L'autobiografia della nazione
 8899913021, 9788899913021

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Collana gobettiana

Collana fondata e diretta da Pietro Polito III __________________________________________________________

Piero Gobetti

L’AUTOBIOGRAFIA DELLA NAZIONE

A cura di Cesare Panizza

TUTTI I DIRITTI RISERVATI Vietata la riproduzione anche parziale © Aras Edizioni 2016 ISBN 9788899913021 Aras Edizioni srl, Fano (PU) www.arasedizioni.com – [email protected] © In copertina: P. Gobetti, Elogio della ghigliottina, in «La Rivoluzione Liberale», a. I, n. 34, 23 novembre 1922, p. 130.

INTRODUZIONE PIERO GOBETTI E IL FASCISMO COME AUTOBIOGRAFIA DELLA NAZIONE

Il campo concettuale in cui inscrivere la tesi del fascismo autobiograia della nazione, rivelazione al tempo stesso del fallimento dello stato unitario e delle classi dirigenti liberali e delle manchevolezze del costume politico e civile degli italiani, si era delineato negli scritti di Piero Gobetti ben prima che questi pubblicasse L’elogio della ghigliottina, il testo, uno dei suoi articoli più noti, in cui quella fortunata locuzione fece la sua comparsa. Nata dall’immediatezza della lotta politica – l’articolo fu pubblicato sul numero di «Rivoluzione liberale» del 23 novembre 1922, dunque a poco

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meno di un mese dalla marcia su Roma, in reazione al discorso del «bivacco», con cui Mussolini si presentò alla Camera dei Deputati il 16 novembre – quella lettura a caldo del fascismo – Emilio Gentile ha parlato al proposito di una «sentenza»1 – benché indubbiamente reagisse a sollecitazioni “congiunturali”, non è infatti riducibile solo a una formula estemporanea. Al di là del gusto di Gobetti per la polemica e al suo indubbio talento pubblicistico, e al di là anche di una scrittura la cui cifra stilistica era spesso la ricerca del paradosso, dell’ossimoro, e talvolta della provocazione irriverente, tutti fattori che vanno certo tenuti nel debito conto, l’«autobiograia della nazione» aveva infatti alle sue spalle una analisi approfondita e non convenzionale che abbracciava assieme la qualità del liberalismo italiano, il “carattere nazionale” e la storia, recente e remota, del paese2. 1 Così la deinì Emilio Gentile in La grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo, Laterza, Bari, 2006, p. 333. 2 Sull’autobiograia della nazione si rimanda anche alle analisi di Bruno Bongiovanni, L’autobiograia della nazione, in Pazé V. (a cura di), Cent’anni. Piero Gobetti nella storia d’Italia, Atti del convegno

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L’antropologia negativa degli italiani che vi era presupposta era presente in dagli esordi nella rilessione del giovane liberale torinese. È possibile rintracciarla già sul secondo numero di «Energie Nove» nel novembre 1918, in un articolo, in realtà signiicativo anche per molti altri aspetti, intitolato Croce e i pagliacci della cultura. Pur non dicendosi crociano, Gobetti vi prendeva energicamente le difese del ilosofo napoletano elevandolo a modello di intellettuale “italiano”, a partire proprio da un apprezzamento del contegno da questi assunto durante la guerra, contegno che a molti era invece parso un distacco poco sintonico verso la causa nazionale. La lezione di Croce stava infatti nell’aver fatto della guerra, ben diversamente da molti altri uomini di cultura, non un’occasione di retorica e di vuoto patriottismo, ma di «maggiore serietà ed intensità di lavoro»: con un rovesciamento di segno, a essere antinazionale era allora semmai la di studi, Torino 8-9 novembre 2001, Centro Studi Piero Gobetti, Franco Angeli, 2004, pp. 174-185; e a Revelli M., Piero Gobetti e il fascismo. La teoria della “rivelazione”, in Pianciola C., Polito P. (a cura di), Perché Gobetti, Giornata di studio su Piero Gobetti, Torino, 16 aprile 1991, pp. 103-120.

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contestazione di cui ora era oggetto. Citando signiicativamente Prezzolini, Gobetti la giudicava «la spontanea rivolta dell’antitalianismo chiaccherone, accademico, letterario, paganeggiante, menimpipista»3, da sempre difuso fra gli intellettuali italiani. Era una prima scelta di campo, culturale e politica, non scontata e lungimirante in un giovanissimo, visto il clima di entusiasmo per la vittoria, ma anche di “resa dei conti” che si respirava nel paese in quei giorni. Vi ritroviamo, ed è signiicativo che esso si produca in un ambito discorsivo che richiama appunto, anche se solo implicitamente, il tema del “carattere nazionale”, anche il primo cenno seppur indiretto a Mussolini: fra i «botoli ringhiosi», «rappresentanti del frasaiolismo contro il pensiero», che si accanivano su Croce, Gobetti annoverava infatti anche il «Popolo d’Italia». Il «mito negativo» dell’italiano rappresentava un presupposto che Gobetti non mise mai sostanzialmente in discussione, ma che si sarebbe successivamente sforzato 3 Gobetti P., Benedetto Croce e i pagliacci della cultura, in «Energie Nove», serie I, n. 2, 15-30 novembre 1918, pp. 26-27, ora anche in Gobetti P. (a cura di Spriano P.), Scritti politici, Einaudi, Torino, 1960, p. 20.

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di storicizzare, non accettandone una lettura deterministica, per respingere il pessimismo etico e l’indiferentismo politico che logicamente la sua riduzione a dato naturale comportava. Quel mito era infatti una moneta largamente circolante, a destra ma anche a sinistra, nella cultura italiana almeno dalla ine del secolo precedente e dunque rappresentava una componente non marginale della formazione giovanile della generazione cui apparteneva. Gli elementi essenziali Gobetti dovette ereditarli da coloro che almeno ino all’avvento del fascismo avrebbe considerato come dei “fratelli maggiori”, quando non dei “maestri”: gli scrittori de “La Voce”, indubbiamente, e su tutti Prezzolini, che nel 1921 aveva ripreso e aggiornato il tema alla luce dell’esperienza della guerra mondiale in Il codice della vita italiana, ma anche Giovanni Gentile, poi così energicamente ripudiato. Non bisogna dimenticare infatti che quelli della Prima guerra mondiale furono gli anni della riproposizione, riformulazione e volgarizzazione a opera degli intellettuali impegnati sul “fronte interno” di tutta una serie di topoi negativi sul «carattere degli italiani»,

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lanti nella nostra cultura nazionale da lungo tempo, che proprio quella guerra, banco di prova della raggiunta maturità dell’Italia come nazione, avrebbe dovuto consentire al paese di vincere e superare. Sotto questo generalissimo proilo, dunque, anche «l’autobiograia della nazione» gobettiana è ascrivibile a una tradizione retorica che risale quantomeno alla ine del XVIII secolo, ossia agli incunabili del nostro Risorgimento, e che conobbe lungo il tempo stratiicazioni successive e non poche e non poco rilevanti riorientamenti ideologici e politici, in base all’identità che di volta in volta la nazione italiana avrebbe dovuto assumere attraverso la desiderata sua “rigenerazione” e ai soggetti che avrebbero dovuto realizzarla4. Di quella variegata tradizione del resto in Gobetti riecheggiavano molte voci, alcune decisamente aievolitesi con il trascorrere del tempo nella sua rilessione (Mazzini, De Sanctis, Villari), altre meno (Alieri, Baretti, Leopardi, Cattaneo). Si trattava di un insieme di topoi, 4 Su questi temi cfr. Bollati G., L’italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, Torino, Einaudi, 1983, e Patriarca S., Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Laterza, Bari, 2010.

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di cui Gobetti accolse ed enfatizzò alcune varianti, in funzione anche delle diverse fasi conosciute dalla sua rilessione politica e dalla sua attività pubblicistica, il cui nocciolo era rappresentato dalla denuncia dell’«indiferenza» politica e morale degli italiani, della loro tendenza al conformismo e al compromesso, del loro rifuggire le responsabilità collettive per il perseguimento del proprio “particolare”5. In un primo tempo, la fase di «Energie Nove», a spingerlo in questa direzione fu soprattutto la necessità di deinire una identità generazionale e di gruppo, che opponesse all’«apatia», alla «solita pigrizia che invade burocraticamente la vita italiana e l’insidia e la irrigidisce»6 il vitalismo e l’arida serietà appresi dai migliori fra i giovani, anche, come nel caso di Gobetti, per esperienza indiretta, negli anni del conlitto mondiale. Era insomma, innanzitutto, un gioco di rispecchiamenti in 5 Cfr. Gervasoni M., L’intellettuale come eroe. Piero Gobetti e le culture del Novecento, La Nuova Italia, Firenze, 2000, pp. 373-407. 6 Gobetti P., Commenti e giustiicazioni, in «Energie Nove», serie I, n. 4, 15-31 dicembre 1918, pp. 4951 ora anche in Gobetti P., Scritti politici, op. cit., pp. 31-35; p. 31.

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negativo, per chi, come appunto Gobetti, voleva afermare la propria irriducibilità al conformismo che sentiva circondarlo, delineando un modello d’intellettuale che aveva il proprio archetipo in Alieri e nell’etica del «forte sentire». E certo in questa invettiva, rivolta principalmente verso gli intellettuali e verso la maggioranza dei suoi coetanei, possiamo scorgere tratti comuni a quella celeberrima in cui Gramsci, su La Città futura nel febbraio del 1917, proclamava addirittura il suo odio verso gli «indiferenti». Successivamente, in corrispondenza con l’approfondirsi della «crisi» italiana e in coincidenza con quel più complessivo ripensamento della propria azione culturale e politica che in Gobetti si avviò fra il 1920 e il 1921, nella pausa fra «Energie Nove» e «La Rivoluzione liberale», e che diede forma al suo originale liberalismo rivoluzionario, il ricorso ad alcuni dei topoi più difusi nella letteratura sul carattere nazionale sarebbe divenuto invece più scoperto, precisandosi e assumendo una più chiara dimensione politica. Fin dal Manifesto con cui aveva esordito «Rivoluzione liberale», quel tema si sostanziava di una rilessione storico-politica

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che rintracciava i motivi della disafezione degli italiani verso la libertà nella concretezza della loro storia, dalla ine del Medioevo al Risorgimento e oltre. Si precisava anche il destinatario della polemica gobettiana, non più solo un indistinto popolo italiano, ma le classi dirigenti nel loro complesso, dagli intellettuali ai politici agli imprenditori, dimostratisi inadeguate al loro compito storico. Alla denuncia della «mancanza di una coscienza e di un diretto esercizio della libertà» si associava ora infatti, come presupposto logico e storico delle «debolezze organiche» della nazione, quella della mancanza «di una classe dirigente come classe politica» e «di una vita economica moderna ossia di una classe tecnica progredita (lavoro qualiicato, intraprenditori, risparmiatori)»7. C’è chi ha parlato – con una formula suggestiva – al proposito di «ideologia dell’assenza» («fatta di moralismi dell’assenza e mitologie 7 Cfr. Gobetti P., Manifesto, in «La Rivoluzione Liberale», a. I, n. 1, 12 febbraio 1922, pp. 1-2, ora anche in Id., Scritti politici, op. cit., pp. 227-240. Si veda il lungo testo gobettiano e il dibattito fra i collaboratori che suscitò in Gobetti P., Manifesto a cura di Impagliazzo P., Polito P., prefazione di Scavino M., Aras Edizioni, Fano, 2014.

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della modernità»)8, assenza di vere classi dirigenti, assenza nella storia del paese di esperienze politiche e culturali in grado di sedimentare nelle ibre della nazione non solo e non tanto un’identità nazionale non conlittuale, ma soprattutto una genuina passione per la libertà. È cosa nota che, nel suo complesso, quella gobettiana sia una lettura della storia italiana non originale, che molto cioè dovette ad autori precedenti o coevi, le cui rilessioni furono sempre ben presenti al giovane liberale torinese: l’ambivalente, “oscuro” Oriani, amato post mortem, a sinistra come a destra, di cui pur criticamente si riconobbe debitore ino a richiamarne l’opera nel sottotitolo Saggio sulla lotta politica in Italia di La rivoluzione liberale, e più in generale la tradizione democratico-repubblicana e soprattutto i meridionalisti, in particolare Giustino Fortunato, con Salvemini e gli unitari quale punto di incontro e di sintesi. Ma non vanno dimenticate – su un piano diverso, più immediato – le suggestioni che su questo terreno gli derivarono dalla let8 Pogliano C., Piero Gobetti e l’ideologia dell’assenza, De Donato, Bari, 1976, p. 26.

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tura di testi quali La monarchia socialista di Missiroli o ancora e sempre da «La Voce» di Prezzolini. Riprendendo quel dibattito circa le cause dell’arretratezza plurisecolare italiana, discutendone le tesi alla luce dell’attualità, Gobetti e i suoi collaboratori non lo avrebbero però solo aggiornato alle mutata situazione politica del dopoguerra, ma avrebbero contribuito in maniera originale a riaggregare i diversi elementi che vi erano nel tempo conluiti. Il punto di partenza, come per tutte le voci insoddisfatte dell’Italia qual era dal 1861, era rappresentato da un bilancio critico del Risorgimento inteso innanzitutto come contestazione delle modalità con cui il processo unitario si era realizzato. Non essendo nata l’Unità dall’«esercizio della libertà», dall’autonoma partecipazione delle masse, il Risorgimento era infatti fallito come esperimento di pedagogia politica, nelle sue premesse genuinamente liberali e autonomistiche che Gobetti aveva preso a rintracciare più nel pensiero di Carlo Cattaneo che nell’apostolato di Mazzini o ancora in quella tradizione di pensiero piemontese inine delineata nel Risorgimento senza eroi. In quanto

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«rivoluzione mancata» si era infatti risolto in una «mera conquista» regia, in un’abile, quasi miracolosa manovra diplomatica, in cui anche l’apporto popolare, mediato dai democratici, aveva dato luogo a un modello di azione politica, il “garibaldinismo”, viziato da faciloneria e da mancanza di chiarezza intellettuale, un guazzabuglio, destinato a replicarsi altre volte nella storia del paese, responsabile di aver infuso negli italiani una esiziale iducia in facili palingenesi a opera di esigue minoranze animose ma poco raziocinanti, guidate da capi carismatici e idanti nelle virtù risolutive del colpo di mano. Si trattava di una tradizione politica diseducatrice ma in fondo coerente con l’individualismo falsamente anarchico, in realtà frutto di un processo di secolare deresponsabilizzazione, che caratterizzava appunto le opzioni verso la politica del popolo italiano. Ancor più esiziale, da questo punto di vista, il fallimento sostanziale delle classi dirigenti liberali, incapaci di riscattare i limiti dell’Unità nella successiva opera di uniicazione del paese. Ne era derivato uno Stato unitario a cui il «popolo non crede,

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perché non l’ha creato con il suo sangue»9, mentre la sostanziale assenza di una borghesia moderna, in grado di esprimere una guida del paese, aveva favorito la sclerotizzazione burocratica delle istituzioni liberali, già denunciata da Einaudi e da Salvemini, svuotandole di rappresentatività e quindi di legittimità. Era quella fra governanti e governati infatti la frattura – il «dissidio» – più grave per il giovane liberale torinese riscontrabile nella società italiana, dal momento che in fondo essa rappresentava il nocciolo di tutte le altre “questioni” che avevano durante l’ancor breve storia unitaria travagliato il giovane Stato: la questione meridionale, quella cattolica così come, et pour cause, la questione sociale. Quella estraneità del popolo nei confronti dello Stato aveva infatti come suo corollario anche una sostanziale irresponsabilità delle classi dirigenti nei confronti del popolo e quindi delle stesse istituzioni, e la riduzione del liberalismo, in fondo, in Italia, con alcune rilevanti eccezioni (Cavour, pratica, Spaventa, teoretica), mai divenuta autentica cultura di governo, 9 Gobetti P., Manifesto, in «La Rivoluzione Liberale», a. I, n. 1, 12 febbraio 1922; ora anche in Id., Manifesto, op. cit., p. 43.

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a prassi amministrativa, appunto a mero strumento di dominio di ceti privilegiati, perlopiù parassitari. Incapace di promuovere lo sviluppo organico del paese, l’Italia liberale era così proceduta, attraverso una politica trasformistica, orientata al compromesso, alla composizione forzata e paternalistica degli opposti interessi, piuttosto che a favorire il loro libero confronto. Si trattava di una prassi politica diseducatrice, ben lontana da quella valorizzazione del conlitto quale lievito dello sviluppo sociale che invece rappresentava il nocciolo duro della rilessione gobettiana e la radice einaudiana del suo liberalismo liberistico e libertario. L’esempliicazione di questa Italia in negativo erano naturalmente Agostino De Pretiis e soprattutto Giovanni Giolitti, mentre invece il giudizio si caricava di ambivalenza nei confronti della Destra storica. Sulla scorta di Salvemini e dei liberisti, Gobetti individuava nell’implicita convergenza fra lo statista di Dronero e i socialisti riformisti il fattore principale che impediva di avviare a soluzione le fratture della società italiana prima ricordate, giacché si traduceva sul piano economico in una politica

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nistica contraria agli interessi dei ceti veramente produttivi e in fondo a quelli della maggioranza della popolazione: il compromesso giolittiano si era infatti ridotto a «un perpetuo ricatto in cui a eterne concessioni fanno eco eterne richieste; senza che si introduca nella lotta politica un principio di responsabilità e di educazione»10. Turati, come aveva modo di ribattere a Missiroli, «non conduce al “luteranesimo sociale” e a un senso di responsabilità, ma a una nuova rivelazione edonista e quietista della verità. Chi crede che l’“eterna crisi italiana” sia religiosa, non può non accettare che la sola liberazione debba scaturire dall’autonomia popolare e dall’iniziativa diretta»11. Siamo qui alla radice della sua ostilità nei confronti dei socialisti. Ai suoi occhi quel movimento politico, con la preferenza accordata alle rivendicazioni economiche piuttosto che a quelle politiche, con la sclerosi burocratica che aveva inito per caratterizzarlo, aveva piuttosto pervertito e ritardato che favorito o guidato lo sviluppo autonomo del movi10 Ivi, p. 44. 11 Gobetti P., Il collaborazionismo di Missiroli, in «Rivoluzione liberale», a. I, n. 2, 19 febbraio 1922; ora anche in Gobetti P., Scritti politici, op. cit., p. 251.

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mento operaio nel nostro paese. Ne aveva infatti sequestrata la libertà d’azione per gettarlo nell’equivoco fra velleitarismo rivoluzionario e riformismo spicciolo, senza avere così ragione di un «popolo educato al materialismo, senza coscienza e volontà, in perenne atteggiamento anarchico di fronte all’organizzazione sociale»12. Non è un caso che il primo libro edito dalla casa editrice di «Rivoluzione Liberale», Collaborazionismo, fosse appunto signiicativamente la rilessione su questi temi di Ubaldo Formentini. La constatazione di questo sostanziale fallimento del Risorgimento e del processo di uniicazione risospingeva necessariamente l’indagine più addietro nel tempo, inevitabilmente verso quel XVI secolo che aveva visto aprirsi per primo il divario fra l’Italia e l’Europa occidentale. Era nell’anch’essa consueta denuncia dell’egemonia culturale cattolica, del gesuitismo quale veicolo di corruzione morale, come principale causa dell’esclusione della penisola dai processi che in positivo avrebbero connotato la modernità, che in fondo si pro12 Gobetti P., Manifesto, in «La Rivoluzione Liberale», a. I, n. 1, 12 febbraio 1922; ora anche in Id., Manifesto, op. cit., p. 44.

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duceva l’innovazione più rilevante in quel dibattito. Essa riguardava la nuova sottolineatura, rispetto anche alle tesi in proposito sviluppate dall’Oriani, del tema dell’assenza dalla nostra vicenda nazionale di un analogo della riforma protestante, indicata più ancora della Rivoluzione francese come la vera cesura nella storia dell’Occidente, vera matrice storica e ideologica da cui si era dispiegato quel processo di disincantamento del mondo costitutivo della modernità. Le celebri tesi weberiane circa il rapporto positivo fra etica protestante e spirito del capitalismo che qui si afacciavano per la prima volta, anche se in maniera parziale, e con esse il tema della «mancata Riforma» furono introdotte per primo da Giovanni Ansaldo, non casualmente in un articolo di reazione proprio al Manifesto13. Gobetti vi avrebbe replicato, preoccupato che in 13 Ansaldo G., Polemica sul Manifesto, in «La Rivoluzione Liberale», a. I, n. 3, 25 febbraio 1922, pp. 10-11; ora anche in Gobetti P., Manifesto, op. cit., pp. 76-90. Sul dibattito circa le tesi weberiane cfr. Cappai G., Modernizzazione come problema culturale. Ansaldo, Gobetti e Gramsci a confronto con Max Weber, in «Mezzosecolo», n. 11, 1994-1996, pp. 183-215.

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base al ragionamento di Ansaldo si potesse concludere per l’irriformabilità del costume politico degli italiani, ma condividendone la tesi di fondo – poi successivamente ribadita e ampliata – della centralità della Riforma protestante per l’afermazione nel mondo anglosassone dell’etica della responsabilità e dell’autonomia individuale. Non si trattava però certo ora di realizzare una anacronistica rivoluzione religiosa, che semmai in Italia si sarebbe potuta avviare solo dentro e non fuori il perimetro del cattolicesimo, ma di trasferirne direttamente il nocciolo etico, secolarizzandolo, sul piano dell’azione politica e sociale. L’interesse di Gobetti per la riforma protestante14 – esteso anche al neo-protestantesimo italiano, come testimoniato dalla collaborazione con la rivista di Giovanni Gangale, «Conscientia» – stava dunque proprio nell’avere essa rivelato il nesso esistente fra credenze religiose, poi secolarizzatesi, opzioni etiche, comportamenti concreti in politica e in economia. Qualcosa di simile gli parve fosse destinato ad accadere 14 Cfr. Cabella A., Mazzoleni O., Gobetti tra Riforma e rivoluzione, Centro Studi Piero Gobetti, Franco Angeli, Milano, 1999.

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anche nella Russia suscitata a nuova vita dai bolscevichi. Così in virtù di una lettura paradossale della rivoluzione d’Ottobre15, giudicata liberale perché liberatrice e perché stava avviando concretamente il paese sulla strada non del socialismo, ma piuttosto del capitalismo, Gobetti poteva accostare Lenin a Ford, il bolscevismo all’americanismo della produzione industriale di massa. E rintracciare le sembianze di entrambi nella sua Torino, nella convinzione l’introduzione nel paese, tramite la FIAT – «primo modello italiano di industria moderna»16 – dell’organizzazione del lavoro americana, e la nascita di una combattiva classe operaia che in occasione dell’occupazione delle fabbriche nel settembre 1920 aveva fatto una formidabile esperienza di responsabilità ed educazione, ovvero di autonomia, potessero costituire anche per l’Italia il viatico a una modernizzazione della vita politica ed economica. Era da questi segmenti di 15 Cfr. Bongiovanni B., Piero Gobetti e la Russia, in «Studi Storici», a. XXXVII, n. 3, luglio-settembre 1996, pp. 728 e ss. 16 Gobetti P., La città futura, in «Il Lavoro», 3 novembre 1923; ora anche in Id., Scritti politici, op. cit., p. 552.

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classe operaia, quelli insomma al centro del sistema industriale moderno, che Gobetti si augurava infatti potesse nascere una nuova classe dirigente del paese – in fondo ancora una volta einaudianamente e certo alla luce della teoria delle élite moschiana e paretiana, ma con una curvatura già implicitamente democratica17. Anche dopo la marcia su Roma, cioè dopo la sconitta deinitiva di quel movimento operaio che con l’occupazione delle fabbriche gli era parso «l’unica realtà ideale e religiosa d’Italia, […] il primo movimento laico»18, avrebbe continuato a giudicare la classe operaia «la sola riserva solida per una politica futura», il punto maggiore di resistenza della società italiana da cui per un moto autonomo che andava innanzitutto compreso e favorito intellettualmente si sarebbero prodotte le energie in grado di recuperare la libertà al paese. A questi si sarebbero uniti gli ele17 Cfr. Gobetti P., Liberalismo e operai, in «Rivoluzione liberale», a. I, n. 7, 2 aprile 1922, ora anche in Id., Scritti politici, op. cit., p. 302. 18 Gobetti P., La rivoluzione italiana. Discorso ai collaboratori di «Energie Nove», in «L’Educazione nazionale», 30 novembre 1920; ora anche in Id., Scritti politici, op. cit., pp. 189-190.

