Discorsi alla nazione tedesca 9788842069904

I temi dell'Europa, del suo assetto costituzionale, della sua forma di governo; il rapporto tra identità europea e

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Discorsi alla nazione tedesca
 9788842069904

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Biblioteca Universale Laterza 552

© 2003, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2003 Seconda edizione 2005 Traduzione di Gaetano Rametta

Johann Gottlieb Fichte

Discorsi alla nazione tedesca a cura di Gaetano Rametta

Editori Laterza

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel giugno 2005 Poligrafico Dehoniano Stabilimento di Bari per conto della Gius. Laterza & Figli Spa CL 20-6990-3 ISBN 88-420-6990-6

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Introduzione di Gaetano Rametta

a Lia, che sa il perché

Fichte tenne i Discorsi alla nazione tedesca nell’anfiteatro dell’Accademia delle scienze di Berlino, ogni domenica a partire dal 13 dicembre 1807, e così sino al 20 marzo 18081. Il pubblico era costituito da “una numerosa assemblea di signori e signore” della società colta berlinese, mentre per via epistolare il filosofo manteneva i rapporti con personalità del governo prussiano, allora in “esilio” a Memel, nell’estremo nord della Prussia orientale. Le condizioni in cui si svolgevano gli incontri ci vengono riferite dalle memorie di alcuni partecipanti, che sottolineano lo straordinario coraggio di cui Fichte aveva dato prova nel sostenere in conferenze pubbliche la necessità di una rigenerazione spirituale della Germania, come condi1 In attesa della nuova edizione critica, le Reden an die deutsche Nation verranno citate secondo il testo della prima edizione berlinese del 1808, riprodotto nell’edizione a cura di R. Lauth per la “Philosophische Bibliothek” dell’editore Meiner, Hamburg 1978 [d’ora in avanti R]. Su quest’ultimo testo è stata condotta la presente traduzione italiana; i riferimenti a quest’ultima sono preceduti dall’indicazione del discorso in numero romano, seguito dall’indicazione in numero arabo della pagina. Nel panorama delle versioni già esistenti, oltre alle meritorie ma invecchiate traduzioni di E. Burich (Milano-Palermo 1915, rist. 1927 e 1937) e di B. Allason (Torino 1939, quinta rist. 1972), da confrontare la bella traduzione francese di A. Renaut, Discours à la nation allemande, Imprimerie nationale Éditions 1992. Nella presente traduzione, tra parentesi quadre sono indicate le pagine corrispondenti nell’edizione dei Fichtes Werke, a cura di I.H. Fichte, de Gruyter, Berlin 1971, vol. VII, pp. 257-502. Le note contrassegnate da asterisco sono di Fichte; quelle in numero arabo sono mie.

V

zione per la liberazione e il riscatto dalla dominazione straniera2. Le truppe di occupazione francesi sfilavano sotto le finestre della sala in cui le conferenze si svolgevano, e i suoni delle fanfare militari si sovrapponevano alle parole dell’oratore; non soltanto in sala erano presenti informatori francesi, ma persino il censore prussiano assisteva personalmente alle riunioni. Era ancora vivo il ricordo della fucilazione cui era stato sottoposto il libraio Palm, per aver pubblicato un opuscolo di propaganda anti-francese. Il rischio era dunque effettivo, anche se del contingente francese facevano parte, con posizioni di responsabilità, alcuni ex allievi del filosofo3. Ma che cosa aveva portato la situazione a questo punto? È lo stesso Fichte, nel Primo discorso, a presentarci la sua diagnosi. Riallacciandosi esplicitamente alle lezioni sui Tratti fondamentali dell’epoca presente che aveva tenuto a Berlino alcuni anni prima (1804/05), egli sottolinea che i Discorsi vanno intesi come la continuazione di quelle. Come noto, nei Tratti fondamentali Fichte aveva contrassegnato l’epoca presente come quella della “compiuta peccaminosità”, intendendo con ciò indicare la prevalenza di un atteggiamento intellettualistico, volto al perseguimento dell’utilità e del vantaggio immediati nella vita terrena4. Tale atteggiamento era il frutto della critica illuministica alle religioni positive e della conseguente assolutizzazione della conoscenza scientifica, nel senso matematico-quantitativo delle moderne scienze della natura. Si era diffuso dalla Francia alla Germania, ma l’“egoismo” immanentistico di cui esso era promotore si era innestato qui su una situazione politica già di per sé frammentata e 2 Si confronti in particolare la testimonianza di Varnhagen von Ense, riportata in J.G. Fichte im Gespräch, vol. 4 [d’ora in avanti FG], a cura di E. Fuchs, Stuttgart-Bad Cannstatt 1987, pp. 72-74. 3 A questa circostanza, oltre che al crescente isolamento in cui Fichte si sarebbe trovato a causa dell’ostilità di Schleiermacher e dei romantici di Berlino, X. Léon riconduce il fatto che il filosofo patriota non sia stato oggetto di “rappresaglie da parte degli occupanti” (cfr. Fichte et son temps, t. II, Fichte à Berlin (1799-1813), parte 2ª: La lutte pour l’affranchissement national (1806-1813), Paris 1927, pp. 122-124). 4 Cfr. J.G. Fichte, Grundzüge des gegenwärtigen Zeitalters [d’ora in avanti GZ], in Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften [d’ora in avanti GA], a cura di R. Lauth, H. Jacob e H. Gliwitzky, Stuttgart-Bad Cannstatt 1962 sgg., vol. I, 8, pp. 206 sg.; trad. it. I tratti fondamentali dell’epoca presente, a cura di A. Carrano, coll. Fichtiana, Milano 1999, pp. 97 sg. Sulla concezione della storia, cfr. W. Metz, Die Weltgeschichte beim späten Fichte, “Fichte-Studien”, n. 1 (1990), pp. 121-131.

VI

ricca di spinte centrifughe. All’interno di questo quadro, si colloca l’atteggiamento dei diversi Stati tedeschi, e più in generale dei ceti territoriali e dei singoli cittadini, di fronte alle guerre rivoluzionarie prima, e a quelle di Napoleone poi. Fichte cerca di adottare un linguaggio che, sulla scorta di Leo Strauss, potremmo definire “reticente”. In parte per prevenire gli interventi della censura, in parte perché costretto esplicitamente da quest’ultima a modificare termini ed espressioni, egli impiega in molti casi parole quanto più possibile generiche, che non sempre rendono agevole – per un lettore del nostro tempo – identificare i bersagli concreti della sua polemica con la stessa facilità con cui venivano identificati dagli uditori e dai censori dell’epoca. Così avviene per l’uso dell’avverbio irgendwo, “da qualche parte”, nel Primo discorso, quando si tratta di collocare nello spazio il luogo in cui l’“egoismo” è andato completamente distrutto5; così avviene per l’impiego del termine “estero”, con cui di solito (ma non sempre) si intende, in concreto, la Francia.

5 “Là dove oggi, in modo allusivo e indeterminato, si trova ‘il corpo comune’, originariamente c’era, in modo concreto e chiaro, ‘lo Stato’; là dove oggi vengono accusati di debolezza i ‘governi’, originariamente l’accusa era rivolta contro il ‘governo’. Là dove oggi l’aggiunta ‘da qualche parte’ rende incerto quale Stato sia inteso, originariamente si diceva, con diretto riferimento a un singolo Stato: ‘È perché si sono strappati questi legami, dunque, che lo Stato è andato distrutto’. Se è certo che questa proposizione si riferisce a Jena e Auerstädt con le loro disastrose conseguenze, allora è chiaro anche quali sono i rimproveri che più sopra vengono mossi contro ‘un simile governo’. ‘La trascuratezza di tutti i legami mediante i quali la propria sicurezza è collegata alla sicurezza di altri Stati’: è il ritiro della Prussia dalla Prima coalizione, il suo rifiuto di entrare nella Seconda e nella Terza coalizione. ‘Il rifiuto dell’intero di cui esso è parte solo per non essere distolto dalla sua quiete inerte’: è il sacrificio dell’impero da parte della Prussia” (cfr. M. Lehmann, Fichtes Reden an die deutsche Nation vor der preußischen Zensur, “Preußische Jahrbücher”, Bd. 82 (1895), pp. 503 sg.; cit. in FG, p. 122. Il brano in questione è infra, pp. 10-13). Fichte aveva deciso di stampare separatamente i singoli discorsi mano a mano che venivano pronunciati, per raccoglierli quindi in volume. Particolari difficoltà con la censura ebbero l’Ottavo discorso, che però alla fine ricevette l’imprimatur; il Tredicesimo, che andò addirittura smarrito, e che Fichte dovette completamente riscrivere; e il Quattordicesimo, per la cui approvazione Fichte dovette rivolgersi direttamente al primo ministro von Stein. Il Primo discorso, invece, restò bloccato, e venne pubblicato in volume con le modifiche di cui si è appena detto. Sulle travagliate vicende tra Fichte e la censura in rapporto alle Reden, abbiamo potuto consultare anche il prezioso saggio (inedito) di E. Fuchs, Fichtes

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La distruzione dell’egoismo indica dunque la distruzione dell’impero tedesco e, ancora più concretamente, la disfatta subita dalle truppe prussiane nella battaglia di Jena e di Auerstädt. Essa è vista da Fichte come l’esito conseguente del comportamento incerto e oscillante della Prussia, che aveva abbandonato al loro destino i diversi Stati tedeschi con cui formava un’unica compagine, per salvaguardare la propria sicurezza e ottenere magari qualche vantaggio territoriale (come l’acquisizione dell’Hannover a seguito del Trattato di Schönbrunn del 15 dicembre 1805, successivo alla disfatta austriaca nella battaglia di Austerlitz del 2 dicembre dello stesso anno). L’inadeguatezza della politica prussiana si sarebbe manifestata di lì a qualche mese, quando Napoleone avrebbe fatto pagare a caro prezzo l’alleanza coi vincitori, imponendo alla Prussia di chiudere al commercio inglese i propri porti (Trattato di Parigi, 15 febbraio 1806), e al tempo stesso costringendo l’imperatore asburgico Francesco II a dichiarare decaduto il Sacro romano impero germanico (26 agosto 1806). Tale decisione era stata preceduta dalla fondazione della Confederazione del Reno (12 giugno 1806), che raccoglieva in un’unica compagine politica i territori tedeschi alleati dei francesi. Così, la Prussia venne a trovarsi isolata di fronte all’“alleato” francese, e quando sembrò che perfino l’Hannover sarebbe stato restituito all’Inghilterra, la decisione di mobilitare l’esercito e muovere guerra alla Francia giunse come un atto ormai tardivo e senza efficacia: la battaglia di Jena e di Auerstädt (14 ottobre 1806) fornì la testimonianza che la dissoluzione dell’impero – cui la Prussia stessa aveva contribuito col suo atteggiamento, basato solo sul calcolo meschino di qualche vantaggio temporaneo e sul mantenimento della propria sicurezza – si era trasferita all’interno della Prussia6. Per Fichte, l’idea di restare in una Berlino che era in procinto di essere occupata dal vincitore (Napoleone vi entrerà il 27 ottobre) diventa insopportabile. Alla notizia della sconfitta prussiana, egli perciò fugge dalla città, e raggiunge la corte a Königsberg. Nella città di Kant, oltre a pubblicare il saggio su Machiavelli che attirerà l’attenzione del giovane Clausewitz, Fichte tiene un corso di dottrina della scienza nella locale università. Come vedremo, le “Reden an die deutsche Nation” und die Zensur, cui vanno i nostri più vivi ringraziamenti. 6 Cfr. R, pp. 17 sg.; I, pp. 10-12.

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riflessioni condotte in queste lezioni costituiscono lo sfondo indispensabile per intendere adeguatamente le considerazioni di carattere teoretico contenute in particolare nel Settimo discorso. A ogni modo, anche la capitale dell’antica Prussia orientale costituisce un riparo solo temporaneo: l’apertura delle ostilità contro la Russia dello zar Alessandro, culminate nella vittoria napoleonica della battaglia di Friedland (13 giugno 1807), spinge Fichte nuovamente alla fuga e al rientro a Berlino (agosto 1807), dopo che l’umiliazione della Prussia si era estesa, dal terreno militare, a quello politico-diplomatico (pace di Tilsit, luglio 1807). Nella capitale prussiana, ancora priva del governo che a seguito dell’occupazione di Königsberg da parte dei francesi si era ritirato a Memel, Fichte trova il clima politico e spirituale per reagire al quale decide di pronunciare le sue Reden an die deutsche Nation. Ma allora, se tale è la situazione concreta all’interno della quale intendono intervenire i Discorsi, è evidente che la continuità con le lezioni sui Tratti fondamentali dell’epoca presente andrà intesa in modo tutt’altro che lineare. Ciò che con la disfatta della Prussia è andato distrutto, infatti, non è un semplice assetto politico, bensì è il principio stesso del periodo che costituiva l’età “presente” all’epoca dei Grundzüge. La battaglia di Jena e le sue conseguenze producono una rottura epocale, e i Discorsi intendono porsi all’altezza di questa rottura7. A partire dalla sottomissione nei confronti di una “violenza esteriore” quale quella esercitata dai francesi, l’unica possibilità per una via d’uscita è costituita dalla “formazione di un nuovo mondo”. La transizione tra la vecchia e la nuova epoca, tra l’età dell’egoismo dominante – contraddistinta da un Illuminismo che ha emancipato la ragione dall’obbedienza ad autorità estranee, ma che d’altra parte l’ha ridotta a “intelletto sensibile” e calcolante – e l’età nuova, in cui la ragione dovrà estendere la chiarezza guadagnata attraverso il lavoro dell’intelletto alla dimensione propriamente spirituale del soprasensibile, può essere “agita” dal pensiero, e non meramente subita, solo a partire dalla presa di coscienza che la crisi che investe la Germania è una crisi irreversibile sotto il profilo temporale, 7

R, p. 11; I, pp. 5-6.

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e il cui significato va ben al di là dei confini tedeschi, investendo l’Europa nel suo complesso8. I Discorsi sono l’espressione di questa presa di coscienza, e proprio perciò rappresentano un unicum nella produzione filosofica di Fichte. In questi anni, l’attività del filosofo si era andata svolgendo secondo due linee coerenti dal punto di vista della concezione di fondo, ma distinte sotto il profilo dell’articolazione sistematica. Da una parte, abbiamo una sequenza impressionante di esposizioni di dottrina della scienza (la prima della fase berlinese, nel 1801/02; un breve corso nel 1803; addirittura tre cicli nel 1804; le lezioni di Erlangen nel 1805; il corso di Königsberg nel 1807); dall’altra, una serie di conferenze a carattere “popolare”, che comprendono le lezioni sull’“essenza del dotto”, sui caratteri fondamentali dell’epoca presente, e sull’avviamento alla vita beata (tutti e tre questi “corsi” verranno pubblicati a Berlino nel 1806). Dove si collocano le Reden? Esse non costituiscono, palesemente, una esposizione di dottrina della scienza; la loro finalità non è di tipo speculativo, ma immediatamente pratico, operativo. D’altra parte, esse non sono neppure “filosofia popolare”, anche se di quest’ultima possiedono la caratteristica di rivolgersi a un pubblico di non specialisti, e quindi di adottare un linguaggio per quanto possibile non tecnico e d’immediata comprensibilità9. La filosofia popolare espone le concezioni che contraddistinguono la dottrina della scienza, ma non le dimostra in senso rigoroso; mostra come vanno intesi i rapporti tra l’Assoluto e il mondo dei fenomeni, qual è la funzione della coscienza all’interno di questi nessi; spiega quali siano le destinazioni dell’uomo, del dotto; quali siano le articolazioni di fondo della storia, la direzione di marcia delle diverse epoche: ma non dimostra tutto ciò in senso propriamente “genetico”, non riconduce il tutto alle proprie condizioni di possibilità trascendentali, non mostra le stratificazioni ontologiche, il carattere “universale e necessario” dei diversi livelli di essere e di presa di coscienza che lo costituiscono. NonoR, pp. 209-214; XIII, pp. 187-190. Sul concetto fichtiano di “filosofia popolare”, cfr. H. Traub, Johann Gottlieb Fichtes Populärphilosophie, Stuttgart-Bad Cannstatt 1992. 8 9

X

stante i suoi limiti epistemologici, la filosofia popolare resta comunque “filosofia”. Anche se immediatamente volta a intervenire nella vita degli uomini, tuttavia essa non oltrepassa il piano di una scissione tra il filosofo e il suo pubblico, resta una prestazione della “teoria”, che è rivolta a una prassi ma non coincide ancora con questa stessa prassi. Le Reden intendono, invece, essere immediatamente prassi, immediatamente azione. Anch’esse sono senz’altro “filosofia”, ma lo spazio in cui tale filosofia si dispone non è più quello della teoria, ma quello di una pratica e di un esercizio. In questo, le Reden si allacciano al nucleo più profondo della dottrina della scienza, che ha sempre inteso il pensiero come esercizio di libertà, e quindi come modalità intimamente pratica di esercizio della teoria. Ma è proprio il piano su cui si dispone tale praticità del filosofare che con le Reden cambia bruscamente. Non è più dell’intima praticità di un pensiero che si tratta, il punto di partenza dell’esposizione non è più la spontaneità del soggetto pensante che coglie se stesso. È l’instaurazione, la fondazione inaugurale di una nuova comunità di parola e di ascolto, ciò che qui è in gioco innanzitutto. E la costituzione di tale comunità di parola e di ascolto è ciò che va inteso come significato primario dell’idea di nazione. Solo se riusciranno a fondare tale comunità, solo se riusciranno a creare a se stessi le condizioni del proprio ascolto, tali Discorsi potranno dire di essere stati effettivamente tali. Certo, anche questo è un tratto caratteristico di tutto il pensiero di Fichte, della dottrina della scienza così come della filosofia popolare. Ma qui è importante insistere su un’inversione, su un rovesciamento che è al tempo stesso segno di una dislocazione, di uno spostamento di fondo; qui è il dire che assume preminenza sul pensare; o meglio, poiché evidentemente un dire senza pensiero non sarebbe un dire: il pensiero è tutto esercitato e praticato come parola che si rivolge a un ascolto, come un dire che nell’atto di pronunciarsi evoca e con ciò stesso fa emergere la comunità di coloro che sono in grado di accoglierlo e di comprenderlo e, con ciò stesso, di giustificarlo e di confermarlo. Non c’è più né può più esserci scissione tra piano del pensato e piano del detto: la riflessione è immediatamente linguaggio, e il linguaggio diventa atto costituente, istituzione di comunità; il discorso non è più mera trasmissione di contenuti, ma non è più nemmeno semplice XI

comunicazione tra intelligenze diverse. Assieme a tutto ciò, esso possiede valenza eminentemente “performativa”: è momento di evocazione e di appello verso una comunità ancora assente, ma in pari tempo è l’anticipazione nel presente della comunità di là da venire, e perciò rappresenta in modo paradossale la conferma di una fondazione già avvenuta. Così i Discorsi cadono al di fuori della ripartizione tra dottrina della scienza e filosofia popolare, e manifestano una volta di più la pregnanza della categoria fichtiana dello Schweben, di quel librarsi oscillatorio tra ragione e intelletto che, nella Grundlage del 1794/95, costituiva l’attività dell’immaginazione produttiva, e che ora i Discorsi sembrano incorporare nel momento in cui oscillano tra dottrina della scienza e filosofia popolare, senza poter essere catturati all’interno di nessuna di queste due, pur presentando aspetti di entrambe. Ma sarebbe più che fuorviante intendere tali rapporti alla maniera hegeliana di una Aufhebung, di un inglobamento-superamento. Perché tale librarsi dei Discorsi ne segnala in pari tempo l’eccedenza, l’eccezionalità rispetto a entrambe: e questa eccezionalità, questa eccedenza è costituita dal fatto che il pensiero è qui immediatamente dire, che la praticità del pensiero è qui immediatamente atto di parola, anzi addirittura rivendicazione, da parte di colui che parla, del proprio incondizionato diritto a farlo, non in virtù del fatto che egli sia qualificato da qualcosa di diverso rispetto a ciascun altro, ma per il semplice fatto di essere stato il primo ad averlo fatto10. Dall’atto del dire, al suo carattere di fatto; dal suo carattere di fatto, all’autogiustificazione dell’atto in quanto tale: 10 “Qualcuno tra voi potrebbe venir fuori e chiedermi: che cosa dà proprio a te, unico tra tutti gli uomini e gli scrittori tedeschi, il mandato, la vocazione e il privilegio di riunirci e di scagliarti contro di noi? Non avrebbe ciascuno tra le migliaia degli scrittori tedeschi lo stesso diritto che hai tu, ma nessuno di loro lo fa, bensì solo tu salti fuori? Io rispondo, che ciascuno avrebbe avuto senz’altro lo stesso diritto che ho io, e che io lo faccio proprio perché nessuno di loro lo ha fatto prima di me; e che io avrei taciuto, se un altro lo avesse fatto in precedenza. Questo era il primo passo verso la meta di un completo miglioramento; qualcuno doveva farlo. Io sono stato il primo che lo ha capito in modo vivo; perciò sono stato io che l’ho fatto per primo. Dopo questo, qualsiasi altro passo sarà il secondo; adesso tutti hanno lo stesso diritto di farlo; ma, ancora una volta, a farlo davvero sarà soltanto un singolo. Uno deve sempre essere il primo, e chi può esserlo, lo sia!” (R, pp. 231-232; XIV, p. 206).

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è un movimento che ricorda senz’altro quello dell’“atto-fatto” proprio della Tat-Handlung presente nella Grundlage. Ma qui, come si vede, non siamo più sul piano dell’Io che pone se stesso come principio primo della scienza, bensì all’interno di un esercizio di parola, in cui colui che parla si pone innanzitutto come parlante, e ancor più: come colui che rivolge la parola e, nel rivolgere la parola, instaura per anticipazione la comunità cui la parola stessa si rivolge. Fichte insiste, nel Primo discorso, sul fatto che egli si rivolge a tedeschi “semplicemente”, a tedeschi senza alcuna distinzione di ceto, di età, di sesso e di censo. D’altra parte, poco dopo, egli precisa che il suo appello si rivolge anzitutto alla “parte colta dell’intera nazione tedesca”. Si tratta di una contraddizione solo apparente. Come chiarirà in seguito, Fichte ritiene con ciò di produrre un’innovazione rispetto all’andamento della storia tedesca fino a quel momento. Infatti, nel corso della storia tedesca, tutte le spinte innovative erano partite dal “popolo”, e i ceti colti si erano limitati ad assumerle, a metterle in forma, e a ripresentare al popolo le elaborazioni e le proposte che ne erano risultate. Ora invece, per la prima e l’ultima volta, è ai ceti colti che spetta l’iniziativa11: a coloro che vengono raggiunti dalla parola di colui che parla, nel presente immediato dell’anfiteatro dell’Accademia; a coloro che verranno raggiunti dai discorsi stampati di volta in volta, e quindi raccolti in libro, nel seguito. Non occorre soffermarsi qui sull’influenza effettiva che i Discorsi ebbero su alcune tra le più importanti personalità del mondo politico e culturale prussiano dell’epoca, e su come essi contribuirono a formare il clima intellettuale e politico precedente e successivo alle guerre di liberazione12. A parte alcune esasperazioni legate all’ottica particolare della “fonte”, gli atti su Fichte della commissione centrale d’inchiesta istituita dopo i “deliberati Cfr. R, pp. 25-26; I, p. 18. Su questi aspetti, si confronti il recente e pregevole lavoro di H.-J. Becker, Fichtes Idee der Nation und das Judentum, “Fichte-Studien” Supplementa, Amsterdam-Atlanta 2000. Sul rapporto tra Fichte e l’ebraismo, si era già soffermato E. Fuchs, Fichtes Stellung zum Judentum, “Fichte-Studien”, n. 2 (1990), pp. 160-177. Dello stesso autore, da confrontare anche l’articolo Fichtes Einfluß auf seine Studenten in Berlin zum Beginn der Befreiungskriege, ivi, pp. 178-192. 11 12

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di Karlsbad” risultano, su questo punto, assai eloquenti13. Più significativo ci sembra insistere sul fatto che con la designazione del proprio destinatario, Fichte intenda istituire una sorta di circolo virtuoso della responsabilità: all’assunzione di responsabilità da parte di colui che prende la parola, non può non seguire l’appello all’assunzione di una responsabilità corrispondente da parte di coloro cui la parola si rivolge. Solo la chiusura di tale circolo farà sì che il detto sia stato pronunciato effettivamente come “discorso”, e al tempo stesso confermerà che in tale “discorrere” non si trattava semplicemente di rinviare a un’azione futura, ma che tale azione era già cominciata, aveva già celebrato il proprio inizio nella partecipazione, nell’ascolto e nella comprensione di questi Discorsi. Se volessimo scomodare le categorie della moderna scienza politica, potremmo opportunamente parlare in proposito di una rappresentanza di tipo esistenziale, nel senso che Fichte e il suo pubblico non traggono la loro qualifica di rappresentanti della nazione da procedure formali di autorizzazione, bensì dall’atto esistenzialmente concreto di una partecipazione, che a sua volta è partecipazione all’evento concreto di una fondazione. Tale fondazione è fondazione di una comunità, proprio perché si attua nelle vesti di una comune assunzione di responsabilità, da parte di chi rivolge la parola e da parte di chi l’accoglie nell’ascolto. La parola, il dire, il discorso pronunciato e ascoltato, è ciò che istituisce la comunità di cui si tratta. Ma, evidentemente, tutto resterebbe sul piano astruso e ineffettuale di un artificio retorico – e peggio ancora demagogico – se la fondazione si limitasse o addirittura pretendesse di essere una “costruzione”, la creazione dal niente di qualcosa che non esiste ancora. La necessità, l’urgenza che traspare da ogni proposizione 13 Cfr. FG, pp. 87-92. L’assassinio dello scrittore e politico reazionario August von Kotzebue, avvenuto per mano del libraio Karl L. Sand a Mannheim nel marzo del 1819, diede il pretesto alle forze conservatrici raccolte attorno al principe di Metternich e al re di Prussia per rafforzare una politica repressiva nei confronti dei movimenti liberali e patriottici presenti sul territorio della Confederazione tedesca, sorta nel giugno 1815. Nel congresso di Karlsbad (6-31 agosto 1819), vennero decise misure fortemente restrittive della libertà di opinione e di stampa, assieme all’istituzione di una commissione centrale d’inchiesta competente su tutti i territori tedeschi. L’istituzione di tale commissione (8 novembre 1819) segna l’inizio della cosiddetta “persecuzione dei demagoghi”.

