L’idea di nazione

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L’idea di nazione

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Federico Chabod

Eidea. di nazione

Editori Laterza

«Dire senso di nazionalità, significa dire senso di individualità storica. Si giunge al principio di nazione in quanto si giunge ad affermare il principio di individualità, cioè ad affermare, contro tendenze generalizzatrici ed universalizzanti, il principio del particolare, del singolo. Per questo, l’idea di nazione sorge e trionfa con il sorgere e il trionfare di quel grandioso movimento di cultura europeo, che ha nome Romanticismo.»

Federico Chabod (Aosta, 1901 Roma, I960), uno dei più grandi storici italiani del Novecento, per i nostri tipi è autore anche di Storia della politica estera italiana, Storia dell’idea d’Europa, Lezioni di metodo storico.

Federico Chabod

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€ 13,00 (i.i.)

Universale Laterza 54

Federico Chabod

L’idea di nazione a cura di Armando Saitta e Ernesto Sestan

Editori Laterza

© 1961, Gius. Laterza & Figli

www.laterza.it

Nella «Biblioteca di Cultura Moderna» Prima edizione 1961 Seconda edizione 1962 Nella «Universale Laterza» Prima edizione 1967

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Edizione 23 24

Anno 2015 2016 2017 2018 2019

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari

Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-0388-5 È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Prefazione di Armando Saitta ed Ernesto Sestan

Né l’uno né l’altro di noi due ha mai sentito una le­ zione di Chabod, vogliam dire una lezione ordinaria dei suoi corsi universitari, o presso l’Istituto di studi storici di Napoli. Uno di noi, il più anziano, sentì, nel ’47, la prolusione al primo corso che Chabod tenne nell’Università di Roma; e lo sentì, qualche anno dopo, in una lezione alla Scuola normale superiore di Pisa. Ma tutti sanno che una prolusione, per sua natura sem­ pre un po’ togata e conforme a un certo tipo di ceri­ moniale accademico, non può dare il modulo, la misura, il tono di una lezione ordinaria; ed anche la bellissima lezione che Chabod tenne alla Normale (trattava di Fénelon e delle vaghe, velleitarie idee della opposizione « segneuriale » alla monarchia francese nel ’700) non fu, forse, tagliata, come una lezione ordinaria, solo sulla misura degli studenti normalisti, uditorio, certo, di prima scelta per un maestro di università, ma anche, un poco, in riguardo ai colleghi pisani, che erano ve­ nuti in buon numero ad ascoltarlo e ad applaudirlo. In realtà che cosa fosse, come apparisse Chabod dall’alto della cattedra, solo i suoi studenti potrebbero dire; e qualcuno l’ha detto, infatti, e bene, e con l’affetto che non vela l’impressione viva e diretta. Tutto questo anche per dire che non sappiamo fino 7

a qual punto le lezioni qui raccolte e pubblicate rie­ scano a dare un’idea della lezione, quale usciva dalla viva, calda voce di Chabod, accompagnata dal misurato gesto delle mani e delle braccia, dallo sfavillio ora splendente ora cupo dei suoi occhi dietro le lenti, quel­ le lenti che, quando dovesse accostare il foglio per leg­ gere, levava e disponeva sul tavolo, lentamente, men­ tre con un gesto tutto suo, il capo, le spalle, il petto si protendevano innanzi quasi a prender possesso del ta­ volo con la grande, maschia persona e gli occhi, libe­ rati dalle lenti, si spalancavano immensi e pensosi a frugare fino in fondo quel foglio, lettera e spirito. Queste lezioni non sono, naturalmente, la riprodu­ zione stenografica del suo dire. Non sono e non pos­ sono essere già per la semplice ragione che non si contengono in un centinaio e mezzo di pagine a stampa le lezioni di un corso universitario, è sia pure di un corso in tempi eccezionalissimi, quali furono quelli dopo Γ8 settembre 1943. Le sue parole sono state sunteggiate, con fedeltà e intelligenza, da un’alunna, Bianca Maria Cremonesi, in quegli anni molto vicina a Chabod, se ricordiamo bene anche come segretaria di redazione di « Popoli », la rivista quindicinale di breve vita, diretta da lui e da Carlo Morandi. E della fedeltà sostanziale della redazione apprestata dalla Cremonesi rimane prova il fatto che Chabod, quando, nel 19461947, riprese a Roma questo corso, mantenne, nel re­ digere o fare redigere le dispense, quasi inalterato il testo della Cremonesi, salve le poche varianti qui ri­ portate. Non siamo più ai tempi, quando Giuseppe Fer­ rari scriveva per intero le sue lezioni e come tali le pub­ blicava, nel celebre corso sugli scrittori politici ita­ liani. Ora, verisimilmente, nessun cattedratico legge più: sviluppa uno schema e, nel caso di lezioni di sto­ ria, lo illustra con la scorta di documenti e di passi 8

significativi di autori. Crediamo che anche Chabod non facesse altrimenti. E tuttavia il corso qui ripubblicato non ci dà semplicemente un arido schema costellato di passi d’autore. Nel testo, anche se non stenografico, vivono frasi proprio uscite dalla bocca di Chabod, oltre che la nitida linea del suo pensiero. Frasi come queste: « Ora, di fronte a simili tentativi occorre dire ben chiaro ecc. » oppure: « Ma occorre pur dire, alto e forte, che ciò nonostante... » o la struttura, un po’ ar­ caica, che egli si compiaceva di mutuare dai suoi storici cinquecenteschi: « come che con essa si cominciasse ad andare oltre la storia meramente politica ecc. » sono tipicamente chabodiane, come è tutto Chabod nel modo di presentare e far rivivere i suoi testi, nel contrap­ porli l’uno all’altro per farne scaturire, per contrasto, lo spirito diverso che li anima. Non si perde, cioè, quel modo personalissimo di fare lezione, che faceva dire a qualche studente romano che Chabod « aveva la le­ zione drammatica ». Che è impressione aderente al vero: la capacità straordinaria di Chabod di presentare i contrasti ideali, portandoli nelle loro implicazioni e conseguenze estreme fino quasi all’incandescenza, per cui la soluzione non può essere che un drammatico conflitto e la conseguente catarsi. Non consta che prima dell’anno accademico 19431944 Chabod abbia fatto oggetto dei suoi corsi univer­ sitari l’idea di nazione. Ne aveva parlato, ma limitatamente all’Italia, nell’autunno 1939, nel corso di tre lezioni tenute all’Università per stranieri di Perugia. C’è già, nelle linee essenziali, il corso milanese di quattr’anni dopo, se pure con minore accentuazione, nel­ l’idea di nazione, quale fu intesa in Italia, del momento delle libertà civili, e per altro verso, con accentuazione maggiore dell’idea di primato; ma già con pari rilievo è segnato il nesso indissolubile fra coscienza di nazione 9

e di umanità. Forse per un riguardo verso l’uditorio internazionale a cui quella lezione si rivolgeva, è te­ nuto in sordina il contrasto fra il modo di sentire ed intendere la nazione nell’Italia e nella Germania otto­ centesche; quel contrasto che in tanta parte anima il corso milanese e gli dà quel pathos risorgimentale in­ confondibile. Ma la problematica nazionale doveva essere fami­ liare a Chabod, diremmo, fin dall’adolescenza, nella nativa Aosta, che allora, negli anni liceali di Chabod, non raggiungeva ancora i diecimila abitanti, che non aveva una pubblica biblioteca, che non era certo un cen­ tro di cultura e che pure allevò e nutrì il giovanissimo alla vita dello spirito, grazie alle linfe feconde dell’am­ biente domestico e scolastico locale. Non si è valdo­ stani,· uomini di confine, bilingui, francesi per la fa­ vella del luogo, italiani per sentimento e cultura, senza che questa situazione, strana e non facilmente com­ prensibile per chi non è del luogo, sia occasione di ri­ flessioni per un giovane pensoso come Chabod. Una situazione, forse non molto avvertita finché visse ad Aosta, dovette presentarglisi più netta quando passò a Torino per gli studi universitari; ma senza alcun di­ sagio. Nessuna maraviglia che sia in francese, un bel­ lissimo francese a giudizio di chi può giudicare, il pri­ mo scritto a stampa di Chabod; è uno scritto di alpi­ nismo, la vita quasi di ogni giorno, prima ancora che passione sportiva, della gente della sua valle, dei suoi pastori, dei suoi cacciatori; è del tutto naturale che Chabod ne parli con la parlata della sua gente. Sempre alieno da infatuazioni nazionalistiche,, legatissimo per sentimento, per cultura, per le salde tradizioni dei suoi valligiani alla comunità italiana, Chabod fu ricondotto tuttavia a ripensare con qualche amarezza a questi pro­ blemi via via che la sua valle fu sempre più esposta ai 10

ridevoli tentativi di forzata italianizzazione linguistica (in fatto di italianità di fondo, morale e sentimentale, provata tante volte col sangue della sua gente, la valle poteva dare lezione a chiunque) che il fascismo veniva compiendo, con il travestimento all’italiana dei nomi di luogo, con l’eliminazione di tutto ciò che sapesse di francese. L’esasperazione dei nazionalismi, sfocianti nei raz­ zismi, era largamente diffusa in quegli anni in Europa e variamente mescolata di antisemitismo e di totalita­ rismo socialmente reazionario. Un senso di nausea sa­ liva negli animi bennati. Ma non si direbbe che Chabod si volgesse a ricercare la nascita della moderna, dina­ mica, troppo dinamica idea di nazione per rendersi conto dell’inameno presente. Si direbbe piuttosto che l’idea di nazione gli si presentasse come l’altra faccia, complementare e sotto certi aspetti negativa dell’idea di Europa, ma che a questa innanzitutto andassero i suoi interessi di studioso e le sue simpatie di uomo civile. Fin dagli anni attorno al ’30, nei conversari fra i giovani storici che formavano lo « staff » dell’Enci­ clopedia Italiana e fra i quali Chabod era l’intelligenza eminente, l’Europa e l’idea di Europa avevano larga parte, un poco persino per la ragione tutta occasionale che si era pur dovuto impostare, bene o male, una storia per la voce « Europa ». Chabod ne discuteva a lungo e animatamente, non invero annettendovi, allora, nemmeno vaghi disegni di possibili realizzazioni di quell’idea sul piano politico-strutturale; l’Europa lo in­ teressava allora come storia del farsi di un’idea e del sentimento o meglio coscienza di una comunità di civiltà. Erano gli anni in cui usciva The Making of Europe di Ch. Dawson, segnalato da Omodeo nella « Critica », in cui si pubblicavano gli « Europäische Gespräche » del principe di Rohan, in cui uscivano i li

