L’Italia dei consumi: dalla Belle époque al nuovo millennio 8842085995, 9788842085997

Dire che la nostra società è definita e plasmata dai consumi non è un'affermazione sorprendente. Lo diventa quando

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L’Italia dei consumi: dalla Belle époque al nuovo millennio
 8842085995,  9788842085997

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Quadrante Laterza 140

© 2008, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2008

Emanuela Scarpellini

L’Italia dei consumi Dalla Belle Époque al nuovo millennio

Editori Laterza

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel febbraio 2008 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8599-7

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Premessa

In un classico testo di antropologia Peter Worsley ci narra del culto del cargo. Le popolazioni indigene della Melanesia, osservando le navi a vapore dei colonizzatori bianchi piene di beni di consumo (riso, farina, tabacco, apparecchi radio), svilupparono un famoso mito. Le grandi navi erano in realtà inviate dai loro antenati; i bianchi se ne erano impossessati con l’inganno, e avevano costretto gli indigeni a servirli e a restare in povertà. Ma sarebbe venuto un giorno in cui gli spiriti ancestrali avrebbero fatto ritorno sul cargo, ristabilendo la giustizia e dando inizio a un’era di abbondanza e felicità: tutti avrebbero goduto delle ricchezze, i morti sarebbero risorti, e i bianchi sarebbero stati puniti, sommersi dal diluvio o ridotti in servitù1. Il mito è servito agli studiosi per spiegare gli effetti della contaminazione tra culture e la diffusione di credenze millenaristiche; ma noi possiamo anche leggerlo in un altro modo: i beni di consumo sono apparsi a occhi esterni come l’aspetto più evidente, e anche il più desiderabile, della moderna civiltà occidentale. Può apparire strano che un aspetto così appariscente, e che oggi consideriamo come un elemento pervasivo della nostra società, abbia ricevuto relativamente poca attenzione; o almeno, non sia stato considerato come una categoria autonoma degna di entrare nella «narrativa» della storia contemporanea. Questo è invece quanto si propone il presente libro. Parleremo del consumo come di un elemento centrale 1 P. Worsley, La tromba suonerà. I culti millenaristici della Melanesia (1957), Einaudi, Torino 1961.

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nelle vicende del nostro paese fin dai primi tempi dell’unificazione, durante il fascismo (quando entra nella politica di italianizzazione del regime) e nei lunghi decenni repubblicani. La tesi qui avanzata è che abbia sempre giocato un ruolo importante e che la sua centralità sia cresciuta nel tempo, fino a emergere apertamente nel discorso pubblico. La cultura materiale legata ai consumi si è dimostrata in grado di strutturare la società, di marcare i confini di classe, genere, generazione e le differenziazioni regionali; ha avuto riflessi nel mondo dell’arte e della letteratura; è stata parte integrante dei processi di produzione economica, come pure del mondo commerciale; infine, ha ispirato le politiche di governo. È dunque una costruzione culturale che ci permette di osservare l’evoluzione dell’Italia da un’angolazione molto particolare, e di scoprire aspetti inediti e forse sorprendenti. Scrivere una storia dei consumi che si snodi in parallelo con le grandi narrative della storia culturale, politica, economica e sociale pone molti problemi. A cominciare dal più semplice, ma fondamentale, della definizione stessa di consumo: essa può limitarsi semplicemente all’uso di alcuni beni, oppure dilatarsi fino a comprendere pressoché ogni cosa. Abbiamo deciso di concentrarci soprattutto sui beni materiali, e in parte su quelli immateriali e i servizi, purché siano effettivamente alla base della vita quotidiana. L’altra scelta importante è stata quella di non limitarci all’ultima fase del consumo, per così dire, cioè al momento dell’acquisto e della «distruzione» del bene, ma cercare di ricostruire il ciclo completo, che inizia molto prima nella sfera sociale e culturale, si concretizza nel campo della produzione economica e segue un percorso che giunge al mondo commerciale (anzi, le dinamiche di mercato e i luoghi di vendita nella nostra ricostruzione acquistano un valore di primissimo piano). Tutto ciò ha una fondamentale ricaduta sul piano politico: un’altra tesi avanzata in questo libro è che il consumo sia sempre ben presente nelle politiche governative, sia pure con accenti e pesi diversi secondo il periodo. Per questo abbiamo utilizzato un’ottica il più possibile trasversale e interdisciplinare, cercando di ricreare le molteplici sfaccettature delle pratiche di consumo. Un lavoro di sintesi di questo tipo in un settore ancora giovane può apparire ambizioso (e forse anche un po’ incosciente); ma in questo caso nasce da un’esigenza maturata dopo vari anni di studio nel campo, e dopo l’apparizione di importanti lavori italiani e internazionali: l’esigenza cioè di avere un quadro di riferimento generale – nel quale inserire anche pezzi di ricerca originale. Quale che sia il risultato finale, se riuscirà ad attirare l’attenzione di studiosi e lettori su questo ramo di studi, avrà pienamente ottenuto il suo scopo. VI

Per tornare alla mitologia, le vicende dei nostri melanesiani ci ricordano anche dell’altro. In primo luogo l’importanza della dimensione geografica. L’Italia è da sempre nel ristretto gruppo dei paesi ricchi di reddito e di beni (era già fra i primi dieci nel 1861). Si può obiettare che il livello di sviluppo e di reddito non si riflette automaticamente nel livello dei consumi; il che è assolutamente vero. Ma certo questo è un importante indicatore, come ben sanno gli abitanti della Papua Nuova Guinea, discendenti dagli adoratori del cargo, che hanno un reddito pro capite dieci volte inferiore a quello degli italiani e vivono in un paese dove oltre il 40 per cento della popolazione ha meno di un dollaro al giorno. Ai loro occhi la distanza che separava i bianchi, carichi di merci, e gli indigeni, che osservavano sulla spiaggia, non è poi così mutata. E i dati confermano questa impressione, visto che il divario tra paesi ricchi e poveri è cresciuto progressivamente nel tempo2. Questa premessa è indispensabile per chiarire un punto: questo libro parla dei grandi mutamenti avvenuti nei consumi degli italiani in più di un secolo, ma non dobbiamo mai dimenticare che le trasformazioni avvengono in un’area geografica e culturale ben precisa, che conosce proprie dinamiche di sviluppo, non necessariamente condivise dal resto del mondo. In particolare, l’esperienza italiana non può essere compresa al di fuori del contesto europeo prima ed euro-americano poi. Questo ci rimanda a un secondo elemento, e cioè al carattere fortemente transnazionale connaturato al mondo del consumo: le merci si spostano, le tecnologie circolano, i modelli e gli spazi di vendita si internazionalizzano, le persone (i consumatori) si muovono. Anche se il nostro focus è l’Italia, consumare vuol dire spesso muoversi in una dimensione molto ampia, magari inconsapevolmente (parafrasando John Donne, nessun paese è davvero un’isola, completo in sé stesso, ma è un pezzo del continente, una parte del tutto). Un ultimo punto riguarda la periodizzazione3. La domanda è questa: possiamo parlare di una vera e propria rivoluzione dei consumi, qualcosa che per portata ed estensione sia paragonabile alla rivoluzione industriale? E se sì, quando ha avuto luogo? Una prima ipotesi è che essa si situi tra fine Ottocento e inizio Novecento, quando si notano gli effetti della rivoluzione industriale: produzione in serie, creazione di 2 P. Bairoch, International Industrialization Levels from 1750 to 1980, «The Journal of European Economic History», 11, 2, autunno 1982, tabb. 2, 10 (pp. 275, 296). 3 P.N. Stearns, Stages of consumerism: Recent work on the issue of periodization, «The Journal of Modern History», 69, 1, marzo 1997, pp. 102-117; P. Capuzzo, Culture del consumo, il Mulino, Bologna 2006, pp. 7-8.

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grandi mercati, trasporti moderni, diffusione di nuove strutture di vendita come i grandi magazzini, e così via. Altri studiosi, soprattutto di area nordeuropea, ritengono invece che la nascita di una moderna sensibilità riguardo ai consumi sia da retrodatare, fino al Seicento olandese o almeno al Settecento inglese (per via della diffusione di prodotti «coloniali» come tè, caffè, tabacco, cacao e zucchero che danno origine a nuove forme di socializzazione) – e non si tratta solo di cultura materiale: per studiosi come Campbell, una nuova sensibilità edonistica sarebbe nata fra Inghilterra e Germania dal Protestantesimo (specularmente a quanto era avvenuto con lo spirito del capitalismo secondo Max Weber). Un’altra ipotesi sostiene che si possa parlare di rivoluzione dei consumi solo negli anni Cinquanta-Sessanta del Novecento: non è questo il momento in cui tutti i componenti della società – anche i più poveri – godono per la prima volta di un reddito sufficiente per acquistare i beni materiali, in cui si assiste a un’esplosione della pubblicità, in cui si moltiplicano i luoghi commerciali e i consumi rivestono un ruolo centrale (e forse insostituibile) nella vita sociale e nella formazione dell’identità individuale? Chi ha ragione? Non è semplice dare una risposta. Forse abbiamo bisogno di molti altri studi per comprendere a fondo le dinamiche di questo fenomeno (e ciò vale di sicuro per l’Italia); forse dipende dalla definizione che diamo di «rivoluzione dei consumi». A nostro avviso, se vogliamo adottare una prospettiva di «lunga durata», è necessario andare molto indietro, probabilmente fino al Rinascimento. Non solo infatti la cesura del Sei-Settecento ha poco senso per l’Italia, rimasta in una posizione marginale rispetto alle grandi correnti commerciali europee e alle prime fasi della rivoluzione industriale, ma la nascita di alcune pratiche di consumo e una nuova valorizzazione culturale dei lussi materiali iniziano probabilmente nelle corti rinascimentali (il paradigma di un consumo «moderno» nato nel Sei-Settecento rispecchia infatti principalmente le esperienze e le scansioni temporali dell’Europa settentrionale). In alternativa, potremmo scegliere una prospettiva relativamente più breve, in grado di cogliere ogni cambiamento, ponendolo in rapporto con le varie sfere della società, dell’economia e della politica (magari in parallelo con i processi di formazione dello Stato unitario). Questa è stata la nostra scelta, che ci sembra evidenziare, più che un momento unico e irripetibile in cui i consumi esplodono una volta per tutte, una serie di tappe significative tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del XXI secolo. Come un filo rosso, i consumi corrono lungo tutte le vicende del paese, contribuendo a creare un’identità e a dare un linguaggio comune agli italiani. VIII

Questo lavoro ha beneficiato di molte discussioni con amici e colleghi, in Italia e all’estero; ricordarli tutti sarebbe impossibile. Mi limito perciò a poche righe. Il primo ringraziamento, come sempre, va a Enrico Decleva, che ha incoraggiato questo lavoro e lo ha seguito nelle fasi conclusive. Particolarmente proficuo è stato il periodo trascorso come Fulbright Professor presso l’università di Georgetown, a Washington, dove ho usufruito di archivi e immense biblioteche e ho apprezzato le conversazioni con noti studiosi, fra i quali Richard Kuisel. Né posso dimenticare l’appoggio di tutti gli amici dell’associazione Assi. Infine, last not least, voglio ringraziare Paolo, per l’affettuoso sostegno che non mi ha fatto mai mancare. E.S. Milano, dicembre 2007

Questo libro è dedicato ai miei genitori, Irma e Alberto, con grande affetto.

L’Italia dei consumi Dalla Belle Époque al nuovo millennio

Capitolo primo

L’Italia liberale

1. La società italiana dall’unificazione alla Belle Époque 1.1. Un paese dai mille volti Se le colossali imprese industriali sieno un bene o un male, è inutile discutere; sono una condizione generale dell’industria nel nostro tempo. Sono nate fuori d’Italia come mostri immani e ci son venute addosso minacciando d’ingoiare tutte le nostre industrie nazionali; a difenderci colle nostre vecchie piccole industrie era come andar a combattere cogli archibugi a miccia e forchettone contro i fucili a retrocarica e a ripetizione [...]. In questa guerra pacifica che si combatte colle cifre dei cataloghi di vendita, i fratelli Bocconi sono in prima linea. Essi avanzano sempre sin dal 1865, – l’anno della fondazione della loro casa – acquistando ogni anno qualche provincia, assodando le conquiste, mettendo avamposti sempre più inoltrati. [...] Per vedere cos’è la casa Bocconi bisogna andare al terzo piano del già Hotel Confortable. Par d’essere in un gran dicastero d’un governo: per poco meno di un quarto di chilometro gira nel cuore dei quattro lati dell’edificio un corridoio continuo, nel quale di qua e di là non vedi che porte vetrate d’uffici pieni d’impiegati intenti ad un lavoro affrettato, incalzante. Sezioni dipartimentali coi capi dipartimenti, capi divisione, capi sezione, ragioneria generale, ragionieri delle filiali, grandi speditori, ispettor generale, direttori, sotto direttori; in tutto un personale di oltre 300 impiegati. [...] In quanto al sontuoso emporio di Milano Aux Villes d’Italie venuto a surrogare l’Hotel Confortable, chi non lo conosce? Chi viene a Milano e non visita questo negozio che in Italia non ha l’eguale e solo in Parigi trova dei confronti? Chi non ha passato un’ora girando il pian terreno, gli ammezzati e il primo piano, ammirando l’ordine, il buon gusto, l’opulenza, l’abbondanza delle mer-

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ci messe in vendita? Chi non ha visto quella splendida sala di stile gotico inglese che i Magasins parigini invidiano a quello di Milano? e la successione delle mostre meravigliose, dall’abito da 8 lire all’abito da 400 lire, dallo strofinaccio di cucina alla splendida tovaglia operata di filo di Fiandra, dallo sgabello da 80 centesimi ai tappeti d’Aubusson che costano migliaia di lire, dalla scatola di zolfanelli a 5 centesimi al mobilio intero d’una stanza da letto. Che varietà in ogni categoria d’oggetti!1

Se il periodo tra il 1870 e il 1913 è stato definito quello della «grande trasformazione», riferendosi ai mutamenti indotti dalla rivoluzione industriale, un primo sguardo d’insieme sull’Italia ci restituisce l’immagine di un paese sì in fase di trasformazione, ma lenta. Nel 1870 il reddito pro capite di una popolazione di 27.800.000 persone è di 1499 dollari (un quarto al di sotto della media dell’Europa occidentale) ma in crescita: 1785 nel 1900, 2564 nel 1913. Rispetto all’inizio del secolo c’è stata una discreta progressione, ma i valori rimangono molto al di sotto di quelli nordeuropei (un inglese ad esempio poteva disporre di un reddito più che doppio)2. Naturalmente è difficile attribuire un valore esatto a queste cifre; sappiamo però che al di sotto di una certa soglia di reddito (che potremmo stimare per allora in 1000 dollari) le scelte di consumo sono molto ridotte, poiché quasi l’intero ammontare è impegnato nelle spese basilari per la sopravvivenza. Ciò non toglie che in queste scelte vi possano essere grandi disparità, dovute ad esempio a fattori territoriali, molto importanti nel caso italiano, o a tradizionali fratture (cleavages), come quella tra città e campagna. Vorremmo qui richiamare all’attenzione anche un altro fattore di grande rilievo non sempre sottolineato a proposito dei consumi, e cioè l’aspetto demografico. Il XIX secolo vede la fine del regime demografico d’Ancien Régime, caratterizzato da alti tassi di natalità e di mortalità, e l’inizio di un nuovo equilibrio, tipico dei paesi avanzati odierni, con bassi tassi di natalità e una lunga aspettativa di vita. In Italia l’indice di mortalità cade rapidamente dal 1870 al 1913 (da 30 a 19 per mille abitanti), mentre lentamente scende quello relativo alla natalità (da 37 a 32); la vita media passa da 35 anni nel 1880 (era stata a lungo in precedenza intorno ai 30-32 anni) a 43 anni nel 1900 e a 47 nel 1 Una grande impresa industriale, «L’illustrazione italiana», 17, 27 aprile 1879, p. 270. 2 A. Maddison, Historical Statistics for the World Economy. Per Capita GDP (1990 International Geary-Kharnis dollars), in www.ggdc.net/maddison, 15 febbraio 2007 (dati aggiornati a cura di A. Maddison). 3 M. Livi Bacci, La popolazione nella storia d’Europa, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 186-188 (tabb. 6.3, 6.4).

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19103. La conseguenza è un forte aumento della popolazione e un cambiamento nelle relative classi di età. Le ragioni di questo mutamento sono molteplici e interdipendenti: non si legano solo alla rivoluzione industriale o ai progressi in agricoltura, ma anche a fattori socioculturali e all’avanzamento delle conoscenze tecniche e scientifiche. La crescente e insostenibile pressione demografica rompe quindi definitivamente i legami abituali e spinge a un esodo verso i nuovi centri industriali o all’emigrazione. Ciò scompagina i tradizionali modelli di consumo, che avevano resistito in molti casi per secoli, e favorisce l’adozione di nuove pratiche. Inoltre, come ha sottolineato Massimo Livi Bacci, il moderno regime demografico lascia maggiori scelte all’individuo: egli può decidere per il proprio destino in una misura impensata secoli addietro, grazie a una vita più lunga e prospera, una maggiore mobilità, la possibilità di scegliere riguardo alla riproduzione, una quota minore di tempo e risorse da dedicare ai figli (l’occupazione centrale, se non unica, cui erano legate le donne)4. In sintesi, un percorso più individualizzato e autonomo, una libertà maggiore (sia pure all’interno delle opzioni offerte dalla società); e quindi anche uno spazio mai visto prima per le scelte di consumo. Ma cosa si consumava in quegli anni? In termini generali, sappiamo che nei consumi privati l’alimentazione faceva la parte del leone: assorbiva circa il 60 per cento della spesa nel periodo giolittiano ed era in lieve ascesa. Nel 1900, ad esempio, prendeva 40.003 milioni di lire su 60.650; seguivano a grande distanza le spese per abitazione ed energia (8457 milioni), per il vestiario (5322), per i trasporti (667) e infine tutte le altre voci (6201)5. La forte spesa per il vitto non comportava però una dieta ricca e variata: nello stesso anno, ogni abitante del Regno consumava 123 chili di frumento, 11 di risone, 25 di patate, 16 di legumi, 21 di pomodori, ma solo 16 chili di carne (di cui 6 bovina) e 4 di pesce fresco e conservato. Scarsi erano i condimenti e i grassi, come anche i formaggi e i generi voluttuari come zucchero e caffè, con la rilevante eccezione costituita dal vino (di cui si bevevano 100 litri all’anno) (Tab. 1) 6. Ivi, pp. 247-249. I conti economici dell’Italia, a cura di G.M. Rey, vol. I, Una sintesi delle fonti ufficiali 1890-1970, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 209. Si noti che le calorie medie passano da 2637 del periodo 1861-80, a 2158 del periodo 1881-1900 e a 2675 nel 1901-15. Cfr. V. Zamagni, L’evoluzione dei consumi fra tradizione e innovazione, in Storia d’Italia. Annali 13. L’alimentazione, a cura di A. Capatti, A. De Bernardi, A. Varni, Einaudi, Torino 1998, p. 176. 6 I conti economici dell’Italia, a cura di G.M. Rey, vol. I, Una sintesi delle fonti ufficiali cit., pp. 219-226. 4 5

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Se si passa dal livello macro al livello micro, cioè quello delle famiglie e degli individui, il quadro si complica però notevolmente. Per due motivi: in primo luogo, le differenze territoriali e di contesto storico rendono molto diversa la vita da regione a regione; in secondo luogo, le differenziazioni di classe sociale (disuguaglianze di reddito e convenzioni socio-culturali) creano enormi disparità. 1.2. I contadini Gran parte della popolazione era impiegata in agricoltura, che si stima occupasse ancora nel 1911 il 62 per cento della popolazione attiva7. Le condizioni di vita dei contadini erano molto dure. Le entrate erano scarse ed erano quasi completamente assorbite dalla «triade» dei bisogni primari: alimentazione, casa e vestiario. I bilanci familiari giunti fino a noi mostrano un quadro desolante: nel 1890 un bracciante di Ravenna, ad esempio, guadagna 586 lire e spende il 73 per cento in cibo (di cui la metà in cereali e solo il 2 per cento in carne e pesce), il 17 per cento per l’abitazione (di cui 7 per il fitto), l’8 per cento per i vestiti e il 2 per cento per tutto il resto8. Un contadino abruzzese guadagna qualcosa in meno e spende l’83 per cento in alimentari, il 12 in affitto, il 5 in abbigliamento (e niente altro). Stava meglio un mezzadro a Reggio Emilia, con un reddito doppio, la cui spesa era per alimenti del 66 per cento, per l’abitazione del 9, per i vestiti del 13 e per spese varie del 12 per cento (e gli restava persino un piccolo risparmio, mentre molti altri bilanci risultano negativi e segnalano un indebitamento costante). La situazione era statisticamente relativamente migliore per i contadini autonomi (che possiamo calcolare nel 1881 in 1.700.000 persone), fittavoli e coloni (1.950.000), drammatica per braccianti e avventizi che costituivano la grande maggioranza (5.790.000)9. Numerose testimonianze ci raccontano cosa e come si mangiava negli ultimi decenni dell’Ottocento. Nelle Langhe i contadini mangiavano di norma polenta di granturco, legumi, patate e castagne; raramente pane di frumento e niente carne, se non in particolari festività o in caso di malattia. In Sardegna il vitto del colono è composto da due pasti: di giorno pane di frumento, di sera minestra di legumi. Pasquale Villari ci descrive poi la giornata dei contadini pugliesi: ogni conta7 Istat, Sommario di statistiche storiche dell’Italia 1861-1975, Roma 1976, p. 14. Nel 1871 la percentuale era del 67,5%. 8 S. Somogyi, Cento anni di bilanci familiari in Italia (1857-1956), «Annali Feltrinelli», II, 1959, pp. 150-151. 9 Si tenga presente che il tasso di attività sul totale della popolazione (pari a 28.500.000 persone nel 1881) era pari al 56%. Cfr. Istat, Censimenti anni vari; P. Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, Laterza, Roma-Bari 1974, pp. 156-157 (tabb. 1.1, 1.2).

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dino riceve all’alba, all’inizio del lavoro, un pane «nerastro e schiacciato» di un chilo che comincia a consumare verso le dieci del mattino; alla sera, il massaro fa bollire una gran pentola d’acqua con poco sale; i contadini si mettono in fila, ognuno con il proprio pane affettato dentro una scodella di legno, sulla quale il massaro versa l’acqua salata, con qualche goccia d’olio. Ecco pronta la zuppa «acqua-sale». Il cronista aggiunge che il pasto è così scarno che durante la mietitura è dato ai contadini del vinello (ottenuto da mosto già utilizzato e acqua), perché siano in grado di sopportare il duro lavoro10. Le condizioni erano molto variabili da una zona all’altra e dipendevano dalla disponibilità di prodotti locali, dai contratti di lavoro e dalle tradizioni culturali locali11. Solo una cosa era comune: il complessivo basso apporto calorico, derivante soprattutto da carboidrati, e la scarsità di vitamine e proteine (che predisponeva a malattie e malformazioni). Parlare del cibo in termini quantitativi e qualitativi può però non esaurire il discorso. Poche altre attività umane sono cariche di significato simbolico come il cibarsi. I diversi alimenti sono stati associati a tabù, pregiudizi, privilegi, rituali, distinzioni sociali; la storia dell’alimentazione condensa molte costruzioni culturali delle società umane – come ben sanno i numerosi studiosi che, a partire da libri come Il crudo e il cotto di Lévi-Strauss, hanno spiegato le strutture profonde di una collettività attraverso le sue metafore alimentari12. Il fatto che i contadini avessero scarse disponibilità alimentari non vuol dire che i cibi fossero per loro meno carichi di significati simbolici. Al contrario, tutte le culture contadine assegnano grandissimo rilievo al cibo nell’organizzazione della vita sociale: il tempo della festa è scandito da una quantità e qualità di alimenti (come i dolci) diversi da quelli del tempo del lavoro; allo stesso modo cibi diversi distinguono le fasi di normalità nel ciclo di vita da quelle di eccezionalità (tipo la malattia, come già ricordato, o cerimonie e ricorrenze religiose). Le varie tipologie di cibo assumono poi molti significati: un valore positivo è collegato a tutto ciò che è «grasso», che rappresenta un privilegio negato ai contadini, e di qui passa alla grassezza come allegoria di una vita felice; oppure a tutto ciò che cresce o vive in «alto», come gli uccelli o i Somogyi, Cento anni di bilanci familiari cit., pp. 134-135. La letteratura sull’alimentazione è molto ricca; cfr. per i differenti regimi alimentari nelle regioni italiane Capatti, De Bernardi, Varni, Storia d’Italia. Annali 13. L’alimentazione cit. (in particolare la Parte prima). 12 C. Lévi-Strauss, Il crudo e il cotto (1964), il Saggiatore, Milano 1966; cfr. per l’Italia, fra le molte opere, M. Montanari, La fame e l’abbondanza, Laterza, RomaBari 1993. 10 11

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frutti degli alberi, di contro a tutto ciò che è «basso», come i tuberi sottoterra o i maiali che si rotolano nel fango13. Lo stesso è vero per le forme del cibo, per i sistemi di preparazione, di cottura e persino per i colori (il bianco è associato alla raffinatezza e al lusso: così il pregiato pane bianco è visto in opposizione al pane nero consumato dai contadini)14. Anche la religione ha il suo peso: le norme alimentari legate al calendario liturgico impongono una separazione tra il mangiare di «grasso» e il mangiare di «magro» che bandisce rigorosamente la carne e talvolta altri prodotti animali a favore di ortaggi e pesce15 (anche se questo poteva suonare come una beffa alle orecchie di contadini perennemente affamati). In una cultura molto legata all’autoconsumo, un alimento fondamentale come il grano, prima ancora di divenire effettivamente cibo, era talvolta personificato, divenendo uno spirito che poteva assumere vari significati e forme, come quella di un animale, ad esempio di un lupo (che si riteneva rimanesse ucciso nella mietitura). Così, come ci racconta Frazer, se i contadini vedevano le spighe ondeggiare sotto il vento dicevano: «Ecco il lupo del grano che passa»; e se per caso un lupo passava davvero nel campo, essi ne osservavano la coda: se era alta, lo maledicevano e cercavano di ucciderlo; se la teneva bassa, e quindi fecondava il campo, lo ringraziavano, lo seguivano e gli presentavano del cibo16. E tutto ciò trova un preciso riscontro anche nell’Italia del tempo. Sebbene unificate da alcuni tratti, come il rispetto quasi sacrale per un cibo sempre scarso e un attento, quasi simbiotico, rapporto con la natura e il territorio da cui si dipendeva, le culture contadine del cibo erano molto diverse da zona a zona, erano in qualche modo autoreferenziali. Certamente non esisteva un comune «spazio del consumo» che si riferisse a una qualsiasi entità politica o statuale; semmai il richiamo poteva essere a macroaree con caratteristiche geografiche e culturali simili (si potrebbe pensare al tipo di economia delle vallate alpine, non delimitate da confini politici; oppure all’area 13 R. Sarti, Vita di casa. Abitare, mangiare, vestire nell’Europa moderna, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 213-214. Sui molti tabù riguardanti il cibo vedi la spiegazione «razionalistica» di M. Harris, Good to Eat: Riddles of Food and Culture, Waveland Press, Long Grove 1998. 14 Montanari, La fame e l’abbondanza cit., p. 190. 15 A. Capatti, M. Montanari, La cucina italiana. Storia di una cultura, Laterza, Roma-Bari 2005 (1999), pp. 82-87. 16 J.G. Frazer, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione (1922), Bollati Boringhieri, Torino 1965, p. 538, e in generale sullo spirito del grano pp. 422-556. Frazer riferisce che questa usanza era diffusa soprattutto nell’Europa settentrionale, in particolare in Francia, Germania e nei paesi slavi.

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mediterranea, che pure presentava marcate differenziazioni al suo interno)17. In esse prevalevano di gran lunga gli alimenti locali, ma non mancavano apporti esterni. Si pensi all’introduzione delle piante «americane», come patate, peperoni, pomodori, fagioli e soprattutto mais, che però furono trattate e cucinate secondo le tecniche tradizionali: i pomodori erano impiegati sotto forma di salsa, il mais non era mangiato in grani come in America ma ridotto in farina e cotto divenendo farinata o polenta, e si tentò a lungo di panificare la farina di patate in sostituzione del grano (il risultato fu pessimo e infine l’idea abbandonata – ma per noi è un ottimo esempio di ibridazione culturale). E naturalmente questa grande varietà rende difficile anche un confronto fra le condizioni di vita materiale dei contadini in Italia e quelle riscontrabili nei vicini paesi europei, dove comunque i redditi medi risultano più elevati. Le modalità di consumo del cibo non erano meno significative. In genere si trattava di un atto collettivo, magari introdotto dalla preghiera, che confermava le differenziazioni sociali e di genere, come era testimoniato dall’ordine seguito nel distribuire le portate, dalla selezione delle porzioni migliori e dalla disposizione gerarchica dei posti a tavola: il capofamiglia al primo posto, a capotavola, i membri più importanti al suo fianco, e via via tutti gli altri (e capitava anche che qualcuno fosse escluso dal privilegio di mangiare a questa tavola, ad esempio le donne). Mangiare e bere costituivano dunque un’importante pratica culturale, che accompagnava molti momenti di socializzazione: le visite al mercato o alle fiere, le feste del villaggio, le soste in osteria o le riunioni serali intorno al fuoco18. 17 Su realtà e mito dell’antica dieta mediterranea cfr. V. Teti, Il colore del cibo. Geografia, mito e realtà dell’alimentazione mediterranea, Meltemi, Roma 1999. 18 È questo anche il caso dell’usanza della «curmaia», festa di fine monda tradizionalmente offerta dal padrone alle mondine (che, ricordiamo, erano spesso giovani donne che lasciavano stagionalmente la famiglia per lunghi periodi per lavorare nelle risaie piemontesi e toscane). Si tratta di un interessante esempio di sociabilità femminile sul lavoro, che dà voce al risentimento antipadronale e insieme riecheggia motivi della tradizione popolare. La festa era basata su un ricco banchetto di cibi diversi e sul vino, consumato abbondantemente; solo le donne vi potevano partecipare (salvo alcuni uomini espressamente invitati) e si ballava e cantava fino all’alba. In questa occasione le donne mostravano atteggiamenti aggressivi e intraprendenti nei confronti degli uomini presenti; alcune di esse talvolta si travestivano da uomo e invitavano le altre a ballare, in una significativa inversione di ruoli (sottolineata anche dall’ubriacatura di vino, ritenuta poco appropriata per le donne). I canti, poi, contenevano chiare allusioni sessuali (spesso riferite al padrone). Sul significato della cultura delle mondine cfr. F. Dei, Beethoven e le mondine: ripensare la cultura popolare, Meltemi, Roma 2002.

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La seconda voce di spesa per i contadini era la casa. Ma com’erano le abitazioni? È difficile dare una risposta univoca, data la grande varietà di situazioni esistenti. Possiamo però notare due elementi comuni: il riferimento all’ambiente circostante, e quindi l’uso pressoché esclusivo di materiali costruttivi locali, e il legame con il sistema di organizzazione produttiva. Così troviamo le «corti» padane, complessi di edifici quadrangolari in mattone cotto e tegole, disposti intorno a un’aia centrale, dove compaiono una dimora padronale (di solito affittata al conducente del fondo); numerose case per i contadini, formate da una grande cucina al pianoterra e una/due stanze al piano superiore per dormire; e poi stalle con annessi fienili e locali per attrezzi e depositi. Si tratta di una struttura specializzata, nella quale abitano sette o otto famiglie, che riflette una produzione già altamente differenziata e specializzata19. Simili come impostazione, ma più piccole e diversificate, sono le «massarie» del Mezzogiorno e i «casali» nel Lazio; mentre decisamente più ampie sono le abitazioni dei mezzadri dell’Italia centrale: si notano un numero maggiore di stanze ad uso della famiglia contadina, disposte anche su tre piani, e ampi spazi comuni (pozzi, orti, rustici). Qui le famiglie vivono isolate sui fondi che coltivano, formanti un’unica grande azienda, la «fattoria», che integra diversi tipi di coltivazioni. In altri casi prevalgono abitazioni unifamiliari poverissime, realizzate con materiali come pietra, ardesia o legno, e di dimensioni molto ridotte (spesso solo la stalla e una stanza polivalente per la famiglia, o al massimo una cucina al pianterreno e una stanza al primo piano), addossate le une alle altre in piccoli villaggi montani o sparse nei borghi dei latifondi – a testimonianza di un’agricoltura arretrata e poco redditizia20. La stalla è uno spazio importante, non solo per il lavoro e la cura delle bestie: è uno spazio sociale, un luogo di incontri e di molteplici attività artigianali e sociali soprattutto d’inverno; la promiscuità con gli animali è del resto un tratto comune della vita contadina. Entrando idealmente in una cucina, l’ambiente centrale della casa, anche perché vi si trova il focolare ed è l’unico riscaldato, avremmo potuto vedere vari oggetti di uso quotidiano: pentole di coccio, paioli in rame, tegami di latta per cucinare; un corredo semplice di posate, piatti, bicchieri, brocche e utensili (magari sul tavolaccio o riposti nella madia). Se non vi sono altri spazi, la cucina è usata per svolgere vari lavori: le donne tessono, preparano il cibo, accudiscono i bambini, 19 L. Gambi, La casa contadina, in Storia d’Italia, vol. VI, Atlante, Einaudi, Torino 1976, pp. 481-483. 20 Ivi, pp. 486-494.

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legano scope di saggina; gli uomini fanno ceste, riparano o fabbricano attrezzi. In altre parole, è uno spazio di produzione e consumo insieme, uno spazio plurifunzionale, adattato alle molteplici esigenze della famiglia. Nella realtà rurale italiana coesistono infatti famiglie estese o multiple e soprattutto famiglie nucleari (la media dei componenti a inizio Novecento è di 4,5 membri: non dimentichiamo che è un tratto caratteristico dell’Europa la presenza precoce della famiglia nucleare, come pure il matrimonio in età avanzata, in media tra i 25 e i 30 anni, contro i 20-25 di Usa, Russia o Australia, con tutte le conseguenze che questo ha sui percorsi di vita)21. In queste famiglie vigono una forte gerarchia e una marcata divisione dei compiti: agli uomini spettano i principali lavori agricoli, alle donne la cura della casa e i lavori accessori nei campi, mentre i fanciulli collaborano con mansioni più leggere (ma la responsabilità decisionale ed economica è saldamente in mano al capofamiglia o al massaro). Passando nella stanza da letto, accanto a uno o più grandi letti (dove dormono insieme varie persone), avremmo trovato bauli o armadi che custodivano biancheria e vestiario (camicie, pantaloni, casacche, giubbotti, cappelli per gli uomini; camicie, gonne, scialli, grembiuli e vestiti interi per le donne; le calzature spesso erano semplici zoccoli). Indumenti e lenzuola erano in parte realizzati in casa, in parte ereditati e più volte riciclati, in parte acquistati a bassi prezzi da venditori ambulanti o nelle fiere. Gli oggetti presenti nella casa contadina, quindi, sono sia frutto dell’autoconsumo sia di acquisti: come per il cibo, anche l’abbigliamento svolge infatti un importante compito di distinzione sociale (come ci ricordano le leggi suntuarie che per secoli imposero speciali fogge e colori di vestiti a seconda della classe sociale), e anche per i contadini era importante «apparire» bene sul palcoscenico sociale, soprattutto in occasione di feste e cerimonie22. I consumi materiali del mondo contadino, legati a usi e tradizioni antiche, sono dunque molto scarsi: la loro assenza è spesso più rilevante della loro presenza. Questo è drammaticamente vero soprattutto per il cibo: una fame atavica, infinita, sembrava attanagliare senza speranza i contadini. Inesauribili sono le testimonianze al riguardo in ricordi, canti e proverbi popolari. A «Chi ha mangia; chi non ha, s’ar21 Sulle dinamiche familiari cfr. M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX secolo, il Mulino, Bologna 1984, pp. 47 sgg.; Population in History: Essays in Historical Demography, a cura di D.V. Glass, D.E.C. Eversley, Arnold, London 1969. 22 Sarti, Vita di casa cit., pp. 243-269.

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rangia» dei toscani replicano i comaschi con «Fin che dura pan e vin, te pö impipassen del destin», mentre i calabresi sentenziano: «Pane e coltello, non empie mai budello» e a Napoli si suggerisce saggiamente: «Si nun puo’ mangia’ carna, accuntientete d’o brodo». L’elenco può continuare a lungo: dall’ideale di vita racchiuso nel toscano «Mangia bene e caca forte, e non aver paura della morte» a «La pentola è la pace di casa», «Battere i denti e le ganasce a vòto, gli scote più la fame del tremoto», «La fame fa uscire il sangue dai denti», fino all’inquietante «In corpo c’è buio». Gli echi non mancano anche in letteratura. La fame dei contadini ci ricorda da vicino la fame inesauribile di Pinocchio: [Pinocchio] Allora si dette a correre per la stanza e a frugare per tutte le cassette e per tutti i ripostigli in cerca di un po’ di pane, magari un po’ di pan secco, un crosterello, un osso avanzato al cane, un po’ di polenta muffita, una lisca di pesce, un nocciolo di ciliegia, insomma di qualche cosa da masticare: ma non trovò nulla, il gran nulla, proprio nulla. E intanto la fame cresceva, e cresceva sempre: e il povero Pinocchio non aveva altro sollievo che quello di sbadigliare: e faceva degli sbadigli così lunghi, che qualche volta la bocca gli arrivava fino agli orecchi. E dopo avere sbadigliato, sputava, e sentiva che lo stomaco gli andava via23.

E Geppetto sacrifica la sua colazione – tre pere – per l’affamato burattino, convincendolo a mangiare non solo la polpa, ma anche le bucce e i torsoli: – Non avrei mai creduto, ragazzo mio, che tu fossi così boccuccia e così schizzinoso di palato. Male! In questo mondo, fin da bambini, bisogna avvezzarsi abboccati e a saper mangiare di tutto, perché non si sa mai quel che ci può capitare. I casi son tanti!...24

Solo nel Carnevale, la festa della trasgressione per eccellenza, avviene una totale inversione: la privazione si trasforma in abbondanza, la penuria si volge in spreco, e anche il mondo contadino si abbandona alla sfrenatezza nel bere e nel mangiare. Ma è solo un breve momento, al termine del quale il fantoccio o l’animale rappresentante Carnevale è sbeffeggiato per i suoi peccati (simboleggiati dagli eccessi alimentari) e messo a morte, aprendo la strada alla Quaresima con i suoi 23 Collodi [C. Lorenzini], Pinocchio, storia di un burattino, Felice Paggi, Firenze 1883, cap. 5. 24 Ivi, cap. 7.

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riti di espiazione e digiuno – in una cerimonia che univa il ricordo degli antichi Saturnali alla liturgia cristiana. 1.3. Gli operai Le condizioni di vita degli operai non erano in molti casi migliori. La principale differenza risiedeva nel fatto che il reddito derivava quasi esclusivamente dal salario, era quindi monetizzato, e l’autoconsumo era molto più basso. Il bilancio familiare di un operaio di Torino a fine Ottocento ci mostra come l’introito complessivo sia discreto (1241 lire), ma la quota destinata all’alimentazione porti via ancora il 74 per cento (di cui 40 solo per i cereali) e salga decisamente il costo percentuale dell’abitazione (23 per cento), mentre le spese varie e l’abbigliamento sono marginali e spunta un piccolo risparmio di 102 lire25. Una successiva inchiesta sugli operai milanesi alla vigilia della Prima guerra mondiale indica che solo 13 famiglie sulle 51 esaminate superano l’apporto giornaliero di 3000 calorie (stimate necessarie per una giornata di lavoro pesante di dieci ore). Altre fonti attestano che a Milano si consumano poca carne (e fra questa soprattutto carne «soriana», cioè carne bovina di qualità inferiore, e intestino di vacca), poco pesce (merluzzo salato), latte in abbondanza e derivati di bassa qualità e, alimento principe, mais26 – una situazione sintetizzata dai bergamaschi nel detto: «Pulènta frègia, furmai che spùsa l’è la baùsa di milanes». Più a sud le cose non migliorano. A Napoli la carne è scarsa, salvo i visceri usati per soffritti e ciccioli, così come il pesce, consumato prevalentemente salato (stoccafisso, baccalà); latte e uova sono evitati perché costosi, mentre c’è una discreta varietà di verdure e cereali. Un’indagine sui minatori dell’Isola d’Elba ci descrive dettagliatamente il loro vitto: sul lavoro consumano la colazione il mattino presto (surrogato di caffè e pane, oppure pane con una cipolla o delle olive, o ancora pane con due sardine arrostite) e il pasto di mezzogiorno (pane, minestra di riso con piselli oppure con fave o verdure, a volte un po’ di pesce); il pasto serale si svolge invece a casa, e consiste in minestra di riso e ortaggi, pane e un po’ di pesce. Il consumo di carne è limitato a trenta grammi per settimana e il vino è quasi assente27. Anche qui la dieta è insufficiente e monotona. Un’altra inchiesta, mettendo a confronto le razioni giornaliere, conferma che gli operai del nord (con un buon salario) ottengono 23 grammi al giorno di proteine dalla carne fresca contro i 14 degli Somogyi, Cento anni di bilanci familiari cit., pp. 150-151. Ivi, pp. 170-174, 133. 27 Ivi, pp. 133-135. 25 26

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operai del sud; un rapporto che si inverte per gli ortaggi: 93 grammi contro 12928. Ciò confermerebbe che la situazione ambientale (disponibilità, prezzi, tradizioni) incide molto sugli stili di vita locali (ad esempio, un elevato consumo di carne è stato spesso associato alla tipica dieta operaia nel Nordeuropa: questo risulta dunque meno vero in Italia). Esiste allora una specifica cultura operaia del consumo? La risposta è sì. Anche se gli standard di vita in molti casi sono simili a quelli dei contadini, gli operai mettono in atto comportamenti molto diversi. In primo luogo in campo demografico. Nelle città più industrializzate la natalità è inferiore anche del 30 per cento alla media nazionale (pure in presenza di una mortalità più alta sia in età infantile che adulta); i matrimoni sono meno frequenti e contratti in età più tarda; la natalità illegittima è molto elevata29. Questi elementi ci suggeriscono – oltre alla presenza di precarie condizioni igienico-sanitarie – che il peso della famiglia e dei figli, come soggetti di consumo, è inferiore, e vi è uno spazio maggiore per i consumi individuali. Una seconda differenza risiede nella mobilità spaziale. Essere operai significa condurre una vita di continui spostamenti sul lavoro, dovuti alla notevole instabilità occupazionale che coinvolge gran parte dei lavoratori (senza contare la quota di «precari» che si riversano stagionalmente nelle città); vuol dire anche traslocare spesso da un posto all’altro, sempre alla ricerca di un alloggio adeguato alla fluttuante situazione economica e alle variabili dimensioni della famiglia. In questa situazione il rapporto con la cultura materiale e lo spazio domestico si struttura diversamente: è più flessibile e meno attaccato a luoghi e oggetti specifici (spesso anche i mobili sono in affitto e nella nuova casa si trasportano solo poche masserizie), meno investito affettivamente. In pratica, vi è un concetto più «funzionalista» dei beni di consumo. A questo va aggiunto un ulteriore elemento: il maggiore contatto con altre classi e gruppi e la mobilità sociale. È ovvio che la città fornisca molte più occasioni di rapporto e di conoscenza di altri usi e culture materiali, nei luoghi pubblici, sul lavoro, durante le festività; inoltre va osservato che la stessa condizione di lavoro operaia era molto più flessibile di quanto possiamo immaginare oggi. Prima di tutto l’operaio Ivi, pp. 148-149. S. Musso, La famiglia operaia, in La famiglia italiana dall’Ottocento a oggi, a cura di P. Melograni, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 65-66. Per fare un esempio, a Milano nel 1901 il tasso di nuzialità è 37 su mille, contro la media italiana di 47 e quella della Lombardia di 60; il tasso di natalità legittima è rispettivamente 169, 222, 257 su mille. Cfr. F. Della Peruta, Milano. Lavoro e fabbrica 1815-1914, Franco Angeli, Milano 1987, p. 135. 28 29

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spesso proveniva da un ambiente contadino o aveva alle spalle una tradizione familiare di lavoro artigianale; poi la «vita lavorativa» in fabbrica era molto breve: l’età produttiva andava dai 19 ai 40-45 anni, dopodiché si era spesso licenziati perché il rendimento si abbassava. A questo punto non restava che trovare altre occupazioni: nel piccolo commercio, in lavori di trasporto o facchinaggio, nelle portinerie e, molto frequentemente per le donne, nei servizi domestici30. In altre parole, nell’arco stesso della propria esistenza, si veniva direttamente in contatto con ambienti e consumi del tutto diversi. Questo comportava una notevole fluidità nella formazione di una specifica cultura del consumo, certo maggiore rispetto a quella di classi operaie di antica formazione e con maggiore peso numerico (come nel Regno Unito), rendendo problematiche le generalizzazioni geografiche. In Italia e in molti paesi europei persisteva infatti una fascia molto ampia di operai non specializzati, dal percorso lavorativo precario e instabile, poco sollecitata a qualificarsi e a stabilizzarsi, anche per via del ritardo con cui arriva la produzione di massa: la mobilità sociale degli operai europei è decisamente più bassa di quella dei loro colleghi americani31. Abbiamo parlato di case operaie. Va subito detto che la casa ha sempre costituito un grave problema per le classi popolari, a causa della scarsità di alloggi disponibili e degli alti prezzi. Se è vero che la popolazione operaia rappresentava una percentuale ridotta rispetto a quella complessiva (si calcola che nel 1901 gli operai attivi fossero circa 3.500.000, ai quali andrebbe probabilmente aggiunta una certa quota di lavoratori censiti come artigiani)32, essa si raggruppava densamente in alcuni luoghi: a Milano nel 1901 su 492.000 abitanti ben 280.000 facevano parte della classe operaia. La sistemazione più comune era nei quartieri più poveri, nelle costruzioni a blocco delle periferie popolari, nei centri urbani degradati (magari in soffitta). La famiglia operaia, in genere nucleare, si adattava a spazi angusti e sovraffollati, con in media tre o quattro occupanti per vano33. Fra le tipologie urbane più caratteristiche troviamo le «case di ringhiera» del 30 Della Peruta, Milano. Lavoro e fabbrica cit., p. 137. Persino grandi e «moderne» fabbriche come la Pirelli usavano diminuire la paga agli operai anziani o licenziarli per assumere lavoratori più giovani. 31 H. Kaelble, Verso una società europea. Storia sociale dell’Europa 1880-1980 (1987), Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 36-37. 32 Il calcolo include i lavoratori nei settori dell’industria, edilizia, commercio, trasporti e servizi (esclusi i domestici). Cfr. Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali cit., tab. 1.1. 33 G. Montemartini, La questione delle case operaie in Milano: indagini statisti-

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milanese: case d’affitto periferiche a più piani, dotate di lunghi ballatoi continui orientati verso un cortile interno, con una struttura derivante dalle abitazioni bracciantili delle cascine. Dai ballatoi si accedeva a numerosi piccoli alloggi di una o due stanze e alla latrina comune; mancavano illuminazione e fognature, e l’acqua corrente era spesso disponibile solo in cortile. Queste abitazioni si sviluppano all’esterno dei Bastioni che delimitano l’area centrale della città, dalla quale gli strati popolari vengono progressivamente espulsi. Lo stesso processo avviene a Torino, dove a inizio Novecento si formano le «barriere operaie», appena all’esterno della cinta daziaria, che accolgono gli operai che lasciano il centro e i nuovi immigrati34. L’Italia non conosce una massiccia edilizia operaia sul tipo di quella che si diffonde nei centri industriali inglesi e in seguito tedeschi e francesi, e neppure un’architettura razionale specificamente indirizzata ai lavoratori urbani. La principale eccezione è rappresentata dai villaggi operai, come la «Nuova Schio» fatta costruire dal vicentino Alessandro Rossi, imprenditore laniero assertore di un solidarismo paternalistico ispirato al cattolicesimo, che sperava di superare le contrapposizioni classiste; il suo villaggio modello, che includeva giardini, scuole e servizi comuni, era progettato in base a una netta suddivisione gerarchica: villette per i dirigenti, abitazioni per una o due famiglie di impiegati, case a schiera per gli operai. Inutile dire che qui il paternalismo confinava con il controllo sociale e queste strutture vivevano in funzione della fabbrica (oltretutto lontane dai «guasti» della vita cittadina). Molti altri imprenditori seguirono questo esempio, come i Marzotto a Valdagno, i Leumann a Collegno, i Crespi a Crespi d’Adda (un villaggio oggi tutelato dall’Unesco come patrimonio dell’umanità); ma ci fu anche chi puntò su una decisa integrazione tra vita operaia e vita contadina, come Paolo Camerini, che a Piazzola sul Brenta, presso Padova, impiantò fabbriche e fornaci a fianco di campi e stalle, e sviluppò l’abitato tutt’intorno35. Si trattava però, come detto, di esperienze particolari e per di più esterne alle aree cittadine.

che, Ufficio del Lavoro della Società Umanitaria, Milano 1903. L’occupazione per stanza riferita all’intera popolazione era decisamente più bassa: nel 1911 a Roma era di 1,4 abitanti, in molte altre grandi città intorno a 1,2 (V. Zamagni, Il valore aggiunto del settore terziario italiano nel 1911, in I conti economici dell’Italia cit., vol. II, Una stima del valore aggiunto per il 1911, p. 235). 34 Musso, La famiglia operaia cit., pp. 70-71. 35 A. Castagnoli, E. Scarpellini, Storia degli imprenditori italiani, Einaudi, Torino 2003, pp. 18, 107-108.

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La caratteristica che avrebbe maggiormente connotato la classe operaia, secondo una tradizione di studi stimolata dal famoso libro di Edward Thompson36, è la sociabilità, la tendenza a sviluppare strategie relazionali e solidaristiche. Così, per fare un esempio, le famiglie delle case di ringhiera non vivevano isolate, ma creavano un reticolo di relazioni e amicizie, che funzionava anche come scambio di servizi e supporto in caso di necessità. E se tali reti vedevano le donne come principali protagoniste, gli uomini trovavano spazi alternativi di socializzazione nelle osterie (nel bilancio familiare dell’operaio torinese esaminato poco sopra, la seconda voce alimentare, dopo i cereali, sono le «bevande fermentate»: 91 lire, l’8 per cento dell’intero salario)37. Numerosi studi hanno indagato anche in Italia l’iconografia delle rivolte e delle manifestazioni collettive, i significati attribuiti al cibo (ad esempio il valore simbolico del pane), i rituali delle feste come il primo maggio (con esibizione di attrezzi da lavoro), i canti popolari: tutto quello che contribuì alla creazione di un’identità culturale operaia – che si collegò poi allo sviluppo associativo di stampo mutualistico prima e politico dopo, anche se non vi furono affatto automatismi in questo passaggio38. Anche qui la cultura materiale gioca un ruolo rilevante nel costruire una cultura operaia. Potremmo anche pensare alla funzione degli abiti o, meglio, dei vestiti da lavoro. Buona parte dell’iconografia che possediamo mostra gli operai che indossano abiti semplici e simili tra di loro (pantaloni di tela, camicia, giacca o giubbetto, berretto – ma a volte anche operai a torso nudo, a simboleggiare la forza e naturalità/virilità del lavoratore) che li rendono immediatamente riconoscibili come gruppo. Le foto scattate nelle fabbriche ci restituiscono immagini in posa di operai seri, mai sorridenti, vestiti con una tuta da lavoro (intera o in due pezzi) o grembiuli di stoffa grezza, mentre le operaie sono ritratte con grembiuli e camici, e spesso cuffie per i capelli, in piedi o sedute

36 E.P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra (1963), il Saggiatore, Milano 1969. 37 Somogyi, Cento anni di bilanci familiari cit., pp. 150-151. Pochi studi hanno indagato i luoghi e i consumi connessi alla sociabilità delle operaie, anche se varie indicazioni fanno ritenere che esistessero forme di sociabilità femminile, soprattutto nelle fabbriche tessili e dell’abbigliamento, come testimoniato dalla presenza di donne nelle leghe (anche se di breve durata) e da forme di orgoglio professionale (le operaie tessili si trasmettevano il proverbio: «El mestee l’è in bottia, chi lo veeur lo porta via»). Cfr. Della Peruta, Milano. Lavoro e fabbrica cit., pp. 129-130. 38 Cfr. M. Ridolfi, Il circolo virtuoso: sociabilità democratica, associazionismo e rappresentanza politica nell’Ottocento, Centro editoriale toscano, Firenze 1990.

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accanto ai loro strumenti39. Studi sulla rivoluzione francese hanno sostenuto l’importanza della divisa da Guardia nazionale per la costruzione del cittadino40; e conosciamo il ruolo delle uniformi nel costruire l’identità del soldato. Ebbene, forse una funzione non dissimile dal punto di vista simbolico è giocata dalle divise di lavoro, che univano gli operai in un’unica collettività, ben identificabile anche dall’esterno: non a caso, proprio la metafora dei vestiti è passata a indicare la classe operaia nel suo insieme, le «tute blu» (dall’uso invalso nelle fabbriche statunitensi a partire dagli anni Trenta). La sociabilità operaia non va però troppo idealizzata. Gli storici, forse perché inconsciamente nostalgici dei valori comunitari che traspaiono da simili stili di vita, hanno a lungo valorizzato esperienze come la mezzadria rurale, indicata come un’equilibrata soluzione di vita e di lavoro, finché recenti studi hanno mostrato gli aspetti gerarchici e persino autoritari presenti nelle famiglie mezzadre, le difficili condizioni delle donne e dei giovani e il conservatorismo culturale di tali realtà41. Lo stesso è un po’ avvenuto con la vita nei quartieri operai, complice il rilievo attribuito al solidarismo dalla circolazione delle idee socialiste42. Una vivace testimonianza della vita quotidiana degli operai milanesi a inizio Novecento ci è fornita dai documenti sui quartieri operai edificati da un’importante istituzione assistenziale come la Società Umanitaria43. Per reagire alla speculazione edilizia questa costruì dal 1906 vari palazzi da affittare a canoni calmierati. Notiamo subito la scelta di erigere edifici a tre-quattro piani, ben distanziati tra loro, evitando i «casermoni» a blocco e anche la struttura con cortile centrale e i ballatoi comuni, a causa dei problemi igienici e della mancanza di privacy lamentata dagli inquilini. Entrando in uno dei 240 appartamenti, ognuno con il proprio ingresso indipendente, si accedeva a un unico ambiente di circa venti metri quadrati, polivalente, oppure a due stanze: la prima era la cucina, dove si potevano vedere un tavolo di legno con quattro sedie, una madia, scaffali e armadio, una stufa/cucina; la seconda era 39 Cfr. i numerosi materiali fotografici disponibili nell’Archivio Storico Luce e nell’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico a Roma. 40 D.L. Clifford, Can the uniform make the citizen? Paris, 1789-1791, «Eighteenth-Century Studies», vol. 34, n. 3, primavera 2001, pp. 363-382. 41 S. Anselmi, Mezzadri e mezzadria nell’Italia centrale, in Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, a cura di P. Bevilacqua, vol. II, Uomini e classi, Marsilio, Venezia 1990. 42 Cfr. in questo senso Musso, La famiglia operaia cit., pp. 73-74. 43 C.A. Colombo, Il quartiere di via Solari: un modello per le abitazioni operaie di Milano, in Quando l’Umanitaria era in via Solari, a cura dell’Archivio Storico della Società Umanitaria, Umanitaria - Raccolto Edizioni, Milano 2006, pp. 9-48.

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la camera da letto, dove troneggiava un grande letto matrimoniale con imponenti spalliere di legno e comodini, insieme a un armadio, un cassettone, altre due sedie e una «toilette» di ferro e ceramica (cioè una bacinella montata su di un’intelaiatura metallica, provvista di brocca, per lavarsi). I pavimenti erano in grandi piastrelle di cotto, le pareti ben verniciate e con alcuni quadretti; l’illuminazione era assicurata da lampade a gas pensili, fatto non consueto nelle case operaie; ancora meno consueto, vi era uno stanzino adibito a latrina per ogni appartamento. Molti altri servizi erano in comune: bagni e docce, cucina e ristorante, lavanderia, locali per l’allattamento dei neonati, stanze per riunioni e letture, spaccio di alimentari (il vino era però rigorosamente proibito). Venivano così «istituzionalizzati» i servizi tradizionalmente scambiati all’interno della comunità. Questa descrizione ci suggerisce un quadro di vita decorosa e di consumi basilari, in parte collettivi, che pure non erano alla portata della maggioranza degli operai. Ma anche qui non mancavano i problemi: gli abitanti del quartiere indirizzano nel 1909 una petizione al Comune perché sistemi le strade adiacenti, quasi impercorribili, costruisca le fognature, metta l’illuminazione pubblica per evitare gravi problemi di sicurezza, provveda a sistemare il corso dell’Olona che con la sua acqua stagnante d’estate creava problemi igienici44. A ciò si aggiungevano le piccole faccende legate alla convivenza: frequenti schiamazzi (nella lavanderia è appeso un severo monito: «è vietato il cantare, il gridare e il litigare, sotto comminatoria della immediata espulsione»)45, risse al ristorante, furibondi litigi alle riunioni comuni (a un inquilino fu anche sparato un colpo di moschetto)46. Tutto questo ci rimanda a un mondo pieno di rumori e di odori, e ci ricorda altresì che l’inquinamento non è un problema di oggi, come testimonia il custode del quartiere Salvatore Sapienza: Nella stagione estiva si è notata una quantità enorme di zanzare ed altri insetti che infestano l’aria e si ritiene che la causa di ciò sia l’acqua stagnante lasciata lungo il muro di cinta dello Stabilimento Fino che dà proprio sulla strada ad una distanza di circa 30 metri dal Quartiere. Dallo stesso Stabilimento vengono emanati degli odori insopportabili nocivi certo alla salute. Agli inconvenienti antigienici che presentano gli Stabilimenti vicini, va aggiunto quell’altro più grave, prodotto dal fumo densissimo che si sprigiona dai Camini dell’Opificio della Ditta Fels per la fabbrica di bambole. È bene Ivi, p. 34. Ivi, p. 40. 46 Ivi, p. 36. 44 45

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da notarsi che data la non regolamentare altezza dei detti Caminoni, il fumo che da essi si sprigiona giorno e notte (a vento favorevole!) viene sbattuto nell’interno del Quartiere con enorme danno della salute di questi abitanti e della prospettiva del fabbricato47.

E, a proposito di odori, va detto che l’igiene personale e la pulizia di case e vestiti erano inevitabilmente approssimative in mancanza di acqua corrente. Così, come ha scritto uno storico francese, Alain Corbin, a seguito di una crescente insofferenza delle classi elevate verso il fetore, a partire dall’Ottocento il cattivo odore e lo stesso concetto di sporcizia vengono sempre più associati all’idea di povertà48. La separazione fra differenti strati sociali passa anche per l’olfatto. Le condizioni di vita e i consumi descritti sopra possono attagliarsi a una fascia ben delimitata di lavoratori, ovvero a quella di quanti potevano permettersi di pagare un affitto regolare e disponevano di una certa liquidità, in altre parole l’aristocrazia operaia. Si trattava in genere degli operai specializzati nei settori di punta, come il metalmeccanico e il tipografico, o che svolgevano mansioni professionali ancora legate a saperi artigianali (si stima fossero un terzo o un quarto del totale)49. Qui i consumi potevano seguire il modello sopra descritto, perseguendo l’ideale di una discreta sistemazione abitativa, sufficienti consumi alimentari e, con il tempo, anche altri tipi di consumo, compresi gli svaghi e i consumi culturali, come notava il bollettino dei tipografi nel 1912: «L’operaio moderno non è più quello di un tempo, poiché ama le proprie comodità, non abita più in un tugurio indecente, veste più pulito, ha la bicicletta, compera il giornale»50. Quando parliamo di svaghi e consumi culturali per gli operai, il discorso corre subito all’«invenzione» del tempo libero. Importanti studi hanno dimostrato la progressiva percezione del tempo in termini economici (ad esempio con la comparsa di orologi nelle piazze pubbliche), culminata con la rivoluzione industriale che ha imposto una rigorosa disciplina di fabbrica, di cui l’orario fisso era una parte importante51. Di conseguenza si viene a creare una decisa bipartizione fra 47 Il primo anno del quartiere (1906-07). Dalle relazioni del custode-esattore Salvatore Sapienza, in Quando l’Umanitaria era in via Solari cit., p. 92. 48 A. Corbin, Storia sociale degli odori (1982), B. Mondadori, Milano 2005. 49 Della Peruta, Milano. Lavoro e fabbrica cit., pp. 137-143; Musso, La famiglia operaia cit., pp. 68, 74. 50 «Il lavoratore del libro», 10 settembre 1912 (cit. in Della Peruta, Milano. Lavoro e fabbrica cit., p. 170). 51 J. Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante, e altri saggi sul lavoro e la cultura nel Medioevo, Einaudi, Torino 1977; S. Kern, Il tempo e lo spazio: la

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tempo del lavoro, che assume una posizione centrale nella vita quotidiana, e tempo del non-lavoro o «tempo libero», creando una separazione fra due aspetti in precedenza connessi e sovrapposti. Il tempo libero non è però semplicemente il tempo dell’ozio; la diffusa mentalità produttivistica richiede che sia un tempo impiegato diversamente, ma comunque utilmente, ad esempio nello sport, nella cultura, in divertimenti sempre più commercializzati52. Infatti dall’Ottocento si assiste alla nascita di una vera e propria industria del tempo libero che propone spettacoli teatrali e musicali, libri e giornali, feste organizzate, attività sportive da praticare e da fruire come spettatori (come calcio e ciclismo), gite e scampagnate (dato che il turismo vero e proprio è ancora fuori dalla portata dei budget operai)53. Questi nuovi consumi operai pongono però un problema: si tratta di una progressiva estensione dei consumi tipici delle alte classi sociali, un effetto trickle down, che si verifica con l’innalzamento del tenore di vita? Oppure per gli operai valgono meccanismi diversi? C’è del vero in entrambe le ipotesi. Non c’è dubbio che la contiguità fisica con le classi borghesi e la parziale condivisione degli stessi spazi pubblici abbiano favorito la diffusione di comportamenti simili; ma non bisogna dimenticare la spinta delle associazioni popolari e socialiste, favorevoli alla diffusione dell’istruzione e di comportamenti socialmente apprezzati (decoro, cura della famiglia, sobrietà) che potessero migliorare non solo il singolo ma l’intera classe operaia. Inoltre non possiamo dare per scontato che il modo di usufruire e intendere i consumi sia il medesimo. La tradizione dei cultural studies ha mostrato come la ricezione dei contenuti culturali e di intrattenimento «alti» da parte della classe operaia sia parziale: si accettano solo i contenuti che si adattano al proprio quadro di riferimento culturale, si adattano o rifiutano gli elementi percepiti come estranei54. Così, nel caso italiano, la bicicletta diviene per l’operaio più un mezzo di spostamento che un vezzo sportivo (al contrario del borghese, che invece usa treni, navi e sempre più automobili per spostarsi); e la musica classica, espressione percezione del mondo tra Otto e Novecento (1983), il Mulino, Bologna 1988; G. Cross, Tempo e denaro: la nascita della cultura del consumo (1993), il Mulino, Bologna 1998. 52 Su tutto il dibattito riguardante il tempo libero cfr. S. Cavazza, Dimensione massa. Individui, folle, consumi 1830-1945, il Mulino, Bologna 2004, pp. 199-244. 53 S. Pivato, A. Tonelli, Italia vagabonda: il tempo libero degli italiani dal melodramma alla pay-tv, Carocci, Roma 2001. 54 R. Hoggart, Proletariato e industria culturale: aspetti di vita operaia inglese con particolare riferimento al mondo della stampa e dello spettacolo (1957), Officina, Roma 1970.

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massima di cultura «alta», può essere compresa e apprezzata da un uditorio operaio in rapporto a immagini consuete dell’orizzonte lavorativo – come riferisce un critico musicale seduto accanto a «un vecchio lavoratore dalle mani callose»: La «Quinta Sinfonia» diretta da Toscanini, la ricordate? [...] Ebbene, al passaggio dei contrabbassi, – nel quale le note gravi si sgranano con una celerità quasi inusitata per quello strumento gigantesco, e poi sembra che giochino avvolgendosi in riccioli, e si rincorrano a gruppetti, arrestandosi tratto tratto e poi riprendono la corsa precipitosa per ricominciare il tema – a quel passaggio, il mio vicino spalancò gli occhi e poi – come se l’impressione prodigiosa che il passo musicale suscitava in lui non potesse essere espressa se non con un’immagine tratta dalla sua vita e dalla sua consuetudine, esclamò: ’orpo (corpo...!) pàren machin! (pajon macchine!) In lui l’idea di bellezza grande e maestosa non si sapeva disgiungere, nella sua mente di lavoratore da opificio, da quella essenzialmente ritmica dell’ordigno meccanico; stantuffo, ingranaggio, motore. La musica di Beethoven in quel momento gli pareva un grande congegno incomparabilmente complesso, infallibilmente preciso. Màchin...55

Così il colto critico, che enfatizza la sua superiorità letteraria in una raffinata prosa, contrapposta retoricamente alla semplicità del vicino, oppone, forse senza una piena consapevolezza, una cultura musicale tradizionalmente educata a seguire e apprezzare soprattutto l’aspetto melodico a una fruizione che è colpita invece dall’aspetto ritmico. Dunque, per rispondere alle domande poste in precedenza, nella società operano meccanismi di trasmissione culturale dall’alto verso il basso, ma non mancano quelli che compiono il cammino inverso, bubble up (si pensi in campo alimentare a taluni piatti contadini «poveri» passati sulle tavole borghesi o alle apprezzate preparazioni di pesce dei pescatori), oltre a spinte che determinano convergenze, dovute a un ambiente esterno comune. Le differenze culturali non vanno intese rigidamente, come costruzioni cristallizzate nel tempo una volta per tutte, ma in maniera elastica, flessibile, più come un insieme di usi e schemi d’azione legati alle pratiche quotidiane, in grado di strutturare i comportamenti secondo l’estrazione sociale; insomma, quello che Bourdieu ha presentato come habitus56. 55 G.M. Ciampelli, Il primo lustro di vita musicale del Teatro del Popolo di Milano, Dino Grassi, Milano 1927, p. 102. 56 P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto (1979), il Mulino, Bologna 1983.

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Abbiamo detto prima che questo tipo di allargamento dei consumi riguarda in realtà solo una fascia relativamente ristretta di lavoratori. Per molti altri tutto ciò era solo un miraggio, la principale preoccupazione essendo ancora la soddisfazione dei bisogni basilari. La disoccupazione era sempre in agguato, e una malattia o un grave problema familiare potevano far precipitare la situazione. Anche fra gli occupati, poi, esistevano precise gerarchie legate alla professionalità, alle dimensioni dell’impresa, al settore produttivo; il mondo operaio non ero scevro da conflitti interni. Alcune di queste gerarchie non erano legate però ad aspetti produttivi; fra queste la principale era quella che correva sul filo della differenza di genere. In una linea di continuità con la situazione preindustriale e contadina, le donne erano massicciamente impiegate nel lavoro manifatturiero, concentrandosi nei settori tessile e dell’abbigliamento. Tuttavia esse facevano parte dell’esercito della manodopera dequalificata: il loro lavoro era considerato accessorio e qualitativamente inferiore, era pagato di meno57, durava per un tempo più limitato (in genere fino al matrimonio o più spesso alla maternità, quando oltretutto si veniva facilmente licenziate, e non oltre i 30-35 anni di età); era osteggiato dai lavoratori uomini che temevano una concorrenza a basso costo58. Tra il 1881 e il 1911 la quota delle operaie sul totale scende rapidamente (a Torino passa dal 40 al 28 per cento, una percentuale inferiore rispetto a Milano ma davanti a Bologna e agli altri centri industriali) per l’azione congiunta del maggiore sviluppo dei settori metalmeccanici (dove si creano fasce di operai specializzati sulla scia degli antichi mestieri)59, per l’introduzione della legislazione sul lavoro a tutela della maternità (che ebbe l’effetto perverso di rafforzare la tendenza ad assumere solo donne nubili), ma anche per la diffusione di esigenze di decoro e di costruzione di una sociabilità domesti57 Un’indagine della Società Umanitaria a Milano su 132.000 operai nel 1903 mostra che 15.500 di loro avevano buoni salari (3-4 lire e oltre al giorno) e 100.000 erano tra 1 e 2,5 lire; la gran massa delle lavoratrici (precisamente il 91%) percepiva da meno di 1 a 1,5 lire al giorno; esse inoltre lavoravano un numero inferiore di giorni all’anno (il salario era giornaliero e pagato solo per i giorni effettivamente lavorati). Questi valori salariali risultano in ascesa nel periodo giolittiano. Cfr. Della Peruta, Milano. Lavoro e fabbrica cit., p. 163. 58 In alcune categorie, come quella dei tipografi, non mancarono scioperi contro l’assunzione di compositrici (come aveva fatto la tipografia Francesco Vallardi nel 1886 per ridurre i costi), adducendo motivazioni igieniche e morali (le compositrici potevano incappare in pubblicazioni oscene o mediche). Cfr. Della Peruta, Milano. Lavoro e fabbrica cit., p. 127. 59 Musso, La famiglia operaia cit., p. 70.

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ca60. Le donne espulse dal mercato del lavoro raramente però si dedicavano interamente alla cura della casa; in genere continuavano a lavorare a domicilio, si adattavano a piccole occupazioni saltuarie, o frequentemente, come già notato, rifluivano verso i servizi domestici61. Questo discorso è importante per evitare di contrapporre troppo rigidamente le sfere di consumo e sociabilità maschile e femminile, identificando una presenza maschile tutta giocata sull’identità lavorativa extra-domestica e una sfera femminile definita quasi unicamente dal riferimento alla casa e alla famiglia. Nelle città la realtà del lavoro femminile è a lungo molto forte, anche se in calo (a Milano lavorano il 54 per cento delle donne nel 1881, il 50 nel 1901, il 42 per cento nel 1911)62. Semmai è interessante notare come nella vita lavorativa della donna della classe operaia vi siano una maggiore discontinuità e varietà, legate alle diverse fasi della vita. Questo ha un’ovvia ricaduta anche in termini di scelte di consumo, con un’attenzione a specifici consumi individuali legati alle necessità di apparire socialmente (abbigliamento, cura della persona) maggiore nei periodi di vita lavorativa esterna. Va anche detto, parlando di differenti consumi, che non abbiamo dati riguardo ai consumi alimentari specifici delle donne; alcune inchieste mostrano però che i problemi relativi alla sottoalimentazione erano particolarmente evidenti proprio nelle lavoratrici, che spesso avevano un peso corporeo molto inferiore a quello medio della donna63. Un’altra gerarchia riguardava le classi d’età; penalizzava l’età matura e soprattutto discriminava il lavoro minorile, ampiamente utilizzato. Le statistiche del 1901 parlano di 18.000 bambini e bambine dai 6 ai 15 anni impiegati in attività lavorative diverse (opifici, edilizia, vendite ambulanti, sartorie, botteghe artigiane) su un totale di 77.000. Le cronache sono piene di denunce riguardo ad abusi e maltrattamenti di questi piccoli lavoratori, da parte dei datori di lavoro ma anche dei compagni adulti; leggi limitative furono introdotte solo nel 1886 e soprattutto nel 1902 (con il limite minimo di 12 anni per l’ingresso in fabbrica)64. Anche questo tratto, che costituisce una continuazione dell’impiego di tut60 Su tutta la questione del lavoro femminile cfr. Musso, La famiglia operaia cit., pp. 67-78; Della Peruta, Milano. Lavoro e fabbrica cit., pp. 127-136. 61 Secondo il censimento del 1901, i domestici attivi in Italia erano 480.000 (cfr. Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali cit., tab. 1.1.). 62 Della Peruta, Milano. Lavoro e fabbrica cit., p. 127. 63 Somogyi, Cento anni di bilanci familiari cit., p. 135 (il riferimento è all’inchiesta di A. Pugliese, Il bilancio alimentare di 51 famiglie operaie milanesi, Tipografia degli operai, Milano 1914). 64 Della Peruta, Milano. Lavoro e fabbrica cit., pp. 131-133.

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ti i membri della famiglia nell’attività lavorativa, ha importanti conseguenze sulle modalità di consumo. I bambini introdotti precocemente in ambienti lavorativi abbandonano molto presto la sfera di consumo familiare e si abituano rapidamente a consumi «adulti»; la vita infantile è breve e vista anche in famiglia solo come preparazione all’età adulta. La famiglia stessa ritiene che i più piccoli debbano fornire un apporto, in proporzione alle loro possibilità; non a caso la pubblicistica del tempo condanna gli abusi del lavoro minorile (e cerca di porre dei freni al suo crescente impiego, dati i bassi costi), ma nessuno pensa di vietarlo. Le pratiche di consumo risultano pertanto centrali per «leggere» i comportamenti e l’autorappresentazione degli operai. 1.4. I borghesi Dare una definizione unitaria della borghesia è quasi impossibile. I numerosi studi riguardanti la classe media hanno finito per concludere che fosse meglio parlare di «borghesie» o «classi medie», cioè di varie fasce sociali con ruoli e comportamenti differenziati. Lo stesso giudizio storico su queste classi è stato influenzato da archetipi e idealtipi molto potenti, da Werner Sombart che esalta l’imprenditore come motore dell’innovazione e del progresso sociale, a Max Weber, che vede nella borghesia un elemento di dinamismo ed evoluzione (per via di una mentalità «acquisitiva» ben diversa da quella dei possidenti), fino allo stesso Marx, che giudica la borghesia come classe rivoluzionaria, almeno in un certo periodo storico, salvo farne poi il bersaglio della sua battaglia politica. Il problema è che questa classe, in origine identificata con gli artigiani e i mercanti della città («borgo»), è poi passata a identificare principalmente gli imprenditori e i grandi finanzieri (i possessori degli strumenti di produzione, nella terminologia marxiana), per poi dilatarsi a dismisura nel XX secolo, comprendendo fasce crescenti di impiegati e professionisti dalle caratteristiche ben diverse. Si è tentato allora di rimediare con l’uso di aggettivi (alta, media, piccola); ma il termine resta impreciso e carico di significati ideologici. Del resto, la borghesia ottocentesca si autorappresentava nella pubblicistica principalmente utilizzando coordinate semantiche di tipo eticopolitico, riconoscendosi cioè nello spirito patriottico65. Anche in questo caso, dunque, il ricorso alla nozione di habitus può risultare molto utile per identificare mentalità e comportamenti collettivi, più che il riferimento esclusivo al ruolo nel processo produttivo, al reddito (anche 65 A.M. Banti, Storia della borghesia italiana. L’età liberale, Donzelli, Roma 1996, soprattutto pp. 213-236. Cfr. anche Borghesie europee dell’Ottocento (1987), a cura di J. Kocka, Marsilio, Venezia 1989.

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perché alcune fasce operaie guadagnano di più di molti «borghesi») o magari a specifiche ideologie. E di nuovo il riferimento alle pratiche di consumo che strutturano questi comportamenti diventa centrale. Comunque, se per amore della precisione volessimo tentare di definire e quantificare le «borghesie» italiane, sempre aiutandoci con i censimenti, potremmo individuare una fascia alto borghese composta da proprietari, imprenditori, dirigenti e professionisti (stimata nel 1901 in 310.000 persone); una corposa fascia di artigiani, commercianti e addetti ai servizi (1.900.000 persone), alla quale si possono aggiungere categorie particolari come militari, religiosi e simili (altre 440.000 persone). Infine, abbiamo il gruppo degli impiegati pubblici e privati e degli insegnanti (480.000). Nel complesso, si tratta del 18 per cento della popolazione attiva66. Quali elementi abbiamo sulla vita materiale di queste classi? Sfortunatamente le grandi inchieste pubbliche e private svolte tra fine Ottocento e inizio Novecento, mosse da intenti filantropici e umanitari, si rivolsero quasi unicamente allo studio delle misere condizioni dei contadini e degli operai, tralasciando la dimensione comparativa. Un’interessante eccezione è uno studio del 1908-09 sui bilanci di varie famiglie residenti a Troia, presso Foggia, che comprende anche borghesi (con un reddito, per intenderci, da due a quattro volte quello dei contadini, e in un caso quasi nove volte più alto)67. Notiamo subito che anche qui la voce principale è costituita dall’alimentazione, con una percentuale oscillante fra il 50 e il 62 per cento (con l’eccezione della famiglia più benestante, per la quale scende al 33 per cento, che corrisponde però ovviamente alla spesa decisamente più alta in termini assoluti). All’interno di questa voce, le scelte di consumo privilegiano i cereali, ma subito dopo troviamo cibi costosi come la carne e il pesce, sia pure con grandi differenze, e compaiono nuove voci come «condimenti»; le «bevande fermentate» scendono sotto il 6 per cento in media68. L’abitazione incide per il 66 In questo conteggio abbiamo escluso le fasce «borghesi» agrarie, cioè coltivatori diretti, fittavoli e coloni (in tutto 7.550.000 persone) che costituiscono il 42% della popolazione attiva, per via dei diversi riferimenti culturali (non urbani). Cfr. Istat, Censimenti, anni vari; Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali cit., tabb. 1.1, 1.2. 67 Somogyi, Cento anni di bilanci familiari cit., pp. 166-169. In termini assoluti, i bilanci familiari variano da un minimo di 1105 lire a un massimo di 5706 lire. 68 Si noti che le statistiche ufficiali registrano un andamento dei consumi diverso nelle città rispetto alle medie nazionali (da ascrivere in gran parte ai consumi delle classi medie ed elevate): maggiore consumo di carne e soprattutto di caffè e zucchero. Ma le disparità geografiche sono notevoli, con consumi elevati nel triangolo industriale e accentuato divario tra nord e sud. Cfr. Zamagni, L’evoluzione dei consumi cit., pp. 180-181.

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14-22 per cento (in media 18 per cento, con un certo peso per il riscaldamento e l’illuminazione, in particolare per la famiglia più ricca); ad essere elevata è soprattutto la spesa per l’abbigliamento, che rappresenta in media la seconda uscita familiare: quasi il 20 per cento (con punte del 28 per cento). Interessante notare come i bilanci borghesi non evidenzino grandi risparmi o spese accessorie (in un caso appare anche un forte indebitamento), con l’eccezione, ancora una volta, della famiglia più agiata, che dedica ben il 32 per cento alla voce «bisogni morali, ricreazione, servizi di salute, industrie, debiti, imposte, assicurazioni ecc.». Cosa possiamo dedurre da tutto ciò? Naturalmente si tratta di dati limitati, che non possono avere un valore statistico. Ma se volessimo leggerli in qualche modo, potremmo dire che la spesa per l’alimentazione appare complessivamente elevata, anche se inferiore a quella di contadini e operai; semmai sono più presenti alimenti «nobili» come la carne e si nota una maggiore varietà (anche se la costante presenza di cereali può essere un indicatore dell’importanza delle tradizioni locali). L’abitazione incide in maniera significativa (ma non quanto per gli operai); la differenza maggiore appare la grande attenzione riservata ai vestiti, che in questo campione assorbe un quinto delle risorse disponibili, mostrando una preoccupazione per l’apparire sociale molto più accentuata che in altri settori. Un’altra osservazione riguarda il comportamento d’acquisto della famiglia con reddito più elevato, che mostra orientamenti diversi: spende meno in alimentazione e riserva quote di reddito maggiore per spese di rappresentanza (illuminazione e riscaldamento, ad esempio), diversificando i suoi consumi verso servizi, divertimento, vita sociale. Le differenziazioni all’interno dello spettro borghese sono quindi rilevanti. Altri elementi interessanti per la comprensione di questi dati possono venire da un confronto internazionale, in particolare con il classico lavoro di Maurice Halbwachs, che ha cercato di dimostrare empiricamente le specificità dei consumi delle diverse classi sociali (con riferimento alla Germania di inizio secolo)69. Studiando l’impiego delle risorse a disposizione, il sociologo francese osservò come la quota riservata dagli operai alle spese alimentari fosse sempre elevata (in media 5051 per cento), anche in presenza di una crescita salariale, mentre la spesa per l’alloggio tendeva a decrescere con l’aumentare del reddito (da 69 M. Halbwachs, La Classe ouvrière et le niveaux de vie: recherche sur la hiérarchie des besoins dans les sociétés industrielles contemporaines, Alcan, Paris 1913. Cfr. anche la discussione di questi dati in Capuzzo, Culture del consumo cit., pp. 210-215.

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17 a 15 per cento); e ciò era l’opposto di quanto avveniva fra gli impiegati, che spendevano di meno per il vitto (38-41 per cento) e di più per l’alloggio (18-19 per cento), con la tendenza inoltre a destinare sempre maggiori risorse proprio all’abitazione in caso di maggiori entrate. Contrariamente alla legge di Engel (secondo cui in generale le spese per l’alimentazione diminuiscono quando il reddito sale, per fare spazio ad altre spese non di prima necessità), le scelte di acquisto apparivano diverse a seconda della classe sociale, anche a parità di budget. In altre parole, il consumo appare culturalmente determinato. Se confrontiamo tutto questo con i dati che possediamo sull’Italia, notiamo significative differenze. Prima di tutto, le spese delle famiglie operaie per i generi di prima necessità sono decisamente più elevate in percentuale, a riprova del basso livello salariale. Le spese per l’abitazione, in particolare, sono in media più alte per gli operai che per la classe media (al contrario di quanto avviene in Germania): possiamo spiegare questo fenomeno ricordando la difficile situazione abitativa nelle città, la mancanza di edilizia popolare e la forte pressione speculativa. Un’altra differenza è la quota riservata all’alimentazione, in Italia decisamente alta anche per le famiglie borghesi (mentre la spesa per la casa è simile). Come si spiega questo fatto? Seguendo la stessa logica di spiegazione culturale, possiamo affermare che il valore del cibo, il piacere della tavola e la convivialità non costituiscono un tratto specifico della cultura operaia (come avviene nelle realtà nordeuropee), ma sono condivise da tutte le classi sociali. Si tratta cioè di un valore comune all’intera nazione: la cultura italiana assegna un ruolo primario al cibo e ai suoi rituali di consumo rispetto ad altre culture, in misura paragonabile forse solo al caso francese. E questo da sempre. La storia culturale della cucina italiana inizia da quella romana per svilupparsi nel Medioevo e trovare il suo apice nei banchetti rinascimentali, con una straordinaria continuità: grande abbondanza di spezie e zuccheri, sapori agrodolci e gusti artificiali, «costruiti»; anche dopo la rivoluzione apportata nel SeiSettecento dai cuochi francesi, alla ricerca di sapori più naturali e delicati, e la limitazione delle spezie, trovano terreno fertile in un territorio che aveva sempre valorizzato le verdure e gli aromi, dando origine a tradizioni culinarie locali ricchissime e diverse70. La centralità del cibo nella tradizione culturale italiana è molto importante e ci ritorneremo in seguito. Intanto osserviamo che è ampiamente documentabile dal punto di vista iconografico, nelle numerose

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Capatti, Montanari, La cucina italiana cit., pp. 3-40, 126-131.

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opere che rappresentano banchetti e cene a partire dal Rinascimento. Spesso l’ispirazione deriva da soggetti mitologici (si pensi ad esempio al banchetto in onore di Amore e Psiche nel palazzo Te a Mantova)71 o più frequentemente da scene bibliche o evangeliche (innumerevoli sono le rappresentazioni dell’ultima cena o di altri episodi simili della vita di Cristo) – e sempre l’attenzione alla rappresentazione del cibo è assai viva. Già dal Cinquecento, poi, si afferma in Italia, per diffondersi in tutta Europa, il gusto delle nature morte, che mettono al centro della scena frutta, verdura e vari tipi di alimenti, ritratti con grande realismo (sulla scia delle famose opere di Caravaggio o dei «ritratti» di Giuseppe Arcimboldi, che addirittura costruisce l’immagine umana a partire da elementi naturalistici). Questi quadri costituiscono per secoli un importante elemento di arredo nelle abitazioni agiate, e in seguito anche in quelle meno facoltose; sono quindi ben presenti nell’immaginario culturale e testimoniano con la loro presenza la trasfigurazione artistica del cibo, e quindi il suo valore simbolico. Un secondo elemento merita la nostra attenzione: il ruolo degli abiti. Pierre Bourdieu ha osservato che una parte importante delle risorse è utilizzata in strategie di distinzione: ogni classe o segmento sociale vuole differenziarsi dai gruppi contigui, soprattutto se inferiori. L’abito funziona molto bene in questo contesto. Non c’è dubbio che l’eredità delle leggi suntuarie avesse il suo peso, come pure la necessità di indossare abiti consoni alle professioni liberali, ritenute superiori alle arti meccaniche (poiché erano svolte per innalzamento spirituale e non solo per lucro) secondo una lunga tradizione occidentale: di qui l’importanza di indossare abiti di pregio, consoni alle norme morali e all’etichetta vigente, e anche molto curati e puliti (cosa che non potevano permettersi i lavoratori manuali). Non a caso le classi medie verranno identificate come «colletti bianchi». Semmai, c’è da notare che la borghesia italiana sembra attribuire un peso maggiore a questo aspetto, e quindi al suo modo di apparire sulla scena sociale. Questo vale anche per gli strati più bassi della borghesia, i cui redditi non si differenziano molto da quelli dell’aristocrazia operaia: anch’essi però si identificano nel decoro dell’abbigliamento, a costo di sacrifici economici e di false apparenze (le «mezze maniche» usate dagli impiegati al posto delle costose camicie intere). Ne troviamo un mirabile ritratto nella commedia che ha come protagonista Monsù Travet, campione dell’impiegato statale nella Torino ottocentesca, in bilico dram71 Il riferimento è al dipinto di G. Romano, Banchetto sull’isola di Citera (affresco), 1527-30.

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matico tra essere e apparire; mentre in Demetrio Pianelli di Emilio De Marchi si evidenzia la condanna morale per l’impiegato che vuole imitare i dispendiosi consumi altoborghesi (sommerso dai debiti, si suicida), contrapposto all’onesto e parsimonioso fratello che si accolla le responsabilità familiari72. Va peraltro notato che il decoro e una certa uniformità nel vestire (ad esempio camicia bianca, panciotto, cravatta e abito completo scuro per gli uomini) sono in certi casi esplicitamente previsti dal regolamento, o quanto meno dalla prassi, all’interno degli uffici. E veniamo alla casa. L’abitazione borghese è al centro di importanti mutamenti, per descrivere i quali dobbiamo fare ricorso al lavoro di due importanti autori. Il primo è Simon Schama che ha scritto Il disagio dell’abbondanza. Nel rintracciare le origini dell’identità nazionale e culturale degli olandesi a partire dal Seicento, lo studioso rileva una dicotomia tra ricerca e godimento della ricchezza da un lato e vergogna per il suo possesso e consumo dall’altro; i ricchi mercanti e banchieri olandesi si lanciavano in rischiosi affari che consentivano lauti guadagni e accumulavano grandi fortune ma ne erano al tempo stesso turbati: non avrebbero perduto così le loro anime? L’ossessione per la pulizia e il decoro domestico così tipico di quella società si spiegherebbero con il tentativo di cercare un rifugio lontano dalla «sporcizia» del mondo; se la casa ha da sempre costituito un riparo, ora qui assume un valore simbolico di contrapposizione al mondo esterno: sicurezza contro libertà. La casa doveva essere quindi pulita, sobria, incontaminata dalle brame di ricchezza e dagli affari mondani e sarebbe stato il regno della donna (che avrebbe incarnato quelle stesse virtù)73. Il brillante lavoro di Schama, congegnato come un romanzo e ricco di documentazione iconografica, ha suggerito agli studiosi che nel Nordeuropa si sia sviluppato un nuovo concetto di domesticità, di spazio privato, visto come un valore centrale intorno a cui costruire un’identità distinta sia dagli aristocratici sia dalle classi inferiori. Attraverso l’Inghilterra questa nuova concezione si sarebbe diffusa via via attraverso l’Europa, raggiungendo nell’Ottocento anche l’Italia, dove si sarebbe incontrata con una certa tendenza 72 V. Bersezio, Le miserie ’d monsù Travet, Torino 1863; E. De Marchi, Demetrio Pianelli, Milano 1890. Sul mondo degli impiegati cfr. anche M. Soresina, Mezzemaniche e signorine: gli impiegati privati a Milano, 1880-1939, Franco Angeli, Milano 1992. 73 S. Schama, Il disagio dell’abbondanza: la cultura olandese dell’epoca d’oro (1987), Mondadori, Milano 1993; per un’analisi delle caratteristiche della famiglia europea cfr. le monografie La vita privata (1985-1987), dirette da P. Ariès, G. Duby, Laterza, Roma-Bari 1986-1988.

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alla semplificazione e alla «privatizzazione» dello spazio domestico già attiva in alcune realtà74. Il secondo autore è Pierre Bourdieu, che si è occupato di abitazioni in tutt’altro contesto (i cabili in Algeria). Quello che interessa a noi è il tipo di analisi che il sociologo fa di queste case berbere: egli «legge» gli spazi abitativi come una trama che lascia chiaramente trasparire la visione sociale sottostante, una riproduzione nella struttura spaziale delle divisione sociali, di genere e di età presenti fra i cabili. Le dicotomie luce/ombra, interno/esterno, alto/basso, maschile/femminile rimandano ad altrettante divisioni presenti nel nucleo sociale della famiglia75. Le analisi di Schama e Bourdieu si rivelano importanti per comprendere le caratteristiche delle abitazioni borghesi dell’Italia liberale, che si distaccano nettamente da quelle contadine e operaie. Innanzitutto, appaiono luoghi molto più centrali nella vita quotidiana (sia in termini di tempo che vi si trascorre sia in termini di consumi); sono poi differenti non solo per la loro maggiore ampiezza e ricchezza, ma anche per la specializzazione degli spazi e la loro divisione e gerarchizzazione, che incarnano la struttura sociale e culturale della famiglia. Queste abitazioni sono spesso funzionali, «moderne» nello stile (pur non disdegnando «citazioni» classiche), e sono le prime ad accogliere mobili e arredi industriali di serie. In altre parole, le case borghesi possono dirci moltissimo sui loro abitanti. La prima opposizione che notiamo è tra interno ed esterno: porte chiuse, finestre, tende e tendine proteggono e separano l’ambiente interno della casa da quello esterno; gli spazi di comunicazione tra i due mondi (ad esempio balconi, porticati, affacci sulla strada) divengono meno importanti per evitare «contaminazioni» con il mondo esteriore. All’interno della casa vi è poi la separazione fra pubblico e privato: vi sono spazi pensati per la vita in società, dove ricevere gli ospiti, e spazi riservati a questa nuova intimità domestica fra coniugi e figli. L’anticamera introduce gli estranei nella casa, mostrando subito con i suoi arredi il gusto e il livello sociale dei padroni di casa; i corridoi separano le stanze pubbliche (salotto) da quelle private (camera coniugale, camere da letto dei figli). La media borghesia in realtà non indulge troppo nella vita sociale in casa, preferendo altre pratiche di socializzazione esterne; tuttavia uno studio sulle élite di Napoli, condotto sugli inventari re74 G. Bassanini, Tracce silenziose dell’abitare: la donna e la casa, Franco Angeli, Milano 1990. 75 P. Bourdieu, Per una teoria della pratica: con tre studi di etnologia cabila, Cortina, Milano 2003.

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datti dai notai, mostra come a fine Ottocento anche la piccola e media borghesia investa molto sugli spazi sociali. Le stanze e gli arredi migliori sono concentrati in sale e salotti (divani, poltrone e sedie del salotto di un medio possidente di piazza Dante valgono la metà di tutto l’arredamento; il salotto di un farmacista vale un terzo dei mobili del suo appartamento di sette locali), mentre le stanze private sono misere e mal tenute76. Si notano qui lo sforzo d’imitazione di stili di vita nobiliari e l’importanza dell’apparire sociale. Altrove le differenze non sono sempre così rilevanti, ma la dicotomia pubblico/privato è ugualmente netta. E cosa troviamo in questi salotti? Divani, poltrone, sedie, specchi, mobili ornamentali e anche alcuni oggetti che racchiudono una valenza simbolica: l’orologio, spesso a pendolo, che combina il gusto decorativo con il richiamo al progresso meccanico; il pianoforte, espressione del ruolo della musica nella cultura borghese ottocentesca (e segnatamente nell’educazione delle fanciulle); i mobili contenenti cristalleria e argenteria a vista, simbolo dello status sociale della famiglia; i quadri, di vario tipo e valore, che riempiono le stanze con ritratti familiari, paesaggi, nature morte77. I salotti, e in realtà l’intera casa, sono pieni di oggetti, non lasciano spazi vuoti. Se attraversiamo i corridoi per entrare nelle stanze private, osserviamo nuove gerarchie e divisioni. La sala da pranzo, con il suo tavolo centrale e gli armadi addossati al muro per il corredo da tavola, è piuttosto semplice; al contrario, nella camera coniugale troviamo spesso arredi di pregio: un grande letto matrimoniale con alte spalliere di legno o metallo, comodini, comò, armadi, specchi, quadri di soggetto religioso (anche la devozione sembra diventata un fatto privato). Se la famiglia appartiene all’alta borghesia, possiamo trovare alcune stanzette riservate alla servitù (ben separate dai locali padronali, secondo una precisa gerarchia sociale). Per gli altri ambienti, la divisione maschile/femminile è netta. Lo studio del padrone di casa è uno spazio solo maschile. Vi troviamo scrivanie, sedie, mobili chiusi per carte e taccuini, librerie, comode poltrone da lettura78, e poi ar76 P. Macry, Ottocento. Famiglia, élites e patrimoni a Napoli, Einaudi, Torino 1988, pp. 110-111. 77 Macry, Ottocento. Famiglia cit., pp. 112-119. Sul rapporto della borghesia con la musica e più in generale con l’arte cfr. T. Nipperdey, Come la borghesia ha inventato il moderno (1988), Donzelli, Roma 1994. 78 Sulla storia dei libri come oggetti culturali e su quella della lettura si rimanda a D.F. McKenzie, Bibliografia e sociologia dei testi (1986), Sylvestre Bonnard, Milano 1998; Storia della lettura nel mondo occidentale, a cura di G. Cavallo, R. Chartier, Laterza, Roma-Bari 1995.

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redi come calamai, orologi, oggetti d’argento per il lavoro: tutto ci rimanda a un’attività intellettuale e a un’attitudine di serietà e rigore (sottolineata dalla scelta di legni e cuoi di colore scuro che contrastano con il resto della casa). Infine troviamo le camere da letto dei figli, rigorosamente distinte tra maschi e femmine, in genere arredate con pochi mobili essenziali. Gli arredi, e più in generale le spese, sono però diversi per i vari figli, maggiori per i maschi che per le femmine e, fra i maschi, più elevate per il primogenito. In una famiglia della media borghesia napoletana, i Chambeyront, nel 1870 per il figlio maggiore si spendono 1409 lire (di cui 364 per abbigliamento e 405 per istruzione), 1132 per il secondogenito (371 per abbigliamento e 132 per istruzione) e 817 per la figlia (174 per abbigliamento e solo 25 per istruzione), delineando una precisa strategia familiare riguardo alla futura posizione sociale dei figli79. Il discorso sui figli ci porta a fare un’importante precisazione. È questo un delicato periodo di transizione riguardo all’idea di infanzia. Abbiamo visto come nella cultura contadina e operaia tradizionale i figli piccoli venissero precocemente impiegati nel lavoro con mansioni leggere; non si trattava di maltrattamento, ma semplicemente di una cultura che non riconosceva all’infanzia uno statuto speciale. In ambito borghese verso la fine dell’Ottocento inizia invece ad affermarsi l’idea che i bambini non siano «adulti immaturi», ma costituiscano un mondo a parte, con proprie esigenze e necessità, propri valori, a volte addirittura contrapposti a quelli adulti: creatività, purezza, vulnerabilità. Il compito degli educatori è quindi quello di far emergere liberamente tali valori interiori, senza forzare i bambini con una ferrea disciplina e, tanto meno, obbligarli a svolgere lavori inadatti. In Italia principale fautrice di tali posizioni è Maria Montessori, che fonda numerose scuole (la prima è la «Casa dei bambini» a San Lorenzo, a Roma, nel 1907) ispirate a un metodo che esalta le capacità positive dei più piccoli. È significativo che la Montessori contestasse il dogma del peccato originale: il bambino è un essere puro e senza colpe, anzi è «padre dell’umanità»80. Questa nuova valorizzazione dell’infanzia ha varie conseguenze. I bambini non sono più visti come esseri in transizione verso l’unica fase significativa della vita, la maturità; sono portatori di valori propri e pertanto necessitano di spazi specifici (anche nelle case). Non solo. Vanno ripensati anche i consumi: ora si richiedono educazione, svaghi, giochi 79 80

Macry, Ottocento. Famiglia cit., pp. 126-127. M. Schwegman, Maria Montessori, il Mulino, Bologna 1999, p. 102.

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e anche abiti e pettinature adeguati (non più solo la bambola di pezza fatta in casa, il carretto di legno da tirare o il vestito da adulti in piccolo)81. Non sorprende che in questo periodo nasca in Europa e negli Stati Uniti una vera e propria industria di prodotti rivolti ai bambini. Genitori ed educatori cominciano a pensare che sia giusto comprare oggetti per i più piccoli, anzi, che l’attaccamento emozionale a bambole, giochi e pupazzi sviluppi attitudini positive, compensi paure e problemi affettivi, faccia compagnia ai bambini82. Sono così gettate le basi del consumismo per l’infanzia che porterà in pochi decenni a una vera e propria corsa agli acquisti (ritenuti proporzionali all’investimento affettivo). In tal modo nelle classi alte i figli hanno consumi propri e sono socializzati al mondo e ai consumi adulti in un periodo decisamente più tardo rispetto ai coetanei proletari. Abbiamo dunque visto come le case borghesi creino una spazio domestico intimo, lontano dal mondo esterno (la separazione sfera intima e sfera politico-affaristica è completa); possiamo leggervi come in una trama la vita di una famiglia ristretta, nucleare, dove la donna ha molteplici funzioni e ha lasciato la cura degli affari mondani al marito83; e dove regna una grande preoccupazione per il decoro e la morale. La rispettabilità è uno standard fondamentale; uno storico come Mosse ha sostenuto che proprio tale morale (basata su uno stretto controllo dei costumi sessuali e su immagini molto diverse dell’uomo e della donna) abbia fornito la base per la diffusione del nazionalismo politico a inizio secolo: nel momento in cui alcuni la mettevano in dub81 K. Calvert, Children in the House: The Material Culture of Early Childhood, 1600-1900, Northeastern University Press, Boston 1992. 82 P.N. Stearns, American Cool: Developing a Twentieth-Century Emotional Style, New York University Press, New York 1994. È interessante notare come per lo studioso questo atteggiamento verso i bambini si inserisca nel quadro del tipico «stile emozionale» vittoriano, caratterizzato dalla diretta espressione dei sentimenti (benché distinti per genere). Questo stile lascerà il posto dopo la Prima guerra mondiale a un nuovo stile che disprezza la manifestazione delle emozioni (dolore, rabbia, gelosia sono visti negativamente; l’amore, soprattutto fra gli uomini, è privato della componente spirituale e ridotto in gran parte al sesso). Il consumismo gioca la sua parte nel creare questo nuovo quadro riducendo il sentimento di colpa. 83 Va ricordato che se la donna borghese era per lo più esclusa dai lavori esterni (anche a seguito delle restrittive leggi vigenti), proprio in questo periodo compaiono le prime figure di maestre e impiegate che sono ritenute da molti trasgressive; cfr. C. Covato, Un’identità divisa: diventare maestra in Italia fra Otto e Novecento, Archivio Guido Izzi, Roma 1996; Operaie, serve, maestre, impiegate. Atti del Convegno internazionale di studi «Il lavoro delle donne nell’Italia contemporanea: continuità e rotture», a cura di P. Nava, Rosenberg & Sellier, Torino 1992.

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bio, ad esempio nei movimenti giovanili legati alle avanguardie, questo sentimento seppe offrire in alternativa una passione pura, incontaminata e asettica in cui tutti potevano riconoscersi84. In questo quadro ci sono però importanti differenze. Prima di tutto legate al contesto geografico, come vedremo più avanti; e poi, come abbiamo notato analizzando i consumi delle famiglie di Troia, dipendenti dal reddito e dal ruolo socio-professionale85. Se le famiglie più agiate dei professionisti e del nuovo ceto imprenditoriale tendono in diversa misura ad amalgamarsi in un’élite dirigente (comprensiva della nobiltà o di sue frazioni) e mostrano spesso consumi ostentativi, altri gruppi professionali sono mossi da culture diverse. È il caso dei commercianti, un gruppo che mostra una forte tendenza all’endogamia. A Napoli come a Torino, i commercianti sono inclini alla parsimonia e a evitare lo spreco e il consumo vistoso, evidenziando comportamenti e consumi frugali. Forse perché la contiguità e il rapporto strettissimo tra spazio domestico e spazio del lavoro creano una circolarità nei valori di risparmio e oculata gestione fra i due ambiti, come sembra adombrare un giornale di settore poco più tardi: Noi li pensiamo, i figlioli dei piccoli commercianti, crescere in una casa che si prolunga nella bottega, proprio come avviene negli spacci di paese, che la massaia-bottegaia, dal fornello di cucina al banco di vendita, va e viene con lo stesso fare e sentire casalingo, e i fagioli che incarta per il cliente sono gli stessi che, due passi più in là, bollono nella pentola per il suo desinare. Questa non è nostalgia strapaesana, né, sotto sotto, preferenza per una economia elementare, di villa. È piacere di riconoscere per veramente nostra, ossia tuttora viva e operante, una virtù di gente di casa e di lavoro che ha una sola ed unica maniera di sentire, pensare, agire ed amare, dentro e fuori del focola-

84 G.L. Mosse, Sessualità e nazionalismo. Mentalità borghese e rispettabilità (1985), Laterza, Roma-Bari 1984. 85 È possibile ricostruire una gerarchia di lavori professionali (escludendo quindi imprenditori e commercianti) basandosi sul reddito annuale. Nel 1911 al vertice ci sono saldamente avvocati e notai (ben 34.500 con un reddito di 6800 lire), davanti a ingegneri e architetti (circa 6000 con un reddito di 6000 lire); seguono le professioni mediche: dentisti (4500 lire), medici (un folto gruppo di 18.600 persone per 3500 lire annue) e veterinari (3000 lire). Compositori di musica, pubblicisti e letterati guadagnano 2000 lire; ragionieri, pittori (ben 10.000), insegnanti privati (16.000) e cantanti ottengono 2000 lire annue; alla base della piramide vi sono gli impiegati privati (15.000) e il clero secolare (67.000) con 1200 lire. Altre professioni (domestici, parrucchieri, lavandai, barbieri ecc.) sono più assimilabili alla classe operaia e guadagnano meno di 500 lire annue. Cfr. Zamagni, Il valore aggiunto del settore terziario cit., pp. 224-225.

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re; una gente che nel circolo perfetto d’ogni giorno dà con ordine il suo posto a tutto: pensieri, sentimenti, responsabilità, lavoro86.

Resta da dire un’ultima cosa, per concludere. E cioè ricordare i consumi legati alla sociabilità extra-domestica. Una delle strategie messe in atto dalle classi borghesi per attuare la distinzione è proprio quella legata ai consumi ricreativi e culturali. Anzi, culturali in primo luogo, almeno cronologicamente, attraverso circoli, gabinetti letterari e società scientifiche – del resto non è la borghesia la classe sociale meglio fornita di «capitale culturale» e la base, almeno secondo Gellner, di quella comunità ben istruita e culturalmente coesa necessaria per il funzionamento delle moderne nazioni industriali?87 Ed è qui, nei club e nei caffè, che Habermas colloca la nascita di una «sfera pubblica borghese», l’origine dell’opinione pubblica moderna88. Ci sono poi i divertimenti trasformati e adattati, come il ballo, nel Settecento appannaggio esclusivo della nobiltà e ora interpretato con uno spirito diverso (aperto a novità straniere come valzer e galop)89; oppure la crescente abitudine di mangiare fuori, frequentando sia trattorie sia ristoranti di buon livello, magari all’interno dei grandi alberghi che attirano i cuochi migliori, un tempo vanto delle corti e delle casate nobiliari90; e infine il divertimento principe, il teatro. L’altra grande novità sono le associazioni sportive, che compaiono in Italia a fine Ottocento e si sviluppano molto rapidamente. Gli studi in questo settore mostrano come convergano in questa evoluzione vari elementi: la tradizione militare, le nuove spinte igieniste, un riflesso dello spirito patriottico, la ricerca di status sociale, l’aspirazione a valori solidaristici. Ma non c’è dubbio che fenomeni di «massa» come il ciclismo, le ga86 Autentica ricchezza, «Autarchia e Commercio», 7, 3 gennaio 1941, cit. in B. Maida, Il prezzo dello scambio. Commercianti a Torino (1940-1943), Scriptorium, Torino 1988, p. 152. Cfr. inoltre D.L. Caglioti, Il guadagno difficile: commercianti napoletani nella seconda metà dell’Ottocento, il Mulino, Bologna 1994, pp. 85-112, 131-144; G. Montroni, La famiglia borghese, in La famiglia italiana dall’Ottocento cit., pp. 112-118; Id., Scenari del mondo contemporaneo dal 1815 a oggi, Laterza, Roma-Bari 2005. Sul concetto di parsimonia cfr. G. Aliberti, Dalla parsimonia al consumo: cento anni di vita quotidiana in Italia, 1870-1970, Le Monnier, Firenze 2003. 87 E. Gellner, Nazioni e nazionalismo (1983), Editori Riuniti, Roma 1985. 88 J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica (1962), Laterza, Bari 1972. 89 A. Tonelli, E ballando ballando. La storia d’Italia a passi di danza (1815-1996), Franco Angeli, Milano 1998, pp. 53-64. 90 A. Montanari, Convivio oggi. Storia e cultura dei piaceri della tavola nell’età contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1992.

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re automobilistiche, il turismo (nel 1912 il Touring Club aveva già 100.000 soci) rispecchino i valori della nascente società di massa: competizione, divertimento, gusto per le novità tecniche, sport business91. Era nato lo sport-spettacolo. 1.5. Gli aristocratici Il potere ha bisogno di mostrarsi. Se è vero che si basa su forza e consenso, esso ha bisogno di rappresentarsi, di far emergere l’asimmetria dei rapporti, di ostentare simboli e segni di questa diversità. L’esibizione del «capitale simbolico» consente la sua legittimazione da parte del corpo sociale. C’è da stupirsi se le élite abbiano sempre ricercato la visibilità, con vestiti e gioielli lussuosi, palazzi sontuosi al centro delle città, grandiose cerimonie in occasione di matrimoni o funerali? Per le classi aristocratiche il consumo sembra davvero giocare un ruolo centrale nel processo di legittimazione della loro posizione. E non si tratta necessariamente di un consumo sfarzoso: in società dove il risparmio e la parsimonia sono virtù apprezzate, uno stile di vita molto parco e severo da parte di mercanti o imprenditori notoriamente ricchi può svolgere per contrasto la stessa funzione «ostentativa». Questo non vuol dire che il consumo di beni di pregio, così carico di significati simbolici, fosse sottratto a un giudizio morale. Al contrario esso è stigmatizzato per tutta l’antichità, almeno nella sua forma di eccesso e spreco: i greci ritenevano inducesse effeminatezza negli uomini e incapacità di adempiere ai doveri di difesa armata; i romani condannavano il lusso perché convogliava le ricchezze verso un interesse privato distogliendole dal bene pubblico; la tradizione cristiana diffidava di tali consumi perché vi vedeva una continua tentazione e un pericolo per la salvezza. Bisognerà attendere il periodo moderno per assistere a una rivalutazione del lusso da parte di alcuni studiosi, inteso utilitaristicamente come mezzo di promozione del commercio e del benessere individuale (Mandeville, Hume, Smith). Il lusso è così sottratto al giudizio morale (che ora riguarda principalmente i comportamenti e le scelte private) e può entrare nella sfera economica pubblica come elemento positivo92. Ma resta una certa ambivalenza. Il lusso è tenacemente legato all’idea di sperpero e all’ozio: non è un caso che il 91 D. Bardelli, L’Italia viaggia. Il Touring club, la nazione e la modernità, 18941927, Bulzoni, Roma 2004; S. Pivato, Il Touring Club Italiano, il Mulino, Bologna 2006; P. Battilani, Vacanze di pochi, vacanze di tutti: l’evoluzione del turismo europeo, il Mulino, Bologna 2001; Cavazza, Dimensione massa cit., pp. 227-240. 92 C.J. Berry, The Idea of Luxury: A Conceptual and Historical Investigation, Cambridge University Press, New York 1994. Cfr. anche Capuzzo, Culture del consumo cit., pp. 89-121.

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tipico stereotipo negativo associato alla figura del nobile a fine Ottocento sia quello del dissipatore indolente. Quanti erano i nobili in Italia a inizio Novecento? E quale era il loro peso? Sappiamo che dal punto di vista numerico si trattava di circa 8400 famiglie e che il loro numero continuava a diminuire. La loro distribuzione territoriale era difforme: più numerose in Toscana, nel Napoletano, in Veneto, Piemonte, Sicilia e Lombardia, erano costituite per il 40 per cento da patriziato e nobiltà urbane (con l’eccezione del meridione)93. Le loro ricchezze, spesso legate a proprietà fondiarie e immobiliari, si riducevano con altrettanta rapidità; a Mantova, ad esempio, a inizio secolo i patrimoni nobiliari registrati per la successione valgono poco più della metà dei patrimoni borghesi (un secolo prima avevano invece un valore maggiore di quelli borghesi)94. E il loro stile di vita? Quello, invece, mostrava sorprendenti caratteri di continuità, a iniziare dalla sociabilità domestica, dalla tendenza all’endogamia geografica, al perpetuarsi di alcune professioni tipiche, all’esclusivismo sociale che apre alle nuove élite borghesi con molta lentezza e molta diffidenza95. Ma se questo è vero in generale, le differenze geografiche possono essere enormi. Intanto c’è da notare che, nonostante la relativa decadenza economica e il restringimento numerico, l’impatto di questa fascia sociale sull’immaginario collettivo è ancora molto forte a cavallo del secolo, grazie al suo ruolo storico e alla sua «visibilità». Pensiamo alle case. Le dimore aristocratiche tendono a ospitare famiglie allargate (non solo il nobile e la sua famiglia, ma anche altri parenti, a cominciare da fratelli e sorelle non sposati per via del maggiorascato) e molti servi. Nelle campagne i palazzi avevano anche magazzini agricoli, stalle e persino botteghe96. Non sorprende che fossero molto grandi e articolati, dovendo unire molteplici funzioni, pratiche e simboliche. L’architettura dell’edificio trasmetteva chiari significati: la sua mole rimandava alla ricchezza della famiglia, gli stemmi araldici ben visibili ne ricordavano la continuità, torrette e impo-

93

G.C. Jocteau, Nobili e nobiltà nell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 1997, pp.

