Lingua, cultura, società. Saggi sulla letteratura italiana del Cinquecento 8876940308

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Lingua, cultura, società. Saggi sulla letteratura italiana del Cinquecento
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Mario Pozzi

Lingua, cultura, società Saggi della letteratura italiana del Cinquecento

. EDIZIONI DELL’ORSO

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CONTRIBUTI E PROPOSTE Collana di critica letteraria diretta da Mario Pozzi

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MARIO POZZI

LINGUA, CULTURA, SOCIETÀ Saggi sulla letteratura italiana del Cinquecento

EDIZIONI DELL’ORSO ALESSANDRIA 1989

© 1989

Copyright by Edizioni dell’Orso s.a.s. 15100 Alessandria, Via Piacenza n. 66 Fotocomposizione: SLM di Sparano - C.so Racconigi, 32 Bis - 10139 Torino È vietata la riproduzione, anche parziale, non autorizzata, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico.

ISBN 88-7694-030-8

AVVERTENZA

Raccolgo in questo volume alcuni scritti che nell’ultimo decennio ho dedicato alla letteratura del Cinquecento. Tutti hanno subito dei ritocchi, talora anche delle revisioni profonde, che però non sono stati tali da modificarne la varia natura di articoli, intfoduzioni a volumi, relazioni presentate a convegni. Di questa mancanza di omogeneità il lettore — spero — mi vorrà scusare, come anche di molte ripetizioni che non sono stato capace di sopprimere. Per un

opportuno orientamento do qui l'indicazione delle sedi in cui questi scritti sono apparsi in precedenza: 1. Lingua e società: un aspetto delle discussioni linguistiche del Cinquecento, in: Culture et société en Italie du Moyen-Age è la Renaissance. Hommage è André Rochon, Paris, Université de la Sorbonne Nouvelle, 1985, pp. 167-85; poi, in forma parzialmente diversa, come introduzione a Discussioni linguistiche del Cinquecento, a cura di M. Pozzi, Torino, Utet, 1988, pp. 9-23;

2. Teoria e fenomenologia della «descriptio», in «Giornale storico della letteratura italiana», CLVII (1980), pp. 161-79; 3. Dall'imitazione al «furto»: la riscrittura nella trattatistica e la trattatistica della riscrittura, in: Scritture di scritture. Testi, generi, modelli nel Rinascimento, a cura di G. Mazzacurati e M. Plaisance, Roma, Bulzoni, 1987, pp. 23-44

(raccoglie gli Atti di un seminario svoltosi a Ferrara dal 14 al 16 ottobre 1984);

4. Aspetti della trattatistica d'amore: deriva, con molte correzioni e aggiunte, dall’introduzione a Trattati d'amore del Cinquecento, a cura di G. Zonta, Bari, Laterza, 1912, reprint a cura di M. Pozzi, Roma-Bari, Laterza, 1975;

5. M. Equicola e la cultura cortigiana, in «Lettere italiane», XXXI (1980), pp. 149-71, e in: M. Equicola. Atti del Convegno Nazionale di studi. Alvito 5-7 ottobre 1979, a cura di G. Vacana, Alvito, Centro studi letterari «Val di

Comino», 1983, pp. 19-36;

6. Il pensiero linguistico di B. Castiglione, in «Giornale storico della letteratura italiana», CLVI (1979), pp. 179-202, e in: Convegno di studio su B. Castiglione nel quinto centenario della nascita. Mantova, 7-8 ottobre 1978. Atti, a cura di E. Bonora, Mantova, Edizione dell’Accademia Virgiliana, 1980, pp. 81-104;

7. T. Folengo e le resistenze alla toscanizzazione letteraria, in «Giornale storico della letteratura italiana», CLV (1978), pp. 178-203, e in: Cultura letteraria e tradizione popolare in T. Folengo. Atti del Convegno tenuto a Mantova il 15-17 ottobre 1977, a cura di E. Bonora e M. Chiesa, Milano, Feltrinelli,

1979, pp. 209-29;

8. G. G. Trissino e la letteratura italiana: deriva dalla fusione e rifacimento della recensione a: G. G. Trissino, Scritti linguistici, a cura di A. Castelvecchi, Roma, Salerno, 1986 (in «Giornale storico della letteratura italiana»,

CLXV, 1988, pp. 117-22) e di quanto mi è sembrato ancora accettabile in

un vecchio articolo (Ancora sul «Discorso o dialogo», in «Giornale storico della letteratura italiana», CLII, 1975, pp. 481-516);

9. P. Bembo: edito, in versione parzialmente diversa, come introduzione alla sezione bembiana

dei Trattatisti del Cinquecento,

a cura di M. Pozzi, I,

Milano-Napoli, Ricciardi, 1978, pp. 3-38; 10. S. Speroni: la prima parte riprende, con molti cambiamenti, l’introduzione alla sezione speroniana dei citati Trattatisti del Cinquecento (pp. 471-502); la seconda è inedita; 11. G. B. Gelli: edito come introduzione alla sezione gelliana dei citati Trattatisti del Cinquecento, pp. 853-73; 12. I mondo nuovo di Amerigo Vespucci: edito (in una redazione parzialmente diversa) come introduzione a I/ mondo nuovo di A. Vespucci, a cura di M. Pozzi, Milano, Serra e Riva, 1984, pp. 9-27;

13. La novella come «cronaca», in: M. Bandello novelliere europeo. Atti del Convegno

internazionale di studi.

7-9 novembre

1980, Tortona,

Cassa di

Risparmio di Tortona, 1982, pp. 103-25; 14. La frontiera orientale del Piemonte, in: Gli uomini, le città e i tempi di M.

Bandello. II Convegno internazionale di studi. Torino-Tortona-Alessandria-Castelnuovo Scrivia, 8-11 novembre 1984, Tortona, Centro studi M. Bandello e

la cultura rinascimentale, 1985, pp. 3-14 (si trattava della relazione introduttiva).

LINGUA E SOCIETÀ: UN ASPETTO DELLE DISCUSSIONI LINGUISTICHE

Sul finire del Quattrocento molti letterati che aspiravano a una produzione lirica «regolata» compresero che, per raggiungere lo scopo, occorreva anche trovare le regole grammaticali della volgar lingua. Il primo giugno 1498 — è questa, per quanto si sa, la prima testimonianza in proposito — Gasparo Viscon-

ti in una lettera a Leonardo Aristeo affermava che a Milano si riteneva degno di «non mediocre laude» chi avesse ridotto «a qualche men licenzioso ordine» quel «sermone pedestre vagabondo» che ancora era il toscano !. Di lì a poco molti nel Veneto si misero concretamente all’opera. I risultati però si fecero attendere per parecchi anni. Solo nel 1516 uscirono le Regole grammaticali del Fortunio, che poté così vantarsi di essere disceso «nel campo primo volgare grammatico». Per compilare una grammatica volgare infatti era necessario superare molte difficoltà e preliminarmente fornire una risposta a obiezioni di vario genere. Lo testimonia lo stesso Fortunio nella premessa delle Regole, indirizzata «Agli studiosi della regolata volgar lingua»: alcuni diranno, anzi dicono, tale mia impresa esser stata e vana e quale onde nascer

non possa alcun profitevole frutto, perché, volendo dar regole alla volgar lingua, sarebbe di mistieri overo tutti gli idiomi delle diverse italiche regioni, il che dicono impossibile essere, ad uniformi e medesime regole del parlar e scriver sottoporre overamente per ciascuno di loro ordinar diverse regole [...]. Oltre che il volgare, secondo l’uso, che è mutabile, si varia, il che non così del latino, sopra l’arte fondato,

suole avenire, come dice Dante nel principio de’ suo’ convivi; il perché in quella come in cosa mobile regole generali né particolari che stabili siano fondar non si possono [...]. Altri poi (per aventura), da men cattivo intendimento mossi, dicono che, come

che altro che ben non sia le regole dagli auttori toschi usate intendere e quelle intese dimostrare altrui, a me, come ad uomo di professione molto diversa e di loquela alla tosca poco somigliante, meno che di fare ogni altra cosa richiedersi [...]. Altri sono poi di piggior (per quanto a me ne paia) intendimento, e quali dicono di soverchio essere le volgari norme, perché la volgar lingua dalla latina originata sì nel parlar come nel scrivere deve seguitarsi, scrivendosi e dicendosi io dixi, epso scripse, un saxo, molte

parte e molte morte e le quale, e sancto, prompto con infiniti altri simili che più tosto giudicar si possono voci latine che volgari; il qual modo questi cotali massimamente

lodano e dicono esser bastevole ?. Il Fortunio poteva difendersi abbastanza agevolmente da queste accuse, allora di grandissimo peso, perché aveva dato un fondamento preciso alla sua grammatica: gli «auttori toschi», cioè Petrarca, Boccaccio e Dante. ! Cfr. C. DronIsoTTI, Gli umanisti e il volgare fra Quattro e Cinquecento, Firenze 1968, p.

55L 2 Regole grammaticali della volgar lingua, Ancona, Bernardin Vercellese, 1516, pp. II v-III.

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LINGUA

E SOCIETA

All’inizio del secolo invece non si intravvedevano ancora soluzioni sicure, salvo

forse per la lingua della poesia lirica, le cui regole presto si cercarono nel Canzoniere del Petrarca. Per le altre forme letterarie e, in genere, per la prosa il problema era assai più complicato. E non si trattava solamente della ricerca di una o più lingue d’arte, che poteva anche concludersi — come, per esempio, nel Veneto avveniva da secoli — con l’adozione integrale di questa o quella tradizione letteraria. Bisognava trovare o creare uno strumento della comunicazione e della conversazione capace di sostituire appieno il latino, spesso abbandonato con rimpianto negli ambienti cortigiani dove si era sviluppata una fervida cultura che, per ragioni sociali e politiche più che letterarie, si esprimeva in volgare. Il nuovo strumento linguistico non solo doveva possedere l'ampio registro del latino ma dimostrarsi idoneo a conservare quella coscienza dell’unità culturale della penisola che l’Umanesimo aveva dato agli intellettuali italiani. Nessuna delle nostre parlate sembrava da tanto. Alla lingua del Boccaccio, specialmente del Decameron, si guardava ancora con sospetto sia per le troppe forme desuete sia per l’apparente stile umile e rimesso; e nel complesso la lingua degli auctores trecenteschi sembrava povera di risorse. Al toscano poteva andare qualche simpatia per merito dei suoi autori; anch’esso però non poteva risolvere il problema in quanto avrebbe imposto una lingua regionale, sia pure (nel passato!) illustrata da grandi scrittori. Si ricercava infatti uno strumento linguistico non intrinsecamente legato a un popolo e a un territorio, e quindi capace di servire a intellettuali di varia provenienza e operosi in ambienti e situazioni sociali diverse: una lingua, insomma, in cui l’«uso» avesse la meglio sulla «natura», cioè sulla purezza spontanea a cui, per quanti sforzi faccia, nessun forestiero può adeguarsi. Difficoltà superabili se Firenze avesse avuto la forza politica e culturale necessaria per proseguire il processo di unificazione letteraria iniziato nel Trecento e in qualche misura ripreso da Lorenzo il Magnifico; invece era travagliata da una grave crisi politica, sociale, religiosa, culturale, che non le consentiva nemmeno di partecipare attivamente al dibattito. In Italia pertanto non poteva darsi un processo di espansione di un uso regionale che, imponendosi a poco a poco come lingua nazionale, garantisse un rapporto spontaneo fra lingua viva e lingua scritta. Alla fine, è vero, il toscano letterario si affermò, ma non perché la Toscana avesse esercitato un’egemonia linguistica sulla penisola, ma al contrario perché l’Italia si era «annessa» la Toscana e quindi si sentiva in diritto di utilizzarne il patrimonio linguistico e letterario secondo le proprie prospettive e necessità. All’inizio del secolo, dunque, la questione della lingua, suscitata da precise cause storiche e da un rinnovamento culturale e sociale, è ancora aperta a varie soluzioni. Gli intellettuali la dibattono in private conversazioni e cercano di risolverla non tanto con le teorizzazioni quanto con la prassi scrittoria, sperimentando le possibilità loro offerte da latino, toscano, dialetti, spesso variamente miscelati: sia con opere tenute a lungo sul telaio, scritte e riscritte, corrette e

ricorrette, sia al contrario con opere — nate e «consumate» nelle corti oppure destinate a un mercato librario già abbastanza vivace — che per un’ingenua fede

LINGUA E SOCIETÀ

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nel presente non mostrano troppi scrupoli formali. Il dibattito approda tardi nelle opere a stampa ed esplode solamente nel 1524 con la pubblicazione dell’Epistola del Trissino. Per questa sfasatura tra l’effettiva ricerca e il pubblico confronto delle opinioni, gli scritti sulla lingua son potuti sembrare poveri di sostanza e i loro autori impegnati in un’oziosa discussione sul nome da attribuire a una lingua di fatto ormai abbastanza ben definita, di cui adducono di comune accordo i testivesemplari sui quali verificare la validità delle loro opinioni: Dante,

Petrarca,

Boccaccio,

con

qualche minima

variazione

in più o in

meno. Occorre dunque ricollocare opere e autori nel loro reale contesto storico | e letterario e comprendere che, proprio per il ritardo con cui vengono enunciate e discusse, le tesi in contrasto sono poco più che sintomi di avversi atteggiamenti culturali; sono formule riassuntive che condensano lunghe riflessioni e ricerche, fermenti e dibattiti, fondendo e confondendo istanze di natura diversissima: filosofica, logica, religiosa, estetica, ecc. Mancando una scienza del linguag-

gio consapevole di sé stessa e perdurando i pregiudizi umanistici, la lingua viene considerata da punti di vista assai lontani, che spesso non si riesce neppure a distinguere, tanto che non di rado nella stessa opera quasi inavvertitamente si trascorre dall’uno all’altro, per lo più pretendendo di realizzare una reductio ad unum sotto il segno della letteratura, cioè dell’arte. Perché, malgrado tanto accanimento nelle dispute, non si considera dignitoso occuparsi di problemi grammaticali, fonetici, lessicali, se non si mostra di farlo in funzione di una meta più alta. Solo le Prose della volgar lingua si presentano come un’opera compatta e rigorosa; ma la limpidezza del disegno è merito della sensibilità storica e dell’acutezza del Bembo che, volendo fondare un classicismo volgare, fu capace di concentrare il suo interesse sulla lingua dell’alta letteratura, tralasciando i problemi allotri. Anche per questo, forse, pubblicate le Prose, si comportò da muto spettatore delle discussioni linguistiche. In quasi tutti gli altri trattati invece si dà una confusione di piani e di prospettive, da cui nascono problemi mal impostati e polemiche fondate su equivoci e paralogismi. Questa confusione tuttavia presenta un risvolto positivo: fa sì che le discussioni risultino assai ricche di segnali e quasi dei poli magnetici intorno ai quali si addensano i molti fermenti e problemi di un secolo lacerato da gravi contrasti; solamente però se se ne ricupera l’originaria prospettiva storica e quindi si bada non solo alle tesi — spesso dettate da motivazioni contingenti, personalistiche o campanilistiche — ma alle cause profonde di cui sono i sintomi o i simboli. A Thérèse Labande-Jeanroy ?, che aveva condannato il dibattito linguistico, considerandolo una sorta di malattia cronica di cui l’Italia soltanto fu afflitta, Benedetto Croce 4 ribatteva che «i termini della controversia sulla lingua in Italia» si riducevano «al de optima loquendi et scribendi ratione» e che gli italiani non «soffersero in ciò una malattia, se non quella della ripugnanza all’andante e familiare e della costante aspirazione al severo ed elevato, che 3 La question de la langue en Italie, Strasbourg-Paris 1925. 4 P. Valeriano e la controversia sulla lingua, in Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, II, Bari 1958, pp. 83-4.

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sarebbe poi una malattia aristocratica, un segno di nobiltà». Questa ripugnanza, che comportava la ricerca di un armonioso stile di vita, fu certo sentita dagli intellettuali gravitanti nelle corti e dal Bembo, le cui Prose della volgar lingua sono state considerate una «grammatica del dominio» ’, volta a difendere un modello letterario aristocratico e assoluto dalla contaminazione dell’uso popolare e della produzione di mero consumo. Il Croce ha anche ragione di sostenere che il dibattito «si lega alle altre controversie intorno ai modelli e alle regole e all’empiria delle regole particolari, e alla ricerca, in fatto di poesia e di arte, di una regola suprema». Questo è anzi l’aspetto più evidente del dibattito linguistico cinquecentesco; un aspetto di fondamentale importanza, sul quale non mi soffermo solamente perché è il più noto e studiato. Ma non è l’unico aspetto del dibattito, che non si risolve tutto in questioni di poetica o di retorica, così come non tutto il Cinquecento si può classificare sotto le categorie del formalismo e dell’edonismo. Né vale escludere il solo Machiavelli, che invece — per quanto riguarda la lingua — è il prodotto più alto (per virtù propria) di una compatta tradizione che non soffriva di quella malattia aristocratica, perché non negava al «popolo» ogni capacità politica, non ne rifiutava la lingua e non aveva la decisa avversione per le attività mercantili e artigianali che era propria, per esempio, del Bembo. Più tardi, verso la metà del secolo, per la consunzione degli elementi più vitali dell’umanesimo, il programma conservatore del Bembo non meno che quello dei latinisti agli occhi di molti — del Gelli, per esempio — perde ogni alone di nobiltà e sembra un puro e semplice sbarramento culturale e sociale. E a eliminare o almeno a ridurre questo sbarramento si impegna gran parte della cultura fiorentina del tempo. Semplificando, mi pare che anche dalle discussioni linguistiche risulti un netto contrasto

fra Firenze

(e la Toscana), dove ancora

resistono

(almeno finché

Cosimo si appoggia ai ceti «popolari») una società e una cultura tardo-comunali, e il resto dell’Italia in cui si sta imponendo o si è già imposta un’aristocrazia fondata sulla proprietà terriera che ricupera molti miti feudali. «Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua — si può dire con il Gramsci ° — significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolarenazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale». Tutto questo, mutatis mutandis, è ben evidente nella fase iniziale e più ricca di proposte e di possibili opzioni fra lingue effettivamente diverse: a cavaliere fra Quattro e Cinquecento, quando intellettuali di varia estrazione sociale e geografica — spesso chiamati nelle corti a funzioni dirigenziali — mirano a riorganizzare i rapporti culturali, sorretti da una grande fiducia nel presente e nella propria capacità di far

? Cfr. G. MazzacuraTI, P. Bembo: la grammatica del dominio, in «Lavoro critico», 7-8

(1976), pp. 195-235.

6 Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, III, Torino 1975, p. 2346.

LINGUA E SOCIETA

ia

crescere nella dialettica stessa dei rapporti culturali e politici un efficace strumento linguistico. Le koinè regionali tendono ad assimilarsi l’una all’altra, non sulla base di primati linguistici o di canoni astratti, bensì per rispondere alle esigenze delle relazioni interne alle corti, in cui si formano vivaci cenacoli culturali, e degli intensi rapporti diplomatici fra gli stati della penisola, nei quali spesso agiscono in prima persona letterati e intellettuali che «per le ragioni stesse del loro” ufficio, erano costretti a spostarsi di corte in corte, di stato in stato, e si trovavano perciò di fronte alla necessità obiettiva di adeguare il loro volgare originario ai volgari che via via incontravano, di conguagliarlo con essi o, meglio, di attenuarlo fino a farne uno strumento neutro, usabile

in ogni ambiente. Non è questa l’ultima ragione del sorgere di quella cosiddetta teoria della lingua cortigiana, che, forse per un tempo più lungo di quanto comunemente non si creda, contrastò il passo al toscanismo bembiano e che troppo spesso finora è stata valutata unilateralmente dal punto di vista della sconfitta subìta sul fronte letterario» 7. Si trattava di «un processo di coagulazione extra-toscana che avrebbe forse potuto liberare la nostra lingua dai limiti del conservatorismo puristico a cui la condannava il troppo breve fulgore della letteratura trecentesca», perché aveva una «base organica», «un collegamento con la lingua della vita» 8. La sua durata però fu breve: entrò in crisi insieme con le corti che fra il 1520 e il 1530 irrigidirono le loro strutture e per il predominio spagnolo dovettero ridurre le loro possibilità di autonome iniziative. Il sacco di Roma, in particolare, fu come un trauma per molti letterati italiani.

Le proposte e le caratteristiche della cultura cortigiana del primissimo Cinquecento furono presto dimenticate; e questo non solo perché gli avversari finsero di ignorarle ma sopra tutto perché gli stessi uomini di corte sfumarono i loro atteggiamenti per attuare una riuscita riconversione ideologica che comportò l’eliminazione di molti spazi prima concessi al libero dibattito e allo sperimentalismo. Avvenne così che le opere dei principali rappresentanti di questa cultura o non furono compiute o andarono perdute o furono pubblicate troppo tardi, quando ormai altre esigenze premevano: il Libro de natura de Amore dell’Equicola nel 1525 (e ormai senza la dedica a Isabella Gonzaga, in cui si legge la difesa della «lingua cortesiana romana»); il Cortegiano del Castiglione nel 1528 (e in una redazione ormai lontana dagli entusiasmi primocinquecenteschi); le Annotazioni della volgar lingua di Giovanni Filoteo Achillini nel 1536; addirittura nel 1620 il dialogo di Pierio Valeriano. Tutte possono apparire, o sono veramente, opere retrospettive, e quindi da utilizzare con molta prudenza come testimonianze storiche. Nel complesso, però, gli ideali cortigiani vi si delineano abbastanza chiaramente. Il dialogo del Valeriano, per esempio, con il suo stile vivace e senza indugi o esibizioni erudite, realizza di 7 G. Guimassi, I/ volgare mantovano tra il Medioevo e il Rinascimento, in: L. Ariosto: lingua, stile e tradizione, a cura di C. Segre, Milano 1976, p. 23.

8C. SegRE, La polemica della lingua dal Bembo al Trissino, in: Celebri polemiche letterarie, Mendrisio 1957, p. 121.

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fatto quell’ideale di affabile e misurato conversare a cui — più che alla normatività grammaticale — tendeva la cultura cortigiana. Il Valeriano ci fa conoscere gli umori degli intellettuali gravitanti intorno ad Angelo Colocci, che fu il primo a prendere posizione a stampa sulla questione della lingua, difendendo nell’Apologia nell'opera de Serafino (1503) il diritto di «proferir quelle parole (sì sono ingenue) che la nostra nutrice con le canzon de la cuna e con l’arte n’ha insegnato» ?. Il Colocci, che ci ha lasciato soltanto appunti e frammenti linguistici, mostra un notevole interesse per i dialetti e sembra propenso a identificare la lingua comune

italiana (in cui dice di scrivere) con la lingua

parlata nella Curia romana; ma non aspira a un’organica concezione linguistica, e quindi non svolge le sue episodiche considerazioni. Analogamente il Valeriano mira non tanto a stabilire che la lingua dev'essere detta italiana quanto a salvare l'ideale di «una lingua d’uso non rigida e prefissata» e di «una lingua letteraria classicamente aristocratica ma non chiusa agli apporti dell'uso»: «E ciò riflette [...] la posizione di quanti, ormai lontana la pratica primo-cinquecentesca della lingua cortigiana, non erano tuttavia disposti a sposare nella loro interezza rigorosa né le teorie bembiane né il duro modo di teorizzare dell’ ‘ita-

lianismo’ trissiniano» !°. Le tendenze cortigiane infatti non erano

scomparse

ma avevano

mutato

d’aspetto. Abbandonati i propositi teorici, che del resto non erano mai stati predominanti, accolto il bembismo per quanto riguarda l’alta letteratura, erano divenute, per così dire, sotterranee e informavano buona parte della prassi scrittoria. Il processo di italianizzazione iniziato nelle corti del primo Cinquecento non si spense dunque del tutto. Ancora negli anni trenta il Cortegiano nel Dialogo delle lingue dello Speroni poteva caldeggiare l’uso di un volgare colto, non legato alla pura toscanità, da apprendersi «non tra’ grammatici nelle scole ma nelle corti co’ gentiluomini, non istudiando ma giuocando e ridendo senza alcuna fatica, e con diletto de’ discepoli e de’ precettori» !!. Ed effettivamente i ceti colti nella conversazione e nelle scritture familiari di solito non usavano né il dialetto schietto né il toscano letterario ma un volgare che in un tessuto toscaneggiante accoglie cadenze, parole, morfemi dialettali. Anche l’opera di uniformazione, compiuta nelle tipografie, si giovò non poco di una prassi linguistica che le esperienze cortigiane avevano reso comune a un vasto nume-

ro di persone. Accanto alla lingua dell’alta letteratura, insomma, si consolidò una lingua «corrente». L’ambiente cortigiano è il crogiolo in cui s’incontrano, contrastano, si fondono, maturano i principali programmi cinquecenteschi: compreso quello del Bembo, che alle esperienze cortigiane si accostò per rinnovarle e trasformarle, estraendone quanto, a suo parere, vi era di valido per fare della letteratura ? Cfr. A. GRECO, L'apologia delle «Rime» di Serafino Aquilano di A. Colocci, in: Atti del Convegno di studi su A. Colocci, Jesi 1972, pp. 205-19. 10 P. FLORIANI, Grammatici e teorici della letteratura volgare, in: Storia della cultura veneta, 3/II, Vicenza 1980, p. 169. 1l In Trattatisti del Cinquecento, a cura di M. Pozzi, I, Milano-Napoli 1978, p. 615.

LINGUA E SOCIETÀ

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il lievito di una nuova civiltà. Di una cultura così ricca e vivace quasi si smattì il ricordo, oltre che per le ragioni già dette, anche perché si ritenne che avesse trovato il suo vero interprete nel Trissino. Ma la lingua e letteratura «italiana» che il letterato vicentino propugnava era non solo quasi antitetica a quella del Bembo ma anche assai diversa da quella cortigiana. Egli si rifaceva a una tradizione fuori del tempo e dello spazio e propugnava non la lingua comune che veniva formandosi-nelle corti ma un italiano comune esistente già prima di Dante. Al Trissino, se va il merito di aver esercitato una sorta di mediazione

fra le varie tesi, insistendo più di ogni altro sull’unità della penisola, va anche la responsabilità storica di aver imposto alla disputa, nel momento in cui si trasferiva dai salotti alla carta stampata, prospettive e temi che la staccavano dal reale tessuto sociale in cui era nata e la rendevano piuttosto astratta così come lo era la sua idea di italianità. Già in dibattiti privati egli aveva collocato in una posizione centrale due elementi nuovi: un’astratta consequenzialità nelle tesi ortografiche e linguistiche; il De vul/gari eloquentia, da lui riscoperto e fatto conoscere sia a Firenze sia a Roma, un testo che rimarrà al centro delle contro-

versie fino al Manzoni. Poiché le sue proposte erano già note e modificavano i precedenti indirizzi di ricerca, l’Epistola — che a noi può sembrare assai moderata nel tono e nelle affermazioni — innescò un dibattito apparentemente eccessivo sia nel tono sia nell’ampiezza delle risposte, in cui l'accento spesso batte su questioni che vi sono appena accennate. Non era passato un mese e già erano fuori il Discaccia-

mento del Firenzuola e la Risposta del Martelli. Gli argomenti del primo sono più brillanti che solidi, ma robusta e ben articolata è la risposta del Martelli, che fra l’altro — a differenza del Trissino — non considera la lingua un insieme di parole: ciò che conta — egli scrive ! — è la «testura», 1’ «orditura» delle

parole. Poco dopo sarebbe uscito anche il Polito del Tolomei, in cui fa bella mostra di sé una corretta concezione della lingua e una matura conoscenza della struttura fonetica dell’italiano. Il Trissino, in definitiva, aveva scontentato quasi tutti, favorevoli e contrari a innovazioni ortografiche. Nell’illusione di procedere con gradualità era intervenuto in pochi casi (distinzione fra e e o aperte e chiuse; fra z sorda e sonora; fra î e « con

valore di vocale

e con

valore di consonante)

e non

aveva

nemmeno pensato all’eliminazione di segni superflui e a normalizzazioni che si potevano ottenere senza ricorrere a nuovi segni. Incerto sulla nozione stessa di lingua e ben lontano dal possedere la preparazione tecnica del Tolomei, il

Trissino però continuò diritto per la sua strada, convinto che i «reprensori» l'avessero biasimato in ciò che non dovevano (la lingua cortigiana) e viceversa assolto «in ciò che per aventura meritava riprensione»: alcune proposte grafiche, che egli stesso si preoccupò di rivedere !. Così nel 1529, pur ristampando

121. MARTELLI, Risposta alla Epistola del Trissino delle lettere nuovamente aggionte ‘alla lingua volgar fiorentina, Firenze [1524], p. iv v. 13 Dubbii grammaticali, Vicenza, Ianicolo, 1529, p. aa.

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l’Epistola con i vecchi caratteri (uniche eccezioni l’uso di -z:-, e non più di -t#, nei latinismi, s lunga per s sonora, e anche perfezione invece di perfectione e esprimerla invece di exprimerla), negli altri scritti introdusse varie innovazioni che illustrò nei Dubbii grammaticali, stampati nel «mese di febraio»: invertì le due 0, rinunciando consapevolmente al criterio della funzionalità per una maggior fedeltà all’uso greco (rimandava però ad altro momento l’inversione delle due e e di c e 2 ); distinse le due s e î da j consonante;

usò la scrizione /j

per la linguale palatale e ki per chi. Ma ancora permanevano x, y, 4, 4h e ph nelle voci greche e latine, nonché

le scrizioni ch, gh, gr, sc. A ulteriore

confusione il Trissino introdusse le innovazioni a poco a poco, in maniera quasi selvaggia. Nel Castellano, stampato sul finire del 1528 (ma datato 1529) appaiono solamente l'inversione delle o e la distinzione fra le due s. Nella Poetica (aprile) fanno la loro comparsa £î e 7, mentre la epsilon maiuscola viene resa con E secondo l’uso greco (prima era resa con una epsilon più grande ed E valeva per la maiuscola della e latina). Così anche nella Gramzzatichetta del giugno. La versione del De vulgari eloquentia («del mese di genaro») è anteriore alla Poetica e alla Grammatichetta, eppure nel frontespizio e nella dedica presenta la grafia / che nel testo compare solamente a p. 8 (e dal secondo quaderno anche ky). Di eguale astrattezza il Trissino diede prova nel Castellano, impostando la discussione su argomenti capziosi dai quali nessuno — o forse solo il Tolomei — seppe veramente districarsi: quasi tutti si trovarono come irretiti da ragiona-

menti di cui non riuscivano a intendere la vera portata e che tuttavia sentivano il bisogno di confutare. Non che il Trissino fosse davvero un puro letterato, disancorato dalla realtà. Tutt'altro. Il suo atteggiamento è ben rispondente alla sua ideologia politica: è l'atteggiamento di un convinto rappresentante dell’aristocrazia feudale che parla dall’alto, indifferente al destinatario e alle sue esigenze. Lo stesso ellenismo serviva opportunamente al suo tentativo di rifondare la letteratura italiana in modo che questa non fosse compromessa dalla frammentarietà e dalla concreta diversità delle esperienze regionali. Il modello «italiano» prescinde infatti dalle esperienze cortigiane e esprime le aspirazioni di un gentiluomo vicentino insofferente della Dominante: un’utopia, certo, la sua, ma tale da affascinare anche l’aristocrazia fiorentina, che cercava una propria strada fra le opposte tirannie dei Medici e del «popolo». Quella del Trissino era innanzi tutto (in senso lato, s'intende) una proposta politica, e ben lo sapevano i suoi avversari (primo fra tutti, il Machiavelli), donde l'ampiezza apparentemente ingiustificata della disputa. Sintomi di conflitti fra modelli culturali, politici, sociali, fra ideologie e tipi di pubblico, le discussioni linguistiche sono in un certo senso il simbolo della dialettica profonda del Rinascimento, delle sue lacerazioni, di quella realtà magmatica e inquieta che l’arte cercava di ordinare. Sono dunque tutt’altro che statiche: se non si rinnovano le «tesi», muta la loro sostanza con il mutare delle situazioni, degli ambienti, dei problemi. La lingua fiorentina difesa dal Machiavelli, per esempio, è ben diversa dal fiorentino elegante che in vari

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dialoghi viene propugnato dall’aristocratico ellenizzante Alessandro Pazzi de’ Medici. La lingua cortigiana dell’Equicola può accostarsi (forse) a quella del Castiglione (eppure tanto diversa, non foss’altro che per la differente estrazione sociale dei due intellettuali), ma non ha quasi niente in comune con la lingua «italiana» del Trissino. Quest'ultima, a sua volta, muta profondamente d’aspetto quando, in tutt'altro clima e con ben altra mentalità, viene propugnata dal Muzio. E le diverse tesi-si diversificano poi al loro interno a seconda del tipo di pubblico, di parlanti o di scriventi, a cui ci si riferisce. Alcuni tentano di realizzare nel volgare livelli linguistici (e persino ortografici) ben differenziati, in modo da conservare la separazione linguistica fra le classi prima garantita dall’uso del latino. Altri viceversa si preoccupano dell’invadente codificazione grammaticale, come il Borghini a cui spiace che i grammatici abbiano messo alla lingua «tanti ceppi e manette» che. se si proseguirà per la stessa via «bisognerà avere allato il notaio col testo in mano, quando parliamo, che vegga se regolarmente o secondo l’analogia lo facciamo» !4. Parole che ben si accordano — nella sollecitudine per la socialità del linguaggio — con quelle famose del Marostica all’inizio del dialogo di Pierio Valeriano, anche se le istanze restano ben diverse: il Borghini difende la possibilità di scelta fra i vari livelli di un concreto uso linguistico, mentre al Marostica preme solamente di salvaguardare la libera conversazione degli intellettuali. I discettatori, insomma, non si limitano a ripetere le loro tesi come un fastidioso ritornello, ma prendono posizione su questioni di fondo: per esempio, sul problema del rapporto fra res e verba, dalla cui soluzione dipendono la maniera di concepire l’arte, la filosofia, la teologia, le scienze, e la possibilità

che il sapere venga diffuso a più larghi strati sociali. E qui si potrebbero ricordare le polemiche contro gli umanisti, che tenacemente identificavano res e verba, del Pomponazzi, dello Speroni, del Varchi, del Piccolomini, oppure le discussioni di teologi o di scienziati sulla possibilità di usare il volgare. Fra i letterati forse nessuno intese meglio del Gelli la rilevanza sociale che ha l’uso di questo o quel linguaggio nella comunicazione del sapere e nella vita civile e religiosa. Convinto di partecipare al sorgere di una cultura volgare che, abolite le barriere linguistiche e i privilegi di casta, è patrimonio di tutto il popolo fiorentino, egli nella parte centrale dei Capricci condanna con insolita decisione la cultura ufficiale che osteggia l'Accademia Fiorentina e le pretese culturali degli artigiani. Con le parole, con le forme retoriche, con la barriera del latino sopra tutto, i «letterati» tengono il popolo nell’ignoranza; ma l'Accademia farà finalmente vedere, come dice il Burchiello, «che diavolo hanno in corpo questi bruchi, / che sempre mangian foglie e cacon seta». I letterati hanno fondato il loro potere sulle parole, sull’apparenza, sul principio di autorità; pretendono di imboccare gli uomini con cucchiai vuoti: «ma oggi bisogna che e’ mostrino e perché e per come, se e’ vogliono che e’ sia loro creduto»: «lo aprir de gli occhi che ha fatto a gli uomini questa Accademia, è per essere la tiriaca 14 In Lettere del Cinquecento, a cura di G. G. Ferrero, Torino 1967, pp. 592-3.

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loro» !. Si può sorridere delle candide aspettative del Gelli, ma non è da sottovalutare, come espressione degli umori della piccola borghesia fiorentina, la decisa accusa di occultare la verità sotto vuote formule che egli rivolge a letterati, scienziati, filosofi, preti, frati, notai, avvocati: insomma a tutte le autorità (meno quella politica!), le caste, le istituzioni (meno l’Accademia, s'intende). Né sono da sottovalutare le pagine dei Capricci in cui si auspica l’uso del volgare nelle cerimonie religiose e la traduzione dei testi sacri, perché sia tolto un ingiusto monopolio al clero e tutti possano intendere la parola di Dio. Auspicio che distingue l’atteggiamento di questo artigiano — secondo il quale il pubblico vero degli scrittori è formato dai mercanti, non dai cortigiani,

chierici o laici che siano — da quello di altri difensori del volgare a cui sembra opportuno lasciare «le cose sacre» nella lingua latina «accioché da quella, quasi d’un velo ricoperte, si nascondano al volgo, il quale spesso è così audace e prosontuoso, come rozzo e ignorante in voler intender le cose di ch’egli non è capace» 1°. Nell’individuare le motivazioni profonde delle controversie sulla lingua, però, occorre molta prudenza. Oggi per esempio è di gran moda il mito aramaico. Si vuole che esso sia stato favorito da Cosimo I e che pertanto lo abbiano accolto e propugnato i suoi fedelissimi, mentre i repubblicani sarebbero rimasti legati al mito romano. Ma si confonde fra mito etrusco e «baie aramaiche». Che Cosimo, per dare unità al suo stato, rievocasse l’antica Etruria, non ha niente di strano; anzi sarebbe strano il contrario. Così pure è abbastanza naturale che, per rivendicare l'autonomia strutturale del toscano, il

Tolomei e il Borghini concedessero qualcosa al sostrato o meglio non concedessero tutto al latino. Né l’uno né l’altro tuttavia si lanciò in avventure etimologiche o fantasticò sull’indecifrabile etrusco. Anzi il Borghini, uomo di fiducia di Cosimo, responsabile di gran parte delle sue iniziative culturali, nei Discorsi mostrò l’inconsistenza degli argomenti storici addotti dagli «aramei», limitandosi ad accennare alle tesi linguistiche da tempo ormai travolte dal ridicolo. Non particolarmente vicini a Cosimo erano invece il Gelli e il Giambullari, responsabili di quelle tesi, che peraltro essi stessi abbandonarono assai presto. Il Giambullari finì addirittura per intitolare De la lingua che si parla e scrive in Firenze una grammatica in cui — come già osservava il Lombardelli ! — «tenne, per quanto gli fu lecito, la maniera del vostro Tommè Linacro in quella eccellente opera De structura Latini sermonis, e seguitò anco la strada comune de’ grammatici latini, e forse di Costantin Lascari greco». In tante discussioni — è un fatto che troppo spesso si dimentica — a poco a

15 In Trattatisti del Cinquecento, I, cit., pp. 946-7. 16 Così Valerio Marcellino nella Lettera over discorso intorno alla lingua volgare, premessa al Diamerone, Venezia, Giolito, 1565.

17] fonti toscani, Firenze, Marescotti, 1598, p. 49. Il Lombardelli si rivolge a Henry Wotton.

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poco maturarono le scienze del linguaggio. Funzione quasi di discrimine storico ha il Dialogo delle lingue dello Speroni che, pur presentando con grande obiettività il dibattito italiano, scioglie i nodi della questione linguistica e coglie l'essenza dei problemi così bene che Joachim Du Bellay ne può travasare molte pagine quasi alla lettera nella Deffence et illustration de la langue frangoise. Dallo Speroni prende le mosse il Varchi nell’ambizioso tentativo di realizzare una filosofia delle lingue onnicomprensiva e sorretta da fatti linguistici precisi; da lui trae alimento il Borghini che compie un nuovo, notevole passo in avanti cogliendo nell’atto del tradurre un insanabile conflitto di lingue e di culture !8. I risultati della riflessione linguistica cinquecentesca sono assai notevoli; e se tali non son sempre apparsi, è perché al solito si è prestato attenzio-

ne più alle tesi in cui si compendia la questione della lingua che alla sostanza critica delle singole opere. Per esempio, in un dialogo apparentemente dedicato all'esame delle varie tesi, ci si potrà domandare se il discorso di Gabriello Cesano serve davvero a difendere il toscano, ma non si potrà negare che egli, sia pure ore rotundo, mostra una corretta concezione del linguaggio, individua lucidamente la struttura del volgare e ne mostra la differenza da quella del latino, spiega senza pregiudizi retorici i rapporti fra lingua e grammatica, fra lingua e letteratura, ecc. Persino l’Apologia del Caro non manca di acume nel difendere il fiorentino vivo, anzi è forse la difesa più vivace e documentata che ne sia stata compiuta; e anche in questo caso si dovranno distinguere i risultati critici dalle motivazioni contingenti che avrebbero dovuto indurre il letterato marchigiano a occuparsi della lingua poetica. Spesso poi sono i critici moderni che intorbidano le acque, pretendendo di collocare i letterati cinquecenteschi nelle caselle della questione della lingua. Così succede che al Castelvetro si riconosce una grande competenza etimologica e storico-linguistica, ma si rimproverano incoerenze e contraddizioni perché il suo atteggiamento sembra diverso nella Ragione, nelle Giunte e nella Correzione, senza accorgersi che il modenese «fu mosso a discutere prima le Prose del Bembo, poi l’Ercolano del Varchi non dall’ambizione di opporre ai due grandi assertori della fiorentinità una soluzione antifiorentina, ma per avvalorare una più scientifica valutazione dei fatti grammaticali e linguistici» !. L’apparente frammentarietà della sua opera, che sembra risolversi tutta in annotazioni sparse, risponde infatti a una

«logica di globalità e di interrelazioni» 2°, ben evidente se — invece che alle singole osservazioni — si presta attenzione all’atteggiamento generale, teorico e non empirico, che unifica i vari interventi. Atteggiamento che lo induce ad applicare per primo alla lingua volgare un metodo logico di analisi e ipotesi teoriche spesso rivoluzionarie, come la continua attenzione per il destinatario, 18 Per il Borghini, che meriterebbe ben più ampio discorso, mi permetto di rimandare a

quanto ho scritto in Lingua e cultura del Cinquecento, Padova 1975. italiana, 19E. Bonora, I/ Classicismo dal Bembo al Guarini, in: Storia della letteratura 574. p. 1966, Milano , Cinquecento I/ IV, diretta da E. Cecchi e N. Sapegno, d’Aristotele 20 W. Romani, nella Nota critico-filologica della sua edizione della Poetica TIpy378: 1979, Bari , Castelvetro L. di sposta e a vulgarizzat

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considerato il giudice naturale dei fatti linguistici e letterari in genere. Critico razionalistico estremamente consequenziario, egli vuol verificare prima di tutto la coerenza del «testo», quale che esso sia, la solidità della sua struttura, la sua

aderenza a leggi «scientifiche». E per far questo utilizza delle «griglie» in cui vengono enucleate tutte le possibilità relative a questo o quel fenomeno, a questo o quel problema. Ne scaturiscono prospettive nuove e inattese, in cui s'infrangono luoghi comuni apparentemente solidi. È per la lucidità delle ipotesi, l’efficacia della «griglia» e la coerenza del ragionamento — non per la quantità delle nozioni da lui possedute in materia — che meglio di ogni altro intende le caratteristiche del latino volgare e le origini delle lingue neolatine, coglie e sperimenta l’importanza della scienza etimologica, introduce concetti grammaticali nuovi, formula proposte che possono sembrare modernissime. E poiché la logica è un valore assoluto, è applicata sempre, indipendentemente dall’importanza oggettiva della questione. Le considerazioni, dunque, possono anche apparire cavillose o sofistiche ma è questo il segno dell’estrema coerenza di un atteggiamento che si manifesta come libero arbitrio, come rifiuto di qualsivoglia principio di autorità, come analisi spregiudicata di teorie e sistemi nella tenace ricerca di una struttura che effettivamente «tenga». Il metodo del Castelvetro, dunque, ha innanzi tutto una funzione dissacratoria, ma la volontà

costruttiva è innegabile e si manifesta nelle molte leggi scientifiche e ipotesi teoriche enunciate. Sul piano empirico, se alcuni insistono nel sezionare e schedare le poche opere degli auctores, altri si impegnano nello studio e nel ricupero di antichi manoscritti, acquistando una grande perizia paleografica e applicando finalmente anche al volgare buone norme filologiche. Maestro in questo campo è Vincenzio Borghini, che apre la via al Salviati le cui conoscenze codicologiche e linguistiche appaiono ancor oggi straordinarie. Né meno importanti sono le pagine degli Avvertimenti in cui si tratta di grammatica e di ortografia. L’analisi linguistica, del resto, si mantiene per tutto il secolo a un ottimo livello, dal

Polito del Tolomei al trattato Degli elementi del parlar toscano di Giorgio Bartoli, in cui si riconosce un notevole precedente della fonetica moderna. E tutt'altro che disprezzabile è l’opera dei grammatici, dei lessicografi, dei commentatori, fino alla così detta scuola senese dei Lombardelli, Borghesi, Cittadi-

ni, Bargagli, favorita dai Granduchi che in tal modo fornivano ai senesi un qualche compenso alla perdita dell’indipendenza politica. Sul finire del secolo tante ricerche e riflessioni, in cui c'è più che il balenio della linguistica moderna, a poco a poco si affievoliscono o mutano di rotta. La lingua nazionale perde quasi ogni legame organico con la lingua viva; si cristallizza in forme rigide, elaborate, come se al pari del latino fosse una lingua morta, fondata su testi scritti, su lessici e grammatiche. A questa evoluzione tentano di opporsi i toscani e, in particolare, i fiorentini. Quasi

assenti nelle dispute del primo Cinquecento, i fiorentini cominciano a occuparsi del problema negli anni quaranta, quando ormai la fiorente letteratura in volgare, la fervida attività delle tipografie, l’opera di poligrafi, lessicografi,

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grammatici, avevano dato alla lingua letteraria uno stabile assetto. Troppo tardi, dunque, per poter svolgere un’azione concreta. Che i fiorentini avessero perso ogni possibilità di dettare le regole alla lingua, vinti da una prassi ormai consolidata, l’aveva del resto capito assai presto il Doni che nei Marmi al Conte che chiedeva: Perché non fate voi altri-Fiorentini una regola della lingua e non aver lasciato solcar questo mare di Toscana al Bembo e a tanti altri che hanno fatto regole, ché sono stati molti e molti che ne hanno scritte?

così fa rispondere al fiorentino Alfonso: Bastava uno che scrivesse bene e non tanti; poi noi altri Fiorentini siamo cattive doghe da botte, perché ci accostiamo mal volentieri a’ vostri umori; voi la tirate a vostro modo e noi a nostro la vogliamo. Voi scrivete «prencipe, volgare, fosse» e noi «principe, vulgare» e «fusse»; perché così è la nostra pronunzia, a non far quel romore, benché i nostri contadini l’usino. Brevemente, egli mi pare quasi impossibile a farne regola, da che tante grammatiche si vanno azzuffando attorno; e il nostro favellare e il nostro scriver fiorentino è nella plebe scorretto e senza regola, ma negli academici e in coloro che sanno egli sta ottimamente. Però, se noi facessimo delle regole, che è che è, voi ci piantareste inanzi una scrittura d’un de’ nostri e v’atterreste alla vostra regola, alla quale già con l’uso delle stampe da voi altri approvate ha già posto il tetto: sì che noi scriveremo a modo nostro e favelleremo e voi con le regole e con i vostri termini vi

goderete la vostra pronunzia e le scritture dottissime 2!. La reazione, dunque, era votata alla sconfitta, ma — com'è inevitabile —

questo non fu palese ai letterati più legati alla società fiorentina, che per qualche tempo poterono ancora illudersi sulla possibilità di espansione della

loro cultura, grazie sopra tutto all'impulso del principe che attuava un’ambiziosa politica europea e, per quanto attiene alla vita culturale, aveva trasformato l'Accademia degli Umidi in Accademia Fiorentina, attribuendole anche lo scopo di studiare regolarmente la lingua e la tradizione letteraria fiorentina. Un valido contributo a questa politica, che mirava a favorire la coesione interna dello stato e il suo prestigio esterno, Cosimo I lo ottenne da un gruppo di letterati, affezionati alla tradizione municipale ma abbastanza riflessivi e moderati: il Norchiati, il Gelli, il Lenzoni, il Giambullari, il Bartoli. Il Norchiati, per esempio, già nel 1539 aveva pubblicato un sobrio ma ben fondato Trattato de’ diftongi toscani e lavorava a un dizionario di vocaboli spettanti a tutti i mestieri quando la morte lo colse nel 1541: non ce n’è rimasto nulla, ma è già notevole che una simile impresa sia stata tentata. L’evento più importante per la cultura fiorentina, che manteneva pur sempre un tono alquanto provinciale, fu però il ritorno in patria del Varchi, voluto da Cosimo I, che mirava a una pacificazione generale, e favorito dal Gelli e dai

21 Opere di P. ARETINO e di A. F. DONI, a cura di C. Cordié, Milano-Napoli 1976, p. 765.

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suoi amici. Essi però presto si accorsero che con il Varchi non era facile andare d’accordo, perché questi nell’esilio aveva compiuto esperienze e maturato convinzioni, spesso lontane o diverse da quelle acquisibili in Firenze: basti pensare al bembismo e all’aristotelismo, che venivano a contrastare con il tradizionale platonismo ficiniano e con il naturalismo linguistico. Il Gelli assimilò assai bene la lezione speroniana, che il Varchi aveva introdotto in Firenze, ma si irritò profondamente per la sua campagna in favore delle Prose della volgar lingua, tanto che nel quarto Ragionamento dei Capricci (pubblicati abusivamente dal Doni nel 1546) attaccò duramente il Bembo in difesa del fiorentino e di Dante.

In favore del Bembo intervennero il Dolce e probabilmente il Varchi. Il Lenzoni allora pensò di ribadire le ragioni del Gelli e dei fiorentini in un’opera apposita e il 20 febbraio 1548 l'Accademia Fiorentina approvò il suo progetto. Sempre stimolata da Cosimo, l'Accademia non cessava di pensare a concreti problemi grammaticali. Nella riunione del 3 dicembre 1550 infatti deliberò di affidare a una commissione di cinque membri il compito di «ordinare e formare le regole» del fiorentino, «non per vietare o tòrre ad alcuno la libertà e la facultà di parlare e di scrivere a senno suo, ma solo perché — come spiega Cosimo Bartoli nel Ragionamento sopra le difficultà del mettere in regole la nostra lingua del Gelli — essendoci alcuni Accademici assai differenti nella pronunzia e nella scrittura, chi vorrà pure apprendere la vera e natia lingua fiorentina abbia almanco dove ricorrere a vedere il modo e la forma dell’una e dell’altra cosa comunemente usata in Firenze» #2. La commissione, formata dal Varchi, dal Giambullari, dal Lenzoni, da Francesco Torelli e dal Gelli, fu riconfermata l’anno dopo ma gli ultimi tre furono sostituiti da Lionardo Tanci, Francesco Guidetti e Francesco d’Ambra. I lavori non diedero alcun risultato, probabilmente per la diversità di opinioni che vi era fra il Varchi da una parte e il Lenzoni, il Giambullari e il Gelli dall’altra. Quest'ultimo rifiutò apertamente la conferma, ma, spiegando le ragioni del suo gesto nel Ragionamzento, evitò ogni polemica e affermò che — dovendosi ricavare le regole dall’uso «della età dove la lingua fu nel suo colmo» — non era possibile stabilire quelle del

fiorentino, lingua che «è viva, e va all’insù» ??. Il Lenzoni era morto nel 1551, lasciando al suo più caro amico, il Giambul-

lari, i propri manoscritti affinché ne disponesse come meglio credeva: fra questi, incompiuta e frammentaria, la Difesa che, da risposta alla lettera del Dolce, si era ampliata fino a scandirsi nettamente nelle tre parti indicate dal titolo: Iw difesa della lingua fiorentina e di Dante con le regole di far bella e numerosa la prosa; edizione che, morto anche il Giambullari, uscì a Firenze nel 1557 a cura

di Cosimo Bartoli. La difesa non solo si era ampliata ma aveva precisato i suoi obiettivi polemici. Come il Gelli nei Capricci così il Lenzoni — per bocca dello stesso Gelli — intende mostrare l’inconsistenza dei giudizi negativi sulla lingua fiorentina e su Dante; la difesa si articola in due giornate, ma è nettamente 22 G. B. GELLI, Dialoghi, a cura di R. Tissoni, Bari 1967, p. 294.

23 Ivi, p. 314.

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affermata l’unicità della questione. Il Bembo però non è il solo bersaglio. Il Lenzoni cerca di rispondere anche alle censure contenute nel Ragionazzento sulla lingua volgare di Bernardino Tomitano, opera che aveva fornito una nuova impostazione, più ampia e articolata, al dibattito linguistico. Quale sia la parte avversa risulta chiaramente dalla presentazione dell’interlocutore che espone la tesi da confutare, il signor Licenziado: presentazione in cui occorre considerare non solo l’accenno 4”Padova, ma anche il tipo di formazione cortigiana e universitaria che è attribuita al personaggio. Il Lenzoni insiste sull’originalità del terzo libro e non esita a dire che nessuno prima di lui aveva esposto «le regole da far bella e numerosa la prosa». E in effetti questa parte, in cui vengono ordinatamente individuati i valori fonici e ritmici del volgare, è nuova e originale, malgrado l’ampia utilizzazione di Cicerone e Quintiliano (e anche del trattato De electione et oratoria collocatione verborum di Iacopo Lodovico Strebeo, come già avvertiva il Lombardelli) 24. È vero però che egli non solo non prende in considerazione l'analogo tentativo del Tomitano, ma nell'ampia trattazione del numero nei versi non mostra di fare alcun conto della Poetica del Trissino, a cui più equilibratamente il Gelli nei Capricci aveva riconosciuto il merito d’aver mostrato «quanto maravigliosa arte si ritrovi ne’ nostri versi» ??. Da parte sua, il Varchi con il passare degli anni — pur conservando certe rigidezze, un tono da cattedratico, l’ossequio per il Bembo e l’aristotelismo, nonché la viscerale ostilità per il gruppo del Lenzoni — finì per accogliere sempre più e sempre meglio le istanze della cultura fiorentina. La sua graduale evoluzione fu favorita dal ridursi delle polemiche e delle avversioni personali e da un clima di fiducia nel fiorentino. La rinnovata concordia fra gli intellettuali fiorentini agevolò anche la composizione dell’Ercolano, nato da una polemica e cresciuto fino a divenire quasi una su7724 delle discussioni linguistiche del secolo. Sarebbe superfluo ricordare qui la disputa fra il Caro e il Castelvetro, non solo perché è ben nota ma anche perché il Varchi più che a quella diatriba parve interessato — non senza dispiacere del Caro — all’esaltazione del fiorentino vivo. Aveva insomma mutato opinione rispetto alle lezioni accademiche, in cui forti suonavano le riserve sul naturalismo linguistico e gli scrittori più popolareschi. Non aveva però rinunciato alla celebrazione della dottriria del Bembo, cadendo in contraddizioni non sfuggite all’occhio attento del Muzio, il quale nella Varchina osservava: egli loda la sua dottrina in parola e la danna in effetto, conciosia cosa che delle regole di lui non è punto osservatore. Poi il Bembo dice che non si debbia seguitar la lingua del popolo; e non loda il Boccaccio dove ha parlato popolarescamente [...]; e trae il Bembo le regole da’ libri, e non dal popolo. Queste sono tutte dottrine del Bembo. E il Varchi dice tutto il contrario, né commenda se non la lingua delle balie e del popolo; la proprietà del parlare attribuisce al popolo; raccoglie i motti e i riboboli (come egli dice) dalla feccia del popolo; si fa beffe del Castelvetro, di me e degli altri, che dicono 24I fonti toscani, cit., p. 52. 25 Trattatisti del Cinquecento, I, cit., p..950.

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di avere imparata la buona lingua da’ libri; e istudia di imbrattar le carte co’ mostri delle parole fiorentine. Queste cose fa egli contra l’auttorità di chi nelle medesime è approvato da lui; né seguita le regole del Bembo né con quella persuasion di aver bevuta la lingua col latte le ha potute seguitare ?4. Il Varchi, in effetti, malgrado le temperate considerazioni teoriche, sembra

addirittura inebriato della espressività del fiorentino, come mostrano il continuo e compiaciuto giocare con sinonimi, proverbi, forme gergali, locuzioni idiomatiche, e sopra tutto l’ampia raccolta e spiegazione di parole ed espressioni della lingua viva, che costituisce uno dei pregi indiscutibili dell’opera. Dalla difesa del Caro lo allontanava anche l’aspirazione a «un discorso filosofico rigoroso e di ampio respiro, che arrivi alle questioni letterarie più minute partendo da principii universali, e che decida su una controversia linguistica particolare muovendo da una teoria valida per le lingue di ogni luogo e tempo» ?7. È appunto per quest’ambizione e per questo tentativo di saldare teoria e prassi, elementi contingenti e categorie universali, che l’Ercolazo ha finito per configurarsi come una su72724 preziosa ed equilibrata di un secolo di riflessioni, ricerche, dibattiti. La cultura fiorentina perveniva negli stessi anni al suo punto critico con Vincenzio Borghini: punto critico perché il priore degli Innocenti con le sue intuizioni linguistiche e filologiche svolgeva ordinatamente e acutamente le premesse della tradizione fiorentina mentre questa, senza che egli se ne avvedesse, stava mutando direzione e caratteristiche; punto critico anche perché egli stesso è un esempio e un simbolo di una condizione culturale in cui le acquisizioni empiriche non riescono a organizzarsi, a strutturarsi e quindi a influire veramente sugli altri. Studioso di attitudini moderne, non sapeva concretizzare le sue ricerche se non negli schemi della «questione della lingua», di cui peraltro avvertiva tutta la consunzione e la vanità. Se i suoi moltissimi quaderni ci presentano un materiale disorganico, e spesso allo stato di mero appunto, non è solo perché era un uomo indaffaratissimo ma proprio perché non sapeva dare al suo trattato sulla lingua una forma adatta al contenuto. Ciò non toglie che i suoi frammenti siano di grande acutezza critica, specialmente per la capacità di giungere rapidamente all’essenza delle questioni, come risulta anche soltanto dalle più congeniali Annotazioni e discorsi sopra il Decameron, in cui la forma delle postille lo liberava dalla preoccupazione di strutturare le proprie osservazioni. Del momento critico in cui viveva ebbe qualche sentore, anche se non giunse a intendere che di lì a poco ai fiorentini più avveduti non sarebbe più stato possibile illudersi ancora sulla forza espansiva della loro cultura. Verso la fine della vita, forse, cominciò a non sentirsi più tanto sicuro della propria idea

di lingua. Un segnale di una situazione in via di mutamento sembra, per esempio, la risposta del Salviati alla lettera del 4 agosto 1576 in cui il Borghini aveva manifestato alcune perplessità sull’imitazione del Boccaccio: sia perché lo 26 G. Muzio, Battaglie, Venezia, Dusinelli, 1582, pp. 102-102 ». 27 F. BRUNI, Sistemi critici e strutture narrative, Napoli 1969, p. 72.

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imbarazzavano gli arcaismi e le clausole sonanti sia sopra tutto perché riteneva che «ciascuno scrivendo debba secondare quello stile che la natura gli porge, o copioso o stretto o mezzano che sia». Il Salviati infatti sostiene che l’armonia del periodo boccacciano è indispensabile per ogni tipo di scrittura letteraria; e che le parole del Trecento si possono seminare senza parsimonia nelle scritture, «stimando che quella di que’ tempi sia la favella nella quale scriver si dee» ?. Alla fiducia nel progresso del fiorentino si è dunque sostituito un prudente conservatorismo, e quest’'ennesima discussione de imitatione sembra un emblematico scambio di consegne. Al Borghini non doveva essere sfuggito che il giovane e ambizioso compatriota — già da lui indicato in un promemoria del 1572 fra gli esperti che potevano lavorare a una grammatica elementare della lingua fiorentina — era il promotore di una più rigida concezione della lingua che si stava diffondendo in Firenze; pertanto gli chiedeva consigli su come scrivere in prosa, preoccupato (ma se ne sarebbe preoccupato dieci anni prima?) di non avere alcuna attitudine per lo stile boccacciano. Basta confrontare le annotazioni borghiniane al Decameron con gli Avvertimenti del Salviati per constatare quanta differenza vi fosse fra i due nel concepire la lingua dell’arte e quella della comunicazione ??. Se poi si pensa alle tesi esposte dal Gelli nel Ragionamento sulla lingua, può addirittura sembrare che il Salviati con gli Avvertimenti compia una sorta di colpo di stato nella cultura fiorentina, spinto magari da uno smodato desiderio di primeggiare. Ormai fra l’altro è certa la limitata responsabilità della Crusca in tutta questa operazione. È il Salviati che nel secondo libro degli Avvertimenti espone seccamente un programma conservatore e puristico che si sostituisce alla fiducia nel progresso del Gelli, all’attenzione per il parlato del Varchi, allo spirito sanamente empirico del Borghini, alle stesse speranze in una stagione felice della cultura fiorentina che ancora si trovano nella giovanile Orazione in lode della fiorentina favella dello stesso Salviati (1564). Di fatto però il Salviati intuiva e teorizzava aspirazioni assai diffuse nella cultura fiorentina. Quando il Salviati lavorava agli Avvertimenti le illusioni dei fiorentini erano tramontate e la lingua italiana — come si è detto — si era cristallizzata al livello alto in forme rigide e latineggianti e al livello medio-basso nella lingua corrente, scialba e grigia, dei poligrafi e dei segretari. Cercando di opporsi a questa situazione, il Salviati, per conservare un rapporto (sia pure ambiguo) fra lingua viva e lingua letteraria, è costretto a proporre un fiorentino altrettanto immobile e grammaticalizzato: un fiorentino arcaico, naturalmente fornito di qualità retoriche, sostanzialmente povero di escursioni tonali. La cultura borghese e i miti neoplatonici — che avevano a lungo difeso Firenze dal formalismo, dalle istanze normative, dalle apparenze e dai riti dell’assolutismo — 28 La lettera e la risposta in Opuscoli inediti o rari di classici o approvati scrittori, I, Firenze

1844, pp. 115-28.

29 Non potendo approfondire qui la questione, rimando a quanto scrissi in I/ Borghini e la

lingua del Decameron (in Lingua e cultura del Cinquecento, cit.), ma il giudizio un po’ sommario

sul Salviati va corretto con quanto qui segue.

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cedono sempre più e lasciano il posto alle esigenze selettive, al desiderio di disciplinare anche socialmente l’esercizio scrittorio; e così Firenze si mette alla pari con il resto dell’Italia, sia pure con una proposta municipalistica che tenta di evitare quello che di fatto già è avvenuto: che Firenze, perduto il primato letterario e linguistico, scadesse al livello di provincia fra le province italiane. La proposta del Salviati di per sé non è più astratta delle altre; anzi ne riassume unitariamente molti elementi, cercando di fondere (con palesi contrad-

dizioni) popolarità e classicismo, antico e moderno, ecc. La rende particolarmente inattuale il fatto nuovo, di capitale importanza, a cui si è accennato: che la lingua italiana ormai esisteva, bella o brutta, piacevole o spiacevole, gradita o sgradita che fosse. Nata fuori dal controllo dei trattatisti e nel sostanziale disinteresse del potere politico, aveva trovato stabilità e regole nelle tipografie, negli scritti dei poligrafi, nell'uso dei segretari... Non stupisce che questa lingua corrente spiacesse al Salviati, come già era spiaciuta al Lenzoni e al Borghini. Gli sfuggiva, però, che non si trattava di un fatto sporadico contro il quale si potesse combattere: era la lingua in cui si identificavano gli scrittori di tutta la penisola, una lingua che aveva goduto di un trionfale successo dopo le iniziali resistenze, imponendosi a un pubblico che mai era stato tanto vasto. Il Salviati organizza la resistenza mascherando le difficoltà con un atteggiamento aggressivo che può apparire sgradevole e invece era ben motivato. Gli attacchi a Firenze e al suo prestigio ormai venivano da ogni parte. L’opera del Tasso sembrava fatta apposta — nella sua stessa grandezza — per mostrare clamorosamente la fine del primato fiorentino. Ai grammatici e ai lessicografi, che avevano irrigidito e sostanzialmente tradito la lezione del Bembo, estendendola a ogni tipo di scrittura, si era aggiunto il purismo arcaizzante del Castelvetro. Persino la tesi italiana, prima caratterizzata da una discreta apertura agli apporti moderni, aveva fatto proprio il mito trecentesco con Girolamo Muzio, i cui scritti, riuniti nelle postume Battaglie (1582), ancora potenziavano l’intolle-

rante ideologia aristocratica e conformistica e la virulenza contro il naturalismo linguistico fiorentino. Mentre l'Accademia Fiorentina non riusciva a stabilire nemmeno le regole elementari del fiorentino, persino studiosi gallesi avevano trattato della pronuncia e della grammatica italiana. In Francia da tempo si manifestavano reazioni contro la moda italianizzante. Claude Gruget nella dedica della propria traduzione francese dei Diglogi dello Speroni (1551) utilizzava affermazioni del Dialogo delle lingue per mostrare la superiorità del francese sul toscano; e già prima il Du Bellay nella Deffence et illustration de la langue francoise (1549) si era servito ampiamente di quel dialogo per esaltare il proprio volgare. Nel 1579 era poi uscito il Projet du livre intitulé De la précellence du langage francois, in cui Enrico Stefano, esaminando con pungente ironia i risultati delle lunghe dispute sulla lingua italiana, osservava che il Varchi e gli altri grammatici avevano provocato una tal confusione che l’autentica e genuina lingua italiana era ormai solamente un’idea platonica; inoltre, confrontando la traduzione italiana di Tacito compiuta da Giorgio Dati con quella francese di Blaise de Vigenère, concludeva che il francese era di gran lunga superiore all’italiano. Per di più sosteneva che il francese era più ricco

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dell’italiano perché poteva attingere dai vari dialetti, mentre in Italia la lingua voleva essere puramente toscana e quindi le forme di tutti gli altri dialetti erano considerate barbare. Rispose con i fatti — cioè con una nuova traduzione di Tacito che gareggia in brevità con l’originale — Bernardo Davanzati, il quale, per vincere la «scommessa», muoveva in una direzione diametralmente opposta a quella indicata dal Borghini in Dificultà del tradurre e perveniva per conto suo a un provincialismo dialettale puristico, che pur fondandosi sull’uso fiorentino vivo e popolare, non è molto diverso da quello del Salviati, che aveva teorizzato il primato del fiorentino trecentesco proprio per difendere il fiorentino vivo nell’unico modo che sembrava possibile: accomuna i due atteggiamenti, se non altro, l’insufficiente consapevolezza e sollecitudine per la culturalità della lingua ?°. L’estensione salviatesca del canone da Petrarca, Dante e Boccaccio ai trecentisti minori e minimi comportava una sorta di elementarità popolaresca e un appiattimento. Ma era quasi una via obbligata. L’aveva capito anche il Borghini, senonché per lui i minori e i minimi del «buon tempo» dovevano servire alle esigenze dei forestieri che, non potendo apprendere la lingua dall’uso vivo, là dove mancava l’esempio del Decameron, finivano per rivolgersi all’analogia o al latino quando invece avrebbero potuto ricorrere alla stessa lingua da cui aveva attinto il Boccaccio, quella appunto di cui i trecentisti offrivano una preziosa documentazione. Negli Avvertimenti invece il capolavoro boccacciano è sommerso da un prosare elementare e povero di nervature sintattiche, mentre una decisa condanna colpisce ogni accostamento al latino: sembra quasi una rivalsa contro il classicismo volgare e le raffinatezze bembiane, le ricerche del «numero» e degli effetti fonici, contro anche l’ottimismo del Gelli e di tanti fiorentini che identificavano il progresso del volgare con l’aumento della cultura e della conoscenza delle lingue classiche. La lingua del Trecento, inoltre, secondo il Salviati non è solo corretta, è naturalmente bella e pura. Fin qui non erano arrivati né il Borghini né il Castelvetro, né tanto meno la retorica classicistica e bembiana che affidava pur sempre agli auctores il compito di selezionare e raffinare la lingua dell’età ritenuta migliore. La linea bembiano-salviatesca di cui si è spesso parlato è, insomma, frutto di un equivoco, perché — come si vede — il Salviati quasi capovolge nei suoi elementi essenziali l'insegnamento delle Prose della volgar lingua. Le argomentazioni del Salviati irritano perché sono formulate in maniera apodittica, presentando come ovvio ciò che invece si dovrebbe dimostrare, ma sono abili, conformi allo scopo, efficaci proprio per la loro rigidità e ambiguità, per quell’aria di ovvietà affiorante da mille apparenti concessioni. Erano congegnate per rilanciare, con una decisa controffensiva, la cultura fiorentiva, per riconferirle — per la via della filologia trecentesca — il controllo sulla lingua. Il Salviati cercava consapevolmente la polemica; e se questa per il momento non scoppiò con virulenza, fu solamente perché allora le questioni linguistiche 30 Sulle traduzioni del Davanzati, cfr. E. Bonora, B. Davanzati dal volgarizzamento di Tacito allo «Scisma d'Inghilterra», in Retorica e invenzione, Milano 1970, pp. 211-53.

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(rispetto a quelle di poetica, per esempio) avevano perso d’importanza. Ma dalla Francia, valga questo solo esempio per tutti, Iacopo Corbinelli attendeva gli Avvertimenti con spirito bellicoso. In una lettera al Pinelli del 3 gennaio 1585, appena ricevuto il libro, notava che il Salviati aveva scritto «con estrema diligenzia e notato più presto troppo e con troppe minuzie che altrimenti». E sopra tutto, sentendosi ormai «barbaro, e tutto franzese visu, verbo et opere», condannava il tentativo di isolare il toscano dalle altre lingue romanze, rinunciando a quella comparazione che sola può spiegarne le caratteristiche. Mostrando di essere all'incirca sulle posizioni dello Speroni, denunciava i limiti e le contraddizioni del purismo trecentesco e polemicamente si proponeva di tradurre Villehardouin in lingua italiana antica «per mostrare la fraternità o sororità delle due lingue ne’ testi antichi»: E sto quasi per credere che la franzese, che fu primo volgare, che non fu il nostro, ci dessi quasi la sua parlatura, tanto erano simili, se ben di poi quando cominciarono le nostre scritture vulgari, e cessarono le latine, a poco a poco ce ne discostassimo e abbandonassimo quelle frasi nella maggior parte. E se bene ne’ nostri antichi sono molte le traduzioni da quella lingua, e che questo par che sia la causa che abbondassero di quelle frasi, nondimeno molti ce n’hanno che non traducono, come il Villani, che

si può dir che ne sia pieno per uno che scrive toscano e che fussi in quell’inarrivabile secolo, come dice il Salviati.

Il Corbinelli coglieva bene certi limiti degli Avvertizzenti, ma in una cosa almeno s’ingannava: prevedendo che ben difficilmente il Salviati avrebbe potuto trovare manoscritti antichi non ancora noti, poiché di questi — scriveva — «don Vincenzio Borghini mi par che n’abbia potuto toccare il fondo» ?!. In realtà il Salviati non solo seppe trovare un’amplissima documentazione del fiorentino trecentesco, ma anche valutare i vari scritti con l'eccezionale conoscenza diacronica necessaria per poterli disporre in ordine cronologico e valutarne la proprietà e purezza. Ed è questa l’eredità più duratura che il Salviati lasciò ai compatrioti: infatti se la cultura fiorentina alla fine del Cinquecento si chiuse in sé stessa, in un ultimo sforzo compì un ricupero della prosa trecentesca che le consentì, quando ormai aveva perso il primato linguistico, di mantenere quello filologico. Dal classicismo volgare del Bembo all’atteggiamento antiumanistico del Salviati, dalla grammatica in funzione della retorica alla lingua naturalmente fornita di qualità estetiche, dai grandi problemi strutturali alle minute questioni grammaticali e anche agli incunaboli della filologia volgare si riassume un secolo di dibattiti e si consuma l’ideale rinascimentale. Un equilibrato bilancio ci è conservato nei Forti toscani (1598), in cui il Lombardelli, dopo aver esaminato e giudicato con pacatezza ed equanimità gli «Autori della teorica di nostra lingua», così delineava il quadro di quanto restava da fare:

31 Tutte le citazioni da V. CrEscinI, Lettere di J. Corbinelli, in «Giornale storico della letteratura italiana», II, 1883, pp. 309-315.

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Primieramente vi si desidera una grammatica intera, piena, risoluta e facile; la quale a pena si potrebbe cavar da tutti detti autori. Poi un ampio tesoro, dove sien raccolte tutte le voci attenenti al puro toscanismo; scelte con buon giudizio tra le antiche e le moderne, sposte con la copia, esaminate nella origine, nella propietà, nella proporzione o corrispondenza, nelle differenze, nelle costruzzioni semplice e nelle figure; avvivate con gli opposti, ornate degli epiteti e degli aggiunti; assecurate finalmente ed approvate con diversi passi degli scrittori del buon secolo e de’ più regolati del nostro, specialmente di quei dello ultimo fonte; d'onde lo studioso potesse, in un tempo, non solamente apprender la forza e l’uso buono delle parole, ma anco un’eccellente maniera di legarle, mercé della varietà, del

numero, dell’efficacia e della leggiadria. Mancane un vocabolario non indirizzato a quei che aspirano all’eloquenza ma alla turba, per intender tutti vocaboli del vulgo e degli antichi; e potrebbe farsi a imitazione o di quel di Polluce greco e di quel d’Anton Nebrissense spagnuolo e latino; poiché non ci può sodisfar la Tipocosmia d’Alesandro Citolini da Serravalle. Mancavi un dizzionario poetico; e forse alcun altro d’altra sorte, rispetto alle diverse arti e professioni. Un eccellente vocabolario fu già promesso da Giulio Camillo Dal Minio, dal Ruscelli e dal Salviati, ma non si sono veduti mai comparire. Ci manca il proverbiario, cominciato già, e poi non seguito, dal nostro

Sodo Intronato [Marcantonio Piccolomini]. Possiam finalmente disiderare una censura o (come i nostri forse direbbono) sindi-

catura sopr’a tutti i più pregiati scrittori toscani, così moderni come antichi; ove si avvertissero alcuni loro errori, da’ quali possono essere i leggitori ingannati ?2.

È significativo che i problemi generali o teorici non siano nemmeno accenna-

ti: sembra che ormai si desiderino solamente lavori applicativi, tecnici, e opere di consultazione. Le grandi questioni che avevano appassionato i discettatori sono addirittura difficili da intendere. Lo mostra anche soltanto questo giudizio sulle Prose della volgar lingua: Richiedon leggitore introdotto bene, attento, assentito e valoroso, che ne sappia cavar que’ tesori che vi son quasimente affogati nel dialogo ed in una maniera di trattarli anzi stravagante che no: per lo che all'improvviso non si può ritrovar cosa che altri voglia, se non si ricorre a quella tavola che alcuni valentuomini fiorentini vi fabbricaron dattorno perché venisser lette più volentieri [...] ?}.

Non meraviglia, allora, che di tanti dibattiti nei decenni e nei secoli successivi sopravvivessero solo formule ripetute, discusse, condannate, senza più sentire il bisogno di rileggere i «testi» che le contenevano. Lo conferma il fatto che dopo

il corpus sive dei se nelle bisogno

curato da G. Degli Aromatari nel 1643 non si ebbero edizioni complestrattati sulla lingua e che anche di singole opere — salvo quelle compreOpere di singoli autori — solo in questi ultimi anni si è sentito il di avere edizioni attendibili e annotate.

32]fonti toscani, cit., pp. 59-60.

33 Ivi, pp. 50-51.

TEORIA E FENOMENOLOGIA DELLA «DESCRIPTIO» All’inizio del Dialogo di pittura di Paolo Pino !, un pittore veneziano, Lauro, invita il fiorentino Fabio «a un dolcissimo

trebbio, dove vi seranno

venticinque matrone, tutte leggiadre, tutte graziose e belle». Fabio accetta e si unisce all'amico nell’esaltazione delle matrone veneziane che «sono vaghissime e vestono più leggiadramente e con maggior venustà che qual si voglian donne del mondo»; ma quando Lauro assolutizza la sua lode («non è pontino in loro che se li disconvenghi: tutte graziate, tutte belle»), egli manifesta un profondo disaccordo e gli obbietta di parlare «come veneziano, non già come pittore». La pronta risposta del pittore veneziano, indipendentemente dal séguito del dialogo, ci propone un contrasto, che si può considerare emblematico, fra due atteggiamenti — l’uno célto, l’altro volgare — relativi alla rappresentazione della realtà: Non sono però sì ebrio nell’amor della patria, ch'io m’abbagli in discernere il vero. Ben sapete che, quanto all’umor de noi pittori, la bellezza de tutte queste donne raccolta insieme non sopplirebbe per formar una bella femina a nostra sodisfazzione, volendo imitar quelle linee, proporzioni, misure et ordini, astratti quasi dal vero, ch'i primi nostri inventori, per immortalarsi, instituirono le cose a modo loro, ben che l'invenzioni fossero (se dir si può) divine.

La scoperta dell’uomo e del paesaggio che il Burckhardt ? considerò uno dei tratti distintivi della civiltà del Rinascimento in Italia, non si verificò infatti

nella maniera più ovvia. L’imitazione della natura, di cui tanto discutono i trattatisti, va ricondotta all’atteggiamento célto condannato da Lauro: un atteggiamento per cui, sia pure in forme e con modalità diverse a seconda delle convinzioni filosofiche dei singoli, la realtà per lo più non viene accettata così com’è ma idealizzata, “perfezionata” con l’arte e con le scienze 0, comunque,

interpretata secondo «linee, proporzioni, misure e ordini, astratti quasi dal vero», e tradotta in codici più o meno rigidi. Alle donne concretamente esistenti, anche alle più belle, si contrappone la donna, ai giardini il giardino, ai cavalli il cavallo ?, così come si cercano i modelli del perfetto pittore o del perfetto

1 In Trattati d'arte del Cinquecento fra Manierismo e Controriforma, a cura di P. Barocchi, I, Bari 1960, pp. 97-8.

? La Civiltà del Rinascimento in Italia, Firenze 1958 (si veda la parte IV: Scoperta del mondo esteriore e dell'uomo).

? Penso, come a un caso quasi esemplare dell'intervento dell’arte sulla realtà, alla ricerca rinascimentale del cavallo perfetto che — grazie anche alla selezione, all'importazione di nuove razze e a opportuni incroci — provocò una profonda trasformazione dell’aspetto di questo

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cortigiano. Ai dati concreti della realtà si sostituiscono degli stilemi, delle formule, dei canoni: le proporzioni e la prospettiva, per esempio, oppure gli schemi forniti dai classici. Tra realtà e arte s’instaura un rapporto complesso di dipendenze, che si svolge nei due sensi: l’arte tende a trasformare la realtà, ma questa condiziona le formulazioni dell’arte e fa sì che nel corso del secolo gli atteggiamenti lentamente si modifichino. Si dirà: la natura non è mai rappresentabile direttamente; fra l’immagine della realtà e la sua rappresentazione con parole o con linee e colori c'è sempre, come diaframma, almeno un modello mentale. Pertanto ogni età ha i suoi schemi, i suoi clichés, i suoi stereotipi, insomma la sua maniera di descrivere. Ma nel Cinquecento gli schemi, come appare dalle parole di Lauro, vengono ricercati e teorizzati per un consapevole desiderio di non descrivere direttamente la realtà: l’arte non vuol fornire una riproduzione speculare del contingente ma una sua ristrutturazione, una sua riinvenzione, secondo modelli che si cerca di codificare nella maniera più precisa possibile. La communis opinio degli uomini di cultura è sintetizzata da Vincenzio Danti, che distingue il ritratto, inteso come riproduzione fedele della realtà, dall’izitazione, in cui le cose vengono rappresentate non come sono ma come dovrebbero essere 4. Ed è significativo di questo processo di astrazione che egli propugni la necessità di fornire la perfezione inesistente nella contingenza non solo alla figura umana ma anche ai corpi vegetali, ai corpi inanimati e agli animali sensitivi, dei quali tutti egli cerca le perfette proporzioni: solo le cose perfette potranno essere descritte direttamente. Non debbono dunque trarre in inganno le richieste di precisione scientifica, comuni a tutta la trattatistica e particolarmente frequenti nell’età della Controriforma; e ancor meno scritti come l’Enarrazione di tutti i generi principali delle cose naturali e artificiali che ponno cadere sotto la pittura di Ulisse Aldrovandi o Il lamento della pittura su l'onde venete di Federico Zuccari ? che, fra l’altro, si duole della perduta capacità di imitare la natura, per cui nei dipinti il salice

animale: si vedano le osservazioni di C. BAscETTA in Sport e giuochi. Trattati e scritti dal XV al XVIII secolo, Milano 1978, I, pp. 187-203. 4 Cfr. V. DANTI, Trattato delle perfette proporzioni, in Scritti d'arte del Cinquecento, a cura di P. Barocchi, II, Milano-Napoli

1973, pp. 1570-6, 1773-98. La distinzione fra imzitazione

(p. 1773: «questa parola “imitazione” non intendo che sia altro che un modo di operare il quale fugga le cose imperfette e s’accosti, operando, alle perfezzioni») e ritratto (p. 1570: «Il ritrarre sarebbe il perfetto mezzo ad essequire l’arte del disegno, se non fusse che queste cose, le quali la natura e l’arte produce, sono, come ho detto, le più volte imperfette e di qualità e di quantità, per cagione di molti accidenti») deriva dichiaratamente da quella fra storia e poesia.

Cfr. B. DanIELLO, Della poetica (in Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, a cura di B. Weinberg, I, Bari 1970, p. 253): «non è tenuto il poeta com'è l’istorico di descrivere le cose tali

quali elle veramente state et avenute sono, ma ben quali esser devrebbono. Et in questo massimamente è egli dal poeta differente l’istorico, non per lo scriver o non scrivere in verso le cose loro ...». È la distinzione aristotelica, ma corretta dal Daniello e da molti altri in direzione idealistica: la poesia non descrive le cose quali potrebbero essere ma come dovrebbero essere. 5In Scritti d'arte del Cinquecento, cit., I, 1971, pp. 923-30; 1024-35 (p. 1026: «Ohimè,

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non si distingue dall’alloro. Non è un invito all’esperienza, ma al rispetto di modelli mentali: le classificazioni del mondo minerale, vegetale e animale. E non basta. L’Aldrovandi nelle sue opere scientifiche mescolò in maniera tanto inestricabile descrizioni esatte con favole, blasoni, valori mitologici, da suscitare lo stupore di Buffon. Orbene, Michel Foucault © osserva che non è il caso di meravigliarsene, né di parlare di una sua buona o cattiva capacità di osservare, perché per lui, come per i suoi contemporanei,

«conoscere una bestia o una

pianta o una cosa qualunque della terra, equivale a recuperare l’intero denso strato di segni che in queste o su queste hanno potuto essere depositati». Insomma, l’elemento naturalistico per varie vie e con vari ragionamenti viene programmaticamente confuso con quello culturale o intellettualistico: gli esempi dei poeti” e le prescrizioni dei trattatisti sembrano anzi quasi sempre preferibili all'osservazione diretta. E il processo può svolgersi ulteriormente, così che gli oggetti, i gesti, i colori si caricano di un forte valore simbolico *; e l’uso di allegorie è frequentissimo. Nell’autunno del Rinascimento — e per questo non posso che rimandare al libro di Carlo Ossola? — si assisterà, accanto e contemporaneamente alle esigenze di minuzioso e pedante oggettivismo cui abbiamo accennato, a uno scatenarsi della fantasia e della bizzarria, all’esaltazione dell’artificioso sul reale: valgano, come esempi quasi ovvi, la passione per l’emblematica, l’amore per le grottesche e i dipinti dell’Arcimboldi. Riassuntivamente si può dire che nel Cinquecento l’uomo osserva la realtà servendosi di filtri di vario genere; e questo non perché non sappia descrivere, ma perché crede che il mondo possieda una struttura più complessa di quanto non appaia ai sensi: se non sembra ancora una foresta di simboli, certo già sembra un teatro in cui gli uomini agiscono mascherati o, come dice il Campanella (Poesie filosofiche, VI, 1-2), «il libro dove il Senno Eterno / scrisse i proprii concetti». Sotterraneo e inconfessato è l’altro atteggiamento, quello iniziale di Lauro, che considera «linee, proporzioni, misure et ordini» come invenzioni dei pittori,

come elementi «astratti quasi dal vero». È, come subito ribatte Fabio, l’opinione del volgo ignorante; quindi è ovvio che il veneziano, pressato dall’amico, subito receda dal suo atteggiamento ironico, pur conservando forti riserve mentali. Resta la conferma che la dottrina intellettualistica veniva contestata, anche se solamente da praticanti, inclini alla “banale” riproduzione della realtà. Ma, ch’estinte son grazia e decoro, / d’imitar la natura non vi è segno, / né il salce si distingue da l’alloro»).

6 Le parole e le cose, Milano 1967, pp. 54-5. ” Si veda, per esempio, P. BaROccHI, Fortuna dell’Ariosto nella trattatistica figurativa, nel volume miscellaneo Critica e storia letteraria. Studi offerti a M. Fubini, Padova 1970, I, pp. 388-405.

8 Per il «valore» dei colori si veda, almeno, la XIII sezione dei citati Scritti d’arte del

Cinquecento, II. ? Autunno del Rinascimento. ZETA,

«Idea del Tempio» dell'arte nell'ultimo Cinquecento, Firen-

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pur emarginata dalla cultura ufficiale e sconfessata persino da coloro che di fatto vi aderiscono, questa maniera di descrivere non deve essere sottovalutata a favore della concezione célta, perché in pratica si tratta di facce o meglio di polarità che si influenzano scambievolmente: anzi il serzzo bumzilis spesso favorisce il decantarsi e il trasformarsi di quello dotto. Non solo. Quantitativamente, la descrizione diretta della realtà si presenta come un fenomeno nient’affatto trascurabile: a meno che non si vogliano emarginare le descrizioni di storici, cronisti, ambasciatori, viaggiatori, geografi, giù giù fino alle guide di questa o quella città, alle lettere davvero familiari o ai ritratti, verbali o pittorici, eseguiti ‘per far conoscere a fidanzati le rispettive fattezze: insomma, tutti i documenti che soddisfacevano alle esigenze a cui oggi soddisfano i mass-media. È un aspetto della cultura cinquecentesca che solo ora, forse, si comincia a studiare seriamente e pur già, se non m’inganno, lascia intravvedere la possibilità di scorgere nel Cinquecento la nascita e uno sviluppo già imponente della letteratura tecnica, che della descriptio si serve come di un preciso strumento di informazione. Naturalmente anche il serzzo burzilis presenta densi strati di segni e codici che occorre decifrare e intendere. Anzi, non è di per sé questione di maggiore o di minore realismo ma del predominio di un’esigenza di comunicazione: un’esigenza che può rimanere nell’anonimato qualitativo delle botteghe o delle tipografie oppure emergere decisamente all’attenzione di tutti in opere come i Viaggi e navigazioni del Ramusio, gli Abiti antichi e moderni del Vecellio, la Descrizzione di tutta l'Italia dell’Alberti, la Venezia città nobilissima del Sansovino, ecc.

Le due polarità, a dire il vero, non erano sempre rimaste disgiunte o contrapposte. Leonardo le aveva indissolubilmente saldate proponendo la pittura come scienza totalizzante, come filosofia, sostenendo, con un atto rivoluzionario che non ebbe séguito, il primato del linguaggio pittorico su quello letterario: Quella scienzia è più utile della quale il suo frutto è più communicabile, e così per contrario è meno utile [quella] ch'è meno communicabile. La pittura ha il suo fine

communicabile a tutte le generazioni de l'universo, perché il suo fine è subietto della virtà visiva, e non passa per l’orechio al senso comune col medesimo modo che vi passa per il vedere. Adonque questa non ha bisogno de interpreti de diverse lingue, come hanno le lettere, e subito ha satisfatto alla umana spezie, non altrimenti che si

facciano le cose prodotte dalla natura !.

E non basta. L’«omo sanza lettere» adotta, descrivendo con parole quanto si propone di realizzare in pittura, un metodo decisamente sperimentale e annota scrupolosamente la varia fenomenologia di luci e ombre, si interessa della visione lontana, studia gli effetti dell’aria atmosferica, descrive figure umane e animali, piogge, venti, diluvi, battaglie, notti... !! Ma di eccezione si tratta,

10In Scritti d'arte del Cinquecento, cit., I, p. 73. 11 Sulle «invenzioni» di Leonardo si veda: C. SEGRE, La descrizione al futuro: Leonardo da Vinci, in Semiotica filologica. Testo e modelli culturali, Torino 1979, pp. 131-160.

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anche se qualcuno, come il Giraldi !, sembra accogliere il suo insegnamento e un filone “realistico”, in parte da lui ispirato, serpeggia ovunque e s’incontra dialetticamente con quello célto. Per il complesso rapporto fra arte e natura di cui si è detto, la descriptio non ottiene un proprio statuto retorico: nei suoi aspetti generali infatti quasi si identifica con l’imitazione della natura, mentre nei suoi caratteri specifici sembra di pertinenza dell’inventio. Avviene così che lo stesso termine descrizione non acquista un preciso e inequivocabile significato retorico !: mantiene un campo semantico ampio e generico che comprende anche la narrazione.

Bernardino Daniello, per esempio, ritiene che il poeta debba avere cognizione «se non di tutte le scienze e dottrine, almeno della maggior parte» e ancora una «grandissima esperienza delle cose che et in terra et in mare si fanno, affine che esso possa poi (offerendosi la occasione) descrivere con acconcia maniera una

guerra, armare i gran re e gli imperatori, ordinare in belle squadre gli esserciti loro, discender con esse in battaglia, assediare una città, combatterla, e prenderla finalmente; trar di que’ luoghi ove si fabricano le navi, armarle, solcar con quelle i profondi pelaghi, dimostrarne come esse da’ venti e dall’onde agitate

siano. Conosca eziandio l’usanze et i modi del viver delle genti, i costumi, e, per dir brevemente, tutte quelle cose che d’intorno alla pratica consistono» !4. Ampia gamma di operazioni che — dal Daniello come dagli altri trattatisti — è sottoposta quasi soltanto alla norma fondamentale della convenevolezza: del resto, è evidente che essi pensano più ai personaggi delle commedie e delle tragedie e alle «descrizioni di fatti» dei poemi che non alla descrizione dell’uomo e dello spazio. Collocata nell’inventio e ritenuta incapace di sviluppi autonomi, la descriptio con tutta la sua problematica si inserisce dunque nella più generale discussione sui rapporti fra poesia e arti figurative, da un parte, e storia, filosofia, scienza, dall'altra. Un rapporto variamente risolto, ma per lo più con il risultato pratico che i trattati si limitano a presentare degli elenchi o repertori, più o meno ampi, del descrivibile: cioè, per lo più, dei fonti topici. Un discorso abbastanza articolato si trova nel Trattato delle materie che possono venir sotto lo stile dell'eloquen-

te e nella Topica di Giulio Camillo Delminio ”, opere fortunatissime che forniscono norme particolareggiate per «figurare» i concetti (per esempio, il «farsi notte»). Ampi cataloghi si trovano nei trattati sull’invenzione (particolat12 G. B. GIRALDI, Discorso intorno al comporre dei romanzi, in Scritti critici, a cura di C. Guerrieri Crocetti, Milano 1973, p. 164.

13 Un significato tecnico che, peraltro, gli sembra negato anche dal Grande dizionario della lingua italiana, mentre invece gli era stato pienamente riconosciuto dal TOMMASEO-BELLINI.

14 B. DanIELLO, Della poetica, cit., pp. 244, 249-50. In Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, cit., I, pp. 319-56; 357-407. Per la figurazione del «farsi notte», cfr. pp. 395 sgg. Il metodo del Delminio — che si considerò e fu considerato l'inventore della topica — fu accolto da molti: per esempio, da Bernardino Partenio che nel libro Dell'imitazione poetica (in Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, cit., II, 1970, pp. 548-9) riprende anche l’esempio del come esprimere il pensiero «venendo notte».

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mente nei Dizloghi dell'invenzion poetica di Alessandro Lionardi) lidiniepoetica del Muzio, in cui è notevole il continuo riferirsi alle e. Ma sopra tutto debbono essere ricordati i grandi trattati immagini del tardo Cinquecento, specialmente il Discorso intorno sacre e profane del Paleotti, che si sforza di classificare tutto lo

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e anche nelarti figuratidi figure e alle imagini scibile sulle

immagini, servendosi anche dei più recenti trattati italiani (Gilio e Castellani) e

stranieri (Bruno, Sanders e Molano) !, e l’Idea del tempio della pittura del Lomazzo, che vorrebbe prevedere tutte le invenzioni possibili. È un interesse crescente che condurrà alla nascita di nome e di fatto dell’iconologia con l’opera ‘ fortunatissima del perugino Cesare Ripa !5. Anche se la descriptio non ottiene un proprio statuto formale, spigolando qua e là si potrebbero ottenere indicazioni interessanti: specialmente considerando quanto vien detto dell’ipotiposi, della dimostrazione !, della similitudine, della comparazione, della digressione nei romanzi ?, della diatyposis”, dell’enargia. E proprio a proposito di quest'ultima, «che è un ponere

16 Per esempio, II, 706-8: «Il poema sovrano è una pittura / de l’universo, e però in sé comprende / ogni stilo, ogni forma, ogni ritratto» (in Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, cit, II, p. 185).

17 Cfr. Due dialoghi di M. Giovanni AnpRrEA Gitio da Fabriano, nel primo de’ quali si ragiona de le parti morali e civili appertenenti a’ letterati cortigiani e ad ogni gentiluomo e l'utile che i prencipi cavano dai letterati; nel secondo si ragiona degli errori e degli abusi de’ pittori circa l'istorie. Con molte annotazioni fatte sopra il Giudizio di Michelangelo e altre figure tanto de la vecchia quanto de la nova cappella; e in che modo vogliono essere dipinte le Sacre Immagini, Camerino, A. Gioioso, 1564 (il secondo dialogo — che è quello che più ci interessa — in Trattati d'arte del Cinquecento, II, Bari 1961, pp. 1-115); G. CASTELLANI, De imaginibus et miraculis, Bologna, A. Benacci, 1569; C. Bruno, De imaginibus liber, in Opera tria nunc primum aedita, Moguntiae, apud S. Victorem, 1548; N. SANDERS, De #ypica et honoraria sacrarum imaginum adoratione, Lovanio 1569; G. Morano, De picturis et imaginibus sacris liber unus, tractans de

vitandis circa eas abusis et earundem significationibus, Lovanio 1570.

18 Della più che novissima iconologia di CesarE RIPA perugino [1593], ampliata dal Sig. Cav. Gio. Zaratino Castellini, Padova 1630. Forse non è inutile ricordare che nel Cinquecento godette di grande fortuna il trattato Etx6veg del così detto Filostrato Maggiore. Cfr. A. PossEviNO, Tractatio de poési et pictura ethnica, humana et fabulosa collata cum vera, honesta et sacra (in Scritti d'arte del Cinquecento, I, pp. 47-8: «Extant vero Philostrati Lemnii sophistae Graeci, qui ante mille quadringentos annos vixit, Imagines, sive Ex6ves, Graecae, Latinae, Gallicae, quas et Italicas fecit Joannes Andreotius Lucensis, sed nondum emisit in lucem. Latinas olim fecit Stephanus Niger, quae et Mediolani editae sunt anno huius saeculi 1521 apud Ioannem Castellum. Gallicas reddidit Blasius Vigenereus, quibus uberes addidit notationes eruditione quidem varia respersas». Il testo greco era stato pubblicato a Firenze nel 1517 e a Venezia nel 1535 e nel 1550. 19 Secondo la terminologia del Daniello, «si fa quasi dinanzi agli occhi degli ascoltanti ponendo quella cosa della qual si ragiona, sì fattamente dipignendola che paia a quei cotali vederlasi rappresentare davanti tale quale ella si finge, o quale stata veramente et avenuta sia» (Della poetica, cit., pp. 300-1). 20 Cfr. G. B. GiraLpI, Discorso intorno al comporre dei romanzi, cit., pp. 79 sgg.; G. B. Pina, I romanzi, Venezia, Valgrisi, 1554, pp. 101 sgg. 21«È il trattare le cose tanto particolarmente che quasi si pongono avanti gli occhi».

Così il Trissino, Poetica, in Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, cit., TI #pri85.

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la cosa quasi avanti gli occhi», e dell’interpretazione che ne dà il Trissino in una malintesa imitazione della minuzia descrittiva di Omero, si svolge un’importan-

te polemica che riguarda il modo di descrivere 22. Nel discorso Dell’imitazione e dell'invenzione e negli Avvertimenti nel poetare di Giulio Cortese si ha persino qualche distinzione fra le situazioni in cui conviene l’imitazione (= descrizione) e quelle in cui conviene la narrazione pura ??. La descrizione è, però, riconosciuta come categoria retorica da Bartolomeo Cavalcanti: nella sua Retorica, infatti, troviamo un elenco di quanto si può descrivere, dal quale senza forzature si può estrarre questa tipologia, di cui mi servirò per conferire un qualche ordine al mio discorso: Le descrizzioni sono varie, perché e’ si descrivono (4) persone per le condizioni e dell'animo e del corpo, come descrive Tito Livio Annibale, e Xenofonte nel secondo libro dell’espedizione di Ciro minore fa tre bellissime descrizzioni, la prima di Clearco, l’altra di Proxeno, l’ultima di. Menone, e altri

d’altre persone; e ora l’animo, ora il corpo, or e questo e quello descrivendo. (5) Descrivonsi luoghi, come paesi, terre, selve, porti, palagi, ville, laghi, giardini, fiumi e altre cose; (c) il tempo ancora: come di primavera, di state, d’autunno, di verno, di notte, di giorno, e più particolarmente ancora. (4) Descrivonsi oltra ciò le cose: come combattimenti, espugnazioni, saccheggiamenti, incendii, diluvii, tempesta in mare e in terra, pestilenza, feste pubbliche e private mu; e altre cose, quali sono l’invidia, la fama, l’occasione, il timore e mille al-

tre

24,

Una tipologia che si potrebbe completare con le varie combinazioni: per esempio, di © con c (giardino in autunno, ecc.) o d con c (incendio di notte, ecc).

È importante che il Cavalcanti collochi ?? la descrizione nel genere dimostrativo, sanzionandone quell’autonomia dalle opere narrative che di fatto si era ormai conquistata. Può invece stupire che in quest'opera tanto vasta e minuziosa non si indichi, nemmeno sommariamente, come la descrizione debba prender forma. Ma la Retorica del Cavalcanti è fondata sui classici, e quindi dobbiamo contentarci del rinvio agli auctores.

Il tipo 4 è quello che ha goduto delle maggiori attenzioni da parte dei trattatisti rinascimentali e dei critici moderni. Per questi ultimi basti ricordare il recente studio di Giovanni Pozzi sul Ritratto della donna nella poesia d'inizio

22 Cfr. G. B. GIRALDI, Op. cit, pp. 80 sgg.; G. B. PIGNA, Op. cit., pp. 49 sgg. La definizione è del TrIssIinO (Poetica, cit., p. 49).

23 In Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, cit., IV, Bari 1974, pp. 173 sgg. 24 B. CAVALCANTI, La retorica, Venezia, Robini, 1569, p. 50. 25 Ivi, p. 17.

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Cinquecento e la pittura di Giorgione, a cui rinvio anche per l'ampia bibliografia. Per i primi non c’è che l’imbarazzo della scelta, dal momento che quasi non c’è trattato sulla pittura, sull'amore, la bellezza, la donna, il comportamento, che non proponga canoni relativi a ritratti esteriori o interiori. Va però

rilevato che a questo interesse non partecipano le retoriche, se non per delineare i vari personaggi della commedia e della tragedia secondo l'insegnamento aristotelico. I topoi letterari, dunque, spesso debbono essere ricostruiti sui testi. E in tanta abbondanza di indicazioni e prescrizioni, non indifferente resta il problema dei rapporti fra canoni letterari e figurativi e, più in generale, dell’ambito di validità dei singoli canoni. Un’attenzione particolare andrebbe dedicata al ritratto nenciale, bernesco e, in genere, popolaresco. Si pensi al singolare ritratto che Benvenuto Cellini ha dipinto (o dovrei dire «scolpito?») di sé a parole, usufruendo di schemi letterari, evidenti sia a livello di contenuto sia a livello di stile. Innamorato di sé, cioè del personaggio che veniva costruendo, voleva che niente gli mancasse di quanto poteva renderlo esemplare e perfetto. Ma quanto era esperto nell’iconografia artistica, altrettanto era ingenuo e istintivo nel valutare le qualità che rendono grande un uomo. Un po’ sul serio e un po’ per celia si potrebbe dire che Benvenuto «costruì» il suo personaggio con la stessa cura con cui eseguì la medaglia del Bembo: «pareva impossibile — osservava il Leopardi?” — nel sedicesimo secolo, secolo di squisito gusto, al Cellini, finissimo conoscitore del bello, di dar grazia e bell’aria al ritratto del Bembo (ch’egli aveva a fare in una medaglia), perché il Bembo non portava la barba. E il Bembo si fece crescer la barba per farsi ritrarre dal Cellini, e il ritratto facesse bella vista essendo barbato, e così fu fatto». Anche al proprio «ritratto» occorrevano certi ingredienti: al Bembo si addiceva una bella barba, a lui l’eccezionalità delle imprese, dei motti, dei gesti, secondo la popolaresca concezione dell’eroico. Così il filosofo e poeta «boschereccio», movendo dai toni delle scritture «domestiche», contrafà le movenze di eroi popolareschi, quelli dei cantari per esempio. L’iniziale excursus storico non porta a respirare l’aria della storia illustre e non solo contiene un esplicito richiamo al Villani ma corrisponde a consimili esordi di libri di «ricordi». Questo sfondo storico è preparato per l’apparizione del protagonista, che non solo deve essere di antichissimi natali, ma predestinato dal cielo; ed ecco l’intervento del meraviglioso, ma d’un meraviglioso ridotto a dimensioni casalinghe: la mitologia e la Bibbia viste attraverso gli occhi di un popolano, educato dalle leggende sacre e romanzesche che ancora si ascoltavano in piazza. Mi sono soffermato un po’ sul Cellini sia per ricordare che anche il suo autoritratto riposa su schemi letterari sia perché il suo è un caso abbastanza tipico di mancato trasferimento alla letteratura di canoni figurativi. Ma il rapporto fra ritratto figurativo e ritratto letterario è anche più complesso. Grazie

26 In «Lettere italiane», XXXI (1979), pp. 3-30. 27 Zibaldone, 3094.

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all’ut pictura poèsis la trattatistica letteraria è ricchissima di riferimenti alle arti figurative, e i termini tecnici delle arti del disegno spesso si scambiano con quelli della letteratura e viceversa. Pittori, scultori, architetti moderni e contemporanei sono frequentemente citati. Ma quando si tratta di stabilire canoni, come ha osservato anche il Padoan #, nei trattati letterari non si fa mai allusione a pitture o sculture moderne. Il rapporto è a senso unico: sono i pittori, gli artisti in genere, a rifarsi abbondantemente alle descrizioni dei letterati. Oltre tutto è sempre vivo il pregiudizio che il pittore possa rappresentare solamente l’esteriorità della figura umana. A un certo punto, però, la situazione cambia, specialmente a Venezia, perché «con il realismo che le era proprio, la nobiltà mercantesca veneziana preferiva all’astratta esaltazione letteraria di mitiche ascendenze (cantate ancora dall’Ariosto) la celebrazione delle tre generazio-

ni viventi, la famiglia nel suo essere concreto» 2°. Avviene così — malgrado le condanne dei trattatisti, sospettosi verso il ritratto sia per ragioni artistiche sia per ragioni morali — una sorta di ribaltamento di valori, che ha come conseguenza l’attenzione al caratteristico e all’individuale: donde una scossa alla tendenza célta e alla sua esigenza di rappresentare l’uomo non come è ma come dovrebbe essere. La voga del ritratto diventa presto grandissima. Per rendersene conto, basta leggere le annotazioni del Michiel. Per quest’'impulso sociale la pittura prende l’iniziativa sulla letteratura, la quale non può far altro che adeguarsi, esaltando i ritratti dipinti e incrementando la propria produzione di ritratti. La svolta, favorita dal «realismo» di Tiziano, è puntualmente segnalata dallo Speroni nel Dig/ogo d'amore, in un passo poco noto perché non si legge nell’edizione settecentesca, che riproduce la tarda redazione purgata dallo stesso autore. Parla Tullia d’Aragona: Or che altro è il mondo fuor che una bella e grande adunanza de ritratti della natura? La quale, avendo animo di dipingere la gloria di Dio e quella in uno luogo solo ricogliere non potendo, produsse infinite specie di cose, le quali, ciascheduna a suo modo, in qualche parte l’assomigliassero. Il mondo adunque è tutto insieme un ritratto di Dio, fatto per mano della natura. Ritratto è l'amante, ritragge lo specchio e ritragge l’artefice; ma el ritratto del dipintore (il quale solo è dal volgo appellato ritratto) è il men buono di tutti gli altri, come quello che della vita dell’uomo solamen-

te il color della pelle ne rappresenta; e non oltra.

Il pregiudizio dell’inferiorità della pittura viene ribadito, ma su basi difensive: ormai è opinione comune che solo quelli dei pittori siano ritratti. Comunque Bernardo Tasso ribatte: «Voi fate torto a Tiziano, le cui imagini sono tali e sì fatte che egli è meglio l’essere dipinto da lui che generato dalla natura». E Tullia:

28G. Papoan,

‘Ut pictura poesis”: le «pitture» di Ariosto, le «poesie» di Tiziano, in

Momenti del Rinascimento veneto, Padova

1978, p. 348.

29 Sono parole di G. PADOAN nel saggio citato, p. 353. E cfr. R. ROMANO, Arte e società nell'Italia del Rinascimento, in Tra due crisi: l'Italia del Rinascimento,

Torino

1971, p. 114.

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Tiziano non è dipintore e non è arte la virtù sua ma miracolo; e ho opinione che i suoi colori sieno composti di quella erba maravigliosa, la quale, gustata da Glauco, d’uomo in dio lo trasformò. E veramente li suoi ritratti hanno in loro un non so che di divinità che, come in cielo è il paradiso dell'anime, così pare che ne’ suoi colori Dio abbia riposto il paradiso d’i nostri corpi: non dipinti ma fatti santi e glorificati dalle sue mani.

Ecco qui il motivo della celebrazione dell’effigiato, in parole che richiamano lo stile iperbolico e metaforico dell’Aretino: stile che parrà forse meglio spiegabile se rapportato alla situazione socio-culturale a cui si è accennato, cioè alla necessità di esaltare la rassomiglianza e, a un tempo, di difendere la ritrattistica dalle condanne dei dotti. E infatti il Grazia osserva: «Certo Tiziano è oggidì una maraviglia di questa età, ma voi lo lodate in maniera che l’Aretino ne stupirebbe». E allora Tullia: Lo Aretino non ritragge le cose men bene in parole che Tiziano in colori; e ho veduto de’ suoi sonetti fatti da lui d’alcuni ritratti di Tiziano, e non è facile il giudicare se li sonetti son nati dalli ritratti o li ritratti da loro; certo ambidui insieme, cioè il

sonetto e il ritratto, sono cosa perfetta: questo dà voce al ritratto, quello all’incontro di carne e d’ossa veste il sonetto. E credo che l’essere dipinto da Tiziano e lodato dall’Aretino sia una nuova regenerazione degli uomini, li quali non possono essere di così poco valore da sé che ne’ colori e ne’ versi di questi due non divenghino gentilissi-

me e carissime cose 59, E così, nella nuova situazione, ritratto pittorico e ritratto verbale sono sullo

stesso piano. Lo stile «aretiniano» usato da Tullia mi dispensa dal soffermarmi sulle descrizioni numerosissime che l’Aretino ha fatto di quadri di Tiziano e dall’insistere sulla funzione che egli ha esercitato in tutta la vicenda. Basti ribadire che l'iniziativa della pittura diventa irreversibile e che la nuova richiesta sociale determina, anche nelle autonome realizzazioni letterarie, una proliferazione di ritratti di persone viventi. Molti trattati sono costruiti anche o proprio per formare il ritratto di una persona. E si giunge al caso limite del Betussi che non solo inserisce continuamente nei suoi scritti ritratti e aride elencazioni di nomi di persona, ma va in giro per l’Italia, visitando le nobili dame, per

radunare materiali da utilizzare nella raccolta di vite di donne illustri che ha progettato: come una sorta di cronista viaggiante, impegnato in un reportage

sulla bellezza muliebre. Non occorre spendere molte parole sul tipo c: la descrizione del tempo.

305. SPERONI,

Dialogo d'amore,

in: Trattatisti del Cinquecento,

a cura di M. Pozzi, I,

Milano-Napoli 1978, pp. 547-8. Ma le resistenze al ritratto duravano tenaci anche nelle persone più spregiudicate se l’Aretino, in una lettera dell'agosto 1551 a don Luigi d'Avila y Zifhiga, lamentava che i principi, seguendo la moda, trascurassero la fama ben più solida che danno gli scritti: «i principi si dilettano più dei ritratti dei volti che dei registri dei fatti: come fusse maggiore la importanza de la effigie che la eternità de la memoria» (Lettere sull'arte di Pietro Aretino, commentate da F. Pertile, a cura di E. Camesasca, II, Milano 1957, p. 369).

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Comprende tutta una serie di temi fortunati, anche perché considerati molto poetici. Un esempio estremo: le aurore con cui iniziano i canti dell’Arzadigi di Bernardo Tasso 31. Per il nostro discorso, basterà ricordare lo stupendo tramonto sul Canal Grande descritto dall’Aretino quasi in gara con Tiziano: grazie al lungo sodalizio con i pittori veneziani, il poligrafo toscano, superando finalmente le remore del suo gusto figurativo tosco-romano, giunge fra i primi a rappresentare lo spazio con luci, ombre, sfumature di colori ??. E pian piano gli scrittori finiscono per accettare sempre più, accanto ai modelli letterari classici, la mediazione delle opere d’arte: ma è un punto che andrebbe ancora approfondito, senza indulgere a facili accostamenti e a generiche affinità. Anche il tipo e non richiede un lungo discorso. La descrizione allegorica o simbolica di «cose» spirituali o, comunque, astratte corrisponde al gusto del tempo e ha grande fortuna in pittura come in letteratura. La trattatistica recepisce questo tema intellettualistico meglio di ogni altro. Se ne occupano, per citare solamente interventi specifici, Francesco Bonciani nella Lezione della prosopopea 8, Carlo Malatesta nel Trattato dell’artificio poetico?" e il Maranta nel Discorso in materia di pittura”. Per vederlo realizzato in vario modo, basta scorrere le lettere giovanili del Vasari o la Nobilissima pittura di Michelangelo Biondo o i soggetti del Caro per le ville di Caprarola e di Bomarzo o ancora le Pitture del Doni o le moltissime descrizioni di apparati per feste 9, Nel tipo 4 troviamo soggetti (combattimenti, espugnazioni, saccheggiamenti, ecc.) che appartengono alla così detta pittura di storie (la più prestigiosa in quel tempo) e in letteratura a opere di vasto respiro come i poemi narrativi o epici. Qui il paesaggio è nettamente dominato dall’uomo: fa da fondale prospettico. Nella pittura veneta, però, la «storia» è spesso un puro espediente, mentre l'interesse vero del pittore si accentra su figure umane fortemente caratterizzate o su «paesi». Cosa, del resto, che non sfugge al Vasari, il quale, per esempio, nota che la Nostra Donna in una Fuga in Egitto di Tiziano è dipinta «in mezzo a una gran boscaglia e certi paesi molto ben fatti, per avere dato Tiziano molti mesi opera a fare simili cose, e tenuto per ciò in casa alcuni tedeschi, eccellenti 31 Cfr. T. Tasso, Apologia della Gerusalemme Liberata, in Prose, a cura di E. Mazzali, Milano-Napoli 1959, p. 420: «Ma quel che mio padre maravigliosamente mescolò, distinse ancora in cento canti, acciò che non fosse la mescolanza senza la distinzione, né la distinzione senza la mescolanza; ma la distinzione fosse mescolata, e la mescolanza distinta. E volle cominciare quasi in ciascun d’essi co ’l principio della descrizion dell’aurora: quel che ’1 Boccaccio aveva fatto in diece giornate, per dimostrar maggior eloquenza nella maggior moltitudine delle descrizioni, le quali nel principio dei canti sono peraventura più lodevoli che i proemi morali, perché sono piene di maggior imitazione poetica».

l “a la famosa lettera a Tiziano del maggio 1544, presente in tutte le antologie aretiniane.

? In Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, cit., III, pp. 235-53. 34 Ivi, IV, pp. 13-26. 35 Scritti d'arte del Cinquecento, cit., I, pp. 863-900. 36 Si veda la sezione XIV (L'invenzione) degli Scritti d’arte del Cinquecento, cit., III.

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pittori di paesi e verzure» 7. E il Padoan, nel saggio già ricordato, mostra che certe scene mitologiche — le così dette «poesie» — sono rappresentate dal Cadorino con un gusto erotico che prescinde dal soggetto dichiarato. Il tipo più importante — s’intente, per quanto concerne il nostro discorso — è il secondo (descrizione di luoghi), non per i palagi, ville, giardini, città, che hanno una trattatistica specifica che ‘andrebbe esaminata a parte 38. E nemmeno per il paesaggio letterario che, attraverso la via maestra dell’imitazione di modelli stilistici, ha ormai uno statuto preciso nella cornice delle novelle, per esempio, o nei proemi dei dialoghi o ancora, come locus amoenus, in momenti di sosta della narrazione. Grazie specialmente alla misura breve della lettera il paesaggio anzi s'impone: lo si ritrova in forme simili nell’Aretino e nel Bembo ??. Anche nel verso la rappresentazione della natura prende sempre più spazio. Penso ai madrigali per un verso e per un altro a esperienze come quella di Galeazzo di Tarsia che fu poeta di figure e paesaggi in cui veniva riconoscendo e sublimando la sua forte carica affettiva. Ed è ravvisabile in ogni sede una tendenza, parallela a quella del ritratto, a rappresentare paesaggi precisi e inediti. Più complessa la situazione in pittura per il preconcetto che il pittore raggiunga l’eccellenza solamente rappresentando la figura umana nelle storie. Non mancano riconoscimenti episodici del paesaggio: la lode, per esempio, che il Giovio fa del Dossi ‘°. Lo stesso Vasari, pur nel contesto piuttosto banale della descrizione fenomenica della potenzialità espressiva della pittura, mostra, rispondendo all’inchiesta del Varchi, un fresco riconoscimento degli elementi paesistici che andrà perduto nelle Vite ‘. Di fatto, il paesaggio godeva dei

37 G. VAsARI, Le vite, a cura di G. Milanesi, VII, Firenze 1906, p. 429. Ed è sintomati-

co il commento del Milanesi: «I paesi, nei quali Tiziano finse le sue composizioni sono belli, che tra i pittori di storia non èvvene alcuno che in ciò lo superi».

così

38 Si vedano le sezioni XX (La città) e XXI (La villa) degli Scritti d'arte del CinquecenIOSECITO TLIS

39 Si vedano, per esempio, le lettere del Bembo relative al suo Noniano ad Agostino Foglietta del 6 maggio 1525 e a Clemente VII del 7 aprile 1530. 40 P. Giovio, Raphaelis Urbinatis Vita, in Scritti d'arte del Cinquecento, cit., 1 pi 18:

«Amoena namque picturae diverticula voluptuario labore consectatus, praeruptas cautes, virentia nemora, opacas perfluentium ripas, florentes rei rusticae apparatus, agricolarum laetos fervidosque labores, praeterea longissimos terrarum marisque prospectus, classes, aucupia, venationes, et cuncta id genus spectatu oculis iucunda, luxurianti ac festiva manu exprimere consuevit». La Barocchi, in nota, propone un confronto con il diverso elogio fatto dal Fornari nell'esposizione dell’Orlando furioso: «Ebbe in Lombardia titolo da tutti i pittori di contrafare meglio i paesi, o in muro o in olio o a guazzo, che pittor che fusse». Il Vasari dal canto suo riconosce implicitamente il genere paese, lodandone il Verdizzotti. 41 «E per questo disegno et architettura nella idea [l’arte nostra] esprime il valor dello intelletto inelle carte che si fanno, et in i muri e tavole di colore e disegno ci fa vedere glispiriti e sensi inelle figure e le vivezze di quelle, oltre contraffà perfettamente i fiati,ifiumi, i venti, le tempeste, le piogge, i nuvoli, le grandini, le nevi, i ghiacci, i baleni, i lampi, l’oscura notte, i sereni, il lucer della luna, il lampeggiar delle stelle, il chiaro giorno, il sole e lo splendor di quello» (in Scritti d’arte del Cinquecento, cit., I, p. 495).

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favori del mercato artistico: lo mostra la sua abbondante presenza nelle collezioni private. Con tutto ciò il gusto tosco-romano lo rifiutava come genere pittori co, e quello veneziano stava sulla difensiva. Il punto nodale della rappresentazione dello spazio era costituito dai «paesi» 0, meglio ancora, da quelli che venivano chiamati i «lontani» ‘4: era un fatto rivoluzionario, perché l’effetto illusionistico riduceva o addirittura annullava il rispetto della prospettiva e delle proporzioni. Il riconoscimento pieno viene da Paolo Pino: Non però voglio ch’il nostro pittore si inveschi in altre pitture che nel far figure a imitazione del naturale, ma sia questo il suo fondamento et il suo studio prencipale; e dietro a ciò ami grandemente il farsi pratico e valente nelli lontani, dil che ne sono molto dotati gli oltramontani, e quest’avviene perché fingono i paesi abitati da loro, i quali per quella lor salvatichezza si rendono gratissimi. Ma noi Italiani siamo nel giardin del mondo, cosa più dilettevole da vedere che da fignere; pur io ho veduto di mano di Tiziano paesi miracolosi, e molto più graziosi che li fiandreschi non sono. Messer Gierolemo bresciano in questa parte era dottissimo, della cui mano vidi già alcune aurore con rifletti del sole, certe oscurità con mille discrizzioni ingeniosissime e rare, le qual cose hanno più vera imagine del propio che li fiamenghi. Questa parte nel x pittore è molto propia e dilettevole a sé stesso et agli altri... 43

È un passo storicamente molto importante. Il Pino, sempre guardingo perché non lo si accusi di essere un pratico privo di scienza, questa volta esce allo scoperto, esaltando tardivamente quel motivo della visione lontana che era in certo senso alla base della poetica giorgionesca e che egli ritrovava nel Tiziano e nel suo maestro, il Savoldo. I lontani, forse per la prima volta, vengono lodati non come sfondi, come elementi accessori per conferire rilievo, solidità e corposità ai primi piani, ma come elementi dotati di una loro intrinseca bellezza. Qualche breccia si aprirà anche nella trattatistica toscana: nel Vasari, che nel Proemio alla terza parte delle Vite nota che ai pittori del Quattrocento tra le altre cose mancava «la lontananza e varietà ne’ paesi», e sopra tutto in Raffaello Borghini che nel Riposo fornisce indicazioni per la descrizione dei paesi, in cui si avverte l’eco delle osservazioni di Leonardo ‘. Sono così giunto al termine di questo troppo rapido abbozzo. Grazie alle trasformazioni subite dalla descriptio pittorica, si accelererà la gara fra letteratura e arti figurative che, iniziata ufficialmente dall’Aretino, si combatterà ad armi pari nelle età successive e sarà gravida di sviluppi tali da determinarne alcuni rilevanti tratti distintivi. 4 Per la precisa accezione tecnica di questo vocabolo, si veda S. SPERONI, Diglogo d'amore, cit., p. 543: «Questa vostra ragione è simile molto alle dipinture le quali noi vulgarmente appelliamo lontani, ove sono paesi per li quali si vedono caminare alcune piccole figurette che paiono uomini, ma sottilmente considerate non hanno parte alcuna che a membro d’uomo si rassomigli».

4 Dialogo di pittura, cit., pp. 1334. 44 Il passo del Vasari in Scritti d’arte del Cinquecento, I, p. 26. Per il Borghini si vedano nella stessa silloge le pp. 938-9 e le note relative.

DALL’IMITAZIONE AL «FURTO»: LA RISCRITTURA NELLA TRATTATISTICA E LA TRATTATISTICA DELLA RISCRITTURA Il fenomeno della-riscrittura nel Cinquecento fu quanto mai imponente. Basta pensare, per convincersene, alle molte redazioni attraverso cui nei primi decenni del secolo passarono opere assai diverse per genere e ispirazione (dal Libro de natura de Amore alle Prose della volgar lingua, dal Baldus all’Orlando furioso, dal Cortegiano ai Ricordi del Guicciardini) oppure più avanti nel secolo a imprese editoriali come quella ramusiana, ai commenti della Poetica aristotelica, alle traduzioni di opere antiche e moderne o ancora alla riscrittura coatta dovuta ai rigori controriformistici. Per non dire della parodia, dei rifacimenti, dei travestimenti e della stessa imitazione che, quando era troppo stretta, poteva cadere nell’eccesso in cui secondo il Bembo speroniano del Dizlogo delle lingue incorrevano i ciceroniani: che quanto scrivevano non era «altro che Cicerone trasposto più tosto da carta a carta che da materia a materia» !. Né mancava la riscrittura colpevole, il «furto» o peggio ancora il falso nei suoi vari aspetti: come prova di bravura, per prendersi beffe di qualcuno, per meglio dimostrare una tesi, per amor di paradosso, ecc. Questa varia fenomenologia — e non ho accennato che, casualmente, ad alcuni aspetti — dovrebbe essere discussa con precisa attenzione alla periodizzazione e alla diversità dei casi, delle opere, degli autori, dei personaggi, degli ambienti, delle tradizioni... Come materiale di lavoro per questo seminario, a costo di qualche forzatura o semplificazione io vorrei invece presentare alcune ipotesi che forse possono essere utili per cercare di dare una spiegazione unitaria non al fenomeno e alle sue manifestazioni ma alle sue peculiarità cinquecentesche. La riscrittura nel maturo Rinascimento mi sembra infatti, almeno in parte, giustificata e addirittura stimolata da una concezione della realtà condivisa da quasi tutta la trattatistica letteraria, alla quale soltanto intendo limitare le mie considerazioni. Non alludo a una dottrina filosofica ma a un diffuso modo di pensare e di sentire, a una We/tanschauung che, proprio perché non sempre consapevole, è accettata come cosa ovvia, indiscutibile, ineluttabile. Questa concezione è evidentissima, per esempio, nel Machiavelli. «Mi pare che tutti li tempi tornino, e che noi siamo sempre quelli medesimi», scrive nell'ottobre del 1525 al Guicciardini. E nei Discorsi: E’ si conosce facilmente, per chi considera le cose presenti e le antiche, come in tutte le città ed in tutti i popoli sono quegli medesimi desiderii e quelli medesimi omori, e come vi furono sempre (1,39);

1 Trattatisti del Cinquecento, a cura di M. Pozzi, I, Milano-Napoli 1978, p. 611.

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Sogliono dire gli uomini prudenti, e non a caso né immeritamente, che chi vuole vedere quello che ha a essere, consideri quello che è stato; perché tutte le cose del mondo, in ogni tempo, hanno il proprio riscontro con gli antichi tempi. Il che nasce perché, essendo quelle operate dagli uomini, che hanno ed ebbono sempre le medesime passioni, conviene di necessità che le sortischino il medesimo

effetto (III,43).

Queste e altre affermazioni non sottintendono, come alcuni invece hanno creduto, un’idea di imitazione assurda o inutile, ma una convinzione senza la

quale lo studio mento. Ci sono civiltà classica, del Machiavelli,

dell’antico non avrebbe il senso pregnante che ha nel Rinascianche umanisti che pensano a una restaurazione integrale della ma questo non è il caso né dei letterati più sensibili e acuti né il quale non pensa affatto che la realtà possa o debba «tornare»

identica. Accanto alle costanti, e ad esse intimamente connesse, stanno infatti le

varianti, come anche risulta dall’inizio del Prologo della Clizia: «Se nel mondo tornassino i medesimi uomini, come tornano i medesimi casi, non passerebbono mai cento anni, che noi non ci trovassimo un’altra volta insieme a fare le

medesime cose che ora». Mutano gli «individui» e con loro le lingue, le abitudini, le case, le armi, gli abiti, non i «casi», le passioni e i concetti dell'animo; perché gli uomini — per citare ancora i Discorsi (I,11) — «nacquero, vissero e morirono, sempre, con uno

medesimo ordine». Scrive il Borghini, vicinissimo al punto di rottura ma per questo ancora più attento a non cadere in affermazioni che possano apparire avventate: E’ parrà cosa incredibile o molto nuova a molti se io dirò che certi concetti in lingue diverse rieschino fra loro molto diversi e quasi alieni e poco avvenenti in quell’altra e dificili a dirsi e spiegarsi sì che e’ sieno i medesimi. Non che i concetti nell'animo non possino essere e non sieno in diversissimi popoli i medesimi; ché questo è certo che è, e chi ’l negasse sarebbe fuor della buona via [...] ?.

Gli uomini usano lingue diverse, ma ragionano e sentono tutti allo stesso modo, in ogni tempo e paese. Se la filosofia, dice il Peretto speroniano, mi rimproverasse d’aver tradotto Aristotele in volgare, io le risponderei:« Natura in ogni età, in ogni provincia e in ogni abito esser sempremai la medesima» ?. È questa convinzione che conferisce un senso sia allo scrivere per i posteri sia all’imitazione, che altrimenti potrebbero apparire entrambi quasi assurdi. Sbagliano — sostiene decisamente il Machiavelli nella prefazione al libro primo dei Discorsi — coloro che ritengono impossibile imitare gli antichi, «come se il cielo, il sole, li elementi, li uomini fussino variati di moto, di ordine

e di potenza, da quello che egli erono antiquamente». Se la natura è immutabile, non lo sono le arti, che sono creazioni umane.

? Dificultà del tradurre, in: Discussioni linguistiche del Cinquecento, a cura di M. Pozzi,

Torino 1988, p. 785.

3 Trattatisti del Cinquecento, cit., p. 629.

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Anche queste però si sviluppano secondo un processo naturalistico che non è illimitato e infinito. Nel processo conoscitivo la meta ultima e insuperabile è la verità, che si può solamente accogliere, analizzare e tutt'al più adattare a una nuova situazione storica; la crescita delle arti si arresta quando si perviene alla perfezione. Chi tenta di procedere oltre, non ottiene un ulteriore progresso ma innesca un processo di decadenza. Anche la perfezione, pertanto, non meno della verità, deve essere-mantenuta, se la si è raggiunta; ricuperata, se c’è stato un periodo di decadenza. È l’atteggiamento del Bembo e del Vasari, e non meno — come s'è visto — del Machiavelli, il quale — nel proemio dell’Arte della guerra, a proposito delle arti civili e militari — osserva che «se si considerassino gli antichi ordini, non si troverebbono cose più unite, più conformi e che, di necessità, tanto l’una amasse l’altra, quanto queste», mentre invece al suo tem-

po «per essere gli ordini militari al tutto corrotti e, di gran lunga, dagli antichi modi separati, ne sono nate queste sinistre opinioni, che fanno odiare la milizia e fuggire la conversazione di coloro che la esercitano»: E giudicando io, per quello che io ho veduto e letto, ch'e’ non sia impossibile ridurre quella negli antichi modi e renderle qualche forma della passata virtù, diliberai, per non passare questi mia oziosi tempi sanza operare alcuna cosa, di scrivere, a sodisfazione di quegli che delle antiche azioni sono amatori, della arte della guerra quello che io ne intenda.

E come per sottolineare che questa esigenza di ricupero della passata virtù si inserisce in un più generale movimento culturale, così scrive al termine del dialogo: questa provincia pare nata per risuscitare le cose morte, come si è visto della poesia, della pittura e della scultura [...]. E veramente, se la fortuna mi avesse conceduto per lo addietro tanto stato quanto basta a una simile impresa, io crederei, in brevissimo

tempo, avere dimostro al mondo quanto gli antichi ordini vagliono; e senza dubbio o io l’arei accresciuto con gloria o perduto sanza vergogna.

Il mito degli antichi si fonda su questa maniera di concepire lo svolgimento delle arti e delle scienze. Non presuppone di per sé un’età aurea ma l’esistenza nel passato recente o remoto di risultati, parziali o definitivi, dai quali sarebbe assurdo prescindere. Il Machiavelli (Discorsi, II, Proemio) ritiene il mondo sempre essere stato ad un medesimo modo, ed in quello essere stato tanto di buono quanto di cattivo; ma variare questo cattivo e questo buono, di provincia in provincia: come si vede per quello si ha notizia di quegli regni antichi, che variavano dall’uno all’altro per la variazione de’ costumi; ma il mondo restava quel medesimo. Solo vi era questa differenza, che dove quello aveva prima allogata la sua virtù in Assiria, la collocò in Media, dipoi in Persia, tanto che la ne venne in Italia eda Roma; e se dopo lo Imperio romano non è seguìto Imperio che sia durato, né dove il mondo

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abbia ritenuta la sua virtù insieme; si vede nondimeno essere sparsa in di molte nazioni dove si viveva virtuosamente

[...].

A questo tentativo di conciliare l’immutabilità del mondo e della natura con la varietà delle vicende storiche, il Guicciardini nelle Considerazioni replica affermando che «corrono talvolta certe età nelle quali non solo in una provincia, ma universalmente in tutto el mondo è più virtù o più vizio che non è stato in una altra età, o almanco fiorisce più una arte o una disciplina che non è fiorita in qualunque parte del mondo in altro tempo»: E per cominciare a quelle meccaniche di che fa menzione lo scrittore, chi non sa in quanta eccellenza fussino a tempo de’ greci e poi de’ romani la pittura e la scultura, e quanto di poi restassino oscure in tutto el mondo, e come doppo essere state sepolte molti secoli siano da centocinquanta o dugento anni in qua ritornate in luce? Chi non sa quanto a’ tempi antichi fiorì non solo appresso a’ romani, ma in molte provincie la disciplina militare, della quale e tempi nostri e quelli de’ nostri padri e avoli non hanno veduto in qualunque parte del mondo se non piccoli e oscuri vestigi? El medesimo si può dire delle lettere, della religione, che sanza dubio in alcune età sono state sepolte per tutto, in altre sono state in molti luoghi eccellente e in sommo prezzo. Ha visto qualche età el mondo pieno di guerre, un’altra ha sentito e goduto la pace; dalle quali variazione delle arte, della religione, de’ movimenti delle cose umane, non è

maraviglia siano anche variati e costumi degli uomini, e quali spesso pigliano el moto suo dalla instituzione, dalle occasioni, dalla necessità. È adunche vera conclusione che

non sempre e tempi antichi sono da essere preferiti a’ presenti, ma non è già vero el negare che una età sia qualche volta più corrotta o più virtuosa che l’altre.

L’atteggiamento del Guicciardini è ben diverso da quello del Machiavelli; ma la differenza sta piuttosto nel punto di vista che nella concezione di fondo. La sua è una variante, interessantissima, di un comune modo di sentire. Anzi è

lui a sostenere che sono esistite età più «virtuose» di altre, anche se un’acuta e quasi tragica percezione dei limiti umani non gli consente di nutrire alcuna fiducia nella capacità di statisti e condottieri di trarre un qualche insegnamento dalla storia. Nella comune We/tanschauung ci sono infatti molte sfumature. Si discute se in tutti i campi l’antichità greco-romana abbia raggiunto la perfezione; anzi se abbia conosciuto tutte le arti (o generi) e svolto tutte le umane

possibilità. Non solo. Possono anche esserci forti discordanze sull’identificazione dei momenti culminanti, e consistenti differenze nella distinzione fra ciò che

è essenziale, e non muta, e ciò che è prodotto dell’attività umana e dunque è soggetto a un moto perenne di trasformazione, e ancora sulla possibilità di scoprire le leggi di questo moto. Alcuni tendono a non distinguere, così che la maniera perfetta andrebbe imitata in ogni particolare, persino nel modo di salutare o di vestire: per questa via si va verso la «copia» e l’involontaria degradazione dei modelli. Il Trissino, per esempio, ritiene che si debba trasferire al volgare la struttura stessa delle opere greche; al contrario il Bembo pensa che dagli antichi si debba prendere solamente il senso dell’arte e del bello, accogliendo invece le forme moderne, fra le quali peraltro occorre individuare

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quelle che per la loro eccellenza sono da imitare: eccellenza che, secondo il Bembo, non esclude un superamento, raggiungibile però solamente in una stretta gara con i modelli. Malgrado i vari atteggiamenti e le molte differenze nel considerare questo o quel problema resta abbastanza salda la convinzione di cicli definiti o definibili. In qualche caso si ritierie di essere ancora nella curva ascendente. Per lo più però si pensa che la verità sia già nota e la perfezione raggiunta; e questa convinzione, naturalmente, cresce a mano a mano che ci si inoltra nel secolo finché sembra che quasi tutto sia stato detto, definito, condotto al culmine. Aristotile, di solito, non è considerato solamente «il maestro di color che sanno» ma colui che ha dato fondo a tutto quanto può essere conosciuto con la ragione. «La natura, quando produsse Aristotile, volle (secondo che testimonia più volte il grandissimo Averroìs) fare l’ultimo sforzo d’ogni sua possa, onde quanto può sapere naturalmente uomo mortale, tanto seppe Aristotile». Così scrive il Varchi 4, al quale sembra anche che Dante «sapesse tutte le cose e tutte le dicesse» ?: donde l’atteggiamento degli intellettuali fiorentini che considerano il commento a Dante una sorta di riscrittura della Comedia in cui vengono esplicitate, glossate e dottamente svolte le nozioni presenti nel poema. Ma Aristotile non è il solo ad aver detto parole definitive e Dante l’unico che ha realizzato una surzzza di tutto lo scibile. Nei vari campi i libri sacri, la tradizione della Chiesa, Ippocrate, Galeno, Euclide, le Pandette, Petrarca, Boccaccio, Cicerone, Virgilio, Michelangelo, il Furioso sembrano sempre più restringere i margini dell’inventio e limitare il lavoro dell’intellettuale alla riscrittura. Inevitabili i moti di fastidio. I letterati sentono l’aridità e la ripetitività delle scienze dimostrative e della giurisprudenza; altri fanno del sarcasmo sul vano gioco dei poeti che sono capaci soltanto di ripetere il già detto, che si limitano a infilzare parole. Non mancano ribellioni e accuse. Ma tutti — sia chi ripone l’essenza dell’uomo nella ragione, sia chi insiste sull’arte del persuadere e quindi sull’elocutio — appartengono alla medesima civiltà, vedono le cose con i medesimi occhiali colorati che, s'intende, ignorano di avere. E appunto mettendo tutti insieme, il Doni in una pagina famosa — il proemio del secondo trattato della

Libraria — dichiara la vanità del lavoro degli intellettuali. «Quei primi che scrissono — egli sostiene — presono i passi e in poco tempo abbracciarono ogni cosa»; quelli che sono venuti dopo, pertanto, si son dovuti accontentare di leggere ciò «che hanno armeggiato gli altri, e pigliando un boccon di stracciafo-

glio da uno, e da un altro un’imbeccata di carta, ora infilzando sei parole e ora rappezzandone quattr’altre, facevano un libretto per non dir libro o libraccio». La condizione dei moderni, del Doni stesso, è dunque disperata:

Noi altri ci mettiamo inanzi una soma di libri, nei quali ci son dentro un diluvio di parole; e di quelle mescolanze ne facciam dell’altre; così di tanti libri ne caviamo uno.

4 Ercolano, Firenze, Giunti, 1570, pp. 15-6. 5 Ivi, p. 36.

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Chi vien dietro piglia quegli e questi fatti di nuovo, e, rimescolando parole con parole, ne forma un altro anfanamento e fa un’opera.

Non si può far altro che giocare con le parole. «Così si volta questa ruota di parole sotto e sopra mille e mille volte per ora»; eppure non si riesce a dire nulla di nuovo, «pur non s’esce dell'alfabeto, né del dire in quel modo e forma e le medesime cose, mi farete dire, che hanno detto tutti gli altri passati; e di qui a parecchi secoli si dirà quel che diciamo noi ancora»: Ecco adunque i nostri cervelli dove si vanno mulinando, ecco dove si perde il tempo e dove si getta via la giornata: in fregar carta, voltar fogli, consumar la vista, straccarsi la lingua, stemperarsi lo stomaco, affaticarsi il cervello e diventar pazzo con questo benedetto leggere e scrivere.

A parte l’umor nero, era questa la communis opinio. Claude Gruget, il traduttore francese dei Dizlogi dello Speroni, a coloro che avrebbero preteso da lui non traduzioni (e per di più dall’italiano, lingua considerata inferiore) ma «quelque bonne invention», ribatteva con «le commun proverbe qui dit, riens n’estre dit è present qui n’ait esté dit paravant. Aussi quand on voudroit exactement rechercher ce qu’au iourd’huy on apelle invention l’on trouveroit que plustost se doit nommer adicion ou interpretacion sur les premiers labeurs d’autruy que vraye invention» °. Non occorre, credo, insistere. I trattati del Cinquecento sono pieni di dichiarazioni di questo genere, ma per lo più prive di qualsiasi senso di angoscia. Le limitazioni sono accettate serenamente, come si accettano le cose ineluttabili, la vita, la morte, la vicenda delle stagioni. Del resto, riscrivere non significa necessariamente copiare, riprodurre meccanicamente; i migliori, come si è detto, sanno distinguere l’essenziale dall’accidentale e quindi biasimare chi confonde i vizi di un’età con i pregi intrinseci di un’opera o di una dottrina, come per esempio, secondo il Giraldi Cintio, ha fatto il Trissino nell’Italia liberata da’ Gotti: Dunque, come l’età di Omero e i costumi di que’ tempi, e le singolari virtù che si trovano in questo divino poeta, fecero tollerabili quelle cose in lui, così ora ciò fare non sarebbe altro che voler scegliere dall’oro del suo componimento lo sterco (il quale non per vizio del poeta ma!dell’età.e del tempo ci si trappose) e pensare di averne scelto l’oro purissimo, come si può vedere nell’Italia del Trissino ”.

