle trasformazioni cellulari, persino molecolari che nel corso del processo si producono nel cervello. Sappiamo, per esempio, che le esperienze vengono marcate con una specie di procedura di indicizzazione. Questa procedura – se ho ben capito le pazienti spiegazioni scientifiche che mi sono state date – è una specie di motore di ricerca, per 78

utilizzare una metafora approssimativa ma che rende l’idea, che recupera le tracce che hanno lasciate le varie esperienze in base alla loro forza, al contesto emotivo nel quale sono state vissute, distribuendole nel cervello. In molti luoghi del cervello. Ed è tutto il cervello che si mette in moto quando si recuperano i ricordi. Ma ci sono anche molti fenomeni legati alla memoria, cioè tracce di esperienze vissute che condizionano e determinano i nostri comportamenti, che avvengono in maniera automatica, al di fuori della coscienza. Per esempio, imparare a guidare o ricordare un numero telefonico. Ma come avviene la selezione e la ricostruzione? È a partire dalla descrizione dei meccanismi di acquisizione della memoria che mi sono venute in mente alcune ipotesi sulle possibili similitudini e differenze con quello che fa un fotografo. Una specie di indicizzazione, si è detto. Ma anche il fotografo decide – già al momento dello scatto, già nella scelta del momento in cui premere il pulsante dell’otturatore e mediante l’inquadratura di una porzione di mondo, magari determinata dall’uso di obiettivi focali differenti – che cosa far “ricordare” alla pellicola o al sen79

sore elettronico. Il fotografo con i suoi gesti sceglie un pezzo di mondo, un pezzo di esperienza e decide in quale istante registrarne la traccia. E nemmeno la fotografia, quando si recupera l’immagine registrata sulla pellicola, è qualcosa di inerte, come si è pensato erroneamente. E come altrettanto erroneamente si pensava che banalmente meccanico fosse il recupero della memoria dell’esperienza, della sensazione, nel “magazzino” del cervello. Non è che una persona vive un’esperienza, la registra, quella va a finire in un deposito e dopo, quando serve, si apre il magazzino e la si tira fuori tale e quale a come la si è lasciata al momento in cui si è vissuta. Oggi sappiamo che neanche con la fotografia queste registrazioni e questi recuperi sono astrattamente neutri, anche se il pregiudizio pseudoscientifico con il quale pensiamo la fotografia ce lo può far credere. È sull’onda di un’emozione e di una reazione mentale che il fotografo decide di fare una fotografia. Come fanno le emozioni vissute, che “marcano” le esperienze inviandole nei vari magazzini della nostra memoria e ne dirigono il recupero nei ricordi. Lo ha dimostrato, tra gli altri, in maniera particolarmente convincente lo scienziato portoghese Antonio Damasio. 80

Una volta mia sorella, guardando un ritratto che le avevo fatto da poco, ha esclamato: “è incredibile, in questa fotografia sono tale e quale a un’altra che mi hai scattato quindici anni fa. La vado a prendere”. “Lascia stare – le ho detto –. Vedrai, non sarà la stessa”. Ma lei ha insistito, è andata a dissotterrare un vecchio album di famiglia e naturalmente è tornata molto delusa: “No, non è la stessa”. Che cosa era successo? Quella fotografia di quindici anni prima era rimasta uguale a sé stessa e lei ne aveva una memoria falsa o era la stessa immagine ad essere cambiata? O era cambiata mia sorella che la guardava? Prima di rivederla, lei la ricordava uguale a quella di adesso, o piuttosto era il suo desiderio (e la sua illusione) di non essere cambiata a proiettare sul ricordo della vecchia fotografia un presente che coinvolgeva la sua memoria? Nei magazzini della memoria aveva trovato una fotografia uguale, nell’album una cosa diversa. Certo, è più facile mentire a uno specchio, lo abbiamo detto, che a una fotografia. Però si può mentire anche a un ricordo, adesso lo sappiamo. Ma si tratta propriamente di menzogna? Insomma, c’è differenza tra ricordare momenti della nostra vita e inventarne di immaginari, op81