8, 22. 94 Nel 1902-05 i 32 patrimoni nobiliari valgono 3.555.175 lire contro i 290 patrimoni borghesi con 6.549.682 lire; nel 1810-11 i 17 patrimoni nobiliari valgono 1.283.418 lire contro gli 81 borghesi per 1.139.422 lire. Cfr. A.M. Banti, Terra e denaro. Una borghesia padana dell’Ottocento, Marsilio, Venezia 1989, pp. 27-30. 95 Jocteau, Nobili e nobiltà nell’Italia unita cit., p. 14; per le strategie matrimoniali che disegnano un quadro di endogamia geografica cfr. Banti, Storia della borghesia italiana cit., pp. 57-61. 96 Sarti, Vita di casa cit., pp. 91-92.

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nenti facciate ne indicavano il potere. E se vi era la necessità di costruire una nuova dimora, si ricorreva ad architetti famosi. Noblesse oblige. All’interno vi erano molte stanze divise secondo i basilari principi giorno/notte, pubblico/privato: l’antica plurifunzionalità degli ambienti e la promiscuità della famiglia con i servi avevano anche qui progressivamente lasciato il campo a separazioni e divisioni. Ma la socialità domestica continua a essere una prerogativa di queste famiglie, che utilizzano buona parte dello spazio domestico per ricevere e divertirsi in compagnia: troviamo così sale, saloni, anticamere, salotti, galeries, boudoirs, stanze da gioco e da ballo. Il loro arredamento è molto ricco: mobili di rappresentanza, quadri, tappeti, specchi, divani, poltrone, soprammobili preziosi. I mobili delle stanze «sociali» della marchesa Berlingieri di Napoli (anticamera, sala, salone, stanza di compagnia) nel 1900 valgono oltre due terzi di tutto l’arredamento e consistono in 9 divani, 10 poltrone, 14 poltroncine, 45 sedie, un grande tavolo per dodici, tavolini da gioco, un pianoforte, varie console, specchiere di cristallo, tappeti, lampadari di bronzo97. Il numero dei sedili la dice lunga sulla funzione di questi ambienti. E lo stesso vale per i preziosi materiali degli arredi: legni pregiati per i mobili (mogano, palissandro) e marmi, raso per divani e sedie (anche se non mancano sedie «viennesi» in legno), suppellettili in argento, ottone e cristallo98. Il salon nobiliare è il luogo deputato della mondanità: qui riceve il padrone di casa, o meglio la padrona di casa, poiché sono proprio le donne a diventare animatrici dei più noti salotti ottocenteschi, che creano uno spazio quasi politico di socializzazione anche al femminile. La contessa Maffei ad esempio riceveva, alcuni anni prima, dalle tre alle sei del pomeriggio e, dopo cena, fino al termine delle conversazioni, come ricorda un ospite: Sono due le sale che la contessa destina per ricevere gli amici. Nella sala, risiede ella, senza atteggiarsi a far centro alle conversazioni, che ora alimentano più che mai la fiamma patriottica del suo spirito. Le sale sono addobbate con velluti oscuri, con quella accogliente armonia, con quel gusto squisito e semplice, quali le dame vere sanno scegliere. Specchi di Venezia, quadri a olio dell’Hayez, incisioni del Calamatta, e ritratti d’amici insigni adornano le pareti. Trine finissime sulle poltrone, sui divani; e vasi, e fiori, molti fiori, specie di primavera, olezzano fra i candelabri, sulle mensole, sul pianoforte e sulla tavola, presso la poltrona dove la contessa siede discorrendo di tratto in tratto, e ascolta. 97 98

Macry, Ottocento. Famiglia cit., pp. 110, 112. Ivi, p. 112.

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Non è vero che nel salotto della Maffei noiosi poeti leggessero i loro poemi, commediografi le loro commedie, economisti le loro dissertazioni, come nel Mondo della noia di Pailleron. Gli amici parlavano delle cose del giorno, le discutevano; spesso un’idea severa, patriottica, veniva gettata e faceva pensare; un motto arguto faceva sorridere. Si parlava di letteratura, d’arte, di industria, d’economia politica, persino di filosofia; ma tutto veniva annodato al pensiero dominante, la risurrezione d’Italia. Ogni pedanteria era sbandita99.

La casa signorile non ha uno scopo di praticità, e neppure di funzionalità: il piano nobile al primo livello, dove si concentravano i locali di rappresentanza, era spesso disposto in modo che le stanze fossero sullo stesso asse, secondo i precetti cinquecenteschi, cosicché dalla saletta di passaggio si potessero vedere tutte le camere in prospettiva con un effetto spettacolare100. Ogni camera poi era di per sé uno spettacolo di colori: dalle tappezzerie alle pareti, sulle quali spiccavano quadri grandi e piccoli con cornici dorate, ai mobili di legni diversi, le specchiere che rimandavano la luce filtrante dalle grandi finestre, i pesanti tendaggi cremisi, i divani e le poltrone di raso lucido, i pavimenti di legno, i grandi tappeti dai molti colori, i soffitti affrescati. Spesso ogni camera aveva un tema o un colore predominante, suggeriva un’ora del giorno, una stagione, uno stato d’animo, come rievoca Mario Praz: Ma nelle mattine della buona stagione, quando il sole penetra nella finestra del cortile, e nei pomeriggi quando batte sulle due finestre di piazza Ricci tra l’una e le cinque, il salone si sveglia come la Bella Addormentata nel Bosco apre gli occhi, cioè avvolge il riguardante con l’accordo dei suoi colori. La luce della finestra che è volta a levante-mezzogiorno ha uno splendore più candido e fresco, è luce di diamante, e la camera è allora pervasa di letizia: il legno della biblioteca delle aquile e dei cigni, una calda piuma d’acero, simula il nitore della tartaruga, il verde tappeto Aubusson diventa un prato fiorito, il ritratto di Foscolo e il quadro militare appeso dalla parte opposta, e i trofei d’armi attorno a questo, palpitano con intenso risalto, e i tre colori della stanza, giallo, rosso, verde, squillano le loro note di colori netti. [...] Quando i lampadari sono accesi, la vivezza dei vari colori spicca al modo di un’aiuola di fiori lavata dalla pioggia, o anche allorquando il sole estivo insinua dappertutto la luce dorata e diffusa, arricchendosi di velature per 99 La citazione di R. Barbiera è tratta da M.I. Palazzolo, I salotti di cultura nell’Italia dell’Ottocento. Scene e modelli, Franco Angeli, Milano 1985, p. 17. Cfr. anche D. Pizzagalli, L’amica. Clara Maffei e il suo salotto nel Risorgimento italiano, Mondadori, Milano 1997; M.T. Mori, Salotti. La sociabilità delle élite nell’Italia dell’Ottocento, Carocci, Roma 2000; Salotti e ruolo femminile in Italia: tra fine Seicento e primo Novecento, a cura di M.L. Betri, E. Brambilla, Marsilio, Venezia 2004. 100 M. Praz, La casa della vita, Mondadori, Milano 1958, p. 19.

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il pulviscolo che spesso è sospeso nell’aria dell’appartamento. [...] e la casa è folta come una foresta con strane creature in agguato, le aquile, i leoni, i cigni monopodi, le sfingi, le sirene, le tartarughe dei mobili [...]. La casa è un bosco come quello della Bella Addormentata; come un salone illuminato e deserto, le cui porte tra poco si spalancheranno per le danze, come una chiesa illuminata e solenne, in cui, al suono dell’organo, tra poco avanzerà la processione dalla sacristia [...]101.

Gli oggetti non sono disposti casualmente ma, dietro ai consigli di diffusi manuali, seguono uno stile unitario. Anzi, in molti casi adattano lo stile alla funzione della stanza: se l’anticamera è ricca di preziosi e antichi soprammobili per suggerire subito lo status sociale della casa, il salotto e le principali sale da ricevimento possono essere ammobiliati in stile Impero, con il suo contrasto di legni pregiati chiari e scuri, il solido impianto geometrico e le ricche decorazioni dorate con motivi mitologici (inconfondibile segno di ricchezza e prestigio); allo studio dell’aristocratico si addice invece lo stile gotico, più severo e monumentale, con prevalenza di colori scuri e poltrone e sedie in cuoio stile Rinascimento (associato a serietà e posatezza); il boudoir, il salottino della signora, è invece arredato con mobilio stile Luigi XV (rococò, con i suoi delicati intarsi e le sue lacche) o Luigi XVI, con un preciso richiamo alla socialità del Settecento. Le stanze da letto private possono continuare in questo gioco di richiami, schierando monumentali letti a baldacchino e arredi antichi, oppure civettando con il più «borghese» stile Biedermeyer, dalle dimensioni contenute e l’aspetto semplice e curvilineo. Naturalmente ben diverse erano le semplici stanze riservate alla numerosa servitù, relegate lontano dagli ambienti padronali e spesso, nei palazzi più grandi, all’ultimo piano dell’edificio. Le dimore nobiliari erano poi fornite di numerosi bagni, alcuni dei quali con molti comfort (dall’acqua calda alla novità del bidet importato dalla Francia). Dopo secoli di pulizia a secco, poiché si temeva che l’acqua potesse penetrare nei pori del corpo diffondendo malattie – meglio allora strofinare la pelle, cambiare gli indumenti e usare profumi –, a partire dall’Ottocento una diversa immagine del corpo e i progressi della medicina portano a una nuova attenzione verso l’igiene: i bagni d’acqua non sono più legati a un’idea di piacere, come nell’antichità, o al massimo di cura, come nei secoli precedenti, ma alla salute. Igiene e pulizia divengono sinonimi di ordine e disciplina e sono associate alle classi superiori, in contrapposizione alla sporcizia materiale e morale dei ceti subalterni. 101

Ivi, pp. 279-280.

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Un altro ambiente importante era la cucina: grande, in quanto doveva soddisfare le necessità di molti (e spesso esigenti) individui, e ricca di utensili, pentole e arredi. Una cucina dove si incontrano soprattutto donne, come cuoche e inservienti (al contrario di quanto era stato in età moderna, quando l’arte culinaria nelle grandi famiglie era stata appannaggio quasi esclusivo degli uomini, mentre le donne cucinavano nelle famiglie di estrazione più bassa)102. Il discorso sulla cucina ci introduce necessariamente alla questione del cibo. Cosa mangiavano i nobili? O forse la domanda più appropriata sarebbe: come mangiavano i nobili? Norbert Elias nelle sue famose opere ce ne ha fornito una descrizione suggestiva, che situa il diffondersi delle «buone maniere» a tavola e nella vita quotidiana all’interno di un più ampio processo di civilizzazione. La sua tesi è semplice: in età moderna a iniziare dagli aristocratici (egli studia in particolar modo la corte di Versailles di Luigi XIV), si assiste a un processo di autocontrollo verso tutte le manifestazioni di impulsi ed emozioni, in particolare crudeltà, aggressività, sessualità. Questo controllo, che si estende progressivamente agli altri strati sociali, avviene in parallelo con la formazione degli Stati moderni (gli unici a godere del monopolio della violenza) e di fatto ne costituisce l’indispensabile premessa culturale e sociale. Le regole che informano la vita quotidiana, l’etichetta e il galateo non sono quindi semplici consuetudini o curiosità del passato: modellano il processo di «civilizzazione» dell’Occidente e creano regole di condotta appropriate per la vita negli Stati moderni103. Prendiamo proprio il caso della tavola aristocratica. L’abitudine di usare le posate per mangiare è relativamente recente e segnala un importante cambiamento. Il cucchiaio in verità è uno strumento molto antico, già noto presso greci e romani, sia pure con usi più specifici104; anche il coltello lo è, ed è molto più comune, ma qui osserviamo un’interessante evoluzione: si cerca di limitarne via via la pericolosità, suggerendo di usarlo con attenzione, porgendolo solo dalla parte del manico, impiegando lame arrotonda102 Sarti, Vita di casa cit., pp. 198-205; Capatti, Montanari, La cucina italiana cit., pp. 273-284. 103 N. Elias, Il processo di civilizzazione (1939), il Mulino, Bologna 1988; N. Elias, La società di corte (1969), il Mulino, Bologna 1980. Sulla formazione di un nuovo modello di consumo nelle corti rinascimentali italiane cfr. R.A. Goldthwaite, Ricchezza e domanda nel mercato dell’arte in Italia dal Trecento al Seicento. La cultura materiale e le origini del consumismo (1993), Unicopli, Milano 1995; C. Mukerji, From Graven Images. Patterns of Modern Materialism, Columbia University Press, New York 1983. 104 Il termine viene da kochliàrion, derivante da «chiocciola» o «conchiglia», per via della sua forma.

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te. Ancor più interessante la storia della forchetta, che è invece uno strumento molto più moderno. La sua prima apparizione pubblica pare sia stata nelle mani della principessa greca Argillo per le sue nozze a Venezia nel 955: lo strano strumento dorato a due denti per portare il cibo alla bocca provocò stupore e disgusto, tanto che una successiva malattia della principessa fu senz’altro attribuita al giusto castigo di Dio. La forchetta ricomparirà molto tempo dopo nelle corti rinascimentali italiane, per poi diffondersi in Francia e nel resto d’Europa nel Settecento, ma con grande lentezza. Parallelamente nelle classi abbienti si moltiplicano piatti e bicchieri, spesso molto preziosi, poiché si generalizza l’uso di utilizzare set individuali e non più comuni; decade così l’uso di mangiare insieme da un piatto comune o di passarsi i bicchieri pieni di vino da un commensale all’altro105. Come possiamo leggere dunque questi mutamenti? Seguendo Elias, essi rimarcano la distanza e costruiscono un «muro emozionale» tra il nostro corpo e quello degli altri, e anche nei confronti della nostra corporalità. Questo vale anche per altri aspetti riguardanti il corpo, sempre più circondato da costrizioni e tabù (si pensi ai rapporti sessuali o ai bisogni corporali, un tempo espletati in pubblico senza problemi, o alla stessa nudità, che crea ora vergogna e imbarazzo). Non si tratta di contrapporre civilizzazione a un supposto primitivo stato naturale, ma di vedere come si sia lentamente costruito un reticolo di regole e divieti per prevenire gli eccessi e creare una disciplina di comportamento106. L’etichetta, a tavola e fuori, era dunque un aspetto tutt’altro che secondario nella vita nobiliare. Così, entrando nella sala da pranzo di una famiglia aristocratica italiana a fine Ottocento, avremmo notato gli alti mobili con le rastrelliere superiori a vista piene di preziose stoviglie e bicchieri «da parata», la lunga tavola di legno ricoperta da una tovaglia candida, come era tradizione per sottolineare la pulizia, e un corredo per ogni individuo formato da tovagliolo (da mettere sulle gambe per riparare il vestito), piatti (di metallo prezioso, ceramica o porcellana bianca o dipinta), numerose posate (d’argento), bicchieri (in cristallo o vetro, a calice o a coppa, trasparenti o decorati), oltre a saliere e altri preziosi ornamenti da centrotavola. Fra le novità ottocen-

105 Elias, Il processo di civilizzazione cit.; Storia dell’alimentazione, a cura di J. Flandrin, M. Montanari, Laterza, Roma-Bari 1997; Sarti, Vita di casa cit., pp. 186-193. 106 Elias, Il processo di civilizzazione cit.; S. Fontaine, The civilizing process revisited: Interview with Norbert Elias, «Theory and Society», vol. 5, n. 2, marzo 1878, pp. 243-253.

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tesche vi sono un senso di uniformità, dovuto all’impiego di piatti e bicchieri uguali per tutti, parte di un unico servizio, e l’apparecchiatura pronta prima dell’arrivo dei commensali, per via del diminuito numero di domestici disponibili per servire. Se ci sembra una tavola dei nostri giorni, a parte forse per i materiali preziosi e una certa sontuosità coreografica, questa non è che la dimostrazione del suo progressivo estendersi all’intera società (non era infatti certo la tavola dei contadini, degli operai o dei piccolo borghesi). E se aspettassimo l’arrivo dei commensali? I nostri ospiti, che hanno iniziato la giornata con una prima colazione a base di caffè nero o caffè e latte con crostini imburrati, oppure cioccolata, hanno già consumato verso le undici o mezzogiorno la colazione, un pasto leggero (composto da una «minestra asciutta» o un antipasto, seguiti da un piatto di carne con contorno, e magari un caffè), e si apprestano a pranzare intorno alle sei107. Ecco allora i servitori portare una minestra in brodo (riso o pastina) o asciutta: pasta, gnocchi, risotto. Seguono, più che precedere, gli antipasti, a base di salumi, ostriche, crostini, acciughe o sardine con burro. C’è poi una prima importante portata, che può essere un fritto, lesso o umido (ad esempio pesce o pollame), e quindi un «intermezzo», un piattino appetitoso con pasticcini ripieni di carne, sformati, soufflé e, d’estate, pasticci freddi o piatti in gelatina. I commensali sono finalmente pronti per la portata principale, che è quasi sempre un ricco arrosto di carne con contorno di verdure, più raramente un piatto di pesce. Infine i nostri ospiti gustano i dolci (torte, biscotti, pasticcini, gelati) e talvolta anche frutta e formaggio. Il tutto innaffiato da vini bianchi e rossi, secchi e anche dolci, italiani o francesi per i pranzi importanti. Un bel pasto! E l’attenzione all’estetica dei cibi non è inferiore a quella prestata al corredo del tavolo. Il maestro di corte Feldman ci racconta in tal modo il menu dei conti Sanvitale di Fontanellato in una comune giornata autunnale del 107 L’uso continentale era di alzarsi di buonora la mattina e consumare presto i pasti, come suggeriva un proverbio francese: Se lever à six, déjeuner à dix / Diner à six, se coucher à dix, / Fait vivre l’homme dix fois dix [Alzarsi alle sei, far colazione alle dieci / Pranzare alle sei, coricarsi alle dieci, / Fa viver l’uomo dieci volte dieci]. Cfr. P. Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, Giunti, Firenze 1967 (1891), p. 20. Riguardo alle bevande, il caffè era molto diffuso anche perché ritenuto una bevanda stimolante, simbolo di sobrietà e lucidità (e perciò contrapposto all’alcol); la cioccolata poi è stata indicata come la bevanda «cattolica» (perché lecita in tempo di digiuno) contrapposta al caffè «protestante». Il tè non era invece molto diffuso in Italia. Cfr. W. Schivelbusch, Storia dei generi voluttuari: spezie, caffè, cioccolato, tabacco, alcol e altre droghe, B. Mondadori, Milano 1999.

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1884: colazione alle undici con gnocchi al sugo e costolette «ingrilliate»; pranzo alle diciassette con minestra, crochette di semola, antipasto, cappone farcito alle lasagne, uova in «basalik», roast-beef allo spiedo, insalata e radicchielli, dessert. Il tutto servito su preziose ceramiche italiane (Antonibon di Nove, Fusari e Bianconi) e straniere (provenienti da Göggingen o marcate Enoch Wood). Lontano dai nobili, una scena un po’ diversa: gli undici servitori mangiano pasta al burro, vitello arrosto, crochette di riso in semplici stoviglie108. Molti dei piatti serviti avevano nomi francesi (mousse, omelette, pâté, potage, consommé, blanquette, croquet), anche se a volte italianizzati, segno dell’indiscusso dominio della cucina francese. Del resto, gli aristocratici italiani, come quelli di tutta Europa, parlavano correntemente francese, leggevano romanzi provenienti d’Oltralpe, assistevano a commedie teatrali boulevardière; e anche nel galateo la Francia costituiva un modello per un comportamento appropriato, anzi, comme il faut (per inciso il plurilinguismo è un segno distintivo di questa classe cosmopolita, che ha spesso i suoi riferimenti nelle grandi capitali europee più che nelle città contigue)109. Abbiamo già ricordato come la cucina francese avesse codificato una nuova struttura di gusto, reagendo ai pranzi molto ricchi e a base di carne e spezie di derivazione rinascimentale con un ritorno a una relativa semplicità e naturalità degli alimenti. In Italia questo influsso, amplificato dagli chef dei grandi alberghi cittadini110, si combinò alle tradizioni regionali, diversissime fra loro, senza che si potesse parlare di una vera e propria cucina italiana – anche in questo campo, dunque, l’unificazione era lontana. Fu un entusiasta gastronomo di Forlimpopoli, con una vasta esperienza di viaggi per lavoro nella penisola, a scrivere nel 1891 la prima guida italiana, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. Pellegrino Artusi combinò le tradizioni culinarie di regioni differenti, creando un asse privilegia108 Fontanellato: corte di pianura, a cura di M. Calidoni, M. Dall’Acqua, Fontanellato 2004. 109 Oltre al francese era parlato correntemente l’inglese, dato il peso culturale ed economico di Londra; al sud era diffusa la conoscenza dello spagnolo, in Lombardia quella del tedesco, anche per la massiccia presenza di tedeschi in posizioni chiave dell’economia – di qui l’uso di avere governanti inglesi e Schwester tedesche in casa. Cfr. G. Bezzola, La Milano dei «loisirs», in Milano nell’Italia liberale 18981922, a cura di G. Rumi, A.C. Buratti, A. Cova, Cariplo, Milano 1993, p. 121. 110 Per fare un esempio, le cucine del prestigioso Grand Hôtel di Roma, inaugurato nel 1893 da Césare Ritz, sono opera dal famoso cuoco George Auguste Escoffier, che le affida poi a suoi allievi. Cfr. A. Capatti, Lingua, regioni e gastronomia dall’Unità alla seconda guerra mondiale, in Storia d’Italia. Annali 13. L’alimentazione cit., p. 762.

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to tra Firenze e la Romagna, al quale si aggiungono la Lombardia, Napoli e altre zone dell’Italia centrale. La sua raccolta non presenta un campione omogeneo, privilegiando alcune ricche regioni centro-settentrionali rispetto al Mezzogiorno, poco presente, e le città rispetto alle campagne (anche se cerca di «tradurre» alcuni piatti poveri per le tavole ricche)111. Il suo lavoro incontra subito un grandissimo successo di vendite, ponendosi come modello per successivi ricettari più completi dal punto di vista regionale. L’opera pone le premesse per una cucina «nazionale»; e questa ambizione è sottolineata dal rigetto di ricette francesi e vocaboli esotici e dalla valorizzazione degli alimenti e delle tradizioni nazionali. Insomma, anche la riscoperta delle tradizioni alimentari diviene parte del processo di nation-building; se vogliamo, è la via culinaria al patriottismo. Il superamento della dimensione regionale è però in molti casi più che altro un’aspirazione, in cucina come fuori. I gruppi nobiliari appaiono sulla scena sociale, e si percepiscono, come molto differenziati a seconda delle regioni di appartenenza. Prendiamo il caso dell’aristocrazia romana. Animata da stirpi principesche che avevano fra i loro antenati papi e cardinali e vantavano parentele in mezza Europa, essa si presentava come un gruppo dotato di grande prestigio e influenza nella vita cittadina. Se questa nobiltà, come aveva lamentato Leopardi, non aveva molto interesse per la vita politica e civile, godeva però di una salda base economica nelle proprietà fondiarie e immobiliari fortemente rivalutate e ostentava uno stile di vita splendido, che non aveva eguali in Italia. Magnifici palazzi, feste, balli, vestiti alla moda sullo sfondo di una Roma insieme città eterna e capitale della nuova Italia: la nobiltà romana costituiva un riferimento per tutti ma aveva pochi imitatori (forse solo la ricca e numerosa aristocrazia toscana)112. Anche la nobiltà napoletana mostra la tendenza a dare grande spazio ai consumi di prestigio, pur se in presenza di basi economiche meno solide, tanto da giungere a intaccare i patrimoni familiari. L’aristocratico de’ Medici, nonostante gravi problemi finanziari, nel 1901 111 L’autore è ben cosciente del tipo di pubblico a cui si rivolge: «S’intende bene che io in questo scritto parlo alle classi agiate, chè i diseredati dalla fortuna sono costretti, loro malgrado, a fare di necessità virtù e consolarsi riflettendo che la vita attiva e frugale contribuisce alla robustezza del corpo e alla conservazione della salute». Cfr. Artusi, La scienza in cucina cit., p. 14 (Alcune norme d’igiene). 112 Jocteau, Nobili e nobiltà nell’Italia unita cit., pp. 231-239; P. Boutry, Società urbana e sociabilità delle élites nella Roma della Restaurazione: prime considerazioni, «Cheiron», a. V, nn. 9-10, 1988, Sociabilità nobiliare, sociabilità borghese, a cura di M. Malatesta, pp. 69-85.

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possiede 15 abiti, 3 abiti da casa, 43 camicie, 77 cravatte, 2 soprabiti di castoro, 1 paletot guarnito in astrakan, 5 cappelli e 2 cappelli a cilindro; per il giovanissimo Gaetano Molini si registra una spesa personale molto alta (4773 lire) dovuta, oltre al vitto, a spese di prestigio come case in città e campagna, domestici, abbigliamento, bagni termali e marini (solo 300 lire vanno al maestro per la sua educazione)113. Diversa sembra la posizione dell’aristocrazia piemontese, che mantiene saldi i propri patrimoni grazie ad attenti investimenti e a miglioramenti nella conduzione delle terre. Essa riveste un ruolo di primo piano nel Regno d’Italia, ad esempio fra i ranghi dell’esercito o intorno alla monarchia, e non si mischia facilmente neppure con la ricca borghesia: i nobili mantengono un distacco sociale, se non nei luoghi pubblici, certo nei ritrovi e nei circoli, nelle zone di residenza in città, nei luoghi di villeggiatura e nelle strategie matrimoniali. Sulla scena pubblica è apprezzato un atteggiamento di understatement, che accoglie di buon grado il possesso ma non la sua esibizione ostentata. Alla vigilia della Prima guerra mondiale, il vertice della piramide sociale torinese è dunque formato da élite parallele ma separate114. Atmosfera ancora diversa si respirava a Milano. Qui la nobiltà si era impegnata più che altrove in attività mercantili, bancarie e imprenditoriali e la distanza sociale sembrava minore (anche se la frequentazione dei circoli che contano – l’Unione, il Giardino, la Società Patriottica – disegnava precise gerarchie)115. E un simile stile di vita in pubblico accomunava a inizio secolo nobiltà e alta borghesia ambrosiana: un vestiario non appariscente, anche se attento alla qualità, tradizionalista, che disdegnava le mode «parigine», i colori forti, i gioielli vistosi. Un ritratto di famiglia ci mostra la signora Gallavresi in piedi, seria, con un lungo abito nero con il collo alto, le mani lungo i fianchi e i capelli raccolti (mentre la figlia Maria, vestita di bianco, ha un atteggiamento più libero e le si stringe affettuosamente al fianco); in un altro ritratto Maria Luisa Pirotta Bonacossa è seduta compostamente sull’orlo di un divano, vestita di nero, le mani in grembo, i capelli castani raccolti con un sottile nastro rosso, lo sguardo diretto: le immagini della moderazione e della serietà116. Più stereotipati i ritratti maschili, con figure sedute o più spesso 113 Macry, Ottocento. Famiglia cit., pp. 127-129; D.L. Caglioti, Associazionismo e sociabilità d’élite a Napoli nel XIX secolo, Liguori, Napoli 1996. 114 A.L. Cardoza, Patrizi in un mondo plebeo: la nobiltà piemontese nell’Italia liberale, Donzelli, Roma1999; cfr. anche A.J. Mayer, Il potere dell’ancien régime fino alla prima guerra mondiale (1981), Laterza, Roma-Bari 1982. 115 M. Meriggi, Milano borghese: circoli ed élites nell’Ottocento, Marsilio, Venezia 1992; Banti, Storia della borghesia italiana cit., pp. 181-188. 116 C. Tallone, Ritratto della signora Gallavresi con la figlia Maria (olio su tela), 1889; A. Alciati, Ritratto di Maria Luisa Pirotta Bonacossa (olio su tela).

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in piedi, posate e autorevoli, immancabilmente in eleganti abiti scuri, spesso accanto ai simboli del lavoro o sullo sfondo della città o della propria abitazione. Questi ritratti, commissionati a pittori anche di buona levatura, costituiscono una forma di autorappresentazione che ci dice molto sui valori e la cultura di quel gruppo sociale. E a proposito di arte, come dimenticare la rappresentazione della nobiltà siciliana che ci viene dal Gattopardo di Tomasi di Lampedusa? Il protagonista, ispirato dalla figura di un avo dello scrittore, torreggia materialmente e moralmente sul suo mondo: colto, raffinato, esperto delle cose della vita, abita in un sontuoso palazzo affrescato in mezzo a tanti preziosi oggetti che sottolineano il rango e la storia della sua casata; ma vede decadere questo mondo nella scalata sociale dei borghesi arricchiti e anche nella spregiudicatezza del nipote che si mescola con i nuovi padroni. Lui, il principe Salina, rifiuta la carica di senatore del nuovo Regno d’Italia: non c’è possibilità di compromesso tra stile di vita e valori aristocratici e quelli «borghesi» dei tempi nuovi117. In questa varietà di stili e «interpretazioni» della cultura aristocratica, troviamo alcuni tratti comuni nella sfera del leisure, che assomma svago e, ancora una volta, distinzione. L’andare a teatro, ad esempio, è un importante rito sociale, che comporta l’adozione di vestiti appropriati (frac per gli uomini, vestiti da sera e gioielli per le donne). Non solo vi era un distinto circuito di teatri di prosa e d’opera, al quale accedevano nobili e alto-borghesi, ben differente dai teatrini popolari che cominciano a sorgere nelle periferie urbane; ma la differenziazione sociale si concreta in una separazione fisica all’interno delle stesse sale: ancora oggi i teatri più antichi mantengono due entrate diverse, la principale per la platea e i palchi, la secondaria per i più economici posti in galleria, come pure diversi foyer118. Divertimenti esclusivi sono poi le esplorazioni in paesi lontani, già molto popolari sull’onda del colonialismo; i viaggi in Europa (Parigi, Londra, Germania, Svizzera) e la villeggiatura (in campagna, al lago, al mare). Ci sono poi gli sport: escursionismo, alpinismo (il Club Alpino Italiano nasce nel 1863 a Torino e ha come primo presidente il barone Ferdinando Perrone di San Martino) e soprattutto attività qualificanti come la caccia e l’equitazione119. Gli sport equestri sono quelli più caratteristici della nobiltà e pongono un interrogativo curioso. Se tutto l’Ottocento G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano 1958. E. Scarpellini, Organizzazione teatrale e politica del teatro nell’Italia fascista, Led, Milano 2004. 119 Bezzola, La Milano dei «loisirs» cit., pp. 117-142. 117 118

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aveva visto una grande passione per i cavalli, è solo a partire dalla metà del secolo che si costituiscono le prime «Società per le corse dei cavalli», cominciando da Firenze, Torino e Pisa. Negli anni Ottanta si assiste a una vera e propria frenesia: ogni città e località di villeggiatura vuole dotarsi di un suo ippodromo, edificato con grande dispendio di mezzi (tramite società private sottoscritte in gran parte da aristocratici e da qualche grande industriale). Il riferimento qui è all’Inghilterra più che a Parigi: il modello seguito nelle architetture e anche nelle pratiche e nei regolamenti sportivi guarda strettamente quello del Jockey Club britannico (compreso il lato spettacolare e di business delle scommesse). Anche l’abbigliamento è strettamente codificato: per gli uomini blazer scuro e cappello di paglia di Firenze, per le donne vestito accollato chiaro, ampio cappello di piume, ombrellino parasole di merletti; le gare sono una grande occasione mondana, ritratta magistralmente da D’Annunzio nel Piacere120. Scuderie e ippodromi fioriscono così in tutta Italia, da Barbaricina e San Rossore a Varese e Livorno, e conoscono uno straordinario successo fino al primo conflitto mondiale e poi ancora fra le due guerre. E non solo galoppo e trotto; anche gare come il salto a ostacoli divengono molto popolari, trovando protagonisti come il «cavaliere dei cavalieri» Federico Caprilli, che stabilisce il record di salto in alto con oltre due metri a Torino nel 1902, imponendo una rivoluzione nello stile di monta121. Come si spiega lo scoppio di questa passione proprio nel momento in cui compaiono le automobili? Si tratta di una forma di conservatorismo, di rigetto di nuove tecnologie sentite come socialmente omologanti? Gli aristocratici adotteranno in realtà subito le novità tecnologiche. La spiegazione può essere invece identificata in una forma di spettacolarizzazione basata sull’esibizione di arcaismi; andare a cavallo e organizzare gare ippiche nel momento in cui si diffondono le automobili significa sottolineare la propria diversità rispetto agli altri ceti sociali, riaffermare la continuità con il passato, ostentare un cerimoniale d’altri tempi tipicamente nobiliare: l’anacronismo diventa segno di distinzione. Una cosa è certa: ancor più che per altri gruppi, lo spazio dei consumi aristocratici è decisamente transnazionale. G. D’Annunzio, Il Piacere, Treves, Milano 1899. G. Benucci, Federico Caprilli: tra storia e romanzo, in G. Benucci, F. Venturi et al., Federico Caprilli e i personaggi del Caprilli, Tipografia Toscana, Livorno 2004, pp. 10-47. Il galoppo fu promosso soprattutto dai ricchi aristocratici, che erano anche titolari di importanti scuderie; il trotto incontrava maggiormente il gusto dell’alta borghesia. Cfr. G. Taborelli, La vita di Milano nella Belle Époque, in Il mondo nuovo. Milano 1890-1915, Electa - Bocconi, Milano 2002, pp. 154-177. 120 121

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2. Lo Stato e i consumi pubblici Le parole hanno una loro storia. Ed è una storia che riflette l’evoluzione di una cultura. Per descrivere la società abbiamo usato termini come «consumo» e «pratiche di consumo»; l’immagine che abbiamo provato a dipingere è quella di un sistema complesso, ricco di interrelazioni verticali e orizzontali, in continuo movimento, con le varie componenti organizzate al proprio interno e in rapporto con l’esterno, dove ogni parte interagisce e influenza l’altra. E con il termine «consumo» abbiamo voluto suggerire come in questo quadro i singoli attori, i consumatori, non siano elementi passivi che agiscono coattivamente, ma agenti attivi, in vario modo consapevoli del significato delle loro azioni. Un secolo fa nessuno avrebbe usato queste parole e queste immagini. Non perché sfuggisse il senso della complessità sociale, ma perché la società del tempo appariva più simile a una piramide, in cui gli elementi significativi erano la base e il vertice. Da qui derivava una logica sostanzialmente binaria, per cui la descrizione migliore che si poteva dare era legata a questo dualismo: non varietà di «pratiche di consumo» quindi, ma «miseria» contro «abbondanza». Se questa era la situazione, un’eventuale azione riformista per il miglioramento della società non poteva che prendere la forma di lotta alla miseria. A questo proposito, va ricordato un fatto importante, che abbiamo trascurato fin qui, e cioè che non tutti i consumi esistenti sono privati, vale a dire acquistati o autoprodotti dai singoli, ma vi sono consumi che vengono fruiti collettivamente. Quello che è prodotto dai vari settori economici del paese (agricoltura, industria, servizi, pubblica amministrazione) viene impiegato nei consumi interni, che possono essere privati o pubblici, e negli investimenti (tutte voci che costituiscono la domanda interna). Nel 1891 i consumi finali delle famiglie erano oltre l’80 per cento delle spese totali; nel 1951 erano il 67 per cento e negli anni Novanta scendono anche sotto al 60 per cento un po’ in tutto l’Occidente (da questo punto di vista, l’Italia segue il medesimo trend anche temporale degli altri paesi europei)122. La storia del Novecento in fondo è tutta qui: nell’evoluzione dei consumi privati e nel progressivo allargamento dei consumi pubblici (e degli investimenti). Questo discorso ci permette di affermare che i consumi hanno sempre avuto un ruolo di primo piano nelle politiche governative. Sia122 G.M. Rey, Novità e conferme nell’analisi dello sviluppo economico italiano, in I conti economici dell’Italia, a cura di G.M. Rey, vol. III, Il conto risorse e impieghi (1891, 1911, 1938, 1951), Laterza, Roma-Bari 2003, p. XXIII; A. Maddison, Monitoring the World Economy, Development Centre Oecd, Paris 1995, p. 25.

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mo abituati a pensare all’economia e alla politica guardando il lato dell’offerta, e cioè riteniamo che i governi si attivino per lo sviluppo dei diversi settori produttivi (agricoltura prima, industria e servizi più tardi); quello che conta è la produzione. Ma i consumi? A nostro avviso le politiche governative sono state altrettanto centrali e attente al lato della domanda: se tramite gli investimenti hanno migliorato il capitale fisso per sostenere la crescita, tramite i consumi pubblici hanno inciso sul «capitale umano», hanno influenzato i consumi privati e in ultima analisi l’intera economia. Sicurezza, consenso, redistribuzione, crescita: i motivi sono stati vari, ma è certo che i consumi sono molto indicativi per comprendere gli indirizzi della politica economica nei governi dell’Italia liberale come nel regime fascista e poi nell’Italia repubblicana. Con finalità diverse, certo, con terminologie differenti e a volte in modo non palese nel dibattito pubblico. Niente di simile a quanto avvenne, ad esempio, nell’Italia postunitaria riguardo al possibile intervento dello Stato a favore della produzione industriale, con lo scontro tra liberisti e protezionisti, che si risolse in una decisa legittimazione dell’intervento pubblico. Del resto, perché lo Stato sarebbe dovuto intervenire nel campo dei consumi? Lo scopo non era quello di garantire lo sviluppo affinché gli individui potessero consumare le risorse a loro disposizione liberamente, intervenendo al massimo nei casi più drammatici di povertà o emarginazione? Le differenze nei consumi non erano un motivo sufficiente; le disparità sociali esistevano da sempre. La condizione di povertà endemica di larghi strati di popolazione era un fenomeno secolare che per molti non era possibile, e forse neppure desiderabile, mutare. Il suo vero motivo risiedeva nelle deficienze del singolo individuo, che poteva essere colpito da una disgrazia (malattia, incidente), e in questo caso andava assistito dalle organizzazioni di carità, oppure era «vizioso»: pigro, mendicante, ubriacone, nullafacente, ed era la causa del suo male. Il dibattito sul pauperismo, molto vivo anche in Italia a inizio Ottocento, rifletteva queste posizioni. In realtà, con il procedere dell’industrializzazione i contorni del problema mutarono: la situazione dei lavoratori nelle città e nelle campagne sembrava drammaticamente peggiorare; il fenomeno era ampio, si legava alle modalità di lavoro in fabbrica, alle condizioni di vita in città sempre più affollate, alla crisi economica nelle campagne. Si fece allora strada l’idea che queste forme di povertà avessero una spiegazione sociale e fossero connesse a problemi strutturali dell’economia e della società, non solo alle sorti o alla volontà dei singoli. Se le cose stavano così, era sufficiente l’intervento caritatevole di associazioni private e religiose? Non era necessario un qualche intervento correttivo da 51

parte dello Stato? Già subito dopo la costituzione del Regno d’Italia si moltiplicano studi, inchieste e appelli che denunciano la grave situazione di contadini e operai e richiedono un intervento pubblico riguardo a quella che è ormai presentata come la «questione sociale»123. Nell’indagine forse più famosa, l’inchiesta agraria del 1884, il conte Stefano Jacini affermava: Ora, che una questione sociale vi sia, in Europa e quindi anche in Italia, se sotto questo nome si deve intendere il desiderio, più vivo di prima, delle classi non abbienti di star meglio, sarebbe impossibile negarlo. Però questa questione non è speciale alla campagna; essa comprende tutte le classi che lavorano nelle città e nelle campagne124.

Un altro problema era individuare le modalità dell’intervento statale. L’idea più diffusa era che dovesse riguardare i consumi «pubblici», cioè quelle forme di assistenza individuale che il mercato non era in grado di fornire; non si trattava tanto di aumentare le spese per l’intera collettività, come ad esempio quelle per la sicurezza o la difesa, ma di fornire specificamente beni e servizi agli individui: assistenza, previdenza, sanità e istruzione125. A fianco delle argomentazioni filantropiche e umanitarie vi erano altre pressanti motivazioni. Come Stefano Cavazza ha posto in rilievo, dall’Ottocento si afferma l’idea di «massa» come dimensione in grado di spiegare e definire la società moderna. Non c’è più l’amorfa e disordinata plebe; ora c’è una sorta di corpo organico, dal profilo riconoscibile, che diventa protagonista nel mondo del lavoro, vuole affermare i suoi diritti nella società, si organizza e pretende di contare sulla scena politica. Il termine che nasce con riferimento alla quantità finisce per assumere una valenza qualitativa. La questione sociale si nutre della paura che queste nuove masse rappresentino un elemento di de123 A. Cherubini, Storia della previdenza sociale, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 10-27, 36-70; G. Procacci, Governare la povertà: la società liberale e la nascita della questione sociale, il Mulino, Bologna 1998. 124 S. Jacini, Atti della giunta per la inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, vol. XV, fascicolo I, Relazione finale sui risultati dell’inchiesta, Roma 1884, p. 83. 125 All’interno dei consumi pubblici si tende attualmente a dividere tra beni a fruizione sociale e beni a fruizione individuale (per convenzione: assistenza, previdenza, sanità, istruzione) sulla scia del concetto di merit goods di R. Musgrave. Cfr. M. Coccìa, G. Della Torre, P. Iafolla, La ricostruzione dei consumi pubblici in campo educativo nell’Italia liberale, 1861-1915, «Quaderni», Dipartimento di Economia Politica, Siena, n. 388, luglio 2003, pp. 1-3.

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stabilizzazione della società, concentrandosi nelle città, facendo crescere la criminalità (almeno così sembrava agli occhi delle élite), trasformando i modi di associarsi e perfino i divertimenti126. Il passaggio dal piano sociale a quello politico è breve. La massa dei lavoratori diviene massa dei proletari, infiammati dalla propaganda socialista. Si nota questo processo anche dal punto di vista iconografico: la folla diviene «visibile» ed è protagonista nei quadri (Il quarto stato di Pellizza da Volpedo è del 1901)127, nelle vignette di satira e nei manifesti politici: non più confusa sullo sfondo ma in primo piano, non più agglomerato indistinto ma unità spirituale intorno a un simbolo128. Jacini, dopo avere a lungo argomentato in favore delle riforme agrarie, rileva: Il disprezzo per quel che si è, e si ha, la smania di uscire dalla propria condizione per salire ad un’altra, serpeggiano oggi in tutte le classi, nessuna eccettuata; – figurarsi poi nelle infime e meno agiate. – Siffatte tendenze, che formano uno dei caratteri psicologici della Società civile ai tempi nostri, finché rimangono entro i limiti della possibilità di essere appagate, sono un bene, e forniscono una leva potente di progresso e di perfezionamento individuale e sociale. Ma varcati tali limiti, potrebbero essere causa di profonda perturbazione, di anarchia e quindi di regresso. Or bene, saprà arrestarsi la società moderna ai limiti dell’appagamento possibile?129

Una possibile risposta per contenere l’esplosivo conflitto sociale proveniva dalla Germania bismarckiana, che aveva varato un’avanzata legislazione sociale per contenere l’influenza del movimento socialista e legare le masse operaie allo Stato. Un esempio diverso, ma non meno interessante, giungeva dall’Inghilterra, dove la protezione sociale non era decisa dall’alto, ma era il frutto della cooperazione tra le forze liberali e quelle ispirate al Labour, almeno nel periodo più recente; si trattava quindi di una politica che mirava all’effettiva integrazione degli strati operai nella nazione. Se si guardano le cifre italiane, la spesa in questo settore risulta molto contenuta per tutto il periodo liberale rispetto ai due esempi citati (intorno al 9 per cento della domanda). Non che lo Stato italiano non fosse impegnato in un’attiva politica di spesa pubblica, al contrario: Destra e Sinistra storica avevano fatto un Cavazza, Dimensione massa cit. G. Pellizza da Volpedo, Il quarto stato (olio su tela), 1901. 128 Cfr. molti esempi in tal senso in J.T. Schnapp, L’arte del manifesto politico 1914-1989. Ondate rivoluzionarie, Skira, Milano 2005. 129 Jacini, Atti della giunta cit., p. 105. 126 127

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grande sforzo, che però fu concentrato principalmente sulla creazione di infrastrutture (a cominciare dalle ferrovie) e sull’edificazione della complessa struttura amministrativa del nuovo Stato. Ci fu ben poco spazio per le spese riguardanti l’istruzione, addossate oltretutto in gran parte agli enti locali, e quasi niente per quelle redistributive. Solo nel periodo giolittiano si assiste a un relativo mutamento di indirizzo. Prendiamo l’assistenza. Qual era la sorte di un malato nell’Italia liberale ottocentesca? Ovviamente, dipendeva dal suo reddito. Se era benestante, poteva chiamare un medico privato e sostenere cure costose a casa o, se molto grave, negli ospedali cittadini; se era povero, doveva ricorrere alle associazioni caritatevoli. Queste, prevalentemente cattoliche, avevano avuto un grande sviluppo nei secoli precedenti e gestivano ospedali, centri di assistenza e carità. Nel 1862 è approvata una legge su questi istituti di carità e beneficenza, che ricalca in sostanza l’ordinamento sabaudo sulle Opere pie e lascia loro ampia libertà di azione, evitando di impegnare finanziariamente il nuovo Stato. Tre anni dopo si stabilisce che siano gli enti locali a occuparsi di alcune categorie di «sventurati», che non erano solo i malati ma anche i poveri e gli accattoni (da ricoverare in istituti specifici). Le province dovevano occuparsi di alcuni malati (infermi psichici, portatori di handicap); i comuni dovevano farsi carico delle spese ospedaliere e di assistenza per poveri e orfani, anche con l’aiuto delle congregazioni di carità (è qui che si sarebbe rivolto il nostro povero). Referente per la sanità pubblica era il ministro dell’Interno e responsabili locali erano i prefetti e i sindaci. È interessante notare l’inclusione nello stesso provvedimento di malattie psicofisiche, abbandoni minorili e mendicità, segnali di una concezione in cui assistenza e ordine pubblico si fondono nel controllo delle categorie ritenute socialmente marginali. È un progetto di medicina pubblica, che controlla e potenzia l’organismo sociale a favore dello Stato, paragonabile alla costituzione di una «polizia sanitaria» sperimentata in Germania130. Bisogna attendere fino a Crispi per ulteriori passi in avanti. Nel 1888 interviene una nuova riforma sanitaria: è creata una direzione generale di sanità; a livello locale si stabilisce la presenza di un medico condotto 130 Da notare che la stessa politica di controllo, sanitaria e poliziesca insieme, è applicata alla prostituzione, che viene bandita dalle strade e incanalata nelle case di tolleranza a partire dal 1860. Cfr. M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia: 1860-1915 (1986), il Saggiatore, Milano 1995. Su sanità e legislazione sociale cfr. G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia. Dalla peste europea alla guerra mondiale. 1348-1918, Laterza, Roma-Bari 1987; F. Girotti, Welfare state. Storia, modelli e critica, Carocci, Roma 1998, pp. 139-146; E. Bartocci, Le politiche sociali nell’Italia liberale (1861-1919), Donzelli, Roma 1999.

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e di una levatrice pagati dal comune per i poveri, e di una rete di medici provinciali operanti a livello locale con compiti di prevenzione e di igiene. Vanno segnalati la maggiore attenzione alle campagne (il nostro malato povero era in effetti penalizzato se era un contadino) e anche un differente ruolo dei medici, non più presenti come tecnici o consulenti ma come ufficiali dello Stato. In pratica vengono formalmente riconosciuti gli sforzi intrapresi da decenni dalle associazioni professionali per il riconoscimento del ruolo pubblico dei medici, che comporta il loro subentro alla guida delle istituzioni sanitarie in sostituzione del personale amministrativo. Inoltre, le Opere pie divengono istituzioni pubbliche e sono poste le basi per una modernizzazione delle ormai inadeguate strutture ospedaliere – nasce il Policlinico di Roma, si creano molti ospedali minori, e gli assistiti passano da 345.000 nel 1885 a 503.000 nel 1902131. Nel periodo giolittiano l’attenzione fu incentrata sulla lotta contro malattie come la tubercolosi, il colera e soprattutto la malaria, contro la quale si dispose la distribuzione gratuita di chinino nelle rivendite di tabacchi132. L’impegno si sposta quindi sulla prevenzione e sull’igiene, complice la nascita della «medicina sociale» (va anche ricordato come l’opinione pubblica segua appassionatamente i progressi scientifici, ad esempio nella microbiologia con gli studi di Louis Pasteur e Robert Koch, o quelli legati al nuovo orientamento clinico). L’impatto di queste riforme è di grande importanza: testimonia il crescente ruolo che la medicina assume nella società italiana da metà Ottocento – sono i primi passi del processo di «medicalizzazione» – e pone le premesse per una crescente domanda di consumi sanitari. E a questi interventi diretti andrebbero aggiunti quelli effettuati nelle città a «fini igienici»: sventramenti di vecchi quartieri degradati, creazione di piazze e corsi (come l’Umberto I a Napoli, realizzato tra il 1888 e il 1894 per risanare i quartieri bassi dopo l’ultima epidemia di colera)133. Il nostro povero 131 Cosmacini, Storia della medicina cit., pp. 392-419; Storia d’Italia. Annali 7. Malattia e medicina, a cura di F. Della Peruta, Einaudi, Torino 1984. 132 F.M. Snowden, The Conquest of Malaria: Italy 1900-1962, Yale University Press, New Haven 2006. 133 Foucault ha scritto pagine interessanti sulle modalità di controllo del «corpo sociale» tramite le politiche di igiene pubblica, che prendono forma inizialmente nella Parigi sette-ottocentesca. Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere (1976), Feltrinelli, Milano 1978; Id., Sorvegliare e punire: nascita della prigione (1975), Einaudi, Torino 1976; cfr. anche La médicalisation de la société française, 1770-1830, a cura di J.P. Goubert, Historical Reflections Press, Waterloo 1982. Per l’Italia si può notare come molti interventi avessero molteplici valenze: da una parte igiene pubblica e sanità, dall’altra valorizzazione economica delle aree urbane e decoro architettonico. Tipici in questo senso gli interventi speciali per il Mezzogiorno disposti da Giolitti.

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dunque, a inizio Novecento, può contare su un sistema sanitario e ospedaliero un po’ migliorato; probabilmente si ammala di meno grazie alle misure di prevenzione e agli interventi nel tessuto urbano; e soprattutto guarda con un occhio diverso alla medicina e comincia a considerare importanti le nuove spese per l’igiene e la salute. Non a caso negli ultimi decenni dell’Ottocento si sviluppa la nuova industria farmaceutica, con epicentro nelle imprese chimiche tedesche, che affianca e sostituisce in parte i preparati artigianali dei farmacisti con confetti, sciroppi e pastiglie confezionate: nomi come quelli dell’Aspirina brevettata dalla Bayer nel 1899 divengono familiari a tutti; e anche localmente si moltiplicano industrie come quelle di Emilio Schiapparelli a Torino (il primo a produrre acido acetilsalicilico in Italia), Cesare Serono a Roma e Carlo Erba a Milano. È nato un nuovo settore di consumi: quello dei prodotti farmaceutici di larga commercializzazione. La situazione era forse peggiore dal lato della previdenza. Sino a fine Ottocento un lavoratore aveva a disposizione unicamente il sostegno delle società di mutuo soccorso di natura privata, molto numerose (oltre 6700 a fine secolo) e spesso ispirate a ideologie operaiste o cattoliche (e quindi tendenzialmente antistataliste). Solo in concomitanza con il forte sviluppo industriale, e anche con l’apertura politica dei socialisti di Turati, dal 1898 furono approvate norme come l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni per gli operai dell’industria e la Cassa per l’invalidità e la vecchiaia (facoltativa e di scarso successo) e poi, con Giolitti, l’Istituto nazionale delle Assicurazioni e una legislazione che tutelava il lavoro dei minori e limitava quello delle donne. Nel complesso disposizioni limitate e molto tardive, se confrontate con quelle dei paesi europei da cui traevano ispirazione134. A completare il quadro c’è l’istruzione. Cosa poteva aspettarsi un bambino del tempo? Le classi abbienti potevano permettersi maestri privati e la frequenza dopo le elementari di istituti educativi (ginnasioliceo o scuole tecniche) su su fino all’università (con preferenza per giurisprudenza e medicina). Sappiamo che l’istruzione, il «capitale uma134 Nel 1912 l’Italia impiega lo 0,45% del suo Pil per spese di redistribuzione (pari al 4,26% dell’intera spesa statale), esattamente la metà di quanto non faccia ad esempio la Francia. Cfr. G. Brosio, C. Marchese, Il potere di spendere. Economia e storia della spesa pubblica dall’Unificazione ad oggi, il Mulino, Bologna 1986, pp. 59-60. Gli unici altri interventi del settore riguardavano alcune ristrette categorie di impiegati statali. Sulla legislazione sociale e il pensiero giuridico italiano cfr. G. Gozzi, Modelli politici e questione sociale in Italia e in Germania fra Ottocento e Novecento, il Mulino, Bologna 1988.

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no», era da sempre un punto di forza dei ceti medio-alti. La legge Casati del 1859 aveva istituito due anni di istruzione elementare obbligatoria, portati a quattro dalla legge Coppino del 1877, ma con risultati poco positivi nelle campagne e nel Mezzogiorno, soprattutto perché la responsabilità finanziaria era addossata ai comuni (che non potevano o non volevano spendere tanto per l’istruzione). Un deciso miglioramento si registrò con l’assunzione da parte dello Stato di tale onere, in seguito alla legge Daneo-Credaro del 1911. In quell’anno il tasso di analfabetismo in Italia era ancora del 38 per cento (con una punta minima dell’11 per cento in Piemonte e massima del 70 in Calabria); la scuola primaria era frequentata dal 76 per cento della popolazione in età scolare, quella secondaria dal 12 per cento e quella universitaria solo dall’1 per cento135. Anche in questo caso, le cifre erano basse e il nostro bambino aveva un’istruzione inferiore rispetto ai suoi coetanei europei (e in prospettiva anche una minore propensione ai consumi culturali: c’è ad esempio un rapporto diretto tra livello di scolarizzazione e vendita di libri, in particolare nelle fasi iniziali dell’alfabetizzazione). Ed è inutile dire che se si trattava di una bambina le cose andavano peggio, soprattutto ai livelli educativi più alti. Tuttavia un certo sforzo fu fatto in questo campo, con la destinazione di risorse crescenti136. In realtà, quando gli abitanti del Regno d’Italia pensavano a Stato e consumi, la prima idea non andava certo al limitato intervento per i consumi pubblici: come Giano bifronte, lo Stato da una parte dava e dall’altra prendeva, e non a tutti in misura uguale. La questione tributaria è da sempre un pilastro delle politiche governative, legata com’è ai principi basilari della democrazia (rimanda al «nessuna tassazione senza rappresentazione» americano), e, guarda caso, investe in pieno la sfera dei consumi. Fino alla Prima guerra mondiale il grosso delle entrate, statali e locali, proveniva per circa la metà dalle imposte dirette (imposte fondiarie e in misura crescente mobiliari) e 135 V. Zamagni, Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica dell’Italia 1861-1990, il Mulino, Bologna 1990, p. 254. Cfr. anche Coccìa, Della Torre, Iafolla, La ricostruzione dei consumi pubblici cit.; E. De Fort, La scuola elementare dall’unità alla caduta del fascismo, il Mulino, Bologna 1996. 136 Per l’istruzione si spendeva lo 0,5% del Pil nel 1872; si giunge all’1,8 nel 1912. Cfr. Brosio, Marchese, Il potere di spendere cit., p. 60. I dati comprendono non solo la spesa statale ma anche quella degli enti locali, che anzi risulta sempre più elevata. Cfr. anche Coccìa, Della Torre, Iafolla, La ricostruzione dei consumi pubblici cit. Da notare che nel 1881 il tasso di analfabetismo era del 67%. Riguardo invece all’istruzione universitaria femminile, le statistiche riportano i primi dati a partire dal decennio 1901-10, quando appaiono in media 822 iscritte su 26.301 (cfr. Istat, Sommario di statistiche storiche dell’Italia 1861-1975, Roma 1976, p. 47).

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per metà da quelle indirette, costituite essenzialmente dalle imposte sui consumi. Queste colpivano vari prodotti sotto forma di imposta di fabbricazione: tabacchi, sale, macinato (dal 1868 al 1884), spiriti, zucchero; vi erano poi i dazi-consumo prelevati a livello locale e, dal 1878 con la politica protezionistica, nuovi dazi doganali. Infine, per alcuni prodotti vi era un monopolio fiscale statale: tabacchi, sali, polveri, chinino e la grande speranza dei poveri, il lotto137. Le imposte gravavano dunque su generi di largo consumo che costituivano una parte importante del bilancio delle classi popolari, come si è visto. Non è certo un caso che alcuni gravi episodi di violenza abbiano in qualche modo un nesso con la politica tributaria (il brigantaggio postunitario, le rivolte contro la tassa sul macinato, i moti del 1898). È stato calcolato che le imposte «regressive», gravanti cioè soprattutto sui redditi più bassi, incidessero per quasi la metà sul totale delle entrate138. E va anche aggiunto che la pressione fiscale complessiva dell’Italia liberale fu in proporzione maggiore di quella dei periodi successivi139. Quale quadro generale emerge se si osserva la politica dal punto di vista dei consumi? Nonostante tutte le incertezze e oscillazioni dell’Italia liberale, si evidenzia nel lungo periodo un orientamento di fondo. È quello di uno Stato che comincia a comprendere l’importanza di una politica pubblica dei consumi, incidendovi all’inizio più dal punto di vista qualitativo che quantitativo, per così dire: al di là delle spese effettive, si pongono le basi «culturali» per consumi come quelli sanitari o educativi. Come dire che i consumi dallo spazio sociale si affacciano allo spazio politico. È evidente come i provvedimenti adottati avessero uno scopo di controllo del territorio e del «corpo sociale» non meno che di potenziamento della nazione. Crescita e patriottismo si intrecciano e si rafforzano a vicenda. È illuminante al proposito quanto scrive ancora Jacini proprio a conclusione della sua inchiesta: In quanto al pauperismo, esso nelle campagne italiane non si può dire generale, nel vero senso della parola, ma esiste; e le condizioni disagiate del-

137 Sul lotto come elemento centrale della cultura popolare in zone come Napoli cfr. P. Macry, Giocare la vita: storia del lotto a Napoli tra Sette e Ottocento, Donzelli, Roma 1997. 138 Brosio, Marchese, Il potere di spendere cit., pp. 80-82, 202. 139 Brosio e Marchese hanno calcolato che nel periodo 1866-1914 l’aumento reale delle imposte fu maggiore di quello del prodotto interno (l’elasticità del gettito rispetto al Pil fu pari a 1,18, mentre fu 0,98 fra le due guerre e 1,15 nel 194880). Cfr. Brosio, Marchese, Il potere di spendere cit., p. 85.

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le classi agricole poi si riscontrano estese dal più al meno in tutte le parti d’Italia. Quindi dobbiamo porvi rimedio, nei limiti del possibile, con tutto l’impegno. È come la ròcca di un nemico che s’innalzasse nel mezzo della patria nostra. Quella ròcca deve essere espugnata e distrutta dalla nuova Italia fin dove è possibile. Ma per riuscire a questo, bisogna prima circondarla di opere d’assedio, quindi assalirla, ma non da un lato solo, bensì da tutti i lati ad un tempo e mediante il concorso di tutte le forze disponibili, nessuna eccettuata. Procedendo in modo diverso, l’assalto sarebbe respinto140.

Non sorprende quindi che l’attenzione principale sia andata inizialmente verso il settore educativo, l’unico in grado di assicurare un’istruzione diffusa e standardizzata necessaria per il progresso agricolo, e soprattutto per far funzionare la macchina dell’industria (non è un caso che i più significativi interventi previdenziali abbiano riguardato gli operai dell’industria, complici le pressioni del movimento socialista)141. Tutto questo completa e integra perfettamente il dato saliente relativo alla spesa pubblica, e cioè il formidabile impegno nella creazione di infrastrutture e negli investimenti. Il peso di questa spettacolare spinta allo sviluppo fu scaricato in buona misura sulle classi popolari; i consumi più diffusi furono l’oggetto principale sul quale gravarono le imposte regressive. Questo ebbe anche l’effetto di un parziale riorientamento dei consumi privati, ove possibile. Si potrebbe dire che in questo periodo inizia a crearsi uno «spazio nazionale» che orienta le scelte di consumo; ma anche che le prime politiche riguardanti i consumi implementate dalla ristretta élite alla guida del paese ebbero un carattere ambivalente. Dal punto di vista dei nostri consumatori, infatti, questa politica ebbe pesanti costi, differenti a seconda della classe sociale, e anche del genere. Costi non solo economici: agli occhi dell’operaio o del contadino la presenza dello Stato si materializzava ogni giorno in cui comprava i beni di cui aveva bisogno (sale, zucchero, tabacco, vino – mentre i beni di lusso erano esentati), e ciò alimentò non poco la diffidenza e un risentimento antistatalista anche in fasce di popolazione non politicizzate. Ben poco era offerto loro in cambio, in termini di istruzione, assistenza, previdenza. La strada verso un’effettiva integrazione e un diverso rapporto era ancora lunga. Jacini, Atti della giunta cit., p. 105. Per lo stretto nesso tra educazione e nazioni moderne cfr. Gellner, Nazioni e nazionalismo cit.; per la vocazione industrialista del nazionalismo italiano cfr. S. Lanaro, L’Italia nuova. Identità e sviluppo 1861-1988, Einaudi, Torino 1988, pp. 160-171. 140 141

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3. Il mondo della produzione Contano di più i consumatori o i produttori? La domanda è inevitabile nel momento in cui si constata che le pratiche di consumo sono sì informate da processi culturali, ma fanno inevitabilmente i conti con i fattori materiali che le condizionano. Fra questi possiamo mettere ad esempio le condizioni storiche e geografiche di una data società, e per l’età moderna soprattutto quel complesso di elementi che va sotto il termine di «produzione». Il rapporto che intercorre tra produzione e consumo è ovviamente di reciproca influenza (così la nostra domanda rischia di essere del tipo «viene prima l’uovo o la gallina?»). Gli economisti, che sono fra gli studiosi che più si sono appassionati alla questione, hanno però storicamente assegnato un peso maggiore ai produttori. O meglio, è possibile riconoscere un’evoluzione nel loro pensiero. Gli economisti classici, come Adam Smith e Ricardo, si concentrano sulla produzione; Marx si pone sulla stessa linea, pur riconoscendo la distinzione fra valore d’uso di una merce (legato al suo effettivo utilizzo nel tempo) e valore di scambio (legato al suo prezzo sul mercato), e soffermandosi sulla specificità dell’economia capitalista nel produrre una gran quantità di merci. Posizioni che non sorprendono, se pensate sullo sfondo delle prime fasi della rivoluzione industriale. Il complesso sviluppo economico che segue vede invece la fioritura dell’indirizzo neoclassico (Marshall, Walras, Pareto), più attento alle dinamiche del mercato, e che infatti pone al centro della scena il rapporto tra domanda dei consumatori e offerta dei produttori: entrambi vogliono massimizzare la loro utilità (rispettivamente nella soddisfazione di un bisogno o nell’ottenimento di un profitto), e il loro ideale punto di incontro rappresenta l’equilibrio del mercato. I consumatori sono qui ben presenti, anche se raffigurati in una forma ideale e razionalizzata; in successive analisi si nota come il potere di controllo sui mercati da parte dei produttori aumenti in presenza di situazioni di monopolio e oligopolio. Non sorprende che simili posizioni siano state criticate da quanti ritenevano sottostimato il peso degli elementi storici e sociali in questi meccanismi. Sono le famose obiezioni di Max Weber, che legge il capitalismo alla luce di un’ispirazione religiosa e ascetica verso l’accumulazione, mentre, specchio di una società con élite economiche ormai ben consolidate, Veblen osserva il nuovo ruolo della ricchezza nel conferire status e il peso del «consumo/spreco vistoso» nel testimoniare le posizioni acquisite. I consumatori prendono la loro rivincita a partire dalle teorie di Keynes, che attribuisce al consumo, oltre che allo Stato, un ruolo fon60

damentale nel garantire la crescita economica; e soprattutto nel secondo dopoguerra, con studiosi come Duesenberry e Katona. Il primo, noto per la teoria dell’«effetto dimostrativo», spiega come il consumo diventi fondamentale in società moderne caratterizzate da un’elevata mobilità sociale per segnalare la propria condizione sociale; il secondo vede il consumo come la vera forza dietro la nuova società di massa, dove il consumatore è un soggetto guidato non solo da redditi e prezzi, ma da abitudini e aspettative per il futuro. Il fattore temporale è centrale anche in analisi più recenti: Friedman pensa al consumo come a una quota costante di un reddito permanente; Modigliani prende come riferimento per il consumo il reddito percepito nell’intero ciclo vitale. Naturalmente a partire dagli anni Sessanta-Settanta si sviluppa pure una forte corrente critica verso il «consumismo» che influenza anche gli economisti. Tuttavia, ci interessa notare come il ruolo dei consumatori sia cresciuto e divenuto più visibile con il passare del tempo: da soggetti passivi e manipolati, i consumatori acquisiscono via via un ruolo attivo e dinamico sulla scena economica, quasi al pari dei produttori, così che il settore che si occupa di marketing, ricerche di mercato e analisi dei consumatori si dilata enormemente. Inoltre viene progressivamente in luce anche il ruolo dei «mediatori» di questo rapporto, cioè i commercianti. Nel lungo periodo, dunque, il «peso culturale» del consumatore muta decisamente e forse l’immagine migliore dell’interazione produttore-consumatore, più ancora che un rapporto bilaterale più o meno equilibrato, è quella di un cerchio, dove diversi protagonisti, compresi i «mediatori», si influenzano reciprocamente e negoziano le loro posizioni – il tutto sullo sfondo di una cultura che determina il significato ultimo di queste pratiche142. Per tornare alla domanda iniziale, quanto contano i produttori rispetto ai processi di consumo nello spazio storico dell’Italia tra fine Ottocento e inizio Novecento? Sicuramente moltissimo, perché producono o comunque rendono effettivamente disponibili i prodotti sul mercato (anche grazie all’intermediazione commerciale di cui parleremo più avanti); le scelte dei consumatori, con tutte le differenziazioni che abbiamo visto, si svolgono de facto all’interno di questa offerta 142 Sul ruolo che gli aspetti locali e territoriali esercitano sui processi economici cfr. L. Cafagna, Dualismo e sviluppo nella storia d’Italia, Marsilio, Venezia 1989; S. Pollard, La conquista pacifica: l’industrializzazione in Europa dal 1760 al 1970 (1981), il Mulino, Bologna 1984. Un’interessante interpretazione della penetrazione in ogni ambito della società della «narrativa» del management scientifico è in M. Banta, Taylored Lives: Narrative Productions in the Age of Taylor, Veblen, and Ford, University of Chicago Press, Chicago 1993.

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produttiva. Con due importanti correttivi. Il primo è l’importazione dall’estero. L’Italia, tipica economia di trasformazione con scarse materie prime, attraversa in questo periodo il primo effettivo slancio industriale. Nel quadro europeo appare come un paese a metà del guado tra economia tradizionale ed economia industrializzata: esporta soprattutto prodotti agricoli, tessili (con la seta – il «filo d’oro» – sempre al primo posto) e alimentari; importa frumento, materie prime, semilavorati e prodotti industriali finiti143. Molti beni di consumo di lusso provengono dall’estero; tuttavia l’apertura dell’economia italiana è piuttosto limitata e non si può dire che le produzioni estere esercitino in questo periodo un ruolo decisivo nel complesso dei consumi (salvo appunto i consumi delle élite, dato il loro carattere cosmopolita e le loro disponibilità economiche). Il secondo è l’autoconsumo. Questo è un punto delicato perché soprattutto nelle società preindustriali o nelle prime fasi di industrializzazione, molte attività legate alla produzione non avvengono attraverso il mercato, non sono cioè comprate o vendute, e quindi non «appaiono». Le statistiche ufficiali, costruite per registrare le transazioni mercantili, non si accorgono del lavoro svolto a domicilio, di quello domestico, dei servizi scambiati attraverso reti di amici e parenti, che costituirebbero una quota stimabile intorno al 20-25 per cento dei consumi144. L’economista Federico Caffè scherzava su questo fatto, dicendo che se avesse sposato la sua cameriera, avrebbe fatto diminuire il reddito nazionale. Questo ci deve far riflettere sulla circostanza che le statistiche economiche, al di là della loro attendibilità tecnica, fotografano solo una facciata della società; e anche che una parte dei consumi, specialmente sotto forma di servizi, è costantemente sottostimata (e questo vale soprattutto per i ceti popolari e ci spiega anche uno dei significati profondi delle solidarietà di classe o di vicinato). Detto questo, è importante segnalare subito alcune tendenze di lungo periodo riguardo ai prodotti consumati. In primo luogo si passa dal consumo di beni primari a quello di beni industriali: l’esempio più clamoroso è quello degli alimentari. A fine Ottocento un terzo di tutti i prodotti consumati proveniva dall’agricoltura, un altro 30 per 143 S. Clementi, Il commercio estero dell’Italia nel 1891, 1911, 1938 e 1951, in I conti economici dell’Italia, a cura di G.M. Rey, vol. III, Il conto risorse e impieghi cit., pp. 217-254 e tabella riassuntiva in appendice. 144 G. Federico, Mercantilizzazione e sviluppo economico in Italia (1860-1940), «Rivista di storia economica», 2, 1986, pp. 149-186. Da notare che si tratta di una quota relativamente bassa, indice di un’elevata mercantilizzazione, avvenuta già in epoca premoderna.

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cento dalle industrie alimentari; nel giro di sessant’anni la situazione quasi si rovescia, con le industrie alimentari al primo posto e i prodotti agricoli primari ridotti al 16 per cento145. Questo vuol dire che molte operazioni condotte in ambito familiare (pulizia, taglio, conservazione, cottura) sono state trasferite all’industria alimentare, per motivi sociali (mutamenti verificatisi all’interno della famiglia e crescente lavoro extra-domestico delle donne), economici (maggiore disponibilità di reddito) e tecnologici (nuove tecniche di conservazione e lavorazione dei cibi). Secondariamente, è chiara l’attenzione dei consumatori verso i nuovi prodotti, proposti ad esempio dall’industria chimica (saponi, detergenti), da quella meccanica e dei trasporti (biciclette, motociclette, automobili) e in parte anche da quella poligrafica, con vari prodotti legati alla crescente scolarizzazione; tuttavia il consumo di questi beni risulta a lungo modesto e non incide significativamente sugli equilibri generali. Infine, vi è la tendenza a passare dai beni non durevoli a quelli durevoli; anche in questo caso, siamo però solo agli inizi e bisognerà aspettare il secondo dopoguerra per un mutamento quantitativamente rilevante146. Considerato il peso giocato da alcune industrie nazionali nel processo di consumo, vale la pena di esaminare le loro caratteristiche e il tipo di offerta che proponevano al variegato mondo dei consumatori. Cominciamo dall’industria alimentare e proviamo a immaginare di infilarci in una dispensa ben fornita di inizio Novecento. Cosa troviamo? La prima impressione suscita la nostra curiosità: anche se riconosciamo alcuni alimenti tipici, la maggioranza dei prodotti ha forme, colori e imballaggi che non ci sono familiari (ci viene in mente la frase di Hartley: «il passato è un paese straniero»). Molti alimenti sono conservati in vasi di vetro; altri sono posti in cassette di legno e bene avvolti in stracci o carta. Prevalgono cibi secchi o conservati sotto sale (come il pesce); dal soffitto pendono salumi di varie forme e misure, mentre sui ripiani, ben coperti, ci sono pezzi di formaggi più o meno stagionati. Ci colpisce subito la prevalenza di alimenti secchi, comprese frutta e verdura, rispetto a quelli freschi; come pure l’assenza di standardizzazione fra i singoli prodotti: guardando nella cesta di mele, non ne troviamo una uguale all’altra (e molte sono piccole e rovinate). Nel145 Le percentuali relative all’offerta di consumi privati riguardo all’agricoltura sono 32,6% nel 1891 e 16,1% nel 1951; mentre per le industrie alimentari sono rispettivamente 30,9% e 33,4%. Cfr. G.M. Rey, Novità e conferme nell’analisi dello sviluppo economico italiano, in I conti economici dell’Italia, a cura di G.M. Rey, vol. III, Il conto risorse e impieghi cit., pp. XLIV-XLV. Cfr. Tab. 5. 146 Rey, Novità e conferme cit., pp. XLIV-XLV.

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l’angolo più fresco notiamo le merci più deperibili: pollame e altre carni, uova, latte e burro; sotto, contenitori d’olio e varie casse di bottiglie di vino, tutte senza marchio e tappate manualmente, con vicino una damigiana mezza piena, acquistata dall’oste di fiducia. Un’altra cosa che salta all’occhio è che in questa ricca dispensa sono poco presenti le etichette dei prodotti: si tratta evidentemente di produzioni locali prive di marca oppure di beni industriali comprati sfusi al vicino negozio. Notiamo anche la quantità di beni primari (come la farina), utilizzati come base per la realizzazione domestica di numerose preparazioni, e anche di erbe e prodotti vari che provengono dall’orto vicino. Infine sul ripiano più alto fa bella mostra di sé una lunga fila di vasetti di conserve fatte in casa: marmellate, gelatine, frutta sotto spirito, salse, conserve di pomodoro (e varie altre che non riusciamo a identificare). Il contenuto di questa dispensa ci dice molte cose sull’industria alimentare. Oltre a ricordarci l’importanza dell’autoconsumo, conferma che la produzione ha carattere locale: quasi tutte le merci sono prodotte nel raggio di poche decine di chilometri, al massimo all’interno della stessa regione. In effetti il settore alimentare, pur essendo il più importante come produzione totale (854 milioni di valore aggiunto nel 1911, più della meccanica) e assorbendo ancor più manodopera, rispetto ai settori più avanzati ha dimensioni medie molto piccole (5 addetti per esercizio) e risulta in genere arretrato da un punto di vista tecnico, ponendosi spesso a metà strada tra industria e artigianato (o industria e agricoltura)147. I piccoli produttori servono la loro zona e non sono interessati né hanno la capacità produttiva per espandersi; poche sono le eccezioni, e riguardano soprattutto prodotti di lusso o destinati all’esportazione. E tuttavia questi anni rappresentano un periodo cruciale di trasformazione. L’onda d’urto della rivoluzione industriale, partita dalle industrie tessili e meccaniche, comincia a farsi sentire anche nelle trasformazioni alimentari, con nuove tecniche di lavorazione, nuove mac147 S. Fenoaltea, Il valore aggiunto dell’industria italiana nel 1911, in I conti economici dell’Italia, a cura di G.M. Rey, vol. II, Una stima del valore aggiunto per il 1911, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 107 (utilizziamo qui e altrove, dove possibile, le nuove stime elaborate a parziale correzione delle serie storiche Istat). La cifra totale di 853,6 milioni di valore aggiunto dell’agricoltura è così composta: prima lavorazione cereali (farine) 229,5; seconda lavorazione cereali (pane, pasta, pasticceria) 237,1; derivati del latte 125,1; lavorazione carne e pesce 88,8; conserve, dolciumi, caffè, zucchero 99,4; olio, alcol, bevande 47,4; lavorazione tabacco 26,2 (cfr. ivi, pp. 119-120).

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chine, nuovi prodotti industriali (ad esempio chimici) da impiegare nella produzione. Il risultato è che un certo numero di imprese compie il salto e inizia a produrre meccanicamente quantità di gran lunga superiori di prodotti alimentari, che risultano molto più standardizzati e costano decisamente di meno grazie alle economie di scala. Tutto semplice allora? Assolutamente no. Perché vendere piccole quantità di prodotti artigianali alla clientela locale, che si conosce per abitudine e per il passaparola, implica meccanismi del tutto diversi rispetto a vendere grandi quantità di merci industriali a una clientela sconosciuta e distante su un mercato nazionale e internazionale. I grandi produttori devono fare i conti con i problemi legati alla distribuzione e, soprattutto, al marketing (anche se non hanno mai sentito questa parola). Prende così forma un aspetto che si rivelerà decisivo nella storia dei consumi del Novecento: la marca. Che cos’è una marca? La domanda può suonare ironica alle orecchie dei consumatori del XXI secolo, esposti giornalmente a centinaia di loghi. Il suo significato conosce nel tempo una complessa evoluzione e un allargamento semantico; alle origini indicava semplicemente un «marchio proprietario»: il nome o simbolo del prodotto commercializzato da un’impresa, spesso protetto tramite un deposito legale. Naturalmente, la denominazione non era certo una pratica nuova; ma nel mercato allargato che si crea grazie ai trasporti moderni e alla rivoluzione industriale, essa assume un significato del tutto differente, perché diventa il mezzo per caratterizzare la merce e, possibilmente, venderla. Basilarmente la marca ha due funzioni. La prima è informativa: ci dice quali sono le caratteristiche del prodotto, le sue funzioni, i suoi componenti, prima ancora che lo compriamo; la seconda è valoriale: costituisce una specie di «valore aggiunto» rispetto al bene fisico, ci dice come quello specifico articolo si inserisce nel mercato, quale valore di status può fornirci – ci fa sentire alla moda, oppure ricchi o moderni o appartenenti a un determinato gruppo sociale148. La costruzione di una marca si basa essenzialmente sulla pubblicità, che non a caso muove allora i primi passi anche in Italia. Si tratta però di una pubblicità che punta soprattutto sul primo aspetto, cioè quello dell’informazione: nelle pagine delle riviste che ospitano in numero crescente gli «inserti» pubblicitari (inizialmente 148 A. Arvidsson, Dalla «réclame» al «brand management». Uno sguardo storico alla disciplina pubblicitaria del Novecento, in Il secolo dei consumi cit., pp. 197217; Id., Marketing Modernità: Italian Advertising from Fascism to Postmodernity, Routledge, London 2003.

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erano fogli staccati) appaiono riquadri con una piccola illustrazione del prodotto e una lunga scritta di spiegazione. Ciò non ci sorprende, considerato che in questa prima fase la cosa importante era far conoscere ai consumatori il prodotto, chiarendo a cosa serviva, come e perché utilizzarlo. E ciò spiega anche la prevalenza della scrittura sull’immagine (di questo periodo sono anche i primi poster, utilizzati però in misura contenuta dalle industrie alimentari). Importante era anche il packaging: altra parola sconosciuta, per quanto molti avessero già capito che la confezione esterna del prodotto (la forma, il colore, il logo impresso) era un elemento importante per la sua caratterizzazione e doveva perciò rimanere uguale nel tempo. Se tutto il meccanismo funzionava, e si riusciva a distribuire la merce abbastanza capillarmente, si poteva sperare che fossero i consumatori stessi a richiedere quello specifico prodotto e che, a lungo andare, essi si «affezionassero» alla marca. Tornando alla nostra dispensa per controllare la presenza di prodotti di marca, e guardando meglio, osserviamo ora varie confezioni industriali. Un intero ripiano è occupato da pasta e dolci; accanto ai prodotti artigianali, notiamo pasta della Buitoni (un’azienda familiare fondata nel 1827 a Sansepolcro, presso Arezzo, precocemente meccanizzata e produttrice di novità come le paste glutinate e dietetiche), dell’abruzzese Filippo De Cecco, della Barilla di Parma (creata nel 1877) e dell’Agnesi di Oneglia, oltre a varie marche originarie della zona fra Napoli e Salerno (con produttori come Vicinanza, Scaramella, Rocco e Pepe)149. Fra i dolci spiccano i biscotti, tipica specialità inglese; ma notiamo alcune scatole di amaretti Lazzaroni (una delle prime industrie italiane del settore, grazie alle macchine inglesi che l’ex garibaldino Luigi Lazzaroni aveva introdotto nella fabbrica paterna – e anche una delle prime ad attribuire grande importanza al richiamo della confezione esterna, che infatti notiamo subito), oltre a biscotti «inglesi» prodotti dai toscani Marinai e Guelfi (quest’ultimo si era persino travestito da carbonaio per spiare le segretissime macchine inglesi e al ritorno in Italia aveva creato una sua macchina per la produzione). C’è poi molto cioccolato, quasi tutto di provenienza torinese: vediamo gian-

149 Castagnoli, Scarpellini, Storia degli imprenditori italiani cit, pp. 116-139; M. Doria, L’imprenditoria industriale dall’Unità al «miracolo economico». Capitani d’industria, padroni, innovatori, Giappichelli, Torino 1998; F. Chiapparino, R. Covino, Consumi e industria alimentare in Italia dall’Unità a oggi. Lineamenti per una storia, Giada, Narni 2002.

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duiotti Caffarel, confetti ricoperti di cioccolato Venchi, cioccolato Moriondo & Gariglio e anche Talmone (la più grande fabbrica italiana, nata nel 1850 e acquisita dalla Tobler di Berna già nel 1905: la concorrenza svizzera è molto agguerrita)150. E non mancano prodotti Perugina, una piccola fabbrica di Perugia, comprata da un ramo dei Buitoni insieme alla famiglia Spagnoli. Un settore di grande importanza in questo periodo è quello delle conserve, legato com’è alla necessità di preservare alimenti deperibili come frutta o verdura (avevamo già notato la quantità di vasetti presenti nella dispensa). Guardandoci attorno, osserviamo che la marca più presente è la Cirio: la troviamo su scatole di pomodori pelati, conserve vegetali, scatole di prodotti ittici (dove però si affiancano a quelle del genovese Angelo Parodi) e persino su cassette di frutta fresca. Eppure ciò non rappresenta che una minima parte dell’attività di Francesco Cirio. Questo imprenditore di Nizza Monferrato fu un vero pioniere dell’industria alimentare italiana. Iniziò con l’esportazione: frutta, verdura, ma anche uova, pollame, formaggi e vini da trasportare nel Nordeuropa su speciali vagoni frigoriferi di sua ideazione. A ciò si aggiunse nel 1856 un’azienda conserviera a Torino, prima tappa di un’espansione industriale nel Mezzogiorno, nel Veneto e in Toscana e anche all’estero, che inglobò via via numerose attività collaterali: vagoni ferroviari, mulini, concimifici, caseifici, aziende agricole modello. L’impero di Cirio (non a caso fondato sull’import-export, dato che il mercato interno non era in grado di assorbire la sua offerta) si espanse a dismisura e attraversò molte difficoltà a inizio secolo quando, ridimensionato, passò ai fratelli Signorini. Oltre a Cirio, notiamo altre conserve con i nomi di Del Gaizo, Polli, Arrigoni. E i formaggi? Scrutati da vicino, molti rivelano un’origine locale e sono difficilmente classificabili; ma ci sono già alcuni tipi che conosciamo bene, come il grana parmigiano e il pecorino romano, prodotti da imprese di medie dimensioni che lo commercializzano a livello nazionale e creano una tipologia riconoscibile; e poi ci sono i formaggi lombardi marcati Locatelli, Cademartori, Invernizzi e il «Bel Paese» della Galbani; e ancora burro e latte delle Latterie Soresinesi (esempio di grande impresa cooperativa) e della Polenghi Lombardo. Non notiamo invece olio di marca; in effetti in questo periodo l’olio è ancora prodotto artigianalmente (ed è spesso di bassa qualità, tanto da venire im150 F. Chiapparino, L’industria del cioccolato in Italia, Germania e Svizzera. Consumi, mercati e imprese tra Ottocento e prima guerra mondiale, il Mulino, Bologna 1997.

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piegato anche per usi non alimentari come carburante e lubrificante o per la produzione di sapone); tuttavia compaiono i primi grandi produttori di olio a bassa acidità e maggiore pregio (oltre a varie ditte pugliesi, ricordiamo i Bertolli di Lucca e il ligure Escoffier). Lo stesso vale per il riso: coltivato nella pianura padana da secoli, solo da poco è prodotto industrialmente e sottoposto alla brillatura che permette una maggiore durata (le prime marche sono Bolgè e Lombardi). A guardar bene, le uniche merci della nostra dispensa veramente «industriali», nel senso che intendiamo oggi, sono la farina, frutto di un’industria molitoria diffusa e ormai molto avanzata; e lo zucchero, particolarmente caro in Italia, perché prodotto da un settore oligopolistico favorito da alte tariffe doganali (possiamo scommettere che sulle confezioni originali c’erano i nomi Eridania o Società ligure lombarda)151. Ci sono numerose marche straniere: alcune riguardano «coloniali» e caffè, e ce lo aspettavamo; altre denotano invece una serie di prodotti alimentari «nuovi»: estratto di carne, brodo concentrato, latte condensato o in polvere (Liebig, Knorr, Nestlé)152. Infine abbiamo i vini, contenuti in una cassetta vicino alla damigiana. I nostri padroni di casa hanno molte bottiglie di vino provenienti da varie parti d’Italia, forse con una prevalenza di piemontesi, con marche che per lo più non conosciamo, alcune delle quali portano nomi di famiglie aristocratiche. Ci colpiscono però gli spumanti: Contratto, Bosca e Gancia (che si dice creò il primo spumante italiano nel 1865) e i vini aromatizzati come i vermut (Cinzano, Cora, Martini & Rossi – una delle prime ditte a usare sistematicamente la pubblicità – e Campari, nato da un bitter di successo servito in un bar milanese) e per finire i marsala (Florio, provenienti da una delle imprese enologiche più grandi e moderne d’Italia, nonché le marche create in Sicilia da inglesi come Ingham e Whitaker). Peccato che i padroni di casa non siano bevitori di birra, altrimenti avremmo visto le prime bottiglie di Peroni, Wührer, Pedavena, Poretti e Menabrea. Ci allontaniamo da questa pantagruelica dispensa soddisfatti per avere appreso molte cose sui gusti, sulla posizione sociale ed economica dei nostri ospiti, sul luogo di residenza (in base alle produzioni locali) e anche sul livello tecnologico dell’industria alimentare del periodo e la posizione delle produzioni italiane nel mercato internazionale. Ci allontaniamo anche, in verità, perché quella cantina così ricca era piena 151 Sul significato di tale prodotto cfr. S.W. Mintz, Storia dello zucchero: tra politica e cultura (1985), Einaudi, Torino 1990. 152 Chiapparino, Covino, Consumi e industria alimentare in Italia cit, pp. 61-65.

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di odori forti, provenienti da merluzzi salati, salumi stagionati, formaggi un po’ ammuffiti, vini semisturati, conserve fermentate, pasta essiccata e altro ancora – certo non assomiglia a una dispensa odierna. Attraversando le altre stanze della casa e osservando l’arredamento, notiamo in prevalenza produzioni artigiane di buona fattura. Questo non ci sorprende in un paese con una fortissima e diffusa tradizione di lavorazione artigianale (nel 1911 erano censite 45.000 imprese solo per la lavorazione del legno). Pochi si potevano permettere i mobili creati da artisti alla moda come il palermitano Vittorio Ducrot, specializzato in arredamenti di lusso per grandi alberghi, piroscafi, case aristocratiche e di rappresentanza (come Montecitorio) o il fiorentino Mariano Coppedé, specializzato in mobili intagliati richiesti anche dalle famiglie regnanti. Ma tutti potevano chiamare il vicino falegname per realizzare l’arredamento di casa. In realtà, erano già disponibili i primi mobili di serie, ma questi erano utilizzati solo dalle classi sociali meno abbienti: poco curati nell’estetica, in genere erano composti da semplici pezzi assemblati con finiture scadenti. Il primo caso di attenzione all’estetica in un mobile industriale (cioè di design industriale) è forse quello della sedia «viennese» disegnata dall’austriaco Michael Thonet nel 1859: egli utilizzò la tecnica di curvatura del legno a vapore, ispirata dai costruttori di barche, per creare una sedia di faggio dalle linee semplici e raffinate, molto leggera, che poteva essere facilmente smontata e spedita. Venduta ancora oggi, è uno degli oggetti di arredo più diffusi al mondo (era presente anche nel salotto della già citata marchesa Berlingieri)153. Si tratta però di un’eccezione. È importante rimarcare come all’epoca tutti considerassero le produzioni industriali merci inferiori, assolutamente inadatte a una dimora dignitosa, in parte perché da sempre ci si avvaleva di bravi artigiani – e la tradizione è sempre un elemento importante nel determinare gli schemi di consumo – e in parte perché effettivamente erano di scarsa qualità. Molto tempo doveva passare affinché divenissero uno standard nell’arredamento, anche se nel polo produttivo creatosi a nord di Milano, in Brianza, si stavano sperimentando notevoli migliorie tecniche. Le cose stavano un po’ diversamente per le produzioni britanniche, che invece erano sinonimo di eleganza e modernità. Spesso pensiamo alla rivoluzione industriale inglese come a una montante marea di tele di cotone, macchinari industriali, miniere di carbone, macchine a vapore, trasporti moderni, recinzioni; e non facciamo attenzione al fatto che 153 G. D’Amato, Storia dell’arredamento. Dal 1750 a oggi, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 239-245.

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la ricchezza inglese si basò in buona parte sulla produzione di beni di consumo, richiesti dall’effervescente mercato interno ed esportati in tutto il mondo. Biscotti, liquori, coloniali, salse, porcellane, biancheria, posate, camicie e abiti confezionati (soprattutto da uomo), lenzuola, capi in lana di pregio: su questo e molto altro ancora poggiava la potenza dell’impero inglese. Anche nella nostra casa potremmo facilmente trovare questi segni di distinzione: ad esempio le ceramiche di Wedgwood, fra i primi a sperimentare forme pubblicitarie come l’omaggio a personaggi in vista dell’aristocrazia o esposizioni in centro a Londra154. Non è che in Italia mancassero competenze in questi settori; basti pensare per la porcellana (l’«oro bianco») alle manifatture Richard Ginori, fondate dalla nobile famiglia fiorentina Ginori nel 1735 e produttrici di oggetti di altissima qualità; o alle numerose vetrerie e cristallerie, per restare nell’ambito dei casalinghi, le cui antichissime tradizioni risalivano al Medioevo. Eppure proprio questo esempio illustra la situazione italiana: persino i maestri vetrai veneziani, come quelli toscani e liguri, erano rimasti ancorati ad antichi sistemi di lavorazione (segretamente protetti) che consentivano loro di realizzare straordinarie vetrate multicolori, lampadari artistici e soprammobili unici, ma non boccette standard per profumo oppure vetro «neutro» per siringhe e fiale farmaceutiche, o ancora, a causa di costi non competitivi con quelli tedeschi o francesi, piccoli oggetti di uso comune. L’effetto dimostrativo costituito dalle più avanzate industrie estere (in altre parole, le influenze transnazionali) e gli orientamenti dei consumatori insieme crearono un formidabile impulso verso una trasformazione in senso industriale che, quando riuscì al meglio, unì le nuove competenze a un antico «saper fare» artigianale che avrebbe posto le basi per il futuro made in Italy. Consumatori e produttori, dunque, sono all’interno di un medesimo processo; e dei consumi finali, oltre alla funzione culturale e politica, va tenuta ben presente la funzione economica. 4. Gli spazi del commercio Ecco la bella sera, amica del criminale: arriva complice, a passi da lupo; il cielo si chiude lentamente, come una grande alcova, e si trasforma in belva l’uomo impaziente. 154 N. McKendrick, J. Brewer, J.H. Plumb, The Birth of a Consumer Society:The Commercialization of Eighteenth-Century England, Indiana University Press, Bloomington 1982. Cfr. anche Consumption and the World of Goods, a cura di J. Brewer, R. Porter, Routledge, London 1993; sul periodo C. Campbell, L’etica romantica e lo spirito del consumismo moderno (1987), Lavoro, Roma 1992.

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O sera, cara sera, desiderata da colui le cui braccia, senza mentire, possono dire: «Anche oggi abbiamo faticato.» – È la sera che dà qualche sollievo agli spiriti divorati da un dolore selvaggio, al pensatore ostinato la cui fronte si piega, all’operaio ingobbito che ritorna al suo letto. Intanto si stanno svegliando pesantemente demoni malsani, come fossero uomini d’affari e, volando, vanno a sbattere contro imposte e tettoie. Attraverso le luci che il vento tormenta la Prostituzione si riaccende nelle vie e come un formicaio disserra tutte le sue uscite. Dovunque si apre un occulto sentiero, simile al nemico che tenta un colpo di mano: s’agita in seno alla città di fango come un verme che ruba all’uomo il suo nutrimento. Si sentono, qua e là, soffiare le cucine, mugghiare i teatri, ronfare le orchestrine; i ristoranti a prezzo fisso, dei quali il giuoco è l’attrattiva maggiore, s’empiono di puttane e di ruffiane (loro complici); e i ladri, che non hanno mai requie, presto inizieranno il loro lavoro: che è di forzare con dolcezza le porte e le casseforti, per campare qualche giorno, per vestire le amanti. Raccogliti, anima mia, in questo momento grave e cerca di chiuder l’orecchio a quel grande ruggito155.

Da una soffitta sovrastante i tetti della Parigi ottocentesca, Baudelaire contempla affascinato e inquieto la nascita della metropoli moderna. Osserva i lavoratori manuali, gli operai, gli artisti, la folla sempre in movimento nelle ampie strade ideate dalle geometrie del «prefetto della Senna» Haussmann; osserva l’esercito dei derelitti, i vecchi, i mendicanti, i ladri, le prostitute, anch’essi inesorabilmente legati alla città tentacolare. E vede i luoghi della città, ristoranti, teatri, sale da ballo e da gioco, che si affollano. La vecchia Parigi scompare, lamenta il poeta; e non è chiaro se il nuovo che subentra sia meglio o peggio. Di certo è segnato da due elementi: la velocità, che si esprime in un ritmo frenetico e diventa la cifra di lettura della vita urbana, e la mercificazione, che informa ogni cosa e spinge gli uomini a sfinirsi di lavoro o a rubare e vendersi. L’artista vorrebbe ignorare il «ruggito» prodotto dalla città, ma non riesce a staccarsi da quello spettacolo. La Parigi ottocentesca doveva essere davvero un grandioso spettacolo; solo Londra, la capitale dell’Impero più vasto, poteva rivaleggiare per ricchezza e potenza, o in parte la Vienna multinazionale156. Molti anni dopo, nel 1935, un esule come Walter Benjamin fu altrettanto 155 C. Baudelaire, Il crepuscolo della sera, in I fiori del male (n. 95) (1857), Mondadori, Milano 1996. 156 C.E. Schorske, Vienna fin de siècle: politica e cultura (1979), Bompiani, Milano 1981.

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colpito dal fascino della città francese e ne scrisse come della «capitale del XIX secolo», facendo riferimento proprio a Baudelaire. Secondo il filosofo berlinese, gli «shock» esperiti di continuo nella vita urbana (luci, rumori, incontri, situazioni nuove) avrebbero forgiato una nuova sensibilità, più nervosa e instabile, tipica ad esempio del flâneur, una nuova figura che si guarda intorno con «lo sguardo dell’estraniato» e, attraverso la folla, vede la città come spettacolo, come fantasmagoria. Una fantasmagoria che trova la sua più compiuta realizzazione nel grande magazzino, «l’ultimo marciapiede del flâneur», dove lo spettacolo è finalizzato alla vendita157. Già vari anni prima un altro berlinese, Georg Simmel, aveva colto acutamente simili tratti nella vita della metropoli. In particolare aveva sottolineato l’atteggiamento intellettuale e distaccato (blasé) dell’abitante metropolitano, che in tal modo si difende dalla sovreccitazione sensoriale che lo aggredisce di continuo; la sua solitudine, che è l’altra faccia dell’accresciuta libertà dal controllo sociale; e soprattutto la centralità del denaro: nella città tutto si basa su un’economia monetaria che misura ogni cosa, trasforma la qualità in quantità, monetizza il tempo, muta le relazioni in contrattazioni158. Tutto questo sembrava materializzarsi fisicamente nei grandi bazar e nei «magazzini di novità», specializzati in accessori e biancheria femminile, e soprattutto nei passages, le prime gallerie commerciali apparse a Parigi a fine Settecento. In luoghi come la Galleria del Palais Royal (del 1789), il Passage Delorme (1808) o la Galleria Colbert (1826), tutto appariva diretto a un consumo spettacolarizzato. Intanto erano luoghi coperti, di passaggio, appunto, tra una strada e l’altra, lussuosamente pavimentati e ben arredati; l’ingresso non implicava quindi la volontà di fare un acquisto; semmai essi invogliavano a passeggiare e soffermarsi accanto alle sfavillanti vetrine che si allineavano l’una dopo l’altra al loro interno, inframmezzate da caffè, ristoranti e teatri. Si proponevano come luoghi di ritrovo e di incontro, dove però la funzione commerciale era inscritta nella stessa architettura. Qui si veniva in contatto con una folla mutevole e sconosciuta; si era attratti da rumori, suoni e luci di tutti i tipi; si era immersi in un’atmosfera scenografica; qui tutto poteva essere comprato o venduto (compreso il sesso, dato che con il tempo alcuni di essi finirono per essere frequentati da prostitute in cerca di clienti). W. Benjamin, I «passages» di Parigi (1982), Einaudi, Torino 2000, vol. I, p. 13. G. Simmel, La metropoli e la vita dello spirito (1900), Armando, Roma 1995; Id., Filosofia del denaro (1900), Utet, Torino 1984. 157

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Il richiamo di questi luoghi era affidato anche alla tecnologia: costruiti nell’Ottocento con moderne coperture di vetro e ferro, lasciavano filtrare di giorno una luce bianca e di sera si illuminavano con l’abbagliante chiarore della luce a gas, che contrastava con la penombra del resto della città. Schivelbusch ricorda l’effetto magico sui primi avventori delle grandi vetrine di caffè e negozi inondate di luce (fino ad allora era stato difficile tecnicamente produrre lastre di vetro di grandi dimensioni): sembravano divenute palcoscenici, dove si recitava senza soste un copione per il pubblico dei passanti, mentre l’intera strada si era trasformata in un teatro senza confini159. Anzi, furono forse le scene teatrali ad adeguarsi alle nuove tecnologie, utilizzandole per illuminare a giorno il palco mantenendo la platea al buio, per marcare il contrasto e accentuare l’illusione scenica160. Le gallerie commerciali si diffusero rapidamente nelle principali città europee, divenendo un polo di attrazione e un vanto; nell’Ottocento la sola Parigi ne conta centocinquanta, ed esse si moltiplicano a Londra (Piccadilly Arcade, Burlington Arcade)161, e anche in Italia, dove negli ultimi decenni dell’Ottocento si costruiscono varie gallerie di grandi dimensioni, come quelle realizzate a Torino, a Genova (Galleria Mazzini) e a Napoli (Galleria Umberto I). A differenza degli originali passages, queste costruzioni sono molto più grandi e monumentali, tanto che l’iniziale finalità commerciale, con il suo carattere di raffinato salotto, si abbina a quella di rappresentanza. Prendiamo la più grande, la neoclassica galleria Vittorio Emanuele II a Milano, progettata da Giuseppe Mengoni e costruita tra il 1865 e il 1877. È la più grande galleria di questo tipo al mondo, con un’enor159 W. Schivelbusch, Luce. Storia dell’illuminazione artificiale nel secolo XIX (1983), Pratiche Editrice, Parma 1994. L’autore ci ricorda come l’illuminazione a gas, derivata dalle scoperte di Lavoisier, e poi elettrica, iniziò per scopi di controllo poliziesco sulla vita urbana (sollevando anche forti opposizioni negli strati popolari), prima ancora che per scopi commerciali. La sua diffusione è un tipico caso di commistione fra elementi tecnologici ed elementi culturali, con settori della classe borghese che restarono a lungo legati all’intimità della fioca luce tradizionale e spazi commerciali che l’adottarono subito. 160 Da notare anche un altro aspetto che sottolinea la spettacolarità di tali luoghi: l’uso di installarvi (all’interno o nelle vicinanze) «panorami», cioè grandi quadri che riproducevano minutamente paesaggi naturali e che, ci ricorda ancora Benjamin, sono gli antesignani della fotografia e del cinematografo (il Passage des Panoramas, creato nel 1800, prende il nome da due grandi rotonde prospicienti l’entrata con queste grandi raffigurazioni paesaggistiche). 161 J. Delorme, A. Dubois, M. Mouchy, Passages couverts parisien, Parigramme, Paris 2002; M.P. Schofield, The Cleveland Arcade, «The Journal of the Society of Architectural Historians», vol. 25, n. 4, 1966, pp. 281-291 (sulle esperienze in Usa).

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me cupola centrale e quattro braccia laterali; alle entrate principali si trovano due archi di trionfo intitolati al re. È chiara qui la volontà di creare un monumento rappresentativo delle ambizioni di una città in crescita, tanto che quando la società privata che aveva iniziato i lavori fallì, fu il comune ad acquisirne la proprietà e ad accollarsi le ingenti spese di realizzazione. Resta però significativo il fatto che l’architettura più maestosa creata per dare decoro e prestigio alla Milano borghese non sia stata un monumento civile (questi erano già dedicati agli eroi del Risorgimento) o un palazzo del governo, un museo oppure una tradizionale opera artistica, ma una galleria commerciale, dove presero subito posto i negozi più prestigiosi della città e i bar alla moda. Prestigio sociale e progresso economico si manifestavano così in forme commerciali. In un ideale cammino evolutivo, il gradino seguente sono i grandi magazzini. Diversamente dalla galleria commerciale, formata da un insieme eterogeneo di imprese, il magazzino costituisce una singola unità (deriva infatti in parte dai «magazzini di novità» e in parte dai grandi bazar che presentavano le merci più disparate). Il Bon Marché di Aristide Boucicault a Parigi (1852) è il prototipo riconosciuto di questa tipologia, il più conosciuto e imitato, quello che divenne in pochi decenni la maggiore società di vendita diretta ai clienti. Allestito in un grandioso edificio all’insegna della modernità, esso spalancava al suo interno davanti agli occhi dei clienti un profluvio di merci lussuose, esotiche e ordinarie; un’infilata di scaloni d’onore, scale e passaggi; un coreografico arredamento di stoffe multicolori, tendaggi e tappeti; uno sfavillio di vetrine, luci e specchi; e poi suoni, musiche, eleganti commessi, omaggi ai clienti, promozioni speciali, fiori per le signore, articoli scontati, palloncini per i bambini, bar, ristoranti, sale per riposarsi e molto altro ancora; un universo magico e autosufficiente, in grado di abbagliare chiunque. La formula è subito ripresa a Parigi (Magasin du Louvre, Le Printemps, La Samaritaine) e in tutta Europa, con luoghi famosi come Harrods a Londra, e più tardi il Kaufhaus des Westens a Berlino, e approda anche in Italia. Simultaneamente aprono i primi department stores negli Stati Uniti: Macy’s, Bloomingdale’s, Wanamaker’s, Marshall Field’s162. 162 B. Lancaster, The Department Store: A Social History, Leicester University Press, London-New York 1995; Cathedrals of Consumption: The European Department Store, 1850-1939, a cura di G. Crossick, S. Jaumain, Ashgate, Aldershot 1999; W.R. Leach, Land of Desire: Merchants, Power and the Rise of a New American Culture, Vintage Books, New York 1994; M.B. Miller, The Bon Marché: Bourgeois Cul-

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I contemporanei non hanno dubbi: il grande magazzino è una svolta nella storia dei consumi e del commercio. Anche intellettuali e scrittori ne sono colpiti ed Émile Zola, come ricordato, vi si ispira per il suo famoso romanzo. Stessa reazione si registra in Italia, dove i fratelli Bocconi guardano all’esempio francese per aprire a Milano nel 1877 il primo grande magazzino, Aux Villes d’Italie (con un nome francese, come voleva la cultura francofila del tempo e forse come indiretto tributo al modello originale). A questo punto può sorgere però una domanda. Se questa tipologia di vendita deriva sia dai passages sia da preesistenti formule commerciali, perché ebbe un tale impatto nell’immaginario collettivo dell’epoca? E perché gli studiosi di oggi concordano sostanzialmente nel ritenerli una cesura rispetto a prima? E, ancora, come si presenta il caso italiano? Per rispondere a tutto questo, dobbiamo fare un passo indietro e tornare a quelli che erano stati fino ad allora gli standard dell’attività commerciale, e cioè i mercati e i negozi. 4.1. Mercati, negozi, botteghe Abbiamo già detto che il commercio rappresenta un elemento fondamentale nel ciclo dei consumi, per le sue connessioni da un lato con il mondo della produzione, dall’altro con quello dei consumatori. La sua funzione è quella di mediatore per eccellenza. In realtà, esso fa molto di più: con le sue originali formule (gallerie commerciali e grandi magazzini ne sono un esempio) esercita uno specifico influsso sul mondo dei consumi, sulla qualità e quantità delle merci disponibili sul mercato, sui modi e i tempi degli acquisti, sul significato culturale e simbolico dei prodotti, sul valore economico degli articoli. Per la sua contiguità con i consumatori, è molto sensibile alle loro esigenze e reazioni, e può instaurare con loro un rapporto di «negoziazione». D’altra parte, può agire da stimolo, o da freno, nei riguardi delle industrie produttrici, e a volte entrare in concorrenza con esse. Una lunga tradizione di studi ci ha portato a considerare la pubblicità come principale tramite fra produttori e consumatori, e come stimolo fondamentale all’acquisto; in realtà, si è sottovalutato in questo modo il ruolo degli spazi commerciali, che non sono affatto «contenitori neutri» ma influiscono sul comportamento di consumo in misura altrettanto grande, perché determinano le modalità pratiche dell’atto di acquisto e creano una cornice di significato e di ture and the Department Store, 1869-1920, Princeton University Press, Princeton 1994; H.G. Haupt, Konsum und Handel. Europa im 19. und 20. Jahrhundert, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2003.

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valore per la merce. La scarsa attenzione che hanno ricevuto dalla storiografia è ingiustificata. La storia dei consumi è anche la storia del commercio. Fiere e botteghe sono forme antichissime di commercio. Le fiere sono state un elemento caratterizzante nella vita economica e sociale per secoli interi, anche se, come è stato osservato, la loro frequenza era forse un indice dell’insufficiente strutturazione del commercio interno, più che un segno della sua floridezza, tanto è vero che zone molto sviluppate dal punto di vista mercantile come Venezia non avevano importanti fiere163. Comunque, le fiere furono grandi occasioni di commercio, di incontro e spesso di festa quasi fino all’Ottocento (le più importanti erano quelle di Senigallia e Bergamo); poi lo sviluppo dei trasporti marittimi e ferroviari fece diminuire l’importanza di tali manifestazioni a favore di strutture più stabili, come i mercati locali. Anche questi svolgevano da sempre la loro funzione nelle principali piazze o vie di città e paesi; ma ora conoscono un processo di specializzazione e gerarchizzazione, suddividendosi per generi, aree e per tipo di clientela. Lo sviluppo urbano investe con forza anche queste strutture: le esigenze di approvvigionamento delle città crescono rapidamente e si provvede a costruire mercati coperti, magari sull’esempio delle grandi Halles Centrales di Parigi. L’esempio più significativo è il Mercato Centrale di Firenze: costruito sull’antica area dei Camaldoli di San Lorenzo, è uno degli edifici realizzati per «modernizzare» il volto di Firenze, divenuta capitale del Regno. Le antiche casette medievali furono abbattute per creare un grande capannone in ghisa, ferro e vetro, per il quale fu chiamato nel 1870 l’architetto Giuseppe Mengoni. Il risultato fu nel complesso positivo, perché il nuovo edificio si armonizzò abbastanza bene con l’ambiente circostante, grazie a una base di arcate di tipo classico, una ricopertura che assicurava molta luce all’interno e un ampio spazio senza ingombranti sostegni. Molti edifici simili comparvero nelle città italiane, in genere vicino agli scali ferroviari, segnalando visivamente il processo di razionalizzazione e industrializzazione che stava subendo il commercio (soprattutto all’ingrosso)164. Questo non comportò, come detto, la scomparsa dei tradizionali mercati all’aperto, bensì una loro evoluzione. Anche le botteghe hanno una storia lunghissima e per molti secoli sono mutate ben poco, con lo spazio interno limitato, l’apertura verso B. Caizzi, Il commercio, Utet, Torino 1975, p. 37. R.V. Moore, L’architettura del mercato coperto. Dal mercato all’ipermercato, Officina, Roma 1997. 163 164

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la strada, il semplice arredo interno, il retrobottega dove si svolgeva spesso un’attività artigianale o comunque complementare alla vendita. Lentamente, dal Settecento, ma più compiutamente dall’Ottocento, l’antica bottega diviene negozio (cioè luogo del «non ozio») nel senso che intendiamo oggi: un ambiente più ampio e più specializzato. Vi è però una grande eterogeneità nell’aspetto di questi luoghi, spesso a metà tra punti di vendita e di produzione o deposito, considerata anche la fiorente presenza di attività artigianali che limitava molto la vendita di prodotti già pronti (oltretutto agli inizi, come abbiamo già ricordato, questi ultimi erano considerati per principio di qualità inferiore: era la tradizione a creare «valore», e la tradizione era a favore dell’artigianato). Inoltre una gran parte del commercio passava attraverso i venditori ambulanti, fossero quelli dei mercati regolari, delle bancarelle improvvisate o semplicemente del «commercio girovago», esercitato in molti modi a integrazione dei magri guadagni, fino a forme che rasentavano l’accattonaggio165. Nei centri cittadini interessati da questo rinnovato sviluppo edilizio si moltiplicarono le rivendite di lusso (tessili, abbigliamento, porcellane e ceramiche, gioielli), i caffè che imitavano i lussuosi arredi aristocratici, le farmacie con scaffalature lignee con pregiati intarsi. È difficile effettuare un censimento preciso di questa élite commerciale, ma si può ritenere che si trattasse di un numero ristretto di rivendite, anche nelle città più grandi; fatto che del resto rispecchiava la limitatezza del commercio di lusso. Ma come si presentavano questi negozi? Osservando le fotografie dell’epoca abbiamo subito un’immagine di lusso ed eleganza, sia che ci mostrino il sobrio esterno, con l’insegna ben visibile (le vetrine non sono centrali in questo tipo di comunicazione visiva, sono spesso opache o poco appariscenti); sia che ci mostrino gli interni. Ad esempio, nei negozi di tessuti e articoli di merceria osserviamo ampi banconi che separano lo spazio riservato ai venditori da quello riservato ai clienti (o meglio, alle clienti); addossati alle pareti notiamo armadi, alte scaffalature di legno, cassetti e ripostigli che segnalano la presenza di una gran quantità di merce; tutt’intorno arredi raffinati (tendaggi, tappeti, lampadari, soprammobili, sedie, specchi) che suggeriscono un’atmosfera da salotto166. In primo piano, però, c’è sempre un commesso che mostra un prodotto a un’elegante signora: è lui il vero protagonista, il tramite ineludibile per la vendita, 165 166

Caizzi, Il commercio cit. pp. 51-55, 181-183. Cfr. il ricco materiale fotografico al riguardo contenuto nell’Archivio Ali-

nari.

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l’animatore di questo spazio pubblico, l’esperto e il consigliere, anche perché gran parte della merce non è esposta ed è lui a farla «apparire»; e poi non c’è l’uso di esporre il prezzo. Ma questo quadro era l’eccezione, non la regola, nel quadro del commercio italiano, come ci ricorda con sferzante ironia Eduardo De Filippo (riferendosi oltretutto a un periodo successivo): «Ma non è sempre stata la provincia che ha sostenuto i negozi del Rettifilo? Quando mai l’aristocrazia e la gente elegante hanno fatto vivere i commercianti? In ogni città ci stanno due, al massimo tre negozi che riescono a fare fesso il signore, il rimanente come non esistesse per lui»167. Per i 965.000 addetti del commercio censiti nel 1911, la situazione doveva essere ben diversa. Gli spazi erano più angusti e meno raffinati, i commessi erano ridotti allo stesso negoziante, magari coadiuvato dai familiari; gli arredi ridotti all’essenziale: c’erano il bancone e qualche armadio o contenitore per la merce168. Massimo Bontempelli così ricorda un tipico spaccio: presso l’angolo che la via fa con una piccola piazza, e in una casa la cui faccia è tutta ombreggiata da rami spogli di vecchia edera e da rossastre scrostature simmetricamente intricate, s’apre (e tutte le sere si chiude) uno spaccio di sale e tabacchi. [...] Ivi [...] si vendono, oltre che Sali e tabacchi, anche bicchierini d’acquavite agli uomini, cartoline illustrate alle donne, liquirizia ai ragazzi, e commestibili vecchi in scatola agli inesperti della vita169.