XIV

di questi Discorsi basterebbe a mostrarci che non è, che non poteva essere così. La responsabilità è reale ed effettiva solo nel momento in cui essa emerge come risposta liberamente assunta a una urgenza che non è posta dal soggetto, ma che viene a urtarlo e a sospingerlo dall’esterno: e tale Anstoß, tale “urto” impetuoso, accompagnato dal “sentimento” necessario e doloroso della propria limitazione, della propria temporanea impotenza, sappiamo già da cosa sia costituito. Il contraccolpo a questo urto ricevuto dall’esterno, lo abbiamo anch’esso evidenziato a sufficienza: è la presa di parola, l’articolazione in discorso e appello di quel sentimento del dolore che rischierebbe, altrimenti, di condurre a muta e solitaria rassegnazione, oppure a sfacciata e irresponsabile acquiescenza alla violenza estranea temporaneamente dominante. Una prima risposta, e una prima ribellione al dolore provocato dall’esterno, è per Fichte proprio la decisione di tenere e di pronunciare sino alla fine questi discorsi, di lottare ostinatamente contro le circostanze avverse. Ma non basterebbe neppure questo. Con ciò, verrebbe chiarito l’aspetto soggettivo dell’esigenza, l’assunzione personale di una responsabilità, l’ottemperanza a un dovere superiore che si impone con la forza di un appello intimamente sentito e vissuto; ma se fosse solo questo non usciremmo, i Discorsi non uscirebbero da una prestazione meramente soggettiva e perciò stesso illusoria, velleitaria, ineffettuale. Così come la presa di parola non è frutto di una semplice decisione arbitraria, bensì è risposta concreta a una situazione altrettanto concreta; così come i Discorsi sono il frutto di un’assunzione di responsabilità liberamente assunta, però assunta a partire da una situazione rispetto alla quale essi apparivano assolutamente necessari, rispetto alla quale cioè la presa di parola era l’unica concreta possibilità di affermazione e di espressione della propria libertà: allo stesso modo, la comunità di cui viene evocata l’esistenza non può risultare per magia da un atto discorsivo, bensì dovrà già essere o essere stata presente nella realtà, cosicché la presa di parola possa sì inaugurarla, ma nella modalità di richiamare all’essere ciò che si era stratificato nel passato, ciò che il presente stava rendendo irriconoscibile, e ciò che soltanto il futuro avrebbe potuto condurre a rinnovata conferma. I Discorsi assumono dunque una collocazione oscillante anche sotto il profilo della loro determinazione temporale: sono indiXV

scutibilmente pronunciati in un presente che ha i caratteri della più pressante urgenza e della più dura oggettività; ma la comunità che essi inaugurano può essere presente solo in quanto si disloca in un tempo che è diverso rispetto al presente effettivamente vigente. Per questo, essi si protendono innanzitutto verso il futuro, verso generazioni di là da venire; però al tempo stesso verso generazioni che incorporano il futuro come complesso di aspirazioni attuali, che vibrano e fanno vibrare il cuore di un presente altrimenti tutto da cancellare. L’appello ai “giovani” del Quattordicesimo discorso, che tanto scalpore susciterà nei censori della commissione centrale14, è in questo senso cruciale per tutta l’economia delle Reden. Non è soltanto uno dei tanti vertici letterari di questo testo, per noi ancora più difficile da leggere perché sempre sul punto di apparire come mero esercizio retorico, e di una retorica troppo spesso sbilanciata in senso enfatico, troppo spesso protesa al limite dell’iperbole e perciò stesso di un rovesciamento dal sublime nel suo opposto. Quell’appello è anche una cifra dello Schweben che caratterizza i Discorsi sotto il profilo della loro orientazione temporale. Il presente in cui essi si dispongono è un presente che oscilla tra passato e futuro, che si protende al futuro di nuove generazioni, con l’obiettivo di una “rigenerazione” completa dell’intero genere umano; ma è un presente che si rivolge anche al passato, però non a “tutto” il passato, bensì a quei momenti della storia trascorsa che prefigurano nel loro essere-accaduti il futuro che ancora dovrà essere, che trova in loro l’antici14 Secondo costoro, i Discorsi “aspiravano a riunire la gioventù tedesca in una comunità indipendente dai singoli governi, con l’obiettivo di operare per la rigenerazione della Germania. La situazione politica di allora [inverno 1807/08] procurò accesso a simili idee anche presso la generazione più anziana” (FG, pp. 88 sg.). Non solo: la commissione scorge nella festa della Wartburg, che si tenne nell’ottobre del 1817 come celebrazione della Riforma e della battaglia di Lipsia, il risultato conseguente della diffusione, tra studenti e professori delle università tedesche, delle idee sviluppate nei Discorsi: “Attraverso questa festa, l’idea di una Germania unita e rinnovata venne richiamata a nuova vita; l’illusione che Fichte istillò nei giovani già nell’anno 1808, secondo cui essi sarebbero chiamati a operare, per la posterità, un miglioramento della situazione pubblica deteriorata dai loro padri, venne esasperata da insegnanti e scrittori fino a un grado di arroganza difficile da credere” (ivi, p. 89). Ricordiamo che, in quell’occasione, i discorsi di studenti e professori vennero accompagnati dal rogo di libri a contenuto reazionario.

XVI

pazione di cui ha bisogno per non ridursi a mera speranza e consolatoria illusione, e che d’altra parte sarà l’unico a poterlo riscattare dalle sue stesse sofferenze, dalle sue stesse speranze andate deluse15. Vi è dunque, all’origine dei Discorsi, la risposta a un’urgenza, a una sollecitazione e a un dolore posti dall’esterno; ma vi è anche il richiamo a un qualcosa di già-stato, di non-prodotto dal soggetto che parla, e che colui che parla intende portare alla luce, ricondurre nuovamente a linguaggio per coloro ai quali si rivolge: i quali sono i presenti, i partecipanti alla fondazione della nuova comunità, che è già in atto nell’esercizio della presa di parola e del suo ascolto, nell’esperienza partecipativa della comunicazione; ma d’altra parte è presente nella modalità di un non-ancora, è presenza di una comunità prefigurata, effettuale in quanto anticipazione di ciò che sarà, dovrà essere solo in avvenire, e dunque è ancora assente. Perciò l’appello ai presenti non può non essere in pari tempo appello ai futuri, alle nuove generazioni di un’umanità completamente rinnovata, per il cui avvento i Discorsi iniziano a creare le condizioni “qui e ora”, nel presente. È stata giustamente sottolineata la dimensione “profetica” del pensiero di Fichte16; e certo, questo “librarsi” delle Reden in un tempo che non coincide con nessuna delle tre dimensioni tradizionali, che le raccoglie tutte nell’evento del discorso, senza però sussumerle nella sintesi di alcuna Aufhebung, bensì al contrario le ripristina nella concretezza di un raccordo che le mantiene nella tensione della loro reciproca differenza, della loro specifica distanza – tutto questo è senz’altro omogeneo a un profetismo “cristiano”, di cui Fichte ha ripetutamente rivendicato la conformità con i tratti costitutivi della dottrina della scienza. Per noi, qui, si tratta però di sottolineare la specificità delle Reden non solo e non tanto come evento “profetico”, ma come atto concretamente politico, orientato alla costituzione di una comunità intesa come sogCfr. R, pp. 235-236, 242-244; XIV, pp. 208-209, 215-216. Cfr. R. Lauth, Filosofia e profezia, in Id., Il pensiero trascendentale della libertà. Interpretazioni di Fichte, a cura di M. Ivaldo, coll. Fichtiana, Milano 1996, pp. 285-326. Emblematica da questo punto di vista la citazione biblica da Ezechiele, alla fine del Terzo discorso (R, pp. 57 sg.; III, pp. 46 sg.), su cui cfr. Becker, Fichtes Idee der Nation cit., pp. 168-171. 15 16

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getto collettivo capace di azione condivisa e di risposta concreta alle esigenze di una situazione palesemente “eccezionale”, in cui cioè ne va dell’esistenza e della permanenza del “tutto” di cui ciascuno fa parte, e di cui si tratta infine di esplicitare la determinazione concreta. Essa evidentemente è costituita, per Fichte, dal “tratto comune” di ciò che è tedesco17. È questo “tratto comune” che deve essere posto in luce, che bisogna ricondurre a linguaggio, per trasformarlo in sostanza di un nuovo legame e di un “nuovo mondo”. Da una parte, tale “tratto comune” andrà innanzitutto assunto, e non costruito; ma dall’altra, esso potrà emergere solo a partire dalla condivisione di una ben determinata presa di coscienza, attuata da parte di coloro che in quel tratto comune si riconoscono, e che a partire da questo riconoscimento lo istituiscono appunto come tale, come orizzonte condiviso, e che in essi si articola e si dispiega nella dimensione della pluralità. Ancora una volta torniamo al carattere costituente e inaugurale proprio dei Discorsi: il tratto comune è ciò a partire da cui può istituirsi la “nazione”, ma solo a partire dal momento in cui esso venga riconosciuto, comunicato e partecipato “in quanto tale”. E proprio qui, forse, è possibile trovare lo scarto che sembra distinguere l’idea di “nazione” dal concetto di “popolo”. Se non ci sbagliamo, Fichte non presenta mai, nelle Reden, una definizione esplicita di ciò che bisogna intendere per “nazione”, mentre troviamo ben due definizioni relative al concetto di “popolo”. La prima compare nel Quarto discorso, in un contesto ipotetico e del tutto privo di forzature retoriche: Se chiamiamo un popolo gli uomini che subiscono i medesimi influssi esterni sull’organo vocale, e che sviluppano il loro linguaggio in comunicazione continua, allora dobbiamo dire che la lingua di questo popolo è necessariamente così come è, e non è propriamente questo popolo che esprime la sua conoscenza, bensì è la sua conoscenza stessa che si esprime a partire da esso (R, p. 62; IV, pp. 51 sg.). 17 “solo il fondamentale tratto comune di ciò che è tedesco potrà scongiurare il tramonto della nostra nazione nella sua confluenza con l’estero” (R, p. 13; I, pp. 7 sg.).

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È abbastanza sorprendente, crediamo, notare il carattere “passivo” che spicca in questa definizione del “popolo”. Da un lato, abbiamo la dimensione della passività in rapporto agli influssi ambientali che si esercitano sugli organi della fonazione, della produzione sonora del linguaggio. Dall’altro, abbiamo l’inversione rispetto alla determinazione corrente dei rapporti tra soggetto e predicato della conoscenza: attraverso il linguaggio, non è tanto il popolo a fungere da soggetto produttivo in rapporto al proprio patrimonio di concetti e di idee, bensì al contrario sono queste conoscenze a essere veicolate per il tramite del popolo che parla un determinato linguaggio, sono queste idee che si esprimono attraverso di esso, e che dunque lo plasmano, lo formano o, per usare un termine altrove impiegato da Fichte: lo “fanno”. Viceversa, non dovrebbe neppure essere sottolineata, ormai, la totale assenza, in questa definizione, di ogni dimensione “etnica” o razziale. Non solo, ma come viene precisato all’inizio di questo stesso Quarto discorso, tutti i popoli dell’Europa moderna sono frutto di mescolanze tra ceppi di provenienza diversa, e ciò non vale solo per i “Germani” che hanno abbandonato le sedi della loro residenza originaria, ma anche per i “tedeschi”, cioè per quei Germani che sono rimasti sul suolo della madrepatria. Ma appunto: la dimensione del “suolo” è ciò che viene sottolineata come radicalmente irrilevante per la costituzione dell’identità di un popolo. Il clima, la natura, l’ambiente in generale non sono aspetti che possano vincolare lo spirito a una sede o a un luogo determinati e fissati una volta per tutte18. Anzi, ciò che dovrebbe colpire, in questa definizione, è il carattere plurale che costituisce il “popolo” 18 “Tra i cambiamenti indicati [...] il cambiamento di patria è del tutto insignificante. L’uomo si ambienta facilmente sotto qualunque striscia di cielo, e la peculiarità del popolo, lungi dall’essere molto modificata dalla sede stanziale, al contrario domina quest’ultima e la modifica in conformità con sé [...] Altrettanto poco si può attribuire un peso alla circostanza che nei territori conquistati i popoli di provenienza germanica si siano mescolati con i precedenti abitanti [...] la stessa mescolanza che all’estero ebbe luogo con Galli, Cantabri, eccetera avvenne in misura certo non inferiore nella madrepatria con gli Slavi; cosicché nessuno dei popoli sorti dai Germani potrebbe dimostrare al giorno d’oggi una maggiore purezza della sua provenienza rispetto agli altri” (R, pp. 60 sg.; IV, p. 50). L’altro cambiamento, che risulta invece essenziale, è quello della lingua, “poiché gli uomini vengono formati dalla lingua molto più di quanto la lingua venga formata dagli uomini” (R, p. 61; IV, p. 50).

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nella sua costituzione materiale; e tale carattere plurale è essenziale proprio in rapporto alla dimensione, questa sì decisiva, della comunicazione e del linguaggio. Quest’ultimo si sviluppa nella “comunicazione continua” tra uomini, in base alla quale si stratifica una rete di consuetudini e di costumi comuni; viceversa, in un rapporto scambievole di determinazione reciproca, la lingua permea di sé quella che oggi chiameremmo la “mentalità” condivisa da parte di una comunità di parlanti, che in questo processo di reciproca determinazione tra cultura e linguaggio vengono plasmati e si plasmano in un’identità dinamica e aperta. La seconda definizione di “popolo” si trova nell’Ottavo discorso, che come abbiamo visto fu tra i più osteggiati da parte della censura. Qui Fichte chiarisce che la riappropriazione del soprasensibile da parte della ragione non deve essere scambiata per un atteggiamento di sottovalutazione e di abbandono delle vicende che coinvolgono l’uomo su questa terra. “Al contrario – egli scrive – nell’ordine normale delle cose, la vita terrena deve essere essa stessa veramente vita, di cui si possa gioire e godere con gratitudine”, a tal punto che lo stesso “senso religioso” non deve essere inteso come rivolto esclusivamente alla dimensione metasensibile del “mondo degli spiriti” e dell’esistenza ultraterrena, ma deve innanzitutto permeare proprio la vita che si svolge “quaggiù”: L’impulso dell’uomo, cui si può rinunciare solo in caso di vera necessità, è di trovare il cielo già su questa terra, e di immettere ciò che dura in eterno nella sua opera terrena quotidiana; è di piantare e di coltivare nel tempo ciò che non passa (R, p. 126; VIII, p. 112)19.

Tuttavia, quest’aspirazione alla creazione di qualcosa di eterno all’interno del tempo, ha bisogno di una sorta di “pegno”, di una promessa oggettivamente presente di eternità: e questa promessa 19 Ma evidentemente, ciò non sarebbe possibile senza la libertà. Ed è per questo, come scrive Fichte, che “il senso religioso consiste innanzi tutto nell’insorgere contro la schiavitù e, se lo si può impedire, nel non fare scadere la religione a mera consolazione dei prigionieri [...] dobbiamo impedire che qualcuno trasformi la terra in un inferno, per poter suscitare una nostalgia tanto più grande del cielo” (R, p. 126; VIII, pp. 111 sg.).

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di eternità, nel senso della durata di un’opera attraverso l’avvicendarsi delle diverse generazioni, è appunto ciò che costituisce il concetto di “popolo” nella sua accezione più alta: nel significato superiore della parola, inteso dal punto di vista della concezione di un mondo spirituale in generale, un popolo è il tutto degli uomini che sopravvivono insieme in società, e che si generano con continuità da se stessi in senso naturale e spirituale (R, p. 128; VIII, p. 113).

A partire da tale “significato superiore”, è possibile leggere e interpretare meglio la definizione contenuta nel Quarto discorso. Il linguaggio è la prima dimensione attraverso cui si fonda e si consolida l’identità di una comunità. Tale comunità è costituita innanzitutto come comunità di parlanti, ed è perciò contraddistinta da una dimensione di pluralità, in cui i diversi soggetti sviluppano un primo strato d’identità condivisa attraverso l’uso di una lingua comune. Quest’ultima si sviluppa nella “continuità” di uno scambio comunicativo, che per mantenere le potenzialità creative della lingua deve procedere, secondo Fichte, ininterrottamente da una generazione all’altra. L’interruzione di questa continuità nello sviluppo linguistico costituisce la fondamentale differenza tra i tedeschi e gli altri popoli “esteri”, che si sono dovuti appropriare di una lingua “estranea” (il latino) e hanno con ciò spezzato per sempre il flusso continuo dei rapporti tra immediatezza vivente dell’esperienza e risorse creative di produzione simbolica incorporate nel linguaggio. Tale rottura nei rapporti tra la vita “originaria” e il linguaggio implica, secondo Fichte, che le lingue romanze siano lingue “vive” solo in apparenza, ma in realtà siano “morte alla radice”. Ora, ciò si riflette sul “popolo” nella sua accezione più alta, cioè come “garanzia” e promessa di eternità intraterrena per le opere del singolo che ne fa parte. In un popolo dalla lingua “viva”, la connessione tra dimensione “sensibile” e dimensione “soprasensibile” o astratta del linguaggio può dispiegarsi dinamicamente attraverso un ampliamento progressivo della sfera di designazione dei singoli termini, in cui, dal significato “letterale” riferito a un fenomeno sensibile concreto, si sviluppa per allargamento e incremento una designazione di tipo metaforico e “simXXI

bolico”20, con la quale dapprima il singolo pensatore amplia il pat rimonio dei significati incorporati in singoli termini e ambiti della lingua, e quindi il poeta estende all’universo complessivo del linguaggio l’ampliamento originariamente introdotto dalla filosofia. Così, in un popolo “originario”, il patrimonio dei concetti e delle conoscenze “astratte” si sviluppa non solo in diretto contatto con l’immediatezza originaria e le esperienze concretamente vissute dal “popolo”, ma anche attraverso un circuito di reciproco arricchimento tra pensiero e poesia. Anzi, in queste condizioni, lo stesso pensatore è necessariamente anche poeta, poiché ogni atto innovativo di pensiero corrisponde a un ampliamento della capacità di designazione simbolica del linguaggio, a un allargamento nello spettro dei significati propri della lingua, e con ciò all’incremento della potenza conoscitiva dell’“intelletto comune” che da quella lingua è permeato e formato21. Ma appunto: ciò che un popolo “originario” rende possibile, è esattamente l’opposto di una fusione indistinta del singolo nel “popolo”. L’originarietà del popolo è piuttosto ciò che dovrebbe prevenire la possibilità di una siffatta comunità, in cui le diverse singolarità verrebbero assorbite e annullate in un unico “corpo” collettivo. L’originarietà del popolo in questione è infatti la condizione che rende possibile e apre a ciascuno la possibilità di agire in conformità alla propria destinazione, alla qualità e alle disposizioni dei propri talenti e capacità. In altri termini, “originario” in Fichte non è ciò che orienta indietro alla ricerca di un remoto “inizio” nel passato, né tanto meno ciò che dovrebbe spingere il singolo nelle braccia di una “comunità popolare” centrata su appartenenza di sangue, di suolo e, magari, di dialetto. Al con20 Di particolare rilevanza l’esempio portato da Fichte, relativo al termine Gesicht, qui tradotto con “visione”, ma che per Fichte è l’equivalente propriamente tedesco della parola di derivazione greca “idea” (R, pp. 64 sg.; IV, pp. 53 sg.). Sul nesso tra percezione dei Gesichter e filosofia fichtiana della creatività storica, cfr. R. Lauth, Einleitung alla sopra citata ed. tedesca delle Reden, ora disponibile in traduzione italiana col titolo La concezione fichtiana della storia, in Il pensiero trascendentale della libertà cit., pp. 347-372. 21 Cfr. R, pp. 80 sg.; V, p. 68. Sulla lingua come ciò “che nel suo ambito connette tutta la moltitudine di uomini che la parlano in un unico intelletto comune; che è il vero punto di confluenza reciproca del mondo sensibile e di quello degli spiriti, e fonde così intimamente i loro estremi che non si può più dire a quale dei due essa appartenga”, cfr. R, p. 73; IV, pp. 60 sg.

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trario, se intesa in questo senso, allora l’accezione di “originario” in Fichte non ha nulla a che fare con qualcosa di primigenio, anteriore, primordiale. Non siamo, insomma, di fronte a un pensiero del radicamento e della sua nostalgia, perché “origine” non è ciò che sospinge a ritroso verso il passato, bensì ciò che apre al futuro; non è ciò che compatta i “tratti comuni” in un’identità indifferenziata e cupamente contratta, bensì ciò che schiude a ciascuno la possibilità di creare ciò che è “nuovo”, ciò che “non è mai ancora esistito”. Ora, tenendo conto della stratificazione di senso che costituisce il concetto di “popolo”, che ne è dell’idea di “nazione”? La nazione scaturisce dalla presa di coscienza di ciò che il popolo è nella sua configurazione linguistica e storica; è il popolo divenuto cosciente di sé come orizzonte condiviso della vita di ciascuno che parli la stessa lingua, condivida le stesse tradizioni, sia stato formato a partire dalla medesima religione. In questa presa di coscienza sta appunto lo scarto, il “di più” che è proprio dell’idea di nazione, e che forse proprio per questo non viene da Fichte mai esplicitamente “definita”. Dire “che cos’è” una nazione, infatti, comporterebbe la ripetizione di quei “tratti comuni” che già costituiscono l’identità di un popolo, che ne contraddistinguono, come scrive Fichte, il “carattere nazionale”. Ma appunto: la presa di coscienza che innalza il popolo a nazione sta esattamente nella enunciazione, nella selezione, nella messa in evidenza di ciò che il popolo “già” è nell’immediatezza del suo essere e vivere, ma che in questa immediatezza non è ancora saputo e riflesso “in quanto tale”. D’altra parte, se costitutiva della nazione è la presa di coscienza di ciò che un popolo è “in quanto tale”, evidentemente al cuore della nazione si manifesta un nucleo irriducibile a descrizione, che però neppure si nasconde nel misticismo di un invisibile absconditus. Esso si rivela come inoggettivabile, ma perciò come tanto più essenziale e tanto più reale, quanto più concreta sarà la presa di coscienza che lo manifesta nel suo pronunciarsi, nel suo prodursi e comunicarsi. La presa di coscienza che inaugura la nazione è l’atto filosofico a partire da cui il popolo si instaura come comunità politica, e che come tale non può essere rappresentato in un complesso di qualità statiche e oggettive, bensì può essere soltanto agito, praticato e partecipato. Ma allora, torniamo alla dimensione per cui la presa di coscienza, dal momento in cui sia fonXXIII

dazione inaugurale di comunità, non potrà che praticarsi ed essere innanzitutto presa di parola, assunzione di responsabilità come diritto a dire, coraggio di rivolgere un appello alla comunità che prefigura il genere umano di là da venire. In questo nocciolo filosofico sta dunque il carattere della nazione come idea, il suo carattere strutturalmente aperto “all’infinito”. Così, la “nazione” in senso fichtiano non può e non sarebbe mai potuta essere intesa in chiave “nazionalistica”, poiché essa è prefigurazione di un’umanità a venire. La nazione “tedesca” ha soltanto il compito di anticipare nel presente l’avvento dell’umanità futura, dopo che la patria dell’Illuminismo e della rivoluzione ha “tradito” l’idea che la muoveva, cioè l’idea di libertà22. Proprio nel momento dell’angoscia e della difficoltà più grandi, la nazione tedesca è chiamata ad assumere la responsabilità che l’ora storica le affida, e che consiste nella riapertura del flusso tra dimensione sensibile-materiale e dimensione soprasensibile-spirituale dell’esperienza. In questo senso, proiettare su Fichte l’antitesi cosmopolitismo-nazionalismo sarebbe, riteniamo, del tutto fuorviante23. La nazione è in sé proiettata verso una dimensione di universalità che non è di tipo geo-politico, ma che risale al nocciolo ideale che la fonda, il quale a sua volta è costituito dall’idea di libertà come capacità di configurare la realtà in forme sempre nuove, da parte di sempre nuove creazioni. E queste creazioni, è necessario riba22 Su questi aspetti, cfr. i lavori di C. De Pascale raccolti nel volume Vivere in società, agire nella storia. Libertà, diritto, storia in Fichte, coll. Fichtiana, Milano 2001; da vedere in particolare La filosofia della storia nei primi anni berlinesi: le origini teoriche dei “Discorsi alla nazione tedesca” (ivi, pp. 127-202), e Il primato della Germania nei “Discorsi alla nazione tedesca” (ivi, pp. 203-229). 23 Al tema Kosmopolitismus und Nationalidee è dedicato il n. 2 delle “FichteStudien” sopra citato: cfr. in particolare i contributi di I. Radrizzani, Ist Fichtes Modell des Kosmopolitismus pluralistisch?, pp. 7-19; P. Oesterreich, Politische Philosophie oder Demagogie? Zur rhetorischen Metakritik von Fichtes “Reden an die deutsche Nation”, pp. 74-88; R. Schottky, Fichtes Nationalstaatsgedanke auf der Grundlage unveröffentlicher Manuskripte von 1807, pp. 111-137. Da vedere anche la discussione svolta sul numero successivo tra G. Geismann, Fichtes “Aufhebung” des Rechtsstaates, e lo stesso Schottky, Rechtsstaat und Kulturstaat bei Fichte. Eine Erwiderung, “Fichte-Studien”, n. 3 (1991), rispettivamente pp. 86-117 e pp. 118-153. Per uno sguardo oltre l’ambito strettamente specialistico, infine, cfr. E. Balibar, Fichte e la frontiera interna. A proposito dei “Discorsi alla nazione tedesca”, in La paura delle masse. Politica e filosofia prima e dopo Marx, trad. it. di A. Catone, Milano 2001, pp. 74-89.

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dirlo, non sono il frutto di uno “spirito del popolo”, ma di ciascun singolo che, attraverso l’“ambiente spirituale” in cui ha vissuto, abbia ricevuto la possibilità di realizzare degnamente la propria destinazione, di esprimere in tutta la possibile ricchezza e versatilità le sue inclinazioni, le sue qualità, i suoi talenti. D’altra parte, se la nazione contiene al proprio interno un rimando insopprimibile all’idea di libertà; se questo rinvio all’idea di libertà non è il richiamo a un’infinità agognata e mai raggiunta, ma la fonte da cui scaturisce, per ciascun singolo, la possibilità di creare ciò che “non è ancora mai esistito”, di vivere creativamente la propria esistenza “quaggiù”; se ciò implica che chiunque, “ovunque sia nato e qualunque lingua parli” (R, p. 122; VII, p. 107), appartiene al popolo “originario”, purché viva e operi a partire dall’idea di libertà, a partire dalla convinzione razionale nella possibilità di configurare il fenomeno, la realtà esistente in forme sempre nuove e differenti, mobili e diverse; se, infine, chiunque faccia parte della comunità di chi vive a partire dall’idea di libertà deve essere disposto a garantire, a difendere e a lottare per la difesa della libertà di tutti, perché di questi egli stesso è parte integrante – se tutto questo è vero, allora non solo la chiusura nei propri confini e nella propria “zolla di terra” è incompatibile con ciò che è “tedesco”, ma proprio la nazione tedesca in senso fichtiano era quella che meno di ogni altra avrebbe potuto pretendere di affermarsi come “potenza” politica contro gli altri popoli europei; era quella che meno di ogni altra avrebbe dovuto intendere la propria realizzazione in termini di “Stato nazionale”. E ciò, non solo per le tendenze espansionistiche che caratterizzarono quest’ultimo nella Germania di fine Ottocento, ma per il modo in cui questo tipo di organizzazione costituzionale, centrata sul concetto di “potere” come forma di attuazione dell’unità politica, ha dominato la scena della storia europea, e mondiale, fin dentro al secondo Novecento24. Tutto ciò che comporta riduzione di differenze, semplificazione di articolazioni, chiusura del “fenomeno” in “figure” che si vogliano compiute una volta per sempre, è per principio incompatibile con la dottrina della scienza, e con l’idea di nazione che da questa deriva. 24 Per una ricostruzione in chiave storico-concettuale, cfr. G. Duso (a cura di), Il potere. Per la storia della filosofia politica moderna, Roma 1999; Id., La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica, Roma-Bari 1999.