pure ricordare è lo stesso che immaginare, come sosteneva il mio amico Federico Campbell, scrittore messicano? I neuroscienziati ci dicono che ci sono molte ragioni per ritenere che i due meccanismi siano molto simili e che nel nostro cervello sono collocati in aree contigue. Mi è capitato di recente di comporre per un libro un autoritratto e mi sono reso conto che “pescare” tra i ricordi, ricostruendoli, non è affatto come rovistare in una cassapanca. Quel pescare è di fatto uno scegliere tra i ricordi che in quel momento ti sembrano più funzionali al racconto, un po’ come il narratore di fiction quando costruisce la storia su una serie di “scene madri”. Noi viviamo le esperienze, non sempre le possiamo selezionare. Magari potessimo. Forse, come scrive Alberto Savinio, per la vita è più importante dimenticare certe cose che ricordare tutto. Il fotografo, nel selezionare le immagini da ricordare, prima tra le esperienze e poi tra le foto che ha scattato, si illude di poterlo fare. Ma se così fosse, ogni volta che fotografando si ha la sensazione di aver fissato – “immortalato”, come spesso arrogantemente si dice a proposito di uno scatto fotografico – una grande immagine, 82

allora quell’immagine si dovrebbe immancabilmente ritrovarla in tutto il suo splendore e la sua perfezione tra le stampe per contatto dei negativi. E invece, raramente succede. Il fotografo non solamente “marca” le immagini, al momento dello scatto: tra le molte scattate, ne sceglie alcune e solo quelle immagini, con didascalie, datazioni, complesse indicizzazioni con parole chiave rende accessibili, recuperabili in un moderno data-base. Se queste operazioni sono svolte malamente, se sbagli le parole chiave, i nomi, la didascalia, è finita, non le ritrovi più. Insomma, la costruzione di un archivio di immagini da parte di un fotografo è un tentativo di imitazione dei meccanismi cerebrali di stoccaggio e recupero delle informazioni, che egli fa servendosi di strumenti ormai sofisticatissimi elaborati per i computer, ma incomparabilmente primitivi rispetto a quello che riesce a fare quella macchina portentosa che è il nostro cervello. Ecco, questa faccenda della indicizzazione e re-indicizzazione delle immagini mi appassiona moltissimo. Nei miei cinquant’anni di professione ho raccolto più di un milione di fotografie. Da quasi vent’anni mi occupo quotidianamente di digitalizzare e indicizzare una 83

parte di quelle fotografie. Ad oggi sono oltre cinquantatremila. Una piccola parte in apparenza, ma in realtà moltissime, anzi certamente troppe, che ho deciso di salvare dall’oceano della bruttezza e dell’insignificanza e che possono servire al mio mestiere o comunque costituire un tassello per me importante delle mie esperienze di uomo e di fotografo. Mi succede talvolta che, sbirciando sul monitor una piccola porzione di una mia vecchia fotografia digitalizzata, molto ingrandita dal mio assistente per esigenze di ritocco, io la riconosca subito, in maniera incomprensibile persino a me stesso. Quel frammento di registrazione fotografica è riuscito, evidentemente, a mettere in moto, recuperandolo da chissà quali recessi del mio cervello, un ricordo, a volte vivissimo – luce, espressioni, temperatura, sapore di un frutto, abbaglio di un sorriso, grana di una pelle –, dell’esperienza vissuta al momento dello scatto. Altre volte, invece, guardo una vecchia fotografia e non me la ricordo affatto, con inquietudine. Talvolta non basta nemmeno che io vada a verificare le didascalie compilate anni prima, quando era ancora fresco il ricordo dell’esperienza, per riportarne a galla la scomparsa me84