167 E. De Filippo, Sabato, domenica e lunedì, Einaudi, Torino 1959, atto I (ripreso in R. Minore, U. Silva, Il commercio nella letteratura italiana, Newton Compton, Roma 1986, pp. 78-79). 168 Per fare qualche esempio, in una città come Milano nel 1880 vi erano 58 fabbriche di alcol e liquori, 97 fabbriche di cioccolata, 31 caseifici, 84 ofellai (tutti con rivendita) e poi 798 fruttivendoli ed erbivendoli, 422 orticultori e botanici, 294 negozi di coloniali, 218 macellai, 170 pollivendoli, 400 panettieri e pastai, 321 salumieri, 185 venditori di formaggi, 344 venditori di legna, oltre a numerosi bazar (B. Caizzi, Milano e l’Italia. La vocazione economica di una città, Unione del Commercio e del Turismo della Provincia di Milano, Milano 1976, p. 96). Nello stesso periodo, per il solo settore dell’abbigliamento, a Roma si trovavano 40 negozi di biancheria, 253 negozi di sarti da uomo e 85 da donna, 201 mercerie, negozi di moda e novità, 7 modiste, 9 pelliccerie (S. Martini, I negozi d’epoca a Roma, Newton Compton, Roma 1995, p. 31). Sui negozianti, la loro collocazione sociale e politica cfr. J. Morris, The Political Economy of Shopkeeping in Milan, 1886-1922, Cambridge University Press, Cambridge 1993. 169 M. Bontempelli, Quello spaccio di sale e tabacchi, in Racconti e romanzi, Mondadori, Milano 1961 (ripreso in Minore, Silva, Il commercio cit., pp. 33-34).

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E Luigi Pirandello è ancora più dettagliato nel descriverci gli interni di una bottiglieria: Ero entrato in quella Bottiglieria, io che non bevo vino, per far compagnia a un amico forestiere, che pare non possa andare a letto senza il viatico, ogni sera, d’un buon bicchierotto. Due sale comunicanti per un’arcata in mezzo: una, più bassa: l’altra, tre gradini più sù; lugubri tutt’e due, con le pareti a metà coperte da uno zoccolo di legno. La prima, con l’impalchettatura dei liquori, stinta, unta, impolverata, e un vecchio banco di mescita davanti; l’altra, dove c’eravamo messi a sedere, col solo giro di tavolini tozzi verniciati di giallo e quattro lampadine che pendevano dal soffitto, filo e padellina. [...] Intanto altri avventori erano venuti. Alcuni, nell’altra sala, giocavano a carte. Ogni tanto, urli, putiferio, e poi non era più niente170.

Le testimonianze letterarie potrebbero proseguire. Esse confermano quello che ci appare dalla documentazione fotografica sui negozi del periodo, proveniente dai molti libri illustrati sulla storia delle città (un genere molto popolare, a giudicare dalla quantità di pubblicazioni presenti nelle librerie)171 e dai ricchi archivi fotografici che abbiamo a disposizione172. L’impressione che ne ricaviamo è univoca: luoghi poveri, despecializzati. Ma se ci sbagliassimo? Dopotutto, le fonti letterarie sono una libera trasposizione della realtà, come ben sappiamo; un’interpretazione, magari dal tono realistico, ma pur sempre un’interpretazione. E le fotografie? In effetti, anch’esse sono meno «oggettive» e neutre di quello che sembrano173. Lo scatto può bloccare uno specifico momento della vita, magari quello non usua-

170 L. Pirandello, Un po’ di vino, in Novelle per un anno, Mondadori, Milano 1921 (ripreso in Minore, Silva, Il commercio cit., p. 14). 171 Oltre ai libri fotografici sulla storia delle varie città, è da segnalare il recente interesse per i negozi storici, anche a seguito di iniziative pubbliche (grazie a Comuni, Regioni, associazioni di rappresentanza) di valorizzazione di questo patrimonio, con relativa pubblicazione di volumi specifici. 172 Per questa ricerca, sia riguardo ai negozi che ad altri aspetti dei consumi, abbiamo fatto ampio uso del materiale fotografico di Alinari, che comprende numerosi archivi al suo interno. 173 Sulla fotografia cfr. G. Autilia, L’indizio e la prova. La storia nella fotografia, B. Mondadori, Milano 2005; G. De Luna, La passione e la ragione. Il mestiere dello storico contemporaneo, B. Mondadori, Milano 2004; nonché il provocatorio lavoro di D. Freedberg, The Power of Images: Studies in the History and Theory of Response, University of Chicago Press, Chicago 1989, secondo cui le immagini avrebbero su di noi un potere evocativo ben più forte di quanto i formalismi e gli schemi teorici degli storici e degli storici dell’arte facciano supporre.

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le, o ricercare appositamente situazioni a effetto per il loro impatto visivo, cogliendo così solo un aspetto parziale della realtà. Inoltre (come è evidente soprattutto dall’analisi delle fotografie professionali, che sono poi la maggioranza di quelle che ci sono giunte di quel periodo), seguono regole «stilistiche» precise, nella scelta dei soggetti, nella composizione del quadro, nei primi piani o nei paesaggi, nell’accostamento delle immagini. Insomma, sono anch’esse una «costruzione». Il tutto è aggravato dal fatto che noi (gli osservatori) ci troviamo in una situazione di lontananza temporale, spaziale e culturale dagli oggetti ritratti. Una fotografia in bianco e nero, che ritrae un maccheronaio napoletano, il cui negozio è composto da una bassa credenza posta appena fuori dal portone di casa, insieme a un tavolino e un seggiolino mezzi storti, con il venditore che sorride dietro la credenza e due avventori che mangiano con il piatto in mano174 – oppure un’immagine un po’ ingiallita del caffè-bottiglieria Vairo a Torino, dove gli avventori, seduti all’interno, salutano il fotografo con i bicchieri alzati in mano175 – o ancora, il coreografico banchetto di un venditore di angurie a Napoli, che si presenta con le angurie tagliate in mano, contornato da frasche verdi e una sfilata di frutti maturi sul carretto, come un attore in mezzo alla scena176 – ebbene, queste fotografie possono farci sorridere, provocando un sentimento di simpatia o commozione per un mondo che non esiste più; oppure, se si vuole, di sollievo per le trasformazioni intervenute. Inoltre anche i nostri criteri di valore sono cambiati: quello che a noi appare come povertà, per loro era forse normalità; quello che per noi è curiosità, per loro era quotidianità. In ogni caso, non siamo e non possiamo essere spettatori oggettivi e distaccati, per il semplice fatto di essere qui e adesso (e non là e allora). Non esiste naturalmente un rimedio a questa situazione; semplicemente dobbiamo esserne sempre ben consapevoli. 4.2. I grandi magazzini: un modello europeo? All’elegante signora che passeggiava a inizio Novecento nel centro di Milano, proprio a fianco del Duomo, si sarebbe aperto all’improvviso uno scenario ben diverso ri-

174 Archivio Alinari, Archivio Brogi di Firenze, fotografo Brogi, n. inventario BGA-F-005624-0000, Napoli 1879-1910 ca. 175 Archivio Alinari, Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari di Firenze, fotografo M. Gabinio, n. FVQ-F-029895-0000, Torino 1925-35 ca. 176 Archivio Alinari, Archivi Alinari-archivio Chauffourier, Firenze, fotografo G.E. Chauffourier, n. CGA-F-005424-0000, Napoli 1900 ca.

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spetto a quello dei negozi abituali. Intanto, un grande palazzo interamente dedicato agli acquisti: un edificio signorile con un arioso porticato di colonne di granito rosso e finestre a loggia, sormontato da due cupole angolari. Le ampie vetrine all’entrata, come quadri scenografici composti da merci lussuose, promettevano un’esperienza speciale: spettacolari, illuminate, ricche, quasi spazi di comunicazione tra la strada e il favoloso interno che lasciano intravedere. Difficile resistere alla tentazione di entrare... Ed eccoci infatti nel salone centrale: un vastissimo ambiente dal quale si può avere un colpo d’occhio spettacolare: uno spazio aperto enorme, colmo di vetrine, mobili e merci, e sopra, altri tre piani, con balconate che corrono tutt’intorno e uno scalone d’onore che troneggia in mezzo alla scena. In alto, il soffitto a vetrate colorate fa filtrare una luce surreale. Prevalgono i colori bianco e oro, che contrastano con il legno lucido di pavimenti e banconi e le tinte vive di tappeti e tende, il tutto esaltato dal luccichio di specchi, cristalli e lampadari. E dappertutto merce, merce, e ancora merce: non nascosta in armadi o magazzini, ma provocatoriamente esposta sui tavoli o ammiccante dietro le vetrinette, pronta per essere toccata, provata, in piena libertà – anche perché gli eleganti commessi intervengono solo con discrezione, e poi il prezzo è ben esposto sul cartellino. Che impressione girare per quegli spazi liberi: nel reparto «biancheria», uno dei più grandi, migliaia di capi sono disposti ordinatamente su bassi banchi di legno e molti altri spuntano all’interno degli armadi a vista; nel settore «laneria» si trovano lunghe file di abiti confezionati, all’ultima moda di Parigi, possiamo scommettere, mentre drappi di stoffe multicolori ricadono dalle pareti. La zona «profumeria» e «chincaglieria» presenta grandi vetrine illuminatissime piene di prodotti di bellezza e monili; nel reparto di abbigliamento da donna si passeggia fra manichini vestiti di tutto punto e altissime vetrine di cristallo, dalle caratteristiche superfici curve, che racchiudono gli abiti più preziosi, le pellicce, i piumaggi, i cappellini. Ma non finisce qui: la nostra signora non crederà ai suoi occhi giungendo al reparto «servizi da tavola» per l’incredibile numero di bicchieri, stoviglie e arredi esposti, e delle marche più prestigiose; persino il settore «giocattoli» è ricchissimo: si fa quasi fatica a camminare fra tricicli e carretti di legno, cavalli a dondolo, bambole, maschere e balocchi colorati. Stanchi? Non c’è problema. All’ultimo piano ci si può riposare in un elegante salotto (con splendida vista sul Duomo), gustare una tazza di tè ascoltando musica o recarsi nei saloni di pettinatura. I pacchetti pesano? Il magazzino provvede a consegnare tutto a domicilio; e se vogliamo, possiamo scegliere la merce con comodo a casa tramite il catalogo illustrato. Uscendo, lanciamo un’ultima occhiata ai manifesti pubblicitari di Dudovich appesi alle pa81

reti: non c’è dubbio, quelle eleganti e moderne figure stilizzate che incedono con stile e sicurezza nel mondo, ora siamo proprio noi177. Non era solo la sede centrale del magazzino dei fratelli Bocconi, ex commercianti di tessuti di Lodi, a offrire un simile spettacolo. Non meno prestigiose erano le sedi aperte in altre città d’Italia (Torino, Genova, Bologna, Firenze, Napoli, Palermo) e soprattutto la modernissima filiale di Roma, inaugurata nel 1877 in piazza Colonna: l’edificio commerciale dalle altissime arcate non stonava affatto nel cuore mercantile della capitale, vicino a Palazzo Chigi, quasi a rivendicare anche qui la centralità e visibilità dei grandi magazzini. A Napoli poi sorgevano i principali concorrenti dei Bocconi, i Grandi Magazzini Mele, che Emidio Mele aveva aperto nel 1889 al pianterreno del nuovissimo Palazzo della Borghesia, in via Santa Brigida, non lontano dal teatro San Carlo. Anche in questo caso, si puntava ad acquisire una clientela borghese sensibile al richiamo del gusto e della moda (il loro motto era «massimo buon mercato»), anticipando molte soluzioni moderne, ad esempio il ricorso a una pubblicità cartellonistica di qualità178. Né mancavano esempi di empori minori ben organizzati un po’ in tutte le grandi città, con casi interessanti anche nel mondo della cooperazione (il primo magazzino cooperativo era sorto a Torino nel 1853): gli spacci dell’Alleanza cooperativa torinese, dell’Unione cooperativa di Milano, dell’Unione militare di Roma erano fra i più fiorenti magazzini del tempo179. Certo, la sfavillante facciata nascondeva una complessa realtà. La formula si basava su alti volumi di vendita e una veloce rotazione del magazzino, sul prezzo fisso e l’eliminazione dell’obbligo di acquisto; tutto ciò comportava un’enorme macchina amministrativa180 (già nel 1900 i magazzini Bocconi avevano ben 3000 dipendenti per svolgere

177 Sulla Rinascente cfr. F. Amatori, Proprietà e direzione. La Rinascente 19171969, Franco Angeli, Milano 1989; E. Papadia, La Rinascente, il Mulino, Bologna 2005, pp. 21-36. Per la descrizione cfr. i cataloghi pubblicati dalla Rinascente e il materiale fotografico dell’Archivio Touring Club Italiano, Gestione Archivi Alinari, Milano (molti riferimenti riguardano l’edificio ricostruito dopo l’incendio del 1918 – quando diviene «La Rinascente» su suggerimento di D’Annunzio – e il passaggio di proprietà al gruppo finanziario guidato da Senatore Borletti). 178 I manifesti Mele: immagini aristocratiche della belle époque per un pubblico di grandi magazzini, a cura di M. Picone Petrusa, Mondadori, Milano 1988. I Magazzini Mele creano filiali anche a Palermo, Catania e Tripoli. 179 V. Zamagni, P. Battilani, A. Casali, La cooperazione di consumo in Italia. Centocinquant’anni della Coop consumatori: dal primo spaccio a leader della moderna distribuzione, il Mulino, Bologna 2004. 180 A.D. Chandler jr., La mano visibile. La rivoluzione manageriale nell’economia americana (1977), Franco Angeli, Milano 1981.

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tutte le funzioni di vendita, spedizione, immagazzinamento, contabilità). Quella che si presentava come la risposta del commercio alle grandi imprese di produzione condivideva con esse i problemi del lavoro. L’impiego nei grandi magazzini celava una realtà di dura disciplina, stipendi a cottimo, precarietà e limitate possibilità di carriera per la gran parte dei dipendenti (in maggioranza uomini). E i rapporti potevano essere difficili non solo con i superiori ma anche con la clientela181. Come nella visione di Baudelaire, anche questo simbolo della modernità urbana, pur così attraente, presentava un lato ambiguo, oscuro. Ci siamo chiesti più sopra perché il grande magazzino abbia avuto un impatto così forte nell’immaginario collettivo. Abbiamo ora molti elementi per rispondere, e possiamo sintetizzare le nostre tesi nei seguenti punti. Primo. Il grande magazzino sembra incarnare il mito del progresso e la passione per le novità diffusi tra fine Ottocento e inizio Novecento (almeno fino a quando la bufera del primo conflitto mondiale farà liquefare la fiducia nelle «magnifiche sorti e progressive»). Come nel Ballo Excelsior, anche nei grandi magazzini la Luce aveva trionfato sull’Oscurità: erano stati in effetti i primi edifici ad adottare l’illuminazione elettrica, così come a installare la meraviglia degli ascensori idraulici, a dotarsi di riscaldamento centralizzato, a installare specchi e vetri di grandi dimensioni (spesso ordinati all’estero) e infine, poco dopo, le scale mobili – piazzate ben in vista al centro dell’edificio: la tecnologia andava messa in primo piano, era parte integrante del fascino dei grandi magazzini. E il senso di novità non riguardava solo la tecnologia, ma le stesse merci, che venivano di continuo cambiate, trasformate, migliorate secondo i dettami dell’ultima moda – in un processo di innovazione perenne. Il grande magazzino rappresenta la «modernità» urbana. Secondo. Qui si realizza in pieno il processo di spettacolarizzazione della merce. La presenza in un unico luogo di una grande quantità di merce, accessibile e visibile in un solo colpo d’occhio, induce un senso di meraviglia per la sua unicità. Il «contenitore» poi, cioè il luogo fisico del grande magazzino, è costruito per affascinare il visitatore per la sua grandezza, la ricchezza, la comodità e piacevolezza del suo ambiente – caratteristiche che si riverberano sui prodotti esposti, che acquisiscono un maggiore valore per via della preziosa cornice in cui 181 S. Salvatici, Al servizio dei consumatori. I lavoratori e le lavoratrici dei grandi magazzini, in Il secolo dei consumi. Dinamiche sociali nell’Europa del Novecento, a cura di S. Cavazza, E. Scarpellini, Carocci, Roma 2006, pp. 117-139.

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appaiono (come ha osservato Miller, non si vendono solo le merci ma lo stesso concetto di consumo)182. La conseguenza è che si saldano definitivamente i concetti di consumo e di divertimento (leisure): mi diverto nei luoghi del consumo, mi diverto a consumare. Terzo. Il rilievo che i nuovi luoghi del consumo acquistano nelle città porta a una ridefinizione degli spazi urbani. Si crea cioè un circuito legato al consumo e al leisure che diviene centrale nella definizione della metropoli moderna, e che include empori, gallerie, vie commerciali accanto a luoghi del divertimento commercializzato come teatri, caffè, impianti sportivi. Ciò contribuisce a definire una nuova gerarchia degli spazi urbani, a valorizzare quelli legati al consumo, sempre più luoghi di incontro sociale per il «passeggio» e meta di turisti (magari a scapito dei luoghi tradizionali legati al potere civile e religioso). È interessante osservare come questo fenomeno abbia i suoi epicentri nelle principali capitali europee (Parigi, Londra), a sottolineare le influenze transnazionali delle forme del consumo. Quarto. Questi nuovi spazi sono socialmente connotati: non sono gli spazi dell’aristocrazia e certamente non sono quelli della classe operaia; appartengono alla borghesia e riflettono i suoi valori e le sue pratiche di consumo. L’ampia crescita di tale settore sociale per effetto dello sviluppo industriale porta nel tempo a una stratificazione della clientela e a un allargamento verso il basso (piccola borghesia impiegatizia). Ha così luogo il fenomeno che è stato definito di democratizzazione del lusso, che però non è la semplice riproposizione dei consumi aristocratici in chiave povera, ma l’abbinamento della ricerca di distinzione con valori come l’efficienza e il risparmio. Tutto questo è vero, ma forse manca ancora un elemento, qualcosa che ci sfugge. Rileggiamo alcune descrizioni del grande magazzino: È superfluo descrivere la grandiosità del «Gran Magazzino» nei suoi dettagli. Ognuno può vederlo da sé. [...] Il Bernini o il Vanvitelli, non ebbero imposizioni di altezze, di numero di piani, di vetrate ad oltranza, di cortili coperti, di abolizione o quasi di pilastri e di marmi per sostituirvi colonne di ghisa e travi di ferro o di cemento armato. [...] Ma, epoca per epoca, scopo per scopo – avvicinando ad esempio il confronto anziché all’ambiente austero di un teatro greco o romano a quello tutto dorature e stucchi di una grande sala di spettacoli moderna – bisogna riconoscere che vi è nel palazzo di

182

Miller, The Bon Marché cit., p. 166.

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un Grande Magazzino una somma di meraviglie che costituisce una visione di bellezza183.

O su un manifesto per la riapertura della Rinascente: Come un avvenimento mondano e un fatto di costume nella città, una specie di prima della Scala, tanto importante che una dama di raffinata eleganza, altera nella sua bellezza regale sottolineata da un’acconciatura incredibile di grandi piume bianche, incede verso una persona che le offre su un cuscino di velluto le chiavi che apriranno le porte di tanta e tanto attesa meraviglia184.

Che termini sono usati per parlare dei grandi magazzini? A quali immagini mentali sono accostati? Ecco il punto. I clienti entusiasti in un certo senso conoscevano già questi nuovi spazi del consumo; sapevano che avrebbero assaporato un grande spettacolo; erano consapevoli in anticipo degli effetti di meraviglia e fascino che li attendevano. Li avevano già incontrati: a teatro. Il teatro rappresentava lo schema originario su cui modellare altre esperienze, un Ur-testo, una grammatica alla quale ricondurre nuove situazioni. Ed ecco che lo spettacolo dei grandi magazzini diventa come quello inscenato sulle ribalte teatrali; luci, tecniche, costumi, colori, musiche, arredi: tutto è come sulle scene. I consumatori sono come gli spettatori; gli spazi del grande magazzino appaiono delimitati, protetti, organizzati come quelli teatrali; le artistiche e scintillanti vetrine, come le scene, non fanno trasparire il duro lavoro che c’è dietro; l’aspettativa di un’esperienza piacevole e divertente, e non troppo impegnativa, è identica. Il grande magazzino ricalca il modello del teatro: per questo viene capito e accettato subito185. E, come a teatro, un elemento fondamentale risultano le donne. As183 L.V. Bertarelli, Note intorno a un «grande magazzino», «Le vie d’Italia», 7, luglio 1922, pp. 706-707. 184 Manifesto di Mauzan per la riapertura della Rinascente (cit. in Papadia, La Rinascente cit., p. 27). 185 Osserviamo anche che i grandi magazzini sono stati spesso equiparati alle Esposizioni Universali, come quella di Londra del 1851 con il suo Crystal Palace, quella di Parigi del 1889 con la Tour Eiffel, e anche quelle italiane, come l’Esposizione d’arte decorativa moderna a Torino del 1902 (con i padiglioni fantasiosi ed esotici disegnati da D’Aronco) e quella di Milano del 1906 per celebrare il Sempione (con numerose costruzioni monumentali e tecnologiche). In linea con la tesi di cui sopra, la vicinanza stilistica non è per niente casuale: anche le esposizioni sarebbe state create sulla base del medesimo modello teatrale (spettacolare, innovativo, grandioso, ricco di merci, effimero); sul loro significato cfr. L’Italia industriale nel 1881: conferenza sulla Esposizione nazionale di Milano, a cura e con saggio introduttivo di E. Decleva, Banca del Monte, Milano 1984; L. Aimone, C. Olmo, Le esposizioni universali 1851-1900: il progresso in scena, Allemandi & C., Torino 1990.

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sidue frequentatrici della vita scenica (e principali lettrici delle riviste teatrali), le donne erano protagoniste come spettatrici – allo stesso modo in cui divengono le principali consumatrici. E se sul palcoscenico le artiste sono simbolo di grande fascino ma anche di dubbia moralità, allo stesso modo le commesse, attrici sulla scena del grande magazzino, sono persone desiderate e ammirate ma anche oggetto di severe critiche morali per la loro distanza dalle virtù muliebri tradizionali. La massiccia presenza di donne negli spazi del consumo fin dalle origini, in un’epoca in cui continua a prevalere l’idea di un confinamento negli spazi privati domestici, non può essere spiegata solo con l’atmosfera sicura e decorosa di questi luoghi186, ma perché questi appaiono, grazie alla loro consonanza con il teatro, culturalmente appropriati per le donne – luoghi dove rappresentare la «messa in scena» di sé stesse. L’irruzione delle donne sulla scena pubblica (che Habermas ci ricorda essere stata prerogativa esclusiva degli uomini per secoli) ha però anche contraccolpi; affascina e spaventa al tempo stesso, dando origine a stereotipi negativi: l’attrice è spesso ritratta alla stregua di una prostituta (donna pubblica, appunto)187; la consumatrice diviene nell’immaginario del tempo una cleptomane – entrambe infrangono la morale prima ancora che la legge. Ma ciononostante, le donne conquistano uno spazio pubblico che diviene importante per definire la loro identità – nel mondo del teatro così come in quello dei consumi, che diventa così uno spazio «genderizzato». Lo spettacolo si confonde con la vita e la vita con lo spettacolo. 186 Su questo punto, molto sottolineato dalla recente storiografia, cfr. Getting and Spending: European and American Consumer Societies in the Twentieth Century, a cura di S. Strasser, C. McGovern, M. Judt, Cambridge University Press, Cambridge 1998; E.D. Rappaport, Shopping for Pleasure: Gender and Public Life in London’s West End, 1860-1914, Princeton University Press, Princeton 2000; The Sex of Things: Gender and Consumption in Historical Perspective, a cura di V. de Grazia, E. Furlough, University of California Press, Berkeley 1996. 187 M.R. Roberts, Gender, consumption, and commodity culture, «The American Historical Review», vol. 103, n. 3, giugno 1998, pp. 817-844; The Invention of Pornography: Obscenity and the Origins of Modernity, 1500-1800, a cura di H. Lynn, Zone Books, New York 1993.

Capitolo secondo

Il fascismo

1. Il regime La bellissima danzatrice si accascia sul letto del Grand Hotel metropolitano, facendo increspare il raso della coperta in mille pieghe. Indossa una vestaglia di seta, con ricchi decori ai polsi e lungo tutta la scollatura. Ha un trucco appariscente: sopracciglia alte, lunghe ciglia nere, cipria, rossetto, profumo intenso (possiamo scommettere). La stanza è splendidamente arredata, stile art déco, con lunghe tende di velluto fino a terra, mobili con intarsi dorati, ampie poltrone imbottite, lampade artistiche, quadri di paesaggi, fiori. Ma questo non può certo consolare la donna, che solleva con aria pensosa la cornetta del telefono. È allora che il fascinoso barone balza fuori, vestito scuro e capelli pettinati all’indietro, le si precipita vicino e le dichiara il suo perduto amore. Lui (John Barrymore) la guarda intensamente, lei (Greta Garbo) guarda lontano. Lo respinge: «Devi andare ora. Voglio essere lasciata sola»1. L’ambiguo epilogo della storia non intacca l’effetto sulla platea di spettatori e spettatrici che guardano il film, rapiti da quel mondo incantato. L’anziano guardiano del Metropol deve sollecitare tutti a uscire, e allora i ragazzi si stringono verso l’uscita, con i loro vestiti di ruvide stoffe autarchiche, fatti in casa, le scarpe di salpa, qualche accessorio di moda comprato ai magazzini popolari. Si allontanano a piedi, qualcuno prende il tram. Il guardiano inforca sbuffando la sua vecchia Bianchi e inizia a pedalare cigolando verso casa. Tutte le sere la stessa storia. 1

La scena è quella del film Grand Hotel, regia di E. Goulding, Usa, 1932.

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L’economista Simon Kuznets ha passato anni a interrogarsi sul significato dell’espressione «crescita economica moderna»2. Quand’è che una nazione può dirsi sviluppata nel senso che intendiamo oggi? Quando il settore industriale diventa preminente? O quando il prodotto interno e quello pro capite crescono in misura significativa e costante? La complessa descrizione di fattori economici, sociali e culturali che lo studioso dipinge per spiegare la sua teoria sembra adattarsi piuttosto bene all’Italia fra le due guerre; peraltro, quasi tutti concordano nel ritenere che sia proprio questo il momento in cui il paese diventa industrializzato (alla fine degli anni Trenta avviene anche il sorpasso dell’industria sull’agricoltura come valore aggiunto). Questa valutazione è confermata da uno sguardo alle immagini dell’epoca (filmati, fotografie, pubblicità): si ha l’impressione di uno stacco rispetto al periodo precedente; ci sembrano più «moderne», più vicine a noi. L’analisi di Kuznets, oltre a confermarci che l’Italia è entrata in una nuova fase economica e culturale (non dimentichiamo il drammatico impatto della Prima guerra mondiale), ci interessa in modo particolare per quello che riguarda i consumi. Quali fattori generali influenzano la crescita dei consumi nelle economie moderne? Il prerequisito è ovviamente la crescita del reddito pro capite, cioè un consistente aumento delle risorse economiche a disposizione di ogni famiglia. Tuttavia un’aumentata ricchezza non si traduce necessariamente in un aumento dei consumi. In passato i consumi «eccessivi» sono stati spesso legati a connotazioni negative come lo spreco e la dissipazione, come abbiamo visto; storicamente, molti gruppi umani hanno concepito la ricchezza più come accumulazione che come consumo. Invece in queste economie la gran parte della ricchezza disponibile è spesa, non risparmiata; siamo in presenza quindi di un’alta propensione al consumo. Da dove deriva questa nuova attitudine? È possibile suddividere i fattori che influenzano i consumi nel lungo periodo in tre grandi categorie3. La prima riguarda il cambiamento delle condizioni di vita. L’urbanizzazione, per iniziare, a causa della crescente specializzazione e divisione del lavoro, induce una crescita dei consumi commercializzati particolarmente avvertibile per le merci un tempo prodotte all’interno della famiglia (cibo, vestiario). Inoltre, molti di questi beni e servizi sono più costosi in città, per via delle spese di trasporto e di distribuzione, e questo fa aumentare il lo2 S. Kuznets, Modern Economic Growth: Rate, Structure, and Spread, Yale University Press, New Haven-London 1966. 3 Seguiamo qui l’analisi proposta da Kuznets, ivi, pp. 262-284.

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ro impatto sulle famiglie. Infine la vicinanza con gruppi sociali differenti, il distacco culturale degli immigrati dalle tradizioni originarie, la tipica apertura della cultura urbana inducono a nuovi e maggiori consumi (ad esempio nel settore dell’intrattenimento e della cultura). Un secondo importante fattore, spesso sottovalutato, è legato a una differente composizione sociale e a mutamenti nella redistribuzione del reddito. La formazione di una classe piuttosto estesa di lavoratori dipendenti, a scapito di artigiani, commercianti e agricoltori, ha fatto aumentare la propensione al consumo. In precedenza, gli imprenditori tendevano ad avere un’alta propensione al risparmio, poiché in tal modo incrementavano il loro capitale e aumentavano le loro possibilità di successo sul mercato (è questo forse che spiega i modelli di vita austeri rilevati in alcune categorie professionali, come banchieri e commercianti). Gli impiegati, invece, sono maggiormente spinti a investire su sé stessi e sui loro figli (cioè sul capitale umano), spendendo nell’educazione e nella cultura; i professionisti e i manager, poi, hanno una tendenza al consumo ancora più elevata, non solo per le maggiori esigenze legate all’istruzione e alla formazione, ma per l’adozione di un superiore standard di vita. Quando poi, con politiche redistributive, si è aumentato il reddito a disposizione di alcune fasce meno abbienti, questo ha ulteriormente favorito un incremento dei consumi di base. Il terzo fattore è il progresso tecnologico. È questo un punto fondamentale, perché è in grado di indurre profondi mutamenti nei consumi tradizionali e di introdurre nuove categorie di prodotti. Il fascino delle nuove merci ha spinto verso consumi maggiori, da un lato, e verso una crescente diversificazione delle merci acquistate, dall’altro (la maggiore diversità tra la struttura dei consumi in Italia a inizio e fine Novecento risiede proprio nella crescita di voci diverse da quelle fondamentali cibo-casa-vestiario). È certamente possibile riconoscere queste caratteristiche nell’Italia degli anni Venti e Trenta – consolidamento dell’urbanizzazione, dilatazione delle classi medie, impatto delle nuove tecnologie. Ma il carattere peculiare del periodo viene dalla politica, da quel fascismo che pone fine ai governi liberali, inaugura un regime di propaganda e mobilitazione che gli italiani non avevano mai visto, proclama l’avvento dell’economia corporativa e scende esplicitamente anche nell’arena dei consumi. 1.1. Autarchia, genere, razza Prima di tutto le cifre: nel 1938 il Pil pro capite di un italiano è pari a 3819 lire (cresciuto al ritmo dello 0,9 per cento annuo rispetto a quello del 1911); i consumi privati pro capite 89

uguali a 2586 lire (aumentati dello 0,7 per cento annuo)4. Quindi i consumi sono aumentati meno del reddito (contrariamente a quanto era avvenuto nel periodo liberale e a quanto avverrà in seguito). Il primo dato indica quindi una relativa compressione dei consumi privati. Tuttavia la cifra impiegata nei consumi si distribuisce in maniera diversa: il dato più evidente è la netta caduta della spesa percentuale per i consumi alimentari (scende di dieci punti e si attesta intorno al 50 per cento); perdono qualcosa il vestiario e le calzature (ora al 9 per cento), mentre aumentano le quote di spese per la casa, per l’igiene e la bellezza e, più di tutte, per beni durevoli e trasporti (dal 4 all’11 per cento)5. Siamo in presenza quindi di una maggiore diversificazione, anche se è opportuno notare la forte compressione degli alimentari. Il paniere dei cibi non conosce però drastiche variazioni: si conferma il primato del frumento, pur in lieve calo, accanto a granoturco, patate e legumi secchi; ortaggi e frutta diminuiscono, mentre resta scarsa la presenza di alimenti ricchi come la carne, lo zucchero e il caffè, e il consumo di vino vede grandi oscillazioni. Che la dieta diventi meno ricca è confermato dal conteggio delle calorie del pasto medio giornaliero, che risultano inferiori a quelle dei decenni precedenti6. Simili conclusioni sono confermate dall’analisi dei bilanci familiari del periodo, che sottolineano anche la persistenza di differenze dovute a fratture sociali e di classe, geografiche (regionali, città/campagna) e anche di genere7. Il 4 G.M. Rey, Novità e conferme nell’analisi dello sviluppo economico italiano, in I conti economici dell’Italia, a cura di G.M. Rey, vol. III, Il conto risorse e impieghi (1891, 1911, 1958, 1951), Laterza, Roma-Bari 2003, p. LII. 5 Ivi, p. XXIII. I dati completi relativi ai consumi privati nel 1938 sono (in milioni di lire): alimentari, bevande e tabacco 57.862 (51%); spese per la casa 14.540 (13%); vestiario e calzature 10.813 (9%); igiene, salute, altri beni e servizi 18.767 (16%); durevoli, trasporti e comunicazioni 12.373 (11%). 6 Istat, Sommario di statistiche storiche dell’Italia 1861-1975, Istat, Roma 1976, pp. 157-161. Le calorie medie giornaliere del decennio 1931-40 sono 2641, contro le 2834 del decennio precedente, e le 2694 del 1911-20 (scenderanno fino a 2171 nel 1941-50). 7 Cfr. in particolare l’inchiesta Inea (Istituto nazionale di economia agraria) del 1928-37 sulle famiglie agricole e della Confederazione dei lavoratori d’industria del 1937 sulle famiglie operaie, in S. Somogyi, Cento anni di bilanci familiari in Italia (1857-1956), «Annali Feltrinelli», II, 1959, pp. 181-200. Interessante è anche un’inchiesta sui consumi alimentari delle mondariso del 1942 perché esamina l’alimentazione di cinque squadre al lavoro in diverse tenute, tutte femminili (salvo 58 uomini che svolgono lavori complementari), ed è una delle pochissime indagini di questo tipo. Risulta che le differenze sono notevoli: nelle tenute, a fronte dello stesso lavoro, si consumano pasti che variano da un minimo di 2484 calorie giornaliere a un massimo di 3535 (in media 3051 calorie per le 344 lavoratrici); ma la dieta degli uomini è decisamente più ricca, con 4060 calorie giornaliere (cfr. ivi, pp. 202-203).

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confronto internazionale, poi, conferma le distanze: nel 1930, ad esempio, il reddito italiano pro capite, misurato in dollari, è 2900, contro i quasi 4000 della Germania, i 4500 della Francia e i 5400 della Gran Bretagna; nel 1938, esso sale a 3300 (ma quello tedesco è giunto a 5000, quello inglese a 6300, quello francese è invariato), e il reddito medio di tutti i paesi europei è 4817 dollari: l’Italia si presenta quindi ancora come un paese relativamente povero8. Ad ascoltare le campagne del regime, si direbbe che in campo economico si sia attuata una vera e propria rivoluzione, che aveva le sue basi nell’organizzazione corporativa e i suoi vertici nelle innumerevoli «battaglie» combattute per la nazione (battaglia per il grano, per la difesa della lira, per la bonifica integrale: ogni misura economica si prestava a divenire uno slogan propagandistico). Nella realtà, la politica del regime fu assai più cauta e continuista. In un periodo storico caratterizzato da instabilità e crisi ricorrenti, di cui una, quella del 1929, tra le più gravi sperimentate dalle economie occidentali, il fascismo compì una precisa scelta a favore delle industrie, che aiutò con salvataggi, nuovi istituti (come l’Iri), una politica di concentrazione industriale e – quello che più ci interessa – un accentuato protezionismo che incoraggiava la sostituzione delle importazioni con prodotti nazionali. Così quando nel 1936 fu enfaticamente annunciata una nuova battaglia, questa volta per l’autarchia, in risposta alle sanzioni proclamate dalla Società delle Nazioni per l’invasione dell’Etiopia, non si fece che dare una veste politica a una linea protezionistica in atto da anni per via di dazi e tariffe doganali9. Il giudizio degli storici sull’autarchia è concordemente negativo. Si è osservato che essa ha danneggiato un’economia di trasformazione come quella italiana, ha favorito alcuni settori a scapito di altri, ha imposto ai consumatori prodotti italiani più costosi oppure surrogati di scarsa qualità10. Tutto questo è vero. Ma non esaurisce il discorso sull’autarchia: se la osserviamo dal punto di vista dei consumi, essa acqui8 A. Maddison, Historical Statistics for the World Economy. Per Capita GDP (1990 International Geary-Kharnis dollars), in www.ggdc.net/maddison, 15 febbraio 2007. 9 G. Toniolo, L’economia italiana dell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 1980; L’economia italiana nel periodo fascista, a cura di P. Ciocca, G. Toniolo, il Mulino, Bologna 1976. 10 L’uso dei surrogati, in particolare, provocò un continuo flusso di proteste sotterranee (registrate puntualmente dalle autorità di polizia), che prendono spesso la forma di barzellette irriverenti; diffusa è anche la sottolineatura ironica del prodotto originale raddoppiando il termine (ad esempio, nelle occasioni importanti si offre il caffè-caffè, non un surrogato).

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sta un diverso significato e mostra un impatto anche più significativo e duraturo. Che il fascismo non vedesse di buon occhio lo sviluppo dei consumi è evidente; altre erano le sue priorità. Tuttavia, per sostenere l’industria italiana e per controbattere le sanzioni, venne progressivamente attivata una campagna di sostegno ai prodotti italiani che assegnava alle merci un valore aggiunto: l’italianità. Comprare italiano non era sprecare, era adempiere a un compito patriottico. Sfogliando riviste e manifesti dell’epoca (e non dimentichiamo che negli anni Venti inizia a trasmettere la radio, che farà la sua parte, scatenando incredibili entusiasmi collettivi come per la caccia alle figurine Perugina), si nota facilmente questo fenomeno di «italianizzazione»11. Si moltiplicano i richiami patriottici: in una pubblicità l’Italia offre al mondo, rappresentato da un mare di bandiere, il suo «miglior prodotto: Fernet-Branca»; in altre, si esaltano le virtù di Sniafiocco «il cotone nazionale», «il tessile dell’indipendenza», del Lenasel, fibra artificiale prodotta dalla Chatillon, o del Lanital, lana sintetica ideata da Antonio Ferretti (più avanti, l’Italviscosa non userà mezzi termini: un gomitolo della sua fibra si appoggia alle ali della Nike di Samotracia e leggiamo che «Nella potenza del lavoro italiano sta la certezza della vittoria»). Si proclama «Italiani preferite i prodotti d’Italia» (si tratti di un panettone Motta, delle radio a valvole Siare o del ricostituente Stenogenol). I termini «produzione nazionale» e «prodotto italiano» compaiono nelle pubblicità di un po’ tutte le grandi imprese, cominciando dalla Fiat, in quelle delle linee navali (come il Lloyd triestino, dove quattro enormi navi italiane solcano l’intero globo) e aeree (dove un moderno aereo dell’Ala Littoria sfreccia sopra un vecchio treno a vapore); e persino nelle «italianissime sigarette Principe di Piemonte» che fanno concorrenza alle Macedonia. Un altro accorgimento è quello di richiamare la «romanità»: così troviamo eleganti abiti maschili Caesar («stile, eleganza, distinzione»), acqua di colonia Etrusca («essenza millenaria d’erbe sacre in una limpida anfora») o quella «Impero» («l’italianissima! la migliore!»), mentre la Radiomarelli propone modelli come il Vertumno; in alternativa, fioriscono statue e riferimenti mitologici sullo sfondo12. 11 I riferimenti che seguono derivano da una ricerca condotta sulle riviste illustrate degli anni Trenta, in particolare «L’illustrazione italiana» e «La Domenica del Corriere». 12 Cfr. ad esempio le pubblicità in «L’illustrazione italiana» del 18 febbraio 1934 (Radiomarelli), 22 settembre 1935 (Sniafiocco), 22 dicembre 1935 (Ala Littoria, Stenogenol), 1° gennaio 1939 (Lloyd, Etrusca), 15 gennaio 1939 (Impero), 23 aprile

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L’uso della leva patriottica per promuovere le produzioni non è certo nuovo, né limitato all’Italia. Nel contesto del fascismo, però, questa politica ha l’effetto di elevare il consumo al rango di attività che concorre pienamente allo sviluppo della nazione – cade così in parte la contrapposizione di certa pubblicistica militante tra «guerriero» e «mercante» – e di creare esplicitamente uno spazio di consumo «nazionale»13. Si è visto come il consumo avesse in precedenza caratteristiche insieme localistiche e transnazionali; il fascismo compie uno sforzo per creare un’identità e un profilo tipico del consumatore «italiano». Questo ci porta a due ulteriori considerazioni. La prima riguarda il ruolo che il genere riveste in questa politica. L’autarchia investe il lato dei consumi, abbiamo detto, ed entra direttamente nella sfera della famiglia; in tal modo si rivolge di fatto alle donne, che sono usualmente incaricate di fare gli acquisti e gestire la famiglia come una piccola unità economica. A loro viene chiesto di risparmiare sulla spesa, evitare gli sprechi, comprare italiano, ingegnarsi a trovare surrogati per tutto. Rubriche nelle riviste e manuali per la casa insegnano praticamente una completa autosufficienza: ricette con tutti gli ingredienti possibili, conservazione dei cibi, precetti di igiene, cura dei giardini, preparazione di sciroppi e liquori, restauro di mobili, pronto soccorso, trattamento degli animali domestici, rimozione di macchie, eliminazione di cattivi odori, piccole riparazioni, creazione di profumi e belletti, medicine e tisane, lotta alle zanzare, eliminazione di formiche, meteorologia (con osservazione di insetti, uccelli, ragni), prevenzione di mal di mare, mal di nervi e molto altro14. La battaglia autarchica è combattuta dalla trincea della casa e vede le donne in prima linea. Victoria de Grazia ha sostenuto che è stato il regime fascista a nazionalizzare per 1939 (Caesar). Sulla pubblicità (e il dibattito relativo) durante il fascismo cfr. A. Arvidsson, Marketing Modernity. Italian Advertising from Fascism to Postmodernity, Routledge, London 2003, pp. 36-64; e, riguardo al campo della moda, E. Paulicelli, Fashion under Fascism: Beyond the Black Shirt, Berg, Oxford-New York 2004. Va ricordato che proprio durante gli anni Trenta si diffondono le prime moderne agenzie pubblicitarie in Italia, sul modello americano (Acme Dalmonte, già dal 1922, Balza-Ricc di Balzaretti e Ricciardi, Enneci di Caimi, Ima di Domenghini). 13 Cfr. in questo senso anche E. Papadia, La Rinascente, il Mulino, Bologna 2005, pp. 62-65. La politica autarchica potrebbe essere letta in parallelo con campagne come quella antiborghese: entrambe miravano a creare un nuovo tipo di italiano – guerriero, risoluto, parco, lontano dalle lusinghe dei consumi e dei piaceri – ed entrambe fallirono sostanzialmente nel loro obiettivo. 14 I. Ghersi, Ricettario domestico. Enciclopedia moderna per la casa, Hoepli, Milano 1920 (7a ed.) – edizioni successive con L. Morelli.

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la prima volta le italiane, poiché le politiche dei precedenti regimi liberali erano state dirette esclusivamente agli uomini (integrazione nella vita civile e militare, allargamento del suffragio, ecc.). Lo Stato fascista si preoccupa invece di assegnare alle donne un ruolo preciso, all’interno della famiglia, per il miglioramento e lo sviluppo della razza italiana; e a tal fine crea sia incentivi positivi (assistenza sociale, sostegno alla maternità) sia strumenti repressivi (allontanamento da vari mestieri, scoraggiamento dell’istruzione superiore, esclusione dalla politica)15. In questo quadro, la politica dei consumi diventa un importante aspetto della politica fascista nei confronti delle donne – inutile ricordare che essa è concepita soprattutto per le donne delle classi medie, essendo le famiglie operaie e contadine ancora in gran parte escluse dal mercato dei consumi non di base16. La seconda considerazione riguarda i confini di questo nuovo spazio dei consumi, che abbiamo definito nazionale, ma potremmo anche chiamare mediterraneo o imperiale. È evidente lo sforzo di creare uno spazio integrato comprendente l’Italia e il Mediterraneo, e questo a proposito di tutti i tipi di consumo. Ad esempio, è del 1931 la prima guida gastronomica dell’intera Italia, edita dal Touring Club, che presenta il paese come una sintesi di meraviglie gastronomiche e turistiche, dove ogni regione e ogni paese possono offrire un contributo specifico (siamo ben lontani dal dominio centro-settentrionale dell’Artusi)17. Capatti e Montanari hanno anzi osservato come lo spo-

15 V. de Grazia, Le donne nel regime fascista, Marsilio, Venezia 1993, soprattutto pp. 17-38, 70-111. In questo quadro si inserisce perfettamente la politica del regime verso un consumo «deviante» come quello della prostituzione: non lo si mette fuori legge, ma lo si controlla dall’alto mediante l’istituzione di «case chiuse», con un interesse insieme di controllo sociale, poliziesco e sanitario (lotta contro la sifilide). 16 Va però ricordato che nell’iconografia ufficiale la sfera della produzione (maschile) e quella del consumo (femminile) restano chiaramente separate. Nella vasta iconografia su Mussolini che possediamo, ad esempio, il duce ci è presentato in molte fogge: politico e guerriero (in divisa, a cavallo, in motocicletta, in aereo), nei panni del produttore (agricoltore a torso nudo o su macchine agricole, minatore, cineoperatore), ma mai come consumatore. Cfr. S. Luzzatto, L’immagine del duce: Mussolini nelle fotografie dell’Istituto Luce, Editori Riuniti, Roma 2001; M. Franzinelli, E.V. Marino, Il duce proibito: le fotografie di Mussolini che gli italiani non hanno mai visto, Mondadori, Milano 2003. 17 A. Capatti, M. Montanari, La cucina italiana. Storia di una cultura, Laterza, Roma-Bari 2005 (1999), pp. 36-37. Va nello stesso senso la valorizzazione di antiche feste popolari e folkloristiche, riprese o «reinventate» per rafforzare l’identità locale e promuovere il turismo. Cfr. S. Cavazza, Piccole Patrie, il Mulino, Bologna 1997.

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stamento del baricentro politico verso il Mediterraneo (accentuato successivamente dall’alleanza con la nordica Germania) porti a una valorizzazione dell’immagine del Meridione: con le sue spiagge, il sole, le primizie, il pesce fresco, la pasta e l’olio, il Sud diviene centrale nell’immagine dell’Italia dei consumi, proposta all’interno e all’estero18. Ma si può dire di più. Ci fu il tentativo di creare uno spazio nazionale dei consumi allargato anche alle colonie. In effetti, per quanti non ebbero la possibilità di recarsi in tali territori, la rappresentazione delle colonie si formava attraverso le immagini rilanciate dai cinegiornali Luce, le fotografie su quotidiani e riviste, i discorsi pubblici e, in maniera più tangibile, attraverso le merci esotiche, soprattutto caffè e banane, che giungevano sui mercati dalle terre d’Africa. Abbiamo varie immagini pubblicitarie di questi prodotti; una delle più diffuse è quella delle banane somale, «pane degli dei», dove vediamo una bambina italiana che mangia una banana sotto lo sguardo soddisfatto della madre, con in primo piano un enorme casco di frutti e una scritta che parla della vigoria che le banane donerebbero ad alcune «tribù selvagge» e del fatto che siano prodotte in Somalia dai «colonizzatori italiani» grazie all’aiuto del governo fascista19. Tra l’altro qui subentra una nuova variabile. Gli italiani erano abituati a declinare i consumi in termini di classe e genere: ora compare la razza. Molti prodotti sono pubblicizzati ricorrendo allo stereotipo positivo dell’«indigeno»: in un’altra pubblicità per le banane è un sorridente giovane nero che le porge («L’offerta delle Colonie alla Madre Patria»)20; ancora, le attrezzature sportive Moretti sono trasportate da tre bambini neri, questa volta disegnati; un caso diverso è quello dei profumi Fatma, che mostrano una bella italiana che si staglia al centro di un deserto contornato da palme (ovviamente, colonizzati e colonizzatori non compaiono mai insieme e i loro ruoli sono ben distinti)21. Queste pubblicità – e i numerosi prodotti con nomi o immagini che richiamano l’Africa – non sono parte irrilevante nella costruzione di un’identità «egemonica» nazionale, rispetto alle popolazioni coloniali, perché sottolineano visivamente le differenziazioni di razza. Infine, non è da sottovalutare la presenza nelle città italiane di negozi di prodotti coloniali, caffetterie e torrefazioni con nomi esotici, spesso arredati con immagini e oggetti coloniali, che creaCapatti, Montanari, La cucina italiana cit., p. 38. «L’illustrazione italiana», 6 maggio 1934. Ivi, 10 giugno 1934. 21 Ivi, 19 gennaio 1936 (Moretti, Fatma). 18 19 20

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no una sorta di familiarità con l’Africa per tutti i consumatori, integrando ambienti e prodotti d’oltremare con la quotidianità (alcuni di questi locali sono giunti fino ai nostri giorni). Insomma, la costruzione di un immaginario coloniale passò anche attraverso i consumi22. 1.2. Emigrazione Vale la pena di ricordare brevemente a questo punto che il consumo di prodotti «nazionali» non si limita all’Italia e alle colonie. Da fine Ottocento, esso aveva di fatto seguito le ondate di immigrati italiani in Europa e nelle Americhe, dove si era creata un’importante domanda di prodotti tipici. I governi italiani avevano favorito questo interscambio per motivi economici ma anche politici: era un modo per tenere legate le comunità italiane all’estero, rinforzarne l’identità, mobilitarle a favore del paese in caso di bisogno. Di qui il costante interessamento degli uffici consolari e delle Camere di commercio, con finalità che andavano ben oltre il mero lato economico e si qualificavano come parte integrante dell’azione diplomatica (il peso delle esportazioni non va peraltro sottovalutato, perché fece crescere l’industria alimentare: imprese come Buitoni, Bertolli e Martini & Rossi fondarono le loro fortune proprio sui mercati esteri).

22 Ovviamente la creazione di un immaginario legato alle colonie era iniziata già durante il precedente regime liberale, ma fu rinvigorita fortemente con il fascismo; cfr. N. Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, il Mulino, Bologna 2002, pp. 269-307; «Modern Italy», VIII, 2003, 1; Italian Colonialism, a cura di R. Ben-Ghiat, M. Fuller, Palgrave Macmillan, New York 2005; Italian Colonialism. Legacy and Memory, a cura di J. Andall, D. Duncan, Peter Lang, Oxford 2005; R. Pergher, Impero immaginato, impero vissuto. Recenti sviluppi nella storiografia del colonialismo italiano, «Ricerche di storia politica», X, 2007, 1, pp. 53-66. Naturalmente identità di genere e di razza si intersecano di continuo: cfr. ad esempio G. Stefani, Colonia per maschi. Italiani in Africa Orientale: una storia di genere, Ombre corte, Verona 2007. In termini numerici l’interscambio con le colonie rimase limitato per quanto riguarda le importazioni (2,6% sul totale nel 1936 e 1,9% nel 1938), concentrandosi su frutta esotica, pelli crude e cotone; fu invece significativo per le esportazioni (31% nel 1936 e 23% nel 1938), soprattutto per meccanica e manufatti industriali (cfr. M. Paradisi, Il commercio estero e la struttura industriale, in L’economia italiana nel periodo fascista cit. pp. 308-310). Un interessante studio specifico su pubblicità e rappresentazione del corpo nel fascismo (compreso il corpo dei neri, per rafforzare l’identità nazionale) è quello di K. Pinkus, Bodily Regimes: Italian Advertising Under Fascism, University of Minnesota Press, Minneapolis 1995. Sul problema della costruzione culturale di una geografia finalizzata al dominio coloniale si rimanda al classico studio di E.W. Said, Orientalismo (1978), Bollati Boringhieri, Torino 1991; più in generale per il ruolo di consumi e prodotti culturali nel creare un senso di appartenenza cfr. B. Anderson, Comunità immaginate: origini e fortuna dei nazionalismi (1983), Manifestolibri, Roma 1996.

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Prendiamo uno dei casi più studiati dalla storiografia, quello degli italoamericani. Durante il fascismo, quando crebbe l’orgoglio per l’appartenenza etnica (dopo le discriminazioni a lungo subite da parte dei gruppi anglosassoni), uno dei modi per testimoniare questo rinato nazionalismo fu quello di aumentare il consumo di prodotti italiani. Durante la campagna d’Etiopia vi fu una vera mobilitazione delle comunità delle grandi enclave di New York e Chicago per acquistare merci provenienti dall’Italia, per contrastare l’effetto delle sanzioni. Sui giornali e nelle trasmissioni radiofoniche si moltiplicarono gli appelli a comprare italiano, sponsorizzati pure da importatori e dettaglianti locali23. Al di là dei discreti risultati quantitativi di queste campagne, il risultato di lungo periodo fu un rafforzamento – se mai ce ne fosse stato bisogno – dell’idea che la propria identità etnica era costruita anche su uno specifico modello di consumi. Quando parliamo di modello di consumi, non intendiamo tanto i prodotti in sé, poiché, come abbiamo visto, il loro significato risiede in ugual misura nelle pratiche con cui vengono consumati. Questo è molto evidente nel caso degli italoamericani. Non si trattava solo di mangiare pasta, pomodori, olio d’oliva, vino e pane, ma piuttosto di come mangiarli: in famiglia, riuniti tutti insieme intorno a una tavola, o in certe ricorrenze con tutti i parenti (e questo in un paese come gli Stati Uniti dove questi usi non sono affatto generalizzati). Ugualmente importante era la preparazione casalinga di prodotti «genuini», il tramandarsi le ricette tipiche, il dono del cibo ad amici e parenti. In pratica, il «mangiare italiano» significava dare concretezza a valori come la famiglia, il gruppo, la convivialità, la domesticità, e questo spiega la persistente centralità del cibo e dei suoi riti nella definizione dell’etnicità italiana, come ci ha ricordato Donna Gabaccia24. La differenza semmai stava nel fatto che l’America era il paese dell’abbondanza, dove anche i «poveri 23 S. Luconi, «Buy Italian». Commercio, consumi e identità italo-americana tra le due guerre, «Contemporanea. Rivista di storia dell’800 e del ’900», luglio 2002, n. 3, pp. 455-474; V. Teti, Emigrazione, alimentazione, culture popolari, in Storia dell’emigrazione italiana. Partenze, a cura di P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina, Donzelli, Roma 2001, pp. 575-597. 24 D.R. Gabaccia, We Are What We Eat: Ethnic Food and the Making of Americans, Harvard University Press, Cambridge 1998. Il riferimento al cibo come segnale di una cultura specifica, differente da quella anglosassone, permane anche in epoca contemporanea; L. DeSalvo, scrittrice italoamericana, in Vertigo. A Memoir (The Feminist Press, New York 2002) scrive frasi significative e persino provocatorie – nel contesto statunitense – come: «Life, I have always believed, is too short to have even one bad meal» (cfr. C. Romeo, Narrative tra due sponde. Memoir di italiane d’America, Carocci, Roma 2005, p. 120).

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italiani» potevano mangiare di tutto; Hasia Diner ha sostenuto anzi che gli emigrati realizzassero il sogno di mangiare proprio come le élite, superando le barriere di classe: finalmente pane bianco, carne e prodotti pregiati erano alla loro portata (anzi permisero a molti di loro anche di entrare in una proficua attività commerciale)25. Naturalmente questo non vuol dire che il consumo di prodotti italiani portasse a un’effettiva replicazione dell’identità. Salvo la prima generazione di emigrati, tutti i discendenti costruiscono l’immagine della tradizione italiana sulla memoria locale, via via sempre più contaminata da altre influenze regionali e persino etniche, e soprattutto da prodotti e usi americani, con il risultato finale di un notevole sincretismo alimentare e culturale. Inoltre si fa sentire la tensione fra desiderio di preservare una propria identità etnica e quello di integrarsi nella comunità ospite, che porta spesso a una divaricazione di comportamenti (tradizionali nell’ambito privato e domestico, americanizzati nella sfera pubblica)26. Il discorso sulle caratteristiche dell’emigrazione è naturalmente lungo e complesso; qui ci preme sottolineare, ancora una volta, il ruolo culturale dei consumi. 1.3. Politica fascista dei consumi Un episodio spesso citato per dimostrare l’analogia tra leggi naturali e società umana è il teorema delle capre e dei cani di Townsend, che Polanyi ci ricorda nella sua opera più famosa. Nel XVI secolo su una sperduta isola dell’arcipelago di Juan Fernández, al largo del Cile, furono lasciate dagli spagnoli alcune capre per costituire una riserva di cibo per eventuali viaggi futuri. Senza ostacoli e predatori, le capre si moltiplicarono rapidamente, fin troppo, al punto di diventare un comodo rifornimento per i corsari locali; indispettiti, allora, gli spagnoli vi sbarcarono alcuni cani. Anche questi si moltiplicarono in fretta e iniziarono a cacciare le capre. Il risultato fu che in breve tempo il numero delle capre si stabilizzò: rimasero numerose, ma non troppo, perché molte finivano nelle fauci dei cani; questi, da parte loro, non potevano cacciare indiscriminatamente, perché le capre più giovani e veloci si rifugiavano su picchi irraggiungibili. Insomma, la natura aveva provveduto a instaurare un nuovo equilibrio. Nonostante la sua popolarità, sembra proprio che questa storia non sia del tutto vera. Le capre sull’isola furono sbarcate davvero, ma pare si stan25 Hasia R. Diner, Hungering for America: Italian, Irish, and Jewish Foodways in the Age of Migration, Harvard University Press, Cambridge 2001. 26 S. Cinotto, Una famiglia che mangia insieme: cibo ed etnicità nella comunità italoamericana di New York, 1920-1940, Otto, Torino 2001.

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ziassero solo su inaccessibili rocce lontane dalla spiaggia; i cani erano in realtà gatti (e non si diffusero molto); invece sulla spiaggia prosperavano grasse foche. Insomma, molte teorie celebrate (da Malthus a Darwin) si sarebbero ispirate a una storia un po’ addomesticata27. Polanyi adduce questo episodio a riprova del fatto che il mercato «autoregolamentato» non esiste o, meglio, è un’invenzione sociale; e a riprova del principio che l’esistenza di un equilibrio fra domanda e offerta simile a quello «naturale» è un’astrazione. Anche un consumatore distratto vissuto nel ventennio fascista non aveva però bisogno di ricorrere a diatribe teoriche o naturalistiche per capire che il mercato dei beni di consumo era governato da meccanismi complicati, tutt’altro che «naturali», e per rendersi conto che lo Stato vi faceva sentire la sua voce in misura crescente. Esso non solo cercava di orientare i consumi privati, con l’autarchia e la promozione di prodotti nazionali, ma appariva sempre più protagonista nell’offerta di consumi pubblici (e non si trattava solo di un effetto propagandistico: in percentuale, i consumi pubblici raddoppiano dal 1911 al 1938, balzando al 18 per cento della domanda interna)28. Questo discorso sui consumi pubblici è importante. È vero, come abbiamo visto, che già i governi liberali vi avevano prestato attenzione, ma con il fascismo queste spese assumono una nuova centralità. Un dubbio che il nostro consumatore avrebbe potuto porsi – e noi con lui – era il seguente: questo andamento era tipico del regime fascista oppure era comune un po’ a tutti i paesi occidentali? Era il credo statalista di Mussolini a creare una simile «politica fascista dei consumi», o la propaganda gonfiava e dava un colorito politico a sviluppi presenti anche nei regimi liberali e democratici? Ancora una volta, parlando di consumi, non è in effetti possibile dare un giudizio isolando il solo piano nazionale: bisogna porre l’azione del fascismo nel contesto generale, transnazionale. A uno sguardo di lungo periodo appare evidente la tendenza verso una crescita della spesa pubblica, di cui i consumi pubblici sono una quota significativa; molti attribuiscono il fatto alla maggiore complessità delle società moderne, che comporta un crescente intervento regolatore dello Stato, uno sforzo nella dotazione di infrastrutture e così via. Una delle analisi classiche al riguardo, quella di Adolf Wagner, correla K. Polanyi, La grande trasformazione (1944), Einaudi, Torino 1974, pp. 143-147. Nel 1938 la domanda interna è così composta: 68% consumi privati (che accelerano il loro trend di discesa); 18% consumi pubblici; 14% investimenti (in lieve flessione rispetto al 1911); in generale, la quota della spesa pubblica complessiva tende ad assumere una proporzione maggiore rispetto al Pil (vedi anche Tab. 3). Cfr. Rey, Novità e conferme cit., p. XXIII. 27 28

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la crescita della spesa con la crescita del reddito. Lo Stato spende sempre di più perché è chiamato a «correggere» gli squilibri dello sviluppo industriale, ad esempio riguardo all’urbanizzazione e all’ambiente, e a rispondere alla crescente domanda di servizi sociali (il limite in fondo è il livello dell’imposizione fiscale che i cittadini sopportano). Questa crescita non è però costante nel tempo, ma avviene a sbalzi: Peacock e Wiseman hanno osservato che in occasione di una grave crisi, ad esempio una guerra, la spesa sale rapidamente e poi, passata la bufera, scende ma non torna ai livelli precedenti, forse perché i cittadini preferiscono mantenere alcuni dei servizi e delle protezioni sociali ormai introdotti. È questo l’«effetto di spiazzamento»: dopo ogni crisi, il livello della spesa si innalza stabilmente di un po’ (per alcuni, l’alto livello di protezione sociale dei paesi europei sarebbe dunque figlio delle traumatiche esperienze vissute dai cittadini nell’arco di pochi decenni)29. La politica del fascismo dunque si inserisce in una condotta molto più generale, legata allo sviluppo industriale del paese. All’interno di questo quadro esso attua però scelte specifiche. Si può osservare come in Italia, al contrario di altri paesi europei, l’effetto di spiazzamento quasi non si verifichi (o almeno avvenga con ritardo): ciò è dovuto a una certa arretratezza del paese ma anche al fatto che il fascismo riorienta rapidamente la spesa pubblica seguendo finalità politiche, lasciando nuovamente cadere le spese assistenziali e previdenziali che erano molto cresciute dopo la guerra (in particolare nel triennio 192022), e privilegiando altre spese, soprattutto quelle militari – almeno sino alla fine degli anni Venti. Un esempio molto chiaro di questa politica è rappresentato dall’istruzione. Si spende quasi meno in percentuale nel fascismo che sotto i precedenti governi liberali; la quota massima è raggiunta nel 1933-34, quando rappresenta il 2,4 per cento del Pil (era l’1,8 per cento nel 1912). Ma ci sono importanti differenze. La prima è la gestione, ora in gran parte nelle mani di uno Stato che ha esautorato gli enti locali; la seconda è la crescente politicizzazione dell’educazione. Questa non avviene tanto con la riforma Gentile del 1923, che mira a costruire un sistema educativo gerarchico ed elitario (con le materie umanistiche e il liceo classico al vertice); ma piuttosto con la creazione negli anni Trenta di un 29 A.T. Peacock, J. Wiseman, The Growth of Public Expenditure in the United Kingdom, Princeton University Press, Princeton 1961; A. Wagner, Finanzwissenschaft, Winter’sche Verlagshandlung, Leipzig 1883; per uno sguardo d’insieme G. Brosio, C. Marchese, Il potere di spendere. Economia e storia della spesa pubblica dall’Unificazione ad oggi, il Mulino, Bologna 1986, pp. 24-45.

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complesso sistema educativo «fascista», dove la scuola è affiancata da organizzazioni giovanili che si occupano della preparazione sportiva e paramilitare, della ricreazione e di competizioni culturali (grazie all’Opera nazionale Balilla, poi Gioventù italiana del Littorio). La riforma Gentile viene svuotata poco a poco, e Bottai, ministro dell’Educazione dal 1936 al 1943, si impegna in un complesso progetto di riordino che valorizza gli insegnamenti tecnici per creare uno strato intermedio di maestranze specializzate. Se gli ambiziosi piani di Bottai non si realizzano completamente, è a causa dell’insufficienza dei mezzi economici a disposizione, prima ancora che per la guerra. Per il nostro piccolo scolaro l’educazione elementare è ormai in buona parte assicurata (dati alla mano). Tuttavia il proseguimento dei suoi studi è ancora fortemente influenzato dal livello sociale della famiglia: solo se appartiene alle élite può sperare di frequentare il liceo classico e poi l’università; altrimenti dovrà scegliere una scuola di livello inferiore, come il liceo scientifico o l’istituto magistrale (gli iscritti alla secondaria raddoppiano comunque in pochi anni e nel 1936 rappresentano l’8 per cento della popolazione d’età corrispondente). Nella maggior parte dei casi egli si limita a pochi anni di studio e si avvia rapidamente al lavoro, partecipando però alle numerose organizzazione parascolastiche fasciste a seconda dell’età (Figli della lupa, Balilla, Avanguardisti, Gruppi universitari fascisti). Se invece è una scolaretta, la prospettiva di procedere a lungo negli studi è decisamente minore, anche per le pressioni sociali e familiari; inoltre ha spesso di fronte un percorso diverso: può ambire magari a frequentare il «liceo femminile», più raramente l’università, e anche le sue organizzazioni di appartenenza sono differenti (Piccole italiane, Giovani italiane, Giovani fasciste). Tuttavia, nel lungo periodo, la scolarizzazione femminile cresce rapidamente, così come richiesto dall’industria e dal crescente terziario, anche se il regime pone restrizioni a varie professioni dirigenziali e all’impiego di manodopera femminile30. Ce lo aspettavamo. L’uso dell’istruzione come leva per trasformare la società, e in particolare i giovani, e creare un «uomo nuovo» plasmato 30 Nel 1938, ad esempio, vi sono 751.000 alunni della scuola materna (di cui 378.000 femmine), 5.095.000 delle elementari (di cui 2.450.000 femmine), 821.000 delle superiori (di cui 306.000 femmine), 77.429 dell’università (di cui 15.084 femmine). Cfr. Istat, Sommario di statistiche storiche cit., p. 47. Sull’istruzione: M. Ostenc, La scuola italiana durante il fascismo (1980), Laterza, Roma-Bari 1981; E. De Fort, La scuola elementare dall’unità alla caduta del fascismo, il Mulino, Bologna 1996; sulla posizione delle donne V. de Grazia, Le donne nel regime fascista, Marsilio, Venezia 1993.

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completamente dal regime è comune nei totalitarismi. Si offre una preparazione diffusa ma si propone un’educazione politicizzata, «fascista» in questo caso, che oltretutto ripete le divisioni di classe e di genere. Più innovativa è la politica assistenziale e previdenziale. Durante il fascismo all’interno della struttura sanitaria agiscono casse mutue private, aziendali, di categoria, con il risultato di un’assistenza disomogenea e parcellizzata, che copre i due terzi dei cittadini. La preoccupazione per l’integrità della stirpe spinge ad assicurare obbligatoriamente alcune categorie di lavoratori e, negli ultimissimi anni (1943), ad ampliare la provvidenza contro le malattie attraverso un istituto centralizzato, l’Infam. Inoltre si provvede al riordino dei servizi sanitari negli ospedali (1938) e per tutto il regime si conducono campagne per debellare malattie come la tubercolosi e la malaria, con buoni risultati31. Parallelamente cresce la previdenza. Alcune importanti riforme sono approntate in realtà in epoca prefascista, durante e dopo la guerra, per mitigare la grave crisi sociale: si estende l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni ai lavoratori agrari e, nel 1919, si vara quella di invalidità e vecchiaia per i dipendenti, insieme a una prima tutela contro la disoccupazione32. Il fascismo interviene con numerose leggi, ufficialmente perché la previdenza è il positivo risultato della collaborazione tra datori e prestatori sancita dal sistema corporativo, in realtà perché costituisce un utile strumento di controllo sociale e di indirizzo politico. Una delle novità introdotte è la creazione di enti centralizzati parastatali per la gestione della previdenza: vengono realizzati istituti per il personale di enti locali (Inadel), enti pubblici (Enfdep), Stato (Enfpas); nel 1933 nascono due grandi istituti, l’Infps, per le pensioni, e l’Infail, per gli infortuni dei lavoratori privati33. La soluzione si rivela interessante, perché consente una centralizzazione dei servizi e nello stesso tempo una certa economia e flessibilità gestionale. Per questo motivo gli enti sopravvivranno al regime e costituiranno la base della struttura assistenziale e previdenziale dell’Italia del dopoguerra. Inoltre questi grandi istituti costituiscono importanti luoghi di controllo sul territorio, garantiscono molti posti di lavoro e cariche presti31 G. Cosmacini, Medicina e sanità in Italia nel ventesimo secolo. Dalla «spagnola» alla II guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 1989. 32 Per la parte relativa alle norme assistenziali e previdenziali cfr. F. Girotti, Welfare State. Storia, modelli e critica, Carocci, Roma 1998, pp. 178-200. Da notare anche la creazione della Cassa integrazioni guadagni nel 1941 contro la disoccupazione in epoca bellica. 33 Ivi, pp. 196-197; C. Giorgi, La previdenza del regime. Storia dell’Inps durante il fascismo, il Mulino, Bologna 2004.

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giose, e si prestano facilmente a gestioni clientelari. E anche questo passerà al dopoguerra. C’è un altro aspetto da ricordare nella politica sui consumi pubblici del fascismo, e cioè le specifiche norme previste per le donne. Abbiamo già visto, parlando dell’autarchia, come il regime si occupi in maniera nuova del ruolo delle donne nello Stato. Possiamo ricordare ora come la politica in favore della maternità non fosse solo sostenuta da una martellante propaganda (che contrapponeva la gracile e moderna «donna crisi» alla sana e florida madre italiana). Numerose sono le leggi approvate a concreto sostegno delle donne lavoratrici: estensione delle norme contro il lavoro notturno di donne e bambini; legge quasi rivoluzionaria sulla maternità, che prevede due mesi di congedo obbligatorio pagato, più un prolungato periodo di assenza facoltativa, permessi per l’allattamento, un bonus in denaro alla nascita34. A questo si assomma la creazione di asili nido, consultori pediatrici e cliniche specializzate – il che ha anche l’effetto di accentuare la medicalizzazione della gravidanza e delle prime fasi di vita – e la capillare opera di assistenza svolta dal 1925 dall’Onmi (Opera nazionale per la maternità e l’infanzia)35. E si potrebbero aggiungere molti altri provvedimenti, dagli assegni familiari (dal 1934) alle facilitazioni per le famiglie numerose (che interessavano anche i padri). Dunque, come possiamo rispondere alle nostre domande? Non c’è dubbio che il regime fascista stimoli gradualmente la spesa pubblica, militare in primo luogo, ma poi anche civile (negli anni Trenta la spesa totale supera il 30 per cento del Pil, cosa che accade in Germania, ma non in paesi come Francia e Gran Bretagna)36. All’interno della spesa civile si assiste a un significativo fenomeno: le spese redistributive (assistenza e previdenza) superano negli anni Trenta quelle per l’istruzione. Potremmo interpretare questo fatto come un effetto di «spiazzamento» in ritardo; ma le caratteristiche di questa spesa ci fanno propendere per una scelta politica. L’obiettivo è cioè indirizzarsi a specifici gruppi, le donne in primo luogo, ma anche i lavoratori dell’industria (indennizzati in parte per i cospicui tagli salariali subiti dopo la stabilizzazione della lira, ai quali non corrispose un’altrettanto efde Grazia, Le donne nel regime fascista cit., pp. 70-111. Stato e infanzia nell’Italia contemporanea. Origini, sviluppo e fine dell’Onmi 1925-1975, a cura di M. Minesso, il Mulino, Bologna 2007. 36 Brosio, Marchese, Il potere di spendere cit., p. 62 (vedi anche le statistiche disaggregate, pp. 188-190). Nel 1938, ad esempio, è pari al 32% della domanda interna (18% consumi pubblici più 14% investimenti). Cfr. Rey, Novità e conferme cit., p. XXIII. 34 35

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ficace «disciplina» dei prezzi) e i dipendenti pubblici (all’interno di una politica di allargamento del ventaglio salariale a favore dei dirigenti) per integrarli nel regime. I consumi pubblici divengono così uno strumento di consenso politico mirato. 1.4. Consumi collettivi Nella vita quotidiana delle famiglie durante il fascismo non ci sono solo i consumi privati e i servizi di base assicurati dallo Stato. In misura crescente entrano altri consumi «collettivi», assicurati da enti parastatali, organismi privati, associazioni controllate dal partito (tecnicamente, quindi, non sarebbero consumi pubblici, cioè pagati dallo Stato, anche se la differenza non ha poi tanto significato, vista la sovrapposizione crescente fra Stato e partito fascista). Si tratta dei consumi collegati al tempo libero: educazione, sport, cultura, divertimento. L’operaio che dopo il lavoro fa sport o assiste a spettacoli teatrali e cinematografici; lo studente che partecipa a esibizioni ginniche o mostre d’arte; la donna che fa corsi di pronto soccorso o economia domestica; il contadino che prende parte a feste folkloristiche; l’impiegato che manda il figlio al mare in colonia; tutti sperimentano nuove forme di consumo, fruite in modo collettivo, a titolo gratuito o a prezzi molto agevolati. È qualcosa di ben diverso dall’intervento pubblico pensato come correttivo rispetto a certi sviluppi dell’industrializzazione di cui si era dibattuto in passato. Qui non si parla di beni e servizi di prima necessità, ma di tempo libero, di consumi «accessori». Perché il regime doveva occuparsene? La prima risposta è di carattere pragmatico. Abbiamo visto l’importanza dell’associazionismo sportivo e ricreativo nella cultura operaia. I partiti socialisti avevano fortemente spinto in questo senso, sull’esempio della socialdemocrazia tedesca che, per tenere uniti i suoi iscritti in un ambiente ostile, aveva organizzato una fitta rete di associazioni «apolitiche», leghe sportive, organizzazioni culturali, giornali, spettacoli, enti di assistenza: un vero «Stato nello Stato»37. In Italia le associazioni ricreative operaie, spontanee o d’ispirazione socialista, erano molto diffuse e popolari. Una delle prime preoccupazioni del fascismo è perciò quella di fare piazza pulita del retroterra avversario, colpendo bande musicali, cori, filodrammatiche e associazioni sportive anche solo lontanamente sospette di simpatie socialiste (e a volte anche cattoliche popolari). Queste talvolta vengono sciolte, spesso sono assorbite entro le organizzazioni collaterali del partito fascista, a co37 G. Roth, I socialdemocratici nella Germania imperiale (1963), il Mulino, Bologna 1971.

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minciare dall’Opera nazionale dopolavoro (Ond). Perché disperdere un importante patrimonio di iscritti, quando lo si può piegare alle proprie finalità politiche? Un secondo stimolo a incentivare queste iniziative proviene invece dagli Stati Uniti, dove fioriscono le attività dopolavoro aziendali, che rappresentano uno sviluppo della tradizione filantropica di aiuto ed «elevazione» dell’operaio nata in Europa fin dall’Ottocento. Non è un caso che il nucleo originario dell’Ond siano stati i dopolavoro aziendali e provinciali creati dai sindacati fascisti su impulso di Mario Giani, un tecnico che lavorava alla Westinghouse italiana38. Ora però avviene un fatto nuovo: tutte queste attività vengono portate dentro lo Stato, inglobate in un ente parastatale affidato direttamente al partito fascista, perché ne faccia uno strumento di organizzazione del consenso. Nasce quello che Stefano Cavazza ha chiamato «tempo libero di Stato»39. È semplicistico pensare che questa operazione abbia solo un valore strumentale, sia stata fatta cioè per controllare e irreggimentare meglio le masse. In realtà essa è rivelatrice di un cambiamento epocale: i consumi relativi al tempo libero sono diventati così importanti da meritare l’attenzione delle autorità; non sono superflui, voluttuari, o magari riservati a una certa élite. Ancora nell’Italia liberale questa sarebbe suonata come un’eresia. Cosa è successo? Studiosi come Kern e Corbin ci hanno mostrato come ogni epoca e ogni cultura abbiano una specifica concezione del tempo40. Dall’Ottocento il tempo diventa più strutturato (separiamo rigidamente i tempi dedicati alle diverse attività, ad esempio di lavoro e riposo: ognuna ha il suo arco definito e non le sovrapponiamo l’una all’altra); è più misurabile (utilizziamo strumenti più raffinati per la misurazione, come gli orologi meccanici – da fine Ottocento contiamo anche i minuti); è accelerato (con i trasporti moderni abbiamo cambiato la nostra immagine mentale del rapporto tempo/spazio); è interiorizzato (organizziamo la nostra vita intorno a molti «segnali» temporali: sveglie, sirene in fabbrica, agende). Anche le classi sociali hanno una loro visione parti38 S. Cavazza, Dimensione massa. Individui, folle, consumi 1830-1945, il Mulino, Bologna 2004, pp. 227-237; V. de Grazia, Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista (1981), Laterza, Roma-Bari 1981, pp. 29-69; R. Ben-Ghiat, La cultura fascista, il Mulino, Bologna 2000. 39 Cavazza, Dimensione massa cit., p. 254. 40 S. Kern, Il tempo e lo spazio: la percezione del mondo tra Otto e Novecento (1983), il Mulino, Bologna 1995; L’invenzione del tempo libero 1850-1960, a cura di A. Corbin, Laterza, Roma-Bari 1996.

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colare; sul tempo indifferenziato dell’aristocrazia, o quello basato su ritmi cosmici e naturali dei contadini, è prevalso quello «calcolato» della borghesia, che mette a frutto ogni minuto e ne condanna lo spreco (da qui, il passo a «il tempo è denaro» è breve). Se dunque il tempo contemporaneo è così prezioso e misurabile, non sorprende che una delle battaglie operaie e sindacali più lunghe sia stata quella per la riduzione dell’orario legale di lavoro, passato da 12-15 ore al giorno alle attuali 8, e per la conquista delle ferie e del sabato «inglese» (guarda caso, introdotto proprio dal fascismo, ma naturalmente come «sabato fascista»). In questo modo i lavoratori acquistavano più tempo per sé stessi. Ma cosa fare di questo crescente tempo libero? Corbin ci ricorda ancora come l’Occidente abbia ereditato due diverse tradizioni in proposito: l’otium, il tempo libero individuale, tipico delle élite, e la ri-creazione, tempo per le attività collettive, tipico della forza lavoro. Agli occhi delle classi dirigenti novecentesche l’ozio non era certo indicato per le classi popolari; d’altra parte si era ormai convinti della necessità di «impiegare utilmente» il tempo del riposo, anche seguendo le suggestioni provenienti dagli Stati Uniti41. Ecco allora che la ricreazione, il tempo dedicato ad attività di svago e di cultura (che oltretutto potevano avere un’importante ricaduta economica), diventa un’attività socialmente apprezzabile. Il gioco è fatto: i consumi culturali ricreativi hanno preso il loro posto accanto ai consumi di base tradizionali. Il fascismo non fa che concretare tutto questo, aggiungendovi di suo la connotazione politica. I risvolti pedagogici e di controllo sociale di questo disegno sono evidenti; ma a noi interessa notare qui come esso abbia pienamente legittimato tutte le attività connesse al tempo libero, aprendo la via a una loro inserzione nell’ideale di vita cui aspirare42. Non sorprende che le attività dopolavoristiche siano state tra le più popolari fra quelle proposte dal regime. Facciamo un esempio: prendiamo l’azione del regime nel settore teatrale. Il teatro è un buon caso, perché rappresenta un tipico consumo culturale riservato alle classi alte, con la possibilità di fruizione passiva (quella degli spettatori) e attiva (come quella degli attori dilettanti). Ebbene, il regime comincia negli anni Venti sciogliendo tutte le associazioni musicali e di prosa ritenute d’ispirazione politica, e fa confluire le restanti nell’Ond. Qui hanno uno straordinario svilup41 A. Corbin, L’invenzione del tempo libero, in L’invenzione del tempo libero 1850-1960 cit. pp. 3-7. 42 Cavazza, Dimensione massa cit., pp. 252-254.

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po: da 113 nel 1926 diventano 1095 nel 1929 e oltre 2000 pochi anni dopo, grazie a una complessa struttura di supporto e a molte facilitazioni43. Parallelamente vengono istituiti nel 1929, su iniziativa di Giovacchino Forzano, i Carri di Tespi: teatri mobili da spostare in continuazione per presentare spettacoli nelle aree rurali prive di sale. Un tendone sostenuto da un’intelaiatura metallica che si smontava in un’ora era trasportato di notte su camion in un altro paese, rimontato la mattina, disponendo lunghe file di sedie e riflettori all’esterno, e la sera era pronto per una nuova recita (sempre gratuita) con attori o cantanti professionisti. Le rappresentazioni non erano assolutamente di tipo propagandistico, ma grandi successi del teatro italiano contemporaneo e famose opere liriche. Nel solo primo anno, il Carro di Tespi percorre nell’estate 2500 chilometri, si ferma in 42 comuni diversi e ha oltre 300.000 spettatori. Molti ritengono che sia una delle iniziative più fortunate del regime in campo culturale, e il fatto di non presentare opere propagandistiche non ne limita il valore politico, come ci suggerisce questa cronaca: Somigliava ad una carrozza immensa, col mantice rialzato, sostenuto da un grande frontone triangolare, su cui splendeva il Fascio del Littorio. In fondo, per mirabile regia, la cupola Fortuny rubava la notte al cielo. [...] Ovunque parve come un dono del Regime...44

La propaganda più efficace è quella che non si vede, come dice Lazarsfeld45. Nel 1936 il ministero per la Stampa e la Propaganda istituisce a sua volta spettacoli teatrali nell’ambito del sabato fascista, riservati a operai, dipendenti subalterni, venditori ambulanti e impiegati con stipendi mensili inferiori a 800 lire: è un successo; dal 1937 al 1940 si tengono quasi mille spettacoli davanti a un milione di spettatori. Dal 1937 tutte le attività sono riorganizzate nell’Estate Musicale Italiana, gestita dal ministero della Cultura Popolare, unitamente al partito, a province, comuni e Ond. I numeri sono davvero alti, si giunge a due milioni e mezzo di spettatori all’anno; il pubblico qui è più eterogeneo, ma certe fasce sociali «protette» (lavoratori, rurali, 43 E. Scarpellini, Organizzazione teatrale e politica del teatro nell’Italia fascista, nuova ed., Led, Milano 2004, p. 113. 44 M. Corsi, Il teatro all’aperto in Italia, Rizzoli, Milano-Roma 1939, p. 268. 45 P. Lazarsfeld, Metodologia e ricerca sociologica, il Mulino, Bologna 1967, p. 825. La cupola, brevettata dall’artista spagnolo Mariano Fortuny nel 1902, era particolarmente suggestiva perché non aveva fondali dipinti ma si avvaleva di un’illuminazione indiretta e diffusa, che proiettava cieli con nuvole o sfondi stellati.

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giovani) godono di forti agevolazioni nel prezzo e nella distribuzione dei biglietti. Nello stesso anno prendono il via anche i concerti di fabbrica, organizzati direttamente nei grandi impianti operai del nord, nei porti e nelle miniere46. Il regime porta dunque il teatro, tipico consumo d’élite, a fasce più ampie di popolazione nell’ambito di un programma di integrazione nazionale (e torniamo così alla creazione di uno spazio nazionale dei consumi: non a caso, l’unica prerogativa richiesta per la rappresentazione delle opere era l’«italianità»). E un discorso simile può essere fatto per altri ambiti, per esempio lo sport, che ha un significato non solo di classe ma anche di genere: pensiamo all’impatto sulla società italiana della pur timida politica di educazione sportiva femminile, delle manifestazioni pubbliche di ginnaste e della partecipazione di atlete italiane alle Olimpiadi di Berlino del 1936 (dove Ondina Valle, vincendo la prima medaglia d’oro femminile negli 80 metri a ostacoli, diviene una celebrità e un nuovo modello femminile)47. Molti studiosi, arrivati a questo punto, hanno posto la domanda: questo sforzo di allargare i consumi culturali quanto è servito a rafforzare il regime? Le opinioni al riguardo sono diverse. Ma dal nostro punto di vista, in realtà, ha più senso rovesciare la questione: quanto il regime ha legittimato socialmente questi consumi? Dal punto di vista delle alte cifre, la risposta è certamente molto positiva, considerato che la partecipazione resta sempre volontaria (anche se talvolta è consigliata); il regime diffonde in tal modo la fruizione di consumi «alti» come il teatro e popolarizza ancor più generi come lo sport, il cinema e, novità di quegli anni, la radio. Questo non significa però che l’adesione sia totale e omogenea da parte delle diverse classi sociali, che possono aver interpretato le nuove esperienze alla luce di una loro cultura specifica. Ognuno insomma può aver preso quello che voleva. Ma che cosa voleva? Gli studiosi dei sistemi organizzati ci dicono che l’adesione a un’organizzazione volontaria dipende da due principali fattori: gli incentivi selettivi (incentivi materiali, ad esempio nel nostro caso la possibilità di usufruire di beni e servizi altrimenti fuori dalla portata economica delle classi medio-basse, e per qualcuno anche il raggiungimento di posizioni di potere e di status) e gli incentivi collettivi (che possono consistere nella solidarietà, nel sentirsi parte di un gruppo, nel riconoscersi in una specifica identità – come l’italianità – e, spesso ma non necessariamente, nell’accettare i presupposti ideologici dell’orga46 47

Scarpellini, Organizzazione teatrale cit., pp. 246-254. de Grazia, Le donne nel regime fascista cit., pp. 291-295.

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nizzazione)48. Possiamo quindi ritenere che ci sia stata una fruizione su più livelli, anche contemporanei, e dividerli è impossibile. Una cosa però è certa: l’opera del regime, diffondendo dall’alto questi consumi, contribuì a dar loro una forte patina di legittimazione sociale, contribuì a farli ritenere parte di quel «pacchetto» di beni e servizi cui ogni cittadino aveva diritto. Semmai il dubbio che poteva assalire i consumatori dell’epoca era un altro: l’allargamento dei consumi passava necessariamente attraverso queste forme collettive e organizzate dall’alto, o esistevano altre modalità? Il dubbio era legittimo, perché in realtà all’interno dello stesso «sistema dei media», creatosi sotto il regime fascista, si osservano modelli concorrenti. Se si sfogliano le riviste illustrate o si guardano i cinegiornali Luce, si resta colpiti dalla costante presenza della nobiltà come modello di riferimento riguardo ai consumi. Nelle serate mondane, nelle inaugurazioni di ogni tipo, ai concorsi ippici, alle prime del cinema, ai saggi di ginnastica, immancabilmente in prima fila sono presenti esponenti dell’aristocrazia (oltre ovviamente a quelli del partito). S.A.R. il principe di Piemonte Umberto spicca in molte occasioni: alto, elegante nella sua inappuntabile divisa, raffinato, sorridente; e accanto a lui, Maria José, sofisticata, altera, di una bellezza nordica49. E non sono solo i nobili di antiche origini. La nobilitazione di Ciano, che pure presenzia innumerevoli eventi mondani in camicia nera (ma è sempre molto formale e i commentatori si riferiscono a lui come «S.E. il conte Ciano»), la dice lunga; anche Edda Ciano (o meglio la «contessa Edda Ciano Mussolini») è una presenza costante: ricercata, moderna, quasi distaccata dall’ambiente circostante, come quando, ospite a Berlino nel 1938, passeggia disinvolta solo con un leggero abito di seta bianca, sbracciato, stretto in vita da una cintura nera, in mezzo a cinque o sei alti funzionari rigidamente paludati nelle loro giacche e cravatte50. È il modello dell’aristocrazia inimitabile, che si

48 A. Panebianco, Modelli di partito. Organizzazione e potere nei partiti politici, il Mulino, Bologna 1982, pp. 60-65. 49 Archivio Storico Luce, Giornale Luce B0309 del 1933 (i principi inaugurano il Museo campano a Capua); Cine Gil CG001 del 1940 (Maria José assite a saggi di danza e ginnastica nel giardino di Boboli) e vari altri. 50 Archivio Storico Luce, Giornale Luce B0925, 22 luglio 1938; oppure B1036 del 3 febbraio 1937 (a Cortina d’Ampezzo per i mondiali di slitta); B0998 del novembre 1936 (i coniugi Ciano a una caccia alla volpe con il reggente Horthy in Ungheria); B1023 del gennaio 1937 (Edda Ciano partecipa alla distribuzione di doni ai bambini per la Befana fascista) e molti altri.

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propone come guida: vestiti esclusivi, gioielli, pellicce, strascichi, eventi mondani, macchine di lusso. Ma è molto presente nell’Italia fascista. C’è poi un altro modello, di provenienza americana, che passa attraverso la popolare cinematografia hollywoodiana – di cui i film dei «telefoni bianchi» sono un riflesso nostrano. La donna qui è protagonista della scena: ha una bellezza appariscente, è alta, magra, con i capelli biondi, vive in appartamenti lussuosi, va al cinema e a teatro, è in mezzo ai simboli della modernità urbana. Accanto a lei, l’uomo non è da meno: elegante nei suoi morbidi blazer, dinamico e sicuro di sé, sorridente mentre si porta la sigaretta alle labbra o guida la sua scintillante automobile. Il riferimento qui è a una classe media affluente, che gode di forme di consumo individuali e dove i consumi passano attraverso una cultura commercializzata51. Ma anche questo è un modello irraggiungibile per l’Italia fra le due guerre, che deve fare i conti con una difficile realtà quotidiana. L’America è lontana. Vicina, geograficamente e politicamente, è invece la Germania nazista. Al riguardo, una diffusa interpretazione ritiene che il nazismo abbia implementato una politica di rigida limitazione dei consumi privati, creando problemi alla popolazione, per concentrare risorse economiche in preparazione della guerra. Ora però studiosi come Berghoff sostengono che il quadro è più complesso52. Alcuni consumi sarebbero 51 de Grazia, Le donne nel regime fascista cit., pp. 147-158. Anche Gundle e Forgacs vedono nel tardo fascismo il momento di nascita di una cultura commerciale, che si affermerà pienamente dopo la guerra: cfr. D. Forgacs, S. Gundle, Cultura di massa e società italiana 1936-1954, il Mulino, Bologna 2007. La preponderanza di film americani sarà una costante per tutto il regime, ad eccezione degli anni della guerra: nel 1926, ad esempio, furono revisionate dalla censura 733 pellicole straniere (quasi tutte statunitensi) e 153 italiane; nel 1927 esse furono rispettivamente 630 e 108, nel 1928 furono 624 e 62 (cfr. I cinematografi in Italia, in «Il Popolo d’Italia», 6 agosto 1930). Da notare che non mancano molte suggestioni simili nella pubblicità; ad esempio le sigarette Macedonia extra presentano una donna con capelli corti, trucco, sorriso smagliante e una sigaretta in mano («Il Secolo illustrato», 23 dicembre 1933); la crema Diadermina è pubblicizzata dalla pittrice Tamara de Lempicka («Il Secolo illustrato», 30 dicembre 1933) – entrambe propongono immagini di donne ben diverse da quelle della propaganda ufficiale. 52 H. Berghoff, Enticement and Deprivation: The Regulation of Consumption in Pre-War Nazi Germany, in The Politics of Consumption. Material Culture and Citizenship in Europe and America, a cura di M. Daunton, M. Hilton, Berg, OxfordNew York 2001, pp. 165-184. In un certo senso anche Götz si pone in questo solco, quando sostiene l’ipotesi che il nazismo ricercò sempre il consenso attraverso politiche di sostegno sociale ed elevati standard materiali per la popolazione tedesca e che, quando questi non furono più sostenibili economicamente, si lanciò in una politica di espansionismo e aggressione per continuare a garantirli a spese di altri popoli (cfr. A. Götz, Lo stato sociale di Hitler. Rapina, guerra razziale e nazionalsocialismo, 2005, Einaudi, Torino 2007).

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stati effettivamente limitati (burro, margarina, grasso per cucinare e altri cibi, impoverendo la dieta); ma in altri casi il regime favorisce la crescita di «consumi simbolici», come la radio, il cinema, le vacanze di massa (tramite la Kraft durch Freude, l’omologa dell’Ond italiana), l’automobile (anche se la Volkswagen non diverrà un consumo per tutti per via del suo prezzo), e favorisce l’adozione di elettrodomestici nelle case. In realtà, il nazismo sembra temere che un brusco abbassamento del tenore di vita materiale, anche se per motivi patriottici, possa minare il consenso e magari riproporre uno scenario drammatico come quello del 1918. Per questo, perfino la campagna per il risparmio alla vigilia della guerra è presentata come un modo per consumare di più nell’immediato futuro (all’insegna di slogan come «il risparmio favorisce gli acquisti», «denaro risparmiato - sogni realizzati»)53. L’Italia è in una condizione diversa, di maggiore povertà. Per questo il ruolo del regime nel promuovere i consumi pubblici e collettivi è più importante; inoltre l’accento posto sulla dimensione autarchica del consumo, con tutte le sue ricadute politiche, è più marcato. Ma possiamo dire che per entrambi i regimi la politica dei consumi è un aspetto decisivo e ad essa i consumatori reagiscono in maniera selettiva (in molti casi sia il fascismo sia il nazismo si mostrano riluttanti a sfidare apertamente modelli di consumo «esterofili» e «non sani»). Anzi, talvolta essi stessi danno vita a campagne propagandistiche e creano attese verso nuovi prodotti di uso privato: tecnologie per la casa, automobili, consumi culturali, turismo – ma senza essere in grado di fornirli effettivamente. È in questo momento dunque che si creano le premesse culturali di un consumo di massa, orientato verso la tecnologia e una fruizione domestica, che troverà la sua realizzazione nel dopoguerra. 2. La vita quotidiana nel fascismo Narrano le cronache che l’incontro a Cajamarca (Perù) nel 1532 tra il conquistatore spagnolo Pizarro e l’ultimo sovrano inca, Atahualpa, fu molto drammatico. Per primo si fece avanti il cappellano Valverde, con una Bibbia in mano, e affermò che gli inca dovevano obbedienza perché così era comandato dalla parola di Dio contenuta in quel libro. L’imperatore prese in mano il libro, oggetto che non aveva mai visto (la lingua quechua non era scritta e i documenti erano registrati per mezzo di cordicelle con nodi, le quipu). Atahualpa osservò il libro, poi 53

Berghoff, Enticement and Deprivation cit., p. 184.

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lo avvicinò all’orecchio, ma non avendo visto nulla né udito alcuna parola, lo gettò indispettito al suolo, dando a Valverde dell’impostore. Fu il segnale dell’attacco spagnolo, che seminò il panico con l’artiglieria e sbaragliò il numeroso esercito inca. Atahualpa stesso fu catturato e in seguito battezzato con la forza e quindi garrotato54. C’è da essere certi che anche senza quell’atto sacrilego la conquista spagnola sarebbe andata avanti; tuttavia esso segnala un significativo equivoco culturale e ci ricorda un fatto che tendiamo a dimenticare: anche gli oggetti più semplici della nostra quotidianità possono essere capiti e usati solo all’interno di un contesto che dia loro significato. Dobbiamo imparare a usarli e conoscere il valore culturale di questo uso, non hanno senso di per sé stessi. E naturalmente, quanto più gli oggetti diventano complessi e incorporano nuove tecnologie, tanto più tempo e fatica richiedono per essere inglobati nel «sistema degli oggetti» che ci circonda, per usare un’espressione di Baudrillard (cioè all’interno di un sistema di segni e significati, ben codificato, che costituisce il «linguaggio» della società mediatica moderna)55. Parlando di tecnologia, Kuznets ci ha ricordato come essa sia un potente incentivo a consumare di più, perché ci spinge a volere oggetti nuovi e diversi, ad allargare il ventaglio delle nostre scelte. Ma anche un oggetto tecnologico, è importante notarlo, non è una «scatola nera», un meccanismo che funziona solo premendo un tasto: è un apparecchio o un processo che si attiva in determinati contesti culturali, che presuppongono una certa istruzione, la diffusione di altre tecnologie, la presenza di servizi di supporto, e così via56. Recenti studi hanno sottolineato l’interattività di questo processo: l’apparecchio non impone una sua modalità d’uso fissa, perché gli utenti negoziano modi e significati d’utilizzo, li cambiano, li interpretano diversamente secondo la loro cultura e anche il genere. Non parliamo più di determinismo tecnico ma di un vero processo socioculturale57. Comunque si giri la questione, non c’è dubbio che il progresso tecnico sia un elemento fondamentale nei processi di consumo, soprat54 W. Bright, G. Sanga, Le virtù dell’analfabetismo, «La Ricerca Folklorica», n. 5, aprile 1982, pp. 15-19. 55 J. Baudrillard, Il sistema degli oggetti (1968), Bompiani, Milano 1972. 56 N. Rosenberg, Esplorando la scatola nera: tecnologia, economia e storia (1994), Giuffrè, Milano 1999. 57 I. Gagliardone, M. Geraci, La scatola nera e il mantello di Arlecchino. Autonomie culturali nelle reti globali, «Studi culturali», 2, dicembre 2004, pp. 393414; F. De Ruggieri, A.C. Pugliese, Futura. Genere e tecnologia, Meltemi, Roma 2006.

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tutto in età contemporanea (per qualcuno, forse l’elemento più caratterizzante la nostra epoca). Perché allora non andiamo alla ricerca degli oggetti che meglio incarnano questo aspetto nel periodo che stiamo esaminando, e cioè durante il fascismo? 2.1. Casa Per svolgere la nostra indagine abbiamo scelto una casa della borghesia medio-alta in una grande città. Questo perché il costo delle nuove tecnologie è elevato, e non le avremmo trovate in case operaie o piccolo-borghesi, e perché si diffondono soprattutto in ambienti metropolitani. E anche perché le distanze sociali tra una classe e l’altra, marcate anche da indicatori materiali simili, sono sempre molto forti e visibili (e questa è un po’ una caratteristica di tutta Europa, rispetto agli Stati Uniti, anche se a fronte di minori disuguaglianze sociali effettive)58. Dobbiamo però aspettare che escano i padroni di casa. È mattino e dal portone dell’elegante condominio esce il marito. Non possiamo fare a meno di osservare il suo abbigliamento. Sicuramente il suo completo giacca e pantalone è stato fatto da un sarto (anche perché nel ventennio gli abiti confezionati sono solo il 20 per cento del totale, spesso non sono di buona qualità e costano cari)59; ma possiamo scommettere che altri capi sono di produzione industriale. La camicia che spunta sotto la cravatta, innanzi tutto: la camiceria è infatti il primo comparto a industrializzarsi, grazie alla misurazione del collo (proporzionale a spalle e torace), mentre le taglie vere e proprie si sviluppano in seguito, per le necessità delle uniformi militari. Importanti camicerie sorgono a Milano e Torino (con industriali come Carlo De Micheli, Vincenzo Boero, Isaia Levi), anche se le più famose restano quelle inglesi. Notiamo il collo floscio, che forse è attaccato con dei bottoni: le camicie vengono vendute insieme a ricambi di colli e polsini. I capi devono durare. Industriale è anche l’impermeabile, o trench a ricordo della sua origine nelle trincee della Prima guerra mondiale, che forse proviene dalla zona specializzata di Empoli o magari dalla San Giorgio di Genova60. E poi c’è il cappello, tipico simbolo dell’appartenenza al ceto medio (gli operai infatti portano il berretto). Il cappello di feltro e pelo che indossa può venire da Monza, specializzata fin dal Seicento in questa lavorazione, e dove troviamo grandi industrie (Cam58 H. Kaelble, Verso una società europea. Storia sociale dell’Europa 1880-1980 (1987), Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 43-65. 59 I. Paris, Oggetti cuciti. L’abbigliamento pronto in Italia dal primo dopoguerra agli anni Settanta, Franco Angeli, Milano 2006, pp. 59-63; E. Merlo, Moda italiana. Storia di un’industria dall’Ottocento a oggi, Marsilio, Venezia 2003. 60 Paris, Oggetti cuciti cit., pp. 65-72.

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biaghi, Ricci, Paleari); oppure dal Piemonte, dalla fabbrica biellese dei fratelli Barbisio, o, se è di maggior pregio, dalla Borsalino di Alessandria. Se fosse estate, invece, lo vedremmo con un bel cappello di paglia fabbricato a Firenze, che esporta da due secoli questi prodotti in tutto il mondo. Non vediamo le scarpe, nascoste sotto ghette e galosce (per il freddo ma anche perché il cuoio «autarchico» non è di gran qualità). Eccolo, infine ha svoltato l’angolo. Subito dopo vediamo uscire la cameriera (si riconosce subito dall’aspetto dimesso e «campagnolo», ha una specie di camice azzurro e tacchi bassi) che accompagna a scuola due bambini: entrambi hanno un grembiule nero, la bambina ha un fiocco rosa, il bambino un grande colletto bianco e il fiocco azzurro, e da sotto il grembiule spuntano i calzoni corti (come si usa fino all’adolescenza). Quasi corrono, sono in ritardo, e certo bisogna andare a piedi fino a scuola. Dobbiamo invece aspettare un po’ perché esca la moglie. È elegante: indossa un frusciante vestito a piccoli fiori abbastanza aderente su cui porta un cappottino scuro lungo con un piccolo collo di pelliccia. L’insieme è sobrio, se non fosse per due particolari: il cappellino, in tinta unita ma piccolo e indossato quasi di sbieco (anche questo un segno di classe: le popolane non portano nulla o mettono un fazzoletto annodato), e le calze velate con la cucitura centrale dietro (magari della milanese Santagostino, la più grande fabbrica dell’epoca). Calze e vestito ci ricordano l’importante evoluzione dei tessuti che avviene negli anni Trenta con l’introduzione delle fibre artificiali. L’eccezionale sviluppo di imprese come la Snia-Viscosa, dietro la quale c’è Riccardo Gualino, o della Soie de Chatillon, nata su impulso di Leopoldo Parodi Delfino, portano il settore al secondo posto a livello mondiale, producendo rayon (dalla cellulosa), fiocco, lanital e altri prodotti che danno un forte impulso al tessile e alle confezioni61. Tra l’altro, questo consentì di produrre capi di buona qualità a un prezzo contenuto, anche in regime d’autarchia62. Tornan61 A. Colli, Fibre chimiche, in Storia d’Italia. Annali 19. La moda, a cura di C.M. Belfanti, F. Giusberti, Einaudi, Torino 2003, pp. 483-522. 62 Per fare qualche esempio di prezzi, a metà degli anni Trenta un paio di scarpe da uomo o da donna di qualità medio-bassa può costare 30-40 lire, un abito maschile 150 lire (un metro di tessuto pettinato costa 42 lire, il doppio che per donna); per un confronto, nel 1935, 10 sigarette costano 1,70 lire; un francobollo da lettera 0,50, come un biglietto per autobus urbano; un chilo di pane 1,80, di zucchero 6, di carne bovina 9, di caffè 29; un litro di latte 1, di vino 1,7, d’olio 6 (Tab. 4). Si calcoli che i prezzi subiscono una diminuzione nella prima metà degli anni Trenta per tornare a crescere rapidamente nella seconda metà. Cfr. Istat, Sommario di statistiche storiche cit., pp. 134-138. Per avere un’idea del prezzo in termini odierni si possono moltiplicare le cifre date relative al 1935 per un valore di 1938,89 (e poi trasformarle in euro): per un curioso caso, le cifre date sono simili al valore in euro 2006.

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do alla nostra signora, si vede che segue la moda, cosa che il regime non disdegna affatto (purché sia «italiana» nel gusto e nei materiali) e probabilmente legge qualche rivista per essere aggiornata (magari «la Donna» di Mondadori o «Lei» di Rizzoli, oppure, se è molto sofisticata, «Lidel» di Lydia De Liguoro)63; i suoi abiti sono certo opera di una delle numerosissime sarte locali o il prodotto su misura di una casa di moda (il primo asse attento alla qualità sartoriale si forma intorno a Roma e Firenze – dove si distingue il «calzolaio» Ferragamo con le sue zeppe di sughero, in mancanza del cuoio64 – mentre un secondo di carattere invece produttivo, per le confezioni in serie, è fra Milano e Torino). Ma siamo solo agli albori di quello che sarà il sistema della moda italiana. Finalmente il campo è libero e possiamo entrare. Ci colpisce subito la pulizia e l’ordine dell’ambiente, che ha un suo carattere improntato al decoro. Chissà che fatica tenere tutto così in ordine e lucido! Per fortuna, fra le due guerre l’industria chimica fa passi da gigante e offre nuovi prodotti di consumo per la pulizia della casa e della biancheria (leader del settore in Italia è la Mira Lanza, derivata dalla fusione di due imprese preesistenti e specializzata in candele e saponi, mentre sono ancora poco noti i colossi esteri, l’americana Procter & Gamble, la tedesca Henkel, l’inglese Lever). E non mancano altri prodotti: vanno di gran moda le bibite rinfrescanti (come le aranciate frizzanti: la San Pellegrino è la prima a lanciarle) e le acque frizzanti, l’«acqua di Vichy», ottenuta versando in sequenza due bustine colorate di sali, e l’Idrolitina del ristoratore bolognese Arturo Gazzoni65. Eccoci in cucina. Qui notiamo subito un oggetto «nuovo», maestoso, bianco brillante, al centro della stanza: è la cucina economica. Sull’ampio ripiano ci sono i fornelli (centri concentrici di ghisa), su uno dei quali c’è perennemente un recipiente per l’acqua calda; sotto un ampio forno e lo sportello dove introdurre il carbone o la legna. La forma è squadrata, moderna, l’uso è semplice e serve a scaldare la cucina molto meglio del vecchio fornello in muratura sormontato dalla cap-

63 R. Carrarini, La stampa di moda dall’Unità a oggi, in Storia d’Italia. Annali 19. La moda cit., pp. 810-822. Sulla politica del regime verso la moda e le sue ricadute nel periodo successivo cfr. Paulicelli, Fashion under Fascism cit. 64 Museo internazionale della calzatura di Vigevano, Lusso & Autarchia 19351945. Salvatore Ferragamo e gli altri calzolai italiani, Sillabe, Città di Castello 2005. 65 Gazzoni fu un pioniere delle pubblicità e scrisse anche libri sull’«arte del vendere». Celebre la filastrocca per pubblicizzare il suo prodotto (riportata anche sulla scatola): «Diceva l’oste al vino / tu mi diventi vecchio / ti voglio maritare/ all’acqua del mio secchio. / Rispose il vino all’oste / fa le pubblicazioni / sposo l’Idrolitina / del Cavalier Gazzoni».

