Lo specchio dell'anime. L'animazione giapponese di serie e il suo spettatore 9788849132731, 8849132735

ll disegno animato di serie prodotto nell'arcipelago giapponese ha conquistato negli ultimi decenni un ruolo di ass

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Lo specchio dell'anime. L'animazione giapponese di serie e il suo spettatore
 9788849132731, 8849132735

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Ringraziamenti

Desidero ringraziare innanzitutto Pier Luigi Capucci per l’indispensabile sostegno dato alla pubblicazione del libro. Un ringraziamento caloroso va poi a Alberto Bo­ schi per avere accettato di introdurre il libro e per i consigli con costanza dispensa­ ti. Ci tengo a ringraziare inoltre Marco Benoit Carbone, Matteo Galli, Simone Co­ stagli, Francesco Di Chiara, Laura Matiz e Isabella Sanchi per l’affetto dimostrato e per i preziosi suggerimenti. Un ringraziamento va anche a mio fratello Vitaliano per il continuo incitamento. Ringrazio infine tutti coloro che mi sono stati vicini nel cor­ so degli anni.

Prefazione di Alberto Boschi

La dignità artistica dell’animazione nipponica è ormai pienamente ammessa sia nell’ambito della critica cinematografica che in quello degli studi accade­ mici. A tale riconoscimento tardivo ha contribuito negli ultimi decenni la qua­ lità indiscutibile dei lungometraggi cinematografici firmati da registi presti­ giosi quali Mamoru Oshii o Hayao Miyazaki. Più lento e accidentato sembra essere invece il processo di rivalutazione del disegno animato seriale, su cui pesano ancora, almeno in parte, gli sciocchi pregiudizi maturati nei tempi or­ mai lontani in cui le serie robotiche hanno invaso per la prima volta i nostri schermi televisivi, durante i quali l’aggettivo “giapponese” era divenuto sino­ nimo di un’animazione a bassissimo costo, standardizzata tanto nella forma che nei contenuti e capace di produrre danni irreparabili nelle giovani menti dei suoi sprovveduti spettatori. Proprio l’animazione giapponese di serie, che sotto vari aspetti e in misura variabile ha condizionato e formato in tutto il mondo l’immaginario giovani­ le, è al centro del libro di Marco Teti, il quale presenta senz’altro rispetto alla letteratura saggistica dedicata precedentemente all’argomento almeno tre no­ vità di un certo rilievo. Innanzitutto, l’autore si occupa per la prima volta nel­ lo specifico del rapporto che tali prodotti sono in grado di stabilire con il pro­ prio pubblico, esaminando le operazioni linguistiche e i procedimenti enun­ ciativi capaci di fare nascere e consolidare suddetta relazione. E sufficiente in effetti dare un’occhiata, anche superficiale, agli episodi di cui è composta una qualsiasi serie proveniente dal Giappone per rendersi conto della fondatezza della tesi enunciata nel libro, ovvero che il rapporto di tipo comunicativo in­ staurato con lo spettatore definisce lo stile e soprattutto “l’identità” del co­ siddetto anime, il disegno animato nipponico. In secondo luogo, a differenza di molti dei lavori su questo argomento pub­ blicati nel nostro paese, spesso penalizzati dall’assenza di serie basi teoriche e viziati da un approccio a metà strada fra la sociologia spicciola e l’entusiasmo maniacale àéWotaku, il saggio di Teti si segnala per il rigore metodologico e al tempo stesso per la pluralità degli strumenti utilizzati nel corso della sua trat­

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tazione, che spaziano dall’antropologia alla semiotica, dalla critica letteraria alla psicanalisi, dalle riflessioni sull’enunciazione cinematografica agli studi proppiani sulla fiaba. Tale scelta consente all’autore di affrontare l’analisi del­ le specifiche componenti estetiche e narrative àeW anime con l’ausilio dei mo­ delli teorici ritenuti di volta in volta più opportuni e pertinenti, rendendo co­ sì meno parziale la prospettiva disciplinare dalla quale si inquadra l’oggetto osservato e meno “obbligata” l’interpretazione dei testi. Quello di Teti è in terzo luogo uno dei pochi saggi nei quali viene posto l’accento in maniera dichiarata sui punti di contatto esistenti e facilmente ri­ levabili tra il disegno animato giapponese di serie e alcune tradizioni narrati­ ve di origine europea e nordamericana, come per esempio il feuilleton o il ro­ manzo di formazione. L’interesse si focalizza soprattutto sugli elementi che a livello formale e strutturale consentono alle serie animate nipponiche di isti­ tuire un legame profondo con le forme più tipiche della narrativa popolare, al­ le quali sono accomunate dal fatto di “discendere”, se così si può dire, dalle medesime fonti: il mito, la fiaba e via dicendo. Credo infine che un altro piccolo merito da attribuire a Teti sia quello di non concedere alcuno spazio all’aneddotica concernente le vicende realizzative dell’opera presa in esame o le biografie dei suoi autori. Egli infatti preferi­ sce ridurre 1’“appeal” editoriale del volume piuttosto che compromettere la credibilità e il rigore scientifico della propria ricerca. Il difetto maggiore del li­ bro è invece costituito senza dubbio dalla sua brevità, e quindi dalla concisio­ ne talora eccessiva con la quale si tirano le somme di alcuni discorsi imposta­ ti, anche di notevole importanza, rinunciando in tal modo a verificarne la te­ nuta attraverso l’analisi dettagliata di episodi o sequenze precise della serie animata a cui è prioritariamente dedicato, 3x3 Occhi. D’altra parte Lo specchio dell’anime, per ammissione del suo giovane auto­ re, va considerato, piuttosto che un traguardo, un semplice punto di parten­ za. Tenuto conto dell’importante ruolo ricoperto dell’animazione giapponese di serie all’interno dell’attuale sistema dei media, non si può non auspicare che la ricerca portata avanti nel libro, frutto della rielaborazione di spunti conte­ nuti nella sua tesi di laurea, venga proseguita e approfondita ulteriormente in altre sedi dallo stesso Teti o da altri studiosi.

Introduzione1

Negli ultimi anni è notevolmente aumentato il numero di saggi in lingua ita­ liana aventi per argomento l’animazione giapponese. La maggior parte di que­ sti saggi privilegia un approccio di tipo antropologico o sociologico. Conside­ ra, cioè, l’animazione nipponica ‘semplicemente’ il frutto di una determinata società e di una determinata cultura. Tali studi utilizzano il prodotto animato nipponico, in definitiva, per esaminare in particolare la società e la cultura giapponese oppure il sistema italiano dell’informazione e dei mass media. Il presente lavoro cerca di integrare tale approccio tenendo ben presenti le spe­ cificità - linguistiche e antropologiche - dell’oggetto indagato. Insomma, il presente saggio inquadra l’animazione nipponica anche da un’altra prospetti­ va, ne esplora un altro versante. Questo è uno studio del linguaggio del pro­ dotto animato giapponese e, soprattutto, delle modalità attraverso cui il pro­ dotto animato nipponico comunica con lo spettatore. Non solo giapponese. La decisione di adottare un approccio per l’appunto di tipo pragmatico nasce da tre constatazioni strettamente collegate. In primo luogo, nell’animazione giapponese il rapporto comunicativo con lo spettatore, uno spettatore ben pre­ ciso, risulta pressoché fondamentale. In secondo luogo, è solo in base a que­ sto rapporto, la cui natura viene svelata nel corso dell’analisi, che la produzio­ ne animata nipponica si definisce e si differenzia dalle altre produzioni ani­ mate. In terzo e ultimo luogo, l’animazione giapponese finisce più o meno in­ consapevolmente col sottoporre a processo di metaforizzazione l’età del pro­ prio spettatore di riferimento: l’adolescente2. Sono esattamente quattro i capitoli in cui il nostro studio si articola. Nel primo capitolo esplicitiamo le ragioni che ci portano a concentrare l’attenzio­ ne, in un universo variegato ed affollatissimo quale è quello dell’animazione giapponese, proprio su di una specifica serie, peraltro poco conosciuta, alme­ no in Italia. Delineiamo, quindi, il percorso cronologico di tale serie animata, che costituisce l’oggetto d’analisi, e riassumiamo la storia che essa narra. Nel secondo capitolo l’orientamento metodologico viene ulteriormente precisato. L’intenzione è quella di muovere nel solco tracciato da Francesco Casetti3 e

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Gianfranco Bettetini4. Ci si sofferma, in particolar modo, sulla figura dell’antisoggetto, ovvero su uno dei ruoli secondo Casetti ricoperti all’interno del processo di comunicazione dallo spettatore, il quale, basandosi sulle proprie facoltà interpretative, attribuisce un significato a ciò che viene comunicato dal soggetto enunciatore. Calandoci nei panni dell’antisoggetto tentiamo di di­ mostrare che questo significato arbitrariamente assegnato finisce col coinci­ dere, almeno nel nostro caso, con il processo di metaforizzazione dell’età ado­ lescenziale operato dai prodotti animati provenienti dal paese del Sol Levan­ te. Nel terzo capitolo l’interesse ruota intorno a quello che succede nella men­ te dello spettatore. O per meglio dire, quello che viene fatto succedere. Nel quarto capitolo, infine, si prendono in esame le caratteristiche semantico-strutturali dell’opera oggetto di studio. Inoltre, si cerca di rendere evidente il fatto che è su di un piano precognitivo, un piano che addirittura ‘precede’ quello lin­ guistico - stiamo parlando del piano affettivo, quello delle emozioni - che la distanza culturale tra fruitore occidentale (o comunque non asiatico) e pro­ dotto animato giapponese si accorcia fino quasi ad annullarsi. L’obiettivo che ci poniamo è ribadire la dignità scientifica di un fenomeno fino a pochi anni fa ritenuto, a torto, ‘basso’, triviale; in poche parole, privo d’importanza, nonostante l’evidente rilevanza nell’ambito della contemporanea cultura di massa.

Note 1 La prima, parziale versione del presente saggio è stata pubblicata nel marzo del 2008 sul­ la testata giornalistica “Noema - Tecnologie & società”. 2 Per la precisione, gli adolescenti divengono gli spettatori di riferimento delle produzioni animate giapponesi a partire dagli anni Ottanta. A tal proposito, cfr. A. Baricordi, M. De Gio­ vanni, A. Pietroni, B. Rossi, S. Tunesi, Anime. Guida al cinema di animazione giapponese, Bo­ logna, Granata Press, 1991, pp. 168-221. 5 Cfr. F. Casetti, Dentro lo sguardo. Il film e il suo spettatore, Milano, Bompiani, 1986. 4 Cfr. G. Bettetini, La conversazione audiovisiva. Problemi dell’enunciazione filmica e televi­ siva, Milano, Bompiani, 1984. L’impianto metodologico del presente studio riprende tuttavia in buona parte quello di G. Pescatore, Il narrativo e il sensibile. Semiotica e teoria del cinema, Bologna, Hybris, 2001.

Capitolo 1

Esplorare l’animazione giapponese attraverso lo studio di un caso esemplare: le due serie di 3x3 Occhi (Sazan Aizu)

1.1

Perché 3x3 Occhi (Sazan Aizu)? L’impatto che il cinema d’animazione giapponese ha sulla cultura televisiva e ci­ nematografica occidentali sono frequente oggetto di studio, e ne costituiscono probabilmente uno dei fenomeni più incisivi e interessanti sotto molto aspetti, da quelli mediologici e sociologici a quelli culturali ed estetici. Qui si vuole sol­ tanto notare che il cartoon giapponese - considerato spesso negli anni Ottanta un parametro della bassezza culturale del film d’animazione - ha in realtà con­ tribuito in modo determinante, almeno quanto il boom statunitense degli anni Novanta, a trasformare l’idea stessa del film d’animazione e a riportarla, con mezzi completamente diversi - ivi compresa la peggiore serialità televisiva - nel sistema del cinema, a tirarla fuori dal «ghetto» dei vecchi toons.x

Nel passo sopra riportato sono posti sul tappeto, in maniera pregevole, tut­ ti i termini della questione: l’interesse negli ultimi anni esercitato dall’anima­ zione nipponica sulla comunità scientifica internazionale2 - almeno su di una parte di essa il riconoscimento del contributo dato dalla produzione giap­ ponese allo svecchiamento del cinema d’animazione. L’aspetto che maggior­ mente ci preme sottolineare, in questa sede, è proprio quello relativo alla ri­ valutazione critica nei confronti di un sistema produttivo e di una cinemato­ grafia troppo a lungo giudicati in maniera superficiale e approssimativa.

Se si escludono Kuri ed alcuni altri giovani artisti delle nuove generazioni, gli autori del disegno animato degli anni Sessanta hanno totalmente trascurato non soltanto i temi dell’attualità politica e sociale, ma anche quelli della tradizione letteraria e figurativa nazionale. Dominata dalla favolistica mondiale, utilizzata in modi e forme consueti, secondo la lezione del peggior Disney e gli schemi il­ lustrativi d’un disegno banalmente realistico, la produzione di lungometraggi d’animazione è caratterizzata dai film, oltreché di Yabushita, di Osamu Tezu­ ka, Yugo Serikawa, Kimio Yabuki e molti altri. [...] È insomma un disegno ani­ mato di consumo che, a differenza di quello americano degli anni Trenta, Qua­ ranta, e Cinquanta, non è nemmeno in qualche modo legato a una tradizione

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del fumetto, della letteratura popolare e infantile. È una pura operazione com­ merciale e speculativa di cui non sarebbe il caso di parlare se esso non rappre­ sentasse la parte più massiccia e nota della produzione di film d’animazione in Giappone.3 La stroncatura è evidentemente senza appello. Nel corso della nostra ana­ lisi avremo modo di ribattere punto per punto alle ‘inesattezze’ presenti nel brano appena citato4. Ritornando al discorso riguardante la rivalutazione cri­ tica dell’animazione nipponica, ci pare di poter affermare che l’auspicio del competente Luca Raffaeli!, autore di una delle prime - almeno per quel che concerne la letteratura critica italiana sull’argomento - e delle più complete ricognizioni dell’universo animato dell’arcipelago giapponese, si è dunque av­ verato: Fortuna che i vecchi appassionati dell’animazione giapponese intanto sono cre­ sciuti e hanno continuato a seguire (a volte con devozione maniacale, ma tale è, appunto, il frutto della contrapposizione) personaggi ed autori nipponici. E, come prima di loro i fanatici di Flash Gordon e Mandrake, hanno avuto (e stan­ no avendo) la possibilità di dirigere riviste, organizzare festival, convegni. Nel giro di pochi anni si arriverà alla riscoperta e rivalutazione del cartone giappo­ nese e tutto diventerà cronaca italiana. Ci sarà solo qualche resistenza in più, ri­ spetto a quella che c’è stata nei confronti dei fumetti americani, perché la cul­ tura giapponese è molto più lontana e ci insospettisce (e chissà se verremo mai liberati da truppe nipponiche).5 L’oggetto privilegiato del nostro studio è il disegno animato seriale; la pro­ duzione industriale - destinata molto spesso al consumo televisivo - che la cri­ tica ha rivalutato negli ultimi decenni. Da qui la decisione di non accostare al titolo della serie sottoposta ad analisi il nome di un regista o di una qualsivo­ glia figura autoriale. Per essere più corretti, essendo la nostra principalmente un’analisi linguistica si preferisce considerare le due dimensioni dell’anima­ zione giapponese, ovvero quella autoriale e quella industriale, come facenti parti di un unico sistema: il sistema della produzione animata proveniente dal cosiddetto paese del Sol Levante6. 3x3 Occhi (Sazan Aizu o Sazan Eyes, in originale), nella sua medietà formale e contenutistica, costituisce una sorta di caso esemplare. In 3x3 Occhisi ritro­ vano temi, figure, situazioni, motivi iconografici, soluzioni narrative e composi­ tive presenti nella maggior parte delle produzioni animate seriali provenienti dal Giappone. Con formula sensazionalistica - ma forse non troppo - si po­ trebbe affermare che 3x3 Occhi rappresenti tutti gli anime1. Pars pro foto. Una parte per il tutto. La metonimia è una figura retorica ricorrente nei saggi che trattano la produzione animata nipponica. Analizzare l’opera realizzata da Kodansha Video, Bandai e King Records, in collaborazione con Toei Television,

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equivale ad analizzare tutto il sistema dell’animazione giapponese. 3x3 Occhi, co­ me il resto della produzione animata giapponese - e come tutte le opere audio­ visive, ci verrebbe da dire - è una grande ed ‘inconsapevole’ operazione meta­ linguistica. Racconta una storia e, contemporaneamente, parla di sé, della sua struttura. Soprattutto, per il discorso che ci interessa portare avanti qui, lascia emergere il progetto comunicativo che ne sta alla base e le modalità con cui ef­ fettivamente comunica con lo spettatore. In definitiva, è la paradigmaticità, l’esemplarità della serie la ragione fondamentale che ci porta a sceglierla.

1.2

Sviluppo cronologico di 3x3 Occhi (Sazan Aizu): dal fumetto alla se­ rie animata e ritorno

La fonte narrativa, figurativa e tematica alla quale le serie animate di 3x3 Oc­ chi attingono è il fumetto omonimo scritto e disegnato da Takada Yuzo. In Giappone c’è un legame strettissimo tra fumetto e animazione.8 Il fumetto e più in generale - l’industria culturale giapponese hanno una dimensione so­ stanzialmente multimediale. Da un fumetto - oppure da una qualsiasi altra fonte narrativa - di successo vengono cioè tratti lungometraggi e serie anima­ te, videogiochi, giocattoli e gadget di vario tipo, compact disc musicali, giochi di ruolo, e così via. Quella portata avanti dall’industria nipponica dell’intrat­ tenimento e della cultura è in pratica una politica di diversificazione e sfrutta­ mento intensivo del prodotto. Le ragioni di ciò sono molteplici ma non ci in­ teressa qui indagarle. A 3x3 Occhi, per esempio, oltre alle due serie animate da noi analizzate sono dedicati videogiochi e giochi di ruolo. Facendo un passo indietro, possiamo affermare che la maggioranza delle serie a disegni animati è tratta da fumetti di grande successo. La trasposizione animata, dal canto suo, sancisce la popolarità di un fumetto. In particolare,

“a livello stilistico i manga [ovvero i fumetti giapponesi] hanno improntato con i loro codici espressivi l’animazione giapponese. [...] Le estetiche di anime e manga tendono a convergere, mentre altrove il distacco tra fumetti e cartoni è piuttosto netto.”9 Tra poco abbiamo modo di tornare su questo importantissimo, fondamen­ tale nodo teorico costituito dal rapporto tra il fumetto e il disegno animato. L’opera di Takada vede la luce nel 1987 sulla rivista “Young Magazine” pubblicata dalla prestigiosa casa editrice Kodansha. In Italia è la rivista “Kap­ pa Magazine” ad ospitare 3x3 Occhi sin dal luglio del 199310. Su “Kappa Ma­ gazine”, rivista pubblicata dalla casa editrice Star Comics, compaiono tutti gli episodi che compongono la prima serie del fumetto11. Dal giugno del 1994 il fumetto di Takada viene spostato sul mensile “Young”, sempre edito dalla Star

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Comics12. La prima serie a disegni animati tratta dall’opera di Takada esce in Giappone, per il lucroso mercato deWhome videox\ nell’anno 1991 ed in Ita­ lia tre anni dopo. A distribuirla, nel nostro paese, è prima la casa editrice Gra­ nata Manga e in seguito la Polygram Manga14. La seconda serie animata rica­ vata dal fumetto di Takada è invece pubblicata in Giappone tra il 1995 e il 1996. La Polygram Manga la distribuisce in Italia nel 199715. La prima serie animata segue abbastanza fedelmente la prima serie del fu­ metto. La seconda, invece, propone una sorta di nuova versione o ‘libero adat­ tamento’ della seconda serie del fumetto di Takada. La seconda serie di 3x3 Oc­ chi è tra l’altro l’unica nella quale viene raccontata una storia che si può a buon diritto considerare autonoma e perfettamente autoconclusiva. I dolorosi tagli operati nel passaggio dal fumetto al cartone animato, che andrebbero comun­ que rilevati e che sono dovuti a cause molteplici - la ristrettezza dei tempi nar­ rativi, la maggiore edulcorazione dei prodotti animati rispetto ai corrispon­ denti cartacei, le idiosincrasie degli adattatori -, non inficia, ci pare, la corret­ ta comprensione del testo.16 A proposito, facciamo una piccola precisazione: tenuto conto della sua brevità,17 della sua compattezza e della lampante com­ plementarità delle due parti che lo compongono, si preferisce considerare 3 x3 Occhi come un testo unico e non come un corpus, una pluralità di testi. Que­ sta puntualizzazione ci pare doverosa. La complementarità delle due serie ani­ mate di 3x3 Occhi è riscontrabile su almeno tre livelli. Si può definire il primo livello narrativo. Al secondo livello si può assegnare, invece, il nome di livello tematico. Il terzo livello, infine, lo si può chiamare livello formale. Per quanto riguarda il livello narrativo, osserviamo, banalmente, che le vicende racconta­ te nella prima serie trovano una naturale conclusione nella seconda. E ancora, mentre nella prima serie è Pai, la protagonista femminile, a cercare Yakumo, il protagonista maschile, e, successivamente, a fargli da guida - nel suo mon­ do fantastico -, nella seconda è Yakumo a cercare Pai e a farle, in seguito, da aiutante. Per quel che concerne il secondo livello è sufficiente dire che in en­ trambe le serie compaiono gli stessi temi, tutti riconducibili a quella sorta di macrotema che possiamo chiamare ‘conflitto identitario’. La particolarità è co­ stituita dal fatto che questi temi siano inquadrati da due prospettive diverse: quella dello studente Yakumo, protagonista incontrastato della prima serie, e quello della studentessa Pai, protagonista assoluta della seconda serie. Tornia­ mo su questo punto nel prossimo capitolo. A livello formale, non possiamo non constatare il fatto che l’evidente scarto qualitativo tra le due serie finisca col segnalare, più o meno volontariamente, uno dei principali nodi teorici di tutto il cinema d’animazione. Stiamo parlando, se ne è accennato all’inizio del paragrafo, del rapporto tra fumetto e disegno animato. La seconda serie animata di 3x3 Occhi, libera da vincoli di fedeltà, sempli­ ficata, pensata per il mezzo cine-televisivo risulta decisamente più compiuta,

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più riuscita della prima, che paga lo scotto di un troppo saldo ancoraggio al fu­ metto. Si ha infatti «incompatibilità» estetica tra il fumetto e il disegno animato, a meno che non intervenga una sorta di ricreazione artistica che riesca a dare ai nuovi perso­ naggi semoventi e alle nuove storie filmiche una loro ragione espressiva e una loro autonomia formale.18

Da una parte abbiamo un mezzo di comunicazione come il fumetto che è sostanzialmente statico e dall’altra abbiamo il cinema, ovvero uno dei mezzi espressivi più dinamici.

La dinamica contenuta nelle «strisce», strettamente legata ai tempi di lettura e, almeno in parte, soggettiva in quanto dipendente dalla velocità d’apprendi­ mento del lettore, non poteva essere semplicemente trasposta in una succes­ sione meccanica e fissa di immagini cinematografiche, il cui ritmo poteva non corrispondere a quello, più libero e articolato, del fumetto. Ed anche i perso­ naggi, acquistando un movimento reale al posto di quello virtuale delle «stri­ sce» - fissato in momenti privilegiati strettamente connessi con le fasi narrati­ ve della storia e in rapporto reciproco con gli altri personaggi, l’ambiente, i dialoghi -, mutavano le loro caratteristiche estetiche e, se l’operazione era con­ dotta manualmente, senza fantasia o interpretazione critica, si svuotavano del loro significato poetico.19

Mentre nel fumetto il movimento è virtuale e soggettivo, dunque, nel cine­ ma è reale20 e precostituito. I personaggi e gli avvenimenti della seconda serie animata di 3x3 Occhi sono pensati in termini cinetici. A proposito, è curioso notare il fatto che alla seconda serie animata di 3x3 Occhi collabori anche Ta­ kada Yuzo, in veste di sceneggiatore.