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Arriviamo così ad affrontare, sia pure in estrema sintesi, il nucleo teoretico di questi Discorsi, per come esso è esposto da Fichte nel Settimo discorso. Qui egli cerca di riassumere il nocciolo ontologico della dottrina della scienza come unica filosofia coerente con ciò che costituisce il “carattere nazionale” del popolo tedesco. Al centro di tale concezione figura l’idea che la realtà empiricamente presente non sia un tutto materiale autosussistente, bensì che il suo significato più profondo sia costituito dal suo essere “mezzo” e “condizione” per la manifestazione della libertà. Ora però, a differenza di come poteva apparire dalla dottrina della scienza del periodo di Jena, tale libertà non è la semplice espressione della spontaneità condotta a consapevolezza di sé da parte dell’Io che pone se stesso, e che con ciò tende a esprimere se stesso subordinando la realtà data ai suoi propri fini. Al contrario, nella libertà dell’Io, di ciascuna singola autocoscienza, si manifesta la presenza di un Principio, che la fede religiosa esprime come Dio vivente, e la filosofia come Assoluto eternamente in atto, e che proprio perciò non può fare a meno di manifestarsi al di fuori di sé. Ma qui sta il punto essenziale, il nodo a partire da cui si consumò la rottura tra Fichte e Schelling: tale rapporto tra l’Assoluto e ciò che appare “al di fuori” di esso, infatti, non può essere inteso né semplicemente, alla maniera di Spinoza e del primo Schelling, come risultato di un’autodeterminazione necessaria, ciò che annullerebbe la libertà sia dell’Assoluto sia della sua manifestazione; né come risultato di una “caduta” e di una scissione “per iato”, come nello Schelling di Filosofia e religione. In quest’ultimo caso, l’introduzione della libertà coinciderebbe con la perdita totale della razionalità, della capacità di comprendere geneticamente il nesso Assoluto-fenomeno. L’unica possibilità che resta, per Fichte, è invece quella di porre la libertà come ciò mediante cui lo snodo tra Assoluto e fenomeno si realizza, mantenendo in pari tempo l’ulteriorità del primo rispetto alla sua manifestazione, e d’altra parte salvando la razionalità della filosofia intesa in senso trascendentale. La libertà così compresa, però, non può più essere ricondotta al semplice libero arbitrio, come oscillazione indefinita tra possibilità alternative: essa stessa andrà intesa, invece, come capacità di autodeterminazione, che però non dipende deterministicamente né dalla totalità delle circostanze di volta in volta presenti, né dall’autoXXVI

svolgimento necessario di un Assoluto inteso come onnicomprensiva “natura”. La libertà emerge allora come principio interno del fenomeno, e modalità primaria di manifestazione dell’Assoluto. Poiché quest’ultimo esprime quanto nella realtà esistente non si lascia esaurire da questa, Fichte impiega ora l’espressione “di più” (Mehr) per indicare l’eccedenza che di volta in volta si rivela all’interno della configurazione assunta dal mondo in un momento dato. Abbiamo da un lato l’Assoluto, come principio inesauribile di “vita”, intesa quest’ultima innanzitutto come “facoltà” di creazione sotto il profilo ideale e spirituale; abbiamo dall’altro una configurazione del mondo che si presenta come data, come il frutto e il prodotto di una serie concomitante di atti di libertà e di circostanze condizionanti, che hanno condotto il mondo a ciò che esso è in quel dato momento. La questione è dunque: si dà un’esperienza in cui si esprima il raccordo tra l’Assoluto, come scaturigine trascendentale della “vita”, e il mondo come configurazione temporaneamente chiusa di fenomeni? La risposta di Fichte è affermativa, e corrisponde all’esperienza della libertà. E l’atto in cui tale esperienza si manifesta è costituito per lui dal fenomeno che, sempre nel Settimo discorso, viene chiamato “decisione della volontà”. La decisione è l’atto in cui l’oscillazione tra possibilità diverse, tra le quali si libra l’arbitrio, è arrestata, e viene dato inizio a un corso d’azione che sviluppa il contenuto della decisione assunta. Ora, se la decisione è “libera”, tale contenuto non si lascia derivare da nessuna circostanza esterna all’atto della decisione stessa. Tuttavia, la decisione è espressione di libertà in senso “originario” solo se in essa si manifesta quel “di più”, che è la modalità mediante cui l’Assoluto emerge, rispetto al mondo inteso come intero complessivo di fenomeni. Tale “di più” irrompe nel mondo proprio attraverso la decisione che scaturisce dalla volontà, a patto però che in essa quel “di più” si esprima come tale, in altri termini a patto che essa sia conforme alla originaria produttività che costituisce la dimensione propria dell’Assoluto25. 25 Lo sfondo delle considerazioni condotte nel Settimo discorso è costituito dall’elaborazione del nesso tra Assoluto e fenomeno, che Fichte aveva sviluppato nel corso di dottrina della scienza tenuto a Königsberg, nell’inverno del 1807. Di particolare rilevanza appaiono, al riguardo, le lezioni 16-18, su cui cfr.

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Abbiamo appena visto come, sotto il profilo formale, il “di più” della vita originaria scaturisca come indeducibilità della decisione assunta di volta in volta rispetto alla totalità delle condizioni presenti, si manifesti per differenza e per sottrazione rispetto alla realtà che è data in un certo momento. Ma proprio perciò, essa è tutt’altro che “arbitraria”. Nel momento in cui raccoglie l’istanza della libertà all’altezza della situazione concretamente determinata nello spazio e nel tempo, la decisione appare al tempo stesso come imprescindibile, e con ciò necessaria: di una necessità però che non attiene alla sua dipendenza da fenomeni empiricamente dati, ma all’assunzione di una responsabilità che risponde all’imperiosa esigenza di affermare la libertà, di esprimere e di potenziare la creatività propria della “vita originaria”. È così che, all’orizzonte della filosofia trascendentale, si presenta la possibilità di un raccordo tra il carattere “iniziale” della “decisione della volontà”, in cui l’“essenza” stessa irrompe nel fenomeno, e la decisione storicamente determinata, cui la nazione tedesca è chiamata da parte della presa di parola che si esprime e si realizza nei Discorsi26. L’assunzione di una responsabilità condivisa è l’istanza che può nuovamente annodare il rapporto tra Assoluto come vita originaria e flusso fenomenico come sua manifestazione. Ma l’accoglimento dell’appello a prendere posizione non è soltanto ciò da cui dipende la tenuta ontologica del nesso che stringe in un tutto vita assoluta e mondo dei fenomeni. Esso è anche ciò da cui dipende la “riuscita” della transizione tra terza e quarta epoca della storia universale, il passaggio effettivo tra la “peccaminosità”, che coincide con la negazione della libertà e l’affermazione di un determinismo universale, e la ritrovata “chiarezza” di un’apertura alle istanze della potenza liberamente creatrice dello spirito. E proprio qui sta il carattere arrischiato della posta in gioco: la decisione infatti è necessaria, ma l’ordine della sua necessità pertiene a un orizzonte diverso rispetto a quello dell’essere. Piuttosto, la necessità di cui qui si tratta è dell’ordine dell’esigenza, dell’ottemperanza a un dovere e a un’istanza più alti J.G. Fichte, GA, II, 10, pp. 157-164; trad. it. Dottrina della scienza. Esposizione del 1807, a cura di G. Rametta, Milano 1995, pp. 97-111. 26 Cfr. R, pp. 229 sg.; XIV, p. 204.

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del semplice vantaggio immediato, della convenienza opportunistica e meschina. Ma proprio perché tale decisione risponde a una necessità che attiene alla sfera della responsabilità e non del puro e semplice “essere”, essa è anche radicalmente infondata, inderivabile da premesse date, da circostanze più o meno condizionanti. Essa comporta un distacco, una recisione, una sottrazione rispetto al mondo così come è dato, e al tempo stesso implica un porsi oltre di esso, un proiettarsi nel presente verso ciò che è ancora assente. D’altra parte, proprio perché è dell’ordine della responsabilità, e non dell’essere dato “qui e ora”, essa riveste carattere irriducibilmente ontologico: non è espressione di un’inclinazione meramente soggettiva, poiché in essa ne va del rapporto tra Assoluto e fenomeno, ne va del carattere stesso del mondo in quanto “apparizione” della vita originaria, in quanto condizione e “mezzo” per la manifestazione della libertà (non nel senso strumentale, ma di ciò “mediante” e “attraverso” cui la libertà può continuare a esprimersi in rinnovate creazioni, può configurare secondo forme diverse l’essere dato di volta in volta). È all’altezza di questo nesso tra ontologia, politica e responsabilità che deve essere assunta la critica al modello di “monarchia universale”, che secondo Fichte minacciava l’Europa in modo sempre più incombente dopo la pace di Tilsit27. Di qui l’inimicizia senza quartiere verso colui che Fichte in altro luogo chiama il “senza nome”, verso colui che nella forma dell’impero post-rivoluzionario intende amalgamare tutti i popoli d’Europa in un’unica cultura, in un unico stile di vita e modello di civiltà. La Germania, la “nazione tedesca”, hanno le risorse per opporre a tale modello quello di un ordinamento repubblicano, che nelle libere città del Medioevo è apparso come congeniale e specifico dell’esperienza storica tedesca. Qui, i liberi comuni hanno dimostrato una concordia interna sconosciuta alle contemporanee città libere d’Italia, evidenziando con ciò la strutturale affinità tra nazione tedesca e ordinamenti repubblicani. Sarebbe vano ricercare, all’interno delle Reden, un modello compiuto di assetto costituzionale. Ma è chiaro che l’esperienza repubblicana alla quale Fichte 27 Su questo aspetto, cfr. ancora R. Lauth, Der letzte Grund von Fichtes “Reden an die deutsche Nation”, “Fichte-Studien”, n. 4 (1992), pp. 197-230.

XXIX

si richiama è caratterizzata da un assetto irriducibilmente plurale di corpi costituiti, basati sulla capacità di autogovernarsi e autoamministrarsi da parte dei cittadini. Per questo, al di là della tenuta storica delle analisi fichtiane, al di là delle evidenti forzature in rapporto alla storia e alla civiltà degli altri Paesi europei, ciò che è importante è che la libertà, il nocciolo ontologico fondamentale dell’intera concezione della dottrina della scienza, abbia trovato nella storia tedesca una forma congeniale di ordinamento politico, abbia scoperto in essa una “nazione” che ha dimostrato, nella concreta “effettualità” della sua storia, la possibilità di una coesistenza tra esperienza di autogoverno, pluralità di corpi politici autonomamente costituiti, e raccordo di questi ultimi in un nesso reciproco basato sul riconoscimento di una comune appartenenza alla compagine, o meglio, alla “federazione imperiale” (Reichsverband)28. In quest’ultima, la nazione tedesca si era data uno spazio comune privo di un potere sovrano centralizzato, ma convergente nel riconoscimento di un’autorità condivisa, il cui significato non era dell’ordine della sovranità e del potere moderni, ma era innanzitutto dell’ordine del simbolo, della giustizia e del governo29. Tuttavia, Fichte è ben lontano dalla rievocazione nostalgica di un passato ideale, e la sua attenzione, a differenza di quella dei “romantici” a lui contemporanei, non va alla figura di re e imperatori, bensì all’esperienza di quegli organismi di autogoverno che si erano istituiti in liberi comuni, e avevano come loro ceto portante la borghesia cittadina delle attività imprenditoriali e delle professioni civiche. È a questo ceto che Fichte riconduce le grandi conquiste della storia tedesca, culminate nella Riforma luterana, e interrotte proprio a causa delle rivalità territoriali dei principi tedeschi, che per la loro ambizione e “avidità” hanno prima schiacciato l’autonomia delle città libere, e poi hanno aperto 28 Per un primo inquadramento del concetto in chiave storico-costituzionale, cfr. H. Mohnhaupt-D. Grimm, Verfassung. Zur Geschichte des Begriffs von der Antike bis zur Gegenwart, Berlin 1995, il § VII del primo studio: Kleine Organisationseinheiten und staatlicher Gesamtverband, pp. 53-62; per il dibattito successivo al 1789, cfr. ivi, § XII.2: Lob und Tadel der Reichsverfassung in der zeitgenossischen Publizistik, pp. 83-88. 29 Su questi aspetti, cfr. in particolare G. Duso, Fine del governo e nascita del potere, in La logica del potere cit., pp. 55-85; e in proiezione contemporanea, Considerazioni su democrazia e federalismo, ivi, pp. 160-189.

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la strada all’intervento dell’“estero” nelle vicende interne della Germania. Con la guerra dei Trent’anni, insomma, inizia per Fichte quel periodo di frammentazione e di perdita progressiva dei legami comuni, che renderà la Germania “oggetto” di politica da parte delle grandi potenze europee. Ma proprio ora, nell’istante più cupo della sua storia, la “nazione tedesca” può ritrovare la risorsa a partire da cui sarà possibile, per essa, ricostruirsi su basi interamente nuove: e tale risorsa altro non è che la filosofia tedesca a partire da Leibniz, condotta alla sua svolta decisiva da Kant, e condotta infine a compimento nella dottrina della scienza dello stesso Fichte30. Così, l’appello ai “ceti colti” della Germania non ha il significato ristretto di un appello rivolto in chiave esclusiva a coloro che sono dislocati sul territorio tedesco, e neppure è rivolto soltanto a coloro che parlano la lingua tedesca. Piuttosto, il riferimento più ampio è costituito dai ceti colti e dai “dotti” dell’intera Europa del tempo, affinché comprendano il pericolo rappresentato dai progetti imperiali di costruzione di una “monarchia universale” da parte di Napoleone. Al tempo stesso, esso è però, in quanto appello, necessariamente legato a una prospettiva futura, prospettiva che deve trovare le sue condizioni di attuazione nel presente. Con ciò, arriviamo infine a toccare il problema del “mezzo”, che Fichte proclama come l’unico possibile, ma anche quello sicuramente efficace, per aprire la via alla ricostituzione della Germania come “nazione” (non come Stato), e al tempo stesso per riaprire all’Europa, attraverso la prefigurazione e l’esempio del popolo tedesco, la via per la riappropriazione della sua libertà e della sua vocazione spirituale. Abbiamo visto come la valorizzazione del “tratto comune” di ciò che è tedesco richieda una presa di coscienza, che è essenziale al costituirsi della nazione come comunità d’intenti e di azione. In tal senso, l’atto filosofico della “visione” è costituente, è originariamente produttivo non perché inventi o crei artificialmente 30 Sull’interpretazione fichtiana di Leibniz, cfr. M. Ivaldo, Fichte e Leibniz. La comprensione trascendentale della monadologia, Milano 2000; per alcune indicazioni sul rapporto tra Fichte e Kant, rinviamo al nostro Le strutture speculative della dottrina della scienza. Il pensiero di J.G. Fichte negli anni 1801-1807, Genova 1995.

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dal nulla qualcosa che non esiste, bensì appunto in quanto mette in luce, porta alla visione e alla parola ciò che costituisce il tratto comune “in quanto tale”. La salvaguardia di ciò che è tedesco dalla “confluenza con l’estero” è innanzitutto la salvaguardia delle differenze dalla loro riconduzione a una unità globale e omogenea, dalla loro sottomissione a un unico potere e a un’unica sovranità. In questo senso, la “monarchia universale” paventata da Fichte sarebbe stata il dispiegamento della logica moderna della sovranità sull’intera scala europea, e poca importanza avrebbe avuto, a quel punto, l’affermazione dell’eguaglianza come universale principio giuridico, stabilita in base al Codice civile da poco approvato. Infatti, in questo caso, si sarebbe trattato soltanto di un’eguaglianza risultante e prodotta dalla sottomissione a un unico e identico potere, di un’eguaglianza del livellamento, dell’assimilazione, dell’omogeneità. Al tempo stesso, impedire la “confluenza con l’estero” significa mantenere aperta la faglia della crisi, salvaguardare la possibilità di un “passaggio” che, dalla rottura epocale segnata dalla catastrofe dell’egoismo, conduca alla soglia di un “tempo nuovo”, di una nuova e più matura affermazione della libertà. Ma appunto, il carattere “critico” del momento presente richiede che le condizioni dell’umanità futura si preparino fin da ora, che fin da ora si predispongano gli uomini che quella transizione dovranno realizzare, che quella nuova umanità dovranno intanto anticipare. È qui che l’esposizione deve fare un salto, deve mutare il suo accento. Per cogliere esattamente il “mezzo” di cui c’è bisogno, è necessario cioè abbandonare il tono della recriminazione, del rimprovero, dell’imputazione di responsabilità e di colpe. La considerazione deve passare, dal piano del giudizio etico, dell’assoluzione o della condanna per qualcosa che comunque si è ormai consumato, al piano della considerazione storica, che assume ciò che si è compiuto nel suo carattere di necessità, che intende spiegarne le ragioni, e a partire da tale comprensione intende ricercare i nuovi mezzi per rimediare alla situazione ormai vigente31. Ora, alla considerazione storica il crollo dell’egoismo appare al tempo stesso come la definitiva rottura, come il logoramento ir31

Cfr. R, p. 16; I, p. 10.

XXXII

reversibile di quei legami che prima stringevano assieme i singoli in un intero. Qui non si tratta dei vincoli istituzionali, ma delle motivazioni interiori, delle spinte profonde che spingevano ciascuno a obbedire a una medesima autorità, a ritenersi parte di un medesimo corpo comune. Tali molle, tali impulsi altro non erano che la “paura” e la “speranza”, e questi stimoli potenti erano rivolti sia alla vita terrena, sia al destino futuro del singolo in un’esistenza ultraterrena32. Il timore della punizione e la speranza in un avvenire migliore, sia nell’al di qua sia nell’aldilà, era ciò che motivava gli individui a ottemperare ai propri doveri, a obbedire alle leggi, a rispettare le autorità secolari e religiose. Ma proprio questi stimoli, ora, per i tedeschi sono venuti meno. Essendo per essi ormai tutto perduto, non c’è più nulla che gli uomini possano temere; e d’altra parte, rispetto alla vita ultraterrena, l’Illuminismo ha contribuito a dissolvere i vincoli che facevano innalzare lo sguardo dell’uomo verso il cielo, che ne regolavano il comportamento a partire dal timore per una punizione che sarebbe durata per sempre, e dalla speranza in una remunerazione che infine avrebbe premiato il giusto. È dalla perdita di efficacia di siffatti stimoli eteronomi, dal disincanto prodotto dall’Illuminismo, che è necessario partire per rifondare il tutto ora dissolto. Si tratta cioè di riprendere l’iniziativa dal punto in cui l’Illuminismo si è fermato, di non arrestarsi all’opera negativa e distruttrice del suo intelletto, ma di considerare la distruzione avvenuta come l’aprirsi di una possibilità nuova. Avendo dissolto i vincoli della paura e della speranza, infatti, l’Illuminismo ha liberato lo spazio per la creazione di un “Sé” più alto. È questo Sé più alto che si tratta, per Fichte, di “formare” a partire da un’educazione interamente nuova, che abbia a sua guida le conquiste operate dalla teoria e dagli esperimenti compiuti da Pestalozzi, ma soprattutto che incorpori al proprio interno la visione della libertà, pervenuta a coscienza di sé nella filosofia propriamente “tedesca”, cioè nella dottrina della scienza. Il programma fichtiano della nuova educazione nazionale, che formi un “Sé assolutamente nuovo [...] generale e nazionale” (R, p. 21; I, p. 15), non è dunque il progetto di un ritorno al di qua dell’Illuminismo, bensì al contrario dell’Illumi32

R, pp. 19 sg.; I, pp. 13 sg.

XXXIII

nismo esso intende raccogliere il potenziale liberatorio, e trasformarlo in un progetto di emancipazione universalmente condiviso, tale cioè da predisporre il singolo a valorizzare le proprie capacità di creazione, e al tempo stesso da innestare tali capacità nella rete dell’“intelletto comune” proprio della nazione. Così, l’educazione nazionale appare a Fichte come l’unica possibile proposta conseguente alla presa di parola e all’assunzione di responsabilità da parte della filosofia, da parte del “singolo” che a quest’ultima ha dato voce e parola. Se i Discorsi alla nazione tedesca devono essere, come abbiamo visto, un nuovo inizio, la fondazione di un rinnovato corpo comune, allora l’educazione nazionale ne è il risvolto necessario in termini di progetto concretamente politico, orientato cioè alla formazione di un soggetto di azione collettiva, di un Sé “generale”. Salta agli occhi la “modernità” e la “progressività” del progetto fichtiano33: azzeramento dei ceti, dei privilegi di nascita e di censo, accesso universale ed egualitario a una formazione a vocazione spiccatamente universalistica, in cui la scommessa, che Fichte cercherà di mostrare in tutti i suoi dettagli nel blocco dei discorsi 9-11, è quella di formare un corpo collettivo di eguali, in cui però l’eguaglianza non sia il segno di un appiattimento delle differenze, bensì al contrario valorizzazione delle diversità, delle propensioni, dei talenti. È perciò che essa si rivolge anzitutto alla formazione della “volontà”, in quanto sorgente delle “decisioni” da cui verrà a dipendere l’intera esistenza del singolo e del corpo comune di cui farà parte. Abbiamo l’eredità di Rousseau, ma innestata sulla svolta trascendentale iniziata da Kant, e condotta al suo compimento nella dottrina della scienza dello stesso Fichte. Certo, qui troviamo anche un insieme di concetti che sembrano 33 “In quanto Fichte apre i suoi discorsi osservando che egli parla ‘per tedeschi semplicemente, di tedeschi semplicemente, senza riconoscere, ma anzi mettendo assolutamente da parte e rigettando tutte quelle distinzioni laceranti, che eventi infelici hanno provocato da secoli nella nazione’ [...] egli indica l’unico appoggio per sollevarsi da questo abbattimento nella ‘creazione di un ordine di cose interamente nuovo’, nella formazione della nazione in un ‘Sé interamente nuovo, generale, nazionale’, nell’educazione di essa in quanto tale, senza riguardo a uno Stato particolare, mediante la formazione del fondamentale tratto comune di ciò che è tedesco”: così già la commissione centrale d’inchiesta (FG, p. 90).

XXXIV

destinati a seguire nel suo tramonto l’epoca nella quale furono formulati. Però forse, in essi, c’è anche qualcosa “di più”. Innestare l’educazione sulla base della dottrina della scienza, significa anzitutto l’impossibilità di una separazione tra volontà e visione, significa creare le condizioni perché, in ciascuno, tale intreccio tra “volontà pura” e “visione chiara” si sviluppi e si ampli conformemente alle proprie disposizioni e facoltà. Significa insomma, in pari tempo, che l’educazione è educazione alla creazione, allo sviluppo di un Sé libero, e al tempo stesso capace di riannodare, nell’esercizio di questa sua libertà, la condivisione di ciò che è “comune”, di espandere l’orizzonte per l’agire insieme dei singoli. Significa infine educare alla pratica di un’esperienza politica che non è più, non può più essere quella del potere moderno, dello Stato sovrano centrato sul nesso comando-autorizzazione-obbedienza. Le molle che facevano funzionare questo “meccanismo” erano proprio quelle della paura e della speranza: ma ora questi stimoli hanno fatto, letteralmente, il loro “tempo”34. Così non è più possibile immaginare neppure un’opposizione dicotomica fra interno ed esterno, fra “legalità” del comportamento esteriore e intima “moralità” dell’intenzione, che andrebbe considerata irrilevante dal punto di vista della prima. È proprio tutto questo a essere crollato con l’egoismo, è l’insufficienza stessa della bipartizione kantiana che con ciò si è manifestata. Allo stesso modo, Fichte intende scongiurare l’interiorizzazione rousseauiana della scissione tra pubblico e privato, tra l’amor proprio dell’individuo come “particolare”, e la volontà generale operante in quello stesso individuo come “cittadino”. È per questo che, nella nuova formazione, la stessa libertà dovrà confluire in una più alta necessità: si tratta di formare una volontà che non possa più volere diversamente da come vuole, e che in questo non poter più volere altrimenti da come ha voluto una volta, scopra l’attuazione suprema della propria destinazione e della propria stessa libertà. Così, al superamento dell’assetto kantiano basato sulla separazione tra morale e diritto, tra eticità “interna” e legalità “esterna”, si accompagna il superamento dell’aporia rousseauiana tra bour34 Per la critica della logica interna alla scienza politica moderna, cfr. R, pp. 109-113; VII, pp. 95-98.

XXXV

geois e citoyen; alla paura e alla speranza come fonti di obbedienza a un potere eteronomo, viene sostituito un Sé “generale”, di una comunità di azione che non ha più bisogno né dell’una né dell’altra, perché ha in se stessa la fonte delle proprie decisioni, ha in se stessa la forza per sostenerle e per condividerle, perché ha in se stessa l’“amore” per l’idea del giusto, che in sé ha cancellato la paura e la speranza. Ma allora, è evidente che l’unico ordinamento politico adatto a questa forma di soggettività messa in comune, di questo vero e proprio corpo collettivo, non potrà che essere l’ordinamento repubblicano35; benché, per la loro stessa natura, nei Discorsi tale ordinamento sia più evocato che concettualmente determinato. Qui le Reden evidenziano il carattere di utopia concreta su cui ha insistito Ernst Bloch, quando ha parlato del significato “normativo” spettante ai “superlativi” così spesso impiegati nelle Reden36. La concretezza di tale utopia si rivela forse anche nel suo essere produttiva in rapporto a una lettura non del tutto scontata dei fenomeni cui l’Europa si trova posta di fronte al giorno d’oggi. È sicuramente improprio accostare la “monarchia universale”, che per Fichte costituiva la minaccia che gravava sull’Europa del suo tempo, ai processi attualmente in atto sul piano della cosiddetta “globalizzazione”; però è anche vero che nella critica alla monarchia universale emerge una linea di pensiero che sembra già anticipare la crisi dell’assetto statuale moderno, basato su un’antropologia di tipo “hobbesiano”, in cui la paura la fa da padrona, e la speranza altro non è che il suo risvolto, ovvero ciò che deve aiutare l’uomo a sopportarla. L’ordinamento repubblicano non è, abbia35 “il tendere alla repubblica [Hinstreben zur Republik] in quanto Stato perfetto, che la nazione tedesca sarebbe l’unica in grado di sostenere tra tutte le nazioni dell’Europa moderna, verso la quale il popolo deve essere formato, della quale deve essere reso degno [...] Questa è la strada per l’obiettivo prefisso, alla quale Fichte accenna nei suoi Discorsi, e queste sono anche le idee di fondo di tutte le associazioni, movimenti e iniziative del periodo successivo” (dal medesimo rapporto della censura citato alla nota 33, FG, p. 91). Stando così le cose, è comprensibile che la seconda edizione delle Reden non abbia potuto essere pubblicata in Prussia. 36 Cfr. E. Bloch, Fichtes Reden an die deutsche Nation, in Politische Messungen, WA, Bd. 11, Frankfurt am Main 1970, pp. 300-312. Per un commento all’interpretazione di Bloch, cfr. ancora Becker, Fichtes Idee der Nation cit., pp. 358-362.

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mo detto, concettualmente determinato; però l’esempio storico, a partire dal quale Fichte ce lo presenta, incarna un modello di autogoverno e di autoamministrazione, di corpi costituiti, di città libere che sono tali in quanto si riconoscono come compartecipi di uno spazio comune, che era sì quello del “Sacro romano impero della nazione germanica”, ma che nel modo in cui viene illustrato da Fichte può senz’altro fornire spunti utili – più che alla rievocazione nostalgica di un passato storico che già per lui era sepolto per sempre, e che del resto era ben lontano dal soddisfare la sua idea di “Stato secondo ragione” – a ripensare il nostro “futuro” di oggigiorno, a elaborare ulteriormente quella che nella teoria politica è ormai emersa come esigenza di un nuovo rapporto tra pensiero repubblicano, federalismo e democrazia, in grado di far fronte alla crisi irreversibile degli Stati nazionali, e al tempo stesso di raccogliere l’istanza insopprimibile del riconoscimento delle differenze, che va di pari passo con le richieste sempre più urgenti, e sempre più estese su scala planetaria, di un’effettiva partecipazione e codecisione. È vero, l’idea di “nazione” è stata, nella vicenda della modernità che comincia con la Rivoluzione francese, indissolubilmente collegata alla costituzione degli Stati nazionali, si è rivelata un concetto funzionale all’espansione e alla realizzazione, sul concreto piano degli assetti politici e costituzionali, del progetto della scienza politica moderna, centrata sulle nozioni di sovranità, autorizzazione e rappresentanza. In questo senso, ciò che in Fichte, sulla scorta di Bloch, potremmo definire il carattere “normativo” della nazione è stato riassorbito e probabilmente fagocitato per sempre dalla “realtà effettuale” dello Stato moderno, o al massimo è riemerso, al declinare del Novecento, come ossessione fantasmatica di una rivendicazione di libertà che si è coattivamente riprodotta in termini di “nazionalismo”, e che altrettanto coattivamente è sfociata in guerre e massacri. Al contrario, però, se della “nazione” fichtiana cogliamo la dimensione della ricerca di un legame che stringa i singoli in una esperienza di libertà condivisa, senza paura e senza speranza, ma nell’“amore” per la giustizia, allora forse qualcosa torna a parlarci. Ricordiamo che quando Fichte allude alla sua vicenda dopo la “disputa sull’ateismo”, che si concluse con l’abbandono dell’università di Jena e con l’accoglimento del filosofo nella città di Berlino, egli sottolinea come ciò che costituiva la peculiarità della “feXXXVII

derazione” tedesca fosse la libertà di comunicazione e di movimento, che consentiva a ciascuno di trovare ospitalità in un luogo diverso da quello che, per diverse ragioni, aveva abbandonato, restando però all’interno del medesimo spazio comune, senza diventare insomma un “apolide” e un escluso37. Tale spazio, basato su una comune appartenenza linguistica e culturale, e strutturato a partire da un comune riferimento alla costituzione dell’impero, era apparso per molti decenni compatibile con l’esperienza repubblicana delle città libere, e costituisce per Fichte lo sfondo storico della sua opposizione all’instaurazione, da parte di Napoleone, di una “monarchia universale”, che oltre a rendere impossibile l’ospitalità per chi fosse entrato in contrasto col detentore del potere sovrano, avrebbe condotto al dispiegamento senza residui della forma-Stato moderna, modellata sull’ossessione per l’unità politica. Sarebbe insensato ricercare, nelle Reden, delle indicazioni “pratiche” di modelli costituzionali, non solo per la distanza temporale che ci separa da esse, ma soprattutto perché questo non era il loro intento neppure al tempo in cui vennero pronunciate, e fra tante difficoltà pubblicate. Ma ricercare in esse un’interrogazione, il tentativo di battere una nuova via, il carattere esemplare di un’assunzione di responsabilità da parte della filosofia, anzi da parte del filosofo come singolarità che “decide” e pratica una presa di parola, e che con ciò provoca comunque una rottura, dà comunque avvio a un nuovo inizio, al di là degli esiti ulteriori del suo dire: forse, questo dalla lettura delle Reden è ancora lecito aspettarselo. 37

Cfr. R, pp. 139 sg.; VIII, pp. 123-124.