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pa. L’inconveniente è l’alto costo, sulle mille lire (molto più di un medio stipendio da impiegato: nel 1935 un dipendente pubblico, nella carriera ausiliaria, non arriva a 10.000 lire lorde annue, in quella esecutiva è tra le 7 e le 14.000 lire; solo un dirigente può sperare di giungere a 15-20.000 lire)66. Su un lato notiamo una vecchia e pesante stufa da riscaldamento, ma vicino a questa c’è una nuova stufetta elettrica (che probabilmente sarà accesa poco, dato l’alto costo dell’elettricità – e si sente, perché l’ambiente è freddino). Non mancano altri strumenti elettrici: vediamo un bollitore e forse c’è qualcos’altro nell’armadio bianco. Alzando gli occhi, però, notiamo la (tenue) luce che il lampadario diffonde sull’ampia tavola e sul pavimento di linoleum67. Ecco cosa ci sta sfuggendo. In questa casa ci sono altri importanti servizi «moderni»: ci sono acqua corrente, elettricità e probabilmente, visto che è un appartamento abbastanza recente e di pregio, il gas. Questo è un punto importante nella nostra storia dei consumi. Alcuni dei beni e servizi che riteniamo parte integrante degli standard di vita attuali appartengono alla categoria dei «monopoli naturali». Sono settori, cioè, in cui un solo operatore lavora in maniera più efficiente e che riguardano forniture basilari per la comunità, quindi sottoposte a uno speciale regime di prezzi e regole. Negli Stati Uniti si è preferito affidarli a privati, imponendo una regolamentazione molto rigida. In Europa invece si è consegnata la gestione a imprese pubbliche e parastatali. In Italia i grandi protagonisti sono gli enti locali: in epoca giolittiana, dopo un’importante legge del 1903, si assiste alla diffusione di aziende municipalizzate, che si occupano di energia elettrica (il settore in genere più lucroso), gas, acqua e trasporti urbani (il settore più in perdita). Si conclude così un dibattito sui monopoli iniziato a fine Ottocento; in alcune grandi città i servizi così assicurati sono fondamentali per l’opera di urbanizzazione e diventano quasi una bandiera per molte amministrazioni. Il fascismo manterrà queste istituzioni, senza però incrementarle, un po’ per la diffidenza politica nutrita verso imprese spesso nate su ispirazione socialista, un po’ per la politica accentratrice dello Stato68. Naturalmente non mancarono eccezioni alla gestione pubblica: la più clamorosa è senz’altro quella della Edison, vera roccaforte del capitalismo italiano. Essa, oltre a fornire l’elettriIstat, Sommario di statistiche storiche cit., p. 148. Le pubblicità, come quella della Società del Linoleum di Narni, spiegavano che si trattava di un prodotto nazionale, suggerendo un’improbabile origine italica poiché il nome deriva da «lini-oleum». 68 G. Bigatti et al., L’acqua e il gas in Italia: la storia dei servizi a rete, delle aziende pubbliche e della Federgasacqua, Franco Angeli, Milano 1997. 66 67

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cità, acquisì negli anni Trenta anche la fornitura del gas a Milano e fece costruire in un quartiere operaio a nord della città, la Bovisa, enormi gasometri. Come è stato notato69, questo cambiò il paesaggio urbano: Mario Sironi, in un bellissimo quadro del 1943, mette al centro del suo dipinto l’enorme massa rosso scura di un gasometro, con a lato due ciminiere e altri edifici industriali; in basso, passa un operaio in bicicletta, solitario: è l’immagine della nuova periferia urbana70. Torniamo alla cucina. È uno spazio femminile, dedicato ai lavori associati al ruolo sociale della donna, anzi della casalinga. Infatti dopo la massiccia mobilitazione di manodopera femminile avvenuta con la Prima guerra mondiale, si assiste a un ritorno a casa che interessa i ceti borghesi non meno delle aristocrazie operaie. Il fascismo rafforza il trend verso l’abbandono del lavoro dopo il matrimonio o il primo figlio: a Torino nel 1931 la percentuale delle occupate nell’industria è del 42 per cento fino ai vent’anni (contro il 47 dei maschi), ma cala drasticamente al 26 per cento tra i 21 e i 34 anni, e poi al 14 oltre i 35 anni, mentre nei maschi permane vicino al 50 per cento71. Dunque, nella cucina ritroviamo in forma diversa le tradizionali attività legate all’autoconsumo, la cura del cibo e del vestiario. In un angolo vediamo infatti una macchina da cucire Singer (ma poteva essere anche una Necchi): nera, posta su di un tavolinetto, azionata da una pedaliera di ghisa. Nonostante il suo costo sulle mille lire, è un attrezzo importantissimo per l’economia di casa, perché consente di realizzare semplici capi, di cucire, rammendare, rattoppare un po’ tutto, cosa importante in un periodo che valorizza al massimo il risparmio (uno slogan del regime ammonisce: «Si muore più di indigestione che di fame»). La macchina da cucire rappresenta la versione meccanizzata di un’antica cultura femminile. Vicino notiamo un ferro da stiro elettrico; è uno dei primi e sicuramente costa molto. Prima di uscire non resistiamo alla tentazione di fare un controllo nella dispensa: sì, meno male, la pasta c’è! Per un momento abbiamo temuto che i baldi proclami di Marinetti per la creazione di una Cucina futurista che mettesse al bando la pastasciutta avessero avuto un’eco pratica, ma non è così. Le provocazioni degli intellettuali funzionano meglio nei salotti che nelle cucine72. G.L. Lapini, Milano tecnica, in www.storiadimilano.it, 18 maggio 2007. M. Sironi, Il gasometro (olio su tela), 1943. 71 S. Musso, La famiglia operaia, in La famiglia italiana dall’Ottocento a oggi, a cura di P. Melograni, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 80-81. 72 «Pur riconoscendo che uomini nutriti male o grossolanamente hanno realizzato cose grandi nel passato, noi affermiamo questa verità: si pensa, si sogna e si agisce secondo quel che si beve e si mangia. [...] Crediamo anzitutto necessaria: a) 69 70

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Attraversiamo l’ingresso per cercare il salotto; non riservano sorprese infatti le camere dei figli – figli che, notiamo, sono solo due: in media con l’andamento demografico nazionale decrescente, nonostante tutte le campagne del regime, per cui la famiglia passa da 4,5 componenti nel 1891 a 4,2 nel 193673. Il salotto ha la medesima struttura solenne che avevamo riscontrato in passato: divani e poltrone, tappeti decorati sul parquet in legno, soprammobili in gran numero, tavolini, mobili massicci. Il mobilio è ancora più artigianale che industriale (nonostante in Europa ci siano ormai fabbriche completamente meccanizzate come le Deutsche Werkstätte di Dresda) e riflette un gusto tradizionalista. E pensare che è il periodo della Bauhaus, di Wright, Mies van der Rohe, Le Corbusier, per fare qualche nome, ma anche dell’architettura razionalista e degli esperimenti della Triennale di Milano74. Ma queste sono cose riservate alle élite. Tuttavia qui ci sono ben tre oggetti che ci ricordano che siamo entrati in un’epoca nuova, quella delle comunicazioni di massa: la radio, il grammofono e il telefono. Il posto d’onore è riservato alla radio. È una Radiomarelli a onde corte e medie, modello Vertumno: piuttosto grossa e pesante, è in legno scuro nella parte inferiore, chiaro in quella superiore; al centro un pannello di stoffa chiara è protetto da una grata e ai lati due manopole spostano l’indicatore di frequenza. Con il suo aspetto sembra voler nascondere la sua anima meccanica, confondersi con i mobili di materiali «antichi», diminuire il suo impatto modernista. Impatto che invece sulla vita familiare è grande, perché introduce nuove forme di consumo musicale (alla musica è dedicata metà delle trasmissioni), tempestiva informazione con i radiogiornali, programmi di intrattenimento, di cultura e anche di propaganda. La radio diffonde il gusto per le canzoni, per le dirette sportive, crea L’abolizione della pastasciutta, assurda religione gastronomica italiana. Forse gioveranno agli inglesi lo stoccafisso, il roast-beef e il budino, agli olandesi la carne cotta col formaggio, ai tedeschi il sauer-kraut, il lardone affumicato e il cotechino; ma agli italiani la pastasciutta non giova. Per esempio, contrasta collo spirito vivace e coll’anima appassionata generosa intuitiva dei napoletani. [...] Il pranzo perfetto esige: Un’armonia originale della tavola (cristalleria vasellame addobbo) coi sapori e colori delle vivande. L’originalità assoluta delle vivande. [...]» F.T. Marinetti, Il Manifesto della cucina futurista, «Gazzetta del Popolo», Torino, 28 dicembre 1930, in F.T. Marinetti e Fillìa, La cucina futurista (1932), Viennepierre, Milano 2007, pp. 27-30. 73 Istat, Sommario di statistiche storiche cit., p. 15. 74 G. D’Amato, Storia dell’arredamento, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 299358; M. Salvati, L’inutile salotto: l’abitazione piccolo-borghese nell’Italia fascista, Bollati Boringhieri, Torino 1993.

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nuovi personaggi, rende familiare la voce dei potenti, scandisce il ritmo della giornata. Questa famiglia è fortunata a possederla, dato il suo prezzo elevato (questo modello costa 1100 lire; solo nel 1937 si realizza il «Radiobalilla» che costa un terzo); e poi c’è l’abbonamento a favore dell’Eiar. L’ascolto perciò è spesso collettivo, nelle sedi dell’Ond, nelle scuole rurali, negli edifici pubblici75. La radio rafforzò il consumo di musica e quindi trainò in parte la diffusione del grammofono – lo osserviamo, è un’elegante valigetta a manovella Edison-Bell (il trombone è ormai sparito). Vicino ci sono puntine di ricambio e vari dischi a 78 giri: Emi, Decca, Pathe, Deutsche Grammophon, La Voce del Padrone (con il suo marchio famoso: un cagnolino che ascolta il fonografo); la maggior parte sono d’opera e ballabili; ci sono anche i dischi di Enrico Caruso, la prima star discografica che vendette un milione di copie dal 1901 al 1904 (sono da collezione! ma lasciamoli lì). Abbiamo sotto gli occhi il modo in cui la «musica meccanica» ha rivoluzionato la fruizione musicale, sostituendosi all’esecuzione dal vivo e aumentando enormemente la domanda: si è creato un nuovo mercato, spinto fortemente da grandi industrie internazionali e sostenuto da una continua pubblicità76. Tuttavia il basso livello di reddito delle famiglie limita fortemente la diffusione di nuovi dispositivi: a questo pensiamo osservando l’apparecchio telefonico a rotella, nero (solo nei film ci sono telefoni bianchi), un duplex, anch’esso un oggetto che non molti potevano permettersi – l’italiano medio spende solo 19 lire all’anno per i divertimenti (e il 70 per cento va per il cinema, la vera passione del periodo)77. Insomma, è vero che la voce per i nuovi beni durevoli e i trasporti è l’unica ad aumentare in questo periodo, ma i costi sono tali da restringerne l’utilizzo alle fasce superiori. Per questo i valori nazionali sono si75 F. Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia, Marsilio, Venezia 1992, pp. 81-108. 76 A. Briggs, P. Burke, Storia sociale dei media. Da Gutenberg a Internet (2005), il Mulino, Bologna 2007, pp. 213-216; D. Forgacs, L’industrializzazione della cultura italiana (1880-2000), il Mulino, Bologna 2000. 77 Riguardo ai telefoni, nel 1933 l’Iri crea la Stet per la gestione dei servizi telefonici e realizza un regime di semimonopolio; gli abbonati superano i 600.000 nel 1942 (cfr. Sip, Il telefono 1881-1981: cento anni al servizio del paese. Appunti di storia e note di cronaca sulla telefonia in concessione, Sat, Roma 1984). Nel 1938 le spese per intrattenimenti sono così divise: 102 milioni teatro, 587 milioni cinematografo, 105 milioni trattenimenti vari, 37 milioni manifestazioni sportive, per un totale di 831 milioni. Gli abbonamenti alla radio sono 965.577; la produzione libraria di 10.838 libri, di cui 802 scolastici – ma va aggiunto che molto popolari erano le riviste, a tutti i livelli, cominciando da «Topolino», pubblicato da Nerbini e poi Mondadori (cfr. Istat, Sommario di statistiche storiche cit., pp. 58-59).

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gnificativamente più bassi di quelli dei principali paesi europei: gli italiani hanno un quinto delle licenze radio dei francesi e un decimo di quelle dei tedeschi; la distanza è enorme per quanto riguarda i telefoni (nel 1938, 40 milioni di chiamate in Italia, 960 in Francia e quasi 3 miliardi in Germania)78. In questo modo il possesso delle nuove tecnologie appare quasi un segno distintivo di classe. Diamo un’occhiata al bagno prima di uscire. Notiamo un enorme scaldabagno, un vero lusso, accanto alla grande vasca in ghisa; ci sono vari prodotti allineati sulla mensola: sapone di Marsiglia (da bucato e non), saponette Palmolive e Lanza, brillantina Gibbs («disciplinate i vostri capelli»), dentifricio Colgate (va anche l’Email Diamant: «senza di me/ bocca amata/ non brilla»), un profumo Violetta di Parma, un pacchetto di dieci lamette da barba Gillette («alla portata di tutti»). Su una parete, in alto, ha fatto la comparsa un armadietto ben chiuso, pieno di prodotti medicinali, che ormai costituiscono un consumo importante e in crescita per la famiglia (notiamo il cotone idrofilo, la tintura di jodio, l’olio di fegato di merluzzo e prodotti molto pubblicizzati come l’Aspirina, il Formitrol per la gola, il lassativo Rim, la Magnesia S. Pellegrino)79. Un suono di clacson ci attira fuori, è tempo di andare. 2.2. Trasporti Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa, col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo... un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia80.

Marinetti e i futuristi furono i primi in Italia a esaltare il fascino della velocità e quello dell’automobile, elevata a simbolo del progresso tecnico ed estetico della modernità (da notare l’uso del termine al maschile, a sottolinearne enfaticamente il «genere»)81. Il loro entusiasmo era però condiviso da moltissimi altri, fin dall’apparizione delle prime automobili. Esse condensano miracolosamente la conquista dello spazio 78 B.R. Mitchell, European Historical Statistics 1750-1970, Columbia University Press, New York 1975, pp. 659-667 (le licenze radio nel 1938 in Francia sono 4,7 milioni, in Germania 9,6 milioni). 79 Pubblicità apparse a metà anni Trenta in riviste come «L’illustrazione italiana» e «La Domenica del Corriere». 80 F.T. Marinetti, Manifesto del Futurismo, «Le Figaro», 20 febbraio 1909. 81 Interessante da questo punto di vista anche Il motociclista. Solido in velocità (olio su tela), 1923, di F. Depero, che rappresenta con i suoi tratti ben caratterizzati il binomio uomo-macchina, divenuti tutt’uno, che si fa strada in uno spazio solido e mobile come il soggetto in primo piano.

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e del tempo, permettendo viaggi lontani e riducendo i tempi di percorrenza; la libertà dell’individuo di scegliere tempi e modi degli spostamenti, liberandolo dalla schiavitù di orari e convivenze forzate; la passione per le novità tecnologiche e l’ostentazione di uno status symbol. L’industria italiana si era mossa per tempo. Negli anni Venti ci sono ben 36 case automobilistiche, alcune decisamente industriali, altre di alto artigianato. C’è l’Isotta Fraschini, elegantissima e all’avanguardia, divenuta sinonimo di auto di lusso; ci sono le auto sportive realizzate da un geniale meccanico bolognese, Alfieri Maserati, vincitrici di gare prestigiose come la Targa Florio nel 1926; ci sono le Alfa Romeo, pure protagoniste di tante vittorie internazionali (a esse si legano i nomi di campioni come Antonio Ascari, Enzo Ferrari e Giuseppe Campari); ci sono le prestigiose auto create da Vincenzo Lancia, figlio di un industriale e pilota per passione, fra cui spicca la Dilambda. Infine c’è l’impresa principale, la Fiat di Giovanni Agnelli e Vittorio Valletta, la prima impresa italiana a creare una vettura di serie (la Tipo Zero nel 1912), che si è grandemente sviluppata grazie alle commesse di guerra e ora domina il mercato con i suoi modelli: 501, 508, 509. Ed è proprio una Fiat 508, la famosa «Balilla», che ci ha attirato in strada. Si è fermata su un lato ad aspettare qualcuno e noi possiamo ammirarla. È bellissima: nera, scintillante, con grandi fari cromati e alti parafanghi, è il modello berlina a due porte, con un motore da 995 cc. a tre marce, capace di 85 km/h. L’abitacolo non è molto grande, ma ci stanno quattro persone; notiamo all’interno i sedili anteriori ribaltabili, la rivestitura in panno, la tendina avvolgibile per il vetro posteriore, i finestrini a manovella. La doppia ruota di scorta esterna, lo specchietto retrovisore, il fanale di arresto e il portabagagli esterno, oltre alle cromature, sono tutti accessori a pagamento (già allora...). Il modello base è lanciato nel 1932 a 10.800 lire, un prezzo basso rispetto alle concorrenti, ma fuori dalla portata della classe media (anche i padroni della casa che abbiamo visitato, pur godendo di un buon reddito, non se la possono permettere – forse più avanti potranno acquistare a rate una Fiat 500 «Topolino», che costa un po’ di meno). Non sorprende che resti un consumo di lusso. In Italia nel 1938 girano complessivamente 289.000 autovetture (sette ogni cento abitanti, neppure raddoppiate in un decennio), contro 1.818.000 in Francia, 1.272.000 in Germania82 – e lasciamo stare gli Stati Uniti. In tutto si

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Mitchell, European Historical Statistics cit., pp. 640-641.

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calcola che vi siano 450.000 automobilisti, di cui meno di 15.000 donne, tutte residenti in grandi città come Milano, Roma e Torino83. Eppure il regime spinge per la motorizzazione di massa e favorisce il miglioramento dei collegamenti stradali. È del 1924 l’inaugurazione del tronco iniziale della Milano-Laghi, la prima autostrada d’Europa, costruita da Piero Puricelli – un’opera che rinverdisce, secondo la propaganda fascista, il genio costruttore italico. A ciò si assomma un notevole sforzo pubblicitario, non solo riguardante direttamente le automobili, ma le stesse autostrade (in un’originale pubblicità, su «L’illustrazione italiana», la striscia nera del manto stradale si solleva fino a dar forma quasi a una figura umana, dalla cui mano partono come rami le linee autostradali, e si legge: «Automobilisti, motociclisti! Usare delle ‘autostrade’ significa risparmiare tempo, macchine e denaro»), o anche lubrificanti e carburanti (una pubblicità della società italo-americana Esso mostra un cow-boy con frusta e colt in mano che doma un leone ruggente: «Esso il super carburante. Potenza controllata. Con Esso non c’è più il rischio di detonazioni nel vostro motore»). E a ciò va aggiunta la risonanza su radio e giornali delle gare sportive e dei raid automobilistici84. Ma tutto ciò è un sogno per l’italiano medio. Come è anche un sogno usufruire di altre reclamizzate forme di trasporto, come i piroscafi. Le cronache mondane del periodo sono piene di immagini di grandi navi, non di imbarcazioni di emigrati e poveri viaggiatori transatlantici, ma di luoghi che assomigliano ad alberghi di lusso. Durante le «crociere», intese come tour organizzati di qualche settimana, si svol83 F. Paolini, Storia sociale dell’automobile in Italia, Carocci, Roma 2007, p. 25. Nonostante la bassa circolazione, nel 1938 vi furono oltre 31.000 incidenti, di cui 2.500 mortali; la prima causa era l’investimento dei pedoni, seguito dalla collisione con altri veicoli (cfr. Istat, Sommario di statistiche storiche cit., p. 107). Cfr. anche D. Marchesini, Cuori e motori. Storia della Mille Miglia (1927-1957), il Mulino, Bologna 2001. 84 È interessante notare la trasposizione dello sport da uno spazio reale a uno spazio «mitico», come lo definisce Georges Vigarello: la passione popolare si scatena più intorno a eventi mediatici, in grado di accomunare vaste folle disperse nello spazio, che sullo sport effettivamente praticato (cfr. G. Vigarello, Il tempo dello sport, in L’invenzione del tempo libero 1850-1960 cit., p. 236). E questo vale anche per gli sport alla portata di tutti, come il calcio (con le vittorie della Nazionale di Vittorio Pozzo), il pugilato (dove si crea l’intramontabile mito di Primo Carnera, il povero emigrato che si riscatta con le sue forze), il ciclismo (con i duelli tra campioni popolari come Girardengo, Binda, Bartali e Coppi). Cfr. A. Papa, G. Panico, Storia sociale del calcio in Italia, il Mulino, Bologna 2002; D. Marchesini, Carnera, il Mulino, Bologna 2006; Id., L’Italia del Giro d’Italia, il Mulino, Bologna 2003.

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ge una frenetica vita di società: balli in enormi saloni, cene, esibizioni musicali, giochi, conversazioni, sport, riposi oziosi; si sfoggiano i migliori abiti da sera e i gioielli più raffinati in ambienti sfarzosi e moderni: la crociera sul piroscafo di lusso diviene uno dei punti più alti ed esclusivi della mondanità85. A tutti gli altri non rimane che «partecipare» a queste esperienze tramite una visione esterna, non meno emozionante, come ci ricorda la scena del film Amarcord di Fellini, quando il Rex, transatlantico detentore del record di velocità, si materializza per un attimo, enorme e con il ponte e gli oblò tutti illuminati, prima di scivolare nuovamente nella notte oscura86. Ancora più selettiva è la clientela dei trasporti aerei, nonostante il volo rappresenti l’altra grande passione del tempo. Le imprese di Italo Balbo e Francesco De Pinedo, le trasvolate atlantiche, i tanti modelli proposti dalle industrie nazionali (Fiat, Caproni, Macchi, Savoia-Marchetti) alimentano un mito ma non creano un mercato. Nel 1938 i passeggeri delle linee aeree in Italia sono poco più di 100.00087. Gli sforzi del regime si concentrano sull’aviazione militare più che su quella civile. Restano i treni. Con oltre 157 milioni di passeggeri nel 1938, sono certamente il mezzo più utilizzato, per lavoro e per gli spostamenti privati, comprese le prime vacanze delle classi medie88. Sulle tracce delle mode aristocratiche e alto-borghesi, i ceti medi scoprono infatti il fascino della natura incontaminata, ben rappresentato dalla moda delle gite in montagna (elemento di rigenerazione fisica e morale); e anche dei bagni termali e marittimi in località sempre più attrezzate, sul modello della cittadina inglese di Bath, famosa per le sue terme romane, e quella belga di Spa, che divenne addirittura sinonimo di stazione termale89. Ma anche da questo è esclusa la classe operaia, che potrà solo approfittare di iniziative del regime come i treni popolari (convogli straordinari di terza classe, scontati all’80 per cento)90 per scoprire al85 A. Corbin, Dall’ozio coltivato alla classe oziosa, in L’invenzione del tempo libero 1850-1960 cit., pp. 61-71. Il numero complessivo di passeggeri che transitano nei porti italiani, sempre nel 1938, è di 4.700.000; è difficile calcolare quanti di essi siano i clienti delle crociere di lusso (cfr. Istat, Sommario di statistiche storiche cit., p. 109). 86 Amarcord, regia di Federico Fellini, Italia-Francia, 1974. 87 Istat, Sommario di statistiche storiche cit., p. 111. 88 Ivi, p. 104; S. Maggi, Storia dei trasporti in Italia, il Mulino, Bologna 2005. 89 A. Rauch, Le vacanze e la rivisitazione della natura (1830-1939), in L’invenzione del tempo libero 1850-1960 cit., pp. 85-117. 90 L’iniziativa dei treni popolari, che prese avvio nell’agosto 1931, ebbe un grande successo: treni speciali organizzati nei giorni festivi trasportavano migliaia di persone (in breve, più di un milione su circa mille coppie di convogli) in località

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meno in parte i benefici dei soggiorni marittimi, del sole e dello sport – così come afferma nelle sue campagne salutistiche il fascismo. Ci distrae da questi pensieri l’arrivo di una bicicletta, che ci passa davanti cigolando. Eccolo lì il vero mezzo di trasporto per tutti: operai, contadini, impiegati. Ce ne sono in giro di tutti i tipi e colori, dalle dispendiose biciclette «inglesi» a quelle industriali di Edoardo Bianchi e Giovanni Tommaselli o della Prinetti e Stucchi (che fabbricano anche più costose motociclette), fino alle mille realizzazioni artigianali, aggiustate molte e molte volte, per farle durare il più possibile. Le vie sono piene di biciclette che sciamano in ogni direzione (nel 1933, ne circolano già 3,5 milioni)91, le fabbriche hanno tutte grandi rastrelliere all’entrata, ad ogni angolo si trovano negozi con pezzi di ricambio. Per molti, è questa la migliore tecnologia acquistabile. 2.3. Magazzini popolari C’è un ultimo tassello da aggiungere al nostro quadro: la struttura commerciale. Diciamo subito che non vi sono drastiche rotture con il periodo precedente. Il numero degli addetti al commercio al minuto è aumentato: nel 1938 sono 1.220.000, di cui 220.000 ambulanti; due terzi sono attivi nel campo alimentare e un terzo in quello non alimentare, all’interno di 530.000 esercizi92. Questo indica due cose: in primo luogo, abbiamo ancora di fronte una vasta rete di piccoli negozi (in media con due addetti); secondariamente, l’alimentare è di gran lunga preponderante. In realtà non si tratta affatto di una categoria omogenea. Alcuni interessanti dati di natura fiscale ci permettono di delineare una vera e propria gerarchia del lusso. E così vediamo che i negozi alimentari sono i più diffusi ma anche i più poveri: nel 1930 hanno in media una rendita lorda di 12.000 lire annue (come un buono stipendio da impiegato); va meglio per le drogherie (19.000 lire), rispetto a salumerie, panetterie e pescherie; peggio di tutti stanno le rivendite di frutta e verdura (solo 6.500 lire). A livello intermedio troviamo i pubblici esercizi, ma con grandi differenze: molto in su sono gli alberghi (ben 39.500 lire annue); a livello intermedio pasticcerie, bar, caffè (tra 16 e 21.000

turistiche diverse; i biglietti si vendevano dal lunedì, e la gita avveniva in giornata, dalle 5-7 del mattino a mezzanotte. Cfr. S. Maggi, Politica ed economia dei trasporti (secoli XIX-XX). Una storia della modernizzazione italiana, il Mulino, Bologna 2001, pp. 268-269. 91 Ivi, p. 270. 92 V. Zamagni, La distribuzione commerciale in Italia fra le due guerre, Franco Angeli, Milano 1981, pp. 20-21.

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lire); da ultimo le trattorie (10.000 lire). I negozi non alimentari sono in media più ricchi (21.000 lire annue). Al vertice troviamo i negozi di tessuti (40.000 lire), davanti a valigerie, pelliccerie, ferramenta, mercerie, rivendite di lingerie, terraglie e stoviglie, chincaglierie (tutti sopra le 18.000 lire); alla base troviamo cartolerie, librerie, negozi di materiale elettrico (intorno alle 14.000 lire)93. Questa serie di cifre disegna un quadro molto preciso, un triangolo nel quale i consumi delle classi agiate si trovano al vertice (e garantiscono buoni guadagni ai negozi): alberghi, generi pregiati come i tessuti, lingerie e mercerie, valigie e pellicce, e fra gli alimentari, i costosi generi coloniali – che ci fanno pensare a viaggi, spese di lusso per la casa, abiti. Al centro del triangolo, ecco caffè e bar per la vita sociale, ferramenta e terraglie per un modesto arredo casalingo, poche spese per l’istruzione; alla base, i consumi strettamente di prima necessità, soprattutto alimentari, al massimo, una puntata in trattoria. I luoghi del consumo sono specchio fedele della società: non dimentichiamo che questa fitta struttura commerciale si spiega anche con le dinamiche demografiche, e in particolare con la densità di popolazione sul territorio (un dato, questo, che caratterizza storicamente gran parte dei paesi europei, a differenza dell’America). Ma i grandi magazzini che tanto avevano colpito l’immaginazione agli inizi del secolo? Le cifre sono chiare: non c’è stata espansione. Nel 1938 essi rappresentano solo lo 0,8 per cento delle vendite (un quinto rispetto alla Germania, un settimo rispetto alla Gran Bretagna), e le cose non vanno meglio per le poche catene di negozi specializzati nella penisola, in genere rivendite di affermate imprese industriali (come Richard Ginori, Olivetti, Perugina, Calzaturificio di Varese, Motta) o librerie (Treves, Bocca, Ricordi, Bemporad). Fra le imprese commerciali si segnalano Morassutti (ferramenta), Bertelli (profumerie), Franzi (valigerie) e infine Unica (dolci), ambizioso tentativo di riunire varie marche affermate come Moriondo & Gariglio e Talmone da parte del finanziere Riccardo Gualino (l’azienda passerà poi all’Iri e quindi alla Venchi). E naturalmente a queste si aggiungono molte realtà locali e cittadine, oltre alla presenza di cooperative e spacci aziendali, fra i quali primeggia quello dei ferrovieri, la Provvida94. La principale causa di questo ristagno risiede nel basso potere di acquisto dei consumatori, accentuato dalle crisi economiche ricorrenti e dalla politica di contenimento salariale attuata dal regime. Ma non 93 94

Ivi, p. 78. Ivi, pp. 23, 126.

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è solo questo. Il fascismo intraprende presto una politica di controllo sugli ambienti economici; è del 1926 una legge che stabilisce la necessità di una licenza per aprire un negozio, licenza rilasciata dal comune in base a una valutazione sulla sua effettiva necessità, considerati gli aspetti urbani e demografici, la presenza di altri negozi simili e di mercati rionali95. Pochi anni dopo una legge affine viene emanata per le fabbriche, per quanto non abbia lo stesso impatto, anche per l’efficace opposizione di Confindustria, e verrà sospesa con la guerra. Le difficoltà degli anni Trenta fanno sì che la nuova legge serva ben poco a razionalizzare una crescita che non si verifica; piuttosto, la norma diventa uno strumento per legare politicamente la caotica platea dei commercianti. Questi, da parte loro, subiscono il nuovo ordinamento anche perché sono preoccupati per una novità: i magazzini a prezzo unico. La più antica foto dei nuovi empori è quella che ritrae l’ingresso del primo magazzino Upim, inaugurato il 22 ottobre 1928 a Verona. Un antico arco d’entrata è riempito nella mezzaluna superiore da un’insegna bianca con una scritta nera in corsivo, «upim»; sotto si scorgono vetrine piene di merci. Semplice. Molto diverso dallo sfarzo esibito nella Rinascente. E coerente con il messaggio che le nuove rivendite vogliono lanciare, come si vede scritto altrove: «magazzini per tutti». Non abbiamo molte testimonianze iconografiche delle origini, forse per via del loro aspetto modesto, del loro rientrare nella «normalità» del paesaggio urbano (e noi non siamo molto colpiti dalla quotidianità – e neppure i fotografi)96. Comunque, sappiamo che la prima Upim offre ai suoi clienti 4000 articoli a prezzo fisso (cioè a 2, 3 oppure 4 lire), ricalcando una formula inventata dall’americano Frank W. Woolworth nel 1879 e ampiamente diffusasi in Europa tra le due guerre, complice la crisi economica. L’iniziativa è di Senatore Borletti, proprietario della Rinascente, che crea appunto una catena parallela (Unico Prezzo Italiano di Milano) per distinguere i due marchi: l’Upim si

95 R.D.L. 16 dicembre 1926, n. 2174. Cfr. Zamagni, La distribuzione commerciale cit., pp. 89 sgg.; B. Maida, Il prezzo dello scambio. Commercianti a Torino (1940-1943), Scriptorium, Torino 1998, pp. 41 sgg.; J. Morris, Retailers, Fascism and the origins of the social protection of shopkeepers in Italy, «Contemporary European History», 5, 3, 1996, pp. 285-318. 96 Le immagini a cui ci si riferisce sono reperibili nel sito aziendale http://www.upim.it/box.html, 20 marzo 2007. Naturalmente questo non impedì che l’idea di magazzino popolare a prezzo unico e lo stesso termine entrassero nell’uso comune (cfr. ad esempio L. D’Ambra, Il teatro «Upim», «Scenario», novembre 1939, dove è usato per indicare un repertorio di scarsa qualità).

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rivolge a una clientela popolare-piccolo borghese, ha arredi interni funzionali, punta su articoli di ampio consumo, si sviluppa secondo una diversa geografia (le cittadine medie, che hanno una grande vitalità come in tutta Europa, e i quartieri semi-centrali di quelle grandi), pur non rinunciando a una patina di status sociale (i suoi manifesti vengono realizzati da Dudovich e rimandano a un’idea di moda pratica, cura del corpo femminile, viaggi – magari in treno). In sostanza consentono ai consumatori colpiti dalla crisi e dalla compressione salariale di costruirsi un variegato paniere di consumi, di minor qualità e prezzo, ma ugualmente rispondente a uno schema di consumi ormai introiettato, a uno standard di vita «occidentale». Il successo è molto significativo: alla vigilia della guerra la società di Borletti gestisce 5 filiali Rinascente e 57 magazzini Upim97. La rispondenza del pubblico spinge i fratelli Monzino, ex dirigenti della Rinascente imparentati oltretutto con Ferdinando Borletti, a fondare nel 1931 un’impresa concorrente, la Standa (in origine Standard Sams, poi mutato perché troppo «inglese»). Nonostante gli intrecci finanziari e personali fra le due società, o forse a causa di questi, si apre presto una guerra: da una parte la Rinascente, forte del suo sviluppo e dell’influenza politica di Senatore Borletti; dall’altra la Standa, abile e spregiudicata, che raggiunge in un decennio la metà della consistenza dell’Upim. Queste vicende, unite alle pressioni dei commercianti e al desiderio di imporre i disegni del regime, spingono però il fascismo a intervenire. Prima si approva una legge che estende anche ai magazzini la necessità della licenza, ottenibile in questo caso dal prefetto (nel 1938); poi si impone un «patto» fra le imprese sul mercato (nel 1941), stabilendo il numero massimo di 177 filiali sul territorio nazionale, divise fra Upim (76), Standa (44) e Ptb (33), che di fatto crea un vero e proprio oligopolio98. Tutto ciò rallenta la crescita della gran-

97 F. Amatori, Proprietà e direzione. La Rinascente 1917-1969, Franco Angeli, Milano 1989. 98 Il patto sarebbe stato successivamente denunciato e non rinnovato dalla Ptb nel luglio 1944. Un altro aspetto ricorrente nel confronto fra Rinascente e Standa è il continuo richiamo dei sindacati fascisti alla corretta applicazione dei contratti di lavoro; Borletti aveva persino ottenuto una deroga ufficiale per assumere personale non qualificato in misura eccedente le norme. Cfr. E. Scarpellini, Comprare all’americana. Le origini della rivoluzione commerciale in Italia 1945-1971, il Mulino, Bologna 2001, pp. 205-210. Da notare che la crisi del 1929 aveva costretto alla chiusura gli storici grandi magazzini Mele (cfr. V. Zamagni, Dinamica e problemi della distribuzione commerciale tra il 1880 e la II guerra mondiale, «Commercio», 20, 1985, pp. 3 sgg.).

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de distribuzione e crea un solco crescente rispetto ai principali paesi europei. Riguardo alla terza protagonista, la Ptb («Per Tutte le Borse»), anch’essa ha sede a Milano ed è stata creata nel 1937 con la partecipazione di capitale anglo-americano. L’obiettivo è creare un’offerta differenziata, cioè sempre a buon mercato ma di maggiore qualità rispetto alle altre, per attirare la clientela borghese che disdegnava gli empori più popolari. La strategia imprenditoriale si basa su un ristretto numero di articoli e un’organizzazione molto efficiente (ad esempio, basta una commessa ogni sette metri di banco anziché ogni tre metri come all’Upim e alla Standa). La crescita è fulminea, ma è subito bloccata dal sequestro per via del capitale straniero (proseguirà sotto la guida di un sequestratario nominato dai sindacati)99. Sarà la guerra a congelare una situazione complicata. La stessa guerra che di lì a poco peggiorerà drammaticamente le condizioni di vita materiali della popolazione: mancanza di generi di prima necessità, distruzioni, calmieramento, borsa nera – quasi a ribadire l’ineluttabilità di un destino fatto di povertà. Un destino al quale non ci si può sottrarre, deciso sempre dall’alto, come constata amaramente il protagonista di Napoli milionaria!: GENNARO Dunque... Il calmiere... Il calmiere, secondo me, è stato creato ad uso e consumo di certe tale e quale persone... che sol perché sanno tènere ’a penna mmano fanno ’e prufessure, sempe a vantaggio loro e a danno nostro. Danno morale e materiale; quello morale prima e quello materiale dopo... E me spiego. Il calmiere significa praticamente: «siccome tu nun saie campà, lèvate ’a miezo ca te mpar’ io comme se campa!» Ma nun è ca nuie, cioè ’o popolo nun sape campà... È il loro interesse di dire che il popolo è indolente, è analfabeta, non è maturo... E tanto fanno e tanto diceno, ca se pigliano ’e rrétene mmano e addeventano ’e padrune. [...] Popolo e prufessure se mettono allora a dispietto. ’E prufessure pigliano pruvvedimente pe cunto lloro e ’o popolo piglia pruvvedimente pe cunto suio. E a poco a poco tu hai l’impressione ca niente t’appartiene, ca ’e strate, ’e palazze, ’e ccase, ’e ciardine, nun è robba toia... ma ca è tutta proprietà ’e sti prufessure; ca lloro se ne ponno serví comme vonno, e tu non si’ padrone manco ’e tuccà na preta. Po, in queste condizioni, se fa ’a guerra. [...] PEPE (confessa, candidamente) Don Gennà, io nun aggio capito niente... GENNARO E si tu avisse capito, nun ce truvarríemo accussí nguaiate100.

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Scarpellini, Comprare all’americana cit., pp. 218-224. E. De Filippo, Napoli milionaria! (1945), Einaudi, Torino 1971, pp. 31-33.

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Capitolo terzo

Il miracolo economico

1. La società nell’età d’oro del capitalismo 1.1. La rivoluzione dei consumi Aveva aspettato fuori per ore. Nel quartiere non si parlava d’altro da mesi. La folla era tanta e la polizia era intervenuta per stabilire turni d’entrata, qualcuno si era anche sentito male nella calca. Ma alla fine ce l’aveva fatta ed era entrata. Ne valeva la pena! I giornali l’avevano detto, c’era «il ben di Dio di ogni paese», pinne di pescecane, nidi di rondine, mozzarella napoletana, e poi scatole e scatolette, carne avvolta in una specie di pellicola trasparente, un reparto intero di cibi «sotto zero», congelati (che fortuna avere comprato il frigorifero!), e anche cibi «normali» a prezzi molto convenienti. I commenti dei clienti erano entusiastici. Una vecchia signora fermò un dirigente: «I miei parenti in America mi hanno parlato per anni di questi negozi favolosi... ho pregato per anni di poterne vedere uno e di farci la spesa prima di morire... mi creda, questa è la risposta a tutte le mie preghiere». E un tizio a un altro: «La prossima volta che vai a votare, semplicemente ricordati di questo, in Russia non hanno niente del genere». Era davvero come avere l’America in Italia. Non avrebbe mai dimenticato la sua prima visita al «supermercato»1. 1 Descrizione dell’apertura del primo supermercato a Milano il 27 novembre 1957 (cfr. E. Scarpellini, La spesa è uguale per tutti. L’avventura dei supermercati in Italia, Marsilio, Venezia 2007). L’articolo di giornale cui ci si riferisce è Rockefeller offre pinne di Pescecane, «Il Giorno», 27 novembre 1957; i commenti degli avventori sono riportati in Rockefeller Archive Center, Wayne G. Broehl, IV 3A 16, box 12, folder «Italiani III», Comments pertaining to Supermarkets Italiani, R.H.

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Se i decenni tra fine Ottocento e Prima guerra mondiale sono quelli della «grande trasformazione», gli anni 1945-73 sono l’«età d’oro» del capitalismo2. Il reddito pro capite cresce in tutto il mondo del 2,9 per cento e ancora di più crescono i redditi nazionali e le esportazioni. Le migliori performance si hanno in Europa occidentale (oltre che in paesi asiatici come Giappone, Corea del Sud e Taiwan). Dal 1950 al 1973 la distanza in termini di ricchezza tra il leader mondiale, gli Stati Uniti, e l’Europa occidentale si riduce notevolmente: la rincorsa (catch-up) è cominciata. Le cause di questa fortunata situazione sono molteplici, alcune contingenti, altre strutturali. In primo luogo operano la liberalizzazione dei mercati e l’integrazione dei sistemi produttivi in un unico spazio economico, sovrinteso da istituzioni internazionali e saldamente ancorato al dollaro, che innescano un flusso di merci e capitali senza precedenti. Il ruolo degli Stati Uniti in questo processo non può essere sottovalutato, per la loro lungimirante leadership, per gli aiuti concessi all’Europa in crisi dopo la guerra, per l’attiva diffusione di nuovi modelli di produzione (e consumo), per la spinta all’integrazione politico-economica occidentale. Da questo punto di vista, studiosi come Maddison hanno sostenuto che la divisione in blocchi politici contrapposti è stata persino funzionale allo sviluppo economico: ha disinnescato pericolose tensioni fra singoli Stati confinanti, proiettandole in un disegno più vasto, e ha provocato in funzione antisovietica una maggiore cooperazione e un’integrazione a tappe forzate dei paesi interni al blocco atlantico (di cui un momento fondamentale è stata la costituzione del Mercato Comune)3. Altrettanto importante è la politica economica coscientemente perseguita per promuovere lo sviluppo all’interno dei singoli paesi e anche a livello internazionale (ad esempio, verso i paesi da poco liberati dal dominio coloniale). L’assunto di queste politiche è chiaro: Hood a W.D. Bradford, Milano, 9 novembre 1959 (in inglese nell’originale). Cfr. inoltre le testimonianze orali di alcuni abitanti del quartiere all’autrice. 2 The Golden Age of Capitalism: Reinterpreting the Postwar Experience, a cura di S.A. Marglin, J.B. Schor, Clarendon, Oxford 1990; A. Cardini, Introduzione. La fine dell’Italia rurale e il miracolo economico, in Id., Il miracolo economico italiano (1958-1963), il Mulino, Bologna 2006, pp. 7-9. Riguardo alla periodizzazione, alcuni studiosi preferiscono utilizzare il 1950, anziché il 1945, per segnalare la diversità dei primi difficili anni del dopoguerra rispetto a quelli della successiva crescita economica; riguardo al benchmark finale, il 1973, esso coincide con la crisi petrolifera. 3 A. Maddison, Monitoring the World Economy, Development Centre OECD, Paris 1995, pp. 73-75.

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lo sviluppo consiste essenzialmente in una crescita economica di tipo quantitativo, che porta a un più alto standard di consumi, migliora la qualità della vita, diminuisce la disoccupazione e la conflittualità sociale; pertanto gli obiettivi prioritari sono gli investimenti in capitale fisso e quelli in capitale umano (istruzione, formazione professionale)4. Un terzo elemento è dato dagli insospettati spazi di crescita economica e di mutamento che si aprono con la ricostruzione. La tipica resistenza al cambiamento opposta dalle istituzioni sociali e dalle stesse forme culturali viene superata d’un colpo per via della guerra, che spazza via vetuste istituzioni, caste privilegiate, ricche corporazioni, antiche famiglie, insieme a molti poveri abitanti. In paesi con regimi compromessi si aprono ampie falle nella classe dirigente (non sarà però il totale rinnovamento che molti sperano). Persino i danni materiali, in certi frangenti, si rivelano un incentivo positivo. Non è un caso che i paesi che registrano le migliori performance economiche siano quelli usciti sconfitti e maggiormente danneggiati dal conflitto: Giappone, Germania e Italia. E questo ci ricorda le lucide parole di Hannah Arendt sulla distruzione come stimolo alla ricostruzione e all’accumulo di nuova ricchezza; essa infatti porta a un’esplosione di prosperità che, come la Germania postbellica illustra, è alimentata non dall’abbondanza delle materie prime o di alcunché di stabile e dato, ma dallo stesso processo di produzione e di consumo. Nelle condizioni moderne, non la distruzione, ma la conservazione appare come una rovina perché la durata degli oggetti conservati è il maggior impedimento al processo di ricambio, la cui costante accelerazione è la sola costante che rimanga valida quando tale processo abbia luogo5.

Ecco allora che Italia e Germania condividono un’eccezionale crescita media del 5 per cento dal 1950 al 1973, ben al di sopra della media europea. L’Italia, che ancora nel 1950 è l’ultima delle nazioni europee con i suoi 3500 dollari a testa (contro i 6900 della Gran Bretagna, i 5200 della Francia e i 3900 dell’ancora sofferente Germania, senza contare i piccoli Stati nordeuropei, tradizionalmente molto prosperi), nel 1973 ha triplicato il suo reddito pro capite: 10.600 dollari. Ora è molto più vicina alla media europea e alle na4 H.W. Arndt, Lo sviluppo economico. Storia di un’idea (1987), il Mulino, Bologna 1990, pp. 71-117. 5 H. Arendt, Vita activa. La condizione umana (1958), Bompiani, Milano 1989, pp. 186-187.

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zioni principali (12.000 dollari Gran Bretagna e Germania, 13.000 Francia)6. Ora ha finalmente un senso il paragone con i ricchi vicini e ci sono le premesse economiche per un profondo cambiamento nei consumi. Ma non è tutto. Come era avvenuto a fine Ottocento, anche a metà del XX secolo un elemento fondamentale per comprendere le dinamiche che innescano profondi cambiamenti nei consumi è l’aspetto demografico. La generazione del dopoguerra dà vita al baby boom, un piccolo sconvolgimento demografico, che porta a un rapido aumento della popolazione (in Italia ci sono 47,5 milioni di abitanti nel 1951, oltre 54 milioni nel 1971) e soprattutto a una crescita delle classi d’età più giovani, bambini e ragazzi. In effetti, come ci avverte Massimo Livi Bacci, siamo di fronte a una nuova fase nell’andamento demografico novecentesco: con la Seconda guerra mondiale si chiude un primo periodo, caratterizzato dall’alta mortalità seguita al primo conflitto, dalla fine delle grandi emigrazioni transoceaniche e dall’isolamento demografico. Questa seconda fase vede invece un incremento demografico, complice la crescita economica dei paesi occidentali e la ripresa delle migrazioni interne e internazionali, soprattutto intereuropee; si chiuderà agli inizi degli anni Settanta, con una nuova stagnazione demografica7. Per intanto, nel quarto di secolo seguito alla Seconda guerra mondiale, la mortalità continua a declinare, e per un paio di decenni il tasso di fertilità inverte la sua costante discesa8. Questo non solo consente un aumento della popolazione, ma segna anche un significativo incremento nella speranza di vita (altro indicatore dei migliorati standard di vita): nel 1970 in Italia si vive 72,1 anni, appena meno che in Francia, ma più che in Germania e Gran Bretagna – mentre per tutto il secolo la speranza di vita in Italia era stata decisamente più bassa, rispecchiando fedelmente il divario nelle condizioni socio-economiche9. Ed è significa6 A. Maddison, Historical Statistics for the World Economy. Per Capita GDP (1990 International Geary-Kharnis dollars), in www.ggdc.net/maddison, 15 febbraio 2007. 7 M. Livi Bacci, La popolazione nella storia d’Europa, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 227-231. 8 Il numero medio di figli per donna in Italia è 3,5 nel 1921-25 e scende a 2,5 nel 1941-45; risale quindi a 2,8 nel 1946-50 e si assesta a 2,6 nel 1961-65 e 2,5 nel 1965-70, per poi declinare bruscamente. Cfr. Livi Bacci, La popolazione nella storia d’Europa cit., p. 233 (tab. 7.3). 9 Negli anni 1930, 1950 e 1970 la speranza di vita era: Gran Bretagna, rispettivamente, 60,8 - 69,2 - 72 anni; Francia: 56,7 - 66,5 - 72,4; Germania: 61,4 - 67,5 71; Italia: 54,9 - 66 - 72,1. Cfr. Livi Bacci, La popolazione nella storia d’Europa cit., p. 231 (tab. 7.2).

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tivo notare come il miglioramento risulti più marcato per le donne che per gli uomini10. L’altro importante fenomeno demografico, come detto, è la ripresa dei flussi migratori. Certo, non si tratta più delle imponenti migrazioni di inizio secolo: ora ci si sposta dal sud al nord, dall’Europa meridionale a quella settentrionale (Germania in testa) e anche, in paesi con una frattura economica interna come Italia e Spagna, dalle regioni più povere a quelle più industrializzate. L’emigrazione infatti è indotta dal boom industriale che, nella sola Italia, spinge 1,7 milioni di persone ad abbandonare le campagne per cercare occupazione nelle fabbriche o nel piccolo commercio (l’attività agricola precipita nel giro di una generazione: in vent’anni gli agricoltori calano da 8 a 3 milioni)11. Tutto ciò comporta un mutamento nel profilo demografico dell’italiano medio, che ha un’immediata ricaduta sui consumi. La presenza di giovani e di nuove coppie che si sposano, hanno figli, creano una famiglia nucleare, vivono in luoghi geografici lontani dalla famiglia originaria e si spostano con facilità, dà vita a una forte domanda di beni di consumo. Ci sono dunque le premesse sociali per un mutamento nella struttura dei consumi. Non è ancora tutto. Inestricabilmente legato ai fattori economici e sociali, c’è il cambiamento culturale. Gli anziani dell’epoca si guardavano intorno perplessi. Migliaia di persone avevano abbandonato il consueto orizzonte rurale per venire a contatto di colpo con inusuali spazi geografici e una cultura urbana molto differente; all’interno della famiglia, iniziavano a ridefinirsi i ruoli, in base al genere e all’età; l’improvvisa affluenza rimescolava gli antichi confini di classe e di status; le tradizionali istituzioni erano sempre meno fonte di legittimazione e riferimento a confronto dei nuovi mass media; strani oggetti di consumo apparivano ogni giorno e il significato del loro uso era mutevole. Ma quello che dava più fastidio era che, dopo i duri anni della ricostruzione all’insegna del risparmio, si era diffusa come una malattia, una febbre, una diffusa aspettativa, per cui ora tutti erano convinti che la loro condizione potesse migliorare, che potevano avere un’esistenza più prospera, una vita piena di «cose». Era un sogno che ve10 L’età media degli italiani passa dal 1950 al 1970 da 64,1 a 69,3 anni (+5,2); quella delle italiane da 68 a 75,3 (+7,3). Cfr. Istat, Sommario di statistiche storiche dell’Italia 1861-1975, Istat, Roma 1976, pp. 25-26. 11 Il censimento del 1951 registra 8.261.000 addetti all’agricoltura, pari al 42% della popolazione attiva (industria: 32%; servizi: 26%); nel 1971 sono 3.243.000, pari al 17% (industria: 44%; servizi: 39%). Cfr. Istat, Sommario di statistiche storiche cit., p. 14.

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niva da lontano, dall’America; era come in un racconto di Moravia, dove la famiglia di un funzionario a riposo un giorno scopre in un negozio una merce nuova: Ora la merce la vedevano chiaramente: felicità. I tre Milone, come tutta la gente di questo mondo, avevano sempre sentito parlare di questa merce ma non l’avevano mai vista. Se ne discorreva in giro come di qualche cosa di molto raro, di una rarità addirittura leggendaria, quasi dubitando che esistesse realmente. È vero che le riviste in rotocalco pubblicavano ogni tanto lunghi articoli, corredati di fotografie, in cui si diceva che la felicità agli Stati Uniti era, se non comune, per lo meno accessibile; ma si sa, l’America è lontana e i giornalisti ne inventano tante. [...] Nelle vetrine [...] le felicità, come tante uova pasquali, si presentavano in ordine di grandezza, per tutte le borse. Ce n’erano di piccole, ce n’erano di mezzane, ce n’erano di gigantesche, forse finte, messe lì per réclame. Ogni felicità aveva il suo bravo cartellino col prezzo scritto in elegante corsivo. [...] «Eh, perché», disse il vecchio con stizza, «dopo anni e anni che ci dicono che in Italia non c’è la felicità, che ne manchiamo, che costa troppo per importarla... ecco che tutto ad un tratto aprono addirittura un negozio dove non si vende altro. [...] ...ma sai cosa vuol dire importare? Vuol dire spendere valuta pregiata... quella valuta che dovrebbe servirci a comprare il grano... il Paese crepa di fame... abbiamo bisogno di grano... nossignore... quei pochi dollari che riusciamo a racimolare li spendiamo per comprare questa roba, questa felicità! [...] «Ma anche di felicità c’è bisogno», osservò la figlia. «È una superfluità», rispose il vecchio. «Prima di tutto bisogna pensare a mangiare... prima il pane, poi la felicità... ma già questo è il Paese del controsenso: prima la felicità e poi il pane...»12.

Nell’Italia del miracolo economico era venuta l’ora di «comprare» la felicità. Magari per via della diffusione di un modello di benessere individualistico, dove il consumo privato è il vero segno del successo e dell’integrazione sociale (come avveniva appunto in America); o magari perché le premesse culturali di un consumo di massa erano state già poste durante il fascismo, senza che ci fossero i mezzi per il loro effettivo appagamento. Ma, più prosaicamente, cosa comprano gli italiani? Si può parlare di miracolo rispetto ai consumi? Non c’è dubbio. Basta una cifra a sin12 A. Moravia, Felicità in vetrina, in Racconti surrealistici e satirici, Bompiani, Milano 1945 (ripreso in R. Minore, U. Silva, Il commercio nella letteratura italiana. Il Novecento, Newton Compton, Roma 1986, pp. 128-130).

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tetizzare la situazione: i consumi privati pro capite impiegano sessantasei anni per raddoppiare (dal 1890 al 1956), ma bastano solo altri quattordici anni per raddoppiare nuovamente13. In termini complessivi, la spesa per i consumi era di oltre 10.000 miliardi nel 1950, sfiora i 30.000 nel 1970: un salto enorme, che consente ai consumi di crescere a ritmi record, pur restando al di sotto di quelli di reddito nazionale lordo e investimenti (fatto, questo, che riduce la propensione al consumo e favorisce l’accumulazione e lo sviluppo)14. E tutto ciò sullo sfondo di prezzi stabili e di aumenti nella produttività che consentono, insieme, un incremento nel potere di acquisto dei consumatori e nei profitti industriali. All’interno di questa crescita dei consumi, assistiamo a uno sconvolgimento degli schemi dominanti. Per la prima volta, le spese alimentari non assorbono più la gran parte delle risorse disponibili e scendono ben al di sotto della metà (nel 1970 sono il 44 per cento del totale). Ma soprattutto la dieta cambia profondamente. In sostanza, salgono un po’ tutti i cibi, con significative eccezioni: scendono gli alimenti «poveri», come il risone, i legumi secchi (a favore di quelli freschi), il lardo e lo strutto (a favore di burro e olio), la carne ovina e caprina; salgono, anzi esplodono, i consumi di alimenti «ricchi», prima troppo costosi e riservati alle élite. Rispetto agli anni Trenta, raddoppiano tutti i prodotti caseari (latte e formaggio) e le uova; cresce il consumo di vino e ancor più quello di birra, ma soprattutto salgono tre prodotti simbolo: la carne bovina, lo zucchero e il caffè. Il consumatore medio del 1970 ha finalmente davanti a sé un’alimentazione ricca e variata. Lascia da parte i miseri ingredienti del passato, ma non per questo rinuncia ad alcuni alimenti che caratterizzano la tradizione culinaria italiana e consuma in un anno 173 chili di frumento e 47 chili di pomodori. Se sono abbastanza presenti sulla sua tavola legumi freschi e patate (rispettivamente, 10 e 45 chili), egli si butta decisamente sulla carne: 36 chili all’anno, di cui 25 bovina (erano 8-9 nel fascismo) e 11 suina, accompagnati da 11 chili di formaggio, 11 di uova e 67 litri di latte (poco pesce: 7 chili annui). Tutte ci13 La propensione media al consumo (consumi privati/reddito nazionale lordo) scende da valori intorno a 0,79 nel periodo giolittiano e 0,67 nel fascismo fino a 0,64 negli anni Sessanta-Settanta. Cfr. I conti economici dell’Italia, a cura di G.M. Rey, vol. I, Una sintesi delle fonti ufficiali 1890-1970, Laterza, Roma-Bari, 1991, pp. 42-44. 14 I conti economici dell’Italia, a cura di G.M. Rey, vol. I, Una sintesi delle fonti ufficiali 1890-1970, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 210, 215-216. I dati sono espressi a prezzi costanti in miliardi di lire 1963.

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fre semplicemente impensabili fino a un paio di decenni prima. Ha poi scoperto la passione dei condimenti, tanto da usare abbondantemente olio (11 litri d’oliva e quasi altrettanti della novità degli oli di semi) e burro (2 chili). Il tutto accompagnato da 114 litri di vino, sempre la bevanda nazionale, poiché la birra arriva a un decimo. Ma soprattutto ha dato sfogo alla sua passione per il caffè e i dolci: la tazzina fa consumare 3 chili di caffè all’anno (non si raggiungeva il chilo nel fascismo e il mezzo chilo a inizio secolo) e lo zucchero arriva a 28 chili annui (quattro volte più che durante il regime, dieci volte più che nel primo Novecento) (Tab. 1). È un consumatore che apprezza una dieta ricca e variata, con molti alimenti dolci e calorici, e con un alto consumo di prodotti freschi. Insomma, una vera e propria trasposizione alimentare dell’abbondanza e dello sfrenato ottimismo degli anni del miracolo economico. Ma cosa fa il nostro consumatore dei soldi restanti? La percentuale di spesa per il vestiario e le calzature resta intorno al 9 per cento, e un andamento simile hanno le spese per la casa, intorno al 12 per cento, del totale. In crescita troviamo invece gli «altri» consumi: i trasporti e le comunicazioni (10 per cento), i beni durevoli (6 per cento), le spese per igiene e salute (8 per cento) e altri beni e servizi (11 per cento). Ecco qui un altro scorcio della crescita. La triade dei consumi di base appare fortemente ridimensionata in percentuale: in forte calo gli alimentari, sostanzialmente stabili le spese per la casa e i vestiti. Invece gli altri consumi coprono il 35 per cento del reddito a disposizione: si assiste quindi a uno spostamento nelle scelte e alla progressiva sostituzione di quote tradizionalmente spese nell’alimentare per la motorizzazione privata, per i beni durevoli (arredamento e primi elettrodomestici), per la cura e la bellezza del corpo e per l’acquisto di servizi (Tab. 2)15. La principale novità in questo quadro è la presenza dei beni durevoli nelle famiglie. Un’indagine della Banca d’Italia del 1966 disegna una precisa gerarchia: al primo posto, pressoché appaiati, troviamo frigorifero e televisore (posseduti dal 60 per cento delle famiglie); distanziati seguono la lavatrice (32 per cento) e l’automobile (31 per cento), quindi l’aspirapolvere (16 per cento), la motocicletta (14 per cento) e c’è persino una piccola quota di lavastoviglie (1 per cento)16. Tuttavia

15 Per un’analisi dei cambiamenti di lungo periodo cfr. B. Barbieri, I consumi nel primo secolo dell’Unità d’Italia 1861-1960, Giuffrè, Milano 1961. 16 C. D’Apice, L’arcipelago dei consumi. Consumi e redditi delle famiglie in Italia dal dopoguerra ad oggi, De Donato, Bari 1981, p. 53. Queste tendenze sono confermate da precedenti indagini, come quella della Doxa nel 1958, che rileva come la pri-

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le scelte non sono omogenee se si confrontano diverse classi di reddito. Le famiglie più povere privilegiano il televisore rispetto al frigorifero, anche se di poco (mentre per i benestanti il rapporto si inverte) e per questi due beni spendono una quota spropositata di reddito; l’aspirapolvere fra loro è meno diffuso, mentre sale la percentuale di possesso di una moto; beni come la lavastoviglie sono invece presenti significativamente solo tra poche famiglie molto ricche, quasi come uno status symbol. Ci vorranno altri dieci anni perché la diffusione del televisore e del frigorifero diventi generalizzata, sia presente cioè in più del novanta per cento delle famiglie, e con una distribuzione abbastanza uniforme per fasce di reddito17. Se poi confrontiamo la situazione italiana con quella dei sei paesi europei aderenti alla Comunità europea riguardo a spese per alimentazione, casa, beni durevoli e servizi, l’Italia appare sempre all’ultimo posto; persino nei beni più diffusi la distanza è grande (nel 1965 in Italia ci sono 12 televisori ogni 100 abitanti, contro i 25 della Gran Bretagna, i 19 della Germania, i 13 della Francia; il totale dei veicoli in circolazione è 5,5 milioni, contro i 9 di Gran Bretagna e Germania e i 10 della Francia, con una cilindrata media molto più bassa)18. Questi ultimi dati ci possono lasciare un po’ confusi. Aggiungono ombre a un quadro altrimenti ricco di luci. Questa impressione è rafforzata dalla curiosa discrasia che abbiamo notato nelle fonti. Le ricostruzioni di studiosi e giornalisti presentano questo periodo come una specie di età dell’oro, appunto, e utilizzano termini come «miracolo» e «boom economico»; anche le testimonianze orali di oggi ci rimandano a un tempo felice di solidarietà umana ora perduta, di nuovi consumi carichi di significato, di realizzazioni personali. Ma le fonti del periodo hanno toni molto diversi. Denunciano le condizioni di vita degli immigrati, parlano dei disastri della speculazione edilizia, dell’arroganza e ignoranza dei nuovi ricchi, del duro lavoro degli opema diffusione di frigorifero, lavatrice e televisore in Italia dipenda da tre elementi nell’ordine: classe sociale (quella superiore ha tutti e tre gli elettrodomestici nell’11% dei casi, mentre questo non accade mai nelle classi inferiori); grandezza dei comuni (4% in città con oltre 100.000 abitanti, contro lo 0,2% di quelle sotto i 5000); ripartizione geografica (1,7% nord; 1,1% sud e isole; 1% centro). Cfr. P. Luzzatto Fegiz, Il volto sconosciuto dell’Italia. Seconda serie 1956-1965, Giuffrè, Milano 1966, pp. 1685-1689. Per altri dati relativi al 1961 e al 1965 cfr. ivi, pp. 1714-1719. 17 D’Apice, L’arcipelago dei consumi cit., pp. 96, 144. I dati si riferiscono a un’indagine della Banca d’Italia relativa al 1975 (in quell’anno la lavatrice sarà presente nel 76% delle famiglie e l’auto nel 65%). 18 Ivi, pp. 35, 41-42; B.R. Mitchell, European Historical Statistics, 1750-1970, Columbia University Press, New York 1975, pp. 643-644.

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rai, dei sacrifici da fare tutti i giorni, di speranze più che di appagamenti19. E allora? Forse è difficile cogliere gli sviluppi di lungo periodo nella vita di tutti i giorni, e i contemporanei notarono più i problemi che le realizzazioni. O forse il discorso pubblico ha successivamente idealizzato questa età («i mitici anni Cinquanta», «i favolosi anni Sessanta») come antitesi positiva al seguente periodo di crisi e stagnazione, o come antitesi polemica alla realtà odierna20. Ogni paese ha bisogno di miti. Il nostro focus sui consumi ci consente forse di dare una risposta. Ci permette di dire, guardando ai consumi delle famiglie italiane, che ci fu un lungo dopoguerra, segnato da un tenore di vita modesto e da scarse speranze di cambiamento (anche questo curiosamente rimosso dalla memoria collettiva)21; che il miglioramento avvenne in ritardo rispetto ad altri paesi europei (il miracolo infatti parte in Italia a fine anni Cinquanta, al contrario di quanto avviene in paesi come la Germania e il Belgio che attirano infatti i primi flussi migratori); e che quando effettivamente avvenne, fu selettivo. Questo è il punto centrale. Non riguardò tutti. In un’ampia indagine promossa a livello comunitario nel 1963-64 sui bilanci familiari (che coinvolse anche 10.000 famiglie italiane) emerge non solo il ritardo relativo dell’Italia, ma soprattutto una diffusione di beni durevoli che segue una precisa stratificazione sociale. Le famiglie dei ceti medi spendono tre volte di più rispetto a quelle operaie per l’auto (ne possiede una il 44 per cento, contro il 13 per cento degli operai, il 14 per cento dei coltivatori diretti e il 3 per cento dei braccianti); possiedono al 79 per cento un televisore (contro il 48 degli operai e appena l’11 per cento dei braccianti agricoli), hanno al 58 per cento un telefono (contro il 20 per cento degli operai) e così via22. Come ha osservato Giuseppe Maione, se si comparano dettagliatamente famiglie di impiegati europei simili per reddito e numero di figli, ci sono molte somiglianze, ad esempio nel possesso dell’automobile; invece ci sono marcate differenze nelle famiglie operaie europee (dove l’auto è presente solo nella metà o addirittura in un terzo dei casi in Italia a paragone di Germania e Francia), e ancora peggio va per gli agricoltori. In sostanza, nel pieno del miracolo, 19

Cfr. ad esempio G. Bocca, Miracolo all’italiana, Edizioni Avanti!, Milano

1962. 20 Cfr. in questo senso S. Carrubba, Post-Milano. Riflessioni senza pregiudizi su una città che vuole rimanere grande, Mondadori, Milano 2005. 21 E. Scarpellini, Consumi e commercio, in L’età della speranza. Milano dalla ricostruzione al boom, a cura di A. Gigli Marchetti, Skira, Milano 2007, pp. 51-57. 22 D’Apice, L’arcipelago dei consumi cit., p. 42.

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è la classe media a migliorare rapidamente i suoi consumi, mentre operai e agricoltori restano in gran parte esclusi23. E questo a differenza del Nordeuropa, dove l’allargamento dei consumi interessa invece larghe quote di classe operaia. I dati suggeriscono dunque una profonda sfasatura dei consumi in campo sociale, che si assomma alle storiche fratture geografiche, per cui tutte le regioni meridionali sono ampiamente, e spesso drammaticamente, al di sotto dei consumi medi italiani; quelle centrali sono vicine alla media, quelle nord-occidentali al di sopra di almeno un quarto24. Lo stesso fenomeno, dunque, fu vissuto in modo diverso dai suoi protagonisti; e tutto questo getta anche una diversa luce sul contemporaneo dibattito riguardo ai consumi «distorti» e sulle dinamiche che porteranno all’autunno caldo. Negli anni del miracolo l’Italia è ancora il paese dai mille volti. Tuttavia i grandi mutamenti del periodo rimescolano molti equilibri, ridefiniscono le differenziazioni, sovrascrivono le classi sociali con nuove identità. Alla Fiat, un operaio giunto dal sud esprime la stessa cultura del figlio di operai torinesi a parità di salario? Una donna della media borghesia condivide gli stessi valori se vive in una città industriale del nord piuttosto che nelle campagne meridionali? Dove si colloca socialmente e culturalmente il piccolo artigiano che ha fatto una spropositata fortuna in pochi anni? E il rentier decaduto? Le risposte a queste domande sono importanti, perché, come cercheremo di dimostrare, la cultura materiale costituisce una parte importante della costruzione di nuove identità, materializza valori e comportamenti, diventa il tramite per rapportarsi e in definiva cercare un’integrazione nella società. Per questo, per cogliere le novità e le caratteristiche del periodo, non descriveremo i consumi usando la chiave di lettura delle differenze di classe, che pure permangono, come visto; sceglieremo dei profili, delle figure che testimoniano il processo di sovrapposizione di valori, di polisemia identitaria. 1.2. Immigrati Centinaia di persone arrivavano ogni giorno sulle banchine ferroviarie delle stazioni di Milano, Torino e Genova con i «treni della speranza». Fotografie e filmati degli anni Cinquanta e Sessan23 G. Maione, Spesa pubblica o consumi privati? Verso una reinterpretazione dell’economia italiana postbellica, «Italia contemporanea», 231, giugno 2003. 24 Nel 1973 ad esempio, le regioni del nord-ovest consumano 21% più della media nazionale (17 per gli alimentari, 24 per i non alimentari); il nord-est è a + 11% (3 alimentari, 16 non alimentari); il centro a +5% (10 alimentari, 2 non alimentari), il sud e isole a – 25% (– 20 alimentare, – 28 non alimentare). Cfr. D’Apice, L’arcipelago dei consumi cit., pp. 111, 175.

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ta ci mostrano un fiume di persone scendere dai treni, i volti assorti e gli abiti decorosi, trasportando numerose e ingombranti valigie legate con lo spago e pacchi di ogni tipo25. Nelle valigie da cui non si staccano mai – come ci confermano le testimonianze orali – c’è la memoria: abbigliamento, calzature, fotografie, indirizzi di amici e parenti già al nord, portafortuna, qualche specialità alimentare di casa. Davanti a loro, la promessa di un futuro migliore. In questo passaggio da un luogo geografico a un altro, da una cultura (contadina) a un’altra (urbana), è più facile vedere il significato della cultura materiale. Gli immigrati cambiano molti oggetti, oggetti che sono insieme artefatti materiali ed elementi simbolici, grazie ai quali si dà un senso alla realtà, si intessono rapporti sociali, si comunica, ci si distingue. Un bene non ha senso di per sé stesso ma solo all’interno della cultura che lo produce e, come ci ricorda Daniel Roche, «porta con sé un sapere specifico e una certa eccedenza di senso»26. In altre parole, gli oggetti strutturano la nostra vita e reificano i nostri gusti personali, i comportamenti sociali, i significati culturali. Del resto, già Lévi-Strauss aveva identificato tre fondamentali sistemi di comunicazione sociale: attraverso le donne (cioè la parentela), le parole (mitologie e culti) e i beni, appunto27. Gli immigrati non lasciano indietro solo una grande casa contadina, ma una struttura organizzata su ben definite gerarchie sociali; non abbandonano solidi mobili artigianali, ereditati o fabbricati da loro stessi, ma un’economia segnata dall’autoconsumo; non si allontanano da cibi familiari serviti in ampie cucine, ma, come direbbe Mary Douglas, da pasti che seguono precisi schemi culturali di successione e accostamento (salato/dolce, caldo/freddo)28; non dimenticano abiti semplici, ben differenziati tra quelli per il lavoro e quelli per la festa, ma elementi di distinzione personale e sociale (qualcuno di questi deve essere però presente nelle valigie, forse i più belli, i più adatti alla «vita cittadina»). Acquisteranno nuovi oggetti, che materializzano valori e comportamenti diversi. La provenienza di questi immigrati è estremamente varia. Arrivano da diverse regioni geografiche; moltissimi sono ex salariati agricoli, ma una buona parte è data anche da piccoli proprietari rurali; vengono da 25 Cfr. ad esempio Archivio Storico Luce, La Settimana Incom, n. 02497, 31 luglio 1964. 26 D. Roche, Storia delle cose banali. La nascita del consumo in Occidente (1997), Editori Riuniti, Roma 2002, p. 15. 27 C. Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio (1962), il Saggiatore, Milano 1964. 28 M. Douglas, Antropologia e simbolismo. Religione, cibo e denaro nella vita sociale (1975 e 1982), il Mulino, Bologna 1985, pp. 165-230.

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piccoli villaggi o da grandi borghi; e non manca una quota di immigrazione cittadina, sia proletaria sia di classe media (ad esempio intellettuali alla ricerca di lavoro in giornali e case editrici del nord). Le prime ondate sono soprattutto giovani uomini; ma presto seguono donne e bambini. Il termine «meridionali» con cui sono etichettati nasconde enormi differenze materiali e culturali: tradisce in realtà più lo sguardo dell’abitante del nord, che li accomuna in un generico «altro da sé» (succederà lo stesso molti anni dopo, con i primi arrivi di extracomunitari, percepiti indistintamente come «nordafricani» o «marocchini»). Quale che sia la loro provenienza e cultura, gli immigrati sperimentano importanti cambiamenti. Il primo è la mobilità. Prima di tutto, naturalmente, quella geografica, che li immette in una realtà diversa. Non si tratta in genere di un totale salto nel buio, per via della rete solidale di amici e parenti, già migrati prima, che si attiva per trovare una prima sistemazione e un primo lavoro saltuario (trovare una buona occupazione in una grande fabbrica non è infatti così semplice come si diceva al paese, i lavoretti commerciali o nell’edilizia sono più alla portata, soprattutto se in nero). L’impatto con le città del nord è forte, dunque, ma non così traumatico, perché attutito da questa rete parentale che offre un certo sostegno e ricrea luoghi e spazi di sociabilità legati alla memoria di origine (e anche ai consumi: si pensi a negozi, trattorie e ristoranti che ripropongono consumi alimentari tipici dell’Italia centro-meridionale al nord, fornendo così anche una forma di integrazione economica). Ma c’è una cosa che attira subito l’attenzione, racchiude tutti i significati attribuiti alla mobilità e diviene il simbolo del «sogno italiano»: l’automobile. O meglio, l’utilitaria, a cominciare dalla Fiat 600 che appare nel 1955. Ma cosa vedono, immigrati e non, in questa vetturetta? Facciamoci idealmente largo tra la folla che gremisce una concessionaria Fiat del tempo e guardiamola da vicino. La 600 ci appare un oggetto scintillante dalle morbide linee arrotondate, bianca, con sottili profili di metallo, ampi finestrini. Per le sue dimensioni contenute (alta 140 cm, larga 138, lunga 320) ci appare spaziosa all’interno, con quattro comodi posti; il motore è posteriore – come osservano con ammirazione i clienti – mentre nel cofano c’è (poco) spazio per i bagagli vicino alla ruota di scorta. Il motore da 633 cc. consente una velocità di 95 km/h – non molto per i nostri gusti, ma una discreta velocità per allora, e poi consuma solo 5,7 litri per 100 chilometri. Questa macchina è la risposta a un sogno, perché è la prima vera auto pensata per tutti. Non che il prezzo sia davvero abbordabile: 590.000 lire (un buono stipendio operaio è al massimo 70-80.000 lire mensili), anche se il venditore che ci gira intorno ri141

pete ad alta voce che si può pagare in 24 comode cambiali. Ma l’impressione è buona e nessuna bada all’avventore che, con fare competente, dice a tutti che la macchina va bene ma ha il difetto di surriscaldarsi quando c’è una salita ripida. Nessuno lo ascolta, tutti guardano e toccano estasiati questo gioiello della tecnica, che potrebbe essere loro, presto. Anche se è più piccola, è pur sempre l’icona auto vista tante volte nei film americani. Tutt’intorno osserviamo varie fotografie: in una vediamo un uomo alla guida e tre soddisfatte ragazze sedute all’interno della vettura; in altre c’è la 600 di vari colori in montagna, su una banchina del porto, al mare. Un poster ci colpisce, quello realizzato da Felice Casorati per il lancio dell’auto: una Torino notturna, geometrica, tutta blu, punteggiata di piccole luci, da cui spuntano la Mole Antonelliana e in fondo le montagne scure; spiccano lontano la luna, la striscia dorata del Po, e in primo piano la 600, chiara, lucente, con i fari accesi, circondata da uomini, donne, bambini – un’immagine che pone l’auto in ideale sintonia con la tecnica (le luci elettriche, i fari, i lampioni), la natura (la luna, i monti, il fiume), l’umanità (la città, la gente, i passeggeri che si intravedono all’interno)29. Forse la 600 è tutto questo: il sogno di un mondo nuovo, e anche quello di una libertà di movimento senza limiti (magari sull’onda del primo turismo di massa o per godere la «villeggiatura») e di una libertà personale inusitata. Il linguaggio che parla questo oggetto, ci sembra di capire dai volti degli impiegati e operai che non si stancano di ammirarla, è quello di uno status symbol, di un concreto miglioramento della propria vita, di un senso di appagamento che viene per la prima volta più dal consumo che dal lavoro, della soddisfazione che possono provare gli immigrati che tornano al paese d’estate con la prova del loro successo e della loro vita più ricca di «cose». Il successo della 600 (in tre anni ne circolano già quasi 400.000) porta a proporre nuovi modelli con la stessa ispirazione: la 600 multipla, una specie di monovolume a sei posti dalla linea curiosa, e nel 1957 un’utilitaria ancora più piccola, originariamente a due posti, la 500. Quella che diverrà una macchina simbolo si presentava con caratteristiche molto spartane, sia nella carrozzeria esterna (priva delle cromature tanto apprezzate negli anni Cinquanta), sia negli interni (dietro i due sedili vi era solo una panchetta, mancavano levette e accessori vari). Davvero una macchina no frills, ma con una linea tondeggiante a guscio che piaceva, una buona tenuta di strada, una velocità discreta (fino a 90 km/h) e il prezzo più basso mai visto, 415.000 lire nel29

F. Casorati, Fiat 600 (quadro e poster), 1956.

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la più spartana fra le molte versioni che cominciavano ad apparire (economica, normale, sport, America, trasformabile, tetto apribile, giardiniera, Abarth – in produzione fino al 1975, venderà 3,8 milioni di vetture)30. Ma quanti dei nostri interessatissimi vicini compreranno davvero l’auto? Quanti immigrati coroneranno il sogno? Sappiamo che per molti di loro esso rimarrà per il momento tale. I dati statistici ci dicono che la diffusione dell’auto inizia lentamente. Nel 1950 le autovetture sono appena 340.000, nel 1956 superano il milione; a partire dagli anni Sessanta inizia una crescita più marcata, che accelera incredibilmente da metà decennio, quando ogni anno la circolazione cresce di un milione di veicoli: 5,5 milioni nel 1965, 10 milioni nel 1970. Quest’ultima cifra comincia ad avvicinarsi a quella dei principali paesi europei31 e trova un riscontro nelle accresciute spese delle famiglie per i trasporti. Fermiamoci qui, riprenderemo dopo questo discorso. La scenetta dal concessionario ci ha suggerito alcune riflessioni. Prima di tutto notiamo come l’automobile susciti un atteggiamento ambivalente. Noteremo questo fatto riguardo a tutti i «nuovi» beni, proprio perché non si tratta solo di passare da un prodotto all’altro, ma di modificare valori e atteggiamenti di cui quel particolare prodotto è espressione. L’automobile è l’icona del nuovo paesaggio urbano e industriale della contemporaneità; esprime mobilità spaziale e sociale; afferma il valore dell’individualità; inaugura nuove modalità di lavoro e di consumo. Tutto ciò la rende il bene più desiderato dagli italiani. Ma nel momento stesso in cui inizia a divenire un consumo diffuso, ecco che si sollevano critiche e obiezioni. L’automobile è circondata da una specie di dubbio morale. Sottufficiali e graduati dell’esercito (fino al grado di maresciallo) ancora nel 1958 non hanno il permesso di acquistarne una; preti e monaci possono farlo solo con un’esplicita autorizzazione dei loro superiori (a Milano, l’arcivescovo 30 A. Sannia, Fiat 500: piccolo grande mito, Gribaudo, Savigliano 2005. Sulla cultura dell’auto cfr. Car Cultures (Materializing Culture), a cura di D. Miller, Berg, Oxford 2001. 31 Istat, Sommario di statistiche storiche cit., p. 106; A. Maddison, Monitoring the World Economy, Development Centre OECD, Paris 1995, p. 72. Si noti che i valori erano molto diversi in precedenza; in Gran Bretagna le auto passeggeri circolanti sono nel 1913, 1950, 1973 (in migliaia): 106 - 2258 - 13.497; in Francia: 91 - 1500 - 14.500; in Germania: 61 - 516 - 17.023; in Italia: 22 - 342 - 13.424, a riprova del notevolissimo incremento verificatosi in Italia – battuta però dal Giappone, che registra per gli stessi anni: 0 - 48 - 14.473, mentre gli Stati Uniti segnano, rispettivamente: 1190 - 40.339 -101.986 (ibidem).

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Schuster proibisce a tutti i religiosi di guidare, permesso invece accordato da Montini dal 1954), e restrizioni ancora più rigorose valgono per i frati e gli ordini femminili; non parliamo poi delle donne, che sui giornali e nelle conversazioni sono a lungo oggetto di frizzi e lazzi, nonché di dotte argomentazioni sulla loro naturale inettitudine alla guida per via della loro emotività, disattenzione, avversione a tutto ciò che è tecnico. E lo stesso vale per i giovani, del tutto immaturi di fronte alla responsabilità della guida32. È chiaro che tutte le categorie citate sono quelle su cui si appunta maggiormente il controllo sociale; l’automobile è vista come un mezzo per sfuggirvi, per trasportare questi soggetti «deboli» in luoghi sconosciuti, lontano dal benefico controllo delle autorità. Così la macchina diventa, nei fatti e ancor più nell’immaginario, un luogo di peccato e di illiceità sessuali. Ma c’è dell’altro. L’auto è pericolosa. Materializza la velocità: già vediamo migliaia di utilitarie sfrecciare a inaudita velocità sulle autostrade nuove di zecca (l’Autostrada del Sole, iniziata nel 1956, si inaugura nel 1964)33, esibendosi in manovre azzardate, incapaci di frenare la loro natura. La velocità urbana si contrappone alla lentezza contadina. È per questo, si sottolinea nel discorso pubblico, che crescono a dismisura gli incidenti, spesso mortali, che coinvolgono automobilisti smodati e pedoni innocenti. Fatalità e obsoleto assetto viario non sono mai citati, tutto deriva da una colpa morale degli automobilisti (e allora si cercherà di esorcizzare i pericoli con la benedizione delle auto di Santa Rita). Tutto ciò senza parlare dello stress derivante dalle macchine e dal traffico cittadino (in una famosa pubblicità l’attore Ernesto Calindri siede tranquillamente a un tavolino in mezzo a una via trafficatissima di auto, bevendo un aperitivo: «Cynar, contro il logorio della vita moderna»). Giorgio Bocca ci ha lasciato un efficace ritratto di un automobilista, e precisamente un tassista, alle prese con il traffico infernale di Milano: Adesso il mio uomo si è scaldato al fuoco della battaglia, va contro i semafori rossi come un toro contro lo steccato, sguscia, bordeggia, si sgancia; bestemmia, urla contumelie feroci: «Mazzarli tutti ’sti delinquenti» «Asen, va a guidà la tua nona» «Levet sperluscià, che ti faccio il contropelo». E quando siamo in via Turati ferma di colpo, si sporge tutto dal finestrino, alza la mano contro una seicento che gli si è parata davanti e, sull’orlo dell’apoplessia, ur32

F. Paolini, Storia sociale dell’automobile in Italia, Carocci, Roma 2007, pp.

48-53. 33 S. Maggi, Politica ed economia dei trasporti (secoli XIX-XX). Una storia della modernizzazione italiana, il Mulino, Bologna 2001; E. Menduni, L’autostrada del Sole, il Mulino, Bologna 1999.

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la: «Le donne a casa». La marea strombettante ci risospinge, ma lui si volta a spiegarmi; «Pena me sun corgiù che la vegneva incontra... Erano due donne le ha viste? Loro, cicip e ciciap, chiacchierano e dove vanno vanno»34.

L’automobile non sovverte solo meccanismi di controllo sociale; c’è anche un’evidente caratterizzazione di genere. L’attenzione alla costruzione della mascolinità è un tema relativamente nuovo nella storiografia, poiché essa è stata data spesso per scontata (o semplicemente accomunata alla «norma» generale)35. In realtà, anche l’identità maschile conosce specifici processi di formazione. Ad esempio, nel Novecento uno dei modelli di riferimento dell’identità maschile è ancora la figura del soldato: pensiamo al fascismo, con il suo proliferare di divise e gerghi militareschi anche in tempo di pace. Ma quali modelli ci sono stati in seguito? Secondo alcuni studiosi, il periodo degli anni Cinquanta e Sessanta è centrale nella costruzione di nuove identità maschili, perché la cultura di massa – con il suo riferimento ai consumi e a una supposta «femminilizzazione» della società – mette in crisi i ruoli tradizionali. Non è un caso che in questo periodo emergano frequenti scandali sessuali, sfide alla tradizionale separatezza dei generi, prime timide rivendicazioni omosessuali. Tutto ciò crea una diffusa ansietà sul proprio ruolo, alla quale si reagisce cercando nuovi ruoli maschili, ad esempio artisti anticonformisti, cow-boy dei film western, uomini d’azione, eroi dello sport, playboy, giovani ribelli36. È l’inizio di un processo che porterà a leggere nell’habitus fisico l’incorporazione della maschilità e quindi a studiare specifiche posture, abbigliamento, discorsi. Ebbene in questo processo di ri-creazione della mascolinità non c’è dubbio che un posto importante sia rivestito da alcuni oggetti, e in particolare dall’automobile. Basta pensare al film Il sorpasso di Dino Risi per comprendere come essa possa comunicare molti tratti identitari: sicurezza sociale, aggressività, esuberanza fisica, competenza tec-

Bocca, Miracolo all’italiana cit., p. 76. S. Bellassai, La mascolinità contemporanea, Carocci, Roma 2004; R.W. Connel, Masculinities, Polity Press, Berkeley 2005; R.A. Nye, Western Masculinities in War and Peace, «American Historical Review», 112, 2, aprile 2007, pp. 417-438; Mascolinità, «Genesis», 2, 2, 2003; F. Mort, Cultures of Consumption. Masculinities and Social Space in Late Twentieth-Century Britain, Routledge, London 1996. 36 J. Gilbert, Men in the Middle: Searching for Masculinity in the 1950s, University of Chicago Press, Chicago 2005; P. Vettel-Becker, Shooting from the Hip: Photography, Masculinity, and Postwar America, University of Minnesota Press, Minneapolis 2005; Mascolinità all’italiana. Costruzioni, narrazioni, mutamenti, a cura di E. Dell’Agnese, E. Ruspini, Utet, Torino 2007. 34 35

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nica e così via37. Anche le agenzie pubblicitarie se ne accorsero e accostarono frequentemente l’automobile a figure femminili. L’altra osservazione ispirataci dagli aspiranti automobilisti riguarda il ruolo che un oggetto come l’automobile gioca nel loro usuale schema di consumi. Possiamo considerare l’auto un bene di lusso, visto il suo prezzo e il suo significato sociale; e il lusso, abbiamo visto, ha avuto storicamente un preciso significato nella definizione delle classi agiate, come «marcatore» di status. Ma con che significato entra allora nei consumi dei ceti medi e popolari? Quali logiche segue l’acquisto di un bene durevole molto costoso nel budget dell’immigrato attivo nel piccolo commercio o in quello dell’operaio metalmeccanico? In altre parole, quali sono le categorie moderne che definiscono il lusso? Questo è un punto molto importante, perché non riguarda solo le macchine, ma l’intero processo di «democratizzazione» del lusso, spinto dalla produzione di massa e dal crescere dei redditi. Facciamo allora un passo indietro, anzi, lontano. Nella galleria d’arte di Auckland è esposto un affascinante e misterioso quadro di Gottfried Lindauer38. La scena si svolge ad Aotearoa (Nuova Zelanda). Un anziano guerriero è inginocchiato in terra su alcuni tessuti, le mani dietro la schiena. Indossa solo una specie di gonna e ha il volto completamente ricoperto da tatuaggi. Un bambino davanti a lui, completamente nudo, lo imbocca, porgendogli del cibo su un bastoncino. Dietro a loro, vediamo una capanna, con un mascherone posto sull’ingresso, e in fondo le montagne contro un cielo grigio. L’uomo non è certo prigioniero, anzi dai vestiti sembra un personaggio di un certo rango e tutta la scena suggerisce un senso di sacro e rituale. Come possiamo interpretare tutto ciò? In Polinesia il tatuaggio era un’attività spiritualmente pericolosa, perché imitava il lavoro degli dei e comportava il versamento di sangue. I soggetti tatuati (che avvolgevano cioè il loro corpo con immagini per controllare il potere divino) erano sottoposti a tabù e soggetti a severe restrizioni; in particolare era loro proibito toccare oggetti comuni, come il cibo cotto, perché neutralizzavano il potere degli dei. Ecco perché il dignitario tatuato si fa imboccare da un bambino, per non violare il tabù. Avevamo sempre so37 Il sorpasso, regia di Dino Risi, Italia, 1962. Sui mutamenti identitari maschili in Italia, in particolare sui timori legati a una percepita «femminilizzazione» della società dei consumi e le strategie di negazione e adattamento cfr. S. Bellassai, Mascolinità, mutamento, merce. Crisi dell’identità maschile nell’Italia del boom, in Genere, generazione e consumi. L’Italia degli anni Sessanta, a cura di P. Capuzzo, Carocci, Roma 2003, pp. 105-137. 38 G. Lindauer, Tohunga under Tapu (olio su tela), 1902.

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spettato che gli oggetti della vita quotidiana avessero un valore, almeno simbolico, non inferiore a quello degli oggetti sacri o preziosi. Comunque sia, gli antropologi hanno spesso notato la presenza di un dualismo nella sfera economica tra beni di lusso o prestigio e beni legati alla quotidianità; le due categorie non si intersecano, i rispettivi oggetti sono incommensurabili e non scambiabili, legati a pratiche diverse. In sostanza, si trova in molte culture un’esplicita frattura nei beni a disposizione, che corrisponde in genere a una frattura sociale39. Gli economisti hanno riscontrato differenze nel consumo dei beni, ovviamente di tipo diverso da quelle viste ora, anche nelle società moderne (pur senza ispirarsi alle pratiche polinesiane). Abbiamo visto in precedenza, analizzando le scelte di consumo degli italiani nel dopoguerra, come con l’aumentare del reddito diminuiscano le spese per gli alimentari e crescano quelle per gli altri generi, confermando così a grandi linee la legge di Engel. In realtà le cose sono più complesse. Non tutti i beni sono uguali: per alcuni la domanda è abbastanza stabile (cioè è anelastica, come per i beni di prima necessità)40, per altri può essere molto variabile (cioè è elastica, come per i beni voluttuari). Questa variabilità è dovuta a molti fattori: la quantità di beni che consumiamo, la presenza di sostituti, il valore sociale e individuale che diamo al loro uso, il fatto che siano abbinati a beni che già abbiamo (come per benzina e automobile), la quota di reddito che impieghiamo per acquistarli (per beni durevoli e costosi come l’automobile l’elasticità è alta). Poi c’è anche il fattore temporale, che ci dice che nel breve periodo facciamo fatica a cambiare le nostre abitudini, ma nel lungo periodo riusciamo a farlo. Possiamo dire quindi che esiste un andamento duale nel consumo dei beni: le spese di base, come gli alimentari (beni a domanda anelastica), salgono molto rapidamente fino a un certo livello di reddito, quindi rallentano la loro crescita e infine, se il reddito sale ancora, si stabilizzano e iniziano persino una lieve discesa (in effetti, di solito non compriamo quantità di pane sempre maggiori ad ogni aumento di reddito). Per i beni di lusso, le cose vanno diversamente: c’è un continuo incremento legato alla crescita del reddito, non direttamente proporzionale ma costante (quindi se aumenta il 39 M. Douglas, B. Isherwood, Il mondo delle cose: oggetti, valori, consumo (1979), il Mulino, Bologna 1984, pp. 143-155 (si analizzano le sfere economiche separate nella cultura degli indiani californiani Yurok, dei nigeriani Tiv, dei mercanti Hausa di Ibadan). 40 In questa categoria possono essere inclusi talvolta anche i beni di superlusso, quelli riservati a un’élite così ristretta da non subire variazioni in base alle fluttuazioni di reddito (che si suppone resti comunque sempre altissimo).

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reddito, compriamo sempre più beni di lusso). Questo vuol dire, per rispondere alle domande che ci eravamo posti, che l’inserimento di beni di lusso in budget familiari «normali» mette in moto complesse strategie di acquisto; le famiglie redistribuiscono le risorse a disposizione per includere costosi oggetti di lusso, magari limitando il consumo di altri beni ritenuti «di base». Il risultato finale può apparire incongruente, perché in realtà mosso contemporaneamente da logiche diverse: in un certo senso, la democratizzazione del lusso valorizza la «qualità» più che la «quantità», e questo scompagina gli schemi. Questo significa anche che per certi beni esiste un limite di fatto, ma per altri il consumo potrebbe essere teoricamente infinito. Torniamo ora ai nostri immigrati. Sappiamo che molti difficilmente si compreranno un’auto, troppo cara. Questo non vuol dire però che resteranno esclusi dalla motorizzazione, solo che il loro percorso sarà diverso: la prima tappa è una motocicletta. Agli inizi degli anni Sessanta, se il 13 per cento degli operai possiede un’auto (contro il 44 degli impiegati), il 25 per cento ha una motocicletta, il doppio degli impiegati, e la percentuale sale fra braccianti e agricoltori fino al 34 per cento41. Non è certo un fenomeno di nicchia: ancora nel 1960 i motoveicoli sono il doppio delle automobili (il sorpasso avviene nel 1964). Sulle strade italiane, molte delle quali ancora sterrate, circola di tutto: vecchie moto dell’anteguerra, fantasiosi adattamenti di motocicli, biciclette con motore Cucciolo, Mosquito e due grandi novità: la Vespa Piaggio e la Lambretta Innocenti. La Vespa al suo apparire nel 1946 aveva suscitato grandi polemiche: era completamente diversa da una moto tradizionale, la carrozzeria ampia e tondeggiante avvolgeva tutte le parti meccaniche, copriva il motore, nascondeva le piccole ruote, garantiva una seduta comoda per due persone. Non ci si sporcava e la posizione di guida era più composta (ma ai tradizionalisti sembrò «un gabinetto con le ruote»). Ebbe subito grande successo anche fra i giovani della classe media, complice un prezzo iniziale abbordabile (80.000 lire). Il suo successo è condiviso dall’altro scooter italiano, la Lambretta, più snella e meno costosa, prodotta in Lombardia ma reclamizzata con slogan «americani»; vespisti e lambrettisti diventano due fazioni irriducibili. L’originalità d’impostazione di queste moto ne fece delle vere e proprie icone, che trasmigrarono e furono adottate come simboli trasgressivi anche dai mod, una sottocultura giovanile diffusa a Londra negli anni Sessanta. Insomma, agli inizi degli anni Ses41 Paolini, Storia sociale dell’automobile in Italia cit., pp. 63-68; D’Apice, L’arcipelago dei consumi cit., p. 42.

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santa la moto, prerogativa di operai, agricoltori e giovani (che la usano con modalità diverse: mezzo di trasporto, mezzo di evasione), si contrappone alla macchina, prerogativa delle classi medie urbane. Gli studi sull’immigrazione non lasciano dubbi su quale sia l’altra priorità, oltre alla macchina: la casa42. La casa di proprietà diventa il simbolo del nuovo radicamento, garantisce stabilità e futuro, è il corrispettivo del posto fisso in fabbrica. Affermano gli stessi immigrati: Con la casa sono al coperto. Se ho la terra e devo pagare il fitto, che ho concluso? (44 anni). Il mio ideale vero era un posto come impiegato, ma prima la casa! Poi ho impiantato poco a poco il negozietto di scarpe e poi la macelleria (38 anni). Quando uno fa la casa, la fa per sempre, per sistemarsi nel paese in tutto. Chi ce l’ha si sente più forte. L’essere umano è fatto per guardare in avanti. Se uno ha la casa e terra è tutt’un’altra cosa (38 anni). Io risparmio perché voglio sposarmi, avere una famiglia che mia moglie non deve lavorare, stare a casa e fare la signora. Se avessi i soldi liquidi vorrei fare il venditore ambulante di scarpe con un furgoncino. Sono vissuto in un ambiente abbastanza dispiacente, lavorava solo mia madre, con tante sorelle da mantenere. Voglio fare una vita migliore, voglio avere una casa, anche se soldi ce ne vogliono tanti (23 anni). Io ho risparmiato perché volevo fare la casa a mia figlia; ho demolito la casa vecchia e l’ho ricostruita; ho comprato tv, frigorifero e stufa; ora i soldi li spendo tutti per mangiare [...] (65 anni)43.

Ma farsi una vera casa non è facile. Ci si può adattare in alloggi di fortuna un po’ degradati in città; ma più spesso si cerca una soluzione fuori. Ed ecco che nelle periferie urbane sorgono migliaia di abitazioni abusive, a volte vere e proprie baracche, in parte di muratura, in parte di lamiera e tavole, che abbracciano come una cintura i centri urbani; anche i baraccamenti creati per i profughi nell’immediato dopoguerra sono rioccupati. In alcune città si parla di «borghetti», oppure «borga42 Un’indagine giornalistica rileva nel 1963 che i beni più ambiti dagli italiani sono: automobile (21,2%), casa (20,8%), nuovo arredamento (14,2%), nuovi beni tecnologici (6,6%). Cfr. Paolini, Storia sociale dell’automobile in Italia cit, p. 64. 43 A. Signorelli, M.C. Tiriticco, S. Rossi, Scelte senza potere: il ritorno degli emigranti nelle zone dell’esodo, Officina, Roma 1977, pp. 172-173. Cfr. anche G. Fofi, L’immigrazione meridionale a Torino, Feltrinelli, Milano 1975.

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te», come a Roma; in altre di «coree» (ispirandosi alle sventure causate dalla guerra coreana), come a Milano. Con gli anni diventeranno veri e propri quartieri inglobati nelle città e cambieranno la loro fisionomia (alcuni di essi resteranno però luoghi di degrado e saranno abitati via via dalle fasce sociali marginali, e più tardi dai nuovi emigranti). Ma ci vorranno decenni e nel frattempo gli abitanti vivono in realtà molto difficili, senza potere sfuggire in cielo sulle scope degli spazzini, come surrealisticamente immagina De Sica nel film Miracolo a Milano44. Nessuna amministrazione comunale è in grado di gestire l’emergenza, complici le formidabili pressioni della speculazione edilizia. Non lo è Torino, che in un piccolo territorio arriva a concentrare più della metà dell’immigrazione totale, divenendo la «terza città» del sud, e ramificandosi caoticamente verso le due fasce di comuni limitrofi (in vent’anni, le rendite fondiarie crescono di quindici volte in centro e trenta in periferia). Non lo è Milano, dove i drammatici sventramenti del tessuto storico urbano per realizzare assi viari moderni (la «Racchetta»), per fortuna incompiuti, si saldano a un’enorme espansione periferica: 900.000 nuovi vani, in gran parte edificati con continue deroghe al piano regolatore (il «rito ambrosiano», lo chiameranno i giornali). Non lo è Roma, anch’essa investita da un massiccio afflusso dal centro e dal sud, e dove l’abusivismo di condomini e palazzine sopravanzerà l’edilizia legale, realizzando nella vasta periferia un terzo degli alloggi disponibili45. Lo sforzo per acquisire questo bene è fortissimo nelle fasce popolari urbane. La citata inchiesta comunitaria del 1963-64 mostra che gli operai sopravanzano leggermente impiegati e funzionari nella proprietà di un alloggio, 31 per cento contro 29; anche se si accontentano di appartamenti decisamente più piccoli, nonostante i loro nuclei familiari siano più estesi, e con condizioni abitative molto più precarie 44 Miracolo a Milano, regia di V. De Sica, Italia, 1951 (adattato da un romanzo di C. Zavattini). 45 V. Castronovo, Torino, Laterza, Roma-Bari, 1987, pp. 382-397; M. Boriani, La città contemporanea, in Milano, Touring Club Italiano-Mondadori, Milano 2007, pp. 83-86; F. Alasia, D. Montaldi, Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati, Feltrinelli, Milano 1960; L. Diena, Borgata milanese, Franco Angeli, Milano 1963; J. Foot, Milano dopo il miracolo: biografia di una città (2001), Feltrinelli, Milano 2003; G. Piccinato, Roma contemporanea, in Roma, Touring Club Italiano-Mondadori, Milano 2007, pp. 91-101. Tutto ciò è anche conseguenza della scarsa presenza dell’edilizia pubblica, che nei trent’anni dopo la guerra in Italia non supera mai il 10% del totale, e in media è intorno al 5%, mentre rappresenta il 20-25% in Germania, Francia e Gran Bretagna. Cfr. A. Signorelli, Movimenti di popolazione e trasformazioni culturali, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, La trasformazione dell’Italia: sviluppo e squilibri, tomo I, p. 617.

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(solo il 44 per cento delle case operaie ha un bagno). La parola d’ordine che circola è chiara: una casa, quale che sia. Qual è la molla dietro a tutto questo? Francesco Alberoni, già negli anni Sessanta, aveva fatto una lettura controcorrente del desiderio degli immigrati di appropriarsi dei nuovi beni di consumo (casa, macchina, oggetti tecnologici). Non si tratta di un’imitazione dei consumi delle classi superiori, non è una forma ostentativa, né un’alienazione indotta dal consumismo. Gli immigrati sono attori consapevoli (sono un’agency, avrebbe detto Stuart Hall) e la loro scelta è quella di ricercare un’integrazione nella società «moderna» attraverso questi consumi. I nuovi beni comunicano nuovi valori: la televisione è il simbolo dell’uscita da una comunità ristretta e chiusa; la macchina o la moto testimoniano l’autonomia, la mobilità spaziale e sociale; la stessa casa – non quella grande, vecchia, polverosa, ereditata al paese e condivisa con altri nuclei parentali – ma il piccolo e nuovo appartamento, anche modesto, è il luogo dove creare una nuova domesticità per la famiglia nucleare, un’intimità prima sconosciuta, una nuova gerarchia di spazi46. È una forma di integrazione individuale, al di fuori delle organizzazioni sociali. Nelle caotiche realtà urbane del miracolo economico i beni materiali rappresentano la negazione di un passato di miseria e la realizzazione del «sogno italiano». 1.3. Donne (e uomini) Quale riflesso avranno avuto tutti questi mutamenti nella casa? E quali cambiamenti avranno innescato nell’identità femminile? Per cercare una risposta, eccoci catapultati in un appartamento nella semiperiferia di una grande città. È nuovo, appena costruito, in un piccolo condominio a cubo – certo non bello esteticamente (e sospettiamo anche di materiali di seconda scelta), ma per adesso ha un suo fascino di modernità. Siamo nell’ingresso, un piccolo spazio quadrato, con un grande specchio e un attaccapanni da un lato, un tavolinetto con sopra un telefono 46 F. Alberoni, Consumi e società, il Mulino, Bologna 1964. Anche inchieste sulle condizioni abitative di aree piuttosto ricche intorno a Milano, come la classica ricerca sociologica di A. Pizzorno, Comunità e razionalizzazione, Einaudi, Torino 1960, concludono che la casa unifamiliare è centro delle aspettative e sinonimo di sicurezza (il secondo elemento basilare è un desiderio di ascesa sociale, che però è proiettato sui figli con lo strumento dell’istruzione). Da notare infine come studi su gruppi di operai inglesi da poco immigrati a Luton mostrino interessanti analogie: stili di vita molto privatizzati, centrati sull’ambiente domestico, aspirazioni verso l’acquisizione di standard di vita materiale più elevati, ecc. Cfr. Douglas, Antropologia e simbolismo cit., pp. 180-181.

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grigio Sip a disco, stampe orientali appese alle pareti. Il lungo corridoio che portava alle stanze, dividendole funzionalmente, non c’è più. Tutto è ridotto, tutto è cambiato. Una porta sulla nostra destra si apre in una piccola stanza con al centro un grande tavolo coperto da una tovaglia fantasia, e le sedie intorno; ai lati ci sono due mobili bassi in legno chiaro, probabilmente gli eredi del vecchio buffet, ma questi sono chiusi e non mostrano stoviglie e bicchieri in parata come una volta. Cerchiamo la cucina. Ma dov’è? Con nostra grande sorpresa, è sparita, o meglio si è trasformata in un «cucinino»: un budello lungo e stretto con la finestra in fondo (certamente per sfruttare al massimo lo spazio). Questo luogo però è davvero interessante, perché contiene un concentrato dei nuovi prodotti tecnici: gli elettrodomestici! Sono tutti bianchi e perfettamente allineati, di fronte a una fila di mobiletti pensili. In fondo c’è la cucina, Rex modello 720. Ha un ampio pianale con quattro fuochi, termostato, spiedo e girarrosto. Assomiglia un po’ alle precedenti cucine economiche, ma nasconde nuove funzioni. La nostra attenzione è attirata però da due grandi novità: la lavatrice e il frigorifero. La lavatrice (allora si preferiva il termine lavabiancheria) è una Candy Automatic; ha una linea squadrata, una centrifuga da 550 giri al minuto e offre dodici programmi di lavaggio (e costa 160.000 lire). Fa tutto da sola, è semplicissima da usare, e fa presto dimenticare la gravosa fatica fisica del lavaggio manuale (un giornale calcola che il tempo dedicato al bucato sia sceso da 7 a 4 ore settimanali, e che complessivamente gli elettrodomestici facciano risparmiare 17,5 ore di lavoro fisico, pari a 7 anni nell’arco della vita)47. «Grazie, Candy» proclama la pubblicità, mostrando il segno di un bacio con il rossetto vicino all’oblò. Vicino al tavolino in fòrmica (nuovo materiale che «non teme l’uso, non teme il tempo»), torreggiante, c’è un frigorifero Ignis. Le sue forme arrotondate, tipiche degli anni Cinquanta, tradiscono il fatto che sia stato il primo elettrodomestico a entrare in casa. Ha una capacità di 200 litri, l’apertura meccanica a maniglia, e l’interno è diviso in piccoli ordinati comparti. Il prezzo non è basso, costa 200 mila lire, ma nel giro di dieci anni scenderà notevolmente. 47 T. Faravelli Giacobone, P. Guidi, A. Pansera, Dalla casa elettrica alla casa elettronica. Storia e significato degli elettrodomestici, Arcadia, Milano 1989, p. 65. Cfr. anche Oggetti di uso quotidiano: rivoluzioni tecnologiche nella vita d’oggi, a cura di M. Nacci, Marsilio, Venezia 1998. Se non indicato diversamente, i riferimenti per le descrizioni che seguono provengono da analisi dell’autrice sulle seguenti fonti: riviste femminili (in particolare «Gioia» e «Annabella»), periodici («Oggi», «Epoca»), pubblicità televisive (soprattutto Carosello, presso le Teche Rai), filmati dell’Archivio Storico Luce, inchieste e sondaggi d’opinione (soprattutto della Doxa) per documentare il punto di vista dei consumatori, testimonianze orali raccolte direttamente.

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Guardiamo queste strutture lucide e bianche. Cosa significa la loro presenza? La tecnologia nelle case non è certo un aspetto nuovo, ma abbiamo l’impressione di essere qui a una svolta. Un primo elemento da considerare è l’uso del tempo. Sulla scia degli studi di Gary Becker, alcuni economisti hanno ritenuto che proprio il tempo sia una variabile importante per comprendere il funzionamento delle unità familiari e hanno diviso gli apparecchi domestici in due categorie: quelli che ci fanno risparmiare tempo (time-saving) e quelli che ce lo fanno consumare, o meglio impiegare nell’intrattenimento (time-spending)48. Elettrodomestici come lavatrice, aspirapolvere e frigorifero rientrano nella prima categoria; radio, giradischi e televisione nella seconda. In un certo senso, è come applicare le categorie della produzione e del consumo nell’ambito domestico: la famiglia si adatta alle tecniche diffuse nella società. Ma ci sono alcune complicazioni. La prima riguarda il genere. Poiché i lavori domestici sono culturalmente legati ai ruoli femminili, gli elettrodomestici time-saving ricadono nella sfera di attività delle donne (e sono posti nello spazio a loro dedicato). Sono «oggetti femminili», allo stesso modo in cui le automobili sono «oggetti maschili» (non tutti i beni hanno una simile caratterizzazione di genere, alcuni sono «neutri», e poi il confine può spostarsi a seconda delle classi e dei gruppi sociali – tuttavia ogni cultura fornisce una mappa piuttosto precisa di ciò che è ritenuto un consumo appropriato per il genere)49. Di conseguenza, il basso valore assegnato culturalmente al lavoro delle donne avrebbe ritardato l’introduzione di vari apparecchi domestici. In effetti, in tutti i paesi, c’è uno schema di diffusione ben definito: a parte la radio e la cucina/forno, in parte già diffusi prima della guerra, il primo nuovo elettrodomestico a comparire dagli anni Cinquanta nelle famiglie italiane ed europee è sempre il frigorifero, che consente un risparmio di tempo (per la spesa) ma soprattutto un evidente risparmio nel consumo degli alimenta48 S. Bowden, A. Offer, Household appliances and the use of time: the United States and Britain since the 1920s, «Economic Historical Review», 47, 1994, pp. 725-748; G.S. Becker, A Theory of the allocation of time, «Economic Journal», 75, 1965, pp. 493-517; L. Pellegrini, L. Zanderighi, Le famiglie come imprese e i consumi in Italia, Egea, Milano 2005. 49 R. Sassatelli, Genere e consumi, in Il secolo dei consumi. Dinamiche sociali nell’Europa del Novecento, a cura di S. Cavazza, E. Scarpellini, Carocci, Roma 2006, pp. 141-173; The Sex of Things: Gender and Consumption in Historical Perspective, a cura di V. de Grazia, E. Furlough, University of California Press, Berkeley 1996 (contiene anche un altro saggio di Bowden e Offer); I consumi. Una questione di genere, a cura di A. Arru, M. Stella, Carocci, Roma 2003.

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ri. Il secondo posto è invece diviso fra televisione e lavatrice (fine anni Cinquanta-inizio Sessanta); per la lavastoviglie bisognerà aspettare almeno un altro decennio, per l’asciugatrice – magari interna alla lavatrice per motivi di spazio – ancora di più. Quindi l’esigenza di risparmio del lavoro femminile non sarebbe stata una molla molto potente nello spingere la diffusione dei nuovi apparecchi: l’home automation procede molto più lentamente dell’office automation. Donne e ragazze possono sempre sognare il futuro che vedono in tv, nei cartoni animati americani I pronipoti, dove la famiglia del futuro viaggia in astronave e ha una casa dove tutto è completamente automatico, basta schiacciare un bottone per fare muovere qualunque oggetto, e un robot (femmina) si occupa di tutte le faccende domestiche50. Tutto questo non basta a spiegare tempi e modi di diffusione degli elettrodomestici. Come è stato osservato, essi rappresentano una categoria di beni costruita socialmente51. Non sono semplicemente i successori dei beni durevoli del passato, sono stati ideati, prodotti e venduti in nome di nuovi valori (la sostituzione del lavoro o il divertimento domestico). La loro presenza si lega a molteplici fattori, materiali e sociali. Fra quelli materiali, ci sono le politiche di prezzo e commercializzazione da parte delle imprese, i livelli di reddito delle famiglie e l’accesso al credito, le politiche pubbliche in fatto di fornitura di gas, acqua, elettricità e di incentivazione/restrizione fiscale per gli acquisti. Tra quelli culturali, vi sono gli aspetti simbolici legati al consumo di questi apparecchi, cominciando dai messaggi pubblicitari e dalla comunicazione giornalistica; sopra a tutti però c’è la nuova dimensione della domesticità che si afferma nella famiglia nucleare. In genere le funzioni assolte da questi nuovi apparecchi erano già da tempo diffuse a livello industriale (lavatura, asciugatura degli abiti, congelamento dei cibi, ecc., e lo stesso vale per il divertimento con le proiezioni cinematografiche o le esecuzioni musicali) e quindi potevano essere già fruite al di fuori della famiglia; alcune erano state anche sperimentate collettivamente (si pensi ad esempio alla creazione di tintorie cooperative o lava50 I pronipoti (The Jetsons), Hanna-Barbera cartoons, 1962. Nel mondo dei cartoni animati, i Jetsons si contrappongono idealmente a un’altra famiglia spostata nel tempo, i cavernicoli Flintstones; utilizzando differenti livelli tecnologici, entrambi riproducono però esattamente i modi di vita e i medesimi ruoli sociali della famiglia media americana degli anni Cinquanta-Sessanta (quella che viene etichettata come «i Jones»). 51 B. Fine, Household appliances and the use of time: The United States and Britain since the 1920s. A Comment, «The Economic History Review», 52, 3, 1999, p. 558.

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trici condominiali e simili esperimenti). Ma la valorizzazione politica e culturale della famiglia intima, rinchiusa al suo interno, dove la privacy rappresenta un valore centrale e tutti i significati più profondi sono rapportati all’esperienza familiare (i rotocalchi dell’epoca faranno fortuna sulla vita privata di divi e potenti), porta queste funzioni all’interno della famiglia, che diviene un piccolo universo autoreferenziale, soprattutto per la donna. Gli elettrodomestici definiscono sempre più la famiglia come unità di produzione e consumo autosufficiente, creano un’intimità e una ritualità che scandiscono modi e tempi della vita domestica e, infine, definiscono nuovi livelli di status52. Non c’è dubbio che la continua esposizione all’American way of life, con il suo «stile medio» di consumo, abbia costituito un importante riferimento per questa costruzione (non a caso, gli elettrodomestici più avanzati vengono dagli Stati Uniti, e quelli italiani costituiscono in molti casi il loro adattamento a una realtà più povera)53; tuttavia questo è indubbiamente anche il frutto dell’evoluzione precedente. Abbiamo già ricordato il peso delle dinamiche demografiche: la famiglia ristretta (la media italiana nel 1961 è di 3,6 componenti, ma è già inferiore a 3 in molte realtà urbane) può rescindere i tradizionali legami sociali di cui aveva bisogno prima con la famiglia di origine, la parentela e le reti solidalistiche. La nuova famiglia ha meno figli, gode dell’assistenza pubblica e può pagarsi beni e servizi in misura prima impensabile. È quindi più autonoma e indipendente e può costruirsi uno spazio domestico tutto suo. Il numero di nuclei familiari resta elevato, ma si assiste a un forte aumento di famiglie ristrette e alla contrazione delle famiglie numerose e allargate. L’elemento del reddito è un’altra componente fondamentale; non a caso, le maggiori trasformazioni avvengono all’interno del ceto medio, quello che davvero beneficia del miracolo economico e che si dilata enormemente: ora costituisce un terzo della popolazione, tanto che l’intera società non è più rappresentabile come un triangolo, come mezzo secolo prima, ma co52 P. Ginsborg, Storia dell’Italia dal dopoguerra ad oggi. Società e politica 19431988, Einaudi, Torino 1989, pp. 283-343; E. Asquer, La «Signora Candy» e la sua lavatrice. Storia di un’intesa perfetta nell’Italia degli anni Sessanta, «Genesis», 5, 1, 2006, pp. 97-118; Id., La rivoluzione candida. Storia sociale della lavatrice in Italia (1945-1970), Carocci, Roma 2007. 53 V. de Grazia, L’impero irresistibile. La società dei consumi americana alla conquista del mondo (2005), Einaudi, Torino 2006, pp. 445-484. Sull’influenza americana nell’idea di casa e domesticità nel dopoguerra cfr. P. Scrivano, Signs of americanization in Italian domestic life: Italy’s postwar conversion to consumerism, «Journal of Contemporary History», 40, 2005, pp. 317-340.