vari scritti pan-europei e si manifestava il proselitismo di Coudenhove-Kalergi, in cui si teneva a Roma il Convegno Volta sull’Europa ed una seduta era pre­ sieduta da quell’autentico europeo che fu Hermann Goering. Ma converrà, forse, osservare che, in fondo, la discussione sull’Europa, di cui tanti allora parlavano e dicevano di preoccuparsi, nasceva da motivi diversi da quelli che impostarono il dibattito poi, durante la guer­ ra e in questo nostro dopoguerra. Allora, il sentimento prevalente era di conservare all’Europa la posizione centrale, dominante nel mondo, centrale e dominante sul piano della civiltà, dell’economia, e anche della po­ litica, a cui la sua storia l’aveva portata; e di qui le auto-candidature, con buon garbo o più spesso con mal garbo, alla « leadership » di questa o quella na­ zione, quasi che quelle che finora avevano tenuto il timone, fossero divenute incapaci e impari ad un com­ pito storico. C’è ancora, in questa discussione, la te­ nace resistenza di chi non vuol cedere una posizione tenuta da secoli; e nessun ripudio netto, ancora, di ogni colonialismo, anche se colorito di missionarismo educativo; mentre la discussione sull’Europa, che si apre sotto la tormenta della guerra e negli anni dipoi, abbandona le pretese di egemonia, si chiude nella di­ fesa di un’Europa rassegnata a essere solo se stessa, a salvarsi dall’autodistruzione a cui i suoi figli l’hanno portata vicina, con la dilacerazione dei nazionalismi e razzismi esasperati e furenti. La meditazione di Chabod sull’idea di Europa e sull’idea di nazione si inserisce in questa seconda discussione, anche se è nata più in là, quando dominava la prima. Chabod aveva troppo in­ nato il senso della storia per rappresentare l’idea di nazione solo come il momento negativo, antitetico del­ l’idea di Europa; le sue osservazioni più fini e pene12

tranti, nel corso che qui ripubblichiamo, toccano pro­ prio il punto di equilibrio e di complementarietà fra le due idee; mostrano come nei più seri e pensosi as­ sertori dell’idea nazionale nel ’700 e nell’800 questa non andasse mai disgiunta dall’idea e dalla coscienza della comunità europea, per quanto egli non taccia che nell’idea nazionale, anche sette ed ottocentesca, o in talune idee, si potessero annidare le implicazioni che portarono ai nazionalismi del ’900 e ai loro tentativi di prevaricare, di requisire per sé e per i loro fini egoi­ stici la stessa idea di Europa. La nazione, intesa nei suoi motivi ideali, come coscienza di particolare comu­ nità umana, legata insieme non solo o non necessaria­ mente solo dai connotati della lingua e della razza, non è certo negata da Chabod come realtà storica ed attua­ le, ma egli, riprendendo motivi preromantici ed anche romantici, mazziniani, ecc. si rifiuta di farne una di­ vinità suprema, che comporti misconoscimento di co­ munità più vaste, l’Europa e l’umanità. È bello e con­ fortante che nel pieno della guerra un universitario ita­ liano, maestro ai giovani, abbia riaffermato energica­ mente questi princìpi dall’alto di una cattedra e che nel cupo inverno del 1943, mentre le strade di Milano risuonavano dei passi cadenzati delle pattuglie tedesche e di altre brigate, in un’aula dell’Università, con inu­ sitato ardire, siano echeggiate, per bocca di Chabod, le strofe inobliabili della Marsigliese, come queste le­ zioni documentano. Il testo che qui si ripubblica è quello del corso milanese 1943-44, ripulito degli svarioni tipografici non pochi che vi si erano inseriti (e che si spiegano con le difficoltà di quei tempi, anche nel lavoro tipo­ grafico) e integrato con le varianti più importanti in­ trodotte da Chabod nel riprendere il corso all’Uni­ versità di Roma, nell’anno accademico 1946-47: deh 13

varianti, quelle di minor mole figurano, fra parentesi quadre, a piè di pagina del testo del ’43-44, quelle più lunghe sono riportate alle pp. 93-135. Nell’Appendice, per affinità di argomento, si riproduce la Parte prima del corso romano 1956-57 sulle Origini dello Stato mo­ derno, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1957, e precisamente le pagine dattiloscritte-litografate 3-86, col ti­ tolo che non è nostro, ma di Chabod: Alcune questioni di terminologia: Stato, nazione, patria, nel linguaggio del Cinquecento. La Parte seconda dello stesso corso, che riprende temi già da Chabod trattati, più estesa­ mente, in altre pubblicazioni (su cui cfr. l. firpo, Bi­ bliografia degli scritti di Federico Chabod, 1921-1961, in «Rivista storica italiana», 72, 1960, n. 158,p. 830), non viene riprodotta.

L’IDEA DI NAZIONE

Dire senso di nazionalità, significa dire senso di in­ dividualità storica. Si giunge al principio di nazione in quanto si giunge ad affermare il principio di indi­ vidualità, cioè ad affermare, contro tendenze generalizzatrici ed universalizzanti, il principio del particolare, del singolo. Per questo, l’idea di nazione sorge e trionfa con il sorgere e il trionfare di quel grandioso movimento di cultura europeo, che ha nome Romanticismo: affon­ dando lp sue prime radici già nel secolo xvm, ap­ punto nei. primi precorrimenti del modo di sentire e pensare romantico, trionfando in pieno con il secolo XIX, quando il senso dell’individuale domina il pen­ siero europeo. L’imporsi del senso della « nazione » non è che un particolare aspetto di un movimento generale il quale, contro la « ragione » cara agli illuministi, riven­ dica i diritti della fantasia e del sentimento, contro il buon senso equilibrato e contenuto proclama i diritti della passione, contro le tendenze a livellare tutto, sotto l’insegna della filosofia, e contro le tendenze anti-eroe del ’700, esalta precisamente l’eroe, il genio, l’uomo che spezza le catene del vivere comune, le norme tra17

dizionali care ai filistei borghesi, e si lancia nell’av­ ventura. Fantasia e sentimento, morale e amore dell’arte, speranza e tradizioni, poesia e natura, questo il Nova­ lis *, romanticissimo, rimproverava aH’Illuminismo di aver cercato di soffocare; questo il Romanticismo volle rimettere in onore. Ma sul terreno politico fantasia e sentimento, speranze e tradizioni, non potevano avere, contrariamente al programma del Novalis, che un nome: nazione. La reazione contro le tendenze univer­ salizzanti deH’Illuminismo (in politica, l’assolutismo il­ luminato), che aveva cercato leggi valide per ogni go­ verno, in qualsivoglia parte del mondo si fosse, sotto qualunque clima e con tradizioni diversissime, e aveva proclamato uguali le norme per l’uomo saggio, a Pe­ chino come a Parigi; questa reazione non poteva che mettere in luce il particolare, l’individuale, cioè la na­ zione singola. Dire rivincita della fantasia e del senti­ mento sulla ragione, significa appunto dire trionfo di ciò che v’è di più particolare e differenziato da uomo a uomo contro ciò che dev’essere valido per tutti gli uomini: la ragione può dettar norme di carattere uni­ versale, la fantasia e il sentimento ispirano ciascuno in modo diverso, « dittano » dentro con estrema varietà di tono e di ritmo. Ora, contro le tendenze cosmopo­ litiche, universalizzanti, tendenti a dettar leggi astratte, valide per tutti i popoli, la « nazione » significa senso della singolarità di ogni popolo, rispetto per le sue pro­ prie tradizioni, custodia gelosa delle particolarità del suo carattere nazionale. Lo sviluppo dell’idea di nazione procede quindi di pari passo con lo sviluppo della poetica del senti1 [Qui e poco più sotto scompare il nome di Novalis, che viene sostituito dal termine « Romanticismo ».] 18

mento e dell’immaginazione, che reagisce agli schemi razionalistici e all’Art poétique del Boileau; e significa, ad un tempo, affermazione di un’idea politica, a cui spetterà l’avvenire, e di un criterio di valutazione sto­ rica, per cui la storia apparirà, appunto, in pieno Ro­ manticismo, come la scena su cui agiscono le nazioni succedentisi l’una l’altra, di volta in volta, nel portar la fiaccola della civiltà e nel sostenere la parte di primo attore nelle vicende umane. È uno sviluppo che è stato, di recente, studiato con molto acume, per quanto riguarda gli scrittori sviz­ zeri e tedeschi del ’700, fino a Kant, in un bel libro di C. Antoni, La lotta contro la ragione (Firenze, San­ soni, 1942): libro di cui consigliamo vivamente la let­ tura 2. Non è che il termine nazione fosse ignoto per l’innanzi. Tutt’altro. Lo troviamo sin dal Medioevo: basti pensare all’uso di esso sia nelle Università, divise ap­ punto per nazioni (Bologna, Padova, Parigi), sia nei grandi concili, sia, anche, in altre occasioni, come 2 [Il testo prosegue con: « Per questo non è possibile accettare le recenti conclu­ sioni di un pur eminente studioso come lo Huizinga il quale, negando che patriottismo e nazionalismo siano creazioni della storia moderna,, ha cercato di dimostrare che il senso nazionale è già percepibile, e talora assai vivo, anche nel Medioevo; ed è andato in traccia delle locuzioni di cronisti e scrittori, dove venga in luce la contrapposizione di un popolo contro l’altro, e rinviene così sin dal secolo xm le tracce di un contrasto tra francesi e tedeschi, di una invidia quae inter utrosque naturaliter quodammodo versatur, del furor teutonicus, ecc. * Ora, anche lasciando da parte il fatto che quel ch’egli riesce a trovare è poco, poco assai, quel che importa chiarire è che in tal modo egli è incorso in un grande equivoco: quello di scambiare le espressioni e i segni di contrasti tra popoli 19