moria. Quella fotografia è indiscutibilmente traccia e prova di una mia compresenza fisica e emotiva con il fatto registrato. Tutte le immagini di un fotografo, sono, in qualche modo, parte del suo album di famiglia. Eppure, il fatto registrato in quell’immagine sembra scomparso dalla memoria. O magari riappare molti giorni dopo, come certi nomi che proprio non riesci a recuperare e poi di colpo, senza spiegazione apparente, ti tornano in mente. Gli stimoli, dunque, “marcano” le nostre strutture cerebrali e vanno a depositarsi in molti magazzini secondo un sistema di indicizzazione che permette in seguito di recuperarli. E per giunta, il fatto stesso di recuperarli li reindicizza, gli dà uno statuto nuovo e diverso, forse privilegiato, nel vertiginoso reticolato della memoria. Come accade nel mio archivio di immagini, se dopo una ricerca su un tema specifico compongo un nuovo album con le immagini trovate e scelte. Non sempre, tuttavia, il nostro cervello è infallibile, né il processo obbligato o automatico. Non sempre basta il sapore di una madeleine per mettere in moto l’incoercibile flusso di ricordi che permette a un Proust di scrivere la sua Recherche. Anche perché le esperienze si 85

accumulano, a volte si ripetono, simili anche se mai perfettamente uguali, creando probabili ingorghi, indebolimenti, nei meccanismi di registrazione e recupero dei ricordi. Noi viviamo le nostre esperienze, ma non è che ogni volta diciamo: ah, questa cosa me la voglio proprio ricordare. O meglio, talvolta ci capita di dirlo, ma magari proprio riferendoci a quelle situazioni che spesso dimentichiamo più facilmente. Forse accade più spesso che si dica: questo brutto fatto lo voglio dimenticare. E magari lo pensiamo proprio per gli episodi che più difficilmente riusciremo a dimenticare. Raramente questo meccanismo funziona a livello cosciente. Il processo di esperienza e di registrazione è un flusso continuo. Coincide con la vita. Eppure certe cose continuiamo a ricordarle, altre le dimentichiamo. Magari qualcuna quando meno te l’aspetti ritorna. Sappiamo, proprio per questi inaspettati ritorni, che niente nel nostro cervello, a meno di orribili patologie, scompare definitivamente. Ha scritto Umberto Eco: “Non siamo riusciti a trovare le regole per la dimenticanza. È inutile. Puoi andare alla ricerca del tempo perduto seguendo 86

le tracce, come Pollicino nel bosco. Ma non riesci a smarrire di proposito il tempo ritrovato”. Non esiste una tecnica dell’oblio. Ci sono solo cause naturali o fortuite: amnesia, lesioni cerebrali. O l’“improvvisazione manuale”, che so, l’alcool, la cura del sonno, il suicidio. Per un fotografo è diverso. Tutte le foto che scatta rimangono lì, ma lui, in maniera cosciente, alla fine ne sceglie alcune, marcandole in modo da poterle facilmente ritrovare. Capita che alcune le tralasci, non le selezioni subito, per poi farlo in un secondo momento, e capita che altre le butti via. Soltanto queste non possono essere più recuperate. Ma quelle che non hai buttato via rimangono lì, inesorabili, e inesorabilmente le ritroverai ogni volta che compirai un viaggio dentro il tuo archivio. Questi viaggi un fotografo li compie quasi quotidianamente, per cercare immagini, per comporre nuovi assemblaggi tematici, geografici e temporali delle fotografie scattate. E ogni volta, che tu lo voglia o no, torneranno a imporsi ai tuoi occhi e alla tua memoria, come cadaveri mal seppelliti, le tantissime brutte e inutili fotografie che hai fatto. Una montagna di bruttissime, insignificanti immagini. Hai un bel ripeterti che la cosa è normale, che soltanto 87

i grandissimi fotografi, forse, hanno percentuali più basse di porcherie, che una buona foto su mille, su diecimila è pur sempre molto. Il confronto continuo, quotidiano, con la tua mediocrità è incessante e ti umilia. E poi ci sono gli indesiderati ritorni di tutte le fidanzate che ti hanno tradito, e di quelle che hai tradito tu. Le ex mogli, le estati con relative corse sul bagnasciuga, la processione ininterrotta di tutti i compleanni dei tuoi figli, con le inevitabili soffiate di candeline e i rimorsi per le ricorrenze alle quali non eri presente, magari di figli che non vedi più da anni. E gli amici, quelli persi di vista, colpevolmente, o morti, come i tuoi nonni, come i tuoi genitori, e innumerevoli altre persone che si affacciano nelle immagini con l’espressione terrorizzata che i morti spesso hanno negli incubi. Morti, morti, innumerevoli morti. Ogni archivio è uno sterminato cimitero. Niente collega di più la morte e la fotografia quanto l’archivio di un fotografo che ha scattato foto per decenni. E ogni fotografia ti fa esplodere dentro non un ricordo soltanto, ma una costellazione di ricordi, intrisi di nostalgia, vergogna, divertimento, strazio. Se è vero che dimenticare è forse per il no88