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me un pentagono con un’ampia base, un largo corpo centrale, un vertice sempre ristretto54. Il modello offerto dai ceti medi urbani diventa un riferimento fondamentale e influenza anche la cultura familiare operaia nel periodo medio-lungo. E rispetto al ruolo delle donne? All’interno di famiglie così delineate, e considerato il loro ruolo nel costruire una nuova domesticità, cosa hanno rappresentato gli elettrodomestici per l’identità femminile? Le pubblicità li presentano senza mezzi termini come strumenti di liberazione dalla fatica, di autorealizzazione, di conquista di nuovi spazi per sé e per la famiglia. Anche gli articoli giornalistici e molte testimonianze orali delle donne vanno in questa direzione: si sente nelle loro parole la liberazione da un grande e continuo lavoro fisico, oltretutto non riconosciuto («Sono una modesta donna di campagna. Quando facevo il bucato, le assicuro, la fatica mi uccideva...»)55. Gli spazi di tempo ottenuti – ma qualcuno sostiene che siano saliti gli standard di pulizia e decoro richiesti e ciò abbia annullato tale conquista56 – sono stati utilizzati per la cura di sé stesse, per il divertimento, per attività lavorative, o, appunto, per migliorare le performance casalinghe (una pubblicità televisiva della Candy mostra la signora di casa che gioca con i bambini, mentre una sagoma rotonda di oblò rimane sempre in primo piano: mentre la signora si diverte, l’apparecchio «lava, lava, lava... sciacqua, 54 Nel 1961 le classi sociali possono essere così quantificate: 1) una ristretta alta borghesia che si mantiene relativamente stabile (proprietari, imprenditori, dirigenti, professionisti) composta da 400.000 persone, pari al 2% della popolazione attiva; 2) l’ampio settore dei ceti medi (32%), composto dagli autonomi (artigiani, commercianti, addetti ai servizi: 3.165.000, in crescita), dagli impiegati (privati, pubblici, insegnanti: 2.650.000, il gruppo cresciuto di più), da categorie speciali (militari, clero e altri: 630.000, in lenta crescita); 3) la classe operaia (industria: 4.190.000, edilizia: 1.700.000, commercio: 500.000, trasporti e servizi: 600.000, domestici: 370.000), pari al 36%; 4) infine vi sono i coltivatori diretti (4.400.000, in forte calo) e i salariati agricoli (1.700.000, il gruppo che ha perso di più). Cfr. P. Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, Laterza, Roma-Bari 1974, pp. 155-156 (anche in questo caso, abbiamo separato i dati riferiti al mondo agricolo). 55 Riportato in Faravelli Giacobone, Guidi, Pansera, Dalla casa elettrica alla casa elettronica cit., p. 65. 56 Schwartz Cowan ad esempio ha sostenuto che la tecnologia domestica ha eliminato la fatica fisica, ma ha creato in cambio nuovi compiti. Il primo apparato domestico, la stufa/forno, ha ridotto la fatica degli uomini per tenere acceso il camino, ma aumentato i compiti delle donne addossando loro un maggiore lavoro culinario; successivamente gli elettrodomestici evitano i lavori più pesanti alla casalinga, che però deve essere in generale più produttiva e sobbarcarsi nuove mansioni (ad esempio, l’accompagnamento dei figli a scuola). In definitiva, il lavoro da svolgere rimane sempre elevato; semmai cambia in parte la divisione fra i ruoli. Cfr. R. Schwartz Cowan, More Work for Mother: The Ironies of Household Technology from the Open Hearth to the Microwave, Basic Books, New York 1983.

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sciacqua, sciacqua... asciuga, asciuga, asciuga», e tutto meglio del futuribile robot Tic)57. Gli studi moderni sono concordi nel ritenere che l’ingresso degli elettrodomestici non abbia inciso sulla divisione dei ruoli all’interno della famiglia e sulla figura sociale della casalinga; spesso ha comportato una moltiplicazione di ruoli e mansioni intorno alla figura femminile, che finisce per assommare faccende domestiche e lavoro esterno58. Semmai, è interessante notare la presenza della stessa ambivalenza che avevamo visto nei confronti delle automobili. L’accettazione degli elettrodomestici non è sempre facile agli inizi: molte donne temono che siano in qualche modo pericolosi, o almeno inutili, quasi fossero «concorrenti» pericolosi, in grado di mettere in dubbio le loro qualità come donne di casa. La lavatrice è pratica, ma si sa, rovina e strappa i tessuti; se si vuole un bucato davvero pulito, bisogna lavare a mano; i nuovi detersivi lavano bene, ma sono nocivi; e comunque, il bucato della lavatrice non ha certo il profumo di quello di una volta... Il frigo è comodo ma bisogna curare molto l’igiene e pulirlo con soluzioni a base di aceto; con la lucidatrice si fa in fretta, ma il pavimento non viene bene (meglio dare una ripassatina a mano con un panno morbido); l’aspirapolvere non toglie la polvere negli angoli e poi fa rumore... Il mutamento degli oggetti provoca ansia, perché incide sulla costruzione tradizionale di un ruolo sociale59; con il tempo, però, è anche intorno agli elettrodomestici che si definisce l’identità della «casalinga moderna», più efficiente, competente, attenta al risparmio e alle differenziate esigenze di tutti i membri della famiglia rispetto alla vecchia massaia. Non riusciamo a staccare gli occhi da questi affascinanti oggetti bianchi. Quanti mutamenti sono derivati dalla loro presenza! Guar57 Sulla stessa linea delle pubblicità Candy si pongono anche quelle famose degli elettrodomestici Philco, ambientate sul pianeta Papalla, dove strane creature a palla godono di tecnologie che migliorano la vita. 58 Uno dei luoghi comuni della pubblicistica del tempo è l’idea che gli elettrodomestici, diminuendo il lavoro a casa, abbiano fatto sparire le domestiche; in molte pubblicità vediamo la casalinga, vestita elegantemente, che usa la lucidatrice Electrolux (mentre la cameriera si nasconde dietro la porta) o l’aspirapolvere Cge, o lava con il detersivo Tot («lava tutto in maniera prodigiosa»). I dati statistici ci dicono che il lavoro domestico subisce un brusco calo nell’immediato dopoguerra (nel 1951 sono impiegate 380.000 persone, contro le 630.000 del 1936), per poi scendere con continuità (resistendo solo nelle fasce sociali più elevate), complici altre possibilità di lavoro e più tardi l’aumento dei loro salari. Tuttavia l’idea di un lavoro casalingo leggero e piacevole rafforza la creazione di vari stereotipi riguardanti la casalinga. Cfr. Anche A. Arvidsson, The therapy of consumption. Motivation research and the new Italian housewife, «Journal of Material Culture», 5, 3, 2000, pp. 251-274. 59 Alberoni, Consumi e società cit., pp. 169-184.

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dandoli ancora, ci vengono in mente le parole di Arjun Appadurai: è vero che la nostra comprensione dei significati degli oggetti è necessariamente condizionata da una rete di significati culturali e sociali (non comprenderemmo cos’è un elettrodomestico senza riferirci ai valori spaziali della casa, al concetto di domesticità, alla divisione sociale dei ruoli fra generi, ecc.); tuttavia gli oggetti hanno anche un loro linguaggio, che proviene dalla loro forma, dai loro usi, dalle loro «traiettorie», cioè dai loro spostamenti nello spazio e, potremmo aggiungere, nel tempo (lo stesso elettrodomestico nella cucina di un paese africano meno sviluppato può avere un significato di status ben diverso; se viene piazzato come oggetto di modernariato in una cucina del futuro, ne avrà un altro ancora)60. Le moderne società occidentali hanno sviluppato una tradizione comunicativa che contrappone le «cose» alle «parole»: le prime sono mute, passive, animabili solo dalle persone; le seconde sono attive e comunicative di per sé stesse. Questa contrapposizione non è sempre stata vera in Occidente e certamente non lo è in altre culture, come ha notato Marcel Mauss61; in effetti nella realtà non è così rigida, anche le cose comunicano. Proviamo a fare un esperimento e vediamo allora cosa comunicano questi oggetti con la loro forma fisica? Per cominciare, il loro insistito e rigoroso uso del colore bianco vuole rimandare all’idea di pulizia e ordine, rinviare idealmente alle ceramiche del lavabo o a quelle del bagno, che devono provare visivamente la loro igiene. Il bianco è così il colore caratterizzante di questi due ambienti. Poi la loro forma: si presentano come avvolgenti scatole a forma di cubo o parallelepipedo, con pochi semplici dispositivo di comando. A paragone di quello che abbiamo visto sulle automobili (piene di spie per olio, acqua, contagiri, contachilometri, luci), qui non ci sono indicazioni che riguardino il funzionamento (temperatura, consumi elettrici, stato del motore): è come se il cuore meccanico di questi apparecchi fosse occultato dalla loro candida carrozzeria. I comandi sono minimi e semplicissimi: per il frigo, acceso/spento, sbrinatura on/off; per la lavatrice, una manopola per la scelta del programma adatto, un bottone per la partenza. Tutto automatico («Candy sa come si fa», «Candy Automatic fa tutto da sola: che bucato fai per me/grazie Candy/e lo fai tutto da te» canta la pubblicità a Carosello). Ecco un punto interessante: la tecnica è esposta visibilmen60 A. Appadurai, The Social Life of Things. Commodities in Cultural Perspective, Cambridge University Press, Cambridge 1986, pp. 4-5. 61 Ibidem; M. Mauss, Saggio sul dono: forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino 2002.

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te nell’automobile e domanda un coinvolgimento dell’utente; essa è invece nascosta negli elettrodomestici e non richiede forme di interazione. In questo modo vediamo come i prodotti tecnologici usino un linguaggio diverso e costruiscano un differente rapporto con la sfera maschile (culturalmente caratterizzata da un aperto riferimento alla tecnica) e quella femminile (che invece è attenta ai valori personali, familiari, «umani»)62. Con la negazione della loro essenza tecnica, i nuovi apparecchi sono accettati più facilmente e assunti nell’ambito di attività delle donne; perciò si presentano esternamente come una sorta di oggetti di arredo (e in alcune pubblicità ci si riferisce a loro come a «un’amica»)63. Lasciamo il cucinotto e proseguiamo l’esplorazione. Eccoci in camera da letto. Qui invece ben poco è cambiato: il letto matrimoniale occupa gran parte dello spazio, a fianco ha un grande armadio squadrato con varie ante, di fronte un mobile basso con una specchiera incorniciata; dalla finestra si vedono gru al lavoro e i profili di altri palazzi a cubo, sembra di essere in un cantiere. La stanza però ha un aspetto intimo, chiuso, che ci rimanda ad atmosfere antiche, nonostante i mobili moderni; è certamente ancora una stanza importante nella struttura della casa, che riflette il peso della gerarchia familiare. Apriamo l’armadio: ecco, questa è la parte del marito, c’è un elegante abito scuro da sera, e poi giacche e completi interi grigi e blu da lavoro, secondo la classica bipartizione giorno-sera; i vestiti più belli sono fatti a mano da un sarto, come pure gran parte delle giacche, molti pantaloni sono invece confezionati (e si nota un certo taglio meno formale in certi capi, forse ispirati allo stile casual americano). Ci sono poi due cappotti, un impermeabile (capo che sta declinando); sul ripiano un paio di cappelli, un’ordinata fila di camicie perfettamente stirate, tut62 Sui processi storici che portano all’incorporazione della tecnica in una cultura di riferimento quasi esclusivamente maschile cfr. R. Oldenziel, Making Technology Masculine: Men, Women, and Modern Machines in America, 1870-1945, Amsterdam University Press, Amsterdam 1999. 63 La personalizzazione degli elettrodomestici è presente in molte pubblicità, anche in quella del Proteus San Giorgio, che mostra «12 servitori ai vostri ordini», cioè 12 figurine stilizzate di donne e uomini che finiscono dentro all’apparecchio (in Faravelli Giacobone, Guidi, Pansera, Dalla casa elettrica alla casa elettronica cit., p. 49). Un altro elemento comune nelle campagne pubblicitarie, a proposito del diverso rapporto del genere con la tecnica, è l’iniziativa del marito che porta all’ignara moglie casalinga l’apparecchio che le risolverà tutti i problemi. In generale, sull’immagine della casa nella pubblicità cfr. L. Minestroni, Casa dolce casa: storia dello spazio domestico tra pubblicità e società, Franco Angeli, Milano 1996.

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te confezionate (sono infatti il capo pronto più diffuso); appesa alla porta una sfilza di cravatte dai colori sobri a righe o fantasie geometriche64. Dall’altra parte ci sono maggiori novità: vestiti e vestitini di varie fogge, tailleur, ma anche molte gonne e camicette (il capo è in forte crescita) e la novità dei pantaloni; non mancano un cappotto, un soprabito, un impermeabile; nel complesso, un guardaroba pratico ed elegante, sicuramente più ricco che in passato, che comprende molti abiti di pregio fatti a mano o comprati in boutique, che ricordano un po’ le linee dell’alta moda francese65. Ma qualcosa attira la nostra attenzione in un cassetto. Qui infatti, accanto alla biancheria intima, nella quale non osiamo rovistare66, troviamo bigiotteria (i gioielli veri, se ci sono, saranno nascosti da qualche parte) e soprattutto cosmetici. Non che l’uso dei cosmetici non fosse diffuso prima come segno distintivo della femminilità. Ma almeno dall’Ottocento il trucco è associato a donne presenti negli spazi pubblici, e quindi di dubbia moralità (attrici, prostitute)67. Negli anni Cinquanta la spinta alla domesticità privata, sostenuta da una forte campagna moralistica, non è certo favorevole alla diffusione sociale dei cosmetici, anche se, va notato, essi sono usati e apprezzati da dive delle spettacolo e donne delle classi elevate, che sfoggiano rossetti infuocati, alte sopracciglia ben defini64 Un sondaggio della Doxa del 1965 stabiliva che la percentuale di abiti da uomo acquistati già pronti (21%) equivale praticamente a quella dei vestiti fatti su misura (22%); peccato che la gran parte degli intervistati (52%) non avesse acquistato neppure un vestito in 12 mesi. Cfr. Luzzatto Fegiz, Il volto sconosciuto dell’Italia. Seconda serie cit., pp. 300-302. Nel 1963, i capi confezionati da uomo sono: 10,3 milioni di camicie, 4 di pantaloni, 2,9 di abiti completi, 2,3 di impermeabili, 1 di cappotti e soprabiti e 770.000 di giacche. Cfr. I. Paris, Oggetti cuciti. L’abbigliamento pronto in Italia dal primo dopoguerra agli anni Settanta, Franco Angeli, Milano 2006, pp. 324-325. 65 Sempre nel 1963 i capi confezionati da donna sono: 2,8 milioni di abiti e tailleur, 1,5 di camicette, 1,4 di impermeabili, 1 di cappotti e soprabiti, 870.000 di gonne, 450.000 di pantaloni, 138.000 di giacche. Cfr. Paris, Oggetti cuciti cit., p. 325. 66 Possiamo però osservare che è un periodo di grandi cambiamenti nell’intimo: si affermano slip e mutandine molto ridotte, scompare un capo tipico come la sottoveste e con essa busti e guaine, a favore del reggiseno che segna un vero e proprio boom (da 2 milioni di vendite nel 1960 si passa a 5 nel 1965 e a 10 nel 1968, salvo venire poi contestato come simbolo negativo negli anni Settanta). Il settore vale ora un decimo dell’intera spesa per abbigliamento, a riprova di una cura del proprio corpo che non riguarda solo l’aspetto esteriore e sociale. Cfr. Paris, Oggetti cuciti cit., pp. 371-372; 383-384. 67 K. Peiss, Hope in a Jar: The Making of America’s Beauty Culture, Metropolitan Books, New York 1998; N. Koehn, Estée Lauder: Self-Definition and the Modern Cosmetics Market, in Beauty and Business, a cura di P. Scranton, Routledge, New York 2001, pp. 217-251; Id., Brand New: How Entrepreneurs Earned Consumers’ Trust from Wedgwood to Dell, Harvard Business School Press, Boston 2001.

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te, ombretti colorati. Come dire che la cura cosmetica ha un significato di classe. Tuttavia in quegli anni, e con poi forza nel decennio successivo, anche qui prende piede il processo di «democratizzazione del lusso», in questo caso la diffusione di cosmetici fra la classe media, complici nuove forme di distribuzione e strategie commerciali che offrono i prodotti a prezzi molto più bassi. Questo processo è associato a una valorizzazione del corpo femminile che trova espressione anche in campo pubblicitario ed è legata ai nuovi ruoli sociali che la donna è chiamata a svolgere. Non dimentichiamo che l’urbanizzazione accelerata moltiplica le occasioni di contatto sociale (e, come nota Alberoni, la donna si sente storicamente più inadeguata alla partecipazione sociale) e che, pur all’interno di un tasso di occupazione bassissimo per l’Europa, anche l’Italia conosce un breve boom di lavoro femminile tra il 1958 e il 1963, concentrato nelle fasce d’età giovanile (cioè fino al matrimonio o alla nascita dei figli)68. Fra i vari cosmetici, quello che assume una valenza simbolica, forse per la sua allusività sessuale, è il rossetto: eccolo lì, sotto i nostri occhi, in un’elegante confezione dorata, con all’interno uno stick rosso vivo. È il simbolo delle nuove ambizioni delle donne; in un’inchiesta televisiva del 1963 un giovane dichiara al regista Ugo Zatterin: «le ragazze non vogliono i contadini, vanno in fabbrica, mettono il rossetto e se ne vanno»69; riviste femminili come «Gioia» aspettano il 1959 per presentare la pubblicità del primo lipstick e le rubriche di posta del cuore consigliano l’uso dei cosmetici con moderazione, accompagnandolo sempre con atteggiamenti moralmente irreprensibili70. I cosmetici, insieme ai gioielli «industriali» e 68 Alberoni, Consumi e società cit., p. 43; S. Musso, La famiglia operaia, in La famiglia italiana dall’Ottocento a oggi, a cura di P. Melograni, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 98-101. 69 E. Danese, Costumi sessuali e genere femminile nell’Italia degli anni Sessanta. Inchieste cinematografiche e televisive, «Storia e Futuro», 13, febbraio 2007, p. 4, www.storiaefuturo.com. 70 Scrive una lettrice a «Gioia»: «La cosmesi [...] non è più considerata una tentazione del diavolo, e ogni ragazza può ricorrervi per sottolineare qualche tratto del volto. Usarne o no, fa una bella differenza. Lo sappiamo noi donne. Usciamo senza trucco? Se ci guardano, ci guardano in un dato modo. Lo mettiamo e ci guardano in un altro. Ecco il problema: il mio fidanzato mi rimprovera certi tipi di trucco, per esempio l’ombretto agli occhi. Tu da che parte ti schieri?» Ed ecco la risposta: «Dalla parte del tuo fidanzato, [...] come sono gli sguardi che ti seguono [...]? Rispondo io per te: quelli sono sguardi di uomini. Anche se non sei truccata, obbietti, gli uomini ti guardano lo stesso? Sì ma in maniera diversa: ed è quella, cara Vicky, che al tuo fidanzato non dà fastidio, è quella che non l’offende. L’altra sì, di fastidio gliene dà parecchio, e la prima ad esserne offesa dovresti essere tu, lasciamelo dire. Invece, tutto il contrario: te ne compiaci e prendi le difese del truc-

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ai vestiti, sono quindi un veicolo di costruzione di una figura femminile più sensuale e più aperta agli spazi pubblici, che valorizza sé stessa invece di annullarsi nel sacrificio a favore della famiglia; non è un caso che dal ’68 siano usati come provocazioni simboliche contro il sistema di valori tradizionali. Ma non è questo il caso della nostra padrona di casa. Però vediamo che sul comò ha varie bottigliette di profumo. Uno lo riconosciamo subito: è Chanel N. 5, il profumo dell’attrice icona del tempo, Marilyn Monroe. Non ci meraviglia. Sappiamo che in questo periodo si verifica un piccolo boom delle spese relative all’igiene e alla bellezza personale, sintomo del valore attribuito alla socialità e urbanità (ulteriore tappa della diffusione delle buone maniere, direbbe Elias). Così, si moltiplicano saponi e saponette profumate («Camay, quel fascino che fa girar la testa»)71, deodoranti, scatole di borotalco (Roberts: «meraviglioso complemento della vostra toeletta»), bagnischiuma (Vidal, per sentirsi liberi e freschi come cavalli bianchi al galoppo sulla spiaggia, come suggerisce un Carosello), shampoo, brillantine (Linetti: l’unico errore dell’infallibile ispettore Rock era stato non usarla), dentifrici (come la Pasta del Capitano o il Chlorodont, che dava un invidiabile vantaggio: «con quella bocca, può dire ciò che vuole!»), e una marea di prodotti specializzati per l’igiene della casa, a partire dalla cera (famosa quella Grey con i suoi simpatici testimonial televisivi: i Brutos, Ciccio e Franco, Ave Ninchi). Fra i detersivi, poi, si scatena una dura lotta: dai teneri cartoni animati di Angelino per Supertrim e Calimero, pulcino non nero ma solo sporco, per Ava, si passa a un gruppo di cavalieri armati in difesa del pulito: Mister X (Dixan) difende la formula magica del detergente dai cattivi con lo stesso ardore del lanciere bianco di Aiax. In seguito le situazioni divengono post-moderne: un uomo vestito di tutto punto si immerge sorridente in ammollo per dimostrare che non esiste lo sporco impossibile (Bio Presto), mentre l’attore Paolo Ferrari tenterà inutilmente per anni di portare a termine lo scambio di due fustini contro uno di Dash. Le agenzie pubblicitarie afferrano perfettamente l’accresciuto ruolo dell’igiene e della valorizzazione del corpo, che si riallaccia del resto all’antico ruolo «sociale» degli odori nel fissare le divisioni di clasco proprio per questo. Medita sul significato di questa differenza, e non potrai più essere assolta». Cfr. Lettere a, «Gioia», 30, 24 luglio 1960, p. 3. Sul ruolo della cura del corpo femminile (che mediaticamente si materializza nei concorsi di Miss Italia) cfr. L. Passerini, Storie di donne e femministe, Rosenberg & Sellier, Torino 1991. 71 Tutti i riferimenti sono ai Caroselli pubblicitari della Rai (1957-77).

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se. Ma il profumo rimanda a significati ben più profondi e a tradizioni ancestrali. Fin dall’antichità esso simboleggia l’anima e la purezza contrapposte alla corruzione del corpo fisico; e numerosi sono i miti che vedono giovani trasformati in piante odorose, come accade a Mirra, figlia del re di Cipro, dopo avere giaciuto con il suo stesso padre spinta da Afrodite (e questo ci ricorda anche il significato erotico legato al profumo). Ugualmente diffuso è l’uso di cospargere di oli ed essenze odorose le statue degli dei. Tutto ciò si trasmette in una certa misura anche alla tradizione religiosa successiva, che non disdegna in speciali occasioni il profumo penetrante dell’incenso, mentre da parte laica il «cattivo odore» è sempre più associato all’animalità, diviene il contrario di civiltà. Nel XX secolo i bagni frequenti, e più tardi le docce, assicurano la pulizia e la purezza del corpo; la successiva profumazione, si è sostenuto, aspira a una specie di trasfigurazione, risponde al desiderio di raggiungere una bellezza perfetta, in tutti gli aspetti della corporeità72. Sia che indulga in queste riflessioni, sia che li consideri un piacevole consumo che può permettersi, la nostra padrona di casa schiera un bel po’ di eau de toilette ed essenze fruttate. Non altrettanto è vero per il suo compagno, proprietario di una solitaria bottiglia di profumo, una fragranza secca e agrumata – anzi, esperidata, come si dice ancora oggi in profumeria a ricordo del favoloso giardino delle Esperidi, che custodivano frutti paradisiaci con l’aiuto del drago Ladone73. Uno solo, quindi, e con parsimonia, per non correre il rischio di passare per «effeminato». Il gioco di rimandi di genere sui consumi ci induce a osservare un bellissimo orologio da polso, appoggiato sul comò, vicino a una schedina della Sisal e a un pacchetto di sigarette Nazionali «esportazione». Lo prendiamo in mano. È uno Zenith in acciaio, con cassa rotonda. Ebbene, questo oggetto nasconde una storia straordinaria. Neanche cinquant’anni prima nessun gentiluomo si sarebbe sognato di portare una stravaganza simile, un orologio da polso. Esistevano da tempo, ma erano piccoli e di materiale prezioso: si trattava di gioielli per le donne; gli uomini portavano orologi da tasca, molto più robusti, precisi e ricchi di funzioni. È la Grande guerra, con le sue esigenze di praticità e precisione, a diffondere gli orologi da polso fra ufficiali e soldati (magari avvolti in involucri metallici o astucci di cuoio per proteggerne le delicate parti in vetro e porcellana). Così questo strumento co72 B. Munier, Storia dei profumi. Dagli dèi dell’olimpo al cyber-profumo (2003), Dedalo, Bari 2006, soprattutto pp. 136-142. 73 Ivi, pp. 143-144.

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mincia ad acquisire caratteristiche di «mascolinità»: la cassa diventa più grande, il metallo cromato e l’acciaio sostituiscono l’oro, si moltiplicano le funzioni (a cominciare dalla lancetta dei secondi), diventano impermeabili e infine automatici. Il messaggio passa dalla preziosità estetica alla funzionalità tecnica. Negli anni Trenta i principali produttori di orologeria, fra i quali Hans Wilsdorf, il fondatore della Rolex, fanno a gara per mostrare la precisione e l’affidabilità dei loro prodotti, pubblicizzandoli come adatti a qualunque tipo di professione. In Italia la ristrettezza del mercato impedisce un’effettiva diffusione di questi nuovi modelli; bisogna attendere gli anni Cinquanta per una prima vendita significativa (con le marche Omega, Longines e Zenith), mentre l’alta orologeria svizzera rimane un privilegio di pochi (il classico Rolex Oyster nel dopoguerra costa 180.000 lire)74. È solo negli anni Sessanta che si assiste a un vero boom, che diffonde l’orologio da polso fra le classi medie. E in primo luogo fra gli uomini, per i quali diventa un oggetto fondamentale sia dal punto di vista simbolico, perché rappresenta il tempo del lavoro, sia da un punto di vista pratico, date le maggiori restrizioni culturali sull’abbigliamento maschile (sono concessi pochi accessori, assolutamente vietati i cosmetici, molto limitati i gioielli – ridotti a catenine d’oro e braccialetti poco vistosi, un fermacravatta, un anello)75. Guardiamo ancora lo Zenith. Alla fine del decennio questo orologio sarà in un certo senso superato, grazie all’introduzione di tecnologie elettroniche prima (con gli americani Timex e i giapponesi Seiko) e al quarzo dopo, che abbatteranno drasticamente i prezzi e consentiranno davvero a tutti di comprarsi un orologio. Altri dieci anni e la svizzera Smh con i suoi Swatch, colorati e a basso costo, trasformerà questo oggetto in un accessorio di moda come un altro (anche se contemporaneamente si rafforzerà il settore dell’orologeria di lusso). Il suo lungo viaggio attraverso genere e classi si chiude qui. Bene, mettiamolo giù allora e usciamo dalla stanza. 74 L. Carcano, C. Ceppi, L’alta orologeria in Italia. Strategie competitive nei beni di prestigio, Egea, Milano 2006, pp. 1-16. 75 Nel 1960 ha un orologio da polso il 54% degli italiani adulti, pari a 19 milioni (10,6 milioni di uomini e 8,4 milioni di donne), mentre 16 milioni non lo possiedono; tre quarti di questi sono stati venduti dopo il 1945 e soprattutto negli anni Cinquanta (si conferma che per molti è un bene nuovo); la variabile maggiormente legata all’acquisto è, oltre al reddito, la giovane età; il costo di un buon orologio è stimato intorno alle 25.000 lire. Cfr. Luzzatto Fegiz, Il volto sconosciuto dell’Italia. Seconda serie cit., pp. 1706-1712.

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La porta a fianco è chiusa: peccato, ritorneremo dopo. In compenso, proprio qui accanto c’è il bagno, nel quale ci infiliamo subito. È come ce lo aspettavamo: bianco, con qualche accessorio di colore pastello; funzionale, con un’attenta disposizione di vasca, lavandino, water e bidet in uno spazio ristretto. Notiamo il moderno mobiletto a specchi sopra al lavandino, il nuovo scaldabagno a gas, il cestello portabiancheria seminascosto tra bidet e muro, un phon appoggiato su una mensola insieme a saponi, shampoo, bagnoschiuma; un catino nella vasca. Tutto qui? Stiamo per uscire, quando capiamo che siamo invece di fronte a una seconda rivoluzione, dopo quella della meccanizzazione: la plastica. Il catino che abbiamo di fronte è di polipropilene isotattico, un nome un po’ difficile da ricordare, trasformato perciò nel nome commerciale di «moplen» dalla Montecatini. È la straordinaria invenzione di Giulio Natta (premio Nobel nel 1963), che la realizza a partire da un idrocarburo a basso costo, producendo un polimero dalla struttura spaziale ordinata adatto alla produzione industriale. Gli articoli così prodotti sono infrangibili, leggeri, resistenti, polimorfi. Entrano nelle case come oggetti poveri, d’uso quotidiano, colorati; sono catini, piatti, bicchieri, palette, barattoli, pettini, scatole, secchi, manici di scopa, battipanni, colapasta, involucri di piccoli elettrodomestici (phon, aspiratori, frullatori, ventilatori, radioline). Hanno una loro identità e funzionalità diversa da quella degli oggetti fatti con materiali tradizionali e creano un nuovo paesaggio domestico (se con noi ci fosse un chimico, ci preciserebbe che la polimerizzazione ha una lunga storia che risale all’Ottocento e ci spiegherebbe esattamente in quali oggetti si «nascondono» Pvc, celluloide, bachelite, fòrmica, come quella in cucina, e poi ancora nylon, plexiglass... ma non è qui)76. Comunque sia, la diffusione di questi oggetti ha una motivazione pratica, legata alla funzionalità e maneggiabilità, e una economica, legata al loro bassissimo costo (un oggetto di plastica costa fino a tre volte di meno dell’omologo in legno, ceramica, metallo). Ma ne ha anche una simbolica: incarna il fascino della modernità in un’epoca attratta dal futuro e dal progresso tecnologico (che culmina con lo sbarco sulla Luna nel 1969: non è un caso che sia anche il momento di successo della fantascienza); rappresenta poi il prometeico dominio umano sulla natura e sulla materia, piegata a forme e consistenze inattese; esemplifica l’estetica della mo76 C. Cecchini, Mo... Moplen. Il design delle plastiche negli anni del boom, R Design Press, Roma 2006.

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dernità che, immemore del passato, rimanda solo a sé stessa. È insomma l’icona del futuro. Il suo fascino però è ambiguo, soprattutto in Europa (forse un po’ meno in America)77. Non si tratta ancora delle preoccupazioni legate all’inquinamento ambientale, alla sicurezza e alla potenziale tossicità, che esploderanno in seguito; ma delle sue stesse caratteristiche, come scrive Roland Barthes: è essenzialmente una materia alchemica [...] più che una sostanza la plastica è l’idea stessa della sua infinita trasformazione; è, come indica il suo nome volgare, l’ubiquità resa visibile [...]. Nell’ordine poetico delle grandi sostanze è un materiale sgraziato, sperduto tra l’effusione della gomma e la piatta durezza del metallo: essa non arriva a nessun vero prodotto dell’ordine minerale, schiuma, fibre, strati. È una sostanza andata a male: a qualunque stato la si riduca la plastica conserva un’apparenza fioccosa, qualcosa di torbido, di cremoso e di congelato, una incapacità a raggiungere la levigatezza trionfante della natura. E più di tutto la tradisce il suono che ne esce, vuoto e insieme piatto [...]78.

Dunque, alle antiche strutturazioni simboliche della casa (privato/pubblico, maschile/femminile, ecc.), che ritroviamo anche qui, se ne aggiungono di nuove, e con una forte valenza assiologica: la prima ruota intorno alla categoria della funzionalità, struttura l’intera disposizione della casa e trova la sua massima espressione nella meccanizzazione espressa dagli elettrodomestici (corrisponde quindi al binomio funzionalità/inefficienza). La seconda corrisponde alla contrapposizione naturalità/artificialità. Tutto quello che si riferisce alla natura, e all’antico, ha più valore di quello che è artefatto, moderno. Gli arredi di pregio sono realizzati con «materiali nobili», come il legno, il marmo, o anche il vetro e il metallo; certamente non con la plastica (e la stessa opposizione avviene tra tessuti di fibra naturale, seta, lino, cotone, lana, rispetto a quelli di fibre artificiali o misti)79. Naturalmente, come ha osservato Baudrillard, questa è una concezione tutta ideologica e culturale di «natura»: il legno dei mobili è ben diverso da quel77 J.L. Meikle, American Plastics: A Cultural History, Rutgers University Press, New Brunswick 1993; A.J. Clarke, Tupperware: The Promise of Plastic in 1950s America, Smithsonian Institution Press, Washington 1999. 78 R. Barthes, Miti d’oggi (1957), Lerici, Milano 1966, pp. 160-161. 79 Non è un caso che nelle pubblicità dei tessuti sintetici si insista particolarmente sull’aspetto della qualità, come avviene ad esempio nello spot televisivo del nailon Rhodiatoce (1963), dove Caio Gregorio, «er guardiano der pretorio», parla in rima, mostra il fisico («du’ metri de torace») e monta a guardia della buona qualità.

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lo esistente in natura, e cioè trattato, piegato, dipinto, lucidato, proprio perché si comporti diversamente (cioè non invecchi, si ammuffisca, si macchi, si tarli, si rompa); che dire poi dei metalli, del vetro o della carta, «innaturali» e lavorati da secoli dagli uomini, ma accettati in virtù dalla loro antica presenza fra noi? Se l’ambiente umano è da sempre costruito, perché, nota sempre l’autore francese, la pietra dovrebbe essere più autentica («nobile», appunto) del cemento?80 Insomma, la presenza della plastica fa emergere un valore profondo della cultura contemporanea che, naturalmente, orienta e struttura il paesaggio degli oggetti nella domesticità. Notiamo anche che, mentre la meccanizzazione e la motorizzazione hanno ispirato fiumi di opere letterarie e artistiche, la plastica, che ha cambiato la nostra quotidianità in misura non minore, è poco presente nel panorama artistico, e quasi sempre con una connotazione negativa. Come introdurre allora tra le famiglie italiane un materiale così ambivalente? La scelta è azzeccata: si fa uso di un comico molto popolare e dalla debordante stazza come Gino Bramieri e si realizzano per l’amato Carosello spot comici che rimandano a una rassicurante atmosfera casalinga. L’«avventuroso casalingo», invece di lavorare, affronta – mentre dorme – i cattivi più disparati: duella da moschettiere contro le guardie del cardinale, si insinua in laboratori segreti come 007, ne combina di tutti i colori; per fortuna al suo risveglio c’è una casetta sicura, piena di oggetti utili e infrangibili («e mo’?... e mo’ e mo’, Moplen!»). La notorietà che ne segue apre la porta ai nuovi prodotti, che entrano nelle case con i loro colori vivaci, rosso, verde, blu (contrastando con forza il marrone dei legni chiari e scuri, il bianco/crema o pastello delle pareti, le tonalità scure o fantasia dei divani) e portano le loro forme funzionali, i rumori attutiti. A proposito di rumori, anche questi sono cambiati. Non è solo per la plastica: sono scomparsi lo scricchiolio del parquet e dei vecchi mobili, scartati via via; il ticchettio dell’orologio a pendolo, abbandonato agli spazzini; gli squilli acuti del campanello d’ingresso, le sveglie dal suono assordante; persino il telefono ha un trillo più delicato, senza parlare del fatto che non si sente più schiamazzare di continuo in strada. Tutto è divenuto più soft, più «urbano». Ma non necessariamente più silenzioso; solo, sono cambiati i rumori, a quelli forti e secchi del passato si sostituiscono quelli blandi e continui di sottofondo: il ronzio dei motori elettrici che si ricaricano, un indistinto brusio meccani80

J. Baudrillard, Il sistema degli oggetti (1968), Bompiani, Milano 2003, pp. 48-

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co dall’esterno, e... musica, continuamente, parole e musica! Da dove viene? Andiamo a vedere. Il suono ci ha guidato, attraverso l’ingresso, nel salotto. O forse, dovremmo dire nel salottino, perché è ben diverso dall’ambiente maestoso e ampio di una volta. Nella stanza, più piccola della camera matrimoniale, vediamo un divanetto e due poltrone di velluto rosa chiaro, con sottili gambe a cono rovesciato e la punta metallica, disposte intorno a un tavolinetto lucido di materiale indefinibile, con sopra alcune riviste; sul fondo, tende bianche fino a terra si arricciano in ampi drappeggi, lasciando trasparire la luce del giorno; da un lato, un basso mobiletto-bar nello stesso stile nasconde una piccola sorpresa: se si apre lo sportello, una luce nascosta illumina il rivestimento interno a specchi. Dentro, c’è ogni ben di Dio, soprattutto aperitivi, secondo il gusto del momento (Punt e Mes, Biancosarti, Martini, Cinzano Soda), amari come Ramazzotti e China Martini e brandy che creano atmosfera (Vecchia Romagna etichetta nera, naturalmente)81. Quello che è veramente cambiato, però, è l’assenza di quel carattere scenografico che aveva il salotto antico, costruito per la socialità e l’ostentazione di status attraverso innumerevoli preziosi soprammobili (tutti spariti, insieme al piano, al camino, alla pendola, ai grandi quadri a olio); anche se i nuovi mobili sono risultati piuttosto costosi, più degli elettrodomestici, e sono stati acquistati a rate. Questo salottino è disposto come una platea: divanetto e poltrone in effetti sono rivolti verso una parete occupata da un moderno mobile componibile, con ripiani adibiti a libreria, altri che ospitano piccoli ninnoli o sono chiusi da ribaltine di legno e vetrinette; su di uno c’è un giradischi abbinato alla radio (da cui proviene la musica), e accanto una pila di dischi in vinile a 33 giri (LP di musica classica); nel centro troneggia un grosso e pesante apparecchio: la televisione. Ecco dunque perché la disposizione dei mobili e degli arredi è così mutata: non siamo più nel luogo consacrato alla socialità, dove conversare e ricevere amici, ma in uno spazio specializzato nel consumo culturale. Certo, si tratta ancora di un consumo molto limitato; per l’inte81 Tra le più note pubblicità per questi prodotti, ricordiamo il manifesto di Armando Testa per Punt e Mes, che materializza lo slogan «un punto di amaro e mezzo di dolce»; gli sketch di Gino Cervi con il personaggio animato Sorboli per Vecchia Romagna; e i duetti di Ernesto Calindri e Franco Volpi (1962), a ricordo dei bei tempi andati: «Oggigiorno tutto è una lusinga / dura minga, dura no / vive solo che non se la prende / e cantare sempre può / Fino dai tempi dei garibaldini / China Martini, China Martini / niente bevande ma nei bicchierini / China Martini, come ai tempi d’oggidì».

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ro «pacchetto» spettacoli-cultura la famiglia-tipo italiana spende nel 1970 il 6 per cento del suo budget. È in sostanza l’ultimo gruppo di consumi, dopo le spese igienico-sanitarie; tuttavia sta assumendo un ruolo particolare per le sue continue trasformazioni e per il formidabile impatto culturale che porta con sé. È inutile dire che la media nasconde profonde differenziazioni, che sottolineano fratture sociali (negli anni Sessanta, il 79 per cento degli impiegati possiede una televisione, ad esempio, contro il 48 degli operai) e quella tipica città/campagna (la stessa televisione è presente fra il 16 per cento degli agricoltori e l’11 per cento dei salariati agricoli: è cioè un consumo urbano)82. Sappiamo che le spese per il divertimento e la cultura ci sono sempre state: nell’Italia liberale la forma dominante era il teatro che, pur restando in sostanza un consumo d’élite, rispecchiava profondamente la cultura dell’epoca; poi si era passati al cinema, che già negli anni Trenta era diventata la prima vera forma di spettacolo di massa, veicolando aspirazioni e nuovi modelli di vita. Ora assistiamo a due importanti fenomeni. Il primo è lo sviluppo dei consumi culturali «domestici», vale a dire la tendenza dei consumatori a consumare sempre meno all’esterno (spettacoli dal vivo, cinema, eventi sportivi) e sempre più nella propria casa. Vediamo qui come il valore culturale della domesticità e della privacy operi potentemente nell’orientare le scelte culturali. La radio è il primo fra gli importanti mass media a spingere in questo senso: prima della guerra non aveva mai raggiunto i due milioni di abbonamenti (era in buona parte ancora un ascolto collettivo), dopo sale vertiginosamente e nel triennio 1957-59 raggiunge il picco di sei milioni di abbonamenti; quindi scende altrettanto rapidamente nel decennio successivo. Segue la televisione, che ha una crescita fulminante: dal suo esordio nel 1954 al 1970 registra quasi 10 milioni di abbonamenti. È evidente il trasferimento del pubblico da un mezzo all’altro e la «privatizzazione» del consumo, testimoniato dall’alto numero di apparecchi venduti83.

D’Apice, L’arcipelago dei consumi cit., p. 42. Cfr. anche Tab. 7. D. Forgacs, L’industrializzazione della cultura italiana (1880-2000), il Mulino, Bologna 2000, pp. 191-198; S. Gundle, Spettacolo e merce. Consumi, industria culturale e mass media, in Il secolo dei consumi. Dinamiche sociali nell’Europa del Novecento, Carocci, Roma 2006; D. Forgacs, S. Gundle, Cultura di massa e società italiana 1936-1954, il Mulino, Bologna 2007. Gli economisti spiegano la diffusione di ogni nuovo mezzo con una curva fatta come una specie di S: c’è una lenta partenza, poi una rapidissima diffusione fino alla saturazione del mercato (che può verificarsi quando il bene è diffuso oltre il 90% oppure anche a livelli molto più bassi), quindi una fase di assestamento, e infine una caduta più o meno forte nella dif82 83

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Il secondo fenomeno è la creazione di un mix di consumi, dovuto alla moltiplicazione dei media disponibili. Vale a dire che per comprendere le dinamiche in corso non possiamo più riferirci solo al consumo di uno specifico mezzo, come avveniva in epoche precedenti, quando le caratterizzazioni sociali di questi usi erano molto nette; ci dobbiamo riferire a un consumo incrociato di diversi media, caratterizzato diversamente a seconda dei gruppi di riferimento. Quindi non si va più a teatro oppure al cinema, ma si va al cinema ogni tanto, a teatro (quasi mai), si ascolta spesso la radio e si guarda (sempre) la tv. Possiamo creare una mappa di questi consumi culturali? Certamente, anche comprendendo la carta stampata. Con riferimento ai consumatori abituali, secondo varie indagini, al primo posto per diffusione all’inizio degli anni Settanta troviamo i quotidiani (almeno una volta la settimana); subito dopo la televisione, che già nel 1965 raggiunge tutti i giorni il 40 per cento della popolazione e dieci anni dopo balza al 65 per cento (il sorpasso avverrà nel corso degli anni Settanta); abbiamo quindi le riviste settimanali, molte diffuse in tutto il periodo considerato (60 per cento); e poi la radio, con un andamento altalenante. Nella parte bassa della classifica troviamo le riviste mensili, in crescita; i libri, in lenta crescita (ma è anche il settore con il numero più elevato di non-consumatori, con meno di un libro all’anno: 75-80 per cento); e da ultimo il cinema, che dopo il buon andamento degli anni Cinquanta (un quarto di spettatori ci andava almeno una volta alla settimana), precipita fino al 14 per cento di spettatori abituali nel 197384. Il quadro che ne esce è quello di un consumo «sovrapposto» dei vari media, differente a seconda dell’istruzione, del genere, dell’età, del reddito, quasi avessimo di fronte tanti pubblici diversi; gli studiosi si sono sbizzarriti nel cercare di classificare gruppi e sottogruppi di fruitori (e ancor più lo hanno fatto i pubblicitari, alla ricerca del fusione. La velocità e l’ampiezza di questi fenomeni variano molto, a seconda del mezzo stesso e delle circostanze storiche ed economiche (ad esempio la comparsa di un mezzo concorrente tecnologicamente più avanzato): nel breve periodo contano molto il prezzo del bene e i redditi; nel lungo periodo, gli aspetti culturali. 84 E. Ercole, I consumi culturali: dal «pubblico» agli stili di consumo multimediale, in M. Livolsi, L’Italia che cambia, La Nuova Italia, Firenze 1993, p. 214. I dati sono ricavati da diverse fonti per la difficoltà nello stimare esattamente il consumo culturale che, come è noto, non si riflette meccanicamente nella vendita di un giornale o, ancor meno, in quella di un televisore o di una radio – soprattutto se si vuole stimare la frequenza di questo consumo. Notiamo anche che il consumo di manifestazioni di intrattenimento, sportive e di spettacolo dal vivo è troppo basso per rientrare in questa classifica; nel 1966-70, ad esempio, la Siae registra le seguenti spese pro capite: cinema 12.950 lire, trattenimenti vari 4900, manifestazioni sportive 2200, spettacolo dal vivo 1100 (ivi, p. 212).

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mezzo più idoneo su cui piazzare le pubblicità per un certo target). Notiamo come in questo quadro si avvantaggi tutto il settore della carta stampata, sia pure a livelli quantitativi molto diversi – sicuramente anche per via dell’istruzione crescente (aumento dell’obbligo scolastico, scuola media unica, lotta alle sacche di analfabetismo). E si verifichi pure un incrocio e un rafforzamento reciproco tra mezzi diversi (cross-fertilization), per cui i rotocalchi si occupano sempre più di televisione (e ne stimolano il consumo); i fotoromanzi, tanto di moda, sono un incrocio di cinema e fumetti; la televisione riprende i programmi della radio, e così via. Una cosa però accomuna tutti questi media: convergono verso la creazione di un circuito virtuoso (o circolo vizioso?) di rafforzamento della cultura del consumo, se non altro per vendere sé stessi – persino i libri adottano formati economici tascabili e si spostano in edicola85. Prendiamo l’ultima arrivata, la televisione. Sediamoci in una di queste comode poltrone e osserviamo. Quella che abbiamo di fronte è una Telefunken a valvole, un grosso cassone dallo schermo bombato, con rivestimento esterno color legno, quattro manopole in basso per i comandi. Ci mette un po’ ad accendersi e bisogna darsi da fare per prendere bene il segnale (ma c’è poco da scegliere, all’inizio c’è un solo canale che trasmette 32 ore alla settimana, dal 1961 i canali diventano due); quando si spegne, poi, resta un persistente punto luminoso al centro. Per la cronaca, alla sua uscita nel 1954 costa oltre 200.000 lire (e poi bisogna considerare il canone d’abbonamento Rai). Ma per i fortunati possessori di questo apparecchio ne è valsa la pena. Ha portato d’un colpo un intero mondo dentro casa, una folla di signorine buonasera, giornalisti a mezzobusto, presentatori italoamericani, cantanti urlatori, comici vecchi e nuovi; un mondo diverso da quello favoloso e patinato del cinema hollywoodiano, più vicino alla realtà quotidiana. I personaggi televisivi hanno qualcosa di familiare, da gente comune, un po’ perché li vediamo tutti i giorni, un po’ perché entrano direttamente in casa e partecipano dell’atmosfera casalinga. E poi alcune delle trasmissioni più popolari (che non erano quelle culturali o educative, come forse la dirigenza sperava) come il quiz Lascia o raddoppia?, presentano davvero gente del tut85 I primi libri tascabili, sull’esempio dei paperback anglosassoni, appaiono nella collana Bur della Rizzoli nel 1949; ad essi fanno seguito gli Oscar Mondadori nel 1965. Cfr. A. Cadioli, G. Vigini, Storia dell’editoria italiana dall’Unità ad oggi: un profilo introduttivo, Editrice Bibliografica, Milano 2004; Storia dell’editoria nell’Italia contemporanea, a cura di G. Turi, Giunti, Firenze 1997; G.C. Ferretti, Storia dell’editoria letteraria in Italia, 1945-2003, Einaudi, Torino 2004; G. Ragone, Un secolo di libri: storia dell’editoria in Italia dall’Unità al post-moderno, Einaudi, Torino 1999; E. Decleva, Arnoldo Mondadori, Utet, Torino 1993.

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to ordinaria, persone della strada – chissà, un giorno potremmo farcela anche noi a diventare ricchi e famosi d’un colpo86. La televisione sembra combinare miracolosamente i pregi del cinema (spettacolarità delle immagini, contenuti accessibili a un vasto pubblico, programmi da tutto il mondo) con quelli della radio (rapidità nell’informazione, comodità nella fruizione, gratuità di accesso una volta acquistato l’apparecchio): se film e radio avevano fatto scoprire un universo di informazione e intrattenimento, ora la televisione porta tutto questo comodamente in casa. In breve, tutti capiranno il senso di un’espressione come «villaggio globale» (anche senza leggere McLuhan). I tassi di ascolto schizzano in alto e lì resteranno; l’Italia sarà sempre un paese con altissimi consumi televisivi in Europa, anche quando istruzione e reddito si avvicineranno alla media comunitaria (forse perché, è stato suggerito, l’alfabetizzazione si conclude più tardi, nel dopoguerra, quando già c’è la televisione: molti non fanno in tempo a sviluppare un’abitudine alla lettura e «saltano» direttamente alla televisione). Abbiamo detto che questi nuovi media rafforzano la cultura del consumo. La televisione, grazie alla sua incredibile presa e diffusione, lo fa in due modi: indirettamente, mostrando nei suoi programmi un mondo di beni materiali desiderabili e a portata di mano; e direttamente, nonostante lo stile pedagogico-moralista dei suoi esordi, introducendo la pubblicità con Carosello. Questo intermezzo diventa un programma popolarissimo, i bambini non vanno a letto senza vederlo, e lo guardano avidamente anche genitori e nonni. Inaugura un linguaggio breve e frizzante, lancia o rilancia attori, registi, personaggi immaginari, fa scattare l’associazione di ogni prodotto con uno slogan e una musichetta (una vera e propria malattia all’epoca). La sua efficacia risiede nella qualità del programma (nel quale compaiono Totò, Peppino De Filippo, Dario Fo, Fabrizi, Gassman, Manfredi e molti altri); ma anche nel messaggio87. È la fase «eroica» della pubblicità: è nuova, li-

86 Sulla trasmissione e i suoi echi americani cfr. S. Cassamagnaghi, Immagini dall’America. Mass media e modelli femminili nell’Italia del secondo dopoguerra 1945-1960, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 251-283. I sondaggi dicono che il programma era seguito con interesse quasi uguale da pubblico maschile e femminile; una successiva inchiesta che confronta il quiz Campanile sera e il nuovo programma Tribuna politica mostra una netta differenziazione di pubblico solo riguardo al secondo (seguito, come immaginabile, in grande maggioranza da uomini). Cfr. Luzzatto Fegiz, Il volto sconosciuto dell’Italia. Seconda serie cit., pp. 1402-1404. 87 F. Monteleone, Storia della radio e della televisione. Un secolo di costume, società e politica, Marsilio, Venezia 2003; F. Anania, Breve storia della radio e della te-

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mitata, divertente, istruttiva (nel senso che lancia nuovi prodotti e spiega come usarli, come per la plastica). Insomma, il primo consumo che lancia è quello della pubblicità stessa. Visto che qui siamo seduti comodamente, prima di andare, diamo una rapida occhiata alle riviste sul tavolino. C’è «Epoca», che con i suoi splendidi servizi fotografici si ispira al fotogiornalismo lanciato da «Life» e propone alla famiglia italiana un’informazione di qualità; sotto ci sono alcuni periodici femminili: il popolarissimo fotoromanzo «Grand Hotel» e le riviste «Annabella» e «Gioia». Apriamone qualcuna a caso: La padrona di casa perfetta deve saper affrontare qualsiasi problema; anche un «pranzo d’emergenza» per gli ospiti che guardano la televisione [...] per semplificare il «servizio», questa volta, vi proponiamo piatti squisiti e appetitosi che potranno essere serviti in coppe, spiedini, o addirittura (non scandalizzatevi), senza forchetta88. Lettera di una lettrice: «saprò essere la moglie che mio marito si aspetta che io sia?» (Fidanzata agli sgoccioli). Risposta: «poche regolette fondamentali. Per esempio: fare in modo che il marito si senta sempre il tuo protettore; non contraddirlo mai in pubblico; saper dire «ho torto» senza perdere il buon umore; ascoltarlo senza impazienza; non proporgli spese al di sopra delle sue possibilità [...] l’amor proprio è la prima «qualità» dell’uomo anche quando diventa marito innamorato»89. Lettrice: «Credi che una ragazza, studiando e preparandosi sul serio, possa diventare radiotecnico? [...] mi seccherebbe essere messa in ridicolo» (Damiana). Risposta: «ormai ci sono donne che fanno il magistrato, che studiano fisica nucleare, che guidano gli aeroplani. Coraggio, dunque, e non dimenticare mai di ‘fare sul serio’»90. Molti mariti costretti a rimanere soli, in città, mentre la famiglia è in vacanza, desiderano almeno una volta al giorno, mangiare nella loro casa. È bene quindi che la moglie, prima di partire, rifornisca la dispensa. Ecco le provviste per due settimane: Per il primo: 2 barattoli di minestrone; 2 di ravioli al sugo; 2 di pasta e fagioli [...]. Per la pietanza: 2 scatole di manzo lesso; 2 di brasato; 2 di vitello in gelatina; 2 di wursteln; 2 di tonno sott’olio [...]. Lu-

levisione italiana, Utet, Torino 2007; Id., Davanti allo schermo. Storia del pubblico televisivo, Carocci, Roma 1997; D. Pittèri, La pubblicità in Italia. Dal dopoguerra a oggi, Laterza, Roma-Bari 2002; P. Dorfles, Carosello, il Mulino, Bologna 1998. 88 A tavola con la TV, «Gioia», 19, 7 maggio 1960, p. 74. 89 «Gioia», 30, 24 luglio 1960, p. 2. 90 «Gioia», 26, 29 giugno 1958, p. 2.

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nedì. Minestrone [...]. Carne lessa con spinaci: aprite il barattolo della carne e capovolgetela sul piatto [...]91.

Queste riviste, tanto sono diffuse e lette avidamente, tanto saranno criticate duramente per i loro contenuti e l’immagine di donna che si ritiene trasmettano. Ma a parte le notevoli differenze tra l’una e l’altra, analisi più attente mostrano invece una certa vivacità anche su temi come la morale e i consumi; inoltre è interessante osservare lo scivolamento nel giro di un decennio da intenti pedagogici e di intrattenimento a intenti decisamente commerciali (e di intrattenimento). Alcune indagini e testimonianze di storia orale, poi, gettano un po’ di luce sul fondamentale aspetto della loro ricezione da parte delle lettrici: non vi è necessariamente un appiattimento sui messaggi dei giornali ma una loro attiva rielaborazione; ad esempio, sono utilizzati per sviluppare risposte a fronte di situazioni familiari difficili, oppure per stabilire contatti e scambi sociali con chi condivide i medesimi interessi, o ancora per crearsi spazi di relax in base a specifiche esigenze di tempo92. Anche queste riviste sono dunque usate per la costruzione di nuove identità, segnano strategie di differenziazione, entrano in quella sorta di bricolage che utilizza la cultura materiale per creare nuovi modelli di vita quotidiana, disegnando paesaggi culturali differenti da quelli tramandati dalle stratificazioni tradizionali. Tutto questo non deve farci dimenticare che la situazione culturale e sociale esemplificata dalla casa in cui siamo finiti è solo uno dei possibili percorsi, anche se in questo momento assume grande rilevanza culturale ed è molto enfatizzato dai media. È delimitato da barriere sociali ed economiche, come abbiamo visto; non è certo quello degli abitanti delle case autocostruite dei borghi periferici, che vivono in spazi sovraffollati e non si possono permettere comfort anche minimi; non è neppure quello delle realtà rurali spopolate, dove molte famiglie devono trovare nuovi equilibri intorno alle «vedove bianche» e alle rimesse dall’estero. Anche le donne emigrate hanno reazioni molto diverse nei confronti di questa nuova domesticità e dei suoi simboli: alcune l’accettano, almeno come ideale, e la vivono come una forma di liberazione e di conquista dell’autonomia (magari insieme alle prime buste paga); altre la rifiutano e perpetuano, anzi rafforzano, i comportamenti culturali tradizionali; per altre ancora si verifica un’accettazioPer i mariti in città, «Gioia», 30, 29 luglio 1962, p. 79. Cassamagnaghi, Immagini dall’America cit.; A. Bravo, Fotoromanzo, il Mulino, Bologna 2003. 91 92

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ne selettiva, per cui alcuni beni e pratiche vengono inglobati in comportamenti ancora dominati dall’etica del sacrificio, più che dal richiamo dei consumi93. 1.4. Giovani Siamo di fronte alla porta che prima era chiusa. Ora, spingendola, riusciamo a entrare. Questa stanza è diversa dalle altre! Notiamo subito i colori vivaci delle pareti, azzurro scuro, e del lampadario che pende dal soffitto. Poi non c’è quel senso di perfetto ordine e pulizia che regna nel resto della casa, anzi c’è un disordine «creativo» (sicuramente la padrona di casa non la pensa così). È la stanza del figlio, probabilmente adolescente. Sopra al letto è appeso con pezzi di nastro adesivo un grande poster, la foto di un ragazzo seduto sul cofano dell’auto, jeans, maglietta bianca, giubbino semiaperto, sigaretta in bocca e un sorriso sfrontato: James Dean. Vicino al letto un tavolo con una piccola lampada, su cui c’è un po’ di tutto: una radiolina portatile, libri di scuola, quaderni, ritagli di giornale, colla Coccoina, un pacchetto di gomme da masticare, penne Bic e di altro tipo (una ha una nave che si muove nel liquido trasparente su e giù), fumetti («Intrepido», «Tex»), riviste come «Ciao Amici», «Giovani» e «Big» (poi «Ciao 2001») che parlano di musica, dei problemi dei giovani, della noia della radio e tv per adulti. Su un ripiano, davanti a un’enciclopedia per ragazzi in moltissimi volumi, c’è un registratore Geloso (un po’ in disuso, sembra, nonostante sia costato 28.000 lire) e un giradischi portatile Lesa con accanto tanti dischi a 45 giri (tutte le hit del momento). In un cestino, abbandonati, spuntano vecchi giochi: Topo Gigio, un Paperino disneyano, soldatini mezzi rotti, automobiline metalliche, biglie, una scatola di mattoncini Lego (che avevano sostituito, contro il parere di papà, il vecchio meccano – allo stesso modo in cui la bambola Barbie, icona di una nuova femminilità, sostituirà quelle di pezza amate dalla mamma). Nel piccolo armadio di fronte al letto c’è uno strano miscuglio di vestiti: alcuni quasi «classici», cioè pantaloni, giacche e camicie bianche; altri piuttosto diversi: blue jeans (precisamente Levi’s 501), magliette bianche e a righe, un giubbetto con la cerniera lampo, un altro di pelle nera.

93 Signorelli, Movimenti di popolazione cit., pp. 636-640. Riguardo al lavoro femminile, i dati Istat mostrano che nel 1970 la percentuale di forza lavoro femminile nelle industrie è il 22%, in agricoltura il 32%, nei servizi il 30% (in complesso la quota delle lavoratrici sul totale è del 27,5%). Un interessante romanzo che ritrae problemi e aspettative di una scrittrice napoletana emigrata a Milano è il libro di A.M. Ortese, Poveri e belli, Vallecchi, Firenze 1967.

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Gli oggetti di questa stanza ci mandano un messaggio chiaro: siamo di fronte a uno spazio e a una cultura materiale differente da quella del resto della casa, costruita intorno a una differenziazione di età. Sappiamo che in passato era stata già riconosciuta l’«alterità» dell’infanzia rispetto alla maturità; ma una vera e propria costruzione identitaria dell’età giovanile avviene solo in questi anni94. Naturalmente, a uno sguardo storico non può sfuggire che una sua specifica valorizzazione sia da retrodatare almeno alla fine dell’Ottocento (se non al Romanticismo) e abbia trovato una visibile fioritura nelle avanguardie novecentesche. Il momento forse più significativo era stata però l’esaltazione avvenuta con il fascismo e il nazismo, che si erano voluti contrassegnare come movimenti di giovani, in aperto contrasto con gli avversari «vecchi», politicamente e anagraficamente («Giovinezza, giovinezza...»). Né si deve ritenere che questa enfasi sia stata solo strumentale, per legare a sé le fasce giovanili; come hanno suggerito studi come quelli di Mosse e De Felice, essa riflette pienamente il carattere dei movimenti e le loro connotazioni ideologiche95. Tuttavia è vero che solo a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta i giovani si riconoscono come generazione, nel senso che si ritrovano in una comune identità, creano forme culturali condivise, sviluppano una loro autonoma costruzione della realtà che prelude a un futuro impegno sociale e politico96. I motivi di questo cambiamento sono in parte legati ai complessivi cambiamenti in corso (mobilità geografica che allenta i vincoli tradizionali, inurbamento, aumento del peso in termini demografici, maggiore disponibilità di reddito, innalzamento della scolarizzazione)97; in parte a un mutamento culturale che investe l’Occidente (an94 S. Piccone Stella, La Prima Generazione: ragazze e ragazzi nel miracolo economico italiano, Franco Angeli, Milano1993. 95 Cfr. anche M. Degl’Innocenti, L’epoca giovane: generazioni, fascismo e antifascismo, Lacaita, Manduria 2002. 96 Sui caratteri dell’impegno politico giovanile e il ’68 cfr. P. Echaurren, C. Salaris, Controcultura in Italia 1967-1977. Viaggio nell’underground, Bollati Boringhieri, Torino 1999; N. Balestrini, P. Moroni, L’orda d’oro 1968-1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, Feltrinelli, Milano 1997; R. Lumley, Dal ’68 agli anni di piombo: studenti e operai nella crisi italiana (1989), Giunti, Firenze 1998. 97 Si verifica un fortissimo aumento del tasso di scolarizzazione soprattutto ai livelli d’istruzione più elevati, dove c’erano maggiori disparità, per cui dal 1950 al 1970 il tasso di studenti fra i giovani tra 20 e 24 anni sale da 3,5% a 17% (38% dei quali femmine), superando i livelli di Germania, Francia e Gran Bretagna (media Europa occidentale 14,5% nel 1970). Cfr. H. Kaelble, Verso una società europea. Storia sociale dell’Europa 1880-1980, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 42; Istat, Sommario di statistiche storiche cit. pp. 47-57.

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zi, i cambiamenti iniziano negli Stati Uniti e nel Nordeuropa, e giungono dopo in Italia), che guarda con occhi diversi e più attenti al mondo dei giovani. Non è estraneo a tutto ciò lo sviluppo delle industrie culturali, che vedono proprio nelle fasce giovanili nuovi potenziali clienti e iniziano a produrre beni specifici per le loro esigenze. Un’inchiesta del 1964 stima che i 6,6 milioni di giovani italiani disponessero di ben 250 miliardi di lire, che spendevano, nell’ordine, per consumi voluttuari come bibite, dolciumi, sigarette (50 miliardi); per l’acquisto di Vespe e Lambrette (altri 50 miliardi); per abbigliamento, cosmetici e acconciature (25 miliardi); per la musica (23,5 miliardi, di cui 12 per l’acquisto di dischi, 5 per giradischi, 6,5 per i gettoni dei jukebox); per i trasporti con moto, bici, auto (22 miliardi); per spettacoli cinematografici e sportivi (21 miliardi); per libri, quotidiani, riviste, fumetti (20,5 miliardi); per altre spese (38 miliardi)98. Naturalmente vale anche per i giovani quello che abbiamo osservando per gli altri «nuovi» soggetti: si tratta di identità polisemiche, variabili, complesse, stratificate lungo le fratture di reddito (le spese prima indicate non possono che riguardare i giovani dei ceti medi, con esclusione di quelli operai e contadini), geografiche, urbane, di genere, e quindi le generalizzazioni vanno considerate con cautela99. Tuttavia resta l’impressione che in questa costruzione il riferimento alla cultura materiale abbia giocato un ruolo molto rilevante, sia come codifica interna al gruppo sia come forma di autorappresentazione sociale, cioè di visibilità della subcultura giovanile. Tutto bene, allora? Assolutamente no. Il 10 ottobre 1956 due fratelli poco più che ventenni, Arturo ed Egidio Santato, sembra con problemi mentali, entrano nella scuola elementare di un paese in provincia di Milano, Terrazzano di Rho, armati di pistole e tubi di esplosivo, e prendono in ostaggio 3 insegnanti e 97 bambini che minacciano di uccidere. Uno dei sequestratori tratta il pagamento di un riscatto con un altoparlante dalla finestra, di fronte a decine di fotografi e giornalisti, e chiede duecento milioni, da consegnarsi sul tetto con un elicottero («per rifarsi una vita» dirà al processo) – chiederà poi, nell’ordine, cibo, telecamere, cellule fotoelettriche e dieci polli vivi. Le trattative si trascinano. Fuori si schiera la polizia, arrivano le autorità, un prete, l’investigatore Tom Ponzi. Alla fine una maestra tenta di disar98 D. Giochetti, Tre riviste per i «ragazzi tristi» degli anni sessanta, «Impegno», XII, 2, dicembre 2002. 99 Cfr. una lettura differenziata per i giovani in Italia in P. Capuzzo, Gli spazi della nuova generazione, in Genere, generazione e consumi cit., pp. 217-247.

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mare un bandito; i bambini urlano all’impazzata. È il segnale dell’assalto: un coraggioso civile (che resterà ucciso) e agenti di polizia si arrampicano sulle scale e irrompono, mettendo fine al sequestro100. L’inusitato atto di violenza sconvolge il paese. Non solo per le potenziali conseguenze, ma per le modalità brutali e «cinematografiche» del sequestro. Subito si scatenano polemiche che attribuiscono i fatti all’influenza deleteria di film e riviste dai contenuti violenti. I sondaggi d’opinione rivelano che la grande maggioranza della popolazione concorda ed è favorevole a qualche tipo di censura verso messaggi che, «dipingendo una vita di lusso e di piacere, nella quale vengono sperperate delle ricchezze facilmente guadagnate, fanno sognare agli spettatori di ogni età e condizione cose irraggiungibili per la grande maggioranza della gente». E l’influenza maggiore si ritiene avvenga su «anormali o criminali nati» e ancora di più «su tutti i giovani, e su tutti gli adulti con mentalità infantile»101. I giovani, in particolare, sono esposti per il loro «desiderio di divertirsi a tutti i costi», di «guadagnare molto con poca fatica», e per «incapacità di fare sacrifici, egoismo»102. È la conferma del convincimento che sta maturando presso l’opinione pubblica sull’emergere di una delinquenza giovanile. Episodi criminali piccoli e grandi, atti di teppismo, comportamenti irrispettosi e devianti sembrano segnare la posizione dei giovani nella società. I media riservano grande spazio alle imprese della «gioventù perduta» e i sondaggi mostrano un giudizio severo degli adulti: non sono vittime della società, ma viziati da genitori permissivi, hanno poca voglia di lavorare, sono plagiati da film e fumetti. Insomma, vogliono solo il lato piacevole della società moderna, quello dei consumi, e non la sua necessaria premessa, il sacrificio e il lavoro103. Cosa c’è di vero? Le statistiche giudiziarie ci forniscono un quadro controverso. L’aumento della criminalità giovanile può essere riportato all’interno di un aumento generalizzato che si verifica nel dopoguerra, ma vanno fatte molte distinzioni. Gli omicidi volontari segnano un forte calo, arrivando nel decennio 1961-70 a un minimo storico, anche se a fronte di un alto numero di omicidi colposi. Sono in diminuzione anche le lesioni personali e le ingiurie. In forte aumento sono invece i furti e si mantengono elevate le rapine (una caratteristica del periodo sono poi i delitti contro la famiglia e la moralità). In sostanza siamo pie100 Cfr. sull’episodio la tavola illustrata di W. Molino in L’incredibile dramma nella scuola di Terrazzano, «La Domenica del Corriere», 43, 21 ottobre 1956; D. Buzzati, La «nera» di Dino Buzzati, Crimini e misteri. Incubi, Mondadori, Milano 2002. 101 Luzzatto Fegiz, Il volto sconosciuto dell’Italia. Seconda serie cit., pp. 377, 375. 102 Ivi, p. 386. 103 Cfr. l’ampio sondaggio sulla delinquenza giovanile ivi, pp. 397-421.

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namente all’interno del quadro che si registra in tutti i paesi occidentali, per cui all’aumento del benessere fanno seguito un aumento di reati contro il patrimonio (furti, frodi ecc.) e una diminuzione di reati contro le persone (omicidi, violenze). La maggiore ricchezza materiale e l’ostentazione dei beni di consumo sono certamente forti incentivi ai reati, così come l’aumento delle leggi conseguente a una vita sociale sempre più regolamentata fa aumentare le infrazioni alla legge. La violenza, che era una presenza quotidiana nella vita di un passato ancora recente, scompare in buona misura dall’esperienza contemporanea; soprattutto diminuisce quella collettiva (rivolte, linciaggi) e persiste solo quella privata, a ulteriore dimostrazione della tendenza alla privatizzazione della vita sociale104. Ugualmente, è via via bandita la violenza nei confronti del reo, o meglio del corpo del reo, e quasi ovunque si limita o abolisce la pena di morte: è l’ultimo passo di quel processo che Foucault ha delineato magistralmente per l’età moderna, e che porta dall’abbandono dei raccapriccianti supplizi, dove il sovrano ristabiliva spettacolarmente il suo potere sfidato, alla creazione di prigioni totalizzanti dove esercitare nuove e raffinate forme di castigo105. Ma torniamo ai giovani. In Italia, almeno, non sembra che i giovani abbiano un ruolo di primo piano nei fenomeni criminali106. Da dove deriva allora tutto questo allarmismo? Il legame istituito «naturalmente» dall’opinione pubblica tra giovani delinquenti e cinema/letteratura, è forse, più che un effetto, una causa. Il dopoguerra vede il fiorire di film che parlano di giovani ribelli, dai nostrani Gioventù perduta, I vinti, Gioventù alla sbarra a produzioni americane che fanno scalpore come Il seme della violenza, i film con James Dean La Valle dell’Eden e Gioventù bruciata, o Fronte del porto con Marlon Brando, oltre a innumerevoli film noir e polizieschi pieni di gangster imberbi. La letteratura si ispira all’esistenzialismo francese e ai suoi giovani dannati; nei fumetti spopolano ambigui personaggi mascherati come Batman 104 Istat, Sommario di statistiche storiche cit., pp. 68-70 (nel 1970 si registrano, ogni 100.000 abitanti, i seguenti delitti: 2,5 omicidi volontari; 10,3 omici colposi; 220 lesioni personali, 44 ingiurie; 30 delitti contro la famiglia e 18 contro la moralità; 1015 furti; 6 rapine e sequestri; 54 truffe; 486 delitti vari); J.C. Chesnais, La rivoluzione criminale: dalla violenza al furto, in Le rivoluzioni del benessere, a cura di P. Melograni, S. Ricossa, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 199-212; sulla percezione della criminalità nell’Ottocento cfr. S. Cavazza, Dimensione massa. Individui, folle, consumi 1830-1945, il Mulino, Bologna 2004, pp. 71-160. 105 M. Foucault, Sorvegliare e punire: nascita della prigione (1975), Einaudi, Torino 1976. 106 G. Crainz, Storia del miracolo economico. Culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta, Donzelli, Roma 1996, pp. 79-81.

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e l’Uomo ragno107. Forse emerge il lato oscuro di una società che si autorappresenta come positiva e tendente al progresso, pretende di avere voltato pagina dopo la guerra e superato per sempre le tenebre. In ogni caso, vediamo qui all’opera un interessante meccanismo culturale: si forma un cliché ricorrente, quello del giovane sbandato, e intorno a questo si costruisce un discorso sociale – che non è una particolare interpretazione della realtà da parte dell’opinione pubblica (siamo lontani da Habermas), ma una costruzione di pratiche e discorsi che, come scrive Foucault, formano gli oggetti di cui parlano. Tutto quello che è congruente (episodi di teppismo, devianze giovanili, balli sfrenati, abuso di alcol) viene isolato e inglobato nel discorso pubblico, il resto scivola via nell’indifferenza. Tutto questo era già avvenuto, e in forma più esasperata, in altri paesi108. La Gran Bretagna, ad esempio, aveva visto con preoccupazione la nascita di molte sottoculture giovanili (teddy-boy, mod, rocker e in seguito punk, skinhead, rasta) e le manifestazioni di violenza ad esse legate. Sociologi come Stanley Cohen e Stuart Hall, analizzando il fenomeno, concludono che le reazioni sociali sono sproporzionate e hanno una sola spiegazione: il panico morale. Le paure suscitate dai giovani (e nel contesto britannico anche dagli immigrati neri) sono in realtà metafore di una profonda inquietudine che attanaglia la società e che deriva dalle trasformazioni in corso: queste ultime creano sì maggiore benessere e fiducia nel futuro, ma minano profondamente i valori e i comportamenti tradizionali. Questa inquietudine si proietta sui soggetti che incarnano maggiormente la sfida dei tempi nuovi, i giovani, appunto, e demonizza i loro comportamenti, trasformandoli nei «colpevoli» per antonomasia109. In Italia la situazione non è così estrema, almeno fino al ’68; ma le reazioni sono molto simili. I giovani, da parte loro, vedono le cose molto diversamente. Il lo107 E. Capussotti, Tra storie e pratiche: soggettività giovanile, consumo e cinema in Italia durante gli anni Cinquanta, in Genere, generazione e consumi cit., pp. 1784; Id., Gioventù perduta: gli anni Cinquanta dei giovani e del cinema in Italia, Giunti, Firenze 2004; V.M. De Angelis, Super-Ambassadors: How Comic-Book Heroes Export American Values (Or, Do They?), in Ambassadors. American Studies in a ChangingWorld, a cura di M. Bacigalupo, G. Bowling, Busco Edizioni, Rapallo 2006, pp. 353-364. 108 P. Capuzzo, Youth Cultures and Consumption in Contemporary Europe, «Contemporary European History», 1, 2001, pp. 155-170. 109 S. Cohen, Folk Devils and Moral Panic, Routledge, London 1972; Resistance through Rituals: Youth Subcultures in Post-war Britain, a cura di S. Hall, T. Jefferson, Hutchinson, London 1976; J. Procter, Stuart Hall e gli studi culturali (2004), Cortina, Milano 2007, pp. 81-126.

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ro comportamento è un modo per esprimersi come soggetti, per divertirsi e stare insieme. La loro identità trova una prima costruzione intorno ad alcuni oggetti e intorno ad alcuni luoghi. Il primo è proprio quello dove ci troviamo adesso, la cameretta, concepita come spazio «altro» rispetto alla casa. È il posto dove sottrarsi agli sguardi dei genitori, leggere, studiare, ascoltare la musica, riunirsi a chiacchierare con gli amici; e questo è particolarmente importante per le ragazze, che sono soggette a limitazioni assai più drastiche dei loro coetanei nelle uscite esterne, soprattutto serali110. Lo spazio giovanile è però principalmente quello extra-domestico: anzi, si può dire che sia costruito sull’antitesi della domesticità familiare, un po’ per motivi pratici, un po’ per scelta culturale. Dove potrebbe essere in questo momento il ragazzo che abita qui? Essendo pomeriggio, probabilmente non è a scuola; la prima ipotesi ovvia, dopo quello che abbiamo detto, è che sia al cinema: in effetti, già negli anni Cinquanta il cinematografo tende a configurarsi come un mezzo frequentato soprattutto da giovani (oltre il 65 per cento ci va almeno una volta alla settimana) e la tendenza si accentuerà in seguito111. E naturalmente, almeno per le fasce superiori, gli spostamenti avvengono in Vespa o Lambretta, icone di libertà almeno quanto di mobilità112. Una seconda possibilità è che sia in un bar a giocare a flipper o «gettonare» un juke-box (altre due preziose importazioni americane); oppure che sia a ballare in qualche spazio commerciale (balere, discoteche) o anche privato dove c’è un giradischi, altro elemento simbolo (magari a casa di un amico, dove ha portato qualche disco e ha contribuito a comprare aranciata e Coca-Cola)113. La musica è diventata il Capuzzo, Gli spazi della nuova generazione cit., p. 221. Hanno una frequenza al cinematografo di almeno una volta la settimana nel 1953 il 63% delle persone di 16-19 anni, il 68% di 20-29, il 45% di 30-39, il 48%di 40-49, 18% oltre 50 anni (il pubblico ha una prevalenza maschile: nel 1960, va al cinema il 52% dei maschi e il 33% delle femmine). Cfr. Luzzatto Fegiz, Il volto sconosciuto dell’Italia. Seconda serie cit., pp. 223, 240. I dati sono sostanzialmente confermati da un successivo sondaggio del 1957, cfr. ivi, pp. 393-396. 112 A. Arvidsson, From Counterculture to Consumer Culture. Vespa and the Italian Youth Market 1958-78, «Journal of Consumer Culture», 1, 1, 2001, pp. 47-72. In questi anni la Vespa è ancora un consumo prettamente maschile; le cose cambieranno negli anni Settanta, quando anche le ragazze utilizzeranno la Vespa e soprattutto il nuovo motorino della Piaggio, più leggero, maneggevole, senza marce: il Ciao (una famosa pubblicità del 1969 lo ritrae con una ragazza hippy e lo slogan un po’ criptico: «Le sardomobili mangiano asfalto/fragole chi Ciao»). 113 Le inchieste confermano che il giradischi si configura presto come un tipico consumo legato alla giovane età, ed è presente in particolare nelle famiglie di ceto medio con studenti, con poche differenze di genere (cfr. Luzzatto Fegiz, Il vol110 111

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vero linguaggio dei giovani. Dopo i primi boogie-woogie sfrenati, l’istituzionalizzazione del jazz come genere musicale intellettuale, è stato l’arrivo del rock’n’roll a dare una voce al mondo giovanile. Dall’America e dalla Gran Bretagna arrivano i nuovi divi, Beatles, Rolling Stones, Doors, Rokes e moltissimi altri, e anche la canzone melodica italiana cerca di adeguarsi114. Il 24 giugno 1965 sbarcano a Milano i Beatles: già in stazione, la sera precedente, li aspettano 3000 fan, ma loro sfuggono a bordo di quattro Alfa Romeo spider rosse. Il concerto avviene di fronte a 7000 giovani il pomeriggio e oltre 20.000 la sera. I cantanti sono vestiti in giacca, cravatta, camicia bianca, ma portano i capelli lunghi; Paul McCartney si avvicina al microfono e grida «ciao», quindi attacca con Twist and Shout. È il delirio. I genitori resteranno esterrefatti di fronte alle scene di fanatismo dei figli, ai loro balli scatenati, alle urla delle ragazzine con vestitini corti come la modella Twiggy, ai pianti e agli svenimenti. A Roma in piazza di Spagna si radunano i «capelloni», che scandalizzano turisti e passanti, e spiegano ai giornalisti che non fanno niente di male, parlano e ascoltano la musica, che anche gli adulti si erano divertiti a loro tempo, e poi non bisogna confondere beat e ye-ye115. Spazi e oggetti, abbiamo detto. E fra gli oggetti, sono segnali distintivi abbigliamento, accessori, taglio di capelli. I ragazzi portano, appunto, capelli lunghi, blue jeans (lanciati in Italia dai teddy boy), giacche attillate, maglioni, magliette a righe o camicie bianche e colorate. Le ragazze capelli lunghi o corti a caschetto, mini-abiti, jeans (anche per loro), cinture vistose, scarpe con tacco o stivali; vanno molto le fantasie geometriche, i richiami «cosmonautici» (colori argentati, forme futuribili), gli accostamenti di tinte forti; inoltre si usa abbondante trucco e ombretti vivaci, un po’ da ragazze del Piper. Presto arriva anto sconosciuto dell’Italia. Seconda serie cit., pp. 1690-1694). Pochi anni più tardi l’uscita del mangiadischi portatile aumenterà le occasioni di ritrovo esterne. 114 S. Frith, Sociologia del rock (1978), Feltrinelli, Milano 1982; E. Berselli, Camzoni. Storie dell’Italia leggera, il Mulino, Bologna 1999. 115 I giornali del tempo sono pieni di articoli sul «fenomeno» dei giovani, per lo più con toni critici o ironici; più interessanti sono le immagini; cfr. ad esempio i filmati in Archivio Storico Luce, Caleidoscopio Ciac C1767, 31 agosto 1966 (inchiesta sui capelloni); e Radar R0156, 25 ottobre 1967 (capelloni a Trinità dei Monti). Fotografie del concerto dei Beatles a Milano sono in Archivio storico del «Corriere della Sera» (anche on line); nello stesso tour si esibirono anche a Genova (27 giugno 1965) e a Roma, al teatro Adriano (28 giugno). Interessante notare anche il linguaggio specifico creato per la comunicazione giovanile, che diventa un linguaggio interno al gruppo, per lo più incompreso all’esterno (gli adulti degli anni Sessanta conoscono pressoché solo il termine a loro riservato, «matusa»).

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che in Italia l’onda del movimento hippy con il suo gusto per l’esotico e l’orientale, e si diffondono camicie, casacche, pantaloni, gonne, bandane, tutto a fiori116. L’abbigliamento mostra chiaramente la ricerca di nuovi modelli estetici, oltre che «politici», insegue il diverso, l’antitradizionale come forma espressiva autonoma, rifiuta le rigidità nel vestiario come quelle sociali. È anche la riscoperta e valorizzazione del corpo, sia femminile sia maschile, che non è più occultato ma esposto, all’insegna della praticità e di una nuova sessualità. Da notare per inciso come in tutto questo abbigliamento abbia un ruolo crescente la plastica: collane, bracciali, fibbie, borsette, accessori vari; le fibre sintetiche sono presenti in molti capi d’abbigliamento e soprattutto in un nuovo indispensabile prodotto: i collant. Dopo le calze di nylon, eccoli infatti comparire sul mercato, realizzati dalla Du Pont in una fibra poliuretanica elastica, morbida e leggera: l’elastam. La casa commercializza l’articolo come calza curativa ma il successo della minigonna lanciata da Mary Quant nella «Swinging London» lo trasforma presto in un importante complemento dell’abbigliamento, per la sua praticità e anche per la sua castigatezza. In Italia è la Omsa, pubblicizzata dalle gemelle Kessler, a promuovere l’articolo. Come dobbiamo interpretare tutto ciò? Una forma di contestazione politico-sociale? Eppure i giovani italiani, in inchieste e interviste, non usano un linguaggio particolarmente «rivoluzionario», parlano di voglia di libertà, del gusto di stare insieme. Manifestazione mutatis mutandi del consumismo fra i giovani? Le grandi differenze e le continue variazioni farebbero escludere una semplice ricezione passiva di modelli prefabbricati. In realtà, i giovani usano processi di ibridazione e assemblaggio. Per spiegare il pensiero mitico, Lévi-Strauss nel suo libro Il pensiero selvaggio ricorre all’analogia con il bricolage: per i suoi scopi, il selvaggio usa un po’ tutti i materiali e gli oggetti che trova a portata di mano, anche se non sono proprio adatti, li mette insieme, li adegua, prova e riprova, li modifica, eventualmente li scarta e cerca dell’altro117. Secondo alcuni sociologi, i giovani fanno proprio questo: assemblano materiali diversi, che possono venire dai media, dalla moda, dalla pubblicità consumistica, dall’esempio di coetanei, dall’estro persona116 Cfr. le immagini di una festa hippy a Roma in Archivio Storico Luce, Radar R0155, 25 ottobre 1967. 117 C. Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio (1962), il Saggiatore, Milano 1964. Nella sua descrizione il pensiero mitico, incarnato dal bricoleur, si contrappone al pensiero scientifico, rappresentato dall’ingegnere, che invece costruisce tutto da sé con un fine preciso.

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le, e creano un nuovo insieme finale, dei nuovi rituali. In questo modo gli oggetti cambiano significato, perché vengono decontestualizzati, trasformati, esagerati: si esibiscono tagli di capelli inconsueti, variazioni nell’abbigliamento tradizionale (come le gonne corte o gli stessi blue jeans, nati come indumenti da lavoro) e i simboli consumistici, fuori dal loro contesto originale, appaiono come segni di riconoscimento. È così che nasce uno «stile», il cui fine è quello di costruire un’identità specifica, diversa da quella di provenienza, e di comunicare all’esterno questa «alterità» (sia pure all’interno di un determinato ordine sociale e con tutte le consuete differenziazioni dovute a classe, età, genere)118. Nella loro rielaborazione attiva dei messaggi consumistici, i giovani anticipano così modalità tipiche dei decenni futuri. Per inciso, un’osservazione che ritorna spesso nelle cronache è che l’Italia del tempo sembra percorsa da un’ondata di giovanilismo. Questo ha certo una radice culturale oltre che demografica, ma potrebbe essere rapportato anche ad altro. L’Italia è storicamente un paese di bassa mobilità sociale. Alcuni studi comparativi condotti in questi anni, pur di grandi cambiamenti, mostrano una quota di mobilità sociale inferiore a quella dei grandi paesi europei. Si è calcolato che forme di mobilità in ascesa interessino il 21 per cento della popolazione, contro il 32 della Germania, il 28 della Francia, il 27 della Gran Bretagna, per non parlare del 38 degli Usa e del 45 del Giappone119. Si può ipotizzare che, in assenza di efficaci meccanismi di ricambio, lo sconvolgimento della guerra e una pur limitata epurazione dei quadri compromessi con il fascismo abbia costituito un’occasione unica per un certo rinnovo della classe dirigente. Il risultato è che molte persone anche di età giovane e giovanissima hanno avuto la possibilità di occupare cariche importanti un po’ in tutti i settori della vita privata e pubblica, con-

118 D. Hebdige, Sottocultura: il fascino di uno stile innaturale (1979), Costa & Nolan, Genova 1983; Id., La lambretta e il videoclip: cose & consumi dell’immaginario contemporaneo (1988), Edt, Torino 1991; Procter, Stuart Hall e gli studi culturali cit. 119 La ricerca, basata sulle carriere di generazioni di uomini, in mancanza di dati sufficienti per le donne, classifica come forme di ascesa sociale la percentuale di lavoratori non manuali con padri operai. Da essa risulta però che negli stessi anni Sessanta siano in atto anche forme di retrocessione sociale che in alcuni casi, come in Italia, sono persino più marcate (27%). Cfr. Kaelble, Verso una società europea cit., p. 39. Una certa tendenza a restare nel medesimo ceto professionale del padre e del nonno è riscontrata anche da un’indagine Doxa del 1949 (cfr. P. Luzzatto Fegiz, Il volto sconosciuto dell’Italia. Dieci anni di sondaggi Doxa, Giuffrè, Milano 1956, pp. 1011-1014).

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tribuendo all’impressione di una società giovane e protesa verso il futuro120. Tutto questo parlare di «devianza giovanile» ci fa venire in mente una cosa: non tutti i consumi sono ugualmente approvati dalla società e non tutti i consumi sono leciti. La linea che traccia il confine però non è sempre univoca e cambia con il tempo. Il quadro normativo vede spesso susseguirsi cicli di tolleranza e di repressione. Quello che risulta chiaro, come ha notato Roberta Sassatelli, è che certi consumi sono regolati socialmente e non possono essere usufruiti dai singoli a loro piacimento, per cui si può parlare di un «edonismo addomesticato»121. Prendiamo l’alcol. Abbiamo visto che ancora a inizio Novecento il vino era un vero e proprio alimento nella dieta di contadini e operai; tuttavia il suo abuso era duramente stigmatizzato e contrapposto a quello di bevande «borghesi» come il caffè, che mantenevano lucidi e stimolavano al lavoro. Le invettive contro l’alcolismo sono una costante delle campagne di «moralizzazione» della classe operaia, ma non si verifica mai una vera e propria proibizione122. Altrettanto ambigua è la storia del tabacco. Usato dagli sciamani nelle società precolombiane in cerimonie religiose e di guarigione, cambia completamente significato quando viene importato in Europa, dove diviene un consumo di lusso per le classi agiate, ma si diffonde anche fra i poveri, per i quali acquista un ruolo simile all’alcol: fa diminuire la fame e crea una leggera euforia. In seguito la sua espansione è legata al ruolo delle imprese produttrici e distributrici (non a caso, si diffonde più lentamente in Asia, e ancor più in Africa). Sotto forma di sigarette, è distribuito ai soldati e diviene un simbolo di vita attiva, dinamicità, socialità; forse per questo inizia a essere apprezzato anche dalle donne a partire dagli anni Cinquanta. L’ultima fase temporale vede un crescendo di campa120 Per esempio, l’età dei politici eletti è piuttosto bassa, rispetto a quella che risulterà in seguito; si pensi che Giulio Andreotti viene eletto ed entra a far parte del governo, come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, all’età di 28 anni. 121 R. Sassatelli, Consumo, cultura e società, il Mulino, Bologna 2004, pp. 148149, 189-197; Id., Tamed Hedonism: Choice, Desires and Deviant Pleasures, in Ordinary Consumption, a cura di J. Gronow, A. Warde, Routledge, London 2001, pp. 93-106. 122 Ancora nel 1951 si nota una precisa collocazione sociale del consumo di vino in Italia, per cui il consumo nettamente più elevato (12 litri alla settimana) è fra gli agricoltori; seguono i datori di lavoro e proprietari (8 litri), operai specializzati e artigiani (6,6 litri), e quindi operai non specializzati, braccianti, dirigenti. Cfr. Luzzatto Fegiz, Il volto sconosciuto dell’Italia. Dieci anni di sondaggi Doxa cit., p. 119. Il caso più clamoroso di proibizionismo di alcolici è, naturalmente, quello dell’America degli anni Venti.

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gne salutistiche e blandamente proibizioniste nel secondo Novecento (con l’importante antecedente delle dure campagne antifumo nella Germania nazista)123. E cosa dire del consumo di sesso a pagamento? Sempre disapprovata, la prostituzione persiste ai margini legali della società, può essere esercitata ma non «incitata»; semmai, possiamo notare qui la tipica strategia di concentrare simili attività in spazi controllabili: nel caso italiano, le case chiuse (abolite nel 1958 con la famosa legge Merlin)124 – l’altra importante strategia di controllo sarà la medicalizzazione. Esistono poi i consumi illegali, ma comunque diffusi, a cominciare da quello di droga. Anche qui però la storia in Occidente è piuttosto complicata. In Gran Bretagna, ad esempio, l’oppio era importato da secoli dalla Turchia e venduto liberamente come base per preparati medicinali; nell’Ottocento la produzione esplode grazie alla sua coltivazione in India (e alla lucrosa esportazione in paesi come la Cina). Gli inglesi cominciano a guardare la sostanza diversamente, come una droga esotica, piacevole, corruttrice; dandy e letterati ne diffondono un’immagine ambigua. Il consumo aumenta vertiginosamente, e con esso le campagne moralizzatrici, finché nel 1920 l’oppio viene dichiarato illegale, salvo che per uso medico125. Il confine è mobile, quindi, senza contare che i diversi gruppi sociali adottano pratiche differenti e vi attribuiscono significati dissimili. Usciamo dalla casa soddisfatti ma un po’ frastornati. I paesaggi del consumo sono mobili. I beni che abbiamo visto ci hanno parlato di ridefinizione delle tradizionali strutture sociali e spaziali; di spaesamento; di continue negoziazioni, resistenze e costruzioni di identità; di significati diversi che gli stessi oggetti possono assumere contemporaneamente (gli studiosi parlano di pluriaccentuazione, a noi vengono in mente certi quadri di Andy Warhol: c’è una lattina Campbell ripetuta 123 J. Hughes, Learning to Smoke: Tobacco Use in the West, University of Chicago Press, Chicago 2003; J. Goodman, Tobacco in History. The Cultures of Dependence, Routledge, London 1993. 124 Naturalmente il discorso sul consumo di sesso a pagamento è molto più complesso, e subisce limitazioni e divieti diversi a seconda delle sue modalità, ad esempio se è esercitato con bambini, fra omosessuali, ecc. Inoltre vi è tutto il settore dei materiali di tipo pornografico che conosce, al pari di tutta l’industria dei media, una fortissima crescita da metà Novecento, attestandosi come un settore molto redditizio (un’indagine per il 2002-2004 stima il volume di affari in Italia intorno ai mille milioni di euro, cfr. Eurispes, Quarto rapporto sulla pornografia, Roma 2005). 125 V. Berridge, G. Edwards, Opium and the People: Opiate Use in Nineteenth Century England, Allen Lane, London 1981; M. Booth, Opium: A History, Simon and Schuster, London 1996.

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all’infinito, ma guardando bene, vediamo che ogni scatola è in realtà un po’ diversa, e l’insieme suggerisce allo stesso tempo un senso di approvazione, appagamento, irrisione, critica). I beni che abbiamo visto ci hanno detto che è nella vita quotidiana che si definiscono pratiche, relazioni, significati e che la «grande trasformazione» degli anni 195070 è passata, oltre che nelle fabbriche, campagne e città, nelle case. E qui ha dato voce ai giovani, ha messo in atto micro affrancamenti femminili, ha mutato orizzonti e aspirazioni degli immigrati. Ha insomma prodotto nuove identità e, nello stesso tempo, nuovi importanti soggetti economici, le cui scelte saranno determinanti per la struttura produttiva e distributiva del paese. Ci sono tutte le premesse perché il cambiamento possa scendere nell’arena della politica. 2. Politica, cultura e «welfare state» È negli anni Cinquanta che avviene un fatto nuovo nel dibattito pubblico e in quello politico: compare la parola «consumi». Non che una politica specifica fosse mancata nelle precedenti fasi storiche, come si è visto, ma ora assume una centralità e una visibilità diversa. Il ruolo dei consumi nei processi di crescita e trasformazione in atto è talmente evidente che non può essere ignorato; il problema semmai è come giudicarlo (ed eventualmente, dal punto di vista della politica, come governarlo). A un rapido sguardo sulle voci di intellettuali, politici ed economisti, appare un coro di voci critiche. I cambiamenti che avvengono in pochi anni lasciano frastornati e perplessi i protagonisti della vita pubblica; cosa significa questa esplosione di consumi? Perché gli italiani comprano di tutto? Perché si appassionano così alla televisione? Le spiegazioni avanzate si rifanno così ai «discorsi» diffusi a quel tempo («nessun uomo guarda il mondo con occhi vergini», ci ricorda Ruth Benedict)126. Molti si disinteressano al «problema» perché non attiene alle cose alte della politica e dell’economia; non tocca direttamente le ideologie, non si identifica con un partito o un movimento, al massimo si ispira alle mode americane; guardare Il Musichiere alla televisione o comprare un mixer tuttofare che conseguenze potrà mai avere? Altri però temono che i mutamenti sul piano della quotidianità abbiano un’influenza nel lungo periodo e portino a forme di omologazione, come denuncia Giorgio Bocca nelle sue popolari inchieste giornalistiche: 126

R. Benedict, Modelli di cultura (1934), Feltrinelli, Milano 1974, p. 8.

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L’Italia è fatta, gli italiani quasi. Ciò che non riuscì al Papa-re dei guelfi, all’imperatore-messia dell’Alighieri, al principe machiavellico, alla burocrazia piemontese di Cavour e ai federali di Mussolini sta riuscendo alla civiltà dei consumi e al suo oracolo televisivo: fra non molto gli italiani, popolo compatto, avranno usi, costumi e ideali identici dalle Alpi alla Sicilia, vestiranno, penseranno, mangeranno, si divertiranno tutti alla stessa maniera, dettata e imposta dal video127.

I pareri però sono discordi. Un gruppo particolarmente influente è quello degli economisti, che in questi anni sono protagonisti di progetti per indirizzare la crescita economica, come il piano Vanoni e le politiche di programmazione. Ebbene, la loro analisi parla di «distorsione dei consumi». Gli italiani privilegiano consumi «opulenti», tipici dei paesi più sviluppati, invece di acquistare prima i beni «necessari»: si buttano su auto, elettrodomestici e televisioni, mentre magari vivono ancora in baracche o case senza servizi igienici e mangiano pasti inadeguati. Inoltre è posta forte enfasi sui consumi privati, fruiti individualmente, anziché sui consumi collettivi di base, per i quali dovrebbe intervenire efficacemente lo Stato. Il suggerimento pertanto è quello di comprimere o «rimandare» i consumi di lusso e sviluppare in questa fase i consumi pubblici primari128. Come dire, che quando gli italiani hanno potuto consumare, lo hanno fatto nel modo sbagliato. Va anche ricordato che è diffuso a livello internazionale il concetto di «sviluppo come crescita», come lo ha definito Arndt, cioè la convinzione che il benessere del paese sia automaticamente dipendente dal suo tasso di crescita economica (misurato dal Pil), e che quindi gli investimenti abbiano un’assoluta priorità; i consumi, da questo punto di Bocca, Miracolo all’italiana cit., pp. 5-6. Così si esprime Ugo La Malfa, ministro del Bilancio, davanti al Parlamento nel 1962: «La rapida diffusione di consumi ‘opulenti’, sintomo di squilibri nella distribuzione degli incrementi di reddito, provoca essa stessa conseguenze che destano preoccupazione. Per una sorta di effetto di imitazione, anche i percettori di bassi redditi sono indotti a trascurare e a comprimere i consumi più essenziali pur di possedere beni, specialmente di consumo durevole, che l’esempio delle classi più agiate e l’opera di persuasione dei mezzi pubblicitari fanno preferire. Le conseguenze che ne derivano non sono misurabili, ma sembra che debbano essere in qualche modo contenute» (Ministero del Bilancio, Problemi e prospettive dello sviluppo economico italiano, Toma 1962, p. 42). Cfr. inoltre L’economia italiana, a cura di A. Graziani, il Mulino, Bologna 1972, pp. 31-35; 46-49. Per un quadro complessivo delle posizioni economiche, che si intrecciano ovviamente con quelle politiche, cfr. G. Maione, Spesa pubblica o consumi privati? cit.; F. Barca, Compromesso senza riforme nel capitalismo italiano, in Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra a oggi, a cura di F. Barca, Donzelli, Roma 1997, pp. 3-115. 127 128

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vista, limitando il risparmio, «bruciano» preziose risorse129. E poi il risparmio, rispetto al consumo, vanta storicamente un’aura etica e virtuosa (soprattutto quando è praticato dagli altri). Non maggiore comprensione viene dai partiti politici. La Democrazia cristiana, la grande balena bianca, al suo interno ha molte anime; tuttavia prevale la diffidenza verso forme di consumo troppo incentrate sulla mondanità e che possono mettere in ombra il ruolo della Chiesa, minando insidiosamente le istituzioni e le basi stesse dei valori cattolici; solo dagli anni Sessanta si apre un primo dialogo sugli effetti della «americanizzazione»130. Il Partito comunista è altrettanto dubbioso sugli effettivi miglioramenti della classe operaia e, in generale, sulle capacità del capitalismo di promuovere un vero sviluppo: i consumi sono un inganno, una fatale illusione propagandata dai nuovi media; la lotta ai consumi è un tutt’uno con quella al capitalismo monopolista. Ma anche qui studi sulle pratiche quotidiane degli aderenti al partito, soprattutto giovani, indicano il progressivo insinuarsi di nuovi stili e la fascinazione di cinema e televisione, perché, come ha mostrato Gundle, nonostante la chiusura dei vertici e il senso di diversità coltivato all’interno dell’organizzazione, i suoi membri sono pur sempre parte della società e ne subiscono gli influssi131. Il quadro di riferimento di buona parte di questi discorso è dato dal dibattito intellettuale che si accende proprio negli anni Cinquanta e Sessanta su questi temi. Il punto di riferimento obbligato sono le opere di Adorno e Horkheimer e della Scuola di Francoforte, in particolare la famosa Dialettica dell’illuminismo, dove si parla di «consumismo», cioè di un consumo sfrenato e coattivo indotto dall’industria culturale. Esso diventa un nuovo oppio dei poveri, abbaglia i lavoratori e li induce a spendere i loro guadagni per acquisire sempre nuovi beni di consumo, in un circolo senza fine: è il modo in cui il moderno capitalismo ingloba anche la classe operaia nei suoi meccanismi di fun-

129 H.W. Arndt, Lo sviluppo economico. Storia di un’idea (1987), il Mulino, Bologna 1990, pp. 71-117. 130 S. Colarizi, I partiti politici di fronte al cambiamento del costume, in Il miracolo economico italiano cit., pp. 225-247; P. Scoppola, Le trasformazioni culturali e l’irrompere dell’«American way of life», in Chiesa e progetto educativo nell’Italia del secondo dopoguerra, 1945-1958, La Scuola, Brescia 1988, pp. 476-493; D. Saresella, Cattolicesimo italiano e sfida americana, Morcelliana, Brescia 2001, pp. 239-246. 131 S. Gundle, I comunisti italiani tra Hollywood e Mosca: la sfida della cultura di massa, 1943-1991, Giunti, Firenze 1995. In generale sulle dinamiche dei partiti cfr. S. Colarizi, Storia politica della Repubblica. 1943-2006, Laterza, Roma-Bari 2007; P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, Utet, Torino 1995.

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zionamento. Di lì a poco Marcuse sottolinea i processi che portano alla manipolazione dei bisogni e creano un indistinto conformismo di massa, con il fine di assicurare un controllo autoritario dall’alto; mentre Debord ritiene che tutto si sia tramutato in un gigantesco spettacolo, tanto all’ovest quanto all’est, e che il consumo-spettacolo sia il meccanismo basilare per l’esercizio del potere nelle società contemporanee. Baudrillard porterà a compimento queste riflessioni: le esperienze che ci derivano dal consumo sono ormai più efficaci di quelle reali, per cui questi «simulacri» soppiantano la realtà: la simulazione delle merci ci fa smarrire la distinzione fra ciò che è vero e ciò che è falso. E, sia pure con un taglio non marxiano e un’attenzione ai nuovi studi socio-psicologici sulla pubblicità, opere di studiosi americani come Galbraith e Packard sollecitano ugualmente un’analisi critica del funzionamento della società del benessere, che sembra destinata a dilagare rapidamente dagli Stati Uniti all’Europa132. In Italia una voce controcorrente che si farà sentire alcuni anni più tardi è quella di Pier Paolo Pasolini. In un famoso articolo sul «Corriere della Sera», usa la metafora della scomparsa delle lucciole per dimostrare che, mentre infuriano le battaglie ideologiche e il Palazzo vuole esercitare il suo potere repressivo, qualcosa di drammatico succede nella società italiana: come le lucciole, sparite per l’inquinamento, così l’intero «vecchio universo agricolo e paleocapitalistico cede il posto a una civiltà nuova, totalmente ‘altra’», la civiltà dei consumi133. Si è verificata una mutazione «antropologica» degli italiani, cominciata dai ceti medi: i «ceti medi» sono radicalmente – direi antropologicamente – cambiati: i loro valori positivi non sono più i valori sanfedisti e clericali ma sono i valori (ancora vissuti solo esistenzialmente e non «nominati») dell’ideologia edonistica del consumo e della conseguente tolleranza modernistica di tipo americano. È stato lo stesso Potere – attraverso lo «sviluppo» della produzione di beni superflui, l’imposizione della smania del consumo, la moda, l’informazione (soprattutto, in maniera imponente, la televisione) – a creare tali va132 T.W. Adorno, M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo (1947), Einaudi, Torino 1966; H. Marcuse, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata (1964), Einaudi, Torino 1967; G. Debord, La società dello spettacolo (1967), Baldini & Castoldi, Milano 2001; J.K. Galbraith, La società opulenta (1958), Edizioni di Comunità, Milano 1963; V. Packard, I persuasori occulti (1957), Einaudi, Torino 1958. Per uno sguardio d’insiem cfr. P. Capuzzo, Le teorie del consumo, in Il secolo dei consumi cit., pp. 51-83. 133 P.P. Pasolini, Il vuoto del potere in Italia, «Corriere della Sera», 1° febbraio 1975 (in P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 2001, pp. 404-411).

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lori, gettando a mare cinicamente i valori tradizionali e la Chiesa stessa, che ne era il simbolo134.

Pasolini conosce il «linguaggio delle cose», da regista cinematografico, oltre che scrittore, e guarda il mondo con uno sguardo diverso. Uno sguardo che gli consente di cogliere nello Yemen non un paesaggio medievale di case alte e rosse con preziosi fregi bianchi, o di eleganti architetture che si stagliano nel deserto, ma l’espressione orribile della modernità incipiente: baracche ammassate, moderni palazzoni pretenziosi, oggetti di plastica, radio, lattine, magliette. «Il linguaggio delle cose nuove, che nello Yemen – e nella mia infanzia – è un balbettio, per te, Gennariello, è divenuto un discorso articolato, logico e normale»135. Le città italiane parlano dello stesso cambiamento: le vecchie periferie operaie sono scomparse, soppiantate da quartieri senza anima; i centri urbani non richiamano più la continuità della tradizione umanistica, ma solo il problema della loro preservazione fisica; le campagne non rimandano alle origini della civiltà, ma a week end e seconde case136. Purtroppo il linguaggio delle cose è possente e inarrestabile, confessa al suo giovane amico: Il punto è questo: la mia cultura (coi suoi estetismi) mi pone in un atteggiamento critico rispetto alle «cose» moderne intese come segni linguistici. La tua cultura, invece, ti fa accettare quelle cose moderne come naturali, e ascoltare il loro insegnamento come assoluto. Io potrò cercare di scalfire, o almeno mettere in dubbio, ciò che ti insegnano genitori, maestri, televisioni, giornali, e soprattutto ragazzi tuoi coetanei. Ma sono assolutamente impotente contro ciò che ti hanno insegnato e ti insegnano le cose137.

L’attenzione dello scrittore sposta qui l’analisi dagli aspetti politici e ideologici a quelli dei cambiamenti nella quotidianità, e ne coglie acutamente le trasformazioni. Certo, si tratta pur sempre di cambiamenti indotti da un potere ancora più forte di quello espresso dalla politica; cambiamenti che lo portano a un totale rifiuto umano, politico, culturale, persino estetico. Nella sua visione non c’è speranza per il fu-

134 P.P. Pasolini, Gli italiani non sono più quelli, «Corriere della Sera», 10 giugno 1974 (in P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società cit., p. 308). 135 P.P. Pasolini, Lettere luterane (1976), in Saggi sulla politica e sulla società cit., p. 572. 136 Pasolini, Lettere luterane, cit., pp. 578-580. 137 Ivi, p. 573.

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turo, che si presenta apocalittico, e non resta che rifugiarsi nel sogno di un passato contadino atemporale e mitico, ben diverso da quello che fu in realtà. Ma le sue osservazioni, anche in chiave semiologica, rivestono grande interesse138. Spunti diversi provengono poi dagli studi «sul campo» che si moltiplicano rapidamente. Ci sono analisi come quelle di Alberoni sulla ricezione dei beni di consumo (che non a caso unisce l’analisi teorica a indagini empiriche promosse da imprese), i sondaggi d’opinione, inchieste sugli immigrati a Torino e Milano o sui contadini rimasti in campagna. Questi studi hanno una sorta di approccio emico, come direbbero alcuni etnografi, cioè ascoltano la voce dei soggetti e ritengono valida la loro autorappresentazione, invece di forzare una tesi dall’esterno in base a canoni e valori propri dello studioso (secondo l’approccio etico). Prendiamo l’interessante indagine condotta da Lidia De Rita fra i contadini di un povero borgo lucano nel 1959, che riporta reazioni e commenti ai primi programmi visti in televisione. Alle domande sull’utilità della televisione (di cui sono apprezzati quasi solo i programmi di intrattenimento), le risposte sono illuminanti: – Ma crede proprio che la tv sia istruttiva? – Non solo è istruttiva, ma vedi anche il mondo. Ci sta poi la tv dei ragazzi che è istruttivissima. Io, se veniva la luce, compravo la televisione, l’unica compagnia. (Intervista n. 9) – Dunque, hanno trasmesso qualche cosa di utile? – Il cinema, tale e quale il cinema: dove vedi la trebbia, come si miete... Questo. – Avete imparato qualcosa, insomma. – Qualche cosuccia, insomma, questo... Ma sappiamo fare tutto. – Quindi è quasi inutile questa televisione... – Sempre una cosa è! Apre qualche idea. (Intervista n. 63) – Credete che sia utile la tv? – C’è da apprendere. – Sì? ma non credo sempre: quali programmi sono più istruttivi? – Tutti i programmi: Il Musichiere, Lascia o raddoppia, films, lo sport. – E cosa si impara vedendo Il Musichiere? – C’è il divertimento, una soddisfazione per la persona139. 138 Cfr. G. Sapelli, Modernizzazione senza sviluppo: il capitalismo secondo Pasolini, a cura di V. Ronchi, B. Mondadori, Milano 2005. 139 L. De Rita, I contadini e la televisione, il Mulino, Bologna 1964 (le citazioni sono, nell’ordine, alle pp. 97, 248, 287).

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E a proposito di Carosello, che pubblicizza prodotti per lo più fuori della loro effettiva portata: (Intervista n. 18) – Poi c’è Carosello. Vi piace? – Sì, Carosello sì! (con tono categorico). – Perché vi piace tanto? – Eh, insomma, vediamo tante cose, tante... [...] perché se vado in un negozio e ho un desiderio non mi posso spiegare perché non conosco. Con la televisione invece...140

Esaustiva la composizione di Rosaria, bambina di 12 anni, sul tema La trasmissione televisiva che più vi è piaciuta: A me mi è piaciuta di più e carosello perché ci sono molti canzonisti che c’ero Aurello Fero che cantò la canzone noi avessimo la stesse età. Claiudo Villo, Villo, Domenico, Madugno Villo Pizzo sono questi quattro cantisti che ho visto. Io ho visto solo questa televisione che è molto bella Io una sola volta venuta e non tengno da dir di più perché andò e come vidi un poco così me ne andai141.

La televisione non è vista dai contadini come un consumo superfluo e «opulento», ma come un bene che consente una migliore conoscenza del mondo (significativo il fatto che il contadino non accolga la distinzione proposta dall’intervistatrice su trasmissioni utili e non utili: sono tutte ugualmente importanti). Ed è una conoscenza che permette di «articolare» le cognizioni, esplicitare i bisogni, chiamare le cose con il loro nome. Un secondo aspetto che emerge dall’inchiesta è che sulle trasmissioni più diffuse c’è un continuo dialogo: si parla, si discute, si ricorda, si ripetono insieme frasi e motivi musicali; in pratica, i nuovi consumi culturali stimolano la comunicazione e nuove forme di socialità fra gli spettatori. Risalta infine la centralità del divertimento: una centralità che riflette forse una nuova valorizzazione dell’individuo e delle sue necessità, rispetto alla tradizionale etica fondata solo sul dovere del lavoro e il valore del sacrificio142. Insomma, quello che vediaIvi (le citazioni sono alle pp. 254, 85). Ivi, p. 294. 142 È utile notare che le posizioni qui espresse si accordano molto bene con le classiche analisi di sociologi come Lasswell, Lazarsfeld e Merton, che ritengono che i media svolgano le seguenti fondamentali funzioni sociali: 1) controllo dell’ambiente; 2) correlazione dei membri della società; 3) trasmissione dell’eredità socioculturale; 4) divertimento. 140 141

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mo qui, ed è assente da molte analisi autorevoli, è la presenza di una nuova cultura del consumo. È una cultura che nasce dai nuovi oggetti, si sviluppa sul piano della quotidianità, investe famiglie e individui, forma identità trasversali, crea differenti priorità di valori, dà voce a nuovi soggetti, inventa linguaggi e simbolismi. È questa cultura (oltre alle già ricordate forti sperequazioni di reddito) che spiega perché gli italiani acquistano nuovi beni di consumo seguendo modelli di comportamento simili a quelli di paesi più ricchi. E tutto ciò si ripeterà in seguito nei paesi meno sviluppati, sfidando ogni previsione economica. Tuttavia, nonostante si levino diverse voci, il tono prevalente, come dicevamo all’inizio, è quello di critica e opposizione verso il «consumismo». Almeno sulla carta. Perché la politica, in particolare, non è fatta solo di discorsi e dichiarazioni, ma di condotte pragmatiche. E una parte della Dc non tarda a comprendere il significato politico che una forte crescita economica può avere per la stabilizzazione del paese, qualunque forma essa prenda, compresa quella del «consumismo». Per molti è la vera, forse l’unica risposta concreta in quelle circostanze storiche in grado di risolvere un po’ tutti i problemi: un miglioramento degli standard di vita può infatti stemperare le tensioni sociali, creare un consenso trasversale e compattare la società in senso interclassista. La ricetta americana di integrazione sociale tramite i consumi fa scuola. I beni di consumo diventano un indicatore fondamentale del benessere raggiunto, la misura della mobilità sociale. Giulio Andreotti esprime lucidamente questa posizione, in polemica postuma con un Pasolini che aveva criticato una politica troppo improntata a valori materialistici, al «pane», ispirata solo da uno «sviluppo» incapace di portare vero «progresso»: Forse a differenza dei giovani che come tali non avevano conosciuto il sottosviluppo di prima, noi sentivamo l’orgoglio di un’indubbia crescita economica collettiva. Ci scandalizzava lo scagliarsi di molti, in nome della critica del consumismo, contro gli undici milioni di elettrodomestici entrati nelle famiglie. Io invece ricordo le mani di mia madre spaccate per il bucato e vedevo le lavatrici come strumento di redenzione familiare. [...] Io ero forse prosaicamente radicato nella convinzione che senza pane non si vive sicuramente143.