quando si parla dei mercanti di nazione « lombarda » ih Francia nel secolo xxn ecc. Si trova già, anche, in senso politico: così, per es., in Guglielmo di Ockham, là dove si parla3 della translatio imperii, e si discute se i Romani « nullum ius habeant in imperio plus quam ceterae nationes », e si esaminano i modi « ut statuatur quod de certa natione vel gente imperator eligatur » (Dialogus, libro I, cap. 29). Nazione=ge«r: significato etnico, che si tramuta però in politico, quan­ do la gens diventa criterio di discriminazione, per sta­ bilire il modo della elezione imperiale4. Ma, anzitutto, nazione non è affatto il termine (contrasti sempre esistiti, certo) con l’idea moderna di nazione, che è tutt’altra cosa, proprio perché, prima ancora di rivolgersi verso o anche contro l’esterno, prima ancora cioè di assumere atteggiamento ostile verso altra nazione, è coscienza piena di se stessa, della propria ‘ individualità ’, costituita dal passato e dal presente, dalle tradizioni storiche come dalla volontà at­ tuale di essere nazione. Contrariamente a quanto afferma lo storico olandese, è pro­ prio vero che locuzioni nuove si creano quando c’è qualche idea, sentimento ecc. nuovo da esprimere. * Wachstum und Formen des nationales Bewusstseins in Europa bis zum Ende des XIX. Jahrb., nel volume Im Bann der Geschichte, Basilea 1943, p. 133 (questo saggio è stato tra­

dotto, insieme con altri raccolti nel medesimo volume, in ita­ liano: cfr. Huizinga, Civiltà e storia, Modena 1946) ».] 3 [Da « Si trova... » nuova redazione: « Si trova già, anche, in senso politico: cosi sin dal se­ colo XII, nella celebre apostrofe di Giovanni di Salisbury con­ tro Federico Barbarossa: “ Quis Teutonicos constituit iudices nationum? ”. Così ancora, in Guglielmo di Ockham, là dove si parla... ».] 4 [Da « Nazione=gens... » nuova redazione: « Nazione=gens\ il significato etnico è qui esclusivo (e lo stesso si può dire per Giovanni di Salisbury), mentre la ‘ na­ zione ’ nel senso moderno lo mantiene anche generalmente (ma non sempre: si pensi agli svizzeri e ai belgi e ai nordameri20

esclusivo per designare il concetto che per noi moderni è da tal parola indissolubile: generalmente, anzi, gli scrittori si valgono più del termine « provincia » che di quello « nazione », per designare la nazione. Si pensi al dantesco non donna di provincie, ma bordello

(Purgatorio, VI, v. 78).

Ancor nel Machiavelli il termine « provincia » è assai spesso usato nel senso nostro di nazione, mentre il termine « nazione » appare rarissimamente (cfr erco­ le, La politica di Machiavelli, Roma 1926, p. 111)5. Ma anche a prescindere da simili incertezze di ter­ minologia, che sono pur sempre un prezioso indice di oscillazioni nel concetto stesso che s’intende esprimere, è certo che la « nazione » del basso Medioevo non è ancora quella che esalterà il Romanticismo6. Se ne parla, senza dubbio: e basti, per noi, rammentare Dan­ te e Petrarca, prima ancora di Machiavelli. Ma, anzi­ tutto, salvo appunto queste eccezioni, grandi, ma ecce­ zioni, l’idea di nazione non ha ancora alcun influsso cani!), ma come elemento di un assai più vasto complesso. Ma, altre volte, proprio l’uso della parola natio ci indica quanto si sia allora lontani dal concetto moderno. Così nelle nationes dell’Università di Parigi: la francese, la piccarda, la normanna, che rappresentano semplicemente parti della Fran­ cia settentrionale, e non hanno nulla in comune con la * na­ zione francese ’ moderna; la quarta, la natio anglica, che ab­ braccia inglesi, tedeschi, scandinavi, polacchi, ecc. È un tipico esempio del significato diremo non nazionale in senso mo­ derno che il termine nazione mantiene lungo il Medioevo».] 5 [Cfr. Varianti, p. 95.] 6 Cfr. M. HANDELSMAN, Le rôle de la nationalité dans l’bistoire du Moyen Age, in « La Nationalité et l’Histoire. Bul­ letin of the International Committee of Historical Sciences », 7, 1929, pp. 23 sgg.

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sul pensiero complessivo europeo; anzi, spesso in co­ loro stessi che ne parlano resta un particolare, un mo­ mento isolato non accordantes! con l’insieme delle con­ cezioni. È proprio il caso di Dante, il cui senso, tanto vantato, di « italianità » non impedisce che il suo mi­ raggio politico7 sia, ancora e sempre, l’impero uni­ versale, anche se accentrato nell’Italia, nel giardino dello « imperio »; il cui senso della nazione (comun­ que sia il termine, provincia o altro) non ha, dunque, alcuna capacità di influire sulla veduta d’insieme. Lo stesso dicasi per il Petrarca. Col Machiavelli, senza dubbio, le cose mutano, nel senso che egli dell’impero universale non si cura minimamente, e che il suo sguardo è già fermo sulle grandi unità singole, Francia, Spagna. Ma si deve no­ tare che il suo interesse è per l’unità « statale », più che per la « nazione »: vale a dire, il problema che lo assilla è puramente politico, egli osserva e commenta quel che ha forma e aspetto politico, non altro; quindi la nazione per lui esiste in quanto sia organizzata o stia per organizzarsi in corpo politico, in unità statale, con un governo regolare. Cioè, ancora, è lo « Stato » che lo preoccupa, e questo solo. Col Romanticismo ci fu « anche » l’anelito, in al­ cuni paesi, a far della « nazione » pure il criterio base, la misura di valore della vita politica, in Italia e in Germania, soprattutto: ci fu cioè la tendenza a conver­ tire il riconoscimento, teorico, dell’esistenza di una na­ zione italiana e di una nazione tedesca, con proprie caratteristiche inconfondibili, nella organizzazione pra­ tica di uno « Stato nazionale » italiano e tedesco. Si ebbe l’enunciazione del « principio di nazionalità » co7 [Le parole « miraggio politico » sono modificate in « fine politico ».] 22

me principio supremo della vita dei popoli; si volle lo « Stato nazionale ». Ma non tutto il significato e il valore della nazione si esaurirono in questo: anzi, tali conseguenze poli­ tiche si poterono trarre soltanto in quanto, prima, si era scoperta e riconosciuta la « individualità » morale e culturale della nazione. Cioè: si disse, l’Italia deve essere una e indipendente, deve costituire uno « Sta­ to », in quanto l’Italia è una « nazione », è una indi­ vidualità storica, che ha proprie caratteristiche, non soltanto etniche e linguistiche, ma di tradizione e di pensiero, in quanto l’Italia ha un’anima sua, ben di­ versa dall’anima francese, tedesca, spagnola, ecc., e perciò ha diritto di poter liberamente esprimere « an­ che » sul terreno politico, oltre che su quello letterario, artistico, musicale, ecc., questa sua anima, questo suo spirito, proprio di lei e di nessun altro popolo. Ma è precisamente nella scoperta di quest 'anima nazionale che consiste la grande novità dell’idea di nazione della fine del Settecento e dell’Ottocento; è nel riconoscimento delle peculiarità incancellabili, mo­ rali e spirituali, di ogni popolo, che sta il frutto del­ l’esperienza preromantica e romantica.

Anche qui, si deve avvertire che, senza dubbio, ne­ gli scrittori del Rinascimento v’erano accenni al « ca­ rattere » dei vari popoli, alla loro « natura ». Ma si tratta, quasi sempre, di una formula che tiene conto essenzialmente di elementi naturalistici, e che in breve diviene formula stereotipa. Si prendano, per es., le osservazioni del Machia­ velli e, in genere, di tutti gli storici fiorentini e poi degli ambasciatori veneti sui rapporti fra aere sottile e ingegno pronto e acuto, rapporto esemplificato pro23

prio nei fiorentini: così in una relazione al Senato ve­ neto di Vincenzo Fedeli, del 1561, si può leggere: « È tutta questa bellissima regione [Firenze] ben coltivata ed abitata e posta sotto felicissimo cielo, sotto aere benigno e temperato, ma sottilissimo, e per questo fa gli uomini ingegniati, pronti e sottili » (Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, ed. Segarizzi, III, P. I, Bari 1916, p. 125). Si prendano, anche, le formule del Machiavelli e di tanti altri sulla « natura » dei francesi, o dei tede­ schi; i giudizi, spesso ripetuti, sui francesi più che uomini all’inizio di una battaglia e più che donne alla fine, quando va male. Ovunque, si può notare che le presunte caratteristiche di un popolo sono essenzial­ mente fisiche, dipendono o da fattori naturalistici (aria, suolo), o da misteriosi influssi delle stelle, per uomini che all’astrologia credono ancora. Sono gli sparsi germi che, nella seconda metà del secolo XVI, confluiscono nella teoria del clima di Jean Bodin (Methodus ad facilem historiarum cognitionem, 1566; Lđ République, 1576): nella teoria, cioè, se­ condo cui il carattere degli abitanti di un paese è in dipendenza della situazione geografica di quel paese, tre essendo le grandi zone di ripartizione: il Setten­ trione, con clima freddo e ingegno torpido e lento de­ gli abitanti, il Mezzogiorno, con gran caldo e ingegno sottile, smaliziato dei nativi, e, di mezzo, le nazioni temperate, cioè europee, che sono le più felici, equili­ brando i due estremi. È una teoria preceduta da osser­ vazioni sparse del Machiavelli, e, ancora prima, di Enea Silvi» Piccolomini e fin da accenni di Marsilio da Padovat di Dante e di san Tommaso 8, e che, compiuta8 [Sono state aggiunte le parole « per non risalire addirit­ tura ad Aristotele ».]