La copertina del primo OAV di 3x3 Occhi. Takada Yuzo © Kodansha/Toei doga/Bandai/King Records/Plex Starchild

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La grandezza dei giapponesi risiede nella capacità di conciliare, sin dagli anni Sessanta, quello che, all’apparenza, conciliabile non è. I responsabili crea­ tivi e tecnici dell’industria animata nipponica - registi, sceneggiatori, animatori, e così via - combinano, per ragioni economiche e produttive più che per ne­ cessità poetico-espressive,21 il linguaggio del fumetto e quello dell’animazio­ ne. Quello che ne viene fuori è qualcosa di assolutamente insolito e dirom­ pente. La sintesi operata dall’animazione giapponese produce un linguaggio nuovo e rivoluzionario.

Insomma, in linea generale gli anime potrebbero essere considerati come fu­ metti animati: come i manga22 tralasciano le azioni che stanno tra una vignetta e l’altra, così gli anime lasciano all’immaginazione i movimenti dei personaggi che non è strettamente necessario mostrare.25 L’ibridazione è dunque la principale peculiarità - sul piano del linguaggio - del cartoon giapponese, il quale può essere giustamente definito un ‘fumet­ to animato’. Tezuka24 ha sempre rimpianto le modalità lavorative e il risultato finale di Tetsuwan Atom25: egli sognava un lavoro più «corposo», molto più ricco di dise­ gni e dunque dall’animazione più fluida, sulla falsariga della scuola americana; ma il successo televisivo di Atom fu grandioso e pose le basi di una nuova filo­ sofia produttiva, che da una parte era tesa al risparmio economico e realizzativo (meno disegni e fondali), dall’altro era rivolta, proprio in conseguenza di una povertà tecnico-quantitativa, a un miglioramento delle storie da un punto sceneggiativo e registico. Più pathos dunque, più azione e colpi di scena, ma anche un montaggio articolato, sempre più lontano dalla staticità dei cartoons statunitensi - già dal 1961 in Giappone venivano trasmessi Gli Antenati - e sempre più proiettati verso un traguardo di grande dinamismo.26

In pratica, “quella che doveva essere una soluzione temporanea e forzata dalla mancanza di capitale è diventata uno standard produttivo imitato da tut­ ti [i produttori giapponesi di serie animate]”.27 Anche il target di riferimento delle due serie animate di 3x3 Occhi sembra differente e, soprattutto, complementare. La prima serie pare volersi rivolge­ re ad adolescenti di sesso maschile. Gli ingredienti che dominano la serie, in­ fatti, sono l’azione, lo humour, l’erotismo ammiccante e gli equivoci senti­ mentali. La seconda serie a disegni animati, invece, sembra voler entrare in sintonia con adolescenti di sesso femminile. Nella seconda serie di 3x3 Occhi vengono messe in scena storie d’amore appassionate e tragiche. I sentimenti espressi diventano intensi ed idealizzati. Le donne si votano stoicamente al sa­ crificio. C’è una virata risoluta verso territori shojo, insomma. Shojo è la paro­ la giapponese che indica le adolescenti e che è posta davanti a tutti quei pro­ dotti ad esse destinati. Manga ed anime compresi. Numerosi saggi, anche in lin­

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gua italiana, vertono sulle caratteristiche socio-antropologiche delle adolescenti giapponesi, sulla cosiddetta shojo culture. Si è ribadito, in più di un’occasione, il fatto che vi sia un legame molto stretto tra essa, la new wave horror giappo­ nese degli anni Novanta e il mezzo espressivo che ne veicola le istanze, ovve­ ro lo shojo manga. Ne riparliamo, in modo approfondito, nel terzo capitolo. Per il momento ci limitiamo a riportare un brano che ci pare renda bene l’idea del terreno in cui ci si muove: Molti hanno [...] avuto la sorpresa di accorgersi che lo shojo manga28, nato co­ me forma di intrattenimento convenzionale e edulcorato, si era evoluto in un ge­ nere narrativo sofisticato e complesso e che, nell’indifferenza generale, si era for­ mata una cultura sommersa che dal manga si irradiava nella letteratura, nel ci­ nema, nella musica e nella moda.29 E il genere di appartenenza, quello avventuroso, ad onor del vero, a rendere 3x3 Occhi apprezzabile dagli adolescenti di entrambi i sessi. Negli anime il genere avventuroso è forse quello, fra tutti, contaminato dal­ le più numerose ibridazioni: umorismo, fantascienza, un velato erotismo, iniezioni di thriller, poliziesco, mitologia, storia, arti marziali, dramma sen­ timentale, commedia e soap-opera. Questa miscellanea non deve però mera­ vigliare: gli autori giapponesi sono sempre stati bravi a ideare dei veri e pro­ pri pastiches nei disegni animati, mescolando codici espressivi e canoni te­ matici con una certa disinvoltura e originalità, col preciso scopo di sorpren­ dere gli spettatori e farli assistere a continui capovolgimenti narrativi e «di registro».30

A nostro avviso, quello avventuroso è una sorta di macrogenere, un vero e proprio ‘contenitore’. Possiamo affermare, quindi, in conclusione, che ci si trovi di fronte ad una palese conferma della paradigmaticità, dell’esemplarità di 3x3 Occhi. In 3x3 Occhi c’è, è presente, tutta l’animazione seriale giappo­ nese. Analizzare 3x3 Occhi significa analizzare tutto il sistema della produzio­ ne animata nipponica di serie.

1.3

Sinossi degli episodi

PRIMA SERIE

Realizzazione: Toei doga/Bandai/King Records. Animazione e Character de­ sign: Arai Koichi. Sceneggiatura: Endo Akinori. Musica: Wada Kaoru. Regia: Nishio Daisuke. Giappone, 1991 Takada/Kodansha/Plex/Starchild.

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Episodio 1 Reincarnazione (Tensei no Shou) Durata dell’episodio: 28 minuti.

Episodio 2 Yakumo (Yakumo no Shou) Durata dell’episodio: 28 minuti. Episodio 3 Sacrifìcio (Saisei no Shou) Durata dell’episodio: 30 minuti. Episodio 4 Scomparsa (Meisou no Shou) Durata dell’episodio: 26 minuti. Recandosi al lavoro, lo studente liceale Yakumo Fujii si imbatte in Pai, una ragazza cinese dallo strano abbigliamento e dall’espressione spaesata. Il ra­ gazzo soccorre la fanciulla dopo averla investita con la propria motocicletta. Pai - con immensa gioia - riconosce quasi immediatamente in Yakumo la per­ sona che cerca e gli consegna una lettera scritta dall’etnologo Hajme Fujii, il padre del giovane. Yakumo viene in questa maniera a conoscenza del fatto che Pai è in realtà un sanzhiyan hum kara, un triclope, ovvero una creatura sovrannaturale dotata di un terzo occhio e di immensi poteri. Improvvisa­ mente attaccato e ghermito da una gigantesca arpia, Yakumo evita la morte esclusivamente grazie all’intervento di Pai, la quale spalanca il terzo occhio che ha sulla fronte e fonde la propria anima a quello del ragazzo. Yakumo di­ viene in questo modo un tvu, ovvero un guerriero immortale al servizio del triclope che lo ha generato donandogli la vita eterna. I due ragazzi si mettono dunque alla ricerca della statua dell’umanità, un antichissimo manufatto tra­ mite cui per i triclopi e i propri wu è possibile diventare esseri umani. Con enorme dispiacere, Yakumo abbandona gli amici e lascia Tokio trasferendosi insieme a Pai a Hong Kong. Qui, i due ragazzi incontrano Li Ling Ling, un’esperta di occultismo interessata a recuperare la statua dell’umanità grazie anche all’aiuto della quale riescono ad allontanare gli spiriti maligni dall’abi­ tazione della signora Huang, un’ambigua e facoltosa vedova. Sempre a Hong Kong, Yakumo e Pai stringono amicizia con Mei Xing Long, una graziosa e ag­ gressiva ragazza alla ricerca del fratello Steve, un esorcista rapito dalla setta ca­ peggiata da Benares. Quest’ultimo, è un malvagio tvu deciso a sciogliere l’in­ cantesimo - fatto da Pai - attraverso il quale secoli prima il proprio triclope, il cui nome è Demone Sovrano, è stato imprigionato in un tempio. Dopo ave­

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re liberato Steve Long, Yakumo e Pai - il cui legame è rafforzato dal senti­ mento amoroso che l’uno prova nei confronti dell’altra - si scontrano in varie occasioni con Benares, responsabile assieme al Demone Sovrano dello ster­ minio dei sanzbiyan hum kara, di cui Pai rappresenta l’ultimo esponente. La posta in palio della contesa è la salvezza del mondo e del genere umano. Nel corso dell’ultimo scontro, Pai scompare senza lasciare traccia gettando Yaku­ mo nel panico. Il ragazzo si mette subito in cerca della propria triclope con­ fortato dalla certezza che lei sia viva. Se infatti un triclope muore, cessa di vi­ vere anche il wu che ha creato e di cui possiede l’anima.

SECONDA SERIE

La leggenda del Demone Divino (Seima Densetsu)

Episodio 5 la Discendente (Matsuei no Shou) Produzione esecutiva: Miyahara Teruo, Mogi Takashi, Shigematu Hidetoshi. Produzione: Yoshimasa Mizuo, Watanabe Shigeru, Shimana Koji. Anima­ zione e Character design: Kumagai Tetsuya. Sceneggiatura: Takada Yuzo e Takenouchi Kazuhisa. Direzione artistica: Kato Hiroshi. Direzione della fo­ tografia: Watanabe Hidetoshi. Musica: Wada Kaoru. Regia: Takenouchi Ka­ zuhisa. Giappone, 1995 Takada/Kodansha/Bandai Visual/King Records. Durata del­ l’episodio: 48 minuti.

Episodio 6 la Chiave (Kagi no Shou) Produzione esecutiva: Miyahara Teruo, Mogi Takashi, Shigematu Hidetoshi. Produzione: Yoshimasa Mizuo, Watanabe Shigeru, Shimana Koji. Animazio­ ne e Character design: Kumagai Tetsuya. Sceneggiatura: Takada Yuzo e Ta­ kenouchi Kazuhisa. Direzione artistica: Takeda Yusuke. Direzione della fo­ tografìa: Watanabe Hidetoshi. Musica: Wada Kaoru. Supervisore alla Regia: Takenouchi Kazuhisa. Regia: Sayama Seiko. Giappone, 1995 Takada/Kodansha/Bandai Visual/King Records. Durata del­ l’episodio: 45 minuti.

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Episodio 7 il Ritorno (Kikan no Shou) Produzione esecutiva: Miyahara Teruo, Mogi Takashi, Shigematu Hidetoshi. Produzione: Yoshimasa Mizuo, Watanabe Shigeru, Shimana Koji. Animazio­ ne e Character design: Kumagai Tetsuya. Sceneggiatura: Takada Yuzo e Ta­ kenouchi Kazuhisa. Direzione artistica: Takeda Yusuke. Direzione della fo­ tografìa: Watanabe Hidetoshi. Musica: Wada Kaoru. Regia: Takenouchi Ka­ zuhisa. Giappone, 1996 Takada/Kodansha/Bandai Visual/King Records. Durata del­ l’episodio: 50 minuti. In compagnia di alcune amiche, Pai passeggia per le strade affollate di Tokio, città in cui frequenta il liceo. All’ingresso di un grande magazzino, la ragazza viene inaspettatamente abbracciata da un barbone che altri non è che Yakumo, dal quale è stata separata per più di quattro anni. Pai fugge via e poco dopo sviene. Al risveglio, la giovane si trova nella propria camera da letto, circondata da inquietanti bambole che paiono osservarla. In salotto, Pai incontra nuovamente Yakumo, da cui ha ricevuto soccorso ed è stata ri­ portata a casa. Il ragazzo conversa con quelli che Pai crede essere i propri nonni ma che in realtà sono demoni al servizio di Benares. Yakumo impiega parecchio tempo prima di convincere Pai a fuggire dall’abitazione. Privata della memoria, la fanciulla non ricorda infatti Yakumo e neppure la propria identità. Solamente una serie di sogni - nei quali lei ha costantemente un ter­ zo occhio in mezzo alla fronte - le rivela la sua natura non umana. I due ra­ gazzi sconfiggono una enorme bambola - al cui interno si cela un demone e partono per Hong Kong, dove li aspettano Tinzin e Naparva, una coppia di monaci buddhisti in grado di fare recuperare la memoria a Pai. Giunti a Hong Kong, Pai e Yakumo prima fanno la conoscenza di McDonald, un av­ venturiero interessato a scoprire il segreto dell’immortalità custodito dai sanzhiyhan hum bara, poi si scontrano con Choukai e Lang Bao Bao, due mo­ struose creature alle dipendenze di Benares, il quale vuole impedire a tutti i costi che venga rintracciato il tempio nel quale è rinchiuso il Demone So­ vrano. L’unico mezzo attraverso cui si può raggiungere tale tempio è un an­ tico vaso del quale Yakumo e Pai entrano in possesso con grande fatica. I due ragazzi superano le barriere spazio-temporali e raggiungono il regno dei triclopi, dove si trova il tempio nel quale è imprigionato il Demone Sovrano. In questo luogo, vengono a conoscenza del fatto che Pai è in realtà la Dea Parvati, destinata a sposare Shiva, il Dio della distruzione, ovvero il Demo­ ne Sovrano. L’arrivo di Benares scatena una furiosa battaglia da cui paiono uscire sconfitti Yakumo e Pai, la quale diviene inoltre preda di una spaven­

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tosa crisi d’identità. In seguito al ritrovamento della memoria, la ragazza si rende conto di non essere altri che Hua She, un demone acquatico che Be­ nares ha utilizzato per cancellare la memoria e controllare il corpo di Pai. Per amore di Yakumo, Hua She si sacrifica abbandonando il corpo di Pai, la quale, recuperati i propri poteri e spalancato il terzo occhio, pronuncia una formula magica tramite cui spazza via Benares e il tempio nel quale è rin­ chiuso il Demone Sovrano.

Note 1 C. Magri, Il cinema d’animazione verso il 2000, in G. Rondolino, Storia del cinema d’ani­ mazione. Dalla lanterna magica a Walt Disney da Tex Avery a Steven Spielberg, Torino, UTET, 2003, pp. 432-433. Chiara Magri intitola - non a caso - Cinema d’animazione giapponese. Pre­ giudizio e conversioni il paragrafo dedicato all’animazione nipponica. 2 “Il 1996 è da considerare l’anno zero dell’animazione giapponese, cioè l’anno in cui i car­ toni animati sono stati presi per la prima volta in considerazione come una vera e propria for­ ma di cultura da tutti i mass media. Il motivo principale che ha portato finalmente a classificare l’arte animata come una forma di ‘pop art’ è stato la produzione della serie della Gainax Neon Genesis Evangelion.” S. Murakami, Anime in Tv. Storia dei cartoni animati giapponesi pro­ dotti perla televisione, Milano, Yamato, 1998, p. 177. ’ G. Rondolino, op. cit., pp. 363-364. 4 Va comunque riconosciuto che lo stesso Rondolino fa pubblica ammenda nella prefazio­ ne del proprio saggio, la cui prima edizione risale all’anno 1974. Lo studioso scrive infatti: “Se non fosse che, scritta e pubblicata una trentina di anni fa, in un differente periodo storico e culturale, ora corretta e aggiornata sulla base di nuove acquisizioni storiche e filologiche e com­ pletato con un capitolo, redatto da Chiara Magri, che copre l’ultimo trentennio, e da una bi­ bliografia generale a cura di Emiliano Fasano, la presente storia del cinema d’animazione può avere ancora una sua ragion d’essere e una sua utilità.” Ivi, Prefazione, p. X. 5 L. Raffaelli, Le anime disegnate. Il pensiero nei cartoon da Disney ai giapponesi, Roma, Castelvecchi, 1994, p. 167. 6 Cfr. AA.VV, Maestri & robot. Guida al cinema d’animazione giapponese, Dossier allegato alla rivista “Notturno”, n. 11, maggio 2003. 7 Con la parola anime vengono indicate le produzioni animate giapponesi. La parola anime costituisce la contrazione del termine inglese animation. 8 La relazione tra l’animazione e il fumetto giapponese è specificatamente trattata in D. Castellazzi, Animeland. 'Viaggio tra i cartoni made in Japan, Firenze, Tarab, 1999, pp. 21-30. 9 E. Benecchi, Anime. Cartoni con l’anima, Bologna, Hybris, 2005, p. 17. 10 Cfr. Kappa Boys, 3x3 Occhi, in “Kappa Magazine”, n. 16 e !6, ottobre 1993, pp. 1-2. Cfr. anche Kappa Boys, 3x3 Occhi, in “Greatest”, n. 54, luglio 2004, pp. 248-249. 11 3x3 Occhi è composto da tre serie distinte i cui titoli sono La statua dell’umanità, Alla ri­ cerca del santuario e II segreto dei triclopi.

22 12 L’opera di Takada è stata ristampata di recente dalla Star Comics in volumi monografici fedeli al formato originale. Cfr. “Greatest”, n. 54-64, luglio 2004-maggio 2005. Nella stessa col­ lana è stata inoltre pubblicata quella che viene considerata la quarta serie di 3x3 Occhi, il cui nome è per la precisione Trinetra. Takada ha dichiarato di considerare quasi una storia auto­ noma quella raccontata in Trinetra. 13 Gli episodi di 3x3 Occhi sono degli OAV (Originai Anime Video). La loro destinazione non è la televisione o il cinema ma il video domestico. Sul fiorente mercato del home video, le cui pro­ duzioni in Giappone hanno affiancato quelle televisive e cinematografiche, rimandiamo all’inte­ ressante saggio di Roberta Novielli 'V shinema'.- l’altra industria, in G. Spagnoletti, D. Tornasi (a cura di), Il cinema giapponese oggi. Tradizione e innovazione, Torino, Lindau, 2001, pp. 35-40. 14 II fallimento - e la chiusura - di Granata Manga e Polygram Manga costituisce il motivo dell’ irrintracciabilità delle due serie di 3x3 Occhi in Italia. 15 Cfr. http://www.nkweb.net/manga/3x3/mo.htm e http://www.geocities.com/benares_00/lanime.htm. 16 Va comunque rilevato il fatto che, per ragioni di natura economica, consuetamente in Giappone le serie animate si discostino - anche parecchio - dai fumetti da cui sono tratte. “Qui si delinea un’altra delle regole principali del mondo del cartone animato [giapponese]: la serie televisiva e il fumetto da cui essa è tratta non sono necessariamente la stessa cosa. Anzi, [...] pos­ sono essere anche stravolti i contenuti originali.” S. Murakami, op. cit., p. 19. Si parte infatti dal presupposto che pochi siano interessati a seguire in televisione o al cinema una storia total­ mente fedele a quella raccontata dal fumetto trasposto. 17 La durata complessiva di 3x3 Occhi è ài circa quattro ore.

18 G. Rondolino, op. cit., p. 86. 19 Ivi, p. 84-85. 20 per essere più corretti si dovrebbe parlare di ‘illusione di movimento’. La veloce succes­ sione di immagini statiche, di singoli fotogrammi, il principio tecnico su cui il cinema e gli altri mezzi audiovisivi si basano, viene infatti percepita otticamente dallo spettatore come movi­ mento. 21 “Per ovviare alla povertà dell’animazione vennero sfruttate le tecniche di ripresa. In quel momento si definirono le tre regole che faranno da base agli standard produttivi delle serie te­ levisive giapponesi: enorme lavoro per lo staff, pochi movimenti ma sfruttati al massimo, storia incalzante.” S. Murakami, op. cit. p. 7. 22 Manga è una parola giapponese il cui significato è immagine ‘di svago’ o satireggiante. Questa parola indica il fumetto nipponico. Tale termine viene coniato nella prima metà dell’Ottocento dal celebre pittore Hokusai Katsushika. Cfr. M. Pellitteri, Tumetti e cartoon da Est a Ovest, una serena convivenza, in R. Ponticiello, S. Scrivo (a cura di), Con gli occhi a mandor­ la. Sguardi sul Giappone dei cartoon e dei fumetti, Latina, Tunué, 2007, pp. 291-292. 23 L. Raffaelli, op.cit., p. 124. 24 Tezuka Osamu è il più importante disegnatore di fumetti e regista - di film d’animazio­ ne - giapponese. Soprannominato in patria il ‘dio del manga’ è universalmente riconosciuto co­ me il padre del fumetto e del disegno animato giapponese di serie. 25 Conosciuta in Italia con il titolo di Astroboy, Tetsuwan Atom costituisce la prima produ­ zione seriale a disegni animati destinata al mercato televisivo realizzata in Giappone. A finan­ ziare e dirigere nel 1963 Tetsuwan Atom è Tezuka Osamu. 26 M. Pellitteri, Mazinga nostalgia. Storia, valori e linguaggi della Goldrake generation, Ro­ ma, King/Saggi, 2002, p. 226.

23 27 E Prandoni, Anime al cinema. Storia del cinema di animazione giapponese 1917-1995, Mi­ lano, Yamato, 1999, p. 32. 28 Una panoramica storica relativa al fumetto giapponese per ragazze, lo sbojo manga, vie­ ne fornita da M.A. Rumor, Come bambole. Il fumetto giapponese per ragazze, Latina, Tunué, 2005. 29 G. Amitrano, Postfazione, in B. Yoshimoto, Kitchen, Milano, Feltrinelli, 1991, p. 140. 30 M. Pellitteri, Mazinga nostalgia. Storia, valori e linguaggi della Goldrake generation, cit., pp. 183-184.

Capitolo 2

Per un orientamento metodologico

2.1

Lavorare negli interstizi tra testo e contesto

Qualsiasi testo manifesta un piano narrativo ed un piano enunciativo. In ogni testo vengono, cioè, narrati degli eventi, delle azioni, e, contemporaneamente, vengono organizzate le potenzialità di una lingua al fine di ottenere un deter­ minato modo di raccontare quelle azioni, quegli eventi. Al fine di portare avan­ ti un preciso discorso. Umberto Eco e Angelo Marchese, i cui studi e le cui formulazioni teoriche riguardano l’ambito letterario, parlano di stile o ‘voce’,1 a proposito dell’enunciazione. Narrazione ed enunciazione sono dunque i due poli attraverso i quali si sviluppa il discorso di un testo.2 Per anni l’attenzione dei teorici dell’audiovisivo e degli studiosi della semiotica del cinema è stata fo­ calizzata sul polo narrativo e sulle peculiarità morfologiche del testo. L’interesse si è concentrato, in pratica, sul codice del linguaggio cinematografico.3 Il pa­ radosso che sta alla base di questi studi e che, con il passare del tempo, ha fi­ nito col minarli - portando la semiotica del cinema quasi allo stallo - è stato l’assunzione di modelli forniti dagli studi semiotici maturati in ambito lingui­ stico e letterario.4 Gli studi dell’enunciazione cinematografica, a cui è stata impressa una for­ te accelerazione tra la fine degli anni Settanta e la seconda metà degli anni Ot­ tanta5, vogliono riappropriarsi delle particolarità linguistiche del cinema, di tutte quelle virtualità che consentono di costruire determinati discorsi. Il termine enunciazione infatti designa quell’insieme di operazioni che dan­ no per così dire corpo ad un oggetto linguistico; quel che viene messo a fuo­ co è l’“atto” attraverso cui qualcuno si impadronisce delle possibilità di una lingua per realizzare un discorso, o il “passaggio” da un insieme di virtualità ad una manifestazione. Nel nostro caso, l’enunciazione è ciò che consente ad un film, a partire dalle potenzialità insite nel cinema, di prender forma e di pa­ lesarsi: di presentarsi come testo, come quel testo e come quel testo in quella situazioni.