Cavalcare la tigre dello sviluppo è la ricetta migliore per il paese – e per il governo. Tanto più che accanto a una crescita sfrenata e un po’

143 G. Andreotti, Chiedo scusa a Pasolini, «Lettere romane: attualità di politica, scienza e arte», 2, 1993.

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anarchica (i progetti di programmazione economica decadono in fretta), si dispone di un enorme apparato di industrie statali e, soprattutto, della potente leva dei consumi pubblici. Il fascismo aveva portato a tutti gli effetti la sfera dei consumi all’interno del discorso politico e non sarebbe stato possibile tornare indietro. Le esigenze di redistribuzione del reddito e di giustizia sociale, espresse sia dalla Dc sia dai partiti della sinistra, potevano trovare piena espressione attraverso questo canale. Ecco dunque che la costruzione di un welfare state diviene centrale negli equilibri della repubblica. Parlando di welfare, vanno sottolineati tre importanti aspetti. Il primo, come detto, è la continuità con i periodi precedenti. Abbiamo visto come il discorso sui consumi pubblici si diffonda almeno da fine Ottocento e come le politiche relative siano una parte importante dei governi in epoca liberale e ancor più in quella fascista. L’Italia repubblicana eredita un complesso di norme e istituzioni che mantiene apparentemente senza variazioni (i grandi enti parastatali creati dal regime perdono in epoca repubblicana solo la «f» che stava per «fascista»: Infps diventa Inps, Infail diventa Inail e così via). Ma nell’ispirazione che guiderà i governi repubblicani c’è una fondamentale differenza: i benefici non sono più mirati a specifiche categorie (lavoratori dell’industria, dipendenti pubblici, donne in maternità, ecc.) ma tendenzialmente a tutti. A una politica esclusiva si sostituisce una politica inclusiva, e l’aspetto redistributivo e di perequazione sociale diventa centrale. Le motivazioni alla base di questo mutamento ci portano al secondo punto. Il welfare è considerato un elemento costitutivo della democrazia del dopoguerra. Non per nulla esso nasce «ufficialmente» con il famoso rapporto che William Beveridge pubblica nel 1942, in pieno conflitto, contrapponendo il contemporaneo stato di guerra (warfare state) a un futuro assetto di pace e benessere (welfare state) che garantisca libertà dalle cinque grandi schiavitù: bisogno, malattia, ignoranza, miseria, ozio144. Pochi anni dopo un sociologo di Cambridge, Thomas Marshall, inserisce questa proposta in una lettura storica. La costruzione della cittadinanza conosce tre fasi: la prima è quella del riconoscimento dei diritti civili (diritti individuali legati alle libertà personali, di espressione di fede, pensiero e parola, insieme ai primi diritti collettivi di associazione politica e sindacale) e vede la sua attuazione 144 W. Beveridge, Social Insurance and Allied Services (rapporto al Parlamento), novembre 1942. Cfr. anche P. Pombeni, Crisi, consenso, legittimazione: le categorie della transizione politica nel secolo delle ideologie, in Crisi, legittimazione, consenso, a cura di P. Pombeni, il Mulino, Bologna 2003.

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intorno al Settecento; la seconda è l’ottenimento dei diritti politici (diritto di eleggere e farsi eleggere), che avviene gradatamente nell’Ottocento con l’estensione del suffragio universale; infine, la terza è quella dei diritti sociali di cittadinanza (istruzione e servizi di base per tutti), che si verifica nel Novecento. Solo il godimento di tutti e tre i tipi di diritti garantisce l’effettiva appartenenza alla comunità145. Le teorie di Marshall sono state oggetto di varie e fondate critiche (a partire dal fatto che sono troppo evoluzionistiche e centrate sulla sola esperienza inglese), ma hanno avuto un’enorme risonanza e sono state per molti versi un modello ideale per l’edificazione dello stato sociale146. Il terzo punto ci porta ancora in Europa. La struttura delle spese assistenziali che prende forma in Italia mostra fortissime similarità con quelle dei principali paesi europei, sia nell’allocazione delle risorse, sia nella tempistica; non c’è dubbio che qui siano all’opera politiche comunitarie di armonizzazione ed «effetti dimostrativi». Se c’è un elemento che caratterizza con forza i paesi europei all’esterno, oltre al loro retaggio culturale, questo è probabilmente il comune riferimento allo tato sociale – alcuni parlano di un vero e proprio modello europeo (dove il cittadino viene prima del consumatore) che ruota intorno allo Stato147. È importante quindi sottolineare che la costruzione del welfare non avviene solo in base a esigenze di politica interna, ma entro chiari riferimenti internazionali. E il miracolo economico consegna ai governi ampie disponibilità finanziarie da investire nei settori in cui si avverte un «ritardo» rispetto al resto d’Europa (istruzione, assicurazioni sociali) – è anche qui che si gettano le basi dell’integrazione europea148 Con queste premesse, la spesa pubblica si sviluppa impetuosamente. Si può dire che nel periodo 1950-73 venga letteralmente edificato 145

T.H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale (1963), Laterza, Roma-Bari

2002. Fra le critiche più recenti vi sono anche quelle di non avere considerato fattori come l’etnia e il genere, le lotte di potere interne agli Stati, le differenze tra regimi democratici e autoritari. Inoltre si sottolinea come la teoria di Marshall sottintenda una comunità omogenea che assimila via via nuove componenti sociali, e metta l’accento più sull’omogeneizzazione che sull’identità. Cfr. G. Zincone, Da sudditi a cittadini. Le vie dello Stato e le vie della società civile, il Mulino, Bologna 1992. 147 V. de Grazia ha sostenuto che vi è stata una contaminazione fra la tradizione del solidarismo europeo (cittadinanza sociale) e il modello americano, con la sua fiducia nel mercato e nella crescita dei beni materiali (sovranità del consumatore). L’intervento Usa in Europa del dopoguerra ha portato alla figura ibrida del «cittadino-consumatore» che, come ha affermato Jean-Luc Godard, è insieme figlio di Marx e della Coca-Cola. Cfr. V. de Grazia, L’impero irresistibile. La società dei consumi americana alla conquista del mondo (2005), Einaudi, Torino 2006, p. 368. 148 Kaelble, Verso una società europea cit., pp. 170-171. 146

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il moderno welfare italiano. Alcune spese diminuiscono in percentuale (quelle istituzionali, come amministrazione e difesa); altre crescono (istruzione e soprattutto trasferimenti dovuti a sanità, assistenza e previdenza). Questo vuol dire che la presenza dello Stato in questi settori alleggerisce la corrispondente spesa privata, favorendo l’espansione di certi consumi e liberando risorse per altri scopi. Ma andiamo con ordine. Che prospettive scolastiche ha di fronte un ragazzo degli anni Sessanta, magari quello della casa che abbiamo visitato? Per certi versi è fortunato. I governi del dopoguerra investono molto nell’istruzione, per cui già nell’immediato dopoguerra il livello di spesa si è accresciuto rispetto al periodo fascista, e un nuovo balzo si verifica negli anni Sessanta quando la spesa per l’istruzione, a valori costanti, supera per la prima volta quella per le opere pubbliche149. I motivi di questa politica sono vari. C’è un aspetto di equità sociale e ce n’è uno pratico: i tassi di analfabetismo e quelli di abbandono scolastico sono ancora relativamente alti in Italia, e questo proprio nel momento in cui il boom economico richiede manodopera maggiormente qualificata. L’istruzione basilare e tecnica è perciò vista come prerequisito per una maggiore occupazione e per la formazione di quel «capitale umano» che vari teorici ritengono non meno necessario degli investimenti per garantire lo sviluppo economico150. Il nostro ragazzo inizia la sua avventura alle scuole elementari (solo nel 1968 verrà introdotta la scuola materna statale, e nel 1971 gli asili nido: troppo tardi per lui). Le elementari sono organizzate secondo il vecchio modello: cinque anni di corso e un impegnativo esame finale. Ma ecco la grande novità: in precedenza, giunto a questo punto, doveva scegliere fra proseguimento degli studi o avviamento professionale (la strada per la maggioranza delle classi medio-basse). Ora si può, anzi si deve, iscrivere alla scuola media unica. È questa, realizzata nel 1962, una delle principali riforme del governo di centro-sinistra e forse il maggiore intervento nel settore dell’istruzione di tutto il periodo repubblicano. In questo modo il corso di studi obbligatorio è stato portato a otto anni, favorendo l’accesso agli studi superiori (dal 149 La spesa pubblica per l’istruzione (in miliardi di lire 1980) è pari a 1471 nel 1950, 4631 nel 1960, 13.371 nel 1971 (mentre la spesa per opere pubbliche passa nello stesso periodo da 2852 a 9781). Cfr. G. Brosio, C. Marchese, Il potere di spendere. Economia e storia della spesa pubblica dall’Unificazione ad oggi, il Mulino, Bologna 1986, tabella 4A in appendice. 150 Arndt, Lo sviluppo economico cit., pp. 84-98. I tassi di analfabetismo sono: 12,9% nel 1951 (10,5% maschi, 15,2% femmine); si riducono a 5,2% nel 1971 (4% maschi, 6,3% femmine). Cfr. Istat, Sommario di statistiche storiche cit., p. 14.

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1950 al 1970 gli studenti della secondaria quadruplicano, da meno di 400.000 a più di 1,6 milioni); è decisiva anche la tempistica di questa riforma, perché si innesta in un momento di espansione economica e rafforza l’idea che l’istruzione sia un efficace strumento di mobilità sociale. Ecco perché i genitori del nostro ragazzo hanno insistito perché frequentasse un corso di studi superiori, un settore della scuola, nonostante molti progetti, che non ha subito cambiamenti e continua a dividersi fra istituti tecnico-professionali e licei151. Il ragazzo ha dunque scelto un istituto tecnico («per avere un mestiere in mano», ha suggerito il padre). Ma mentre frequenta succede qualcosa. Un grande fermento invade il mondo della scuola e dell’università e gli studenti scendono per strada, da soli o a fianco degli operai, per manifestare. Parlano di diritto allo studio, chiedono di cambiare corsi di studio obsoleti, di educare in maniera non nozionistica, di sostituire insegnanti autoritari, di sganciare lo studio dal «sistema di potere» vigente. Le autorità fronteggiano in qualche modo l’ondata di rivendicazioni: anziché porre mano a riforme complessive (che richiedono idee, accordi politici, capacità di realizzazione e risorse, nessun pasto è gratis), emettono una via l’altra leggi e leggine, provvisorie, tampone, di passaggio. Così capita che il corso tecnico professionale si allunghi «sperimentalmente» (mentre anche lo spauracchio dell’esame di maturità cambia in via «provvisoria»), e un successivo provvedimento consenta l’accesso all’università152. Questo è uno sviluppo inaspettato! Chi poteva dire che il nostro giovane sarebbe giunto fino all’università! Il ragazzo è entusiasta e si iscrive a una facoltà scientifica, anche se gli sarebbe piaciuta una letteraria che è di gran moda. La prima impressione però è strana. L’università che inizia a frequentare è stata pensata per una ristretta élite; investita da un’ondata di piena, non è però diventata una scuola di massa. Le aule sono inadeguate e sempre piene; i docenti tengono le loro «conferenze» coadiuvati da un piccolo esercito di assistenti scontenti e sottopagati; i laboratori sono scarsi e ancor di più lo sono aiuti economici e borse di studio. Molti 151 Nel 1970 gli iscritti alle scuole secondarie superiori sono così distribuiti: 676.000 istituti tecnici, 260.000 istituti professionali, 221.000 istituti magistrali, 253.000 licei scientifici, 205.000 licei classici, 39.000 licei artistici e istituti d’arte. Sulla complessiva popolazione di 1,6 milioni di studenti, 689.000 sono femmine; 181.000 studenti sul totale frequentano scuole private. Cfr. Istat, Sommario di statistiche storiche cit., pp. 47, 51-53. 152 E. De Fort, Scuola e analfabetismo nell’Italia del ’900, il Mulino, Bologna 1995; L. Ambrosoli, La scuola italiana dal dopoguerra ad oggi, il Mulino, Bologna 1982.

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studenti che, come lui, vengono da lontano sono un po’ in difficoltà; per fortuna l’ambiente è stimolante, si discute molto di studio e di politica, e si conoscono tanti amici (e amiche: le studentesse sono ormai quasi il 40 per cento)153. Al secondo anno l’entusiasmo si è affievolito: i costi di mantenimento in città sono alti, la liberalizzazione dei piani di studio (altra leggina) ha aperto nuove prospettive ma in qualche modo diluito i tempi, molti insegnamenti non sembrano così utili o interessanti e poi uno stipendio in casa sarebbe importante... C’è poi anche un altro dubbio, che lo studente non osa confidare ai genitori, e cioè che la scuola nel moderno mondo dei media non sia importante come una volta; e che – peggio ancora – il pezzo di carta non garantisca la mobilità sociale. Il nostro ragazzo è giunto alla conclusione che la selezione sociale eliminata per legge dalla porta sia rientrata dalla finestra, la cultura resta un privilegio; altri amici nelle sue condizioni vanno avanti, ma lui no, ha deciso: lascia. E la sua storia non è certo isolata, se il numero degli abbandoni e fuori corso è di molto superiore a quello dei laureati154. Se lo studente tipo del periodo è stato comunque fortunato, l’assistito ha vinto un terno al lotto: mai nella storia del paese lo Stato aveva offerto tanto. Cominciamo dalla sanità. Cosa succede al nostro assistito se si ammala? Il primo dato è la continuità con il periodo precedente. Il malato è iscritto probabilmente a una delle numerose casse mutue pubbliche o professionali (con livelli di assistenza e prestazioni molto diverse); per le prime diagnosi può andare dal medico convenzionato, per i casi più gravi va negli ospedali (anch’essi pagati in parte da accordi con le mutue, in parte da finanziamento pubblico). È quindi un sistema basato sulle assicurazioni, molto frammentato e disomogeneo, in cui privato e pubblico si intrecciano continuamente (il ministero della Sanità nasce solo nel 1958). La spinta verso un sistema 153 Gli studenti iscritti all’università passano da 145.000 nel 1950 a 561.000 nel 1970 (di cui 211.000 femmine), sparsi in 42 sedi e 271 facoltà. Nel 1970 gli iscritti sono divisi nei seguenti gruppi: 225.000 letterario, 116.000 economico, 96.000 scientifico, 96.000 ingegneristico, 79.000 medico, 59.000 giuridico, 11.000 agrario. Vi sono poi 3348 professori di ruolo e 5418 incaricati, 27.000 assistenti. Cfr. Istat, Sommario di statistiche storiche cit., pp. 56-57. Sulle difficili condizioni economiche e di lavoro di quest’ultimo gruppo, che si dichiara poco o nient’affatto soddisfatto all’88%, cfr. il sondaggio della Doxa del 1954 in Luzzatto Fegiz, Il volto sconosciuto dell’Italia. Dieci anni di sondaggi Doxa cit., pp. 939-958. Nel 1980 migliaia di assistenti e varie altre figure precarie entreranno in ruolo ope legis, con conseguenze di lungo periodo per l’università. 154 E. De Fort, Istruzione, in Dizionario storico dell’Italia unita, a cura di B. Bongiovanni, N. Tranfaglia, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 483-486.

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più razionale si lega anche al cambiamento delle patologie: è finita l’epoca delle grandi malattie infettive e parassitarie, come la tubercolosi e la malaria, anche grazie a nuovi farmaci, e si registra un avanzamento di quelle degenerative, come il cancro e l’arteriosclerosi, o quelle del sistema cardiocircolatorio, per cui devono cambiare i trattamenti medici e l’accento si sposta sulla prevenzione. Ma gli interessi in gioco sono enormi (la spesa sanitaria dal 1962 al 1972 sale dal 3 a oltre il 5 per cento del reddito nazionale lordo) e la riforma è continuamente rimandata. Nel 1968, finalmente, gli ospedali (Ipab) cambiano e sono trasformati in enti di diritto pubblico; ci vorranno altri dieci anni di discussioni per arrivare a una complessiva riforma sanitaria, dopo la realizzazione delle regioni. Sull’esempio inglese, si creerà nel 1978 il Servizio sanitario nazionale, i cui punti salienti saranno l’accentramento di tutti i servizi di assistenza e sanità in unità locali territoriali (Usl), l’iscrizione obbligatoria per tutti, l’uguaglianza di trattamento, il peso della prevenzione, oltre a una speciale attenzione riservata a problematiche come handicap, tossicodipendenza, malattia mentale, tutela della famiglia155. Naturalmente questi ultimi sviluppi sono da mettere in relazione non solo con gli aspetti politici e organizzativi, ma con una vera e propria nuova «cultura» del corpo e con una particolare fase del processo di medicalizzazione che abbiamo visto cominciare molto tempo prima156. La spesa principale però non è né l’istruzione né la sanità. La vera caratteristica del periodo è il forte aumento della spesa redistributiva. Come avviene anche in altri paesi europei, all’interno della spesa pubblica la spesa «esaustiva», cioè quella che lo Stato fa per realizzare direttamente beni e servizi (istruzione e sanità, appunto, ma anche case e servizi collettivi), diminuisce in percentuale; aumenta invece quella per i trasferimenti in denaro (pensioni, assegni familiari), in pratica redistribuzioni monetarie tra diversi soggetti. Questo avviene un po’ perché è relativamente più semplice da fare e poi perché non fa aumentare la 155 F. Girotti, Welfare state. Storia, modelli e critica, Carocci, Roma 1998, pp. 294-321; G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanità nell’Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1994. A partire dal 1992-93 successive riforme del Ssn punteranno sull’accorpamento delle unità locali (trasformate in Asl), sull’aziendalizzazione della gestione (anche negli ospedali, che restano un punto cardine del sistema), su tagli alle spese e introduzione di ticket per le prestazioni, su parziali aperture alle strutture private. 156 In seguito all’impegno in campo sanitario il numero dei degenti ricoverati ogni anno passa da una media di 4 milioni nel 1951-60 a 6,8 milioni nel 1961-70 e a 9,7 milioni nel 1971-80. Cfr. Istat, Sommario di statistiche storiche 1926-1985, Istat, Roma 1986, p. 67.

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presenza visibile dello Stato sul mercato, e quindi è più accettato anche dai liberisti157. Si potrebbe anche sostenere che fa parte del ritorno alla privatizzazione: meglio dare i soldi alle famiglie perché li spendano (anche a favore di privati) che fornire beni e servizi collettivi. In realtà, anche nel campo dell’assistenza vera e propria (invalidità, handicap) la situazione è quella ereditata dal fascismo e vede una miriade di istituzioni, patronati ed enti diversi che se ne occupano, con risultati molto diversi (non per niente, si parla di «giungla assistenziale»). Ma il punto forte è la previdenza, affidata ai grandi enti parastatali. Le pensioni dei dipendenti migliorano rapidamente: nel 1968-69 si passa dal sistema contributivo a quello retributivo (con 40 anni di contributi si va in pensione con l’80 per cento dell’ultimo stipendio, che viene poi indicizzato); viene introdotta la pensione di anzianità (acquisibile dopo 35 anni di contributi, molto meno per alcune categorie del pubblico impiego – i «baby pensionati»); viene creata la pensione sociale, assegnata a chiunque abbia più di 65 anni e sia privo di altri redditi. La previdenza viene poi allargata a varie categorie di lavoratori autonomi (coltivatori diretti, artigiani, commercianti), spesso in presenza di contribuzioni molto basse; inoltre permangono gestioni speciali per alcune categorie che garantiscono forti privilegi. Se a questo si aggiungono i sussidi per sospensioni dal lavoro e disoccupazione forniti in misura crescente dalla riformata Cassa integrazione guadagni (Cig) a fronte di difficoltà aziendali, si capisce come il bilancio di enti come l’Inps cominci seriamente a traballare158. Perché si fa tutto questo? C’è indubbiamente una spinta ideale e ugualitaristica per diminuire le sperequazioni e attenuare le tensioni sociali; c’è il fatto che le decisioni vengono prese in un periodo di forte espansione del lavoro, pensando che la base contributiva si allarghi sempre più e siano possibili quindi maggiori concessioni (la crisi degli anni Settanta minerà questa convinzione). Ma ci sono motivi legati alla politica: diventa una forma di acquisizione del consenso, per legare politicamen-

157 G. Brosio, C. Marchese, Il potere di spendere. Economia e storia della spesa pubblica dall’Unificazione ad oggi, il Mulino, Bologna1986, pp. 69-74; 97-119. Nel 1951 la spesa pubblica (calcolata in lire correnti) è così suddivisa: consumi (beni e servizi) collettivi 47%, trasferimenti 37%, investimenti 9%, interessi 7%; nel 1970 diventa: consumi collettivi 40%, trasferimenti 46%, investimenti 9%, interessi 5% (cfr. ivi, pp. 100-101); cfr. Tab. 3. Per una complessiva interpretazione delle politiche del centro-sinistra riguardo al welfare cfr. M. Degl’Innocenti, La «grande trasformazione» e la «svolta» del centro-sinistra, in Il miracolo economico italiano cit., pp. 249-297. 158 Girotti, Welfare state cit., pp. 271-293.

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te specifici gruppi sociali, oppure, soprattutto negli anni Settanta, rappresenta la concessione di un’indebolita coalizione di centro-sinistra alle rivendicazioni di piazza. Il rovescio della medaglia è una gestione allegra e clientelare degli enti previdenziali, veri centri di potere e di acquisizione di voti, simbolo dell’occupazione partitica delle risorse pubbliche (con clamorosi esempi di degenerazione esemplificati dal gonfiamento delle pensioni di invalidità)159. L’assistenza si è dunque allargata sempre più, diventando inclusiva; ma non offre la stessa protezione a tutti. Il nostro assistito è moderatamente appagato; tuttavia una spada di Damocle pende sulla sua testa. Chi paga tutto questo? In realtà una buona parte è pagata da lui stesso, tramite le imposte e i contributi previdenziali. Il gettito complessivo dei tributi cresce fortemente nel dopoguerra: sei volte dal 1950 al 1970, dieci nel 1980, grazie all’aumentata ricchezza individuale, alla quota di lavoro dipendente (più facilmente tassabile) e all’aumento dei prezzi. La principale riforma fiscale avviene nel 1971-73, quando si introducono l’Iva (imposta indiretta che colpisce i consumatori finali) e nuove imposte progressive sul reddito (soprattutto Irpef e Irpeg). Da questo momento anche in Italia le imposte dirette diventano maggiori di quelle indirette; parallelamente si registra una formidabile crescita dei contributi sociali (nel 1970 pari a 26.000 miliardi contro i 40.000 dei tributi statali)160. L’andamento del prelievo non è però nel complesso molto soddisfacente, a causa di problemi di efficienza organizzativa e di convenienze politiche, per cui alcune categorie risultano molto tassate, altre evadono facilmente. Insomma, il nostro assistito paga le sue tasse, ma il suo vicino le elude (o viceversa?). Il gettito raccolto non è sufficiente a garantire l’espansione di questo welfare e meno che meno la crescente spesa complessiva di uno Stato molto interventista. Ecco quindi comparire fenomeni di «illusione finanziaria»161 e diffondersi incertezza sugli effettivi beneficiari della redistribuzione (che avviene orizzontalmente, tra categorie, oltre che verticalmente), ed ecco poste le premesse per una crescita del debito pubblico come fonte di finanziamento «indolore», i cui interessi esploderanno a partire dagli anni Settanta. Come rilevano Brosio e Marchese, è proprio questo il punto dolente, perché in realtà la struttura della spesa complessiva è molto simile Ginsborg, Storia dell’Italia dal dopoguerra ad oggi cit., pp. 200-249. Brosio, Marchese, Il potere di spendere cit., pp. 84-95, tab. 7A per i dati (in valori costanti). 161 Ivi, p. 149, e in generale su questi temi pp. 77-164. 159 160

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a quella di altri paesi europei. Nel 1970 in Italia essa è pari al 34 per cento del Pil (contro il 39 di Gran Bretagna e Germania e il 43 della Francia); di questa quota si spende l’11 per cento in trasferimenti (quasi tutti in pensioni), un punto in meno per spese istituzionali e difesa, e altrettanto per i servizi (fra cui istruzione 4, sanità 4, abitazioni 1)162, il 5 per cento in interventi economici (sovvenzioni ecc.); infine il 2 per cento in interessi. La ripartizione degli altri paesi è molto simile, compreso il ruolo delle pensioni. In un decennio circa però l’Italia passa in testa alla classifica della spesa (51 per cento sul Pil) per via della crescita di un po’ tutti i fattori, ma soprattutto delle pensioni (la voce più importante, pari al 13 per cento) e degli interessi163. Il nostro assistito, nonostante queste cifre, non è del tutto convinto di trovarsi in una situazione migliore dei suoi colleghi europei. A lui sembra che i servizi che ottiene siano spesso di scarsa qualità, che le strutture siano inefficienti, che per ottenere certe cose debba usare canali «paralleli»164, che la pensione ottenuta sia appena sufficiente (dopo tutto, l’80 per cento di un basso salario è una pensione bassa). Sostiene che c’è un problema di qualità dei servizi, oltre che di quantità; che la crescita della spesa pubblica è dovuta in parte a fattori puramente finanziari; che tutte queste cifre sono percentuali e che quindi riflettono trasferimenti reali alla gente molto diversi (e decisamente più bassi in Italia che altrove)... Non è mai soddisfatto! O forse è diventato troppo esigente, per cui lo lasciamo continuare da solo le sue riflessioni.

162 È da notare il basso valore delle spese per le abitazioni, che si ricollega all’incapacità di varare efficaci regole per lo sviluppo edilizio, lasciato in gran parte in mani private (si pensi al fallimento clamoroso della riforma Sullo agli inizi degli anni Sessanta). 163 Ecco alcuni dati per un raffronto internazionale delle spese pubbliche nel 1970 e nel 1981 (fonte Ocse): Francia spesa totale su Pil, rispettivamente per i due anni considerati, 43 e 49% (servizi istituzionali e difesa 10 e 11%, servizi 15 e 15%, trasferimenti 13 e 17%, interventi economici 4 e 4%, interessi 1 e 2%); Germania spesa totale 39 e 49% (istituzionali e difesa 10 e 10%, servizi 10 e 14%, trasferimenti 13 e 17%, interventi economici 5 e 5%, interessi 1 e 2%); Gran Bretagna spesa totale 43 e 43% (istituzionali e difesa 14 e 12%, servizi 13 e 14%, trasferimenti 7 e 8%, interventi economici 5 e 4%, interessi 4 e 5%); Italia spesa complessiva 34 e 51% (istituzionali e difesa 7 e 9%, servizi 10 e 14%, trasferimenti 10 e 15%, interventi economici 5 e 7%, interessi 2 e 7%). Cfr. Brosio, Marchese, Il potere di spendere cit., p. 112-117. 164 Un’indagine della Doxa del 1963, effettuata dopo una serie di scandali legati alla corruzione e agli appalti, rileva che il 67% degli uomini e il 59% delle donne ritengono che, «pagando, in Italia si può avere tutto». Cfr. Luzzatto Fegiz, Il volto sconosciuto dell’Italia. Seconda serie cit., p. 1001.

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3. Pubblicità e produzione Chi l’ha avuta se la ricorda. Era di gomma, morbida e colorata. Il corpo bianco e nero, parzialmente coperto di fiori; la bocca sempre sorridente e gli occhi grandi; orecchie e mammelle rosa. Persino le corna non facevano paura e tutti i bambini l’adoravano (e cantavano «tolon tolon, tolon tolon... ehh oh!»). Era la Mucca Carolina, un gadget che premiava lunghe raccolte di punti che si trovavano nei formaggini Invernizzi. Si racconta che in una rapina a Padova due ragazzi abbiano rubato il furgone di un rappresentante di alimentari (sequestrando persino le figurine del concorso a premi), ma si siano fatti arrestare per essersi presentati in una salumeria a ritirare la Mucca Carolina165. Il popolarissimo animale, con la sua aria tranquillizzante e familiare, le sue forme morbide e abbondanti (a simboleggiare la fine della penuria), la sua sostanza gommosa (asettica e tecnologica), rappresenta mirabilmente il passaggio da un passato «rurale» a un presente «industriale». E questo sia per la sua materialità e sia per il prodotto cui è simbolicamente legata: un formaggino confezionato, un prodotto industriale, perfettamente bianco, omogeneo, digeribile, sigillato in porzioni singole. Il richiamo a una bucolica immagine della natura serve a esorcizzare i timori legati al futuro; la tradizione rassicura sulla modernità. Il successo del personaggio segna anche l’affermarsi di nuove forme di alimenti industriali. La storia della Mucca Carolina è interessante anche per un altro motivo: ci ricorda il ruolo della pubblicità in questo periodo. La crescita dei consumi privati e il lancio di nuovi prodotti sul mercato spingono molte più imprese a utilizzare forme pubblicitarie; in realtà, è qualcosa di più, è lo spostamento da una strategia industriale principalmente focalizzata sul prodotto (product-oriented) a una più attenta al lato della vendita, al mercato (market-oriented). È insomma il trionfo di quel complesso di politiche relative alla vendita che comprendono ma non si limitano alla pubblicità, coinvolgendo prezzi, modalità di vendita, marca, studi sui consumatori e via dicendo, che vanno sotto il nome di marketing e che dall’America si diffondono in tutta Europa166. La loro centralità, secondo il modello elaborato da Richard Tedlow, dipende Bocca, Miracolo all’italiana cit., pp. 58-59. La famosa teoria del marketing mix, ad esempio, individua quattro elementi chiave per la vendita, le quattro P: prodotto, prezzo, posto, promozione (cfr. P. Kotler, Marketing Management: Analysis, Planning, and Control, Prentice-Hall, Englewood Cliffs 1967); P.A. Toninelli, Storia d’impresa, il Mulino, Bologna 2006, pp. 167-175. 165 166

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dal momento storico: la prima fase del mercato, quella della frammentazione geografica (fino al 1880 circa), era stata caratterizzata dalla mancanza di un mercato unificato e dalla prevalenza di prodotti locali e sfusi, salvo rare eccezioni; la seconda fase, l’unificazione (da fine Ottocento a metà del Novecento), realizzata grazie ai moderni trasporti e alle comunicazioni, aveva visto sorgere un vero mercato nazionale, con grandi imprese e marche famose in grado di vendere all’intera popolazione. La terza fase, infine, quella del mercato segmentato, corrisponde alla maturità del processo e si manifesta nella parte finale del Novecento. In essa il consumatore è sempre più esigente e differenziato (per reddito, età, cultura), la concorrenza fra imprese è spietata e i media e la pubblicità giocano un ruolo di enorme rilievo: non basta saper produrre, bisogna sempre più saper vendere167. È all’interno di questo cambiamento di prospettiva, che in precedenza riguardava solo un ristretto numero di imprese alimentari e tessili, che anche in Italia cominciano a salire gli investimenti pubblicitari, pur rimanendo nel complesso molto contenuti rispetto ad altre realtà nazionali. La contemporanea moltiplicazione dei media a disposizione contribuisce a dare alla pubblicità una visibilità sociale che prima non aveva. Il risultato è che aumentano studi e analisi che la definiscono come specchio o stimolo dei cambiamenti, meccanismo di suggestione, incanto, manipolazione. Ma che cos’è in effetti? Forse non è che un «campo letterario», per usare un termine di Foucault, cioè un «discorso» storico e concreto attraverso cui la conoscenza è comunicata come testo; quindi si costruisce nel tempo, ha una sua tradizione, le sue forme narrative, le sue mode, i suoi riferimenti teorici e pratici nazionali e soprattutto internazionali (leggi americani); è spesso autoreferenziale. Inoltre ha una sua specifica dimensione economica, determinata dagli investimenti che riceve dall’industria, che ne definisce forme e dimensioni. Perciò fare una ricerca sui consumi basandosi solo su di essa è rischioso e può portare a un quadro parzialmente distorto della realtà: i contenuti possono essere un’elaborazione originale dell’agenzia con pochi riferimenti ai costumi correnti o rispecchiare una specifica richiesta degli investitori; peggio ancora, gli inve167 R.S. Tedlow, New and Improved. The Story of Mass Marketing in America, Heinemann, Oxford 1990; The Rise and Fall of Mass Marketing, a cura di R.S. Tedlow, G. Jones, Routledge, London-New York 1993. Le teorie di Tedlow, pensate per il contesto americano, oggetto di critiche e precisazioni, hanno avuto un notevole impatto sugli studi economici; per il loro adattamento al caso italiano cfr. E. Scarpellini, Comprare all’americana. Le origini della rivoluzione commerciale in Italia 1945-1971, il Mulino, Bologna 2001, pp. 18-23, 123-127.

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stimenti pubblicitari riguardano prodotti e settori in maniera selettiva (l’industria automobilistica è il principale committente, per cui ha una sovraesposizione pubblicitaria; prodotti di larghissimo uso e basso prezzo sono del tutto assenti, e così via). Con tutto questo, anzi proprio a causa di tutto questo, essa rappresenta un’importante costruzione per la creazione di identità nella società contemporanea. La pubblicità è una narrativa. In questo periodo, dicevamo, cambiano molte cose168. Manifesti spettacolari come quelli di Leonetto Cappiello e Fortunato Depero o che Dudovich realizzava per la Rinascente appaiono obsolet sotto l’aspetto tecnico: ora non si punta più tanto al lato artistico, all’estro creativo del disegnatore-artista, ma a una precisa divisione del lavoro in agenzia fra art director, che si occupa dell’immagine, e copywriter, che scrive slogan e testi anche musicali. Alle prime agenzie italiane degli anni Trenta (e a quella molto speciale che Armando Testa fonda a Torino nel 1946) si aggiungono nei primi anni Cinquanta le succursali delle grandi imprese anglosassoni a Milano (J. Walter Thompson, la principale, e poi Lintas, McCann-Erickson, Young & Rubicam) che si portano dietro ricchi contratti con le aziende americane e un complesso di tecniche di lavoro che fanno scuola in Italia come nel resto del mondo. Sono obsoleti anche sotto l’approccio scientifico: la teoria pubblicitaria di inizio secolo faceva riferimento soprattutto alla psicologia169. Si riteneva che il manifesto dovesse colpire il consumatore grazie a un messaggio forte e continuamente ripetuto, in modo da esercitare un grande potere persuasivo (del resto, queste stesse teorie furono applicate alla propaganda durante la Prima guerra mondiale). L’effetto dipendeva quasi tutto dall’efficacia dello stimolo, il ricevente era facilmente condizionabile. Negli Stati Uniti le ricerche di psicologia applicata portarono presto a un maggiore interesse sulla sperimentazione (anche perché i pubblicitari si accorsero che, stranamente, i consumatori opponevano «resistenze» e non si precipitavano a comprare, o a votare, come indicato). Si cominciò a sospettare che il consumatore «filtrasse» i messaggi non solo attraverso le sue preferenze individuali di gusto (come suggeriva l’approccio psicologico), ma anche attraverso la sua posizione nella società, il reddito, il genere, 168 A. Arvidsson, Marketing Modernity. Italian Advertising from Fascism to Postmodernity, Routledge, London 2003; G.P. Ceserani, Storia della pubblicità in Italia, Laterza, Roma-Bari 1988; D. Pittèri, La pubblicità in Italia. Dal dopoguerra a oggi, Laterza, Roma-Bari 2002. 169 A. Arvidsson, Dalla «réclame» al «brand management». Uno sguardo storico alla disciplina pubblicitaria del Novecento, in Il secolo dei consumi cit., pp. 197-210.

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l’età, l’istruzione: non esiste un consumatore-tipo, ma tanti gruppi diversi con modi di vita differenti. È l’orientamento sociologico che inaugura una felice stagione di ricerche sul campo, grazie alle tecniche di rilevamento quantitativo sviluppate dalla Gallup e dalla Nielsen già fra le due guerre. In Italia il primo istituto di ricerca è la Doxa, fondata nel 1946 da Pierpaolo Luzzatto Fegiz con il supporto della Ibm170, ma è tutto un fiorire di iniziative, finanziate dal mondo dell’industria, fra cui la Misura, diretta da Francesco Alberoni e sostenuta dalla Bassetti, che si specializza in ricerche motivazionali (negli anni Settanta la psicografia combinerà utilmente i due aspetti quantitativo e qualitativo)171. Dunque, essendo la pubblicità una scienza oltre che una tecnica, prima di realizzare qualsiasi messaggio è necessario svolgere accurate indagini di mercato. Infine, i vecchi poster sono obsoleti per il linguaggio: slogan e immagini evolvono e si semplificano per adattarsi a stili di comunicazione correnti, a un pubblico di massa, a mezzi di comunicazione diversi, per cui una stessa campagna deve saper «parlare» attraverso la carta stampata (che raccoglie ancora la gran parte degli investimenti), la televisione (dove la pubblicità è rigorosamente limitata a Carosello), la radio e, in misura minore, i manifesti stradali e gli spazi del cinema. E per inciso, parlando di pubblicità, notiamo come essa sia il canale di collegamento non solo tra industria e media, ma anche tra industria e politica: è ben nota la prassi della Sipra, la concessionaria di pubblicità pubblica, di concedere gli ambiti spazi televisivi unitamente a spazi su giornali di partito o comunque graditi, in un «pacchetto» indivisibile, in modo da garantire una forma di finanziamento. Se i consumatori con i loro comportamenti si dimostrano refrattari a piegarsi a teorie precostituite, altrettanto fanno gli imprenditori. Il modello storico di industrializzazione di tipo anglosassone prevedeva una progressiva crescita da piccole e medie industrie a grandi imprese manageriali e da settori «tradizionali» e labour-intensive a settori «moderni» e capital-intensive. In Italia le cose vanno un po’ diversamente. La grande industria non assume quasi mai una rilevanza assoluta, salvo che in qualche specifico settore (il massimo sarà alla fine degli anni Sessanta; la successiva crisi le mette in gravi difficoltà), mentre prospera una piccola imprenditoria diffusa, «manchesteriana» – è 170 S. Rinauro, Storia del sondaggio d’opinione in Italia, 1936-1994: dal lungo rifiuto alla repubblica dei sondaggi, Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, Venezia 2002. 171 Arvidsson, Marketing Modernity cit., pp. 95-99.

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negli anni Cinquanta che nelle regioni settentrionali cantine e botteghe si riempiono di torni, frese e macchinari usati di poco prezzo, ed ex operai e artigiani integrano con piccoli lavori il salario o diventano subfornitori a basso costo di imprese più grandi. I settori tradizionali, che sono poi quelli produttori di beni di consumo, mantengono un ruolo importante e a loro volta evolvono. Inoltre la concentrazione produttiva nel triangolo industriale lascia progressivamente spazio anche a nuove aree, al nord-est e al centro, dove spesso la divisione del lavoro è orizzontale anziché verticale, permane il riferimento familiare e vige un forte legame con il territorio (sono i distretti di Alfred Marshall). Se a questo aggiungiamo l’apertura internazionale che caratterizza il periodo e il forte interscambio con paesi comunitari come la Germania e la Francia (che ha fatto persino ipotizzare uno sviluppo export-led), ecco davanti ai nostri occhi il quadro complessivo. Un quadro che ci aiuta a comprendere come proprio gli imprenditori italiani siano stati artefici della crescita dei beni di consumo172. Certo, in settori dinamici come la chimica e la meccanica si sente la presenza della grande impresa, anche pubblica. Ma lo scenario è complesso. Prendiamo la chimica. Abbiamo visto il ruolo della Montecatini nella produzione di plastica, di fibre e prodotti sintetici, che entrano poi in molti beni finali di consumo. La crescita più spettacolare è però quella dei detersivi, legata anche alla diffusione delle lavatrici. C’è una ragione tecnologica e una commerciale: si diffondono i detersivi sintetici (studiati in Germania prima della guerra e poi in gran parte brevettati negli Stati Uniti) e si scatena una guerra internazionale tra i principali gruppi mondiali per accaparrarsi quote di mercato, per la quale sono investite cifre enormi e mobilitate le principali agenzie pubblicitarie173. L’americana Procter&Gamble è la prima a lanciare Tide, a cui segue negli anni Sessanta Dash (che diventerà leader in Italia); la Unilever produce Omo e più tardi Bio Presto; la Colgate-Palmolive manda fuori Olà, Aiax e Ariel (il primo detersivo di «seconda generazione», a base di enzimi); buone posizioni si assicurano anche la tedesca Henkel con Dixan e le italiane Mira Lanza, un’antica fabbrica genovese di candele e saponi che si afferma grazie al detersivo Ava e al pulcino Calimero, e la Panigal di Bologna con il mar-

172 Storia d’Italia. Annali 15. L’industria, a cura di F. Amatori et al., Einaudi, Torino 1999; F. Amatori, A. Colli, Impresa e industria in Italia: dall’Unità a oggi, Marsilio, Venezia 1999; L. Cafagna, Dualismo e sviluppo nella storia d’Italia, Marsilio, Venezia 1989. 173 de Grazia, L’impero irresistibile cit., pp. 445-455.

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chio Sole. Il fenomeno lascia perplessi molti: cosa significa quest’esplosione di visibilità per un prodotto di basso costo e umile, destinato alle massaie? È legato a un nuovo senso di pulizia degli ambienti domestici? È l’esaltazione della tecnologia in ogni aspetto della vita quotidiana? Influisce sul ruolo della donna? Come sempre, tecnologia ed economia assumono significato in una cornice culturale. Il risultato finale sarà la conquista stabile di un posto in prima fila tra i consumi per prodotti come detersivi e detergenti per la casa e il precoce formarsi di oligopoli internazionali (i grandi gruppi controllano i due terzi del mercato italiano già a fine anni Sessanta). Le cose stanno diversamente nella meccanica. La Fiat, di cui abbiamo ammirato i modelli di punta, soddisfa ampiamente il mercato interno; ancora nel 1975 sono italiane l’80 per cento delle auto circolanti nel paese (63 per cento della sola Fiat, seguita da Lancia-Autobianchi, Alfa Romeo, Innocenti). E le cose vanno anche meglio per le motociclette: la Vespa Piaggio, prodotta a Pontedera da un’industria con grandi tradizioni nell’aeronautica, vende in Italia e all’estero; la Lambretta è realizzata con imponenti impianti dall’Innocenti a Milano fino al 1971; mentre motociclette più artigianali e di grandi prestazioni (Malaguti, Guzzi, Gilera, Ducati) lanciano le marche italiane nello sport174. Ma le esperienze più originali si hanno nel campo degli elettrodomestici. Qui ci si imbatte in alcuni personaggi che sembrano incarnare lo spirito del miracolo economico, tutti al di fuori delle grandi imprese. Giovanni Borghi impianta a Comerio, presso Varese, una fabricchetta di cucine e scaldabagni e inizia nel 1950 a produrre frigoriferi moderni, squadrati, piccoli e convenientissimi, grazie a impianti automatizzati e all’impiego di tecnologie di avanguardia: raffreddamento con compressori (prodotti dalla Necchi e dalla Fiat) e nuovi isolanti come il poliuretano. È un grande successo che porta in alto la Ignis e contribuisce a uno strabiliante risultato: nel 1970 l’Italia diventa il primo produttore mondiale di frigoriferi, insieme agli Stati Uniti. L’omologo per le lavatrici del sanguigno ed estroverso Borghi, grande sponsorizzatore sportivo, è il riservato Eden Fumagalli, brianzolo di Brugherio, fondatore insieme alla famiglia della Candy, un’impresa che produce lavatrici più piccole e semplici da usare di quelle americane e tedesche, e soprattutto meno costose. Anch’egli parte da una piccola impresa meccanica che adatta alle nuove esigenze produttive, esattamente come succede nel nord-est con Riccardo Zoppas a Conegliano Veneto, che crea la prima lavastoviglie 174 A. Castagnoli, E. Scarpellini, Storia degli imprenditori italiani, Einaudi, Torino 2003, p. 321.

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tutta italiana, e Lino Zanussi a Pordenone, che ingrandisce l’officina per produrre vari elettrodomestici; mentre la torinese Indesit diventa una delle principali realtà italiane. Nelle Marche, a Fabriano, inizia la sua attività anche Aristide Merloni, di origini contadine ma con alle spalle un’esperienza a Pinerolo, che passa da produrre bilance e fornelli a elettrodomestici marcati Ariston175. Le imprese citate esportano la metà della loro produzione e soddisfano i tre quarti del mercato interno (anche di più, se si considera la diffusa pratica di produrre marchi esteri per conto terzi) a fronte di concorrenti come Bosch e Philips. Due cose le accomunano tutte: la prima è l’estensivo ricorso alla pubblicità, necessaria per lanciare i nuovi prodotti, spiegare il loro funzionamento e ancor più la loro necessità in una casa moderna; contribuiranno non poco alla costruzione di una rinnovata visione della domesticità176. La seconda è l’incapacità di consolidarsi sul mercato dopo una fulminea espansione, e la caduta di molte di loro nel momento in cui il mercato diventa saturo e la concorrenza più forte177. Parlando di beni di consumo il pensiero va subito agli alimentari, che conoscono in questi anni un cambiamento davvero significativo. E se tornassimo nella cucina che abbiamo visto? Eccoci dunque catapultati indietro, per confrontare una dispensa degli anni Sessanta con la cantina di inizio secolo che ancora ricordiamo bene. Notiamo subito che in questo cucinotto tutto è perfettamente a posto, non c’è odore, né polvere, né sporco; anzi, non si vede neanche il cibo. Sarà nei pensili a muro, apriamone uno. Eccoci di fronte al trionfo della tradizione itali175 Faravelli Giacobone, Guidi, Pansera, Dalla casa elettrica alla casa elettronica cit., pp. 50-69; Castagnoli, Scarpellini, Storia degli imprenditori italiani cit., pp. 320-326; V. Balloni, Origini, sviluppo e maturità dell’industria degli elettrodomestici, il Mulino, Bologna 1978. 176 Della pubblicità Candy su Carosello si è già parlato; la Zoppas si affida prima a un duetto con Madama la marchesa e poi a due coniugi in disaccordo su tutto (interpretati anche da Dario Fo e Franca Rame), fuorché sulla lavatrice Zoppas; la Ignis presenta un’intera famiglia di incontentabili che, al suono di una musica da film western di Ennio Morricone, non trova mai il prodotto giusto, fino a quando vede una lavatrice Ignis. Le altre marche puntano molto sulla pubblicità su carta stampata. Da segnalare anche la Philco, che lancia gli abitanti del pianeta Papalla, e la Riello con l’inaffidabile indiano Unca Dunca. 177 Il quadro è complicato: la Ignis verrà comprata dalla Philips; la Zoppas dalla Zanussi e a sua volta dalla svedese Electrolux; la Candy si stabilizza sul mercato, così come la Merloni (che acquisisce la Indesit ed è oggi il terzo gruppo europeo dietro a Rex Electrolux e Bosch); in seguito si è affermato anche il gruppo Nocivelli di Brescia (produttore della Ocean e acquirente della San Giorgio di Genova e di un settore della Zanussi).

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ca: ben impilate una sull’altra vediamo varie confezioni di pasta Barilla, Agnesi e Amato – spaghetti e spaghettini, maccheroni, penne, farfalle, rigatoni, fettuccine, tortellini – e poi pastine Buitoni al glutine e di semola. Il tutto con accanto il necessario per realizzare ottimi sughi: scatole di pomodori pelati Cirio, passate già pronte De Rica, tubi di pomodoro concentrato (proprio accanto a quelli di maionese Calvé), vasetti con erbe e altri aromi e, davanti a tutto, le inconfondibili confezioni di dadi Star, dieci magici cubetti che assicurano un «doppio brodo» di qualità, sciolti in acqua calda, o un migliorato sapore aggiunti un po’ a tutto. Pasta e conserve: due pilastri di un comparto alimentare che vale circa un decimo del prodotto industriale lordo e che è cresciuto a spese dell’agricoltura, cioè dei prodotti primari non lavorati. In questi anni l’industria della pasta subisce una notevole ristrutturazione, con l’affermazione di poche grandi imprese a spese di innumerevoli minuscoli laboratori. Per conquistarne la leadership, Pietro Barilla punta molto sulla pubblicità: un logo ben identificabile, un confezionamento in scatole blu altrettanto riconoscibili, una presenza costante su giornali e televisione (affidata all’agenzia Cpv), cercando di solleticare le donne moderne («c’è una Gran Cuoca in voi... e Barilla la rivela») e affidandosi a testimonial d’eccezione, come la cantante Mina178. Molto innovativo è il settore delle conserve: la Star diviene uno dei principali gruppi europei partendo da un piccolo commercio grossista di carni, con la famiglia Fossati che sfida il monopolio dei dadi svizzeri e tedeschi; la Cirio si sviluppa ulteriormente sull’onda della richiesta di conserva di pomodori (che valgono quattro quinti del settore) e altrettanto fa l’emiliana De Rica (sui cui prodotti, a dar retta alla pubblicità, non osava infierire neppure Gatto Silvestro in caccia di Titti). Ma altre scatole popolano la dispensa: piselli e fagioli in scatola Arrigoni (puliti e già bolliti, rilanciano i legumi grazie alla facilità di preparazione), e una pila di scatolette rosse con sopra una bella mucca svizzera. È la carne in gelatina Simmenthal, creata dai Sada di Crescenzago, fuori Milano; partiti con scatolette per militari, riescono a trasformarne l’immagine da «rancio» per soldati in comodo pranzo per la famiglia, sfruttando la comunicazione sportiva (come sponsor della squadra di basket di Milano in eterna lotta con l’Ignis di Varese) e quella pubblicitaria (il comico Walter Chiari ammicca sorridendo: «Siate modernisti: mangiate più carne, mangiate più Simmenthal»). Si punta sulla praticità e sulla spinta, sostenuta anche da esperti dietologi e ripetuta su tutte le riviste femminili, a mangia178 Barilla: cento anni di pubblicità e comunicazione, a cura di A. Ivardi Ganapini, G. Gonizzi, Silvana, Cinisello Balsamo 1994.

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re più carne per una migliore forma fisica. Per questo hanno successo anche altri marchi, coma la Manzotin («carne alla casalinga»), che lancia poi anche il tonno in scatola Rio Mare, e Montana della modenese Cremonini (che affida invece le sue fortune pubblicitarie a Gringo, un duro da film western – «Quaggiù nel Montana tra mandrie e cowboy / c’è sempre qualcuno di troppo tra noi» – che finisce invariabilmente con tremendi duelli finali a mezzogiorno, mezzogiorno di cuoco)179. Oltre al caffè già macinato Paulista (reso celebre dagli spot del caballero misterioso e Carmencita nella pampa sconfinata), farina, riso e una bella scorta di zucchero, nell’armadietto sono ben allineate le bottiglie di condimento: aceto, olio di oliva Bertolli, Dante, Sasso (puntano sulla qualità e la leggerezza; l’olio Sasso diventa famoso per lo slogan «la pancia non c’è più»), e poi la novità degli oli di semi: ecco una bella lattina di olio Topazio (sarà seguito dall’Olio Cuore, grazie al quale l’attore Nino Castelnuovo scavalcherà staccionate all’infinito) e dietro altre di semi vari. Il consumo di questi oli esplode in pochi anni: era meno di un litro a testa nel 1950, sfiora i 10 litri nel 1970, quasi quanto l’olio di oliva (che nel frattempo è «solo» raddoppiato). Costano meno, si adattano ai nuovi tipi di cottura (friggere prende il posto della pratica povera di lessare) e sono spinti da una forte pubblicità spesso, anche qui, opera di multinazionali estere. Fanno insomma il paio con la diffusione di un altro prodotto nuovo: la margarina Gradina, lanciata nel 1954 dalla Unilever (che ha da poco acquistato in Italia la Gaslini-Arrigoni). Il prodotto è presentato come interamente vegetale, sano, leggero e conveniente surrogato del burro (che è infatti uno dei pochi alimenti a non crescere); un annuncio pubblicitario del 1958 mostra una casalinga che serve spaghetti a una bimba e al marito che si complimenta: «Brava, avevi ragione, si mangia bene con Gradina» (e tutto per 60 lire l’etto). È il primo accenno di una filosofia salutistica che si affermerà pienamente negli anni successivi. Apriamo il pensile a fianco. Qui non c’è cibo, ma ci sono spessi bicchieri di vetro, servizi di stoviglie bianchi (belli, pratici, meno di rappresentanza rispetto a una volta – quelli «buoni», regalo di nozze, saranno riposti altrove). Ci sono posate e attrezzi di tutti i tipi, una caffettiera Bialetti (quella con l’omino con i baffi), bilance di precisione, il Proteus della San Giorgio (versione italiana del food processor americano, magari della Kitchen Aid, con mille accessori per frullare, tagliare, maci179 Il marchio Simmenthal è successivamente passato alla Kraft, quello Manzotin (insieme a Rio Mare) alla Bolton, mentre Cremonini è uno dei principali gruppi alimentari italiani.

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nare, affettare) e poi un frullatore – attrezzi che modificano la consistenza e l’aspetto dei cibi180. Tutto è come in un laboratorio, l’arte di cucinare sembra più una tecnica di precisione, con tempi e ricette accuratissime da seguire, quasi come in una mitica cucina americana (probabilmente il sogno della padrona di casa). Scomparse le pentole di rame e di coccio, ecco una fornita batteria di pentole, tegami, padelle, casseruole, teglie in acciaio, alluminio e quelle nuove in vetro temperato (le famose Pyrex, che per la prima volta possono essere messe anche a tavola!) – per quelle antiaderenti con fondo in teflon bisognerà attendere ancora un po’ (almeno fino a che la Du Pont non commercializzerà il nuovo materiale in grande stile). Davanti a tutte troneggia una pentola a pressione Lagostina in acciaio inossidabile, realizzata da una ditta di Omegna che ha cominciato producendo posate. È l’incarnazione della nuova cucina: consente di preparare pietanze elaborate risparmiando tempo e denaro, rende tutto morbido e appetibile, è sicura e tecnologica, dura a lungo ed è facile da lavare, insomma «traduce» le ricette tradizionali con uno sforzo minimo, portando però in superficie la contraddizione di uno stile culinario che valorizza il passato e la manualità come valori indiscussi ma è attratto dalla tecnica. Ma la pubblicità della «Linea» in tv creata con un solo tratto di penna è così simpatica!181 Ecco il terzo armadietto. Questo è il paese della cuccagna! Si capisce perché il consumo di zucchero sia triplicato dal dopoguerra fino ai 28 chili a testa del 1970! E anche come le calorie medie giornaliere abbiano sfondato quota 3000182. Qui infatti vediamo un numero impressionante di biscotti, dolci e merende, visto che il comparto cresce quasi dell’8 per cento annuo fra gli anni Cinquanta e Sessanta, e si rivolge innanzitutto ai bambini. In primo piano abbiamo un voluminoso panettone Motta (ma avrebbe potuto essere Alemagna): vero simbolo del miracolo economico che ha trasformato un dolce tipico milanese nel prodotto simbolo del Natale. Entrambe le aziende si espandono nel dopo180 A. Capatti, La gastronomia del frullatore, in Faravelli Giacobone, Guidi, Pansera, Dalla casa elettrica alla casa elettronica cit., p. 140. 181 «Lui cerca la, la, la, la... lui cerca Lagostina, la cerca e qui la trova...»; il personaggio di Osvaldo Cavandoli diventa in seguito un cartone animato a sé stante. 182 Nel 1970 le calorie medie per abitante sono pari a 3147, di cui 589 di origine animale. Erano circa 2600 negli anni Trenta e anche agli inizi del Novecento, ma con importanti differenze: ora le proteine animali si avvicinano a quelle vegetali (43 grammi contro 50), mentre ancora negli anni Trenta il rapporto era meno di 1 a 3 e nel 1901-10 meno di 1 a 4; salgono molto i grassi, pari a 106 grammi (erano 60 e 57 nel fascismo e a inizio secolo); mentre abbastanza stabili sono i carboidrati, pari a 440 grammi nel 1970, in lievissima crescita rispetto ai periodi precedenti. Cfr. Istat, Sommario di statistiche storiche 1861-1975 cit., p. 161.

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guerra, quando zucchero e materie prime sono nuovamente disponibili, creando una vasta rete di distribuzione e contribuendo a modificare le abitudini alimentari del paese. L’altra grande protagonista del periodo è la Pavesi di Novara, già famosa per i suoi biscottini, i Pavesini, che lancia due grandi novità: la prima sono gli autogrill, punti di ristoro sulle autostrade con architetture futuribili, che segnano il paesaggio e l’immaginario degli anni Sessanta (il primo è nel 1950 sulla Torino-Milano); la seconda sono i cracker, altro prodotto nuovo di origine americana, che puntano sulla friabilità, la leggerezza e il basso apporto di calorie (nella dieta italiana, contrariamente a quanto avviene all’estero, essi vengono impiegati al posto del pane – così come molti secoli prima il mais era stato piegato alle tradizioni locali e trasformato in polenta). Topo Gigio, il pupazzo che reclamizza i Pavesini, diventa uno dei personaggi più popolari (insieme a Calimero e all’ippopotamo Pippo), presto bissato dal prode Lancillotto che combina un quarantotto ma tutto a posto va, e più tardi dal famelico Joe Condor. Se tutte queste società entreranno presto nell’orbita pubblica della Sme, questo non avviene per un’altra grande protagonista, pure piemontese, la Ferrero, che costruisce la sua fortuna su una crema spalmabile a base di cacao e nocciole locali, la Nutella, che vediamo qui in una bella confezione di vetro che ne mostra il contenuto e si potrà usare in seguito come bicchiere. Ma ci sono altre scatole di biscotti: i bucaneve Doria («Tacabanda»), i Saiwa (fabbrica genovese che crescerà rapidamente), i Plasmon per l’infanzia (associati a una curiosa figura di gladiatore o romano seminudo, che prende a martellate una colonna di marmo); e poi ancora le merendine al cioccolato della Talmone di «Miguel so’ mi» (di proprietà della Venchi, dopo che il progetto di creare un polo del cioccolato di Gualino era fallito negli anni Venti – ma nel suo futuro c’è la gestione di Sindona); e infine le caramelle: Dufour, Charms Alemagna («Le caramelle del nostro tempo»), quelle al miele Ambrosoli (forse per via del suadente coretto: «Bella dolce cara mammina, dacci la caramellina...»). In un angolo c’è una confezione di Orzoro, orzo solubile per bambini che evoca figure di spaventapasseri, e una della classica Ovomaltina; e infine un barattolo di amarene Fabbri, legate a una famosa pubblicità di pirati183. 183 Nello spot di Carosello un pirata siciliano chiede al capitano cosa fare del prigioniero: «Cappetano lo possiamo tortutare?» «Porta pasiensa, so ben io come fare a sciogliergli la lingua!» risponde il personaggio piemontese ed estrae un barattolo di amarene. È da notare come le pubblicità del periodo utilizzino frequentemente molti dialetti diversi per caratterizzare i loro personaggi, un uso che si perderà via via nella televisione, o si restringerà a una o due parlate.

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È interessante notare come le strategie commerciali prestino molta attenzione al genere e all’età. I prodotti per cucinare, finiti o più spesso semilavorati (conserve, condimenti, paste secche, lieviti, preparati per torte e budini), sono decisamente indirizzati alla casalinga. Sono identificati da un packaging «tecnico», comunicativo e funzionale, usa e getta. I prodotti dolciari sono invece dedicati ai bambini: lo mostrano le promozioni pubblicitarie, spesso con pupazzi e cartoni animati, le confezioni vivaci e colorate in cartone o derivati plastici (che relegano in soffitta le belle scatole della nonna); sarà solo dagli anni Settanta-Ottanta che il comparto dolciario, il secondo per importanza nell’alimentare, cercherà una maggiore crescita fra i consumatori adulti. In questo periodo i bambini devono crescere rapidamente, non subire le privazioni delle generazioni passate, mangiare ed essere felici. Vi sono poi prodotti alimentari che si indirizzano ai giovani. I primi sono i gelati, con l’Algida – impresa con stabilimenti in Campania e Sardegna – in testa. Naturalmente gelati e sorbetti appartengono a una tradizione italiana molto antica (Filippo Baldini scrive un trattato specifico sui sorbetti con tutte le dosi e le ricette nel 1775)184; il problema qui è il loro inserimento all’interno di una produzione industrializzata, che privilegia il «gelato da passeggio», caricato di significati comunitari, sintomo di dinamicità e anticonformismo («Posso dire una parola? C’è un Algida laggiù che mi fa gola»). Il secondo prodotto sono le gomme da masticare, anzi i chewing-gum. Negli Stati Uniti hanno una lunga tradizione associata anche ai militari, visto che sono fornite nella razione ufficiale durante la Seconda guerra mondiale, poiché puliscono i denti, placano in parte fame e sete, mantengono desta l’attenzione, rilassano i nervi. In seguito si associano alla cultura popolare, in particolare allo sport e alla musica; e da qui viene l’idea nel 1946 ai due fratelli Perfetti di Lainate di far produrre al loro Dolcificio Lombardo una gomma di tipo americano, e con un nome americano, Brooklyn, «la gomma del ponte». È l’inizio di un grande successo commerciale, in Italia come già prima in America (con la Wrigley’s), ma che avrà profondi contraccolpi nelle foreste produttrici della gomma di lattice in Messico, in piccola scala quello che era avvenuto nei secoli precedenti con caffè e tabacco185. 184 F. Baldini, De’ sorbetti, Stamperia Raimondiana, Napoli 1775; cfr. A. Capatti, M. Montanari, La cucina italiana. Storia di una cucina, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 295-296. 185 M. Redclift, Chewing Gum: The Fortunes of Taste, Routledge, London 2004; Id., Chewing Gum: Mass Consumption and the «Shadowlands» of the Yucatan, in Consuming Cultures, Global Perspectives: Historical Trajectories, Transnational Exchanges, a cura di J. Brewer, F. Trentmann, Berg, Oxford-New York 2006.

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Apriamo adesso il frigorifero. Che differenza con la vecchia cantina! È il regno dei prodotti freschi, là dove prima ci si accontentava di quelli secchi: qui invece è una profusione di frutta, agrumi, ortaggi e pomodori, consumati in quantità mai toccate in precedenza, con aumenti del 30, anche 50 per cento in due decenni186. Si verifica ora un bilanciamento fra i due cardini della cucina: la cottura tramite il calore e la conservazione con il freddo; se la cucina/stufa era entrata molti decenni prima nell’ambiente domestico piegando a sé le pratiche culinarie, ora il frigorifero crea uno spostamento della dieta verso cibi molto deperibili187. Ecco che troviamo pesce (poco, se ne consumano 7 chili l’anno a testa contro i 20 di manzo), carne fresca già tagliata: fettina, bistecca (anzi la beefsteak, uno degli altri nomi anglosassoni che si aggiunge alla lista, insieme a cocktail, snack, picnic, shaker, party, bar, toast ecc.), che diventa parte essenziale del pranzo «tipo» (mezzogiorno – primo: pasta; secondo: pietanza, magari fettina, con verdure; formaggio: facoltativo; dessert: frutta e caffè o dolci nelle feste; sera – menu semplificato e leggero). Vediamo anche un salame Negronetto (non poteva mancare, visto il successo dello sceriffo della valle d’argento), uova, burro e margarina Gradina (ci avremmo scommesso!). E poi tanti formaggi, dentro una formaggiera di plastica, alcuni da taglio avvolti in carta bianca, altri confezionati: Locatelli, Galbani, Invernizzi, Auricchio, formaggini, quadretti, freschi, stagionati, in confezioni singole o formato famiglia. Non sorprende che il settore sia uno dei primi nell’alimentare. Nello scomparto delle bottiglie ci sono del vino aperto (non si legge l’etichetta: forse è Folonari, forse è uno spumante Asti o Riccadonna), una birra Dreher e una Peroni (con il suo richiamo alle bionde come miraggi nel deserto), una bottiglia di acqua minerale Recoaro (è acqua Lora, quella reclamizzata da Capitan Trinchetto, che esagerava sempre un po’: «Cala Trinchetto!») – ma vanno molto anche la San Pellegrino e la Sangemini per i bambini (anche se il boom delle acque minerali deve ancora arrivare). Non mancano due bottigliette di Coca-Cola. E il latte? Eccolo là, in una modernissima confezione di tetrapak (poli-accoppiato di cartone e politene), che ha appena sostituito la tradizionale bottiglia di vetro, e accanto a questo una confezione del nuovissimo latte Uht (Ultra high temperature), por186 Nel 1970 si consumano a testa 32 chili di agrumi, 88 di frutta fresca, 99 di ortaggi, 47 di pomodori, 45 di patate (le cifre relative al 1921-30 sono, nell’ordine, 10 per gli agrumi, 31 frutta, 71 ortaggi, 21 pomodori, 30 patate). Cfr. Istat, Sommario di statistiche storiche 1861-1975 cit., p. 159 e Tab. 1. 187 Capatti, Montanari, La cucina italiana cit., pp. 286-288; P. Sorcinelli, Gli italiani e il cibo: dalla polenta ai cracker, B. Mondadori, Milano 1999.

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tato cioè per alcuni secondi a 140 gradi e reso così conservabile a lungo. È il progresso. Rispetto alla vecchia dispensa, troviamo qui vari cibi industrializzati e di marca (oltre a molti prodotti sfusi, come carne e pesce, frutta e verdura, dolci e specialità). Questo passaggio porta a prodotti più standardizzati per forma, colore e sapore; i biscotti sono invariabilmente tutti uguali (cotti nello stesso modo, della medesima forma e colorazione, e con un sapore identico) e lo stesso vale per i prodotti freschi (nei formaggi sono sparite le vecchie croste, gli impasti maleodoranti, le muffe che comparivano appena aperti) – si può dire che tutti gli odori forti siano scomparsi. La nuova attenzione per l’igiene e la pulizia che abbiamo già riscontrato è qui pienamente confermata. Gli imballaggi assumono un ruolo di primo piano, sia per la comunicazione sia per la protezione e l’igiene dei prodotti, e utilizzano nuovi materiali. Un’inevitabile conseguenza è una certa delocalizzazione dei cibi, conseguente all’accentramento degli impianti produttivi. Ma non bisogna esagerare. Se c’è un aspetto che caratterizza l’alimentare italiano è la sua elevata frammentazione: le imprese di dimensioni mediograndi sono poche in mezzo a un pulviscolo di piccoli e micro-produttori locali, a volte di altissima qualità, per cui il risultato effettivo è che la moderna dispensa degli anni Sessanta è la somma di prodotti sfusi, prodotti locali provenienti da industrie semi-artigianali, prodotti confezionati da grandi industrie (una piccola percentuale delle quali è costituita da multinazionali). Né manca la consueta ambivalenza verso le novità, soprattutto dopo l’esplosione di vari scandali legati alle sofisticazioni alimentari, in particolare per i dadi, che danno origine a forme di boicottaggio da parte dei consumatori e a richieste di maggiori controlli188. I nuovi prodotti, spesso mirati selettivamente a una certa clientela, non soppiantano del tutto le tradizioni culinarie; l’accresciuto consumo di zuccheri e carne non scalza la pasta dalla dieta quotidiana. Anzi, l’industria valorizza prodotti alimentari tipici, in particolare quelli meridionali, e li lancia sul mercato nazionale (proseguendo 188 Una serie di inchieste del settimanale «L’Espresso», e successivamente anche del quotidiano «Il Giorno», mise in luce le incredibili sofisticazioni che certe industrie alimentari perpetravano, in assenza di leggi efficaci. I consumatori vennero a sapere di oli di semi vari spacciati per olio di oliva, frodi sul vino, burro ottenuto da grassi vari, pasta fatta con grano tenero, coloranti e additivi tossici (cfr. L’asino nella bottiglia, «L’Espresso», 22 giugno 1958). L’indignazione che seguì portò, in tempi lunghi, all’emanazione di varie disposizione legislative sugli alimenti negli anni Sessanta; da un punto di vista culturale, lo scandalo rafforzò l’identificazione della genuinità con il cibo contadino.

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un processo già iniziato nel fascismo)189. E qui si innesta la mitizzazione della «dieta mediterranea», proposta nel 1962 dal nutrizionista americano Angel Keys, colpito dalla longevità dei contadini del Cilento, che lancia un messaggio medico e culturale ai connazionali: meglio mangiare meno proteine animali e più pasta, verdura e frutta fresche, olio di oliva (una dieta che certo i poveri contadini praticavano per necessità, e neppure sempre, ma che è suggerita per riequilibrare le diete ipercaloriche tipiche degli Stati Uniti e del Nordeuropa)190. Nel complesso, permangono differenze alimentari tra nord e sud; negli anni Sessanta è ancora presente un dislivello del 15 per cento a favore del nord, significativo soprattutto per la carne e gli zuccheri, ma tende a diminuire (si appianerà completamente negli anni Ottanta, pur mantenendo peculiarità locali). E lo stesso può dirsi per un confronto fra la dieta in Italia e quelle più caloriche dei principali paesi europei (dove continuano a pesare diversità culturali)191. La compresenza di grande e piccolo, di delocalizzato e iperlocale, di lavorazioni industriali e artigianali, spesso con una lunghissima tradizione alle spalle e in grado di produrre beni di qualità a prezzo contenuto, sembra una caratteristica dello sviluppo industriale italiano – il suo limite e la sua fortuna. La ritroviamo anche in un altro settore importante, quello dell’abbigliamento. Abbiamo già avuto modo di osservare in uno dei nostri raid casalinghi i vestiti di questa famiglia. L’abbigliamento è migliorato e si è diversificato: la nostra famiglia spende di più, ma anche le industrie produttrici hanno fatto molti progressi, dal punto di vista tecnico, stilistico e della vestibilità (con più taglie), tanto che capo pronto non è più sinonimo di capo povero o malfatto. Restano sarti e sartine, naturalmente, come pure boutique artigianali di pregio; il loro ruolo si ridimensiona lentamente (nel 1959 l’industria italiana produce pochi milioni di capi, contro i 20 della Francia e i 35 della Germania)192. Fra le prime industrie a lanciare capi in serie ci sono Apem (della Rinascente), Rosier, Vogue Italiana a Milano, Max Mara a Reggio Emilia, Spagnoli a Perugia, e poi grandi imprese tessili come la Marzotto (con il marchio Fuso d’oro), la Lanerossi (Lebole) e il Gruppo finanziario tesCapatti, Montanari, La cucina italiana cit., pp. 36-40. V. Teti, Le culture alimentari nel Mezzogiorno continentale in età contemporanea, in Storia d’Italia. Annali 13. L’alimentazione, a cura di A. Capatti, A. De Bernardi, A. Varni, Einaudi, Torino 1998, pp. 65-165. 191 V. Zamagni, L’evoluzione dei consumi fra tradizione e innovazione, ivi, pp. 192-194. 192 Paris, Oggetti cuciti cit., p. 143. 189 190

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sile Gft dei Rivetti, sia con linee maschili (Facis e Sidi) sia femminili (Cori), per le quali si avvale anche della consulenza della famosa sarta d’alta moda Biki193. E va detto che a monte dell’abito pronto c’è un’industria tessile di grande tradizione, localizzata in Lombardia e Piemonte, in grado di sfornare tessuti di lana, cotone, seta e anche sintetici di alta qualità. Manca però un mercato per l’alta moda italiana, paragonabile anche minimamente a quello dell’indiscussa capitale della moda, Parigi, con grandi maison tipo Dior e Pierre Cardin – anche se ci sono sarti e artigiani molto apprezzati e conosciuti all’estero. I primi tentativi di creare una moda italiana caratterizzata in modo specifico risalivano al fascismo; nel dopoguerra si moltiplicano le iniziative per creare passerelle alternative a quelle francesi. Fra i numerosi tentativi di attirare i compratori esteri, americani soprattutto, spicca quello di Giovanni Battista Giorgini, buyer in Italia per conto di grandi magazzini statunitensi come Neiman Marcus, che organizza a Firenze dal 1951 il Fashion Show: sulle passerelle di Palazzo Pitti sfilano grandi nomi della sartoria italiana, a cominciare dal fiorentino Emilio Pucci. Presto rivalità interne creano una spaccatura tra Firenze, che si specializza in maglieria e moda pronta di alta qualità, e Roma, dove si accentra l’alta moda esclusiva (con nomi come Simonetta e Fontana) – mentre a Milano rimane la fiera del tessile (Mitam) e a Torino quella delle confezioni industriali (Samia). Il mondo della moda nasce policentrico. Ma ha subito un certo successo, per la qualità delle stoffe, per l’estro dei modelli, per lo stile elegante e portabile, per i prezzi concorrenziali rispetto a quelli parigini. I problemi però non mancano. L’alta moda, settore elitario per definizione, resta un mondo separato rispetto a quello dell’industria, che pure cresce, si concentra, mantiene buoni standard sartoriali (molte industrie adottano ancora rifiniture a mano)194. In sostanza si risente ancora della tradizionale separazione sociale fra produzione d’élite artigianale, costosa, originale, di eccellente fattura e sempre diversa, e abiti industriali confezionati in serie per un pubblico di massa, a basso costo, di discreta fattura, poco sensibile alle mode. Ma il mercato sta cambiando. Ora i consumatori sono più ricchi ed esigenti e quando acquistano capi pronti, li vogliono alla moda; non bastano la qualità e il prezzo, l’aIvi, pp. 45, 102-109. E. Merlo, Moda italiana: storia di un’industria dall’Ottocento a oggi, Marsilio, Venezia 2003; R. Marcucci, Anibo e made in Italy: storia dei buying offices in Italia, Vallecchi, Firenze 2004. 193 194

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bito deve esprimere molto di più dal punto di vista sociale e individuale, deve essere strumento di «distinzione», come direbbe Bourdieu. Si parla sempre più di democratizzazione del lusso e la «moda» si presenta come un valore aggiunto per tutti i capi. Le donne ad esempio usano il vestiario in maniera sempre più personalizzata. Un sondaggio della Doxa del 1971 mostra come le donne siano molto attive nell’interpretare il concetto di «moda», che costruiscono attraverso varie fonti (non le stesse che gli esperti avrebbero predetto): in primo luogo ascoltano le riviste femminili, utili per informare e consigliare (62 per cento) e guardano le vetrine di negozi e boutique anche per vedere come i vestiti stanno addosso (59%); a distanza seguono le proposte del mondo dell’alta moda, i suggerimenti della sarta e dei grandi magazzini, quello che si vede portato da donne ben vestite (intorno al 40 per cento); infine ci sono i consigli del negoziante di fiducia e delle amiche195. Insomma, un mix di suggestioni che vengono dalla stampa e dalla moda, dalla distribuzione commerciale, ma anche dalla strada e da una valutazione diretta degli abiti. E che dire poi dei giovani, che inventano una loro moda, o antimoda, cambiano continuamente riferimenti e cominciano a comprare in negozi specializzati in «abbigliamento giovane», magari boutique che facevano realizzare a tempi record capi e accessori all’ultimo grido in piccole serie da laboratori specializzati, dove trovano blue jeans, minigonne, bluse, maglioni, montgomery. I dati di vendita del 1973 confermano nuove abitudini di acquisto: cresce l’abbigliamento casual per uomo e donna (giacconi, giubbetti, jeans), la maglieria ha un vero boom (con maglioni e pullover), mentre perde terreno l’abbigliamento tradizionale (cappotti, impermeabili, camiceria per uomo, abiti e tailleur per donna); le confezioni industriali occupano ormai il 90 per cento delle vendite da uomo e l’80 da donna196. Per consolidare lo sviluppo e intercettare il nuovo pubblico, manca un ultimo passo: lo sviluppo di un livello intermedio della moda, che sappia abbinare la creatività e qualità tipica dell’alta moda con i vantaggi della produzione di serie grazie a un collegamento diretto alta moda-industria. Questo passaggio avviene agli inizi degli anni Settanta grazie a una nuova figura, lo stilista: né capitano d’industria né sarto tradizionale, egli progetta una collezione improntata a un suo stile specifico, collabora con le imprese tessili, segue la realizzazione dei modelli passo per passo, presenta le sue opere in una sfilata-evento, ha rapporti con la stampa specializzata, si occupa dei buyer e della distri195 196

Paris, Oggetti cuciti cit., p. 382. Ivi, pp. 396-404.

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buzione. In questo modo consente a imprese tessili e di confezioni di rispondere alle esigenze di un nuovo pubblico che rifiuta le «imposizioni» dell’alta moda e cerca non solo un bel vestito, ma uno stile, una proposta culturale, un possibile modo di essere (il tutto a prezzi relativamente accessibili)197. In una Milano che può offrire infrastrutture moderne, spazi fieristici adeguati (Milanovendemoda, Modit), attenzione dei media, collegamenti internazionali, vicinanza con le industrie e un variegato retroterra di sartorie semiartigianali di qualità, nasce il «sistema moda» e si affermano le prime griffe: Gianni Versace, Giorgio Armani, Valentino Garavani e molti altri198. È lo stesso processo che avviene nell’arredamento con la comparsa del designer. Il macinacaffè elettrico che vediamo qui a forma di cupolino (Subalpina), questa lavatrice dalle forme funzionali, gli attrezzi da cucina in plastica (Kartell) ma anche, lanciando uno sguardo fuori dalla stanza, la poltrona tutta di plastica nella stanza del ragazzo (Artemide), le eleganti lampade da tavolo e da soffitto (Arteluce), il divano imbottito dalle linee moderne (Arteflex), il ventilatorino (Vortice), le sedie semplici e moderne (Cassina)... questa casa acquista significato attraverso le forme del design industriale. Anche qui, le origini vanno rintracciate nel periodo fra le due guerre, con l’opera di architetti come Terragni, che progetta case ma anche sedie in tubolare metallico, o Gio Ponti, che ridisegna le ceramiche per Richard Ginori e lancia la linea di mobili a basso prezzo Domus Nova per la Rinascente. Negli anni Cinquanta e Sessanta gli architetti collaborano sempre di più con piccoli produttori semiartigianali e grandi imprese o creano essi stessi nuove società: la parola d’ordine è coniugare creatività e produzione di serie. Si afferma una tendenza estetica basata sull’essenzialità delle forme e il rigore del disegno, che abbatte i costi ed esalta il contenuto tecnologico e i materiali dell’oggetto. È la nuova «linea italiana», poi conosciuta come Italian design, che ha i suoi punti 197 Nelle sfilate di Milano e Firenze di alta moda pronta i prezzi del singolo capo nel 1967-68, anche su indicazione dell’Anibo, l’associazione dei buyers, è intorno alle 100.000 lire (in negozio poi i capi costavano molto di più); per un confronto, si pensi che nel 1965 un buon tailleur confezionato si comprava in negozio per 22-30.000 lire, un cappotto leggero 26.000, un cappotto pesante Marzotto 38.000, una blusa 4.000, le scarpe 10.000 (i prezzi dell’abbigliamento casual e giovane sono più contenuti). Cfr. Paris, Oggetti cuciti cit., pp. 392-393, 466. 198 S. Testa, La specificità della filiera italiana della moda, in Storia d’Italia. Annali 19. La moda, a cura di C.M. Belfanti, F. Giusberti, Einaudi, Torino 2003, pp. 699-720; S. Gnoli, Un secolo di moda italiana: 1900-2000, Meltemi, Roma 2005; R. Carrarini, La stampa di moda dall’Unità a oggi, in Storia d’Italia. Annali 19. La moda cit., pp. 822-834.

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di forza – come la moda – nel tessuto produttivo flessibile e di alta qualità, in grandi personalità (Albini, i Castiglioni, Gardella, Magistretti, Sottsass, Zanuso e molti altri), in iniziative «istituzionali» (Triennali di Milano, Fiere Campionarie, il premio «Compasso d’oro» della Rinascente) e nell’editoria specializzata («Domus», «Abitare», «Casabella»)199. I designer progettano oggetti per la vita quotidiana che modificano l’estetica del paesaggio domestico, valorizzando insignificanti oggetti d’uso comune e trasformandone il significato all’interno dell’ambiente (anche un cavatappi o uno scolapasta di plastica portano un «valore aggiunto» all’arredo). Il messaggio che lanciano è che tutto lo spazio umano è importante, tutto può assumere una dimensione estetica; in questo modo rompono il tabù per cui il valore estetico era una prerogativa esclusiva delle élite sociali che potevano permettersi pezzi costosissimi – o almeno è una questione di gradi. Non a caso, molti dei protagonisti di questa rivoluzione sono impegnati politicamente. Lo stesso processo ha luogo fuori dalle case, dove vediamo circolare bellissime auto (grazie a Pininfarina, Bertone e più tardi Giugiaro) e moto; negli uffici, sempre più dotati di arredi eleganti e funzionali macchine da scrivere e calcolo; persino nei bar, dove le macchine per caffè espresso diventano un simbolo di italianità200. Dunque, ancora democratizzazione del lusso e stili diversi proposti al consumatore. Il successo del design si basa su un equilibrato rapporto qualitàprezzo e ha i suoi punti di forza nella capacità di lavorare materiali nuovi e tecnologici, come la plastica, insieme a materiali ritenuti «nobili»; e nella capacità di reinterpretare in chiave moderna tipici moduli artigiani o di provenienza estera. Un esempio è la Superleggera di Gio Ponti del 1957: una sedia ispirata alle tradizionali sedie di Chiavari in legno e giunco intrecciato, ma più piccola, leggerissima e a buon prezzo (circa 5000 lire). Un altro esempio è la Unibloc Ariston. Il problema era: come adattare in Italia la «cucina americana», grande, modulare e con tutti i ritrovati della tecnica? C’era un problema di costi e uno di spazio. La Merloni incarica il designer Makio Hasuike di progettare una valida alternativa, che entra in produzione negli anni Sessanta. Si tratta di un monoblocco di quattro-cinque elementi modulari a sportello, nei qua-

199 A. Branzi, Introduzione al design italiano: una modernità incompleta, Baldini & Castoldi, Milano 1999; C. Neumann, Design in Italia, Rizzoli, Milano 1999; P. Sparke, A modern identity for a new nation: design in Italy since 1860, in The Cambridge Companion to Modern Italian Culture, a cura di Z.G. Baranski, R.J. West, Cambridge University Press, Cambridge 2001, pp. 265-277. 200 Cfr. «Memoria e ricerca», 23, 2006 (a cura di J. Morris, C. Baldoli).

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li sono incassati i principali elettrodomestici (frigo, forno, lavastoviglie), oltre ad alcuni spazi funzionali; sopra, tutto è coperto da un unico piano di acciaio inossidabile della Franke con i fuochi della cucina, il lavello e molto spazio per il lavoro. Chiuso, si presenta come un mobile unico dall’estetica moderna; aperto, rivela tecnologia e funzionalità; per la prima volta tutti gli elettrodomestici hanno una linea perfettamente unitaria. Il prezzo è competitivo, l’ingombro è limitato (da 1 a 2,7 metri), il linguaggio estetico accattivante201. Il made in Italy è pronto per spiccare il volo. 4. La grande distribuzione e i supermercati «americani» 4.1. Supermercati Mosca, luglio 1959. Gli americani allestiscono un’esposizione nella capitale sovietica che comprende una casa perfettamente funzionante (la casa americana «standard»). Nixon e Chrusˇcˇëv la visitano ed entrano in cucina. Qui il vicepresidente statunitense indica con orgoglio una lavastoviglie e vari elettrodomestici e spiega che tutto lì è stato pensato per rendere la vita quotidiana più semplice e piacevole, applicando le tecnologie più avanzate (che non servono solo a razzi e armamenti), e che tutto questo in America è alla portata anche di un operaio. Perché non permettere allora alla gente di scegliere liberamente il tipo di casa, il tipo di zuppa, il tipo di idee che desidera? incalza Nixon verso un sempre più seccato Chrusˇcˇëv... Roma, giugno 1956. Il Dipartimento dell’agricoltura Usa e la National Association of Food Chains allestiscono un’esposizione all’Eur di un intero supermercato di mille metri quadrati, con tutte le più moderne attrezzature, scaffali, banconi, casse automatiche, e venti commesse che girano con i carrelli fra i 2500 articoli esposti (tutti offerti da imprese americane) per mostrare il funzionamento del metodo «self-service». In tredici giorni la «Supermarkets – U.S.A.» è visitata da 450.000 persone e vari gruppi di operatori commerciali, suscitando grande interesse anche nei media202. 201 Faravelli Giacobone, Guidi, Pansera, Dalla casa elettrica alla casa elettronica cit., pp. 70-98. 202 Scarpellini, Comprare all’americana cit., pp. 86-87; F. Antonioni, Anche il nostro pane quotidiano surgelato, «Il Messaggero», 22 giugno 1956. È possibile vedere le immagini dell’esposizione all’Eur in Archivio Storico Luce, La Settimana Incom, n. 01419, 21 giugno 1956; e anche ivi, L’Europeo Ciac, n. E1010, 21 giugno 1956. Da notare che i commenti non mancano di un velo di ironia: si afferma che gli acquisti vanno fatti all’insegna della buona fede e che l’unico inconveniente del supermercato americano è che si paga come da noi.

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La discussione di Mosca (passata alla storia come kitchen debate) e il supermercato romano sono solo due esempi della strategia americana che negli anni Cinquanta e Sessanta punta alla diffusione internazionale dell’American way of life. Pratici esempi di come gli Stati Uniti siano in grado di assicurare beni di consumo in quantità e qualità superiori a chiunque altro, e con un implicito messaggio ideologico: i bisogni e i desideri della gente comune nella sfera della vita quotidiana sono altrettanto importanti per l’amministrazione Usa dei progetti per l’esplorazione spaziale o delle conquiste scientifiche; inoltre la libertà di scelta fra prodotti diversi garantita dall’economia di mercato non è che il riflesso speculare della libertà di scelta garantita dalla democrazia203. Libertà economica e libertà politica sono due facce di una stessa medaglia. E si intende che una vita realizzata è una vita piena di «cose», da acquisire individualmente, che danno soddisfazione e marcano la posizione sociale della famiglia in una società mobile. In questa costruzione il supermercato è un elemento importante. La sua spettacolare esposizione di ogni ben di Dio, tutto a portata di mano, tutto potenzialmente comprabile, è un po’ l’incarnazione dell’idea di un benessere e un’abbondanza senza limiti; inoltre costituisce un nuovo importante spazio di consumo che trasforma abitudini e routine quotidiane. Tradizionalmente si indica nel King Kullen di Long Island, aperto nel 1930, il primo supermercato moderno; la diffusione di queste forme commerciali negli Stati Uniti conosce una prima forte ondata nel periodo della grande depressione, grazie ai loro prezzi molto concorrenziali, e una seconda a partire dagli anni Cinquanta, per via dell’innalzamento del tenore di vita e del baby boom (nel 1958 sono già più di 20.000). In Europa si diffondono nel secondo dopoguerra, quando importanti catene di negozi alimentari (come le inglesi Tesco e Sainsbury o le tedesche Tengelmann e Edeka) adottano il sistema «americano», più efficiente e gradito dal pubblico204.

203 Sul ruolo che i successi dell’economia di mercato giocano nella guerra fredda cfr. J.L. Gaddis, The Cold War: A New History, Penguin Press, New York 2005. Sull’esportazione del modello americano in ambito economico cfr. J. Zeitlin, L’«americanizzazione» e i suoi limiti. La rielaborazione della tecnologia e del management statunitensi in Europa e in Giappone nel secondo dopoguerra (2000), «Annali di storia dell’impresa», 11, 2000, pp. 259-337; H.G. Schröter, Americanization of the European Economy: A Compact Survey of American Economic Influence in Europe since the 1880s, Sprinter, Dordrecht 2005. 204 E. Scarpellini, L’utopia del consumo totale. L’evoluzione dei luoghi di consumo, in Il secolo dei consumi cit., pp. 34-37.

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In Italia le cose sono un po’ più complicate. Abbiamo visto le difficoltà e i ritardi nello sviluppo di grandi magazzini ed empori a prezzo unico. Il censimento del 1971 accerta la presenza di 1.180.000 imprese commerciali, con 2.700.000 addetti, delle quali il 93 per cento ditte individuali con 2-5 addetti; le imprese maggiori operano nel commercio all’ingrosso (localizzato in gran parte in Lombardia), mentre la presenza della grande distribuzione è modesta (i grandi magazzini e magazzini a prezzo unico sono 550 e vendono il 6,9 per cento dei consumi non alimentari)205. Il mondo del commercio è quindi ancora decisamente caratterizzato dalla rete di piccoli negozi che, anzi, ha conosciuto una nuova espansione con le migrazioni interne (dato che molti trovano occupazione qui, e non nelle grandi fabbriche) e con l’accresciuto potere di acquisto della popolazione. Non per nulla i negozi non alimentari crescono più rapidamente di quelli alimentari, per rispondere alle nuove esigenze dei consumatori. In particolare vanno forte abbigliamento, oreficerie, mercerie, profumerie, valigerie, fiori, articoli sanitari, scientifici e sportivi, cartolerie, radio, articoli per fumatori, e tutti i generi relativi alla casa e all’arredamento – in difficoltà sono invece gli empori non qualificati, i negozi di tessuti e di cappelli: ecco disegnato un quadro che rispecchia un migliorato tenore di vita, un’attenzione nuova per il corpo e la casa e una maggiore mobilità, ma anche l’espansione delle industrie di abbigliamento (che mette in crisi sarti e negozi di tessuti) e, perché no, la forza della moda (che fa decadere l’uso di cappelli e cappellini). Anche nell’alimentare si notano significativi cambiamenti: salgono i negozi che vendono generi freschi e di pregio (drogherie, ortofrutta, latterie, panetterie, salumerie, macellerie), mentre si contraggono le rivendite non specializzate di generi diversi, cibi cotti, tripperie e bazar (e ancor più si riduce il povero commercio ambulante) (Tab. 8). E i supermercati? Il censimento del 1971 ne segnala la presenza di 607, due terzi dei quali al nord, che incidono per un modestissimo 3,7 per cento dei consumi alimentari commercializzati. Eppure la loro apparizione aveva causato un pandemonio. Torniamo indietro di qualche anno. Dopo l’esposizione a Roma e dopo isolati tentativi di applicare il nuovo sistema del self-service, senza grandi risultati206, la prima importante società di supermercati che

205 Istat, 5º Censimento generale dell’industria e del commercio 25 ottobre 1971, vol. IV, Commercio e servizi, Roma 1976; Scarpellini, Comprare all’americana cit., pp. 248-254 (per un quadro complessivo del commercio). 206 Il primo esperimento fu probabilmente la Formica di Quirino Pedrazzoli, «magazzino senza commessi – Self-Service American System», aperto nel centro di

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si afferma in Italia è ancora opera di americani, anzi, di uno degli uomini più ricchi e in vista del suo paese, il milionario Nelson A. Rockefeller, magnate del petrolio della Standard Oil e potenziale candidato alla Casa Bianca. È una delle sue società di New York, la Ibec (International Basic Economy Corporation), già ramificata in Sudamerica, ad aprire nel 1957 a Milano un’impresa con capitale misto, americano e italiano (insieme con gli industriali tessili Bernardo e Guido Caprotti, i Crespi del «Corriere della Sera», Marco Brunelli e altri soci minori): la «Supermarkets Italiani Spa»207. L’impresa apre tra mille difficoltà: lunghe trafile burocratiche per ottenere le licenze di esercizio, fortissime resistenze dei piccoli commercianti, preoccupazioni di carattere politico. Ma le competenze gestionali del management statunitense e la buona accoglienza del pubblico ne determinano un rapido successo; anzi, le continue polemiche che rimbalzano sulle pagine dei quotidiani e il «passaparola» non fanno che aumentarne l’impatto sociale, in una misura ben superiore all’effettiva quota di mercato. Cosa rappresenta dunque il supermercato nella società italiana del tempo? Per capirlo, accodiamoci a un’anziana signora che sta proprio per entrare nel primo esercizio aperto dalla Supermarkets Italiani nel novembre 1957. Facendoci largo fra Vespe, Giardinette e altre vetture parcheggiate fuori (il garage non c’è, è inutile per il momento), entriamo in un vasto edificio moderno, sotto un’enorme insegna «Supermarket» (è in inglese, notiamo, e fa coincidere il sistema di vendita con il nome della società: meglio essere chiari!). Per inciso, venendo qui, abbiamo notato in giro la presenza di moltissime indicazioni e di segnali pubblicitari luminosi, molti dei quali al neon, bianchi e colorati, che conferiscono un aspetto futuribile e «americanizzato» alle città italiane del periodo: è uno dei modi in cui il commercio modifica il paesaggio urbano. La prima impressione è quella di un ambiente efficiente e razionale. Il grande spazio unico è inframmezzato da scaffalature lunghe e re-

Milano nel 1948, che durò un paio d’anni; le attrezzature dell’esposizione all’Eur furono invece rilevate dalla «Supermercato Spa» di Roma (di proprietà di Franco Palma e Amedeo Malfatti), che aprì la prima sede in viale Libia nel marzo 1957, ma anche qui il successo durò poco e l’impresa, inutilmente offerta alla Supermarkets Italiani, fu poi rilevata dal settore alimentare della Rinascente, nonostante le gravi perdite, per aggirare il problema delle licenze. Accanto a questi, vi furono altri esperimenti (come i reparti alimentari alla Standa, a Napoli e Verona) e altre iniziative isolate. Cfr. Scarpellini, Comprare all’americana cit., pp. 86-89. 207 Cfr. la storia della Supermarkets Italiani in Scarpellini, La spesa è uguale per tutti cit.

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golari che presentano pile infinite di alimenti; gli arredi sono semplici e funzionali, i colori e le indicazioni che identificano i reparti integrati nell’ambiente. Prevalgono i colori chiari e metallici, i pavimenti sono lucidi, tutto è pulitissimo, i neon diffondono una luce bianca. Se i lussuosi grandi magazzini sono stati avvicinati al modello del teatro, qui vediamo all’opera una forma diversa di spettacolarizzazione, basata sull’efficienza, la tecnologia, la modernità. Il supermercato per queste caratteristiche ricorda una fabbrica, è stato detto; ma una fabbrica addobbata a festa, aggiungiamo noi: il sobrio profilo generale contrasta volutamente con la vivacità dei colori e la varietà delle confezioni presenti, c’è una musica di sottofondo e regna un’atmosfera piacevole (annoterà il direttore Boogaart: «Il negozio di solito è pieno di mariti e mogli. La musica suona di continuo e l’intero negozio sembra in festa. I nostri impiegati sembrano straordinariamente felici»)208. Ma seguiamo la nostra signora. Dopo avere scrutato attentamente il reparto frutta e verdura (dove non trova merce sfusa ma sempre ben impacchettata) e acquistato delle banane, si è diretta decisamente con il suo carrello verso i latticini e ha comprato burro e un paio di formaggi (uno italiano di marca e uno danese a buon prezzo). Notiamo che i clienti osservano attentamente la merce prima di comprarla; è probabile che non siano abituati a comprare tutto, o quasi, già confezionato e forse non conoscano molte marche (dopotutto la pubblicità è ancora limitata). Anzi, molti sembrano lì più per osservare lo spettacolo della merce che per comprare davvero. Uno dei reparti che suscita più meraviglia è quello della carne: è già tagliata ed è confezionata su vassoi avvolti da una pellicola trasparente (altro derivato della plastica)209; si può guardare, rigirare in mano, praticamente toccare, senza compromettere igiene e qualità: la merce non nasconde nulla! La signora compra due fettine e si dirige verso un banco refrigerato. Cosa c’è dentro? I surgelati, naturalmente, una vera novità per quei tempi. Notiamo la prevalenza di pesce, rispetto a carne e verdure (forse per la difficoltà nel reperirlo fresco), ma molti clienti, compresa la nostra signora, li guardano scettici e tirano dritto. Li si può capire, contrastano pie-

208 Rockefeller Archive Center, Wayne G. Broehl, IV 3A 16, box 12, folder «Italiani II», R.W. Boogaart a W.D. Bradford, Milano, 9 dicembre 1957 (in inglese nell’originale). 209 La pellicola trasparente nasce in origine come film di cellulosa ed è commercializzata all’inizio del Novecento dal suo inventore J.E. Brandenberger con il nome di cellophane, che continuerà spesso a indicare questo tipo di prodotto, anche quando negli anni Sessanta deriverà da polimeri sintetici (Pvc e similari).

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namente con l’idea di cibo fresco e genuino che hanno, sono diversi la consistenza e il colore, non hanno odore... Appena dietro c’è un banchetto con due sorridenti commesse che offrono del caffè appena fatto: è buono, e la signora si fa macinare sul posto un etto di caffè, che è prodotto dallo stesso supermercato. Non dobbiamo dimenticare che questi negozi non sono semplici rivendite di merci confezionate più o meno industrialmente, ma sono in parte anche produttori. La Supermarkets Italiani, ad esempio, scoprì presto che in molti settori le industrie alimentari italiane non erano pronte a rispondere alle esigenze di qualità, quantità, controllo dei prodotti e anche puntualità nelle consegne richieste da un supermercato, e iniziò a produrre direttamente pane, pasta, gelati, a torrefare caffè, a tagliare e confezionare in proprio salumi e formaggi, il tutto a prezzi molto concorrenziali (di questo, e soprattutto della pasta, i manager americani erano particolarmente fieri: «Nei negozi l’accoglienza è stata ottima. [...] I prodotti sono di qualità eccellente e la gente risparmia il 50%. È stata un’emozione per noi vendere uno dei prodotti alimentari preferiti dagli italiani a un prezzo che loro non avevano mai visto prima»)210. In altri casi furono presi accordi direttamente con imprese estere, saltando la lunga catena di intermediazioni commerciali, e non mancarono i primi esperimenti di marca commerciale (cioè di confezionamento realizzato in esclusiva da produttori esterni con una specifica etichetta). Insomma, i supermercati hanno un certo impatto anche sulle industrie alimentari. Seguiamo ancora la signora, che si è fermata a rimirare le scatole di ananas a fette e macedonia già pronta (finalmente frutta esotica, per variare il solito dessert!). Infine attraversa il settore dedicato all’igiene personale e della casa, aggiungendo un detersivo per il bucato al suo carrello, e giunge alle casse – quei registratori di cassa moderni e tecnologici che tanto avevano colpito i primi avventori (insieme alle giovani e professionali cassiere). L’importo da pagare non è alto (del resto, in Italia la spesa pro capite è un terzo di quella americana media, tanto che la Supermarkets Italiani si è fatta fare carrelli e cestini di dimensioni minori rispetto a quelli statunitensi per non imbarazzare i clienti). La signora è soddisfatta e si allontana quindi con il suo sacchetto in mano (nei primi giorni i commessi dovettero correre dietro a molti avventori che si allontanavano con il carrello, credendo fosse da conservare e portare avanti e indietro a ogni spesa). 210 Rockefeller Archive Center, Wayne G. Broehl, IV 3A 16, box 12, folder «Italiani III», R.W. Boogaart a W.D. Bradford, Milano, 4 aprile 1959, 6 aprile 1959 (in inglese nell’originale).

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Da quanto abbiamo visto, e da quanto emerge da ricerche di mercato e dai rapporti stilati dai dirigenti dei primi supermercati, la reazione dei consumatori però è differenziata. Un’inchiesta dell’Ipsoa su 500 clienti spiega così le ragioni della scelta: 133 persone li preferiscono per i prezzi bassi, 116 per l’assortimento, 69 per la rapidità del servizio, 62 per la libertà di scelta, 47 per la qualità, 34 per l’igiene, 8 per i prezzi fissi e 35 per motivazioni varie211. Questo conferma quanto emerso da precedenti indagini della Doxa, che mostrano anche come la tendenza al risparmio sia massima agli estremi della scala sociale: i meno abbienti la realizzano abbassando la qualità degli acquisti, i più facoltosi mantenendo la qualità alta ma comprando in grandi quantità (anche perché dispongono di spazi adeguati e capaci frigoriferi); la classe media si caratterizza invece per la mobilità territoriale e va alla ricerca dei punti di vendita con i prezzi migliori – quindi si persegue lo stesso scopo con strategie differenti212. Ma c’è di più. All’interno del supermercato abbiamo notato persone giovani (lo immaginavamo) ma anche molti anziani, come la signora che abbiamo seguito: pensavamo fossero i più scettici di fronte alle novità e invece sono tra i clienti più fedeli. Questo per via dei prezzi bassi, della possibilità di comprare piccole quantità di cibo (evitando ogni imbarazzo) e del gusto di frequentare un ambiente piacevole, ben tenuto, condizionato, quasi un nuovo posto di socializzazione. Abbiamo anche visto molti immigrati; per loro è più facile comprare qui: le stesse caratteristiche che non piacciono a una parte della classe media (che lamenta uniformità e omologazione nelle scelte, mancanza di rapporto umano, e manifesta timori di «declassamento») è invece un pregio agli occhi di un gruppo che fatica a integrarsi socialmente, e magari è discriminato in bar e negozi dove tutti si conoscono da anni e parlano in dialetto. È significativo che la Supermarkets Italiani (che già nel 1961 passa interamente in mani italiane, rilevata dai Caprotti, e acquisisce in seguito il nome di Esselunga) sia ben consapevole di questo aspetto di «democratizzazione» dei consumi e utilizzi nel 1966 manifesti pubblicitari che mostrano sullo sfondo uno scontrino del supermercato e in primo piano un cappello (ogni volta diverso: da signora, da carabiniere ecc.), con la scritta: «La scelta è uguale per tutti»213. Aumentano i clienti dei supermercati, «Il Giorno», 15 maggio 1959. «Bollettino della Doxa», 30 dicembre 1958, pp. 207 sgg. La percentuale di famiglie che frequenta i supermercati risulta pari al 22% nelle città e al 17% nelle aree rurali nel 1964 (ivi, 30 novembre 1964, p. 195). 213 I manifesti, come anche varie fotografie degli interni dei primi supermercati, sono riprodotti in Scarpellini, La spesa è uguale per tutti cit. 211 212

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E riguardo al genere? Le donne sono naturalmente grandi protagoniste nelle corsie dei supermercati, considerato che su di loro ricade tradizionalmente il compito di fare la spesa. Qui risparmiano tempo e trovano molti prodotti pronti all’uso, puliti, tagliati, precotti: varie fasi della preparazione alimentare sono ora espletate industrialmente, e questo è molto utile, visti i loro impegni familiari e la crescente occupazione extradomestica. Sono protagoniste anche come lavoratrici, perché, come è tipico nel terziario, esse costituiscono una buona fetta della forza lavoro, fanno le commesse, le impiegate. Non disponiamo di studi sulla vita delle commesse del supermercato; sappiamo però che la disciplina all’interno della società italoamericana era rigida, si combatteva con ogni mezzo l’assenteismo, non si assumevano donne sposate, si esigeva un aspetto pulito e ordinato; in compenso i salari erano alti per il settore, e questo alimentava continue richieste di assunzione, e l’ambiente di lavoro era ben tenuto e piacevole sotto molti aspetti. Ma la vera sorpresa sono gli uomini. Ne abbiamo visti tanti aggirarsi tra pacchi di biscotti e passate di pomodoro (i rapporti interni della Supermarkets Italiani confermano questa impressione: la clientela maschile costituisce il 35 per cento dei 70.000 clienti che ogni settimana affollano i negozi)214. Come mai? Improvviso desiderio di aiutare le mogli a fare la spesa? Capovolgimento di ruoli? Niente affatto. Solo che andare al supermercato a molti non sembra lo stesso che sobbarcarsi la routine quotidiana della spesa: solletica la curiosità, fa scoprire prodotti sconosciuti, esotici, nuovi «tecnicamente» (surgelati, sotto vuoto ecc.); con lo stesso budget si possono fare molte variazioni, inserendo prodotti che vengono da posti lontani (l’ananas è ottimo, ma perché non provare una zuppa cinese al posto della pastasciutta, o questi strani «pizzoccheri», e per secondo del manzo argentino in scatola; si può prendere un pezzetto di raffinato Camembert – o è meglio l’altrettanto esotica mozzarella napoletana? per il bambino andranno bene i marshmallows?). Insomma, comincia il processo per cui la scelta del cibo non è più un’attività esclusivamente femminile, non si basa più su ricette segretamente tramandate di madre in figlia, non è più improntata principalmente alla tradizione locale, ma si trasforma in un

214 Rockefeller Archive Center, Microfilm series Ibec, 9 «Supermarkets Italiani», J.C. Moffett, American Supermarkets in Milan or Sunflowers Grow in Italy, 15 gennaio 1960. Percentuali simili, fra un terzo e un quarto del totale, furono registrate anche nel primo supermercato romano (cfr. First U.S.-Style Supermarket in Rome is Highly Successful, «New York Times», 18 marzo 1957).

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bricolage culturale, indica uno stile di vita alla cui costruzione ogni membro della famiglia vuole partecipare. Naturalmente non si tratta tanto di cibi di provenienza estera, il cui consumo è ancora limitatissimo, ma di piatti e alimenti provenienti da altre regioni italiane: la grande distribuzione gioca un ruolo importante nel superare i confini locali e diffondere prodotti tipici su scala nazionale o almeno regionale, contribuendo alla costruzione di quella che verrà percepita all’estero come la «cucina italiana» tipica. Infine c’è un motivo pratico: si diffonde l’abitudine di concentrare la spesa una volta la settimana (anche per gli impegni di lavoro), e quindi serve l’aiuto del marito (e la macchina, se c’è). In realtà, è l’intera famiglia a partecipare al rito della spesa, dato che il supermercato estende al settore alimentare l’abbinamento consumo-divertimento iniziato molto tempo prima. È per questo che l’ambiente è così curato e ogni dettaglio è studiato per rendere piacevole ed eccitante la permanenza all’interno (non ultimi, i concorsi a premi, le estrazioni a sorpresa, le degustazioni, gli omaggi ecc.). Nel giro di pochi anni compaiono molte altre imprese di supermercati. Alcuni importanti gruppi sono incentrati sulle realtà regionali, come la Romana Supermarkets, che si espande nella capitale e nel 1966 passa nell’orbita pubblica come Gs, o i supermercati piemontesi e liguri della famiglia Garosci, il gruppo Bennet degli imprenditori comaschi Ratti, la Pam dei Bastianello e Gioel di Venezia215. Ma si assiste anche a un’espansione a livello nazionale, grazie alle due principali catene di grandi magazzini, la Rinascente e la Standa, che seguono però strategie differenti. La prima dà vita a una società autonoma di supermercati, la Sma, che si diffonde in tutto il paese grazie a una politica di acquisizioni di ditte minori e di apertura di nuovi punti vendita, tanto che nel 1962 sono già attive 23 sedi (solo in pochi casi si sceglie di affiancare la Sma ai punti vendita Upim). La Standa invece punta sull’integrazione dell’alimentare presso i propri magazzini (pubblicizzata dallo slogan «Alla Standa c’è tutto») e la soluzione si rivela vincente, permettendo una rapida espansione. A questi gruppi vanno aggiunte molte altre esperienze medio-piccole, per cui si assiste un po’ ovunque all’apertura (e talvolta rapida chiusura) di supermercati e supermercatini di piccole dimensioni (le «superette»). Ma soprattutto vanno ricordate altre due forme importanti: la prima è il commercio associato, che si sviluppa proprio in questi anni (la prima unione volontaria fra dettaglianti e grossisti è la Végé del 1959, promossa da Emilio Lombardini e dai fratelli Garosci, seguita dalla Despar e dall’A&O Selex, 215

Scarpellini, Comprare all’americana cit., pp. 167-240.

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mentre molto più numerosi sono i gruppi di acquisto collettivo fra dettaglianti); la seconda è costituita dalle cooperative, in forte ripresa (nel 1971 la Coop-Italia ha già 71 supermercati e 700 superette; nel 1962 viene fondata a Bologna la Conad)216. Una statistica del 1971 segnala che sui 607 supermercati esistenti nel 1971, il 56 per cento appartiene a imprese della grande distribuzione, il 32 a commercianti indipendenti o associati, il 12 a cooperative di consumo217. Il quadro è perciò differenziato (per inciso, il periodo è propizio anche allo sviluppo di nuovi grandi magazzini, fra i quali spicca quello che diventerà un altro protagonista a livello nazionale, il veneziano Coin). Va anche aggiunto che la crescita della grande distribuzione italiana non è solo il risultato di fattori economici e sociali, ma anche di un complesso gioco politico, che vede protagonisti le associazioni sindacali di categoria (Confcommercio), numerosi organismi pubblici (Camere di commercio, prefetture, comuni e da ultime le regioni), partiti politici di governo e opposizione: molto più che nei paesi nordeuropei, il commercio è terreno di scontro in chiave politico-corporativa. La legge quadro del settore del 1971, fortemente sostenuta dalla Confcommercio e votata da tutti i partiti, assegna un fondamentale ruolo di pianificazione agli enti locali e pone di fatto un freno allo sviluppo della grande distribuzione218. Al di là degli aspetti pratici della sua diffusione, il supermercato ripropone una rivoluzione nei consumi paragonabile a quella realizzata dai grandi magazzini ottocenteschi (non per nulla è ancora oggi la forma più diffusa in Italia di grande distribuzione alimentare). Contribuisce a mutare abitudini, rende diretto e immediato il rapporto con la merce, rafforza il ruolo delle marche sul mercato (come scegliere, se no, fra i tanti prodotti allineati sugli scaffali?), fa conoscere nuovi prodotti, esalta il ruolo del packaging219, accelera alcuni processi di trattamento industriale degli alimenti, è la testa di ponte di varie multinazionali in Italia. Allo stesso tempo, però, non è per niente succube delle imprese industriali, mette in atto sue specifiche politiche di vendita e persino di produzione, realizza una rivoluzione nei prezzi grazie a 216 Aigid, «Notizie per la stampa», 55, 15 dicembre 1975; ivi, 54, 20 novembre 1975; V. Zamagni, P. Battilani, A. Casali, Centocinquanta anni di cooperazione di consumo, il Mulino, Bologna 2004. 217 Aigid, «Notizie per la stampa», 36, 3 maggio 1972. 218 Per i complessi aspetti politici legati alle vicende del commercio si rimanda a Scarpellini, Comprare all’americana cit. (in particolare sulla genesi della legge 11 giugno 1971, n. 426, che resterà in vigore fino al 1999, cfr. pp. 297-317). 219 G. Anceschi, V. Bucchetti, Il «packaging» alimentare, in Storia d’Italia. Annali 13. L’alimentazione cit., pp. 847-886.