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mente formulata dal giurista francese, trova larghissima applicazione. Dalla « varietà d’aere et di venti » deriva « la vivezza, et la instabilità de gl’ingegni »; quindi i piemontesi sono, ad es., diversi dai friulani, perché, essendo la loro terra più fertile, più ricca di vettova­ glie, essi sono « amici de’ passatempi, dell’otio et del­ l’agricoltura più, che d’altro esercitio, d’ingeghi sem­ plici, et d’animi schietti et quieti »; mentre i friulani, che abitano in terra ricca di vini, ma povera di fru­ mento sono « vehementi, solleciti, terribili »; così, per rammentare altri esempi, v’è la correlazione diretta fra sito sterile e fervore industriale e commerciale degli abitanti (cfr. f. chabod, Giovanni Boterò, Roma 1934, pp. 83 sgg.). Ma le caratteristiche delle « nazioni » saranno dal ’700 in poi cercate su tutt’altra base; almeno, pur non mancando gli spunti naturalistici, questi saranno av­ volti, per così dire, in una serie di altri fattori tali, che l’elemento clima-terreno perde quasi completamente quella nota di necessità causale che prima aveva avuto. In altre parole: anche dopo il Romanticismo si è attri­ buita importanza ai fattori geografici e climatici nel determinare lo svolgimento della storia delle nazioni; ma il carattere di una nazione non è più consistito « soltanto » nell’ingegno « sottile » dei suoi compo­ nenti, sì nella tradizione storica e nelle tendenze mo­ rali e politiche e religiose e nei costumi e usanze, e, a sua volta, l’ingegno sottile non è più stato semplice conseguenza dell’aere fino. L’idea di nazione è, anzitutto, per l’uomo moder­ no, un fatto spirituale; la nazione è, innanzi tutto, ani­ ma, spirito, e soltanto assai in subordine materia cor­ porea; è « individualità » spirituale, prima di essere entità politica, Stato alla Machiavelli, e più assai che 25

non entità geografico-climatico-etnografica, secondo le formule dei cinquecentisti. Ecco perché si può parlare dell’idea di nazione come di una idea nuova, propria dell’età moderna.

Difatti, le prime aperte manifestazioni dell’idea di na­ zione avvengono in nome di uno spirito locale, che intende reagire all’invadente influsso dello spirito fran­ cese: e avvengono in Svizzera, sin dai primi decenni del Settecento9. L’Europa sta soggiacendo all’egemonia culturale della Francia, che, almeno sino all’inizio del secolo XVIII, minacciava di trasformarsi anche in egemonia politica piena e assoluta. Di qui la reazione, l’antifrancesismo dei « patrioti » svizzeri, che si appellano alle tradizioni elvetiche, alle « libertà » antiche, allo spirito patriarcale e all’onestà dei costumi aviti, contro i « corrotti » e « prepotenti » costumi e indirizzi po­ litici esterni. Troviamo, cioè, negli svizzeri dei primi decenni del Settecento, un atteggiamento « antifrancese » iden­ tico a quella che sarà la gallofobia dei maggiori scrittori politici del Risorgimento, Mazzini e Gioberti, anch’essi preoccupati, come i loro colleglli svizzeri di un secolo prima, di salvare la « individualità » nazionale che mi­ naccia di esser soffocata dall’imitazione delle mode al­ trui. O, ancora, è la reazione del Cuoco alla mania dei partiti napoletani del 1799 di non staccarsi dai mo­ delli francesi. Ecco così le Lettres sur les Anglais et les Français (1725) del patrizio bernese Beat Ludwig von Murait: 9 Per quanto segue sugli scrittori svizzeri e tedeschi, se­ guiamo il lavoro dell’Antoni, già citato, pp. 7 sgg. 26

il quale, contrapponendo francesi e inglesi e dando ini­ zio all’anglomania del ’700, esalta il carattere impul­ sivo, violento, libertino sì, ma forte degli inglesi, la libertà civile e la serietà morale dell’isola, la quale « gode di una libertà che eleva lo spirito » e non è co­ stretta ad accomodamenti e compromessi, a souplesses che corrompono; mentre, quanto alla Francia « mai si è vista una nazione così fertile, così ricca di servitori, così gloriosa di servire », tanto che « tutti coloro che sono uomini liberi, o che fanno caso della libertà, non considerano i francesi come modelli da seguire ». L'éclat dei francesi, il loro plaisir de paraître, il loro savoir vivre sono condannati: meglio, appunto, gli eccessi, la ferocia degli inglesi, che almeno sono uo­ mini e non lacche. Il senso della diversità della nazione è, per il Mu­ rait, netto, anche se in parte determinato ancora da considerazioni puramente fisiche, che ci riconducono oltre che all’inglese W. Tempie, come osserva l’Antoni, addirittura alle solite considerazioni climatiche, care già al ’500 e teorizzate, assai prima del Mon­ tesquieu, da Bodin. Su basi naturalistiche poggia in­ fatti ancora in gran parte la differenziazione tra i vari popoli, ch’egli fa: in Francia, « dove il governo è tale che quasi nessuno può mantenersi senza fare la corte ai grandi » trionfa Vesprit, che consiste nell’arte di far valere delle bagatelles·, gli olandesi, dato che abitano in un. paese sterile, sono costretti a vivere d’industria e di commercio; gli italiani, che vivono in un paese delizioso, cercano di accontentare i sensi e son diven­ tati « interamente sensuali ». Dove il giudizio sugli olandesi e sugli italiani, non è certo diverso, per i motivi addotti, dai giudizi cinquecenteschi sull’aere fino, ecc. E parimenti, questi giudizi sui vari popoli risen27

tono di un certo formalismo, non sono sempre esenti da una certa tipizzazione dei vari caratteri nazionali, già affermatasi prima del Murait: la ricerca dei divers génies delle singole nazioni, dello « spirito », del « ca­ rattere », dei governi e dei popoli, che ha già comin­ ciato a farsi luce, nella storiografia, con il francese Saint-Evremond, nella seconda metà del ’600, e che dovrà sboccare nella histoire de la civilisation del Vol­ taire, nell’Erttw sur les moeurs et l’esprit des nations, si traduce, spesso, in formule che diventano tradizio­ nali, convenzionali, e che stilizzano e irrigidiscono il carattere dei vari popoli in una posa immutabile. Nel 1697, Houdar de La Motte aveva fatto rap­ presentare dall’Accademia reale di musica a Parigi, un balletto dal titolo L’Europe galante. « Si sono scelte, tra le nazioni d’Europa, quelle il cui carattere è mag­ giormente in contrasto e che permettono quindi mag­ giore possibilità di effetti teatrali: la Francia, la Spa­ gna, l’Italia e la Turchia. Si son seguite le idee ordi­ narie che si hanno sul genio di quei popoli. Il fran­ cese è raffigurato volubile, indiscreto e galante; lo spagnolo, fedele e romanzesco; l’italiano, geloso, fine e violento... »10 E nel 1700, Daniele De Foe, l’autore ben noto del Robinson Crusoe, in uno scritto politico, The Trueborn Englishman, ricorre anch’egli alle solite stilizza­ zioni: l’orgoglio elçgge a sua sede la Spagna, la lussuria l’Italia, l’ubriachezza la Germania; e la Francia, anche per l’inglese è « nazione di ballerini, volubile e bu­ giarda ». Echi di simili formule non mancano, dunque, nel Murait. Ma nuova è, invece, la passione politica del .

10 Per questo, cfr.

hazard, La crise de la conscience euro­

péenne, I, ρρ. 70-72.

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bernese, il suo ribellarsi alla Francia, come a una na­ zione di cortigiani, e il proclamare apertamente prefe­ ribili gli eccessi, anche feroci, degli inglesi, perché questi eccessi son congiunti con l’amore e il senso della libertà. Nuova è la protesta morale contro il corruttore spirito francese, e la volontà di serbare il « carattere nazionale » degli Svizzeri, della nazione pura e buona: « Sembra che la Provvidenza, che governa il mondo, abbia voluto che tra le nazioni ve ne fosse una diritta e semplice... essa ha voluto ricompensare in noi un resto d’ordine, conservato alla vista di tutta la terra, un carattere perduto tra le nazioni opulente e volut­ tuose ». C’è, qui, di già lo spirito che, alcuni decenni più tardi, ispirerà al Rousseau la Lettre sur les spectacles, contro il progetto degli enciclopedisti di istituire un teatro a Ginevra: il teatro va bene a Parigi, non nella pura e semplice Elvezia, i cui patriarcali e sani costumi non hanno bisogno degli eccitamenti corrut­ tori della scena 11. E risuona pure di già, nel Murait, un altro motivo, poi ripreso parimenti dal Rousseau e caro, in genere, ai romantici: il motivo, cioè, della montagna fonte di purezza, di buoni costumi e di saldo carattere. Comincia proprio allora l’esaltazione delle Alpi; e un altro bernese, Alberto von Haller, scrive un poema, Die Alpen (1729), celebrando la natura e il rude montanaro, il quale, proprio perché lontano dalle città con i loro artifici e la loro vita falsa, è semplice, probo e felice. C’è qui, in germe, Gian Giacomo Rousseau e la sua esaltazione dello stato di natura, dell’uomo natu11 Cfr. o. vossler, Der Nationalgedanke von Rousseau bis Ranke, Monaco-Berlino 1937.

