Chiesa e Stato in Italia. Dalla Grande Guerra al nuovo Concordato (1914-1984) 8815132805, 9788815132802

Roberto Pertici ripercorre la storia dei rapporti tra Chiesa e Stato nell'Italia del Novecento, attraverso un'

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Chiesa e Stato in Italia. Dalla Grande Guerra al nuovo Concordato (1914-1984)
 8815132805, 9788815132802

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COLLANA DEI DIBATTITI STORICI IN PARLAMENTO a cura dell'Archivio Storico del Senato della Repubblica

l. La

legge elettorale del 1953, di Gaetano Quagliariello 2. Per le antichità e le belle arti. La legge n. 364 del 20 giugno 1909 e l'Italia giolittiana, di Roberto Balzani 3. Chiesa e Stato in Italia. Dalla Grande Guerra al nuovo Concordato ( 19 14 -1984), di Roberto Pertici

Senato della Repubblica Archivio Storico Roberto Pertici

Chiesa e Stato in Italia Dalla Grande Guerra al nuovo Concordato ( 1914-1984)

il Mulino

Redazione a cura di Emilia Campochiaro, Nicola Cundari, Paola Ferrazza. Ha collaborato Anna Boldrini. I documenti riprodotti nel CD-Rom sono stati digitalizzati da Gustavo Spada. Servizio dei resoconti e della comunicazione istituzionale Ufficio dell'Archivio Storico.

I lettori interessati all'attività editoriale del Senato possono consultare il sito Internet: www.senato.it I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull'insieme delle atUvtta della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: www.mulino.it

ISBN 978-88-15-13280-2

Copyright © 2009 by Senato della Repubblica, Roma e Società editrice il Mulino, Bologna. Tuni i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo - elettronico, meccanico, reprografico, digitale - se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d'Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie

Indice

Presentazione, di Renato Schz/ani

p.

Awertenza I.

5 11

n mondo di ieri

l. Un dibattito in Senato. 2. Prologo risorgimentale. nuova Italia. 4. L'opposizione cattolica. -

-

3. La

13

-

Il .

La svolta della Grande Guerra

l. li papa, l'Italia e la guerra. 2. L'ipotesi di uno Stato in miniatura. 3. A un passo dalla conciliazione: la trattativa parigina del giugno 1919. - 4. Le novità del dopoguerra. 5. Il Partito popolare e la questione romana. 6. La legge delle guarentigie, cinquant'anni dopo: i dibattiti del 1921. 7. Pio XI e l'era dei concordati.

41

-

-

-

-

-

III.

n «cammino» della Conciliazione

l. Considerazioni preliminari. 2. La fase di avvicinamento. 3. La pregiudiziale del papa. 4. Le trattative per il Trattato e la Convenzione finanziaria. 5. Le trattative per il Concorda­ to. 6. Gli accordi del Laterano. -

99

-

-

-

-

IV.

Una pace armata

l. Osservazioni preliminari. 2. Date a Cesare. 3. Il dibattito alla Camera. 4. TI discorso mussoliniano del 13 maggio. 5. La risposta del papa e la discussione in Senato. 6. La lettera del Corpus Domini e lo scambio delle ratifiche. 7. Epilogo provvisorio. -

153

-

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-

-

-

3

INDICE

v.

VI.

Dopo la caduta

l. I partiti antifascisti e i patti lateranensi 1929-1943. - 2. Il nuovo partito cattolico e il suo retroterra. - 3. La nuova posi­ zione internazionale della Santa Sede. - 4. Riemerge il proble­ ma dei patti lateranensi.

I patti del Laterano all'Assemblea costituente

l. Verso la Costituente. - 2. Estate-autunno 1946: le richieste della Santa Sede e l'avvio del dibattito costituente. - 3. Verso l'art. 7: i dibattiti preliminari. - 4. In aula e fuori.

VII. Verso il pluralismo confessionale

l. Il «congelamento» del Concordato. - 2. La grande trasfor­ mazione. - 3. La revisione del Concordato: gli anni Sessanta. - 4. Il vulnus del divorzio e la lacerazione del cattolicesimo italiano. 5. Il cammino della revisione: l'ultima fase. - 6. L'Accordo di Villa Madama.

p. 24 1

333

459

-

Nota di lettura

597

Dibattiti parlamentari

603

Indici Indice dei dibattiti parlamentari

87 1

Indice dei nomi

875

4

Presentazione

Nella ricorrenza degli ottant'anni dalla sottoscrizione dei Patti late­ ranensi e dalla loro ratifica, il Senato si propone di offrire ai cittadini la pubblicazione dei dibattiti più significativi che hanno contraddistinto i rapporti tra l'Italia e la Santa Sede, all'interno delle Aule parlamen­ tari. Tre appaiono i segmenti temporali fondamentali: la ratifica dei Patti lateranensi; i lavori della Costituente; la revisione del Concordato. Passaggi che non possono essere considerati in modo separato ed indi­ pendente rispetto alla premessa storica e culturale sottesa al processo di unificazione dello Stato italiano e di quel «prologo risorgimentale» all'interno del quale le diverse sensibilità ed idealità hanno concorso alla definizione non solo dello Stato inteso come ordinamento unitario, bensì anche come comunità di consociati. La pluralità di orientamenti politici, culturali e religiosi è senz'altro la chiave di lettura indispensa­ bile per comprendere come per l'Italia il rapporto tra Stato e Chiesa non si sia mai potuto ridurre ed esaurire nella problematica delle rela­ zioni tra istituzioni, bensì abbia fin dall'inizio rappresentato uno degli assi portanti del dibattito pubblico riguardante anche le questioni eti­ che e sociali. Se il «prologo risorgimentale», il processo di ratifica dei Patti late­ ranensi, il dibattito costituente, il processo di revisione del Concordato segnano momenti tra loro intrinsecamente correlati e non altrimenti di­ stinguibili, l'entrata in vigore della Carta costituzionale marca, però, il passaggio decisivo ed il punto più alto nella prospettiva di sintesi e di reciproco riconoscimento tra laicità delle scelte statuali e libertà reli­ giosa, comprensiva delle stesse libertà delle religioni e, segnatamente, delle loro possibili manifestazioni e ricadute pubbliche, all'interno del più ampio spazio politico, culturale ed ideale della Nazione. Senza dubbio la Costituzione ha rappresentato quel punto di sal­ datura tra il passato ed il presente in grado di garantire per il futuro della Repubblica un sistema non conflittuale, ed anzi cooperativo, che sta alla base della stessa civile e serena convivenza della società italiana. 5

RE NATO SCHIFANI

Il principio fondante delle relazioni tra Stato e Chiesa si è così venuto a radicare entro il doppio binario della «distinzione» e della «collabo­ razione» fra lo Stato e le confessioni religiose. Un doppio binario che non nega le peculiarità di ciascun contributo che ogni confessione re­ ligiosa offre per la costruzione del bene del Paese, ed in pari tempo non teme di declinare fino alle estreme conseguenze il canone della li­ bertà religiosa, quale espressione dei diritti inviolabili dell'uomo e del cittadino. Il dettato costituzionale segna pertanto una linea di demarcazione storica ed ideale tra una laicità intesa in modo «ostile» ovvero «indif­ ferente», ed un principio di laicità delle istituzioni che potremmo de­ finire «rispettosa». È proprio questa oscillazione terminologica tra la categoria della «tolleranza» ed il paradigma del «rispetto» a rendere negletto un atteggiamento antagonistico o di ostilità rispetto al senti­ mento religioso e alle sue manifestazioni pubbliche, in forza del quale sarebbe sottratto alla sfera religiosa ogni spazio pubblico, al punto da rendere qualsivoglia istanza spirituale e religiosa del tutto ininfluente rispetto alla comunità civile. Ed è lo stesso criterio discretivo tra mera tolleranza e rispetto a rendere del tutto inadeguato un criterio di com­ prensione delle relazioni tra Stato e Chiesa tale da relegare il rapporto tra politica e religione in una nicchia di assenza di confronto o co­ munque di indifferenza rispetto allo sviluppo dello spazio pubblico democratico. Il patto costituzionale esclude tra i principi fondativi della Repub­ blica tanto una «laicità ostile», quanto una >: segno che la questione romana era ormai ben distinta dal problema del potere temporale. Per i retroscena e gli echi, cfr. G. Dalla Torre, Memo­ rté, Milano, Mondadori, 19672, pp. 24-25 . È da notare che gli stessi termini (indipen­ denza e liberta della Chiesa) ricorreranno nei documenti costitutivi del Partito popolare dei primi mesi del 1919, come il famoso Appello a tutti gli uomini liberi e /orti, nel punto VIII del programma.

6

43

CAPITOLO SECONDO

state chiuse d'imperio dal governo italiano, che avrebbe perciò sospeso le immunità diplomatiche? Scaduto si pronunciava nettamente a favore di tale sospensione e della chiusura delle legazioni8• Da parte sua, il nuovo pontefice Benedetto XV, nella sua prima enciclica Ad beatissimi pubblicata il 15 novembre 1 914, aveva ripreso le proteste dei suoi predecessori contro la situazione della Santa Sede, aggiungendo alle tesi consuete una serie di nuovi rilievi, che deriva­ vano dallo scontro bellico in corso. Ancora una volta, il papa aveva affermato la necessità per l'ufficio del pontefice di una libertà piena, diversa da quella che la legislazione italiana gli assicurava, e rilevato che proprio tale situazione gli impediva di svolgere un'azione efficace in favore della pace: Al voto pertanto d'una pronta pace fra le Nazioni Noi congiungiamo anche il desiderio della cessazione dello stato anormale in cui si trova Capo della Chiesa, e che nuoce grandemente, per molti rispetti, alla stessa tranquillità dei popoli. Contro un tale stato Noi rinnoviamo le proteste che i Nostri Predecessori indot­ tivi non già da umani interessi, ma dalla santità del dovere, emisero più di una volta; e le rinnoviamo per le stesse cause, per tutelare cioè i diritti e la dignità della Sede Apostolica9•

il

I principali giornali italiani risposero duramente alle parole del pontefice, ma la nuova situazione era destinata a introdurre ben pre­ sto dei cambiamenti significativi nei rapporti fra la Santa Sede e il go­ verno di Roma. Particolare rilievo ebbe il canale continuo di contatti che si stabilì grazie alla diplomazia informale del barone Carlo Monti, alto funzionario del ministero di grazia e giustizia (era direttore gene­ rale del Fondo per il Culto) e amico personale, fin dalla giovinezza, del papa: il suo diario, che ci attesta ben 175 udienze in sette anni (in media una ogni quindici giorni), è da questo punto di vista un docu­ mento notevolissimo dell'evolversi della situazione, fino agli esiti certa­ mente non prevedibili, del primo dopoguerra10• 8 F. Scaduto, Prefazione di G. Quadrotta, Il Papa, l'Italia e la guerra, Milano, Ravà, 1915, pp. XI-XXII. Si oppose alle tesi di Scaduto Luigi Luzzatti, secondo il quale tali po­ sizioni avrebbero dimostrato con i fatti la debolezza della legge del 1 87 1 , proprio quan­ do essa si trovava alla prova del fuoco (L . Luzzatti, La legge delle guarentigie e la guer­ ra, in «Corriere della Sera», 25 aprile 1 915; Id., I rappresentanti esteri presso il Vaticano e l'art. I I della legge sulle guarentigie di fronte al caso di guerra, ibid., 3 maggio 1915). 9 L'enciclica è riportata in appendice a E. Vercesi, Il Vaticano, l'Italia e la guer­ ra, Milano, Mondadori, 1 925, pp. 261 -280; il passo citato è a p. 277. Fra le reazioni: G. Amendola, La portata politica del documento pontificio, in «Corriere della Sera», 17 novembre 1914; G. Bellonci, Il Papa ha parlato, in «Giornale d'Italia», 1 8 novembre 1914; G. Papini, Rispondo a Benedetto, in «Il Popolo d'Italia», 19 novembre 1 914. 10 A. Scottà, , cit., pp. 4 15-416. 1 9 F. Ehrle, Benedikt XV und die Losung der romischen Frage, in «Stimmen der

Zeit», XCI ( 1916), pp. 505 ss., 567 ss., in cui aveva escluso che il papa potesse «desi­ derare una internazionalizzazione della legge delle Guarentigie» (cfr. F. Ruffini, Progetti e propositi germanici per risolvere la questione romana (192 1 ) , in Id., Scritti giun'dici minori, cit., pp. 22 1 -247 , 237, che riporta anche analoghe prese di posizione emerse in quell'anno da altri ambienti vaticani). 20 A. Scottà, «La Conciliazione ufficiosa>>, cit., p. 468. L'intera citazione ridimen­ siona l'affermazione del curatore (Introduzione, p. 100) su un rifiuto da parte del papa di una sovranità territoriale: il pontefice, infatti, giudica poco pratico il progetto di Ehrle perché non dà piena libertà alla Santa Sede, non in quanto preveda il control­ lo esclusivo sul Vaticano da parte del papa. Benedetto XV, anzi, ripropone il proble­ ma dell'accesso al mare che sarà, ancora per qualche anno, una richiesta della Santa Sede. Ancora nel 1920, il p. Ehrle esponeva al giornalista tedesco Emi! Ludwig (ebreo e socialdemocratico) il suo progetto: cfr. E. Ludwig, Colloqui con Mussolini, nuova ed., Milano, Mondadori, 1970, p. 171. 21 Così la definisce E. Vercesi, Il Vaticano, l'Italia e la guerra, cit., pp. 77-96, la

48

LA SVOLTA DELLA GRANDE GUERRA

sca), che risollevò con forza la questione romana come componente fondamentale della loro propaganda anti-italiana. Si ebbero decine e decine di interventi (anche molto impegnativi) che ripercorsero l'in­ tera vicenda e ne esaminarono le diverse, possibili soluzioni, con la prospettiva di imporle con la forza, in caso di vittoria, al governo ita­ liano. In essi si fece sempre più deciso il rifiuto dell'«internazionalizza­ zione» (la Santa Sede - si reputava - si sarebbe trovata alla discrezione di tante potenze, non tutte amiche e neppure tutte cattoliche, le quali avrebbero fatto del papa - come si affermò poi anche da parte vati­ cana - «uno zimbello»)22 e si venne sostenendo con sempre maggior convinzione una soluzione territoriale, sia pure modestissima: venne, cioè, ripresa la proposta di uno stato «minimo», che, a più riprese e da personaggi assai diversi, era stata avanzata nei decenni precedenti23• n progetto più importante che emerse, alla fine del 1916, da «quella grandiosa esperienza di laboratorio compiuta dai Tedeschi»2\

cui trattazione, tuttavia, deve molto agli informatissimi saggi di F. Ruffini qui citati alle note 19 e 47. 22 L'espressione è in una risposta inviata il 12 marzo 1916 da «circoli competenti del Vaticano» all'editore Karl Hoeber: è riportata in F. Ruffini, Progetti e propositi ger­ manici, cit., p. 237. 23 Il primo, probabilmente, a sostenere che la sopravvivenza del potere temporale dovesse avere come condizione necessaria un suo radicale ridimensionamento era stato il visconte de La Guéronnière, nella celebre brochure Le Pape et le Congrès, scritta per ordine di Napoleone III e pubblicata il 22 dicembre 1 859 (ora ripubblicata in A. Sait­ ta, Il problema italiano nei testi di una battaglia pubblicistica. Gli opuscoli del visconte de La Guéronnière, III, Roma, Istituto storico italiano per l'età moderna e contempo­ ranea, 1963, pp. 234-252): questo volume contiene tutti i testi dell'ampio dibattito che ne seguì in Francia e in tutta Europa. Anche Cristina di Belgioioso, in alcuni articoli politici comparsi su «L'Italie» dopo il 1861 aveva riconosciuto la necessità indiscutibi­ le dell'indipendenza politica del pontefice, ma non l'aveva subordinata all'estensione del territorio (A. Malvezzi, La principessa Cristina di Belgioioso, III, Pensiero ed azione 1843-1871 , Milano, Treves, 1937, pp. 380-381). Nel 1887, in un contesto ormai diver­ sissimo, il vescovo conciliatorista di Cremona, Geremia Bonomelli aveva proposto la costituzione di una «miniatura di Stato», che poteva essere costituito con la restitu­ zione al papa di una parte di Roma sulla riva destra del Tevere e di una striscia di territorio fino al mare (G. Bonomelli, Roma, l'Italia e la realtà delle cose: Pensieri di un prelato italiano, in «Rassegna nazionale», l o marzo 1887): per Bonomelli, questa solu­ zione avrebbe reso possibile la soluzione temporalistica, senza intaccare che in misura minim'a l'unità del paese (cfr. P. Scoppola, Chiesa e Stato, cit., pp. 265-273 ). Agli inizi del 1915, Scaduto mostrava di credere che ormai le aspirazioni territoriali della Santa Sede si fossero ridotte al Vaticano e ai giardini annessi e parlava di «stato omeopatico» (F. Scaduto, Prefazione di G. Quadrotta, Il Papa, l'Italia e la gue"a, cit., p. XI). Fra i pubblicisti tedeschi impegnati nella campagna di stampa del 1916 ci fu chi parlò di Miniaturgebiet (Lwvés) o anche di Liliputkirchenstaat (Von Hoensbroech): cfr. F. Ruffi­ ni, Progetti e propositi germanici, cit., p. 238. 24 Così la definisce V.E. Orlando, Miei rapporti di governo con la 5. Sede, cit., pp. 47-56, 54, che, se ammette le «rassomiglianze» fra il progetto Erzberger e la successiva

49

CAPITOLO SECONDO

fu quello del notissimo rappresentante del Zentrum germanico, Mat­ thias Erzberger, che - a quanto sembra - lo presentò anche a Carlo d'Asburgo, il nuovo imperatore d'Austria, in un colloquio del 23 aprile 1917. n progetto indicava una possibile sistemazione territoriale della questione romana, nel caso in cui gli Imperi Centrali avessero vinto la guerra e cercava, in qualche modo, di prevenire possibili accordi su base analoga fra Italia e Santa Sede. Esso era suddiviso in dieci arti­ coli e prevedeva la ricostituzione della «potestà temporale del Papa» su un territorio che avrebbe preso «il nome di Stato della Chiesa», at­ tentamente delineato nell'art. l. Rispetto ai confini che sarebbero stati previsti dal Trattato del 1929, Erzberger attribuiva al nuovo stato qual­ cosa di più: la zona che da piazza S. Pietro arriva alla riva del Tevere (quindi il quartiere di Borgo e il tratto da Castel S. Angelo a piazza Risorgimento delimitato da via Crescenzio) e la porzione di Trastevere comprendente S. Onofrio e la riva del fiume fra via della Lungara e il Ponte di ferro. Era esplicita la preoccupazione di garantire al nuovo stato un accesso al Tevere, che avrebbe, in qualche modo, sostituito lo sbocco al mare a cui si pensava ancora in Vaticano: l'art. 5 , infatti, ob­ bligava il regno d'Italia a rendere navigabile entro due anni il fiume dalla riva pontificia fino al mare e il diritto della flotta pontificia (di cui, evidentemente, si dava per scontata la ricostituzione) a percor­ rerlo indisturbata. La bozza di trattato obbligava lo Stato italiano al pagamento di un'indennità di 500 milioni di lire «destinata a coprire le spese della Corte pontificia e dell'amministrazione dello Stato della Chiesa» (art. 6). Una traccia delle vecchie richieste di garanzia inter­ nazionale restava nella direzione, attribuita a un rappresentante del re di Spagna, della commissione incaricata di fissare più precisamente le linee di confine del nuovo stato. Ruffini, pubblicando nel 1 92 1 sulla «Nuova Antologia» questo te­ sto, poteva ancora fare del sottile sarcasmo: lo giudicava «così semplice, ma insieme così sorprendente [ . . . ] ch'io penso ora di dover lasciare il lettore a maturarsi in pace la sua sorpresa»25• Ma non c'è dubbio che esso, in qualche modo, segnasse una strada, i cui sviluppi si sarebbero visti di lì a poco. L'ipotesi di una minima base territoriale come solu­ zione della questione romana cominciò infatti a emergere negli stessi ambienti curiali: un mese prima del colloquio fra Erzberger e l'impe­ ratore d'Austria, il 29 marzo 1917, si era tenuta un'importante sessione soluzione della questione romana, sottolinea anche che esso si sarebbe dovuto realizza­ re non con una trattativa fra il regno d'Italia e la Santa Sede, ma attraverso «un atto di autorità internazionale che si sovrapponeva alla sovranità nazionale d'Italia>>, della quale - non va dimenticato - si presupponeva e si auspicava la sconfitta militare_ 25 F. Ruffini, Progetti e propositi germanici, cit., P- 247, che pubblicava nelle pagi­ ne precedenti (pp. 245-247) il testo del progetto Erzberger in versione italiana.

