Chiesa e Stato in Italia. Dalla Grande Guerra al nuovo Concordato (1914-1984) 8815132805, 9788815132802

Roberto Pertici ripercorre la storia dei rapporti tra Chiesa e Stato nell'Italia del Novecento, attraverso un'

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Chiesa e Stato in Italia. Dalla Grande Guerra al nuovo Concordato (1914-1984)
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COLLANA DEI DIBATTITI STORICI IN PARLAMENTO a cura dell'Archivio Storico del Senato della Repubblica

1. La legge elettorale del 1953, di Gaetano Quagliariello

2. Per le antichità e le belle arti. La legge n. 364 del 20 giugno 1909 e l'Italia giolittiana, di Roberto Balzani 3. Chiesa e Stato in Italia. Dalla Grande Guerra al nuovo Concordato (1914-1984), di Roberto Pertici

Senato della Repubblica Archivio Storico Roberto Pertici

Chiesa e Stato in Italia Dalla Grande Guerra al nuovo Concordato (1914-1984)

il Mulino

Redazione a cura di Emilia Campochiaro, Nicola Cundari, Paola Ferrazza. Ha collaborato Anna Boldrini. I documenti riprodotti nel CD-Rom sono stati digitalizzati da Gustavo Spada. Servizio dei resoconti e della comunicazione istituzionale Ufficio dell'Archivio Storico.

I lettori interessati all'attività editoriale del Senato possono consultare il sito Internet: www.senato.it

I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull'insieme delle attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: www.mulino.it

ISBN 978-88-15-13280-2 Copyright © 2009 by Senato della Repubblica, Roma e Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo - elettronico, meccanico, reprografico, digitale - se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d'Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie

Indice

Presentazione, di Renato Schzfani

p.

5

Avvertenza

11

I.

13

Il mondo di ieri 1. Un dibattito in Senato. - 2. Prologo risorgimentale. - 3. La nuova Italia. - 4. L'opposizione cattolica.

II.

La svolta della Grande Guerra

41

1. Il papa, l'Italia e la guerra. - 2. L'ipotesi di uno Stato in miniatura. - 3. A un passo dalla conciliazione: la trattativa parigina del giugno 1919. - 4. Le novità del dopoguerra. - 5. Il Partito popolare e la questione romana. - 6. La legge delle guarentigie, cinquant'anni dopo: i dibattiti del 1921. - 7. Pio XI e l'era dei concordati.

III.

Il «cammino» della Conciliazione

99

1. Considerazioni preliminari. - 2. La fase di avvicinamento. 3. La pregiudiziale del papa. - 4. Le trattative per il Trattato e la Convenzione finanziaria. - 5. Le trattative per il Concordato. - 6. Gli accordi del Laterano.

IV.

Una pace armata

153

1. Osservazioni preliminari. - 2. Date a Cesare. - 3. Il dibattito alla Camera. - 4. Il discorso mussoliniano del 13 maggio. - 5. La risposta del papa e la discussione in Senato. - 6. La lettera del Corpus Domini e lo scambio delle ratifiche. - 7. Epilogo provvisorio.

3

INDICE

V.

Dopo la caduta

p. 241

1. I partiti antifascisti e i patti lateranensi 1929-1943. - 2. Il nuovo partito cattolico e il suo retroterra. - 3. La nuova posizione internazionale della Santa Sede. - 4. Riemerge il problema dei patti lateranensi.

VI.

I patti del Laterano ali' Assemblea costituente

333

1. Verso la Costituente. - 2. Estate-autunno 1946: le richieste della Santa Sede e l'avvio del dibattito costituente. - 3. Verso l'art. 7: i dibattiti preliminari. - 4. In aula e fuori.

VII. Verso il pluralismo confessionale

459

1. Il «congelamento» del Concordato. - 2. La grande trasformazione. - 3. La revisione del Concordato: gli anni Sessanta. - 4. Il vulnus del divorzio e la lacerazione del cattolicesimo italiano. - 5. Il cammino della revisione: l'ultima fase. - 6. L'Accordo di Villa Madama.

Nota di lettura

597

Dibattiti parlamentari

603

Indici Indice dei dibattiti parlamentari

871

Indice dei nomi

875

Presentazione

Nella ricorrenza degli ottant'anni dalla sottoscrizione dei Patti lateranensi e dalla loro ratifica, il Senato si propone di offrire ai cittadini la pubblicazione dei dibattiti più significativi che hanno contraddistinto i rapporti tra l'Italia e la Santa Sede, all'interno delle Aule parlamentari. Tre appaiono i segmenti temporali fondamentali: la ratifica dei Patti lateranensi; i lavori della Costituente; la revisione del Concordato. Passaggi che non possono essere considerati in modo separato ed indipendente rispetto alla premessa storica e culturale sottesa al processo di unificazione dello Stato italiano e di quel «prologo risorgimentale» all'interno del quale le diverse sensibilità ed idealità hanno concorso alla definizione non solo dello Stato inteso come ordinamento unitario, bensì anche come comunità di consociati. La pluralità di orientamenti politici, culturali e religiosi è senz'altro la chiave di lettura indispensabile per comprendere come per l'Italia il rapporto tra Stato e Chiesa non si sia mai potuto ridurre ed esaurire nella problematica delle relazioni tra istituzioni, bensì abbia fin dall'inizio rappresentato uno degli assi portanti del dibattito pubblico riguardante anche le questioni etiche e sociali. Se il «prologo risorgimentale», il processo di ratifica dei Patti lateranensi, il dibattito costituente, il processo di revisione del Concordato segnano momenti tra loro intrinsecamente correlati e non altrimenti distinguibili, l'entrata in vigore della Carta costituzionale marca, però, il passaggio decisivo ed il punto più alto nella prospettiva di sintesi e di reciproco riconoscimento tra laicità delle scelte statuali e libertà religiosa, comprensiva delle stesse libertà delle religioni e, segnatamente, delle loro possibili manifestazioni e ricadute pubbliche, all'interno del più ampio spazio politico, culturale ed ideale della Nazione. Senza dubbio la Costituzione ha rappresentato quel punto di saldatura tra il passato ed il presente in grado di garantire per il futuro della Repubblica un sistema non conflittuale, ed anzi cooperativo, che sta alla base della stessa civile e serena convivenza della società italiana.

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RENATO SCHIFANI

Il principio fondante delle relazioni tra Stato e Chiesa si è così venuto a radicare entro il doppio binario della «distinzione» e della «collaborazione» fra lo Stato e le confessioni religiose. Un doppio binario che non nega le peculiarità di ciascun contributo che ogni confessione religiosa offre per la costruzione del bene del Paese, ed in pari tempo non teme di declinare fino alle estreme conseguenze il canone della libertà religiosa, quale espressione dei diritti inviolabili dell'uomo e del cittadino. Il dettato costituzionale segna pertanto una linea di demarcazione storica ed ideale tra una laicità intesa in modo «ostile» ovvero «indifferente», ed un principio di laicità delle istituzioni che potremmo definire «rispettosa». È proprio questa oscillazione terminologica tra la categoria della «tolleranza» ed il paradigma del «rispetto» a rendere negletto un atteggiamento antagonistico o di ostilità rispetto al sentimento religioso e alle sue manifestazioni pubbliche, in forza del quale sarebbe sottratto alla sfera religiosa ogni spazio pubblico, al punto da rendere qualsivoglia istanza spirituale e religiosa del tutto ininfluente rispetto alla comunità civile. Ed è lo stesso criterio discretivo tra mera tolleranza e rispetto a rendere del tutto inadeguato un criterio di comprensione delle relazioni tra Stato e Chiesa tale da relegare il rapporto tra politica e religione in una nicchia di assenza di confronto o comunque di indifferenza rispetto allo sviluppo dello spazio pubblico democratico. Il patto costituzionale esclude tra i principi fondativi della Repubblica tanto una «laicità ostile», quanto una «laicità indifferente», proprio in ragione di un «senso della laicità dello Stato [... ] che abbraccia il riconoscimento della dimensione sociale e pubblica del fatto religioso», implicando «non solo rispetto della ricerca che muove l'universo dei credenti e ciascuno di essi, ma dialogo. Un dialogo fondato sull'esercizio non dogmatico della ragione, sulla sua naturale attitudine ad interrogarsi e ad aprirsi» 1. La piena consapevolezza dell'Italia che «sa di avere profonde radici cristiane, intrecciate con quelle umanistiche» e l'analoga convinzione che «il legame tra l'Italia e la Santa Sede alimenta una crescente collaborazione anche di fronte ai problemi del mondo» 2 appaiono come affermazioni convergenti e del tutto coerenti con una tradizione di pensiero che considera la religione non soltanto come «fenomeno di culto», ma anche come «elemento di identità culturale», nella prospettiva di una «laicità positiva»3 che scardina in ra1

G. Napolitano, Discorso a Palazzo del Quirinale, Roma, 4 ottobre 2008.

2

C.A. Ciampi, Discorso a Palazzo del Quirinale, Roma, 24 giugno 2005. N. Sarkozy, La République, !es religions, l'espérance, Paris, Les Éditions du Cerf,

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2004, p. 21.

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PRESENTAZIONE

dice ogni tentativo di ricreare contrappos1z10ni dannose e fuorvianti, rispetto alla costruzione fattiva, al proprio interno, di una comunità coesa ed in grado di proporsi, ali' esterno, come modello del confronto, del dialogo, della collaborazione. La civile convivenza ed il senso di appartenenza ad un'unica comunità rappresentano quei sentimenti forti nella consapevolezza dei Padri Costituenti, che vollero percorrere la strada del reciproco riconoscimento, del rispetto delle diverse sensibilità, di quei sentimenti più profondi del popolo italiano, che ne delineano il tratto identitaria specifico. Indubbiamente la storia delle relazioni tra Stato e Chiesa ha conosciuto momenti di incomprensione e difficoltà, che il pregevole lavoro del professor Roberto Pertici ricostruisce in modo puntuale ed approfondito. Proprio dalla conoscenza non solo delle ragioni sottese a queste incomprensioni, ma anche degli effetti che ne sono derivati, estremamente problematici per il Paese, i Padri Costituenti individuarono il dialogo quale strumento fondamentale per la ricostruzione di un tessuto condiviso di moralità civile, l'espressione più alta dell' esercizio democratico e fonte di reciproco arricchimento. Era da loro percepita in tutta la sua carica emotiva ed ideologica l'inversione di rotta, che venne a maturare già durante la prima guerra mondiale, di una soluzione che potesse garantire autentica indipendenza ed autonomia alla Santa Sede attraverso la creazione di un cosiddetto Stato in miniatura. Ed il riconoscimento espresso nella Carta dei Patti lateranensi fu proprio per questa ragione depotenziato di ogni carica polemica e compreso nella prospettiva di effettivo ristabilimento di una dinamica di relazioni serene e costruttive. Le idealità ed i principi ispiratori del dibattito costituente sono il perno dal quale ha preso avvio la stessa revisione del Concordato, all'inizio travagliata e contraddistinta da momenti non irrilevanti di difficoltà. La riforma del 1984, nel confermare la distinzione degli ordini propri dello Stato e della Chiesa, ha infine, in modo del tutto coerente, prefigurato «la reciproca collaborazione per la promozione dell'uomo e il bene del Paese», quale architrave delle relazioni tra Stato e Chiesa, per le quali l'indipendenza e l'autonomia reciproche non rappresentano una vuota e retorica espressione verbale, bensì il presupposto del loro libero estrinsecarsi negli ambiti di propria specifica competenza. Il dialogo rappresenta anche nell'attualità del nostro tempo un lascito prezioso del legislatore costituente, tanto per le istituzioni repubblicane, quanto per le future generazioni. Il dialogo non impedisce infatti la decisione politica, purché si riconosca, da un lato, la legittimità di una decisione assunta da una maggioranza; e, dall'altro, il «dissenso deliberativo» come una componente dello spazio democratico da rispettare fino in fondo, nel convincimento che la maggioranza di oggi 7

RENATO SCHIFANI

può essere diversa dalla maggioranza di domani. Il metodo del dialogo fu attuato con coraggio allorquando si sviluppò il dibattito sulla revisione del Concordato nel 1984. Contro una visione nichilista dei processi democratici, che vorrebbe risolvere ogni questione secondo la logica del vincere e soccombere di volontà contrapposte, ogni autentico atteggiamento democratico non può infatti che fondarsi «sul rispetto reciproco, su un certo grado di umiltà o di modestia intellettuale e sul desiderio di arricchire la propria comprensione dei fatti, ascoltando e scambiando opinioni e argomenti con le altre persone coinvolte nel processo. La deliberazione è un modo pubblico e critico di analizzare i rispettivi punti di vista»4 . Allora furono superate le incomprensioni e più che di concessioni, dall'una e dall'altra parte si accettò di dare credito al proprio interlocutore. Questo metodo del dialogo si arricchì successivamente dell'estensione del meccanismo delle intese a molte confessioni religiose, in una logica di concreto superamento di ogni discriminazione e a favore di quel pluralismo maturo che è la ricchezza del nostro Paese. In altri termini, quella del dialogo è la via del «patriottismo costituzionale», la traccia dove si innesta un sentimento di rispetto autentico delle coscienze libere, non tacciabili di dogmatismo o oscurantismo per il solo fatto di manifestare un'idea che si ispiri a valori o indici morali affini ad una opzione di segno religioso, e non per questo, però, rinunciatario o soccombente rispetto alla ricerca di una giustificazione esprimibile in un «linguaggio accessibile universalmente a tutti i cittadini»5 • Il «patriottismo costituzionale» permette il dispiegarsi del paradigma della «ragione pubblica» come pratica deliberativa e concreta dei reciproci riconoscimenti, della ragionevolezza assunta quale modalità di svolgimento delle relazioni intersoggettive, che cerca una «base pubblica di giustificazione, universalmente accettabile dai cittadini»6 , ma allo stesso tempo non svilisce o irride alla ricerca personale comprensiva di una tensione verso un fondamento, un presupposto, un legame unificante7• La costruzione di una tavola di valori condivisi non nega pertanto la possibilità di una eventuale inconciliabilità delle opinioni, ma allo stesso tempo ne garantisce la libera manifestazione all'interno di un pubblico dibattito, dove anche dall'asprezza dei toni e dalla con-

4 D. Gracia, La deliberazione come metodo della razionalità pratica, in V. Viafora e S. Mocellin (a cura di), I.:argomentazione del giudizio bioetico, Milano, Franco Angeli,

2006, p. 72. l J. Habermas, Tra scienza e fede, trad. it., Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 37. 6 J. Rawls, Liberalismo politico, trad. it., Milano, Edizioni di Comunità, 1999, pp. 7 es. 7 E.W. Bockenforde, La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione, trad. it., Brescia, Morcelliana, 2006, pp. 66 e ss.

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PRESENTAZIONE

flittualità delle posizioni non può mai derivare un arretramento rispetto al reciproco riconoscimento degli uni rispetto agli altri. Ringrazio il professor Roberto Pertici per la sua analisi approfondita ed articolata, che ricostruisce la complessa questione dei rapporti tra Stato e Chiesa, lasciando sullo sfondo e facendo intravedere, quasi in filigrana, i tratti essenziali dei presupposti filosofici che sottendono le singole vicende ed in una qualche misura ideologicamente ne condizionano le ricadute sul piano istituzionale. Uno dei pregi è proprio quello di aver lasciato parlare la storia, i documenti, le testimonianze e di averle sapute raccontare con la lucidità e l'intelligenza di un narratore attento alle sfumature, ai rimandi ideali, alle tensioni politiche che si intrecciano lungo una traiettoria di continuità, tra un passato apparentemente remoto ed un tempo ancora di stretta attualità. Un particolare ringraziamento desidero infine rivolgere all'Amministrazione del Senato, alla dottoressa Emilia Campochiaro, responsabile dell'Archivio Storico del Senato, e a quanti, in vario modo, hanno concorso a realizzare una ricerca rigorosa e raffinata delle tracce documentali di una storia che appartiene a tutti noi cittadini e davvero sentiamo nostra. RENATO SCHIFANI

Presidente del Senato della Repubblica

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Avvertenza

Ogni ricerca ha la sua storia, anche quella (qualunque ne possa essere il valore) che qui si presenta al lettore. Alcuni anni fa accettai l'invito della Presidenza del Senato a curare un volume dedicato a Stato e confessioni religiose in Italia 1929-2004 inserito nella collana dei «Dibattiti storici in Parlamento». L'amico Gaetano Quagliariello, che di quell'invito si fece tramite, dovette faticare non poco per convincermi: dovevo, infatti, subentrare in un progetto destinato al professor Francesco Margiotta Broglio (a cui, anzi, egli aveva iniziato a lavorare) e chiunque, credo, avvertirebbe la propria insufficienza rispetto alla cultura storica e giuridica di quel grande studioso. Inoltratomi nel lavoro, ho operato alcuni mutamenti nella sua impostazione: innanzitutto ho concentrato la mia attenzione sulla Chiesa cattolica e sui suoi rapporti con lo Stato italiano, perché - lo dico sinceramente - quello era il problema storico che veramente mi interessava e che mi aveva spinto ad accettare temerariamente quella proposta, e credo che ogni studioso, per quanto modesto, debba seguire il suo problema. A ciò mi spingeva la sensazione della altrimenti per me eccessiva vastità del quadro e della impossibilità, sempre da parte mia, di controllare tutta quella materia nei suoi risvolti storici e soprattutto giuridici: si pensi soltanto all'eccezionale fioritura di studi sull'ebraismo italiano del Novecento che si è avuta nell'ultimo ventennio. Ho poi compiuto un passo ulteriore, ponendo come termine ad quem il 1984, la firma cioè di quello che si suol chiamare il «nuovo Concordato» e, al tempo stesso, anticipando l'inizio della trattazione: anche per quanto riguarda i rapporti fra Stato e Chiesa in Italia, il Novecento è stato, in qualche modo, un «secolo breve», che prende l'avvio con la svolta della Grande Guerra e termina con la revisione del Concordato. Non che, dopo, quella storia non sia continuata e non ponga altri problemi, ma è appunto un' «altra storia». Nel CD-Rom che accompagna il volume, l'Archivio storico del Senato, in completo accordo col sottoscritto, ha tuttavia lasciato un materiale più ampio, che giunge fino ai nostri giorni. 11

AVVERTENZA

Devo ringraziare Andrea Frangioni e Stefano Zappali, che mi hanno aiutato nella ricerca di libri e riviste e nella revisione del testo. Con Roberto Vivarelli, secondo un'abitudine ormai quasi trentennale, ho discusso spesso dei problemi che via via emergevano, ricevendone sempre preziosi suggerimenti e osservazioni, pur nella diversità di giudizio su singole questioni. Il libro è dedicato alla mia mamma, in memoria.

R.P.

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Capitolo primo

Il mondo di ieri

l. Un dibattito in Senato

Il 24 maggio 1929, venerdì, era il secondo giorno di discussione in Senato delle leggi di attuazione dei patti lateranensi, firmati il precedente 11 febbraio. Presiedeva la seduta Luigi Federzoni, da pochi mesi alla guida dell'assemblea: era presente il capo del governo, Mussolini. Dopo una sua breve celebrazione del quattordicesimo anniversario dell'entrata in guerra dell'Italia, la discussione entrò nel vivo: prese la parola Filippo Crispolti. Settantaduenne, erede di una nobile famiglia romagnola devotissima al papa, aveva attraversato tutto il cinquantennio liberale militando appassionatamente nelle file dell' «opposizione cattolica», intervenendo nei suoi congressi, collaborando fittamente coi suoi giornali. Entrato in parlamento dopo la guerra, nella numerosa pattuglia popolare, era stato nominato senatore su designazione di Facta nell'ottobre del 1922. Membro dell'ala destra del partito, ne era uscito alla fine del luglio 1923: da allora il suo ralliement al regime nascente era stato totale 1. Nel suo discorso, dopo una moderata polemica contro quanti sembravano ridimensionare la portata dei Patti e le novità che vi erano contenute, con grande enfasi sottolineò l' «ardimento» di coloro che li avevano portati a termine (nell'ordine Pio XI, Vittorio Emanuele III e Mussolini). In conclusione sentiva ormai di poter presentare le armi ai vecchi avversari: Tutti dobbiamo riconoscere che, se nel moto del Risorgimento italiano ci furono correnti di pensiero che noi oggi andiamo riformando e quindi implici-

1 A. Albertazzi, Crispolti; Filippo, in Dizionario biografico degli italiani, XXX (1984), pp. 813-818. È da leggere il ritratto postumo che ne fece un vecchio amico, appartenente allo stesso mondo, ma che - di fronte al fascismo - compì poi una scelta diversa: G. De Sanctis, Ricordi della mia vita, a cura di S. Accame, Firenze, Le Monnier, 1970, pp. 58-60.

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CAPITOLO PRIMO

tamente combattendo, dobbiamo render tribùto alla nobiltà degli animi che in quelle correnti spesseggiò. Dobbiamo riconoscere che coloro i quali compilarono leggi oggi destinate all'abrogazione, lo fecero spesso con alto spirito di patria, con alto disinteresse, e, all'occasione, con generoso sacrifizio di se stessi. E voi, onorevoli colleghi, la maggior parte dei quali è rappresentante, personalmente o per discendenza, di tendenze che io ho combattuto, voi dovete accogliere cordialmente questa testimonianza che io intendo di dare alla sincerità e alla elevatezza delle tradizioni che avete avvalorato. Questa testimonianza vi viene da un uomo che giunge ad una decisione unanime oggi con voi, dalla sponda più opposta, da un uomo che appartiene ad una famiglia (ed io le sono rimasto fedelissimo) nel seno della quale la sera del XX settembre 1870, si pianse2 .

Il resoconto della seduta segnala i commenti animati, con cui furono accolte queste parole. Subito dopo iniziò a parlare Vittorio Scialoja, che di Crispolti si dichiarava «vecchio e carissimo amico ed avversario» (nato nel 1856, ne era pressoché coetaneo): in effetti, la sua, rispetto a quella del senatore cattolico, era veramente un'altra Italia. Il padre Antonio, economista di grande fama, era vissuto in esilio a Torino (era napoletano di nascita) durante il «decennio di preparazione», identificandosi nella politica cavouriana: ministro delle finanze nel secondo governo Ricasoli, aveva introdotto nel 1866 il «corso forzoso» ed elaborato - col ministro della giustizia Borgatti - un progetto di liquidazione dell'asse ecclesiastico, che da molti era stato giudicato troppo rispettoso della libertà della Chiesa e perciò non era arrivato nemmeno alla discussione in aula. Il sen. Scialoja era il più autorevole giurista italiano della sua generazione e aveva esercitato nelle discipline giuridiche una vera e propria «dittatura morale e scientifica», che aveva avuto la sua più alta realizzazione nella facoltà romana di giurisprudenza, per alcuni decenni probabilmente «la più grande facoltà giuridica del mondo» 3 • Senatore dal 1904, ministro con Sonnino

2 Atti Parlamentari (d'ora in avanti: AP), Senato del Regno, Legislatura XXVIII, Discussioni, 24 maggio 1929, p. 188 (Crispolti). I punti del discorso di Crispolti furono attentamente fissati in un suo incontro (20 maggio 1929) con l'avv. Francesco Pacelli, il negoziatore vaticano dei patti del Laterano: tutto allo scopo di fornire a Mussolini l'occasione di smussare, nella sua replica, alcune delle affermazioni da lui fatte nell'intervento del 13 maggio alla Camera, di cui si parlerà a suo luogo (cfr. F. Pacelli, Diario della Conciliazione, con verbali e appendice di documenti, a cura di M. Maccarrone, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1959, pp. 142 e 144). 3 Così la definì F. Calasso, Come Salvemini abbandonò la cattedra e la patria (1945), in Id., Cronache politiche di uno storico (1944-1948), a cura di R. Abbondanza e M. Caprioli Piccialuti, pref. di A.C. }emolo, Firenze, La Nuova Italia, 1975, pp. 8990. Su questo confronto parlamentare fra Crispolti e Scialoja avevano già richiamato l'attenzione almeno A. Giannini, Filippo Crispolti, in Id., Tre cattolici, Milano, Vita e pensiero, 1942, pp. 73-89, 76-77, e A.C. }emolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino, Einaudi, 19714, pp. 495-496, a cui si può ricorrere anche per il progetto Borgatti-Scialoja del 1867 (ibid., pp. 182-183). Su Scialoja presidente dell'Ac-

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IL MONDO DI IERI

e Nitti, apparteneva a quella parte della vecchia classe dirigente che non aveva avvertito, nell'affermazione del regime fascista, una frattura rispetto all'Italia liberale: era così rimasto negli alti posti di responsabilità che già occupava (la guida della delegazione italiana alla Società delle Nazioni) e ne aveva assunti altri, come la presidenza dell'Accademia dei Lincei. Scialoja raccolse subito la sfida di Crispolti: Signori senatori, avete udita testé la parola di un mio vecchio e canssrmo amico ed avversario, il senatore Crispolti, il quale, con la sincerità che ha sempre avuta nel suo dire, ha terminato col dichiararvi che il XX settembre (quello vero, quello del 1870) fu per lui e per i suoi giorno di lutto. Per molti altri si può dire lo stesso. In quel giorno in casa mia si esultava. Abbiamo dunque due diversi punti di partenza, quantunque forse il punto di arrivo possa essere lo stesso. Ma il tempo intermedio non può essere giustamente valutato da coloro che non volevano che l'Italia venisse a Roma4.

Il resoconto segnala qui: Applausi vivissimi e prolungati, segno che, per quanto ormai fascistizzato, il Senato era ancora composto prevalentemente - come del resto Crispolti sapeva benissimo - di «rappresentanti, personalmente o per discendenza» delle tendenze che da lui erano state sempre combattute. Dopo molti distinguo, anche Scialoja, che pure era stato molto scettico sulla possibilità di giungere a un accordo con la Santa Sede e aveva manifestate le sue perplessità allo stesso Mussolini5, dichiarava di associarsi al voto unanime o quasi unanime che prevedeva a favore della legge in discussione. Prendeva poi la parola il senatore Croce, a nome anche dei «pochi colleghi i quali, non potendo dare il loro assenso al presente disegno di legge, non hanno voluto, d'altro canto, in questione così grave, astenersi dalle sedute del Senato o allontanarsi dall'aula». Il filosofo era di

cademia dei Lincei, cfr. ancora la testimonianza di G. De Sanctis, Ricordi della mia vita, cit., pp. 153-154. 4 AP, Senato del Regno, Legislatura XXVIII, Discussioni, 24 maggio 1929, p. 188 (Scialoja). 5 Lo ricordava il negoziatore italiano dei patti del Laterano, Domenico Barone, nella sua importante relazione al «duce» del 12 aprile 1928, su cui tornerò più oltre: «Citerò per tutti il Ministro di Stato Senatore Scialoja, il quale si dimostra scettico circa l'opportunità della politica ecclesiastica del Governo fascista, affermando che la Chiesa accetta quanto Le si dà come semplice parziale riconoscimento di ciò che Le è dovuto e che logicamente non può comportarsi in maniera diversa; ma è vano sperare che si induca ad una sistemazione per noi accettabile dei suoi rapporti con l'Italia di cui si dichiari soddisfatta». Questa relazione fu pubblicata per la prima volta in F Ponzi, Documenti per la storia dei Patti lateranensi. Due relazioni di Domenico Barone del 1928, in «Rivista di storia della Chiesa in Italia», XIX (1965), pp. 413-420, poi in P. Scoppola, Chiesa e Stato nella storia d'Italia. Storia documentaria dall'Unità alla Repubblica, Bari, Laterza, 1967, pp. 581-591, 583, da cui si cita.

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CAPITOLO PRIMO

circa dieci anni più giovane dei due oratori che lo avevano preceduto: proveniente da una famiglia assai tiepida verso il nuovo regno, solo dopo la tragica scomparsa dei suoi, aveva preso contatto - nel salotto romano dello zio Silvio Spaventa - con gli uomini e le idee del Risorgimento. Non era mai stato un anticlericale: «Chi ora vi parla, - diceva - e che non è stato mai clericale, sempre combattendo nei suoi scritti la massoneria e l'antiquato anticlericalismo di cui faceva sfoggio; e perciò si sente ora in piena coerenza con sé stesso, animato da quella buona fede, senza la quale non ardirebbe né parlare né scrivere»6. Nella storia dell'Italia liberale che aveva pubblicata l'anno precedente, aveva riaffermato la linearità e la coerenza della frazione della Destra storica che aveva gestito la crisi del 1870-71 e dichiarato «altrettanto poco decorosa per il Papa quanto per l'Italia [... ] un'idea [di] conciliazione, fondata su pezzetti di territori da ritagliare per forgiare al Papa un giocattolo di Stato temporale». Ma aveva cercato di comprendere, sia pure con un filo di ironia, anche le ragioni della Santa Sede: il papa doveva prendere il contegno di chi ha soggiaciuto alla forza, dell'oppresso e del sacrificato, e sempre protestare, in modo più irato dapprima, meno irato ma non meno reciso più tardi, e non abbandonare mai l'asserzione del suo violato diritto. Cosicché, a poco a poco, lo si lasciò dire, senza più oltre discutere né ribattere le proteste: riconoscendo i perspicaci italiani che essi, al posto del Papa, non avrebbero potuto comportarsi diversamente, e sentendo in quello un italiano come loro, pratico e diplomatico come loro7 •

2. Prologo risorgimentale

Le biografie e i discorsi di questi tre uomini testimoniavano la persistenza, in Italia, di tradizioni politiche e di culture profondamente diverse, divise da un conflitto secolare e sostanzialmente non rinnegate nemmeno allora, che sembravano giungere a una «conciliazione». Nel suo intervento Croce faceva risalire questo cleavage alla fine del Sei6 AP, Senato del Regno, Legislatura XXVIII, Discussioni, 24 maggio 1929, p. 192 (Croce): nel presente volume, p. 667. «Quanto al mio anticlericalismo, - avrebbe ribadito il 14 settembre 1945 allo storico Gabriele Pepe - chi conosce i miei libri e articoli scritti fino ai primi anni del fascismo, cioè fino ai miei sessanta e più anni, sa che non solo non mi affannavo a far l'anticlericale, ma combattevo e irridevo il fastidioso e vacuo anticlericalismo della massoneria. La corda anticlericale vibrò per la prima volta nei miei scritti quando la Chiesa entrò in caldi amori col fascismo e il "duce" fu da essa proclamato "l'uomo della Provvidenza", "privo di pregiudizi liberali", ecc.» (B. Croce, Scritti e discorsi politici (1943-1947), II, Bari, Laterza, 19732, p. 232 in nota). 7 Id., Storia d'Italia dal 1871 al 1915, Bari, Laterza, 1966 14, pp. 34-38, specie 36.