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Quel ‘qualcuno’ che si impadronisce delle potenzialità della lingua è il sog­ getto enunciatore. Il soggetto enunciatore è un’altra virtualità del linguaggio. Esso è il simulacro dell’emittente, dell’ideale autore del testo, cioè, inscritto nell’enunciato. Ovvero nel film, nel caso del cinema. Il soggetto enunciatore è un’istanza dell’enunciazione. L’enunciazione mette in luce il formarsi del testo, e non l’instabilità perenne a cui lo condanna il combinarsi e ricombinarsi dei suoi elementi. Inoltre l’enun­ ciazione ci mostra come il testo sia in qualche modo sempre “di qualcuno”, “verso qualcuno”, “di un dato momento”, “in un dato luogo”, e non il pro­ dotto anonimo di una lingua che funziona di per sé. Infine l’enunciazione fa vedere come il testo conservi sempre le tracce del gesto che gli ha dato vita, e non sia mai colpevolmente neutro o trasparente. Dunque l’attenzione è porta­ ta sul delinearsi, sul radicarsi e sul ritornare su sé stesso del testo filmico: l’enun­ ciazione evidenzia un movimento positivo e complesso, e non il “perdersi” del­ l’opera nel semplice gioco dei suoi significanti, come i teorici della “scrittura” tendevano a fare.7 Il passo sopra riportato chiarisce lo stato delle cose. Da una parte stanno i te­ sti, con le loro caratteristiche, con le loro infinite varianti; dall’altra parte stan­ no i linguaggi specifici dei testi che vanno considerati come dei veri e propri si­ stemi di possibilità. La ‘stabilità’ dei linguaggi risiede nella loro incontestabile ‘funzione’ comunicativa. In secondo luogo, dunque, prendiamo atto del fatto che un testo sia sempre situabile in un preciso contesto spaziale e temporale. Che, soprattutto, un testo sia sempre diretto verso qualcuno, verso un interlo­ cutore con cui cerca di ‘dialogare’, di comunicare. Le tracce del suo processo co­ stitutivo, gli indici della sua artificialità, del suo essere null’altro che costrutto, o meglio, ‘possibilità di linguaggio’, ne sono la testimonianza. Quella disciplina a cui è stato assegnato il nome di pragmatica si occupa proprio dei rapporti che intercorrono tra il testo e tutto ciò che gli sta intorno, spettatore compreso.

Insomma, toccherà a delle questioni di sfondo disegnare l’orizzonte in cui ci muoveremo. Ciò soprattutto nei confronti del nostro terreno di manovra: quel­ l’ambito disciplinare che s’è venuto delineando a partire dalla semiotica e dal­ la linguistica, ma anche dalla sociologia, e che va ormai sotto il nome di prag­ matica. Infatti chiedersi in che maniera il film disegna il proprio spettatore, ne fonda la presenza, ne organizza l’azione - in una parola, in che maniera dice tu - significa mettere a fuoco proprio quanto alla pragmatica interessa, e cioè i rapporti tra testo e contesto: scoprire in quale quadro il primo si iscrive, per quale destino si pensa, quali condizioni al proprio uso pone, quali esercizi con­ sente ecc. Ma se di pragmatica si tratta, essa qui non si vuol risolvere né in pu­ ra semantica (ciò che del testo si fa, e anche ciò che esso è). Appunto, la per­ cezione di un ‘dentro’ e un ‘fuori’ film, costantemente interagenti e pronti a dissolversi l’uno nell’altro, impedirà troppo rapide riduzioni di campo. Disci-

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piina interstiziale, magari problematica nei suoi confini, ma ricca di possibilità proprie e aperta a suggestioni altrui, questa pragmatica si rivelerà allora un ef­ ficace terreno di ricerca.8 È negli interstizi tra testo e contesto che anche noi vogliamo lavorare. È nell’interdisciplinare crocevia tra linguistica, semiotica, psicanalisi e sociolo­ gia che desideriamo muoverci. Casetti tiene in grande considerazione il ruolo - o meglio, i ruoli - dello spettatore all’interno del processo di comunicazione. Descrive, infatti, in ter­ mini deittici9 lo scambio comunicativo tra testo e spettatore. Prende per così dire a modello la conversazione interpersonale del linguaggio verbale. I deit­ tici si possono considerare gli indici della soggettività dell’enunciato. Essi se­ gnalano la comunicazione in atto. Questa è una scelta condivisa anche da Gian­ franco Bettetini, il quale scrive che “qualunque linguaggio nasce, si riproduce ed agisce con una finalità interattiva o, più genericamente, sociale: è sempre de­ stinato ad atti comunicativi, al coinvolgimento di almeno due soggetti.”10 Lo studioso aggiunge immediatamente:

Quando le manifestazioni di un linguaggio ne implicano un uso ridotto a un so­ lo soggetto, esse si collocano nell’ambito di una derivazione-simulazione del­ l’interscambio comunicativo normale (l’emittente che impersona anche il ruo­ lo del recettore: monologo interiore, appunti “memorandum”, prove di me­ moria, ecc.) o in un ambito patologico.11 È una precisazione non da poco, quella fatta da Bettetini.12 Da essa emerge che il cinema mette in scena una ‘simulazione di dialogo’. Che, in definitiva, non si ha a che fare con una comunicazione tra individui; piuttosto, a ‘conver­ sare’ sono due figure virtuali, ovvero il soggetto enunciatore, a cui si è accen­ nato, e la cosiddetta ‘protesi simbolica’, il simulacro dello spettatore creato dal­ lo spettatore stesso. Casetti parla invece di soggetto enunciatario. Il soggetto enunciatario è il simulacro del ricevente, dello spettatore, generato dal testo. In praticamente ogni testo, audiovisivo e non, questa conversazione viene figurativizzata e messa in scena all’interno del racconto. Le due istanze, in pratica, subiscono un processo di ‘personificazione’, di rivestimento semantico. Diven­ tano personaggi, figure, per l’appunto, e cambiano nome. Il soggetto enuncia­ tore diventa il narratore; l’enunciatario diviene il narratario. Ovviamente, nar­ ratore e narratario sono personaggi della storia raccontata, fanno cioè parte del­ l’universo di finzione messo in piedi dal racconto. Il film, in definitiva, prende forma e, contemporaneamente, denuncia la propria natura oggettuale, artifi­ ciale, linguistica che lo costringere, per così dire, a cercare ed a imbastire un dialogo con lo spettatore. Nel suo ‘farsi’ il film è già un ‘darsi’ a vedere. Nella spesso didascalica e ridondante strategia espositiva dell’animazione giapponese, dove ad ogni piè sospinto ci viene ricordato dai personaggi - in ve­

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ste di narratori e di narratari - quello che sta succedendo o quello che è già ac­ caduto, quanto detto sopra appare evidente. Ad ogni passo, il film o l’episo­ dio seriale animato proveniente dal Giappone svela sé stesso e ricorda allo spettatore che è proprio con lui che sta ‘parlando’. I personaggi veicolano i messaggi del prodotto animato nipponico. Attraverso i dialoghi, che molto spesso assumono la forma, si tramutano in lunghi, torrenziali monologhi in cui viene spiegato o commentato qualcosa oppure uno dei personaggi - spesso il protagonista della vicenda - viene esortato, incitato o ammonito, i personaggi portano in scena la ‘conversazione’ tra il soggetto enunciatore e il soggetto enunciatario, tra il virtuale produttore e il virtuale fruitore del discorso delVanime, e lasciano trasparire quella concreta, il dialogo ‘vero’ tra il testo ed il suo interlocutore, lo spettatore. I monologhi a cui si è appena accennato, che di frequente esprimono il contenuto, il messaggio morale ed etico àeWanime, sono evidentemente diretti allo spettatore. L’assunzione di determinati aspetti, di determinate forme presuppone che ci sia la volontà, da parte del testo, di delineare lo spettatore con cui entrare in rapporto comunicativo. Soprattutto, presuppone la volontà di dargli una pre­ cisa collocazione. Diventando discorso l’enunciazione tratteggia una figura spettatoriale e stabilisce la posizione da cui essa deve seguire gli eventi narra­ ti. Casetti sottopone all’attenzione del lettore quattro configurazioni enunciazionali, quattro forme, diciamo così, che l’enunciato può assumere: l’interpellazione, la soggettiva, l’oggettiva e l’oggettiva irreale. Ad ogni configurazione enunciazionale corrisponde, ovviamente, un diverso punto di vista dell’enunciatario, l’ideale spettatore. Nell’interpellazione, chiamata in termini tecnici ‘sguardo in macchina’,13 il simulacro del destinatario del discorso è collocato in platea. Esso è davanti allo schermo, cinematografico o televisivo. Nella sog­ gettiva, l’enunciatario è collocato all’interno della scena e vede attraverso gli oc­ chi - o la mente - di un personaggio. Nell’oggettiva irreale, l’enunciatario è sempre all’interno della scena ma il suo sguardo coincide con quello della ci­ nepresa. Nella oggettiva, infine, il simulacro dello spettatore è collocato al­ l’esterno della scena. In tutti e quattro i casi abbiamo a che fare con delle mar­ che dell’enunciazione. Le marche dell’enunciazione sono le tracce dell’enun­ ciazione presenti nell’enunciato. Indicano la natura artificiale e linguistica del­ l’enunciato - ci ricordano, cioè, che abbiamo a che fare con un oggetto, con una costruzione linguistica che vuole comunicarci qualcosa raccontando una storia - e lavorano contro il suo mimetismo, contro la sua ‘illusione di realtà’.14 Calandoci nello specifico dell’animazione giapponese, possiamo dire che mentre l’interpellazione, la chiamata in causa diretta dello spettatore, non risulta molto frequente, non si lesina sulle oggettive irreali. Alla ricerca del­ l’angolazione, del taglio d’inquadratura più ardito ed insolito, della trovata registica più eccentrica, del movimento di macchina più dinamico, i respon­

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sabili produttivi ed estetici del disegno animato giapponese propongono non sempre ma spesso - dei veri e propri tour de force visivi; propongono de­ gli spettacoli virtuosistici e barocchi.15 Ovviamente, ciò si deve innanzitutto a ragioni di natura economica. I produttori giapponesi di serie animate ri­ tengono infatti più conveniente puntare sulle tecniche di ripresa e sulla sce­ neggiatura. Scelte registiche particolarmente originali - debitrici nei con­ fronti del cinema con attori in carne ed ossa - e utilizzo creativo del mon­ taggio in pratica fino agli anni Novanta compensano la povertà e la conse­ guente scarsa fluidità di un’animazione che può contare su di un numero li­ mitato di disegni.16 In 3x3 Occhi ci si rivolge direttamente allo spettatore lo si interpella - in due occasioni: all’inizio del terzo episodio ed all’inizio del sesto. Yakumo - nel terzo episodio - e Pai - nel sesto episodio - pren­ dono la parola e, mentre le immagini scorrono, riassumono ciò che è acca­ duto negli episodi precedenti. Negli anime si dà del ‘tu’, ci si rivolge allo spettatore in maniera diretta - spesso in voice over11 -, nelle ricapitolazioni degli episodi precedenti e nelle anticipazioni degli episodi successivi. In mol­ te altre occasioni, comunque, ci si rende conto perfettamente di avere a che fare con delle marche dell’enunciazione. A metà del secondo episodio, quan­ do Yakumo si dispera, venuto a conoscenza del fatto che il terzo occhio di Pai - dotato di una autonoma personalità - lo considera semplicemente il proprio schiavo, l’effetto di realtà della storia, dell’enunciato, subisce una battuta d’arresto. Sentiamo la voce del protagonista maschile della serie ma non gli vediamo muovere le labbra. Questo accade anche, nel quarto episo­ dio, nella sequenza in cui Yakumo, perso nei propri pensieri, abbraccia Mei Xing; e in quella in cui si rivolge alla foto di Pai, la quale dopo il combatti­ mento con Benares è sparita senza lasciare tracce. Ciò che lega queste tre se­ quenze è la marca d’enunciazione che va sotto il nome di ‘monologo inte­ riore’. Il monologo interiore esplicita i pensieri dei personaggi. Monologo interiore e voice over sono le marche dell’enunciazione maggiormente utiliz­ zate anime per comunicare, per parlare allo spettatore; per dargli del ‘tu’. La voice over, o voce narrante, può appartenere ad uno dei personaggi. Spesso, nelle produzioni animate nipponiche, sono presenti più voice over in una sequenza. Ognuna di esse corrisponde ad un personaggio. Molto più raramente, nel prodotto animato giapponese la voice over appartiene ad un narratore onnisciente, ovvero all’ideale produttore del discorso, quindi non a qualcuno direttamente coinvolto nelle vicende raccontate. La voice over accompagna lo spettatore all’interno della diegesi, all’interno della storia nar­ rata, ricordandogli ciò che è successo fino a quel momento, all’inizio del­ l’episodio. Rivelandogli, invece, cosa succederà presto, alla fine dell’episodio, la voice over conduce lo spettatore, dolcemente e gradualmente, fuori dalla diegesi, dall’universo di finzione. I cosiddetti flashback sono altri segni che

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‘marcano’ l’enunciato e rimandano all’enunciazione. È grazie ad un flashback che possiamo vedere - sempre nel quarto episodio - l’ultima fase del massa­ cro dei triclopi, mentre Pai sta raccontando a Yakumo la triste storia del suo popolo: i triclopi, per l’appunto. È in flashback che ci viene mostrato - nel settimo e ultimo episodio - lo scontro tra Benares e Pai che pone fine alla pri­ ma serie. I flashback, insomma, visualizzano i ricordi dei personaggi. I fla­ shback sono dei veri e propri salti temporali all’indietro. Nell’animazione giapponese vengono visualizzati non di rado anche i pensieri, le fantasie, i de­ sideri e i sogni dei protagonisti delle vicende narrate. Queste marche del­ l’enunciazione prendono il nome di ‘soggettive mentali’ oppure di ‘immagi­ ni personali’. In una sequenza molto importante di 3x3 Occhi, Pai sogna sé stessa bambina inseguita da Benares - che non evita di massacrare le grazio­ se bestioline che proteggono la fanciulla - e dal Demone Sovrano. La se­ quenza si trova nel quinto episodio e la sua importanza risiede nel fatto che è a partire da essa che Pai, privata della memoria, prende coscienza di sé, della propria natura non umana. Indubbiamente, il sogno di Pai è molto vi­ cino ad un flashback.

Pai ‘interpella’ lo spettatore rivolgendogli lo sguardo. Immagine tratta dalla copertina del quinto OAV di 3x3 Occhi. Takada Yuzo © Kodansha/Toei doga/Bandai/King Records/Plex Starchild

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Le sigle degli anime meritano particolare attenzione. Quelle di apertura, at­ traverso spettacolari e avvincenti strategie comunicative, attraverso l’uso, sa­ pientemente combinato, di montaggio e musica, introducono lo spettatore al­ l’interno della finzione narrativa. Quelle di chiusura, in genere più statiche e malinconiche, favoriscono e facilitano, rendono meno traumatica l’uscita dal­ la diegesi. Già dalla sigla d’apertura, il prodotto animato giapponese sembra voler fortemente entrare in comunicazione con lo spettatore, stabilire un con­ tatto - non solo linguistico - con lui; volergli dare del ‘tu’. Infatti, le interpellazioni, gli ‘sguardi in macchina’, sono numerosi e reiterati. Come dalle co­ pertine dei fumetti, dei manga, i protagonisti delle serie animate nipponiche pa­ iono guardare direttamente lo spettatore; paiono intenzionati, quasi, a sfon­ dare lo schermo - o la pagina - e ad oltrepassare il confine che separa il mon­ do della finzione da quello della realtà. Siamo di fronte, com’è facile intuire, ad espedienti, a tecniche, a modalità comunicative mutuate dal cinema live action, il cinema con attori in carne ed ossa.18 Questa considerazione ci conduce direttamente al cuore di una que­ stione molto delicata. Quella relativa alla specificità del cinema d’animazione ed alla sua autonomia nei confronti del cinema ‘dal vero’19. A caratterizzare il cinema a disegni animati, secondo noi, non è l’adesione ad un paradigma o l’adozione di un modo di rappresentazione,20 bensì, l’ambiguità semantica del disegno, che non ha un aggancio immediato con la realtà fenomenica; che non rinvia automaticamente ad un referente nel mondo reale. E la cui ‘decifrazio­ ne’ richiede allo spettatore uno sforzo interpretativo supplementare. “Tra rea­ lismo e astrazione, il cinema d’animazione ha infinite possibilità di dilatare l’immagine cinematografica oltre i confini ristretti della riproduzione fotogra­ fica della realtà.”21

2.2

Giudici. Interpreti. Antisoggetti

Il testo mette in scena due percorsi: quello del soggetto enunciatore, che crea l’enunciato, il film, e quello del soggetto enunciatario, che invece l’enunciato, il film, lo fruisce e interpreta. I due percorsi, quello creativo dell’enunciatore e quello per così dire di ‘lettura’ dell’enunciatario, proseguono in parallelo. Il significato del testo, la sua ‘verità’ ultima non può che essere frutto di nego­ ziazione tra il testo stesso e lo spettatore.

Lo spettatore si rivela dunque come un ruolo assai stratificato, la cui funzione di fondo è quella di scandire l’avanzata del testo, di illuminarne gli interstizi, di chiuderne le evoluzioni, ma i cui tratti si disperdono su più livelli e in più oc­ casioni.22

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Secondo Casetti, i ruoli che lo spettatore può ricoprire sono quelli di giu­ dice, d’interprete e di antisoggetto23. Nel primo caso, lo spettatore valuta la capacità comunicativa di un testo; valuta la ‘scrittura’ dell’enunciatore. Risul­ ta evidente, allora, il fatto che da questa prospettiva la ‘verità’ del testo non possa che coincidere con un atto di comunicazione. Il significato del testo coin­ cide con il suo essere discorso. Nel secondo caso, lo spettatore risale addirit­ tura alle modalità mediante le quali è stato possibile stabilire una comunica­ zione, intavolare un dialogo, un discorso. Nel terzo ed ultimo caso, infine, quel­ lo che maggiormente ci interessa, lo spettatore indica una lettura alternativa del testo. L’antisoggetto infatti è colui che arriva a costruire una propria versione dei fatti a partire da quanto gli viene offerto; più precisamente, qualcuno che riesce a completare i suggeri­ menti dell’enunciatore trattandoli come un segreto di cui comunque possiede la chiave, o che riesce a smentire le sue affermazioni smascherandole come men­ zogne; in sintesi, un operatore (pragmatico e cognitivo) che in campo o dietro le quinte filtra e ristruttura i dati della messa in scena.24

Secondo noi, 3x3 Occhi in particolare e l’animazione giapponese in gene­ rale, metaforizzano l’età del proprio spettatore di riferimento, ovvero l’adole­ scente. Il senso ultimo, il significato profondo dell’animazione nipponica, con­ siste proprio in questo processo di metaforizzazione. I prodotti animati nip­ ponici non solo ci ricordano costantemente che è ‘a noi’, o meglio, ‘all’adole­ scente’, che stanno parlando, come abbiamo avuto modo di vedere, ma ci di­ cono - altrettanto costantemente - che è ‘di noi’, è ‘dell’adolescente’ che stan­ no parlando. E fanno ciò in modo non diretto, allusivo. Almeno nella maggior parte dei casi. Per Luca Raffaelli “Vanirne descrive l’età intorno ai sedici an­ ni”.25 E infatti, Yakumo Fujii, il principale personaggio maschile di 3x3 Occhi, ha proprio sedici anni quando si svolgono le vicende narrate nella prima serie animata, di cui lui è protagonista - quasi - assoluto. Anche la sua amata Pai, il più importante personaggio femminile dell’opera da noi analizzata, ha, alme­ no ufficialmente, la stessa età nella serie incentrata su di lei: la seconda. Il fat­ to, poi, che Yakumo e Pai risultino, a tutti gli effetti, per esigenze narrative, de­ gli eterni adolescenti, dei personaggi bloccati - più o meno volontariamente in un’età, costituisce una delle tante, belle suggestioni di cui 3x3 Occhi ab­ bonda. I due protagonisti di 3x3 Occhi rientrano nella categoria degli orfani, dei ‘senza famiglia’. L’orfano, colui che è senza genitori e senza famiglia, è una fi­ gura ricorrente nell’animazione giapponese.26 Tale personaggio è originaria­ mente presente in anime di genere drammatico e d’ambientazione europea il cui modello non può che essere il romanzo di formazione o quello d’appendi­ ce prodotto in Europa nell’ottocento e nella prima metà del Novecento.27 Di­

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versi feuilleton e romanzi di formazione vengono adattati dai produttori nip­ ponici di serie animate, i quali, da una parte sfruttano oliati meccanismi nar­ rativi molto conosciuti anche - e soprattutto - al di fuori del Giappone, dal­ l’altra conferiscono alle proprie opere un respiro più ampio permettendosi co­ sì di mirare al mercato internazionale. Sembra superfluo sottolineare il fatto che l’argomento principale trattato da queste serie animate - e prima ancora dalle opere letterarie da cui derivano - sia la ricerca e la faticosa affermazione dell’identità, tema che favorisce l’identificazione con i personaggi del pubbli­ co più giovane, costituito da bambini e adolescenti.28 In particolare, la figura dell’orfano è per il bambino giapponese sotto alcuni aspetti più fami­ liare. La presenza dei genitori, per i giovani occidentali è molto più concreta e costante che non per i coetanei giapponesi. Stritolati in un meccanismo molto rigido, i genitori di sesso maschile in Giappone sono ‘obbligati’ a presenziare sul posto di lavoro per molte più ore e per molti più giorni che non gli impie­ gati occidentali. [...] I bambini giapponesi beneficiano quindi pochissimo del­ la figura paterna, e se quella materna è molto più presente (specialmente nei pri­ mi anni di vita), comunque sarà ben presto la scuola (anch’essa con durata e orari soffocanti) a tenerli lontano da casa.29 Il brano appena riportato rende evidente il fatto che le case di produzione giapponesi puntino fondamentalmente al mercato interno, a quello nipponico. Per i giapponesi, tra l’altro, un’ambientazione europea non può che risultare più affascinate, o per meglio dire, più esotica rispetto a una locale?0 Nel cor­ so delle due serie animate di 3x3 Occhi la famiglia e i genitori di Pai non ven­ gono mai menzionati. L’unico familiare di Yakumo di cui vengono fornite in­ formazioni è invece il padre Hajme, un etnologo deceduto sulle montagne del Tibet - dove ha conosciuto Pai - all’inizio della prima serie. Restando in superficie, non si può non notare il fatto che 3x3 Occhi - e, ri­ badiamo, buona parte del cinema animato giapponese - tematizzi il conflitto identitario legato al passaggio dall’età dell’adolescenza all’età adulta. I due pro­ tagonisti di 3x3 Occhi accettano con difficoltà la propria, ‘mostruosa’ diversi­ tà; vedono l’integrazione nella società, ora come suadente miraggio - lo splen­ dido ed ormai irrecuperabile rapporto con gli amici di un tempo -, ora come obiettivo poco invitante; associano la sessualità all’aberrante e al dolore; vivo­ no l’amore in maniera idealizzata ed innocente. Per loro, in una sorta di spu­ dorato sbandieramento d’ideologia popular, la purezza dei sentimenti è la so­ la ‘verità’; è il solo strumento attraverso cui si può salvare il mondo, terreno ed ultraterreno.

Sembra davvero che il problema, o almeno uno dei problemi che per eccellen­ za vengono trasposti e proposti negli anime sia quello dell’identità, della sua ri­ cerca e definizione da parte del protagonista di ogni serie, che paradossalmen­

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te trova spesso proprio nel suo acerrimo rivale il miglior aiuto per costruirsi questa identità, e sfuggire così alla categorizzazione omologante della società che vorrebbe trasformare tutti, invariabilmente, in efficienti ingranaggi di un si­ stema, di pensiero o di produzione.’1 Nel primo episodio della seconda serie animata di 3x3 Occhi, un episodio dal sapore vagamente surreale, Yakumo e Pai si trovano a lottare contro le bambole, i manichini ed i peluche che costituiscono l’arredo della camera da letto della ragazza. I protagonisti di 3x3 Occhi, alla fine delle loro avventure, sono cambiati. Ciò si avverte in modo netto. Yakumo è cresciuto, è diventato un uomo. Egli è maturato attraverso la sofferenza, superando così l’età del­ l’adolescenza. Pai ha, letteralmente, mutato aspetto; o meglio, Hua She, un demone innamoratosi di Yakumo, ne ha preso il posto. La cosa non è però af­ fatto chiarita e risulta, quindi, decisamente suggestiva?2 La definizione del­ l’identità appare in maniera inequivocabile l’argomento centrale di 3x3 Occhi sin dalle sequenze iniziali, nelle quali veniamo a conoscenza del fatto che Ya­ kumo lavori in un locale la cui clientela è prevalentemente omosessuale e nel quale i camerieri - Yakumo compreso - hanno l’obbligo di indossare abiti fem­ minili. Prima di concludere, ci sembra il caso di fare un’ultima constatazione. Ap­ pare ovvio il fatto che il tipo di comunicazione di un’opera, di un testo, di­ penda molto dal genere narrativo in cui si è deciso di rientrare. Scegliendo il genere fantastico, 3x3 Occhi opta per una comunicazione allusiva, mediata, in­ diretta. Metaforica, per l’appunto. Evitando il banale e cercando di scendere più in profondità, ci limitiamo, per ora, a fare una piccola, grande premessa: anime la comunicazione non si situa tanto su di un piano linguistico-cognitivo quanto su di uno psicologico ed affettivo, di natura sostanzialmente precognitiva, che possiamo chiamare piano pulsionale o dell’istinto. E proprio il fatto di agire su questo piano che differenzia i prodotti animati giapponesi da quelli del resto del mondo.