stro equilibrio psichico almeno altrettanto importante che ricordare, ebbene, mi pare che per un fotografo la messa tra parentesi, se non la cancellazione, a meno che non sia drammaticamente volontaria, è diventata più difficile. Sto preparando un libro con moltissimi ritratti fatti in questi cinquant’anni, oltre trecentocinquanta, per ognuno dei quali ho scritto un testo. Negli anni che ci ho messo a comporlo questo libro, molti di quei personaggi che non erano morti sono andati scomparendo. E mi è venuta l’ansia che prima della sua pubblicazione diventi un libro postumo. Il nostro cervello non può “buttare via” volontariamente, se non in caso di drammatici traumi, le tracce delle esperienze che sono la materia con cui ricostruiamo i nostri ricordi. Per il momento non ci sono riscontri sperimentali della “rimozione” freudiana, che comunque è altro dalla pura e semplice cancellazione. In ogni caso, accade spesso che dimentichiamo anche cose molto piacevoli, non soltanto i ricordi di esperienze che avremmo preferito non aver vissuto. Ma non siamo costretti, per fortuna, a ricordare tutto, sempre. Fotografi diversi fotografano in maniera diversa, magari gli stessi soggetti, quando hanno 89

19 anni e quando ne hanno 60. Li fotografano in modo diverso perché va cambiando la loro visione del mondo e quindi scelgono in maniera diversa anche quello che pensano meriti di essere registrato. Questo meccanismo per cui registriamo in maniera differente o più incisiva certe cose e le ripeschiamo più facilmente di altre esiste anche nel cervello. In che cosa consiste questa costante marcatura e questo complesso motore di ricerca di cui noi ci serviamo per ricordare? E come agiscono sui meccanismi della nostra memoria le molte “protesi” di registrazione, dalla scrittura alla fotografia, al cinema, a internet, di cui ora disponiamo? Sono domande alle quali la ricerca scientifica sta dando molte interessantissime spiegazioni. Molte meno, purtroppo, sono le spiegazioni sul come e perché dimentichiamo, sul come e perché perdiamo, a volte in maniera catastrofica, interi mondi nel complesso universo dei nostri ricordi. A volte tutto, distruggendo con la memoria la nostra stessa identità di uomini e donne.

10 “SELFIE”: LO SPECCHIO VUOTO

L’Oxford Dictionary ha proclamato parola dell’anno per il 2013 il vocabolo selfie. Entrata in pista in agosto, con la fulmineità con cui oggi tutto avviene, la voce ha trionfato in soli cinque mesi. Qualcuno ne ha proposto una definizione: autoritratto più condivisione. Abbiamo assistito tutti all’evoluzione del fenomeno: il mondo è diventato una sterminata assemblea di uomini e donne col braccio teso, a replicare (inconsciamente forse) inquietanti saluti politici di massa. Ma ora tutte queste braccia tese reggono con una mano un telefonino macchina fotografica puntato su sé stessi. Tutti, anche papi e capi di Stato, ad autofotografarsi ovunque, persino ai funerali e nei luoghi più intimi e segreti, quelli nei quali fino a non molto tempo fa ci si chiudeva a chiave per pudore o difesa della propria intimità. Cessi e alcove compresi. Tutte queste immagini vengono caricate sui 91