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IL MONDO DI IERI

cento, alle origini stesse del Risorgimento italiano, che, ai suoi occhi, coincidevano con le prime affermazioni «del pensiero e delle istituzioni laiche di fronte alla Chiesa»: in quella lunga e tormentata vicenda il «protomartire», era stato Pietro Giannone, esponente di un pensiero laico e progressivo, cui spettava l'avvenire, in lotta contro una religione istituzionale, avvertita prevalentemente come esteriorità e autoritarismo. Queste sue riflessioni restavano ancora tutte all'interno del grande dibattito che si era aperto un secolo prima, all'apparire in Italia della nuova idea di nazione, e che aveva percorso il trentennio fra il 1815 e il 1848: su quale base etico-religiosa - questo ne era stato il problema di fondo - si poteva e si doveva costruire la futura nazione italiana? La questione era connessa con un dato di fatto, che complicava enormemente lo sviluppo del moto nazionale in Italia, cioè l'italianità geografica del papato, il suo ruolo nella storia della penisola, la presenza di uno Stato della Chiesa, considerato da molti come una garanzia ineliminabile dell'indipendenza della Santa Sede. Le risposte che vennero allora elaborate furono varie, ma riconducibili a due schemi fondamentali: alcuni ribadirono che la vera gloria d'Italia era quella di essere, appunto, la sede del pontefice, vero e proprio privilegio che assicurava alla penisola un prestigio internazionale, quale nessuna nuova compagine statale avrebbe saputo conferirle. In questa prospettiva il papato era concepito come un'istituzione, certamente universale, ma anche intimamente «italiana» (come dimostrava l'italianità dei papi degli ultimi secoli e delle più alte gerarchie ecclesiastiche), l'unica adatta a produrre una unificazione, almeno ideale, del popolo italiano, la cui vocazione «cattolica» era un dato indiscutibile e ineliminabile. Non era possibile (né auspicabile), in Italia, un qualsiasi progresso, se il nuovo non veniva conciliato con la tradizione cattolica. Le reminiscenze storiche di cui si sostanziava questo discorso nazio.nale (che si disse guelfo) erano prevalentemente medievali: nello sfondo c'erano gli uomini dei liberi comuni, che si appoggiavano al papato contro l'impero, ma c'era anche Dante, «ghibellino», che tuttavia investiva il papato di un'altissima missione, universale e italiana insieme. Esso si concretò in atteggiamenti politici assai diversi: sostanziò opzioni di patriottismo culturale, ma strenuamente contrarie a ogni prospettiva di mutamento politico (il cattolicesimo «reazionario» dell'età della Restaurazione, gli ambienti gesuitici, etc.), ma fu anche alla base di tutti i tentativi di conciliazione fra papato e moto nazionale, fra cattolicesimo e «libertà», che percorrono la grande stagione del «moderatismo» pre-quarantottesco8• Il guelfismo, soprattutto nella versione giobertiana,

8 Su questi problemi è necessario ancora rinviare ad alcuni classici della storiografia italiana del Novecento, da cui - sia detto per inciso - la nostra cultura storico-

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contribuì grandemente - negli anni fra il 1843 e il 1848 - alla rottura del fronte conservatore, spostandone settori rilevanti su posizioni «nazionali» e moderatamente «liberali», ma entrò in crisi irreversibile fra l'aprile e il novembre del 18489 • L'allocuzione pontificia del 29 aprile e le successive vicende dello Stato romano rivelarono l'inconsistenza sua e del connubio di politica e religione che gli era sotteso: la Chiesa universale non poteva diventare guida di una crociata nazionale, né dal papato poteva attendersi la rinascita italiana. L'altra prospettiva, che fu chiamata neo-ghibellina, riprendeva la protesta machiavelliana contro il papato, come elemento disgregatore della nazione italiana e impedimento fondamentale alla sua unità politica, e contro la «morale cattolica» come fattore di corruzione del carattere degli italiani: tale etica non poteva essere la base della nuova Italia, mentre assai più frequenti erano - da parte di questi ambienti - i richiami alla classicità greca e, soprattutto, romana, e ai temi prossimi della polemica illuministica e della rivoluzione francese 10 • La proposta cavouriana, che emerse nel 1860-1861, superava entrambe queste alternative: l'Italia futura sarebbe stata un'Italia nuova, senza ingombranti passati da rinnovare e tradizioni da riprendere («Je n'attache pas une grande importance aux souvenirs classiques en euxmèmes»11, scriveva già nel 1830); doveva avere Roma come capitale (e qui Cavour raccoglieva in qualche modo la sfida mazziniano-garibaldina), ma nel contempo si proponeva di assicurare alla Chiesa la maspolitica non ha ricavato quanto avrebbe potuto: B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, Bari, Laterza, 1921; F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896. Le premesse, Bari, Laterza, 1951; Lo studio dell'antichità classica nell'Ottocento, a cura di P. Treves, Milano-Napoli, Ricciardi, 1962. Fra i testi più recenti, dr. F. Traniello, Religione, nazione e sovranità nel Risorgimento (1992), in Id., Religione cattolica e Stato nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 59-112; G. Formigoni, I.:Italia dei cattolici. Fede e nazione dal Risorgimento alla Repubblica, Bologna, Il Mulino, 1998; G. Rumi, Gioberti, Bologna, Il Mulino, 1999; R. Pertici, Nazione e religione in Silvio Pellico, in «Società e storia», XXVII (2004), pp. 687-704. Sono debitore anche di non poche riflessioni e osservazioni presenti in molti saggi di E. Passerin d'Entrèves, a partire da quello programmatico del 1942, Per una storia religiosa del Risorgimento, in «La nuova Italia», XXI, pp. 139143 e dalla successiva recensione al già cit. volume di A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, in «Rivista storia italiana», LXII (1950), pp. 305-318. 9 Sul significato storico del giobertismo prima del 1848, restano insuperate le pagine di G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna, II, Dalla Restaurazione alla Rivoluzione nazionale, Milano, Feltrinelli, 1958, pp. 353-364, 498-500. 10 Su temi e mentalità presenti in questi ambienti, oltre che dai volumi già citati, molto si può ricavare dalla produzione ottocentistica di S. Timpanaro, in particolare Classicismo e illuminismo nell'Ottocento italiano, Pisa, Nistri-Lischi, 19692 • 11 F. Ruffini, La giovinezza del Conte di Cavour. Saggi storici secondo lettere e documenti inediti, I, Torino, Bocca, 1912, p. 95, in una lettera a J.J. de Sellon del 16 gennaio 1830.

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sima libertà, inaugurando una politica ecclesiastica completamente inedita nell'Europa continentale, dove la posizione di privilegio che tradizionalmente le era riconosciuta si era sempre coniugata con l'attento controllo statale della sua vita e delle sue strutture. Il conte di Cavour non incarnò mai la figura dell'eroe machiavelliano, caro alla tradizione democratico-ghibellina, che bandisce una lotta di liberazione contro la Chiesa e la tradizione cattolica o maneggia la religione come instrumentum regni: era un figlio dell'età romantica e, se i problemi economici e politici avevano occupato presto la sua intelligenza, aveva avvertito altrettanto acutamente quelli religiosi, che la frequentazione di una vasta letteratura (Constant, Guizot, Alexandre Vinet, il cattolicesimo liberale francese da Lamennais a Montalembert e Lacordaire) e alcune sue esperienze dirette (come i contatti col mondo ginevrino) gli venivano proponendo. Se gli storici francesi dell'età della Restaurazione gli avevano mostrato il ruolo della religione (anche di quella cattolica) nell' «incivilimento» della società europea, dalla lettura di Tocqueville aveva ricavato la convinzione che il sentimento religioso fosse essenziale per superare il particolarismo utilitaristico insito nella «società democratica» e spingere quindi i cittadini a dedicarsi alla cura degli interessi collettivi, mantenendo al tempo stesso il senso geloso della propria inconfondibile personalità 12 • L'esperienza americana, come emergeva dalle pagine della Démocratie en Amérique, gli presentava quel binomio libertà religiosa-separatismo, che sarebbe divenuto il centro delle riflessioni cavouriane su tali problemi: Amico quant' altri mai della libertà religiosa la più estesa, - scriveva a Carlo Birago di Vische, direttore dell' «Armonia», il 23 agosto 1850 - io desidero ardentemente di veder giungere il tempo in cui sarà possibile di praticarla da noi, quale essa esiste in America, mercé l'assoluta separazione della Chiesa dallo Stato. Separazione che io reputo essere una conseguenza inevitabile del progresso della civiltà e condizione indispensabile al buon andamento delle società rette dal principio di libertà.

Ma Cavour aggiungeva in modo significativo: Ma fintantoché gli spiriti non sono preparati per questa grande riforma sociale, fintantoché l'educazione del clero non sarà indirizzata a questo santo scopo, ed una parte notevole ed autorevole di esso conserverà gelosamente le tradizioni dei tempi antichi, fintantoché vi sarà una religione dello Stato, sarà forza sospendere l'applicazione di teorie di cui riconosco l'eccellenza e conservare delle leggi antiche quel tanto che è necessario per impedire che un partito oltremodo tenace,

12 Obbligati i riferimenti a F. Ruffini, La giovinezza del Conte di Cavour, cit.; ai saggi raccolti in Id., Ultimi studi sul Conte di Cavour, [a cura di A. Omodeo], Bari, Laterza, 1936, pp. 1-124 e a R. Romeo, Cavour e il suo tempo (1810-1842), Roma-Bari, Laterza, 19773, passim.

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se non potentissimo, sotto pretesto di conquistare maggiori libertà ci ritorni al vecchio assolutismo, di cui ieri era ancora il più fervente fautore 0 .

Questa fu la linea cavouriana nel decennio successivo, in cui la necessità di formare e rafforzare una maggioranza parlamentare che inglobasse frazioni sempre più consistenti della Sinistra subalpina lo spinse a insistere sul motivo anticlericale e antiromano e, in alcune importanti occasioni, a distaccarsi dalla sua impostazione «separatistica»: tale linea si snodò dal suo appassionato sostegno alle leggi Siccardi, all'elaborazione e alla difesa della «legge sui conventi» fra il 1854 e il 1855 (il punto di maggior crisi del «separatismo» cavouriano), al suo disinvolto comportamento dopo la sconfitta elettorale del novembre 1857 14 • Ma il motivo separatistico-liberale riemerse negli ultimi mesi del 1860, dopo che l'esercito italiano, compiendo quella che lo stesso Cavour considerava una «violazione del catechismo del diritto pubblico internazionale» 15 , aveva invaso le Marche e l'Umbria, senza nemmeno attendere che scadessero i termini di un ultimatum, di per sé già piuttosto anomalo 16 • Fu durante il complesso tentativo di giungere a una soluzione della «questione romana», che lo statista piemontese condusse nell'inverno del 1861 attraverso Diomede Pantaleoni e il padre Passaglia, che emerse la celebre formula «Libera Chiesa in libero Stato», poi icasticamente ribadita nei discorsi parlamentari del 25 e 27 marzo 1861 alla Camera e del successivo 9 aprile in Senato:

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C. Cavour, Epistolario, VII (1850), a cura di R. Roccia, Firenze, Olschki, 1982,

p. 181. 14 R. Romeo, Cavour e il suo tempo (1842-1854), Roma-Bari, Laterza, 1977, pp. 428-442 (le leggi Siccardi e le ragioni politiche dell'atteggiamento cavouriano); pp. 791-799 (la manovra politica che sottostava alla «legge sui conventi»); Id., Cavour e il suo tempo (1854-1861), Roma-Bari, Laterza, 1984, pp. 114-141 (sulla «crisi Calabiana» e per una valutazione generale sulla «legge sui conventi», nella cui elaborazione Romeo sottolinea il ruolo del giurisdizionalismo anticlericale del guardasigilli Rattazzi); pp. 377-393 (sulle elezioni del 15 novembre 1857, la vittoria clericale e il successivo annullamento di 17 elezioni di deputati di Destra). 15 «La force des choses nous a démontré l'impossibilité de trouver une solution de la question italienne sans etre obligé à trancher sur le vif et violer le cathéchisme international»: questo giudizio cavouriano è riferito dall'inviato prussiano a Torino in un rapporto del 16 ottobre 1860, cit. in E. Passerin d'Entrèves, Appunti sull'impostazione delle ultime trattative del governo cavouriano colla S. Sede, per una soluzione della questione romana (novembre 1860-marzo 1861), in Chiesa e Stato nell'Ottocento. Miscellanea in onore di P Pim·, II, Padova, Antenore, 1962, pp. 563-595, 564. 16 Una lettera di Cavour, datata 7 settembre 1860, che chiedeva lo scioglimento immediato dei reparti stranieri in servizio nello Stato pontificio, fu consegnata 1'11 settembre al cardinale Antonelli: nello stesso giorno le truppe di Cialdini e Fanti varcavano la frontiera pontificia. La risposta (negativa) del segretario di Stato pervenne a Cavour soltanto il 13 settembre (G. Candelora, Storia dell'Italia moderna, IV, Dalla Rivoluzione nazionale all'Unità, Milano, Feltrinelli, 1964, pp. 494-495).

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Santo Padre, il potere temporale per voi non è più garanzia di indipendenza, rinunziate ad esso, e noi vi daremo quella libertà che avete invano chiesta da tre secoli a tutte le grandi potenze cattoliche; di questa libertà voi avete cercato strapparne alcune porzioni per mezzo di concordati, con cui voi, o Santo Padre, eravate costretto a concedere in compenso dei privilegi, anzi, peggio che dei privilegi, a concedere l'uso delle armi spirituali alle potenze temporali che vi accordavano un po' di libertà; ebbene, quello che voi non avete mai potuto ottenere da quelle potenze che si vantavano di essere i vostri alleati e vostri figli divoti, noi veniamo ad offrirvelo in tutta la sua pienezza; noi siamo pronti a proclamare nell'Italia questo gran principio: Libera Chiesa in libero Stato 17 •

Sul significato di quella formula, le sue fonti e i suoi scopi in quelle frenetiche settimane, la discussione storica è stata infinita 18 : essa tuttavia non può essere ridotta - come talvolta si è suggerito - a un abile escamotage per indurre la Santa Sede alla rinunzia del potere temporale. La questione che stava alla base del pensiero religioso cavouriano non era: «quale politica ecclesiastica assicura più efficacemente la maestà dello Stato? o la sua azione di controllo e di incivilimento della società civile?»; ma l'altra: «quale sistema maggiormente tutela la libertà religiosa dei cittadini?», in Italia in grande maggioranza cattolici. A tale domanda, il separatismo gli sembrava la risposta più adeguata: da qui la sua (sincera) insofferenza, da una parte per la tradizione giurisdizionalistica, giuseppinistica e tanucciana, dall'altra per le politiche concordatarie dell 'ancien régime 19 • Insomma quello cavouriano fu un «sepa17 Nel secondo discorso sulla questione di Roma capitale, tenuto alla Camera dei deputati il 27 marzo 1861: cito da C. Cavour, Stato e Chiesa, a cura di P. Alatri, Milano, Universale Economica, 1953, p. 144. 18 E. Passerin d'Entrèves, I precedenti della formula cavouriana «Libera Chiesa in libero Stato», in «Rassegna storia del Risorgimento», XLI (1954), pp. 494-506, e la breve, ma eccellente discussione storiografica condotta in Id., Cavour, Camilla Benso conte di, in Dizionario biografico degli italiani, XXIII (1979), pp. 120-138, 136-137, con la bibliografia precedente. 19 Nelle cosiddette Istruzioni segrete inviate a Pantaleoni e a Passaglia il 28 novembre 1860, Cavour aveva scritto tra l'altro: «unico scopo dei negoziatori dovrà essere di fare persuasi i delegati della Santa Sede dell'inutilità assoluta di qualunque negoziato sulle basi e sui principii dai quali gli antichi concordati erano informati. Nessuna concessione reciproca, che non implichi l'adozione leale e compiuta della massima "libera chiesa in libero Stato", sarà efficace. I.: èra dei concordati è passata». Ruffini riassumeva il pensiero del Cavour dicendo che «Cavour aborriva i concordati, che non avevano fatto mai, secondo il suo dire, se non consentire allo Stato usurpazioni a danno della Chiesa ed alla Chiesa usurpazioni a danno dello Stato» (F. Ruffini, La libertà religiosa come diritto pubblico subiettivò (1924), Bologna, Il Mulino, 1992, p. 330). Nei mesi successivi alla Conciliazione, Arrigo Solmi sfumava (con qualche ragione) questo giudizio: «sono note le condanne pronunciate dal conte di Cavour contro i concordati. Egli proclamò ripetutamente che l'era dei concordati è finita, che l'Italia non domanda di meglio che di gettare nel fuoco tutti i concordati. Ma è evidente che, nel suo pensiero, si tratta dei vecchi concordati che avevano obbligato la Chiesa a un regime di soggezione, sia pure privilegiata, e che avevano cancellato ogni libertà della Chiesa e dello

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ratismo» amico della religione, purché questa si liberasse da ogni preoccupazione temporalistica. Francesco Ruffini lo ricollegava al «separatismo antistatale» dei protestanti svizzeri, dei cattolici liberali francesi e dell'esperienza americana e lo distingueva nettamente dal «separatismo antiecclesiastico o, meglio ancora, antireligioso e anticristiano» 20 , che considerava proprio della storia francese, dalle leggi della Rivoluzione a quella di separazione del 9 dicembre 1905. Non si trattò nemmeno di un separatismo astrattamente dottrinario: pur di risolvere sia il problema dei rapporti dello Stato con la Chiesa che la «questione romana» d'accordo con la Santa Sede, Cavour percorse risolutamente la via della trattativa, disposto a giungere anche ad accordi formali, in qualche modo a una «conciliazione» con essa: lo testimonia la sua serrata azione diplomatica fra il 1860 e il 1861 21 • Eppure, nonostante quanto talora si ripete, la politica ecclesiastica della nuova Italia non fu «separatistica» à la Cavour: il principio di separazione venne in genere applicato nelle questioni in cui risultava sfavorevole alla Chiesa, ma più spesso era il principio dell'ingerenza statale a essere riconosciuto. «Chiesa non pienamente libera in libero Stato», così Ruffini avrebbe fotografato la situazione22 • Anche sul piano teorico, il «separatismo» in Italia ebbe vita breve e la nascente dottrina «ecclesiasticistica» gli voltò subito le spalle. Uno dei suoi pionieri, Francesco Scaduto, era apertamente critico della legge 13 maggio 1871, comunemente detta delle guarentigie, che costituiva un po' il perno del diritto ecclesiastico italiano: essa gli sembrava concedere troppo alle prerogative pontificie e soprattutto porre la religione cattolica in una posizione in qualche modo privilegiata, che di fatto risultava lesiva del principio di uguaglianza fra i culti. Ma nemmeno il suo grande avversario, appunto Ruffini, poteva dirsi un fautore del sistema «separatistico»: esso - sosteneva - era adatto a quei paesi in cui

Stato; non già di una nuova convenzione, ispirata dai principii della libertà religiosa, la quale avesse insieme risoluto la questione romana e regolato la piena libertà della Chiesa» (A. Solmi, Cavour e il Concordato, in «Corriere della Sera», 16 giugno 1929). 20 F. Ruffini, La libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo, cit., p. 318. Per la distinzione fra «correnti separatistiche antistatali» e «correnti separatistiche antiecclesiastiche», ibid., pp. 307-319; per una delineazione dell'ideale cavouriano, ibid., pp. 190-194, 319-333. 21 Cfr. E. Passerin d'Entrèves, Appunti sull'impostazione delle ultime trattative del governo cavouriano colla S. Sede, cit., p. 570, che parla di un conciliazionismo cavouriano, il quale «prenderà forma più distinta negli schemi predisposti nel novembre '60 per le trattative con Roma»; in senso analogo anche P. Scoppola, Chiesa e Stato, cit., p. 33 nota 1. 22 F. Ruffini, La libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo, cit., p. 361: Ruffini considerava il sistema italiano come una forma di «giurisdizionalismo liberale» o «mitigato» (ibid.).

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convivono diverse confessioni religiose, mentre rischiava di essere un politica irrealistica là dove (come in Italia) esisteva una religione largamente maggioritaria. Questa non poteva essere trattata come una semplice associazione di diritto privato, ma era necessario elaborare un'ampia legislazione che ne prevedesse funzioni e limiti23 • Insomma tutte queste sfumature del pensiero liberale erano figlie di quella vera e propria «serrata» delle fonti del diritto introdotta dalla rivoluzione francese: l'unico vero «ordinamento giuridico» era quello dello Stato, che aveva il diritto di regolare autonomamente, in virtù della propria sovranità, ogni aspetto della vita sociale, anche quella ecclesiastica. Giuridicamente - dal loro punto di vista - non esisteva la Chiesa, ma solo una serie di associazioni e di enti ecclesiastici presenti sul territorio nazionale, che andavano regolati in vario modo secondo gli indirizzi politici del governo. Si poteva negare loro la personalità giuridica (rendendo loro impossibile di essere titolari di beni), li si poteva lasciare sostanzialmente liberi di fissare le proprie regole, come una delle tante associazioni private sottoposte al diritto comune (era la soluzione preferibile per i separatisti) o li si poteva regolare meticolosamente attraverso interventi legislativi (per le varie gradazioni di giurisdizionalismo). Ciò che non riuscivano a concepire era che la Chiesa costituisse un ordinamento a se stante (un «ordinamento primario» od «originario», come si sarebbe detto poi), all'interno del quale vigesse un diritto diverso da quello statale. Come vedremo, perché si affermasse una siffatta concezione era necessario un deciso progresso nel pensiero giuridico, che giungesse a concepire l'esistenza di una pluralità di ordinamenti giuridici, ma soprattutto un mutamento dell'opinione pubblica, che superasse i tabù dell'Ottocento: ciò che avvenne solo dopo la prima guerra mondiale 24 • Ancora più estranei alla logica «separatistica» furono gli ambienti filosofici che elaborarono le basi culturali del nuovo regno: per gli hegeliani meridionali (Augusto Vera, Bertrando Spaventa, Francesco Fiorentino, Angelo Camillo De Meis) esso costituiva un'abdicazione al compito etico dello Stato, che doveva farsi portatore del «pensiero moderno», mentre il liberalismo cavouriano rischiava di ridurlo a un mero apparato amministrativo senza idee e privo di una volontà realmente emancipatrice della società civile25 • Irreligioso, spesso antireligioso fu il

23 Id., Libertà religiosa e separazione fra Stato e Chiesa (1913), in Id., Scritti giuridici minori, scelti e ordinati da M. Falco, A.C. Jemolo e E. Ruffini, I, Scritti di diritto ecclesiastico, Milano, Giuffrè, 1936, pp. 103-148; Id., La libertà religiosa come diritto pubblico subzéttivo, cit., pp. 502-506 (la polemica con Scaduto). 24 Cfr. più sotto, cap. II, paragrafi 4-7. 25 A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, cit., pp. 252-255 (per Bertrando Spaventa e Augusto Vera). Per De Meis e Silvio Spaventa (quest'ultimo

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pensiero pos1t1v1st1co, che si sviluppò proprio nel primo decennio del nuovo Stato: alcuni dei suoi maggiori esponenti (da Roberto Ardigò a Gaetano Trezza, al meno noto Stefano Bissolati) provenivano dalle fila del clero e considerarono il positivismo come una nuova fede, che doveva vincere l'oscurantismo dell'antica26 • Assai preoccupato dell'affermarsi di questi indirizzi di pensiero nella «nuova» Italia era il vecchio Mazzini, rimasto legato a un sistema filosofico-religioso in cui erano confluiti molti fermenti dell'età romantica: ma sul problema dei rapporti fra Stato e Chiesa non la pensava molto diversamente: «La separazione dello Stato dalla Chiesa è arma di difesa contro il guasto d'una Chiesa che non è più tale; può invocarsi per un periodo di transizione come rimedio», ma «gli uomini che riducono il problema al trionfo della formola: libera Chiesa in libero Stato, servono a una funesta, indegna viltà, o non hanno scintilla di fede morale nell'anima». Si trattava di andare oltre il vecchio cattolicesimo e promuovere una religione dell'avvenire, che avrebbe dovuto essere l'anima della futura repubblica, nella quale Cesare e Dio si sarebbero, in qualche modo ricongiunti: allora il potere civile sarebbe stato «il mandatario, l'esecutore [... ] del disegno di Dio»27 • si distingueva, almeno in parte, dall'anti-separatismo degli altri hegeliani), cfr. L. Russo, Francesco De Sanctis e la cultura napoletana, nuova ed., Roma, Editori Riuniti, 1983, pp. 291-304; per l'ostilità di F. De Sanctis alla «libertà della Chiesa», ibid., pp. 304315: esemplare il suo discorso dell'8 luglio 1867 nel dibattito parlamentare sulla liquidazione dell'asse ecclesiastico, riportato in P. Scoppola, Chiesa e Stato, cit., pp. 56-62. 26 Commemorando Ardigò in Senato, il 17 settembre 1920, il ministro Croce avrebbe ricordato «il dramma di molti altri, allora in Italia, nei primi anni dell'unità nazionale, che passarono dal sacerdozio ecclesiastico a quello civile», facendo i nomi di Bertrando Spaventa, Gaetano Trezza, Filippo Abignente, Baldassare Labanca, Ausonio Franchi, per restringersi ai soli filosofi, ma avrebbe potuto aggiungere Donato Jaja (B. Croce, Discorsi parlamentari, con un saggio di M. Maggi, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 81). Proprio l'apostasia di Ardigò, sacerdote dal 1851 e canonico del duomo di Mantova, si sviluppò tra il 1869 e il 1871 e ha, nella situazione italiana, un grande valore simbolico, soprattutto se si tiene anche conto dello sfondo mantovano: l'esaltazione di Pomponazzi come libero pensatore, compiuta da Ardigò in un discorso del marzo 1869, segnò la rottura dottrinale; la protesta contro la definizione dell'infallibilità pontificia nel 1870, quella disciplinare: il tutto sotto gli occhi del suo maestro, mons. Luigi Martini, l'autore de Il confortatorio di Mantova e una delle più belle figure di sacerdote liberale e patriota di quei decenni, dal 1868 vicario capitolare della diocesi. Nel 1871 la Santa Sede avrebbe mandato a Mantova in qualità di vescovo l'intransigente mons. Pietro Rota, alla cui nomina il governo Minghetti negò l'exequatur; fu allora che il Mantovano divenne teatro dell'esperienza di elezione popolare dei parroci tentata dal marchese Carlo Guerrieri Gonzaga (cfr. F. Ruffini, L'elezione popolare dei parroci (1913), in Id., Scritti giuridici minori, cit., pp. 337-342; F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, cit., pp. 251-258). 27 Cit. in G. Salvemini, Mazzini (1925), ora in Id., Scritti sul Risorgimento, a cura di P. Pieri e C. Pischedda, Milano, Feltrinelli, 197}2, p. 17 6, ma cfr. tutte le pp. 175178 per le considerazioni di Salvemini.

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Insomma, nell'Italia post-unitaria tramontò quasi subito ogni prospettiva di «separatismo antistatale» (per richiamare la distinzione di Ruffini): vita altrettanto effimera ebbero le speranze di una riforma interiore della Chiesa, promossa ab extra dal potere politico, per renderla adatta a un regime di libertà (questo fu l'orizzonte di Bettino Ricasoli) 28 • Nella politica ecclesiastica che si venne subito affermando (almeno dalle leggi di liquidazione dell'asse ecclesiastico del 1866-67), furono invece forti le persistenze della tradizione giurisdizionalistica, i cui principali esponenti (da Mancini a Crispi) giunsero al potere dopo il 1876, con l'avvento della Sinistra. In questa parabola si deve certamente scorgere una risposta all'irrigidimento della Chiesa a difesa dei suoi residui privilegi e della sopravvivenza dello Stato pontificio e ai suoi pronunciamenti dogmatici di quegli anni, dal Sillabo al dogma dell'infallibilità papale, ma senza dubbio ci fu anche dell'altro. In consistenti frazioni della classe dirigente e della élite culturale emerse anche la volontà di un redde rationem conclusivo con la presenza cattolica nella società italiana, avvertita come un elemento di arretratezza da superare o addirittura come un nemico da abbattere: «l'Italia, creatrice del Papato, doveva distruggere il Papato, doveva spaparsi», in questo doveva ormai consistere la sua «missione»29 •

A.C. }emolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, cit., pp. 204-208. F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, cit., p. 227, ma più in generale pp. 210-283. Sull'ingente produzione normativa che ne derivò, cfr. la panoramica di F. Margiotta Broglio, Legislazione italiana e vita della Chiesa (18611878), in Chiesa e religiosità in Italia dopo l'Unità (1861-1878), Atti del IV convegno di storia della Chiesa, La Mendola 21 agosto-5 settembre 1971, I, Milano, Vita e pensiero, 1973, pp. 101-146. Sulla cultura laico-anticlericale di quei decenni, cfr. G. Verucci, I.:Italia laica prima e dopo l'Unità 1848-1876. Anticlericalismo, libero pensiero e ateismo nella società italiana, Roma-Bari, Laterza, 1981; Id., Cattolicesimo e laicismo nell'Italia contemporanea, Milano, Franco Angeli, 2001, pp. 205-288. Un discorso analogo si può fare anche riguardo alla cultura letteraria: uno sguardo, anche superficiale, ci mostra una serie di gruppi letterari (dagli scapigliati ai carducciani, ai veristi, agli «esteti» dei primi anni Novanta) in cui la sensibilità religiosa è completamente assente: l'eclissi del manzonismo, evidente dopo il 1870, la debolezza dei suoi epigoni (da Bonghi a Zanella), la fortuna crescente della poesia, tutta classica e pagana, di Carducci (che nel decennio precedente era stato il poeta dell'anticlericalismo italiano) sono fra gli indicatori più significativi del nuovo clima. È tutta una generazione che si stacca dal cristianesimo: non si può essere «colti» e, al tempo stesso, cristiani in epoca di darwinismo e scientismo laicista. Da qui il carattere eccezionale e controcorrente di alcune conversioni, come quella di Fogazzaro e, più tardi, nella Roma sommarughiana, di Giulio Salvadori (sulle quali, v. T. Gallarati Scotti, La vita di Antonio Fogazzaro. Dalle memorie e dai carteggi inediti (1920), Milano, Mondadori, 1982, pp. 63-70; e il pregevolissimo vol. di N. Vian, La giovinezza di Giulio Salvadori. Dalla stagione bizantina al rinnovamento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1962). 28

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3. La nuova Italia Cavour non era rimasto soddisfatto dell'art. 1 dello Statuto Albertino, che affermava che «la Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato» e che «gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi» (ma l'art. 24, d'altra parte, affermava che «tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono uguali dinanzi alla legge» e che «tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili e militari, salve le eccezioni determinate dalle leggi») 30 e, ancora nel maggio del 1848, lamentava che la carta fondamentale del regno di Sardegna non avesse solennemente proclamato la libertà di coscienza e di culto. In questi delicatissimi problemi, il governo - questa la sua analisi - aveva preferito muoversi con leggi ordinarie e avrebbe continuato «in questa pratica via», emendando successivamente «tutte le disposizioni nei nostri codici penale e civile contenute, che con essa [libertà] contrastano tuttora»31 • Prima del 1848, quello piemontese era stato un regime tipicamente giurisdizionalistico: la Chiesa vi godeva di alcuni, importanti privilegi, come il diritto d'asilo, il privilegio del foro ecclesiastico, l'esenzione degli ecclesiastici dalla leva militare, il carattere esecutivo delle sentenze dei tribunali ecclesiastici anche nel territorio dello Stato, che doveva provvedere alla loro esecuzione. I beni ecclesiastici erano almeno in parte immuni dai pubblici tributi e l'autorità ecclesiastica aveva la facoltà di stabilire imposizioni in favore di alcuni benefici. Ma questi privilegi avevano come contropartita una notevole ingerenza del potere civile nella sua vita: la Corona aveva potere d'intervento nella nomina dei vescovi (il placet) e rendeva (o meno) esecutivi gli atti ecclesiastici provenienti dalla Santa Sede, relativi a ogni materia che non fosse puramente religiosa (l'exequatur). Con il cosiddetto appello per abuso, i sudditi, laici o ecclesiastici, avevano la possibilità di ricorrere al potere civile contro gli «abusi» dei ministri del culto32 •

30 C. Cavour, I critici dello Statuto e la sua pretesa intangibilità, in «Il Risorgimento», 10 marzo 1848, poi in Id., Scritti politici, nuovamente raccolti e pubblicati da G. Gentile, Roma, Anonima romana editoriale, 19302, pp. 97-99 «Ma, dicesi, la libertà dei culti non è pienamente riconosciuta. Ciò è vero. E da questo lato dichiariamo non essere lo Statuto del tutto conforme ai nostri desiderii. Tuttavia ci pare essere questa questione più di parole che di fatti. L'emancipazione dei protestanti ha fatto sparire una parte delle fondate obiezioni a cui l'articolo primo poteva dar luogo. Non dubitiamo che la prossima emancipazione [degli israeliti] ridurrà quest'articolo ad essere nella pratica un semplice omaggio reso alla religione cattolica, al quale faremo allora plauso di tutto cuore». 31 Id., Per la libertà di coscienza e di culto, in «Il Risorgimento», 18 maggio 1848, poi ibid., pp. 188-189. 32 V. Del Giudice, La questione romana e i rapporti fra Stato e Chiesa /t'no alla

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La linea di politica ecclesiastica dei decenni successivi seguì la «pratica via» della legislazione ordinaria preconizzata da Cavour: essa ridusse drasticamente i privilegi della Chiesa e attenuò, senza tuttavia eliminarli, i poteri di intervento da parte dello Stato. In tal modo il nuovo regno (e prima ancora quello di Sardegna negli anni '50) seguiva il cammino che molti altri stati europei avevano già percorso: cercò di eliminare ogni divario di origine religiosa nel godimento dei diritti civili e politici; fin dal 1848 negò il diritto di associazione ai Gesuiti, considerandoli una setta politica pericolosa per le istituzioni liberali; con le leggi Siccardi del 1850 abolì il diritto degli ecclesiastici di essere giudicati in tribunali privilegiati e più tardi (1869) li sottopose all'obbligo di leva. Regolò con leggi dello Stato tutta una serie di materie prima improntate da un carattere confessionale, istituendo i registri dello stato civile, regolando in forme nuove il giuramento, e riordinando la legislazione cimiteriale (la legge del 1888 prevedeva appositi cimiteri anche per gli acattolici e proibiva ogni sepoltura disonorata). Mentre il Codice Albertino del 1837 prevedeva l'obbligatorietà del matrimonio religioso per tutti i cattolici (in sostanza, tutti i battezzati - se volevano sposarsi - non potevano che farlo sacramentalmente), il codice civile del 1865 introdusse l'esclusività del matrimonio civile (tutti i cittadini dovevano sposarsi civilmente; i cattolici, se volevano, potevano aggiungere il matrimonio religioso): si scelse, quindi, di evitare la coesistenza dei due matrimoni (cioè il riconoscimento di effetti civili al matrimonio religioso) e questo scomparve dal codice civile. Infine la legge Crispi del 1890 riformava e laicizzava le opere pie, escludendo dalle congregazioni di carità gli ecclesiastici con cura d' anime e prevedendo l'assistenza senza distinzione di culto. Particolarmente incisivo fu l'intervento sul terreno scolastico, dove venne strutturato un curriculum autonomo e fortemente laico e nel 1873 vennero abolite le facoltà di teologia nelle università. Un problema delicato è sempre stato quello dell'insegnamento religioso: la legge Casati del 1859 svincolava l'istruzione pubblica dall'autorità ecclesiastica, ma prevedeva ancora la figura del direttore spirituale abolita poi nel 1877. Nella scuola elementare era prescritta l'ora di religione con un esame finale: da essa, tuttavia, era possibile una espressa domanda di esonero. La legge Coppino del 1877 ribaltava la situazione: l'insegnamento religioso diventava facoltativo, era il genitore che doveva espressamente dichiarare di avvalersene (il silenzio comportava il non insegnamento); non era previsto un esame di religione e la mate-

Conciliazione, con considerazioni sui Patti Lateranensi e sull'art. 7 della Costituzione Repubblicana, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1947, p. 200.