Note 1 Cfr. U. Eco, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Milano, Bompiani, 1979, p. 61. Cfr. anche A. Marchese, Lofficina del racconto. Semiotica della narratività, Milano, Mondadori, 1983, p. 84. 2 Marchese parla di ‘storia’ e ‘discorso’. Eco, invece, riprende le definizioni assegnate dai for­ malisti russi, ovvero fabula e intreccio. Scrive Eco: “La fabula è lo schema fondamentale della narrazione, la logica delle azioni e la sintassi dei personaggi, il corso di eventi ordinato tempo-

35 Talmente. Può anche non essere una sequenza di azioni umane e può concernere una serie di eventi che riguardano oggetti inanimati, o anche idee, Lintreccio è invece la storia come di fat­ to viene raccontata, come appare in superficie, con le sue dislocazioni temporali, salti in avan­ ti e in indietro (ossia anticipazioni e ‘flash-back’), descrizioni, digressioni, riflessioni parenteti­ che. In un testo narrativo \'intreccio si identifica con le strutture discorsive.” U. Eco, Lector in fabula. Ld cooperazione interpretativa nei testi narrativi, cit., p. 102. J Cfr. F. Casetti, Teorie del cinema 1945-1990, Milano, Bompiani, 2002, pp. 143-160. 4 Cfr. G. Pescatore, op. cit., passim. 5 Cfr. F. Casetti, Teorie del cinema 1945-1990, cit., p. 167. 6 Ibid, e s. 7 F. Casetti, Teorie del cinema 1945-1990, cit., p. 168. 8 F. Casetti, Dentro lo sguardo. Il film e il suo spettatore, cit., pp. 23-24. 91 deittici equivalgono ai “segni che rimandano alla situazione comunicativa, come ‘io’, ‘tu’, ‘qui’, ecc.”. F. Casetti, Teorie del cinema 1945-1990, cit., p. 168. 10 G. Bettetini, op.cit., p. 95. 11 Ibid. 12 Bettetini, a proposito del rapporto comunicativo tra testo e spettatore, scrive: “Un te­ sto filmico o televisivo non implica dunque, al livello dell’esercizio di massa, alcuna possibi­ lità di conversazione paritetica tra emittente e recettore, nel senso che l’uso assegna al termine ‘conversazione’ nel rapporto interpersonale.” Ivi, p. 99. Anche Francois Jost e Christian Metz, tra gli altri, sono dello stesso avviso. Per il primo, “ 1. Le discours cinématographique est un métalangage-. il parie d’abord du langage cinématographique avant de renvoyer à l’émetteur du message; 2. Le discours cinématographique ne possedè pas l'équivalent des déictiques de la lan­ gue naturelie-, les marques de ce métalangage sont mobiles et flottantes.” F. Jost, Discours ci­ nema tographique, narration. Deux facons d'envisager le probleme de l’enonciation, in J. Aumont, J. L. Leutrat (a cura di), Théorie dufilm, Paris, Albatros, 1980, pp. 125-126. Per il se­ condo, “l’enunciatore si incarna nell’unico corpo disponibile, il corpo del testo, cioè una co­ sa, che non sarà mai un IO, che non deve ottemperare a nessuno scambio di ruoli con qual­ che TU, ma che è una fonte di immagini e suoni, e che rimane tale. L’enunciatore è il film”. C. Metz, L’enunciazione impersonale o il luogo del film, Napoli, Edizioni Scientifiche Italia­ ne, 1995, p. 26. 15 II cosiddetto ‘sguardo in macchina’ corrisponde a un tipo di inquadratura in cui il per­ sonaggio rivolge lo sguardo direttamente alla macchina da presa e, per convenzione, allo spet­ tatore. 14 Secondo Roger Odin sono le marche dell’enunciazione a consentire, regolando i mec­ canismi psicologici del ‘sapere’ e del ‘credere’, l’entrata dello spettatore nell’universo di fin­ zione dispiegato dal film. Per fare comprendere più facilmente questa tesi e per legittimarla, lo studioso concentra l’attenzione su di un esempio concreto e analizza Une panie de campa­ gne di Jean Renoir. “Ce que proclame le générique, et il importe que cela nous soit dit au tout début du film, c’est le statut imaginaire de ce que le film va nous faire voir, de la diégèse. Après cet avertissement, rien ne pourra plus venir sérieusement nous troubler dans la jouissance de la fiction. [...] Expliquant les conditions particulières de la réalisation du film, le premier car­ ton s’affi che, plus explicitement encore que le générique lui meme, comme marque de l’énonciation dans l’énoncé, comme discours visant a transmettre un savoir sur le film lui-meme (on noterà notamment l’utilisation des déictiques renvoyant directement à la situation de com­ munication: «Ce film...wo»r avons décidé de vous le presenter...»). Rarement le «désaveu» se

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sera inserir avec autant de netteté au debut d’un film de fiction; au point que l’on peut se demander ce qui se passerait si la diégèse commencait immédiatement après ce carton; sans doute y aurait-il chez le spectateur, pendant quelque brefs instants, un certain flottement, avant qu’il parvienne à se brancher véritablement sur un regime de conscience proprement fictionnel. On sait, en effet, que ce regime se laisse décrire comme un mixte subtilement dose de savoir e croyance-, ces deux poles sont également nécessaires; si le spectateur croit trop à la réalité de ce qu’il voit, l’effet fiction est détruit: paniqués par l’arrivée de la locomotive (qui leur semble «réelle» e non «fictionnelle») les spectateurs du premier film de Lumière quittent la salle; de meme, si l’on insiste trop sur le savoir, le spectateur aura du mal à entrer dans la fic­ tion.” R. Odin, Lentrée du spectateur dans la fiction, in J. Aumont, J.L. Leutrat (a cura di), op.cit., pp. 205-206. 15 “I registi giapponesi, spesso grandi amanti e conoscitori del miglior cinema d’azione oc­ cidentale, da Alfred Hitchcock a Steven Spielberg, da John Ford a Luc Besson, da Sam Peckimpah a James Cameron, senza mai tralasciare talenti orientali come Kurosawa Akira o John Woo, non rinnegano nemmeno i grandi maestri della commedia sofisticata o del melodramma hollywoodiano, da Frank Capra a Ernst Lubitsch, da Billy Wilder a Rob Rainer: infatti sono sempre molto bravi a rendere nei loro serial - che si tratti di soap operas o anime avventurosi, di saghe fantascientifiche o cartoons sportivi - un’enorme gamma di emozioni, stati d’animo e registri narrativi utilizzando non solo i molti topoi raffigurativi del miglior cinema mondiale, ma anche dei complessi giochi di rimandi intertestuali che sfruttano sincreticamente vari tipi di ri­ presa, di atmosfere, di colori predominanti. Ma gli autori non si limitano a citare o riprodurre, perfezionandoli, i linguaggi del cinema orientale e occidentale: piuttosto, sono dei veri e pro­ pri creatori di cinema. [...] L’innovatività dell’anime rispetto al vecchio concetto di cartoon te­ levisivo sta nella dignità cinematografica data alla ripresa mediante l’uso accorto, vario e mul­ tiforme di tutti i tipi di inquadratura e di montaggio”. M. Pellitteri, Mazinga nostalgia. Storia, valori e linguaggi della Goldrake generation, cit., p. 237. 16 Cfr. E. Benecchi, op. cit., pp. 2-37. 17 La voice over è la cosiddetta voce narrante. La voice over è spesso una voce extradiegetica. Essa è, in pratica, ‘esterna’ alla storia raccontata; è qualcosa che non appartiene all’univer­ so di finzione messo in piedi dal film. 18 Cfr. M. Pellitteri, Mazinga nostalgia. Storia, valori e linguaggi della Goldrake generation, cit., p. 236. 19 ‘Dal vero’ è un’altra definizione del cinema che presenta attori in carne ed ossa. 20 Per Giaime Alonge il cinema d’animazione ed il cinema ‘dal vero’ sono in contrapposi­ zione stilistico-narrativa. I suoi studi, però, trattano il cinema d’animazione americano e quel­ lo ‘primitivo’. Scrive Alonge: “Buona parte dell’animazione americana, comprese porzioni ri­ levanti della filmografìa disneyiana, ha costituito una sorta di «sacca di resistenza» nel cuore del sistema classico, continuando ad attingere al repertorio stilistico-narrativo del cinema delle ori­ gini, e sviluppando una forte - anche se, almeno parzialmente, inconsapevole - affinità con l’esperienza delle avanguardie storiche.” G. Alonge, A. Amaducci, Passo uno. L'immagine ani­ mata dal cinema al digitale, Torino, Lindau, 2003, p.l 1. La tesi di Alonge è certamente condi­ visibile. A patto che non la si generalizzi. Alonge, giustamente, non lo fa. Secondo noi la speci­ ficità del cinema a disegni animati non dipende dall’adesione ad un paradigma formale o dal­ l’uso di determinati procedimenti linguistico-comunicativi; o dal numero di sequenze verosimili presenti. Riprendiamo e approfondiamo il discorso nell’ultimo paragrafo del quarto capitolo. 21 22

G. Rondolino, op. cit., p. 13. E Casetti, Dentro lo sguardo. Il film e il suo spettatore, cit., p. 134.

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23 “Lo spettatore disegnato dal film è tutto questo: il suggeritore di una possibile contro­ proposta, il ricostruttore di una versione di partenza, e il controllore e il garante di un dire.” Ibid. 24 Ibid. 25 L. Raffaelli, op. cit., p. 151. 26 Della costante riproposizione, neWanime, della figura dell’orfano, ci si occupa, tra gli al­ tri, nel primo studio italiano sull’animazione giapponese davvero valido sul piano scientifico, ov­ vero G. Bono, A. Castelli (a cura di), Orfani e robot, in “If - Immagini & fumetti” n. 5/8, di­ cembre 1983. 27 Cfr. M. Pellitteri, A Est di Oliver Twist, in R. Ponticiello, S. Scrivo (a cura di), op. cit., pp. 85-114. 28 Cfr. L. Raffaelli, op. cit., pp. 109-151. Cfr. anche M. Pellitteri, Maztnga nostalgia. Storia, valori e linguaggi della Goldrake generation, cit., pp. 152-167. 29 D. Castellazzi, Animeland. Viaggio tra i cartoni made in Japan, cit., p. 117. 30 Cfr. ivi, p. 118. 31 M. Ghilardi, Cuore e acciaio. Estetica dell’animazione giapponese, Padova, Esedra, 2003, p.79. 32 Per la precisione, la cosa non è chiarita nell’edizione italiana ed in quella americana.

Capitolo 3

L’importanza dello spettatore

3.1

Target e spettatore modello

Le produzioni animate nipponiche - ed i fumetti dalle quali sono tratte - rie­ scono ad instaurare con i loro più affezionati consumatori, gli adolescenti, un rapporto contraddistinto da grande complicità e intimità.1 Silvia Lucianetti e Andrea Antonini, a proposito dello shonen manga, il fumetto avventuroso per ragazzi, scrivono: Se dunque [...] a prima vista gli shonen manga presentano aspetti per i quali li si potrebbe collocare nella categoria di intrattenimento puro, bisogna con­ statare che molto spesso in essi è presente un alto livello di referenzialità nei confronti del lettore. Il messaggio (se presente nelle intenzioni dell’autore) gia­ ce in uno strato inferiore non immediatamente visibile, e viene veicolato in maniera più sottile, attraverso l’utilizzo di strategie di immedesimazione e ri­ conoscimento. Insieme agli shojo manga, i fumetti per adolescenti sono quel­ li in cui le differenze tra i personaggi e i lettori sono meno percettibili; spesso i protagonisti sono ragazzi comuni a cui accade qualcosa di inusuale, oppure, in caso di ambientazione fantastica, il collegamento tra lettore e opera sarà da­ to dall’enfasi su processi emotivi di facile condivisione per tutti i giovanissimi. Un genere quindi attentissimo ai meccanismi di coinvolgimento del lettore, sia per politiche di marketing, che per il mero desiderio di riscontro da parte degli autori.2 Non è solo un’attenta politica di marketing, dunque, a spingere i responsa­ bili dell’animazione giapponese a cercare di far entrare opera e spettatore in rapporto empatico. Dall’estratto sopra citato ciò appare chiaro. Non vi sono solo ragioni di ordine commerciale, dietro il tentativo - riuscito - di cattura­ re, attraverso l’attivazione di meccanismi psicologici di identificazione,3 l’at­ tenzione e l’interesse dei ragazzi, che costituiscono la fetta di pubblico più con­ sistente. Queste ragioni, piuttosto, paiono di natura comunicativa. Ogni pro­ dotto linguistico ha finalità comunicative, come abbiamo avuto modo di ve­ dere. Il suo scopo è quello di mettere in relazione un emittente - del discorso

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- ed un ricevente. Qualsiasi prodotto linguistico reca in sé tracce di questo progetto comunicativo che fa parte del suo stesso processo costitutivo. Non a caso, infatti, nel precedente capitolo si è scritto e sottolineato che nel suo ‘far­ si’ il testo audiovisivo sia già un ‘darsi’ a vedere. In qualsiasi testo il destinatario, il ricevente del discorso - lo spettatore, nel caso degli audiovisivi - deve essere previsto.

Per organizzare la propria strategia testuale un autore deve riferirsi a una serie di competenze (espressione più vasta che “conoscenza dei codici”) che confe­ riscano contenuto alle espressioni che usa. Egli deve assumere che l’insieme di competenze a cui si riferisce sia lo stesso a cui si riferisce il proprio lettore. Per­ tanto prevederà un Lettore Modello capace di cooperare all’attualizzazione te­ stuale come egli, l’autore, pensava, e di muoversi interpretativamente così co­ me egli si è mosso generativamente.4

E ancora: “Prevedere il proprio Lettore Modello non significa solo “spera­ re” che esista, significa anche muovere il testo in modo da costruirlo.”5 Il te­ sto deve insomma crearsi un destinatario ‘tipo’, un modello di fruitore dalle de­ terminate competenze. Deve ‘disegnarsi’ il proprio ricevente e deve inglobar­ lo nel suo stesso processo generativo. Più il vero ricevente del discorso - lo spettatore o il lettore reale - si conforma, si avvicina a questo modello presen­ te nel testo, più la comunicazione può essere considerata riuscita; almeno dal­ la prospettiva del produttore del discorso. Nel caso di una ‘buona comunica­ zione’, dunque, la figura dello spettatore e quella del suo simulacro contenu­ to nel testo aderiscono. L’animazione nipponica si muove esattamente in que­ sta direzione: produce uno spettatore ‘modello’ molto preciso e lavora affin­ ché questi aderisca in maniera perfetta allo spettatore reale che si trova al di là dello schermo, ovvero l’adolescente. La comunicazione di cui si parla pare fortemente guidata dal testo. Il testo, cioè, mediante apposite strategie, agendo sul suo simulacro - l’enunciatario veicola e dirige il destinatario, il quale tuttavia si dimostra tutt’altro che passivo.

Ogni testo audiovisivo prevede lo svolgimento di un’azione di approccio alle sue forme significanti da parte del testo e contiene dentro di sé elementi con­ creti per guidarla e indirizzarla: si potrebbe dire che è costruito perché il re­ cettore “versi” se stesso nel modo previsto dal progetto comunicativo sui segni del testo e, quindi, in un certo senso, “con-versi” con il testo (con il testo, no­ tiamo bene: non con l’emittente). Lo spettatore, poi, si trova al centro di due manifestazioni progettuali: quella immanente al testo e quella che lui stesso si costruisce, anche durante il rapporto con il testo; si potrebbe dire che agisce af­ finché il testo si “versi” sulla sua disponibilità recettiva e, quindi, “con-versi” con lui. E questa la “conversazione” di cui intendiamo qui occuparci: frutto di un rapporto interattivo tra un testo e un soggetto recettore, potrebbe anche es­ sere definita come conversazione testuale.6

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Questo modello di ‘conversazione testuale’, elaborato da Gianfranco Bet­ tetini, è applicabile a tutto il cinema d’animazione giapponese. Umberto Eco è sulla stessa lunghezza d’onda di Bettetini.7 Mentre per Bettetini l’attività in­ terpretativa del ricevente è - o deve essere - prevista e guidata dal testo,8 per Eco non vi è “nulla di più aperto di un testo chiuso. Salvo che la sua apertura è effetto di iniziativa esterna, un modo di usare il testo, non di esserne dolce­ mente usati.”9 Si definiscono ‘chiusi’ tutti quei testi che lasciano al destinatario - più o meno volutamente - un ridotto margine di interpretazione. O me­ glio, che più fortemente tentano di dirigere l’interpretazione. La maggior par­ te degli anime rientra in questa categoria. Marcello Ghilardi è d’accordo con Eco. Per rafforzare le proprie tesi, lo studioso si riallaccia alla cosiddetta psi­ cologia postmoderna e propone di superare la distinzione tra cognitivo ed emo­ tivo. Questo, tanto nel processo di fruizione quanto in quello di interpreta­ zione di un’opera.

L’interpretazione completa di un “testo” narrativo è dunque «qualcosa di di­ verso dalla sua semplice elaborazione cognitiva», è qualcosa di più e di più pro­ fondo, poiché coinvolge pienamente la dimensione soggettiva, affettiva del frui­ tore. Disconoscere questa dimensione, non volerne capire il ruolo e la positiva relazione con i processi cognitivi messi in atto dalla visione di un anime - co­ me dalla lettura di un libro, dall’ascolto di un brano recitato o di una canzone - impedisce di mettere nella giusta luce i processi interpretativi che concorro­ no all’interesse e al piacere della fruizione di quel particolare tipo di modalità narrativa che è Vanirne, oltre che dei suoi contenuti; e tantomeno permette di dimostrarne le potenzialità espressive.10

Vanirne va ‘letto’ con il cuore - e con i sensi - più che con la mente. Non solo nell’animazione giapponese, ovviamente, ma soprattutto, nell’animazione giapponese, è impossibile separare la componente cognitiva da quella emoti­ va, che è preponderante. Forse ciò è dovuto al fatto che l’argomento privile­ giato del cinema d’animazione nipponico è la vita, l’esistenza umana. Negli anime [...] si deve sapere che essi sono finzione, esagerazione, racconto iperbolico, ma al contempo raffigurano sub specie metapborica il mondo della vita, con i suoi attimi di intensità e le sue pause, con i moti dell’animo più vio­ lenti e i sentimenti più delicati.11 Concludendo, quindi, possiamo affermare che l’animazione giapponese non sia intrattenimento puro - o almeno non solo - bensì la metaforica rappre­ sentazione del nostro mondo, della nostra esistenza. Appare abbastanza chia­ ro - e scontato - il fatto che anche ciò concorra a stabilire un rapporto intimo e confidenziale con lo spettatore.

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3.2

Contenuti emotivi, psicologici ed... erotici

I protagonisti delle storie a disegni animati giapponesi devono costantemente reprimere le proprie passioni, i propri sentimenti, le proprie pulsioni. Dando un’occhiata ai saggi in lingua italiana che hanno per argomento l’animazione nipponica, pare proprio che la parola repressione sia il filo rosso che lega l’aspetto emotivo, psicologico ed erotico degli anime. “L’atteggiamento essen­ ziale nei confronti della emotività è quello di una necessaria repressione degli istinti e dei sentimenti personali, oppure di una canalizzazione di questi verso forme sublimatorie.”12 Forse un esempio concreto ci può aiutare a compren­ dere meglio ciò di cui parliamo. Nel quinto episodio di 3x3 Occhi, Yakumo e Pai, i due personaggi principali, si ritrovano dopo quattro anni. In questo lun­ go intervallo, il ragazzo si è allenato in giro per il continente asiatico; la ragaz­ za, priva di memoria, ha invece condotto una vita da normale studentessa li­ ceale. Questo episodio è tutto un ribollire di desiderio sessuale. D’altronde, i nostri due protagonisti non sono altro che una coppia d’innamorati che dalla bellezza di quattro anni - dall’epoca della reciproca dichiarazione dei propri sentimenti - aspetta di consumare l’amplesso. Anche se il solo Yakumo ne è quasi - cosciente. Tanti piccoli ed insinuanti indizi ci portano a tali conclusio­ ni. Pai, all’inizio dell’episodio, esprimendo la ferma volontà di trovarsi un fi­ danzato rende esplicito il desiderio sessuale che sta sorgendo in lei. L’atteg­ giamento aggressivo di Yakumo lascia intendere subito che il desiderio ses­ suale, in lui, verosimilmente a causa dell’inappagatezza, è cresciuto di pari pas­ so con l’abilità e la forza fisica. Già in occasione del loro primo incontro i due ragazzi entrano in contatto fisico, abbracciandosi strettamente. Guardando Yakumo, Pai sente il proprio corpo vibrare e il suo seno si inturgidisce all’improwiso. Di fronte alle prove di virilità, ovvero combattimenti a base di arti marziali della sua guardia del corpo immortale, la ragazza non riesce a fare a meno di arrossire e provare imbarazzo e turbamento. D’altronde, il sangue e la lotta possono essere considerati, in termini freudiani, dei surrogati, dei so­ stituti del liquido seminale e del rapporto sessuale. Essi rimandano cioè al­ l’amplesso, all’atto sessuale. L’episodio numero cinque di 3x3 Occhi trasuda pulsione erotica. Si tratta però di una pulsione repressa, per l’appunto, subli­ mata, deviata verso altri obiettivi, socialmente ritenuti più apprezzabili, ovve­ ro la salvezza del mondo e della specie umana. Detto in altre parole, salvare il mondo è - o meglio appare, in virtù di un condizionamento sociale - più no­ bile che fare l’amore. “La pulsione è detta sublimata nella misura in cui essa è deviata verso una nuova meta non sessuale e tende verso oggetti socialmente valorizzati.”13 Non è un caso, quindi, che in 3x3 Occhi - così come nella mag­ gior parte delle produzioni animate giapponesi - lo sfogo del desiderio sia li­ mitato ad una sola, casta ed involontaria palpata di seno.

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Bisogna inoltre tenere presente il fatto che in Giappone - soprattutto, for­ se, nel Giappone illustrato dalla narrativa popolare - i sentimenti individuali, indicati con la parola ninjo, vengono spesso sovrastati da un quasi oppressivo senso del dovere, a cui i giapponesi attribuiscono il nome di giri. Non è dun­ que un caso che i protagonisti dei manga e degli anime siano sovente costretti a mettere da parte le proprie pulsioni e i propri sentimenti per assolvere un compito gravoso che, esattamente come in 3x3 Occhi, coincide con la salvez­ za del genere umano. I concetti di on, di ‘obbligo’, e di giri informano la cul­ tura nipponica. Nel primo caso, il debito da ripagare non è estinguibile; nel se­ condo, si. La parola on indica gli obblighi nei confronti dei genitori, dell’im­ peratore o del proprio maestro; dunque gli obblighi legati alla nascita e alla stessa esistenza. Il dovere che corrisponde al termine giri è invece commisura­ to al debito contratto.14 Le pulsioni, se non controllate, possono produrre fratture e portare alla rottura dell’ordine sociale. Appare logico il fatto che in paesi dalla struttura for­ temente gerarchica come il Giappone la cosa risulti, se possibile, ancora più in­ tollerabile.