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menti veramente moderni della classe imprenditoriale secondo un’immagine un po’ ipostatizzata del capitalismo italiano, che distingueva nettamente fra borghesia moderna, produttiva e borghesia parassitaria, e quegli individui appartenenti al ceto medio che per ragioni morali non si erano piegati al fascismo. Per quanto inora siamo venuti scrivendo, può apparire ancora una volta paradossale che Gobetti – forse fra tutti gli intellettuali italiani, e certo fra quelli ascrivibili a una generica tradizione liberale, colui che reagì con maggiore determinazione e prontezza alla svolta autoritaria che nella vita politica italiana si delineò dopo il 28 ottobre 1922, ino a fare del fascismo un contromodello teorico della sua «rivoluzione liberale» – abbia atteso la tarda primavera del 1922 per occuparsi del movimento fascista. Questa constatazione non ci autorizza certo a mettere in dubbio le parole con cui in Lettera a Parigi, uno dei suoi ultimi testi, caricatosi con il tempo di un sapore quasi testamentario, ebbe a rivendicare di essere stato coerentemente antifascista in dal

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1919. In realtà, ino a che non assunse nettamente i contorni di una minaccia esiziale, il fascismo rimase al di fuori del campo visuale gobettiano, tutto proteso a rintracciare nello scenario politico italiano del dopoguerra da quali forze politiche si potesse, anche per eterogenesi dei ini, e cioè indipendentemente dal loro contenuto ideologico – dal loro «mito» – attendersi un contributo a un’evoluzione positiva della «crisi italiana». In questa cernita il movimento di Mussolini era inevitabilmente scartato, vista la sua perfetta «estraneità alla cultura politica»19, non potendosi considerare tale il suo verboso nazionalismo. È qui – come ha recentemente notato Pietro Polito20 – un’anticipazione o forse l’origine di quella tesi circa l’inesistenza di una cultura fascista molti anni dopo sostenuta e difesa da Norberto Bobbio. D’altronde nel fascismo, il giovane liberale torinese vide inizialmente solo l’espressione di interessi particolaristici, che riteneva non decisivi rispetto alla si19 Gobetti P., La nostra cultura politica, in «La Rivoluzione Liberale», a. II, n. 5, 8 marzo 1923, ora anche in Id., Scritti politici, op. cit., p. 475. 20 Polito P., Il fascismo è una rivoluzione?, in «Critica liberale», v. XXIII, a. 227, gennaio-aprile 2016, p. 17.

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tuazione nazionale complessiva. Ancora nel numero monograico ad esso dedicato, del 28 maggio 1922, in polemica con Romolo Murri, che aveva legittimato il movimento di Mussolini quale reazione a una possibile rivoluzione bolscevica, Gobetti negò infatti decisamente che questo avesse in lì rivestito una funzione «nazionale». Non si sarebbe altrimenti spiegata la sua assenza dalle lotte che si erano svolte nei centri industriali, in special modo a Torino. «Di fronte al mito comunista il fascismo resta agrario e rivela la sua insuicienza ideale»21. A darne una lettura come momento della lotta di classe, il fascismo era, in realtà, un fenomeno marginale, proprio di quelle regioni dell’Italia centro-settentrionale in cui «l’organizzazione politica dominante era un socialismo burocratico, edonistico, e parassitario con mentalità piccolo-borghese, che raccoglieva braccianti e mezzadri in lotta contro i proprietari». Ed in questo senso e solo in questo senso «il fascismo è un fenomeno valido della lotta politica italiana in quanto contribuisce alla risoluzione e al chiarimen21 Gobetti P., Esperienza liberale [V], Fascismo agrario, in «La Rivoluzione Liberale», a. I, n. 15, 28 maggio 1922; ora anche infra p. 55.

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to di queste situazioni regionali»22. Analizzato da un punto di vista sociologico, invece, il fascismo – o più propriamente lo squadrismo – appariva come la «raccolta di tutti i reduci della canagliesca esperienza futurista, gli esasperati di una biliosa impotenza, gli esuberanti dell’ottimismo»23, come l’espressione di uno stato confusionale certo da mettersi in relazione con la guerra, ma che Gobetti aveva inizialmente e ottimisticamente giudicato passeggero, e comunque poco rilevante vista la contraddittorietà e la confusione che lo dominava. Il fatto però che nonostante la fase di disordine post-bellico che gli aveva dato vita stesse chiudendosi e che la reazione agraria si potesse dire ormai compiuta, il fascismo non sembrasse in via di esaurimento, ma, tutt’altro, attraverso una ofensiva che non aveva incontrato serie resistenze e anzi si era avvantaggiata della sostanziale complicità dei pubblici poteri, stesse conquistando il centro-nord del paese, dimostrando una forza autonoma dagli interessi economici che aveva in lì servito, sollecitava ora 22 Infra p. 54. 23 Gobetti P., Uomini e idee, in «La Rivoluzione Liberale», a. I, n. 15, 28 maggio 1922; infra p. 60.

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una maggiore attenzione di Gobetti e dei suoi collaboratori, pur ancora senza toni allarmistici. Il giovane intellettuale torinese sembrava aver colto per tempo come il fascismo, le cui ila si erano ingrossate anche per efetto dei suoi violenti successi, fosse difronte a un bivio fondamentale, alla scelta fra una ritirata nell’ordine prodromica alla sua scomparsa o alla presa del potere. Vi era allora ai suoi occhi un’unica possibile evoluzione del fascismo, un’unica soluzione alla sua “crisi”, il suo completo asservimento alla politica personale di Mussolini. «Il fascismo non può diventare partito di governo per le stesse ragioni per cui non ha potuto diventarlo il “garibaldinismo”. La tormentosa crisi presente di Mussolini si riassume in un problema personale: distruggere l’eredità fascista per diventare uomo di Stato; si tratta dello stesso processo e della stessa crisi che han fatto di Crispi il tribuno fallito della monarchia sabauda»24. La riduzione del fascismo al mussolinismo era in fondo una possibilità inscritta nella logica del movimento, nella mentalità dei fascisti stessi, il cui antecedente diretto era appunto 24 Idem; infra p. 64.

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rintracciato nell’esperienza futurista25 e nel dannunzianesimo e quello più antico appunto nel deprecato «garibaldinismo»: in quanto ricettacolo di tutti coloro che condividono un istintivo ribellismo verso le istituzioni il fascismo non può che trovare un punto di equilibrio nell’identiicazione con il capo, e da lì nell’aspirazione alla «tirannide». Lungo questa strada, dopo essere stato prima «anarchia episodica», poi «reazione» agraria, nel suo terzo tempo, il fascismo, ridotto a non più che un docile strumento del suo duce, si sarebbe esaurito in «demagogia paciica»26. Raccogliendo l’eredità dello sconitto socialismo riformista, sarebbe cioè evoluto in una nuova forma di giolittismo, certo assai più rozzo, rumoroso e popolare, amante delle “sagre” e della “manifestazioni d’entusiasmo”, ma da quello sostanzialmente non diverso negli esiti, la costruzione di un potere personale grazie al rinnovarsi del processo trasformistico. Le mosse successive di Mussolini avrebbe25 Cfr. Gobetti P., Marinetti, il precursore, in «Il Lavoro», Genova, 31 gennaio 1924; ora anche in Id., Scritti politici, op. cit., pp. 579-582. 26 Gobetti P., Letture sul fascismo, in «La Rivoluzione Liberale», a. I, n. 15, 28 maggio 1922; infra p. 71.

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ro agli occhi di Gobetti confermato questa fosca diagnosi. A luglio, nel pieno della crisi d’indecisione del fascismo e prima della ofensiva lanciata in seguito allo sciopero di agosto che rese improcrastinabile la conquista del potere, Gobetti scriverà «Mussolini […] stronca repubblicanesimo tendenziale e propositi di reazione, sfrutta tutta la forza della sua tradizione di demagogia e si serve del fascismo come massa di manovra per il suo arrivismo personale, per inserirsi nel processo collaborazionista»27. Contrariamente agli osservatori e all’opinione pubblica borghese, compreso il suo maestro di liberalismo Einaudi, la minaccia agli occhi di Gobetti non era dunque rappresentata dalla sopravvivenza dello squadrismo, da questi da subito distinto e opposto al «mussolinismo», e cioè dalla continuazione della «guerra civile», ma dalla normalizzazione del fascismo, ossia dal successo della manovra mussoliniana. Folgorante, sotto questo proilo, anche a distanza di più di novant’anni, la «confessione» contenuta in Elogio della ghigliottina: 27 Gobetti P., Note di politica interna, in «La Rivoluzione Liberale», a. I, n. 23, 30 luglio 1922; infra p. 77.

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«Confessiamo di aver sperato che la lotta tra fascisti e socialcomunisti dovesse continuare senza posa: e pensammo nel settembre del 1920 e pubblicammo nel febbraio del 1922 «La Rivoluzione Liberale» con iducia verso la lotta politica che attraverso tante corruzioni, corrotta essa stessa, tuttavia sorgeva. In Italia c’era della gente che si faceva ammazzare per un’idea, per un interesse, per una malattia di retorica». Nell’ottobre del 1922 il trionfo del fascismo era invece intervenuto a «guarire» gli italiani dalla lotta politica, «per giungere ad un punto in cui, fatto l’appello nominale, tutti i cittadini abbiano dichiarato di credere alla patria, come se nel confessare delle convinzioni si esaurisse tutta la praxis sociale»28. Da questo punto di vista, esso aveva realizzato una sorta di controrivoluzione preventiva, rivolta non a contrastare una possibile rivoluzione sociale sul modello bolscevico, ma appunto a impedire la possibilità di un’evoluzione in senso, in in dei conti, democratico e pluralista del sistema politico e della società italiana. Si trattava certo di un 28 Gobetti P., Elogio della ghigliottina, a. I, n. 34, 23 novembre 1922, p. 130; infra p. 106.

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processo faticoso e contraddittorio, messo in moto dalla guerra e dall’adozione della proporzionale e in in dei conti oggi possiamo dire abortito per l’immaturità delle culture politiche che avrebbero dovuto guidarlo, a cui Gobetti con il suo liberalismo rivoluzionario sembrava voler indicare un punto di sintesi e di possibile approdo. Si comprende allora da questo punto di vista la radicalità delle denuncia del fascismo che Gobetti venne facendo in quell’articolo e in quelli immediatamente successivi, in cui tenne infondo a battesimo il discorso antifascista nel nostro paese (sua forse l’introduzione del neologismo), nonostante la lettura continuista del fenomeno ribadita in quelle pagine («Mussolini non è dunque nulla di nuovo»). A ben guardare si trattava di una tesi sostenuta con diverso tono anche da altri osservatori partecipi, che poi militeranno nel campo antifascista, ma in quei giorni piuttosto inclini a commenti distaccati e a previsioni più concilianti, talvolta perino ottimistiche, circa il futuro immediato. A rientrare in gioco in tanta indignazione era probabilmente una questione generazionale e anagraica: è stato detto giustamente che in quell’occasione Gobetti

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avrebbe misurato per la prima volta lo scarto – di cui successivamente avrebbe avuto eloquenti conferme – che lo divideva dagli intellettuali formatisi prima della guerra29 (si pensi alla polemica con Prezzolini a proposito della «Società degli Apoti» o alla sua deinitiva ricusazione di Gentile e della sua ilosoia, ma anche alla diformità dei percorsi successivamente intrapresi da un Ansaldo o da un Missiroli). Maggiore rispetto ad altri più anziani di lui era stato l’investimento emotivo e il dispendio di energie profuso nella fase “rivoluzionaria” che il fascismo veniva spegnendo30. L’estrema vivacità polemica e paradossalità di quelle pagine era infatti il segno eloquente 29 Cfr. Alessandrone Perona E., Introduzione, in Gobetti P., Carteggio 1918-1922, Einaudi, Torino, 2003, p. LXXII e ss. 30 Se ne veda un rilesso sul piano personale nel testo autografo di Piero Gobetti, Intenzioni, oggi correttamente ridatato da Ersilia Alessandrona Perona al 29 ottobre 1929. È signiicativo infatti che proprio all’indomani della marcia su Roma Gobetti senta la necessità di tracciare un bilancio della prima parte della sua prodigiosa giovinezza, facendovi un esercizio di “autobiograismo”. Pubblicato per la prima volta in L’editore ideale, a cura di Franco Antonicelli, lo si veda ora riprodotto in «Critica liberale», v. XXIII, a. 227, gennaio-aprile 2016, p. 17.

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di una condanna morale rivolta non solo verso i fascisti, ma ancora una volta verso gli “indiferenti”, i “concilianti” o verso quanti erano disposti a mettere alla prova Mussolini prima di giudicare. Ad essere autobiograia della nazione, conferma di una mancanza di carattere a cui la guerra contrariamente alle speranze non aveva riposto, non era solo il movimento fascista, certo in sé e per sé una «catastrofe», «un’indicazione d’infanzia decisiva, perché segna il trionfo della facilità, della iducia, dell’entusiasmo» mentre il paese necessitava di serietà, intransigenza e aridità. L’istante della marcia su Roma anatomizzato da Gobetti in realtà rivelava qualcosa di più profondo: era nel sollievo, nei «sospiri alla pace», con cui la grande maggioranza degli italiani avevano salutato l’ascesa al governo del «capitano di ventura» Mussolini ravvisandovi il ritorno all’ordine, alla tranquillità o il viatico al «pareggio del bilancio», la vera rivelazione di «una nazione che crede alla collaborazione delle classi, che rinunzia per pigrizia alla lotta politica». La sentenza era inesorabile: «certe ore d’ebbrezza valgono per confessione e la palingenesi fascista ci ha attestato

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inesorabilmente l’impudenza della nostra impotenza»31. Da questo punto di vista, l’individualismo falsamente anarcoide di una minoranza, i fascisti, il loro gratuito attivismo sconinante nel culto della violenza, di cui poi si cercherà di dar conto con analisi sociologiche che ne riporteranno più concretamente la genesi a dinamiche sociali e generazionali che hanno nella guerra mondiale la loro matrice, il «medievismo» del «capitano di ventura» Mussolini, erano l’altra faccia della medaglia dell’indiferenza verso la politica di una nazione spiritualmente priva di proletari o di borghesi, ma composta solo di «classi medie». Si può accusare Gobetti di moralismo, dal momento che nel giudicare non teneva nel debito conto il bisogno isiologico di quiete in un paese esausto da tre anni di guerra e almeno due di guerra civile, ma non si può non riconoscere come si trattasse di un moralismo lungimirante giacché indicava in dal suo esordio le possibilità di reale successo dell’avventura al governo di Mussolini, la capacità concreta del fasci31 Gobetti P., Elogio della ghigliottina, a. I, n. 34, 23 novembre 1922, p. 130; infra p. 106.

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smo di coagulare attorno a sé un consenso ampio e trasversale, anche al di là di quello estorto con il ricorso alla violenza sistematica. Mussolini poteva durare nel tempo non perché avesse, lui, la stofa del «tiranno», ma perché gli italiani avevano «l’animo degli schiavi». Come ribadì anni dopo nel celeberrimo proilo di Amendola pubblicato nel maggio del ’25: «La maggioranza degli italiani è fascista solo in questo senso: che ha una assoluta incompatibilità di carattere coi partiti moderni, coi regimi di autonomia democratica, con la lotta politica. Messi di fronte al bivio tra il governo attuale e un’ipotesi di governo futuro in cui i cittadini abbiano le loro responsabilità nella libera lotta politica, votano per Mussolini»32. Per eterogenesi dei ini, però, il fascismo proprio in virtù della sua natura “palingenetica” ofriva la possibilità concreta di redimere la nazione dalla sua connaturata tendenza alla «servitù volontaria», a patto però di trarne la lezione giusta, ossia di comprendere che «il contrasto vero dei tempi nuovi come delle vecchie tradizioni non è tra 32 Gobetti P., Amendola, in «La Rivoluzione Liberale», anno IV, n. 22 del 31 maggio 1925, ora anche in Id., Scritti politici, op. cit., p. 829.

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dittatura e libertà, ma tra libertà ed unanimità» ed «il problema politico degli italiani non è di autorità ma di autonomia»33. Era un invito a fare dell’opposizione al fascismo, in coerenza con la visione gobettiana dei rapporti fra etica e politica, innanzitutto una questione morale. Lo consigliava – ecco un altro paradosso gobettiano – anche uno spregiudicato realismo. L’indicazione di opporre innanzitutto dei caratteri al fascismo non era solo un fatto di diidenza nei confronti delle macchine burocratiche dei partiti, era porre la lotta sull’unico terreno in cui era possibile spezzare il consenso di cui Mussolini godeva, impedendogli di percorrere la strada del collaborazionismo e di assumere le sembianze della dittatura «paciica», saldando concretamente assieme monarchia e socialismo, rivoluzionarismo sindacalista e nazionalismo. La consegna del «non collaborare neanche con la critica» o a un grado maggiore di radicalità l’invito a formare «la compagnia della morte», all’intransigenza etica al ine di conservare appunto la propria «autonomia» salvaguar33 Gobetti P., Problemi di libertà, in «La Rivoluzione Liberale», a. II, n. 11, 24 aprile 1923; infra p. 118.

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dando il «simbolo della lotta politica» o in altri termini – come scrisse nel manifesto de «Il Baretti», Illuminismo, – «la dignità anche a scapito della genialità», era l’unica forma di opposizione realmente eicace oltre che eticamente doverosa, redditizia nel breve periodo – giacché appunto costringeva il fascismo a rivelarsi per quello che era – ma anche nel lungo periodo, in quanto azione pedagogica – rivolta innanzitutto verso se stessi – propedeutica alla formazione di una nuova, vera, classe dirigente. Ora che il fascismo era al potere, si trattava infatti di valorizzarlo come – per eterogenesi dei ini – occasione di rigenerazione della nazione italiana – quale «antitesi integrale» – giacché se spinto ino all’estreme conseguenze della sua natura esso avrebbe appunto rivelato pienamente e per la prima volta apertamente i tratti negativi della «altra Italia» occultati dal giolittismo. È alla luce di questa opportunità politica che vanno lette le pagine dell’Elogio della ghigliottina e del duplice Elogio di Farinacci così come le polemiche gobettiane nei confronti del fascismo revisionista34, ed è lungo questo asse 34 Cfr. Ferrari F., Mussolinismo, revisionismo e

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che si articoleranno anche le sue successive prese di posizione e iniziative di lotta antifascista: una strenua attività, fattasi ancor più serrata dopo il delitto Matteotti, e che ofrì l’occasione, dettata anche dall’opportunità di creare la convergenza più ampia possibile sulla linea dell’opposizione intransigente, di una attenuazione parziale di alcuni giudizi – sul partito socialista, sullo stesso Giolitti – senza però modiicare le coordinate di fondo della sua rilessione35. La linea netta tracciata da Gobetti con l’autobiograia della nazione, in nome e nella consapevolezza di una pulsione contro il fascismo di natura innanzitutto morale, una «questione di stile», ancorò la rilessione sul fascismo a una caratterizzazione antropologica e l’antifascismo alle virtù dell’intransigenza. Gobetti avrebbe così offerto l’archetipo – se così si può dire – di transigentismo fascista nella «Rivoluzione Liberale» di Piero Gobetti, «Mezzosecolo», n. 11, 1994-1996, pp. 159-181. 35 Si veda in questo senso anche Gobetti P., Per Matteotti. Un ritratto, a cura di Scavino M., Il Melangolo, Genova, 1994, in cui compare anche una cronologia, curata da Scavino, dell’attività politica e culturale di Gobetti compresa fra l’assassinio Matteotti e la morte.

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quello che Giovanni De Luna ha deinito «antifascismo esistenziale», elemento caratteristico, ma certo non esclusivo, con cui gran parte dell’opposizione liberal-democratica e liberal-socialista al regime, poi conluita nel Partito d’azione, si sarebbero autorappresentate, forse anche per supplire alla mancanza di un aidabile riferimento sociale nella lotta contro il fascismo. La tesi del fascismo come autobiograia della nazione avrebbe così conigurato uno snodo importante del discorso sul «carattere degli italiani», passato appunto in eredità all’antifascismo, che avrebbe contrapposto all’Italia e all’immagine dell’italiano veicolata dal regime, un’«altra Italia», presto e ancora oggi, accusata dalla cultura di destra di caratteri artiiciosamente antinazionali. Si può forse dire che il fascismo rilessosi nelle parole di Gobetti introduca una censura strutturale nel dibattito plurisecolare attorno al carattere degli italiani, dal momento che dalla sua apparizione il giudizio su di essi dipenderà sostanzialmente dalla valutazione che di quell’esperienza storica si vorrà dare. Ed è signiicativo – a testimonianza della rilevanza ai suoi occhi del tema,

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ma anche insomma del richiamo che esso aveva fra il pubblico dei lettori colti e della spregiudicatezza del Gobetti editore – che fra gli ultimi libri editi da Gobetti vi sia un testo come Italia barbara, il volume con cui l’arcitaliano Malaparte, che alla rivista aveva collaborato, inaugurò quella lettura antimoderna del carattere nazionale, conluita poi nel movimento di Strapaese, operando un rovesciamento in positivo del “mito negativo” dell’italiano. Vi attingerà come noto a piene mani il fascismo nella sua tentata riformulazione dell’identità italiana, proponendo come virtù civiche nazionali lo spirito guerriero, l’attaccamento alla terra, la romanità, il cattolicesimo e via elencando, facendo del riiuto della modernità o almeno di alcuni dei suoi elementi fondanti un fattore di – peraltro modernissima – mobilitazione delle masse. Ma con altri toni, nel dopoguerra, quella lettura sarà riproposta dalla cultura conservatrice (si pensi a un Longanesi o a un Montanelli). Di quelle antiche contrapposizioni se ne è vista una riattualizzazione in tempi relativamente recenti, nel corso degli anni Novanta, quando l’ascesa di Silvio Berlusconi al governo del

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paese parve a molti gobettianamente una seconda autobiograia della nazione36, mentre proprio Gobetti e più in generale l’eredità dell’azionismo erano, su un fronte opposto, fatti oggetto di una feroce polemica che poco aveva a che vedere con un esercizio di matura revisione storiograica37. Anche per questa sua natura di mediazione all’interno del discorso sul carattere nazionale fra epoche e opzioni culturali diverse, e nonostante Gobetti non sia sopravvissuto alla fase iniziale, costitutiva del regime fascista, la tesi dell’autobiograia della nazione ebbe una eco estremamente vasta, non ancora spentosi. Pur non poten36 Un esempio per tutti l’attualizzazione della rilessione gobettiana sulla storia di Italia operata da Paolo Flores d’Arcais in Gobetti, liberale del futuro nella sua introduzione alla nuova edizione (Einuadi, 1995) di La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia. 37 Cfr. su questi temi la sezione «Gobetti oltre Gobetti», con saggi di Michelangelo Bovero, Marco Revelli, Marco Scavino, Valerio Zanone in Pazé V. (a cura di), Cent’anni. Piero Gobetti nella storia d’Italia, Atti del convegno di studi, Torino 8-9 novembre 2001, Centro Studi Piero Gobetti, Franco Angeli, 2004, pp. 247-286, cfr. anche Gervasoni M., L’intellettuale come eroe, op. cit., pp. 409-464.