50

LA SVOLTA DELLA GRANDE GUERRA

della Congregazione per gli affari ecclesiastici straordinari, che aveva affrontato la questione. La maggior parte degli intervenuti ritenne poco praticabile e controproducente ogni ipotesi di ricostituzione di un do­ minio temporale in conseguenza di una sconfitta italiana, ma cercò di immaginare una trattativa diretta col governo italiano. Stilò, addirittura, un vero e proprio progetto di Trattato tra la Santa Sede e il regno d'Ita­ lia: il suo art. l prevedeva che > (ibzd., p. 2 17); il che potrebbe far pensare a una soluzione pattizia anche delle questioni di politica ecclesiastica. Aveva ben com­ preso Walter Maturi: «Chi abbia pratica dei documenti della diplomazia papale, una delle diplomazie più fini di questo mondo, quell'accenno è più che significativo: è un modo discreto di porre la condizione senza dirlo brutalmente: si offriva il dolce e si riservavano "in seguito" le cose amare... » (W. Maturi, Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni di storia della storiogra/ia, Torino, Einaudi, 1974', p. 563). 46 VE. Orlando, Miei rapporti di governo con la S. Sede, cit., p. 139 (il corsivo è mio).

V.

4'

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CAPITOLO SECONDO

4. Le novità del dopoguerra La guerra produsse modificazioni profonde e durature nella poli­ tica ecclesiastica dei paesi europei: si può dire che, mentre fino al 1914 era prevalso largamente un separatismo ostile (come nel caso francese) o un residuo di giurisdizionalismo, negli anni del dopoguerra si venne affermando una tendenza contraria, sostanzialmente anti-separatistica. Lo riconosceva, nel 1 92 1 , Francesco Ruffini: avrebbe gli occhi fasciati dawero della più fitta tenebra chi non riuscisse a scor­ gere che la guerra ha fatto deviare a forza, e potrebbe anche darsi per sempre, le direttive politico-ecclesiastiche non solamente nostre, ma altrui. Intanto, la guerra ha dato alla Santa Sede un ben largo compenso di quanto dall'una delle parti, e cioè da quella degli ex-Imperi centrali, essa ha perduto di possibilità pratiche e di realizzazioni concrete: con il ricondurle deferenti e soccorrevoli quelle potenze dell'Intesa, che gli osservatori superficiali supponevano doversi con la guerra stra­ niare da lei per sempre. E in primo luogo la Francia, la Francia cioè della bel­ licosa legge di separazione che è proprio della antivigilia della guerra. Onde un sereno e bene informato scrittore francese osservava non è guari, che non mai si è mostrato vero, come ora, che la Chiesa può fiduciosamente e fieramente riassu­ mere tutto il suo ultrasecolare programma di azione nella formula del Mazzarino: il tempo ed io47•

Della nuova tendenza, il giurista piemontese sottolineava qui so­ prattutto l'aspetto diplomatico, cioè il moltiplicarsi delle rappresen­ tanze degli Stati presso la Santa Sede, mostrando come la diplomazia pontificia si fosse mostrata capace di superare le conseguenze negative che potevano derivarle dalla perdita di un interlocutore privilegiato come l'impero austro-ungarico. Vi era riuscita procedendo in una du­ plice operazione: l'instaurazione di rapporti diplomatici con quasi tutti gli Stati «successori» (Jugoslavia, Cecoslovacchia, Polonia e la nuova repubblica austriaca) e la ripresa delle relazioni con le potenze dell'In­ tesa. Appena scoppiata la guerra, la Gran Bretagna aveva inviato un

47 F. Ruffini, Il potere temporale negli scopi di guerra degli ex-imperi centrali ( 1 92 1 ) , in Id., Scritti giundici minori, cit., pp. 199-2 17, 2 0 1 . Pur in una diversa prospettiva, an­ che Luigi Sturzo, in una conferenza tenuta a Milano sui «problemi del dopoguerra» il 17 novembre 1918, aveva constatato la fine del giurisdizionalismo e l'aprirsi di una fase nuova dei rapporti fra Stato e Chiesa: «Oggi, al cader di governi, quali il rus­ so e il tedesco, che avevano concepito la religione come un mezzo di governo, di cui si servivano nella ortodossia e nel luteranesimo per la soggezione politica dei popoli; oggi al cader dell'Austria, che falsamente fu ritenuta da alcuni il baluardo della Chie­ sa cattolica [ .. ] , viene attenuato uno dei problemi più gravi dei rapporti fra Stato e Chiesa, dopo i periodi della riforma e dd giurisdizionalismo, dai quali la Chiesa veniva concepita come puntello di troni e forza di dominio, e accerchiata da tentacoli in un amplesso, che voleva dire protezione ed era servitù» (G. De Rosa, Luigi Sturzo, Torino, Utet, 1977, p. 191). .

60

LA SVOLTA DELLA GRANDE GUERRA

incaricato d'affari (Henry Howard) in Vaticano, riallacciando così un rapporto che era sospeso da tre secoli e mezzo; ma fu clamoroso so­ prattutto il caso della Francia, che il 1 6 maggio 1 92 1 ristabiliva la pro­ pria ambasciata presso la Santa Sede, a sedici anni dalla drammatica rottura del 1 905 . Se all'inizio del pontificato di Benedetto XV, il corpo diplomatico accreditato presso il Vaticano proveniva da poco più di una dozzina di stati (Argentina, Austria-Ungheria, Baviera, Belgio, Bo­ livia, Brasile, Columbia, Costa Rica, Repubblica Domenicana, Gran Bretagna, Prussia, Russia, Spagna) , quando quel papa morì, era quasi raddoppiato ed erano in corso numerose trattative per un suo ulteriore allargamento48. Questo intenso lavorio diplomatico rifletteva un nuovo prestigio internazionale del papato, inimmaginabile fino a qualche anno prima, a cui avevano grandemente contribuito i richiami continui alla pace, l'equidistanza fra le potenze belligeranti mantenuta pubblicamente per tutto il conflitto e l'intensa attività umanitaria messa in opera nell'assi­ stenza ai combattenti e ai prigionieri. A ciò si aggiunse, nel primo do­ poguerra, il silenzio sui trattati di pace, che parve confermare un giu­ dizio non positivo al loro riguardo: se nell'enciclica Quod jam diu del lo dicembre 1918, Benedetto XV aveva chiesto una pace «giusta e du­ revole», quella sua reticenza confermò l'opinione pubblica europea che quella stabilita a Parigi non era ai suoi occhi né equa, né giusta, né du­ ratura49. Anche la Società delle Nazioni, quale era scaturita dal trattato di Versailles, non corrispose ai diversi progetti che erano precedente­ mente circolati in autorevoli ambienti vaticani: se - come abbiamo vi­ sto - ancora nel giugno del 1919 mons. Cerretti poteva sperare di rag­ giungere due risultati in una volta sola (la costituzione di un minuscolo stato e il suo ingresso nella futura Società delle Nazioni) , ben presto risultò impensabile ogni partecipazione vaticana alla nuova organizza­ zione ginevrina, anche perché - bisogna aggiungerlo - nessuno stato sollevò il problema50• 48 Per tutti questi problemi resta fondamentale la trattazione di L. Salvatorelli, La politica della Santa Sede dopo la gue"a, Milano, ISPI, 1 937, pp. 37-83, ripresa succes­

sivamente in numerose pubblicazioni dello stesso autore. Per la soluzione della que­ stione francese (la nuova situazione giuridica della Chiesa di Francia stabilita con gli accordi del 1 924), cfr. il commento coevo di F. Ruffini, Francia e Vaticano: chi ha vin­ to? (1924), in Id., Scritti giuridici minori, cit., pp. 419-424, che ammette il successo so­ stanziale della Santa Sede dovuto anche all'intelligente azione diplomatica del nunzio, mons. Cerretti. 49 L. Salvatorelli, La politica della Santa Sede dopo la guerra, cit., pp. 18-19, 26-30. 50 Nell'enciclica Pacem Dei Munus (23 maggio 1 920), il pontefice avrebbe auspi­ cato «che tutti gli Stati, rimossi i vicendevoli sospetti, si riunissero in una sola società o meglio famiglia dei popoli, sia per garantire la propria indipendenza, sia per tutelare l'ordine del civile consorzio. E a formar questa società fra le genti è di stimolo [ . . . ] il

61

CAPITOLO SECONDO

È tuttavia necessario tener conto di una questione ancora pm ge­ nerale. La pubblicistica prevalente nell'interventismo italiano aveva presentato come collegati, quali ultimi avanzi del Medio Evo, l'impero asburgico e la Chiesa cattolica, e connesso la caduta del primo con l'esaurimento spirituale della seconda. Ma da quel «lavacro di sangue» scaturì invece anche una generale ripresa di religiosità, nei comporta­ menti privati come in quelli collettivi. L'inquietudine, poi, che percorse la società europea di fronte agli straordinari mutamenti politici e so­ ciali del dopoguerra (fra cui la rivoluzione comunista in Russia) spesso si concretizzò in un generale bisogno di «ordine» e di «tradizione», in cui il sentimento religioso, specie cattolico, finì per assumere una nuova centralità. Si sarebbe potuto ripetere ciò che Léon Bloy aveva detto della Francia dopo la guerra del 1870: «On ne parlait que de retourner à Dieu»51. Questa nuova visibilità del cattolicesimo è riscontrabile anche in Italia, e non soltanto per il ruolo politico che esso venne assumendo dopo la nascita del Partito popolare (ne parleremo subito) ; ma pro­ prio negli ambienti in cui la sua emarginazione era stata nei decenni precedenti più marcata, come quelli della cultura, accademica e non. Un evento come la nascita a Milano dell'«Istituto Giuseppe Toniolo di studi superiori», eretto in ente morale il 24 giugno . 1 920 dal ministro Croce e diventato poi l'Università Cattolica del Sacro Cuore, ricono­ sciuta come «università libera» da Alessandro Casati il 2 ottobre 1924, costituisce una svolta rispetto alla politica universitaria post-unitaria. Lo riconosceva lo stesso ministro scrivendone al p. Agostino Gemelli 1' 1 1 agosto 1 924:

bisogno stesso generalmente riconosciuto di ridurre, se non è dato di abolire, le enor­ mi spese militari . .. », in Le Encicliche sociali dei papi da Pio IX a Pio XII (1864- 1942), a cura di l. Giordani, Roma, Studium 19442, pp. 196-203, 201. Si trattava di un auspi­ cio significativo, in quanto allora esisteva già una Società delle Nazioni, ma non quel­ la - desiderata dalla Santa Sede - delle nazioni vincitrici e vinte con diritti ed oneri reciproci (E. Vercesi, Il Vaticano, l'Italia e la gue"a, cit., p. 23 1 ) . Per questi problemi, cfr. ancora L. Salvatorelli, La politica della Santa Sede dopo la gue"a, cit., pp. 32-36, che accenna anche ai vari disegni vaticani degli anni precedenti, in particolare al libro di E. Bafile, La formula della pace (Roma, 1916), rispecchianti le idee di mons. Federi­ co Tedeschini, allora Sostituto della segreteria di Stato, poi nunzio e cardinale (p. 33, nota 8). 51 G. De Luca, Il Cardinale Bonaventura Ce"etti, cit., pp. 198-199, che tratteg­ gia efficacemente la nuova situazione, sulla quale ha qualche cenno interessante anche Emil Ludwig, ricordando un'osservazione fattagli da Benedetto XV: «È Lutero che ha perduta la guerra>> (E. Ludwig, Colloqui con Mussolini, cit., p. 175). In una prospettiva storica, cfr. F. Traniello, I.:Italia cattolica nell'era fascista ( 1 995), in Id . , Religione cattoli­ ca e Stato nazionale, cit., pp. 221 -264, specie 222-225, 230-234.

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LA SVOLTA DELLA GRANDE GUERRA

Questo caso tanto raro di cospicua iniziativa interamente privata nel campo dell'istruzione superiore, il fervore nobilissimo da cui i suoi propugnatori sono animati, l'entusiasmo che, in molte regioni d'Italia, muove numerosissirne persone della piccola borghesia e delle classi operaie e campagnole a dar periodicamente il loro obolo al nuovo istituto, sono parsi al Consiglio [superiore della pubblica istruzione] indizi d'un movimento disinteressato e ideale, la cui esistenza fra gli umili torna ad onore del nostro paese52•

Si è sottolineato talora, troppo meccanicamente, un nesso fra l' af­ fermarsi dell'Università milanese e il consolidarsi del regime fascista, ma essa era lo sbocco di un movimento culturale che datava almeno dal 1909, quando Gemelli aveva fondato nel capoluogo lombardo la «Rivista di filosofia neo-scolastica» e poi, nel 1 9 14, un periodico in­ dirizzato al grande pubblico, «Vita e pensiero»53. I passi fondamen­ tali della sua istituzionalizzazione furono, poi, dovuti a ministri liberali come Croce e Casati e fondati sul principio della >. Se l'ipotesi della concordatizzazione potesse fondarsi sul riconoscimento de jure della sovranità della S. Sede da parte dell'Italia, il territorio necessario a perfezionare il concetto di t�e sovranità potrebbe trovarsi . in quello stesso . Pa­ lazzo Vaticano, del quale oggi - secondo la legge del 7 1 il Papa non possiede che l'uso. Il giorno in cui il Regno d'Italia riconoscesse al Pontefice l'assoluta po­ destà sui palazzi apostolici, e questi venissero considerati come territorio extrana­ zionale, verrebbe de jure ammessa· la extra territorialità dei luoghi e la sovranità reale, e non di essa una finzione nel Papa. Ove si potesse addivenire alla «con­ cordatizzazione» della legge delle guarentigie e al riconoscimento della sovranità effettiva del Pontefice sul Vaticano la pregiudiziale da parte della S. Sede non apparirebbe forse insuperabile. -

«Il Tempo» e «li Messaggero» erano quotidiani di tradizione «de­ mocratica» (anche se Virginio Gayda, che dal l o marzo era diventato direttore del secondo, lo avrebbe traghettato rapidamente verso il fa­ scismo85) e furono i più innovativi sul piano delle analisi e delle pro­ poste. Anche la giolittiana «Tribuna», assai più prudente, riconosceva tuttavia la necessità di una «sempre maggiore attenzione e studio su tutti i collegamenti della politica vaticana con quella internazionale e sempre maggiore discernimento sulla scelta degli organi e delle per­ sone che debbono seguire e trattare quei problemi» (4 giugno) . Si ten­ nero fuori del coro «Il Giornale d'Italia» di Bergamini, da sempre vi­ cino a Sonnino, e il «Corriere della sera» di Albertini, a cui Ruffini collaborava da anni, cercando di riaffermare - come gli chiedeva il di­ rettore - «l'idea liberale pienamente e nettamente e proclamando la fe­ deltà alle tradizioni della nostra storia»86. La discussione, che fu ravvivata da alcune parole del papa in un'al­ locuzione concistoriale del 13 giugno87, trovò una prima conclusione in un articolo del direttore dell'«Osservatore romano», Giuseppe Dalla Torre, secondo il quale essa fissava chiaramente due punti: «La que­ stione Romana esiste; è interesse dell'Italia risolverla»: 8� G. Talamo, Il un giornale durante il fascismo. Cento anni di storia, 1919-1946, Firenze, Le Monnier, 1984, p. 1 18 e 1 4 1 (dove si insiste sulla tradizione democratico-anticlericale del giornale). 86 Queste indicazioni erano contenute nella lettera di L. Albertini a F. Ruffini del 2 settembre 192 1 , in L. Albertini, Epistolario 1911- 1926, a cura di O. Barié, Milano, Mondadori, 1968, p. 1490. 87 In essa, dopo aver accennato largamente alle condizioni della Palestina, Bene­ detto XV ricordava la ripresa dei rapporti diplomatici con la Francia e, alludendo evi­ dentemente all'Italia, affermava che «dove una triste condizione di cose non ostacoli la necessaria libertà e indipendenza del Romano Pontefice, quasi tutti gli Stati civili del mondo hanno rapporti diplomatici con questa Sede Apostolica». Il,

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CAPITOLO SECONDO

Ne prendiamo atto - aggiungeva Dalla Torre - poiché la Santa Sede e i catto­ lici, non hanno mai pensato ed affermato nulla di diverso, quando pure, dall'altra parte - applichiamo qui e ben più propriamente le parole che il Messaggero usa invece per la parte nostra - «il problema era considerato immutevolrnente fermo in una irriducibile concezione» di gelosa sovranità statale, che non sarebbe vice­ versa né minacciata né compromessa affatto da una qualsiasi soluzione recipro­ camente concordata. Non pensarono né affermarono nulla di contrario malgrado tant'anni di asserzioni ostinate sulla morte e sepoltura definitiva della questione romana, quasiché nessun rapporto potesse avere ormai con i nuovi interessi e le nuove fortune d'Italia.

Circa la legge delle guarentigie, il direttore dell' «Osservatore» no­ tava che il dibattito su questo punto aveva condotto alla constatazione che essa era ormai inadeguata e sorpassata, e aggiungeva: Ne prendiamo atto. È da cinquant'anni che la Chiesa lo afferma a cost_o di suscitare le ire degli scontrosi esteti ammiratori del «capolavoro» giuridico. E da cinquant'anni che si dimostra la pratica inutilità ed il sostanziale assurdo di un atto unilaterale e non accettato dalla parte interessata: garanzia mutabile come ogni altra legge costituzionale, per volontà di maggioranza, e quindi di qualsiasi partito dominante; atto che nega ad un Potere sovrano e universale in nome di uno Stato particolare, la sovranità effettiva, per largirgli i semplici tributi d'onore; che gli assicura e promette - fin che lo potrà - tanta libertà quanta non gli è però sufficiente per dire se l'accetta o meno perché, anche questo solo costitui­ rebbe già una diminuzione della indiscutibile superiorità sovrana dello Stato sulla Chiesa. Oggi, alla stessa conclusione, giungono gli awersari : è giusto compiacer­ sene. [ .. .] Giacché senza entrare nel merito delle differenti proporzioni territoriali, e per attenerci anche qui soltanto, alle ammissioni concordi dei confratelli, il ri­ conoscimento che la sovranità de jure, non risiede oggi perfetta che sul territorio, fu sempre nel pensiero della Santa Sede e dei cattolici, anche quando gli awersari non volevan vedervi un elementare assioma giuridico, ma un preconcetto settario (Prendiamo atto, 1 9 giugno 192 1 ) .