In Giappone, a causa di questa fissità e stabilità, ascrivibili all’organizzazione ge­ rarchica, quest’ultima funziona come principale fattore di controllo delle rela­ zioni sociali. L’orientamento fondamentale dell’ordine sociale permea ogni aspetto della società, ben oltre i limiti del gruppo istituzionalizzato. Di fatto, quest’ordine gerarchico regola la vita intera dei giapponesi.15

L’eròtica copertina del settimo OAV di 3x3 Occhi. Takada Yuzo © Kodansha/Toei doga/Bandai/King Records/Plex Starchild

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Altrettanto logico è il fatto che, tenuto conto di quanto detto finora, negli anime vi sia un legame saldissimo tra componente emotiva, componente psi­ cologica e componente erotica. Repressive, al di là del contesto geografico e sociale, sono le norme che, di solito, regolano la vita del pubblico degli anime, gli adolescenti. I pro­ dotti animati giapponesi non possono non tener conto di questa condizione, nel processo di metaforizzazione dell’età del proprio spettatore di riferimento - l’adolescente, per l’appunto - che operano. Mostrandoci realtà “altre”, conflitti tra popoli, creature, generazioni diverse le une dalle altre, osservando gli anime vediamo come la crescita interiore passi at­ traverso il confronto con l’esterno, attraverso l’apertura alla dimensione della “differenza”. Rinunciare al riconoscimento dell’altro significa l’impossibilità di riconoscere sé stessi. Non solo: le storie narrate ci dicono che lo sforzo di co­ struzione dell’identità, portando anche allo scontro, non è indolore - e quanto lottano, quanto patiscono i bambini per esser capiti dagli adulti? Quanto sof­ frono gli adolescenti, per raggiungere la maturità, la propria affermazione in quanto parte attiva e consapevole della collettività? Forse, gli anime hanno sa­ puto interpretare meglio di quanto non si creda i problemi, le angosce, le in­ certezze dei giovani - ai quali sono in massima parte destinati.16

Si va addirittura oltre affermando che: “chi capiva lo stato d’animo dei ra­ gazzi era il cartone e non l’adulto, e questo, l’adulto, ammesso che se ne sia ac­ corto, non lo ha sopportato.”17 Eccoci arrivati al nocciolo della questione. Nel precedente capitolo abbiamo accennato al fatto che, sostanzialmente, nel ci­ nema giapponese a disegni animati la comunicazione si colloca su di un piano affettivo e pulsionale. Ciò non significa semplicemente che gli anime si rivol­ gono ai sensi prima che all’intelletto. In gioco vi è la natura stessa dei prodot­ ti animati nipponici. Le produzioni animate provenienti dall’arcipelago giap­ ponese si definiscono in base a quello che almeno a partire dalla fine degli an­ ni Settanta è il loro principale fruitore di riferimento, ovvero l’adolescente, lo ribadiamo per l’ennesima volta. Pur non escludendo il piano cognitivo, quello del ‘sapere’, della distribuzione delle informazioni, affidato molto spesso ai dia­ loghi e ai monologhi dei personaggi, alla parola verbale, quindi, Vanirne prefe­ risce situare la comunicazione su di un piano precognitivo: il piano del ‘senti­ re’. Preferiamo non utilizzare il termine ‘percepire’ - che pure consideriamo praticamente un sinonimo - in quanto la parola ‘sentire’ rende a nostro avviso meglio l’idea e sottolinea il fatto che ad essere coinvolto è anche il piano affet­ tivo. Il prodotto animato giapponese sostanzia il rapporto comunicativo con lo spettatore agendo, dunque, su di un piano più sotterraneo e profondo a cui possiamo anche dare il nome di pulsionale o dell’istinto. I sentimenti espressi negli anime sono forti e ‘netti’; la passionalità è spinta all’eccesso, quasi fino a sfiorare il ridicolo e il patetico; l’erotismo - esplicito, ammiccante, psicanaliti­

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camente sublimato - è pervasivo. L’adolescenza è appunto l’età della passione, dell’istinto, della pulsione. L’adolescenza è l’età in cui le mezze misure non esi­ stono.18 Affermare che si stabilisca un rapporto comunicativo con gli spettato­ ri adolescenti solo perché i protagonisti delle storie narrate hanno quattordici, quindici o sedici anni è quanto meno superficiale e riduttivo. Le produzioni animate nipponiche introiettano le peculiarità caratteriali e comportamentali del proprio spettatore di riferimento. Accolgono nella propria struttura tali pe­ culiarità e le metabolizzano. Le pulsioni e la psicologia dei personaggi, i tempi ed i ritmi della narrazione - sincopati, convulsi, schizofrenici -, la maniera di raccontare in genere, sono lì a testimoniarlo.19 Quel particolare oggetto lingui­ stico che va sotto il nome di anime - un po’ alla maniera in cui il demone Hua She assorbe la personalità di Pai e prende possesso del suo corpo - si ‘antropomorfizza’ assimilando le caratteristiche comportamentali e psicologiche del­ lo spettatore; replicando il suo modo di ‘sentire’. Dovremmo in realtà parlare di metaforizzazione. Il termine ‘antropomorfizzazione’ è certamente impro­ prio, ma ci pare renda meglio l’idea.20 Il prodotto animato nipponico è, in de­ finitiva, quasi un pari grado dell’interlocutore. Proprio per questo è capace di dargli efficacemente del ‘tu’. L’interlocutore si specchia in esso e ritrova le sue ansie, i suoi dubbi, le sue paure, il suo sentire. Nell’animazione giapponese la descrizione in termini deittici del rapporto comunicativo tra testo e spettatore è quanto mai appropriata. Nessuna altra cinematografia ha un rapporto così in­ timo e diretto con il proprio pubblico. Ci pare di poter affermare che ciò sia do­ vuto al fatto che Vanirne lavora sul piano precognitivo dell’istinto e delle pul­ sioni, e lo fa per venire incontro al proprio spettatore di riferimento, l’adole­ scente, che ‘a causa’ dell’età vive di passioni e pulsioni che l’adulto e la società tentano di reprimere o canalizzare. La referenzialità come fattore unificante, dunque. Il pubblico di riferimento - gli adolescenti - costituisce uno degli ele­ menti che maggiormente contraddistingue la produzione animata nipponica, differenziandola da quella del resto del mondo. È questo che intendiamo quan­ do dichiariamo che i prodotti animati giapponesi, al contrario di quelli del re­ sto del mondo, si definiscono in base ai propri spettatori. La famigerata ripetitività dei prodotti animati giapponesi ha origini pro­ fonde, strutturali e psicologiche. Non è dovuta solo all’avidità delle case di produzione che preferiscono puntare su formule riconoscibili e, per questo, di sicuro successo. Utilizzando una definizione mutuata quasi dalla psicanalisi freudiana, si può parlare, in sostanza, di ‘piacere del noto’, un’attitudine psi­ cologica sfruttata con successo dalla narrativa di consumo sin dall’ottocento. In pratica, attraverso minime variazioni nella caratterizzazione - psicologica e fisica - dei protagonisti e nello svilluppo dell’intreccio, si stuzzica la curiosità dello spettatore, al quale interessa e dà piacere rinvenire le tracce dei modelli tipologici - dei personaggi e della storia - da lui conosciuti.

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Quanto allo stile [della narrativa popolare], si gioverà di soluzioni precostitui­ te, atte a procurare al lettore [e allo spettatore] le gioie del riconoscimento del già noto. E giocherà di iterazioni continue, per procurare [...] il piacere re­ gressivo del ritorno all’atteso.21

Si può dunque affermare che se, dal punto di vista di una stilistica dell’intreccio, questi mezzi degradati co­ stituiscono altrettante zeppe narrative, dal punto di vista di una psicologia del­ la fruizione e di una psicologia del consenso, esse funzionano a meraviglia, perché la pigrizia del lettore [e dello spettatore] chiede proprio di essere blan­ dita con la proposta di enigmi che egli abbia già risolto o sappia risolvere fa­ cilmente.22

Insomma, il piacere della narrazione [...] è dato dal ritorno del già noto - un ritorno ci­ clico che si verifica sia all’interno della stessa opera narrativa che all’interno di una serie di opere narrative, in un gioco di complici richiami.23

Il fruitore del testo narrativo - sia esso un romanzo, un film oppure un cor­ tometraggio animato - ama mettersi in competizione con l’ideale produttore del testo - ovvero il soggetto enunciatore -, del quale anticipa le strategie. Co­ me si deduce dai brani sopra riportati, nella maggior parte dei casi tali strate­ gie non sono inaspettate bensì programmaticamente scontate. Il genere fantastico e quello horror mettono costantemente in scena, in for­ ma metaforica, l’incerta e problematica condizione degli adolescenti.

I film horror, di fantascienza e fantastici hanno proposto una sessualità “tor­ bida”, nutrita di amori impossibili e bestiali, di lussurie morbide, di sottin­ tesi osceni. Soprattutto la critica francese ha saputo scoprire quanto di “freu­ diano” sia nascosto nelle pellicole fantastiche, che spesso sembrano avere un approccio punitivo nei confronti della sessualità, soprattutto di quella ado­ lescenziale. In realtà non si tratta di un perbenismo del cinema fantastico, ma della messa in scena delle paure più profonde dell’adolescenza: la paura di violare le regole, la paura di essere scoperti, l’incognita della scoperta del sesso.24 Irene Cantoni e Davide Castellazzi ravvisano la vicinanza tra 3x3 Occhi e le produzioni a basso costo di genere horror. I due esperti d’animazione nippo­ nica scrivono, tra le altre cose, che:

terribili, a volte grotteschi - uno di loro sembra un uomo triglia nascosto sotto impermeabile e cappello alla Bogart -, i mostri di Takada sono capaci degli at­ ti più atroci e delle trasformazioni più disgustose, ricordando in alcune tavole le inquietanti illustrazioni dello svizzero Giger - celebre per aver creato l’Alien della trilogia cinematografica - con i loro tentacoli viscidi che si avvolgono at-

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torno ai corpi di belle fanciulle, insinuandosi e fondendosi con esse in strette a metà strada tra il lascivo e il cruento.25 In Giappone, se ne è già accennato, il genere fantastico e quello horror - al­ meno la produzione più recente - sia in ambito letterario che cinematografico sono molto legati alla cosiddetta cultura shojo. Ci sembra che il seguente bra­ no introduca molto bene il prossimo paragrafo, incentrato proprio su questo argomento. Così è nella gioventù che sta il trauma per eccellenza. Non solo si è stati for­ zati in una identità, ma questa, ora, si trasforma in modo aggressivo, scate­ nando reazioni altrettanto aggressive da parte degli adulti: a questo punto o si crolla o, sensibilizzati, si conquista la propria libertà. È così che molte ope­ re del mondo shojo manga raccontano storie d’orrore. Una delle «icone» di questa cultura è Dario Argento: Yoshimoto Banana ha scritto un saggio su di lui, così come l’artista shojo manga Sakisaka Keiko vi ha dedicato la sua tesi di laurea, e tutti e due, come tanti altri, lo definiscono una delle fonti d’ispi­ razione più importanti - per non parlare della popolarissima rivista per ra­ gazze “Suspiria”... Anche in Dario Argento - che al museo di Freud a Vien­ na scoppiò in lacrime dalla commozione - uno dei motivi centrali è il terrore dell’identità sessuale: già nelle prime opere questo spinge i personaggi al rin­ negamento attraverso il travestimento e poi all’omicidio - Euccello dalle piu­ me di cristallo, 1970, Quattro mosche di velluto grigio, 1972 -, mentre nelle opere della maturità troviamo ragazze adolescenti che, per poter trovare la lo­ ro identità, devono passare dolorosamente attraverso lo sviluppo sessuale Suspiria, 1977, Phenomena, 1985.26

3.3

11 genere narrativo come chiave di lettura

A legare il genere fantastico, lo shojo manga - definito da Alessandro Gomarasca “il supporto centrale della cultura giovanile femminile”27 - e le produ­ zioni animate nipponiche è il tema del ‘conflitto identitario’. In Giappone il rapporto tra il fantastico cinematografico - contemporaneo - e la cosiddetta ‘cultura delle adolescenti’, che ha nei fumetti il veicolo privilegiato delle pro­ prie istanze, è strettissimo. Per essere più precisi, il boom multimediale dell’/jorror, un genere che, storicamente, nel paese del Sol Levante è apprez­ zato soprattutto da un pubblico femminile, “ha preso avvio proprio dagli sho­ jo manga (i fumetti per ragazze) e ha poi contagiato la narrativa, la televisione e infine il cinema.”28 Lo shojo manga è stato il principale modello narrativo, fi­ gurativo, iconografico e tematico del celebrato cinema dell’orrore dell’arcipe­ lago giapponese che alla fine degli anni Novanta si è imposto internazional­ mente varcando i confini nazionali. La nascita della cosiddetta cultura shojo

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viene fatta risalire, generalmente, all’inizio del Novecento.29 La traduzione let­ terale della parola shojo è ‘donna a metà’, ‘femmina non propriamente tale’.30 Questo termine indica e sottolinea lo stato transitorio, liminale tipico dell’età adolescenziale; un’età compresa tra quella infantile e quella adulta. Le shojo, queste fanciulle che vivono in una condizione di sospensione, in un periodo di transito, si affermano come categoria sociale autonoma nei primi decenni del Novecento: Sono soprattutto gli albori della moderna cultura dei consumi negli anni im­ mediatamente seguenti il boom economico della prima guerra mondiale a se­ gnare l’ascesa della shojo quale soggetto sociale attivo nei processi di consumo della nuova cultura di massa. E in questo periodo che cominciano a emergere i primi romanzi per ragazze, le shojo zasshi (le riviste per ragazze) e il celebre teatro di rivista di sole donne Takarazuka, un’istituzione fondamentale nello sviluppo della shojo bunka?x È il mercato, dunque, è l’industria, certamente non solo culturale, a sanci­ re la nascita di questa nuova categoria sociale. In un paese pragmatico come il Giappone non può essere altrimenti. Negli anni Settanta brillanti autrici di manga propongono storie capaci di toccare e far vibrare le corde emotive delle giovani lettrici. È la forza del­ lo stile, una forza almeno pari a quella degli argomenti trattati e delle vicen­ de narrate - edulcorate tragedie amorose, magari con dei ragazzi omoses­ suali come protagonisti32 -, ad avvincere le adolescenti. Nel corso degli an­ ni Ottanta la categoria shojo assume una sempre maggiore rilevanza sociale e come logica conseguenza la sua cultura, la cultura delle adolescenti, pro­ gressivamente eclissa e soppianta quella dei pari età di sesso maschile. Non è un caso che a cavallo degli anni Ottanta e Novanta si assista alla ‘shojizzazione’ degli shonen manga - i fumetti per adolescenti di sesso maschile - e de­ gli anime destinati ai ragazzi. In questi prodotti, cioè, viene riservata grande attenzione alle dinamiche che regolano i rapporti amorosi; il sentimento non è più subalterno all’azione. Silvia Lucianetti e Andrea Antonini indicano dei titoli: Oh, mia Dea! - il cui titolo originale è Aa! Megamisama - di Fujishi­ ma Kosuke, Orange Road - Kimagure Orenji Rodo - di Matsumoto Izumi e Video girl Ai - Den’ei Shojo - di Katsura Masakazu.33 L’influenza esercitata su 3x3 Occhi - che fa la sua comparsa nelle edicole giapponesi nel 1987 - dal fumetto per ragazze è evidente. Soprattutto nella seconda serie, quella inti­ tolata Alla ricerca del santuario?* Nell’opera più importante di Takada Yuzo, quella che gli ha dato la notorietà internazionale, i teneri tentennamenti, le tribolazioni amorose dei due protagonisti, Pai e Yakumo, si intrecciano sal­ damente al racconto avventuroso. L’importanza della componente senti­ mentale cresce col procedere delle vicende. Se nella prima serie del fumetto

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- e nella corrispondente serie animata -, infatti, si può parlare di semplice sottotesto, in Alla ricerca del Santuario - e nella seconda serie animata - la storia d’amore tra la piccola triclope Pai, che ha trecento anni e l’aspetto di una adolescente, e la sua guardia del corpo immortale, Yakumo Fujii, con­ quista il centro della scena. La figura sociale della shojo si articola, si suddivide in diverse sottocatego­ rie. L’argomento è tuttavia troppo vasto e complesso e non ci interessa esami­ narlo in questa sede, se non per rapidi accenni?5 Tenuto conto della loro rile­ vanza sul piano culturale - e della loro influenza sulla produzione animata nip­ ponica, non solo dedicata alle ragazze -, meritano di sicuro la menzione le ca­ tegorie chiamate kawaii e ganguro gyaru. In particolare, la prima, le cui origi­ ni risalgono all’inizio del Novecento, costituisce a partire dagli anni Settanta un autentico fenomeno socio-antropologico - di ampia portata - che trova negli shojo manga e negli anime i mezzi attraverso i quali manifestarsi compiutamente. La traduzione letterale del termine kawaii è ‘carino’. Le ragazze rien­ tranti nella categoria kawaii hanno una predilezione nei confronti di tutto quel­ lo che possiede i seguenti attributi: ingenuità, rotondità, tenerezza, dimensio­ ni ridotte.36 I personaggi dei fumetti e delle serie animate dirette alle adole­ scenti kawaii - e molto spesso anche ad un pubblico infantile - hanno quindi una forma tondeggiante, un aspetto buffo e soprattutto occhi enormi ed espres­ sivi.37 Al fenomeno kawaii è inoltre riconducibile la diffusa tendenza a rim­ picciolire, deformare e ridurre a pure caricature i protagonisti degli anime, non solo indirizzati alle adolescenti. Suddetta tendenza viene indicata con la definizione di super deformed. Anche ciò a cui si è assegnato l’appellativo di ganguro gyaru è al contempo una moda e uno stile di vita. A contraddistin­ guere le ragazze ganguro gyaru sono una vistosa abbronzatura, i capelli tinti di arancione o biondo platino - e l’utilizzo di trucco e abiti particolarmente ap­ pariscenti. La parola ganguro in Giappone indica sia la pelle abbronzata che il cerone nero usato a teatro. Ritratte in numerosi fumetti e serie animate, le ado­ lescenti ascrivibili a tale categoria esprimono la propria individualità - e dun­ que il desiderio di libertà e indipendenza - attraverso il rinnegamento e il ri­ baltamento dei consueti canoni estetici nipponici, secondo i quali la bellezza è determinata dal chiarore della pelle e magari dalla sobrietà dell’abbiglia­ mento. Voglia di divertirsi, vestiti stravaganti e più in generale una maniera anticonvenzionale di intendere la moda, caratterizzano infine le ragazze a cui viene assegnato il nome di yamanba - parola che rimanda alle streghe delle montagne presenti nella mitologia nipponica - oppure kogyaru, un neologi­ smo giapponese il cui significato è ‘ragazzina’.38 Per chiudere il discorso rela­ tivo a quella particolarissima figura sociale che è la ragazza giapponese, la sho­ jo, non ci resta che elencare alcuni dei ruoli simbolici che le sono stati assegnati nel corso degli anni. La shojo è una metafora vivente: la metafora del consu­

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mismo. La si è ritenuta l’emblema della - conseguente - decadenza dei valori tradizionali e della corruzione dei costumi. Si è visto nelle adolescenti il sim­ bolo del passaggio tra epoca feudale, arcaica e contadina, e epoca industriale; tra tradizione e modernità?9 Infine, si è considerata la shojo una portatrice di istanze, di richieste controculturali, tenuto conto del pervicace rifiuto di cre­ scere e farsi assimilare dalla cultura e dalla ideologia dominanti, adulte e ma­ schili. Tale rifiuto va anche inteso nel senso di una mancata assunzione di re­ sponsabilità. L’adolescente, in Giappone, non è solo la protagonista incontra­ stata degli shojo manga. Lo è anche del cinema e delle serie animate di genere fantastico e horror. Almeno della produzione più recente. Più delle situazioni e delle problematiche poste sul tappeto, è lo stile della rappresentazione, il modo di raccontare gli eventi, come abbiamo accennato, a coinvolgere emoti­ vamente le lettrici e le spettatrici. Questo è solo il primo dei punti di contatto tra il fumetto per ragazze, le produzioni di genere fantastico e gli anime. Il fan­ tastico non è un genere, bensì una vera e propria “scelta stilistica e poetica, un modo” Al fantastico è possibile accostare la figura retorica della metafora.41 Il fantastico infatti allude, simboleggia, comunica sotterraneamente, su di un piano psicologico ed affettivo. Non parla direttamente di qualcosa. Non co­ munica questo qualcosa in maniera diretta. Semplificando, nei prodotti fanta­ stici il discorso è fortemente metaforico. Questo, al di là delle diverse forme d’espressione attraverso cui si manifesta. Per averne una conferma basta get­ tare un’occhiata ai film o ai fumetti nipponici realizzati a partire dagli anni No­ vanta. \3horror giapponese contemporaneo mette costantemente in scena “una lotta altamente allegorizzata che vede contrapporsi infanzia e condizione adul­ ta, purezza e corruzione.”42 Come il cinema a disegni animati, l’horror live ac­ tion e la sua principale fonte d’ispirazione, lo shojo manga, metaforizzano la condizione dell’adolescente. E l’adolescenza in generale. Tale, fondante pecu­ liarità è già presente in Ribon no kishi - letteralmente: ‘Il cavaliere infiocchet­ tato’ - di Tezuka Osamu, uno dei primi shojo manga della storia.43 La prota­ gonista di Ribon no kishi, uscito nell’anno 1953, infatti, è una bambina co­ stretta a scegliere tra un’identità maschile e una femminile. Solo al termine del­ la serie la giovane protagonista, impossibilitata ad eludere oltre la sessualità, opta per l’identità femminile e conquista il cuore del suo bel principe azzurro. Tezuka, il padre del fumetto e dell’animazione giapponese moderna, uomo di vasta cultura, non ha avuto unicamente modelli autoctoni, locali e questo va sottolineato.44 La casa in cui si annidano forze oscure e spiriti maligni è uno dei luoghi topici di un fantastico dai netti connotati orrorifici. Questo ambiente, questo luogo è “lo specchio degli orrori che le ragazze esperiscono nella pro­ pria trasformazione adolescenziale e nella scoperta della sessualità.”45 La vi­ sione del quinto episodio di 3x3 Occhi pare confermare ciò. La protagonista femminile, Pai, aiutata dal ragazzo che ama e che ha reso immortale - Yaku-

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mo Fujii -, affronta gli spiriti maligni stabilitisi in quella che crede essere la propria casa. Soprattutto, la ragazza combatte i propri demoni interiori. Guar­ da coraggiosamente dentro di sé, supera una spaventosa ed angosciante crisi e, alla fine di un doloroso percorso, accetta la propria identità. La ricerca del­ l’identità - da parte della protagonista - è il tema centrale della seconda serie animata di 3x3 Occhi. La seconda serie animata di 3x3 Occhi può quindi es­ sere facilmente letta come la splendida metafora della trasformazione, del cam­ biamento - fisico e psicologico -, molto spesso doloroso, a cui gli adolescenti sono continuamente sottoposti fino al raggiungimento della maturità, dell’età adulta. Il quinto episodio di 3x3 Occhi, il primo della seconda serie, è quello in cui si avverte maggiormente l’influenza esercitata dal coevo cinema fanta­ stico - giapponese - live action.

Pai, Yakumo e sullo sfondo il temibile Lang Bao Bao. Takada Yuzo © Kodansha/Toei doga/Bandai/King Records/Plex Starchild

È il tema del ‘conflitto identitario’ legato alla crescita dell’adolescente, trat­ tato in diverse sue opere, oltre, naturalmente, alla maniera di raccontare, allo stile, che ha fatto di Dario Argento un punto di riferimento imprescindibile.

I film di Argento, dove l’intreccio trascura la logica per puntare sulFemotività pura e domina l’iperbole, sono molto vicini alla sensibilità dei fumetti per ra­ gazze. La protagonista di Phenomena è una perfetta eroina in stile shojo man­ ga e come tale esce indenne, alla fine del film, da una serie di prove atroci, col suo vestito bianco ancora immacolato. Gli orrori del mondo degli adulti non so­

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no riusciti a contaminarla nonostante una serie di avventure raccapriccianti tra cui un bagno in una vasca brulicante di vermi dove galleggiano cadaveri in avan­ zata decomposizione. E superfluo sottolineare che storie come questa offrono alle giovanissime un’irresistibile opportunità di identificazione sublimando la paura del sesso in una rappresentazione di orrori con catarsi finale e relativo re­ cupero dell’innocenza.46 Argento se ne infischia della logica e della razionalità. A caratterizzare il suo cinema visionario - e l’universo narrativo dello shojo manga e dramme - è l’esagerazione, l’enfasi, lo squilibrio in favore dell’emozione.47 A fare da ennesimo, fondamentale trait-d’union tra i fumetti per ragazze, i prodotti di genere fantasy o horror ed il cinema a disegni animati è proprio la precedenza accordata al sentimento, alla componente emozionale.