Discorsi alla nazione tedesca

Prefazione

[259] I seguenti discorsi sono stati tenuti a Berlino nell’inverno 1807/08 in una serie di lezioni come continuazione dei Tratti fondamentali dell’epoca presente esposti in quella stessa città, e stampati nel 1806 per la stessa casa editrice. Ciò che con essi e mediante essi andava detto al pubblico, è enunciato da loro stessi, e quindi non ci sarebbe bisogno di alcuna prefazione. Ma poiché nel frattempo, a causa delle vicende che hanno accompagnato la stampa di questi discorsi, si è prodotto uno spazio vuoto da riempire, io lo riempio con qualcosa che in parte è già stato approvato dalla censura e stampato altrove, che è richiamato dall’occasione che ha provocato la lacuna in questione, e che in generale potrebbe trovare applicazione anche qui, mentre io rimando in particolare alla conclusione del Dodicesimo discorso, che riguarda lo stesso argomento1. Berlino, aprile 1808

Fichte 1 “A causa delle obiezioni della censura contro il Primo discorso, la stampa era cominciata col Secondo discorso, ed era stato lasciato libero lo spazio previsto per il Primo discorso. Poiché questo occupava meno spazio del previsto, Fichte lo fece precedere da due sezioni tratte dal suo articolo su Machiavelli (cfr. GA, I, 9, pp. 211 sgg.), e da una tratta dai dialoghi sul patriottismo e il suo contrario (cfr. GA, II, 9, pp. 387 sgg.)” (Fuchs, Fichtes “Reden” cit.). Il lettore italiano può trovare la traduzione dei primi due testi in J.G. Fichte - C. von Clausewitz, Sul Principe di Machiavelli, a cura di G.F. Frigo, Ferrara 1990, rispettivamente a pp. 114 sg. e pp. 61-64.

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Primo discorso

Considerazioni preliminari e sguardo d’insieme

[264] Ho annunciato i discorsi che mi accingo a iniziare come continuazione delle lezioni che ho tenuto proprio qui tre anni fa, e che sono state pubblicate col titolo Tratti fondamentali dell’epoca presente. In quelle lezioni avevo mostrato che il nostro tempo si trova nella terza età principale di tutto il tempo universale, età che ha come stimolo di tutte le sue attività e movimenti vitali il semplice interesse sensibile; che lo stimolo suddetto costituisce l’unica possibilità nella quale il tempo presente concepisce e comprende perfettamente se stesso; e che da questa chiara visione della sua essenza, esso viene profondamente fondato e incrollabilmente rafforzato in questa sua stessa essenza vivente1. Il tempo con noi procede con passi da gigante, più di quanto abbia mai fatto con una qualsiasi altra epoca da quando esiste una storia universale. Nei tre anni trascorsi dalla mia interpretazione dell’età in corso, questa sezione si è da qualche parte perfettamente esaurita e conclusa. Da qualche parte, l’egoismo si è distrutto mediante il suo completo sviluppo, poiché nel frattempo ha perduto il suo Sé e l’indipendenza di questo; e a quell’egoismo, poiché non voleva porsi di buon grado nessun altro scopo che se stesso, un simile scopo altro ed estraneo è stato imposto da una violenza esteriore. Chi ha cominciato a interpretare il proprio 1

Cfr. in particolare GZ, lez. 2, pp. 205-218 (trad. it., cit., pp. 95-113).

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tempo deve accompagnare, con la sua interpretazione, anche il suo procedere, se il tempo ne acquista uno; e così, di fronte allo stesso pubblico cui ho indicato qualcosa come presente, diventa per me doveroso riconoscere questo stesso qualcosa come passato, nel momento in cui ha smesso di essere il presente2. Ciò che ha perduto la sua indipendenza, ha in pari tempo [265] perduto la facoltà di intervenire nel flusso del tempo, e di determinarne liberamente il contenuto; se persiste in questa condizione, il suo tempo, ed esso stesso assieme a questo suo tempo, viene diretto dalla violenza estranea che comanda sul suo destino; d’ora in poi, esso non ha più un proprio tempo, bensì conta i suoi anni secondo gli eventi e le età di popolazioni e imperi estranei. Esso potrebbe sollevarsi da questa condizione, in cui tutto il mondo trascorso è sfuggito al suo intervento spontaneo, e nel quale gli è rimasta solo la gloria dell’obbedienza, soltanto a condizione che per esso sorga un nuovo mondo3. Con la creazione di quest’ultimo, esso potrebbe cominciare un’età nuova e a esso propria, riempiendola con la continua formazione di quel mondo. Tuttavia, poiché ormai esso è assoggettato a una violenza estranea, questo nuovo mondo dovrebbe essere costituito in modo tale da rimanere impercettibile a quella violenza, e da non stimolarne in alcun modo l’invidia; anzi, in modo tale che questa sia spinta dal suo proprio vantaggio a non porre alcun ostacolo alla configurazione di un simile mondo. Se ora, per una stirpe che ha perduto il suo Sé, il suo tempo e il suo mondo precedenti, dovesse esserci un mondo così costituito, come mezzo per la generazione di un nuovo Sé e di un nuovo tempo, allora a un’interpretazione poliedrica 2 Leggi: il particolarismo degli Stati e dei singoli ceti e individui tedeschi ha condotto la Germania al suo crollo, evidenziando le conseguenze dell’“egoismo” come tratto fondamentale dell’età moderna; la “violenza esteriore” è quella esercitata dal dominio francese dopo la battaglia di Jena. Ciò comporta una modificazione fondamentale del quadro storico, e impone una nuova interpretazione dell’epoca in corso, giustificando anche da questo punto di vista l’impresa delle Reden. 3 Il “nuovo mondo” in questione è stato dischiuso all’orizzonte dello “spirito” dalla “nuova creazione” costituita dalla dottrina della scienza; la sua realizzazione nella “realtà effettiva”, però, esigerà la predisposizione di determinati “mezzi”, il principale dei quali sarà appunto un nuovo tipo di “educazione nazionale”.

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anche del tempo possibile spetterebbe di presentare questo mondo così costituito. Ora, da parte mia, io ritengo che un mondo simile esista, e lo scopo di questi discorsi è di mostrare a voi la sua esistenza e il suo vero possessore, di recare innanzi ai vostri occhi una sua immagine vivente, e di indicarvi i mezzi della sua generazione. Così, dunque, tali discorsi saranno una continuazione delle lezioni tenute in passato sul tempo allora presente, poiché essi riveleranno la nuova epoca, che potrà e dovrà seguire immediatamente alla distruzione dell’impero dell’egoismo da parte di una violenza estranea. Ma prima di iniziare, devo invitarvi a presupporre, perché non vi passi mai di mente [266], e a concordare con me, nella misura in cui è necessario, i punti seguenti: 1) Io parlo per tedeschi semplicemente, di tedeschi semplicemente, senza riconoscere, ma anzi mettendo assolutamente da parte e rigettando tutte quelle distinzioni laceranti, che eventi infelici hanno provocato da secoli nella nazione4. Voi, Onorevole Assemblea, al mio occhio corporeo siete senz’altro i primi e immediati rappresentanti che mi rendete presenti le amate caratteristiche nazionali, e il punto focale visibile in cui si accende la fiamma del mio discorso; ma il mio spirito raccoglie intorno a sé la parte colta dell’intera nazione tedesca da tutti i territori su cui essa è diffusa, medita e considera la situazione e i rapporti comuni a noi tutti, e si augura che una parte della forza viva con cui forse questi discorsi afferreranno voi, permanga anche nella muta impronta che sarà l’unica a finire sotto gli occhi degli assenti, e respiri da essa, e dappertutto accenda spiriti tedeschi alla decisione e all’azione. Solo di tedeschi e per tedeschi semplicemente, ho detto. Mostreremo a suo tempo che ogni altra designazione unitaria o legame nazionale non hanno mai avuto verità e significato, oppure, qualora ne abbiano avuto, che questi punti di unificazione sono stati distrutti e ci sono stati strappati dalla nostra attuale situazione, e non potranno mai più ritornare; e che solo il fondamentale tratto comune di ciò che è tedesco potrà scongiurare il tramonto 4 Questo appello attirò l’attenzione della commissione centrale d’inchiesta per il suo carattere universalistico (cfr. supra, Introduzione, nota 33).

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della nostra nazione nella sua confluenza con l’estero, e potrà farci riconquistare un Sé basato su se stesso, e assolutamente incapace di dipendenza. Appena capiremo quest’ultimo punto sparirà anche l’apparente contraddizione, che forse ora qualcuno teme, di questa affermazione con doveri di altra natura, e con occupazioni ritenute sacre. Perciò, poiché io parlo solo di tedeschi in generale, affermerò come valide per noi diverse cose, che in un primo tempo non lo sono per chi è riunito qui, così come [267] affermerò come valide per tutti i tedeschi altre cose, che in un primo tempo valgono solo per noi. Nello spirito di cui questi discorsi sono l’emanazione, io scorgo l’unità reciprocamente intrecciata, in cui nessun membro considera il destino di qualsiasi altro membro come un destino che gli è estraneo, unità che deve e dovrà necessariamente sorgere, se non dobbiamo andare completamente in rovina – io scorgo questa unità come già sorta, compiuta, e immediatamente presente. 2) Io presuppongo ascoltatori tedeschi, che non si facciano assorbire con tutto il loro essere nel sentimento del dolore per la perdita subita, compiacendosi di questo dolore, nutrendosi della loro inconsolabilità, e pensando di avere soddisfatto con tale sentimento l’esortazione ad agire loro rivolta; ma che si siano già sollevati da questo giusto dolore alla chiara meditazione e considerazione, o che perlomeno ne siano capaci. Io conosco quel dolore, l’ho sentito come chiunque, gli rendo onore; l’ottusità che è soddisfatta quando trova da mangiare e da bere, e quando non le sopraggiunge un dolore fisico, e per la quale onore, libertà, indipendenza sono parole vuote, è incapace di esso: ma esso è lì soltanto per spronarci alla concentrazione, alla decisione e all’azione; mancando di questo scopo ultimo, esso ci priva della concentrazione e di ogni altra forza residua, e così completa la nostra miseria; perché oltre a tutto questo esso fornisce, come testimone della nostra inerzia e viltà, la prova visibile che noi meritiamo la nostra miseria. Ma io non mi riprometto di sollevarvi da questo dolore mediante rassicurazioni su un aiuto che dovrebbe giungere dall’esterno, e mediante accenni a tutti i possibili eventi e cambiamenti che forse il tempo porterà con sé: perché, se anche questo modo di pensare non testimoniasse già in sé – come fa – della più colpevole leggerezza e del più profondo disprezzo di se stesso, preferendo perdersi nel mondo inconsistente delle possibilità, 8

invece di appuntarsi su ciò che è necessario, e affidando la propria salvezza al cieco caso, invece che a se stesso; [268] comunque, oltre a tutto questo, tutte le rassicurazioni e gli accenni di questo tipo non potrebbero applicarsi in nessun modo alla nostra situazione. Si può rigorosamente dimostrare, e lo faremo a suo tempo, che nessun uomo e nessun Dio e nessun evento tra tutti quelli compresi nel campo del possibile ci possono aiutare, ma che se un aiuto ci deve giungere, dobbiamo aiutarci soltanto da noi stessi. Invece, cercherò di sollevarvi dal dolore mediante la visione chiara della nostra situazione, della nostra forza ancora rimasta, dei mezzi della nostra salvezza. Perciò, presumerò senz’altro un certo grado di concentrazione, una certa autonomia e qualche sacrificio, e perciò conto su uditori da cui si può presumere tanto. Del resto, gli oggetti di questa assunzione sono in complesso leggeri, e non presuppongono una quantità di forza superiore a quella che credo si possa attribuire alla nostra epoca; quanto al pericolo, poi, non ce n’è assolutamente alcuno. 3) Nella misura in cui intendo produrre una chiara visione dei tedeschi come tali, nella loro situazione presente, io presuppongo uditori che siano inclini a vedere le cose di questo tipo coi loro occhi, assolutamente non uditori che trovino più comodo, nella considerazione di questi argomenti, dotarsi di lenti estranee e straniere, che o sono intenzionalmente rivolte a ingannare, oppure anche per loro natura, per il loro diverso punto di vista e la loro minore acutezza, non saranno mai adatte a occhi tedeschi. Inoltre, io presuppongo che questi uditori, considerando con i propri occhi, abbiano il coraggio di guardare con onestà alle cose come stanno, e di ammettere con onestà quello che vedono; e che essi abbiano già sconfitto, o perlomeno siano in grado di farlo, quell’inclinazione così comune a ingannarsi sulle faccende che ci riguardano, facendosene un’immagine un po’ meno sconfortante di quella che corrisponde alla verità. Quell’inclinazione è un vile fuggire di fronte ai propri pensieri, è un senso infantile, il quale finge di credere che, se esso non vede la propria miseria, o almeno non ammette di [269] vederla, questa miseria verrebbe cancellata anche nella realtà, nello stesso modo in cui viene cancellata nel suo pensiero. Al contrario, audacia virile è fissare il male negli occhi, costringerlo a fermarsi, compenetrarlo con calma, freddezza e libertà, e risolverlo nelle sue componenti. Inoltre, solo questa 9

chiara visione ci rende padroni del male, e ci fa iniziare con passo sicuro il combattimento contro di esso poiché, abbracciando con lo sguardo l’intero in ogni parte, sappiamo sempre dove ci troviamo, e una volta raggiunta la chiarezza siamo certi del fatto nostro, mentre gli altri, senza un orientamento sicuro e senza salde certezze, brancolano alla cieca e come in sogno. Del resto, perché dovremmo temere questa chiarezza? Il male non diventa minore se lo ignoriamo, né maggiore se lo conosciamo; diventa solo più rimediabile nel secondo caso; ma qui, non deve essere affatto messa in primo piano la colpa. È giusto colpire l’inerzia e l’egoismo con amare invettive, irrisioni sferzanti e tagliente disprezzo, e istigarli se non altro all’odio e al rancore, che sono comunque stimoli potenti, contro chi ricorda tutto questo, finché la conclusione necessaria, la sventura, non è ancora completa, e dal miglioramento possiamo attenderci ancora salvezza o sollievo. Ma ora che questa sventura è completa a tal punto da toglierci anche la possibilità di continuare a peccare in questo modo, non ha più senso e sembra compiacimento inveire ancora contro i peccati che non si possono più commettere; e allora la considerazione cade dall’ambito dell’etica in quello della storia. Per essa, la libertà è un che di passato, e l’accaduto è il risultato necessario di quanto lo ha preceduto. Ai nostri discorsi resta soltanto questa considerazione del presente, e perciò noi non assumeremo mai un altro punto di vista. Io presuppongo dunque il seguente modo di pensare: che pensiamo a noi stessi semplicemente come tedeschi; che non siamo prigionieri neppure del dolore; che vogliamo vedere la verità; e che abbiamo il coraggio [270] di guardarla in faccia. Io conto su di esso in ogni parola che dirò, e se qualcuno in questa assemblea ne porterà con sé un altro, allora dovrà ascrivere solo a se stesso le sgradevoli sensazioni che qui potrebbero venirgli procurate. Ciò sia detto e stabilito una volta per tutte; e adesso mi accingo all’altro compito, quello di esporvi in uno sguardo d’insieme generale il contenuto fondamentale di tutti i discorsi seguenti. Da qualche parte5, ho detto all’inizio del mio discorso, l’egoi5 Per l’impiego di questo avverbio, e le modifiche imposte dalla censura al brano che segue, cfr. supra, Introduzione, nota 5.

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smo avrebbe distrutto se stesso mediante il suo completo sviluppo, poiché nel frattempo avrebbe perduto il suo Sé e la facoltà di porsi i suoi scopi in modo indipendente. Questa ormai avvenuta distruzione dell’egoismo era il procedere del tempo da me accennato, e l’evento in esso assolutamente nuovo, che secondo me rendeva possibile e necessaria una prosecuzione della mia precedente descrizione del tempo; questa distruzione sarebbe quindi il nostro presente vero e proprio, al quale dovrebbe collegarsi immediatamente la nostra vita nuova in un mondo nuovo, l’esistenza del quale io ho egualmente affermato. Perciò, tale distruzione sarebbe anche il vero e proprio punto di partenza dei miei discorsi, e io dovrei mostrare prima di tutto come e perché una siffatta distruzione dell’egoismo risulti necessariamente dal suo sviluppo supremo. L’egoismo è sviluppato al suo grado supremo quando esso, dopo avere afferrato l’insieme dei governati con insignificanti eccezioni, a partire da questi si impadronisce anche dei governanti, diventandone l’unico impulso vitale. Da un simile governo deriva, anzitutto verso l’esterno, la trascuratezza di tutti i legami mediante i quali la propria sicurezza è collegata alla sicurezza di altri Stati, il rifiuto dell’intero di cui esso è parte solo per non essere distolto dalla sua quiete inerte, e la miserabile illusione dell’egoismo di essere in pace finché non sono attaccati i propri confini; quindi, verso l’interno, quella debole conduzione delle redini dello Stato che, con parole straniere, si chiama umanità, liberalità e popolarità6, ma che in lingua tedesca andrebbe più giustamente [271] chiamata inettitudine e comportamento senza dignità. Ho detto: quando si impadronisce anche dei governanti. Un popolo può essere completamente corrotto, cioè egoista, poiché l’egoismo è la radice di ogni altra corruttibilità – e tuttavia non solo può continuare a esistere, ma perfino compiere imprese esteriormente splendide, purché non sia corrotto il suo governo; anzi, quest’ultimo può addirittura agire verso l’esterno senza fede, dimentico del dovere e dell’onore, purché verso l’interno abbia il coraggio di tenere le redini del governo con mano ferma, e di con6 Humanität, Liberalität, Popularität: su questi termini, Fichte tornerà ampiamente oltre, nel Quarto discorso (infra, pp. 57 sgg.).

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quistare per sé la paura più grande. Ma quando si unisce tutto ciò che abbiamo detto, il corpo comune va in rovina al primo serio attacco cui va incontro, e come prima si era staccato dal corpo di cui era membro, così ora i suoi membri, che non sono trattenuti da alcun timore nei suoi confronti, spinti dalla paura più grande nei confronti dello straniero, si staccano da lui con la medesima infedeltà, andando ognuno per conto proprio. Qui, la paura più grande afferra di nuovo quelli che ora si trovano isolati, e con maggiore prodigalità e simulata gaiezza danno al nemico ciò che al difensore della patria avevano dato avaramente e del tutto contro voglia; finché anche i governanti, abbandonati e traditi da ogni parte, vengono costretti a comperare la loro permanenza assoggettandosi e piegandosi a progetti estranei; e così ora anche quelli che nella lotta per la patria avevano gettato le armi imparano, sotto insegne straniere, a portarle più coraggiosamente contro la patria. Così accade che l’egoismo venga distrutto dal suo supremo sviluppo, e che a coloro che, di buon grado, non volevano porsi altro scopo che se stessi, un simile altro scopo venga imposto da una violenza estranea. Nessuna nazione che sia sprofondata in questa condizione di dipendenza può risollevarsi da questa con i mezzi comuni e impiegati finora. Se la sua resistenza è stata sterile quando la nazione era ancora in possesso di tutte le sue forze, a che cosa può servire ora che essa [272] è stata derubata della maggior parte di quelle? Ciò che in precedenza sarebbe potuto essere di aiuto, cioè se il loro governo avesse tenuto le redini con forza e con fermezza, ora non è più applicabile, poiché queste redini sono ancora nelle loro mani solo in apparenza, e queste stesse mani sono guidate e dirette da una mano straniera. Una simile nazione non può più contare su se stessa; e altrettanto poco essa può contare sul vincitore. Questi dovrebbe essere tanto sconsiderato, e tanto vile ed esitante, quanto lo era stata quella nazione, se non mantenesse i vantaggi raggiunti e non li perseguisse in tutti i modi. Oppure, se col passare del tempo diventasse tanto vile e sconsiderato, anche lui andrebbe certamente in rovina come noi, ma non a nostro vantaggio, bensì diventerebbe preda di un nuovo vincitore, e noi saremmo l’aggiunta ovvia e poco significativa a questa preda. Ma se ciononostante per una nazione caduta così in basso fosse possibile 12

salvarsi, ciò dovrebbe accadere in virtù di un mezzo nuovo, mai impiegato finora, mediante la creazione di un ordine di cose interamente nuovo. Consentiteci dunque di vedere il motivo, presente nell’ordine di cose finora vigente, per cui era necessario che quest’ordine prima o poi finisse. Solo così potremo trovare, nel motivo contrario a quello del suo tramonto, il nuovo elemento da inserire nel tempo perché la nazione caduta in basso possa risollevarsi, in esso, a nuova vita. Nel ricercare quel motivo, si scoprirà che in tutte le costituzioni finora vigenti la partecipazione all’intero era connessa con la partecipazione del singolo a se stesso, per mezzo di legami che da qualche parte si sono strappati così completamente da non consentire più nessuna partecipazione all’intero – mediante i legami della paura e della speranza, secondo cui la vicenda del singolo, in una vita futura e in quella presente, dipendeva dal destino dell’intero. L’Illuminismo dell’intelletto calcolante solo su base sensibile è stata la forza che ha annullato il vincolo di una vita futura con quella presente attraverso la religione; al tempo stesso, esso ha concepito come fantasmi illusori anche altri mezzi complementari e rappresentativi [273] del modo di pensare etico, come l’amore per la gloria e l’onore nazionale. È stata la debolezza dei governi che, grazie alla frequente impunità per l’inottemperanza del dovere, ha annullato la paura che le vicende del singolo dipendessero, almeno in rapporto alla vita presente, dal suo comportamento nei confronti dell’intero; e che ha reso inefficace anche la speranza, in quanto questa veniva assai spesso soddisfatta senza alcun riguardo ai meriti verso l’intero, secondo regole e moventi del tutto diversi. Sono legami di questo tipo a essersi strappati completamente da qualche parte, e per la lacerazione dei quali il corpo comune si è dissolto7. Per quanto instancabilmente, d’ora in poi, il vincitore possa perseguire l’unica cosa che può fare, cioè riannodare e rafforzare la paura e la speranza per la vita presente come ultimi vincoli rimasti, egli con ciò fa solo il suo interesse, non il nostro, poiché capendo certamente qual è il suo vantaggio, egli collega a questo legame rinnovato soltanto il suo interesse, il nostro invece solo nel7

Qui termina il brano iniziato sopra, a p. 10.