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Talmente buono, che la civiltà corrompe e trascina sulla via del male. E c’è già tutto l’amore, tipico del Roman­ ticismo, per la natura forte e selvaggia, per il grandioso delle Alpi, perfino per l’orrido. La montagna era stata fino a quei giorni assente dalla letteratura e, in genere, dalla vita spirituale eu­ ropea; non aveva ispirato i poeti, era rimasta lontana dalle immaginazioni degli uomini. La modestissima sa­ lita del Petrarca sul monte Ventoso è riferita da tutti i manuali di storia letteraria, e sembra un portento: ed è pure un episodio non solo isolato, ma che non ha nessuna risonanza vera nell’animo dello stesso Pe­ trarca, la cui poesia si serve, anche, degli « alti monti » e delle « selve aspre » in cui il poeta trova qualche ri­ poso, ma non riecheggia veramente mai, in nessun momento, il « grandioso » dell’alta montagna. L’amore per le Alpi — a cui fece seguito, sul ter­ reno pratico, l’alpinismo, una forma cioè di attività sportiva tipicamente moderna, completamente ignota alle età preromantiche — è una delle caratteristiche del Romanticismo: con esso soltanto la montagna aspra, la forte e possente natura alpina diventano sog­ getto di poesia, vengono elette a scenario di grandi gesta. Pensate al Guglielmo Teli dello Schiller e al Manfred del Byron. Uomo della montagna=carattere saldo, purezza di costumi, semplicità di vita. Si tratta, naturalmente, an­ che qui, di un quadro di maniera, di un « mito »: gli scrittori di cui ci occupiamo intendono polemizzare contro usi e costumi di una civiltà che pare loro troppo raffinata e decadente, vogliono combattere l’influsso francese, pernicioso, e, come suole accadere, per com­ battere con più efficacia contrappongono al quadro, a forti tinte, della civiltà corrotta e corruttrice, il quadro, idealizzato, dei piccoli villaggi alpini in cui regnano 30

candore, onestà, pietà. Né l’una, né l’altra raffigura­ zione rispondono pienamente a verità. Il mito del mon­ tanaro tutto d’un pezzo, saldo e quadrato moralmente come lo è fisicamente, senza vizi e tutto virtù, è un mito che dev’essere valutato come tale; ha lo stesso valore del mito del « selvaggio », di cui esamineremo più innanzi la funzione 12, proprio per la formazione del concetto di Europa. Ma l’esaltazione delle Alpi non è interessante solo perché preannunzia un tipico atteggiamento del Ro­ manticismo. Essa va notata, invece, anche perché si­ gnifica la valorizzazione dei fattori naturali, il ricono­ scimento del loro influsso nella formazione del « ca­ rattere » delle nazioni. Due sono infatti, sostanzialmente, i modi di con­ siderare tale carattere: o ponendolo in rapporto con l’ambiente geografico e il clima, con i fattori fisici, insomma; o considerandolo invece, a guisa di crea­ zione di forze morali, l’educazione, la vita politica, la tradizione. E la storia dello svolgimento dell’idea di nazione dimostrerà ad evidenza come quei due modi abbiano, in effetti, determinato tutto l’ulteriore svi­ luppo, sino a sboccare, con il modo naturalistico, nel « razzismo ». L’esaltazione fatta ai nostri giorni del « sangue » e del « suolo », il trasformarsi dell’idea di nazione in quella di popolo come comunità di sangue, costituiscono la logica conclusione del modo « natura­ listico » di valutare il carattere delle nazioni: che è, poi, il modo più primitivo e rozzo. Ora le Alpi, cominciano a diventare, esse, con la loro maestosità, con la loro rudezza sana che tiene lon­ tani i suoi alpigiani dalle tentazioni del mondo, forma12 [Nel medesimo corso universitario 1943-44, come Par­ te II su L’idea di Europa. È pubblicato a parte, in altro vo­ lume di questa medesima collezione.]

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trici di caratteri: valutazione, dunque, prettamente na­ turalistica. Gira e rigira, saremmo sempre nell’ambito della dottrina del clima, del suolo: con l’unica diffe­ renza rispetto ai vari Bodin, che ora il luogo di ele­ zione, il terreno più adatto perché vi alligni la pianta uomo, diventa il brullo e scosceso terreno delle Alpi. Però, un simile naturalismo non costituisce se non una parte, anzi una piccola parte del pensiero degli svizzeri. Sì, le Alpi, queste custodi ideile virtù ata­ viche, queste vestali del fuoco sacro della onestà e della rettitudine. Ma se -gli svizzeri sono tali, non è soltanto per le Alpi: anzi, ben più, è per i loro costumi, la loro tradizione di rettitudine morale e di libertà. Libertà·, ecco pronunziata la gran parola, che d’ora innanzi accompagnerà, presso che sempre, la nazione. Quale sia l’importanza della « libertà » agli occhi anche dei primi sostenitori della « nazione », emerge chiaramente solo che si ripensi al Murait, alla sua av­ versione per i francesi, in quanto « servi », e all’ammi­ razione per gli inglesi, perché « liberi ». Ma anche in un altro svizzero, Gian Giacomo Bod­ mer, di Zurigo questo, la cui importanza è grande so­ prattutto nel campo delle dottrine estetiche e della filologia germanica, anche nel Bodmer dunque risuona, costante e alto, l’inno alla « libertà »: ed egli ammira Milton, di cui traduce in tedesco il Paradiso perduto, perché « nei moti che la nazione inglese provocò con­ tro Carlo I, Milton si dimostrò un avvocato di tutti i generi di libertà, della libertà religiosa, della libertà domestica e della libertà civile... L’amore della libertà era l’inclinazione preferita della sua anima ».

Dunque, libertà. Senonché, occorre pure avvertire che questa idea di libertà, cara agli esaltatori settecen­ 32

teschi, svizzeri e, come vedremo, anche tedeschi della nazione, presenta alcune caratteristiche assai diverse dalla « libertà » cara, per es., ai patrioti italiani del Risorgimento. In questo senso: che, mentre per i no­ stri patrioti la libertà è un bene da conquistare, un ideale da attuare, buttando per aria il preesistente stato di cose, non libero, per svizzeri e tedeschi succede l’op­ posto: la libertà è quella avita, tradizionale, retaggio ormai di secoli, che occorre non conquistare, anzi « di­ fendere » contro la minaccia dall’esterno. Difendere la propria libertà: ciò non solo sul terreno propriamente politico, ma anche, e forse più, su quello morale, nei costumi, nelle credenze, nel modo di pensare, nella propria individualità spirituale e morale, insomma in ciò che costituisce propriamente la « nazione ». Con ciò la libertà diviene la caratteristica essen­ ziale del proprio passato nazionale; essa non soltanto è un ideale avvenire, bensì è la propria storia stessa. Si potrebbe dire che per gli italiani (e i polac­ chi ecc.) del secolo xix la libertà è un ideale teorico da far trionfare, mentre per gli svizzeri,del Settecento è una prassi da conservare. Senza dubbio, anche nel Risorgimento ci furono appelli all’antica libertà dei Comuni medievali, ci furono evocazioni di Legnano e di Alberto da Giussano (vedine il classico epilogo nel Carducci), quali testimonianze dell’« antica virtù » italiana, della pristina libertà. Non per nulla la storio­ grafia del Risorgimento interpretò la storia dei Co­ muni come storia di un movimento di rivendicazione di libertà cittadina e nazionale contro un dominio stra­ niero, contro gli imperatori tedeschi; e vide il centro di quella storia nella Lega lombarda, nel giuramento di Pontida, nel « fuori i barbari » di milanese origine. Ma, a chi ben guardi, è però facilmente palese che si­ mili appelli ed evocazioni costituiscono, per così dire, 33

un motivo ornamentale, una soprastruttura: l’ideale di libertà vagheggiato dai Mazzini e dai Cavour e dai Cat­ taneo, non era puramente e semplicemente l’ideale del­ le antiche libertà comunali; anzi, era l’ideale di una libertà moderna, primamente sbocciato in Inghilterra, propalatosi nel continente nel periodo della Rivolu­ zione francese, fatto proprio dai vari popoli e natural­ mente da ciascuno adornato « anche » con qualche re­ miniscenza della propria antica storia. Assai diverso invece il modo di sentire degli sviz­ zeri di cui ci occupiamo. Certamente, l’influsso inglese ebbe qualche peso, per uomini come il Murait e il Bodmer, nella esaltazione della libertà contro il dispo­ tismo alla francese: ma il loro senso di libertà fu, anzi­ tutto ed essenzialmente, « svizzero », cioè fu la esalta­ zione del proprio passato di libere città, liberi cantoni. Deriva da ciò la importante conseguenza, che la li­ bertà diviene criterio di interpretazione della storia: o, in altri termini, la storia della nazione viene assunta come pegno inconfondibile del « carattere » 13 della na­ zione, come documento che legittima l’essere stesso della nazione. Con ciò, al fattore meramehte naturalistico (le Alpi, la natura aspra che fa l’uomo forte e tenace, ecc.), si aflSanca il secondo elemento della « nazione »: il fat­ tore storia, tradizione, che equivale a dire volontà umana, esplicatasi nel passato con una serie ininter­ rotta di manifestazioni. Anzi, questo secondo elemento diviene senz’altro predominante: la natora, cioè le Alpi, è buona madre, non matrigna, perché aiuta gli uomini a preservare, immune dai contatti corruttori 13 [Da « della nazione », il testo è così modificato: « ...della nazione, che è storia di libertà, viene assunta come pegno inconfondibile del ‘ carattere ’... ».]