Non è un caso che l’enfasi, la metafora, {'iperbole e la metonimia siano le figu­ re retoriche più usate, in forma visiva, nell’tfw/we: l’animazione giapponese è tesa energicamente all’esagerazione, all’estremizzazione, alla resa retoricamen­ te ultraspettacolare degli eventi narrati. Gli stessi fondali negli anime possono assumere una valenza espressiva: spesso le battaglie fra un eroe robotico e il mostro di turno si svolgono sullo sfondo di scenari improbabili, dai colori vi­ vidi e innaturali, che danno un valore espressionista alla scena, una carica qua­ si cromopatica, volta a determinare con più efficacia nello spettatore uno stato d’animo di tensione adatto al pathos della battaglia. I fondali però possono es­ sere anche «dolci» e rilassanti: è il caso degli sfondi floreali o stellari tipici dei cartoons umoristici o dei feuilletons. Oppure possono essere estremamente op­ pressivi.48

Non a caso, è ”in particolare dagli shojo manga [che] deriva [...] l’uso ‘espressivo’ dei fondali.”49 Gli shojo manga, gli anime e, spesso, i film di Dario Argento, sono virtuosistici esercizi di stile che sfiorano l’astrazione. Ma in es­ si non vi è quasi nulla di fatuo. Queste opere rendono concreto, visualizzano il sentimento, l’idea, l’emozione, il concetto.50 Quello di Argento, come è sta­ to segnalato da numerosi critici e studiosi, è cinema dell’irrazionale, dell’oni­ rico. Esso è la materializzazione dell’inconscio; è sogno ad occhi aperti.51 For­ se tutti i prodotti di genere fantastico lo sono. In ogni caso, non si può non leg­ gere il fantastico principalmente in chiave psicanalitica.52

Poiché qualche preliminare è necessario, prenderò spunto da quello che per molti anni è stato il punto di riferimento principale di ogni dibattito sull’argo­ mento, ovvero le parole che gli ha dedicato Tzvetan Todorov nel suo La lette­ ratura fantastica-. “In un mondo che è sicuramente il nostro, quello che cono­ sciamo, senza diavoli, né silfidi, né vampiri, si verifica un avvenimento che non si può spiegare con le leggi del mondo che ci è familiare. Colui che percepisce l’avvenimento deve optare per una delle due soluzioni possibili: o si tratta di una illusione dei sensi, di un prodotto dell’immaginazione, e in tal caso le leggi del

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mondo rimangono quelle che sono, oppure l’avvenimento è realmente acca­ duto, è parte integrante della realtà, ma allora questa realtà è governata da leg­ gi a noi ignote. [...] Il fantastico occupa il lasso di tempo di questa incertezza: non appena si è scelta l’una o l’altra risposta, si abbandona la sfera del fantastico per entrare in quella di un genere simile, lo strano o il meraviglioso. Il fantasti­ co è l’esitazione provata da un essere il quale conosce soltanto le leggi natura­ li, di fronte a un avvenimento apparentemente sovrannaturale.” [...] Non sono tanto diverse altre definizioni: secondo Roger Caillois, “il fantastico manifesta uno scandalo, una lacerazione, un’irruzione insolita, quasi insopportabile nel mondo della realtà, (qualcosa di) inammissibile e di indicibile. [...] E l’impos­ sibile, che sopraggiunge all’improvviso in un mondo da cui l’impossibile è ban­ dito per definizione”.55

Il fantastico va considerato, dunque, come l’irruzione, improvvisa ed inat­ tesa, dell’irrazionale nel razionale. Come la penetrazione dell’impossibile nel regno del possibile, ovvero il nostro mondo ‘banale’ e la nostra quotidianità. Tale affermazione, indubbiamente, non può non richiamare alla mente il fa­ moso saggio di Sigmund Freud 11 perturbante. Il termine ‘perturbante’ - unheimlich in tedesco - è l’esatto contrario di ‘tranquillo’, ‘abituale’, ‘familiare’ - heimlich, nella lingua tedesca -. Il perturbante è, dunque, qualcosa che non è noto, che non è conosciuto, che non è familiare; e proprio per questo è in­ quietante, spaventoso, angoscioso. Ma oltre a quello di ‘spaventoso’, di ‘sini­ stro’, la parola ‘perturbante’ ha anche il significato di ‘nascosto’, di ‘celato’.

Questo elemento perturbante non è in realtà niente di nuovo o estraneo, ben­ sì un qualcosa di familiare alla vita psichica fin da tempi antichissimi, che le è diventato estraneo soltanto per via del processo di rimozione. Il rapporto con la rimozione ci chiarisce ora anche la definizione di Shelling [...] secondo la quale il perturbante è un qualcosa che avrebbe dovuto rimanere nascosto e che è affiorato.5-1 Ciò di intimamente radicato che è rimosso dal processo di cui parla Freud, sono i ‘complessi infantili’ e il ‘pensiero primitivo’. Ciò che doveva rimanere nascosto ed invece è affiorato, per dirla alla Schelling, sono le convinzioni ir­ razionali che l’uomo si porta dietro dai primissimi anni di vita, ed i residui di un modo di pensare animistico.55 Quello che terrorizza, che angoscia, che spa­ venta, nel fantastico e soprattutto nell’Aorror, è “l’emergenza dei mostri del­ l’inconscio”;56 è la venuta a galla di paure infantili legate anche al pensiero magico-mitico. “Potremmo quindi parlare per Y horror di un fantastico magicore ligioso”.71 II genere horror riporta l’uomo indietro nel tempo e ne riattiva il primordiale modo di pensare. In questo, probabilmente, risiede il suo perver­ so fascino. A questo, probabilmente, è dovuto il suo grande potere di attra­ zione.

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Note 1 “È un dato di fatto che nessuna produzione animata seriale - destinata alle televisioni - di paesi diversi dal Giappone ha visto un successo e una diffusione tali, tra i giovani e i giovanis­ simi, da essere paragonabili a quelli dei prodotti giapponesi; tanto che termini mutuati dal les­ sico specifico dell’animazione giapponese sono del tutto usuali tra i giovani di età compresa tra i quattordici e i trent’anni; anime, manga, OAV, otaku fanno parte dell’insieme di vocaboli che moltissimi ragazzi conoscono e utilizzano.” M. Ghilardi, op. cit., p. 18. 2 A. Antonini, S. Lucianetti, Manga. Immagini dal Giappone con temporaneo, Roma, Castelvecchi, 2001, p. 95. 3 A proposito dell’innesco dei meccanismi psicologi di identificazione, non si può non con­ statare il fatto che in Giappone “i protagonisti [di disegni animati e fumetti] hanno la stessa età del pubblico al quale si rivolgono. Si tratta di una regola aurea [...] confermata dal successo del­ la sua applicazione”. F. Prandoni, op. cit., p. 50. 4 U. Eco, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, cit., p. 55.

5 Ivi, p. 56. 6 G. Bettetini, op.cit., p. 99. 7 “Abbiamo detto che il testo postula la cooperazione del lettore come propria condizione di attualizzazione. Possiamo dire meglio che un testo è un prodotto la cui sorte interpretativa de­ ve far parte del proprio meccanismo generativo-, generare un testo significa attuare una strategia di cui fan parte le previsioni delle mosse altrui”. U. Eco, Lector in fabula. La cooperazione in­ terpretativa nei testi narrativi, cit., p. 54. 8 Cfr. G. Bettetini, op. cit., p. 115. 9 U. Eco, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, cit., pp. 57-58. E ancora: “ Il testo è dunque intessuto di spazi bianchi, di interstizi da riempire, e chi lo ha emesso prevedeva che essi fossero riempiti e li ha lasciati bianchi per due ragioni. Anzitutto perché un testo è un meccanismo pigro (o economico) che vive sul plusvalore di senso intro­ dottovi dal destinatario, e solo in casi di estrema pignoleria, estrema preoccupazione didasca­ lica o estrema repressività il testo si complica di ridondanze e specificazioni ulteriori - sino al limite in cui si violano le normali regole di conversazione. E in secondo luogo perché, via via che passa dalla funzione didascalica a quella estetica, un testo vuole lasciare al lettore l’iniziati­ va interpretativa, anche se di solito desidera essere interpretato con un margine sufficiente di univocità. Un testo vuole che qualcuno Io aiuti a funzionare.” Ivi, p. 52. 10 11 12

M. Ghilardi, op. cit., pp. 28-29. Ivi, p. 31. D. Cofano, Nipponcartoon. Immagini, miti, strategie, Milano, Franco Angeli, 1999, p.

66. 13

J. Laplanche, J.B. Pontalis, Enciclopedia della psicanalisi, Bari, Laterza, 1968, p. 587.

14 Cfr. M. Ghilardi, op. cit., pp. 76-77. 15 C. Nakane, La società giapponese, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1992, p. 50. E an­ cora: “Quali che siano le differenze nel comportamento individuale, la coscienza gerarchica è profondamente radicata nel comportamento sociale giapponese.” Ivi, p. 52. 16 M. Ghilardi, op. cit., p. 121. 17 L. Raffaelli, op. cit., p. 166.

55 18 Non è un caso, quindi, che quello emotivo sia ritenuto dai responsabili dell’animazione giapponese l’aspetto più importante.** Il tenore emotivo di questi cartoon è consistente, e si può ben dire che ne costituisce il substrato essenziale. Sia la trama, che le scene, i colori, il lin­ guaggio verbale e non verbale, sottolineano più l’aspetto emotivo che non quello cognitivo o estetico. Il pathos e la drammaticità sono rinforzati da modalità espressive tipiche che sono net­ te, forti e prevalentemente dicotomiche.” D. Cofano, op. cit., p. 66. 19 “Lo stile del cartone giapponese ha una grande capacità di coinvolgere lo spettatore atti­ randolo in uno stretto rapporto con i propri personaggi, e di avvincere con notevoli meccani­ smi spettacolari, spesso ripetuti, ma non senza stuzzicanti variazioni sul tema.” L. Raffaelli, op. cit., p. 126. 20 II termine antropomorfizzazione è preso in prestito da alcune dichiarazioni rilasciate da Christian Metz, il quale, intervistato da Guglielmo Pescatore, lo utilizza parlando dell’applica­ zione dei deittici nelle teorie dell’enunciazione cinematografica. “Credo che i deittici abbiano l’inconveniente di rendere antropomorfo ciò che non lo è, e di rendere bidirezionale ciò che è monodirezionale. [...] Il mio scopo è di concepire una teoria dell’enunciazione libera dall’an­ tropomorfismo, libera dall’idea di *io’, ‘tu’, ‘egli’, ecc.” G. Pescatore, op. cit., pp. 119-121. 21 U. Eco, Il superuomo di massa. Retorica e ideologia nel romanzo popolare, Milano, Coo­ perativa Scrittori, 1976, p. 18. 22 Ivi, p. 33. 25 Ivi, p. 85. 24 E Giovannini, A. Tentori, Eros e cinema fantastico, Roma, Datanews, 2004, p. 7. 251 . Cantoni, D. Castellazzi, Portfolio 3x3 Occhi, in “Mangazine”, n. 36, giugno 1994, p. 17. 26 O. Moller, Dietro. «Shojo mango» e identità sessuale, in G. Spagnoletti, D. Tornasi (a cu­ ra di), op. cit., p. 111. 27 A. Gomarasca, Sotto il segno del kawaii, in Id. (a cura di), La bambola e il robottone. Cul­ ture pop nel Giappone contemporaneo, Torino, Einaudi, 2001, pp. 71-72. 28 A. Gomarasca, Incubi rosa, in Id. (a cura di), La bambola e il robottone. Culture pop nel Giappone contemporaneo, cit., p. 280. 29 “Nel Giappone premoderno la shojo non esisteva: all’infanzia faceva rapidamente segui­ to la maturità, rappresentata dal lavoro nei campi o dall’ingresso nell’economia politica e sim­ bolica della sessualità adulta. Questo regime muta con l’irrompere della moderna economia ca­ pitalistica, quando la ridistribuzione dei ruoli sociali fra i sessi e l’istituzionalizzazione del sistema educativo (i primi licei femminili in Giappone sorgono nel 1897) contribuiscono a separare le ragazze dalla sfera immediatamente «produttiva» del lavoro e della sessualità adulti e dunque a «creare» la figura storico-sociale della shojo.” A. Gomarasca, Sotto il segno ó/e/kawaii, cit., p. 68. ’° Ibid. 31 Ivi, p. 69. La shojo bunka è la cultura delle adolescenti. 52 Al fumetto omoerotico giapponese - destinato prevalentemente alle adolescenti - è asse­ gnato il nome di shonen-ai. Esso è trattato in maniera approfondita in V. Sabucco, Shonen ai. Il nuovo immaginario erotico femminile tra Oriente e Occidente, Roma, Castelvecchi, 2000. 35 Cfr. A. Antonini, S. Lucianetti, op.cit., pp. 91-94. 34 Nel 2002, l’anno in cui si conclude 3x3 Occhi - al quarantesimo volumetto, per la preci­ sione -, Takada Yuzo dichiara di volersi dedicare allo shojo manga. In virtù di quanto detto fi­ nora la cosa non può sorprendere. “I personaggi di 3x3 Occhi sono stati parecchio vivaci, a

56

tratti nevrotici, e molto avventurosi e non mi hanno mai dato un attimo di respiro. Ecco il mo­ tivo per cui avevo pensato di dedicarmi a qualche commedia sentimentale (sì, sto proprio par­ lando di shojo manga), in modo da scaricare lo stress accumulato durante la serie precedente.” Y. Takada, Genzo - Annotazioni, in “Young”, n. 132, maggio 2005, p. 149. 35 Rimandiamo chi volesse avere maggiori informazioni a A. Gomarasca (a cura di), La bam­ bola e il robottone. Culture pop nel Giappone contemporaneo, cit., pp. 41 -144. Cfr. inoltre A. Go­ marasca, L. Vaitorta, Sol Mutante. Mode, giovani e umori nel Giappone contemporaneo, Geno­ va, Costa & Nolan, 1996, pp. 80-98. 36 Cfr. E. Benecchi, op. cit., pp. 49-52. 37 Cfr A. Gomarasca, Sotto il segno del kawaii, cit., pp. 68-90. 38 Cfr. http://www.nipponico.eom/dizionario/k/kogyaru.php 39 “Un sistema sta morendo - quello dei padri, dei guerrieri della spada e del lavoro - e una nuova era, forse colorata di rosa e punteggiata di bolle di sapone, si sta profilando all’orizzon­ te. Come qualche tempo fa scriveva Otsuka Eiji, un noto antropologo giapponese, l’intera so­ cietà nipponica (oggi quella asiatica?) si sta «shojizzando», sta cioè ricadendo sotto l’impero del femmineo e dell’infantile.” A. Gomarasca, Sotto il segno del kawaii, cit., p. 90. 40 G. Cremonini, Viaggio attraverso l’impossibile. Il fantastico nel cinema, Pisa, ETS, 2003, p. 12. 41 “Poiché, come vedremo, il fantastico ha sempre bisogno di una referenzialità da negare o alterare, possiamo considerarlo come una sorta di tangente: qualcosa che sfugge al contatto, ma al tempo stesso viene definito proprio a partire da quel contatto. Da questa prospettiva, ap­ plicata ad una retorica generale del discorso, risulta essenziale la nozione di metafora: con tut­ te le schematizzazioni del caso, essa sta al fantastico come la metonimia sta al realistico. La me­ tafora è una sostituzione (in questo caso del possibile con l’impossibile), la metonimia è conti­ guità e continuità.” Ibid. 42 A. Gomarasca, Incubi rosa, cit., p. 291. 43 È La principessa Zaffiro il titolo con cui Ribon no Kishi è conosciuto in Italia. 44 “Oltre che essere un ammiratore del teatro Takarazuka, Tezuka è un grande estimatore dei cartoni animati di Walt Disney. Secondo quanto riferiscono le sue biografie, Tezuka “ha vi­ sto Biancaneve 50 volte e Bambi 80 volte, fino a memorizzare ogni seguenza” [...] e questa in­ fluenza entra sicuramente a far parte dello shojo manga seminale del «padre» del fumetto giap­ ponese”. A. Gomarasca, Sotto il segno del kawaii, cit., p. 72.

45 A. Gomarasca, Incubi rosa, cit., p. 291. 46 G. Amitrano, op. cit., pp. 144-145. 47 Le peculiarità del fumetto giapponese per ragazze sono “ una gran disinvoltura nel trat­ tamento delle fonti storiche, l’indifferenza per la logica fino a ridurre la trama a un circuito di emotività allo stato puro che si avvicina all’astrazione, e il motivo dell’ambiguità sessuale.” Ivi, p. 141. 48 M. Pellitteri, Mazinga nostalgia. Storia, valori e linguaggi della Goldrake generation, cit., p. 241. 49 E. Benecchi, op.cit., p. 25. 50 Per Jean Epstein, regista e teorico francese attivo sin dagli anni Venti, una delle peculia­ rità del mezzo cinematografico è proprio quella di rendere visibile l’idea, la passione, il concetto che si cela dietro le immagini e che la macchina da presa è capace di cogliere ed evidenziare. Cfr. G. Pescatore, op. cit.,p4zrrzw. Cfr. anche J. Epstein, L’essenza del cinema. Scritti sulla setti­

57 ma arte, Venezia-Roma, Marsilio-B&N, 2002. Il saggio è un interessante raccolta di scritti di Ep­ stein curata dalla studiosa Valentina Pasquali. 51 Per quel che concerne l’analogia tra il funzionamento del sistema psichico e quello del di­ spositivo cinematografico, cfr. A. Boschi, Teorie del cinema. Il periodo classico 1915-1945, Ro­ ma, Carocci, 1998, pp. 165-201. Questo discorso è stato sviluppato in ambito artistico, nel cor­ so degli anni Venti, dalle cosiddette Avanguardie storiche. Dal movimento surrealista, in particolar modo. A tal proposito, cfr. P. Bertetto (a cura di), Il cinema d’avanguardia 1910-1930, Ve­ nezia, Marsilio, 1983, passim. Ado Kirou, il primo e principale storico del gruppo surrealista, scrive, significativamente, che il cinema è “il miglior trampolino dal quale il mondo moderno si sarebbe tuffato nelle acque magnetiche e brillantemente nere dell’inconscio”. Cit. in A. Co­ sta, Il cinema e le arti visive, Torino, Einaudi, 2002, p. 181. 52 Una delle etichette che è stata appiccicata al cinema giapponese fantastico o horror degli anni Novanta, le cui marche di autoriflessività sono evidenti, è proprio quella di cinema pa­ rapsicologico o ‘perturbante’. 53 G. Cremonini, op. cit., p. 8. 54 S. Freud, Il perturbante, in Id., Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Torino, Bolla­ ti Boringhieri, 1991, p. 294. 55 L’animismo non è una vera e propria religione. Piuttosto, è una credenza secondo cui ogni cosa è ‘animata’ da uno spirito. A proposito dell’animismo e del modo di pensare del­ l’uomo primitivo, Freud scrive: “L’analisi dei casi in cui compare l’elemento perturbante ci ha ricondotti all’antica concezione del mondo propria àeW animismo, che era caratterizzata dal popolare il mondo di spiriti umani, dalla sopravvalutazione narcisistica dei propri processi psi­ chici, dall’onnipotenza dei pensieri e dalla tecnica della magia che su questa onnipotenza era co­ struita, dall’assegnazione di poteri magici accuratamente graduati a persone e cose estranee (mana), e da tutte le creazioni con le quali il narcisismo illimitato di quella fase dell’evoluzione opponeva resistenza contro le esigenze irrecusabili della realtà.” Ivi, p. 293. In pratica, sempli­ ficando in maniera estrema, l’uomo primitivo - come il bambino - contrappone il mondo ‘ma­ gico’ dei propri pensieri, della propria psiche, a quello reale. 56 57

G. Cremonini, op. cit., p. 27. Ivi, p. 28.

Capitolo 4

Tra Oriente e Occidente

4.1

Basi strutturali comuni

Sul piano strutturale, sono il mito e la fiaba gli illustri antesignani, i nobili ed ‘ancestrali’ precursori delle opere animate giapponesi e dei prodotti di genere fantastico e horror.1 II mito può essere considerato una delle prime forme di narrazione conosciute, probabilmente la prima in assoluto. Quella che ha da­ to origine a tutte le altre. E che permane in tutte le altre. Si può ritenere il mi­ to il principale modello formale di ogni racconto. Giorgio Cremonini lo defi­ nisce: “quella struttura di fondo, sempre uguale e sempre riletta con sfumatu­ re diverse”.2 Il mito è lo schema che sta alla base di ogni narrazione. La nasci­ ta del mito coincide con quella del pensiero dell’uomo.3 Il mito, dunque, è una rimanenza, un residuo di un’epoca lontana e arcaica; esso è una rappresenta­ zione, a scopo esplicativo e ‘compensativo’, del mondo, della realtà; nonché l’oggettivazione delle paure e delle pulsioni inconsce, delle istanze psicologi­ che più profonde. Roger Caillois afferma che “è proprio nel mito che si coglie meglio, dal vivo, la collusione dei postulati più segreti, più virulenti dello psichismo individuale con le pressioni più imperative e più perturbanti dell’esi­ stenza sociale.”4 A livello strutturale profondo non vi è dunque nessuna diffe­ renza tra un racconto prodotto in Asia o in Europa, in America o in Africa. Lo schema secondo cui sono disposti gli avvenimenti - almeno quelli principali , il modello strutturale della storia rimane invariato, insomma. Si può parlare di “un’istanza di continuità e permanenza degli elementi”;5 di “livello di im­ manenza che consenta il riconoscimento di valenze di senso omogeneo anche di fronte a elementi eterogenei che si possono incontrare al livello della mani­ festazione.”6 “A Propp interessa osservare, al di là degli elementi variabili e accessori dell’intreccio, gli elementi costanti dello schema compositivo, cioè il modello paradigmatico delle funzioni.”7 Nel suo saggio più famoso e importante, Mor­ fologia della fiabaf Propp analizza le azioni compiute dai personaggi delle fia-

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be russe. A queste azioni, di cui mette in evidenza il ritorno costante, la ricor­ renza, lo studioso dà il nome di ‘funzioni narrative’.91 personaggi, i soggetti agenti, sono raggruppati da Propp proprio in base a quello che fanno, alle sfe­ re d’azione in cui agiscono. È a partire dalle categorie proppiane che Algirdas Greimas elabora il cardine della sua teoria del percorso generativo del senso, il cosiddetto modello attanziale. Il modello attanziale, specifica lo studioso, è situato ad un livello intermedio compreso tra quello profondo e quello di su­ perficie, tra l’immanenza e la manifestazione. Il modello attanziale, in pratica, segna il passaggio dalla virtualità logico-sintattica alla realizzazione concreta di un racconto. Greimas propone sei categorie: soggetto, oggetto, destinante, de­ stinatario, aiutante e opponente. Il ‘soggetto’, il protagonista della narrazione - ‘l’eroe’, detto in termini più popolari - è definito dall’oggetto che è chiama­ to a recuperare o conquistare. Tale oggetto non è necessariamente qualcosa di materiale. Il suo valore può essere oggettivo o soggettivo. L’oggetto, cioè, ha va­ lore in sé - con tutti gli annessi e connessi simbolici del caso - o per i risultati che fa raggiungere. Nel primo caso, l’enunciato è retto dal verbo avere; nel se­ condo, dal verbo essere. La narrazione è scandita da un continuo avvicinarsi e allontanarsi di soggetto e oggetto.10 Per congiungersi al proprio ‘oggetto del de­ siderio’, il soggetto deve seguire uno schema, un percorso canonico che si ar­ ticola per l’esattezza in tre prove.