social network, per esempio su Facebook, e immesse nella sterminata pubblica piazza del mondo. “Condivise”, come si dice. Una pratica che interessa già centinaia di milioni di persone che magari, mentre scrivo, si avviano a diventare miliardi. Si tratterebbe, come è stato detto, di un’estensione virale della pratica, piuttosto antica, dell’autoritratto. La novità starebbe soltanto nell’esplosione della condivisione. Tutti hanno diritto al loro quarto d’ora di celebrità, profetizzò Andy Warhol. Il guaio è che non ci sono abbastanza quarti d’ora per tutti. E allora, se non mi pubblicano un libro, mi apro un blog. Se non mi intervistano alla televisione, metto uno sproloquio su YouTube. Nessun giornale pubblica mie foto, bene, me le faccio da solo e le “posto” su un social network. A migliaia, ininterrottamente. E ininterrottamente e a migliaia ne caricano altre centinaia di milioni di persone. Ma nessuno può guardare con interesse qualcuno che sta perennemente in posa, soprattutto se è a sua volta occupato a stare in posa pure lui, davanti a sé stesso, per produrre autoreferenziali autoritratti. Un cortocircuito, un cane che si morde la coda. Il telefono macchina fotografica, “finestra sul mondo”, usato come specchio. Ma 92

l’immagine che di noi vediamo in uno specchio, per sua natura, non può essere “condivisa”. Come se non bastasse, moltissimi di questi autoritratti, prima di essere “postati”, vengono filtrati con strumenti di alterazione elettronica dai nomi bizzarri, che riprendono effetti utilizzati dalla fotografia analogica per rendere “artistiche”, cioè in sostanza non realistiche, false, le immagini. Un altro sintomo di inquietudine sullo scarto tra come appariamo e come vorremmo apparire. La faccenda dell’autoritratto, lo sappiamo, non è affatto semplice. Non appena so di essere davanti a un obiettivo, proprio per timore della sua “obiettività”, mi metto “in posa”, cioè mi trasformo in immagine, mi sostituisco con un’immagine. Io so, o dovrei sapere, che io sono io e l’immagine è l’immagine. Ma posando per un ritratto – nota Barthes – “io sono contemporaneamente quello che io credo di essere, quello che vorrei si credesse che sono, e quello che il fotografo crede che io sia”. Per riuscire ad ottenere un ritratto in cui “quello che vorrei si credesse che sono” coincida con “quello che io credo di essere” bisogna eliminare il fotografo. Ecco la molla dell’autoritratto. Ecco, soprattutto, la molla del selfie. L’esatto contrario, in93

somma, dell’invenzione di Primo Levi nel Fabbricante di specchi. Qui abbiamo a che fare con uno Spemet che costringe tutti gli specchi virtuali dentro la testa (dentro gli smartphone) degli altri a riflettere di me solo l’immagine che voglio io. Abbiamo visto che questo non avviene – non può avvenire – nella cabina del fotomaton nella quale vengono realizzati falsi autoritratti, di fatto eseguiti dal pilotato incosciente tecnologico della macchina. La velocissima tecnologia digitale degli smartphone, quasi uno specchio nel quale si possono istantaneamente immobilizzare, controllare e cambiare decine, centinaia di autoritratti, offre apparentemente la possibilità di sormontare il problema. Non ci mettiamo più “in posa” per offrire alla macchina, al mondo, l’istante migliore, quello che vale la pena conservare e condividere. Produciamo compulsivamente un incessante menù di immagini di noi stessi per poi, contestualmente, condividere quelle salvate e distruggere le altre. Operazione apparentemente salvifica, in realtà disperata, autodistruttiva della nostra stessa identità. Abbiamo visto che davanti allo specchio, attraverso complesse operazioni di accettazione-rifiuto del flusso temporale delle nostre 94

immagini che lo specchio riflette, noi componiamo incessantemente tramite la memoria e il desiderio fragili costruzioni dell’immagine che vorremmo rispecchiasse la nostra “vera” identità. Vera identità che continuamente muta con il sovrapporsi di nuove immagini. Ecco perché temiamo la fotografia, che immobilizza un istante nel quale riconoscerci-essere riconosciuti. Ma con la pratica autoscatto continuocondivisione di istanti della nostra vita, della nostra immagine, di fatto deleghiamo agli altri la delicata costruzione della nostra identità. L’esistenza stessa di una identità. Massimo Recalcati ha ipotizzato per il selfie una sorta di sindrome di Zelig, dal personaggio dello straordinario film di Woody Allen. Vivere come se. Sfuggire alla depressione attraverso iniezioni continue di narcisismo. Ma se la propria vita ha bisogno dell’autoscatto per certificarsi di esistere è perché essa porta con sé un dubbio sulla propria esistenza. O forse, come ipotizza Ernst Jünger, è diventata una sorta di anestetico contro il dolore. Affidare agli altri la certificazione della propria identità, della propria stessa esistenza, è però molto rischioso. Tanto è vero che la pratica del selfie come autoritratto-condivisione sembra 95