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della cosiddetta « civiltà » cittadina, il carattere nazio­ nale creato dalla volontà e affermatosi attraverso una lunga serie di eventi, cioè fierezza, onestà, amore della libertà. Proprio il Bodmer, anzi, interviene con un saggio {Beobachtung des Nationalcharakter) nella polemica accesasi in quel periodo circa i fattori che determinano il carattere nazionale, e si schiera contro il determi­ nismo naturalistico, sostenuto dal francese Dubos, e a favore delle cause morali (forme di governo, educazio­ ne), come sosteneva l’inglese Hume nel saggio 0/ Na­ tional Characters. Conoscere il proprio carattere nazionale significa conoscere la propria storia: ecco perché, molti decenni prima del Foscolo, anche i patrioti svizzeri del ’700 esortarono alle « storie » i loro compatrioti, fondarono società di ricerca storica, promossero la storiografia lo­ cale, con una passione di ricerca veramente mirabile. Così il Bodmer, nel settimanale che egli fondò e diresse col Breitinger, i « Discourse der Mahlern » (1721-1723), descrive gli usi locali, fornisce notizie « sulle diverse specie di conversazioni, sui vestiti, su ciò che i signori, i borghesi, i contadini, le dame hanno per divertimenti, sulla maniera di trattare con le don­ ne, sulle cerimonie di fidanzamento e di nozze, sui riti che si osservavano nelle sepolture, sul gusto nel riguar­ do dei libri », convinto con ciò, e giustamente, di re­ care una luce « per distinguere il carattere della nostra nazione ». Così egli fonda, nel 1727, a Zurigo, la prima so­ cietà di storia patria, la Helvetische Gesellschaft, pro­ muove pubblicazioni storiche, scrive egli stesso delle Historische Erzählungen e una storia della sua città natale {Geschichte der Stadt Zürich), dedicata a de­ 35

scrivere la storia sociale di Zurigo, vita privata, usi e costumi ecc. Perché anche questo va notato: che la ricerca del « carattere nazionale » induce assai più alla storia dei costumi e delle tradizioni morali e, come si cominciò a dire giusto allora, alla histoire de la civilisation o Kulturgeschichte o storia della civiltà, che non alla storia politica, stricto sensu-, più a studiare le idee e i sentimenti che non i fatti, gli accadimenti politico­ militari tanto cari alla storiografia politica del ’500 e del ’600. La poesia stessa fa rivivere lo « spirito dei tempi » assai più e meglio che non un trattato politico o una vicenda diplomatica: da ciò, nel Bodmer, la pas­ sione con cui egli attese ad esaltare e a lumeggiare la poesia dei Minnesanger, certa testimonianza della gran­ dezza spirituale del periodo in cui la Casa di Svevia aveva dominato l’Impero.

Piena analogia di modo di vedere negli scrittori te­ deschi. Anche qui, vivo senso delle caratteristiche di ogni singola nazione e desiderio di difenderle contro le ten­ denze livellatrici, cioè, precisamente contro la prepon­ deranza culturale, dopo che politica, della Francia; an­ che qui, apprezzamento del fattore naturalistico (clima, posizione geografica), ma, allato di esso, più forte peso attribuito alle cause morali (educazione, tradizio­ ne ecc.); anche qui, infine, esaltazione della libertà. In Johannes Joachim Winckelmann (1717-1768), il celebre storico dell’arte, il banditore del « classici­ smo » e soprattutto della bellezza greca, questo apprez­ zamento della libertà è, anzi, sciolto dal collegamento con la propria storia nazionale: in questo senso, ch’egli non dice “ viva la libertà, perché la libertà è il patri36

monio nostro, di noi tedeschi, dei nostri padri, e come tale dobbiamo difenderla ”, bensì dice “ viva la libertà, perché solo dove c’è libertà ci può essere spirito ele­ vato, buon gusto, e quindi arte pura e alta ”. La liber­ tà, come osserva l’Antoni (op. cit., p. 43), per il Winckelmann diventa la protagonista della storia univer­ sale. « Madre di grandi imprese, di cangiamenti di Stati, e di rivalità tra i greci », la libertà « piantò, per così dire, il seme di nobili e sublimi sentimenti »; di guisa che « allorché apparvero in Grecia i tempi della piena illuminazione e libertà, anche l’arte divenne più libera e sublime: perché lo stile più antico era costruito su un sistema di regole che erano state prese dalla natura, ma poi se ne erano allontanate ed erano diventate un ideale. Si lavorava più secondo la prescrizione di que­ ste regole che secondo la natura, che si doveva imitare: perché l’arte si era formata una propria natura. Su que­ sto sistema si sollevarono i perfezionatori dell’arte e si avvicinarono alla verità della natura ». Così « in Atene, dove, dopo la cacciata dei tiranni, fu introdotto un regime democratico, al quale parteci­ pava l’intero popolo, lo spirito di ciascun cittadino si elevò e la città stessa su tutti gli altri greci. Quindi il buon gusto vi divenne generale »; e così in Firenze, grazie al regime di libertà del Comune, « le scienze e le arti presero a risplendere nei tempi moderni dopo una lunga oscurità ». A noi non interessa, ora, soffermarci sul valore, in sede di giudizio estetico, di simili affermazioni, né, per es., intrattenerci a far vedere come questa ultima idea del rinascere delle arti in Firenze dopo la lunga notte medievale, non sia se non la vecchia idea, cara agli scrittori italiani d’arte, dal Ghiberti al Vasari: idea, certamente oggi non più ammissibile, dopo la rivalu37

tazione dell’arte medievale, effettuatasi soprattutto in questi ultimi decenni, dopo la rivalutazione del roma­ nico e del gotico. Tutto questo qui non importa. Importa invece sottolineare quanto alto e vigoroso sia il senso della libertà, dal Winckelmann indissolu­ bilmente associato al concetto di « bello » e, pure, al concetto di nazione, come una misura di valore uni­ versale: tanto da indurlo a contrapporre alla Francia Roma, il gran tempio dell’antichità, dove si respira li­ beramente: « Beata libertà, che finalmente posso gu­ stare passo a passo in Roma, lontano dai paesi dispo­ tici, dove si soffoca e dove impera lo stile di corte francese ».

Nuovamente più legato alla propria tradizione nazio­ nale appare invece il concetto di libertà nella mag­ gior parte degli altri scrittori tedeschi che interessano il nostro problema: giuristi soprattutto e storici: i più giuristi che si avvalevano della storia per dimostrare le loro tesi di diritto pubblico. Sotto questo ultimo punto di vista, perfetta analo­ gia tra quanto succede in Germania, fra Sei e Sette­ cento 14, e quanto era già successo in Francia nel Cin­ quecento: vale a dire, la storia che diviene anelila del diritto, che deve servire a puntellare costruzioni giuri­ diche, aspirazioni politiche, ecc.; la storia, concepita come un vasto arsenale di notizie e documenti ai quali si afferra chi vuol sostenere, o modificare, un determi­ nato sistema giuridico-politico (cfr. F. von bezold, Aus Mittelalter und Renaissance, Monaco-Berlino 1918, pp. 370 sgg.). Che fu atteggiamento di molta impor14 [Non si parla più, per la Germania, di « Sei e Sette­ cento », ma solo di « Settecento ».]

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tanza anche nella storia della storiografia, come che con esso si cominciasse ad andare oltre la storia meramente « politica » alla Machiavelli e alla Guicciardini e si ini­ ziasse la storia delle « istituzioni », primo passo com­ piuto sulla via che avrebbe condotto alla histoire de la civilisation. E basti rammentare che dopo che già un giurista, il Baudouin, si era esso espressamente oc­ cupato del problema (De institutione Historiae Universae et eius cum iurisprudentia connectione, 1541), fu un altro giurista, il Bodin, a scrivere il più celebre trattato di metodologia del ’500, il Methodus ad facilem historiarum cognitionem (1566), il quale Bodin, appunto perché il suo interesse era rivolto essenzial­ mente ai problemi di diritto pubblico, desiderava dallo storico le descrizioni dei reipublicae instituta, sinora troppo trascurati (cfr. per tutto questo le dispense del prof. Chabod, di Storia medievale, per l’anno accade­ mico 1942-43: Sommario metodologico). Proseguendo su questa via, nel ’500, in Francia, era stato il giurista Francesco Hotman a rifarsi, nella sua Franco Gallia (1573) alla storia della conquista germanica della Gallia, per dimostrare che i conquistatori erano tutti liberi e uguali, che il loro capo non era se non un primo inter pares e che quindi il potere assoluto che la monarchia s’era costituito in Francia, era una usurpazione della primitiva libertà dei ger­ mani, a cui occorreva porre rimedio. E, anche dopo lo Hotman, frequenti gli accenni nella pubblicistica francese, alle lois fondamentales del­ la monarchia francese, cioè ai vincoli che limitano sin dalle origini, il potere dei re (cfr. H. Lemaire, Les lois fondamentales de la monarchie française d’après les théoriciens de l’ancien régime, Parigi 1907): sino a quando tutti questi riferimenti, accenni, ecc. si fon­ dono, all’inizio del ’700, nella concezione storico-poli39

tica del conte di Boulainvilliers, il quale, per reazione contro l’assolutismo di Luigi XIV, si rivolge indietro, ritessendo la storia di Francia sin dalle origini, per ri­ trovarvi, appunto, la certa testimonianza (per lui) del­ l’originaria « libertà » dei germani conquistatori della Gallia, della uguaglianza di tutti quanti i « liberi » guerrieri, e per documentare il secolare processo di progressivo innalzamento della monarchia, la quale, di usurpazione in usurpazione, è proceduta sino a com­ primere, sotto di sé, tutta la nazione. È bene tener presente questo caratteristico modo di procedere del diritto pubblico fondato sulla ricerca storica, attuatosi anche in Francia già nell’età delle lotte di religione. Tanto più perché — e già lo si è accennato — negli scrittori francesi che combattevano l’assolutismo mo­ narchico c’era pure il motivo caro ai pubblicisti tede­ schi del ’600 e del ’700 15: quello delle originarie « li­ bertà » germaniche. Veramente, quest’ultimo motivo delle libertà ger­ maniche era, a sua volta, già largamente affiorato, pri­ ma ancora che nei polemisti ugonotti della seconda metà del ’500, negli storici e pubblicisti tedeschi del­ l’inizio del ’500, nell’età della Riforma, quando la lotta contro la curia papale e, necessariamente, anche contro il potere imperiale indusse i polemisti luterani ad op­ porre alla tanto detestata Roma — dei Papi e dei Ce­ sari — l’antica libertà germanica, ribelle ad ogni ti­ rannia. E sarà idea, questa, largamente diffusa 16, che si basa — ironia della sorte! — proprio su di uno scrit15 [Cfr. supra, n. 14.] 16 Cfr. per questo, e. hölzle, Oie Idee einer altgerma­ nischen Freiheit vor Montesquieu, Monaco-Berlino 1925.

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tore romano, cioè su Tacito che, com’è noto, nella sua Germania aveva elogiato la libertà dei germani con­ trapponendola al corrotto mondo imperiale romano; anche, sui versi in cui Lucano, nella Pbarsalia (1. VII) aveva ammonito che la libertà, negata ai romani, era ora retaggio dei germani e degli sciti: Liberias ultra Tanaim, Rhenumque secessit ...Germanorum Scythiorumque bonum.