Nella prova detta qualificante il soggetto acquisisce la competenza per portare a termine la successiva prova decisiva: adiuvante e opponente sono le due figure attanziali contrarie che generalmente compaiono in questo sintagma. Nello schema proppiano la qualificazione coincide con l’acquisizione del mezzo ma­ gico; oggetto che conferisce all’eroe il potere o il sapere in relazione all’azione centrale da portare a termine. Con la prova detta decisiva viene introdotta la di­ mensione propriamente polemica del racconto, infatti in questo sintagma nar­ rativo il soggetto è impegnato nella lotta contro Fanti-soggetto che gli conten­ de l’oggetto di valore. Infine, come abbiamo avuto modo di vedere, nella pro­ va glorificante il soggetto riceve un giudizio sul suo operato nei termini di una sanzione a carattere pragmatico o di una sanzione a carattere cognitivo, en­ trambe di natura positiva {premio o riconoscimento'} o negativa {punizione o di­ sconoscimento}. Le tre prove così elencate costituiscono lo schema narrativo canonico.1' Lo schema narrativo canonico è applicabile ad ogni racconto. La serie animata che stiamo analizzando ci fornisce la prova lampante della veridici­ tà di questa affermazione. Molto diversi dal punto di vista dei contenuti e delle finalità psicologiche e sociali, il mito, la fiaba e Vanirne - almeno nella maggior parte dei casi - risultano in definitiva vicini, o per meglio dire omo­ loghi, da quello strutturale. 3x3 Occhi, come la quasi totalità dei prodotti animati giapponesi, rispetta il percorso canonico della narrazione appena

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indicato. Il cosiddetto oggetto di valore, nella prima serie è presente sin dal­ la sequenza iniziale. Si tratta della statua dell’umanità, sulle cui tracce si met­ te ‘l’eroe’, il principale personaggio: lo studente liceale Yakumo Fujii. Il pa­ dre di quest’ultimo, l’etnologo Hajme Fujii, ricopre, invece, il ruolo di de­ stinante. Attraverso la lettera fatta recapitare da Pai, l’uomo incarica il fi­ glio del compito di recuperare il sacro manufatto che consente ai triclopi, ov­ vero creature sovrannaturali dotate di tre occhi, di diventare esseri umani. Il destinante - o ‘mandante’ - è colui che investe il protagonista della re­ sponsabilità di appropriarsi o riconquistare l’oggetto di valore. Esso è colui che ‘manda’ il soggetto a compiere una missione. Il giovane protagonista di 3x3 Occhi, però, impreparato, non riesce a portare a termine la prova co­ siddetta ‘qualificante’, alla cui base sta un apparato modale.12 La ragazza di cui subito s’innamora, la triclope Pai non gli fornisce le informazioni, le in­ dicazioni, l’aiuto di cui avrebbe bisogno. Yakumo, in pratica, non riesce a completare il programma modale che consente di acquisire la ‘competenza’ necessaria ad agire. Ad un ‘dovere’ ed a un ‘volere’, ad una necessità e a una volontà, non seguono un ‘sapere’ ed un ‘potere’ adeguati. Yakumo, cioè, non ‘sa’ e non ‘può’ divenire, essere competente; egli non ‘sa’ e non ‘può’ ac­ quisire una competenza, avere cioè la capacità necessaria a passare alla pro­ va successiva. La sua performance, il suo operare, conseguentemente, non porta a risultati positivi. La prova chiamata ‘decisiva’, infatti, vede il trion­ fo dell’anti-soggetto, ovvero il crudele Benares. A Yakumo viene quindi san­ zionata una pesante e dolorosa punizione: deve separarsi da Pai, la ragazza che ama. L’anti-soggetto, come è facile intuire, è colui che segue un percor­ so inverso rispetto al soggetto. Nella seconda serie animata è Pai a ricopri­ re il ruolo del soggetto. La sua memoria, o meglio, la sua identità costitui­ sce l’oggetto di valore. Se, dunque, nella prima serie animata di 3x3 Occhi il valore dell’oggetto sembra essere di natura ‘oggettiva’, nella seconda la sua natura ‘soggettiva’ - la natura ‘soggettiva’ del valore, cioè - viene pale­ sata. Ad uno sguardo attento, infatti, non può sfuggire il fatto che anche nel­ la prima serie di 3x3 Occhi l’oggetto di valore sia l’identità del protagonista, che la statua dell’umanità simboleggia. Nella seconda serie, Yakumo Fujii ri­ copre più ruoli attanziali: egli è infatti destinante ed aiutante allo stesso tem­ po. Pai, al contrario di lui, porta a termine il programma modale in grado di fornirle la capacità - la ‘competenza’ - necessaria a fronteggiare il malvagio Benares. La sua performance, quindi, porta a risultati positivi: la piccola tri­ clope sconfigge infatti Benares e il Demone sovrano. La sanzione, coeren­ temente, è positiva e Pai viene premiata con il recupero della memoria e del­ l’identità.

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4.2

Al di là delle differenze culturali

L’invariabile schema compositivo del racconto supera, trascende dunque le barriere socio-culturali0 e l’analisi strutturale di 3x3 Occhi ce ne ha appena dato testimonianza. Il sistema formale della narrativa popolare si rifa ad “una tradizione che ha dell’ancestrale (Propp inseguir)”.14 Secondo Freud, mito e letteratura popolare sono strettamente legati.15 Quello della narrativa di mas­ sa è un universo dichiaratamente dicotomico. Si tratta di un universo che pro­ pone una divisione netta tra bene e male. I personaggi rispecchiano tale divi­ sione: o sono ‘totalmente’ buoni o sono totalmente cattivi. L’ambiguità carat­ teriale e psicologica, pur non essendo bandita, è comunque piuttosto rara. Si tratta infatti di ‘tipi’, di figure ideali in cui la verosimiglianza caratteriale non è molto importante. I personaggi della narrativa di consumo sono “maschere da non dimenticare,”16

archetipi che bene o male ci appartengono; forse appartengono alla zona più debole e mistificata della nostra sensibilità, forse li abbiamo ricevuti da una edu­ cazione al patetico che ha in Sue uno dei suoi maestri e in mille romanzi e film di facile consumo i suoi canali di suggestione, ma sono nostri, non c’è niente da dire, possiamo rifiutarli, rimuoverli, illuminarli con i riflettori della ragione e dell’ironia, ma nessuno ce li toglierà dalle zone più recondite del nostro animo.17

Nell’ambito della narrativa di consumo, le produzioni animate giapponesi si distinguono certamente per l’ambiguità morale e psicologica dei suoi per­ sonaggi, almeno di quelli principali. Most anime heroes are only heroes some of the time. The same is true of many of the villains. Moreover, since character development and change is a major feature of anime series, it’s not unknown for heroes to become villains and vi­ ce versa. [...] In anime, the enemy is quite often an heroic figure. He’s just a he­ ro on the other side.18

Tuttavia, anche i personaggi della maggior parte degli anime sono chiara­ mente degli archetipi, dei modelli. In 3x3 Occhi vengono portati in scena, tra gli altri, due degli archetipi umani più antichi e persistenti: ‘l’uomo protettivo’ e la ‘donna ispiratrice’. Yakumo Fuji è letteralmente protettivo. Il lavoro che svolge, se così si può dire, è infatti quello di guardia del corpo. Il compito che egli ha consiste nell’infondere fiducia e sicurezza alla donna, a Pai, che è chia­ mato a proteggere. Pai, invece, costituisce la fonte del coraggio e della forza dell’uomo - di Yakumo, cioè -, a cui dona poteri e immortalità; è colei che ispira le azioni dell’uomo, che ne ritempra l’ardore e ne rinnova le motivazio­ ni. Si tratta, in pratica, dell’eroe e della Dea19 presenti nelle mitologie di ogni luogo.20 A nostro avviso, il successo internazionale di 3x3 Occhi dipende in buona parte proprio dalla natura archetipica dei suoi giovani protagonisti. La

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Dea e l’eroe costituiscono per l’esattezza le ‘concretizzazioni ’ coscienti di due archetipi presenti in numerose culture, ovvero quello della ‘madre’ e quello del ‘fanciullo’. La figura della Dea e quella dell’eroe rinviano ai suddetti ar­ chetipi, a cui danno forma.21 Nell’accezione di Jung, quella che teniamo mag­ giormente in considerazione, gli archetipi sono figure depositate nell’incon­ scio - dunque connaturate nell’individuo - che assumono uno specifico aspet­ to una volta affiorate in superficie e raggiunto il livello cosciente. Il termine corretto per indicare l’archetipo non è comunque figura bensì contenuto. Es­ so, infatti, rappresenta proprio “un contenuto inconscio che viene modificato attraverso la presa di coscienza e per il fatto di essere percepito, e ciò a secon­ da dalla consapevolezza individuale nella quale si manifesta.”22 3x3 Occhi at­ tualizza in particolare il personaggio, o meglio la leggenda di Parvati, una di­ vinità della religione induista. La descrizione di Pai fornita da Takada Yuzo corrisponde inequivocabilmente a quella tradizionale di Parvati:

La compagna ufficiale di Shiva è Parvati la montanara (parvat = montagna) fi­ glia dell’Himalaya e della ninfa Mena (personificati a Ellora). [...] Parvati è cro­ nologicamente la seconda moglie di Shiva. [...] Quasi tutte le vicende [...] che riguardano Parvati si svolgono nei pressi dell’Himalaya. [...] Shiva ama invero discutere con la moglie le astruse teorie della metafisica indiana; Parvati finge di capirlo, ma qualche volta si addormenta. Shiva la sorprende e, quasi scher­ zosamente, la castiga ad incarnarsi in una mortale: con cui non tarderà però a ricongiungersi, timoroso di perderla. [...] Esasperata di non poter sempre com­ prendere il suo imperscrutabile marito, Parvati si accinge anch’essa alla severa disciplina dello Yoga. Lei, la bella [...] che riesce a trasformare il dio della di­ struzione [cioè Shiva] nel Mahadeva della pace attraverso il mistero del matri­ monio2’ Sono la bontà, l’amore nei confronti degli esseri umani e la benevolenza, al­ cuni dei tratti caratteriali distintivi di Parvati, la quale in 3x3 Occhi non esita a schierarsi contro il proprio futuro sposo Shiva - chiamato anche Demone Sovrano nel fumetto di Takada e nelle serie animate da esso tratte -, un’ambi­ gua divinità decisa ad annientare - e successivamente a fare rinascere - il ge­ nere umano. La natura di Yakumo - ciò che lo caratterizza -, al pari di quella degli eroi mitologici, della Grecia antica ma non solo, è invece sostanzialmen­ te umana.24 Sembra si adatti perfettamente al giovane protagonista di 3x3 Oc­ chi la definizione della figura dell’eroe data da Kerényi: L’Eroe, come ci appare nelle sue «leggende», conviene certamente, ancora più che gli dei greci, ad un insegnamento filosofico sul genere umano. La sua caratteriz­ zazione puramente umana è perfettamente possibile. Cade però su di lui una «lu­ ce» che, dal punto di vista della storia delle religioni, per la quale il divino è la pre­ messa da cui detta luce ha origine, si potrebbe chiamare lo splendore del divino. [...] La luce del divino, che cade sulla figura dell’Eroe, è stranamente mescolata

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con l’ombra della mortalità. Ne deriva un carattere mitologico, il carattere di un essere speciale, al quale appartiene almeno una storia: il racconto che riguarda quello e nessun altro Eroe. Se si sostituisce il carattere mitologico con una quali­ ficazione puramente umana, le leggende degli Eroi diventano semplici storie di guerrieri ai quali si addice l’appellativo di heros soltanto nel significato non cul­ tuale come lo usa Omero - qualche cosa come «uomo nobile» - e così viene po­ sto il limite alla mitologia, anche alla mitologia degli Eroi.25 A contrassegnare gli eroi, intesi innanzitutto in senso mitologico, è dunque la relazione con il divino e chi lo rappresenta, ovvero gli Dei. Yakumo è chia­ ramente l’uomo qualunque divenuto eroe in seguito all’incontro con Pai, cioè la divina Parvati.

La Dea e l’eroe: Pai - ovvero la divina Parvati - e Yakumo in 3x3 Occhi. Takada Yuzo © Kodansha/Toei doga/Bandai/King Records/Plex Starchild Cambiando decisamente argomento, si potrebbe affermare che la narrativa popolare sia demagogica e consolatoria. O per meglio dire, sia demagogica ‘per­ ché’ consolatoria;26 essa “deve aprire crisi (psicologiche, sociali, narrative) che possano essere sanate”.27 Insomma, i buoni trionfano sempre. La vittoria del be­ ne, ed il conseguente ristabilimento dell’ordine, è ciò che intimamente, psicolo­ gicamente, sembra desiderare il fruitore della narrativa di massa. Il cosiddetto

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‘eroe’, il protagonista della storia raccontata, è colui al quale viene affidato il compito di riportare l’ordine. Concretamente, il protagonista della narrativa po­ polare è l’eroe invincibile e onnipotente - nell’accezione freudiana del termine, è ovvio - che ogni uomo, almeno inconsciamente, vorrebbe essere. L’eroe della cosiddetta letteratura d’appendice, per esempio, è il prototipo, il modello del ‘superuomo’ di Nietzsche. Il romanzo popolare ottocentesco pare un altro illu­ stre predecessore anime. 3x3 Occhi somiglia indubbiamente ad un feuilleton. Yakumo Fujii è proprio l’eroe indistruttibile che tutti gli adolescenti di sesso ma­ schile sognano di essere.28 La piccola Pai, invece, un po’ ‘angelo del focolare’ e un po’ guerriero feroce, è la fanciulla ideale che i ragazzi sognano di possedere. I prodotti animati nipponici hanno introdotto delle variazioni non indifferenti nella caratterizzazione della principale figura femminile del racconto. La com­ pagna dell’eroe, casta, vulnerabile, dolce e condiscendente, nella letteratura d’ap­ pendice, è risoluta, forte e coraggiosa - come l’eroe -, nelle serie animate giap­ ponesi. Insomma, questa figura è stata fatta passare da un ruolo passivo e mar­ ginale ad uno attivo e centrale.29 Gli eroi della letteratura popolare e quelli del cinema a disegni animati proveniente dall’arcipelago giapponese sono gli esseri semidivini, ‘onnipotentemente magici’ capaci di dare ordine e direzione ad un mondo e a una esistenza indecifrabili, incomprensibili, soprattutto, ‘insoddisfa­ centi’. Sono forse i discendenti degli eroi della mitologia classica.30 Nel roman­ zo popolare e neWanime tutto è fatto in funzione del sentimento. Lo scopo di en­ trambi è suscitare emozione. Ogni elemento dell’opera è funzionale a tale sco­ po, a tale obiettivo. L’analogia più importante e profonda tra letteratura d’ap­ pendice e produzione animata nipponica è certamente questa. Analogamente al romanzo d’appendice, il disegno animato giapponese pos­ siede inoltre la struttura tipica dei prodotti seriali, ovvero divisi in episodi mol­ to spesso non autoconclusivi.31 Eco definisce ‘sinusoidale’ tale struttura. “Il do­ vere di informazione esige che vi siano colpi di scena; il dovere di ridondanza impone che i colpi di scena siano ripetuti a intervalli regolari.”32 Ogni puntata termina, in pratica, con un colpo di scena da cui riparte quella successiva. Ogni episodio tocca un picco di tensione. Tale tensione viene sciolta nell’episodio successivo. A proposito della struttura sinusoidale e della continuità narrativa tipica dell’animazione giapponese di serie, Benecchi osserva che il successo degli anime dipende in gran parte anche dalla capacità di sfruttare il bisogno di iterazione attraverso la creazione di un universo figurativo e strut­ turale coerente in cui gli episodi delle varie serie sono al contempo chiusi in se stessi e legati l’uno all’altro.33

In definitiva, le analogie narrative e ideologiche tra letteratura popolare eu­ ropea e cinema animato nipponico confermano la vicinanza delle forme d’espressione popolari, alla cui base sta una comune struttura profonda.34 Stia­

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mo affermando, si badi bene, che tra le varie forme espressive popolari vi sia­ no punti di contatto molto intimi e profondi.35 Che poi le differenze di natu­ ra culturale tra questi prodotti, tra queste forme d’espressione, siano chiara­ mente riscontrabili, ci pare scontato.

4.3

Componenti socio-antropologiche di 3x3 Occhi

Quasi mai il protagonista delle serie animate giapponesi va da solo in battaglia. Anche se ha un carattere chiuso e un atteggiamento nichilista, il protagonista anime è sempre circondato da fedeli compagni di viaggio. Yakumo e Pai, in 3x3 Occhi, sono ripetutamente sostenuti dagli amici trovati lungo il cam­ mino, dai personaggi secondari - Li Ling Ling, Mei Xing e Steve Long, nella prima serie; McDonald, Tinzin e Naparva, nella seconda -. Una società come quella nipponica, in cui l’individuo è posto in secondo piano rispetto alla col­ lettività, non può contemplare un eroe solitario. Per i giapponesi, ogni cosa, ogni esponente del mondo animale, vegetale e minerale, è una parte di quel­ l’immenso e armonico ‘organismo’ che è l’universo. Ogni cosa, ogni essere, non è che una ‘funzione’, un elemento di tale organismo. La narrativa prodotta nel paese del Sol Levante lo ribadisce con costanza. In Giappone, in definiti­ va, il gruppo prevale, è più importante del singolo. Le opere dell’ingegno, ov­ viamente, l’arte e la letteratura, non possono che riflettere tale convinzione. Ma, a testimonianza dell’attendibilità delle tesi da noi esposte in precedenza, anche nel fumetto e nel cinema d’animazione nipponico le azioni sono porta­ te a termine sempre e solo dall’eroe, dal protagonista. È sempre il personag­ gio principale a concludere la missione, sconfiggendo il cattivo di turno e re­ staurando l’ordine.36 I gruppi esistono, sono funzionali; ma l’attenzione finisce comunque per con­ centrarsi su un eroe: come se gli individui della società estremamente gerarchizzata del Giappone avessero infine bisogno di uno sfogo, di un riconosci­ mento; o come se l’individualità troppo a lungo repressa nei rapporti pubblici, a scuola, al lavoro, debba trovare almeno nella forma espressiva del fumetto e dell’animazione una adeguata comprensione.37 Anche in Giappone l’uomo ‘medio’ aspira inconsciamente a diventare il ‘superuomo’ tratteggiato dalla letteratura popolare europea di fine Ottocento e inizio Novecento e ripreso da anime e manga. Le norme che guidano il com­ portamento differenziano, spesso, i protagonisti della narrativa popolare. Le norme comportamentali dell’eroe giapponese mirano alla crescita interiore, al miglioramento spirituale. L’eroe dei fumetti e delle serie animate nipponiche segue la cosiddetta ‘via del bushi’, il bushido.™ La parola giapponese bushi de­ signa il guerriero della tradizione feudale nipponica. Per ragioni di comodità,

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il termine bushi si considera in questa sede sinonimo di quello, ben più cono­ sciuto, di samurai. Per l’eroico guerriero giapponese la disciplina è tutto. E non può essere altrimenti, essendo la sua vita regolata proprio dal bushido, un rigido codice etico. L’eroe di anime e manga, come un antico samurai, ha sal­ dissimi principi morali. Come un antico samurai, si batte per sé e, soprattut­ to, per gli altri. Inutile sottolineare il fatto che ormai la figura del samurai, del guerriero valoroso e fedele dedito al sacrificio, deve in particolare la propria notorietà internazionale proprio alla narrativa, alle forme d’espressione popo­ lari: fumetti, letteratura di consumo, film animati e live action. A indicare al protagonista di anime e manga - analogamente all’antico samurai - la giusta ‘via’ da seguire, al fine di acquisire nobili qualità morali quali il coraggio, la le­ altà, l’onesta, la sincerità, l’onore e la compassione, è il sensei, ovvero la guida, il ‘maestro’. Gli insegnamenti del sensei - che consistono in una serie di com­ portamenti, di atti, di azioni - non si apprendono attraverso la ragione bensì attraverso l’intuito. Anche se non ce ne viene data notizia, nella seconda serie animata di 3x3 Occhi appare abbastanza evidente il fatto che Yakumo abbia ri­ cevuto gli insegnamenti di Tinzin, un anziano monaco buddhista esperto di arti marziali e scienze esoteriche. I personaggi principali della narrativa popolare giapponese praticano spes­ so lo zen. Lo zen non è una disciplina marziale bensì una strumento per ‘alle­ nare’ lo spirito attraverso il corpo.39 Prima di affrontare il nemico, infatti, l’eroe nipponico deve affrontare sé stesso. Deve fronteggiare e sconfiggere i propri mostri interiori: le proprie meschinità, le proprie ipocrisie e, soprattutto, le proprie paure. L’allenamento - estremamente faticoso - serve in pratica a tem­ prare, a rafforzare più lo spirito che non il corpo del guerriero, il quale deve essere in grado di sfruttare le straordinarie risorse fornite dalla propria ener­ gia interiore, chiamata ki dai giapponesi. Per ragioni commerciali, la narrativa popolare nipponica rappresenta in maniera spettacolare lo sprigionamento di tale fonte energetica e gli effetti - spesso devastanti - che essa produce sugli avversari del protagonista. Nei quattro anni in cui è stato lontano da Pai, Ya­ kumo - verosimilmente incitato, spronato da Tinzin e Naparva, due monaci buddhisti - ha certamente praticato lo zen. Anche se l’addestramento del gio­ vane protagonista di 3x3 Occhi è stato escluso dal racconto, tutto lascia pen­ sare questo. Le conseguenze dell’allenamento, ovvero il modo di relazionarsi con gli altri e con mondo, lo evidenziano. Yakumo non è più un immaturo stu­ dente di liceo; è un uomo pronto a lottare per sé e per le persone che ama. E ne è pienamente cosciente. Non sempre i protagonisti degli anime intraprendono cammini di maturazione per loro scelta: capita che vi siano chiamati contro la loro volontà, o che deb­ bano fare di necessità virtù; ma facendo fronte alle situazioni difficili, e co­ gliendo queste come occasioni per dimostrare le proprie qualità, anche chi al­

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l’inizio appariva un timido e impacciato ragazzino riesce infine a trasformarsi in un individuo maturo, responsabile, nell’“eroe” che avrà la meglio dell’anta­ gonista malvagio.40 Il percorso formativo dei protagonisti della narrativa popolare nipponica è una pregnante metafora di crescita e maturazione.41 Per estensione, una me­ tafora dell’adolescenza, oseremmo dire noi, tenuto conto del fatto che i pro­ tagonisti della narrativa popolare giapponese sono molto spesso degli adole­ scenti. OnmKami, i demoni e le divinità, gli spiriti della tradizione shintoista, non­ ché le altre creature fantastiche che popolano Fimmaginario nipponico, fanno sempre capolino nelle vicende narrate dalla letteratura, dai fumetti, dal cine­ ma live action, dalle serie giapponesi a disegni animati. Lo shintoismo è la prin­ cipale religione giapponese. Lo shintoismo è privo di precetti, di norme. Se­ condo lo shintoismo - la cui traduzione letterale è ‘via degli Dei’ o ‘via dei kami - in molti elementi della natura risiede uno spirito. Animali, alberi, mon­ tagne e corsi d’acqua, per esempio, per i giapponesi possiedono un’anima di­ vina e sono dunque degni di essere venerati. La vicinanza con le credenze ani­ mistiche di cui si è avuto modo di parlare, è evidente. In un paese con un si­ mile retroterra culturale il genere fantastico ha trovato naturalmente la sua pa­ tria d’elezione. Ci pare francamente superfluo sottolinearne le ragioni. Il pun­ to su cui preferiamo soffermarci è un altro: Fimmaginario fantastico giapponese è figlio delle contaminazioni culturali più svariate. I manga di genere fantasti­ co oppure horror -e gli anime da essi tratti, aggiungiamo noi - utilizzano “ele­ menti fantastici, sia riciclati dalle proprie radici culturali e dal folklore nippo­ nico, sia attinti a larghe mani dalla tradizione occidentale.”42 Inoltre, come mai, fra tutti i generi letterari occidentali, proprio il filone che compren­ de feuilleton, soap-opera e «romanzo classico per ragazzi» ha goduto del mag­ gior numero di trasposizioni in anime? Perché il modo giapponese di rappor­ tarsi alle culture lontane, in particolare dal miracolo economico in poi (dagli an­ ni Cinquanta, cioè), è stato aperto e scevro di pregiudizi o supponenze etno­ centriche. Gli autori giapponesi, nella fattispecie, da onesti ammiratori degli stilemi e dei temi appartenenti al romanzo borghese europeo e della tradizione televisiva nord americana, non si sono mai negati il piacere di riversare in ani­ me queste loro predilezioni, e spesso - in particolare le autrici di fumetti - han­ no fatto propri questi lemmi narrativi: Candy Candy e Lady Oscar, ad esempio, pur ambientati in occidente sono opera di mangaka giapponesi.43

Dopo aver fatto i conti per secoli con millenarie civiltà, prima fra tutte quel­ la cinese44 - uno dei suoi principali modelli culturali45 -, il Giappone ha subi­ to la pesante influenza dell’Occidente europeo e degli Stati Uniti, che nel lon­ tano 1854 gli hanno imposto con la forza, quasi militarmente, l’apertura delle

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frontiere.46 Jean Loup AmseDe sostiene che non ci siano mai state società ‘chiu­ se’47, cioè culturalmente ‘vergini’. Non ci sono, cioè, al mondo, società prive di svariate influenze culturali. Più o meno rilevanti.