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ria era insegnata dai maestri. Poiché l'insegnamento primario era nelle mani dei comuni, una larga parte nella determinazione dei programmi e nelle assunzioni ebbero le amministrazioni locali: risultava quindi determinante l'orientamento delle forze politiche che controllavano i singoli municipi. D'impronta nettamente giurisdizionalistica era la teoria che considerava il sovrano proprietario eminente anche di tutti i beni ecclesiastici, da ciò facendo derivare la facoltà di incamerare tali beni con leggi ad hoc. Fu questa, sostanzialmente, la base giuridica delle leggi eversive dell'asse ecclesiastico che furono emanate nel 1855 nel regno di Sardegna e nel 1866 e 1867 nel regno d'Italia e poi trasferite, dopo l'annessione del Lazio, anche a Roma e al suo territorio. A rileggere quelle discussioni, ci troviamo di fronte a molteplici motivazioni ideologiche e politiche: un giudizio sprezzante verso gli ordini religiosi contemplativi, ritenuti socialmente inutili; l'esigenza economica di spezzare la manomorta e di permettere un più adeguato sfruttamento delle terre liberate dai vincoli precedenti; l'opportunità o la necessità di influire, sia pure indirettamente, su una riforma interna della Chiesa, attuando, al suo interno, un'equa ridistribuzione della ricchezza 33 • Se ci si accosta poi alla realtà politica, ci si rende conto che, sia nel 1854-55 che dodici anni dopo, si imboccò la via di «minore resistenza»: nel primo caso, l'indirizzo politico anticlericale ebbe lo scopo di allargare la base politica del ministero Cavour-Rattazzi «nell'unica direzione compatibile con i suoi obbiettivi liberali e nazionali» 34 , cioè verso sinistra. Si ripeteva, insomma, lo stesso rapporto che era intercorso fra le leggi Siccardi e la successiva operazione del «connubio». L'uomo di punta della grande manovra politica che si attuò attorno alla legge sui conventi fu Urbano Rattazzi, con la sua concezione giacobina dello Stato «come forza destinata a realizzare le istanze di liberazione e di progresso volute dalla coscienza moderna», concezione assai lontana dal garantismo della ortodossia }uste-milieu in cui si erano formati Cavour e gli altri liberali di provenienza moderata35 • Nel 1866-67 fu la disastrosa situazione finanziaria del nuovo regno e la speranza che la vendita del patrimonio ecclesiastico potesse

33 Ibid., pp. 206-207, 209-210. Sulla legislazione ecclesiastica sarda e italiana fra il 1848 e il 1867, molto utile è il vol. di G. D'Amelio, Stato e Chiesa. La legislazione ecclesiastica fino al 1867, Milano, Giuffrè, 1961, con ampia scelta di testi; per quella successiva, cfr. A.C. }emolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, cit., pp. 175-190, 329-359. 34 R. Romeo, Cavour e il suo tempo (1842-1854), cit., p. 792. 15 Ibzd., pp. 786-787.

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contribuire a sanare il deficit del bilancio, molto aggravato dalla terza guerra d'indipendenza, che spinse il governo La Marmara e poi quello Rattazzi a condurre in porto le leggi 7 luglio 1866 e 15 agosto 1867: con la prima si sopprimevano le congregazioni religiose, cioè si negava loro la personalità giuridica e, quindi, la titolarità del diritto di proprietà di terre, conventi e monasteri. I loro fabbricati passavano ai comuni e alle province per uso pubblico (scuole, asili, ospedali) e i loro libri e fondi documentari venivano depositati nelle biblioteche e nei musei delle rispettive province: da una stima approssimativa, nove edifici pubblici su dieci nell'Italia di fine Ottocento sono beni incamerati. Con la seconda si decideva la soppressione degli enti ecclesiastici residui e si stabilivano le modalità dell'alienazione del patrimonio immobiliare rimasto «vacante». Furono due leggi «poco felici» 36 , che - fra l'altro - non sortirono gli effetti economico-sociali sperati (la creazione di una piccola proprietà indipendente), ma che intervennero drasticamente nel tessuto religioso del paese: dispersero la maggior parte delle comunità maschili (soprattutto quelle degli ordini mendicanti e monastici) e cercarono di impedire il reclutamento degli istituti femminili, lasciando in gravi ristrettezze i superstiti3 7 . Ognuna di queste scelte aprì contrasti gravissimi con la Chiesa, che li considerò come un tentativo di scristianizzare la società italiana e di mutarne i tradizionali assetti culturali: Il così detto regno d'Italia, - scriveva la «Civiltà cattolica» a proposito della legge del '67 - nato col latrocinio e col sacrilegio, non per altre vie, che per queste cerca di conservarsi. [ .. .] Invano dai pochi onesti e coraggiosi si gridò che

36 Questo il giudizio di F. Ruffini, La libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo, cit., p. 363. Sul loro carattere «affrettato» e sul mancato raggiungimento dei loro obiettivi economico-sociali, cfr. G. Luzzatto, !..:economia italiana dal 1861 al 1894, Torino, Einaudi, 19743, pp. 28-32, 106-109. 37 Si veda l'accurata indagine di G. Martina, La situazione degli istituti religiosi in Italia intorno al 1870, in Chiesa e religiosità in Italia dopo l'Unità (1861-1878), cit., pp. 194-335: Martina analizza con grande equilibrio la situazione precedente l'eversione dell'asse ecclesiastico, che era già densa di problemi disciplinari e religiosi; e i vari modi con cui gli istituti cercarono di conservare o di recuperare poi i beni perduti. Fra i tanti escamotages, diffuso fu il sistema della «tontina» (una società anonima, i cui membri potevano essere sostituiti via via senza difficoltà e che poteva esistere senza limiti) e quello delle «pie frodi» (privati cittadini diventavano prestanomi delle comunità religiose nella titolarità dei beni ecclesiastici, etc.). Forse la situazione più grave fu quella della Compagnia di Gesù, la cui dispersione era già iniziata nel 1848 (nel regno di Sardegna): cfr. Id., Storia della Compagnia di Gesù in Italia (1814-1983), Brescia, Morcelliana, 2003, pp. 73-88, 115-143. Per la situazione della provincia romana, cfr. l'ampia ricerca di C.M. Fiorentino, Chiesa e Stato a Roma negli anni della Destra storica: il trasferimento della capitale e la soppressione delle Corporazioni religiose, Roma, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 1996.

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questo era un attentato sacrilego contro quella Chiesa che il primo articolo dello Statuto proclama unica religione dello Stato. Invano si aggiunge che questa era una offesa flagrante di un altro importantissimo articolo di esso Statuto, col quale si dichiarano inviolabili tutte le proprietà, senz'alcuna eccezione. La gran maggioranza di quei due grandi consessi riputò che ad infirmare e ridurre al niente queste ragioni, bastasse la argomentazione fatta dal relatore della legge, e ripetuta pecorilmente dagli altri grandi oratori che gli fecero eco. E qual era codesta argomentazione? A spremere il sugo essa riducesi al seguente raziocinio: lo Stato ha diritto di spegnere l'ente morale. Spento l'ente morale, lo Stato ha diritto di attribuirsene la proprietà, come legittimo erede, trattandosi di beni vacanti. Ora questo e non altro fa la proposta legge. Dunque essa è giustissima e non offende la religione. L'argomento non è nuovo. Esso è il medesimo che facevano quei col0ni, narrati dall'Evangelio, i quali, scorto il figliuolo del padrone, dissero fra loro: «Ecco l'erede. Uccidiamolo, e così ci carpiremo l'eredità sua: Hic est haeres; venite, occidamus euro et habebimus haereditatem eius»38 •

In Italia questo processo di laicizzazione della vita nazionale si intrecciò strettamente fin dall'inizio con la «questione romana», il cui atto di nascita «ufficiale» può essere segnato all'll ottobre 1860, quando Cavour pronunciò alla Camera il discorso sul progetto di legge per l'annessione delle province dell'Italia centrale e meridionale: vi furono appunto toccati, tra gli altri, i «due dolorosi, ma delicati argomenti: Roma e Venezia»39 . Durante la drammatica crisi internazionale dell'estate del 1870, il governo italiano (governo di Destra, i cui uomini forti erano i piemontesi Giovanni Lanza e Quintino Sella, rispettivamente presidente del consiglio e ministro delle finanze, e il lombardo Emilio Visconti Venosta, che reggeva il ministero degli esteri) decise di risolvere quella questione manu militari, mediante una spedizione dell'esercito regolare (negli anni precedenti erano state bloccate, spesso sanguinosamente, le iniziative di volontari e di rivoluzionari). L'intervento a Roma fu meticolosamente preparato sul piano diplomatico attraverso una serie di memorandum e di circolari alle maggiori potenze, specialmente quelle cattoliche, di cui si cercò di ottenere il consenso al passo che ci si apprestava a fare o che si era appena fatto, ribadendo la ferma volontà del governo italiano di assicurare al papa il libero esercizio della sua missione spirituale. Della comunicazione avuta, i vari Stati dichiararono di prendere atto 38 L'asse ecclesiastico, in «La Civiltà cattolica», luglio 1867, ora in G. D'Amelio, Stato e Chiesa. La legislazione ecclesiastica fino al 1867, cit., pp. 604-606, da cui si cita. Di diversissimo tenore, owiamente, ma pieno di gravi perplessità fu anche il commento di R. Bonghi, I:asse ecclesiastico, in «La Perseveranza», 19 maggio 1867 (ibid., pp. 574-577), che lamentava «i passi precipitosi e falsi, che, dopo morto Cavour, per la poca mente e la poca autorità o poco animo di quelli che gli sono succeduti, sono stati fatti nella quistione ecclesiastica». Il volume della D'Amelio offre una ricchissima documentazione sulle due leggi del 1866-1867 (ibid., pp. 428-606). 39 C. Cavour, Stato e Chiesa, cit., pp. 103-106.

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(la Prussia affermò addirittura di disinteressarsi della cosa), ma non ci

fu nessun riconoscimento ufficiale dell'annessione di Roma all'Italia e della fine del potere temporale: situazione questa che avrebbe poi non poco condizionato la politica estera del governo italiano e della Santa Sede nei decenni successivi. La presa di Roma fu quindi essenzialmente un'azione diplomaticomilitare decisa da un governo, che scelse consapevolmente una linea di understatement, piuttosto che quella delle solenni dichiarazioni di principio o dell'ostentazione di forza (e questo, allora e poi, gli venne ripetutamente rimproverato da parte di coloro che avrebbero voluto che ne venisse invece sottolineato il valore ideologico e la portata «universale»): ma indubbiamente presentò anche un elemento di radicalità, di cui quei pur prudenti uomini di Destra si dimostrarono capaci. La via della trattativa preventiva fu percorsa senza molta convinzione e quand'ormai la scelta dell'intervento militare era stata compiuta; anche l'opzione cavouriana di uno «scambio» fra rinunzia al potere temporale e libertà della Chiesa fu messa da parte. A cose fatte, tuttavia, la maggioranza della classe dirigente awertì che non era sufficiente (come pure era richiesto da una parte della Sinistra) il puro rinvio al «diritto comune», che cioè venisse riconosciuta l'uguaglianza di tutte le credenze religiose di fronte alla legge, l'indipendenza e la libertà dei loro ministri e, in questo quadro, anche quella del pontefice. Si ritenne invece in qualche modo inevitabile «istituzionalizzare» il rapporto fra lo Stato italiano e la Santa Sede e fissare le garanzie e le prerogative che andavano riconosciute al papa in modo esclusivo: fu su questa base che, dopo un complesso iter parlamentare, si giunse all'approvazione della legge 13 maggio 1871, «sulle prerogative del Sommo Pontefice e della Santa Sede e sulle relazioni della Chiesa con lo Stato», comunemente detta delle «guarentigie». Essa risultava da un'imperfetta conciliazione delle tradizioni liberali cavouriane con quelle giurisdizionalistiche, specialmente della scuola giuridica napoletana. Il titolo I della legge conteneva una serie di riconoscimenti eccezionali al capo della Chiesa, la cui persona era dichiarata «sacra e inviolabile», a cui si attribuivano onori sovrani, la disponibilità dei palazzi del Vaticano, del Laterano, della Cancelleria e di Castel Gandolfo; la facoltà di tenere guardie armate; la libertà di comunicazioni postali e telegrafiche; la rappresentanza diplomatica attiva e passiva. La legge assicurava alla Santa Sede una rendita annua pari a quella prevista nell'ultimo bilancio dello Stato pontificio per il mantenimento del pontefice, della sua corte, delle sue residenze e prevedeva anche la situazione di sede vacante, garantendo il libero svolgimento del conclave. Tutta queste disposizioni parvero, allora e poi, eccessive a quanti vi scorgevano in nuce il rischio di un qualche riconoscimento di sovranità: a questo proposito nessuno fu più esplicito di Francesco Crispi nel suo intervento alla Camera del 3 febbraio 1871:

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Voi, ammettendo per il Papa una sovranità sui generis, [. .. ] e dichiarando la sua inviolabilità, implicitamente darete ragione a coloro i quali opinano che il Papa per l'esercizio del ministero spirituale ha bisogno del potere temporale. Poco importa che egli sia il Sovrano temporale del Vaticano o del piccolo Stato che abbiamo distrutto coi cannoni nel mese di settembre 1870. Non è questione di un terreno più o meno angusto. Basta un palazzo, basta una casa, la quale poi distaccate, con una finzione giuridica, dal territorio nazionale per farne l'asilo e la base di un'autorità sovrana, perché questa abbia diritto a un più esteso dominio. Al Papa voi dovete ogni libertà, ma non dovete costituire una potenza giuridica che non è conforme alla legge40 .

Ma anche il secondo titolo della legge mostrava aspetti problematici: veniva abolita «ogni restrizione speciale all'esercizio del diritto di riunione dei membri del clero cattolico», si rinunciava ad alcuni diritti storici come la «legazia apostolica in Sicilia», non si richiedeva più ai vescovi di prestare giuramento al re. Con queste disposizioni lo Stato italiano rinunziava ad alcuni tipici strumenti giurisdizionalistici e quindi riformava in senso liberale la propria legislazione ecclesiastica. Con intenti analoghi, la legge delle guarentigie non ammetteva l'appello per abuso (il ministro del culto colpito non poteva più appellarsi al tribunale dello Stato contro un provvedimento ecclesiastico in materia spirituale e disciplinare), ma escludeva parallelamente ogni esecuzione coatta di quegli atti dell'autorità ecclesiastica. Il nodo più intricato restava quello del placet e dell'exequatur: Io Stato italiano rinunziava a ogni diritto di nomina o di proposta alle sedi vescovili (di cui si erano avvalsi tutti gli antichi Stati italiani, dal Piemonte al regno delle due Sicilie e di cui si avvalevano tuttora governi cattolici come quello bavarese, austro-ungarico e spagnolo), ma si riservava quello di sottoporre la nomina fatta dal papa alla propria approvazione. Questo almeno finché non si fosse provveduto (come prevedeva l'art. 18 della legge) al generale riordinamento della proprietà ecclesiastica: l'exequatur, infatti, permetteva al vescovo di entrare in possesso delle temporalità beneficiarie (così si esprimeva la dottrina giuridica del tempo), cioè del patrimonio della diocesi. Si trattava di una chiara persistenza giurisdizionalistica: non a caso gli ultimi cavouriani, come Minghetti, avrebbero voluto che fosse varata subito una legge applicativa dell'art. 18, con una redistribuzione della proprietà ecclesiastica per diocesi e una sua amministrazione da parte di congregazioni con forte presenza laica (ridimensionando così il potere economico del vescovo): ciò avrebbe permesso una rinunzia completa all'exequatur e una totale libertà di nomina da parte della Santa Sede. Di fatto, l'articolo 18 non trovò mai applicazione e il governo italiano 40

p. 89.

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F. Crispi, Discorsi parlamentari, II, Tipografia della Camera dei deputati, 1915,

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mantenne l'exequatur: così rifiutò più volte, almeno nei primi anni, la propria sanzione a diverse nomine vescovili, soprattutto per presuli in fama di intransigenti41 • Nella legge, insomma, convivevano esigenze diverse, che crearono, allora e poi, innumerevoli aporie interpretative: d'altra parte si trattava di uno «stato di cose unico al mondo» ed era praticamente impossibile regolarlo con i concetti consueti della scienza giuridica. Questo leader religioso a cui venivano riconosciuti attributi sovrani, senza che godesse di alcuna sovranità; che poteva ricevere o inviare ambasciatori senza essere a capo di uno Stato; questa porzione di territorio italiano (tale era, come vedremo, il Vaticano), in cui, però, le autorità del regno non potevano entrare senza il consenso di colui che vi era ospite: tutto ciò, e altro ancora, testimoniava di una «posizione di fatto senza precedenti nella storia», che ebbe bisogno di un diritto del tutto singolare per essere regolata42 • Nel complesso, tuttavia, l'apprezzamento che giuristi, storici e uomini politici di parte liberale mostrarono allora e poi per la legge è giustificato: essa riuscì a far convivere le due autorità, sia pure con momenti di grande tensione, per oltre cinquant'anni e a preparare

41 Per il problema generale, cfr. F. Ruffini, I.: «exequatur» alla nomina dei vescovi (1913 ), in Id., Scritti giuridici minori, cit., pp. 329-333. Per le proposte di applicazione dell'art. 18 (e le aspirazioni di riforma ecclesiastica che vi erano connesse), cfr. F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, cit., pp. 248-251. Fino al 1876, la Santa Sede ammise che chiedessero l'exequatur solo i vescovi di quelle regioni (come il Piemonte e la Lombardia) per le quali era riconosciuta la legittimità dello Stato italiano: per tale motivo, nel 1874 ben 33 vescovi furono allontanati dalle loro sedi per ordine del ministro Vigliani (G. Spadolini, L'opposizione cattolica da Porta Pia al '98, Firenze, Vallecchi, 19665, p. 103). Fu nel 1876 che la Congregazione dell'Indice consentì la richiesta a tutti i vescovi. Un problema connesso a queste procedure era quello della figura giuridica del vescovo privo di exequatur (nel 1893 ce n'erano ben 22). Secondo alcuni, egli poteva assumere il governo della diocesi a cui era stato nominato per la parte spirituale (questo ammisero dopo il '71 gli uomini della Destra, che permisero talvolta anche di più). Per Ruffini (L'«exequatur» alla nomina dei vescovi, cit., p. 333), questa interpretazione non era fondata. Con l'allentamento delle tensioni fra Italia e Santa Sede, i casi di mancato exequatur furono sempre più rari: per questo fece grande clamore quello negato alla nomina di mons. Andrea Caron ad arcivescovo di Genova nel 1912, questione poi risolta con un compromesso (concessione dell' exequatur da parte del governo italiano seguita immediatamente dalla rinunzia di Caron) alla fine del 1914: cfr. F. Margiotta Broglio, Italia e Santa Sede dalla grande guerra alla Conciliazione. Aspetti politici e giuridici, Bari, Laterza, 1966, pp. 16-19 e 261-286 (docc. 1-9). Per il ruolo svolto nella soluzione della questione da Vittorio Emanuele Orlando, ministro di grazia e giustizia nel governo Salandra, cfr. V.E. Orlando, Miei rapporti di governo con la 5. Sede, Milano, Garzanti, 1944, pp. 26-28. 42 Ricavo queste osservazioni dal commento di Ruffini alla legge delle guarentigie, in E. Friedberg, Trattato del diritto ecclesiastico cattolico ed evangelico, edizione italiana riveduta in collaborazione con l'autore ed ampiamente annotata per rispetto al diritto italiano dall'aw. Francesco Ruffini, Torino, Bocca, 1893, pp. 252-257.

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poi nuove situazioni. Nel 1929, come abbiamo visto, anche il clericale senatore Crispolti lo avrebbe riconosciuto. Eppure la legge delle guarentigie, anche a prescindere dal suo contenuto, non poteva essere accettata dalla Santa Sede e non lo fu mai: il giorno stesso della sua pubblicazione, Pio IX la respinse con l'enciclica Uhi nos, come aveva duramente protestato il 1° novembre precedente contro la conquista italiana di Roma. Nella posizione del papa confluivano diverse argomentazioni: il dominio temporale era necessario «affinché lo stesso Romano pontefice, non [fosse] soggetto giammai a nessun Principe o civile Potestà» e potesse quindi «con pienissima libertà, esercitare in tutta la Chiesa la suprema potestà ed autorità»; e il «civile principato della Santa Sede» non era un accessorio di cui il papa potesse liberamente disporre, ma una prerogativa assegnatagli «per singolare consiglio della divina Provvidenza» e che era suo assoluto dovere preservare e difendere. Infine era presente anche una più generale preoccupazione religiosa, il timore per la politica interna del nuovo Stato italiano e il ruolo che vi giocavano le correnti politiche anticlericali, quando non anticristiane43 • Il punto cruciale dello scontro era tuttavia un altro: da parte del governo italiano si sosteneva l'estinzione dello Stato Pontificio per debellatio e si affermava che il regno d'Italia era completamente subentrato nella sovranità di cui fino ad allora era stato titolare il pontefice. Per conseguenza anche il Vaticano e i palazzi apostolici rientravano completamente sotto la sovranità esclusiva dello Stato italiano e al papa non poteva essere riconosciuto alcun potere di carattere territoriale. Così la condizione speciale stabilita per lui e per gli enti della Santa Sede nel diritto pubblico italiano non era il risultato di una trattativa o di un patto fra enti sovrani, ma di una determinazione unilaterale del regno d'Italia. Era nell'ordine italiano che la legge 13 maggio 1871 assicurava particolari immunità a persone investite di attribuzioni supreme nella gerarchia ecclesiastica e garantiva la libertà nell'esercizio di tali attribuzioni. La Santa Sede e i suoi giuristi misero sempre in rilievo che l'accettazione di una tale situazione avrebbe comportato il riconoscimento del diritto dello Stato di regolare, secondo i suoi criteri, la condizione della Santa Sede, e inoltre sottolinearono il carattere mutevole di quella legge, soggetta, come ogni altra di carattere interno, ai cambiamenti delle maggioranze e dell'opinione pubblica. Da allora, per oltre cinquant'anni, i vari pontefici e i loro più diretti collaboratori rinnovarono sempre le proteste per l'insostenibile situazione in cui dicevano di trovarsi: ebbero sempre il timore che una loro attenuazione

43 Per tutto ciò i molti riferimenti presenti in G.M. Vian, La donazione di Costantino, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 190-199.

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potesse essere scambiata per una tacita accettazione dello status quo e quindi riducesse il loro potere contrattuale44 • Anche dall'altra parte, nella classe dirigente liberale e nella cultura giuridica dominante, rimasero a lungo (almeno fino alla Grande Guerra) dei punti fermi su cui si riteneva di non poter transigere: in primo luogo, che non si potesse giungere a una soluzione della questione romana, e in generale del problema dei rapporti tra Stato e Chiesa, attraverso accordi formali di portata internazionale fra il regno d'Italia e la Santa Sede; e poi che la risoluzione di quella questione non potesse avvenire con l'ammissione di una qualsiasi sovranità territoriale da parte della Santa Sede (in entrambi i casi si temeva un ridimensionamento della sovranità dello Stato) 45 • Nel 1893 lo ribadiva a chiare lettere il giovane Ruffini, annotando per il pubblico italiano il Trattato di diritto ecclesiastico del suo maestro tedesco Emil Friedberg (autore di alcune leggi del Kulturkampf di Bismarck): Prescindendo quindi da ogni riguardo politico, chi consideri la posizione del Sommo Pontefice dal punto di vista del diritto italiano, questo solo potrà dire, che per lui venne creato in conformità della sua posizione singolarissima, come capo di una corporazione o istituzione non solo privilegiata entro lo stato, ma mondiale, un ius singulare; il quale però va, come di ragione, interpretato ed applicato restrittivamente. E dato che la legge parla soltanto, e non poteva altrimenti, di onori sovrani e di preminenze d'onore, così non può dirsi che conceda la sovranità, che è ben altra cosa; e dato che né di estraterritorialità, né di alcun diritto di giurisdizione è fatta parola, così non si può dire che queste cose spettino al Pontefice. Quanto alla personalità internazionale, non basta il fatto, che lo Stato italiano riconosca agli inviati dei governi esteri presso la S. Sede e agli inviati della medesima presso di quelli, le prerogative d'uso; poiché, anche data l'ipotesi d'una conciliazione, evidentemente il governo italiano per parte sua non manterrà certo degli ambasciatori presso la S. Sede, né ne riceverà; come neppure si indurrà più a stringere con lei dei concordati, dopo avere legiferato indipendentemente sulla medesima, annuenti o almeno non contrastanti le altre potenze. Libere quindi quelle fra di esse, che mantengono dei rappresentanti presso il Pontef., di ritenerlo persona di d. internaz., conlìiderandolo come un sovrano spodestato, che aspiri al riacquisto del sub territorio, o per quale altra finzione loro piaccia; ma né quel titolo, né qualsiasi finzione può valere quanto allo Stato ital. Per esso ogni trattativa futura con la S. Sede avrà, come ebbe di fatto negli anni ultimi, carattere di politica internd46.

44 V. Del Giudice, La questione romana e i rapporti fra Stato e Chiesa fino alla Conciliazione, cit., pp. 97' 129. 4' Ibid., p. 195. 46 E. Friedberg, Trattato del diritto ecclesiastico cattolico ed evangelico, cit., pp. 25 6-257: i corsivi nel testo sono miei.

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4. L'opposizione cattolica Già nel regno di Sardegna, negli anni '50, si era venuto organizzando un movimento cattolico intransigente che aveva combattuto duramente la politica cavouriana, usando per la prima volta gli strumenti che il regime liberale gli offriva (stampa, organizzazioni elettorali, associazioni) 47 • La politica di laicizzazione integrale portata avanti dai governi del nuovo regno e poi la spallata definitiva al potere temporale trasformarono il carattere dell'opposizione cattolica: dopo porta Pia e il non expedit, essa divenne «opposizione di sistema», cioè estraneità conclamata al nuovo Stato. La lacerazione fu profonda e riguardò ogni ambito della vita collettiva: politico, culturale, religioso, simbolico. Per circa un quarto di secolo, furono le correnti culturalmente e politicamente più radicali dell'una e dell'altra parte che diedero il tono allo scontro. Da un lato le organizzazioni del laicato cattolico che iniziano a organizzarsi dalla metà degli anni '70 e che si propongono di ricuperare le tradizionali posizioni di influenza, compromesse o distrutte dall'Unità, con un'azione capillare, metodica di carattere assistenziale, educativo, sociale capace di sostituirsi allo Stato e di denunciarne polemicamente le lacune, di svelarne violentemente l'insufficienza e la debolezza: la loro cultura e la loro mentalità ha un tono apocalittico e recriminatorio e adotta l'efficacissimo stile polemico di certo cattolicesimo francese dei decenni precedenti (Veuillot e «L'Univers») 48 , ma diventa via via più attenta anche alle esperienze politiche e sociali del cattolicesimo belga e tedesco. Dall'altro, le correnti anticlericali e del «libero pensiero» che prendono piede soprattutto negli anni '80, permeate da un forte spirito massonico, pronte ad azioni clamorose come l'assalto alla salma del cardinale Antonelli nel novembre del 1876 o a quella di Pio IX nel luglio del 1881, impegnate in un'azione di pedagogia popolare che si manifesta in una diffusa politica monumentale (le statue e i monumenti a Giordano Bruno, ma anche a Garibaldi, etc.), in feste pubbliche (ancora per Giordano Bruno), in pièces teatrali (il Cristo di Giovanni Bovio), etc. Il loro sfondo culturale oscilla dallo spirituali-

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G. Candelora, Il movimento cattolico in Italia, Roma, Editori Riuniti, 19744, pp.

82-95. 48 G. Spadolini, Uopposizione cattolica da Porta Pia al '98, cit., p. 50 e passim. Per la mentalità di questi ambienti, cfr. P.G. Camaiani', Il diavolo, Roma e la rivoluzione, in «Rivista di storia e letteratura religiosa», VIII (1972), pp. 485-516; Id., Motivi e riflessi religiosi della questione romana, in Chiesa e religiosità in Italia dopo l'Unità (1861-1878), cit., pp. 65-128; Id., Castighi di Dio e trionfo della Chiesa. Mentalità e polemiche dei cattolici temporalisti nel!' età di Pio IX, in «Rivista storica italiana», LXXXVIII (1976), pp. 708-744.