Qualche mese dopo, Adriano Bemareggi, fra i più stretti collabora­ tori di Gemelli nella costruzione dell'Università Cattolica, dove avrebbe insegnato - fino al 1 926 diritto ecclesiastico, sintetizzava in un modo analogo il senso del dibattito che si era svolto: -

Il riconoscimento dell'insufficienza della legge delle Guarentigie può conside­ rarsi come la premessa essenziale della discussione. Questa non sarebbe nata se ancora si fosse creduto nella sapienza giuridica e politica della legge del 187 1 e si avesse avuto ancora fede nella politica ecclesiastica italiana88•

88 A. Bemareggi, Cinquant'anni di prove della legge delle guarentigie, in «Vita e pensiero», XI ( 192 1 ) , pp. 524-548. In un saggio precedente, Il papato e il problema nazionale italiano, ibid., X (1920), pp. 522-535, 628-636 Bernareggi si era mostrato molto favorevole a una conciliazione fra Stato e Chiesa e piuttosto critico verso l'at­ teggiamento intransigente del papato dopo Porta Pia: questo intervento gli procurò il biasimo della Congregazione dei seminari e il futuro vescovo di Bergamo rettificò pub-

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Nel frattempo si era aperta la XXVI legislatura, a più di un mese delle elezioni generali del 15 maggio. Nel tradizionale dibattito d'aper­ tura , quello sull'indirizzo di risposta al discorso della Corona, si ebbe un'eco diffusa delle discussioni delle settimane precedenti: a portarle all'attenzione della Camera fu soprattutto un deputato che era al suo esordio parlamentare, Benito Mussolini. Se ci fu un aspetto della per­ sonalità mussoliniana che rimase costante nelle varie fasi della sua azione e del suo pensiero, questo fu una sordità pressoché completa a ogni problematica religiosa, derivante da un ateismo conclamato fin dai suoi primi anni e mai rinnegato, anche se successivamente in qualche modo mimetizzato. n «duce» fu un uomo tipicamente novecentesco, in cui la passione politica fu sempre onnicomprensiva e senza limiti: un individuo totus politicus, per usare un'espressione crociana. Dall'am­ biente natale e dalla sua formazione carducciana (a Forlimpopoli era stato alunno del collegio di Vilfredo Carducci, fratello del poeta) aveva ereditato un risentito anticlericalismo sul piano storico, prima che su quello politico, che lo rendeva un epigono di quella tradizione demo­ cratico-ghibellina, a cui già si è accennato89• Vi alludeva in modo veri­ dico nel suo discorso: Tutti noi, che dai 1 5 ai 25 anni, ci siamo abbeverati di letteratura carducciana, abbiamo odiato una «vecchia vaticana lupa cruenta», di cui parlava Carducci, mi pare, nell'ode A Ferrara; abbiamo sentito parlare di «un pontefice fosco del mistero» al quale faceva contrapposto un poeta Vate dell'augusto vero e dell'av­ venire: abbiamo sentito parlare di una tiberina «sazia [sic] di nere chiome» che avrebbe insegnato le macerie di una ruina senza nome al pellegrino awenturatosi verso San Pietro90•

Così per tutta la guerra, «li Popolo d'Italia» aveva condotto una violenta polemica, talora di carattere blasfemo, contro le posizioni di Benedetto XV e della Santa Sede e il primo programma dei Fasci di blicamente il suo pensiero proprio nel cit. Cinquant'anni di prove della legge delle gua­ rentigie. Su quest'episodio le informazioni essenziali sono in L. Cortesi, Frammenti per la storia di un'anima, in Miscellanea Adriano Bernareggi, a cura di L. Cortesi, Bergamo, Ed. Opera B. Barbarigo, 1958, pp. 60-79, ma esso, per la personalità di Bernareggi e per la sede in cui i suoi lavori comparvero, meriterebbe un ulteriore approfondimento. 89 Per la formazione di Mussolini, cfr. R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario 1883-1920, pref. di D. Cantimori, Torino, Einaudi, 1 965 e, più recentemente, molte acute osservazioni sono in A. Campi, Mussolini, Bologna, TI Mulino, 2001, pp. 9 1 - 1 18. 90 Maledetta sie tu, maledetta sempre, dovunque/gentilezza fiorisce, nobiltade apre il volo,/sii maledetta, o vecchia vaticana lupa cruenta/maledetta da Dante, maledet­ ta pe'l Tasso (Alla Citta di Ferrara, in Rime e ritmzì; Te pontefice fosco del mistero,/ Vate di lutti e d'ire/Io sacerdote de l'augusto vero,/Vate dell'awenire (Per Eduardo Corazzini in Giambi ed epodi); E tra i ruderi in fior la tiberina/Vergin di nere chiome/ Al peregrin dirà: Son la mina/D'un'onta senza nome (Per Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, in Giambi ed epodi).

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CAPITOLO SECONDO

combattimento sarebbe rimasto nell' «ambito di un certo separatismo anticlericale e confiscatore»91• Ma il lettore di Machiavelli conosceva benissimo la forza mobilitante dell'elemento religioso e riteneva che il politico «spregiudicato» (un aggettivo a cui ricorreva spesso) non po­ tesse non tenerne conto: così nel revirement a destra che impegnò il suo movimento per tutto il 1 920, alla ricerca di una base più ampia e socialmente diversificata92, la tematica religiosa, anzi «cattolica» venne assumendo un peso e un significato tutto diverso: n fascismo - diceva ora - non predica e non pratica l'anticlericalismo. n fa­ scismo [. .. ] non è legato alla m assoneria [ .. .] Io non sono un divorzista [ .. . ] Siamo d'accordo con i popolari per quel che riguarda la libertà della scuola; siamo molto vicini a essi per quel che riguarda il problema agrario [ . . . ] Siamo d'accordo per quel che riguarda il decentramento amministrativo, con le dovute cautele [ . . . ] .

M a Mussolini cercava di volare alto, non voleva limitarsi a problemi di tattica parlamentare e al rapporto fra fascismo e Partito popolare, ma affrontare quelli più complessivi delle relazioni tra l'Italia e il Vati­ cano. A questo scopo ricuperava uno dei temi centrali del dibattito ri­ sorgimentale, l' «idea di Roma», così tipica della tradizione classicistico­ ghibellina, e ricordava (anche se non troppo fedelmente) il concitato richiamo che Theodor Mommsen aveva rivolto a Sella nel 1 87 1 : «non si resta a Roma senza un'idea universale». Qual era ora quell'idea? Non la «Scienza», come aveva indicato lo stesso Sella; non la libertà religiosa e cioè la separazione fra Stato e Chiesa, secondo la tradizione della Destra storica93, ma - di nuovo - il cattolicesimo romano: «M­ fermo qui - esclamava Mussolini - che la tradizione latina e imperiale

91 F. Margiotta Broglio, Italia e Santa Sede, cit., p. 79, ma è importante tutto il pa­ ragrafo riguardante le posizioni di Mussolini sulla questione romana dal 1914 al 192 1 (pp. 7 1 -86). 92 E. Gentile, Storia del Partito fascista 1919-1922. Movimento e milizia, Roma-Ba­ ri, Laterza, 1989, pp. 69- 1 62. Per tutto questo dibattito, cfr. F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, cit., pp. 179-323 , che ricorda anche «il concitato richiamo che il prepo­ tente Mommsen rivolgeva al Sella una sera del 187 1 : "Ma che cosa intendete fare a Roma? Questo ci inquieta tutti: a Roma non si sta senza avere dei propositi cosmopo­ litici. Che cosa intendete fare?"» (p. 189). La fonte di Chabod era un discorso dello stesso Sella del 1881 e la biografia dello statista scritta da Alessandro Guiccioli. Da dove il «duce» traesse questo aneddoto, non è facile ipotizzare, ma non è questa l'uni­ ca volta che lo si rinviene nei suoi scritti: «All'indomani di Porta Pia, - aveva scritto l'anno precedente - Teodoro Mommsen sentenziò: non si resta a Roma senza un'idea universale! L'Italia laica non ha dato idee universali al mondo e adesso - pavida - ap­ pare come non più capace di reggere il peso glorioso della sua guerra. Si affloscia. Si "invacua". Si sputa addosso» (Mortt/icaz.ione, in «n Popolo d'Italia», lo luglio 1920, ora in Opera omnia, XV, pp. 68-70); ma si veda anche in un discorso del 4 giugno 1 924, ibid. , XX, p. 305.

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LA SVOLTA DELLA GRANDE GUERRA

di Roma oggi è rappresentata dal cattolicismo. [. . . ] io penso e affermd che l'unica idea universale, che oggi esiste a Roma, è quella che s'irra­ dia dal Vaticano». Poteva sembrare un ricupero della tradizione giober­ tiana, ma, come è stato notato, si trattava in realtà di un «giobertismo a rovescio»94: non era l'Italia che doveva costituire la base territoriale della missione sovranazionale della Chiesa (e gliene sarebbe derivato un «primato morale e civile», ma non politico) , ma era la Chiesa che di fatto diventava strumento oggettivo dell'espansione italiana: Sono molto inquieto, quando vedo che si formano delle Chiese nazionali, per­ ché penso che sono milioni e milioni di uomini, che non guardano più all'Italia e a Roma. Ragione per cui io avanzo questa ipotesi: penso anzi che, se il Vaticano rinunzia definitivamente ai suoi sogni temporalistici - e credo che sia già su questa strada - l'Italia, profana o laica, dovrebbe fornire al Vaticano gli aiuti materiali, le agevolazioni materiali per le scuole, chiese, ospedali o altri, che una potenza profana ha a sua disposizione. Perché lo sviluppo del cattolicesimo, nel mondo, l'aumento dei 400 milioni di uomini, che in tutte le parti della terra guardano a Roma, è di un interesse e di un orgoglio anche per noi che siamo italiani95•

Si trattava di «un'accezione strumentale ed utilitaristica del fondo religioso dell'identità italiana» che potrà, negli anni successivi, momen­ taneamente anche incontrarsi con la prospettiva «neo-giobertiana» di Pio XI e dei suoi collaboratori e alimentare così ambiguità ed equivoci, ma che da essa resterà intimamente diversa e con essa anzi giocherà per molti anni una difficile partita. Mussolini aveva cercato di «scoprire» la posizione dei popolari, ma questi gli risposero con estrema genericità per bocca dell'on. Livio To­ vini, solo puntualizzando che coloro che tanto insistevano nel ricono­ scere la «grandezza della Chiesa cattolica nel mondo», si sarebbero poi dovuti porre il problema di ricomporre il contrasto fra lo Stato italiano e la Santa Sede: Né, Onorevoli colleghi, abbiamo nessuna difficoltà ad esprimere, su questo punto delicatissimo, senza reticenze, il nostro pensiero. La Camera comprenderà facilmente che noi non possiamo dissentire dall'oratore ufficiale del fascismo al­ lorquando egli condanna severamente la grettezza politica di quegli uomini di go­ verno che per tanti anni hanno disconosciuta la enorme potenza del Cattolicismo nel mondo, e ritenuto i più miti di loro, che, quanto meno, il Vaticano fosse per l'Italia un peso morto. A noi, che vediamo il Cattolicismo nella pienezza della sua vita morale, intellettuale e sociale; a noi non rincrescerà certo di ridire senza reti-

94 G. Rumi, Gioberti, cit. p. 100. 95 AP, Camera dei deputati, Legislatura XXVI, Discussioni, 2 1 giugno 192 1 , pp. 89-98, 97-98 (Mussolini). Per il significato complessivo di questo discorso (sfiducia al governo Giolitti, appello alla pacificazione nazionale), per i suoi echi e per le intenzio­ ni reali di Mussolini, cfr. R. De Felice, Mussolini il fascista, l. La conquista del potere 1921-1925, Torino, Einaudi, 1966, pp. 126- 1 3 1 .

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CAPITOLO SECONDO

cenze che, almeno dal riconoscimento storico della grandezza della Chiesa catto­ lica nel mondo, i partiti veramente italiani potrebbero trarre l'onesto e modesto desiderio di veder composto un contrasto, che è causa per l'Italia, all'interno e all'estero, di debolezze incalcolabili96•

Ben altro respiro ebbe l'intervento, immediatamente successivo, del nazionalista Alfredo Rocco, che doveva esprimere il pensiero del suo gruppo sulla politica interna. I nazionalisti guardavano con interesse alla collaborazione con le forze cattoliche, «che ancora non sono en­ trate integralmente nella vita nazionale» e, in questa prospettiva, erano stati fra i primi a respingere il vecchio anticlericalismo e a superare la formula Cavouriana: >, si pose in modo netto, esplicito, la necessità di un concordato per ottenere la concilia­ zione (cfr. L'intangibilità della legge «13 maggio 1971>>, nel quad. 1577, 4 marzo 1 916, pp. 5 13 -534).

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CAPITOLO TERZO

della storia d'Italia, la cui soluzione era avvertita come possibile e, forse, auspicabile. Credo, quindi, che si possa ragionevolmente ipotiz­ zare che, se il sistema politico italiano fosse stato capace di superare la crisi politico-istituzionale del dopoguerra e avesse, quindi, potuto af­ frontare e realizzare nel decennio successivo grandi scelte strategiche, sarebbe giunto a una soluzione, certo diversa in alcuni punti essenziali da quella del 1 929, ma non diametralmente opposta. 2 . La fase di avvicinamento La sera del 19, forse del 20 gennaio 1 923 , in un palazzo della vec­ chia Roma, si incontrarono semi-clandestinamente il card. Gasparri e il nuovo presidente del consiglio italiano, Benito Mussolini3• È da questo colloquio che, di solito, si fa iniziare il cammino della Conciliazione\ ma chi riesamini oggi questa vicenda, deve evitarne ogni, sia pure in­ conscia, lettura «provvidenzialistica», tutta proiettata verso l'esito di sei anni dopo. li segretario di Stato vaticano, infatti, aveva avuto frequenti contatti con tutti i principali statisti italiani del dopoguerra, spesso at­ traverso intermediari, ma talora, come nel caso di Nitti, anche in incon­ tri diretti: stando alle indiscrezioni del p. Rosa, Gasparri avrebbe incon­ trato, fra il 1 9 1 9 e il 1 920, perfino Modigliani e TuratP, e nell'agosto > ll colloquio rimase per allora segreto (ma forse Mussolini ne accennò in una successiva seduta del Gran Consiglio). La prima notizia ne fu data da Carlo Santucci in «ll Popolo di Roma», 22-23 agosto 1929, su sollecitazione del segretario particolare del «duce», Alessandro Chiavolini, ma fu l'Agenzia Stefani che aggiunse la «maliziosa» indiscrezione che vi si fosse parlato anche del salvataggio del Banco di Roma, con lo scopo evidente di imbarazzare il Vaticano (la vicenda è minuziosamente ricostruita in F Margiotta Broglio, Italia e Santa Sede, cit., pp. 108- 109 nota 3), questione che poi è rimasta al centro della ricostruzione della maggior parte degli storici. Fu, insomma, una delle non poche «rivelazioni» che si succedettero dopo 1' 1 1 febbraio 1929, mo· menti della prolungata schermaglia che si continuò a giocare fra Mussolini e i vertici della Santa Sede. 4 Le vicende che portarono alle trattative e poi il loro andamento sono state più volte ricostruite da testimoni, pubblicisti e storici: si vedano almeno C.A. Biggini, Sto· ria inedita della Conciliazione, Milano, Garzanti, 1 942; A. Giannini, Il cammino della Conciliazione, Milano, Vita e pensiero, 1946; A.C. }emolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, cit., pp. 445-523 ; L. Salvatorelli e G. Mira, Ston"a d'Italz"a nel periodo fascista, cit., pp. 449-542; A. Martini, Studi sulla questione romana e la Conciliazione, cit., pp. 25-5 1 , 53 -76; F Margiotta" Broglio, Italz"a e Santa Sede, cit., passim; R. De Feli­ ce, Mussolini il fascista. !.:organizzazione dello Stato fascista 1925-1929, Torino, Einaudi, 1968, pp. 1 0 1 - 1 14, 3 82-436; G. Candeloro, Ston"a dell'Italia moderna, IX, Il fascismo e le sue gue"e, Milano, Feltrinelli, 1 98 1 , pp. 233 -250. Qui verranno ripercorse solo per sommi capi e con attenzione agli snodi ritenuti decisivi. 5 Nella conversazione riservata del 25 gennaio 1 92 1 con Enrico lnsabato, segreta­ rio particolare di Giolitti, in N. Valeri, Da Giolitti a Mussolini, cit., p. 129.

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IL «CAMMINO>> DELLA CONCILIAZIONE

precedente, lo stesso appartamento del senatore popolare Carlo Santucci aveva ospitato un suo colloquio con Giuseppe Paratore, ministro del te­ soro del secondo governo Facta, in cui era stato affrontato lo spinoso problema del salvataggio del Banco di Roma (ma anche la «politica ge­ nerale di quel grave momento»)6. Fu Mussolini, poche settimane dopo la marcia su Roma, a sollecitare l'incontro. ll suo scopo immediato (da homo novus nella politica italiana, con un ingombrante passato) era di presentarsi a q':lell'impo�tan.te interlocut,?re, II?-a. probabilrnent� si !?�o­ _ pose fin da subtto un btetuvo molto pm am tztoso: cercare di �tabihre con lui un rapporto duetto, logorando ulteriormente quello, gta allora percorso da non poche tensioni, fra la Santa Sede e il Partito popolare, dal «duce» lucidamente avvertito come l'unico, vero ostacolo al raffor­ zamento del suo potere. Questa operazione rispondeva a una prospet­ tiva strategica ancora più ampia: superare le grandi fratture che avevano percorso la società italiana in età liberale, aggregare attorno al fascismo le sue principali componenti e, su questa base, dare vita a un paese fi­ nalmente capace di condurre una politica estera da grande potenza7• I due interlocutori si studiarono, trattarono del salvataggio del Banco di Roma (ma il progetto era già definito «anche nei partico­ lari» prima della marcia su Roma, in previsione di un ritorno di Gio­ litti al potere, e Mussolini si limitò ad adottarlo e farlo proprio)8, non affrontarono la questione romana. Si trattò, insomma, di un collo­ quio «esplorativo e mirante a stabilire quali potessero essere le even­ tuali prospettive comuni a lungo termine, ma - per il momento - non impegnativo»9• Né poteva essere altrimenti: la Santa Sede voleva ca-

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6 Appunto Santucci (Nota riservatissima), s.d., 1923?, pubblicato in F. Margiotta Broglio, Italia e Santa Sede, cit., p. 44 1 (doc. 101). 7 In questa marcia di avvicinamento risultano notevoli le dichiarazioni fatte da Mussolini a Losanna il 2 1 novembre 1922, con cui si presentò come uno spirito «pro­ fondamente religioso» e «contrario alla demagogia anticlericale e ateista», auspicando che «i rapporti tra lo Stato italiano e il Vaticano saranno d'ora innanzi molto amiche­ voli» (B. Mussolini, Opera omnia, XIX, pp. 33-34). 8 n presidente del Banco, Santucci ne aveva avuto notizia da Camillo Corradini, ex sottosegretario all'interno dell'ultimo governo Giolitti, in un colloquio del 2 1 otto­ bre 1922. n «merito» di Mussolini fu, quindi, essenzialmente quello di tradurlo in atto, superando le resistenze interne al nuovo governo, specialmente quelle del !iberista De Stefani. La condizione posta dal «duce» (il ricambio ai vertici e quindi l'estromissione di Santucci e dell'amministratore delegato Vicentini) fu probabilmente discussa proprio nel colloquio con Gasparri del gennaio 1923 : tende a negarlo, sulla base di uno scam­ bio epistolare Gasparri-Santucci del 1929, G. De Rosa, I conservatori nazionali. Biogra­ fia di Carlo Santucci, Brescia, Morcelliana, 1962, pp. 1 14 - 1 17 , ma il testo di Gasparri («che siasi parlato del Banco di Roma in senso contrario al Banco o meno riguardoso verso di te, questo lo escludo assolutamente>>) non mi pare che autorizzi a tanto. 9 R. De Felice, Mussolini il fascista, l. La conquista del potere 1921-1925, cit., p. 495, ma tutta la trattazione del colloquio (pp. 494-498) è da vedere.