L’essenza intima di una cultura si esprime nelle altre culture. In altre parole oc­ corre basarsi sul postulato dell’apertura all’altro di ogni cultura e dunque su quello di un’interculturalità o di un’universalità potenziale di ciascuna di esse.48 Non è un caso che si possa utilizzare il plurale parlando della contempora­ nea cultura nipponica,49 la cui caratteristica distintiva è proprio l’ibridismo, la contaminazione. D’altra parte il Giappone, più di ogni altro paese orientale, si è rivelato [...] ri­ cettivo [...] nei confronti di moltissimi aspetti della cultura occidentale, che in­ fatti convivono e si mescolano con quelli locali così come di norma avviene tra gli elementi tradizionali e contemporanei della cultura nipponica. [...] La tra­ dizione e la cultura nipponiche sono continuamente bombardate e contamina­ te da ogni genere di prodotto proveniente da culture diverse, e non si può cer­ to negare che i giapponesi si mostrino molto ricettivi verso le influenze stra­ niere.50

Quella nipponica è una cultura di massa in equilibrio costante tra alto e basso; è una cultura che mescola disinvoltamente e abilmente istanze ‘popola­ ri’ e ‘alternative’ stimolate dai prodotti culturali di varia nazionalità.

4.4

La connotazione congenita del disegno animato

Nonostante le numerose ed innegabili differenze, una relazione di natura se­ mantica ci sembra legare le arti visive e il disegno animato. Ciò che caratteriz­ za sia l’immagine pittorica che il disegno animato sembra essere l’ambiguità se­ mantica, il non immediato rimando alla realtà fenomenica, al nostro mondo quotidiano. Da una parte abbiamo la pittura e l’animazione che inventano o ‘ri­ creano’ la vita, la realtà; d’altra abbiamo il cinema a base fotografica che quel­ la stessa realtà la registra. Il disegno del cinema animato, come l’immagine pit­ torica, fa da filtro semantico; ostacola l’aggancio immediato ad un referente nel mondo reale. Le serie animate giapponesi sono, in tal senso, inconsapevolmen­ te esemplari. La caratteristica - linguistica - più evidente degli anime, è la sta­ ticità, o diversamente detto, il ‘dinamismo virtuale’ ereditato dai fumetti. Sono state ragioni di natura estetica, e non solo economica, a fare dei fumetti, dei manga, il principale modello delle produzioni animate nipponiche. Nell’ani­ mazione giapponese, abituata sin dagli esordi a fare di necessità virtù, il nume­ ro di disegni intermedi tra un’azione e l’altra è, spesso, veramente ridotto. In al­ cuni casi si ha a che fare con dei veri e propri fotogrammi fissi, dei ‘fermo im­

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magine’ il cui dinamismo è dovuto a più o meno marcati movimenti della cine­ presa: carrellate, panoramiche, e così via. Risulta chiaro, tenuto conto di quan­ to appena affermato, il fatto che nelle produzioni nipponiche a disegni anima­ ti il dialogo, la componente sonora, o meglio, verbale, rivesta un ruolo fonda­ mentale. Ai dialoghi dei personaggi - oppure alle voci narranti -, infatti, è affi­ dato il compito di portare avanti la narrazione, in sequenze dal così alto tasso di staticità. Gli episodi delle serie animate giapponesi, in particolar modo quel­ le realizzate prima della metà degli anni Ottanta e destinate alla televisione, van­ no avanti per ‘quadri’ fissi; per inquadrature statiche, ovvero, con scarso o ad­ dirittura inesistente movimento al proprio interno. La puntata del serial ani­ mato giapponese, in definitiva, ci pone di fronte, ripetutamente, una immagine che, come un’opera pittorica, ha un’ambigua, una plurima significazione. Pro­ prio in virtù di tale polisemia, di tale plurima significazione l’immagine, nelle se­ rie nipponiche a disegni animati, più che un ‘segno’ pare un ‘simbolo’. Essa è, in pratica, qualcosa che denota e connota contemporaneamente. Rimanda ine­ quivocabilmente alla realtà, e, allo stesso tempo, è ontologicamente, intrinse­ camente ‘altro’, rispetto a quella stessa realtà. Secondo Guglielmo Pescatore la semiotica del cinema va proprio rifondata su basi non linguistico-letterarie e non cognitive.51 Lo studioso suggerisce di abbandonare il modello linguisticoletterario in quanto l’immagine è astrazione; è la visualizzazione di un concet­ to, la materializzazione di una passione, di una condizione o di uno stato. Pe­ scatore invita gli studiosi di semiotica del cinema a tenere soprattutto presenti i suggestivi postulati teorici di Jean Epstein. Per Epstein la verità del cinema, la sua specificità è piuttosto un costrutto, un effetto di senso che ha ben poco di naturale. È la rappresentazione, quasi pit­ tografica, di un carattere, una promessa, un sentimento, un’attitudine.52

Un discorso di questo tipo ci sembra particolarmente appropriato al dise­ gno animato. Pai che quasi in ‘fermo immagine’, sorridendo timidamente, la­ scia Tokio assieme all’amato Yakumo, nell’ultima sequenza del quinto episo­ dio di 3x3 Occhi, è inequivocabilmente l’emblema della giovinezza - del­ l’adolescenza - e della felicità. Lei è il simbolo di un’età e di un sentimento; è un’astrazione, una figura ideale che non ha bisogno di ancorarsi alla realtà con­ creta, fenomenica. In questo processo di astrazione è ovviamente la natura gra­ fica di Pai a giocare il ruolo fondamentale. La piccola triclope si è appena mes­ sa alle spalle una serie di indicibili atrocità ed orrori, che altro non sono che metafore dei travagli - psicologici e fisici - dell’adolescenza. L’immagine mo­ stra; tutto qui. L’immagine pare agire più sul piano espressivo che su quello co­ municativo. L’immagine non è propriamente un ‘segno’. Nell’animazione giap­ ponese l’immagine ci pare abbia un’importanza ridotta, dal punto di vista cognitivo-informativo. L’immagine è qualcosa che pare rinviare ad altro. L’im-

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magine allude, insinua, suscita associazioni imprevedibili. La sua relazione co­ municativa con lo spettatore, situata su di un piano psicologico ed affettivo, sul piano delle emozioni, è per natura di tipo indiretto, intuitivo. Lo spettatore è chiamato a metterci del suo. Negli anime tutto questo è palese, è piazzato co­ stantemente - e inconsapevolmente, ribadiamo - davanti agli occhi degli spet­ tatori. Una volta di più si può riconoscere come immaginario e sensibilità nipponici, uniti ad economia narrativa, producano un fecondo intreccio ai fini della cari­ ca emotiva delle storie. Non tutto è a priori voluto, ideato, stabilito, previsto; al contrario, è proprio dal ‘libero gioco’ di fattori molteplici - spesso scono­ sciuti e inconoscibili sia a chi realizza i prodotti, sia a chi ne fruisce - che fa scaturire collegamenti impensati, emozioni inaspettate, passioni travolgenti; e testimonia una volta di più l’inesauribile ricchezza di un prodotto e di un lin­ guaggio che chiedono di essere (un po’) compresi, per esser (tanto più) ap­ prezzati.” Per dirla alla Truffaut, qui non si tratta della ‘verità’ delle situazioni. Si trat­ ta di quella delle emozioni.54

Siamo di fronte a immagini che non solo non sono verosimili, ma neppure cer­ cano di esserlo. Ogni immagine è naturalmente diversa dalla realtà, dato che di­ segnare significa scegliere, tra le caratteristiche utili, quelle da privilegiare per rappresentare l’oggetto. [...] Le tradizioni teatrali e artistiche giapponesi, a dif­ ferenza di quelle occidentali, non hanno mai mirato al realismo. [...] Cattura­ no l’essenza dell’avvenimento, ma richiedono un’intensa partecipazione da par­ te del soggetto fruitore che deve riempire, con la sua immaginazione, gli spazi lasciati vuoti dal testo. [...] Il gusto estetico orientale prevede che all’osservatore venga continuamente ricordata l’artificialità della rappresentazione. [...] L’ani­ mazione giapponese, al contrario di quella occidentale, ci ricorda continuamente che quello che si vede sullo schermo non è reale, è una fantastica allegoria in cui il simbolismo, invece di rimanere confinato nel livello profondo della sto­ ria è emerso in superficie.55 L’alterità, l’irriducibilità a sottoprodotto del cinema live action, a differen­ za di produzioni animate provenienti da altre parti del mondo, nell’animazio­ ne nipponica emerge proprio dal contrasto tra il modo di rappresentazione adottato, che si rifà evidentemente a quello ‘istituzionale’ - cioè narrativo del cinema live action e la natura grafico-simbolica dei personaggi, dei sogget­ ti a cui è affidata la narrazione. Pur ricalcando lo schema compositivo, la ma­ niera di raccontare del cinema ‘dal vero’, l’animazione giapponese sottolinea, ossessivamente e inconsapevolmente, la propria diversità, che risiede nella na­ tura simbolica del disegno, e invita a riflettere sul significato profondo, onto­ logico oseremmo dire, sul senso dell’immagine.

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Note 1 “Dovendo comunque cominciare da qualche parte, tanto vale scegliere la fiaba, che è uno degli antesignani più rappresentativi del fantastico e in cui gli intrecci fra questo e il mito da una parte e la storia dall’altra sono particolarmente evidenti. Le fiabe sono dirette a un destinatario infantile e forse proprio per questo hanno molti punti in comune con X'borror, il soprannatu­ rale e la paura.” G. Cremonini, op. cit., pp. 33-34. “L’Aorror affonda più esplicitamente nel mi­ to, qui visto nella sua dimensione soprannaturale.” Ivi, p. 25. “Dalle coincidenze fiaba-tfwzwe potremo constatare non solo la popolarità mondiale di al­ cuni personaggi, ma anche le trasformazioni ideologiche e narrative che tali fiabe hanno attra­ versato nel passaggio dalla forma letteraria europea a quella animata nipponica.” M. Pellitteri, Mazinga nostalgia. Storia, valori e linguaggi della Goldrake generation, cit., p. 46.

2 G. Cremonini, op. cit., p. 14. 3 Cfr. A. Marchese, op. cit., pp. 1-7. 4 R. Caillois, Il mito e l’uomo, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, p. 7. 5 F. Marsciani, A. Zinna, Elementi di semiotica generativa. Processi e sistemi della significa­ zione, Bologna, Esculapio, 1991, p. 77. 6 Ibid. 7 A. Marchese, op.cit., p. 15. 8 Cfr. V. Propp, Morfologia della fiaba, Torino, Einaudi, 1966. 9 Le azioni, cioè, hanno la funzione di far procedere il racconto in una determinata direzione. 10 “Se si parte dalla definizione di narrazione come tensione verso la trasformazione di uno stato iniziale in vista di uno stato finale, fare l’analisi di un testo vuol dire stabilire una serie di stati e relative trasformazioni, legandole tra loro come tappe che intrattengono una relazione lo­ gica in vista della trasformazione finale.” E Marsciani, A. Zinna, op. cit., p. 64.

" Ivi, p. 88. 12 Si definiscono modali i verbi che modificano quelli che li seguono; nel nostro caso, quel­ li che reggono l’enunciato, ovvero l’avere e l’essere. In pratica, per poter congiungersi con l’og­ getto desiderato o raggiungere lo stato che consente di operare - per ‘avere’ la competenza o ‘essere’ competente, capace - il soggetto deve trasformare il ‘dovere’, l’imposizione a cui deve sottostare all’inizio, in ‘volere’, in volontà di raggiungere un determinato oggetto o una deter­ minata condizione. Quindi, deve acquisire un ‘sapere’ ed un ‘potere’ che gli consentano, effet­ tivamente, di operare. 13 “Gli spettacoli, gli oggetti, i modelli incontrati si generano l’un l’altro. Nessuna è indi­ pendente, in compenso conoscono lacune e metamorfosi: una di loro è assente dove era previ­ sto che ci fosse; ce n’è un’altra, ma che non la ricorda in nulla. Nondimeno sono sempre le stes­ se. Se non le loro varianti, il numero di questi modelli è limitato, come quello degli elementi che li costituiscono e quello delle leggi che ne reggono le mutazioni. Non esiste nulla nel mondo di cui non si rischi, e più volte piuttosto che una, di incontrare in qualche punto l’omologo, sotto una forma attesa o sotto un’altra, dapprima sconcertante, ma che, all’esame, si rivela corri­ spondervi punto per punto, alla conclusione di sostituzioni adeguate. [...] Una reminiscenza tenace perpetua l’identica sintassi sotto forma di intuizioni o di immagini nel mondo alleggeri­ to e quasi volatile del pensiero e del sogno. [...] In realtà, la materia evapora e il modello persi­ ste.” R. Caillois, Ricorrenze nascoste, Palermo, Sellerio, 1986, pp. 60-61. 14 U. Eco, Il superuomo di massa. Retorica e ideologia nel romanzo popolare, cit., p. 17.

73 15 Cfr. S. Freud, 11 poeta e la fantasia, in Id., op. cit., pp. 47-59. 16 U. Eco, 11 superuomo di massa. Retorica e ideologia nel romanzo popolare, cit., p. 44. 17 Ivi, p.45. 18 A. Levi, Samurai from Outer Space. Understanding Japanese Animation, Chicago, Open Court, 1996, pp. 69-70. 19 Cfr. C. G. Jung, Gli archetipi e l'inconscio collettivo, Torino, Bollati Boringhieri, 1980, passim. 20 Nella versione originale delle due serie animate, quella giapponese, e nel fumetto, viene esplicitato il fatto che in realtà Pai non è altri che Parvati, ovvero una divinità della religione in­ duista. “Diversamente influenzata dai miti orientali, ma fedele ai postulati del genere fantasy, è Sazan Aizu (in Italia 3x3 Occhi, 1988) creato da Yuzo Takada. [...] Numerosissimi sono i rife­ rimenti alla mitologia dell’estremo oriente, ai simboli e alle creature soprannaturali, amiche o nemiche che siano.” A. Antonini, S. Lucianetti, op. cit., p. 89. 21 Cfr. C. G. Jung, op.cit., pp. 75-174.

22 2i 24 25 26

Ivi, p. 5. A Morretta, Miti indiani, Milano, Longanesi, 1982, pp. 221-223. Cfr. K. Kerényi, GliDeie gli Eroi della grecia vol. Il, Milano, Garzanti, 1982, pp. 11-31. Ivi, p. 13. U. Eco, Il superuomo di massa. Retorica e ideologia nel romanzo popolare, cit., pp. 13-24.

21 Ivi, p. 20. 28 Marco Pellitteri dà il nome di ‘ibridismo’ ad una delle principali caratteristiche dell’eroe. Sia àeWanime che del romanzo d’appendice. Vediamo di cosa si tratta. “L’ibridismo è dunque uno status ontologico connaturato all’eroe. Questi è per definizione «diverso», border-line, oscil­ lante fra più mondi e/o stati esistenziali (in genere due).” M. Pellitteri, Mazinga nostalgia. Sto­ ria, valori e linguaggi della Goldrake generation, cit., p. 37. L’eroe, in definitiva, oscilla per na­ tura tra più stati, più identità, più esistenze, e così via. Una simile affermazione attesta che Ya­ kumo Fujii, un personaggio evidentemente ‘ibrido’, è un eroe. Anzi, che il giovane protagoni­ sta di 3x3 Occhi, sospeso tra due stati - la vita e la morte - e due dimensioni - l’umano e il so­ vrumano -, è l’eroe per eccellenza della narrativa popolare; letteraria e animata. 29 Andrea Antonini e Silvia Lucianetti forniscono una lettura sociologica del fenomeno: “Il tema che accomuna Sazan Aizu, Aa! Megamisama e Den’eiShojo è quello della donna non ter­ rena, ma idealizzata, virtuale, lontana dalla realtà contingente. Nello stesso modo in cui le ado­ lescenti sublimano la paura dell’ignoto maschile producendo e consumando manga dalle te­ matiche omosessuali, così i teenager maschi si rifugiano in una figura di ragazza venuta dal­ l’esterno, la cui principale caratteristica è la maggiore comprensione delle dinamiche che rego­ lano l’universo maschile e una certa propensione all’azione. Entrambi i fenomeni sono frutto di una società nella quale, per quanto il numero delle scuole miste sia in crescita, rimane una net­ ta separazione fra mondo maschile e femminile, rispecchiata profondamente anche dal lin­ guaggio e quindi impressa nella coscienza delle persone sin dalla più tenera infanzia. L’abitu­ dine a frequentare amici di sesso opposto è poco diffusa; questo determina una serie di in­ comprensioni che spesso continuano anche dopo il matrimonio e minano l’armonia delle fa­ miglie. Probabilmente tale trend nei manga per adolescenti incarna, proprio sulla base di un ta­ cito riscontro di meccanismi viziati nelle dinamiche uomo-donna nella società attuale, un ine­ spresso desiderio dei due sessi di avvicinarsi e trovare punti di dialogo.” A. Antonini, S. Lu­ cianetti, op. cit., pp. 92-94.

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30 Cfr. R. Caillois, Il mito e l’uomo, cit., pp., 92-100. 31 La serialità letteraria è il modello di quella cinematografica, la cui diffusione interna­ zionale avviene nei primi decenni del Novecento. Nonostante serial cinematografici di gran­ de successo siano prodotti in altre parti del mondo, negli Stati Uniti principalmente, ma an­ che in Italia - basti pensare alla serie di film incentrata su Za-la Mort, personaggio creato dal regista e attore Emilio Ghione -, nei primi decenni del secolo scorso è la Francia la patria del­ la narrativa popolare, anche in ambito cinematografico. In questo paese, infatti, operano re­ gisti, il principale dei quali è sicuramente Louis Feuillade, sono portati in scena personaggi - Fantómas, ispirato all’omonimo personaggio letterario - e vengono prodotte serie cinema­ tografiche - un titolo su tutti: Les Vampires - tuttora oggetto di culto. L’argomento è davve­ ro molto vasto e rischia di allontanarci troppo dall’analisi che stiamo cercando di portare avanti. Per cui, rimandiamo chi fosse interessato ai seguenti saggi: M. Dall’Asta, La diffusio­ ne delfilm a episodi in Europa, in G. P. Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale voi. I. L’europa: miti, luoghi, divi, Torino, Einaudi, 1999, pp. 277-323. M. Dall’Asta, Il serial, in G. P. Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale vol. IL Gli Stati Uniti, Torino, Einau­ di, 1999, pp. 289-337. M. Dall’Asta (a cura di), Fantómas. La vita plurale di un antieroe, Udi­ ne, Il Principe costante, 2004. 32 U. Eco, Il superuomo di massa. Retorica e ideologia nel romanzo popolare, cit., p. 65. 33 E. Benecchi, op. cit., p. 44. 34 Cfr. M. Pellitteri, A Est di Oliver Twist, cit., pp. 85-114. 35 Cfr. A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi, 1950, p. 121. Cfr. anche R. Caillois, La forza del romanzo, Palermo, Sellerio, 1980, pp. 29-44. 36 Non a caso, Luca Raffaelli ha intitolato la sezione del proprio saggio dedicata al cinema d’animazione giapponese Lutti per uno. L'anime giapponese. “Il terzo capitolo, sui giapponesi, si intitola Tutti per uno. Qui il discorso, in qualche modo, è capovolto. In una nazione risolta in quanto grande gruppo, il cartone animato ha inteso esaltare le azioni dell’individuo, anche se finalizzate al successo collettivo, o alla salvezza del gruppo più grande di tutti: l’umanità in­ tera.” L. Raffaelli, op. cit., p. 7. 37 M. Ghilardi, op. cit., p. 102. 38 Per quel che riguarda il bushido, cfr. A. Alabiso, I samurai. Storia e segreti dei nove secoli in cui i guerrieri rappresentarono la classe dominante del Giappone: idee, etica, vita sociale, Ro­ ma, Newton & Compton, 2001, pp. 77-79. 39 Quella zen è una delle scuole della religione buddhista. Quella zen è la ‘scuola della me­ ditazione’. La parola zen, infatti, significa proprio meditazione. “Lo Zen unisce, a molti ele­ menti propri del buddhismo, altri caratteristici del taoismo cinese e dello yoga indiano. Per la scuola della meditazione, ognuno di noi possiede, sepolta nella propria interiorità, l”essenza del Buddha’, ITlluminazione. Per riportarla alla coscienza occorre ripetere in noi l’esperienza originaria del Buddha, occorre una severa meditazione, che ci porti al satori, la ‘rivelazione’, il ‘risveglio’. Questa comprensione dell’essenza intima delle cose, a cui porta il satori, è di natu­ ra intuitiva, è un lampo istantaneo della mente che non ha nulla di razionale, di intellettuale. Ci si arriva, anzi, ‘svuotando’ completamente il nostro spirito, liberandolo da ogni e qualsiasi co­ gnizione del tempo e dello spazio, del bene e del male, da ogni capacità di affermare e di ne­ gare. La meditazione deve diventare contemplazione e questa deve raggiungere una dimensio­ ne estatica: superare il dualismo tra il conoscente e la cosa conosciuta, entrare nel ‘vuoto’ del­ la mente. Per mettere lo spirito ‘in situazione’ occorre una rigida autodisciplina fisica e menta­ le. [...] Lo Zen avversò fieramente la cultura libresca e intellettualistica. Bandì dal suo credo i

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'sacri testi’, i rituali, le preghiere, ogni forma sia di superstizione che di fanatismo. Chiamò ad una rigorosa disciplina psico-fìsica e morale. Questi suoi aspetti esercitarono una forte attrazione sull’aristocrazia guerriera giapponese, che vide nello Zen un potente mezzo per autodisciplinarsi, per accrescere la fiducia in se stes­ si e rafforzare il proprio carattere.” M. Brunori, Il Giappone. Storia e civiltà del Sol Levante, Mi­ lano, Mursia, 1993, pp. 129-130. La parola zen può anche essere tradotta come ‘senza pensie­ ro’ o ‘vuoto mentale’. Lo zen propone un estremo distacco; il rifiuto di “un’esistenza domina­ ta soltanto dagli istinti e dagli impulsi.” A. Alabiso, op. cit., p. 107. 40 M. Ghilardi, op. cit, p. 47. 41 Ivi, p. 87. 42 A. Antonini, S. Lucianetti, op. cit., p. 85. 43 M. Pellitteri, Mazinga nostalgia. Storia, valori, linguaggi della Goldrakegeneration, cit., p. 54. Mangaka è la parola giapponese che indica i disegnatori di fumetti, di manga. 44 Cfr. M. Brunori, op. cit., pp. 9-19. 45 Cfr. A. Levi, op. cit., pp. 57-61. 46 Cfr. M. Brunori, op. cit., pp. 186-189. 47 Cfr. J.L. Amselle, Connessioni. Antropologia dell’universalità delle culture, Torino, Bolla­ ti Boringhieri, 2001, pp. 7-27. 48 Ivi, p. 12. 49 “L’espressione fin qui utilizzata, cultura pop giapponese, è un’approssimazione. Innan­ zitutto perché non si tratta di una cultura, ma di una pluralità di culture, un caleidoscopio di mode, consumi, icone, voci, linguaggi, espressioni, non necessariamente riconducibili a una matrice comune.” A. Gomarasca, Introducane, in Id. (a cura di), La bambola e il robottone. Culture pop nel Giappone contemporaneo, cit., pp. 17-18. 50 R. Ponticiello, S. Scrivo, Introduzione, in Id. (a cura di), op. cit., pp. 4-5. 51 Cfr. G. Pescatore, op. cit., pp. 1-23. 52 Ivi, p. 31. 53 M. Ghilardi, op. cit., p. 95. Sono molto acute le osservazioni di Ghilardi, il quale mette giustamente in relazione lo stile &ALanime e l’immaginario e la sensibilità nipponica. Per i giap­ ponesi, infatti, la conoscenza è storicamente qualcosa di ‘intuitivo’. Basti pensare a ciò che si è scritto a proposito del busbido e dello zen. 54 Francois Truffaut, che prima di dedicarsi alla regia cinematografica è stato un famoso cri­ tico, ha scritto qualcosa di analogo, a proposito del realismo nel cinema di Alfred Hitchcock. Cfr. F. Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Parma, Pratiche, 1985, pp. 17-18.

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E. Benecchi, op. cit., pp. 39-55.

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