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IL MONDO DI IERI

smo mazzm1ano allo scientismo positivistico, spesso con risvolti ateistici49. In questo contesto, perdono terreno e spesso si estinguono sia gli ultimi cattolici liberali della tradizione risorgimentale che i cattolici «conciliatoristi», ma anche i liberali cavouriani e le loro idee di un separatismo rispettoso della religione. A rileggere lettere, diari, documenti di quei decenni, suscitano impressione sia la segregazione in cui viveva la società cattolica rispetto al resto del paese, sia le reazioni di rigetto che determinati ambienti mostrarono nei suoi confronti, quando cominciò a riacquistare una nuova visibilità. Per restare a un personaggio che incontreremo più avanti, le pagine di diario del giovane prete Bonaventura Cerretti, dal novembre 1895 studente all'università di Roma, documentano una storia «vista dall'altra parte» fatta di associazionismo studentesco, incontri-scontri con alcuni docenti come Antonio Labriola «socialista e darviniano sfegatato», cerimonie religiose, iniziative assistenziali, incontri nelle redazioni dei giornaletti universitari; ma anche di scontri fra studenti di diversi orientamenti, come quelli celebri del febbraio 1898, quando gli universitari cattolici parteciparono «coi tradizionali berretti» alla cerimonia per il 60° anniversario della prima messa di Leone XIII, formando «la nota caratteristica della festa»: «Il papa ci benedice particolarmente mentre lo acclamiamo con quanto fiato abbiamo!». Si disse che qualcuno avesse gridato al «Papa Re» (Cerretti non lo annota), ma il solo fatto che una rappresentanza qualificata del mondo universitario avesse reso omaggio al pontefice, scatenò una reazione clamorosa nella massa studentesca: 14 febbraio 1898-lunedì Tutti i giornali parlano dell'andata a San Pietro del Circolo Universitario. Il Don Chisciotte è furibondo: incita gli studenti ad una dimostrazione di protesta e si avrà certamente. Dappertutto si parla degli studenti cattolici; i liberali non si possono più tenere! [. .. ] 15 febbraio 1898-martedì Domani avrà luogo all'Università la dimostrazione protesta. A tal uopo è stato affisso per Roma un manifesto pieno d'insulti al nostro indirizzo: poco importa, risponderemo. A mezzanotte ritorno a casa, dopo aver girato per le tipografie per fare stampare ed affiggere domani il nostro manifesto magnifico di risposta! 16 febbraio 1898-mercoledì Un 500 studenti gridano, urlano, ecc. nel portico dell'Università; sono capitanati da Faelli, il Cimane del Don Chisciotte! Dopo discorsi ecc. vanno a Campo di Fiori a portare una corona a Bruno! Vi si unisce anche la plebaglia, di nuovo urli

49 Accanto alle opere di Guido Verucci (sopra nota 29), preferisco qui citare il lavoro pionieristico di A. Della Torre, Il cristianesimo in Italia dai /iloso/isti ai modernisti, Milano-Palermo-Napoli, Sandron, 1913, pp. 311-321. Per gli incidenti del luglio 1881, cfr. i documenti presentati in P. Scoppola, Chiesa e Stato, cit., pp. 160-170; per altre manifestazioni dell'anticlericalismo romano, ibid., pp. 215-226.

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CAPITOLO PRIMO

e gridi. Intanto il nostro manifesto è letto avidamente dalla cittadinanza, che dà ragione a noi. Che vittoria morale! 50

Questi incidenti del febbraio 1898 vanno inquadrati nell'offensiva laica, che il governo Di Rudinì-Zanardelli mise in atto con le circolari anticlericali del settembre-ottobre 1897, applicate con grande zelo dai prefetti51 : come è noto, quello fu l'ultimo tentativo delle élites risorgimentali (in quel governo la residua tradizione di Destra s'intrecciava con il liberalismo zanardelliano) di combattere insieme cattolici e socialisti. Se verso questi ultimi la politica repressiva si accentuò fino a metà del 1900, nei confronti degli ambienti clericali si erano già avuti sintomi di un'inversione di tendenza. In alcune importanti elezioni amministrative degli anni precedenti (clamorosi i casi di Milano e di Roma nel 1895), di fronte all'emergere di una massiccia presenza socialista, ma anche radicale e massonica, si era operato un incontro fra gli ambienti del moderatismo liberale e di quello cattolico: la rinunzia ali' anticlericalismo, l'insegnamento religioso impartito dai sacerdoti, il riposo domenicale, l'intervento ufficiale delle giunte alle festività religiose, le opere pie affidate ai cattolici ne avevano costituito la base programmatica. Cominciava a emergere insomma uno scenario nuovo, che avrà i suoi sviluppi più notevoli nei primi anni del nuovo secolo: il disarticolarsi del movimento cattolico intransigente e lo sviluppo del clericomoderatismo in occasione delle elezioni del 1904 e del 1909 (quando il nuovo pontefice, Pio X per la prima volta attenuò il non expedit); l'inserimento progressivo dei cattolici nella vita amministrativa di comuni e province; l'intreccio fra ambienti economici e finanziari laici e cattolici; la stessa teoria giolittiana delle «due parallele», che si lasciava alle spalle gli atteggiamenti tipici dell'anticlericalismo dei decenni trascorsi. Il culmine di questo complesso processo si ebbe in occasione delle elezioni del 1913 (le prime a suffragio universale maschile), quando furono stretti oltre duecento accordi elettorali fra i candidati giolittiani e le gerarchie ecclesiastiche dei rispettivi collegi: il vario mondo cattolico entrava nella politica italiana in posizione in qualche modo subalterna rispetto al notabilato liberale, appoggiandone, col proprio voto, le candidature giudicate affidabili52 • Il tutto con operazioni di vertice, 50 G. De Luca, Il Cardinale Bonaventura Cerretti, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 197l2, pp. 75-76, ma più in generale sull'università romana cfr. pp. 59-76. Sugli incidenti del febbraio 1898, cfr. G. Spadolini, !;opposizione cattolica da Porta Pia al '98, cit., pp. 458-459. 51 Ibid., pp. 439-443. 52 Per tutto questo complesso processo, cfr. la trattazione di G. Miccoli, Chiesa e società in Italia dal Concilio Vaticano I (1870) al pontificato di Giovanni XXIII, in Storia d'Italia, V, I documenti, t. Il, Torino, Einaudi, 1973, pp. 1510-1518, attenta soprat-

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IL MONDO DI IERI

che evitarono il coinvolgimento dal basso delle masse che per la prima volta allora partecipavano al momento elettorale. Si deve tuttavia aggiungere che nella società italiana, specialmente nei settori meno ideologicamente militanti delle due parti, una commistione fra atteggiamenti e valori latamente cattolici e patriottico-liberali si era da sempre operata e che quelle elezioni sanzionarono quindi una situazione di fatto e un incontro. Esso fu rafforzato dall'atteggiamento «patriottico» assunto dal cattolicesimo ufficiale dopo il 24 maggio 1915 e quindi dall'inserimento nello sforzo bellico del paese, che di fatto ne sanzionò il ruolo «nazionale». In quegli anni, il cattolicesimo italiano riuscì a dimostrare la sua «lealtà» verso le istituzioni, senza tuttavia mai identificarsi con le ragioni della guerra e di coloro che l'avevano voluta: fu una posizione che, se depotenziò l'anticlericalismo borghese, consumò anche definitivamente la precedente linea clerico-moderata e creò le condizioni perché, al momento della pace, nascesse un partito «cattolico», pronto a partecipare in prima persona alla lotta politica del paese53 •

tutto agli aspetti ideologico-culturali; per quelli più nettamente politici, cfr. E. Gentile, Le origini dell'Italia contemporanea. I.: età giolittiana, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 98113, 143-149, 244-251. 53 R. Vivarelli, I cattolici italiani e la guerra, in Luigi Sturzo nella storia d'Italia, Atti del convegno internazionale di studi promosso dall'Assemblea Regionale Siciliana (Palermo-Caltagirone, 26-28 novembre 1971), Il, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1973, pp. 719-734.

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Capitolo secondo

La svolta della Grande Guerra

l. Il papa, l'Italz"a e la guerra

La questione romana, accanto ai gravi risvolti di politica interna che abbiamo sommariamente analizzati, ne presentava di non meno decisivi anche in relazione alla politica internazionale. La legge delle guarentigie - lo abbiamo ricordato - riconosceva alla Santa Sede il diritto di legazione attivo e passivo: lo Stato italiano non poteva impedire alle potenze che lo volessero, di intrattenere con essa rapporti diplomatici, di accreditare rappresentanti presso il Vaticano e di riceverne. Ma, per la logica stessa della situazione che si era verificata dopo il 20 settembre, il governo di Roma mostrava di ritenere che tali rapporti concernessero il pontefice soltanto come capo spirituale del mondo cattolico e si limitassero quindi esclusivamente agli affari spirituali. Ne discendeva il corollario che la Santa Sede non potesse partecipare alle conferenze e alle grandi assise internazionali, dato che queste si svolgevano al livello di Stati sovrani e tale la Sede apostolica non poteva essere considerata. Questa linea di condotta fu fissata assai precocemente dal governo Lanza, in occasione della cosiddetta «conferenza del metro», che si tenne a Parigi nel 1872, di fronte alla possibilità che vi intervenisse, come rappresentante del Vaticano, un illustre scienziato come il gesuita p. Secchi. Ne scriveva il ministro degli esteri Visconti Venosta a Costantino Nigra, rappresentante italiano nella capitale francese (29 settembre 1872): Il governo del Re non può esporsi a dover firmare accordi con un suddito proprio, il quale stipulerebbe a nome di un'autorità che non ha ai nostri occhi, né a quelli delle Potenze che vogliono esserci amiche, alcuna esistenza di diritto né di fatto in materie non ecclesiastiche 1 .

1 Cit. in A. Martini, Studi sulla questione romana e la Conciliazione, Roma, Edizioni Cinque Lune, 1963, pp. 8-9, ma cfr. tutto il capitolo sulla conferenza parigina

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CAPITOLO SECONDO

Così, per un cinquantennio, l'Italia ottenne l'esclusione della Santa Sede dalle più importanti assise internazionali, anche quelle (come, nel 1899, la prima conferenza dell' Aja sulla limitazione degli armamenti e sull'arbitrato e poi la successiva del 1907), in cui si dibattevano questioni che stavano particolarmente a cuore alla diplomazia vaticana2 • L'atteggiamento italiano fu determinato anche dal timore che essa potesse approfittare di quelle occasioni di visibilità internazionale per riproporre la questione romana di fronte alle potenze europee, con l'intento di ottenere - come si diceva allora - una «malleveria di carattere internazionale» delle «guarentigie» previste dalla legge italiana3: l'Italia, ovviamente, non avrebbe mai potuto acconsentire a interventi stranieri nella soluzione di una questione ritenuta di diritto interno. Un cambiamento sensibile di strategia si verificò col pontificato di Pio X: si abbandonò nei fatti, anche se non a parole, l'idea di un qualsiasi ricupero della sovranità territoriale e si puntò piuttosto a dare una base giuridica alla posizione internazionale della Santa Sede. Essa ambiva a essere riconosciuta come società stabile e indipendente, soggetto di diritti e doveri in campo internazionale, e quindi «libera» all'interno dei singoli stati e indipendente dalle potenze, anche da quelle cattoliche4. Quest'impostazione «giuridica» ebbe in Pietro Gasparri forse il teorico più compiuto: ma anche il cardinale marchigiano, parlando della questione romana con mons. Alfred Baudrillart, rettore dell'Institut Catholique di Parigi, affermava il 16 aprile 1914 che «le status quo était l'unique solution possibile» e che solo un fatto «historique», «providentiel», avrebbe potuto riaprire i giochi5. In effetti fu un evento di tal genere, la guerra europea, che sarebbe scoppiata di lì a pochi

del 1872 e la posizione del p. Secchi (pp. 5-23 ). L'atteggiamento cinquantennale del governo italiano (da Visconti Venosta a Tittoni, a Sonnino) fu brillantemente illustrato e strenuamente difeso nel 1921 da F. Ruffini, Potere temporale, congressi della pace e Società delle Nazioni (1921), in Id., Scritti giuridici minori, cit., pp. 251-270. 2 A. Martini, Studi sulla questione romana e la Conciliazione, cit., pp. 25-51, 5376. Com'è noto, l'iniziativa della conferenza del 1899 fu presa dallo zar Nicola II, che estese l'invito anche al papa. Si è spesso ripetuto che essa fosse stata ispirata da alcuni suggerimenti di Leone XIII (ibid., pp. 26-27). 3 Che il card. Rampolla, segretario di Stato di Leone XIII, pensasse ali' eventualità della conferenza dell' Aja anche per riaprire la questione romana, è ammesso da A. Martini (ibtd., p. 28). 4 Per tutto ciò cfr. P. Chenaux, Pio XII. Diplomatico e pastore, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2004, pp. 43-46, 62-67, attento alla carriera di Pacelli, ma con osservazioni e bibliografia di carattere più generale. ' I ricordi di quel colloquio sono in Les carnets du cardinal Baudrillart (26 décembre 1928-12 /évrier 1932), texte présenté, établi et annoté par P. Christophe, Paris, CERF, 2003, pp. 114 e 176, sub 7 février e 3 avril (1929). Gasparri, docente di diritto canonico all'Institut Catholique di Parigi dal 1880 al 1898, era allora tutto dedito alla gigantesca opera di codificazione del diritto canonico affidatagli da Pio X. Nell'ottobre

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LA SVOLTA DELLA GRANDE GUERRA

mesi, a rinnovare il dibattito sulla sistemazione del 1871 e ad aprire scenari inediti in vista di una soluzione della questione romana. Il governo Salandra - in linea con la precedente tradizione diplomatica italiana - prese le sue precauzioni: l'art. 15 del Patto di Londra, che - ricordiamolo - sarebbe rimasto segreto fino al novembre del 1917 (ma le prime indiscrezioni sul suo contenuto circolavano già alla fine del 1915), impegnava le potenze della Triplice Intesa «ad appoggiare l'Italia nell'opporsi ad ogni eventuale proposta di ammissione di un rappresentante della Santa Sede nei negoziati per la pace al termine della guerra presente»6• Venivano così recepite molte delle preoccupazioni che avevano percorso settori consistenti dell'opinione pubblica italiana nei mesi precedenti. Le registrava vigorosamente la Prefazione scritta da Francesco Scaduto per l'acuto instant book, che un ex modernista come Guglielmo Quadrotta aveva dedicato, nelle prime settimane del 1915, alla nuova fase dei rapporti fra Stato e Chiesa. Scaduto si mostrava consapevole che ormai le aspirazioni territoriali della Santa Sede si erano drasticamente ridotte7, ma guardava con preoccupazione all'eventualità che le vicende della guerra riaprissero il problema della internazionalizzazione della legge delle guarentigie e di un eventuale intervento del papa al congresso della pace: paventava, insomma, il riaffacciarsi della Santa Sede sulla scena politica internazionale. In particolare lo studioso di diritto ecclesiastico era consapevole che la legge delle guarentigie le riconosceva il diritto di legazione attivo e passivo e si interrogava sulle conseguenze che - su tale aspetto - avrebbe prodotto un eventuale ingresso in guerra dell'Italia: le potenze nemiche avrebbero potuto mantenere ambasciatori presso la Santa Sede e con quali conseguenze? Oppure tali rappresentanze diplomatiche sarebbero

successivo, dopo la scomparsa del card. Domenico Ferrata, sarebbe diventato segretario di Stato del nuovo papa, Benedetto XV. 6 Molte osservazioni sulla questione dell'art. 15 (di cui si sottolinea !'«evidente superfluità») e una minuziosa narrazione delle vicende che seguirono la sua pubblicazione (in una versione non totalmente coincidente con l'originale) sulla «Pravda» del 28 novembre 1917, sono in V.E. Orlando, Miei rapporti di governo con la 5. Sede, cit., pp. 87-105. Sulle prime indiscrezioni della fine del 1915 e le loro conseguenze, cfr. I. Garzia, La Questione Romana durante la prima guerra mondiale, Napoli, ESI, 1981, pp. 118-126. 7 All'inizio del 1913 aveva fatto scalpore il discorso che Giuseppe Dalla Torre, il nuovo presidente dell'Unione popolare, aveva tenuto a Venezia, in cui non si parlò più di «usurpazione territoriale» da parte della monarchia, ma di lotta «per l'indipendenza e la libertà della Chiesa»: segno che la questione romana era ormai ben distinta dal problema del potere temporale. Per i retroscena e gli echi, cfr. G. Dalla Torre, Memorie, Milano, Mondadori, 19672, pp. 24-25. È da notare che gli stessi termini (indipendenza e liberta della Chiesa) ricorreranno nei documenti costitutivi del Partito popolare dei primi mesi del 1919, come il famoso Appello a tutti gli uomini liberi e forti, nel punto VIII del programma.

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CAPITOLO SECONDO

state chiuse d'imperio dal governo italiano, che avrebbe perciò sospeso le immunità diplomatiche? Scaduto si pronunciava nettamente a favore di tale sospensione e della chiusura delle legazioni8• Da parte sua, il nuovo pontefice Benedetto XV, nella sua prima enciclica Ad beatissimi pubblicata il 15 novembre 1914, aveva ripreso le proteste dei suoi predecessori contro la situazione della Santa Sede, aggiungendo alle tesi consuete una serie di nuovi rilievi, che derivavano dallo scontro bellico in corso. Ancora una volta, il papa aveva affermato la necessità per l'ufficio del pontefice di una libertà piena, diversa da quella che la legislazione italiana gli assicurava, e rilevato che proprio tale situazione gli impediva di svolgere un'azione efficace in favore della pace: Al voto pertanto d'una pronta pace fra le Nazioni Noi congiungiamo anche il desiderio della cessazione dello stato anormale in cui si trova il Capo della Chiesa, e che nuoce grandemente, per molti rispetti, alla stessa tranquillità dei popoli. Contro un tale stato Noi rinnoviamo le proteste che i Nostri Predecessori indottivi non già da umani interessi, ma dalla santità del dovere, emisero più di una volta; e le rinnoviamo per le stesse cause, per tutelare cioè i diritti e la dignità della Sede Apostolica 9•

I principali giornali italiani risposero duramente alle parole del pontefice, ma la nuova situazione era destinata a introdurre ben presto dei cambiamenti significativi nei rapporti fra la Santa Sede e il governo di Roma. Particolare rilievo ebbe il canale continuo di contatti che si stabilì grazie alla diplomazia informale del barone Carlo Monti, alto funzionario del ministero di grazia e giustizia (era direttore generale del Fondo per il Culto) e amico personale, fin dalla giovinezza, del papa: il suo diario, che ci attesta ben 175 udienze in sette anni (in media una ogni quindici giorni), è da questo punto di vista un documento notevolissimo dell'evolversi della situazione, fino agli esiti certamente non prevedibili, del primo dopoguerra 10 . 8 F Scaduto, Prefazione di G. Quadrotta, Il Papa, l'Italia e la guerra, Milano, Ravà, 1915, pp. Xl-XXII. Si oppose alle tesi di Scaduto Luigi Luzzatti, secondo il quale tali posizioni avrebbero dimostrato con i fatti la debolezza della legge del 1871, proprio quando essa si trovava alla prova del fuoco (L. Luzzatti, La legge delle guarentigie e la guerra, in «Corriere della Sera», 25 aprile 1915; Id., I rappresentanti esteri presso zl Vaticano e l'art. 11 della legge sulle guarentigie di fronte al caso di guerra, ibid., 3 maggio 1915). 9 L'enciclica è riportata in appendice a E. Vercesi, Il Vaticano, l'Italia e la guerra, Milano, Mondadori, 1925, pp. 261-280; il passo citato è a p. 277. Fra le reazioni: G. Amendola, La portata politica del documento pontificio, in «Corriere della Sera», 17 novembre 1914; G. Bellonci, Il Papa ha parlato, in «Giornale d'Italia», 18 novembre 1914; G. Papini, Rispondo a Benedetto, in «Il Popolo d'Italia», 19 novembre 1914. 10 A. Scottà, «La Conciliazione ufficiosa». Diario del barone Carlo Monti «incaricato d'affari» del governo italiano presso la Santa Sede (1914-1922), prefazione di G. Rumi, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1997.

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LA SVOLTA DELLA GRANDE GUERRA

Dopo l'entrata in guerra dell'Italia, la linea della Santa Sede fu stabilita con alcuni autorevoli interventi della seconda metà del 1915 11 • Innanzitutto si tornò a sottolineare, con argomenti nuovi, i limiti delle «guarentigie» pontificie stabilite dalla legge del 1871: Per tacer d'altro, Ci limitiamo ad osservare che taluni degli ambasciatori o ministri, accreditati presso di Noi dai loro Sovrani, - dichiarò il pontefice nell'allocuzione concistoriale del 6 dicembre 1915 - furono costretti a partire per tutelare la loro dignità personale e le prerogative del loro ufficio: il che importa per la Santa Sede la menomazione di un diritto proprio e nativo e la diminuzione d'una necessaria garanzia, del pari che la privazione del mezzo ordinario e più di ogni altro acconcio, di cui suole servirsi per trattare gli affari coi governi esteri. [ .. .] Che dire poi della cresciuta difficoltà delle comunicazioni tra Noi e il mondo cattolico, per la quale Ci si rese così arduo di poterCi formare quel completo ed esatto giudizio sugli avvenimenti, che pur Ci sarebbe stato così utile? 12

Ma - e questo era un fatto nuovo - si riconobbe anche il buon volere del governo italiano, che per colmare le evidenti lacune della legge delle guarentigie relative al caso di guerra, tendeva a interpretarla in modo estensivo 13 : solo che Benedetto XV non poteva accontentarsi di disposizioni benevole. Riassumeva efficacemente la posizione pontificia il barone Monti, parlandone al capo del suo ministero, Vittorio Emanuele Orlando, 1'11 dicembre 1915, pochi giorni dopo le dichiarazione del papa: Se invece di essere al governo persone di sentimenti equilibrati e non partigiani, vi fossero state persone appartenenti al partito ostile al Vaticano, come si sarebbe trovato il papa, ad esempio di fronte alla legge sul reclutamento; o come si sarebbero trovate le congregazioni? Il papa [sarebbe rimasto] privo della mag-

11 Si tratta della discussa intervista del papa al giornalista francese Louis Latapie comparsa sul giornale parigino «La Liberté» del 21 giugno, le precisazioni del cardinale Gasparri nell'intervista al «Corriere d'Italia» del 28 giugno, la circolare dello stesso segretario di Stato ai nunzi all'estero del 4 agosto, il discorso di Benedetto XV al concistoro del 6 dicembre: cfr. I. Garzia, La Questione Romana durante la prima guerra mondiale, cit., pp. 80-95, 119. 12 P. Scoppola, Chiesa e Stato, cit., pp. 442-445, 444-445. Si trattava degli ambasciatori di Austria-Ungheria, Baviera e Prussia: il governo italiano aveva informato la segreteria di Stato che non ne avrebbe richiesto l'allontanamento e il Vaticano parve lasciarli liberi, ma i tre proposero al papa di poter trasportare le loro persone e i loro archivi nei palazzi vaticani. Di fronte a una risposta negativa della Santa Sede (che non poteva assumersi la responsabilità di ciò che avrebbero potuto compiere quei diplomatici sotto la sua protezione), si trasferirono a Lugano (E. Vercesi, Il Vaticano, l'Italia e la guerra, cit., pp. 78-79). 13 V.E. Orlando, Stato e Chiesa in Italia durante la guerra (1921), in Id., Miei rapporti di governo con la 5. Sede, cit., pp. 35-45, 37-38. Su La questione della rappresentanza diplomatica degli Stati nemici presso la Santa Sede e l'occupazione da parte del governo italiano di palazzo Venezia (già sede dell'ambasciata austro-ungarica presso il pontefice), molte osservazioni e documenti sono ibid., pp. 66-74 e 75-86.

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gior parte delle persone che lo circondano, senza gendarmi, senza guardie nobili: la segreteria di stato e le congregazioni [sarebbero rimaste] nella impossibilità di funzionare, con conseguenze enormi in tutto il mondo cattolico. Ho fatto rilevare al ministro quante difficoltà si sono dovute sormontare per ottenere l'esenzione di circa 120 persone in tutto: mettendo da parte missionari, l'esenzione dei quali è stata disposta per considerazioni politiche di ordine diverso a prescindere da quelle di ordine economico. Il pontefice pertanto si è trovato nelle condizioni del supplicante e non del sovrano. «Pensi, eccellenza, se il papa fosse stato di sentimenti ostili all'Italia quanto avrebbe potuto giovare ai suoi fini lo stare in silenzio, il porre con i fatti in evidenza questo stato di cose. Ma al papa non è doluto di chiedere per mezzo mio, ed ha dato prova di una grande remissività e di una grande pazienza e con tale atteggiamento di un grande amore per l'Italia e di un grande rispetto per i suoi governanti». Il ministro non ha potuto non trovare fondate le mie osservazioni 14 •

Ciò nonostante, la Santa Sede dichiarò esplicitamente che non era da una sconfitta italiana, che si attendeva una soluzione di questi problemi, ma da un mutamento nell'opinione pubblica che - si augurava - si sarebbe riverberato sull'azione del governo. Su questa impostazione era stato esplicito il segretario di Stato, cardinale Gasparri, nelle famose dichiarazioni del 28 giugno 1915: Ma dovrà dedursi da ciò che l'attuale sistemazione della Santa Sede sia normale e che il Papa debba definitivamente accettarla? No certo, benché la Santa Sede, per rispetto alla neutralità, non intenda punto creare imbarazzi al Governo [italiano] e metta la sua fiducia in Dio, aspettando la sistemazione conveniente della sua situazione, non dalle armi straniere, ma dal trionfo di quei sentimenti di giustizia, che auguro si diffondano sempre più nel popolo italiano in conformità del verace suo interesse 15 •

14 A. Scottà, «La Conciliazione ufficiosa», cit., p. 303. Le prime rivelazioni sulla complessa trama intessuta da Monti durante il pontificato di Benedetto XV si trovano in G. Quadrotta, La Chiesa cattolica nella crisi universale. Con particolare riguardo ai rapporti fra Chiesa e Stato in Italia, Roma, «Bilychnis», I 921, p. V e in V.E. Orlando, Da Benedetto XV a Pio XI, in «La Nacion» (Buenos Aires), febbraio 1922, ora in Id., Miei rapporti di governo con la S. Sede, cit., pp. 57-66, 63; v. poi i riferimenti di F Margiotta Broglio, Italia e Santa Sede, cit., p. 16 e passim. 15 P. Scoppola, Chiesa e Stato, cit., pp. 438-441, 440. Nella circolare del 4 agosto 1915, Gasparri tornava stÙ significato e la portata di tali dichiarazioni: «Ma se il Santo Padre, per ragioni che è facile comprendere, non chiama eserciti stranieri a ristabilirlo stÙ suo trono temporale, ciò non significa punto che i Governi degli Stati cattolici, o che contino cattolici fra i loro sudditi, non abbiano il diritto di preoccuparsi della situazione anormale della S. Sede; essi ne hanno anzi il dovere, sia perché, se sono cattolici, debbono essere in particolar modo solleciti di tutto ciò che concerne l'indipendenza, l'autorità e la missione divina del Papato, sia perché, anche se acattolici, debbono tuttavia tutelare gli interessi eziandio religiosi delle loro popolazioni cattoliche» (A. Martini, Studi sulla questione romana e la Conciliazione, cit., pp. 82-83 ).

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LA SVOLTA DELLA GRANDE GUERRA

Fu, per molti aspetti, una svolta: in linea con lo spirito del nuovo pontificato, le dichiarazioni di Gasparri crearono le premesse della convivenza, sostanzialmente pacifica, fra Italia e Santa Sede negli anni della guerra europea e poi dei tentativi di intesa del dopoguerra. 2. !.:ipotesi di uno Stato in miniatura

La posizione della Santa Sede durante il conflitto fu, tuttavia, molto difficile. Con tutta la buona volontà del governo italiano, essa restava ospite nella capitale di un paese in guerra con cui non aveva relazioni ufficiali e che partecipava a una coalizione, nella quale l'altro Stato cattolico aveva clamorosamente interrotto i rapporti col Vaticano. Questa situazione costituì una lezione duratura per i vertici vaticani, a cui coloro che studiano la politica pontificia nel successivo dopoguerra devono prestare la conveniente attenzione: divenne loro assoluta convinzione che il problema più grave e urgente della Santa Sede fosse la soluzione della questione romana 16 • In questa prospettiva, cominciarono ad ammettere anche la necessità di rivedere l'impostazione tradizionale della politica condotta fino ad allora e l'esigenza di giungere a una qualche intesa col governo italiano. Come abbiamo già ricordato, durante il pontificato di Pio X era sostanzialmente tramontata la prospettiva di un ricupero della sovranità territoriale e i responsabili della politica vaticana avevano puntato piuttosto a un riconoscimento internazionale della sovranità della Santa Sede come entità stabile e indipendente. Ma la situazione in cui essa venne a trovarsi durante la guerra finì per riproporre con forza proprio la questione territoriale: l'allontanamento degli ambasciatori degli Imperi Centrali dimostrava clamorosamente che «non si dava sovranità senza territorio». Questo divenne progressivamente il Leitmotiv dei vertici della segreteria di Stato negli anni seguenti: se ne trova un primo cenno già nella circolare Gasparri del 4 agosto 1915. Inoltrandosi in questa via, certo non era più proponibile il programma «massimo» (la rivendicazione dell'antico stato della Chiesa), sbandierato polemicamente per molti decenni, ma era necessario ipotizzare un più realizzabile compromesso, non lontano da quelle ipotesi «conciliatoriste» in precedenza sempre sdegnosamente rigettate. Non si trattò di un cammino lineare: è noto come l'intensa (ma fallimentare) attività diplomatica della Santa Sede dei primi anni di guerra puntasse proprio a una sua partecipazione alla conferenza di

16 Per tutto ciò sono calzanti le osservazioni di R Vivarelli, I cattolici italiani e la guerra, cit., pp. 720-721.

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pace per riproporre in qualche modo il problema del proprio status internazionale 17 • La lettura del diario di Monti dimostra come per tutto il 1916 non si fosse ancora raggiunta in Vaticano un'idea precisa sulla questione: nell'agosto di quell'anno, Benedetto XV sembrava ancora propendere per un riconoscimento giuridico internazionale della Santa Sede, anche senza una sovranità territoriale: Riferendomi a quanto hanno detto giornali cattolici tedeschi e svizzeri sulla internazionalizzazione della legge sulle guarentigie, sul congresso della pace e sulla necessità che il Papa abbia un territorio a sé, Sua Santità dice che si tratta di chiacchiere di giornali e che, quanto al territorio, non crede sarebbe utile alla Santa Sede il ritorno al governo materiale di uno stato, per quanto piccolo (7 agosto 1916) 18 •

Pubblico sostenitore della tesi «territoriale» era stato il p. Franz Ehrle, dal 1895 al 1914 prefetto della biblioteca Vaticana, che propose il passaggio del Vaticano alla proprietà piena ed esclusiva della Santa Sede19 . Ma anche tale soluzione era dichiarata dal papa priva di praticità: Il santo padre mi risponde che il padre Ehrle ha scritto di sua testa, senza nessuna autorizzazione e senza che la Santa Sede nulla sapesse delle sue idee: che d'altronde, la soluzione da lui messa innanzi non avrebbe alcuna praticità, perché quand'anche gli ambasciatori avessero la loro residenza nel Vaticano, la questione non sarebbe risoluta, dal momento che le comunicazioni con i rispettivi governi dovrebbero effettuarsi attraverso allo Stato italiano, non avendo la Santa Sede la via libera fino al mare. «Meglio è quindi - ha soggiunto il papa - lasciare le cose come sono» (30 settembre 1916)2°.