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CAPITOLO TERZO

pire chi fosse il suo nuovo interlocutore e, soprattutto, quali chances di durata avesse il suo governo: in una tale situazione, scoprirsi (come nel 1919) era assolutamente prematuro. A questo riguardo, risulta si­ gnificativo il commento di Mussolini, quando rientrò nell'automobile dove l'attendeva Giacomo Acerbo: «Bisogna andare estremamente cauti, giacché questi eminentissimi signori sono molto abili, e prima di addentrarsi anche in conversazioni preliminari, vogliono essere si­ curi della stabilità del nostro governo» 10• Da parte sua, sembra che il cardinale - parlando con Santucci - si dichiarasse «molto soddisfatto del colloquio», definisse Mussolini «un uomo di primo ordine» e con­ cludesse: «siamo intesi che per ora non convenga affrontare in pieno la questione romana, e basterà per un tempo più o meno lungo ren­ dere più riguardosi e benevoli i rapporti tra il Vaticano e il Governo ltaliano»u. Seguendo una prassi già invalsa dal 1 914 in avanti col ba­ rone Monti, i due decisero di servirsi per le loro comunicazioni infor­ mali di un intermediario ufficioso nella persona del gesuita Pietro Tac­ chi Venturi12• 10

G. Acerbo, Fra due plotoni di esecuzione. Avvenimenti e problemi dell'epoca fa­ scista, Bologna, Cappelli, 1968, pp. 268-269. 11 Appunto Santucci, cit., in F. Margiotta Broglio, Italia e Santa Sede, cit., p. 442. Secondo alcune confidenze fatte da Gasparri a François Charles-Roux, «le chef fasciste s'était d'emblée montré disposé à reconnaitre au Pape une souveraineté temporelle sur une parcelle de Rome. - Mais, lui avait fait observer le Cardinal, vous ne pourrez pas faire voter cela par la Chambre. - Eh bien, avait répondu Mussolini, l'on changera la Chambre. - Mais si vous changez la Chambre sans changer la loi électorale, !es élec­ teurs vous renverront une Chambre semblable à l'ancienne. - Eh bien, avait répliqué Mussolini, l'on changera la loi électorale» (F. Charles-Roux, Huit ans au Vatican, cit., pp. 47-48). 1 2 Ibid., pp. 1 5 1 -170. Le origini dell'incarico al p. Tacchi Venturi sono ora minuta­ mente narrate in G. Sale, Pio XI e Mussolini. Primi provvedimenti del Governo fascista in favore della Chiesa, in «La Civiltà cattolica», quad. 3750, 16 settembre 2006, pp. 457-470, 466-467. Questo e gli altri studi del p. Sale citati nelle pagine seguenti sono stati in parte rifusi in G. Sale, Fascismo e Vaticano prima della Conciliazione, Milano, Jaca Book, 2007: continuo tuttavia a citarli dalla «Civiltà cattolica». Nelle sue conver­ sazioni con De Begnac (Y. De Begnac, Taccuini mussoliniani, cit., pp. 591-593 , 643 ), Mussolini torna spesso sulla figura di Tacchi Venturi, ma fra le sue varie affermazioni non mancano è difficile stabilire se per una certa millanteria che percorre tutte quel­ le confidenze o per lapsus memoriae del «duce» o del suo biografo che ne registrava le conversazioni - imprecisioni e incongruenze. Una volta dice che il gesuita gli era stato presentato dal fratello Arnaldo, altra volta da don Giuseppe De Luca; afferma poi che lo avrebbe conosciuto «fra il 1927 ed il 1928», quando il primo intervento del p. Tacchi Venturi presso di lui risale al 9- 1 1 febbraio 1923 (R. De Felice, Mussolini zl fascista, l. La conquista del potere 1921-1925, cit., p. 497). Mussolini afferma anche che il gesuita era amico di Arnaldo, da lui assistito nel ritorno al cattolicesimo seguito alla morte del figlio Sandro ltalico (oltre che confessore della moglie Augusta): ma si ricor­ di che la morte per leucemia del nipote del «duce» avvenne nel 1930, quindi dopo la Conciliazione. -

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«Rendere più riguardosi e benevoli i rapporti tra il Vaticano e il Governo Italiano»: a questa politica Mussolini - com'è noto - si at­ tenne con coerenza nei due anni successivi, validamente assistito, non da fascisti della prim'ora, ma da uomini già presenti ai vertici della pubblica amministrazione, come Amedeo Giannini, nel 1923 consi­ gliere di Stato � segr�tar�o generai� del Cont�nzioso del ministero degli . _ _ esteri13• Non si tratto dt una politica orgamca, ma, piUttosto, di una serie di «attenzioni» e di «riguardi», di cui contava soprattutto il ri­ lievo simbolico, ma che venivano spesso anche incontro a desiderata di lunga data della Santa Sede: la restituzione del crocifisso nelle aule scolastiche e giudiziarie; il rifiuto di riaprire una discussione sul pro­ blema del divorzio; una campagna contro la bestemmia; la reintrodu­ zione dei cappellani nelle forze armate e dell'insegnamento religioso nelle scuole elementari; la parificazione tra scuole pubbliche e scuole private confessionali; il riconoscimento legale dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; il riconoscimento sul piano civile di molte festività religiose; un maggiore interessamento per l'edilizia sacra; la partecipazione ufficiale alle grandi celebrazioni religiose con particolare deferenza per le personalità ecclesiastiche ed, infine, l'impegno contro la massoneria e la legge anti-massonica del 1 925 . Vennero presi anche vari provvedimenti a favore del clero, tra i quali il consolidamento de­ gli assegni di congrua ai parroci, per i quali aumentò più del doppio il contributo da parte dello Stato, e l'esonero dal servizio militare dei chierici in sacris14• Questa détente con la Santa Sede non conteneva elementi di ra­ dicale novità rispetto a quella avviata dagli ultimi governi «liberali» 15 (si pensi solo alla politica scolastica di Gentile che riprendeva, certo con maggiore organicità e spirito «giacobino», alcuni principi di quella tentata da Croce, ministro con Giolitti, due anni prima, e accusata già u Giannini, già nel 1 92 1 , come capo dell'ufficio stampa del ministero degli esteri, aveva colto pienamente l'importanza del dibattito che si era svolto in parlamento e sul­ la stampa sui rapporti fra Stato e Chiesa e Io aveva raccolto in un volumetto pubbli­ cato dal suo ministero (cfr. sopra, cap. II, nota 81): si trattava di una novità significa­ tiva, che sulle prime non fu percepita dai più, perché Giannini evidentemente tendeva a ricondurre alla politica estera un problema, che, per tradizione costante dello Stato italiano, era stato fino ad allora considerato di ordine interno: cfr. A. Corsetti, Dalla preconciliazione ai Patti del Laterano. Note e documenti, cit., p. 43. Su Giannini, cfr. ora G. Melis, Giannini, Amedeo, in Dizionario biografico degli italiani, LIV (2000), pp. 485-489. 1 4 C.A. Biggini, Storia inedita della Conciliazione, cit., pp. 66-68; G. Sale, Pio XI e Mussolini. Primi provvedimenti del Governo fascista in favore della Chiesa, cit., pp. 467-469. La storia e gli intenti apologetici (verso Mussolini) del libro di Biggini sono delineati in A. Martini, Studi sulla questione romana e la Conciliazione, cit., pp. 106107 e nota 3 . 1' Lo sottolinea F. Margiotta Broglio, Italia e Santa Sede, cit., pp. 249-25 1 .

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allora di «cedimento» agli interessi cattolici) e - come abbiamo vi­ sto - spesso fu portata avanti dagli stessi uomini. Nuove semmai erano le intenzioni di chi la promuoveva: da un lato sottolineare continua­ mente il clima nuovo che si respirava in Italia, in cui - come scriveva Giannini al «duce» il 5 novembre 1 923 «l'antitesi tra Stato e Chiesa è un ricordo, la lotta anticlericale è un rudere a cui son rimasti ben pochi fedeli», dall'altro (e questo fu, almeno sulle prime, il suo scopo principale) dimostrare che tutto ciò era possibile anche senza un con­ tributo significativo da parte del Partito popolare, anzi affrontando e risolvendo con decisione una serie di problemi che la sua «aconfessio­ nalità» gli aveva impedito di porre in primo piano. Lo scriveva ancora, non senza un certo sarcasmo, Giannini: -

Ove si consideri che la revisione della legislazione ecclesiastica e la questione delle feste religiose sono ormai gli unici due punti del programma del Partito Po­ polare che la politica di V E. non ha già realizzato, mi permetto di richiamare la Sua attenzione sulla opportunità di affrontare i due problemi nel prossimo Consi­ glio dei Ministri, in modo che, alla riapertura della Camera, V. E. possa doman­ dare al Partito Popolare, dove è il suo programma, poiché Ella lo avrebbe, non solo già attuato completamente, ma in moltissimi punti migliorato e sorpassato, e senza che esso sia realizzato per opera di una minoranza, ma del Governo Nazio­ nale 1 6.

Abbiamo sottolineato la posizione difficile e ambigua in cui que­ sto partito si venne a trovare fin dagli esordi della sua azione politica rispetto alla questione romana e al problema dei rapporti fra Stato e Chiesa: la segreteria di Stato vaticana sperava che uh' affermazione di quel nuovo soggetto politico ne facilitasse in qualche modo la so­ luzione, ma era anche assolutamente decisa a gestirla in proprio e a non delegare nessuno, tanto meno don Sturzo e i suoi uomini, negli approcci e nelle trattative. Soprattutto esigeva che la politica popolare non costituisse un ostacolo allo sviluppo positivo delle relazioni fra la Santa Sede e il governo italiano: da qui una preferenza per un atteg­ giamento filo-governativo, che ricordava il vecchio «clerico-moderati­ smo» dell'età giolittiana, almeno con i governi e gli uomini da cui si poteva sperare qualcosa; da qui anche l'opposizione a ogni intesa, di cui - com'è noto - si cominciò a parlare fin dal 1 922, con i socialisti riformisti. Che l'azione politica di don Sturzo e del Partito popolare non avesse corrisposto già tra il 1 9 1 9 e il 1 922 a queste aspettative, lo si è già sottolineato; si è visto come già allora non fossero mancate le prese di distanza (ufficiali o ufficiose) dei vertici vaticani rispetto a singole scelte dei popolari e talora si fosse sottolineato che, nonostante 16

Appunto Giannini, in data: Roma, 5 novembre 1923, pubblicato ibid., pp. 45 1 -

452 (doc. 107).

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che a guidarli fosse un sacerdote, essi non rappresentavano la Chiesa italiana o la Santa Sede, ma soltanto se stessi. Queste insoddisfazioni circolavano anche nel partito, dove non erano pochi quelli che sten­ tavano a riconoscersi nel popolarismo di Sturzo e, dopo la marcia su Roma, cominciavano a concepire la collaborazione governativa con Mussolini come una scelta strategica17: quell'unità politica dei cattolici, a cui il sacerdote siciliano aveva sempre negato di mirare, ma che pure sostanzialmente si era avuta nel suo partito, di fronte alla nuova situa­ zione cominciava a incrinarsi. Tutti questi nodi giunsero al pettine nella primavera del 1923 , quando al congresso di Torino il Partito popolare rifiutò di assumere un atteggiamento incondizionatamente «collaborazionista» e fece una scelta, con tutte le cautele necessarie a un partito di governo, manife­ stamente antifascista: da qui il dimissionamento dei ministri popolari deciso bruscamente da Mussolini, la nascita delle prime formazioni «clerico-fasciste», l'ondata di violenze contro le organizzazioni cattoli­ che, l'aggressiva campagna di stampa contro il Partito e il suo segre­ tario, la presa di posizione popolare in difesa del proporzionalismo, le minacce di un nuovo inasprimento nei rapporti fra governo e Santa Sede e di un'offensiva anticlericale in grande stile, la diaspora popolare nel dibattito parlamentare sulla legge Acerbo. Poco prima, il 10 luglio, Sturzo si dimetteva dalla segreteria, dopo aver ricevuto un preciso or­ dine del papa attraverso il card. Gasparri e il p. Tacchi Venturi18• Si sbaglierebbe a pensare che il Vaticano abbia deciso da subito di sacrificare Sturzo e lo abbia fatto a cuor leggero: le testimonianze di quei mesi cruciali e le indagini successive hanno dimostrato un com­ portamento ondeggiante, inizialmente quasi benevolo, poi sempre più preoccupato delle minacce di Mussolini, delle aggressioni attuate dai fascisti e ancor più di quelle minacciate, ma anche timoroso che un cedimento potesse sembrare una resa disonorevole e compromettente. Nei vertici vaticani, si vagheggiò, per un certo periodo, una seconda formazione cattolica, più a destra del Partito popolare, che operasse non in odio, ma in parallelo ad esso, e che avviasse una collaborazione 1 7 Sulla crisi di coscienza, iniziata nell'estate del 1922, che condusse Santucci fuori del partito, cfr. G. De Rosa, I conservatori nazionali. Biografia di Carlo Santucci, cit. , pp. 83-89; sull'analoga parabola di Martire, cfr. D. Sorrentino, Egilberto Martire. Re­ ligione e politica: il tormento della «conciliazione», Roma, Studium, 1993 , pp. 32-35. Molto eloquente è il manifesto dei «Cattolici nazionali» del 30 giugno 1923, riportato in P. Scoppola, Chiesa e Stato, cit., pp. 527-529, con le numerose firme dei sottoscrit­ tori. 1 8 G. Sale, Le «dimissioni» di don Sturzo da segretario del PPI, in «La Civiltà cat­ tolica», quad. 3752, 21 ottobre 2006, pp. 1 14- 126, 1 14- 123 ; per le precedenti violen­ ze fasciste, cfr. Id., La legge Acerbo e la violenza fascista contro i cattolici, ibid., quad. 3740, 15 aprile 2006, pp. 108- 1 18.

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col governo su tutti quei temi a cui i popolari si erano mostrati poco sensibili. Da parte sua, Mussolini fu abilissimo nella tattica, che gli ri­ usciva benissimo, «del bastone e della carota» (la definizione, come si sa, è sua), delle lusinghe e delle minacce, riservando le prime a se stesso, le seconde ai suoi seguaci, e assicurando, nel contempo, di po­ ter solo lui moderarli e frenarli, ma in cambio di qualcosa che potesse essere presentato come un successo tangibile. Fu alla fine di giugno che la Santa Sede si rassegnò a fare uscire di scena il sacerdote, per non esporre le organizzazioni cattoliche alle rappresaglie fasciste e per non guastare in modo significativo i suoi rapporti col governo italiano 1 9 • Che sia stata una scelta gravida di con­ seguenze, che con le dimissioni di Sturzo sia stata senza ostacoli l' ap­ provazione della nuova legge elettorale e sia iniziato lo sgretolamento del Partito popolare è ben noto, come anche conosciuti sono i giudizi particolarmente severi di alcuni esponenti del successivo fuoriuscitismo popolare su quel cedimento della Santa Sede e sugli orientamenti con­ servatori che rivelava20• 19 R De Felice, Mussolini zl fascista, l. La conquista del potere 1921-1925, cit., pp. 498-501, 523-536, che sottolinea, come dopo il congresso di Torino, per molte setti­ mane l'atteggiamento della Santa Sede non sia stato favorevole alla rottura del Parti­ to popolare e a un'estromissione di Sturzo. Lo confermano le confidenze di Giuseppe Donati a Salvemini in un incontro romano del 29 aprile 1 923 : «li Papa salì al potere con sentimenti filofascisti, da buon lettore del Com'ere della Sera. [ . . ] In Vaticano cre­ devano che Mussolini fosse capace di rimettere l'uscio nei gangheri ! (Tanto è ruba­ ta la fama di conoscitori d'uomini, che hanno quei poveri diavoli.) Ma poi, leggendo sempre il Co"iere, il Papa ha cominciato a vacillare nel suo filofascismo. Le opinioni dei vescovi italiani, prevalentemente poco fiduciosi nella stabilità del nuovo regime, lo scossero profondamente. I gesuiti, poi, sono antifascisti, perché più sensibili alle cor­ renti della opinione internazionale. A mezzo febbraio, il Papa ha ricevuto in udienza il senatore Albertini; e gli si è manifestato oramai nel nuovo orientamento. Un ritorno al vecchio movimento demo-moderato non lo vuole, e lo disse ad Albertini. [ ... ] Prima del Congresso di Torino, parecchi prelati del Vaticano dubitavano se non fosse il caso di invitare Don Sturzo a dimettersi da Segretario del Partito Popolare. Ma dopo le gaffes fatte da Mussolini nella illusione di spezzare in due il Partito Popolare, e dopo la manifestazione antifascista del Congresso di Torino, tutti in Vaticano hanno piegato verso Don Sturzo definitivamente. Padre Rosa ha detto a Donati: "Certo l'olio di ri­ cino non lo vogliamo; ma non vogliamo neanche essere noi a pagare i cocci, quando Mussolini cadrà"» (G. Salvemini, Memorie e soliloqui, cit., pp. 343-345): i colloqui con Donati registrati da Salvemini mostrano l'ottimismo sostanziale del direttore del «Po­ polo» fino alla fine di maggio. Al momento delle dimissioni di Sturzo, Salvemini le at­ tribuì essenzialmente al timore vaticano delle minacce fasciste: «Notare che il Vaticano, così intransigente difensore delle "libertà ecclesiastiche" , quando i preti erano appena appena annoiati in zllo tempore, è diventato mogio mogio innanzi alle violenze fasciste: anzi ha consigliato a Don Sturzo di dimettersi! Bisogna fargli paura sul serio, perché stia buono!» (ibid., p. 394, sub 12 luglio 1923 ). 20 Si vedano, per tutti, le pagine di Francesco Luigi Ferrari nel libro postumo I:Azione Cattolica e il «regime» (Firenze, Parenti, 1957), ora in P. Scoppola, Chiesa e Stato, cit., pp. 529-53 3 . .

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Ma, fin dal periodo della guerra, nell'agenda politica della segre­ teria di Stato era la soluzione della questione romana ad occupare il primo posto. Ciò richiedeva un lung� period? di disgelo fra governo italiano (qualunque esso fosse) e Vaticano, disgelo che ora sembrava concretamente verificarsi e che, solo per motivi eccezionali, Gasparri e il papa sarebbero stati disposti a compromettere. Bisogna anche ricor­ dare che queste priorità erano state messe in chiaro fin dall'inizio della vicenda popolare, dal dicembre 1918, quando il segretario di Stato aveva awisato Sturzo che poteva benissimo fondare un nuovo par­ tito politico, ma che lo faceva a suo rischio e pericolo. La Santa Sede, cioè, intendeva continuare, qualora le sembrasse necessario, a muo­ versi in proprio nello scenario della politica italiana e non necessaria­ mente in sintonia con le scelte del popolari e questo - awertiva il car­ dinale - avrebbe rischiato di metterli in serie difficoltà. Gasparri - lo si è già ricordato - richiamava spesso l'«internazionalità del papato», ribadendo che una soluzione della questione romana implicava un'as­ sunzione di responsabilità di fronte ai cattolici di tutto il mondo; ma poi questa soluzione dipendeva dalle relazioni con un governo deter­ minato, quello italiano, una rottura col quale avrebbe forse riportato in alto mare tutta la questione, con gravi pregiudizi per l'azione in­ ternazionale della Sede apostolica. Si possono discutere, punto per punto, gli elementi di questa mentalità e di questo approccio, ma tali erano, e chi esamina i comportamenti dei vertici vaticani in quegli anni deve tenerne conto. Tanto più - e questo è l'ultimo elemento da te­ nere in considerazione - in una situazione ancora fluida, come quella dell'estate del 1923 , in cui la maggior parte dell'opinione pubblica ita­ liana non pensava certo di essere alla vigilia dell'instaurazione di un re­ gime autoritario e le prospettive politiche erano tutt'altro che unanimi e precisamente definite anche nella stessa dirigenza fascista.

3. La pregiudiziale del papa n comportamento della Santa Sede continuò a essere cauto e, in un certo senso, d'attesa anche nei due anni successivi e non può es­ sere facilmente rubricato - come talvolta si tende ancora a fare - come di esplicito fiancheggiamento del fascismo21• n Vaticano tese soprat21 Questo è il giudizio, che mi pare largamente condivisibile sulla base dei testi e dei documenti che vengono da lui prodotti, di R. De Felice, Mussolini il fascista, I. La conquista del potere 1921-1925, cit., p. 579, per il primo semestre del 1924 (ibid. , pp. 578-580) e per il secondo, quello dopo il delitto Matteotti (zbid., p. 654). In Id., Mus­ solini il fascista, II. I.:organizzazione dello Stato fascista 1925- 1929, cit., p. 105, è espli­ cita la polemica contro gli autori «che hanno posto l'accento esclusivamente sui motivi d'accordo, sottovalutando ed addirittura sottacendo a volte quelli in disaccordo>>.