già entrata in crisi. Forse funzionava all’inizio, ma in pochi mesi si è andata sgonfiando – almeno così mi pare –, avvicinandosi sempre più al senso esatto della parola, ovvero self, sé stesso. Autoritratto di sé stesso, quindi. E di chi se no? Che cosa c’entrano l’altro, gli altri? Ne è un sintomo evidente la vicenda di Snapchat, una applicazione per lo scambio di immagini creata nel 2011 senza molto successo da Brian Murphy, venticinquenne studente di Stanford, negli Stati Uniti. L’invenzione consiste in un marchingegno che dopo pochi secondi distrugge tutte le immagini e i messaggi caricati da smartphone e computer. Li distrugge in arrivo e in partenza, nel tuo smartphone e in quelli altrui. Altro che fotografie come salvezza e conservazione di istanti significativi di esistenza! Un flusso continuo di istanti salvati li rende tutti irrilevanti. Ogni nuova immagine di sé svaluta e annulla la precedente. Allora meglio distruggerle. L’applicazione ancora non produce utili, ma da Snapchat passano già quattrocentomilioni di messaggi e Brian Murphy ha da poco rifiutato tre miliardi di dollari offerti da Facebook per comprare la sua invenzione. Non più autofotografarsi e condividere, 96

autofotografarsi per condividere, quindi. Semmai condividere al massimo per pochi secondi. Come un certificato di esistenza in vita che duri solo qualche secondo, il tempo minimo per ricominciare a fuggire. Chissà, forse in un prossimo futuro le immagini selfie verranno postate solo per sé stessi. E forse lo Zelig di massa in cui sembra essersi trasformata la nostra società comincia ad avere il sospetto che non basta l’immagine di sé per certificare una vera esistenza e identità. Che il vuoto da cui nasce l’ossessione non viene riempito dall’immagine, ma anzi le immagini lo rimandano indietro, moltiplicano il vuoto, lo fanno proliferare, un buco nero che rischia di inghiottirci. Magari i “Selfie” cominciano ad avere paura di fare la fine di Narciso, ma questa volta un Narciso terrorizzato dal fatto che dentro l’acqua tecnologica che lo riflette non vede nessuno.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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Federica Muzzarelli, Il corpo e l’azione: donne e fotografia tra Otto e Novecento, Atlante, Monteveglio 2007. Zizi Papacharissi, A Networked self: identity, community, and culture on social network sites, Routledge, Londra 2010. Le photographe photographié: l’autoportrait en France, 1850-1914, Somogy ed. d’Art, Parigi 2004. Mario Praz, Pittura di ritratto e fotografia, in Id., Perseo e la Medusa: dal romanticismo all’avanguardia, Mondadori, Milano 1979. Alberto Savinio, Fasti e nefasti della fotografia, in Id., Torre di Guardia, Sellerio, Palermo 1977. Ferdinando Scianna, Obiettivo ambiguo, Rizzoli, Milano 2001. Ferdinando Scianna, Etica e fotogiornalismo, Electa, Milano 2010. Leonardo Sciascia, Il volto sulla maschera: Mosjoukine, Mattia Pascal, Mondadori, Milano 1980. René Zazzo, Riflessi. Esperienze con i bambini allo specchio, Bollati Boringhieri, Torino 1997.

INDICE DEL VOLUME

Premessa

V

1. L’eterna guerra con lo specchio

3

2. Scrittura di luce o scrittura con la luce?

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3. Il tempo mobile delle fotografie

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4. Modificare il presente, cancellare il passato

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5. La somiglianza, invenzione moderna

34

6. E questo è niente: non l’hai visto in fotografia!

43

7. Che fine ha fatto il corpo?

55

8. Uno, nessuno, centomila

61

9. Memoria è fotografia

75

10. “Selfie”: lo specchio vuoto

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Bibliografia essenziale

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