Riscrivere il passato, dopo un’epoca di decadenza, significa riprendere la via della perfezione; comporta un incisivo desiderio di rinnovamento, una concreta volontà di trasformazione, non statica continuità e conservazione: richiede una

6 Trattatisti del Cinquecento, cit., p. 1182. 7G. B. Girarpi

Cinto,

Discorso intorno al comporre dei romanzi,

cura di C. Guerrieri Crocetti, Milano 1973, p. 63.

in Scritti critici, a

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attualizzazione dell’insegnamento degli antichi per renderlo consono ai tempi nuovi, alla costruzione di una civiltà capace di ricuperare l’essenza di quella

antica senza esserne copia. La riscrittura dell’antico è, in questo caso, condicio

sine qua non del progresso, come sostiene il Machiavelli, che nel proemio al libro primo dei Discorsi indica l'originalità della propria opera nel tentativo di estendere l’imitazione= prima riservata alle arti figurative, alla giurisprudenza, alla medicina — all’arte dello stato. Chi vuol comprendere la realtà, poiché questa è sempre la stessa, deve rifarsi alle «esperienze fatte dagli antiqui», che si possono leggere nelle pagine di storici e trattatisti: deve però coglierne l’essenza, non solo il diletto della forma o della «varietà degli accidenti». Cito di preferenza il Machiavelli, perché il suo esempio mostra chiaramente che non solo i divulgatori o i ripetitori più o meno passivi ma anche e sopra tutto gli ingegni più acuti e originali riscrivevano il passato; anzi che le opere più notevoli sono quasi sempre quelle in cui più robusto è l’incontro dell’«esperienzia delle cose moderne» con la «lezione delle antique». Ai letterati la situazione delle scienze dimostrative appare tuttavia scoraggiante. L’immobilismo sembra davvero eccessivo: pertanto o se ne disinteressano sdegnosamente o difendono i moderni contro l’idolatria dell’antico e dei testi in cui si crede sia depositata la verità. «Seguendo l’altrui giudicio — dice il Peretto nel Dialogo delle lingue dello Speroni — altra cosa non viene ad essere questa moderna filosofia che ritratto di quell’antica; però così come il ritratto, quantunque fatto d’artificiosissimo dipintore, non può essere del tutto simile alla idea, così noi, benché forse per altezza d’ingegno non siamo punto inferiori agli antichi, nondimeno in dottrina tanto siamo minori quanto lungo tempo stati sviati dietro alle favole delle parole, coloro finalmente imitiamo filosofando, alli quali alcuna cosa aggiungendo dee avanzare la nostra industria» £. Ma non contesta la necessità di assimilare il pensiero degli antichi; sostiene soltanto che, risparmiando i troppi anni spesi nello studio delle lingue, si può aggiungere qualcosa alla dottrina ereditata. A così poco dunque sembra ridursi la possibilità di superare i predecessori. Non molto di più, nella seconda metà del secolo, concede il Paruta. Nel dialogo Della perfezione della vita politica Daniele Barbaro presenta un consuntivo tutto in perdita di mezzo secolo di trattatistica volgare ®. Gli scrittori moderni — afferma — hanno copiato, non imitato, gli antichi; pertanto, come i pittori privi di arte e di ingegno, ci fanno perdere tempo e fatica proponendoci opere «nelle quali niuna cosa recata ci hanno che l’istessa a punto in ogni sua parte non si vegga meglio espressa in molti degli antichi auttori, da’ quali i soggetti interi, e delle medesime forme vestiti, prendendone, ne hanno tessute e fornite quell’opere che, come proprii componimenti, al mondo appresentarono». Questo è il caso della copia, riconoscibilissima — secondo il Barbaro —

8 Trattatisti del Cinquecento, cit., p. 622.

9 Della perfezione della vita politica, in: Storici e politici veneti del Cinquecento e del Seicento, a cura di G. Benzoni e T. Zanato, Milano-Napoli 1982, pp. 531-5.

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perché non conserva l’artificio dell'originale e niente aggiunge di «eccellenza o vaghezza». Nessun vantaggio ricevono le scienze da scritture di questo genere: Laonde ne segue che la facultà civile si stia ancora dentro a quei stretti termini rinchiusa nella quale gli antichi la ci lasciarono, non avendo i moderni né aggiunto nove cose, né pur dato maggior lume a quelle poche che dagli antichi trovarono scritte.

Qual è allora la buona imitazione? Intanto secondo il Barbaro è indispensabile tener conto della «gran variazione de’ tempi e de’ costumi, a cui deono le nostre azzioni esser accomodate»; per questa variazione le opere antiche, anche se fossero chiarissime (ma per lo più non lo sono), «non ponno né intendersi né porsi ad uso senza minuta e diligente considerazione». Ma sopra tutto occorre evitare che, per un’eccessiva imitazione degli antichi, si riesca da loro diversissimi; infatti

i

ove quelli veggiamo non d’una stessa maniera tutti, ma diversamente, secondo la diversità delle sette nelle quali divisi furono, aver filosofato, e, di varie dottrine trattando, non a guisa di istrioni nelle scene aver recitato quello puntalmente che

dall’altrui essempio dettato loro fusse, ma, con diligenza ciascuna cosa considerando, averne dimostrata la ragione per cui o seguire o rifiutare questa o quell’altra si dovesse, noi ora, altrimenti facendo, vegniamo a seguire norma diversa da quella che inse-

gnata ci fu da’ veri antichi maestri, i quali mai non volsero dell’altrui auttorità far legge a se stessi: come noi facciamo, che, senza voler altro cercarne, molte volte maggior fede prestiamo alle cose perché dette l’abbia Aristotele o Platone, che perché vere siano [...].

La «più vera maniera d’imitazione» consiste nel non fermarsi alla lettera degli antichi ma indi agli occulti misterii che ne stanno ascosi passando, cercar di penetrare quanto più si può adentro di quella verità la quale si dilettarono quei due di lasciarne, l’uno in molti dubbii involta, l’altro sotto varie figure coperta, forse per dare a’ posteri alcuna materia di dover ancora essi essercitar l'ingegno.

La vera riscrittura non solo arricchisce il volgare e lo rende lingua delle scienze ma integra e completa la lezione degli antichi, come conferma l’intervento di monsignor Mocenigo, il quale adduce proprio l’esempio del Barbaro, il quale, impiegando le sue fatiche in parte ove riuscir possano di gran beneficio agli studiosi e di onore a questa nostra lingua et a questa età, nella quale ella tuttavia cresce e si va facendo più bella, s'ha pigliato a scrivere di quelle cose nelle quali ci furono molto scarsi gli studii degli antichi, e d’esse scrittone in tal maniera, che si può dire che egli abbia non pur recato loro maggior chiarezza, ma, di morte che elle erano prima, ritornatele a nuova e miglior vita. Ché non è alcuno che legga ora Vitruvio dal latino nel nostro volgar idioma da lui portato et, in molte parti dianzi oscurissimo, illustrato e dichiarato, che non conosca tutto quel frutto che da tale opera al presente

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si tragge, dalla molta diligenza e dall’accorto giudizio dello ispositore doversi in gran parte riconoscere.

Il progresso dunque avviene sopra tutto con la riscrittura, purché questa dia luogo non a copie ma a quelle nuove acquisizioni che si ottengono correggendo, chiarendo e sopra tutto rendendo esplicita la lezione del passato in tutte le implicazioni e conseguenze. E questo si può e si deve fare sia perché il messaggio degli antichi deve essere attualizzato sia perché (vien da dire: per fortuna) Aristotele e Platone non hanno esposto la verità in modo chiaro (se l’avessero fatto, davvero i posteri non avrebbero più avuto materia per esercitar l’ingegno).

La convinzione che la natura sta e non muta nei letterati più acuti non determina passività o presunzione di incontrare copie esatte di fatti già avvenuti o persone già esistite; implica invece la possibilità di superare l’atomismo dei singoli eventi e fenomeni per tentare di scoprire le leggi dell'umano operare. È quello che, per esempio, fa il Machiavelli; ma, per semplificare il discorso, preferisco soffermarmi su un intellettuale meno complesso e su una questione più elementare: Vincenzio Borghini e la natura delle lingue. Il Borghini sostiene che ogni lingua è dotata di una struttura individua ed è frutto della storia irripetibile del popolo che la parla; pertanto ritiene difficile, anzi impossibile, la traduzione. Eppure anche lui è convinto che tutti gli uomini nelle stesse condizioni e nelle stesse circostanze agiscono all’incirca nello stesso modo, che la natura è uguale sempre, in ogni luogo e in ogni tempo, e che l’universo è regolato da leggi fisse e immutabili. Questa concezione può tranquillamente coesistere con un acuto senso dello svolgimento storico e dell’originalità di ogni esperienza umana appunto perché egli sa distinguere fra natura e arte, fra essenza e accidenti. Se si bada all’arte, cioè alla forma, la comparazione fra le lingue non è solo vana ma pericolosa: rischia infatti di porre il volgare sul letto di Procuste del latino o di altre lingue. La comparazione è invece possibile, anzi utile, se si bada alla natura. Il Borghini infatti ritiene che le lingue abbiano una natura «talmente vicina e parente che i medesimi accidenti, proprietà, successi, avvenimenti, sieno dell’une che dell’altre» !9: Le cose che hanno la medesima natura par sempre che abbino i medesimi accidenti, e questo è secondo la ragione e natura universale di tutte le cose; imperò non è maraviglia se gli è accaduto alla lingua nostra così nella nascita sua come nel progresso e

augumento quel che accadde prima alla greca e poi alla latina [...]!!.

C'è dunque una sorta di parallelismo fra le lingue, che però non riguarda mai i fatti formali. Frutto della comparazione è l’individuazione dei fenomeni propri a tutte le lingue: esistenza di meccanismi formali senza i quali la comunicazione non può avvenire; presenza di voci nuove, forestiere, arcaiche; coniazio10 Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, ms. II.X.110, c. 72. 11 Ivi, ms. IIT.X.116, c. 630.

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ne di nuove parole per mezzo di metafore; continuità, malgrado l’evoluzione da una primitiva rozzezza alla perfezione; distinzione fra prosa e poesia e, in genere, fra piani e toni espressivi; rapporti lingua-scrittori e scrittori-popolo; ecc. Il Borghini, pertanto, è incline a credere che «la lingua abbia regole naturali»:

essendo le cose della natura ordinate e regolate, e essendo l’ufizio de’ nomi, dico nomi per voci e non propriamente, esplicare essa natura e suoi effetti ecc., necessariamente saranno anche queste voci, che hanno a corrispondere a cosa regolata, regolate. Però, essendo nella natura le cose proprie e come sustanzie, la lingua ha trovato le voci proprie, che significano le sustanzie: pare, vino, pietra, acqua, ecc.; essendo poi le azioni ecc., ha trovato i verbi; sendo e questi e quelli divisi in più particular considerazioni, come di tempi, di numeri, di genere, anche la lingua o per necessità o per natura ha trovate nelle sue voci queste differenzie. E sono generali perché non è lingua al mondo che non convenga in questo, e tutte hanno i nomi, i verbi, mastio e femina, e

molte, perché questa cosa del sesso non è o non è conoscibile in tutti, vi hanno aggiunto quel che con voce latina si chiama neutro !.

Le fondamentali categorie grammaticali, senza le quali pare che la lingua non possa adempiere la sua funzione, sono in tutte le lingue. Il toscano quindi possiede nome e verbo, non perché li abbia presi dal latino, ma perché ogni lingua deve necessariamente averli: verbo, nome, pronome, articolo sono dalla natura stessa che, dandoci la voce perché

esprimiamo le cose sue, ci ha sforzati a trovare i nomi corrispondenti alle cose stesse; e essendo nella natura la sustanzia e gli accidenti e fra gli accidenti, verbigrazia, l’operare, le qualità ecc., però ci sono necessarii per la sustanzia i nomi, per l’operare i verbi, per la qualità gli avverbii, e va discorrendo [...]. Or questo viene da natura, né si può mutare da noi, né aggiugnere un’altra spezie di voci; ma esse voci son bene in arbitrio nostro, e dire paze o chiamarlo gollo e nione, pur che ci accordassimo che volesse dir quello, poco importerebbe. E però i Greci, Latini, Ebrei, infino nel mondo nuovo,

hanno nomi e verbi ecc. Ma i nomi e verbi son ben differenti, come si sa [...] !.

L’arbitrarietà non è propria, come forse potrebbe sembrare, del solo segno linguistico, ma riguarda insieme la maniera di designare le cose e le forme grammaticali. La natura impone solo di indicare in qualche modo quella cosa che noi chiamiamo pare, e l’azione compiuta mangiandolo, e qualsiasi altro particolare: se è ben cotto, se ci piace, che forma ha, ecc.; ma a queste necessità di natura ogni lingua risponde in modo del tutto autonomo, secondo le proprie strutture formali e condizioni storiche. Il latino fa a meno dell’articolo e il volgare dei casi; l’uno e l’altro però hanno trovato la maniera adeguata per sopperire alle proprie apparenti manchevolezze:

12 Ivi, ms. II.X.85, c. 69. 13 Ivi, ms. II.X.117, cc. 39-40.

DALL’IMITAZIONE

AL «FURTO»

DI

l'intenzione della natura è dare a tutte le cose sue, quanto ella può, tutto quello che al bene essere di quella cosa si appartiene, e potendolo fare anche più lo fa, e se li manca si ingegna aiutarsi con tutti gli aiuti estrinsechi che ella può. Ma ne’ capi principali non manca mai, ché, se pur manca, manca negli aggiunti e questo dove più e dove meno, e in un paese, in una aria, in una terra più che in un’altra manca o abonda. Vedete le vite e piselli, che perché non,si reggono gli dà i viticci ecc.; le capre, montoni ecc. non mancono del sesso, degli occhi, bocca ecc. in luogo alcuno del mondo; ma ne l’Elba hanno quattro corna, qui da noi due; più alto alle montagne ve n'è senza [...].

Ora, poiché «l’intento della natura nella lingua è di esprimere i concetti de’ l'animo e più chiaramente e distintamente ch’ella può», fornisce a tutte le nazioni «le voci abastanza per le cose che hanno», nonché tutti gli elementi morfologici e sintattici necessari per ‘legarle insieme: «Dipoi il combinare e comporre insieme; e a questo bisogna di molte cose, e come nel murare non basta avere i sassi dalla natura, ché molti ne bisogna spezzare e riquadrare ecc., che non quadrerrebbono altrimenti nella muraglia e bisognavi delle schegge e della calcina che gli tenga insieme; così ha bisogno la lingua di preposizioni, casi, numeri, ecc. E qui è stata la natura più e manco cortese, credo io, come

ella ha potuto o l’ha patito il subbietto. I Greci (come le bestie de l’Elba han quattro corna) hann’un numero più dell’altre lingue, che naturalmente torna bene a loro, che non fa così agli altri, ma questo sia un paio di corna più, che senza si fa e si difendono i nostri montoni ecc. in ogni modo» 4. Al trattatista, quale che sia l'argomento di cui si occupa, resta dunque un’ampia possibilità di indagine: da una parte la ricerca delle «leggi universali», dall’altra le peculiarità individuali, la forma, i nuovi «generi» e le nuove produzioni umane. Si procede alla fondazione di un classicismo volgare, perché si crede nella possibilità di estrarre la vera essenza delle opere classiche; più avanti nel secolo, si lavora con entusiasmo alla fondazione di una scienza della

letteratura, perché non si è turbati da relativismi e scetticismi. Ma diffusa è anche l’attenzione, più o meno viva, più o meno sicura, per l’individualità, per gli elementi contingenti in cui si traduce e si concretizza l’operare umano, di per sé immodificabile. Ed è in questo ambito che gli intellettuali del Cinquecento più tenacemente difendono la loro originalità. Se si tratta di una nuova struttura metrica o di un nuovo genere letterario, di lettere nuovamente aggiunte o di un’analisi dei fonemi volgari, di osservazioni grammaticali o anche dell’esegesi di un passo controverso, le accuse di «furto» non si contano. Tutti tengono al loro eventuale primato, anche quelli che producono con i ritmi che consigliava Orazio: sintomatica è l'accusa di «furto» rivolta al Bembo e da questo rilanciata contro il Fortunio, che non aveva nascosto il proprio orgoglio di essere sceso per primo nell'arena della grammatica volgare. Assai meno forte è invece la rivendicazione dell’originalità quando si tratta della scoperta di leggi o norme che riguardano la «natura». Anzi la fortuna di un testo si misura dalla capacità di tradurre la sua concezione di fondo in parola d’ordine, dal suo divenire 14 Ivi, ms. II.X.117, cc. 13-6.

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proprietà comune, così come proprietà comune

erano diventati Aristotele e

Platone, Cicerone e Quintiliano, Petrarca e Boccaccio. Non si dà furto riscriven-

doli, perché si tratta di testi e di argomenti che tutti conoscono: e del resto che cosa si può fare se, in quest'ambito, la verità e la perfezione non consentono superamenti o deviazioni? Furto o plagio o copia o ritratto si ha dunque quando l’originale viene riprodotto tale e quale, nei suoi elementi contingenti sopra tutto. È ciò che sostiene il Paruta, secondo il quale però il volgare diventa lingua delle scienze solo se in esso si leggono cose che non si trovano nelle altre lingue: il Vitruvio del Barbaro è più, molto di più, dell’autentico Vitruvio. Nel primo e nel maturo Cinquecento — sia pure con accentuazioni assai diverse — le cose hanno una ben diversa apparenza. Il volgare dà o sembra dare di per sé altro significato e valore a contenuti già espressi in latino o in greco. È la consapevolezza di un diverso pubblico, è la percezione (più o meno limpida) dell’esistenza di «classi» che difendono un monopolio culturale e religioso fondato sul latino, è perché — come sostiene il Borghini — ogni lingua ha sue virtù particolari, fatto sta che anche la semplice traduzione comporta o sembra comportare un acquisto, qualcosa di nuovo. Il concetto rinascimentale di traduzione, del resto, è diverso dal nostro e implica attenzione e rispetto, più che per l’originale, per la lingua e la cultura riceventi: più che tradurre è riscrivere, in quanto contiene implicita la possibilità di far violenza all’originale, sopprimere, aggiungere, glossare, adattare, ecc. Le parafrasi, le riduzioni, le censure di vario genere, i travestimenti, gli

interventi su opere recenti e lontane vanno ricondotti, almeno in parte, al desiderio di trasformare il passato in presente, di ricuperare per i contemporanei le conquiste dei predecessori. Non è dunque solo per immatura filologia che le traduzioni spesso comportano attualizzazioni; è sopra tutto per la necessità di tener conto, come voleva il Paruta, della «gran variazione de’ tempi e de’ costumi», per giungere a una vera

assimilazione di opere composte nel passato e in altre lingue; insomma perché non tanto si desidera una corretta conoscenza del passato quanto arricchire la civiltà presente. E la traduzione, assai spesso, anche formalmente dà una nuova veste all’originale, che riceve un'ambientazione moderna o viene inserito in un contesto diverso. Si rilegga, per esempio, l’opera affabile e limpida del Lenzoni; ci si accorgerà che egli sostanzialmente traduce Cicerone e Quintiliano, limitandosi a riorganizzare i passi secondo un nuovo disegno e riferendoli non più al latino ma al fiorentino. Il risultato è buono, perché, riscrivendo gli antichi, il Lenzoni giunge a dire cose nuove e corrette sulla propria lingua: le parole di Cicerone e Quintiliano sembrano felicemente trovate per descrivere — per la prima volta — la natura ritmica della prosa volgare. Altrettanto si può dire del Du Bellay, che non mostra scrupoli nel riscrivere un’operetta recentissima come il Dialogo delle lingue dello Speroni. Plagio? E perché mai se le parole dello Speroni sono le più adatte per difendere il francese? Del resto, il Du Bellay, trasferendo al francese quanto è stato scritto per l’italiano, non fa che seguire l'esempio degli italiani che, a partire da Dante, per difendere la propria lingua

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hanno riscritto gli argomenti e i ragionamenti di Cicerone in favore del latino e contro il greco. Diverso mi sembra il caso della grammatica del Giambullari, che nella parte morfologica si rivela un pesante calco del De emendata structura latini sermonis del Linacro. Non c’è niente di male, certo, nel fondare la grammatica volgare su quella latina; anzi non si poteva fare diversamente. Ma mentre il Bembo opérà con estrema discrezione, evitando persino di usare la terminologia grammaticale per non far pesare sul volgare l’ipoteca del latino, mentre i fiorentini e i toscani in genere per lo più comparano le due lingue con l’intento di cogliere la diversità delle strutture, il Giambullari letteralmente riscrive, talora persino traducendo gli esempi, una grammatica assai sofisticata, complicata da un sistema classificatorio sottilissimo, che mal si adatta alla descrizione di una lingua di cui ancora si debbono cogliere i tratti essenziali. E questo ancor più stupisce e sgradevolmente sorprende se si ricorda che il Giambullari sembrava tanto preoccupato dell’autonomia del volgare da «ritrovarne» l’origine nell’aramaico. Nei trattati linguistici si ha il ri-uso di considerazioni sul latino e il greco per spiegare le caratteristiche di un’altra lingua. Non diverso è il caso di chi muove dal De oratore o dal De offictis per scrivere sul comportamento; tutto sta, al solito, nel saper distinguere ciò che appartiene all’«uomo» e ciò che invece è proprio dell’individuo e, magari, è solamente un suo vizio o difetto. Pochissimo di originale c’è, per esempio, nei Capricci del Gelli, o meglio c’è quello che più importa, cioè la capacità di estrarre il senso vero di una pagina di Plutarco o Ficino, quel tono che è solo suo e che assimila perfettamente le parole altrui, le fa proprie fino al punto di poterle maliziosamente ribaltare e correggere. E il Gelli, del resto, non riscrive solo scrittori latini, riscrive continuamente anche sé stesso, travasando pagine da una lezione a uno scritto autonomo o viceversa, senza che quasi mai si avverta uno scarto. C'è in lui, come in tanti altri, la convinzione dell’importanza del riscrivere, non cosa vana, come sembrava al Doni in un momento di malumore, ma strumento essenziale

di conquista culturale e sociale. Né la dipendenza dall’antico implica necessariamente l’obbligo di cercare fonti o autorizzazioni. Lisandro, secondo quanto più volte riferisce Plutarco (per es., Lis.,7), raccomandava agli uomini politici di saper agire da volpi quando non basta essere leoni, cioè di non aver timore del tradimento. Questo precedente diminuisce forse in qualche modo l’originalità e la potenza dell'immagine machiavelliana? «La natura, quae agit certis de causis — avrebbe potuto rispondere il Borghini — è sempre la medesima e così nascono gl’uomini a’ tempi nostri come facevano mille anni ha, e così in Italia come in India». Perciò, egli sostiene, bisogna andar cauti nel cercare le fonti di questo o quel fatto o il debito di uno scrittore da quelli che lo hanno preceduto. Non basta scoprire che una cosa detta o fatta ai giorni nostri è la medesima o è molto simile a una detta o fatta nel passato perché si possa concludere: «Ell’è imparata dal tale o dal quale». Non è per imitazione di coloro che sono vissuti prima di noi che impariamo a piangere e a ridere, a cantare e ad apprezzate la musica; queste e altre cose gli uomini le fanno spontaneamente perché così

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vuole la loro natura ’. Così la stessa idea di fissità consente agli intellettuali di superare quanto di rigido e di meccanico vi è nella loro visione del mondo e di comprendere la diversità delle situazioni storiche. Consente di cercare qualcosa che sia a un tempo aliud et idem, spesso con una fiducia e con un entusiasmo che fanno dimenticare o quanto meno rendono gradevole il suono di parole già udite. Ed è anche per questo entusiasmo che i trattati cinquecenteschi per lo più sono più vivaci e omogenei di quelli del tardo Quattrocento o degli inizi del secolo, quando il volgare era usato ancora senza convinzione, senza capire che — come si è detto — l’uso di una lingua diversa rende, almeno

parzialmente, diverso il messaggio. La riscrittura nel periodo a cavaliere fra Quattro e Cinquecento — penso, per esempio, all’Arteros del Fregoso o al Libro de natura de Amore dell’Equicola — non nasce da un convinto desiderio di appropriarsi delle opere del passato per riambientarle e riutilizzarle; i passi altrui sono esibiti e talora giustapposti con singolari effetti camaleontici quando, come fa l’Equicola, si lascia a ciascuno il suo stile e la sua lingua. I trattatisti tardo-quattrocenteschi sembrano ossessivamente preoccupati di accumulare nozioni e citazioni, forse anche per superare in tal modo la presunta insufficienza del volgare. Anche nel pieno Rinascimento non mancheranno le compilazioni enciclopediche, ma a partire dagli Asolani le res perdono d’importanza. L’invenzione — per ripetere le parole del Gruget — non è altro che «adicion ou interpretacion sur les premiers labeurs d’autruy»; questa constatazione, però, ormai non genera più inquietudini, perché altro è ciò che sta a cuore ai letterati. Sul finire del secolo Giason De Nores, per esempio, pensa che sarebbe vana presunzione la sua se ritenesse di poter «recar cose non dette da altri nel celebrare una Republica durata per milleduecento anni e in varie occasioni tutto dì esaltata da tanti uomini dottissimi, i quali non hanno lasciato cosa alcuna in sua commendazione che non l’abbiano diligentemente e spiegata e considerata». Nel suo Panegirico in laude della Serenissima Republica di Venezia, pertanto, scrive «cose per il più comunissime e molto prima addotte [...] da

infiniti altri»; proclama però risentitamente di averle fatte proprie disponendole e adattandole «con artificioso compartimento» !9.. Gli restano soltanto la dispositio e l’elocutio. Troppo poco per un uomo dei nostri tempi; più che abbastanza per un intellettuale del Rinascimento che vede nell’elocutio la più alta virtù dell’uomo. I letterati sono convinti che l’«artificioso compartimento» consente di comunicare qualcosa anche di più importante delle verità dimostrative. Le statiche nozioni scientifiche sembrano di scarso giovamento a un’età che pone l’uomo al centro dell'indagine, e dunque è preoccupata dei valori sociali, perché la virtù umana si manifesta nel contatto e nel contrasto con gli altri uomini. Le varie

15 Ivi, ms. II.X.118, cc. 19v-21v. [= V. BORGHINI, Scritti inediti o rari sulla lingua, a cura

di J. R. Woodhouse, Bologna 1971, pp. 332-3] 16 Sul Panegirico si veda M. L. DogLIO, La letteratura ufficiale e l'oratoria celebrativa, in: Storia della cultura veneta, 4/1, Il Seicento, Vicenza 1983, pp. 166-9, da cui cito.

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scienze naturalistiche e dimostrative non si preoccupano di convincere, non cercano un rapporto umano, un dialogo; pretendono di avere validità di per sé, con argomenti di fronte ai quali la mente deve arrendersi. Più efficaci, pertanto, sembrano gli argomenti che, non avendo forza cogente per necessità o evidenza, suscitano discussioni. Alla certezza quasi si preferisce il verisimile, il probabile, il possibile. Del resto-la scienza è non solo statica ma competente solamente in un ristretto numero di campi o, se si vuole, in tutto ma solo in astratto e per quanto riguarda verità che per lo più hanno scarso rilievo per l’uomo, il suo comportamento, la sua vita quotidiana in casa e in corte. E il resto? Conviene abbandonarlo alle forze irrazionali, agli istinti, alla violenza, al caso? Evidente la necessità di controllare e ordinare il contingente con altri strumenti: la

retorica e le arti sopra tutto. La retorica e le arti sembrano più umane della fisica, della metafisica, della teologia, che si aggirano intorno a verità eterne e immutabili con chiose, commenti, parafrasi: la prima, in quanto strumento di quella civile conversazione in cui l’uomo manifesta la sua dignità; le seconde, in quanto creazioni dell’uomo, che per loro mezzo trasforma la natura e riinventa la realtà. Aristotele, cioè la filosofia, non offre ideali di vita tali da soddisfare le aspirazioni di uomini che — desiderosi di realizzare su questa terra le doti peculiari dell'uomo — trovano appagamento piuttosto nei «miti» letterari della bellezza, dell'armonia, della grazia, della misura, in cui sembra di scorgere il riverberarsi di qualcosa di eterno e di divino. Queste qualità ideali ovviamente vengono ricercate anche e sopra tutto nelle scritture, a cui spesso si affida la speranza di sopravvivere alla morte fisica: anzi il trattato, nella sua stessa struttura, cerca spesso di rappresentare la società ideale a cui mira. Pertanto, invece di rendere le idee essenziali per via di astrazione, gli scrittori le concretizzano e, mescolando l’universale con

il particolare, le incarnano in personaggi che conversano e discutono con urbanità in un armonioso gioco delle parti. Di qui la spiccata preferenza per il dialogo, che riproduce il ritmo di una ricerca a più voci, nella quale s'incontrano o si scontrano opinioni divergenti, ma sempre in una conversazione vivace eppur

rispettosa degli altri. Il dialogo insomma «comunica» anche quando sembra riscrivere luoghi comuni; comunica almeno un ideale di civiltà concretamente presente già nella «cornice», in quel gruppo di persone decorose e affabili, educate e non fanatiche, capaci di momenti di ricerca impegnata e insieme di divagazioni, pause, scherzi. Nel dialogo la società cinquecentesca trasmette un ritratto di sé com'è o meglio come vorrebbe essere, certo con una sorta di autocompiacimento

per le proprie maniere

raffinate. Ma non è narcisismo,

perché quell’ideale non è meramente esteriore, salvo che tale non si consideri l'aspirazione a un mondo più tollerabile o quanto meno più educato. La forma è, per gli intellettuali più consapevoli, quasi un’ancora di salvezza per non soccombere a una realtà in cui sembrano dominare il caos, la follia, il caso; con le sue qualità di misura e di ordine sembra conservare una funzione attiva all'uomo che, se non può mutare la natura, può tuttavia costruire con l’arte una realtà meglio consona ai propri ideali.

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AL «FURTO»

Se non comunica «verità» in senso proprio, la trattatistica propone dunque una concezione dei rapporti sociali, del dialogo a più voci, del rispetto reciproco, fin che si giunge alle opere il cui oggetto è proprio il primato del sociale: alludo, per esempio, alla Instituzione del Piccolomini e alla Civil conversazione del Guazzo. Ed è significativo che queste opere — in cui la natura politica dell’uomo e il valore primario della conversazione sono decisamente affermati — vedano la luce quando gli ideali rinascimentali sono ormai in crisi e dunque occorre ribadire, perché non è più ovvio, che senza conversazione non c’è possibilità di vita sociale e che il sapere, come sostiene il Guazzo, comincia nel conversare e finisce nel conversare. Il desiderio di partecipare a una civile conversazione è in parte soddisfatto anche dalle lettere, che talora sono vere lettere-trattato, in cui però la ricerca si

svolge senza le durezze del trattato dimostrativo per la presenza silenziosa, ma non dimenticata, di un interlocutore. In quanto comunicano valori etico-sociali meriterebbero forse un’attenzione più benevola anche le orazioni e sopra tutto le accademie. Queste ultime per lo più non elaborano niente di nuovo; eppure in un momento di crisi profonda rispondono — alcune, se non tutte — al desiderio di mantenere una solida trama di rapporti sociali, di non rinunciare ai valori umanistici di decoro, misura, ordine. Anche la meticolosità del rituale in parte almeno risponde a queste esigenze: le riunioni simboleggiano la sognata realtà in cui si attenuano le disarmonie del reale. Questa fuga dalla vita quotidiana può dunque essere animata da un vivo desiderio di salvare valori che rischiano di perire; può tuttavia fin troppo facilmente trasformarsi in pura evasione o in vuoto cerimoniale, se gli intellettuali si rinchiudono in un mondo artificiale e diventano indifferenti ai problemi esterni, paghi di uno spazio del tutto illusorio di libera attività.

ASPETTI DELLA

TRATTATISTICA

D'AMORE

1. Trattatistica d'amore e letteratura in volgare.

Molti trattati sull'amore furono composti o progettati nel tardo Quattrocento e nel primo Cinquecento. Mario Equicola nel primo libro De natura de Amore, dopo il commento al Simposio di Marsilio Ficino, ricorda e riassume il commento di Giovanni Pico della Mirandola alla canzone Dell’amore celeste e divino in cui Girolamo Benivieni compendiò il pensiero ficiniano, i quattro libri sull'amore di Giovan Francesco Pico, i tre di Francesco Cattani da Diacceto, l’Anteros di Battista Fregoso, il’ Diglogus contra amores del Platina, il dialogo Anterotica di Pietro Edo, gli Asolani del Bembo, le egloghe amorose di Battista Carmelita e l’Aura, opera perduta di Iacopo Calandra. E altro si potrebbe aggiungere. C'era dunque un grande interesse per l’amore, ma era un interesse variamente motivato e per lo più legato alla concezione che ne avevano i classici. Facevano eccezione le opere ispirate al Ficino, che si staccavano dalla tradizione e, sia pure gradualmente, indirizzavano il dibattito su nuove vie. E fu con gli scritti dei ficiniani che il volgare fece la sua comparsa nel dibattito. In volgare, veramente, è anche l’Arteros, ma il Fregoso usò la lingua moderna solamente perché scriveva per gentiluomini e non per umanisti e filosofi, e forse anche perché non era in grado di scrivere in un buon latino. Egli infatti era fermamente convinto della superiorità del latino. Nella dedica del trattato a Francesco Pusterla scriveva: «ma perché molto a la lingua latina, come tu istesso sai, ti ho exortato, lasso e detti latini come sono, accioché quegli presso el volgare vedendo, l’excellentia del latino meglio conoschi, parendoti vedere gemme orientali splendidissime legate in ferrea corona» !. Poiché credeva di usare uno strumento linguistico rozzo, non solo latineggiava a oltranza ma esibiva autorità di ogni genere, così che la sua opera è davvero simile al «corvo di Esopo»: «de l’altrui penne mi ho facta bella coda con altrui detti quest'opera componendo, in modo che di quella si potria dire quello dei libri di Chrysippo disse Apollodoro: che, se l’altrui sententie se gli togliessero, le carte loro rimarrebbero bianche» ?. Il Fregoso in volgare, come il Platina e il Capretto in latino, espone l’opinione tradizionale degli umanisti, che comporta una severa condanna dell’amore. L’amore è inteso come fatto sensuale; è una malattia della giovinezza che deve essere superata. La situazione però a poco a poco muta e la questione della lingua e quella dell'amore si congiungono strettamente. Contro l’amore si

1 BapTIsTAE C. FuLcosi Anteros, Milano, L. Pachel, 1496, c. a iii v. Su quest'opera cfr. C. GASPARINI, L’«Anteros» di B. Fregoso, in «Giornale storico della letteratura italiana», CLXII

(1985), pp. 225-49. 2Ivi, c. a ili v.

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TRATTATISTICA

D'AMORE

pronunciano gli umanisti e gli strenui difensori del latino; in difesa dell'amore si esprimono i fautori del volgare. Il neoplatonismo ficiniano infatti aveva consentito il ricupero della moderna tradizione lirica, che aveva cantato sopra tutto d'amore e d’amore aveva discusso anche in versi. Il contrasto di lingue, insomma, anche in questo caso sottende un contrasto di tradizioni, di atteggiamenti, di cultura. La novità della moderna concezione dell’amore, spirituale, di contro a quella naturalistica e sensuale degli antichi, e insieme il rapporto stretto fra letteratura volgare e trattatistica amorosa sono chiaramente individuati dall’Equicola nel Libro de natura de Amore. L’opera uscì solamente nel 1525 dopo una lunga elaborazione, che non ne alterò la primitiva concezione; lo stile vivace ma tutt'altro che coerente — l’Equicola mantiene lessico e stilemi degli autori che parafrasa —, la lingua fortemente latineggiante, lo sfoggio di inerte erudizione ancora più imponente che nell’Arteros, la forma non dialogica ma grezzamente espositiva, la rendono ben rappresentativa di una cultura cortigiana ancora aliena da quel gusto raffinato e rigorosamente selettivo che già si era espresso negli Asolazi del Bembo. Al trattato dell’Equicola arrise tuttavia una grande fortuna, come provano le molte edizioni che se ne ebbero nel corso del secolo: il suo carattere di 5472724 appagava le esigenze del vasto pubblico che gradiva i compendi, i repertori, le trattazioni enciclopediche delle questioni più disparate. Del resto, accanto a materiali farraginosi, nel Libro de natura de Amore si leggono molti passi in cui l’Equicola mostra di non essere un arido ripetitore e di meritare un posto di rilievo fra i letterati del tempo per le vaste letture, la conoscenza approfondita anzi eccezionale delle letterature antiche e romanze, la capacità di compiere acute analisi psicologiche delle opere poetiche. Queste doti si scorgono già all’inizio del trattato nell'ampia rassegna di coloro che si occuparono della natura d’amore. In capitoli di singolare struttura, importantissimi per chi voglia conoscere i testi che erano presenti ai trattatisti del primo Cinquecento, egli — oltre le opere già ricordate — sunteggia, spesso con arguzia e finezza, le opinioni di Guittone, Guido Cavalcanti, Dante, Petrarca, Francesco da Barberino, «Ioan de Meun dicto Romant della Rosa et altri francesi», Boccaccio e Leon Battista Alberti. Già da questo elenco risulta che, mentre per il Quattrocento l’Equicola prende in considerazione veri e propri scritti sull'’amore, per i due secoli precedenti molto si affida ai poeti. Egli ricordava lo stretto rapporto in cui Dante nella Vita nuova aveva posto l’amore e la lirica volgare ?; di conseguenza era in grado di dare il giusto rilievo alla funzione avuta dai poeti nel chiarire la natura d’amore. Per esempio, si soffermava sulla canzone Donna mi prega, in cui il Cavalcanti «tracta de

3 Libro de natura de Amore, Venezia, L. Lorio. da Portes, 1525, cc. 30-4: «Li principii

della poetica credemo antiquissimi; et prima il verso che la observation del verso esser stato ritrovato havemo per certo. Furono sempre poeti con gran delectatione uditi per la musica et numerosa structura; il che cognoscendo quel summo rhetore Isocrate, primo la soluta oratione con certi pedi ad magior voluptà ligò et strinse. La qual cosa Demosthene et M. Tullio nelle clausule più delle volte observano; donde tanti colori rhetorici son sorti; tra quali se numera

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amore non secondo poeti ma secondo philosophi»: «di che ragiona con tanta doctrina che Egidio Romano, physico nobilissimo, et Dino del bel Corbo

fiorentino, medico excellentissimo, la commentorno» 4. E se la canzone cavalcantiana non cessò d’essere studiata anche dopo i commenti di Dino del Garbo e dello pseudo Egidio Romano e, dopo aver interessato il Ficino, ancora nel secondo Cinquecento fu commentata da Francesco de’ Vieri nelle Lezzioni d'amore, da Paolo del Rosso e da Girolamo Fracchetta 7, è fuor di dubbio

l’importanza che ebbe lo stil novo nel chiarire, con una concezione spiritualisti-

ca ma

laica, i concetti d'amore

e di nobiltà. Echi stilnovistici s'incontrano

frequentemente nel cenacolo laurenziano, ma sarà il Petrarca a offrire ai cinquecentisti il modello più convincente di un amore che, pur non ignorando gli stimoli dei sensi, tende al divino e aborre da ogni grossolanità: non era difficile aggregarlo, come fa l’Equicola, «alla secta platonica» $. Ma non sarà forse inutile, per dare un’idea più chiara della maniera in cui l’Equicola realizza la sua rassegna, citare per intiero una delle “schede bibliografiche”. Scelgo quella su «Pier Hedo di Fortuno»: Era il mio iudicio tacer di costui; et pur scrivendone lasciarò il peso de darne iudicio a

»

più curiosi. Spero il tempo serà de tucti iudice equissimo; esso di perpetua memoria o di eterna oblivion serà datore; esso li scritti di nostro tempo o farrà in bocca di eruditi con immortal gloria resonare overo a quelli le cucine per libraria per lectore li concederà a Vulcano. Pier Hedo tre libri scrisse nominandoli Anterici. Nel primo di la pictura d’amore si rende ragione. Finto putto: dice che uno amante non sa quel che sta bene et delectase de cose abiecte. Forzzoso: che chi ama vòl parer bello. Ceco: perché non ha conseglio né ragione. Il pannicello che li vela li occhi interpreta obstinatione di appetito. Nudo: che non si pò celare. Alato: ch’ogni amator expedito è in la voluptà et è instabile. Le due ale significano la duplice speranza, l’una di esser amato, l’altra di fruire l'amata; l’arco, insidie; la corda, delectatione; la pharetra, libero arbitrio. Da quel de consonantia, de parimente desinenti syllabe, che trasalpini usano ne li versi latini, alla prima syllaba del terzo pede facendo correspondere l’ultima. Questo diede origine al materno dire in rythmi, se non me inganno, ch’al presente corrupto vocabulo in rima se chiama. La Provenza alcuni fanno matre di tal invento et indi transportato in Sicilia e diffusose poscia per tutto. Di Dante nella sua Vita novella queste sono le parole: “Anticamente non erano dicitori de Amore in lingua vulgare, anzi erano dicitori de Amore certi poeti latini; como in Grecia non vulgari ma litterati poeti queste cose tractavano; et non è molto numero di anni passato che apparirno questi poeti vulgari, ché per dir in rima in vulgare tanto è quanto dir per verso in latino secondo alcuna proportione. Et signo che sia piccol tempo, se volemo guardare in lingua de oc et de sì, noi non trovaremo cose dicte anzi il presente tempo cento cinquanta anni. Et la ragione che alquanti grossi hebero fama de saper dire è che quasi furono li primi in lingua de

sì; et lo primo che cominciò ad dire sì como poeta vulgare se mosse ché volse far intendere le sue parole ad donna; alla qual era malagevole ad intendere versi latini”. Gioan da Enzina confirma da Italia tal dire esser passato in Hispagna». BIVIO:

5 Cfr. F. De’ VierI, Lezzioni d'amore, a cura di J. Colaneri, Miinchen 1973; P. DEL Rosso, Commento sopra la canzone di G. Cavalcanti, Firenze, Sermartelli, 1568; La sposizione di G. FraAcHETTA sopra la canzone Donna mi prega, Venezia, Giolito, 1585. 6 Libro de natura de Amore, cit., c. 7.

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Parnaso saette che ivi sta volentieri, dove la prima volta hebe victoria. Il carro, la concupiscentia. Li quatro cavalli sono la libidine, timor, dolor, letitia, ma il timore essere precipuo ne li amanti affirma. Li capelli denotano gioventù, la corona aurea che vince li Re, la laurea che triumpha; la mirthea, per esser deputata alla ovatione et per esser il myrtho pianta di Venere, figliola di Giove et Dione, l’humana natura ne representa. Di questa et Marte si dice esser nato Antheros, per esser Marte quel dio del qual parla el psalmista, chiamandolo forte signor et potente. Questo fa continuo guerre colla voluptà. Vòle questo Antheros sia Hippolyto et Ioseph. Raconta di meretrici li costumi, le femine fallacissime, spurcissime et piene d’inganni; esser falso existima che Amor con novo amor si cacci, perché el vitio con la virtù, non la virtù col vitio si sana. Deponerse dunque per iudicio et voluntà; trovar la *namorata disconcia li pare remedio vano, perciò che colla presentia se nutrisce amore; commanda che si removano tucti ragionamenti dell’amata et pensier, de li lascivi homini il consortio, di poeti la lectione. Nel terzo libro Cupido lo appetito intende; amor quel che procede da lo appetito. Di questo fa tre generationi: naturale, circa el nostro essere; animale, circa li sensi; intellectuale, de la ragione. Conclude Amor esser in la voluntà et da quella nascere et in quella sola consistere. Diffinisce amor esser voluntario moto et acto de lo animo a desiderare et acquistare quelle cose, la cognitione et fruitione de le quali ce dilecta. È un simplice amore, ma si varia secondo li affecti di amanti in humano et divino, in honesto et in inhonesto; la carità non esser ogni affecto, ma optimo affecto disputa et infuso da Dio. Divide l’anima in doi parti, rationale et sensuale; la rationale in doi: contemplationi di cose eterne, governationi de le terrene. Poi la longa disputa de le generationi di peccati et como la carità è maior che la fede. Narra l’ordine qual dovemo observar in amore: primo Dio, poi l’animo, in terzo loco il proximo, in l’ultimo il corpo. In nome del proximo se comprehendon li angeli; il corpo dovemo amar solamente che per quello pervenimo alla beatitudine; il patre summamente se deve amare como agente in lo generare, più che figlioli et mogliere; la qual è d’amare quanto il corpo. Amare li nimici è precepto et cosa grata a Dio; però farlo è cosa piissima. Fine de l'amor humano, conclude, miseria; del divino, beatitudine. Alli mortali esser proposte doe vie: l’una al cielo, l’altra a l’inferno ne conduce ”.

All’Equicola, dunque, bisogna riconoscere doti notevoli, che appaiono anche in altre parti del Libro, per esempio nell'ampia digressione del quinto libro su «Como poeti latini et greci, como giocolari provenzali, rimanti franzesi, dicitori toscani, trovatori spagnoli habiano scripto de loro amore» *, di cui pure converrà fornire un esempio: A quel che seque de’ Spagnoli prefatione altrimenti non bisogna como alli Provenzali et Francesi avemo facto, perché a ciascuno son publicamente exposte di molti trovadori esparse, coples, glose, villanuchi, canzoni et romanzi, de li quali fidelissimamente havemo qui in brevità li sensi ad referire. Non danne alcuno, da diversi autori tolte le sententie, da me esser state sì unite et collocate che non parano disgionte, ché ’l dubio

”Ivi, pp. 310-33. Il dialogo in tre libri Anterotica sive de amoris generibus di Pietro Edo uscì a Treviso nel 1492 presso Gerardo de Lisa di Fiandra. Di Pietro Edo si veda anche il

Rimedio amoroso, poema edito per la prima volta da F. De Nicola, Ravenna

1978.

8 Così nell’indice iniziale. In testa alla digressione (c. 188) invece: «Como latini et greci

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et tema di non fastidir lo lector ha causata questa diligentia anzi fatiga. Men sia reputata curiosità che molte volte sequa il modo del dire spagnolo et alcune loro parole non immute trovando quelle già accettate per nostre et usarsi. Nominare essi autori mi par soverchio, perché molti sono et al publico sono usciti. De’ Provenzali et de li altri tacer il nome né bello né conveniente mi parve, per esser loro opere anchor tra pochi. Non laudo tra Spagnoli né in altra natione quelli che le cose sacre et divine alli loro amori appropriario como quel che le lamentationi et querele de’ Propheti in exprimer suo dolor converte: quel con le orationi de le nostre ecclesiastice cerimonie sua pena narra; l’altro col psalmo De profundis.cerca compassione. Ioan di Mena, homo singulare tra Spagnoli, qual tra noi Petrarcha (con bona pace sia decto), non me piace dove canta li defunti, per molto sancti che se siano, esser penati ne la gloria per non haver vista sua amica. Piacenome quando per essi si descrive la belleza, legiadria, elegantia et virtù de la Signora, chiamandola vita de lor vita, luce de la lor luce; da natura formata sol per admiration del mundo, senza emula, senza competitora, senza pare. Laudoli quando così scriveno. La summa de vostre lodi non consente Dio si finiscano, né che se possa dire il ben che si ha vedendove, tal sète in ogni acto et gesto, o quieta o irata, o dormendo o vegliando, quale il sole tra le stelle, sempre equalmente

bella; et quantunque non vogliate, forza è che disamando supportete esser amata; vostra beltà li absenti fa presenti et li presenti absenti, levando a chi ha ventura vederve ogni sapere et sentimento. Poi che nasceste tutta la beltà si consumò et divenne niente, perciò che voi sola sète fior di quella et in tal perfectione che meritate essere matre di Cupido. Se Venere fosse mortale moreria de invidia, per esser voi specchio de belleza dove si specchiano le belle, le quali possono ben dire che Dio fu loro inimico, ché vostra belleza avanza et annulla tutte altre belleze per tenere in voi la gratia suo nome et sede. Le donne sono irate che tutti li homini ve ameno et desidereno. Voi humana et gratiosa di infinite gratie adorna. Le morali virtù ad voi son naturali, con voi sempre vixero fede, speme et carità; degna d’essere chiamata divina.

Se vorrò fare comparatione de vostra grandeza colle cose temporali, serà como volere fundar con ragion naturale nostra fe’: voi formata a compasso di compositura tale che vecchieza non mutarà, né tempo la offenderà; gloriese la terra che ve ha et tene; alegrese il ciel che ve spera haver. Però chi presumerà lodarve cercarà numerare la harena del mare, il quale nulla crescie per acqua che li entre, né nulla se diminuisce per acqua toltane. Vostra grandeza non è magior per lode, né per il contrario divene minore 9.

L’Equicola è ancora, essenzialmente, un erudito che raccoglie le notizie più disparate con passione sì, ma anche con uno scarso discernimento e con un’in-

sufficiente sollecitudine per l’unità e la coerenza sia dello stile sia della cultura. Pochi conoscevano come lui le letterature romanze; eppure egli sulla cultura moderna mostrava molte perplessità. Il Libro de natura de Amore, del resto, si fonda esclusivamente sulle fonti antiche; dei trattatisti e dei poeti moderni si discorre in excursus, ampi e importanti, ma comunque fuori della trattazione vera e propria. L’Equicola comprese il legame strettissimo fra la moderna riflessione sull’amore e la letteratura in volgare, ma non ne trasse le debite consepoeti, ioculari provenzali, rimanti francesi, dicitori thoscani et trovatori spagnoli habiano loro amate lodate et le passioni di loro stessi descritte». 9 Libro de natura de Amore, cit., cc. 205-6.

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guenze. Queste invece erano ben presenti a Pietro Bembo che negli Asolazi non volle in alcun modo fare sfoggio di erudizione. I fini che si proponeva erano ben altri: quelli di un letterato, non di un filosofo o di uno scienziato. Sapeva di aver maturato una concezione culturale che rompeva con la tradizione. Pertanto, fin dalla disposizione calibratissima della materia e dalla cura quasi ossessiva dello stile volle che apparisse evidente la novità della sua opera rispetto alle molte composte o progettate nel tardo Quattrocento. Poiché del dialogo giovanile del Bembo si parla altrove in questo volume, basterà qui dire che esso indicava una precisa materia ai poeti volgari, derivandola per lo più dal Petrarca, e che questa era un’operazione necessaria. Il classicismo volgare infatti non poteva rifarsi, e per la materia e per lo stile, ai poeti greci e latini. La lirica volgare era essenzialmente amorosa; quella latina, classica e umanistica, svolgeva invece una gamma di temi e di motivi più vasta e varia: l’amore non aveva avuto nella società e nella letteratura classica la stessa importanza che aveva in quella volgare, malgrado le molte pagine significative che si possono citare, dalla celebrazione lucreziana di Venere e Amore, ai Carzzina di Catullo, alla Didone virgiliana, alle odicine erotiche di Orazio, alle opere di Ovidio, ecc.

Questi e altri testi erano presenti a coloro che scrivevano in latino; i poeti in volgare, fondandosi sugli stilnovisti e sul Petrarca, non potevano non costruire una tradizione di poesia amorosa che si opponeva alla varia materia e alla sensualità di quella classica. La discussione sull'amore insomma consentiva al Bembo di indicare la via da seguire per dar vita a un classicismo volgare che non fosse mera ripetizione di quello latino ma nascesse da una lucida interpretazione della cultura moderna. Anche se all’inizio qualcuno rimase sconcertato, la decorosissima veste formale e la forte letterarietà favorirono il successo degli Aso/ari presso il pubblico più raffinato. Più volte ristampata, uscita in edizioni ampiamente rivedute nel 1530 e nel 1553, l’opera del Bembo fu considerata il testo fondamentale del platonismo amoroso per alcuni decenni, almeno fino a quando (1535) non apparvero i dialoghi di Leone Ebreo: la minor dignità letteraria ridusse l’incidenza sulla cultura cinquecentesca delle opere dei neoplatonici minori — fra i quali però andrà ricordato il Diacceto per il ruolo molto importante che esercitò nella cultura fiorentina (il Varchi, per esempio, ne scrisse una biografia che fu pubblicata nel 1566 insieme con i Tre libri d'amore) - e dello stesso Libro

dell'amore ficiniano, la cui redazione italiana fu pubblicata solamente nel 1544 a Firenze dal fantomatico Neri Dortelata !°. Non a torto gli Aso/ani furono considerati come rappresentativi del platonismo amoroso; infatti culminano nell’esaltazione dell’amore come guida a Dio: «non è il buono amore disio solamente di bellezza, come tu stimi — dice l’eremita a Lavinello —, ma è della vera bellezza disio; e la vera bellezza non è

umana e mortale, che mancar possa, ma è divina e immortale; alla qual per 10La Vita di F. Cattani da Diacceto si può leggere in B. VARCHI, Opere, II, Trieste 1859, pp. 816-21. Del Libro de Amore del Ficino si veda l’edizione curata da S. Niccoli, Firenze 1987.

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aventura ci possono queste bellezze inalzare che tu lodi, dove elle da noi sieno in quella maniera, che esser debbono, riguardate» !!. A consacrare e a ulteriormente diffondere la fama del Bembo come maestro di platonismo amoroso contribuì la parte che il Castiglione gli assegnò nel Cortegiano; ma sarebbe ingiusto — e non consentirebbe di comprendere la maniera in cui gli Asolani influirono sulla cultura”e sulla lirica cinquecentesca — limitare il significato dell’opera all’esposizione di teorie ficiniane, peraltro alquanto stemperate. L’inno all'amore spirituale e alla donna come tramite a Dio, con il quale il trattato si chiude, non deve far dimenticare i primi due libri. Perottino, Gismondo e

Lavinello in definitiva non rappresentano diverse posizioni filosofiche ma tre aspetti, contrastanti eppure compresenti, dell'animo del Bembo e della lirica volgare; egli pertanto partecipa egualmente ai lamenti del primo, alle lodi di un amore più realistico e sensuale del secondo, come allo spiritualismo del terzo.

2. Leone Ebreo.

Il pensiero ficiniano fu approfondito con notevole vigore speculativo da Leone Ebreo. Questi, nato a Lisbona fra il 1460 e il 1465 da una delle più

potenti famiglie ebraiche del tempo, quella degli Abrabanel o Abarbanel, si chiamava Jehudah, ma preferì farsi chiamare Leone, nome meno sgradito alla clientela cristiana. Compiuti gli studi di medicina, dal padre Isacco fu iniziato alla Cabala e acquistò una buona conoscenza — oltre che della scolastica araba, ebraica e latina — della filosofia greca classica. La morte di re Alfonso V (1481),

di cui il padre era tesoriere, determinò una situazione difficile per tutta la famiglia, che, perseguitata dal nuovo re Giovanni II, emigrò a Toledo. Qui ben

presto le sorti si risollevarono e Leone, divenuto medico personale di Ferdinando il Cattolico, trascorse un periodo di tranquilla prosperità durante il quale si sposò ed ebbe un figlio, Isacco. Ma nel 1492 gli ebrei furono cacciati dalla Spagna; ed egli non volle rimanervi, anche se Ferdinando il Cattolico gliene offrì la possibilità, a patto però che egli facesse battezzare il figlio. Egli rifiutò e, portato di nascosto Isacco in Portogallo, si trasferì a Napoli, dove godette di rinnovata fortuna sia sotto Ferdinando I d’Aragona, di cui divenne medico personale, sia sotto Alfonso II, che gli consentì di chiamarsi cittadino napoletano. Il figlio, però, fu sottoposto a battesimo forzato e affidato ai domenicani affinché lo educassero cristianamente: il padre non lo rivide più. Nel 1495, in séguito alla calata di Carlo VIII, ancora una volta Leone dovette mutar sede: andò a Genova, dove godette alcuni anni di quiete che gli permisero di terminare i Dialoghi d'amore. Nel 1501 poté ritornare a Napoli, protetto da Federico d’Aragona. Dal 1521 non si hanno più sue notizie: solo si sa che i Dialoghi nel 1535 uscirono postumi, a Roma, presso A. Blado. Di Leone ci sono pervenute alcune pregevoli elegie in ebraico; tra queste è 11 Asolani, III, xvii in: Trattatisti del Cinquecento, a cura di M. Pozzi, Milano-Napoli

1978, p. 348.

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notevole l’Elegia per il mutarsi dei tempi, commovente testimonianza sull’esperienza dell’esilio e sul dolore da lui provato per le vicende del figlio Isacco !. Il suo capolavoro, però, è costituito dai tre Dialoghi d'amore (D'amore e desiderio; De la comunità d'amore; De l'origine d'amore), che esercitarono una grande influenza sulla cultura filosofica e letteraria del Cinquecento. Scritti probabilmente in ebraico, ma noti esclusivamente nella versione di un ignoto toscano, hanno come interlocutori Filone (l’autore) e Sofia. L'andamento della discussione per dubbi, antitesi, confutazioni, la sottigliezza con cui vengono poste le questioni, gli elementi magici, cabalistici e di varia provenienza esoterica risentono della scolastica arabo-giudaica e della particolare cultura che Leone si era fatto; tuttavia, malgrado questi limiti e le non poche contraddizioni, i Dialoghi danno una nuova impronta alla filosofia platonica e ficiniana dell’amore. Leone infatti svolge il motivo cosmico dell’amore, a cui il Ficino aveva accennato solo di sfuggita, fino a identificare l’amore con Dio stesso andando ben al di là del pensiero di Platone. Da Dio, egli sostiene, procede il primo impulso amoroso che si comunica di grado in grado a tutte le creature, e da queste risale al suo principio in un solo ciclo cosmico. Essendo l’universo un circulus amorosus, egli può riconoscere ogni aspetto dell'amore, anche la forza appetitiva che nelle forme superiori si integra con la rappresentazione intellettuale della bellezza, ma nelle più basse agisce come istinto o impulso, in realtà obbedendo inconsapevolmente a una legge superiore di ordine e di armonia. Vi sono tre specie di appetiti: naturale, sensibile e razionale; solo quello razionale merita il vero nome di amore e riproduce nell'uomo il processo cosmico dell’amore divino. Leone rappresenta felicemente ed efficacemente l’ansia di perfezione che agita tutto ciò che ama e lo purifica e abbellisce: per quest’ansia gli ordini inferiori tendono a sposarsi con quelli più alti, il mondo corporeo si unisce con quello spirituale e la terra con il cielo. Certo nella discussione tra Filone e Sofia non tutto doveva soddisfare il gusto del maturo Cinquecento: la sottigliezza delle argomentazioni, il procedimento piuttosto scolastico, le fitte citazioni della sapienza greca, giudaica, gnostica, salomonica. Il Muzio nelle avrebbe censurato le sproporzioni fra i tre dialoghi («il secondo Battaglie è per due volte grande come il primo, e il terzo è per due volte come il secondo, e è di lunghezza fastidiosa»). Tutti, più o meno, avvertivano che la lingua e lo stile — che peraltro corrispondevano a quel toscano di tono medio che allora andava affermandosi — erano tutt'altro che perfetti. Ma quando i Dialoghi uscirono certi scrupoli classicistici non si avvertivano più con tanta urgenza;

oltre tutto l’apparente civetteria di Sofia e la resistenza da lei opposta a Filone,

1? Le cinque poesie ebraiche si possono leggere in versione italiana in LEONE EBREO, Dialoghi d'amore, a cura di S. Caramella, Bari 1929. Cfr. G. FONTANEsI, I/ problema dell'amore nell'opera di Leone Ebreo, Venezia 1934; C. DIoNISOTTI, Appunti su Leone Ebreo, in «Italia

medioevale e umanistica», II (1959), pp. 409-28; M. ARIANI, Imago fabulosa. Mito e allegoria nei «Dialoghi d'amore» di Leone Ebreo, Roma 1984. 13 Battaglie di Ieronimo Muzio Giustinopolitano, Venezia, P. Dusinelli, 1582, p. 27.

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vanamente innamorato di lei, conferivano a quella discussione un po’ esoterica un sapore ben apprezzabile dai lettori del tempo: FILONE. truova.

[...] Ma dimmi, o Sofia, come l’amore, essendo così comune, in te non si

SOFIA. E tu, Filone, în effetto mi ami assai? FILONE.

Tu il vedi, o il sai.

SOFIA. Poi che l’amore suole essere reciproco e di geminal persona (secondo tante volte ho da te inteso), bisogna che o tu simuli meco l’amore ovvero ch’io lo simuli teco.

FILONE. Sarei contento che tanto di fallacia avessero le tue parole, quanto hanno le mie di verità: ma io temo che tu, come io, non dica il vero, cioè che l’amor longamente

non si può fingere né si può negare. SOFIA. Se tu hai verace amore, io non posso esserne senza. FILONE.

Quel che tu non vuoi dire, per non dire il falso, vuoi ch'io il creda per

coniettura d’argumenti. Io ti dico che ’l1 mio amore è verace, ma che è sterile: poi che in te non può produrre il suo simile, e che basta per legar me, ma non per legar te. SOFIA. Come no? non ha l’amore natura di calamita, che unisce i diversi, approssima i distanti e attrae il grave?

FILONE. Se ben l’amore è più attrattivo che la calamita, pur a chi non vuol amare è molto più grave e resistente che il ferro. SOFIA. Tu non puoi negare che l'amor non unisca gli amanti. FILONE. Sì, quando ambidue sono amanti: ma io son solamente amante e non amato, e tu sei solamente amata e non amante; come vuoi tu che l’amore ci unisca?

SOFIA. Chi vidde mai uno amante non esser amato? FILONE.

Io, e credo esser teco uno altro Apollo con Dafne.

SOFIA. Adunque vuoi che Cupidine abbi ferito te col stral d’oro e me con quel di piombo.

FILONE. Io non vorrei già, ma il veggo; perché ’l tuo amore da me è più desiderato che l’oro, e il mio a te è più grave che il piombo. SOFIA. Se io verso di te fusse Dafne, dal timor de le tue parole più tosto sarei conversa in lauro, che lei per paura de le saette d’Apollo.

FILONE. Poca forza hanno le parole, che non possono fare quello che solamente i raggi degli occhi con uno sol sguardo sogliono fare, cioè il mutuo amore e la reciproca affezione. Pur a resistermi ti veggo trasformata in lauro, così immobil di luogo e immutabile di proposito e così difficile a poterti traere al mio desiderio, quantunque io più ognora al tuo m’appropinqui: e così sei sempre come il lauro verde e odorifero, nel cui frutto niuno altro sapore che amaro e aspro si truova, misto con pungitiva sugosità a chi lo gusta. Sì che a me in tutto sei fatta lauro; e se vuoi vedere il segno de la tua

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conversione laureata, mira la mia sorda cetara, la quale non sonerebbe se la non fusse ornata de le tue bellissime frondi. SOFIA. Ch’io t’ami, o Filone, non sarebbe onesto confessarlo, né pio ancora il negarlo: credi quello che la ragione fa essere più conveniente, se ben del contrario hai paura. E poi ch’il tempo ormai ne invita al riposo, sarà ben che ognuno di noi vada a pigliarselo; tosto poi ci rivedremo. Attende intanto a la ricreazione, e ricordati de la promessa. Addio !4.

Ai Dialoghi, pertanto, arrise una pronta fortuna. All’inizio del Raverta Francesca Baffa è colta da Ottaviano Raverta, mentre è «tutta rivolta con l’animo a considerare la diffinizione data ad Amore da Leone ebreo, la quale — dice — molto mi piace per quel poco che con l’ingegno mio io posso discorrere». Ma, prosegue, «rivolgendo di molti libri, non m'è per anco venuto fatto di ritrovare una diffinizione d'Amore che serva in generale». E il Raverta: Se dall’opre di quello ebreo che sì divinamente n’ha scritto, dai bellissimi dialoghi dello eccellentissimo Sperone e da quelle del dottissimo Piccoluomini, libri a voi famigliarissimi, voi non rimanete contenta, molto meno di me v’appagherete voi !.

Qui è da notare l’assenza degli Asolani fra le opere più importanti sulla dottrina d'amore. Ma quanto al giudizio su Leone Ebreo è ben più interessante quanto scrive Tullia d'Aragona nel Dialogo della infinità di amore: VARCHI. [...] e sopra il tutto mi è piaciuto il vedere che, non solo avete letto Filone [Leone Ebreo], ma intesolo e tenutolo a mente.

TULLIA. Deh! per quanta affezzion mi portate, poiché sète entrato in Filone, ditemene la opinion vostra ed il giudicio che voi ne fate. VARCHI. Non mi sforzate, vi prego, a questo, ché sapete che ogniuno ha le sue opinioni ed albagie.

TULLIA. E questo è quello che io cerco di sapere. VARCHI.

Non ve ne curate, se mi amate.

TULLIA.

Perché?

VARCHI. Percioché io favello liberamente e non posso dir se non quello che io intendo, ed oggi non si usa né bisogna far così; onde, se si risapesse poi, so bene io quello che direbbono molti. TULLIA. Quanto più mel negate, più me ne cresce la voglia. Noi siamo tra noi, e di qui non ci ha ad uscir cosa che ci si dica. Sì che ditelomi, per cortesia.

14 Dialoghi d'amore, cit., pp. 166-7. Di 6. BeTussI, I/ Raverta nel quale si ragiona d'Amore e degli effetti suoi, in: Trattati d'amore del Cinquecento, a cura di M. Pozzi, Roma-Bari 1980 [reprint dell'edizione a cura di G. Zonta,

Bari 1912], p. 4.

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VARCHI. Poiché sono entrato in ballo, bisogna ballare. Tra tutti quelli che ho letti io, così antichi come moderni, che abbiano scritto di Amore in qualunque lingua, a me piace più Filone che niuno, e più mi pare avere apparato da lui; percioché, al mio poco giudicio, egli ne favella non solo più generalmente, ma con maggior verità e, forse, dottrina. TULLIA. Avete voi letto Platone, ed il Convivio di messer Marsilio Ficino?

VARCHI. Signora sì, e mi paiono amendue miracolosi: ma Filone mi contenta più, credo perché non intendo gli altri. TULLIA. Gran lode è questa!

VARCHI. Sì, se gli fosse data da uno che avesse giudicio da saperlo giudicare, e gli altri non fossero stati innanzi. TULLIA. Basta; io era anche io di cotesta opinione, ma intesi poi, da non so chi, che

egli diceva alcune cose che non erano peripatetiche, e mi rimasi di leggerlo. VARCHI. Faceste un gran male. Anche in Platone sono delle cose che non sono peripatetiche. Poi, chi vuole giudicare un libro, dee guardare al più ed al meglio. Ma lasciamo che ogniuno la intenda a suo modo, e concediamo agli altri quello vogliamo sia conceduto a noi, cioè di dire liberamente la opinion nostra; ché chi fa così non

inganna niuno che non voglia essere ingannato, essendo in libertà di ciascuno o di non volerlo credere, intendendosene, o di domandarne uno altro, non se ne intendendo. Ed

a chi pare di intendersene è come se fosse, quanto a lui; e sarebbe forse follia cavarlo di quello errore nel quale si compiace. Io dico che molti hanno scritto di Amore, e molto, e chi dottamente e chi leggiadramente, e chi l’uno e l’altro; ma io prepongo Filone a tutti, se bene in alcune cose, e massimamente quando entra nelle cose della

fede giudaica, più tosto lo scuso che approvo. Né favello in questo luogo di quelli che hanno favellato di Amore non come è, ma come lo hanno avuto o come lo vorrebbono essi, dipingendo non la natura di lui, ma quella di se medesimi o delle donne loro. Ma

di questo ragioneremo una altra volta, ché di Amore non si può mai dir tanto che non vi resti da dir molto più; ed io, per me, non me ne vederei mai stanco né sazio; ma non

voglio infastidir voi altri.

TULLIA. E’ pare che voi non ci conosciate. Voi ci avete ben fatti meravigliare. Io, per me, facendo voi tante scuse, pensai da prima che voleste biasimare Filone: poi, quando vi sentii lodarlo tanto, tenni per fermo, e così giucherei buona cosa che tennero questi altri, che voi voleste riuscire altrove. VARCHI. Dove?

TULLIA. «Dove» dice? Negli Asolari del reverendissimo Bembo, e non ne’ Dialoghi di Filone. VARCHI.

Perché pensavate voi così?

TULLIA. Percioché, oltra che quella opera merita tutte le lode di tutti gli uomini, qui non è niuno che non sappia la affezzione infinita che voi portate, già tanti anni, a Sua Signoria reverendissima.

VARCHI. Io porto affezzione e riverenza infinita non al Bembo, ma alla bontà sua;

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ammiro ed adoro non il Bembo, ma le sue virtù, le quali io non ho mai lodate tanto che non mi paia aver detto poco. E non dico che gli Asolzri, i quali io ho celebrati mille volte, non siano bellissimi e che con la dottrina grande non sia congiunto un giudicio grandissimo ed una eloquenza miracolosa, ma Filone ebbe un altro intento; e, ne’ casi d’amore, penso che si possa dire forse molto più, e certo con più leggiadro

stile, ma meglio, ch'io creda, no. Ma, di grazia, che non si sappia fuori, che non mi fosse levato addosso qualche romore che mi fossi ridetto o ribellato dal Bembo 16.

È una pagina esemplare dello stile del Dialogo della infinità di amore. Tullia, o chi per lei, rappresenta felicemente le esitazioni e le idee fisse ma anche la grande sincerità del Varchi malgrado tanta prudenza. E in questa pagina, oltre le giuste lodi dei dialoghi di Leone Ebreo, si apprezza l’altrettanto giusta distinzione fra questi e gli Asolani. Anche nell’Ercolano, del resto, il Varchi ne fa grandi lodi («se i Dizlogi di Lione Ebreo dove si ragiona d’amore fussero vestiti come meriterebbero, noi non aremmo da invidiare né i Latini né i Greci») ! e ancora nella prima lezione Sopra alcune quistioni d'amore !8. Il Piccolomini, sia pure con mille riserve, accettava di completare l’opera con un quarto dialogo, se l'originale non fosse stato ritrovano, ma poi non ne fece nulla !. Insomma, il pensiero di Leone Ebreo fu accettato quasi come una

16 TuLLIA D'ARAGONA, Dialogo della infinità di amore, in: Trattati d'amore del Cinquecento, cit., pp. 223-5.

!7B. VarcHI, L’Ercolano, Pozzi, Torino 1988, p. 569.

in: Discussioni

linguistiche del Cinquecento,

a cura

di M.

18Qui il Varchi pone Leone Ebreo al culmine della moderna indagine sull’amore: «Dopo Platone infino al tempo de’ padri nostri (cosa da non potersi se non con fatica credere) di tanti scrittori così di versi, come di prosa, e tanto nella lingua greca e latina, quanto toscana, niuno che sappia io, scrisse d'amore se non se prima Dante con alcuni antichi e poi il Petrarca. Indi il primo che seguitasse le vestigia di lui così altamente impresse, fu M. Marsilio Ficino, il quale nel suo Comento sopra il Convivio di Platone scrisse tante cose e tanto dottamente che, se io mi conoscessi degno di giudicarlo, affermerei che egli mostrò più dottrina in quel comento e maggior lode meritò che tutti gli altri insieme fatto non aveano infino a quel tempo. Dopo il Ficino trattò d’amore il conte Giovanni Pico, chiamato per soprannome, e non indegnamente, Fenice, quasi un solo e non più, non Pico, ma Fenice si ritrovasse. E ne trattò in lingua fiorentina sopra il Comento della canzone d’amore di Girolamo Benivieni, così ordinatamente e dottamente che ben mostrò che egli era non men buon teologo che dotto filosofo. Al Pico successe M. Francesco de’ Cattani da Diacceto, il quale nel suo Panegirico, ed altrove dove

favellò d'amore, fece chiaro quanto egli nelle cose platoniche fosse addentro penetrato. Nel medesimo tempo, o poco dopo, compose i suoi tre libri degli Asolazi M. Pietro Bembo, nei quali, se la dottrina, la quale ad ogni modo non fu né picciola né indegna di tanto uomo, avesse all’eloquenza corrisposto, non dubiterei affermare che la lingua toscana avesse anch'ella il suo Platone. Ultimamente venne in luce il Dialogo di Filone Ebreo, diviso in tre libri; nei quali si tratta, benché alcuna volta oscuramente o confusamente, così a lungo delle cose d’amore e così veramente che io per me lo prepongo a tutti gli altri» (Sopra alcune quistioni d'amore, in Opere, cit., II, pp. 535-6). 19 Cfr. A. PiccoLoMInI, Della instituzione di tutta la vita dell'uomo nato nobile e în città libera libri diece in lingua toscana, Venezia, Francesco dell’Imperadori, 1559, dedica a Laudo-

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concezione definitiva della natura d’amore. Ma se giunsero a intuire la profondità del suo pensiero, i letterati ne ripeterono le idee stemperandole e fondendole (o meglio confondendole) con altre derivate dal Bembo e in genere da opere letterarie. Leone Ebreo, come del resto è naturale, esercitò la sua influenza sopra tutto sui filosofi, da Giordano Bruno allo Spinoza.

3. L'amore, la bellezza, la donna.

Ai letterati interessava sopra tutto la fenomenologia amorosa, che s’era espressa o poteva esprimersi in versi lirici o in romanzi o in novelle o in

commedie; interessavano gli effetti della passione amorosa sul comportamento sociale e il ruolo che all'amore si doveva assegnare nella vita quotidiana. Anche negli scritti più spregiudicati è evidente la volontà di dare norme all’amore, di organizzare nel miglior modo possibile la vita erotica, dominando con la ragione anche questo sentimento apparentemente incontrollabile. Presente già nell’Ecatomfila e nella Deifira di Leon Battista Alberti ?%, quest’esigenza, che si continua in quasi tutta la trattatistica della prima metà del secolo, nasceva dalla convinzione che l’uomo può realizzare un perfetto equilibrio e dare un’organizzazione razionale alla propria vita a dispetto della cecità della sorte. Il Croce ha

mostrato

le contraddizioni

insite nel concetto

neoplatonico

dell’amore ?;

eppure in quella felicità pura e infinita, priva di irrequietezza e di sofferenze, a cui anelavano i neoplatonici, come nella volontà di dare all'amore delle norme che ne dominino gli effetti, si manifesta quell’aspirazione a una serenità assoluta che, proprio perché contraddittoria e utopistica, nasceva non da un volgare desiderio di evasione ma da quel fondo di drammatico pessimismo che era pur presente nella splendida civiltà rinascimentale. Del resto, più che di una concemia Forteguerri: «Di quanto poi per lettere di miei amici intendo che desiderareste, che si manifestasse il quarto dialogo di Filone e di Sofia, nel qual trattar si debba degli effetti d’amore, essendosi per quegli innanzi della natura sua, del nascimento e communità ragionato; e che, se pur non si trovasse, non vi sarebbe discaro ch’io pigliasse questa fatica d’aggiungervi io stesso il quarto, il qual, seguendo il cominciato

stile, si conformasse con la mente di

quell’ebreo più platonica che peripatetica, dico (virtuosissima Commare) che in qual si voglia occasione avrei sempre caro di far cosa ch'io stimassi che vi piacesse, ma dubito quanto a questo che, essendo sì divini i tre primi dialoghi, non potendo forse col quarto a quegli appressarmi, noi non ci pentissemo dell’impresa; oltra che ingiuria si farebbe tal volta al primo autore, se altro dialogo in numero coi suoi si ponesse. Laonde io giudico che sia meglio d’aspettar qualche mese se tal dialogo si scoprisse. Il che non occorrendo, quando pur poi vi piaccia, quantunque io abbia tal cosa dinegata al molto illustre Signor mio, il Signor Don Diego Mendozio, Orator di S. Maiestà appresso i Signori Veneziani, a voi nondimeno non negherò di far sì ch'io, non in nome di quarto dialogo di Filone e Sofia, ma come appartato dialogo, dove parli Filone e Sofia, degli effetti d’amore assai forse abondantemente vedrò di scrivere».

20 Per rapporti e affinità fra gli scritti albertiani e la trattatistica cinquecentesca, cfr. M.

AuricEMMA, L'Ecatomfila, la Deifira e la tradizione rinascimentale della scienza d'amore, in «Atti e memorie dell'Arcadia», S. III, V (1972), pp. 119-71.

21 Cfr. Trattati d'amore del Cinquecento, in Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, I, Bari 1958, pp. 187-97.

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zione rigorosamente platonica, conviene parlare di uno spiritualismo che trovava il proprio modello nelle Rirze sparse del Petrarca; uno spiritualismo consapevole che la passione amorosa nasce dai sensi come pungente desiderio e che, quando pure si riesca a sublimarla, conduce a una dolorosa consapevolezza dei limiti della natura umana e a un bisogno, sempre risorgente ma sempre inappagato, di beatitudine. La forza di questo spiritualismo — come riconobbe il Croce — consisteva innanzi tutto «nell’implicita affermazione che l’amore terreno e la vita morale non sono inconciliabili, e che la conciliazione non sia da cercare nella soppressione dell'uno dei due, ma nell’elevamento

spirituale, che è poi la sostanza

dell’insegnamento di Diotima nel Convito» . Per questa via i trattatisti, superando l’antitesi fra materia e spirito propria dell’ascetismo medievale, potevano rivalutare l’amore e la donna, oggetto naturale dell'amore per i letterati, se non per i ficiniani di stretta osservanza. Di qui una sorta di “femminismo”, che era già stato nella nostra tradizione letteraria e aveva informato di sé pagine

memorabili del Decazzeron ?. Certo venature misogine nella nostra letteratura non mancano, e il Boccaccio stesso ne aveva dato un esempio nel Corbaccio; in linea di massima, però, poeti e letterati gettarono un po’ di luce sull’infelice condizione della donna, così che il Rinascimento conobbe — si tratti di gentildonne o di cortigiane “oneste”, poco importa — una presenza della donna nella vita culturale, quale non s’era mai avuta in precedenza. Il clima controriformistico soffocherà in parte questo femminismo, che d’altra parte, trovando la sua forza nell’esaltazione dell’amore e della bellezza, non giungeva a sollevare la dignità della donna nel matrimonio, che restava un fatto meramente economico. L’amore di cui tanto si ragiona non conduce (e non deve condurre) al matrimonio; è un amore di elezione, che spesso comporta la teorizzazione di

una sorta di “adulterio” spirituale; non si deve tuttavia vedere in questa precettistica una manifestazione del preteso “paganesimo” rinascimentale, giacché, per non dire d’altri, già Andrea Cappellano affermava che amore vero non può esistere fra coniugi dal momento che i loro rapporti non sono liberi ma obbligati. Questa concezione, per cui — come per esempio si legge nei Ragionamenti del

Firenzuola — la donna a cui il marito chieda solo prestazioni corporee può

offrire il proprio animo a chi sappia meglio apprezzarlo 24, era la naturale #2Ivi,p 193; 2 Si veda a questo proposito la limpida e informatissima introduzione di M. L. Doglio alla sua edizione del trattato Della eccellenza e dignità delle donne di Galeazzo Flavio Capra (Roma 1988). Nei Trattati del Cinquecento sulla donna, a cura di G. Zonta, Bari 1913, si possono leggere: A. PiccoLoMInI, Dialogo de la bella creanza de le donne; M. Bionpo, Angoscia, Doglia e Pena, le tre furie del mondo; F. Lucini, Il libro della bella donna; G. B. Mopio, Il convito overo del peso della moglie. Si aggiunga almeno: MODERATA FONTE, I/ merito delle donne, a cura di A. Chemello, Venezia 1988. Sulla «questione femminile», cfr. Nel cerchio della luna. Figure di donna in alcuni testi del XVI secolo, a cura di M. Zancan, Venezia 1983; R. DE Maro, Donna e Rinascimento, Milano 1987. 24 A. FIRENZUOLA,

I ragionamenti,

in Opere, a cura di D. Maestri, Torino

1977, pp.

100-1. A Fioretta che domanda: «Io ho sempre sentito dire che lo amore è indivisibile; laonde

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Vial

conseguenza della maniera in cui allora si concepiva il matrimonio, una maniera che non lasciava alcuno spazio all’amore. Pertanto esulano dal nostro argomento i numerosi trattati sulla famiglia e le varie dissertazioni sull'opportunità o meno — per il letterato, l’artista, il cortigiano — di prender moglie: questioni sulle quali intervennero fra gli altri il Casa ? e il Tasso e si pronunciarono i trattati sulle arti figurative. Né la situazione migliorò con l’affermarsi degli spiriti controriformistici, quando le storie romanzesche tendevano ormai a terminare con le giuste nozze: più che unire amore e matrimonio, si finì allora per limitare nuovamente la libertà del sentimento. L’amore, per quanto rivolto alla donna, restava pur sempre amor di bellezza, come avevano insegnato Platone, il Ficino e, non meno, la nostra tradizione

lirica. Su questa concezione platonica s’innestò senza sforzo la tesi aristotelica della bellezza come armonia, proporzione, unità. Si cercarono pertanto i canoni della bellezza corporea e si credette d’individuarli nei rapporti in cui stanno le misure delle singole parti. Queste ricerche erano essenziali nei trattati sulle arti figurative, ma — per quanto svolte minuziosamente anche da letterati come il Firenzuola nel Celso — esulano dal nostro argomento, come ne esulano tutte quelle opere in cui il problema della bellezza è disgiunto da quello dell'amore 26. Analogamente possiamo considerare marginali opere come i Ritratti del Trissino e i numerosi scritti — si pensi, per esempio, al Libro della bella donna del Luigini — in cui viene analizzata la bellezza muliebre, ci si sofferma

egli aviene che mal si puote ’n un medesimo tempo amar due persone perfettamente. Dunque, se così è, che è verissimo, come sarà egli possibile che io ami il mio marito, come è mio obligo e come mostrate far voi, e in quel medesimo tempo mi proveda d’altro amante, come voi similmente avete confessato di fare?», la Regina, Costanza Amaretta, risponde: «Non ti ho detto di sopra [...] che questo amore è doppio e che egli opera doppiamente, come già ti ho dato lo esemplo di me e darotti di bel nuovo? Quello amor terreno e corporeo del quale si è tante volte ragionato di sopra mi fa amare il mio caro marito, al quale per volontà dei miei genitori, per disposizione delle leggi e per mio consentimento io ho soggiogate tutte le operazioni di questo corpo, né più voglio, né meno disider io che esso si voglia o si disideri. Ma se egli, come troppo ingordo di quelle cose che il corpo solo fanno riguardevole, niuna stima dello animo faccendo non mi lascia adoperar verso di lui le forze di esso animo, perché non mi è egli lecito, a cagione che la ruggine non se lo roda, farne dono a qualcuno che lo accetti e lo abbia caro, laonde io possa, se rnai tempo o onesta cagion ne darà luogo, parlar con lui della virtù; che si debba far per acquistarla; che sia onorevole a gentil donna e ciò che faccia chiaro leggiadro giovane? [...] Per le quali tutte ragioni io tengo per fermo che niuna cosa possa più aventurosa parere a saggia donna che abbattersi in valoroso innamorato, né a gentile uomo più leggiadra che invescarsi nella bellezza di virtuosa giovane. Questo vi voglio io ben dire, le mie donne: che colei che nel marito, al quale già è obligato lo amor del corpo, trova dove quello dello animo possa collocare, che ella non lo deve cambiare per alcuno altro; e questo sia detto per voi altri uomini similmente. Ma quanto questo intervenga di rado, voi, sanza che io vel dica, lo sapete troppo bene e vedetelo per isperienza tutto il giorno». 25La Quaestio lepidissima an uxor sit ducenda di Giovanni della Casa si può leggere con traduzione a fronte in Prose di Giovanni della Casa e altri trattatisti cinquecenteschi del comportamento, a cura di A. Di Benedetto, Torino 1970, pp. 47-133.

26 Si veda, comunque,

per uno sguardo d’insieme, la decima sezione (Bellezza e grazia)

del tomo II degli Scritti d’arte del Cinquecento, a cura di Paola Barocchi, Milano-Napoli 1973,

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sull’abbigliamento, le acconciature, gli ornamenti, ecc. Un cenno, però, doveva essere fatto perché, per il rapporto assai stretto fra bellezza e amore, questi argomenti si trovano anche nella trattatistica d'amore. Se poteva dare una mano al neoplatonismo nella descrizione delle bellezze terrene, l’aristotelismo, però, rivelava la sua povertà quando tentava di esporre una teoria dell'amore; anzi la maggior finezza di coloro che per brevità chiameremo spiritualisti è provata proprio dalla grossolanità di quelli che vollero opporsi alle loro opinioni. Per esempio, nel De pulchro e nel De amore (1531) di Agostino Nifo, che allora godette di grande fama, si può apprezzare la descrizione della bellezza di Giovanna d’Aragona, ma si resta sconcertati per gli argomenti rozzi e la scarsa finezza psicologica con la quale vi si vuole spiegare l’impulso all’amore con il

puro appetito sensuale ?7. Del resto, quanto di realistico e di sensuale s'incontra nei trattati d'amore dev’essere inteso non come una protesta, ideologicamente motivata, contro lo

spiritualismo o come accettazione di concezioni aristoteliche, bensì come adesione a moduli, schemi, situazioni, che erano della commedia e della novella. Il Decameron, è bene ricordarlo, appariva, ancor prima che come un modello di stile, come il libro che meglio di ogni altro aveva saputo rappresentare la varia fenomenologia amorosa e aveva rivendicato contro le condanne dell’ascetismo medievale la legittimità della passione amorpsa, specialmente se illuminata dall'intelligenza. Se il Bembo negli Asolazi volle escludere ogni spunto novellistico, altri invece accolsero nei propri trattati delle vere e proprie novelle, così che il contrasto più che fra platonismo e aristotelismo finì per essere fra Boccaccio e Petrarca, anche se per lo più i trattatisti utilizzarono spunti dell’uno e dell’altro. Quest’incontro con la narrativa consentì anche il ricupero di quella casistica d’amore che ovviamente non poteva trovar posto nella lirica petrarcheggiante. Riemergevano così motivi antichi, latini e medievali, e insieme la consuetudine, del resto non mai spenta, di intrattenersi con la discussione di questioni galanti. Questa consuetudine, ben viva nel Cinquecento, trovò una naturale collocazione nella cornice delle raccolte di novelle, spesso presentate o discusse come esempi di questo o quel problema d’amore. Nel tardo Cinquecento i fratelli Bargagli, descrivendo attentamente il gioco delle questioni d’amore, avrebbero codificato questa consuetudine. Girolamo, nel Dizlogo de’ giuochi che nelle vegghie sanesi si usano di fare (1572), spiegava che in questa sorte d’intrattenimento «il proponitor del giuoco» non ha molto da affaticarsi: non deve far altro che proporre a due giovani una questione o dubitazione d’amore e assegnare a ciascuno di loro il partito da sostenere; giudice sarà una donna, «la quale doppo l’aver sentite le ragioni di qua e di là addotte» formulerà la sentenza. Fra i

dove si leggono passi di Mario Equicola, Leone Ebreo, Baldassar Castiglione, Agostino Nifo, Benedetto Varchi, Vincenzio Danti, Giovan Paolo Lomazzo e Romano Alberti. 27 Cfr. B. Croce, Il «De pulchro» di A. Nifo, in Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, III, Bari 1952, pp. 101-10. Il Nifo, famoso professore universitario, scrive in latino; nel De pulchro e nel De amore, però, non mancano i riferimenti alla poesia in volgare e a

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dubbi che si potrebbero «mettere in campo» Girolamo ricorda: «se si ama per

elezzione o per destino, se l’amore senza gelosia si ritruova, se la lontananza accresce o sminuisce l’amore, se meglio sia l'amante letterato che l’armigero e simili» 28. Nei Trattenimenti (1587) Scipione Bargagli, spiegate a sua volta le regole del gioco, fa discutere pro e contro queste quattro questioni: «se

l'amante di donna nobile'debba dare opera all’armi o più tosto alle lettere»; «se in amore vaglia più l’arte o la natura»; «che cosa in amor sia di più valore o la bellezza del corpo o quella dell'animo»; «se copertamente o discopertamente si debba amare» ??. E come diceva anche Girolamo, il «proponitor del gioco» non doveva durar molta fatica per proporre le questioni amorose. Non mancavano i repertori. L’Equicola, per esempio, dall’Aura di Giovan Giacomo Calandra, che aveva trattato «circa settanta dubii d’amore», cita questi quesiti: Qual sia magior difficultà fenger amore overo amando dissimular non amare; qual donna è da piacere più o la bella simplice o la deforme accorta; se amor pò esser senza gelosia; qual è magior forza d’amore se fa il savio pazo o se fa il pazo savio; se amante pò morir per troppo amore; naturalmente chi è più constante l’homo o la donna; se seria meglio o pegio nel mundo non essendovi amore; se di fama uno se pò inamorar di donna; qual sia magior incitamento a virtù l’honore o desio di piacere all’amata; qual donna ama più, la timida o l’ardita; qual sia più difficultà acquistare la gratia de la donna o in quella mantenerse; chi più facilmente se persuade esser amato lo homo o la donna; qual sia magior segno ad una donna d’esser amata oltra la perseverantia; qual sia più potente passione amore o odio; se per magica si pò flectere animo duro; se è possibile che uno avaro ami ?9.

Sono quesiti che talora si presentano come temi di interi trattati d'amore e spesso sono esaminati e discussi uno dopo l’altro come nella seconda parte del Raverta del Betussi e nel Dialogo della infinità di amore di Tullia di Aragona.

4. Sperone Speroni e il dialogo «comico».

Una nuova stagione della trattatistica d'amore comincia con i Dialogi di Sperone Speroni. Questi furono pubblicati nel 1542, ma da tempo circolavano manoscritti. Nell’Apologia dei dialogi lo Speroni racconta che fra il 1520 e il 1528, nel periodo cioè in cui studiò e insegnò filosofia, le opere del suo ozio furono «non feste o balli, non carte o dadi, con l’altra turba infelice che suole ir trattatisti come Mario Equicola. I due trattati furono pubblicati insieme nel 1531 a Roma presso Antonio Blado. 28G. BargagLi, Dialogo de’ giuochi che nelle vegghie sanesi si usano di fare, a cura di P. D'Incalci Ermini, introduzione di R. Bruscagli, Siena 1982, pp. 95-6. 29S. BARGAGLI, I trattenimenti dove da vaghe donne e da giovani uomini rappresentati sono onesti e dilettevoli giuochi, narrate novelle e cantate alcune amorose canzonette, Venezia, B.

Giunti, 1587, pp. 38-94.

30 Libro de natura de Amore, cit., cc. 39v-40.

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dietro a sì fatta schiera, ma li dialogi dell’amore; e questi allora senza alcun luogo determinato e senza i nomi delle persone che vi sono introdotte. Convenivasi a l’ozio di quella età giovenile cotal subietto; né il parlar degli affetti umani si disconviene al filosofo, anzi è sua propria professione» ?. I grandi poemi — «sì fattamente amorosi che, anche in mezo di guerre e di odii imitati, di vani amori carnali sono intertesti li versi loro» ?° —, scrive, «mi furno duci ad entrare nel mio piacevole labirinto»: Chiamo piacevole labirinto non già lo amare per amore e intricarsi ne’ suoi diletti, ma ragionar delli innamorati e imitarli senza lo affetto nelle parole. Non stanno insieme in una anima amare e leggere publicamente filosofia aristotelica con qualche onore in un Studio; né amare è ozio allo innamorato, anzi è negozio oltre ad ogni altro pericoloso, pieno essendo naturalmente di qualitadi tra sé contrarie. Ché essere amore dolce e amaro in un sol punto alli amanti, dannoso e utile, leale e perfido e mille altri cotai miracoli che sanno dire i poeti e anche i quasi poeti, quelli in rima, questi altri in prosa dialogizando, non è poetica o dialogica finzione ma natural meraviglia ?.

L’osservare la singolare condizione degli innamorati gli procurava, egli dice, gioia e diletto; sopra tutto però insiste sul piacere che dà il «contemplar la cagione dei stranii effetti amorosi». Il «cerchio, il moto e la sua misura, ciò è il tempo — egli scrive — sono tre cose che, benché il mondo mille fiate le senta e veda ogni dì e perciò poco le istimi, non per tanto è rara impresa lo intenderle e degna molto d’ogni intelletto e gran diletto l’averle intese»: La quarta cosa, anzi la prima tra le mirabili, è amore, la cui natura avanza tutte le meraviglie: dunque il parlarne non è viltà né impietà. Ché se i ritratti di alcune bestie, nimiche a l’uomo e orribili, tanto a mirarli son dilettevoli quanto le vive son paurose, e corre ogniuno allegramente a vederle, che vere essendo le fuggirebbe, e non è buon dipintore che volentieri quanto altra cosa no Ile dipinga e non se vanti della pittura; come è possibile a chi conosce che cosa è amore (volesse Iddio ch'io ’l sapessi) non vegna voglia di ragionarne e in verso o in prosa no Ilo dipinga, né si compiaccia nella pittura? Tiziano, se dipingesse sì grande affetto e sì poco senno in un giovane, che farebbe egli co’ suoi colori e co’ l’arte sua? Formarebbe, come io avviso, la nostra effigie, ma sì diversa in aspetto e con tali atti disordinati che ognun direbbe: questa è sembianza d’innamorato; e tutto ’l mondo di tal ritratto, come di altri uomini valorosi ch’egli ha formato, senza alcun dubbio lo lodarebbe. Ma se cogl’atti amorosi voce e parole convenienti fussero agiunte alla sua figura e il nostro parlare sapesse farsi visibile, già sarebbe il buon dipintore non aborrito come empio ma come santo adorato [...] Son dunque specchi d’innamorati li miei dialogi, nelli quali quantunque volte alcun d’essi, sua bona sorte, si specchiarà, altre tante del proprio stato accorgendosi non potrà fare che di sé stesso non si vergogni, né a scostarsi da passion così indegna

arà bisogno di miglior sprone 34. 71 8. SPERONI, Apologia dei dialogi, in: Trattatisti del Cinquecento, cit., p. 692. 32Tvi, p. 711. 33 Ivi, p. 712. 34 Ivi, pp. 714-5.

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Lo Speroni, mentre spiega la genesi dei propri dialoghi, è costretto a difenderli in un’età che sembra non voler lasciare più alcuno spazio per la libera rappresentazione degli affetti; pertanto cerca l’aiuto di poeti, filosofi, santi; quindi ribadisce che le mie prose, che ’1 mordo chiama amorose, non furono opre di innamorato ma dipinture e comedie a giuoco fatte di adulazione, di gelosia, di stupidezza e di vanità di chi ama o forse finge di amare. Nel qual modo di scrivere e colle quali condizioni lo amor carnale così può esser ne’ miei dialogi senza alcun biasmo effigiato come è in chiesa il dimonio che tenta i santi e porta i tristi allo ’nferno. Similmente dovemo avere in memoria il privilegio che ha il dialogo di far parlar probabilmente d’ogni materia uomini e donne, di varii gradi e costumi, e disputare a lor modo 5.

Quando il Dialogo d'amore fu concluso non sappiamo; sappiamo però che intorno all’inizio del giugno 1537 fu recitato in casa dell’Aretino da uno degli interlocutori Niccolò Grassi, detto il Grazia. L’Aretino lo loda infatti in una lettera del 6 giugno allo Speroni: «È miracolo — scrive — l’aver rintenerito il duro de i sensi de la materia de la qual trattate e ne la quale appare il sudore del grande Sperone, la cui industria ha spianati i monti de le impossibilità, per esser certo che la maggior difficultà che sia è la facilitade, conservando sempre la maestà del decoro nel suo grado. Ma se da i saputi che sanno ch’io non so mi si perdonassi overo non mi si attribuissi a presunzione, aguagliarei la composizione udita al Pantheon di Roma, solo parangone e perfetto essempio di quanto può fare l’architettura. E credomi che, per essere già sacro a tutti i dèi, che il modello di tal fabrica fusse magistero di Dio. Ecco ivi una smisurata semplicità nel suo difficilissimo componimento; là non è intrigo che impacci l’ordine de la machina; tutti gli ornamenti son posti a i luoghi; ogni parte è pura e candida; e un lume solo che piomba dal mezzo de la sommità, venerabilmente rischiara il tempio, dove niente di più né di meno ce si desidera. Così è fatto il vostro lavoro. Gli interlocutori, le lor dispute, le figure, i

concetti, le comparazioni, le sentenze, le arguzie e i colori non escano punto del dovere. E chi dubita che il Molza, locato nel mezzo del ragionamento, quasi anima sua,

non sia la luce venerabile che ravviva gli intelletti e l’intelligenze di chi propone e di chi espone i subietti mirabili da voi tessuti con artificio inusitato? In somma, egli è sì ben raccolto e in ciascun lato è sì bene intero che par proprio la Ritonda; e il Tasso, il Valerio, il Capello, il Molino, il Grazia e il Broccardo sono le smisurate colonne sue. [...] la Tullia ha guadagnato un tesoro che per sempre spenderlo mai non iscemerà, e l’impudicizia sua, per sì fatto onore può meritamente essere invidiata e da le più pudiche e da le più fortunate. E a i grandi uomini predetti bastava la gloria de le carte loro: per ciò dovevano lasciare quella che gli aggiungano le vostre a chi ne ha bisogno

35 Ivi, p. 721. Il Dialogo d'amore si può leggere in: Trattatisti del Cinquecento, cit., pp. 511-63. La redazione compresa in Opere (Venezia, D. Occhi, 1740, I, pp. 1-45) è quella “purgata” dallo Speroni al tempo dell’Apologia dei dialogi.

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come ho io, che pur mi pare valere qualche cosa, poi che son mentovato da le parole de i vostri studi 3%

Le lodi sono iperboliche, ma non generiche, fondate come sono sulla «smisurata semplicità», sulla difficoltà che diventa facilità. Non stupisce che la famosissima lettera del 25 giugno 1537 sia nata proprio da riflessioni e discussioni avvenute dopo quella recita; proprio la maniera originale in cui lo Speroni aveva imitato Platone avrebbe indotto l’Aretino a spiegare le proprie opinioni sull’imitazione e a prendersela con i pedanti: Voi udiste l’altrieri, letto che ci ebbe il Grazia il dialogo grande del divino Sperone, cader da la eloquente bocca del mio Fortunio [Spira] come pareva Platone, in qualunque luogo l'avesse imitato; e ciò disse perché egli fa suoi i passi de i quali si è servito 37

Lo Speroni rispose l’8 luglio con la rigidità e l’enfasi tipiche di tutte le sue lettere a uomini di cultura, restando molto al di sotto del suo interlocutore, acuto anche quando si lasciava andare all’iperbole: Se il mio Dialogo dell'amore mi ha fatto degno di quelle laudi che voi degnate di darmi, già non solamente al Pantheon ma al cielo istesso, casa e tempio di tutti i dèi, ho ardimento d’assomigliarlo, perciò che il vostro divino intelletto niuna cosa se non divina ne ha in costume di celebrare. Io veramente, quando io proposi di fabricarlo, poco sapendo di architettura, a quello ricorsi che vedo fare ogni dì a molti, li quali empiendo le loro picciole camere di medaglie, di statue e di teste di antichi, col mezzo loro moveno il mondo a visitarli e amarli, disiderando la loro amistà. Raccolti adunque

alcuni nomi di grandi e persone onorate e di quelli alla mia fabrica la entrata e le stanze adornato, sì feci che alquanti de’ più nobili ingegni che illustrino il mondo oggidì non sdegnarono di vederla e gradirla; voi spezialmente. Dal quale (a confessar la mia ambizione) sopra ogni cosa disiderava che si dovesse vedere, giudicando la vostra vista doverli essere augurio di qualche futura grandezza. Ma Dio sa che io non fui mai così temerario che io avessi ardire di desiderare, non che sperare, che la lingua e le mani vostre con tanta cortesia si movessero a parlare e a scrivere di lei e di me; quella lingua la quale niuna cosa, se non laudatissima, non lauda; quelle mani dalle cui scritture, come il lume del sole, la fama e la gloria di re, imperatori e di papi suol derivare. E veramente come oltre la mia speranza, così sopra i miei meriti voi parlate e scrivete di me, che non che io ma la virtù istessa per sé medesima è indegna del vostro favore, ché così come niuna buona opra mortale è da tanto che ella meriti il paradiso, del quale però sperano i buoni che Dio debba far lor grazia, così la voce e la penna vostra divina è dono da voi dato a * mortali, maggiore infinitamente di tutto il bene che

uomo possa sperare [...]38. 36 P. ARETINO, Lettere. Il primo e il secondo libto, a cura di F. Flora, con note storiche

di A. Del Vita, Milano 1960, pp. 172-3. 37 Ivi, p. 192.

388. SPERONI, Opere, cit., V, pp. 7-8 (controllata sulla copia manoscritta presente nel omo XI dei manoscritti speroniani della Biblioteca Capitolare di Padova).

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Le lodi dell’Aretino dovettero lusingarlo e rallegrarlo molto. Mostravano che egli aveva raggiunto il suo intento: quello di gettare un ponte fra l’alta cultura e la nuova letteratura in volgare che aveva nell’Aretino il suo corifeo. Il Dialogo d'amore non ha struttura ragionativa, ma propone con grande naturalezza una garbata conversazione fra interlocutori ben caratterizzati, in cui l’approfondimento concettuale”è possibile ma non in forma scolastica. Platone trasmigra a Venezia, per la precisione in casa di Tullia d’Aragona, dove con la cortigiana discorrono Bernardo Tasso, di lei innamorato, Niccolò Grazia, Francesco Maria Molza; nel corso del dialogo vengono evocati Antonio Brocardo,

Tiziano, l’Aretino, Girolamo Molino, Bernardo Cappello e altri protagonisti dell’intensa vita culturale che si svolgeva sulla laguna intorno alle tipografie. Il tema è fornito dalla necessità, che il Tasso ha, di partire da Venezia e dal

dispiacere che ne prova Tullia, di lui innamorata. Non solo siamo ben lontani dagli ambienti aristocratici e raffinati del Bembo e del Castiglione, ma anche dalla loro maniera di concepire l’arte e la vita. Fra il 1530 e il 1540 il sistema delle corti era stato travolto o quanto meno profondamente scosso dagli eventi politici, e con esso erano stati travolti gli ideali aristocratici del maturo Rinascimento. Alla letteratura umanisticamente impegnata succedeva una letteratura di livello medio, divulgativa, spesso superficiale, grazie alla quale però la cultura raggiungeva strati sociali che fino ad allora ne erano stati esclusi. E per la grande apertura linguistica e culturale di quegli anni, si verificava un fenomeno molto importante per la trattatistica d'amore: per la prima, e forse l’unica volta in tutta la storia della letteratura italiana, le donne, non isolatamente ma in un gruppo vasto e vario, si dedicano allo scrivere e riscuotono un ampio successo.

L’Aretino, appunto, intuì tra i primi la situazione e comprese che la nuova letteratura volgare poteva trovare il suo naturale appoggio nell’editoria: questa, infatti, divenuta industria fiorente, badava a servire senza troppi scrupoli un pubblico il più vasto possibile, e per far questo abbisognava della collaborazione di letterati dalla penna facile e capaci d’intendere le richieste dei lettori. La letteratura diventava merce di consumo, e di conseguenza mutava la maniera di concepire l’arte e la vita, o meglio si riducevano a dimensioni più modeste i supremi ideali dell’umanesimo latino e volgare: la nuova trattatistica isolava e svolgeva autonomamente temi e aspetti particolari delle opere che, come il Cortegiano, avevano espresso il grande ideale umanistico di un’educazione volta non alla specializzazione ma alla formazione dell’uomo completo, e li adattava ai gusti e ai desideri di un pubblico culturalmente non ben qualificato. Questo, semplificando, possiamo dire con il senno del poi. Lo Speroni credette che stesse nascendo una nuova civiltà letteraria e aderì con entusiasmo a questa

temperie culturale, tanto da divenirne il campione e il difensore contro le

riserve degli umanisti. L’esempio dello Speroni fu certamente presente al Piccolomini quando compose quel piccolo gioiello che è il Dilogo de la bella creanza de le donne, comunemente noto come la Raffaella ®?. I critici si son chiesti se questa è 39 Lo si può leggere in Prose di G. della Casa e altri trattatisti del comportamento, cit.,

pp. 431-506.

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«una commedia minima» 4 o «una scena di commedia dilatata con materiale didascalico» o ancora «un trattato racchiuso in una commedia» ‘. Si tratta, come c’insegna lo Speroni, di una forma letteraria che fonde trattato e

commedia, e che deve gran parte del suo fascino al fatto che gli argomenti della trattatistica vengono svolti con estro comico. Edito nel 1540, il dialogo del Piccolomini, seguendo l'esempio speroniano, rompeva decisamente, per forma e contenuto, con la precedente trattatistica sull’amore, la bellezza e la donna: alle consuete discussioni di tono prevalentemente ragionativo e con personaggi appe-

na delineati sostituiva un dialogo che — per la maniera in cui viene individuata la psicologia delle due interlocutrici, per la vivacità dello svolgimento e il taglio delle battute — ha fatto pensare a una scena di commedia. La vecchia Raffaella vuole indurre la giovane Margarita, moglie d’un mercante che la trascura, a ricambiare l’amore che le porta Aspasio. Si tratterebbe, dunque, d’una tipica azione comica, se non fosse che Raffaella — la quale solo alla fine scopre la sua funzione di intermediaria d'amore — riesce con un’ordinata discussione sulle vesti, sui lisci, sul modo di mostrare le parti belle del corpo, sugli uomini da preferirsi per condizione sociale, aspetto, carattere, a far sì che Aspasio appaia a

Margarita proprio quell’amante ideale che ella è venuta delineando. Nella dedica il Piccolomini dice alle donne che nel dialogo potranno «conoscere apertamente la vita e i modi, che si apartengono ad una donna giovane, nobile e bella»: E, se per sorte, donne mie, vi accaderà mai di leggerlo a la presenza di alcuni di questi maligni, i quali, fra le altre bugie che dicano di voi donne, sogliano affermare che ne l'animo de le donne non si posson creare mai gran concetti e sentenzie profonde e di giudicio, ma solamente discorsi frivoli e snervati; e per questo, parendoli questo Dialogo pieno di utilissimi consigli, vorran dire che sia impossibile che sia nato da una donna, chiamata madonna Raffaella, come io lo presupponga: a questi tali, ancor che non meritin risposta, nondimeno voglio esser tanto cortese di offerirvi che voi respondiate a loro, da parte mia, che io ad ogni lor volontà gli vo’ provar con moltissime ragioni ed essempi infiniti che s’ingannano di longo, e che le donne posson discorrere e giudicare, consigliare e proveder in qualsivoglia caso d’importanza così ben come gli

uomini; e, se vantaggio ci è, è in esse ‘?. Le novità del Dialogo d'amore dello Speroni e della Raffaella del Piccolomini furono prontamente recepite e diedero l’avvio a una stagione abbastanza felice della trattatistica d’amore, che durò poco più di un decennio, anzi di meno se si considerano non le date di stampa ma quelle di composizione: del 1544 è il Raverta nel quale si ragiona d'Amore e degli effetti suoi di Giuseppe

10).

40 Così Diego Valeri nell’introduzione alla sua ristampa della Raffaella (Firenze 1944, p.

41 Secondo la definizione che il Di Benedetto considera accettabile. 4 Ed. cit., pp. 434-5.

(in Prose di G. della Casa, cit., p. 25)

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Betussi, del ’45 il Ragionamento nel quale brevemente s'insegna a’ giovani uomini la bella arte d'amare di Francesco Sansovino, del ’47 il Dialogo della infinità di amore di Tullia d’Aragona e lo Specchio d'amore nel quale alle giovani s'insegna innamorarsi di Bartolomeo Gottifredi, del ’57 la Leonora, ragionamento sopra la vera bellezza del Betussi. Sono, beninteso, opere assai diverse, non solo per qualità. La Leonora è un dialogo fornito di “cornice”; il Raverta è incerto fra il dialogo “comico” e quello raziocinante; le parlate del Varchi nel dialogo della Tullia sono un esempio della maniera aristotelica. Tutti, però, tentano di caratterizzare i personaggi e curano la naturalezza del dialogo, sia pure con risultati diseguali; tutti tengono presente quel pubblico femminile a cui si rivolgeva il Piccolomini e, per lo più, si svolgono in cenacoli retti da donne. Fa eccezione il Ragionamento, che si ingegna di variare il modulo del Piccolomini, facendo dialogare due uomini. Ma forse è più significativo notare che la conversazione della Leorora (segno, forse, di un mutamen-

to di costumi) si svolge presso una corte, non più nel salotto di una Tullia o di una Baffa. La restaurazione sta iniziando e non è più possibile scherzare con il fuoco. Lo Speroni lo apprenderà a sue spese e ancora più il Decazzeron, specialmente quando con gli interventi del Salviati non ci si preoccuperà più soltanto di salvare l’onore della religione e dei religiosi ma anche di salvaguardare la moralità dei personaggi.

5. Giuseppe Betussi e il «Raverta». Giuseppe Betussi, nato a Bassano intorno al 1512, compì studi regolari e si acquistò una buona preparazione sia nella letteratura latina sia in quella volgare. Trasferitosi a Venezia, come si conveniva a un giovane letterato ambizioso, nel 1542 fu accolto, grazie allo Speroni, nell'Accademia degli Infiammati. L’anno dopo, mostrando di saper tempestivamente individuare gli argomenti alla moda, esordiva con il Diglogo amoroso (Venezia, al segno del Pozzo, 1543). I suoi amici — il Domenichi, l’Aretino, Camillo di Caula — lo consideravano troppo propenso a lasciarsi dominare dalla passione amorosa, ed egli stesso in una lettera al cardinale Giovanni Salviati ricordava il «vituperoso legame» con una donna che l’aveva irretito con «lusinghevoli parole» *. Proprio l’Aretino gli aveva consigliato di coltivare insieme l’amore e le lettere. Il 24 luglio 1542 il giovane letterato, giovandosi dell’intercessione del Caula, aveva mandato all’Aretino due sonetti. Questi, rispondendogli con una lettera datata 20 agosto 1542, lodava i versi ricevuti ed esortava il Betussi a continuare «gli studi de la poesia»:

4 Lettera del 10 aprile 1542, in: Nuova scelta di lettere di diversi uomini, Venezia, s. e.,

1574, II, p. 111.

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E perché cotali vigilie si continuono con più fervenza, essendo da gli accidenti amorosi, non vi levate punto da le imprese che la bellezza e la cortesia de la donna che amate, il giudicio e la fatta professione vi farà scala per gire in cielo e piuma per

chi gli essercita favorito avete: imperò che, oltra vena che ella tiene in sì volare per il mondo #4.

La donna era quella Francesca Baffa, che nel Dizlogo amoroso discorre con il Sansovino e con un Pigna, forse della medesima famiglia del ferrarese Giambattista. Quest'ultimo esalta la bellezza della donna di cui è innamorato; poi si allontana. La Baffa e il Sansovino, invece, continuano a parlare della donna, osservando fra l’altro che essa a torto si mostra esigente con il Pigna, il quale è sempre stato liberale con le sue amanti. Nel breve dialogo — in cui, come si vede, non si tratta dell'amore ideale ma di amori concreti di letterati per cortigiane — sono nominati molti personaggi che tornano anche nel Raverta e sono indicativi dell'ambiente in cui il Betussi opera: il capitano Camillo di Caula; Baldassarre Stampa, fratello di Gasparina, ricordato poi dal Sansovino nella dedica del Ragionamento; Ludovico Domenichi e il Gottifredi. Lodi vengono fatte di Ludovico Rangone, Vicino Orsini (a cui è dedicato il Raverta), Collaltino di Collalto, futuro amante di madonna Gasparina e futuro mecenate del Betussi, e sopra tutto dell’Aretino, blandito

anche con un’imprecazione contro Niccolò Franco. Anche i sonetti (dello stesso Betussi, della Baffa, del Caula, del Domenichi, del Sansovino, della Stampa, del Doni), che seguono il dialogo, offrono indicazioni su questo circolo letterario che si raccoglieva intorno alla Baffa e aveva, per così dire, l’Aretino come nume tutelare. Insomma, è all’incirca lo stesso ambiente da cui escono, oltre il Raver-

ta, anche il Ragionamento del Sansovino e lo Specchio del Gottifredi. Ed è un ambiente analogo a quello evocato dallo Speroni nel Dialogo d'amore. Dei rapporti fra questa prima opera del Betussi e il ben più ambizioso Raverta offre testimonianza una lettera di Alessandro Campesano, a cui l’autore aveva inviato il Dialogo amoroso in dono. Il Campesano, infatti, vi propone un dubbio: «quale vi paia più da lodare, o il vostro gentiluomo, il quale vinse l’odio della sua donna, contentandola di tutto quello che la ingordigia e la malvagità sua gli chiedea» oppure quel cavaliere spagnolo che obbedì all’assurda richiesta dell'amata, riportandole il guanto da lei volontariamente gettato fra i leoni, ma poi

le diede «la maggior guanciata che puoté» e la lasciò per sempre *. L’aneddoto, infatti,

è passato nel Raverta con le relative questioni,

e non è senza

significato che all’inizio del nuovo dialogo la Baffa stia aspettando proprio il Campesano che le ha promesso di ragguagliarla «di molte cose d’intorno d'Amore». Ma, se fra il Dialogo amoroso e il Raverta esistono rapporti precisi, i risultati

4 P. ArETINO, Lettere, cit., p. 945. 4 Lettera del 10 settembre 1543, in: Novo libro di lettere scritte da i più rari auttori e professori della lingua volgare italiana (ristampa anastatica delle edd. Gherardo, 1544 e 1545), a cura di Giacomo Moro, Sala Bolognese 1987, p. 127 [60]. Sulla Baffa e sul Dialogo amoroso,

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sono ben diversi, come ben diversi erano gli intenti del Betussi. Stimolati dalle

domande della Baffa, Ludovico Domenichi e Ottaviano della Rovere (Raverta)

discutono prima della natura d’amore, poi esaminano una fitta serie di questioni amorose. La prima parte, più compatta, si attiene alle formule ormai scontate del neoplatonismo (i Di4loghi di Leone Ebreo, come si è visto, vi sono espressamente ricordati all’inizio); d’altra parte, il Betussi non mirava a dire una parola nuova, bensì a far opera di abile divulgatore, piegando alle convenienze mondane e alle esigenze del vasto pubblico quanto era stato discusso dalla precedente trattatistica. Lo sforzo non è del tutto vano; le qualità del Betussi però si fanno meglio valere quando vengono trattati i temi meno impegnativi della casistica amorosa. Il letterato bassanese si rifaceva non solo agli scritti di quei poligrafi che, volontariamente o involontariamente, venivano facendo la caricatura dei temi della letteratura classicistica; egli aveva presenti — come abbiamo visto — anche i dialoghi dello Speroni e del Piccolomini. Pertanto, anche se non seppe riprodurne la leggerezza e la naturalezza della conversazione, sul loro esempio si sforzò di evitare sia le durezze del ragionamento filosofico sia l’eccessiva rigidità del discorso. Così, se già nella prima parte la Baffa con i suoi dubbi rompe un po’ la monotonia della dissertazione, nella seconda la struttura si fa più aperta fino ad accogliere novellette, sonetti, madrigali, lettere e una consolatoria in ottave a Vicino Orsini. In questa seconda parte, dallo svolgimento più vivace e rapido, si precisano, almeno sommariamente, i caratteri dei tre interlocutori: la Baffa, proponendo le questioni e commentando le risposte, non è priva di una grazia e di una civetteria tutta femminile; il Domenichi, che nei Dialoghi (Venezia, Giolito, 1562) si occupò anche lui D’Amzore e De’ rimedi d'amore, è incline alle risposte galanti; più serio e non alieno da interventi di carattere dottrinario è il Raverta, che ebbe un parte di rilievo nel concilio di Trento. Ma sopra tutto dà respiro al dialogo la volontà di rispecchiare le conversazioni allora consuete nei circoli condotti da donne. Ovviamente, per ottenere questo scopo, non basta spezzare il dialogo con interventi che sviano dalle questioni discusse; tuttavia, a differenza del mediocre Ragionamento del Sansovino, il Betussi riesce a far sentire intorno ai suoi interlocutori la presenza della più spregiudicata cultura veneziana: dall’Aretino al Doni (che nella Libraria lo annovera fra le migliori speranze dell’arte ‘9° e lo pone fra gli interlocutori dei Marzi), dal Veniero al Sansovino.

cfr. A. SALZA, Madonna Gasparina Stampa secondo nuove indagini, in «Giornale storico della letteratura italiana», LXII (1913), pp. 37-47. 46 A. F. Doni, La libraria, a cura di V. Bramanti, Milano 1972, pp. 116-7: «Ha dimostrato questo giovane con onorato stile quanto sieno le forze d’amore, gli effetti, affetti e passioni, in alcune sue composizioni, e risoluti alcuni dubbi [dolcissimi], talmente che noi vedremo ancora, dopo questi arbuscelli bellissimi, un giardino di piante onorate che usciranno degli scritti suoi». Per maggiori informazioni sul Betussi, cfr. G. ZONTA, Note betussiane, in «Giornale storico della letteratura italiana», LII (1908), pp. 321-66.

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6. Il «Ragionamento» di F. Sansovino. Poligrafo ben più disposto alle semplificazioni, pur di rispondere alle richieste del mercato librario, fu Francesco Sansovino. Nato a Roma nel 1521 dal famoso architetto e scultore Iacopo Tatti detto il Sansovino, venne con il padre a Venezia nel 1526. Fu a Padova dal 1536 al 1540 per studiar legge e si

addottorò a Bologna nel 1542. Già l’anno dopo pubblicava le Lettere sopra le dieci giornate del Decamerone e dedicava all’Aretino il primo libro della Retorica. Due anni dopo offriva a Gaspara Stampa tre operette: l’edizione di una lezione del Varchi sul sonetto dellacasiano Cura che di timor ti nutri e cresci,

l’edizione dell’Amzeto del Boccaccio e il Ragionamento nel quale brevemente sinsegna a’ giovani uomini la bella arte d'amare. Quando nel 1550 salì al soglio pontificio Giovanni Maria del Monte (Giulio III), che lo aveva tenuto a battesimo, si recò a Roma sperando di farvi carriera come cortigiano, ma deluso

tornò a Venezia, dove nel 1553 prese moglie. Nella capitale dell’editoria italiana rimase fino alla morte (1583), lavorando come revisore nella stamperia del

Giolito e poi stampando in proprio o associandosi ad altri tipografi, e sopra tutto al Rampazetto. Non è il caso di render conto della sua troppo copiosa produzione letteraria (più di novanta opere!). Basti dire che forse non c’è campo in cui egli non sia intervenuto: grammatica, retorica, storia, politica, diritto, agricoltura, medicina, tutto si prestava alla sua dilettantesca versatilità. Curò edizioni commentate di Dante, Petrarca, Boccaccio; Ariosto; tradusse

Plutarco, Livio, Palladio; raffazzonò opere erudite di vario genere ‘. Piero Calamandrei, che ne ha tracciato un simpatico ritratto, ha richiamato l’attenzione dei lettori sui trattati Dell’avvocato (1554) e Del segretario (1565) *, in cui sono pagine vivaci e, nel primo, una satira indovinata del causidico ignorante che riesce con la sua sfacciataggine a carpire la fiducia degli ingenui. La sua fama però è affidata ad alcune opere nate da un sincero desiderio di divulgazione e ricche di notizie prezione (anche se non sempre sicure) come il Ritratto delle più nobili e famose città d'Italia (1576), il Dialogo di tutte le cose notabili che sono in Venezia, cioè pitture e pittori, sculture e scultori, usanze e palazzi,

edito la prima volta nel 1556 e più volte ristampato, e sopra tutto l’ancor oggi assai apprezzata Venezia città nobilissima e singolare descritta (1581). Il Ragionamento si inserisce nel filone che aveva già trovato il suo capolavoro nella Raffaella, ma dell’estro comico che si ammira nell’operetta del Piccolomini tutto va perduto, e nemmeno sarà il caso di insistere, come qualcuno ha fatto, su «una sorta di calcolo (tale da ricordare quello del politico) applicato all'amore» °°, Si tratta di cosa ben più ovvia, della fenomenologia amorosa del Decameron, schematizzata e impoverita, ridotta a una casistica senza nerbo e 4 Lo si può leggere in Prose di G. della Casa, cit., pp. 641-72. 48 Una bibliografia delle sue opere e delle edizioni da lui curate

si legge in E. A.

Cicogna, Delle iscrizioni veneziane, IV, Venezia 1834, pp. 40-87.

49 Si veda l’introduzione del Calamandrei a L'avvocato e il segretario, Firenze 1942.

90 M. AuRIGEMMA, Lirica, poemi e trattati civili del Cinquecento, Roma-Bari 1979, p. 47.

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vivacità. Oltre tutto, forse per desiderio di originalità, il Sansovino modifica la struttura della Raffaella: non è una donna anziana che istruisce una giovane nell’arte d'amare, bensì un uomo che insegna a un altro uomo un'arte ben nota e praticata. Manca così quella sorta di femminismo sensuale, che consisteva nella richiesta di parità fra l’uomo e la donna almeno nell'amore, e manca sopra tutto una qualsivoglia motivazione dell’insegnamento che Panfilo impartisce a Silio. Anche sul piano del costume quest’ars amarzdi non aggiunge molto: sul comportamento degli amanti siamo ben informati dalla novellistica e dal teatro, e da quei passi della trattatistica “seria” in cui si invitano le fanciulle a guardarsi dalle arti con cui gli amanti cercano di conquistarle. Tornano, insieme con la fitta serie di exerzpla boccacciani, motivi tipici della casistica esposti aridamente e stupisce che questo supposto “scapigliato” dia importanza alla nobiltà dei natali. L’apparente spregiudicatezza comporta in effetti un allineamento a posizioni che presto porteranno a soffocare la libertà espressiva, e ben lo si vede anche nel fatto che la donna torna a essere un puro oggetto di piacere, opinione che porta acqua al mulino della Controriforma, la quale, continuando a considerare la donna

se non

l’incarnazione

almeno uno

strumento

del diavolo, ne

arresterà quel processo di liberazione dalla schiavitù domestica che era stato favorito dallo spiritualismo. D’altra parte, quella che ad alcuni è sembrata una polemica antiplatonica non va nel Ragionamento al di là di una troppo facile satira di alcuni aspetti deteriori del costume, mentre a un ovvio motivo “comico” va ricondotta la polemica contro i vecchi, capaci soltanto di parole. Appunto solo come notizia di un fatto di costume si può ricordare che il Sansovino insinua che siano sospettabili di sodomia «i platonici; cioè contemplativi della bellezza più perfetta, che essi dicano che consiste nello uomo, col mezzo della quale ascendano alla divina» ?!: ben altro ci voleva per colpire anche sul piano del ridicolo il platonismo!

7. Il «Dialogo della infinità di amore» di Tullia d'Aragona. Nata a Roma verso la fine del primo decennio del secolo da madre cortigiana che l’avviò alla sua stessa professione, Tullia d'Aragona si guadagnò presto fama di donna colta e di spirito. Forse più che d’una sfolgorante bellezza era dotata di grande vivacità di spirito — secondo Francesco Vettori, Filippo Strozzi doveva essere innamorato di lei «come femmina che ha spirito, perché per bellezza non lo merita» 7? —; comunque, il ritratto malevolo che ne ha dato il Giraldi è tendenzioso. La novella in cui si narra l’obbrobriosa avventura della nostra cortigiana, infatti, appartiene a quel settore degli Ecatommiti, in cui si vuol dimostrare «che solo, fra gli amori umani, è quiete in quello il quale è fra

51 F. Sansovino, Ragionamento, cit., p. 653.

52 TULLIA D'ARAGONA, Rise, a cura di E. Celani, Bologna 1891, p. XXVI.

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marito e moglie, e che ne’ disonesti non può essere riposo» ??, e quindi il

letterato ferrarese era indotto a gravare la mano sulle cortigiane. Dopo il 1531 lasciò Roma; a Ferrara conobbe Girolamo Muzio che a lungo l’esaltò nei propri versi, poi fu a Venezia

(1534 o 1535). Qui se si guadagnò il monumento

erettole dallo Speroni, come notava con un certo dispetto l’Aretino nella lettera già citata, non incontrò molta fortuna professionale: l’Aretino e i suoi fidi infatti le furono avversi, perché preferivano etère meno colte ma più belle e procaci, o forse semplicemente perché erano legati ad altre cortigiane e non volevano danneggiarle. Nella Tariffa delle puttane a Venezia (Venezia 1535), attribuita a Lorenzo Veniero (ma probabilmente opera dello studente padovano Antonio Cavallino), Tullia veniva collocata solamente all’ottavo posto. La colta cortigiana, però, si prese presto una stupenda rivincita: a Ferrara, nel 1537, molti la preferivano a Vittoria Colonna! Così infatti un Apollo novellista la descriveva a Isabella d’Este: V. E. intenderà come gli è sorta in questa terra una gentil cortegiana di Roma, nominata la Signora Tullia, la quale è venuta per istare qui qualche mese per quanto s'intende. Questa è molto gentile, discreta, accorta e di ottimi e divini costumi dotata;

sa cantare al libro ogni motetto e canzone, per rasone di canto figurato; ne li discorsi del suo parlare è unica, e tanto accomodatamente si porta che non c’è omo né donna in questa terra che la paregi, ancora che la Ill.ma Signora Marchesa di Pescara sia eccellentissima, la quale è qui, come sa V. E. Mostra costei sapere de ogni cosa e parla pur sieco di che materia te aggrada. Sempre ha piena la casa di virtuosi e sempre si puol visitarla, e è ricca de denari, zoie, colanne, anella e altre cose notabile, e in fine è ben accomodata in ogni cosa 24.

Nel 1543, a Siena, Tullia sposò Silvestro Guicciardini; quindi venne a Firenze (1545 o ’46); qui nel 1547 — l’anno della prima edizione delle sue Rizze — ottenne un grande successo quando Cosimo le concesse di non portare il “velo

giallo”, che era stato reso obbligatorio per le cortigiane: «Fasseli grazia per poetessa» scrisse il duca sulla supplica di Tullia. Il 1° maggio, pertanto, le fu rilasciata copia della delibera in cui, riconoscendo la «rara scienzia di poesia e filosofia che si ritrova con piacere di pregiati ingegni», la si faceva esente «da tutto quello a che ell’è obbligata quanto al suo abito, vestire e portamento» ?. Tornata a Roma nel 1548, fu colpita poco dopo dalla morte della sorella Penelope (la ragazza che compare sulla fine del Dialogo di infinità di A più tardi della madre; infine trovò la morte ella stessa nel marzo del LIS6

SR

93 G. B. GiraLpI, Ecatommiti overo cento novelle, Venezia, E. Deuchino e G. B. Pulcia-

ni, 1608, p. 13. La novella («Saulo ama Nana [Tullia]; ella finge di amarlo e di sé il compiace. Si dà ella ad un lordissimo tedesco che molto prezzo le promette. Saulo la sdegna e parimente tutti i nobili giovani, onde è costretta uscirsi di Roma») è la settima dell’Introduzione.

94 TULLIA D'ARAGONA, Rime, cit., pp. XXIX-XXX.

55 Ivi, p. XXXIX. ° Per altre informazioni rimando alla prefazione di E. Celani alla citata edizione delle

Rime.

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Oltre il dialogo sull'amore, la Tullia compose il Meschino, altramente detto il Guerrino, pubblicato postumo a Venezia presso il Sessa nel 1560, e scrisse versi che oggi appaiono mediocri ma allora furono lodati e le acquistarono fama di buona rimatrice. Come cosa minore, riesce tutt'al più interessante il sonetto in cui protesta contro l’eccessivo rigorismo del famoso predicatore Bernardino Ochino, che aveva vietato le mascherate, la musica, il ballo: Non fora santità, fora arroganza torre il libero arbitrio, il maggior dono che Dio ne diè ne la primiera stanza ??.

D'altra parte, ciò che rende simpatica questa scrittrice non è l’approfondimento concettuale o lo spirito poetico; Tullia resta indimenticabile — sia che la si incontri nel Dialogo d'amore dello Speroni teneramente innamorata di Bernardo Tasso e corteggiata anche dal Molza, sia che la si senta motteggiare nel suo stesso trattatello — per la singolare alacrità d’animo, la misurata civetteria, la calcolata femminile impudenza. La critica si è chiesta se davvero Tullia è l’autrice del Diglogo della infinità di amore, e non è il caso di tornare sull’argomento ?8. Basti dire che, se questo dialogo fu opera a più mani — cioè se il Muzio e il Varchi collaborarono con la Tullia alla stesura del dialogo — la famosa cortigiana ha avuto, se non altro, il merito di aver infuso un po’ del suo spirito a quei due letterati, notevoli certo ma alquanto freddi. Quanto al Muzio, non si può non condividere il giudizio del Croce («era di quegli ingegni che vedono e dicono molte cose giuste e anche talvolta non comuni, ma che ciò nonostante rimangono nel mediocre»), il quale ha pur fatto vedere quanto poco egli avesse compreso la teoria dell'amore ideale, alla quale poi rinunciò esplicitamente — nella canzone che chiude le sue rime d’amore — per tornare all’idea religiosa del contrasto tra cielo e terra, amore della creatura e amore di Dio ??. Da parte sua, il Varchi, anche a non voler accogliere il giudizio severissimo del Croce ®, che è sotto molti riguardi ingiusto, era troppo compreso nella sua parte di “filosofo”; se motteggia, motteggia a freddo per amor di riboboli e pare incapace di una franca risata, nonché privo di quel senso dell’ironia che è anche senso dei propri limiti. Anche ai problemi d’amore rivolse la sua attenzione di filosofo convinto di poter sviscerare qualsiasi ordine di problemi. Ne trattò sovente in quelle dissertazioni accademiche che, traendo labile spunto dall’intenzione di commentare i versi di questo o quel poeta, si disperdono in un vuoto sfoggio di

57 Sonetto Bernardo, ben potea, in: Lirici del Cinquecento, a cura di L. Baldacci, Milano 1975, p. 259; a p. 39 nella cit. edizione delle Rime. 58 Cfr. la Nota di G. Zonta a Trattati d'amore del Cinquecento, Bari 1912, pp. 360-62. 59 B. CROCE, G. Muzio, in Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, I, cit., pp. 198-210 (la citazione a p. 203). 60 B. Croce, B. Varchi, in Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, TIIPrcity

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erudizione e mostrano già molti dei tratti della più arida trattatistica dell’ultimo Cinquecento. Ma, se non altro, malgrado il suo aristotelismo scolastico, per questa materia riconosceva come maestri il Ficino, il Pico, il Diacceto, il Bembo

e Leone Ebreo; pertanto pensava ancora che «dall’amore solo, e non da niuna altra cosa, procedettero, procedono e procederanno sempre tutti i beni, o d’anima o di corpo o di fortuna» 4, e non indulgeva ai miti della nobiltà di sangue, dell'onore e simili. In quattro lezioni Sopra alcune quistioni d'amore discuteva: Qual sia più nobile, o l'amante o l'amato. Quale sia più forte e più possente passione o l’amore o l’odio. Se ogni amato necessariamente riama. Se chiunque è amato, è tenuto di dover riamare l'amante. Se nell'amore onesto si sentono passioni. Se alcuno può innamorarsi o amare senza speranza. Se amore può essere senza gelosia. Se alcuno può

solo per fama e d’udita innamorarsi. Se si può amare più d’uno in un tempo medesimo. Se alcuno può amare più altrui che sé stesso. Se alcuno si può innamorare di sé medesimo. Se alcuno amante può, solo che voglia, non amare. Se l’amore può sanarsi in alcun modo. Se l’amore può essere regolato dalla ragione. Se l’amore viene da destino o da elezione. Se i morti possono amare o essere amati. Se l’amore può star fermo in un medesimo stato senza crescere o scemare. Qual sia miglior cosa e più degna o l’amicizia o l’amore. Chi ama più o i giovani o gli attempati. Se l’amore si può simulare o dissimulare, e quale è più agevole di queste due cose ®2.

Su questi problemi il Varchi interviene con tutta la sua autorità di filosofo, svolgendo motivi platonici con procedimenti aristotelici, nella maniera appunto che appare dal Dialogo della infinità di amore. Ma nel dialogo la Tullia scherza sulla filosofia del Varchi, sul verbalismo dei suoi ragionamenti, sul suo culto per Aristotele, sulla terminologia filosofica e, come abbiamo visto, si diverte a

metterlo in imbarazzo contrapponendo platonismo e aristotelismo, Leone Ebreo e Pietro Bembo. Non per questo si deve pensare che la schermaglia della Tullia voglia gettare il ridicolo sul burbanzoso filosofo o insistere troppo — come

pp. 156-9. A parziale correzione di questo giudizio troppo severo si veda almeno: U. PIROTTI, B. Varchi e la cultura del suo ‘tempo, Firenze 1971. 61 B. VarcHI, Sopra alcune quistioni d'amore, in Opere, cit., II, p. 532.

62 Sono le «quistioni d’amore» discusse (in Opere, cit., II, pp. 536-61). Ci sono pervenute anche altre sue lezioni sull'amore tenute nell'Accademia Fiorentina. La terza domenica di Quaresima del 1553 trattò De/l’amzore, dichiarando il sonetto CKXXII (Samor non è) del Petrarca (ivi, pp. 496-507). L’ultima domenica d’agosto e la prima di settembre del 1564 trattò ancora Dell’amore, questa volta dichiarando «que’ versi di Dante nel diciassettesimo canto del Purgatorio, i quali incominciano: Né creator né creatura mai» (ivi, pp. 321-35). Nel giugno del 1554 tenne una lezione Sopra sette dubbi d'amore (ivi, pp. 525-31): «1. A quale artista s’appartenga trattare d’amore. 2. Se il bello e il buono sono una cosa medesima. 3. Se tutti i begli sono ancora buoni. 4. Onde è che s’ami e odii più uno che un altro, senza saperne molte volte la cagione. 5. Onde è che gli amanti disiderino tanto di star sempre presso agli amati loro. 6. Onde è che gli amanti temano sì forte e onorino la presenza dell'amato. 7. Onde è che gli amanti si vergognano di confessare d’essere innamorati» (p. 526).

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qualcuno ha fatto — sul suo appello alla «sperienza» contro le teorie e parlare di «crudo realismo», di «tentativi di dimostrazione antiplatonica» che «da una parte rafforzano l’antipetrarchismo, dall’altro sono anche, di esso e delle sue

motivazioni letterarie, il risultato» ®. Tullia non è l’antagonista del Varchi nel senso che ne contrasti le opinioni, anzi è lei a esprimere in forma chiara le tesi del platonismo amoroso. Come in un divertente gioco mondano ella con garbo tutto femminile si compiace di motteggiare il severo filosofo con fare sbarazzino: gli sta attorno e non gli concede respiro, e par di vederla tutta moine, ammiccamenti, gridolini, sorrisi compiaciuti e maliziosi. Ma va da sé che

la sua funzione non è quella di fornire alternative, bensì quella di far risaltare la capacità del Varchi di sciogliere le mille questioni da lei suscitate. Anzi, portando le sue contestazioni non a bersagli generici bensì ad aspetti reali della personalità varchiana, offre l’adito al “filosofo” di sbarazzarsi di molti equivoci esistenti sul proprio conto e di chiarire certi aspetti del proprio pensiero e comportamento che gli avevano procurato non poche difficoltà fra i letterati fiorentini. I due personaggi, insomma, sono nettamente individuati. Pochi dialoghi d’amore hanno tanta verità storica e mettono in campo con tanta vivacità la cultura del tempo. E non è piccolo pregio di un’opera in cui il senso della conversazione non è ottenuto con espedienti intrinseci (ma le molte frasi che si interrompono crearono difficoltà al Camerini che pensò a dimenticanze dello stampatore) ‘, bensì con uno stile vivace, con un lessico ricco, con un’ab-

bondanza di forme idiomatiche, di metafore popolaresche, di proverbi e di motti sentenziosi, di forme gergali, che qui non stanno a pigione, come spesso nel Varchi, ma acquistano una loro precisa e maliziosa funzione (grazie anche al contrappunto dell’arido stile filosofico) per quel gioco monellesco di cui si è detto. E della vivacità della Tullia ci si rende ben conto per lo scadimento della conversazione quando viene sostituita, nella discussione con il Varchi, da uno dei suoi ammiratori senesi, Lattanzio Benucci, che più tardi si sarebbe anche lui

provato nella trattatistica d'amore. Di lui ci resta infatti un inedito Dig/ogo della lontananza, la cui dedica «A la nobilissima Madonna Onorata Tancredi» è datata «da Napoli, il primo dì dell’anno 1563». Si tratta di una discussione fra Bernardo Cappello, che prende le parti di Onorata, e Curzio Gonzaga sul tema «se amore ha più forza da presso che da lontano»: il primo sostiene «che non pur la lontananza non intepidisca o non rallenti amore, ma che sicuramente lo renda più vivace e di maggior forza che prima»; Curzio ritiene invece che la lontananza degli amanti diminuisca il loro amore. Naturalmente trionfa la tesi del Cappello: amore trova la sua perfezione nella congiunzione degli animi: se si desidera la presenza fisica è solo perché i gesti della donna «come messaggeri dell’intrinseco dell’amata» rendono l'amante certo dell’amore che gli è portato. È un dialogo che non manca di una certa vivacità, ma è prolisso e mostra di è 6 ®. essere stato composto senza troppo impegno 6 M. AURIGEMMA, Lirica, poemi e trattati civili del Cinquecento, cit., p. 48. 6 E. Camerini curò un'edizione del dialogo della Tullia, uscita a Milano nel 1864. 6 Il Dialogo della lontananza delle donne è conservato dal ms. 1369 della Biblioteca

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8. Bartolomeo Gottifredi. Nato a Piacenza all’inizio del secolo, il Gottifredi fu abilitato nel 1531 all'esercizio del notariato. Con il nome di Cipolla appartenne all'Accademia degli Ortolani di Piacenza, a cui presiedeva il Doni e alla quale appartenne anche il Domenichi, il quale più tardi ne tracciò un nostalgico ricordo nel Dialogo delle imprese (1562). Anzi proprio il Domenichi nel Raverta legge una lettera, di stampo decisamente aretinesco, diretta dal Betussi al Doni, in cui il tranquillo ambiente piacentino e i letterati che vi vivono sono esaltati nel confronto con la corruzione delle corti: Statevi a Piacenza, dove io odo dire che meritamente sète intrattenuto, accarezzato e ben visto, come si conviene a un raro e virtuoso spirito. Ché, per Dio, mille volte ho

avuto a invidiarvi sì felice e lieta conversazione. Che più alti soggetti volete per inalzare l'ingegno e stil vostro, che celebrare le infinite virtù della signora Isabella Sforza, donna religiosa e divina? della signora Ippolita Borromea, albergo di bellezza e d’onestà? della signora Camilla Valente, donna non meno dotta che onesta e bellissima? e di tante altre onorate gentildonne? Che più volete, che godere la grata amorevolezza e nobil generosità dei molti illustri signori conte Giulio e conte Agostino Landi? la reale splendidezza del vostro e mio affezzionatissimo signor conte Girolamo Angosciuola? la nobilissima pratica del magnanimo signor conte Teodosio Angosciuola? Come potreste allontanarvi mai dalla dolce e virtuosa compagnia del magnifico cavalier signor Luigi Cassola? [...] Vi potrete dunque partire dal virtuoso ed onesto consorzio del signor Lodovico Domenichi, del signor Ottavio Landi, del signor Antonmaria Braccioforte, di messer Bartolomeo Gottifredi, di messer Girolamo Mentovato, giova-

ne singolarissimo e degno di quelle lode che la eloquente e sincera lingua del signor Domenichi gli dà così spesso; di messer Gian Battista Bosello, persona tanto piena di bontà e fede quanto ornata di lettere e di gran giudicio? Vivete, carissimo amico, quanto più potete, lontano dalle loro corti. Lasciate che l’ignoranza e l’invidia ivi ministri e serva, e voi godetevi lieta e tranquilla pace d’animo ®.

Pare che il Gottifredi poi abbia soggiornato in Provenza e in Ungheria e sia tornato in Italia verso la metà dell'autunno 1543. A Venezia era entrato in rapporto con l’Aretino, il Sansovino, il Betussi e gli altri letterati che lavoravano intorno alle tipografie. Il Doni lo ebbe sempre caro: lo lodò nelle lettere, nelle due Librarie

e nei Marmi,

dove insieme con Alberto Lollio e Silvio

scultore compare come interlocutore del quinto dialogo del Ragionamento setti-

Angelica di Roma, da cui derivano le citazioni. Sul Benucci si veda la voce di G. Ballistreri nel Dizionario biografico degli Italiani. 6 Su quest'accademia cfr. A. DeL FANTE.,

L'Accademia

degli Ortolani (rendiconto di

una ricerca in corso), in: Le corti farnesiane di Parma e Piacenza (1545-1622), II, Roma

pp. 149-70.