A queste basi diciamo storiche della libertà ger­ manica s’aggiunge, dalla seconda metà del secolo, una giustificazione anche teorica: ed è la teoria del clima di Bodin, secondo cui i popoli del Settentrione, ap­ punto per le loro qualità fisiche stesse, « ayment mieux les estais populaires, ou du moirïs monarchies electi­ ves ». Su tali basi si svolge dunque la glorificazione delle antiche libertà dei germani, contro la « tirannia » ro­ mana, sia essa esercitata dai preti o dai laici (cioè dal­ l’imperatore): la propaganda luterana trova, in ciò, un potente punto di appoggio. C’è, in questi scrittori te­ deschi dei primi decenni del ’500, assai minor siste­ maticità di un Hotman; si tratta di accenni ancora frammentari, e non ancora riuniti in un corpus siste­ matico di dottrina, in una costruzione giuridico-politica: ma, insomma, questi accenni ci sono, e notevoli assai. La contrapposizione della monarchia germanica al­ la « tirannia » è già espressa negli umanisti tedeschi: Althamer, Beatus Rhenanus; anche in Aventinus, che oppone la libertà germanica alle costituzioni « babi­ lonesi ». Ma il motivo polemico viene espresso piena­ mente da Ulrico di Hutten, che, nella sua lotta contro i « romanisti », rivendica la libertà dei germani, cu41

stodi dell’antico diritto tedesco e del « costume tede­ sco », avversi alle leggi scritte. Dopo di lui, il motivo ritorna di continuo: nel­ l’anabattista Tommaso Münzer, che insorge contro il diritto romano e la glossa, piedestallo dei « tiranni »; in Martino Butzer, anch’egli scagliantesi contro il di­ ritto romano « tirannico », che è stato spezzato in terra tedesca dai franchi, il cui libero diritto è diventato diritto tedesco. Ed ecco Lutero insorgere, addirittura, contro il concetto della translatif) imperii, fondamentale per il Medioevo, e cioè della continuità fra l’Impero romano antico e quello medievale passato in altre mani, affi­ dato ad altro popolo, ma identico, ma tutt’uno col primo. Per il riformatore tedesco, il vecchio Impero romano è crollato sotto i colpi dei goti; il papa ha bensì voluto trasferire il titolo del vecchio Impero, per cavarne profitto: ma in realtà quel che è sorto è un nuovo Impero, l’Impero germanico, che di romano non ha più nulla. E via via, anche in seguito, rivendicazioni della li­ bertà germanica, non solo ad opera degli scrittori, ma perfino dei principi e degli uomini politici: così, con il trattato di Chambord del 15 gennaio 1552, fra i principi tedeschi ed il re di Francia Enrico II, contro Carlo V, i primi affermano di voler rivendicare e ri­ stabilire « l’antica libertà della nostra cara patria, la nazione tedesca ». E, successivamente, nei giuristi, ecco non solo la difesa del diritto germanico contro il diritto romano, e la rivendicazione del carattere germanico del­ l’Impero, sì la creazione di una dottrina giuridicopolitica sulla base delle premesse storiche dello Hotman: così Cristiano Besold (Politicorum libri V, Fran­ coforte 1618) afferma che la costituzione « mista » del­ l’Impero non deriva dal diritto romano, ma dalle « leg­ 42

gi fondamentali » dell’Impero, di pretto carattere ger­ manico, che la Germania è stata sempre nemica di un imperium assoluto. Identiche affermazioni in Giovanni Limnaeus (lus publicum imperii romano-germanici, 1629); e nel geografo e studioso di antichità Filippo Cliiver (Germania antiqua, 1614), ecco la non più pe­ regrina constatazione che propria dei germani è la « libertas atque ex ea nata democratia ». Ed ecco, maggiori di questi altri giuristi, Ermanno Conring (1606-1681), e i suoi discepoli, e quindi i giuristi, pubblicisti e storici del Settecento. Fuori di Germania, Ugo Grozio, grande nella storia del diritto internazionale, aveva, anch’egli, fatto appello alla pri­ mitiva libertà dei batavi, continuatasi nella libertà at­ tuale dell’Olanda (De antiquitate et statu reipublicae Batavorum) e finalmente il maggiore e più celebre scrit­ tore politico del ’700 europeo, il francese Montesquieu, esalta anch’egli l’antico spirito di libertà germanico vi­ vente nella tradizione anglo-sassone (L’esprit des lois). Tutti questi motivi vengono ripresi e svolti, con assai maggior organicità e sistematicità17, da Justus Möser (1720-1794), celebre soprattutto per la sua Osnabrückische Geschichte, uscita nel 1768. Ecco, an­ che in lui, la tesi — carissima in Francia, al Boulainvilliers — della originaria libertà e purezza di costumi e di sentire dei germani; mano a mano corrotti per l’influsso straniero, cioè romano prima, francese e ita­ liano poi; cioè per l’influsso di quei popoli i quali, fra l’altro, nel campo dell’arte e delle lettere, « hanno troppo sacrificato alla bellezza, si sono fatti alti ideali di essa, ed hanno ripudiato tutto quanto non voleva subito adattarsi ad essa. In questo modo la natura poe­ 17 [Sono state eliminate le parole « con assai maggior or­ ganicità e sistematicità ».]

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tica si è impoverita presso di loro, e la molteplicità è andata perduta. Il tedesco ha invece, come l’inglese, preferito la molteplicità alla suprema bellezza », se­ gnando così « la vera via della grandezza, anche se può condurre aU’inselvatichimento ». Ecco l’esaltazio­ ne del buon tempo antico, il tempo dei liberi sassoni, piccoli proprietari, guerrieri: « Il tempo in cui ogni franco o sassone coltivava paterna rura e di propria persona li difendeva; in cui dalla sua fattoria si recava all’assemblea del paese, e chi non possedeva una fat­ toria, fosse anche il più ricco dei mercanti, apparteneva alla classe dei poveri e della gente non onorata; quel tempo poteva mostrarsi una nazione, non l’attuale ». Ecco infine la polemica contro Carlomagno, il quale distrugge la libertà dei sassoni, e con ciò inizia il pe­ riodo del « dispotismo » in terra tedesca. Il contrasto Carlomagno-Witichindo raffigura l’antitesi dei due mondi, quello straniero (franco — cioè francese, cioè dispotico), e quello originario tedesco. Dunque, anche qui costante invocazione della « li­ bertà » originaria. Soltanto, come abbiamo notato, la diversità fra la libertà quale viene sentita da un Mu­ rait e quale verrà poi sentita da un Mazzini — difesa di una realtà storica, tuttora esistente, nel primo, con­ quista di un ideale da attuare nel secondo — così oc­ corre ancora osservare 18 una gran diversità del senso di libertà fra il Möser e, in genere, gli scrittori tedeschi e gli svizzeri. Quando parlano di libertà, infatti, questi ultimi intendono la libertà dell’individuo; per loro in­ vece (e identico era stato,, prima, il pensiero di un Hut18 [Da « osservare » il testo è stato così modificato: « osservare non solo che anche nel Möser v’è la difesa di una libertà storica, o presunta storica, ma altresì, secondo ha osservato l’Antoni, che vi è una gran diversità ».]

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ten, così tenace nel rivendicare i diritti del ceto dei « cavalieri », del Rittertum, e identico sarà, poi, il pen­ siero di un Federico Schlegel, convinto che il vero Stato nazionale è lo Stato diviso per caste, come succede presso le nazioni più nobili19), la libertà dei singoli è inquadrata e intesa nella libertà dei « ceti »: i vecchi ceti sociali, gli Stände, che tanta importanza avevano avuta nella storia tedesca. Dice il Möser che « la prima e più fine regola politica è di avere classi diverse di uomini per poter incoraggiare ciascuno a suo modo con la parte necessaria d’onore. Negli Stati dispotici il so­ vrano è tutto ed il resto è plebe ». Così, la sua libertà è una libertà già gerarchica­ mente ordinata, già « disciplinata »: al disopra — assai al disopra — della libertà delle singole persone, cioè della libertà intesa in senso moderno, c’è la libertà e la dignità del ceto, a cui la persona appartiene. È chiaro come da simili premesse possa poi scaturire il conser­ vatorismo politico, anziché il liberalismo. E tipico conservatore agrario è il Möser nella sua esaltazione del ceto dei proprietari agrari, quello ch’egli colloca al sommo, in cui incarna la nazione, di cui esalta fin le costumanze più grossolane (« Qui bere e litigare non sono virtù cadute in disuso »). Con ciò il Möser anticipa bene il conservatorismo agrario di tanta parte dei ceti tedeschi del secolo xix (si pensi agli Junker prussiani). Nazione di proprietari terrieri: questo il sogno dello storico di Osnabrück, in cui continua il disdegno di Lutero per i mercanti e si preannunzia il disdegno dell’ufficiale prussiano, nato di famiglia di nobili proprietari di terre, per il « plebeo » addetto ai traffici e all’industria. 19 Cfr. F. meinecke, Cosmopolitismo e Stato nazionale, trad, ita!., Perugia-Venezia 1930, I, p. 82.

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Insomma, accade un po’, con il Möser, quel ch’era già accaduto, in Francia, con il conte di Boulainvilliers, che aveva esaltato le antiche « libertà » germaniche, per aspirare20 in cuor suo un ritorno all’antica costi­ tuzione feudale. L’uno sogna la società feudale, la so­ cietà dei « pari », dei guerrieri tutti liberi e uguali, la società del debolissimo e quasi inesistente potere cen­ trale di governo; l’altro sogna la vepchia divisione per classi, cioè ancora una società gerarchicamente inqua­ drata, a, scalini fissi. Prova evidente di quel che abbiamo affermato, es­ sere cioè l’ideale di libertà di questi scrittori diversis­ simo dall’ideale dei Mazzini Cattaneo Cavour: essere, essenzialmente, una nostalgia del passato, più che ane­ lito verso l’avvenire.