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dola considerare una compiuta interpretazione del fascismo – del resto del fascismo Gobetti taschianamente non ebbe appunto il tempo di fare la storia – essa viene oggi comunemente indicata come l’archetipo di una delle interpretazioni più difuse fra i contemporanei del fascismo, quella appunto del fascismo/rivelazione, aiancata e contrapposta a quella crociana del fascismo/parentesi e a quella marxista del fascismo/reazione di classe38. Le potenzialità esplicative di questa lettura che faceva del fascismo un fenomeno innanzitutto di continuità con il passato, stava appunto nel rintracciarne le cause e individuarne i fattori di forza nel particolare contesto di arretratezza del paese. Era una tesi del resto coerente con il giudizio entusiastico di Gobetti nei confronti del capitalismo e della civiltà industriale, associati tout court alla modernità, inalizzata a scagionarli dall’ac38 De Felice R., Le interpretazioni del fascismo, Laterza, Bari, 1969, Id. (a cura di), Il fascismo. Le interpretazioni dei contemporanei e degli storici, Laterza, Bari, 1970, Casucci C. (a cura di), Interpretazioni del fascismo, Il Mulino, Bologna, 1982, Zunino P.G., Interpretazioni e memoria del fascismo. Gli anni del regime, Laterza, Roma, 1991.

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cusa di aver prodotto in qualche modo il fascismo rivolta loro dalla cultura marxista39. L’elemento più connotante della analisi dei collaboratori di Gobetti era però l’individuazione della composizione sociale e generazionale del fascismo, tema cui il giovane liberale torinese prestò attenzione senza mai occuparsene direttamente, preso com’era, in qualità di direttore della rivista, piuttosto a ofrirne una sintesi sul piano ideologico. Il fascismo vi appariva come movimento prevalentemente composto da appartenenti alle classi medie, alla piccola borghesia, e da giovani e giovanissimi. Si veda a questo proposito l’analisi fatta da Alberto Cappa, con lo pseudonimo di Gildring nel volume Le generazioni nel fascismo (1924) dove si sottolineava come la massa di manovra del movimento fosse spesso oferta da quelle classi di età che non avevano fatto la guerra e che o erano ancora nelle aule universitarie o addirittura sui banchi di scuola. È noto poi che sulle pagine della rivista si venne sviluppando un nutrito dibattito per precisare il rapporto fra fascismo e classi me39 Cfr. Gobetti P., Momenti di processo capitalistico, in «La Rivoluzione Liberale», a. III, n. 25, 17 giugno 1924, p. 99; infra p. 169.

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die, domandandosi soprattutto se i fascisti appartenessero a segmenti del cento medio in ascesa, prevalentemente dotati di una cultura tecnica (Ansaldo) o in declino, legati a una cultura di tipo umanistico e alla borghesia degli impieghi (Salvatorelli). E proprio Salvatorelli, con il suo Nazionalfascismo, pubblicato dalla casa editrice di «Rivoluzione Liberale» nel 1923, e con la tesi del fascismo come lotta di classe di quei ceti incastrati fra grande borghesia e proletariato, avrebbe costituito il puntello storico e sociologico più rilevante dell’interpretazione del fascismo avanzata dai gobettiani, ofrendo implicitamente una spiegazione dell’autonomia dimostrata dal fascismo, del suo reale radicamento nella società italiana, nonché del successivo appagarsi del relativismo mussoliniano nell’ideologia statolatrica dei nazionalisti, forse sottovalutato come «mito» per la mobilitazione delle masse nelle analisi gobettiane di quegli anni. Non è certo questa la sede per tentare una storia delle ricezioni che conobbe la tesi dell’autobiograia della nazione. Ma si deve anche se solo sommariamente ricordare come essa abbia conosciuto una larga

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circolazione all’interno della cultura antifascista di tradizione liberaldemocratica e poi azionista. Fu in particolar modo il giellismo a tenerla viva e a farla circolare, sia Carlo Rosselli che in Socialismo liberale riprese, pur con alcune varianti, fra cui una più attenta valutazione degli efetti prodotti dalla Grande guerra sulla psicologia delle masse, il nocciolo delle analisi storiche gobettiane, sia il nucleo dei gobettiani «torinesi», Carlo Levi e Leone Ginzburg fra tutti, congiuntisi al movimento giellista. La tesi perse forza – e non può che essere diversamente – quando il fascismo perse le connotazioni di prodotto esclusivamente autoctono, ossia soprattutto di fronte al successo e poi all’ascesa al potere del suo omologo tedesco. Ora più propriamente il fenomeno emergeva nella rilessione degli stessi giellisti quale risultato di una crisi di civiltà, un fatto di rottura più che di continuità, che alcuni sui «Quaderni di Giustizia e Libertà» (Andrea Cai, Nicola Chiaromonte) iniziavano a leggere – sintonizzandosi sull’incipiente dibattito internazionale sul totalitarismo – piuttosto come il prodotto delle contraddizioni della modernità che come un fenomeno

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di arretratezza. In realtà, però le suggestioni gobettiane, peraltro nuovamente riprese dalla pubblicistica azionista negli anni della guerra di Liberazione, occasione di pedagogia nazionale quante altre mai, pur sotto traccia non persero la loro validità in termini assoluti. Se il fascismo non può essere concretamente pensato al di fuori della società di massa moderna e della civiltà industriale, con tutto ciò che esso comporta, e se dunque i segni della sua possibile presenza sono riscontrabili ovunque essa si manifesti con il suo inedito potere omologante, è vero che le possibilità che esso ha di afermarsi, di attecchire e di trasformarsi in un regime non sono ovunque le stesse. È ancora e sempre l’arretratezza o meglio la compresenza di sacche più o meno profonde di arretratezza in un contesto di trasformazione e di crisi a rendere traumatico il processo di modernizzazione della politica e della società, accentuando le resistenze alla loro evoluzione in senso democratico, e dunque a spiegare perché il fascismo si sia afermato in Italia e in Germania o in Spagna e non altrove, pur in presenza di tentativi di imitazione e di importazione. E in

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questo senso, le pagine di Gobetti dedicate al fascismo continuano a essere interessanti anche al di là del contributo che la loro lettura ofre alla comprensione del suo liberalismo rivoluzionario o alla ricostruzione del suo impegno contro il fascismo.

NOTA DEL CURATORE

Questo volume è promosso dal Centro Studi Piero Gobetti nell’ambito delle iniziative scientiiche ed editoriali assunte in occasione del novantesimo anniversario della morte di Piero Gobetti. Degli scritti di Gobetti negli anni sono state proposte diverse antologie, ma nessuna ne ha inora raccolto speciicatamente gli articoli dedicati all’analisi del fascismo, nonostante la notorietà di quelle pagine e l’assoluta centralità che la battaglia antifascista ha avuto nella breve quanto prodigiosamente ricca biograia del giovane liberale torinese. La scelta che ha orientato gli articoli è stata dunque quella di ofrire al lettore, in un solo volume, le

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tappe principali della rilessione di Gobetti sul fascismo nella sua progressione. Per questo motivo si è scelto di escludere la sezione dedicata ai fascisti – il libro IV – del volume La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia (Cappelli, Bologna, 1924), peraltro ampiamente riproposta anche in tempi recenti, e di privilegiare invece i testi di volta in volta apparsi sulla rivista, «La Rivoluzione Liberale». Del resto alcuni di questi ultimi, con alcune varianti, costituirono l’ossatura principale di quanto poi apparve nel libro.

ESPERIENZA LIBERALE [V]1

Fascismo agrario Rivendicando il signiicato nazionale del Fascismo, R. Murri nega che siano entrati elementi economici a determinarne le direttive. «È da piccola gente cercar piccole origini e gretti motivi ad una così vigorosa e vasta riscossa nazionale nelle regioni d’Italia nelle quali più audace e brutale era stata la minaccia comunista rivoluzionaria». L’amico Murri ha studiato il fascismo da Roma ed ha potuto agevolmente sovrapporre ad alcune chiacchiere parlamentari, più o meno precise il suo schema dello Stato laico. 1 «La Rivoluzione liberale», a. I, n. 15, 28 maggio 1922, p. 56, irmato Antiguelfo.

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Come ci spiega il Murri che il fascismo sia essenzialmente prevalso in regioni agricole dove “la minaccia comunista rivoluzionaria” era inesistente o limitata a forme infantili come quelle descritte dal Panzini nel suo ultimo romanzo?2 In queste regioni il tipo di organizzazione politica dominante era un socialismo burocratico, edonistico e parassitario con mentalità piccolo-borghese, che raccoglieva braccianti e mezzadri in lotta contro i proprietari: il fascismo è un elemento valido della lotta politica italiana in quanto contribuisce alla risoluzione e al chiarimento di queste situazioni regionali. Dove la lotta politica avrebbe potuto suscitare forme e ideali grandiosi per la presenza di avversari reali, dove Grandi avrebbe trovato il mondo delle sue speranze rivoluzionarie, il fascismo non ha mostrato le armi. A Bologna, a Ferrara, a Novara, in Toscana, a Mantova, in Veneto, il Fascismo s’irrigidisce nell’eredità di una riscossa padronale. A Milano arma gli esasperati della guerra e gli avventurieri della borghesia intellettuale contro il gofo turatismo. 2 Si riferisce a Il padrone sono me!, Mondadori, Milano, 1922.

Esperienza liberale [V]

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Ma a Torino i comunisti non conoscono avversari: durante l’occupazione delle fabbriche i fascisti restano incerti e silenziosi e anche nei mesi seguenti non sanno che cosa opporre al mistero del mito già quasi infranto. Accanto alle oicine della FiatCentro anche le attuali parate di forza non concludono alla violenza perché si sente istintivamente dai fascisti stessi che la violenza sarebbe vana contro un’idea che non è morta in un anno di silenzio. Di fronte al mito comunista il fascismo resta agrario e rivela la sua insuicienza ideale. Fascismo e rivoluzione “Il Fascismo ha salvato l’Italia da una rivoluzione” (A. Marcello, Il Fascismo, ne Lo Spettatore, febbraio, p. 221). Nessuna indagine, nessuna elucubrazione può sintetizzare il signiicato del fascismo meglio di queste parole. Il Fascismo è stata la reazione contro la rivoluzione. Legittimo e vittorioso dove la rivoluzione era debole e loquace e ipocrita. È questa “legittimità” innegabile della reazione che ci riempie l’animo di tristezza.

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Il fascismo è stato il termometro della nostra crisi, la misura dell’impotenza del popolo a crearsi il suo Stato. Ma appunto perciò diventa ingenuo chiedere al Fascismo un programma positivo di ricostruzione: questa può essere una preoccupazione personale di Mussolini, ma il fascismo come tale ha esaurita la sua missione nel mettere a nudo la malattia nazionale, nello svegliare tutte le forze imprecise e anacronistiche obbligando la rivoluzione a guardare in faccia i suoi problemi, tutti riassunti in un centro solo. Il fascismo ha evitato in parte l’equivoco che era riuscito nel Risorgimento; ha liquidato Serrati, ma si trova impotente di fronte alla doppiezza di Turati. Gli spiriti inquieti e pensosi guardano oltre per domandarsi: la prova sarà stata feconda? Le diicoltà avranno temprate le masse? Fascismo e Nazione Dal «mancato impiego di volontà di forza e di ordine da parte dello Stato è sorto il fascismo; è sorto così spontaneamente e fatalmente che discutere in merito, lodarlo o biasimarlo, è del tutto vano e puerile.

Esperienza liberale [V]

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Quelli che si erano tenuti in disparte, diidando e disprezzando, intervennero quando videro in pericolo la nazione per la quale avevano combattuto, e furono essi di fatto lo Stato che reagiva e si difendeva, in luogo di quell’altro Stato uiciale che non sapeva più farlo». (R. Murri, Lo Stato e i partiti politici nel dopo guerra, Roma, 1921, p. 111). Questo è l’argomento principe dell’apologia fascista. Ma è strano che uno spirito colto come il Murri non ne veda l’equivoco. La guerra ha generato una crisi di orgoglio e una negazione di tutte le misure negli spiriti. Piccoli individui hanno avuto l’illusione attraverso un’esperienza eccezionale, di difendere e incarnare l’originalità di un popolo o di un mondo. In realtà nessun partito può sostituire lo Stato, a nessun movimento sociale può spettare la funzione del coordinamento delle volontà e del raforzamento della coesione degli spiriti, perché queste sono funzioni che non hanno organo, e si realizzano per impulsi di lotta e di consenso in un processo tutto immanente. Nel movimento operaio non v’era e non v’è nulla di antinazionale; il monopolio dello spirito nazionale ad una classe o a un partito

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è una di quelle grossolane falsiicazioni che nascono e prosperano solo dove la cultura politica s’è fermata al più ingenuo candore. Invero la volontà statale è un processo e un risultato a cui le iniziative soltanto e gli sforzi diretti collaborano: il fascismo è stato storicamente più fecondo e più utile (s’è spiegato in qual senso) dove ha assunto una posizione precisa nella lotta politica agraria, che in tutte le sue confusionarie teorie patriottiche le quali hanno essenzialmente contribuito a isolare e a svalutare i modi della disciplina tra le masse. E da chi mai lo Stato ha bisogno di difendersi, fuorché nelle relazioni tra gli Stati? Forse che la coesione dei popoli s’insegna coi catechismi? La politica delle leghe ferraresi e bolognesi non era nefasta perché ignara delle corradiniane dichiarazioni di principio, ma perché economicamente disastrosa e parassitaria. I feudatari del ferro sono parimenti dannosi e parassiti anche se li difende Alfredo Rocco con l’idea nazionale. Opponendosi ai leghisti con criteri riformistici o fantastici il fascismo non si libera dalla loro demagogia.

UOMINI E IDEE [V]1

Mussolini La polemica (il trailetto, il pamphet) invece dell’elaborazione di pensiero, la spedizione punitiva al posto della lotta politica, il duello come esaltazione ultima e perfetta dell’attività individuale: ecco le basi e i metodi “nuovi” dell’educazione politica instaurata dai fascisti. Il nuovo sta tutto nell’ottusa disinvoltura con cui si professa l’anacronismo. 1 «La Rivoluzione Liberale», a. I, n. 15, 28 maggio 1922, p. 56, irmato «Il Critico». Ripreso successivamente sul numero del 23 novembre 1922 con il titolo Mussolini. Il testo costituirà l’ossatura anche di un paragrafo omonimo nel volume La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia.

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Esiste una letteratura fascista? Quale ne è l’originalità, il pensiero animatore? Il movimento ha raccolto tutti gli “sbandati”: i reduci della canagliesca esperienza futurista, gli esasperati di una biliosa impotenza, gli esuberanti dell’ottimismo: potevano costoro essere dei capi dei pensatori? Anche come gregari tutta la loro originalità si esauriva in un impulso meramente iniziale. La realizzazione perfetta, fotograica di questa mentalità è Il Popolo d’Italia: un diario di lotte, una serie di notazioni di stati d’animo. Il teorico Mussolini non ha mai scritto un libro, le sue geniali intuizioni non hanno mai preso corpo in un’espressione che fosse più che contingente. Il solo a darsi ragione di ciò che fa pare voglia essere Dino Grandi. Il titolo unico a cui i più vivaci aspirano è la fama di forti e paradossali polemisti (Belli, Gorgolini, Carli, Settimelli, ecc.). Le dottrine, o meglio, gli stati d’animo di molti fascisti coincidono con psicologie e dottrine caratteristicamente proprie degli anarchici. C’è nella ribellione una diferenza di misura: e sottintesa in quelli l’adesione all’aforisma di Soici: «Tutta la mia politica: Mi volete per tiranno? Accetto».

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Pare che Benito Mussolini si stia ingegnando di diventare il Macola 2 della nuova politica Italiana. Ma B. Mussolini è la sintesi di tutte le versatilità e sarà insieme Macola e Cavallotti, ossia il conte di Culagna3 della reazione. Non si può rimproverare ai fascisti l’uso della violenza se non si vuole ricadere nelle aberrazioni di idillio e di astrattismo degli utopisti e dei democratici. Ma dopo Marx, Sorel, Treitschke e Pareto quale può dirsi in sede ideale la novità di questa che si proclama essenza della teoria fascista? Io non riesco ad immaginarmi Mussolini altrimenti che sotto le spoglie del più audace e torbido condottiero di compagnie di ventura; o talora meglio come il capo primitivo di una selvaggia banda posseduta da un dogmatico terrore che non consente rilessioni. La sua più caratteristica igura si riassume in un anacronismo. 2 Ferrucio Macola è il liberale monarchico che uccise in duello, nel 1898, Felice Cavallotti. 3 Il conte di Culagna è il protagonista del poema eroicomico del Tassoni, La secchia rapita (1622). Millantatore e codardo è una caricatura degli ideali cavallereschi.

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Gli manca il senso squisitamente moderno dell’ironia, non arriva alla comprensione della storia se non per miti, gli sfugge la inezza critica dell’attività creativa che è dote centrale del grande politico. La sua professione di relativismo non riuscì neppure a sembrare un’agile mistiicazione: troppo dominante vi avvertì ognuno la sconcertata ricerca ingenua di un riparo che eludesse l’infantile incertezza e coprisse le malefatte. Coerenza e contraddizioni sono in Mussolini due diversi aspetti di una mentalità politica che non può liberarsi dai vecchi schemi di un moralismo troppo disprezzato per poter essere veramente sostituito. Egli rimane perciò diviso e indeciso tra momenti di una coerenza troppo dogmatica per non riuscire gofa e sfoghi di esuberanza anarchicamente ingiustiicati. Ha bisogno di un mondo in cui al condottiero non si chieda di essere un politico. Lottare per una idea, elaborare nella lotta un pensiero, è un lusso e una seccatura: Mussolini è abbastanza intelligente per piegarvisi, ma gli basterebbe la lotta pura e semplice senza i tormenti della critica moderna. Solo gli ingenui si sono potuti stupire dei suoi recenti amori

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con la Chiesa cattolica. Nessuno più lontano di Mussolini dallo spirito dello Stato laico e dalla vecchia Destra degli Spaventa. Egli non ha nulla di religioso, sdegna il problema come tale, non sopporta la lotta col dubbio: ha bisogno di una fede per non doverci più pensare, per essere il braccio temporale di una idea trascendente. Avrebbe potuto essere il duce di una Compagnia di Gesù, l’arma di un Ponteice persecutore di eretici, con una sola idea in testa da ripetere e da far entrare “a suon di randellate” nei “crani refrattari”. Gli articoli del Popolo d’Italia sono così: ripetizioni di un ordine, dogmi e spesso stereotipie di un monotono disegno: letterariamente hanno qualcosa di militare e molto del catechismo – anche qui si deduce l’opera del boia (o la pugnalata) dalle verità assolute, trascendenti, e cristallizzate. Infatti i tre momenti centrali della vita di Mussolini hanno coinciso con tre momenti risolutivi, entusiastici, dogmatici della storia italiana: il messianismo socialista, l’apocalissi anti-tedesca, la palingenesi fascista: chi vorrà essere così ottuso da ricercare in questi episodi uno sviluppo, e delle ragioni ideali di progresso? Perché vedere

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un problema politico dove si tratta di un fenomeno di psicologia del successo e di una nuova arte economica delle idee? Sarà legittimo studiare la ilosoia politica di Corrado Wolfort, di Giovanni Hawkwood o di Francesco Bussone? La storia giudicherà con indulgenza l’anacronismo di Mussolini che nonostante il suo orgoglio chiuso di signorotto incompiuto è stato tanto umile da inchinarlesi: garibaldino in ritardo come Crispi, ma forse meno cocciuto di lui e per il suo convinto arrivismo più duttile: rozzo, povero di idee è riuscito talvolta, per la robustezza e la disinvoltura, l’ostetrico della storia. Il fascismo non può diventare partito di governo per le stesse ragioni, per cui non ha potuto diventarlo il “garibaldinismo”. La tormentosa crisi presente di Mussolini si riassume, in un problema personale: distruggere l’eredità fascista per diventare Uomo di Stato; si tratta dello stesso processo e della stessa crisi che han fatto di Crispi il tribuno fallito della Monarchia Sabauda. Si comprende benissimo come l’aristocratica inezza di Soici, la dignitosa misura

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spirituale che lo fa aperto a tutti i problemi di libertà e di creazione lo conducano a una violenta posizione polemica contro la grettezza del nostro socialismo riformista e utilitario, meschino e parassita. Ma non si capisce come possa aderire al fascismo chi ha scritto: «solo allorquando un pensiero politico profondo sarà espresso e bandito, il quale corrisponda al carattere vero essenziale della nostra razza, sarà possibile incamminarci verso una mèta con fede di raggiungerla. Ora, questo corpo d’idee, questa dottrina indispensabile; questa raigurazione ideale, in altri termini, di un’Italia come la vuole il destino, non è forse così inimmaginabile come parrebbe di dover credere. Sol che si voglia esser seri e sinceri, e ce la troveremo forse davanti, almeno sbozzata nei suoi elementi tradizionali. Io per me la vedo che sorge dal pensiero di Dante, di Machiavelli, del Mazzini, di Oriani anche....” (Rete Mediterranea, p. 174). Ma forse il fascismo di Soici, dopo Le Moine Bourreau4 è semplicemente il nuovo 4 Si riferisce a un articolo di Soici, Lemmonio Boreo, «La Voce», Firenze, 1912. Si tratta di un personaggio della Vita di Benvenuto Cellini, Sonzogno, Milano, 1873.

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sfogo romantico di Don Chisciotte in Toscana. E allora per il nostro amato Soici bisognerà ripetere con gioia, non il processo di Boine, ma l’apologia di Papini o l’elogio di Prezzolini; non si tratta di relativismo o di atteggiamenti mussoliniani, ma di una franca cinica rainatezza politica del vecchio e amabile Sacchetti.

LETTURE SUL FASCISMO1

I fascisti Dopo il processo ai risultati non potrebbe riuscire interessante l’indagine delle intenzioni? Seduce il pensiero di vestire l’abito di freddezza dell’esegesi: se non disilludesse troppo rapidamente la dimostrata e inconcussa impossibilità di un ripensamento teorico-originale nei fascisti. Il fatto personale di Mussolini, chiarito in queste pagine con lucidità ormai decisiva, avrebbe in sé i suoi limiti, se i fascisti 1 «La Rivoluzione Liberale», a. I, n. 15, 28 maggio 1922, pp. 57-58. Il testo di questo articolo rielaborato conluì nel volume La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, all’interno del paragrafo intitolato La capitis deminutio delle teorie.

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non insistessero a considerarlo il simbolo generico e quasi il caso riassuntivo. Bisogna confessare che non ci sentiamo tuttavia l’animo di ridescrivere l’inchiesta e di riassumere le conclusioni, dove pare più preciso un richiamo. Anche per il caso letterario di Adolfo Zerboglio2, il deputato al Parlamento, non occorrono speciali approssimazioni di psicologia perché si resta nell’introduzione del problema. Gli intenti e i caratteri (più gli intenti che i caratteri) sbocciano invece con qualche ridondanza dalle confessioni di D. Grandi, di A. Marcello, di P. Gorgolini3. La preoccupazione comune si aissa nell’esigenza di trarre tutte le conseguenze logiche dall’ammonimento di Missiroli: «Il Fascismo sarà la coscienza matura della nuova democrazia, e, come tale, dovrà riconciliarsi col socialismo, o sarà peggio di nulla; un tardivo e impossibile tentativo reazionario». La “praxis” mussoliniana che ha seguito 2 Il fascismo, dati, impressioni, appunti, Bologna, 1922. 3 P. Gorgolini, Il fascismo nella vita italiana, Torino, 1922; Dino Grandi, Le origini e la missione del fascismo, Bologna, 1922, A. Marcello, Il fascismo, in «Lo Spettatore», febbraio-marzo 1922.