9 G. Beussi, Raverta, in: Trattati d'amore del Cinquecento, cit., pp. 54-5.

1978,

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mo, in cui si discorre della malignità dei critici e dei compilatori pedanteschi. Nella prima Libraria così lodava lo Specchio d'amore: Chi si diletta di leggere cose amorose, che sieno non meno argute che piacevoli, legga un dialogo dottissimo-e-pien di leggiadria e d’invenzione, del Gottifredi, uscito fuori sotto il nome suo e del Cipolla accademico Ortolano, ché egli vedrà veramente una cosa bellissima 88,

Di quest'opera il Doni era stato anche l’editore, nel 1547. Il Cerri sostiene che se n’era avuta una stampa precedente, forse a Piacenza nel 1543 circa ®. Ma di questa edizione, di cui egli conosceva un solo esemplare mutilo e posseduto da un privato, non si ha altra notizia, anche se lo Specchio dovette di certo essere composto, se non stampato, in quel tempo. Il Gottifredi, oltre che con il Doni, fu in ottimi rapporti con il Domenichi, che ne pubblicò le rime in varie raccolte, lo introdusse come interlocutore nel dialogo Dell’amor fraterno, lo lodò nel dialogo Delle imprese” e nel Trattato della nobiltà delle donne lo celebrò perché della donna amata, la Candida a cui sono dedicati lo Specchio e le rime, «fa un ritratto che per avventura non sarà manco stabile e manco durevole che se fusse per mano di Apelle o di Parrasio dipinto» ??. Il Betussi, come sappiamo, ne tesseva le lodi nel Dialogo amoroso per bocca del Sansovino, dal quale apprendiamo che allora egli era a Piacenza legato dall’amore della moglie. Dalla città natale il 20 aprile del 1544 scriveva al Domenichi una lettera in cui, fra l’altro, si legge questo passo significativo: Io vi manderei qualche cosa mia, s’îo n’avessi. Io vi giuro per l’amicizia nostra che dal ritorno mio d’Ungheria fin qui, che sono passati oggimai cinque mesi, io non ho mai tocco penna per comporre, salvo da due o tre volte stimolato dal Doni, non per mio volere: e molto meno credo fare per l’avenire; conciosia che io sono di natura, e voi ben mi conoscete, che se da alcuno non sono punto, da me stesso nulla faccio giamai, se non a lune. E dove, potendo con voi conferire, già mi sembrava facile a scrivere e dilettevole, ora ch'io ne son privo, mi vien fatto con tanta fatica e con tanta e con tanta noia che qualora io piglio la penna per dettare qualche mio concetto, mi par di pigliare una antenna in mano ”2.

E conviene credergli perché, caso raro in quell’ambiente di poligrafi, egli, oltre lo Specchio, non scrisse che poche rime e un dialogo Dell'amor santo delle

68 La libraria, ed. cit., p. 87. 61. Cerri, B. Gottifredi e il suo «Specchio d'amore», in «Strenna piacentina», XXVI

(1900), pp. 11-6.

À

70 Entrambi in Diz/oghi, Venezia, Giolito, 1562. 71L. DOMENICHI, Trattato della nobiltà delle donne, Venezia, Giolito, 1551, p. 264. 72 Novo libro di lettere, cit., p. 146 [69v].

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monache, di cui parlano il Doni nella seconda Libraria e il Betussi nel Raverta”, ma che non ci è pervenuto o non è stato portato a termine. Dal 1545 al 1547 fu al servizio di Pier Luigi Farnese; poi le notizie su di lui si perdono. Con diligenti ricerche forse si potrebbe sapere qualcosa di più sulla sua vita; quanto si sa è comunque sufficiente per collocare il Gottifredi nel medesimo ambiente del Betussi e del Sansovino, come del resto risulta dallo Specchio che dipende direttamente dalla Raffaella. Simile è la trama: la vecchia Coppina insegna alla nubile e quindicenne Maddalena a conquistare l’uomo amato. Ma, benché vi si cerchi di definire l’amore e si affrontino varie questioni amorose, lo Specchio non conserva il suggestivo equilibrio fra trattatistica e tradizione comica che era nel dialogo del Piccolomini, ma tende più decisamen-

te verso la commedia. Non solo la ”fabula” è divisa in due “atti”, ma spesso vengono suggeriti imovimenti delle due donne, i loro gesti, spostamenti, reazioni di fronte a una realtà esterna (il ragazzo che bussa, il ritornare della signora).

Se della Raffaella furono pubblicate nel 1622 le parti precettistiche con titoli precisi come vestire, portatura, colori, ornamento di testa e di faccia, scuffta, ricci,

camicia e simili, altrettanto non si potrebbe fare per lo Specchio, in cui i temi della trattatistica si stemperano nell’azione. Di questo maggior inclinare dell’operetta del Gottifredi verso la commedia non ci sarebbe da dolersi, se non fosse che la Coppina non è personaggio ben motivato come la Raffaella e che il dialogo, malgrado i riferimenti ad ambienti e persone — sintomatico è che a un certo punto

Coppina dica di aver visto Fortunio in compagnia del Domenichi 7 —, non fa sentire sullo sfondo una più vasta realtà. Lo stile, inoltre, pur vivace, non ha la mobilità e la freschezza di quello del Piccolomini, ma si mantiene su un tono “medio” ed è troppo pacato per una scena di commedia. Con tutto ciò lo Specchio è di molto superiore al Ragionamzento del Sansovino e possiede un garbo e una vivacità che ne fanno il miglior risultato raggiunto dagli imitatori della Raffaella.

9. La «Leonora» di G. Betussi.

Nello stesso 1544 in cui vedeva la luce il Ravert4 pare che il Betussi sia entrato nella stamperia del Giolito come correttore e consulente editoriale; sta di fatto che in quest'anno, presso il Giolito appunto, egli pubblicava — con dedica all’Aretino — i Madrigali del piacentino Luigi Cassola. L’anno dopo passava al servizio del conte Collaltino di Collalto, presso il quale iniziava la fortunata attività di volgarizzatore. Oltre il libro settimo dell’Eneide (Venezia 1546), volgarizzò tre opere latine del Boccaccio: il De claris mulieribus (Venezia 73 Cfr. A. F. Doni, La libraria, ed. cit., p. 275; G. BetussI, Raverta, ed. cit., p. 78. Le composizioni in versi del Gottifredi sono state raccolte da R. Scrivano in Appendice al suo saggio B. Gottifredi trattatista e poeta, in La norma e lo scarto. Proposte per il Cinquecento letterario italiano, Roma 1980, pp. 107-37. 74B. GortIFREDI, Specchio d'amore, in: Prose di G. della Casa, cit., p. 602.

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1545), accompagnato da una vita del certaldese che conobbe una grande fortuna; il De casibus virorum illustrium (Venezia 1545); il De genealogiis deorum (Venezia 1547). Non si può dire con Alberto Lollio che, «se non fusse stato

l’amorevole industria di M. Gioseppe Betussi [...], si sarebbe affatto a questa

ora di sì lodevole-e sì onorata fatica il nome e la memoria perduta» ”;

comunque, fu sopra tutto grazie a questi volgarizzamenti che la vasta aneddotica e le curiosità raccolte dal Boccaccio nei suoi repertori furono messe — e al momento giusto — a disposizione dei lettori e degli scrittori volgari. Dopo alcuni viaggi — fu anche in Inghilterra — il Betussi lasciò il Collalto, forse nel 1549, e tornò a Venezia, dove si mantenne in stretti rapporti con l’Aretino 79. Nel ’50 lo troviamo a Milano, dove frequenta i Borromeo e viene accolto presso l'Accademia dei Fenici. Nel 1552 è a Melazzo, ospite di Leonora Ravoira Falletti, signora di Villafalletto e Melazzo, che scrisse poesie e fu in relazione con numerosi letterati. Per compiacerla prende a comporre la Leonora. Nei primi mesi del ’54 è a Savona; tra il 1555 e il 1558 soggiorna presso Ippolito Gonzaga, i Borromeo, i Madruzzo; visita il Varchi a Firenze, rinnova l’amicizia con Vicino Orsini; rende omaggio a Giulia Farnese; frequenta Vittoria Colonna e Giovanna D’Aragona. In queste peregrinazioni, portando alle estreme conseguenze la sua volontà di essere un letterato specializzato nell'amore e nella bellezza muliebre, andava visitando le nobili dame per raccogliere materiali da utilizzare nella raccolta di vite di donne illustri che aveva progettato: dunque era diventato una sorta di cronista viaggiante, impegnato in un reportage sulla bellezza muliebre. Di questo servizio giornalistico abbiamo qualche scampolo nella Leonora, per esempio in questo passo che ha quasi la funzione di un inserto pubblicitario: Ed io [Bernardo Cappello] perciò voglio poter chiamare ragionevolmente, non osservatore delle virtù di quelle illustri donne, che riverisce e celebra con tanta industria e con tanto studio, il nostro bassanese [il Betussi], ma vero amante delle perfette bellezze loro. Perché, lasciando voi, che suo idolo sète, chi dirà che, amando, commendando ed onorando, com'ei fa, il valore e la magnanimità della signora Lionarda da Este Bentivoglio, ei non sia di quei veri conoscitori di bellezza che mai fossero nelle platoniche

scuole? Veggendosi in lei far nido l’onestà, fiorir la cortesia e stabilirsi la religione? 5 A. Lotto,

Orazione in lode della lingua toscana, in: Delle orazioni volgarmente scritte

da molti uomini illustri de’ tempi nostri parte prima, raccolte, rivedute e corrette da F. Sansovino, Venezia, Al segno della luna, 1575, p. 144. 76 L’Aretino gli scriveva fra l’altro: «Il fuoco, figliuol caro, non arde in un tratto ciò che vede, né le legna accostate a lui levano in un momento la fiamma, nondimeno si dee guardare di appressarglisi, non dico di toccarlo. Ciò dico in proposito delle donne». Gli raccomandava, pertanto, la temperanza e l’uso della ragione (Lettere, Parigi, All’insegna dei quattro elementi, 1609, IV, p. 311). E ad Agosto d’Adda scriveva di lui: «I piaceri che sono i ruffiani della voluttà disviano la sua gioventù in cotal forma e maniera [...] che vi supplico a torre dalle delizie di questa divina città un così vivo spirito e sì bello, e confinarlo in qualche luogo dei tanti che ne possedete appartati, affinché spenda tutto il verno propinquo a partorir collo studio alcune di quelle eccellenze di scritti, di cui tien gravidato l’ingegno» (Lettere, cit., V, p. 298).

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Chi negherà che quasi sempre, ragionando delle valorose donne di Pavia, lasciando per ora da parte quelle singolarissime ch'ha ricordato la signora Leonora; chi negherà, dico, ch’essendo egli con lo spirito quasi di continuo rivolto alle singolari virtù, agli ottimi costumi ed alla reale cortesia della signora contessa Lucrezia Martinenga Beccaria, il cui valore in molte parti si truova spiegato nelle carte del gran Giulio Camillo, egli non sappia discernere ed amare tutto ’l bello che rende il mondo adorno? [...]. Chi sarà mai quello (e non sia chi m’interrompa) che possa lui riprendere o dire che ingiusta elezzione abbia fatto nello sceglier in Modona per simulacro ed idolo de’ suoi sudori, amando, onorando, osservando e celebrando insieme col signor Lodovico Domenichi, la bellissima (ché così posso dire) signora Lucia Bertana [...]. E chi volesse a

pieno spiegare gli onori di così eccelsa e magnanima donna, oltre che mai non si verrebbe a fine, tempo non avrei di ricordare la magnifica e nobile madonna Lisabetta Zorzi, madre del nostro virtuosissimo ed eccellentissimo messer Alessandro Campesano [...]. Chi sarà poi, per non dare al bassanese solo tanto onore, di così rea openione

che chiami vano lo speglio, nel quale noi apertamente possiamo veder l’essempio delle anime celesti, che abbiamo qui innanzi della signora Leonora? [...]. Ma, passando più oltre, non m'è ancora nascosto, per la voce stessa di esso bassanese, quanto egli sempre ha osservato ed osserva nella reale ed afflitta Siena, nido di tutte le grazie, di tutte le virtù, di tutti i rari costumi e di tutte le bellezze, la chiara ed immortal madonna Laudomia Forteguerra Petrucci, la cui vita, le cui opere e le cui virtuose azzioni possono accendere ognuno che cognizione semplice di virtù e di vera bellezza abbia, nonché quelli che l'hanno, come voi, veduta, udita ragionare, discorrere e render ragioni e cagioni di tutte le cose. Né meno le sventure di quella miserabile città possono fare che a lui si tolga dall’animo e che a tutti non mostri per immortale madonna Francesca de’ Baldi, la quale da lui in ogni suo ragionamento è sempre aditata come miracolo di natura e come viva imagine di Dio, perché non v'è grazia di cui ella ricca non sia, né qualità di virtù che non ne sappia render ragione; bellezze veramente che ci rendono immortali e che empiono d’amore ogni intelletto elevato. Così anco ricorderei molte altre, delle quali egli è vero conoscitore e perfetto amante, se non fosse la brevità del tempo e il desiderio di udir favellare quanto resta alla signora Leonora. Percioché ei gloriar si può che la maggior parte, e quasi tutte, le rare donne ch’oggidì l’Italia illustrano sono in cognizione sua, delle quali non solo s'è contentato starne a relazione d’altri, ma egli stesso ha voluto vederle e praticarle, sì come ne fanno fede le Vite loro, le quali spero che tosto darà a leggere al mondo, dove si vedranno donne illustri ornate d’altre bellezze che delle corporali sole, e fregiate

d’altri ornamenti che di gioie e d’oro 77. Le progettate biografie di belle donne, invece, non apparvero mai, come del resto i Dodici libri degli uomini illustri, che egli aveva promesso nella dedica del volgarizzamento del boccacciano De casibus virorum illustrium. Apparve invece a Firenze nel 1556 una faticosa compilazione a sfondo celebrativo: Le imagini del tempio di Giovanna d’Aragona. Nello stesso anno, ospite del Varchi nella villa della Topaia, portava a termine la Leorora. Nel 1559, raccomandato dal Caro, entrò al servizio del condottiero Gian Luigi Vitelli e, fra l’altro, lo accompagnò in Spagna. A Milano, nel 1565, meditava un’opera celebrativa

delle più illustri famiglie italiane, che non vide mai la luce e fu plagiata dal " G. Betussi, Leonora, in: Trattati d'amore del Cinquecento, cit., pp. 340-1, 344.

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Sansovino nel trattato L'origine e i fatti delle famiglie illustri d'Italia (Venezia 1582): anche progettando quest'opera come esaltando le nobildonne, egli dava prova di quel tempismo che lo portava a fiutare i mutamenti sociali e, in questo caso, il sempre più acceso orgoglio nobiliare. Il poligrafo, che aveva scritto da buono scolaro dell’Aretino parole aspre sulle corti, sapeva ben adattarsi ai tempi. Nel 1573 a Padova usciva il Ragionamento sopra il Cataio, l’ultima opera del Betussi; anzi dopo questa data non si hanno più notizie di lui, che forse morì poco dopo. Rispetto al Raverta, la Leonora già per la presenza di una cornice e per l’ambiente aristocratico mostra di essere nata da una diversa situazione culturale. Non più il fervido ambiente aretinesco, con le sue semplificazioni e la sua vivacità, bensì una corte eccentrica, ‘abbastanza lontana dai più avanzati centri culturali, eppure frequentata dai letterati per la vicinanza con un centro termale come Acqui Terme. Ma il Betussi, da giornalista mondano come stava diventando, sa facilmente adattarsi al clima di quel circolo culturale tanto diverso da quello della Baffa e porgere al pubblico un’opera nel complesso abbastanza viva, che però prelude chiaramente al clima controriformistico. In qualche battuta s’avverte ancora una certa vivacità, per esempio nel ritratto della dama intellettuale che crede di «ragionar co’ suoi libri, i quali sempre l’ascoltano e mai non le rispondono», fatto dal marito Giovan Giorgio Falletta, che dichiara di voler conoscere le bellezze non «degli angeli e degli altri corpi celesti ed incorporei», ma quelle «più convenevoli e più proprie delle donne e degli uomini» 7. Ma queste e altre sono battute che servono a dare qualche malizioso sapore al dialogo e non hanno alcuna motivazione ideologica. L’opera piuttosto è interessante per quanto fa conoscere sulle inchieste del Betussi, sulla società del tempo, su un ambiente tanto diverso da quelli più noti: Melazzo è davvero un «dilettevolissimo luogo, benché da pochi conosciuto»: «è un picciolo castello edificato sulle fertili colline, fertili più per industria umana che per beneficio di natura, che con monticelli, larghe nomate, confinano» 7. Con la descrizione di un paesaggio forse inedito nella nostra letteratura inizia il dialogo; ma in questo attacco limpido e suggestivo, sopra tutto per uno studioso monferrino che non ha molte occasioni di vedere luminose scene rinascimentali collocate nella «dilettosa valle, dove il fiume Ere [Erro] e la Bormia [Bormida] al contrario l’una dell’altra correno», ben si vede, anche quanto a stile, che rapidamente il gusto è cambiato: non solo abbiamo una cornice, ma essa è modellata sul Boccaccio o meglio sul Boccaccio riinterpretato dal Bembo 8°. La scrittura del Betussi tende a farsi più nobile e sostenuta, coerentemente del resto con un ambiente cortigiano, allora forse non così isola-

to dalle correnti di traffico, in cui si conversa quasi con distacco accademico I8Tvi, p. 322. 79 Ivi, p. 307.

80 Ivi, p. 308: «Talora lungo quella dilettosa valle, dove il fiume Ere e la Bormia al contrario l’una dell’altra correno: percioché il primo, bagnando tutta quella valle, non si ferma sino a tanto che nel mare di Liguria non mette capo; l’altra, congiungendosi col Tanaro e poi

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dell'amore e della bellezza. Del mutato clima culturale avverte anche il frequente rifarsi alla morale cattolica e alla verità rivelata. Il Betussi, come già si è detto, sapeva ben cogliere gli umori che erano nell’aria: sarà appena il caso di ricordare che già nel Raverta si osservava che l’esperienza amorosa del Petrarca non era del tutto conciliabile con lo spiritualismo #!; più tardi il Romei (Dell’amore umano,

1585) avrebbe distinto l’amore non “platonico” in casto e

lascivo, forse proprio — come suppone il Di Benedetto ** — per giustificare con la categoria dell’amor casto quanto nella poesia petrarchesca non era riducibile a platonismo. L’opera, pertanto, con la cauta presenza della religione e il ritorno a uno stile e a schemi compositivi non comici e ad ambienti aristocratici, chiude con esattezza quasi geometrica quel periodo della trattatistica amorosa che aveva preso inizio dal Di4logo d'amore dello Speroni e dalla Raffaella del Piccolomini. Ed è singolare che il Betussi, sia all’inizio sia alla fine di questo periodo, faccia da sutura fra le istanze del passato e quelle del futuro.

10. La trattatistica del secondo Cinquecento.

Le tendenze che abbiamo osservato nella Leorora diventano predominanti negli anni successivi, quando il dialogo “speroniano” decade perché soffocato — come la commedia — dal nuovo clima culturale. Mentre si svolgeva il concilio di col Po, al mar d’Adria rende il suo tributo. Né questo credo che ad altro fine la providenzia divina e la natura abbia operato che, fino per la voce di questi fiumi, per più parti che per una sola del mondo siano diffusi e sparsi gli onori della magnanima Leonora [...]. Ma, tornando là dove mi sono partito, dico che talora per quelli fiumi il nostro tempo era speso in turbare il grato riposo a’ pesci. Spesso ancora, quando per questo giardino e quando per quello, a divisare sopra la virtù delle erbe e de’ semplici l’ore erano dispensate. Oltre a questo, a’ sciocchi augelli tendendo molte volte insidie, i lunghi giorni si facevano brevi. Ma pochi erano quei dì che, per fuggir l’ozio, nemico degli animi nobili e virtuosi, e l’estremo del caldo a’ corpi sani contrario, con uno o con un altro libro non istessimo all’ombra d’alcuno dilettoso albero tra que’ fioriti prati, leggendo i detti e le sentenzie de’ più saggi e cercando, al meglio che puote umano intelletto, apprendere il vero delle cose terrene e conoscere l’incomprensibile delle celesti; il che di qualche utile e grato ragionamento spesse fiate ci era cagione».

81 Cfr. G. BetussI, Raverta, ed. cit., pp. 27-8 (parla il Domenichi): «È verissimo, ché ben troppo di buono apporta seco lo amore quando è perfetto. E piglio esperienza alle volte da quello che in tutto non ha risguardo né all’utile né al buono né al vero diletto, come spessissime volte è cagione d’infiniti beni. Perché, quantunque l’amore del Petrarca, come egli medesimo in più luoghi confessa, non contenesse in sé quella utilità né bontà né diletto che se gli conveniva, né egli alzasse l’anima intellettuale e spirituale a quella vera bellezza alla quale, per mezzo di quelle di madonna Laura, poteva, ma per lo più avesse risguardo non solamente a quelle dell'animo suo ma anco alle corporee e caduche; se in altro conto non portò seco né utilità né bontà né diletto; almeno fu cagione d’alzare l’intelletto suo, là dove per sé non féra alzato mai»; p. 101 (parla il Raverta): «Poi vi farò conoscere che neanco il Petrarca amò perfettamente, né più oltra s’estese, in quanto che facesse, che alle bellezze dell'animo, come chiaramente in molti luoghi dell’opere sue egli medesimo afferma. Perché dal nostro amor sensuale s’ascende al contemplativo ed al celeste; e questo terreno, chi bene vi s’appiglia, è scala a noi per investigar quello». 82 Prose di G. della Casa, cit., p. 22.

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Trento la letteratura in volgare raggiungeva il massimo rigoglio (quantitativo non qualitativo, s'intende) e dimostrava uno scarso interesse per le questioni religiose che allora si dibattevano; tanto più grave, pertanto, fu l’effetto (per esempio, sull’industria editoriale) dei decreti tridentini, quando essi furono fatti

osservare. Ma la crisi ebbe anche altre motivazioni: politiche, economiche, sociali. Le accademié avevano subito profonde trasformazioni. Con il consolidarsi dello stato assolutistico, questi liberi centri di discussione vennero o soffocati o promossi a istituti ufficialmente riconosciuti e costretti a subire l’onore e l'onere della protezione del principe, che impone statuti rigidi. D'altra parte il trionfo stesso della nuova letteratura volgare aveva fatto sì che dall’euforia si passasse alla riflessione critica, dalla sperimentazione a una nuova codificazione, al ricupero della tradizione umanistica troppo frettolosamente abbandonata. La frattura, verificatasi fra il 1530 e il 1560, era stata profonda, e i classici (non solo quelli latini e greci) dovettero essere riconquistati faticosamente, per via di norme: di qui un senso di insicurezza nel colloquio con il passato, un irrigidimento, un bisogno di procedere su strade già tracciate. Si torna ad ambienti ristretti, eleganti e aristocratici, nei quali però la cultura non è sostanza ma ornamento esteriore. Non si ha più un comportamento raffinato che nasce da un difficile equilibrio interiore, bensì un’educazione imposta da un cerimoniale rigoroso, che non lascia spazio all’estro e alla vivacità intellettuale. Nelle accademie si continua a discettare sull’amor platonico: per l'accademia ferrarese, per esempio, Torquato Tasso scrive dotte considerazioni sulle tre canzoni sorelle del Pigna, che sostenevano la superiorità dell’amore spirituale su quello carnale. Ma la concezione neoplatonica dell'amore aveva ormai esaurito la sua funzione storica, era diventata materia per vuote esercitazioni, tanto più che ormai doveva fare i conti con la fede e non poteva più permettersi le aperture e gli slanci che rendono tanto suggestivi il Commento ficiniano e i Dialoghi di Leone Ebreo. Degli scrupoli e degli inciampi dovuti alla nuova atmosfera possono dare un’idea le censure rivolte a molti passi dei dialoghi giovanili dello Speroni: non solo gli si rimproverava d’aver chiamato l’amore “vero signore e vero Dio di ogni nostra operazione” o d’aver detto che il matrimonio è inconciliabile con l’amore, ma anche di aver fatto sostenere dal Peretto che la discordia fra i coniugi è la colpa maggiormente odiata da

Dio 8! Dei metodi tenuti dagli inquisitori abbiamo molte testimonianze, dalle quali tutte risulta l’incapacità dell’autorità religiosa d’intendere il linguaggio dell’arte, la meschinità delle riserve, il formalismo esasperato per il quale si 83 Cfr. S. SPERONI, Apologia dei dialogi, in Opere, cit., I, p. 296: «Dico adunque che nel Dialogo della dignità delle donne quattro luoghi sono segnati. Nel primo di essi dice un prelato buon cortigiano [Ludovico dei conti di San Bonifacio] verso una nobile e gentil donna [Beatri-

ce degli Obizzi] questa parola: il quale (cioè amore) vero signore e vero Dio di ogni nostra operazione, sprezzate le nostre leggi, per le quali ingiustamente ci siete serve, ne’ vostri volti abitando, vi fa signore de’ nostri cuori. Nell’altro luogo dicendo male del matrimonio parla così : Quei dolci nomi d'innamorato e innamorata derivati da amore, scioccamente in due strani e odiosi vocaboli moglie e marito di convertire deliberarono. Soggiunge appresso: La qual cosa considerando quei primi padri religiosi, con quel che segue. Il terzo luogo dice in tal modo: così l'anima

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scorgevano eresie nelle più innocenti metafore 84. Onore, virtù, decoro, onestà, intesi in senso del tutto formale e riferiti sopra tutto alla sfera sessuale,

creavano una moralità farisaica che si è poi protratta, mzutatis mutandis, nella non molto diversa morale borghese. Ormai però non era più possibile spegnere il desiderio di un più libero e spontaneo amore, e perciò da tante costrizioni veniva un senso di turbamento,

una pruderie, che spezzava definitivamente

quell’equilibrio che la civiltà rinascimentale aveva sognato e in parte realizzato. Il gentiluomo, di cui per esempio discorre il Muzio ®, non ha niente a che vedere col cortigiano esaltato dal Castiglione, così come le corti principesche, rifiorite verso la metà del secolo, sono profondamente mutate. Ariosto, Bembo, Castiglione potevano lamentarsi dei loro impegni ma erano inseriti nella vita del tempo; erano loro a indirizzare il gusto. Il letterato del secondo Cinquecento non si trova più tanto a suo agio. Non è più l'incarnazione di un superiore e raffinato dilettantismo; ora deve percorrere un cursus honorum letterario, mostrare di saper dar lustro alla corte con la propria cultura, ingraziarsi i principi e i loro ministri. Mentre domina una cupa religione del sangue e dell'onore, il letterato deve stare al suo posto, in una società in cui classi, mansioni, funzioni sono rigorosamente determinate: non conta più l’uomo com-

pleto ma lo specialista. Torquato Tasso, per più d’un verso, è il tipico letterato del tempo. Per ingraziarsi il Pigna — come abbiamo detto — ne aveva commentato le ultime tre canzoni del Ber divino; ma già prima; nel 1570, aveva usato delle donne è composta di sentimento e di amore, Dio massimo ed ottimo; taccio l’avanzo per esser breve. Il quarto luogo contiene in sé tal sentenza: così alla moglie è naturale, non già dannosa né vergognosa condizione il servire al marito; senza la qual servità non è donna la donna, e la sua vita viva morte dee nominarsi. Mostra in somma per questi segni che quel dialogo in biasimando e lodando la condizion femminile, sia empio sempre egualmente»; p. 314: «Nel qual dialogo [Della cura della famiglia] parla il Peretto a una giovine sua figliuola di quindici anni, novella sposa ancor lei, e la ammonisce fra le altre cose di starsi in pace col suo marito, così dicendo: Ma qual nostro peccato più offende Domeneddio della discordia che è tra ’l marito e la moglie? Veramente niuno. Soggiunge appresso così dicendo, poi che ha provato naturalmente la sopradetta conclusione: Così è cosa da credere che le maritali sedizioni sopra ogni vizio siano odiate da Dio. Or tutte queste vere savie e religiose parole, degne di padre, di filosofo è di cristiano, dette a giovine novella sposa, quasi altrettante bestemmie orribili quello ignorante e maligno cuoco [lo Speroni diceva che era stato un cuoco a denunciarlo], nella maniera che suole i cani della cucina vuol cacciar fuora de’ miei dialogi, e i miei dialogi della chiesa. La cagione che a ciò l’induce, se io odo il vero, è questa una, cioè che molti altri peccati sono maggiori e peggiori e più odiosi a Dio che non è questo che dal Peretto massimo e pessimo è riputato. Disse adunque alla sua figliuola una gran bugia il filosofo; però è bene che sia segnata per cancellarla». 84 Si veda in proposito C. TapELLA-M. Pozzi, L'edizione del «Decameron» del 1573: lettere e documenti sulla rassettatura, in «Giornale storico della letteratura italiana», CLXV (1988), pp. 54-84, 196-227, 366-398, 511-544.

8 Cfr. G. Muzio, I/ gentiluomo, Venezia, G. A. Valvassori, 1571; come vien detto nel

frontespizio «in questo volume, distinto in tre dialoghi, si tratta la materia della nobiltà e si mostra quante sieno le maniere, qual sia la vera, onde ella abbia avuto origine, come si acquisti, come si conservi e come si perda. Si parla della nobiltà degli uomini e delle donne, delle persone private e de’ Signori. E finalmente tra la nobiltà delle arme e delle lettere si disputa quale sia la maggiore».

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della sua cultura per scopi puramente mondani e decorativi. Alludo all’episodio — assai significativo del modo in cui nel secondo Cinquecento si trattava d’amore — da cui nacque il Catareo overo de le conclusioni amorose. Quando Lucrezia d’Este, sorella del duca di Ferrara, andò sposa a Francesco Maria della Rovere,

il Tasso non si limitò. a comporre versi elogiativi, ma pubblicò l’ 11 gennaio 1570 un cartello contenente cinquanta conclusioni amorose e invitò chi lo volesse a entrare in contraddittorio con lui. Non era cosa nuova. Nelle accademie e negli studi era abbastanza comune esibirsi nel sostenere conclusioni il più possibile sottili e sorprendenti. Nel 1588 l’accademia ferrarese chiamò i dotti a discutere sull’amore divino per le creature, ponendo quesiti di questo genere: se Dio ami più l’angelo o l’uomo, un innocente o un penitente, una vergine o una cortigiana. Forse l’anno dopo, Marco Girolamo Vida sostenne nell'Accademia Palladia di Capodistria quasi un centinaio di conclusioni sull'amore, la bellezza, ecc.; nel 1591, a Parma, Gabriel Zinano pubblicò 82 conclusioni di natura filosofica e teologica (che Dio è il sommo bello e il sommo amore; che è amante e amato al tempo stesso; che il vero amore ha principio e fine in Dio); il 23 gennaio del 1594, nell’Accademia degli Illustrati di Casale, Giacomo Roviglioni consegnava quaranta conclusioni, raccolte nel Discorso intorno alla dignità del matrimonio, a un altro accademico, Carlo Natta, il quale si impegnava a pubblicarle e a difenderle in onore delle donne. In anni più vicini a quelli in cui il Tasso difese le proprie conclusioni, e precisamente nel 1568, conclusioni amorose erano state discusse nell’accademia di Mantova in maschera durante il carnevale. Anche il Tasso si esibì in periodo carnevalesco: il 18 gennaio, il 1° e il 6 febbraio, alla presenza dei principi e di quasi tutti i gentiluomini e le gentildonne ferraresi; e il 6 febbraio, essendo il penultimo giorno di carnevale, vi si recarono tutti in maschera, e il Tasso stesso ricorda «lo strepito e l'applauso di quello quasi teatro di donne e de’ cavalieri» #. Il giovane letterato si era preparato per quella discussione in gran fretta; aveva letto quanto gli era capitato a portata di mano (pare che si sia servito sopra tutto del Trattato dell'amore umano di Flaminio de’ Nobili, uscito a Lucca

nel

1567)

e si era

fatto

stendere

le conclusioni

da Antonio

Montecatini, che in siffatto genere di dibattiti aveva una grande esperienza, poiché alcuni anni prima aveva difeso pubblicamente ben millenovanta proposizioni filosofiche in tre giorni: nel primo aveva difeso le opinioni dei peripatetici, nel secondo le aveva confutate, nel terzo aveva parlato alternativamente pro e contro #8. Malgrado la fretta con cui il Tasso si improvvisò maestro di tali problemi, le conclusioni — pubblicate nel 1582 da Aldo Manuzio a Venezia — riscossero un grande successo e furono commentate e imitate: non molti anni 86T. Tasso, I/ Cataneo overo de le conclusioni amorose, in Prose, a cura di E. Mazzali,

Milano-Napoli 1959, p. 259. 87 Il trattato di F. de’ Nobili con le postille del Tasso è stato pubblicato da P. D. Pasolini a Roma nel 1895. 88 Per le conclusioni del Tasso e altre dispute di quel tipo, cfr. A. SOLERTI, Vita di T. Tasso, I, Torino-Roma

1895, pp. 127-31.

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dopo, per esempio, le studiò e si provò a dimostrarle padre Vitale Zuccolo nei Discorsi sopra le cinquanta conclusioni del sig. T. Tasso (Bergamo, C. Ventura, 1588). E il Tasso — poiché due di quelle conclusioni non avevano trovato oppositori — pensò di discuterle egli stesso. Nacque così intorno al 1590 il Cataneo. Le conclusioni discusse sono l’ottava («Amore esser desiderio d’unione

per compiacimento di bellezza») e la dodicesima («L’odio non esser contrario d’amore, ma seguace d’amore»). Ecco un passo della difesa della seconda: Nego che l’amore e l’odio sian grandissimamente opposti: perché questa opposizione si dee considerare o in un genere medesimo o in due generi diversi, o dir che l’amore e l’odio sian contrari come due contrari generi. In niun di questi tre modi l’amore e l’odio sono contrari: e prima non è l’amore. a l’odio grandissimamente opposto in uno stesso genere, perché l’amore non è contenuto in un sol genere; anzi, essendo, come

disse il maestro di color che sanno, passione e proprietà di quel che è, passa per tutti i generi e non patisce d’esser rinchiuso in alcuno. Per l’istessa cagione non è contrario l’amore a l’odio, come sian grandissimamente opposti in due generi diversi; per la medesima non si posson dir contrarii, perché sian due generi contrarii, l’uno de l’amore, l’altro de l’odio. Dunque la contrarietà non è né può trovarsi propiamente fra l’odio e l’amore, perché la contrarietà conviene a quelle nature che possono esser ridutte in alcuno ordine de le cose. Ma l’amore non sta ne gli ordini, ma tutti gli trapassa e gli trascende in quella stessa guisa che suol fare l’ente, di cui è passione: percioch’è a tutti

noto che l’ente non è in alcun predicamento 8°,

Non è possibile riprodurre qui le altre quarantotto conclusioni; basti, per farsene un’idea, questo campione: I. La bellezza essere splendore della divinità, il quale penetra e riluce per l’universo, in una parte più chiaramente e meno in un’altra. II. La bellezza, overo il bello, come lo splendore dal sole, esser dal bene inseparabile; e tutto ciò ch'è bello, esser buono; e tutto ciò ch’è buono, esser bello.

III. La bellezza allettare tutte le cose, nelle quali risplende, e rapirle a sé con impeto di amoroso desiderio. IV. Il bene non destare amore sotto la forma di bene, ma solo sotto piacevole imagine di bello.

V. La bellezza, che sotto nome di Venere è significata da gli antichi, esser padre non madre d’Amore; cioè cagion produttrice, non materiale: difendersi nondimeno. VI. Venere, o presa per bellezza o per l’anima, come la prendono alcuni, potersi dire padre d’Amore. VII. Il piacere o ’l compiacimento non essere amore, ma principio e compagno d’amore. [...]

XXI. L’uomo in sua natura amar più intensamente e stabilmente che la donna. 89 T. Tasso, I/ Cataneo, ed cit., pp. 269-70.

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XXII. Amore esser più nell’amata che nell’amante. XXIII. La donna amata non sempre riamar colui che l’ama; e con tutto ciò affermarsi senza contradizione che l'amata sempre ami l’amante. [....] XXVII. Ogni piacere amoroso esser accompagnato da dolore, né darsi ne gli amanti alcuna pura e sincera ‘allegrezza. [...]

XXXVI. Veri essere i miracoli d’amore che menzogne de’ poeti giudica il vulgo: veri, dico, secondo il più esatto modo di verità, cioè che l’amante divenga la cosa amata e che gli amanti siano non due, ma uno. [...]

XLI. Non darsi dolore in amore in cui non sia più il dolce che l’amaro. XLII. Ogni cosa esser temuta da gli amanti, e quelle medesime ancora che più sono da loro desiderate. XLIII. Nessun amante aver compassione de’ mali dell’amata, e la compassione dell'amata verso l'amante non esser segno di reciproco amore, ma più tosto del contrario. XLIV. Non darsi invidia alcuna ne gli amanti; ma, concedendo che si dia, gli amanti invidiar se stessi.

XLV. La gelosia non esser figliuola, ma sorella d’amore; cioè non affetto nato d’amore, ma affetto nato dopo amore. XLVI. La gelosia esser segno certissimo d’ardentissimo amore ed accrescer l’amore; né però negarsi ch’ella non distrugga l’amore. XLVII. La gelosia ch'è nell’amante, se pur è difetto, esser difetto non dell'amante ma de l’amata.

XLVIII. Se più si meriti o servendo o non servendo l’amata.

XLIX. Se più si patisca o non ricevendo alcun premio o ricevendolo minor del desiderio.

L. Se più si goda o de’ furti fatti all’amata o de’ doni ricevuti da lei,

Come si vede, sono sparite le questioni paradossali o dai risvolti comici; le conclusioni sono serie e molto conformistiche, anche se in alcune si può scorgere l'animo del Tasso. Né l’impressione cambierebbe se ci occupassimo di altri scritti del Tasso su questi temi come il Minturno overo della bellezza oppure La Molza overo de l'amore, di cui basterà leggere la pagina di chiusura: E io ripigliai il ragionamento in questo modo: — Amor, volgendosi al primo bene, è la carità, la quale ne gli altri modera se medesima: e questa è la prima virtù ne la schiera de le teologiche, ma non è sola, perché è accompagnata da la fede e da la speranza, le quali similmente nascono in questo rivolgimento de l’anima a Dio. Ma se l'amor si volge a le cose create, produce la prudenza, la giustizia, la temperanza e la fortezza, la liberalità, la mansuetudine, la modestia e l’altre, le quali sono in guisa congiunte che 90 T, Tasso, Conclusioni amorose, in Prose, cit., pp. 296-302.

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l’una non può star senza l’altra, percioché in ogni ordine c'è una communanza e quasi una congiunzione, la quale discende da la unità ne la moltitudine, e ogni moltitudine si riduce ne l’unità. — Se questo è, — disse la signora Marfisa [d'Este] — il Petrarca,

quando descrisse il trionfo di Laura e la schiera de le sue belle virtù, poteva fare ch’ella trionfasse con Amore: tutta volta trionfava Amore. — Trionfava di quell’Amore — diss’io — il qual è nutrito di pensieri dolorosi e lascivi, «fatto signore e dio di gente vana», a cui lungamente è stato soggetto. Ma ’l vero trionfo d'Amore è quello de la Divinità, co ’1 qual nome egli per aventura volle velar gli occulti sensi del suo poema in quella guisa che alcuni solevano fare ne’ misteri. Laus Deo ?!. Quanto si è detto, naturalmente, vale solo come indice di una certa situazio-

ne culturale e non va esteso a tutti coloro che scrissero d’amore nell’età in cui si affermò il conformismo delle corti e delle accademie. Nell’ Azzorosa filosofia, che il suo editore considera una notevole analisi della psiche umana in disaccordo con altri trattati d'amore del Rinascimento, Francesco Patrizi polemizzava contro i ragionamenti per via di quesiti e di dubbi o di discorsi superficiali tolti dall’Ariosto o dal Petrarca ?. E il pensiero corre subito a Giordano Bruno e ai suoi Eroici furori; ma con le opere di questi filosofi siamo ormai lontani dalla trattatistica rinascimentale sull'amore, di cui era tipico un impegno squisitamente letterario, nella convinzione che la letteratura fosse la vera chiave per conoscere e trasformare l’uomo e la società che lo circonda.

71 T. Tasso, La Molza, in Prose, cit., pp. 214-5. In questo dialogo il Tasso discute le differenti definizioni d'amore: «Dico dunque che sei generi sono i principali, i quali sono assignati ne la diffinizione d'amore: l’uno è desiderio, la qual opinione è seguita da Socrate nel Convito e da molti Socratici, quantunque peraventura la sua propria si manifesti nel Fedro, da Lucrezio e dal Bembo e da grandissimo numero de scrittori. L’altra, ch’ella sia infirmità; la terza, che sia virtù, come volle Ieroteo, che sin ora ha pochi seguaci; la quarta pone che sia atto, e questa ancora non è seguita da alcuno, ch'io sappia; la quinta dice ch'è distendimento de la volontà; e la sesta che sia piacere o componimento, se pur questa è diversa da la quarta, la quale ha per seguaci tutti i seguaci di san Tomaso oltre quelli di sant'Agostino» (ivi, pp. 205-6). Fra tutte sceglie la definizione tomistica (amore è dapprima compiacimento, poi desiderio, poi diletto) e la perfeziona dicendo che amore è una quiete nel piacevole. Colloca la reggia dell’amore nel cuore e infine afferma che l’amore è una virtù non morale e non pratica, ma una virtù che è atto perpetuo e il cui abito non può essere che divino. ? Cfr. F. PaTRIZI, Amorosa filosofia, a cura di J. C. Nelson, Firenze 1963.

MARIO EQUICOLA E LA CULTURA CORTIGIANA: APPUNTI SULLA REDAZIONE MANOSCRITTA DEL «LIBRO DE NATURA DE AMORE» pri

Mario Equicola morì a Mantova il 26 luglio 1525, poco dopo la stampa «in

Venezia, per Lorenzo Lorio da Portes, adì 23 zugno 1525», del Libro de natura de Amore che, senza esagerazioni, si può considerare l’opera della sua vita. Aveva cominciato a scriverlo ancor giovane, probabilmente nel 1494, se — come scrisse in una postilla della redazione inedita conservata dal manoscritto N. III.10 della Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino — il primo abbozzo

risale al «tempo che ’1 Regno de Napoli era in tumulto per la venuta de’ Francesi alli damni de’ Signori Aragonesi, et lo Signor mio Signor Sigismundo Cantelmo, Duca de Sora, se preparava alla recuperatione de nostra patria, suo aiuto et hereditario stato» !. Il Libro, dunque, rimase sul telaio almeno trent'anni. Un’elaborazione così lunga, di per sé, non è eccezionale nel primo Cinquecento, quando quasi tutte le opere più notevoli passano attraverso varie stesure e solo dopo molti anni pervengono alla loro forma definitiva. La letteratura in volgare, nell’ultimo e risolutivo sforzo per affermarsi, avvertiva ancora un senso di precarietà e di incertezza. La società si trasformava rapidamente. Gli avvenimenti politici incalzavano. Gli intellettuali che, o per libera scelta o

per ragioni sociali, avevano optato per il volgare, si trovavano di fronte a varie possibilità e venivano man mano correggendo le loro opere in una situazione resa ancor più complessa dal contrastarsi e dal succedersi di diversi modelli culturali. Alcuni avevano piena consapevolezza della crisi. Fra questi innanzi tutto Pietro Bembo, il quale presto comprese che la soluzione del problema della letteratura volgare non poteva venire dalle formazioni statali esistenti: la sua stessa vita — con la “fuga” da Venezia e dagli impegni politici, e il ritorno a Padova come ecclesiastico che gode di un otiur garantito da benefìci, dopo aver sperimentato gli ambienti culturali di Ferrara, Urbino e Roma — è sintomatica di un disimpegno “politico” all’unisono con una realtà storica che consentiva all'Italia solamente un’unità letteraria. La posizione dell’Equicola era radicalmente diversa, più impegnata, maggiormente compromessa con la realtà concre-

ta. Intellettuale del tutto integrato nella società cortigiana, non poteva accogliere i nuovi modelli culturali, anche se rimaneggiando la sua opera cercava di

lc. 315. La postilla, che si trova alla fine del Libro, fu poi depennata e sostituita con un’altra, aggiunta nel margine basso, di cui trascrivo l’inizio: «Nel tempo che, fugato Re Carlo VIII, recuperata Novara, restituito Re Ferrando II nel Regno suo, al magnanimo Signor Francesco di Gonzaga di Mantua Marchese ivi fo data per publico consenso la civica corona como unico liberatore de la ià oppressa Italia, io Mario Equicola di Alvito scriveva questo». Per quanto concerne le fasi di elaborazione del trattato, cfr. I. RoccHI, Per una nuova cronologia e valutazione del «Libro de natura de Amore» di M. Equicola, in «Giornale storico della letteratura italiana», CLIII, 1976, pp. 566-585.

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adeguarsi ai mutamenti del gusto e della situazione politica. Non era così miope da non rendersi conto di quanto stava avvenendo in Italia; e la crisi della cultura cortigiana fu da lui percepita, forse oscuramente ma per tempo. Già nel manoscritto torinese, infatti, egli depennava l’ampia Dedicatoria in cui la lingua cortigiana romana era difesa con grande calore e vigore polemico. Nella Dedicatoria dell’editio princeps egli avrebbe semplicemente dichiarato di aver scritto «in la commune italica lingua [...] per onorare il nostro usitatissimo idioma, et per non refugire la consuetudine del cotidiano favellare» 2. Più in là non poteva andare, se non rinnegando sé stesso. Pertanto, anche nella redazione finale il Libro de natura de Amore, malgrado le profonde correzioni, rimase

sostanzialmente fedele alle istanze culturali degli anni in cui era stato concepito e, quando infine fu pubblicato, si trovò a dover reggere il confronto con il codice della nuova letteratura, le Prose della volgar lingua, uscite nella stessa città pochi mesi dopo, alla fine di settembre. Confronto inevitabile; e a tutto danno dell’Equicola ?. Anche a non tener conto delle macroscopiche differenze di lingua e di stile, c'erano motivi profondi per cui i letterati non potevano non vedere in quel vient de paraître un’opera già vecchia, lontana dai propri gusti, irrimediabilmente legata a esperienze che quasi tutti avevano superato senza pentimenti. Ne è un sintomo la lettera che Lodovico di Canossa il 2 dicembre 1525 scriveva ad Antonio Seripando annunciandogli l’invio delle Prose e, appunto, del Libro de natura de Amore, «il quale non fu già dall'amico ? Ma, alla fine del Libro, rivolgendosi A/ lectore, non rinunciava ai toni polemici. Fra l’altro, dopo aver ricordato le vicissitudini militari attraverso cui era passata l’elaborazione dell’opera (il passo sostituisce la postilla del manoscritto ricordata nella nota precedente), afferma: «Tornati con victoria et gloria, retornai da’ militari tumulti a l’intermesso studio et, repigliato il libro in mano, parsemi non oltra tenerlo in tenebre, deliberai uscisse in luce, né me retardò puncto la diversità de la vulgar lingua né li varii modi de scrittura novamente sorti in quella, né che molti quanto pegio scriveno tanto più sel recano ad bon iudicio, lontanandosi da la latina orthographia, con remover, adgionger et mutar lettere; né anchora me mutò dal proposito le elegantie et regole d’essa lingua scritte, persuadendomi tal cose esser state composte in utilità di quelli che sono nati fora li confini de la prisca Italia, de la qual era termine Rubicone fiume in Romagna. Et io in quel paese mi trovo haver la patria che Q. Vectio Marso, L. Papirio Fregellano, Q. Valerio Sorano et M. Tullio di Arpino produsse, li quali dal ben dire et bona pronuntia furono summamente lodati. Sequo dunque la pronuntia et sòno della patria, et non senza ragione, ché vedo alcuni che, volendo lo altrui idioma favellare, senza essere in

quello longamente exercitati, (dirò con Tullio) latrano, non parlano et, per non potersi partire dalli scritti di quelli che scrivendo ad imitar si proponono, sono nel scrivere affectati; et quanto sia male agevole ad intendere li sensi con affectatione expressi et quanto l’affectatione sia vituperabile in Cicerone si lega. Io colla autorità di M. Varrone et C. Octavio Augusto como è il suon de le parole così scrivo, perché existimo l’uso de le lettere dever custodir che rendano le voci a chi lege como deposito» (cc. 238v.-239). Passo importante sia perché sembra escludere esplicitamente che l’Equicola abbia tradotto o fatto tradurre il Libro, sia perché mostra che il suo concetto di lingua cortigiana si era precisato in senso non più sociale (la lingua parlata nella corte di Roma) ma propriamente linguistico: la lingua delle regioni italiane in cui si parla meglio, regioni che per l’Equicola sono ovviamente quelle in cui si parlava meglio in latino. ? Mi riferisco ai letterati sensibili alla lezione del classicismo volgare. Infatti al Libro arrise una grande fortuna presso il vasto pubblico, che gradiva i compendi, i repertori, le trattazioni enciclopediche delle questioni più disparate.

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mio comprato senza rossore: tale è il libro giudicato»: «un libro cioè, immorale; certo, grossolanamente sboccato», commentava il Cian *. Che i contemporanei rimanessero sconcertati non stupisce. Oggi però non si

può più leggere il Libro come se davvero fosse contemporaneo alle Prose e al trionfo del classicismo volgare. Per fortuna, se ci si vuole sottrarre a questo antistorico confronto, non occorrono ipotesi o congetture. Basta leggere il trattato dell’Equicola nella redazione torinese che, per il testo-base, risale al 1505-1508 e, per le correzioni, al 1509-1511. Si potrebbe obiettare che gli Asolarni erano ben noti all’Equicola, il quale nel Libro li difende e li riassume con fedeltà quasi letterale. Certo; ma proprio l’Equicola ci testimonia che il dialogo bembiano suscitò fortissime riserve ?. Era un’opera d’avanguardia, decisamente proiettata sul futuro, che proponeva una rarefazione linguistica e culturale per quegli anni inaudita. Era solamente uno fra i molti esperimenti di un periodo di crisi. Quindi non dobbiamo leggerla pensando all’ancor lontana codificazione linguistica che il letterato veneziano avrebbe compiuto nelle Prose o come un modello a cui gli altri potessero adeguarsi. Un termine di confronto omogeneo si può se mai trovare nei primi

trattati d'amore in volgare, per esempio nell’Anteros di Battista Fregoso, edito nel 1496, cioè all’incirca nel tempo in cui l’Equicola veniva abbozzando la sua opera. Anche un solo esempio, credo, basterà per mostrare il più libero discorrere della trattatistica tardo-quattrocentesca, prima che il classicismo volgare le ponesse un freno: Dico adonche, frategli miei cari, secondo el mio pocho cognoscere Amore, come da’ poeti è fincto, essendo sempre posto figlio di Venere, per questo cossì doversi credere dal corpo humano trare l’origine sua, come da quello fa la madre Venere. Perché, oltra che vediamo apertamente soli quegli amare che per età, per sanità e natura sono ad exercir luxuria pronti e forti, vediamo anchora per experientia alchun amante che luxuria non cercare e quella essere il termine e fine semper d’amore. Vediamo etiamdio gli fanciulli e vechi, a’ quali da l’età è prohibito e da l’egritudine a l’infermi, parimente de l’amoroso incendio esser liberi. E però è da stimare per tal | rispecto la radice di tal incitamento dal corpo nascere per stimulo del seme; il qual titillando ne’ vasi seminarii e testicoli, per lo spirito e ventosità in che si risolve, induce desiderio di confricatione, cioè coito, e a mandar fuora tal humore ci molesta, come vediamo in qualunche postematione matura che l’incluso humore, inducendo alchun prurito, ne stimula a confricatione e a dar a tal cosa presta uscita. Ne la quale si sente piacere e alievamento. Il simile facendo in noi quasi el seme, come Aristotele e Alberto scrivono ne la natura degli animali, e perché ne l’uscir e discorrendo pasa per luoghi nervosi e sensitivi, oltra il discorso fa per tutto il corpo in quel atto, una ventosità sutile che quasi fallo tutto titillare induce un nuovo prurito assai suave, il qual è in tutto el piacer del coito. Avendo Idio, creator universale, in ogni animal 4V. Clan, Un illustre nunzio pontificio del Rinascimento: B. Castiglione, Roma 195 I, p. 166. La lettera del Canossa in Lettere di XIII uomini illustri, Venezia, F. Lorenzini da Turino,

1560, p. 19.

5La redazione manoscritta del paragrafo sul Bembo si può leggere nell’art. cit. di I.

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ordinato tal piacere, acciò siano più pronti e ferventi a la conservatione de la specie humana £.

Non cito questo passo, si badi, per mostrare che il Fregoso e l’Equicola, che a sua volta non rifugge da un franco parlare, erano uomini spregiudicati; al contrario, perché non si consideri spregiudicato un linguaggio che era normale prima che si imponessero le nuove norme del decorum classicistico, quelle norme che provocheranno il citato giudizio di Lodovico Canossa. Della redazione manoscritta del Libro de natura de Amore è nota quasi soltanto la Dedica a Isabella d’Este, in cui viene energicamente difesa la lingua cortigiana romana. È una pagina di notevole importanza; tuttavia non mi fermerò ad analizzarla sia perché è già stata edita e commentata egregiamente ’, sia perché mi sembra che il legare l’Equicola a una tesi linguistica alla fin fine risulti fuorviante. Non del tutto paradossalmente, anzi, si potrebbe sostenere che per lui e per gli altri intellettuali cortigiani la questione della lingua non esisteva. Se ne trattavano, era per difendersi dalle critiche di chi non condivideva il loro atteggiamento. Da parte sua, l’Equicola, costretto a usare il volgare sopra tutto da ragioni sociali, si pose il problema di “come” scrivere ma non lo considerò un problema retorico di essenziale importanza. Egli cercava uno strumento di comunicazione e di dotta conversazione, una lingua sovraregionale, dotata di un ampio registro, che senza troppi inconvenienti consentisse di sostituire il latino, della cui superiorità era fermamente convinto. Alla regolarità e all’armonia della lingua, viceversa, conferivano una grande importanza coloro che — come il Bembo — vedevano nella parola l'elemento ordinatore delle umane esperienze, la facoltà che distingue l’uomo dagli altri animali, così che nessuna «più bella cosa può alcuno uomo avere che, in quella parte per la quale gli uomini agli altri animali grandemente soprastanno, esso agli altri uomini essere soprastante, e specialmente di quella maniera che più perfetta si vede che è e più gentile» £. L’opinione dell’Equicola su questo problema è esposta chiaramente in una delle tante divagazioni che fanno del Libro una sorta di enciclopedia: Quel fabricatore del mundo et de l’universo factore, Dio, havendo li bruti dotati di forza, grandeze, velocità et agilità, havendoli facte arme di defensione, datili contra ’1 fredo naturali repari, factili contenti di cibo non multo exquisito, noi de ragione fece participi, per la quale sola ad quelli semo multo superiori. Questa excellentia poco ci iuvaria se li concepti de la mente non potessemo exprimere parlando. La ragione dunque et oratione sono le cose più prestanti che da la divina providentia havemo. Per la qual cosa summa laude reputamo superare li homini in quello nel quale essi li RoccHiI, pp. 581-584 (cfr. le cc. 33-36v. della princeps).

° BapristaE

C. FuLcosI

Anteros,

«impressum

Pachel, anno Domini MCCCCLXXXXVI, ? Da I. RoccHI, nell’articolo citato.

8 Prose della volgar lingua, I, i.

Mediolani

per Magistrum

die X maii», cc. f viii v.-g.

Leonardum

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bruti avanzano et da quelli differenti si cognoscono. Questo è il bene et artificioso

parlare, questo è con moti, gesti et pronuntiatione affectuosamente exprimere quel volemo, dechiarando le note et signi di nostra mente, movere de altrui li sensi, inducer-

li ad nostre voluntà et con nostro utile persuadere. In ciò l’arte non essere cosa vana vedemo, anzi di gran momento. Le parole apte con voce, vulto et moto del corpo convenientemente expresse hanno mirabile forza et potentia. Argumento ultra li altri ne è che multe cose ben pronuntiate hanno gratia et delectano et le medesme, legendole, non respondeno [...]: Desideramo per questo che ’1 nostro amatore non sia ruzo de l’arte, la quale alhora è vera arte quando non è arte manifesta (cc. 238-239)”.

Anche l’Equicola, dunque, riprende il famoso topos; è però evidente che per lui l'eccellenza dell’uomo non consiste nell’artificioso parlare ma nella ragione, nei «concepti de la mente», nelle «note et signi di nostra mente». La stessa applicazione delle norme retoriche alla facondia dell’innamorato conferma che egli vedeva nell’eloquenza solamente uno strumento utile e necessario. Il parallelismo fra res e verba è ribadito nel proemio al paragrafo sul Calandra per condannare sia la «garrula loquacità et puerile fragore con inane strepito di male congeste parole» sia l’«empire le carti sensa electione de boni vocabuli»: «Non scrive quel a cui eruditione manca; dorme lo ingegno se da l’arte non è excitato. La inventione quanto vòi bella sensa ornamento è confusione. Dalla cognitione di varie cose fiorisce il docto scrivere, però exhorto maximamente voi che in materna lingua scrivete, habiate sollicitudine di exquisite sententie et de la proprietà di parole non minor cura». Ma, alla fine dell’ampio proemio, il primato delle res è chiaramente riaffermato: «Dalla copia di doctrina segue ornato parlare, como in Ioan Iacovo Calandra mantuano si vede» (cc. 64-64v.).

Quanto al Libro de natura de Amore, l’Equicola dichiara esplicitamente di essersi proposto di scrivere un’opera filosofica all’inizio del capitolo Per la voluptà de l'animo et vera beatitudine: Doi sono le vie di persuadere: l’una, la quale demonstrativamente ne tira ad cognitione del vero; l’altra, per coniecture verisimili, li animi nostri induce ad credulità et si concilia. Il primo modo legitimo et philosophico, il secundo adulterino et adulatorio reputamo. Havete odito le prime parti essere state date alla voluptà corporea con fabule, auctorità, exempli; è stata la exhortatione ad quella di sophistici argumenti et poetica persuasione vestita. Il che li era necessario perché la causa iniusta così recercava. La verità nuda et candida né colore, né fuco la exorna; non cerca lenocinii de translationi, non vario nitore di tropi, non copia di figure et circuitione di blande parole; non tenta con argute et grate sententie sé medesma fare cognoscere; non vole con numerose clausule, con fare benivoli, docili et actenti li auditori, li animi loro

subvertere. La composta et artificiosa oratione non è altro che insidie di fallace esca; el che nel Gorgia reprende Platone et Socrate li iùdici dice non havere ad odire da lui oratione altrimenti ornata con elegantia di nomi et verbi como dalli adversarii, ma pura et coacervata di contingenti parole. Questo noi observaremo; de’ rhetorici precepti nulla ci serveremo [...]. Io simplicemente et breve me sforzarò expedire; non però dubito di periclitare o ad mi avenga como al forte Aiace per la eloquentia di Ulisse de 9 Salvo avvertimento contrario le citazioni sono tutte dalla redazione manoscritta.

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l’arme privato, che quantunque io infante fusse et balbutiente ad ogni dictione inepto, la causa è tale che né per negligentia de causidici, né per ignorantia di oratori, né per fraude de patroni, né per malignità di iùdici pò patere detrimento. Essendo la verità sempre stabile, lucida et ferma, alla quale tempo non noce, non falsi testimonii, non coniecture, non contradictione et consuetudine, non academica disputatione ponno al x suo candore macchia imponere. Se meritamente dunque la prudentia è grata et la lingua suspecta, attendasi più presto alle durabili piante di salutiferi fructi che alla instabile dilectatione di caduci fiori (cc. 295-296v.).

Per questi propositi filosofici egli rinuncia a ogni finzione o travestimento, e non ricorre nemmeno — come invece fa il Fregoso — alla comunissima finzione dialogica: non crede di dover riscattare la materia erudita con le belle lettere. Non che rifiuti gli abbellimenti tratti dalle «oratorie prata et poetici boschecti», ma li applica dall'esterno alla materia teologica e filosofica, come decorazione. Ne vedremo più innanzi qualche esempio. Per ora basti osservare la funzione ancillare dell’eloquenza, considerata non come essenza ma come belletto,

come condimento da usare solamente in certi luoghi opportuni. Siamo agli antipodi della concezione bembiana e, in genere, del classicismo volgare. La barriera degli esemplari, opposta dal Bembo alla letteratura cortigiana, comportava non solo un’estrema raffinatezza linguistica ma una sublimazione dei contenuti, una rigorosa selezione culturale: poneva i modelli fuori dal tempo, ricercando una assoluta purezza. Il nuovo classicismo condannava quasi tutta la letteratura recente e la cultura scientifico-filosofica in genere, in cui vedeva trionfare la barbarie. Escludeva ogni compromissione con il presente. Sacrificava i contenuti alla nobiltà del linguaggio. Privilegiava la poesia, considerandola quasi un distillato dell’umana esperienza. Studiava i classici, per lo più, soltanto da un punto di vista filologico e stilistico. La cultura cortigiana, al contrario, tutta immersa nel presente, non si rivolgeva ai posteri ma a gruppi sociali ai cui stimoli obbediva docilmente. Aveva interessi prevalentemente sincronici. Leggeva, discuteva, criticava, condannava ed esaltava i contempora-

nei. Non avvertiva una frattura fra un prima e un poi. Pertanto, utilizzava liberamente i classici senza schermi, senza prevenzioni stilistiche. Non distingueva fra tradizione latina e volgare, ma si serviva, come di un tutto unico, dei modelli culturali esistenti. Il Libro de natura de Amore, per esempio, non sarebbe apparso sconveniente se scritto in latino. Ma appunto le esigenze della società cortigiana imponevano l’uso del volgare e un travaso di contenuti da una

lingua all’altra. Era un’operazione rischiosa, e l’Equicola ben lo sapeva tanto da ricorrere alla finzione della traduzione, per di più attribuita in un primo tempo ad altra persona che avrebbe operato a sua insaputa. Il confronto fra i due modelli culturali, che presentano ciascuno sfaccettature diverse, andrebbe ulteriormente approfondito. Ma qui, a costo di semplificazioni e di schematizzazioni, mi basta ricordare che il contrasto delle tesi linguistiche era soltanto l’aspetto emergente di un più profondo contrasto fra ideologie, fra modi diversi di concepire la funzione della letteratura e degli intellettuali. Consideriamo ora più da vicino la redazione manoscritta del Libro de natura

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de Amore. Depennata la lettera dedicatoria, il primo libro inizia con un’ampia perorazione (Laude de amore), vera prova di prosa ritmica che nella princeps sarà trasferita all’inizio del terzo libro: O summa potentia; da Hebrei habava, da’ Greci beros, da noi con commune vocabulo 47z0r chiamata, ad ti le mano supplici tendemo. Domando perdono se io, a pena di toi sacri initiato, intrare nel tuo sacratissimo tempio presumo. Non incitato da sacrilega cupidità, non da prophano ardore stimulato, ma non so da qual genio spincto, ardisco di tua natura far parole. Sia quel se voglia, questo nostro forse non temerario ardire tuo sia, a ti il referimo. Tu pòi alle cose vecchie dare grata novità, auctorità alle nove, alle obscure luce, alle fastidite gratia et alle dubie fede. Tu eloquentia, tu gravità di sententie, tu ornato di parole et ordine pòi porgere. Tu alli scripti eterna vita, alli scriptori eterna fama et nome immortale pòi concedere. Tu continui il celeste curso, tu il moto de la mundana machina fai perpetuo, tu li elementi unisci et quelli ad generatione inviti. Tu il creato recrei, tu patre, tu matre de animanti. A ti, incorruptibile potentia, deserve lo universo. Da te, dunque, animo, forza, vigore et aiuto domandamo, ad ciò non lasciàti dal tuo presidio possiamo nel proposito constantemente perseverare. Con questa fiducia così di te exordiremo.

Su questo tono, passando dalla preghiera all’esaltazione, il proemio prosegue da c. 8 a c. 16v., per concludersi ancora in forma magniloquente: Quanto dunque lo maturo pomo de l’acerbo è più grato, quanto più digna la accesa de la extincta candela, quanto la umbra al vero è inferiore, quanto il vivo animale al picto se deve preponere, tanto superiore lo amatore dal non amante è cognosciuto. Chi socto la amorosa disciplina vive, deventa in laudare eloquentissimo, prompto in resposte, in risi faceto, in cose serie accorto, in le ambigue sagace. Alli soi cortesiani amore li sensi vivifica, excita lo ingegno et, da quello inertia et rusticità removendo, di virtù lo exorna et lo suo naturale discurso como exercitato ferro illustra, el corpo con eleganti habiti in politeza et munditia mantene et con letitia in sanità il conserva et al fine dalla corporea belleza alla incorporea pulchritudine lo adito et via sanctamente ne prepara.

Può stupire che una prosa dalle nervature retoriche così marcate sia uscita dalla penna di quello stesso letterato che più volte loda la diligente negligenza, l’arte che cela sé stessa. Occorre, però, tener conto del gusto di quegli anni, ricordando per esempio che la lingua artificiosissima degli Asolari all’Equicola e a molti altri poteva sembrare plebea. Il secondo capitolo passa in rassegna le Opinioni de’ moderni scriptori circa le cose de amore. Presenta la moderna letteratura sull’argomento prima di passa-

re alla trattazione vera e propria, che è fondata quasi esclusivamente sull’autorità degli antichi: In nesciuno existimo così fredo et congelato il sangue che, essendo in manifesto furto di littere depreso, quello per la faccia non se Ili diffunda et appara, possendosi iuridicamente dinanci al tribunale de le Muse citare ad restitutione, como usurpatore

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delle altrui fatige et vigilie. Il che di servile ingegno crese Plinio, et pieni di ingenuità quelli iudica li quali per chi hanno facto profecto confessano. O amici lectori, a’ quali electi cibi apponere intendo, sappiate quanto ve apparecchio essere nelli campi de philosophia et theologia con diligentia raccolto, condito, secundo mie forze, di varietà nelle oratorie prata et poetici boschecti investigata. Li fructi del mio horto cognoscerete; nel quale, benché poco culto sia, da bono agricola bona semente vi fo sparsa et li arbori de piante di antiqua matre per insito adoptati. Et ad ciò ciascheuno certo tra tante promissioni non se Ili ha da porgere musto né aqua da piova adunata, mi è parso di recenti scriptori di amore, quali sono al publico et in mia notitia pervenuti, le opinioni referire et de loro opere, circa questo, il succo expresso primo farne gustare (cc. 16 v.-17).

È in questo capitolo che si manifesta il vivo interesse della cultura cortigiana per la letteratura recente e contemporanea. Gli autori esaminati — in paragrafi di singolare struttura, preceduti ciascuno da un ampio proemio — sono Guittone, Guido Cavalcanti, Dante, Petrarca, Boccaccio, Ficino, Fregoso, Platina, Francisco Prudenzio di Alvito, Bembo, Battista Carmelita, Gian Iacopo Calandra. Solo più tardi, nella princeps, troveremo Francesco da Barberino, «Ioan de Meun dicto Romant della Rosa et altri francesi», l’Alberti, Giovanni e Giovan

Francesco Pico, Francesco Cattani da Diacceto. Inoltre verrà ricuperato il paragrafo su Pietro Edo, depennato nel manoscritto, e sopra tutto alla fine del quinto libro comparirà l’altro importante excursus — Como poeti latini et greci, como giocolari provenzali, rimanti franzesi, dicitori toscani, trovatori spagnoli, habiano scripto de loro amore — , che ulteriormente qualifica l’Equicola come uno dei maggiori studiosi delle letterature romanze. Ma torniamo alla redazione torinese. Per i primi due secoli, come si sarà notato, l’Equicola non disdegna la testimonianza dei poeti, ma sceglie testi 44 hoc. Così di Guido Cavalcanti prende in esame la canzone dottrinale Donna mi prega, in cui — dirà nella princeps — «tracta de amore non secondo poeti ma

secondo i philosophi». E nel consueto proemio si distende a ricordare che a molti «el simplice et naturale parlare, senza compositione» piace a tal punto che «la oratione horrida, como in bocca nasce, senza arte, simile al quotidiano ragionare più virile permane, summa eloquentia reputano, dove cosa alcuna non sia affectata, niente li sia ficto, niente remoto da l’uso vulgare». «In tal linea» poetica, verso la quale non mostra prevenzioni, egli colloca Sennuccio del Bene, Franceschino Albizzi, Cino Rinuccini e, appunto, Guido Cavalcanti, «il quale non simile a torrenti, non a limpidi fonti, ma a stagno in sé racolto et placido laco lo vedemo. In lui ogni cosa è sincera et sana sensa adulterino colore». Pertanto lo si deve onorare «como le antique silvocte a dei sacrate in reverentia si solevano tenere, ne le quali li arbori non erano tanto di utilità et belleza quanto di veneratione»

(cc. 22v.-23).

Il quadro della letteratura trecentesca che risulta da queste pagine è quello umanistico-cortigiano. Di Dante si ricorda solo la Commedia, dopo un lungo excursus sul tema del viaggio agli inferi: «observando il poetico decoro et theologica maestà, non si parte dalla verità di christiani» (c. 25) e «con doctissi-

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mo figmento per la voluptuaria, activa et contemplativa vita discorre» (c. 25v.). Del paragrafo dedicato al Petrarca manca il proemio, e quindi un eventuale giudizio complessivo; l’attenzione dell’Equicola comunque si rivolge solo ai Trionfi e a opere in latino. Sintomatico è pure il fatto che del Boccaccio esamini in primo luogo il Filocolo, poi la Fiammetta e il Corbaccio, mentre rapidamente accenna

al Decameron

«opera

iocosa et dilectevole»

(c. 35), al Teseida, al

Ninfale e alle Genealogie degli dei. Del resto, il giudizio complessivo è nettamente pre-bembesco:

Sequitando il dire asiatico abundante, copioso, elato et tumido, como apresso Greci Luciano, apresso noi Apuleio, socto nube et delectatione di fabule in soluta oratione poeticamente scripsero, così questo sensa certi numeri delicata poesia et bella materia per delectatione abbraccioe (c.32).

Forzeremmo il significato di questo capitolo, cercando di estrarne un compendio di storia letteraria. L’Equicola badava alle res più che alla forma; tuttavia proprio per questa attenzione rivolta al contenuto egli poteva individuare i motivi stereotipi di tanta poesia contemporanea, stereotipi in cui si manifestava

l’insincerità di quei «versificatori» che erano stati «alla loro fama superstiti» o avevano scritto «più presto di loro accidenti che de natura di amore», raccontando timori, speranze, suspitioni, gelosie, cure, pensieri, pene, tormenti, martyri, cruciati, lai, guai, oimei, dolori, dissidii, reconciliationi, guerre, paci, tregue, partenze, retorni, con querele et stridi più volte contra fortuna et caso, con accusare li celi et

maldire alla natura per essere loro pecto fornace ardente, receptaculo di fiamme, Ethna et insule vulcanie di incendii et vapori piene. Il core signo exposto a venenate et mortifere sagicte, li occhi fonte abundantissimo di lacrime, li suspiri furiosi venti et infiniti altri miraculi, tra quali il minimo è che viveno sensa anima o vero, se la amata laudano, diva et dea nominandola, di quella mille volte replicano divini moti, angelici custumi, celesti portamenti, più che humane actioni, parole che ’l sole firmano et il mare fanno tranquillo; de oro li crini, de hebeno le ciglia, stelle li occhi, rose le guancie, coralli le labra, di avorio li denti, di lacte il pecto, poma le mamelle, di neve le mano, di perle le ungie (cc. 17v.-18).

Deliberatamente non fa nomi, ma il suo giudizio è preciso: de li scripti di alcuni di questi se pò dire, como de l’una opera di Anaxagora dixe Socrate, essere inane. Alcuni sono nel mezo vacui, benché nel principio alquanto compareno. Chi è affectato et bombisonante; chi exile, arido et ieiuno, da le rime como da concitato torrente se lassa portare. Di alcuno il naturale ingegno, per non haverlo con studio exculto, da infelice lolio et sterile avena è stato occupato. Chi di arena solo fabrica, di arte et iuditio nudo. Chi di ventosa gloria avido sensa elocutione,

como le simie soglieno, quanto più se è da terra levato tanto più ha monstrate sue parte pudibunde et dato di sua ignorantia certo argumento. Chi volendo il suo cavallo frescione redure in agilità di iannecti, li ha facto così il naturale moto smarrire che tra vili iumenti di carrecta si può numerare. Chi in publicare troppo celeri, li loro scripti socto la ferula hanno revocati. Chi tanto imita che, como in Chrysippo fo advertito, se

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le cose di altri da le loro opere si removesse, restaria la charta bianca. Multi, subterfugendo la fatiga utilissima de la emendatione, di mutare, transponere, levare, adiungere, appareno cicatricosi, enervi et sensa sangue; et la maior parte per demonstrarsi poeti

sono hiperbolici ultra mesura, di pastorali affecti et buccolice similitudini copiosissimi; il che moderariano se la dignità poetica et quanto la oda, elegia et epygramma recercha

cognoscessero

(cc. 18-19).

È un arguto ed efficace catalogo dei vizi della poesia del tempo. Ma l’Equicola tiene a precisare di non essere affatto un laudator temporis acti: Non però di nostri tempi maldico, né di natura mi lamento per cognoscere multi in questa età in ogni virtù et mercuriali laudati exercitii homini preclarissimi, tra quali fecundissimamente surgono nobilissimi ingegni che in la amorosa militia fanno gran stipendii, non meno alle Muse et Apollo che ad Venere et Cupido dicati. De’ quali chi è maturo et sententioso, in chi iucundità poetica ride, chi con florido stile delecta, chi iocoso et canoro, chi proprio et elegante, tucti di arte et numeri scientissimi, docti et PErLtio(CAM9)%

Un’energica condanna dei nostalgici del tempo passato e un’altrettanto decisa dichiarazione di fede nel presente si legge poi nel proemio del capitolo sul Fregoso: Antiqua et commune querela et vitio di tempi fo sempre de la presente età lamentarse et ad quella li passati anni preponere; il che da invidia procedere certo si crede. Io, como Ovidio, me alegro essere nato in questa età nella quale, se tranquillità desideramo, quando maior se hebe? Se secura vita, quando fo mai tanta libertà di parlar et tacere? Non tememo che le nostre possessioni siano a militi divise o deputate; non a proscripte nephande, non a crudeltà di imperatori semo exposti, exilii et servitù sono extincti; di infiniti abominandi vitii, quali li antiqui sensa timore di pena et di infamia impudentemente exercitavano, appena hogi li nomi intendemo. Nulla heresia, nulla perturbatione in la fede si retrova; multi prestantissimi homini al presente in ogni exercitio si vedeno. Non me lamento dunque che co l’occaso de l’imperio romano la maiestà de la latina litteratura patesse detrimento, né che da Gothi, Vandali, Hunni fosse di ogni decoro spogliata, da Longobardi absumpta et da altri barbari sepulta, ché ecco resurge et como nova pianta da sé germina. È passato lo inverno, sente ià la prima vera et, benché tenera virga sia anchora, ha le radice nella sua matre antiqua. Extenderà presto li soi rami in tanta magnitudine che non solo fructi suavissimi parturirà, ma starrà firmissima contra ogni vento et contra ogni tempesta immobile et secura. Non me commove che multi imitare non sappiano, né habiano in quello electione; di diverse affectioni non me maraviglio, ché ciascheuno rationale como ha diversa natura così diversamente sente. Quali noi semo tali li scriptori desideramo;

quelli volentieri legemo che con nostro parere son conformi; quelli reputamo boni li quali con le nostre voluntà concordano; quelli ad tucti proponemo che ad noi in qualche parte son simili. Meno me dà causa di querela che multi ineptamente scrivano, perché docti et indocti sempre scripsero; ma di quelli me doglio che ad pena il nome declinare et verbo inflectere sanno et con arrogante iudicio di coetanei iudicano. Ad questi chi è fluxo et debile, chi ha stile humile, in alcuno le structure dicono essere che la lingua non pate, in chi vocabuli retrovano che lo antiquo non li usa, chi non sa bene

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littere, chi non va per bona via. Ma me alegro et me consola che, volendo questi insolenti essere tenuti docti alli ignoranti, essi da docti sono ignoranti et temerarii reputati. Dare iudicio di stilo et lingua quelli soli possono li quali non solo multo ma multo et bene hanno scripto, multo et multe cose hanno lecto et sanno che cosa è quella da Tullio laudata diligente negligentia (cc. 45v., 48-49v.).

È un'esaltazione acritica, di un candore che fa sorridere, specialmente nella prima parte. Siamo lontani dall’acutezza del Castiglione. Ma, nella seconda parte, in cui difende la letteratura contemporanea e riflette sulla critica militante, ci offre una non trascurabile testimonianza su certi indirizzi di fondo della

cultura cortigiana. La consapevolezza dei rischi intrinseci alla critica militante rende l’Equicola molto prudente nel giudicare. Tutto il passo che abbiamo appena citato ha lo scopo di evitare elegantemente un giudizio sul Fregoso che, verosimilmente, sarebbe stato negativo come quello su Pietro Edo, al cui paragrafo (prima della soppressione) era stato premesso questo proemio. L’interesse per il presente, in letteratura, non comporta un’ammirazione incondizionata (come per le situazioni sociali, politiche, religiose) ma una coscienza critica; e già si è visto che egli è pronto a denunciare i vizi della poesia contemporanea. Ma sempre con prudenza, e senza far nomi. Altrettanto si può dire per le lodi. Almeno una volta però o per amicizia o per convenienza o per convinzione si lascia prendere la mano

dall’entusiasmo. Avviene nel paragrafo sul Calandra !, che nella princeps comparirà in una redazione profondamente diversa. Al proemio, che è una sorta di trattatello retorico, corrisponde specularmente — come se si trattasse della realizzazione pratica dei principi teorici enunciati — l'esame dell’operetta dell’amico, in cui l’Equicola dà un saggio delle sue qualità di critico letterario: Così fa iucundo fine alla.sua aurea Aura, da la quale, qual lion da le onge si cognobe, si può di suo ingegno dar iudicio; et, con pace de li altri sia dicto, solo

integramente ha cognosciuto como dal candore et purità de la romana lingua in gratia si deducano in nostro vulgarissimo uso le dictioni. Non con multitudine di affectati et impertinenti epitheti, [...] non con vocabuli dal latino fastidiosamente tracti venustan-

ti, né de morsicanti osculi et geniculatione ha sua invention vestita ma di parole con indefessa diligentia da la corte electe; et non di meno è stata tanta l’arte et sì occulta che ogni cosa appare naturale, propria, né aliena da la vulgare consuetudine. Le parole artificiosamente collocate, sensa artificio poste si iudicariano, se una latente demonstratione l’arte non manifestasse. Di voci gravi et levi ha posto gran studio, in le coniuncte se comprende perspicuità illustre et brevità probabile; fuge le abiecte, le antiquate rare volte troverai, in debiti lochi le innovate colloca, usa le translate spesso. Evita il concurso et collisione di quelle littere che colla bocca patente si pronuntiano, quali sono 0 et 4; cognosce 5 et x propinque non convenire; dalle stridule r et 2 si guarda. Lo hiato di voculi î et e tanto li piace quanto baste ad lenire in suo commodo, frequente le mute. Per indolcire le aspere r, 5, z, per excitare questa concinna composi1011 paragrafo sul Calandra è posteriore «alla stesura del testo base, come si deduce dalla scrittura, più minuta e fittissima, che occupa interamente le pagine senza lasciare margini» (I. RoccHI,

art. cit., p. 569).

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tione, facendo suo curso casca numerosamente, donde suavità nasce et iucundità senza fastidio. Il primo a l’ultimo, lo extremo al precedente conresponde. Non usa ineptie, sententie et fetor de abstruse parole. Le clausule non intercludeno lo spirito per longe periodi, da intendere facile senza fatigare lo ingegno in repetere le parole et advertere alle constructioni. Correno con dactili, iambi, anapesti, trochei, peoni et cretici, non

però tanto che in cantico si resolvano, per ciò che così offende il troppo como il poco et ogni voluptà ha fastidio per confine. Il mio Calandra li ha posto modo, sapendo che Apelle reprendeva in li pictori che non sapevano quel fosse assai. Se quello dunque è felicissimo sermone,

secundo la opinione di doctissimi, che da recto ordine, apta

iunctura et suave numero opportunamente è coniuncto; questo è da l’erudito Calandra nella sua Aura expresso (cc. 65-65v.).

Quanto siano pertinenti queste lodi, è impossibile dire, perché l’Aura è sfuggita finora ad ogni ricerca. Ma è significativo che nell’ultima redazione l’Equicola ridimensioni non tanto le lodi quanto i propri interventi di critico e, con maggior coerenza rispetto al suo scopo, dia più spazio alla parte tecnica dell’operetta del Calandra, cioè ai dubbi d’amore. Nella princeps non ricompare il paragrafo su Francesco Prudenzio di Alvito !, che avrebbe scritto un «librecto dicato al virtuosissimo et amabile Alphonso Trotto». Di questo nipote dell’Equicola sappiamo ben poco. Poiché anche il Libro de natura de Amore inizialmente era dedicato al Trotti e per il precedente della Dedicatoria — che l’Equicola attribuisce al nipote come a un prestanome — potrebbe nascere il sospetto che altrettanto egli abbia voluto fare qui: cioè, che abbia voluto parlare di una propria opera. Comunque sia, il paragrafo gli consente di formulare nuovi giudizi sulla letteratura moderna: Apollo delphico meritamente iudicò Socrate più che li altri savio. Di costui essere stata sententia si dice haver la natura errato in non fare li pecti de li homini fenestrati, ad ciò li sensi nostri fussero manifesti et li vitii non si potessero occultare. Certamente hora io questo desidero, havendome proposto fare qui mentione di Francisco Prudentio mio nepote. Al che non me move amore né sangue, ma ad questo mi induce un suo librecto dicato al virtuosissimo et amabile Alphonso Trotto, Cavaliere (como si dice hora) de la religione di Rhodi, Camerlengo del magnanimo et invicto Alphonso da Este, Signore et Duca de la inclita et fida Ferrara. Ivi suo amore per ordine narra; alcune quistioni di amore solve. Vi appareno alcune scintille di littere; sensa elocutione con facilità et copia si diffunde; multe cose da resecare, alcune da immutare, non poche da removere vi cognosco. Perché esso li altri nasuto iudica, non ho voluto di soi scripti pretermettere il mio iudicio. Primieramente raconta quelli che vole imitare: Guido Guinicelli, per ciò che in lui dice non trovarli se non cose di ingegno et che sensa affectatione, candido, puro et terso, delecta; Cino da Pistoia, per cognoscere soi sensi da l'intimo core procedere, né multo essere curioso di poetici figmenti; Honesto Bolognese, che di nesciuno se non di sé stesso è elegante imitatore. Di Dante dice voler fugire la scabra locutione et rigide parole, sequire le crebre et vibranti sententie; alla elocutione et elegantia di Petrarcha tucto si dona. Di nostri tempi Bernardo Li

Anche le cc. 46-47, che contengono il paragrafo sul Prudenzio, sono state inserite in un secondo tempo, forse contemporaneamente (o quasi) a quelle sul Calandra. .

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Accolti Unico, per essere in le inventioni beato, in le parole felice, in commovere

admirabile, in extemporale dictione non solo de li altri ma di sé stesso laudato vincitore; Actio Senazaro, la pastoral musa del quale affirma non temere de le culte cità li docti conventi, ne le altre compositioni niente esservi vacuo, niente ocioso; Magnifico

Lorenzo di Medici, che in tante occupationi del governo di Italia maravigliosamente con gravità et lepore, con gratia et urbanità di amore cantò in la brevità leto, hilare in la copia; Hieronymo Beniveni, che, calcata la terra, con guida di doctrina platonica al celo ascende et che socto quel peso sensa fatiga vola, severo et grato di honestate studioso; Hieronymo Verità, che in lui magnificentia di spirito et nitore compare, in exprimere sue passioni eruditamente flebile; Hercule Cantelmo, di Sigismundo Duca di Sora dignissimo figliolo, il quale in martiali et litterarii studii eminentissimo iuvenetto, lo amore di Leandro et Hero exercitandose scrisse, dove in ioci diligentia, in cose

gravi aptitudine vedemo, di poetica iucundità pieno, ad si il lectore tira, di opportuni vocabuli copioso li animi fura, tucto nervi, tucto sangue, inanima le parole et in quelle delitioso quasi fa apparer moto. Non meritava hogi tanta excellentia il mundo, però il cel per sé sì tosto il tolse et a mi, o novo Alcide, venendo l’età mi te hebe invidia la

perfida fortuna.

A questo piccolo campionario delle preferenze letterarie cortigiane segue il sunto dell’opera, di cui trascrivo la prima parte: Francisco dunque formosa iuvene dipinge; lauda la sua amata como di boni custumi ornatissima, li quali prepone a ogni nobilità, quantunque quello reputa felice che in gran domne ha ventura per essere meglio ardere et morire per excelse che gioir con infime. Lauda li occhi per haverli tra negro et bianco, sensa macula, alquanto longecti, proportionatamente ampli, alegri et lucidi. Lauda la faccia tunda che non ha multo del largo, il naso piccolo, il pecto lato, la mano non ossea, li internodii di deta equalmente pieni colle unge late. Exorta tucti amanti ad evitare con ogni possibile forza di dedicarse a domne quali habiano occhi bianchi, piccoli, strecti et oblongi, per essere infallibile signo di malignità, odio et summa ingratitudine. Tali legemo essere stati quelli di C. Mario et Cl. Nerone. A Pallade sono attribuiti glauci, grandi, quali li hebe Cesare Augusto, che, secundo Empedocle, hanno multo del foco. Reprende quelli quali credeno Petrarcha haver dicto Laura haver li occhi cesii quando li assimiglia al zaphiro, per ciò che ivi non altro intende il poeta che laudarli como tranquilli et sereni, como in altri lochi fa; et è aperta imitatione di Dante, il quale, volendo descrivere lo aire

sereno «dolce color di oriental zaphiri» scrisse, ciò è sereno et tranquillo. Fuganose quelle di faccia longa, che simulatrice sono et inverecunde. Il naso grande et lato pazia in domne et poco iudicio denota. Qual pestifero angue abominemo domne de le mani de quali le unge sono adunce et incurve, per essere, como dice Aristotele, avarissime. Ivi se extende contra l’avaritia et con argumenti validi prova in pecto di avari non possere penetrare amore et intrandovi poco in tal fede durabile presto loco muta. Con auctorità di Hieronymo demonstra lo homo non aver cosa più propria che amor et però vole in quello sempre vivere, a una sol dicato. Sua opinione è, con multi exempli corroborata, di ogni amante essere il fine pervenire ad cogliere lo ultimo fructo di amore et doppo non mancare, anzi crescere lo amore (cc. 46-47v.).

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Il primo libro si conclude con un Epilogo, che non sarà inutile leggere come esempio del metaforeggiare usato dall’Equicola a scopo decorativo !*: El non anchora assecurato natatore il quale, aiutato da artificio, che sopernate in tranquille onde, primo move braccia et pedi; dopo, quello remosso, li rapidi fiumi tranar non dubita. Lo ocellino, quando star nel nido li par molesto, saltando da quello nel più propinquo trunco si posa; hora in l’uno hora in l’altro arbore volando, fa di sue tenere penne securamente experientia; ove sufficiente et firmo si cognosce, senza timore discorre. Questi recenti scriptori, la opinione de’ quali havemo in brevità reducta, siano stati ad mi qual zuccha al natatore, qual ramo a l’ocellino. Mo nelle nostre benché tenue forze fidandone, con bono auspicio et bona gratia, como spero, de Celisti nel pelago di amore con la amorosa

aura sulcaremo (c. 65v.).

L'esposizione preliminare della letteratura sull'argomento, eccezionale in un’opera volgare (mentre era quasi obbligatoria nei trattati filosofici), è ulteriormente giustificata all’inizio del secondo libro: Cosa rustica et incivile pareria se alcuno, di musica perito, in conspecto di nobilissimi auditori, sensa prohemio cantico intonasse. Per evitare io tal nota, havendo nel

precedente libro preparata et consona facta una cythara, in questo con platonica recerchata tentaremo insinuarne nelli animi de lectori; poi de li affecti monstraremo la origine ad ciò ogni obstaculo se remova et la via sia loro expedita et quanto di noi nelli sequenti libri si possano promettere li sia manifesto (c. 66).

Comincia, dunque, in questo libro la trattazione vera e propria. A un lungo proemio sulla natura d’amore (prima diviso in due parti: Origine de affecti e Amore esser causa de tucti affecti) seguono i capitoli: Del nome amore, Divisione de amore, Diffinitione de amore, Che cosa è belleza. La trattazione — che ha il tono della conversazione o meglio della lezione — procede per fittissimi riferimenti eruditi. Appena qua e là c'è qualche pausa distensiva o qualche abbellimento del tipo di quelli che già conosciamo; per esempio, all’inizio del capitolo Diffinitione de amore: Persuadevame in questo mio deliberato viagio non havere ad trovare altre difficultà che monti asperi, paludose valli, invie silve et lutosa pianura; et eccome ad la riva 12 Il metaforeggiare dell’Equicola dipende dai testi latini e quindi non attua la rigorosa selezione propugnata dal Bembo, il quale non solo voleva rifarsi ai più illustri modelli volgari ma era mosso da un ristrettivo concetto di convenienza. L’Equicola invece propendeva per immagini corpose e pittoresche, talora addirittura fragorose, come nel proemio del terzo libro: «Facta in loco securo di nostro exercito, quanto et.quale sia, la publica monstra, finiti militari iochi et simulacri, di vera battaglia intrepidamente al commactere me preparo. Havemo con sufficiente presidio in opportuno loco disposti della guerra li instrumenti et li soldati ordinati. Serà in questa pugna mio summo imperatore la christiana simplicità, in la nantiguardia serà la

fede, la battaglia charità governerà, assisterà alla retroguardia la certa speranza [...]. Ma diase

hormai de la vera pugna il segno, inanime et incite lo ià preparato exercito, de la trombetta il canoro taratantara»

(cc. 115-116).

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de uno rapido fiume fermato, vedo il ponte ructo et io, che in fiumicelli tranquilli so assueto, di tranarlo non me assecuro ad ciò che, come di Hippomedonte le fabule

dicono, da violentia de le aque intercecto non me submerga (c. 101)

Né mancano pause encomiastiche, ma fatte con tanto candore che facilmente si perdonano. Ecco, per esempio, un cortigianissimo omaggio inserito alla

fine di un famoso aneddoto su Zeusi:

Esso cinque ne elesse per essere certo non possere in un corpo retrovare tucte quelle parti che ad perfecta beltà si recerchavano, non essendo in quel tempo nata la formosissima Dia Isabella da Este, Marchesana di Mantua, la quale una, como la statua di Policleto fo regula di tucte le altre statue per essere perfectissima in nesciuna parte manca, così questa fo da natura exactissimamente fabricata formosissima et al corpo respondente la beltà de l’animo (c. 108).

Il terzo libro comprende i capitoli: De lo amore de Dio, Amore angelico, Amore de l'homo ad Dio, Amore de homo a l’homo. Il quarto si apre con un proemio, volto a giustificare la difficoltà di passare senza fratture dall’amore celeste a quello volgare: Laudasi meritamente quel tapeto o altro ornamento il quale, di diversi colori mille texuto, così è latente il transito de l’uno colore ne l’altro che la vista humana facilmente ivi si gabba, per ciò ne l’ultimo se discerne la varietà di essi, rendendo figure proportionate, alli occhi delectevoli. Laudansi le opere de scripturi se son così continuate che la materia si unisca et ordinatamente si stringa il primo col consequente,

como in Aristotele, in Plinio et in le pandecte iustiniane vedemo, ci maravigliamo della ingeniosa cathenatione de le Mutatione di P. Ovidio. Sperava io tacitamente da l’amore celeste ne l’amore vulgare fare retrovare il lectore ma el troppo intervallo dal celo in terra, la distantia et spatio di loro mel veta, però senza altra excusatione como del pio Hippolyto le sparse membra ho in certa forma reducto così me sforzarò de l’impio Pentheo le lacerate parti insieme reunire (cc. 145v.-146).

Seguono i capitoli: De’ sensi, De la forza et potentia de amore, Causa de suspîri, pallore et lacrime de amanti, Causa de insomnii de amanti, De Venere, De Cupidine. E all’inizio del capitolo su Venere, l’Equicola ci spiega il modo in cui

si possono utilizzare le favole poetiche in un discorso scientifico: Le fictioni poetice laudamo, ché, como nella theologica sacra speculatione enigmi, figure, parabole, proverbii et similitudini vedemo, così ad inescare et excitare la imperita multitudine et occultamente tirare il vulgo alla cognitione del vero li antiqui cogno-

bero essere necessaria una nova generatione di delectare, ciò è fabule, le quale alti et

reconditi sensi comprendeno. Li Stoici continere la physica demonstrano. [...] Appresso Strabone legemo essere stata chiamata la poetica philosophia. Platone di varii fabulamenti sue opere exorna. Se li nostri, li quali figmenti poetici damnano, non

havissero circa cose frivole ostentata doctrina, insistendo in li vocabuli, haveriano

cognosciuto non essere da sprezare la fabula, anima di ogni nobile poema. Se alli gravi

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loro sensi, non ad alcune adiunctioni per vaghezza che niente importano, havissero advertito, non la damnariano (cc. 181-181v.).

È un passo che va confrontato con quello del secondo capitolo del primo libro, in cui si legge la condanna dei poeti che non hanno niente da dire e ricorrono a luoghi comuni. L’Equicola pensa a una poesia che sottintenda gravi sensi, per difenderla dal disprezzo di coloro che le rimproverano una vaghezza vana e gratuita. In filigrana par di scorgere un dibattito sulla poesia, che certo fu vivacissimo negli anni in cui si preparava il trionfo del formalismo bembiano. Il libro quinto, dopo un breve proemio, comprende i capitoli: Causa del reciproco amore et mutua benivolentia, Signi et inditii da cognoscere li inclinati ad amare et presente amatore, Arte et modi di conciliarse benivolentia, Modi et

gesti de l'amante, Vestire et colori de l'amante. Il sesto e ultimo libro inizia con un proemio che ci consente di osservare ancora una volta come l’Equicola vari abilmente i soggetti di queste “sinfonie” introduttive: Li periti mathematici, ultra li altri preclari doni de la lor divina disciplina, al ben vivere l’uso de tanta scentia reducono. Tre parti de l’anima, ragione ira cupidità, in diapason diapente et diatessaron consistere apertamente

monstrano.

La prudentia,

fortitudine, temperantia et iustitia ad uno, doi, tre et quatro con proportioni applicano. Tre sorte di linee, tre specie di amore ne representano: per recta il sensuale, per la media il virtuoso, per la circulare quel divino summo alle cose celeste. La recta et la media da puncto ad puncto si terminano, in la orbiculare non si conosce fine né si discerne principio, così quel amore il quale ha cura del corpo et di virtù dopo morte manca. Il divino, poi la separatione, resta in l’anima più fervente et sempre immortale. Havemo de li altri libri il corpo de dicte linee composto; al presente volemo nella forma orbiculare capacissima si resolva. Sia il centro nostra anima, la cincunferentia la beatitudine la quale, amando Dio, ne è preparata. Ad questa tucte le linee dirizemo (cc. 261-261v.).

I capitoli sono tre: Fine de amore, Per la voluptà corporea, Per la voluptà de l'animo et vera beatitudine; da quest'ultimo traggo un esempio del discorrere filosofico dell’Equicola: Tucta quella cognitione di natura et la disciplina di bon custumi, dicta philosophia, da doi principii si deriva: la ionica da Anaximandro, discipulo di Thalete, hebe origine; la italica ad Pythagora, di Pherecide auditore, si referisce. De qui varie secte

nacquero, tra le quali la academica. Li addicti ad questa disputavano in l’una et l’altra parte et secondo le cose probabile mutavano opinione; il che ad multi parse cosa di frivolo ingegno, ad multi laudabile mezo di trovare la verità, sì como ad Platone, consuetudine del quale è acutamente per dialogi disceptare. Esso, per redarguire multi errori, non poche ma multe volte induce Trasymacho, Callicle, Polo, Gorgia, Prothagora, Hippia et Euthidemo, de’ quali son derise et reprobate le sententie. Però nel Gorgia il parlare de l’ineptissimo Callicle, che debiamo lassare augumentare la cupidità, Socrate confuta et prova la vita del temperante essere beata, de l’intemperante infelice et si sforza demostrare cosa alcuna non essere meglio in le actioni humane che la temperan-

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tia, alla quale nel dicto dialogo et altri lochi sì la lauda, sì ad quella ne exhorta che, havendo lei sola, affirma noi essere possessori de ogni virtù per essere de la virtù radice, sola essere de l’anima medicina solida et del corpo perseverante sanità. Al temperante demostra niuna altra medela essere necessaria, per ciò che essa sola è della vita custode. Nel Phedone di varii cibi et vini et di Venere lo uso totalmente damna. Nel suo divino Tirzeo la intemperantia nomina infirmità gravissima de l'animo et libidine venerea cosa effera crede. In le Lege qualunque ama il corpo et le belleze di quello, usare il fiore de la età advenire petulante et contumelioso existima, sì como digno di laude quello il quale considera lo animo, non desidera il corpo. In la Republica ogni nostra actione et corporei exercitii deversi fare consoni ad la temperantia admonisce. Nel Phedro homo dedito ad luxuria simile ad bestie existima. In Theeteto il coito chiama iniuria (cc. 296v.-297v.).

Non mi sembra necessario procedere oltre nella lettura. A tutti ormai, penso, sarà chiaro l'andamento scolastico del Libro, che procede senza vera originalità di rassegna in rassegna, di autorità in autorità, fino alla conclusione

che si appella all’autorità di tutte più alta, quella dei testi sacri: Como l’occhio la luce usa, così sua [di Dio] amicitia usaremo; ad questa ne invitano di patriarchi la perseverantia, di propheti la patientia, di apostoli la peregrinatione, de li màrtiri il volentieri sparso sangue et di doctori il testimonio. Recognoscamo noi medesmi et nostra origine; co l’animo più volte examinemo nostra preclara genitura et obligatione verso Dio. Soli noi, animali perfecti per divino beneficio, li sensi como ministri et ad la ragione obedienti potemo usare. Noi le cause delle cose possemo intendere, transferire le similitudine, coniungere le disiuncte, con le presenti copulare le future; soli con la memoria di cose preterite coniecturamo le consequenti. Tanta excellentia in qual actione più digna, più alta, più salutifera, più piena di certo premio si pò exercitare et excitare che in amore divino? Dal quale purità di affecti, vera scientia et non ficta sapientia ne resulta (cc. 314v.-315).

Non occorrono molte parole per tirare le somme di questa rapida lettura del Libro de natura de Amore. L'ideologia cortigiana, considerata in una delle sue opere più significative e meditate, mostra luci e ombre. È un’ideologia che, per il suo rapido declino, non giunge a maturazione ma lascia in eredità agli intellettuali della generazione successiva alcune istanze che il classicismo bembiano aveva trascurato o soffocato: l'impegno culturale, l'interesse per il presente, il vivace sperimentalismo, l’attitudine alla critica militante, un concetto più comprensivo di letteratura e di poesia. Istanze dotate di una loro instrinseca validità e pertanto riprese in altri ambienti, da cui verranno i primi spunti della querelle des anciens et des modernes e la decisa rivendicazione del primato della ragione e delle res contro la sopravvalutazione della parola. L'ideologia cortigiana costituisce dunque un momento importante della storia culturale del primo Cinquecento, che non deve essere trascurato per privilegiare soltanto i sintomi e gli antecedenti del classicismo bembiano. Altrettanto evidenti, però, sono le ombre. L’apertura sul presente valeva per i fatti letterari, non per i fatti politici, sociali, economici, ai quali si guardava —

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e non poteva essere altrimenti — con un rigoroso conformismo. La filosofia e la scienza, intese per lo più in maniera scolastica, non avevano molto da offrire. La cultura in genere era povera di valori, di tensioni ideali. L'ampiezza di prospettive e di contenuti, lo sperimentalismo, l'elogio del presente non diventavano efficaci strumenti di crescita culturale. La stessa attenzione prestata alle res si traduceva in un grezzo enciclopedismo, almeno nel caso dell’Equicola: il rifiuto dell’ozioso culto della parola aveva come contropartita l’uso ornamentale del sapere. E allora si comprende perché gli intellettuali più sensibili, dopo essere passati per queste esperienze, si siano rivolti in altre direzioni. Non per un vano formalismo ma per un’effettiva esigenza di autenticità ricercavano nelle humanae litterae, invece che nelle scienze dimostrative, gli strumenti più adatti per un'indagine sull'uomo. La retorica e le arti sembravano più “umane” della logica, della metafisica, della teologia, che si aggiravano con chiose, commenti, parafrasi intorno a testi ormai considerati barbari, e non solo in quanto a lingua e stile. A loro più della “verità” sembravano proficui i “miti” letterari della bellezza, dell'armonia, della grazia in cui appagavano il sincero desiderio di realizzare su questa terra le doti peculiari delluomo. Donde il trionfo incontestato della proposta bembiana, nata da un’eccezionale consapevolezza storica; questa però va studiata nel suo contrasto dialettico con le altre proposte che fra Quattro e Cinquecento mantenevano vive quelle istanze che già negli anni trenta le sarebbero state accostate come indispensabili correttivi: proposte che qui, per comodità, ho unificato nell’ideologia cortigiana. Ma questa, se esistette di fatto, tanto che abbiamo potuto individuarne alcuni tratti distintivi, non ebbe coscienza di sé finché non fu costretta a difendersi: cioè troppo tardi per elaborare un modello culturale che fornisse un minimo di coerenza alla nebulosa di proposte emerse nel suo seno. La sua disponibilità, il suo sperimentalismo, la sua apertura sul presente furono anche i suoi limiti. Avendo trovato come unico ubi consistam una realtà sociale — la corte — , era inevitabile che ne

seguisse le sorti.

IL PENSIERO

LINGUISTICO DI B. CASTIGLIONE

«Altro ci vuole a yiver che lingua. La lingua si dà per antipasto; poi, come dice Marziale, carne opus est, si satur esse velis». Queste parole che Angelo Colocci dice ad Antonio Marostica sull’inizio del Dialogo della volgar lingua di Pierio Valeriano !possono essere assunte a simbolo dell’atteggiamento — più diffuso di quanto comunemente non si creda — di una parte della cultura rinascimentale italiana che, sia pure per ragioni e in modi diversi, si preoccupava per gli irrigidimenti formalistici che dall’'umanesimo latino rischiavano di estendersi a quello volgare. Il primo Cinquecento, infatti, dovette “trovare” una lingua italiana, ma non per questo sopravvalutò sempre le questioni grammaticali. Altrove, discorrendo del Folengo ?, ho mostrato che nel periodo a cavaliere fra Quattro e Cinquecento il problema del volgare era ancora aperto a varie soluzioni, tutte apparentemente possibili, e ho ricordato che Mantova era uno dei centri più aperti allo sperimentalismo linguistico e che il Folengo — convinto che il “senso” val più delle “parole” — era risolutamente avverso alla toscanizzazione e, in genere, a ogni proposta che pretendesse di indicare modelli linguistici rigorosi ed esclusivi. Concludevo sostenendo che «l’Umanesimo [...] aveva varie possibilità di sviluppo, non solo quella ciceroniana, splendida, matura, ma

tale da imbrigliare rigidamente la fantasia del poeta e la sua possibilità di aderire alla realtà». Non starò a ripetere il già detto; aggiungerò soltanto che la soluzione ciceroniana (cioè, per il volgare, boccaccesca) appariva ancor più assurda e inaccettabile se calata dal livello creativo dell’arte a quello “mediocre” dei rapporti di civile conversazione. E questo dovette sembrare fin dall’inizio evidente al mantovano Castiglione, che da quella situazione di incertezza e di sperimentalismo moveva alla ricerca non solo della “sua” lingua prosastica ?, ma, più in generale, della lingua di una cultura che — all’altezza della vulgata del Cortegiano — sarà ormai italiana piuttosto che cortigiana 4: ricerca che oggi

1 In Discussioni linguistiche del Cinquecento,

a cura di M. Pozzi, Torino

1988, p. 52.

2 Teofilo Folengo e le resistenze alla toscanizzazione letteraria, in questo stesso volume. 3 Ben diverso discorso, ovviamente, si dovrebbe fare per la lingua poetica: cfr. V. CIAN, La lingua di B. Castiglione, Firenze 1942, pp. 18-21 (a proposito del Tirsi osserva: «Tanta e così

costante vi è la correttezza grammaticale e, con essa, l’ortodossia lessicale, così scarse vi sono le

mende o gli idiotismi regionali, che, se l’egloga fosse stata esumata, anonima, da un codice, difficilmente si sarebbe pensato ad un autore mantovano o “lombardo”») e, per l’atteggiamento teorico e pratico dei settentrionali, la netta differenza fra “modelli” poetici e “modelli” prosastici che faceva lo Speroni: cfr. Trattatisti del Cinquecento, a cura di M. Pozzi, I, Milano-Napoli

1978, p. 635.

4Con gli aggettivi cortigiano e italiano intendo fornire delle generiche indicazioni geografiche e sociali, senza alcuna allusione alle tesi che allora vennero formulate e ai loro rappresentanti, l’Equicola e il Trissino per esempio. Le tradizionali categorie della “questione della

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IL PENSIERO

LINGUISTICO

DI B. CASTIGLIONE

possiamo seguire nei suoi vari momenti grazie agli studi del Ghinassi ? e alla pubblicazione della seconda redazione del Cortegiano °, la quale ci restituisce un “clima” linguistico diverso da quello dell’aldina, anche a prescindere dagli interventi di Gian Francesco Valerio. Per quanto concerne il pensiero linguistico, questa redazione — riconducibile agli anni 1518-1520 — non presenta fortissime differenze rispetto alla vulgata, anche se la diversa disposizione della materia e il ritmo, più serrato e incalzante, del dialogo conferiscono alle opinioni del Conte di Canossa, portavoce dell’autore, una maggior energia e incisività. Nella sostanza resta validissimo quanto su questo argomento ha scritto Giancarlo Mazzacurati nel volume Misre del classicismo rinascimentale”: i fondamentali contributi del Ghinassi e la seconda redazione consentono di confermare e precisare i risultati a cui egli, con rara sagacia, è pervenuto un decennio fa, quando ci si poteva fondare quasi soltani sull’aldina del 1528, su un testo cioè la cui lingua sembrava in palese contraddizione con il pensiero espresso nella Dedica al Silva e nella discussione del primo libro. Per uno scopo così limitato forse non ci sarebbe motivo di tornare su una questione già egregiamente trattata, se non fosse che la seconda redazione — da cui, salvo avvertimento

contrario,

trarrò le mie citazioni —

sollecita un riesame del pensiero linguistico del Castiglione anche per un altro e più importante motivo. La vulgata esce nel 1528, nel pieno della disputa sul volgare, una disputa che, svolgendosi quando ormai è stato raggiunto un sostanziale accordo sulla lingua letteraria nazionale, sembra aggirarsi intorno a luoghi comuni, a formule di cui oggi si può facilmente mostrare l’inconsistenza 8. Un’impressione negativa, questa, che non ha certo risparmiato il Cortegiaro, tanto più che a molti il Castiglione è sembrato stranamente incoerente e superfilingua”, infatti, mostrano sempre più di non fornire un'immagine corretta della realtà linguistica del primo Cinquecento. Proprio il Castiglione, per questo aspetto, sembra costituire un segno di contraddizione, vicino com’ è per gusto e sensibilità al Bembo, per la prassi linguistica di partenza all’Equicola e per il pensiero linguistico a quella corrente, attenta alle res più che alle parole, da me simbolizzata con la battuta del Colocci. Né va dimenticato che, come si è detto nella nota precedente, l’atteggiamento teorico e prammatico variava di molto a seconda che si trattasse della poesia o della prosa (e poi anche dei sottocodici linguistici rispondenti ai vari generi e livelli di scrittura). Non essendo ancora nata un’autonoma scienza del linguaggio, le varie tesi — formulate per lo più in funzione difensiva e 4 posteriori dopo un periodo di discussioni prevalentemente orali — sovrappongono, fondono e confondono istanze e problemi di natura diversissima (linguistica, stilistica, retorica, estetica, sociale, ecc). Né meglio reggono

le categorie proposte dagli storici moderni: cfr. P. FLORIANI, La «questione della lingua» e il «dialogo» di P. Valeriano, in I gentiluomini letterati. Studi sul dibattito culturale nel primo Cinquecento, Napoli 1981, pp. 68-91. ? L'ultimo revisore del «Cortegiano», in «Studi di filologia italiana», XXI (1963), pp. 217-64; Fasi dell'elaborazione del «Cortegiano», ivi, XXV (1967), pp. 155-96. In attesa dell’edizione critica del Cortegiano conserva qualche utilità il citato volumetto di V. Cian, La lingua di B. Castiglione. 6 La seconda redazione del «Cortegiano» di BALDASSARRE per cura di G. Ghinassi, Firenze 1968.

CASTIGLIONE, edizione critica

7 Napoli 1967, pp. 7-131. 8 Va da sé — spero — che, se le formule escogitate dai vari discettatori sono piuttosto

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ciale, forse perché impegnato in una difesa, non sempre lucida, della propria prassi di scrittore?. Dieci anni prima! nella seconda redazione, la discussione sulla lingua conserva invece intatto il suo valore di riflessione e testimonianza su un’esperienza linguistica in atto; anzi è la prima ampia discussione sul volgare che,attualmente conosciamo e getta un po’ di luce su quel periodo abbastanza oscuro che precede il 1524, l’anno in cui il Trissino provoca l'esplosione della “questione della lingua”. scontate e rispecchiano situazioni superate o puntigli personali (oppure municipali), le loro opere sono tutt'altro che prive di interesse. Per la via un po’ contorta della questione della lingua nasce la scienza linguistica, che prende a poco a poco coscienza di sé stessa nell’apparente discussione dei temi canonici della “questione”, che per lo più sottendono altri temi e più sostanziali: i rapporti fra latino e volgare (con le prime analisi di grammatica storica); la descrizione della “struttura” fonetica, morfologica, sintattica del volgare; l'impostazione di un lessico; i rapporti fra lingua parlata e lingua scritta, fra poesia e prosa; l'individuazione dei vari livelli espressivi; ecc. Utili spunti in proposito si leggono nel saggio Nascita della grammatica. Appunti e materiali per una descrizione analitica (in «Quaderni storici», XIII, 1978, pp. 555-92), in cui A. Quondam (pp. 568-9) ribadisce «la necessità di eliminare le ambiguità persistenti nell’analisi della “questione della lingua” e della “grammatica” cinquecentesche, dichiarando l'opportunità (non so se d’ordine strettamente “metodologico”) di tenere distinto il livello della discussione “teorica”, che è di fondazione di una disciplina linguistica, di una scienza in riferimento alle forme e alle tipologie del sapere cinquecentesco, dal livello delle “pratiche” della comunicazione linguistica della massa degli “alfabeti”, in quanto produzione di discorsi e di testualità, nonché degli apparati e degli strumenti “utili” o “utilissimi” (come risulta da tanti frontespizi dei testi in bibliografia) a questa produzione». Sono, mi pare, due vie che proficuamente si possono percorrere sia per ricostruire le discussioni sulla lingua sia per tracciare la storia linguistica del Cinquecento.

? Prima dello studio del Mazzacurati — che peraltro non ha goduto della fortuna che meritava — al pensiero linguistico del Castiglione è stata rivolta una scarsa attenzione e le sue idee sono state sbrigativamente relegate nel limbo delle buone (o delle cattive?) intenzioni. Più del necessario si è insistito sulle fonti classiche; il buon senso è stato addotto là dove le fonti non apparivano immediatamente evidenti; i capitoli sulla lingua sono stati considerati una sorta di parentesi, introdotta dall’autore per giustificare la propria lingua: fin troppo ovvio che, su queste basi, ci si stupisse delle troppe e gravi incongruenze fra teoria e prassi, finendo inevitabilmente per deprezzare la prima. A complicare le cose c’era la convinzione che il Cortegiano fosse un’opera in cui la realtà viene fortemente idealizzata, così che l’excursus sulla lingua sembrava produrre una frattura nell’ordito del libro, con l’intrusione di un discorso troppo immediatamente e scopertamente autobiografico. Pagine, dunque, non molto coerenti e in fondo idealmente espungibili dall’opera, a cui non aggiungerebbero se non una conferma del costituzionale buon senso del Castiglione. 10 I] passo sulla lingua, che qui ci interessa, è stato composto dal Castiglione intorno al 1516. Infatti, come m’informa Ghino Ghinassi con la sua consueta cortesia, «il passo sulla lingua in B è ancora, più o meno, come lo si legge negli abbozzi di casa Castiglione riprodotti dal Cian (La lingua di B. Castiglione, cit., pp. 126-8), ristretto cioè alla paginetta sull’affettazione toscana arcaizzante e al mutare degli usi linguistici. In C' (=prima redazione) il passo compare invece per la prima volta nell’ampiezza, se non nella forma, che avrà nella terza e definitiva redazione; e non ci restano abbozzi autografi di questo passo che ci permettano di seguirne fin nei minimi particolari l’elaborazione. Ci rimane solo la calcellatura, su B, della paginetta originale e un segno di rinvio a carte aggiunte: evidentemente quelle che accolsero la prima volta la redazione ampia e che purtroppo non ci sono pervenute. La prima elaborazione della redazione ampia dovrebbe quindi cadere attorno al 1516: cioè tra B e C*». Il passo compreso in C'— come risulta dalle varianti che il Ghinassi ha avuto la bontà di comunicarmi —

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1. «B. Castiglione e l’apologia del presente», «P. Bembo e la barriera degli esemplari»: così il Mazzacurati intitolava i capitoli dedicati, rispettivamente, al gentiluomo mantovano e al letterato veneziano nel volume che ho ricordato poco sopra. Erano titoli felici, anche perché individuavano chiaramente due aspetti, due “misure” del nostro classicismo. Al Castiglione — che non era e non si considerava un puro letterato — era infatti estraneo il concetto di «barriera degli esemplari», viceversa essenziale alla poetica di Pietro Bembo, che letterato era e voleva essere. Non per questo egli poteva rinunciare a porre dei limiti, quei limiti che sono propri di ogni forma di classicismo. Per il suo acuto senso del presente e del divenire storico, egli però non fondò la propria concezione della vita e dell’arte su norme rigide che. segnassero dei confini netti e invalicabili, ma sopra un limite a un tempo più labile e preciso, indefinito e pure rigoroso, capace di tutto assumere e di tutto respingere: la famosa «sprezzatu-

ra», che mi sembra debba essere interpretata come il senso stesso del limite. Di qui un classicismo, per così dire, aperto, cioè capace di profondi sviluppi e trasformazioni: i “limiti” non sono stabiliti una volta per tutte, ma possono agevolmente spostarsi in una direzione o nell’altra per mutamenti del gusto, della sensibilità, degli usi, della situazione sociale, ecc. Di qui anche le varie e contrastanti “letture” a cui il Cortegiano è stato sottoposto nel corso dei secoli: opera in un certo senso postuma, cioè pubblicata quando ormai si erano profondamente trasformati il mondo ideale e la società a cui il Castiglione si riferiva, poté presto venir irrigidita e considerata un codice delle buone maniere, e ancora oggi qualche critico è tentato di vedere nella «sprezzatura» una sorta di dissimulazione onesta (o disonesta).

Per quel che ci concerne, il concetto di sprezzatura — in cui, a mio parere, è ravvisabile il segno di una sofferta tensione morale — consente al Castiglione di non derivare dal proprio gusto un’idea fissa e immobile di lingua e di arte. «È ben vero — leggiamo nella vulgata (I, xxxvi)! — che in ogni lingua alcune cose sono sempre bone, come la facilità, il bell’ordine, l’abundanzia, le belle sentenzie, le clausule numerose; e, per contrario, l’affettazione e l’altre cose

oposite a queste son male». Queste potrebbero ben essere parole del Bembo, e mai le avrebbe pronunciate il Folengo che si era eletto a maestri Dante e il Pulci. Ma, appunto, su questo gusto il Castiglione non costruisce, come invece fa il Bembo, una dottrina linguistica, consapevole che «la bontà e forza d’una

lingua» non è riposta «in così frivola cosa» come sono le parole: come ben disse Demostene ad Eschine, che lo mordea dimandandoli de alcune parole, non presenta sostanzali differenze rispetto a quello che si legge nella seconda redazione. !l Cito dall’editio princeps (Il libro del Cortegiano, «in Venezia nelle case d’Aldo Romano e d’Andrea d’Asola suo suocero, nell’anno 1528, del mese d’aprile»), di cui esiste una bella Rev rd anastatica (Roma 1986), ma per comodità indico la moderna divisione in paragrafi.

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le quali avea usate, che non erano attiche, se erano monstri o portenti, e Demostene se

ne rise e risposeli che in questo non consistevano le fortune di Grecia (I, xxx1x).

Non può pertanto stupire che egli condanni l’imitazione («io laudo quelli che sanno imitare e parmi che a pochi sia concesso; nientedimeno non credo io già che impossibil sia scrivere bene ancor da se stesso sanza imitare altri», I, XXXVII), prendendo posizione nella disputa che, schematizzando, oppose coloro che — come il Cortese, il Bembo e, più tardi, il Salviati — credevano nell’insegnabilità dell’arte, a coloro che — come il Poliziano, Gian Francesco Pico e, più

Conte) che il vero tardi, il Borghini — pensavano (per usare le parole del maestro dei grandi artisti è «l'ingegno et il suo proprio iudicio naturale» (I, xxxvii). Pertanto, nella vulgata il Conte può dichiarare che «quasi sempre per diverse vie si pò tendere alla sommità d’ogni excellenzia», sintetizzando in una formula felice il discorso (già presente nella seconda redazione) in cui si mostra che nella musica come nella pittura, nella poesia come nell’oratoria, la perfezione si presenta sotto forme diverse o addirittura opposte: Eccovi che nella pittura sono excellentissimi Leonardo Vincio, el Mantegna, Rafaello, Michelangelo, Georgio Castelfranco: nientedimeno tutti sono tra sé nel fare dissimili, di modo che ad alcuno di loro non pare che manchi cosa alcuna in quella maniera, perché si conosce ciascuno nel suo stile essere perfettissimo (I, xxxvII).

Analogamente gli oratori «hanno avuto sempre tanta diversità tra sé, che quasi ogni età ha produtto et apprezzato una sorte de oratori peculiari di quel tempo; li quali non solamente dalli precessori e successori suoi, ma tra sé sono stati dissimili, come si scrive nelli greci de Isocrate, Lisia, Eschine, Demostene e molti altri, tutti excellenti, ma a niun però simili excetto che a se stessi [...]; di modo che chi potesse considerare tutti li oratori che sonno mai stati al mondo, quanti oratori tante sorte de dire troveria» (I, xXxVII).

Certo, al fondo di queste affermazioni — e il Castiglione non lo nasconde — c'è Cicerone; ma, a parte il fatto che si tratta di una lettura intelligente e non dogmatica del grande prosatore latino, conviene ricordare che il pensiero degli antichi serve al nostro autore come strumento per interpretare il presente e quindi diviene cosa sua, si misura e fa i conti con la cultura e la realtà del suo tempo. Riferire ad Alessandro Agricola (nella vulgata al Bidone) o a Marchetto Cara, al Mantegna o a Giorgione o a Leonardo (e, nella vulgata, al Poliziano, al Magnifico e al Diacceto), quanto Cicerone aveva scritto pensando ai grandi

maestri dell’oratoria e dell’arte classica, significa porre il proprio tempo sullo stesso piano della latinità aurea, o meglio respingere l’idea stessa di età aurea, fondando ogni classicismo sulle istanze del presente e sui “linguaggi” artistici contemporanei. Non c'è dunque ragione, osserva il Conte, di mettere la lingua volgare

in tante angustie, che ognuno sia sforzato ad imitare solamente il Petrarca et il Boccazio, li quali non forno né tanto dotti né tanto ingegnosi che non si possi sperare che di

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più ne abbino a venire e che in questa lingua, la quale per ancor è povera, inculta e tenera, con el studio e diligenza delli nobili ingegni non sia possibile ritrovare dell’altre idee di dire tanto lodevoli quanto quelle et, ampliandola, farla uscire de questi così stretti termini; ché pur miseria sarebbe ponere fine e non passare più avante di quello che s’abbia fatto quasi el primo che ha scritto, et in luoco di arricchirla e darle lume e grandezza,

farla exile, povera,

arrida et oscura,

spoliandola

d'ogni splendore

(I,

XXXVII).

E questa non è, si badi, la concezione rinascimentale di progresso, perfezione e decadenza, quale per esempio si troverà nel Gelli, convinto a metà Cinquecento che il volgare non sia ancora giunto al suo «colmo» !. Per il Castiglione vale solamente la legge inesorabile del tempo, che a suo beneplacito crea e distrugge: le età di perfezione linguistica non esistono e l’uomo non può far altro che vivere nel presente e per il presente, ché — come leggeremo fra poco — «alfine e noi et ogni nostra cosa è mortale» (I, xxxvI). Gli manca, insomma, la

fiducia bembiana nell’immortalità da acquistarsi presso i posteri per la virtù delle parole: sono gli «uomini degni e fatti gloriosi» che contano, e gli scritti «forsi non seriano tanto letti né prezzati, se mancasse loro il nobil suggetto, ma vani e di poco momento» (I, xLvI). Cade così uno dei più tipici miti umanistici: le bumanae litterae, ancor prima della lingua, sono considerate uno strumento non un fine, un ornamento non l’essenza dell’uomo. In trasparenza par già di scorgere il pensiero che più tardi sarà dello Speroni.

2. Il rifiuto del principio di imitazione era condicio sine qua non per poter considerare il linguaggio in maniera obiettiva. Logico, dunque, che con esso si concluda la discussione linguistica del Cortegiano, sulla soglia di un problema che il Castiglione non desidera trattare, quello della retorica e poetica volgare. Anzi, nella seconda redazione, quasi per indicare la differenza fra l’atteggiamento del Conte e quello del Bembo, madonna Emilia destina la discussione su questa materia a un’altra serata e ne affida l’incarico proprio al letterato veneziano (I, xxxix). Il modo in cui il Castiglione considera la lingua, infatti, è diverso ma non necessariamente opposto a quello del Bembo; le Prose della volgar lingua e il Cortegiano in certo senso sono, o possono essere considerate, opere complementari l’una con l’altra. La prima considera la lingua come fine, per costruire una rigorosa poetica volgare; l’altra tratta della lingua come strumento dell’umana conversazione. Il gentiluomo mantovano, dunque, non contrappone

una propria teoria a quella del Bembo, ma si occupa di quel linguaggio ordina-

rio di cui viceversa nelle Prose ci si sbriga con poche parole !. 12 Cfr. G. B. GELLI, Ragionamento infra M. Cosimo Bartoli e Giovan Batista Gelli sopra le difficultà del mettere in regole la nostra lingua, in Dialoghi, a cura di R. Tissoni, Bari 1967, pp. 291-319.

13La complementarità della prospettiva linguistica espressa nel Cortegiano con quella del Bembo può forse chiarire le ragioni per cui il gentiluomo mantovano non si può aggregare alla così detta corrente cortigiana, che si segnalò in primo luogo come scuola critica; ragioni di

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Il discorso del Conte, se di necessità giunge a toccare dell’imitazione, era infatti iniziato con molta naturalezza per chiarire il fondamentale concetto di sprezzatura, biasimando l’errore in cui «incorrono parlando» molti uomini e donne che 9

subito che sono a’ ragionamenti, massimamente con persone presso le quali desidrino acquistare fama, entrano in parlare affettatissimo, tirando le parole dal latino 0 vero intromettendo istorie e fabule fuori de proposito, di modo che per parere troppo savii si fanno tenere bestie

e quei lombardi che, «se sono stati un anno fuori di casa, ritornati, subito comminciano a parlare toscano o romano, e Dio sa come, e talor spagnolo o francese!»: vizi tutti che procedono «dall’andare dietro alla stomacosa affectazione e fuggire quella simplice purità naturale, che ognuno imitar dovria»: Ditemi, per vostra fé, non ridereste voi molto di me se or che siamo così tra noi domesticamente, dove tutti l’un l’altro conoscemo, io comminciassi tra questi ragionamenti a parlare antico toscano? non vi parrebbe ch'io errassi grandemente, e questo errore fosse una disgraziatissima affectazione, se per mostrare di sapere quella prima lingua volessi usare parole, quali avenga che una volta fossero in uso, adesso sonno dalla vous immutate e guaste, talché dalli proprii toscani non seriano intese? (I, XXXI)

La discussione sulla lingua non è, dunque, una parentesi ma un momento fondamentale nella ricerca del perfetto cortigiano, che fra le sue virtù deve cui — credo — egli fu consapevole tanto da evitare di inserire nel Cortegiano la discussione sul volgare fra il Bembo e il Calmeta, che è pur probabile che avvenisse ad Urbino proprio negli anni a cui ci riporta la finzione del suo dialogo: discussione che non solo l’avrebbe costretto a prender posizione su una questione che non gli interessava ma, per i motivi già indicati nella nota 4, l'avrebbe in ogni modo costretto a una scelta per lui insoddisfacente. Il Calmeta così giunge quando la discussione sulla lingua si è ormai conclusa; il Bembo invece è presente, ma tace anche quando vengono esposte opinioni che (secondo alcuni critici) sono contrarie alle sue. Eppure non era uomo da tacere, non dico nella finzione del dialogo, ma nella realtà, dopo

o ancor meglio prima della pubblicazione del Cortegiano, tanto più che il 21 settembre 1518 l’amico mantovano gli aveva scritto, inviandogli la prima redazione dell’opera: «se a lei non piace quello ch’io gli faccio dire, o di quel modo, muterò, levarò, giongerò, come le piacerà ...» (B. CASTIGLIONE, Lettere, a cura di G. La Rocca, I, Milano 1978, p. 384). Ma il Bembo non

aveva motivo di risentirsi: della conversazione, della prassi linguistica non si era occupato più che tanto, preoccupato com’era di fondare la nuova letteratura italiana. 14 Che il Castiglione di proposito abbia voluto evitare una discussione sul linguaggio poetico lo mostrano anche certe soppressioni compiute in questo passo, che eliminano accenni

alla poesia presenti negli abbozzi di casa Castiglione (il corsivo, ovviamente, è mio): «Qual viccio è più odioso în ogni sorte de scrittura, prosa 0 versi, che questa affettazione che, così presto come ciascun di voi vede ur sonetto o ciò che si voglia dove si compreenda chiaramente l’autor aver vogliuto inculcare troppo cose o aver usato parole strane per mostrar di saper assai, senza quella discrezione che da li boni e rari iudicii sol nascere, così presto se lo leva di mano con fastidio e dispetto. E molti sono veramente e omini e donne che incorreno parlando in questo error [...]» (V. CIAN, La lingua di B. Castiglione, cit., p. 127).

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avere quella di saper conversare e scrivere !; pertanto risente delle connotazioni sociali di questa ricerca, che comportano limiti di gusto evidenti ma non incrinano l’obiettività del discorso: in ambito linguistico l’affettazione consiste quasi esclusivamente nell’allontanarsi dall'uso vivo, anzi dall'uso parlato. Il Castiglione infatti ha una concezione dinamica della lingua, che incessantemente si trasforma come tutte le cose naturali, perché tale essa è, non — come vorrebbe il Fregoso — «un invento contenuto sotto regole» che non è proprio a tutti gli uomini «come li discorsi e gli pensieri e molte altre operazioni» (I, XXXVIII):

come le stagioni dell’anno spogliano de fiori e frutti la terra e poi di nuovo d’altri la rivestano, così el tempo quelle prime parole fa cadere e l’uso, dal qual depende la norma del parlare, altre poi di nuovo fa rinascere e dà loro grazia e dignitate, finché da l’edace morso del tempo distrutte, giongono esse ancora alla sua morte, perciò che alfine e noi et ogni nostra cosa è mortale (I, xxxVI).

Un concetto evolutivo, del resto, informa tutta l’opera, e ancor più l’informava all’inizio della lunga elaborazione, tanto che nella prima bozza del proemio !9 si insisteva, con più generale relativismo, sulla «varietà» di cui la natura si compiace, varietà che procede dall’«uso, il quale la natura come

ministro adopra in introdurre cose nuove tra noi e scancellare le antiche, e con l’usare e disusare fa le medesime a noi piacere e dispiacere, approbandole e riprobandole non con altro testimonio che con la consuetudine». È in questo vasto contesto che si colloca, come caso particolare, la continua mutazione delle parole. La norma del parlare, pertanto, non può essere che l’uso; anzi, come vien detto poco prima, «circa el parlare l’uso ha molto maggior forza che alcuna ragione» (I, xxxvI). È un’ affermazione energica e coraggiosa, che avrebbe fatto la gioia di un Varchi e sopra tutto di un Borghini, ma che né l’uno né l’altro poté conoscere perché non ricomparve nella vulgata.

Il Castiglione rivolge la sua attenzione quasi soltanto alla lingua parlata (s’intende, dagli «uomini di corte»): alle orazioni pronunciate in senato, al «parlar privatamente con persona di grado [...] di negocii importanti, o ancor con chi fosse dimestichissimo di cose piacevoli, con donne o cavalieri d'amore, o burlando o scherzando in feste, giochi, o dove si sia, o in qual si voglia tempo, loco o proposito» (I, xxix della vulgata). La sua preoccupazione è prevalentemente sociale. Anche se la virtù principale del cortegiano è quella delle armi, la sua qualità (per così dire) ordinaria è quella della conversazione e — osserva il Castiglione (II, xv)

— nessuno può sperare di raggiungere la «grazia di signori, cavaglieri e donne, se non arà insieme una gentil et amabile maniera nel conversare cottidiano; e di questo credo veramente

che sia difficil dar regola alcuna per le infinite è varie cose che occorreno nel essendo che tra tutti gli uomini del mondo non si truovino doi, che siano di animo simili. Però chi ha da accomodarsi nel conversare con tanti, bisogna che si guidi col proprio e, conoscendo le differenzie di l’uno e di l’altro, ogni dì muti stile e modo, natura di quelli a chi a conversare si mette».

16La si veda in B. CASTIGLIONE,

Lettere, a cura di P. Serassi, Padova

conversare, totalmente suo iudizio secondo la

1769, I, pp.

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3. Al Castiglione, libero da miti umanistici e da preconcetti razionalistici, la lingua appare quello che essenzialmente è: uno strumento di comunicazione da valutare secondo criteri di funzionalità. L’uso delle parole, infatti, è dato agli uomini «non per altro che per esprimere li concetti dell'animo e [...] ogni volta che la lingua fa questo effetto»

soddisfa

«all’officio suo»

(I, xxxm).

Non

esistono, dunque, di per sé lingue belle o brutte e a nessuno può «essere biasmo scrivere nella lingua della sua patria, né in qualsivoglia altra, purché la sappia e scriva bene ne l’essere suo» (I, xxxii). Opinione che possiamo apprezza-

re in tutta la sua pregnanza grazie all’ironico intervento del Fregoso («Credo [...] che seria molto bello vedere un libro scritto in lingua milanese o bressana

con qualche termine bergamasco per dare lume alla orazione») che provoca questa decisa replica del Conte (scomparsa nella vulgata):

Se io sapessi la lingua francese o qualsivoglia altra, non crederei già che fosse errore capitale scrivere in essa,

e molto meno nella italiana; e se uno bergamasco scrivesse

bene nella sua, tal potria essere il suggetto che ’l libro non dispiacerebbe.

Questo in teoria; in pratica il Castiglione non dimentica le esigenze sociali;

infatti, se quello di comunicare è l’unico ufficio della lingua, pur bisogna col iudicio ellegere parole, le quali oltre che siano proprie nella significazione, abbiano ancor dignità e grazia all’orechie, talché non siano beffate dalla moltitudine. Però io per me non loderei il scrivere bergamasco, perché così seria beffato da ognun per vilipendio, come dalla più parte è aborrito el toscano antico per quella rancida insolenzia (I, xxxIHII).

È evidente che siamo di fronte a una concezione aristotelica, e non neoplatonica: l’arte — nel caso nostro lo stile — interviene a perfezionare, a migliorare la natura, cioè l’uso linguistico !. Per questa via il Castiglione può distinguere — sia pure in una maniera diversa dalla nostra — la lingua dallo stile, salvandosi dai molti equivoci in cui sarebbero incorsi molti di coloro che ex professo interverranno nella questione della lingua. Questa concezione del linguaggio si chiarisce ancor meglio poco dopo,

181-6; e cfr. le considerazioni di P. FLORIANI in Esperienza e cultura nella genesi del «Cortegiano» (in Bembo e Castiglione. Studi sul classicismo del Cinquecento, Roma 1976, pp. 117 sgg.). 17 Si veda il discorso che Claudio Tolomei attribuisce al Castiglione nel Cesano, dove però troppo forte è l’insistenza sulla necessità che l’arte intervenga a perfezionare la natura. Può sembrare un paradosso, ma il mantovano giunge a vedere con chiarezza certi aspetti della “natura” delle lingue proprio perché di essa non fa gran conto, affisandosi piuttosto al problema tutto empirico e soggettivo dello stile (cfr. la nota 15), fedele anche in questo alle esigenze della società cortigiana, che cercava un decoroso strumento di comunicazione, capace di servire a vasti strati di “alfabetizzati” (si pensi alle cancellerie e alle relazioni degli ambasciatori, oltre che ai salotti di corte), e anche per questo rifiutava normalizzazioni troppo rigide. Ed è pure da avvertire, per non fraintendere la portata e il significato delle affermazioni del Conte, che la distinzione fra lingua e stile avviene in maniera da privilegiare lo stile, a cui vengono ricondotti

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quando il Conte — a Federico Fregoso secondo il quale per la virtù dell’elocuzione (e specialmente degli arcaismi) «ogni sugetto, per basso e vile che sia, può essere tanto adornato che merita somma laude» — ribatte: Non solamente [...] di queste parole vostre antiche [...], ma pur de le buone non faccio tanto caso, che estimi che da sé a sé debbino sanza el succo delle sentenzie essere apprezzate ragionevolmente; perché il dividere le sentenzie dalle parole si è un divide-

re l’anima dal corpo: la qual cosa né in l’uno né in l’altro sanza distruzzione far si può, perché niuno ornamento di parole può avere forza né essere altro che un vano strepito di zanze sonore, se non ha belle e vive sentenze, né alcuna sentenzia può essere admirabile, se non è illustrata dalla luce e dignità delle parole (I, xxxuI).

Il rapporto fra res e verba si rinsalda, ma la conclusione, che riafferma una tradizionale equazione umanistica, è un po’ generica: questa volta è la vulgata a rendere più esplicito il pensiero del Castiglione: perché il dividere le sentenzie dalle parole è un divider l’anima dal corpo: la qual cosa né nell’uno né nell’altro senza distruzzione far si pò. Quello adunque che principalmente importa e è necessario al cortegiano per parlare e scriver bene, estimo io che sia il sapere; perché chi non sa e nell’animo non ha cosa che meriti esser intesa, non pò né dirla né scriverla. Apresso bisogna dispor con bell’ordine quello che si ha a dire o scrivere; poi esprimerlo ben con le parole [...].

La concezione strumentale del linguaggio, che vale per quanto comunica — in perfetta coerenza con quello che nel Cortegiazo si sostiene sul rapporto fra letteratura e storia — viene così ribadita, pur nel riconoscimento dell'importanza dell’elaborazione stilistica. Anche a questo proposito si possono citare Cicerone, Orazio, Catone il Vecchio (« rem tene, verba sequentur»); mi sembra però che qui — specialmente se si tien conto dell’affermata parità fra le lingue — si possa scorgere un anello importantissimo della catena che lega le discussioni umanistiche (e medievali) sul rapporto fra res e verba al pensiero dello Speroni, che — non va dimenticato — lo riferisce al Peretto, cioè a un periodo che corrisponde all’incirca a quello in cui opera il Castiglione. Si verifica così, prima di quanto comunemente non si creda, la contestazione del primato dell’elocutio asserito da una lunga serie di scrittori e ribadito dal Bembo che lo colloca come un assioma

a fondamento delle Prose della volgar lingua *8. 4. Su queste basi il Conte può distruggere un altro tradizionale mito umanistico, quello dell’ “antico”, proprio ripercorrendo la storia del latino: se li più antichi fossero più pregiati, dovriasi posporre Vergilio ad Ennio et agli altri essenziali fatti di langue come la sintassi. Anche per questo al Castiglione la lingua appare essenzialmente come un insieme di parole. 18 P. BemBO, Prose della volgar lingua, I, i (in Trattatisti del Cinquecento, I, cit., p. 54 e note relative).

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che all’età di Augusto erano antichi, l’orma de’ quali esso e gli altri dotti non seguitavano, ma accomodavansi all’usanza de’ lor tempi; e se fossero vivuti insino adesso, son

certo che ariano lasciate molte parole e presone di quelle che 1 tempo di nuovo produceva.

L’ammirazione ‘è l'imitazione degli scrittori dell'età aurea viene acutamente ricondotta a ragioni di gusto, a una scelta possibile (e giustificabile) solamente perché il latino è una lingua morta: Ora per essere venuta a noi la lingua latina in disuso e non ci essere propria, come era agli antichi, non siamo sforzati dalla consuetudine; però ellegemo quella idea di essa che più universalmente piace, e ne accostiamo, come alla più nobile, alla forma di quella nella quale sono stati più singulari scrittori, perché ci pare copiosa e culta et avere lassato quella prima arridità digiuna e seca [...].