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la misura in cui la nostra conservazione, in quanto mezzo per i suoi scopi, diventa un suo interesse. Per una nazione caduta così in basso, d’ora in poi paura e speranza sono completamente annullate, poiché la sua guida è sfuggita dalle sue mani, ed essa può sì temere e sperare, ma d’ora in poi nessun uomo avrà più paura o nutrirà più speranze per essa. A essa non resta nient’altro che trovare un vincolo interamente nuovo e diverso, superiore a paura e speranza, per annodare l’interesse della sua totalità alla partecipazione che ciascuno dei suoi membri ha a se stesso. Oltre agli stimoli sensibili della paura o della speranza, e al confine più prossimo a essi, si trova lo stimolo spirituale dell’approvazione o disapprovazione etica, e il superiore affetto del compiacersi o dispiacersi della situazione nostra e di altri. Come l’occhio esterno abituato a limpidezza e ordine viene tormentato e turbato, come se provasse un dolore immediato, da una macchia che forse al corpo non aggiunge immediatamente alcun dolore, oppure dalla vista di oggetti confusamente in disordine, mentre [274] quello abituato alla sporcizia e al disordine in essi si trova perfettamente a suo agio; allo stesso modo anche l’occhio spirituale dell’uomo può venire abituato e formato in modo tale che la semplice vista di un’esistenza confusa e disordinata, indegna e senza onore, di lui stesso e della stirpe dei suoi fratelli, gli provochi un’intima sofferenza, senza riguardo a ciò che ne sarebbe da temere o da sperare per il suo benessere sensibile. Al possessore di un occhio siffatto questo dolore, ancora una volta in modo del tutto indipendente da paura o speranza sensibili, non lascerebbe requie finché egli, per quanto sta in lui, non avesse superato la situazione che gli provoca dispiacere, e non l’avesse sostituita con l’unica che lo può compiacere. Nel possessore di un occhio siffatto, l’interesse dell’intero che lo circonda è annodato in modo indissolubile, mediante il sentimento trainante dell’approvazione o disapprovazione, con le vicende del suo Sé personale allargato, che si sente soltanto come parte dell’intero, e si può sopportare soltanto nell’intero che lo compiace; la formazione in sé di un occhio siffatto sarebbe dunque un mezzo sicuro, e anzi l’unico rimasto a una nazione che ha perduto la sua indipendenza, e con essa ogni influsso sulla paura e la speranza pubbliche, per sollevarsi nuovamente all’esistenza dalla distruzione che ha sopportato, e per affidare con sicurezza i suoi affari nazionali, che dalla sua 14

caduta nessun uomo e nessun Dio ha più curato, al sentimento nuovo e superiore che è sorto. Così dunque risulta che il mezzo di salvezza che ho promesso di mostrare consiste nella formazione di un Sé assolutamente nuovo, che finora forse è esistito come eccezione in alcuni singoli, mai però come Sé generale e nazionale. Si tratta di educare la nazione ad una vita interamente nuova, poiché la sua vita precedente si è estinta ed è divenuta aggiunta di una vita estranea, e di fare in modo che tale vita rimanga esclusivo possesso della nazione, oppure, qualora da essa dovesse giungere ad altri, rimanga intera e intatta pur nell’infinita divisione. In una parola, ciò che io propongo come unico mezzo per conservare l’esistenza della nazione tedesca è un totale cambiamento dell’educazione. [275] Che ai bambini si debba dare una buona educazione, anche nella nostra epoca è stato detto a sufficienza e ripetuto fino alla nausea, e sarebbe ben poca cosa se anche noi lo volessimo dire da parte nostra. Piuttosto, se riteniamo di poter fare qualcosa di diverso, ci spetterà di ricercare accuratamente che cosa è veramente mancato all’educazione finora vigente, e di indicare quale elemento assolutamente nuovo debba essere aggiunto dall’educazione modificata alla formazione dell’uomo finora vigente. Dopo una ricerca del genere, all’educazione finora vigente bisogna concedere che essa non manca di portare davanti agli occhi dei suoi allievi una qualche immagine del modo di pensare religioso, etico, legale, e di qualsivoglia ordine e buoni costumi, ammonendoli inoltre fedelmente, qua e là, di dare a quelle immagini un’impronta nella loro vita. Ma a parte eccezioni straordinariamente rare, che dunque non furono motivate da questa educazione, poiché allora si sarebbero dovute presentare in tutti coloro che avevano ricevuto questa formazione, bensì furono provocate da altre cause – a parte queste eccezioni straordinariamente rare, dico, gli allievi di questa educazione in complesso non hanno seguito quelle rappresentazioni e ammonimenti etici, bensì gli stimoli del loro egoismo, che cresceva senza alcun ausilio da parte dell’arte educativa, e che per loro era naturale. Ciò dimostra in modo inconfutabile che quest’arte educativa ha sì potuto riempire la memoria con qualche parola e modo di dire, e la fredda e distaccata fantasia con qualche immagine fioca ed esangue, ma non è mai riuscita a innalzare sino alla vitalità i suoi ritratti dell’ordi15

namento etico del mondo, né a far sì che il suo allievo venisse afferrato per essi da amore e nostalgia struggenti, e dall’affetto appassionato che spinge all’esposizione nella vita, e di fronte a cui la nostalgia cade come foglia appassita. Questa educazione, dunque, è stata ben lungi dal penetrare sino alla radice e dal formare la vita nella sua attività e nel suo movimento effettivi; al contrario questi, trascurati da un’educazione cieca e inetta, [276] sono cresciuti ovunque selvaggiamente, portando buoni frutti nei pochi ispirati da Dio, cattivi nella grande maggioranza. Del resto, per ora è più che sufficiente descrivere questa educazione mediante questo suo risultato, e ai nostri fini possiamo risparmiarci il faticoso compito di analizzare le vene e i succhi interni di un albero il cui frutto, ormai pienamente maturo, è caduto e sta davanti agli occhi di tutti, esprimendo in modo massimamente chiaro e comprensibile l’interna natura del suo produttore. A rigore, secondo questo punto di vista, l’educazione finora vigente non sarebbe stata in nessun modo l’arte di formare l’uomo, cosa di cui del resto non si è mai vantata, bensì ha fin troppo spesso confessato apertamente la sua impotenza, pretendendo come condizione per il suo successo che le fosse messo a disposizione un talento naturale, o un genio. Al contrario, un’arte siffatta sarebbe ancora da scoprire, e la sua scoperta sarebbe il compito vero e proprio della nuova educazione. La penetrazione fino alla radice della vita nella sua attività e nel suo movimento effettivi, che è mancata all’educazione finora vigente, dovrebbe esservi aggiunta dalla nuova educazione, e come la prima, al massimo, ha formato qualcosa nell’uomo, così la nuova dovrebbe formare l’uomo stesso, e non dovrebbe assolutamente fare della cultura un possesso, com’è accaduto finora, bensì piuttosto una componente personale dell’allievo. Inoltre, fino a oggi questa formazione così limitata è stata portata solo alla minoranza molto ristretta dei ceti colti, che venivano chiamati così proprio per questa ragione, mentre la grande maggioranza su cui propriamente si basa il corpo comune, il popolo, è stata quasi completamente trascurata dall’arte dell’educazione, e abbandonata alla cieca approssimazione. Mediante la nuova educazione, noi vogliamo formare i tedeschi in una totalità, che in tutti i suoi singoli membri sia spinta e animata dallo stesso unico interesse; ma se a questo proposito volessimo nuovamente distinguere un ceto colto, fosse pure animato dall’impulso del16

l’approvazione etica appena indicato, da un ceto incolto, allora quest’ultimo si allontanerebbe da noi, e per noi andrebbe perduto, poiché speranza e paura, mediante cui soltanto si potrebbe ancora agire su di esso, non lavorerebbero più per noi, ma contro di noi. [277] Quindi, non ci resta nient’altro che portare la nuova formazione a tutti coloro che sono tedeschi, senza alcuna eccezione, cosicché essa diventi non formazione di un ceto particolare, bensì formazione della nazione assolutamente come tale, e di ogni suo membro senza alcuna eccezione. In essa, ovvero nella formazione all’intimo compiacimento in ciò che è giusto, ogni differenza di ceto, che in altri rami dello sviluppo potrebbe continuare a sussistere, dovrebbe essere completamente annullata e scomparire, cosicché in questo modo, tra di noi, non sorga affatto una educazione popolare, bensì una vera e propria educazione nazionale tedesca. Io vi mostrerò che un’arte educativa come quella alla quale noi aspiriamo è già stata scoperta e viene già esercitata effettivamente, cosicché a noi non resta altro da fare che prendere quanto ci viene offerto, il che senza dubbio, come ho promesso prima parlando del mezzo di salvezza che avrei proposto, non esige una misura di forza superiore a quella che possiamo equamente aspettarci dalla nostra epoca. A questa promessa ne ho aggiunta anche un’altra, che cioè, per quanto riguarda il pericolo, nella nostra proposta non ce n’è assolutamente alcuno, poiché il vantaggio stesso della forza che comanda su di noi esigerebbe piuttosto di favorire l’attuazione di quella proposta che non di ostacolarla. Trovo utile pronunciarmi con chiarezza su questo punto già in questo Primo discorso. È certo che sia nell’antichità sia in epoca moderna le arti del traviamento e dell’umiliazione etica dei sottomessi sono state usate di frequente e con successo come strumento di potere. Per mezzo di invenzioni menzognere e di un’artificiosa confusione nei concetti e nel linguaggio, si sono diffamati i principi di fronte ai popoli, e questi di fronte a quelli, per dominare in modo più sicuro i separati; si sono astutamente suscitati e alimentati tutti gli stimoli della vanità e dell’egoismo per rendere spregevoli i sottomessi, e per calpestarli così con una sorta di buona coscienza: ma si commetterebbe sicuramente un errore rovinoso se si volesse seguire questa strada con noi tedeschi. A parte il vincolo della pau17

ra e della speranza, [278] la connessione di quella parte dell’estero con cui siamo venuti attualmente in contatto si basa sugli stimoli dell’onore e della gloria nazionale; ma la chiarezza tedesca ha da lungo tempo compreso, sino alla convinzione incrollabile, che questi sono illusioni ingannevoli, e che dalla gloria dell’intera nazione non viene sanata nessuna ferita e nessuna mutilazione del singolo; e noi potremmo ben diventare, se non ci viene offerta una visione superiore della vita, pericolosi predicatori di questa dottrina assai comprensibile, e dotata di grande attrattiva. Senza causarci per questo ulteriore rovina, noi siamo già nella nostra costituzione naturale una preda che porta disgrazie; possiamo diventarne una che porta salvezza solo attuando la proposta che abbiamo fatto: e così dunque, poiché l’estero capisce di certo qual è il suo vantaggio, mosso da quest’ultimo preferirà averci in questo secondo modo piuttosto che nel primo. Ora, con questa proposta il mio discorso si rivolge in particolare ai ceti colti della Germania, poiché spera di venire capito innanzitutto da questi, e li incarica nel modo più urgente di divenire i fondatori di questa nuova creazione, e in questo modo in parte di riconciliare il mondo con l’attività da loro svolta sino ad ora, in parte di meritare la loro continuità nel futuro. Nel prosieguo di questi discorsi, vedremo che ogni avanzamento dell’umanità nella nazione tedesca è partito dal popolo, e che i grandi affari nazionali sono sempre stati affidati a lui per primo, e da lui presi in custodia e portati avanti; che dunque ora accade per la prima volta che i ceti colti vengano incaricati dell’ulteriore formazione originaria della nazione, e che, se essi assumeranno effettivamente questo incarico, anche questo accadrebbe per la prima volta. Vedremo che questi ceti non possono contare su quanto tempo sia ancora a loro disposizione per porsi al vertice di questo affare, poiché quest’ultimo è già quasi pronto e maturo per essere presentato al popolo, ed essere realizzato con membri provenienti dal popolo, e questo fra breve provvederà da solo senza il nostro aiuto, [279] con la conseguenza per noi che gli attuali uomini di cultura e i loro successori diventeranno popolo, mentre da ciò che fino a oggi era il popolo sorgerà un altro e superiore ceto colto. Dopo tutto, lo scopo generale di questi discorsi è quello di infondere coraggio e speranza negli avviliti, diffondere gioia nella cupa 18

tristezza, superare con leggerezza e serenità l’ora dell’angoscia più grande. Il tempo mi sembra come un’ombra che indugia e piange sul suo cadavere, da cui l’ha cacciata un esercito di malattie, e che non riesce a distogliere lo sguardo dall’involucro un tempo così amato, e disperatamente ricerca ogni mezzo per tornare nella sede del contagio. Certo le brezze rinfrescanti dell’altro mondo, in cui la dipartita è entrata, l’hanno già accolta in sé, e la circondano di caldi aliti amorosi, certo già la salutano gioiosamente le voci familiari delle sorelle, e le danno il benvenuto, certo già si anima e si espande al suo interno in ogni direzione per generare la figura più splendida in cui deve svilupparsi; ma non ha ancora un senso per queste brezze, o orecchi per queste voci, o se li ha, è ancora immersa nel dolore per la sua perdita, in cui essa crede di avere perduto anche se stessa. Che fare con essa? Anche l’aurora del nuovo mondo è già spuntata, e già indora le cime dei monti, e anticipa il giorno che deve venire. Per quanto posso, io voglio cogliere i raggi di questa aurora, e raccoglierli in uno specchio, in cui il tempo sfiduciato si rifletta per credere che esso esiste ancora, e perché in esso gli si mostri il suo vero nucleo, e gli sviluppi e le configurazioni di quest’ultimo gli scorrano davanti in una visione premonitrice. Immerso in questa contemplazione, anche l’immagine della sua vita precedente sprofonderà nell’oblio, e il morto potrà essere portato alla sua tomba senza levare eccessivi lamenti.

Secondo discorso

Sull’essenza della nuova educazione in generale

[280] Il mezzo da me proposto per la conservazione di una nazione tedesca in generale, alla cui chiara visione questi discorsi vorrebbero portare prima di tutto voi e, assieme a voi, l’intera nazione, emerge come tale dalla costituzione del tempo e dalle peculiarità nazionali tedesche, così come esso deve, a sua volta, intervenire nel tempo e nella formazione delle peculiarità nazionali. Questo mezzo, dunque, non risulterà perfettamente chiaro e comprensibile finché esso non sia collegato a queste ultime, e queste a esso, ed entrambi non siano esposti in perfetta compenetrazione reciproca. Si tratta di compiti che esigono un certo tempo, e così potremo attenderci la perfetta chiarezza solo alla fine dei nostri discorsi. Tuttavia, poiché da qualche parte dobbiamo cominciare, la cosa più utile sarà considerare quel mezzo stesso per sé, nella sua essenza interna, a prescindere da ciò che lo circonda nello spazio e nel tempo, e così il nostro discorso odierno e quello successivo saranno dedicati a questo compito. Il mezzo indicato era un’educazione nazionale dei tedeschi assolutamente nuova, e mai ancora esistita in questo modo in nessun’altra nazione. Questa nuova educazione è stata già distinta nel precedente discorso da quella fin qui consueta nel modo seguente: l’educazione fino a oggi avrebbe al massimo ammonito al buon ordine e all’eticità, ma questi ammonimenti sarebbero rimasti infruttuosi per la vita effettiva, che si sarebbe formata secondo motivi completamente diversi, del tutto inaccessibili a questa educa20

zione. Al contrario di questa, la nuova educazione [281] dovrebbe formare e determinare secondo regole, in modo sicuro e infallibile, la vita dei suoi allievi nella sua attività e nel suo movimento effettivi. Ma ora forse qualcuno dirà, come effettivamente dicono quasi senza eccezione quelli che hanno diretto l’educazione fino ad ora: come si può pretendere da una qualunque educazione più del fatto che essa mostri all’allievo ciò che è giusto, e lo esorti fedelmente a esso? Se egli vuole seguire queste esortazioni, è un problema suo, e se non lo fa, è colpa sua. Egli ha una volontà libera, che nessuna educazione gli può togliere. Allora, per caratterizzare in modo ancora più deciso la nuova educazione alla quale penso io, risponderei: “Proprio in questo riconoscimento, e in questo affidarsi a una volontà libera dell’allievo, è consistito il primo errore dell’educazione fino ad ora, e la palese ammissione della sua impotenza e nullità”. Poiché nel momento in cui confessa che dopo tutta la sua azione più energica la volontà resta libera, cioè oscilla indecisa tra bene e male, essa confessa sia di non essere in grado, sia di non volere né aspirare assolutamente a formare la volontà e, poiché questa è la vera e propria radice fondamentale dell’uomo, l’uomo stesso. Al contrario, la nuova educazione dovrebbe consistere esattamente nel distruggere completamente la libertà della volontà sul terreno di cui essa si assume l’elaborazione, e al contrario nel produrre stringente necessità delle decisioni, e l’impossibilità dell’opposto nella volontà: volontà sulla quale ormai si potrebbe contare e fare affidamento con sicurezza. Ogni formazione aspira alla produzione di un essere saldo, determinato e costante, che ora non diviene più, bensì è, e non può essere diversamente da come è. Se non aspirasse a un essere siffatto, allora non sarebbe formazione, ma un gioco qualunque privo di scopo; se non producesse un essere siffatto, allora appunto non sarebbe ancora completa. Chi si deve ancora esortare, ed essere esortato, a volere il bene, non ha ancora un volere determinato e sempre pronto, ma vuole formarsene uno [282] a ogni occasione d’uso; chi ha un volere così saldo, vuole ciò che vuole per tutta l’eternità, e non può in nessun caso possibile volere altrimenti che così, come vuole sempre. Per lui, la libertà della volontà è distrutta e risolta nella necessità. Il tempo fino ad ora ha mostrato di non avere né un giusto concetto di formazione dell’uo21

mo, né la forza di esporre questo concetto, proprio perché ha mostrato di voler migliorare gli uomini mediante prediche edificanti, e si infastidiva e ingiuriava se queste prediche non davano alcun frutto. Ma come potevano darne? La volontà dell’uomo ha già la sua salda direzione prima dell’esortazione e indipendentemente da essa; se questa concorda con la tua esortazione, allora la tua esortazione arriva troppo tardi, e l’uomo avrebbe fatto ciò a cui tu lo esorti anche senza di essa; se è in contraddizione, allora puoi confonderlo al massimo per qualche attimo; quando arriva l’occasione, egli dimentica se stesso e la tua esortazione, e segue la sua inclinazione naturale. Se vuoi avere un qualche potere su di lui, allora gli devi fare qualcosa di più che qualche discorso: devi fare lui stesso, farlo in modo tale che egli non possa volere diversamente da come tu vuoi che egli voglia. È vano dire “vola” a chi non ha le ali: con tutti i tuoi incitamenti, non si alzerà due metri da terra; sviluppa invece, se puoi, le sue penne spirituali, e fagliele esercitare e rafforzare, ed egli senza alcun incitamento da parte tua non potrà volere o potere altro che volare. La nuova educazione deve produrre questa volontà salda e non più oscillante secondo una regola certa ed efficace senza eccezione; essa stessa deve produrre con necessità la necessità che ha di mira. Ciò che finora è venuto bene, è venuto così per la sua disposizione naturale, che ha sovrastato l’influsso del cattivo ambiente; ma niente affatto per l’educazione, perché altrimenti tutto ciò che è passato attraverso di essa sarebbe dovuto riuscire bene. Lo stesso vale per ciò che è riuscito male, perché altrimenti tutto ciò che [283] passa attraverso l’educazione dovrebbe riuscire male, invece riesce male a causa di se stesso e della sua disposizione naturale; l’educazione è stata in questo caso semplicemente nulla, niente affatto dannosa, il vero e proprio mezzo formativo è stata la natura spirituale. Dalle mani di questa forza oscura e imponderabile, la formazione dell’uomo deve ora passare sotto il comando di un’arte consapevole, che raggiunga sicuramente il suo scopo in tutto ciò che le è affidato senza eccezione, oppure, quando non lo dovesse raggiungere, sappia almeno che non lo ha raggiunto, e che dunque l’educazione non è ancora conclusa. Un’arte sicura e consapevole per formare nell’uomo una buona volontà salda e infallibile: questa deve essere dunque l’educazione da me proposta, e questa è la sua prima caratteristica. 22

Inoltre, l’uomo può volere solo ciò che ama; il suo amore è l’unico e in pari tempo infallibile impulso del suo volere, e di tutta la sua vita nella sua attività e nel suo movimento. L’arte dello Stato fino a oggi, come autoeducazione dell’uomo sociale, ha presupposto come regola certa e valida senza eccezione che ciascuno ami e voglia il suo personale benessere sensibile, e a questo amore naturale ha collegato artificialmente, mediante paura e speranza, la volontà buona che essa voleva, cioè l’interesse per il corpo comune. A parte il fatto che in questo tipo di educazione chi esteriormente è diventato un cittadino innocuo o utilizzabile, interiormente rimane un uomo cattivo, poiché la cattiveria consiste proprio nel fatto di amare solo il proprio benessere sensibile, e di essere mossi solo da paura o speranza per questo, sia ora esso nella vita presente o futura – a parte questo, abbiamo già visto che questo criterio per noi non è più applicabile, poiché paura e speranza non giocano più a nostro favore, ma contro di noi, e l’amor proprio sensibile non può più essere in nessun modo volto a nostro vantaggio. Noi perciò siamo addirittura costretti dalla necessità a voler formare uomini buoni interiormente e alla base, poiché solo in uomini siffatti la nazione tedesca può continuare a esistere, mentre attraverso uomini malvagi confluisce necessariamente con l’estero. Perciò noi, [284] al posto di quell’amor proprio, cui non si collega più nulla di buono per noi, dobbiamo porre e fondare nell’animo di tutti quelli che vogliamo annoverare nella nostra nazione un amore diverso, che si rivolga immediatamente al bene direttamente come tale e per amore di esso stesso. L’amore per il bene direttamente come tale, e non magari per la sua utilità per noi stessi, come abbiamo già visto reca la figura del compiacimento per il bene stesso: di un così intimo compiacimento, da essere spinti a rappresentarlo nella propria vita. Questo intimo compiacimento sarebbe dunque ciò che la nuova educazione dovrebbe produrre come modo di essere saldo e immutabile del suo allievo; laddove dunque questo compiacimento verrebbe necessariamente a fondare mediante se stesso la volontà immutabilmente buona dell’allievo stesso. Un compiacimento che spinge a produrre nella realtà effettiva un certo stato di cose che in essa non è presente, presuppone un’immagine di questo stato, che si libri di fronte allo spirito prima del suo essere effettivo, e trascini con sé quel compiacimento 23

che spinge all’attuazione. Perciò questo compiacimento presuppone, nella persona che deve esserne afferrata, la facoltà di proiettare spontaneamente immagini tali da essere indipendenti dalla realtà effettiva, e niente affatto copie di essa, bensì piuttosto modelli. Io ora devo parlare prima di tutto di questa facoltà, e durante questa considerazione vi prego di non dimenticare che un’immagine prodotta da questa facoltà può piacere proprio in quanto pura immagine, e come ciò in cui noi sentiamo la nostra forza formatrice, senza perciò essere assunta come modello di una realtà effettiva, e senza piacere in misura tale da spingere all’attuazione. Quest’ultima è qualcosa di completamente diverso, ed è il nostro scopo vero e proprio, di cui non mancheremo di parlare in seguito, mentre quella prima contiene solamente la condizione preliminare per il raggiungimento del vero scopo ultimo dell’educazione. Quella facoltà di proiettare spontaneamente immagini che non siano affatto mere copie [285] della realtà effettiva, ma che siano in grado di diventare modelli di essa, sarebbe la prima cosa da cui dovrebbe partire la formazione del genere umano mediante la nuova educazione. Proiettare spontaneamente, ho detto, e in modo che l’allievo se le generi per forza propria, e niente affatto perché diventa solo capace di assumere passivamente l’immagine offertagli dall’educazione, di capirla a sufficienza, e di ripeterla così come gli è data, come se si trattasse solo della disponibilità di una siffatta immagine. Il motivo per esigere la spontaneità personale in questo formare è il seguente: solo a questa condizione l’immagine proiettata può attrarre su di sé il compiacimento attivo dell’allievo. È infatti qualcosa di completamente diverso farsi soltanto piacere qualcosa e non avere niente in contrario, il quale passivo farsi piacere può sorgere al massimo solo da un abbandono passivo; ma è di nuovo qualcosa di diverso essere afferrati dal compiacimento per qualcosa in modo tale che esso diventi creativo, e stimoli al formare ogni nostra forza. Noi non parliamo del primo, che certo è presente in tutti i modi anche nell’educazione finora vigente, ma del secondo. Ma questo secondo compiacimento viene suscitato solo se contemporaneamente è stimolata la spontaneità dell’allievo, e se questa diventa per lui manifesta nell’oggetto dato, in modo tale che esso non piaccia soltanto per sé, bensì anche in quanto oggetto di espressione della forza spiritua24

le, la quale ultima suscita compiacimento immediatamente, necessariamente e senza alcuna eccezione. Questa attività del formare spirituale da sviluppare nell’allievo è senza dubbio un’attività secondo regole, regole che si manifestano a colui che è attivo nell’immediata esperienza di se stesso, fino alla visione nella loro unica possibilità; dunque questa attività produce conoscenza, e precisamente di leggi universali e valide senza eccezione. Inoltre, nel libero formare ulteriore che comincia da questo punto, ciò che viene intrapreso contro la legge è impossibile e, finché non è seguita la legge, non scaturisce nessuna azione; perciò, se anche questa libera formazione ulteriore, all’inizio, procedesse per tentativi alla cieca, [286] dovrebbe comunque terminare con un ampliamento nella conoscenza della legge. Questa formazione è perciò, nel suo esito ultimo, formazione della facoltà conoscitiva dell’allievo, e certo niente affatto la formazione storica sulla natura permanente delle cose, bensì quella superiore, e filosofica, sulle leggi in base alle quali una siffatta natura permanente diventa necessaria. L’allievo impara. E aggiungo: l’allievo impara volentieri e con piacere, e finché la tensione delle forze regge, non fa nulla più volentieri che imparare, perché mentre impara è attivo, e in ciò prova immediatamente il piacere più grande. Qui abbiamo trovato una caratteristica esterna della vera educazione, che in parte balza immediatamente agli occhi, in parte è infallibile: cioè che, senza alcun riguardo per la diversità delle disposizioni naturali e senza alcuna eccezione, qualunque allievo cui venga offerta questa educazione impara con piacere e con amore, semplicemente per amore dell’imparare e per nessun’altra ragione. Noi abbiamo trovato il mezzo per suscitare questo puro amore dell’imparare, cioè stimolare l’immediata spontaneità dell’allievo, e fare di questa la base di ogni conoscenza, in modo tale che tutto ciò che viene appreso venga appreso in essa. Stimolare questa attività personale dell’allievo in qualunque punto a noi noto, è la prima mossa principale dell’arte. Se è riuscito questo, allora si tratta ancora soltanto di conservare sempre la freschezza dei punti stimolati a partire da questo, il che è possibile solo mediante progressione regolare, dove ogni mancanza dell’educazione si scopre all’istante per l’insuccesso di ciò che ci eravamo prefissi. Noi perciò abbiamo trovato anche il legame con 25

cui il risultato prefisso viene indissolubilmente collegato al modo di agire illustrato, abbiamo trovato la legge fondamentale della natura spirituale dell’uomo, che è eterna e vige senza eccezione, ovvero il fatto che egli tende immediatamente all’attività dello spirito. Se qualcuno, fuorviato dall’esperienza comune dei nostri giorni, dovesse porre in dubbio perfino la presenza di una siffatta legge fondamentale, allora per costui osserviamo in sovrappiù che l’uomo per natura è certamente solo [287] sensibile ed egoista, finché lo spinge la necessità immediata e il bisogno sensibile presente, e che egli non si fa trattenere dal soddisfare quest’ultimo da nessun bisogno spirituale né da qualsiasi riguardo; che però egli, dopo che si è provveduto a questo, è meno incline a elaborare la dolorosa immagine di esso nella sua fantasia, e a conservarsela presente, bensì preferisce di gran lunga dirigere il pensiero a briglia sciolta verso la libera considerazione di ciò che attira la sua attenzione, anzi non disprezza neppure un volo poetico in mondi ideali, poiché per natura gli è innata una leggerezza per ciò che è temporale, affinché il suo senso per l’eterno ottenga un certo margine per svilupparsi. Ciò è dimostrato dalla storia di tutti i popoli antichi, e dalle molteplici osservazioni e scoperte che ci sono venute da essi; è dimostrato fino ai nostri giorni dall’osservazione dei popoli ancora selvaggi, purché non siano trattati troppo severamente dal loro clima, e dai nostri propri bambini; è dimostrato addirittura dalla franca ammissione dei nostri più scrupolosi avversari dell’ideale, i quali si lamentano che è un compito molto più noioso imparare nomi e anni che non librarsi in ciò che a loro appare come il vuoto campo delle idee, i quali dunque, come sembra, se se lo potessero permettere, preferirebbero fare la seconda cosa invece della prima. Il far subentrare, al posto di questa naturale leggerezza, il senso di gravità, in cui anche a colui che è sazio la fame futura, insieme a tutte le occasioni di ogni possibile fame futura, viene in mente come l’unica cosa in grado di riempire la sua anima, e continuamente lo pungola e lo spinge, è un fatto che nella nostra epoca viene ottenuto ad arte: nel bambino, disciplinando la sua leggerezza naturale; nell’uomo, sforzandosi di passare per un uomo prudente, gloria che spetta solo a chi non si fa sfuggire quel punto di vista neanche per un attimo; perciò, tutto questo non è affatto natura su cui potremmo contare, bensì una [288] corruzio26

ne imposta con fatica alla natura recalcitrante, corruzione che scompare appena quella fatica non viene più applicata. Questa educazione che stimola immediatamente l’attività spirituale dell’allievo, abbiamo detto, genera conoscenza; e questo ci fornisce l’occasione per caratterizzare la nuova educazione ancora più profondamente in opposizione a quella vigente fino ad ora. Come abbiamo visto, la conoscenza risulta solo in modo collaterale, e come conseguenza che non resta esclusa. Se perciò l’immagine per la vita effettiva, da cui in futuro dovrà essere stimolata la seria attività del nostro allievo divenuto uomo, può essere afferrata solo in questa conoscenza; se dunque la conoscenza è senz’altro una componente essenziale della formazione da raggiungere, tuttavia non si può dire che la nuova educazione abbia di mira immediatamente questa conoscenza, bensì che la conoscenza si limita ad accompagnarla. Al contrario, l’educazione fino a oggi ha avuto di mira proprio la conoscenza, e una certa quantità di materia conoscitiva. Inoltre, c’è una grossa differenza tra il tipo di conoscenza che sorge in modo complementare alla nuova educazione, e quello che aveva di mira l’educazione fino a oggi. Nella prima, sorge la conoscenza delle leggi dell’attività spirituale, che condizionano la possibilità di ogni attività di questo tipo. Per esempio, quando l’allievo nella sua libera fantasia cerca di delimitare uno spazio mediante linee rette, questa è la sua attività spirituale stimolata per prima. Quando egli scopre che con meno di tre linee rette non può delimitare alcuno spazio, quest’ultima è la conoscenza complementare di una seconda attività, completamente diversa, della facoltà conoscitiva che limita la libera facoltà stimolata per prima. A questa educazione, quindi, sorge subito al suo inizio una conoscenza veramente superiore a ogni esperienza, soprasensibile, rigorosamente necessaria e universale, che già in precedenza comprende sotto di sé ogni esperienza possibile in seguito. Al contrario, fino a oggi l’istruzione era diretta, di regola, solo alle proprietà stabili [289] delle cose, al modo in cui esse sono e in cui le si dovrebbe credere e osservare, senza poterne dare una ragione; dunque a un apprendere solo passivo mediante la facoltà della memoria, che sta soltanto al servizio delle cose, e mediante cui in generale non si potrebbe nemmeno pervenire al presentimento dello spirito come principio indipendente e originariamente iniziale delle cose stesse. Non creda la moderna pedagogia di schermirsi da 27