Letture sul fascismo

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questo proposito pare si limiti a pensare la maturità come scalata al potere attraverso le vie di Montecitorio. Gli sforzi storicisti e le intuizioni ideali di Dino Grandi avrebbero la stessa sorte delle “realistiche” predicazioni di R.Murri al partito radicale. B. Mussolini ha riconosciuto se stesso e il proprio programma di governo nel libro di Pietro Gorgolini. Ma la funzione di Gorgolini nel movimento mussoliniano è essenzialmente analoga a quella di Fera nel giolittismo. Sostituito l’entusiasmo sincero al cinismo anche Gorgolini è come Fera il teorico dell’antologia politica. Questo Fascismo nella vita italiana è un poco il riassunto di tutti i programmi di sinistra da Depretis a Nitti. Wilsonismo e Socialismo di Stato (si cita francamente Lassalle) liberismo teorico (salva la reciprocità!) con l’economia del “giusto” prezzo, inanza demagogica, difesa della piccola proprietà e fulmini contro il latifondo, il tutto voluto in buona fede e proclamato non ironicamente ma con candore, ecco la palingenesi di questa nuova democrazia! C’è bisogno che il proto si ricordi di scrivere nuova in corsivo? La cultura politica dei nostri fascisti resta

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nell’infantilismo turatiano, assai arretrato anche rispetto a don Sturzo. In questa crisi di assestamento il fascismo sente così vivamente la sua mediocrità e la sua vuotezza riformista che deve venerare e accettare come degni termini di confronto non dico Giolitti o Salandra, ma De Nicola, Gasparotto e Luzzatti! (p. 17). Giusta gratitudine verso le fonti in un partito che pone come capisaldi ideali: disciplina, lavoro, benessere, libertà per tutti! (p. 48). Dove ritroveremo, caro Marcello, lo stile del fascismo! Dopo aver utilmente alimentata la lotta politica come organo di legittimi interessi reazionari lo stile si è così poco deinito che, rinnegando la reazione, si cade nella demagogia. I fascisti potrebbero anche aver ragione protestando contro chi li deinisce conservatori, anzi sicuramente i loro sentimenti sono altri, ma non si deiniscono in un’espressione politica originale perché mancano della logica propria ad un movimento: il maestro del loro relativismo è invero un risaputo maestro: Giovanni Giolitti – volendo stare alle tradizioni più giovani e dar loro un ideale che son ben lungi da realizzare.

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Qui dunque sarebbe tutta la novità del fascismo e dopo le primavere romantiche diventerebbe necessario acquetarsi al comodo riformismo o cedere alle lusinghe delle privilegiate aristocrazie dominanti della banca e delle industrie? Si distrussero le leghe rosse solo per sostituirle? Grandi e Marcello non si vogliono appagare di un processo che si esaurirebbe così semplicisticamente e sterilmente. Data l’impostazione di Mussolini e gli stati d’animo ereditati, al fascismo non resta che la scelta tra anarchia episodica, reazione e demagogia paciica. Il Condottiero ha nel suo passato le due prime esperienze e sente di doversi aggrappare alla terza. Gorgolini, annunziato da Zerboglio, è il messo di questa decisione. Per sfuggire al dilemma bisognava che il fascismo prendesse coscienza del problema dello Stato, ne aferrasse la crisi invece di esserne vittima, elaborasse un nuovo pensiero politico e una diretta volontà rivoluzionaria. Senonché questa era la funzione dell’avanguardia del movimento operaio e non della sua antitesi. La serietà teorica di Grandi diventa un’ingenuità intorno a cui deve regnare la solitudine. Il proposito di far aderire

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le masse allo Stato nazionale non si realizza inventando nuove formule di sindacalismo nazionale: mentre spera la religiosità del movimento dall’adesione popolare, Grandi non si avvede di ripetere le aberrazioni di illuministica eleganza del nazionalismo, del modernismo, e del sindacalismo. Il suo ricollegarsi al Risorgimento non ha il valore di una soluzione (ossia di una comprensione), ma appena di una esuberanza di stile.

NOTE DI POLITICA INTERNA1

La vera crisi Lo sciopero antifascista del Piemonte e della Lombardia è il fatto più caratteristico della presente situazione italiana mentre la ine del Ministero Facta non ne è che un sintomo pochissimo chiariicatore2. Gli avvenimenti parlamentari sono, per loro natura, equivoci e supericiali in quanto nascono in un mondo artiicioso e si espri1 «La Rivoluzione Liberale», a. I, n. 23, 30 luglio 1922, p. 86, irmato «p.g.». 2 Si riferisce alla sciopero legalitario indetto dall’Alleanza del Lavoro dal 31 luglio al 7 agosto in seguito al rinnovarsi delle violenze fasciste che ora, con i fatti di Novara del 9-24 luglio, minacciavano anche le città del Triangolo industriale.

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mono secondo un linguaggio che deve prescindere dalle intenzioni e dagli interessi che li hanno determinati. Graziadei parla della rivoluzione mondiale mentre le sue parole hanno un senso solo se si riportano a speciali situazioni locali dell’Italia del Nord. Mussolini nasconde sotto il dilemma insurrezione-legalità il dissidio interno del fascismo che non riesce più ad esprimere la sua sostanza di agrario in una ideologia francamente reazionaria. La più tragica debolezza dell’Italia si avverte nella sua incapacità di creare e alimentare un partito reazionario. I clericali del centro destro sono diventati popolari di sinistra; i nazionalisti hanno parlato di sindacalismo rimanendo letterati; Salandra non vede la reazione che come ordine amministrativo; il fascismo parla di socializzazione e di democrazia. Ciò si riporta alla nostra immaturità politica che ci consente psicologie difuse e tendenzialità ma non ancora, o non come si dovrebbe, il duro sforzo di una precisa responsabilità ideale. In Italia non fu e non è possibile nazionalismo perché fummo irrimediabilmente nazionalistoidi; in fatto di

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rivoluzione non giungemmo oltre il rivoluzionarismo; il socialismo invece di generare una lotta politica crea l’unanimità collaborazionista e socialistoide. La funzione di stimolo e di impulso moderno alla nostra vita economica può venire solo e contemporaneamente da un partito rivoluzionario e da un partito reazionario: oggi il partito comunista, il solo antidemocratico, deve essere insieme rivoluzionario e reazionario e qui è la sua debolezza. La Confederazione Generale del lavoro e l’organizzazione fascista sono gli istituti caratteristici con cui la tradizione italiana riformistica cerca di sofocare e nascondere le nuove situazioni rivoluzionarie nate con la nuova economia. Esaminiamo il fascismo. Esso indica molto chiaramente le incertezze dei nostri industriali e agrari nella loro azione politica. Gli agrari di Romagna avrebbero interesse a una decisa politica liberale (quella che Missiroli indicava loro in Satrapia) contraria al protezionismo operaio e al protezionismo industriale. Il fascismo ispirato da essi, avrebbe dovuto essere liberista e, di fronte agli operai,

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sta, reazionario. Una impostazione sifatta sarebbe stata chiara: la lotta, educativa. Alcune categorie di industrie metallurgiche e tessili avrebbero potuto accettare questi propositi: nell’equilatero Milano-TorinoGenova lo stimolo dell’opposizione operaia segnava chiaramente agli industriali questa linea di condotta. Certi atteggiamenti liberistici di Agnelli documentano incertezze e propositi analoghi. Ne sarebbe scaturita una situazione molto diicile in cui le due economie italiane si sarebbero nettamente distinte; il Nord moderno da una parte, deciso ad avere un’economia europea traendosi dietro, volente o no, l’Italia medioevale: Torino diventava un’altra volta con le oicine Fiat-centro la capitale naturale dell’Italia non una. Dall’altra parte il Mezzogiorno piccolo-borghese che nutre la burocrazia romana. Il fascismo non ha saputo essere l’avanguardia dell’industria moderna. La nostra industria ha rinunciato alla sua modernità asservendosi alla siderurgia. Battendosi e salvandosi per mezzo dei dazi protettivi ha dovuto piegare e accordarsi col protezionismo operaio. In Piemonte e in Lombardia gli industriali preferiscono

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servirsi di Buozzi che di Mussolini. Il fascismo resta disoccupato, Grandi non trova eco, la maggioranza è per un gorgoliniano programma riformista. Fermo alla pregiudiziale di modernità resta l’Ordine Nuovo che scriveva in questi giorni: Lo Stato maggiore fascista, che ha tra i suoi capi il generale Giardino e il Duca d’Aosta, vuol fare il colpo di Stato militare e perciò punta dritto su Novara. Il Duca d’Aosta è là dove, nel 1849, c’era Radesky.

Invece la sconitta di Novara, come prima lo sciopero, serve ai collaborazionisti. Nell’Alleanza del Lavoro i comunisti invece di essere l’avanguardia direttrice sono perpetuamente giocati dall’accordo Buozzi-Olivetti3. Mussolini, conscio ormai dell’impreparazione degli industriali, stronca repubblicanisimo tendenziale e propositi di reazione, sfrutta tutta la forza della sua tradizione di demagogia e si serve del fascismo come massa di manovra, per il suo arrivismo personale, per inserirsi nel processo collaborazionista. 3 L’accordo siglato fra industriali e Federazioni dei metallurgici il 19 settembre 1920 che aveva messo ine all’occupazione delle fabbriche da parte operaia.

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Le nostre previsioni si veriicano matematicamente. Confederazione Generale del Lavoro e Partito Popolare salvano la pace e l’unità d’Italia e sofocano col legalitarismo tutte le nostre iniziative rivoluzionarie moderne. La classe industriale e operaia di Milano, Torino e Genova non avendo avuto il suo Cavour, cede le armi davanti a Nitti, diventato borbonico, rappresentante del parassitismo piccolo borghese e burocratico. La plutocrazia cede le sue posizioni avanzate adattandosi alla vecchia politica di ricatto. Torino è vinta ancora una volta dal mito unitario. Giolitti, mentre il giolittismo trionfa, avverte con un eroico sforzo di ripensamento la povertà del suo trasformismo e si ritira in sdegnoso esilio, apparentemente per ragioni parlamentari, in realtà per la dissoluzione del liberalismo che la sua politica ha prodotta senza afermare un principio di educazione economica e politica. I nemici di oggi sono uniti domani. Facta cade per una manovra antifascista, e i fascisti aderiscono alla manovra antifascista per avere in compenso il sabotaggio dell’Alleanza del Lavoro. L’eredità di Facta

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è diicile perché tutti a Montecitorio sono d’accordo: tutti infatti hanno rinunciato alle più speciiche diferenze regionali di interessi e di psicologia. I partiti sono sconvolti dall’unanimità e si disgregano nelle questioni personali. L’economia italiana è assente in questa lotta di persone: se la plutocrazia al governo ha portato al dissesto della nostra inanza il socialismo non la potrà assestare perché della plutocrazia è complice e successore. Hanno inventato il fascismo per trovare un punto artiicioso di contatto. Ma il fascismo è ormai uno spauracchio per tenere a bada i comunisti: Mussolini sa che in Italia la Rivoluzione è un mito e aderisce al collaborazionismo accrescendo la confusione. La situazione si viene sempre più svelando nel suo carattere anti-liberale. L’interrotto processo di emigrazione dal Sud fa pesare in modo sempre più grave la catena ai piedi dell’Italia e non consente speranze immediate di redenzione. Il collaborazionismo è la fermata necessaria, un esame di coscienza che ci può costar caro, ma che oggi come oggi non è evitabile e che forse prepara per un’astuzia della storia la rivolta anti-riformista.

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Socialisti e popolari uniti sono il nuovo blocco delle democrazie, le classi medie educate e illuminate, che sentono la loro personalità politica nel voto parlamentare. Sono il numero che si sforza di diventare persona e incerti tra carità e giustizia s’appigliano alla politica della beneicenza e allo Stato consigliere, impresario e socializzatore. La lettera di Giolitti alla Tribuna4 indica forse le prime pregiudiziali antisocialiste che lo stesso padre del riformismo attuale sente il bisogno di suscitare. La Rivoluzione liberale sarà la conseguenza logica e l’antitesi storica della palingenesi collaborazionista.

4 Scritta da Vichy il 20 luglio e pubblicata il 25 luglio sul giornale romano con cui Giolitti si chiamava fuori dalla soluzione della crisi ministeriale.

NOTE DI POLITICA INTERNA [II]

Risposta a [M.A. Levi]1 Il torto del nostro amico Levi2 consiste nella vecchia illusione ideologica del nazionalismo. La rivoluzione e il partito rivoluzionario sono sempre nella loro stessa essenza conservatori, come i partiti internazionalisti sono nazionali. Le ideologie hanno il loro limite nella forza e nella storia: 1 «La Rivoluzione Liberale», a. I, n. 26, 10 settembre 1922, p. 98, siglato «p.g.». 2 In questa breve nota Gobetti risponde alle critiche mosse da Mario Attilio Levi in una lettera riprodotta nello stesso numero della rivista alle tesi avanzate da Ubaldo Formentini nel volume Collaborazionismo, in particolare circa il fatto che il fascismo agrario trionfante fosse destinato a ereditare i «problemi del collaborazionismo socialista».

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la giustiicazione concettuale che il Levi dà del Fascismo tiene troppo conto di un pregiudizio che la realtà vince anche senza ricorrere a un processo di razionalismo e di chiarezza dottrinaria. Il fascismo non può giustiicarsi con un atteggiamento arivoluzionario: la sola giustiicazione può venirgli dalle sue attitudini realizzatrici, che noi non riusciamo a vedergli per ora. Né condividiamo il giudizio del Levi sul partito socialista, il quale non fallì perché rivoluzionario ma perché incapace di arricchire il suo mito, di aferire al processo organico della produzione italiana e di esprimere da sé la sua aristocrazia, capace di guidare le avanguardie del movimento operaio e di diventare la classe politica: Il partito socialista fallì per assenza di spirito di intransigenza e proprio, in un certo senso, di disciplina rivoluzionaria. Di fronte al compito giuridico del collaborazionismo, quale lo vede Formentini socialismo e fascismo si equivalgono. Incapaci di un rinnovamento reale, tutti e due burocratici e piccoli borghesi si apprestano a ricevere insieme l’eredità del giolittismo.

DELIZIE INDIGENE1

Prima della palingenesi Il segreto di tanta parte del successo di Mussolini è nella sua intuizione della teatralità italiana. Dalle cronache di Napoli: «Poco dopo gli squilli sono ripetuti e questa è la volta buona. Mussolini indossa la camicia nera e reca sulle maniche i distintivi del grado, simili a quelli di generale d’esercito. Egli attraversa il palcoscenico fra un scroscio di applausi e si avanza alla ribalta». Mussolini capisce che a Napoli Pulcinella non deve essere un anacronismo. L’adunanza del Consiglio Nazionale a 1 «La Rivoluzione Liberale», a. I, n. 32, 2 novembre 1922, p. 122.

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Napoli2 dimostra la temperatura della maturità politica fascista. Ci vuole proprio tutta l’ingenuità italica per impegnarsi a discutere se la stampa debba o non debba essere esclusa dalle sedute, e tutta l’astuzia di gente che crede di discendere da Machiavelli per mettere innanzi ogni volta che la discussione si fa lunga le necessità del segreto diplomatico! Ma pare che ai costumi e alla moralità dei cattolici del Popolo d’Italia il neo fascismo meridionale preferisca addirittura l’insegnamento e l’eredità del buon Campanella: sarebbe un’intenzione legalitaria e democratica da Città del Sole quella che suggerì ai delegati calabresi la reazione contro il mussolinismo per diritto divino. Il formidabile Farinacci resta invece un po’ eroicomicamente la lancia spezzata della tradizione gesuitica: “Preferirei ritirare la mozione piuttosto che aprire una discussione sul pensiero di Mussolini. E chi poi si permetterebbe di farlo?”. Che si debba inire col rimpiangere i loquaci congressi del socialismo uiciale? Ma 2 Si riferisce al Consiglio nazionale che il Partito fascista tenne a Napoli il 24 ottobre del 1922, di fatto un diversivo in preparazione della marcia su Roma.

Delizie indigene

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forse noi dimentichiamo che i fascisti non sono che una selezione a rovescio del Barnum riformista. Il congresso fascista non ha discusso la relazione di Alberto De Stefani che conteneva afermazioni come queste: «Bisogna avere la forza di agire contro i sindacati nazionali, quando non rispettino le condizioni da noi poste alla libertà di organizzazione, come si è agito contro i sindacati rossi o bianchi». «Desidero anche sentire qual è il pensiero della direzione del Partito in merito alla questione della unità o della pluralità dei sindacati». Invece ha applaudito infantilmente i goi propositi di Mussolini di educare e proteggere le masse! Chissà che il patriarcale condottiero non abbia creduto di riprendere e di continuare con queste scoperte il sindacalismo soreliano! O forse Agostino Lanzillo ha sciupato col suo direttore il ranno ed il sapone? Chi ha negato che esista una nuova aristocrazia, una nuova cultura politica frutto del fascismo? Anzi si tratta di un

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to organico, complesso che ha le sue radici lontano, nell’ignoto. L’errore è di credere che a questa aristocrazia debbano appartenere uomini come Dino Grandi o Agostino Lanzillo. È vero che questi ultimi sono solitari, ma non sono poi neanche fascisti sul serio. Roma futurista 3 fu invero il germe da cui nacque la vera intellettualità fascista autentica, quella fu la fatica attraverso cui i cervelli e i muscoli si esercitarono. I tipi esemplari? Eccovi Piero Bolzon maestro alle turbe nella questione meridionale: «Il problema meridionale è un tutto sintetico, morale e tecnico. Manca una borghesia produttrice, ma il Mezzogiorno è ricco, non solo in natura ma in denari: solo che la ricchezza è mal distribuita»! Piero Bolzon sa anche farsi applaudire frasi come queste: «La Banca internazionale è contro il fascismo ed è contro i lavoratori italiani perché teme il loro meraviglioso avvenire. Ma il fascismo, forte della sua spiritualità, non teme nessuno». Che cosa ne dice il nostro amico Prato? Il progettismo è una delle malattie d’in3 Rivista fondata nel 1917 da Marinetti, Boccioni e Carlo Erba.

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fanzia politica. I fascisti risolvono con un ordine del giorno il problema meridionale. Austeramente ha parlato contro la demagogia fascista G. Amendola: «Credo che nessun’azione, per quanto rapida e intensiva, possa far germogliare i miliardi nelle casse dello Stato. Al fascismo non conviene seminare illusioni. Il problema meridionale è problema di miliardi da impiegare in opere pubbliche, ed in impianti sociali. Perciò, bando alle promesse vane, bando alle illusioni!». Il giovane ministro è il solo tra i personaggi uiciali che abbia agito contro il fascismo con coraggio e lealtà. La linea della sua coerenza è impeccabile e vigorosa. G. Amendola rinuncerà al governo piuttosto di piegare come sta piegando Nitti. La sua igura resta incompromessa, solitaria. Crediamo che la sua rinuncia sia anche lungimirante come tutti gli atti di superiore dignità. Dopo la parentesi fascista si ricorderanno le sue qualità di realizzatore. Alcuni elementi indispensabili per il giudizio del fascismo sono messi in luce da un giovane studioso, Mario Grieco: «Il mercato mondiale chiede efettive afermazioni di potestà economica, e reali manifestazioni di

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potere produttivo. In che modo il fascismo si è preparato a questa necessaria pratica economica, senza della quale, nel mondo contemporaneo e con la civiltà moderna, ogni manifestazione concettuale di prestigio e di orgoglio nazionale resta fatto retorico? Rispondiamo subito: in nessun modo. Il fascismo non ha neppur l’ombra di un programma, o almeno di una veduta economica, nel senso anzidetto. È il suo punto debole. Ha fatto inora delle afermazioni astratte d’imposizione della razza, di valorizzazione all’estero, ecc.; ma, nato come è per esplicare un’attività contingentemente domestica, anche se profondissima, è naturalmente inadatto, per la sua stessa destinazione storica, a proporsi un problema d’oltre patria; e meno che mai il problema dell’internazionalismo economico, che è fatale nel tempo nostro; nel senso che oggi non esistono mercati né giri di ricchezze se non mondiali, né soluzioni domestiche alla crisi economica internazionale». Le osservazioni del Grieco sono tanto più signiicative se si mettono in relazione con i grossi paroloni di Mussolini a proposito della Dalmazia. E non parrà avventata

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la previsione del Salvemini: che il fascismo è destinato ad aver spezzate le corna nelle questioni di politica estera. Un’altra delizia indigena: del signor Rossoni, segretario delle corporazioni fasciste: «La lotta di classe è stupida nel senso assoluto, e nello stesso senso è stupida la collaborazione di classe: non sono che formule complementari irreali. Quella che è da farsi è la lotta delle capacità, che non è né borghese né proletaria, ma umana e civile». Dopo la palingenesi Mussolini ha voluto che l’avvento al ministero coincidesse con il suo esame di cultura generale per l’ammissione agli studi universitari. È commovente questo amore del “maestro” che sinora aveva visto l’Università solo attraverso i corsi pedagogici di perfezionamento. Mussolini prenderà la laurea coi pieni voti. Il suo ministero passerà alla storia come il ministero di professori di Università. La mentalità degli studentelli discoli del fascismo non esclude, dopo tutti i rumori, la venerazione per l’accademismo dilettantesco. Ma chi crederà alla malleveria

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prestata dai sigg. accademici Gentile, Tangorra, De Stefani, Rocco? Si è voluto al ministero haon di Revel: questo è, per chi intenda, tutto un programma. In certi gesti c’è più che in un trattato di sociologia. Il fascismo non si spiega senza l’amore tutto italiano per codeste esteriorità dilettantesche. Eccovi intanto due Cincinnato in una sola volta: «Gentile attendeva quando fu chiamato al Governo, ad una voluminosa Storia della ilosoia italiana» (dai giornali). Mussolini ha ricevuto il telegramma del gen. Cittadini mentre stava sulle barricate del «Popolo» col fucile in mano: «Chiedo scusa a V.M. di presentarmi in camicia nera, reduce dalla battaglia fortunatamente incruenta che si è dovuta impegnare. Porto a V.M. l’Italia di Vittorio Veneto riconsacrata dalla nuova vittoria e sono il fedele servitore di V. M.». L’on. Mussolini, interrogato sulla scelta dell’uomo di pensiero che insegna Storia della ilosoia all’Università di Roma, ha risposto: «Io sono un cattolico e un ammiratore della forza spirituale. Per questo ho

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luto all’istruzione un uomo come Giovanni Gentile» (dai giornali). Questo motto spiritoso, questa bella canzonatura ha fatto nascere per un momento in noi la tentazione di riconciliarci con Mussolini. Chi ha sperato in Giolitti ha avuto un’altra volta una delusione. Noi non abbiamo sperato. Giolitti è l’uomo dell’ordinaria amministrazione, è l’uomo delle situazioni parlamentari. Ebbe un solo momento geniale: dopo Pelloux nel ’900. Non può essere un grande politico un uomo che resta assente nel 1915 e rinuncia nel 1922. Ci ha amareggiato in questi giorni il vedere con quanta indiferenza siano considerate le libertà più elementari di stampa, di associazione, di parola. Il popolo nostro non le merita, non le sente, perché non le ha conquistate. È disgustoso che si consideri senza turbamento le violenze fasciste contro il direttore del Lavoro, contro il Paese, il Mondo e i giornali socialisti e comunisti. Si deve guardare dunque con molta ammirazione la ferma dirittura con cui Albertini ha resistito ad ogni imposizione.

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Missiroli doveva ristampare domenica sul Secolo l’articolo sulla Monarchia oppure non uscire:4 così un direttore di giornale, così un uomo come Missiroli deve intendere il suo compito. Invece il Secolo è uscito in regime di censura fascista, proprio mentre Albertini si ribellava sdegnosamente. Devastando il Secolo i nazionalisti (ironia alla storia!) non hanno fatto che le vendette della tradita democrazia. Da cinquant’anni tutti i ministeri sorgono con un programma antiburocratico. L’esempio teorico è stato seguito da Mussolini. Quale pratica seguirà? Dobbiamo aspettare o possiamo rispondere sin d’ora? Benito Mussolini ha indicato sin dal primo giorno il suo programma vero; ha distribuito ai suoi idi i più lauti canonicati (Bianchi, C. Rossi, G. Polverelli, ecc.), ha creato per i sigg. Douhet e Mercanti due speciali commissariati. Le sue teorie sullo Stato lo indurranno in perfetta buona fede 4 Gobetti non sapeva che Missiroli aveva scritto un editoriale di protesta contro la censura il 31 ottobre 1922 che apparve solo nella prima edizione de «Il Secolo». Ricevutolo da Missiroli lo avrebbe poi riprodotto sul numero del 23 novembre, con il titolo Le illusioni di un conservatore.