A questa lingua si rifanno gli amanti dell’antico, dimenticando che essa «agli antichi era moderna, e quelle parole che or sonno antiche, alor erano tanto obvie e comuni che da ognuno erano intese, e però le usavano, perché tutti quelli che vogliono essere meritamente lodati nel parlare o scrivere, volgeno la intenzion sua a considerare l’animo e la voluntà di quegli che odano o leggano et all’arbitrio di essi cercano più che possono di accommodarsi». Qui, come altrove, risulta evidente che il Castiglione accetta e difende l’uso vivo perché è convinto che gli scrittori non si rivolgono ai posteri ma ai contemporanei, così

che, nella Dedica al Silva, parlando per sé stesso, potrà scrivere: «se universalmente il libro piacerà, terrollo per bono e pensarò che debba vivere; se ancor non piacerà, terrollo per malo e tosto crederò che se n’abbia da perder la memoria». Infatti, come si afferma nel passo del Cortegiano da cui stiamo citando, «gran testimonio che li scritti siano buoni et abbiano a durare si è el piacere universalmente, né piacere possono quelle cose che non s’intendano. Però devemo noi ancor usare parole che siano intese» (I, xxxIv). E questo non è che un caso particolare della costante preoccupazione del Castiglione per l’opinione pubblica, che può determinare il successo o l’insuccesso di una persona in qualsiasi campo: esigenze prammatiche e ragioni teoriche s’intrecciano, in questo caso almeno, con felici risultati. 5. Il Castiglione, come si sarà notato, non distingue fra lingua parlata e lingua scritta, e questo può sembrare ovvio dal momento che persino il Bembo afferma che «altro non è lo scrivere che parlare pensatamente» (Prose della volgar lingua, I, i). Ma mentre nel dialogo bembiano questa resta una proposizione senza sviluppo, ché l’attenzione si appunta subito ed esclusivamente sulla lingua dell’arte, nel Cortegiazo mantiene tutta la sua pregnanza: sono le parole «che se usano comunemente e nel vulgo» a fare «la grandezza e pompa della orazione». La virtù di uno scrittore infatti non si misura dalle parole ma dalla «diligenzia» e «buon iudicio» che gli consentono di scegliere le più significative e di disporle «in tal parte e con tal ordine, che al primo aspetto mostrano e

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fanno conoscere la dignità e splendore suo, come tavole di pittura poste al suo buono e natural lume» (I, xxxv). Chi possiede doti di pensiero e di stile può dunque servirsi liberamente della lingua, senza temere di usare traslati, neologismi, forestierismi, come del resto avevano fatto gli autori toscani che molti additavano come modelli. Vane sono le preoccupazioni grammaticali, ché non c'è arte o regola che possa insegnare «la bona consuetudine [...] del parlare», ma solo il «giudicio naturale». «Non sapete voi — dice il Conte nella vulgata (I,

xxxv) — che le figure del parlare, le quai danno tanta grazia e splendor alla orazione, tutte sono abusioni delle regule grammaticali, ma accettate e confirmate dalla usanza, perché, senza poterne render altra ragione, piaceno e al senso proprio dell’orecchia par che portino suavità e dolcezza?». Coerentemente con questo atteggiamento nella Dedica al Silva scriverà: Non ho ancor voluto obligarmi alla consuetudine del parlar toscano d’oggidì, perché il commerzio tra diverse nazioni ha sempre avuto forza di trasportare dall’una all’altra, quasi come le mercantie, così ancor novi vocabuli, i quali poi durano o mancano, secondo che sono dalla consuetudine ammessi o reprobati; e questo, oltre il testimonio degli antichi, vedesi chiaramente nel Boccaccio, nel qual son tante parole franzesi, spagnole e provenzali e alcune forse non ben intese dai Toscani moderni, che chi tutte quelle levasse farebbe il libro molto minore. È, sappiamo, un’esagerazione; ma anche così il Castiglione reagisce al tenta-

tivo di fissare la lingua una volta per tutte, inserendosi in un’ideale linea antipuristica che lo congiunge allo Speroni, al Corbinelli, al Borghini. Nella seconda redazione — alla domanda del Fregoso: «E qual parola [...] trovate voi nelli toscani francese o spagnola?» — il Conte risponde «Mille» ed esce in una difesa dell’espressionismo linguistico di Dante che può sorprendere chi del Castiglione conserva l’immagine tradizionale: Eccovi che Dante piglia infinite parole lombarde, e quasi d’ogni nazione, e non solamente delle usate, ma talor le forma a modo suo, e doppo lassa lo arbitrio alla consuetudine di accettarle o rifiutarle. Il che non è disconveniente in modo alcuno [....] (I, XXXVI).

Su questo punto il Castiglione, che era stato testimone e compartecipe del libero sperimentalismo del primo Cinquecento, venne gradualmente modificando il proprio gusto e il proprio atteggiamento, uniformandosi all'evoluzione della «consuetudine»; ma — se rielaborando il testo lascerà cadere questo giudizio su Dante e già prima aveva soppresso le forme più crudamente dialettali e le

battute in spagnolo ! — il nuovo ideale di misura non gli farà dimenticare che la lingua può essere usata con la massima libertà.

19 Cfr. V. CrAn, La lingua di B. Castiglione, cit., pp. 52-3; G. GHINASSI, Fasi dell'elaborazione del «Cortegiano», cit., pp. 186-7 (mostra fra l’altro che, superati i rischi e le avventure

della letteratura umanistico-cortigiana con le sue forti escursioni linguistiche, il Castiglione

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6. Il rifiuto di rigorosi modelli linguistici è tanto più necessario perché la lingua volgare è «ancor tenera e nuova». Nata dalla corruzione del latino per opera dei barbari, è rimasta lungamente «incomposita e varia per non avere auto chi le abbia posta cura né in essa scritto, né cercato di darle splendore o pri grazia alcuna»: 7 Pur forsi è stata più culta in Toscana che negli altri luochi de Italia, per avere servato quella nazion gentili accenti ne la pronuncia e ordine gramaticale nelli casi e numeri e tempi più che l’altre (I, xxx1l).

Solo nella vulgata questa valutazione storica è esplicitamente chiarita con un accenno ai «tre nobili scrittori» toscani, «i quali ingeniosamente e con quelle parole e termini che usava la consuetudine de’ loro tempi hanno expresso i lor concetti». Dante, Petrarca e Boccaccio,

però, non

solo vengono

ricondotti —

come fa anche il fiorentino Giuliano de’ Medici nelle Prose della volgar lingua (I, xvii) — alla «consuetudine de’ loro tempi», ma sono considerati scrittori arcaici come nel latino Catone ed Ennio, e collocati all’inizio, non al culmine, di un processo di maturazione che poi è proseguito «non solamente in Toscana ma

in tutta la Italia», essendo nato «tra gli omini nobili e versati nelle corti e nell’arme e nelle lettere, qualche studio di parlare e scrivere più elegantemente, che non si faceva in quella prima età rozza e inculta, quando lo incendio delle calamità nate da’ barbari non era ancor sedato» (I, xxxii della vulgata). Come si vede, il Castiglione, che pur osserva le forti differenze regionali,

pensa che dal latino sia nato un solo volgare italiano, in ciò aiutato dalla propria idea di lingua come nomenclatura e dall’indifferenza per i fatti fonetici che fu di tutta la sua età. Pertanto, nella seconda redazione, indicando i caratteri della lingua comune italiana, può accettare «quella regola e quella forma delle dictioni», che è propria del toscano, e insieme ribadire la possibilità di usare li termini che usano adesso li toscani et ancor gli altri italiani, perché sì come li greci hanno cinque lingue et in tutte scrivono e spesso confondano l’una con l’altra sanza biasmo, così credo a noi sia leccito torre termini italiani d’ogni sorte, e basti che se servino le regole gramaticali e che l’uomo sii discreto e cauto in ellegere belle parole, ma però consuete nel comun parlare, et in tal modo ne resultarà una lingua che si potrà dire italiana, comune a tutti, culta, fiorita et abondante de termini e belle

figure; e se averemo scrittori, li quali abbino dottrina, ingegno e iudicio e ponghino cura di scrivere cose belle e arichire questa povertà della lingua, in poco tempo la vedremo perfettamente fiorire e capace che in essa si scriva così bene, come in qualsivoglia altra. E se non serà in tutto pura toscana, non per questo meriterà essere sprezzata [...] (I, xxxII).

mirò non solo a eliminare i residui dialettali e le numerose battute in spagnolo ma anche e sopra tutto a sostituire i troppi latinismi, e fa notare che «in questo caso le censure e gli interventi correttori del Castiglione s’inquadrano in una tendenza che andava diffondendosi largamente nei primi decenni del Cinquecento»).

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Nella vulgata a questa serena accettazione del fondamento toscano della koinè si sostituisce un atteggiamento antitoscano che — nella Dedica al Silva — giunge fino allo sfogo sdegnoso: io confesso ai miei riprensori non sapere questa lor lingua toscana tanto difficile e recondita; e dico aver scritto nella mia, e come io parlo, e a coloro che parlano come parl’io; e così penso non avere fatto ingiuria ad alcuno, ché, secondo me, non è [N

proibito a chi si sia scrivere e parlare nella sua propria lingua; né meno alcuno è astretto a leggere o ascoltare quello che non gli aggrada.

E usa termini insolitamente forti — «temeraria presunzione», «impietà» — contro la moda del toscano trecentesco che evidentemente gli sembra una sorta di feticcio capace di incrinare la koinè perfezionatasi in decenni di ricerche, creando nuove incertezze e divisioni. Anche la forma toscana delle parole viene messa in discussione dal Castiglione che ora manifesta una spiccata predilezione per i latinismi di contro alle parole toscane che, confrontate con il latino, gli appaiono corrotte e guaste ?°. Così nella Dedica al Silva egli difende il diritto di usare, scrivendo, «l’integro e sincero» della propria patria in luogo del «corrotto e guasto della aliena»: Né mi par bona regula quella che dicon molti, che la lingua vulgar tanto è più bella, quanto è men simile alla latina; né comprendo perché ad una consuetudine di parlare si debba dar tanto maggiore autorità che all’altra, che, se la toscana basta per nobilitare i vocabuli latini corrotti e manchi e dar loro tanta grazia che, così mutilati, ognun possa usarli per boni (il che non si nega), la lombarda o qualsivoglia altra non debba poter sostener li medesimi latini puri, integri, proprii e non mutati in parte alcuna, tanto che siano tollerabili.

Può stupire che l’appassionata difesa dei latinismi si legga nella Dedica della vulgata, in cui il Castiglione ha notevolmente temperato la propria predilezione per i cultismi. Ma evidentemente egli manifesta con tanta forza la propria fedeltà alle matrici del volgare appunto perché la moda cortigiana — impersonata, per esempio, da Battista Fregoso e da Mario Equicola — è ormai tramontata e, senza il timore di alimentare una pericolosa affettazione, può riconoscere nel latino un prezioso elemento unificatore delle parlate italiane. Nella vulgata infatti il «vicio odiosissimo» dell’affettazione è riconosciuto solamente in coloro che credono «di mostrar di saper assai» usando lingue forestiere o esibendo «parole antiche toscane» (I, xxvIm): non vi si trova più la condanna, che abbiamo letto nella seconda redazione, di coloro che «entrano in parlare affetta-

20 Predilezione che non solo nei fatti ma anche nella teoria è già evidente nella seconda redazione in cui vengono riprovate soltanto parole la cui forma “toscana” si allontana da quella latina: «Così io ancor poco mi curerei se da un toscano fossi ripreso d’avere detto più presto lacrime che lagrime, e patrone che padrone, e satisfatto che sodisfatto, e Capitolio che Campido-

glio, e Ieronimo che Gerolamo, et onorevole che orrevole, e causa che caggione, e populo che

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tissimo, tirando le parole dal latino». Resta ancora, ma altrove (III, Lxx), un rimprovero verso coloro che «usano sempre parole di Polifilo». Fedele osservatore dell’uso, il Castiglione ha insomma compreso che il pericolo di un nuovo particolarismo linguistico, che renderebbe precaria la civile conversazione, viene ormai sopra tutto da certi troppo scrupolosi e presuntuosi seguaci del Bembo, quei «giovanotti dottarelli, barbette recitanti» — di cui si lamenta il Marostica nel Dialogo di Pierio Valeriano — che «stanno ascoltando quel che ragioniamo insieme, e ci puntano negli accenti, nelle parole e nelle figure del dire, che non sono toscane, senza una compassion al mondo, ridendosi di noi, che, se ben avemo messo la barba bianca negli studi, non sapemo quello che mai non ci sognassemo d’imparare». Contro questi giovani intemperanti che, come osserva lo stesso Marostica, fraintendevano' la lezione del Bembo ?, il Castiglione nella vulgata usa parole insolitamente sferzanti: oggidì son certi scrupulosi, i quali, quasi con una religion e misterii ineffabili di questa lor lingua toscana, spaventano di modo chi gli ascolta, che inducono ancor molti omini nobili e litterati in tanta timidità, che non osano aprir la bocca e confessano di non

saper parle quella lingua, che hanno imparata dalle nutrici insino nelle fasce (I, XXXVII)

“.

7. Lingua imparata «dalle nutrici insino nelle fasce»: si può definire così la lingua italiana comune? A rigore, certo no; ma è pur vero che il Castiglione si popolo et altre tai cose» (I, xxxix). Il latino, comunque, rappresentò sempre per il Castiglione il principale termine di controllo linguistico. 2! Infatti il Marostica, dopo essersi lamentato delle intemperanze linguistiche dei giovani dottarelli (ed. cit., p. 51), afferma che il Bembo non è, come crede il Colocci, «più di tutti intorno queste finezze della lingua» e, com’egli pure aveva sentito dire, il «barigello contra le male lingue», ma una persona che parla «con quella simplicità naturale che s’usa fra galantomini» (ivi, pp. 52-3). Ed è notevole la variante della redazione pubblicata dal Ticozzi (Belluno 1813): «usava quella semplicità di parlare che portò da casa nostra, e non trovai che l’avesse cambiata la sua lingua con alcun’altra» (ivi, p. 53, n. 41). Parlava, dunque, in veneziano. 22 Parole che, a parte il tono diverso, consuonano fortemente con quelle del Marostica che, pur essendo notissime, converrà riferire: «è una compassione il fatto mio, ogni volta che ho da scriver a un amico, star a freneticar, s'io ho da usar la mia lingua o mandar per un’altra al macello. Messer Angelo, non si può più vivere, dapoiché son usciti fuora certi soventi, certi eglino, certi uopi, certi chenti e simili galavroni [...]. Ma io, povero vecchiarello, come posso ora imparar di nuovo a parlare, che, come vedete, mi incominciano cascar li denti? Certo che m'è venuta qualche volta tentazione di partirmi di Roma per non esser tenuto forse per ribello perché non parlo toscano e mi scappa di quando in quando wi e #» (ed. cit., pp. 50-1). Il Ghinassi (Fasi dell’elaborazione del «Cortegiano», cit., p. 185) osserva giustamente che la protesta del Valeriano e del Castiglione non riguarda la grammatica ma «il toscanismo prezioso e arcaizzante, venuto di moda nei primi anni del secolo e diffusosi rapidamente con la crescente fortuna degli Asolani del Bembo». Distinguerei, però, la presa di posizione delle prime stesure del Cortegiano contro rezzo, sezzaio, guarri e altri toscanismi affettati degli Asolani dall’antitoscanismo della vulgata che mi sembra presupporre — come pure il passo del Valeriano («Non posso passeggiar per Parione...») — una moda che è passata dalla lingua letteraria a quella parlata e quindi si è fatta tanto più irritante e pericolosa.

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era formato in ambienti cortigiani in cui ancora agiva l’«esigenza interregionale, lo sforzo di comunicare su un piano più vasto», per cui «l’italiano, sia pure nelle sue diverse coloriture» era giunto a sostituire pienamente il latino nelle comunicazioni quotidiane fra tutta l’Italia: sviluppo che, promosso e favorito dalle nuove signorie, in genere di tradizione recente, aveva posto, «proprio attraverso un giuoco e un provvisorio equilibrio di contrasti, [...] le basi di una storia linguistica unitaria». Certo, la lingua cortigiana è un «fantasma», «così difficilmente afferrabile nella realtà come tutte le cose non arrivate a maturazione e come tutte le istanze che la storia sembra porre e poi respinge»; ma «quel fantasma poteva essere scambiato per una realtà, quale esso era stato verso la fine del ’400, e sia pure una realtà effimera e contraddittoria, per la quale non si potevano trovare norme sicure, perché, nella realtà, di quelle norme cortigia-

ne ne esistevano parecchie e variamente configurate» ??. Inoltre altrettanto forti, e per certi aspetti ancor più grandi, erano le oscillazioni e le incertezze del fiorentino vivo, che allora attraversava una crisi profonda e subiva spinte che rischiavano addirittura di disgregarlo, come appare dalle scritture non letterarie: penso, per esempio, alle incertezze morfologiche e alla grave rottura dell’assetto sintattico provocata dalla giustapposizione delle proposizioni che si riscontrano in viaggiatori come il Vespucci, il Corsali, Giovanni da Empoli, di contro al periodo chiaro e ordinato del bolognese Vartema, la cui lingua per tanti aspetti si può accostare a quella del Castiglione. Ci voleva un Machiavelli — cioè la sua forza di pensatore e di scrittore — per accettare la lingua viva; gli altri fiorentini per lo più subivano l’influsso di tendenze forestiere e cercavano quanto più potevano di allontanarsi dall’uso popolare: si pensi al Guicciardini e ai frequentatori degli Orti Oricellari, e în primzis a Giovanni Rucellai. Quella lingua popolaresca sembrava, e in parte era, inadatta alla letteratura e alla civile conversazione fuori da un ambiente mercantile. Non è questo — come è ovvio — il “fiorentino” che provoca l’irritazione dell’Equicola, del Castiglione, del Marostica, del Folengo e di tanti altri. Il “fiorentino” che imperversava a Roma era una lingua estremamente depurata e grammaticalizzata, ricostruita sul Petrarca e sul Boccaccio con il principio di analogia come se fosse una lingua morta. Era una lingua metastorica, di cui per la prosa i più non avvertivano alcuna necessità, visto che era disponibile uno strumento ben collaudato come il latino. Nel quadro degli “usi” prosastici allora disponibili a chi non pensasse alla lingua dell’arte, quello difeso nel Cortegiano non era, dunque, il più assurdo e incoerente; anzi, rispetto a quello ultrabembesco, aveva un preciso aggancio con la realtà, nasceva da un’evoluzione del parlato, era un fantasma che aveva preso corpo di realtà proprio negli anni di formazione del Castiglione. La crisi del sistema politico regionale era sopravvenuta assai presto; e con la fine dell’equilibrio politico, con l’inizio del predominio straniero e con l’indebolirsi delle formazioni statali, si era interrotto il processo di svolgimento della koinè, senza che ai molti focolai quattrocenteschi si fosse sostituito un centro di 2 Sono parole di G. Folena nella Premessa a Testi non toscani del Quattrocento, a cura di B. Migliorini e G. Folena, Modena 1953, pp. XIX, XV-XVI.

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irradiazione culturale e linguistica: «questa frattura politica — scrive il Folena — è anche una rottura con la lingua d’uso, la lingua della conversazione fondata su

scambi e contaminazioni, e favorisce la soluzione della crisi in senso letterario e

tradizionale» ?°. Favorisce infatti il passaggio dalle opinioni e dalla prassi linguistica degli ambienti cortigiani all’opera e alle tesi ellenizzanti del Trissino, che, pensando quasi’soltanto all'uso poetico, considera la lingua comune non come il risultato di un recente processo storico ma come un dato originario

della nostra tradizione letteraria e linguistica. Anche il Castiglione, risentendo degli avvenimenti politici, si era sempre più allontanato dal particolarismo regionale e dalla problematica delle corti, e la sua visione politica si era infine orientata verso il papato e l'impero. Ma egli non poteva ormai più — sia ideologicamente sia linguisticamente — distogliersi da quella che per lui era stata un’entusiasmante realtà; poteva — e doveva, secondo la sua concezione della vita — adeguarsi, accostandosi via via alle «consuetudini» dei tempi nuovi, ma non fino a sconfessare sé stesso. Non giunse così sulle posizioni del Trissino, anche se — senza mai rinnegare le basi di partenza — venne gradualmente modificando la sua scrittura, per quanto poteva e credeva opportuno, onde evitare l’odiosissima affettazione e una sorta di presbiopia linguistica. L'evoluzione fu graduale, naturale, senza forzature: per conoscerne esattamente i particolari converrà attendere l’edizione critica del Cortegiano e dell'intero epistolario, ma fin d’ora — grazie agli studi del Ghinassi? — si può affermare che la lingua del Cortegiano nel complesso (e prescindendo, ovviamente, dalle ragioni stilistiche) non si differenzia da quella delle lettere familiari e che l'evoluzione linguistica del dialogo procede di pari passo con quella riscontrabile nell’epistolario e in tutta la Koinè settentrionale. Ed è notevole — come ulteriore conferma della coerenza del Castiglione e della sua stretta adesione alla realtà — che le trasformazioni linguistiche del Cortegiano si svolgano parallelamente a quelle strutturali e ideologiche ‘”. Come il dialogo muove da un'esercitazione tipica degli ambienti cortigiani e poi, via via, si apre a prospettive sempre più ampie e sempre meno legate ad ambienti ristretti, così la sua lingua si evolve progressivamente da un modello “cortigiano” a un modello “italiano”, vicino cioè a quello che si affermerà negli anni trenta come strumento della nostra cultura: dall’espressionismo dei primi abbozzi, in cui si riflettono le sperimentazioni e il gusto latineggiante delle corti, a una lingua “illustre”, ormai tanto omogenea che al Valerio basteranno ritocchi quasi soltanto formali per conferirle un colore italiano, anzi addirittura toscano. La lunga elaborazione del Cortegiano costituisce pertanto una delle più preziose

25 Nella citata Premessa, pp. XXI-XXII. 26 Cfr., in particolare, Fasi dell'elaborazione del «Cortegiano», cit., pp. 181 sgg. 27 Oltre al saggio del Ghinassi, citato nella nota precedente, si vedano le acute osservazioni di P. Floriani nel volume Bembo e Castiglione, cit.

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testimonianze sull’assestamento raggiunto dalla prosa del primo Cinquecento, non con un “trapianto” alla maniera del Bembo, ma per una via, se si vuole, più naturale, in un confronto-scontro con i linguaggi e le realtà sociali del tempo.

TEOFILO FOLENGO E LE RESISTENZE ALLA TOSCANIZZAZIONE LETTERARIA 74

1. Quando nel 1524 l’Epistola de le lettere nuovamente aggiunte ne la lingua | italiana del Trissino provocò, o sembrò provocare, l’esplosione della così detta questione della lingua, di fatto il toscano si era ormai imposto come lingua letteraria; e per questo rapidissimo trionfo già nei contemporanei si attutì il ricordo dei decenni precedenti, quando i più erano ancora incerti su quale potesse essere la lingua dell’arte e della comunicazione: per il toscano (o fiorentino) degli “auctores”, per uno strumento dal registro limitato, non sembrava conveniente rinunciare alle molte possibilità che allora si offrivano a ogni persona colta. Ancora nel 1526 il Folengo lo ribadiva nel C4os, per bocca di Merlino che a Limerno — secondo il quale solo «alquanti persianisti pedagogi o pedantuzzi» si lamentavano che la lingua toscana fosse «cagione di lasciar la romana» — ribatteva: Ed io nel numero di costoro mi rallegro essere, ché di te e d’altri toi simili ignoranti meravigliomi, li quali, non intendendo dramma de la tulliana facondia e gravitade virgiliana, vi sète totalmente affisi ed addescati al quinci, quindi, testé, altresì, chiun-

que, unquanco, altronde, ed altri dal Tosco usitati vocaboli !.

Il latino infatti non solo garantiva la comunicazione fuori d’Italia, ma, prima che i rigori ciceroniani lo irrigidissero, era capace di infinite modulazioni e adatto a ogni genere di espressione. Pertanto continuava a reagire con l’ “altro” latino, il latino vivo dei docenti, dei grammatici, dei commentatori, dei pedanti, dei giuristi, dei notai, dei predicatori, delle Scritture, della Scolastica, degli scienziati, delle cancellerie, ecc. Ed era questo latino, più sciolto e intriso di elementi moderni, a contendere il passo al volgare, che sempre più veniva imponendosi per le esigenze della società cortigiana, e tuttavia non riusciva a superare lo stato di precarietà che gli derivava dalla precarietà stessa della civiltà letteraria di cui era espressione. I dialetti, comunemente usati per le faccende ordinarie, erano vitalissimi e premevano con forza sulla lingua scritta. Per la funzione accentratrice delle corti e la mobilità degli intellettuali, spesso nello stesso individuo venivano a incontrarsi esperienze linguistiche di tipo diverso. Nascevano koinè regionali che, pur rimanendo sempre instabili, rispondevano abbastanza bene alle esigenze della conversazione e della comunicazione. Effimeri, ma numerosi, erano i tentativi di realizzare una lingua letteraria

1 T. FoLENGO, Opere, a cura di C. Cordié, Milano-Napoli 1977, p. 862. E cfr. Orlandino, VIII, 11, 5-8: «non la toscana, dico, temeraria/ (ché a grande sua superbia oggi s’arreca / eguarsi a la romana, e tanto sale / che assai Francesco più che Tullio vale)».

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E LA TOSCANIZZAZIONE

LETTERARIA

sovraregionale, “miscelando” sulla base di un volgare illustre (modellato sul

latino o sul toscano) forme dialettali, gergali, rusticali, forestiere, ecc. La lingua dell’arte non offriva molte certezze. Anche chi avesse deciso di accettare il toscano, doveva destreggiarsi fra esperienze diversissime: da quella decantata e linguisticamente omogenea del Canzoniere petrarchesco a quella ribollente di passioni, di cronaca, di dottrina (e dalle molte “lingue”) della Comzzedia, a quella, ancor più corposa e intrisa di sapori popolareschi e gergali, di tanta letteratura fiorentina del medio Quattrocento... La crisi linguistica che travagliava l’Italia fra Quattro e Cinquecento era tanto più accentuata perché accompagnata da una parallela crisi ideologica. Mancavano salde convinzioni filosofiche; l’Umanesimo, alla ricerca di nuove certezze, oscillava pericolosamente fra un piatto scolasticismo e un filologismo raffinato ma indifferente ai valori del contenuto. Res e verba finivano, nei fatti se non nelle intenzioni, per scindersi. E allora alla regolarità e armonia della lingua potevano aspirare solamente coloro che, come il Bembo, fossero certi che la parola è l'elemento ordinatore delle umane esperienze e che, come aveva sostenuto Cicerone e tanti umanisti avevano ripetuto, «gli uomini in questa parte massimamente sono dagli altri animali differenti, che essi parlano», per cui nessuna «più bella cosa può alcuno uomo avere che, in quella parte per la quale gli uomini agli altri animali grandemente soprastanno, esso agli altri uomini essere soprastante, e specialmente di quella maniera che più perfetta si vede che è e più gentile» 2. Altri invece — per esempio, il Pomponazzi — , convinti che l’uomo si distingue dagli animali per l’uso della ragione, potevano rimanere indifferenti al problema della regolarità linguistica e affidarsi fiduciosi a qualsivoglia strumento capace di esprimere i contenuti della propria riflessione o della propria fantasia, o se del caso crearsene uno appositamente. La fluidità della situazione favoriva gli esperimenti più diversi, sia per il desiderio di proporre una soluzione al problema, sia per la necessità stessa di scrivere, sia anche per sfruttare a scopo di divertissement i vari elementi linguistici a disposizione. Così se alcuni tenevano separati i linguaggi e gli “stili” che avevano appreso, e per ciascuno cercavano i modelli ottimi, altri non avvertivano l’aleatorietà delle contaminazioni fra lingue che, peraltro, ben si prestavano allo scopo, essendo tutte quante frutto della differenziata trasformazione del latino. L’Hypnerotomachia Poliphili è tutt'altro che isolata: nasce e vien letta in anni che vedono molti tentativi — sia in quella stessa direzione sia in altre — che per il loro carattere effimero sono stati presto dimenticati e ancor oggi non sono stati adeguatamente studiati. Un centro assai sensibile a questo sperimentalismo fu Mantova, come fra l’altro mostrano alcuni episodi sui quali si è soffermato il Dionisotti ?. Nella corte d’Isabella d’Este, per esempio, a Giovan Battista Pio, che portò alle estreme conseguenze la moda apuleiana, fu offerta l’occasione di fare sfoggio della propria raffinata sapienza linguistica; ed è curioso che 2 Prose della volgar lingua, 1, i. 3 Giovan Battista Pio e Mario Equicola, in Gli umanisti e il volgare fra Quattro e Cinquecento, Firenze 1968, pp. 78-130.

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Ercole Strozzi lo raccomandasse alla marchesa con queste parole: «La imparerà più vocabuli exquisiti in uno mese da epso che la non faria in tri da uno altro»; parole dalle quali pare di poter dedurre un forte interesse di Isabella per i «vocabuli exquisiti», anche se era troppo intelligente per non stancarsi delle raffinatezze di cui ci dà testimonianza la Cebetis Tabulae interpretatio desultoria Pii ad illustrissimam Isabellam, che è un esempio vistoso di quella moda. L’interesse degli ambienti cortigiani per simili tendenze favorì — come è facile supporre — il gusto per le contaminazioni linguistiche, per le parole rare, per le raffinatezze lessicali e infine per linguaggi che oggi appaiono incoerenti e privi di fondamento storico e geografico. Un’idea delle varie “lingue” che si fronteggiavano ci forniscono altri due testi sui quali il Dionisotti ha richiamato l’attenzione: il Dialogus in lingua mariopionea sive piomariana carmentali pulcherrimus, in cui insieme col Pio, non si sa bene perché, è satireggiato un personaggio assai

rappresentativo dell'ambiente mantovano come l’Equicola, e un’epistola del novembre 1512, attribuita all’Equicola e indirizzata a un altro notevole personaggio mantovano, il Muzzarelli, in cui vengono parodiate sei lingue: antigua latina, apuleiana sive del Pio, mariana latina, lingua poliphylesca, toscana e mariana vulgare.

2. Il toscano satireggiato nell’epistola è quello degli Aso/ari: «l’umanista autore della satira, che con tutta chiarezza vedeva e colpiva insieme nel loro pedantesco intreccio il latino degli apuleiani e il volgare del Polifilo, coinvolgeva — sono parole del Dionisotti * — nello stesso grottesco miscuglio il toscano boccaccesco del Bembo». E questo non deve stupire. Anche se poi le tesi bembiane trionfarono rapidamente, la lingua degli Asolani sconcertò i contemporanei, suscitando vivaci reazioni che, fra l’altro, ci sono testimoniate dalla redazione manoscritta del Libro de natura de Amore?, in cui l’Equicola prende le difese del Bembo ma solo perché ciascuno ha il diritto di usare una lingua diversa dalla propria, non perché accetti il valore esemplare di quel linguaggio: appunto la pretesa di fornire una soluzione definitiva al problema dell’arte volgare sconcertava e irritava anche chi era disposto ad accettare esperimenti ben più arditi. Né stupisce che queste reazioni siano state particolarmente vivaci nell'ambiente mantovano che, come ha osservato il Ghinassi 9, non aveva mai provato eccessive simpatie per il toscano. Mantova infatti non aveva

aderito ad alcuna delle esperienze letterarie toscane, nemmeno alla lirica d’amore d’ispirazione più o meno liberamente petrarchesca; e la sua situazione appare tanto più singolare se la si confronta con quella della vicina Ferrara, in cui

4Ivi, pp. 124-5. 5 Cfr. I. RoccHi, Per una nuova cronologia e valutazione del «Libro de natura de Amore» di M. Equicola, in «Giornale storico della letteratura italiana», CLIII (1976), pp. 566-85. 6 Il volgare mantovano tra il Medioevo e il Rinascimento, nel volume miscellaneo L. Ariosto: lingua, stile e tradizione, Milano 1976, pp. 26-7.

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frequenti sono le «franche testimonianze in favore della supremazia del toscano e del fiorentino». Nel primo Cinquecento, quando Isabella d’Este porta nuovi stimoli a una vita culturale varia e intensa, le cose non mutano, anche se il

deciso rifiuto della toscanizzazione letteraria e del primato toscano ormai non ostacola un vivace interesse per la letteratura e la cultura toscana. Il Castiglione, per esempio, avversa sia pure con molta discrezione le teorie linguistiche bembiane e la lingua degli Asolari, ma proprio perché non si rifà ad esemplari esclusivi può proporre l'imitazione linguistica non solo del Petrarca e del Boccaccio, ma anche del Poliziano, di Lorenzo il Magnifico, di Francesco Cattani da Diacceto e di «alcuni altri che pur sono toscani, e forse di non minor dottrina e giudicio che si fosse il Petrarca e ’1 Boccaccio» 7. Globale, persino sprezzante, è invece il rifiuto del toscano che troviamo nella lettera dedicatoria a Isabella d’Este della redazione manoscritta del Libro de natura de Amore. Secondo l’Equicola il volgare è «quasi umbra» del latino, la cui «incorrupta purità» è stata guastata dalle favelle barbariche; quindi deve essere ricondotto al «sermone prisco latino», in cui va ricercata la sua «purità», e, quando ciò

non sia possibile, nobilitato e arricchito con voci di ogni dialetto, perché i dialetti sono tutti egualmente imperfetti. La sua scelta per la lingua «cortesiana romana»

è netta: questa è accostata al latino aureo; il toscano, favella di un

volgo ignorante, al latino della decadenza. Dante, Boccaccio e Pulci, cioè gli scrittori più inclini ad accettare gli idiotismi e le forme del parlar popolaresco, non sono «auctori de ornatissimo parlare». L’atteggiamento dell’Equicola, dunque, non è meno aristocratico di quello del Bembo; la sua opzione per il volgare però non è dettata dal desiderio di usare una lingua raffinata, capace di garantire l'immortalità, ma da esigenze sociali, cioè dalla sua condizione di cortigiano. Dalla tesi bembiana — a parte molte altre ragioni — lo separa il diverso aggancio con la realtà. Il veneziano aveva compreso che la soluzione del problema della letteratura volgare non poteva venire dai centri culturali esistenti: la sua stessa vita — con la “fuga” da Venezia e dagli impegni politici, per tornare a Padova come ecclesiastico che gode di un otium garantito da benefici, dopo aver sperimentato la vita culturale di Ferrara, Urbino e Roma — è sintomatica di un disimpegno culturale che appare all'unisono con una realtà storica che consentiva all’Italia solamente un’unità letteraria. La posizione dell’Equicola è più compromessa con la realtà concreta; fondata dunque su elementi più aleatori e dotata di minor respiro, ma tutt'altro che astratta. Per lui, come per molti altri, le corti esistono, sono ben vitali; il problema linguistico-retorico si pone solo come ricerca di uno strumento di comunicazione sovraregionale, capace di surrogare il latino in ambienti in cui, per precise e insormontabili ragioni sociali, occorre usare il volgare. Si trattava insomma di trovare un latino moderno, cioè una lingua che come il latino possedesse un amplissimo registro. I risultati di un simile atteggiamento sono interessanti ma poveri nel Libro ? Cortegiano, I, xxxvii. Si veda in questo volume il saggio I/ pensiero linguistico di B. Castiglione.

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de natura de Amore, che costituisce la più ampia documentazione di lingua «cortesiana». A parte le limitate capacità espressive, l’Equicola era un cortigiano e, malgrado qualche spregiudicatezza, risentiva di limiti fortissimi di gusto, di sensibilità, di esperienza. Ma altri poteva procedere oltre, cercando di carpire al latino non qualche: clausola o sparsi elementi lessicali ma addirittura la struttura sintattica e metrica, il ritmo e l’armonia, per servirsene come tessuto

connettivo per una lingua che, inglobando tutti gli elementi presenti nella prassi linguistica, sapesse esprimere — come

ancora non poteva fare il toscano — i

molteplici aspetti della realtà, fondendo la lezione degli antichi e dei moderni, le istanze culte e quelle popolari, i dialetti e il gergo, il cristianesimo e il classicismo. Questo fece il Folengo, il quale con intuizione geniale comprese che dagli esperimenti dei maccheronici padovani poteva derivare uno strumento valido non solo e non tanto per effetti parodistici o comici, ma per ottenere veramente una letteratura latina moderna, in cui, per esempio, l’egloga accogliesse le novità dei componimenti nenciali e il poema epico assorbisse i valori romanzi dei cantari e insieme elementi comici, novellistici, ecc. Assai notevole a questo proposito — e siamo solo nel 1521! — è l’Apologetica in sui excusationem, in cui il Folengo sostiene appunto che il maccheronico possiede un registro talmente ampio da potersi spostare per gradi dalla nobiltà del latino alla grossolanità del dialetto rusticano: cosa che non potevano fare né il latino classico né qualsivoglia volgare.

3. Indicando rigorosamente dei modelli, il Bembo dava ufficialmente inizio alla lingua e alla letteratura italiana: appunto perché le incanalava su strade che potevano essere strette ma erano nazionali, cioè tracciate dai nostri stessi scritto-

ri. Dal suo punto di vista non poteva che proporre l'imitazione di Petrarca e Boccaccio. Ma a chi avesse avuto un altro concetto di stile, a chi non provasse ripugnanza per esperienze popolaresche o comunque meno decantate di quelle del Petrarca, a chi non rifuggisse dall’ibridismo e dalle contaminazioni, altre vie potevano

apparire più spaziose e suggestive, altre esperienze più robuste e

aderenti alle esigenze del tempo, altri esemplari non meno rappresentativi della civiltà moderna, non solo italiana ma romanza: innanzi tutto il genere cavalleresco che, fra l’altro, per la sua fortuna di pubblico e di lettori, aveva contribuito non poco alla diffusione, sia pure irregolare, di una Koinè settentrionale a base toscana. Al toscano di Petrarca e Boccaccio si poteva dunque contrapporre il ben diverso e più ampio registro dei cantari, di Pulci, Boiardo, Ariosto. Il Bembo non poteva accostarsi seriamente a questa poesia; nemmeno l’Ariosto poté convincerlo della possibilità di ricondurre a classica misura la narrativa popolare. Il Folengo invece comprese l’importanza dei romanzi e assai presto, quando l’aspra querelle sul poema cavalleresco era ben lontana dall’iniziare e il plurilinguismo ancora un dato di fatto, con il Ba/4us diede alla letteratura italiana il moderno poema epico. L’Orlandino forse servì a lui, come a noi, per comprendere definitivamente che il toscano, anche quello del genere cavalleresco, era insufficiente per il suo troppo vasto universo poetico. Ma di per sé il

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passare dal maccheronico al toscano significò per lui l'adesione a un’arte di minor respiro, maggiormente legata al contingente; se non proprio alla letteratura di consumo, certo a modi espressivi più disinvolti e meno decantati. Anzi l’Orlandino, scritto e pubblicato nel 1526, e per di più a Venezia, era un implicito atto di protesta nei confronti dell’esile letteratura che ormai veniva imponendosi o forse, meglio, una manifestazione di ostentata indifferenza per tante discussioni, per il Bembo non meno che per il Trissino. Sordo a ogni esigenza di regolarizzazione classicistica di un genere che egli veniva nobilitando in ben altro modo, aderisce toto corde alle formule canterine e al tono giullaresco; si guarda bene dal decantarle, anzi con violenza polemica le potenzia e involgarisce quanto più può: in volgare infatti si rivolge ai contemporanei per manifestare la propria indignatio, per affrontare con un tenue travestimento fatti e problemi del tempo. Rispetto all’Innamoramento de Melon e Berta, da cui per tanta parte dipende, l’Orlandino è opera assai più complessa non solo per la presenza di una risentita moralità, ma perché il tono è assai meno prosastico e i moduli stilistici più ricchi e più vari. Non è però sul piano stilistico che Limerno Pitocco vuole staccarsi dai suoi predecessori. L’impasto linguistico è meno ricco di quanto appare a prima vista, specialmente a chi pensa al contemporaneo classicismo, come il De Sanctis che discorreva di «una lingua cruda, che è una miscela di voci latine, lombarde, italiane e paesane, senza gusto è armonia» *. Solo in un’ottava si incontrano, ma non si fondono perché manca un tessuto connettivo, latino, toscano, francese e spagnolo: Godea ’1 Spagnolo che sotto Pavia avea fatto prigion di Franza el Roy; e io nel grembo a Caritunga mia ho preso tutta Franza per m4 foy. A che voler Italia in sua balia, passando or Ada or il Tesin ed Oy? Venite ad me, signores, faciam todos baron di Franza e cavalier di Rodos. (II, 3)

E si aggiunga questa ottava (II, 52), in cui l'indignazione di Berta comporta un qualche mescidamento fra dialetto, italiano e francese: Qual meraviglia poscia se l’Ispani vi dicon botaglion, baghe di vino! Voi, di bravar sol boni, gli altri strani chiamate a/lé, villen, paglie, cuchino; quand'è poi tempo di menar le mani, sète peggior del sesso feminino, e pel vostro supé ben spesso accade

ch'Italia vi ritien nel fil di spade?. 8 Storia della letteratura italiana, XIV, 2. ? Per il francese non resta che segnalare IV, 8, 7-8 e 50, 4. Quanto ai francesismi, essi

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Frequente è invece l’inserzione di parole, emistichi, endecasillabi in latino. Si tratta per lo più di citazioni (o deformazioni di citazioni) liturgiche o scritturali, usate per scopo ironico, parodistico o polemico ! più raro è il ricorso all’«Omero nostro mantoano» !!. Gli inserti composti dal Folengo — o di cui non si sa indicare la fonte o che comunque da essa molto si allontanano — spesso nascono soltanto dal vezzo di inserire delle parole latine in una frase; qualche volta invece hanno un’indubbia efficacia e funzionalità (sopra tutto .nell’ottavo capitolo, di cui daremo più innanzi un esempio) o una certa incisività per quel tono sentenzioso che ha il latino in un contesto italiano !2, Nel lessico l’elemento latino è ben presente, ma non sovrabbondante: a parte certe citazioni funzionali !, si tratta di parole latine assai diffuse nelle scritture del tempo !*. Più numerosi, ma non tali — date le consuetudini del tempo — da generare scintille, i latinismi ”, se si prescinde da certi esiti fonetici sui quali il giudizio è arduo e che comunque appartengono ormai alla tradizione. Significativi alcuni sistemi di rime, come turzido: fumido (V, 10, 2 e 6), pulcritudine: amaritudine: vicissitudine (III, 69,1,3 e 5), medicamine: velamine (III, 78, 3 e 5), cubicolo: diverticolo (IV, 36, 2 e 6). Cupidine: libidine: formidine tornano in rima addirittura due volte (II, 1, 3 e 5; V, 21, 2, 4 e 6). Ma si tratta,

anche in questo caso, di parole e di gruppi tradizionali. Il Cordié nel suo commento ricorda, per esempio, che Ercule: fercule: cesercule (V, 74, 2, 4 e 6)

per lo più appartengono già alla tradizione canterina come il comunissimo ciamzbra (II, 44, 1; III, 42, 5; IV, 11, 7; ecc); ricordo comunque traîti (V, 20, 3), perché lo sottolinea la glossa: «Traito per traditore posto».

10 Cfr., per esempio, I, 3, 2; II, 33, 2; 55, 3; 63, 4; IV, 2, 6-7; VII, 69, 8; VIII, 4, 8; 59, 7; 80, 8. 11 Cfr. III, 48, 1 e VII, 20, 6. 12 Cfr., per esempio, I, 4, 8; 31, 4; III, 64, 1 e 4; IV, 34, 5; 72, 7; 73, 6; V, 2, 6; 18, 8; IDO

STO

SENIO

VIS

70 MVITIS.

8: LIM

341607:

17015

20, 5-6 e 8; 37, 2, 4, 6-7; 43, 8; 51, 3; 54, 7-8; 81, 4. Come si vede, il fenomeno si infittisce nel

capitolo VIII e raggiunge il culmine nelle ottave 33-35, che citeremo più innanzi.

13 Tali sono, per esempio, «Ll’utrum e probo del tomista» (III, 64, 8), parallelo al «probo del scotista» (VIII, 64, 4) e ai probo e nego di I, 2, 5. 14 Per esempio,

vale (V, 5, 8), in communi

(VIII,

15, 6), quondam

(VIII, 43, 6), ab

inexperto (VIII, 62, 4) e recipe (II, 60, 8).

15 Ricordo: adiutorio (VIII, 79, 5); animula (IV, 37, 6); arguta “acuta” (III, 60, 1); alse (IV, 58, 8); arto “stretto” (VII, 17, 8); confugge (VI, 51, 3); construtta (VI, 50, 8); dolio (V, 68, 3); cubito (III, 78, 7); coquina (VIII, 44, 3; IV, 6, 4); crepito “fragore” (III, 23, 8); discombenti (IV, 14, 8); dumo “spino” (V, 71, 4); espedisce “fornisce” (V, 68, 6); floco “fiocco” (VIII, 18, 6; 82, 2); furi (V, 77, 6); interito (VIII, 70, 3); incuse (IV, 21, 8); mecco “adultero” (IV, 51, 7); nefario (VIII, 74, 7); nevo “neo” (I, 53, 6); postico (I, 64, 8); piscicolo (VI, 7, 2); persegue “segua” (IV, 35, 6); predito “dotato” (V, 72, 5); rubigine (VII, 1, 5); rubore (VIII, 26, 1); sasso “pietra preziosa” (VI, 18, 2); scopo/o (III, 80, 3); sore “sorella” (I, 49, 3); scande (VI, 8, 3); senz'ulla (III, 38, 3) e senz'ullo (VII, 10, 2); vapola (III, 31, 7); vituli (IV, 15, 6); imparte “divide” (V, 73, 7); combusto (VI, 23, 5); coppie “genti numerose” (V, 5, 4); prora (V, 27, 6); si provolve (II, 36, 8); suppose (II, 63, 1); exale (II, 68, 4); certame (II, 62, 1); ceto (VI, 32, 6); tange (V, 68, 7); ecc.

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sono in rima anche nel Mamzbriano, XXVI, 85, 1, 3 e 5 (e in XLI, 44, 7-8 Ercole e fercole, parola che torna ancora nell’Orlandino, VI, 51, 3).

Chi si aspettasse una forte presenza di parole dialettali resterebbe ancor più deluso. Se si prescinde dagli esiti fonetici, il bilancio è davvero scarso: poche parole e, per di più, spesso confermate dalla tradizione o addirittura da testi toscani !6. L'andamento popolaresco, piuttosto che con voci paesane o lombarde, è ottenuto con la pittoresca irregolarità delle forme !, con le espressioni gergali, le metafore realistiche, i motti proverbiali, spesso debitamente sottolineati dalle glosse. Ma si direbbe che il Folengo abbia voluto raggiungere questo scopo sopra tutto con la violenza plebea delle parole. Altro discorso sarebbe da fare per gli elementi di forte letterarietà, frequentissimi, ma per lo più usati come materiali da costruzione, non per far cozzare l’aulico col prosaico. Basti come esempio questa riutilizzazione di famosi versi del Petrarca: Per far una leggiadra tua vendetta e punir in un dì ben mille offese, celatamente l’arco e la saetta tua man spietata in mia ruina prese.

Ah punto infausto! ah stella maladetta, che contra te mi tolse le diffese,

alor ch'io vidi quella faccia infusa di tal beltate,

a me sol di Medusa!

(I, 60)

Il gioco popolaresco non si scatena nemmeno nella formazione delle parole e

degli alterati. Certo c'è il normale profluvio canterino di alterati in -ore !8 e di quelli, un po’ più caratteristici, in -4zz0 !?, ma per il resto la situazione 16 Ricordo s'attriga (II, 48, 1) e attrigarlo (III, 32, 3), buse (IV, 21, 7), lucaniche (VIII, 47, 1), sassentaro “si sedettero” (IV, 14, 6), stoppa (VIII, 23, 5) e stoppò (II, 63, 8), imzpergotati

(IV, 7, 3), boffare o buffare (I, 52, 8; 54, 3; VI, 9, 3), butiro (VII, 25, 8; VIII, 10, 5), buseche (VIII, 40, 3; 61, 6), imbriachi (II, 56, 3; ma ubriachi in I, 4, 6), chiaman “dicono” (I, 9, 6), luserta (II, 35, 2), busche (II, 36, 7), stigando (II, 37, 8), piaccarei (III, 1, 3), muzza “scappa” (IV, 2, 3; cfr. Baldus, III, 354), /atesini “animelle” (IV, 7, 1; VIII, 59, 2; cfr. Baldus, XIV, 236), slenguarsi (VIII, 4, 5), ecc.

17 Alludo non solo alle oscillazioni fonetiche, di cui darò qualche esempio nelle note successive, ma all'accettazione di esiti morfologici macroscopicamente contrastanti con la norma che ormai andava imponendosi e che da poco era stata codificata nelle Prose della volgar lingua. 18 Si pensi a vocione (I, 12, 6), ribaldone (III, 13, 2), stangone (III, 74, 7), perticone (III, 77, 3; II, 26, 2: e chi lo porta si chiama Salomone), fiascone (I, 2, 1; II, 24, 5), petrone (I, 13, 5), cestone (II, 23, 8: chiude un’ottava in cui sono anche forcone, castron, bastone), ecc. E si aggiungano i molti nomi in -one: poltrone (I, 6, 3; ecc), ronzoni (I, 24, 5), sabione (III, 15, 6; ecc), calderone (II, 14, 2), ladrone (II, 15, 7), barone, Ivone, Bovone, Carlone, Amone, ecc., e

versi come: «spinse for di l’arzone a capo peso; / Ottone corre ugual a Salomone:/ quel batte un Savoin, quest'un Vascoze» (III, 36, 6-8).

19 Gli alterati in -4zz0 indubbiamente portano nel verso un colorito popolaresco: mulazzo (VIII, 2, 7; II, 32, 4), porcazzo (VIII, 17, 5), tripponazzo (VIII, 26, 1), bragazza (II, 26, 6),

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non è particolarmente significativa: non solo scarseggiano le coniazioni che SPOSTA per il loro colore ma sono frequenti i suffissi più convenzionaide L'opposizione alla norma toscana, che venivano allora imponendo i grammatici, è evidente a livello fonetico. In sede tonica è frequentissima la conservazione della vocale latifia?!, secondo una tendenza tipica dell’ibridismo settentrionale quattrocentesco. La spinta del latino contribuisce però a ridurre la | resistenza alla così detta anafonesi, che comunque è documentata da sponga (IV, 17, 3), orge (VIII, 8, 5; ma anche unge, III, 35, 6; V, 40, 6, e in protonia ungiute, I, 44, 4), malegno (VIII, 77, 1), matregna (VII, 17, 2), ecc. Per quanto riguarda il dittongamento, permane la situazione contraddittoria dei testi non toscani del Quattrocento; ma chiarissima è la tendenza alla conser-

vazione del monottongo ”, secondo l’esempio del latino, del dialetto e della menchionazzi (III, 65, 5), avarazzi (V, 74, 5), ecc. Si aggiunga mentozzo (VIII, 5, 6), Lombarduzzo (I, 9, 6), pedantuzzi (I, 29, 1), animaluzzi (II, 30, 2).

20 Registrato spagnarda (III, 70, 4), vecchiarda (II, 10, 6), rzerdaglie (II, 19, 2) e brotaglie (VIII, 25, 2), scrittarie: cagarie: forbarie (I, 17, 1, 3 e 5), s'incapola e accopolo (III, 31, 8; III, 80, 5), accortignolo (IV, 41, 1) e qualcos’altro che può essermi sfuggito, non restano che gli esiti abbastanza ovvi di rivaggio (V, 57, 3), dannaggio (V, 57, 5; VIII, 88, 4), visaggio (II, 5, 2), coraggi “cuori” (III, 26, 6), ecc; bandigioni (IV, 15, 5), stordigione (III, 28, 8); nomzinanza (II, 57, 6), nomanza (VII, 7, 6), ecc.; navigio: remigio (V, 66, 2 e 6); e i moltissimi alterati in -etto e -ello, spesso di suggestione letteraria: pargoletto (I, 15, 8; VI, 6, 4), parvoletto (IV, 4, 3), asinello (V, 57, 3), femminella (III, 55, 2; IV, 6, 5), timzidetta (IV, 46, 1), semplicetta (IV, 64, 4), finestrella (V, 45, 7), ecc., nonché i molti aggettivi in -evole.

2! Cfr., per esempio, pontifice (VIII, 77, 2); gitti (VI, 56, 7), ma anche getta (VII, 53, 8); strighe (I, 12, 2; 18, 2) e strige (IV, 67, 4; VI, 16, 7); vinti “venti” (I, 2, 2; 30, 3; III, 23, 1;

ecc.); firme “ferme” (IV, 61, 3); rzammille (V, 2, 5); ancilla (V, 10, 7; 11, 1); condutto (VII, 36, 7; V, 14, 7), ma anche condotto (VII, 59, 1; VIII, 12, 5; ecc.); ruzzpe (VII, 43, 3), rumpelo (VIII, 37, 1), ruzzper (VII, 45, 4; ecc.), ma anche rompa (IV, 12, 8) e in protonia romperò (VII, 64, 2); surgeno (III, 76, 1), surge (I, 63, 7; VII, 3, 3), surga (VII, 21, 5; VIII, 44, 8); triunfo (I, 46, 7; VIII, 91, 2), e in protonia #riunfale (II, 51, 3) e triunfante (II, 70, 3); infunda (IV, 67, 7); stulti (V, 65, 6); spelunca (VI, 49, 5); ecc.

22 Cfr., per esempio, eri (III, 1, 2); fero (III, 32, 5; ecc.); minere (III, 6, 6); pè (III, 3, 5; IV, 42, 3; ecc.), che si alterna con piè (IV, 8, 4) e piede (I, 53, 2; V, 21, 1; ecc.); petra III, 7, 6), ma più frequente pietra (V, 39, 5; IV, 12, 8; ecc.); sèéde “siede” (II, 27, 7; IV, 14, 7; ecc.); véne (IV, 5, 2); sète (IV, 62, 1; ecc.); lève (V, 14, 5); possede (V, 15, 7); pertene (VIII, 84, 2); mei (VI, 57, 5), ma anche rziei (VIII, 55, 7); boi (I, 10, 8; II, 27, 3; ecc.); dono (I, 24, 4; 38, 1; ecc.); core (IV, 19, 2; 58, 8; ecc.), che si alterna con cuore (IV, 29, 6; 31, 1; ecc.); coco (II, 7, 3; V, 69, 2; ecc.), ma anche cuoco (IV, 43, 3, in rima con loco e poco) e cuoghi (IV, 6, 5); coce (VI, 32, 3), ma anche cuoce (IV, 7, 1); dole (I, 59, 3) ma anche duole (IV, 1, 8; III, 70, 1, dov'è in

rima con vòle e prole); figliol (VII, 55, 6), ma anche figliuol (VII, 44, 1) e figliolo (VIII, 87, 3); foco (I, 21, 4; 54, 3; ecc.) e fogo (IV, 16, 2); logo (II, 9, 2; V, 45, 6; ecc.) e loco (I, 12, 2; 45, 3; ecc.), lochi (III, 35, 4) e loghi (VIII, 93, 5; V, 75, 6), ma anche /uogo (IV, 6, 7) e luoghi (I, 16, 4; IV, 13, 8); r20re (IV, 17, 8; 36, 8); rzdve (I, 50, 3; V, 64, 8; ecc.), ma anche muove (IV, 1, 2) e muovel (I, 54, 1); nòce (VI, 32, 5); novo (I, 46, 1; 57, 2; ecc.); pò (II, 7, 7; 11, 3) e pote (IV, 50, 1), ma più spesso puote (IV, 38, 5; 57, 2; ecc.) e anche può (V, 41, 7); fora (I, 13, 8;

ecc.); prova (IV, 47, 8); soi (I, 10, 7; 25, 2; ecc.); toî (VI, 57, 4), ma tuo (VII, 50, 5); lenzolo

(V, 44, 4; 49, 1); scote (V, 67, 1; VII, 53, 3); orzini (VI, 20, 8), ma anche uorzini (VI, 31, 4),

uomeni (V, 75, 3) e uomo (VII, 42, 7; VIII, 24, 2); ova (VII, 18, 1; 25, 8), ma anche uova (VII, 16, 3) e uovo (VII, 21, 8); scola (IV, 21, 6; VII, 27, 4); sòro (III, 14, 3; 23, 7; ecc) e sora (I,

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E LA TOSCANIZZAZIONE

LETTERARIA

lingua poetica. Nei succedanei di -arîus si incontrano -aro, -ario, -ero e -iero

(-iere), mentre è raro il toscano -gio ?}. Tra i monosillabi proclitici sono frequenti de per la preposizione semplice, e di con l’articolo (di la, di le, dil, ecc). Né mancano wi (per esempio, wi l’ebbe, VII, 45, 6; di mi, I, 13, 8), ti (ti ’l comando, V, 33, 2) e si (si la reca, V, 53, 6). Per le enclitiche: Eccomze (IV, 57, 5), nudrirme (IV, 61, 5), ecc.

In protonia si osservano tutte le più spiccate caratteristiche settentrionali. Evidente è l'opposizione al fenomeno tipicamente fiorentino della chiusura di e in i, che consente l’accoglimento di esiti dialettali 24, e insieme l’opposta tendenza al passaggio da e a î o alla conservazione della i latina ?. Analogamente assistiamo alla chiusura di o in v e al mantenimento dell’ latino, là dove

il toscano presenta o, e viceversa all'esito o in casi in cui il toscano s’arresta o chiude in u?. Permane ancora abbastanza robusta, specialmente 47, 1; IV, 1, 7); sòle (I, 59, 1; 63, 4; ecc.); stolo (III, 23,.5; IV, 3, 3); rote (II, 27, 2); vole (I, 63, 2; II, 13, 1; ecc.); voi (IV, 23, 1); ecc. Oltre a quelle già indicate, rare sono le forme dittongate; non manca qualche dittongo aberrante (ma allora ben diffuso), come puoco (III, 32, 5; ma di solito poco, III, 62, 6; 50, 7). 23 Cfr., per esempio, usuraro e usurari (V, 75, 8; IV, 13, 5), paro (III, 25, 7; VIII, 9, 3), notari (VI, 4, 8), secretaro (V, 38, 8; VIII, 9, 5; ma anche secretario: IV, 36, 5), genaro (VIII, 4,

4), vicaro (VIII, 4, 2), scapularo (VIII, 9, 1) e scapolaro (VIII, 18, 6), dinaro (V, 75, 7) e dinari (VIII, 17, 3), coquinaro (VIII, 71, 6); cavallero (VIII, 22, 7), camzarera (III, 68, 1; IV, 29, 7), guerrero (III, 10, 6), scudero (IV, 11, 4; 64, 5; V, 28, 1; ecc.), staffero (V, 63, 7), sentero (VII, 38, 4), carnero (VIII, 20, 4; 47, 4; ecc.); centenaio (II, 2, 3), denato (VIII, 5, 8). Nel complesso, però, prevale l’esito -iere, -iero: cavalliero; pensier (IV, 10, 7; 19, 3); doppiero (IV, 11, 6); arcieri (IV, 32, 5); camarier (V, 6, 7); sentiero (I, 53, 1; IV, 5, 3; V, 65, 1; ecc.).

24 Cfr., per esempio, destruggi (VII, 40, 8), destrugge (VI, 24, 5) e destrutto (V, 12, 5); devora (VIII, 58, 8); depinti (VIII, 63, 4); fennocchio (VIII, 48, 6) e fenocchi (III, 56, 5); laberinto (VII, 45, 4); recettacoli (VIII, 30, 5); revela (VIII, 36, 6); repari (VIII, 55, 8); retornaranno (VIII, 54, 6); ubedisce (IV, 11, 3; V, 34, 6), ubedito (VII, 66, 2) e ubedirlo (V, 38, 6); securo (II, 49, 3); remedio (IV, 48, 2); recette (V, 56, 8); pedocchio (V, 62, 3); menestra (VII, 34, 2); mzeschiati (II, 30, 1); vertà (V, 75, 7); Renaldo (VI, 27, 8); devin (VIII, 24, 3); encontra (V, 53, 5); ecc.

2 Cfr., per esempio: ligero o liggero (I, 11, 5; 20, 8; ecc.), che si alterna con leggero (III, 68, 3; V, 65, 5; ecc.) e leggermente (V, 42, 1; VII, 58, 6); dignamente (V, 61, 5); impietade (VIII, 31, 1); r2issere (I, 3, 5; IV, 51, 3), ma anche rzesser (VIII, 41, 8); dinaro (V, 75, 7; 80, 4; ecc.), ma anche denari (V, 78, 5; 81, 8; ecc.); rzistieri (II, 62, 4; IV, 38, 3; ecc.), rzistiero (VI, 41, 2; VII, 56, 2) e rzistero (IV, 8, 6; VIII, 65, 4); fidel (I, 28, 8; V, 11, 1; ecc.); vindicare (I, 38, 8); capillate (V, 8, 5); fissure (V, 40, 7); nigromante (VI, 16, 1; 17, 4), ma negromante (VI, 30, 1); piscator (V, 65, 4); gitteran (VI, 25, 8); vindemia (VI, 43, 2); ligiadra (VII, 20, 3); pigiore (VII, 25, 3); diffinir (VII, 63, 8); tribiano (VIII, 50, 8); ecc.

26 Cfr., per esempio: crucifisso (VIII, 49, 1); truncar (I, 18, 8) e truncone (III, 71, DI ma troncone nella glossa corrispondente e ancora in V, 32, 6, e troncando in V, 27,7 (e in sede tonica tronca: VI, 33, 2); argumento (VIII, 84, 6; I, 2, 6); suspira (I, 29, 8) e suspirando (VII, 51, 1), ma anche sospiro (I, 59, 4; VIII, 42, 1) e sospira (V, 13, 7); calcular (V, 60, 3); luntano (I, 52, 7; II, 4, 2; ecc.) e a/luntanandol (III, 50, 6); sullevarmi (III, 44, 2), ma solleva (V, 41, 4); stimulato (V, 68, 3) e stimula (IV, 37, 2; VIII, 50, 5); pullastro (II, 34, 2); supporta (V, 3, 6) e supporti (VII, 41, 3), ma anche sopporta (VII, 29, 6); urtica (V, 70, 2); soggiugar (VI, 52, 8); sturione (VIII, 13, 2; 56, 4); ecc.

27 Cfr., per esempio: nodrire (I, 50, 4), ma nudrir (VIII, 14, 5), nutrendo (VII, 17, 6),

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E LA TOSCANIZZAZIONE

LETTERARIA

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nel futuro e nel condizionale della prima coniugazione, la tendenza a conservare

«ar- e a passare da -er- ad -ar-?8 propria di tutti i dialetti italiani, all’infuori

del fiorentino che si comporta nella maniera opposta. In questi, e in altri fenomeni che qui per brevità si trascurano, spesso è difficile dire se si tratti di coloriture o grafie latineggianti oppure di spinte

dialettali. Queste invéce si manifestano chiaramente nell’assibilazione, frequente sia in sede iniziale ?? sia in sede intervocalica ? sia in sede postconsonantica ?!, e nella sonorizzazione delle occlusive intersonantiche ben oltre i

limiti in cui avviene nei dialetti toscani e in cui è presente nella lingua lettera-

ria: sono questi fra i fenomeni che più contribuiscono a conferire all’Orlandino un colore dialettale.

nudrirme (IV, 61, 5), nudriva (VII, 20, 1) e nutrice (IV, 32, 1); soperbo (III, 41, 1; VIII, 29, 5); soperna (III, 55, 4); cocina (III, 82, 2); losinga (II, 66, 5), losinghette (VI, 44, 5) e losinghevole (IV, 26, 4); rzolino (I, 39, 8); odendo (V, 20, 1; VI, 20, 3); occisione (VI, 20, 7; 21, 6; ecc.), ma uccisi (VI, 23, 8); robbar (IV, 73, 8), ma rubbar (V, 58, 5); roffiano (VI, 44, 8); poledro (VII, 20, 6); onguento (VIII, 21, 4); ecc. 28 Vedi, per esempio: ostaria (V, 36, 4), beccaria; (V, 36, 6); libbraria (VIII, 10, 7); e cfr. piffaro (IV, 4, 1), ma piferi (IV, 26, 1; ecc.); sguattari e sguataro (I, 4, 6; II, 7, 3; ecc.). Ma è

sopra tutto nel futuro e nel condizionale dei verbi che -4r- è predominante. 29 Cfr. per esempio:

zarce “ciance” (I, 3, 7), zazze

(VIII, 40, 5) e sarze (VII, 59, 3);

zocchi “ciocchi” (II, 68, 7); zarde (II, 24, 2); zelosia (III, 49, 5; IV, 47, 2); Zan Maria (IV, 27, 2); zelosa (IV, 46, 7); zanetto (II, 20, 1); ecc.

30 Cfr., per esempio: brazzo (I, 23, 5; VII, 53, 6), ma braccia (VII, 61, 3) e braccial (III, 75, 6); abbrazza (VII, 49, 6) ma abbraccia (I, 54, 7; II, 36, 3; ecc.); Rizzardetto (I, 34, 1); pelizza (II, 12, 6); cannuzze (VIII, 30, 3); cazzando (II, 29, 7), cazza (V, 23, 3; VII, 28, 7), ma anche caccia (I, 57, 8; IV, 35, 8; ecc.); frezza (IV, 19, 5; 31, 6); fezza (IV, 22, 3; VIII, 25, 8); minazza (V, 23, 5; VII, 49, 2), ma anche r7zinaccia (V, 32, 5; VII, 65, 2); azzato (V, 53, 8; 67, 1), azal (I, 59, 6) e azzale (VII, 9, 7); Gian Boccazzo (IV, 69, 8); strazze (VII, 37, 7); mostazzo (VII, 38, 8); /azzo (VIII, 17, 2; 55, 3), ma laccio (II, 66, 3; V, 14, 7; ecc.); capuzzo (VIII, 31, 7) e capuzzati (VI, 58, 6); luzzo (VIII, 31, 8); gozze (VIII, 39, 4; 66, 6); salcizze (VIII, 47, 1); impazzo (VIII, 60, 5), ma impaccio (VIII, 52, 8; V, 4, 3; ecc.) e impaccian (VI, 53, 8), ecc.; cusito (II, 26, 4); Tesin (II, 3, 6); luserta (II, 35, 2); reasina (II, 10, 8) e masino (VI, 58, 2), ma

macina (IV, 7, 5); baso (V, 2, 1), ma più frequentemente bascio (V, 5, 7), basciar (VI, 11, 3) e bascialo (VII, 13, 1); Suso (VIII, 5, 4), ecc.; lodesane (IV, 28, 1); malvasa (V, 69, 8); fasani (IV,

7, 2); ecc. Le forme con -cc- e -c- sono frequenti, ma per lo più si tratta di meri fatti grafici: cfr. piaccia (I, 51, 5; 52, 2; ecc.) accanto a piazza (II, 45, 7; III, 51, 7; ecc.); solaccio (V, 4, 1; VIII, 52, 7); dricciar (II, 51, 3; V, 75, 4); palaccio (III, 71, 2) accanto a palazzo (II, 50, 1; V, 8, 4; ecc.); aguccia (VI, 11, 4); Cicilia (V, 15, 7); vicio III, 21, 4); officio (VII, 47, 3); ospicio (IV,

23, 8); beneficio (III, 21, 6); giudicio III, 21, 2). 31 Cfr., per esempio: Franza (I, 40, 2; 44, 8; ecc.); lanza (II, 2, 4; 13, 2; ecc.); franzesi (III, 23, 1); panza (I, 37, 8; II, 19, 3; ecc.); arzone (I, 59, 1; III, 36, 6; ecc.); calzi (II, 25, 6; II, 37, 6); nonzio (III, 52, 5) e nunzio (III, 51, 5); lanzate (III, 77, 2); torze (VII, 43, 3; INFUSI ecc.); Pulzi (I, 20, 3); commerzio (I, 38, 5); guanza (VII, 5, 2); ecc. Ma forciero (V, 3, 5); torcendosi (VII, 6, 2); dongello (II, 45, 6; IV, 41, 1; ecc.), dongelle (III, 67, 5; IV, 12, 6; ecc.),

dongelletta (VII, 5, 5), dongelletto (VIII, 19, 1); gargione (II, 2, 1); ecc. 32 Cfr., per esempio: grego (I, 2, 1; VIII, 46, 6) e greghe (I, 17, 4), ma greco (VIII, 39, 6); nemighe (I, 21, 6); logo (II, 9, 2; V, 41, 1; ecc.), luogo (IV, 6, 6), loghi (VIII, 93, 5; V, 75,

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4. Nell’ Orlandino, dunque, il Folengo con la sua grande capacità mimetica riprende i temi, gli stilemi e la lingua stessa dei cantari, rifiutanto di sottoporsi a uno schizzinoso processo di toscanizzazione. E ne avverte subito il lettore con un’efficace apostrofe “dantesca”, affinché gli si accostino soltanto coloro che sono immuni dalla tabe letteraria e disposti ad accettare un Parnaso popolaresco, dove il «bon grego» ispira «versi [...] di vinti piedi» e dove «mangion e bevon anco le Camene»: Ma tu, lettor, chi sei? férmati al varco,

anti che ’1 mio battell’entrar comince: tràtti in disparte, se d’invidia carco guardi in cagnesco ed hai vista di lince; tal mercantia, t'aviso, non imbarco,

perché talor la colera mi vince e la senapra montami sì al naso ch'io non sto dir: — Va’ drieto, Satanaso + ;

anzi col pugno ti rispondo a l’occhio, di ciò che parli in questa e quella orecchia. Poltron che sei, non vedi ch’al ginocchio rott'ho la calza e la gonnella vecchia? Non odi tu mia voce d’un ranocchio quando montar la rana s’apparecchia? Però, s'io canto male, sia scusato, ché ’1 lupo si pentì cantar famato. Ma 7’ spirito gentile, qual si sia, che mosse amore dirmi l’error mio,

ringrazio molto; ch’altra cortesia non trovo a questa egual, in fé di Dio. Pur saper de’ ch'io son di Lombardia e ch’in mangiar le rape ho del restio; non però, se non nacqui tosco, i’ piango;

ché anco lo ciatto gode del suo fango. Però Dante, Francesco e Gian Boccaccio

portato han seco tanto che sua prole uscir non sa di suo propio linguaccio;

ché quando alcuno d’elli cantar vole, non odi se non buio, areca e caccio, né mai dal suo Burchiello si distole;

e pur lor pare che ’l tempo si perda da noi, se nostre rime fusser merda. Se merda son le nostre, a dirlo netto, 6), ma anche /oco (I, 12, 2; 45, 3; ecc.) e /ochi (III, 35, 4); imzbriaghi (II, 56, 3); braga (II, 68, 1); mastigando (III, 32, 8); cuoghi (IV, 6, 5), ma coco (II, 7, 3); fogo (IV, 16, 2), ma anche foco (I, 12, 4; 21, 4; ecc.); pegoraro (VI, 49, 6; VII, 13, 7; ecc.); lagrimando (VI, 30, 1; 40, 3; ecc.) e lagrimar (V, 42, 8);bruggiasi (V, 69, 4); nodrire (I, 50, 4) e nudrirme (IV, 61, 5); voda (II, 69, 8; VI, 16, 3); fritada (II, 63, 2); spudasenno (II, 71, 1); adri (V, 75, 6; VI, 48, 4; ecc.); mercadante (VI, 10, 1; 36, 7). E in sede iniziale gardelino (I, 39, 7); gambello (III, 4, 6). Le sorde sono relativamente poco numerose: /attuca (VII, 25, 4) e lattuche (VIII, 10, 6); brotaglie (VIII, 25, 2); speto (IV, 7, 2; VIII, 44, 6; ecc.); patella (V, 67, 8); spata (I, 40, 8; II, 28, 8; ecc.), ma anche spada (III, 10, 7; 14, 1); scuto (II, 7, 5; 13, 2; ecc.); catene (IV, 5, 6); fatica (IV, P3:3); contato (V, 16, 8); ecc.

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n’anche le sue mi sanno succo d’ape;

dati perdon al mio parlar scoretto, ch’in chiaro lume nebbia mai non cape; e questo voglio ch’a color sia detto che chiaman lombarduzzo mangiarape; serbo l’onor de l’inciclite persone, ad altri grido «tosco chiachiarone». (I, 5-9)

«Lo ciatto gode del suo fango», o come dirà nel quarto capitolo (73, 6-8) la rana «non viver sa for del pantano, / come senza robbar n’anche ’1 villano»: è una maniera popolaresca di rivendicare la legittimità di ogni materia e di ogni ispirazione. Difendendo sé come lombardo («Tu mi dirai, lettor, ch'io son lombardo / e più sboccato assai d’un bergamasco, / grosso nel proferir, nel scriver tardo», IV, 69, 1-3), Limerno intende difendere insieme la lingua e il

contenuto dell’Orlandino. Le scuse di tipo aretiniano # appartengono a una finzione che non deve essere presa troppo sul serio. Le irregolarità stilistiche e linguistiche di quest'opera, infatti, non vanno addebitate (se non in piccola parte) a imperizia del lombardo Folengo, incapace di impadronirsi del toscano, ma al desiderio di “rifare” la lingua dei cantari, come mostra — se ce n’è bisogno — il confronto con il coevo Caos. Nel suo camaleontico trasmutarsi, Limerno indossa ora decorosissimi panni e toscaneggia con schifiltosa affettazione: come gli rinfaccia Merlino, è diventato «delicato e schivoso», «schivo e ritroso» 34. Lo si vede anche semplicemente da questa “numerosa” apologia del toscano, in cui l’ironia dell'autore — se non erro — è implicita nello stesso fatto mimetico: Sopra tutte le altre quella reputo degna, laudo, magnifico, e contra li detrattori di essa virilmente lei deffendo; ché, quando talora per sotto queste ombre mi trovo le belle rime del mio Francesco Petrarca aver in mano, overo quella fontana eloquentissima del Boccaccio, uscisco, leggendo, fora di me stesso, devengone un sasso, un legno, un

fantasma, per soverchia meraviglia di cotanta dottrina. Qual più elegante verso, limato, pieno e sonoro di quello del Petrarca si può leggere? Qual prosa orazione si può eguagliare di dottrina, di arte, di arguzia, di proprietade a quella del facondissimo Boccaccio? Dil che io reputo gli uomini literati, li quali nulla delettazione di questa lingua si pigliano, essere non pur di lei, ma di cortesia, gentilezza ed umanitade privi 9°.

Non è per questo toscano che si può lasciare il latino. Limerno e Merlino sono concordi nell’esortare i lombardi a scrivere nella «paterna [...] lingua latina»

33 Cfr. anche IV, 69, 5-70, 4: « ...se l’antiguardo / e retroguardo mio, ch'è ’1 sacco e fiasco, / non fusse la fortezza di Durazzo, / forse sarei Petrarca e Gian Boccazzo. / To qui non cerco fama, e men la fame; / quella mi fugge, e questa mi vien dietro, / anzi m’entra nel ventre e fa letame / duro così ch'io canto un strano metro».

34 T. FOLENGO, Opere, ed cit., p. 861.

35 Ivi, p. 862.

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piuttosto che nella «pelegrina [...] toscana» ?°. E non v'è dubbio che il Folengo — pur nella Venezia che vedeva il trionfo del volgare — nutriva ancora qualche dubbio sulle qualità del toscano, anche se, naturalmente, riteneva che la lingua peregrina poteva venir usata, purché non accampasse la pretesa di essere l’unica lingua letteraria. La sua polemica, insomma, si rivolgeva contro la presunzione e l’affettazione di boccaccisti e petrarchisti, non contro il toscano che apparteneva alla sua esperienza di uomo plurilingue e come tale poteva essere accettato, come già avevano fatto il Boiardo, l’Ariosto, il Tebaldeo, il Capilupi, il Molza e «altri molti valentuomini». La sua simpatia andava agli scrittori più aperti al gusto popolaresco e all'incontro di tradizioni linguistiche: al Pulci, alla tradizione nenciale, allo stesso Burchiello, criticato (come gli altri più grandi) non in sé ma per l’arco limitato di possibilità che offriva agli imitatori. Erano opere e autori che la rarefatta letteratura bembesca aveva disdegnosamente rifiutato e che invece erano congeniali a chi, come lui, non accettava i canoni formalistici e la dissociazione dell’arte dalla realtà. Ma il sommo maestro non poteva essere che Dante, quel Dante che il Bembo aveva criticato con qualche asprezza proprio per la volontà di accogliere di tutto nella sua Commedia. Giusto e naturale, dunque, che il Folengo lo indichi come maestro e lo difenda dalla schizzinosità dei petrarchisti, ma sorprendente è la lucidità e l’acutezza critica che l’inducono a fondarsi su quello che, prima delle Prose della volgar lingua, è il più importante documento sul parallelo fra Dante e Petrarca: la lettera di Giovanni Pico della Mirandola a Lorenzo il Magnifi-

CO: ciò dico, perché officio è del poeta giovar e dilettar con tal mainera di stile che ’1 lettore non si attedia; e ciò fa Dante ne la sua Comedia. Quel Dante, sai?, lo qual Orzer toscano

appellar deggio sempre, come ancora Virgilio è detto Omero mantovano, per cui la patria mia tanto s’onora; e chi ’l Petrarca fa di lui soprano, ne l’arte matematica lavora,

ché Dante vola più alto, e questo dico col testimonio di Giovanni Pico. Lo qual disse ch’ambi hanno l’onore, questo di senso e quello di parole: vero è che quant’al frutto cede il fiore, quanto del sol il lume ad esso sole, cotanto d’ogni stile il bel candore concede a quella vasta e orrenda mole d’un alto ingegno, d’un concetto tale

36 Ivi, p. 869. 37 Non è inutile ricordare, come conferma della curiosa attenzione con cui il Folengo seguiva le vicende della cultura fiorentina, la citazione nell’Apologia de l'auttore (ed. cit., p.

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ch’oltra l'ottavo cerchio spiega l’ale. Tal dico ancor, ch’un Chirie di Iosquino,

sì come assai più val di tante e tanti canzone e madricai di Tamburino (o merdagalli gli appellàr alquanti), così parmi che Dante alto e divino si laseia”po’ le spalle gli altrui canti, ché quanto più de l’opre val la fede, a Beatrice tanto Laura cede. Lettor, sta’ queto e tien lode di Dante non biasman credil a me, se Scotto e san ebber l’onor dinnanzi, or un

più corto il naso,

Francesco: Tomaso Tedesco,

o sia di Franza, Erasmo, aperse il vaso,

lo qual de’ frati il stile barbaresco avea rinchiuso sì che nullo odore più si sentia d’alcun primo dottore (III, 16-19).

In questa digressione il Folengo, se non erro, ha voluto indicare i caratteri essenziali della sua poetica “toscana”, condannando le astrattezze di chi preferiva il Petrarca e ricordando che il «senso» val più delle parole, che «d’ogni stile il bel candore» cede alla «vasta e orrenda mole» del poema dantesco. È un atteggiamento ancora poco studiato, ma più diffuso di quanto non si creda nel primo Cinquecento; un atteggiamento che troverà poi un coerente sviluppo nel pensiero dello Speroni, il quale dirà di averlo appreso dal Pomponazzi. 5. Sui rapporti fra il Folengo e il filosofo mantovano si è molto discusso e il Billanovich ’, spiegando la leggenda che Merlin Cocai volle creare per sé stesso, scriveva: «Poteva scegliere qualunque università, poiché in nessuna era stato: scelse la più famosa, la tradizionale Bologna. E maestro suo chi doveva essere? Per il poema di Cipada occorreva un mantovano da affiancare a Sordello e a Virgilio: Pomponazzi, già nominato in un’egloga della Toscolana, sarà il maestro grande, e di sangue davvero cipadense, cioè mantovano». Le ragioni della mantuanitas possono andar bene, ma forse quella del Peretto era una mantuanitas anche più sostanziale di quanto non sembrasse al Billanovich. «Di sangue davvero cipadense» egli era anche per quel latino intriso di dialetto e di toscano che usava: una lingua in cui il Folengo poteva trovare un conforto alla sua intuizione maccheronica. Ma non minor conforto a un poeta che esercitò

una continua riflessione critica sulla propria opera doveva fornire la convinzione perettiana della parità fra le lingue, tutte egualmente capaci di servire alla comunicazione del pensiero. Non è il caso di citare qui l’Apologetica in sui

excusationem

della Toscolana,

792) del commento

perché già il Bonora?

ha fatto notare

le

di Giovanni Pico della Mirandola alla canzone De la donna celeste di

Girolamo Benivieni. 38 Tra don Teofilo Folengo e Merlin Cocaio, Napoli 1948, p. 185. 39 L'incontro di tradizioni linguistiche nel maccheronico folenghiano, in Retorica e invenzione, Milano 1970, p. 82.

152

T. FOLENGO

E LA TOSCANIZZAZIONE

LETTERARIA

«singolari concordanze con il pensiero del Pomponazzi quale lo riferisce lo Speroni nel Dialogo delle lingue, ben posteriore all'edizione Toscolana delle Maccheronee». Proprio per la data (1521) le considerazioni del Folengo sono molto importanti e meglio si spiegano se vengono riferite all'ambiente stesso da cui proviene il pensiero dello Speroni, che del resto in più d’un luogo manifesta idee simili a quelle di Merlin Cocai, anche se ormai, per la mutata situazione politica e culturale, il suo interesse si rivolge al pavano di Ruzzante, non più al maccheronico. Ma il Peretto, o se si vuole la scuola perettiana, poteva insegnare ancora di più al Folengo, o confermarne alcune intuizioni di fondo. Si pensi, per esempio, a quella memorabile lezione sulle Meteore, in cui il Peretto, dopo aver esposto (com’era suo dovere) il pensiero di Aristotele e di Averroè sull’inabitabilità degli antipodi, lascia di stucco gli scolari con questa digressione: Notetis quod ego habeo epistolam missam a quodam veneto [il Pigafetta, probabilmente] qui iverat in legationem ad Regem Hispaniae, et venit versus polum australem.

Oportuit ergo ut transiret torridam zonam. Dixitque ibi esse plus quam trecentum insulas; tamen scribit illas esse discontinuas, et quod ibi sunt infinita loca habitata.

Poiché quelle raccontate dall'amico non erano «balle», «standum est sensui et dimittenda ratio»; così che proseguiva, incrinando ogni sistema dogmatico: Lasso pensare a te, quomodo ille rationes, quas dixit Commentator esse demonstrationes, sunt demonstrationes. Quoniam contra veritatem non possunt fieri demonstratio-

nes. Quare, pensate bene come stiamo. Si nescimus de istis rebus quae sunt in terra et possunt videri a nobis, quomodo sciemus de celo?

E ai teologi che gli obiettavano: se gli abitanti degli antipodi sono figli di Adamo come noi, perché mai Cristo non ha pensato anche alla loro salvezza? Ad hoc respondeo dicendo quod hoc solvant fratres, quoniam ego credo ecclesiae sanctae.

E con ironia affermava che a lui non era concessa quella «copulatio intellectus» che, secondo gli averroisti, dovrebbe permettere al filosofo che l'abbia raggiunta di saper tutto: Dico tamen vobis quod opinio Commentatoris de copulatione intellectus, quod anima sit una et quod omnia sciantur, est summa dementia; quoniam si Aristoteles et Com-

mentator nesciverunt hoc quod tamen est in terra, minus potuerunt scire de rebus altis. Quare illa felicitas non potest haberi; quare nescio quid dicendum est, nisi forte quod

Christus fecit se crucifigere etiam in alio polo! ‘0.

40 Cito da B. NARDI, Studi su P. Pomponazzi, Firenze 1965, pp. 42-3, 215.

T. FOLENGO

E LA TOSCANIZZAZIONE

LETTERARIA

153

Un personaggio come questo non poteva non essere caro al Folengo, il quale — così almeno mi pare — lo scelse come proprio maestro “ideale” per indicare il proprio atteggiamento su molti dei problemi che allora appassionavano gli uomini di cultura, per esempio quello dei rapporti fra la ragione, da una parte, e l’esperienza, la fede,labellezza dall’altra. Spiegare i dogmi della rivelazione cristiana con i sillogismi di Aristotele era, secondo il Pomponazzi, un «fratizare idest miscere diversa brodia» 4; pertanto lodava Alberto Magno, che aveva sdegnato questo guazzabuglio e lo difendeva da «isti fratres truffaldini, dominichini, franceschini vel diabolini». Ed era, questa, l'opinione anche del Folengo che mostrò un’implacabile avversione alla scuola parigina, al tomismo e allo scotismo ‘, alle dispute scolastiche e ai vari utrumz, probo, nego, arguo, pro,

contra

che le costellavano,

ai predicatori che montano

Dio» e cacciano «per un ago il suo gambello»

«su le spalle a

(III, 4, 5-6), alla «grossa ed

incorretta retorica ed elocuzione de la maggior parte de’ nostri moderni teologi, ove quelli loro vocaboli causalitade, entitade, intuitiva ed abstractiva con l’altra

barbaria tengono corte bandita»

‘4.

Si è detto che l’Orlandino, scritto anche per deplorare il «fallir de’ chierici» (VIII, 3, 4) e la degenerazione della Chiesa, abbia avuto origine da “beghe” conventuali; ma o quelle “beghe” furono occasionate dalla discussione su essenziali problemi del Cristianesimo o il Folengo ha saputo superarle per pervenire alle ragioni di fondo delle parti contrapposte. Certo nell’ «istoria del beato Griffarosto» la polemica antifratesca è violenta. Ma per intenderne il vero significato occorre separare dagli elementi comici di una satira secolare — da cui il Folengo attinge a piene mani (fino a impadronirsi di un’intera novella), svolgendoli con la consueta violenza — i veri motivi che lo inducevano ad avversare il «fratizare idest miscere diversa brodia». Questi motivi mi pare che siano chiaramente espressi, per antifrasi, nelle parole con le quali l’indegno abate risponde a Rainero: Rispose alor l’abbate: — Alto signore, con sopportazion vi parlo schietto;

Ecclesia Dei non facit mai errore, non so s’in Tullio voi l’avete letto; ed Aristotel, ch'è commentatore oggi al Vangelo sol, dice in effetto quod merum laicus non det iudicare clericam preti et fratris scapulare. Ed una chiosa canta quod prelatum non est subiectus legi «Constantina», affirmans eo quod nullum peccatum accidit in persona et re divina. 4 Ivi, p. 27.

42Lo scotismo era fiorente nella Scuola patavina del Santo: cfr. il volume miscellaneo Problemi e figure della Scuola scotista del Santo, Padova 1966. 43 Cfr., per esempio, Ca0s, ed. cit., pp. 804-5; Orlandino, I, 2, 4-5; Baldus, I, 116; XXV, 560-77.

44 Caos, ed. cit., p. 804.

154

T. FOLENGO

E LA TOSCANIZZAZIONE

LETTERARIA

Et hoc deinceps fuit roboratum in capite «Ne agro» a «Clementina». Et princeps, qui de Ecclesia se impazzabit scomunicatus cito publicabit. Ed anco Thomas dice a la seconda distinzion, capitol Quo di sopra, quod unde Spirtus Sanctum si profonda, possibile non est che mal si scopra. Per me, Signor, non voglio che s’asconda lo viver mio in visu, verbo et opra, quando che ’1 Salvatore ci ammaestra, parlando a tutti, luceat lux vestra.

(VIII, 33-5)

Sono qui riassunti, se non m’inganno, i temi fondamentali della riflessione religiosa del Folengo. Innanzi tutto la derisione della pretesa di sottomettere il vangelo alla ragione e della convinzione fratesca che «con l’arte aristotelica / si debbia predicare l’evangelica» (VIII, 70, 8). Né va sottovalutata l’allusione a Cicerone, perché l’ingenuo tentativo di fondere romanità classica e cristiana, al tempo di Leone X e oltre, aveva condotto anche a simili commistioni, contro le quali protestava Erasmo. Altri temi essenziali, qui svolti con un’ironia nient’affatto ambigua, sono quelli della natura e perfezione della Chiesa (e dei suoi membri), e dei rapporti fra il potere religioso, i laici e lo stato. In questi spunti polemici non si sente certo odor di convento, se non nel senso che le parole di Griffarosto il Folengo poteva averle sentite da più di un confratello; si avverte invece la partecipazione a discussioni vivacissime che, prima del clima pesante della controriforma, impegnarono i laici non meno dei religiosi. La situazione era assai fluida, non ancora ordinata dalla netta e dura distinzione fra ortodossia e eresia. In due punti — si dirà — il Folengo stesso ha indicato la natura eretica delle opinioni di suoi personaggi: la preghiera di Berta (VI, 40-46) e il credo di Rainero (VIII, 73-82). Ma, mentre non mi par dubbia la serietà di entrambi i passi, penso che Limerno facesse il verso, ironicamente,

ai suoi confratelli pronti a bollare col marchio infamante dell’eresia ogni opinione che non si accordasse con la propria presunzione e il proprio tornaconto. Dice Rainero: Fretico non son, come in presenza

del popol mi chiamate in mia vergogna (VIII, 73, 1-2).

Quanto all’altro passo, così suona il commento: Cotal preghere carche d’eresia Berta facea, mercé ch’era tedesca, perché in quel tempo la teologia era fatta romana e fiandresca; ma dubito ch’alfin ne la Turchia si trovarà, vivendo a la moresca; perché di Cristo l’inconsutil vesta squarciata è sì che più non vi ne resta. (VI, 46)

T. FOLENGO

E LA

TOSCANIZZAZIONE

LETTERARIA

I55

Siamo al di qua di ogni frattura religiosa; la deplorazione si rivolge alle beghe teologiche, alle cavillazioni sofistiche, che dividono la Chiesa che Cristo ha

voluto una .

Sono temi, allora assai diffusi, che si ritroveranno ancora, al tempo del Concilio di Trento, inuno scrittore come il Gelli formatosi nelle dicussioni

degli anni venti. E cito il Gelli non solo perché i Capricci sono noti a tutti, ma anche perché penso che certi atteggiamenti folenghiani debbano non poco alla cultura fiorentina. Ma questo potrà, se mai, essere l’argomento di un’altra ricerca.Qui basti ribadire che sotto l’apparenza giocosa c’è nel Folengo una risentita moralità e il senso delle profonde lacerazioni della cultura contemporanea. A lui non conveniva il quieto universo bembiano o ciceroniano; la stessa presenza di valori contrastanti spezzava ai suoi occhi l'enciclopedia umanistica. Non armonia, ma opposizioni, scorgeva nelle cose; né la troppo decantata regolarità classicistica poteva redimere i contrasti del reale. Se mai l’attenzione ai multiformi aspetti della realtà poteva consentire una presa di coscienza e un superamento della crisi. L’Umanesimo — questo vorrebbe essere il succo del discorso — aveva varie possibilità di sviluppo, non solo quella ciceroniana, splendida, matura, ma tale da imbrigliare rigidamente la fantasia del poeta e la sua possibilità di aderire alla realtà; fra l’altre, effimera com'era la situazione da cui nasceva, ma non meno significativa, quella folenghiana: non anticlassica, non eterodossa, non antitoscana, ma espressione di un momento

in cui molte

carte erano ancora da giocare e il latino era posseduto con tanta spontaneità da poter assumere in sé tutte le altre componenti linguistiche. Ma mentre Teofilo correggeva il Ba/dus, anzi già quando con l’Orlandino e con il Caos usciva allo scoperto come

poeta “toscano”, il ciceronianismo e, non meno,

il classicismo

volgare, avevano definitivamente divaricato latino e volgare. Eccezionalmente tardo — ma la scuola è fortemente conservatrice anche come fonte di ispirazione — sarà un capolavoro come i Cantici di Fidenzio Glottocrisio Ludimagistro.

Chiesa, 1526. Il 45 Ma su questi e altri problemi si veda l’approfondita indagine di M. 1988. a Alessandri piazza, la e cella Folengo e le sue «scorte», in T. Folengo tra la

GIAN GIORGIO

TRISSINO E LA LETTERATURA

ITALIANA

Il Trissino spesso provoca nei lettori dei sentimenti di irritazione e di fastidio: irritazione perché, anche se ci si sforza di spiegare e di capire, si ha l'impressione che qualcosa tuttavia ci sfugga o sia assai difficile da cogliere; fastidio per l’astrattezza e il formalismo del discorso, l’apoditticità delle affermazioni, l'assenza di spirito dialettico, per non dire dell’assoluta indifferenza per gli “altri”, come se oscure ragioni avessero predestinato proprio lui a essere il legislatore della lingua e della letteratura italiane. Dialoghi che sono tali solo in apparenza ce ne sono tanti nel Cinquecento. Basta pensare al Cesaro; ma, se non dialogano, gli interlocutori del Tolomei espongono oratoriamente delle opinioni: persino Gabriello Cesano parla in favore e contro, cercando di comprendere le ragioni degli avversari. Che dire invece del Castellano, in cui Filippo Strozzi recita le parole della Risposta di Ludovico Martelli con tanto di «lunette» nel margine? «Forzando i termini — scrive Alberto Castelvecchi — si potrebbe sostenere che I/ Castellano del dialogo vuol essere addirittura la negazione. Innanzitutto perché, a parte pochi cenni di “rappresentazione” (come avrebbe detto il Trissino di Sophorisba), non si preoccupa minimamente di farci intendere che i due personaggi principali, Giovanni Rucellai e Filippo Strozzi, stiano realmente avendo uno scambio di idee [...]. Anche il Dante che parla nel Castellano non è un Dante “teatralizzato”, come quello del Diz/ogo machiavelliano: è un libro che, più che venir letto, quasi legge sé stesso in prima persona» ®. Che dire della maniera in cui vengono introdotte le nuove lettere? La seconda foggia dell’alfabeto compare un po’ per volta nelle opere pubblicate nel 1529, senza che alcuna indicazione orientativa venga fornita ai lettori, con l'atteggiamento di chi crede di poter fare e disfare liberamente, come se la lingua fosse solo affar suo. E questo mentre il Firenzuola e altri s’interrogano, e s’interrogheranno in seguito, sul non secondario problema di chi possieda veramente autorità sulla lingua: il popolo, gli scrittori, il principe? Nel Castellano il Rucellai sembra procedere in modo sistematico, come se volesse dare una risposta scientifica alla questione della lingua. Ma è solo un’impressione. Non reggono nemmeno i concetti cardine dell’opera. Tentiamo, scrive il Castelvecchi, di stringere il concetto di lingua italiana in una definizione univoca: «Non vi riusciremo: il punto di arrivo del ragionamento non si raggiunge in linea retta, ma attraverso un ragionamento circolare, che attiva diversi schemi, diverse immagini al fine di dimostrare il concetto, diciamo il “punto”, centrale, quello dell’italianità della lingua, avvicinandovisi da più punti di partenza disposti circolarmente intorno ad esso. Troveremo, quindi, una serie di spezzoni argomentativi, di schemi classificatori, che però non si risolve a parer nostro in

1G. G. Trissino, Scritti linguistici, a cura di A. Castelvecchi, Roma 1986, p. XXXIX.

G. G.

TRISSINO

157

una linea di discussione e di dimostrazione unitaria» 2. E si potrebbe continuare a lungo indicando ambiguità, contraddizioni, aporie del Trissino, i cui scritti tuttavia, malgrado le critiche fondate di tanti intellettuali più competenti di lui, non caddero nell’oblio. Se degli omicron e omega rimaneva solo il ricordo di lontane risate, sul Castellaro letto ormai senza l’impaccio delle nuove lettere si continuò a/discutere quando opere linguisticamente meglio fondate erano state dimenticate quasi del tutto: ancora il Manzoni sentì il bisogno di confutarne le tesi. La vitalità delle proposte trissiniane, malgrado la debolezza di ciascuna di esse, probabilmente dipende dal fatto che esse nel loro insieme sono coerenti e che le molte affermazioni apodittiche o ambigue sono sopra tutto delle audaci semplificazioni, quelle semplificazioni che — si sa — giovano moltissimo nei manifesti letterari. La Sopbonisba e l’Italia liberata da’ Gotti, i Simillimi e gli scritti linguistici sono aspetti diversi di un solo progetto culturale, discutibile fin che si vuole, ma non trascurabile. E se di progetto culturale si tratta, occorre anche tener conto della confusione cinquecentesca — che avviene in tutti, dal Bembo al Giraldi — fra critica e creazione, e non insistere troppo sulla scarsa qualità poetica delle sue opere, per cercare invece di capire quale nozione di letteratura il Trissino proponesse

ai contemporanei nel momento

cruciale in cui l’umanesimo latino lasciava spazio a una produzione in volgare i cui caratteri erano ancora tutti da definire. Osserva giustamente il Castelvecchi che nella dedica della Sophonisba il programma linguistico rimanda «ad una dimensione, quale è quella del parlatoscritto teatrale, del tutto consona a promuovere, in una colle riflessioni sulla pronunzia, una considerazione sul volgare non solo in quanto lingua scritta (del tutto svincolata dal circuito della comunicazione orale), ma su di una lingua in

grado di “rappresentare in Italia” un dramma teatrale, in forme poetiche nuove, che si proponevano di modificare le strutture della composizione e della ricezione, rifondando il canone della irzitatio su basi greche, aristoteliche» ?. Si può addirittura pensare che la riforma ortografica all’inizio sia stata pensata sopra tutto in funzione della Sopbonisba, che cioè fosse volta a ottenere una recitazione “italiana”: «manifesta cosa è che, avendosi a rappresentare in Italia — scrive il Trissino nella dedica della tragedia a Leone X — , non potrebbe essere intesa da tutto il popolo s’ella fosse in altra lingua che italiana composta» 4. Se così fosse, si avrebbe una riprova delle semplificazioni e del pressapochismo del Trissino: ci voleva ben altro che quelle poche innovazioni grafiche per indicare anche solo approssimativamente la pronuncia. Ma anche su questa semplificazione non giova insistere, perché il problema grafico-fonetico non sembra poi molto importante per il Trissino, che infatti non lo discute nel Castellano, per dedicargli uno scritto eminentemente tecnico come i Dubbii

ius XLI 3 Ivi, p. XVI. 4Cito dall'edizione del luglio 1524 (Roma, Lodovico Arrighi vicentino). Per ragioni tipografiche, qui come in tutto il volume, non conservo le “lettere nuovamente aggiunte”. O

DI

»”

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G. G. TRISSINO

grammaticali. Per lui, del resto, la lingua consiste di parole («tutti quelli che dimostrano i medesimi sensi con le medesime parole, si dicono essere di una lingua»); ma, «essendo poche nazioni e pochi paesi che nei loro medesimi sensi usino tutte le medesime parole, conciò sia che ne le istesse città si veggia alcuna volta essere qualche differenzia nel parlare», ammette un amplissimo margine di oscillazione: «quelli paesi che non hanno ne le loro parole tanta e così notabile differenzia, che non si intendano fra loro, si chiamano di una lin-

gua» 7. Si può dunque sostenere che fin dall'inizio la riforma ortografica e le tesi linguistiche erano solo un aspetto del progetto letterario a cui il Trissino mirava. «Il traguardo culturale più complessivo — sono ancora parole del Castelvecchi — era quello di una nuova Ellade: era però un’Ellade da realizzarsi in forme italiane, e con cui si dava un rapporto non puramente ripetitivo di forme e concetti, ma analogico; anche l’Italia, dunque, rivolgendosi alla tradizione greca, doveva avere una sua tragedia, ma in endecasillabi e settenari, con i cori strutturati nelle forme metriche della Canzone; e doveva avere una sua lingua, tanto letteraria da esprimere una cultura alta e tanto viva da richiedere una

notazione fonetica più trasparente di quella in uso nella tradizione grafica latina e toscana» $. È un

progetto

ambizioso,

attuato

in modo

autoritario,

che

pretende quasi di rifondare ex nibilo la nostra letteratura. Opponendosi radicalmente al classicismo volgare propugnato dal Bembo, questo progetto infatti non tien conto della nostra tradizione ma pretende di determinarne un’altra e diversa, trasferendo nella lingua “italiana” forme di una letteratura antica, e per di più di una letteratura lontana come quella greca, non di quella latina di cui gli italiani si consideravano i legittimi eredi. Progetto perdente? Se si bada al coro di elogi per il Bembo e alle irrisioni del Trissino, si direbbe di sì. Se si bada ai fatti, c'è da dubitarne. Pochi sono infatti quelli che accolgono il programma bembiano nei suoi elementi essenziali, un programma che, se realizzato, avreb:

be chiuso la letteratura volgare entro termini davvero asfittici. Come modelli alle Rie sparse e al Decameron si poteva aggiungere (lo farà il Giraldi) l’Or/ando furioso, che pure affonda le radici nella nostra tradizione (anche se in un terreno inquinato da liquami popolareschi). E poi? Tragedia, commedia, poema epico — i tre generi di cui il Trissino volle essere maestro — non esistevano nella tradizione italiana, a meno di non riallacciarsi a forme medievali allora inaccetta-

bili. E gli italiani non volevano farne a meno. Certo, non tutti andarono a caccia nell’Ellade; molti cercarono ispirazione e modelli nella vicina Roma. Sta di fatto, comunque, che il classicismo del Trissino, che mira a rifare in italiano i generi letterari greci e latini, alimenta gran parte della letteratura volgare nel suo momento di massimo fulgore quantitativo. E il suo aristotelismo precorre in forme più tenui quello che trionferà nel medio Cinquecento. Per non dire di

? Così scrive il Trissino nella prima Divisione della Poetica (in Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, a cura di B. Weinberg, I, Bari 1970, P925))

6 Op. cit., p. XVI.

G. G. TRISSINO

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quell’ “italiano” che, in un momento in cui la lingua comune di fatto esisteva, poteva risultare gradito a molti, tanto più che veniva riferito a un programma che cancellava il recente passato e quindi anche i contrasti municipali. Resta la stranezza d’aver cercato i modelli in Grecia e non a Roma, stranezza di cui gli omega e gli epsilon sembrarono e sembrano quasi i simboli patenti. Ma è una stranezza forse più apparente che reale, perché il Trissino in questo atteggiamento era assai meno isolato di quanto si possa pensare. Per convincer-

| sene basta ricordare gli esperimenti tragici di quell’Alessandro de’ Pazzi, che tenta forme metriche ben più cerebrali di quelle del Trissino e tuttavia nel Dialogo della volgar lingua di Pierio Valeriano e nel Cesaro del Tolomei è introdotto come difensore della lingua fiorentina. Più che sui casi particolari conviene però riflettere sul significato che l’ellenismo ha avuto (o potuto avere) all’inizio del Cinquecento. La constatazione di quanto la letteratura latina doveva a quella greca poteva indurre a saltare gli intermediari e studiare direttamente la fonte prima. Aldo Manuzio aveva già posto decisamente in subordine, almeno sul piano scientifico, le fonti latine rispetto a quelle greche, e il suo Aristotele greco aveva dato una sorta di colpo di spugna sull’Aristotele latino e su gran parte della cultura occidentale. Molti, poi, pensavano che la lingua e la cultura greca si potevano assimilare al volgare e alla sua letteratura meglio dell'immobile latino dei classici e della sua letteratura monocentrica. La Grecia aveva vari dialetti e una lingua comune; assai simile sembrava già ad Aldo la situazione italiana. «Sì come i Greci da le loro quattro lingue, cioè da la attica, da la ionica, da la dorica e da la eolica — scrive il Trissino nella Poetica — formorono un’altra lingua, che si dimanda lingua comune, così ancora noi da la lingua toscana, da la romana, da la siciliana, da la veneziana e da l’altre d’Italia

ne formiamo una comune, la quale si dimanda lingua italiana» 7. È una formulazione, al solito, ambigua. Ma non dobbiamo chiedere al Trissino correttezza storica e filologica. Se leggendo queste e altre opinioni pensiamo a una proposta letteraria, possiamo anche ammettere che quello greco potesse sembrare un modello analogico più congruo di quello latino, e la tesi italiana non astratta e cervellotica, non una fondazione ex ribilo, ma un ritorno alle origini. Astratta questa concezione era, e certo intenzionalmente, in un altro senso,

in quanto cioè prescindeva del tutto dalla situazione culturale e linguistica del tempo. Non solo il Trissino non era l'erede della cultura cortigiana, ma ne sovvertiva le istanze, perché cancellava le molte esperienze e la koinè che effettivamente era sorta nell'Italia delle corti. Nel passo della Poetica citato poco sopra «ne formiamo una comune» non indica un'operazione sua e dei suoi contemporanei, qualcosa di simile a quello che appunto aveva fatto la cultura cortigiana. La lingua italiana, secondo il Trissino, c'è da tempo; è, come si legge poco dopo, «la lingua ne la quale hanno scritto Dante e ’l Petrarca e Cino e Guido». Il concetto — scrive il Castelvecchi — «di un blocco italianista che saldasse i siciliani, la lirica toscana del Duecento, i grandi poeti del Trecento, gli autori moderni non vernacolari è il concetto principale che si può ricavare Ed. cit., p. 27.

160

G. G. TRISSINO

dal Castellano. Esso veniva fatto corrispondere, quasi per una petizione di principio, con la situazione linguistica italiana, quasi che gli intellettuali che studiavano e parlavano quella lingua illustre fossero gli eredi di un passato glorioso culturalmente e linguisticamente unitario» *. Il vicentino dunque non fa i conti con i dialetti effettivamente parlati o usati nelle scritture e nemmeno con le lingue comuni allora esistenti o con lo sperimentalismo cortigiano, se non per formulare generiche condanne. L’italianità linguistica — scrive il Castelvecchi — è «un dato immanente, già costituito e operante nella tradizione antica e moderna» ?. Anche qui non si tratta di ingenuità o di incompetenza, ma di semplificazioni volute e necessarie alla congruenza del disegno letterario del Trissino che, lungi dall’essere l’astratta fantasia di un letterato avulso dalla realtà, si fondava assai concretamente su una precisa ideologia politica: quella-di un nobiluomo vicentino insofferente della Dominante e incline ad appoggiarsi ai poteri universalistici dell'Impero e del Papato. Da questa ideologia dipende anche il suo modo di scrivere e di ragionare, capzioso e pur fermo, privo di ombre e di dubbi: la sua sembra la sicurezza di chi al di sopra di sé riconosce solamente il papa e l’imperatore. Il silenzio sugli esperimenti linguistici e letterari delle corti e sulla varietà dialettale fa tutt'uno con la sua aspirazione all’unità politica sotto l'egida dei poteri universalistici. Quasi con disdegno egli finge di ignorare il particolarismo linguistico e culturale e tutto ciò che sa di municipale; l’aristocratico che aspira a un mondo in cui la vera nobiltà riacquisti la sua funzione privilegiata non può che respingere tutte le forme e le espressioni plebee. Sogni medievali? Facile la risposta 4 posteriori. Ma dopo Agnadello alla nobiltà di terraferma sembrò di poter rialzare la testa proprio mettendosi dalla parte dell’imperatore e il Trissino si espose di persona; più tardi CarloV poteva ben sembrare a lui, come ad altri, il restauratore del Sacro Romano Impero. Nel periodo intermedio egli ripose le sue speranze nel papato e si accostò a una nobilissima famiglia fiorentina come quella dei Rucellai. Negli Orti Oricellari e in genere in quegli ambienti fiorentini che tendevano a superare la mentalità municipale e guardavano agli spiriti aristocratici dell'antica feudalità egli trovò, almeno così mi pare, molti seguaci. Firenze, allora strettamente legata al papato, gli sembrò la città in cui avrebbe potuto realizzare i suoi propositi letterari, l’unica in cui fossero accolti con favore o addirittura con entusiasmo. Malgrado la tesi italiana, egli pertanto sentiva una particolare simpatia per Firenze, il fiorentino e i fiorentini. Nel Castellano egli faceva dire di sé a Giovanni Rucellai: «egli parla più onoratamente de la lingua toscana che non fanno i nostri medesimi Toscani; [...] mai non vidi homo più di lui de la nostra nazione amatore e, conciò sia che essa nostra nazione sia da molti forestieri molte volte

biasimata, egli sempre la lauda, sempre la difende; costui ama il nostro vivere

€Op. cit;.p. XLVII.

..0p.cit, p.SEbVILI.

G. G. TRISSINO

161

cittadinesco, abbraccia i nostri costumi, extolle la nostra città, celebra et exalta

a suo potere i pontefici nostri» !°, Non tutti sono d’accordo su questi rapporti. Danilo Romei, per esempio, non crede alle attestazioni di stima e di amore del Trissino per Firenze, come non crede «alla presunta “centralità” del vicentino fra l'uso fiorentino” e l'uso cortigiano”». Il Trissinò secondo lui sarebbe del tutto sbilanciato dalla parte del secondo, «pur senza condividerne le risoluzioni più estreme e dissennate» ! La diversa valutazione, probabilmente, dipende solo dal fatto che allora non c’era un solo «uso fiorentino», così come non c’era un solo «uso cortigiano». Fiorentini erano Ludovico Martelli e Agnolo Firenzuola, che replicarono polemicamente all’ Epistola de le lettere nuovamente aggiunte ne la lingua italiana, ma fiorentino era anche Giovanni Rucellai che non solo difendeva le tesi del Trissino nel Castellano (e questa potrebbe essere finzione letteraria), ma

ne invocava l’assistenza, quasi fosse la sua musa, all’inizio delle Api: E tu, Trissino, onor del bel paese, ch’Adige bagna, il Po, Nettuno e l’Alpe chiudon, deh porgi le tue dotte orecchie a l’umil suon delle forate canne, che nate sono in mezzo a le chiare acque,

che Quaracchi oggi il vulgo errante chiama. Senza te non fe’ mai cosa alta e grande la mente mia [...].

Deh poni alquanto per mio amor da parte il regal ostro e i tragici coturni della tua lacrimabil Sophonisba, e quel gran Belisario che, frenando i Gotti, pose Esperia in libertade, o chiarissimo onor de l’età nostra,

ed odi quel che sopra un verde prato, cinto d’abeti e d’onorati allori, che bagna or un muscoso e chiaro fonte, canta de l’api del suo florid’orto. Deh meco i labri tuoi, donde parole escon più dolce che soave mèle, che versa il seno del tuo santo petto, immergi dentro al liquido cristallo,

ed addolcisci l’acqua al nostro rivo. !

E Palla Rucellai, molti anni dopo, trovava doveroso dedicare l'edizione postuma delle Api al Trissino, riconoscendo e approvando che il fratello ne

fosse stato un fedele seguace:

10 In Discussioni linguistiche del Cinquecento, a cura di M. Pozzi, Torino 1988, p. 128. 1! D. RoMeI, La «maniera» romana di A. Firenzuola (dicembre 1524-maggio 1525): Firenze 1983, p. 22. La sua opinione è condivisa dal Castelvecchi (op. cit., p. XXVI).

12 vv. 54-78 (in G. RuceLLAI, Opere, a cura di G. Mazzoni, Bologna 1887, pp. 5-6).

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G. G. TRISSINO

Ed essendo elle poi state emendate ed approvate da voi, per eseguire ancora l’altra parte di tale sua disposizione, ho preso partito di farle stampare; né mi occorre persona, sotto il di cui nome le debbia più sicuramente e più meritamente pubblicare, che sotto il vostro; perciocché, oltre ch’elle furono dall’autore istesso nel componerle a

voi dedicate, voi ancora foste il primo che questo modo di scrivere in versi materni liberi dalle rime poneste in luce; il qual modo fu poi da mio fratello in la Rosmunda primieramente e poi nelle Api e nell’Oreste abbracciato ed usato !.

La situazione era ancora assai fluida; vari erano i modelli che si contrastavano a Firenze come a Roma, nelle corti della Padania come nelle città venete. A parte la dubbia opportunità di considerare «estreme e dissennate» alcune propo-

ste cortigiane, mi pare che il Trissino movesse in una direzione ben diversa da quella dell’Equicola, del Calmeta, del Castiglione: la sua lingua comune, come si è visto, non aveva alcun rapporto con le corti. Quanto ai fiorentini, non si può confondere il Machiavelli con Giovanni Rucellai, il Guicciardini con il Firenzuola, né dimenticare che Firenze era ancora uno dei centri maggiori dell'ormai declinante ellenismo italiano; anzi all’inizio del secolo, proprio nel circolo dei Rucellai, la Firenze laurenziana viene spesso evocata come l’Atene d'Italia. Ci possono dunque essere dei fiorentini che combattono il Trissino e dei fiorentini che lo scelgono come maestro e guida, fin quasi a identificarsi con lui, come Giovanni Rucellai, che — non va dimenticato — era allora il letterato fiorentino più in vista. Certo, quando pensiamo alla cultura fiorentina di quegli anni, pensiamo a ben altro che alle Api e alla Rosmunda; pensiamo a Machiavelli e Guicciardini; pensiamo a una letteratura di riflessione storica, politica,

morale. Questo è il filone più grande, ma non certo quello allora più appariscente. I fiorentini avevano speso e spendevano le energie migliori nell’azione e nel dibattito politico, quando non si erano trasferiti a Roma dove stava il potere vero. In quel momento di gravissima crisi della poesia fiorentina Giovanni Rucellai era il solo fiorentino che si presentasse alla cultura italiana con precise proposte letterarie, ed erano proposte entusiasticamente trissiniane. Può stupire che i Rucellai si fossero stretti di così solida amicizia con il Trissino, vale a dire con un gentiluomo freddo, con un aristocratico compassato, con un letterato dotato di un razionalismo astratto e lontanissimo dal vivo senso del concreto, dal gusto realistico, dall’estrosità e dall'apertura umana che solitamente si considerano tipici della cultura fiorentina. Ma Firenze negli ultimi tempi della signoria di Lorenzo e nelle successive vicende era profondamente cambiata; con il Poliziano e il Benivieni, e con l’appoggio di Lorenzo, si era sviluppata una forte tendenza alla normalizzazione letteraria e linguistica, e questa tendenza, che mirava a trasformare la cultura fiorentina in italiana, aveva ripreso vigore negli Orti Oricellari. Pertanto, come poteva esprimere un Guicciardini che con ogni cura cercò di “sfiorentinizzarsi”, fra l’altro estirpando dalla lingua ogni forma popolaresca, così espresse i Rucellai — Bernardo, Giovanni, Cosimino, Palla — , ben diversi l’uno dall’altro, eppure simili nell’avver13 Ivi, p. 114.

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sione a tutto ciò che sapesse di popolaresco e quindi nella simpatia per la lezione aristocratica che veniva dagli ambienti della Padania. Sembra dunque di poter affermare non solo che le lodi del Trissino a Firenze erano sincere ma — fatto ben più importante — che egli proprio a Firenze trovò i suoi seguaci più validi. Già a lume di buon senso si può sospettare che almen6-qualcuno dei frequentatori degli Orti Oricellari accogliesse le idee del padrone di casa, divenuto un vero d/ter ego del letterato vicentino. Alcune testimonianze consentono, mi pare, di affermarlo con certezza. Nel Castellano, dopo aver sostenuto che le regole del volgare si cominciarono a osservare in Padova dall’Augurello e poi dal Bembo e da altri letterati della Marca Trivigiana e aver ricordato il bello stile del Sannazaro, Giovanni Rucellai così parla dei fiorentini: Ma noi, che semo de la pura fiorentina contenti, non possemo a la loro vagheza aggiungere; e tra i nostri quelli che sono più da la patria lingua partiti et a quella di Dante e del Petrarca accostati, hanno avuto miglior stilo; come il Benivieni, lo Alemanno, il Guidetto, il Buondelmonte e la buona memoria di Cosmo mio nipote, il quale

(se dal cielo haveva più longa vita) sarebbe stato a tutta Toscana chiarissimo exempio a quanto gli aricordi del Trissino e la lingua che nominiamo illustre l’avesseno alza-

po La testimonianza è di parte e non tutti i nominati mantennero le promesse.

L’Alamanni, però, era allora e sarà poi il letterato più tenace nel trasferire in italiano forme e generi greci e latini, e anche nel dialogo di Pierio Valeriano è indicato dal Trissino (con Alessandro de’ Pazzi e Bartolomeo Cavalcanti) come

uno dei pochi fiorentini «giudiciosi e veri imitatori del Petrarca e del terso e elegante parlare», che tessono «di trama italica e cortegiana» e da Firenze prendono solo «certe fila per farne fregi e ricami, e questo anche con gran modestia e discrezione» ”. E che negli Orti Oricellari si fosse discusso di lingua, giungendo a conclusioni simili a quelle del Rucellai, lo conferma il Gelli, in un passo del Ragionamzento sulla lingua che pare scritto a parziale correzione di quello appena citato del Castellano: gli stessi personaggi (Cosimino Rucellai, Luigi Alamanni, Zanobi Buondelmonti, Francesco Guidetti) sono

ricordati non come seguaci del Trissino — in questo consiste la correzione — , ma come coloro che per primi cominciarono a osservare gli avvertimenti e l’arte dei tre grandi trecentisti: il che, nella sostanza, non è molto diverso da quanto dice

14 Ed. cit., pp. 149-50. 15 Dialogo della volgar lingua, in: Discussioni linguistiche del Cinquecento, cit., p. 92.

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il Castellano !6. E nello stesso Ragionamzento !” il Gelli potrà aver confu-

so le date o immaginato un viaggio del Trissino a Firenze che nella realtà non avvenne; non c'è però alcun motivo per revocare in dubbio la sua buona fede quando diffusamente riassume le opinioni che negli Orti vennero esposte sul De vulgari eloquentia, sull’interpretazione che ne dava il Trissino e sull’attribuzione di quest'opera a Dante. Nelle proposte del Trissino, del resto, non c'erano poi molti argomenti che potessero irritare o scontentare gli ottimati fiorentini. Forse è troppo affermare, come fa il Martelli, che «il programma linguistico e culturale di Lorenzo Vecchio trovava la sua continuazione in quello che al Trissino collegò immediatamente i frequentatori degli Orti» 18, ma è certo che il Trissino si rifaceva a tendenze che Firenze aveva già conosciuto e conosceva. Inoltre egli procedeva con molta cautela e con le solite ambiguità. Mentre nell’Epistola si parla chiaramente di due pronunce, toscana e cortigiana, «le quali senza dubbio sono le più belle d’Italia» !, «in tutta la parte iniziale del Castellano — osserva il

Castelvecchi 2° — sembra che si ragioni nient'altro che di un equivoco: il Rucellai sembra voler far capire che italiana altro non fosse che un nome generale per toscaza». La lingua sarebbe per costituzione generale toscana e per ambito e flessibilità d’uso italiana. L'opposizione tra toscano e italiano è, comunque, scarsissima. La lingua di tutti i fiorentini che «sono più da la patria lingua partiti et a quella di Dante e del Petrarca accostati», come si è visto, è accolta per buona: e questi sono i principali frequentatori degli Orti Oricellari con l'aggiunta di Girolamo Benivieni. Sono viceversa condannati il Burchiello, l’Alberti, Matteo Franco, il Pulci, non solo per essersi allontanati dalla lingua di Dante e del Petrarca, ma per aver accolto forme linguistiche e letterarie plebee. È una distinzione che non poteva spiacere agli ottimati fiorentini e in genere ai 16G. B. GeLLI, Ragionamento sopra le difficultà del mettere in regole la nostra lingua, in Dialoghi, a cura di R. Tissoni, Bari 1967, p. 312: «Lo avere adunque i nostri atteso alla mercatura e non alle lettere, e la moltitudine de’ travagli che sempre ci sono stati, fecero per lungo tempo restare indietro e quasi che perdersi interamente gli avvertimenti e l’arte usata da’ tre sopradetti nella nostra lingua: e i primi che cominciassero in Firenze a riosservargli, e nella favella e nella scrittura, furono quegli stessi litterati che usavano a l'Orto de’ Rucellai. E ricordami che e’ non potevano restare di maravigliarsi di alcuni litterati poco avanti la loro età, che avevano composto in versi e in prosa di questa lingua senza alcuna osservazione; parendo loro impossibile che, avendo pur veduti gli scritti di que’ tre famosi, e’ non avessero aperti gli occhi alle loro osservazioni, e non si fussero accorti in quanta corruzione fusse incorsa la bellissima lingua che noi parliamo. Da costoro avvertiti, Cosimo Rucellai, Luigi Alamanni, Zanobi Buondelmonti, Francesco Guidetti e alcuni altri, i quali, praticando con esso Cosimo, si trovavano spesso a l'Orto con que’ più vecchi, cominciarono a cavar fuori le dette considerazio-

ni, e a metterle tanto in atto, che la lingua n’è poi tornata in quel pregio che voi vedete».

17 Ivi, pp. 307-8. 18M. MARTELLI, Firenze, in: Letteratura italiana. Storia e geografia. II. L'età moderna, I, Torino 1988, p. 146.

19G. G. Trissino, Epistola de le lettere nuovamente aggiunte ne la lingua italiana, in: Discussioni linguistiche del Cinquecento, cit., p. 108. 20 Op. cit., p. XXV.

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frequentatori degli Orti Oricellari, fiorentino la lingua della letteratura più che accettabile e indicava anche commedia, inevitabilmente legata

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quelli (s'intende) che miravano a fare del italiana. Il Trissino offriva loro un progetto la via maestra per arrivare alla meta: non la a umori cittadini e a una lingua medio-

cre ?!, ma un genere nuovo in cui i particolarismi locali dovevano necessaria-

mente essere superati. Non sarà certo per un caso che alla Sophonisba si rifacciano tutti i tragediografi fiorentini, i quali anzi sulla via della nobilitazione dello stile e del distacco dalla lingua viva talora si spingono ancora più avanti di lui. Anche il Martelli, che nella Risposta affronta il Trissino con sdegno veemente per difendere il fiorentino vivo, nella Tu/lia è un fedele seguace del vicentino, sia nell’adozione del verso sciolto sia nella ricerca di una lingua sostenuta, d’una lingua letteraria italiana. Al tempo della discussione a stampa, la lingua italiana del Trissino, d’altra parte, divergeva assai poco da quella toscana del Tolomei e da quella fiorentina di Alessandro de’ Pazzi, per giunta ellenizzante anche lui. Non intendo sottovalutare differenze fonetiche, morfologiche, sintattiche, ma in tutti quelli che prescindevano dalla lingua viva e dalla letteratura popolaresca non si davano grandi differenze. Era la stessa lingua, pur con un ampio margine di oscillazione, di cui occorreva trovare il vero nome. Questione nominalistica, dunque?

Apparentemente sì; di fatto dare un nome alla lingua comportava la necessità di trovare chi ne era il vero e legittimo “padrone”, cioè di indicare il modo in cui procedere per far sì che il volgare potesse servire in tutti i campi che stava rapidamente conquistando: a chi o a che cosa ci si doveva rivolgere quando gli auctores tacevano e non erano di alcun aiuto. Mi sono dilungato su questa questione, se non m’illudo, non per cocciuta ostinazione nel difendere un’interpretazione opinabile, ma perché essa mi pare di considerevole importanza. Il Trissino per lo più sembra un letterato isolato e il suo programma senza sbocchi, deriso piuttosto che accolto. Altro rilievo prenderebbe di per sé se fosse vero, come credo, che il suo insegnamento fece breccia non su questo o quel letterato minore ma su tutto un gruppo di letterati, e per giunta sui letterati di punta di Firenze. La dialettica delle proposte letterarie del primo Cinquecento prenderebbe una fisionomia più articolata e al Trissino non si potrebbe più negare in una storia letteraria il ruolo di maestro di un importante filone del classicismo. Anche la crisi letteraria di Firenze acquisterebbe connotati più chiari riconoscendo che nel suo circolo culturale più importante si era affermata una concezione della letteratura che comportava — in questo i seguaci del Trissino non si distinguevano da quelli del Bembo — l’accantonamento di quasi tutta la letteratura quattrocentesca per ritornare agli auctores del Trecento. È in questo contesto che matura e si svolge l’opera letteraria del Machiavelli, che non poteva non trovare sediziosa una tendenza che spaccava la tradizione, con la quale quasi si 21 Non per niente il Machiavelli, che in Firenze era il propugnatore di un programma letterario antitetico a quello del Trissino, scrisse delle commedie e si appassionò al teatro comico.

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immedesimava. Egli pertanto mosse in una direzione diametralmente opposta a quella verso cui si erano avviati i suoi giovani amici. L’autore del Principe, quando poté svolgere la vocazione letteraria lungamente maturata e prima sacrificata all’attività politica, si propose infatti di ricuperare le più autentiche tradizioni fiorentine, tornando — al di là degli esperimenti del Magnifico e del Poliziano — al gusto popolaresco che era stato del Pulci e del Burchiello, a una concezione della letteratura che nel suo realismo era aliena da ogni forma di facile evasione. A quel tempo, fra i fiorentini, l’unico — o uno dei pochi — che potesse contendergli l’ufficio di ispiratore e stimolatore della nuova letteratura era appunto l’autore della Rosmunda che, avendo scelto come maestro il Trissino, più che un continuatore appariva un sovvertitore della tradizione fiorentina in ciò che aveva di più proprio. Non si sa se negli Orti Oricellari fu davvero rappresentata la Rosmunda; è certo comunque che di questa tragedia e delle idee letterarie di Giovanni Rucellai si dovette parlare molto, e non è ipotesi avventata supporre che sia stata proprio la sua attività di letterato impegnato su

posizioni di avanguardia ad accendervi le discussioni letterarie e linguistiche. Il Castellano dice che il nipote Cosimino seguì gli «aricordi del Trissino», e non è affermazione tendenziosa. Cosimino fu quasi uno scolaro del Trissino. A vent’anni, nell’autunno del 1515, venne affidato al gentiluomo vicentino che si recava in Germania come nunzio di Leone X: «Io non vi raccomando Cosimo altrimenti — scriveva Giovanni Rucellai il 31 ottobre al carissimo amico —, perché so che lo amate come figliolo; e se il difetto non viene da lui, che nol credo, dovrà tornare un altro uomo» 7. Non so se tornò «un altro uomo»; di certo acquistò chiare idee letterarie e nel breve tempo che gli rimase da vivere dettò versi volgari, in cui non è difficile vedere un’adesione agli insegnamenti del Trissino. Nel ritratto che il Machiavelli tracciò di lui nell’esordio dell'Arte della guerra è significativo il passo in cui vengono ricordati gli amorosi versi, ne’ quali, come che innamorato non fusse, per non consumare il tempo

invano, tanto che a più alti pensieri la fortuna lo avesse condotto, nella sua giovenile età si esercitava; dove chiaramente si può comprendere con quanta felicità i suoi concetti descrivesse, e quanto nella poetica si fusse onorato, se quella, per suo fine, fusse da lui stata esercitata.

È una lode in cui ben si sente l’animo del Machiavelli, che l’arte di aspettare scalpitando aveva dovuto apprendere a proprie spese; ma quei versi in cui si parla di amori finti — pura letteratura, insomma — non dovevano andare a genio al buon Nicolò, che pure era infinitamente riconoscente al giovane anfitrione d’averlo accolto nel più vivace cenacolo fiorentino. Chi, come il Dionisotti ?, si è preoccupato di leggere le poesie di Cosimino, ha avuto la ventura di trovarvi un sonetto indirizzato al Machiavelli: un invito, forse a venire nella villa di Quaracchi, ricalcato sul sonetto Gloriosa columna del Petrarca. «Spirito 22 G. RUCELLAI, Opere, cit., p. 245. 23 Machiavellerie.

Storia e fortuna di Machiavelli, Torino

1980, pp. 146-8. I versi di

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infra gli eletti al mondo eletto», vi è detto il Machiavelli ; ma, se questo sonetto

conferma la grande stima che negli Orti si faceva del Machiavelli, i versi di Cosimino sono la riprova di una fondamentale differenza di gusto letterario.

Se il Rucellai, il Buondelmonte, il Guidetti, l’Alamanni potevano far propria la lezione trissiniana, non altrettanto poteva fare il Machiavelli. Era molto più fiorentino — ha scritto il Dionisotti # — «di quei giovani come Luigi Alamanni, Francesco Guidetti e Cosimo Rucellai, che per motivi del resto | buoni indulgevano alla contemporanea moda italiana del petrarchismo lirico. Machiavelli, come era l’unico in quel momento che potesse riproporre in termini moderni, fiorentini e italiani, la lezione dell’antica Roma, così anche era e sempre sarebbe rimasto, nei termini della sua vita, l’unico che potesse dare a Firenze una sua inconfondibile voce nel coro della nuova letteratura italiana, in cui Giovanni Rucellai si adattava ad accompagnare il canto del vicentino Trissino». Il Machiavelli era l’unico che potesse opporsi alla gravissima crisi della cultura fiorentina. Questa non era minacciata solo dall’esterno; gli attacchi le venivano anche dall’interno: come il Dante del De vulgari eloquentia, così alcuni fiorentini di notevole ingegno negavano i pregi intrinseci del loro idioma e gli preferivano un’astratta (ma più nobile e raffinata) lingua illustre italiana. Firenze diveniva italiana o meglio la cultura italiana — nel momento stesso in cui faceva proprie le tre “corone” trecentesche e considerava il Quattrocento un periodo di decadenza da ignorare — si aggregava Firenze. Non per niente, dopo la Risposta del Martelli (nella quale peraltro la parte più viva e “fiorentina” deriva dal Discorso intorno alla nostra lingua del Machiavelli), Firenze tace e non trova nemmeno la forza di replicare apertamente alle Prose della volgar lingua di Pietro Bembo. Si pensi che il più attivo difensore della fiorentinità — almeno a giudicare dai dialoghi del Valeriano e del Tolomei — sembra che sia stato Alessandro de’ Pazzi, che non poteva certo essere un sostenitore delle autentiche tradizioni fiorentine, del Pulci e del Burchiello per esempio. Anche per questo in quei dialoghi la discussione può apparire piuttosto nominalistica, così che il Trissino nel primo e Gabriello Cesano nell’altro hanno il gioco fin troppo facile. Firenze nel pieno della sua crisi politica si era a tal punto ridotta a una cultura provinciale che per trovare repliche alle tesi del Bembo bisogna arrivare all’età di Cosimo I. Fu necessaria la propaganda tendenziosa del Varchi in favore delle Prose perché gli intellettuali fiorentini reagissero. Grazie anche all’intelligente politica culturale del principe, si ebbe allora un serio tentativo di ricupero della tradizione fiorentina con il Gelli, il Lasca, il Giambullari, il Lenzoni, il Varchi dell’Ercolaro, il Borghini, il Davanzati e infine il Salviati e la Crusca. Ma sarà un ricupero filologico ed erudito, dal quale risulta evidente che la gloriosa tradizione si era irreparabilmente interrotta. Tutto questo naturalCosimino si leggono nella raccolta Rie di poeti italiani del sec. XVI, Bologna 1875, pp. 38-58. Nella stessa raccolta sono rime di Francesco Guidetti (pp. 58-83), che, come quelle di Cosimino, si ispirano a un petrarchismo “regolato” lontano dalla tradizione fiorentina. Cfr. anche H.

HauveTTE, Les poésies de Cosimo Rucellai et de Francesco Guidetti, in «Bulletin Italien», IV

(1904), pp. 85-102 (e poi la rettifica e aggiunta nello stesso bollettino, pp. 186-9).

24 Ivi, pp. 150-1.

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mente il Machiavelli non lo poteva sapere. La cultura fiorentina secondo lui poteva ancora avere un futuro ; viceversa il Guidetti, l’Alamanni, i Rucellai preferivano l’Italia a Firenze, ed era assai irritante per un fiorentino di vecchio stampo che Dante fornisse loro un’autorevolissima giustificazione. Nell’esordio, chiaramente politico, del Discorso intorno alla nostra lingua il Machiavelli forse non si rivolgeva solo a Dante, ma anche, e sopra tutto, agli amici, disposti a una rottura letteraria e politica con la propria città; è anche a loro che ricordava l’obbligo che ogni uomo ha con la patria, «dependendo prima da essa l’essere, et dipoi tutto quello che di buono la fortuna et la natura ci hanno conceduto» 28. Questo dimenticavano i futuri cospiratori, e perciò il Machiavelli si sentì in dovere di opporsi energicamente alla loro concezione “italiana” della lingua e della letteratura, rivendicando la gloria letteraria di Firenze, così come in quelle discussioni avrà sostenuto che ogni cittadino deve giovare alla patria per quel tanto che gli è possibile, quale che sia la situazione politica in cui essa si trova: «ne segue il lacerare la patria esser cosa nefandissima: perché da lei mai si patisce alcuna persecutione per la quale possa meritare d’essere da te ingiuriata, havendo a riconoscere da quella ogni tuo bene; tal che, s’ella si priva di parte de’ suoi cittadini, sei più tosto obligato ringratiarla di quelli ch’ella si lascia, che infamiarla per quelli che la si toglie» 2”. Parole appropriate per biasimare Dante ma non meno per ammonire i fiorentini di dentro che cospiravano contro la patria. Insomma è verisimile che sia nelle questioni letterarie sia in quelle politiche fra il Machiavelli e i suoi giovani amici ci fosse un rapporto dialettico, con disaccordi spesso molto forti. L’ex segretario fiorentino nei giardini di casa Rucellai trovava un pubblico disposto ad ascoltarlo e a lusingarlo, ma non condizionato da quell’esperienza umana, politica e letteraria, che era soltanto

2 E l’ebbe in effetti, nell’ambito della prosa, grazie appunto all'esempio del MachiavelMachiavellerie, cit., p. 121: «Una stringente revisione critica della tradizione quattrocentesca è fenomeno in quegli anni comune a tutta Italia: basti l'esempio a Ferrara del trapasso dal Boiardo all’Ariosto, l'esempio a Napoli del trapasso dal Pontano al Sannazaro. Ma come questi esempi dimostrano, non soltanto a Ferrara, politicamente indenne benché scossa, ma anche a Napoli, dopo un rivolgimento totale, la revisione critica si sviluppò sulla linea stessa della tradizione quattrocentesca. A Firenze invece questa tradizione, quale si era da ultimo configurata all’insegna del predominio mediceo, sopravvive sempre più esile e appartata nel nuovo regime e si consuma nell'ombra, tanto che non vale a farla rinascere la restaurazione medicea nel 1512, né tanto meno, più tardi, il principato. Questo discorso è meno divagante di quanto a prima vista possa sembrare, perché al di là della crisi, della frattura e contrazione, fra Quattro e Cinquecento, la nuova letteratura fiorentina cinquecentesca, prevalentemente prosastica, politica, storica e morale, diversa per questi suoi caratteri da quanto nella stessa età prevalentemente si scriveva in tutto il resto d’Italia, la letteratura insomma che l’opera dell’Albertini [Firenze dalla repubblica al principato, Torino 1970] tanto contribuisce a illustrare, senza alcun dubbio ebbe come suo fondatore Machiavelli e come suo atto istituzionale I/ principé». li. Cfr. C. DronIsoTTI,

26 Discorso intorno alla nostra lingua, a cura di P. Trovato, Padova 1982, pp. 3-4.

27 Ivi, p. 4.

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sua; un pubblico di giovani proiettati nell’esuberanza della loro età verso il futuro e non troppo disposti ad attenersi alla lezione del passato, specialmente di quello più prossimo. Il Machiavelli, pertanto, così almeno mi pare, si trovò più volte a dover discutere con quei giovani che, imbevuti di idee trissiniane, «troppo presuntuosamente» cercavano di privare la patria «dell’honor suo»: «La cagione perché io habbia mosso questo ragionamento è la disputa, nata più volte ne’ passati giorni, se la lingua nella quale hanno scritto i nostri poeti et oratori fiorentini è fiorentina, toscana o italiana» 28, Si erano delineate varie posizioni e ciascuno degli interlocutori si era sforzato di difendere la sua tesi: «in forma che — prosegue il Machiavelli — restando la lite indecisa, m’è parso in questo mio vendemmial negotio scrivervi largamente quello che io ne senta, o per terminare la quistione o per dare a ciascuno materia di maggiore conte-

sa» ??. Il discorso, che egli schizzò alla brava ma con quel tratto energico che gli era proprio, era dunque rivolto agli amici, serviva al dibattito interno agli Orti, anche se conteneva una sorta di programma per sé e per una letteratura che volesse davvero essere fiorentina. Forse qualcuno degli ascoltatori prese appunti, ne copiò parte o tutto. Uno dei frequentatori di casa Rucellai era Niccolò di Lorenzo Martelli, fratello dell’autore della Risposta. Lodovico trovò fra le carte del fratello, prima fuggiasco e poi carcerato, delle annotazioni tratte dal discorso machiavelliano e se ne servì, forse addirittura senza sapere donde fossero tratti? È un'ipotesi, nient'altro che un’ipotesi; ma, se non questa, di tal genere dev'essere stata la diffusione del Discorso, come mostra l’esigua e tardiva tradizione manoscritta, che non pare di poter attribuire a un maligno scherzo della sorte: il breve scritto era un documento privato, rivolto agli amici («m'è parso ... scrivervi»), disposti nel loro accademismo a divertirsi ascoltando quell’appassionata confutazione di Dante in uno stile “fiorentino” ormai lontanissimo dal tono serioso della letteratura “italiana”. Ma non intendo entrare nei complessi problemi del Discorso intorno alla nostra lingua, sul quale si è accumulata ormai troppa letteratura. Mi basta aver qui richiamato l’attenzione, contro certe comode semplificazioni, sulla complessità del dibattito letterario nel primo Cinquecento. Da quanto si è detto mi pare risulti da una parte l’importanza della concezione trissiniana, dall’altra la funzione che il Machiavelli ebbe come difensore della miglior tradizione fiorentina. Firenze ci appare un po’ meno chiusa alle proposte letterarie italiane di quanto non sembrasse, il Trissino — pur con tutti i suoi limiti — il maestro ascoltato di un progetto letterario organico e coerente, fondato su una precisa concezione della cultura e della società.

28 Ivi, pp. 5-6.

29 Ivi, pp. 6-7.

PIETRO BEMBO 1. Nato a Venezia il 20 maggio 1470 da Bernardo e da Elena Morosini, Pietro Bembo apparteneva a una generazione che, pur avvertendo la crisi dell'Umanesimo, non aveva ancor elaborato programmi culturali alternativi. Purtroppo le scarse notizie che possediamo sulla sua adolescenza e prima giovinezza non ci consentono di sapere quali studi compisse, quali fossero le sue relazioni letterarie, quale atteggiamento tenesse nei confronti delle molte e disordinate proposte che venivano allora formulate sia nel campo delle lingue classiche sia in quello del volgare. Ebbe come precettore un umanista poco noto, Giovanni Alessandro Urticio, per il quale provò stima e affetto; ignoriamo però quale insegnamento ne abbia ricevuto. Più importante sarebbe accertare quale influenza abbia esercitato su di lui Giovanni Aurelio Augurello !, che forse — prima dell’Urticio — si occupò della sua educazione. Non sarà, comunque, solo per un caso che il Bembo e l’Augurello sono talora ricordati insieme come promotori del petrarchismo regolato: per esempio, nel canto XVII del poema I/ monte Parnaso di Filippo Oriolo, essi «ristretti a paro a paro» vengono lodati perché il «volgar idioma, che corrotto / era e oscuro, tutto illuminaro» 2. Già nel De Aetna Pietro citerà versi dell’Augurello >; il 7 luglio 1504 gli manifesterà il desiderio di avere, non appena finita la stampa, una copia dei suoi Carzzina 4; più tardi, il 1° aprile 1512, lo inviterà, per il tramite di Trifon Gabriele, a esaminare i primi due libri delle Prose della volgar lingua e a segnalargli gli eventuali difetti?. Da parte sua, il riminese fin dal 1491 aveva lodato il Bembo come poeta latino °. È anche difficile dire se prima dei vent'anni il Bembo fu in rapporto con ! Sull’Augurello si veda G. PavanELLO, Un maestro del Quattrocento: G. A. Augurello, Venezia 1905, e la voce di R. WeIss nel Dizionario biografico degli Italiani (1962). 2Il canto XVII del poema I/ monte Parnaso si legge in V. CAN, Un decennio della vita di M. P. Bembo (1521-1531), Torino 1885, pp. 227-9; del Bembo e dell’Augurello si parla nei vv. 34-42. Si può ricordare anche il passo del Castellano di G. G. Trissino (in Discussioni linguistiche del Cinquecento, a cura di M. Pozzi, Torino 1988, p. 149), in cui si sostiene che le regole della lingua del Petrarca si cominciarono a osservare «in Padoa per M. Giovan Aurelio da Rimene» e poi furono seguite dal Bembo, da Trifon Gabriele, dal Fortunio, da Nicolò Delfin, dal Fracastoro, da Giulio Camillo Delminio e da altri della Marca Trevigiana. 3 P. BeMBo, Opere, Venezia 1729, IV, p. 322. 4P. Bemso, Lettere, edizione critica a cura di E. Travi, I (1492- 1507), Bologna 1987, p. 176.

? P. BemBo, Opere in volgare, a cura di M. Matti, Firenze 1961, pp. 713-5.

6 Per i versi in lode di un carme eroico del Bembo presenti in uno dei Carzzina dell’Augurello (Verona, s. e., 1491), cfr. C. DronIsoTTI, Appunti sul Bembo. II. Per la storia del «Carminum Libellus», in «Italia medioevale e umanistica», VIII (1965), pp. 289-90 (qui anche il carme Cur tua tam subitis anguntur pectora curis, che è il primo documento a noi noto dell’attività letteraria del Bembo).