questo rimprovero richiamandosi alla sua repulsione spesso dimostrata contro la memorizzazione meccanica, e ai suoi noti pezzi di bravura alla maniera socratica; perché a questo proposito ha già ricevuto da lungo tempo altrove la motivata risposta, che anche questi ragionamenti socratici vengono solo imparati meccanicamente a memoria, e che questa è una memorizzazione tanto più pericolosa, in quanto all’allievo che non pensa dà l’illusione di poter pensare. Del resto, ciò non poteva riuscire diversamente, vista la materia che si intendeva applicare per lo sviluppo del pensiero autonomo; per conseguire questo scopo, bisognerebbe iniziare con una materia completamente diversa. Da questa conformazione dell’istruzione fino a oggi risulta evidente, in parte, perché l’allievo finora, di regola, abbia imparato malvolentieri, e perciò lentamente e stentatamente, e in mancanza di attrattive da parte dell’imparare stesso, si siano dovuti introdurre stimoli estranei; in parte, da ciò emerge il motivo delle eccezioni alla regola avute fin qui. La memoria, quando viene chiamata in causa da sola e senza dover servire a un altro scopo spirituale qualsiasi, è un patire dell’animo piuttosto che una sua attività, e si può capire che l’allievo assuma questo patire molto malvolentieri. Inoltre, la familiarità con cose totalmente estranee e che per lui non hanno il minimo interesse, e con le loro proprietà, è uno scadente surrogato per quel patire che gli è imposto; per questa ragione, la sua repulsione dovrebbe venire superata mediante la consolazione dell’utilità futura di queste conoscenze, mediante il fatto che solo grazie a esse si possono trovare pane e onori, e perfino mediante punizioni e ricompense immediatamente presenti. È chiaro che così la conoscenza è stata fin dal principio [290] messa al servizio del benessere sensibile, e che questa educazione, che abbiamo già visto incapace di sviluppare un modo di pensare etico rispetto al suo contenuto, soltanto per raggiungere l’allievo ha dovuto persino impiantare e sviluppare la sua corruzione morale, e ha dovuto collegare il suo interesse all’interesse di questa corruzione. Si scoprirà inoltre che il talento naturale, il quale, come eccezione alla regola, ha imparato volentieri, e perciò bene, alla scuola di questa educazione finora vigente, e che, in virtù di questo amore superiore in lui presente, ha superato la corruzione morale dell’ambiente mantenendo pura la sua mente, ha ricavato da quegli oggetti un interesse pratico mediante la sua inclinazione naturale e, guidato dal suo felice 28

istinto, era orientato a produrre tali conoscenze da sé, piuttosto che limitarsi a riceverle. Inoltre, per quanto riguarda gli oggetti di insegnamento con cui, come eccezioni alla regola, questa educazione è riuscita nel modo più generale e felice, nel complesso essi sono tali da poter essere esercitati attivamente, come per esempio quelle lingue dotte in cui si arrivava a scrivere e parlare abbastanza bene in modo pressoché generale, mentre le altre, in cui gli esercizi di scrittura e di parola venivano trascurati, di regola sono state imparate molto male e superficialmente, e dimenticate in età matura. Perciò, anche dall’esperienza fatta finora, risulta che solo lo sviluppo dell’attività spirituale mediante l’istruzione è ciò che produce piacere nella conoscenza puramente come tale, e così mantiene anche l’animo aperto alla formazione etica, mentre il ricevere meramente passivo estingue e uccide la conoscenza, allo stesso modo in cui ha bisogno di corrompere il senso etico fin nelle sue fondamenta. Per ritornare all’allievo della nuova educazione: è chiaro che questi, spinto dal suo amore, imparerà molto, e poiché apprende tutto nella sua connessione, ed esercita immediatamente ciò che ha appreso facendo qualcosa, imparerà quel molto in modo giusto e incancellabile. Ma questo è solo un aspetto secondario. Più importante è il fatto che il suo Sé mediante questo amore [291] venga innalzato e introdotto in un ordine di cose interamente nuovo, in cui finora sono entrati a tentoni solo pochi prediletti da Dio, in maniera meditata e secondo una regola. Lo spinge un amore che non è assolutamente rivolto a un godimento sensibile qualsiasi, poiché questo in lui tace totalmente come impulso, bensì all’attività spirituale per amore dell’attività, e alla legge di essa per amore della legge. Ora, se è vero che non è questa attività spirituale in generale ciò a cui si rivolge l’eticità, ma che per questo deve aggiungersi anche una particolare direzione di quell’attività, tuttavia quell’amore è la conformazione e la forma generale della volontà etica; e così, dunque, questo modo di formazione spirituale è la preparazione immediata per la formazione etica, mentre estirpa completamente la radice dell’immoralità, in quanto non lascia mai che il godimento sensibile diventi impulso. Finora questo impulso è stato il primo a essere stimolato e formato, perché altrimenti si riteneva di non poter plasmare l’allievo e ottenere su di lui qualche influenza. Se poi si sviluppava l’impulso etico, allo29

ra questo arrivava troppo tardi, e trovava il cuore già occupato e riempito da un altro amore. Con la nuova educazione, viceversa, la formazione al volere puro deve diventare la prima, affinché, nel caso in cui più tardi dovesse risvegliarsi l’egoismo, o essere stimolato dall’esterno, tale egoismo arrivi troppo tardi, e nell’animo già occupato da qualcos’altro non trovi posto per sé. Già per questo primo scopo, come per il secondo che indicheremo in seguito, è essenziale che l’allievo stia fin dall’inizio ininterrottamente e interamente sotto l’influsso di questa educazione, e che sia completamente separato dalla comunità e protetto da ogni contatto con essa. Egli non deve neppure sentire che ci si potrebbe dare da fare per il suo mantenimento e il suo benessere nella vita, e tanto meno che si impari per questo, o che l’imparare possa servire a qualcosa a tal fine. Di conseguenza, lo sviluppo spirituale nel modo sopra indicato deve essere l’unico che gli viene offerto, [292] ed egli deve essere occupato con esso senza sosta, mentre in nessun modo questo tipo di istruzione deve essere scambiato con quella che ha bisogno dell’impulso sensibile opposto. Ma se ora questo sviluppo spirituale non permette all’egoismo di vivere, e dà la forma di una volontà etica, tuttavia non è ancora la volontà etica stessa; e se la nostra educazione non andasse oltre, allora educherebbe al massimo eccellenti cultori delle scienze, come ce ne sono stati anche finora, e di cui pochi bastano, e che per il nostro autentico scopo umano e nazionale non potrebbero fare più di quello che uomini simili hanno potuto fare sinora: esortare e di nuovo esortare, farsi ammirare e, all’occasione, farsi ingiuriare. Ma è chiaro, e lo abbiamo già detto prima, che questa libera attività dello spirito è stata sviluppata perché l’allievo con essa proietti liberamente l’immagine di un ordine etico della vita effettivamente presente, accolga questa immagine con l’amore che in lui si è già sviluppato, e da questo amore venga spinto a rappresentare effettivamente quell’immagine nella e attraverso la sua vita. Ci si chiede: come potrà la nuova educazione dimostrare di avere raggiunto nel suo allievo questo suo autentico e ultimo scopo? Anzitutto, è chiaro che l’attività spirituale dell’allievo, già precedentemente esercitata su altri oggetti, deve essere stimolata a proiettare un’immagine dell’ordine sociale degli uomini, nel modo in cui esso deve assolutamente essere secondo la legge della ra30

gione. Se quest’immagine proiettata dall’allievo è giusta, può essere giudicato nel modo più facile da un’educazione che si trovi in possesso di quest’immagine giusta; se l’immagine è stata proiettata dalla spontaneità personale dell’allievo, invece di essere stata ricevuta solo passivamente, e ripetuta in modo scolastico, se inoltre essa si è innalzata fino alla chiarezza e alla vivacità dovute, potrà essere giudicato dall’educazione allo stesso modo [293] in cui essa in precedenza ha formulato un giudizio adeguato nello stesso riguardo a proposito di altri oggetti. Tutto questo è ancora questione di semplice conoscenza e resta sul terreno di quest’ultima, che in questa educazione è accessibile facilmente. Una questione del tutto diversa e più alta è se l’allievo sia afferrato da un amore così ardente per un simile ordine delle cose, che una volta sciolto dalla guida dell’educazione e divenuto indipendente, per lui diventi impossibile non volere quest’ordine, e non lavorare con tutte le sue forze per promuoverne la realizzazione. Su tale questione, senza dubbio, non possono decidere le parole ed esami da fare a parole, bensì soltanto il guardare ai fatti. Io assolvo il compito che ci è posto da quest’ultima osservazione nel modo seguente. Senza dubbio, gli allievi di questa nuova educazione, benché separati dalla comunità degli adulti, vivranno tuttavia in compagnia tra di loro, e così formeranno un corpo comune separato e per sé sussistente, che avrebbe la sua costituzione esattamente determinata, fondata nella natura delle cose e assolutamente richiesta dalla ragione. La primissima immagine di un ordine sociale, alla cui proiezione verrebbe stimolato lo spirito dell’allievo, sarebbe questa immagine della comunità in cui egli stesso vive, in modo tale che egli sarebbe interiormente costretto a immaginarsi questo ordine punto per punto esattamente come esso è predisposto nella realtà, e a comprenderlo in tutte le sue parti come assolutamente necessario in base ai suoi fondamenti. Ora, questo è ancora una volta semplicemente opera della conoscenza. In quest’ordine sociale, ciascun singolo nella vita reale deve continuamente tralasciare, per amore del tutto, molte cose che, se fosse da solo, potrebbe fare senza pensarci; e sarà utile che nella legislazione, e nell’insegnamento della costituzione da basare su di essa, tutti gli altri vengano rappresentati a ciascun singolo con un amore dell’ordine elevato a ideale, amore che forse in questo modo nessuno ha veramente, ma che tutti dovrebbero ave31

re; e che dunque questa legislazione [294] ottenga un alto grado di rigore, e imponga anche molte rinunce. Queste, come qualcosa che deve essere assolutamente, e su cui si basa la sussistenza dell’intero, in caso di necessità devono essere ottenute coattivamente anche mediante la paura della pena presente; e questa legge penale deve essere eseguita assolutamente senza pietà o eccezione. Con questa applicazione della paura come impulso, all’eticità dell’allievo non viene recato alcun danno, poiché qui non si deve spingere a fare il bene, ma solo a non fare ciò che in questa costituzione è male; inoltre, nell’insegnamento della costituzione bisogna far capire perfettamente che chi ha ancora bisogno della rappresentazione della pena, o addirittura di rinfrescarsi tale rappresentazione mediante la sopportazione della pena stessa, si trova a uno stadio assai basso della formazione. A ogni modo, da tutto questo è chiaro che, poiché non si può mai sapere se, quando si obbedisce, si obbedisce per amore dell’ordine o per paura della pena, in questo contesto l’allievo non può mostrare all’esterno la sua buona volontà, né l’educazione può valutarla. Al contrario, il contesto in cui una tale valutazione è possibile è il seguente. La costituzione infatti deve essere impostata anche in modo tale che il singolo non solo debba tralasciare qualcosa per l’intero, ma possa anche agire e fare qualcosa per esso. Oltre allo sviluppo spirituale nell’imparare, in questo corpo comune degli allievi trovano posto anche esercizi fisici e i lavori meccanici dell’agricoltura, qui però nobilitati sino all’ideale, e quelli artigianali di vario tipo. Regola fondamentale della costituzione sarebbe l’obbligo, per chiunque si segnali in uno qualsiasi di questi rami, di aiutare a istruire gli altri, e di assumersi diverse sorveglianze e responsabilità; per chiunque scopra un qualsiasi miglioramento, o capisca per primo e nel modo più chiaro quello proposto da un insegnante, l’obbligo di attuarlo con la sua fatica, senza che perciò sia sollevato dai suoi compiti normali nell’imparare e nel lavorare; che ciascuno soddisfi questa pretesa liberamente, e non [295] per costrizione, poiché chi non vuole è lasciato libero di respingerla; che per questo non debba aspettarsi alcuna ricompensa, poiché in questa costituzione tutti sono considerati assolutamente uguali rispetto al lavoro e al godimento, e neppure una lode, poiché il modo di pensare dominante nella comunità è che, così facendo, ciascuno fa soltanto il suo dovere. Invece, egli do32

vrebbe gioire esclusivamente del suo fare e agire per l’intero, e del successo di esso, nel caso in cui gli arrida. In questa costituzione, dunque, dal fatto di conseguire un’abilità superiore e dalla fatica impiegata in essa, seguono solo nuova fatica e nuovo lavoro, e proprio il più abile dovrà spesso vegliare quando altri dormono, e riflettere quando altri giocano. Gli allievi che, nonostante per loro tutto questo sia perfettamente chiaro e comprensibile, pure compiono quella prima fatica e le fatiche seguenti gioiosamente, con continuità e in modo tale che si possa con sicurezza contare su di essi, e restano forti e diventano più forti nel sentimento della loro forza e attività – questi allievi possono essere tranquillamente abbandonati al mondo dall’educazione; in loro essa ha raggiunto questo suo scopo; in loro è acceso l’amore, e arde fino alla radice della loro attività vitale, e d’ora in poi afferrerà senza eccezione tutto ciò che raggiungerà questa attività vitale; ed essi, nel corpo comune più grande di cui d’ora in poi fanno parte, non potranno mai essere qualcosa di diverso da ciò che essi erano, inflessibilmente e immutabilmente, nel piccolo corpo comune che ora abbandonano. In questo modo, l’allievo è pronto a soddisfare le richieste più immediate che il mondo gli porrà senz’altro, e ciò che l’educazione pretende da lui in nome di questo mondo, si è realizzato. Ma egli non è ancora pronto in sé e per sé, e ciò che dall’educazione può pretendere egli stesso, non si è ancora realizzato. Appena sarà esaudita anche questa esigenza, egli diventerà capace allo stesso tempo di soddisfare anche le richieste che, in casi particolari, un mondo superiore potrebbe porgli in nome del mondo presente.

Terzo discorso

Continua la descrizione della nuova educazione

[296] L’essenza vera e propria della nuova educazione proposta, nella misura in cui questa è stata descritta nel discorso precedente, consisteva nel fatto di essere un’arte meditata e sicura per formare l’allievo a un’eticità pura. A un’eticità pura, ho detto; l’eticità a cui essa educa è presente come qualcosa di primo, indipendente e autonomo, che vive da se stesso la sua vita propria; invece non è affatto collegata e impressa, come la legalità spesso fin qui perseguita, su di un altro impulso non etico, che essa servirebbe a soddisfare. È l’arte meditata e sicura di questa educazione etica, ho detto. Essa non va avanti a caso e sperando nella buona sorte, bensì secondo una regola fissa e a lei ben nota, ed è certa del suo successo. Il suo allievo emerge, a tempo debito, come una salda e immutabile opera d’arte di questa sua arte, che non potrebbe andare diversamente da come è stato disposto da essa, e che non ha bisogno di un sostegno, bensì procede mediante se stesso secondo la sua propria legge. È vero che questa educazione forma anche lo spirito del suo allievo; e questa formazione spirituale è addirittura ciò che viene per primo, ciò con cui essa inizia il suo lavoro. Ma questo sviluppo spirituale non è lo scopo primo e indipendente, bensì soltanto il mezzo condizionante per offrire all’allievo una formazione etica. Nel frattempo, anche questa formazione spirituale acquisita solo occasionalmente resta un possesso incancellabile dalla vita dell’allievo, e la fiaccola sempre ardente del suo 34

amore etico. Per quanto grande o piccola possa essere la somma delle conoscenze che [297] egli ha portato con sé dall’educazione, egli ha sicuramente portato con sé uno spirito, che per tutta la sua vita potrà accogliere qualsiasi verità la cui conoscenza diventi per lui necessaria, e che resterà incessantemente tanto ricettivo all’apprendimento da altri, quanto capace di riflessione personale. Nella descrizione di questa nuova educazione, nel precedente discorso, eravamo arrivati fino a qui. In conclusione, avevamo osservato che nonostante tutto questo essa non era ancora completa, bensì doveva risolvere un altro compito, diverso da quelli posti fino ad ora; e adesso ci mettiamo all’opera per specificare meglio questo compito. L’allievo di questa educazione non è solo membro della società umana qui sulla terra, e per il breve lasso di vita che gli è concesso su di essa, bensì è anche un membro nell’eterna catena di una vita spirituale in generale, sotto un ordine sociale superiore, e senza dubbio viene riconosciuto come tale dall’educazione. Senza dubbio, una formazione che si è assunta il compito di abbracciare tutto il suo essere deve condurlo anche alla visione di quest’ordine superiore, e come essa lo guidava a prefigurarsi un’immagine di quell’ordine etico del mondo che non c’è mai, ma deve eternamente divenire, così essa lo deve guidare a proiettare nel pensiero, con eguale spontaneità, un’immagine di quell’ordine del mondo soprasensibile in cui nulla diviene, e che neppure è mai divenuto, bensì esiste in eterno; e in modo tale che egli capisca e veda intimamente che non può essere diversamente. Se guidato correttamente, egli arriverà alla fine dei tentativi con una simile immagine, e quando sarà alla fine, scoprirà che nulla esiste veramente tranne la vita, e precisamente la vita spirituale che vive nel pensiero; e che tutto il resto non esiste veramente, bensì sembra soltanto esistere, e di tale parvenza egli comprenderà egualmente, sia pure solo in generale, il fondamento proveniente dal pensiero. Inoltre, egli capirà che quella vita spirituale, che sola esiste veramente, [298] è a sua volta Una, è la vita divina stessa nelle molteplici configurazioni che ha ottenuto non per approssimazione, ma in virtù di una legge fondata in Dio stesso, vita divina che esiste e si manifesta soltanto nel pensiero vivente. Così egli riconoscerà la sua vita come un ele35

mento eterno nella catena della rivelazione della vita divina, e ogni altra vita spirituale come un elemento dello stesso tipo, e imparerà a ritenerle sacre; e solo nell’immediato contatto con Dio e nel non mediato fluire della sua vita da Dio egli troverà vita, e luce, e beatitudine; mentre in ogni allontanamento dall’immediatezza troverà morte, tenebra e miseria. In una parola: questo sviluppo lo formerà per la religione; e questa religione del risiedere della nostra vita in Dio dovrà certamente dominare anche nel tempo nuovo, e in questo dovrà venire formata accuratamente. Al contrario, la religione del tempo antico, che separava la vita spirituale dalla vita divina, e alla prima sapeva procurare l’esistenza assoluta, che le aveva attribuito nel pensiero, solo mediante un ripudio della seconda, e che usava Dio come filo conduttore per introdurre l’egoismo in altri mondi, anche al di là della morte della vita mortale – questa religione, che evidentemente era solo un’ancella dell’egoismo, deve essere certamente condotta alla tomba insieme col tempo antico; poiché nel tempo nuovo l’eternità non inizia soltanto al di là della tomba, bensì irrompe in mezzo a esso nel suo presente, l’egoismo invece è licenziato tanto dalla direzione quanto dal servizio, e quindi con sé ritira anche i suoi servitori. L’educazione alla vera religione è dunque il compito ultimo della nuova educazione. Se nella proiezione di un’immagine dell’ordine del mondo soprasensibile richiesta a questo scopo l’allievo si è comportato veramente in modo spontaneo, e se l’immagine proiettata è giusta sotto ogni aspetto, e assolutamente chiara e comprensibile, potrà essere giudicato facilmente dall’educazione come nel caso degli altri oggetti della conoscenza; [299] poiché anche questo resta nell’ambito della conoscenza. Ma anche qui, più significativa è la domanda su come l’educazione possa misurare e darsi la garanzia che queste conoscenze religiose non restino morte e fredde, ma che si esprimeranno nella vita effettiva del suo allievo; domanda alla quale deve essere fatta precedere la risposta a un’altra domanda, cioè la seguente: come e in che modo si mostra, in generale, la religione nella vita? Immediatamente, nella vita comune, e in una società bene ordinata, non c’è assolutamente bisogno della religione per formare la vita, bensì per questi scopi la vera eticità basta perfettamente. Da questo punto di vista, dunque, la religione non è pratica, e 36

non può né deve assolutamente diventarlo, bensì è solamente conoscenza: essa rende soltanto l’uomo perfettamente chiaro e comprensibile a se stesso, risponde alla domanda suprema che egli può porre, gli risolve la contraddizione ultima, e così reca in lui stesso perfetta concordia, e diffusa chiarezza nel suo intelletto. Essa è la sua completa redenzione e liberazione da ogni vincolo estraneo, e così essa gli è dovuta da parte dell’educazione come qualcosa che gli spetta direttamente, e senza scopo ulteriore. La religione ottiene un ambito per agire come movente soltanto in una società massimamente immorale e corrotta, oppure quando la sfera d’azione dell’uomo non si trova all’interno dell’ordine sociale, ma al di fuori di questo, e deve piuttosto crearlo e conservarlo sempre di nuovo, come nel governante, che in molti casi senza religione non potrebbe affatto esercitare il suo ufficio in buona coscienza. Di quest’ultimo caso non si discute in un’educazione rivolta a tutti e all’intera nazione. Dal primo punto di vista, se, nonostante la chiara visione dell’intelletto nell’incorreggibilità dell’epoca, si continua comunque a lavorare instancabilmente su di essa; se viene sopportato il sudore della semina, senza alcuna speranza in un raccolto; se viene fatto del bene anche agli ingrati, e vengono benedetti con azioni [300] e beni quelli che maledicono, e nella chiara previsione che continueranno a maledire; se, dopo centinaia di fallimenti, si persiste comunque nella fede e nell’amore: allora, non è più la semplice eticità che spinge, poiché questa vuole uno scopo, bensì è la religione, la devozione a una legge superiore a noi sconosciuta, l’umile ammutolire davanti a Dio, l’intimo amore per la sua vita sbocciata in noi, che, se l’occhio non vede nient’altro da salvare, deve essere salvata da sola e per amore di se stessa. La visione religiosa raggiunta dagli allievi della nuova educazione nel loro piccolo corpo comune, in cui essi sono dapprima cresciuti, non può diventare pratica in questo modo, e neppure deve diventarlo. Questo corpo comune è bene ordinato, e in esso ciò che viene abilmente intrapreso riesce sempre; inoltre, la tenera età dell’uomo deve essere mantenuta nell’ingenuità, e nella tranquilla fiducia nella sua specie. La conoscenza delle sue perfidie resti riservata all’esperienza propria dell’età matura e più forte. Dunque l’allievo, nel caso in cui i suoi rapporti sociali dovessero progredire dalla semplicità a livelli superiori, potrebbe avere 37

bisogno della sua cognizione religiosa come stimolo solo in questa età più matura e nella vita seriamente intesa, dopo che l’educazione lo ha affidato da lungo tempo a se stesso. Come può ora l’educazione, che non può esaminare l’allievo su questo punto finché egli è nelle sue mani, essere sicura che quando sorgerà questo bisogno anche questo stimolo opererà immancabilmente? Rispondo: “per il fatto che il suo allievo in generale è formato in modo tale che in lui nessuna conoscenza resta morta e fredda quando si presenta la possibilità che essa riceva vita, bensì ciascuna interviene subito necessariamente nella vita, non appena la vita ne ha bisogno”. Proverò subito questa affermazione ancora più approfonditamente, e in tal modo solleverò e inserirò l’intero concetto trattato in questo e nel precedente discorso in un più ampio tutto della conoscenza, al quale, [301] in base a questo concetto, io darò nuova luce e superiore chiarezza, dopo che in precedenza avrò fornito in modo determinato la vera essenza della nuova educazione, di cui ho appena concluso la descrizione generale. Ora questa educazione non appare più semplicemente come l’arte di formare l’allievo alla pura eticità, come all’inizio del nostro discorso odierno, bensì ormai emerge come l’arte di rendere in tutto e per tutto uomo l’intero essere umano. Per questo ci vogliono due parti principali: dapprima, riguardo alla forma, bisogna formare l’uomo vivente, reale, fin nella radice della sua vita, e non invece la semplice ombra e schema di un uomo; quindi, riguardo al contenuto, bisogna che tutte le necessarie componenti dell’uomo vengano formate in eguale misura e senza eccezione. Queste componenti sono intelletto e volontà, e l’educazione deve mirare alla chiarezza del primo, e alla purezza della seconda. Ma per la chiarezza del primo, devono essere sollevate due domande principali: anzitutto, che cos’è che la volontà pura vuole propriamente? E mediante quali mezzi si può raggiungere ciò che si è voluto? Le altre conoscenze da fornire all’allievo sono comprese in questa parte principale. In secondo luogo: che cos’è questa volontà pura nel suo stesso fondamento ed essenza? Qui viene compresa la conoscenza della religione. Ora, l’educazione esige assolutamente le suddette parti, svolte fino all’intervento nella vita, e non permette a nessuno di trascurarne la minima parte, poiché intanto ciascuno deve essere un uomo; ciò che qualcuno diventerà in seguito, e quale figura particolare assumerà o raggiungerà in lui 38

l’umanità in generale, non riguarda per niente l’educazione generale, e si trova fuori del suo ambito. Adesso, mediante le seguenti proposizioni, procederò come promesso a provare più approfonditamente la proposizione secondo cui, nell’allievo della nuova educazione, nessuna conoscenza può restare morta, e a porre in connessione tutto ciò che è stato detto. 1) Secondo le nostre considerazioni, ci sono due classi di uomini assolutamente diverse e completamente opposte [302] rispetto all’educazione. Innanzitutto, tutti coloro che sono uomini, e dunque anche queste due classi, consistono nel fatto che alle molteplici espressioni della loro vita sta a fondamento un impulso, che in ogni cambiamento resta immutato e uguale a se stesso – per inciso, il comprendersi di questo impulso e la sua traduzione in concetti genera il mondo, e non c’è nessun altro mondo che questo mondo generantesi in questo modo nel pensiero comunque assolutamente non libero, bensì necessario. Ora, questo impulso da tradurre sempre in una coscienza, in cui dunque le due classi sono un’altra volta reciprocamente uguali, può essere tradotto nella coscienza in un duplice modo, secondo le due diverse fondamentali specie di coscienza, e le due classi sono diverse proprio in questo modo di tradurre e di comprendere se stesse. La prima specie di coscienza a svilupparsi nel tempo è quella del sentimento oscuro. Con questo sentimento s’intende comunemente e di regola l’impulso fondamentale compreso come amore del singolo per se stesso, ed è vero che, in un primo tempo, questo sentimento oscuro dà questo Sé solo come qualcosa che vuole vivere e stare bene. Da qui deriva l’egoismo sensibile, come effettivo impulso fondamentale e forza propulsiva di una vita del genere, compresa in questa traduzione del suo fondamentale impulso originario. Finché l’uomo continua a concepirsi così, deve agire in modo egoistico, e non può fare altrimenti; e questo egoismo è l’unico che è persistente, sempre uguale a se stesso, e da aspettarsi sicuramente nel cambiamento incessante della sua vita. Come straordinaria eccezione alla regola, questo sentimento oscuro può anche oltrepassare il Sé personale, e cogliere l’impulso fondamentale come aspirazione a un diverso ordine di cose oscuramente sentito. Da qui scaturisce la vita, che abbiamo descritto sufficientemente altrove, la quale allora, sollevata oltre l’egoismo, viene sospinta da idee, che sono certamente oscure, ma 39

comunque idee, e nella quale la ragione domina come istinto. Questo coglimento dell’impulso fondamentale, in generale solo nel sentimento oscuro, è il tratto fondamentale della prima [303] classe di uomini, che non viene formata dall’educazione, ma da se stessa, e che al suo interno comprende a sua volta due sottospecie, che vengono divise in base a un fondamento incomprensibile, assolutamente inaccessibile all’arte umana. La seconda specie fondamentale della coscienza, che di regola non si sviluppa da sé, ma deve essere accuratamente coltivata nella società, è la conoscenza chiara. Se l’impulso fondamentale dell’umanità venisse colto in questo elemento, allora ciò darebbe una seconda classe di uomini, del tutto diversa dalla prima. Ora, una siffatta conoscenza, che coglie l’amore fondamentale stesso, non lascia freddi e indifferenti, come potrebbe fare un’altra conoscenza, bensì il suo oggetto viene amato più di tutto, poiché questo oggetto è soltanto l’interpretazione e la traduzione del nostro stesso amore originario. L’altra conoscenza coglie un che di estraneo, ed esso resta estraneo e lascia freddi; questa coglie il conoscente stesso e il suo amore, ed egli la ama. Benché ora tutt’e due le classi vengano sospinte dallo stesso amore originario che si manifesta solo in altra forma, tuttavia, prescindendo da questa circostanza, si può dire che là l’uomo viene sospinto da sentimenti oscuri, qui da conoscenza chiara. Come abbiamo detto, che ora una siffatta conoscenza chiara diventi immediatamente trainante nella vita, e che su ciò si possa contare con sicurezza, dipende dal fatto che a essere interpretato dalla conoscenza sia il vero e autentico amore dell’uomo, e anche dal fatto che all’uomo risulti immediatamente chiaro che è così, e al tempo stesso, con l’interpretazione, il sentimento di quell’amore venga in lui stimolato e da lui sentito: cosicché la conoscenza, in lui, non si sviluppi mai senza diventare, al tempo stesso, amore, poiché nel caso opposto l’uomo resterebbe freddo; e mai l’amore senza diventare, al tempo stesso, conoscenza, poiché in caso contrario il suo stimolo diventerebbe un sentimento oscuro: cosicché dunque, a ogni passo della sua formazione, venga formato unitariamente tutto l’uomo. Un uomo trattato continuamente dall’educazione come un intero indivisibile [304] lo resterà anche in seguito, e ogni conoscenza diventerà per lui necessariamente stimolo vitale. 40