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a fornire a tutto il suo esercito di mezzo milione di squadristi una decorosa sinecura! E questo sarà la palingenesi dell’unità e l’ideale della disciplina in regime fascista.

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Due pagine dei prossimi numeri saranno dedicate alle lettere degli amici della Rivoluzione Liberale sul fascismo. La discussione sarà maturata ed esauriente. Ma non possiamo star neutrali, non possiamo rimanere in benevola attesa, neanche un istante. Mai come oggi c’è stato bisogno di critica libera e coraggiosa. La Rivoluzione Liberale uscì l’altra settimana mentre ancora non si sapeva se chi parlava aperto sarebbe stato perseguitato e condannato. Uscì parlando aperto. È diventata da allora un simbolo. Siamo rimasti quasi soli ad avere la responsabilità della formazione delle nostre classi 1 «La Rivoluzione Liberale», a. I, n. 33 (porta erroneamente la data del 23 novembre 1922. Uscì probabilmente il 9).

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dirigenti. Sentiamo la delicatezza, la gravità del compito. Fra tanti ciechi e monocoli siamo condannati a vedere; tra tanti illusi dobbiamo essere consci di tutta un’esperienza storica e attuale. Non è lecito guardare con iducia esperimenti che la storia ci addita dannosi, e far credito a uomini che tutti sappiamo impreparati e incapaci di costruire in Italia una coscienza moderna. Facile e grato sarebbe sperare in questi giorni senza luce. Ma come sperare quando non vi sono validi argomenti? Quando contrastano i dettami della storia e dell’esperienza? 1. Mussolini non ha alcuna preparazione politica: e oggi noi non vogliamo uomini che sperimentino ossia ripetano vecchi errori ma gente che nutra poche idee precise e sicure. 2. La “rivoluzione” fascista non è una rivoluzione, ma il colpo di Stato compiuto da un’oligarchia mediante l’umiliazione di ogni serietà e coscienza politica – con allegria studentesca. 3. L’Italia ha bisogno di pace; ma haon di Revel, Mussolini, Federzoni, Rocco,

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Colonna di Cesarò, Gentile se non rinnegano le idee professate sino alla vigilia dell’assunzione, ci daranno una politica estera di prepotenze che ci esporrà all’isolamento più dannoso. Per migliorare il bilancio raddoppieranno le spese militari. Già si parla a Parigi e a Londra di un accordo franco-inglese contro i colpi di testa dell’Italia fascista: e se qui non se ne ha notizia è soltanto per la bella libertà in cui viviamo. 4. Mussolini vuol restringere o almeno far applicare la legge sulla libertà di stampa. Invece se non s’intende rinunciare alla lotta politica e alle libertà più elementari bisogna riformare gli articoli 18-24 della legge, ma nel senso di allargare la libertà. Anche qui lo Statuto poteva esser tollerato in quanto non si applicava: rigorosamente osservato ci riporterebbe al più illiberale e autocratico dei regimi. 5. Mussolini non può sciogliere le squadre se non vuol cadere tra sei mesi. Egli non ha altre forze su cui appoggiarsi; essendo evidentemente il sindacalismo fascista un bluf. Mussolini è legato agli industriali; appena liberi di decidere gli

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rai lo abbandoneranno; a meno che egli non ricorra per i favori e le protezioni alle casse dello Stato. E la permanenza delle squadre non può signiicare altro che ingigantimento burocratico, dovendosi premiare le nuove élites guerresche se non le si vogliono perdere. In tutti i casi, i non ciechi, devono ammettere che ci sono per questa via tutte le premesse che condurranno a raddoppiare le spese, nonché risanare il bilancio! Legato alle aristocrazie industriali Mussolini anche in perfetta buona fede potrà dire di no a dieci ma inirà per concedere a venti i favori e le protezioni dello Stato. 6. Il sufragio Universale è lo strumento, imperfetto ma unico, per la formazione politica e morale delle masse (a lunga scadenza). Mussolini la renderà inutile facendo le elezioni coi mazzieri, ripiombandoci di dieci anni addietro. Del resto tutti i nuovi sistemi dittatoriali non sono combattuti da noi per ragioni democratiche, ma perché rendono inutile nell’Italia, già così arretrata e priva di ogni senso delle libertà fondamentali, l’opera educativa.

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Sentiamo le diicoltà quasi insuperabili che la nuovissima tirannide oppone al nostro lavoro. Abbiamo sempre saputo di lavorare a lunga scadenza, quasi soli, in mezzo a un popolo di sbandati che non è ancora una nazione, oggi dobbiamo continuare il nostro lavoro senza più pensare a scadenze, senza speranza. Non ci hanno esiliato. Ma restiamo esuli in patria. I partiti di massa si sono dimostrati inferiori alle loro funzioni. Gli uomini politici sono stati tutti liquidati. La salvezza verrà dal movimento autonomo che gli operai contrapporranno alla presente tirannide. In mezzo alle orge dei vittoriosi riafermiamo che lo spirito della rivoluzione e della libertà non si potrà uccidere. Si possono bruciare le Camere del Lavoro: non si distrugge un movimento operaio che è nato insieme col Risorgimento nazionale. Prepariamo i quadri, prepariamo le correnti ideali. Mentre gli scimmiotti della setta gentilesca pensano ad arrafare cattedre per noi il problema è tutto qui: di riuscire ad essere i nuovi illuministi di un nuovo ’89.

QUESTIONI DI TATTICA1

La nostra opposizione al fascismo non è un agitarsi inquieto di spiriti nevrastenici o femminilmente emozionati. Possiamo considerare le cose con serenità, possiamo maturare anche un problema di tattica. La nostra è un’antitesi di stile, che non sente neppure il bisogno di discutere il discorso di Mussolini2. La questione riguarda qualcosa di più profondo che il colpo di Stato e la crisi Ministeriale. Noi non combattiamo, speciicamente, il Ministro Mussolini, ma l’altra Italia. Sappiamo di dover lavorare a lunga scadenza. Se fossimo deputati 1 «La Rivoluzione Liberale», a. I, n. 34, 23 novembre 1922, p. 127, irmato «La Redazione». 2 Quello, detto del «bivacco», con cui il 16 novembre Mussolini si presentò alla Camera.

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ci dimetteremmo. Ci raccoglieremmo nel silenzio. Possiamo continuare a parlare solo perché ci rivolgiamo a un pubblico intelligente, tra amici, e non ci si può fraintendere o attribuire falsi scopi. Sappiamo e ci auguriamo che Mussolini non cada troppo presto, che la sua esperienza percorra tutta la parabola. Non condividiamo, odiamo decisamente le opposizioni che si vengono timidamente accennando nel campo parlamentare. I socialisti combatteranno Mussolini per avere tra qualche mese Baldesi al ministero e poter gareggiare con le cooperative fasciste nella richiesta di sovvenzioni dello Stato e di concessioni di lavori pubblici. I democratici reagiranno in nome delle vecchie clientele, in nome dei vecchi metodi giolittiani; cercheranno di impedire con ogni sorta di transazione i chiarimenti e le responsabilità nette. Saremo inesorabilmente contro queste sopravvivenze parassitarie, anche se dal nostro atteggiamento dovesse trarre vantaggio Mussolini. Vogliamo che l’esperienza si compia in tutta la sua logica di intransigenza. Che Mussolini non possa trovare un alibi, che non possa attribuire ad altri la

Questioni di tattica

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sponsabilità del suo insuccesso. Alla nostra opposizione silenziosa il governo non potrà rimproverare quelli che saranno efetti delle sue colpe. Non abbiamo iducia in Mussolini e nei suoi collaboratori. Abbiamo voluto afermarlo nettamente. Ognuno a suo posto. Avremmo preferito evitare all’Italia povera e immatura questo esperimento disastroso. Ma ora che non si può tornare indietro vogliamo trarne tutti i vantaggi possibili per l’esperienza del paese. Se il popolo è ineducato e non ha il senso della libertà anche Mussolini può essere utile, non col risanare il bilancio (compito a cui altri uomini si richiedono), ma coll’insegnare concretamente, a chi lo sapeva solo dai libri, che cosa sia la tirannide. La reazione blanda di questi giorni rincrudirà: la dittatura sarà la dittatura; chiediamo le elezioni coi mazzieri, non solo in Puglia, ma a Torino e a Milano. Non vogliamo che l’esperimento Mussolini sia la continuazione del riformismo giolittiano. Il paese ha bisogno di una prova. Se sarà degno della libertà la conquisterà anche attraverso cinque anni di dittatura. Il fascismo non deve

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assumere nessuna maschera democratica; non deve riuscire soltanto a raddoppiare le clientele e segnare il momento di palingenesi della piccola borghesia. La nostra opposizione è così intransigente che ci riiutiamo di esaminare i programmi e di collaborare colla critica. Combattere Mussolini per sostituirgli tra sei mesi Nitti, Cocco Ortu, Orlando e Giolitti, no e poi no. Le nostre sono antitesi integrali: restiamo storici, al di sopra della cronaca anche senza essere profeti, in quanto lavoriamo per il futuro, per un’altra rivoluzione.

ELOGIO DELLA GHIGLIOTTINA1

Giustino Arpesani risponde afermativamente a una domanda che uno scrittore della Rivoluzione Liberale non si sarebbe neppure posta2. Il nostro amico ha della democrazia una visione primitiva, della patria un concetto messianico: la politica è pensata come un problema di illuminismo, di adesione a dogmi speciici, tutto l’imprevisto della realtà esaurendosi nella prepara1 «La Rivoluzione Liberale», a. I, n. 34, 23 novembre 1922, p. 130. Il nucleo centrale dell’articolo fu riproposto da Gobetti nel volume La Rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, con il medesimo titolo. 2 Se cioè i liberali dovessero collaborare con il fascismo era in sintesi il quesito che su questo stesso numero della rivista (Valorizzare) si faceva Giustino Arpesani.

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zione ideologica e nelle premesse di fede. Il mondo della pratica non sarebbe nulla di diverso dal mondo intellettuale, un mondo intellettuale concepito rigidamente, con idee chiare e distinte, senza dialettica, senza sfumature. Il suo ragionamento sulla collaborazione è rigorosamente scolastico, l’azione ne dovrebbe scaturire identica con una professata verità di catechismo. Non distingue tra proposito e risultato; per difondere una convinzione è disposto a sacriicare la complessità della praxis. I popoli immaturi peccano di queste ingenuità ilosoiche; le malattie dell’apostolato coincidono con la giovinezza; quando si ha più il gusto del monotono e del concluso che l’arguta sopportazione del diverso. Giovanni Gentile giunse a confessarmi candidamente che scriveva un libro su James da pubblicarsi in inglese per guarire gli americani dagli errori del pragmatismo. Il fascismo vuol guarire gli italiani dalla lotta politica, giungere a un punto in cui, fatto l’appello nominale dei cittadini, tutti abbiano dichiarato di credere alla patria, come se nel professare delle convinzioni si limitasse tutta la praxis sociale. Insegnare

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a costoro la superiorità dell’anarchia sulle dottrine democratiche sarebbe un troppo lungo discorso, e poi, per certi elogi, nessun miglior panegirista della pratica. L’attualismo, il garibaldinismo, il fascismo sono espedienti attraverso cui l’inguaribile iducia ottimistica dell’infanzia ama contemplare il mondo sempliicato secondo le proprie bambinesche misure. La nostra polemica contro gli italiani non muove da nessuna adesione a supposte maturità straniere; né da iducia in atteggiamenti protestanti o liberisti. Il chiamarci di volta in volta con un nome piuttosto che con un altro non è dunque una questione di stile, ma appena un modo di eludere le persecuzioni e di farci sopportare. Se dovessimo salire davvero in cattedra saremmo dei ben strani predicatori, e chissà chi potrebbe capire le nostre pazze intenzioni. Ossia il nostro antifascismo non è l’adesione a un’ideologia, ma qualcosa di più ampio, così connaturale con noi che potremmo dirlo isiologicamente innato. Non so come i gentiliani potranno intendere questa che ci pare addirittura una questione di istinto.

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Se il nuovo si può riportare utilmente a schemi e ad approssimazioni antiche, il nostro vorrebbe essere un pessimismo sul serio, un pessimismo da vecchio Testamento senza palingenesi, non il pessimismo vile e letterario dei cristiani che si potrebbe deinire la delusione di un ottimista. Amici miei, la lotta tra serietà e dannunzianesimo è antica e senza rimedio. Bisogna diidare delle conversioni, e credere più alla storia che al progresso, concepire il nostro lavoro come un esercizio spirituale, che ha la sua necessità in sé, non nel suo divulgarsi. C’è un solo valore incrollabile al mondo: l’intransigenza e noi ne saremmo per un certo senso i disperati sacerdoti. Temiamo che pochi siano così coraggiosamente cinici da sospettare che da queste metaisiche si possa giungere al problema politico. Ma la nostra ingenuità è più esperta di talune corruzioni e in certe teorie autobiograiche ha già sottinteso maliziosamente un insolente realismo politico obiettivo. Noi vediamo difondersi con preoccupazione una paura dell’imprevisto che seguiteremo a indicare come provinciale per prevenire gravi allarmi. Ma di certi

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ti sostanziali anche in un popolo “nipote” di Machiavelli non sapremmo capacitarci, se venisse l’ora dei conti. Il fascismo in Italia è una catastrofe, è un’indicazione di infanzia decisiva, perché segna il trionfo della facilità, della iducia, dell’ottimismo, dell’entusiasmo. Si può ragionare del Ministero Mussolini: come di un fatto d’ordinaria amministrazione. Ma il fascismo è stato qualcosa di più; è stato l’autobiograia della nazione. Una nazione che crede alla collaborazione delle classi; che rinuncia per pigrizia alla lotta politica, è una nazione che vale poco. Confessiamo di aver sperato che la lotta tra fascisti e socialcomunisti dovesse continuare senza posa: e pensammo nel settembre del 1920 e pubblicammo nel febbraio scorso la Rivoluzione Liberale, con un senso di gioia, per salutare auguralmente una lotta politica che attraverso tante corruzioni, corrotta essa stessa, pur nasceva. In Italia, c’era della gente che si faceva ammazzare per un’idea, per un interesse, per una malattia di retorica! Ma già scorgevamo i segni della stanchezza, i sospiri alla pace. È diicile capire che la vita è tragica, che il suicidio è più una pratica quotidiana

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che una misura di eccezione. In Italia non ci sono proletari e borghesi: ci sono soltanto classi medie. Lo sapevamo: e se non lo avessimo saputo ce lo avrebbe insegnato Giolitti. Mussolini non è dunque nulla di nuovo: ma con Mussolini ci si ofre la prova sperimentale dell’unanimità, ci si attesta l’inesistenza di minoranze eroiche, la ine provvisoria delle eresie. Abbiamo astuzie suicienti per prevedere che tra sei mesi molti si saranno stancati del duce: ma certe ore di ebbrezza valgono per confessione e la palingenesi fascista ci ha attestato inesorabilmente l’impudenza della nostra impotenza. A un popolo di dannunziani non si può chiedere spirito di sacriicio. Noi pensiamo anche a ciò che non si vede: ma se ci si attenesse a quello che si vede bisognerebbe confessare che la guerra è stata invano. Caro Arpesani, non ci si può intendere. Tu vuoi valorizzare, ed io credo che si possa solo valorizzare con l’opposizione, tu temi i dissensi ed io vedo nei consensi la prova di una debolezza, l’inesistenza di interessi reali distinti, coraggiosi, necessari. Tu hai inteso il problema in un modo tutto formale: chiedevi una disciplina, l’accetti anche se venga

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donde non la speravi. Io non riesco a pensare Cesare senza Pompeo, non vedo Roma forte senza guerra civile. Posso credere all’utilità dei tutori e perciò giustiico Giolitti e Nitti, ma i padroni servono soltanto per farci ripensare a La Congiura dei pazzi ossia ci riportano a costumi politici sorpassati. Né Mussolini né Vittorio Emanuele Savoia hanno virtù di padroni, ma gli italiani hanno bene animo di schiavi. È doloroso per chi lavora da anni dover pensare con nostalgia all’illuminismo libertario e alle congiure. Eppure, siamo sinceri sino in fondo, io ho atteso ansiosamente che venissero le persecuzioni personali perché dalle nostre soferenze rinascesse uno spirito, perché nel sacriicio dei suoi sacerdoti questo popolo riconoscesse se stesso. Ti ringrazio, amico mio, che mi suggerisci tragiche conidenze. Ora credo di giustiicare meglio le mie responsabilità, le ragioni dell’istintiva nostra ribellione. Non valorizzare; non ubriacarsi. Per le ragioni politiche che abbiamo detto Emery ed io nei numeri scorsi. Per questa ragione psicologica, chiarita qui, inesorabile. C’è stato in noi, nel nostro opporsi cieco, qualcosa di donchisciottesco. Ma

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no ha riso perché ci si sentiva una disperata religiosità. Non possiamo illuderci di aver salvato la lotta politica: ne abbiamo custodito il simbolo. E bisogna sperare (ahimè, con quanto scetticismo) che i tiranni siano tiranni, che la reazione sia reazione, che ci sia chi avrà il coraggio di levare la ghigliottina, che si mantengano le posizioni sino in fondo. Si può valorizzare il regime; si può cercare di ottenerne tutti i frutti: chiediamo le frustate perché qualcuno si svegli, chiediamo il boia perché si possa veder chiaro. Mussolini può essere un eccellente Ignazio di Loyola; dove c’è un De Maistre che sappia dare una dottrina, un’intransigenza alla sua spada!

LO STORICISMO DI UN MISTICO. (POSTILLA)1

Invece di confutare Prezzolini2, al quale abbiamo esaurientemente risposto nei numeri scorsi, si tratterebbe di caratterizzare qui certe questioni psicologiche e di discu1 «La Rivoluzione Liberale», a. I, n. 36, 7 dicembre 1922, p.135, siglato «p.g.». 2 Qui Gobetti postilla un intervento di Prezzolini, da lui intitolato Lo storicismo di un mistico. È l’ultima replica nella polemica fra i due innescata dalla lettera, pubblicata su «La Rivoluzione Liberale» del 28 settembre 1922, in cui Prezzolini avanzava di fronte al fascismo la sua proposta di una «società degli Apoti», di «coloro che non la bevono». Gobetti giudicando pericolosa la posizione di sostanziale neutralità nei confronti delle forze in campo e di estraneità degli intellettuali dall’agone politico difesa da Prezzolini opponeva piuttosto il proposito «di formare la Compagnia della Morte».

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tere con qualche ironia la curiosa deformazione dell’identità hegeliana di reale e razionale intesa dal nostro amico con franco spirito di conservatore e in termini che ci lasciano fortemente dubbiosi sull’idea che egli si è fatta, di storia e di politica. La storia nostra è storia che si fa e non simbologia di matematici; l’ascesi del disinteresse non esclude la profezia e le antitesi psicologiche. Invece Prezzolini non fa che constatare l’avvento del fascismo e accettare su di esso i luoghi comuni della Tribuna o del Mattino. Mette grossolanamente in uno stesso piano rivoluzione operaia e... rivoluzione(!) fascista senza vedere che da una parte c’è l’aspirazione di un popolo e l’entrata di forze nuove nella storia, dall’altra, c’è la palingenesi della piccola borghesia. La democrazia demagogica, caro Prezzolini, non è morta: è diventata il fascismo sommandosi con il dannunzianesimo. Nessun storico non esaltato riuscirà a scorgere delle diferenze sostanziali tra Mussolini e Giolitti. Ci troviamo per una volta, davanti, il blocco completo dell’altra Italia, l’unione confusa di tutte le nostre antitesi, il simbolo di tutte le malattie ed ecco che Prezzolini diventa

Lo storicismo di un mistico. (Postilla)

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hegeliano per teorizzarli. Bisogna consolarci pensando alla feroce stroncatura, o alla befa allegra che della lettera di Prezzolini avrebbe fatto il direttore della Voce.

PROBLEMI DI LIBERTÀ1

Il fascismo ripropone il problema di un’esegesi del nostro Risorgimento perché ce ne svela le illusioni e l’equivoco fondamentale insito in un disperato tentativo di diventare moderni restando letterati machiavellici o garibaldini. La libertà che noi opponiamo al fascismo non può dunque confrontarsi con la passione verbosa dei radicali, che misurarono nel mazzinianismo la loro impotenza; le sue connessioni con la libertà inglese sono soltanto tecniche e psicologici paiono i rapporti che la legano ai valori di coscienza germanici. La libertà che noi pensiamo è identica con la passione dei fondatori di Stato; a un 1 «La Rivoluzione Liberale», a. II, n. 11, 24 aprile 1923, p. 45, siglato «p.g.».

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popolo di artisti che non sapeva immaginare niente di più bello di un altro Rienzi, che salisse il Campidoglio in corteggio teatrale, possiamo opporre una mera questione di stile. Il contrasto vero più che tra dittatura e libertà è tra libertà e unanimità: il vizio storico della nostra formazione politica consisterebbe nell’incapacità di pesare le sfumature e di conservare un’onesta intransigenza nelle posizioni contraddittorie, suggerita dalla coscienza che le antitesi sono necessarie e la lotta le coordina più che sopprimerle. Questa atmosfera di dignità liberale, repugna alla ilosoia di Mussolini teorico di un governo polemista invece che demiurgico («il ministero non può fare l’uicio del giornalista» ha ammonito invano Cavour). Ma, checché si pensi delle esperienze inglesi (noi siamo ben lungi dall’additarle quali modelli) solo da sifatta preparazione di costumi e di forme potrà sorgere un movimento libertario sul serio, che si alimenti di iniziativa popolare e di responsabilità economica rinunciando alle sterili ideologie di disciplina, ordine, gerarchia. Il problema italiano non è di autorità ma di autonomia.

Problemi di libertà

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Senonché i termini del discorso potranno essere chiariti soltanto da una nuova esperienza economica che ci liberi una buona volta dal parassitismo nazionalista di plutocrati e impiegati. Senza disoccupazione e infantilismo guerresco – non ci troveremmo forse a rivendicare il futuro di fronte ai padroni di oggi. Se il socialismo con una morale piccoloborghese, un corporativismo ricattatore, una politica demagogica, e un’economia fatalista fu il primo annuncio della decadenza presente – il movimento delle masse che l’economia europea prepara inesorabilmente per i compiti prossimi sarà la rivolta più solida e cosciente contro l’inerzia dominante. Solo questa speranza ci può far scorgere secondo un ritmo meno chiuso l’avvenire della libertà, che sinora fraintendemmo e non conquistammo.

COMMENTO QUOTIDIANO [II]1

Elogio di Farinacci Vogliono ammazzare il fascismo. Lo fecero servire per un anno a ricreare le fantasie, a ristorare gli spiriti e a satollare i corpi. Ora basta. Il fascismo ha una grave colpa: è ancora troppo intransigente, troppo serio per gli italiani; impone di credere ad una parte politica e di prenderne le responsabilità. Invece gli italiani hanno una giusta stima del proprio ingegno e della propria versatilità e sorridono all’idea di essere sinceri ed onesti. Piacevoli maestri di trasformismo, ideatori fecondissimi di varie combinazioni personali, sanno esattamente quanto le astuzie e i 1 «La Rivoluzione Liberale», a. II, n. 30, 9 ottobre 1923, p. 122; siglato «p.g.».