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l’ambiente umanistico veneziano. Certo, però, dovette riceverne qualche influsso e conoscere almeno l’opera di Ermolao Barbaro, da lui poi introdotto come interlocutore nel dialogo filologico De Virgilii Culice et Terentii fabulis, composto intorno al 1503 anche se pubblicato solo nel 1530. Fra l’altro Ermolao vi manifesta un rapporto d’affetto con Pietro e Bernardo, che non può essere pura finzione letteraria: «ét'ipse Bernardum Bembum amo, et ille me. Eius autem Petrus Bembus filius mihi etiam secundum patrem plurimum tribuit» 7. Sul | giovane studioso dovette sopra tutto influire la forte personalità del padre, che non solo godeva di un notevole prestigio come diplomatico ma coltivava le lettere, collezionava libri ed era in rapporto con gli umanisti fiorentini 8. Appunto col padre, che vi tornava per la seconda volta come ambasciatore, egli fu a Firenze dal luglio 1478 al maggio 1480. Di questo soggiorno non si deve esagerare l’importanza; tuttavia le ottime relazioni di Bernardo col Landino, col Ficino, col Poliziano, con i Medici e con altri letterati fiorentini avranno lasciato indelebili ricordi nell'animo di questo fanciullo che non poteva ancora compiere scelte precise ma era già in grado di sentire simpatie per uomini e ambien-

ti. Non si sa se Pietro nel 1482 seguì il padre mandato come podestà a Ravenna; ma certo anche a lui giunse l’eco dell'entusiasmo che Bernardo suscitò facendo restaurare il sacello contenente lo ossa di Dante. Nel maggio del 1485 Bernardo con altri tre ambasciatori partì per Roma con il compito di presentare a Innocenzo VIII le congratulazioni della Serenissima per la sua elezione. Pietro, a quanto pare, faceva parte della comitiva e durante il viaggio improvvisò questo epigramma latino contro un tal Matteo Gerardo, «recitante Petrarcae rithmos et vulgaria»: Surge, pater Francisce, tuos insulsus honores dissipat: heu magnae dillacerantur opes! Haec tua quis credat, profert dum rauce Gerardus carmina, quae mallem, dum canit esse sua? ?

Una nuova ambasceria del padre a Roma, durata dal novembre del 1487 all’ottobre dell’anno successivo, gli offrì la possibilità di ammirare meglio quella città che poi gli sembrerà il luogo ideale per realizzare le proprie ambizioni umane e letterarie. A vent'anni, come si conveniva al primogenito di una nobile famiglia, ? Il 14 febbraio 1504 il Bembo ottenne il privilegio di stampa per un’opera De corruptis poetarum locis (a cui probabilmente aveva lavorato a Ferrara), che si può identificare con il dialogo De Virgilii Culice et Terentii fabulis, pubblicato nel 1530 con una dedica a Ercole Strozzi che riconduce al 1503: lo si veda in Opere, cit., IV, pp. 303-19 (le parole sul Bembo, attribuite a Ermolao Barbaro, a p. 307). 8Su B. Bembo si veda almeno N. GIANNETTO, B. Bembo umanista e politico veneziano, Firenze 1985. ? L'episodio è stato ricostruito e discusso dalla Giannetto (op. cit., pp. 170-74), la quale ritiene che questi versi offrano «una prova non trascurabile a favore dell'ipotesi che Bernardo sia il primo ispiratore di quell’amore di Pietro per il Petrarca che tanto ha pesato nella storia della nostra poesia» (p. 173).

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Pietro fu avviato alla vita politica; ma una ben diversa investitura ricevette nel giugno del 1491, quando Angelo Poliziano venne in casa Bembo per collazionare un suo esemplare a stampa delle commedie di Terenzio con l’antichissimo codice, ora Vaticano Latino 3226, che, annotò il grande umanista nei margini del suo esemplare, «mihi utendum commodavit Petrus Bembus venetus patricius, Bernardi iurisconsulti et equitis filius, studiosus litterarum adulescens [...].

Ipse etiam Petrus operam

mihi suam

in conferendo

commodavit» !°. Col

Poliziano — di cui sicuramente conosceva le poesie latine — fu in rapporto anche negli anni successivi:

«Nemo

est enim doctorum hominum,

quos ego omnes

sanctissime mehercule omnium et purissime colo, cui gratificari porro tam cupiam, quam tibi», scriveva da Messina il 18 novembre 1493 all’Ambrogini, che lo aveva pregato di esaminargli un codice della Gigantorzachia di Claudiano. E per suo tramite salutava anche Giovanni Pico della Mirandola !!. Del 1490 è la prima notizia di una sua notorietà come poeta latino: come tale viene celebrato in un pronostico a stampa per il 1491, datato 12 novembre 1490 da Padova, dell’astrologo Giovanni Basilio Agostoni !. Del 1492 sono le prime lettere, che per un decennio circa scrisse per lo più in latino. Nello stesso anno, desideroso di acquistarsi una compiuta educazione umanistica, decide di recarsi a Messina per studiare il greco alla scuola di Costantino Lascaris. Comunicando questa decisione all’Urticio il 29 marzo, egli insisteva non solo sui meriti del maestro di greco che si era scelto («quod esset ipse in eiusmodi doctrina facile princeps») ma anche sul fatto che insegnava in Sicilia, «ubi non domesticis curis, non publicis, non amicorum officiis, non paternis ullis muneribus a discendi studio interpellarer» 4: fin d’allora, dunque, era alla ricerca di quell’otium studiorum che più tardi l’indurrà a lasciare definitivamente la città natale. Partì con l’amico Angelo Gabriele nell’aprile del 1492 e giunse a Messina il 4 maggio; il ritorno a Venezia avvenne solo nell’estate del 1494. In Sicilia trascorse dunque un intero biennio, trovandovi certo quella tranquillità e quella possibilità di studiare e meditare che tanto aveva desiderato.

2. Nel 1496 usciva, con dedica ad Angelo Gabriele, la sua prima opera, il De Aetna !, che racconta, sotto la forma di un dialogo col padre, un’ascensione sull’Etna compiuta durante il soggiorno messinese. È uno scritto breve, un esercizio di bella prosa latina; ma la scelta della forma dialogica è già sintomatica di un gusto che tende a stemperare i contenuti eruditi nell’ariosità 10 La postilla del Poliziano si legge in P. BeMBO, Prose e rime, a cura di C. Dionisotti, Torino 1966, pp. 9-10 (anche nella voce Bembo P. del Dizionario biografico degli Italiani, 1966). !l Lettere, cit., I, p. 6. Che il Bembo conoscesse le poesie latine del Poliziano risulta da una lettera da lui scritta a Giovan Battista Stato il 20 settembre 1494 (in Lettere, cit., I, p. 9).

12 Il pronostico è ricordato dal Dionisotti nella citata voce del Dizionario biografico

degli Italiani.

13 Lettere, cit., I, p. 4.

14 In Opere, cit., IV, pp. 320-28.

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di una pacata conversazione. E va pure sottolineato che l’opuscolo fu pubblicato da Aldo Manuzio, il quale aveva da poco iniziato l’attività editoriale, spinto dal desiderio di promuovere — secondo l’insegnamento del Poliziano e di Ermolao Barbaro — un nuovo umanesimo fondato su una più approfondita e corretta conoscenza dei testi greci. L’anno prima (8 marzo 1495) quello che sarebbe diventato il più grande'editore del Rinascimento aveva già pubblicato la grammatica greca di Costantino Lascaris che il Bembo e il Gabriele gli avevano portato da Messina ”. Nel De Aetna e nelle epistole scritte dopo il ritorno dalla Sicilia è l’eco delle gravissime vicende politiche che travagliavano l’Italia; ma è come l’eco di una cosa lontana, che non sembra coinvolgere Venezia. L’invasione francese pertanto non indusse il Bembo a dedicarsi con maggior convinzione all’attività politica. Di più dovette impressionarlo la morte precoce degli umanisti più insigni: nel 1493 era morto Ermolao Barbaro; l’anno dopo erano scomparsi Giovanni Pico e il Poliziano, per il quale scrisse un Turz4lus da cui traspare un sincera ammirazione !. Più tardi, il 13 gennaio 1505, facendo a Filippo Beroaldo il giovane le condoglianze per la morte dell'omonimo cugino, avrebbe scritto: «Recordari enim debes paucorum annorum spatio quot et quales viros amiserimus, Picum, Politianum, Pontanum, Pomponium, Hermolaum, qui quidem omnes

uno

tempore

floruerunt.

Nunc

autem,

si unum

aut alterum excipies,

quotus erit quisque iam in Italia reliquus, quem cum iis conferre possimus?» !. Poteva sembrare la fine prematura di un’epoca e il giovane letterato, dopo aver assimilata la lezione di questi e altri umanisti, mostrerà di mirare a mete diverse dalla filologia. Comporrà ancora il De Virgilii Culice et Terentii fabulis, che, presentando personaggi come Pomponio Leto ed Ermolao Barbaro e alludendo a opere come i Miscellanea del Poliziano, è una sorta di omaggio

alla filologia e ai maestri della sua prima giovinezza, ma non per niente lo lascerà nel cassetto e fino al:1530 non sentirà il bisogno di pubblicarlo. Intanto, Pietro e l’amico Gabriele avevano deciso di studiare filosofia. «Statuimus uterque» scriveva il 20 settembre 1494 a Giovan Battista Stato «Patavium secedere, et philosophiae nos tradere, sic tamen ut ne omnino poéticae nuntium remittamus, quae me quidem mirabiliter delectat». Nella stessa lettera raccomandava allo Stato di portare con sé a Venezia, o di mandargli, il giovane Cola Bruno: «Ille, si erit mecum, facultatis ad discendum tantum habebit, 15 Nella prefazione degli Erotemata, la grammatica greca del Lascaris, che è il suo primo libro datato, Aldo scriveva fra l’altro: «Ita vero emendatum manu ipsius Constantini librum nobis dedere commodo Petrus Bembus et Angelus Gabriel, patritii Veneti, adeo nobiles praestantique ingenio iuvenes, qui nuper in insula Sicilia Graecas litteras ab eo ipso Lascari

didicerunt et nunc Patavii incumbunt una liberalibus disciplinis» (A. MANUZIO EpITORE, Dediche. Prefazioni. Note ai testi, introduzione di C. Dionisotti, testo latino con traduzione e note a cura di G. Orlandi, Milano 1975, I, p. 3. 16In Opere, cit., IV, p. 352. Va ricordato anche il Leucippi et Alconis tumulus (ivi, IV, p. 345), in cui — come ha mostrato il Dionisotti (Appunti sul Bembo, cit., p. 291) — sotto i nomi di Leucippo e di Alcone si nascondono il Poliziano e il Pico.

17 Lettere, cit., I, p. 183.

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quantum volet, neque sibi quicquam deerit non praeceptorum copia, non librorum suppelex, non otium» !. E tenne la parola, ché Cola divenne il suo segretario e uomo di fiducia, un collaboratore quasi indispensabile, versato anche in cose letterarie. Poco si sa degli studi filosofici, iniziati allora con Niccolò Leonico Tomeo e poi proseguiti con Niccolò Leoniceno a Ferrara, dove andò col padre, inviatovi nel luglio del 1497 come rappresentante della Serenissima. Di certo lesse Aristotele e si interessò al De anima, giacché in un’epistola del 25 maggio 1496 scriveva a Girolamo Donato: «Alexandrum Aphrodiseum, cuius de anima libros, abs te latinos factos, miseras mihi de mense octobri, legi magna cum voluptate, cum eius philosophi causa, tum tua. Nam neque ille converti a quoquam, meo quidem iudicio, aut elegantius potuisset, aut maiori cum fide,

neque tu parvam laudem in eo explicando mihi assequutus videbare» 1. Da un’epistola a Trifon Gabriele, senza data ma certo del 1498, sappiamo che egli era molto occupato in «studia dialecticae disciplinae» 7%; e questa notizia è confermata da una lettera allo stesso Trifone del 19 maggio 1499 21. È vero però che l’anno dopo, il 12 settembre, da Padova scriveva ad Angelo Gabriele: «sum enim non minus gu\éuevog ut nosti, quam gu\.opftwp. Nam Philosophum me non audeo dicere» ??. E in effetti il soggiorno ferrarese, più che per gli studi filosofici, fu importante perché il Bembo, che per la prima volta entrava in contatto con una corte, rimase talmente affascinato da quell’ambiente di cultura disimpegnata e raffinata che, quando il padre nel 1499 fu richiamato in patria, chiese e ottenne di poter restare ancora nella città estense. Eppure era ormai tempo che egli si dedicasse alla vita politica, come voleva la tradizione familiare e come suggeriva l’esempio di Angelo Gabriele che si era ben inserito nella burocrazia veneziana. Appunto al Gabriele egli scriveva da Padova il 12 settembre 1500, per difendere il proprio atteggiamento e chiarire le ragioni culturali che gli impedivano di dedicarsi con impegno ai pubblici uffici: «ne fugere iudicium videar, pangam [...] ostendamque tibi, si potero, villaticum nostrum otium et agreste litterarum, quod abs te accusatur, non esse posterius, aut minus praeclarum, vestro illo negotio forensi et urbano, quod tantopere laudas» 2. Ma, quando scriveva queste parole, già da tempo, per il precipitare degli eventi politici, era stato costretto a tornare in patria e a presentare la sua candidatura (peraltro sempre-respinta) a vari incarichi.

18 Ivi, I, p. 9. Cfr. V. Cian, Un medaglione del Rinascimento. Cola Bruno messinese e le sue relazioni con P. Bembo, Firenze 1901. 19 Lettere, cit., I, p. 16.

20 vit, p32. 21 Ivi, I, p. 35: «e finita te l’arei e mandata, se non fossono state alcune occupazioni che

mi sono sopragiunte questi dì, oltra le continue della lezione dialettica, alla quale niun giorno manco».

22 Twi,tcit, Ip. 1102. 23 Ivif ipo 101,

P. BEMBO

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3. Fin dall’adolescenza, per i rapporti del padre con la cultura toscana, il Bembo si avvezzò a considerare senz’aria di sufficienza gli autori volgari, per lo meno Dante e Petrarca, che del resto nel Veneto erano molto amati; i rapporti con l’Augurello, che era noto al pubblico per i versi latini ma componeva rime e faceva aperta professione di petrarchismo, forse gli fecero apparire naturale il comporre anche in volgare. Purtroppo però mancano notizie di suoi versi giovanili in volgare, a parte quanto si legge nell’epistola del 21 agosto 1498 ad Alberto Pio da Carpi, in cui il Bembo scrive d’aver trovato per caso fra le proprie carte «vernaculum carmen meum, quod feceram hoc ipso in loco [nel Noniano], ante quam in Siciliam proficiscerer, ut me ipsum atque amicum quendam meum ad bene vivendi officia, et capessendarum virtutum studium, quasi dormientes excitarem» °4. Tutte le altre testimonianze lo mostrano avviato a una brillante carriera di filologo e di umanista. È pertanto con una certa sorpresa che da una lettera a Trifon Gabriele dell'11 dicembre 1497 veniamo a sapere che da qualche tempo egli lavorava agli Asolazi: «Mane conscribenti mihi Asul/aros meos, in quibus matutinae operae multum insumo, et fere omnes

horas antelucanas,

redditae sunt abs te litterae, quibus sum

magnopere delectatus» ?. A un dialogo in volgare sull'amore forse il Bembo aveva pensato già in precedenza, ma la sua idea si precisò a Ferrara, in quello splendido ambiente cortigiano dove fioriva una lirica volgare che lo influenzò e insieme lo stimolò a cercare soluzioni formali meno precarie e a riflettere sulla funzione che la letteratura in volgare poteva svolgere accanto a quella in latino. A fornirgli maggiori stimoli venne l’amore per Maria, moglie di Bernardino Savorgnan, sbocciato a Venezia all’inizio del 1500. La storia della composizione degli Asolani, anzi, si intreccia con quella di questo amore segreto, terminato nel settembre dell’anno successivo, come appare dal carteggio con la donna, che il Bembo conservò per tutta la vita 26. Inoltre nelle lettere di Pietro si scorge quella singolare capacità di filtrare la propria esperienza amorosa attraverso schemi letterari che è evidente pure negli Asolani; mentre in quelle di Maria,

24 Ivi, I, p. 25. 25 Ivi, I, p. 20. Da questo passo si può dedurre che il Bembo lavorava da tempo agli Asolani: infatti ne parla all'amico come di un’opera ben nota. Allo stesso Trifone il 2 febbraio dell’anno successivo, da Ferrara, scriveva: «Gli Asolani plane dormiunt, né penso si possano risvegliare in quest’aria. Ad essi farebbe uopo d’un altro esilio al primo simile» (ivi, p. 22). La stessa espressione in una lettera del 1° marzo 1499, sempre a Trifone: «Asulani mei plane dormiunt; quod ferrem facilius, si minus abs te probarentur. Nam nunc quidem partim me sibi negotia domestica deposcunt, partim detinent studia dialecticae discipline, ut tempus, quo me ad tertia convertam, non superet» (ivi, p. 32). 26 Cfr. M. SAVORGNAN-P.

PeMBO,

Carteggio d'amore (1500-1501),

a cura di C. Dionisot-

ti, Firenze 1950. Nel carteggio il dialogo è citato ora come codice del perfetto amore (31 maggio 1500: «E se questo mio dire che il nostro amore non è ancor giunto là dove egli dee, vi noierà, sì come colei che ogni perfezione gli disiderate, vedete quello che due perfetti amanti, chiamati a ragionar de’ loro diletti nel secondo de gli Asolzri, ne parlano al proposito della

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che mostra viva sensibilità, spirito acuto e un’ottima conoscenza del Petrarca, troviamo importanti indicazioni su quel pubblico femminile di cui il giovane letterato teneva conto sia nella materia prescelta sia nella stessa finzione di un dialogo filosofico a cui partecipano tre giovani donne. L’interesse del Bembo per il volgare si veniva intanto precisando nella collaborazione all’attività editoriale di Aldo Manuzio. Questi nel dicembre 1499 aveva pubblicato il suo primo testo in volgare, la Hyprerotomachia Poliphili, a cui seguirono nell'ottobre dell’anno successivo le Epistole di santa Caterina da Siena; e se a stampare le lettere della santa fu certo spinto dal desiderio di far sentire, nell’anno del giubileo, la propria voce su questioni morali e religiose, nel pubblicare l’opera di Francesco Colonna dimostrava una certa simpatia per quel tentativo di innestare sul tronco del volgare elementi della cultura umanistica. Ma poco dopo, come pare di poter supporre, il Bembo gli fece capire che quel tentativo non poteva aver seguito e che altra, se mai, era la strada da percorrere per dare dignità al volgare. Aldo, che non considerava fondamentale il problema del volgare ma era uomo capace di recepire nuove istanze, aderì al programma del giovane patrizio veneziano. Così quando nel 1501 iniziò la pubblicazione della famosa collana in carattere corsivo e di formato tascabile, a un Virgilio e a un Orazio fece seguire, nel luglio, l’edizione delle Cose volgari di M. Francesco Petrarca curata dal Bembo. Era un avvenimento di grande importanza. Per la prima volta un’opera volgare veniva pubblicata con lo scrupolo filologico usato per gli scrittori greci e latini: il Canzoniere veniva così accolto nella ristretta cerchia dei classici. Nell’explicit l'editore avvertiva che il testo era stato «tolto con sommissima diligenza dallo scritto di mano medesima del poeta, avuto da M. P. Bembo»; e poiché già all’uscire delle prime copie molti si mostrarono increduli, negli ultimi esemplari fu inserito un foglietto, in cui Aldo affermava risolutamente che l’edizione derivava dal «testo diligentissimamente da esso [Petrarca] scritto in buona charta, il quale io appo il sopradettovi M. Piero Bembo ho veduto, che altri libri ha di man pure del nostro Poeta». Era soltanto una trovata pubblicitaria; tuttavia questo desiderio di presentare l’aldina come un'edizione critica è significativo, tanto più che Aldo nel difendere le lezioni controverse rivendicava la propria conoscenza delle regole del volgare, fra l’altro contro la diffusa opinione che «si dee la volgare lingua accostare più nostra materia presente», in Leztere, cit., I, p. 62), ora come pretesto per convegni galanti (31

agosto 1500: «portate el libro vostro per bon rispeto»; 20 settembre 1500: «e con scusa di tor il libro»), come la Savorgnan dice esplicitamente il 20 luglio 1500: «dimane a dodese ore andate a Rialto e trovate Bernardino e ditegli che volete venir a visitarmi, e non credendo disturbar, con quel modo che sapete, dite mo che avete ocio, verete a legere el vostro libro, e dite come che voi credesti di fargli grande apiacere», M. SAVORGNAN- P. BEMBO, Carteggio, cit., pp. 26, 31, 6). Altre volte invece si interpone fra i due amanti come un’occupazione che tiene il Bembo lontano dalla donna: «Penso che siate drieto gli Asolzni, perché non mi avete ateso non so che (anzi so ben che, come dite voi), che in una letera vostra, el giorno che fosti da me, mi fu

promesso; ma lasciamo andare: sequite l’opera, che li cieli vi conduchino al disiato porto» (31 luglio 1500; ivi, p. 11).

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17,7

che si puote» al latino, e anche contro il moderno uso toscano che talora si era allontanato da quello trecentesco 7. Nella fortunata collana uscirono poi molti testi greci e latini, e tra questi — secondo testo volgare — l'edizione bembiana della Commedia (agosto 1502), arbitrariamente intitolata Le terze rime di Dante. È un'edizione filologicamente discutibilissima ma assai notevole perché lascia trasparire precisi convincimenti sulla storia della nostra lingua e letteratura. Il Bembo, infatti, ignorò la vulgata quattrocentesca e, fondandosi su un buon codice trecentesco di ascendenza | boccacciana e petrarchesca (l’attuale Vaticano Latino 3199), scrisse di sua mano

— come se dovesse pubblicare un’opera inedita — il testo da stampare in quello che è oggi il codice Vaticano Latino 3197. In tal modo egli eliminava sistematicamente ciò che a suo parere era frutto di contaminazioni quattrocentesche, mostrando di avere ormai compreso che la lingua toscana del Trecento era ben diversa, e sopra tutto più pura e più nobile, di quella del secolo successivo, corrottasi per il gusto popolaresco e per il pregiudizio umanistico secondo il quale il volgare deve accostarsi il più possibile al latino. Questa rottura con la tradizione suscitò reazioni, specialmente a Firenze, come mostra la giuntina del 1506; ma, grazie anche alla riedizione del 1515 «nelle case d’Aldo e d’Andrea d’Asola», l'edizione bembiana finì per diventare la vulgata cinquecentesca della Commedia. Nel frattempo andava crescendo l’insofferenza del giovane patrizio per gli impegni familiari, per l'aristocrazia veneziana e per la funzione subordinata che in quella società, pur sempre mercantile, era assegnata alla cultura. Non siamo ancora al distacco definitivo, ma ormai il suo comportamento era del tutto alieno dalle consuetudini della nobiltà veneziana. L’ambiente ferrarese lo attraeva sempre più. Nella città estense era tornato più volte per rivedere la Savorgnan, che vi si era trasferita nel febbraio del 1501; poi, nell’ottobre del 1502, accettò l’invito di Ercole Strozzi a soggiornare nella sua villa di Ostellato, dove poté attendere serenamente agli studi, non senza recarsi di quando in quando nella città dov’era la corte più splendida che egli conoscesse e dov’era entrato in rapporto con Alberto Pio, il protettore di Aldo Manuzio, con l’Ariosto, il Tebaldeo, il Sadoleto, per non citare che i nomi più famosi.

Alla fine del 1502

gli Asolazi erano

compiuti , anche

se qualche

ritocco fu forse provocato dal nuovo e più pericoloso amore che nel 1503 accese il Bembo per Lucrezia Borgia, da poco giunta a Ferrara, sposa in terze 27 A. Manuzio EpITORE, Dediche. Prefazioni. Note ai testi, cit., I, pp. 28 Da Ferrara il 24 dicembre 1502 Pietro scriveva al fratello Carlo Asolani il più presto possibile: «i quali se fossero a Campo San Piero con priego, incontanente d’avergli. E manda alcun per essi, e avuti, involgili

52-4. di mandargli gli M. Trifone, fa, ti in carta grossa, €

appresso in una tela cerata, e dagli a M. Pier Corboli dicendogli che sono scritture d’importanza. E indirizzagli a M. Ercole [Strozzi] con una tua. M. Piero gli manderà per lo primo fante sicuri. Scrissi di ciò l’altr’ieri a M. Vincenzo [Quirini]. Sarai con lui, e sopra tutto vedi che egli, o M. Trifone [Gabriele], o amenduni, mi scrivino se vhanno trovato cosa da mutare» (Lettere, I, cit., pp. 137-8). E il 3 giugno 1503 mandava a Lucrezia Borgia «il primo degli Asolani» e dichiarava al fratello d’aver ricevuto Lavinello e Perottino, e di attendere Gismondo (Lettere, I,

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nozze di Alfonso d’Este, figlio primogenito del duca Ercole I. Per lei sfoderò ancora le squisite galanterie di cui era stato prodigo alla Savorgnan, né trascurò di farle leggere il libro che era stato galeotto nel precedente amore. Ma la morte del carissimo fratello Carlo, avvenuta

il 30 dicembre

1503, lo costrinse a

lasciare Ferrara e la bionda duchessa e a occuparsi di questioni più urgenti della stampa degli Asolani: non essendoci altri che potesse continuare la tradizione

familiare (l’altro fratello, Bartolomeo, era illegittimo), egli dovette far fronte ai

suoi doveri di primogenito di una famiglia patrizia. Le candidature che nel 1504 presentò successivamente

per ambascerie in Francia, in Germania

e in

Borgogna però furono respinte l’una dopo l’altra.

4. Quando infine vennero pubblicati, da Aldo nel marzo del 1505 ?, gli Asolani misero a rumore il mondo letterario. Per l’audacia delle proposte e dei risultati artistici, quest'opera rischiava di spiacere a un tempo agli ambienti umanistici e cortigiani. Il Bembo insomma usciva allo scoperto e manifestava chiaramente la volontà di rinnovare la letteratura contemporanea; la sua era un’opera d’avanguardia, tale fra l’altro da metterlo ancor più in cattiva luce presso l’aristocrazia veneziana che ormai non poteva più aver dubbi sui suoi interessi meramente ed esclusivamente letterari. Gli Asolani erano nati da reali esperienze biografiche, da un amore infelice,

dalla riflessione su recenti esperienze sentimentali. Ma il Bembo non si accontentò di esprimere — come ciascuno allora si sarebbe aspettato — pene e gioie d’amore in versi latini o volgari; si propose mete più ambiziose: comporre le proprie esperienze sentimentali e in genere i conflitti d'amore secondo schemi letterari e culturali; e insieme spiegare la tradizione poetica italiana con la dottrina neoplatonica che, conferendo all'amore una funzione fondamentale nella vita spirituale dell’uomo, a Firenze aveva già favorito il ricupero dei poeti d’amore italiani, a cui era stata conferita una nuova dignità. L’insegnamento ficiniano veniva però riinterpretato alla luce della società cortigiana, come subito appare dalla finzione di un dialogo avvenuto nella corte di Asolo, l’unica

cit., p. 145). Il 24 luglio 1503 scriveva a Lucrezia Borgia: «Quanto a’ miei Asolari, io porto loro una grande invidia per più rispetti: essi non sperarono giamai che tanta felicità dovesse essere la loro. In buon punto eglino nelle vostre mani vennero. M. Lodovico mi scrive che a loro non fa più mestier d’uscire ad essere dal mondo letti per aver gloria, ché più di quella che essi già hanno, a loro venir non può» (ivi, p. 153). La duchessa dovette apprezzare l'omaggio se più volte ne sollecitò la stampa. A lei il 22 settembre 1504 il Bembo infatti rispondeva: «M. Ercole [Strozzi] m'ha sollecitato, per nome di V.S., a mandar fuori gli Asolani, molte volte, né

bisognava che esso me ne sollecitasse mezza una, ché non mi sono ancora dimenticato quanto sia l’obligo che io a V. S. tengo, né dimenticherò mai. Tuttavia alcune mie molto importanti occupazioni non m'hanno lasciato potere, fin questo dì, al sommo disiderio mio di sempre ubidire: V. S. sodisfare. Ora, sì come io dissi a messer Ercole, gli ho pure dato l’ultima mano, e in quanto per me uscirebbono domani, ché non gli ho più a rivedere altrimenti. Quello che mi può ritenere a lasciargli da me partire ancora qualche giorno e mese M. Ercole sa, ché gle n’ho parlato» (ivi, I, pp. 180-1).

2°Non

tutti gli esemplari

presentano

la dedica a Lucrezia

Borgia:

forse quando la

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ufficialmente ammessa in territorio veneziano. Solo in questo ambiente, infatti,

trovano una giustificazione la raffinata eleganza, le figure stilizzate, il paesaggio e le movenze che il Bembo aveva imparato ad amare nella cornice del Decamzeron, nonché

la recitazione di liriche d’amore e una

discussione

su materia

filosofica a cui partecipano anche tre donne. Non per niente all’inizio del terzo libro l’autore rispondeva seccamente alle prevedibili critiche di coloro che l'avrebbero biasimato in ciò, che io alla parte di queste investigazioni le donne chiami, alle quali più s’acconvenga negli uffici delle donne dimorarsi, che andare di queste cose cercando. De’ quali tuttavia non mi cale. Per ciò che se essi non niegano che alle donne l’animo altresì come agli uomini sia dato, non so io perché più ad esse che a noi si disdica il cercare che cosa egli sia, che si debbia per lui fuggire, che seguitare; e sono queste tra le meno aperte quistioni, e quelle per aventura, d’intorno alle quali, sì come a perni, tutte le scienze si volgono, segni e berzagli d’ogni nostra opera e pensamento. Che se esse tuttavolta a quegli uffici, che diranno que’ tali esser di donna, le loro convenevoli dimore non togliendo, negli studi delle lettere e in queste cognizioni de’ loro ozii ogni altra parte consumeranno, quello che alquanti uomini di ciò ragionino non è da curare, per ciò che il mondo in loro loda ne ragionerà quando che sia.

Il Bembo, insomma, appunto perché non prescinde dal costume cortigiano, estende il concetto d’amore, che per i ficiniani era sopra tutto ascesi virile, all'amore dell’uomo per la donna e conferisce a questa una dignità che le era negata dalla più accreditata trattatistica, anche se era ben visibile nelle corti, dove le donne non erano più lontane ispiratrici di poeti ma animatrici di cultura, dotate di viva curiosità intellettuale. Il sapore salottiero e la raffinatezza di limitato respiro, che si avvertono negli Asolari, sono sintomi di una adesione alle convenzioni cortigiane, che tuttavia non è acritica: alla società più raffinata e disimpegnata che egli conoscesse il Bembo si accostava per rinnovarla e trasformarla, estraendone quanto, a suo parere, vi era di valido per fare della letteratura un valore sociale, anzi il lievito di una nuova civiltà. Alla letteratura, più che alla filosofia, egli chiedeva strumenti capaci di interpretare la vita. Perottino, Gismondo e Lavinello, che hanno all’incirca la sua età, sono poeti d’amore in volgare. Manifestano contrastanti concezioni d’amore, derivate non da diverse scuole filosofiche ma da opposte esperienze

sentimentali; in essi s'incarnano aspetti discordanti a un tempo dell’animo del Bembo e della tradizione lirica italiana. Gismondo è forse quello in cui più chiaramente si riconosce l’autore, che poi nelle Stanze avrebbe mostrato grande sensibilità per l’amore gioioso celebrato nel secondo libro degli Asolari: un particolare rivelatore si ha nel capitolo xvi del II libro, dove la sua età viene precisata in ventisei anni, l’età che il Bembo aveva quando cominciò a scrivere gli Asolani o quando immaginava che fosse avvenuta la discussione alla corte della regina di Cipro. Nella prima edizione, anzi, in quello che ora è il capitolo stampa era già inoltrata e molte copie legate, il Bembo si convinse che quell'amore esaltante ma impossibile apparteneva ormai al passato.

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vii del II libro, Gismondo recitava la canzone A quai sembianze Amor, nel cui penultimo verso si nasconde il nome della Savorgnan (ora è la LXXIII delle Rime). Sono corrispondenze che è bene sottolineare non per privilegiare Gismondo su Perottino e Lavinello, in cui non meno si esprime l’animo dell’autore, ma per ricordare che il significato degli Asolani non è tutto nella tesi neoplatonica esposta dal Romito. La concezione ficiniana piaceva al Bembo non tanto per il suo intrinseco valore filosofico quanto per le forti suggestioni letterarie: la tensione verso alti ideali umani e artistici, la ricerca dell'armonia e

della bellezza come realizzazione piena dell’uomo. Certo nei frequenti richiami da libro a libro molte difficoltà vengono affrontate e superate, e chiarissimo è lo svolgimento ideale dall’amore infelice, attraverso quello sensualmente gioioso, al perfetto e inesauribile amore di Dio e, in Dio, della natura e dell’arte; ma è pur vero che nel dialogo quello che più conta è la realtà, forte fino a essere invadente, di quei tre giovani e delle loro diverse esperienze d’amore. Al Bembo in effetti non interessava la dialettica fra le diverse concezioni, bensì lo

studio della fenomenologia amorosa che si era espressa nella lirica volgare e si era tradotta in schemi letterari di cui già si era servito per sublimare le proprie esperienze d’amante. Non stupisce pertanto che il terzo libro, quello appunto in cui avrebbero dovuto essere sciolte le contraddizioni dei primi due, sia il più debole, il meno vivo, gracile ancor più dei precedenti. Comunque, sotto il segno dell’amore spirituale e grazie all'importanza che a questo aveva attribuito il neoplatonismo fiorentino, la letteratura volgare mostrava continuità e peculiarità che la rendevano autonoma e differente dalla latina. Ma era la continuità di una tradizione esclusivamente poetica, che dagli stilnovisti giungeva fino al Bembo stesso e aveva il suo capolavoro nel Canzoniere del Petrarca. Nella prosa, invece, mancava una tradizione stilistica a cui rifarsi e non si dava nessuna esperienza omogenea a quella petrarchesca: si doveva per forza di cose compiere una scelta non giustificabile né storicamente né culturalmente. Al Bembo sembrò che soltanto le opere del Boccaccio fornissero un modello capace di richiamare il fiorentino alla sua purezza trecentesca, superando d’un balzo l’ibridismo, l’irregolarità di forme, il tono popolaresco di gran parte della prosa toscana del Quattrocento. Certo non poteva sembrargli altrimenti; ma forse allora egli non sapeva ancora riconoscere con rigoroso spirito critico i difetti delle opere giovanili del Boccaccio, il cui esempio linguistico e stilistico — a giudicare dai risultati — pare che gli fosse presente non meno che quello del Decameron. Nella prima edizione c'è ancora qualche concessione a spunti novellistici, che non comparirà nella successiva; ma, nel complesso, evidente vi è già la rinuncia a servirsi della vasta casistica che facilmente si sarebbe potuta ricavare dalla «commedia umana» del Decazzeron, la quale ha pur sempre al suo centro l’amore: un amore, però, inconciliabile con il platonismo, con il Petrarca. Pertanto il Boccaccio finì per essere un modello di lingua piuttosto che di stile, un modello grammaticale e di livello molto inferiore a quello petrarchesco. Rifiutando sia la Koinè cortigiana sia il fiorentino contemporaneo per realiz-

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zare una lingua non meno ardua e letteraria del latino, il Bembo compiva un esperimento per i tempi inaudito, simile a quello tentato dal Sannazaro nell’Arcadia, ma assai più radicale perché egli accettava il volgare con piena fiducia, senza idealizzare o travestire la realtà per compensare con allegorie o finzioni pastorali la minor dignità della lingua. Le reazioni pertanto non mancarono, come ci testimonia Mario Equicola che già nella redazione manoscritta del Libro de natura de Amore (databile fra il 1505 e il 1508) difende gli Asolani da

. coloro che «nella soluta oratione vituperano la electione del toscano idioma, il frequentare di plebeie parole et di alcune antiquate lo affectare, como se non fosse licito a ciascheuno parlare in altra lingua che in la patria». Nella stessa difesa, del resto, trapela una mentalità estranea all'esperimento del Bembo che, secondo il letterato alvitano, «havendo deliberato scrivere in toscano» — cioè in una lingua straniera — «fece da prudente tucto effingerse et componerse ad quella lingua»: «Laudo lo usare di parole dal mezo de la plebe deducte, per essere grandissimo vitio non seguire el commune senso del parlare [...]. Se alcune parole, ià vecchie in Toscana a’ nostri tempi, per renovarle in la opera sparge, è che se recordava havere in M. Tullio lecto le antiquate parole deversi spargere per la oratione, como le gemme per la veste» 7°. Per l’Equicola, come per Battista Fregoso che da tempo aveva pubblicato in volgare un trattato d’amore, l’Arteros (Milano, L. Pachel, 1496), il toscano era solo uno fra i tanti volgari italiani, tutti egualmente imperfetti perché frutto della corruzione del latino. Come prima il Fregoso, egli usava il volgare per necessità, come un ripiego impostogli dalla destinazione della sua opera: la società cortigiana, in cui le donne avevano un posto sempre più grande e il volgare era d’obbligo; ma appunto perché ne sentiva l’inferiorità, cercava di nobilitarlo in ogni modo e sopra tutto riconducendolo il più possibile al latino, nel quale, secondo lui, andava ricercata la sua natia purezza. Il Bembo invece mostra fin d’ora d’aver compreso il fondamentale principio che ogni lingua deve cercare la propria perfezione in sé, nella propria storia, e non altrove: non accattando una discutibile bellezza dal latino, ma tornando al proprio periodo aureo, il volgare doveva e poteva competere col latino. Avviene così che negli Asolari, fin dalla prima edizione, i latinismi sono rari e le parole trovano quasi tutte la loro autorizzazione nel Boccaccio, o direttamente o grazie al principio di analogia che tanta applicazione — per forza di cose — aveva nello studio del latino. Il volgare diveniva così una lingua gracile, povera di esperienze; eppure questo era il prezzo che doveva pagare — in una nazione lontanissima dall’unità politica e divisa in una miriade di dialetti — per imporsi come lingua nazionale almeno della letteratura e dell’alta conversazione intellettuale. Non si potrà dire col curatore dell’edizione postuma (1553) che negli Asolari il Bembo aveva «una

lingua per lungo secolo morta e nella oblivione degli uomini sepelita in luce rivocata, e alla sua natia bellezza e splendore e perfezzione condotta» (così che «non s'ha a dubitare da questo libro solo potersi agevolmente ritrarre la vera

30M. EquicoLa, Libro de natura de Amore, Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino, ms. N. III. 10, cc. 53 v. -54.

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forma della toscana eloquenza»), tuttavia bisogna convenire che i primi Asolari hanno una notevole importanza linguistica, anzi che si tratta di un’opera capitale nella storia della nostra lingua nazionale. Non per questo è un’opera riuscita. Anche a una lettura sommaria risulta la frondosità, la freddezza, l’oltranza stilistica, lo scarso distacco dalla materia, la debolezza concettuale; insomma la mancanza proprio del maggior requisito dell’arte classica: la misura. Appunto carenza di misura mostra la maniera in cui sono utilizzati gli elementi stilistici che il Bembo aveva trovato nel Decazzeron e sopra tutto nelle opere giovanili del Boccaccio: abuso di superlativi, spesso accoppiati; aggettivazione esornativa assai insistita; verbi monotonamente in clausola finale; gerundi posposti all’oggetto, avverbi, attributi, complementi sistematicamente anteposti; iperbati; parallelismi, chiasmi, ripetizione della stessa parola in clausola, ecc. Inoltre, come ha scritto il Segre, il Bembo conferisce al ritmo una preminenza inconsueta: «tutto il periodo, con le immagini stesse che deve rappresentare, segue con i suoi piano e i suoi forte, le sue pause i suoi crescendo, un disegno melodico prestabilito e in definitiva stucchevole», ottenuto con una «continua spezzatura, a caleidoscopio, delle proposizioni, e l’inserzione di incidentali riempitive per necessità melodica» #. È una prosa che non ha nervature logiche, ma solamente nessi retorici.

Anche a livello semantico gli elementi sono boccacceschi ma usati con un’intemperanza che denuncia insicurezza e affettazione. Basti ricordare l’abuso di aggettivi in -evole (schifevole, notevole, rischievole, quistionevole, trabocchevole, non dicevole “indecente”, disievole, nimichevole, inchinevole, lusinghevole, lagrimevole, paventevole, sopportevole, discernevole, piagnevole, ramarichevole,

festevole, fratellevole, penetrevole, giochevole, mormorevole, parevole, stanchevole, confacevole, guerreggevole, trascorrevole, sembievole, diportevole, maestrevole, acccettevole, salutevole, spazievole, ecc. ecc.; fino a superlativi come salutevolissimo) e dei relativi avverbi in -evolmente (vituperevolmente, sollazzevolmente, scherzevolmente, fratellevolmente, abondevolmente, inchinevolmente, ecc.; fino a

superlativi come ma/agevolissimamente), di sostantivi in -mento (pungimento, abbracciamento, alleggiamento, fingimento, cessamento, pensamento, vagimento, discorrimento, dimostramento, recamento, raccontamento, obliamento, nascondi-

mento, ascoltamento; III, v: «risvegliamento d’ingegno, sgombramento di sciocchezza, accrescimento di valore, fuggimento d’ogni voglia bassa e villana», ecc.), in -fore (I, xvii: «molte volte rischievoli andatori di notte, portatori d’arme, salitori di mura, feritori d’uomini diveniamo»; II, ii: «di liberalissimo donatore di riposo, di dolcissimo apportator di gioia, di santissimo conservatore delle genti [...] rapacissimo rubator di quiete, acerbissimo recator d’affanno»; II, xxix: «delle nostre donne ricevitori [...] e conservatori fidelissimi e dolcissi-

mi renditori»), di parole formate con prefissi, spesso meramente esornativi (ravolgere, raccendere, ramemorare, rasciugare, racconfortare, raviluppatissima, ramorbidare,

raffrenare,

raccomunare,

rattenere,

racconoscente,

ecc.; disaggua-

31 C. SEGRE, Edonismo linguistico nel Cinquecento, in Lingua, stile e società, Milano 1963, pp. 360-61.

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glianza, disaventure, disvolere, discaro, disamare, discordare, ecc.; riturare, rifavellare; I, xxxi: «sono le riconcigliagioni non sicure; sono le rinovagioni», ecc. soprapreso, sopraveduto “molto avveduto”, sopragravare, sopravincere, re re, ecc.; sottomordere, sottostare, ecc.), di diminutivi e vezzeggiativi, di participi presenti con valore verbale, di infiniti sostantivati, ecc. Né mancano quelle parole che più davano l'impressione dell’affettazione toscaneggiante: 4vacciare, chente, sanza fallo, guatare, lavorio, ecc. E si pensi anche a costrutti volutamente

arcaicizzanti, come nella collocazione delle particelle pronominali: I, xxii: « per vi pure poter pervenire»; farlovi; prestarlami, ecc. Pertanto è quasi con sorpresa

che incontriamo ancora qualche venetismo come frezzolosi, tanto bene il Bembo è riuscito a costruire (e lo si dice fuor di metafora) la sua lingua. Eppure, malgrado tanto sfoggio di eleganza, nella prosa degli Asolari, come riferisce l’Equicola, si poté vedere un eccesso di forme plebee; e questa censura serve, se non altro, a capire la situazione culturale che indusse il Bembo a una così insistita ricerca di abbellimenti retorici e linguistici. Tutto questo vale per la prima come per l’edizione definitiva del 1553. Le correzioni, apportate sopra tutto nella seconda edizione (1530), sono molte e minute; eppure, malgrado la loro alta frequenza, non mutarono — così almeno mi pare — le caratteristiche della prosa degli Asolari, alla quale soltanto si riferiscono queste considerazioni: conferiscono maggior equilibrio e ritmo più raffinato alla frase, eliminano incertezze linguistiche, mostrano nuove tendenze

fonetiche, morfologiche, lessicali; nel complesso però mi sembrano un perfezionamento del primitivo sistema, non un rinnovamento. Più interessanti sono forse le soppressioni, ma anch’esse mirano a eliminare qualcosa di eterogeneo

che era rimasto nella prima edizione.

5. Il 9 aprile 1505 Pietro partì per Roma al seguito del padre che faceva parte di un’ambasceria straordinaria inviata dalla Serenissima a Giulio II. Nel ritorno con l’amico Paolo Canal si staccò dalla comitiva e si fermò alla corte d’Urbino e poi a Ferrara e a Mantova dove fu presentato alla marchesa Isabella Gonzaga. Tornato a Venezia, fece gli ultimi tentativi per intraprendere la carriera diplomatica, ma la sua candidatura ad ambascerie fu sempre respinta: la nobiltà veneziana, che vedeva nello studio solo una preparazione alla vita pubblica, evidentemente non era disposta ad accordar fiducia a un puro letterato, come egli era. L’ostilità del resto era reciproca. A Bernardo Dovizi da Bibbiena il 29 agosto 1505 scriveva: Giurovi per solo Idio che io non mi posso per niente conformare e rachetare a questa nostra o ambiziosa o mercantile vita, e a prender, come si conviene a chi in questa comunanza dimora, i costumi della città e la maniera delle sue genti, in modo mi siede nell'animo l’antico mio disiderio sì degli studi — i quali in tutto mi toglie o la nostra universale ambizione o il mercantare, che qui è in prezzo e ad usanza — e sì di quel vostro vivere cortese e libero di Roma, che ogni dì più m’accende e sollecita che io il cerchi. Vorrei o potere amar questo modo di vivere, che può non di meno essere e

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splendido e illustre molto a chi vi si mette animoso e di voglia, poscia che io dentro vi libertà, poterla oggimai tenere e possedere, e non o amando io l’ozio e cotesta sono, O Crati z 2 % disiderarla e agognarla sempre invano, come io fo, né posso altramente fare ?2.

Voleva dunque trasferirsi altrove, in un ambiente come quello romano in cui meglio avrebbe potuto soddisfare le proprie aspirazioni; ma non era decisione che si potesse prendere alla leggera: un patrizio veneziano non poteva mettersi al servizio di un signore straniero se non rinunciando ai diritti che gli derivavano dalla sua condizione di nobile e allo stesso stato laicale. Gli occorrevano pertanto appoggi e favori, per i quali confidava nel cardinale Galeotto Franciotti della Rovere, giovane e potente nipote di Giulio II, a cui, raccomandandosi per una sistemazione, l’8 ottobre 1505 scriveva: «Confessovi che il primo e più intenso disiderio mio è sempre stato di poter vivere in commoda e non disonorevole libertà, affine di mandare innanzi gli studi delle lettere, che sono in ogni

tempo stati il più vital cibo del mio pensiero» ?. Le intenzioni del Bembo e le difficoltà che gli si frapponevano risultano chiaramente dalla sua lettera del 3 maggio 1506 alla duchessa d’Urbino, Elisabetta Gonzaga, e a Emilia Pio: tutto questo anno [...] sono sempre stato in ordinare di potere andare a Roma, e starvi

due o tre anni, a fine di tentar quella fortuna alla quale parea, mercé di voi e di Monsignor Vicecancelliere [Galeotto della Rovere], che il cielo favorevole mi si dimostrasse se da me non fosse mancato; e per levarmi da questa maniera di vivere nella quale ora sono, che essere non mi potrebbe più discara. E in tal pensiero stando ho indarno consumato alquanti mesi, sperando di ottener di giorno in giorno che M. mio padre, che non volea udire che io mi dipartissi, alla fine se ne contentasse, e favoreg-

giasse questa mia gita. Il quale, prima con ogni guisa di persuasione avendo tentato di rimuovermi dall’impresa e di volgermi a seguir la via dell’ambizione e de gli onori nostri, vedendo non poter con questo modo trarre a forma e colorire il suo dissegno, s'è ito imaginando e stimando, col negarmi di dare alcun favore all’andata non potendo io da me valermi alle Romane spese — che sono grandi, massimamente volendo io essere in Roma secondo la qualità del mio stato —, che io me ne abbia a rimanere mal mio grado. E così egli l'andare a Roma non mi vietava poscia che egli non potea vietarlomi, ma il favore a ciò del tutto m’interchiudea, dicendomi non volere essere

egli stesso procuratore del mal suo; non rimanendo tuttavia di sollecitarmi, quando per una via e quando per altra, a pigliar moglie.

A Venezia non poteva restare, perché di certo gli sarebbero avvenuti «due mali grandissimi»: «l’uno è che io vo a rischio di prendere un dì moglie, mal mio grado, la qual cosa ho diliberato che mai non sia; l’altro, che almeno gitterò via e disperderò il mio tempo in cose noievoli, lasciando gli studi che sono il cibo della mia vita, e quel bene, con ricordo del quale ogni altra noia passo e porto oltre leggiermente». Pertanto, con orgogliosa consapevolezza delle proprie capacità — gli pareva di avere la possibilità di «cogliere alcun frutto di quelli che 32 Lettere, I, cit., pp. 196-7.

33 1wipE»p: 202:

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possono tener vivo altrui più che un secolo» — annunciava fermamente la sua decisione: «ho diliberato senza fallo alcuno di partirmi non solo in tutto dalle nostre ambizioni, ma ancora di queste contrade, e nascondermi in alcuna parte dove ozio a gli studii non mi manchi». Non essendo in condizioni di vivere onoratamente a Roma_e non volendo vivervi disonoratamente («ché se ben picciola fortuna ho» scriveva «non posso però aver picciolo ancor l’animo, almeno in sì grande et illustre luogo»), chiedeva alle due nobildonne di poter «avere stanza nella Badia della Croce dell’Avellana [...] non solo qualche mese,

ma ancora qualche anno». vissuto

«senza

In quell’ambiente di idilliaca solitudine sarebbe

rancori d’animo

e senza

maninconia»,

attendendo

all’onorata

impresa delle lettere, «la quale quanto più è abondevole d’ozio, tanto più caro frutto rende di sé a’ suoi posseditori, e più grazioso»: «Seppeselo quel valoroso Tosco che noi ora cotanto amiamo e onoriamo, il quale tra tutte le parti della sua vita di nessuna tanto si sodisfece, né tanto frutto ne colse, quanto di que’ diece anni che egli a Sorga solitariamente dimorando, si stette. Per che se io altri diece ne facessi all’Avellana, arei chi seguitare» ?4. Non restò dieci anni alla Badia e tosto si recò a Urbino, accettanto l’ospitalità offertagli da Guidobaldo da Montefeltro e da Elisabetta Gonzaga; ma il suo rifarsi al Petrarca come a un modello di vita non è da trascurare, anche se finì per imitare il maestro in atteggiamenti esteriori piuttosto che in fatti sostanziali: questo infatti dipese da quanto poté comprendere della lezione petrarchesca. La sua decisione, oltre che addolorare il padre, sconcertò buona parte degli amici, come, per esempio, mostra la lettera del 10 dicembre 1506 al fratello Bartolomeo, in cui se la prende con tutti coloro che pretendevano di erigersi a giudici del suo comportamento: E quanto alla maraviglia che hanno tutti i miei che io stia in Urbino, dico che io di tutti loro mi maraviglio che essi credano che io sia folle, che io non sappia quello che mi fo. Sappi che io ci sto non punto senza cagione. E se io più operassi, e meglio mi mettesse lo essere in corte che qui, io vi sarei. Lascia pur dir chi vuole. Essi sono sciocchi, che credono soli esser savi, e saper meglio l’altrui bisogna che quelli non sanno di cui essa bisogna è. Se Dio mi darà vita, e il mondo non si muova di stato alcun mese ancora, spero che essi diranno che io sarò stato savio a far quello che io ho impreso a fare. E posto ancora che il mondo si cangiasse, e il Papa si morisse, non crederei per ciò essere a men buona condizione che io ora mi sia. Ma tu nondimeno tieni queste cose in te e lascia giudicar ciascuno a modo suo, ché la maggior parte di loro non si mirano più oltra che i piedi. E acciò che tu non creda che la usanza di queste Madonne mi faccia dimentico di me stesso, sii certo che io non dormo [...]. Delle spese soverchie delle quali son ripreso, non ti dar noia, ché io non sono così trascurato come mi fanno i Salomoni di costà ”.

34 Ivi, I, pp. 216-9.

35 Ivi, I, pp. 232-4.

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Da Urbino egli contava di passare a Roma, grazie alla protezione dei della Rovere; nella piccola corte, nello splendido ambiente che il Castiglione avrebbe ritratto nel Cortegiano, rimase invece quasi sei anni e vi strinse amicizia con un

eletto gruppo di letterati e gentiluomini: oltre al Castiglione, Giuliano de’ Medici, Bernardo Dovizi da Bibbiena, Ottaviano e Federigo Fregoso, Ludovico

da Canossa, Cesare Gonzaga e altri. «Delle cose che qui sono» scriveva il 9 settembre 1507 a Latin Giovenale «poco vi posso scrivere, altro se non che si ride, si scherza, si giuoca, si burla, si festeggia, si studia, si compone eziandio

alle volte» 39. La stessa vita di corte favoriva la sua attività di poeta volgare: come risulta dal Tirsi e dal Cortegiano del Castiglione egli era famoso sopra tutto come rimatore e teorico d’amore. Sono di questo tempo due componimenti coi quali sembra voler dimostrare che, oltre lo stile petrarchesco degli Asolari, altre vie sono aperte al volgare, sia nello stile più alto sia in quello più umile: la lunga canzone in morte del fratello

Carlo, in cui vi è l’evidente tentativo di riprendere l'andamento eroico della poesia classica; e le Stanze, che egli recitò in maschera con Ottaviano Fregoso l’ultima sera di carnevale del 1507. La canzone Alma cortese (Rime, CXLII) — come ha scritto il Dionisotti — «nel 1507 apparve documento primo e decisivo di una più ambiziosa poesia, dello stile tragico che Dante aveva assegnato al metro per l’appunto della canzone» ?”. Le Stanze — di stile comico e nel metro tipico della poesia narrativa e descrittiva del Quattrocento — erano invece un divertimento letterario, compiuto per allietare una compagnia di amici raffinati; infatti, qualche giorno dopo, il 18 febbraio, il Bembo spiegava al Fregoso che le Stanze, «dettate in brevissimo spazio, tra danze e conviti, ne’ romori e

discorrimenti» del carnevale «sono di qualità, che sì come il pesce fuori dell’acqua la sua vaghezza e piacevolezza non ritiene, così elleno fuori della occasione e del tempo loro portate non averanno onde piacere» ’8. Allo stesso ambiente scanzonato riconduce un’altra opera che si allontana dai canoni petrarcheschi, i Motti, in cui il Petrarca — sono parole del Marti — «è veramente umiliato a repertorio lessicale e a trita riserva di immagini e di locuzioni a disposizione di un gioco talora così grossolano, che finisce per rasentare l’osceno» ??: servirono probabilmente a quei giochi di società che furono tanto in uso nelle corti rinascimentali. Ma se i Mot# furono rifiutati dal Bembo, le Stanze furono ancora corrette dall’autore ormai vecchissimo e destinate all’edizione postuma. Di stile comico — e del tutto eccezionali nell’epistolario bembesco — sono le lettere che in questo periodo egli scrisse al Bibbiena: contengono confidenze, speranze, pettegolezzi, ma in un linguaggio gergale in cui i personaggi sono designati con nomi arcani: Aurora, Navicella, Cimba, Plasma, Penelope, Topazio, Gennaio, Agosto, ecc. Ma fuor d’ogni scherzo torna assillante in queste 36 Ivi, I, p. 256. 37 P. BemBO, Prose e rime, cit., p. 625. 38 Lettere, cit., I, p. 248.

39 Opere in volgare, cit., pp. XXIV-XXV. da V. Cian (Venezia 1888).

I Motti inediti e sconosciuti furono pubblicati

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stesse lettere il desiderio di trasferirsi a Roma. La vita di corte infatti poteva essere una piacevole parentesi, ma solo la carriera ecclesiastica avrebbe garantito al Bembo quell’otiu72 che egli considerava indispensabile per gli studi letterari. Gli occorreva un beneficio ecclesiastico tanto redditizio da rendergli agevole «la stanza Romana, alla quale» scriveva al Bibbiena il 13 settembre 1507 «mi pare ogni dì uno anno che io dia incominciamento» ‘°. Ma le cose procedevano ben più lentamente di quanto egli non desiderasse. Nel gennaio del 1508 ottenne da Giulio II la commenda di San Giovanni dell’ordine gerosolimitano a Bologna; tuttavia solo nel 1517 poté entrare in possesso di questo beneficio. Per di più nel 1508 a pochi mesi di distanza morirono Guidobaldo da Montefeltro (1’11 maggio), a cui successe il ben diverso Francesco Maria della Rovere, e il cardinale Galeotto Franciotti della Rovere (111 settembre), che più di tutti

aveva appoggiato il Bembo presso il papa. 6. Le gravi condizioni di Venezia — che nel 1509 fu prostrata dall’interdetto, dalla gravissima sconfitta di Agnadello e dalla perdita di quasi tutto il dominio di terraferma — dovettero affliggere non poco il Bembo, il quale venne a trovarsi in una difficile situazione nei confronti del bellicoso Giulio II. Poi, a poco a poco, le cose migliorarono; ma ormai per il veneziano la partenza dalla corte urbinate era solo questione di tempo. A Federigo Fregoso il 1° gennaio 1510 tesseva le lodi di Leonora Gonzaga, la nuova duchessa, che era stata accolta festosamente a Urbino, ma insieme manifestava la sua ferma decisione di recarsi a Roma: «De Romana profectione nihil possum tibi certi scribere quo

tempore

[...]. Illud est plane firmum,

nos profecturos» ‘!. Intanto però

veniva raccogliendo le proprie rime in forma di canzoniere e le dedicava alla duchessa vedova: la raccolta, conservata nel codice Italiano IX, 143 della Biblioteca Marciana di Venezia, non è posteriore al 1510. All’inizio del 1512 si trasferì infine a Roma presso l’amico Federigo Frego-

so, di cui allora erano ospiti anche due eccellenti umanisti come Iacopo Sadoleto e Camillo Paleotti. Entrava così in un ambiente assai diverso da quello urbinate. I letterati romani, eccezion fatta per il Colocci e pochi altri, erano allora presi dal sogno di una restaurazione della latinità che significasse a un tempo esaltazione del potere papale; pertanto discutevano non su questioni d’amore e sulla poesia volgare bensì sulle letterature classiche e su problemi teologici. Il Bembo, che non lasciava mai niente all’improvvisazione, si era però adeguatamente preparato al mutamento. A Urbino non aveva trascurato il greco; aveva ripreso il dialogo filologico su Virgilio e Terenzio, e aveva composto il dialogo De Guido Ubaldo Feretrio deque Elisabetha Gonzagia Urbini ducibus (1509-1510): voleva giungere a Roma con una buona fama di latinista. Ma se ci

40 Lettere, cit., I, p. 258. 41 Opere, cit., IV, p. 197.

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fu calcolo in questo applicarsi al latino oltre che al volgare, bisogna pure riconoscere che le sue esercitazioni e ricerche procedettero sempre di pari passo nelle due lingue, chiarendosi a vicenda. Ed erano riflessioni serie, tant'è vero che a Roma poté subito manifestare in private discussioni la sua opinione sulla corretta forma della latinità, biasimando l’eclettismo e l’insufficiente cura forma-

le di coloro che allora scrivevano in latino. Pronta venne la replica di Gian Francesco Pico della Mirandola, che il 19 settembre 1512 gli indirizzò un’epistola in cui tornano le tesi esposte vent'anni prima dal Poliziano contro il Cortese, ma adattate ai fini di un umanesimo riformatore. Il Pico, che non era un letterato ma un filosofo e un teologo, si fonda su argomenti filosofici. Secondo lui nell'animo umano esiste, sia pure offuscata e imperfetta, l’idea universale del bello, alla quale — e non ai precetti retorici — ci si deve riferire per scrivere bene; tuttavia, poiché nessuno la possiede pienamente, occorre cercarla e in sé e nelle opere in cui si è manifestata in maniera eccellente. Il Pico pertanto condanna coloro che in maniera indiscriminata tentano di impadronirsi degli elementi esteriori dello stile ciceroniano e invece insiste sull’atto creativo che per un contenuto nuovo trova una forma nuova. Nella sua replica, datata 1° gennaio 1513, il Bembo respinge l’idea di uno stile che nasce quasi spontaneamente e condanna lo sperimentalismo che allora caratterizzava non solo la letteratura in latino ma anche quella in volgare. Egli non rinnega la propria attività di scrittore in volgare, anzi dichiara di non essersi potuto dedicare intieramente al latino, a causa del tempo impiegato nel tentativo di sollevare lo stile volgare dalla decadenza in cui era incorso: Non enim quantum potuimus, in eo impendimus vel temporis, vel laboris: quippe qui etiam vernaculo sermone quaedam conscripsimus cum prosa oratione, tum metro plane ac versu: ad quae quidem conscribenda eo maiore studio incubuimus, quod ita depravata multa atque perversa iam a plurimis ea in lingua tradebantur, obsoleto prope recto illo usu atque proprio scribendi; brevi ut videretur, nisi quis eam sustentavisset, eo FRI, ut diutissime sine honore, sine splendore, sine ullo cultu dignitateque iaceret ‘2,

Per risollevare la letteratura dalla decadenza, derivata secondo lui da un’eccessi-

va fiducia nell’ingegno e nella soggettività, occorre riconquistare il senso dell’arte e della tradizione; e per far ciò, data l’unità dello stile, non si possono imitare

tutti i buoni scrittori, ma si deve scegliere l’ottimo autore come modello unico. Nella prosa e nella poesia latina nessuno può competere, rispettivamente, con Cicerone e Virgilio. Altri modelli si possono indicare nella poesia lirica, elegiaca, epigrammatica e nel teatro, ma Cicerone e Virgilio condensano in sé l’ottimo stile latino. Il Bembo, però, non accetta l’idea di una perfezione assoluta; pertanto non considera Cicerone e Virgilio insuperabili. L’imitazione non è un’operazione meccanica, ma ha carattere attivo e creativo: 4 Le epistole «de imitatione» di Giovanfrancesco Pico della Mirandola e di Pietro Bembo, a cura di G. Santangelo, Firenze 1954, p. 53.

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Sed omne nostrum studium, omnis labor, omnis nostra cogitatio in iis assequendis, quos imitamur, maxime omnium est insumenda. Non est enim tam arduum eos supera-

re atque vincere, quos assequutus sis, quam assequi quos imitere. Quare hoc in genere toto Pice ea esse lex potest: primum, ut qui sit omnium optimus, eum nobis imitan-

dum proponamus: deinde sic imitemur, ut assequi contendamus: nostra demum contentio omnis id respiciat, ut quem assequuti fuerimus, etiam praetereamus. Itaque duas illas in animis nostris egregias plurimarum maximarumque rerum confectrices aemulationem atque spem habeamus. Sed aemulatio semper cum imitatione coniuncta sit: spes vero ipsa nostra non tam quidem imitationem, quam successum imitationis subsequi rectissime potest 4.

Il Pico replicò ancora; il veneziano però non si curò di continuare la discussione, perché ormai di fatto aveva vinto la sua battaglia. Il nuovo pontefice, Leone X, nel marzo del 1513, con uno dei suoi primi atti, l'aveva nominato

insieme col Sadoleto segretario ai brevi. Quest’incarico — che era prestigioso ma non lasciava molto tempo libero per la disinteressata attività letteraria — accentuò gli interessi umanistici del Bembo, inducendolo a trascurare la letteratura volgare e l’opera sulla volgar lingua, a cui aveva lavorato a Urbino e nei primi mesi del soggiorno romano #: e non fu questo, per lui, un piccolo sacrificio. Restava la speranza di far carriera, che sembrò concretizzarsi alla fine del novembre 1514, quando Leone X lo mandò come ambasciatore straordinario a

4 Ivi, pp. 56-7. 4 Alle Prose della volgar lingua il Bembo aveva dato una fisionomia definita solo negli ultimi anni del soggiorno urbinate; vi aveva poi lavorato a Roma nei primi mesi del 1512, conducendole a buon punto. Il 4 febbraio prometteva a G. B. Ramusio di far trascrivere il primo libro per mandarlo a Trifon Gabriele, e infatti il 1° aprile scriveva al caro amico: «Averete con questa, M. Trifon mio caro, quanto sin qui ho scritto sopra la volgar lingua, che sono due libri, e forse la mezza parte di tutta l’opera, come che io non sappia tuttavia quanto oltra m’abbia a portar la materia, che potrebbe nondimeno essere più ampia che non giudico; dico, quando io ne verrò alla sperienza. E mandovegli così poco riveduti e ripuliti, come essi medesimi vi dimostreranno; il che se altro non vi dimostrasse, dimostrilvi ciò: che io altro essempio non ho, che questo che vi mando, se non di pochissima loro parte. Sarete contento d’aver cura che di mano vostra non escano, sì perché essi non si smarriscano, e sì perché hanno molte cose, che non istaranno così quando io gli rivedrò riposatamente altra volta. Dissi di mano vostra, ciò è di voi amici, M. Giovanni Aurelio [Augurello], M. Nicolò Tiepolo, M. Giovan Francesco Valerio e il Rannusio, direi anco M. Andrea Navagiero, se esso mirasse così basso; e dicolo, se esso gli vorrà vedere. Ora vi priego tutti insieme, e ciascuno separatamente, che poi che avete voluto questa parte così come è, imperfetta e incorretta, vediate diligentemente e notiate ogni cosa che vi ritroverete star male, o meno che a satisfazione vostra, o molto o poco; e da ciascuno di voi voglio uno estratto, e un quinternetto degli errori o avertimenti, che per voi si saranno veduti, senza risparmio alcuno. Il che dovete far volentieri, pensando che questa opera ha da essere a comune utilità degli studiosi di questa lingua [...]. Io non so se io vi debba pregare a non ne pigliare essempio alcuno; ché la mercantia non porta la spesa. Pure se fosse alcuno così scioperato e ozioso, che pensasse di pigliar fatica, lo priego per niente a non lo fare, quando esso può esser certo che io la muterò e rimuterò in moltissimi luoghi. [...]. Caeterum, perché sono alquanti, che ora scrivono della lingua volgare, come intendo, pregate da parte mia quelli che questi miei scritti leggeranno, che non vogliano dire ad altri la contenenza loro, ché non mancano in ogni luogo Calmeti» (Opere in volgare, cit., pp. 713-5).

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Venezia, con il compito di sollecitare la Serenissima a lasciare l'alleanza con la Francia. Ma la missione — accettata con molta ingenuità dal Bembo che ben conosceva la validità delle ragioni per cui i Veneziani osteggiavano l’alleanza antifrancese propugnata dal papa — non ebbe successo e Leone X non si servì più del suo segretario per affari d'importanza; la possibilità di ottenere il cardinalato pertanto si allontanò indefinitamente. L’unico risultato positivo fu l’acquisto di alcuni benefici ecclesiastici, che gli garantirono una dignitosa condizione economica. Nel 1517 entrò finalmente in possesso della commenda assegnatagli da Giulio II ed ebbe da Leone X l’abbazia benedettina di San Pietro di Villanova presso Vicenza, nonché importanti benefici dell’ordine gerosolimitano in Ungheria, che gli permisero di fregiarsi del titolo di Priore d'Ungheria. Era un beneficio nominale; il titolo tuttavia era prestigioso, e il Bembo a più riprese cercò, vanamente, di farlo diventare effettivo. Nella primavera del 1518 lo colpì una gravissima malattia, dalla quale l’anno successivo non si era ancora rimesso del tutto. Il 25 aprile 1519 scriveva al Bibbiena: «Io mi parto posdomani per Vinegia e per quelle parti dove più alla mia indisposizione piacerà che io stia questa state» 4. Leone X, acconsentendo alla partenza, gli affidò una missione a Mantova ed egli nel maggio si mise in viaggio, ma a Bologna lo raggiunse la notizia che il padre era moribondo. Da Venezia il 20 luglio scriveva al Bibbiena: «Io giunsi qui il secondo dì di giugno, chiamato in fretta da Bologna, dove io pensava dimorare alquanto, per lettere di mio fratello, che mi davano avviso della grave indisposizione di mio padre. Né potei venirci così tosto che io non lo trovassi già morto» ‘°. Bernardo era morto il 28 maggio e Pietro dovette occuparsi del patrimonio alquanto dissestato. Come capofamiglia maritò la maggiore delle nipoti, Marcella, «in un gentile uomo non solo della sua patria, ma ancora della sua famiglia» #: quel Giovan Matteo che diverrà un suo valido collaboratore in faccende finanziarie e amministrative. Nell’aprile del 1520 era di nuovo a Roma, da dove il 26 giugno raccomandava a Giovan Matteo la Morosina: «Piacemi che vi troviate spesso in casa mia con madonna Morosina, e che ella ancora vegna qualche volta a starsi con voi. È vero che vi ho un poco d’invidia. Quante più amorevolezze tutti voi le usarete, me ne farete maggior piacer, e ve

ne sentirò obbligo» 4. Faustina Morosina della Torre era la donna che egli amava forse fin dal 1513. Proveniva certo da un ambiente assai mediocre, ma

fu per lui una compagna fedele e discretissima, che col suo comportamento rese meno imbarazzante la situazione in cui il Bembo venne a trovarsi quando, scaduta l’ultima dilazione concessagli, il 6 dicembre 1522 per conservare i benefici ecclesiastici dovette indossare l’abito dell'ordine gerosolimitano e pronunciare i voti, fra i quali era quello di castità. Da lei ebbe tre figli: Lucilio, 4 Opere, cit., III, p. 14.

46 Ivi, III, pp. 14-5.

47 Lettera a Leone X del 6 novembre 1519, in Opere, cit., III, p. 1.

48 Ivi, III, p. 471.

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nato nel novembre del 1523, Torquato il 10 maggio 1525 ed Elena il 30 giugno 1528.

A Roma era andato per un ultimo tentativo di avanzare nella carriera ecclesiastica: come risulta da una lettera al nipote Giovan Matteo del 20 otto-

bre 1520 #, ancora si illudeva di poter ricevere il cappello cardinalizio. Ma

l’incarico ai brevi gli éra diventato insopportabile; la salute sempre più precaria; per di più nel novembre morì il Bibbiena, cioè il miglior amico che avesse in curia. Pertanto nella primavera del 1521 lasciò Roma. Nemmeno il soggiorno in villa a Padova valse a guarirlo; solo nel marzo dell’anno successivo si avviò a guarigione. Dunque, i motivi di salute non erano un mero pretesto; tuttavia il 20 luglio 1522 scriveva a Federigo Fregoso: «Sallo Idio che io da Roma mi diparti’ e da Papa Leone, in vista chiedendogli licenzia per alcun brieve tempo per cagion di risanare in queste contrade, ma in effetto per non vi ritornar più, e per vivere a me quello o poco o molto che di vita mi restava, e non a tutti gli altri più che a me stesso». Gli sembrava di aver «gittati poco meno che dieci anni de’ migliori della sua vita», solo per guadagnare «un poco di fortuna e di libertà» ?°. Forse era la delusione per la mancata nomina cardinalizia a farlo parlare così; forse si era reso conto d’aver ritardato troppo quell’opera che doveva consacrarlo maestro della nuova letteratura volgare. Gli anni romani comunque non li aveva «gittati»; per non dir d’altro, le conversazioni col Colocci, col Navagero, col Castiglione, col Giovo, col Molza, col Tebaldeo l'avranno aiutato a chiarire il suo pensiero, anche prospettandogli opinioni che egli non poteva accettare. Era stata un’esperienza necessaria della sua vita, ma

un’esperienza anch’essa non definitiva. Infine, la morte di Leone X (1° dicembre 1521) e l’elezione di Adriano VI

troncarono ogni residua speranza: sul nuovo papa egli non pronunciò giudizi più benevoli degli altri umanisti e si rallegrò di essersi per tempo ritirato nella quiete degli studi, lontano dai pericoli delle corti. 7. Riacquistate salute e tranquillità, il Bembo portò a termine le Prose della volgar lingua che infine uscirono a Venezia nel settembre del 1525 a cura del fedele Cola Bruno, in un momento in cui le discussioni linguistiche si stavano facendo vivacissime. Ma il Bembo, che alle polemiche suscitate dal Trissino rimase sostanzialmente estraneo, volle sottolineare che il suo trattato era stato composto molti anni prima e, anche per ribadirne la priorità rispetto alle Regole grammaticali della volgar lingua del Fortunio, uscite ad Ancona nel settembre del 1516, lo dedicò non a Clemente VII ma al cardinale de’ Medici e con accorte indicazioni restrinse la data della dedica al periodo compreso fra il gennaio 1515 e il marzo 1516. Ad anni ancora più lontani porta la finzione di discussioni avvenute nel dicembre 1502, che indubbiamente ha qualcosa di tendenzioso. Poco più che trentenne, il Bembo non possedeva ancora quella conoscenza del volgare e della sua storia, che acquistò in anni più maturi e 4? Ivi, III, p. 386. 50 Opere in volgare, cit., pp. 665-6.

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nemmeno quel concetto di lingua d’arte che appare nelle Prose. Anzi nell’epistola De imitatione a Gian Francesco Pico egli stesso sembra accennare a varie sperimentazioni compiute prima di giungere a quel ciceronianismo senza il quale non è spiegabile la sua retorica volgare. È naturale, del resto, che egli non abbia subito individuato con sicurezza i suoi ideali di scrittore. Il Marti ha giustamente sottolineato gli scarti di pensiero e le differenze di stile esistenti fra una tappa e l’altra della sua carriera, sostenendo fra l’altro che «le opere che il Bembo scrisse in volgare innanzi l’anno 1510 non si può dire che siano modella-

te secondo una costante poetica tanto rigorosa non incertezze ed errori; ma si ben presto in una direzione

esemplare» 7!. E questo non può stupire: una poteva che maturare a poco a poco, non senza

deve aggiungere che la ricerca bembiana si rivolse precisa, dalla quale si potevano dare deviazioni non per l'insorgere di contrastanti concezioni letterarie ma solo per insufficiente maturazione o per dottrina imperfetta. Pertanto, se non si può pensare a un Bembo che a trent'anni ha ormai maturato la sua poetica e le prospettive storiche e grammaticali ad essa indissolubilmente connesse, è lecito supporre che, fingendo un dialogo avvenuto sulla fine del 1502, egli volesse indicare il momento in cui i problemi del volgare erano diventati per lui di urgente soluzione. Nei primi anni del secolo, infatti, aveva ormai compiuto le scelte che costituiscono il presupposto ideologico delle Prose. Aveva pressoché finito gli Asolani, nei quali è un ideale di lingua e di stile che sarà oggetto di approfondimenti e variazioni, ma non verrà rinnegato. Nel 1501 aveva pubblicato il Canzoniere del Petrarca e l’anno dopo la Commedia o meglio le Terze rime di Dante: due edizioni filologicamente discutibili ma — come si è detto — importanti e significative. Del 1503 è, secondo la persuasiva ipotesi del Dionisotti, il carme Ad Sempronium, che ha per argomento: «maternum sermonem non esse fugiendum» °. Sappiamo inoltre da una lettera alla Savorgnan del 2 settembre 1500 che egli, per compiacere alla donna, aveva cominciato a stendere «alcune notazioni della lingua» ??; e altre testimonianze confermano che il lavoro continuò negli anni successivi e si concretizzò in un libretto di regole volgari. Si può dubitare della veridicità di quanto il Bembo scrive sul Fortunio

a Bernardo Tasso il 27 maggio 15294; ma insospettabile è la testimonian-

5 Ivi, p. XII 22 Sul carme Ad Sempronium a quo fuerat reprehensus quod materna lingua scripserit (in Opere, cit., IV, pp. 348-9) si veda G. PESENTI, I/ Carme «Ad Sempronium», in «Giornale storico della letteratura italiana», LXIX (1917), pp. 341-7, e sopra tutto C. DIONISOTTI, Appun-

ti sul Bembo. II, cit., pp. 283-6. 93 Lettere, I, cit., p. 98.

24 «Quanto al Maestro Pellegrino Moretto, che ha segnate le mie Prose con le parole ingiuriose che mi scrivete, potrete dirgli che egli s’inganna. Per ciò che se ad esso pare che io abbia furato il Fortunio per ciò che io dico alcune poche cose, che egli avea prima dette, egli nel vero non è così. Anzi le ha egli a me furate con le proprie parole, con le quali io le aveva scritte in un mio libretto forse prima che egli sapesse ben parlare, non che male scrivere, che egli vide e ebbe in mano sua molti giorni. Il qual libro io mi profero di mostrargli ogni volta

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za del Castelvetro, che si rifà al perduto libro del Calmeta ? L’accusa al Fortunio dovrebbe riguardare gli anni veneziani; la notizia del Calmeta invece ci conduce ormai agli anni di Urbino, quando nel Bembo si fece più chiara l’idea di esporre in un’opera organica le ragioni per cui il volgare si poteva porre sullo stesso piano del latino: in un primo tempo forse intendeva sopra tutto difendere sé stesso e la scelta operata componendo gli Asolari; ma presto l’opera, pur senza che questo motivo di fondo venisse meno, assunse caratteri più ambiziosi: non più soltanto un’apologia letteraria o una grammatica, bensì una poetica volgare, il manifesto anzi del classicismo volgare. Proprio perché frutto di una lunga elaborazione, proprio perché non contenevano una proposta ma, per così dire, la parola definitiva su questioni che stavano a cuore a molti, le Prose della volgar lingua ottennero un grande successo. Rimaste a lungo sul telaio, uscirono nel momento giusto e sembrarono chiarire gli ideali di tutta una generazione giunta ormai alla sua maturità. Dieci o vent'anni prima (o dopo), il consenso e l'ammirazione non sarebbero stati altrettanto pieni e spontanei. Quest'opera, pur originalissima e nuova, sullo

stile e i principi retorici, sull'imitazione e sui modelli forniva infatti delle soluzioni che erano nell’aria, anche se nessun altro possedeva il rigore del giudizio, la preparazione storica e linguistica, la finezza di gusto necessari per pervenirvi. Prima, le reazioni sarebbero state vivaci fino alla stroncatura: il Decameron sembrava un’opera di mediocre letteratura, non certo un modello per la prosa; ben pochi — eccezion fatta per i toscani — erano disposti a riconoscere l'autonomia del volgare e della tradizione letteraria che in esso si esprimeva; meno ancora quelli che potevano accettare l’identificazione della poesia volgare con la lirica petrarchesca; non era affatto pacifico che ci si dovesse fondare sul toscano, antico o moderno che fosse. Poco più tardi, già negli anni trenta, nell’euforia prodotta dal trionfo, almeno apparente, del volgare, le Prose avrebbero avuto un’incidenza culturale molto minore. Ma allora, nel 1525, sembrarono l’opera capace di risolvere i problemi che travagliavano i letterati italiani. Persino un Guicciardini le lesse attentamente; l’Ariosto ne fece tesoro, anche se conservò la libertà propria di un grande poeta; ma per loro, come per la maggior parte dei letterati, non si trattò di accettare l’altrui dottrina bensì di

che egli voglia, e conoscerà se io merito esser da lui segnato e lacerato in quella guisa. Oltre a ciò io potrò farlo parlar con persone grandi e dignissime di fede, che hanno da me apparate e udite tutte quelle cose, delle quali costui può ragionare, di molti e molt’anni innanzi che Fortunio si mettesse ad insegnare altrui quello, che egli non sapea» (in Trattatisti del Cinquecento, a cura di M. Pozzi, I, Milano-Napoli 1978, pp. 436-7). 55 Nella Correzzione d'alcune cose del Dialogo delle lingue di Benedetto Varchi, e una giunta al primo libro delle Prose di M. Pietro Bembo dove si ragiona della vulgar lingua (Basilea, P. Perna; 1572, pp. 121-3) il Castelvetro contesta la veridicità della conversazione che il Bembo

dichiarà di riferire nelle Prose, giacché «Vincenzo Calmeta nel suo libro della vulgare poesia, composto prima che il Bembo avesse dato principio a tessere la istoria di questo ragionamento, testimoni d’aver vedute le regole e le vaghezze della lingua vulgare raccolte insieme da messer Pietro Bembo in un libretto, e questo è confermato da esso Bembo essere vero scrivendo a Bernardo Tasso».

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constatare che le Prose prospettavano soluzioni linguistiche e stilistiche alle quali essi stavano pervenendo per altra via: in questo senso il Bembo veramente «adempì» come ha scritto il Croce «le parti di un personaggio storico, del quale è proprio aiutare le età a mettere a luce il parto di cui sono gravide» 5. Le reazioni polemiche,

comunque,

non

mancarono:

subito il Casti-

glione nel Cortegiaro; poco più tardi l’Amaseo; in un clima culturale radicalmente mutato il Gelli, il Lenzoni, il Castelvetro ?”. Ma anche chi non poteva dirsi d'accordo in tutto e per tutto, anche chi era lontano dalle sue posizioni, accolse le Prose col rispetto che si deve a un’opera fondamentale. A parte l’aneddoto di cui si compiaceva il Bembo — sull’Amaseo che insegnava il volgare ai figli servendosi delle Prose — ’*, basti pensare alla famosa lettera che il Tolomei nel 1529 scrisse da Bologna ad Agnolo Firenzuola. Nessuno dei due era un bembista; eppure il senese nel proporre un «concilio» di dotti sul volgare non ha dubbi: «la somma e ’1 fondamento è nel Bembo» ??. Il trionfo delle Prose, che coincise con il pieno affermarsi del volgare, fu di stimolo alla pubblicazione di testi volgari con lo scrupolo che si usava per le opere greche e latine. Poco prima delle Prose, nell'agosto del 1525, era uscita a Bologna, con una Prefazione scritta dal Bembo ma firmata da Carlo Gualteruzzi, la prima edizione del Novellino, cioè la prima edizione critica di un antico prosatore italiano. E anche se non ci sono documenti che lo comprovino, c’è da pensare che il nuovo prestigio che le Prose conferivano al fiorentino antico

abbia favorito due importantissime imprese editoriali fiorentine, entrambe del 1527: la prima edizione critica del Decameron e la grande raccolta di Sonetti e canzoni di diversi antichi autori toscani. A questo fervore editoriale, che diverrà 56 Poesia popolare e poesia d'arte, Bari 1957, p. 348. Il Guicciardini lesse le Prose mentre stendeva la Storia d'Italia e ne fece anche degli estratti: cfr. F. GUICCIARDINI, La storia d'Italia, a cura di A. Gherardi, Firenze 1919, I, pp. XXXV-XXXVII. L’Ariosto il 23 febbraio 1531 scriveva al Bembo: «Io son per finir di riveder il mio Furioso: poi verrò a Padova per conferire con Vostra Signoria, e imparare da lei quello che per me non sono atto a conoscere» (L. ArIOsTO, Opere minori, a cura di C. Segre, Milano-Napoli 1954, p. 834). La stima dell’Ariosto per il Bembo è documentata anche dalla sesta satira e dalle lodi tributategli nell’Orlando furioso, XLVI, 15. Il veneziano, invece, dopo l’amicizia giovanile, mostrò freddezza per l’Ario-

sto e il suo capolavoro. ?7 Per il Gelli si vedano il quarto e il nono Ragionamento dei Capricci del bottaio; per il Lenzoni il dialogo In difesa della lingua fiorentina e di Dante, con le regole da far bella e numerosa la prosa, Firenze, Torrentino, 1556 (in parte in Discussioni linguistiche del Cinquecen-

to, cit.). Le Giunte del Castelvetro sono state opportunamente ristampate in calce alle Prose della volgar lingua in Opere, II; solo in parte sono citate nelle note dei Trattatisti del Cinquecentoselo

98A Vittor Soranzo che gli narrava «della infamia data alla lingua volgare» da Romolo Amaseo nella prolusione De Latinae linguae usu retinendo — pronunciata a Bologna all’inizio dell’anno accademico al tempo del convegno fra Clemente VII e Carlo V — il Bembo scriveva il 16 novembre 1529: «vorrei da lui sapere, per qual cagione egli medesimo, che così la biasima, leggeva pochi mesi sono e isponeva a suo figliuolo e a non so quale altro fanciullo le regole di questa medesima lingua da me scritte, e perché egli molto prima le ha diligentemente apprese a sua utilità, come egli dicea» (in Traztatisti del Cinquecento, cit., I, p. 443). 9? C. TOLOMEI, Lettere, Venezia, Giolito, 1547, PaZZoi

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sempre più intenso negli anni successivi, il Bembo partecipò con consigli, suggerimenti, stimoli affettuosi, ma non si assunse più il compito di curare l’edizione critica di testi. Anche l’idea di pubblicare una raccolta di antiche rime provenzali insieme con le vidas, manifestata al Tebaldeo in una lettera del 12 novembre 1530, non fu realizzata. Da tempo egli mirava ben più in alto che all’attività filologica, mirava alla fondazione di una nuova civiltà letteraria. L'influenza delle Prose sulla cultura del primo Cinquecento fu dunque gran«dissima; eppure il trionfo stesso del volgare in quanto lingua scardinava le fondamenta dell’edificio che il Bembo aveva costruito. Il suo era un ideale letterario, e non meramente linguistico; il terzo libro delle Prose non era un’appendice ai primi due che si potesse considerare a parte: le norme grammaticali erano date in funzione di una precisa poetica. Ma già negli anni trenta il gusto andava mutando. L’età sua — e del Castiglione e dell’Ariosto —, l’età del classicismo volgare, andava rapidamente declinando. Il trionfo del volgare metteva in crisi quel bilinguismo che era essenziale alla teoria delle Prose. Non più una rigorosa separazione fra due lingue e due letterature autonome ed egualmente degne, anche se diversissime: il nuovo classicismo pretendeva di rifare in volgare le esperienze delle letterature classiche. Era un mutamento di prospettive e di ideali letterari, che proprio a Padova avrebbe trovato convinti rappresentanti nello Speroni e nell'Accademia degli Infiammati. L’edizione postuma delle Prose (1549), nella dedica del Varchi a Cosimo I, mostra che, a breve tempo dalla morte del Bembo, il travisamento della lezione delle Prose era in fase ormai avanzata: vi si dimentica l’insegnamento letterario, l’indicazione di una poetica volgare e si pone l’accento quasi esclusivamente sulla lingua. Il Varchi con affermazioni tendenziose presenta il letterato veneziano come un mero continuatore dell’opera culturale di Lorenzo il Magnifico: ciò che questi non aveva

potuto fare per le «molte e molto grandi sue occupazioni», «fece non guari dopo lui il nostro eccellentissimo Mons. M. Pietro Bembo, mosso per aventura dallo essempio di tanto uomo, o forse indotto da’ conforti di Giuliano de’ Medici, suo figliuolo». Né era lecito pensare che il Bembo si fosse guadagnata la riconoscenza dei fiorentini, «avendo egli la loro lingua dalla ruggine de’ passati secoli non pure purgata ma in tanto iscaltrita e illustrata che ella n'è divenuta tale chente la veggiamo». Quella ruggine, infatti, secondo il Bembo si era formata proprio nell’età laurenziana ed era da identificarsi sopra tutto con il gusto popolaresco che stava tanto a cuore ai fiorentini.

A poco a poco, comun-

que, i fiorentini — dopo aver vivacemente reagito contro il bembismo varchiano — giunsero a riconoscere i meriti delle Prose; infine il Salviati e la Crusca posero termine alla discussione in favore del Bembo, ma estraendo dalle Prose un ideale puristico — il culto meramente linguistico dell’aureo Trecento —, che era un vero tradimento della lezione bembiana. D'altra natura e frutto d’un’esperienza isolata è il puntiglioso attacco del Castelvetro, nato da una mentalità lontanissima da quella del Bembo, una mentalità però che non si sarebbe potuta formare se la cultura italiana non avesse assimilato la lezione delle Prose. Ed è sintomatico che a prendere le difese dell’opera bembiana dalle contestazioni del

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modenese fosse il fiorentino Vincenzio Borghini, uno dei pochi, o forse il solo, che nel secondo Cinquecento sapesse accostarsi alla dottrina bembesca con spirito critico e senso storico: ci voleva tutto il suo acume per intendere ancora una volta la natura delle Prose, poi la lezione del Bembo, che pedante non era e

non voleva essere, si sarebbe confusa con quella di cruscanti e linguaioli in genere. Giova dunque ricordare le parole del Borghini, il quale a ragione pensava che il Bembo non avesse voluto «dichiarare generalmente tutta la natura della lingua nostra ma insegnare in questo tempo parlare e comporre e scrivere o, come i nostri vecchi diceano distinguendo la prosa dalla poesia, dettare e trovare in essa elegantemente, leggiadramente e perfettamente» ‘0. Pertanto gli sembrava che la dottrina del Bembo, per essere correttamente intesa, dovesse essere ricondotta alla situazione storica in cui era nata; comprendeva, cioè, che, per ridare dignità alla poesia volgare, il letterato veneziano aveva dovuto fornire delle indicazioni chiare e precise, respingendo con energia tutto ciò che in qualche maniera poteva distogliere da quell’idea di poesia che veniva esponendo. «Come chi vuole tornare una mazza piegata al diritto la torce in contrario un poco più, perché torni al mezzo giusto» %, così il Bembo, per dare efficacia al suo insegnamento, aveva dovuto fare scelte rigorose. Per questo aveva criticato Dante; non perché non ne intendesse la poesia, ma per «spaventare chi non era talmente fondato che da ssé sapesse distinguer quella parte dello antico, acciò non pigliasse co’ fiori certi come stecchi insieme» © e chi confondeva la poesia con la filosofia, la scienza, la sapienza in genere: «Egli presuppone che l'ammirazione di Dante sia tutta in noi per le molte scienzie che sono in quel poema inchiuse e io non vo’ dire che io ne tenga poco conto, che sarebbe sciocchezza, ma io dico bene che io l’ho per serventi di quel poema e non per principali, e ammiro il poeta come poeta e non come filosofo o come teologo, se bene mi pare una quasi divinità d’ingegno l’aver

saputo e potuto innestarle di sorte ch’elle servano al bisogno del poema con grazia e con leggiadria» 4. Questa e altre luminose pagine borghiniane sulla Commedia non sarebbero mai state scritte, senza il monito del Bembo che rigorosamente aveva mostrato la necessità di studiare la forma delle opere d’arte e di distinguere nettamente la poesia da ciò che poesia non è. La lezione delle 60 V. BorcHINI, cit., p. 743.

Modo di salvare il Bembo, in: Discussioni linguistiche del Cinquecento,

6! Nel ms. II.X.103 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, c. 224, il Borghini afferma che il Bembo, volendo «informare quel poeta leggiadro e amoroso, che al gusto suo gli piacque tanto, conoscendo che l’altezza de’ concetti e dello stile di Dante si tirava dietro molti e

che questo poteva nuocere al suo amoroso poeta, come chi vuole tornare una mazza piegata al diritto la torce in contrario un poco più, perché torni al mezzo giusto», così egli spaventò talvolta i troppo affezionati di Dante, i quali apprezzavano poco il Petrarca ritenendo che «non avesse altro che parole e fusse umile e basso». 6 V. BoRGHINI, Modo di salvare il Bembo, cit., p. 744.

6 ID., Comparazione fra Dante e ’l Petrarca, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, ms. II.X.87, c.51[= Studi sulla Divina Commedia di G. GALILEI, V. BORGHINI ed altri, a cura di O. Gigli, Firenze 1855, p. 308].

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Prose poteva essere ancora tanto stimolante proprio perché il priore degli Innocenti era riuscito a capire che il dialogo bembiano è un’alta e completa trattazione dello stile lirico, non un’opera che fornisca una soluzione al problema della lingua o anche solo della poesia in genere. Il giudizio del Borghini è importante anche per quanto sottintende, cioè che la poetica bembiana è più motivata nel propugnare un petrarchismo che nel proporre l'imitazione del Decameron, modello insuffiente e inadatto, dal quale ‘oltre tutto il veneziano aveva estratto solamente un ideale di stile “alto”: nelle Prose, scriveva, «lo stile è tanto artificioso, tanto esquisito, tanto bilanciato, che io ho sempre dubitato che a una disputa grammaticale ella non sia stata un po’ troppo tirata» ; e questo limite gli pareva ancor più evidente nelle lettere, dove a maggior ragione ci si deve saper adattare alla diversità degli interlocutori e delle situazioni. Il petrarchismo in effetti era stato preparato da una tradizione che percorreva tutta la nostra storia poetica e aveva trovato negli Asolani una spiegazione psicologica e culturale. Per il Boccaccio le cose si presentavano ben diversamente. Il Bembo non pensava a un classicismo volgare che avesse al suo centro un genere mediocre come la novellistica; eppure non dava alcuna indicazione sui generi prosastici. Pertanto mentre il Canzoniere del Petrarca era un modello specifico — di lingua, di stile, di temi, di situazioni, ecc. —, il Decamzeron era poco più del modello generico di una lingua d’arte che poteva dare risultati come gli Asolani o l’Arcadia del Sannazaro, ma di cui comunque non era facile prevedere il destino. Il Bembo aveva scelto bene, scoprendo con finissimo gusto la grande arte del Decameron; era la tradizione volgare a non offrire di meglio a chi, come lui, auspicava un classicismo volgare che non fosse copia o calco di quello greco-latino ma trovasse la sua ragion d’essere nella nostra stessa storia letteraria. Mentre altri pensavano che fosse necessario trapiantare in italiano il poema epico o l’ode, la commedia o la tragedia, egli restava fermamente convinto che le lingue e le letterature sono autonome. Di qui anche il formalismo della parte grammaticale, ove con grande discrezione si evitano i termini dei grammatici e si distinguono le varie forme del volgare senza ricorrere a comparazioni col latino; questo atteggiamento, che gli attirò le aspre critiche del Castelvetro, era il segno di una forte consapevolezza della qualità del volgare, della sua autonomia dalle lingue classiche, della sua individualità di lingua propria di una ben precisa letteratura. Era, questa, una conse-

guenza del suo ciceronianismo, e non è fuor di luogo ricordare che i primi due libri delle Prose vennero scritti proprio mentre elaborava le idee poi espresse nella lettera a Gian Francesco Pico della Mirandola. I limiti di questa concezione sono evidenti; ma è pur vero che, proprio perché indicava rigorosamente dei modelli, il Bembo dava ufficialmente inizio alla lingua e letteratura italiane: appunto perché le incanalava in strade che potevano essere strette ma erano

64 Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, ms. II.X.116, c. 81 v. [= V. BORGHINI, Scritti inediti o rari sulla lingua, a cura di J. R. Woodhouse, Bologna 1971, p. 289]. Per la

valutazione borghiniana delle Prose e delle lettere del Bembo si veda: M. Pozzi, Lingua e cultura del Cinquecento, Padova 1975, pp. 105-16, 158-64.

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nazionali, tracciate dai nostri stessi scrittori. A distanza di due secoli il programma del De vulgari eloquentia d'una lingua italiana “per grammatica”, adattato alla nuova situazione culturale, era riproposto sul fondamento di un’altrettanto vasta analisi della storia della nostra letteratura; il successo che ottenne si spiega anche col fatto che il Bembo poteva indicare un grande poeta che, muovendo da ideali di armonia e decoro, aveva estratto dalla nostra tradizione poetica una lingua veramente illustre, depurata non solo dalle rozzezze municipali ma da tutto quanto poteva contrastare con un raffinatissimo ideale di lingua d’arte: Francesco Petrarca ®.

8. Recandosi a Roma per offrire a Clemente VII la copia di dedica delle Prose, il Bembo aveva creduto bene di ingraziarsi anche-il nuovo datario, Giovan Matteo Giberti, dedicandogliil poemetto Beracus, che fu stampato nello stesso 1524: sperava così di poter riprendere la carriera ecclesiastica o almeno di ottenere nuovi benefici. Ma il soggiorno romano, durante il quale fra l’altro si ammalò gravemente, si risolse in una delusione e ben presto se ne tornò a Padova, da dove il 6 maggio 1525 scriveva ad Agostino Foglietta d’aver avuto voglia di fuggir da Roma, «essendo stato male da lei ricevuto e trattato»; pertanto contrapponeva polemicamente la vita tranquilla che conduceva in villa ai travagli e fastidi in cui era stato a Roma: Non odo noiose e spiacevoli nuove. Non penso piati. Non parlo con procuratori. Non visito Auditori di Rota. Non sento romori, se non quelli che mi fanno alquanti lusignuoli d’ogn’intorno gareggiando tra loro, e molti altri uccelli, i quali tutti pare che s'ingegnino di piacermi con la loro naturale armonia. Leggo, scrivo, quanto io voglio; cavalco, cammino, passeggio molto spesso per entro un boschetto, che io ho a capo dell’orto. Del quale orto assai piacevole e bello talora colgo di mano mia la vivanda delle prime tavole per la sera e talora un canestruccio di fragole la mattina, le quali poscia m’odorano non solamente la bocca, ma ancora tutta la mensa. Taccio che l’orto e la casa e ogni cosa tutto ’1 giorno di rose è piena. Né manca oltre a ciò che con una barchetta, prima per un vago fiumicello, che dinanzi alla mia casa corre continuo, e poi per la Brenta, in cui dopo un brevissimo corso questo fiumicello entra, e la quale è bello e allegrissimo fiume e ancora essa da un’altra parte i miei medesimi campi bagna, io non vada la sera buona pezza diportandomi, qualora le acque più che la terra mi

vengono a grado 0, Dal viaggio a Roma aveva comunque ricavato un canonicato a Padova, di cui forse, mentre scriveva al Foglietta, non aveva ancora avuto certa notizia; ma, al di là dei risentimenti e delle facili contrapposizioni in stile quasi aretinesco, il tema della pace che dà la vita al contatto con la natura e lontano dalle pericolose ambizioni nasceva in lui da uno stato d’animo reale. È vero che nelle © Per la fortuna delle Prose e dell’insegnamento bembiano

nel Cinquecento,

cfr. V.

Cian, Un decennio della vita di M. P. Bembo (1521-1531), Torino 1885, pp. 177-88; L. Russo, P. Bembo e la sua fortuna storica, in «Belfagor», XII (1958), pp. 257-72; P. SABBATINO, I/

modello bembiano a Napoli nel Cinquecento, Napoli 1986. 66 Opere, cit., III, p. 211.

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numerose lettere in cui torna questo tema si scorge un compiacimento letterario

— la soddisfazione di essere simile al Petrarca che tanto amava ritirarsi in Valchiusa —, e che proprio allora per una questione di benefici s’adirò violentemente col Giberti, ma non è men vero che lo scopo di tanto affaccendarsi in curia era stato proprio Pot di cui finalmente godeva, un otiwr in cui poteva realizzare la sua massima aspirazione: essere il maestro di una nuova civiltà letteraria. Non pensava a nuove opere, ma a promuovere esperienze poetiche, a dirigere il gusto, a guidare i letterati con il consiglio amoroso e a un tempo severo. Veniva componendo nuove rime per dare al proprio canzoniere struttura simile a quello del Petrarca, e anche così faceva opera di maestro, non di poeta: dava un’esemplificazione delle proprie convinzioni teoriche. La sua maggior attività era forse quella epistolare: con le lettere, oltre che con la viva voce

e l'esempio di una vita informata a un alto ideale di armonia e di decoro, esercitava una grandissima influenza sulla cultura del tempo. La sua splendida casa a Padova e la villa di S. Maria di Non, cioè il Noniano,

erano luogo

d’incontro di poeti latini e volgari, di uomini colti e di amici raffinati: l’otium gli piaceva non solo perché gli dava agio di dedicarsi alla lettura e alla composizione letteraria, ma appunto perché gli consentiva di coltivare amicizie, offrendo signorili accoglienze, godendo di dotte conversazioni. La società di amici, uniti da affinità di gusti, di idee e di interessi, era quasi un simbolo o un esempio della civiltà letteraria per cui si adoprava. Si interessava dello Studio padovano, partecipando alle vicende degli studenti, coi più notevoli dei quali fu in stretti rapporti, e preoccupandosi che vi fossero buoni docenti. Il Beccadelli ricorda che «quasi da tutta Italia gli erano portati o mandati componimenti di varie sorti» e che egli «nel giudicar le cose d’altri dava senza molestia a ciascuno il peso che portare poteva», essendo per lo più benevolo e pronto a dire una parola d’incoraggiamento . E con enfasi il Varchi: Era il Bembo il comun padre delle Muse, il comun maestro delle lettere, il comun

padrone de’ letterati. Tutti gl’ingegni elevati, tutti gli spiriti pellegrini, tutte le persone famose concorrevano da tutte parti, e rifuggivano come a certissima franchigia di tutti i virtuosi, a Monsignor Bembo, chi per aiuto, chi per consiglio, chi per favore. Era la casa del Bembo come un publico e mondissimo tempio, consacrato a Minerva; la sua famiglia puri e castissimi sacerdoti, dove tutti entravano o ad offerire o per domandare i professori delle scienze, e egli umile in tanta gloria si sedea quasi nuovo Apollo dando responsi ®.

Era in rapporti cordialissimi con i letterati più grandi, anche con quelli di gusti

67L. BeccADELLI,

Vita di P. Bembo, in: Istorici delle cose veneziane, i quali hanno scritto

per pubblico decreto, a cura di A. Zeno, II, Venezia 1718, p. XLV. 68 I] passo è tratto dalla sua orazione in morte del Bembo (Delle orazioni volgarmente

scritte da molti uomini illustri de’ tempi nostri, I, Venezia, Al segno della luna, 1575, p. 55).

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e interessi diversi dai suoi: dal Colocci al Sadoleto, dal Navagero al Tebaldeo, dal Molza al Giovio, dall’Amaseo a Luigi da Porto, da Veronica Gambara a Vittoria Colonna. Non gli si rivolgevano soltanto poeti oscuri o mediocri come Girolamo Cittadino, Girolamo de’ Rossi, Gregorio Carraro; gli chiedevano consigli e giudizi scrittori ben noti o famosissimi come Bernardo Cappello, il carissimo Vettor Soranzo, il Beazzano, il Tebaldeo, Alessandro de’ Pazzi, il Sannazaro, il Castiglione, il Fracastoro, l’Ariosto, più tardi il Varchi, il Casa,

ecc. Un solo episodio venne a turbare la sua dittatura letteraria: la rivolta di Antonio Broccardo. Egli si tenne fuori dalla mischia; in sua difesa intervennero gli amici e in particolare l’Aretino. Ma questa vicenda, peraltro non del tutto chiara, dovette essere accompagnata da qualcosa di diverso-e di più grave del rifiuto del petrarchismo regolato, ché.il Bembo amministrava con affabilità il proprio prestigio letterario ed era disposto a riconoscere l’intelligenza e la bravura anche in chi si allontanava dai suoi dettami. Lo mostrano i buoni rapporti con il Colocci, il Trissino, l’Ariosto, il Castiglione, lo Speroni, il grande affetto per il Tebaldeo, la cortesia con cui trattava letterati esperti e giovani di belle speranze. Nella sua casa aveva raccolto non soltanto prezioni codici ma tesori d’antichità e capolavori artistici, di cui ci ha lasciato la descrizione Marcantonio Michiel . Il Beccadelli inoltre afferma che con quanti venivano a trovarlo egli non ragionava solo di lettere «ma d’altre cose gentili sapeva benissimo render conto, come di medaglie e scolture e pitture antiche e moderne, delle quali cose avea un studio così bene instrutto ch’in Italia forse pochi pari avea» 7°. Alla collezione di monete era tanto affezionato che, ormai cardina-

le, il 23 agosto 1542 da Roma scriveva a Flaminio Tomarozzo a Padova: «Io non posso più oltre portare il disiderio, che io ho, di riveder le mie medaglie, e qualche altra cosa antica, che sono nel mio studio costì» 7, e lo pregava di inviargliele. Solo il Cellini poteva dire che il Bembo, benché gradissimo nelle lettere «e innella poesia in superlativo grado [...], non entendeva nulla al mondo» delle arti plastiche ”2.

9. Nel dicembre del 1529, per il convegno fra Clemente VII e Carlo V e per le feste dell’incoronazione imperiale, il Bembo si recò a Bologna, dove erano convenuti i maggiori letterati d’Italia; ma, benché vi fosse accolto come un’autorità indiscussa, alla fine di gennaio già tornava a Padova, dove l’attendeva un compito più importante: l'edizione delle proprie opere, latine e volgari, che uscì nel marzo, presso i fratelli da Sabbio, e comprese la nuova redazione degli Asolani, la prima edizione delle Rizze, il De Aetna, il De imitatione e gli 69 La si veda in: Scritti d’arte del Cinquecento, a cura di P. Barocchi, III, Milano-Napoli 1977, pp. 2871-5.

70 L. BECCADELLI, op. cit., p. XLIII. 7 Opere in volgare, cit., p. 810. 72 B. CELLINI, Vita, I, 94.

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inediti dialoghi De Virgilii Culice et Terentii fabulis e De Guido Ubaldo Feretrio deque Elisabetha Gonzagia Urbini ducibus. Importante fu sopra tutto la pubblicazione delle Rirze; non si può parlare di anno di nascita del petrarchismo, perché esso era già da tempo una diffusa moda letteraria; ma certo fu allora — grazie anche alla contemporanea riedizione degli Asolazi — che quella moda ricevette una consacrazione ad alto livello ed ebbe a sua disposizione un canzoniere moderno a cui rifarsi. Il 1530 regalava al Bembo anche un’altra grande soddisfazione: la nomina a storiografo della Repubblica e a bibliotecario della Libreria Nicena, secondo la consuetudine di riunire i due uffizi in una sola persona. Con questo atto la Serenissima riconosceva in lui un maestro prestigioso, di cui conveniva valersi

senza tener conto del comportamento non sempre gradito. L’ufficio di bibliotecario non dovette pesargli molto, perché fu aiutato prima dal Ramusio e dal nipote Giovan Matteo, poi da Benedetto Ramberti, segretario del Senato. Non pochi problemi invece gli pose l’inatteso incarico di continuare la storia di Venezia che il Sabellico aveva condotto fino al 1487 e che successivamente il Navagero non aveva portato innanzi. Al Sadoleto il 19 gennaio 1531 scriveva: Ego enim qui profecto ad scribendam historiam nunquam animum induxi meum neque putabam posse accidere ut in eam cogitationem me dem, nunc quidem nihil prope aliud cogito noctes ac dies ut reipub. satisfaciam, quae me his proximis mensibus, propter Naugerii nostri mortem, qui confecti nihil reliquit, x virum decreto, ad eam scriptionem sibi advocavit. Ei ego negare non sum ausus. Itaque totus in eo nunc

quidem sum, non ut conscribam iam aliquid mandemque literis, quod in manus hominum veniat: sed ut in rerum gestarum veritate indaganda, et cum temporum, tum locorum, ceterarumque eius muneris partium rationibus colligendis, meus omnis labor versetur 73.

La Signoria lo aiutò, per esempio costringendo Marin Sanudo a prestargli i famosi diari; ma al Bembo — che fra l’altro non aveva attitudini per la storia e nemmeno per la politica o anche solo per la diplomazia — si presentavano molte difficoltà, oltre la ricerca delle notizie: c'erano gravi problemi di stile, che non poteva ovviamente essere quello dei brevi o delle prose retoriche; c’erano problemi di convenienza, ché si trattava di storia recente, i cui protagonisti erano ben noti al Bembo e in parte ancora viventi. Comunque non si perse d’animo e con grande serietà e cura dell’arte lavorò a quest'opera fino agli ultimi anni di vita. Non gli mancarono dolori e lutti familiari. Nel 1530 qualcuno tentò di avvelenarlo e i sospetti — con sua grande amarezza — caddero sul nipote Carlo; nell'agosto del 1532 gli morì il primogenito Lucilio, «dolce e dilicato figliuolino, sopra il quale» scriveva a Pietro Avila il 9 settembre 1532 «erano fondate le speranze della mia famiglia» ?4; tre anni dopo, il 6 agosto, perse anche la dilettissima Morosina. Ma egli non si scoraggiò e continuò serenamente la sua 3 Opere, cit., IV, p. 179.

74 Opere in volgare, cit., p. 807.

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attività letteraria, che per altro si era ormai ridotta alla composizione e alla revisione di rime, alla correzione di opere già edite: la storia a cui stava attendendo non rientrava nei suoi piani letterari. A Venezia nell’aprile 1535 presso i fratelli da Sabbio uscì così una nuova edizione delle Rirze e, nel giugno dell’anno successivo, sempre a Venezia, presso G. Padovano e V. Ruffinello, con dedica a Paolo III, la raccolta dei brevi scritti in nome di Leone X: con

quest'opera egli sperava di riprendere la carriera ecclesiastica e quindi dovette provare grande rincrescimento perché un umanista di curia, Ubaldino Bandinelli, criticò lo stile dei brevi. Grazie anche all’aiuto dell’Aretino, gli oppositori però furono ridotti al silenzio. L’amico Gualteruzzi, attivissimo in curia, lo aveva messo in rapporto con il giovane cardinale Alessandro Farnese, nipote di papa Paolo III, e nell'anziano letterato era risorta la speranza di ottenere la berretta cardinalizia, che questa volta non fu delusa perché la Chiesa romana sentiva l’esigenza di raccogliere intorno a sé tutti i maggiori intellettuali per far fronte ai riformati. Eletto cardinale ma riservato ix pectore il 20 dicembre 1538, il 28 al cardinale Farnese, che ringraziava di non aver dato ascolto ai calunniatori, scriveva: «Io, lodata ne sia la divina bontà, mi vivo in quella maniera che dee vivere uno, il quale, per la sperienza di molti anni, sa che alla vecchiezza non si perdonano quegli errori e quelle trasgressioni, che si concedono alla giovanezza, e il quale ancora, soperchiamente sazio delle varie cose del mondo, si studia e si sollecita di far profitto nelle onorate, per finire con più lodevole atto la commedia della sua vita; alla cui recitazione ho questa grande e populosa città per teatro, che ne può dare ampio e auttorevole testimonio» ?. Il 19 marzo 1539 era proclamato cardinale e il 30 ringraziava il papa d’averlo «eletto nel Collegio de’ Cardinali» diceva «non solamente nol richiedendovi io, ma neanche pensandolo» ?°. Mentiva e sapeva di mentire; ma bisogna riconoscere che, se egli brigò in ogni modo per mettere a tacere le calunnie e per superare le difficoltà che si frapponevano alla sua elezione, non per questo abbandonò le sue attività profane per assumere una falsa unzione religiosa. Lavorava alla storia; correggeva le Prose in vista di una seconda edizione che si ebbe nel luglio del 1538; quando gli giunse la notizia della nomina a cardinale, stava componendo una canzone per la morte della Morosina, che portò a termine nell’estate del 1539, certo con molte cautele, ma pur facendone parte a Elisabetta Quirini Massolo, la donna che con la sua presenza gentile allietò la sua vecchiaia e fu l’ispiratrice dei suoi ultimi sonetti amorosi. Né c’è da stupirsi e tanto meno da scandalizzarsi per questo comportamento. Il Bembo scrisse spesso del teatro della vita, e non era un'immagine prebarocca la sua; davvero credeva che questa povera esistenza, legata a un filo sottilissimo e facilmente troncabile, dovesse essere vissuta come su una scena, senza lasciar niente all’improvvisazione, interamente dedicandola ai supremi ideali di armonia e di deco-

75 Ivi, p. 658. 76.Ivi, pi.632;

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ro. Egli era convinto di aver recitato bene la sua parte, con dignità, serietà, impegno; né credeva che la sua unione irregolare fosse per lui una macchia, tanta era stata la discrezione di questo amore tranquillo, senza scandali, ma solidissimo; spirito religioso non ne aveva: ma è un merito, non un torto, aver saputo evitare l’ipocrisia”di ostentare interessi che gli erano estranei.

10. Nell’ottobre del 1539 il Bembo si trasferì a Roma. Quale ruolo egli abbia esercitato nella Chiesa in quel momento difficile in cui si stava preparando il Concilio di Trento, non si può dire; è comunque probabile che, indifferente com'era alle questioni teologiche, abbia tutt'al più svolto la funzione di elemento moderatore con i molti amici appartenenti al partito riformatore: col Pole, il Vergerio (prima che passasse ai riformati), Alvise Priuli, Marc’Antonio Flaminio, Vettor Soranzo, Basilio Zanchi, ecc 7. A settant'anni disse la prima messa e il 29 luglio 1541, alla morte del carissimo Federigo Fregoso, assunse il titolo di vescovo di Gubbio, anche se restò in curia.

Nel maggio del 1542 morì il fedelissimo Cola Bruno, e allora per provvedere alla famiglia e alla casa di Padova si servì di Flaminio Tomarozzo. Già aveva avviato il figlio Torquato alla carriera ecclesiastica; nel 1543 diede la figlia Elena in sposa a Pietro Gradenigo, un gentiluomo veneziano di buona educazione letteraria. Questo matrimonio gli costò molto; pertanto chiese e ottenne dal papa di poter risiedere a Gubbio, dove non avrebbe dovuto spendere come a Roma. E fu a Gubbio che terminò la redazione latina della storia di Venezia, da

lui condotta fino alla elezione di Leone X, anzi fino alla propria nomina a segretario ai brevi: «Isque priusquam e conclavi exiret, me et Iacobum Sadoletum, qui Romae tunc eramus, sibi ab epistolis adscivit». Per rispetto alla dignità cardinalizia non avrebbe potuto pubblicare opere profane. Per questo differì la pubblicazione di una terza edizione, riveduta e accresciuta, delle Rizze, che aveva preparato nel 1538; ma continuò a comporre versi: l'impossibilità di pubblicare non poteva impensierirlo; egli aveva sempre scritto pensando più ai posteri che ai contemporanei. Pertanto, avvicinandosi al termine della sua esistenza, lavorava per preparare il corpus definitivo delle sue opere, edite e inedite, affinché fosse pronto per l'edizione postuma. Il 18 febbraio 1544 dal vescovado di Gubbio fu trasferito a quello, più importante, di Bergamo; ma il pontefice lo richiamò a Roma: a Bergamo come suo coadiutore mandò Vettor Soranzo. La diletta Quirina, intanto, gli aveva scritto facendogli presente la situazione del mercato librario, nel quale si vendevano solo le opere volgari, mentre quelle in latino per fare maggior guadagno venivano volgarizzate. A lei che lo esortava a fare egli stesso la traduzione per evitare che l’opera fosse storpiata da traduttori prezzolati, egli il 7 febbraio 1544 rispondeva che avrebbe cercato qualche amico atto a ciò, e poi il 15 marzo al di lei fratello Girolamo Quirini scriveva che aveva cominciato il volgarizzamento ma che, impedito dalla podagra e da altri impegni, pensava di 77 Ma cfr. P. SimonceLLI,

(1978), pp. 1-63.

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e l'evangelismo italiano, in «Critica storica», XV

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ricorrere all’aiuto del Gualteruzzi. Riuscì a fare tutto da solo e in poco più di due anni portò a termine il lavoro, mostrando grande lucidità mentale ed energia fino al gennaio del 1547 quando una grave malattia ne fiaccò l’estrema resistenza. Morì il 18 gennaio e fu sepolto il giorno dopo nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva: la sua tomba è nel coro, fra quelle di Leone X e di Clemente VII.

SPERONE

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I. Cenni biografici

1. Dico che il fondamento de lo scriver bene giudico esser il sapere; a la quale impresa chiamo tutti quelli cui sommo studio è di farsi eloquenti. Così piacesse a Dio che a me fosse stato lecito spender tutta la mia vita in questo nobile essercitamento, da cui sempre fui rimosso per colpa di quelle occasioni che, quasi contrarie onde, ebbero forza di risospigner il mio ardente disio, a questa laude pur troppo inclinato. A la quale mi invitava anco la pietosa cura di mio padre, come quello che, letterato essendo e medico, giudicò niuna infirmità esser ne l’uomo maggiore e più pestifera de l’ignoranza. Egli adonque procurò ch’io fanciullino apparassi quelle lettere di cui si costuma formar l’età puerile; né cessò di chiamarmi sì per tempo a la filosofia, madre e moderatrice degli animi nostri, che l’insegne del dottorato, quasi fanciullo, prender mi fece; e in uno tempo istesso a leggerla nel nostro Studio mi diedi, se non con molta isperienza, almeno con pronto e valoroso core. Ma ecco la cura famigliare, nemica d’ogni animo filosofico, quasi scoglio, opporsi al mio camino e contra mia voglia risospignermi al lido de la vita civile; ove e per occasione di me stesso e delle mie fortune, e a bisogne degli amici, mi fu forza, quando in Vinezia, quando nella mia patria, parlando, ora consigliar sopra il ben commune, ora favellar ne le private cause di color cui grandemente amo. Da le quali occasioni, quasi for di speranza e d’opinion mia, mi venne fatto onde nome d’oratore venissi a conseguire. Ma lasciando il parlar di me medesimo e ragionando di quello che voi da me ricercate, dico che, volendo uno scrivere e parlar gentilmente, dee questo tale procurar con la dottrina fondar l’edificio del suo intelletto e quello alzar da terra con l’aiuto de le buone arti; poscia polirlo con ogni maniera d’ornamento oratorio; il che facendo, questo tale arrà un palagio sì fattamente nobile e adorno che, essendo d’animo ben composto e di temperati disii, poco avrà da invidiare a le stanze dei re o a le fortune dei prencipi !.

Queste parole che Bernardino Tomitano — certo rispecchiandone la reale conversazione — fa pronunciare allo Speroni nel terzo dei Quattro libri della lingua toscana meritano di essere citate qui, în limzine, perché mostrano come lo Speroni stesso polemicamente interpretasse la propria formazione alla luce di un concetto di eloquenza ben diverso da quello propugnato dal Bembo, che pure era un maestro acclamato in Padova proprio negli anni in cui egli veniva riconoscendo la propria vocazione di studioso. Sulla sua giovinezza, del resto, poco c'è da aggiungere a quanto risulta da questo passo. Nato a Padova il 12 aprile 1500 da Bernardino, medico di buona fama e docente nello Studio, e da Lucia Contarini, il 10 giugno 1518 nella sua città si laureò ir artibus e fu accolto nel Sacro Collegio degli Artisti e Medici. «Nell'anno [...] della salute 1520» scriverà egli stesso nell’Apologia dei dialogi «qual fu ventesimo di mia vita, la lettura della ordinaria di logica nello Studio della mia patria al primo

1B. Tomitano,

Quattro libri della lingua toscana, Padova, I. Olmo, 1570, pp. 211-211v.

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luogo fu il mio primo negozio» (T, p. 692)?. Nel novembre del 1523 la Signoria di Venezia, evidentemente soddisfatta del suo operato, gli offrì di tenere «una lettura extraordinaria in medicina over filosofia, qual più li piacerà di exercitar cum salario de cento fiorini a l’anno», e poi lo propose «ad secundum locum extraordinarie philosophie» ?. Ma il giovane studioso era troppo serio per ritenersi pago di una facile carriera universitaria: «nel corso ancora della mia giovane etate» confesserà nel discorso II De/ modo di studiare «soprapreso da una certa ambizion puerile di parer esser giunto per tempo, ove ben tardi mi contenterei arrivare, innanzi fui sforzato insegnare che io avessi imparato» (S, II, p. 505) 4. Di questa «ambizion puerile», però, si liberò presto e, invece di accettare il nuovo incarico, si trasferì a Bologna, dove alla scuola di Pietro Pomponazzi formò la propria mentalità di studioso. Tornato a Padova dopo la morte del maestro (1525), ottenne la cattedra

straordinaria di filosofia «secundo loco» e fino al 1528 il suo negozio — com’egli dice nell’Apologia dei dialogi — «fu legger sempre e filosofare alla maniera peripatetica intorno al cielo e alli elementi, intorno a l’anima e ai principii della natura» (T, p. 711). Ed è significativo che nel 1525, proprio quando egli riprendeva l’insegnamento, il Bembo in una lettera del 6 ottobre al Ramusio protestasse vivacemente perché a Giovanni Montesdoch i Riformatori dello Studio avevano preferito Marcantonio Zimara, detto l’Otranto; il quale Otranto, scriveva, «è già da ora tanto in odio di questi scolari tutti dall’un capo all’altro, che se ne ridono con isdegno. Per ciò che dicono che ha dottrina tutta barbara e confusa, e è semplice averroista; il quale autore a questi dì assai si lascia da parte dai buoni dottori e attendesi alle sposizioni de’ commenti greci e a far progresso ne’ testi. E costui pare che sia tutto barbaro e pieno di quella feccia di dottrina, che ora si fugge come la mala ventura» ?. Parole che, mutatis mutandis, il Bembo — tanto insofferente della dottrina espressa senza eleganza da rinunciare alla laurea, pur di non doversi impegnare nello studio della filosofia aristotelico-averroistica — avrebbe potuto usare anche per il giovane Speroni, che non avrà certo fatto mistero della propria indifferenza per la filologia testuale e dell’incondizionata ammirazione per il Pomponazzi: indifferenza e ammirazione che resteranno tratti tipici di tutta la sua varia attività letteraria. Per la morte del padre (1528) dovette abbandonare gli studi filosofici. Lasciò l'insegnamento e si dedicò alle faccende domestiche, che gli procurarono innumerevoli amarezze e fastidi. L’attaccamento alla casa però, malgrado i continui lamenti, era allora, e sarà sempre, tenacissimo in lui, che del resto nel discorso I Del modo di studiare avrebbe sostenuto che «la scienza del reggimen? Chiamo

T i Trattatisti del Cinquecento,

I, a cura di M. Pozzi, Milano-Napoli

1978.

} I documenti citati si possono leggere in A. FANO, S. Speroni (1500-1588). Saggio sulla vita e sulle opere, parte I. La vita, Padova 1909, pp. 160-1.

4Chiamo S le Opere di M. S. SPERONI DEGLI ALVAROTTI, tratte da’ mss. originali, in Venezia, appresso Domenico Occhi, 1740. ? P. BemBo, Opere, Venezia, F. Hertzhauser, 1729, III, pp. 118-9.

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to familiare va innanzi a quella delle cittati», in quanto dispone l’animo alla liberalità, alla mansuetudine, alla modestia, alla giustizia, alla saggezza, all’accortezza e a tutte le virtù indispensabili a chi desidera impegnarsi nell’attività

politica (S, II, pp. 498-9). Gli impegni familiari, comunque, nel 1529 non gli impedirono di recarsi a Bologna, dov'era convenuta la maggior parte dei letterati per assistere all'incontro fra Clemente VII e Carlo V e all’incoronazione imperiale. Nella casa di Gasparo Contarini, anch’egli scolaro del Pomponazzi e allora ambasciatore della Serenissima a Bologna, partecipò a dotte discussioni, di cui ci ha lasciato una testimonianza nel Dialogo della vita attiva e contemplati: va, che però stese soltanto nel 1540 £. Tornato a Padova, sposò Orsolina da Stra, da cui ebbe tre figlie: Lucia Cristina Adriana il 2 agosto 1533, Diamante l11 marzo 1535 e Giulia che vide la luce non si sa bene se nel 1537 o nel 1538. A queste si deve aggiungere la figlia naturale Angelica, che egli trattò con affetto e prima del 1547 sposò ad Antonio Olzignano. L’amministrazione familiare non era la sua sola occupazione: diversamente da altri letterati, egli partecipò attivamente alla vita cittadina. Eletto membro del Consiglio comunale di Padova il 4 gennaio 1532, l’anno dopo venne estratto a far parte del Magistrato dei Sedici, e a questo ufficio appartenne ancora in tutti gli anni pari fino al 1548. Spesso, da solo o con altri, fu inviato a Venezia per trattare le questioni più disparate: per chiedere provvedimenti che diminuissero le gravezze in cui versava la plebe a causa del rincaro delle derrate; per implorare una diminuzione delle imposte; per difendere il Monte di Pietà contro gli ebrei che esercitavano l’usura; per chiedere che questi fossero costretti a vivere in luoghi separati; per difendere la causa del lazzaretto e degli ospedali; per reprimere la tracotanza di monache ribelli; per discutere questioni di acque fluviali; e via dicendo. In queste missioni dimostrò subito un'abilità oratoria, per la quale fu designato a tenere nella piazza dei Signori di Padova le orazioni

ufficiali in onore

di Iacopo Cornaro

(1536)

e poi di suo fratello

Girolamo (1540), quando lasciarono l’ufficio di Capitano ”.

6Il Dialogo della vita attiva e della vita contemplativa (S, II, pp. 1-43) dev'essere stato composto nel 1540; nella dedica a Daniele Barbaro lo Speroni infatti scrive: «tolto già dodici anni dalle scole delle dottrine alle corti del volgo, altro oggimai del filosofo non ritegno che i panni lunghi, forse acciocché, ricordandomi per tal segno da qual pace in quale impaccio sia rovinato, continuamente mi annoia la memoria della mia gioia perduta». Egli aveva lasciato l'insegnamento universitario nel 1528. 7Le due orazioni si possono leggere in S, III, pp. 170-90. L'attività civica dello Speroni è stata ricostruita dalla FANO, op. cit., pp. 33-43. Si aggiunga che nel 1550 lo Speroni fu richiamato a Venezia e minacciato dell’esilio a Candia. I rappresentanti popolari, infatti, l’avevano accusato di sfruttare a proprio vantaggio il Monte di Pietà, di essere uno dei responsabili di una politica repressiva contro i ceti più bassi e di fare sedizione e innovazione in Padova. Fu prosciolto il 28 giugno. Cfr. R. Cessi, Per la biografia di S. Speroni, in «Athenaeum», III (1915), pp. 20-30.

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2. Lo Speroni — che fu anche presidente del fontego dei curami, censore «iuxta ordines de immoderatis conviviis et superfluis sumptibus», provveditore ai conventi, conservatore del Monte di Pietà — ben diversamente dal Bembo rimase a lungo immerso nella vita cittadina, pur non avendo la prospettiva e l'opportunità di un'attività politica ad alto livello, che invece si offriva naturalmente a un patrizio veneziano. Tanto impegno in faccende di scarso rilievo in momenti di malumore poté apparirgli sprecato; tuttavia andò sempre orgoglioso della gloria oratoria che così si era acquistato 5. Ed è certo che quest'impegno civico lo stimolò a riflettere sui problemi propri di un’eloquenza consona alle esigenze della società moderna, come per esempio appare dal discorso II Del modo di studiare, dove l’oratoria in volgare è vivacemente propugnata e difesa, riprendendo considerazioni che Cicerone aveva fatto in favore di quella latina e ricordando che «l’arte oratoria, il cui fine appresso di ciascun eloquente d’ogni paese non è altro che persuader gli ascoltanti allettando, commovendo, mostrando, in molte e diverse maniere il suo officio fornisce»: «E ciò le avviene non tanto perché in altro modo parli e dispona i concetti dell’intelletto il Latino che ’l Greco, quanto dalla varietà dei costumi delle persone causata dalle leggi e dal tempo; ai quali se non è conforme l’orazione, per bella che ella ci paia, non può valere» (S, II, p. 508). D'altra parte, le numerose faccende pubbliche e private, se lo distolsero dalla filosofia vera e propria, non gli impedirono di studiare e di scrivere: è, infatti, di questo periodo la composizione dei Dialogi, a cui non a torto è rimasta legata la sua fama. I Dialogi, che Daniele Barbaro pubblicò a sua insaputa nel 1542 a Venezia presso i figliuoli di Aldo ?, sono sicuramente il suo capolavoro, non solo per la qualità letteraria e l’altezza del pensiero, ma per le riflessioni che presuppongono e per la loro struttura retorica. A parte il Del tempo del partorire delle donne, che non è un dialogo (così però lo chiama l’autore stesso) ma una lettera

indirizzata a un non identificato «signor mio onorandissimo», i dialoghi infatti mostrano di essere nati, come del resto affermerà lo Speroni stesso nell’Apologia dei dialogi, dall’orazione in pro e in contro, secondo i modi epidittici, che sono i

8 Lodi enfatiche dell’oratoria speroniana si leggono, per esempio, in TOMITANO, op. cit., pp. 245-245».

? Il volume di Dizlogi, pubblicato da Daniele Barbaro nel 1542, comprende nell'ordine: Dialogo d'amore, Della dignità delle donne, Del tempo del partorire delle donne, Della cura famigliare, Della Usura, Dialogo della Discordia, Dialogo delle lingue, Dialogo della retorica,

Dialogo delle laudi del Cataio, villa della S. Beatrice Pia degli Obici, Dialogo intitolato Panico e Bichi. Il dialogo Della cura famigliare fu offerto come dono di cresima a Cornelia Cornaro, figlia di Giovanni e novella sposa di Piero Morosini; lo Speroni le fece da padrino il 21 maggio 1533. Il manoscritto del dialogo Della Usura, che allora si chiudeva con il discorso della sedicente dea, reca in calce la data 19 maggio 1537. A proposito di questo dialogo lo Speroni stesso nell’Apologia dei dialogi racconta un aneddoto gustoso: «negli anni della salute 1547 io, procurando di trar di Padova la vera usura di molti banchi di Ebrei; che malamente la consumavano; e disputandosi questa causa in Collegio, davanti alla Serenissima Signoria di Vinegia, un gentiluomo delli avversarii avvocato, a me rivolto, così mi disse: “Tu che la usura hai lodata e di ciò fatto un dialogo, qual ragione puoi tu avere per discacciarla dalla tua patria?” Cui

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più aperti alla libera creazione artistica. Quest’origine può non apparire evidente nel dialogo Della cura famigliare, perché le idee che il Pomponazzi espone alla figlia non sembrano diverse da quelle allora correnti; all’autore però questo dialogo sembrava «pien di sì fatta filosofia di Aristotile e Senofonte, che io non fui oso di farne autore il mio nome; ma, imitando Platone che fa parlare il suo Socrate, io al Peretto, siccome ad uomo che per dottrina degno mi parve di tale impresa, con riverenza l’ho attribuito» (S, I, pp. 313-4). La bravura retorica, la volontà di essere un nuovo Isocrate, comunque, meglio risulta quando la tesi è ‘ardua e in contrasto con la corzzunis opinio. Allora il retore spesso si trasforma in un grande artista, perché, preso a lodare le cortigiane o il libero amore, l’usura o la discordia, quella che era una tesi assunta per esercizio letterario diventa nell’incalzare delle argomentazioni una salda convinzione soggettiva, la convinzione di un personaggio “imitato” dal vivo. Lo Speroni stesso nell’Apo/ogia dei dialogi chiarì che nel dialogo vengono imitate non solo le persone ma le loro opinioni, così che «la opinion dialogica non è scienzia, ma di scienzia ritratto» (T, p. 707). E insisteva sul diletto, ma non meno sulla verità che la

persona intelligente può ricavare da dialoghi che non concludono o sembrano concludere in maniera discutibile o introducono personaggi moralmente condannabili. I Dialogi sono dunque una singolare sorta di commedia, in cui l’imitazione riguarda non le azioni ma le opinioni. Il senso di verità e la caratterizzazione dei personaggi non nascono però dall’incontro dialettico delle opinioni, bensì dalle orazioni che ciascun interlocutore pronuncia. Il dialogo Della Usura nell’aldina è costituito solamente da una lunga orazione della dea, che lo Speroni ha sentito come un personaggio; e questo dà tanta verità alle sue parole che sembra di leggere una spregiudicata difesa del capitalismo. E così nel dialogo Della dignità delle donne la tesi seria è quella dell’Obizza; nell’operetta però brilla sorridente e maliziosa solo la tesi dell'amore libero: come il discorso del Grazia nel Dialogo d'amore, così in questo la tesi seria è meno efficace, proprio perché non riesce a calarsi in un personaggio, ad acquistare vita autonoma dall'autore. Dove predominano le opinioni sofistiche — nel Dialogo d'amore e in quelli Dell’Usura e Della Discordia sopra tutto — c'è effettivamente una felice aria di commedia. Con questi scritti lo Speroni inaugurava quel dialogo “comico” che avrebbe trovato il suo giusto equilibrio nella Raffaella (1540) di Alessandro Piccolomini, per poi rapidamente esaurirsi con il Ragionamento nel quale s'insegna a’ giovani la bella arte d'amare di Francesco Sansovino (1545) e lo Specchio d'amore di Bartolomeo Gottifredi (1547). Il contrasto di opinioni serie da cui scaturisce la verità è invece sperimentato con grande efficacia nel Dialogo delle lingue. Qui, proprio perché rinuncia al ragionamento dimostrativo e si affida ai modi epidittici, lo Speroni dà una soluzione filosofica al problema delle lingue attraverso il superamento dialettico di posizioni storicamente esistenti e coerentemente incarnate in personaggi. È stato detto, in maniera più o risposi: “Non l’ho lodata; guardimi Dio dal lodarla. È ben vero che io volli scrivere tutte le laudi che ella a sé stessa potrebbe dare, se ella parlasse”» (S, I, p. 308).

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meno velata, che il Dialogo delle lingue non fa che illustrare con obiettività le varie concezioni del linguaggio o addirittura che lo Speroni ha peccato di incoerenza o ancora che la sua posizione segna un regresso rispetto a quella del Pomponazzi. Eppure quella che è parsa incoerenza è in realtà la manifestazione di un pensiero agile e dinamico, tutt'altro che incline a chiudersi in un arido e pedante dogmatismo; quel che è sembrato conservatorismo o involuzione è la capacità di vedere i problemi quali sono, con rigore logico ma anche con senso storico, spogliandoli degli elementi contingenti e delle astrattezze che troppo spesso distraevano i trattatisti. Quelle impressioni sono sorte proprio perché si è letto il dialogo senza tener conto della sua dialettica interna, cercando un personaggio che esponga la “verità”, mentre questa aleggia in tutti gli interventi. Certo l’operetta culmina nelle parole del Pomponazzi, ma anche la sua è una verità parziale e da integrare con quanto sostenuto dagli altri interlocutori, compreso Lazzaro Bonamico. Quando i Dialogi furono pubblicati, riscuotendo subito un grande successo, lo Speroni aveva ormai trovato l’ambiente adatto per diffondere e mettere in

pratica le sue idee nell'Accademia degli Infiammati, di cui fu eletto Principe per il semestre 1541-1542. Come risulta da due lettere del Principe uscente, Alessandro Piccolomini, a Benedetto Varchi del 31 ottobre e del 3 novembre 1541, la sua incoronazione fu travagliata, perché egli non voleva accettare gli sfarzosi apparati previsti per la cerimonia !°. Motivo apparente forse: quale fosse la vera causa di questo atteggiamento però non è possibile dire. Certo è che, assunto finalmente il principato, operò con grande energia per conferire all’Accademia una funzione precisa, che la rendesse autonoma e diversa dallo Studio. Il giorno dopo la solenne incoronazione, secondo il racconto del Tomitano, molti letterati si riunirono in casa dello Speroni, che — stimolato da Michele Barocci, dubbioso sulla possibilità che l'Accademia mantenesse alto il suo prestigio, essendo «in terra di Studio, dove tutto dì si leggono le belle e gravi sentenzie degli antichi filosofanti, e oltre a ciò la teologia, le leggi, la medicina e le lettere greche e latine» — avrebbe detto: Questa è una delle ragioni [...] che io altre volte mi ricorda aver usata là entro, mentre più fiate si ragionò degli ordini e maniere che si deono tenere nel leggere. Perciò che io era, e così ci sarò sempre, di questa opinione: che niuna lezzione si leggesse che volgar non fusse; il che a credere e raffermare mi persuase che, facendosi altramente, noi eravamo di soverchio ingannati, se pensavamo con quella stessa auttorità e maggio-

ranza leggere le lezzioni greche e latine, come si fa nello Studio generale dal dottissimo messer Lazaro nostro; e per questo mi diedi a rimproverarglile quella varietà e disordine e quasi come una confusa discordia di lezzioni che là entro si fanno, perché sempre fui di questa opinione: che si avessero a continovare le toscane, nostre e di noi proprie, più che l’altre; la qual cosa così tosto che io arrò l’incarico di questo peso sostenuto, che io intendo fare che per lo più o sempre si osservi. Avegnadio che, essendo a noi trapelata e pervenuta l'occasione di adunare questa nobile e generosa 10 Le due lettere del Piccolomini al Varchi in F. CERRETA, A. Piccolomini. Letterato e filosofo senese del Cinquecento, Siena 1960, pp. 273-6.

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Zi

compagnia d’uomini non per altro fine che per accrescere alcun lume e vaghezza e dignità a questa lingua che noi toscana addomandiamo, e non per farne una popolaresca frataglia o sinagoga, vorrei che non fussimo d’altra opinione che di far leggere altro che il Petrarca e il Boccaccio, e dovendosi altramente operare, vorrei che questa soma che io ho tolto a sostenere niuna persona la mi avesse data, che io pur troppo ne le resterei obligato.

E poco dopo: Io fui sempre di questa opinione [...], che le cose di teologia si lasciassero alle scuole di frati [...], come quelle che con la lingua toscana non hanno alcuna conformezza o simiglianza, e così lo studio delle leggi, il quale reputo dal nostro commun fine lontanissimo. Ma della filosofia vi dico che non pure io istimo che con lo intendimento della lingua si confaccia, ma tanto è simile e conforme, tanto giovevole e necessaria che io credo non potere alcuno ottimo oratore o poeta poter diventare per alcuna

maniera se egli alcun precetto di lei non ritiene !!,

In tal modo l'Accademia degli Infiammati acquistò una fisionomia che la rese diversa dalle tante accademie precedenti: divenne, diremmo oggi, espressione di una cultura alternativa a quella dello Studio e manifestazione del nuovo prestigio raggiunto dal volgare. Forse proprio in seguito a discussioni sorte fra gli Infiammati sulla tragedia e in particolare sull’Orbecche del Giraldi (1541), lo Speroni fra l’8 gennaio e il 9 marzo 1542 compose la Canace che, letta con successo nell'Accademia, avrebbe dovuto essere recitata in casa di Giovanni Cornaro, Capitano di Padova; la rappresentazione però non ebbe luogo perché improvvisamente, il 17 marzo, morì Ruzzante che in essa, per la prima volta, avrebbe dovuto sostenere un ruolo tragico. Il 2 aprile Alvise Cornaro scriveva allo Speroni la famosa lettera apologetica della vita sobria: l’unico dolore capace di diminuire la sua conclamata felicità — affermava — era la morte degli amici, e nel caso specifico quella del Ruzzante, su cui lo Speroni molto aveva contato per la recita della sua «vera e

mirabile tragedia» !°. Non tutti, però, erano di questo parere. Senza nome d’autore e datato 1°

luglio 1543, si diffuse manoscrittto un Giudizio d'una tragedia di Canace e Macareo, in cui la Canace veniva biasimata sotto ogni aspetto. Dapprima lo Speroni, che pur non era uomo da sopportare simili affronti, evitò di replicare pubblicamente; ma quando nel 1550 il Giudizio venne pubblicato dallo stampatore lucchese Vincenzo Busdrago, non poté esimersi dal rispondere alle critiche e prese a comporre un’Apologia, rimasta incompiuta. Ancora altre volte, poi, intervenne o pensò di intervenire in difesa della sua tragedia, che invero è priva 11B. Tomtano, Ragionamenti della lingua toscana. I precetti della retorica d’Aristotile e Cicerone aggionti, Venezia, G. de’ Farri e fratelli, 1546, pp. 17-21. Sul pensiero linguistico e critico elaborato nell’accademia è fondamentale F. Bruni, S. Speroni e l’Accademia degli Infiammati, in «Filologia e letteratura», XIII (1967), pp. 24-71.

di 12A CorNaRO, Scritti sulla vita sobria. Elogio e lettere, prima edizione critica a cura M. Milani, Venezia 1983, p. 143.