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tutto a rafforzare e proteggere l'Azione Cattolica (riorganizzata con i nuovi statuti del 1 923 ) , sottolineandone il carattere apolitico, e pro­ testò, spesso con veemenza, contro le violenze e le sopraffazioni che vennero compiute periodicamente dai fascisti ai suoi danni; mantenne le distanze dal Partito popolare, ma anche, dopo qualche iniziale sim­ patia, dal Centro nazionale italiano (nato il 12 agosto 1 924 per inizia­ tiva di ex-popolari di destra). Durante l'affaire Matteotti, condivise con tutti i «poteri forti» della società italiana la paura del «salto nel buio», che cioè l'immediata defenestrazione di Mussolini provocasse nei suoi uomini una disperata volontà di resistere a tutti i costi e con tutti i mezzi e, in caso di una loro sconfitta, un'ondata inarrestabile di ven­ dette e di rivalse, per ritrovarsi poi con tutti i problemi di prima e con lo stesso personale politico, che si era mostrato così incapace di risol­ verli: si considerava probabile una caduta di Mussolini, ma si auspicava che la sua uscita di scena avvenisse gradualmente e in presenza di una successione affidabile. Anche dopo il 3 gennaio 1 925 l'atteggiamento della Santa Sede non mutò di molto: continuò la sua pubblica difesa delle organizzazioni cattoliche, fra cui cominciò a comprendere anche quelle economico-sindacali, e si ribadì la condanna di ogni collabora­ zione politica fra cattolici e socialisti (quale, di fatto, si era sviluppata nell'Aventino)22• Questa non-opposizione (che certamente evitò a Mus­ solini molti problemi) scaturiva da tutta una concezione della politica presente tradizionalmente nella gerarchia ecclesiastica, secondo cui compito precipuo della Chiesa era quello di difendere e sviluppare le proprie «libertà», cioè i propri spazi, qualunque fosse il regime politico che avesse di fronte (nel caso italiano, poi, si tendeva a credere che con un governo che segnasse una forte cesura con la precedente fase «liberale» ciò sarebbe stato più agevole) , e da una sua precisa valuta­ zione delle priorità del momento (la soluzione della questione romana), per giungere alla quale era indispensabile saggiare la reale capacità di durata e di controllo del potere mussoliniano, senza scoprirsi. Fu proprio fra il 1925 e il 1 926 che il «cammino della Concilia­ zione» ebbe la svolta clamorosa, che doveva mutarne completamente il corso e sulla quale si è poi tanto congetturato e discusso. La recente pubblicazione di una serie di rilevanti documenti23 e una rilettura at­ tenta dei già noti ci consentono - credo - di delineare con una certa

22 Ibid., pp. 101- 105, ma soprattutto S. Rogari, Santa Sede e fascismo dall'Aventino ai Patti lateranensi, Bologna, Forni, 1977, pp. 28-3 3 . Per la grave crisi che nel 1925

scosse la FUCI, che opponeva resistenza alla strategia accentratrice della direzione dell'ACI, cfr. R. Moro, La formazione della classe dirigente cattolica (1929-1937), Bolo­ gna, ll Mulino, 1979, pp. 61 -66. 2' G. Sale, La progettata rz/orma della legislazione ecclesiastica al tempo di Mussoli­ ni, in «La Civiltà cattolica», quad. 3747-3748, 5 - 1 9 agosto 2006, pp. 2 1 8-23 1 .

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precisione lo svolgimento dei fatti e quindi di coglierne il vero signifi­ cato. Come in parte s'è già accennato, nel novembre del 1 923 Amedeo Giannini aveva consigliato a Mussolini di affrontare il problema della revisione della legislazione ecclesiastica, di portare la questione in con­ siglio dei ministri e di far nominare dal ministero competente (quello della giustizia e affari di culto, come allora si chiamava) «una ristretta Commissione di tecnici con l'incarico di preparare in brevissimo il nuovo Codice della Legislazione Ecclesiastica»: essa sarebbe stata com­ posta di cinque membri fra magistrati, alti funzionari statali e un pro­ fessore di diritto ecclesiastico24• Iniziative analoghe si erano già avute nei decenni precedenti, anche perché era la stessa legge delle guaren­ tigie a prevedere un ulteriore provvedimento legislativo concernente il riordinamento, la conservazione e l'amministrazione della proprietà ec­ clesiastica, anzi subordinava ad esso la definitiva abolizione del placet e dell'exequatur. Non erano mancate quindi, nel merito, discussioni e proposte, come quella, già ricordata, di Guglielmo Quadretta nei primi mesi del 192 1 . Mussolini girò la questione al ministro Aldo Oviglio, che sostanzialmente tese a insabbiarla (apparteneva alla massoneria di piazza del Gesù)25• Nella primavera del 1 924, di fronte a questa inerzia ministeriale, p. Tacchi Venturi, che su questo problema si era già attivato l'anno il precedente, tornò ad agitare la questione presso Mussolini: il «duce» confermò la sua disponibilità, comunicò che era sua intenzione com­ prendere nella commissione anche degli ecclesiastici scelti dalla segre­ teria di Stato vaticana e chiese «quali fossero i punti sostanziali o pre­ cipui, che a giudizio della Santa Sede, dovessero tenersi presenti nel ri­ maneggiare le leggi vigenti in materia ecclesiastica». In risposta il card. Gasparri, non solo comunicò i nomi, ma fissò le sue richieste in una nota, che fu consegnata a Mussolini il 3 1 luglio 1 92426• La questione subì un'accelerazione quando - nel rimpasto del gen­ naio 1925 - il ministero della giustizia fu assunto da Alfredo Rocco. Negli anni precedenti, l'ex nazionalista aveva reso più duttile, senza 24 Appunto Giannini, in F. Margiotta Broglio, Italia e Santa Sede, cit., pp. 45 1 -452, che esamina anche (ibid., pp. 2 10-226) le precedenti iniziative di riforma. 25 n suo nome è nell'elenco dei maggiori dirigenti del PNF aderenti alla Massone­ ria, in R. De Felice, Mussolini il fascista, I. La conquista del potere 1921-1925, cit., p. 349; per cui non direi che Oviglio fosse un «buon liberale fedele alla pratica posta in essere dai Governi precedenti» (G. Sale, La progettata rt/orma, cit., p. 220). 26 Ibid. p. 220. Si trattava di sei punti, i più rilevanti dei quali erano il riconosci­ mento della personalità giuridica degli ordini e congregazioni religiose, la trasforma­ zione dell'exequatur in una previa domanda di nulla osta da parte della Santa Sede e l'esenzione dei chierici dal servizio militare. n documento è lo stesso pubblicato senza data, ma attribuito alla fine del 1923, in F. Margiotta Broglio, Italia e Santa Sede, cit., pp. 449-450 (doc. 106).

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tuttavia rinnegarla del tutto, la linea di «confessionalismo ateo a forti venature giurisdizionalistiche»27 esposta nel discorso parlamentare del giugno 1 92 1 : in un significativo articolo dell'aprile 1 922, aveva di fatto proposto alla Chiesa un compromesso, in base al quale lo Stato italiano avrebbe rinunziato al . Questa affermazione è contestata da F. Margiotta Broglio, Italia e Santa Sede, cit., p. 7 nota 15, che sottolinea invece il ruolo di Rocco nel percorso che condusse ai patti del Laterano (ibid., p. 146, 148- 15 1 , 226-248, 25 1 254); al che Ungari ebbe a precisare che, s e i l guardasigilli era stato assai attivo nella fase 1925 - 1 926 e tornò a esserlo nel 1 929 nella commissione mista italo-vaticana per l'esecuzione dei Patti, rimase estraneo al negoziato vero e proprio, prendendo parte solo alle ultime otto sedute e - come vedremo - mostrando subito una netta contrarie­ tà a taluni dei suoi risultati, come quelli concernenti la materia matrimoniale (P. Unga­ ri, Storia del diritto di famiglia in Italia, Bologna, ll Mulino, 1974, pp. 220 e 236, nota 9). Credo anch'io che il giurista napoletano non abbia mai superato del tutto, anche in materia ecclesiastica, l'orizzonte fortemente étatiste e giurisdizionalistico del suo pensie­ ro. Non prestano alcuna attenzione a tali problemi i recenti lavori di R. D'Alfonso, Co­ struire lo stato /orte. Politica, diritto, economia in Alfredo Rocco, Milano, Angeli, 2004 e di S. Battente, Alfredo Rocco dal nazionalismo al fascismo, ivi, 2005 . 28 A. Rocco, Chiesa e Stato, in «ll Resto del Carlino», 4 aprile 1922, riprodotto in P. Scoppola, La Chiesa e il fascismo, cit., pp. 54-59, dov'è significativa la condanna di sapore giurisdizionalistico della politica ecclesiastica dei successori di Cavour e dello spirito della legge delle guarentigie: > DELLA CONCILIAZIONE

N ella relazione appena citata, Barone sosteneva il carattere «defi­ nitivo ed irrevocabile» della sistemazione che il Trattato avrebbe dato della questione romana, ma insisteva anche sulla possibilità che il Con­ cordato potesse invece essere «all'occorrenza denunciato» dallo Stato italiano , «come tutti gli accordi del genere, al fine di sospenderne l' ap­ plicazione o di modificarlo». E aggiungeva: Se p er avventura qualche erronea illusione avesse potuto al riguardo costitu­ è giovato il contegno irremovibile di V. E. nei riguardi della nota questione dei Balilla mentre si era per avviarsi alla fase definitiva delle tratt ative per l'accordo79• irsi nel Vaticano, a fugarla

Barone alludeva al comportamento del «duce» in uno dei più gravi contrasti che avevano diviso la Santa Sede e il governo italiano nei due anni precedenti. Le trattative per i patti del Laterano si svolsero infatti (questo aspetto non va mai dimenticato) in un contesto fortemente conflittuale, che contribuì a interromperle più volte, col rischio - in al­ cuni momenti - di comprometterle definitivamente. Nel novembre del 1 92 6 furono le devastazioni di circoli, cooperative e banche cattoliche seguite all'attentato Zarnboni - più che i consueti problemi - ad oc­ cupare i due negoziatori; nel dicembre si aprì poi la grave questione del regolamento dell'Opera Nazionale Balilla, cioè del «monopolio dell'educazione morale della gioventù» da parte dello Stato e quindi dello scioglimento dei reparti dei «giovani esploratori» cattolici (i boy scouts), che determinò la sospensione delle trattative dal 6 gennaio al 2 8 febbraio 1927. Nell'agosto 1927 scoppiò una polemica fra !'«Osser­ vatore romano» e la stampa fascista per l'arresto di cinque sacerdoti friulani accusati di «irriducibile avversione al regime», mentre nei due mesi successivi si sviluppò quel dibattito pubblico sulla questione ro­ mana, a cui s'è già accennato. Nel marzo del 1 928, il papa in persona polemizzò contro il risveglio di attività del Centro nazionale italiano (i clerico-fascisti di Martire), che, in un convegno romano, tentava di elaborare una linea politica di netto fiancheggiamento al governo e di autonomia «da destra» rispetto alle gerarchie ecclesiastiche80• Infine il decreto ministeriale emanato il 9 aprile 1 928 che scioglieva definiti­ vamente i Giovani Esploratori, ma sembrava minacciare tutta quanta l'Azione Cattolica, provocò una nuova crisi e un'ennesima sospensione delle trattative fino al 26 maggio. La Santa Sede ebbe sostanzialmente la peggio nella maggior parte di questi contrasti: il papa protestò con veemenza nell'allocuzione con79 P. Scoppola, Chiesa e Stato, cit. , p. 591 . 80 F. Pacelli, Diario della Conciliazione, cit., p. 85 e R . De Felice, Mussolini il /asci­ sta, IL L:organizzazione dello Stato fascista 1 925-1929, cit., p. 412.

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CAPITOLO TERZO

cistoriale del 20 dicembre 1 926, ma poi il 24 gennaio successivo si rassegnava a sciogliere egli stesso i reparti dei boy scouts colpiti dalla legge; anche più avanti dovette accontentarsi delle rassicurazioni, delle precisazioni, delle smentite abilmente elaborate dal capo del governo italiano. Eppure preferì non rompere le trattative, ma riprenderle ogni volta dopo settimane o mesi di interruzione. Non è da credere che il suo interesse per tali questioni fosse solo di facciata: quando il 22 di­ cembre 1926 dichiarava a Pacelli che «per Lui [esse] erano anche più importanti della questione romana»81, non mentiva (d'altronde tutte le vicende successive al 1 929 lo avrebbero confermato) . Dalla lettura dei documenti e delle varie bozze dei trattati si ricava invece un'impres­ sione diversa: che proprio quella serie di conflitti, in cui la Chiesa si venne a trovare in una posizione difensiva e spesso precaria, lo con­ fermarono nella convinzione dell'importanza di quei trattati, sempre più intesi, non solo come uno strumento di riconquista cattolica della società italiana, ma anche come un argine giuridico, pubblicamente e bilateralmente stabilito, rispetto a un potere che aspirava sempre più al controllo «totalitario» del paese e quindi all'erosione delle tradizionali posizioni della Chiesa82 • Si spiega così che già la prima bozza del Concordato elaborata da mons. Borgongini ai primi di dicembre 1 926 contenesse (art. 42) il riconoscimento (in un primo momento si parlava addirittura di «protezione») da parte dello Stato delle «organizzazioni dipendenti 81 F. Pacelli, Diario della Conciliazione, cit., p. 38; sulla questione dei preti friu­ lani, ibid., pp. 7 1-72. Per i duri contrasti, che accompagnarono le trattative, cfr. le pagine (che mostrano sensibilità storiche diverse) di L. Salvatorelli e G. Mira, Storia d'Italia nel periodo fascista, cit., pp. 469-476 e R. De Felice, Mussolini il fascista, II. I:organizzazione dello Stato fascista 1925-1929, cit., pp. 394-403. È ormai nota la vicen­ da dell'insegnamento di Buonaiuti nel quadro dei negoziati per la Conciliazione: cfr. L. Bedeschi, Buonaiuti, il Concordato e la Chiesa, con un'appendice di lettere inedite, Milano, li Saggiatore, 1970 e F. Margiotta Broglio, Ernesto Buonaiuti, in Modernismo,

fascismo, comunismo. Aspetti e figure della cultura e della politica dei cattolici nel '900,

cit., pp. 133- 153. 82 A questo scopo, specialmente negli ultimi mesi delle trattative, il papa e i suoi collaboratori - lo si è già notato - tesero a ridimensionare le richieste territoriali e fi­ nanziarie per segnare alcuni punti a loro favore in materia concordataria. Proprio il testo che dava l'avvio all'ultima fase, la lettera di Gasparri a Pacelli del l 0 settembre 1928, era - pur nel linguaggio tipico del mondo curiale - abbastanza esplicito a questo riguardo: «Se si pensa che fra i motivi preponderanti per i quali il Santo Padre sì è deciso a trattare col Governo Italiano per l'accomodamento della Questione Romana, è stato il bene delle anime in Italia da conseguirsi con un buon Concordato, mettendo in seconda linea gli interessi temporali, pur così giusti ed universalmente riconosciuti, attenendosi con fiducia alla parola del Signore: Quaerite primum Regnum Dei, Ella ve­ drà come le titubanze e le restrizioni del Governo Italiano in materia spirituale, deb­ bano affliggere il Santo Padre e vengano ad indebolire i motivi principali che possono indurlo ad un accordo» (C.A. Biggini, Storia inedita, cit., pp. 222-225, 224).

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IL «CAMMINO» DELLA CONCILIAZIONE

dall'Azione Cattolica Italiana», di cui si ribadiva il carattere aparti­ tico, la diretta dipendenza dalla gerarchia ecclesiastica e la finalità, cioè «l'affermazione, diffusione, attuazione e difesa dei principii cattolici nella vita individuale, famigliare e sociale»83• Al tempo stesso la Santa Sede rinnovava a tutti gli ecclesiastici e religiosi italiani «il divieto di appartenere a qualsi�si J? artito po itico o comufl:que di svolge�e azior:'-e _ di partito». Questo rtfenmento ali Azione Cattolica, che non si trova m quasi nessun altro concordato coevo, attraverso una serie di passaggi e di limature (per esempio, si introdusse e poi si eliminò il riferimento alle disposizioni sui Balilla ), approdò infine al testo definitivo (art. 43 ) . N eli' allocuzione del 2 0 dicembre 1 926, oltre a difendere l'Azione Cattolica (>, ma neanche il rettore dell'Università Cattolica pensava a un ricambio im­ mediato: > (Le encicliche soCiali, cit., pp. 528-543 , 569-581): sull'impatto del primo sulla cultura cattolica italiana, cfr. P. Pombeni, Il gruppo dossettiano e la fondazione della democrazia italiana (1938-1948), Bologna, ll Mulino, 1 979, pp. 80-96, ma sono da leggere le rifles­ sioni di Pombeni anche sull 'approccio alla democrazia da parte di Pio XII (ibid., pp. 106- 107). Per E. Fattorini, Pio XI, Hitler e Mussolini. La solitudine di un Papa, Torino, Einaudi, 2007, p. 192, già l'ultimo Pio XI era giunto a conclusioni non dissimili.

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UNA PACE ARMATA 2 . Date a Cesare

Al di là delle apparenze, la «luna di miele» fra il Vaticano e il go­ verno italiano durò solo poche settimane. Nei giorni immediatamente successivi all' 1 1 febbraio, gli interventi di Pio XI furono pieni di rico­ nos cimenti verso la controparte . Celebre quello contenuto nel discorso del 13 febbraio, rivolto ai professori e agli alunni dell'Università Catto­ lica del S. Cuore: Dobbiamo dire che siamo stati dall'altra parte nobilmente assecondati. E ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza Ci ha fatto in­ rse fo contrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o piuttosto disordi­ namenti, tutte quelle leggi, diciamo, e tutti quei regolamenti erano altrettanti fe­ ticci e, proprio come i feticci, tanto più intangibili e venerandi quanto più brutti e deformi11•

Ma sulle prime il discorso del pontefice fu rivolto prevalentemente all'interno del mondo cattolico, italiano e internazionale, cercando di valorizzare i risultati conseguiti e di fugare i dubbi sull'esiguità del ter­ ritorio del nuovo Stato e sull'entità (da molti ritenuta eccessiva) della somma prevista dalla Convenzione finanziaria 12• Parlando lo stesso 1 1 febbraio ai parroci e ai quaresimalisti di Roma, il papa si mostrò ben consapevole delle «critiche» che gli sarebbero piovute addosso: «le cri1 1 Discorso rivolto ai Professori ed agli Studenti dell'Università Cattolica del Sacro Cuore dz Milano, nella udienza del 13 Febbraio 1929, in Parole pontificie sugli accordi del Laterano, Roma, Tip. de «L'Osservatore romano», 1 9292, pp. 25-32, 29-30. L'aspro

giudizio sul liberalismo prefascista ferì non pochi contemporanei (per Croce, cfr. cap. I, nota 6), ma contrariamente a quanto si è autorevolmente affermato (L. Salvatorelli e G. Mira, Storia d'Italia nel periodo fascista, cit., p. 489), ritengo che solo «un'interpreta­ zione sbrigativa ed estensiva delle parole di Pio Xl» (come ha serino G. Candelora, Storia dell'Italia moderna, IX, Il fascismo e le sue guerre, cit., p. 246) consenta di affer­ mare che egli, in questo passo, abbia definito Mussolini l' >15• Queste prime esternazioni del papa furono accolte dalla stampa italiana, in tutte le sue sfumature, senza nessuna notazione critica16• In 14 Discorso rivolto ai Professori ed agli Studenti dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, cit., pp. 27-29, 3 1 . Quasi alla lettera ricalcava queste argomentazioni il primo

commento della «Civiltà cattolica», ma con un singolare accento sull'importanza del riconoscimento da parte del governo italiano della «sovranità vera e propria del Pon­ tefice con una libertà e indipendenza non solo reale ma visibile a tutti», quindi sul Trattato (I.:ora di Dio, in «La Civiltà Cattolica», quad. 1888, 7 febbraio 1929, ora par­ zialmente riportato anche in P. Scoppola, Chiesa e Stato, cit., pp. 626-629). 15 Discorso rivolto ai membri dell'Eccellentissimo Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede nell'udienza del 9 Marzo 1929, in Parole pontificie sugli accordi del Laterano, cit., pp. 35-40, 36-37. 1 6 Rimase, perciò, per allora isolata la presa di posizione de ; che esso consentirà «a misurare tutti i valori della vita col metro che il cattolicesimo, per quanto religione di Stato, gli offre»; che esso «si ridurrà ad essere braccio, mentre deve essere anche anima e spirito, autogeneratore di valori morali»; che vieterà o lascerà vietare ai filosofi, anche a quelli delle sue scuole, «di filosofare in modo diverso dalla filosofia della Chiesa»; che impor­ rà agli storici e ai maestri di storia ed agli scrittori di testi scolastici «di attenersi alla spiegazione trascendente anziché alla spiegazione umana dei fatti umani, sia pure che questa lasci aperta la via, per altra superiore spiegazione»; che porterà la confusione nelle scuole medie superiori «introducendo un insegnamento dogmatico della religione mal conciliabile con gli altri insegnamenti» (G. Volpe, Il patto di S. Giovanni in Late­ rana, in «Gerarchia», febbraio 1 929, poi in Id., Momenti di stona italzana, nuova ed. accresciuta, Firenze, Vallecchi, 1 952 2 , pp. 405 -4 18, 4 16-4 17). 20 Ibidem. Per le dichiarazioni di Millerand, cfr. E. Vercesi, Il Vaticano, l'Italia e la guerra, cit., p. 243. 21 G. Gentile, La Conciliazione, in «Il Lavoro fascista», 27 febbraio 1929, poi in molte altre sedi giornalistiche, ora in Id. , Politica e cultura, l, cit., pp. 447-45 1 . 22 F. Scaduto, La Concilzazione dello Stato italzano con la Santa Sede, in «Rivista di diritto pubblico e della pubblica amministrazione in Italia», febbraio-marzo 1 929, cit. in M. Missiroli, Date a Cesare, cit., p. 26.