Nello stesso anno si scatenava una vera e propria «campagna temporalistica»21 nella stampa degli Imperi Centrali (soprattutto tede17

I. Garzia, La Questione Romana durante la prima guerra mondiale, cit., passim.

18

A. Scottà, «La Conciliazione ufficiosa», cit., pp. 415-416. F. Ehrle, Benedikt XV und die Losung der romischen Frage, in «Stimmen der

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Zeit», XCI (1916), pp. 505 ss., 567 ss., in cui aveva escluso che il papa potesse «desiderare una internazionalizzazione della legge delle Guarentigie» (cfr. F. Ruffini, Progetti e propositi germanici per risolvere la questione romana (1921), in Id., Scritti giuridici minori, cit., pp. 221-247, 23 7, che riporta anche analoghe prese di posizione emerse in quell'anno da altri ambienti vaticani). 20 A. Scottà, «La Conciliazione ufficiosa», cit., p. 468. L'intera citazione ridimensiona l'affermazione del curatore (Introduzione, p. 100) su un rifiuto da parte del papa di una sovranità territoriale: il pontefice, infatti, giudica poco pratico il progetto di Ehrle perché non dà piena libertà alla Santa Sede, non in quanto preveda il controllo esclusivo sul Vaticano da parte del papa. Benedetto XV, anzi, ripropone il problema dell'accesso al mare che sarà, ancora per qualche anno, una richiesta della Santa Sede. Ancora nel 1920, il p. Ehrle esponeva al giornalista tedesco Emi! Ludwig (ebreo e socialdemocratico) il suo progetto: cfr. E. Ludwig, Colloqui con Mussolini, nuova ed., Milano, Mondadori, 1970, p. 171. 21 Così la definisce E. Vercesi, Il Vaticano, l'Italia e la guerra, cit., pp. 77-96, la

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sca), che risollevò con forza la questione romana come componente fondamentale della loro propaganda anti-italiana. Si ebbero decine e decine di interventi (anche molto impegnativi) che ripercorsero l'intera vicenda e ne esaminarono le diverse, possibili soluzioni, con la prospettiva di imporle con la forza, in caso di vittoria, al governo italiano. In essi si fece sempre più deciso il rifiuto dell' «internazionalizzazione» (la Santa Sede - si reputava - si sarebbe trovata alla discrezione di tante potenze, non tutte amiche e neppure tutte cattoliche, le quali avrebbero fatto del papa - come si affermò poi anche da parte vaticana - «uno zimbello»)22 e si venne sostenendo con sempre maggior convinzione una soluzione territoriale, sia pure modestissima: venne, cioè, ripresa la proposta di uno stato «minimo», che, a più riprese e da personaggi assai diversi, era stata avanzata nei decenni precedenti23 • Il progetto più importante che emerse, alla fine del 1916, da «quella grandiosa esperienza di laboratorio compiuta dai Tedeschi»24,

cui trattazione, tuttavia, deve molto agli informatissimi saggi di F. Ruffini qui citati alle note 19 e 47. 22 L'espressione è in una risposta inviata il 12 marzo 1916 da «circoli competenti del Vaticano» all'editore Karl Hoeber: è riportata in F. Ruffini, Progetti e propositi germanici, cit., p. 23 7. 23 Il primo, probabilmente, a sostenere che la sopravvivenza del potere temporale dovesse avere come condizione necessaria un suo radicale ridimensionamento era stato il visconte de La Guéronnière, nella celebre brochure Le Pape et le Congrès, scritta per ordine di Napoleone III e pubblicata il 22 dicembre 1859 (ora ripubblicata in A. Saitta, Il problema italiano nei testi di una battaglia pubblicistica. Gli opuscoli del visconte de La Guéronnière, III, Roma, Istituto storico italiano per l'età moderna e contemporanea, 1963, pp. 234-252): questo volume contiene tutti i testi dell'ampio dibattito che ne seguì in Francia e in tutta Europa. Anche Cristina di Belgioioso, in alcuni articoli politici comparsi su «L'ltalie» dopo il 1861 aveva riconosciuto la necessità indiscutibile dell'indipendenza politica del pontefice, ma non l'aveva subordinata all'estensione del territorio (A. Malvezzi, La principessa Cristina di Belgioioso, III, Pensiero ed azione 1843-1871, Milano, Treves, 1937, pp. 380-381). Nel 1887, in un contesto ormai diversissimo, il vescovo conciliatorista di Cremona, Geremia Bonomelli aveva proposto la costituzione di una «miniatura di Stato», che poteva essere costituito con la restituzione al papa di una parte di Roma sulla riva destra del Tevere e di una striscia di territorio fino al mare (G. Bonomelli, Roma, l'Italia e la realtà delle cose: Pensieri di un prelato italiano, in «Rassegna nazionale», 1° marzo 1887): per Bonomelli, questa soluzione avrebbe reso possibile la soluzione temporalistica, senza intaccare che in misura minima l'unità del paese (cfr. P. Scoppola, Chiesa e Stato, cit., pp. 265-273 ). Agli inizi del 1915, Scaduto mostrava di credere che ormai le aspirazioni territoriali della Santa Sede si fossero ridotte al Vaticano e ai giardini annessi e parlava di «stato omeopatico» (F. Scaduto, Prefazione di G. Quadrotta, Il Papa, l'Italia e la guerra, cit., p. XI). Fra i pubblicisti tedeschi impegnati nella campagna di stampa del 1916 ci fu chi parlò di Miniaturgebiet (Lulvés) o anche di Liliputkirchenstaat (Von Hoensbroech): cfr. F. Ruffini, Progetti e propositi germanici, cit., p. 238. 24 Così la definisce V.E. Orlando, Miei rapporti di governo con la S. Sede, cit., pp. 47-56, 54, che, se ammette le «rassomiglianze» fra il progetto Erzberger e la successiva

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fu quello del notissimo rappresentante del Zentrum germanico, Matthias Erzberger, che - a quanto sembra - lo presentò anche a Carlo d'Asburgo, il nuovo imperatore d'Austria, in un colloquio del 23 aprile 1917. Il progetto indicava una possibile sistemazione territoriale della questione romana, nel caso in cui gli Imperi Centrali avessero vinto la guerra e cercava, in qualche modo, di prevenire possibili accordi su base analoga fra Italia e Santa Sede. Esso era suddiviso in dieci articoli e prevedeva la ricostituzione della «potestà temporale del Papa» su un territorio che avrebbe preso «il nome di Stato della Chiesa», attentamente delineato nell'art. 1. Rispetto ai confini che sarebbero stati previsti dal Trattato del 1929, Erzberger attribuiva al nuovo stato qualcosa di più: la zona che da piazza S. Pietro arriva alla riva del Tevere (quindi il quartiere di Borgo e il tratto da Castel S. Angelo a piazza Risorgimento delimitato da via Crescenzio) e la porzione di Trastevere comprendente S. Onofrio e la riva del fiume fra via della Lungara e il Ponte di ferro. Era esplicita la preoccupazione di garantire al nuovo stato un accesso al Tevere, che avrebbe, in qualche modo, sostituito lo sbocco al mare a cui si pensava ancora in Vaticano: l'art. 5, infatti, obbligava il regno d'Italia a rendere navigabile entro due anni il fiume dalla riva pontificia fino al mare e il diritto della flotta pontificia (di cui, evidentemente, si dava per scontata la ricostituzione) a percorrerlo indisturbata. La bozza di trattato obbligava lo Stato italiano al pagamento di un'indennità di 500 milioni di lire «destinata a coprire le spese della Corte pontificia e dell'amministrazione dello Stato della Chiesa» (art. 6). Una traccia delle vecchie richieste di garanzia internazionale restava nella direzione, attribuita a un rappresentante del re di Spagna, della commissione incaricata di fissare più precisamente le linee di confine del nuovo stato. Ruffini, pubblicando nel 1921 sulla «Nuova Antologia» questo testo, poteva ancora fare del sottile sarcasmo: lo giudicava «così semplice, ma insieme così sorprendente [... ] ch'io penso ora di dover lasciare il lettore a maturarsi in pace la sua sorpresa»25 • Ma non c'è dubbio che esso, in qualche modo, segnasse una strada, i cui sviluppi si sarebbero visti di lì a poco. L'ipotesi di una minima base territoriale come soluzione della questione romana cominciò infatti a emergere negli stessi ambienti curiali: un mese prima del colloquio fra Erzberger e l'imperatore d'Austria, il 29 marzo 1917, si era tenuta un'importante sessione soluzione della questione romana, sottolinea anche che esso si sarebbe dovuto realizzare non con una trattativa fra il regno d'Italia e la Santa Sede, ma attraverso «un atto di autorità internazionale che si sovrapponeva alla sovranità nazionale d'Italia», della quale - non va dimenticato - si presupponeva e si auspicava la sconfitta militare. 25 F. Ruffini, Progetti e propositi germanici, cit., p. 247, che pubblicava nelle pagine precedenti (pp. 245-247) il testo del progetto Erzberger in versione italiana.

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della Congregazione per gli affari ecclesiastici straordinari, che aveva affrontato la questione. La maggior parte degli intervenuti ritenne poco praticabile e controproducente ogni ipotesi di ricostituzione di un dominio temporale in conseguenza di una sconfitta italiana, ma cercò di immaginare una trattativa diretta col governo italiano. Stilò, addirittura, un vero e proprio progetto di Trattato tra la Santa Sede e il regno d'Italia: il suo art. 1 prevedeva che «l'Italia cedesse alla Santa Sede, per la costituzione di uno Stato neutrale, oltre il Vaticano, la città leonina (i cui confini sono determinati esattamente) con una striscia di territorio, larga tre chilometri, lungo la sponda destra del Tevere sino al mare, per un complesso di [... ] chilometri quadrati, di cui [... ] sul litorale. Il Papa sarebbe stato, in questo stato, sovrano senza nessuna restrizione». Il trattato prevedeva inoltre una indennità di 200 milioni di lire in oro, la proprietà del palazzo apostolico del Laterano e degli edifici e giardini annessi, della villa di Castel Gandolfo con tutti gli annessi e connessi. Molti degli articoli successivi riprendevano quasi alla lettera i corrispondenti articoli della legge delle guarentigie26 . Vi tornava - come si vede - l'ipotesi di uno sbocco al mare sostenuta senza successo nel 1887 da mons. Bonomelli, che avrebbe comportato (nello stesso problema incappava anche il progetto Erzberger) il ritorno sotto la sovranità pontificia di molte migliaia di cittadini italiani, ormai acclimatatisi in una società libera e che nessun governo - affermava continuamente la pubblicistica liberale - avrebbe potuto far tornare «sudditi» di uno stato «teocratico»27 • Concludendo quella decisiva sessione, Gasparri aveva fissato alcuni punti di cui si deve tener conto: che «la situazione attuale della Santa Sede non era accettabile in verun modo»; che la sua «condizione normale e diciamo pure provvidenziale [.. .] era la sovranità territoriale né troppo grande né troppo piccola»; che nelle circostanze di allora la restaurazione del dominio temporale pontificio, «anche ristretto», sembrava «moralmente» (che voleva dire «politicamente») impossibile; che

26 Il documento è pubblicato in A. Scottà, «La Conciliazione ufficiosa», cit., pp. 166-168 (ed è riprodotto nel CD-Rom allegato al presente volume). Il verbale della sessione, redatto dal segretario mons. Eugenio Pacelli, è stato pubblicato in F. Margiotta Broglio, Marzo 1917: uno stato per il papa, in «Limes», 1993, n. 3, pp. 105-122. 27 Si trattava di un problema ben presente anche ai vertici vaticani: secondo un'indiscrezione di don Ernesto Vercesi a Gaetano Salvemini, nel 1919 il cardinale Gasparri avrebbe confidato, in tono semiserio, a mons. Baudrillart: «Si nous avions le domaine temporel, et il y avait une grève des clochers, nous serions très embarrassés» (G. Salvemini, Memorie e soliloqui, a cura di R. Pertici, Bologna, Il Mulino, 2001, p. 376, sub 3 giugno 1923); analoghi i ricordi di V.E. Orlando, Miei rapporti di governo, cit., pp. 49-50. Da parte sua, F. Crispolti, Da Pio X a Pio XI, Milano, Garzanti, 1939, pp. 112113, riferisce un colloquio con Pio X, in cui il papa si sarebbe mostrato scherzosamente allarmato dell'eventualità di una restituzione di Roma alla Santa Sede.

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intanto la Santa Sede avrebbe visto con piacere che almeno «alla penosa situazione attuale vengano apportati quei provvisori miglioramenti i quali rendono alquanto più effettiva o meno precaria la libertà e l'indipendenza del Romano Pontefice». Esisteva dunque un programma minimo, consistente in una qualche riforma della legislazione ecclesiastica italiana, ma - questo va sottolineato - Gasparri non rinunziava per il futuro al programma massimo: «la Santa Sede non può rinunziare definitivamente alla sua situazione normale e provvidenziale»28 • Non è eccessivo affermare che il segretario di Stato dettava qui la linea che avrebbe seguito nel decennio successivo: sorvegliare attentamente la situazione politica italiana, alla ricerca di interlocutori affidabili e sufficientemente saldi con cui rendere «moralmente» realizzabile la prospettiva che allora (nel 1917) non sembrava ancora matura; nel frattempo far buon viso e incoraggiare ogni segno di attenzione da parte dei governi del regno, che migliorasse le condizioni della Chiesa all'interno della società italiana, senza tuttavia rinunziare a riproporre, al momento opportuno e con l'uomo giusto, la soluzione vera. 3. A un passo dalla conciliazione: la trattativa parigina del giugno 1919 La pubblicazione, da parte del governo bolscevico, del Patto di Londra e la notizia, che allora si ebbe, dell'art. 15, oltre all'effetto di inasprire la polemica, ebbero quello di polarizzarla verso un unico punto, e cioè l'ammissibilità o meno dei rappresentanti pontifici al futuro congresso della pace. Quelle rivelazioni - invece che una trattativa col governo italiano in vista di una soluzione «territoriale» - sembrarono riproporre l'altra soluzione, quella dell'internazionalizzazione29 • Il problema venne nuovamente affrontato, fra l'ottobre e novembre del 1918, in una riunione ristretta dei vertici vaticani. Nel suo intervento, il cardinale Gasparri escluse che fosse ormai conveniente far pressioni per intervenire al congresso della pace. Era evidente che la Santa Sede non vi sarebbe mai stata invitata o ammessa e c'era poi il rischio, sempre più corposo, che la futura conferenza risultasse una pura e semplice imposizione da parte dei vincitori: «la pace sarebbe odiosissima al gruppo sconfitto e non conviene che la Santa Sede apponga la sua firma ad una simile pace». Tuttavia il segretario di Stato non si nascondeva l'importanza di una qualche partecipazione, soprattutto per far presente la situazione in cui versava la Sede apostolica:

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198.

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F. Margiotta Broglio, Marzo 1917: uno stato per il papa, cit., pp. 121-122. I. Garzia, La Questione Romana durante la prima guerra mondiale, cit., pp. 169-

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«conviene fare qualche cosa: se nel congresso della pace non si farà parola della questione romana, questa rimarrà sepolta per secoli». Riteneva, però, preferibile che questo «qualche cosa» provenisse dall'episcopato di tutto il mondo e che un tale appello fosse presentato da un ecclesiastico che godeva di grandissimo prestigio nei paesi vincitori, come il cardinale arcivescovo di Malines e primate del Belgio, Désiré Mercier. Egli avrebbe dovuto «ottenere dal congresso una dichiarazione la quale non possa essere respinta dall'Italia e che significhi almeno implicitamente la anormalità della situazione presente della Santa Sede, l'interesse di tutto il mondo alla libertà e all'indipendenza della Santa Sede e quindi la internazionalizzazione della questione». La proposta di appello venne redatta dal cardinale Merry del Val: I cattolici del mondo, insoddisfatti della condizione in cui trovasi presentemente la Santa Sede, invitano le potenze a dichiarare che esse tutte si interessano alla situazione del pontefice romano, capo augusto di milioni dei loro sudditi, e che preoccupate di assicurare la pace dei popoli nel miglior modo possibile, anche sotto questo riguardo, vorranno sempre rispettata e salvaguardata la persona del Papa nonché garantita la piena indipendenza del suo governo spirituale sopra i cattolici di ogni nazione 30 •

È questa l'origine della missione della fine del 1918 affidata al segretario degli affari ecclesiastici straordinari, mons. Bonaventura Cerretti, su cui si ferma don Giuseppe De Luca nella sua biografia31 e che, per allora, non raggiunse gli effetti sperati. Questo insuccesso dimostrava una volta di più l'impossibilità di esercitare un qualche ruolo a livello internazionale senza una, sia pur minima, sovranità territoriale: a questa convinzione giunse definitivamente lo stesso Gasparri, che ne discorreva il 7 dicembre 1918 col barone Monti: È necessario però che nello studio delle proposte non si perda di vista che la Santa Sede è una istituzione internazionale e che come tale deve godere di una libertà non solo reale, ma anche apparente, che le dia e le faccia riconoscere, da tutti gli stati cattolici, }'effettiva sua indipendenza nella esplicazione del suo spirituale ministero. [ ... ] E quindi necessario - aggiungeva il cardinale - se si vuole

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Su tutta questa vicenda sono di grande importanza i documenti pubblicati in

A. Scottà, «La Conciliazione ufficiosa», cit., pp. 102-105. Alla fine del 1923, nell'art. di E. Guichard, La Question romaine, in «Mercure de France», 1 dicembre 1923, erano emerse molte, ma confuse indiscrezioni su questa riunione, sulle quali erano intervenuti «L'Osservatore romano» e molti giornali romani: cfr. E. Vercesi, Il Vaticano, l'Italia e la guerra, cit., pp. 233-243. 31 G. De Luca, Il Cardinale Bonaventura Ce"etti, cit., pp. 200-203. Sulla missione dell'arcivescovo di Malines, altri documenti sono presentati in A. Martini, Studi sulla questione romana e la Conciliazione, cit., pp. 85-86 e in I. Garzia, La Questione Romana durante la prima guerra mondiale, cit., pp. 198-204.

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trovare una soluzione non perdere di vista il punto, il nodo della quistione, vale a dire l'internazionalità del papato.

A questo scopo era indispensabile una base territoriale del potere pontificio, che lo assicurasse di essere libero nella sua azione. Alla domanda di Monti sull'entità di tale territorio, il cardinale rispondeva: Noi non facciamo quistione di un po' di territorio, più o meno, purché la Santa Sede sia libera non solo nella sostanza, ma anche nell'apparenza. Ella intende bene, che se la Santa Sede non avesse protestato e non protestasse per la situazione fattale dopo il 1870, ogni sua autorità di fronte alle nazioni cattoliche sarebbe perduta, ogni suo atto sospettato e male interpretato.

Il cardinale concludeva: «Studi il governo la quistione e faccia le sue proposte e noi le esamineremo»32 • È ormai ampiamente noto come, su queste basi, ai primi di giugno del 1919 la questione romana sembrò vicina alla sua soluzione. La seconda missione parigina di mons. Cerretti, iniziata il 24 maggio, aveva due finalità: quella pubblica riguardava la ridefinizione dell'art. 438 del trattato di Versailles, che verteva sulla «sistemazione» delle colonie tedesche e sulla proprietà delle missioni cattoliche ivi stanziate33 . Assai più delicata quella segreta: nei mesi precedenti, il card. Mercier, che evidentemente cercava di portare avanti a livello informale la missione che non aveva avuto potuto svolgere pubblicamente, in un incontro con mons. Francis Clement Kelley34, un prelato di Detroit, gli aveva parlato della necessità di presentare ai capi della delegazione americana a Versailles i termini essenziali della questione romana. Kelley ne aveva discusso col colonnello House, incontrando poi quasi casualmente Giuseppe Brambilla, autorevole componente della delegazione italiana. Attraverso una catena di relazioni, l'intraprendente monsignore aveva potuto trattenersi addirittura con Vittorio Emanuele Orlando e parlarne anche con lui, riproponendogli la soluzione territoriale e ridefinendo per l'ennesima volta i confini del futuro stato. Ma il fatto importante è che il presidente del consiglio italiano si era dichiarato disponibile a

A. Scottà, «La Conciliazione ufficiosa», cit., pp. 404-405. G. De Luca, Il Cardinale Bonaventura Cerretti, cit., pp. 204-206; V. De Marco, Un diplomatico vaticano all'Eliseo. Il cardinale Bonaventura Cerretti (1872-1933), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1984, pp. 53-61. «Le soir, - scriveva il 26 maggio 1919 mons. Baudrillart - visite de Mgr Cerretti arrivé inopinément à Paris. Il vient pour introduire à la Conférence la question des missions allemandes» (Les carnets du cardinal Baudrillart (l"' janvier 1919-31 décembre 1921), texte présenté, établi et annoté par P. Christophe, Paris, CERF, 2000, p. 188). 34 Francis Clement Kelley (1870-1948), non Kelly come sempre si è scritto nei testi italiani, canadese d'origine, dal 1893 prete nella diocesi di Detroit, sarebbe diventato vescovo di Oklahoma nel 1924. 32 33

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una trattativa diretta con un inviato ufficiale della Santa Sede, pur non nascondendosi le difficoltà che avrebbe incontrate in un parlamento ostile e in una situazione politica assai difficile. Kelley corse a Roma, ne parlò col segretario di Stato e mons. Cerretti fu l'uomo scelto per quella difficile trattativa. L'incontro ebbe luogo il 1° giugno, in una camera dell'Hotel Ritz in Place Venderne. Cerretti consegnò a Orlando un testo scritto da Gasparri, che lo statista siciliano in linea di massima accettò come base della trattativa. Quanto al territorio, il capo del governo italiano ribadì la necessità di non estenderlo molto al di là del Vaticano, trovando su questo punto un interlocutore disponibile: «Del resto, - dichiarò Cerretti - occorre un territorio più o meno esteso, non per avere una sicurezza materiale, bensì per avere una base su cui posi la sovranità, poiché questa non si concepisce senza un territorio». Orlando poi sostenne la necessità che lo Stato italiano si assumesse la responsabilità della tutela dell'ordine e della giustizia civile e penale all'interno del nuovo Stato, riconoscendo al Vaticano una gestione autonoma delle poste e del telegrafo. Quanto al riconoscimento internazionale della nuova entità statale, Cerretti lo vide raggiungibile con «un mezzo assai semplicç_ ed efficace», l'ingresso, cioè, del papa nella Società delle Nazioni: «E noto che un articolo della Lega delle nazioni garantisce mutuamente il territorio di tutte le Nazioni che fanno parte della Lega». Dopo oltre un'ora di colloquio, il capo del governo si disse fiducioso di poter convincere della cosa il re («Del resto Ella sa che è un Sovrano veramente costituzionale») e gli altri componenti del gabinetto. Per l'annuncio ufficiale dell'accordo, tuttavia, chiese tempo, raffreddando parzialmente le aspettative del suo interlocutore, che - non si deve dimenticare - era stato mandato a Parigi nel giro di ventiquattro ore: sintomo evidente di quanto, negli uffici della segreteria di Stato, si tenesse alla cosa. Orlando sperava che una conclusione positiva della questione adriatica (egli allora puntava sul cosiddetto «piano Tardieu» 35 ) avrebbe creato un clima talmente euforico nel paese e gli avrebbe restituito un così vasto prestigio, che le prevedibili resistenze del parlamento a un trattato con la Santa Sede sarebbero state superabili. Il 9 giugno successivo, mons. Cerretti annotava nel suo diario: «Sembra [. .. ] che la posizione dell' on. Orlando sia alquanto scossa e che gli scioperi e la crisi economica possano determinare una crisi ministeriale. Se in questo momento l' on. Orlando 35 Sul quale cfr. L. Salvatorelli e G. Mira, Storia d'Italia nel periodo fascista, I, Milano, Mondadori, 19724, pp. 69-70: il piano prevedeva la sistemazione di Fiume come stato libero sotto la garanzia societaria con plebiscito dopo quindici anni (analogamente alla Saar), e l'attribuzione di Zara, Sebenico e della maggior parte delle isole dalmate all'Italia.

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se ne andasse, sarebbe un vero disastro» 36 . Nello stesso giorno il vicepresidente del consiglio Colosimo informava il sovrano delle trattative appena iniziate, trovando una forte resistenza37 • Nella settimana successiva la situazione del ministero precipitò e il 15 Orlando si dimetteva: la crisi di governo fu provocata - com'è noto - dal rifiuto della Camera di riunirsi in comitato segreto per discutere la politica estera (appunto il famoso compromesso Tardieu), in pratica dall'inatteso voltafaccia dei giolittiani, fino a quel momento convinti sostenitori di Orlando, che optarono all'ultimo momento per Nitti. Si è spesso collegata la fine del governo anche con le resistenze che il sovrano avrebbe manifestate verso il progetto di conciliazione che era emerso dai colloqui parigini38 • Ma quella breve vicenda aveva segnato alcuni punti fermi, che venivano riassunti dal negoziatore vaticano di allora, mons. Cerretti, in una conversazione col barone Monti del 27 dicembre 1920: Si parla della possibilità della conciliazione: conversazione molto interessante! Monsignore la desidera e non dispera che si possa giungervi. La difficoltà grave è quella territoriale, essendo indispensabile che il papa abbia piena indipendenza; per quanto il governo abbia fatto per evitare difficoltà, la guerra ha dimostrato che questa indipendenza il papa non ha; la Santa Sede è stata alla mercé del governo, e se non vi fossero stati governi desiderosi di eliminare, per quanto possibile, questa difficoltà, ognuno vede quali gravi conseguenze ne sarebbero derivate dalle due parti: «Nessuno meglio di lei lo sa - dice Monsignore - che è stato utile e prezioso intermediario in questo periodo e che lo è tuttora». «È evidente - soggiunge - che gli italiani, nella immensa maggioranza, desiderano la conciliazione; ed il governo non disconosce l'utilità che ne verrebbe all'Italia ... Perché non si potrebbe trovare una soluzione simile a quella della Repubblica di San Marino?

16 De Luca pubblica nel suo volume (Il Cardinale Bonaventura Cerretti, cit., pp. 207-222) i documenti fondamentali delle trattative del 1919: l'art. che Orlando pubblicò dopo la conclusione dei patti lateranensi, dove si rivelarono per la prima volta quelle vicende (in «The Saturday Evening Post», 4 maggio 1929); il promemoria di mons. Kelley, apparso subito dopo in «Vita e pensiero», XV (1929), pp. 403-411, dove era ristampato anche il testo inglese; infine il diario di Cerretti, del 1°, 9, 10, 11, 15 giugno 1919. Da parte sua, Orlando gestì con attenzione la memoria storica delle trattative del 1919: in un suo libretto del 1930, Su alcuni miei rapporti di Governo con la Santa Sede. Note e ricordi, Napoli, Casa Editrice Sabina, 1930, ripubblicò il suo art. del 1929 e il diario di Cerretti concernente l'incontro parigino, preceduti da altri suoi saggi di politica ecclesiastica, pubblicati negli anni precedenti. Nel 1944, quando si andava avvicinando una nuova stagione politica, ripubblicò quei testi, integrandoli con note e aggiunte, spesso di notevole rilievo, come il saggio Altri ricordi circa il colloquio del Giugno 1919 (V.E. Orlando, Miei rapporti di governo con la S. Sede, cit., pp. 128-144). 37 Cfr. le lettere di Gaspare Colosimo a Orlando del 9 giugno 1919 e del 31 ottobre 1942, in F. Margiotta Broglio, Italia e Santa Sede, cit., pp. 366 e 537 (docc. 52 e 150). 18 G. De Luca, Il Cardinale Bonaventura Cerretti, cit., p. 222.

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La Santa Sede lascerebbe all'Italia tutto quanto riguarda l'amministrazione civile e giudiziaria, la polizia etc. etc.»39 •

Molti anni dopo, in un ampio discorso alla Costituente, Orlando affermò perentoriamente: Badate, io tengo a dichiarare e ad affermare - anche se ciò debba essermi rimproverato, come mi è stato da taluno rimproverato - che sono stato io l'autore o, dico meglio, colui che consentì al patto centrale dell'accordo e della pacificazione. Questo ormai è storico: quella che è la base degli Accordi lateranensi era stata definitivamente conclusa con me. Il mio non fu un tentativo, come tanti ne registra la storia: effettivamente a Parigi, nel giugno 1919, tra la fine di maggio e i primi di giugno, quegli accordi potevano dirsi conclusi40 .

Con queste affermazioni, il grande giurista non brillava certo per modestia; inoltre - la cosa va osservata qui una volta per tutte - egli, già da molti anni, aveva l'ambizione di presentarsi come l'interlocutore privilegiato della Santa Sede all'interno della vecchia classe dirigente liberale; ma ciò non può inficiare la sostanza della sua testimonianza. In quell'incontro parigino, per la prima volta, un capo del governo italiano mostrava di avere superato nei fatti alcuni degli assiomi che la classe dirigente a cui apparteneva aveva tenuto fermi per mezzo secolo. Come abbiamo già ricordato, ancora nel 1893 Ruffini dava per scontato che per il regno d'Italia «ogni trattativa futura con la S. Sede avrebbe avuto, come ebbe di fatto negli anni ultimi, carattere di politica interna»: ma questa volta il contatto aveva avuto ben altra ufficialità, si era svolto con un plenipotenziario (come Cerretti) «mandato a Parigi da Benedetto XV con credenziali autografe di Gasparri messe

39 A. Scottà, «La Conciliazione ufficiosa», cit., p. 568. Il riferimento alla situazione di San Marino era stato fatto esplicitamente da Orlando nella conversazione parigina: «Del resto si potrebbe in gran parte adottare la legislazione che l'Italia ha con la Repubblica di S. Marino» (G. De Luca, Il Cardinale Bonaventura Cerrettz, cit., p. 218). Che certe impostazioni fossero ormai acquisite dalle due parti lo conferma anche una lettera a Gasparri del card. Mercier, dopo un suo incontro col nuovo ministro degli esteri italiano Tittoni: «Vi sarebbe poco di più che consacrare in linea di diritto quello che esiste di fatto, cioè riconoscere al Sovrano Pontefice l'autonomia territoriale del Vaticano e sue dipendenze, erigere in libertà indipendente ciò che è soltanto una libertà concessa e protetta» (Malines, 12 agosto 1919), in A. Martini, Studi sulla questione romana e la Conciliazione, cit., p. 90). 40 V.E. Orlando, Nella discussione generale del progetto di Costituzione (Assemblea costituente, seduta del 10 marzo 1947), in Id., Discorsi parlamentari, con un saggio di F. Grassi Orsini, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 703-724, 720 (Collana dei discorsi parlamentari, a cura dell'Archivio Storico del Senato della Repubblica, 3 ); ma cfr. ibid., pp. 721-722 per altri ricordi dell'incontro con Cerretti. Orlando tornò sulla questione nell'intervento Per /atto personale (Assemblea costituente, seduta del 18 marzo 1947), ibid., pp. 725-733, per precisare alcune affermazioni di Nitti.