2) Mentre in questo modo la conoscenza chiara viene posta in primissimo piano al posto del sentimento oscuro, e viene trasformata nella vera base e punto di partenza della vita, l’egoismo viene completamente aggirato e privato del suo sviluppo. Poiché solo il sentimento oscuro presenta all’uomo il suo Sé come bisognoso di godimento e timoroso del dolore; il concetto chiaro non glielo presenta affatto così, bensì glielo mostra come membro di un ordine etico, e c’è un amore di questo ordine che viene suscitato e sviluppato insieme allo sviluppo del concetto. Con l’egoismo, questa educazione non ha più nulla a che fare, poiché mediante la chiarezza ne ha essiccato la radice, il sentimento oscuro; essa lo contrasta tanto poco quanto lo favorisce, non ne sa assolutamente niente. Se questo desiderio dovesse svilupparsi in seguito, troverebbe il cuore già colmo di un amore più alto, che gli vieterebbe di prendere posto. 3) Ora, questo impulso fondamentale dell’uomo, se viene tradotto in conoscenza chiara, non mira a un mondo dato e già presente, che può solo venire assunto passivamente così come è, e in cui un amore che spinga a un’attività originariamente creativa non troverebbe posto; bensì, innalzato a conoscenza, esso mira a un mondo che deve ancora divenire, un mondo a priori, che esiste nel futuro e rimane futuro in eterno. Perciò, la vita divina alla base di tutto il fenomeno non subentra mai come un essere statico e dato, bensì come qualcosa che deve ancora divenire, e dopo che ciò che doveva ancora divenire è divenuto, subentrerà nuovamente come qualcosa che deve ancora divenire in tutta l’eternità, cosicché quella vita divina non subentra mai nella morte dell’essere statico, bensì resta continuamente nella forma della vita che scorre fluente. L’immediata apparizione e manifestazione di Dio è l’amore; solo l’interpretazione di questo amore mediante la conoscenza pone un essere, e precisamente un essere tale che [305] deve eternamente solo divenire, e lo pone come l’unico mondo vero, nella misura in cui c’è verità in un mondo in generale. Al contrario, il secondo mondo, dato e da noi trovato come già presente, è soltanto l’ombra e lo schema da cui la conoscenza costruisce una figura stabile e un corpo visibile alla sua interpretazione dell’amore; questo secondo mondo è il mezzo e la condizione per l’intuibilità del mondo superiore per se stesso invisibile. Dio non entra immediatamente neppure in quest’ultimo mondo superio41

re, bensì anche qui solo mediante l’unico, puro, immutabile amore che non ha figura, amore in cui solamente egli appare immediatamente. A questo amore si aggiunge la conoscenza intuitiva, che porta con sé un’immagine da se stessa, nella quale riveste l’oggetto in sé invisibile dell’amore; contraddetta tuttavia ogni volta dall’amore, e perciò spinta in avanti verso una nuova configurazione, che allo stesso modo verrà contraddetta ancora una volta; per cui solamente l’amore, che puramente per sé è Uno e assolutamente incapace dell’infinità, dell’eternità e dello scorrere fluente, in questa fusione con l’intuizione diventa un che di eterno e di infinito come questa. L’immagine appena menzionata, che scaturisce dalla conoscenza stessa, presa per sé soltanto e ancora senza applicazione sull’amore conosciuto con evidenza, è il mondo statico e dato, o la natura. L’illusione che l’essenza di Dio entri in questa in qualsiasi modo immediatamente, e non invece mediata dai membri intermedi indicati, deriva da oscurità nello spirito ed empietà nella volontà. 4) Ora, come già ricordato, che il sentimento oscuro, di regola, in quanto solvente dell’amore, venga saltato del tutto, e al suo posto subentri, come solvente abituale, la conoscenza chiara, può accadere solo mediante un’arte meditata di educazione dell’uomo, e finora non è ancora accaduto. Poiché ora, come egualmente abbiamo visto, nell’ultimo modo viene introdotta una specie di uomini assolutamente diversa dagli uomini comuni fino a oggi, e viene posta come la regola, allora certamente mediante una siffatta educazione [306] comincerebbe un ordine di cose interamente nuovo e una nuova creazione. L’umanità si trasformerebbe in questa nuova figura mediante se stessa, educando appunto se stessa, in quanto generazione presente, come generazione futura: nell’unico modo in cui può farlo, mediante la conoscenza come unica luce comune da comunicare liberamente, e come vera luce che lega in unità il mondo degli spiriti, e come aria di questo mondo. Finora, l’umanità è divenuta ciò che è divenuta e che poteva divenire; con questo divenire per approssimazione, è finita; poiché laddove si è sviluppata nella maniera più ampia, essa è divenuta niente. Se non deve restare in questo niente, allora d’ora in avanti deve fare se stessa in tutto ciò che vuole ancora divenire. Nelle lezioni di cui queste sono la continuazione, ho detto che l’autentica destinazione del genere umano sulla terra è quella di diventa42

re con libertà tutto ciò che esso in senso proprio è originariamente1. Ora, questo fare se stessi in generale, con consapevolezza e secondo una regola, deve cominciare una buona volta da qualche parte e in un qualche momento, nello spazio e nel tempo. In tal modo, al posto della prima sezione di uno sviluppo non libero, subentrerebbe una seconda sezione principale del libero e consapevole sviluppo del genere umano. Noi siamo dell’opinione che, per quanto riguarda il tempo, questo tempo sia proprio adesso, e che attualmente la nostra specie si trovi veramente nel mezzo della sua vita sulla terra, tra le sue due epoche principali; per quanto riguarda lo spazio, invece, noi crediamo che spetti innanzitutto ai tedeschi di iniziare il tempo nuovo, anticipandolo e prefigurandolo per tutti gli altri. 5) Tuttavia, neppure questa creazione interamente nuova seguirà da ciò che precede mediante un salto, bensì essa è la vera prosecuzione e conseguenza naturale del tempo passato, particolarmente tra i tedeschi. In modo palese e, come credo, ammesso da tutti, tutta la tensione e lo sforzo del tempo erano diretti a bandire i sentimenti oscuri, e a procurare il dominio esclusivamente alla chiarezza e alla conoscenza. Questo sforzo è anche perfettamente riuscito, nella misura in cui il nulla vigente fino ad ora [307] è stato perfettamente scoperto. In nessun modo questo impulso alla chiarezza deve essere distrutto, né deve tornare a dominare l’ottuso acquietarsi nel sentimento oscuro; ora quell’impulso deve essere sviluppato ulteriormente, ed essere inserito in un cerchio più ampio, in modo tale che, dopo la scoperta del nulla, diventi manifesto anche il qualcosa, la verità affermativa e che pone realmente qualcosa. Il mondo proveniente dal sentimento oscuro, il mondo dell’essere dato e che si faceva mediante se stesso, è sprofondato e così deve rimanere; al contrario, il mondo proveniente dalla chiarezza originaria, il mondo dell’essere da svolgere in eterno a partire dallo spirito, deve irraggiare e irrompere in tutto il suo splendore. È vero che la profezia di una nuova vita in simili forme potrebbe sembrare singolare al nostro tempo, e difficilmente esso potrebbe avere il coraggio di far propria questa promessa, se sol1

Cfr. in particolare GZ, lez. 1, pp. 195-204 (trad. it., cit., pp. 81-94).

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tanto dovesse considerare l’enorme distanza delle sue opinioni dominanti, sugli argomenti di cui abbiamo appena parlato, da quelli che sono stati enunciati come i princìpi del tempo nuovo. Io non voglio parlare della formazione che finora hanno ricevuto, di regola, solo i ceti superiori, per giunta come un privilegio da non condividere, la quale taceva completamente di un mondo soprasensibile, e ambiva a procurare soltanto qualche abilità per gli affari di quello sensibile: è palesemente la peggiore. Invece, voglio considerare quella che è stata l’educazione popolare, e che in un certo senso molto limitato potrebbe essere chiamata anche educazione nazionale, la quale sul mondo soprasensibile non osservava un silenzio assoluto. Quali erano le dottrine di questa educazione? Se noi, come primissima premessa della nuova educazione, poniamo il fatto che alla radice dell’uomo esiste un puro compiacimento per il bene, e che questo compiacimento può essere sviluppato a tal punto che all’uomo diventa impossibile tralasciare ciò che viene conosciuto come buono, e fare al suo posto ciò che viene conosciuto come cattivo; al contrario, l’educazione fino ad ora non soltanto ha ammesso, ma ha anche insegnato ai suoi allievi, fin dalla prima giovinezza, in parte che nell’uomo è insita una naturale repulsione contro i comandamenti di Dio, [308] in parte che per lui è assolutamente impossibile adempierli. Che cos’altro ci si può attendere da un indottrinamento del genere, quando viene preso sul serio e viene creduto, se non che ciascun singolo si rassegni alla sua natura che non può essere cambiata, che non cerchi di fare ciò che gli è stato rappresentato come impossibile, e non cerchi di essere migliore di quanto possono essere lui e tutti gli altri; anzi, che sia addirittura contento della viltà che gli viene attribuita, quella di riconoscere se stesso nella sua radicale peccaminosità e cattiveria, mentre questa viltà gli viene rappresentata come l’unico mezzo per giungere a patti con Dio? E che altro potrebbe pensare, nel caso in cui un’affermazione come la nostra arrivi alle sue orecchie, se non che vogliamo giocargli un brutto tiro, visto che egli sente ovunque nella sua interiorità, e tocca con mano che questo non è vero, bensì lo è soltanto il suo contrario? Se noi ammettiamo una conoscenza completamente indipendente da tutto l’essere dato, e che invece dà la legge a questo essere stesso, e in questa conoscenza immergiamo fin dall’inizio ogni bambino, e d’ora in poi vogliamo mantenerlo sempre nel44

l’ambito di essa, considerando al contrario la conformazione delle cose da apprendere solo storicamente come un accessorio di poco conto, che risulta da sé: allora, ci vengono incontro i migliori esponenti della cultura finora vigente, e ci ricordano che notoriamente non esiste alcuna conoscenza a priori, e che essi vorrebbero davvero sapere come sia possibile conoscere se non per esperienza. E affinché questo mondo soprasensibile e a priori non si tradisca neppure in quel luogo in cui sembrava non si potesse evitare – nella possibilità di una conoscenza di Dio – e la spontaneità spirituale non s’innalzi addirittura a Dio, bensì l’abbandono passivo rimanga tutto in tutto – contro questo pericolo, la formazione umana fino ad ora ha escogitato l’audace mezzo di trasformare l’esistenza di Dio in un fatto storico, la cui verità viene accertata mediante un’escussione di testimoni. [309] Le cose stanno così, eppure l’epoca non dovrebbe disperare di se stessa. Infatti, questi e altri simili fenomeni non sono nulla di autonomo, ma soltanto fiori e frutti della radice selvatica del tempo antico. Se soltanto l’epoca si lasciasse inoculare una nuova radice più nobile e più forte, allora l’altra si seccherebbe, e i suoi fiori e frutti, cui da essa non giungerebbe più nutrimento, appassirebbero e cadrebbero da sé. Adesso l’epoca non può affatto credere alle nostre parole, ed è necessario che esse le appaiano come favole. Noi non vogliamo neppure questa fede; noi vogliamo soltanto spazio per creare e agire. Poi vedrà, e crederà ai suoi occhi. Così, chiunque abbia familiarità con i prodotti del nostro tempo, avrà osservato già da lungo tempo che qui vengono enunciate ancora una volta le proposizioni e i punti di vista che la più recente filosofia tedesca ha predicato fin dal suo inizio, e predicato sempre di nuovo, perché appunto non poteva far altro che predicare. Che queste prediche si siano disperse senza alcun frutto nell’aria vuota è ora chiaro a sufficienza, ed è chiara anche la ragione per cui dovevano disperdersi in questo modo. Il vivente agisce solo sul vivente; ma nella vita reale del tempo non c’è nessuna affinità con questa filosofia, poiché questa filosofia si muove in un orizzonte che per questo tempo non è ancora spuntato, e per organi di senso che in esso non si sono ancora sviluppati. Essa in quest’epoca non è affatto di casa, bensì è un’anticipazione del tempo, e un elemento vitale già pronto in anticipo per una gene45

razione che non ha ancora visto la luce in esso. Essa deve rinunciare alla generazione presente, ma non restare oziosa fino a quel momento; ora assume il compito di formare per sé la generazione cui essa appartiene. Solo quando le sarà divenuto chiaro questo suo compito più immediato, essa potrà vivere in pace e in amicizia con una generazione che per il resto non le piace. L’educazione che abbiamo descritto finora è [310] al tempo stesso l’educazione per essa; ancora una volta soltanto essa, in un certo senso, può essere l’educatrice in questa educazione; e così, dovrebbe precedere la sua comprensibilità e accettabilità. Ma verrà il tempo in cui verrà capita e accolta con gioia; e perciò, l’epoca non dovrebbe disperare di se stessa. Ascolti quest’epoca la visione di un antico veggente, che era riferita a una situazione certo non meno dolorosa. Così dice il veggente presso il fiume Chebar2, il consolatore dei prigionieri non nella propria terra, ma in terra straniera: “La mano del Signore venne sopra di me ed egli mi condusse fuori nello spirito del Signore e mi posò in mezzo alla pianura; questa era piena di ossa. Mi condusse in giro presso di esse ed ecco, erano moltissime sulla superficie della pianura ed ecco, erano assai secche. Quindi mi disse: ‘Figlio dell’uomo, potranno rivivere queste ossa?’. Risposi: ‘Signore Iddio, tu lo sai’. Mi disse allora: ‘Profetizza su queste ossa e di’ loro: Ossa aride, udite la parola del Signore. Così ha detto il Signore Iddio a queste ossa: Ecco, io faccio venire in voi uno spirito e vivrete. Metterò su di voi i nervi, farò crescere su di voi la carne, stenderò sopra di voi la pelle, infonderò in voi il respiro e vivrete. E riconoscerete che io sono il Signore’. Io profetai come mi era stato comandato e, mentre profetavo, si sentì un rumore e subito un frastuono, e le ossa si avvicinarono l’una all’altra. Guardai ed ecco, sopra di esse i nervi, venne su la carne e si stese su di essi, al di sopra, la pelle, ma non vi era ancora il respiro. Allora mi disse: ‘Profetizza al vento, profetizza, figlio dell’uomo, e di’ al vento: Così ha detto il Signore Iddio: Vieni, o vento, dai quattro venti e soffia su questi morti, perché abbiano la vita’. Io profetai come mi era stato comandato e venne in essi il respiro, ebbero la vi2 “Grande canale dell’Eufrate, identificato con l’attuale Scatt-en-mil, che scorre verso est, nei pressi di Babilonia” (La Bibbia concordata, Milano 1999, vol. 2, p. 1158, nota 1).

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ta e si drizzarono in piedi: erano un esercito grande, immenso”3. Lasciate pure che le componenti della nostra superiore vita spirituale si secchino così, e proprio perciò, [311] lasciate pure che si strappino anche i vincoli della nostra unità nazionale, e lasciateli giacere per terra qua e là in selvaggio disordine, come le ossa dei morti del veggente; lasciateli ingiallire e seccare sotto le tempeste, i temporali e la torrida canicola di più secoli; il respiro vivificante del mondo degli spiriti non ha ancora smesso di soffiare. Esso afferrerà anche le ossa senza vita del nostro corpo nazionale e le rimetterà insieme, perché tornino a vivere in una vita nuova e trasfigurata. 3 Ezechiele 37, 1-10 (ivi, pp. 1250-51; traduzione modificata per omogeneità col testo tedesco).

Quarto discorso

La diversità capitale tra i tedeschi e gli altri popoli di provenienza germanica

Abbiamo detto che il mezzo per formare un nuovo genere umano proposto in questi discorsi dovrebbe essere applicato anzitutto da tedeschi a tedeschi, e che esso è particolarmente adatto prima di tutto alla nostra nazione. Anche questa proposizione ha bisogno di una dimostrazione, e noi partiremo anche qui, come abbiamo fatto finora, da ciò che è più alto e più universale, mostrando ciò che il tedesco in sé e per sé, nel suo carattere fondamentale, è, e da quando esiste è sempre stato, indipendentemente dal destino che lo ha colpito in questo momento. Mostreremo che la capacità e la ricettività per una formazione siffatta è già contenuta in questo carattere fondamentale, in modo esclusivo rispetto a tutte le altre nazioni europee. I tedeschi sono, per prima cosa, un ceppo dei Germani in generale. Su questi ultimi, qui basti dire che furono essi [312] a unificare l’ordine sociale istituito nell’antica Europa con la vera religione custodita nell’antica Asia, e a sviluppare così da se stessi un’età nuova, in contrasto con l’antichità al tramonto. Inoltre, è sufficiente caratterizzare il tedesco in particolare solo in contrasto con gli altri popoli germanici sorti accanto a lui. Infatti, altre nazioni dell’Europa moderna, come ad esempio quelle di provenienza slava, sembra che non si siano sviluppate in modo così chiaro, rispetto al resto d’Europa, da poterne fornire una descrizione precisa, mentre altre di eguale provenienza germanica, come gli scandinavi, per le quali il fondamento della distinzione che 48

andremo subito a indicare non è valido, qui vengono assunte senza alcun dubbio come tedesche, e sono comprese in tutte le conseguenze generali delle nostre considerazioni. Ma prima di cominciare, bisogna fare la seguente osservazione. Come fondamento della differenza prodottasi nel ceppo originariamente indiviso, io indicherò un fatto che, in quanto fatto, è chiaramente e inconfutabilmente sotto gli occhi di tutti; poi, presenterò singole manifestazioni di questa differenza prodottasi, che in quanto meri fatti possono essere spiegate in modo altrettanto chiaro. Ma per quanto riguarda il collegamento di queste ultime, come conseguenze, con il primo in quanto loro fondamento, e la deduzione della conseguenza dal fondamento, non posso contare sul fatto che essi possiedano la stessa chiarezza e forza persuasiva per tutti. È vero che, anche da questo punto di vista, io non enuncio proposizioni del tutto nuove e sin qui mai udite, bensì tra noi ci sono diverse persone che o sono assai ben preparate per una simile concezione, o addirittura sono già familiari con essa. Ma, sull’argomento in questione, le idee correnti nella maggioranza sono assai divergenti dalle nostre, e per correggerle e confutare tutte le obiezioni basate su casi singoli, che potrebbero essere addotte da chi è sprovvisto di un senso esercitato per l’intero, ci vorrebbe un tempo di gran lunga superiore a quello a nostra disposizione, e oltrepasserebbe i limiti del nostro programma. [313] A costoro, devo accontentarmi di fornire ciò che va detto a questo riguardo come semplice spunto per la loro ulteriore riflessione. Nel complesso del mio pensiero, tutto ciò potrebbe essere disposto in modo non così isolato e frammentario, e senza fondazione fin nella profondità del sapere, come si presenta qui. A parte la serietà per l’intero, che non può essere trascurata, non ho potuto fare a meno di dirlo anche solo rispetto alle importanti conseguenze che ne deriveranno nel prosieguo dei nostri discorsi, e che fanno parte in senso vero e proprio del nostro compito più immediato. La differenza tra il destino dei tedeschi e quello degli altri ceppi provenienti dalla stessa radice, che si presenta all’osservazione immediatamente e prima di tutte le altre, è che i primi sono rimasti nelle sedi originarie del popolo di provenienza, mentre gli altri sono migrati in altri luoghi; i primi hanno conservato e formato ulteriormente la lingua originaria del popolo di provenienza, i se49

condi hanno accolto una lingua straniera e l’hanno trasformata gradualmente a modo loro. Le differenze subentrate successivamente possono essere spiegate solo da questa anteriore diversità, e non in ordine inverso: per esempio, il fatto che nella patria originaria, conformemente all’originario costume germanico, sia rimasta una federazione di Stati sotto un sovrano limitato, mentre nei territori stranieri, più sul precedente modello romano, la costituzione è sfociata in monarchie; e così via. Tra i cambiamenti indicati, il primo, cioè il cambiamento di patria, è del tutto insignificante. L’uomo si ambienta facilmente sotto qualunque striscia di cielo, e la peculiarità del popolo, lungi dall’essere molto modificata dalla sede stanziale, al contrario domina quest’ultima e la modifica in conformità con sé. Anche la diversità degli influssi naturali non è molto grande sotto i cieli abitati da popolazioni germaniche. Altrettanto poco si può attribuire un peso alla circostanza che nei territori conquistati i popoli di provenienza germanica si siano mescolati con i precedenti abitanti; perché comunque furono soltanto i Germani a vincere, a dominare e a formare il nuovo popolo uscito dalla mescolanza. [314] Inoltre, la stessa mescolanza che all’estero ebbe luogo con Galli, Cantabri, eccetera avvenne in misura certo non inferiore nella madrepatria con gli Slavi; cosicché nessuno dei popoli sorti dai Germani potrebbe dimostrare al giorno d’oggi una maggiore purezza della sua provenienza rispetto agli altri. Più significativo, invece, e, come ho sostenuto, tale da fondare una perfetta opposizione tra i tedeschi e gli altri popoli di provenienza germanica, è il secondo cambiamento, quello della lingua; e qui non si tratta, lo voglio dichiarare con chiarezza fin da subito, né della costituzione particolare della lingua che è stata conservata da questo ceppo, né di quella dell’altra lingua che è stata assunta dall’altro ceppo, bensì esclusivamente del fatto che lì è stato conservato qualcosa di proprio, qui è stato assunto qualcosa di estraneo; né si tratta della provenienza anteriore di coloro che continuano a parlare una lingua originaria, bensì solo del fatto che si continui senza interruzione a parlare questa lingua, poiché gli uomini vengono formati dalla lingua molto più di quanto la lingua venga formata dagli uomini. Per chiarire le conseguenze di una simile differenza nella generazione dei popoli, e il determinato tipo di opposizione tra i ca50

ratteri nazionali che segue necessariamente da questa diversità, nella misura in cui è possibile farlo qui, devo invitarvi a una considerazione sull’essenza del linguaggio in generale1. Il linguaggio in generale, e in modo particolare la designazione degli oggetti in esso mediante il risuonare degli organi vocali, non dipende affatto da decisioni e accordi arbitrari, bensì esiste prima di tutto una legge fondamentale, secondo cui ogni concetto negli organi vocali dell’uomo diventa questo suono e nessun altro. Come gli oggetti si riproducono negli organi sensibili del singolo con questa determinata figura, colore, eccetera, così nell’organo dell’uomo sociale, nel linguaggio, si riproducono con questo determinato suono. Non è propriamente l’uomo che parla, bensì in lui parla la [315] natura umana, e si annuncia agli altri suoi simili. E così si dovrebbe dire: il linguaggio è uno solo, ed è assolutamente necessario. Ora, certamente, può darsi – ed è il secondo aspetto – che il linguaggio in questa sua unità non sia mai emerso da nessuna parte per l’uomo semplicemente in quanto tale, bensì sia emerso dappertutto ulteriormente modificato e formato dagli effetti che il luogo e l’uso, più o meno frequente, hanno avuto sugli organi vocali e che la sequenza degli oggetti osservati e indicati ha avuto sulla sequenza della designazione. Tuttavia, anche qui non ha luogo arbitrio o approssimazione, bensì legge rigorosa; ed è necessario che, in un organo vocale così determinato dalle condizioni menzionate, non emerga la lingua unica e pura degli uomini, bensì una sua deviazione, e precisamente proprio questa deviazione determinata. Se chiamiamo un popolo gli uomini che subiscono i medesimi influssi esterni sull’organo vocale, e che sviluppano il loro linguaggio in comunicazione continua, allora dobbiamo dire che la lingua di questo popolo è necessariamente così come è, e non è 1 Fichte si era già occupato di questo problema nello scritto Von der Sprachfähigkeit und dem Ursprung der Sprache (1795), GA, I, 3, pp. 97-127; trad. it. La facoltà linguistica e l’origine del linguaggio, in J.G. Fichte, Scritti sulla dottrina della scienza, a cura di M. Sacchetto, Torino 1999, pp. 443-480; questo e altri testi jenesi erano già apparsi in J.G. Fichte, Scritti sul linguaggio, 1795-1797, a cura di C. Tatasciore, coll. Fichtiana, Milano 1998.