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giochetti riescano più pratici e accessibili che le noiose intransigenze. Se a noi ostinati nemici della prima ora sono riconosciuti legittimi diritti di paternità verso il fascismo (almeno perché gli regalammo nella polemica qualche dottrina valida a ricoprire pudicamente la sua vergognosa povertà) tutta la useremo a difenderlo con franchezza. Farinacci ha scolpito la situazione in queste brutali parole: «Una corrente alimentata da opportunisti e da afaristi vorrebbe creare il mussolinismo intorno al Duce per isolarlo dal Fascismo». Ci sono troppi opportunisti: Baroncini e Farinacci sono uomini. Si può non veder chiaro nelle loro cooperative e nei loro affari; certo hanno continuato, ingigantito il parassitismo rosso. Ma i veri afaristi sono quelli che si godono gli stipendi a Roma fabbricando teorie. I veri afaristi sono gli intellettuali; non questi sani analfabeti che scrivono gli articoli sgrammaticati, ma sanno tenere la spada e il bastone in mano. Se un fascismo potrebbe avere per l’Italia qualche utilità esso è il fascismo del manganello. Farinacci e Baroncini difendono delle posizioni personali illegittime, ma conquistate

Commento quotidiano [II]

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col sacriicio e coi muscoli: dietro di essi ci sono centomila giovani che al fascismo non hanno chiesto di guadagnare o di risolvere il problema della propria disoccupazione; ma vi hanno portato la loro esasperata aberrazione, la ripugnanza per i compromessi e gli opportunismi. Noi dobbiamo rispettare in questa ignoranza e in questa barbarie un senso di dignità e una prova di sacriicio. I teorici di Roma sono di tutt’altra razza, vorrebbero guadagnare posizioni ugualmente redditizie scrivendo articoli e confondendo concetti. Ma essi non hanno nulla da insegnare agli italiani: Farinacci e Baroncini sono più colti, cento volte più colti di Massimo Rocca, come un ragioniere è cento volte più colto di un ex anarchico. Ritratto di Libero Tancredi L’eroe della polemica contro il partito fascista è il perfetto eroe dei nostri giorni. La sagoma incute timore e rispetto ai piccoli borghesi italiani. Deve tutto a se stesso. È iglio delle sue opere. Era uno straccione, è commendatore; era operaio e si è formata una

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ra, e sa scrivere gli articoli citando la Rivoluzione francese, studiata ai bei tempi nei manualetti di propaganda socialista, e nell’Università popolare. Parla per analogie storiche come succede agli autodidatti. La natura gli fu matrigna; e Mussolini non esitò a scagliargli un giorno l’insulto spietato: «Rimetti prima di tutto a posto i connotati!». Della sua bruttezza bisogna assolverlo cristianamente, come della sua ira, che lo fece violento contro sé e contro gli altri. È l’intellettuale esasperato e spostato, senza patria e senza famiglia, senza tradizioni e senza classe. Aveva un nome troppo borghese per un anarchico. Massimo Rocca suggerisce per necessità di ritmo l’accompagnamento di un comm. della Corona d’Italia. Si rinnegò. Fu Libero Tancredi, sospiro di romanticismo cavalleresco, idolo del sovversivismo italiano maleducato e tisico. Libero Tancredi è il tipo dell’anarchico italiano che scrive libelli invece di ricorrere alle bombe e alle revolverate e si scusa candidamente con la dottrina della non resistenza al male. Di disoccupazione in disoccupazione Libero Tancredi fu

Commento quotidiano [II]

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ralmente sindacalista. E non gli è stato dificile cambiare l’esibizionismo libertario nel fanatismo del questurino, una volta trovato il padrone e riconosciuto il carabiniere. L’anarchico ha sempre sognato di poter dire un giorno: «Lo Stato sono io». Il comm. Rocca difende oggi l’ordine, la dittatura, rinnega gli amici fascisti di ieri, vuole una nuova religione superiore ai partiti come agli uomini: il mussolinismo. Il comm. Massimo Rocca è iglio delle sue opere. Con una serie di articoli che invocavano l’abolizione dell’Istituto Nazionale delle assicurazioni riuscì a diventare vice-direttore del medesimo. Oggi Libero Tancredi vuole il 18 brumaio. Forse la sua fantasia piccolo-borghese è stata sedotta dal nobile miraggio di un ducato di Bassano.

COMMEMORAZIONE1

Dopo un anno di esperimento fascista chi sente il bisogno di fare il bilancio è l’opposizione. Le classi dominanti si accontentano di inni commemorativi. Forse questi inni sono meno tendenziosi, più sinceri di quei calcoli. Un bilancio di fatti non indica quelle risultanze che vanno oltre i fatti. In tema di contingenze si ha sempre torto e ragione insieme. A meno di guardare le cose dall’alto e poi da vicino. Mussolini ha paciicato l’Italia. Parlano di unanimità. Gli italiani sono contenti. Veramente le violenze non sono cessate, secondo i giornali antifascisti, che continua1 «La Rivoluzione Liberale», a. II, n. 33, 30 ottobre 1923, p. 133; siglato «p.g.».

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no ad enumerare episodi pietosi. I giornali mussoliniani trovano gusto a difamare i ras, benché, se si vuole, i ras siano poi il regime. Ebbene bisogna dichiarare che questi malcontenti non hanno ragione d’essere. Mussolini e il regime non hanno colpe di sorta. Non è lecito pensare l’Italia più paciica e più contenta (ossia più indiferente e vile), che nel presente anno di grazia. Se persistono le camicie nere, se ancora si parla di spedizioni punitive, bisogna avere il coraggio di confessare che questi sono i necessari congegni della pace in terra nostra e non cercare di specularvi sopra. Sono il tono della pace nel dopoguerra, come erano i mazzieri in regime giolittiano. Nessuno degli antifascisti ha il diritto di criticare questa situazione, poiché tutti la vollero quando invocarono il fronte unico della conservazione contro la rivoluzione; quando deprecarono la lotta di classe e cercarono di corrompere il movimento socialista. Che cosa ha fatto Mussolini? Ha accettato il programma di Nitti e trovandolo improprio ai cervelli italiani, si è rivolto a suon di randellate ai crani refrattari. Nel gioco trasformistico ha introdotto

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mente il nuovo elemento della forza, contando paciicamente sulla viltà. Giolitti corrompeva i partiti e li lasciava vivere. Mussolini ha superato tutti gli esempi di trasformismo, di insincerità, di compromessi, di ricatti. In un anno di governo ha spezzate tutte le resistenze, ha costretto tutti gli uomini a piegarsi, a rinunciare alla loro dignità. Ha ridotto alla schiavitù liberali, democratici, popolari. Passa sopra tutte le diferenze. Costringe col metodo dei compensi operai e industriali a far coesistere allegramente i loro interessi antitetici. Spezza le distinzioni, le responsabilità precise, la fermezza dei caratteri e l’intransigenza onesta delle idee. La dittatura giolittiana aveva una linea, una tenacia piemontese, tendeva ostinatamente a fare di questo paese infelice e chiacchierone una nazione ricca ed europea. Il romagnolo ha l’istinto del condottiero di ventura, la pregiudiziale che gli uomini devono servire lui, il gusto per l’unanimità cortigiana. La sua politica verso i partiti ha la teatralità di tutti i deboli e ignora che i grandi statisti hanno sempre saputo dominare le diferenze della realtà senza sopprimerle.

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Ma noi contestiamo alle opposizioni il diritto di seguirci in queste critiche. Chi degli oppositori ci intende, se diciamo che una delle ragioni della nostra lotta al fascismo sta nel carattere tollerante e paterno della dittatura di Mussolini? Chi ci approva se facciamo l’elogio della lotta politica e dell’Italia del dopo-guerra (disordinata solo perché un popolo senza tradizioni comincia naturalmente con le forme primordiali di lotta)? Ma se volete discorrere di stile nella polemica antifascista dovete seguirci sino a queste conseguenze. Noi abbiamo sentito di amare il conte Sforza, un anno fa, non perché egli era stato il primo arteice di una grande politica estera, ma perché di fronte a Mussolini comprese senza esitanze che la questione non era di dettagli o di tecnica, ma di istinto. Solo chi ha avuto un moto di ribellione in quei giorni, chi non ha calcolato, chi si è sentito di un’altra razza preoccupandosi di un problema di decoro personale e non della popolarità, ha il diritto di non essere fascista. Gli altri sono aspiranti fascisti insoddisfatti: e bisogna rompere il blocco dell’antifascismo perché c’è molta gente che vuole realizzare.

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Gli oppositori più melanconici parlano di libertà violata, si richiamano allo Statuto albertino. Lo Statuto albertino in 75 anni non ha certo aspettato che Mussolini lo violasse per primo. Quando Bonomi o i democratici sociali parlano di Statuto e di libertà, noi non possiamo non sorridere, perché ci vien fatto di pensare malignamente ad un’offerta non accettata di collaborazione. Solo Luigi Albertini è riuscito a commuoverci parlando in Senato e sul Corriere dello Statuto. Luigi Albertini ha voluto conservare la sua dignità. Noi comprendiamo che si possa da alcuni di noi nutrire per lui anche un segreto rancore. Noi non ci adattiamo a credere che il Corriere non abbia potuto fare a meno di tacere. I discorsi stessi di Albertini in Senato parvero ingenui: ma in quei momenti l’ingenuità salvava un carattere. La tirannide di Mussolini è ben più sottile e rainata di quel che possa credere un costituzionalista: eppure le accademiche parlate di Albertini attestavano che in Italia rimanevano delle persone bene educate, disposte a discutere di principi tra camice nere e mani levate per il saluto romano. Un uomo che ha avuto

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questa fermezza pedagogica avrebbe anche dovuto permettere che si precipitasse contro di lui e contro la sua opera la violenza di una spedizione punitiva. Nessun danno alla causa se le lezioni di stile avessero dovuto diventare eroiche. L’opposizione tecnica di Amendola e di Ruini nel Mondo non ha certo la stessa eficacia della disquisizione accademica di un conservatore. Il Mondo non ha dato tregua alle iniziative del governo: sa ricordare al momento giusto che la lira, nonostante le promesse di Mussolini, non è salita, denuncia gli errori del discorso De Stefani, mostrando che il bilancio non migliora, svela il parassitismo delle cooperative fasciste, più fameliche di quelle socialiste, sfrutta il malcontento democratico per le riforme del Gentile, si sdegna per la sfacciata caccia fascista alle cariche, per l’iniqua distribuzione delle opere pubbliche, per le bugie dei comunicati uiciosi. Questa critica piace ai piccolo-borghesi. Ed è paciico che l’aristocrazia nuova di Mussolini ha molto da imparare dalla perizia di uomini come Ruini. Per l’ordinaria amministrazione le creature del regime giolittiano valgono

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ti gli Acerbo e i Finzi del nuovo mondo. Non con le camice nere e coi nuovi funzionari stipendiati per i servigi resi nella guerra civile si va verso il pareggio. È certo che nell’esperimento le condizioni inanziarie e amministrative della nazione sono scandalosamente peggiorate. Dunque il Mondo ha ragione. Ma non ci convince il tono. Tutto questo in sostanza è un collaborare con la critica. Mussolini potrebbe migliorare la tecnica, diminuire gli scandali e gli accaparramenti, frenare la fame dei suoi collaboratori e resterebbe per noi un irreducibile questione di principio. Lo stile: ecco ciò che non si vede facendo il bilancio. Le sagre e l’educazione alla politica del tresette signiicano un deicit che da solo basta a far fallire qualunque amministrazione statale. È bastato l’incidente di Corfù per avvertire anche gli osservatori più lenti che il Guatemala si sta avviando a diventare un modello di dignità. Vogliono l’unanimità in politica estera. Propongono consolanti dimostrazioni imperiali alle fantasie piccolo-borghesi degli italiani. Infatti per i nostri connazionali

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non i fatti importano ma l’enfasi di una dimostrazione ben riuscita in piazza e la voce grossa del fanatismo presuntuoso. Segreti di regime demagogico se si pensa che Mussolini ha rinnegato ogni nazionalismo programmatico e vien facendo per la popolarità la più grossolana delle politiche paciiste: quella dell’inerme che minaccia. Quale sarebbe dunque il responso dei fatti? Fallimento e crisi generale. Ma c’è un fatto che sta sopra tutti i fatti: il regime si è consolidato, trionfa di tutte le opposizioni, canzona tutti gli avversari. Se il bilancio è rovinoso l’Italia è contenta e contro questa inesorabile realtà si spuntano tutte le critiche più sottili dei malcontenti. Essi sono più colpevoli delle classi dominanti. Il recente tentativo di creare il mussolinismo accanto al fascismo è stata la prova più pietosa della mancanza di dignità negli italiani non fascisti. La gara nel servilismo non poteva svelarsi più ripugnante. Dopo un anno di esperimento gli italiani non hanno imparato nulla. Il signor Giovannini continua ad ofrire la sua collaborazione; i combattenti come Arangio Ruiz e Savelli non chiedono che di ubbidire

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lealmente al duce, di sostituire i ras in tutti i servizi; i socialisti unitari e i popolari non riiuteranno la collaborazione tecnica: essi si dispongono al sacriicio solenne per salvare le organizzazioni e il proletariato. Chi dice di resistere parla a sproposito di Italia libera e con metodi perfettamente fascisti si nasconde dietro l’equivoco simbolo della medaglia d’oro di Rossetti. Ma la cosa più bufa sarà la lega democratica di Bonomi. Anche I. Bonomi dichiara di non essere aprioristicamente antifascista. Sul terreno della libertà e del consenso anche Bonomi tratterà per la collaborazione. Se queste nostalgie per il potere nascondono un calcolo machiavellico, bisogna sorridere per l’ingenuità di Bonomi e dei suoi amici. La loro vanità si direbbe proprio allegra se non hanno ancora capito di essere dei vinti. Essi sperano di giocare Mussolini sul terreno parlamentare e con le astuzie della politica. Essi non si sono accorti che Mussolini li vale tutti, che la ricchezza dei suoi espedienti è addirittura fantastica, che devono confessarsi novellini di fronte al nuovo domatore e alle sue capacità di non tener fede ai patti, di guadagnare la popolarità ad ogni costo, di asservire abbagliando e lusingando.

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Se questi sono gli oppositori approviamo Mussolini quando dice che starà al potere trent’anni. Basta tale minaccia per ridurre alla mansuetudine un avversario di cinquant’anni, sia pur ostinatamente iducioso nella propria longevità! Mussolini conosce i suoi polli e vedendo le paure degli avversari si potrebbe anche credere alla sua forza. È probabile che con istinti così ferocemente collaborazionisti Giovannini e Bonomi, Savelli e i giolittiani rimarranno a bocca asciutta. E dovremo riconoscere un incantevole moralista nel presidente corruttore. Solo di fronte a chi non ha uicio o lucro da chiedergli l’uomo è disarmato. Il presidente corruttore che contamina e piega ciò che tocca non può nulla contro l’intransigenza. Ora noi siamo contenti di noi stessi, del nostro sistema cerebrale, se un anno fa la legge del mussolinismo ci fu chiara e riuscimmo a conservare la nostra libertà mantenendocene degni. Agli antifascisti che ci espongono i loro programmi di blocchi e di realizzazione possiamo chiedere sorridendo un noviziato di disperazione eroica. Forse il disinteresse sarà il migliore machiavellismo; il solo capace di

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re un trasformista e un domatore, di fargli sentire che ci sono valori contro i quali la sua abilità non conta. Dopo dodici mesi di esperimento noi ripetiamo l’esortazione all’intransigenza: e questo pare la nostra forza.

UOMINI E IDEE [VIII]1

Secondo elogio di Farinacci In Cremona Nuova del 12 febbraio l’on. Farinacci scrive: Nessuno può e deve dimenticare che il leader degli oppositori, Ivanoe Bonomi, fu successivamente antifascista e fascista: antifascista nel ministero Giolitti; fascista nel periodo elettorale. Ricordiamo, fra i molti, un episodio che lo caratterizza e lo deinisce. Eravamo una sera a Mantova, quando giunse la notizia delle violenze socialiste a Poggio Rusco; fu Bonomi – ministro scadente – che mise la automobile ministeriale a di1 «La Rivoluzione Liberale», a. III, n. 8, 19 febbraio 1924, p. 32, siglato «p.g.».

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L’autobiograia della nazione sposizione dei fascisti che nella notte stessa dovevano distruggere la cooperativa di quel paese! E nelle giornate meravigliose della lotta elettorale del 1921, lo vedemmo marciare sotto i nostri gagliardetti, e assistemmo ai suoi comizi ben protetto dalle balde nostre camicie nere. Coll’aiuto dei nostri voti riuscì capolista nella circoscrizione di Mantova-Cremona. Nel 1919, durante quel burrascoso periodo elettorale, noi fummo a ianco di Leonida Bissolati. Questi – mentre in automobile si portava con alcuni amici a Piadena per tenervi un comizio, che poi non tenne perché impedito violentemente dai socialisti di Garibotti, Turati, Treves e compagnia, i quali lo insultarono, lo sputacchiarono e gli usarono ogni sorta di violenze, e peggio gli sarebbe occorso se attorno a quegli che un giorno fu il nostro maestro non si fosse serrato un forte gruppo di fervide anime giovanili – discorrendo del ministero Orlando, dal quale si dimise per ragioni di coerenza, deinì Bonomi un «uomo la cui ambizione lo rendeva compassionevole». Bonomi e Berenini avevano dichiarato a Bissolati di essere completamente solidali con lui nelle direttive della politica esterna assicurandolo inoltre che lo

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ro seguito in ogni sua decisione. Bissolati si dimise, ma Bonomi rimase al Governo, pronto a mutare pensiero ed atteggiamento.

L’on. Farinacci è il tipo più completo e rispettabile che abbia espresso sinora il movimento fascista. Non solo come uomini politici, ma come coscienze, per disinteresse e austerità personale, i ras Farinacci, Barbiellini, Baroncini, Forni, sono superiori a tutta la schiera dei ciarlatani del revisionismo. Già il revisionismo è nato a Roma, all’Excelsior, confortato di ricche prebende, mentre i ras rappresentano la provincia, si battono per esigenze concrete, si sacriicano come disperati, non si sono parlamentarizzati, sono rimasti barbari, sdegnosi di Capua o delle mollezze romane. Farinacci non teme di parlare di Bissolati come del suo vecchio maestro; e un democratico autentico non può esitare a sentirsi oggi cento volte più vicino a Farinacci che a Massimo Rocca. Farinacci è certo meno schiavista del commendatore Libero Tancredi, e i patti di lavoro ispirati da lui nel Cremonese, come quelli di Forni, Baroncini e degli altri ras, non sono un tradimento

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per il movimento proletario, sono i migliori patti di lavoro vigenti oggi in Italia. Altro che sindacalismo di Rossoni e di Michelino Bianchi! Farinacci è nemico del prefetto, non può sofrire gli ordini di Roma, di quelli che non vedono e credono di vedere, e risolvono tutto con schemi teorici e leggi generiche. Di fronte al prefetto Farinacci rappresenta la rivoluzione, il principio dell’autogoverno, la sovranità popolare. Rendiamogli onore: lo spirito di Bissolati è in lui, almeno nei limiti in cui può esserlo un fascista. È un discepolo onesto: non ha venduto Cristo per i trenta denari di un Ministero di Lavori pubblici. Si dice che Farinacci non abbia cervello. Senonché quando il cervello serve ai sindacalisti fascisti per diventare deputati e agli ex-anarchici per diventare commendatori, non ci dovremo rammaricare se al posto del cervello e delle ilosoie politiche troviamo in un uomo dell’intransigenza. Forse è qualcosa di meglio. L’Italia ha più bisogno di caratteri che di pseudo-ilosofanti. Nell’invettiva di Farinacci contro Bonomi si sente il fremito di una coerenza; un

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fatto più nobile e più ideale di tutte le teorie trasformiste dei troppi neo-Fera fascisti. Chi sono i disinteressati? «Il rag. Baroncini, al quale era stata oferta la candidatura per la circoscrizione emiliana, non l’ha accettata» (Dai giornali). Gli uomini della campagna revisionista sono i puri, i democratici, i feroci contro i ras perché i ras rappresenterebbero loschi interessi privati, camarille locali: all’ora dei conti Bottai, Massimo Rocca, Dino Grandi si trovano ad avere un posto nel listone: e chi dà le lezioni di disinteresse è Baroncini. C’è una bella distinzione di razza tra questi uomini. Il rag. Baroncini si irma ragioniere, non ha vergogna di essere rag., non ha la libidine del comm., come un parvenu ex-anarchico, non continuerebbe, come Dino Grandi, a chiamarsi on. dopo essere stato messo fuori dalla Camera perché minorenne. La diferenza è questa. Grandi, Bottai, Rocca sono professionisti della politica; sarebbero stati politicanti, in tutti i regimi, con Wilson o con Lenin o con i junker di Guglielmo II. La loro

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dine più speciica sta nel parlare sempre di idee per sembrare disinteressati ed idealisti, di trescare con la dialettica, per inventare delle tendenze, delle correnti, delle eresie, e trovarsi di punto in bianco capi-setta. Non è lecito tra persone intelligenti credere sul serio che quelle di Bottai e di Rocca siano idee: sono detriti e spazzature di vecchie ideologie che soltanto i buoni borghesi mussoliniani e antifascisti possono prendere sul serio; e quando si trovano soli, questi murriani e borelliani mancati non possono che fare le più matte risate delle proprie scoperte ilosoiche. Un professionista della politica si serve di tutto per arrivare. Elaborare ilosoie per il vincitore o farsi paladini di idealità è un metodo facile e comodo. Giolitti aveva Fera, Mussolini ha Libero Tancredi. Politicantismo, senza pudore, senza coraggio, trasformismo, senza decoro personale e senza intransigenza. Esaminate per un momento un tipo: Dino Grandi volle fare tra il ’21 e il ’22 l’anti-Mussolini: la cosa poteva sembrare coraggiosa e persino noi ci mettemmo a guardare con curiosità cosa sarebbe successo di un fascista, che faceva il missiroliano. Successe

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che Dino Grandi avversario della marcia su Roma ne fu per strano caso il condottiero, come per strano caso e quasi per sbaglio era diventato fascista proprio nei giorni in cui si apprestava a far propaganda sovversiva. Mal ricompensato dal Duce (gli si diede un vice-commissariato d’emigrazione!) Dino Grandi riprende la fronda salvo a ridiventare ortodosso in tempo di elezioni. Baroncini invece fu fascista per esasperazione ribelle; non è una persona colta, ma ha il iuto dell’uomo pratico, dell’uomo di fegato; non si prestò a giochi schiavisti, fu inesorabile con i mezzi-fascisti come Quilici, e con i lestofanti come Naldi. Messosi a capo dei sindacati fascisti, ha cercato di fare sul serio, non si è lasciato addomesticare. Questo ras ha dell’energia se non della preparazione! Ma chi può credere sul serio che Dino Grandi sia più colto di Baroncini? Le ingiurie di Baroncini contro Grandi sono un poema; quando si arriva a calunniare così l’avversario pur sapendo che non si potranno sostenere le accuse con prove giuridiche ci deve essere sotto un nobile sdegno! Lo sdegno che non si presta a cavilli da avvocato, che preferisce risolvere

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solubile con una sciabolata. Ecco la antitesi del professionista della politica: il politico per necessità e per passione. Anche il pensiero di Baroncini è mediocre, una povera cosa: è pensiero... fascista come quello di Grandi e di Bottai. E perciò, per capirci, bisogna guardare agli uomini. Si propone un’inchiesta: quanto guadagnano i ras, qual è il tenore di vita di Baroncini e di Barbiellini; quante prebende si sono invece accaparrati gli intellettuali; di quante società sono consiglieri, di quali afari mezzani. Vogliamo sapere chi sono i disinteressati.

UOMINI E IDEE [IX]1

Il Calderone piccolo-borghese Un amico democratico ci scrive: Voi puntate su una borghesia inglese che da noi non esiste. E puntate anche su un proletariato liberale che egualmente non esiste. Può essere che venga su, non nego; ma è cosa lunga e perciò solo anche aleatoria. Io amo stare – e si può politicamente non farlo? – più sul sicuro. Questa piccola borghesia c’è; ed è la sola unica e variegata classe operante politicamente anche se economicamente debole. Fuori del calderone piccolo borghese si lavora a vuoto e non si suscita nulla. 1 «La Rivoluzione liberale», a. III, n. 9, 26 febbraio 1924, p. 34, siglato «p.g.».