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a mia [di Orlando] disposizione»41 . La questione romana si avviava così a essere risolta attraverso accordi formali di portata internazionale fra lo Stato italiano e la Santa Sede, mentre prima di allora ogni prospettiva «trattativistica» era stata unanimemente considerata come una diminuzione della sovranità dello Stato. Ma ancora più rilevante era l'altro aspetto: che un governo italiano potesse cominciare ad ammettere l'ipotesi di una qualsiasi sovranità territoriale da parte della Santa Sede e quindi, implicitamente, di una, sia pur minima, amputazione del territorio nazionale: ipotesi sulla quale si era stati sicuri per decenni di non poter transigere, anzi di non ammettere neppure una discussione. È possibile che quella di Orlando fosse una «fuga in avanti», determinata anche da una dose non trascurabile di ambizione personale; che cioè una parte della classe dirigente (a cominciare - come abbiamo visto - dal re) non fosse ancora disposta a seguirlo su questo terreno: così, se Nitti fu propenso al pari del predecessore, a intrattenere contatti con Gasparri e gli ambienti della segreteria di Stato e a nutrire idee e ambizioni conciliatoriste, Giolitti fu, in tal senso, assai più restio42. Quando il vecchio uomo di stato, quindi, dichiarava alla Costituente che il Trattato del 1929 trovava un suo precedente importante nella vicenda di dieci anni prima, non aveva torto: essa aveva contribuito a dare una svolta a una situazione, che da un punto di vista legislativo e diplomatico era rimasta ferma sostanzialmente al 1871. Orlando affermò alla Costituente che «del Concordato allora [a Parigi] non si parlò»43 , e perciò si è spesso ripetuto che, se all'accordo si fosse giunti allora, si sarebbe avuto il Trattato senza Convenzione finanziaria e Concordato, e un Trattato privo del richiamo all'art. 1

Id., Nella discussione generale del progetto di Costituzione, cit., p. 721. Molte notizie di prima mano sui rapporti fra Nitti, Gasparri e il Vaticano fra guerra e dopoguerra sono nel suo discorso parlamentare del 18 marzo 1947 all'Assemblea costituente (F.S. Nitti, Discorsi parlamentari, V, Roma, Camera dei deputati, 1973, pp. 1972-1994, 1980-1992), ma anche in C. Sforza, L'Italia dal 1914 al 1944 quale io la vidi, Roma, Mondadori, 19452, pp. 143-144, che conferma anche la ritrosia di Giolitti (Sforza fu sottosegretario con Nitti e ministro con Giolitti). Gasparri raccontò spesso ai suoi interlocutori la risposta sprezzante di Giolitti a un sondaggio ufficioso della segreteria di Stato circa una limitatissima ricostituzione del potere temporale: «Pas l'espace couvert par un timbre-poste». Lo racconta François Charles-Roux, ambasciatore francese in Vaticano dal 1932 al 1940 (F. Charles-Roux, Huit ans au Vatican 19321940, Paris, Flammarion, 1947, p. 47). Lo annota nei suoi diari mons. Baudrillart, a proposito di una conversazione col segretario di Stato del 3 aprile 1929 (Les carnets du cardinal Baudrillart (26 décembre 1928-12 /évrier 1932), cit., p. 176). In sede storica, cfr. F. Margiotta Broglio, Italia e Santa Sede, cit., pp. 58-71 e F. Barbagallo, Francesco S. Nitti, Torino, Utet, 1984, pp. 254-258 e passim. 43 V.E. Orlando, Per fatto personale, cit., p. 727. 41

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dello Statuto44 • Ma l'ex presidente del consiglio intendeva dire che allora non si entrò nel merito del Concordato, ma se ne ammise la possibilità, anche da parte italiana: «Debbo aggiungere - aveva scritto nel 1929 - che né nel documento né nel colloquio si fece allusione alcuna a contributi finanziari da parte dell'Italia [... ] e neanche a modificazione dell'ordinamento giuridico di essa, capaci di influire sul diritto comune: si accennava solo genericamente ad un concordato, che avrebbe in seguito disciplinati rapporti di diritto ecclesiastico»45 e, tornando sull'argomento nel 1943, riconosceva che la «formulazione di quel concordato che doveva necessariamente integrare l'accordo puramente politico» sarebbe stata certamente difficile per le «gravi riserve» che probabilmente avrebbe avanzate la Santa Sede46 • Insomma la condotta di Orlando a Parigi comportava il corollario che, se all'accordo politico-territoriale si fosse giunti, anche eventuali cambiamenti nella legislazione ecclesiastica non avrebbero più potuto essere frutto di scelte unilaterali del regno d'Italia, ma di una trattativa fra le parti.

44 Per es. in L. Salvatorelli, Chiesa e Stato dalla rivoluzione francese ad oggi, Firenze, La Nuova Italia, 19734, p. 121. Questa è diventata poi la tesi prevalente (cfr. la bibliografia in A. Corsetti, Le «Memorie» del Cardinal Gasparri. Osservazioni e congetture in Id., Scritti, pref. di F. Margiotta Broglio, Firenze, Le Lettere, 1999, pp. 117-174, 169, che tuttavia non sembra condividerla; successivamente V. De Marco, Un diplomatico vaticano all'Eliseo. Il cardinale Bonaventura Cerretti, cit., pp. 69-77); ma anche F. Margiotta Broglio, Cerretti, Bonaventura, in Dizionario biografico degli italiani, XXIV (1980), pp. 2-5, ammette che le trattative di Parigi, se continuate, sarebbero sboccate nella «stipulazione di un trattato e di un concordato». 45 VE. Orlando, Miei rapporti di governo con la S. Sede, cit., p. 124. Questo è evidentemente il testo originario del saggio orlandiano (cfr. sopra, nota 36), o comunque una traduzione dall'inglese da lui autorizzata. In quella pubblicata da G. De Luca, Il Cardinale Bonaventura Cerretti, cit., pp. 207-208, si parlava invece di «una convenzione che avrebbe dovuto successivamente regolare le relazioni della legislazione ecclesiastica» (il corsivo è mio), da cui, probabilmente, l'incertezza di molti interpreti. L'argomento principale di coloro che escludono che nell'incontro del 1919 fosse stata ventilata l'ipotesi di un concordato, è il fatto che ad esso si fa cenno solo nelle testimonianze di Orlando, ma non nel diario di Cerretti. In realtà Cerretti fa dire a Orlando: «riguardo alle altre questioni che sorgeranno da questo nuovo stato di cose, bisognerà risolverle di comune accordo e con l'intento di eliminare fastidi da ambe le parti. Sono questioni difficili ma superabili» (ibid., p. 217); il che potrebbe far pensare a una soluzione pattizia anche delle questioni di politica ecclesiastica. Aveva ben compreso Walter Maturi: «Chi abbia pratica dei documenti della diplomazia papale, una delle diplomazie più fini di questo mondo, quell'accenno è più che significativo: è un modo discreto di porre la condizione senza dirlo brutalmente: si offriva il dolce e si riservavano "in seguito" le cose amare ... » (W. Maturi, Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni di storia della storiografia, Torino, Einaudi, 19745, p. 563 ). 46 V.E. Orlando, Miei rapporti di governo con la S. Sede, cit., p. 139 (il corsivo è mio).

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4. Le novità del dopoguerra La guerra produsse modificazioni profonde e durature nella politica ecclesiastica dei paesi europei: si può dire che, mentre fino al 1914 era prevalso largamente un separatismo ostile (come nel caso francese) o un residuo di giurisdizionalismo, negli anni del dopoguerra si venne affermando una tendenza contraria, sostanzialmente anti-separatistica. Lo riconosceva, nel 1921, Francesco Ruffini: avrebbe gli occhi fasciati davvero della più fitta tenebra chi non riuscisse a scorgere che la guerra ha fatto deviare a forza, e potrebbe anche darsi per sempre, le direttive politico-ecclesiastiche non solamente nostre, ma altrui. Intanto, la guerra ha dato alla Santa Sede un ben largo compenso di quanto dall'una delle parti, e cioè da quella degli ex-Imperi centrali, essa ha perduto di possibilità pratiche e di realizzazioni concrete: con il ricondurle deferenti e soccorrevoli quelle potenze dell'Intesa, che gli osservatori superficiali supponevano doversi con la guerra straniare da lei per sempre. E in primo luogo la Francia, la Francia cioè della bellicosa legge di separazione che è proprio della antivigilia della guerra. Onde un sereno e bene informato scrittore francese osservava non è guari, che non mai si è mostrato vero, come ora, che la Chiesa può fiduciosamente e fieramente riassumere tutto il suo ultrasecolare programma di azione nella formula del Mazzarino: il tempo ed io47 •

Della nuova tendenza, il giurista piemontese sottolineava qui soprattutto l'aspetto diplomatico, cioè il moltiplicarsi delle rappresentanze degli Stati presso la Santa Sede, mostrando come la diplomazia pontificia si fosse mostrata capace di superare le conseguenze negative che potevano derivarle dalla perdita di un interlocutore privilegiato come l'impero austro-ungarico. Vi era riuscita procedendo in una duplice operazione: l'instaurazione di rapporti diplomatici con quasi tutti gli Stati «successori» Q"ugoslavia, Cecoslovacchia, Polonia e la nuova repubblica austriaca) e la ripresa delle relazioni con le potenze dell'Intesa. Appena scoppiata la guerra, la Gran Bretagna aveva inviato un

47 F. Ruffini, Il potere temporale negli scopi di guerra degli ex-imperi centrali (1921), in Id., Scritti giuridici minori, cit., pp. 199-217, 201. Pur in una diversa prospettiva, anche Luigi Sturzo, in una conferenza tenuta a Milano sui «problemi del dopoguerra» il 17 novembre 1918, aveva constatato la fine del giurisdizionalismo e l'aprirsi di una fase nuova dei rapporti fra Stato e Chiesa: «Oggi, al cader di governi, quali il russo e il tedesco, che avevano concepito la religione come un mezzo di governo, di cui si servivano nella ortodossia e nel luteranesimo per la soggezione politica dei popoli; oggi al cader dell'Austria, che falsamente fu ritenuta da alcuni il baluardo della Chiesa cattolica [. .. ], viene attenuato uno dei problemi più gravi dei rapporti fra Stato e Chiesa, dopo i periodi della riforma e del giurisdizionalismo, dai quali la Chiesa veniva concepita come puntello di troni e forza di dominio, e accerchiata da tentacoli in un amplesso, che voleva dire protezione ed era servitù» (G. De Rosa, Luigi Sturzo, Torino, Utet, 1977, p. 191).

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incaricato d'affari (Henry Howard) in Vaticano, riallacciando così un rapporto che era sospeso da tre secoli e mezzo; ma fu clamoroso soprattutto il caso della Francia, che il 16 maggio 1921 ristabiliva la propria ambasciata presso la Santa Sede, a sedici anni dalla drammatica rottura del 1905. Se all'inizio del pontificato di Benedetto XV, il corpo diplomatico accreditato presso il Vaticano proveniva da poco più di una dozzina di stati (Argentina, Austria-Ungheria, Baviera, Belgio, Bolivia, Brasile, Columbia, Costa Rica, Repubblica Domenicana, Gran Bretagna, Prussia, Russia, Spagna), quando quel papa morì, era quasi raddoppiato ed erano in corso numerose trattative per un suo ulteriore allargamento48 • Questo intenso lavorio diplomatico rifletteva un nuovo prestigio internazionale del papato, inimmaginabile fino a qualche anno prima, a cui avevano grandemente contribuito i richiami continui alla pace, l'equidistanza fra le potenze belligeranti mantenuta pubblicamente per tutto il conflitto e l'intensa attività umanitaria messa in opera nell'assistenza ai combattenti e ai prigionieri. A ciò si aggiunse, nel primo dopoguerra, il silenzio sui trattati di pace, che parve confermare un giudizio non positivo al loro riguardo: se nell'enciclica Quod jam diu del 1° dicembre 1918, Benedetto XV aveva chiesto una pace «giusta e durevole», quella sua reticenza confermò l'opinione pubblica europea che quella stabilita a Parigi non era ai suoi occhi né equa, né giusta, né duratura49. Anche la Società delle Nazioni, quale era scaturita dal trattato di Versailles, non corrispose ai diversi progetti che erano precedentemente circolati in autorevoli ambienti vaticani: se - come abbiamo visto - ancora nel giugno del 1919 mons. Cerretti poteva sperare di raggiungere due risultati in una volta sola (la costituzione di un minuscolo stato e il suo ingresso nella futura Società delle Nazioni), ben presto risultò impensabile ogni partecipazione vaticana alla nuova organizzazione ginevrina, anche perché - bisogna aggiungerlo - nessuno stato sollevò il problema50 .

48 Per tutti questi problemi resta fondamentale la trattazione di L. Salvatorelli, La politica della Santa Sede dopo la guerra, Milano, ISPI, 193 7, pp. 37-83, ripresa successivamente in numerose pubblicazioni dello stesso autore. Per la soluzione della questione francese (la nuova situazione giuridica della Chiesa di Francia stabilita con gli accordi del 1924), cfr. il commento coevo di F. Ruffini, Francia e Vaticano: chi ha vinto? (1924), in Id., Scritti giuridici minori, cit., pp. 419-424, che ammette il successo sostanziale della Santa Sede dovuto anche all'intelligente azione diplomatica del nunzio, mons. Cerretti. 49 L. Salvatorelli, La politica della Santa Sede dopo la guerra, cit., pp. 18-19, 26-30. 50 Nell'enciclica Pacem Dei Munus (23 maggio 1920), il pontefice avrebbe auspicato «che tutti gli Stati, rimossi i vicendevoli sospetti, si riunissero in una sola società o meglio famiglia dei popoli, sia per garantire la propria indipendenza, sia per tutelare l'ordine del civile consorzio. E a formar questa società fra le genti è di stimolo [... ] il

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È tuttavia necessario tener conto di una questione ancora pm generale. La pubblicistica prevalente nell'interventismo italiano aveva presentato come collegati, quali ultimi avanzi del Medio Evo, l'impero asburgico e la Chiesa cattolica, e connesso la caduta del primo con l'esaurimento spirituale della seconda. Ma da quel «lavacro di sangue» scaturì invece anche una generale ripresa di religiosità, nei comportamenti privati come in quelli collettivi. L'inquietudine, poi, che percorse la società europea di fronte agli straordinari mutamenti politici e sociali del dopoguerra (fra cui la rivoluzione comunista in Russia) spesso si concretizzò in un generale bisogno di «ordine» e di «tradizione», in cui il sentimento religioso, specie cattolico, finì per assumere una nuova centralità. Si sarebbe potuto ripetere ciò che Léon Bloy aveva detto della Francia dopo la guerra del 1870: «On ne parlait que de retourner à Dieu»51 . Questa nuova visibilità del cattolicesimo è riscontrabile anche in Italia, e non soltanto per il ruolo politico che esso venne assumendo dopo la nascita del Partito popolare (ne parleremo subito); ma proprio negli ambienti in cui la sua emarginazione era stata nei decenni precedenti più marcata, come quelli della cultura, accademica e non. Un evento come la nascita a Milano dell' «Istituto Giuseppe Toniolo di studi superiori», eretto in ente morale il 24 giugno. 1920 dal ministro Croce e diventato poi l'Università Cattolica del Sacro Cuore, riconosciuta come «università libera» da Alessandro Casati il 2 ottobre 1924, costituisce una svolta rispetto alla politica universitaria post-unitaria. Lo riconosceva lo stesso ministro scrivendone al p. Agostino Gemelli 1'11 agosto 1924:

bisogno stesso generalmente riconosciuto di ridurre, se non è dato di abolire, le enormi spese militari ... », in Le Encicliche sociali dei papi da Pio IX a Pio XII (1864-1942), a cura di I. Giordani, Roma, Studium 19442, pp. 196-203, 201. Si trattava di un auspicio significativo, in quanto allora esisteva già una Società delle Nazioni, ma non quella - desiderata dalla Santa Sede - delle nazioni vincitrici e vinte con diritti ed oneri reciproci (E. Vercesi, Il Vaticano, l'Italia e la guerra, cit., p. 231). Per questi problemi, cfr. ancora L. Salvatorelli, La politica della Santa Sede dopo la guerra, cit., pp. 32-36, che accenna anche ai vari disegni vaticani degli anni precedenti, in particolare al libro di E. Bafile, La formula della pace (Roma, 1916), rispecchianti le idee di mons. Federico Tedeschini, allora Sostituto della segreteria di Stato, poi nunzio e cardinale (p. 33, nota 8). ll G. De Luca, Il Cardinale Bonaventura Cerretti, cit., pp. 198-199, che tratteggia efficacemente la nuova situazione, sulla quale ha qualche cenno interessante anche Emi! Ludwig, ricordando un'osservazione fattagli da Benedetto XV: «È Lutero che ha perduta la guerra» (E. Ludwig, Colloqui con Mussolini, cit., p. 175). In una prospettiva storica, cfr. F. Traniello, L'Italia cattolica nell'era fascista (1995), in Id., Religione cattolica e Stato nazionale, cit., pp. 221-264, specie 222-225, 230-234.

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Questo caso tanto raro di cospicua iniziativa interamente privata nel campo dell'istruzione superiore, il fervore nobilissimo da cui i suoi propugnatori sono animati, l'entusiasmo che, in molte regioni d'Italia, muove numerosissime persone della piccola borghesia e delle classi operaie e campagnole a dar periodicamente il loro obolo al nuovo istituto, sono parsi al Consiglio [superiore della pubblica istruzione] indizi d'un movimento disinteressato e ideale, la cui esistenza fra gli umili torna ad onore del nostro paese5 2 •

Si è sottolineato talora, troppo meccanicamente, un nesso fra l' affermarsi dell'Università milanese e il consolidarsi del regime fascista, ma essa era lo sbocco di un movimento culturale che datava almeno dal 1909, quando Gemelli aveva fondato nel capoluogo lombardo la «Rivista di filosofia neo-scolastica» e poi, nel 1914, un periodico indirizzato al grande pubblico, «Vita e pensiero»53 . I passi fondamentali della sua istituzionalizzazione furono, poi, dovuti a ministri liberali come Croce e Casati e fondati sul principio della «libertà della scuola» a cui questa frazione del mondo liberale era approdata nel dopoguerra, non si può credere per meri fini di contingente tattica politica. Nell'ambito scolastico e universitario stava verificandosi, cioè, qualcosa di analogo a quanto era emerso, per la soluzione della questione romana, nei tentativi di Orlando e di Nitti: una parte consistente della classe dirigente si mostrava ormai disposta a rivedere profondamente idee e indirizzi che si erano consolidati in Italia nei decenni dello scontro più aspro fra Stato e Chiesa. Agostino Gemelli era stato socialista e positivista e aveva fatto studi di medicina a Parigi e di psicologia in Germania: ma si era convertito al cattolicesimo ed era entrato nell'ordine francescano. La sua era stata, forse, la prima di una serie di conversioni di uomini di cultura e di «intellettuali», che si verificò negli anni della vigilia, poi della guerra e 52 Cit. in G. Rumi, Padre Gemelli e l'Università Cattolica, in Modernismo, fascismo, comunismo. Aspetti e figure della cultura e della politica dei cattolici nel '900, a cura di G. Rossini, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 205-233, 205: questo saggio resta esemplare per un equilibrio di giudizio, che di rado si ritrova nella storiografia su Gemelli e la Cattolica fra le due guerre. La novità costituita dalla nuova istituzione milanese e dalla, comunque la si voglia giudicare, straordinaria figura del suo fondatore fu subito colta da M. Vaussard, L'intelligence catholique dans l'Italie du XX' siècle, préface par G. Goyau, Paris, J. Cabalda-Libreria italiana, 1921, pp. 168-179. Sulla formazione scientifica, il socialismo giovanile e le vicende della conversione di Gemelli, molte notizie sono in G. Cosmacini, Gemelli, Milano, Rizzoli, 1985, pp. 13-76. Sulle vicende dell'Università Cattolica durante il fascismo, v. ora M. Bocci, Agostino Gemelli rettore e francescano. Chiesa, regime, democrazia, Brescia, Morcelliana, 2003. 53 La prima proposta di un'Università cattolica a Milano era stata, anzi, avanzata da don Davide Albertario durante il XV congresso cattolico che si tenne nel capoluogo lombardo fra l'agosto e il settembre del 1897, dove fu raccolta anche una grossa sottoscrizione a favore dell'erigendo istituto (G. Spadolini, I.:opposizione cattolica, cit., pp. 426-427).

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del dopoguerra. Si trattò di un movimento europeo, che ebbe in Francia e in Inghilterra il suo epicentro, ma che anche in Italia, sia pure in dimensioni più ridotte, fu estremamente significativo: i nuovi «convertiti» appartenevano al mondo delle riviste, delle case editrici, dei quotidiani d'opinione, insomma alla letteratura militante; si muovevano cioè in ambienti in cui pressoché totale era stata nei decenni precedenti l'irreligiosità e parvero il sintomo di un'inversione di tendenza. Giosuè Borsi, Domenico Giuliotti, Federigo Tozzi, Giuseppe Fanciulli, Ferdinando Paolieri, Guido Battelli, più tardi Clemente Rebora e perfino ex-gentiliani come Mario Casotti e Armando Carlini, riproposero, in modi talora risentiti e aggressivi, il problema di una cultura cattolica54 • Ma fu la conversione di Giovanni Papini, la sua Storia di Cristo apparsa nell'aprile del 1921 e che costituì subito uno dei casi letterari del dopoguerra, a segnare l' «uscita dalle catacombe» di un cultura nuova, che si venne organizzando negli anni successivi, senza attendere (come talora si ripete) il nuovo clima concordatario55 • Ho sopra parlato del generale bisogno di «ordine» e di «tradizione» che percorre ampi settori della cultura europea (e anche italiana) del dopoguerra e che assicura una nuova visibilità al cattolicesimo romano: si tratta di un movimento culturale molto variegato e differenziato al suo interno, che - in non pochi dei suoi esponenti - poté scorgere nel fascismo italiano degli anni Venti un nemico di molti dei suoi nemici (il paolino to katechon, di cui parlava Cari Schmitt) e una qualche realizzazione di alcune delle sue esigenze, ma senza mai identificarsi con esso, restando sempre qualcosa d'altro, sia nei presupposti culturali, che negli orizzonti spirituali56 . Tuttavia, anche di questo

54 Non disponiamo, per il caso italiano, di .una ricerca paragonabile a F. Gugelot, La conversion des intellectuels au catholicisme en France (1885-1935), préface de E. Fouilloux, Paris, CNRS Editions, 1998 e, per il caso inglese, a J. Pearce, Literary Converts. Spiritual Inspirations in an Age o/ Unbelie/, San Francisco, Ignatius Press, 1999. Tuttavia molto utile resta l'indagine di M. Vaussard, J;intelligence catholique dans l'Italie du XXe siècle, cit., pp. 168-315, che si mostra pienamente consapevole della novità del movimento culturale che viene analizzando (sulla figura di Vaussard, cfr. ora I. Biagioli, Maurice Vaussard, un cristiano contro !'«eresia» nazionalista, in Cattolicesimo e totalitarismo. Chiese e culture religiose tra le due guerre mondiali (Italia, Spagna, Francia), a cura di D. Menozzi e R. Moro, Brescia, Morcelliana, 2004, pp. 223-243 ). Ricco di notizie e di profili, e con un'impostazione più critica, è anche C. Falconi, Le conversioni religiose degli intellettuali italiani nel Novecento, in Id., La Chiesa e le organizzazioni cattoliche in Italia (1945-1955), Torino, Einaudi, 1956, pp. 137-196. 55 Su tutti questi aspetti pagine molto utili sono in L. Bedeschi, Il tempo de «Il Frontespizio». Carteggio Bargellini-Bo 1930-1943, Milano, Camunia, 1989, pp. 19-26, che mostra efficacemente come quella rivista fiorentina fu lo sbocco di un complesso percorso culturale e organizzativo che percorre tutti gli anni Venti. 56 Penso a uomini come Chesterton, Belloc, Eliot, Dawson, Bernanos, Claudel, Mounier, il primo Maritain, etc., di ciascuno dei quali si potrebbe utilmente analiz-

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sfondo culturale bisogna tener conto per delineare i mutamenti della politica ecclesiastica italiana dopo la guerra.

5. Il Partito popolare e la questione romana Ma, come ho già accennato, il ruolo dei cattolici nella soc1eta italiana conobbe, nel primo dopoguerra, un vero e proprio salto di qualità con la fondazione del Partito popolare e poi col suo successo alle elezioni politiche del 16 novembre 1919. Riflettendo su questo tornante, Federico Chabod lo avrebbe definito nel 1950 come «l'avvenimento più notevole della storia italiana del XX secolo, specie in rapporto al secolo precedente»57 • Un tale giudizio era forse anche determinato dal ruolo centrale che la Democrazia cristiana aveva nel frattempo acquistato nella vita politica del secondo dopoguerra, ma anche oggi, quando tutta quell'esperienza si è consumata, la valutazione chabodiana resta sostanzialmente corretta. Con il nuovo partito, emergevano alla vita politica attiva ambienti culturali e religiosi e anche strati sociali che fino ad allora vi avevano giocato solo un ruolo marginale o comunque ben inferiore alle loro dimensioni e al loro radicamento nella società italiana: esso «non fu qualcosa che sbocciò all'improvviso, [.. .] non fu una "invenzione" di un prete particolarmente geniale», ma «fu

zare l'atteggiamento verso il fascismo italiano negli anni Venti. Senza nascondere le convergenze, mostra efficacemente anche le distanze fra Papini e il fascismo l'analisi di R. Vivarelli, Osservazioni su uno scritto politico di Giovanni Papini (1999), in Id., Storia e storiografia. Approssimazioni per lo studio dell'età contemporanea, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2004, pp. 203-216. D'altronde Mussolini era ben consapevole di questa alterità: «Abbiamo un'opposizione cattolica alla cultura della rivoluzione? - chiedeva alla fine degli anni Trenta a De Begnac - Indubbiamente sì! Non dimentichiamo che il cattolicesimo, in Italia, ha mostrato ostilità contro qualsiasi ideale politico avente per scopo l'installazione di un ordine rivoluzionario, giustiziere del mondo della violenza, di cui la civiltà del profitto, che è sempre esistita, ha reso succubo il mondo del lavoro. Dalla nostra parte, del mondo cattolico abbiamo unicamente Romolo Murri. Ernesto Buonaiuti fa storia a sé. È nemico della Santa Sede come dei fascisti. Il resto ci è estraneo. Il caso di padre Agostino Gemelli riguarda i problemi della scienza, più che quelli della politica militante. I cattolici che hanno aderito al fascismo, dopo la rottura del rapporto di collaborazione dei primi due anni del nostro potere, riconosciamolo, non fanno cultura. E non ci si parli di Papini o di Giuliotti, sul cattolicesimo rivoluzionario dei quali proprio non giurerei. La polizia guarda con preoccupazione a ben altre congreghe di cattolici toscani e operanti in Toscana [si tratta forse di un'allusione al gruppo fiorentino di La Pira e della rivistina «Principi», N.d.A.]. Inutilmente consiglio il prefetto Bocchini di non farsi impaurire dalle litanie di quei ragazzi di sagrestia» (Y. De Begnac, Taccuini mussoliniani, a cura di F. Perfetti, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 402). 57 F. Chabod, I.:Italia contemporanea (1918-1948), Torino, Einaudi, 1975 19 , p. 43.

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il prodotto di un lungo processo di maturazione della vita e dell'azione dei cattolici militanti» in Italia58 . Quale fu l'atteggiamento che il nuovo partito assunse di fronte alla questione romana? Si può ripetere in sede storica quello che già alcuni osservatori contemporanei sottolinearono, spesso ricavandone giudizi politici opposti: il partito di Sturzo si mantenne sostanzialmente estraneo alle infinite discussioni che (come vedremo) si aprirono nel dopoguerra sui rapporti fra Stato e Chiesa e quasi mai i suoi candidati fecero leva su questi problemi nelle campagne elettorali del 1919 e del 1921 59 • Quando nel giugno 1919, al congresso di Bologna, il delegato di Napoli, Stefano Reggio D' Aci, invitò il partito a ribadire nella sua propaganda l'urgente necessità di risolvere il dissidio fra Stato e Chiesa, gli risposero negativamente sia Crispolti che Sturzo, precisando quest'ultimo che la questione romana riguardava i rapporti fra Chiesa e governo e che in essa i partiti non dovevano interferire. Reggio d' Aci ritirò allora il suo ordine del giorno60 • Le argomentazioni di Sturzo ricalcavano quelle che il card. Gasparri aveva condensate in una lettera scrittagli il 27 marzo di quell'anno. Poiché i giornali nazionali avevano riferito il passo di un discorso sturziano relativo alla questione romana, attribuendogli l'affermazione che non era più il caso di pensare a rivendicazioni territoriali o all'internazionalizzazione della legge delle guarentigie, il segre58 G. De Rosa, La crisi dello stato liberale in Italia, Roma, Studium, 1955, p. 50; Id., Luigi Sturzo, cit., pp. 241-250, che individua il senso dell'operazione politica di Sturzo, non solo nell'avere dato voce politica al vario cattolicesimo italiano, ma anche nell'aver tentato di «dare un senso di responsabilità civile a una certa Italia arretrata, rimasta fuori dello Stato liberale»: Sturzo «riprende quest'Italia che era fuori del Risorgimento progettando di ricondurla nell'ambito costituzionale e civile dello Stato nazionale» (pp. 241 e 244). 59 G. Salvemini, Il Partito popolare e la questione romana, Firenze, «La Voce», 1922, pp. 54-56. Salvemini citava l'agostiniano Nazareno Casacca, che, nell'opuscolo del 1921 Il Papa e l'Italia. La fine del dissidio, aveva duramente criticato questo atteggiamento: «Il dovere di occuparsi della soluzione [della questione romana] astringe primieramente tutti i cittadini d'Italia; astringe i cattolici di tutto il mondo; astringe specialmente tutti i cattolici d'Italia; ed astringe massimamente il clero di cui gran parte per la sua inerzia non merita encomio; come non meritano encomio certi giornali, che si dicono cattolici nelle occasioni, mentre nessuna difesa mai dei diritti del Papa, nessuno spirito apostolico si osserva nelle loro colonne. È dunque ingiusto e disonorevole il sottrarsi a questo dovere, allegando di appartenere ad un partito politico che lo proibisce; nei cui Congressi invero, quello di Bologna del 1919 e quello di Napoli del 1920, nell'impotenza di tacitare il nobile ed insistente appello di chi chiedeva l'adesione del partito stesso a promuovere le trattative per la soluzione della questione romana; fu risposto con fastidio e disgusto ed in modo volgare, che gli affari urgenti del partito erano ben altri. Se così fosse; ognuno avrebbe il dovere di gridare: Alla larga da tale partito» (ibid., pp. 55-56). 60 G. De Rosa, Storia del Partito popolare, Bari, Laterza, 1958, p. 73.