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di poesia ma, come altre opere del tempo, ebbe il merito di suscitare discussioni approfondite, in cui il pensiero del Rinascimento trovò l’occasione per precisar-

si con grande ricchezza di fermenti critici !. 3. Grazie all'Accademia degli Infiammati, al successo dei Dialogi e alle stesse discussioni sulla Canace, lo Speroni non a torto sembrò il maestro della nuova letteratura volgare. Il Tomitano lo celebrava nei Ragionamenti della lingua toscana, Bernardo

Tasso ne ascoltava devotamente

i consigli, Pietro

Aretino gli mostrava una grande ammirazione e trovava nelle sue opinioni quasi una giustificazione del proprio istinto letterario. Non meno profondo era il suo influsso su alcuni letterati toscani, il Varchi e il Piccolomini sopra tutto, che ne

avrebbero diffuso il pensiero in Toscana *. Nel 1547 a Padova commemorò il Bembo, cioè il maestro della precedente generazione, che egli aveva ammirato e rispettato, anche se non ne condivideva tutte le opinioni ”. Nello stesso anno conseguì un grande successo, pronunciando nella cattedrale di Urbino una forbita orazione in memoria di Giulia Varana, la giovane sposa di Guidobaldo II allora deceduta !. In quell’occasione — gli dice un interlocutore nell’ultimo dei Quattro libri della lingua toscana del Tomitano — «superaste voi medesimo; e fu ora che le vostre parole mi pareano anzi folgori che voci umane, mentre spiegando le ricchezze del vostro ingegno, vi faceste conoscer tutto spirito e fior di giudicio nel lodare la vita e la morte di quella Signora, materia dignissima de la facondia vostra» !. Nell’aprile del 1548, dopo le laboriose trattative che allora erano di norma, sposò la primogenita Lucietta con Marsilio Papafava, che gli diede presto la gioia di essere nonno. Fra i molti nipotini amò in particolar modo Ludovica (Viga o Vighetta), come appare dalle lettere a lei dirette e da quelle in cui è ricordata, che sono fra le più schiette e vivaci del Cinquecento. Il 19 marzo 1557, per esempio, scriveva a Lucietta: Di’ alla mia cara signora Vighetta che l’ha indivinato, che ho ridesto delle sue care parolette e mi piace che la si chiame non donna grande come ella dice ma una donnina; e fa bene a non creder dell’oselletto, perché certo non viene oselletto a

La Canace e gli scritti dello Speroni in sua difesa, insieme con il Gizdizio, che probabilmente è di Giambattista Giraldi Cintio, sono stati pubblicati da Ch. Roaf (Bologna 1982).

14 Cfr., a questo proposito, F. BRUNI, Sistemzi critici e strutture narrative, Napoli 1969; E. Bonora, Dallo Speroni al Gelli, in Retorica e invenzione, Milano 1970, pp. 35-43. 5 L’Orazione in morte del Cardinale P. Bembo, in S, III, pp. 158-69; essa, secondo gli editori di S, non fu «né finita né recitata». 16 1L’Orazione in morte della Duchessa di Urbino, in S, III, pp. 115-35.

17 B. TomiTANO, Quattro libri della lingua toscana, cit., p. 245 v.

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2:13

parlarmi. Ma perché so che la suole esser qualche volta cattiva, mi penso sempre che la possa esser cattiva; e perché la mi faria gran piacer a esser bona, però scrivo dell’oselletto. Ma se la è donna d'’intelletto e se la vuol bene alla signora madre e a me, la si

guarderà di esser cattiva. Non è più tempo di esser cattiva, bisogna esser bona essendo una donna o una donnina. Le portarò ciò che la vuole e voi, signora madre, scrivetemi proprie le parole che ellavi dice e farò ogni cosa per amor suo e perché la sia bona. E ditele che con me vegneranno do gran gentilomeni e vederò se ella saperà parlar con loro da donna. E il 24 marzo:

Se la mia cara signora Vighetta diventa bona, le comprerò tutto quello che ella vorrà e la farò tosto noviccia. Quando ella parlerà con gentilomini, bisogna che ella parli da gentildonna e non da puttina cattiva né da villana; e questa volta starò a veder come si porterà.

E il 28 marzo:

Signora madre, dite alla mia cara signora Vighetta che al tutto la voglio far noviccia, ma che non si pò far noviccia chi è cattiva, però la priego che diventi bona e tosto, e che sua signoria mi comandi quello la vuol che io le compri e si degni di parlar fiorentin.

E a Giulia il 1° aprile: Di’ alla signora Vighetta che i gentilomini hanno inteso che la non è troppo bona e non mi so pensare chi gliel’abbia ditto. Portarò i zoccoli belli ma non glieli darò se sarà stata cattiva; e se sarà stata cattiva, bisogna che la si pensi che nessun la vorrà per noviccia e che, per l’amor di Dio; la voglia diventar bona, acciò che la si possa far noviccia 18,

Sono momenti di grande tenerezza. Non si deve dimenticare, però, che essi si inseriscono in lettere in cui si trattano questioni varie e specialmente quelle relative ai lavori agricoli. Non sono insomma frutto di impegno letterario, ma il risultato spontaneo dell’affetto di un nonno conquistato dalle grazie della nipotina. Nel 1550 a un amico di cui non si conosce il nome scriveva: «io non credo di star molto senza venire a veder Roma, se già morte o infermità non mi tiene. Allora vedrò io pur questa Roma tanto famosa e tanto celebrata e saziarò 0, per 18 Trascrivo

dagli originali conservati

nel tomo

IX dei manoscritti

speroniani della

Biblioteca Capitolare di Padova. Le lettere familiari, infatti, sono state edite arbitrariamente in

S-— e già prima nella raccolta di Lettere di messer S. Speroni (Venezia, G. B. Ciotti, 1606) — sopprimendo gli elementi dialettali e tutti i riferimenti ai lavori agricoli. Cfr. in proposito M. R.

Loi-M. Pozzi, Lettere familiari di S. Speroni, in «Giornale storico della letteratura italiana», CLXIII (1986), pp. 383-413; e in particolare le pp. 388-9, dove è trascritta per intiero la lettera

del 24 marzo e sono indicate le soppressioni degli editori.

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dir meglio, stancarò gli occhi e i pensieri in veder le sue meraviglie presenti e giudicare quale ella fosse inanzi che ella cadesse» !?. L'occasione propizia gli si offrì nel 1553, quando il duca d’Urbino, Guidobaldo II, fu eletto Capitano generale della Chiesa e si recò a Roma per ricevere il bastone del generalato. Presa la decisione di accompagnarlo, partì agli ultimi di aprile; a Roma, dove giunse il 9 maggio, contava di trattenersi a lungo, invece poco più d’un mese dopo era già di ritorno a Padova. Qui si occupò delle nozze della secondogenita, Diamante, che il 23 gennaio 1554 sposò Ubertino Papafava, fratello di Marsilio, il marito della Lucietta. Ma le due sorelle rimasero presto vedove. Marsilio e Ubertino morirono entrambi nel 1555 e lo Speroni dovette entrare in lite con il loro padre, Roberto, per la tutela dei figli del primo. Terminata questa causa nel maggio del 1557, si preoccupò di rimaritare le figlie vedove e di sposare Giulia, giunta ormai intorno ai vent'anni. Nel febbraio aveva promesso quest’ultima ad Alberto de’ Conti, ma aveva differito le nozze, forse sperando nel frattempo di accasare le altre due. E così avvenne: Diamante sposò il conte Antonio Capra e Lucietta il 5 dicembre il conte Giulio da Porto, entrambi vicentini; infine nel gennaio del 1558 avvennero le nozze di Giulia con Alberto de’ Conti.

4. Nel 1560 Guidobaldo II propose allo Speroni di accompagnare la figlia Virginia a Roma, dove la chiamava il marito Federigo Borromeo. Dapprima il padovano rifiutò; il duca però scrisse ad Antonio Gallo, che faceva da intermediario, di chiarirgli bene le ragioni della propria offerta: «io» precisava nel risolvermi a questo luogo per lui ho fatto questo fondamento, che l’andare di messer Sperone a Roma sia per pensare di crescere a maggior grado: a questo non si può venir senza il Papa. Pensavo di formar questo luogo per lui, perché gli avesse a servire con il negoziare ogni dì con Sua Santità per mesi, acciò di qui potesse la sua virtù tirarlo innanti con l’aiuto che gli aressimo dato noi per incappellarlo non solo del colore di speranza, ma di quello che usano i suoi signori veneziani di magistrato [...]. Se il fine dunque di messer Sperone è il crescere, non lasci questa occasione, perché saria troppo gran falso latino. Se viene a Roma per riposare, tutto quel che io ho detto è un zero, levatogli il fondamento; anzi dico che non lo facci per conto alcuno, perché chi serve altri in questo modo, non obbligato o per natura o per fine di crescere o

conservare, merita di esser ligato per matto pubblico 20

A queste nuove lusinghe lo Speroni cedette e il 30 novembre partì per Roma, dove giunse il 9 dicembre. Le accoglienze furono ottime; il 18 soddisfatto scriveva alla figlia Giulia:

19 Questa lettera — che, come tutte quelle che citeremo, abbiamo rivisto sui manoscritti speroniani della Biblioteca Capitolare di Padova — si può leggere in S, V, p. 19. 20 La lettera si legge in S, V, pp. 387-8; la risposta dello Speroni in FANO, op. cit., pp. 173-4.

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Sapi che dal signor Duca, mio signor, son molto meglio trattato in fatti che non prometteano le sue letere; le quali però, come sai, prometteano così gran cose; e se vivemo, spero che tu debba ringraziar Dio della mia partita da Padova. Io non ti voglio scriver distintamente ogni cosa, perché a me non tocca; ma per via delli Conti di S. Bonifacio intenderai meglio e più credibilmente la verità delle cose mie, perché io sono in casa sua benissimo’visto e onorato come da figliolo; e ello [il conte Manfredo di San Bonifacio] è cameriero del Papa e sa tutto e anche più di me. Luni basciai il piede al Papa, e oggi son andato a vederlo disnare, e da lui ho avuto cortesi e onorate parole e promesse di premiarmi

(S, V, pp: 73-4).

E a Domenico Veniero il 28 aprile 1561: Il Duca partì e lasciomi in protezion del Boromeo con molte amorevoli parole dette e rispostemi. Se mi serà atteso il promesso, spero fra pochi giorni giudicar del futuro anche io; perché le promesse sono dell’adoperarmi, il che io desidero; perché al parangone spero di esser qualche cosa, benché absolutamente sia nulla (S, V, p. 88).

Mentre carezzava queste illusioni, non trascurava le relazioni e gli svaghi letterari. Strinse amicizia col Caro e partecipò all'Accademia delle Notti Vaticane 21, nella quale Carlo Borromeo radunava vari letterati e studiosi, fra cui Lodovico e Alessandro Simonetta, Francesco Alciato, Giovanni Battista Amalteo, Carlo Visconti, Francesco e Cesare Gonzaga, Agostino Valiero, Silvio Antoniano, Ugo Boncompagni (che poi divenne papa Gregorio XIII), Giovanni Delfino e altri. Secondo le norme dell’associazione — nella quale assunse il

nome di Nestore e di cui fu anche nominato Padre — dovette trattare precetti di filosofia morale; forse vi tenne i discorsi Sopra le virtà, Dell'onore, utile e fin dell'uomo, Dell'anima umana, Della fortuna, Della virtà. Quando nel 1562 morì

Federigo Borromeo, il fratello Carlo volle che si trattassero soltanto argomenti desunti dai Vangeli; pertanto si discorse delle beatitudini, dei vizi capitali e delle virtù. Allora lo Speroni forse discusse le massime Ne quid nimis e Nosce te

ipsum e lesse i due discorsi Dell'amore di sé stesso. Dopo il 1562 fu invitato a parlare della superbia, ma l’orazione non ci è pervenuta. Non erano, questi, gli argomenti che era solito trattare a Padova e a Venezia, né era avvezzo al particolare linguaggio che siffatta materia, e la consuetudine con i cardinali e il papa, imponeva. A un cardinale, di cui non si conosce il nome, scriveva: «come io ci venni [a Roma] colla mia lingua padovana e col mio abito consueto, le quai due cose a’ Romani sono parute novissime, così ci

venni co’ miei concetti e opinioni, per non dir discipline o scienzie, nelle quali

21 Sull’Accademia delle Notti Vaticane cfr. J. A. SAx1us, Noctes Vaticanae seu sermones

babiti in Academia a S. Carolo Borromeo Romae in Palatio Vaticano instituta, Mediolani et Venetiis 1750; L. BERRA, L'Accademia delle Notti Vaticane, Roma 1915.

221 due discorsi Sopra la virtà in S, III, pp. 394-402; il Discorso dell'onore, utile G fin dell'uomo, in S, III, pp. 378-86; il Discorso dell'anima umana, in S, III, pp. 368-73; i due discorsi Della fortuna, in S, III, pp. 323-50; il discorso Della virtà, in S, V, pp. 391-6; il

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io sono invecchiato; le quai per avventura sono stimate non manco stranie della

lingua e dell’abito». Temendo di sbagliare, non parlava: Dunque, dirà alcuno, tu credi di essere un gran maestro o gran filosofo o oratore, e per ciò temi di fallare. Certo io non vuò dir che sia tale, ma son ben certo che in Venezia e in Padova già fu chi mi ebbe per tale, e mi hanno ancora per tale; onde fallando in Roma in quello, onde in que’ luoghi fui onorato, temo di perder quel che avea nella patria, senza acquistare quel che in Roma mi fe’ venire. A questa paura ho io cercato di provedere e salvarmi da essa; e dubitando, come

ho già detto, che la mia antica

professione, che io già feci in Padova e in Vinegia, qui in Roma non mi dovesse valere, lasciati gli antichi studii, a questi della Scrittura mi ho voluto accostare, nella quale imparassi non solamente le cose che a sacerdote si convenissero, e che son proprie

della religion cristiana, della quale Roma, cioè il Papa e i Cardinali son capo; ma imparassi un nuovo modo di favellare, quale in Venezia non si usa, e meno in Padova, ove gli omini, benché sian grandi, son però omini; col qual modo da me imparato

osassi al Papa, di Dio vicario, e agli amplissimi Cardinali più arditamente, che io non faccio ora, accostarmi [...]. Io adunque per saper meglio parlare con esso voi Cardinale, patron mio, e consanguineo del Papa, ho fra me stesso con diligenzia considerati e appresi tutti i modi che già usarono questi santi nel lor parlare, e fattone una nova rettorica non usata da quegli antichi che già ne scrissero così bene; la qual rettorica se bene ho appresa, spero di dover essere in Roma qual fui tenuto in Vinegia (S, V, pp. 74-6).

Si potrà discutere il metodo seguito per costruire una «nova rettorica»; in ogni caso significativa, e tipica della mentalità dello Speroni, è questa esigenza di trovare forme moderne di eloquenza, senza appagarsi di quelle stabilite dagli antichi. Per far cosa gradita a Pio IV compose l’Orazione al Re Filippo di Spagna, in cui è celebrata la pace di Cateau-Cambrésis, e l’Orazione della pace al Re Antonio di Navarra, per convincerlo a desistere dal favorire gli ugonotti. A Pio IV scrisse un carme, che però dichiarò di aver composto per sé e per gli amici, e di non aver nemmeno mandato al potenfice. Compose anche un sonetto all’uscire della malattia che lo colpì nel 1561, e un secondo per l’apertura della strada Pia, sul dorso del Monte Cavallo ?3. La nomina a cardinale, nella quale ingenuamente aveva sperato, però non veniva ed egli cominciava a contrariarsi. Essendo al servizio di donna Virginia in quanto nipote del papa, alla morte di Federigo Borromeo (19 ottobre 1562) si considerò sciolto da ogni incombenza e decise di lasciare il Palazzo vaticano. Ormai gli pesavano anche le attività accademiche. Ad Alvise Mocenigo il 31

Discorso sopra le sentenze Ne quid nimis e Nosce te ipsum, in S, II, pp. 514-20; i due discorsi Dell'amor di sé stesso, in S, II, pp. 521-34.

3 L’Orazione al Re Filippo di Spagna, in S, III, pp. 1-46; l’Orazione della pace al Re Antonio di Navarra, in S, III, pp. 47-114. Il carme Sopra Rorza a Pio IV, in S, IV, pp. 341-9: ne parla in una lettera del 14 febbraio 1562 a Cardino Capodivacca (in S, V, p. 108) e nelle lettere

al signor Guidone del 23 e 29 maggio dello stesso anno (in S, V, pp. 132-3), in cui accenna

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ottobre scriveva: «questa accademia, tanto da altri ammirata, mi è una gran febbre, e non me ne libererò di questo anno, né di quattro mesi dell’altro, ma

finalmente me ne libererò pur un dì. Conservatevi e amatemi, e pregate Dio della mia libertà o di servitù onorata» (S, V, p. 150). E alla figlia Giulia, il 28 febbraio 1563: «Io da ora innanzi spenderò assai, perché starò libero in casa mia; e questa vita voglio provar qualche mese alla speranza non più delli uomini ma di Dio» (S, V, p. 155). Infine il 20 marzo poteva annunciare di essere uscito di Palazzo: «e sto in casa mia con quattro servitori e una massara, e tosto averò la cavalcatura» (S, V, p. 155). Con il sonetto Schiera gentil si

congedò dall’Accademia e, quindi, senza più impegni verso altri si dedicò tutto agli studi. Lavorava al Dialogo del giudicio di Senofonte, a un Trattato dell’imitazione, di cui ci rimangono pochi frammenti, e sopra tutto era preso dallo studio di Virgilio, che continuò a lungo e da cui trasse un frammento di Dizlogo sopra Virgilio, due dialoghi e otto discorsi 4. Fitta era la sua corrispondenza con gli amici che in Padova si occupavano dei suoi affari. Ad Alvise Cornaro il 22 febbraio 1562 scriveva una lettera per ribattere le argomentazioni in favore della vita sobria; lettera che poi ritrattò con un’altra pervenutaci mutila ?. Ad Alvise Mocenigo chiedeva giustizia contro Francesco Sansovino, colpevole d’aver stampato nella raccolta Diverse orazioni volgarmente scritte di molti uomini illustri (Venezia, F. Sansovino, 1561) «sotto nome d’incerto» le sue orazioni per Iacopo Cornaro e in memoria

di Giulia Varana 2°. Ma sopra tutto notevoli sono le lettere “familiari”, in cui appare un’affettuosa premura, un interessamento continuo e tenerissimo al

di là del tono talora burbero. Da Roma dirigeva in ogni particolare la vita delle figlie e dei nipoti, dettando minutissimi consigli igienici e dietetici; perciò la morte della figlia Lucietta, avvenuta nel 1563, lo addolorò moltissimo, e tanto più perché non lo si era avvisato né della malattia né delle sue cause, «ché forse» scriveva a Giulia il 30 settembre 1563 «io provedea a ogni cosa» ($, V, p. 160); e poco dopo, il 9 ottobre: «Io faccio quanto so e posso per tenervi vive; ma voi al mio dispetto non volete star bene. Non posso più. Se della malatia di tua sorella era avisato, forse non moriva. Se farete a vostro modo, io restarò dopo voi» (S, V, p. 161). Ma piuttosto che da questo doloroso ritornel-

lo, il suo vero stato d’animo emerge dalle parole rivolte il 18 settembre a un amico che gli aveva inviato le proprie condoglianze: «Vi ringrazio che vi dogliaanche al sonetto Ecco, Signor del cielo, scritto per la guarigione da una malattia (in S, IV, pp. 373-4). Il sonetto Roma, questa diritta e piana via, in S, IV, p. 374.

24Il sonetto Schiera gentil, in S, IV, pp. 374-5; il Dialogo del giudicio di Senofonte, in DI II, pp. 44-95; un frammento di trattato Della imitazione, in S, V, pp. 5589. Alcuni accenni alle opere a cui lo Speroni allora attendeva sono in A. CARO, Lettere familiari, a cura di A. Greco, III, Firenze 1961, pp. 197, 201, 203. Il frammento di Dialogo sopra Virgilio, in S, I pp. 356-68; i due dialoghi Sopra Virgilio, in S, II, pp. 96-209; gli otto discorsi Sopra Virgilio, in S,

IV, pp. 421-579.

25Le lettere Contra la sobrietà e Per la sobrietà, in S, III, pp. 414-24.

26 Si vedano le lettere ad Alvise Mocenigo del 4 e dell’11 aprile 1562, in T, pp. 811-4.

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te del mio dolore, nel qual farò anch’io como altri fa. Son sano quasi troppo, sì come troppo vivo, ché troppo vive chi vede la morte de’ suoi più cari; e in questo credo io di aver raggione contra il magnifico messer Alovise Cornero» (S, V, pp. 159-60). Già pensava di tornare a Padova, e «per non star solo da

cane» scriveva a Giulia il 27 maggio 1564 «tormi a star meco li doi puttini da Porto, che in man di colui non possono star se non male; e per disgravar te, torne doi delli toi» (S, V, p. 166). Prese congedo dal papa che, con sua delusione, non gli conferì che il titolo di cavaliere. Ricevuta la patente del cavalierato il 3 settembre, il 6 partiva in gran fretta, perché una nuova sventura lo costringeva a mettere in pratica il progetto che aveva ventilato a Giulia: la morte del genero da Porto lasciava soli i due nipotini, Nicolò e Lucietta, l’uno

di poco più di cinque anni, l’altra di trentatré mesi. Il 19 era già a Vicenza: si costituì loro tutore e li condusse a Padova, dove divenne «non pur tutore e avo materno, ma servo, medico e balia» loro (S, V, p. 251).

Appena a Venezia giunse la notizia del suo ritorno, i Riformatori dello Studio gli proposero la cattedra di filosofia morale, e Alvise Mocenigo e Angelo Blasio insistettero affinché accettasse. Ma egli, questa volta, seppe resistere alle lusinghe e con nobili parole rifiutò ?. L'offerta, comunque, costituì una delle poche soddisfazioni che gli vennero dai suoi compatrioti; infatti non passò molto tempo che, angustiato da troppe questioni — specialmente da liti coi parenti —, già non poteva più sopportare di vivere in Padova.

5. Verso la fine del 1568 Felice Paciotto,

a nome di Guidobaldo II, invitò

lo Speroni a Pesaro per le nozze del principe Francesco Maria con Lucrezia d’Este. Il padovano dapprima esitò, poi, viste le molte premure che venivano usate nei suoi confronti, finì per accettare. Il 31 dicembre 1569, però, in luogo della lettiga promessagli per il viaggio, chiedeva, se possibile, una barca: «per ciò che io non posso venire a questo tempo se non con molte veste che mi tengano caldo tutto ’l corpo, specialmente le gambe; e a serbarmi le veste mi bisognano doi forzieri»; e avvertiva: «Aspettate un vecchio di settanta anni sonati, mezzo sordo, con pochi denti, onde non che ’l mangiare ma il parlare mi si impedisca» (S, V, p. 187). Il 2 febbraio 1570 ancora chiedeva consigli e insisteva sulle sue condizioni fisiche: «ricordivi di parlare alto, acciò che queste mie chiuse orecchie fuori non serrino pur una sola parola; e per adempiere il gran defetto della mia poca memoria, nella quale, se d’altro suono non è svegliato, par che dorma o sia morto ogni mio concetto, io sia delli ultimi, quasi un nuovo Dioneo, che io abbia a ddir la mia opinione. [...] consigliatemi ancora

come io mi debba vestire, per ciò che in Padova, come sapete, io vesto panni lunghissimi da dottore e da vecchio, quali alle corti forse non si usano; né cortissimi vorrei usarli, se ciò mi fusse permesso; però a’ rubboni mi appigliarei; ma non mi voglio risolvere senza il vostro consiglio, il quale accommoderà alla corte la mia vecchiezza nei vestimenti, se in altra cosa non si può fare» (S, 27 Si veda la lettera ad Angelo Blasio in T, pp. 817-20.

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V, pp. 188-9). E ancora il 5 novembre: «poiché voi sete eletto al governo della mia vita, non vi sia grave che io v’informi de’ miei costumi nel vivere. Io la sera non vi chiedo altro che mele dolci cotte, non dopo pasto, ma nel pasto, per ciò che la sera una medesima cosa è a me l’antipasto, il pasto e il dopo pasto, se non che io uso la salata per l’aceto, che a me giova e mi diletta infinitamente. Del vino io vi priego che sia piccante, e non dolce né grande né colorato» (5, V, p. 192). Finalmente il 31 dicembre partì: a Pesaro, dove probabilmente insieme col Paciotto assistette alle feste nuziali, rimase fino ai primi di marzo dell’anno successivo. Carezzato oltre che da Guidobaldo II anche da altri principi — per esempio dal duca di Ferrara Alfonso II — era sempre più convinto che ovunque sarebbe vissuto meglio che in patria, dove lo rattristavano i lutti (allora, fra l’altro, morì la carissima Ludovighetta Papafava), le liti giudiziarie, i furti e le inimicizie di ogni genere. Pertanto, nel 1572 quando Ugo Boncompagni — da lui conosciuto nell'Accademia delle Notti Vaticane — fu eletto papa col nome di Gregorio XIII, credette giunto il momento di trasferirsi a Roma, dove pensava di trovare l’ambiente adatto per trascorrere serenamente i suoi ultimi anni, e il 3 dicembre 1573 partì da Padova. Alla figlia Giulia col solito tono burbero il 13 novembre 1574 scriveva: «Io sto meglio e studio più che io non facea di anni 25; né ho fastidio di cosa alcuna se non di te; se tu starai allegra, io farò altretanto, perché non temo cosa nessuna, se non la tua indisposizione, ché a tutto ’l resto son bastante a provedere» (S, V, p. 210). In realtà i dolori e i fastidi non gli erano mancati. Il 28

settembre era morto Guidobaldo II, a cui era legato da antichi vincoli di gratitudine, «avendo io» scriveva a Matteo Macigni il 9 ottobre 1574 «di sua commissione grande impresa alle mani», cioè l’incarico di scrivere una storia che purgasse Francesco Maria della Rovere dalle accuse del Guicciardini: il lavoro non fu compiuto, malgrado le molte cure che gli dedicò. Nella stessa lettera osservava: «Qui ognun brava per Virgilio contra me, e non è uomo che mi affronti». Ma gli era successo ben di peggio. Un gentiluomo, del quale non seppe mai il nome, portò al padre inquisitore i Dialogi, notati nei punti che, secondo lui, offendevano la morale. A Matteo Macigni, nella lettera già citata, scriveva: «Se io non era in Roma, male facevano i miei Dizlogi, perché non si faceva differenzia da dire da senno una cosa, a farla dire imitando. Io mi difesi in voce, e li accusatori si indolcirono assai; ma nella congregazione ogni cosa divenne zucchero e mele» (S, V, p. 209). Scrisse allora l’Apologia dei dialogi, divisa in quattro parti, e la mandò agli amici perché la leggessero. Essa piacque

moltissimo; e in effetti lo Speroni aveva saputo ritrovarvi il brio e l’acutezza delle opere giovanili, svolgendo fra l’altro una dignitosa difesa dello stile “comico” in anni in cui l’ipocrisia controriformistica aveva determinato la fine del dialogo rinascimentale e della commedia. L’Apologia, infatti, è una difesa e un’esaltazione dei Dizlogi — «che cinquanta anni son stati al mondo [...] cari a donne e a cavalieri e a principi, e allegati più d’una volta, non pur da’ dotti

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nelle lor scole, ma per le chiese in sui pergami» (S, I, p. 327) — e insieme della cultura, che non è mai nociva, e delle umane esperienze che fortificano, non corrompono, l’uomo. Nella seconda parte, dove lo Speroni giustifica a uno a uno i passi contestati, l’opera perde un po’ di mordente, anche se non mancano passi coraggiosi, come quello in cui si ribadisce che anche «in ragionando di cose vane e non buone» si possono usare parole come Dio, misterio, reliquia, tabernacolo «e simili altre significanti le cose sacre» (S, I, p. 301); o come

questo: «Credi tu forse favoleggiando che ’1 sole il giorno brutti i suoi raggi nel nostro fango? poi tramontando la sera vada a lavarsi nell’oceano? tu sei ingannato, o buono uomo; non sta così questo fatto. Alluma egli ben noi, e lo allumarci non gli è vergogna; né gli è vergogna che illuminando e girando come ministro della natura, produca in terra e sotterra tutte le cose che sono in essa,

insino a’ piccioli e vili vermi, e mosche e ragni e zanzare, secondo i gradi delle materie più e men degne di farsi belle del suo splendore. Ma a voler dire ostinatamente che la bruttura del nostro mondo materiale possa macchiar tanto o quanto l’alte bellezze celestiali, è eresia in natura» (S, I, p. 311). E più in generale è notevole l’ampia e acuta difesa dell’arte oratoria e della poesia, attività essenziali dell’uomo, che possono e debbono essere libere di fingersi i propri veri.

Il discorso scade e si fa frammentario nelle altre due parti, in cui comunque continua decisa la difesa dell’arte da ogni sopraffazione e in più d’un luogo si hanno ulteriori prove del coraggio dello Speroni, il quale tuttavia si piegò alle richieste dell’Inquisizione e nello stesso 1575 per fare «a senno di tal persona che può commettere a cui le piace sì fatto ufficio» compose l’Orazione contra le cortigiane, scrisse la seconda parte del Dialogo dell’Usura, in cui Ruzzante risponde alla sedicente dea, e corresse il Dialogo d'amore in vista di una nuova edizione dei Dizlogi che poi non fu compiuta ?8,

6. Anche se non vi aveva trovata la tranquillità desiderata, lo Speroni era più che mai deciso a rimanere a Roma vivo e morto, quando le calunnie dei concittadini lo costrinsero a tornare in patria. Il 6 marzo 1578 aveva promesso la nipote Lucietta da Porto, di cui era tutore, ad Alberto Cortese, nipote di quell’Ersilia Cortese che ‘allora era tenuta in grande considerazione dai letterati. Poiché Lucietta, dopo le nozze, avrebbe dovuto recarsi a Roma, i maligni insinuarono che egli avesse combinato questo matrimonio sopra tutto al fine di avere la nipote al proprio servizio. Indignato, prima si spiegò con la nipo-

te 9, poi, nell’aprile del 1578, per salvaguardare il suo onore e anche per controllare la propria situazione finanziaria, si recò a Padova. Contava di torna28L’Orazione contra le cortigiane, in S, III, pp. 191-244 seconda parte del Dizlogo dell’Usura, in S, I, pp. 111-32; la d'amore, in S, I, pp. 1-45 (la redazione non censurata si può 29 Si veda la lunga lettera “apologetica” che lo Speroni 827-38.

(le parole citate a p. 230); la redazione riveduta del Dialogo leggere in T, pp. 511-63) indirizzò alla nipote in T, pp.

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re presto a Roma, ma le nozze della nipote non avvennero che nell'ottobre; poi si sposò il fratello di Lucietta, Nicolò, e nel 1580 anche la nipote Maddalena Capra. Finalmente, steso il suo ultimo testamento, si apprestava a partire, ma era destino che non dovesse più rivedere Roma: Lucietta nei primi mesi del 1581 tornò a Padova gravemente ammalata; inoltre brighe e liti giudiziarie lo tenevano impegnato nella città natale. Sono del 1581 due lettere a Felice Paciotto, in cui lo Speroni accusa Torquato Tasso di essersi appropriato, nei Discorsi dell’arte poetica, di concetti che gli aveva esposto in private conversazioni: accusa, questa, difficile da valutare, perché troppo poco ci è rimasto delle considerazioni speroniane sulla poetica ?°. È certo, comunque, che i Discorsi sono opera troppo personale per esser stata “rubata” ad altri, se non, tutt’al più, in particolari marginali. Probabilmente fu, da parte dello Speroni, un momento di stizza per rapporti che erano sempre stati difficili, data la differenza di età, di temperamento, di mentalità, di cultura, che c’era fra lui e il figlio del carissimo amico Bernardo. Ossequiato da molti letterati, era solito esprimere il suo parere senza mezzi termini. Basti pensare alla parte che egli ebbe nelle vicende dell’Amzadigi con consigli molto recisi, che di solito il debole Bernardo accoglieva, salvo diffusamente scusarsi quando non poteva evitare di far prevalere la propria opinione #1. Torquato era ben diverso dal padre: pieno di scrupoli, tormentatissimo, ma consapevole della propria poesia e tutt'altro che disposto ad accettare supinamente quei consigli che pur ricercava con tanta ostinazione; ed è probabile che la causa prima dei suoi dissapori con lo Speroni vada cercata proprio nel fatto che il padovano lo trattò con la stessa rude franchezza con cui aveva trattato Bernardo e tutti coloro che gli chiedevano dei pareri. Quindi, se lo Speroni ebbe ad adirarsi soltanto per un momento, Torquato nei suoi confronti ebbe a provare sentimenti complessi, in cui alla stima per lo studioso si accompagnavano diffidenza, sospetto, rancore per l’uomo. Il più bell’elogio del padovano lo lasciò scritto proprio nei Discorsi dell’arte poetica, dicendo che, nel 1560, quando era a Padova per studiare, ne frequentava la casa «non meno spesso e volentieri che le pubbliche scole, parendogli che gli rappresentasse la sembianza di quella Accademia o di quel Liceo, in cui i Socrati e i Platoni avevano in uso di disputare» 3. Poi vennero — a parte l’opinione, non dimostrabile, che nel30 Per le accuse a Torquato Tasso si vedano le lettere a Felice Paciotto del 29 gennaio (in T, p. 842): «Laudo voi infinitamente di voler scrivere della poetica; della quale, interrogato

molte fiate dal Tasso e rispondendoli io liberamente sì come soglio, egli n'ha fatto un volume e mandato al signor Scipione Gonzaga per cosa sua e non mia; ma io ne chiarirò il mondo»; e del 24 febbraio 1581: «Dal signor Scipione non spero che abbiate nulla, perché, a mostrar quel che si usurpa quel pazzo, si aspetta che io mora. Ma io li dissi nella Minerva che tutto era mio e, senza veder li-suoi scritti, profetiggiai che ’l suo poema non saria scritto con l’artificio da lui notato: segno che l’arte non era sua» (S, V, pp. 151.2). 31 Per la revisione dell’Amzadigi si vede la lettera a Bernardo Tasso dell’agosto 1559, in T, pp. 802-4, e le relative note. 32T. Tasso, Discorsi dell’arte poetica, in Prose, a cura di E. Mazzali, Milano-Napoli 1959, p. 364.

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Aminta lo Speroni sia rappresentato nell’odiosa figura di Mopso — le vicende della revisione della Gerusalemme e, forse, un’insanabile divergenza di opinioni sulla natura del poema epico e anche sulla natura stessa della poesia. Le riserve del padovano erano probabilmente anche del tipo di quelle che più tardi Giovan Mario Verdizzotti ricorderà a Orazio Ariosti in una lettera del 23 gennaio 1588: «Più felice e avventurato sarebbe stato il Tasso, s’egli avesse osservato meglio i ricordi e avvertimenti del dottissimo Sperone: il giudicio del quale egli fuggiva come la morte per timor che egli non gli facesse perder qualche suo bel pensiero e belle stanze e bei concetti particolari, nei quali ponendo maggior studio di quello che forse si conviene a poema di continuata azione, è avvenuto che, innamoratosi di bei versi e di quelle vivezze e tirate che hanno talvolta più del lirico che dell’epico, ha abandonato il sodo e vero filo delle invenzioni convenienti a poema tale» #. Queste osservazioni Torquato prese in mala parte, pensando che fossero dettate da invidia o da rancore: per esempio, perché non era riuscito a far invitare lo Speroni alla corte di Ferrara. Nell’aprile del 1576 scriveva a Luca Scalabrino, che faceva da intermediario: Parlando a lo Speroni, desidero che li diciate ch'io m’induco a rimover l’episodio di Sofronia, non perch’io anteponga l’altrui giudizio al suo, dal quale fu accettato per buono; ma perch’io non vorrei dar occasione ai frati con quella imagine, e con alcune altre cosette che sono in quell’episodio, di proibire il libro. E certo, in quanto a quel ch’appartiene a l’arte, io persisto ancora ne la mia opinione; ma veggio che costoro giudicano che ci siano soverchi amori; e non vorrei dar loro alcun pretesto da sfogarsi contra l’amore [...]. Aspetto d’udire con grandissimo desiderio l’opinione de lo Sperone intorno a le imagini del tempio; ma con maggiore, aspetto che mi scriviate com'egli creda che si possa introdurre l'episodio d’Antiochia; ed avvertite che ’1 vorrei nel secondo canto, e non altrove.

Ma poco dopo, il 24 aprile, allo stesso Scalabrino scriveva: temo assai d’alcun cattivo offizio del[lo Speroni], il quale chiaramente

si dimostra

maligno ed ingrato: ché certo ho fatto per lui nuovamente alcuni offici che non avrei fatto per me stesso; e prima l’ho sempre amato, onorato e celebrato [...]. Io il feci già conoscere al Duca [di Ferrara]; ed in gran parte per opera mia il Duca fece tal concetto di lui, che l'avrebbe tolto a’ suoi servigi con grandissime condizioni. Egli per allora non ne fe’ conto. Ora perch’il Duca nol riprega, m'è poco amico, ch’altra cagione non so imaginare.

E il 4 maggio allo stesso Scalabrino: «A ogni modo, o tardi o per tempo, l’avemo a rompere [con lo Speroni]; e la rottura sarà tanto maggiore quanto più tarda. Io non vo’ padrone se non colui che mi dà il pane, né maestro; e voglio esser libero non solo ne’ giudicii, ma anco ne lo scrivere e ne l’operare. Quale sventura è la mia, che ciascuno mi voglia fare il tiranno addosso? Consiglieri

39.

2 G. M. VERDIZZOTTI, Lettere a O. Ariosti, a cura di G. Venturini, Bologna 1969, p.

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non rifiuto, purché si contentino di stare dentro ai termini di consigliero» 74. E si potrebbe continuare mostrando le perplessità, le incertezze, le contraddizioni di Torquato, ma pochi cenni possono bastare, perché questo fu un episodio della vita del Tasso piuttosto che di quella dello Speroni, il quale non aveva l’animo incrinato da tormentose perplessità, e ultraottantenne continuava infaticabilmenté 4 scrivere e a studiare. Nel 1582 da Filippo Pigafetta ricevette, a nome dell’autore, un volume delle poesie di Ronsard: allora scrisse un’epistola in endecasillabi sciolti Au Seigneur Pierre de Ronsard?. Come molti si occupò della riforma del calendario ? e, ciò che più importa, non rimase estraneo alla grande polemica seguita alla diffusione del Discorso del misterioso Castravilla; polemica, del resto, in cui egli era coinvolto fin dall’origine, perché nata da un giudizio — «Dante è pari o superiore a Omero» — che il Varchi nell’Ercolazo aveva rafforzato anche con la sua autorità: «E di più mi pare ricordarmi che messer Sperone, quando io era in Padova, fusse nella medesima sentenza». Ma il vecchio padovano che, come dice Cesare Ercolano nello stesso dialogo, «non potea rifinare né di celebrare né d’ammirare il poema di Dante», non entrò direttamente e pubblicamente nella disputa ?”. Scrisse alcune considerazioni che fece conoscere al padovano Alessandro Cariero, per convincerlo dell'errore commesso schierandosi contro Dante nel Breve e ingenioso discorso contra l'opera di Dante (Padova, Meietto, 1582) e per fornirgli argomenti utili per una ritrattazione, che infatti (anche per avversione al Bulgarini) avvenne con l’Apologia [...] contra le imputazioni del sign. B. Bulgarini sanese. Palinodia nella quale si dimostra l'eccellenza del poema di Dante, stampata l’anno successivo dallo stesso editore. Da parte sua, con fare sprezzante — ma non senza acuti giudizi sulla Corzzzedia — confutò a una a una le “particole” del Bulgarini; ma la divulgazione dei suoi appunti, sotto forma di Discorso sopra Dante, avvenne quando egli ormai era morto; e il vecchio Bulgarini, indispettito e sorpreso per questo attacco postumo da parte di un così autorevole personaggio, rispose con un Arntidiscorso. Ragioni di B. Bulgarini [...] in risposta al primo Discorso sopra Dante, scritto a penna, sotto finto nome di M. Speron Speroni, terminato nel 1614 e pubblicato a Siena nel 1616: che fu la sua ultima fatica di

ostinato oppositore di Dante ’5. Molti signori, come si è visto, mostravano ammirazione e rispetto per lo Speroni. Fra gli altri, il granduca Francesco I de’ Medici, il quale — gli scriveva 34 T. Tasso, Lettere, a cura di C. Guasti, Firenze 1856, I, pp. 159, 161, 168-9.

35 L’epistola in versi a Ronsard, in S, IV, pp. 356-65; la lettera del Pigafetta, in S, V, pp. 370-2. 36 Due discorsi Della riformazione dell'anno si leggono in S, III, pp. 275-310. 37 L’opiniohe che Benedetto Varchi nell’Ercolano (in Discussioni linguistiche del Cinquecento, a cura di M. Pozzi, Torino 1988, p. 537) attribuisce allo Speroni è confermata dal secondo distorso Sopra Dante (S, V, p. 518), dove si afferma che «non è Dante poeta fatto dallo esemplo ma dalla sua propria ragione; e non pur è sesto, ma primo fra tutti greci e latini».

381 due discorsi Sopra Dante, in S, V, pp. 497-519.

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Giacomo istimando laudi che dovi per

Alvise Cornaro il 20 marzo 1587 — «più che mai brama di vederla, le virtù sue sopra modo [...]. E certo, signor mio, che se sentiste le vi attribuisce, chiamandovi il più istimabile dell’età nostra e predicantale alla presenza de’ migliori ingegni, son sicuro che V. M. direbbe

d’essere obbligata a lasciarsi vedere a Fiorenza» (S, V, p. 380). Come ringrazia-

mento di tante attenzioni, scrisse a Bianca Cappello un carme laudatorio ?; non gli fu invece possibile recarsi in Toscana, dove contava molti amici ed estimatori. Del resto la preferita fra le corti restava quella di Urbino. Felice Paciotto gli faceva grandi profferte a nome di Francesco Maria II, che — gli assicurava — desiderava udirlo ragionare intorno a Virgilio, alla Carace, ai Dialogi. Già il 17 novembre 1581 gli aveva risposto: «sarò in Pesaro dopo Natale, per andarmene a morire a Roma. Quivi baciarò la mano allo Ill. e Ecc. Sig. nostro e comun patrone, e bisognando vi rimarrò il carnevale. Faccio pensiero che questo ultimo parlamento, che io son per fare in Pesaro, sia il testamento di quel che io so, o che si crede che io sappia, e resti in mano e in

memoria di chi mi ama» (S, V, p. 285). Ma poi aveva differito la partenza, trattenuto a Padova da troppe brighe e disavventure. Una di queste — avvenutagli il 6 dicembre 1587 — raccontava al Paciotto in una lettera senza data: L’anno passato il signor Alberto Conti, mio genero, fece noviccia una sua figliola, la

quale aveva il mio nome, e seco insieme la grazia mia; alla quale, oltre la dote dal padre data, io le fei dono di ducati tremila. Questo presente amorevole fu cagion del mio caso; perciò che i ladri violenti, inteso il fatto, ebbero per fermissimo che ne avessi assai più; e informatisi che io vivo in casa con pochi e dormo solo nella mia camera e che io son vecchio di ottantotto anni e sordo e cieco, o non ben vedente, entrati in casa una notte per via selvaggia, forato il legno di una fenestra in tre luoghi, parte vennero al letto dove io dormia, e legatemi le mani mi tennero fermo tanto che li altri, aperte tutte le casse, ne trasser fuori novecento ducati, e sani e salvi con questa preda si dileguarono come strali, solo lasciandome a meza notte nel letto senza un quattrino (S, V, pp. 288-9).

Avuta notizia che agli amici notevolmente «sarebbe stata

del furto, il Senato veneziano propose per i malfattori una taglia dello Speroni sembrò inferiore alla gravità del fatto e pertanto fu accresciuta; e — scriveva Alvise Mocenigo il 19 dicembre 1587 — presa anche di maggior condizione, se fusse stata proposta, tanto era commosso tutto il Senato dalla indegnità del fatto» (S, V, p. 381). Lusingato da tanta stima, lo Speroni si recò a ringraziare il doge; ché, diceva, «più mi è cara questa cortese provisione di vendicarmi de’ malfattori [...] che non m’incresce del caso avuto» (S, V, p. 289).

7. Fra il 1585 e il 1587, nonostante gli acciacchi della vecchiaia e le molte beghe, lo Speroni — come per confermare alla fine della vita l’ininterrotta fedeltà 39 Il carme Alla Gran Duchessa di Toscana Bianca Cappello, in S, IV, pp. 349-56.

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all'insegnamento del Pomponazzi e alle idee esposte nei Dialogi giovanili — era ancora riuscito a comporre un’opera molto importante, il Dizlogo della istoria, in cui vengono discusse le idee sulla storia che il filosofo mantovano avrebbe esposto «con la dottrina, secondo lui, d’Aristotile» (S, II, p. 221) in un libretto

non altrimenti noto. Posto che «la storia è narrazione di cose fatte» dice Teronimo Zabarella, che-fiferisce le tesi del libretto perettiano, «o si narra una sola cosa particolare, o non pur una ma molte»:

E per proceder discretamente, prendiamo il primo di questi due, cioè il narrare una cosa sola. Perciocché questa può esser fatta da uno uomo solo o da molti; e fatta essendo da un solo, la narrazion sua è poema;

ma se ella è fatta da molti uomini, sarà

istoria. Ecco due specie co’ nomi loro della narrazion generale. Due altre appresso per proprii nomi significate se ne faranno suddividendo il secondo membro, cioè il conto di molte opre e diverse che fanno gli uomini tuttavia, perciocché quelle possono farsi da uno uomo solo, e la scrittura che ne ragiona si de’ dir vita, qual fa Plutarco; o fatte

sono da più persone, e le memorie che se ne fanno da chi s’intende d’istorie per dritto e proprio lor nome sono sermoni appellati (S, II, p. 224).

Ne risulta un «chiasmo», interessante sopra tutto perché si ispira a uno schema puramente logico e presuppone una classificazione delle varie discipline, in cui la poesia, la retorica e la storia sono comprese fra le arti razionali. Le idee dei dialoghi giovanili tornano in questo dialogo della tarda vecchiaia, ma è evidente che vi è anche l’influsso di una cultura ormai profondamente mutata. Nel Diz/ogo delle lingue lo Scolare aveva presentato sé e il maestro come ignari del greco ed esperti solo del latino “barbaro” in cui nel Medioevo erano state tradotte le opere di Aristotele. Era un discorso provocatorio per gli umanisti che avevano condotto una lunga battaglia contro il latino medievale, ma il discorso restava pur sempre funzionale alla tesi che si può studiare Aristotele anche in una traduzione. Ora invece non solo viene ripreso questo atteggiamento, impersonato ancora dal Peretto — che agli umanisti appariva ignorante perché badava solo alle res e non si curava delle parole —, ma la polemica viene condotta fino in fondo, cioè fino alla condanna del latino classico e all’esaltazione di quello barbarico. Questo non solo e non tanto perché ad altri poteva bastare quel che era bastato al Peretto, a cui il poco latino imparato controvoglia a scuola dai sette ai dodici anni era stato sufficiente «per bene intender la loica e le filosofie di Aristotile latine fatte ab antico, con tutti quanti li espositori nostrali e barbari» (S, II, p. 252); ora il latino della decadenza è rivendicato in sé, come lingua della Scrittura e della Chiesa, e la letteratura

medievale preferita a quella classica perché più morale. Non è il caso di parlare di involuzione: la temperie controriformistica ha consentito allo Speroni di formulare con decisione quella tesi della superiorità dei moderni sugli antichi che era nelle sue convinzioni; ma uno svolgimento, non importa se positivo o negativo, c'è stato. La Roma papale aveva affascinato il retore padovano, spregiudicato ma nell'intimo un po’ provinciale, inducendolo fra l’altro a studiare intensamente i testi sacri fino al punto di considerare vivo il latino della Chiesa

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e delle Scritture; così, nel momento stesso in cui più energicamente svolgeva la sua polemica contro gli antichi, non aveva il coraggio o meglio non sentiva nemmeno l’esigenza di indicare il volgare come lingua della Chiesa. Certo quello del Dizlogo della istoria è davvero un atteggiamento anticlassico, ma nato, su fondamento perettiano, da una sollecitudine religiosa e da motivazioni che erano estranee al filosofo mantovano e non meno allo Speroni dei Dialogi. Ben più “speroniano” era il Gelli, quando con grande coraggio rivendicava l’uso della lingua moderna anche nella Chiesa. Il padovano, invece, senza avvertire la contraddizione con tutto il suo insegnamento, non solo consentiva a lasciare i testi sacri nella vulgata latina, ma voleva che la loro lingua venisse presa a fondamento dell’educazione, diremmo ormai, del buon cristiano: non per caso, forse, al dialogo partecipa quel Silvio Antoniano che nel 1584 su richiesta di

Carlo Borromeo aveva scritto il trattato Dell’educazione cristiana e politica dei figliuoli. Lo Speroni morì di vecchiaia a Padova la notte del 2 giugno 1588. Il giorno 5 nel Duomo gli furono resi solenni onori, con la partecipazione di tutto lo Studio, dei Rettori e di una gran folla. La figlia Giulia vi fece innalzare il monumento funebre; sotto il dado che regge il busto dell’estinto fu posta una grande lastra di marmo nero con l’iscrizione sepolcrale che lo Speroni stesso si era preparata con cura, limandola e correggendola più volte: «A messere Sperone Speroni delli Alvarotti, filosofo e cavalier padovano, il quale amando con ogni cura che dopo sé del suo nome fosse memoria che almen nelli animi dei vicini, se non più oltre, cortesemente per alcun tempo si conservasse, in vulgar nostro idioma con vario stile fino allo estremo parlò e scrisse non vulgarmente

sue proprie cose, e era letto e udito. Vivette anni 88, mesi 1, giorni 13 °°. Morì padre di una figliola che li rimase di tre che n’ebbe e per lei avo di assai nipoti, ma avo, proavo e atavo a’ discendenti dell’altre due, tutti nobili e bene stanti, femmine e maschi nelle loro patrie onorate».

e Ingolfo de’ Conti, figlio di Giulia, nell’aggiungere le cifre nell’epitaffio preparato dal

nonno, ala nel computo dei giorni, così che la data di nascita sembrerebbe non il 12 ma il 19 aprile.

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II. Un'idea di letteratura

Chiamo umanisti que? litterati eccellenti che tanto apprezzano le parole sciolte e legate de’ doi famosi idiomi

Lo Speroni, infatti, rifiuta decisamente il principio di imitazione della lingua e dello stile di un autore eccellente. Nel secondo discorso Del modo di studiare, che fra i suoi scritti sull’eloquenza è forse quello più vicino alle opinioni ciceroniane; egli afferma che «fra le condizioni della eloquenzia, nelle quali può alcuna cosa la diligenzia dei studiosi, la principale è l'imitazione, onde con ogni industria ad alcuno dei più eccellenti oratori s’ingegniamo d’assimigliarsi». Nella lingua volgare non ci sono oratori di tanta eccellenza; però, anche se la Toscana avesse il suo Cicerone, «nondimeno in simil caso per diverse ragioni piuttosto si dovrebbe ricorrere ai forestieri greci o latini, a prevalersi di loro eloquenzia, che ai Fiorentini medesmi» (S, II, p. 507): con le traduzioni, secondo lo Speroni, mentre si assimila l’altrui eloquenza, si arricchisce la lingua materna di «sentenzie oratorie» e di parole «atte a significare ogni nostro concetto»: La qual.cosa fatta non gli verrebbe se, come molti fanno ogni dì, tutto solamente si desse in imitar il Decamerone; perocché le-diece giornate, le quai per ver dire con stile assai basso sono descritte, non sono degne di tanto imitatore; ed essendone degne, poco atte sarebbero di giovare, e molto poriano nocere all’italiano che le imitasse; il quale, parlando e scrivendo altrimenti che non fece il Boccaccio, non imitatore ma corruttore, ed usando le medesme parole trascrittore serebbe delle sue cento novelle (S, II, pp. 507-8).

Lo studioso della vera eloquenza deve dunque lasciare da parte gli oratori volgari e scegliere come modello un Demostene o un Cicerone, «non come affezionato cliente, ma piuttosto come giudice giudicioso»; egli cioè non deve accettare tutto ciò che hanno detto, ma scartare o mutare risolutamente quanto non si addice ai costumi moderni. L’arte oratoria, infatti, «in molte e diverse maniere il suo officio fornisce»: «E ciò le avviene non tanto perché in altro modo parli e dispona i concetti dell'intelletto il Latino che ’1 Greco, quanto dalla varietà dei costumi delle persone causata dalle leggi e dal tempo; ai quali se non è conforme l’orazione, per bella che ella ci paia, non può nulla valere» (S, II, p. 508). L’oratore, insomma, in ogni luogo e in ogni tempo ha gli stessi fini (donde la possibilità dell’imitazione) ma li realizza in modi che variano da popolo a popolo e da epoca a epoca: donde l'impossibilità di un’imitazione rigorosa.

Il precetto di Cicerone di «elegger un grande, al quale ci facciamo simili nel dire» viene condannato in maniera ancor più decisa e articolata nel trattatello Dell’arte oratoria. Poiché «le parole deono esser simili alli concetti dell'animo, delli quali elle sono significatrici», se vogliamo «che la nostra orazione sia simile ed imiti la orazione di un altro, bisogna che ’1 nostro intelletto prima si faccia simile all’intelletto di quello, e le cose ovver concetti miei alli concetti di quello». Chi dunque si propone di «imitare e non far da sé, costui parla senza

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concetti dell'animo suo o contra quelli; e lassa quello che per sé respicit la orazione per accostarsi all’imitato, al quale per accidente dee aver rispetto la orazione».

Qui l’accusa, particolarmente

aspra e severa, non

si rivolge agli

umanisti in genere, ma esplicitamente all’autore dell’epistola De imzitatione e delle Prose della volgar lingua: E certo chi imita solo come il Bembo, costui non ha arte né intelligenzia. Non ha arte del dire, ma scrive ad imitazione d’alcuno [...]; e non ha la intelligenzia quanto alle cose perché, se così fosse, egli accomodarebbe le parole sue alli suoi concetti, non alli

altrui, e quello cercarebbe imitare, non li altrui o le altrui parole, alle quali altre parole non possono esser conformi che bene stia, se li concetti alli concetti non corrispondono. L’invenzione, e non l’imitazione,

è la principal cosa, la qual chi fa bene, parla bene; e costui principalmente dee accomodar le parole alla sua invenzione, sì che egli la esplichi chiaramente senza inezie, con parole usate, belle, proprie.

La contrapposizione alla dottrina bembiana non potrebbe essere più netta. Lo Speroni rivendica, con osservazioni che però non conviene sopravvalutare, l’originalità e l’individualità della scrittura; originalità e individualità che dipendono da quanto lo scrittore ha saputo concepire e trovare («la principal cura è delli concetti, non della orazione»; «la invenzione è la principal cosa»). I suoi contemporanei, preoccupati solamente di imparare le lingue classiche e di imitare, sono riuniti in una riprovazione generalizzata: io direi che essi nostri moderni non sanno nulla, né hanno arte veruna, e così non sono

poeti né oratori né istorici né sanno le lingue, ma scrivono d’ogni cosa, d’ogni arte, in ogni lingua, perché essi non attendono se non ad imitare ed assimigliarsi a questo e quell’altro oratore in questa e quell’altra lingua (S, V, p. 542).

Dalla convinzione che sia bene accomodare i propri concetti «alle lingue e alli modi di parlar di questo e quell’altro» è nata anche la pretesa che la lingua volgare non possa parlare se non d’amore; «e questo perché li autori che essi imitano non han d’altro parlato». Ma, insiste lo Speroni, i buoni autori «si

deono imitare non a questo modo, che in ogni materia parliamo a lor modo o che non parliamo se non di quello che essi parlano, ché questa è ignoranzia; ma imitiamoli in non esser inetti ma prudenti, chiari ed esplicar ben li nostri concetti» (S, V, p. 543).

Si potrebbero fare ancora numerose. citazioni 4, ma i punti fondamenta-

41 Ma cfr. F. Bruni, S. Speroni e l'Accademia degli Infiammati, cit., saggio fondamentale in cui l'atteggiamento antiumanistico dello Speroni è ampiamente analizzato e messo in relazione con l’umanesimo del Cinquecento.

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li dovrebbero ormai essere abbastanza chiari: il dovere di scrivere nella lingua

viva; la condanna della riduzione di filosofia, poesia e retorica a grammatica greca e latina; il rifiuto del principio umanistico di imitazione. Tanta è l’insistenza nel rivendicare il valore della sapienza e la sua indipendenza dal sistema linguistico in cui viene espressa, che lo Speroni può sembrare uno scienziato

tutto impegnato nella difesa della ricerca pura contro gli attacchi della retorica. E vero che non parla di contrasti fra filosofia e retorica e che condanna solo le «prepotenze della grammatica, rea peraltro di usurpare anche i domini della retorica e della poesia, tuttavia non si può negare che nelle frequenti prese di posizione contro gli umanisti egli difenda le scienze assai più che la retorica. Se si ricorda che la polemica era rivolta contro gli esaltatori delle lingue classiche, l'atteggiamento dello Speroni è facilmente spiegabile. La retorica, secondo lui, per sua natura poteva essere solamente volgare; pertanto, a questo proposito, non aveva motivo di biasimare i latinisti e i grecisti se non per le loro prevenzioni contro il volgare. Essi con le loro letture grammaticali snaturavano Aristotile e gli scienziati, non gli scrittori volgari di cui non si occupavano. È dunque ovvio che egli difendesse dalle loro usurpazioni la filosofia e non la retorica. L’insistita rivendicazione della sapienza, insomma, non significa deprezzamento dell’eloquenza (a meno che essa non venga identificata con la grammatica). Lo mostra anche la conclusione del Dialogo delle lingue. Solo il Cortegiano, com'è noto, tenta di piegare a proprio vantaggio le parole del Peretto. Il Bonamico non le loda né le biasima; il Bembo non è affatto imbarazzato nell’accoglierle, perché ben ne intende i limiti: il Peretto, egli sostiene, «in quell’ora (come a me pare) disputò delle lingue, avendo rispetto alla filosofia e altre simili scienzie» (T, p. 634). La sua opinione non può dunque essere estesa alla discussione precedente in cui si trattò di poesia e di retorica «senza far parola delle dottrine» (T, p. 634).

Ma se nel Dialogo delle lingue e nei molti passi che abbiamo citato non viene mai ridotta l’importanza dell’eloquenza, esistono altri passi dai quali sembra di poter dedurre un netto primato della filosofia sulla retorica. Sono quelli in cui lo Speroni rimpiange di aver dovuto interrompere gli studi speculativi. Nella dedica del Diglogo della vita attiva e contemplativa, per esempio, egli spiega a Daniele Barbaro di essersi messo «per lo sentiero de’ probabili e persuasivi discorrimenti», che gli consentono di pervenire «a gran pena al verisimile d’alcune deboli opinioni», perché ha «smarrita la strada delle ragioni dimostrative, le quali dirittamente conducono all’albergo delle scienzie» ed è «vago nondimeno di pervenire alla verità». Dunque, prosegue, «non senza cagione i miei scritti (ché, sognando il mio primo studio, per consolarmi, qualche volta mi do a scriver d’alcuna cosa) sono tutti dialogi; ne’ quali, senza

vedere il berzaglio [...] a guisa di Aceste commetto i colpi alle nuvole» ($, II, pp. 2-3). E più avanti nello stesso dialogo, quando Gasparo Contarini invita lo Speroni a ringraziare Dio d’averlo fatto nascere in Padova e non a Venezia (cioè «cittadino d’una città la quale, con questo che ella abbonda d’ogni dottrina, è sicura da ogni assalto di ambizione, onde agiatamente potete sino alla morte

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continuare la impresa de’ vostri studii speculativi»), Luigi Priuli interviene con queste parole: Poiché egli tace, io dirò qualche cosa di quelli impacci che gli dimezzano la buona strada del contemplare. Perocché così come voi l’amor della patria con vostro onore, così lui la carità della casa con suo gran danno ha impedito e sviato dal cominciato proponimento. Ma altra volta gli dissi, e li ridico di nuovo, certo egli ha fatto gran male e poco senno, perciocché oltre il danno presente (vendetta forse del torto che egli fa a sé stesso, non altrimenti che se egli fosse di sé medesimo micidiale) ira, danni ed inganno ed ingratitudine, onde meno li aspetta, son per essere il guiderdone del suo servigio (S, II, p. 22).

Ancora rivolgendosi al Barbaro, in una lettera abbozzata per lamentarsi della pubblicazione dei Diglogi, avvenuta a sua insaputa e contro la sua volontà, lo Speroni afferma che i dialoghi «non sono opre d’uno intelletto erudito, il quale scriva con animo di giovare ad altri e onorar sé medesimo, ma sono puro exercizio d’uno ingegno mal sano che non pò andare ove e quando si converrebbe, ma volentieri si va movendo per non marcirsi nell’ocio, che la natura aborrisce» 4. Sembrerebbe dunque che egli consideri i dialoghi solo un ripiego per non marcirsi nell’ozio dopo che la morte del padre, il matrimonio, l’amministrazione del patrimonio familiare, gli incarichi pubblici gli impedirono di attendere agli studi filosofici. Molti decenni più tardi, nella prima parte dell’Apologia dei dialogi, egli legava ancora la composizione e il vario carattere dei dialoghi alle sue vicende biografiche. I dialoghi d’amore, diceva, erano stati gli svaghi di un professore di filosofia. Gli altri li aveva composti per ricrearsi «da quei negozii, onde fu piena l’età seguente; molto diversi dai giovenili ma non già forse così gentili»: Percioché, tosto ch’io presi moglie, e togliendomi alla contemplazion filosofica, convenne darmi nelle azzioni della famiglia e della città, subitamente fui preso anche io da tali e tante molestie mai non sentite né conosciute né antivedute da me, che presso a quelle tutti i negozii delli anni adietro mi parvero ozio e riposo. Tornava adunque spesse fiate col disiderio alli studii andati e non possendo, come io solea, abbracciarli, sospirava ma indarno la lor bellezza da me lontana e in maniera d’innamorato fieramen-

te mi dilettava di vagheggiarla colla memoria (T, p. 722).

La letteratura, dunque, sarebbe stata per lui nient'altro che uno svago e, dopo il matrimonio, anche un debole surrogato della ricerca filosofica. I dialoghi della seconda stagione, par di capire, nascendo dal rimpianto degli studi forzatamente. interrotti, avrebbero natura, per così dire, filosofica, sarebbero scritture dense di idee e di concetti. Quest'immagine che lo Speroni voleva lasciare di sé ritorna anche nel noto passo dei Quattro libri della lingua toscana * del Tomitano, in cui lo Speroni rievoca i suoi studi: anche qui egli interpreta in 4 M. R. Lor-M. Pozzi, Le lettere familiari di S. Speroni, cit., p. 385. 45 Citato all’inizio della prima parte di questo saggio.

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chiave biografica il passaggio dalla vita contemplativa alla vita civile, dalla sapienza all’eloquenza; in più, contestualmente, afferma la necessità che l’eloquenza si fondi sulla sapienza. Tante dichiarazioni concordi non dovrebbero lasciare margini al dubbio. Eppure c’è qualcosa che non convince. Quell’immagine dello Speroni mal si accorda con i suoi scritti, che non sono quelli di un filosofo e nemmeno di un letterato per cui la sapienza conta più dell’eloquenza. E poi sembra strano che per più di cinquant'anni egli abbia surrogato la filosofia con la retorica, accontentandosi del verosimile e dell’opinione, quando invece avrebbe voluto speculare sulle verità assolute. Gli impegni di pater familias erano certamente pressanti ed egli li affrontò sempre con grande serietà e impegno; ma erano proprio tali da precludergli, se davvero l’avesse voluto, la possibilità di filosofare? Viene il sospetto che la sua opzione per il dialogo volgare non fosse dettata da forza maggiore ma al contrario da un preciso disegno, dalla consapevolezza che proprio in quel modo egli avrebbe potuto essere il maestro di una nuova letteratura. Nell’ultima parte del Dizlogo delle lingue (e nelle citate dichiarazioni autobiografiche), oltre tutto, il volgare viene accettato o difeso «su basi meramente utilitarie, come più agevole ad apprendersi, senza nessuna concessione a istanze

retoriche o a bisogni di più larga educazione umana» ‘. Ora, in campo filosofico le lingue potevano davvero essere considerate travestimenti arbitrari e indifferenti di verità a sé stanti, eterne e immutabili: la natura sembrava sempre uguale a sé stessa, così come il ragionare del filosofo che la studiava. La retorica, arte e non natura, invece, secondo lo Speroni mutava nel tempo e nello spazio e necessariamente si esprimeva in una lingua viva. Egli insomma non poteva pensare che, nel caso della retorica e della poesia, la “forma” fosse solo un involucro, alla maniera di quegli accademici di cui Bartolomeo Zacco riferisce a Pietro Trappolino nel dialogo secondo Sopra Virgilio. Lo Zacco racconta la strana cerimonia d’iniziazione a cui vennero sottoposti due novizi, uno filosofo, l’altro poeta. Al filosofo — dice — «fur posti innanzi due libri, l’un della loica, l’altro dell’etica d’Aristotile, greca, latina e volgare; ma la latina fu quella antica traduzione, riputata comunemente da’ litterati di cotal lingua piuttosto barbara che latina. La volgare fu questa istessa latina da nome a nome e da verbo a verbo volgarizzata, non già per Dio in parlar toscano o lombardo, ma in un linguaggio meschio di questi e di tutti gli altri di Italia» (S, II, pp. 190-1). Gli accademici spiegano la loro preferenza per una simile traduzione con il fatto che Aristotile «ha sue figure e suoi modi, quasi confini, fuor de’ quai termini vagar non possa la sua orazion filosofica; e tutte queste sue bone cose guasta e confonde chi in traducendo guarda alla lingua più che al concetto e chi, per farlo parlar latino, disfà la forza delle sue prove» (S, II, p. 193). Al poeta l’Eneide viene presentata in traduzione prosastica, non perché gli accademici disprezzino i versi di Virgilio, «anzi perciocché — essi spiegano — sovra ogni

4 Sono parole di Eugenio Garin in Medioevo e Rinascimento, Bari 1961, p. 138.

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verso che mai formasse la lingua greca e latina, noi quelli amiamo e stimiamo; però di quelli la Ereida, per meglio a dentro guardarla e giudicarne sinceramente quanto pertiene alla poesia, spogliamo tutta e del tutto, aprendo lei non pur al vivo, ma al core e all’anima del poema» (S, II, p. 202). I versi, secondo loro,

non sono essenziali alla bellezza di un poema, così come i preziosi vestiti a quella di una donna; infatti il marito, «poi che al vulgo la festa fe’ lei vedere con le sue perle e con le sue gioie [...], quando è già tempo d’averne il frutto del matrimonio, come signor della sua persona, ignuda nata la tiene in braccio e palpa e stringe la verità, poco curando di quelle spoglie che le fanno ombra in sul mezzo giorno, benché tale ombra sia preziosa»: E perché i versi di quel poema non pur ci cuoprono il suo artificio, come far sogliono comunemente le rime e i numeri d’ogni poeta, ma fatti sono con una grazia lor speciale che non è d’altri che di Virgilio, e quella è tale e sì fatta che alla maniera delle sirene di Omero disvia nel capo di chi gli ascolta ogni altra cura e pensiero, ed a sé sola, qual calamita l’acciaio, tutta rivolge la nostra mente che volentieri si lascia a lei ritirare; però vedeste la Ereida a noi davanti, che l’appariamo, in pura prosa volgare, quasi l'una delle tre dee che vide Pari per giudicarle; enon pur senza i suoi proprii versi, onde Virgilio latinamente, come di panni preziosissimi, sì ben la seppe adornare, ma senza alcuna di quelle rime che ’1 nostro Caro suol porre intorno ad alcun concetto quando egli intende di farlo pari agli antichi (S, II, pp. 204-5).

Nella seconda metà del Cinquecento, per il dilagare dell’aristotelismo critico, si ebbe anche un’esasperata attenzione al contenuto e la svalutazione dello stile e dei versi che «sono opera di gramatica, la quale, essendo fra tutte l’arti, che noi diciamo sermocinali, la manco nobile e la più bassa, può ben tanto alto montare che giunga al grado ove si loca il core e l’anima della poetica, ma core o anima mai non può esser della poetica» (S, II, pp. 206-7). Secondo gli innominati accademici, il soggetto «è il core e l’anima de’ poemi»; «ma il suono, il numero e la misura delle parole non rozze, vili o vaganti, ma sciolte prima, poi annodate con gentil modo nel poco spazio di quella clausula determinata, che verso chiamano i litterati, che si può dir con ragione altro che unguento di nova manna gramaticale, che dolce renda alle nostre orecchie il sermone, che per sé stesso e per lo subietto dovesse acerbo sentirsi?» (S, II, p. 208). Lo

Speroni non poteva spingersi tanto avanti nel rivendicare l’importanza del contenuto: poteva forse condividere l’operazione compiuta sui testi di Aristotile; quella, simmetrica, compiuta sull’Ereide, no.

Più in generale, non mi pare che lo Speroni considerasse la speculazione l’attività umana per eccellenza e che nel suo intimo davvero rimpiangesse di non dedicarsi alla vita contemplativa. Molti suoi scritti, come vedremo, inducono a ritenere che egli, per ragioni polemiche, forzasse un po’ il significato delle sue vicende biografiche e amasse atteggiarsi a filosofo, anche se poi filosofo non era e non voleva essere, almeno filosofo alla maniera aristotelica, ché a questa

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pensa quando esalta la speculazione pura. I problemi della filosofia lo appassionavano assai meno di quanto volesse dare a intendere. Per uno scolaro del Pomponazzi non poteva esserci questione più importante di quella dell’immortalità dell'anima. Il De immortalitate animae aveva reso famoso il filosofo mantovano e un suo scolaro, Gasparo Contarini, aveva replicato alle sue argomentazioni, pur conservando un'altissima ammirazione per il maestro. Proprio il Contarini, racconta lo Speroni in un frammento di lettera, gli aveva istillato il desiderio di seguire l'insegnamento del Peretto: famigliarmente, siccome era suo uso, con suoi amici parlando, molte cose soleva dire del Peretto da Mantova; la scienzia del quale in maniera esaltava che; non ostante che in Padova publicamente l’anno davanti avessi letto la loica ed il seguente la naturale

filosofia a dover leggere fossi invitato, a Bologna a divenirli discepolo deliberai d’inviarmi. Quivi stetti finché egli visse e le lodi a lui date dal Cardinal vostro zio, le quali, innanzi che io ’l conoscessi, con meraviglia ascoltava, tutte vidi esser vere (S, V,

pe302);

Ebbene, nel Dialogo della vita attiva e contemplativa il Contarini sta per discutere dell’immortalità dell'anima quando Gian Francesco Valerio chiede che, prima di «disputare della nostra anima quale ella sia dopo la morte del corpo», si ragioni «della vita dell’uomo, mentre egli vive», «considerando probabilmente, cioè nel modo che io possa intendere le ragioni che si diranno, a qual di due vite tra la civile, la quale tratta le nostre umane azioni, e la filosofica, contemplante la cagion delle cose, debba l’uomo appigliarsi» (S, II, p. 9). La prima questione quindi viene rimandata a uno dei giorni successivi. Ma quando, in casa del Contarini, il cardinale Ercole Gonzaga, Luigi Priuli e Bernardo Navagero prendono a discutere «fra loro della nostra immortalità», Antonio Brocardo convince facilmente il Valerio e il Soranzo a disertare quei «dotti ragionamenti», «conciosia che — egli dice — alli nostri studii mal si confaccia la question disputata». Le questioni speculative, dunque, anche le più dibattute e appassionanti, si addicono solo ai filosofi, che le trattano in maniera incomprensibile non solo al popolo ma anche agli altri intellettuali. La vita contemplativa e la vita civile non si accordano; una netta separazione c’è fra la prima, propria di pochi, e la seconda, che è «nostra umana professione». «Chiamo vita civile — precisa Marcantonio Soranzo — non solamente la bontà de’ costumi col moralmente operare, ma il parlar bene a beneficio dell’avere, delle persone e dell’onor de’ mortali; la qual cosa per aventura è vertù non men bella in sé stessa, o men giovevole alla umanità, della prudenzia e della giustizia; ma in maniera difficile da potere essere appresa e essercitata da noi, che nulla più» (T, p. 639). La contrapposizione fra la vita contemplativa e la vita civile si risolve dunque nella contrapposizione fra la filosofia e la retorica, che «è buona parte di nostra vita civile, senza la quale rimane mutola ogni vertù» (T, p. 640). E si può fin d’ora anticipare che lo Speroni, come il Valerio e il Brocardo, compì una scelta consapevole e volontaria per la vita civile e la retorica. Il parlar bene a beneficio dell’avere, delle persone e dell'onore, d’altra parte, non era — come la

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filosofia — un patrimonio ereditario di verità da conservare ma un campo stimolante per nuovi esperimenti, un campo in cui l’“invenzione” e i “concetti” dell'individuo potevano farsi valere pienamente; e lo Speroni era convinto che ci si deve impegnare non nelle cose più importanti ma in quelle più incerte e più ardue. La preferenza accordata alla vita civile spiega anche, mi pare, la scelta decisa per il volgare. Il filosofo poteva pur continuare a parlare e scrivere nel barbarico latino delle scuole. Quello esposto dal Peretto nel Dialogo delle lingue era un programma valido per il futuro, non qualcosa che riguardasse il presente; e lo Speroni stesso in alcuni appunti Di che si debba scrivere oggidì in questa lingua volgare ed a cui, purtroppo poco sviluppati, diceva che non era opportuno scrivere di filosofia in volgare: Scriver le cose naturali in questa lingua con le parole greche e latine è poco giudicio, perché non s’intenderanno; anzi genereranno una opinione che, non si intendendo in questa lingua così intesa, siano esse da sé inintelligibili. Le morali, che più hanno del popolare, meglio si possono scrivere, ma non alla aristotelica, che è troppo sottile, né alla volgare, che non insegna (S, V, p. 446).

Non so se lo Speroni, se avesse continuato la stesura del trattatello, avrebbe biasimato quest’opinione. Sta di fatto, comunque, che per la filosofia ogni lingua sembrava buona e che a filosofare in volgare si. sarebbe potuto cominciare solamente dopo quell’opera di volgarizzamento a cui aveva esortato il Peretto. Per chi aveva scelto la vita civile, invece, l’uso esclusivo della lingua viva si

imponeva come necessità immediata e ineludibile. La lingua latina poteva dare una fama europea ma non giovava in alcun modo alla vita civile. Nella dedica del Dialogo della vita attiva e contemplativa lo Speroni, per esempio, scriveva: A dover scrivere latinamente non mi consigli chi mi vuol bene: ché anzi voglio parlare come uom parla oggidì a beneficio della mia patria senza titolo di grande uomo che, non giovando ad alcuno, con fama di esser buono ciceroniano miniar le mie carte co’ colori e con la eleganzia delle parole latine; le quai parole molto più volentieri, e con maggior frutto, legge il mondo in Virgilio, Ovidio, Cicerone, Quintiliano ed altri antichi Romani, che ne’ moderni non fanno, a’ quali cotali accenti son peregrini (S, II, p. 4).

Può sembrare che lo Speroni si fondi su considerazioni di pratica utilità per sovvertire la chiara gerarchia di valori che pone al primo posto la ragione e la speculazione filosofica. Ma non è così. La retorica secondo lui è diversa e separata dalla filosofia, ma non inferiore; pertanto, mentre restituisce alle scien-

ze uno spazio in cui la ragione regna sovrana nella ricerca gratuita del vero, con precisa simmetria indica all'estremo opposto uno spazio in cui è la retorica ad agire liberamente, senza preoccuparsi del vero e dell’utile. E fra i due estremi colloca tutta una serie di attività in cui filosofia e retorica, verità e opinione, res e verba si mescolano. Questa concezione mi pare chiaramente espressa nel Dizlogo della retorica,

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il cui scopo è l’individuazione di un’arte del dire fine a sé stessa come la filosofia pura. Lo Speroni, dunque, almeno nelle intenzioni, vuol compiere non una nuova riflessione sulla retorica ma ricercare una diversa retorica, adatta alla lingua e ai tempi moderni. Io sono in dubbio, dice il Soranzo, se l’arte oratoria della lirfga latina si convegna con l’altre lingue, specialmente con la toscana che noi usiamo oggidì; nella quale io ho opinione che a dilettare alcun maninconico, imitando il Boccaccio, qualche novella si possa scrivere, senza più: cosa vera-

mente diversa dalle tre guise di cause, le quali da’ latini scrittori sola e generale materia della loro arte si nominarono.

Il Soranzo, insomma, si chiede, nella forma in cui allora la domanda poteva

essere posta, se e come la letteratura moderna della retorica classica. Per risolvere il problema senza della retorica. Si chiedono, per esempio, «più convenevole all’arte sua con maggior laude o muovendo

(T, p. 640). Il Brocardo,

può trovare posto nell’ambito gli interlocutori ricercano l’esse l’oratore persuade in modo di sé», dilettando, insegnando

subito, «senza altramente pensarvi»,

risponde che secondo lui il diletto è «la virtù dell’orazione, onde ella prende la bellezza e la forza a persuader chi l’ascolta (T, p. 641). Egli condanna il commuovere e l’insegnare in un modo ancora un po’ sommario, ma fornisce più che il principio della soluzione considerando buono oratore quello che «non con la causa trattata, sì come fanno i filosofi, ma con l’arbitrio, col nuto e col

piacere degli auditori tenta e procura di convenire, quegli allettando in maniera che altrettanto di gioia rechi loro la orazione là ove ella move e insegna, quanto fare ne la veggiamo mentre ei l’adorna per dilettare». Ma è ancora una dichiarazione generica. Occorre mostrare in modo più articolato «per qual via procedendo cotal vertù del dilettar gli ascoltanti possa acquistarsi l’orazione volgare». Il Brocardo, sollecitato dal Valerio; spiega allora che «la retorica non è altro che un gentile artificio d’acconciar bene e leggiadramente quelle parole onde noi uomini significhiamo l’un l’altro i concetti d’i nostri cori» (T, p. 642). L’oratore «con lo stile delle parole» «ci ritragge la verità»; la verità a cui mira, però, non è quella che è «proprio obietto delle persone speculative» e che si apprende «dopo alcun tempo a gran pena con molto studio» «nelle scole e tra filosofi conversando»: «a bene orare in ogni materia basta il conoscere un certo non so che della verità, che di continuo ci sta innanzi, sì come cosa la quale nei nostri animi, naturalmente di saperla disiderosi, sin da principio volle imprimer Domenedio» (T, p. 643). Non occorre quella cultura vastissima che Cicerone e

l’umanesimo in genere richiedevano all’oratore. Questi non solo non è, come quelli pretendevano, «uno armario d’ogni scienzia», ma «non sa nulla» speculativamente parlando (T, p. 643). L’insegnare è strada alla verità; pertanto «propriamente parlando non è cosa da oratore; più tosto è opra dalle dottrine speculative, le quali sono scienzie non di parole ma di cose, parte divine, parte produtte dalla natura» (T, pp. 643-4). Quanto al commuovere, il Brocardo osserva innanzi tutto che «ogni oratorio movimento è diletto, conciosia cosa che 1 perfetto oratore muove altrui non per forza e con violenzia [...], ma sempre

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mai muove lui conforme all’inclinazion del suo affetto» (T, p. 644). Se così non

fosse, ogni uomo odierebbe l'oratore che lo forza e tiranneggia e ogni libera repubblica vieterebbe «a’ suoi cittadini l’essercitarsi in una arte, con la quale non pur gli equali ma i magistrati e le leggi di dominar s’ingegnassero» (T) p. 645). Il diletto prodotto dal movimento è, dunque, di qualità inferiore: presuppone un sentimento simile a quello che si vuol suscitare ed è di breve durata; è «come un riso nato in noi non di vera allegrezza ma di solletico, il quale continuato da noi finalmente in doglia e spasimo si converte» (T, p. 646). Con il movimento oratorio, osserva il Valerio, si rasserenano gli animi. Non sempre,

obbietta il Brocardo, ma, quand’anche avviene, «la quiete d’î sentimenti che negli animi umani suol generare la orazione non è vertù ma dipintura della vertù; conciosia cosa che la vertù è un buono abito di costumi, il quale non con parole in instante ma con pensieri e con opre a lungo andare ci guadagniamo».

Eliminate o comunque ridotte al minimo le funzioni conoscitiva e morale, affinché non si creda che «la buona arte retorica, di tutte l’arti reina, sia una certa buffoneria da far ridere» (T, p. 648), il Brocardo distingue le arti piacevoli da quelle utili o meccaniche. Le arti piacevoli sono quelle che dilettano la mente o i sensi. I musici e i pittori, in quanto dilettano i sensi, si ritrovano qui in compagnia con unguentari, cuochi e «la stufa», così che «le arti che l’intelletto dilettano» risultano soltanto due, la retorica e la poesia: «le quali, avvegnadio che altramente che per gli orecchi passando non pervegnano all’intelletto, nondimento perciò sono da esser dette intellettuali che elle sono arti delle parole, instrumenti dell’intelletto, con li quali significhiamo l’un l’altro ciò che intende la nostra mente». Le parole, però, formano un’orazione solamente se sono fornite di numero: «senza il qual numero non è orazione la orazione, e col qual numero ogni volgare e inerudito ragionamento può aver nome d’orazione». L’elocuzione, pertanto, fra le cinque parti dell’eloquenza è senza alcun dubbio la prima, «quasi suo cuore, e se anima la chiamassi non crederei di mentire» (T, p. 649). Se l’invenzione e la disposizione delle cose sono «opra più tosto di prudenti e accorti uomini che di eloquenti oratori, solo il sito delle parole è tutta l’arte oratoria: onde vana è la questione del delettare, del movere e dell’insegnare» (T, p. 650). Al Brocardo non resta che prendere in esame i tre stili dell’eloquenza, e lo fa congiungendo «la causa giudiciale, cui è proprio la gravità dello stile, al movimento e invenzione; la deliberativa col suo stil basso e minuto alla disposizione e allo insegnare; ultimamente la causa dimostrativa mediocremente trattata alla elocuzione dirittamente sia respondente». Il circolo così si chiude: il diletto oratorio va preposto al movimento e all’insegnare; «tra le parti d’orazione la elocuzione è la prima e la causa dimostrativa è la più nobile e più capace d’ogni ornamento che l’altre due non sono, e degli stili del dire il più perfetto e più virtuoso è il mediocre» (T, p. 653). La conclusione può apparire sorprendente, ma alle obiezioni del Valerio il Brocardo ribadisce che «la causa demostrativa è la più orrevole, la più perfetta, la più difficile e finalmente la più oratoria che niuna dell’altre due» (T, p. 655). Nelle cause deliberative e giudiziali opera molto più «la natura dell’oratore e

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della materia che non fa l’arte oratoria; il contrario è della causa demostrativa,

nella quale leggendo non è men bella la orazione che recitando» (T, p. 656).

Anche i mediocri oratori, «bene informati delle civili materie e aiutati dall’azzione e dalla memoria», possono parlare assai bene in senato o in giudizio, «ché in tai casi dalle cose trattate nascono in noi le parole» (T, p. 657). Le cause civili «altrotanto per le materie trattate sono usate di dilettarne, quanto questa demostrativa con la sua arte del dire ne reca gioia e sollazo». In senato e in giudizio, pertanto, «i mediocri oratori volentieri ascoltiamo, ove il difetto dell’arte col soggetto di che ragionano facilmente si ricompensa; ma le orazioni demostrative (sì come ancora i poemi), se non son cosa perfetta, non è chi degni né d’udire né di vedere» (T, p. 659). Nella causa dimostrativa, «non necessaria alla nostra vita, le parole e le cose col loro ordine e col sito loro sono puro arteficio» (T, p. 658); la virtù oratoria vi opera allo stato puro, in piena e assoluta autonomia. Forse la senatoria e la giudiziaria sono più necessarie, ma questo non fa che confermare il primato della dimostrativa: «sempremai nell’umane operazioni, ivi è maggior l’artificio, ove il bisogno è minore» (T, p. 657). Non resta che tracciare il ritratto del nuovo oratore: Sia al mondo un buono uomo pien d’eloquenzia e d’ingegno, il quale, uscito della sua patria, solo e nudo (quasi un altro Biante) venga a starsi in Bologna, che farà egli dell’arte sua? Se egli accusa o defende, ecco un vile avvocato che vende al vulgo le sue parole; se delibera, non sendo parte della republica, i suoi consigli non sono uditi. Tacerà egli e fia sua vita ociosa? Non veramente, ma di continuo con la sua penna nella causa demostrativa, biasimando e lodando, la sua eloquenzia essercitarà; la qual cosa non per odio o per premio ma per ver dire facendo, in poco tempo non solamente da’ pari suoi ma da’ signori e da’ regi sarà temuto e stimato (T, pp. 658-9).

Il ritratto è trasparentissimo; ma ancor più del giusto riconoscimento all’Aretino importa qui rilevare la precisa percezione dei limiti che la realtà storica poneva all’oratoria cinquecentesca, così che il perfetto oratore è pienamente conforme alle esigenze del tempo, anche se il Brocardo lo ha delineato, almeno apparentemente, con rigore logico e con un forte senso dell'ordine e delle simmetrie. Al filosofo, a cui pertiene la verità pura, si contrappone il retore a cui pertiene il puro artificio; a un pensiero che solo per accidente ha bisogno della parola per manifestarsi corrisponde un’elocuzione indifferente al sapere. Filosofo e retore, però, sono affini in quanto sono totalmente disinteressati e procedono senza condizionamenti esterni. Il Brocardo ha delineato una retorica che, avendo il suo fine in sé stessa, non mira a muovere o a persuadere alcuno di cosa ad essa estranea ma solo a convincere della validità del proprio artificio e della coerenza della propria creazione verbale. A questa retorica, che non è più quella di Aristotele e di Cicerone, Giancarlo Mazzacurati ha dato un nome, letteratura, e certo a ragione ‘. Qualcuno potrebbe obiettare che il Brocar-

45 Cfr. G. MazzacuratI, La fondazione della letteratura, in Il Rinascimento dei moderni,

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do si è occupato solamente della prosa e ha distinto la “retorica” dalla poesia. Ma “retorica” e poesia, di fatto, sembrano piuttosto due aspetti di una stessa arte. Basti dire che il Brocardo, invitato a insegnare «in che maniera, e quai

precetti osservando, il toscano oratore in ciascheduna delle tre cause possa ornarsi di quel diletto, il quale impresso ne’ nostri animi ne persuade a dover fare a suo modo» (T, p. 660), discorre di Petrarca e Boccaccio, parla dei propri versi, tratta di poesia lirica ed eroica e compie una raffinata analisi dello stile del Petrarca e del Boccaccio, cercando di mostrare qual è, rispettivamente, il numero per i poeti e per i prosatori. Altrove lo Speroni scrive che la poesia «è sorella dell’arte oratoria, non differente da lei se non, come dice Cicerone de oratore, “numeris paullo adstrictior, sententiis et verbis paene par”» ($, V, p. 544). Sembrerebbe, insomma, che il poeta si distingua dall“oratore” perché usa

il verso invece della prosa numerosa. Il Brocardo ritiene, però, che la prosa richieda un impegno superiore a quello che richiede la poesia. Il poeta «altro non vuole che dilettarne e l’oratore dilettando ci persuade, però è mestieri che le parole dell’oratore totalmente si confacciano a’ concetti significati e che i numeri della prosa, cioè il principio, il mezo e il fin suo, vada a pparo col mezo e col principio delle sentenzie: il che de’ versi non adiviene, i cui numeri non da concetti dell’intelletto ma da balli, suoni e canti son dependenti». Il verso sembra «opra laboriosa e di grandissimo magisterio»; nondimeno, «certi essendo in qual sua parte cotali numeri si riparino, senza molto pensarvi suso, subitamente li ritroviamo e, dagl’orecchi guidati, al mezo e al fine facilmente con esso loro ci conduciamo». Ben più difficile è la prosa, «la quale, dilettando e persuadendo con gl’orecchi e con l’intelletto, siamo obligati di misurare, guardando sempre che le parole non sian più corte o più lunghe della sentenzia significata, ché, ciò essendo, troppo oscura o troppo fredda riuscirebbe la orazione» (T, p. 673). I numeri della prosa sono «meno sensibili ma assai più nobili, un po’ più liberi ma non men certi di quei del verso; ma non appare la lor certezza, albergando nelle sentenzie, le quai son cose intellettuali» (T, pp. 673-4). Conclude pertanto che «la prosa, nella quale agl’orecchi e all’intelletto si concorda la lingua, è orazione più numerosa, del verso, ove la lingua e

gl’orecchi, due sole membra del nostro corpo, sono usate di convenirsi» (T, p. 674). La prosa d’arte è dunque superiore alla poesia. È conclusione che non disdirebbe allo Speroni, il quale solo occasionalmente scrisse versi e invece si dedicò appassionatamente alla ricerca del “numero” della prosa volgare. Si ritorna infine al confronto con la filosofia. Per i filosofi la “retorica” e la poesia sono come i frutti sulle tavole dei gran signori; per coloro che vogliono diventare filosofi sono «i fiori che inanzi ai frutti delle scienzie, le menti loro di

fruttare disiderose, quasi pianta la primavera, si dilettano di fiorire». Per il volgo invece «l’orazioni e le rime sono tutto ’1 cibo e tutto ’1 frutto della sua vita. Il qual vulgo non avendo vertù di digerir le scienzie e in suo pro convertirle, de’ loro odori e delle loro similitudini, gli oratori ascoltando, suole appagarBologna 1985, pp. 237-59. A questo denso saggio rimando anche per le acute considerazioni sul significato storico della concezione espressa nel Dialogo della retorica.

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si: e così vive e mantiensi» (T, p. 678). Questo primato d’ordine pratico, però, tende a diventare assoluto, perché il Brocardo limita le possibilità di conoscenza dell’uomo e quasi identifica la filosofia con le scienze naturali. Se «l’uomo è mezo tra gli animali e le intelligenzie», «conosce sé stesso in un modo mezzano tra la scienzia che egli ha de’ bruti e la fede onde egli adora Domenedio». Sono le «retorice openioni variabili e tramutabili (quali son l’opre e le leggi nostre)» e non le scienze dimostrative a governare le repubbliche (T, p. 678). Le leggi non possono che mutare; «però è ben fatto che con scienzia non necessaria ma ragionevole, non perfetta ma all’esser loro perfettamente correspondente, l’oratore, di cui parliamo, abbia cura di conservarle». Il filosofo, «avezzo a contemplar la sustanzia e le maniere de’ bruti», non è adatto al reggimento di una città;

piuttosto è da credere che «questo tale, al suo saper simigliandosi, vada cercando la solitudine e in quella filosofando si sepelisca». Sembra di sentir risorgere un’umanistica perplessità riguardo alle scienze: «maggior dilettazione è il veder solamente o senza altro udir parlare uno amico da noi amato e avuto caro, che vedere, udire, gustare e toccare

tutte le bestie del mondo»;

ché la scienza

dimostrativa ci dà la verità ma di cose «più basse e meno a noi pertinenti» (T, p. 679). In conclusione «è più utile alla republica la buona arte oratoria di qual si voglia scienzia che delle cose della natura con ragioni infallibili può acquistarsi la nostra mente». Nel crescendo delle argomentazioni conclusive del Brocardo la retorica appare sempre più la maggior dote dell’uomo e l’opinione l’unica forma di conoscenza a lui concessa. Il filosofo cerca una conoscenza che è propria di Dio; l’oratore si contenta di essere uomo e pertanto cura e apprezza le cose umane. All’uomo, che è «imagine e simiglianza di Dio», può bastare una scienza che sia «una nobile dipintura della medesima verità» e diletti la mente. Se l’anima razionale, «forma e vita de’ nostri corpi, è immortale intelletto», il suo vero cibo non sarà una «scienzia mortale da noi in terra acquistata, ma alcuna cosa divina conveniente al suo essere, della quale alla gran mensa di Dio ci pasciamo nel paradiso. Dunque, in tal caso solamente a dilettar l’intelletto studiaremo e impararemo, dipingendo con le parole la verità, la quale, liberi fatti dalla prigion della carne, in propria forma vede e contempla la nostra mente» (T, p. 680). Ma anche se la ragione è cosa umana, che vive e muore con noi, «suo officio dee essere il discorrere umanamente e quello principalmente considerare che si conviene alla umanità, l’arte oratoria adoprando, con la quale in questa vita civile le nostre umane operazioni moderiamo e reggiamo». Ecco, dunque, perché i letterati potevano disinteressarsi della discussione che stava avvenendo in casa Contarini. E non basta. L'uomo, vien detto esplicitamente, si deve contentare di ricercare il vero della natura e di Dio non in sé stesso, cosa impossibile, «ma nell’ombra delle nostre openioni, [...] le quali quanto più ne dilettano, tanto più dovemo credere che siano simili al vero, ove è riposto il l piacere che veramente ne fa felici» (T, p. 681). dire; può si non Brocardo del argomentazi alle oni Valerio il Cosa replicasse né ha molta importanza che lo Speroni non abbia sentito il bisogno di riscrivere la parte malauguratamente distrutta. Non conosciamo dunque le obiezioni che

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egli credeva si potessero produrre contro le tesi del Brocardo e, sopra tutto, fino a che punto egli le condividesse. Per tentar di rispondere a questa domanda, esamineremo altri scritti speroniani in cui si discute di retorica. Cominciamo dal trattatello Dell’arte oratoria, in cui lo Speroni si propone di mostrare, contro la condanna di Platone, che la retorica è vera arte, ma senza accogliere le difese, secondo lui non convincenti, di Aristotile e di Cicerone. La retorica, questa è la

tesi, è «artificio nobilissimo sopra tutti gli altri» ed è «arte eccellentissima» «non per gli entimemi ed esempli, ma per la elocuzione, per l’azione, per conciliarsi e movere il giudice». A questo scopo egli presuppone due cose: «l’una che la rettorica sia arte o professione civile, perché con lei si delibera, si lauda e si giudica, le quali cose sono tutte civili; l’altra che ’l parlare sia proprio dell’uomo, con esso ’l quale l’uomo significhi i suoi concetti nella civile aduna-

zione o commerzio, onde il parlar sia il vincolo della civiltà» 4. Ne consegue che «quel rettorico ragionamento che non è cosa civile non è arte» e che al contrario «quella rettorica è arte che è civile». Ora «la rettorica entimematica non è civile, ed è civile quella che è riputata adulazione; adunque l’adulatoria, per così dirla, è la vera e bona arte; e non è arte né bona la entimematica».

Dopo aver confutato la difesa dell’oratoria come arte fondata sulle prove, abbozzata nella prima parte del trattatello, lo Speroni osserva che «tutte le arti umane si possono in due modi considerare, l’un in sé stesse nelli suoi proprii officii e principii, l’altro in quanto civili, cioè in quanto comode e convenevoli all’umano consorzio». Alla retorica considerata in sé, indubbiamente, basta «l’uso dell’entimema ed esempio, e l’aver rispetto solamente alla cosa trattata, senza guardare o all’auditore o a chi parla: ed allora questa arte sarà una loica imperfetta, e sarà di poco momento» (S, V, p. 539). Non è questa la retorica che lo Speroni vuole difendere. Conformemente alla tesi di fondo del Dialogo della retorica, egli ricerca una retorica che sia essenziale alla comunità umana in sé e per sé, non per qualità accattate. Quello che stiamo commentando è uno scritto che ha l’apparenza di un ragionamento: «Si può anche dir... Rispondo... Ma come tu di’...? Rispondo... Intendo di provare... E per distinguer la mia intenzione dico... E per ciò fare presuppono due cose... Onde io argomento in tal modo... Fatto questo sillogismo torno da capo e dico... E qui dà un esempio...» ecc. In realtà questo, come molti dei trattatelli di vario argomento stampati nel quinto volume delle Opere,

46 Anche a me, come ad altri, è capitato di scrivere che il parlare, secondo lo Speroni, è segno dell’imperfezione umana (T, pp. 491-2); ma le opinioni del trattatello De/ parlare dell’uomo (S, V, pp. 398-9) sono più articolate di quanto non sembri a prima vista. Il parlare, di per sé, non significa né perfezione né imperfezione: «Se ello significasse perfezione, le intelligenzie sarebbero cose imperfette, perché ne mancano; se significasse imperfezione, mostrarebbe che le bestie fussero perciò da più degli uomini, perché mancarebbono di questa umana imperfezione». L'uomo, per essere cosa corporea e materiale, «non può significare i suoi concetti umani e

materiali senza moto; ma perché ello è nobilissima cosa, ed ha col senso lo ’ntelletto congionto, tal moto dee essere in lui nobilissimo». Il parlare è «perfezione della nostra imperfezione, in quanto imperfezione» : «È adunque dato all'uomo il parlare per lo difetto che li arreca la sua

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è piuttosto l’abbozzo di un dialogo: la discussione è fra chi è convinto che «sole le prove pertengano all’arte oratoria, e tutto il resto sia extra remz e extra arter» (S, V, p. 538) e chi sostiene la tesi che stiamo riassumendo. Abbiamo cioè poco più che le nervature di un possibile dibattito; ma anche così l’amplificatio volta a mostrare che la retorica è arte proprio per ciò che può apparire pleonastico, e non per le argomentazioni, è piena di forza oratoria: Ma perciocché l’uomo civile dee aver rispetto all’altro uomo, con cui abita e pratica, ed a sé stesso sopra ogni cosa, sicché come non è, così non paia stupido o rusticano, mal costumato e vivente fuor dell’usanza degli altri uomini, la quale usanza forse mantien più la civilità, che non fanno le leggi, perciocché l’usanza è costume ed è consenso d’ognuno; averà anche rispetto al magistrato; e questo rispetto se consiste nel salutare e riverire ed amare; ed il riverire sia atto del corpo, piegando ed inchinando o movendosi da luogo a luogo, perché non de’ egli anche essere nelle parole? E se ciò è tra privato e privato, li quali si scopriranno la testa ed inchineranno l’un l’altro [...], molto

più de’ esser parlando in pubblico ed a pubblico beneficio, come si usa dall’oratore in ogni genere delle sue cause (S, V, pp. 539-40).

È una rivendicazione appassionata di valori come il decoro, la convenienza, l'opportunità, le buone usanze, sui quali si regge la comunità umana e ai quali non si vede perché non debba adeguarsi la retorica, che è arte civile per eccellenza: E se ’l privato privatamente veste, non pur guardando alla stagione calda o fredda, ma guardando alla usanza, alla civiltà, alla sua condizione e grado, perché parlando non si de’ parlar civilmente con riverenzia verso chi ode e con ornamento delle parole e de’ gesti? Se uno è nobile e ricco e non veste e non tien famiglia conveniente alle ricchezze e nobiltà sua, vien riputato avaro e sordido. Così un dotto e ben parlante, se in giudicio o in senato proverà seccamente una cosa, sarà riputato ed in vero sarà un scempio. Metta adunque mano a quanto di bello può fare in la orazione e farà il debito suo. Se ci vengono forestieri a casa, noi copriamo li muri ed il suolo di razzi e tapeti, e non copriremo le nostre naturali parole di belli ornamenti parlando al principe? Alle messe, a’ vespri, cose all'anima pertinenti, si orna il Papa e li Cardinali di belli manti d’oro e di gemme, e noi nelle cose civili anderemo con parole spogliate e nude d’ogni bellezza? Ne’ pasti alle nozze non si dà mangiare per fame, ché a trar la fame basta il pane ed il vino, e forse l’acqua e il pan di giande, ma si dà mangiare cibi esquisiti ed in abbondanza per onor di chi siede oltre la fame; e poi parlando in pubblico diremo parole che siano aglio e cipolle? Alle nozze, che son private ma fatte in pubblico, non basta parlare e camminare, ma si fanno musiche e balli, ed è lecito a chi sa cantar e

ballare farlo; e noi nelle cose pubbliche parlaremo rauco e ci moveremo come per

camera?

(S, V, p. 540).

È, come si vede, una difesa di tutta l’arte oratoria, e in questo senso si differen-

zia dal Dialogo della retorica; i due testi, però, collimano perfettamente nel far materia in quanto sotto la forma dell’intelletto umano, alla quale bisognano molte cose, e più che non bisognariano, se fosse sotto altra forma manco perfetta».

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consistere il proprium della retorica in ciò che è gratuito rispetto alla persuasione che si desidera ottenere. Si può dire che qui lo Speroni esalta per il loro valore civile gli elementi epidittici che si trovano anche nelle orazioni deliberative e giudiziali. La distinzione fra la retorica considerata in sé stessa e la retorica come arte civile consente di comprendere il significato di quei passi in cui il genere epidittico non è collocato al primo posto. Per esempio, commentando il secondo libro della Retorica di Aristotile, lo Speroni pone al primo posto ora il genere giudiziario ora quello deliberativo: il giudiziario è primo «quanto alla prova [...]; e questa prova è lo entimema»; per le cose trattate invece «è più nobile il deliberativo, sendo le cose pubbliche molto più nobili delle private». Il genere dimostrativo — nel quale «non si guarda alle cose, che qui non si trattano, ma solamente alla facultà del dicente, come ne’ spettacoli comici o tragici; però come in quelli così in questo chi ode è propriamente ascoltatore o spettatore, e non giudice» — potrebbe sembrare il primo quanto a stile: essendo assai più colto lo stile demostrativo che quello degli altri due e più pieno di colori ed ornamenti di dire, anche per ciò averà il primo luogo; almeno sarà al deliberativo superiore, il quale, insegnando come egli fa, è costretto di usare il più basso stile che vi sia. E se per esser lo stile più alto nel giudiciale, per cagione del movimento che vi si tratta, il giudiciale merita aver il primo luogo, per conto della amplificazione, la quale è propria del demostrativo, il demostrativo averà il primo tra gli altri due.

Ma «per ragion delli stili non si de’ giudicare della eccellenza di questi generi; ma o per lo rispetto alle cose come a materia o per lo rispetto al giudice come al fine» (S, V, p. 556). Come si vede, tutto dipende dal punto di vista. Lo Speroni, celebratissimo oratore, non intende certo condannare colui che parla in senato o in tribunale (purché non lo faccia per mestiere). I generi deliberativo e giudiciale hanno una loro indubbia importanza, se si considerano i fini proprii dell’oratoria classica. Anche in questa prospettiva risulta comunque la stretta affinità del genere epidittico, in cui si guarda «solamente alla facultà del dicente», con i generi letterari, né viene smentito il suo primato stilistico. Possiamo approfondire ulteriormente il problema perché fra i trattatelli di vario argomento ce n'è uno espressamente dedicato al genere epidittico, anzi alla sua apologia. Lo Speroni sa bene che questo genere fu posto da Cicerone «nello ultimo loco de’ tre»: «Questo genere, il qual c’insegna lodare altrui, par che abbia gran bisogno di laude, perciocché, se Cicerone nol biasima, non lo loda almeno come egli merita: il che è specie di biasimo». Cicerone credeva che l'oratore non fosse tale se non muoveva gli affetti; pertanto tendeva quasi a escludere il genere epidittico dall’oratoria. Ma Cicerone, secondo lo Speroni, non aveva compreso «in che cosa consistesse il valore di questo genere»; lo comprova «il proceder che egli fa contra lui con un falsissimo fondamento, e non proceder come potrebbe e dovrebbe». Esso infatti è «più oratorio per avventura che ’l giudiciale non è, e più nobile» (S, V, p. 546); e procura la

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lode, che «è cosa preziosa e cara agli uomini naturalmente»: persino gli Spartani, «alli quali era in odio, o parea essere odiosa, l’arte del dire», erano tanto avidi di lode «che andando a combatter sacrificavano alle Muse, acciocché i gesti loro fossero lodati». A queste e altre considerazioni, tratte dalla storia antica, lo Speroni — qui anche più perentoriamente che nel Dialogo della retorica — aggiunge la constatazione che al suo tempo l’epidittico era il solo genere in cui un oratore potesse provarsi: «Ed ecco che di tutti tre i generi oratorii, li doi sono quasi mancati in effetto, non si usando oratoriamente il giudiciale e deliberativo se non in Venezia; ma il demonstrativo in ogni parte del mondo, almen della Europa; e ciò si vede nelle funebri e nelle congratulazioni de’ principi e magistrati». Anche qui a considerazioni che potrebbero indurre a deplorare la decadenza dell’uomo e della società, lo Speroni preferisce argomentazioni che consentano di ritenere che l’unico genere praticabile sia quello preferibile in sé e per sé. Anche nel genere dimostrativo — egli sostiene — c'è movimento e «miglior e maggior che non è nel giudiciale»; vi è infatti compreso un movimento della ragione che è più nobile di quello degli affetti: «ed è lo indurre e persuader gli ascoltanti a morir per la patria; e non morire allora allora, come persona tratta for di sé stessa da qualche empito furioso, ma di là a un mese e ad un anno: segno ciò esser moto della ragione, non degli affetti». E se manca di prova, cioè dell'esempio e dell’entimema, il genere epidittico ha però l’amplificazione, che è «tanto più nobile delle due prove, quanto è la magnificenzia della liberalità o la magnanimità della fortezza o la sapienzia della scienzia» (S, V, p. 547). Esso «può, come a lui piace, a dritto ed a torto amplificare, sol che persuada e faccia credere altrui che egli dica la verità; la qual opera non può fare egli senza provare». C'è, dunque, anche un’«amplificazione bugiarda» che, malgrado tutto, era carissima anche a Cicerone: «però volea esser lodato più del diritto da Luceio, falsificando l’istoria, la quale egli chiama /ux veritatis». E non è cosa sorprendente perché «l’amplificazione delle parole ed esaggerazione è in un certo modo naturale». Come si fanno le vesti e le case più ampie degli uomini per cui si costruiscono, così le parole, che «sono veste e case ove albergano i nomi e le memorie e concetti nostri», «si fanno più

ampie del bisogno» (S, V, p. 548). Pare dunque che le opinioni del Brocardo risultino ancora una volta confermate. Anche se qui non si discute il rapporto fra retorica e filosofia, l’accenno all’«amplificazione bugiarda» fa capire che il genere epidittico non mira alla verità e alla sapienza. Lo Speroni su questa via procede anche più in là. Tra i trattatelli di vario argomento — che in realtà, come si è visto, sono degli abbozzi

schematici di dialoghi — si trova infatti uno scritto In difesa dei sofisti, in cui s’incolpa Platone, «maggior sofista di loro», d’aver biasimato a torto i sofisti. Il sofista, secondo lo Speroni, «al sapiente è come il figlioccio al figliuolo: questo non è vero figliuolo, ma lo simiglia; quello non è vero sapiente ma lo simiglia e lo imita, come il ritratto la cosa vera». Il vero sapiente sa le cose per le loro cagioni vere, essenziali, per dimostrazioni, ed è vero contemplativo che vuol saperle in sé stesse senza curar d’altro onore o utile che li succeda per ciò; e questo è

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solitario ed attende a far bello il suo intelletto senza guardare ad altra cosa. Costui prezzerà più una formica che tutto l’oro del mondo. Costui prezzerà più la scienzia che la patria, che ’l padre o altro parente; perché prezza più il suo intelletto, per lo quale egli è uomo e nella perfezione del quale consiste la sua vera felicità, che ogni altra cosa. Costui è molto simile al perfetto Cristiano, del quale si disse dal Signore: «vende et da pauperibus». Costui ama più sé stesso che ogni altra cosa, perché sa che cosa è amore e che cosa egli è veramente [...]. Costui è virtuoso generalmente ed ha tutte le virtuti, ma non è esercitato in alcuna di esse, perché non cura di quello che è obietto delle virtuti civili, ma è prudente, giusto, forte, e temperato in altra maniera che ’l civile; e ciò dichiaro. Costui conosce veramente sé stesso, ma non osserva del tutto

quell’altra sentenzia ne quid nimis, anzi è quasi nimis sapiens.

Come il Brocardo nel Dialogo della retorica, lo Speroni non sembra avere dubbi nel preferire la “mediocrità” del sofista che vive nella società all’astratta beatitudine del filosofo. Rispetto al vero filosofo il sofista è tale «quale è il bon cittadino rispetto all’uomo da bene», che «non si conface alla bona cittadinanza,

perché la supera e la guasta». Ora, secondo lo Speroni, se si considera quello che Platone dice del sofista nel dialogo che da questo prende nome, tutto si troverà «vero del bon cittadino, anzi dell’esser nostro e della nostra vita» (S, V, p. 430). Accanto alla retorica che attende alle prove c’è, come ormai ben sappiamo, una retorica sofistica «che più si fonda sul costume e sul movimento che su le prove, perché questa è propriamente civile, avendo rispetto alla cittadinanza e facendosi per lei» (S, V, pp. 430-1). Se Gorgia avesse saputo distinguere fra queste due retoriche e si fosse dichiarato maestro di quella civile, confessandosi ignorante di quella che prova, indarno Platone inveiva contro di lui, perché Gorgia si salvava dicendo esser sofistico oratore, cioè orator civile e saper insegnar questa arte. E così se quando con lui e con altri sofisti parlanti delle virtuti si disputava della natura della virtù, avesser detto i sofisti non si intender della natura della virtù, ma sì dello uso suo e della sua pratica civilmente, nel qual caso non è necessario saper la natura essenziale della virtù, indarno erano molestati da Platone. Perché non tutte le professioni rendono in esse la cagione delle cose trattate, ma in molte si presuppongono senza provarle.

Ed è proprio perché non si fonda sulle verità assolute che il sofista può farsi comprendere dalla città e a sua volta comprenderne le esigenze: Dal sofista si fa differenza tra l’utile e l’onesto, perché la città fa tal differenzia; ma non la fa chi intende la natura della utilità ed onestà. Il sofista vuol, e la città vuol, che l’onor nostro e la gloria consista nell'opinione delle persone, cioè del volgo; ma il filosofo sapiente non già, ma, parlando della natura dell’uomo, vorrà che seguiti di necessità la scienzia e la virtù, e non dipenda dalla opinion del vulgo, anzi si scosti da lui, perché è ignorante della natura ed essenzia di esso onore. Però loda il vulgo più una virtù, cioè quella che a lui giova, quale è la giustizia e liberalità, che tutte l’altre; e lauderà chi eccedesse, e riputerallo magnanimo e forte, ma non già chi conosce la vera magnanimità e fortezza, la quale è non curare di morire per la virtù, ma non per fuggire il nemico.

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Il sofista, insomma, «sa insegnar bene la vita nostra civile, e quella diversificar

secondo la diversità delle repubbliche e mostrar qual vizio e virtù è in una,

quale in un’altra» (S, V, p. 431). Non c'è niente di ridicolo in lui, purché

naturalmente si mantenga nel proprio campo e non pretenda di rivelare verità assolute. Del resto, anche Platone, proprio deridendo i sofisti, si comportava da sofista, perché con fallacia disputava contro i sofisti, dimandandoli della natura ed essenzia d’alcune cose, le quali non erano sapute da’ sofisti, perché non bisognava loro, come sofisti, saperle [...]. E Platone disputava contra i sofisti non da oratore ma da loico ed il sofista non loico ma oratore. Però Platon lo ’ngannava ed astutamente il vinceva con una arte della quale il sofista non faceva professione, perché non la sapeva. Socrate dai sofisti avrebbe dovuto cercare non

«la essenzia, ma l’uso della

virtù», poiché «di questo uso il sofista era precettore, non della essenzia». E i sofisti avrebbero potuto replicare che ognuno potea conoscere che cosa fosse virtù, ma che pochi sapeano esercitarla, ove e come si conveniva secondo l’uso della repubblica; e che se la scienzia della virtù è una sola, perocché una è la sua essenzia, non è però uno lo uso ma vario secondo la varietà delle repubbliche, nelle quali quel che è vizio in una, nell’altre è virtù; e così direbbe della rettorica; e che esso sofista ben sapea la natura della virtù, ma ciò non era sua professione, né si curava che i suoi discepoli l’apprendessero, perché tal professione non solamente non giovava allo esercizio di quella ma nocea, credendo chi l’apprendea che così fosse un solo lo esercizio come la essenzia, onde diveniva imprudente, non sappiendo esercitarla ove e quando si conveniva. Ed altrettanto doveva dir

della rettorica, la quale secondo Aristotile è varia e diversa in varie e diverse repubbliche (S, V, p. 431).

E con un argomento che abbiamo già visto usare dal Brocardo osserva che «è da meno il filosofo che ’1 sofista non è, perché il filosofo, a guisa di giovane vano, ama una cosa che non può mai ottenere, cioè la sapienzia, come i Proci che amavano Penelope»; il sofista invece «non si mette ad amare e disiderare la sapienzia, che aver non può, ma senza superbia alcuna va alle ancille e si contenta d’averne il nome». In questa nostra «civiltà, la quale è perfezione della nostra imperfezione senza mai farla perfetta», non c'è né la bontà vera né la vera perfezione; può esserci solamente «chi ci insegni di vivere così imperfettamente, ché né anche ciò sappiamo senza impararlo con gran fatica: e questo maestro è il sofista, come il medico che ne risana, non però ne fa ininfirmabili né inammalabili, non che immortali». La condizione del sofista è insomma quella dell’umanità stessa:

Sofista è lo imitatore, il quale non è niente e simiglia ogni cosa; sofista nell'amicizia lo imitatore, nella religione il superstizioso, nella scienzia delle cose il litterato, cioè chi

sa le lingue, colle quali vuol far credere che sia aristotelico o platonico, e non è,

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benché abbia la lingua, perché manca della ragione, la quale senza parlare ci fa sapere. Sofista è lo esser nostro, perché non è e pare essere: non è perché il presente dello essere è instante indivisibile, che fu piuttosto e forse non sarà; e solo lo immortale è veramente

(S, V, p. 432).

Lo Speroni riflette spesso sui sofisti e sulla loro retorica. Nel dialogo primo Sopra Virgilio un interlocutore, Pietro Trappolino, osserva che Platone «trattò sì male que’ suoi sofisti da ciascuno altro ammirati che, come allora l’esser sofista era gloria, così da poi in tale infamia è tornato che non è uomo oggidì che non sia schivo di parer tale. E non per tanto si furon quelli i sofisti che lungo tempo diedero a’ Greci ogni lor legge e costume, e delle scole de’ quali soleano uscire gl’imperatori, non che i filosofi e gli oratori» (S, II, p. 183). E annuncia che «di breve con nova e vera dottrina difenderà il nostro amico [quasi certamente lo Speroni stesso] da’ suoi dialogi la bona antica sofisteria, senza la quale nulla sarebbe quella sua rara repubblica, non che le nostre

volgari» (S, II, p. 185). Nella terza parte dell’Apologia dei dialogi lo Speroni riferisce un’ampia discussione sulla sofistica avvenuta in casa del cardinale Marcantonio da Mula, una sera di carnevale, fra Bernardo Cappello, Costantino Ralli, Paolo Manuzio e Silvio Antoniano. La conversazione procede argutamente: «La notte è lunga — dice il cardinale — e non molte ore ne son passate, e la materia è carnevalesca, ché anche i sofisti son tutti maschere, chi da oratore, chi da filosofo, come i plebei da grandi uomini» (S, I, p. 369). Impostato come un divertissement carnevalesco, il dibattito è a sua volta sofistico, in quanto ogni interlocutore s’ingegna di trovare aspetti sofistici della realtà, delle scienze, delle arti, in una girandola di proposte e di invenzioni, fino a concludere che tutto il mondo è sofisteria. A un certo punto l’Antoniano riferisce il discorso che «uno accademico di palazzo — lo Speroni probabilmente — tenne «una sera distintamente delli sofisti e dell’arte loro, senza nessuna

sofisteria» (S, I, p.

372); ed è a questo, certamente, che alludeva il Trappolino. L’accademico parla davvero «senza nessuna sofisteria». Il suo discorso si stacca nettamente dal gioco carnevalesco, che pure ha messo in luce opinioni non del tutto disprezzabili. È un serio tentativo, compiuto con le opportune distinzioni, di esaminare la natura, la fortuna, la decadenza, la ripresa e il definitivo tramonto della sofistica. Il discorso — si ricordi che viene riferito nell’Apologia dei dialogi — procede con cautela al fine di far risaltare un valore positivo della sofistica che non sia contestabile nel clima della Controriforma. Con molta dottrina l’accademico traccia una sorta di storia della sofistica, in cui però i veri sofisti sono i sette savi e i presocratici, che avrebbero lasciato «il nome del sapiente, siccome proprio del sommo Dio» e preso «quel del sofista, volendo dirsi con tal vocabolo non falsatori, come or s'intende comunemente dalli volgari, ma sapienti imperfetti e quanto poteano imitatori di sapienzia» (S, I, p. 374). Accetta i giudizi negativi di Platone, anche se osserva che «a certe viste che ne rimangono noi pur veggiamo che anche essi furono qualche cosa». In particolare, l’orazione che Protagora recita su richiesta di Socrate è tale «che di più belle non so trovare; e se Protagora non fu tale che di sì fatte sapesse dirne, mal fe’

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Platone quando cotesta li attribuì, non servando il decoro che ad un sofista si convenia» (S, I, p. 372). I sofisti degenerarono perché, per desiderio di fama e di guadagno, presero a insegnare prima di avere bene appreso: Il che facevano in questo modo: che acciocché ’1 poco, che vi era entro, paresse assai ed iterato non fastidisse,in varie forme una istessa cosa con incantesimo di parole

aveano in uso di tramutare [...]. Altri fra voci da sé trovate, e non più udite dalli

ascoltanti [...], empiendo l’anime altrui non di scienzia ma di stupore, e per dir meglio intronandole, come serpenti tra sassi e spine si nascondeano; e tal soleva esser Prodico. Ma li più d’essi in lunga tratta d’orazione, non mica barbara o tediosa, tutto ad un tempo ravviluppavano i lor concetti e gli intelletti delli auditori; quale era Polo e Protagora. Tutte le quali sofisterie non può negarsi che non siano ami da prender gli uomini per le orecchie ed or sospingerli or ritenerli. Dico bene che non sono arti da esercitare nel nostro viver civile, ma accorgimenti maliziosi o puerili ammaestramenti

(S, I, p. 376).

Il nome di sofista, dunque, assunse valore negativo per «colpa e difetto di alcuni avari, ignoranti, presontuosi ed invidiosi, che indegnamente se ne vantavano»

(S, I, p. 379).

Fin qui il discorso conserva, mi pare, un forte margine di ambiguità. Anche se più volte riconosce qualcosa a Protagora e compagni, l’accademico continua a chiamare buoni sofisti Pitagora, Socrate, Platone e gli altri filosofi. L’atteggiamento comincia a mutare quando egli prende a distinguere il sofista dalla sofisteria. Per esempio, afferma: «né la sofisteria è senza laude, commendandosi sommamente chiunque il falso fa parer vero ed il vero falso: il che si biasima nel sofista e non so perché» (S, I, p. 385). Ma sopra tutto importa che l’accademico sostenga che «un sofista può esser reo e tristo uomo senza alcun biasimo di quella arte, onde è sofista denominato, perciocché ’l vizio è in molti uomini che non son punto sofisti, e la sofistica facultà, come è già stata, così può essere più che mai in buone e dotte persone [...]. È dunque vana sofisteria l’argomentare in sì fatto modo contra i sofisti, ciò è a dire il cotal sofista è ignorante, arrogante ed avaro, malizioso ed invidioso; è dunque tale per la sofistica facultà che faccia tali generalmente tutti i sofisti dell’universo» (S, I, pp. 383-4). Molto abilmente con questa distinzione l’accademico estende alla vera e propria sofistica le lodi date ai sette savi e ai sofisti “buoni”. Può quindi prendere la difesa della «facultà del sofista» senza dare l'impressione di compiere un’operazione sorprendente o eterodossa. Egli osserva che il «nostro conoscere intellettivo 0 è scienzia, quale Aristotile ha definita, o opinione o persuasione». La persuasione e l'opinione sono conoscenze sofistiche, cioè imperfette, «non per inganno che vi sia entro, ché ciò è colpa e malizia della persona, [...] ma per difetto della certezza, la quale in esse per lor natura non si ritrova» (S, I, p. 386). A questo punto l’accademico può esporre opinioni simili a quelle che abbiamo letto nel trattatello, sia pure temperandole un poco. Socrate, secondo lui, dei sofisti

condanna solo

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la superbia e la vana gloria del saper tutto perfettamente e poter tutto insegnare, ché se Protagora, distinguendo la opinione dalla scienzia, avesse detto liberamente: io ho alcune mie opinioni delle virtudi e del governo delle repubblice, le quali insegno alli miei discepoli, acciocché reggano le lor patrie e siano boni lor cittadini, salva la legge del disputare, non potea Socrate dimandarli che è virtù in generale, né quante e quali son le sue parti, né contrastar, come fa, se elle son molte o pur una sola, né se ella possa insegnarsi, perché Protagora molto bene poteva attendere alla impromessa senza saper certamente che sia virtù né città (S, I, p. 387).

L’accademico rivendica dunque la validità della facoltà sofistica («delle cose che sono incerte certa scienzia non si può avere, ma opinion solamente; onde il trattarle quali elle sono non sia del savio ma del sofista») e anche il suo valore civile: ma posto ancora che di tai cose potesse aversi certa scienzia, io la scienzia come più

nobile onorarei, ma a beneficio della repubblica vorrei usare la opinione, cioè il probabile sillogismo, il qual produce la opinione, come argomento più populare che la dimostrazione non è, e che fa intendersi facilmente dalli volgari per li palazzi, mentre essi pensano ai lor mestieri e alle lor case, ove la dimostrazion scientifica vuol l’uomo intento con lungo studio a.sé sola e nelle sue scole (S, I, p. 388).

Sia pure con molte cautele e affrontando la questione unicamente nella prospettiva gnoseologica, lo Speroni mostra di essere all’incirca sulle posizioni che abbiano incontrato nel Dialogo della retorica e nel trattatello sui sofisti. Ma qui c'è un ulteriore passo in avanti. Il cardinale sostiene che davvero «tutto il mondo è sofisteria, cioè pien di sofisterie» e «che ’1 mondo anche esso è sofista» (S, I, p. 389), generalizzando lo scetticismo che l’accademico aveva limitato ad alcuni ambiti di conoscenza: Sono mondane sofisterie non solamente le opinioni e persuasioni delli uomini intorno al viver cittadinesco, perché son false o non certe, ma eziandio le scienzie che noi chiamiamo dimostrative; del qual numero le più certe son di sì vili materie che né anche aggiungono a esser parte di quella umana felicità, la qual sognavano li filosofi, ma solo esercitano lo ’ntelletto [...]. Tutto l’avanzo delle scienzie contemplative è veramente di cose alte e gentili, ma tanto ascose (forse ne’ raggi del proprio lume) che non è occhio mortale, che veder sappia la loro origine interamente. Quindi nasce la varietà de’ pareri colla ostinazion del difender ciascuno il suo, la qual cosa mal si può fare senza l’aiuto della importuna sofisteria, perciocché ’l vero non è più d’uno e mille sono le vanitadi che si raggirano intorno ad esso senza toccarlo, perché nol veggono o non ardiscono di appressare (S, I, p. 390).

Il cardinale conclude che i limiti della conoscenza umana si possono superare solamente grazie alla fede cattolica, «la quale ha vinto ogni errore e con lo errore la violenzia» (S, I, p. 391). Lo Speroni è così riuscito a compiere fino in fondo la difesa della facoltà sofistica. Certo, come nelle altre opere tarde — e qui a maggior ragione, trattan-

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dosi dell’Apologia dei dialogi - ha dovuto (o voluto) far culminare tutto il discorso nella fede cristiana. Ma la sostanza, specialmente per quanto riguarda la svalutazione della verità filosofica rispetto all’opinione sofistica, corrisponde bene a quanto parecchi decenni prima aveva scritto nel Dialogo della retorica. La conoscenza sofistica è l’unica possibile o conveniente all'uomo civile; eppure dopo l’ultima fioriturà ad Atene al tempo dei discendenti di Costantino, la sofistica è tramontata «insieme con ogni specie di litterati e, che è peggio, colla dignità dello *mperio latino e greco, se non che pare che tutte l’altre professioni co’ proprii nomi siano risorte nel loro onore, giacendo ancora il sofista» (S, I, p.

380). Occorre dunque restaurare anche questa facoltà tanto importante; e lo Speroni sembra volersi presentare come colui che è stato capace di farla risorgere e così bene che i suoi scritti non si distinguono da quelli della sofistica greca. Nel trattatello Del genere dimostrativo, per esempio, scrive:

come è facile cosa lodar gli Ateniesi in Atene, così è facil cosa lodar gli uomini all'uomo; ma lodar le altre cose in quanto sono utili e benefiche al mondo vòl qualche studio, almen per saper l’utilità che ci possa recare una cosa non comunemente nota alle persone. Dunque, sarà più difficil cosa lodar Busiri, Elena, la mosca, la quartana, la usura e la discordia, che lodar gli uomini boni e le cose di manifesta utilità (S, V, p. 550).

L’usura e la discordia, com’è noto, sono esaltate dallo Speroni stesso in due dei Dialogi giovanili che egli cita disinvoltamente con gli scritti di Isocrate, Gorgia, Luciano, Favorino, come se appartenessero a una medesima serie. Nel già citato

frammento di lettera a Daniele Barbaro leggiamo che i dialoghi Della Discordia e Della Usura sono «due giovenili capricci simili a quello che ne’ dialogi di Platone tolse a lodar la iniusticia, in Luciano la mosca, in Favorin la quartana e Busiri in Isocrate». Nel frammento di Discorso sopra Dionisio Alicarnasseo egli suppone che Dionisio nel Giudicio della istoria di Tucidide «dalla ragione che mosse alcuni a lodare chi Busiri, chi la ingiustizia, chi la usura, chi la quartana, chi la discordia ed altre cose cotali, delle quali non per ver dir parlavano, ma tal per scherzo, tal per mostrarsi essere atto di fare orando le cause d'’inferiori superiori, egli in contrario fosse indotto a vituperare la gloria e ’l nome di quel sì gran letterato, che non che ’1 darli alcuno biasimo, ma il commendarlo a bastanza paresse cosa impossibile» (S, III, p. 431). Nell’Orazione al Re Filippo di Spagna veniva pure a parlare di quegli oratori che «quasi tentino a lor potere di far del vizio virtù o trar profitto delli inimici e del veleno la medicina, ebbero ardire di commendare chi Busiri, chi Elena, chi la quartana, chi la ingiustizia, chi la usura, chi la discordia ed altre cose sì fatte. E questi ingannano sì gentilmente che non può dirsi che faccian frode» (S, III, p. 35). Lo Speroni pone orgogliosamente i due dialoghi giovanili fra i modelli assoluti e universalmente noti del genere, un genere che secondo lui esalta le qualità più eccellenti degli scrittori. Nel dialogo primo Sopra Virgilio egli osserva che ogni uomo, «così poeta come oratore, par che si appaghi di dire o scrivere alcuna cosa che nuova sia e difficile, ed ove un altro mediocre intelletto non possa o pensi di

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pervenire [...].

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E quindi avviene che noi lodiamo con molto studio Busiri,

Elena, mosche, febbri, discordie, usure e la età ferrea, poi quella d’oro vituperiamo» (S, II, p. 186). Cosa nuova e difficile sono i discorsi sofistici, come viene

ampiamente ribadito nella seconda lezione sopra i personaggi della Canace: Ma coloro ch’intendono l’arte possono anco, col giudicio ch’hanno, allargarsi dai precetti e far qualche cosa anche che non sia dall'arte insegnata; e in questo si dimostra la sua eccellenza. Imperò chi non sa che nissun rettore non insegnò mai a lodare altre persone fuori che le buone e le virtuose, e non si trova alcuno che dia il modo di lodar un tristo e vizioso uomo? Se adonque ad alcuno verrà in pensiero di far questo e partirsi dalle leggi dell’arte, che doverà egli fare? Si ricercherà in costui molto giudizio perché egli sappia far quello che dall’arte, la qual segue la facilità nell’insegnare, non gli vien dimostrato. Per tanto non fu anticamente ripreso Isocrate perché lodasse Busiri, che fu pure tiranno e scelerato;.anzi dice Isocrate in quella orazione che vuole lodarlo perché certo altro, ch’'avea preso a far questo, non avea saputo farlo. Fo adonque anticamente lodato Busiri, la Musca e altre cose simili, e a’ giorni nostri la

discordia e l'usura; al che fare arte nessuna non è che ci dia ragione o precetti, anzi è solo l’arte di far il contrario ‘.

Risulta dunque, non senza qualche sorpresa, che lo Speroni considera 1’Usura e la Discordia le gemme più mirabili dei dialoghi giovanili, quelli in cui la virtù retorica opera in tutta la sua purezza. Sugli altri dialoghi giovanili, e in genere sulla sua concezione del dialogo, egli, com’è noto, ci dà precise informazioni nella prima parte dell’Apologia dei dialogi. Qui tiene innanzi tutto a sottolineare «che ’1 dialogo, generalmente parlando, è una spezie di prosa che tiene assai del poema» e «che ogni dialogo sente non poco della commedia»: Dunque, sì come nelle comedie varie persone vengono in scena, e molte d’esse non molto buone, ma tutte quante a buon fine e però admesse dalla città, ciò sono servi maliziosi, innamorati senza alcun senno, parasiti, adulatori, giovini e vecchie di male affare; e parla ognuno da quel che egli è o pare essere, e se parlasse altrimenti, non ostante che egli dicesse di buone cose, male farebbe il suo offizio e spiacerebbe al teatro; così il dialogo ben formato, sì come è quel di Platone, ha molti e varii interlocutori, che tal ragionano quale è il costume e la vita che ciascun d’essi ci rappresenta (T,

p. 684).

Lo Speroni compie un ulteriore passo in avanti sulla via che conduce dal genere epidittico alla letteratura quale noi la concepiamo, sostenendo che lo scrittore esercita la sua bravura retorica creando personaggi che parlano e agiscono coerentemente secondo la loro natura come appunto dei personaggi di commedia, che possono lodare cose cattive e biasimare le buone. L’autore di dialoghi si trova in una situazione diversa da quella dell’oratore: «messa in silenzio la sola e propria sua voce, riempie quelli di varii nomi e costumi e novi e varii ragionamenti: varii dico quanto alle cose di cui si parla e 478. SPERONI, Canace e Scritti in sua difesa. G. GrraLDI Cinzio, Scritti contro la Canace. Giudizio ed Epistola latina, a cura di Ch. Roaf, Bologna 1982, pp. 229-30.

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quanto al modo del favellare, onde alcuno di cose alte e leggiadre, altri in contrario di vili e basse disputarà» (T, p. 694). Quando però imita «li nostri

alterni ragionamenti», crea un dialogo che, «essendo simile alla comedia, la quale è spezie di poesia, vuol similmente aver parte ne’ suoi poetici privilegi»

(T, p. 697); un dialogo che «è cosa comica e poesia senza versi», «giuoco e

diletto e [...] diletto ozioso» (T, p. 698) e risponde bene alla concezione speroniana della realtà e della conoscenza:

percioché in molte persone e molto varie contenzioni il trovar modo per acquetarle non è leggero e giudicar gl’inquieti no Ili fa dotti ma disdegnosi e negli errori ostinati, però lo autore del dialogo, dette e provate le opinioni delle persone introdotte, rade volte sopra esse vuol dar sentenzia finale, ma resta sempre intra due, onde ciascun de’ favellatori possa vantarsi di aver ragione nella vittoria e appagarsi del suo sapere (T, p. 696).

In questo tipo di dialogo — in cui deve essere lecito «il disputarsi probabilmente d’ogni materia tra le persone introdotte, quanto al poeta e al dipintore lo effigiarla e rappresentarla» (T, p. 701) — non si imitano solo le persone che vi sono introdotte, ma nelle cose che vi si dicono disputando la vera e certa scienzia che si può d’esse acquistare non è espressa in effetto, quale è nel metodo aristotelico, ma è imitata e ritratta. Dunque come nelle comedie non suole entrar veramente la meretrice né il parasito né la rufiana né il vero giovane innamorato, ma mascherati che paiono essi e non sono; e nei dialogi di Platone non parla Socrate né Alcibiade né Gorgia ma alli lor nomi, che vi son scritti e dipinti, si fa parlare a quel modo che si teneva da tutti tre nel contendere; così ancor la dottrina la quale in essi impariamo non è scienzia demonstrativa ma di scienzia ritratto, il quale ad essa si rassimiglia (T, p. 705).

E se imitare «è giuocare, giuoco è dunque l’opinione, la qual si genera nel dialogo; e per la molta sua incertitudine la persuasion oratoria, la quale è imagine delle imagini, è giuoco anche essa, conciosia cosa che ’1 persuaso è deluso e lo delude chi ’1 persuade» (T, pp. 706-7). Lo Speroni a questo punto enuncia «una stranissima verità», che non può stupire chi ci ha seguiti fin qui: se la opinion dialogica non è scienzia, ma di scienzia ritratto, io posso dire che, se persone ignoranti s’introdurranno in dialogo, non solamente più che le dotte dilettaran-

no ma giovaranno non forse meno. Dico appresso che a scriver bene un dialogo non è

mestieri che ’l suo autore sia troppo dotto; basta solo che egli abbia un poco di buono ingegno, atto a ricever non so che grazia o furor divino, come parlavano quelli antichi,

e io a tempo ne parlarò (T, p. 707).

Il contrasto delle persone ignoranti non solo diletta ma giova: «così è utile alla invenzion della verità come il percuotere e ripercuoter del ferro al sasso, freddi ambidue e gravi molto e oscuri, genera il fuoco che è così caldo, il qual, se trova chi lo nutrichi, moltiplicando in vigore diventa fiamma che vola al cielo

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S. SPERONI

dirittamente e scalda il mondo e lo alluma» (T, p. 708). Nel dialogo le persone introdotte non son diverse al fucile, conciosia cosa che nel contrasto che elle hanno insieme

intorno a qualche materia l’una batta con sue ragioni la opinione dell’altra, non altrimenti in un certo modo che faccia il ferro la pietra o la pietra il ferro. Il che facendosi disputando, quantunque intiera e aperta non salti fuora la verità ricercata, nondimeno scintillando per sua natura la verità, siccome fa sempremai, forza è talora che se ne vedano le faville: queste, in principio piccole e poche, se buona è l’esca che le riceve e son nudrite a buon cibo, non molto dopo chiara e gran fiamma suol secondar [...]. Certo il fucile accende il fuoco e non arde, la cote aguzza e non sa tagliare, e con la asprezza la lima negra fa piano il ferro e lo illustra. Non sia dunque gran maraviglia che alla maniera di quelle pitie furibonde o di quel Caifas scelerato o d’altro rozo indemoniato, dica alcuno ma non intenda la verità; e allo incontro tal possa intenderla sanamente ma non la dice né la sa dire (T, pp. 709-10).

In questo brano, che si accorda con tanti altri già citati, è espressa efficacemente la lezione che — credo — si può trarre dagli scritti speroniani sulla retorica. È la lezione di chi, rifiutando la comoda ma improduttiva via aristotelica, per tutta la vita si è compiaciuto di osservare le scintille di verità che sgorgano dal contrasto delle opinioni. Si potrebbe discutere a lungo su questa concezione della prosa d’arte che dal puro artificio fa nascere non solo diletto ma conoscenza. Il discorso, però, si è fatto ormai troppo lungo e qui, per concludere, mi sembra piuttosto di dover sottolineare il fascino di un pensiero problematico, quasi scettico, che con molta decisione si oppone alle tendenze contemporanee che invece miravano ad appagare l’uomo di certezze. Lo Speroni non solo è ben lontano dal credere che sia possibile distinguere con un taglio netto il bene dal male, il giusto dall’ingiusto, ma sembra addirittura mosso dal

bisogno di mostrare l’inconsistenza di molte certezze e luoghi comuni. «Non è cosa qua giuso — egli ebbe a scrivere — né così rea che qualche bene non abbia in sé; però è rea e lodevole, ma non già come rea, ma per quel bene che ella contiene o che ella fa, perché di mal nasce il bene talora. Ha dunque il reo qualche bontà e qualche male è nel buono» (S, V, p. 432). Con forte spirito antidogmatico egli pertanto si pose sulla via della letteratura che meglio della filosofia — pensava — sa cogliere con duttilità ed esprimere con mezzi adeguati quei barlumi di verità che soli sono consentiti all’uomo.

GIOVAN

BATISTA GELLI

1. Rispetto al Bembo e allo Speroni, che furono in relazione con i centri e i personaggi più rappresentativi della cultura italiana ed europea, a prima vista Giovan Batista Gelli sembra appartenere a un ambiente più ristretto, provinciale, pettegolo. In Firenze, dove nacque il 12 agosto 1498 da Carlo di Bartolomeo — che vi era venuto da Peretola col fratello Francesco per esercitarvi il mestiere di vinattiere —, trascorse tutta la sua esistenza. Non lo allettarono le belle città, fervide di vita culturale e artistica, e nemmeno le relazioni con i personaggi illustri. Da Firenze, a quanto pare, si allontanò una sola volta; e non per un lungo viaggio, bensì solamente per recarsi a Pisa, forse per incontrarvi Simone Porzio, professore di filosofia aristotelica nello Studio, del quale stava volgarizzando alcuni opuscoli. A parte le beghe accademiche e le noie con la censura ecclesiastica, la sua vita trascorse fin troppo tranquilla, apparentemente priva di inquietudini, in pieno accordo col regime instaurato da Cosimo I. Se conobbe momenti di crisi, li seppe nascondere assai bene, grazie alla garbata riservatezza con la quale circondava tutto ciò che apparteneva alla propria intimità. Poco pertanto sappiamo sulla sua vita privata, e quel poco non si

presta a essere romanzato. I primi biografi, specialmente l’autore dell’orazione anonima !, hanno insistito sull’indigenza della famiglia e sulla violenza che il padre avrebbe fatto ai suoi forti interessi culturali avviandolo al mestiere di calzaiolo. In realtà, Carlo, morto prima del 1524, non lasciò nella miseria il

figlio che fin dal 1519, in compagnia di Filippo del Migliore, aveva cominciato a studiare il latino con Antonio Francini, allora correttore delle stampe dei Giunti. Nel 1520 Giovan Batista sposò Maria di Marco de’ Bettini, da cui ebbe due figlie che poté regolarmente maritare nel 1538 e nel 1542, e poi lasciare eredi, col testamento rogato nel 1557, di una casa e di un podere. Quanto al lavoro di calzaiolo, si può credere che da lui fosse stato accettato senza drammi, come una cosa ovvia. Nella maturità forse rimpianse di non aver avuto più agio per lo studio, ma non al punto da rinnegare il mestiere, nemmeno quando il prestigio che si era acquistato glielo avrebbe facilmente consentito. Il caso di Matteo Palmieri gli sembrava — come già era sembrato ai contemporanei — esemplare della possibilità di conciliare l'esercizio di un’arte meccanica con lo studio; e non a torto perché le caratteristiche precipue della più schietta tradizione fiorentina dipendevano proprio dal fatto che era espressione non di puri letterati bensì di uomini operosi nelle botteghe, nel fondaco, nella banca. Ed è significativo che per lo più il Gelli abbia dedicato le sue opere a mercanti; in una di queste — la Dedica della prima edizione della Lettura prima sopra lo Inferno (1554) a Giuseppe Bernardini « gentiluomo e mercante lucchese» — egli anzi scriveva: 1 Edita in A. UGOLINI, Le opere di G. B. Gelli, Pisa 1898, pp. 180-8.