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Dal calderone piccolo borghese nessun cuoco riuscirà a trarre qualcosa di diverso dal fascismo o dal giolittismo. Retorica e politicantismo saranno vizi inguaribili di un’Italia incapace di vita industriale moderna. La piccola borghesia è la classe degli impieghi, la classe cortigiana, provinciale, pronta alle esaltazioni patriottiche e sportive; costretta dal pauperismo a transigere sulla dignità, attaccata disperatamente a stipendi di fame, ministeriale per sistema, salvo a non credere sul serio a nessun ministero. Si possono trovare tipi variopinti, esempi complessi e discordi, sottoclassi e derivazioni della piccola borghesia ma l’apoliticità, l’immaturità politica, l’esaltazione cortigiana, il parassitismo, sono le caratteristiche costanti di grassi ceti che hanno conosciuto la vita moderna soltanto nelle forme più gofe dell’americanismo sportivo. Lavorando nel calderone piccolo borghese si lavora per un altro fascismo. Non è possibile ricavare di più, con questo materiale umano, di quello che ricavò Giolitti. E oggi un’opera di continuità amministrativa e di riconoscimento delle esigenze dei nuovi ceti, come quella di Giolitti, fallirebbe

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nell’atmosfera di esaltazione e di irrequietezza creata dalla guerra. La mentalità della piccola borghesia si rivelò più ridicola e più stolida che mai nell’infatuazione per la politica dei combattenti. Non ci fu disoccupato o cervello vuoto, in questi anni, che nelle organizzazioni dei combattenti non abbia trovato il suo posto di perfetto italiano. E sui combattenti si fondano per machiavellismo anche quegli antifascisti, come il nostro amico democratico, che vogliono rimestare nel calderone piccolo borghese. Creerebbero un secondo fascismo. Certo nessun paese ofre questo nostro squallido esempio di politicantismo che specula anche su un dovere compiuto. Bisogna avere il coraggio di non stare sul sicuro. Qualcosa fuori del calderone può nascere: anche se non sarà subito borghesia inglese e proletariato liberale. Se al fascismo e ai fanatici del combattentismo sta il rimestare a noi si conviene il precisare idee e interessi. E la politica italiana non avrà un ritmo di serietà prima che siano nate le avanguardie del movimento proletario e borghese. Anche se queste forze saranno

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una minoranza basteranno per rompere il blocco dei parassiti e costringerli a diferenziarsi secondo responsabilità precise. C’è un criterio infallibile per distinguere tra gli italiani d’oggi le persone serie dai politicanti; gli antifascisti dai futuri collaboratori di Mussolini: questi tendono ai blocchi e ai fronti unici, giocano a fare i patrioti, moderano gli spigoli dei loro programmi: per i primi il motto d’azione non può essere che la lotta contro l’unanimità, la resistenza inesorabile, l’intransigenza di fronte a nemici ed amici.

DOPO LE ELEZIONI1

Nel pensiero dell’on. Mussolini le elezioni dovevano essere la prova sperimentale dei suoi sistemi totalitari. Per giungere a risultati di plebiscito fu predisposto il congegno elettorale. Il periodo della preparazione della lista nazionale attestò in grado decisivo le attitudini dell’addomesticatore. L’on. Mussolini aveva due vie logiche da scegliere: mantenere in vita la vecchia Camera che, in sostanza, era una Camera giolittiana disposta a servire (riproducendo la situazione del ’15) perché già addomesticata, oppure fare le elezioni di partito, con una lista tutta fascista, dando pieni poteri a Giunta e De Bono. Naturalmente non scelse 1 «La Rivoluzione Liberale», a. III, n. 16, 15 aprile 1924, p. 61.

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né l’una via né l’altra e diede i pieni poteri a Giunta e a De Bono per far riuscire non una lista fascista ma una lista di blocco. Che De Nicola, Orlando, Salandra debbano la rielezione al manganello, che con tutti i loro discorsi di costituzionalità e di democrazia rimangano complici della pressione fascista, ecco il capolavoro del mussolinismo. Una opposizione seria dovrebbe capire che questo è il punto vulnerabile del regime. Il mussolinismo è più violento del fascismo, è più illegale perché si nasconde dietro la legalità delle forme. Se il fascismo fosse soltanto dittatura si farebbe presto a liquidarlo con le barricate: ma la sua forza è specialmente presidiata dall’esistenza di un consenso. Ora Mussolini deve la forza a Farinacci ma il consenso alla propria ambiguità. Le elezioni di Salerno sono un fatto grave non tanto perché il governo vi abbia esercitato violenze inaudite quanto perché i seguaci dell’on. Amendola, che in provincia hanno la maggioranza, le subirono. Elettori addestrati alla lotta politica sanno opporre violenza a violenza, difendere con la forza la propria dignità. Nel 1919 a Bitonto e a Molfetta i salveminiani risposero alla

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sione ammazzando Ungaro Nicola, il capo dei mazzieri del ’13. Ma se Giovanni Amendola scrivesse oggi Il ministro della mala vita non ne otterrebbe probabilmente neanche un successo librario. Perché la violenza di Giolitti era un fatto eccezionale e piccante, ridotto ad alcuni casi di vendette personali, signiicative di una qualità politica deteriore ma quasi indispensabile di cui Giolitti non mancava: la capacità di odiare. Le violenze di Giolitti riguardano pochi nomi: Giretti, Salvemini, Galimberti. Elencare le violenze mussoliniane invece ha pochissima importanza perché esse sono un sistema del regime: implicano responsabilità totali, derivano dalla complicità dei cittadini, tant’è vero che sono localizzate in una zona molto più vasta. La pratica della non resistenza al male è una malattia non meno grave del politicantismo nel nostro paese. Il 70 per cento al governo era assicurato una volta che Mussolini era riuscito a fabbricare il listone con le lusinghe, con le minacce, con la corruzione, creando l’ossessione del dogma della patria e raccogliendo la eredità di tutti i ministerialismi.

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Le velleità di rinnovamento del Mezzogiorno coltivate da alcuni fascisti come Padovani e Lanzillo non valsero a nulla contro il trasformismo di Mussolini, pronto ad accettare tutti i gruppi padroni delle situazioni locali. La funzione di un fascismo coraggioso nel Sud sarebbe stata di riiutare tutte le alleanze, di combattere tutte le posizioni elettorali del giolittismo, di creare con uno stato d’animo di palingenesi ministeriale, un’atmosfera di ribellione contro le cricche di Colosimo, di Fera e di Orlando. Invece i comm. Maurizio Maraviglia e Michele Bianchi non aspiravano che a sostituirsi a Colosimo nell’uicio di compari e di paranini e a Fera, come distributori di impieghi; temettero (gli antiparlamentari!) che il programma intransigente fosse per dare al fascismo non più che il 10 per cento degli elettori e inirono per aidarsi al senso e alle manovre del duce-supergiolitti. Così il metodo di Mussolini fu: mazzieri e patto Gentiloni, lo spettro della violenza nell’apparente paciicazione, e la pratica quotidiana dei blocchi e delle corruzioni. Il risultato più evidente della vittoria ministeriale dunque è la sconitta del

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smo. La marcia su Roma è stata per nulla. Le elezioni del ’24 sono identiche a quelle del ’21: allora il fascismo fu utilizzato nel blocco nazionale per creare una maggioranza Giolitti: lo stesso programma, a tre anni di distanza, riesce senza incertezze a Mussolini, scolaro più abile del maestro. Nel ’21 come nel ’24 le camicie nere fanno da mazzieri, i combattenti e le medaglie d’oro lavorano come muli di servizio del dogma della patria, la Confederazione dell’Industria fa le spese a patto che Olivetti, Mazzini, Benni, ecc. diventino insostituibili presso il dittatore. La proporzionale sventò il piano di Giolitti come lo avrebbe turbato a Mussolini: il sistema Acerbo ha compiuto il quadro, e l’avrebbe compiuto, si badi, in modo analogo il collegio uninominale che dà parimenti gli elettori in mano al governo. Si insiste su questo punto perché vogliamo che d’or innanzi una delle pregiudiziali di qualunque opposizione seria sia la richiesta della proporzionale. Tenendo presente l’ultima esperienza la storia d’Italia si vede sempre più rettilinea: una dittatura economica di ceti plutocratici, non abbastanza forte per diventare

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tatura politica (l’ultima volta che lo tentò, con il fascismo, non fu più fortunata delle altre), e tuttavia ministeriale sempre perché sempre padrona del governo attraverso ambigue manovre; in politica per l’immaturità generale e per il peso inerte del Sud una dittatura demagogica, burocratica e paterna che controlla i cittadini persino nei mezzi di sussistenza e può costringerli paciicamente a essere ministeriali. La proporzionale portando alla politica le masse socialiste e popolari segnava il principio del tramonto delle due dittature. Il solo efetto sensibile della marcia su Roma è stato l’abolizione della proporzionale. Così la deviazione del dopo-guerra è stata corretta e l’Italia torna in minorità politica. Quando diciamo che Mussolini è il nuovo Giolitti, più abile e meno serio, vogliamo indicare questa situazione storica, in cui gli efetti della immaturità politica si complicano per la immaturità economica. Perciò la base della dittatura giolittiana come di quella mussoliniana è nell’Italia centrale e meridionale, dove il fascismo era ancora infante. E per l’appunto si può dire che le elezioni rappresentano la sconitta del fascismo e la vittoria di Mussolini.

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Il fascismo è stato sconitto in Italia settentrionale dalle opposizioni (specialmente socialcomunista e popolare). In Piemonte, Lombardia, Veneto, Liguria, Venezia Giulia le opposizioni prevalgono per 70.000 voti (più di 1.400.000). Per Mussolini sono invece propizi i venti africani. Mussolini vince nel sud e nel centro con 3.350.000 voti circa contro meno di 1.100.000. Basta la più generica geograia per spiegare la nostra politica. Tuttavia contando i voti dei partiti di opposizione, chi ha creduto come noi a quel principio di lotta politica che si avvertì nel ’19 ha il diritto di accorgersi che non fu un illuso e può interpretare il risultato delle elezioni come la prova che esiste in Italia una minoranza aristocratica degna di chiamarsi antifascista. Gli operai del Nord, hanno saputo battersi. Al posto di Bombacci hanno mandato in parlamento Gramsci. Le parole che scrivemmo nel numero del 12 febbraio scorso non sono state smentite2. L’idea della diserzione di fronte alle violenze fasciste ci sembra disonorevo2 Si riferisce a Le elezioni in «La Rivoluzione Liberale», a. III, n. 7, 12 febbraio 1924, p. 25.

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L’autobiograia della nazione le. I partiti che hanno qualche serietà e qualche tradizione devono scendere in campo, ognuno al suo posto, forti della propria intransigenza, non per conquistare dei seggi, ma per mostrarsi degni di combattere. Niente leghe, niente complicità. È l’ora del bilancio, dell’esame di coscienza... A Montecitorio anche queste scarse pattuglie potranno acquistare il valore di avanguardie del futuro se sapranno non patteggiare con l’addomesticatore. I primi oppositori di Napoleone III furono cinque. La lotta contro Mussolini non sarà meno lunga né meno diicile. Gli uomini di cinquant’anni che vogliono realizzare devono scoprire il loro giuoco, inserirsi nella storia, diventare mussoliniani. L’antifascismo è una questione di aristocrazia, di nobiltà, di stile, è una dignità che si acquista con le rinunce e coi sacriici. Solo le minoranze provate e perseguitate hanno dei buoni diritti.

È chiaro che i partiti proletari e il partito popolare impostarono su questa pregiudiziale la lotta: ossia seppero combattere senza illudersi di realizzare, per sola fedeltà alle promesse. Che esista ancora un’Italia continentale ed europea, che Mussolini non sia

Dopo le elezioni

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riuscito a renderci tutti saraceni è un risultato positivo. Purché i partiti resistano: non saremo noi a contestare al fascismo la sua maggioranza. Noi ci accontentiamo modestamente di un futuro che forse non vedremo. Le elezioni ci danno un fascismo addomesticato che non era nei nostri voti. Mussolini democratico e indulgente sarà un disastro per la nostra educazione politica: ma, tanto l’Italia non è paese di tiranni se non nello stile più paesano e giocondo. Un vantaggio dalla faccia bonaria di Mussolini lo avremo per l’adesione a lui di tutti i falsi oppositori, di tutti gli antifascisti conservatori, disposti a servire durando l’ordine e la costituzione. L’opposizione che chiedeva al fascismo di essere legale e costituzionale ci ha sempre fatto ridere. Tanto meglio se invece di averla tra i falsi amici la potremo classiicare tra gli avversari. Noi non fummo mai così stolti da contare la monarchia tra le forze dell’antifascismo. Ora che il mussolinismo non si potrà più distinguere dalla monarchia una delle chiariicazioni indispensabili è avvenuta. Se ci avviamo verso l’idillio e verso la paciicazione, se stiamo per assistere al

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L’autobiograia della nazione

tersi della tranquillità del decennio giolittiano (con dannunzianismo e psicosi bellica in peggio) noi vogliamo notare già mentre l’era nuova si apre che non crediamo a questa pace, che ci viene come soppressione della lotta politica. Il compito delle opposizioni nel prossimo decennio – mentre il movimento operaio si verrà maturando – deve essere quello di esasperare la lotta, di non venir meno alla intransigenza, di provocare il regime senza concedergli tregua. Bisogna avere il coraggio di non collaborare neanche alla Camera con la critica, magari a costo di iniziare un nuovo implacabile ostruzionismo. L’opposizione non ha il dovere di pensare in Parlamento all’ordine e alla ricostruzione. Per la ricostruzione la via rettilinea è un’altra: la conquista dei comuni con lo scopo di creare, sia pure a lunga scadenza, il dissidio tra i poteri locali e il centro. Ecco un programma di lavoro per tutta una generazione.

ADDOMESTICATI E RIBELLI1

La normalizzazione L’on. Mussolini ha afermato la sua gioia di «poter inalmente agire appoggiandosi su di una Camera che rappresenta esattamente la volontà del paese». «Le ultime elezioni hanno restituito all’Italia un vero Parlamento». Il gioco è chiaro: non era diicile prevedere che il diavolo si sarebbe fatto frate e Mussolini è sempre scrupoloso nel dar ragione alle profezie dei suoi critici. Nella sua politica la normalizzazione è un elemento psicologico e ideale necessario come la violenza. La conciliazione degli opposti non è una ipocrisia del Duce: 1 «La Rivoluzione Liberale», a. III, n. 19, 6 maggio 1924, p. 73.

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è il suo stile. Normalizzazione in un primo senso vale per eufemismo per indicare che conserva il potere e d’altra parte è l’ideale di pace che non si può non riproclamare mentre continuano le irrequietezze della rivoluzione dei reduci. La tattica di un addomesticatore nel dopoguerra doveva essere duplice: la violenza contro le minoranze battagliere e contro i movimenti libertari sorti dal basso, le lusinghe verso le classi medie e verso le masse quietiste. Il gioco non riuscì a Giolitti che non aveva inteso la necessità di questo equilibrio; e fu necessario trovare un nuovo Giolitti, adatto ai tempi di avventura, in Mussolini. Egli è l’addomesticatore del fascismo solo perché lo serve e lo serve appunto mentre addormenta gli avversari con gli ideali del ministerialismo e della pace. I costumi dell’Italia sono ridotti a questo: che tutti si trovano pronti a disarmare anche se il fascismo non disarmerà e accettano il mito della normalizzazione instaurata dai vincitori anche se non ignorano che sarà una pura e semplice resa a discrezione. Un fautore del nuovo regime così interpreta lo stato d’animo generale:

Addomesticati e ribelli

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L’attuale fase delle discussioni politiche dimostra soltanto questo: che nel momento attuale una grande attrattiva per le fantasie e per i bisogni degli italiani è costituita dalla visione di un periodo di pace sociale. Tutto il resto, accanto a questo, ha poca importanza. Insomma il paese è stanco di stare in ansia sociale. Oggi sono fuori della realtà politica soltanto coloro che parlano di una continuazione della lotta, e vogliono eccitare ancora gli odi assopiti e le passioni stanche.

Ossia noi assistiamo – protagonisti gli intellettuali e l’opinione pubblica media – al formarsi di una vera e propria voluttà del servire. E, la rinuncia alle più elementari dignità è fatto in ossequio alla maniera forte insieme e lusingatrice del Duce, dal quale riesce grato ricevere attestati di inabilitazione e interdetti. Dalle molte diagnosi che ne ofrimmo dovrebbe risultare chiaro che questa stanchezza di Medioevo, questa rassegnazione di schiavi viziosi è uno stato d’animo per eccellenza mussoliniano. Mussoliniano

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che se si ritrova in certi oppositori disorientati dalla lotta. Così è una tattica di addomesticati invocare con la Giustizia (sabato 26 aprile) che il fascismo: osi legalizzare l’arbitrio, far delle leggi, una legge dispotica inché vuole ma che sia una: e ciò per due ottimi motivi: primo, che i cittadini sappiano con certezza che cosa è lecito e che cosa è proibito; secondo, che esso, il regime fascista, si assuma chiara ed intera la responsabilità politica dei suoi atti, o di quegli atti che ino a qui furono abbandonati alla iniziativa dei ras locali o degli squadristi isolati.

Ci sembra bufo chiedere i limiti di ciò che si vuol rovesciare: certi limiti evidentemente si avvertono solo nell’atto in cui si tenta di distruggerli! Né si può seguire Giovanni Zibordi quando scrive sulla Critica Sociale del 15-30 aprile: «Tutto quanto concorra a creare una atmosfera e un programma di civiltà legale contro la violenza illegale oggi prevalente, giova indirettamente a una ricostruzione spirituale e materiale di questa travagliata vita italiana».

Addomesticati e ribelli

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Se qui è una riserva di astuzia polemica – ma non sembrerebbe – l’astuzia viene in ritardo. Dopo 18 mesi chiedere al fascismo di esser coerente nelle parole e nei fatti, nelle leggi e nello spirito è perfettamente ingenuo se si è constatato che il fascismo non acconsentirà mai ad instaurare una tirannide onesta e dichiarata ma alle leggi democratiche e demagogiche continuerà ad unire una pratica contradditoria e arbitraria secondo le esigenze quotidiane. Né l’economia né la politica si avvantaggiano dalle lunghe stasi e dalle quiete rinunce: e l’opposizione può servire il paese soltanto riiutandosi di far la pace col vincitore, e di riconoscere il regime mussoliniano. L’opposizione è una scuola di dignità e la sua intransigenza mentre non la compromette a far causa comune con la presente decadenza, mentre la salva per il futuro, ofre disinteressatamente dei modelli e migliora generosamente lo stesso fascismo, reo che non si può assolvere. La normalizzazione è dunque un problema tutto interno del fascismo stesso, un’altra fantasia mussoliniana: noi siamo

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pronti ad assistere anche a questo spettacolo, ma resta inteso che non siamo disposti ad accettare norme dal campo nemico. Un aspetto della normalizzazione sarà l’impegno messo da Mussolini nel far funzionare il parlamento. Si domanda se egli riuscirà. Resta tra gli oppositori l’illusione che la ine del fascismo debba venire dall’interno, che il blocco si debba sfaldare di fronte alle diicoltà concrete. Per noi è chiaro che Mussolini farà trionfalmente il suo esperimento parlamentare. La maggioranza è un blocco altrettanto compatto quanto variopinto di tendenze e anemico di idee. Mussolini può condurre dove vuole, manovrare come gli piace uomini dello stampo di Salandra, Orlando, Dino Grandi, Bottai, Massimo Rocca, Giunta. Non è a credere che gli possano venire preoccupazioni serie neanche da Farinacci. La violenza dei ras gli è cara e necessaria: egli sa dosarla e Orlando gli potrà servire in qualunque momento per convalidare la riforma di Michelino con l’autorità del costituzionalista. Bisogna convincersi che i 356 deputati della maggioranza e gli altri signori delle liste bis, se si

Addomesticati e ribelli

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eccettuano i rappresentanti della oligarchia industriale (assai apertamente padroni) sono tutti dei fantocci buissimi e spudorati, bisce incantate dal ciarlatano. Vanno a Montecitorio per ubbidire. Faranno le parti che il Duce assegnò. Per questo lato la normalizzazione è un fatto. Mussolini può dilettarsi allo spettacolo dei frak e delle livree della nuova Corte.

MOMENTI DEL PROCESSO CAPITALISTICO (NOTA)1

Discuteremo volentieri le conclusioni del Mazzali2 a mano a mano che egli ce le esporrà. Qui ci accontentiamo di notare che il torto della concezione del Labriola è di prendere tanto sul serio il fascismo da elevarlo a dignità di reazione capitalistica. Come sarà lecito classiicare in una stessa serie la reazione capitalistica americana e il fascismo? Per noi qui comincia l’errore: 1 «La Rivoluzione Liberale», a. III, n. 25, 17 giugno 1924, p. 99. 2 Nota a Momenti di processo capitalistico recensione di G. Mazzali al testo di A. Labriola, La dittatura della borghesia e la decadenza della società capitalistica, (Napoli, 1924), pubblicato in quello stesso numero della rivista.

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e si inisce per non intendere che il fascismo è un fenomeno italiano, di immaturità storica ed economica, un riaiorare di medioevo. In questo senso tra noi “il processo capitalistico” è ancora di là da venire.

PROCESSO AL TRASFORMISMO1

Dal giugno 1924 la politica italiana è dominata dalla considerazione dell’assassinio di Giacomo Matteotti. Assassinio politico, delitto del regime, di fronte al quale noi, anti-mussoliniani e anti-fascisti, invocammo sin dal primo giorno, come unica risposta, il processo al regime. Ci fu chiaro sin dal primo giorno che del caso Matteotti bisognava fare il caso Dreyfus degli italiani, la pietra di paragone della nostra dignità di popolo moderno. E nel processo al regime dovevano essere coinvolti come complici quelli che hanno sostenuto o resa possibile con le loro responsabilità passate una situazione di trasformismo, di cortigia1 «La Rivoluzione Liberale», a. III, n. 39, 21 ottobre 1924, p. 158.

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neria, di corruzione medioevale, quelli che hanno umiliato con risorse di domatori e rainatezze di lusingatori la dignità politica appena nascente di un popolo troppo a lungo condannato alla retorica dei mendichi. Le colpe dei reduci sono anche le colpe dei padri. La questione è di sostanza e di principii: noi siamo disposti a salvare le proporzioni e a distinguere gli stili; ma constatiamo che l’atmosfera delle elezioni del 6 aprile si è incominciata a formare quando intervenivano i mazzieri a sollecitare il consenso degli elettori di Puglia e si è incominciato ad uccidere Matteotti quando si tentava di linciare moralmente Croce nel 1915 o Salvemini negli anni della polemica dalmatica. Nel caso Matteotti il problema diventava di facile comprensione: ogni coscienza doveva provare un fremito ribelle. Sempre bisogna che le Nazioni trovino l’ora dell’esame di coscienza, che sappiano misurare la loro sensibilità morale a costo di aprire crisi dolorose e totali. Né ci si attribuisca preoccupazioni di astratti moralisti: in verità tutta la politica è possibile soltanto a patto che sappia trovare nei momenti solenni le sue origini di rigorismo e di rivoluzione morale.