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una sofisticata organizzazione aziendale (di cui il self-service non è che l’aspetto superficiale, come dovettero constatare molti imprenditori improvvisati). E i consumatori, come al solito, «usano» questa novità in maniera culturalmente differenziata. In questo modo il cerchio del consumo si chiude. In un’altra cosa i supermercati si avvicinano ai grandi magazzini: per il loro impatto culturale e sociale. Come era accaduto ottant’anni prima, sembrò a molti che il supermercato rappresentasse l’archetipo di una nuova epoca. Esso esemplifica alcuni elementi tipici della modernità, in positivo e in negativo: l’abbondanza di merci per tutti, la libertà di consumo, la fine della penuria; i suoi lunghi corridoi pieni di merci simbolizzano al tempo stesso la paura dell’omologazione, dell’anonimato, di una ripetizione infinita e inquietante. Il concetto di «supermercato» passa in fretta al campo artistico e letterario. Il caso più famoso è di certo quello della Pop Art di Andy Warhol, che fa della rappresentazione seriale di icone consumistiche la cifra della sua arte, giungendo a presentare nel 1964 alla Galleria d’arte Bianchini di New York un «vero» supermercato: scaffali, locandine pubblicitarie, lampade al neon, pile di lattine, scatoloni di prodotti; si poteva anche comprare la merce esposta (il confine fra arte e realtà sfumava volutamente): scatole Campbell firmate da Warhol (18 dollari l’una), bistecche di plastica di Mary Inman (27 dollari), meloni cromati di Robert Watts (125 dollari) e, se si disponeva di pochi soldi, si poteva acquistare almeno un uovo, di Watts, a 2 dollari220. Così si compiva l’ironica celebrazione del consumo illimitato. Anche in Italia la presenza dei supermercati rimbalza rapidamente nel mondo dell’arte, ma i toni sono decisamente critici. Lo scrittore Luciano Bianciardi ne fa un ritratto impietoso nella Vita agra; come in una catena di montaggio, il supermercato aliena e disumanizza clienti e commessi: Entrando, ti danno un carrettino di fil di ferro, che devi riempire di merce, di prodotti. Vendono e comprano ogni cosa; i frequentatori hanno la pupilla dilatata, per via dei colori, della luce, della musica calcolata, non battono più le palpebre, non ti vedono, a tratti ti sbattono il carrettino sui lombi, e con gesti da macumbati raccattano scatole dalle cataste e le lasciano cade-

220 The American Supermarket, mostra alla Bianchini Gallery, New York, ottobre-novembre 1964 (cfr. C. Grunenberg, The American Supermarket, in Shopping. A Century of Art and Consumer Culture, a cura di C. Grunenberg, M. Hollein, Hatje Cantz, Ostfildern-Ruit 2002, pp. 171-175).

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re nell’apposito scomparto. Nessuno dice una parola, tanto il discorso sarebbe coperto dalla musica e dal continuo scaracchiare delle calcolatrici. [...] La fila delle cassiere è sempre attiva ai calcolatori, e le dita saltabeccano di continuo sui tasti, come cavallette impazzite. In testa hanno un berrettino azzurro col nome del bottegone, non battono palpebra, fissano i numerini con le pupille dilatate, e ogni giorno hanno il visino più smunto, le occhiaie più bluastre, il colorito più terreo, il collo più vizzo, come tante tartarughette. Ci sono anche giovinastri neri e meridionali, con scatole e appositi portacarichi, i quali trascinano fino alle auto la caterva degli acquisti, dodici bottiglie di acqua gazzosa, dieci pacchetti di gallettine, olive verdi col nocciolo e senza, gli assorbenti igienici per la signora, perché tanto anche ’sto mese ci sono stati attenti, un osso di plastica per il barboncino, venti barattoli di pomodori (anzi di pomidoro, dicono), un pelapatate americano brevettato, che si adopera anche con la sinistra, i grissini, e gli sfilatini, i salatini, gli stecchini, i moscardini e i tovagliolini di carta con le figure a fantasia, tanto spiritosi, tanto divertenti. Io lo dico sempre, metteteci una catasta di libri, e accecati come sono comprerebbero anche quelli221.

Lo sguardo corrosivo dell’intellettuale su un mondo che gli appare distante e volgare fa il paio con la vivace descrizione di Italo Calvino sui tragicomici espedienti del povero Marcovaldo per partecipare come gli altri al rito dei consumi: Una di queste sere Marcovaldo stava portando a spasso la famiglia. Essendo senza soldi, il loro spasso era guardare gli altri fare spese [...]. Il supermarket funzionava col self-service. C’erano quei carrelli, come dei cestini di ferro con le ruote e ogni cliente spingeva il suo carrello e lo riempiva di ogni bendidio. Anche Marcovaldo nell’entrare prese un carrello lui, uno sua moglie e uno ciascuno i suoi quattro bambini. [...] Insomma, se il tuo carrello è vuoto e gli altri pieni, si può reggere fino a un certo punto: poi ti prende un’invidia, un crepacuore, e non resisti più. Allora Marcovaldo, dopo aver raccomandato alla moglie e ai figlioli di non toccare niente, girò veloce a una traversa tra i banchi, si sottrasse alla vista della famiglia e, presa da un ripiano una scatola di datteri, la depose nel carrello. Voleva soltanto provare il piacere di portarla in giro per dieci minuti, sfoggiare anche lui i suoi acquisti come gli altri, e poi rimetterla dove l’aveva presa. Questa scatola, e anche una rossa bottiglia di salsa piccante, e un sacchetto di caffè, e un azzurro pacco di spaghetti. Marcovaldo era sicuro che, facendo con delicatezza, poteva per almeno un quarto d’ora gustare la gioia di chi sa scegliere il prodotto, senza dover pagare neanche un soldo. [...]

221

L. Bianciardi, La vita agra (1962), Rizzoli, Milano 1995, pp. 160-162.

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Tutt’a un tratto la corsia finiva e c’era un lungo spazio vuoto e deserto con le luci al neon che facevano brillare le piastrelle. Marcovaldo era lì, solo col suo carro di roba, e in fondo a quello spazio vuoto c’era l’uscita con la cassa. Il primo istinto fu di buttarsi a correre a testa bassa spingendo il carrello davanti a sé come un carro armato e scappare via dal supermarket col bottino prima che la cassiera potesse dare l’allarme. [...] – Indietro! Presto! Lontani dalla cassa! – esclamò Marcovaldo facendo dietrofront e nascondendosi, lui e le sue derrate, dietro ai banchi; e spiccò la corsa piegato in due come sotto il tiro nemico, tornando a perdersi nei reparti222.

Alcuni intellettuali hanno ipotizzato un’affinità anche più profonda tra i nuovi luoghi del consumo e la cultura moderna. Studiosi come Moles e Dorfles sostengono che una delle caratteristiche delle società odierne sia il kitsch, inteso non tanto nel senso originario di proliferazione di oggetti di cattivo gusto o imitazioni di qualità scadente, che possono esistere in ogni tempo, ma come espressione storica di un’abbondanza di merci in grado di appagare i desideri di tutti. Naturalmente non si tratta di merci rare e costose, come quelle che erano appannaggio delle classi più elevate, ma di oggetti industriali, a buon mercato, facilmente reperibili. Il kitsch è insomma il portato della rivoluzione industriale e della società borghese, è la manifestazione compiuta delle moderne società di massa. Ed ecco allora che supermercati e grandi magazzini diventano gli altari di questa cultura che si realizza nel consumismo. La giustapposizione di tante merci che troviamo al loro interno, quindi, non è casuale o il riflesso di una logica efficientista, ma lo specchio di valori profondi. In questi luoghi si dispiega davanti ai nostri occhi una quantità infinita di prodotti, spesso solo surrogati del vero lusso o simulazioni di uno stile, ma rappresentanti il mondo materiale che costituisce il principale sistema di riferimento della nostra cultura. Serialità, imitazione, economicità, reperibilità, semplicità: sono tutte qualità fondamentali delle merci kitsch, che possono piacere o meno, possono essere contrapposte polemicamente agli oggetti di arte «vera», ma hanno un significato culturale che va molto al di là di quello apparente223. 222 I. Calvino, Marcovaldo (1963), in Romanzi e racconti, a cura di M. Barenghi, B. Falcetto, Mondadori, Milano 1991, pp. 1147-1149. Sulla ricezione dei supermercati nel mondo letterario cfr. F. Ghelli, Supermercati di parole. Note su un tema/luogo letterario fra moderno e postmoderno, «Studi culturali», 3, dicembre 2007, pp. 377-400. 223 A. Moles, Il Kitsch, l’arte della felicità (1971-72), Officina, Roma 1979; G. Dorfles, Il kitsch: antologia del cattivo gusto, Mazzotta, Milano 1968; J. Baudrillard, La società dei consumi: i suoi miti e le sue strutture (1970), il Mulino, Bologna 1976;

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Quale che sia il giudizio che si vuole dare, una cosa è certa: i supermercati, come già altri luoghi del consumo: fiere, negozi, grandi magazzini e catene di negozi, mutano il paesaggio urbano. Costituiscono infatti luoghi di aggregazione e ritrovo, disegnano nuove geografie. Diversamente dai lussuosi grandi magazzini, che prediligono le ubicazioni centrali, i supermercati si insediano di preferenza all’interno di quartieri popolosi, spesso in periferia o semi-periferia, che vengono così valorizzati; molti dei primi supermercati sono costruiti nei nuovi quartieri di immigrati. E questo fenomeno si assomma alla ristrutturazione degli spazi commerciali che si verifica negli anni Cinquanta-Settanta nelle principali città: il numero di negozi rimane stabile o tende a diminuire nei centri storici (decrescono soprattutto quelli di generi di minore pregio per via dell’aumento delle rendite immobiliari e della contrazione dei residenti), mentre sale la concentrazione di esercizi commerciali nelle fasce periferiche e nell’hinterland più esterno224. Sharon Zukin ha mostrato l’efficacia con cui le forze del mercato modellano e trasformano nel tempo l’ambiente fisico con la loro presenza (o assenza)225; qui osserviamo come la fisionomia dell’Italia si sia caratterizzata storicamente con riguardo non solo alle fabbriche, ma anche ai luoghi del commercio, altrettanto in grado di strutturare il paesaggio e creare gerarchie e nuovi spazi urbani. Anche i consumi plasmano il paesaggio. A conclusione del discorso sui supermercati, il pensiero corre nuovamente al sogno americano del racconto di Moravia. E ci accorgiamo che quasi ovunque, per descrivere l’epoca d’oro dei consumi e le sue novità, abbiamo fatto ricorso a termini come «americano» e «statunitense». L’impatto del modello americano in questi anni è enorme, tanto che molti studiosi hanno parlato di un’americanizzazione che si riflette un po’ in tutti i campi dell’economia, della cultura e della società e che, a seconda dei punti di vista, è stata esaltata o condannata senza mezze misure (anche per le sue evidenti implicazioni politiche)226. La sulla dimensione estetica del fenomeno M. Mazzocut-Mis, Il gonzo sublime: dal patetico al kitsch, Mimesis, Milano 2005. 224 Cfr. ad esempio su Milano Il rapporto sulla Provincia di Milano, commissionato dall’Unione Commercianti, pubblicato in «Il Commercio Lombardo», 5 giugno 1964; S. Ravalli, Sviluppo demografico e mercantile negli ultimi dieci anni a Milano, ivi, 29 novembre 1963. 225 S. Zukin, Landscapes of Power: From Detroit to Disney World, University of California Press, Berkeley 1991. 226 M. Teodori, Maledetti americani: destra, sinistra e cattolici. Storia del pregiudizio antiamericano, Mondadori, Milano 2002; Id., Benedetti americani: dall’alleanza atlantica alla guerra al terrorismo, Mondadori, Milano 2003; Nemici per la pelle:

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questione è complessa e ha generato moltissimi studi, in Italia e in Europa227; quello che possiamo osservare qui è che gli incontri tra culture sono fenomeni troppo complessi per essere risolti in un giudizio manicheo, come mostra bene anche la storia dei consumi (pensiamo alle modalità di diffusione degli elettrodomestici, alle nuove forme di pubblicità e marketing, ai consumi giovanili, a molti prodotti culturali, al caso dei supermercati). Come direbbe Geertz, una cultura vede e interpreta ogni azione all’interno di una specifica rete di significati in grado di conferirle senso228. Così anche l’Italia ha inevitabilmente interpretato, utilizzato, costruito una sua forma di «americanizzazione», inglobando contenuti e tecniche d’Oltreoceano, ma tenendo conto delle proprie specificità storiche e culturali. Il risultato è stata una forma di ibridizzazione, o meglio, come suggerisce Kroes, di «creolizzazione»: una costruzione dove parole ed elementi derivanti da una lingua straniera si inseriscono all’interno di una grammatica e una sintassi indigene229.

sogno americano e mito sovietico nell’Italia contemporanea, a cura di P.P. D’Attorre, Franco Angeli, Milano 1991; Antiamericanismo in Italia e in Europa nel secondo dopoguerra, a cura di P. Craveri, G. Quagliariello, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004. 227 Sull’americanizzazione cfr. de Grazia, L’impero irresistibile cit.; R.F. Kuisel, Seducing the French: The Dilemma of Americanization, University of California Press, Berkeley 1993; M. van Elteren, Americanism and Americanization: A Critical History of Domestic and Global Influence, McFarland, Jefferson 2006; The American Century in Europe, a cura di R.L. Moore, M. Vaudagna, Cornell University Press, Ithaca 2003; D.W. Ellwood, L’Europa ricostruita: politica ed economia tra Stati Uniti ed Europa occidentale, 1945-1955 (1992), il Mulino, Bologna 1994. 228 C. Geertz, Interpretazione di culture (1973), il Mulino, Bologna 1987. 229 R. Kroes, If You’ve Seen One, You’ve Seen the Mall: Europeans and American Mass Culture, University of Illinois Press, Urbana 1996.

Capitolo quarto

La società affluente

1. L’impatto della società dei consumi 1.1. Dagli anni Settanta al nuovo millennio: luci e ombre Le polemiche non erano mancate all’inaugurazione di quella mostra al museo Guggenheim di New York nell’autunno del 2000. Per la prima volta una delle maggiori istituzioni d’arte al mondo dedicava una retrospettiva a un artista molto particolare: non un pittore, uno scultore o un performer di qualche tipo, ma uno stilista di moda, Giorgio Armani. Le sale disegnate da Wright sulla Fifth Avenue si erano riempite di abiti scintillanti sullo sfondo di originali scenografie e musiche evocative: ecco una sala di preziosi abiti bianchi, un’altra di vestiti beige, una di abiti da sera, e poi ancora giacche «destrutturate», tailleur, vestiti portati dai divi del cinema (primo fra tutti, Richard Gere in American Gigolo). Abiti indossati da manichini surreali, quasi espressioni della figura umana in una forma stilizzata e trascendente. Abiti che agli occhi dei visitatori mostrano un’ispirazione artistica, una grande maestria nella realizzazione, ma forse sollevano qualche dubbio: i vestiti non sono beni di consumo per tutti i giorni che non rientrano fra gli oggetti d’arte canonici che si vedono nei musei? O forse il messaggio della mostra è proprio questo, che anche certi consumi «ordinari» possono aspirare ad altri significati sociali, possono diventare opere d’arte?1

1 La mostra successivamente toccò altre importanti città per approdare infine a Milano nella primavera 2007. Cfr. il catalogo Giorgio Armani, Electa, Milano 2007.

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Dopo lo straordinario periodo di crescita dei decenni precedenti, contrassegnati dalle aspettative di uno sviluppo continuo con benefici per tutti, gli anni Settanta rappresentano un brusco risveglio per tutta Europa. Inizia un periodo segnato dalla depressione economica (innescata dallo shock del petrolio), da crescente disoccupazione, inflazione galoppante e, politicamente, dall’erompere della violenza sotto forma di terrorismo, mentre – soprattutto in Italia – si è alla difficile ricerca di nuovi equilibri politici. L’epoca delle «magnifiche sorti e progressive» sembra davvero finita e un famoso libro commissionato al Mit dal «Club di Roma» di Aurelio Peccei sintetizza il pensiero circolante parlando di «limiti dello sviluppo»2. I consumi sono la prima vittima del nuovo clima, presi come sono tra due fuochi. Da una parte risuonano con rinnovato vigore le critiche degli epigoni della corrente radicale che da sempre li condannano come espressione degenerata del capitalismo, strumento di oppressione mascherata e fonte di alienazione. Per la frangia più radicale non sono possibili compromessi, come mostra spettacolarmente il progetto di film presentato dal gruppo di giovani architetti fiorentini di «Superstudio» a un’importante esposizione newyorchese. In un’immagine compaiono giovani e bambini impegnati in attività di tutti i giorni (mangiano, giocano, parlano) su una superficie tecnologica, una specie di «griglia», sullo sfondo di paesaggi naturali. Ma c’è qualcosa di inusuale. Gli oggetti della vita quotidiana sono del tutto assenti: pareti, divani, quadri, televisori, auto, borsette, tovaglie, pentole, scatole, marche, tutto è sparito. In un’altra immagine un’intera famiglia ci sorride sospesa tra una spoglia pavimentazione tecnologica e un paesaggio montagnoso, completamente nuda, completamente priva di qualsiasi oggetto. «Una vita senza oggetti»: è questa la provocazione anticonsumistica più estrema3. D’altra parte, la crisi economica e lo spettro della mancanza di energia proiettano oggettivamente un’ombra oscura sullo sviluppo futuro. Nell’epoca d’oro dello sviluppo si era pensato che il modello d’industrializzazione occidentale potesse svilupparsi pressoché all’infinito, salvo catastrofi come guerre o rivoluzioni (provocate dall’uomo stesso). Ora si pone un drammatico interrogativo: esistono dei limiti «naturali» a questo tipo di espansione? Può il nostro pianeta essere

2 I limiti dello sviluppo: rapporto del System dynamics group Massachusetts institute of technology (MIT) per il progetto del Club di Roma sui dilemmi dell’umanità (1972), Mondadori, Milano 1972. 3 P. Lang, W. Menking, Superstudio. Life Without Objects, Skira, Milano 2003 (il progetto di film presentato al Moma nel 1972 si intitola Life, Supersurface).

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sfruttato, popolato, inquinato, consumato senza fine? La crisi del petrolio, pur se dovuta a motivazioni di politica internazionale, in fondo è la spia di un problema più vasto. Risparmiare diventa allora la parola d’ordine. In Italia inizia l’era dell’austerity, così come è battezzata dal governo Rumor: bisogna limitare i consumi di petrolio e intanto salgono i prezzi di benzina e gasolio; negozi e cinema riducono gli orari di apertura; riscaldamento e illuminazione sono regolamentati. L’immagine più emblematica di questo nuovo clima sono le domeniche a piedi: i filmati del 1973 e 1974, con un tono fra il divertito e il severo, ci mostrano città senza auto, sciami di ciclisti, drappelli di cavalieri e amazzoni, tandem e improbabili veicoli a pedali che circolano nelle vie deserte4. È la fine di un’epoca? L’austerity diventa il simbolo di un possibile futuro, molto diverso da quello immaginato fino ad allora. Nel frattempo le politiche governative si muovono decisamente per contenere il disavanzo e la spesa pubblica, mentre la compressione dei salari reali dovuta all’altissima inflazione contribuisce a diffondere sfiducia nei consumatori. I provvedimenti colpiscono con forza uno dei consumi simbolo del miracolo economico, l’automobile; per la prima volta la prospettiva di una crescita illimitata di beni è messa in crisi: non si potranno più comprare automobili all’infinito, non si potrà avere abbastanza benzina per tutti. Le prospettive apocalittiche predicate da alcuni sembrano materializzarsi. Forse domani ci saranno meno beni di consumo di oggi. In un mondo diventato difficile e ostile, le utopie collettive degli anni Sessanta lasciano il campo a preoccupazioni personali, al trinceramento nel privato. L’ultimo scorcio di secolo presenta tuttavia repentine variazioni e negli anni Ottanta l’economia italiana e quella internazionale conoscono una nuova fioritura. I consumi riprendono la loro corsa. Per l’Italia si parla addirittura sul piano economico di «secondo miracolo», soprattutto grazie al made in Italy e, sul piano sociale, di trionfo del consumismo. È il momento del look, della moda, delle televisioni private, di una seconda ondata di consumi: non più quelli di sussistenza legati alla triade cibo-casa-vestiti, ma vacanze, viaggi, cosmetici, palestre, seconde case, seconde auto, beni voluttuari (spesso mirati al consumo individuale più che familiare). La pubblicità fornisce il linguaggio e le immagini con cui questi anni si rappresentano. Gli italiani non sono mai stati meglio: vivono nella quinta potenza industriale del mondo e 4 Archivio Storico Luce, Radar R0619, 12 dicembre 1973; Sette G S0370, 11 dicembre 1973 e S0372, 4 gennaio 1974.

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i loro consumi si sono finalmente agganciati a quelli medi europei. La forbice che li aveva da sempre distanziati dagli altri paesi si chiude nella seconda metà degli anni Ottanta: è un momento storico. Non sono tutte luci, però, e in breve molti nodi vengono al pettine. Già agli inizi degli anni Novanta l’implosione del sistema politico italiano, le incertezze che gravano sul mercato del lavoro e sui giovani, il procedere della deindustrializzazione, il rallentamento della crescita economica in tutta l’area europea, la comparsa di nuovi protagonisti a Oriente, il terrorismo internazionale, le preoccupazioni per l’ambiente, l’erosione del welfare state e infine la globalizzazione si riflettono in un’attitudine più ponderata nel campo dei consumi, che vede l’emergere dei prodotti tecnologici e conosce una forte diversificazione. Messo in ombra il concetto di «classe», dal sapore anacronistico, studiosi e pubblicitari preferiscono parlare di «stili di vita» diversi per spiegare la crescente segmentazione del mercato. Affiora anche una questione etica relativa ai consumi e l’ingresso nel nuovo secolo è più all’insegna di domande che di risposte. I consumi, è chiaro, sono ora parte imprescindibile dello stile di vita occidentale, ma il loro ruolo culturale è in trasformazione. A grandi linee, questa è l’immagine che ci presenta l’ultimo scorcio del XX secolo. O forse dovremmo dire che questa ne è la rappresentazione corrente, la Narrativa. Ancora una volta, se rovesciamo il quadro e lo osserviamo dal punto di vista dei consumi, mettiamo a fuoco elementi diversi, che cambiano in parte la nostra prospettiva. Le ricerche storiche su quest’ultimo periodo sono naturalmente ancora poco sviluppate; tuttavia possiamo già avanzare alcune ipotesi. La prima è relativa agli anni Settanta, gli anni di crisi per eccellenza, gli «anni di piombo», uno dei periodi più difficili della storia italiana, secondo molti. Ebbene i consumi privati mostrano un andamento inaspettato: crescono per tutto il decennio, sia pure irregolarmente; l’unica vera diminuzione si registra nel 1975, il momento più acuto della crisi. Nel decennio l’aumento medio è del 3 per cento l’anno (un livello simile a quello della Germania, superiore a quello del Regno Unito), tanto che si può parlare di una certa continuità di crescita per tutto il ventennio 1973-1993. Come si spiega un simile andamento? Come si concilia con l’immagine di un paese in crisi drammatica e in regime di austerità? Un fisico come Einstein saprebbe subito spiegare il fatto: tutto dipende dal punto di osservazione. Gli studiosi contemporanei venivano da un periodo di crescita economica straordinaria, in cui i consumi erano letteralmente esplosi (5,4 per cento di crescita annuale negli anni Cinquanta e 6,6 nei Sessanta); è ovvio che un «misero» 3 per cento apparisse un crollo drammatico. Se a questo si assommano le tensioni po241

litiche del tempo (movimenti collettivi prima, violenze terroristiche dopo), si comprende come si sia formato un giudizio complessivo negativo. A distanza di tempo, e con alle spalle incrementi ben peggiori, quel 3 per cento acquista un significato diverso. Testimonia una vitalità nella società che non sempre appare nelle ricostruzioni retrospettive (salvo forse che nelle ricerche di storia sociale sulle trasformazioni della famiglia, il nuovo ruolo dei movimenti giovanili e in generale l’attenzione verso le minoranze e i soggetti deboli)5. Restano da spiegare le cause di questo dinamismo nei consumi. Come hanno sottolineato vari studiosi, fra cui D’Apice e Maione, i numeri ci dicono che è da questo momento che i beni di consumo si diffondono anche fra i ceti popolari: la rivoluzione di massa dei consumi avviene in Italia negli anni Settanta-Ottanta, con un ritardo di vent’anni rispetto al Nordeuropa6. Nel 1975 il rilevamento annuale della Banca d’Italia sui beni durevoli osserva che, a parte i consumi alimentari, alcuni consumi basilari (standard package) sono ormai diffusi fra tutta la popolazione: il 94 per cento delle famiglie ha il frigorifero, il 92 la televisione (oltre al 78 per cento con la lavatrice e al 64 con l’automobile): il loro possesso non è più indicativo di status sociale, la differenziazione si sposta su nuovi beni più costosi (condizionatori, lavastoviglie), sui servizi e gli svaghi7. Gli incrementi salariali ottenuti sono dunque stati impiegati nell’espansione dei consumi, e questo allargamento del mercato interno consente all’Italia una discreta performance anche in momenti difficili. Insomma, quando pensiamo alle immagini delle rivendicazioni sindacali di quegli anni, potremmo immaginarle in una piazza dove in qualche angolo vi siano manifesti pubblicitari che incitano al consumo (magari quelli famosi di Oliviero Toscani ed Emanuele Pirella per i jeans Jesus, dove un sinuoso fondoschiena invita «Chi mi ama mi segua» – scandalosi allora per la loro sensualità e blasfemia, e che Pasolini additò come sintomo dell’avanzare di un nuovo mondo tecnologico e laico, «di una laicità che non si misura più con la religione»)8. 5 Culture, nuovi soggetti, identità, a cura di F. Lussana, G. Marramao, Rubettino, Soneria Mannelli 2003; per un quadro storiografico cfr. B. Armani, Italia anni settanta. Movimenti, violenza politica e lotta armata tra memoria e rappresentazione storiografica, «Storica», 32, 11, 2005, pp. 41-82; cfr. anche G. Crainz, Il paese mancato: dal miracolo economico agli anni Ottanta, Donzelli, Roma 2003. 6 C. D’Apice, L’arcipelago dei consumi. Consumi e redditi delle famiglie in Italia dal dopoguerra ad oggi, De Donato, Bari 1981, pp. 57-74, 95-98; G. Maione, Spesa pubblica o consumi privati? Verso una reinterpretazione dell’economia italiana postbellica, «Italia contemporanea», 231, giugno 2003. 7 D’Apice, L’arcipelago dei consumi cit., pp. 96-97. 8 P.P. Pasolini, Il folle slogan dei jeans Jesus, «Corriere della Sera», 17 maggio

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Dal punto di vista della storia dei consumi, dunque, gli anni Settanta sono fondamentali e assolutamente da «rivalutare»; la retorica imperante dell’austerità e del risparmio, come ha notato Arvidsson, è più un’autorappresentazione che un fedele ritratto della realtà9; o forse, come suggerisce Gundle, è lo specchio di una classe politica che temeva gravi squilibri sociali in un paese in rapido mutamento, accomunando in una linea prudente e conservatrice vasti settori democristiani e comunisti10. La lettura da un’ottica essenzialmente politica ha gettato comunque una luce troppo sfavorevole sul periodo, rendendo difficile capire come si sia passati in pochi anni da un periodo di crisi e morigeratezza al «secondo miracolo economico» e al consumismo. Veniamo ora agli anni Ottanta e inizio Novanta. È certamente vero che il linguaggio della pubblicità acquisisce un ruolo mai visto prima, rimbalzando da un mezzo di comunicazione all’altro, e che, nell’afasia (e disillusione) della politica, ambisce a rappresentare simbolicamente la società del tempo. Anzi, ancora Arvidsson ritiene che pubblicità e cultura del consumo divengano preziose risorse simboliche con le quali i consumatori giustificano le loro scelte e determinano la propria soggettività (esse contano cioè quasi più nella sfera simbolica e culturale che in quella pratica delle scelte di consumo)11. Non è un caso che questo periodo sia talvolta etichettato, con uno slogan pubblicitario, come quello della «Milano da bere». In questo spot della Ramazzotti, vediamo un’interessante galleria di personaggi che vuole rappresentare l’incessante attività cittadina: giovani donne che balzano felici fuori dal letto al suono della sveglia, ragazzi che corrono per strada, venditori ambulanti di fiori, vigili al bar, operai alle gru, punk che leggono «Il Sole 24 Ore», donne che prendono taxi al volo, clienti eleganti che mangiano in ristoranti lussuosi, modelle pronte per la sfilata, coppie che ballano da sole di notte durante il lavaggio delle strade, camerieri che sfidano il traffico con i loro vassoi per portare ovunque «l’amaro di chi vive e lavora, l’amaro della vita, di una giornata che non è mai finita» – benessere e lavoro per tutti, insomma (inutile ricordare le facili ironie che sollevò questa «Milano da bere» 1973 (in P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 2001, p. 282). La citazione si riferisce nello specifico all’altro slogan adottato dalla medesimo campagna pubblicitaria: «Non avrai altro Jeans all’infuori di me!». 9 A. Arvidsson, Marketing Modernity. Italian Advertising from Fascism to Postmodernity, Routledge, London 2003, pp. 119-137. 10 S. Gundle, I comunisti italiani tra Hollywood e Mosca: la sfida della cultura di massa, 1943-1991, Giunti, Firenze 1995, pp. 311-407. 11 Arvidsson, Marketing Modernity cit., p. 8.

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dopo Tangentopoli, quando apparve evidente che si era bevuto molto altro, oltre all’amaro). Naturalmente il nuovo ruolo della pubblicità è potenziato dalla comparsa delle televisioni private che, con una strategia abile e pragmatica, promuovono un forte sviluppo degli investimenti pubblicitari (che passano dallo 0,3 del Pil nel 1975 allo 0,5 dieci anni dopo e allo 0,6 nel 1990)12. Il gruppo Fininvest di Berlusconi già nel 1984 si configuta come un’impresa di rilievo con tre canali nazionali (l’ammiraglia Canale 5, derivata da Telemilano del 1978; Italia 1, acquistata da Rusconi nel 1982; Retequattro, comprata da Mondadori due anni dopo), una società di produzione (Videotime), una per la gestione della rete di trasmissione (Elettronica Industriale) e infine una per la pubblicità (Publitalia ’80). Il suo impatto sull’immaginario collettivo, unito a quello di una miriade di radio e televisioni locali, è enorme: non solo per la pubblicità diretta, ma per il tipo di programmazione, ricco di film e fiction di successo (si pensi al telefilm Dallas)13. In breve il consumo televisivo raggiunge in Italia picchi elevatissimi (229 minuti a testa al giorno nel 1999, quasi un record in Europa)14. Possiamo così comprendere come il mondo della pubblicità e dei consumi mediatizzati acquisisca un nuovo ruolo sociale e possa contendere visibilità alla politica nell’arena pubblica. È altrettanto vero che in questo periodo i consumi tendono a trasformarsi da familiari a individuali (si va cioè da frigoriferi, tostapane 12 Le televisioni sono le grandi beneficiarie dell’incremento della pubblicità, assicurandosene quasi la metà, a spese di quotidiani e riviste (nel 1985 le televisioni assorbono il 49% delle risorse pubblicitarie, contro il 22% dei quotidiani e il 20% dei periodici; nel 1970 la Rai ne aveva il 12%, i quotidiani il 30%, i periodici il 35%). Cfr. Arvidsson, Marketing Modernity cit., p. 134. 13 I. Ang, Watching Dallas: Soap Opera and the Melodramatic Imagination, Routledge, London 1982. 14 La Gran Bretagna precede l’Italia con 232 minuti; seguono Francia (199) e Germania (198); la media europea (15 paesi) è 206 minuti al giorno. Cfr. R. Ippolito, Vivere in Europa. Un confronto in cifre, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 144. Studi etnografici mostrano come anche il consumo televisivo non vada necessariamente inteso come attività passiva, isolante, priva di connotazioni culturali, ma si configuri come «consumo domestico», fruito differentemente a seconda del genere, del momento ecc. (cfr. D. Morley, Television, Audience and Cultural Studies, Routledge, London 1992). Inoltre soap opera o serial di successo creano vere e proprie comunità, al pari degli appassionati di generi letterari, che adattano creativamente i contenuti dei programmi alla loro vita emotiva (cfr. Ang, Watching Dallas cit.; Id. Living Room Wars. Rethinking Media Audiences for a Postmodern World, Routledge, London 1995; J.A. Radway, Reading the Romance: Women, Patriarchy, and Popular Literature, University of North Carolina press, Chapel Hill-London 1984; A. Bravo, Il fotoromanzo, il Mulino, Bologna 2003). Cfr. R. Sassatelli, Consumo, cultura e società, il Mulino, Bologna 2004, pp. 205-208.

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e lavatrici a cure per il corpo, vacanze e divertimenti). In realtà questo rientra in un trend di lungo periodo, come abbiamo visto, che vede uno spostamento verso consumi ritenuti culturalmente più qualificanti. Ma non va sottovalutata al riguardo, ancora una volta, la portata dei cambiamenti demografici. Come sappiamo, il tasso di natalità cala e la dimensione della famiglia va sempre più riducendosi. I singoli, che nel 1977 rappresentano meno del 10 per cento del totale, in vent’anni raddoppiano e diventano la forma familiare più diffusa, davanti alle coppie senza figli (20 per cento) e alle coppie con un figlio (19 per cento); diminuiscono invece le famiglie con più figli e quelle allargate a parenti o membri esterni. La famiglia cambia culturalmente e tipologicamente. E sappiamo anche che contemporaneamente cresce l’attesa di vita media, determinando l’invecchiamento della popolazione (oltre un quinto degli italiani del XXI secolo sono over 65 anni, facendo segnare al paese un primato europeo)15. Inutile sottolineare che i consumi riflettono puntualmente queste trasformazioni (ad esempio, con una nuova attenzione al fattore età, per cui non si guarda ora solo ai giovani, come negli anni Sessanta, ma anche agli anziani, grandi consumatori di prodotti medicali e servizi per la persona)16. Tuttavia l’ottimista rappresentazione consumistica della fine del Novecento, all’insegna di «stili di vita» sempre più diversificati e di una crescita «lineare» per tutti, merita qualche riflessione critica. Numerosi teorici hanno ipotizzato che le categorie analitiche necessarie per comprendere la società contemporanea siano diverse da quelle del passato. Le nostre società sono complesse, differenziate, composte da sottosistemi relativamente autonomi; la caratterizzazione degli individui non discende solo dalla posizione sociale della famiglia di origine, ad esempio, ma da infiniti altri fattori (istruzione, tipologia di lavoro, gerarchia occupazionale, luogo di residenza, ecc.), che possono interagire fra loro creando geografie sociali diversissime. La frammentazione sociale è elevatissima. Perciò le grandi differenziazioni strutturali della società (le classi, innanzitutto) hanno oggi poco significato, e siamo più liberi di crearci il nostro destino, di forgiare la nostra vita come «un’opera d’arte». Se al-

15 A. Signorelli, Introduzione allo studio dei consumi, Franco Angeli, Milano 2005, pp. 252-253; cfr. censimenti Istat, annate varie. 16 Per fare un esempio, nel 2005 il 37% degli italiani dichiara di consumare farmaci, ma il loro uso è concentrato nelle classi di età superiori: il 55% degli ultrasessantenni, l’84% degli anziani oltre i 75 anni. Cfr. Istat, La vita quotidiana nel 2005, «Informazioni», 7, 2004, pp. 79-80.

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l’inizio del Novecento era possibile distinguere a colpo d’occhio un borghese da un contadino, a fine secolo è molto difficile classificare la gente che incontriamo per strada, vestita (quasi) allo stesso modo. Le persone scelgono il loro modo di essere, e i consumi esprimono le loro scelte. Queste teorie sono state adottate in molte indagini di mercato, con il risultato di creare complesse mappe sociali che raggruppano gli individui in specifici segmenti, gli stili di vita, appunto, risultanti da molteplici fattori culturali, economici, individuali17. La conseguenza di questo scenario, almeno per quanto riguarda i consumi, sarebbe una loro relativa indipendenza dai condizionamenti sociale e un maggiore uso in funzione autoespressiva. Ma è davvero così? La provenienza sociale ha meno peso nella società odierna? E le differenze di genere (che in realtà abbiamo visto operare chiaramente anche nel passato)? Alcune recenti ricerche sul campo forniscono risultati un po’ diversi (e per la verità, da storici, la repentina sparizione di categorie culturali che hanno informato così a lungo la società ci rende un po’ sospettosi). Ovviamente, lo sfondo sul quale dobbiamo proiettare questi dati è quello di un’Italia più ricca dove i ceti medi sono divenuti il gruppo maggioritario, pur comprendendo al loro interno grandi differenziazioni, e la geografia di riferimento è quella industriale urbana18. Il sociologo Antonio Schizzerotto ha condotto un’ampia indagine dia17 G. Fabris ad esempio descrive la società come una mappa in cui si possono identificare dieci «stili di vita», intesi come idealtipi alla Weber: innovatori, autodiretti, affluenti, radicali, eterodiretti, integrati, autarchici, disorientati, conservatori, arcaici (G. Fabris, Consumatore & Mercato, Sperling & Kupfer, Milano 1995). Cfr. anche G. Ragone, Consumi e stili di vita in Italia, Guida, Napoli 1985. 18 Già agli inizi degli anni Ottanta si verifica il sorpasso numerico dei ceti medi urbani rispetto alla classe operaia (anche se si comprendono in quest’ultima i salariati agricoli). Nel 1993 l’alta borghesia si mantiene pressoché stabile intorno al 3%; i ceti medi giungono al 52% con un po’ tutte le componenti in crescita (comprendono: artigiani 6%, commercianti 11%, impiegati pubblici 18% e privati 11%, altre categorie 6%); i contadini proprietari (6%) e i salariati agricoli (3%) segnano un ulteriore calo; la classe operaia arriva solo al 36% ed è in lenta discesa, sia fra gli operai dell’industria (25%; erano il 31% nel 1971), sia fra quelli di altre categorie (11%). Cfr. P. Sylos Labini, Le classi sociali negli anni ’80, Laterza, Roma-Bari 1986, pp. 20-21, 207; Id. La crisi italiana, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 23 (anche qui abbiamo indicato separatamente le percentuali relative all’agricoltura). Riguardo invece al reddito pro capite, esso passa (in dollari Geary-Khamis 1990) da 10.634 dollari nel 1973 a 13.391 nel 1983, 16.436 nel 1993, 19.150 nel 2003, avvicinandosi notevolmente alla media dei 29 paesi europei (19.912 nel 2003) e superando di poco paesi come la Germania (per un confronto, il reddito pro capite Usa nel 2003 è pari a 29.037). Cfr. A. Maddison, Historical Statistics for the World Economy. Per Capita GDP (1990 International Geary-Khamis dollars), in www.ggdc.net/maddison, 15 febbraio 2007.

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cronica sui percorsi di vita di un ampio campione statistico, studiando i fattori di disuguaglianza e di mobilità sociale, e confrontandoli con i dati disponibili per le generazioni precedenti19. I risultati finali sono che classe sociale di origine, genere, generazione e area geografica sono elementi determinanti per tutta la durata del Novecento, anche negli ultimi decenni. Ma con interessanti variazioni. Il fattore che incide maggiormente sul percorso individuale nell’Italia di fine secolo è l’appartenenza di classe. Essa infatti consente di avere un più elevato grado di istruzione (magari la laurea, la cui distribuzione sociale è incredibilmente costante nel tempo)20, di accorciare spesso i tempi di attesa del primo impiego (grazie a network familiari o alla continuazione del lavoro paterno), di entrare nel mondo del lavoro in una posizione elevata (e questo è fondamentale a causa della scarsa mobilità di carriera esistente in Italia rispetto ad altri paesi), di giungere presto a un lavoro stabile e non precario, inducendo infine a sposare un partner della stessa condizione sociale (ma l’omogamia è una tendenza riscontrabile un po’ a tutti i livelli, ed è un altro elemento che frena la mobilità). Quindi l’origine sociale di una persona determina ancora decisamente il suo destino sociale; la «classe», o ceto, perpetua le disuguaglianze sociali. Più ambigua appare l’evoluzione del fattore di genere. Le donne delle ultime generazioni hanno colmato il gap scolastico, anche ai livelli più alti; hanno fortemente migliorato le disponibilità di reddito e il loro accesso al lavoro (anche se i tempi di attesa all’ingresso sono maggiori e le possibilità di carriera sono minori – ma non in tutti i settori); hanno assommato però al lavoro il medesimo carico di cure familiari, fatto che le spinge a posporre il matrimonio e a limitare, o evitare, i figli (con conseguenze anche sulla vita dei loro partner). Quindi in parte la disuguaglianza si è attenuata, in parte no. Altrettanto ambiguo è il fattore generazionale. Le persone nate negli ultimi decenni del Novecento presentano un più alto livello di scolarizzazione, ma si distinguono per il ritardato ingresso al lavoro e un potenziale lungo periodo di semioccupazione o precariato – al contrario della generazio-

19 Vite ineguali. Disuguaglianze e corsi di vita nell’Italia contemporanea, a cura di A. Schizzerotto, il Mulino, Bologna 2002, al quale si rimanda per i dati quantitativi. 20 Le statistiche sui laureati italiani, nati fino agli anni Settanta e divisi per classi di origine, mostrano addirittura un aumento delle differenze fra le classi nel conseguimento del titolo di studio, dall’inizio del secolo agli anni Novanta: ampiamente in testa ci sono i giovani della borghesia (quasi metà del campione da soli), seguiti dalla classe media impiegatizia e, più a distanza, dalla piccola borghesia urbana; appaiati verso il basso troviamo la piccola borghesia agricola, la classe operaia urbana, la classe operaia agricola. Cfr. Vite ineguali cit., pp. 148-149.

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ne del miracolo economico che trovava lavoro subito, e con curiose similarità invece con le generazioni di inizio secolo. È vero che la lunga permanenza in famiglia non è priva di vantaggi (alti livelli di consumo, permissività dei genitori, ecc.) ma comporta anche un allungamento dello stato di dipendenza e ha ripercussioni negative sia sulla carriera successiva, iniziata tardi, sia sulla possibilità di mettere su famiglia. Rispetto alle possibilità di lavoro, carriera e mobilità dei giovani vissuti nel miracolo economico, insomma, i giovani nati verso la fine del Novecento vivono per molti versi una condizione più difficile21. Infine, l’indagine conferma che il fattore geografico, sia pure con consistenti variazioni, resta un elemento determinate, confermando in particolare la diversità di percorsi fra nord e sud Italia22. Questi elementi sono fondamentali per lo studio sui consumi, parte integrante della rappresentazione sociale, perché sgomberano il campo da alcuni equivoci. Nell’Italia di fine secolo restano ben vive e operanti alcune fratture che abbiamo visto lungo tutto il corso del secolo, a volte con una stabilità sorprendente; alcune si sono attenuate, altre sono cambiate (certo, non è corretto forse usare il termine «classe» in senso tradizionale, per tutte le implicazioni culturali che storicamente comprende, e sarebbe meglio parlare di «origine sociale», «ceti», o altri termini che suggeriscano una più complessa stratificazione). Ma il fatto è che tali cleavage continuano a strutturare la società e, per quello che qui ci interessa, a determinare culturalmente i consumi23. Ciò è conferma21 Va osservato tuttavia che anche quando parliamo di mobilità rispetto agli anni Cinquanta-Sessanta, parliamo di fenomeni selettivi. L’ascesa economica di molti piccoli imprenditori, spesso ex operai o artigiani o contadini, messisi in proprio negli anni del miracolo, riguarda infatti solo categorie di lavoratori manuali, maschi, a bassa scolarità, spesso concentrati in determinate aree geografiche. Si è trattato quindi di una mobilità parziale, limitata oltretutto agli aspetti strettamente economici, come ha acutamente osservato R. Chiarini parlando di «una lunga e ininterrotta corsa all’emancipazione sociale che ha dato vita ad una sorta di ‘democratizzazione economica’, alternativa e compensatrice dell’incompiuta ‘democratizzazione politica’» (R. Chiarini, Destra italiana: dall’Unità d’Italia a Alleanza Nazionale, Marsilio, Venezia 1995, p. 73). Una conferma della limitata mobilità in Italia (diversamente dal Nordeuropa, ad esempio), sia relativa alle classi di provenienza, sia intragenerazionale, riguardo cioè le possibilità di carriera, è in Istat, La mobilità sociale, «Informazioni», 22, 2006; Censis, Meno mobilità, più ceti, meno classi, Roma 2006. 22 Per un’analisi dettagliata delle differenze socio-economiche e geografiche degli anni recenti si rimanda alle pubblicazioni Istat, I consumi delle famiglie (anni vari) e ai numerosi studi del Censis, ad esempio i rapporti Censis-Findomestic su Consumi e stili di vita in varie regioni italiane, e anche quelli Censis-Confcommercio su Valori, consumi e stili di vita degli italiani (2004). 23 Per una discussione su classe e consumi da un punto di vista sociologico cfr. R. Crompton, Consumption and class analysis, in Consumption Matters. The Pro-

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to da indici economici come quello di Gini, indicanti un aumento della disuguaglianza in Italia almeno a partire dalla recessione del 1991-92 che determina un’inversione storica («la grande svolta a U») dopo decenni di avvicinamento sociale (e mostrano che l’Italia continua a registrare una maggiore disuguaglianza al suo interno rispetto a molti paesi europei)24. Quindi se è vero che due persone per strada, poniamo due giovani, oggi non sono immediatamente riconoscibili da un punto di vista sociale, come avveniva a inizio Novecento, non per questo le differenziazioni sono sparite: vediamo da una parte abbigliamento firmato (contro vestiti contraffatti comprati sulle bancarelle), auto o moto nuove e moderne (contro auto o moto vecchie e superinquinanti, prime vittime dei blocchi stradali), vacanze alle Maldive (contro vacanze in casa della nonna al paese), cene e happy hour in locali alla moda (contro qualche pizza e rari happy hour in birrerie a buon mercato) e così via. Apparire simili non vuol dire essere simili, il look non è tutto. Le differenziazioni permangono: sono solo meno visibili. Come in certi quadri di Bruegel il Vecchio, uno sguardo distanziato è fuorviante, bisogna avvicinarsi molto per cogliere i particolari, e riuscire a distinguere fra angeli e demoni, animali e uomini, creature naturali ed esseri mostruosi, tutti avvinghiati fra loro e confusi fra cielo e terra. Ecco perché non ci convince l’idea di spiegare tutto ricorrendo solo a stili di vita e scelte personali, che pure hanno un’importanza crescente e non vanno affatto sottovalutati, ignorando le fratture vecchie e nuove lungo le quali le differenziazioni sociali, e quindi anche i consumi, si sono da sempre articolate. Fratture che determinano posizioni reddituali e scelte culturali diverse, sia pure all’interno di trend comuni, e che spiegano come sia possibile che alcuni segmenti di popolazione si arricchiscano e si dilettino di consumi pregiati e altri si impoveriscano e comprimano le loro spese – e questo contemporaneamente. duction and Experience of Consumption, a cura di S. Edgell, K. Hetherington, A. Warde, Blackwell, Oxford 1996, pp. 113-132. 24 L’indice di Gini in Italia nel 2005 registra un valore pari al 33%, più elevato della media europea a 25 paesi, 31%, e in particolare più del Nordeuropa, o di Francia e Germania con 28% (fonte Eurostat). Dal momento dell’inversione di tendenza agli inizi degli anni Novanta verso una maggiore disparità, si è osservato in Italia uno spostamento di ricchezza dalle fasce medio-alte a quelle più alte in assoluto e, successivamente, dal lavoro dipendente a quello autonomo. In generale questo sembra rientrare in un fenomeno più vasto osservato dagli anni Settanta negli Usa, che mostra una crescente disuguaglianza all’interno dei redditi familiari e in seguito fra i diversi livelli salariali (cfr. B. Harrison, B. Bluestone, The Great UTurn: Corporate Restructuring and the Polarizing of America, Basic Books, New York 1988); un fenomeno successivamente verificatosi anche in Europa.

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Detto questo, e chiarite alcune dinamiche all’opera in sistemi complessi come le società odierne, possiamo analizzare le principali tendenze generali in atto. Consideriamo il trentennio 1973-2003, durante il quale i consumi delle famiglie continuano a crescere (ora in misura superiore ai redditi), sia pure con ritmi diversi, come abbiamo visto25. Il primo dato eclatante è la diminuzione delle spese alimentari, che passano dal 38 al 20 per cento, con una discesa continua, particolarmente accentuata negli anni Ottanta (Tab. 9). La «nuova» dieta della famiglia italiana è sempre meno a base di carne, che nel 2003 copre il 22 per cento della spesa alimentare (e il 4 della spesa complessiva mensile: era quasi il triplo nel 1973)26; ad essa seguono frutta-verdura e pane-cereali, più distanziati latte e formaggi, pesce, bevande, zucchero e caffè, oli e grassi. Si tratta di un forte riequilibrio quantitativo e qualitativo: qualitativo per lo spostamento verso una dieta più vegetariana e più variata; quantitativo perché l’Italia, come nota Signorelli, da tipico paese mediterraneo con consumi alimentari relativamente alti (simili a Portogallo, Grecia e Spagna), dagli anni Novanta si avvicina a modelli di tipo nordeuropeo (Gran Bretagna, Germania, Olanda, Francia) con bassa incidenza percentuale del cibo sui consumi totali27. Dunque, un significativo cambiamento culturale. Anche la voce relativa all’abbigliamento si contrae: dall’11 al 7 per cento, una quota comunque elevata rispetto alla media europea, complice il richiamo della moda italiana28. La terza voce delle tradizionali

25 Questo vuol dire che è salita la propensione media al consumo (nel 2000 pari all’86%), giungendo alla fine degli anni Novanta a livelli simili a quelli medi europei; in pratica, i consumi mutano per adeguarsi ai cambiamenti strutturali della famiglia e della società. Da notare poi che il reddito disponibile reale tende a diminuire (al suo interno, i redditi da capitale e da pensione vanno meglio di quelli da dipendente), ma molte famiglie beneficiano di una maggiore ricchezza media, dovuta soprattutto alla forte rivalutazione del mercato immobiliare (come hanno sintetizzato Pellegrini e Zanderighi, meno redditi e più ricchezza). Cfr. L. Pellegrini, L. Zanderighi, Le famiglie come imprese e i consumi in Italia, Egea, Milano 2005, pp. 28-35, 55-89. 26 Ovviamente si tratta di valori percentuali rispetto a una spesa che è cresciuta in termini assoluti; ciò significa che il consumo di carne pro capite, che agli inizi del 1970 era intorno ai 60 kg, in trent’anni è cresciuto fino a circa 80 kg (dati Istat). 27 Signorelli, Introduzione allo studio dei consumi cit., pp. 297-298. Nel 2003 le famiglie italiane spendono per cibo e bevande non alcoliche il 15% del totale, contro una media europea del 13% (Francia 14%, Germania 11%, Gran Bretagna 9%). Cfr. dati Eurostat, Population and social conditions. 28 I dati riportati derivano dalle rilevazioni Istat (cfr. Istat, «Annuario statistico italiano», Roma, annate varie; Id, «Contabilità nazionale. Conti economici nazionali. Anni 1970-2005», 10, 2007; e anche Signorelli, Introduzione allo studio dei

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spese di base, casa e combustibili, invece mostra un’impennata: dal 16 al 30 per cento, con una crescita concentrata soprattutto nell’ultimo periodo. C’è quindi un forte spostamento di risorse verso le spese per la casa, per via della difficile situazione immobiliare del paese (non certo una novità), che mantiene piuttosto elevata la quota destinata ai consumi basilari. Non ci sorprende invece osservare come trasporti e comunicazioni abbiano continuato la loro decisa crescita (nel trentennio, dal 10 al 16 per cento), mentre le altre spese salgono in maniera molto contenuta, dal 24 al 27 per cento, suddividendosi nel 2003 fra beni durevoli (6 per cento), istruzione e tempo libero (6), sanità (4), altri beni e servizi (11)29. Qui spicca il nuovo consumo di beni tecnologici e per la comunicazione, soprattutto dagli anni Ottanta; ma nel complesso non c’è stato quello spostamento massiccio verso beni e servizi «di pregio» nella misura che forse ci si poteva aspettare. Anzi, alcune spese come quelle relative ai trasporti (soprattutto l’automobile), vista l’organizzazione sociale odierna, hanno cambiato il loro significato culturale: non sono più simbolo di status o mezzo per i fine settimana o le vacanze, ma irrinunciabile strumento di lavoro e spostamento, e quindi andrebbero aggiunte a quelle di base. La spiegazione di questi mutamenti risiede in quella complessa geografia sociale che abbiamo delineato in precedenza e che vede all’opera dinamiche in parte contrastanti. Sebbene vi sia stato un certo avvicinamento fra i gruppi sociali, i consumi continuano a risentire fortemente delle variabili socioeconomiche: dipendono dalla condizione professionale e dal titolo di studio (con i laureati che si distinguono per l’acquisto di beni durevoli); dall’età anagrafica (i giovani sotto i trent’anni perdono progressivamente capacità di acquisto); dal genere (i maschi spendono di più in assoluto e particolarmente per i beni durevoli). L’ultima grande variabile è quella geografica: si assiste a una

consumi cit., pp. 251-328 per dati e tabelle di sintesi del periodo). Altre fonti internazionali, come l’Ocse, forniscono dati parzialmente discordanti (nel caso dell’abbigliamento, ad esempio, superiori). Cfr. Tab. 10. 29 Istat, Annuario statistico italiano 2004, Roma 2005; Id., I consumi delle famiglie. Anno 2003, «Annuario», 10, 2005. Nel 2003 la spesa media mensile per famiglia in Italia è pari a 2313 euro (nel nord 2538 euro mensili, nel centro 2466 e nel sud 1892). Fra i vari dati spicca lo scarso consumo culturale rispetto ad altri paesi (quotidiani, libri, musei, musica ecc., con l’eccezione del consumo televisivo), rapportabile anche al basso livello di istruzione degli italiani (nel 2006 solo l’11% della popolazione di 25-64 anni è laureato, uno dei dati più bassi nei paesi sviluppati: cfr. Oecd, Education at a Glance 2006, Paris 2006).

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decisa stabilità nelle differenze di consumo fra le grandi aree geografiche del nord, centro, sud e isole (quest’ultima in lieve peggioramento dal 2000), che conferma la tradizionale gerarchia. La crescita non ha cambiato la ripartizione territoriale dei consumi (Tab. 9)30. L’ultima notazione riguarda il fenomeno dell’immigrazione. Benché i consumi abbiano sempre avuto una certa connotazione soprannazionale, per via della circolazione delle merci, dell’internazionalismo di vari luoghi di vendita e della contaminazione fra culture del consumo, non c’è dubbio che il massiccio arrivo di stranieri in Italia abbia influenzato la percezione del paesaggio urbano e anche l’immaginario legato ai consumi. Nelle città sono fioriti negozi specializzati, rivendite alimentari, boutique, ristoranti di varie etnie: rappresentazioni di culture lontane materializzate fisicamente nello spazio cittadino. Anch’esse sono responsabili, insieme al turismo e ai media, della scoperta della cucina internazionale e del gusto «etnico» da parte degli italiani di fine millennio, e contribuiscono a integrare nel paesaggio dei consumi quello che una volta era solo qualcosa di esotico e «diverso». Non dimentichiamo poi che anche gli immigrati sono consumatori. Le loro spese non sono semplicemente una traduzione povera di quelle degli italiani, ma mostrano grandi differenziazioni interne e scelte specifiche, fondendo in maniera inedita consumi diversi: se in media quasi la metà del reddito va per vitto e alloggio, un quarto è diviso tra vestiario e trasporti, mentre il 14 per cento è costituito da rimesse al paese d’origine e il 15 per cento da risparmio. Il bene posseduto praticamente da tutti è il telefono cellulare (oltre 94 per cento), seguito da televisore, mobili di casa e, più a distanza, dalla lavatrice; impianto hi-fi e videoregistratore sono più comuni dell’auto usata (quella nuova è un lusso che si permette solo il 16 per cento); il 22 per cento possiede invece un Pc (più di quanti posseggano una lavastoviglie, un motorino o un secondo televisore). Insomma, è un quadro che risente fortemente dei prezzi dei beni e indica una speciale attenzione al risparmio e ai beni di comunicazione e socializzazione (telefonino, musica, televisione)31. È un quadro che conferma anche l’eterogeneità delle provenienze sociali e il cosmoSignorelli, Introduzione allo studio dei consumi cit. pp. 256-261. I dati sono tratti dall’indagine Censis-Estat Gruppo Delta, Immigrati e cittadinanza economica. Consumi e accesso al credito nell’Italia multietnica, Roma 2005. L’indagine nota differenti comportamenti d’acquisto internamente al campione (soprattutto tra l’emigrazione africana e asiatica degli anni Ottanta e Novanta, più stanziale e relativamente ben integrata, e l’emigrazione più recente e mobile proveniente dai paesi esteuropei e latino-americani). Interessante è la notevole omogeneità di scelte di consumo tra gruppi dotati di reddito diverso (da 600 a oltre 30 31

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politismo di molti nuovi immigrati: non facciamo lo stesso errore di quell’etnografo, di cui ci parla James Clifford, che giunge in uno sperduto villaggio egiziano per studiarne gli antichi costumi e trova persone che lo guardano un po’ seccate, indaffarate come sono in continui spostamenti tra Yemen, Medio Oriente, Emirati del golfo, Arabia Saudita e Europa dove vanno per lavoro, per fare il militare, per motivi familiari, per pellegrinaggi religiosi32. In conclusione, per tornare al discorso generale, in questo periodo i consumi sono aumentati e si sono diversificati merceologicamente: abbiamo tutti più cose e cose diverse, anche se non nella stessa misura; in certi casi si è creato un effetto a catena, per cui siamo spinti a comprare un oggetto dietro l’altro («l’effetto Diderot»)33. Ma nel tempo è mutato il loro significato culturale. Alcuni beni che avevano il sapore dell’eccezionalità o del lusso si sono trasformati in oggetti comuni o comfort necessari grazie al loro inserimento nella nostra vita quotidiana (automobile, telefono: persino il cibo ha un valore diverso). Insomma, comprare l’ennesimo paio di scarpe, da aggiungere a tutte le altre, non è come comprare il primo paio34. Forse hanno ragione Gronow e Warde: il cambiamento fondamentale di fine secolo è stato la trasformazione del consumo stesso in routine35. 1.2. Politica e consumerismo Quali sono le principali ricadute dei consumi nell’arena politica a fine Novecento? È possibile identificare al-

2000 euro al mese); nel complesso, i beni posseduti sono i seguenti: telefono cellulare 94%, primo televisore 83%, mobili di casa 80%, lavatrice 69%, impianto hifi 48%, videoregistratore 44%, auto usata 42%, personal computer e parabola tv 22%, lavastoviglie e motorino 21%, secondo televisore 20%, auto nuova 16%, Internet a casa 12%. 32 J. Clifford, Strade: viaggio e traduzione alla fine del secolo 20. (1997), Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 9. 33 Come ci ricorda McCracken, Diderot racconta di aver ricevuto in dono un bellissimo abito colorato; felice per quell’inaspettato regalo, si rese però conto che stonava nel suo vecchio e spoglio studio, perciò cominciò a cambiare gli oggetti: prese una sedia di pelle nuova, una scrivania elegante e così via, fino a mutare tutto l’arredo. Alla fine cominciò a odiare quel regalo che lo aveva reso «schiavo». Oggi questo effetto si riferisce al consumo di beni a «grappolo», cioè che hanno una sorta di coerenza fra loro. Cfr. G. McCracken, Culture and Consumption, Indiana University Press, Bloomington 1988, pp. 118-129. 34 R. Schleifer, Modernism and Time: The Logic of Abundance in Literature, Science, and Culture, 1880-1930, Cambridge University Press, Cambridge 2000, pp. 46-47. 35 Ordinary Consumption, a cura di J. Gronow, A. Warde, Routledge, LondonNew York 2001.

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cune tendenze di fondo? Possiamo avanzare alcune ipotesi (sebbene per uno storico muoversi su un periodo così vicino sia come per un esploratore camminare sul pack in via di scioglimento). Da un lato, il primo aspetto che colpisce è la continuità delle politiche di governo. Il modello che ha preso forma negli anni Sessanta e Settanta, e che vede i consumi come elemento importante per il consenso politico, non viene messo in dubbio anche successivamente; anzi, la legittimazione del sistema appare sempre più dipendente dalla sua capacità di garantire crescenti standard di vita, in presenza oltretutto di una minore presa del collante ideologico. Naturalmente, come ci ricorda Paolo Pombeni, la legittimazione di un sistema politico non dipende solo dalla sua capacità di promuovere il «bene comune», ma anche da elementi «formali» (garanzia di rappresentanza, formalizzazione dei processi decisionali)36. Tuttavia la politica dei consumi e la gestione del welfare appaiono centrali, soprattutto nel momento in cui ci si muove verso una certa liberalizzazione e si tentano ripetute riforme per ridurre i costi dello stato sociale (che pende a favore della spesa previdenziale e a sfavore di quella assistenziale), magari con il coinvolgimento di privati e agenzie no profit (welfare mix)37. La difficoltà di incidere su assetti palesemente sbilanciati verso taluni soggetti o categorie testimonia la delicatezza della questione. Il discorso politico sui consumi continua quindi ad avere una valenza di integrazione sociale, di cittadinanza nel senso indicato da Marshall. Dunque, in un paese dove l’integrazione nazionale di alcune fasce di popolazione è avvenuta su basi economiche più che politiche, come si è visto, e dove la mobilità sociale si è concretata di fatto in un più ampio accesso ai beni di consumo, la «politica dei consumi» è risultata centrale per la governabilità per vari decenni. Tuttavia, agli inizi del nuovo millennio questa politica, che trascende schieramenti di parte, sembra essere in sofferenza per via delle crescenti difficoltà economiche e sociali di ampie aree del ceto medio e delle classi popolari, della limitata mobilità sociale, dei problemi occupazionali dei giovani: se il 36 P. Pombeni, Crisi, consenso, legittimazione: le categorie della transizione politica nel secolo delle ideologie, in Crisi, legittimazione, consenso, a cura di P. Pombeni, il Mulino, Bologna 2003, pp. 10-11. 37 F. Girotti, Welfare state. Storia, modelli e critica, Carocci, Roma 1998, pp. 323-361; Citizenship and Consumption, a cura di K. Soper, F. Trentmann, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2007; Governance, Consumers and Citizens. Agency and Resistance in Contemporary Politics, a cura di M. Bevir, F. Trentmann, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2007.

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«patto» che garantisce l’accesso ai consumi per tutti dovesse venire meno, allora si aprirebbero inquietanti scenari di instabilità sociale e delegittimazione della classe politica nella sua interezza. D’altro lato, sulla scena politica ci sono importanti novità: i movimenti dei consumatori. Più precisamente ci riferiamo al «consumerismo», traduzione letterale dall’inglese per indicare le varie forme di organizzazione dei consumatori. In Italia le prime organizzazioni prendono forma negli anni Cinquanta, un po’ come in tutta Europa (e in netto ritardo rispetto agli Usa), a seguito dei primi scandali alimentari. Esse operano su un piano privato, spesso appoggiandosi a riviste, per informare e difendere il consumatore da frodi e raggiri, per chiedere più trasparenza e tutela legislativa, per mettere a confronto prodotti simili. Tuttavia un sistema partitico molto pervasivo ha lasciato poco spazio a questi movimenti generati dalla società civile. Si può dire anzi che solo la pressione esercitata dagli organismi della Comunità europea dagli anni Settanta in poi ha spinto la politica a interessarsi della regolamentazione nel campo dei consumi, recependo le direttive comunitarie, spesso con grande ritardo. Recentemente questi movimenti hanno però conquistato una visibilità mediatica decisamente maggiore, a riprova di una mutata sensibilità38. La questione però è più ampia. Apparentemente si assiste un po’ in tutto l’Occidente da parte dei consumatori a una crescente intensificazione di azioni individuali e collettive che hanno un sottofondo «politico». Non si tratta di comportamenti nuovi, ma nel clima odierno acquistano un significato particolare39. Si inscenano scioperi della spesa per protesta contro le politiche fiscali del governo (ad esempio contro gli aumenti di generi alimentari o benzina – il caso limite è la campagna Buy nothing day, un giorno in cui i consumatori non dovrebbero acquistare nulla)40; si boicottano per ragioni etiche prodotti di impre38 R. Sassatelli, La politicizzazione del consumo. La cultura di protesta e l’emergere delle associazioni dei consumatori in Italia e in Europa, in Genere, generazione e consumi. L’Italia degli anni Sessanta, a cura di P. Capuzzo, Carocci, Roma 2003, pp. 63-89. 39 Famosi furono ad esempio gli scioperi del tabacco messi in atto durante il Risorgimento a danno dell’erario austro-ungarico. 40 La campagna fu lanciata nel 1992 negli Stati Uniti per invitare i consumatori alla consapevolezza negli atti di acquisto. Nel 1997 in Gran Bretagna furono persino allestiti dei negozi «No Shop»: entrando, si girava fra scaffali rigorosamente vuoti e alla fine si riceveva uno scontrino con scritto «Grazie per non aver comprato». Cfr. Tae-Wook Cha, Ecologically Correct, in Harvard Design School Guide to Shopping, a cura di C.J. Chung, J. Inaba, R. Koolhaas, Sze Tsung Leong, Taschen, Köln 2001, pp. 314-319. Nel momento in cui i governi sostengono il consumo (con

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se accusate di scarso rispetto per l’ambiente o di sfruttare i lavoratori nei paesi meno sviluppati (si pensi ai casi Nike o Coca Cola); si boicottano per ragioni politiche merci provenienti da specifici paesi (come Stati Uniti e Israele); o al contrario si acquistano selettivamente prodotti che garantiscono il rispetto dei diritti dei lavoratori (fair trade) o l’attenzione all’ambiente (prodotti biologici) o anche semplicemente collegati a campagne umanitarie. Sono frequenti i casi in cui gruppi organizzati inscenano azioni dimostrative anticonsumistiche, magari rifacendosi ai metodi della «disobbedienza civile» (appendono manifesti in luoghi impensati, inscenano die in nei negozi fingendosi morti, girano mascherati con cartelli, usano tecniche di culture jamming). Non sono mancate anche azioni violente contro catene di negozi e imprese multinazionali, oppure per liberare animali, azioni oggi perseguite come «ecoterrorismo»41. Come osserva un gruppo di ricercatori (Stolle, Hooghe, Micheletti)42, in tutti questi casi i consumatori riconoscono che i beni materiali sono iscritti in un preciso contesto sociale: mettono in atto un «consumo politico»43. La domanda allora è questa: possiamo considerare questo comportamento una forma di partecipazione politica, in cui i consumatori usano il mercato per fare arrivare il loro messaggio? Osserviamo due cose. In primo luogo, i principali protagonisti di queste azioni sono soggetti sottorappresentati nel mondo della politica «ufficiale»: donne, giovani, gruppi socialmente marginali44; in secondo luoincentivi agli acquisti, rottamazione ecc.) la decisione di non consumare può essere ritenuta di natura politica. 41 A. Gaspari, V. Pisano, Dal popolo di Seattle all’ecoterrorismo: movimenti antiglobalizzazione e radicalismo ambientale, 21mo Secolo, Milano 2003. 42 D. Stolle, M. Hooghe, M. Micheletti, Politics in the supermarket: Political consumerism as a form of political participation, «International Political Science Review», 26, 3, 2005, p. 246. 43 In questo contesto si possono ricordare i Gas (Gruppi di acquisto solidale), cioè i gruppi di consumatori che si associano spontaneamente per fare acquisti collettivi, soprattutto di alimentari, svincolati da organizzazioni o istituzioni (in forte espansione dopo il 2000). La peculiarità di questo fenomeno, tipicamente italiano, è che il gruppo condivide una sorta di visione politica ed etica dell’attività di consumo (attraverso forme di socializzazione di gruppo, scelte in favore dei produttori piccoli o «biologici», attenzione ai bisogni delle persone), che non si risolve quindi in termini esclusivamente economici di risparmio; cfr. L. Valera, Gas. Gruppi di acquisto solidali, Terre di Mezzo, Milano 2005; A. Saroldi, Gruppi di Acquisto Solidali, Emi, Bologna 2001; F. Brunetti, E. Giaretta, C. Rossato, Il consumo critico in azione: l’esperimento dei Gruppi di Acquisto Solidale, in www.escp-eap.net/conferences/marketing, settembre 2007. 44 M. Williams, Voice, Trust, and Memory, Princeton University Press, Princeton 1998.

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go, i luoghi dell’azione sono diversi: negozi e centri commerciali, ma anche Internet, dove circolano appelli, manifesti e inviti all’azione. Si potrebbe concludere che il consumo politico sia la modalità che le voci assenti, o distanti dalle stanze del potere, trovano per esprimere la loro posizione etica e politica; di più, per mutare la situazione esistente con un’azione ben finalizzata (ottenendo in vari casi anche risultati significativi). Il consumo politico non andrebbe perciò riconosciuto come una nuova forma di partecipazione politica, né più né meno di quella che sta prendendo forma sulla rete, dove si formano movimenti collettivi trasversali? In comune hanno anche il riferimento a una realtà transnazionale dove il peso delle entità nazionali è secondario. In conclusione, come si nota ancora nella ricerca citata, se accettiamo questa ipotesi, si potrebbe dire che non è la partecipazione politica tout court a essere in crisi, ma le forme e i luoghi tradizionali di tale partecipazione45. Consumerismo e comunità virtuali sono forse la nuova frontiera della politica. 1.3. Nuovi prodotti La produzione gioca il suo ruolo in questi cambiamenti, naturalmente. È questo il periodo in cui emergono all’attenzione pubblica i «distretti industriali»: conglomerati locali di imprese dello stesso settore, dove l’attività produttiva si innesta su un tessuto sociale e comunitario vivo da tempo, e famiglia e impresa divengono un continuo. Simili realtà, talvolta con tradizioni secolari, appaiono ora una specie di «via italiana» allo sviluppo, in alternativa alla declinante grande impresa fordista, e spiegano il buon andamento economico del paese. Saranno così censiti quasi duecento distretti, che partendo dal Nord-est si ramificano lungo la costiera adriatica fino al Mezzogiorno, tanto che cambia la nostra immagine del paesaggio produttivo: non più solo il triangolo industriale, o una netta contrapposizione Nord-Sud, ma un’articolata geografia che vede nuovi protagonisti (il Nord-est e poi il Nec, Nord-est-centro) e scopre interessanti grappoli produttivi anche nelle regioni meridionali46. I distretti sono grandi protagonisti del made in Italy, vista la loro capacità di coniugare qualità artigianale e produzione in serie unitamente a prezzi contenuti (ottenuti grazie a una legislazione favorevole, a incentivi pubblici e spesso, rovescio della medaglia, a lavoro nero Stolle, Hooghe, Micheletti, Politics in the supermarket cit. G. Becattini, Dal distretto industriale allo sviluppo locale: svolgimento e difesa di una idea, Bollati Boringhieri, Torino 2000; Istituto per la promozione industriale, L’esperienza italiana dei distretti industriali, Roma 2002. 45 46

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o sottopagato ed evasione fiscale). I settori nei quali sono presenti sono molto spesso quelli dei beni di consumo finali: tessile/abbigliamento, meccanica, prodotti per la casa, alimentari, pelli/calzature, carta, plastica/gomma, oreficeria. Se una parte importante della loro produzione prende la strada dell’estero, una buona quota si rivolge al mercato interno: è difficile sottovalutare l’efficacia della promozione di questi prodotti in Italia, sia per il loro contenuto qualitativo, sia per la massiccia opera di marketing, sia perché si tratta di beni tradizionalmente apprezzati dai consumatori italiani. In altre parole, la peculiare struttura delle imprese ha influenzato le scelte dei consumatori, aumentando la visibilità mediatica di settori come moda, arredamento e alimentazione (non dimentichiamo che è in gran parte verso questi beni che si è indirizzato il massiccio aumento pubblicitario degli anni Ottanta). Peraltro, se in Italia vi è stata forse una «sovraesposizione» di alcuni settori, essa però rientra in un percorso culturale più generale di valorizzazione dell’estetica e della qualità nei prodotti (persino i consumatori tedeschi, un tempo famosi per acquistare le loro auto in base a parametri di efficienza, prestazioni e bassi consumi, ora ritengono altrettanto importanti l’estetica e il comfort). Torneremo dopo sul made in Italy. Per ora ci interessa segnalare almeno due settori in cui le «proposte» dei produttori hanno avuto un impatto significativo. Il primo è quello dei beni tecnologici, in particolare quelli relativi all’informazione e alla comunicazione che si sono diffusi dagli anni Ottanta-Novanta. Abbiamo visto come l’impatto della tecnica sia uno dei fattori centrali in tutta la storia del consumo, dai trasporti agli elettrodomestici e agli apparecchi audiovisivi (radio, giradischi, tv, hi-fi ecc.). Ora la domanda è: l’ultima generazione di beni tecnologici legati all’informazione, come computer e telefoni cellulari, esercita un suo specifico impatto? È una nuova rivoluzione? Certamente sì, ma è ancora presto per capirne tutte le implicazioni di lungo periodo. Gli storici della scienza, i primi a occuparsi del fenomeno, hanno avanzato alcune ipotesi. Per cominciare, riguardo all’uso, hanno osservato come anche per essi sia valido il concetto di appropriazione della tecnologia, per cui l’utilizzo e il significato dell’oggetto sono legati al contesto culturale e alle differenziazioni sociali, di genere e generazione che ben conosciamo. Prendiamo il computer, ad esempio. I genitori (supportati in questo dalle istituzioni scolastiche) lo apprezzano per le sue potenzialità didattiche ed educative; ma i figli la pensano diversamente e lo vogliono a tutti i costi per i videogiochi (supportati in questo dalle case di produzione di software). I mariti lo usano per lavoro e informazione; i ragazzi lo usano co258

me estensione degli svaghi sperimentati all’esterno nelle sale gioco (in continuità con Game Boy e Play Station) e lo considerano un campo dove mostrare la loro abilità e competenza nel gruppo di amici; le ragazze, e le mogli, lo sperimentano meno come strumento di socializzazione, e subiscono più restrizioni nell’uso domestico nel caso sia presente un figlio maschio; più in generale, l’uso del computer è più elevato nelle famiglie con genitori liberi professionisti, o anche solo nei quartieri con tale prevalenza47. Ecco una nuova conferma del complesso rapporto produttore-consumatore: Intel, Hp, Apple o Microsoft creano prodotti con particolari caratteristiche, ma il loro uso non è inscritto nelle specifiche tecniche, e i consumatori li piegano alle loro esigenze, se ne appropriano, pur sempre all’interno di una scelta predeterminata48. È quello che De Certeau ha chiamato «capovolgimento silenzioso», portando come esempio estremo quello degli Indios colonizzati dagli spagnoli: essi accettano leggi e pratiche dei conquistatori, ma le sovvertono, le trasformano dall’interno, le interpretano in modo da preservare la loro differenza49. Riguardo agli effetti di lungo periodo, il computer ci aiuterebbe a muoverci in tempi e spazi multipli, creerebbe inusitate continuità tra momenti del lavoro e dello svago, darebbe un valore crescente alla velocità, e soprattutto metterebbe in pericolo la separazione tra spazio pubblico e privato teorizzata dalla sociologia classica: navigando in rete, possiamo entrare in musei virtuali, vedere una conferenza in diretta, comprare a qualsiasi ora e in qualsiasi giorno in un grande magazzino (l’implosione del tempo e dello spazio teorizzata da Ritzer!)50, svolgere il nostro lavoro da casa (o giocare in ufficio). La nuova domesticità si apre virtualmente allo spazio esterno. Anche in Italia la diffusione del computer, presente nel 2005 in più del 40 per cento delle famiglie, risente fortemente delle differenze di genere e d’età51; l’uso regolare di Internet riguarda il 28 per cento del47 Consuming Technologies: Media and Information in Domestic Spaces, a cura di R. Silverstone, E. Hirsch, Routledge, London 1992; Consumption in an Age of Information, a cura di S. Cohen, R.L. Rutsky, Berg, Oxford 2005. 48 M. Pantzar, Domestication of Everyday Life Technology: Dynamic Views on the Social Histories of Artifacts, «Design Issues», 13, 3, 1997, pp. 52-65. 49 M. De Certeau, L’invenzione del quotidiano (1990), Edizioni Lavoro, Roma 2001, pp. 66-67. 50 G. Ritzer, La religione dei consumi: cattedrali, pellegrinaggi e riti dell’iperconsumismo (1999), il Mulino, Bologna 2000. 51 Nel 2005 il computer è usato da più del 50% dei maschi e 40% delle donne; il picco massimo è fra gli utenti di 15-17 anni (oltre l’80%), quello minimo oltre i 65 anni (5%). Cfr. Istat, La vita quotidiana nel 2005, «Informazioni», 4, 2007, pp. 99-139.

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le persone. Da questo punto di vista, l’Italia vede una diffusione costante ma graduale delle nuove tecnologie, almeno rispetto alla media europea del 43 per cento, con Germania e Gran Bretagna oltre il 50 per cento; le barriere costituite dal costo di acquisto iniziale e dall’alfabetizzazione informatica ne rallentano la diffusione52. Si potrebbe dire che il computer, principale strumento di comunicazione tecnologica e simbolo di una nuova era, abbia uno schema di diffusione simile a quello che a suo tempo ha avuto l’automobile: simbolo del miracolo economico e da tutti desiderato, si diffuse solo progressivamente nella società italiana nel giro di diversi decenni53. Il vero «strappo» è stato invece il telefono cellulare, che si è diffuso in pochi anni un po’ in tutti gli strati sociali, facendo segnare cifre da record in Europa (introdotto sperimentalmente dalla Sip nel 1973 e con copertura di rete Rtms dal 1985, nel 2005 era posseduto già dal 78 per cento delle famiglie). Grazie a un basso costo e alla semplicità d’uso, esso ha provocato una vera e propria rivoluzione della comunicazione, soppiantando l’apparecchio fisso, che invece aveva impiegato molto tempo ad affermarsi rispetto agli standard europei. Il suo successo rapidissimo ci ricorda quello del binomio frigorifero/lavatrice (che ha mutato le forme della domesticità, legandosi al nuovo ruolo femminile in casa e fuori) e quello della televisione (che ha spalancato agli italiani il mondo dello spettacolo casalingo e dell’informazione): il telefonino ha aperto l’accesso al mondo della comunicazione globale54. Già abbiamo studi che sottolineano il suo ruolo come oggetto af-

52 In Italia la spesa complessiva per IT (Information technology: hardware, sofware, accessori, servizi) corrisponde nel 2005 all’1,9% del Pil contro una media europea del 3% (dati Eurostat, Population and social conditions); Istat, I consumi delle famiglie. Anno 2005, «Annuario», 12, 2007, pp. 30-32. 53 Nel 2005 possedeva un’auto l’80% delle famiglie italiane, mentre del tutto secondario era divenuto il possesso di moto (lo scooter è presente nel 15%, la moto nel 7% delle famiglie), mentre è significativa la tenuta dell’ecologica bicicletta (51%). Cfr. Istat, I consumi delle famiglie. Anno 2005 cit., pp. 32-35. Nella motorizzazione privata l’Italia ha raggiunto livelli da record, confermandosi uno dei principali mercati di vendita di auto: nel 2004 vi erano 581 automobili per 1000 abitanti, contro 546 in Germania, 481 in Francia, 463 in Gran Bretagna e una media dei 15 paesi Ue pari a 494 – sempre lontana però dalle 771 degli Usa (dati Eurostat, Transport); cfr. anche F. Paolini, Storia sociale dell’automobile in Italia, Carocci, Roma 2007, pp. 85-109. 54 Nel 2005 le famiglie possedevano i seguenti beni durevoli: frigorifero 99%, lavastoviglie 37%, lavatrice 97%, condizionatore 23%, telefono fisso 78%, telefono cellulare 78%, segreteria telefonica 12%, fax 6%, televisore 97%, videoregistratore 69%, impianto hi-fi 58%, personal computer 31%. Il cellulare comporta una spesa contenuta (in media 160 euro), rispetto al Pc (716 euro) e al più caro di

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fettivo, in grado di sollevarci da ansie e paure grazie a una telefonata(«Dove sei? Come stai?») o analizzano il suo contributo a un nuovo italiano in uso anche nelle chat, sintetico e funzionale, ibrido di scritto e parlato («Da dove dgt? Bbl ☺»)55. Ma le conseguenze di uno strumento di consumo che si arricchisce sempre di nuove funzionalità e interfacce, e sposta la nostra attenzione dall’oggetto al sistema di comunicazione, sono ancora tutte da scoprire, in termini di organizzazione della propria vita sociale, mescolanza di momenti di lavoro e svago, appartenenza identitaria a un gruppo56. Prodotti nuovi non sono apparsi solo nei settori tecnologici di punta, ma un po’ in tutti i settori del consumo: pensiamo ai nuovi derivati plastici usati nell’arredamento, l’edilizia, i trasporti; alle fibre tessili e via dicendo. Fermiamoci su un settore in particolare, quello alimentare, cercando di ricordare sempre come il cibo sulla nostra tavola sia l’estremo risultato di una lunga catena che parte dall’agricoltura, passa attraverso l’industria e la tecnologia, transita con i trasporti fino a centri di stoccaggio e poi di vendita (ed è fortemente influenzato da politica, cultura, storia locale)57. I due terzi dei prodotti offerti ai consumatori è di tipo tradizionale (pasta, olio, vino, pane); un’ulteriore fetta (17 per cento) è composta da cibi elaborati e trattati per risparmiare tempo (sughi pronti, paste già condite, surgelati, dolci e merendine, cialde di caffè ecc.). Il rimanente 18 per cento è suddiviso tra diversi tipi di «nuovi» prodotti. Un primo gruppo merita in pieno questa definizione: sono cibi che per motivi dietetici, salutistici o di comodità vengono modificati o pretrattati industrialmente, come alimenti light, yogurt a zero grassi, bevande energetiche, barrette nutritive, intutti, il condizionatore (925 euro). La spese per Itc (hardware, software e servizi per telecomunicazioni) nel 2005 in Italia è pari al 3,4% del Pil, in linea con la media europea, e più di Francia 2,6% e Germania 3,2%. Cfr. Istat, I consumi delle famiglie. Anno 2005 cit., pp. 30-32; dati Eurostat, Population and social conditions. 55 V. Andreoli, La vita digitale, Rizzoli, Milano 2007; E. Pistolesi, Il parlar spedito. L’italiano di chat, e-mail e sms, Esedra, Padova 2004; I. Bonomi, A. Masini, S. Morgana, La lingua italiana e i mass media, Carocci, Roma 2004. 56 P. Mäenpää, Mobile communication as a way of urban life, in Ordinary Consumption cit. pp. 107-123; M. Ferraris, Dove sei? Ontologia del telefonino, Bompiani, Milano 2005; B. Scifo, Culture mobili. Ricerche sull’adozione giovanile della telefonia cellulare, Vita e Pensiero, Milano 2005. 57 Land, Shops and Kitchens: Technology in the Food Chain in Twentieth-Century Europe, a cura di C. Sarasua, P. Schmolliers, L. Van Molle, Brepols, Turnhout 2005. Secondo uno studio della Coldiretti, nel 2006 dei 467 euro spesi mensilmente da una famiglia italiana per il cibo, il 51% va al commercio, il 30% alle industrie alimentari e il 19% ai produttori agricoli (cfr. «News Coldiretti», 734, 10 ottobre 2007).

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tegratori, piatti pronti per il consumo. Il secondo gruppo è quello dei prodotti tipici (con il marchio Dop o Igp): sono i prodotti della tradizione gastronomica italiana. Allora perché metterli qui? La discussione sul concetto di «autenticità» è una delle più vive all’interno della storia culturale, e ha dimostrato che molte tradizioni (anche culinarie) sono inventate, non necessariamente nel senso che non esistevano prima, ma non esistevano con quel significato58. Un certo prodotto locale era solo un olio, un tipo di fagioli, una castagna, un formaggio; grazie a un’attenta opera di codifica delle caratteristiche e di marketing diventa ora un prodotto simbolico di un’intera tradizione regionale, diventa un olio Pretuziano delle colline teramane, un Fagiolo di Sarconi, un Marrone del Mugello, una Spressa delle Giudicarie. E il Lardo di Colonnata diviene una specialità riconosciuta internazionalmente, un prodotto raro e prelibato, un simbolo della Toscana antica e dell’Italian eating – un significato ben diverso da quello che gli avrebbero attribuito i contadini carraresi un secolo fa. Il terzo gruppo, costituito dai prodotti «biologici», è decisamente di nicchia (1 per cento), anche perché comporta dei costi aggiuntivi particolarmente alti (oltre un quinto in più per il produttore, cioè il doppio o triplo rispetto ai marchi Dop, alla tracciabilità o all’assenza di Ogm)59. Gli interventi in campo alimentare non si fermano qui. Quale miracolo ha portato le uova a essere tutte belle, grandi e scure (che fine hanno fatto le uova bianche, piccole e magari un po’ sporche che avevamo visto nelle vecchie cascine)? E come riescono i tagli di carne a essere così belli, uguali e sempre freschi? Qui vediamo all’opera uno degli esempi più drammatici e spettacolari di manipolazione della natura. Come ha documentato Roger Horowitz, lo sforzo di adattare gli alimenti naturali alle esigenze della nostra organizzazione sociale ha una lunga storia60. Già nell’Ottocento impianti parzialmente meccanizzati di lavorazione e confezione delle carni furono attivati negli Stati Uniti, mentre gli scienziati si applicavano per migliorare la salute, la stazza e la qualità del bestiame. La storia dell’agricoltura moderna, poi, è in gran parte la storia delle applicazioni scientifiche e tecnologiche 58 V. Teti, Le culture alimentari nel Mezzogiorno continentale in età contemporanea, in Storia d’Italia. Annali 13. L’alimentazione, a cura di A. Capatti, A. De Bernardi, A. Varni, Einaudi, Torino 1998, pp. 158-163; A. Capatti, M. Montanari, La cucina italiana. Storia di una cultura, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 96-98. 59 «Agricoltura», 55, febbraio 2005 (dati Istat-Federalimentare); cfr. anche i dati della Commissione europea, Agricoltura e alimenti. 60 R. Horowitz, Putting Meat on the American Table. Taste, Technology, Transformation, The Johns Hopkins University Press, Baltimore 2006.

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alle coltivazioni (gli Ogm sono soltanto l’ultima tappa). Tuttavia è nel Novecento che questi processi si accelerano, soprattutto per l’intervento della biologia, in grado di influenzare le caratteristiche genetiche e i tempi naturali della crescita, e della chimica, che entra nell’alimentazione con medicinali e svariati composti (quelli ad esempio che fanno fare solo uova scure). Anche gli animali devono adattarsi al ciclo produttivo e alle esigenze degli esseri umani: non solo devono essere sani, perché nulla vada perduto, e belli grassi, ma anche standardizzati per far diminuire i costi di packaging, trasporto e consentire l’uso di impianti meccanizzati (perché infatti gli animali insistono nell’essere uno alto e uno piccolo, uno magro e uno grasso? perché i pesci non hanno già tutti la misura da una-due porzioni?); il loro prodotto deve essere esteticamente corretto (colore scuro per il guscio d’uovo, colore rosso intenso per la carne, colore bianco candido per il pesce crudo e rosa per quello in scatola, dato che i consumatori si affidano all’immagine visiva per valutare la qualità). Così troviamo ogni giorno in negozio tutti i tagli di carne, i tipi di pesci, le uova che desideriamo, sempre freschi, sempre esattamente della misura, colore, consistenza che vorremmo. E troviamo la nostra frutta e verdura preferite in qualsiasi momento dell’anno (la stagionalità è «inadeguata» al mercato). Ma questo livello di manipolazione ha un rovescio della medaglia. Ed ecco che la fine del Novecento vede una nuova ondata di ansietà riguardo al cibo, timori per sofisticazioni, frodi, avvelenamenti, o anche solo per cibi non sani, non naturali. Malattie e scandali fanno il resto, contribuendo a un sempre più diffuso desiderio di «ritorno alla natura» e alla rivalutazione di alimenti semplici e non sofisticati (vedi il successo del movimento Slow Food, che parla del cibo come «cultura» e di un nuovo modello alimentare incardinato nelle tradizioni locali)61. I produttori cercano di reagire con campagne pubblicitarie che evocano mulini bianchi, contadini che trasportano formaggi su carretti trainati da cavalli, mucche felici nei pascoli alpini con fiori alle orecchie oppure, più incisivamente, con sistemi di tracciabilità della filiera e nuovi standard qualitativi (che però hanno un costo più elevato). Una soluzione semplice non c’è. Non si tratta solo di assicurare qualità e genuinità a tutti i costi: eccellenti produttori di nicchia ci sono sempre stati (magari una volta erano «fornitori della Real Casa»). La 61 Su Slow Food, fondato nel 1986 contro il «fast food», per reazione all’apertura del primo McDonald’s a Roma in piazza di Spagna, e che oggi ha una sua casa editrice e ha creato l’Università degli studi di Scienze gastronomiche a Pollenzo, cfr. C. Petrini, Slow food. Le ragioni del gusto, Laterza, Roma-Bari 2001.

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scommessa ora è di portare buoni alimenti alla gran parte dei consumatori, superando lo scoglio della distribuzione che è da sempre il problema centrale dei piccoli produttori, e a un prezzo competitivo (ma non sottovalutiamo il ruolo delle industrie alimentari e della grande distribuzione nel rendere disponibili a tutti, grazie a bassi prezzi e facile reperibilità, alimenti una volta riservati alle élite). Saranno i consumatori alla fine a operare un loro personale mix di scelte, rispondente alle loro esigenze, fra prezzi e tipologie di prodotti diversi. In generale resta comunque l’ambivalenza di fronte a cibi nuovi o nuove procedure alimentari, e più in generale verso quelli che sono percepiti come eccessi dell’industrialismo. Tuttavia qualcosa si sta muovendo. Almeno dagli anni Novanta l’attenzione alla naturalità degli alimenti e all’ambiente si è diffusa presso molti piccoli produttori e anche grandi imprese, che investono in questa direzione per migliorare la qualità della merce, l’efficienza dei sistemi produttivi, per risparmiare energia e anche come politica d’immagine presso i consumatori («verde» è anche il colore dei dollari, ricorda una campagna della General Electric). Ecomarketing? Forse, ma potrebbe esserci una svolta nel momento in cui le imprese vedranno il rispetto della natura non come un costo ma come un beneficio. 1.4. I limiti e i costi del consumo La città di Leonia rifà se stessa tutti i giorni: ogni mattina la popolazione si risveglia tra lenzuola fresche, si lava con saponette appena sgusciate dall’involucro, indossa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi, ascoltando le ultime filastrocche dall’ultimo modello d’apparecchio. Sui marciapiedi, avviluppati in tersi sacchi di plastica, i resti della Leonia d’ieri aspettano il carro dello spazzaturaio. Non solo tubi di dentifricio schiacciati, lampadine fulminate, giornali, contenitori, materiali d’imballaggio, ma anche scaldabagni, enciclopedie, pianoforti, servizi di porcellana: più che dalle cose che ogni giorno vengono fabbricate vendute comprate, l’opulenza di Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove. [...] Dove portino ogni giorno il loro carico gli spazzaturai nessuno se lo chiede: fuori della città, certo; ma ogni anno la città s’espande, e gli immondezzai devono arretrare più lontano; l’imponenza del gettito aumenta e le cataste s’innalzano, si stratificano, si dispiegano su un perimetro più vasto. Aggiungi che più Leonia eccelle nel fabbricare nuovi materiali, più la spazzatura migliora la sua sostanza, resiste al tempo, alle intemperie, a fermentazioni e combustioni. È una fortezza di rimasugli indistruttibili che circonda Leonia, la sovrasta da ogni lato come un acrocoro di montagne. [...]

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Il pattume di Leonia a poco a poco invaderebbe il mondo, se sullo sterminato immondezzaio non stessero premendo, al di là dell’estremo crinale, immondezzai d’altre città, che anch’esse respingono lontano da sé montagne di rifiuti. Forse il mondo intero, oltre i confini di Leonia, è ricoperto da crateri di spazzatura, ognuno con al centro una metropoli in eruzione ininterrotta62.

Il Marco Polo immaginato da Italo Calvino non sta solo facendo all’imperatore Kublai Kan una relazione dei suoi surreali viaggi in Estremo Oriente; presenta efficacemente i costi del consumo relativi all’ambiente (l’abbondanza crea problemi non meno della penuria, solo che sono problemi diversi, ci ricorda Schleifer)63. Ovviamente il degrado va messo in relazione a processi molto ampi, collegati all’industrializzazione, all’urbanesimo, all’incremento demografico, alle coltivazioni agricole e così via. Così, anche solo per limitarci ai rifiuti, tecnicamente ne esistono di differenti tipologie: conseguenti all’estrazione di materie prime, industriali e infine specificamente legati al ciclo dei consumi, i rifiuti urbani, appunto. Qui ci interessa solo osservare come i processi di consumo siano sempre più collegati al problema ambientale nel discorso pubblico. Vengono infatti collocati in una cornice sistemica, per così dire, interna alla biosfera. La produzione utilizza quote di «capitale naturale» non sempre rimpiazzabili; il consumo, da parte sua, non si esaurisce con l’atto di comprare e utilizzare il prodotto, ma prosegue nello scarto residuo, con conseguenze altrettanto gravi sull’ambiente fisico circostante. Le montagne di rifiuti di Leonia sono una realtà, l’inquinamento urbano e l’assottigliarsi di alcune risorse naturali anche. Con il passare del tempo, la crescita potrebbe rivelarsi addirittura antieconomica, con svantaggi superiori ai benefici, se considerata nella sua complessità. E si ripropone la domanda: esistono dei limiti fisici al consumo? Può l’ambiente circostante, e poi l’intero pianeta, sopportare le conseguenze di una produzione e un consumo indefiniti? E se finora sono state soprattutto le economie occidentali le protagoniste dello sviluppo, cosa succederà con la crescita economica di altre aree del mondo? Sappiamo bene che la questione ambientale è una delle maggiori sfide del XXI secolo e che non ci sono facili soluzioni. Gli studiosi hanno avanzato analisi diverse e sono nate intere nuove discipline, come l’economia ecologica64. Si va dalle proposte più radicali di decremenI. Calvino, Leonia, in Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972, pp. 119-120. Schleifer, Modernism and Time cit., p. 48. H.E. Daly, Oltre la crescita. L’economia dello sviluppo sostenibile (1996), Einaudi, Torino 2001; N. Georgescu-Roegen, Bioeconomia: verso un’altra economia 62 63 64

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to dei consumi a quelle più moderate di «consumo sostenibile», grazie a comportamenti virtuosi dei consumatori, fino a miglioramenti tecnici nella produzione (che attualmente «spreca» oltre il trenta per cento delle risorse immesse nel ciclo produttivo) e a politiche mirate per un minore impatto ambientale. Certo è che i comportamenti consumeristici che abbiamo visto in precedenza sono fortemente legati a simili problematiche e sono diffusi trasversalmente nella società, influenzati da fattori come la collocazione ideologica, la situazione locale, la condizione socioeconomica e quelli che Inglehart ha definito i valori postmateriali65. Secondo le tesi di questo studioso, infatti, negli anni Sessanta-Settanta si è verificata una «rivoluzione silenziosa»: alcune fasce di popolazione sono passate da valori materialisti legati al consumo fisico e alla ricerca di sicurezza (da sempre prioritari perché legati alla sopravvivenza) a valori postmaterialisti (affetto, appartenenza, stima, piaceri estetici e intellettuali, ambientalismo). Appartenenti a generazioni che non hanno mai sofferto miseria e privazioni, i postmaterialisti (giovani, minoranze, classi urbane medio-alte) sono spesso i più critici e insoddisfatti della politica contemporanea, che avvertono come molto distante dalle loro esigenze (al contrario dei gruppi a basso reddito, più orientati al materialismo). Si manifesta qui una tensione che già Weber aveva notato tra «razionalità sostanziale», orientata ai valori ultimi, e «razionalità funzionale», più sensibile ai mezzi per raggiungerli: due forme di razionalità ugualmente valide e necessarie ma che portano a esprimere giudizi diversi sulla società66. I postmaterialisti sono portatori della prima forma, i materialisti della seconda. Questo spiega perché nelle società occidentali contemporanee, che hanno assistito a una crescita del benessere e a una moltiplicazione dei beni materiali sbalorditive, con un miglioramento enorme delle condizioni di vita e una sostanziale eliminazione della fame, sia presente un forte tasso di insoddisfazione. Per molti le priorità sono mutate. Certamente anche in Italia si è verificato questo fenomeno, e con le medesime scansioni temporali. Se consideriamo la genesi dell’ambientalismo, tipica espressione del «postmaterialismo», esso si struttura a partire dagli anni Settanta all’interno dei movimenti collettivi del

ecologicamente e socialmente sostenibile, a cura di M. Bonaiuti, Bollati Boringhieri, Torino 2003. 65 R. Inglehart, La rivoluzione silenziosa (1977), Rizzoli, Milano 1983. 66 M. Weber, Economia e società: l’economia in rapporto agli ordinamenti e alle forze sociali (1922), Donzelli, Roma 2003.

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tempo, sebbene la sensibilità naturalistica sia ovviamente un fenomeno molto precedente e risalga almeno a fine Ottocento-inizio Novecento con la creazione di club e associazioni per la tutela del paesaggio. Neri Serneri ne traccia un profilo storico, ricostruendone gli iniziali ambivalenti rapporti con la politica e la successiva ricerca di un ruolo specifico nella protesta antinucleare, per poi rifondarsi negli anni Ottanta con un ben più ampio patrimonio culturale e un sostegno diffuso; da allora si sviluppa sia sul piano dell’associazionismo protezionista sia su quello propriamente politico, scegliendo di presentarsi nell’arena dei partiti (ecologia politica)67. A fine secolo i movimenti no global e libri come No logo di Naomi Klein richiamano l’attenzione dell’intera opinione pubblica sulle implicazioni etiche e transnazionali di produzioni e consumi globalizzati68. Le adozioni spontanee di comportamenti per limitare l’impatto ambientale delle nostre attività quotidiane (limitazione degli sprechi di energia e dei beni consumati, biciclette al posto delle macchine, riciclo differenziato dei rifiuti, ecc.) cominciano a notarsi nel paesaggio urbano. Ad esse vanno aggiunte quelle organizzate da associazioni o autorità amministrative (ad esempio i blocchi della circolazione), che però assumono spesso solo un valore simbolico in mancanza di una modifica dell’attuale organizzazione di vita e lavoro, che necessariamente comporta un intenso uso dei trasporti – per andare a scuola o al lavoro, fare la spesa, sbrigare pratiche burocratiche –, delle comunicazioni (telefonini e computer), di apparecchi elettrici casalinghi (elettrodomestici, tv e lettori dvd, e poi un profluvio di apriscatole, bistecchiere, sbattitori, raccoglibriciole, forni microonde, macchine da caffè, vaporizzatori, affettatrici, rasoi, spazzolini, aerosol, battitappeti e scope elettriche)69. Resta l’impressione di trovarci di fronte a una tipica situazione da Teoria dei giochi, il dilemma del prigioniero: la ra-

67 S. Neri Serneri, Culture e politiche del movimento ambientalista, in Culture, nuovi soggetti, identità cit., pp. 367-399. 68 N. Klein, No logo: economia globale e nuova contestazione (2001), Baldini & Castoldi, Milano 2001; Questo mondo non è in vendita. Come opporsi alle strategie del supermercato mondiale, a cura di A. Zoratti, Terre di Mezzo, Milano 2003. 69 In Italia la crescita dei rifiuti è in continuo aumento. Nel 2005 i soli rifiuti urbani sono pari a 539 chili per abitante (un po’ sotto la media europea), con una crescita molto più accentuata rispetto a quella economica (nel periodo 2003-05, quando il Pil sale dell’1% e la spesa delle famiglie dello 0,6%, la produzione di rifiuti urbani sale del 5,5%). Cfr. Agenzia per la Protezione dell’Ambiente e per i Servizi Tecnici, Rifiuti 2006, Roma 2006, vol. I, pp. 10-11, 32.

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zionalità dei singoli si scontra con l’utilità e l’efficienza collettiva. L’unica strategia vincente è quella collaborativa. Tra i vari esperimenti per adattarsi a uno stile di consumo sostenibile, come quello proposto nel 2005 dal comune di Venezia a mille famiglie per limitarsi ad acquisti rispettosi dell’etica e dell’ambiente per dieci mesi70, non sono mancati esperimenti estremi. Di uno interessante hanno dato notizia anche i media italiani: si tratta dell’esperienza di una giornalista americana, Judith Levine, che non ha comprato nulla per un anno, ad eccezione di cose indispensabili alla sopravvivenza (nessun cibo pronto, niente ristoranti, cinema, libri, vestiti, oggetti per la casa). Spiegando poi come questo abbia aumentato la sua sensibilità verso un consumo responsabile, ma al tempo stesso l’abbia isolata in una specie di universo parallelo, escludendola da una vita sociale che si esprime sempre più attraverso il consumo71. Questi nuovi comportamenti relativi ai consumi, ci chiediamo, sono il riflesso di nuovi orientamenti valoriali nel senso indicato da Inglehart, o riflettono anche un cambiamento reale, o percepito, della situazione italiana? Per rispondere possiamo fare ricorso a uno speciale indice di misurazione. Sappiamo che il Pil, che guarda solo alle grandezze economiche, è chiaramente insufficiente in questo senso; e che neppure il successivo Indice di sviluppo umano (Hdi), che tiene conto anche di fattori socioculturali quali l’aspettativa di vita e il grado di educazione, è attento a variabili ambientali72. Sono stati invece elaborati recentemente misuratori della «sostenibilità». Fra questi vi è l’Indice di benessere economico sostenibile (Isew), proposto da Herman Daly e 70 Cambieresti? La sfida di mille famiglie alla società dei consumi, a cura di M. Correggia, Terre di Mezzo, Milano 2006. Cfr. anche P. Dell’Aquila, Verso un’ecologia del consumo, Franco Angeli, Milano 1997. 71 J. Levine, Io non compro (2006), Ponte alle Grazie, Firenze 2006; cfr. ad esempio la segnalazione del libro in Un anno senza shopping, «Gioia», 4 luglio 2006, pp. 44-45: la rivista femminile richiama l’argomento in copertina fra i «manuali per sopravvivere e vivere alla grande», insieme ad altri utili consigli («Trovare un uomo e tenerselo stretto, Diventare ricca, Scegliere il colore giusto, Fare ottimo sesso»). 72 L’indice Hdi (Human development index) è costruito sul reddito pro capite, l’aspettativa di vita, la percentuale di alfabetizzazione, la diffusione dell’educazione scolastica. Nel 2006 secondo questa classificazione l’Italia occupava il 17° posto, un po’ più in basso rispetto alla graduatoria del Pil (7° posto) – il primo classificato è la Norvegia, l’ultimo il Niger che è 177°. Da notare che è stato elaborato anche un Hdi genderizzato, cioè che misura le ineguaglianze registrate in questi fattori fra uomini e donne. In questa classifica, l’Italia è decisamente più sotto, al 62° posto (il primo paese, quindi con minori differenze, è il Lussemburgo, l’ultimo lo Yemen).

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John Cobb nel 1989. Esso si basa su molteplici grandezze economiche, fra cui redditi, consumi e possesso di beni durevoli, integrate da fattori ambientali (come costi per urbanizzazione, pendolarismo, inquinamento, incidenti stradali, esaurimento delle risorse)73. Ebbene, risulta che in Italia l’Isew cresce a lungo in parallelo al Pil a un livello più basso, ma dagli anni Settanta inizia a declinare, perché i fattori negativi salgono più velocemente di quelli positivi (diversamente dal Pil). In sostanza, questo vuol dire che il costo dell’impatto ambientale di un certo modello di produzione e consumo fa avvertire i suoi effetti negativi74. L’impressione che molti hanno di una peggiorata qualità della vita, magari anche a fronte di un reddito stabile o in aumento, troverebbe qui una conferma. Per intanto, una consolazione ci viene dal mondo dell’arte, che ha saputo utilizzare i rifiuti che incombevano su Leonia in un nuovo linguaggio artistico. Dopo le avanguardie di inizio secolo, dopo l’arte di protesta della contestazione, l’arte contemporanea si ispira sempre più al rimosso, allo scarto. Un po’ per denuncia, un po’ per provocazione, o forse per presentarci come in uno specchio la nostra vita, le nostre abitudini, la nostra identità, attraverso quello che abbiamo consumato e pensavamo di avere eliminato per sempre. Sacchi di spazzatura, bottiglie di plastica, apparecchi rotti, pezzi di sedie, cornici vuote, brandelli di giornali, pile usate, lampadine rotte: tutto entra nel repertorio della trash art75. Si potrebbe obiettare che la decontestualizzazione fa la differenza: estraniare la spazzatura dal suo contesto abituale e presentarla nelle sale asettiche e raffinate di un museo, ben illuminata e con una didascalia di spiegazione bilingue, fa cambiare il nostro atteggiamento mentale. I rifiuti perdono la loro caducità, sono consegnati all’arte per durare in eterno. Ma c’è chi è andato oltre. Daniel Spoerri, noto per il suo giardino di sculture in Toscana, sull’Amiata, ha ripetutamente organizzato dei banchetti-mostra; durante le performance, ai partecipanti erano servite opere d’arte sue, di Arman, César,

73 F.M. Pulselli, S. Bastianoni, N. Marchettini, E. Tizzi, La soglia della sostenibilità ovvero quello che il Pil non dice, Donzelli, Roma 2007, pp. 145-160. 74 Da un confronto con altri paesi europei (l’indice Isew non è disponibile per tutti i paesi) risulta che la situazione ambientale è particolarmente delicata in Italia e Germania, che da tempo sono in «deficit ecologico», avvicinandosi a una «soglia» biofisica. Cfr. Pulselli, Bastianoni, Marchettini, Tizzi, La soglia della sostenibilità cit., pp. 227-236. 75 L. Vergine, Quando i rifiuti diventano arte. Trash rubbish mongo, Skira, Milano 2006.

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fatte con materiali commestibili (eat art)76. Dopo, non restava più nulla: arte e consumo si erano letteralmente fusi in un unico momento. 2. La vita quotidiana contemporanea 2.1. Il corpo e la moda Il tabù più forte del consumo è il corpo: non si può mangiare, non si può consumare. Nelle società contemporanee questa è forse la più grave delle trasgressioni, sintomo di aberrazione e di follia. Eppure si potrebbe dire che l’antropofagia è un tratto ben presente nella nostra cultura. Non ci riferiamo tanto a episodi più o meno antichi di cannibalismo (pur documentati), ma alle pratiche simboliche in cui si mangia il corpo umano o quello di un dio. Erano diffusi un po’ in tutta Europa i riti di fine mietitura in cui l’ultimo grano raccolto è usato per fare un pane o una focaccia in forma umana che viene adorata e ringraziata, e poi smembrata e mangiata da tutta la comunità, come ci testimonia Frazer. E ben numerose sono le cerimonie che metaforicamente richiamano il sacrificio rituale di un dio e il consumo della sua carne e del suo sangue tra i fedeli77. La sacralità del corpo non è certo messa in discussione a fine Novecento; la sua importanza e distintività sono anzi un elemento caratteristico di questa fase storica. Tuttavia l’evoluzione della scienza e una nuova sensibilità culturale tendono a ridefinire i suoi confini, ed è da qui che partiremo per qualche riflessione sui consumi contemporanei nella vita quotidiana. Se il corpo è sacro, non può essere ridotto a merce, venduto o comprato; e neppure parti di esso, che possono solo essere donate (peccato che in realtà il commercio di organi o di corpi, cioè schiavi, sia tanto diffuso nel mondo da essere una delle principali fonti di introiti illegali, con la droga)78. Ma la scienza ci spinge a ri-

76 Daniel Spoerri. La messa in scena degli oggetti, a cura di S. Parmiggiani, Skira, Milano 2004. 77 J.G. Frazer, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione (1922), Bollati Boringhieri, Torino 1965, in particolare pp. 572-585. 78 United Nations Office on Drugs and Crime, Trafficking in Persons: Global Patterns, Vienna 2006. Il moderno schiavismo riguarda sopratutto il lavoro forzato e lo sfruttamento sessuale. Riguardo alla prostituzione, si può notare come nella società contemporanea, nonostante la crescente liberalizzazione sessuale, tutto il mercato riguardante il sesso sia in forte espansione (prostituzione vera e propria, riviste, film e dvd, siti in rete, turismo sessuale). Come ha notato Leonini, ciò è dovuto a un’idea di sessualità nettamente separata dall’affettività e alla sua completa ricaduta nella sfera del consumo. La presenza poi di prostitute per lo più straniere aggiunge al fenomeno un elemento sociale che richiama la posizione ineguale dei

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definire i limiti dell’inviolabilità corporea: possiamo usare il corpo o sue parti a scopi scientifici? È lecito fare modificazioni genetiche? Possiamo utilizzare organi clonati? e in un futuro interi corpi? L’uso e la manipolazione del corpo non sono limitati al campo scientifico. Tatuaggi, piercing, scarificazioni (incisioni per creare cicatrici evidenti), branding («baci di fuoco»), implantation (innesti sottocutanei di perle o piccoli gioielli), mutilazioni anche gravi: le trasformazioni fisiche per comunicare un’identità sono un fatto culturale di lunghissima tradizione, ma nel contesto contemporaneo assumono talvolta la forma di vere e proprie pratiche di «consumo del corpo». Anche per l’intervento della moderna medicina, che permette interventi estetici esterni e interni anche estremi (lifting, liposuzioni, schiarimenti o abbronzature permanenti, chirurgia plastica, revirgination, trapianti di volto, ecc.) all’insegna del morphing totale79. Comprendiamo qui bene cosa intenda Marshall Sahlins quando parla di consumo come performance80: facciamo del corpo la nostra opera d’arte. Si potrebbe scrivere molto anche sulla manipolazione mediatica e digitale del corpo, la sua esposizione, la spettacolarizzazione anatomica81; e già si apre un intero orizzonte di nuovi rapporti con l’artificiale: il corpo accoglie sempre più al suo interno macchine che migliorano le sue funzionalità e lo modificano, dai pace-maker agli apparecchi acustici, dalle protesi alle retine artificiali, mentre gli sviluppi delle nanotecnologie e dell’ingegneria biologica presentano scenari di impensata interfaccia uomo-macchina, se non di creature ibride82. Per tornare su un piano più quotidiano, pensiamo alle forme del corpo. Ci vengono in mente alcuni quadri di Botero: ecco una donna mol-

paesi meno sviluppati rispetto alle ricche nazioni occidentali. Cfr. Sesso in acquisto. Una ricerca sui clienti della prostituzione, a cura di L. Leonini, Unicopli, Milano 1999. 79 Texture. Manipolazioni corporee fra chirurgia e digitale, a cura di E. Ciuffoli, Meltemi, Roma 2007; C. Benthien, Skin. On the Cultural Border Between Self and World, Columbia University Press, New York 2002. 80 M. Sahlins, Isole di storia: società e mito nei mari del Sud (1985), Einaudi, Torino 1986. 81 Texture cit., pp. 57-90. 82 R. Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2002. A proposito di ridefinizioni, accenniamo anche ai mutamenti che stanno intervenendo nel rapporto uomo-animale: un rapporto che in epoca moderna ha spesso assunto caratteristiche di consumo e mercificazione degli animali domestici, intesi quindi come animale-oggetto, ma che ora si interroga sulle relazioni tra essere umano e animale-soggetto, come ci suggerisce la zooantropologia. Cfr. R. Marchesini, S. Tonutti, Manuale di zooantropologia, Meltemi, Roma 2007.