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GXBNGELLI

voi altri mercanti, quando voi vi dilettate di praticare con uomini litterati e virtuosi, gli volete per amici e per compagni, e non per servidori e schiavi, come i grandi e come i principi, non dico secolari o del mondo (ché questi per avere per loro fine il bene governare, mantenere e augumentare i popoli e i sudditi loro, hanno sempre civiltà e umanità, come posso particularmente far fede io, per i tanti benefizii di onori e di facultà, che ho ricevuti da la Eccellenza dello Illustrissimo Signore Duca di Firenze, Principe e patron mio), ma degli spirituali solamente, la maggior parte de’ quali

avendo per loro fine principale il convertire prodigamente in uso e comodo propio tutto quello che arebbe a servire, parte al culto divino, parte ad essi e parte al sovvenimento di quei popoli d’onde ei lo traggono, altra cura non tengono, né fanno altrimenti stima alcuna de’ litterati e degli amatori delle virtù, che il tenergli per servidori, non per affezione ch'e’ portino a quegli, ma solo perché e’ pensano che lo averne per le loro corti arrechi loro e loda e onore. Laonde io che, vivendomi contento nelle mie case del pane che mi viene della fatica delle mie mani, quanto qual si voglia di loro in qualunche grandezza e riputazione, non ho mai voluto, non che servirgli, ma né corteggiarli pure mangiando con loro o in modo alcuno altro, conoscendo assai chiaramente per tale cagione che le mie fatiche non arebbono mai grado alcuno appresso di loro, mi son finalmente risoluto di onorarne, per quanto io e elle possono, quegli uomini che sono al consorzio umano di qualche utile ?.

Nel proprio “stato” non vedeva un’ingiusta condanna della società, bensì una condizione nel complesso vantaggiosa che gli permetteva di conservarsi immune dai vizi dei letterati e di dedicarsi agli studi con completo disinteresse, senza fare mercimonio del sapere. Pertanto, non lo rinnegò mai e non intrigò per innalzarlo con mansioni burocratiche o cortigiane, e invece si sforzò in ogni modo per migliorare il proprio patrimonio culturale con la tenacia di colui che pensa di appartenere a una classe in ascesa e insieme con la modestia propria di chi crede di compiere niente più che il proprio dovere. In tutto questo c'è un “conformismo” che a qualcuno potrebbe spiacere. Non si deve però dimenticare che il momento di maggior vena del Gelli — fra il 1540 e il 1550 circa — coincise con un periodo di vigorosa iniziativa da parte di Cosimo I, impegnato nell’affrancare lo stato dalla tutela spagnola, nel difenderlo dall’ingerenza pontificia e nel dargli compattezza grazie al recupero della cultura più genuinamente fiorentina e alla sua diffusione nei vari strati della popolazione. A Cosimo, preoccupato di allargare le basi del consenso popolare, servivano personaggi come il Gelli, il quale — legato alla vecchia Firenze — si trovò ad aderire al programma del suo principe senza dover compiere una scelta, in quanto subito gli sembrò conforme alle proprie esigenze. Al nostro calzaiolo mancava la passione politica, così tipica di quei fiorentini a cui tornava nostalgicamente col pensiero; ma questa passione — per quanto è dato sapere

2 La Lettura prima sopra lo Inferno fu pubblicata la prima volta a Firenze dal Sermartelli nel 1554. Il passo della lettera dedicatoria che abbiamo citato fu soppresso nella seconda

edizione (Firenze, Torrentino, 1562): lo si veda in G. B. GELLI, Letture edite e inedite sopra la Commedia di Dante, a cura di C. Negroni, Firenze 1887, I, pp. 3-4 (a pp. 7-9 la Dedicatoria “purgata”).

G. B. GELLI

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— gli era mancata anche negli anni giovanili in cui di solito c'è una maggior capacità di impegno entusiastico. Nel 1520 il suo nome appare nello «squittinio» dei «veduti di Collegio» e poi ancora nello «squittinio» del 1524 come «non beneficiato per le arti minori»; nel 1539 come uno dei «veduti per i XII Buonomini». Ed è tutto. Cresciuto ai tempi della prima repubblica, testimone della seconda e della/sa drammatica fine, probabilmente maturò assai presto un generale scetticismo per i sommovimenti sociali e per la capacità del popolo di autogovernarsi. Passati i quarant'anni, quando entrò sulla scena della cultura, non poteva che sperare di incontrare un principe che almeno gli consentisse di operare per una rivoluzione culturale; lo incontrò, lo apprezzò sinceramente ma senza piaggeria: anche allora le sue uniche cariche furono quelle accademiche, e ad altre non ambì. L’attaccamento tenace alla propria città indica chiaramente i limiti del Gelli, che però alla tradizione fiorentina seppe aderire con tanta lucidità che quei limiti si tradussero in fedeltà a un nucleo, ristretto ma intensamente vissuto, di convinzioni capaci di giustificare la sua opera di scrittore e di renderla forse non meno rappresentativa di quella del Bembo e dello Speroni. Si pensi innanzi tutto all'amore per Dante, che nell’Orazione sopra la esposizione di Dante è indicato come la prima e principal cagione che io sappia quel tanto che io so (conciosia cosa che solamente il desiderio d’intendere gli alti e profondi concetti di questa sua maravigliosissima Comedia fusse quello che mi mosse, in quella età nella quale l’uomo è più dedito e inclinato che ‘in alcun’altra a’ piaceri, e nella professione che io faceva e fo, tanto diversa da le lettere, a mettermi a imparare la lingua latina e di poi a spendere tutto quel tempo che io poteva torre a le mie faccende familiari negli studii delle scienze e delle buone arti, giudicando, come è il vero, che il volere intendere senza

quelle questo poema fusse come un volere volare senz’ali,

o veramente un volere

navicare senza bussola e senza timone) }.

In questa e in molte altre dichiarazioni del genere si potrebbe sospettare una certa enfasi; ma a torto. La Comedia era davvero un testo fondamentale per la cultura fiorentina, tanto che fra Quattro e Cinquecento la “fiorentinità” più o meno genuina di uno scrittore si potrebbe misurare proprio dall’adesione più o meno stretta, più o meno spontanea, a Dante. Il Gelli, dunque, non era uno scrittore arretrato al Trecento, bensì un fiorentino che nella Commedia scorgeva una lezione letteraria e culturale irrinunciabile, non diversamente, per esempio, da Girolamo Benivieni che reagì al tentativo bembiano di fare delle Terze rimze di Dante un testo esemplare e lontano, o meglio ancora dal Machiavelli che nel Discorso intorno alla nostra lingua affrontò baldanzosamente lo stesso Dante per fargli confessare la piena conformità della Comedia col fiorentino. Nel Ragsonamento sopra le difficultà del mettere in regole la nostra lingua il Gelli ci fa sapere d’aver frequentato gli Orti Oricellari; e non è impossibile che qui abbia 3 G. B. GELLI, Letture edite e inedite, cit., I, pp. 11-2.

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G. B. GELLI

ascoltato l’ex segretario fiorentino difendere la propria lingua contro gli amici trissiniani, anche se, a ragione, non lo nomina fra coloro che cominciarono a

considerare e a osservare «gli avvertimenti e l’arte» di Dante, Petrarca e Boccaccio. Ma se per il desiderio di una lingua “regolata” finiva, involontariamente, per accostarsi ai “trissiniani” Cosimo Rucellai, Luigi Alamanni, Zanobi Buondelmonti, Francesco Guidetti, ecc., il Gelli restava tuttavia fedele al programma

che il Machiavelli implicitamente ed esplicitamente aveva proposto per la rinascita culturale di Firenze ‘. L’amore incondizionato per Dante, sentito come un autore vicino, tuttora usufruibile; il rifiuto di una letteratura di evasione e in genere del culto classicistico della forma; l’amore per il Petrarca accompagnato dal rifiuto del petrarchismo; la predilezione per la prosa di riflessione e per la commedia intesa come specchio della vita quotidiana; l’adesione immediata agli autori del Quattrocento — Pulci e Burchiello, per esempio —, e non ancora il ricupero filologico ed erudito, ma senza simpatia, di un Varchi: queste e altre convinzioni mostrano la fedeltà del Gelli a quello che, non a torto, è stato considerato l’ultimo dei grandi fiorentini. Anche l’accusa di plagio lanciatagli dal Lasca, la confessione nell’Errore di una certa somiglianza con la Clizia e

l'evidente ricordo dell’Asizo nella Circe confermano che il Machiavelli era ben presente alla mente del Gelli. E che questi per il circolo del nostro calzaiolo fosse il vero difensore della fiorentinità è confermato dalla Difesa della lingua fiorentina e di Dante del Lenzoni, in cui proprio a lui-è affidato il compito di confutare l’opinione bembiana che «l’essere a questi tempi nato fiorentino, a ben volere fiorentino scrivere, non sia di molto vantaggio» ?. La fedeltà del Gelli alla genuina tradizione fiorentina appare ancor più rilevante se si pensa che in lui la lezione del Machiavelli — significativa, anche se dimidiata e scolorita — si fonde e si arricchisce con un’altra lezione, a cui l’autore del Principe era stato volontariamente sordo: quella ficiniana che aveva conseguito una grande popolarità presso le classi medie. E come elemento di continuità con la Firenze quattrocentesca agì anche il maestro di filosofia che il Gelli si era scelto: Francesco Verino il Vecchio, lettore nello Studio, a cui mostrò sempre una grandissima devozione, tanto da ripetere per lui la lode tributata a Dante: «del quale, se io so nulla, è il pregio tutto», e da affermare che «nessuno altro gli pose piede innanzi ne l’età sua» ‘.

4Per gli Orti Oricellari e l'atteggiamento letterario del Machiavelli si veda in questo volume Gian Giorgio Trissino e la letteratura italiana. ? La replica al Bembo, attribuita al Machiavelli, si può leggere in Discussioni linguistiche del Cinquecento, a cura di M. Pozzi, Torino 1988, pp. 369-71. éLe lodi di Francesco Verino il Vecchio in Lezioni petrarchesche, a cura di C. Negroni, Bologna 1884, p. 43 (da cui la prima citazione), e nei Capricci del bottaio (in Trattatisti del Cinquecento, a cura di M. Pozzi, I, Milano-Napoli 1978, p. 942): «Non vedemo noi pur ieri

quel santissimo e dottissimo vecchio Messer Francesco Verino, filosofo di maniera eccellentissi-

mo, che nessun altro gli pose piedi innanzi nell’età sua, che, leggendo filosofia, e veggendo tal

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2. Nell’Accademia Fiorentina, trasformata a poco a poco per volontà di Cosimo I nell’associazione ufficiale della cultura fiorentina, il Gelli trovò l’am-

biente adatto per soddisfare le sue varie esigenze. Convinto che Firenze, grazie al primato linguistico, potesse esercitare un’egemonia su tutta l’Ttalia, anche in questo si trovò spontaneamente d’accordo col suo principe, e quindi piuttosto che una conformistica ‘accettazione del paternalismo di Cosimo, gli si può rimproverare una troppo ingenua fiducia nell’effettiva possibilità di riuscita di un simile programma; ma egli non era l’uomo adatto a cogliere i segni della crisi che travagliava la cultura e la società fiorentine. L'Accademia — sia per quanto riguarda gli aderenti, sia per quanto riguarda il pubblico che accorreva numerosissimo alle letture — godeva di un tale successo che entusiasmi, e non certo perplessità, potevano nascere

in chi, come

lui, considerava rivoluzionario il

proposito di fare del toscano la lingua di una cultura che, abolite le barriere linguistiche e i privilegi di casta, fosse patrimonio di tutto il popolo. Pertanto partecipò con grande impegno alla vita di questo organismo, di cui fu più volte censore e nel 1548 anche consolo, e nei Capricci ne esaltò la funzione con parole che oggi possono sembrare esagerate; ma, anche se si illuse credendo che un istituto paternalistico potesse davvero stimolare lo spirito critico, meglio di altri seppe comprendere l’aspetto più nuovo del programma accademico e sopra tutto la necessità di mantenere uno stretto rapporto fra l'Accademia e la società, fra gli intellettuali e il popolo. Il carattere rinnovatore di questo rapporto forse apparirebbe più chiaro qualora fossimo meglio informati su un dibattito che fu più aspro di quanto non si creda, se i Capricci, per l’esaltazione dell’Accademia e la condanna della cultura ufficiale, suscitarono la reazione indispettita di uno studioso come Pier Vettori ‘. Quando entrò nell'Accademia, il Gelli si era ormai acquistato una certa notorietà come poeta. Nel 1539 diciassette suoi componimenti erano stati compresi dal Giambullari nell’Apparato e feste nelle nozze dell'Illustrissimo Signor Duca di Firenze e della Duchessa sua consorte con le sue stanze, madrigali,

comedia e intermedi in quelle recitate®. Ad essi vanno

aggiunti due canti

volta venire a udirlo il capitano Pepe, il quale non intendeva la lingua latina, subito cominciava a leggere in vulgare, perché e’ potesse intender anch'egli? e dipoi, poco innanzi che egli si morisse, per dimostrare la inestimabile bontà sua, leggendo publicamente nello Studio Fiorentino il duodecimo libro de la divina filosofia d’Aristotile, volse esporlo in vulgare, accioché ogni uomo lo potesse intendere: affermando insieme con Paulo Apostolo di essere così debitore a gli indotti come a i dotti?». ? Bartolomeo Cavalcanti il 16 aprile 1546 così scriveva a Pier Vettori, che si credeva coinvolto nella condanna dei dotti: «Giovanni mio figliuolo m'ha mandato in vostro nome i dialogi del Gello acciò che io vegga come da certi siate trattato. Hogli letti con quel dispiacere che mi daranno sempre le cose che in qualunque modo v'offenderanno [...]. I dialogi si vede certo che son composti non da un calzaiuolo o bottaio o notaio, ma da un ferravecchio O) peggio, tanto son goffi, furfanti, inebriati e colmi d’ignoranza e di malignità, e vi si scorgon dentro umori di certe persone, alcune delle quali vi saprei nominare e scorgo sin di qui, le quali son suggette da bastonate» (B. CAVALCANTI, Lettere edite e inedite, a cura di Ch. Roaf, Bologna

1967, p. 150).

8 L’Apparato per le nozze di Cosimo I con Eleonora di Toledo uscì a Firenze presso B.

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G. B. GELLI

carnascialeschi (Di maestri di far specchi e Degli agugghiatori), qualche capitolo, non molti sonetti e canzonette, un’egloga e la Cicalata al padovan cartaro in terzine. Il sonetto Farmi sospetto ’l ciel merita di essere ricordato perché è l’unico in materia d’amore che ci sia noto; certo non ne compose molti, e anche questo è sintomatico in un'età che vedeva il trionfo del petrarchismo. Le sue, per lo più, sono rime d’occasione — spesso conversazioni o trattazioni in versi —,

in cui gli echi della poesia di Dante e Petrarca contrastano con la sciattezza dell'insieme. Certo mostrano uno stretto legame con la tradizione fiorentina, restia a considerare la poesia come il frutto di un’estenuata ricerca formale e di decantate esperienze sentimentali, ma sopra tutto provano che il verso non era fatto per il Gelli, il quale del resto se ne accorse per tempo e abbandonò la poesia per la prosa. Il 1° marzo 1543, divenuto ormai un personaggio di qualche rilievo, affittò un negozio in piazza della Signoria, e così si trovò a lavorare nel centro della vita politica e culturale fiorentina. Nello stesso anno pubblicò la sua commedia più fortunata, La sporta, che il Lasca ripetutamente accusò di plagio: in un sonetto, per esempio, rinfacciava al Varchi di mancare d’invenzione e d’avere in questo «somigliato il Gello, / che fece anch’egli una commedia nuova, / ch’avea prima composto il Machiavello» ?. Il Lasca provava rancore per entrambi, che riteneva responsabili della sua cacciata dall'Accademia; ma, anche se dettata da malanimo, la sua accusa forse non era del tutto infondata: basti pensare a questa dichiarazione del Prologo, che consuona fortemente con quelle del Machiavelli nel Discorso intorno alla nostra lingua e nel Prologo della Clizia: «La comedia, per non essere elleno altro ch’uno specchio di costumi della vita privata e civile sotto una immagine di verità, non tratta di altro che di cose che tutto’l giorno accaggiono al viver nostro». È vero comunque che, quand’anche derivasse da un abbozzo non sfruttato dall’autore della Mandragola, la Sporta esprime alcune delle più inconfondibili qualità del Gelli: innanzi tutto la capacità di conferire a una vicenda derivata dall’Aulularia di Plauto il colore della piccola cronaca cittadina, poi l’abito di moralista per cui i risultati più convincenti si colgono sopra tutto nei momenti di riflessione e d’analisi interiore. Forse per evitare una nuova accusa di plagio nel Prologo della seconda commedia, Lo errore — «recitata alla cena che fece Ruberto di Filippo Pandolfini alla Compagnia de’ Fantastici l’anno 1555 in Firenze» e pubblicata l’anno dopo dal Torrentino —, il Gelli avvertì che l'argomento «è un caso solo simile a la Clizia del Machiavello». La vicenda del vecchio Gherardo Amieri — «che, innamorandosi in quella età a la qual par che si convenga ogni altra cosa più che l’amore, non ottenne solamente quel che ei desiderava, ma egli li fu forza,

Giunta nel 1539. Per più ampie notizie su quest'opera e, in genere, sui versi del Gelli, cfr. A. L. DE GaETANO, G. Gelli and the Florentine Academy, Firenze 1976, pp. 37-40. ? A. GRAZZINI, Le rime burlesche edite e inedite, a cura di C. Verzone, Firenze 1882, p. 24. Le commedie del Gelli si possono leggere, annotate, in G. B. GELLI, Opere, a cura di D. Maestri, Torino 1976. Al Gelli è stata attribuita anche la Polifila, una commedia pubblicata dai

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per ricoprir l’error suo, acconsentir che un suo figliuolo [...] ottenesse il suo desiderio egli» — era infatti fra quelle che meglio si adattavano allo spirito riflessivo del Gelli; anzi, quantunque in questa commedia gli spunti comici siano anche più frequenti che nella Sporta, numerosi “discorsi” ne diminuiscono l’efficacia teatrale e confermano la vocazione di moralista del nostro calzaiolo. Ai facili entusiasmi € allo sfoggio di un’erudizione rara, non vagliata con sufficiente rigore critico, che troppo spesso sono propri degli autodidatti, cedette forse una sola volta, ma clamorosamente. Intorno al 1540 con l’amico Giambullari, esperto di ebraico e di caldeo, aveva preso a studiare i testi e documenti, più o meno apocrifi, pubblicati nel 1498 da Giovanni Annio nei suoi Antigui-

tatum variarum volumina XVII. A quale dei due amici sia venuta la prima volta l’idea peregrina di far derivare il fiorentino dall’aramaico non si può dire; fatto sta che il Gelli si buttò a capofitto nell’impresa, spinto dall’ingenuo desiderio di mostrare a Cosimo e agli accademici che anche gli artigiani possono compiere grandi scoperte, cioè per mostrare — come scriveva nella Dedica del Trattatello delle origini di Firenze a Cosimo I — l’errore di coloro «i quali, scordatisi di Ippia, eccellentissimo filosofo e oratore, che, come scrive Apuleio, tagliava e cuciva e le vesti e le calze e faceva i finimenti ai cavagli, si credono falsamente che chiunque mette in qualche arte meccanica quel tempo che essi consumono e per le strade e per le piazze non possa essere alcuna cosa». Nel fervore della scoperta scrisse appunto il Trattatello !° e l’Egloga per il felicissimo giorno 9 di gennaio nel quale lo Eccellentissimo Signor Cosimo fu fatto Duca di Firenze. Secondo la fantasiosa ricostruzione, fondata su Metastene, Masea e altri autori editi dall’Annio, Noè dopo il diluvio venne in Italia, e precisamente nella regione che fu poi degli Etruschi, e vi lasciò come re Gomero; quindi si recò altrove per ripopolare la terra. A Gomero successe Orco, alla cui morte Cam si impadronì del regno. Allora Noè tornò in Italia, dove fu detto Iano, cioè apportatore del vino, e fondò dodici città, fra cui Arignano, Arezzo, Volterra. Dopo varie vicende Osiri venne in Italia dall’Egitto e conquistò il potere; ma alla sua morte sorsero vari tiranni che furono puniti da Ercole Libio, figlio di Osiri, che tagliò la Golfolina per far defluire le acque dell’antica palude che copriva il piano ove poi sorse Firenze e pose le basi della città fondando una colonia sulle rive dell'Arno. L’ispirazione municipalistica di questa tesi appare evidente nell’Eg/oga, di cui trascrivo un passo anche per dare un’idea dell'andamento discorsivo dei versi del Gelli. A Mosso, che gli ha chiesto di parlargli dell’origine di Firenze, il pastore Fileno risponde che gli storici fiorentini l’hanno creduta figlia di Roma per creder troppo a quei che alzando Roma insino al ciel, posero ogni altro in basso.

Giunti senza data e con dedica di Benedetto Busini: cfr. E. N. Grrarpi, G. Gelli, in: La letteratura italiana. I minori, II, Milano 1961, pp. 1124-5. 1011 Trattatello, di cui non resta copia dell'eventuale edizione cinquecentesca, è stato

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Io dico de’ Romani, che troppo avari del proprio onor, s’attribuir mai sempre ogni gloria immortale, ogni alta impresa, seguendo i Greci, che oscuraro ancora

gl'Italici, gli Egizi, i grandi Ebrei, da’ quai tutti impararon quelle scienzie che hanno in lor nome poi lasciate scritte. Questi, mentre che il ciel fu lor secondo,

spogliaron tutte le cittadi e i regni d’ogni lor preziosa e cara gioia per farne Roma lor ricca e superba, e costrinsero a forza ogni suggetto

parlar la lingua lor, perch’ella e Roma fusser da tutto il mondo udite e intese. Né danno io ciò, ché d’alte lodi è degno chi cerca d’adornare e far più ricca la propria sua natia che l’altra lingua: ma senza ingiuria altrui, come oggi fanno de la mia Flora i suoi più cari figli, mercé del saggio suo buon Duca Cosmo; onde già dal mar Indo insino al Mauro vola gradito il fiorentin vulgare. E però, Mosso, taccia, taccia, dico

ogni roman se non con poco, e ben e non le è

pastor, ché Flora nostra, Roma, almen dopo lei nacque poi col suo aiuto crebbe; figlia, come molti han detto

Ls

La parte linguistica della tesi aramaica venne trattata poco dopo dal Giambullari nel Ge/lo, edito a Firenze dal Doni nel 1546. Le opinioni del Gelli vi sono ampiamente riassunte; pertanto quest’operetta — oggi nota sopra tutto per le fantasiose etimologie con le quali si pretende di provare che il fiorentino deriva dall’aramaico — fece sì che il Trattatello fosse completamente dimenticato, tanto che già il Borghini non riusciva a rintracciarne una copia. Il 19 gennaio 1578 infatti scriveva a Baccio Valori: «Il Gello scrisse già un trattatello dell’origine di Firenze, il quale vidi allora e me ne risi, perché era tutto pien di baie aramee, e poi ne ho cerco a questi cartolai, né l’ho saputo ritrovare, ché son certe cose che vanno via né si ristampon più, e così agevolmente si smarriscono». E due giorni dopo, allo stesso Valori: «poiché questo libro si è così presto smarrito, io sarò stato buon profeta che ell’eran tutte baie, e che per tali sarebbero cognosciute». Il Borghini lo stava ricercando per rendere più completa la confutazione delle «baie aramee» nella sua storia delle origini di Firenze !; ma non dovettero trascorrere tanti anni perché, sia pure senza l’approfondita dimostrazione borghiniana, apparisse tutta l’inconsistenza della ricostruzione operata dal pubblicato da A. D'Alessandro in «Atti e memorie dell’Accademia toscana di scienze e lettere “La Colombaria”», XLIV

(1979), pp. 59-122.

1! G. B. GELLI, Opere, a cura di A. Corona Alesina, Napoli 1969, p. 67. 12 Le due lettere a B. Valori (si possono leggere in Raccolta di prose fiorentine, parte IV, volume IV, Firenze 1745, pp. 108 sgg., oppure in M. BARBI, I/ trattatello dell'origine di Firenze

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Gelli e dal Giambullari. Particolarmente rabbioso, anche in questo caso, fu il Lasca, che in una canzone fece dire allo Stradino: «La poesia in scoglio / ha dato al fine, e gli Umidi miei tutti / per sempre rimarranno secchi e asciutti, / e senza alcun contrasto / faranno gli Aramei sicuro guasto / dell’Accademia, ov'io fui già beato, / poppandosi a vicenda il consolato» !. Di fronte a tante inaspettate reazioni, il Gelli moderò il proprio entusiasmo e presto rinunciò alle tesi aramaiche. L’episodio, però, non fu senza strascichi. Sbeffeggiati da molti, i difensori della tesi aramaica finirono per sostenersi a vicenda e per formare, come appare anche dalle parole del Lasca, un gruppo compatto, quasi un partito, che andò sempre più consolidandosi, quando il Varchi assunse una funzione di primo piano nella cultura fiorentina e provocò nuove fratture fra gli accademici. 3. Il Gelli si era generosamente impegnato per convincere il Varchi a far ritorno in patria !4, e certo fu soddisfatto quando questi, l'8 marzo 1543, si iscrisse all'Accademia Fiorentina e poi quando, il 15 aprile, vi tenne con un grande concorso di pubblico la sua prima lezione. La politica di pacificazione di Cosimo I conseguiva un importante successo: un intellettuale di notevoli capacità veniva a rafforzare il fronte comune dei fiorentini. Ma presto il Gelli e i suoi amici — il Giambullari, il Bartoli e il Lenzoni — dovettero accorgersi che il Varchi era un personaggio col quale non era facile andare d’accordo, perché nell’esilio aveva compiuto esperienze e maturato convinzioni, spesso lontane o diverse da quelle acquisibili in Firenze. Il suo ritorno, pertanto, provocò discussioni e suscitò problemi. I Fiorentini, per esempio, per lo più erano rimasti indifferenti alle discussioni linguistiche; ora la sua propaganda in favore delle Prose della volgar lingua li costringeva a prender posizione. Fra i primi a reagire, in difesa del fiorentino vivo e di Dante, fu proprio il Gelli, che nel quarto Ragionamento

dei Capricci con insolita asprezza giunse a tacciare il

Bembo di presunzione e di invidia. Più tardi, dopo l’intervento del Dolce (e forse dello stesso Varchi) in favore del letterato veneziano, nel nono Ragionamento le critiche vennero temperate e motivate, ma non ritrattate. E su questo

punto, come del resto su altri, si aprì un abisso fra il Varchi da una parte e il Gelli, il Lenzoni, il Giambullari, il Bartoli dall’altra. Rei di antibembismo, i quattro amici nell’Ercolazo non vennero nemmeno nominati fra coloro che avevano ritenuto che la lingua volgare dovesse chiamarsi fiorentina, ché questo

merito, secondo il Varchi, spettava al Bembo soltanto !. di G. Gelli, Firenze 1894, per nozze Giglioli-Michelagnoli) sembrano provare che il Trattatello fu stampato. Di parere contrario è P. SIMONCELLI, La lingua d’Adamo, Firenze 1984, pp. 17 sgg., a cui si rimanda per un’equilibrata disamina della questione aramaica. Il Borghini confutò le tesi storiche degli “aramei” nei Discorsi, che uscirono postumi a Firenze nel 1584. 13 Le rime burlesche edite e inedite, cit., p. 151. 14 Si vedano le tre lettere che il Gelli scrisse al Varchi: una il 31 gennaio 1542, le altre il 3 febbraio 1543, in G. B. GELLI, Opere, a cura di A. Gelli, Firenze 1855, pp. 441-4. 15 Per l’intervento di Ludovico Dolce in favore del Bembo, cfr. V. Cian, Varietà lettera-

266

GMBXGELLI

Prima di questi dissapori, però, il Varchi ebbe agio di far conoscere al Gelli i Dialogi dello Speroni, che esercitarono su di lui un’influenza chiarificatrice, consentendogli nella parte centrale dei Capricci (dal terzo al sesto Ragionamen-

to) di formulare una concezione nuova della cultura !9. In quelle pagine limpide e vigorose tace persino l’orgoglio municipalistico per la naturale bellezza del fiorentino. Il volgare è difeso indipendentemente da una scelta di gusto; anzi vi si sostiene con decisione che non sono le lingue che fanno «gli uomini dotti, ma i concetti e le scienzie» ”. Il pensiero speroniano, però, era sensibilmente adattato alla diversa situazione fiorentina. Il letterato padovano propugnava l’uso del volgare e la traduzione delle opere greche e latine come condizione indispensabile per un progresso filosofico e letterario che, secondo lui, sarebbe potuto avvenire solo con l’abolizione di una barriera linguistica che doveva essere superata con anni e anni di studio. Nei Capricci, e in genere nella cultura fiorentina, secondo la lezione del Convivio, a cui il Gelli fu sensibilissi-

mo, l’accento — piuttosto che sulla ricerca originale e sull’approfondimento — viene posto sulla diffusione della cultura, sulla necessità di far conoscere il pensiero antico e moderno a strati sempre più vasti di pubblico. Comunque, la diffusione della cultura, per il Gelli come per lo Speroni, giova anche al progresso della lingua. Nel Ragionamento sopra le difficultà del mettere

in regole la nostra

lingua (1552)

la vivace difesa del fiorentino

si

allontana dai modi del municipalismo più ottuso proprio-perché la lingua non è lodata in sé, per una sua naturale bellezza, ma in quanto assimila valori culturali. Anche il rifiuto dell’uso «de’ plebei e delle donnicciuole» è dettato da questa

ragione: i «nobili e veri cittadini fiorentini», che vengono indicati come modelli del buon uso, sono quelli che «hanno qualche cognizione o di lingue o di scienzie» e «hanno atteso a le lettere, esercitandosi negli studii». Siamo tanto lontani dal purismo che il Gelli giunge a identificare il progresso del fiorentino con il progresso della cultura e della conoscenza delle lingue classiche. Le circostanze da cui si può «far coniettura» che la lingua «abbia ancora a farsi più ricca e molto più bella», infatti, sono sopra tutto due:

rie del Rinascimento. II. Dùnte nel Rinascimento. Il Bembo, il Dolce e il Gelli, in: Raccolta di studi critici dedicati ad A. D'Ancona, Firenze 1901, pp. 34-41. Per l’ostilità (ricambiata) del Varchi nei confronti del Gelli, del Giambullari e del Lenzoni, cfr. U. PiROTTI, B. Varchi e la

cultura del suo tempo, Firenze 1971, pp. 109 sgg. 16 Per l’influenza del pensiero speroniano sul Gelli, cfr. E. Bonora, Dallo Speroni al Gelli, in Retorica e invenzione, Milano 1970, pp. 35-43; per questa e per le differenze fra la cultura padovana e quella fiorentina, F. BRUNI, Sisterzi critici e strutture narrative, Napoli 1969, pp. 35 sgg. 17G. B. GELLI,

I capricci del bottaio,

in: Trattatisti del Cinquecento,

cit., p. 944. I

Capricci (con il titolo Digloghi) furono stampati per la prima volta abusivamente, e all’insaputa dell’autore, dal Doni nel 1546. Comprendevano i primi sette Ragionamenti. Nello stesso anno, il 4 settembre, il Doni ne pubblicò un’altra edizione, curata dal Gelli, che aggiunse l’ottavo Ragionamento, corresse un gran numero di errori dell’edizione abusiva e apportò molti ritocchi al testo. La prima edizione ufficiale in dieci Ragionamenti fu pubblicata a Firenze nel 1548 dal Torrentino, che poi la ripubblicò con varianti d’autore nel 1549 e nel 1551.

G.

B. GELLI

267

L'una delle quali è la moltitudine grande di coloro che oggi si danno in Firenze alle lingue latina e greca; i quali, imparando quelle con regola, favellano di poi ancora regolatamente la nostra, e con leggiadria; e da questi imparando gli altri, mossi da quello ingenito desiderio che ha ciascuno di non volere, in quello che egli può, essere in maniera alcuna sopravanzato da i suoi pari, faranno di mano in mano la lingua più bella e più onorata, sì col-parlare e sì col tradurre, arrecandoci le scienzie e l’arti che elli imparano nell’altre lingue. L’altra è il cominciare i principi, e gli uomini grandi e qualificati, a scrivere in questa lingua le importantissime cose de’ governi de gli stati, i maneggi delle guerre, e gli altri negozii gravi delle facende, che da non molto indietro si scrivevano tutti in lingua latina. Perché non vi date a intendere che una lingua diventi mai ricca e bella per i ragionamenti de’ plebei e delle donnicciuole, che favellan sempre (rispetto a lo avere concetti vilissimi) di cose basse; ché e’ sono solamente gli

uomini grandi e virtuosi, quelli che inalzano e fanno grandi le lingue [...] 18.

Conseguenza di questo programma sono i numerosi volgarizzamenti a cui il Gelli attese in questo stesso periodo. Nel 1551, infatti, pubblicò separatamente presso il Torrentino le versioni di tre opuscoli di Simone Porzio: il Trattato de’ colori degl’occhi, la disputa Se l’uomo diventa buono o cattivo volontariamente e il Modo di orare cristianamente con la esposizione del Pater noster. La versione del quarto (la Disputa sopra quella fanciulla della Magna la quale visse due anni e più senza mangiare e senza bere), non datata e senza indicazione di editore, è verosimilmente dello stesso anno e dello stesso editore. Poco dopo, nel 1553,

ancora presso il Torrentino, apparve la versione della Vita di Alfonso da Este Duca di Ferrara di Paolo Giovio; e, senza indicazione di luogo, di data e di

stampatore, quella dell’Ecub4 di Euripide condotta sulla traduzione latina di Erasmo. Sono volgarizzamenti notevoli per la chiarezza con cui è resa una materia non sempre facile, e il Porzio ne fu soddisfatto, tanto che il 12 febbraio 1551 scrisse al Gelli: «Ho letto la vostra traduzione del mio libretto De oculis [...], e due cose, oltre a lo essere stato compiaciuto da voi di quello che io vi avea ricerco, mi sono stremamente in quella piaciute. L’una è che e’ mi pare che la filosofia è non manco utile a quelli che per ispasso la desiderano intendere che a quelli che ne fanno professione. L’altra è che vedo il buon ingegno e ottimo giudizio vostro aver bene inteso il libro, e averlo fedelmente tradotto; per il che, come io deggio aver piacere che un tanto mio caro amico sia così nella filosofia esercitato, così ancora quegli che nell’altra lingua non l’intendevano ve

ne avranno infinito obbligo» !. Certo al Gelli non sempre è riuscito di vincere l'inclinazione a dare una valutazione edonistica dei fatti linguistici e di evitare il rischio di impoverire la 18G. B. GetL1, Didloghi, a cura di R. Tissoni, Bari 1967, pp. 306, 294, 316. Il Ragiona-

mento era stato pubblicato la prima volta nel 1552 (Firenze, Torrentino) come premessa al trattato De la lingua che si parla e scrive in Firenze di Pierfrancesco Giambullari. 19 Questa lettera — stampata in calce alla versione del trattato De oculis — si può leggere

in G. B. GeLLi, Opere, a cura di A. Gelli, cit., p. XIII. AI Gelli è stata anche attribuita la

traduzione del De mente bumana, il trattato più importante del Porzio, che si conserva mano-

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G. B. GELLI

lezione dei pensatori per il desiderio di renderla accessibile al popolo. Ma se si prescinde da incoerenze inevitabili in un uomo che si era costruito la sua cultura pezzo per pezzo e con grandi sacrifici, bisogna convenire che, nell’oscillazione fra i due poli della forma e del contenuto, con l’entusiasmo del neofita finì se mai per privilegiare il secondo, trascurando o misconoscendo i puri valori formali, che tuttavia in più di un caso mostra di saper rilevare. D’accordo anche in questo con gli Infiammati affermava, per esempio, che non sono «litterati quegli che non hanno altro fine che intender solamente le lingue, onde si posson chiamare, a parlar propiamente, dragorzanni; ma quegli che hanno per fine d’intendere le scienze, l’arti e i segreti della natura, e perciò imparono le lingue per potere intendere quelle dove tal cose sono» ?°. E nelle Lezioni petrarchesche a certi studiosi del Petrarca obbiettava: «coloro i quali, senza avere altre lettere che quelle di umanità sola, si persuadono d’intenderlo perfettamente, s'ingannono al mio giudizio di gran lunga» ?!. Appunto a ricercare la sostanza dottrinale delle Rirze petrarchesche sono rivolte le sue letture, ma la sapienza del cantore di Laura era troppo più profonda di quanto egli non potesse sospettare e le sue interpretazioni restano per lo più esteriori, tradiscono il testo più di quanto non lo spieghino. L’abilità con la quale il Gelli acclimatò nella cultura fiorentina la lezione dello Speroni e in genere dell’Accademia degli Infiammati è già, di per sé, storicamente

importante. La sua azione, però, non si fermò qui, ché seppe

svolgere in nuove direzioni il pensiero padovano e conferirgli un’energia nuova, affrontando questioni religiose molto attuali con la passione che gli veniva da una tradizione, fin da Dante almeno, sensibile ai problemi della fede e critica nei confronti della Chiesa. A voler sottilizzare, si potrebbe dire che, anche in questa parte, egli riprendeva idee altrui, del Savonarola, del Pontano, del Brucioli, per esempio. Qui però non si trattava di far conoscere ai dilettanti la filosofia di Simone Porzio, ma di affrontare questioni che allora venivano definendosi con spirito dogmatico e che non potevano essere discusse se non con molto coraggio; coraggio che doveva essere tanto più grande se non ci si rivolgeva in latino a pochi specialisti ma in volgare a un vasto pubblico. E, al di là di ogni problema di fonti, le pagine dei Capricci sulla necessità di tradurre in volgare i testi sacri, sul ruolo dei laici, sul concetto di Chiesa e su altri problemi ancora, sono assai notevoli per -la serietà, la vivacità, la misura e l’esemplare chiarezza con cui vengono individuate le responsabilità degli ecclesiastici e la degenerazione dello spirito cristiano. scritta senza il nome del traduttore nella Biblioteca Nazionale di Parigi, Manuscript Italien 441. Sarebbe rimasta anonima e inedita per timore dell’Inquisizione, dato che vi si sostiene che filosoficamente l’immortalità dell'anima è indimostrabile: cfr. A. MONTÙ, La traduzione del «De mente humana» di S. Porzio. Storia ed esame di un manoscritto inedito attribuibile al Gelli, in Gelliana. Appunti per una fortuna francese di G. B. Gelli, Torino 1973, pp. 47-54; A. L. DE GAETANO, Op. cit., pp. 56-65. 20 G. B. GELLI, Letture dantesche, cit., II, paduzi 21G. B. GELLI, Lezioni petrarchesche, cit, p. 64. Sulle lezioni petrarchesche cfr. A. BonrattI, Il Petrarca peripatetico di G. B. Gelli, in «Aevum», XXVII (1953), pp. 359-69.

G. B. GELLI

269

Il suo, beninteso, non era l'atteggiamento di un riformatore, bensì piuttosto

di un autodidatta che — forte, anche, dei contrasti che allora dividevano Cosimo I dalla Santa Sede — non si accorgeva che i tempi stavano rapidamente cambian-

do e che le strutture della Chiesa ormai non avrebbero più ammesso certe libertà di critica. Ma più importa rilevare che la polemica contro il clero era complementare a quella contro i dotti e gli umanisti. Artigiano diventato consapevole del valore della cultura, il Gelli s'impegnava animosamente per favorire una più ampia partecipazione dei ceti medi alla vita civile e religiosa, e per fornire a tutti la possibilità di valutare liberamente auctores e auctoritates di ogni specie. E certo stupisce che questo atteggiamento critico, nemmeno

per

cenni velati, si sia esteso anche a problemi sociali e politici. Tanto però non si poteva pretendere da un uomo soddisfatto del regime paternalistico di Cosimo I: è già molto che egli abbia avvertito l’urgenza di una battaglia per il riscatto spirituale e culturale della media e piccola borghesia. A conferire tanta importanza al problema religioso, il Gelli era anche indotto dal fatto che in lui si incontravano, e spesso si scontravano, due insegnamenti assai diversi: il neoplatonismo del Ficino e di Giovanni Pico della Mirandola e l’aristotelismo del Pomponazzi e dei suoi scolari. Convintosi che, come sosteneva il Peretto, non è possibile dimostrare de mente Aristotelis, cioè razional-

mente, l’immortalità dell'anima, se non fosse riuscito a ricuperare per altra via la fiducia in una vita soprannaturale, non avrebbe posseduto (o gli sarebbe venuta meno) quella tensione morale che l’induceva a impegnarsi con passione per realizzare sé stesso e, quindi, per invitare gli altri artigiani a comportarsi nello stesso modo. Se l’anima fosse mortale, non diversamente dagli uomini tramutati in bruti da Circe, avrebbe dovuto concludere che l’uomo è il più infelice di tutti gli animali, come affermava Marsilio Ficino proprio all’inizio della Theologia Platonica, e il concetto di dignità dell’uomo, elaborato dall’umanesimo fiorentino, avrebbe perso ogni significato. Dubbi e perplessità sul destino dell’uomo lo assillarono nella giovinezza se, come pensa il Girardi e com'è verisimile, riferiva un’esperienza personale quando spiegava che non ci si deve meravigliare se Dante dubitò dell'immortalità dell'anima, «ché questa è una dubitazione che piglia, o almanco offende e perturba, gran numero d’uomini, e massimamente quegli che si danno a le scienze umane: e questo si è perché la esperienza del veder tutte le cose naturali sottoposte alla corruzione e a la morte par che ne inclini ch’ei sieno mortali ancor similmente l’anime nostre, e manchino insieme co’ corpi. E ch’elle sieno immortali non si può aver cognizione demonstrativa e certa con il lume naturale e per discorso umano» ?. Non era facile trovare una soluzione che non deprimesse le «scienze umane» o il «lume della fede», tuttavia il Gelli, sia pure con buon senso ed empirismo ma senza superficiali accomodamenti, seppe raggiungerla: tenne ferma la tensione

ideale del neoplatonismo e insieme insistette sui valori della ragione e dell’esperienza umana, che, se non bastano a rendere l’uomo felice, sono tuttavia la 22 G. B. GELLI, Letture dantesche, cit., I, p. 598. Cfr. E. N. GIRARDI, Dante nell’umanesi-

mo di G. B. Gelli. Le «Letture sopra la Commedia», in «Aevum», XXVII (1953), pp. 135-41.

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GABAGELEI

condizione indispensabile perché egli possa comprendere di essere il vero miracolo della natura. Raggiunta questa certezza, sentì il bisogno di comunicarla agli altri uomini, o meglio agli artigiani che, per la natura meccanica del loro mestiere, rischiavano di non intendere la grandezza del destino umano; ed è probabile che — comunque gli fosse balenata — l’idea di un dialogo fra un artigiano e la sua anima gli sembrasse affascinante proprio perché gli consentiva di impostare un discorso non incrinato in partenza da angosciose domande. Donde il tono sereno ma appassionato dei Capricci, tono ben diverso da quello della Circe che, svolgendosi come un trattato, solo alla fine presenta la soluzione del problema. Non che i Capricci siano davvero dei “capricci”, dei dialoghi spontanei e bizzarri; al contrario si svolgono secondo un ordine ben preciso e sono saturi di cultura. Si potrebbe dire — e la considerazione vale a maggior ragione per la Circe — che non vi è passo per il quale non si possa addurre una fonte precisa e spesso un’opera che il Gelli ha tradotto o parafrasato. Eppure il dialogo fra Giusto e la sua anima conserva una naturalezza, una genuinità e una freschezza che sono il segno di un sicuro intuito d’artista, di eccezionali doti stilistiche. Basta confrontare i molti passi che si leggono uguali o quasi nei due dialoghi e nelle Letture dantesche per comprendere che il Gelli con mezzi estremamente semplici ma efficaci sapeva conferire quasi una verginità, come di cosa appena

pensata, a quanto aveva appreso nelle sue molte e disparate letture. E i Capricci sono, nel loro genere, un capolavoro sopra tutto per la felice intuizione di una struttura che consente uno scambio attivo fra l’alta cultura e la sapienza popolare, fra l’aristotelismo e il neoplatonismo da una parte e, dall’altra, la tradizione dei detti e delle facezie, dei motti e dei proverbi: così il pensiero dei filosofi verifica continuamente la propria concretezza e aderenza al reale. Al conseguimento di questo risultato non poco contribuisce la figura di Giusto, che, come ha scritto il Bonora, «non è un personaggio che somigli soltanto a certi saggi delle commedie

e delle novelle, né occorre

arrivare al “vecchio

idiota” del

Galateo per conoscere questo tipo di uomo, formatosi nei negozi ma non digiuno di lettere e convinto della funzione della cultura come formatrice del costume morale e civile. Questo personaggio appartiene alla storia italiana del Quat-

tro e Cinquecento, e allignò specialmente nel ceto mercantile di Firenze» 7. Anche il Gelli in parte gli somigliava, e forse proprio per questo poté conferire a Giusto precise notazioni realistiche, collocandolo in un ambiente quotidiano e familiare, felicemente delineato con pochi tocchi essenziali. Nella dedica Aî desiderosi di udire gli altrui capricci viene presentato quasi come il tipico vecchio della commedia, ma poi nel corso del dialogo acquista via via, e quasi senza che il lettore se ne accorga, una personalità complessa, tanto da essere una sorta di autoritratto dell'autore, che infatti gli “presta” molte delle sue esperienze, e insieme una figura rappresentativa di quel ceto mercantile che — secondo l’appassionata opinione del Gelli — poteva e doveva elevarsi dalle 23E. Bonora,

I/ classicismo dal Bembo

al Guarini,

in: Storia della letteratura italiana,

diretta da E. Cecchi e N. Sapegno, IV, Milano 1966, p. 460.

G. B. GELLI

ZIA

attività meccaniche ai supremi valori dell’umanità, infrangendo le molte barriere erette dalle varie caste religiose e laiche. 4. Composta contemporaneamente ai primi sette Ragionamenti dei Capricci, 0 forse subito dopo, la Circe se ne differenzia non per un pensiero nuovo ma per un più scoperto intento filosofico e letterario. Già la Dedica, a Cosimo I e non a un mercante o a un artigiano, rivela con le maggiori ambizioni il proposito di rivolgersi a un pubblico più vasto ed elevato del ceto medio fiorentino. E in effetti si tratta di un’opera assai meno “fiorentina” dei Capricci. Nella lingua e nello stile è evidente una ricerca di eleganza, di decoro, di regolarità, che in parte contrasta con il fondo municipale della scrittura gelliana, nonché uno sforzo di nobilitazione e di elevazione di tono per cui, correggendo, il Gelli — sono parole del Tissoni — «mette ordine e simmetria nel suo scrivere asimmetrico e naturale, e s’ingegna a formare parallelismi e a imbastire rispondenze, a imitare il ciceroniano ritmo binario, a legare in armonia i disiecta membra del proprio parlato» 4. Anche le correzioni dei Capricci, per il desiderio di maggior nobiltà, finirono per incrinare l'omogeneità linguistica; ma qui il fenomeno acquista un rilievo e una motivazione più forti perché la soppressione dei tratti del fiorentino più incondito asseconda una finzione schiettamente letteraria e una trattazione anche formalmente ordinata. In questa “sfiorentinizzazione”, che favorì la fortuna dell’opera in Italia e all’estero, non ci sarebbe niente di male, se non fosse che in tal modo il Gelli faceva violenza alle sue qualità più vere. Intanto la finzione, che dilata non senza lungaggini il dialogo pseudoplutarcheo Bruta razione uti, fa sì che non vi si possa manifestare una delle migliori qualità del Gelli: la capacità di rappresentare con affetto una realtà quotidiana, colta nei suoi particolari più intimi e cari. Qui tutt'al più vi possono essere velate allusioni a uomini e cose di Firenze, non l'immediatezza polemica o anche solo la concretezza autobiografica o gli elementi realistici e novellistici. L’ambientazione mitologica è astratta; Ulisse non acquista il carattere di un vero personaggio, e tanto meno Circe o i vari animali incontrati. Se il Gelli sapesse pervenire a verità universali, una certa astrattezza potrebbe non nuocere; ma egli era sostanzialmente un moralista, e le considerazioni morali, quando non sono ben legate a un ambiente e a una situazione, facilmente diventano ovvie e banali. La Circe — ha scritto il Tissoni — «è un sospiro nostalgico alla bella natura e un lamento sulla fatale alienazione da essa da parte dell’uomo: empio è tutto ciò che è “contro all’ordine della natura”. Empietà è stato dunque farsi “particulare”, “mediante il tuo e il mio”, quello che la natura “aveva fatto comune”, e sostituire la privata proprietà alla naturale fruizione in comune dei beni; col possesso privato è stata resa impossibile la pacifica convivenza degli

uomini» 7. È una considerazione giusta, e si può aggiungere che — esami-

24R. Tissoni, Per il testo della «Circe» di G. B. Gelli, in «Studi di filologia italiana»,

XX (1962), p. 122.

25 Ivi, pp. 110-11.

22

G. B. GELLI

nando le varie ragioni per cui l’uomo abdica ai propri alti destini e sceglie l’infelicità — il buon calzaiolo mostra penetrazione e più d’una volta mette, per così dire, il dito sulla piaga. Eppure quella “stoccata” contro la proprietà privata, e altre che si potrebbero citare, manca di incisività, proprio perché è proiettata su uno sfondo mitico, e non si colloca in una concreta realtà; pertanto appare forse anche più disimpegnata di quanto lo stesso Gelli volesse. Per di più il desiderio di conferire organicità e quasi sistematicità alla trattazione fa sì che la serie degli incontri e dei colloqui non vada esente da una certa meccanicità, causa non secondaria di molti fraintendimenti sul significato stesso dell’operetta. Alcuni critici infatti hanno ritenuto che la Circe, rispetto ai Capricci, rappresenti un momento diverso del pensiero del Gelli, e si sono fondati sul fatto che qui l’accento sembra posto sopra tutto sugli ostacoli che, in pratica, impediscono alla maggioranza degli uomini di vivere la vita dello spirito. Si è insistito su un pessimismo e su un fideismo che contrasterebbero col tranquillo ottimismo del colloquio fra Giusto e la sua anima. Un fondamentale fideismo, invero, è anche nei Capricci, solo che in questi la verità è già conquistata, mentre nella Circe si vuol mostrare che è vera la massima basilare della Theologia Platonica del Ficino: «Si animus non esset immortalis, nullum animal esset infelicius homine» (I, i). Il Gelli, pertanto, si sforza di mostrare partitamente che tutti coloro che non giungono a comprendere il superiore destino dell’uomo sono infelici, e per riuscirci sfrutta liberamente le pagine di scrittori greci e latini che,

non essendo potuti pervenire alla verità, avevano creduto nell’infelicità umana, dal Proemio di Plinio al libro VII della Naturalis historia a tutta una serie di opuscoli di Plutarco, spesso inseriti integralmente nel discorso. Niente di nuovo, dunque, dal punto di vista concettuale, e pure inalterata la capacità di assimilare in una prosa senza scarti e dissonanze i testi più lontani fra loro. Inalterata è anche l’acutezza delle osservazioni psicologiche, che fanno del Gelli un moralista non indegno di appartenere alla prestigiosa tradizione fiorentina. La debolezza non è nei particolari, ma proprio nella struttura. Costretto a moltiplicare gli incontri e incapace di sentire Ulisse e le bestie come personaggi,

nei primi nove dialoghi il Gelli ripete meccanicamente uno stesso procedimento, per cui il decimo, nel quale si trova la conclusione dottrinale dell’opera, coglie di sorpresa: donde l’impressione che si stacchi dai precedenti e che solo l’impennata dell’inno di Aglafemo salvi fideisticamente il Gelli da un radicale pessimismo. Manca un nesso fra le verità assolute dell’ultimo dialogo e i ragionamenti dei dialoghi precedenti, per l’inabilità dialettica del Gelli, al quale peraltro non dobbiamo chiedere più di quanto potesse dare, ché è tipico dei dialoghi rinascimentali presentare una serie di discorsi autonomi, che vengono superati dal discorso finale, senza che alcuno intervenga a trarre il consuntivo di un dibattito, in cui tutti gli interlocutori hanno portato il loro contributo. Così le osservazioni dei bruti, spesso di una logica stringente, hanno quasi sempre valore positivo, poiché il fideismo sui massimi problemi non induceva il Gelli a

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rinnegare i valori della natura, bensì a completarli: c'è dunque molta verità nelle parole degli interlocutori di Ulisse sia quando denunciano i limiti della condizione umana, sia quando rimproverano gli uomini di non saper praticare integralmente le virtù naturali. Ciò che nei Capricci era unitario, qui è scisso e contrapposto per esigenze didascaliche: tocca al lettore ricomporre mentalmente quanto l’autore non ha”saputo o potuto dialettizzare.

5. Nella riunione del 3 dicembre 1550 l'Accademia Fiorentina deliberò di affidare a una commissione di cinque membri il compito di «ordinare e formare le regole» del fiorentino, «non per vietare o tòrre ad alcuno la libertà e la facultà di parlare e di scrivere a senno suo, ma solo perché», come spiega Cosimo Bartoli nel Ragionamento sopra le difficultà del mettere in regole la nostra lingua, «essendoci alcuni Accademici assai differenti nella pronunzia e nella scrittura, chi vorrà pure apprendere la vera e natia lingua fiorentina abbia almanco dove ricorrere a vedere il modo e la forma dell’una e dell’altra cosa comunemente usata in Firenze» 2. La commissione, formata dal Gelli, dal Lenzoni, dal Varchi, dal Giambullari e da Francesco Torelli, fu riconfermata l’anno successivo, ma poiché il Torelli, il Lenzoni e il Gelli rifiutarono una nuova nomina, il 19 settembre insieme con il Varchi e il Giambullari vennero eletti Lionardo Tanci, Francesco Guidetti e Francesco d’Ambra. Probabilmente la commissione non aveva potuto funzionare costruttivamente perché le opinioni del Varchi erano troppo diverse da quelle del Lenzoni, del Giambullari e del Gelli; ma questi, spiegando nel Ragionamento il motivo del proprio rifiuto, evitò ogni polemica esplicita e affermò che — poichéle regole debbono essere ricavate dall’uso «della età dove la lingua fu nel suo colmo», non è possibile stabilire quelle del fiorentino, lingua che «è viva, e va all’insù» 27. Alle attività accademiche il Gelli diede invece un notevole contributo come commentatore della Comedia. Promosse — per usare le parole della Lettura sopra un luogo del XXVI canto del Paradiso — «per esercizio nostro, per esaltazione di questa nostra lingua nativa, e per imparare a esprimere in quella i nostri concetti» 28, le letture dantesche sembravano fatte apposta per soddisfare le sue principali esigenze. Nel primo decennio tenne solamente tre letture, ma su luoghi che gli consentirono di discutere alcune questioni che gli stavano particolarmente a cuore: la prima (1541) sulla lingua (Par., XXVI, 124-38); la seconda (1543) sulla creazione delle anime (Purg., XVI, 85-94); la terza (1551) sul libero arbitrio (Purg., XXVII, 127-42). Gli bastarono, comunque, per acquistarsi fama di “dantista”, così che nel 1553, per deliberazione dell’Accademia e

per espresso volere di Cosimo I, ricevette l’incarico di leggere continuativamen-

26 G. B. GetLi, Ragionamento sopra le difficultà del mettere in regole la nostra lingua, in Dialoghi, cit., p. 294.

27 Ivi, p. 314. 28 G. B. GeLLI, Letture dantesche, cit., II, p. 615.

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te, ogni domenica, l’intero poema dantesco. Era un impegno gravoso, ma egli, preparandosi sempre coscienziosamente, lesse con regolarità — salvo una breve interruzione per la guerra di Siena — fino alla morte, che lo colse quando nel suo vasto commento era pervenuto al canto XXVI dell’Inferno ?. Nell'ultimo periodo della sua vita il Gelli conobbe l'amarezza di veder includere i Capricci nell’Indice dei libri proibiti. Questo avvenne nel 1554 e, anche se egli ne fu presto informato, non prese alcuna iniziativa per liberare la sua opera dalla proibizione (che era donec corrigatur), finché nel 1562 Lodovico Beccadelli, per il tramite di Lelio Torelli, lo invitò a «correggere o scusare alcune delle cose che li sono in detto libro opposte, come troppo licenziose contra le cerimonie della chiesa» 5°. Alla richiesta si piegò docilmente — o meglio, con rassegnazione — e preparò un’edizione purgata che però non fece in tempo a far pubblicare. Agli ultimi anni, forse, appartengono anche le venti Vite d’artisti, che, per un onesto ma eccessivo patriottismo, dedicano molto spazio agli artisti fiorentini e ignorano i grandi maestri delle altre regioni, nella convinzione che Firenze è stata la madre delle arti. L’operetta serve comunque a confermare l’amore che il Gelli, da buon fiorentino, portò alle arti figurative: amore che trapela chiaramente anche dagli altri suoi scritti ?!. Il Gelli morì il 24 luglio 1563 nella sua casa in via dei Fossi e fu sepolto nella tomba di famiglia che il padre aveva acquistato in Santa Maria Novella. Nell’Accademia Fiorentina ne recitò l’orazione funebre Michele Capri, pure lui

calzaiolo 22. Ci è pervenuta anche la commemorazione anonima che abbiamo avuto occasione di ricordare all’inizio di questo scritto. Entrambe testimoniano della simpatia che circondò il Gelli; simpatia che, a parte pochi casi isolati, fu condivisa da tutti i contemporanei. Il Doni lo cita spesso con ammirazione, per esempio nei Marzzi ? e nella Libraria: Ultimamente, ne vengo a coloro che hanno alcuno esercizio, e alcuna arte per le mani, come veri filosofi, e non si sono intestati se non una vita nobile, costumata e civile: questi si posson chiamar virtuosi, e, come io ho detto, non credete alle parole mie, ma 29 Per le letture dantesche si veda almeno: E. N. GirARDI, Dante nell'umanesimo di G. B. Gelli, cit.; G. MAZZACURATI, G. B. Gelli. Un «itinerario della mente» a Dante, in «Filologia e letteratura», XV (1969), pp. 49-94; D. MAESTRI, Le «Letture» di G. B. Gelli sopra la Commedia

di Dante nella cultura fiorentina dei tempi di Cosimo I de’ Medici, in «Lettere italiane», XXVI (1974), pp. 3-24. 30 G. B. GELLI, Dialoghi, cit., p. 357. Per le censure ai Capricci si veda anche Trattatisti del Cinquecento, I, cit., pp. 1196-1202.

31 Le Vite d’artisti furono pubblicate da G. Mancini in «Archivio storico italiano»; S. V,

XVII (1896), pp. 32-62.

3 Fu pubblicata a Firenze dal Sermartelli nel 1563; la si può leggere nella citata

edizione delle Opere curata da A. Gelli, pp. XXXV-XXXIKX.

?3 Cfr. Opere di P. AreTINO e di A. F. DonI, a cura di C. Cordié, Milano-Napoli 1976,

p. 693: «Almeno ci fossi il Gello, che mi sa rispondere a ogni cosa!».

GABNGELLI

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provate gli effetti loro, e troverrete che io ho scritto la verità. Un di questi è il Gello,

uomo di età ferma, di lettere fondate (e’ ve ne sa dar ragione con gli scritti e con la

lingua), uomo di bellissimo aspetto, e di miglior animo. Ha letto molte lezioni bellissime publicamente nell’Academia, con dottrina, spirito e invenzione 34.

Orazio Lombardelli scrive che «Giovambattista Gello fiorentino in alcune lezzioni sopr’a Dante e in certi discorsi e dialoghi ebbe del naturale, del familiare, del semplice, del puro, del facile e del dolce» #. Il Capri nella sua orazione cita questi versi di Luigi Tansillo: Con ago e penna i vostri amici voi or d’abito adornate, ed or di gloria; e fate veste a tempo, e veste eterne 3°,

Ebbe pochi nemici; fra questi il Lasca ?” e Alfonso de’ Pazzi, che fra l’altro gli indirizzò questo epigramma: Gello, s’io t'ho visto in un panno d’arazzo e spero di vederti in un orciuolo perché tu sei al mondo unico e solo

non dico per poeta, ma per pazzo 58.

34 La libraria, a cura di V. Bramanti, Milano 1972, pp. 113-4. 35 I fonti toscani, Firenze, Marescotti, 1598, p. 78. 36 Cfr. L. TansILLO, Il Canzoniere edito ed inedito, a cura di E. Pèrcopo, I, Napoli 1926, pp. CLIV-CLV. 37 Cfr. A. GRAZZINI, Le rime burlesche edite e inedite, cit., pp. 22, 23, 24, 28, 36, 37, 38, 41, 42, 43, 46, 51, 52, 52-3 (sonetto diretto al Gelli per deriderne le velleità poetiche), 53-4 (sonetto in morte del Gelli, in cui si fa beffe delle lodi esagerate che gli erano rivolte), 64, 67, 68, 82, 86, 96, 247, 248 (madrigalessa al Gelli: «nel profondo / se n'è andata delmarcio bordello, / con suo danno e rovina, / la misera Accademia Fiorentina, / per ch ell’è stata maritata al Gello»), 334, 342-6 (Lamento dell’Accademia degli Umidi), 357 (ottava al Gelli, per il ritratto che ne aveva fatto il Bronzino), 364, 403, 424, 428, 481-4 (In morte dello Stradino), 590.

38 Citato da A. L. De

GaETANO,

G. Gelli and the Florentine Academy, cit., p. 32.

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DI AMERIGO

VESPUCCI

Mundus novus: con questo titolo efficace usciva, forse a Firenze, sul finire del 1503 o all’inizio del 1504, un opuscolo di poche carte in caratteri gotici, scritto in un latino sciatto e trascurato. In più d’un luogo, però, e specialmente all’inizio, la rozzezza stilistica era animata e superata dal vigore di orgogliose affermazioni; un «Albericus Vesputius» annunciava a Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici di aver compiuto una scoperta che sconvolgeva la dottrina degli antichi sui confini del mondo abitato: Superioribus diebus satis ample tibi scripsi de reditu meo ab novis illis regionibus, quas et classe et impensis et mandato istius Serenissimi Portugalie Regis perquesivi-

mus et invenimus, quasque rovum mundum nostros nulla de ipsis fuerit habita cognitio et Etenim hec opinionem nostrorum antiquorum ultra lineam equinoctialem et versus meridiem

appellare licet. Quando apud maiores audientibus omnibus sit novissima res. excedit, cum illorum maior pars dicat non esse continentem sed mare tantum

quod a#lanticum vocare; et si qui earum continentem ibi esse affirmaverunt, eam esse

terram habitabilem multis rationibus negaverunt. Sed hanc eorum opinionem esse falsam et veritati omnino contrariam hec mea ultima navigatio declaravit, cum in partibus illis meridianis continentem invenerim frequentioribus populis et animalibus habitatam quam nostram Europam seu Asiam vel Africam, et insuper aerem magis temperatum et amenum, quam in quavis alia regione a nobis cognita, prout inferius intelliges, ubi succincte tantum rerum capita scribemus et res digniores annotatione et memoria; que a me vel vise vel audite in hoc novo mundo fuere, ut infra patebit !.

Era una questione di capitale importanza, con gravi implicazioni filosofiche e teologiche. I cosmografi — come più tardi spiegherà il Guicciardini nella Storia d'Italia (VI, 9) — si erano persuasi che «quella parte della terra che è sotto alla torrida zona, figurata in cielo dagli astrologi (nella quale zona si contiene la linea equinoziale) come più prossima al sole, fusse per la calidità sua inabitabile, e che dal nostro emisperio non si potesse procedere alle terre che sono sotto la torrida zona né a quelle che di là da essa verso il polo meridionale consistono; le quali Tolemeo, per confessione di tutti principe de’ cosmografi, chiamava terre e mari incogniti». Ma per le navigazioni dei portoghesi alle Indie e di Colombo e Vespucci verso occidente si è manifestato essersi nella cognizione della terra ingannati in molte cose gli antichi. Passarsi oltre alla linea equinoziale, abitarsi sotto la torrida zona; come medesimamente, contro all'opinione loro, si è per navigazione di altri compreso, abitarsi sotto le zone propinque a’ poli, sotto le quali affermavano non potersi abitare per i freddi immoderati, rispetto al sito del cielo tanto remoto dal corso del sole. Èssi manifestato Il mondo nuovo di A. Vespucci. Milano 1984, p. 88.

Vespucci autentico e apocrifo, a cura di M. Pozzi,

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Zam

quel che alcuni degli antichi credevano, altri riprendevano, che sotto i nostri piedi sono altri abitatori, detti da loro antipodi. Né solo ha questa navigazione confuso molte cose affermate dagli scrittori delle cose terrene, ma dato, oltre a ciò, qualche

ansietà agli interpreti della scrittura sacra, soliti a interpretare quel versicolo del

salmo, che contiene che in tutta la terra uscì il suono loro e ne’ confini del mondo le parole loro “, significasse che la fede di Cristo fusse, per la bocca degli apostoli, penetrata per tutto il mondo: interpretazione aliena dalla verità, perché non apparendo notizia alcuna di queste terre, né trovandosi segno o reliquia alcuna della nostra fede, è indegno di essere creduto o che la fede di Cristo vi sia stata innanzi a questi tempi o che questa parte sì vasta del mondo sia mai più stata scoperta o trovata da uomini del

nostro emisperio.

Il grande storico scriveva quando la situazione era ormai abbastanza chiara. Nel momento eroico delle grandi esplorazioni — quando non era ancora evidente l'entità e la natura delle terre scoperte e invece salda era la convinzione che nelle opere degli antichi fosse depositata la verità — le recise affermazioni del Mundus novus dovettero suonare taglienti, segno di una consapevolezza che per lo più mancava ai molti che si mettevano in viaggio sulle nuove vie occidentali. Non conosco le reazioni dell’alta cultura a tale annuncio. Mi piace immaginare che almeno qualcuno abbia reagito come vent'anni dopo reagì Pietro Pomponazzi, quando venne a sapere dell'avvenuta circumnavigazione del globo. Il 18 marzo 1523 il Peretto nell’Università di Bologna stava commentando il secondo libro delle Mezeore di Aristotele e, com’era suo dovere, spiegava le quattro ragioni per cui, secondo Aristotele ed Averroè, le terre situate sotto il Tropico del Capricorno sono inabitabili. Ma compiuto questo compito, rievoca Bruno Nardi, traducendo dagli appunti presi dagli scolari, improvvisamente si arrestò, e, fissando bene negli occhi i suoi alunni, prese a dire: — Questo, signori miei, è quello che Aristotele e Averroè dicono. Ma che cosa dobbiamo pensarne noi oggi? Io sono d’avviso che, dove l’esperienza è in conflitto col ragionamento, dobbiamo stare all’esperienza, e lasciare andare i ragionamenti: «standum est sensui et dimittenda ratio». Questo aveva detto anche Averroè, ma poi non aveva fatto, ché questi ragionamenti di lui son dei veri sofismi. — Ed annunziava: — Dovete

sapere che ho ricevuto una lettera a me diretta da un mio amico veneto che ha accompagnato il nunzio papale presso il re di Spagna, e che, trovandosi colà, è andato in una spedizione mandata da quel re nell’emisfero antartico, ed ha navigato in quello per 25 gradi dopo aver attraversato la zona torrida. Ora egli mi scrive che, usciti dalle

Colonne d’Ercole, navigarono nell’emisfero australe per tre mesi, e s’imbatterono in più di trecento isole separate una dall’altra, che non solo erano abitabili, ma erano

abitate, insieme a innumerevoli altre località. Che ne dite? Che vi pare dei ragionamenti di Aristotele e degli argomenti apodittici di Averroè per dimostrare il contrario? Forse qualcuno di voi penserà che quel mercante è venuto a contarmi delle... «balle» e che è un bell’imbroglione. No, cari signori, non è possibile; egli non era solo in quella spedizione; molti altri hanno fatto quel viaggio e sono arrivati fino a «Collocut» (sic), 2 Ps, 18, 5: «In omnem eorum».

terram exit sonus eorum,

et usque

ad fines orbis eloquia

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e vi sono già libri che narrano la loro impresa, ed altri ancora sono andati e tornati ed hanno riferito quel che han visto. Dunque? «Lasso pensare a te, quomodo ille rationes, quas dixit Commentator esse demonstrationes, sunt demonstrationes. Quoniam contra veritatem non possunt fieri demonstrationes. Quare, pensate bene come stiamo.

Si nescimus de istis rebus quae sunt in terra et possunt videri a nobis, quomodo sciemus de celo?» —}.

La cosa non finì lì. Il giorno dopo il Pomponazzi tornò sull'argomento per controbattere sant'Agostino che nel De civitate Dei (XVI, 9) aveva negato come

favolosa l’esistenza degli antipodi. Lasciamo ancora la parola al Nardi: Gli antipodi, dopo il viaggio di Magellano, avevano ormai dato sicura prova della loro esistenza, nonostante i dinieghi di Lattanzio e di Agostino e-la condanna di papa Zaccaria nel 741; e bisognava rassegnarsi. Quelli che parevano meno disposti a mandarli giù erano ancora taluni teologi, i quali argomentavano: — E se questi antipodi son figli d’Adamo come noi, come mai Cristo non ha pensato alla loro salvezza? — Il Peretto, messo di fronte a sì grave problema, sembra riacquistare tutto il suo buon umore un po’ sbarazzino che ormai gli conosciamo: «Ad hoc respondeo dicendo quod hoc solvant fratres, quoniam ego credo ecclesiae sanctae» e basta. A me non è concessa quella «copulatio intellectus» degli averroisti, che dovrebbe permettere al filosofo che l’abbia raggiunta in questa vita di saper tutto: «Dico tamen vobis quod opinio commentatoris de copulatione intellectus, quod anima sit una et quod omnia sciantur, est summa dementia; quoniam si Aristoteles et commentator nesciverunt hoc quod tamen est in terra, minus potuerunt scire de rebus altis. Quare illa felicitas non potest haberi; quare nescio quid dicendum est, nisi forte quod Christus fecit se crucifigere etiam in alio polo!» —4.

Il fatto stesso che ancora vent'anni dopo ci volessero la spregiudicatezza del Peretto e l'avvenuta e comprovata circumnavigazione del globo per dichiarare la bancarotta della cosmografia aristotelica mostra che il Mundus novus, malgrado la tagliente franchezza delle affermazioni, non scalfì le «fatuitates» aristoteliche. Nelle aule universitarie si continuò a discutere sull’abitabilità della terra, prestando fede a fallaci argomenti, senza tener conto di quanto i viaggiatori di fatto avevano dimostrato da tempo. Agli inizi del Trecento Pietro d’Abano, discutendo quell’argomento nel Conciliator, aveva mostrato di tener conto di tali concrete attestazioni. Il suo, però, fu un caso isolato, così che, malgrado la buona fortuna del Conciliator, «l’averroista Alessandro Achillini, il celebre filosofo Alessandro Achillini, ritenuto un novello Aristotele, anzi un dio, pubblicando nel 1505 il trattato De elementis, ove sulla fine si discute il problema “Utrum terra sit ubique habitabilis”, mette in un fascio le notizie raccolte da Pietro d’Abano sull’abitabilità della zona “equinoziale” con quelle sul Paradiso terrestre, e ritiene che sia tutta roba da non prendere in considerazione dal filosofo, ma da lasciare ai raccoglitori di storielle» ?. 3 B. Narpi, Studi su P. Pomponazzi, Firenze 1965, pp. 41-2. 4Ivi, p. 43.

Ivi, p. 41.

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I dotti sembravano non accorgersi di avvenimenti di cui subito ad altri fu evidente l'eccezionale importanza; due o quattro che fossero, i viaggi di Amerigo non dicevano niente a filosofi che continuavano a giurare ciecamente sulla parola di Aristotele e dei suoi interpreti: era come se non fossero avvenuti. La loro cecità però non era dovuta solamente alla presunzione di cattedratici abituati a gonfiare il petto con la sapienza antica. Lo stesso Pomponazzi, che ha parole sferzanti contro i suoi confratelli, proclama gli errori dei filosofi e dei teologi solo dopo che il viaggio di Magellano ha dimostrato al di là di ogni pur tenace dubbio l’esistenza degli antipodi. Le terre scoperte a occidente, in particolare, avevano colto di sorpresa un po’ tutti e, se subito si pensò a come sfruttarle economicamente, ci volle del tempo per intravedere una nuova cosmografia che potesse sostituire l'antica. Leggende a parte, che comunque comportavano al massimo qualche isola, nessuna dottrina antica o recente consentiva di pensare a un nuovo mondo. La Geografia di Tolomeo presentava tre continenti, saldati fra loro, che si protendevano in varie direzioni. Era agevole procedere ad aggiunte successive, ma non altrettanto facile all’inizio del secolo, prima di Magellano appunto, trarre radicali deduzioni. Si riteneva che il mondo abitato fosse tutto concentrato in un quarto della terra. Ora i viaggi mostravano che invece esistevano altre terre, terre che non appartenevano all’Asia o, comunque, si ponevano fra l’Europa e l’Asia, ci fosse o no una giuntura a nord. La disposizione delle terre emerse e abitate mutava così radicalmente e alla vecchia immagine della terra bisognava sostituirne un’altra. Non bastava aggiungere qua e là al planisfero tolemaico quanto nuovamente scoperto. Occorreva, se possibile, individuare un nuovo ordine, quella nuova e più funzionale simmetria che Pietro Bembo — il maestro dell’armonia rinascimentale — fa illustrare da Cristoforo Colombo: Quello che tutta quasi l’antichità ha creduto, cinque essere le parti del cielo, delle quali la mezzana da calori, le due sezzaie da freddi siano in maniera viziate, che quelle che sotto queste sono, altrettante della terra parti, abitar dagli uomini non si possino; due

solamente tra queste tre, sotto quelle stesse parti del cielo poste, potersi abitare, vana favola degli antichi essere, e divisione da nulle vere ragioni sostentata e confermata. Imprudente per poco necessario essere che si creda Iddio stato, se egli così ha fabbricato il mondo, che la molto maggior parte della terra, per la soverchia intemperatezza, vacua d’uomini, nessuna utilità di sé dia. Il gomitolo della terra di tale qualità essere,

che il potere per tutte le sue parti gire e passare agli uomini non sia tolto. Perché non si debba egli potere sotto la mezzana conversion dal cielo vivere, dove il calor del giorno col freddo della notte in pari spazio dell’una dimora e dell’altra si temperi; specialmente declinando così tosto il sole a qualsivoglia delle due parti, e quando sotto a quelle conversioni, nelle quali il sole a noi più vicino lungamente dimora, pure si vive? Sotto la tramontana fredde le terre essere, ma non vòte e prive d’uomini. Così sotto il cielo australe trovarsi le calde e avervi nondimeno degli animali e degli uomini. Quello che gli scrittori Oceano chiamarono, non essere di vana ed ignava grandezza,

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ma pieno d’isole e di luoghi abitati dagli uomini. E così il gomitolo da ogni parte della

vitale aura partecipare °. Tenendo conto delle difficoltà accennate e di altre ancora che si potrebbero ricordare, appare evidente la lucidità e l’acutezza del brano iniziale del Mundus novus, in cui l’errore degli antichi è denunciato con mano ferma e senza enfasi: è una presa di posizione che ha già quasi il tono di quelle — venute vari decenni dopo — del Pomponazzi, del Guicciardini, del Bembo. Basterebbe questa consapevolezza — non da mercante o da navigatore, ma da geografo e astronomo ben

addentro ai problemi dell’interpretazione aristotelico-tolemaica del mondo — a conferire rilievo a questo opuscolo, malgrado il latino sciatto, le incertezze astronomiche e altri difetti ancora. È un documento che avrebbe potuto suscitare proficue riflessioni fra i «filosofi», che invece, a quanto pare, non lo tennero in alcun conto, malgrado la sua straordinaria diffusione. Il successo del Mundus novus infatti fu travolgente. In poche settimane fu ristampato a Venezia, Parigi, Augusta, Norimberga, Anversa, Colonia, Strasburgo, Rostock, e poi tradotto in tedesco e in fiammingo. Nel 1507, tradotto in italiano, fu inserito nella raccolta Paesi novamente retrovati e Novo Mondo da Alberico Vespuzio florentino intitulato, che a sua volta fu ristampata cinque volte fra il 1508 e il 1519, tradotta in

latino, tedesco, francese. Fu dunque un vero best-seller. Nel giro di cinquant’anni se ne ebbero almeno cinquanta edizioni. Il Ramusio lo introdusse nel primo volume (1550) della raccolta Delle navigazioni e viaggi con il titolo Sommario

scritto per Amerigo Vespucci fiorentino di due sue navigazioni al Magnifico messer Pietro Soderini, Gonfalonier della magnifica Republica di Firenze. A metà secolo il «mondo nuovo» non era più una sconvolgente novità: con un diverso e più noto destinatario, la relazione rientrava nei ranghi, senza più quel titolo che le aveva conferito tanta efficacia all’inizio del secolo. Nel Mundus novus lo scrivente riferisce su un viaggio da lui compiuto nel 1501-1502 al servizio del re di Portogallo, ma afferma di averne già compiuti due al servizio del re di Castiglia e di essere in procinto di intraprenderne un quarto al servizio del re di Portogallo. E appunto su quattro viaggi — quanti ne aveva compiuti Colombo — riferisce la Lettera delle isole nuovamente trovate, pubblicata fra il 1505 e il 1506: il primo, dal 10 maggio 1497 al 15 ottobre 1498 (e il Vespucci vi avrebbe raggiunto la terraferma prima di Colombo); il secondo, dal 16 maggio 1499 all’8 settembre 1500; il terzo, dal 10 maggio 1501 al 7 settembre 1502; il quarto, dal 10 maggio 1503 al 18 giugno 1504. Questa relazione — nota come Lettera al Soderini, anche se il nome del gonfaloniere fiorentino, intuibile nella stampa, compare solo nelle copie sincrone manoscritte — non è priva di ambizioni letterarie che si danno a vedere non solo nel passo iniziale ’, in cui si osserva il non spregevole desiderio di ricordare i giovanili studi umanistici, ma anche nella sua complessiva strutturazione. Il periodo è limpido, rapido, senza indugi. La materia è abilmente disposta; il 6 P. BemBo, Istoria viniziana, Milano 1808, I, pp. 349-50. ? Lettera di A. Vespucci delle isole nuovamente trovate in quattro suoi viaggi, in Il mondo

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ritmo narrativo riesce talora a far sentire lo stupore dell’ignoto e le incertezze della navigazione. La lettera regge persino a un'analisi volta a considerare la coerenza psicologica delle azioni, reazioni, comportamenti. Consacra luoghi comuni, affioranti da precedenti narrazioni, è vero, ma non lo fa piattamente e imprime anche a quanto già sappiamo il segno di una solida visione della realtà. Scomparsa la pruderie di in tempo, non occorrerà spendere parole per mostrare che le osservazioni sui costumi sessuali degli indigeni non hanno nulla di scandalistico ma rispondono al giusto desiderio di intendere i fondamenti della famiglia e della società. Non vi è niente di paragonabile al vivace episodio narrato da Michele da Cuneo, che fu con Colombo nel suo secondo viaggio: Essendo io ne la barca, presi una Camballa belissima, la quale il signor armirante mi

donò; la quale avendo io ne la mia camera, essendo nuda secondo loro costume, mi

venne voglia de solaciar cum lei. E volendo mettere ad execuzione la voglia mia, ella, non volendo, me tractò talmente cur le ongie, che non vorìa alora avere incominciato.

Ma cossì visto, per dirvi la fine de tutto, presi una corda e molto ben la strigiai, per

modo che faceva cridi inauditi, che mai non potresti credere. Ultimate, fussimo de acordio in tal forma, che vi so dire che nel facto parea amaestrata a la scola de

bagasse È.

Ma non è questione, ovviamente, di maggiore o minor pudore. Quello che segna la diversa statura dell’estensore della Lettera al Soderini è l'atteggiamento di fondo, che non concede spazio all’io se non per le decisioni rilevanti, espunge l’aneddotico e il cronachistico e invece tende a generalizzare, a valutare la realtà più che a descriverla. Il tono infatti è quello di una relazione «scientifica», in cui vengono ordinatamente esposti i dati, le osservazioni, le vicende importanti del viaggio. Le genti incontrate vengono analizzate secondo i precisi parametri con cui si valutano le società umane: aspetto fisico, abbigliamento, cibi, abitazioni, credenze religiose, famiglia, organizzazione sociale, guerre e loro cause, ecc.

Non si indulge al pittoresco, alle curiosità; anche gli squarci narrativi sono funzionalmente volti a indicare costumi, atteggiamenti, usi di quegli esseri umani tanto diversi e quasi incomprensibili per un europeo. Al di là delle nuovo di A. Vespucci, cit., pp. 125-6: «E mi terrà non solo presumptuoso sed etiam perozioso in pormi a scrivere cose non convenienti a vostro stato né dilectevoli, e con barbaro stilo scripte e fuora d’ogni ordine di umanità, ma la confidenzia mia che tengo nelle vostre virtù e nella verità del mio scrivere, ché son cose non si truovano scripte né per li antichi né per moderni scriptori [...]. Il perché mi disposi a farlo, perché mi rendo certo che Vostra Magnificenzia mi tiene nel numero de’ suoi servidori, ricordandomi come nel tempo della nostra gioventù vi ero amico, e del ora servidore, e andando a udire e principii di grammatica sotto la buona vita e doctrina » venerabile religioso frate di S. Marco fra Giorgio Antonio Vespucci, e consigli e doctrina uomo da altro sarei io Petrarca, el dice come che, seguitato, avessi io che Dio a piacesse quale in E, quel ch'io sono. Quorodocunque sit, non mi dolgo, perché sempre mi sono dilectato vi dirò, virtuose; e ancora che queste mia patragne non siano convenienti alle virtù vostre,

come dixe Plinio a Mecenate, “voi solavate in alcun tempo pigliare piacere delle mie ciancie”». 8 Prime relazioni di navigatori italiani sulla scoperta dell'America. Colombo. Vespucci. Verazzano, a cura di L. Firpo, Torino 1966, p. 52.

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contraddizioni e dei silenzi sul vero e proprio svolgimento dei viaggi, la Lettera ha insomma una certa dignità letteraria e un discreto fascino. Presenta anche quel tanto di comune umanità — si pensi, per esempio, all’episodio delle donne gigantesche e alla ritirata dei baldi europei? o ai timori suscitati dall’iguana, che viene scrupolosamente osservata perché sembra corrispondere alle rappresentazioni iconografiche dei draghi !° — che poteva piacere a lettori amanti di libri avventurosi; e tutto avventuroso e, se si vuole, di maniera è il resoconto dell’ultimo viaggio. La lettera poteva accontentare lettori di vario livello, ma

non in quell’italiano zeppo di iberismi. Non fu infatti ristampata e la sua fortuna fu garantita dalla traduzione in latino a cui prontamente provvide il geografo Martin Waldseemiiller che nel 1507 la pubblicò nella sua Cosrographiae Introductio con il titolo Quattuor navigationes (Saint-Dié, G. Lud, N. Lud, M. Iacomilus). Il Waldseemiiller nel capitolo nono vi avanzava anche quella proposta che avrebbe avuto tanta fortuna e che avrebbe suscitato altrettanti malumori: Nunc vero et hae partes sunt latius lustratae, et alia quarta pars per Americum Vesputium (ut in sequentibus audietur) inventa est, quam non video cur quis iure vetet ab

Americo inventore sagacis ingeni viro Arzerigen quasi Americi terram, sive Amzericam dicendam: cum et Europa et Asia a mulieribus sua sortita sunt nomina.

? Lettera di A. Vespucci, ed cit., pp. 158-9: «E dipoi che fumo iti circa di una lega, vedemmo in una valle cinque delle lor capanne, che ci parevon dispopolate. E fumo ad epse e trovammo solo cinque donne, e due vecchie e tre fanciulle, di tanto alta statura che per maraviglia le guardavamo. E come ci viddono, entrò lor tanta paura che non ebbono animo a fuggire e le due vecchie ci cominciorono con parole a convitare, traendoci molte cose da mangiare, e messonci in una capanna. E eron di statura maggiori che uno grande uomo, che ben sarebbon grande di corpo come fu Francesco degli Albizi ma di miglior proporzione; di modo che stavamo tucti di proposito di torne le tre fanciulle per forza, e per cosa maravigliosa trarle a Castiglia. E stando in questi ragionamenti, cominciorno a entrare per la porta della capanna ben 36 uomini molto maggiori che le donne, uomini tanto ben facti che era cosa famosa a vedergli; e quali ci missono in tanta turbazione che più tosto saremo voluti essere alle navi che trovarci con tal gente. Traevano archi grandissimi e freccie con gran bastoni con capocchie e parlavano infra loro d'un suono come volessino manometterci. Vistoci in tal pericolo, facemmo varii consigli infra noi. Alcuni dicevano che in casa si cominciasse a dare in loro, e altri che al campo era migliore; e altri che dicevano che non cominciassimo la quistione infino a tanto che vedessimo quello che volessin fare. E accordammo del salir della capanna e andarcene dissimulatamente al cammino delle navi. E così lo facemmo». 10 Ivi, pp. 142-3: «Andammo così per le lor case o vero trabacche, e trovammo molti di questi serpenti vivi, e eron legati pe’ piedi e tenevano una corda allo intorno del muso che non potevono aprire la bocca, come si fa a’ cani alani, perché non mordino. Eron di tanto fiero

aspecto che nessuno di noi non ardiva di torne uno, pensando che eron venenosi. Sono di grandeza di uno cavretto e di lungheza braccio uno e mezo. Tengono e piedi lunghi e grossi e armati con grosse unghie; tengono la pelle dura e sono di varii colori. El muso e faccia tengon di serpente e dal naso si muove loro una cresta come una sega, che passa loro per el mezo delle schiene, infino alla sommità della coda. In conclusione gli giudicammo serpi e venenosi. E se gli mangiavano».

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Il Mundus novus e le Quattuor navigationes assicurarono una grande fama al Vespucci, ma anche severe censure, perché sembrava che egli si attribuisse meriti che invece spettavano ad altri, sopra tutto a Colombo. La vera questione vespucciana nacque però quando vennero trovate altre tre lettere del Vespucci a Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici: la prima, del 28 o 18 luglio 1500, pubblicata nel 1745; la seconda, del 4 giugno 1501, dall'isola di Capo Verde, pubblicata nel 1827; la terza, del 1502 da Lisbona, edita nel 1789. Da queste lettere risultano solamente due viaggi: il primo, al servizio della Spagna, dal 18 maggio 1499 al giugno 1500; il secondo, al servizio del Portogallo, dal 13 maggio 1501 al luglio 1502. Non solo perché non c’è un’esatta concordanza cronologica con il secondo e il terzo viaggio della Lettera al Soderini ma perché sorgono molte incongruenze e contraddizioni quando si accettino entrambi i gruppi di documenti pervenutici sotto il nome di Vespucci, ne è nata una querelle che ha prodotto una letteratura sterminata e tanto più sofistica perché costretta a misurarsi su pochi testi e su scarsissimi dati esterni. Se ne son tratte quasi tutte

le possibili soluzioni: i documenti sono tutti autentici; i documenti sono tutti apocrifi; sono autentiche solo le stampe; sono autentiche solo le lettere pervenuteci manoscritte. Di conseguenza sul Vespucci sono stati formulati i giudizi più contrastanti: da alcuni è stato ritenuto lo scopritore del continente americano, da altri un venditore di carne che non è mai stato in America; per certi studiosi fu un geniale cartografo, per altri un imbroglione e un ladro. Una letteratura evidentemente animata da troppe passioni e preconcetti, da animosità nazionali-

stiche e puntigli personali. Poco mancò che del Vespucci fosse negata anche l’esistenza fisica. Questa per fortuna è comprovata da due documenti certi, da cui anche risulta che fu un personaggio di notevole livello. Il primo è la lettera di Cristoforo Colombo al figlio Diego del 5 febbraio 1505: Muy caro fijo. Diego Méndez partié de aquî lunes III d’este mes. Después de partido, fablé con Amérigo Vespuchi, portador d’esta, el qual va allé, llamado sobre cosas de nabigagi6n: él sienpre tubo deseu de me hazer plazer. Es mucho hombre de bien. La fortuna le ha sido contraria, como 4 otros muchos. Sus trabajos non le han aprovechado tanto como la razén requiere. Él va por myo, y en mucho deseu de hazer cosa que redonde 4 my bien, si 4 sus manos est. Yo non sey de aquà en qué yo le emponga, que 4 my aprobeche; porque non sey qué sea lo que alla le queren. É1 va determinado de hazer por my todo lo que £ él fuere posible. Ved allî en qué puede aprobechar, y trabajad por ello; que él lo har4 todo, y fablerà, y lo porné en obra, y sea todo secretamente, porque non se aya d’él sospecha. Yo, todo lo que se aya pudido dezir que toque £ esto, se lo he dicho, y enformado de la paga que 4 my se ha fecho y se haz. Esta carta sea para el sefior adelantado tanbién, porque él vea en qué puede aprovechar, y le abise d’ello !!.

Il secondo è costituito dai decreti della regina Giovanna di Castiglia del 22

11 Raccolta di documenti e studi pubblicati dalla R. Commissione Colombiana pel Quarto Centenario della scoperta dell'America, parte I, vol. II, Roma 1894, p. 253.

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marzo e 6 agosto 1508, con i quali il Vespucci veniva chiamato alla Piloto Mayor, allora istituita per migliorare la preparazione dei piloti era suo compito sceglierli, esaminarli, istruirli; e inoltre aver cura degli ti nautici e redigere il Padrén real, cioè la carta delle terre scoperte, che va un continuo aggiornamento. A questa carica tanto importante,

carica di spagnoli: strumenrichiedeche egli

conservò fino alla morte, non sarebbe certo stato chiamato se non fosse stato un esperto di valore. Un contributo risolutivo sulla questione vespucciana è venuto nel 1924 da Alberto Magnaghi, secondo il quale sono autentiche solamente le lettere rimaste manoscritte: i viaggi del Vespucci, pertanto, sarebbero stati due e non quattro. Affrontando la questione in ogni suo aspetto, egli dimostra che in questo modo vengono meno quasi tutte le contraddizioni, mentre i meriti del Vespucci non risultano diminuiti. Cade, è vero, la sua priorità nella scoperta del continente americano (che peraltro gli aveva attirato aspre censure) ma quel che resta non è certo poco. Nel primo viaggio esplorò la costa dell'America meridionale dal 6° 30° di latitudine S alla foce del Magdalena, raggiunse per primo il Brasile, fece la scoperta dell’Amazzone che risalì per decine di miglia, applicò la prima volta il sistema delle congiunzioni dei pianeti con la luna per la determinazione delle longitudini, e rivelò la natura continentale della nuova terra; nel secondo compié il periplo dell'America del S dal C. S. Rocco sino oltre il 50° di lat. S; fu il navigatore che per primo si spinse a latitudini così meridionali, e per primo comprese che il nuovo continente non aveva a che fare con l’Asia, e intuì la possibilità del passaggio di S W; nella quale convinzione preparò e diresse poi, come Piloto Mayor, le spedizioni spagnole intese a raggiungere per questa via il paese delle Spezie; e la spedizione di Magellano trae la sua origine dalla concezione e dal

piano progettato dal Vespucci !. Una dimostrazione nel complesso soddisfacente, la sua, che avrebbe però avuto bisogno di essere corroborata da un’edizione critica del non vasto dossier vespucciano; questo invece non avvenne e la polemica proseguì, appoggiandosi sempre ai soliti documenti che erano già «stati esaminati, e la maggior parte controllati, da Italiani e da stranieri, con ogni cautela e diligenza, girati e rigirati in ogni senso, sviscerati e notomizzati nei più minuti particolari». Sono parole dello stesso Magnaghi , che tuttavia. non si preoccupò più degli altri della correttezza dei testi e, pur avendo conferito una grande importanza alla trascrizione di tutto il corpus (tranne il Mundus novus) compiuta da Piero Vaglienti e conservata nel ms. 1910 della Biblioteca Riccardiana di Firenze, ne pubblicò il testo non dall’originale ma «dalla copia che con la più accurata diligenza ne aveva tratta il sig. Nardini, già sotto bibliotecario della Riccardiana, per conto del compianto prof. Uzielli; il quale preparava l’edizione critica delle lettere vespucciane» !4. Eppure egli pubblicava nuovi testimoni; ed è 12 A. MAGNAGHI, A. Vespucci, Roma

Diva Lipu 8.

14 Ivi, II, p. 295.

1924, I, pp. 45-6.

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evidente che non ha senso notomizzare testi che non sono stati accertati, di cui

insomma non è stata fatta un'edizione critica. Ora finalmente, dopo tanti anni di immobilismo, una buona edizione critica è stata compiuta da Luciano Formisano 4, che l’ha munita di ottimi strumenti critici, ecdotici e linguistici. Le argomentazioni del Magnaghi — e di quanti dopo di lui, specialmente Giuseppe Caraci, le hanno approfondite — nella loro essenza reggono ancora, anche se devono essere liberate da molti argomenti collaterali e scarsamente importanti, introdotti per controbattere ragionamenti sofistici. In particolare occorre valutare in modo diverso e più sereno il rapporto fra le due serie di testi. All’opposizione — rilevata dai geografi — corrisponde infatti una forte affinità nella lingua e negli schemi narrativi. Se, come ha fatto il Formisano, per stabilirne il testo non si utilizza solo la copia del Vaglienti, che ha “tradotto” gli iberismi e spesso intorbidato il periodo, ma anche gli altri testimoni e in particolare il ms. 2112 bis della Biblioteca Riccardiana di Firenze, ci si accorge che la prima lettera è assai simile alla Lettera al Soderini. Molto diverse sembrano la seconda e la terza lettera, che ci sono conservate solamente dal Vaglienti; ma, se si ricorda che questi livella tutto ciò che trascrive al proprio uso linguistico, non si può dubitare che esse originariamente fossero simili alla prima.

Si può, forse, ammettere che il «falsario» ha ricucito abilmente materiale vespucciano. Lo ha sostenuto anche il Magnaghi; ma anche passi che a lui sembravano invenzioni più o meno biasimevoli, perché non le riscontrava nelle tre lettere «autentiche», derivano probabilmente da altre missive del Vespucci andate perdute: non ci sono, mi pare, né vacue ostentazioni letterarie né oscenità né altre interpolazioni volte a garantire un facile successo. Sembra dunque che l’ignoto manipolatore abbia confezionato la Lettera al Soderini con modici interventi; quel tanto che bastava per organizzare la materia in modo da presentare quattro viaggi. È comprensibile l’irritazione dei geografi di fronte all’alterazione dei dati geografici e degli itinerari, tanto più comprensibile se si pensa alle troppe e troppo accese polemiche che ciò ha provocato; ma non è lecito per questo trascurare le due stampe che non solo appartengono alla storia ma nel complesso sul nuovo mondo forniscono notizie attendibili e di prima mano. I due gruppi, insomma, mentre si escludono per i dati, si integrano e si completano per quanto riguarda il complesso delle informazioni «umane» sulle nuove terre e sopra tutto per quanto riguarda la personalità dello scrivente. Da tutti i documenti il Vespucci ci appare essenzialmente come uno «scienziato», particolarmente versato nella cosmografia e nell’astronomia, ma al corrente anche dei problemi filosofici del suo tempo e non digiuno di studi umani stici. La sobrietà del dettato non deve obliterare le sue decise prese di posizione verso la «gente grossaria» non meno che verso gli errori dei filosofi e degli antichi ‘6. Nel Vespucci non si scorge solo l'ambizione di scoprire nuove

15 A. Vespucci, Lettere di viaggio,

a cura di L. Formisano, Milano 1985.

16 Ivi, p. 5: «Dico che navicando tanto alla parte di mezzodì che entrammo nella torrida

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terre, o meglio questa ambizione appare in lui motivata dal desiderio di un incremento di conoscenze razionali. Egli voleva «esser l’autore che segnassi a la stella del firmamento dello altro polo», e a questo scopo trascorse molte notti in bianco. Ma non poté — «con quante male notti» ebbe e «con quanti strumenti»

usò — riuscire nell’intento !”. Per la determinazione della longitudine addirittura elaborò un metodo nuovo e acuto. E non erano conoscenze ricercate in funzione della navigazione; viceversa egli si augurava di poter compiere un nuovo viaggio «in quello emisperio, e non tornar sanza notare il polo» ‘8. Altrettanto si può dire delle sue realizzazioni cartografiche, che desiderava discutere a Firenze, e certo per un desiderio disinteressato di approfondimento !. Conosceva «gli autori della cosmografia», e anche per questo poteva orgogliosamente contrapporre il proprio discoprir all’andar per el discoperto delle spedizioni portoghesi alle Indie ?°. Altro si potrebbe citare: le osservazioni sul numero delle lingue o il tentativo di spiegare l’origine delle guerre in paesi dove non esiste la proprietà, per esempio ?!. Ma forse non occorre, perché da una lettura spregiudicata — sia delle «stampe» sia dei «manoscritti» — ben risulta che il Vespucci in ogni momento e in ogni considerazione tende a

zona e dentro del circulo di Cancer; et avete di tener per certo che infra pochi dì, navicando per la torrida zona, avemmo vista di 4 ombre del sole, e quando el sol ci stava per zenihe a mezzodì

— dico: stando il sole nel nostro meridiano —, non tenavamo ombra nessuna: che tutto questo mi acadde molte volte mostrarlo a tutta la compagnia e pigliarla per testimonio a causa della gente grossaria che non sanno come la spera del sole va per il suo circulo del Zodiaco; ché una volta vedevo l'ombra al meridion, et altra al settentrion, et altra all’occidente, et altra allo oriente, et alcuna volta una ora o dua del dì non tenavamo ombra nessuna» (lettera del 18 luglio 1500).

17 Ivi, pp. 5-6: «Io, come desideroso d’essere l’autore che segnassi a la stella del firmamento dello altro polo, perde’ molte volte il sonno di notte in contemplare il movimento delle stelle dello altro polo, per segnar qual d’esse tenessi minor movimento e che fussi più presso al firmamento; e non potetti, con quante male notti ebbi, e con quanti strumenti usai — che fu il quadrante e l’astrolabio —, segnar istella che tenessi men che X gradi di movimento a l’intorno del firmamento;

di modo che non restai satisfatto in me medesimo di nominar nessuna essere il polo del meridione a causa del gran circulo che facevono intorno al firmamento» (lettera del 18 luglio 1500). 18 Ivi, p. 6 (lettera del 18 luglio 1500).

19 Ivi, pp. 13-4: «Ho acordato, Magnifico Lorenzo, che così come vi ho dato conto per lettera dello che m'è occorso, mandarvi dua figure della discrezione del mondo fatte et ordinate di mia propria mano e savere: e sarà una carta in figura piana et uno apamundo in corpo sperico, el quale intendo di mandarvi per la via di mare per un Francesco Lotti, nostro fiorentino, che si truova qui. Credo che vi contenteranno, e maxizze il corpo sperico, ché poco tempo fa che ne feci uno per l’Altezza di questi re, e lo stimòn molto. L’animo mio era venir con essi personalmente, ma il nuovo partito d’andare altra volta a discoprir non mi dà luogo né tempo. Non manca in cotesta città chi intenda la figura del mondo e che forse emendi alcuna cosa in essa; tuttavolta, chi mi dé emendar, aspetti la venuta mia, che potrà essere che mi difenda» (lettera del 18 luglio 1500). 20 Ivi, p. 14 (lettera del 18 luglio 1500).

21 Ivi, p. 11: «Infine, navigammo altre 300 leghe per la costa, trovando di continuo

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razionalizzare i fatti con una forte propensione teorica. Dovrebbe allora apparire il senso pregnante di un’affermazione come: «è certo che più vale la pratica che la teorica», fatta proprio dopo aver osservato che il suo viaggio dimostrava errata l'opinione della maggior parte dei filosofi sull’inabitabilità della zona torrida ‘. Non è una mera contrapposizione dell’esperienza alla teoria, fatta da chi si trova a suo agio solo con i fatti e solo in questi crede. Si tratta, mi pare, di un atteggiamento più complesso che al contrario rivendica la fondamentale importanza della teoria e quindi la necessità che questa tenga conto, aggiornandosi, dei dati dell'esperienza; dove l’esperienza è in conflitto con la ragione, come dirà il Pomponazzi, «standum est sensui et dimittenda ratio». Egli infatti sembra rifiutare, non allargare, la clamorosa frattura fra il mondo dei viaggiatori e i circoli filosofici, che abbiamo osservato all’inizio. Pressati da calunnie

gratuite, gli studiosi hanno spesso dovuto rivendicare il disinteresse economico del Vespucci. Questo è probabile, ma certo è, così almeno mi pare, il disinteresse scientifico. I suoi viaggi paiono motivati da ragioni di pura conoscenza. È

ovvio che, essendo un uomo concreto, ben sapeva che essi potevano continuare solamente se i finanziatori scorgevano possibilità di sfruttamento economico; pertanto nelle lettere (e più avrà detto a voce) di quando in quando accenna a perle e oro, ma senza enfasi, anzi come se non fosse un problema di sua competenza o interesse: «Li uomini del paese dicono sopra a l’oro e altri metalli e drogherie molti miracoli, ma io sono di que’ di san Tomaso; el tempo farà tutto» 2?. Forse meglio che ad alcuni suoi studiosi le doti del Vespucci apparvero chiare agli Spagnoli, che crearono per lui quella carica di Piloto Mayor in cui esse potevano estrinsecarsi. Il Vespucci è anche un uomo — mi pare — che non ha dimenticato i giovanili studi umanistici, che non si sente estraneo o addirittura avverso alla cultura umanistica. Do credito, dicendo questo, all’inizio della Lettera al Soderini, le cui

informazioni mi sembrano plausibilissime, perché una cultura letteraria pare trapelare dalla prima lettera manoscritta (e anche dalle altre, una volta che si riesca a pensarle come la prima) non meno che dalla Lettera al Soderini. Forse gli stessi ispanismi sono non solamente frutto di assimilazione concreta di voci gente brave, et infinitissime volte combattemmo con loro, e pigliammo d’essi opera di XX, fra e’ quali avea 7 lingue che non si intendevono l’una a l’altra: dicesi che nel mondo non sono più che 77 lingue, et io dico che son più di mille, ché solo quelle che io ho udite sono più di XL» (lettera del 18 luglio 1500); p. 24: «E quello che di più mi maraviglio di queste loro guerre e crudeltà, è che non pote’ sapere da loro perché fanno guerra l’uno a l’altro: poiché non tengono beni propî, né signoria d’imperi o regni, e non sanno che cosa si sia codizia, cioè roba o cupidità di regnare, la qual mi pare che sia la causa delle guerre e d’ogni disordinato atto. Quando li domandavamo

che ci dicessino la causa, non sanno dare altra ragione, salvo che

dicono ab antico cominciò infra loro questa maladizione, e vogliono vendicare la morte de’ loro padri antipasati: in concrusione, è bestial cosa; e certo è che uomo di loro m'ha confesato essersi trovato a mangiare della carne di più di 200 corpi; e questo credo per certo, e basti» (lettera del 1502).

22 Ivi, p. 7 (lettera del 18 luglio 1500). 23 Ivi, p. 25 (lettera del 1502).

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castigliame ma anche — come vuole il Formisano 24 — «il risultato di una ‘contaminazione’ di tipo stilistico, da spiegarsi nell'àmbito di un genere letterario linguisticamente (e contenutisticamente) orientato sul modello colombiano». E questo andrebbe tenuto presente anche quando si constata il ritorno, in relazioni di viaggio di autori diversi o dello stesso autore, di frasi o descrizioni affini: non si tratta per lo più di plagio ma di imitazione, di riuso di formule che apparivano capaci di rendere efficacemente una realtà incommensurabile con le esperienze europee. Certo la Lettera al Soderini è più ampia e articolata delle tre lettere “manoscritte” (e del Mundus novus); ma queste — malgrado i guasti — sembrano non diverse ma scritte senza quell’agio e quella tranquillità che potevano consentire di realizzare un testo ampio ed elaborato come la Lettera al Soderini. Eguale è la presenza di una cultura di buon livello, che consente al Vespucci di dominare la realtà e di esporla ordinatamente. Anche nelle lettere manoscritte — messe sulla carta più in fretta o per un interlocutore più familiare — non mancano amplificazioni e squarci narrativi; anzi il più letterario e “gratuito” mi sembra, nella prima lettera, l'episodio del marinaio portoghese: E navicando per la costa, ogni dì discopravamo infinita gente e varie lingue, tanto che quando avemmo navicato 400 leghe per la costa, cominciammo a trovar gente che non volevono nostra amistà, ma stavonci aspettando con le loro armi, che sono archi e saette, e con altre arme che tengono. E quando andavamo a terra con le barche, difendevanci el saltare in terra, di modo che eravamo forzati combatter con loro; et al

fin della battaglia liberavan mal con noi, ché, sempre come sono disnudi, faciavamo di loro grandissima mattanza: che ci acadde molte volte che XVI di noi combatter con 2000 di loro, et alfin disbarattargli et amazzar molti d’essi e rubar lor le case. Et un dì infra gli altri, vedemmo una grandissima gente, e tutta posta in arme per difenderci che non dismontassimo in terra. Armammoci ventisei uomini bene armati e coprimmo le barche a causa delle saette che ci tiravono, ché sempre prima che saltassimo in tetra; ferivono alcuni di noi. E poi che ci ebbono difeso la terra quanto potettono, alfin saltammo in terra e combattemmo con loro con grandissimo travaglio: e la causa perché tenevono più animo e maggior isforzo contro noi, era che non sapevono che arme era la spada né come tagliava. Et asì combattendo, fu tanta la moltitudine della gente che caricò sopra noi, e tanta moltitudine di saette, che non ci potavamo rimediare; e quasi abandonati della speranza di vivere, voltammo le spalle per saltare nelle barche. E così andandoci ritraendo e fuggendo, un marinaro de’ nostri che era portoghese — uomo d’età di 55 anni, che era restato a guardia del battello —, visto il pericolo in che istavamo, saltò del battello in terra, e con gran voce disse: «Figliuoli, volgete il viso a’ vostri inimici, ché Idio vi darà vittoria». E gittossi ginocchioni e fece orazione; e dipoi fece una gran rimessa con l’Indii, e tutti noi con lui giuntamente, così feriti come istavamo, di modo che ci volsono le spalle e cominciorno a ffuggire; et alfine gli

24 Vespucci in America: italiana», XLI (1983), p. 43.

recuperi testimoniali per una edizione, in «Studi di filologia

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disbarattammo et amazzammo d’essi 150 et ardemmo lor 180 case. E perché stavamo mal feriti e stracchi, ci tornammo

a’ navilî, e fummo a riparar in un porto, adonde

istemmo venti dì solo perché il medico ci curassi: e tutti scampammo, salvo uno che stava ferito nella poppa manca ?.

25 Ivi, pp. 9-10.

LA NOVELLA COME «CRONACA»: STRUTTURA E LINGUAGGIO DELLE NOVELLE BANDELLIANE

La raccolta di novelle del Bandello a prima vista potrebbe sembrare il frutto di un’intelligente operazione editoriale. Combinando abilmente lettere e novelle, essa forniva tutto o quasi tutto ciò che il pubblico del medio Cinquecento desiderava: lettere familiari, fatti di cronaca, vicende incentrate su personaggi illustri o comunque appartenenti a note casate, aneddoti, facezie, pettegolezzi, vicende patetiche, romanzesche, drammatiche, avventurose, piccanti, intrighi e casistica d’amore, orrori e passioni,. beffe, fatti e costumi esotici, ambienti raffinati, discussioni su argomenti alla moda, ecc. I vari Ruscelli, Domenichi, Betussi, Sansovino non seppero escogitare niente di meglio per sfruttare il

nuovo gusto in cui si venivano stemperando e frantumando gli ideali rinascimentali. Eppure, a ben guardare, i legami delle Novelle con l’età dei poligrafi sono labili e, per certi aspetti, del tutto casuali. Pur documentando le varie fasi della lunga esistenza del Bandello, esse infatti non rappresentano la società italiana contemporanea, ma per lo più ci riconducono direttamente o indirettamente ai primi decenni del secolo e in particolare ai ritrovi “lombardi” del ventennio 1506 - 1526. Se il Bandello avesse voluto blandire i gusti del pubblico non si sarebbe dimostrato così presbite, né avrebbe tanto insistito nel ricondurre la genesi del suo novellare al tempo del Castiglione, di Aldo, di Leonardo, del-

l’Equicola, del Machiavelli e sopra tutto di una cultura “lombarda” minore che ormai era caduta nell’oblio. Anche negli anni quaranta poteva dargli lustro un incoraggiamento di Aldo, a cui dedicava la novella XV della parte I; ma quali ragioni potevano indurlo a collocare in una posizione centralissima Ippolita Sforza Bentivoglio, da cui avrebbe ricevuto il primo impulso a scrivere novelle, se non un'effettiva fedeltà al passato? A quali lettori se non a suoi coetanei poteva, per esempio, rivolgersi con la palinodia della giovanile prefazione alla Calipsychia di Lazaro Tommaso Radini Tedeschi (1511), contenuta nella dedicatoria a Marco Antonio Sabino della novella II della parte III? Essi soltanto potevano ricordare un’opera così datata come la Calipsychia, conoscere l’elegia in cui il Sabino mette in burla l’esaltazione dei moderni e il culto apuleiano manifestati dal Bandello nella prefazione, e quindi apprezzare la maliziosa abilità della dedicatoria che al Sabino attribuisce solamente lodi della prefazione. Certo, la dedicatoria non è, come vorrebbe sembrare, di poco posteriore alla stampa della Calipsychia; testimonia però una precisa volontà di riimmergersi in quell’ormai lontana temperie culturale. Altrettanto si può dire di quasi tutte le dedicatorie che, pur essendo per lo più delle mere finzioni, indicano il pubblico a cui il Bandello in primo luogo si rivolge: un pubblico ristretto e ben definito, che ha poco in comune con quello indifferenziato dei poligrafi.

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L'impressione di un’opera in perfetto accordo coi tempi, e quindi altamente rappresentativa del gusto e della sensibilità del medio Cinquecento, deriva a mio parere da uno di quei fenomeni di flusso e riflusso per cui ciò che è singolarmente attardato può talora sembrare alla moda. Negli anni quaranta, infatti, per la crisi delclassicismo volgare, riacquistano dignità molte tendenze prima soffocate dall’ansia di perfezione formale e ricompaiono, in modo diverso e per differenti ragioni, alcuni dei principali tratti distintivi dell’ideologia corti.giana “lombarda”, in cui il Bandello si era formato, rimanendo poi sostanzialmente estraneo ai cenacoli di puri letterati prodotti dalla riforma classicistica della nostra letteratura. Aveva fatto nuove esperienze, ma in ambienti provinciali, in piccole corti, impegnate in un programma di conservazione (se non addirittura di sopravvivenza) piuttosto che di espansione. Trovatosi nel campo dei “vinti” (sia ideologicamente sia politicamente), non avendo tempra di ribelle, si limitò a una dissimulata avversione verso i “vincitori”, ostentando — per quanto ci riguarda — la sua estraneità o indifferenza per il culto della forma, il petrarchismo regolato, il boccacismo, ecc. Per questi rapporti, non solo nostalgici ma materiali, con ambienti arretrati e pur fiduciosi di riconquistare il precedente splendore, egli nel medio Cinquecento poteva sentirsi incoraggiato e confortato dal trionfo di una produzione libera da schemi e autorità, aperta alle più varie esperienze, fiduciosa nel presente e nelle “cose”. Ritrovava allora la prosa eclettica e il vivace interesse per la vita privata e i fatti di cronaca che aveva imparato a secondare negli anni milanesi e mantovani, nell’entourage di Isabella d’Este in particolare, a cui faceva capo una vera rete di corrispondenti, pronti a ricevere e registrare tutti i “casi occorsi”. Purtroppo manca qualsiasi documento che consenta di stabilire in che modo la favorevole congiuntura agì su di lui: se solamente inducendolo a rielaborare un materiale novellistico da tempo abbozzato o invece, addirittura, suggerendogli una soluzione narrativa capace di soddisfare al suo concetto cortigiano di “novella”. Comunque siano andate le cose — e quale che sia stata l’influenza

delle lettere familiari, del rinnovato interesse dei poligrafi per il presente, di Margherita di Navarra e della cultura francese —, sta di fatto che per lui la novella non è un genere letterario, ma uno degli ingredienti delle conversazioni mondane: pertanto non deve venir isolata dal contesto sociale nel quale e per il quale è narrata. La novella dunque è un fatto di costume e appartiene alla cronaca. Ma alla cronaca appartiene anche per una ragione intrinseca: i “casi occorsi” formano la sua materia, perché allora come oggi la conversazione verteva prevalentemente sui fatti del giorno e ad avvenimenti del passato si risaliva solamente sulla spinta di quelli del presente. Il novelliere dunque si

configura come una sorta di notaio che tiene «registro» delle «belle cose» che «ogni dì avvengono», «come fanno i mercadanti de le lor scritture» (I, p.

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408)! ma non per osservazione diretta come farebbe un reporter bensì mettendo sulla carta relazioni ascoltate nei cenacoli culturali ?. Non era una cosa nuova il tentativo di stabilire un legame fra letteratura e cronaca. La civiltà rinascimentale spesso si compiaceva di contemplarsi nelle opere letterarie e, sopra tutto nei dialoghi, trasfigurava la vita quotidiana e il ritmo delle proprie conversazioni. Ma in questo modo trasformava la cronaca in letteratura, mentre il Bandello muove nel senso inverso e non esita a trasforma-

re la letteratura in cronaca, per esempio ricercando i “casi occorsi” nei libri non meno che nella vita quotidiana. La singolarità del suo atteggiamento, forse, ancor prima che gli eruditi moderni sconcertò i contemporanei. Pare lecito dedurlo dal fatto che il Bandello più volte, rispondendo a critiche vere o presunte, ribadisce il proposito di registrare solamente «i varii accidenti che in diversi luoghi accadeno», ma nel contempo ammette di poter garantire la veridicità delle sole conversazioni: cioè che in una certa occasione un certo fatto è stato narrato come

veramente

accaduto.

Per gli “accidenti” in sé, invece, si

appella al verisimile: Io credo bene che saranno di quelli che diranno che non vogliono credere che la cosa fosse vera. A questi tali io dico che questo non è articolo di fede e che ciascuno può di questo credere ciò che vuole: ben affermo loro che mio cugino m’affermava d’averla per verissima intesa [...]. E nel vero, quando una cosa può essere, io non

istarei mai a questionare ch’ella non fosse stata; onde i filosofi hanno una regola: che ogni volta che sia proposto un caso possibile, che quello si deve accettare (II, pp. 249-50) }.

Era, questa, per i lettori del Cinquecento almeno, un’aperta dichiarazione di letterarietà: una letterarietà abilmente occultata dalla finzione di una semplice registrazione di conversazioni.

! Cito, indicando volume e pagina, da Tutte le opere di MATTEO BANDELLO, a cura di Francesco Flora, Milano 1952.

? Su questa finzione — per cui oggetto primario della mimesi non sono i fatti ma le conversazioni, non le novelle ma le brigate — il Bandello insiste di continuo, mostrando una forte esigenza di verisimiglianza. Per esempio, nella dedicatoria della lungua novella V della parte IV — che anche un ascoltatore attentissimo non avrebbe potuto ricordare — precisa: «E perché l’istoria è alquanto lunghetta e ci intravengono di varii effetti, io col mezzo del signor Pirro dal gentiluomo borgognone ottenni che, per poterla intieramente, secondo che la narrò, descrivere, a la mia camera me la replicò. Onde io, acciò che di memoria non mi uscisse, tutte

le parti principali annotai, per distenderla poi diffusamente come ne avessi la opportunità. Ritornato adunque a Milano, essa istoria a pieno annotai [...]» (II, p. 654).

} Cfr. ancora, per esempio, I, p. 1018: «parmi che chiunque prende piacer a scriver i varii accidenti che talora accader si veggiono, quando alcuno gliene vien detto da persona degna di fede, ancor che paia una favola, che per questo non deve restar di scriverlo, perciò che, secondo la regola aristotelica, ogni volta che il caso è possibile deve esser ammesso. Per questo io che per preghiere di chi comandar mi poteva mi sono messo a scriver tutti quegli accidenti e casi che mi paiono degni di memoria e dai quali si può cavar utile o piacere, non

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Ma con la sua insistenza sul verisimile il Bandello, se si pone al riparo da troppo circostanziate richieste di puntuale veridicità, apre al tempo stesso un’altra e più grave questione: la mimesi della cronaca — che egli sembra proporre — è possibile e opportuna? Anche questa obiezione forse gli fu rivolta, giacché egli se ne difende più volte, sempre rivendicando l’importanza e la validità della materia prescelta. Nella’ dedicatoria della novella XXIV della parte III, per esempio, afferma che la sua età in molte cose è «se non superiore, almeno a quelle antiche passate e tanto famose uguale», salvo in una in cui è «di gran lunga inferiore»: E questa è la carestia dei buoni scrittori, dei quali quei tempi antichi erano copiosissimi. A quei tempi se un uomo o donna faceva un atto o diceva un arguto motto che meritassero lode, subito erano scritti. Né bastava loro semplicemente descrivere la cosa come era stata fatta o detta, ma con titoli, con epigrammi, con statue ed archi celebravano, onoravano, lodavano e la cantavano. Per lo contrario a’ nostri giorni non solamente non cerchiamo di essaltare e magnificare l’opere meritevoli di lode e commendare i belli e ingegnosi detti che secondo l’occorrenti materie si dicono; ma, che molto peggio è, non ci è chi gli scriva, mercé del guasto mondo ed avaro e di tante mortali ed orrende guerre che la povera Italia hanno tanti e tanti anni tenuta oppressa, di modo che si può con verità dire che le muse ai fieri tuoni di tamburi, di trombe e artigliarie sono in cima di Parnaso fuggite. E nondimeno si vede che tutto il dì accadeno cose bellissime che sono degne d’eterna memoria 4.

Il Bandello indica, dunque, lo spazio, lasciato ingiustamente libero dal gusto classicistico, in cui la sua narrativa intende collocarsi, con un atteggiamento polemico che si innesta in un filone ben noto che aveva allignato nelle corti “lombarde” già all’inizio del secolo. Ma se le sue ragioni fossero tutte qui, ci troveremmo di fronte a una pericolosa confusione fra letteratura e cronaca, nonché a un’ingiustificabile sordità sia per la poesia (ridotta a fatto encomiastico) sia in genere per le opere letterarie del suo tempo. Per fortuna, sia pure episodicamente, egli spiega il suo amore per i fatti che «a la giornata avvengono» anche con ragioni più intime e squisitamente letterarie. I fatti di cronaca invero «inducono a meraviglia», tanto che «molti uomini, non avendo riguardo a la santità de l’istoria che deve esser con verità scritta, come leggono una cosa che abbia del mirabile o che lor paia che non deverebbe esser di quel modo fatta, dicono: — Forse non avvenne

così, ma chi questo scrisse l’ha voluto a

resto d’affaticar la penna, ancora che le cose che mi vengono dette paion difficili ad essere credute». 4Già prima, nella dedicatoria della novella VIII della parte I, rilevava da un lato che

l’età sua non era meno «da esser lodata di quelle antiche, le quali tanto gli scrittori lodano e commendano», dall’altro che purtroppo non vi si usava più «quella cura e diligenza che appo i romani ed i greci fu lungo tempo usata in scriver tutte le cose che degne di memoria occorrevano»: «il male è che ai nostri tempi non v'è chi si diletti di scriver ciò che a la giornata avviene; onde perdiamo molti belli ed acuti detti, e molti generosi e memorandi fatti restano sepolti nel fondo de l’oscura oblivione. E pure tutto il dì avvengono bellissime cose, che sono degne d’esser a la memoria de la posterità consacrate».

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modo suo adornare —» (I, p. 596). Ai casi “mirabili” vien dunque attribuito un intrinseco valore letterario: sono «cose bellissime», perché non meno delle favole dei poeti possono generare pietà e meraviglia. Anzi, poiché secondo lui la meraviglia si ha quando «le cose meno sperate avvengono» (I, p. 707)? , la cronaca appare come una fonte impareggiabile e inesauribile di materiale letterario: «Ancor che tutto il dì si veggiano occorrer varii casi, così d’amore come d’ogn’altra sorte, e mille accidenti impensatamente nascere, non è perciò che di simil avvenimenti non si generi meraviglia in noi e che assai sovente non rechino profitto a chi gli vede od intende» (I, p. 707). Fole di romanzi e grandi eventi storici, realtà e finzione, verità e menzogna, al suo occhio non presentano

linee di demarcazione precise £. Pertanto con una palese polemica contro il culto della forma, egli vede negli “accidenti” il proprium della prosa: che serve fingere il meraviglioso o ricercarlo nei grandi miti classici dal momento che la cronaca ci offre quotidianamente avvenimenti che paiono «fole di romanzi, o de le favole che si fingono su le mani» (II, p. 572)? E tali sembrano anche i grandi sommovimenti cinquecenteschi, che nella dedicatoria della novella LXII della parte III lo inducono a scrivere: Non mira il cielo con tanti occhi in terra alora che è più lucido e sereno, quanti sono i varii e fortunevoli casi che in questa vita mortale avvengono. E se mai fu età ove si vedessero di mirabili e differenti cose, credo io che la nostra età sia una di

quelle ne la quale, molto più che in nessun’altra, cose degne di stupore, di compassione e di biasimo accadono (II, p. 567).

Nel Bandello, dunque, non c’è solamente il troppo pacifico ottimismo di chi vede nella propria età bei fatti e arguti detti, ma un genuino interesse per i “casi” in sé, indipendentemente dal loro segno positivo o negativo, per un presente ricco di eventi, di trasformazioni, di rivolgimenti quasi incredibili. In questo modo, malgrado l’atteggiamento conformistico di fondo, si fa evidente nelle novelle un gusto spregiudicato per ciò che è enorme e abnorme, estremo e spettacolare, per i grandi avvenimenti e i grandi personaggi, per il caso che governa gli “accadimenti” e la virtù che cerca di contrastarlo, per il «fluttuante oceano pieno di ogni miseria» che è la nostra vita (II, p. 819), per la «piacevol gabbia piena d’infiniti di varia specie pazzi» (I, p. 408)” che è il mondo, nonché per «la instabil varietà del corso de la nostra vita» che deve essere «da ? Cfr. I, p. 596: «Mirabili nel vero son tutti quei casi che fuor de l’ordinario corso del nostro modo di vivere a la giornata accadeno, e spesso quando gli leggiamo ci inducono a meraviglia». 6Cfr., per esempio, I, p. 1018: «Spesse fiate sogliono avvenire casi così strani che, quando poi sono narrati, par che più tosto favole si dicano che istorie, e nondimeno sono pur avvenuti e son veri. Per questo io credo che nascesse quel volgato proverbio: che “il vero che ha faccia di menzogna non si deverebbe dire”. Ma dicasi ciò che si vuole, ch'io sono di parer contrario».

7 Cfr. anche I, p. 619: «in questa vita, che come si dice è una gabbia di pazzi»; II, p. 820: «questo mondo è una piacevole gabbia piena di diversi pazzi».

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l’uomo con intento animo e fermo giudicio minutissimamente considerata, tutto il dì veggendosi tante e tali mutazioni, quante e quali ogni ora per l’ordinario accadono, ora d’avversa ed ora di propizia fortuna» (II, p. 603) *. L'ampia gamma di interessi non basta però per considerare il Bandello un “uomo terenziano”. Essa infatti è ottenuta con un doppio distacco: prima, fra l’autore e i narratoriypoi, fra questi e la loro materia. Un doppio distacco per cui l’autore rispetto ai fatti, almeno programmaticamente, è in una posizione di assoluta neutralità. Nell’ampia autodifesa della novella XI della parte II, a chi gli rimproverava d’aver scritto novelle «che non sono oneste», rispondeva: Confesso io adunque molte de le mie novelle contener di questi e simili enormi e vituperosi peccati, secondo che gli uomini e le donne gli commettono; ma non confesso già che io meriti d’esser biasimato. Biasimar si deveno e mostrar col dito infame coloro che fanno questi errori, non chi gli scrive. Le novelle che da me scritte sono e che si scriveranno, sono e saranno scritte de la maniera che i narratori l'hanno raccontate [...] io lascerò dire ciò che si vorranno questi così scropolosi che forse altra intenzio-

ne hanno di quella che ne le parole mostrano, sovenendomi di quello che una volta disse il piacevole e faceto Proto da Lucca al signor Prospero Colonna. Egli diceva che lo scriver le cose mal fatte non è male mentre non si lodino, e che ne la Sacra Scrittura sono adulterii descritti, incesti ed omicidii, come chiaramente si sa (I, pp. 778-9)?.

Qualche volta il Bandello sembra più generalmente difendere la moralità di 8Nel Bandello risorge l’illusione, propria dei periodi in cui non si avvertono più valori sicuri, che la letteratura adempia al suo scopo registrando i fatti di cronaca. Inoltre la «lezione de le cose passate» sembra la sola capace di fornire insegnamenti morali, «essendo commun proverbio che più commoveno gli essempi che le parole» (I, p. 707; II, p. 235). La casistica si sostituisce alla morale, gli exerzpla alle tensioni ideali (cfr. II, p. 16). Si può render ragione delle cose naturali, ma pretendere di spiegare gli “accidenti” che avvengono all’uomo sarebbe come cercare la luna nel pozzo: solo Dio ne conosce la cagione (II, p. 379). Agli uomini, e tanto più a dei novellatori, non resta che la realtà fenomenica. Senza entrare «ne le scole dei filosofanti» — dice uno di essi — «noi imitaremo i padri che insieme con le mogli fanno e generano i figliuoli e, secondo la costuma de la Francia, lasciano la cura ai compari che gli mettano quel nome che più loro aggrada» (I, p. 571). Gli “effetti” sono troppo vari; quindi non possono essere ridotti a regole: «Chi volesse — per esempio — de la varietà degli effetti de l’amore render le ragioni [...] sarebbe certo cosa da far sette Iliadi e materia più tosto da filosofi investiganti la cagione de le cose che da me, che ora solamente attendo a scriver i varii accidenti che in diversi luoghi accadeno, così ne la materia de l’amore come in qual altra cosa che si sia» (II, p. 249). Di qui, forse, le ricorrenti formule nor so come, non so in che modo, che che se ne fosse la cagione, che comunque formalmente rispondono a un’esigenza di verisimiglianza: il cronista per lo più conosce solamente gli effetti, non le cause. È poi degno di nota che la varietà degli effetti sia di per sé fonte di meraviglia: «entrammo a ragionare dei varii effetti che tutto il dì veggiamo a certi amatori fare, che certamente sono effetti pieni di meraviglia e stupore, veggendosi la grandissima differenza che è tra loro, secondo che varie sono e molto differenti le nature degli operanti cotali effetti» (I, p. 508). ? E già prima, molte volte, si ‘era premunito con dichiarazioni di questo tipo: «Conoscete poi chiaramente che scriver cose che a la giornata avvengono, se son cattive, non per ciò macchiano il nome di chi le scrive» (I, p. 194); «l’Almadiano disse che non era male a narrare, a leggere od udire le cose secondo che erano seguite, ma che il male era a farle» (I, p. 220). Altrettanto fanno i novellatori: «Ma sia come si voglia — osserva uno di questi, dopo aver

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ogni opera letteraria («Se poi sarà alcuno critico che dica, come gli spigolistri dal collo torto sogliono assai sovente dire, che queste così fatte ciance né a voi leggere né a me scrivere si convengono, si risponderà loro il verso del poeta: “E 1 dir lascivo, ed è la vita onesta”», I, p. 260) e anche credere in una moralità intrinseca ai fatti, quasi in una sorta di catarsi provocata dalla considerazione della singolarità degli accidenti. Per lo più, però, la difesa si fonda sull’estraneità agli avvenimenti dell’autore e dei novellatori, mentre il giovare e il dilettare — che nella dedica generale vengono indicati come scopo primario dell’opera — sono di tipo alquanto estrinseco, non molto diverso da quello delle medievali raccolte di exerzpla. Ne tratta più volte nella parte I (per esempio, nella dedicatoria della novella XXXV); poi, con intento apologetico, nella parte II (dedicatoria della novella XXIV). Qui replicando alle solite accuse, non solo sostiene «che lo scrivere i fortunevoli e diversi casi che a la giornata si veggiono in varii luoghi accascare» non è «opera perduta e di pochissimo profitto» e comunque tale da «recar nocumento alcuno», ma ribadisce che, «descrivendo alcuni accidenti che ai mortali sovente sogliono avvenire e quelli consacrando a l’eternità», si farebbe opera «molto lodata e di non poco profitto a chiunque le cose descritte leggesse». E per dimostrare il proprio assunto si lancia in un volo oratorio che non basta per mascherare la povertà e superficialità delle considerazioni: una tirata che, se non fosse troppo lunga, meriterebbe di essere riferita e analizzata come esempio dello stile alto bandelliano. L’amore per i puri accadimenti, quali che siano le giustificazioni via via addotte, è comunque sincero e trapela di continuo: non foss’altro, dall’oltranza con la quale è realizzata la fictio. Le novelle infatti sono davvero narrate come fatti di cronaca: sono cioè esposte secondo la successione estrinseca ed empirica degli “accidenti”, senza ricercare nessi causali, strutture logiche, coerenza narrativa. Anche le vicende tratte da fonti scritte riacquistano l’aleatorietà dei “casi” che avvengono alla giornata. Questa tecnica talora copre difetti reali della narrativa bandelliana, che spesso confonde la casualità degli eventi con la sommarietà del racconto; di essa si deve comunque tener conto, anche per non confonderla con atteggiamenti ideologici: scorgendo, per esempio, l’incombere della fatalità là dove invece agisce la curiosità per fatti che possono svolgersi coerentemente solo per caso o per virtù (e fortuna) di personaggi che sanno avanzato qualche perplessità sul comportamento di alcune suore — io v'ho narrato questa istoria né più né meno come natrar l’ho sentita» (I, p. 235). E un altro: «Saper il male non è male, ma

farlo è quello che condanna chi lo fa, secondo che sapere il bene e non metterlo in essecuzione non fa perciò l’uomo buono, ma l’operazioni buone e vertuose rendono l’uomo riguardevole e da bene» (II, p. 230). «Ma l’ignoranza che non fu mai buona, — ed ogni ignorante sempre è

tristo, — fu cagione che il povero cavaliero in tal disordine cadde» (I, p. 906): dichiarazione molto interessante, e ancor più lo sarebbe se l’ignoranza biasimata non fosse quella del Decarzeron. Su questo punto il Bandello, per bocca di uno dei novellatori, prende le distanze dal Machiavelli: «Io per me mi fo a credere, e credo senza dubio aver compagni assai, che al mio parere acconsentiranno, cioè non esser mala cosa a saper il male, ma bene esser degno d’eterno biasimo chi il male mette in opera e medesimamente chi altrui l’insegna [...]. Ben si potrà dire: — Il tale è un eccellente ladro, un perfetto adulatore, un gran ribaldo ed un finissimo ghiotto; — ma non già mai che il nome d’onore se gli possa propriamente aggiungere» (II, pp. 529-530)

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ordire trame ben congegnate. Prova ne sia che la società dei narratori è ben regolata, ordinata, sicura di sé e delle proprie virtù, nient’affatto angosciata da dubbi esistenziali. Al fenomenico guarda con stupore e meraviglia proprio perché gode di uno status umano e culturale che non si discute. Questa contrapposizione conferisce un fascino singolare alla fusione, ostentatissima, fra dedicatoria e novella: una fusione reale, non un pretesto per conferire in qualche modo una struttura alla raccolta e per giustificare epistole laudatorie. È rispetto al pubblico delle dedicatorie, non al pubblico dei lettori, che si realizza il processo di attualizzazione: un’attualizzazione per cui i fatti si dispongono secondo le coordinate della lunga vita dell’autore, conferendo alla raccolta un notevole spessore storico. La società evocata fa da garante della veridicità dei fatti, che riacquistano — anche se antichissimi — attualità perché sono stati narrati in un certo momento sullo stimolo di un certo fatto o discorso, suscitando certi commenti, reazioni, discussioni, ecc. «Quando nel principio

ad instanzia de la vertuosissima e molto onorata signora Ippolita Sforza e Bentivoglia io mi disposi a scriver le mie novelle, l'animo mio era quegli accidenti di metter insieme che ai giorni nostri sono accaduti o che avvennero nel tempo dei nostri avi, a ciò che, potendo aver narratore che le cose avesse viste o da persona degna di credenza udite, le mie novelle fossero istorie riputate» (I, p. 843). È difficile dire se e quando questo proposito si manifestò nella mente del Bandello. Sta di fatto che la prima novella della raccolta propone una vicenda ben precedente il tempo degli avi. Allora viene il sospetto che il castelnovese abbia introdotto avvenimenti antichi non solo per crescere il numero delle novelle ma per il gusto, a lui consueto, della variatio che fa risaltare la norma: la dichiarazione testé citata, per esempio, si legge nella dedicatoria della novella XXI della parte II, in cui egli spiega di aver ritenuto di poter raccontare «lo stupramento di Tarquinio in Lucrezia» perché esso era stato narrato e discusso in un ritrovo. Analoga funzione hanno la precisione con cui la novella viene riferita a fonti scritte ! o orali !, l’attenzione con cui si fa cenno a varie versioni dell’accaduto !, la denuncia di apparenti somiglianze con storie famose ! o di una realtà che sembra favola, le indicazioni precise di giorno e ora, i chiarimenti volti a eliminare le incongruenze proprie della narrativa, e via dicendo. Di fronte a tanta precisione e apparente onestà di cronista, come sospettare un processo di attualizzazione e di appropriazione dell’altrui? Era inevitabile che i passi in cui il Bandello si appellava al verisimile venissero dimenticati e la raccolta fosse considerata un vero documento storico: la finzione era riuscita forse anche meglio di quanto non desiderasse l’autore.

10 Cfr., per esempio, I, pp. 296, 603, 643; II, pp. 213, 224, 281, 327, 375. 11 Cfr., per esempio, I, pp. 434, 453, 718, 800, 890, 922, 982, 1001; II, p. 241.

12 Cfr., per esempio, I, pp. 214, 515, 564; II, pp. 2678. 13 Cfr., per esempio,

I, p. 509:

«Parrà forse ad alcuni [...] che io da la favola d'Tfi

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Il verisimile viceversa è ottenuto con il coinvolgimento della brigata nella novella: nella maniera più semplice e ovvia con la prosecuzione all’inizio della novella del discorso avviato nella dedicatoria. Così, per esempio, il Trissino nella novella XI della parte IV continua a discorrere delle «ferine crudeltati» del Valentino prima di narrare sommariamente di Ezzelino I da Romano (II, p. 712). Le vicende possono essere confermate da elementi esterni, controllabili dai membri

della brigata !4j spesso

il narratore

stesso

è testimone

(più o

meno attivo) dei fatti ”. Per lo più la brigata nel suo complesso è in grado di accertare la veridicità dei fatti e insieme di goderne gli “accidenti”, perché conosce personaggi principali o secondari !. Tipico è il caso della novella X della parte II. Il pubblico della novella è affine a quello della dedicatoria; e il Bandello (nella novella) imita persino il mutamento del discorso quando giunge il padrone di casa: «Or ecco che esso signor Cesare se ne ritorna qui ed io a lui mi volterò». E infatti il novellatore gli si rivolge, riconducendo la conversazione al punto in cui era nel momento in cui il Fregoso si era allontanato: «Quando voi di qui vi partiste noi eravamo, signor mio, entrati a ragionar...» (I, p. 769). E, sempre in questa novella, il narratore può indicare alla brigata uno dei beffati: «Vedetelo là, il Fracastore, dico ...» (I, p. 773); quel Fracastoro che già era stato invocato come garante della veridicità della beffa: «che sempre che gliene dimandarete, largamente vi confesserà come restò ingannato» (I, p. 771). Particolarmente interessante è la presenza del Bologna nella brigata della Sforza Bentivoglio, per il brivido tragico che introduce in questo ambiente troppo sereno e compassato: «Io so che alcuni qui ci sono che l’udirono un giorno cantare, anzi più tosto pietosamente cantando pianger lo stato nel qual si trovava, essendo da la signora Ippolita Sforza e Bentivoglia a sonare e cantar astretto» (I, p. 321); «Un giorno essendo Delio con la signora Ippolita Bentivoglia, il Bologna sonò di liuto e cantò un pietoso capitolo, che egli dei casi suoi aveva composto ed intonato» (I, p. 331). Qui il narratore, sotto il nome di Delio, mette in scena il Bandello stesso: «Aveva Delio detto al signor Lucio Scipione Attellano tutta l’istoria fin qui seguita e che voleva metterla in una de le sue novelle, sapendo di certo che il povero Bologna sarebbe ammazzato» (I, p. 332). Ma è inutile proseguire nell’esemplificazione. Il Bandello è abilissimo nel realizzare il verisimile a ogni livello. Precisi segnali percorrono tutta la raccolta, creando un'illusione prospettica, un gioco di specchi per cui le novelle sembrano confermare vicendevolmente la loro veridicità. Che effetto fa, per citare particolari minimi, il sentire Filippo Baldo ricordare, all’inizio della novella XLIV della parte II, di aver raccontato molti anni prima la novella della prendendo argomento, m’abbia questa istoria che io ora narrar v’intendo finta. Nondimeno la cosa è stata verissima e in questa nostra città accaduta [...]» (I, p. 509).

14Cfr., per esempio, I, p. 65: «E chi bramasse di veder il volto suo ritratto dal vivo, vada ne la chiesa del Monistero maggiore, e là dentro la vedrà dipinta»; I, p. 89: «E chi bramasse veder qualche sua composizione, vada...e vedrà...».

!> Cfr., per esempio, I, pp. 108, 111, 367, 529, 645, 772; II, p. 46. 16 Cfr., per esempio, I, pp. 410, 527, 555, 621, 771; II, p. 20.