Processo al trasformismo

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Ritirandosi sull’Aventino le opposizioni aprivano una crisi storica. Certo l’Aventino doveva essere una specie di Pallamaglio e doveva afermare la sua incompatibilità con la maggioranza parlamentare di schiavi e di cortigiani, oltre che con il ministero Mussolini. Doveva ricordare che Matteotti fu ucciso perché dimostrò l’ineleggibilità di tutti gli attuali membri della maggioranza governativa. Dopo quattro mesi questo grande processo Dreyfus dell’Italia moderna contro l’Italietta di Mussolini e dei paterni dittatori del suo stampo non è riuscito; si è soltanto aperta la crisi ministeriale del ministero Mussolini..., provvisoriamente sospesa per mancanza di successori. Dalla rivoluzione delle opposizioni nessuna conseguenza fu dedotta. Perciò cadendo il ministero Mussolini non cadrà il regime. Lo stesso fascismo rimarrà agli onori di partito politico pronto a sventare qualunque soluzione politica e democratica. Abbiamo avuto in questi mesi prove e riprove dell’insensibilità morale del paese: Assisi, Livorno, Lega italica. Due anni di fascismo ci hanno ancora più irrimediabilmente allontanati dai costumi della lotta

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politica. La massima risorsa in un paese di cortigiani sta sempre nel giocare sull’unanimità e sul monopolio del patriottismo. Perciò combattenti e liberali sono in auge dopo aver accettata per due anni la complicità con gli assassini di Matteotti (nessuno ci farà dimenticare che i deputati liberali e combattenti del listone devono la loro elezione a Cesarino Rossi) e sono in auge perché rappresentano i moderati, pronti a tutte le conciliazioni per evitare che in Italia prevalgano i partiti responsabili e le organizzazioni oneste. Assisi e Livorno2 invocarono la paciicazione e l’armonia, il cenciaiuolo di Prato3 chiede agli italiani gentilezza, affabilità, grazia; alibi e rese a discrezione di schiavi pronti ad inchinarsi a un Mussolini che nasconda la faccia feroce, come a qualunque vecchio statista normalizzatore. A queste speranze degli italiani per gusto di popolarità si dà un nome che è un programma anche troppo chiaro. Poiché la grandezza politica di Giolitti, modesta ma innegabile grandezza di amministratore 2 A Livorno il 2 ottobre 1924 si tenne il congresso liberale mentre ad Assisi nel luglio di quell’anno ebbe luogo il consiglio dell’Associazione Combattenti. 3 Allusione a Sem Benelli.

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del decennio di pace, trova nel 1911 il suo estremo limite cronologico. Giolitti dopo la guerra è l’ex-neutralista alleato coi combattenti per attuare la politica antiproletaria e per armare il fascismo. A Giolitti successore non potrebbe spettare altro compito che quello di continuare l’opera di Mussolini. Giolitti nemico di Sturzo e di Turati è pronto a tentare gli estremi espedienti per rendere impossibile la vita ai partiti di masse, cominciando dal popolare e dal socialista. Bisogna dire la parola di allarme. La reazione è in marcia. Il programma dei successori di Mussolini sarà un programma antisocialista che cercherà di attenuare i risultati della rivoluzione del sufragio universale sostituendo alla proporzionale il collegio uninominale e ristabilendo il concetto del deputato ministeriale e delle elezioni governative. Per esprimere tutto questo: l’odio delle classi borghesi per i partiti organizzati, il disprezzo dei programmi politici e della politica, il culto per l’intrigo e per l’afare nel piccolo ambito del collegio uninominale si è trovato che il simbolo più caratteristico è Giolitti e si lavora per preparargli una maggioranza che

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vada da Sem Benelli a Giovannini, da Delcroix a Libero Tancredi. A queste combinazioni trasformistiche si può contrapporre un’obbiezione piuttosto seria: che Mussolini non è disposto ad andarsene e non basteranno gli ordini del giorno di Viola e di Pedrazzi a liquidarlo. Sul terreno di questi bassi calcoli egli è ancora il più forte, proprio per la sua duplice maschera di normalizzatore e di amico di Farinacci. Senonché a noi non interessa afatto che la reazione sia fatta da Mussolini o da Giolitti, da Delcroix o da Soleri: c’interessa che parlino chiaro dall’Aventino quelli che non sono disposti a vendere la proporzionale e la dignità della lotta politica per le lusinghe normalizzatrici di un trasformista. L’odio mortale di Cesarino Rossi per Matteotti incominciò quando fu sventato il piano della collaborazione fascista col socialismo confederale. Perciò vogliamo che il processo Matteotti sia il processo contro tutti i trasformismi e contro tutte le corruzioni del ministerialismo.

BILANCIO1

Rivoluzione Liberale si è astenuta dal discutere la condotta dell’Aventino per ragioni ovvie. Le questioni di tattica non si trattano in sede di critica ideale. Nell’impostazione aventiniana noi abbiamo le nostre responsabilità. Non potevamo rinnegarle anche se di volta in volta sentissimo qualche dissenso pratico. In sostanza Rivoluzione Liberale proclamò l’Aventino (non collaborare con la critica) nel novembre 1922. Nel momento in cui anche le opposizioni parlamentari accettavano il nostro criterio e si portavano sulla nostra linea di battaglia, noi non dovevamo chiedere loro onestamente se non 1 «La Rivoluzione Liberale», a. IV, n. 21, 24 maggio 1925, p. 85.

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l’intransigenza. L’Aventino avrà tutti i torti di scarsa azione pratica e di scarsa omogeneità che gli si rimproverano, ma, volenti o no gli stessi suoi componenti singoli, ha ubbidito a questa linea di intransigenza. Nel novembre 1922 c’eravamo soltanto noi a dichiarare che non avremmo patteggiato, che non avremmo collaborato con la critica; tutti gli altri proponevano delle condizioni (scioglimento della milizia, normalizzazione, ecc.), non riiutavano di discutere. Nel giugno 1924 invece anche i parlamentari accettavano la nostra impostazione integrale. L’Aventino ha avuto almeno per questo una grande ripercussione morale. È una vittoria del carattere degli italiani. Impostare così la battaglia voleva dire rinunciar a realizzare per dieci anni: noi lo dichiarammo francamente e continuamente dal novembre 1922 ad oggi. Il 3 gennaio non ci ha sorpreso. Noi sappiamo che Mussolini è il più forte, che la maggioranza degli italiani è con lui. Se l’Aventino nutrì qualche illusione, questo fu suo torto; è possibile che oggi le illusioni siano cadute. Il gran risultato dell’Aventino è stato di chiarire le posizioni. Sono scomparse

Bilancio

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per sempre le situazioni centriste. Oggi le opposizioni dell’aula, le opposizioni dei fascisti onorari, come Bonomi, fanno ridere. Costoro incominciano a pensare sul serio a collaborare, altrimenti che con la critica, senonché Mussolini li avrà sul mercato per poco prezzo: non sono più necessari neanche a lui. Mussolini può tranquillamente far a meno di proporre la nomina di Bonomi a senatore. I ceti dominanti (plutocrazia, agrari, corte, esercito, burocrazia) hanno trovato in Mussolini e nei suoi compagni gli uomini in cui riporre piena iducia. Potevano nel passato pensare agli uomini delle opposizioni costituzionali e dell’aula come a una riserva: oggi non più. Le vecchie classi politiche giolittiane e salandrine sono deinitivamente liquidate: gli uomini dell’anteguerra sono tutti initi. Di questo risultato, che il fascismo avrebbe potuto raggiungere più presto senza le sue manovre trasformiste, ma che tuttavia ha ormai raggiunto, noi non siamo meno lieti dei fascisti. L’Aventino ha anche contato sulle classi medie. Ma queste per la loro natura equivoca sono sempre col vincitore, anche se ostentavano mesi or sono di leggere il Becco

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Giallo. Sono rimasti alle opposizioni non le classi medie, non gli avvocati, non i professori, ma alcuni individui di queste categorie che per la loro educazione e la loro dignità sentono esigenze di critica e di idee. È confortante che questi individui siano in certo modo numerosi, per esempio, più numerosi di quel che non fossero nel Risorgimento. In questo momento sofrono di un pericoloso disorientamento: hanno bisogno di studi seri, di raccoglimento; ma sono una sicura riserva di carattere e di indipendenza per l’Italia di domani. Quei partiti aventiniani che si annunciavano come rappresentanti delle classi medie, come futuri partiti di governo, i partiti di democrazia e in parte i popolari e gli unitari perderanno terreno nel prossimo futuro. Così lo perderanno, l’hanno già perduto, liberali e combattenti: essi mobilitavano dei malcontenti: ma Mussolini è un tattico molto abile nello spostare e convertire malcontenti: oppositori oggi, domani soddisfatti, non si può fare su costoro nessun calcolo politico serio. Le prossime elezioni, che Mussolini saprà preparare con la consueta abilità giolittiana, mostreranno che tutte queste posizioni sono indebolite:

Bilancio

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anche l’Aventino tornerà decimato alla Camera e ne trarranno vantaggi massimalisti e comunisti. Comunque bisogna essere sicuri sin d’ora che con o senza violenze, la prossima Camera sarà – a collegio uninominale – più ida al Duce che la presente. In compenso le opposizioni avranno guadagnato in qualità, disporranno di pattuglie scelte, scaltrite alla diicile lotta, pronte a tutto. L’Aventino ha tutto l’interesse di tornare da una campagna elettorale con un minor numero di deputati: perderà l’attuale pesantezza, potrà combattere con agilità e rapidità. Messe così le cose, deve essere acquisito che la sola riserva solida di ogni nuova politica futura è il movimento operaio. Se intorno all’Aventino si è venuta formando un’élite di giovani che capiscono la situazione, che non si fanno illusioni, essi hanno il dovere di smetterla con le inconcludenti polemiche contro i comunisti che minacciano di diventare un inutile diversivo, di non occuparsi di teoria delle classi medie, di non escogitare astuzie di colpi di mano, ma di lavorare con lealtà per il fronte unico operaio, anche se questo lavoro, per le attuali condizioni di depressione delle masse, non è per dare frutti immediati.

IL FRONTE UNICO1

Il nostro Bilancio ha mosso uno stuolo di polemiche. Una risposta agli attacchi fascisti sarebbe superlua. A un articolo del Mondo, invece, che vorrebbe essere maligno, risponde, ci sembra, suicientemente il fatto che il Mondo si trovi in perfetto accordo col Popolo d’Italia. Non è la prima volta che la cosa succede al giornale romano. Nei giorni in cui certi oppositori molto furbi contavano sul dannunziano Delcroix, il Mondo aiutò dolcemente il tentativo di soprafazione della stampa fascista contro chi aveva smascherato il gioco. Al Mondo sembra ora che articoli come il Bilancio rompano la solidarietà tra oppo1 «La Rivoluzione Liberale», a. IV, n. 23, 7 giugno 1925, p. 94.

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sitori. Evidentemente questa solidarietà è intesa dal Mondo in maniera assai curiosa se a un nostro chiaro articolo in difesa dell’Aventino intransigente si risponde con ripicchi polemici. Su questo terreno quando faremo un altro bilancio potremo ofrire degli elementi assai precisi a chi vorrà giudicare tra la nostra condotta e quella degli amici del Mondo. Ora preferiamo lasciar loro la parte di suocera, e, quasi per fanatismo di disciplina, non rispondere alle insinuazioni che più ci son spiaciute e più ci rendono incerti sulla serietà dei nostri contraddittori. Più interessanti sono invece le lettere private che abbiamo ricevute in questi giorni. Eccone una di un operaio metallurgico: Scarto a priori la questione dell’Aventino cui la massa operaia nulla ha a che vedere né da sperare; ma tutto invece deve compiere lo sforzo supremo per il “fronte unico operaio”. È questo l’unico modo, preciso e chiaro, che potrà ineluttabilmente risolvere tutti i problemi in questione; fattore primo da tutti riconosciuto e messo in discussione Esiste una diferenza, grande diferenza, ed è il modo come esso si interpreta, come si vuole questo fronte unico.

Il Fronte unico

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Ciò posto domando: 1° Cosa intendono per fronte unico 2° Come, in pratica, vogliono arrivarci 3° Da questo cosa può scaturire e crearsi 4° Come servirsene e quale appoggio loro intellettuali gli darebbero? 5° Il fronte unico operaio lo intendono come tale, cioè creazione dei Comitati operai e contadini? 6° Per la conquista del potere o continuare ad essere servi e sfruttati? È a questo che desidero una precisa risposta come io l’ho fatta, da operaio rozzo e ignorante sì, ma con tanta volontà d’istruirsi ed imparare e senza equivoci bene impostare i problemi proletari e saper dire cosa si vuole.

Abbiamo parlato di fronte unico operaio sin dal 1922. Il fascismo è un movimento complesso e importante: sotto ai suoi aspetti... pittoreschi stanno interessi precisi. R. L. lo ha sempre studiato tenendo presenti due criteri: inquadrarlo come fenomeno italiano (sagre, sanfedismo, signoria del Rinascimento, costume politico e morale non europeo), intenderne le basi economiche alla luce di un metodo marxista. Perciò abbiamo parlato sempre di lotta che durerà

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per decenni, che deve svolgersi con assoluta intransigenza, ecc. Se si considerano le classi che oggi partecipano alla lotta politica, il fascismo si può considerare stabile e sicuro. Nessun colpo di mano può fargli paura perché gli uomini capaci di fare un colpo di mano sono nel fascismo. E noi siamo risolutamente nemici di un antifascismo che si fondi sui colpi di mano e sulle congiure. Dunque non si può contare se non sulla partecipazione di nuove forze alla lotta politica. Un movimento di masse porterà nella lotta la franchezza della tattica aperta e della combattività senza quartiere. L’Unità protesta quando noi dichiariamo che il proletariato è ancora in un momento di depressione2. La realtà è che gli operai e i contadini hanno oggi un peso minimo nella lotta politica italiana. Perché? 1. Perché l’ofensiva fascista ha fatto emigrare i più audaci e resi incerti o inoperosi i timidi, anche con l’incubo della disoccupazione. Solo quando il tenore 2 Cfr. La rivoluzione liberale e il fronte unico operaio in «L’Unità», 28 maggio 1925.

Il Fronte unico

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di vita migliora, il proletariato è padrone di tutto il suo spirito di resistenza; 2. Perché la divisione dei tre partiti, inevitabile per circostanze contingenti, allontana molti dalla lotta e consuma l’energia dei partecipanti in lotte intestine. Bisogna lavorare con spirito di lealtà a superare queste divisioni. Noi crediamo che il movimento operaio lasciato alla sua iniziativa, aiutato in buona fede, troverà da sé le vie e gli strumenti della lotta. Con quali ini? Noi non abbiamo nessun limite a priori da proporre: il risultato dipenderà dalla maturità e dalla capacità del movimento. E crediamo in ogni caso che dalla partecipazione operaia alla vita pubblica la chiarezza e l’onestà della politica avrà tutto da guadagnare. Come arrivare al fronte unico? Da parte nostra nessuna pregiudiziale contro i Comitati operai e contadini. L’importante è non farsi illusioni e sapere che si lavora a lunga scadenza per una lotta politica più seria e dignitosa. Intanto il compito di R. L. noi lo vediamo in questo: creare tra i giovani di tutti indistintamente i partiti di massa che

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si oppongono al fascismo un’atmosfera di lealtà critica e una comune volontà di lotta, senza preoccupazioni parlamentari e senza possibilità di compromessi.

LETTERA A PARIGI1

Caro amico2, Forse il tuo giornale non mette il problema italiano nei suoi giusti termini. Lasciamo da parte il caso speciico dei fatti di Firenze3: non ti potrei dire nulla più di quello che sai. Invece può interessarti e illuminarti la mia esperienza e il mio pensiero sul problema centrale che voi sollevate: i dubbi sulla civiltà italiana. L’autorità della mia risposta viene soltanto dalla mia posizione di antifa1 «La Rivoluzione Liberale», a. IV, n. 37, 18 ottobre 1925, p. 149. 2 Non si tratta di una persona speciica, ma di una intestazione generica. 3 Si riferisce alle violenze fasciste della notte del 4 ottobre 1925.

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scista intransigente, antifascista dal 1919 ad oggi e inché vivrò, antifascista che non ha creduto si potesse liquidare il movimento del Mussolini come un problema di polizia, ma l’ha giudicato sin da principio il segno decisivo di una crisi secolare dello spirito italiano, antifascista, come antigiolittiano, quando gli uomini dei ministeri Giolitti, Bonomi, Facta, scherzavano col fascismo per corromperlo e corrompersi, lo armavano, cercavano di utilizzarlo ai loro ini persino nel settembre 1922 con pubblici discorsi. Ti confesso che dal 1919 ad oggi ho sempre pensato al problema dell’unità italiana e della sua funzione europea con commossa trepidazione: l’Italia è una nazione troppo giovane e troppo vecchia e la crisi di tutta l’Europa non manca di essere sentita qui con delicatissima sensibilità. La supericiale retorica dominante dei nostri destini imperiali non giova ad allontanare queste mie preoccupazioni come due anni fa le rudi pretese della politica di Poincaré non giovavano a dissipare i miei dubbi sul futuro dell’Europa. Bisogna amare l’Italia con orgoglio di europei e con l’austera passione dell’esule in patria per capire con

Lettera a Parigi

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quale serena tristezza e inesorabile volontà di sacriicio noi viviamo nella presente realtà fascista sicuri di non cedere e indiferenti a qualunque specie di consolazione. Ma certe crisi totali non sono sempre un segno di decadenza: la Francia ha avuto con Napoleone III un ventennio analogo a quello che per noi si è iniziato e ne è uscita nazione moderna per sempre. Napoleone III aveva una statura diversa, almeno in politica estera, da Mussolini, ma la Francia politicante ed intellettuale dopo il coup d’État non sembrava valere molto più dell’Italia di oggi. Voglio dire che Benedetto Croce potrebbe scrivere con uguale autorità Napoléon le petit come Sturzo riecheggia Montalembert, mentre il duca di Cesarò è riuscito solo per un anno a fare la parte di Odilon Barrot in 32°, meno fortunato di Casertano, Marrast dell’Aventino. Abbiamo anche noi Ledru Rollin, il disarmato capo della Montagna che abbandona l’aula parlamentare e non osa fare l’Antiparlamento e parla di difendere una costituzione che è una larva. Ledru Rollin ha dei momenti comici benché, più logico di Amendola, sappia fare l’11 giugno 1849,

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un atto d’accusa in piena regola, senza sperare in Badoglio-Chargarnier, o in Delcroix orleanista, «col suo seguito di avvocati, di professori, e di eleganti parlatori». E per parlare di cose anche più serie, la Fiat è una Comune in piccolo. Come vedi io non ho rosee speranze: ho detto nel 1922 e ho ripetuto dopo il delitto Matteotti che il fascismo è forte, che non si abbatte con le astuzie parlamentari né con i colpi di mano. Quando i signori dell’Opposizione per ridere speravano l’anno scorso una crisi facile, denunciai quanto fosse ignobile per dei sedicenti democratici giocare sulle soluzioni Delcroix, dittatura militare, dissidio fra fascismo e monarchia. Da quel giorno era facile capire che anche l’Aventino aveva i suoi traditori, la gente del compromesso, del lasciar fare, delle soluzioni comode. L’Aventino nacque come una cosa seria, come il nostro processo Dreyfus: ma cadde subito in mano della Massoneria che lavorava per il compromesso, per la soluzione totalitaria. Poiché è inutile nascondere la verità; l’Aventino fu allora contro la questione morale, cercò di impedire con tutti i mezzi la denuncia Donati. Mentre

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noi facevamo l’opposizione sul serio, altri giocando sul nostro riserbo nel criticarli manovrava e faceva l’opposizione a metà; non si rendeva alcun conto della situazione inesorabile. Siccome costoro continuano a millantare la loro buona fede, essi hanno una sola via per riguadagnare o guadagnare la nostra stima: tornare in Parlamento – poiché così hanno deciso – per fare ogni giorno il loro 11 giugno 1849. L’Aventino che torna in Parlamento per fare della critica tecnica è la più disgustosa e ignobile befa alla nostra buona fede di oppositori non machiavellici. Se a tutto questo io ti aggiungo che come europeo moderno mi riiuto e mi riiuterò per combattere il fascismo, di accettare il terreno delle congiure, delle sette e degli attentati, e che voglio conquistare la libertà di combatterlo apertamente, senza tregue e senza compromessi, tu avrai compreso senza equivoco la natura della mia opposizione. Ed eccoti ora gli argomenti che mi fanno sperare che l’Italia non sia inita come paese moderno e civile. Esiste in Italia nel Nord, specialmente nel triangolo Genova-Torino-Milano, un

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proletariato moderno. Negli anni del bolscevismo questo proletariato non pensava alle scomposte rivolte, pensava di creare un ordine nuovo. Oggi riiuta i vantaggi materiali e la vita tranquilla che gli ofrono le corporazioni fasciste, non cede, non si sottrae alle sue responsabilità e ai suoi pericoli. Bisogna vedere da vicino, come io vedo qui, alla Fiat, la tenacia di questo proletariato. Bisogna rendergli onore. Con la sua intransigenza esso ha conquistato i suoi diritti civili, è degno degli altri proletariati europei; le sue battaglie e i suoi sacriici gli segnano il suo posto di dignità nell’Europa lavoratrice di domani. Invece le classi medie intellettuali hanno ripetuto l’esempio di inconsistenza e di mediocre fronda iancheggiatrice che diedero nella Francia del secondo Impero. Non ti dò nomi perché i nomi sono tutti meschini: che cosa sapresti di più se ti dicessi per es. che il Caggese è il più mediocre esempio di questi semi-uomini transfughi illustri?! Ma esiste in Italia un gruppo di uomini nei partiti e fuori dei partiti, gente che non ha ceduto e non cederà. Albertini dice che rimarremo in duecento, Sforza e Donati

Lettera a Parigi

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che rimarremo in venti. Comunque, anche se pochi, rimarranno come un esempio per la classe politica di domani. Se tu scorri gli elenchi degli abbonati a Rivoluzione Liberale li trovi tutti. La loro rettilinea protesta salva i quadri dell’Italia politica futura. Nessuno di essi diventerà ministro o grande burocrate, ma la dignità con cui si riiutano di essere congiurati come di essere fascisti, salva in tutta una nazione il costume moderno. Negano qualunque concezione paternalistica o totalitaria, resistono al comodo provincialismo; non accettano poverissima pace. Sono minoranza, numericamente, ma incutono rispetto anche al più agguerrito nemico. Tra le illusioni universali il cervello di questi uomini funziona, la folla e il successo non hanno prestigio sulla loro volontà di dirittura, sul loro animo non servile. Se tra gli antifascisti ci saranno dei disertori, se molti oppositori troveranno più comodo combattere il fascismo aderendovi, l’antifascismo che qui ti ho descritto non ne sarà minimamente sorpreso. All’estero noi chiediamo soltanto che l’esistenza di questa fermezza di lotta sia intesa come una garanzia che gli italiani sanno pensare da sé al loro futuro e

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L’autobiograia della nazione

alla loro civiltà. Nella nostra lotta lasciate che riiutiamo ogni alleanza straniera: le nostre malattie e le nostre crisi di coscienza non possiamo curarle che noi. Dobbiamo trovare da soli la nostra giustizia. E questa è la nostra dignità di antifascisti: per essere europei dobbiamo su questo argomento sembrare, comunque la parola ci disgusti, nazionalisti.

INDICE

Introduzione Piero Gobetti e il fascismo Come autobiograia della nazione

5

Nota del curatore

51

Esperienza liberale [V] Fascismo agrario Fascismo e rivoluzione Fascismo e Nazione

53 53 55 56

Uomini e idee [V] Mussolini

59 59

Letture sul fascismo I fascisti

67 67

Note di politica interna La vera crisi

73 73

Note di politica interna [II] Risposta a [M.A. Levi]

81 81

198

L’autobiograia della nazione

Delizie indigene Prima della palingenesi Dopo la palingenesi

83 83 89

La tirannide

95

Questioni di tattica

101

Elogio della ghigliottina

105

Lo storicismo di un mistico. (Postilla)

113

Problemi di libertà

117

Commento quotidiano [II] Elogio di Farinacci Ritratto di Libero Tancredi

121 121 123

Commemorazione

127

Uomini e idee [VIII] Secondo elogio di Farinacci Chi sono i disinteressati?

139 139 143

Uomini e idee [IX] Il Calderone piccolo-borghese Dopo le elezioni

147 147 151

Addomesticati e ribelli La normalizzazione

161 161

Momenti del processo capitalistico (nota)

169

Processo al trasformismo

171

Bilancio

177

Il Fronte unico

183

Lettera a Parigi

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Collana gobettiana Collana diretta e fondata da Pietro Polito

1. Piero Gobetti, Manifesto. 2. G. Dorso, Appello ai meridionali e altri scritti. 3. Piero Gobetti, L’autobiograia della nazione.

Finito di stampare nel mese di settembre 2016 da Digital Team (Fano - PU) per conto di Aras Edizioni srl su carta Bioprima book 85 gr/mq.