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to abbondante distesa languidamente su un letto matrimoniale (lo occupa tutto), un’altra che si guarda nello specchio del piccolo bagno che a malapena la contiene; un’altra, un’odalisca, che troneggia nella sua nudità monumentale83. La domanda è questa: in un’epoca caratterizzata dall’abbondanza, dal consumo spesso senza freni, quando possiamo permetterci di accumulare tutti gli oggetti che vogliamo, di mangiare tutto quanto possiamo, di indulgere alla quantità in ogni cosa, perché si apprezza la magrezza del corpo, arrivando fino a eccessi anoressici? Perché non trionfa la floridezza e l’opulenza fisica? Questa contraddizione ha colpito molti; c’è chi vi ha visto una rimozione del corpo, il rifiuto della materialità, una specie di nemesi storica, o più semplicemente, lo strapotere dei media nel diffondere i loro messaggi (magari legati alle esigenze della moda). Tuttavia va osservato che la presenza di modelli, soprattutto femminili, legati alla magrezza ha una lunga tradizione in Occidente84. Pensiamo alle sante anoressiche, che digiunano per far trionfare la volontà sul corpo, raggiungere un superiore stadio spirituale e, secondo ricerche come quelle di Bynum, anche per manifestare una critica verso l’autorità: il corpo magro è santo85. Pensiamo ai canoni estetici spesso diffusi nelle classi superiori, testimoniati da molte rappresentazioni artistiche, ben diversi da quelli dei contadini (per i quali «grassezza fa bellezza»): il corpo magro è bello. Ricordiamo anche l’importanza della funzionalità del corpo, che deve essere agile e ben allenato, per scopi militari, per poter lavorare e produrre al meglio (magari adesso con l’aiuto della palestra)86: il corpo magro è efficiente. C’è poi il crescente peso della medicalizzazione, che lega la grassezza, anzi l’obesità, a malattie e rischi di salute, predica il «normopeso» e diffonde diete equilibrate: il corpo magro è sano. Infine, come osserva Schleifer, se l’abbondanza è davvero la cifra pervasiva della modernità, allora la distinzione può essere reperita solo nella scarsità, nell’austerità; è lo stesso meccanismo per cui l’arte sceglie la via del formalismo astratto, del mi-

83 F. Botero, The letter (olio su tela), 1976; The Toilet (olio su tela), 1989; Odalisca (olio su tela), 1998; cfr. F. Botero, Donne, a cura di P. Gribaudo, Rizzoli, Milano 2003. 84 V. Teti, Le culture alimentari nel Mezzogiorno cit., p. 162. 85 C.S. Bynum, Sacro convivio, sacro digiuno: il significato religioso del cibo per le donne del Medioevo (1987), Feltrinelli, Milano 2001; cfr. anche W. Vandereycken, R. van Deth, Dalle sante ascetiche alle ragazze anoressiche: il rifiuto del cibo nella storia (1994), Cortina, Milano 1995. 86 R. Sassatelli, Anatomia della palestra. Cultura commerciale e disciplina del corpo, il Mulino, Bologna 2000.

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nimalismo87. La nostra ricerca della magrezza non è una deprivazione, ma un investimento che facciamo sul corpo. Se le forme del corpo comunicano, gli abiti che lo ricoprono lo fanno ancora di più. Da sempre l’abbigliamento e i suoi accessori (o la loro mancanza) travalicano le funzioni di protezione per comunicare una cultura e un’identità: il gruppo di appartenenza, la classe sociale, il sesso, l’età, il mestiere ecc. Corpo e abito hanno fra loro un rapporto molto stretto e non unilaterale, sono entrambi prodotti culturali (non siamo più tanto sicuri che «l’abito non fa il monaco»). Parlando di «corpo rivestito», non possiamo non rifarci alla moda e al suo ruolo nel nostro tempo, ricordando la capacità dell’abbigliamento di divenire icona di movimenti sociali e politici: come separare l’eskimo dalla contestazione studentesca, l’abbigliamento unisex a base di jeans, magliette e scarpe da ginnastica dai mutamenti di genere e generazione, il power dressing (il completo giacca e pantalone/gonna di taglio maschile, sobrio e di colore scuro – magari unito a qualche misurato simbolo di femminilità come tacchi alti, gioielli non vistosi o capelli lunghi) dall’entrata delle donne nel mondo del lavoro manageriale?88 Ma qual è il significato della moda oggi? Sono molti gli studiosi che se ne sono occupati, a cominciare dai pionieri: Georg Simmel, che identifica nel dualismo imitazione/differenziazione la chiave di un fenomeno che ha i caratteri tipici di ogni fatto sociale: tendiamo ad aggregarci al gruppo per conformismo, protezione, sicurezza; nello stesso tempo desideriamo distinguerci, affermarci individualmente, liberarci, in una tensione continua. La moda nella società di massa trae il suo senso dalle stratificazioni di classe e tende a diffondersi dall’alto verso il basso – quasi un’anticipazione, questa, del trickle down effect di Veblen89. E poi c’è Walter Benjamin, che vede la spinSchleifer, Modernism and Time cit., p. 26. Il power dressing sarebbe un modo per permettere alle donne di entrare in un mondo prevalentemente maschile, evitando di sottolineare attributi specificamente sessuali, per facilitare i rapporti con i colleghi maschi – altrimenti distratti dai messaggi erotici di un abbigliamento provocante. Allo stesso tempo però le donne non rinunciano a ricordare la propria femminilità attraverso alcuni simboli o accessori, in un complesso gioco di rimandi maschili e femminili. Cfr. J. Entwistle, The Fashioned Body: Fashion, Dress and Modern Social Theory, Polity Press, Cambridge 2000, pp. 181-207. Per un quadro generale del significato dei vestiti e della moda nella società odierna cfr. E. Wilson, Adorned in Dreams: Fashion and Modernity, Virago, London 1985. 89 G. Simmel, La moda e altri saggi di cultura filosofica (1895), Longanesi, Milano 1985; T. Veblen, La teoria della classe agiata: studio economico sulle istituzioni (1899), Einaudi, Torino 1949. 87 88

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ta al cambiamento veloce e continuo della moda come componente essenziale della vita urbana, e parla di fascinazione per lo spettacolo delle merci, quasi di sogno, un sogno che allude ai valori profondi della società moderna, definendo la moda come «sex appeal dell’inorganico»90. In realtà queste riflessioni vengono un po’ dimenticate e a lungo dominano le interpretazioni ispirate dalla Scuola di Francoforte, come abbiamo visto, molto critiche verso una moda vista come fatto esclusivamente commerciale, di alienazione e di dominio. Una prima svolta viene dalla lettura socio-semiologica di Roland Barthes, per il quale la moda è un linguaggio: in ogni merce che acquistiamo si nascondono «universi di senso» che ci rimandano a miti più vasti (una divisa allude a patria, onore, fedeltà; una minigonna alla liberazione sessuale della donna, ecc.); le merci sono i segni di un linguaggio attraverso cui comunichiamo la nostra identità, entriamo in relazione con gli altri, ci confrontiamo con i significati culturali profondi, i miti appunto, racchiusi in un oggetto. Seguire la moda vuol dire comunicare, ma per comprendere il messaggio bisogna guardare non ai singoli capi (lessico) ma alla loro combinazione (sintassi), che è resa esplicita ad esempio nelle descrizioni che ne fanno le riviste specializzate91. La dimensione comunicativa della moda è messa in rilievo anche dalla seconda svolta, quella antropologica: se sono gli oggetti della cultura materiale a dare senso al nostro agire e al nostro ambiente, se costituiscono quasi «continuazioni» del nostro corpo, allora anche i vestiti sono mezzi di costruzione della nostra identità e la moda è un continuo palcoscenico della rappresentazione sociale di noi stessi. Per Mary Douglas prima e Arjun Appadurai dopo, l’abbigliamento, al pari di tutto il mondo degli oggetti intorno a noi, parla agli altri della nostra identità92. Sono soprattutto queste due chiavi di lettura (moda come linguaggio, moda come costruzione di identità) a influenzare le interpretazio-

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W. Benjamin, I «passages» di Parigi (1982), Einaudi, Torino 2002, vol. I, p.

84. 91 R. Barthes, Miti d’oggi (1957), Einaudi, Torino 1974; Id., Sistema della moda (1967), Einaudi, Torino 1970. 92 M. Douglas, B. Isherwood, Il mondo delle cose: oggetti, valori, consumo (1979), il Mulino, Bologna 1984; The Social Life of Things: Commodities in Cultural Perspective, a cura di A. Appadurai, Cambridge University Press, Cambridge 1986. Su oggetti e cultura materiale cfr. anche L. Leonini, L’identità smarrita: il ruolo degli oggetti nella vita quotidiana, il Mulino, Bologna 1988. Per un quadro d’insieme di taglio filosofico cfr. L.F.H. Svendsen, Filosofia della moda (2004), Guanda, Parma 2006.

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ni successive. Ed ecco che si sottolinea come oggi sia meglio parlare di mode, al plurale, e del proliferare di stili paralleli, ai quali i consumatori attingono in un originale processo di riuso creativo (détournement)93; si studia la crescente sovrapposizione tra sistema della moda e mondo dei media94; si guarda al ruolo delle subculture nell’istituire stili estetici che servono a creare identità condivise (o a riconoscersi nella «tribù», per usare un termine di Maffesoli)95; si osserva la frequenza con cui le mode vanno dal basso all’alto, dalla strada alle collezioni, grazie anche a cool hunter (cacciatori di tendenze) che studiano la creatività spontanea delle persone, soprattutto giovani, mischiandosi tra loro e operando online, alla ricerca dei trend del futuro96. Oppure si rimarca come il fenomeno della moda non riguardi più solo abiti e accessori, ma anche arredamento di casa, luoghi di vacanze e tutto quello che contribuisce a «rappresentarci» (total living): autori come Landowski ritengono anzi che i meccanismi tipici della moda siano all’opera in molti altri settori sociali97. Inutile dire che in Italia il peso del settore moda (espressione suprema del visual consumption) è particolarmente significativo, non solo dal punto di vista economico ma anche da quello culturale. Il sistema-moda imperniato sulla figura dello stilista che propone le sue linee, magari un total look, appoggiandosi a una filiera produttiva di alta qualità tramite un complesso sistema di subforniture, riservando uguale attenzione alla produzione e al marketing, raggiunge la piena maturità negli anni Ottanta98. Agli stilisti «storici», come Armani (con il suo stile andro-

93 S. Gnoli, Un secolo di moda italiana: 1900-2000, Meltemi, Roma 2005; U. Volli, Block modes: il linguaggio del corpo e della moda, Lupetti, Milano 1998. 94 R. Fabbri, Ciak: si gira la moda. Cinema e moda, sistemi di senso e industrie di emozioni, QuattroVenti, Urbino 2006; P. Calefato, Mass moda: linguaggio e immaginario del corpo rivestito, Costa & Nolan, Genova 1996. 95 D. Hebdige, Sottocultura: il fascino di uno stile innaturale (1979), Costa & Nolan, Genova 1983; M. Maffesoli, Il tempo delle tribù: il declino dell’individualismo nelle società di massa (1988), Armando, Roma 1988. 96 T. Polhemus, Street Style: From Sidewalk to Catwalk, Thames and Hudson, New York 1994; A. Arvidsson, Dalla «réclame» al «brand management». Uno sguardo storico alla disciplina pubblicitaria del Novecento, in Il secolo dei consumi. Dinamiche sociali nell’Europa del Novecento, a cura di S. Cavazza, E. Scarpellini, Carocci, Roma 2006, pp. 213-217. 97 E. Landowski, La società riflessa (1989), Roma, Meltemi 1998; Total living, a cura di M.L. Frisa, M. Lupano, S. Tonchi, Charta, Milano 2002. 98 E. Merlo, Moda italiana: storia di un’industria dall’Ottocento a oggi, Marsilio, Venezia 2003; S. Testa, La specificità della filiera italiana della moda, in Storia d’Italia. Annali 19. La moda, a cura di C.M. Belfanti, F. Giusberti, Einaudi, Torino 2003, pp. 699-734.

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gino e le sue giacche destrutturate), Versace (provocatorio ed aggressivo), Missoni (che reinventa la maglieria italiana) e poi Krizia, Valentino, Fendi e Ferrè, si aggiungono successivamente nomi come Moschino, Gigli, Dolce & Gabbana. Tuttavia la crescente competizione internazionale porta le case a studiare nuove strategie. Da un lato si concentrano le risorse nella valorizzazione della marca, ancor più dei prodotti, che in pratica significa seguire passo per passo ogni fase della produzione, distribuzione e promozione, riservando una particolare attenzione ai punti vendita finali, che «mettono in scena» l’immagine di marca (e su questo torneremo più avanti). Dall’altro, procedono alla costituzione di grandi concentrazioni industriali per competere sui mercati globali, assorbendo altre marche (come fanno ad esempio Gucci e Prada). La moda però fa molto di più. Come in parte il design prima e l’alimentazione dopo, essa costruisce una nuova identità per l’Italia99; spazza via alcuni vecchi stereotipi all’estero e propone un’immagine diversa del paese: lancia l’Italian way of life. 2.2. Spazi privati e spazi pubblici Nuovo paesaggio domestico. A questo pensiamo trovandoci proiettati all’interno di una cucina dei nostri tempi, un ambiente che sembra tornato il fulcro della casa, complice il suo legame con la convivialità100. Ma forse il termine è sbagliato, dovremmo dire vecchio paesaggio domestico: ci troviamo infatti in una cascina ristrutturata, da qualche parte della campagna italiana. Nell’ampio ambiente bianco con il soffitto a travi, spicca il blocco cucina in muratura: lavello d’acciaio, piano di lavoro, grande cucina economica smaltata La Cornue; di fronte c’è il camino, con davanti due poltroncine e una sedia a dondolo. Al centro dell’ambiente un grande tavolo d’epoca con le sedie e un prezioso fratino, contornati da due alti armadi di legno, tendine a fiori alle finestre, pentole di rame e attrezzi vari appesi al muro; il pavimento è in abete chiaro. In fondo, si ve-

99 Cfr. i saggi di P. Sparke, A modern identity for a new nation: design in Italy since 1860, e E. Paulicelli, Fashion: narration and nation, in The Cambridge Companion to Modern Italian Culture, a cura di Z.G. Baranski, R.J. West, Cambridge University Press, Cambridge 2001, pp. 265-277, 282-292; e per uno sguardio più all’indietro: Moda e moderno. Dal Medioevo al Rinascimento, a cura di E. Paulicelli, Meltemi, Roma 2006. 100 Un interessante romanzo sul ruolo della cucina nell’immaginario contemporaneo è quello di esordio di B. Yoshimoto, Kitchen (1988), Feltrinelli, Milano 1991, che inizia così: «Non c’è posto al mondo che io ami più della cucina. Non importa dove si trova, com’è fatta: purché sia una cucina, un posto dove si fa da mangiare, io sto bene».

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dono le scale in legno che portano al piano di sopra. L’atmosfera è decisamente calda e accogliente. Eccoci riportati indietro nel tempo... O forse no. La coppia di professionisti che ha lasciato la città e ha ristrutturato questa cascina ha fatto una scelta precisa, ha voluto vivere in un ambiente più naturale e legato alle autentiche tradizioni contadine. Abbiamo già notato l’ambivalenza di questo concetto di «autenticità»: questa stessa cascina comprende (costosi) mobili d’epoca, rifacimenti moderni, è pulita, ben riscaldata, illuminata (ci ricordiamo bene com’erano le cascine fino a pochi decenni fa: povere, sporche, senza manutenzione, senza riscaldamento, con un odore di chiuso e muffa che aleggiava ovunque). Vivere in questa «moderna» cascina assume quindi un significato culturale inequivocabile. Al di là di questo, quello che ci colpisce sono le dimensioni dell’ambiente cucina: per realizzarlo, si sono certo abbattute mura divisorie, e ora la cucina si è fusa con il vecchio salotto, dando vita al soggiorno, ed è diventata l’ambiente centrale della casa. Come è successo? Non facciamo in tempo a chiedercelo, che siamo scaraventati in uno spazio completamente diverso (meglio di molti teletrasporti). È sempre una cucina – crediamo, anche perché in questo immenso spazio minimalista non c’è quasi nient’altro. Questa Bulthaup b3 in effetti è una parete funzionale in mezzo alla stanza, alla quale sono appesi mensole, box multiuso, elettrodomestici; una specie di cucina «fluttuante». I colori prevalenti sono il bianco, il grigio e delicate texture per i legni; i materiali sono naturali o ipertecnologici. In questo living dal sofisticato design compaiono pochi altri mobili, tutto è giocato sulla luce e le trasparenze, niente quadri o ninnoli, regna l’aristocratico vuoto (che differenza con le case strapiene di oggetti della borghesia d’inizio secolo!). Il comfort e la funzionalità sono coniugati a un raffinato valore estetico, che è la vera cifra di questo spazio. Siamo in effetti nell’appartamento cittadino di uno stilista di moda. E qui vediamo portata all’estremo l’idea di ambiente unico, di open space. Le antiche divisioni interne allo spazio domestico saltano: niente più maschile o femminile, lo spazio fisico tra i sessi si è avvicinato; niente più privato o pubblico, è il privato a invadere la casa, non ha più bisogno di nascondersi, di celare i suoi segreti a sguardi estranei: si espone, si spettacolarizza, comunica con l’esterno. Al tempo stesso lo spazio diviene multifunzionale (insieme cucina, studio, luogo di riposo, di divertimento); è meno convenzionale, meno rigido101. 101 F. Ramondino, Star di casa, Garzanti, Milano 1992; G. D’Amato, Storia dell’arredamento. Dal 1750 a oggi, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 407-412.

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Ma cosa succede? Siamo trasportati in un altro luogo ancora. Sempre una cucina. Ma questa volta la disposizione ci è più familiare. L’ambiente non è molto grande (non lo è del resto l’intero appartamento) ma è completo e funzionale; addossata al muro c’è una cucina modulare, in laminato rosso, con sopra i pensili uguali, e accanto un capiente frigorifero bianco. Il tavolino in materiale plastico, con le sedie pieghevoli, è appoggiato a un’altra parete ed è sormontato da mensole a vista con piatti e bicchieri; notiamo soprammobili, piante, pepaiole, attrezzi colorati per cucinare. La riconosciamo: è una cucina Ikea, che una coppia di giovani impiegati, con un bambino piccolo, ha comprato da poco. È evidente un maggiore tradizionalismo nella disposizione e separazione degli spazi domestici; ma anche qui la cucina è divenuta soggiorno, vi si accede direttamente dalla porta d’ingresso, è diventata lo spazio per i giochi del piccolo (che sono sparsi tutt’intorno), è il luogo dove si trascorre più tempo. Tutti e tre questi ambienti rappresentano, in modo diverso, le trasformazioni culturali della fine del XX secolo; tutt’e tre mostrano come gli oggetti di consumo definiscano l’identità sociale e i contorni del nuovo paesaggio domestico. Il consumo plasma con altrettanta forza gli spazi esterni, come sappiamo. E qui non ci riferiamo tanto ai circuiti del divertimento, che pure sono cambiati: ad esempio, essendo lo «spettacolo» tradizionale entrato in casa con tv, satelliti e dvd, questo ha causato un relativo declino nell’affluenza a teatri e cinema. In compenso, si stanno affermando con forza e trasversalmente i luoghi della sociabilità legati al consumo di cibo e bevande: ben tre quarti degli italiani consumano ora pasti fuori casa – pranzi (equamente divisi fra pasti conviviali e spuntini veloci), sempre più cene (con una netta preferenza per le pizzerie o i pasti «destrutturati», cioè non completi dal primo al dessert), colazioni (quelle classiche con caffè o cappuccino al bar) e infine aperitivi o dopocena (peculiari della fascia d’età 25-34 anni), senza contare poi le mense e la ristorazione collettiva. Motivi pratici (maggiore mobilità, crescente occupazione femminile, orari di lavoro) e motivi culturali (valorizzazione del cibo e della convivialità ad esso associata) hanno portato il peso della ristorazione extra-domestica a incidere per un terzo sul totale dei consumi alimentari102. 102 Ismea-AcNielsen, Extradomestici: indagine qualitativa secondo semestre 2006, «Consumi», 2, settembre 2007 (riporta dati specifici sulle differenziazioni socio-professionali e geografiche); Fipe-Confcommercio, Comportamenti di consumo al ristorante, Roma 2004. Nel 2005 l’Italia è in linea con la media dei consumi extra-

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Parlando di spazi esterni, dicevamo, uno dei processi di consumo più caratterizzanti è forse quello del turismo. Non è certo una novità, lo abbiamo visto svilupparsi lungo tutto il Novecento, ma ora è diventato di massa e sembra simboleggiare la postmodernità. Eccoli i turisti, quasi un archetipo, nelle statue di Hanson: lui, camicia hawaiana e pantaloncini, macchina fotografica eternamente al collo, custodia per gli accessori, cappellino e viso rosso; lei, un po’ sovrappeso, ciabatte infradito, pantaloni e maglietta a righe, macchina fotografica (meno costosa), un borsone a tracolla e una borsa a mano; entrambi in piedi, forse un po’ affaticati, con lo sguardo fisso in lontananza103. Quello sguardo, secondo studiosi come Urry, trasforma tutto in consumo: il paesaggio in inquadratura fotografica, il prodotto artigianale in souvenir, il cibo del luogo in fast food esotico, la cultura locale in folklore caratteristico; spinge l’economia locale a modificarsi, ad abbandonare attività di sopravvivenza e capanne e a costruire alberghi, strade, ristoranti, rifugi, teleferiche, negozietti, chioschi di cartoline; suggerisce agli abitanti di comportarsi in un certo modo, come vorrebbe la tradizione, o meglio, come si aspettano i turisti stessi; trasforma la natura in uno spettacolo consumabile (e se la natura non basta, viene allestita una scenografia ad hoc); pure la «storicità» contribuisce a creare luoghi di consumo turistico, grazie al fascino del passato. Alla ricerca di un’evasione dalla routine quotidiana, perfino il moderno «post-turista» della «nuova» borghesia» (il famoso viaggiatore contrapposto al turista), attento alla sua immagine, ironico e distaccato, non sfugge alla trappola per cui la cultura diventa consumo e la società diventa spettacolo104. Solo negli anni Settanta e Ottanta si è sviluppata un’alternativa. È quella che storici dell’ambiente, antropologi e attivisti hanno definito «ecoturismo» o turismo ecologico, cioè sostenibile, informato, in piccoli gruppi, rispettoso dell’ambiente e della cultura. È difficile dire se si tratti di una forma praticabile su larga scala (o se magari vedrà come protagonisti soprattutto storici dell’ambiente, antropologi, attivisti e altre selezionate categorie). Quello che è certo è che oggi sono in molti a sottolineare l’amdomestici in Europa (25 nazioni), pari al 32%, con la ricca Irlanda al 51%; la sua quota è inferiore a quella dei paesi mediterranei che registrano valori più elevati (Spagna 50%, Grecia 47%), ma in rapido aumento. Cfr. Nomisma, Il fuori casa in Italia: stato dell’arte, dinamiche, nuovi trend del consumo extra-domestico, Bologna 2007. 103 D. Hanson, Tourists II (scultura in fibra di vetro), 1988. 104 J. Urry, Lo sguardo del turista: il tempo libero e il viaggio nelle società contemporanee (1990), Seam, Roma 1995.

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bivalenza del turismo: non è solo un fenomeno originato dal turista visto quasi come un «nuovo colonialista», al cui sguardo inquisitivo soggiacciono i passivi abitanti locali, ma un momento di incontro fra due culture ugualmente attive (per cui è importante ascoltare anche le voci dei «locali»); è un processo con un impatto differenziato sul territorio, che può suscitare sia apprezzamento sia resistenza e ostilità; è un volano economico che può fare crescere le infrastrutture, così come rovinare l’economia tradizionale; è un contatto culturale che può valorizzare le tradizioni, così come distruggerle105. Come ogni forma di consumo, quella turistica ha al suo interno un’irrisolta ambiguità. Ma se c’è uno spazio dove la differenziazione si è espressa al meglio, questo è quello degli spazi commerciali, nostro luogo di osservazione privilegiato. 2.3. I nuovi luoghi del commercio Disneyland o Las Vegas? Disneyland con i suoi mondi fantasiosi e autonomi, la Main street con le casette vecchio stile, il castello medievale sullo sfondo, le giungle e le paludi, gli animali selvatici, il mondo del futuro, Fantasyland (tutto perfettamente pulito, piacevole, organizzato: magico); Los Angeles con i suoi casinò e i suoi alberghi giganteschi, la piramide e la sfinge, il vulcano che erutta ogni quarto d’ora, l’assalto dei pirati alla nave, le riproduzioni di Manhattan, di Bellagio e Venezia, con tanto di canali navigabili da gondole e cielo stellato (una città in continuo movimento, tutta luci e colori, dentro e fuori la Strip). Quale dei due modelli oggi incarna meglio l’idea di consumo? Forse entrambi, poiché sono declinazioni diverse dei binomi consumo-divertimento e consumo-spettacolo, ben presenti fin dai primi grandi magazzini ottocenteschi, e giunti qui a effetti estremi. Secondo Ritzer, questa è una direzione inevitabile se si vuole «reincantare» un consumatore ormai assuefatto a consumi iperrazionalizzati, cioè omogenei, calcolabili, prevedibili, efficienti, il cui simbolo perfetto sono gli hamburger di McDonald’s: uguali in ogni negozio, preparati con lo stesso identico ed efficiente metodo, gli stessi ingredienti, serviti nello stesso modo in locali simili. Ecco perché si devono inventare sempre nuove modalità per affascinare i clienti106.

105 A. Galvani, Ecoturismo, Martina, Bologna 2004; A. Stronza, Anthropology of Tourism: Forging New Ground for Ecotourism and Other Alternatives, «Annual Review of Anthropology», 30, 2001, pp. 261-283. 106 R. Venturi, D. Scott Brown, S. Izenour, Learning from Las Vegas: The Forgotten Symbolism of Architectural Form, The Mit Press, Cambridge 1977; M. Augé,

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Certo è che gli ultimi sviluppi dei luoghi del commercio sembrano andare proprio nel senso del gigantismo e della spettacolarizzazione. Pensiamo ai centri commerciali, quei complessi di servizi e negozi apparsi negli Stati Uniti già nei primi decenni del Novecento, ma che assumono un assetto preciso solo nel secondo dopoguerra, quando l’esodo delle classi medie affluenti e motorizzate nei suburbi spinge a creare strutture commerciali in quegli spazi «vuoti» lontani dalle città. Nel 1956 l’architetto Victor Gruen costruisce una struttura unica in grado di contenere tutti i negozi, completamente coperta, con aria condizionata e molto verde, nella periferia di Minneapolis: è il Southdale Center di Edina, il primo mall, che diventerà un esempio per tutti gli altri107. L’intuizione di Gruen è che non basta realizzare un insieme di punti vendita, sia pure comodamente raggiungibili, ma bisogna ricreare l’atmosfera della città. Ecco perché i suoi mall sembrano riprodurre un centro urbano, con le vie pedonali, le piazzette con bar e ristoranti, le fontane che zampillano, le aiole fiorite e molte iniziative culturali e ricreative, oltre ai negozi naturalmente; anzi, una città perfetta, dove non c’è mai sporco per le strade, la sorveglianza garantisce piena sicurezza, ladri e minoranze povere sono tenuti a distanza, il parcheggio non manca mai, non piove né fa mai troppo caldo o freddo. Una città fuori dalla città, un nuovo luogo d’incontro sociale (un simulacro, direbbe invece Baudrillard, in grado di uccidere la città vera). In Europa i centri commerciali arrivano più tardi, in Italia non prima degli anni Settanta (uno dei primi è a Pratilia, vicino a Prato), fra molto scetticismo, anche perché presentano nello stesso spazio piccoli negozi e grandi magazzini o supermercati, cioè strutture che di solito si fanno concorrenza (è invece un esempio di «coopetizione», una strategia derivata dalla Teoria dei giochi: non un gioco a somma zero in cui il vincitore prende tutto e i perdenti nulla, ma una cooperazione in ambito competitivo da cui tutti possono beneficiare). A volte i centri commerciali sorgono intorno a una nuova formula, l’ipermercato, una megastruttura periferica (5 o 10.000 mq) che offre insieme beni alimentari e beni non Disneyland e altri nonluoghi (1997), Bollati Boringhieri, Torino 1999; G. Ritzer, Il mondo alla McDonald’s (1993), il Mulino, Bologna 1997. Cfr. anche I parchi di divertimento nella società del loisir, a cura di E. Minardi, M. Lusetti, Franco Angeli, Milano 1998 (sui parchi a tema). 107 M.J. Hardwick, Mall Maker: Victor Gruen, Architect of an American Dream, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2004; L. Cohen, From Town Center to Shopping Center: The Reconfiguration of Community Marketplaces in Postwar America, «American Historical Review», 101, 4, ottobre 1996, pp. 1050-1081. Si ritiene che la prima tipologia del mall sia il Country Clab Plaza a Kansas City (1939).

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alimentari di basso prezzo unitario, con forti sconti – in base alla considerazione che i ricchi consumatori occidentali tendono a suddividere nettamente la loro spesa in beni «banalizzati» (sui quali è meglio risparmiare più che si può) e beni di valore come auto, elettronica, comunicazione (per i quali si spende molto per avere qualità e assistenza). Gli ipermercati con queste caratteristiche erano nati nel 1963 in Francia con Carrefour, seguito da Auchan (pressoché contemporanea è però l’apparizione dei superstore americani Meijer, e più tardi dei supercenter di quello che diverrà il leader mondiale del commercio, Wal-Mart)108. Negli ultimi anni si assiste a un ritorno di questi grandi centri all’interno delle città, un fenomeno molto chiaro soprattutto in Europa, dove si recuperano vecchi porti, fabbriche o magazzini dismessi, e persino interi quartieri del centro storico, che vengono ristrutturati e rivitalizzanti – ma c’è chi sostiene che queste operazioni spesso snaturino le caratteristiche originali dei luoghi, ad esempio il richiamo a valori civici, religiosi o artistici, trasformando queste aree in artificiali città dei consumi (si «inventano» i centri storici?)109. In ogni caso, la presenza dei centri commerciali incide profondamente sul paesaggio urbano, ne 108 Al pari di quanto succede per i grandi magazzini, anche la primogenitura degli ipermercati è controversa, poiché dipende dalle caratteristiche considerate per questa definizione. In genere sono definiti ipermercati gli esercizi self service prevalentemente alimentari di oltre 4500 mq di superficie (talvolta sono classificati a parte i «big», cioè quelli superiori agli 8000 mq). Sotto tale soglia diventano «superstore» (2500-4499 mq); sotto ancora ci sono i classici supermercati, che vanno da 400 a 2499 mq (i self service più piccoli sono «superette»). Completa il quadro della distribuzione alimentare la formula del discount: nata in Germania negli anni Settanta con l’Aldi, una preesistente catena di negozi creata a Essen nel 1913, è una formula che punta a offrire prezzi molto bassi, fino al 50% in meno nella versione hard discount, grazie a risparmi sugli arredi interni e al controllo di tutta la filiera produzione-distribuzione. In Italia è presente con la Lidl, che ha aperto il suo primo punto vendita a Verona nel 1992. Riguardo alle rispettive quote di mercato in Italia, i supermercati sono nettamente predominanti con il 40% nel 2005, seguiti da ipermercati (13%), superette (9%), hard discount (6%) (cfr. Tab. 8 per i dati 2006); il resto è appannaggio di negozi tradizionali (22%), ambulanti e altre forme (10%). Per completezza, ricordiamo che fa parte della grande distribuzione anche il cash & carry all’ingrosso (inaugurato dalla Lombardini nel 1964 e che vede ora la presenza di giganti come la tedesca Metro). Cfr. L. Pellegrini, Il commercio in Italia. Dalla bottega all’ipermercato, il Mulino, Bologna 2001, pp. 54-60; Federdistribuzione, Mappa del sistema distributivo italiano, Milano 2007, p. 4. 109 A. Terranova, Centro storico. Difendere il centro storico dal centro storico? Millecentri, millestorie, milleprogetti, in Attraversamenti. I nuovi territori dello spazio pubblico, a cura di P. Desideri, M. Ilardi, Costa & Nolan, Genova 1997. Cfr. anche La città vetrina. I luoghi del commercio e le nuove forme del consumo, a cura di G. Amendola, Liguori, Napoli 2006; Casa e supermercato. Luoghi e comportamenti del consumo, a cura di G. Triani, Elèuthera, Milano 1996.

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cambia la geografia e i riferimenti gerarchici, poiché, come ci ricorda Zukin, il paesaggio è uno spazio fisico, un insieme di pratiche materiali e sociali e allo stesso tempo la loro rappresentazione simbolica110. Molti dei nuovi spazi commerciali si caratterizzano per due aspetti. Il primo è il richiamo alla natura: fiori e piante anche di grandi dimensioni, fontane e laghetti, luce naturale che filtra da ricoperture trasparenti, uso di elementi naturali come il legno o, se si tratta di strutture all’aperto, rimandi a stili e materiali locali; tutto ciò insieme a una particolare attenzione all’impatto ambientale. Insomma architettura sostenibile, eco-orientata, che intende distanziarsi dalla tipologia da «fabbrica», tutta cemento e artificialità111. Il secondo aspetto è l’esasperazione del momento spettacolare e ludico, connesso ora in maniera strutturale allo shopping. L’araldo di questa tendenza è Jon Jerde, costruttore del Mall of America, il più grande centro commerciale degli Stati Uniti, che contiene al suo interno un parco giochi; dello Universal Citywalk, una specie di corridoio pieno di attrazioni e negozi che collega gli studios di Los Angeles; del casinò Bellagio a Las Vegas; del Canal City Hakata, uno spettacolare centro commerciale (depato) centrato sul tema dell’acqua a Fukuoka in Giappone112. In Italia la grande distribuzione organizzata assume dimensioni di rilievo solo a partire da metà anni Ottanta, in concomitanza con la ripresa economica e la diffusione dei consumi fra tutte le classi sociali. È il momento in cui si aprono le porte alla liberalizzazione e cadono alcune barriere politiche che frenavano il suo sviluppo113. Potremmo dire

110 S. Zukin, Landscapes of Power: From Detroit to Disney World, University of California Press, Berkeley 1991, p. 16. Cfr. ad esempio lo studio sui cambiamenti indotti dalle strutture del consumo a Roma in Architetture dello shopping. Modelli del consumo a Roma, a cura di A. Criconia, Meltemi, Roma 2007. Naturalmente non possiamo non notare come complesse strutture commerciali non siano una novità della nostra epoca; proprio pensando agli spazi urbani, ci vengono in mente le straordinarie architetture del Gran bazar di Istanbul o del bazar di Isfahan, oppure i più antichi e spettacolari Mercati Traianei, con a piano terra numerose tabernae e una grande sala, forse per le contrattazioni, e nei piani superiori moltissime botteghe distribuite nei 150 vani complessivi. 111 Un esempio di progetto di questo tipo è il «Vulcano buono», megacentro progettato da Renzo Piano a Nola, dalla forma di una collina artificiale, circondata da alberi, e con al centro un’immensa piazza vuota; una struttura che si ispira proprio al Vesuvio che fronteggia. Anche l’avveniristico «Etnapolis» (Catania), dell’architetto Fuksas, non rinuncia a richiami naturalistici: lago (artificiale), parco di agrumi e ulivi, parcheggi interrati. 112 F. Anderton, You Are Here, Phaidon, London 1999. 113 Le nuove tendenze, rafforzate dai mutamenti del quadro politico e dalle pressioni comunitarie, trovano espressione nella «legge Bersani» (decreto legisla-

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poi che, come già i grandi magazzini in età liberale e i supermercati nel miracolo economico, i nuovi luoghi del consumo sono insieme causa ed effetto delle trasformazioni: causa perché stimolano gli acquisti suscitando curiosità e interesse (oltre a implementare innovazioni tecnologiche), effetto perché dipendono dai mutamenti economici e culturali che provengono dalla società. Le quote di mercato del commercio organizzato salgono rapidamente, in particolare a scapito del piccolo negozio alimentare; è il 2005 l’anno del «sorpasso», l’anno in cui la grande distribuzione si accaparra più della metà dei consumi commercializzabili, contro al 37 per cento dei negozi tradizionali (e al 12 per cento di ambulanti, vendite dirette, per corrispondenza e altre forme). Ma questo dato medio nasconde una grande differenza fra il settore alimentare (dominato dalle grandi imprese al 68 per cento) e quello non alimentare (fermo al 33 per cento), per cui il mondo del commercio appare complessivamente più legato a formule di piccola dimensione rispetto all’Europa. Non sorprende quindi che la principale impresa italiana, la Coop, operi nel campo alimentare, e neppure che essa sia molto in basso nella classifica internazionale delle imprese di distribuzione: solo 49a nel 2005 (in una classifica guidata a livello mondiale da WalMart e, a molta distanza, a livello europeo da Carrefour)114. L’ultimo passo di questo sviluppo sono i factory outlet, altra formula statunitense, negozi controllati direttamente dai produttori che offrono al pubblico le rimanenze di merci di marca, quelle che una volta finivano sulle bancarelle o nei canali di vendita secondari. Sviluppatisi massicciamente negli anni Settanta, rispondono al desiderio dei consumatori di acquistare merce firmata d’occasione, magari della stagione precedente, e alla volontà delle imprese di salvaguardare immagine e quote di mercato. Inizialmente erano gruppi di negozi dallo stile semplice, ma la loro affermazione (complice il nuovo valore sociale assunto dalle marche) li ha portati ad assumere molte caratteristiche tipiche dei centri commerciali. Il primo outlet italiano ha aperto nel 2000 a Serravalle

tivo 31 marzo 1998, n. 114), che estende al campo commerciale i criteri di competizione, produttività, liberalizzazione già propri della legislazione sull’industria. 114 Federdistribuzione, Mappa cit.; classifica Deloitte (2006 Global Powers of Retailing). I dati della Faid differiscono leggermente dalle rilevazioni di altre fonti; per una discussione sui problemi relativi alle misurazioni storiche nel settore cfr. P. Battilani, Perché il brutto anatroccolo non è diventato cigno: la mancata trasformazione dal basso del settore distributivo italiano, «Imprese e storia», 33, gennaiogiugno 2006, pp. 111-156. Sulle peculiarità dello sviluppo della Coop nel contesto italiano, oltre a quest’ultimo articolo, cfr. V. Zamagni, P. Battilani, A. Casali, Centocinquanta anni di cooperazione di consumo, il Mulino, Bologna 2004.

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Scrivia, presso Alessandria, ed è il più grande d’Europa. Ma che aspetto ha? Eccoci all’interno, proprio nel suo cuore. Siamo in piazza Portici, una vasta piazza lastricata con la fontana in centro e tutt’intorno vediamo antichi palazzi porticati, alcuni collegati fra loro da passaggi; dalla piazza si diramano varie strade, alcune diritte, altre sinuose, che portano in altri slarghi. Le case sono a due o tre piani e di colori pastello; intorno vediamo vasi di fiori, alberi, panchine, lampioni, bar con i tavolini fuori. Questo borgo singolare è costituito unicamente da negozi di tipo tradizionale (quasi duecento), oltre a bar e ristoranti, ed è solo pedonale; è stato in effetti costruito dalla McArthurGlen come se fosse un centro storico ligure del Settecento. Qui i numerosi clienti che vediamo in giro sono protagonisti di una vera democratizzazione del lusso, che si verifica in spazi diversi da quelli canonici (i lussuosi negozi del centro cittadino, frequentati da una clientela elitaria). Qui avviene una sorta di messa in scena: si può comprare un capo firmato d’occasione in un negozio che sembra uguale a quello originario, in uno spazio urbano che sembra uguale a quello della città115. Il consumo è anche teatro. Peccato che non abbiamo più tempo, altrimenti potremmo fare un salto all’altro outlet di Castel Romano, ispirato alla Roma imperiale, e passeggiare fra piazza Augusto e via Costantino, superando mura, colonnati, archi e decine di negozi, e bere qualcosa all’Arkadia bar. Tutti questi luoghi hanno una logica inclusiva, sono pensati per accogliere sempre più clienti e allargare a tutte le classi sociali i consumi anche più elitari; ma a guardar bene è presente anche una logica del tutto opposta, cioè esclusiva, che punta sulla differenziazione e la valorizzazione degli stili di vita di particolari segmenti di pubblico. Prendiamo le catene di negozi, una presenza familiare negli spazi urbani da molto tempo (pensiamo a Benetton, Stefanel, Prenatal, Chicco, Goldenpoint e molti altri)116. I punti vendita monomarca (one brand store) cercano di distin115 È interessante notare che questo centro, che presenta una tipologia nuova per l’Italia, è stato frutto di un’intensa negoziazione con il municipio e la comunità locale; il suo impatto è stato notevole e differenziato a seconda delle aree, come testimoniano gli studi effettuati (aiuti da parte degli investitori per risanare il centro storico del vicino comune, finanziamento di iniziative culturali, posti di lavoro, incremento di attività di servizi nelle zone limitrofe, ma anche aumento del traffico, scarsa integrazione con il territorio, svuotamento di risorse e persone nelle aree più distanti). Cfr. G. Brunetta, C. Salone, Commercio e Territorio: un’alleanza possibile? Il Factory Outlet Centre di Serravalle Scrivia, Regione Piemonte, Torino 2002. 116 Le catene di negozi specializzati sono una delle formule in rapida crescita nel settore non alimentare italiano, e recentemente hanno visto l’ingresso di grandi catene straniere (H&M, Zara, Mango, Decathlon); spesso si caratterizzano per il ricorso al franchising. Insieme alle grandi superfici specializzate (ad esempio in

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guersi il più possibile dagli altri e aumentare la loro riconoscibilità, presentando uno stile unico e inconfondibile, grazie ad architetture sofisticate al cui interno sono offerti tutti i tipi di prodotti: dalla biancheria all’ombrello, passando per le scarpe e le camicie (oppure stoviglie, pentole, bicchieri, tovaglie e tutti gli arredi per la casa) – come dire che si può vivere una vita intera all’ombra di quel logo. In certi casi si arriva al concept store, il negozio tematico (sulla scia dei parchi a tema): per «comunicare» la marca e la filosofia aziendale si creano spazi che concretizzano una certa atmosfera, uno stile di vita, adottano una narrativa. È il trionfo del visual merchandising, della comunicazione figurativa117. Nei Niketown tutto rimanda al fascino di una vita sportiva, dove i giovani prendono tutto di corsa, stanno in forma, ascoltano musica, si ispirano ai grandi campioni per affrontare le sfide della vita (e questo grazie all’uso di materiali tecnologici, megaschermi, musiche ritmate); nei negozi di Ralph Lauren, sembra di essere in un elegante salotto, con divani e poltrone al centro, fiori, librerie, e intorno i vestiti adatti per una vita sportiva e sofisticata, che si addice a chi ha già una buona posizione sociale; i Disney store ci immergono in un’atmosfera fiabesca e infantile, per via delle tinte tenui degli arredi, le delicate musiche di sottofondo, i film familiari che scorrono sulle pareti, la quantità di giocattoli colorati che ci circonda; negli spazi Diesel gli accostamenti eccentrici di mobili di epoche diverse e i particolari dalle tinte accese, sullo sfondo di un arredamento minimalista, sono la cornice in cui inquadrare un abbigliamento per giovani urbani e postmoderni; infine in negozi di dischi e libri come Feltrinelli, Mondadori o Virgin, ci sono angoli bar e poltrone dove sedersi comodamente per sfogliare libri e riviste, conversare con gli amici, partecipare a eventi culturali (qui ci sentiamo decisamente intellettuali e informati). In tutti questi spazi sono presenti elementi non strettamente commerciali, ma che servono a rafforzare la sensazione di vivere secondo un certo stile; inoltre l’attenzione è centrata più sulla marca che non sui singoli prodotti (per lo stesso motivo, vediamo oggi pubblicità impensabili alcuni decenni fa, cioè che presentano la marca in astratto, slegata da qualunque prodotto). elettronica e casalinghi), detengono nel 2005 il 23% del mercato rispetto al 52% dei negozi tradizionali (l’8% iper e supermercati, solo il 2% per i grandi magazzini e il 14% tutte le altre forme). Cfr. Federdistribuzione, Mappa cit., p. 5. Per inciso, la presenza di imprese estere è assolutamente rilevante agli inizi del 2000, considerata l’acquisizione di molti marchi storici italiani (GS rilevata da Carrefour, Sma dalla Auchan, Standa dalla Rewe, Conad in accordo con Leclerc, ecc.). 117 Scene del consumo: dallo shopping al museo, a cura di I. Pezzini, P. Cervelli, Meteci, Roma 2006; V. Codeluppi, Lo spettacolo della merce, Bompiani, Milano 2000, pp. 87-93.

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La stessa tendenza alla differenziazione è presente negli show room degli stilisti di moda. Un primo elemento che li caratterizza è la separazione fisica, la tendenza cioè a collocarsi in spazi ben precisi e delimitati all’interno delle città, come nel «quadrilatero» della moda a Milano (tra via Montenapoleone, via della Spiga, corso Venezia e via Sant’Andrea) o nella zona intorno a via Condotti a Roma o via Tornabuoni a Firenze. Poi questi negozi presentano un disegno raffinato, spesso firma di noti architetti, con richiami simili in molte sedi internazionali, New York, Parigi, Londra, Tokyo – anche se, va detto, il richiamo alla dimensione transnazionale è comune un po’ a tutti i nuovi spazi di vendita (e forse è un vero e proprio filo rosso nella storia del commercio). L’interno è lussuoso ma improntato a un deciso minimalismo, con colori freddi, sapiente uso di luci e trasparenze, impiego di materiali nobili (vetro, legno, metallo, marmo); le stesse merci sono esposte quasi con parsimonia: ecco quattro o cinque vestiti appesi lungo la parete, due golfini piegati sul piano retroilluminato, due scarpe e due stivali su una grata metallica, una borsa e un portachiavi buttati sul baule d’epoca. E, nell’epoca del fai-da-te, commessi dappertutto. Se iper e supermercati, centri commerciali e outlet puntano all’accessibilità e alla rappresentazione visiva dell’opulenza, negli show room i temi dominanti sono la distanza e il vuoto, per valorizzare le scarse merci preziose, tanto preziose da confinare con l’arte. E in effetti questi spazi hanno alcuni tratti che li avvicinano ai musei. Il culmine è raggiunto da negozi come quello di Prada a New York, disegnato da Rem Koolhaas, vastissimo e vuoto, quasi un’installazione artistica, dove pochi elementi richiamano lo shopping, e si è più spinti a «visitare» il luogo, a osservare da lontano i manichini ben vestiti che salgono come in parata un’ampia scala di legno; o anche da vari negozi di Armani, Gucci e altri, che mutuano presentazioni e arredi tipici delle mostre artistiche, in Italia e nel mondo118. E forse vedremo presto in giro in Italia anche i Guerrilla Store, negozi che offrono merci di moda in ambienti d’avanguardia ma semplicissimi, dato che chiudono entro sei mesi o un anno, per garantire un’esperienza d’acquisto unica, come una performance artistica119. Il cliente di questi luoghi non è il consumatore-kitsch dei grandi centri di vendita, ma il consumatore-camp, così

118 C. Béret, Shed, cathedral or museum?, in Shopping. A Century of Art and Consumer Culture, a cura di C. Grunenberg, M. Hollein, Hatje Cantz, OstfildernRuit 2002, pp. 76-79. 119 C. Marenco Mores, Da Fiorucci ai Guerillas Stores. Moda, architettura, marketing e comunicazione, Marsilio, Venezia 2006.

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come lo definisce Susan Sontag: attento allo stile e all’estetica, postmoderno, ironico, sofisticato, capace di utilizzare oggetti anche banali o kitsch trasportandoli in una cornice distaccata o parodistica; insomma in grado, per Gregotti, di esorcizzare il consumo di massa120. A qualunque mondo di riferimento apparteniamo, una cosa è certa: per tutti noi, kitsch o camp (o forse tutti e due insieme), gli spazi del consumo crescono continuamente e sono in rapporto diretto con la ricchezza e la cultura del paese. Si calcola che nel 2000 la superficie globale adibita alla vendita al dettaglio fosse di due miliardi di metri quadri (il 39 per cento solo negli Usa, il 37 per cento in Asia, il 10 per cento in Europa – lo 0,6 per cento in Italia)121. Ma questi dati sono in parte fuorvianti: lo spazio del consumo cresce molto di più. Cresce nelle periferie urbane, negli spazi degradati delle grandi città, negli slum di mezzo mondo dove abita già più di un miliardo di persone (le vere città del futuro?) e dove fioriscono mercati, botteghe, negozietti, fast food, cloni di McDonald’s122 – tutti invisibili nelle mappe ufficiali e segno di un consumo povero e marginalizzato, non meno caratterizzante dei nostri tempi di quello ricco. Veri e propri centri commerciali prosperano poi all’interno degli aeroporti, nelle grandi stazioni ferroviarie, nelle metropolitane; spazi di vendita invadono istituzioni culturali «alte» come i musei (che ne ricavano importanti introiti – possiamo terminare la visita senza comprare un catalogo, una piccola riproduzione, almeno una cartolina?); merci e metodi di marketing si insinuano in luoghi di culto, scuole, ospedali; l’intero spazio sociale ne è permeato. E cosa dire del consumo su Internet? La rete ha aperto spazi semplicemente impensabili, non solo per l’acquisto vero e 120 S. Sontag, Contro l’interpretazione (1966), Mondadori, Milano 1967; V. Gregotti, Kitsch e architettura, in G. Dorfles, Il kitsch: antologia del cattivo gusto, Mazzotta, Milano 1968, pp. 255-276. 121 Anche se si considerano i mq di superficie di vendita per persona, si ottiene sempre un forte distacco tra Stati Uniti (2,2 mq a testa) e gli altri paesi: Giappone 0,8 (la media asiatica è 0,2); Europa 0,4 (con un massimo per la Gran Bretagna con 0,9, seguita da Francia e Svezia con 0,8; l’Italia è sotto la media con 0,2 mq a persona, insieme alla Germania; chiude la classifica la Grecia con 0,1); il continente meno dotato di strutture commerciali è l’Africa con 0,01 mq a testa; la media mondiale è 0,3. Cfr. Harvard design school cit., pp. 51-57. 122 M. Davis, Il pianeta degli slum (2006), Feltrinelli, Milano 2006; R. Neuwirth, Città ombra. Viaggio nelle periferie del mondo (2004), Fusi orari, Roma 2007. A proposito di McDonald’s, è noto che la sua diffusione ha suggerito la creazione di uno speciale indice per misurare il potere d’acquisto, basato sul costo necessario in ogni paese per acquistare un Big Mac rispetto al prezzo base degli Stati Uniti, e che segnala enormi disparità (prezzi molto più elevati in Nordeuropa, molto più bassi in Asia).

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proprio (che nel 2005 in Italia riguarda solo il 15 per cento degli utenti della rete)123, ma anche per nuove forme di comunicazione e marketing. Il grande mall virtuale è ancora tutto da scoprire. Un castello, ecco quello che il ragazzo è riuscito a comprarsi. Un castello! Non era stato facile, ci aveva pensato a lungo, aveva valutato la zona, i costi di realizzazione – e poi c’era ancora da sistemare l’arredamento interno. Ma ce l’aveva fatta, chi l’avrebbe mai detto, e c’era anche la piscina. Chissà la faccia degli amici... bisognava organizzare subito una festa di inaugurazione a cui invitare tutti. Il ragazzo stacca dal computer il suo nano (inteso come iPod), prende il telefonino e solleva lo sguardo. I suoi genitori non approveranno («Perché spendere tanti soldi così? Non era meglio risparmiare per cambiare la moto, comprare i jeans o le scarpe da ginnastica che volevi, mettere da parte qualcosa? Cosa te ne farai?»). Anche la bisnonna che spunta dalla foto ingiallita sopra la libreria sembra avere un’aria interrogativa. Lei certo non avrebbe capito; e come poteva farlo una mondina, la cui unica festa era la «curmaia» a fine raccolto, e per la quale i consumi erano un sogno – così come per i contadini che aspettavano il lupo nel grano e mangiavano zuppa acqua-sale, o gli operai ammassati nelle case di ringhiera. Per loro, che non possedevano quasi nulla, che senso poteva avere comprare, con soldi veri, un castello nel mondo virtuale di Second Life? L’antenata sembra proprio chiedere: «Vedo intorno a te tanti begli oggetti, che non so neanche cosa sono, non sei più felice di noi? Ma perché spendi per cose che non esistono? Potresti comprare oggetti utili, e non lo fai. Come possiamo essere così diversi?» Una risposta non ce l’ha, pensa il ragazzo digitando un sms. Ma una cosa può dirla. Abbiamo cambiato il nostro mondo con i beni di consumo, e i beni di consumo hanno cambiato noi. 123 Nel 2005 gli acquisti hanno riguardato soprattutto viaggi e vacanze (33%), libri e giornali (27%), ricariche telefoniche (20%), film e musica (19%), e poi software/videogiochi, elettronica, abiti/articoli sportivi, tutti al 17%. I motivi che gli utenti indicano per non acquistare in Internet sono principalmente: la preferenza per comprare di persona e la mancanza di necessità; più a distanza, il timore di comunicare gli estremi della carta di credito, e poi scarsa fiducia nella consegna/restituzione della merce e volontà di non fornire i propri dati personali; il 12% infine dichiara di non comprare perché non possiede una carta di credito. Cfr. Istat, La vita quotidiana nel 2005 cit., pp. 103, 128-137.

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TABELLE

Tab. 1. Consumo medio annuo per abitante di alcuni generi alimentari, 1861-1985 (chilogrammi) Anni

Cereali Frumento

1861-70 1871-80 1881-90 1891-900 1901-10 1911-20 1921-30 1931-40 1941-50 1951-60 1961-70 1971-80 1981-85

Risone

Segale e orzo

Patate

Legumi secchi

Legumi freschi

37,1 50,4 33,0 30,6 32,8 27,9 31,4 31,2 19,1 9,4 5,7 – –

10,0 14,5 11,4 8,4 13,3 15,1 10,4 12,2 10,9 8,9 7,2 6,3 6,7

5,6 5,5 4,1 3,8 4,9 4,6 4,3 4,3 4,2 3,9 2,2 – –

24,4 25,8 22,3 20,5 34,0 25,7 30,1 38,1 34,3 38,4 44,7 41,6 42,6

11,4 13,5 10,8 10,5 13,7 13,9 12,0 12,2 5,3 5,3 5,4 4,1 3,7

1,6 2,3 2,5 3,0 2,7 2,5 3,0 4,3 5,1 8,9 9,4 11,0 12,3

Pesce Fresco

1861-70 1871-80 1881-90 1891-900 1901-10 1911-20 1921-30 1931-40 1941-50 1951-60 1961-70 1971-80 1981-85

Granoturco

127,7 127,9 110,0 109,9 146,9 154,9 180,3 165,4 139,1 159,3 166,2 173,7 165,2

Anni

Prodotti

1,5 1,7 2,2 2,6 2,5 2,3 3,1 4,0 2,9 4,9 6,7 7,6 9,6

Uova/Latticini

Secco e conservato

0,9 1,3 1,4 1,5 1,1 1,4 2,3 2,0 1,3 2,4 2,6 2,0 2,2

Oli

Uova

Latte

Formaggio

Olio di oliva

Olio di semi

6,8 6,5 5,7 4,9 5,1 6,3 6,5 7,2 5,1 7,6 9,6 11,4 11,6

24,3 26,6 31,5 31,9 34,0 32,5 35,5 38,1 36,2 54,2 64,4 75,9 84,3

1,3 2,3 3,1 2,9 3,5 4,2 4,4 5,1 4,4 7,8 9,3 12,3 15,3

6,9 8,3 5,2 5,4 5,4 4,5 6,6 5,9 3,9 6,2 9,6 11,1 10,7

– – 0,6 0,6 1,0 1,0 2,1 1,6 0,6 3,2 6,9 10,2 10,5

N.B. Le rilevazioni statistiche mutano notevolmente nel lungo periodo, sia per cambiamenti nei metodi di rilevazione, sia per mutamenti nell’oggetto stesso di studio; i dati presentati in questa e nelle tabelle successive forniscono un quadro di massima dei consumi in Italia dall’unità a oggi.

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ortofrutticoli

Carni

Pomodori

Ortaggi

Frutta fresca

Agrumi

Frutta secca

Bovina

Suina

Ovina e caprina

Altra

9,6 10,7 12,8 16,9 18,1 20,6 20,8 15,9 17,6 20,2 37,1 44,3 53,1

31,3 34,0 34,6 40,2 43,8 58,7 70,9 57,7 60,8 61,7 90,4 93,5 93,3

14,5 18,0 21,3 21,3 25,2 30,6 30,8 26,4 30,5 52,6 86,6 76,3 78,2

7,0 8,8 10,1 8,3 11,2 14,2 9,8 10,2 9,5 11,4 22,7 34,8 37,0

35,6 33,1 26,6 25,2 30,8 24,9 19,6 13,0 9,8 10,1 11,9 7,1 7,0

3,7 4,8 5,9 6,0 5,7 7,7 9,8 9,0 5,3 9,1 19,6 24,2 25,2

3,9 4,8 5,5 5,1 4,4 5,4 5,3 5,3 3,4 5,8 8,1 16,0 22,5

1,6 1,8 2,1 1,7 1,4 1,5 1,4 1,2 0,9 0,9 0,9 1,2 1,4

3,5 3,6 3,5 3,0 3,1 3,7 4,2 4,9 4,0 6,0 13,9 23,1 26,7

Grassi

Zucchero/Caffè

Bevande alcoliche (litri)

Burro

Lardo e strutto

Zucchero

Caffè

Cicoria

Vino

Birra

Alcol anidro (puro)

0,3 0,5 0,6 0,7 0,8 1,1 1,1 1,2 1,0 1,5 1,8 2,1 2,2

2,7 3,5 4,0 3,6 3,2 3,9 3,8 3,7 2,4 1,4 1,6 2,3 3,2

2,2 2,6 2,7 2,4 3,3 4,6 7,9 7,5 7,7 16,7 25,0 29,4 28,7

0,4 0,4 0,5 0,4 0,6 1,0 1,2 0,8 0,4 1,5 2,5 3,4 4,2

– 0,1 0,1 0,1 0,2 0,1 0,2 0,2 0,3 0,3 0,3 – –

83,9 90,4 95,4 89,2 119,6 112,1 112,7 88,2 74,8 100,6 110,5 102,1 92,0

0,2 0,4 0,7 0,5 1,1 2,0 3,3 1,3 1,7 3,7 9,2 14,3 19,9

0,4 0,4 0,8 0,5 0,5 0,5 0,6 0,2 0,4 0,9 1,5 – –

Calorie giornaliere (numero)

2.628 2.647 2.197 2.119 2.817 2.694 2.834 2.641 2.171 2.418 2.897 3.259 3.190

Fonte: elaborazioni da Istat, Sommario di statistiche storiche dell’Italia 1861-1975, Roma 1976; Id., Sommario di statistiche storiche 1926-1985, Roma 1986.

291

48.432

1941-50

1961-70

17.116

1981-85

Fonte: cfr. Tab. 1

15.403

1971-80

Miliardi lire 1970

6.022

9.745

1951-60

Miliardi lire 1963

55.194

1931-40

42.845

1901-10

50.755

35.428

1891-900

57.062

33.910

1881-90

1921-30

33.163

1911-20

30.270

1871-80

Alimentari e bevande

1861-70

Milioni lire 1938

Anni

2.015

1.603

799

499

3.835

3.572

3.908

3.029

2.391

2.208

2.370

2.595

2.323

4.473

4.273

2.134

1.275

10.714

13.423

10.171

6.284

5.994

5.194

4.860

4.037

3.931

Tabacco Vestiario e calzature

4.990

4.394

2.133

1.554

12.501

11.591

9.965

9.278

8.485

7.660

7.061

6.460

6.043

Abitazione

2.214

1.667

747

339

2.896

2.110

1.299

792

519

392

341

323

304

Combustibili ed energia elettrica

3.506

3.202

1.416

747

4.698

4.875

4.103

3.607

2.796

2.023

1.887

l. 724

l. 744

Mobili, beni arredamento, ecc.

2.984

2.238

1.541

788

3.509

3.194

1.966

1.534

1.153

958

710

669

734

Igiene, salute, sanità

6.506

5.003

2.091

773

3.853

3.980

2.645

1. 718

970

527

331

227

200

Trasporti e comunicazioni

Tab. 2. Consumi privati interni per gruppi di beni, 1861-1985 (media annua, prezzi costanti)

97.196

81.733

68.677

56.881

53.289

50.898

47.216

Totale

11.571

9.289

2.602

1.479

7.022

55.377

47.072

23.208

13.476

97.520

8.070 106.009

6.075

4.736

3.524

2.493

1.819

1.700

1.667

Altri beni e servizi

408

345























Consumi finali all’estero dei residenti (+)

–2.110

–1.551

–560

–209



















Consumi finali in Italia dei non residenti (–)

53.675

45.866

22.648

13.267

97.520

106.009

97.196

81.733

68.677

56.881

53.289

50.898

47.216

Consumi finali naziomali

13.267 22.648

Miliardi lire 1963 (costanti) 1951-60 1961-70

Sanità Istruzione Servizi generali Amm. pubbl. Ordine pubblico Difesa Affari economici Protezione sociale Attività ricreative, culturali Abitazioni e assetto territorio Protezione ambiente Attività associazionistiche

16.571 89.301 185.344 267.053

3.019 4.475

2.116 1.795 2.031 2.586 2.797 14.409 7.303 13.177 18.574

83.294 56.176 38.440 24.977 17.700 16.780 12.374 6.490 5.598 3.247 1.977

Consumi pubblici (consumi collettivi dal 1971)

89.740 354.839 751.159 1.049.420

16.286 27.123

49.332 52.693 55.320 59.467 71.474 96.142 104.499 119.188 116.094

Totale

81,5 74,8 75,3 74,6

81,5 83,5

95,7 96,6 96,3 95,7 96,1 85,0 93,0 88,9 84,0

18,5 25,2 24,7 25,4

18,5 16,5

4,3 3,4 3,7 4,3 3,9 15,0 7,0 11,1 16,0

100 100 100 100

100 100

100 100 100 100 100 100 100 100 100

Consumi Consumi Totale % privati % pubblici %

Fonte: elaborazioni da Istat, Sommario di statistiche storiche dell’Italia 1861-1975, Roma 1976; Id. Contabilità nazionale. Conti economici nazionali. Anni 1970-2005, Roma 2007.

Milioni eurolire; milioni euro dal 1999 (correnti) 1971-80 73.169 1981-90 265.538 1991-2000 565.815 2001-05 782.367 Dettaglio voci consumi pubblici 2001-05

47.216 50.898 53.289 56.881 68.677 81.733 97.196 106.009 97.520

Consumi privati

Milioni lire 1938 (costanti) 1861-70 1871-80 1881-90 1891-900 1901-10 1911-20 1921-30 1931-40 1941-50

Anni

Tab. 3. Consumi privati e pubblici, 1861-2005 (media annua)

Tab. 4. Prezzi medi annui al consumo di alcuni prodotti e servizi, 1861-1985 (lire correnti) Anni

1861-70 1871-80 1881-90 1891-900 1901-10 1911-20 1921-30 1931-40 1941-50 1951-60 1961-70 1971-80 1981-85

Pane (kg)

Pasta (kg)

Riso (kg)

0,47 0,58 0,45 0,44 0,43 0,64 2,19 2,06 96,00 130,30 159,40 378,00 1.172,40

0,72 0,90 0,68 0,63 0,62 0,98 3,29 2,96 150,20 197,10 236,30 471,40 1.416,20

0,59 0,77 0,70 0,72 0,68 1,03 3,08 2,30 207,60 183,60 232,40 567,70 1.574,00

Tessuto pettinato abito donna (m)

Scarpe da uomo (paio)

Scarpe da donna (paio)

– – – – – 38,49 55,69 49,95 4.527,00 5.153,90 6.146,20 18.292,60 54.774,60

– – – – – 38,71 50,74 47,74 3.802,40 4.478,00 5.423,60 16.460,00 49.762,20

Anni

Tessuto pettinato abito uomo (m)

1861-70 1871-80 1881-90 1891-900 1901-10 1911-20 1921-30 1931-40 1941-50 1951-60 1961-70 1971-80 1981-85

– – – – – 28,34 64,05 63,70 4.792,00 5.628,30 6.852,30 14.397,10 35.740,00

– – – – – 19,52 36,16 33,36 2.626,20 2.888,60 3.699,30 8.954,70 23.764,40

Patate (kg)

0,13 0,17 0,14 0,12 0,15 0,33 0,87 0,65 40,40 47,90 75,20 237,90 587,00

Burro (kg)

2,47 3,10 2,85 2,79 2,92 6,69 19,33 14,16 1.144,60 1.190,90 1.470,10 3.070,10 7.389,00 Sigarette nazionali (10 pezzi)

– – – – 0,19 0,41 1,29 1,71 57,85 80,58 88,09 96,00 107,50

Coefficienti di trasformazione della lira (2006 = 1): 1870 = 7.896,04; 1880 = 6.715,62; 1890 = 7.133,54; 1900 = 7.537,94; 1910 = 6.889,60; 1920 = 1.887,16; 1930 = 1.543,64; 1940 =

294

Olio di oliva (litro)

Vino (litro)

Caffè tostato (kg)

Zucchero (kg)

Carne bovina (kg)

Latte (litro)

1,37 1,46 1,36 1,35 1,46 3,64 9,12 6,82 506,40 579,80 735,50 1.570,20 3.091,00

0,62 0,65 0,59 0,51 0,46 1,15 2,41 1,86 95,20 122,40 147,00 327,00 822,40

2,17 3,50 3,42 4,19 3,35 7,96 29,09 32,27 1.307,00 2.029,40 2.169,00 4.969,60 10.135,80

1,33 1,43 1,51 1,55 1,47 2,75 6,82 6,50 327,20 255,90 228,30 464,90 1.109,80

1,06 1,39 1,50 1,58 1,66 4,88 13,56 10,99 805,00 1.145,20 1.723,70 4.432,90 11.491,80

0,24 0,29 0,31 0,28 0,28 0,60 1,51 1,16 64,40 78,90 112,40 283,20 773,00

Tariffa media trasporti ferroviari

Francobollo per lettera

Biglietto autobus urbano

Energia elettrica (kwh)

Gas (m3)

– – – – 4,16 5,14 14,04 15,80 210,84 404,12 583,50 1.037,50 2.800,00

0,20 0,20 0,20 0,20 0,16 0,16 0,50 0,50 12,33 24,96 38,77 112,18 365,83

– – 0,10 0,10 0,10 0,14 0,45 0,50 14,00 27,60 56,80 120,00 385,00

– – – – – 0,53 1,28 1,83 21,14 40,13 40,45 34,51 96,34

– – – – – 0,33 0,78 0,63 17,97 30,00 38,06 72,28 251,73

Abbonamento radio (televisione)

– – – – – – 52,20 79,60 1.754,00 2.450,00 3.400,00 3.531,00 3.603,00

1.255,13; 1950 = 31,54; 1960 = 22,35; 1970 = 15,27; 1980 = 4,11; 1985 = 2,15 (cfr. Istat, Il valore della moneta in Italia dal 1861 al 2006, Roma 2007). Fonte: cfr. Tab. 1.

295

Tab. 5. Offerta di consumi privati, anni selezionati (valori percentuali) Settori produttivi

Agricoltura

Anno 1891

1911

1938

1951

32,6

31,8

15,3

16,1

Estrattive

0,3

0,3

0,7

0,9

Alimentari

33,4

30,9

27,5

31,4

Tabacco

1,9

1,9

3,8

3,8

Tessili

2,6

3,6

3,3

3,8

Abbigliamento

5,2

5,1

5,4

6,7

Pelli e cuoio

4,1

4,2

2,7

2,8

Legno, mobilio

0,2

0,6

0,7

1,0

0,4

0,8

2,3

4,3

Metallurgiche Meccaniche Minerali non metalliferi

0,4

0,4

0,8

0,1

Chimiche

0,3

0,7

2,0

2,8

Derivati petrolio e carbone

0,0

0,2

0,2

0,7

Gomma

0,0

0,1

0,1

0,7

Carta

0,2

0,6

1,3

2,5

Altre manifatturiere

0,1

0,1

1,1

0,1

Elettricità, gas, acqua

0,2

0,5

1,4

1,3

Commercio

3,0

4,6

2,8

2,0

Trasporti

2,1

2,7

7,0

3,3

Comunicazioni

0,1

0,2

0,5

1,2

Credito e assicurazioni

0,3

0,4

1,4

0,9

Servizi vari

7,3

5,7

5,3

6,4

7,8

8,0

10,4

5,2

100,0

100,0

100,0

100,0

Costruzioni

Pubblica amministrazione Locazione fabbricati Totale

Fonte: I conti economici dell’Italia, a cura di G.M. Rey, vol. III, Il conto risorse e impieghi (1891, 1911, 1938, 1951), Laterza, Roma-Bari 2003, p. XLV (tab. 18).

296

Tab. 6. Confronto consumi fra Italia e Regno Unito, anni 1900 e 2000 Reddito pro capite (dollari internazionali Geary-Khamis 1990)

(Media 29 Paesi Europa occidentale: Anno 1900 = 2.892; anno 2000 = 19.264)

Regno Unito 1900

Italia 19001

Regno Unito 2000

4.492

1.785

20.159

Italia 2000

18.786

Consumi (valori percentuali)

Alimentari

28

Bevande alcoliche

11

642

11

17

6

1 1

Tabacco

2

2

3

Vestiario e calzature

9

10

6

7

10

8

16

22

Combustile e energia elettrica

5

1

3

5

Mobili, beni di arredamento ecc.

4

4

Abitazione

Trasporti e comunicazioni Cultura, divertimento, educazione

313

113

Altri beni e servizi Totale

100

100

7

7

18

18

10

7

20

15

100

100

Fonte: A. Maddison, Historical Statistics for the World Economy. Per Capita GDP (1990 International Geary-Khamis dollars); L. Michaelis, S. Lorek, Consumption and the Environment in Europe. Trends and Futures, Danish Environmental Protection Agency, Copenhagen 2004; Istat, Sommario di statistiche storiche dell’Italia 1861-1975, Roma 1976; Id., I consumi delle famiglie. Anno 2000, Roma 2002. 1 Media 1901-10. 2 Comprende alimentari e bevande alcoliche. 3 Comprende trasporti e comunicazioni, cultura, divertimento, educazione, altri beni e servizi.

297

– – – – – – – 109 2.483 8.467 12.354 46.187 264.330 659.673 456

Teatro e musica

– – – – – – – 597 21.170 104.660 157.011 322.490 525.764 873.556 753

Cinema

– – – – – – – 36 2.167 9.224 23.577 88.236 419.034 715.691 315

Sport

– – – – 88.630 97.801 123.376 133.949 297.970 381.469 344.674 376.096 398.438 448.176 494.261

Passeggeri treni

1.195 1.035 – 1.009 1.635 2.351 8.026 8.043 6.399 8.929 16.198 26.083 41.056 63.617 65.469

Passeggeri navi

– – – – – – 31 113 440 1.330 8.677 22.630 34.596 64.091 100.000

Passeggeri aerei

Turismo (dati medi annui in migliaia)

– – – – – – 99 242 190 1.039 6.081 5.100 22.878 30.460 33.807

Autovetture in circolazione1

Fonte: elaborazioni da Istat, Sommario di statistiche storiche dell’Italia 1861-1975, Roma 1976; Id., Sommario di statistiche storiche 1926-1985, Roma 1986; Id., Annuario statistico italiano, anni da 1985 a 2006.

3

2

1

Veicoli che hanno pagato la tassa di circolazione. La rilevazione dei passeggeri treni è relativa al 1906-10 La rilevazione dei dati culturali è relativa al 1936-40. 4 La rilevazione dei dati è relativa al 2001-04.

1861-70 1871-80 1881-90 1891-900 1901-102 1911-20 1921-30 1931-403 1941-50 1951-60 1961-70 1971-80 1981-90 1991-2000 2001-054

Anni

Spesa media annua per cultura e trattenimenti (milioni di lire correnti; milioni di euro dal 2000)

Tab. 7. Consumi culturali e turistici, 1861-2005

Tab. 8. Commercio tradizionale e grande distribuzione, 1956-2006 Anni

Numero negozi tradizionali alimentari

Numero negozi tradizionali non alimentari

Totale

1956-60

413.967

367.275

781.242

1961-70

491.681

506.270

997.951

1971-80

464.682

547.525

1.012.207

1981-90

397.719

636.859

1.034.578

1991-2000

340.861

675.737

1.016.598

2000-05

761.588

Tipologia esercizio - anno 2006

Numero

Ipermercati

Quote di mercato punti vendita (valori percentuali)

355

13,0

Supermercati (400/2499 mq)

8.410

41,2

Libero servizio (100/399 mq)

6.495

8,8

Hard Discount

3.220

5,8

Negozi tradizionali

177.000

20,9

Ambulanti e altro

30.000

10,3

Totale Alimentari

225.480

100,0



7,6

Ipermercati e supermercati (vendite non alimentari) Grandi magazzini Grandi superfici e catene specializzate

710

2,1

1.946

25,5

Negozi tradizionali

487.000

50,3

Ambulanti e altro

98.000

14,5

587.656

100,0

Totale Non alimentari

Fonte: elaborazioni da Istat, Sommario di statistiche storiche 1926-1985, Roma 1986; Id., Annuario statistico italiano, anni da 1985 a 2006; Faid (Federdistribuzione), Mappa del sistema distributivo italiano, 2007.

299

Tab. 9. Spesa media mensile familiare per tipologia di beni, ripartizione geografica e condizione professionale, 1986-2005 (lire correnti, dal 2001 euro) Anni

Italia (totale) 1986-1990 1991-95 1996-2000 2001-05 Italia Nord-Ovest 1986 2005 Italia Nord-Est 1986 2005 Italia Centrale 1986 2005 Italia Sud 1986 2005 Italia: spesa in famiglie di imprenditori e liberi professionisti 1986 2005 Lavoratori in proprio 1986 2005 Dipendenti: dirigenti e impiegati 1986 2005 Dipendenti: operai e assimilati 1986 2005 Pensionati e non occupati 1986 2005

Alimentari e bevande

Tabacco

Vestiario Abitazione e calzature

525.979 653.092 764.062 439

27.899 35.297 39.348 19

192.329 214.558 259.604 153

318.167 532.783 853.437 570

480.323 470

24.270 19

156.312 156

261.872 706

449.323 432

23.173 17

180.854 152

254.961 724

522.454 467

23.840 20

165.913 153

259.168 716

491.341 446

28.722 23

135.838 145

222.057 410

625.264 531

35.588 24

285.868 331

397.207 855

571.668 516

33.898 27

187.970 209

267.768 664

530.759 477

30.695 22

210.149 217

313.076 701

534.933 489

33.032 29

150.506 155

219.531 519

386.450 405

15.959 17

98.585 95

210.953 558

Fonte: elaborazioni da Istat, I consumi delle famiglie, anni da 1986 a 2005.

300

Combustibili ed energia elettrica

Mobili, beni, arredamento, ecc.

Igiene, salute, sanità

Trasporti e comunicazioni

98.031 145.144 186.373 109

162.907 192.190 266.662 146

46.824 81.750 156.956 86

348.916 494.123 679.481 376

135.016 287.547 195.244 403.479 255.709 448.573 139 256

2.143.616 2.947.660 3.910.205 2.293

110.925 126

150.777 158

47.861 115

329.847 430

130.414 291.470 158 325

1.984.071 2.663

112.791 139

148.976 161

41.364 118

309.828 489

121.556 273.112 157 338

1915.938 2.727

111.655 124

150.071 141

45.318 75

322.014 384

126.948 248.287 136 262

1.957.408 2.478

62.428 89

121.936 129

21.406 65

221.963 309

81.186 167.414 100 168

1.554.291 1884

137.659 153

220.730 257

44.464 99

593.898 658

226.902 425.821 230 519

2.993.401 3.657

104.053 134

163.766 176

34.623 89

394.596 514

125.478 294.082 163 379

2.177.902 2.871

98.894 120

174.872 195

39.752 99

374.936 513

164.372 326.185 203 386

2.263.690 2.933

89.678 112

139.902 138

35.356 81

303.462 445

107.910 230.470 139 254

1.844.780 2.361

82.267 106

96.063 109

32.847 83

151.666 265

65.725 153.816 92 170

1.294.331 1900

301

Ricreazione Altri beni e e cultura servizi

Totale

Tab. 10. Raffronto fra i consumi in Europa, 1995 e 2005 (valori percentuali) Anno 1995

EU (27 paesi) Belgio Danimarca Germania Irlanda Grecia Spagna Francia Italia Lussemburgo Olanda Austria Polonia Portogallo Finlandia Svezia Regno Unito Norvegia Anno 2005

EU (27 paesi) Belgio Danimarca Germania Irlanda Grecia Spagna Francia Italia Lussemburgo Olanda Austria Polonia Portogallo Finlandia Svezia Regno Unito Norvegia

Alimentari, bevande non alcoliche

14,5 14,0 13,2 12,3 15,3 18,0 17,3 14,9 16,7 11,1 13,0 12,7 27,5 18,4 15,4 14,0 11,3 15,9

Alcol e tabacco

Vestiario e calzature

3,7 3,8 4,8 3,8 6,8 4,2 2,7 3,3 2,5 8,4 3,3 2,8 8,3 3,9 6,1 4,4 4,3 4,7

6,8 6,2 5,1 6,6 7,2 11,0 6,6 5,8 9,1 5,7 6,5 7,8 5,7 8,5 4,6 5,2 6,4 6,1

Alimentari, bevande non alcoliche

Alcol e tabacco

12,8 13,3 : 11,2 5,9 : 14,1 13,7 14,8 9,5 10,6 10,7 21,1 : 12,5 12,0 9,0 :

3,6 3,6 : 3,5 5,2 : 2,9 3,1 2,6 10,5 2,8 2,9 6,6 : 5,0 3,7 3,7 :

Vestiario e calzature

5,8 5,4 : 5,3 5,2 : 5,5 4,8 8,0 3,9 5,3 6,4 4,6 : 4,8 5,3 5,9 :

Fonte: Eurostat (Population and social conditions).

302

Abitazione, acqua, elettricità e gas

20,7 22,7 26,3 22,5 15,6 17,6 14,4 22,9 18,3 21,8 21,4 18,5 20,7 13,5 24,7 31,2 18,9 21,8 Abitazione, acqua, elettricità e gas

21,6 23,0 : 24,2 19,9 : 16,2 24,4 20,6 21,3 22,2 20,5 23,8 : 25,3 28,3 19,6 :

Mobili, beni arredamento ecc.

7,1 6,0 5,8 8,3 7,0 6,4 6,1 6,1 8,7 8,3 7,1 9,2 4,6 7,1 4,4 4,5 6,0 6,1 Mobili, beni arredamento ecc.

6,3 5,5 : 6,9 6,9 : 5,2 6,0 7,7 7,4 6,3 7,4 4,4 : 5,5 5,2 5,8 :

Igiene, salute, sanità

3,2 3,4 2,4 3,8 3,0 5,6 3,2 3,3 3,4 1,7 4,1 3,3 3,1 4,9 3,4 2,1 1,6 2,5 Igiene, salute, sanità

3,5 4,3 : 4,7 3,5 : 3,5 3,4 3,2 2,0 5,3 3,2 4,0 : 4,2 2,7 1,6 :

Trasporti

Comunicazioni

13,2 13,0 13,2 13,5 11,2 9,0 11,3 14,6 12,8 15,3 11,5 11,8 7,6 14,2 12,3 12,3 14,5 14,1

1,9 1,5 1,8 2,0 1,8 1,5 1,8 1,9 1,8 1,3 2,2 1,9 2,3 2,0 1,6 2,2 2,1 1,8

Trasporti

Comunicazioni

13,5 14,7 : 13,8 12,6 : 11,6 14,8 13,4 18,8 11,5 13,2 8,7 : 12,9 13,2 15,1 :

2,8 2,3 : 2,8 3,5 : 2,6 2,8 2,8 1,3 4,5 2,7 3,4 : 2,8 3,1 2,2 :

Divertimenti, cultura

9,0 9,1 10,2 9,3 7,7 5,1 8,3 8,6 7,1 8,2 10,8 11,2 8,0 5,5 10,6 10,4 11,2 11,4 Divertimenti, cultura

9,5 9,3 : 9,4 7,9 : 9,1 9,3 6,9 7,9 10,0 11,6 7,6 : 11,4 11,8 12,6 :

Istruzione

Ristoranti e hotel

Altri beni e servizi

Totale

0,9 0,4 0,7 0,6 1,3 2,0 1,6 0,6 1,0 0,3 0,6 0,4 1,0 1,2 0,5 0,1 1,4 0,4

8,2 5,5 5,0 5,7 14,5 14,7 18,4 5,9 8,6 8,9 5,6 11,1 3,2 10,6 7,0 4,5 11,4 6,3

10,8 14,4 11,5 11,7 8,4 4,9 8,3 12,0 10,0 8,9 13,9 9,1 8,0 10,4 9,4 8,9 11,1 8,8

100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100

Istruzione

Ristoranti e hotel

Altri beni e servizi

Totale

1,0 0,6 : 0,7 1,2 : 1,5 0,7 0,9 0,3 0,5 0,6 1,3 : 0,4 0,3 1,4 :

9,0 5,2 : 5,4 15,8 : 18,9 6,2 9,8 7,4 5,1 12,0 2,9 : 6,5 5,1 11,9 :

10,7 12,9 : 12,2 12,5 : 8,9 10,9 9,4 9,7 15,8 8,7 11,8 : 8,7 9,3 11,1 :

100 100 100 100 100

303

100 100 100 100 100 100 100 100 100 100

Indice dei nomi

Adorno, T.W., 189, 190n Agnelli, G., 121 Aimone, L., 85n Alasia, F., 150n Alberoni, F., 151 e n, 157n, 161n, 207 Alciati, A., 47n Aliberti, G., 36n Alinari, fratelli, 79n, 80n Amatori, F., 82n, 127n, 208n Ambrosoli, L., 198n Amendola, G., 282n Anania, F., 172n Anceschi, G., 232n Andall, J., 96n Anderson, B., 96n Anderton, F., 283n Andreoli, V., 261n Andreotti, G., 185n, 194 e n Ang, I., 244n Anselmi, S., 18n Antonioni, F., 223n Appadurai, A., 158 e n, 274 e n Arcimboldi, G., 29 Arendt, H., 131 e n Argillo, principessa, 43 Ariès, P., 30n Armani, B., 242n Armani, G., 221, 238 Arndt, H.W., 131n, 188, 189n, 197n Arru, A., 153n

Artusi, P., 44n, 45, 46n, 94 Arvidsson, A., 65n, 93n, 157n, 181n, 206n, 207n, 243 e n, 244n, 275n Ascari, A., 121 Asquer, E., 155n Atahualpa, 111-112 Augé, M., 280n Autilia, G., 79n Bacigalupo, M., 180n Bairoch, P., VIIn Balbo, I., 123 Baldini, F., 215 e n Baldoli, C., 222n Balestrini, N., 176n Balloni, V., 210n Banta, M., 61n Banti, A.M., 25n, 38n, 47n Baranski, Z.G., 222n, 276n Barbagli, M., 11n Barbiera, R., 40n Barbieri, B., 136n Barca, F., 188n Bardelli, D., 37n Barenghi, M., 235n Barilla, P., 211 Barrymore, J., 87 Bartali, G., 122n Barthes, R., 166 e n, 274 e n Bartocci, E., 54n

305

Bassanini, G., 31n Bastianello, famiglia, 231 Bastianoni, S., 269n Battilani, P., 37n, 82n, 232n, 284n Baudelaire, C., 71 e n, 72, 83 Baudrillard, J., 112 e n, 166, 167n, 190, 235n Beatles, 182 e n Becattini, G., 257n Becker, G.S., 153 e n Beethoven, L. van, 22 Belfanti, C.M., 114n, 221n, 275n Bellassai, S., 145n, 146n Benedict, R., 187 e n Ben-Ghiat, R., 96n, 105n Benjamin, W., 71, 72n, 73n, 273, 274n Benthien, C., 271n Benucci, G., 49n Béret, C., 287n Berghoff, H., 110 e n, 111n Berlingieri, C., 39, 69 Berlusconi, S., 244 Bernini, G.L., 84 Berridge, V., 186n Berry, C.J., 37n Bersezio, V., 30n Bertarelli, L.V., 85n Bertone, N., 222 Betri, M.L., 40n Beveridge, W., 195 e n Bevilacqua, P., 18n, 97n Bevir, M., 254n Bezzola, G., 45n, 48n Bianchi, E., 124 Bianciardi, L., 233, 234n Bigatti, G., 116n Biki (E. Leonardi Bouyeure), 219 Binda, A., 122n Bluestone, B., 249n Bocca, G., 138n, 144, 145n, 187, 188n, 204n Bocconi, fratelli, 3, 75, 82 Boero, V., 113 Bonaiuti, M., 266n Bongiovanni, B., 199n Bonomi, I., 261n Bontempelli, M., 78 e n Boogaart, R.W., 227 e n, 228n

Booth, M., 186n Borghi, G., 209 Boriani, M., 150n Borletti, F., 127 Borletti, S., 82n, 126, 127 e n Botero, F., 271, 272n Bottai, G., 101 Boucicault, A., 74 Bourdieu, P., 22n, 29, 31 e n, 220 Boutry, P., 46n Bowden, S., 153n Bowling, G., 180n Bradford, W.D., 130n, 227n, 228n Brambilla, E., 40n Bramieri, G., 167 Brandenberger, J.E., 227n Brando, M., 179 Branzi, A., 222n Bravo, A., 174n, 244n Brewer, J., 70n, 215n Briggs, A., 119n Bright, W., 112n Brogi, G., 80 Brosio, G., 56n, 57n, 58n, 100n, 103n, 197n, 201n, 202 e n, 203n Bruegel, P. il Vecchio, 249 Brunelli, M., 226 Brunetta, G., 285n Brunetti, F., 256n Brutos, 162 Bucchetti, V., 232n Buitoni, famiglia, 67 Buratti, A.C., 45n Burke, P., 119n Buzzati, D., 178n Bynum, C.S., 272 e n Cadioli, A., 171n Cafagna, L., 61n, 208n Caffè, F., 62 Caglioti, D.L., 36n, 47n Caizzi, B., 76n, 77n, 78n Calamatta, L., 39 Calefato, P., 275n Calidoni, M., 45n Calindri, E., 144, 168n Calvert, K., 34n Calvino, I., 234, 235n, 265 e n Camerini, P., 16

306

Campari, G., 121 Campbell, C., VIII, 70n Capatti, A., 5n, 7n, 8n, 28n, 42n, 45n, 94 e n, 95n, 213n, 215n, 216n, 218n, 262n Cappiello, L., 206 Caprilli, F., 49 Caprotti, B., 226, 229 Caprotti, G., 226, 229 Capussotti, E., 180n Capuzzo, P., VII n, 27n, 37n, 146n, 177n, 180n, 181n, 190n, 255n Caravaggio (M. Merisi), 29 Carcano, L., 164n Cardini, A., 130n Cardoza, A.L., 47n Carnera, P., 122n Carrarini, R., 115n, 221n Carrubba, S., 138n Caruso, E., 119 Casali, A., 82n, 232n, 284n Casorati, F., 142 e n Cassamagnaghi, S., 172n, 174n Castagnoli, A., 16n, 66n, 209n, 210n Castelnuovo, N., 212 Castronovo, V., 150n Cavallo, G., 32n Cavandoli, O., 213n Cavazza, S., 21n, 37n, 52, 53n, 83n, 94n, 105 e n, 106n, 153n, 179n, 275n Cavour, C. Benso conte di, 188 Cecchini, C., 165n Ceppi, C., 164n Cervelli, P., 286n Cervi, G., 168n Cesarani, G.P., 206n Chambeyront, famiglia, 33 Chandler, A.D. jr., 82n Chartier, R., 32n. Chauffourier, G.E., 80n Cherubini, A., 52n Chesnais, J.C., 179n Chiapparino, F., 66n, 67n, 68n Chiari, W., 211 Chiarini, R., 248n Chrusˇcˇëv, N.S., 223 Chung, C.J., 255n Ciampelli, G.M., 22n

Ciano, E., 109 e n Ciano, G., 109 e n Cinotti, S., 98n Ciocca, P., 91n Cirio, F., 67 Ciuffoli, E., 271n Clarke, A.J., 166n Clementi, S., 62n Clifford, D.L., 18n Clifford, J., 253 e n Coccìa, M., 52n, 57n Codeluppi, V., 286n Cohen, S., 180 e n, 259n, 281n Colarizi, S., 189n Colli, A., 114n, 208n Collodi (C. Lorenzini), 12n Colombo, C.A., 18n Connel, R.W., 145n Coppedé, M., 69 Coppi, F., 122n Corbin, A., 20n, 105 e n, 106 e n, 123n Correggia, M., 268n Corsi, M., 107 Cosmacini, G., 54n, 55n, 102n, 200n Cova, A., 45n Covato, C., 34n Covino, R., 66n, 68n Crainz, G., 179n, 242n Craveri, P., 189n, 237n Crespi, famiglia, 16, 226 Criconia, A., 283n Crispi, F., 54 Crompton, R., 248n Cross, G., 21n Crossick, G., 74n Dall’Acqua, M., 45n Daly, H.E., 265n D’Amato, G., 69n, 118n, 277n D’Ambra, L., 126n Danese, E., 161n D’Annunzio, G., 49 e n, 82n Dante Alighieri, 188 D’Apice, C., 136n, 137n, 138n, 139n, 148n, 169n, 242 e n D’Aronco, R., 85n Darwin, C., 99 D’Attorre, P.P., 237n

307

Daunton, M., 110n Davis, M., 288n Dean, J., 175, 179 De Angelis, V.M., 180n De Bernardi, A., 5n, 7n, 218n, 262n Debord, G., 190 e n De Cecco, F., 66 De Certeau, M., 259 e n De Clementi, A., 97n Decleva, E., IX, 85n, 171n De Felice, R., 176 De Filippo, E., 78 e n, 128n De Filippo, P., 172 De Fort, E., 57n, 101n, 198n, 199n Degl’Innocenti, M., 176n, 201n de Grazia, V., 86n, 93, 94n, 101n, 103n, 105n, 108n, 110n, 153n, 155n, 196n, 208n, 237n Dei, F., 9n De Liguoro L., 115 Dell’Agnese, E., 145n Della Peruta, F., 14n, 15n, 17n, 20n, 23n, 24n, 55n Dell’Aquila, P., 268n Della Torre, G., 52n, 57n Delorme, J., 73n De Luna, G., 79n De Marchi, E., 30 e n De Micheli, C., 113 Depero, F., 120n, 206 De Pinedo, F., 123 De Rita, L., 192 e n De Ruggieri, F., 112n De Salvo, L., 97n De Sica, V., 150 e n Desideri, P., 282n Deth, R. van, 272n Diderot, D., 253n Diena, L., 150n Diner, H.R., 98 e n Donne, J., VII Doors, 182 Doria, M., 66n Dorfles, G., 235n, 288n Dorfles, P., 173n Douglas, M., 140 e n, 147n, 151n, 274 en Dubois, A., 73n Duby, G., 30n

Ducrot, V., 69 Dudovich, M., 81, 127, 206 Duesenberry, J.S., 61 Duncan, D., 96n Echaurren, P., 176n Edgell, S., 248n Edwards, G., 186n Einstein, A., 241 Elias, N., 42 e n, 43 e n, 162 Ellwood, D.W., 237n Elteren, M. van, 237n Engel, E., 28, 147 Entwistle, J., 273n Erba, C., 56 Ercole, E., 170n Escoffier, G.A., 45n Eversley, D.E.C., 11n Fabbri, R., 275n Fabris, G., 246n Fabrizi, A., 172 Falcetto, B., 235n Faravelli Giacobone, T., 152n, 156n, 159n, 210n, 213n, 223n Farina, G.B. (Pininfarina), 222 Federico, G., 62n Fellini, F., 123 e n Fenoaltea, S., 64n Ferrari, E., 121 Ferrari, P., 162 Ferraris, M., 261n Ferretti, A., 92 Ferretti, G.C., 171n Fillìa (L. Colombo), 118n Fine, B., 154n Flandrin, J., 43n Fo, D., 172, 210n Fofi, G., 149n Fontaine, S., 43n Foot, J., 150n Forgacs, D., 110n, 119n, 169n Fortuny, M., 107 e n Forzano, G., 107 Foscolo, U., 40 Foucault, M., 55n, 179 e n, 180, 205 Franchi, F., 162 Franzina, E., 97n Franzinelli, M., 94n

308

Frazer, J.G., 8 e n, 270n Freedberg, D., 79n Friedman, M., 61 Frisa, M.L., 275n Fuksas, M., 283n Fuller, M., 96n Fumagalli, E., 209 Furlough, E., 86n, 153n

Glass, D.V., 11n Gnoli, S., 221n, 275n Godard, J.-L., 196n Goldthwaite, R.A., 42n Gonizzi, G., 211n Goodman, J., 186n Götz, A., 110n Goubert, J.P., 55n Goulding, E., 87n Gozzi, G., 56n Graziani, A., 188n Gregotti, V., 288 e n Gribaudo, P., 272n Gronow, J., 185n, 253 e n Gruen, V., 281 Grunenberg, C., 233n Gualino, R., 114, 125 Guelfi, G., 66 Guidi, P., 152n, 156n, 159n, 210n, 213n, 223n Gundle, S., 110n, 169n, 189 e n, 243 en

Gabaccia, D.R., 97 e n Gabinio, M., 80n Gaddis, J.L., 224n Gagliardone, I., 112n Galbraith, J.K., 190 e n Gallavresi, M., 47 Galvani, A., 280n Gambi, L., 10n Garavani, V., 221 Garbo, G., 87 Garosci, famiglia, 231 Gaspari, A., 256n Gassman, V., 172 Gazzoni, A., 115 e n Geertz, C., 237 e n Gellner, E., 36 e n , 59n Gentile, G., 100-101 Georgescu-Roegen, N., 265n Geraci, M., 112n Gere, R., 238 Ghelli, F., 235n Ghersi, I., 93n Giani, M., 105 Giaretta, E., 256n Gibson, M., 54n Gigli Marchetti, A., 138n Gilbert, J., 145n Gini, C., 249 e n Ginori, famiglia, 70 Ginsborg, P., 155n, 202n Giochetti, D., 177n Gioel, famiglia, 231 Giolitti, G., 56 e n Giorgi, C., 102n Giorgini, G.B., 219 Girardengo, C., 122n Girotti, F., 54n, 102n, 200n, 201n, 254n Giugiaro, G., 222 Giusberti, F., 114n, 221n, 275n

Habermas, J., 36 e n, 86, 180 Halbwachs, M., 27 e n Hall, S., 151, 180 e n Hanson, D., 279 e n Hardwick, M.J., 281n Harris, M., 8n Harrison, B., 249n Hartley, L.P., 63 Hasuike, M., 222 Haupt, H.G., 75n Haussmann, G.E., 71 Hayez, F., 39 Hebdige, D., 184n, 275n Hetherington, K., 248n Hilton, M., 110n Hirsch, E., 259n Hoggart, R., 21n Hollein, M., 233n Hood, R.H., 130n Hooghe, M., 256 e n, 257n Horkheimer, M., 189, 190n Horowitz, R., 262 e n Horthy, M., 109n Hughes, J., 186n Hume, D., 37

309

Iafolla, P., 52n, 57n Ilardi, M., 282n Inaba, J., 255n Inglehart, R., 266 e n Ingrassia, C., 162 Inman, M., 233 Ippolito, R., 244n Isherwood, B., 147n, 274n Ivardi Ganapini, A., 211n Izenour, S., 280n

Le Goff, J., 20n Lempicka, T. de (T.S. Gurwik-Górska), 110n. Leonini, L., 270n, 271n, 274n Leopardi, G., 46 Leumann, famiglia, 16 Levi, I., 113 Levine, J., 268n Lévi-Strauss, C., 7 e n, 140 e n, 183 e n Lindauer, G., 146 e n Livi Bacci, M., 4n, 5, 132 e n Livolsi, M., 170n Lombardini, E., 231 Lorek, S., 297 Luconi, S., 97n Luigi XIV, 42 Lumley, R., 176n Lupano, M., 275n Lusetti, M., 281n Lussana, F., 242n Luzzatto, S., 94n Luzzatto Fegiz, P., 137n, 160n, 164n, 172n, 178n, 181n, 184n, 185n, 199n, 203n, 207 Lynn, H., 86n

Jacini, S., 52 e n, 53 e n, 58, 59n Jaumain, S., 74n Jefferson, T., 180n Jocteau, G.C., 38n, 46n Jones, G., 205n Judt, M., 86n Kaelble, H., 15n, 113n, 176n, 184n, 196n Katona, G., 61 Kern, S., 20n, 105 e n Kessler, sorelle, 183 Keynes, J.M., 60 Keys, A., 218 Klein, N., 267 e n Koch, R., 55 Kocka, J., 25n Koehn, N., 160n Koolhaas, R., 255n, 287 Kotler, P., 204n Kroes, R., 237 e n Kuisel, R.F., IX, 237n Kuznets, S., 88 e n, 112

Macry, P., 32n, 33n, 39n, 47n, 58n Maddison, A., 4n, 50n, 91n, 130 e n, 132n, 143n, 246n, 297 Mäenpää, P., 261n Maffei, C., 39-40 Maffesoli, M., 275 e n Maggi, S., 123n, 124n, 144n Maida, B., 36n, 126n Maione, G., 138, 139n, 188n, 242 e n Malatesta, M., 46n Malfatti, A., 226n Malthus, T.R., 99 Mandeville, B. de, 37 Manfredi, N., 172 Marchese, C., 56n, 57n, 58n, 100n, 103n, 197n, 201n, 202 e n, 203n Marchesini, D., 122n Marchesini, R., 271n Marchettini, N., 269n Marcucci, R., 219n Marcuse, H., 190 e n Marenco Mores, C., 287n

Labanca, N., 96 La Malfa, U., 188n Lanaro, S., 59n Lancaster, B., 74n Lancia, V., 121 Landowski, E., 275n Lang, P., 239n Lapini, G.L., 117n Lasswell, H., 193n Lavoisier, A., 73n Lazarsfeld, P., 107 e n, 193n Lazzaroni, L., 66 Leach, W.R., 74n Le Corbusier (C.-E. Jeanneret), 118

310

Marglin, S.A., 130n Maria José, 109 Marinai, E., 66 Marinetti, F.T., 117, 118n, 120n Marino, E.V., 94n Marramao, G., 242n Marshall, A., 60, 208 Marshall, T.H., 195, 196n Martini, S., 78n Marx, K., 25, 60, 196n Maserati, A., 121 Masini, A., 261n Mauss, M., 158 e n Mauzan, A.L., 85n Mayer, A.J., 47n Mazzocut-Mis, M., 236n McCartney, P., 182 McCracken, G., 253n McGovern, C., 86n McKendrick, N., 70n McKenzie, D.F., 32n McLuhan, M., 172 Medici, O. de’, 46 Meikle, J.L., 166n Mele, E., 82 Melograni, P., 14n, 117n, 161n, 179n Menduni, E., 144n Menking, W., 239n Mengoni, G., 73, 76 Meriggi, M., 47n Merlin, A., 186 Merlo, E., 113n, 219n, 275n Merloni, A., 210 Merton, R., 193n Michaelis, L., 297 Micheletti, M., 256 e n, 257n Mies van der Rohe, L., 118 Miller, D., 143n Miller, M.B., 74n, 84 e n Mina (M.A. Mazzini), 211 Minardi, E., 281n Minesso, M., 103n Minestroni, L., 159n Minore, R., 78n, 79n, 134n Mintz, S.W., 68n Mitchell, B.R., 120n, 121n, 137n Modigliani, F., 61 Moffett, J.C., 230n Moles, A., 235n

Molini, G., 47 Molino, W., 178n Montaldi, D., 150n Montanari, A., 36n Montanari, M., 7n, 8n, 28n, 42n, 43n, 94 e n, 95n, 215n, 216n, 218n, 262n Monteleone, F., 119n, 172n Montemartini, G., 15n Montessori, M., 33 Montini, G.B., 144 Montroni, G., 36n Monzino, fratelli, 127 Moore, R.L., 237n Moore, R.V., 76n Moravia, A., 134 e n, 236 Morelli, L., 93n Morgana, S., 261n Mori, M.T., 40n Morley, D., 244n Moroni, P., 176n Morricone, E., 210n Morris, J., 78n, 126n, 222n Mort, F., 145n Mosse, G.L., 34, 35n, 176 Mouchy, M., 73n Mukerji, C., 42n Munier, B., 163n Musgrave, R., 52n Musso, S., 14n, 16n, 18n, 20n, 23n, 24n, 117n Mussolini, B., 94n, 99, 188 Nacci, M., 152n Natta, G., 165 Nava, P., 34n Neri Serneri, S., 267 e n Neumann, C., 222n Neuwith, R., 288n Ninchi, A., 162 Nipperdey, T., 32n Nixon, R.M., 223 Nye, R.A., 145n Offer, A., 153n Oldenziel, R., 159n Olmo, C., 85n Ortese, A.M., 175n Ostenc, M., 101n

311

Packard, V., 190 e n Pailleron, E., 40 Palazzolo, M.I., 40n Palma, F., 226n Panico, G., 122n Pansera, A., 152n, 156n, 159n, 210n, 213n, 223n Pantzar, M., 259n Paolini, F., 122n, 144n, 148n, 149n, 260n Papa, A., 122n Papadia, E., 82n, 85n, 93n Pareto, V., 60 Paris, I., 113n, 160n, 218n, 220n, 221n Parmiggiani, S., 270n Parodi, A., 67 Parodi Delfino, L., 114 Pasolini, P.P., 190 e n, 191 e n, 194, 242 e n, 243n Passerini, L., 162n Pasteur, L., 55 Paulicelli, E., 93n, 115n, 276n Peacock, A.T., 100 e n Peccei, A., 239 Pedrazzoli, Q., 225n Peiss, K.,160n Pellegrini, L., 153n, 250n, 282n Pellizza da Volpedo, G., 53 e n Pergher, R., 96n Perrone di San Martino, F., 48 Petrini, C., 263n Pezzini, I., 286n Piano, R., 283n Piccinato, G., 150n Piccone Stella, S., 176n Picone Petrusa, M., 82n Pinkus, K., 96n Pirandello, L., 79 e n Pirella, E., 242 Pirotta Bonacossa, M.L., 47 Pisano, V., 256n Pistolesi, E., 261n Pittèri, D., 173n, 206n Pivato, S., 21n, 37n Pizarro, F., 111 Pizzagalli, D., 40n Pizzorno, A., 151n Plumb, J.H., 70n

Polanyi, K., 98, 99n Polhemus, T., 275n Pollard, S., 61n Pombeni, P., 195n, 254 e n Ponti, G., 221-222 Ponzi, T., 177 Porter, R., 70n Pozzo, V., 122n Praz, M., 40 e n Procacci, G., 52n Procter, J., 180n, 184n Pucci, E., 219 Pugliese, A., 24n Pugliese, A.C., 112n Pulselli, F.M., 269n Puricelli, P., 122 Quagliariello, G., 237n Quant, M., 183 Radway, J.A., 244n Ragone, G., 171n, 246n Rame, F., 210n Ramondino, F., 277n Rappaport, E.D., 86n Ratti, famiglia, 231 Rauch, A., 123n Ravalli, S., 236n Redclift, M., 215n Rey, G.M., 5n, 50n, 62n, 63n, 64n, 90n, 99n, 103n, 135n, 296 Ricardo, D., 60 Ricossa, S., 179n Ridolfi, M., 17n Rinauro, S., 207n Risi, D., 145, 146n Ritz, C., 45n Ritzer, G., 259n, 281n Roberts, M.R., 86n Roche, D., 140 e n Rockefeller, N.A., 226 Rokes, 182 Rolling Stones, 182 Romano, G., 29n Romeo, C., 97n Ronchi, V., 192n Rosenberg, N., 112n Rossato, C., 256n Rossi, A., 16n

312

Rossi, S., 149n Roth, G., 104n Rumi, G., 45n Rumor, M., 240 Ruspini, E., 145n Rutsky, R.L., 259n

Scranton, P., 160n Scrivano, P., 155n Serono, C., 56 Signorelli, A., 149n, 150n, 175n, 245n, 250 e n, 252n Signorini, fratelli, 67 Silva, U., 78n, 79n, 134n Silverstone, R., 259n Simmel, G., 72 e n, 273 e n Sironi, M., 117 e n Smith, A., 37, 60 Snowden, F.M., 55n Sombart, W., 25 Somogyi, S., 6n, 7n, 13n, 17n, 24n, 26n, 90n Sontag, S., 288 e n Soper, K., 254n Sorcinelli, P., 216n Soresina, M., 30n Spagnoli, famiglia, 67 Sparke, P., 222n, 276n Spoerri, D., 269 Sylos Labini, P., 6n, 15n, 24n, 26n, 156n, 246n Stearns, P.N., VIIn, 34n Stefani, G., 96n Stella, M., 153n Stolle, D., 256 e n, 257n Strasser, S., 86n Stronza, A., 280n Sullo, F., 203n Svendsen, L.F.H., 274n Sze Tsung, L., 255n

Sahlins, M., 271 e n Said, E.W., 96n Salaris, C., 176n Salone, C., 285n Salvati, M., 118n Salvatici, S., 83n Sanga, G., 112n Sannia, A., 143n Santato, A., 177 Santato, E., 177 Sanvitale di Fontanellato, famiglia, 44 Sapelli, G., 192n Sapienza, S., 19 Sarasua, C., 261n Saresella, D., 189n Saroldi, A., 256n Sarti, R., 8n, 11n, 38n, 42n, 43n Sassatelli, R., 153n, 185 e n, 244n, 255n, 272n Scarpellini, E., 16n, 48n, 66n, 83n, 107n, 108n, 127n, 128n, 129n, 138n, 153n, 205n, 209n, 210n, 223n, 224n, 225n, 226n, 229n, 231n, 232n, 275n Schama, S., 30 e n, 31 Schiapparelli, E., 56 Schivelbusch, W., 44n, 73 e n Schizzerotto, A., 246, 247n Schleifer, R., 253n, 265 e n, 272, 273n Schmolliers, P., 261n Schnapp, J.T., 53n Schofield, M.P., 73n Schor, J.B., 130n Schorske, C.E., 71n Schröter, H.G., 224n Schuster, A.I., 144 Schwartz Cowan, R., 156n Schwegman, M., 33n Scifo, B., 261n Scoppola, P., 189n Scott Brown, D., 280n

Taborelli, G., 49n Tae-Wook, C., 255n Tallone, C., 47n Tedlow, R.S., 204, 205n Teodori, M., 236n Terragni, G., 221 Terranova, A., 282n Testa, A., 168n, 206 Testa, S., 221n, 275n Teti, V., 9n, 97n, 218n, 262n, 272n Thompson, E., 17 e n Thonet, M., 69 Tirittico, M.C., 149n Tizzi, E., 269n Tomasi di Lampedusa, S., 48 e n

313

Tommaselli, G., 124 Tonchi, S., 275n Tonelli, A., 21n, 36n Toninelli, P.A., 204n Toniolo, G., 91n Tonutti, S., 271n Toscani, O., 242 Toscanini, A., 22 Totò (A. de Curtis), 172 Townsend, J.S.E., 98 Tranfaglia, N., 199n Trentmann, F., 215n, 254n Triani, G., 282n Turati, F., 56 Turi, G., 171n Twiggy (L. Hornby), 182 Umberto II di Savoia, 109 Urry, J., 279n Valera, L., 256n Valle, O., 108 Valletta, V., 121 Valverde, V. de, 111-112 Vandereycken, W., 272n Van Molle, L., 261n Vanoni, E., 188 Vanvitelli, L., 84 Varni, A., 5n, 7n, 218n, 262n Vaudagna, M., 237n Veblen, T., 60, 273 e n Venturi, F., 49n Venturi, R., 280n Vergine, L., 269n Versace, G., 221 Vettel-Becker, P., 145n

Vigarello, G., 122n Vigini, G., 171n Villari, P., 6 Volli, U., 275n Volpi, F., 168n Wagner, A., 99, 100n Walras, L., 60 Warde, A., 185n, 248n, 253 e n Warhol, A., 186, 233 Watts, R., 233 Weber, M., VIII, 25, 60, 246n, 266 e n West, R.J., 222n, 276n Williams, M., 256n Wilsdorf, H., 164 Wilson, E., 273n Wiseman, J., 100 e n Woolworth, F.W., 126 Worsley, P., V e n Wright, F.L., 118 Yoshimoto, B., 276n Zamagni, V., 5n, 16n, 26n, 35n, 57n, 82n, 124n, 126n, 127n, 218n, 232n, 284n Zanderighi, L., 153n, 250n Zanussi, L., 210 Zatterin, U., 161 Zavattini, C., 150n Zeitlin, J., 224n Zincone, G., 196n Zola, É., 75 Zoratti, A., 267n Zukin, S., 236 e n, 283 e n

Indice del volume

Premessa

V

I. L’Italia liberale

3

1. La società italiana dall’unificazione alla Belle Époque, p. 3 - 1.1. Un paese dai mille volti, p. 3 - 1.2. I contadini, p. 6 - 1.3. Gli operai, p. 13 - 1.4. I borghesi, p. 25 - 1.5. Gli aristocratici, p. 37 - 2. Lo Stato e i consumi pubblici, p. 50 - 3. Il mondo della produzione, p. 60 - 4. Gli spazi del commercio, p. 70 - 4.1. Mercati, negozi, botteghe, p. 75 - 4.2. I grandi magazzini: un modello europeo?, p. 80

II. Il fascismo

87

1. Il regime, p. 87 - 1.1. Autarchia, genere, razza, p. 89 -1.2. Emigrazione, p. 96 - 1.3. Politica fascista dei consumi, p. 98 - 1.4. Consumi collettivi, p. 104 - 2. La vita quotidiana nel fascismo, p. 111 - 2.1. Casa, p. 113 - 2.2. Trasporti, p. 120 2.3. Magazzini popolari, p. 124

III. Il miracolo economico

129

1. La società nell’età d’oro del capitalismo, p. 129 - 1.1. La rivoluzione dei consumi, p. 129 - 1.2. Immigrati, p. 139 1.3. Donne (e uomini), p. 151 - 1.4. Giovani, p. 175 - 2. Politica, cultura e «welfare state», p. 187 - 3. Pubblicità e produzione, p. 204 - 4. La grande distribuzione e i supermercati «americani», p. 223 - 4.1. Supermercati, p. 223

315

IV. La società affluente

238

1. L’impatto della società dei consumi, p. 238 - 1.1. Dagli anni Settanta al nuovo millennio: luci e ombre, p. 238 - 1.2. Politica e consumerismo, p. 253 - 1.3. Nuovi prodotti, p. 257 - 1.4. I limiti e i costi del consumo, p. 264 - 2. La vita quotidiana contemporanea, p. 270 - 2.1. Il corpo e la moda, p. 270 - 2.2. Spazi privati e spazi pubblici, p. 276 - 2.3. I nuovi luoghi del commercio, p. 280

Tabelle

290

Indice dei nomi

305