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CAPITOLO QUARTO

clima concordatario incidesse sulla libertà di espressione di scrittori, poeti e artisti2l, l'ex ministro della pubblica istruzione (e pedagogista di ispirazione positivistica) Luigi Credaro promuoveva sull a sua «Rivi­ sta pedagogica» un'inchiesta fra studiosi e insegnanti, ponendo, con in­ tenzioni evidentemente provocatorie, la questione: «Con l'introduzione dell'insegnamento religioso nelle scuole medie, secondo i Patti concor­ datari, la filosofia dovrà essere conservata od abolita?»24• Fra febbraio e marzo si venne, quindi, sviluppando una sorta di fuoco di sbarramento da parte di settori consistenti della cultura fa­ scista o, comunque, ralliée al regime, ma le prime smagliature di ca­ rattere politico si dovevano verificare in occasione delle elezioni plebi­ scitarie del 24 marzo, destinate a rinnovare la Camera dei deputati, e, paradossalmente, proprio di fronte a uno dei passi più compromettenti che il mondo cattolico italiano stesse compiendo nei confronti del go­ verno fascista. Emergeva in questa occasione nuovamente il problema dell'Azione Cattolica, della sua natura e della sua collocazione all'in­ terno di una società ormai «fascistizzata» come quella italiana. Abbiamo più volte ricordato l'art. 43 del Concordato, con il quale lo Stato italiano riconosceva le organizzazioni dipendenti dall'Azione Cattolica, «in quanto esse, siccome la Santa Sede ha disposto, svol­ gano la loro attività al di fuori di ogni partito politico e sotto l'im­ mediata dipendenza della gerarchia della Chiesa per la diffusione e l'attuazione dei principi cattolici»; e, da parte sua, la Santa Sede vie­ tava a ecclesiastici e religiosi di iscriversi e militare in qualsiasi par­ tito politico. L'esistenza dell'Azione Cattolica restò un incubo per Mussolini fino al crepuscolo del regime: sia perché vi scorgeva una sopravvivenza di uomini e strutture del vecchio Partito popolare, da lui sempre lucidamente avvertito come il concorrente più pericoloso sulla scena politica italiana, pronto a riprendere il suo posto, ove se

23 Lettera di Ugo Ojetti e risposta del p. Enrico Rosa, in «La Civiltà cattolica», quad. 189 1 , 28 marzo 1929, pp. 3 - 18. «Non s'ha da credere - affermava Ojetti - che, generosamente e lealmente sciolto col Trattato e col Concordato ogni nodo politico, un altro nodo sia stato serrato per l'intelligenza e la cultura italiana, e proprio da questo Governo e Partito di giovani» (p. 6). li p. Rosa rispondeva che «i gesuiti hanno ben altro da fare e ad una ben più alta e spirituale missione aspirano che a mettere la mu­ seruola ai poeti o le pastoie ai letterati» (p. 13), ma ricordava il dovere del governo di assicurare la moralità dell'arte («È vero dunque che "Benito Mussolini è fermo nell'im­ porci il decoro morale dell'arte" ? Tanto basta» (p. 16)). 24 M. Missiroli, Date a Cesare, cit., pp. 56-57. A Credaro rispondeva l'art. Religio­ ne e filosofia nelle scuole medie, in «La Civiltà cattolica», quad. 1895, 28 maggio 1929, pp. 4 14-425, che rimandava all'Avvertenza XI del R.D. 3 1 dicembre 1925, n. 24 13, emanato dal ministro Fedele, che già disponeva di «evitare argomenti, passi di opere, discussioni, ecc. che possano ragionevolmente turbare o mettere in disagio la coscienza religiosa e morale degli alunni» (p. 416).

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UNA PACE ARMATA

ne fosse presentata la possibilità; sia perché una concezione «totalita­ ria», quale il fascismo stava sviluppando, mal tollerava l'esistenza di associazioni che sfuggivano al suo controllo, che anzi dipendevano da un potere estraneo allo Stato e avevano una prospettiva sovranazio­ nale. Da qui la continua richiesta di eliminare ogni residuo carattere politico e sociale dall'attività delle organizzazioni cattoliche, di farle tornare (come si diceva) in sacrestia; il tentativo di ridurle ad associa­ zioni esclusivamente locali, senza un vero respiro nazionale; da qui an­ che un'insistente polemica culturale e di costume, con la quale - come avrebbe denunciato il papa - «nelle pubblicazioni del partito e nei di­ scorsi e nelle circolari dei così detti gerarchi, [i giovani di A.C.] sono rappresentati ed indicati al vilipendio ed allo scherno [ . ] come una accozzaglia di conigli e di buoni soltanto a portar candele e recitare rosari nelle sacre processioni»25• Sul problema della cosiddetta «apoliticità», Pio XI aveva idee pre­ cise. Le aveva esposte, ancora una volta, pochi mesi prima della firma dei patti lateranensi, nella lettera Quae nobis al card. Bertram, arcive­ scovo di Breslavia: sicuramente l'Azione Cattolica «non sarà mai di or­ dine materiale, ma spirituale; non di ordine terreno, ma celeste; non politico, ma religioso», ma la sua attività avrà inevitabilmente ricadute anche nell'ordine politico-sociale, perché essa «mira a dilatare il regno di Cristo e così a procacciare alla società il massimo dei beni e quindi tutti gli altri vantaggi, che da esso scaturiscono, vale a dire quelli che appartengono all'ordinamento di ogni nazione e si chiamano politici, cioè: beni non privati e proprii dei singoli, ma comuni a tutti i citta­ dini». Pertanto, in vista del pubblico bene, «che è prevalentemente morale e religioso», l'Azione Cattolica - ammoniva il pontefice - «non escluderà» la partecipazione dei suoi aderenti alla vita pubblica «in tutte le sue manifestazioni»26• Un fascista conseguente avrebbe tro­ vato molti elementi discutibili in questo testo, come in altri consimili: un'implicita, ma categorica condanna di tutti i nazionalismi; la disso­ luzione della politica nella morale, nella morale cristiana e cattolica, e .

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2) Pio XI, Non abbiamo bisogno, cit., p. 363 . Nelle sue linee essenziali il problema dell'Azione Cattolica fra il 1929 e il 193 1 e del ruolo degli ex popolari nella cattolicità italiana organizzata è trattato in M. Casella, Stato e Chiesa in Italia dalla Conciliazione alla riconciliazione (1929-1931), cit., pp. 10-13. 26 Lettera del S. Padre all'eminentissimo cardinale Bertram, datata: 12 novembre 1928, pubblicata sull'«Osservatore romano» del 30 novembre, poi in «La Civiltà cat­ tolica», quad. 1886, 12 gennaio 1929, pp. 102-104, da cui si cita. Qui era seguita da un commento redazionale [;Azione cattolica in un recente documento pontz/icio (pp. 97101). La lettera Quae nobis è rimasta a lungo un testo fondamentale sull'A.C.: dr. L. Civardi, Manuale di Azione Cattolica, Roma, Caletti, 195212, p. 15 e passim. Sulla con­ cezione di Pio XI, pagine acute in G. Baget Bozzo, Il partito cristiano al potere, cit., pp. 34-3 7.

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CAPITOLO QUARTO

quindi una valutazione degli interessi nazionali secondo una tavola di valori universale, che trascendeva lo Stato (qualsiasi Stato). Era proprio in questa prospettiva che Pio XI volle costantemente il potenziamento dell'A.C. e del suo contenuto culturale e sociale: nella sua visione, non il partito cristiano, ma l'Azione Cattolica era un'articolazione essen­ ziale della Chiesa e non poteva essere compressa a un ruolo puramente cultuale. Su questi temi, ancora sullo scorcio del 1 928, mentre si sta­ vano sciogliendo gli ultimi nodi delle trattative della Conciliazione, si erano rinnovate le polemiche fra l'«Osservatore romano» e la stampa di regime27• Esse avevano origine anche dalla sensazione, diffusa nell'establishment fascista, che si stesse realizzando una notevole ripresa (organizzativa e di attività) dell'A.C., timori acuiti anche da certe ester­ nazioni papali, come il «siamo troppo pochi . . . » detto agli universitari cattolici il 22 dicembre 192828• Intanto si era conclusa la XXVII legislatura e si awicinavano le nuove elezioni, che si sarebbero svolte secondo la nuova legge elet­ torale di tipo plebiscitario. Il 1 0 marzo 1929, Mussolini tenne un di­ scorso all'Assemblea quinquennale del regime, col quale chiamava il paese al voto: si trattava del suo primo intervento pubblico sui patti appena sottoscritti e, per certi aspetti, di un preciso colpo di timone sulla rotta che intendeva seguire. Innanzitutto il «duce» riprendeva il tema del rapporto fra «romanità» e cattolicesimo, da lui toccato già nel suo primo discorso parlamentare del giugno 1 92 1 . Adesso sottolineava fortemente la priorità dell'elemento romano rispetto a quello cristiano: «Non è per una mera coincidenza o per un capriccio degli uomini, che tale religione è sorta e si è irradiata e si irradia da Roma. L'Impero Romano è il presupposto storico del Cristianesimo prima, del Cattoli­ cesimo poi. La lingua della Chiesa è ancora oggi la lingua di Cesare e di Virgilio». Insomma il cristianesimo aveva assunto un carattere uni­ versale e si era diffuso nel mondo, non per un disegno provvidenziale o per la forza del suo messaggio, ma perché si era identificato con la

27 «li Resto del Carlino» e «li Regime fascista)) avevano attaccato per supposte simpatie antifasciste don Francesco Piantelli, redattore dell'«Osservatore romano)), il presidente dell'Azione Cattolica italiana, Luigi Colombo, e l'assistente ecclesiastico ge­ nerale di questa, mons. Giuseppe Pizzardo. La polemica aveva colpito di striscio anche il giovane Montini («certi monsignori, per tradizione patema e per eredità di avver­ sione e di simpatia, tutt'altro che alieni dalla politiciD)): cfr. il suo commento in una lettera ai familiari del 2 dicembre 1928, in G.B. Montini, Lettere a casa 1915-1943, cit., pp. 165 - 1 66. 28 Cfr. il particolareggiato «appunto)) del direttore capo divisione della polizia po­ litica, in data: 30 novembre 1928, pubblicato in R. De Felice, Mussolini il fascista, Il L'organizzazione dello Stato fascista 1925-1 929, cit., pp. 424-426, nota l . Per l'udienza pontificia del 22 dicembre 1928 ai fucini, cfr. R. Moro, La formazione della classe diri­ gente cattolica, cit., p. 123 .

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UNA PACE ARMATA

potenza �o�� a: si tr��tava di rimasticature, che avevano tuttav:ia u� preciso st?mf�cato pohttco e . che - come vedremo - avranno sviluppi . i.Inportantl nei mesi successivi. Sul significato del Concordato e i suoi effetti, Mussolini sembrava riprendere alcune delle argomentazioni che Domenico Barone aveva svolte negli anni delle trattative: Io penso, e non sembri assurdo, che solo in regime di Concordato si realizza la logica, normale, benefica separazione fra Stato e Chiesa, la distinzione, cioè, fra i compiti, le attribuzioni dell'uno e dell'altra. Ognuno coi suoi diritti, coi suoi do­ veri, con la sua podestà, coi suoi confini. Solo con queste premesse vi si può - in tal uni campi - praticare una collaborazione da sovranità a sovranità. Parlare di vincitori o di vinti è puerile: si parli di assoluta equità dell'accordo, che sana reci­ procamente de jure una oramai definitiva, ma sempre pericolosa e comunque pe­ nosa situazione di fatto.

Lo Stato italiano non aveva fatto all a Chiesa alcuna concessione che menomasse, anche in piccola parte, quelli che sono i caratteri spe­ cifici e permanenti della propria sovranità. Quella della Santa Sede «esisteva nel fatto» già prima e ora veniva semplicemente riconosciuta, mediante la «quasi irrilevante esiguità del territorio richiesto» e con­ cesso. La posizione «preminente» che veniva assicurata alla Chiesa «nella vita religiosa del popolo italiano» doveva essere riguardata come un fatto «perfettamente naturale» in un popolo cattolico e in un regime qual era quello fascista. Ma assai importante era la puntualiz­ zazione successiva: Questo non significa, è quasi superfluo il dirlo, che gli altri culti, sin qui tolle­ rati, debbano essere, d'ora innanzi, perseguitati, soppressi o anche semplicemente vessati. Stato cattolico non significa che si debba fare ai cittadini obbligo o pres­ sione alcuna di seguire una determinata fede, anche se sia quella della maggio­ ranza29.

Nello stesso giorno, il presidente dell'Azione Cattolica italiana, Luigi Colombo, teneva un discorso a Milano, in cui cercò di precisare il significato del voto affermativo che la sua organizzazione si appre­ stava a dare nelle elezioni del 24 marzo: Significherà approvazione a quanto l'on. Mussolini sottoscrisse, in forza delle regie credenziali: significherà riconoscenza verso il Capo dello Stato e il suo Go29 B. Mussolini, Opera omnia, XXIV, pp. 13-14. L'«Osservatore romano» dell' I l marzo defmiva le dichiarazioni di Mussolini «obbiettive ed esaurienti» (M. Missiroli, Date a Cesare, cit., p. 52). «Mussolini s'affirme de plus en plus; son dernier discours est très beau et, par l'ampleur des vues, se rapproche de ceux du pape», annotava 1'1 1 marzo moos. Baudrillart (Les carnets du cardinal Baudrillart (26 décembre 1928·12 [évrier 1932), cit., p. 154).

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CAPITOLO QUARTO

vemo; mandato impegnativo al Parlamento per la ratifica: mandato altresì di ap­ provare tutte le leggi che Saranno necessarie per l'integrale e volenterosa applica­ zione del Concordato.

Naturalmente l'Azione Cattolica restava «in pieno, inconfondibile con altre istituzioni ad adempiere al suo mandato», a studiare i pro­ blemi, le situazioni, «a indicare le sue direttive, a promuovere e diffon­ dere le sue iniziative». Nel discorso di Colombo si prefigurava, dun­ que, un'adesione non assoluta, ma relativa ad alcune scelte politiche compiute dal regime (la conclusione dei patti del Laterano) e tesa a condizionare la fase ulteriore, quella della ratifica e dell'attuazione le­ gislativa; e si proponeva una collaborazione «per il bene nella pubblica attività», senza accettare alcuna subordinazione. Anche perché se era vero che, «quali cittadini, i cattolici agiscono autonomi e sotto la loro responsabilità», non potevano tuttavia muoversi «con assoluta libertà, perché essi tutti sono vincolati a far trionfare nel Paese gli insegna­ menti della Chiesa»30• Ciò nonostante la presa di posizione del presidente suscitò non po­ che perplessità negli organi direttivi della sua organizzazione. Ne era pienamente informato uno di quegli «iniziati» (uso la parola di Sturzo), che seguivano con attenzione la situazione e riuscivano ad ottenere in­ discrezioni significative. Mi riferisco a De Gasperi, che, il 15 marzo, ne scriveva all'amico don Giulio Delugan: Il discorso di Colombo, pur autorizzato, è tale documento di dabbenaggine e di ottimismo infantile che non poteva non allarmare. Si aggiunga che la giunta centrale doveva ierlaltro emanare un comunicato con un formale invito elettorale, nonostante le obiezioni in essa sollevate, di carattere contingente e sostanziale. [. . . ] Nella seduta della Giunta si è voluto che si mettesse bene in rilievo che si eccitava a votare per ragioni religiose. Ma il voto non si può disgiungere ed è un atto po­ litico complessivo, che riguarda tutto lo stato e tutta una linea. La seduta è finita col dare incarico a tre di formulare l'ordine del giorno: ma non è stato ancora pubblicato. Verrà forse questa sera o domani? Non lo posso sapere. Certo è che se sarà un voto motivato, che distingue e dirime non piacerà, ed è ovvio, al go· verno; se sarà un voto puro e semplice, sarà comprensivo e totalitario, per forza di cose. Riconosco che il governo, dal suo punto di vista, ha diritto di esigere che non si usi la bilancia dello speziale. li 17 marzo, l' «Osservatore romano» pubblicava l'atteso comu­ nicato, che, «aderendo pienamente alle chiare e precise direttive» del presidente Colombo, richiamava «ai cattolici italiani il dovere di con­ correre col loro voto alla formazione della nuova Assemblea legisla­ tiva, destinata a sancire e ad attuare le importantissime Convenzioni '0 M. Missiroli, Date a Cesare, cit., pp. 1 14-1 15. TI discorso di Colombo era ripor­ tato dall' «Osservatore romano» del 13 marzo.

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del Laterano, convinta che il perfetto adempimento di esse sarà uno dei contributi più necessari e più efficaci per l'auspicata prosperità e grandezza della Nazione»31• In un'occasione tanto significativa, i diri­ genti dell'Azione Cattolica abbandonavano le tradizionali riserve di ap oliticità (come non avevano mai fatto nei confronti del Partito po­ polare), esprimendo, tuttavia, non un'adesione incondizionata, ma un voto - avrebbe detto De Gasperi - «motivato», strettamente legato, cioè, alla sanzione e all'attuazione dei patti del Laterano. Lo ribadiva ancora più chiaramente il p. Enrico Rosa in due articoli pubblicati, a ridosso delle elezioni, sull'«Avvenire d'Italia»: mentre il regime chie­ deva agli elettori un giudizio sui sette anni di governo fascista, l'atten­ zione dei cattolici si concentrava sulla politica concordataria. Era in vi­ sta della sua realizzazione che essi andavano alle urne: Che se questa Conciliazione è di tanta importanza nella sua prima formu­ lazione, e più ancora sarà nella susseguente ratifica, non ha ancora e non potrà avere né mostrare la sua suprema e definitiva utilità ed efficacia se non nella pra­ tica applicazione, ossia nella sanzione tÙtima della attuazione, la quale dipenderà in gran parte dalla direzione e guida, che verrà impressa alla cosa pubblica in Ita­ lia dalla futura assemblea legislatrice.

Tale voto non aveva tanto un significato politico, ma piuttosto mo­ rale e religioso: Giova ripetere che il nostro voto è un atto più che politico, morale e reli­ gioso: e ciò per il suo v� ore e significato profondo impressi dalle circostanze so­ lenni dell'ora presente. E il voto dei migliori cittadini, che, pur cooperando con tutte le loro forze al bene comune, si mantengono costantemente nel loro movi­ mento collettivo, in quanto diretto a pure finalità religiose, al di fuori e al di sopra di tutti i partiti. Come cittadini, come singoli essi sono liberi e possono eleggere quelle forme politiche, che possono apparire a ciascuno come le migliori. Come appartenenti a una unità associativa, essi si orientano solo in vista di un obiettivo strettamente morale e religioso32•

Come De Gasperi aveva ben previsto, questa impostazione non piacque al governo: il 23 marzo, alla vigilia della domenica elettorale, 31 Il comunicato è ora in P. Scoppola, Chiesa e Stato, cit., pp. 623-624. 32 E. Rosa, Dichiarazione di voto, in «L'Avvenire d'Italia», 23 marzo 1929; Id., Il nostro voto, ibid., 24 marzo 1929 (lungamente citati in M. Missiroli, Date a Cerare, cit., pp. 1 16- 1 19). Secondo un'indiscrezione raccolta da De Gasperi a un mese dalle elezio­ ni, «in un'altra lunga udienza con un altro nostro amico il Papa esprimeva le meravi­ glie che l'ordine dell'Azione cattolica si potesse da taluno interpretare come adesione in blocco al fascismo - "dopo quello che abbiamo detto nei nostri discorsi anche du­ rante le trattative" . [ . . ] Nel colloquio il Papa disse che aveva fatto benissimo Mons. Cazzani di Cremona il quale aveva raccomandato di votare, escludendo però che il voto potesse abbracciare tutto il fascismo» (a don Simone Weber, 22 aprile 1 929, in A. De Gasperi, Lettere sul Concordato, cit., pp. 98-99). .