Ad ogni modo, il senso della « nazione » era forte assai nel Möser: e forte continua ad essere in altri scrittori tedeschi, nello Hamann ad esempio, dando ori­ gine a fruttuosi pensieri, sulla lingua come fondamento della nazione, come vox Dei, cioè del popolo. E si giunge così a Johann Gottfried Herder (1744-1803), il maggior teorico tedesco della nazione, nel Settecento. Il senso della « individualità » nazionale è in que­ sto scrittore potentissimo. Egli muove da considerazio­ ni sulla lingua, che ha, sempre, un determinato carata tere nazionale, che è l’espressione del « carattere », della « maniera di pensare » di un popolo, di guisa che alla nostra lingua materna « ci lega un accordo dei nostri organi più fini e delle attitudini più delicate, e ad essa dobbiamo restar fedeli »: che furono concetti di grande importanza anche per il successivo svolgersi 20 [«aspirare» è stato modificato in «vagheggiare».]

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dell’idea di nazione (la lingua è, per i Mazzini, i Man­ cini, ecc. uno dei « contrassegni » più alti e chiari di una nazionalità), e che testimoniano quanto si è sopra detto, che cioè l’idea politica di nazione non co­ stituisce se non un aspetto di un imponente movi­ mento di pensiero, che tutto abbraccia, dalla poesia e dall’arte (vedi Winckelmann) al linguaggio, alle dottrine filosofiche, alla politica. E continua, sempre in questa direzione, giungendo al concetto di « poesia naziona­ le » — anche questo, concetto di capitale importanza nella storia del pensiero moderno — e quello di poesia « popolare », la quale sarebbe la vera, la genuina « poe­ sia nazionale », l’autentica interprete dell’anima di una nazione. Attraverso a queste e simili considerazioni lo Her­ der riesce ad una idea della nazione nuova, assai di­ versa da quella sip qui avuta: nel senso che mentre, sin allora, si era creduto sempre in una natura umana « comune » a tutti, e soltanto « modificata » attraverso l’ambiente e l’educazione, cioè attraverso il clima (ele­ mento naturalistico) e la storia (elemento volontaristi­ co), lo Herder afferma la diversità fondamentale, ori­ ginaria, naturale, delle nazioni. Ogni nazione diviene un quid a sé stante, chiuso in sé, impenetrabile dagli altri; anche fisicamente, i suoi caratteri sono « perma­ nenti », durano millenni senza mescolanze straniere « se rimane attaccata al suo suolo come una pianta ». E moralmente ogni azione è un mondo a sé, con i suoi valori, un suo modo di pensare, con un suo « processo naturale » di costumi e di idee, di spirito e di mora­ lità, che non si deve alterare. Processo naturale: realmente, le nazioni appaiono ora come delle possenti individualità naturali, dotate di propria anima, che nascono, si sviluppano, decado­ no; e la storia dell’umanità è la storia di uno sviluppo 47

continuo attraverso cui, da nazione a nazione, le une succedendo alle altre nel reggere la fiaccola dell’umana civiltà, nell’additare le vie nuove, « arte, scienze, cultu­ ra e lingua si sono affinate in una grande progressione». Non importa ora soffermarci sulla questione, così acutamente chiarita dall’Antoni, delle variazioni so­ pravvenute nel pensiero dello Herder circa la parte da fare all’uomo e alla Provvidenza in quanto processo continuo: le variazioni, cioè, assai notevoli fra la Abhandlung über den Ursprung der Sprache (ch’è la glorificazione della « invenzione » umana, vera e sola artefice della storia) e l’opera maggiore, Auch eine Phi­ losophie der Geschichte zur Bildung der Menschheit (1774); dove, invece, si ritorna al concetto della Prov­ videnza, che si esprime attraverso lo sviluppo « natu­ rale », analogo al ciclo dell’esistenza umana. Qui, quel che importa rilevare è soltanto il sempre maggiore accentuarsi del senso della « individualità » nazionale; tanto accentuato, che già affioravan nello Herder — pure mentalità non « politica », pure estra­ neo ai problemi dello Stato e dell’azione politica — chiare tendenze nazionalistiche. Egli stesso crea la pa­ rola nazionalismo·. « lo si chiami pure pregiudizio, vol­ garità, limitato nazionalismo, ma il pregiudizio è utile, rende felici, spinge i popoli verso il loro centro, li fa più saldi, più fiorenti alla loro maniera e quindi più felici nelle loro inclinazioni e scopi ». Da lui ascoltiamo precetti che non sono certo lontani da quelli degli esa­ sperati nazionalisti dei tempi nostri: « La nazione più ignorante, più ricca di pregiudizi, è spesso la prima: l’epoca delle immigrazioni di desideri stranieri, dei viaggi di speranze all’estero è già malattia, pienezza d’aria, gonfiezza malsana, presentimento della morte ». Autarchia spirituale, insomma: qual contrasto con il 48

desiderio di abbracciare il mondo che aveva caratte­ rizzato rilluminismo! « Ogni nazione ha le sue ricchezze e proprietà dello spirito, del carattere, come del paese »; e tali proprietà e caratteristiche vanno gelosamente serbate e coltivate, e, in luogo d’importare mode straniere, lo Stato deve « favorire ciò che giace in una nazione e destare ciò che in essa dorme ». Uno Stato deve pog­ giare sulle « basi naturali », accordare le sue leggi alle « leggi naturali » del popolo: non andare dietro le leggi altrui. E contro la legge scritta, lo Herder — ri­ prendendo così motivi che, come abbiamo visto, erano già stati accennati da pubblicisti e giuristi tedeschi del ’500, in lotta contro il diritto romano — rivendica il valore dei costumi, delle consuetudini « vive » del popolo; contro il testo dottrinario esalta 1’« impulso vivente, consuetudine, sana natura ». È lo stesso spirito che ispirerà all’inglese Burke le sue critiche alla Rivoluzione francese e all’italiano Cuo­ co il suo Saggio sulla rivoluzione napoletana del 1799 e i suoi appunti al presunto soverchio idoleggiamento, da parte dei patrioti, dei modelli francesi. Non stupisce, quindi, veder lo Herder, che, prus­ siano di nascita, fu antiprussiano di sentimenti, fu ostile all’opera di governo di Federico II, rimpiangere, giusta una ormai lunga tradizione del suo paese, Yavvelenamento del sano spirito tedesco operato da Carlomagno in poi: « Orde di monaci e preti franchi, la spada in una mano, la croce nell’altra, introdussero in Germania l’idolatria papale, i peggiori residui delle scienze romane e il più volgare gergo da strada e da monastero ». « La lingua dei monaci [cioè il latino] recò eterna barbarie alla lingua del paese, penetrò nel midollo della letteratura, avvelenò lo spirito della na­ 49

zione. » Certo, se la Germania non avesse subito que­ sti influssi stranieri e fosse rimasta affidata al « proces­ so naturale della sua cultura, non sarebbe giunta tanto innanzi in così breve tempo »; certo, la mescolanza di lieviti stranieri aveva servito da « fermentazione »: ma, per effetto di tali lieviti « ora i popoli della Ger­ mania sono spogliati della loro nobiltà a cagione della mescolanza con altri, hanno completamente perduto la loro natura in una lunga servitù del pensiero ». E quin­ di, in ' conclusione, « se la Germania fosse stata gui­ data soltanto dalla mano del tempo al filo della propria cultura, senza dubbio la nostra maniera di pensare sa­ rebbe povera, angusta, ma fedele al nostro suolo, ar­ chetipo a se medesima, non così sfigurata e divisa ». Singolare modo di pensare, che, fra l’altro, con­ traddiceva alla teoria generale dello Herder stesso, della storia dell’umanità come sviluppo, alla teoria del­ l’avanzamento progressivo, all’affermazione che « l’egi­ ziano senza l’istruzione infantile orientale, non sarebbe egiziano, il greco senza la diligenza scolastica egiziana, non sarebbe greco ». E modo di pensare destinato a svilupparsi con as­ sai maggiore ampiezza nei posteriori nazionalisti, a ri­ vivere, per esempio, nella dottrina storica del francese Jullian, secondo cui la conquista romana della Gallia avrebbe soffocato, in sul nascere, la promettente civiltà celtica che vi sarebbe altrimenti fiorita, o nelle dottrine di quegli storici tedeschi i quali giudicarono esiziali per la « sana » vita della Germania gli influssi culturali italiani e francesi dal ’500 al ’700. Sono le assurdità a cui si perviene grazie al « na­ zionalismo » spirituale. Nemmeno stupisce veder nello Herder il mito, così SO

diffuso dopo di lui21, del ringiovanimento del mondo antico ad opera dei popoli germanici: « Le belle leggi e conoscenze romane non potevano sostituire le forze scomparse, reintegrare nervi, che più non avvertivano alcuno spirito vitale, stimolare impulsi spenti... e allora nacque nel Nord un uomo nuovo ». Nuovi uomini, alti, biondi e forti; nuovi costumi « selvaggi, forti e buoni »; nuove leggi « spiranti coraggio virile, senti­ mento dell’onore, fiducia nell’intelletto, onestà e ti­ more degli dèi »; nuovi ideali di castità e onore; tutto questo venne dal Nord. Di guisa che si potrebbe esclamare, non più ex Oriente, ma ex Septemtrione lux. È un cliché conven­ zionale, assai diffuso poi nella storiografia tedesca: da esso muovono, per es., le considerazioni di storici come Fedor Schneider, sul Rinascimento italiano come opera, creazione del « sangue longobardo » cioè della discen­ denza germanica stanziata in Italia, come quella, ap­ punto, che recava sangue fresco in un vecchio e stanco corpo H.

Quel che però era conquista vera e grande dello Herder era il senso della « individualità » nazionale, senso di una ricchezza, profondità, originalità tali da distaccarlo nettamente dal solito concetto di « nazio­ ne ». Qui, veramente, sorgeva nella Germania della seconda metà del Settecento una voce nuova. Perché, per il resto, non è che soltanto svizzeri e tedeschi pensassero alla « nazione ». Noi ci siamo sof21 [« così diffuso dopo di lui » modificato in « così diffuso già prima e soprattutto dopo di lui ».] 22 [Cfr. V