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regina Anna (la XLV della parte I)? Oppure che effetto fa il ritrovare a p. 389 del primo volume lo stesso episodio del fiume gelato passato a piedi da Isabella d’Este a Borgoforte, già ricordato a p. 184? O ancora, per restare alla marchesa di Mantova, il suo arrivo regolarmente preannunciato dall’abbaiare dei “cagnoletti” (I, pp. 214, 391)? Anche la collocazione delle novelle, apparentemente casuale, risponde a un'ifitento illusionistico. Questa tecnica, poiché comporta la mimesi della conversazione, ha conseguenze strutturali evidenti: non solo le ampie introduzioni dei novellatori che si rivolgono alle brigate, ma anche, all’interno dei racconti, le pause e divagazioni che talora allentano o spengono la tensione narrativa !”, e quindi possono apparire gratuite; in realtà esse sono gratuite come le novelle, che nascono dalla conversazione e nella conversazione. Nei ritrovi eleganti «gli uomini militari de l’arte del soldo ragionano, i musici cantano, gli architetti e i pittori disegnano, i filosofi de le cose naturali questionano, e i poeti le loro e l’altrui composizioni recitano, di modo che ciascuno che di vertù o ragionare od udir disputar si diletti, truova cibo convenevole al suo appetito» (I, p. 241). La novella è solo un momento di questi conversari, e il Bandello lo sottolinea imitando l’andamento irregolare di una narrazione compiuta davanti a una precisa brigata: narrazione sovente interrotta per far posto a precisazioni, chiarimenti, commen-

ti, illustrazioni di vario genere, ritratti di personaggi anche casualmente ricordati («Era assai simile a un gran dottore di questa città, il quale ... Ora tornando al nostro legista ...», II, p. 261), per descrivere con minuzia e voluto distacco corti, palazzi, campi di battaglia, ritrovi eleganti, interni, abbigliamenti, accon-

ciature, stoffe; digressioni anche molto ampie, per lo più segnalate esplicitamente: «Ora mi son lasciato trasportare, non so come, a parlar di questo singolar giovine, e quasi m’era uscito di mente quello che narrarvi aveva promesso» (II,

p. 7). C'è un po’ di tutto in queste divagazioni, tanto che il novelliere finisce per essere quasi una su727z4 di generi diversi: i ritratti analitici e preziosi della bellezza di Fenicia (I, p. 288) e di Ginevra la bionda (I, pp. 337-8), per esempio, potrebbero stare in un trattato sull’amore, la bellezza e la donna, come le molte discussioni sulla casistica d'amore. Imponente è infatti la presenza dei temi che allora erano propri della trattatistica letteraria: dalle discussioni linguistiche a quelle letterarie, dalle descrizioni e laudationes di città e paesi al dibattito sulla nobiltà, l’onore, la bellezza, la donna, le virtù, la corte, il cortegiano, il principe, la vita militare, ecc. Operazione relativamente semplice, perché a sua volta la trattatistica in quegli anni accoglieva vere e proprie novelle, adottava il linguaggio “comico” e si accostava alla cronaca. Per il modo in cui questi temi vengono affrontati, è evidente il legame (dovuto a sopravvivenza, non a nostalgia) con la cultura “lombarda” dei primi 17 Un caso singolare si ha quando il novellatore ostenta propri gusti e preferenze: «Ma

io, signor mio, se stato ci fossi, mi sarei accordato con gli altri che tutti bevevano vino [...]» (I, p. 339). Amore del vino che, più avanti, lo induce a un'osservazione maliziosa che smorza un

momento patetico: «e la sete si levavano con l’acqua de la fontana, cosa che al cavaliero non

deveva dar noia non bevendo egli vino» (I, p. 347).

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decenni del secolo, di cui le novelle forniscono una ricca testimonianza: anche

se da accogliere con cautela, non solo perché filtrata da schemi letterari, ma perché le novelle vengono narrate nei momenti in cui le brigate si concedono

un po’ di riposo e di svago ‘8. Si novella per passare il tempo, per diporto, in attesa di signori, perché non c'è altro da fare o da dire o da ragionare: «non ci essendo ora altro dire, io l’istoria vi narrerò» (II, p. 712; e cfr. I, p. 401); «ed ora non ci accade faccenda che importi...» (I, p. 482); «Né quanto io ora narrerò sarà per novellare; ma

solo scuserà, ragionando, in questa amplissima e freschissima sala intertenerci fin che passi questo ardente caldo che la stagione ci apporta. Così vi darò un mescuglio di molte cose ridicole ma vere» (I, p. 411). Alle digressioni e ai proemi non si possono dunque chiedere indicazioni troppo precise sull’ideologia del Bandello e dei circoli da lui frequentati. Sarebbe, per esempio, fuori luogo rimproverare al castelnovese di aver ridotto le questioni della trattatistica a misura salottiera, a gioco mondano. La riduzione avviene programmaticamente:

ogni approfondimento è escluso. dalla fictio !. Se poi, per altra via, si constaterà che egli non sapeva comunque andare al di là del buon senso e delle opinioni correnti di una cultura per molti versi arretrata, si avrà solamente una

conferma di quanto risulta anche osservando altri aspetti della sua narrativa: 18 Nella dedicatoria della novella XXI della parte I Girolamo Cittadino dice: «Signora contessa, e voi signori, poi che la disputazione de la poesia si è finita, io sarei di parere che entrassimo in alcun ragionamento più basso e piacevole [...]»; e la signora Camilla Scarampa concorda sull’opportunità di leggere novelle, «a ciò che gli affaticati intelletti, per le cose dotte disputate, alquanto con ragionamenti piacevoli e di leggera speculazione siano ricreati» (I, p. 241). Altrove un novellatore, dopo aver accennato alla discussione svolta nella dedicatoria sulle leggi spartane relative al furto, dice che ogni cosa deve essere fatta a suo luogo e tempo: «Noi siamo partiti da Deciana e venuti qui non per disputare ed astrologare o far lite, ma per ricrearci, darci piacere e star con gioia ed allegrezza. Se io volessi starmi a lambiccare ‘il cervello, io me ne sarei restato a Vercelli con i miei clienti [...]> (I, p. 310). E ancora: «ora mi

comandate, signor mio, che io con qualche piacevol novella rallegri tutta la compagnia, che quasi per così trista ricordazione ha le lagrime sugli occhi» (I, p. 334). Ma gli esempi potrebbero essere moltissimi, perché il Bandello non perde occasione per ricordare che le novelle vengono narrate per distrarre e ricreare gli animi. 19 Il discorso, se sta per diventare troppo serio, viene regolarmente interrotto. Cfr., per esempio, II, p. 13: «Ora, volendo dire de la femina del prete Elia, sono quasi divenuto

predicatore» (dopo un proemio condotto davvero con oratoria da pulpito; cfr. I, p. 629, ma qui si tratta di una dedicatoria: «a scrivervi non mi mossi per predicare ma per mandarvi questa istoria»); I, p. 893: «Ma io non cominciai a parlare per entrar ne le disputazioni e scole dei filosofanti...Ma solo a novellare mi posi...»; I, p. 292: «Ora io, non m’avveggendo, era trascor-

so in luogo di novellare a far panegirici»; I, p. 326: «Or torniamo a l’istoria nostra e non stiamo a disputare»; I, p. 15: «Ma perché qui ragunati non siamo per disputare, ma per novellare, lasciaremo le questioni da canto...» (dopo una lunga introduzione e prima di raccontare una novella che è ampiamente contrappuntata da commenti e comprende dibattiti e ampie orazioni). La brigata scompare e il Bandello instaura un colloquio diretto con il dedicatario nei rari casi in cui vengono introdotti argomenti impegnativi, più ardui di quelli “medi” di un salotto. Così nella dedicatoria della novella LXII della parte III, in cui eccezionalmente ci si solleva a considerare i grandi rivolgimenti storici del Cinquecento, non solo manca la brigata ma la novella è priva di pubblico e inizia ex abrupto.

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che, conoscendo bene le proprie capacità, con la sua finzione ha saputo porre un opportuno limite alle proprie ambizioni. La raccolta di novelle è programmaticamente un’opera extra-letteraria, estranea cioè ai canoni del classicismo volgare. Di conseguenza manca di “stile”, non si propone un modello, non cerca omogeneità e regolarità linguistica. È al contenuto che il Bandello riferisce la speranza che le novelle possano durare «perpetuamente» (I, p. 294). Nella dedicatoria della prima novella della prima parte addirittura afferma di essere stato esortato «a far una scielta degli accidenti che in diversi luoghi sentiva narrare e farne un libro» (I, p. 6): dove, coerentemente, è omesso come non significativo il momento della scrittura °°. Certo è una forma di captatio benevolentiae, non priva di una dissimulata punta polemica, l’anticipata ammissione, fin dalla dedicatoria della novella I della parte I dei propri difetti di lingua e di stile. Ma tale ammissione ha un senso preciso solo perché egli avverte di aver scritto «non per insegnar altrui, né accrescer ornamento a la lingua volgare, ma solo per tener memoria de le cose che degne mi sono parse d’essere scritte» (I, p. 8). Insomma, può permettersi di affermare di non aver stile, in quanto ammette di essersi «assicurato a scriver esse novelle, dandosi a credere che l’istoria e cotesta sorte di novelle possa dilettare in qualunque lingua ella sia scritta» (I, p. 4) ?!: so di non essere il Boccaccio, dice altrove, «ma mi conforta che la sorte di questi accidenti non potrà se non dilettare, ancora che fosse iscritta in lingua contadinesca bergamasca»

(II, pp. 772-3). La finzione serve bene da scudo al Bandello,

disposto a riconoscere il «basso dire» per esaltare la materia che, non essendo «triviale e goffa», non ha bisogno di essere adornata con l’eloquenza (II, p. 772)”. Peraltro, non manca qualche impennata rivelatrice delle ambizioni del Bandello, convinto sotto sotto che la sua narrativa potesse costituire una valida alternativa allo schifiltoso classicismo. Così nella premessa alla parte III, 20 Qualche volta, però, sia pure di rado, il Bandello accenna a una rielaborazione:

«le

dette novelle vo rivedendo ed emendando per apporle l’ultima mano, a ciò che si possano dal publico vedere» (I, p. 936); «la quale perché degna mi parve d’esser da tutti intesa, quello stesso giorno così a la grossa per modo di commentario scrissi, a ciò che non m'’uscisse di mente, con animo poi di rivederla e, come ho fatto, mettervi l’ultima mano» (I, p. 525). Diverso, ovviamente, è il caso dell’elaborazione artificiosa d’un avvenimento attribuita a un

novellatore. Isabella d'Este, per esempio, invita il Castiglione a rinarrare la storia di Lucrezia già letta in Livio, «come fu, ma ornandola con quelle cose verisimili che vi pareranno a proposito». E il Bandello si affretta a precisare che nella novella non c'è nulla di suo, «essendo io semplice recitatore di quanto il gentile, dotto e facondo Castiglione disse» (I, p. 844). 21 Argomento che il Bandello riprende più volte, rispondendo a critiche vere o presunte. Per esempio, nella dedicatoria della novella XI della parte II: «Dicono [...] che non avendo io stile non mi deveva metter a far questa fatica. Io rispondo loro che dicono il vero che io non ho stile, e lo conosco pur troppo. E per questo non faccio profession di prosatore. Ché se solamente quelli devessero scrivere che hanno buon stile, io porto ferma openione che molto pochi scrittori averemmo. Ma al mio proposito dico che ogni istoria, ancor che scritta fosse ne la più rozza e zotica lingua che si sia, sempre diletterà il suo lettore. E queste mie novelle, s'ingannato non sono da chi le recita, non sono favole ma vere istorie» (I, p. 778).

22 Ma nella raccolta serpeggia anche un atteggiamento di orgoglio per il vigore che può

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ribadito per l'ennesima volta che le sue novelle sono «una mistura d’accidenti diversi, diversamente e in diversi luoghi e tempi a diverse persone avvenuti e senza ordine veruno recitati», dichiara: Ora ci saranno

forse di quelli che vorrebbero ch’io fosse, non

so se mi dica,

eloquente, o vie più di quello che io mi sia in aver scritte queste novelle; e diranno ch'io non ho imitato i buoni scrittori toscani. A questi dirò io, come

mi sovviene

altrove 2 d’aver scritto, che io non sono toscano, né bene intendo la proprietà di quella lingua, anzi mi confesso lombardo, anticamente disceso da quelli ostrogoti che, militando sotto Teodorico loro re ed avendo le stanze a Dertona, edificarono la mia patria [...]. Non sarebbe adunque gran meraviglia se io talora usasse alcuna parola triviale, e poco usitata, che spirasse alquanto del gotico. Se la lingua tosca mi fosse stata natia o apparata l’avessi, molto volentieri usata l’averei, perciò che conosco quella esser molto castigata e bella. Nondimeno, per quello che a me ne paia, il coltissimo ed inimitabile messer Francesco Petrarca, che fu toscano, ne le sue rime volgari non si truova aver usate due o tre voci pure toscane, perché tutti i suoi poemi sono contesti di parole italiane, communi per lo più a tutte le nazioni de l’Italia.

Questa volta il Bandello argomenta la sua difesa con palesi ricordi trissiniani e mira a giustificare la sua lingua in sé e per sé. Analogamente, ma sul piano della lingua dell’uso, accoglie argomenti tipici degli ambienti “lombardi” in un passo molto interessante, che però è opportunamente presentato per l’interposta persona di un novellatore: altro insomma non mi sanno che rispondere se non che il parlar milanese è troppo più goffo che parlar che s’usi in Lombardia, e quasi che non si vergognano chiamarlo più brutto che il bergamasco. Ma io non trovo mai, — per l’ordinario, dico, — che i tedeschi parlino altro linguaggio che il loro, i francesi quello di Francia, e così ogni nazione il parlar suo nativo. Io non vo’ già dire che la lingua cortegiana non sia più limata de la

raggiungere la nuda cronaca. Nella novella X della parte II il narratore, per esempio, rimprovera al Boccaccio di aver reso troppo facile il compito a Bruno e Buffalmacco, attribuendo un’eccessiva stupidità alle loro vittime: «Io vorrei che si fossero apposti a beffar altri che uno scemonnito pittore ed un medico insensato che non sapeva se era morto o vivo, tanto teneva del poco senno [...]. Ma le novelle si scriveno secondo che accadeno, o almeno deveriano esser scritte non variando il soggetto, se bene con alcun colore s’adorna». Nella sua novella, invece, i

beffati sono personaggi come il Bembo e il Fracastoro: «Io non credo già che ci sia uomo di così poco vedere che voglia parangonare a costoro Calandrino e maestro Simone; e se il facondissimo Boccaccio avesse avuto questo soggetto, io mi fo a credere che ne averebbe composta una o due bellissime novelle ed ampliatele e polite con quella sua larga e profluente vena di dire. Ma io dirò semplicemente il caso come occorse, senza fuco d’eloquenza e senza altrimenti con ampliazioni e colori retorici polirlo» (I, pp. 770-1). 2 Nella dedica generale («Io non voglio dîre come disse il gentile ed eloquentissimo Boccaccio, che queste mie novelle siano scritte in fiorentin volgare, perché direi manifesta bugia, non essendo io né fiorentino né toscano, ma lombardo», I, p. 4) e subito dopo nella dedicatoria della novella I della parte I: «Se poi, come di leggiero forse avverrà, cose assai vi saranno rozze, mal esplicate, né con ordine conveniente poste, o con parlar barbaro espresse, a la debolezza del mio basso ingegno l’ascriva e al mio poco sapere, e pigli in grado il mio buon

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milanese, ché mi crederei dir la bugia; ma bene mi fo a credere che nessuna lingua pura che s'usi del modo ov’è nata, che sia buona. Si pigli pure e la toscana e la napoletana e la romana o qual altra si voglia, che tutte, non ne eccettuando alcuna, hanno bisogno d’esser purgate e diligentemente mondate, altrimenti tutte tengono un poco del rozzo ed offendono gli orecchi degli ascoltanti. Così credo io che il parlar milanese sia da sé incolto, ma si può leggermente limare. Tuttavia io non saperei biasimare chiunque si sia che la lingua sua volgare parli, che insieme con il latte ha da’ teneri anni bevuta. Il primo cardinale Trivulzo, che nato e nodrito era stato in Milano e fu già vecchio fatto cardinale, andò a star a Roma al tempo di papa Giulio secondo. Egli parlando non si poteva nasconder che non fosse milanese, sì schiettamente quel linguaggio parlava. Gli fu da molti detto che devesse mutar parlare ed accostumarsi a la lingua cortegiana; onde sorridendo rispose loro che gli mostrassero una città migliore e d’ogni cosa più abondante di Milano, che alora egli imparerebbe quell’idioma; ma che ancor non aveva sentito dire che ci fosse un altro Milano (I, pp. 987-8).

Di solito, però, il Bandello si attiene coerentemente alla finzione e ricorda i difetti della propria lingua e del proprio stile senza tentare di giustificarli. Così nella dedicatoria della novella II della parte I, narrata da Silvio Savello, si duole di non averne saputo imitare «l’eloquenza [...], che in effetto ne la sua narrazione mostrò grandissima»: «ma io son lombardo, ed egli romano». E nella dedicatoria della novella XL della parte I: «Vi prego bene a considerare che messer Niccolò è uno de’ belli e facondi dicitori e molto copioso de la vostra Toscana e cheio son lombardo» ?4. Sono dichiarazioni che — come la difesa del milanese —-rinviano a una situazione linguistica e culturale ormai remota; avevano un preciso significato nei primi decenni del secolo, non negli anni quaranta, al tempo della crisi del classicismo volgare e del trionfo dei poligrafi: quando ormai la lingua nazionale era un dato di fatto e spontaneamente ogni letterato avvertiva l’esigenza di superare nettamente i limiti della propria parlata, accogliendo una lingua super-regionale che le tipografie, non meno dei grammatici, avevano imposto. Nella novella IX della parte I il Bandello delle donne milanesi — a cui la natura ha negato «uno idioma conveniente a la beltà, ai costumi e a le gentilezze loro» — dice che suppliscono al natural difetto («ché in effetto il parlar milanese ha una certa pronunzia che mirabilmente gli orecchi degli stranieri offende») con l’industria, «perciò che poche ce ne sono che non si sforzino con la lezione dei buon libri volgari e con il praticare con buoni parlatori farsi dotte, e limando la lingua apparare uno accomodato e piacevole linguaggio» (I, p. 117). Così ha fatto anche il Bandello, rimanendo — con un tipico atteggiamento cortigiano — al di qua del classicismo, anche di quello trissiniano. Lo mostrano i molti cultismi e le numerosissime oscillazioni volere, pensando ch’io son lombardo e in Lombardia a le confini de la Liguria nato, e per lo più degli anni miei sin ad ora nodrito, e che, come io parlo così ho scritto [...]» (I, p. 8). 24 Cfr. ancora, per esempio, I, p. 482: «a ciò che se alcuno mi mordesse che avendola io sentita recitare ad un eloquentissimo romano l’abbia con parole non romane scritta, possiate scusarmi che ho fatto quanto ho potuto»; II, p. 111: «sono sicuro, quanto a l’istoria appartiene, averla intieramente scritta, ma se al candido e purgato stile de la feconda vostra eloquenzia non sono arrivato, scusimi appo voi che a tutti non è dato navigare a Corinto».

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fonetiche e morfologiche, che indicano una ben scarsa preoccupazione di regolarità grammaticale; non certo i lombardismi. L’excusatio non petita di essere lombardo, invece, ha un preciso valore se la si intende come onesta denuncia di uno strumento linguistico artificioso e libresco, privo della duttilità e dell’omogeneità che sono date dal possesso naturale. La sua, infatti, è una lingua letteraria, di per sé sostenuta ed eloquente, retoricamente strutturata. Grigia per eccesso e uniformità di colori (altro che mancanza di stile!). Vi abbondano le clausole ampollose e magnifiche, ottenute con l’ordo artificialis e distassie anche violente, i gerundi posposti all'oggetto, gli avverbi e i complementi anteposti, gli iperbati, le studiate rispondenze in chiasmo o in parallelo, gli stilemi poetici, le coppie e le dittologie sinonimiche ?, le accumulazioni («tutto pieno di còlera, di stizza, d’ira e di furore», I, p. 270), gli echi fonici, le allitterazioni, le riprese verbali («sudava d’un sudor freddo come un freddissimo ghiaccio», I, p. 49), le interrogazioni retoriche, la litote, la preterizione, l’anafora, le arguzie di gusto salottiero («s'era il misero amante da una breve vista di begli occhi de la fanciulla avvelenato; e tanto a dentro il liquido fuoco e sottile de l’amore, che ne la bella giovane posto avea, l’accendeva, ardeva e consumava», I, p. 11), il verbo in clausola finale, il lezioso amore dei diminutivi e in genere gli ingredienti di uno stile fiorito che ricorda quello del Boccaccio giovane. Gli aggettivi, spesso in posizione enfatica e ridotti a puri epiteti, sono numerosissimi; del superlativo viene fatto un vero abuso 2°. È un’aggettivazione ornamentale, generica, indifferente alle sfumature. Abbondano le orazioni, con movenze molto marcate ”. Per quel che riguarda il lessico, a parte i cultismi, fanno bella mostra di sé i prefissi e i suffissi che conferiscono un tono prezioso, a cominciare dai frequentissimi aggettivi in -evole e avverbi in -evolmente. 2 Disposte in modo da formare tutte le combinazioni possibili: «A questo spaventoso e pieno di compassione spettacolo...veduto il manifestissimo e periglioso suo caso...Le donne piangendo e di paura tremando...il fine di così temerario e periglioso atto...la rigida e dispietata donna...a sì orrendo e mortal caso, alquanto intenerita e de l’amante divenuta pietosa...di calde e vere lagrime tutta bagnata...animosamente notando e destramente rompendo il fiero corso de l’acque...» (I, p. 561). 26 Altrettanto privatissimamente

dicasi degli avverbi,

pure. frequenti

(I, p. 568), nobilissimamente

al superlativo.

Cfr., per esempio,

(I, p. 575), ferventissimamente

(I, p. 576),

parcissimamente (I, p. 581), lautissimamente (I, p. 591), strettissimamente (I, p. 594), dolcissimamente (I, p. 599), crudelissimamente (1, p. 604), prudentissimamente (I, p. 607), fedelissimamen-

te (I, p. 607), ecc. ecc. Per quest'amore dei superlativi, che formano clausole ampollose, si giunge fino a è cantatissima (I, pp. 446, 640), per tempissimo (I, pp. 721, 849), puttanissima (I»

p. 787).

27 Si veda, per esempio, questo schema :«Non sai, signore...? Ove è ita...? Ove è...? Questa certo non è..., anzi più tosto è...Credi tu se...? Non ti sovviene...? Che ti dirò di...? Che animo pensi che fosse il suo...? Ma che dirò io d’...? Credi tu forse...? Tu dei saper... Che ti dirò de la...? Non mi accade ora rammemorar... Ma dimmi un poco: pensi tu...? Tu deveresti pur sapere...» (I, pp. 131-3). E si vedano almeno le due amplissime orazioni della novella I della parte IV e quelle della dama del Verziero (novella V della parte IV) che richiamano alla memoria il Filocolo. Né si tratta di casi isolati: spesso discorsi che vorrebbero apparire appassionati hanno l’andamento artificioso di arringhe, come se in luogo di fanciulle e giovani innamorati parlassero i loro avvocati.

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C'è una fraseologia stereotipa, con formule che si ripetono continuamente quasi identiche °°, fino a depotenziarsi del tutto. Basti pensare all’area semantica relativa alla metafora delle “fiamme d’amore”?, che ritorna quasi in ogni storia erotica in modo passivo, fornendo il destro a una facile ironia che il Bandello sembra voler prevenire facendo dire alla dama veronese di cui è innamorato il Boccali (novella XLVII della parte I):

Costoro altro non sanno dir già mai, e mille volte il giorno lo replicano, che viveno in fuoco, che ardeno, che abbrusciano, che sono d’ardentissime fiamme cinti, e che consumano e si sfanno come cera al fuoco o come ghiaccio al sole [...]. Ma io per me mai non ne vidi alcuno, e così porto ferma openione che nessuna già mai vedesse questi così accesi ed infiammati uomini, ché tali esser tenuti vogliono, ardere, gettar né fiamme né faville, e meno divenir carboni o cenere, se forse non sono di quelli che arsi

dal divino, spaventevole e tremendo fuoco del barone messer sant'Antonio si veggiono miracolosamente fumando a poco a poco consumarsi (I, pp. 558-9).

Il Bandello, però, non vuole scherzare su una metafora di cui sta davvero abusando; la novella al contrario sembra rivendicare il valore non traslato ma reale di queste espressioni. Il giovane infatti replica: Madonna, io son pure troppo chiaro che di me nulla vi cale, perché al mio grandissimo incendio non vi piace aprir gli occhi; ché forse quando la minima scintilla de le mie ardentissime fiamme vi fosse nota [...]. Io ardo per voi, io mi struggo e sensibilmente mi consumo; e il fuoco del vostro amore ove mi abbruscio è fatto sì penace, sì grande e tale che tutta l’acqua de l’Adige che sotto questo ponte corre nol potrebbe scemare non che ammorzare (I, p. 559).

E ne offre la prova “fisica” buttandosi con il cavallo nel fiume:

28 Basti qualche esempio: avvenisse ciò che si volesse; provvedere a’ casi suoi; altro voleva che parole; si teneva per il più aventuroso uomo del mondo; una ora li sembrava un anno; parole interrotte; interrotti sospiri; avrebbe intenerito le ircane tigri; tutt'era niente a par di; più tosto una statua (di marmo) che uomo (donna) vivo (-a); lo amava più che (al par de) gli occhi

suoi; più morto che vivo; amare più che (al par de) la propria vita; dirottamente piangere (e dirotto pianto); ecc. Forse il primato delle occorrenze è da attribuirsi a darsi buon (miglior)

tempo che ritorna almeno una quarantina di volte. Persino immagini molto ampie ed elaborate vengono ripetute: cfr. I, pp. 381, 620. Si noti anche il gusto di infilzare locuzioni proverbiali o metaforiche, con effetti talora di involontaria bizzarria: «egli pregava un monte che s’inchinasse, perciò che ella gli diceva che seminava ne la rena» (II, p. 239). 29 Impossibile fornire una documentazione. Basti indicare le occorrenze, largamente approssimate per difetto: fiarzzze (de l’amore) (almeno cinquanta volte), infiammare (una quindi-

cina), ardere (una trentina), accendere (una cinquantina), fuoco (una quindicina). E ci sarebbe

da aggiungere abbruciare, divenir cenere, consumare come cera al fuoco o come neve al sole, cocente, fervente, focoso, focosamente, ardente, ardentemente, scaldare, faville, intiepidire, ammorzare, spegnere, refrigerio, ecc. Per di più si hanno frequenti accoppiamenti enfatici o ridondanti: cocenti (focose, ardenti) fiamme, focosamente acceso, ecc. Per cotto il Bandello sente tuttavia il

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Ecco, signora mia, ecco che io son in mezzo a l’acque, ecco che tutto molle e bagnato, come mi vedete, punto di freddo non sento, e tuttavia diguazzandomi ed inacquandomi ardo più che mai e favilla del mio fuoco punto non si scema; anzi se volete ch'io vi dica il vero, io mi sento di più in più infiammare

(I, p. 560).

Nei momenti migliori il Bandello riesce a mantenere la sua lingua nobile e alquanto convenzionale su un livello di decorosa semplicità e di raffinata eleganza, in cui par di avvertire — come egli desidera — il ritmo di nobili conversari. Diversamente succede quando egli cerca davvero di scrivere «così a la grossa senza ornamento alcuno» (I, p. 66). Allora emergono i limiti del “lombardo” che possiede una lingua di per sé troppo elevata. Osservava il Borghini che nelle lettere del Bembo c’è un eccesso di gravità e di sostenutezza, un’incapacità di distinguere i valori tonali, l’uso di un linguaggio non sempre adatto al soggetto. Si vorrebbe un po’ più di affabilità; invece lo stile è sempre lo stesso: qualche volta — è vero — tentò di abbassarlo, «ma e’ non si può negare che la natura glielo aveva negato». Il Borghini osservava anche, a questo proposito, che «il parlar familiare e lo stile piano e umile ha più bisogno della vera notizia e della proprietà della lingua che lo stile alto e affaticato con l’arte, perché quello si serve più delle voci comuni e più si può cavare dalla lezione degli scritti che non questo altro. E segno ne sia che molti scriveranno bene una orazione che in una epistola familiare o in una novella son freddi [...]» ?°. Altrettanto potrebbe dirsi del Bandello, che cercando di imitare il parlare disadorno ricorre ad artifici piuttosto meccanici, che stridono con il contesto, quando addirittura non scrive come vien viene, ottenendo un effetto di sciatteria, non di popolarità o di parlato. Si veda, per esempio, come in questo passo si trascorra disinvoltamente da una ripresa petrarchesca ?! a espressioni quasi gergali e infine a un linguaggio sostenutissimo: tenendo per fermo che qui non sia persona che poco o assai non abbia amato, mi persuado di quanto ora per me si parlerà appo tutti trovar pietà non che perdono. Onde al fatto venendo, non permetta già Iddio che, volendo io parer una santocchia e donna di quelle che tutto il dì mangiano paternostri parlando coi santi, e partoriscano diavoli, resti ingrata, sapendo esser l’ingratitudine un vento che adugge ed asciuga la fontana de la divina pietà (I, p. 179).

Gli espedienti a cui si ricorre per dare una qualche impressione di popolaresco sono pochi ed estrinseci. Ecco, per esempio, che il linguaggio di Mangiavillano e Malvicino (due nomi parlanti!) è caratterizzato da esclamazioni come 4/ corpo del pissasangue, al corpo del vermocan, potta de la morìa, al corpo del turco bisogno di introdurre un “come si dice”: «era, come si dice, de l’amore di Paolina cotto» (II, p. 358).

30 Cfr. M. Pozzi, I/ pensiero linguistico di V. Borghini, in Lingua e cultura del Cinquecento, Padova 1975, pp. 163-4. 31 Ma gli stilemi petrarcheschi, non meno di quelli boccacceschi, sono ridotti a inerti

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(I, pp. 664-7)??. Più in generale si può dire che, anche al di fuori del

popolaresco, il Bandello — se ama usare e glossare vocaboli che richiamano ambienti e luoghi precisi ?? — è molto parco nel servirsi di parole che per la loro forma fanno macchia: non sono molte le parole e le frasi forestiere 34 e

. materiali da costruzione. Cfr. I, p. 422: «E così costei argutamente si vendicò come fa chi a nuocer e luogo e tempo aspetta...»; I, p. 879: «mi promettono che io appo te ritroverò pietà

non che perdono»; II, p. 144: «il tutto sofferiva, aspettando tempo e luogo per fare, se possibil

era, le sue vendette»; II, p. 688: «Ma lo scaltrito e prudente vecchio messer lo guardiano, come

ento che a nuocere luogo e tempo saggiamente aspetta, se l’aveva con adamantino nodo legata al

dito».

32 A esclamazioni di questo tipo (che ti venga il cancaro; al corpo del giusto Dio; a la croce di Dio; al corpo di Dio; al corpo di Cristo; al corpo del vermocan; al corpo del santo Volto, I, p. 959; al corpo di santa Maria da Montenero, I, p. 962; che Dio lo faccia tristo; al vangelo di san Zaccaria; che ti venga il gavacciolo; che ti vengano tremila cacasangui; ecc.) è per lo più affidata la caratterizzazione di un personaggio plebeo o violento. Ma anche questo modulo nel complesso non è frequente. Una certa vivacità colloquiale è nella novella LIII della parte I. Anche qui c’è un grande sperpero di a/ corpo di san Perpisto, al corpo del pisciasangue, al corpo che non vo’ dire, o cacasangue, al corpo del cavalier messer san Buovo; ma il dialogo fra la donna e il vigoroso contadino è di una gustosa e anche delicata malizia, con una felice mimesi del parlato. Altri elementi un po’ esteriori, con i quali il Bandello cerca di conferire un tono familiare al discorso, sono

termini come

bambo,

bucinare, castronaccio, pecorone,

cicalare,

giambo, pappolate, e sopra tutto ser usato in senso derisorio: ser bestione, ser beccone, ser barbagianni, ser zucca senza sale, ser lo dottore, ser castronaccio, ser uomo, ser capocchio, ecc. (e

anche messer lo montone, messer caprone, ecc.). 33 Cfr., per esempio, I, p. 160: «la sua barchetta, 0, come noi nomiamo, gondola»; I, p.

459: «che i francesi chiamano in lingua loro apernzage»; I, p. 719: «paiono pecchie 0, come qui si dice, api»; I, p. 774: «si chiamano l’un l’altro Zerso se hanno un medesimo nome», «una cornetta che si chiama da’ veneziani becca», «un paio di pantofole che i veneziani chiamano zoccoli»; I, p. 923; II, p. 70: «per la via di terra o ‘fondamenta’, come a Vinegia dir si costuma»; II, p. 74: «Nena — ché così i veneziani chiamano le nutrici»; II, p. 271: «secondo le nostre leggi che chiamiamo ‘parti’»; II, p. 274: «su la ‘fondamenta’, come quivi si dice»; II p. 274: «sul ‘campo’, come noi costumiamo dire, di San Maurizio»; II, p. 275: «empitosi le

maniche de la veste che ‘a gomito’ a Vinegia si chiama»; II, p. 279: «volle anco aggiungere, come si dice, ‘ferro a la cazza’, parlando lombardamente»; II, p. 380: «manda sovente a la Rosina [...] de le ‘busecche’ che si fanno presso a San Giacomo»; II, p. 657: «non faccia, come si costuma dire tra noi, ‘allianza’»; e sopra tutto la discussione del vocabolo genovese intendiò (I, p. 932). Si aggiunga qualche curiosità linguistica; per esempio, nella novella XVII della parte II viene ricordata la predilezione dei veronesi di borgo San Zeno per la 0: «onde hanno

un privilegio di terminar il più de le parole loro in ‘o’» (I, p. 830). Notevole è anche il gusto di attribuire a località precise i detti proverbiali e le forme idiomatiche: «e, come dice il roma-

gnuolo, restano decizzi» (II, p. 157); «non sapendo stare, come si dice a Genova, senza galante

o intendimento» (I, p. 421); «Abbiamo noi lombardi un proverbio che molto spesso si costuma dire, cioè che il lupo muta pelo e non cangia vizio» (I, p. 88); «i milanesi che usano di dire: ‘Che straziato sia il mantello e grasso il piatello’» (II, p. 197); «trovando tutto il dì, come a

Genova si costuma a dire, varie moresche» (I, p. 416); «per essere, come si costuma dire a Milano, parrocchiani de la parrocchia di San Simpliciano» (II, p. 311); I, p. 329; ecc. 34 Cfr., per esempio: «Quebrantare la fe es cosa muy fea, che in lingua nostra vuol dire: ‘romper la fede è cosa molto brutta’ » (I, p. 352); «Pesa 4 Dios, que quiere esto borrachio vigliaco» (II, p. 743); «Ballez, ballez, cordiglieri» con il corrispondente: «Ballez, ballez, me-

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nemmeno quelle in latino . Per lo più, dunque, salvo oscillazioni di tono non molto ampie e certe formule fisse, non c'è una mimesi linguistica, e premesse come «Ancor che io perfettamente non parli italiano, nondimeno ciò che voi dite intendo benissimo ed anco quando parlo sono inteso» (I, p. 392) oppure come «parlando schietto il parlar veneziano dei ricoletti» (I, p. 774) non hanno precise conseguenze linguistiche. Il Bandello cerca piuttosto “colori” retorici e metafore saporite. Ma, come vedeva acutamente il Machiavelli, i limiti di un lombardo che vuol scrivere in lingua risaltano negli scritti comici, proprio per la necessità di usare motti toscani di cui non conosce esattamente né il valore né la tonalità. E alla regola

non fa eccezione il castelnovese che pure ha curato attentamente questo aspetto, impadronendosi di una gran quantità di metafore popolaresche. Anche se si prescinde dalla proprietà del loro uso, si constata infatti che egli se ne serve in modo esteriore, ripetendole meccanicamente nei contesti più diversi. Lo si osserva sopra tutto nelle metafore erotiche, le quali — per lo più di derivazione boccacciana e complessivamente poco numerose — sono ripetute di continuo quasi come formule fisse, solo in rari casi fornite di una punta di malizia o di estrosità 3°. Anche le altre metafore e forme idiomatiche sono spesso iterate ?”; in queste però si nota una maggior varietà e talora anché un’apprezza>

schans que vos estes!» (II, pp. 687, 690); « — Que te calé, Antoyne Savonieres? que te calé? Tu eres officiao et estaves plan. Que te calé? Certes un vieit d’ase per pots. — Queste sono parole de la lingua nostra guascona che in italiano dicono: — Che ti mancava, Antonio Savonaro? che ti mancava? Tu eri ufficiale e stavi agiatamente. Che ti mancava? Certamente la verga de l’asino per lo mostaccio» (I, p. 980). 35 Sono tutte forme molto ovvie: inter vivos (I, pp. 510, 973); pro tribunali (I, p. 627); domine iudex e crimen laesae maiestatis (I, p. 969); pecora campi, oves et boves (I, p. 770); Durabunt tempore curto (I, p. 772); Domine magister (I, p. 776); Poétis quae pars est (I, p. 776); Te Deum laudamus (II, p. 108); Benedictus Dominus Deus Israél (II, p. 109). Eccezionale è il

passo Omznipotens aeterne Deus...multa mirabilia fecit (II, p. 146), che è essenziale per la comprensione della novella. E si noti: «in vista mostrava esser un sartificetur» (I, p. 840). 36 Basti ricordare alcune delle metafore più frequenti: mandare a Corneto, a Cornazzano, in Cornovaglia (con molte varianti); porre în capo l’arme dei Soderini; cimiero (di cervo, de le corna); arringo, battaglia, lotta; giostrare, correre più lance; fare a le braccia; beccare; mangiare la carne di capretto; copertoio da letto o da donna; danza o moresca (trivigiana); rimettere il diavolo

in inferno; dieta; digiuno; giardino; orto; orticello; terreno; annacquare; innaffiare; coltivare; pelliccione; correre più miglia, più poste; sonagli; corno; messer Mazza; cavallo; coltello; ecc. 37 Elenco, in maniera abbastanza casuale, alcune espressioni metaforiche, idiomatiche o proverbiali che ricorrono con una certa frequenza: ambasciator non porta pena (I, p. 271: «si suol communemente dire»); qual asino dà in parete tal riceve (I, p. 621: «come proverbialmente si dice»); venire come fa la biscia a l'incantatore; pagar di calcagna; portare il cervello sopra la berretta; chi ne fa ne aspetti (II, p. 690 «communemente si suole dire»); cornacchione di

campanile; più raro che i corbi bianchi; bandire la crociata addosso a qualcuno; rendere pan per focaccia (ischiacciata); pigliare le gabelle degli impacci; mettere un grillo in testa; dare incenso ai morti; essere tra l'incudine e il martello; prendere la lepre col carro (II, p. 662: «secondo che dire si suole»; II, p. 688: «come dir si suole»); star con le mani a cintola; nuotare in un mar di

zucchero; fare il conto senza l'oste (I, p. 110: «come proverbialmente si dice»); mettere le mani

in pasta (I, p. 464: «come dir si suole»); entrare in un pecoreccio; cantare a’ sordi; ecc. La

maggior parte delle espressioni ricorre però una o due volte soltanto.

LA NOVELLA

COME

«CRONACA»

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bile vivacità. Nuoce nel complesso agli effetti comici quel quasi didascalico desiderio di chiarezza per cui il Bandello non solo evita le parole straniere e le forme gergali, ma si preoccupa di spiegare o quanto meno di dichiarare proverbi e forme idiomatiche 5, Detto questo, converrà al solito ricordare la fictio delle novelle, per cui il “comico” non viene ossèrvato nel suo verificarsi ma riferito e quindi glossato; e, più in generale, che il sopra citato giudizio del Borghini sulla lingua del Bembo non si può estendere tou? court al Bandello perché, se la lingua del Bembo voleva essere omogenea, il Bandello scrittore restava estraneo a questa e ad altre esigenze del classicismo volgare. Nelle novelle, per la presenza dei vari aspetti delle conversazioni, si ha una pluralità di temi e di “stili”, anche se l’escursione linguistica non è molto ampia. Cercare di ridurre a unità gli uni o gli altri sarebbe un andare contro le intenzioni dell’autore, che ha voluto realizzare un’opera a più voci, «una mistura d’accidenti diversi» (II, p. 247), in cui anc! le varie questioni sono considerate da angoli visuali differenti. Nulla vieta, naturalmente, di scernere il meglio, il più riuscito; nel giudizio storico e culturale. però, non si può e non si deve dimenticare la natura composita di quest'opera mal inquadrabile in generi e tradizioni. Si osservi, per esempio, il modo in cui materie e stili di varia provenienza si incontrano nella novella XXXVIII della parte II. Il racconto è fragilissimo: un puro accidente, un fatto di cronaca piattamente riferito. Se non si tenesse conto della finzione per cui dedicatoria e novella fanno tutt'uno, ci sarebbe da pronunciare un giudizio pesante sul programma bandelliano di piegare la letteratura alla cronaca. Qui la dedicatoria travalica abbondantemente nell’amplissima introduzione della novella; ed è questa introduzione che interessa il narratore. Vi si ritrae il conte Gian Alvise Fiesco come un principe tutto volto a impadronirsi del potere e, per di più, quando tutta l’Italia — «levatone quell’angulo che i veneziani possedono» — era direttamente o indirettamente assoggettata a Carlo V. Il Fieschi sapeva ben distinguere fra politica e morale; fra l’altro, a chi si meravigliava che non rivelasse a nessuno i propri propositi, diceva riprendendo un detto di Catone: «Se io credessi che la camiscia sapesse i concetti del mio core, io l’arderei» (II, p. 6). E il narratore, che ha già ricordato il verso di Euripide spesso allegato da Cesare («se la ragione deve esser violata, si deve violare per cagione d’acquistarsi un dominio», II, p. 5), conclude con un’implicita citazione dei Discorsi del

Machiavelli: Ma è gran cosa che in questa nostra vita umana l’uomo di rado (o non voglia o non sappia o non possa), sia 0 in tutto buono o in tutto tristo: ché se pure egli voleva impadronirsi de la patria, deveva levar via tutti gli ostacoli che a farsi signore impedir il potevano o rendergli l'impresa difficile. Ma egli non si può interamente esser perfett0 [P..]XILEpt6):

38 Di norma il Bandello non lesina le spiegazioni e le informazioni. Per esempio, dopo averlo più volte usato, spiega un noto detto latino:

«Questi tali devriano tutti esser senza

rispetto veruno mostrati vituperosamente ad ogni gente col dito di mezzo per più loro scorno.

310

LA NOVELLA

COME

«CRONACA»

La citazione conclude un’accademica discussione sul giudizio che conviene formulare su chi si impadronisce della libertà della patria: è, sia pure in una posizione significativa, solo uno dei materiali di cui il Bandello si serve per accrescere e variare la casistica della sua cronaca. Per di più il personaggio è devitalizzato da una retorica invadente, che tutto stempera: il suo ritratto — basti segnalare un elemento macroscopico — inizia con una catena di preterizioni scandita in ben sette periodi introdotti da tacerò. La descrizione della servitù dell’Italia è troppo ben pausata per essere efficace; è in funzione della glorificazione del personaggio: Egli ha i reami di Napoli e Sicilia e il ducato di Milano in suo potere. Mantova gli guarda in viso e ad ogni suo cenno ubidisce. Ferrara che può far altro che essergli aiutrice? E tanto più gli sarà, quanto che si dice che ha esso imperadore abbassato l'orgoglio di Sassonia, e troncate l’ali a la più parte di quei prencipi tedeschi, e a sé tirato parte de le città franche e messo discordia tra’ svizzeri. Mi direte forse che il papa gli potrebbe far ostacolo: io non veggio che Sua Santità s’armi, né so che confederati seco siano; e la Chiesa per sé non gli potrà far resistenza, essendo tempo adesso che l’armi spirituali, (a tale siamo venuti), non si temeno quasi più. In questi adunque tempi, che un giovanetto abbia voluto prender il dominio de la patria dipendente da l’imperadore, arguisce veramente un animo cesareo (II, pp. 5-6).

Eppure, a chi prescinda dall’artificio retorico e ricordi il proposito cronachistico del Bandello, la pagina appare significativa. La citazione di Machiavelli non solo si accompagna con quelle di Euripide e Catone, ma è ben funzionale; riguarda il principe nuovo in una situazione politica giunta allo stremo. E si tratta di Genova, la città del Fregoso a cui il Bandello è strettamente legato; e la descrizione della situazione italiana, anche se compiuta con la solita freddezza, non manca di precisione. Chi poi ricordi che l’onnipotenza dell’imperatore nel 1526 aveva causato la fine del quieto vivere del Bandello, potrà anche scorgervi qualcosa di più sentito e intenso.

Non si vuole, per questo, attribuire al Bandello una spregiudicatezza politica. Altri passi presentano una netta condanna di quella massima machiavelliana °?. Un discorso preciso sugli atteggiamenti del Bandello su questo o quel

Dico col dito di mezzo, ché era manifestissimo segno appo gli antichi, quando volevano mostrar uno scelerato e facinoroso uomo, che, complicando ne la mano tutti gli altri diti, quello di mezzo distendevano, a ciò che ciascuno si guardasse di praticare con quelli che in tal modo erano notati» (II, p. 530). Solo i personaggi del Decazzeron — oltre quelli della Bibbia, dei poemi cavallereschi e della mitologia — sono considerati universalmente noti (e per lo più citati come se fossero realmente esistiti): «si convertì ne la specie di quel buon umore che voleva Calandrino che il suo sozio Bruno dicesse a la Nicolosa» (II, p. 20); «né ho il viso dei baronzi» (I, p. 323; e cfr. I, p. 836); «fece parte de la confessione di ser Ciappelletto» (I, p. 429; II, p.

118); «non voglio ora che entriamo nel farnetico di monna Licisca e di Tindaro» (I, p. 625); «La Ciutaccia con cui giacque il proposto di Fiesole era sette mila volte men brutta» (II, p. 163); «non mi dir quello che madonna Oretta disse al cavaliero fiorentino» (II, p. 197); ecc. 39 Il capitolo XXVII del primo libro dei Discorsi è discusso e condannato da un novellatore nell'ampia introduzione della novella LV della parte III.

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COME

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311

problema, che abbia le novelle come fondamento, è sempre difficile e pericoloso, data la sua neutralità rispetto ai novellatori e ai racconti: vi incontriamo spesso un’opinione e il suo contrario, quasi come

se avessimo di fronte un

dialogo in cui gli interlocutori si rispondono a distanza. Questa pluralità di voci e di opinioni in parte deriva da certa superficialità del Bandello e da scarso interesse per molti problemi; risponde anche, però, a una vivissima e sincera curiosità per gli eventi e i loro protagonisti. Anche per questa via, dunque, torniamo a scoprire nel Bandello un cronista attento, perspicace, ricchissimo di informazioni, piuttosto che uno scrittore dotato di forte personalità. Conviene dunque accogliere, alla lettera, la sua raccomandazione di leggere le novelle «con quell’animo [...] con il quale sono state [...] scritte» (I, p. 3), accettandone la voluta attenzione al fenomenico (anche in fatto di opinioni), senza pretendere una coerenza e un’omogeneità che sono estranee al disegno dell’opera e insieme senza chiedergli quello che, nella consapevolezza dei propri limiti, non ha

voluto dare.

LA FRONTIERA

ORIENTALE

DEL PIEMONTE

La mia non sarà una vera e propria relazione. Mi limiterò ad alcune considerazioni che probabilmente risulteranno ovvie per molti e tuttavia, spero, non saranno inopportune come introduzione a questo convegno che non è nato da ragioni celebrative ma dal desiderio di scavare dentro e intorno all’opera del Bandello: un’opera in cui evidente appare il desiderio di salvare il ricordo di opere e scrittori, ambienti culturali e piccole corti, palazzi e ridotti signorili, paesi e personaggi d’ogni tipo e qualità. Certo, non vi mancano i Bembo e i Machiavelli, ma li incontriamo fuori dai contesti da cui potrebbe risaltare la loro grandezza. Per lo più vi troviamo i personaggi e i luoghi di una cultura vinta, soffocata ed emarginata sia dal classicismo sia dalle guerre fra Spagna e Francia. Luoghi e personaggi che si collocano, com'è ovvio, in un territorio ideale, poiché di “vinti” ce ne furono ovunque. Sopra tutto dopo la rovina degli Sforza, però, essi sembrano addensarsi in un territorio concreto, il cui epicentro si potrebbe collocare proprio qui a Tortona oppure, se gli vogliamo conferire una valenza simbolica, a Castelnuovo Scrivia, non tanto perché patria del Bandello quanto perché una cultura emarginata è più efficacemente rappresentata da una città «gota» che dalla romana Tortona. Dovendo dare un nome a questo territorio, ho usato l’espressione frontiera orientale del Piemonte, mantenendo al termine Piemonte il significato restrittivo che ancora aveva nel Cinquecento. Non mancarono, è vero, nel Cinquecento e prima, testimonianze di accezioni più ampie del termine. Queste però si incontrano quasi soltanto negli scritti di uomini che venivano di lontano e quindi erano inclini a generalizzazioni. Chi viveva nei territori dell’attuale Piemonte di solito era più preciso. Nella Passione di Revello, per esempio, si attendono spettatori di Lombardia, Piemonte e d’oltremonti. Come apprendiamo da Leandro Alberti, ancora a metà Cinquecento, con il termine Pierzonte si indicava un territorio che non solo escludeva i marchesati di Monferrato e di Saluzzo ma non comprendeva per intiero nemmeno i domini sabaudi: Saranno i termini di essa regione il Po dall’oriente, l’Alpi dei Liguri da mezogiorno, dall’occidente l’Alpi della Gallia e il fiume Dorietta o sia Duria Riparia dal settentrione. [...]. È questa regione piena di belli, piacevoli e fruttiferi colli, dai quali se ne cava frumento e altre biade con delicati vini e altri saporiti frutti. Vi sono città, castelle e molte buone contrade. Addimanderò eziandio questa regione Ducato di Turino per esser dai Longobardi così nominato (a cui aveano disegnato un Duca, come sovente ho dimostrato) dalla città di Turino, ove avevano detti Duchi il loro seggio (come dimostra Paolo Diacono). Dopo i Longobardi fu soggetta ai Reggi d’Italia disegnati dagli Imperatori, e poi a diversi signori. Onde lungo tempo la signoreggiarono i Signori, Conti e Duchi di Savoia. Vero è che nel 1536 se ne insignorì di parte di quello Francesco I Re di Francia, avendo eziandio soggiogato di là dai monti la Savoia. E così vi è rimaso sotto lui e sotto Enrico suo successore insino al presente, che siamo nel millecinquecentocinquantatré, e ora così sta. Onde per questa cosa lunga guerra è

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ORIENTALE

DEL PIEMONTE

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seguitata fra Carlo V Imperatore e detto Francesco; per la quale sono stati ruinati quasi tutti questi luoghi. Entrerò nella particolar descrizzione. E prima (cominciando dalla bocca di Doria, ove si scarica nel Po) dico esservi l’antica città di Turino [...]. Sotto Turino si comincia

a navigare il Po. Alquanto più in alto sbocca il fiume Sangono nel detto Po. Salendo ai colli vedesi Rivoli, molto popolato castello [...]. Più oltre al colle scopresi Aviliana,

molto civil castello e ricco. Ritornando al Po passato il Sagono, ritrovasi Carignano, molto nominato per l’assedio tanto tempo tenutovi dai Francesi, essendovi dentro per «difensione Pirro Colonna Capitano dei soldati di Carlo V Imperatore. Salendo più in alto vedesi fra Rivoli e Aviliana il superbo monasterio di Santo Antonio di Roveso e più oltra Santo Ambrogio, edificato nella valle. Lungo questa valle sono alquante contrade e poi Susa, posta alle radici di Monte Cinisio [...]. Seguitando più oltra incontrasi in due vie per passare l’Alpi nella Gallia. Una delle quali ch'è a man destra conduce in Savoia, l’altra conduce a Granopoli. Seguitando la via di Monte Cinisio, al principio della salita del monte ritrovasi Novaleso e a mezo il monte la Ferrera e più alto, vicino al giogo del monte, appare un lago di chiare acque, da cui scende un fiume, Cinisio nominato. Il quale, scendendo per strabocchevoli balzi, passa da Novaleso e sempre scendendo mette capo nella Doria. Seguitando detto fiume, vedesi alla fontana di quello Sezana e la Chiesiola. Ritornando al Po, discosto dalla boca del Sagono circa sei miglia, vedesi il castel di Pinarolo molto nobile e ricco, ov’è un sontuoso monaste-

rio. Di sopra vi è Petrosa e, alla sinistra dell’origine del Sagone, Pagellato e Bricariasse; alla destra, Monte Bobio. Entra poi nel Po il fiume Pelice, accresciuto dal Clusone, fra Pancallero e Villa Franca, castello molto abitato di popolo, ricco e civile. [...] A Villa Franca vedesi un ponte di legno sopra il Po. Quivi fu fatto prigione Prospero Colonna, dignissimo capitano del Duca di Milano, dai francesi nel 1515. Caminando più oltra verso la fontana del Po, appar Revello e Paisana, onde si cavano bei marmi. Più avanti vi è Critio (come scrissi) e anche più oltre Mambrino castello, da man destra della fontana del Po, ove comincia una bella pianura, Valle del Po addimandata

e dagli abitatori del paese Valle di Lucerna, da Lucerno castello quivi edificato. È questa valle lunga trenta miglia e al più larga quattro. Nell’entrata di essa dall’oriente vi è Mambrino e nel fine dall’occidente una croce di pietra molto alta. Sono gli abitatori nominati cristiani, ma non seguitano i costumi né le cerimonie dei cristiani; anzi sono pieni di malvagie e maladette cerimonie. Tra le altre osservano un certo giorno di ciascun mese, e così si ragunano nella chiesa tutti, e avendoli parlato il loro scelerato e iniquo antistite, nell’oscura notte, estinguendo le facelle e altri lumi, carnalmente usano insieme, dandosi piacere, senza alcun rispetto. Cosa certamente abomine-

vole e da ogn’un di sano consiglio vituperata. Siamo giunti al fine di questa regio-

ne !. La citazione è certo troppo lunga, ma, se non m’inganno, fornisce meglio di un ampio discorso un’idea abbastanza precisa della nozione cinquecentesca di Piemonte, delle traversie che questo incontrò, delle caratteristiche delle sue città, ecc. Eccezion fatta per le notizie di erudizione antiquaria, ho trascritto tutto il paragrafo: la sua brevità è, di per sé, eloquente per chi ricordi la mole

1L. ALBERTI, Descrizzione di tutta l’Italia e isole pertinenti ad essa, Venezia, P. Ugolino,

1596, pp. 4489.

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LA FRONTIERA

ORIENTALE

DEL PIEMONTE

della Descrizzione. Il Piemonte propriamente detto era povera cosa: un piccolo territorio, con al centro Torino, che sfumava nelle zone alpestri, ricetto anche di eretici o meglio barbari. A est di questo territorio si estende quella che ho chiamato

la frontiera orientale

(e per la precisione

anche meridionale)

del

Piemonte. Fin dove? Difficile porre dei limiti; anzi è meglio non porne affatto, come non ne posero i Savoia quando si misero a guardare bramosamente alla «Lombardia».

Nell’età del Bandello, però, i Savoia (come i due marchesati,

presto coinvolti in crisi dinastiche) non potevano pensare a espandere i loro domini. Le guerre, come dice l’Alberti, avevano privato i Savoia del loro ducato e rovinato «quasi tutti questi luoghi». Solo nel 1559 il ducato venne restituito a Emanuele Filiberto, che nel 1563 riebbe Torino, nel 1574 Pinerolo, nel 1575 Santhià e Asti. Fu lui, com'è noto, a compiere la decisa scelta italiana, poi energicamente proseguita dal suo successore Carlo Emanuele I, che, per esempio, con il trattato di Lione del 1601 cedette alla Francia alcuni possedimenti fra Ginevra e Lione per poter finalmente occupare il marchesato di Saluzzo che, dopo la morte dell’ultimo dei del Vasto nel 1548, era stato occupato e annesso dai Francesi. D’ora in poi i Savoia non perderanno occasione per tentare di espandersi verso oriente. Il Monferrato, dopo l’estinzione nel 1533 della famiglia dei Paleologhi, fu invece occupato da Alvaro de Luna in nome di Carlo V, poi dai Francesi nel 1558 e infine l’anno dopo, con la pace di Cateau-Cambrésis, fu assegnato ai Gonzaga di Mantova. E unito a Mantova rimase fino al 1703, quando i Savoia ne entrarono in possesso, costituendo un saldo legame

fra «Piemonte» e «Lombardia», un canale privilegiato di trasmissione della cultura italiana verso occidente. Altrettanto tardi si congiunsero ai territori sabaudi le altre terre dell’attuale Piemonte: Alba nel 1631, Alessandria e Valenza nel 1707, Tortona e Novara nel 1738, l’Alto Novarese, Vigevano, Voghera, l’Oltrepò pavese nel 1748, Novi Ligure nel 1815. Come si vede, la regione Piemonte, frutto della politica di espansione sabauda, ingloba centri culturali che hanno avuto vicende diverse e separate. Nel Cinquecento non costituiva un'entità né politica né geografica. Non solo. Per tutta la prima metà del secolo anche il ducato sabaudo e i due marchesati conobbero lunghe eclissi, per la forte influenza o l’annessione alla Francia. Né stavano meglio le città della «frontiera», che di continuo passavano di mano in mano. Le disavventure politico-militari aggravarono la condizione di marginalità, rispetto alla cultura italiana, di un territorio periferico che nel complesso era stato poco interessato al movimento umanistico. Il ritardo tanto più risulta evidente se lo si confronta con la vivace vita culturale dell’estremità orientale dell’Italia, cioè con il Friuli, che addirittura nel primo Cinquecento è all’avan-

guardia della nuova letteratura. Ma, se si prescinde dal classicismo, come vedremo meglio più avanti, il Piemonte e la sua frontiera orientale si trovano in una

posizione centrale fra Italia e Francia, fecondamente aperti agli influssi che vengono dall’Est e dall’Ovest: era, da sempre, la naturale zona di transito fra la civiltà mediterranea e quella continentale. Rispetto alla Francia, oltre che affini-

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DEL PIEMONTE

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tà, c'era quasi continuità, una continuità accentuata dalle ricordate vicende politiche. Con la Francia era aperta un’indiscutibile partita del dare e dell’avere, anche se, caso per caso, se ne può discutere la portata e la direzione. Assai rari sono in Piemonte i documenti letterari in francese, è vero; in compenso abbondano le testimonianze documentarie in francese che provengono dalla corte o dall’amministrazione sabauda. Ci sono scrittori francesi originari del Piemonte, e appunto inseguendo le labilissime tracce di uno di questi, Alexis Jure di Chieri, Gianni Mombello ha fatto il punto sull’influenza culturale e linguistica della Francia sull’Italia e in particolare sul Piemonte. I dati e la bibliografia forniti dal Mombello mi consentono di limitarmi ad accennare a un problema ancor oggi dibattuto. Nel Piemonte, egli scrive, la diffusion du francais a dù étre considérable, surtout dans les territoires dépendant du duc de Savoie, puisque c’était la langue de la cour et de l’administration qui était, en partie, aux mains de Savoyards. Pour ce qui est des natifs du Piémont, si le francais était une langue que l’on comprenait et que l’on parlait, ce n’était certainement pas la langue de la communication écrite et encore moins celle de la création littéraire, sinon exceptionellement, à la fin du XV° et au début du XVI siècle. On a l’impression que seuls étaient capables d’écrire en frangais les Piémontais qui étaient liés avec la cour ducale, ou ceux qui avaient fait des séjours en France, et ils ne devaient pas étre nombreux. Dès la fin du Moyen Age, le frangais est donc la langue d’une élite, qu’il s’agisse de fonctionnaires, de clercs ou de marchands ?.

I rapporti con la cultura d’oltralpe erano comunque intensi. Nel lungo periodo della bufera militare restano molte testimonianze di atteggiamenti nettamente filofrancesi delle città «piemontesi». E il francese, anche se scorretto e di tipo utilitario, era ben noto, era al di sopra del livello-soglia della comprensione. Claude de Seyssel osservava, come altri, che «ceux d’Atisanie et de tout le Piémont [...] ne sont pas gramment différents de la forme de vivre de France et si entendent le langage tout ainsi que leur propre et le parlent la plupart d’eux»?. Verso oriente la situazione era fluidissima, tutta da definire. Rispetto al ducato sabaudo, la frontiera era rappresentata proprio da quei territori «lombardi» di cui i Savoia si sarebbero impadroniti nel primo Settecento. Una frontiera ampia, mobile, comprendente terre che la crisi del ducato di Milano aveva ridotto a una condizione incerta. Tutto l’insieme — il Piemonte sabaudo con la sua indefinibile e variegatissima «frontiera» orientale — attraversa per gran parte del secolo una crisi profonda, anche per l’assenza di un centro culturale prossimo che possa servire come polo di aggregazione e di attrazione. Gli intellettuali se ne vanno e con loro imprenditori e capitali. La regione resta 2G. MomgetLo, Sur les traces d’Alexis Jure de Chieri. Le problème des francisants piémontais au XVI‘ siècle, Genève 1984, pp. 20-21. 3C. DE SeysseL, La Monarchie de France et deux autres fragments politiques, textes établis et présentés par J. Poujol, Paris 1961, pp. 66-7. Già ricordato dal Mombello nel volume citato nella nota precedente, pp. 19-20.

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DEL

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marginale proprio mentre il classicismo volgare accelera il processo di unificazione culturale della penisola: la sensazione di un forte ritardo, pertanto, si accentua. È un’area che certo nella prima metà del Cinquecento non ha conosciuto un’altissima vita culturale. Non per questo sarà da dire che non ne abbia avuto affatto. Occorre ricostruirne le manifestazioni culturali, grandi o piccole che siano: studiare conventi, casate, biblioteche, università, ritrovi, tipografie, editori, artigianato, architettura, scultura, pittura, folclore, sacre rappresentazioni, farse e tante altre forme popolari di letteratura e arte, che allora erano assai diffuse, specialmente nel Piemonte sabaudo e marchionale: fra l’altro sono forme che il classicismo ha espunto e oggi riesce difficile ricuperare. Occorre inoltre ricordare che questa era un’area di transito di merci, eserciti, e anche di

uomini, Francia, Francia, modelli

libri, idee, esperienze, «oralità». Ci fu uno scambio reciproco con la come ho detto; ma ci fu anche un interresse privilegiato, insieme con la per quanto avveniva a oriente, ben sapendo che di là venivano nuovi culturali con i quali si poteva anche polemizzare ma che non potevano

essere trascurati. Si instaurò pertanto un complesso rapporto dialettico con la

cultura «rinascimentale», una cultura che si svolgeva secondo l’asse Roma-Firennon deviava ze-Venezia; un asse che, finché durò la splendida corte sforzesca,-

tanto bruscamente a oriente. Semplifico molto. Non si può parlare di «cultura rinascimentale italiana» senza compiere molte distinzioni, perché esistevano molteplici modelli culturali — persino all’interno del classicismo — spesso in aspro contrasto fra loro; e la cultura italiana del Cinquecento deriva dalla loro dialettica. Ma è altrettanto vero che ci furono dei «vinti» e dei «vincitori», e che il Bembo e il Trissino, per non dire dei fiorentini ben poco sensibili a quanto avveniva fuori dalla loro città, diedero dei robusti colpi di spugna su quella dialettica, inaugurando

precocemente una storiografia che vede il Rinascimento come qualcosa di immutabile e di eguale in tutta la penisola e altrove. Oggi quella dialettica si viene via via ricuperando, a rapidi passi, mi sembra; ma non senza che alcune zone restino ancora in ombra: fra queste è anche la frontiera orientale del Piemonte. Si dirà: la cultura di questo territorio è stata poco studiata per l’ovvia ragione che non ne valeva la pena, che è povera e secondarissima; solo studiosi ammalati di provincialismo — i soliti eruditi locali — possono perderci del tempo. Sarà. A me sembra che non sia mai lecito trascurare il passato, bello o brutto che sia. Ma al di là di questa considerazione generale e generica, sta il fatto che si tratta di vicende di interesse nazionale. Nel Piemonte, non solo in quello sabaudo, la situazione infatti muta profondamente nel corso del secolo, innescando un processo di grande importanza per la storia politica e culturale italiana. Nella prima metà del secolo i personaggi «illustri» che vengono in Piemonte sono, per lo più, oltremontani: Erasmo, Guillaume du Bellay (che, trovando a Torino il deserto, si circonda di un cenacolo di intellettuali francesi: Bigot, Morel, Rabelais), Dolet, Marot. Ma questo non bastò per ravvivare la vita culturale di Torino e del Piemonte, e i piemontesi poterono affermarsi solamen-

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te se si recavano altrove o tenevano legami molto stretti con ambienti culturali più avanzati dell’Italia settentrionale e centrale. Nella seconda metà del secolo invece la corte sabauda e Casale eserciteranno una grande forza di attrazione e in Piemonte giungeranno i poeti e gli scrittori più notevoli. Il mutamento dipese in gran parte dalla decisa scelta sabauda, dall'unione del Monferrato a Mantova, dall’elezione-di Pio V, ecc. Ma a maggior ragione, se gli interventi dall'alto ebbero tanta efficacia, occorrerebbe sapere qual era allora la condizione della cultura locale; chiedersi quali furono le modalità con cui il Piemonte si aprì decisamente alla cultura italiana e partecipò, sia pure tardivamente, al processo per cui si pervenne all’unificazione culturale della penisola: tardivamente, ma con moto acceleratissimo. Occorrerebbe insomma capire come dalla diaspora del primo Cinquecento si sia pervenuti a una situazione opposta, quando non solo i maggiori scrittori italiani percorrevano le strade piemontesi ma il casalese Stefano Guazzo poteva scrivere quella Civil conversazione in cui si esprimono gli ideali più alti del declinante Rinascimento. Un tempo si diceva che il Piemonte ha fatto l’Italia. Non sarà — mi pare — una mera curiosità chiedersi «come» è diventato parte dell’Italia. È questo, peraltro, un aspetto di un fenomeno più generale — l’unificazione culturale italiana — che avvenne per «vie regionali», come le ha chiamate Claudio Marazzini in un bel libro in cui ha studiato il rapporto fra Piemonte e Italia, fra lingua italiana e cultura regionale 4. Il Marazzini, pur non rinunciando a considerare tutto il Piemonte, ha compiuto — com’era necessario — una scelta: ha privilegiato una delle vie piemontesi all’Italia, l’unica gravida di futuro: cioè le correnti e le scelte culturali che coincidono con l’affermarsi del predominio sabaudo. Questo libro mostra che i risultati arrivano se si sa cercare e interpretare. È uno stimolo a procedere oltre, a mettere a fuoco le esperienze culturali delle altre zone della Padania occidentale, sempre con un occhio all’Italia e uno alla Francia. Certo, non è compito facile. L’area che ci interessa è caratterizzata dalla fortissima mobilità degli intellettuali, che per lo più lasciarono la patria, eppure di rado riuscirono a radicarsi altrove e per lo più non si riconobbero in pieno nel così detto classicismo volgare; infatti se non furono in grado di creare correnti e tradizioni, non furono però in balia degli eventi e delle influenze esterne. Ebbero una certa coscienza di sé, quanto meno della propria condizione di marginalità, e talora anche della propria, più o meno forte, estraneità ai miti del classicismo e in genere ai principali modelli culturali italiani. Se poi si trattasse di semplice estraneità o marginalità, oppure di opposizione o ancora di modelli culturali nati da diverse situazioni sociali e letterarie ma in un costruttivo rapporto dialettico con la cultura ufficiale, lo diranno le ricerche ancora da compiere e forse già le relazioni di questo convegno. Ma che in queste contrade ci fosse qualcosa di diverso, anche in letteratura, mi pare evidente. Cecil Grayson ha tolto a Castelnuovo Scrivia l’onore di aver dato i natali al Calmeta, ma la 4C. MARAZZINI, Piemonte e Italia. Storia di un confronto linguistico, Torino 1984.

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sua nascita a Chio da «antecessori» insubri non cambia nulla, visto che — come scrive il copista del codice che ci ha conservato alcune sue prose — non dopo molto tempo i parenti suoi, astretti da nuove tornare verso la Riviera di Genova, e portandone lui Vigevani, ch’era l’antica patria loro della illustre famiglia su la Scrivia fondato, che Castelnuovo si chiama, se ne

occorrenze, furono costretti che due anni aveva, non a de’ Colli, ma ad un castello andarono. Quivi Vincenzio

diede opera alle lettere ?.

È veramente spiacevole non saper niente di questi studi in Castelnuovo; una località sulla quale conviene riferire la testimonianza di Leandro Alberti. Sopra la foce della Scrivia, egli scrive, vi è Castel Nuovo, edificato dai Gotti dimorando a Tortona, tanto per avere un luogo da mantenersi ne’ tempi della guerra, quanto per ragunare le cose necessarie quando bisognava, come scrive il Merula con autorità di Cassiodoro. Diede grand’ornamento a questo ricco castello con la dottrina e gravità dei costumi Vincenzio Bandello, Generale Maestro dell'ordine dei Predicatori, ne’ nostri giorni. Si può conoscere di quanta dottrina fosse ornato dall’opere da lui lasciate, come io dimostro nel I libro degli uomini illustri de’ frati predicatori. Dà eziandio fama al detto castello il suo nipote Matteo, pur di detto ordine, con l’opere latine di grand’eleganzia da lui composte, e altresì in volgare ‘.

Citazione d’obbligo, questa, anche se notissima, non solo per il ricordo dei

due Bandelli, ma per quell’origine gota di Castelnuovo sulla quale fra poco ascolteremo la testimonianza di Matteo. In una ben più recente guida del Piemonte — la guida rossa del TCI — a Tortona viene attribuito un solo poeta, Luca Valenziano. Le sue opere oggi sarebbero del tutto dimenticate se non fossero state recentemente pubblicate in edizione critica da Maria Pia Mussini Sacchi con una ben informata introduzione di Ugo Rozzo ”. È stato, il loro, ben più del recupero di un rimatore dimenticato. L'introduzione del Rozzo mostra come un’onesta ricerca possa rivelare intrecci culturali insospettati; l’edizione critica consente di intravvedere alcune nervature di una precoce scelta italiana, cioè bembiana e petrarchesca. Del Valenziano infatti finora si erano lette le rime secondo

il testo fornito dall’edizione del 1532, che era stata

abusivamente sottoposta a una completa e sistematica revisione volta a normalizzare la lingua e la grafia secondo la norma bembiana. A quella data e in quella forma, era uno dei tanti petrarchisti, anche se — a dire il vero — lo accompagnò una discreta fortuna di edizioni e di giudizi fino al primo Ottocento. Ora grazie all’utilizzazione del manoscritto e della preziosa stampa pavese del 1513 ci si ? V. CALMETA, Prose e lettere edite e inedite, a cura di C. Grayson, Bologna 1959, pp. XIII-XIV. 6 Op. cit., p. 369.

"L. VALENZIANO, Opere volgari, edizione critica a cura di M. P. Mussini Sacchi, introduzione di U. Rozzo, Tortona 1984.

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rende conto dell’interesse storico della sua esperienza poetica, che si pone prima e non dopo il trionfo del petrarchismo, come confermano lo stile e la lingua in cui si osserva «l’estrema fluidità grafica, lessicale, e soprattutto morfologica che precede la riforma bembiana, e che è tipica della koinè settentrionale», come scrive la Mussini Sacchi *. Offre dunque l’esempio di una «via» occidentale al petrarchismo, non ancora un risultato compiuto. Se la stampa pavese del Valenziano appartiene ormai al tempo in cui non solo Tortona ma buona parte della Padania occidentale era «lacerata» dalle guerre e dalla soggezione agli stranieri, la Passione di Revello sta a mostrare come il marchesato di Saluzzo, in tempi più tranquilli, fosse un proficuo luogo d’incontro di più culture, con evidenti connessioni con la Francia e altrettante e più con la Toscana e Venezia. Vi si legge nella seconda Petizione, quella al marchese di Saluzzo: Piaxa a te, aduncha, o signor myo benigno, padre de misericordia et non maligno, adiutarci in le cose de questa festa che serà ben devota et honesta, perché credemo che de Lombardia et Pemonti, ancora di là di monti, vegniranno vedere tanto triumpho et solempnitate ?.

Centralità, questa, fra Lombardia e oltre monti, che è propria non solo di Revello ma di gran parte della zona che stiamo considerando, in cui s’incontrano tendenze varie e insieme si danno prodotti originali: un unicum è appunto la Passione di Revello, che ha un eccezionale spessore culturale come ha mostrato Anna Cornagliotti. Gli esempi potrebbero continuare. Basti ricordare ancora l'originalità delle opere dell’Alione, che difende l’uso dell’«astesan», «ben ch’el parler sia diss6nant al bòn vulgar», che promette farse, macarronee, scritti «in lingua galica», «legende da néter, e laude an cant de devòtiòn», e insieme qualche «lectiòn d’amér», che nell’introito della Comedia de l'homo e de soi cinque sentimenti teme o finge di temere di non poter stare a paragone della commedia «chi fé6 pr'exgellentia zuà la an fera» perché non era andato e ir pescher Plaut ni Terrengi per gercher de còmparir qui al parangòn

8Op. cit., p. LIV. ? La passione di Revello, sacra rappresentazione quattrocentesca di Ignoto piemontese, edizione con introduzione e note critiche a cura di A. Cornagliotti, Torino 1976, p. 4. Nella prima Petizione (Ai notabili di Revello) si legge invece: «Et se per altre feste del tempo passato / Revello è stato nominato, / ora per la Lumbardia et Pemonti, / ancora de là di monti, / per questa festa che se ferà, / molto più de questo luogo se dirà, / se renomerà questo castello / et

voy altri de Revello / molto più che sya may ditto» (p. 1).

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de còi chi san parler jargòn o ròmagnol... 1°.

La sua opera è oggi di difficile comprensione perché è il relitto di un grande naufragio che ha sommerso, lasciandoci solo pochi frammenti, quella letteratura «orale» entro la quale completamente si colloca. E la Macarronea presenta tratti ben diversi da quelle padovane o mantovane, appunto perché non nasce dall’incontro di una coscienza umanistica con il desiderio di difendere il proprio volgare. Nella Macarronea, come ha mostrato il suo ottimo editore, Mario Chiesa, manca il dialogo sotterraneo con i classici: «Veramente egli attinge direttamente dal dialetto, inteso come linguaggio prevalentemente parlato, e

riveste il tutto di forme apparentemente latine» !!. L’Alione dunque è certamente marginale rispetto all’umanesimo italiano, ma se poi si passa all'esame concreto della sua opera — come ha-fatto il Chiesa — ancora si constata che questa marginalità significa centralità nell’asse Lione-Asti-Firenze (o Mantova). Collocazione non molto diversa, marginale rispetto alla Toscana, ma centrale per la mediazione che compie fra motivi italiani e panromanzi, spetta al novelliere del Bandello, che della situazione culturale a cui si è sommariamente

accennato può essere considerato un testimone e insieme un simbolo. Egli conobbe, se non tutte, certo molte delle esperienze che allora potevano compiere gli intellettuali della Padania occidentale in cerca di identità e di radici. Non solo. Nelle novelle egli ha voluto lasciarcene la viva e particolareggiata testimonianza, come se già si preoccupasse di salvare dall’oblio cenacoli culturali, casate, personaggi, il cui ricordo — quando scriveva — stava impallidendo sempre più. La cultura che si esprime nella sua opera si potrebbe dire latamente cortigiana, in accordo del resto con quella della maggior parte degli intellettuali «lombardi». Ma quella cortigiana è, com'è noto, una galassia, in cui occorre distinguere caso da caso, ambiente da ambiente, corte da corte. Lo si potrebbe confrontare con l’altro «castelnovese», il Calmeta, o con l’Equicola, un altro sradicato che conservò un tenace ricordo del luogo natale. Le esperienze umane del Bandello in effetti sono in parte simili a quelle dell’Equicola, che ha percorso l’Italia nel senso dei meridiani, così come lui l’ha percorsa nella direzione dei paralleli. Forse anche il Bandello avrebbe potuto trovare una buona sistemazione in uno dei centri della Padania. Ma era nato troppo tardi e conobbe le corti settentrionali in un momento di accentuata trasformazione; o forse la sorte non

gli fu propizia. Ma poco conta il diverso esito delle loro vicende umane. La principale differenza fra questi due intellettuali sta essenzialmente nel punto di partenza, nella patria. Anche quando ormai aveva messo solidissime radici a Mantova l’Alvitano 10 G. G. ALIONE, L’opera piacevole, a cura di E. Bottasso, Bologna 1953, pp. 3-4, 5. Il Bottasso, confutando la tesi preconcetta che l’Alione avesse tradotto dal francese il suo teatro, conferma gli stretti rapporti fra Piemonte e Francia, anche se il rapporto di dipendenza va

inteso in senso opposto. 11 G. G. ALIoNE, Macarronea contra Macarroneam Bassani, a cura di M. Chiesa, Torino

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poteva ripensare alla sua patria come al centro dell’Italia, dunque sentirsi naturaliter partecipe della civiltà umanistica, dire del suo modo di scrivere e di concepire la cultura. Per darsi pensiero sia delle critiche che gli venivano rivolte

dell’Italia latina, e checché si potesse questo poteva non sia delle proposte letterarie che allora venivano formulate. Nella postfazione «Al lectore» del Libro de natura de amore, dopo aver ricordato le vicende militari che avevano ritardato la rifinitura dell’opera, scriveva: Tornati con victoria et gloria, retornai da’ militari tumulti a l’intermesso studio et,

repigliato il libro in mano, parsemi non oltra tenerlo in tenebre, deliberai uscisse in luce, né me retardò puncto la diversità de la vulgar lingua né li varii modi de scrittura novamente sorti in quella, né che molti quanto pegio scriveno tanto più sel recano ad bon iudicio, lontanandosi da la latina orthographia, con remover, adgionger et mutar lettere; né anchora me mutò dal proposito le elegantie et regole d’essa lingua scritte, persuadendomi tal cose esser state composte in utilità di quelli che sono nati fora li confini de la prisca Italia, de la qual era termine Rubicone fiume in Romagna. Et io in quel paese mi trovo haver la patria che Q. Vectio Marso, L. Papirio Fregellano, Q. Valerio Sorano et M. Tullio di Arpino produsse, li quali dal ben dire et bona pronuntia furono summamente lodati. Sequo dunque la pronuntia et sòno della patria, et non senza ragione, ché vedo alcuni che, volendo lo altrui idioma favellare, senza essere in

quello longamente exercitati, (dirò con Tullio) latrano, non parlano et, per non potersi partire dalli scritti di quelli che scrivendo ad imitar si proponono, sono nel scrivere affectati [...]. Et però non così simplicemente, como in bocca mi è occorso, havemo scritto, ma usata dilingentia in electione delle parole et havuta de la proprietà non minor cura. Et così implicate, composte et colligatele insieme, che il dir fosse chiaro et aperto et con qualche dolceza rendesse li sensi facili et intelligibili. Dell’altrui favellare quello havemo imitato che più imitabile ne è parso et più tra eruditi trovamo usitato, togliendo lo exempio de’ docti Greci, li quali hanno la commune lingua, origine et fundamento de le altre, con quatro differentie de idiomi, de li quali per più elegantia si serveno. Per la qual cosa prego che quelli de la orthographia et stile iudichino li quali hanno molto et molto ben scritto et è lor noto quel che importa diligente negligentia 12,

Di contro il Bandello favoleggiava di un Bandelchil e nella prefazione «Ai candidi ed umanissimi lettori» della terza parte delle Novelle scriveva: Ora ci saranno forse di quelli che vorrebbero ch’io fosse, non so se mi dica, eloquente, o vie più di quello che io mi sia in aver scritte queste novelle; e diranno ch'io non ho imitato i buoni scrittori toscani. A questi dirò io, come mi sovviene altrove d’aver

‘ scritto, che io non sono toscano, né bene intendo la proprietà di quella lingua, anzi mi confesso lombardo, anticamente disceso da quelli ostrogoti che, militando sotto Teodorico loro re ed avendo le stanze a Dertona, edificarono la mia patria ne la via Emilia tra i liguri cisapennini, non lungi da la foce de la Schirmia, ove quella le prese acque

1982, p. 25. Del Chiesa si veda anche: G. G. Alione e la cultura dell'Italia settentrionale, in «Studi Piemontesi», VIII (1979), pp. 291-303. 12M. EquicoLa, pp. 238 1.-239 v.

Libro de natura de Amore,

Venezia, Lorenzo

Lorio da Portes,

1525,

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fontanili de l’Apennino e da torrenti accresciute discarca nel re dei fiumi. Essa colonia chiamarono Castelnuovo, che anco oggidì per la civiltà de le nobili famiglie e numerosità del popolo è famosa. Non sarebbe adunque gran meraviglia se io talora usasse alcuna parola triviale, e poco usitata, che spirasse alquanto del gotico. Se la lingua tosca mi fosse stata natia o apparata l’avessi, molto volentieri usata l’averei, perciò che conosco quella esser molto castigata e bella. Nondimeno, per quello che a me ne paia, il coltissimo ed inimitabile messer Francesco Petrarca, che fu toscano, ne le sue rime volgari non si truova aver usate due o tre voci pure toscane, perché tutti i suoi poemi sono contesti di parole italiane, communi per lo più a tutte le nazioni de l'Ttalia.

Un puntuale confronto metterebbe in luce più differenze che affinità, perché i due letterati muovono all’opposizione del classicismo volgare per vie diametralmente opposte. Qui basti sottolineare che il Bandello vi unisce una dichiarazione di estraneità alla civiltà umanistica. Sul valore da dare a questa e ad altre sue dichiarazioni si è discusso e si può ancora discutere; indubbia però mi sembra almeno una certa coscienza di alterità rispetto alla cultura letteraria che, quando egli scriveva, si era ormai definitivamente affermata in Italia e una certa volontà di mantenersi fedele alle proprie origini, a un territorio collocato un tempo ai margini della civiltà latina e allora del classicismo volgare. Per questa fedeltà, lo dirò per l’ultima volta, egli ci ha lasciato una preziosa testimonianza, e sta a noi trarne frutto per ricuperare il nostro passato: nell’utilizzazione e approfondimento delle sue indicazioni ed esperienze sta — almeno in parte — lo spazio di questo convegno e dello stesso Centro studi che lo ha promosso e organizzato.

INDICE DEI NOMI

Questo Indice comprende tutti i nomi di persone, esclusi quelli di personaggi mitologici e letterari. I personaggi storici sono registrati anche se interlocutori di opere letterarie. Le persone vissute dopo il Cinquecento sono riconoscibili perché hanno il prenome puntato. Sotto il nome dei loro autori sono registrate le opere composte nel periodo storico preso in considerazione in questo libro, ad eccezione delle rime, delle lettere e delle raccolte in genere. Abarbanel Isacco, 63 Abarbanel Isacco di Jehudah, 63, 64 Abarbanel Jehudah v. Leone Ebreo Accolti Bernardo, detto l’Unico Aretino 113 Achillini Alessandro, 278 De elementis, 278 Achillini Giovanni Filoteo, 11 Annotazioni della volgar lingua, 11 Adda (d’) Agosto, 91 Adriano VI (Florisz Boeyens), papa, 191 Agostino, santo, 100, 278 Agostono Giovanni Basilio, 172 Agricola Alessandro, 123 Alamanni Luigi, 163, 164, 167, 168, 260 Alberti Leandro, 31, 312, 313, 314, 318 Descrizzione di tutta l’Italia, 31, 312-4, 318

Alberti Leon Battista, 58, 69, 108, 164 Alberti Romano, 72 Albertini (von) R., 168 Alberto Magno, santo, 103, 153 Albizzi Franceschino, 108 Albizzi (degli) Francesco, 282

Alciato Francesco, 215 Alcibiade, 255 Aldo v. Manuzio Aldo Aldrovandi Ulisse, 29, 30 Enarrazione di tutti i generi principali del-

le cose naturali e artificiali che ponno cadere sotto la pittura, 29 Alemanno v. Alamanni Luigi Alessandro d’Afrodisia, 174 Alfonso I d’Este, duca di Ferrara, 112, 178 Alfonso II d’Este, duca di Ferrara, 219, 222

Alfonso II, re di Napoli, 63 Alfonso V, re di Portogallo, 63 Alighieri Dante v. Dante Alighieri Alione Giovan Giorgio, 319-20, 321

Comedia de l'homo e de soi cinque sentimenti, 319 Macarronea, 320 »

Almadiano Gian Battista, 295 Alvarez di Toledo Eleonora, duchessa di Firenze, 261

Amalteo Giovanni Battista, 215

Andrea Cappellano, 70 Andreozzi Giovanni, 33

Angosciuola Girolamo, 88 Angosciuola Teodosio, 88 Anna, regina d'Ungheria, 299 Annibale, 34 Annio (Giovanni Nanni) da Viterbo, 263 Antiquitatum variarum volumina XVII, 263

Antoniano Silvio, 215, 226, 227, 250 Dell'educazione cristiana e politica dei figliuoli, 226 Antonio di Borbone, re di Navarra, 216 Apelle, 89, 112 Apollo novellista, 84 Apollodoro, 57 Apuleio, 109, 263 Aragona (d’) Giovanna, 72, 91 Arcimboldi Giuseppe, 30 Aretino Pietro, 19, 37, 38, 39, 40, 75-7, 79-80, 81, 82, 84, 88, 90, 91, 93, 200, 202, 212, 241 Ariani M., 64Ariosti Orazio, 222

Ariosto Lodovico, 11, 30, 36, 82, 96, 100, 139, 141, 150, 168, 177, 193, 194, 195, 200

Orlando furioso, 39, 41, 45, 158, 194 Aristeo Leonardo, 7 Aristotele, 17, 41, 42, 45, 48, 49, 52, 55, 86, 103, 113, 115, 152, 153, 159, 174, 209, 211, 225,-221,.229, 230, 233, 235). 256,

324

INDICE DEI NOMI

241, 244, 246, 249, 251, 261, 277, 278, 279

Attellano Lucio Scipione, 298 Amaretta Costanza, 71

Amaseo Romolo, 194, 200 De Latinae linguae usu retinendo, 194 Ambra (d’) Francesco, 20, 273 Ambrogini Angelo v. Poliziano Anassagora, 109 Anassimandro, 116 Augurello Giovanni Aurelio, 163, 170, 175, 189

Augusto Gaio Giulio Cesare Ottaviano, im-. peratore romano, 102, 113 Aurigemma M., 69, 82, 87 Averroè, 45, 152, 227, 277, 278 Avicenna, 227

Avila y Zifiiga Luigi, 37 Avila Pietro, 201

Bembo Bembo Bembo Bembo Bembo Bembo Bembo

Carlo di Bartolomeo, Carlo di Bernardo, Elena, 191, 203 Giovan Matteo, 190, Lucilio, 190, 201 Marcella, 190 Pietro, 9, 10, 11, 12,

201 177, 178, 186 191, 201

13, 17, 19, 20,

21-2, 24, 25, 26, 35, 39, 41, 43, 44-5, 51, 53, 58, 62-3, 67-8, 69, 72, 77, 86, 93, 96, 100, 101, 104, 106, 108, 114, 116, 120, 122:0123;0124551275 128,%0129#133,41595; 136, 138, 139, 140, 141, 142, 150, 157, 158, 163, 165, 167, 170-204, 205, 206, 208, 212, 232, 233, 257, 259, 260, 265, 266, 279, 280, 302, 306, 309, 312, 316 Asolani, 54, 57, 62-3, 66, 67-8, 72, 103, 107, 133, 139, 140, 175-83, 186, 192, 193, 197, 200, 201 Benacus, 198

De Aetna, 170, 172-3, 200 Baffa Francesca, 66, 79, 80, 81, 93 Baldacci L., 85 Baldi (de’) Francesca, 92

De Guido Ubaldo Feretrio, 187

Baldo Filippo, 298

Istoria viniziana, 279-80 I motti, 186

Ballistreri G., 88 Bandello Matteo, 290-311, 312, 314, 318, 320-2

Novelle, 290-311, 321-2 Bandello Vincenzo, 318 Bandinelli Ubaldino, 202 Barbaro Daniele, 47-8, 52, 207, 208, 233, 234, 253

Barbaro Ermolao,

171, 173 Barbi M., 264 Bargagli Girolamo, 72-3 Dialogo de’ giuochi, 72-3 Bargagli Scipione, 18, 73 Trattenimenti, 73 Barocchi P., 28, 29, 30, 39, 71, 200 Barocci Michele, 210 Bartoli Cosimo, 19, 20, 124, 265, 273 Bartoli Giorgio, 18 Degli elementi del parlar toscano, 18 Bascetta C., 29 Battista Carmelita v. Spagnoli Giovanni Battista Beazzano Agostino, 200 Beccadelli Lodovico, 199, 200, 274 Vita di P. Bembo, 199, 200 Belisario, 161 Bellini B., 32 Bembo Bartolomeo, 178, 185 Bembo Bernardo, 170, 171, 172, 183, 184, 185, 190

De imitatione, 188-9, 192, 197, 200, 232

De Virgilii Culice, 171, 173, 201

Prose della volgar lingua, 9, 10, 17, 20, 25, 27, 41, 102, 103, 104, 124, 128, 129, 131, 138, 144, 150, 167, 170, 189, 191-8, 2029228:23217265)

Stanze, 179, 186 Bembo Torquato, 191, 203 Benivieni Girolamo, 57, 68, 113, 151, 162, 163, 164, 259

Benucci Lattanzio, 87-8

Dialogo della lontananza delle donne, 87 Benzoni G., 47

Bernardini Giuseppe, 257 Beroaldo Filippo il Giovane, 173 Beroaldo Filippo il Vecchio, 173 Berra L., 215 Bertana Lucia, 92

Bettini Gelli Maria, 257 Betussi Giuseppe, 37, 66, 78, 79-81, 88, 89, 90-4, 290

Dialogo amoroso, 79-80, 89

Le imagini del tempio di Giovanna d’Aragona, 92 Leonora, 79, 91-4

Ragionamento sopra il Cataio, 93 Raverta, 66, 73, 78, 80-81, 88, 90, 93, 94

Biante di Priene, 241 Bibbiena (da) Bernardo Dovizi, 183, 186, 187, 190, 191

Bidone, 123

INDICE

Bigot Guillaume, 316

325

Bulgarini Belisario, 223 Antidiscorso, 223 Buonarroti Michelangelo v. Michelangelo Buonarroti Buondelmonti Zanobi, 163, 164, 167, 260 Burchiello (Domenico di Giovanni detto),

Billanovich G., 151 Biondo Michelangelo, 38, 70 Angoscia, Doglia e Pena, 70 Nobilissima pittura, 38

Blasio Angelo, 218 Boccaccio Giovanni, 7, 8,79, 21, 22-3, 25, 38, 45, 52, 58, 70, 72, 79, 82, 92, 93, 96, 108, 109, 123, 130, 140, 141, 148, 149, 158, 179, 182, 193, 194, 197, 211, 231, 260, 296, 301, 302, 304, 310

DEI NOMI

83, 131, 180, 239,

90-1, 134, 181, 242,

15, 148, 150, 164, 166, 167, 260

Burckhardt J., 28 Busini Benedetto, 263 Calamandrei P., 82 Calandra Giovan Giacomo,

57, 73, 105,

108, 111-2 Aura, 57, 73, 111-2

Boccali Gostantino, 305 Boiardo Matteo Maria, 141, 150, 168

Callicle, 116

Bologna Antonio, 298

Calmeta (Vincenzo Colli detto il), 125, 162,

Bonamico Lazzaro, 210, 227, 228, 233 Bonciani Francesco, 38

189, 193, 317-8, 320 Camerini E., 87 Camesasca E., 37

Lezione della prosopopea, 38 Bonfatti A., 268 Bonora E., 17, 25, 151, 212, 266, 270

Borghesi Diomede, 18 Borghini Raffaello, 40 Il riposo, 40 Borghini Vincenzio,

15, 16, 17, 18, 22-3,

24, 25, 26, 42, 49-51, 52-3, 123, 126, 130, 167, 196-7, 264, 265, 306, 309

Annotazioni e discorsi sopra il Decameron, 22823

Comparazione fra Dante e ’l Petrarca, 196 Dificultà del tradurre, 25, 42, 53 Discorsi, 16 Modo di salvare il Bembo, 196 Borgia Este Lucrezia, duchessa di Ferrara, 177-8

Borromeo Carlo, santo, 215, 226 Borromeo Federigo, 214, 215, 216

Borromeo Ippolita, 88 Bosello Gian Battista, 88 Bottasso E., 320 Braccioforte Antonmaria, 88 Bramanti V., 81, 275 Brocardo Antonio, 75, 77, 200, 237, 239, 240, 241, 242, 243, 244, 247, 248, 249

Bronzino (Agnolo Tori, detto il), 275 Brucioli Antonio, 268 Bruni F., 22, 211, 212, 232, 266 Bruno Cola, 173-4, 191, 203

Bruno Corrado, 33

De imaginibus liber, 33 Bruno Giordano, 69, 100 Eroici furori, 100 Bruscagli R., 73 Buffon (Georges-Louis Leclerc, conte di), 30

Camillo Giulio v. Delminio Giulio Camillo Campanella Tommaso, 30 Campesano Alessandro, 80, 92 Canal Paolo, 183 Canossa (di) Lodovico, 102, 104, 120, 123, 124, 125, 127, 128, 130, 186

Cantelmo Ercole, 113 Cantelmo Sigismondo, 101, 113 Capilupi Lelio, 150 Capodivacca Cardino, 216 Cappello Bernardo, 75, 77, 87, 91, 200, 250 Cappello Medici Bianca, granduchessa di Toscana, 224

Capra Antonio, 214 Capra Galeazzo Flavio, 70 Della eccelenza e dignità delle donne, 70 Capra Maddalena, 221 Capretto Pietro v. Edo Pietro Capri Michele, 274, 275 Cara Marchetto, 123 Caraci G., 285 Caramella S., 64 Cariero Alessandro, 223 Apologia contra le imputazioni del sign. B. Bulgarini, 223 Breve e ingenioso discorso contra l'opera di Dante, 223 Carlo V, imperatore,

160, 194, 200, 207,

309, 310, 313, 314

Carlo VIII, re di Francia, 63, 101 Carlo Emanuele I, duca di Savoia, 314 Caro Annibale, 17, 21, 22, 38, 92, 215, 217, 236

Apologia degli Academici di Banchi di Roma contro messer L. Castelvetro,

Carraro Gregorio, 200

17

326

INDICE DEI NOMI 154, 181, 188, 208, 211, 229, 231, 238, 239, 241, 242, 244, 246, 247, 321

Cassiodoro, 318 Cassola Luigi, 88, 90 Castellani Giulio, 33

De imaginibus et miraculis, 33 Castellini G. Z., 33 Castelvecchi A., 156, 157, 158, 159, 160, 161, 164

Castelvetro Lodovico, 17-8, 21, 24, 25, 193, 194, 195, 197

Correzzione d'alcune cose del Dialogo delle lingue di B. Varchi, 17, 193

Giunta fatta al ragionamento degli articoli e de’ verbi di M. P. Bembo, 17 Poetica d’Aristotele vulgarizzata e sposta, 17

Ragione d'alcune cose segnate nella canzone d’ A. Caro «Venite a l'ombra de’ gran gigli d'oro», 17 Castiglione Baldassarre, 11, 15, 63, 72, 77,

Cicogna E. A., 82 Cicogna Pasquale, doge di Venezia, 224 Cieco da Ferrara Francesco Mambriano, 144 Cino da Pistoia, 112, 159 Ciro il Giovane, 34 Citolini Alessandro, 27 Tipocosmia, 27 Cittadini Celso, 18 Cittadini Girolamo, 200, 300 Claudiano Claudio, 172 Gigantomachia, 172 Clearco, 34 Clemente VII (Giulio de’ Medici), papa, 39, 191, 194, 198, 200, 204, 207

Colaneri J., 59 Collalto (di) Collaltino, 80, 90, 91

96, 103, 111, 119-36, 140, 162, 186, 191, 194, 195, 200, 290, 301

Colocci Angelo, 191, 200

Il libro del cortegiano,

Apologia nell'opera de Serafino, 12 Colombo Cristoforo, 276, 279, 280, 281, 283 Colombo Diego, 283 Colonna Francesco, 176

11, 41, 63, 77,

119-36, 140, 186, 194 Tirsi, 119, 186

Castravilla Ridolfo, 223

Discorso nel quale si mostra l'imperfezzione della «Commedia» di Dante, 223 Caterina (Benincasa) da Siena, santa, 176 Catone Marco Porcio, il Censore, 128, 131, 309, 310 Cattani Francesco v. Diacceto (da) Francesco Cattani Catullo Gaio Valerio, 62, 281 [v. Plinio] Caula (di) Camillo, 79, 80 Cavalcanti Bartolomeo, 34, 163, 261 La retorica, 34 Cavalcanti Giovanni, 261 Cavalcanti Guido, 58-9, 108, 159

Cavallino Antonio, 84 Tariffa delle puttane a Venezia, 84 Celani E., 83, 84 Cellini Benvenuto, 35, 200

Poliphili,

133,

133,

Chiesa M., 155, 320, 321 Cian V., 103, 119, 120, 121, 125, 130, 170, 174, 186, 198, 265, 266

Cicerone Marco Tullio, 21, 41, 45, 52, 53, 0153;

187,

138,

139, 176

Colonna Pirro, 313 Colonna Prospero, 295, 313 Colonna Vittoria, marchesa di Pescara, 84,

91, 200

Contarini Gasparo, 207, 233, 237, 243 Contarini Speroni Lucia, 205 Conti (de’) Alberto, 214, 224 Conti (de’) Ingolfo, 226 Conti (de’) Speronella, 224

Corbinelli Iacopo, 26, 130 Cordié C., 19, 137, 143, 274 Cornagliotti A., 319 Cornaro Alvise, 211, 217, 218 Cornaro Caterina, regina di Cipro, 179 Cornaro Morosini Cornelia, 208 Cornaro Giacomo Alvise, 224

Cesano Gabriello, 17, 156, 167 Cesare Gaio Giulio, 309 Cessi R., 207 Chemello A., 70

#1370158

Hypnerotomachia

120,

Corboli Piero, 177

La vita, 35, 200 Cerreta F., 210 Cerri L., 89

58; 1027 111, 1230428,

12, 119,

Cornaro Giovanni, 208, 211 Cornaro Girolamo, 207 Cornaro Iacopo, 207 Cornelio Nepote, 281 [v. Mecenate] Corona Alesina A., 264

Corsali Cortese Cortese Cortese

Andrea, 134 Alberto, 220 Ersilia, 220 Giulio, 34

INDICE DEI NOMI

Avvertimenti nel poetare, 34 Dell'imitazione e dell'invenzione, 34 Cortese Paolo, 123, 188 Cosimo I de’ Medici, duca di Firenze, 10, 16, 19, 20, 84, 167, 195, 257, 258, 261, 263, 264, 265, 269, 271, 273, 274

Costantino I il Grande; imperatore, 253 Crescini V., 26

Crisippo, 57, 109 Croce B., 9-10, 69, 70, 72, 85, 194

Cuneo (da) Michele, 281

327

Tre libri d'amore, 57, 62 Di Benedetto A., 71, 78, 94 Dino del Garbo, 59 D’Incalci Ermini P., 73 Dionisio di Alicarnasso, 253 Dionisotti C., 7, 64, 138, 139, 166, 167, 168, 170, 172, 173, 175, 186, 192

Doglio M. L., 54, 70 Dolce Lodovico, 20, 265 Dolet Étienne, 316 Domenichi Lodovico, 79, 80, 81, 88, 89, 90, 92, 94, 290

D'Alessandro A., 263

Dal Minio v. Delminio Daniello Bernardino, 29, 32, 33 Della poetica, 29, 32, 33 Dante Alighieri, 7, 9, 13, 20, 25, 45, 52, 58, DINE, 82086,6108, ‘112;0113)-122:130, 131, 138, 140, 148, 150-1, 156, 159, 163, 164, 167, 168, 169, 171, 175, 177, 192, 196, 198, 223, 257, 259, 260, 262, 265, 266, 268, 269, 273, 275 Danti Vincenzio, 29, 72

Trattato delle perfette proporzioni, 29 Dati Giorgio, 24 Davanzati Bernardo, 25, 167 De Gaetano A. L., 261, 268, 275 Degli Aromatari G., 27 Del Fante A., 88 Delfino Giovanni, 215 Delfino Nicolò, 170 Della Casa Giovanni, 71, 77, 78, 82, 90, 94, 200, 270

Galateo, 270 Quaestio lepidissima an uxor sit ducenda, TA

Delminio Giulio Camillo, 27, 32, 92, 170 Topica, 32 Trattato delle materie che possono venir sotto lo stile dell'eloquente, 32 Del Rosso Paolo, 59 Commento sopra la canzone di G. Cavalcanti, 59

Del De De De

Vita A., 76 Maio R., 70 Nicola F., 60 Nores Giason, 54

Panegirico in laude della Serenissima Republica di Venezia, 54 Demostene, 58, 122, 123, 229, 231

De Sanctis F., 142 Després Josquin, 151 Diacceto (da) Francesco Cattani, 57, 62, 68, 86, 108, 123, 140

Dialogo d'amore, 81 Dialogo dell'amor fraterno, 89 Dialogo delle imprese, 88, 89 Dialogo de’ rimedi d'amore, 81 Trattato della nobiltà delle donne, 89 Donato Girolamo, 174 Doni Anton Francesco, 19, 20, 38, 45-6, 53, 80, 81, 88-9, 90, 266, 274 La libraria, 45-6, 81, 88, 89, 90, 274, 275

I marmi, 19, 81, 88, 274 Pitture, 38

Dortelata Neri, 62 Dossi Giovanni, 39

Du Bellay Guillaume, 316 Du Bellay Joachim, 17, 24, 52 Deffence et illustration de la langue frangoîse, 17, 24, 52

Duns Scoto Giovanni, 151 Edo Pietro, 57, 59-60, 108, 111

Anterotica, 57, 59-60

Rimedio amoroso, 60 Egidio Romano, 59 Eleonora di Toledo v. Alvarez di Toledo Eleonora Emanuele Filiberto, duca di Savoia, 314 Empedocle, 113 Empoli (da) Giovanni, 134 Encina (del) Juan, 59 Ennio Quinto, 128, 131 Enrico II, re di Francia, 312 Equicola Mario, 11, 15, 54, 57, 58, 59-61, 72, 73, 101-18, 119, 120, 132, 134, 138, 139, 140, 141, 162, 181, 183, 290, 320-2

Libro de natura de Amore, 11, 41, 54, 57, 58, 59-61, 73, 101-18, 139, 181, 321

Erasmo da Rotterdam, 151, 154, 267, 316 Ercolano Cesare, 223 Ercole I d'Este, duca di Ferrara, 178 Eschine, 122, 123

Esopo, 57 Este Gonzaga Isabella, marchesa di Manto-

328

INDICE DEI NOMI

va, 11, 84, 104, 115, 138, 139, 140, 183, 2912993011

Este Bentivoglio Lionarda, 91 Este Rovere Lucrezia, duchessa di Urbino, 97, 218

Este (d’) Marfisa, 100 Estienne Henri, 24-5

Projet du livre intitulé De la précellence du langage frangois, 24 Euclide, 45 Euripide, 267, 309, 310 Eutidemo, 116 Ezzelino I da Romano, 298

Fortunio Giovanni 19191924193

Francesco,

7, 51, 170,

Regole grammaticali della volgar lingua, 7, 191

Foucault M., 30 Fracastoro Girolamo, 170, 200, 298, 302 Fracchetta Girolamo, 59 Sposizione sopra la canzone Donna mi prega, 59 Francesco da Barberino, 58, 108 Francesco I, re di Francia, 312, 313 Francesco II Gonzaga, marchese di Manto-

va, 101

Francesco I de’ Medici, granduca di ToscaFalletta Giovan Giorgio, 93 Fano A., 206, 207, 214

Farnese Alessandro, 202 Farnese Giulia, 91 Favorino, 253 Federico, re di Napoli, 63

Ferdinando II il Cattolico, re d'Aragona, 63 Ferdinando I, re di Napoli, 63

Ferdinando II, re di Napoli, 101 Ferecide, 116 Ferrero G. G., 15 Ficino Marsilio, 53, 57, 59, 62, 64, 67, 68, 71, 86, 95, 108, 171, 260, 269, 272

Fieschi Gian Alvise, 309

Filippo II, re di Spagna, 216, 253 Filostrato Maggiore, 33 Firenzuola Agnolo, 13, 70, 71, 156, 161,

162, 194

Celso, 71 Discacciamento de le nuove lettere inutil-

mente aggiunte ne la lingua toscana, 13 Ragionamenti, 70

Firpo L., 281

Flaminio Marc’Antonio, 203 Flora F., 76, 292 Floriani P., 12, 120, 127, 135

na, 223 Francesco Maria I della Rovere, duca d’Urbino, 187, 219 Francesco Maria II della Rovere, duca d’Ur-

bino, 97, 218, 224

Francini Antonio, 257 Franco Matteo, 164 Franco Niccolò, 80 Fregoso Battista, 54, 57, 103-4, 106, 108, 110, 111;}.132, 181 Anteros, 54, 57, 58, 103-4, 181 Fregoso Cesare, 298, 310

Fregoso Federico, 126, 127, 128, 130, 186, 187, 191, 203

Fregoso Ottaviano, 186 Fubini M., 30 Gabriele Angelo, 172, 173, 174 Gabriele Trifone, 170, 174, 175, 177, 189 Galeno Claudio, 45 Gallo Antonio, 214 Gambara Veronica, 200 Garin E., 235 Gasparini C., 57

Gelli A., 265, 267, 274 Gelli Carlo, 257 Gelli Francesco, 257

Foglietta Agostino, 39, 198 Folena G., 134, 135 Folengo Teofilo, 119, 122, 134, 137-155 Caos del Triperuno, 137, 149, 153, 155

Gelli Giovan Batista, 10, 15-6, 19, 20, 21,

Macaronee, 41, 141, 144, 151, 152, 153,

155, 194, 260, 261, 265, 266, 268-71, 272, 273, 274

155 Orlandino, 137, 141-55 Fontanesi G., 64

Fonte Moderata (Modesta Pozzo de’ Zorzi), 70

Il merito delle donne, 70 Formisano L., 285, 288 Fornari Simone, 39

Forteguerri Petrucci Laudomia, 69, 92

23, 25, 53, 124, 155, 163-4, 167, 194, 212, 226, 257-75

I capricci del bottaio, 15-6, 20, 21, 53,

Circe, 260, 270, 271-3 Lo errore, 260, 262-3

Letture dantesche, 257, 259, 268, 269, ° 270, 273-4, 275

Lezioni petrarchesche, 260, 268 Polifila (attribuita), 262

Ragionamento sopra le difficultà del mettere in regole la nostra lingua, 20, 23, 124,

INDICE DEI NOMI 163-4, 259, 266-7, 273 La sporta, 262, 263

Gonzaga Isabella v. Este Gonzaga Isabella Gonzaga della Rovere Leonora, duchessa di

Trattatello delle origini di Firenze, 263, 264-5 Vite d'artisti, 274 Gerolamo bresciano v. Savoldo Giovan Girolamo # Gerratana V., 10 Gherardi A., 194 Ghinassi G., 11, 120, 121, 130, 133, 135,

139 Giambullari Pierfrancesco,

16, 19, 20, 53,

167, 261, 263, 264, 265, 266, 267, 273

De la lingua che si parla e scrive in Firenze, 16, 53

Gello, 264 Giannetto N., 171 Giberti Giovan Matteo, 198, 199 Gilio Giovanni Andrea, 33

Due dialoghi, 33 Giorgione da Castelfranco, 35, 123 Giovanna, Regina di Castiglia, 283 Giovanni II, re di Portogallo, 63 Giovanni Aurelio da Rimini v. Augurello Giovanni Aurelio Giovenale Latino (Manetti Latino), 186 Giovio Paolo, 39, 191, 200, 267 Raphaelis Urbinatis vita, 39 Vita di Alfonso da Este, 267 Giraldi Cintio Gian Battista, 32, 33, 46, 83,

187

Gorgia,

116, 248, 253, 255

Gottifredi Bartolomeo, 79, 80, 88-90, 209 Specchio d'amore, 79, 80, 89-90, 209

Gradenigo Pietro, 203 Gramsci A., 10 Grayson C., 317, 318 Grazia (Niccolò Grassi detto il), 37,75, 76, 77, 209

Grazzini Anton Francesco v. Lasca Greco A., 12, 217 Gregorio XIII (Ugo Boncompagni),

papa,

Gruget Claude, 24, 46, 54 Gualteruzzi Carlo, 194, 202, 204 Guasti C., 223 Guazzo Stefano, 56, 317 La civil conversazione, 56, 317 Guerrieri Crocetti C., 32, 46

Guicciardini Francesco, 41, 44, 134, 162, 193, 194, 219, 276-7, 280

Considerazioni sui Discorsi del Machiavelli, 44

Ricordi, 41 Storia d'Italia, 194, 276-7 Guicciardini Silvestro, 84 Guidetti Francesco, 20, 163, 164, 167, 168, 260, 273

157, 158, 211, 254

Discorso intorno al comporre dei romanzi, 32, 33, 46

Guido v. Cavalcanti Guido Guidobaldo I da Montefeltro, duca d’Urbino, 185, 187, 201

Ecatommiti, 83-4

Giudizio d'una tragedia di Canace e Maca-

Guidobaldo II della Rovere, duca d’Urbino, 2122149215

reo, 211, 212

82180219

Guidone, 216

Orbecche, 211

Guinizelli Guido, 112 Guittone d’Arezzo, 58, 108

Girardi E. N., 262, 269, 274

Girolamo, san, 113 Giulio II (Giuliano della Rovere),

papa,

183, 184, 185, 187, 190, 303

Giulio III (Giovanni Maria del Monte), papa, 82

Giustiniano, imperatore d’Oriente, 115 Gonzaga Cesare, 186 Cesare

Urbino,

Gonzaga Pirro di Gazzuolo, 292 Gonzaga Scipione, 221

21538219

Gigli O., 196

Gonzaga

329

(diverso dal precedente)

25

Gonzaga Curzio, 87

Gonzaga Montefeltro Elisabetta, duchessa di Urbino, 184, 185, 187, 201 Gonzaga Ercole, 237 Gonzaga Francesco, 215 Gonzaga Ippolito, 91

Hauvette H., 167 Hurtado de Mendoza Diego, 69

Ieroteo, 100 Innamoramento de Melon e Berta, 142 Innocenzo VIII (Gian Battista Cybo), papa, 171

i

Iosquino v. Després Josquin Ippia, 116, 263 Ippocrate, 45 Isocrate, 58, 123, 209, 253, 254

Jean de Meung, 58, 108

Jure Alexis, 315

INDICE DEI NOMI

330 Labande-Jeanroy Th., 9

303, 308, 309, 310, 312

Landi Agostino, 88 Landi Giulio, 88 Landi Ottavio, 88 Landino Cristoforo, 171

Arte della guerra, 43, 166 Asino, 260 Clizia, 42, 260, 262

Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio,

La Rocca G., 125 Lasca (Anton Francesco Grazzini, detto il),

167, 168-9, 259, 262

167, 260, 262, 265, 275

Lascaris Costantino, 16, 172, 173 Erotemata, 173 Lascaris Giano, 227 Lattanzio Lucio Cecilio Firmiano, 278 Lenzoni Carlo, 19, 20-21, 24, 52, 167, 194, 260, 265, 266, 273

In difesa della lingua fiorentina e di Dante, 20-21, 52, 194, 260

Leonardo da Vinci, 31, 40, 123, 290 Leone X (Giovanni de’ Medici), papa, 154, 157, 166, 189, 190, 191, 202, 203, 204

Leone

Ebreo

(Jehudah

Abarbanel

41-2, 43-4, 47, 309, 310

Discorso intorno alla nostra lingua, 156,

detto),

62, 63-69, 72, 81, 86, 95

Dialoghi d'amore, 62, 63-69, 81, 95 Leoniceno Niccolò, 174 Leonico Tomeo Niccolò, 174

Leopardi G., 35 Leto Giulio Pomponio, 173 Linacre Thomas, 16, 53 De emendata structura latini sermonis, 16, DI

Lionardi Alessandro, 33 Dialoghi dell'invenzion poetica, 33 Lisandro, 53 Lisia, 123 Livio Tito, 34, 82, 301

Mandragola, 262 Il principe, 166, 168, 260 Macigni Matteo, 219 Maestri D., 70, 262, 274 Magellano Ferdinando, 278, 279, 284 Magnaghi A., 284, 285

Malatesta Carlo, 38 Trattato dell'artificio poetico, 38 Mancini G., 274

Mantegna Andrea, 123 Manuzio Aldo, 159, 173, 176-7, 290

Manuzio Paolo, 250 Manzoni A., 13, 157 Maranta Bartolomeo, 38 Discorso in materia di pittura, 38 Marazzini C., 317 Marcellino Valerio, 16 Diamerone,

16

Marco Tullio v. Cicerone Marco Tullio Margherita d’Angoulème, regina di Navarra, 291

Mario Gaio, 113

Marostica

(Antonio

Matteazzi

detto),

15,

119, 133, 134

Marot Clément, 316 Martelli Ludovico, 13, 156, 161, 165, 167;

Lodovico, messer, v. Tessira Lodovico

169

Loi M. R., 213, 234

Risposta alla Epistola del Trissino delle lettere nuovamente aggionte alla lingua volgar fiorentina, 13, 156, 165, 167, 169 Tullia, 165

Lollio Alberto, 88, 91 Lomazzo Giovan Paolo, 33, 72 Idea del tempio della pittura, 33 Lombardelli Orazio, 16, 18, 21, 26, 275 I fonti toscani, 16, 21, 26-7, 275 Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico, 8, 113, 123, 140, 150, 162, 164, 166, 195

Lotti Francesco, 286 Lucceio Lucio, 247

Luciano di Samosata, 109, 253 Lucrezia, 297, 301 Lucrezio Caro Tito, 62, 100

Luigini Federico, 70, 71 Il libro della bella donna, 70, 71 Luna (de) Alvaro, 314 Machiavelli Niccolò,

10, 14, 41-4, 47, 49,

134, 162, 165-9, 259-60, 262, 290, 296,

Martelli M., 164 Martelli Niccolò, 169 Marti M., 170, 192 Martinengo Beccaria Lucrezia, 92 Marziale Marco Valerio, 119 Masea, 263 Matteo Gerardo, 171 Mazzacurati G., 10, 120, 121, 122, 241; 274 Mazzali E., 38, 97, 221 Mazzoni G., 161 Mecenate, 281 [lapsus per Cornelio Nepote] Medici (de’) Giuliano, 131, 186, 195 Medici (de’) Lorenzo di Pierfrancesco, 276, 283, 286

Mena (de) Juan, 61

INDICE DEI NOMI

331

Méndez Diego, 283 Mendozio Diego v. Hurtado de Mendoza Diego

Nifo Agostino, 72

Menone, 34 Mentovato Girolamo, 88

Nobili (de’) Flaminio, 97 Trattato dell'amore umano, 97 Norchiati Giovanni, 19 Trattato de’ diftongi toscani, 19 Novellino, 194

Merula Gaudenzio, 318 Metastene, 263 isla Michelangelo Buonarroti, 33, 45, 123 Michiel Marcantonio, 36, 200

Migliore (del) Filippo, 257

De amore, 72

De pulchro, 72

Obizzi Pio Beatrice, 95, 208, 209 Ochino Bernardino, 85

Migliorini B., 134 Milanesi G., 39

Olzignano Antonio, 207

Milani M., 211

Omero, 34, 46, 223, 236

Mocenigo Alvise, 216, 217, 218, 224

Onesto bolognese, 112

Mocenigo Filippo, 48

Orazio Flacco Quinto, 51, 62, 128, 176

Modio Giovanni Battista, 70

Oriolo Filippo, 170 Il monte Parnaso, 170 Orlandi G., 173

Il convito overo del peso della moglie, 70 Molano Giovanni, 33 De picturis et imaginibus sacris, 33 Molino Girolamo, 75, 77

Molza

Francesco

191, 200

Maria, 75, 77, 85, 150,

Monbello G., 315 Montecatini Antonio, 97 Montesdoch Giovanni, 206 Montù A., 268

Morel (de) Jean, 316

Moretto Pellegrino Fulvio, 192 Moro G., 80 Morosina (Faustina della Torre detta la), 190, 201, 202

Morosini Bembo Elena, 170 Morosini Pietro, 208 Mula (da) Marcantonio, 250, 252 Mussini Sacchi M. P., 318-9

Orsini Vicino, 80, 81, 91 Ossola C., 30 Otranto (Marcantonio Zimara, detto 1’), 206 Ovidio Nasone Publio, 62, 110, 115, 238

Paciotto Felice, 218, 219, 221, 224 Padoan G., 36, 39 Paleotti Camillo, 187 Paleotti Gabriele, 33 Discorso intorno alle imagini sacre e profane, 33

Palladio Rutilio Tauro Emiliano, 82 Palmieri Matteo, 257 Pandolfini Ruberto, 262 Paolo, san, 261 Paolo III (Alessandro Farnese), papa, 202 Paolo Diacono, 312

Il gentiluomo, 96

Papafava Ludovica, Papafava Marsilio, Papafava Roberto, Papafava Ubertino, Papirio Fregellano

Varchina, 21-2

Parrasio, 89

Muzio Girolamo, 15, 21, 22, 24, 33, 64, 84,

85, 96

Arte poetica, 33 Battaglie, 22, 24, 64

Muzzarelli Giovanni, 139 Nardi B., 152, 277, 278

Nardini, signor, 284 Natta Carlo, 97 Navagero Andrea, 189, 191, 200, 201 Navagero Bernardo, 237

Nebrija Elio Antonio, 27 Negri Stefano, 33 Negroni C., 258, 260 Nelson J. C., 100 Nerone, imperatore romano, Niccoli S., 62

212-3, 219 212, 214 214 214 Lucio, 102, 321

Partenio Bernardino, 32 Dell'imitazione poetica, 32 Paruta Paolo, 47-9, 52 Della perfezione della vita politica, 47-9 Pasolini P. D., 97 Passione di Revello, 312, 319 Patrizi Francesco, 100 Amorosa filosofia, 100

Pavanello G., 170 Pazzi de’ Medici Alessandro, 15, 159, 163, 165, 167, 200

113

Pazzi (de’) Alfonso, 275

Penelope, sorella di Tullia d'Aragona, 84

332

INDICE

Pepe, capitano, 261 Pèrcopo E., 275 Peretto v. Pomponazzi Pietro Pertile F., 37 Pesenti G., 192 Petrarca Francesco, 7, 8, 9, 25, 45, 52, 58,

59, 61, 62, 68, 70, 72, 82, 86, 94, 100, 108, 138, 159, 185,

109,01125113,123%@13.19x13458137, 140, 141, 144, 148, 149, 150-1, 158, 163, 164, 166, 171, 175, 176, 180, 192, 196, 197, 198, 199, 211, 242,

260, 262, 268, 281, 302, 306, 322 Piccolomini Alessandro, 15, 56, 66, 68, 70, 77-8, 79, 81, 82, 83, 90, 94, 209, 210, 212

Dialogo de la bella creanza de le donne

(Raffaella), 70, 77-8, 82, 83, 90, 94, 209

Instituzione di tutta la vita dell'uomo nato nobile e in città libera, 56, 68-9 Piccolomini Marcantonio, 27 Pico della Mirandola Gian Francesco, 57, 108, 123, 188-9, 197

Pico della Mirandola Giovanni, 57, 68, 86, 108

2150:215.1}217281L7317269

Pier Luigi Farnese, duca di Parma e Piacenza, 90

Pietro d’Abano, 278 Pigafetta Antonio, 152, 277

Pigafetta Filippo, 223 Pigna (Giovanni Battista Nicolucci detto il), 33, 34, 80, 95, 96 I romanzi, 33

Pinelli Gian Vincenzo, 26 Pino Paolo, 28-9, 30, 40 Dialogo di pittura, 28-9, 30, 40

Pio IV (Giovanni Angelo Medici), papa, 2142154217

Pio Pio Pio Pio

V (Antonio Ghislieri), papa, 317 Alberto, 175, 177 Emilia, 124, 184, 185 Giovan Battista, 138, 139 Cebetis Tabulae interpretatio desultoria, 139

Pirotti U., 86, 266 Pitagora, 116, 251 Platina (Bartolomeo

DEI NOMI Plutarco, 53, 82, 225, 271, 272

Pole Reginald, 203 Policleto il Vecchio, 115 Poliziano (Angelo Ambrogini,

detto

123:140,..162;3166;g171501721/3

il), 9188

Polluce Giulio, 27 Polo, 116, 251 Pomponazzi Pietro, 15, 42, 47, 95, 96, 128, 138, 151-3, 206, 207, 209, 210, 225, 227, 228, 233, 237, 238, 269, 277-8, 279, 280, 287

De immortalitate animae, 237

Pomponio v. Leto Giulio Pomponio Pontano Gioviano, 168, 173, 268 Porto (da) Giulio, 214, 218 Porto (da) Lucietta, 218, 220, 221 Porto (da) Luigi, 200 Porto (da) Nicolò, 218, 221 Porzio Simone, 257, 267, 268

De mente hbumana, 267, 268 Disputa sopra quella fanciulla della Magna la quale visse due anni e più senza mangiare e senza bere, 267 Modo di orare cristianamente, 267 Se l'uomo diventa buono o cattivo volontariamente, 267

Trattato de’ colori degl'occhi, 267 Possevino Antonio, 33

Tractatio de poèsi et pictura ethnica, bumana et fabulosa, 33 Poujol J., 315 Pozzi G., 34 Pozzi M., 12, 37, 41, 42, 63, 66, 68, 96, 119, 161; (17/1, 2193, 41972067213

4223M234:

260, 276, 306 Priuli Alvise, 203

Priuli Luigi, 234, 237 Prodico, 251 Prosseno, 34 Protagora,

116, 250, 251, 252

Proto da Lucca, 295 Prudenzio Francesco, 108, 112-3 Pulci Luigi, 122, 140, 141, 150, 164, 166, 167, 260

Sacchi detto il), 57,

Pusterla Francesco, 57

108

Dialogus contra amores, 57 Platone, 48, 49, 52, 57, 64, 67, 68, 70, 71, 76, 77, 100, 105, 115, 116-7, 209; 221, 227, 244, 247, 248, 249, 250, 251, 253, 254, 255

Quintiliano Marco Fabio, 21, 52, 238 Quirini Massolo Elisabetta, 202, 203 Quirini Girolamo, 203 Quirini Vincenzo, 177 Quondam A., 121

Plauto, 262, 319 Plinio Secondo Gaio, detto il Vecchio, 108, 115, 272, 281 [lapsus per Cazu//o]

Rabelais Frangois, 316 Radini Tedeschi Lazaro Tommaso, 290

INDICE DEI NOMI

Calipsychia, 290 Raffaello Sanzio, 39, 123 Ralli Costantino, 250 Ramberti Benedetto, 201 Ramusio Gian Battista, 31, 189, 201, 206, 280

Delle navigazioni e viaggi, 31, 41, 280

Rangone Ludovico, 80

333

Orazione in lode della fiorentina favella, 23

Salza A., 81 San Bonifacio (di) Ludovico, 95 San Bonifacio (di) Manfredo, 215 Sanders Nicola, 33 De typica et hbonoraria sacrarum imaginum

adoratione, 33

Rannusio v. Ramusio . Raverta (Della Rovere) Ottaviano, 66, 81,

94 Ravoiro Falletta Leonora, 91, 92, 94 Rinuccini Cino, 108 Ripa Cesare, 33

Sannazaro Iacobo, 113, 163, 168, 184, 197, 200

Arcadia, 184, 197 Sansovino Francesco, 31, 79, 80, 81, 82-3, 88, 89, 90, 91, 93, 209, 217, 290

Dell'avvocato, 82

Iconologia, 33

Del segretario, 82 Dialogo di tutte le cose notabili che sono

Roaf Ch., 212, 254, 261 Rocchi I., 101, 104, 111, 139

in Venezia, 82

Romani W., 17 Romano R., 36

Lettere sopra le dieci giornate del Decame-

Romei Annibale, 94 Dell'amore umano, 94 Romei D., 161 Ronsard (de) Pierre, 223 Rossi (de’) Girolamo, 200 Rovere (della) Galeotto Franciotti, 184, 187 Rovere Borromeo Virginia, 214, 216 Roviglioni Giacomo, 97 Discorso intorno alla dignità del matrimo-

L'origine e i fatti delle famiglie illustri d'Italia, 93

rone, 82

nio, 97 Rozzo U., 318

Rucellai Bernardo, 162 Rucellai Cosimo, 162, 163, 164, 166-7, 260 Rucellai Giovanni, 134, 156, 160, 161-2, 163, 164, 166 Le api, 161-2 Oreste, 162 Rosmunda, 162, 166 Rucellai Palla, 161, 162 Ruscelli Girolamo, 27, 290 Russo L., 198 Ruzzante (Angelo Beolco, detto il), 152,

211, 220

Ragionamento, Retorica, 82

79, 80, 81, 82-3, 90, 209

Ritratto delle più nobili e famose città d'Italia, 82 Venezia città nobilissima e singolare, 31, 82

Sansovino (Iacopo Tatti detto il), 82

Santangelo G., 188 Sanudo Marin, 201 Sassi G. A., 215 Savello Silvio, 303 Savoldo Giovan Gerolamo, 40 Savonarola Girolamo, 268 Savorgnan Bernardino, 175, 176 Savorgnan Maria, 175-6, 177, 178, 180, 192

Saxius J. A. v. Sassi G. A. Scalabrino Luca, 222 Scarampo Camilla, 300 Scotto v. Duns Scoto Giovanni Scrivano R., 90

123, 167, 195

Scroffa Camillo Cantici di Fidenzio, 155 Segre C., 11, 31, 182, 194 Sennuccio del Bene, 108 Senofonte, 34, 209 Serafino de’ Ciminelli detto Aquilano, 12 Serassi P., 126 Seripando Antonio, 102 Seyssel (de) Claude, 315 Sforza Bentivoglio Ippolita, 290, 297, 298 Sforza Isabella, 88

Avvertimenti della lingua sopra ’l Decame-

Silva (de) Miguel, 120, 129, 130, 132

rone, 18, 23, 25, 26

Simoncelli P., 203, 264

Sabbatino P., 198 Sabellico (Marcantonio

Coccio,

detto il),

201

Sabino Marco Antonio, 290 Sadoleto Iacopo, 177, 187, 189, 200, 201, 203

Salviati Giovanni, 79 Salviati Lionardo, 18, 22-4, 25-6, 27, 79,

334

INDICE

Dialogo delle laudi del Cataio, 208

Simonetta Alessandro, 215 Simonetta Lodovico, 215

Dialogo delle lingue, 12, 17, 24, 41, 42,

Socrate, 100, 105, 109, 112, 116, 209, 221, 250825115 252}8255

Soderini Piero, 280 Sofonista, 161 Solerti A., 97 Soranzo Marcantonio,

DEI NOMI

47, 52, 152, 208, 209-10, 225, 227, 228, 233, 235, 238

Dialogo intitolato Panico e Bichi, 208 Di che si debba scrivere oggidì in questa lingua volgare, 238 Discorso dell'anima umana, 215

237, 239

Discorso della riformazione dell'anno, 223

Soranzo Vittore, 194, 200, 203 Sordello da Goito, 151 Spagnoli Giovanni Battista, 57, 108

Speroni Olzignano Angelica 207 Speroni Bernardino, 205, 206 Speroni Papafava (Capra) Diamante, 207, 214 Speroni Conti Giulia, 207, 213, 214, 217,

Discorso dell'onore, utile e fin dell'uomo, 225) Discorso sopra Dionisio Alicarnasseo, 253 Discorso sopra le sentenze «ne quid nimis» e «nosce te ipsum», 215, 216

In difesa dei sofisti, 2471-50, 252 Orazione a G. Cornaro, 207 Orazione a I. Cornaro, 207, 217

218, 219, 226

Speroni Papafava (Porto) Lucia, 207, 212,

Orazione al Re Filippo di Spagna, 216, 253

214, 217 73-9, 80, 81, 84, 94, 95-6, 119, 124, 128, 130\M5.15 152195 T200#8205:56#25//,

Orazione contra le cortigiane, 220 Orazione della pace, 216 Orazione per la morte del card. P. Bembo,

259, 266, 268

212

Speroni Sperone, 12, 15, 17, 20, 24, 26, 66,

Apologia contra il giudicio della Canace,

Orazione in morte della Duchessa di Urbi-

211, 254 Apologia dei dialogi, 73-5, 95-6, 205, 206, 208, 209, 219-20, 229, 234, 250, 253, 254 Canace, 211-2, 224, 254

no, 217

Per la sobrietà, 217 Sopra Dante, 223

Sopra le virtà, 215 Sopra Virgilio (discorsi), 217 Sopra Virgilio (dialoghi), 217, 227, 228,

Contra la sobrietà, 217 Del genere dimostrativo, 246-7, 253 Della cura famigliare, 96, 208, 209 Della dignità delle donne, 95, 208, 209 Della fortuna, 215 Della imitazione, 217 Dell'amor di sé stesso, 215, 216 Dell'arte oratoria, 231-2, 244-6 Della virtà, 215 Del modo di studiare, 206, 208, 228, 231

Spinoza B., 69 Spira Fortunio, 77 Stampa Baldassarre, 80 Stampa Gaspara, 80, 81, 82

Del parlar dell'uomo, 244 Del tempo del partorire delle donne, 208

Strabone, 115 Stradino (Giovanni

Dialogi, 24, 46, 66, 73, 208-10, 219-20, 224, 225, 226, 234, 266

212,

Dialogo d'amore, 36-7, 40, 75-7, 80, 85, 94, 208, 209, 220

Dialogo del giudicio di Senofonte, 217 Dialogo della Discordia, 208, 209, 253,

23592508253

Stato Giovan Battista, 172, 173

Stefano Enrico v. Estienne Henri Stra (da) Speroni Orsolina, 207

Mazzuoli,

245, 247, 248, 252, 253

Dialogo della Usura, 208, 209, 220, 253, 254

Dialogo della vita attiva e contemplativa, 20739233, 4237/1238

lo),

Strebeo Iacopo Lodovico, 21 De electione et oratoria collocatione verborum, 21

Strozzi Ercole, 139, 171, 177, 178 Strozzi Filippo, 83, 156

254

Dialogo della istoria, 225-6, 227 Dialogo della retorica, 208, 238-43, 244,

detto

2658215.

Tacito Cornelio, 24, 25 Talete, 116 Tamburino, 151 Tanci Lionardo, 20, 273 Tancredi Onorata, 87 Tansillo Luigi, 275 Tapella C., 96

INDICE

Tarquinio Sesto, 297 Tarsia (di) Galeazzo, 39 Tasso Bernardo, 36, 38, 75, 77, 85, 192, 193,92112782211

Amadigi, 38, 221 Tasso Torquato, 24, 71, 95, 96-100, 221-3 Aminta, 222 VA

Apologia della Gerusalemme Liberata, 38 Cataneo, 97-9

DEI NOMI

3351

Ritratti, 71

Simillimi, 157 Sofonisba, 156, 157, 165 Trivulzio Antonio, 303 Trotti Alfonso, 112 Trovato P., 168

Tucidide, 253 Tullia d'Aragona, 36, 37, 66-8, 75, 77, 79, 83-7

Discorsi dell’arte poetica, 221 Gerusalemme liberata, 222

Dialogo della infinità di amore, 66-8, 73,

Minturno, 99

Il Meschino, 85

79, 84-7

Molza, 99-100 Tebaldeo Antonio, 150, 177, 191, 195, 200 Teodorico, re degli Ostrogoti, 302, 321 Terenzio Afro Publio, 171, 172, 173, 187,

Tullio v. Cicerone Marco Tullio Ugolini A., 257 Urticio Giovanni Alessandro, 170, 172 Uzielli G., 284

201519

Tessira Lodovico, 178

Vaglienti Piero, 284, 285 Valente Camilla, 88 Valentino (Cesare Borgia, detto il), 298

Ticozzi S., 133

Tiepolo Nicolò, 189 Tissoni R., 20, 124, 164, 267, 271

Tiziano Vecellio, 36-7, 38-9, 40, 74, 77 Tolomei Claudio, 13, 14, 16, 127, 156, 159, 165, 167, 194

Valenziano Luca, 318-9 Valeri D., 78 Valeriano Pierio (Giovanni Pietro Bolzani Dalle Fosse, detto), 9, 11-2, 15, 119, 120,

Il Cesano de la lingua toscana, 17, 127,

1331591630167

156159

Dialogo della volgar lingua, 11-2, 15, 119,

Il Polito, 13, 18 Tolomeo Claudio, 276, 279 Tomarozzo Flaminio, 200, 203 Tomitano Bernardino, 21, 205, 208, 210,

211, 212, 234

Quattro libri della lingua toscana, 205, 208, 212, 234

Ragionamenti

della lingua toscana;

21,

2114212

Tommaseo N., 32 Tommaso, san, 100, 151, 154, 287

Torelli Francesco, 20, 273 Torelli Lelio, 274 Trappolino Pietro, 235, 250 Trasimaco, 116 Travi E., 170 Trissino Giovan Giorgio, 9, 11, 12, 13-4, 15,03 4;44;446; 2710119, 121,2135;4 137, 142, 156-69, 170, 191, 200, 298, 302, 316 Castellano, 14, 156, 157, 160, 161, 163, 164, 170

Dubbii grammaticali, 13, 14, 157 Epistola de le lettere nuovamente aggiunte ne la lingua italiana, 9, 13, 14, 137, 161, 164 Grammatichetta, 14 La Italia liberata da’ Gotti, 46, 157 Poetica, 14, 21, 33, 34, 158, 159

133, 163, 167

Valerio Gian Francesco, 75, 120, 135, 189, 237, 239, 240, 243

Valerio Sorano Quinto, 102, 321 Valiero Agostino, 215 Valori Baccio, 264 Varano Della Rovere Giulia, duchessa di Urbino, 212, 217

Varchi Benedetto,

15, 17, 19-20, 21-2, 23,

24, 39, 45, 62, 66-8, 72, 79, 82, 85-7, 91,

92, 126, 167, 193, 195, 199, 200, 210, 212, 223, 260, 262, 265, 266, 273

Dell'amore, 86 Ercolano, 17, 21-2, 45, 68, 167, 223, 265 Sopra alcune quistioni d'amore, 68, 86 Sopra sette dubbi d'amore, 86 Varrone Marco Terenzio, 102 Vartema (de) Ludovico, 134 Vasari Giorgio, 38, 39, 40, 43 Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori e sculturi italiani, 38-9, 40 Vecellio Cesare, 31

Degli abiti antichi e moderni, 31 Veniero Domenico, 57, 215 Veniero Lorenzo, 84 Venturini G., 222

Verdizzotti Giovan Mario, 39, 222

Vergerio Pietro Paolo, 203

336

INDICE

Verino il Giovane (Francesco de’ Vieri, det-

DEI NOMI

Vitruvio Pollione, 48, 52

to), 59

Lezzioni d'amore, 59 Verino il Vecchio (Francesco de’ Vieri, detto), 260-1

Verità Girolamo, 113 Verzone C., 262 Vespucci Amerigo, 134, 276-89 Lettera delle isole nuovamente trovate (attribuita), 280-82, 283, 285, 287, 288

Mundus novus (attribuito), 276, 277, 278, 280, 283, 284, 288

Vespucci Giorgio Antonio, 281 Vettio Marso Quinto, 102, 321 Vettori Francesco, 83 Vettori Pier, 261

Waldseemiiller Martin, 282

Cosmographiae Introductio, 282 Weinberg B., 29, 158 Weiss R., 170 Woodhouse J. R., 54, 197

Wotton Henry, 16 Zabarella Ieronimo, 225 Zaccaria, papa, 278 Zacco Bartolomeo, 235 Zanato T., 47 Zancan M., 70 Zanchi Basilio, 203 Zeno A., 199

Vida Marco Girolamo, 97 Vieri (de’) Francesco v. Verino Vigenère (de) Blaise, 24, 33

Zeusi, 115 Zimara Marcantonio v. Otranto

Villani Giovanni, 26, 35

Zonta G., 66, 70, 81, 85 Zorzi Lisabetta, 92 Zuccari Federico, 29

Villehardouin (de) Geoffroy, 26 Virgilio Marone Publio, 45, 62, 90, 128, 143}C150;#1517 171901753) 17601375188; 201, 217, 219, 224, 235-6, 238

Visconti Carlo, 215

Visconti Gasparo, 7 Vitelli Gian Luigi, 92

Zinano Gabriele, 97

Il lamento della pittura su l'onde venete, 29

Zuccolo Vitale, 98

Discorsi sopra le cinquanta conclusioni del sig. T. Tasso, 98

INDICE GENERALE Avvertenza

5

Lingua e società: un aspetto delle discussioni linguistiche



Teoria e fenomenologia della «descriptio»

28

Dall’imitazione al «furto»: la riscrittura nella trattatistica e la trattatistica della riscrittura

41

Aspetti della trattatistica d’amore 1. Trattatistica d'amore e letteratura in volgare

3”

2. Leone Ebreo

63

3. L’amore, la bellezza, la donna

69

4. Sperone Speroni e il dialogo «comico»

73

5. Giuseppe Betussi e il «Raverta»

79

6. Il «Ragionamento» di Francesco Sansovino

82

7. Il «Dialogo della infinità di amore» di Tullia d'Aragona

83

8. Bartolomeo Gottifredi

88

9. La «Leonora» di Giuseppe Betussi

90

10. La trattatistica del secondo Cinquecento

94

Mario Equicola e la cultura cortigiana. Appunti sulla redazione manoscritta del «Libro de natura de Amore»

101

Il pensiero linguistico di Baldassar Castiglione

119

Teofilo Folengo e le resistenze alla toscanizzazione letteraria

153

Gian Giorgio Trissino e la letteratura italiana

156

Pietro Bembo

170

338

Sperone Speroni

1. Cenni biografici

205

2. Un'idea di letteratura

220

Giovan Batista Gelli

ZI

Il mondo nuovo di Amerigo Vespucci

276

La novella come «cronaca»: struttura e linguaggio delle novelle bandelliane

290

La frontiera orientale del Piemonte

12

Indice dei nomi

325

Finito di stampare nel mese di marzo 1989 in Torino da M.S./Litografia per conto delle Edizioni dell'Orso



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In saggi di varia ampiezza e impostazione la letteratura del Cinquecento viene illustrata da punti di vista e con metodi diversi ma sempre con una ferma attenzione ai complessi rapporti fra lingua, cultura e società. Accanto a ritratti a tutto tondo (Bembo, Speroni, Gelli) stanno arditi tentativi di sintesi (le discussioni linguistiche, la trattatistica d'amore), proposte per ulteriori ricerche (la riscrittura, la cultura in Piemonte) e esplorazioni in aree che stanno fra la letteratura e altre discipline (la tipologia della descriptio, il mondo nuovo di Amerigo Vespucci). Sono saggi che nel loro complesso cercano di gettare nuova luce sopra tutto sui momenti critici; di qui l’ampio spazio dedicato a scrittori come l’Equicola, il Castiglione, il Bandello. Ne risulta un Rinascimento più vario, più ricco, più inquieto di quanto comunemente

non si pensi.

Mario Pozzi è nato ad Alessandria il 1° gennaio 1939. È professore ordinario di Lingua e letteratura italiana nella Facoltà di Magistero dell’Università di Torino, dove prima a lungo ha tenuto l’incarico di Storia della grammatica e della lingua italiana. Collabora assiduamente al «Giornale storico della letteratura italiana»; di cui è condirettore. Ha studiato autori e opere appartenenti a vari periodi della letteratura italiana (la Cronica di Anonimo Romano, C. I. Frugoni, L. di Breme, N. Tommaseo, E. Thovez, E. Cecchi, ecc.), ma ha dedicato le sue ricerche sopra tutto al Rinascimento. Ha pubblicato le opere più importanti di Bembo, Speroni e Gelli (Traztatisti del Cinquecento, tomo I, Milano-Napoli 1978) e i principali scritti sulla lingua volgare (Discussioni linguistiche del Cinquecento, Torino 1988). Una prima serie di suoi saggi si trova in Lingua e cultura del Cinquecento (Padova 1975). Ha inoltre curato un’edizione di scritti di A. Vespucci (Il mondo nuovo di A. Vespucci, Milano 1984) e le ristampe anastatiche dei Trattati d'amore del Cinquecento, ed. Zonta (Roma-Bari 1975) e dell’edizione settecentesca delle Opere di S. Speroni (Roma 1989).

ISBN 88-7694-030-8 /

£. 45.000

Toronto Public Library - Toronto Reference Library

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