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Mussolini rivolgeva un messaggio alle «camicie nere» in occasione del decimo anniversario della fondazione del Fasci di combattimento, in cui rispondeva sdegnosamente (senza tuttavia indicarlo esplicitamente) al manifesto dell'Azione Cattolica: li Fascismo, fiero di quanto ha compiuto, non intende sollecitare voti con lu­ singatrici promesse, sebbene respingerli. Respingiamo nettissirnamente i voti dati con restrizioni mentali, i voti di coloro che pretenderebbero sezionare la Rivolu­ zione nelle epoche, negli eventi o nelle leggi. Nessuno si illuda di porre, con un mucchio di schede, eventuali effimere ipoteche sullo sviluppo futuro del Regime, che sarà domani più totalitario di ieriD.

Questo messaggio provocò - sembra - qualche astensione nelle file dell'AC., ma la stragrande maggioranza dei militanti andò disciplinata­ mente al voto e contribuì al grande successo che, indubbiamente, arrise al regime in quell'occasione34• Da qualche indiscrezione, risulta tuttavia che il papa cominciasse ad avvertire la problematicità della nuova si­ tuazione: ricevendo Stefano }acini jr., si mostrò dubbioso sulla natura e sull'evoluzione del fascismo («A proposito del fascismo ricordò quello che il Manzoni dice del crepuscolo: luce ancora incerta e imprecisa, a JJ B. Mussolini, Opera omnia, XXIV, pp. 373-374. A De Gasperi non sfuggì il sen­ so di questo intervento: «Molti patemi d'animo nella settimana di Passione. Tuttavia gli ex capi e sotto capi [del Partito popolare] . con qualche eccezione, fecero il loro dove­ re [cioè si astennero, n.d.a. ] . I direttori dell'Azione Cattolica e i preti seguirono per di­ sciplina la parola d'ordine. Biasimevoli solo coloro che ne profittarono per vigliacche­ ria. L'ultimo sdegnoso manifesto del Capo fu provocato da quell'articolo: "Sì, perché" (litania elettorale) di Verzichi; ma corrispondeva del resto alla situazione, provocando qualche astensione» (a don Giulio Delugan, 28 marzo 1929, in A. De Gasperi, Lettere sul Concordato, cit., p. 92). ll curatore G. Martina non sa identificare quel Verzichi (ma non sarà invece p. Enrico?): comunque esso presentava argomenti analoghi a quelli del p. Rosa. 34 R. De Felice, Mussolini il fascista, Il. I.:organizzazione dello Stato fascista 19251929, cit., pp. 437-447, specie pp. 445-446. La reazione di Mussolini non provocò mutamenti negli atteggiamenti ufficiali dell'Azione Cattolica. In un art. anonimo La nostra collaborazione, in «Bollettino ufficiale dell'Azione Cattolica italiana» ( l apri­ le 1929), poi nel «Corriere d'Italia>>, 5 aprile 1929 (largamente citato in M. Missiroli, Date a Cesare, cit., pp. 120- 1 2 1 ) si ribadiva: «Teniamo ben presente la natura e la fi­ nalità dell'Azione cattolica. Essa è opera ausiliaria della Chiesa; è uno strumento nelle mani della Gerarchia ecclesiastica, per scopi di apostolato religioso, ossia per portare, in ogni angolo e in ogni strato della società, i benefici della nostra divina Religione. La sua collaborazione alla vita dello Stato rimane dunque nel quadro e nell'ambito della collaborazione della Chiesa medesima. Collaborazione, e non confusione, ha detto il Capo del Governo. Collaborazione, e quindi distinzione, non solo dallo Stato - il che è troppo evidente - ma anche dalle forze che operano nello Stato e per lo Stato, su un terreno prettamente politico [ ... ] Resta inteso che la sua collaborazione, quale che pos­ sa essere, non avrà mai carattere né scopi politici, come quelli di un partito qualsiasi, e quindi non potrà mai valicare i limiti imposti dalla sua stessa natura di coadiutrice della Gerarchia ecclesiastica>>.

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cui non si sa in un certo momento che cosa segue. Ma concluse che egli, pensoso dell'avvenire religioso del popolo italiano, doveva fare. L'avvenire è in mano di Dio. Ora incomincia, ora bisogna p regare!») e diede p rova, al suo interlocutore, di «una profonda p reoccupazione per gl'interessi religiosi e una certa perplessità»35. A renderlo perplesso contribuiva anche un'altra decisione del go­ verno fascista: il 13 marzo, quindi dieci giorni p rima del voto, il con­ siglio dei ministri aveva varato il disegno di legge per la Esecuzione del Trattato, dei quattro allegati annessi e del Concordato, sottoscritti in Roma, tra la Santa Sede e l'Italia, l'l l febbraio 1929: il che significava rendere finalmente pubblici i testi sottoscritti 1' 1 1 febbraio, su cui fino ad allora erano circolate solo indiscrezioni, ma anche contravvenire a un preciso impegno preso dalle parti pochi giorni prima della firma36• Molto significativa - in quel periodo elettorale e dopo il discorso di Colombo - era anche la relazione che accompagnava il testo legislativo: firmata da Mussolini e da Rocco, sembra che essa sia stata redatta so­ stanzialmente da quest'ultimo, ma riprendeva, quasi alla lettera, i temi che già erano circolati nei precedenti interventi di Gentile, Volpe e del «duce». La relazione ricordava che «il Concordato dell'1 1 febbraio instaura un regime di concordia e di collaborazione, non già di confusione fra lo Stato e la Chiesa. La concordia e la collaborazione presuppongono la distinzione tra due p oteri, l'uno dominante nel campo della co­ scienza religiosa, l'altro nel campo civile e politico» e rispondeva spa­ valdamente alle critiche degli «improvvisati e non sinceri zelatori dello Stato sovrano, ma anticlericale»: Non temano [. . . ] che col Concordato lo Stato italiano, che non si deve di­ menticare, è Stato fascista, abbia abbandonato parte alcuna della sua sovranità. Non temano neppure che il Concordato stia per risuscitare in Italia il Medio Evo e tutte le vecchie situazioni che i tempi moderni avevano oramai eliminato. Non si risuscita né il foro ecclesiastico privilegiato, né il diritto di asilo, né si ricostitui­ sce la manomorta. Non si sopprime la libertà di coscienza e di culto. Nessuno ha chiesto di risuscitare le vecchie cose oramai tramontate, di far rivivere istituzioni di

35 A. De Gasperi a don Giulio Delugan, 28 marzo 1929, in A. De Gasperi, Lettere

F. Fonzi, cit. alla nota 104 del cap. III. 36 ll 7 febbraio, Pacelli annotava di essersi accordato con Mussolini di pubblicare «uno o due giorni dopo» la firma, «non i testi (poiché la S. Sede ha sempre tenu­ to riservare i testi fino alla ratifica) ma un accenno ai punti più salienti del trattato e dd concordato» (F. Pacelli, Diario della Conàliazione, cit., p. 123 ). All'indomani della firma, infatti, l'Agenzia Stefani compendiò i termini dell'accordo in un comunicato ri­ ponatato anche in «La Civiltà cattolica», quad. 1 889, 23 febbraio 1929, pp. 458-462. Mentre la stampa italiana rese pubblici i testi il 15 marzo, > che - come vedremo - spinsero Pio XI alle solenni dichiarazioni sui rapporti fra Trattato e Concordato di qualche giorno dopo. li vecchio nazionalista, in effetti, fotografava una situazione reale: di fronte a una volontà unilaterale di modifica o di denunzia da parte dello Stato ita­ liano, ma anche a una qualche forzatura da parte sua, la Santa Sede avrebbe disposto di poche risposte efficaci. Questo timore percorse la politica vaticana del ventennio successivo, per tutta la durata del fasci­ smo ma anche nella fase di transizione verso la democrazia: solo l'art. 7 della Costituzione repubblicana l'avrebbe in qualche modo esorcizzato. Assai più elevata e animata fu la discussione del giorno successivo, 24 maggio79• All'inizio di questo lavoro si è sottolineato come i suoi protagonisti si presentassero consapevolmente come esponenti di tra­ dizioni politiche, culturali e religiose diverse, che giungevano allora a un confronto serrato di fronte a quel tornante della vita nazionale. n discorso di Crispolti - anche a questo s'è accennato - era stato consa­ pevolmente approntato per consentire a Mussolini di ridimensionare o 78 AP, Senato del Regno, Legislatura XXVIII, Discussioni, 23 maggio 1929, pp. 1 69-175. ll giudizio del papa sulle dichiarazioni di Bevione è in F. Pacelli, Diario della Conciliazione, cit., p. 152, sub 6 giugno. 79 La mattina di quel 24 maggio, Roma era stata invasa da oltre 15 mila goliardi fa­

scisti provenienti da tutti gli atenei italiani per celebrare il quattordicesimo anniversario dell'intervento. Si era trattato della prima imponente manifestazione di rilancio dei Guf dopo la crisi attraversata negli anni precedenti: culminò in un'adunata allo Stadio nazio­ nale, in cui parlò anche il «duce)) (fu il celebre discorso del «libro e moschetto))): per tutto questo cfr. ora L. La Rovere, Storia dei Guf Organizzazione, politica e miti della gioventù universitaria fascista 1 919-1943, Torino, Bollati Boringhieri, 2003 , pp. 129-130, che sottolinea giustamente il significato politico di quella manifestazione, «un'esibizione di forza voluta da Mussolini all'indomani della Conciliazione per affermare la volontà del fascismo di inquadrare totalitariamente e militarmente la gioventù)).

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recisare alcune delle sue affermazioni contenute nell'intervento del 13 aggio. Come avrebbe osservato argutamente Girolamo Vitelli nell'ul­ timo intervento della giornata, il senatore cattolico cercò di raggiungere questo scopo apponendo delle «glosse» interpretative alle parole del «du ce», offendo, cioè, una formulazione su cui le due parti potessero trovarsi d'accordo. Così sulla delicata questione del rapporto fra catto­ licesimo e impero romano:



Benito Mussolini fece qualche cosa di più: preparò l'ambiente di fiducia che riuscito ad altri, anche grandi ministri, quando, spontaneamente, sincera­ non senza «do ut des» prese a moltiplicare dimostrazioni d'ossequio a quella religione nostra che, nata in Palestina con subito tutti gli attributi divini della cri­ stianità, della cattolicità, dell'immortalità, e venuta provvidenzialmente a Roma, e maggiori ost tà di c�i fa fede il copiosissimo sangue sepp e anc e, in mezzo martin, seppe valersi talmente delle vie che l Impero aveva aperte sul mondo, poter dare la prova palpabile della effettuazione di quella universalità che era insita in essa. E il Duce, nell'entusiasmo di questo spettacolo della predestinazione Roma corse fino a pensare che altre strade in altri luoghi la Prowidenza non potuto trovare, e che quindi Roma avesse aggiunto qualche cosa alla na­ tura della Chiesa, mentre le aveva aggiunto soltanto la visibile esplicazione di essa.

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Dell'Azione Cattolica Crispolti ribadiva il carattere apolitico, ma sembrava dare per scontato che i cattolici avessero il diritto di asso­ ciarsi e operare collettivamente («i cattolici, come cittadini singoli, possono tenere in politica ogni atteggiamento che la legge permette, i cattolici stessi quando si associno ed operino collettivamente come tali, non potranno mai, per scopi politici, innalzare una bandiera catto­ lica»). Infine sul problema dell'educazione della gioventù, ricordava al regime «che la reclamava a sé intensamente» l'obbligo della coerenza: col Concordato, infatti, l'aveva «incoronata di cattolicità» e da questa solenne affermazione derivavano degli «obblighi» ben precisi. D'al­ tronde non c'era da temere sulla qualità e i risultati di un'educazione cattolica: essa, infatti, «permette lo sviluppo di ogni virilità d'animo e di tempra che possano giovare all ' avvenire della Patria, essa è la vera depositaria del segreto di compiere quella formazione dello spirito in­ timo, senza il quale anche queste virilità sono forza caduca». L'intervento di Crispolti resta interessante anche per un altro ri­ spetto, come sintomo di un atteggiamento verso il fascismo, che fu diffuso in non pochi ambienti cattolici: il vecchio senatore confessava tranquillamente di non essere molto turbato dalla proclamata volontà totalitaria del regime, «dal concetto, così fortemente inciso dal Capo del Governo, secondo il quale lo Stato Fascista ha la sua autonomia morale e prende dalla sua missione etica la propria maggiore dignità». Gli sembravano solo parole, mentre «quando parlo di fascismo, mi ri­ ferisco quasi sempre agli atti che sono ormai tanti e maturi e armonici; e mi riferisco assai meno alla sua dottrina, perché questa mi sembra 209

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ancora in formazione; ad ogni modo io credo sempre che gli atti chia. riscano ciò che le definizioni talvolta possono oscurare». Più che alle enunciazioni di principio, era alla politica concreta del fascismo che i cattolici dovevano guardare e su questo terreno era assai più facile tro. vare una collaborazione e un'intesa80• Quello di Scialoja fu, essenzialmente, un voto di disciplina (era iscritto all'UNFS dal novembre 1925, ma non chiese mai la tessera dei PNF): lo fece capire abbastanza chiaramente in vari passi del suo inter­ vento, provocando anche una nervosa interruzione di Mussolini. Molti (fra cui il «duce») avevano affermato che il Trattato non aveva fatto altro che sancire giuridicamente una situazione di fatto: ma allora era proprio necessario? «Potrebbe persino pensarsi (dichiaro subito che io non lo penso, ma lo dico soltanto per ipotesi) che [il papa] avrebbe potuto anche fare a meno di consacrare per diritto ciò che aveva già di fatto. Ciò, notate bene, egli aveva di fatto senza alcuna controversia ormai, né nostra, né straniera. [ .. . ] . Tutti avevano finito per adattarsi a questa situazione, anche gli stranieri». Problemi più seri presentava il Concordato, tanto che «se non dovesse considerarsi in blocco tutto il complesso delle proposte di cui oggi ragioniamo, sarebbe certamente lecito discutere questo Concordato con il Papa ridiventato Re più sim­ bolicamente che realmente, ma visibilmente, perché questa fu l'aspira­ zione dell'attuale Papa, più volte da lui ripetuta». In quel testo erano presenti «parti buone e [altre] meno buone» (Scialoja accennava al ma­ trimonio) , ma esso non era che «un principio, dal quale ci allontane­ remo ben presto»: il problema vero e importante era «l'interpretazione e l'applicazione, non la parola» della legge. Era su questo terreno che il grande romanista attendeva alla prova il governo. «Non che io, - ag­ giungeva - se avesse avuto luogo una discussione articolo per articolo, non l'avrei trovata opportuna; forse non avrei parlato, [. . . ] , ma forse avrei mormorato, per quel ius murmurandi, del quale anche il Capo del Governo fece cenno . . . ». Ma «al punto in cui siamo - concludeva - io ritengo che si debba parlare e votare così come se per le nostre parole e per il nostro voto si decidesse la questione. Questo ci obbliga a non esaminare tutti i singoli punti nei quali ciascuno di noi può avere qual­ che opinione diversa» e ad associarsi al voto «quasi unanime o una· nime addirittura che vi sarà»81 . •

80 AP, Senato del Regno, Legislatura XXVIII, Discussioni, 24 maggio 1929, pp. 1 83 - 1 88, 186 (Crispolti). Crispolti si era iscritto al PNF solo dopo la firma dei patti lateranensi (27 aprile 1 929), anche se poi l'iscrizione era stata retrodatata al l o gennaio 1926 «ad honorem per il complesso della sua attività politica»; 1' 1 1 giugno 1929 sareh· be poi entrato nell'UNFS. 81 AP, Senato del Regno, Legislatura XXVIII, Discussioni, 24 maggio 1929, pp. 1 88- 1 9 1 (Scialoja).

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La possibilità di una conclusione unanime svanì subito dopo, con l'in tervento di Benedetto Croce, che annunziò il proprio voto con­ o�e�hi: non si t �attava infatti di una trari o e que�l>; aggiunse che «la ragione che ci vieta di approvare questo disegno di legge non è, dunque, nell'idea della conciliazione, ma unicamente nel modo in cui è stata attuata, nelle particolari convenzioni che l'hanno accompagnata, e che formano parte del disegno di legge». n filosofo non specificava però come altrimenti si sarebbe potuta concludere una «conciliazione» senza quei trattati o se qualcuna di quelle «partico­ lari convenzioni» fosse da giudicarsi positivamente. Nella Storia d'Ita­ lia lo si è già rilevato - aveva giudicato «altrettanto poco decorosa per il Papa quanto per l'Italia [. . . ] un'idea [di] conciliazione, fondata su pezzetti di territori da ritagliare per forgiare al Papa un giocattolo di Stato temporale»: ma ora - di fronte al fatto compiuto è proba­ bile che il Trattato gli paresse accettabile, mentre le sue insuperabili ri­ serve riguardavano il Concordato, non solo nei suoi contenuti specifici, ma per la sua stessa natura giuridica. Al di là di questa concessione «conciliatoristica», l'argomento forte del discorso crociano era un altro e si rianno dava all'esaltazione dell'Italia liberale compiuta nell'opera storica dell'anno precedente: no­ nostante le proteste e le recriminazioni della Chiesa, da lui giudicate -

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no non sono state sufficientemente lumeggiate dalla storiografia, ma sono testimoniate polemicamente da alcuni contemporanei. Adolfo Omodeo, allora stretto collaboratore del filosofo, avrebbe ricordato come Croce mise in atto «la decisione di votar contro i trattati lateranensi in Senato [ . . . ] contro l'esitanza di taluni suoi amici che si tiravano indietro, dicendo che la conciliazione era la festa delle loro donne a cui non volevano togliere tale consolazione, o che nel momento decisivo si assentarono da Palazzo Ma­ dama» (A. Omodeo, La collaborazione con Croce durante il ventennio (1946), in Id., Libertà e storia. Scritti e discorsi politici, Torino, Einaudi, 1960, pp. 489-499, 496). Nel 1966 Guido Calogero sottolineava una qualche incoerenza nel discorso crociano sui patti lateranensi rispetto a un'impostazione rigorosamente laica e la considerava come una concessione «ai suoi amici cattolico-crociarli>>, così come anche era solito «espri­ mere attraverso metafore teologiche la sua concezione della razionale provvidenzialità delle cose, o a scrivere, più tardi, il saggio sui motivi per cui "non poteva non dirsi cristiano"» (G. Calogero, Mussolinz; la Conciliazione e il Congresso filosofico del 1929, cit., pp. 445-446). Questi due esponenti del più intransigente pensiero laico (entrambi, non a caso, di origine gentiliana) evitavano di investigare le ragioni dell'intimità morale e ideale di Croce (che, da un punto di vista strettamente teoretico, negava la possi­ bilità di un qualsiasi «cattolicesimo liberale») con numerosi cattolici liberali. Intimità ammessa peraltro dallo stesso filosofo, che nel 1 945 dichiarava: «lo conosco e stimo e amo e considero amici e fratelli molti cattolici, schiettamente liberali; né ciò solo nei nobili ricordi della storia del Risorgimento, ma nel presente», e qui portava l'esempio di Maria Cittadella (B. Croce, Scritti e discorsi politici (1943-1947), l, cit., p. 198). Ho cercato di affrontare questo problema in R. Pertici, Benedetto Croce, in «Nuova infor· mazione bibliografica», I (2004), pp. 453-502, 461 -496.