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tario di Stato non aveva tardato ad esporre, chiaramente, la sua idea al riguardo: ... dalla soluzione di questa questione trarrebbe enorme vantaggio sia lo Stato sia la Chiesa. Ma, il modo di sciogliere questa questione, il modo cioè di dare alla S. Sede quella efficace libertà ed indipendenza, alla quale ha diritto ed alla quale non può rinunziare senza suicidarsi, tanto il partito, quanto i singoli cattolici e molto più i sacerdoti devono lasciarlo alle parti interessate, cioè alla S. Sede ed allo Stato, se mai lo Stato italiano vorrà discuterlo61 •

Questa singolare coincidenza di valutazioni da parte di due personaggi così diversi, scaturisce dal complesso gioco che, in merito alla fondazione del nuovo partito e al ruolo che avrebbe assunto nella politica italiana, essi avevano svolto nei mesi precedenti e avrebbero condotto negli anni successivi. Il punto VIII del programma popolare del 1919 indicava come obiettivo della nuova formazione la «libertà e indipendenza della Chiesa nella piena esplicazione del suo magistero spirituale. Libertà e rispetto della coscienza cristiana considerata come fondamento e presidio della vita della nazione, delle libertà popolari e delle ascendenti conquiste della civiltà nel mondo» 62 . Si trattava di un'impostazione che si distingueva dall'individualismo liberale e dalla sua attenzione prevalente alla libertà religiosa come diritto individuale: considerava invece i corpi intermedi in cui si svolge spontaneamente la vita collettiva, dichiarando di voler tutelare le loro radici culturali e religiose. Questo era, nella prospettiva sturziana, il compito di un partito democratico di ispirazione cristiana. Ma da una questione che concerneva i rapporti fra due enti sovrani, il Partito popolare ripeté più volte di volersi tenere lontano: non doveva essere il rappresentante della Santa Sede nella politica italiana, né la soluzione della questione romana poteva essere assunta come sua ragion d' essere63. Anche perché il nuovo A. Martini, Studi sulla questione romana e la Conciliazione, cit., p. 91. Il punto VIII appariva assolutamente insufficiente al p. Rosa, anonimo autore dell'art. A proposito del nuovo partito popolare italiano. Nota, in «La Civiltà cattolica», 15 febbraio 1919, parzialmente riportato in P. Scoppola, Chiesa e Stato, cit., pp. 505509, 509. L'intervento di Benedetto XV nella stesura di questo saggio è largamente documentata in G. Sale, Popolari e destra cattolica al tempo di Benedetto XV 1919-1922, pref. di P. Scoppola, Milano, Jaca Book, 2006, pp. 38-39. 63 Sturzo lo aveva chiarito molti anni prima, nel discorso di Caltagirone del 29 dicembre 1905, dopo aver escluso che la questione romana potesse essere riproposta nei termini tradizionali di un ritorno al passato e di una restaurazione temporalistica: «non sarà mai possibile che un partito politico, e peggio il cattolico, possa risolvere con un'azione diplomatica o un atteggiamento parlamentare la questione romana, di cui il Papa non solo è l'unico giudice competente, ma anche l'unica forza attiva di una soluzione che mille fattori dovranno maturare» (cit. in G. De Rosa, Luigi Sturzo, cit., p. 135, che mi è stato di grande utilità anche per le osservazioni precedenti). 61

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partito non si proponeva di diventare l'espressione politica dell'Azione Cattolica, di cui automaticamente entrassero a far parte tutte le varie organizzazioni del cattolicesimo italiano, né ambiva a esprimere l'unità politica dei cattolici, ammettendo che alcuni loro orientamenti potessero trovare altre mediazioni politiche: Che il nostro partito - così Sturzo avrebbe dichiarato a un corrispondente dell' «Echo de Paris» del 22 febbraio 1922 - sia animato da uno spirito di buona volontà, di carità, di pace, di fratellanza cristiana, è certo; ma che sia partito religioso, confessionale, è falso. Nella nostra organizzazione quasi tutti sono cattolici: ma il nostro partito non è un partito cattolico. Noi siamo dei cittadini liberi che lavoriamo su basi determinate: politiche, democratiche, economiche, sociali, per l'organizzazione del paese; riconosciamo tuttavia, che in Italia, per assicurare lo sviluppo pacifico del nostro genio tradizionale, bisogna assicurare alla Chiesa la completa libertà nell'adempimento della sua divina missione. Voi non ignorate, d'altronde, che non mancano cattolici, che hanno conservato un atteggiamento molto diverso dal nostro e interamente conservatore64 •

Su questo punto (la famosa «aconfessionalità») gli interessi della Santa Sede e del gruppo dirigente del nuovo partito nell'immediato, per non pochi aspetti, coincidevano, anche se per motivi molto diversi: Vous et vos amis, - disse Gasparri a Sturzo il 21 dicembre 1918, nel secondo degli incontri che ebbero prima della fondazione del partito - vous agissez certainement avec une intention droite, pour le bien de l'Italie et en parfaite union spirituelle avec l'Eglise. Faites, si vous le croyez nécessaire, un parti politique. Mais il ne doit engager ni le Saint-Siège ni l'Action catholique. Si vous voulez le faire, vous le ferez à vos risques et périls 65 .

Nella valutazione dei vertici ecclesiastici, il problema fondamentale della Santa Sede non era tanto quello di creare un partito democratico che raccogliesse gli orientamenti più vivi del laicato italiano, ma - lo abbiamo più volte ripetuto - di risolvere, nei modi ad essa più convenienti, la questione romana in tutti i suoi aspetti. Nella gestione di questo cruciale problema, essa voleva avere le mani del tutto libere nei rapporti con l'unico interlocutore possibile, il governo italiano, e impedire che su questo rapporto potesse influire negativamente il comportamento di un partito che si presentasse come «cattolico»: da qui il disagio che i vertici vaticani non nascosero mai per il fatto che un ecclesiastico guidasse la nuova formazione e il divieto che fecero a Cit. in G. Salvemini, Il Partito popolare e la questione romana, cit., p. 44. L. Sturzo, Histoire italienne d'hier. Le «non expedit» et le cardinal Gasparri, in «L'Aube» (Paris), 9 gennaio 1935, cit. in R. Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. L'Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma, II, Bologna, Il Mulino 1991, p. 439. 64

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Sturzo di presentarsi alle elezioni politiche66 • Certamente Gasparri sperava che la nascita e la crescita di un partito di ispirazione cristiana modificasse sensibilmente gli equilibri della classe dirigente italiana e quindi aumentasse le spinte «conciliatoriste» in non pochi ambienti liberali: qualora poi il nuovo partito avesse raggiunta una vera e propria centralità politica, la Santa Sede avrebbe trovato di fronte a sé un governo ben più disponibile di qualunque dei precedenti. Perciò mostrava di apprezzare quegli atteggiamenti e quei settori popolari che, in qualche modo, fossero ancora all'interno di una prassi clericomoderata, mentre crebbe la sua insofferenza per le scelte più innovative e radicali del nuovo gruppo dirigente, reagendo alle quali i vertici vaticani misero subito in chiaro che non avrebbero avuto problemi a scegliersi altri interlocutori: insomma i successi e le vittorie del Partito popolare sarebbero stati utili alla Santa Sede, ma le sue sconfitte o i suoi «errori» non dovevano pregiudicare neanche lontanamente la sua situazione. Il rapporto fra i v~rtici vaticani e il nuovo partito fu quindi, fin dalle origini, «asimmetrico»: anche se il Papa non poteva più intervenire nei suoi problemi interni con il piglio decisionista che Pio X aveva mostrato nei confronti dell'Opera dei congressi nel 1904, è certo che una tensione fra la Chiesa italiana e il partito avrebbe messo in crisi la grande maggioranza dei suoi membri (tutti cattolici di provata fede) e causato conseguenze gravi nei suoi equilibri interni: mentre la Santa Sede, proprio per il fatto che escludeva che il partito di Sturzo la rappresentasse nella politica italiana e internazionale, si sentì sempre più libera di intrattenere autonomamente rapporti con altri settori della classe dirigente, indipendentemente dalle posizioni dei popolari. Si tende, in genere, a datare dal 1922, dall'elezione di Pio XI e poi dalla formazione del governo Mussolini, il precipitare dei rapporti fra segreteria di Stato e Partito popolare67 , ma il logoramento era già emerso pubblicamente durante il 1921 e già allora era stata manifesta la disponibilità della Santa Sede a cercare nuovi e affidabili interlocutori, pur di giungere a un accordo con lo Stato italiano: il suo problema vero era quello di trovarli. A questo proposito resta particolarmente indicativa la sensazionale intervista di Ernesto Buonaiuti col card. Gasparri, incautamente (per il prete-giornalista) pubblicata il 29 settembre 1921: «Ma credete voi, genericamente, - aveva domandato

66 Cfr. l'importante lettera di P. Gasparri a Carlo Santucci del 1° agosto 1928, riportata in G. De Rosa, Luigi Sturza, cit., p. 197. 67 Id., Storia del Partito popolare, cit., pp. 201-203. L'insoddisfazione dell'entourage di Benedetto XV per molti aspetti della politica popolare e i suoi tentativi di costruire un'ala destra alternativa alla leadership sturziana sono chiaramente documentati in G. Sale, Popolari e destra cattolica, cit., passim, anche se l'autore conferma che papa Della Chiesa sia sempre rimasto fermo nell'idea dell'unità politica dei cattolici.

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il cardinale - che noi abbiamo a lodarci in tutto e per tutto dell'azione del Partito popolare?». Noi non abbiamo aspettato gli ultimi, piuttosto incauti, pronunciamenti del segretario politico del Partito popolare nel campo rischiosissimo delle contese internazionali, per fare intendere, con la prudenza che il caso richiedeva, come le autorità ufficiali dell'organismo cattolico, dalle più alte alle più modeste, dovevano gelosamente scindere le responsabilità e le sorti della società religiosa, a cui presiedono, da quelle, ambigue e precarie, di un movimento politico che ostenta la sua aconfessionalità. Quando, nell'ultimo periodo elettorale, d'ogni parte si chiedevano per gli episcopii italiani istruzioni sulla linea di condotta da adottare di fronte alla campagna del Partito popolare e sul limite oltre il quale non era consentito andare nella solidarietà con esso, dall'alto non si mancò di far comprendere come i cattolici erano liberi di scegliersi, salvo certe esigenze pregiudiziali, il partito e il candidato che volevano. [. .. ] Il cattolicismo è la vera internazionale bianca, che possiede i suoi adeguati ordini di disciplina e di controllo. A che pro crearle un duplicato di problematica efficienza foriero di immancabile confusione? [. ..] Come illudersi che sia questo il momento adatto di stringere vincoli internazionali, in nome di quei puri interessi economici e sociali che non sono stati capaci di scongiurare il flagello catastrofico della guerra? Che, se il Partito popolare tenterà di atteggiarsi e costituirsi pronubo di intese internazionali in nome dei principi cattolici, non rinnegherà quella aconfessionalità a cui è legata la sua autonomia, e non comprometterà irrimediabilmente una causa che non è suo compito tutelare?

Il disappunto del segretario di Stato concerneva il viaggio che Sturzo aveva compiuto in Germania nel precedente mese d'agosto e i contatti con le principali personalità del Zentrum tedesco per avviare l'intesa e la pacificazione fra i partiti europei di ispirazione cristiana nella prospettiva della costituzione di un' «internazionale bianca»68 , ma ancora una volta lo accusava di fare troppo e troppo poco: troppo, in quanto travalicava i limiti di un partito politico e promuoveva intese con altri partiti richiamandosi ai comuni «principi cattolici»; troppo poco perché, nella politica italiana, si mostrava scarsamente sensibile ai veri problemi della Santa Sede. Sul tappeto c'era ancora la questione romana: «la necessità, cioè, imprescindibile e incontrovertibile che alla Santa Sede, per l'esercizio sovrano del suo potere mondiale, sia assicurata una completa indipendenza, non solamente reale, ma anche apparente, che oggi come oggi non può non essere legata ad un possesso territoriale, di qualsiasi proporzione». Gasparri conosceva, a differenza del suo interlocutore, l'andamento delle trattative parigine del giugno 1919 e dei contrasti interni ai vertici dello Stato italiano che esse avevano rivelato: avvertiva, cioè, che solo un governo forte, che riuscisse 68 Su questo viaggio, cfr. G. De Rosa, Storia del Partito popolare, cit., p. 213 nota 2. Per i successivi sviluppi dell' «internazionale bianca» e per il ruolo di Sturzo, cfr. Id., Luigi Sturzo, cit., pp. 300-301.

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a tacitarle o per lo meno tenerle sotto controllo, sarebbe stato un interlocutore affidabile e tali non gli sembravano «governicchi» che si stavano succedendo in quel momento di crisi: Ma sono gli uomini che ci lasciano tuttora incerti e mal sicuri. È vero che non ci troviamo più dinanzi quel... (un elementare senso di discrezione mi impone di lasciar nella penna la pittoresca definizione uscita dalle labbra di Sua Eminenza) di Giolitti, ma pensiamo che non saranno nemmeno i ministri Bonomi e Della Torretta che giungeranno alla conciliazione. Noi attendiamo ancora - concluse misteriosamente il cardinale - il nostro uomo 69 •

Per Gasparri, l'uomo della conciliazione col Vaticano era allora ancora Nitti, che, non a caso, stava lavorando senza sosta per tornare al potere70 : in quelle settimane Mussolini era invece nel pieno della crisi del suo movimento successiva al «patto di pacificazione» con i socialisti e alla conseguente rivolta dei ras provinciali e il cardinale non poteva assolutamente alludere a lui. È certo, tuttavia, che per la soluzione del problema che più gli stava a cuore non contava nemmeno sui dirigenti del Partito popolare. Contro quest'ultimo, poi, nel gennaio del 1922 si scatenò una vivace campagna di stampa a cui diede il via l' «Osservatore romano» e a cui parteciparono i giornali della stampa cattolica più conservatrice: essa fu interrotta solo dalla morte inattesa di Benedetto XV7 1 . Il suo successore Pio XI fece sua e, se si vuole, rafforzò una linea di giudizio e di comportamento che si era già dispiegata negli uffici della segreteria di Stato. Con una novità fondamentale: che la svolta politica italiana della fine del 1922, fece credere a lui e al suo segretario di Stato che l' «uomo» che attendevano, potesse forse essere arrivato.

69 E. Buonaiuti, Un'intervista diplomatica in Vaticano, in «Il Messaggero» (Roma) e «Il Secolo» (Milano), 29 settembre 1921, ora in Id., Pellegrino di Roma. La generazione dell'esodo, a cura di M. Niccoli, Bari, Laterza, 1964, pp. 190-194. Che le valutazioni di Gasparri non fossero estemporanee, ma contenessero giudizi ormai radicati nei vertici vaticani, è confermato dal resoconto della conversazione riservata, che Enrico Insabato, segretario particolare di Giolitti, aveva avuto circa otto mesi prima (il 25 gennaio 1921) col p. Rosa della «Civiltà cattolica», in cui i due motivi dominanti erano ancora l'esigenza primaria della Chiesa di addivenire a un accordo con lo Stato italiano e la disponibilità, se necessario, a fare a meno dei popolari. Questo resoconto è riportato in N. Valeri, Da Giolitti a Mussolini, Milano, Garzanti, 1974>, pp. 128-130, che lo commenta con la consueta finezza, confrontandolo appunto con l'intervista di Gasparri a Buonaiuti. 70 A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo. L'Italia dal 1918 al 1922, Roma-Bari, Laterza 19745, p. 278 nota 100, che riporta una interpretazione autentica di Buonaiuti all'intervista a Gasparri, comparsa sul «Secolo» del 30 settembre 1921. 71 G. Salvemini, Il Partito popolare e la questione romana, cit., pp. 42-43.

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6. La legge delle guarentigie, cinquant'anni dopo: i dibattiti del 1921

«Vostra Eminenza avrà senza dubbio visto, su qualche giornale romano, la ripresa vivace della campagna, questa volta combattuta in prevalenza da parte liberale, per la risoluzione della "questione romana"», aveva chiesto Buonaiuti a Gasparri nella già ricordata intervista del settembre 1921: Ho visto, - rispondeva il porporato - e, come altra volta ho avuto occasione di dirvi, non abbiamo che a compiacerci di questo intenso e spassionato interessamento di uomini militanti in partiti per tanti rispetti lontani da noi, per il superamento di un problema, che, da cinquant'anni, attende di essere armonicamente risolto. La nostra gradevole sorpresa per la impreveduta unanimità di consensi in argomento, è stata, debbo confessarlo, profonda.

I due prelati si riferivano all'importante dibattito che si era svolto nei mesi precedenti sulla stampa italiana e che aveva trovato echi anche nell'aula di Montecitorio, sul problema delle relazioni fra lo Stato e la Chiesa e sui modi di risolvere la questione romana: su tale discussione è necessario fermarsi, perché essa registra l'orientamento prevalente dell'opinione pubblica italiana un anno prima della marcia su Roma e mostra come certe prospettive fossero già considerate mature prima che il fascismo prendesse il potere. Novità di rilievo erano già contenute in alcuni opuscoli di parte cattolica, usciti nell'immediato dopoguerra, e che non erano sfuggiti a un osservatore attento come Salvemini72 : senza subire smentita alcuna, anzi con un certo tono di ufficialità, essi sostanzialmente rendevano pubbliche le posizioni a cui erano giunti i vertici vaticani negli anni precedenti. Le conosciamo già: necessità primaria di risolvere la questione romana attraverso una trattativa col governo italiano, rinunzia all'internazionalizzazione delle «guarentigie» pontificie, abbandono di ogni prospettiva di ritorno allo statu quo ante, scelta della soluzione «territoriale» sul modello della repubblica di S. Marino. Su questo punto, in particolare, questi scrittori si mostravano particolarmente audaci: accennavano all'ipotesi di Erzberger, ma tendevano a ridimensionarla ulteriormente, ipotizzando una rinunzia allo sbocco al mare e ai confini della Città Leonina. Uno di essi, in particolare, riconosceva esplicitamente che «cinquanta, cento, mille, centomila sud-

72 Si tratta di Costantinus, La questione italo-pontificia, Pisa, Mariotti, 1919 e di N. Casacca, Il Papa e l'Italia, Bologna, Cappelli, 1919, che ebbe altre due edizioni: nella terza (I/ Papa e l'Italia. La fine del dissidio, Roma, Buffetti, 1921) veniva ristampata anche la recensione pubblicata da Buonaiuti sul «Resto del Carlino» (8 ottobre 1920), in cui si esplicitava il suo «carattere ufficioso». Su questi due opuscoli, cfr. l'analisi di G. Salvemini, Il Partito popolare e la questione romana, cit., pp. 54-66.

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diti più o meno ubbidienti e ossequienti, date le esigenze moderne dei sudditi di ogni Stato, possono essere per la Santa Sede motivo di debolezza politica, anziché di forza» e perciò proponeva che la transazione awenisse - inaugurando una formula che avrebbe avuto molto successo - «sulle basi dell' uti possidetis»73 , cioè sostanzialmente dei palazzi, i giardini e i terreni di cui il sommo pontefice aveva goduto fino ad allora in base all'art. 5 della legge delle guarentigie. Queste aperture di parte ecclesiastica, a cui si aggiunse la nota decisione di Benedetto XV di «mitigare in qualche modo il rigore di quelle condizioni» che impedivano ai sovrani cattolici di visitare Roma in forma ufficiale74 , presupponevano un passo estremamente impegnativo da parte del governo italiano: la messa in discussione, a mezzo secolo dalla sua promulgazione, della legge delle guarentigie, di una legge, cioè, che la dottrina prevalente considerava «legge fondamentale dello Stato»75 • Fu su questo punto che si aprì il dibattito nei primi mesi del 1921: nella prefazione a un altro suo libro dedicato alla politica vaticana (questa volta fra guerra e dopoguerra), Guglielmo Quadrotta affermava che quella legge «applicata per un cinquantennio, pur attraverso contrasti e incidenti, [ ... ] non corrisponde più ai suoi fini» e ne proponeva una revisione. Da riscrivere era soprattutto la seconda parte, in particolare gli articoli che riguardavano i problemi della proprietà ecclesiastica, e ciò doveva accadere attraverso un procedimento del tutto unilaterale da parte dello Stato italiano, senza cioè una qualsiasi contrattazione con la controparte: Quadrotta buttava giù perfino i nomi dei possibili componenti della commissione che avrebbe dovuto occuparsene (giuristi, uomini politici, studiosi di storia del cristianesimo, etc.)76• Come si vede, l'ex modernista rispondeva alle avances dei pubblicisti cattolici con un fin de non-recevoir, mentre molto più diretti furono gli interventi che, un fascicolo dopo l'altro, Francesco Ruffini pubblicò

73 Costantinus, La questione italo-pontificia, cit., pp. 25 e 31. Salvemini ipotizzava che dietro quello pseudonimo si celasse un «prelato fiorentino», ma poi apprese che si trattava di «un laico, familiare del Cardinale Gasparri» (G. Salvemini, Memorie e soliloqui, cit., p. 344). 74 La decisione fu annunciata nella già ricordata enciclica Pacem Dei munus (23 maggio 1920), ora in Le Encicliche sociali, cit., p. 201. 75 Così era stata definita dal Consiglio di Stato con parere del 27 febbraio 1878, qualifica che le dava - osservava Ruffini - «una importanza e stabilità al tutto speciale»; ma il giurista aggiungeva subito che ciò «non implica punto che non la si possa riformare, poiché, oltre che essa non fa già parte dello Statuto, è a notarsi che presso di noi anche per le modificazioni di questo ultimo non occorre una costituente» (E. Friedberg, Trattato del diritto ecclesiastico cattolico ed evangelico, cit., p. 253 ). 76 G. Quadrotta, La Chiesa cattolica nella crisi universale, cit., pp. XXII-XXVI. La Prefazione è datata: Genova, febbraio 1921.

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sulla «Nuova Antologia» dal 16 aprile al 1° giugno. Si tratta di saggi molto ampi e informati, ·che prendevano di petto, «scientificamente» non polemicamente, la nuova politica pontificia: i primi due mostravano come, durante la guerra, l'ipotesi dell'internazionalizzazione delle guarentigie pontificie fosse stata gradualmente abbandonata dalla Santa Sede a favore della soluzione «territoriale», quella che ora i pubblicisti vicini alla segreteria di Stato sembravano sostenere. Ma Ruffini mostrava come tale idea fosse nata nell'ambiente austro-tedesco e concepita in senso punitivo verso l'Italia che ci si augurava di sconfiggere: com'era possibile che l'Italia vittoriosa potesse anche solo ipotizzare simili soluzioni, da cui, fra l'altro, sarebbero scaturite difficoltà insormontabili sul piano costituzionale? Nel terzo si giustificava completamente la linea di escludere la Santa Sede dalle conferenze internazionali seguita per mezzo secolo dai governi italiani e la si interpretava come il tentativo di evitare ogni intromissione in una questione, quella romana, che riguardava unicamente la politica interna del regno d'Italia. Nell'ultimo, infine, Ruffini celebrava il cinquantenario della legge delle guarentigie, difendendola su tutti i piani: contrariamente alle proteste pontificie, essa aveva retto brillantemente alla prova della guerra e costituiva la più sicura difesa dell'indipendenza del papa, piuttosto che la ricostituzione di un, sia pure minuscolo, potere territoriale, la cui «impossibilità tecnica» era evidente. Il giurista piemontese si diceva sicuro che la legge delle guarentigie «liberalissima... avesse resistito al duro cimento [della guerra] e si avviasse ad affrontare fiduciosa i secoli»77 , ma non se la sentiva di sostenere una sua totale intangibilità. Nell'era democratica che si era aperta con la guerra, «la decisione era ... rimessa e riservata ai popoli»: qualora una maggioranza democratica degli elettori (Ruffini discretamente alludeva alla nuova realtà del Partito popolare) avesse chiaramente espresso l'esigenza di un ripensamento della situazione della Chiesa in Italia, si sarebbe potuto aprire un processo nuovo78 • «Non avete visto come lo stesso senatore Ruffini, l'ultimo apologista della legge delle Guarentigie, ha trovato il modo di acconciarsi all'idea della sua trasformazione, senza, per questo, rinnegare troppo grossolanamente il suo passato?», chiedeva maliziosamente Gasparri a Buonaiuti nella nota intervista. In realtà, a parte le concessioni un po' generiche della conclusione del suo ultimo saggio, quella dello studioso F. Ruffini, Progetti e propositi germanici, cit., p. 230. Questi quattro saggi sono stati più volte citati in questo lavoro: Il potere temporale negli scopi di guerra degli ex-imperi centrali, in «Nuova Antologia», 16 aprile 1921; Progetti e propositi germanici per risolvere la questione romana, ibid., 1° maggio 1921; Potere temporale, congressi della pace e Società delle Nazioni, ibid., 16 maggio 1921; La questione romana e l'ora presente, ibid., 1° giugno 1921. 77

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di Cavour fu la più recisa difesa dell'attualità della legge del 1871 che si ebbe in quell'anno cinquantenario: egli si confermò - come avrebbe scritto Orlando - «lo scrittore italiano più intransigente nel senso di opporsi sempre ed assolutamente a qualunque riforma della legge»79 • Si deve aggiungere che questa sua posizione, se ha avuto poi molta fortuna sul piano pubblicistico e storiografico 80 , nella discussione di allora non risultò affatto maggioritaria, specialmente quando - come accadde dalla metà di maggio - essa passò dalle pagine dei libri e delle riviste di cultura a quelle dei giornali. L'occasione da cui prese l' awio fu la ripresa delle relazioni diplomatiche fra la repubblica francese e la Santa Sede e l'arrivo a Roma del nuovo ambasciatore Jonnart, dopo la metà di maggio. Le prime preoccupazioni dei quotidiani furono di carattere «nazionalistico», legate al ruolo che le organizzazioni missionarie e umanitarie cattoliche potevano svolgere nell'azione internazionale della Francia. Scriveva «Il Messaggero» del 29 maggio, aprendo in qualche modo la discussione: Presso il Vaticano tutte le Nazioni, grandi e piccole - tranne gli Stati Uniti - hanno un proprio rappresentante. La stessa Inghilterra non ha richiamato - dopo la guerra - la propria rappresentanza straordinaria, creata per il periodo eccezionale del conflitto mondiale. La politica della presenza presso la Santa Sede ha prevalso in tutti i paesi, quale che sia il rispettivo orientamento della loro politica interna. C'è un solo paese assente, che non ha minori interessi all'estero - basta guardare ai problemi orientali - da difendere, da mantenere, da integrare, per i quali molto importa la politica seguita dalla Curia: un paese che ha interessi in contrasto con quelli di altre Potenze che si propongono appunto di

V.E. Orlando, Miei rapporti di governo con la 5. Sede, cit., p. 54. Sostanzialmente ruffiniana fu, per esempio, la posizione di Luigi Salvatorelli, certamente uno dei più informati scrittori di cose ecclesiastiche del Novecento italiano: nel suo, non benevolo, necrologio di Benedetto X'v, annotava con una punta di sarcasmo che «a coronamento dell'opera sua, dopo il ritorno desiderato dell'ambasciatore francese in Vaticano, egli attendeva (ma la morte è venuta prima) un altro ambasciatore, che sarebbe stato ricevuto dopo che la bandiera bianca e gialla fosse stata rielevata sopra lo Stato pontificio del palazzo Vaticano», alludendo evidentemente alle discussioni dell'anno precedente (L. Salvatorelli, «Religio depopulata» (1922), in Id., La Chiesa e il mondo, Roma, Editrice «Faro», 1948, pp. 143-147, 147). Toni analoghi aveva Piero Gobetti: «Una soluzione della questione romana che assegnasse al pontefice la sovranità su una parte sia pur minima di territorio (per es. i Palazzi) significherebbe un regresso evidente: anche l'ombra e il nome del potere temporale riescono insopportabili a uno spirito moderno; e il dissidio risorto su una conciliazione siffatta ci riporterebbe vanamente ad altri tempi. La logica cattolica postula in politica il clericalismo assoluto; ma il cattolicismo del Vaticano è ormai troppo abile, diplomatico, agile per voler essere logico: basta togliere di mezzo le occasioni e le ambizioni dei ritorni». Ma l'ipotesi e in fondo l'auspicio che rimanesse «costante il presente stato di lotta tra i due organismi ritenuti inconciliabili nonostante il riserbo e la dignità dei reciproci rapporti» erano piuttosto idealistici e, in fondo, gentiliani (P. Gobetti, La lotta politica in Italia. Saggio sulla lotta politica in Italia (1924), Torino, Einaudi, 19694, pp. 151-152). 79

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sostenere assiduamente i propri, presso la S. Sede. Questo paese è l'Italia. L'Italia - che si è dimenticata di commemorare, il 13 del mese corrente, il cinquantenario della Legge delle guarentigie - segue il metodo della diplomazia obliqua. E non avverte quali gravi conseguenze possano da ciò derivarle, unicamente perché teme di riprendere in discussione un problema che parve già chiuso e che non poté per cinquant'anni essere riesaminato perché era considerato, dall'altra parte, immutevolmente fermo in una irriducibile concezione antinazionale. Quel problema, per molti segni evidenti, si è mosso e, crediamo, in tal senso da poterne discutere senza timore che il prestigio dello Stato italiano possa soffrirne. L'Italia è uscita, forse, matura dalla guerra, e dalla vittoria, per affrontare anche questo problema8 1.

Motivazioni analoghe furono prontamente sostenute dal nazionalista Roberto Cantalupa sull' «Idea nazionale» del 31 maggio: si trattava di un «ragionamento, come si vede, non di principii, ma di pratica utilità, così come fu di pratica utilità il ragionamento che ricondusse la Francia al Vaticano», annotava il cattolico «Corriere d'Italia» dello stesso giorno, e tuttavia si trattava di un ragionamento assai interessante, che mostrava il «fallimento degli apriorismi settari» che erano stati alla base dell'art. 15 del Patto di Londra e riconosceva l'influenza internazionale raggiunta dal papato nel dopoguerra, influenza che l'Italia aveva voluto per troppo tempo ignorare. La Francia, ristabilendo le relazioni diplomatiche col Vaticano, non aveva modificato la legge di separazione né (per allora) risolto le spinose questioni che avevano segnato la rottura del 1905: ma ciò era possibile per l'Italia? Era ipotizzabile una qualche ripresa ufficiale di rapporti senza in qualche modo risolvere il gravissimo contenzioso che divideva il Vaticano dal governo italiano? Questa consapevolezza si cominciò presto a far strada sulla stampa e fu ribadita autorevolmente dall' «Osservatore romano» del 3 giugno, che raffreddò anche gli entusiasmi che erano emersi sui giornali cattolici: Il Messaggero, l'Idea Nazionale, il Tempo - in occasione della ripresa dei rapporti diplomatici tra la Francia e la Santa Sede - hanno parlato - interpretando un sentimento popolare, del resto spiegabilissimo - della utilità di un simile avvenimento anche per l'Italia. Il fatto, però, che gli scritti di questi giornali, siano stati raccolti, e commentati da altri che non militano nello stesso campo, potrebbe indurre l'opinione pubblica, e più particolarmente i cattolici, ad una non esatta valutazione delle differenti condizioni che una simile intesa dovrebbe affrontare e superare in Italia; ove permane, in realtà, la imprescindibile risoluzione di pre-

81 Ministero degli Affari Esteri-Ufficio Stampa, Una nuova discussione sui rapporti tra Chiesa e Stato in Italia, Roma, Libreria di scienze e lettere, 1921, pp. 7-8. L' Introduzione di Amedeo Giannini, capo dell'ufficio stampa, è datata: Roma, 31 luglio 1921. Questa utilissima rassegna raccoglie tutto il dibattito sulla stampa italiana ed estera: essa è la fonte di tutte le citazioni successive, a meno che non si diano indicazioni diverse (l'opuscolo è riprodotto nel CD-Rom allegato al presente volume).

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giudiziali, che non esistevano con il Portogallo e con la Francia - per citare} due ultimi Stati che hanno ripristinato le proprie relazioni con la Santa Sede. E obbiettivamente giusto pertanto, che l'opinione pubblica, ma sopratutto i cattolici, si rendano conto in modo chiaro e preciso, di quella diversa natura delle situazioni, che ne rendono intempestivi, non solo ogni esame di particolari, ma la stessa designazione dei poteri all'uopo competenti; poiché lungi dall'essere alla vigilia di awenimenti concreti, si tratta soltanto, come altra volta, di semplici ipotesi ed espressioni di pensiero soggettive.

Il giornale vaticano introduceva così il problema delle «pregiudiziali», che fu al centro del dibattito successivo. Ancora una volta uno dei più netti fu Buonaiuti, sul quotidiano romano «Il Tempo» a cui collaborava dal giugno del 191982 , e si trattava di un prete-giornalista allora assai vicino a Gasparri. Era necessario ammettere in via, appunto, «pregiudiziale» l'insufficienza della legislazione ecclesiastica in Italia: La legge delle guarentigie fu concepita e stilizzata sotto la predominante preoccupazione di non concedere nulla al pontificato, che rappresentasse una diminuzione, reale o apparente, dei diritti sovrani dello Stato Italiano su tutto il territorio nazionale. Si comprende oggi che simile preoccupazione ha impedito di scorgere e di valutare, nella loro intima ragionevolezza, i motivi da cui la Santa Sede è stata spinta a non accettare una legge che la poneva in una condizione di mal dissimulata sudditanza.

E accettare la discussione sulla ricostituzione di un territorio pontificio, sia pure minimo: Fosse pure di un centimetro quadrato, lo spazio necessario all'autorità suprema del Cattolicismo per l'esercizio dei suoi poteri, occorre che quel centimetro quadrato non le venga graziosamente affidato da una potestà estranea; occorre che sia di sua esclusiva e insindacata spettanza. Occorre quindi, perché questa vecchia e ingombrante questione romana giunga ad una conveniente soluzione, che la politica italiana si persuada non essere una menomazione dei diritti dello Stato, abbandonare al pieno possesso del pontificato la zolla di territorio che è necessaria, perché esso appaia al cospetto di tutto il mondo credente, perfettamente al sicuro da ogni interferenza e da ogni soggezione verso una particolare nazionalità83 •

E qualche giorno dopo, Buonaiuti era ancora più esplicito, proponendo addirittura una riscrittura della nota formula cavouriana: Ogni avviamento ad una sistemazione pacifica e definitiva dei rapporti italiani con la S. Sede deve essere preceduto dal convincimento che le vecchie formule e i vecchi schemi si sono irrimediabilmente rivelati impari alla bisogna. «Chiesa

82 Per questa collaborazione, cfr. E. Buonaiuti, Pellegrino di Roma. La generazione del!' esodo, cit., p. 159. 83 Note Vaticane. Verso la sistemazione dei rapporti fra Chiesa e Stato? Il comune interesse delle parti ad intendersi, in «Il Tempo» (Roma), 2 giugno 1921, non firmato, ma attribuibile a Buonaiuti.

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sovrana in rapporti di buon vzcznato con lo Stato sovrano»: ecco, può darsi, una proposizione che esprime in maniera approssimata i dati che dovranno essere armonizzati nella combinazione giuridico-diplomatica. Verso cui Vaticano e Governo tendono automaticamente, più di quanto forse essi stessi non si rendano conto. Non c'è da spaventarsi delle parole. Anche la legge delle guarentigie riconosceva al Pontefice diritti e prerogative di sovrano. E la sovranità del Pontificato Romano non perderà la sua eccezionale natura, se si muoverà su una modestissima zona parziale, sottratta alle ipotetiche vicende di un godimento, concesso da una elargizione statale84 •

Il discorso veniva articolato dal «Messaggero» del 5 giugno in termini pressoché definitivi: Ma per affrontare e discutere il problema, conviene impostarne i termm1 esatti. I rapporti fra l'Italia e il Papato si basano sulla legge del 13 maggio 1871: legge fondamentale dello Stato italiano ma che il Vaticano non ha mai né riconosciuta né molto meno accettata. È evidente, dunque, che ogni presunzione di intesa italo-vaticana deve ammettere di procedere ad una revisione della legge delle prerogative pontificie, sostituendo questa con un atto bilaterale del quale

84 E. Buonaiuti, Verso i nuovi rapporti tra Italia e Vaticano. «Chiesa sovrana in relazione di buon vicinato con lo Stato sovrano», ibid., 4 giugno 1921. L'impostazione di Buonaiuti era criticata da R. Murri, Chiesa e Stato, in «Il Resto del Carlino», 7 giugno 1921, ma all'interno di un discorso più filosofico, che propriamente politico. Il trentenne Arturo Carlo }emolo, senza mostrare opposizione alcuna verso il piano che la discussione aveva assunto, riteneva tuttavia assai difficile la via della conciliazione, sia per le opposizioni dell'episcopato e del laicato di quasi tutti gli Stati (il francese e l'irlandese-nordamericano in specie), sia per il principio teorico che trovava unanime il clero di tutti i paesi, secondo cui il papa non deve mai recedere dalle posizioni prese o sconfessare le pretese enunciate, sia infine per la mancanza di unanimità nell'opinione pubblica italiana (A.C. }emolo, Le difficoltà della conciliazione, in «Il Tempo», 8 giugno 1921). Marginale e scettica fu la partecipazione della stampa socialista (Una vecchia questione riaperta, in «Avanti!», 3 giugno 1921), mentre non viene segnalata una presa di posizione da parte di quella comunista. Ma si ricordi che sull' «Ordine nuovo» scriveva un comunista di origine cattolica come Cesare Seassaro, assolutamente estraneo a ogni anticlericalismo di maniera, che giudicava la legge delle guarentigie «monumento di ipocrisia e di malafede liberale, [che] non può garantire in nessun modo i diritti dei cattolici», per cui «essi hanno tutte le ragioni di chiedere - finché dura l'attuale sistema selvaggio di pluralità statale - che essa sia internazionalizzata, che la posizione giuridica della Chiesa sia regolata internazionalmente» (Caesar, La questione romana, in «L'Ordine nuovo», II, 16, 2 ottobre 1920, riportato in P. Scoppola, La Chiesa e il fascismo. Interpretazioni e documenti, Bari, Laterza, 1971, pp. 4145, 42). Seassaro si diceva convinto che «il Comunismo risolverà la questione romana abbattendo tutte le frontiere internazionali, unificando la società e la vita dei popoli» («Dubitiamo forte che la conclusione sia per andare molto a genio delle sfere dirigenti del Vaticano!» commentava F. Ruffini, La questione romana e l'ora presente, cit., p. 285 nota 9). Su questa figura, che attirò già allora l'attenzione di certi ambienti cattolici (Fulvio, Cattolicismo e comunismo nel pensiero di C. Seassaro, in «Rassegna Nazionale», XLIII, 1° gennaio 1921), cfr. ora G. Isola, Seassaro Cesare, in F. Andreucci, T. Detti, Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico 1853-1943, IV, Roma, Editori Riuniti, 1978, pp. 591-596.

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il Pontefice sia uno dei contraenti. La base delle trattative dovrebbe essere questa: la legge delle guarentigie non riconosce de jure la sovranità del Pontefice, in quanto sovranità non esiste senza territorio. Essa, infatti, stabilisce all'art. 9 che «il Governo italiano rende al Sommo Pontefice nell'interno del Regno gli onori sovrani». Se l'ipotesi della concordatizzazione potesse fondarsi sul riconoscimento de jure della sovranità della S. Sede da parte dell'Italia, il territorio necessario a perfezionare il concetto di tale sovranità potrebbe trovarsi in quello stesso Palazzo Vaticano, del quale oggi - secondo la legge del 71 - il Papa non possiede che l'uso. Il giorno in cui il Regno d'Italia riconoscesse al Pontefice l'assoluta podestà sui palazzi apostolici, e questi venissero considerati come territorio extranazionale, verrebbe de jure ammessa- la extra territorialità dei luoghi e la sovranità reale, e non di essa una finzione nel Papa. Ove si potesse addivenire alla «concordatizzazione» della legge delle guarentigie e al riconoscimento della sovranità effettiva del Pontefice sul Vaticano la pregiudiziale da parte della S. Sede non apparirebbe forse insuperabile.

«Il Tempo» e «Il Messaggero» erano quotidiani di tradizione «democratica» (anche se Virginio Gayda, che dal 1° marzo era diventato direttore del secondo, lo avrebbe traghettato rapidamente verso il fascismo85) e furono i più innovativi sul piano delle analisi e delle proposte. Anche la giolittiana «Tribuna», assai più prudente, riconosceva tuttavia la necessità di una «sempre maggiore attenzione e studio su tutti i collegamenti della politica vaticana con quella internazionale e sempre maggiore discernimento sulla scelta degli organi e delle persone che debbono seguire e trattare quei problemi» (4 giugno). Si tennero fuori del coro «Il Giornale d'Italia» di Bergamini, da sempre vicino a Sonnino, e il «Corriere della sera» di Albertini, a cui Ruffini collaborava da anni, cercando di riaffermare - come gli chiedeva il direttore - «l'idea liberale pienamente e nettamente e proclamando la fedeltà alle tradizioni della nostra storia»86 . La discussione, che fu ravvivata da alcune parole del papa in un'allocuzione concistoriale del 13 giugno 87 , trovò una prima conclusione in un articolo del direttore dell' «Osservatore romano», Giuseppe Dalla Torre, secondo il quale essa fissava chiaramente due punti: «La questione Romana esiste; è interesse dell'Italia risolverla»:

8' G. Talamo, Il «Messaggero» un giornale durante il fascismo. Cento anni di storia, II, 1919-1946, Firenze, Le Monnier, 1984, p. 118 e 141 (dove si insiste sulla tradizione democratico-anticlericale del giornale). 86 Queste indicazioni erano contenute nella lettera di L. Albertini a F. Ruffini del 2 settembre 1921, in L. Albertini, Epistolario 1911-1926, a cura di O. Barié, Milano, Mondadori, 1968, p. 1490. 87 In essa, dopo aver accennato largamente alle condizioni della Palestina, Benedetto XV ricordava la ripresa dei rapporti diplomatici con la Francia e, alludendo evidentemente all'Italia, affermava che «dove una triste condizione di cose non ostacoli la necessaria libertà e indipendenza del Romano Pontefice, quasi tutti gli Stati civili del mondo hanno rapporti diplomatici con questa Sede Apostolica».

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Ne prendiamo atto - aggiungeva Dalla Torre - poiché la Santa Sede e i cattolici, non hanno mai pensato ed affermato nulla di diverso, quando pure, dal!' altra parte - applichiamo qui e ben più propriamente le parole che il Messaggero usa invece per la parte nostra - «il problema era considerato immutevolmente fermo in una irriducibile concezione» di gelosa sovranità statale, che non sarebbe viceversa né minacciata né compromessa affatto da una qualsiasi soluzione reciprocamente concordata. Non pensarono né affermarono nulla di contrario malgrado tant' anni di asserzioni ostinate sulla morte e sepoltura definitiva della questione romana, quasiché nessun rapporto potesse avere ormai con i nuovi interessi e le nuove fortune d'Italia.

Circa la legge delle guarentigie, il direttore dell' «Osservatore» notava che il dibattito su questo punto aveva condotto alla constatazione che essa era ormai inadeguata e sorpassata, e aggiungeva: Ne prendiamo atto. È da cinquant'anni che la Chiesa lo afferma a cost_o di suscitare le ire degli scontrosi esteti ammiratori del «capolavoro» giuridico. E da cinquant'anni che si dimostra la pratica inutilità ed il sostanziale assurdo di un atto unilaterale e non accettato dalla parte interessata: garanzia mutabile come ogni altra legge costituzionale, per volontà di maggioranza, e quindi di qualsiasi partito dominante; atto che nega ad un Potere sovrano e universale in nome di uno Stato particolare, la sovranità effettiva, per largirgli i semplici tributi d'onore; che gli assicura e promette - fin che lo potrà - tanta libertà quanta non gli è però sufficiente per dire se l'accetta o meno perché, anche questo solo costituirebbe già una diminuzione della indiscutibile superiorità sovrana dello Stato sulla Chiesa. Oggi, alla stessa conclusione, giungono gli awersari : è giusto compiacersene. [. .. ] Giacché senza entrare nel merito delle differenti proporzioni territoriali, e per attenerci anche qui soltanto, alle ammissioni concordi dei confratelli, il riconoscimento che la sovranità de jure, non risiede oggi perfetta che sul territorio, fu sempre nel pensiero della Santa Sede e dei cattolici, anche quando gli awersari non volevan vedervi un elementare assioma giuridico, ma un preconcetto settario (Prendiamo atto, 19 giugno 1921).

Qualche mese dopo, Adriano Bernareggi, fra i più stretti collaboratori di Gemelli nella costruzione dell'Università Cattolica, dove avrebbe insegnato - fino al 1926 - diritto ecclesiastico, sintetizzava in un modo analogo il senso del dibattito che si era svolto: Il riconoscimento dell'insufficienza della legge delle Guarentigie può considerarsi come la premessa essenziale della discussione. Questa non sarebbe nata se ancora si fosse creduto nella sapienza giuridica e politica della legge del 1871 e si avesse avuto ancora fede nella politica ecclesiastica italiana88 •

88 A. Bernareggi, Cinquant'anni di prove della legge delle guarentigie, in «Vita e pensiero», XI (1921), pp. 524-548. In un saggio precedente, Il papato e il problema nazionale italiano, ibid., X (1920), pp. 522-535, 628-636 Bernareggi si era mostrato molto favorevole a una conciliazione fra Stato e Chiesa e piuttosto critico verso l'atteggiamento intransigente del papato dopo Porta Pia: questo intervento gli procurò il biasimo della Congregazione dei seminari e il futuro vescovo di Bergamo rettificò pub-

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Nel frattempo si era aperta la XXVI legislatura, a più di un mese delle elezioni generali del 15 maggio. Nel tradizionale dibattito d'apertura, quello sull'indirizzo di risposta al discorso della Corona, si ebbe un'eco diffusa delle discussioni delle settimane precedenti: a portarle ali' attenzione della Camera fu soprattutto un deputato che era al suo esordio parlamentare, Benito Mussolini. Se ci fu un aspetto della personalità mussoliniana che rimase costante nelle varie fasi della sua azione e del suo pensiero, questo fu una sordità pressoché completa a ogni problematica religiosa, derivante da un ateismo conclamato fin dai suoi primi anni e mai rinnegato, anche se successivamente in qualche modo mimetizzato. Il «duce» fu un uomo tipicamente novecentesco, in cui la passione politica fu sempre onnicomprensiva e senza limiti: un individuo totus politicus, per usare un'espressione crociana. Dall'ambiente natale e dalla sua formazione carducciana (a Forlimpopoli era stato alunno del collegio di Vilfredo Carducci, fratello del poeta) aveva ereditato un risentito anticlericalismo sul piano storico, prima che su quello politico, che lo rendeva un epigono di quella tradizione democratico-ghibellina, a cui già si è accennato89 • Vi alludeva in modo veridico nel suo discorso: Tutti noi, che dai 15 ai 25 anni, ci siamo abbeverati di letteratura carducciana, abbiamo odiato una «vecchia vaticana lupa cruenta», di cui parlava Carducci, mi pare, nell'ode A Ferrara; abbiamo sentito parlare di «un pontefice fosco del mistero» al quale faceva contrapposto un poeta Vate dell'augusto vero e dell'avvenire: abbiamo sentito parlare di una tiberina «sazia [sic] di nere chiome» che avrebbe insegnato le macerie di una ruina senza nome al pellegrino avventuratosi verso San Pietro 90 •

Così per tutta la guerra, «Il Popolo d'Italia» aveva condotto una violenta polemica, talora di carattere blasfemo, contro le posizioni di Benedetto XV e della Santa Sede e il primo programma dei Fasci di blicamente il suo pensiero proprio nel cit. Cinquant'anni di prove della legge delle guarentigie. Su quest'episodio le informazioni essenziali sono in L. Cortesi, Frammenti per la storia di un'anima, in Miscellanea Adriano Bernareggi, a cura di L. Cortesi, Bergamo, Ed. Opera B. Barbarigo, 1958, pp. 60-79, ma esso, per la personalità di Bernareggi e per la sede in cui i suoi lavori comparvero, meriterebbe un ulteriore approfondimento. 89 Per la formazione di Mussolini, cfr. R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario 1883-1920, pref. di D. Cantimori, Torino, Einaudi, 1965 e, più recentemente, molte acute osservazioni sono in A. Campi, Mussolini, Bologna, Il Mulino, 2001, pp. 91-118. 90 Maledetta sie tu, maledetta sempre, dovunque/gentilezza fiorisce, nobiltade apre il volo/sii maledetta, o vecchia vaticana lupa cruenta/maledetta da Dante, maledetta pe'l Tasso (Alla Citta di Ferrara, in Rime e ritmi); Te pontefice fosco del mistero,/ Vate di lutti e d'ire,/Io sacerdote de l'augusto vero,/Vate dell'avvenire (Per Eduardo Corazzini in Giambi ed epodi); E tra i ruderi in fior la tiberina/Vergin di nere chiome/ Al peregrin dirà: Son la ruina/D'un'onta senza nome (Per Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, in Giambi ed epodi).

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combattimento sarebbe rimasto nell' «ambito di un certo separatismo anticlericale e confiscatore»91 • Ma il lettore di Machiavelli conosceva benissimo la forza mobilitante dell'elemento religioso e riteneva che il politico «spregiudicato» (un aggettivo a cui ricorreva spesso) non potesse non tenerne conto: così nel revirement a destra che impegnò il suo movimento per tutto il 1920, alla ricerca di una base più ampia e socialmente diversificata92 , la tematica religiosa, anzi «cattolica» venne assumendo un peso e un significato tutto diverso: Il fascismo - diceva ora - non predica e non pratica l'anticlericalismo. Il fascismo [ ... ] non è legato alla massoneria [ ... ] Io non sono un divorzista [ ... ] Siamo d'accordo con i popolari per quel che riguarda la libertà della scuola; siamo molto vicini a essi per quel che riguarda il problema agrario [ ... ] Siamo d'accordo per quel che riguarda il decentramento amministrativo, con le dovute cautele [ ... ].

Ma Mussolini cercava di volare alto, non voleva limitarsi a problemi di tattica parlamentare e al rapporto fra fascismo e Partito popolare, ma affrontare quelli più complessivi delle relazioni tra l'Italia e il Vaticano. A questo scopo ricuperava uno dei temi centrali del dibattito risorgimentale, l' «idea di Roma», così tipica della tradizione classicisticoghibellina, e ricordava (anche se non troppo fedelmente) il concitato richiamo che Theodor Mommsen aveva rivolto a Sella nel 1871: «non si resta a Roma senza un'idea universale». Qual era ora quell'idea? Non la «Scienza», come aveva indicato lo stesso Sella; non la libertà religiosa e cioè la separazione fra Stato e Chiesa, secondo la tradizione della Destra storica93 , ma - di nuovo - il cattolicesimo romano: «Affermo qui - esclamava Mussolini - che la tradizione latina e imperiale

91 F. Margiotta Broglio, Italia e Santa Sede, cit., p. 79, ma è importante tutto il paragrafo riguardante le posizioni di Mussolini sulla questione romana dal 1914 al 1921 (pp. 71-86). 92 E. Gentile, Storia del Partito fascista 1919-1922. Movimento e milizia, Roma-Bari, Laterza, 1989, pp. 69-162. 93 Per tutto questo dibattito, cfr. F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, cit., pp. 179-323, che ricorda anche «il concitato richiamo che il prepotente Mommsen rivolgeva al Sella una sera del 1871: "Ma che cosa intendete fare a Roma? Questo ci inquieta tutti: a Roma non si sta senza avere dei propositi cosmopolitici. Che cosa intendete fare?"» (p. 189). La fonte di Chabod era un discorso dello stesso Sella del 1881 e la biografia dello statista scritta da Alessandro Guiccioli. Da dove il «duce» traesse questo aneddoto, non è facile ipotizzare, ma non è questa l'unica volta che lo si rinviene nei suoi scritti: «All'indomani di Porta Pia, - aveva scritto l'anno precedente - Teodoro Mommsen sentenziò: non si resta a Roma senza un'idea universale! L'Italia laica non ha dato idee universali al mondo e adesso - pavida - appare come non più capace di reggere il peso glorioso della sua guerra. Si affloscia. Si "invacua". Si sputa addosso» (Mortificazione, in «Il Popolo d'Italia», 1° luglio 1920, ora in Opera omnia, XV, pp. 68-70); ma si veda anche in un discorso del 4 giugno 1924, ibid., XX, p. 305.

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di Roma oggi è rappresentata dal cattolicismo. [ ... ] io penso e affermd che l'unica idea universale, che oggi esiste a Roma, è quella che s'irradia dal Vaticano». Poteva sembrare un ricupero della tradizione giobertiana, ma, come è stato notato, si trattava in realtà di un «giobertismo a rovescio» 94 : non era l'Italia che doveva costituire la base territoriale della missione sovranazionale della Chiesa (e gliene sarebbe derivato un «primato morale e civile», ma non politico), ma era la Chiesa che di fatto diventava strumento oggettivo dell'espansione italiana: Sono molto inquieto, quando vedo che si formano delle Chiese nazionali, perché penso che sono milioni e milioni di uomini, che non guardano più all'Italia e a Roma. Ragione per cui io avanzo questa ipotesi: penso anzi che, se il Vaticano rinunzia definitivamente ai suoi sogni temporalistici - e credo che sia già su questa strada - l'Italia, profana o laica, dovrebbe fornire al Vaticano gli aiuti materiali, le agevolazioni materiali per le scuole, chiese, ospedali o altri, che una potenza profana ha a sua disposizione. Perché lo sviluppo del cattolicesimo, nel mondo, l'aumento dei 400 milioni di uomini, che in tutte le parti della terra guardano a Roma, è di un interesse e di un orgoglio anche per noi che siamo italiani95 •

Si trattava di «un'accezione strumentale ed utilitaristica del fondo religioso dell'identità italiana» che potrà, negli anni successivi, momentaneamente anche incontrarsi con la prospettiva «neo-giobertiana» di Pio XI e dei suoi collaboratori e alimentare così ambiguità ed equivoci, ma che da essa resterà intimamente diversa e con essa anzi giocherà per molti anni una difficile partita. Mussolini aveva cercato di «scoprire» la posizione dei popolari, ma questi gli risposero con estrema genericità per bocca dell' on. Livio Tovini, solo puntualizzando che coloro che tanto insistevano nel riconoscere la «grandezza della Chiesa cattolica nel mondo», si sarebbero poi dovuti porre il problema di ricomporre il contrasto fra lo Stato italiano e la Santa Sede: Né, Onorevoli colleghi, abbiamo nessuna difficoltà ad esprimere, su questo punto delicatissimo, senza reticenze, il nostro pensiero. La Camera comprenderà facilmente che noi non possiamo dissentire dall'oratore ufficiale del fascismo allorquando egli condanna severamente la grettezza politica di quegli uomini di governo che per tanti anni hanno disconosciuta la enorme potenza del Cattolicismo nel mondo, e ritenuto i più miti di loro, che, quanto meno, il Vaticano fosse per l'Italia un peso morto. A noi, che vediamo il Cattolicismo nella pienezza della sua vita morale, intellettuale e sociale; a noi non rincrescerà certo di ridire senza reti-

G. Rumi, Gioberti, cit. p. 100. AP, Camera dei deputati, Legislatura XXVI, Discussioni, 21 giugno 1921, pp. 89-98, 97-98 (Mussolini). Per il significato complessivo di questo discorso (sfiducia al governo Giolitti, appello alla pacificazione nazionale), per i suoi echi e per le intenzioni reali di Mussolini, cfr. R. De Felice, Mussolini il fascista, I. La conquista del potere 1921-1925, Torino, Einaudi, 1966, pp. 126-131. 94 95

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cenze che, almeno dal riconoscimento storico della grandezza della Chiesa cattolica nel mondo, i partiti veramente italiani potrebbero trarre l'onesto e modesto desiderio di veder composto un contrasto, che è causa per l'Italia, all'interno e all'estero, di debolezze incalcolabili96 •

Ben altro respiro ebbe l'intervento, immediatamente successivo, del nazionalista Alfredo Rocco, che doveva esprimere il pensiero del suo gruppo sulla politica interna. I nazionalisti guardavano con interesse alla collaborazione con le forze cattoliche, «che ancora non sono entrate integralmente nella vita nazionale» e, in questa prospettiva, erano stati fra i primi a respingere il vecchio anticlericalismo e a superare la formula Cavouriana: «libera Chiesa in libero Stato», la quale rispondeva alle esigenze pratiche della politica del grande statista nell'epoca sua fortunosa, ma non trovava più rispondenza nella realtà, il giorno in cui il Papato aveva rinunciato alle sue pretese temporalistiche e i cattolici italiani erano andati alle urne. La religione infatti è troppo fondamentale elemento della vita di un popolo, e la Chiesa cattolica è per l'Italia istituzione troppo essenziale e troppo legata alla sua tradizione e alla sua missione, perché lo Stato italiano possa ignorare e la religione e la Chiesa.

Rocco si rifaceva esplicitamente alla discussione delle settimane precedenti, quando ricordava che «oggi le cose sono giunte a tale che si discute da organi ufficiosi del Vaticano la possibilità e si delineano perfino i termini concreti dell'accordo». Il giurista comprendeva benissimo che il futuro accordo col Vaticano non poteva limitarsi al solo problema della sovranità pontificia, per tutelare la quale molti ormai erano pronti a ricostituire un minuscolo potere territoriale; ma non poteva non riguardare anche la legislazione ecclesiastica italiana e quindi prevedere una sua revisione. È, tuttavia, significativo che in questa fase l'ex radicale Rocco fosse molto più guardingo di molti di coloro che si erano espressi nelle settimane precedenti: Sul primo punto [quello della situazione giuridica della Santa Sede] le pretese della Santa Sede si riducono oramai al riconoscimento della sovranità territoriale sui palazzi pontifici. In realtà ciò che si vuole dal Vaticano è il riconoscimento del Pontefice, come Sovrano, cioè come soggetto di diritto internazionale. E soltanto per il preconcetto che non possa esservi sovranità e quindi personalità di diritto internazionale senza dominio territoriale anche minuscolo, si richiede il riconoscimento di un dominio territoriale sui palazzi vaticani. Ma poiché il presupposto è assai discutibile, non mi sembra che possa escludersi la possibilità di trovare un

96 AP, Camera dei deputati, Legislatura XXVI, Discussioni, 22 giugno 1921, pp. 144-151, 146 (Tovini). Su Tovini, cfr. F. Molinari, Tovini, Livio, in Dizionario storico del movimento cattolico in Italia 1860-1980, diretto da F. Traniello e G. Campanini, IIV2, Torino, Marietti, 1984, pp. 858-859.

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punto di accordo che concili l'esigenza della Santa Sede a ottenere un assetto di piena indipendenza, con le necessità interne ed internazionali dello Stato italiano.

Come si vede, l'argomentazione, tante volte ripetuta dalla segreteria di Stato, che «senza territorio non esiste sovranità», era per Rocco giuridicamente «assai discutibile»: il deputato nazionalista sembrava convinto che si dovesse superare il carattere unilaterale della legge del 1871 e trattare, quindi, con la Santa Sede, ma non si mostrava ancora rassegnato a cedere una parte del territorio nazionale. Quanto al secondo punto, quello della situazione della chiesa cattolica e del clero cattolico in Italia, l'accordo era - secondo Rocco - assai più facile: ma qui il suo statalismo non riusciva a superare il tradizionale giurisdizionalismo. Si doveva infatti garantire una situazione della proprietà ecclesiastica, che assicurasse al clero dignitose condizioni di vita, ma la «libertà della Chiesa» restava ai suoi occhi una prospettiva pericolosa, perché rischiava di alimentare un contro-potere all'interno della società nazionale: il Clero italiano deve essere ricondotto nell'orbita nazionale interamente, e lo Stato deve garentire ad esso condizioni di vita degne dell'alta funzione a cui è chiamato. Ma non possiamo consentire nell'idea, che abbiamo veduto più volte espressa, di un totale svincolo del Clero dall'autorità dello Stato, mediante l'abolizione perfino dell'exequatur e del placet. Altra cosa è infatti l'indipendenza della Santa Sede che per la sua missione universale deve essere piena ed intera; altra cosa è l'indipendenza del Clero nazionale dallo Stato nazionale, che non può ammettersi se non si vuol creare un altro Stato nello Stato97 •

Notevole e, in qualche modo conclusivo, almeno per allora, fu l'intervento di un altro popolare, Egilberto Martire, giovane deputato di Roma, che sarebbe poi stato uno dei più notevoli esponenti del «fascismo cattolico». Ma qui parlava soprattutto il credente, che, seppur 97 AP, Camera dei deputati, Legislatura XXVI, Discussioni, 22 giugno 1921, pp. 151-158, 154-155 (Rocco). Con Francesco Coppola, Rocco aveva firmato alla fine del 1918 il Manifesto di «Politica» (la rivista da loro fondata), che conteneva un accenno significativo alla «politica religiosa» che il nazionalismo italiano stava elaborando: essa, «con concezione positiva ed attiva della sovranità dello Stato, abbandonando l'agnostico disinteresse del vecchio dottrinarismo liberale, deve ricostituire l'unità spirituale della nazione per tramutarla in forza di coesione interna e di esterna espansione - compito essenziale per l'Italia che, superato nel fatto il dissidio oramai storico fra Stato e Chiesa, non può né deve dimenticare e trascurare la posizione privilegiata che le deriva dall'essere italiana negli organi, nello spirito, nelle tradizioni la Chiesa cattolica, l'istituzione cioè che gode ancora del più universale prestigio e della più universale forza di espansione». Anche la politica religiosa, quindi, doveva «servire alla politica per eccellenza, che è la politica estera», essere una delle «diverse facce o, meglio, [dei] diversi momenti dell'organizzazione e dell'allenamento nazionale alla gara imperiale nel mondo» (in La stampa nazionalista, a cura di F. Gaeta, Bologna, Cappelli, 1965, pp. 9-22, 21).

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CAPITOLO SECONDO

lusingato dai riconoscimenti che la maggioranza della Camera tributava alla sua tradizione religiosa, avvertiva anche il motivo politico e strumentale che vi si annidava e il rischio di una religione ridotta essenzialmente a strumento di grandezza nazionale: Non posso accettare i termini, per lo meno esteriori, nei quali, l'onorevole Mussolini ha quasi stretto e costretto il formidabile problema politico religioso in Italia perché egli, se non erro, ne ha quasi fatto, perdonatemi l'espressione, una questione di contabilità. [ ... ] Nella risoluzione del problema politico religioso d'Italia non abbiamo [. .. ] facili impazienze né sollecitiamo facili conciliazioni. Non possiamo comunque vagheggiare una Stato-chiesa dopo che abbiamo condannato e condanniamo la chiesa di Stato. Anzi oserò dire di più: che a facili conciliazioni, le quali potrebbero mortificare quello spirito religioso che è forza del nostro Paese, onorevole Mussolini, ma che è anche forza e patrimonio di tutta l'umanità dolorante ed orante, a queste facili conciliazioni che potrebbero richiamarci a ricordi non ancora cancellati di legislazioni giuseppiniste o giurisdizionali, che furono il peso morto della coscienza cristiana e cattolica dell'Austria, non guardiamo con animo desideroso. Oseremmo preferire, [ ... ] finanche, un dualismo doloroso e fecondo a facili accomodamenti, che potrebbero mortificare la maestà e la santità della coscienza religiosa, la quale non è solo patrimonio della nostra gente, ma per il nostro romano ministero di libertà e di equanimità si è fatto patrimonio e tesoro di tutta l'umanità.

Piuttosto che una conciliazione che facesse della religione un instrumentum regni, che ne negasse l'orizzonte universalistico e la asservisse di nuovo a un sistema di controlli, oltre che di privilegi, era preferibile il «dualismo» della tradizione liberale che fino ad allora aveva improntato la legislazione ecclesiastica italiana: le guarentigie della legge del 1871, infatti, «in quel momento storico e spirituale [... ], come atto unilaterale, rappresentarono il massimo sforzo della coscienza liberale dinanzi al formidabile problema religioso» 98 • La discussione del giugno 1921 ha un'importanza particolare, perché dimostra che, a mezzo secolo dalla legge delle guarentigie, la maggior parte dell'opinione pubblica italiana e degli schieramenti politici ritenesse ormai opportuno il superamento dell'unilateralismo di quella legge e matura una soluzione pattizia della questione romana: in questa prospettiva, largamente diffusa era ormai anche l'idea che la sovranità del papa (riconosciuta nel testo del 1871) andasse resa effettiva, legandola a un territorio di minime dimensioni, più o meno quello già attribuito in godimento al pontefice. Erano mutamenti di grande portata e non aveva torto un giornalista francese, quando osservava che

98 AP, Camera dei deputati, Legislatura XXVI, Discussioni, 24 giugno 1921, pp. 225-233, 232 (Martire). Su questa figura, cfr. D. Sorrentino, La Conciliazione e il