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r un a specie di atto dovuto da p a te dei diversi pontefici, nel corso del r raggiunto in It�a un «equilibrio» �ra il io liberale si � � cin quante�n quello religtoso, che ora vemva dolorosamente mter­ e civile potere lateranensi non erano, dunque, in continuità - come si patti rotto. I continuamente negli ultimi mesi - con la tradizione del to era ripetu e dell'Italia unita, ma ne costituivano una netta rottura; ento Risorgim filosofo diceva di non paventare un rigurgito di oscuranti­ il tuttavia moderno, «adulto e robusto», sarebbe é il pensiero stato smo, perch agli «assalti o velleità di assalti» del «clericalismo». opporsi capace di Ciò che temeva era semmai una ripresa di conflittualità, perché non era convinto - come avevano affermato con motivazioni le più diverse gli oratori precedenti - che la pace sarebbe durata: «Ma, certo, rico­ minceranno spasimanti e sterili lotte su fatti irrevocabili, e pressioni e minacce e paure, e i veleni versati nelle anime dalle pressioni, dalle mi­ nacce e dalle paure». Croce sembrava ammettere che i disegni di legge applicativi del Concordato potevano risultare utili - come affermavano i loro soste­ nitori - a «infrenare gli eccessi del clericalismo» e p reannunziava un possibile voto favorevole a quelle disposizioni «che varranno a diminu­ irne i pericoli»: ma perché prima allargare per poi frenare? Perché prima errare per poi correg­ gere? [ .. .] D'altronde, la necessità stessa di modificare o meglio determinare o di­ versamente interpretare le disposizioni di esso, comprova appunto che l'equilibrio è stato rotto, e che ricominciano i contrasti che i cosiddetti concordati si tirano dietro e pei quali già i vecchi giuristi napoletani del settecento, cattolici ma devoti allo Stato, ne deprecavano i negoziati e la conclusione.

Nonostante tutte queste obiezioni, molti restavano favorevoli al Concordato, - constatava il filosofo - giudicandolo «un tratto di fine arte politica, da giudicare, non secondo ingenue idealità etiche, ma come politica, giusta l'altro trito detto che Parigi val bene una messa». Croce - nella celebre chiusa del suo intervento - diceva di sentirsi di un'altra razza, di quelli «pei quali l'ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente più di Parigi, perché è affare di coscienza»84• 84 AP, Senato del Regno, Legislatura XXVIII, Discussioni, 24 maggio 1929, pp. 191- 193 (Croce), poi più volte ristampato: nel presente volume, pp. 665-668. Nelle pa­ gine del diario di mons. Cerretti sul suo incontro parigino del l o giugno 1 9 1 9 con Or­ lando, il presidente del consiglio italiano così esclamava a proposito delle prevedibili opposizioni di Sonnino e di Berenini al progetto di conciliazione: «Se però si trattasse di vin cere e di eliminare la loro opposizione non esiterei anche di sbarazzarmi di essi. L'affare è troppo importante. Parigi val bene una messa: qui si dovrebbe dire il con­ trario!» (V.E. Orlando, Miei rapporti di governo con la S. Sede, cit., p. 177). Mi sono posto il problema se Croce fosse a conoscenza di queste pagine al momento del suo discorso in Senato e se quindi la sua celebre affermazione conclusiva contenesse anche

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Dopo un intervento tecnico sui problemi della legislazione matri­ moniale del primo presidente della Cassazione, Mariano D'Amelio, la seduta si concluse con un breve discorso del grande filologo Girolamo Vitelli. Egli aveva chiesto di parlare il giorno precedente, dopo avere ascoltate le parole di Santucci sulla legge delle guarentigie: ora chie­ deva a Mussolini l'assicurazione che i professori dell'università italiana continuassero a godere di una «piena e incondizionata libertà d'inse­ gnamento», anche in materia religiosa, e che le norme concordatarie sui sacerdoti irretiti di scomunica non fossero retroattive. Platealmente Mussolini lo interruppe, ribadendo che «non c'è stata mai questione su ciò» e rimandandolo all'apposito articolo della legge sui culti ammessi. Vitelli ringraziò il capo del governo85• La seduta del 25 maggio fu introdotta da un breve intervento di Boselli, che non mancò di polemizzare con Croce, negando che «la scuola giurisdizionalistica del Giannone», a cui il filosofo si era richia­ mato, potesse avere qualcosa in comune con quella di Cavour e con la legge delle guarentigie. Per il resto fu tutto sulla linea del «duce»86• Infine prese la parola Mussolini: il suo discorso non ebbe il respiro e l'ampiezza di quello del 13 maggio, ma sostanzialmente ne ribadì l'im­ postazione e, sia pure con qualche attenuazione, il tono polemico. Come osservava Francesco Pacelli, che assistette alla seduta dalla tri­ buna del pubblico, l'intervento del capo del governo «riesce ad atte­ nuare alcuni punti dell'altro discorso alla Camera: ma persistendo il suo tono polemico anche nei confronti della S. Sede, ho l'impressione che non possa riuscire di pieno gradimento del S. Padre»87• Nonostante tutte le raccomandazioni del negoziatore pontificio, Mussolini volle an­ cora essere aggressivo, rivendicando l'opportunità delle «punte polemiuna nota polemica contro l'ex presidente del consiglio; ma non sembra che il diario di Cerretti, comparso ai primi di giugno su «Vita e pensiero», sia stato anticipato altrove, né Mussolini, che pure lo aveva ricordato nel suo discorso del 13 maggio, accenna a quella esclamazione. È quindi probabile che si tratti solo di un caso, che tuttavia do­ veva non poco imbarazzare Orlando: cfr. la nota apposta alla ripubblicazione di quelle pagine (ibid., p . 180). 85 AP, Senato del Regno, Legislatura XXVIII, Discussioni, 24 maggio 1 929, pp. 197- 198 (Vitelli). Sulla «impoliticità» di Vitelli, cfr. i ricordi di B. Croce, Ministro col Giolitti ( 1 944), in Id. , Nuove pagine sparse, I, Bari, Laterza, 19662, pp. 63-79, 73-74 e le osservazioni di P. Treves, Lo studio dell'antichità classica nell'Ottocento, cit., pp. 1 122- 1 123. 86 AP, Senato del Regno, Legislatura XXVIII, Discussioni, 25 maggio 1929, pp. 202-203 . «Assistito al discorso del relatore - scriveva Croce nei suoi Taccuini il vec· chio Boselli, decano ecc. del parlamento e del liberalismo, che io ho paragonato a quel­ la marescialla di Mirepoix, che fece da chaperon alla Dubarry nella sua entrata a corte, a Versailles» (B. Croce, Taccuini di lavoro, cit., p. 133 ) . Boselli non era iscritto al PNF, né alla UNFS. 87 F. Pacelli, Diario della Conciliazione, cit., p. 145. -

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che» di cui era costellato il suo discorso alla Camera, che «avevano dei bersagli definiti e sono giunte al segno, perché coloro ai quali erano destinate me ne hanno accusato ricevuta» (e qui sembrava alludere al discorso del papa ai collegiali di Mondragone): Era utile aggiungere che le distanze tra il Regno d'Italia e la Città del Vati­ cano si numerano a migliaia di chilometri come la distanza che separa Parigi dal Vaticano, Madrid dal Vaticano, Varsavia dal Vaticano. Si doveva dissipare l'equi­ voco per cui si poteva pensare che il Trattato del Laterano avrebbe vaticanizzato l'Italia o che il Vaticano sarebbe stato italianizzato; o, per citare una vecchia frase, che il Re sarebbe diventato il chierico del Papa o che il Papa sarebbe diventato il cappellano del Re. Niente di tutto ciò: distinzione precisa. La distanza e la conti­ guità non significano nulla: distanza giuridica e politica.

Anche quando volle raccogliere gli «accenni» presenti nel discorso di Crispolti (che era stato - come s'è visto - costruito ad hoc) , fu t utt'altro che rassicurante. Sul rapporto fra il cristianesimo nascente e Roma , riconobbe «legittime» le «apprensioni» suscitate dalla sua «af­ fermazione storica, fatta nell'altro ramo del Parlamento» e dichiarò di ammettere «il disegno divino in tutto ciò che è accaduto, in tutto quanto si è svolto», ma poi sostanzialmente ribadì la sua «affermazione puramente storicistica e niente affatto religiosa, che il cristianesimo ha trovato l'ambiente più favorevole a Roma». A sostegno delle sue tesi, invocava l'autorità di due storici ecclesiastici, come Pierre Batiffol e Louis Duchesne, ignorando (o, più probabilmente, fingendo d'igno­ rare) che entrambi erano stati in sospetto di modernismo e che il libro di Duschesne a cui si rifaceva, era stato addirittura messo all'Indice nel 1912: il sapore sottilmente provocatorio di questo richiamo si comple­ tava con il lamento sulla scarsa fecondità culturale del cattolicesimo italiano, «da qualche tempo» (aggiungeva) , cioè, pareva sottintendere, dalla repressione antimodernistica88• 88 Come s'è già accennato, è qualcosa di più di un'ipotesi che queste parti siano dovute ad appunti di Buonaiuti, che infatti commentò entusiasticamente anche questo passaggio: «Gli ultimissimi anni del pontificato di Leone XIII avevano visto formar­ si un giovane clero appassionato per le prove moderne della cultura e avido di liberi studi. Le scienze storiche in particolare si accingevano a tesaurizzare questi entusiasmi e a trasformarli in opere di indagine erudita e di divulgazione sagace, che avrebbe­ ro potuto portare, in breve volgere di anni, la produzione cattolica italiana al livello di quelle straniere. La repressione antirnodernista disperse anzi tempo questa fioritura promettente. Tutta una giovane generazione di ecclesiastici studiosi, che si apprestava a segnare la sua orma sul terreno delle indagini religiose, fu divelta dalla sua strada e fuorviata dalla sua vocazione. L'assoluta libertà di discussione, perentoriamente assicu­ rata dal Duce alle discussioni in questo campo, permetterà una tale elaborazione di in­ dagini e di criteri, che darà un giorno, alla cultura nazionale, un vero primato anche in queste ricerche religiose, che a doppio titolo debbono essere nostre: perché esplorano e scoprono l'anima della nostra anima storica e perché aprono il varco a quelle nuove

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Anche sul problema dell'educazione concedeva poco e qui pure non evitava una marcata ironia verso il papa: Ma v'è un lato della educazione nel quale non siamo, se non si vuoi dire in­ trattabili, intransigenti (Si ride). Intanto scendiamo dalle zone dell'Accademia e ve­ diamo la realtà della vita. Dire che l'istruzione spetta alla famiglia è dire cosa al di fuori della realtà contemporanea. La famiglia moderna, assillata dalle necessità di ordine economico, vessata quotidianamente dalla lotta per la vita, non può istru­ ire nessuno. Solo lo Stato, con i suoi mezzi di ogni specie, può assolvere questo compito. Aggiungo che solo lo Stato può anche impartire la necessaria istruzion e religiosa, integrandola con il complesso delle altre discipline. Quale è allora l'edu ­ cazione che noi rivendichiamo in maniera totalitaria? L'educazione del cittadino. Giustamente ha osservato l'on. Bevione che vi si potrebbe rinunziare se uguale ri­ nuncia facessero tutti gli altri. Se il mondo contemporaneo non fosse quel mondo di lupi feroci che conosciamo, tali anche se per awentura portano il cilindro e la necroforica redingote, noi potremmo allora rinunciare a questa nostra educazione, alla quale daremo finalmente un nome, poiché le ipocrisie ci ripugnano: educa­ zione guerriera.

Mussolini passava poi ad affrontare il problema dell'insegnamento religioso nelle scuole medie e della sua compatibilità con quello della filosofia, sollevato - come abbiamo ricordato a suo tempo - dal sen. Credaro: anche su tale questione era rassicurante e citava ampia­ mente - senza indicarne l'autore - una relazione che sarebbe stata presentata nei giorni successivi al VII Congresso nazionale di filosofia. Ne era autore il giovane Augusto Guzzo, filosofo cattolico, ma vicino anche agli ambienti gentiliani, che insisteva sul fatto che gli ambienti culturali cattolici (anche quelli dell'Università del Sacro Cuore) ormai si dedicassero con impegno allo studio della filosofia «moderna» e non la considerassero più «la patologia della ragione umana»89• affermazioni dell'universalismo cristiano, che non possono non essere il retaggio della medesima civiltà mediterranea, nel cui grembo inizialmente germinarono» (E. Buona· iuti, Gli studi religiosi in Italia, cit.). Per ribadire la maggiore ricchezza culturale del cattolicesimo francese rispetto all'italiano, il «duce» ricordava la recente traduzione di Primauté du spirituel, il celebre libro di Maritain: G. Maritain, Primato dello spirituale, traduzione di G. Dore, Roma, Edizioni «La Cardinal Ferrari», s.d. Si trattava di una traduzione non integrale e neppure autorizzata, che suscitò le proteste dell'autore: cfr. G. Campanini, Una piccola «querelle»: la traduzione italiana di «Primauté du spirituel», in «Notes et documents», VI (1980), n. 18, pp. 17-20. 89 Fu proprio sulla «conciliante» relazione di Guzzo, che si accese la discussio· ne più drammatica del congresso, che vide fronteggiarsi Agostino Gemelli e Giovanni Gentile. li rettore dell'Università Cattolica di Milano dichiarò «offensive» le parole di Mussolini: «li Capo del Governo, nel suo recente discorso al Senato, ha affermato che anche alla Università Cattolica, ucosì cara alla Suprema Gerarchia Ecclesiastica" , si leg­ gono Kant, Hegel, ecc. e si mette d'accordo Kant con S. Tommaso. lnnanzitutto noi non mettiamo d'accordo Kant con S. Tommaso, ma studiamo l'uno e l'altro, perché è nostro dovere; ma poi io debbo respingere queste parole, in quanto suonano lode, perché queste parole del Capo del Governo sono un'offesa... (Voci confuse; tumulto. . . );

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Risp ondendo a Scialoja, il «duce» cercò di esprimere un giudizio definitivo sulla legge delle guarentigie, oggetto - come s'è visto - di valutazioni contrastanti da parte degli intervenuti nel dibattito: essa «OOO merita né la polvere né gli altari», ma era frutto di un'illusione fo rmalistica il ritenere che fosse quella legge a determinare lo stato di equilibrio fra il potere ecclesiastico e quello civile, di cui aveva parlato anche Croce: «Non la legge delle guarentigie in sé e per sé, ma piut­ tosto la politica spesso accomodante delle due parti, fece sì che, mal­ grado la legge, non si avessero delle crisi temibili e pericolose»: ancora una volta il «duce» faceva intendere che più che il testo dei trattati, quello che contava era il modo in cui la politica sapeva gestirne, negli anni , l'esecuzione. Infine - e fu la parte più sferzante del suo discorso - Mussolini rispose all'unica voce di opposizione, quella di Croce. La sua replica rivela un'indubbia abilità nel saper cogliere il punto scoperto del ra­ gionamento del filosofo90, il giudizio positivo sulla conciliazione e, al tempo stesso, l'opposizione al modo in cui essa era stata realizzata: (ristabilito un relativo silenzio riprende): Debbo una spiegazione: io intendo dire che le parole del Capo del Governo sono una offesa per la purezza della fede religiosa della Università Cattolica, assai gelosa su questo punto e, anche per ciò, cara alla Suprema Gerarchia Ecclesiastica, perche sarebbe strano che una Università Catto­ lica facesse professione di idealismo e di kantismo; essa mancherebbe al suo fine» (Atti del VII Congre55o Nazionale di filosofia, Roma, 26-29 maggio 1929- VII, Milano-Roma, Bestetti & Tununinelli, s.d., p. 385). Quel congresso resta un vero e proprio «luogo della memoria>> della cultura laica italiana del Novecento, da M. Missiroli, Date a Cesa­ re, cit., pp. 33 1 -361, a G. Verucci, Idealisti all'Indice. Croce, Gentile e la condanna del Sant'Uf!izio, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 80-94, ma è da leggere anche la trattazione che ne offre M. Bocci, Agostino Gemelli rettore e francescano. Chiesa, regime, demo­ crazia, cit., pp. 263-273, dove, sulla base di molti documenti inediti, si mostra come le provocazioni di Gemelli fossero pienamente autorizzate dal pontefice nell'ambito della «guerra di posizione» successiva al discorso mussoliniano del 13 maggio. 90 Su ciò concordo con G. Calogero, Mu55olinz; la Conciliazione e il CongreJSo fi­ losofico del 1929, cit., p. 445. Fu in questa replica che Mussolini apostrofò Croce come >, ma, dal nostro punto di vista, assume un qualche significato la parabola di Giuseppe Dossetti, che aveva vissuto gli anni Trenta tutto calato nelle organizza­ zioni di Azione Cattolica, dedito a un'intensa ricerca culturale e a una viva esperienza religiosa. Aveva anche svolto, «senza esternare partico­ lari disagi», una qualche attività di conferenziere all'interno delle or­ ganizzazioni del regime, come il GUF o l'Istituto reggiano di cultura

86 D. Cantimori, I nuovi statuti dell'A.C.I. (1940), in Politica e storia contempora­ nea. Scritti (1927-1942), cit., pp. 761 -770, 762-763. 87 Sulla quale molti documenti e intelligenti osservazioni sono in I. Garzia, Pio XII e l'Italia nella seconda guerra mondiale, presentazione di P. Pastorelli, Brescia, Morcel­

liana, 1988, pp. 125- 136. 88 R. Moro, La formazione della classe dirigente cattolica, cit., pp. 413 -476. 8� Non a caso la cultura fascista in Italia reagì sempre con durezza e fastidio a tutte queste tematiche: cfr. R. Pertici, Mazzinianesimo, fascismo, comunismo: l'itinerario politico di Delio Cantimori (1919-1943), cit., pp. 87-89 e passim. 90 F. Traniello, Guerra e religione: l'Italia cattolica nella seconda guerra mondiale ( 1 997), in Id., Religione cattolica e Stato nazionale, cit., pp. 265-297, 284. È inutile ag· giungere che l'awertimento «non lamento, ma azione è il precetto dell'ora» è contenu· to nel radiomessaggio pontificio del Natale 1942.

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fascista: come abbiamo visto, la collaborazione cordiale con le autorità costituite (ove queste la rendessero possibile) era - insieme alla gelosa tutela della propria identità - la linea indicata dal papa. Fino al 1 940, Dossetti visse la vita politica italiana in un atteggiamento di «sere­ nità, quasi indifferenza»: non era l'«entusiasmo», a cui il regime aspi­ rava, ma neanche un'opposizione consapevole. Certo, - come avrebbe poi ricordato - nutriva delle «riserve», sentiva confusamente come «il mondo fosse su una strada radicitus sbagliata» (i temi di «crisi della civiltà»), ma questa sensazione si traduceva in «un dissenso non opera­ tivo, era un rifiuto interiore radicale ma inerte». Fu proprio il tornante del 1 939- 1 940 a spingerlo progressivamente verso la riflessione e poi una prim a azione politica91• Per le molteplici componenti del mondo cattolico, i patti del Late­ rana costituirono quindi il quadro di riferimento della propria attività per tutti gli anni Trenta, ma di essi e della loro portata si fornirono poi varie letture, che rinviavano alle diverse concezioni del rapporto fra Stato e Chiesa (e fra Chiesa e fascismo), che in esse erano presenti. Lo rilevava anche Augusto Baroni, uno dei più brillanti esponenti del Movimento Laureati, fra quanti - dopo le sanzioni societarie e la vitto­ ria africana - maggiormente avvertivano l'urgenza di un «inserimento nazionale» nella nuova realtà italiana. In una serie di lettere scritte a Righetti nella prima metà del 1 93 7, egli indicava due tipi di catto­ lici: quelli «fedeli alla vecchia mentalità per i quali il Concordato non è stato che un istrumento diplomatico - cioè un istrumento di cui ci si serve, [ . . . ] , mentre perdura immutato lo spirito di coperta ostilità, magari mascherato di adulazioni e incensamenti» e quelli per cui, in­ vece, esso era testimonianza di una sintesi nuova, che imponeva loro una partecipazione piena e leale «alla vita del proprio paese [. . ] senza rimanere arrestati nostalgicamente a forme mentali che l'età e i nuovi compiti fanno infeconde e anacronistiche»92• Fra questi due poli, si apriva, tuttavia, un ventaglio di posizioni e di atteggiamenti molto variegati, di cui è difficile comporre un inventa­ rio completo. Si consideri il tema (molto diffuso) del patriottismo: per molti cattolici, anche più anziani di Baroni, i patti del Laterano ave­ vano segnato la fine di una dolorosa lacerazione interiore, quella fra fedeltà alla Chiesa e lealtà verso la propria nazione, e in questo passag­ gio - al di là di perplessità e riserve - riconoscevano il ruolo decisivo .

91 Per tutto questo, cfr. E. Galavotti, Il giovane Dossetti. Gli anni della formazione 1913-1939, cit., pp. 223-232. È notevole il fatto che in questo percorso non ebbe alcu­

na parte l'eredità del vecchio popolarismo, da lui awertito come un'esperienza supera­ ta. Come si vede, la divaricazione delle esperienze politiche fra