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propriamente questo popolo che esprime la sua conoscenza, bensì è la sua conoscenza stessa che si esprime a partire da esso. In tutti i cambiamenti provocati, nello sviluppo del linguaggio, dalle circostanze sopra ricordate, questa conformità alla legge resta ininterrottamente ed esattamente la stessa e unica conformità alla legge per tutti coloro che restano in comunicazione ininterrotta, e ovunque il Nuovo enunciato da ciascun singolo giunga all’orecchio di tutti. Dopo millenni, e dopo tutti i cambiamenti sperimentati nel loro corso dall’apparenza esterna della lingua di questo popolo, resta sempre la stessa unica, vivente forza linguistica della natura – che doveva erompere originariamente così – che è fluita ininterrottamente attraverso tutte le circostanze, e in ciascuna di queste è dovuta divenire così come è divenuta, alla loro fine è dovuta essere così come è adesso, e tra qualche tempo sarà così come dovrà essere allora. [316] La lingua puramente umana, considerata ai primi inizi assieme all’organo del popolo, risuonò come suo primo suono; ciò che ne è risultato, considerato in seguito con tutti gli sviluppi che questo primo suono dovette subire nelle circostanze date, dà come ultima conseguenza l’attuale lingua del popolo. Perciò, anche la lingua resta sempre la stessa lingua. Anche se i posteri, dopo qualche secolo, non capiscono più la lingua parlata un tempo dai loro avi – poiché per essi i passaggi sono andati perduti – tuttavia c’è fin dall’inizio un passaggio continuo, senza salti, sempre inosservato nel presente, e reso osservabile solo con l’aggiunta di nuovi passaggi, e che perciò sembra un salto. Non è mai esistito un momento in cui i contemporanei abbiamo smesso di capirsi, poiché il loro eterno mediatore e interprete è sempre stata ed è rimasta la forza naturale comune parlante da tutti loro. Così stanno le cose per la lingua, in quanto designazione degli oggetti di percezione immediatamente sensibile, e ogni lingua umana, all’inizio, è questo. Se da essa il popolo s’innalza al coglimento del soprasensibile, allora in un primo tempo questo soprasensibile, per poter essere ripetuto a piacimento e per evitare la confusione col sensibile, nel caso del primo singolo; per poter essere comunicato e per fornire una guida adeguata, nel caso degli altri, può essere fissato solo designando un Sé in quanto organo di un mondo soprasensibile, e distinguendolo accuratamente dallo stesso Sé in quanto organo del mondo sensibile – opponendo a un organismo corporeo un’anima, un senti52

mento e simili. Inoltre, poiché i diversi oggetti di questo mondo soprasensibile appaiono, nel loro insieme, soltanto in quell’organo soprasensibile, ed esistono solo per esso, potrebbero essere designati nel linguaggio solo dicendo che essi hanno, col loro organo, lo stesso rapporto che questo o quel determinato oggetto sensibile ha con l’organo sensibile; equiparando, in questo rapporto, un soprasensibile particolare a un sensibile particolare; e, attraverso questa equiparazione, [317] indicando mediante il linguaggio il suo luogo nell’organo soprasensibile. In questo campo, la lingua non può fare nulla di più; essa dà un’immagine sensibile del soprasensibile, limitandosi a osservare che si tratta di un’immagine del genere; chi vuole giungere alla cosa, deve porre in movimento il suo proprio organo spirituale, secondo la regola fornita dall’immagine. In generale, è chiaro che questa designazione simbolica del soprasensibile dovrà orientarsi, ogni volta, secondo lo stadio di sviluppo raggiunto, tra il popolo dato, dalla facoltà conoscitiva della sensibilità; che perciò, l’inizio e lo sviluppo di questa designazione simbolica avverrà, nelle diverse lingue, in modi molto diversi, secondo la diversità del rapporto che ha avuto e continua ad avere luogo tra formazione sensibile e formazione spirituale del popolo. Ravviviamo con un esempio questa osservazione, già chiara di per sé. Con una parola greca che viene comunemente usata anche nella lingua tedesca, noi chiamiamo idea qualcosa che sorge in seguito al coglimento (spiegato nel discorso precedente) dell’impulso fondamentale non solo mediante il sentimento oscuro, ma subito mediante conoscenza chiara, come sempre avviene nel caso di un oggetto soprasensibile, e quella parola esprime esattamente lo stesso simbolo della parola tedesca Gesicht, “visione”, come appare nelle seguenti locuzioni della traduzione luterana della Bibbia: “Avrete visioni, farete sogni”. Idea o visione, nel significato sensibile, sarebbe qualcosa che può essere afferrato solo dall’occhio del corpo, in nessun modo invece da un altro senso, per esempio dal gusto, dall’udito, eccetera, come ad esempio un arcobaleno, o le figure che ci passano davanti in sogno. Lo stesso simbolo, nel significato soprasensibile, vorrebbe dire anzitutto, secondo l’ambito in cui la parola deve valere, qualcosa che non viene afferrato dal corpo, ma solo dallo spirito; poi, qualcosa che non può essere afferrato neppure dal sentimento oscuro dello spi53

rito, come diverse altre cose, ma esclusivamente dal suo occhio, dalla conoscenza chiara. Se ipotizzassimo, inoltre, che per questa designazione simbolica i Greci [318] si siano basati sull’arcobaleno e su fenomeni del genere, allora dovremmo ammettere che la loro conoscenza sensibile si era innalzata, già in precedenza, a osservare la differenza tra le cose, cioè il fatto che alcune si manifestano a tutti i sensi o a più di uno, altre soltanto all’occhio; e che inoltre, se avessero avuto chiaro il concetto sviluppato, non avrebbero dovuto designarlo così, ma in un altro modo. Allora, balzerebbe all’occhio anche la loro superiore chiarezza spirituale rispetto a un altro popolo, poniamo, che non abbia saputo designare la differenza tra sensibile e soprasensibile mediante un simbolo tratto dal cosciente stato di veglia, bensì, per trovare l’immagine di un altro mondo, sia dovuto ricorrere al sogno; al tempo stesso, verrebbe in luce che questa differenza non dipende dal fatto che il senso per il soprasensibile sia, nei due popoli, più o meno forte, ma solamente dalla diversità della loro chiarezza sensibile, nel momento in cui vollero designare un che di soprasensibile. Così, ogni designazione del soprasensibile si orienta secondo l’ampiezza e la chiarezza della conoscenza sensibile di colui che qui designa. Il simbolo gli è chiaro, ed esprime il rapporto di ciò che è concepito con l’organo spirituale in un modo che gli è perfettamente comprensibile, poiché questo rapporto gli viene spiegato da un altro rapporto, immediatamente vivente, con il suo organo sensibile. Questa nuova designazione, sorta in tal modo, viene ora deposta nel linguaggio con tutta la nuova chiarezza, che la conoscenza sensibile stessa riceve da questo uso allargato del segno; e la possibile conoscenza soprasensibile futura viene ora designata secondo il suo rapporto con l’intera conoscenza sensibile e soprasensibile deposta nel tutto della lingua; e si procede ininterrottamente così, in modo tale che la chiarezza e la comprensibilità immediate dei simboli non siano mai interrotte, bensì restino un flusso continuo. Inoltre, poiché la lingua non è trasmessa per arbitrio, bensì sboccia dalla vita intellettuale come un’immediata forza naturale, [319] una lingua che continua a svilupparsi senza interruzione secondo questa legge possiede anche la forza di intervenire immediatamente nella vita e di stimolarla. Come le cose immediatamente presenti muovono l’uomo, così anche le parole di una lingua siffatta muovono colui che le intende, poiché 54

anch’esse sono cose, e niente affatto artifici arbitrari. Così avviene innanzitutto nel sensibile. Ma non altrimenti accade nel soprasensibile. Infatti, benché in relazione a quest’ultimo il progresso continuo dell’osservazione naturale venga interrotto dalla libera meditazione e riflessione – e qui subentri, per così dire, il Dio infigurabile – tuttavia la designazione mediante il linguaggio rinvia immediatamente l’infigurabile alla connessione continua del figurabile; e così, anche da questo punto di vista, il progresso continuo della lingua, emersa dapprima come forza naturale, resta ininterrotto, e nel flusso della designazione non subentra alcun arbitrio. Perciò, anche alla parte soprasensibile di una lingua che continua a svilupparsi in modo così continuo, non può mancare la forza stimolatrice di vita verso colui che solo ponga in movimento il suo organo spirituale. Le parole di una lingua siffatta sono vita e creano vita in tutte le sue parti. Se facciamo l’ipotesi, anche riguardo allo sviluppo della lingua per il soprasensibile, che il popolo di questa lingua sia rimasto in comunicazione ininterrotta, e che ciò che uno ha pensato e detto abbia raggiunto ben presto tutti: allora, ciò che finora abbiamo detto in generale, vale per tutti quelli che parlano questa lingua. Per tutti quelli che solo vogliano pensare, il simbolo deposto nella lingua è chiaro; per tutti quelli che qui pensano veramente, essa è viva e stimola la loro vita. Così, dico, stanno le cose con una lingua che, fin dal primo suono emesso nello stesso popolo, si è ininterrottamente sviluppata dall’effettiva vita comune di questo popolo, e nella quale non si è mai inserita una componente che non esprimesse un’intuizione effettivamente vissuta di questo popolo, e un’intuizione in connessione onnilaterale con tutte le altre intuizioni dello stesso popolo. Lasciate che al popolo d’origine di questa lingua [320] vengano incorporati tanti singoli, quanti si voglia, di un altro ceppo e di un’altra lingua; a meno che a costoro non sia concesso di innalzare l’ambito delle loro intuizioni fino alla posizione da cui, d’ora in poi, si svilupperà la loro lingua, essi resteranno muti nella comunità, e senza influsso sulla lingua, finché essi stessi non saranno entrati nel campo delle intuizioni del popolo d’origine, e allora non saranno loro a formare la lingua, bensì la lingua a formare loro. Ma accade tutto il contrario di ciò che abbiamo detto finora, se un popolo, rigettando la propria lingua, ne assume una stra55

niera, già molto formata per la designazione soprasensibile; e precisamente, non in modo da concedersi del tutto liberamente all’influsso di questa lingua straniera, accontentandosi di tacere fino a che non sia entrato nel circolo delle sue intuizioni; bensì, in modo da imprimere su questa lingua straniera il circolo della propria intuizione, cosicché quest’ultima, dalla posizione in cui essi l’avevano trovata, d’ora in poi deve muoversi in tale circolo. È vero che questo evento non ha conseguenze rispetto alla parte sensibile della lingua. In ciascun popolo, i bambini devono comunque imparare questa parte della lingua proprio come se i segni fossero arbitrari, e così devono ripercorrere tutto il precedente sviluppo linguistico della nazione; ma in questo ambito sensibile, ogni segno può essere chiarito perfettamente mediante la visione o il contatto immediati col designato. Al massimo, da ciò risulterebbe che la prima generazione di un popolo che cambia la sua lingua sarebbe costretta a ritornare alla sua infanzia; ma con la generazione successiva e quelle future, tutto tornerebbe al vecchio ordine. Al contrario, questo cambiamento ha le più importanti conseguenze per quanto riguarda la parte soprasensibile della lingua. È vero che essa, per i primi possessori della lingua, si è formata nel modo descritto finora; ma per chi se ne appropria successivamente, il simbolo contiene una comparazione con l’intuizione sensibile che essi, senza avere la formazione spirituale corrispondente, [321] hanno già saltato da lungo tempo, oppure non hanno ancora avuto e non potranno mai avere. Il massimo che possono fare, in proposito, è farsi spiegare il simbolo e il suo significato spirituale, ottenendo con ciò la storia morta e superficiale di una cultura estranea, ma non una cultura propria; e ricevendo immagini che per essi non sono né immediatamente chiare, né tanto meno suscitatrici di vita, bensì tali da dover apparire completamente arbitrarie quanto la parte sensibile della lingua. Ora, con l’entrata in scena come chiarificatrice della mera storia, la lingua per loro è finita, è morta rispetto all’intero ambito della sua forza simbolica, e il suo continuo fluire è interrotto; e benché a loro modo, per quanto un simile punto di partenza lo renda possibile, essi possano nuovamente formare questo linguaggio in modo vivente al di là di quell’ambito, pure quella componente storica rimane come una barriera, contro cui l’originario sorgere dalla vita della lingua come forza naturale – e il suo ritorno alla vita co56

me lingua reale – s’infrangono senza eccezione. Benché in superficie una lingua siffatta possa essere mossa dal vento della vita, e dare di sé un’apparenza di vita, pure più in profondità essa ha un elemento morto, e con l’ingresso del nuovo circolo di intuizione e l’interruzione del vecchio, essa è stata recisa dalla sua radice vivente. Ravviviamo ciò che abbiamo detto con un esempio, aggiungendo a sostegno di quest’ultimo che una lingua del genere, nel suo fondamento morta e incomprensibile, si lascia anche pervertire molto facilmente, e se ne può abusare per abbellire in ogni modo la corruzione umana. Per un esempio del genere mi servo delle tre famigerate parole “umanità”, “popolarità”, “liberalità”2. Queste parole, pronunciate davanti al tedesco che non ha imparato nessun’altra lingua, sono per lui un suono completamente vuoto, che per affinità vocale non gli ricorda nulla di noto, e così esce perfettamente al di fuori del circolo della sua intuizione e di ogni intuizione possibile. [322] Se ora, tuttavia, la parola sconosciuta risveglia la sua attenzione col suo suono straniero, elegante e gradevole, ed egli pensa che ciò che suona così nobilmente debba anche significare qualcosa di elevato, egli deve farsi spiegare questo significato completamente dall’inizio e come qualcosa di interamente nuovo per lui, e può credere a questa spiegazione solo ciecamente, e così si abitua tacitamente a riconoscere come davvero esistente e degno di importanza qualcosa che lui, se lasciato a se stesso, forse non avrebbe mai trovato degno di menzione. Non si creda che con i popoli neolatini, che credono di pronunciare quelle parole come parole della madrelingua, le cose stiano molto diversamente. Senza studio erudito dell’antichità e della sua lingua effettiva, essi capiscono le radici di queste parole altrettanto poco dei tedeschi. Ora, se davanti al tedesco, al posto della parola “umanità”, si fosse pronunciata la parola Menschlichkeit, che ne è la traduzione letterale, egli allora ci avrebbe capito senza ulteriore spiegazione storica; ma avrebbe detto: “Non è poi una gran cosa essere un uomo, e non una bestia selvaggia”. Ma egli avrebbe detto così, come certo un Romano non avrebbe mai detto, perché l’umanità in generale, nella sua lingua, è rimasta so2 Su queste espressioni, Fichte si era già soffermato supra, Primo discorso, p. 11.

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lo un concetto sensibile, non è mai divenuta invece, come presso i Romani, simbolo di un concetto soprasensibile; poiché forse i nostri avi avevano osservato molto prima le singole virtù umane, e le avevano indicate simbolicamente nel linguaggio, prima che sia capitato loro di riunirle in un concetto unitario, e precisamente come opposizione alla natura animale, il che del resto non ha procurato ai nostri avi nessun biasimo di fronte ai Romani. Ora, chiunque volesse insinuare artificiosamente nella lingua dei tedeschi questo simbolo estraneo e romano, evidentemente sottovaluterebbe il loro modo di pensare etico, poiché spaccerebbe loro come vantaggioso e lodevole qualcosa che potrebbe anche essere tale nella lingua straniera, ma che costui, secondo l’incancellabile natura della sua immaginazione nazionale, intende semplicemente come noto e affatto indispensabile. Forse, con una ricerca più precisa, si potrebbe mostrare [323] che simili sottovalutazioni del modo di pensare etico precedente, mediante l’assunzione di simboli inadatti ed estranei, hanno caratterizzato fin dall’inizio i ceppi germanici che hanno accolto la lingua di Roma; tuttavia, qui l’accento non cade principalmente su questa circostanza. Se poi, invece delle parole “popolarità” e “liberalità”, dicessi al tedesco le espressioni “ricercare avidamente il favore del maggior numero” e “distanza dal servilismo”, che ne sono la traduzione letterale, in un primo momento egli non riceverebbe nemmeno l’immagine sensibile, chiara e vivace, che senz’altro riceveva il Romano dell’antichità. Costui aveva tutti i giorni davanti agli occhi l’ipocrita cortesia rivolta a chiunque dal candidato avido di onori, così come le manifestazioni di servilismo, e quelle parole riproducevano tutto ciò in modo vivo davanti a lui. Col cambiamento della forma di governo e l’introduzione del cristianesimo, questi spettacoli erano già stati sottratti al Romano di età più tarda, allo stesso modo in cui, in generale, la sua propria lingua cominciò a morire in gran parte sulle sue labbra, in particolare a causa del cristianesimo estraneo, che egli non era in grado né di respingere, né di assimilare. Come avrebbe potuto questa lingua, già mezza morta nella propria patria, essere tramandata in modo vivo a un popolo straniero? Come potrebbe esserlo, ora, a noi tedeschi? Inoltre, per quanto riguarda il simbolo di qualcosa di spirituale che si trova in quelle due espressioni, nella “popolarità” si trova già in origine un vizio che, con la decadenza della nazione e 58

della sua costituzione, in bocca a essa venne travisato come virtù. Il tedesco, purché essa gli venga presentata nella sua propria lingua, non cadrà mai in questo travisamento. Invece, alla traduzione di “liberalità” dicendo che un uomo non ha un’anima da schiavo, oppure, secondo il nuovo costume, che non ha un modo di pensare da lacchè, risponderebbe ancora una volta che anche questo non significa poi molto. Ma in questi simboli, che già nella loro forma pura, presso i Romani, erano sorti a un basso livello di cultura etica, o indicavano addirittura un vizio, nel corso dello sviluppo delle [324] lingue neolatine si sono insinuati anche i concetti della mancanza di serietà nei rapporti sociali, del lasciarsi andare, della fatuità senz’anima, e questi stessi concetti sono stati portati nella lingua tedesca, in silenzio e senza che qualcuno notasse chiaramente di che cosa si trattava, perché anche noi attribuissimo loro importanza grazie al loro aspetto antico e straniero. Questo è da sempre lo scopo e il risultato di ogni intromissione: prima di tutto, avvolgere l’ascoltatore, dall’immediata comprensibilità e precisione che ogni lingua originaria porta con sé, nell’oscurità e incomprensibilità; quindi, dopo avergli fatto credere ciecamente, in questo modo, di doversi affidare a una spiegazione ormai necessaria, confondere a tal punto vizio e virtù da rendere difficile riuscire di nuovo a separarli. Se al tedesco avessimo detto, con parole sue e all’interno della sua cerchia simbolica, ciò che quelle tre parole straniere vogliono dire – posto che vogliano dire qualcosa – cioè: Menschenfreundlichkeit [cortesia, gentilezza, amabilità], Leutseligkeit [socievolezza, cordialità], Edelmut [nobiltà d’animo], egli ci avrebbe capito, ma i vizi indicati non sarebbero mai riusciti a insinuarsi in quei nomi. Nell’ambito del discorso tedesco, un simile avvolgimento nell’incomprensibilità e oscurità nasce o da incapacità, oppure da astuzia maligna; esso deve essere evitato, e come aiuto è sempre disponibile la traduzione in autentico, vero tedesco. Nelle lingue neolatine, invece, questa incomprensibilità è naturale e originaria, e non può essere evitata con nessun mezzo, poiché esse, in generale, non si trovano in possesso di una lingua vivente su cui possano verificare la lingua morta, e in senso proprio non hanno affatto una lingua materna. Ciò che abbiamo esposto in questo esempio potrebbe facilmente applicarsi all’intero ambito della lingua, dando gli stessi ri59

sultati e, nella misura in cui è possibile farlo qui, dovrebbe avervi chiarito ciò che abbiamo detto finora. [325] Si tratta della parte soprasensibile della lingua, non di quella sensibile. Questa parte soprasensibile, in una lingua rimasta sempre viva, è simbolica, riassumendo a ogni passo in compiuta unità il tutto della vita sensibile e spirituale della nazione, deposta nella lingua, per designare un concetto a sua volta non arbitrario, ma emergente dall’intera vita della nazione fino ad ora. Da tale concetto e dalla sua designazione, un occhio acuto dovrebbe poter costruire a ritroso l’intera storia culturale della nazione. In una lingua morta, invece, la parte soprasensibile è la stessa di quando la lingua era ancora viva, e con l’uccisione di quest’ultima, essa si trasforma in una raccolta dispersa di segni arbitrari e assolutamente inspiegabili per concetti altrettanto arbitrari. Con ambedue non si può fare altro, appunto, che impararli. Con ciò abbiamo risolto il nostro compito più immediato, di trovare il tratto fondamentale che distingue il popolo tedesco dagli altri popoli di provenienza germanica. La diversità è sorta subito con la prima separazione del ceppo comune, e consiste nel fatto che il popolo tedesco parla una lingua viva fin dentro al suo primo scaturire dalla forza naturale, mentre gli altri ceppi germanici parlano una lingua animata solo in superficie, ma morta alla radice. Noi poniamo la differenza esclusivamente in questa circostanza, nella vitalità e nella morte; non ci pronunciamo affatto, invece, sul restante valore interno della lingua tedesca. Tra vita e morte non ha luogo alcuna comparazione, e la prima ha valore infinito rispetto alla seconda; perciò, tutte le comparazioni immediate tra lingua tedesca e lingue neolatine sono assolutamente senza valore, e sono costrette a parlare di cose di cui non vale la pena parlare. Se si dovesse porre la questione del valore interno della lingua tedesca, allora almeno dovrebbe entrare in campo una lingua di pari rango e altrettanto originaria, come forse la lingua greca; [326] ma il nostro scopo presente si trova molto al di sotto di una comparazione simile. Possiamo indovinare, in linea generale, quale incalcolabile influsso sull’intero sviluppo umano di un popolo possa avere la costituzione della sua lingua, la lingua che accompagna il singolo fin nelle più recondite profondità del suo animo nel pensare e volere, e lo limita o gli dà le ali; che nel suo ambito connette tut60

ta la moltitudine di uomini che la parlano in un unico intelletto comune; che è il vero punto di confluenza reciproca del mondo sensibile e di quello degli spiriti, e fonde così intimamente i loro estremi che non si può più dire a quale dei due essa appartenga; possiamo indovinare quanto siano diverse le conseguenze di questo influsso, là dove è in gioco il rapporto tra vita e morte. Anzitutto, è chiaro che il tedesco ha un mezzo per indagare la sua lingua viva ancora più profondamente, confrontandola con la lingua latina ormai estinta, che nello sviluppo della simbolizzazione diverge molto dalla propria; come viceversa, seguendo la stessa via, può capire meglio anche la seconda, cosa che non è possibile ai neolatini, che in fondo restano prigionieri nell’ambito di un’unica e medesima lingua. In quanto impara la lingua latina d’origine, il tedesco acquisisce in un certo senso anche le lingue derivate, e se riuscisse a imparare la prima più profondamente degli stranieri, cosa che può fare senz’altro per la ragione che abbiamo detto, imparerebbe a comprendere anche le lingue di questi stranieri in modo molto più profondo, e ad appropriarsene in modo molto più caratteristico di quelli stessi che le parlano. Perciò il tedesco, se solo si serve di tutti i suoi vantaggi, può sempre avere uno sguardo d’insieme sugli stranieri, e può capirli perfettamente, addirittura meglio di loro stessi, e tradurli in tutta la loro estensione; mentre gli stranieri, senza un apprendimento assai faticoso della lingua tedesca, non potranno mai veramente capire i tedeschi, e lasceranno indubbiamente non tradotto ciò che è autenticamente tedesco. Ciò che in queste lingue possiamo imparare solo dagli stranieri, sono [327] perlopiù nuovi modi di dire, sorti per noia ed eccentricità, e si vale molto poco se si cede a questi indottrinamenti alla moda. Il più delle volte, invece, si potrebbe mostrare loro come dovrebbero parlare in accordo con la lingua d’origine e con le sue leggi di trasformazione, e che la nuova moda non c’entra niente, e urta contro il buon uso tradizionale. – Come abbiamo detto, quella ricchezza di conseguenze in generale, così come la conseguenza particolare menzionata da ultima, viene fuori da sé. Ma la nostra intenzione è quella di cogliere queste conseguenze nell’insieme, secondo il loro legame unitario e in profondità, per fornire in tal modo una descrizione approfondita dei tedeschi in opposizione agli altri ceppi germanici. Elenco brevemente que61

ste conseguenze in via preliminare: 1) Nel popolo della lingua viva, la formazione dello spirito interviene nella vita; nel popolo contrario, la cultura spirituale e la vita vanno ciascuna per la propria strada. 2) Per la stessa ragione, un popolo del primo tipo con la formazione dello spirito fa veramente sul serio, e vuole che essa intervenga nella vita; al contrario, per un popolo del secondo tipo, essa è piuttosto un gioco geniale, con cui non vuole fare nient’altro. I secondi hanno spirito; i primi, oltre allo spirito, hanno anche un cuore. 3) Conseguenza della seconda: i primi sono seri e diligenti, e s’impegnano onestamente in tutte le cose; i secondi, al contrario, si lasciano andare alla loro felice natura. 4) Conseguenza di tutto ciò che precede: in una nazione del primo tipo, il popolo incolto è plasmabile, e quelli che lo plasmano sperimentano le loro scoperte nel popolo, e vogliono influire su di esso; al contrario, in una nazione del secondo tipo i ceti colti si separano dal popolo, e considerano quest’ultimo solo un cieco strumento dei loro piani. Riservo l’ulteriore trattazione di queste caratteristiche alla prossima ora.

Quinto discorso

Conseguenze della diversità indicata

[328] Per descrivere la peculiarità dei tedeschi, è stata mostrata la differenza fondamentale tra questi e gli altri popoli di provenienza germanica, secondo la quale i primi sono rimasti nella corrente ininterrotta di una lingua originaria, che si continua a sviluppare dalla vita reale, i secondi invece hanno recepito una lingua a essi estranea, che è stata uccisa sotto il loro influsso. Alla fine dell’ora precedente, abbiamo indicato altri aspetti di queste stirpi così diverse, che dovettero necessariamente scaturire da quella differenza fondamentale; e oggi svilupperemo ulteriormente questi aspetti, e li fonderemo più solidamente sul loro terreno comune. Una ricerca preoccupata della sua fondatezza può esimersi da diverse dispute e dal suscitare invidia di diverso tipo. Noi dedurremo passo dopo passo ciò che segue dalla differenza fondamentale constatata, e staremo attenti solo alla correttezza della deduzione. Io voglio che siate soltanto voi e ogni osservatore a decidere, se la diversità dei fenomeni che dovrebbe esistere a seguito di questa deduzione si presenti o no nell’esperienza reale. Certamente a suo tempo mostrerò che, per ciò che riguarda in particolare i tedeschi, le cose sono andate effettivamente così come dovevano andare secondo la nostra deduzione. Ma per quanto riguarda gli stranieri germanici, non avrò niente in contrario se qualcuno tra loro capisce davvero ciò di cui qui si tratta, e in seguito riesce a dimostrare che anche i suoi compatrioti sono stati la stessa cosa dei tedeschi, [329] e riesce ad assolverli completa63

mente dai caratteri opposti. In generale, la nostra descrizione, anche in questi tratti contrapposti, non si dilungherà su ciò che è svantaggioso e stridente, il che renderebbe la vittoria più facile che onorevole, bensì indicherà solo ciò che segue necessariamente, esprimendolo in modo tanto onorevole quanto è compatibile con la verità. La prima conseguenza che ho indicato della differenza di fondo era che nel popolo della lingua viva, la formazione dello spirito interviene nella vita; in quello contrario, cultura spirituale e vita vanno ciascuna per la loro strada. Prima di tutto, sarà utile spiegare meglio il senso di questa proposizione. Anzitutto, in quanto qui si parla della vita, e dell’intervento in essa della cultura spirituale, con ciò dobbiamo intendere la vita originaria, e il suo scaturire continuo dalla fonte di ogni vita spirituale, cioè Dio, la continua formazione dei rapporti umani secondo la loro immagine originaria, e così la creazione di qualcosa di nuovo e mai prima esistito. Invece, non si tratta assolutamente della mera conservazione di quei rapporti allo stadio in cui già si trovano, contro la loro scomparsa; e ancora meno, del sostegno di singoli membri che sono rimasti indietro rispetto alla cultura generale. Quindi, se si parla di cultura spirituale, con ciò bisogna intendere anzitutto la filosofia – come dobbiamo chiamarla col nome straniero, poiché i tedeschi non hanno accolto il nome tedesco loro proposto da lungo tempo – la filosofia, dico: poiché è questa che coglie scientificamente l’eterna immagine originaria di ogni vita spirituale. Ora, di essa e di ogni scienza basata su di essa si loda il fatto di intervenire nella vita del popolo che parla la lingua viva. Ora però, in apparente contraddizione con questa osservazione, è stato spesso ripetuto, e anche dai nostri connazionali, che filosofia, scienza, belle arti e simili sono fini a se stesse e non servono alla vita, e che valutarle per la loro utilità in questo servizio vorrebbe dire declassarle. [330] Qui è il luogo per determinare meglio queste espressioni, e proteggerle da ogni fraintendimento. Esse sono vere nel duplice, ma limitato, senso seguente: anzitutto, che scienza o arte non devono servire alla vita in un certo stadio inferiore, per esempio alla vita sensibile e terrena, o alla comune edificazione, come hanno pensato alcuni; poi, che un singolo, in seguito alla sua personale separatezza dal tutto di un mondo degli spiriti, può dedicarsi completamente a questi rami particolari dell’universale vi64

ta divina, senza avere bisogno di uno stimolo esterno a essi, e può trovare in essi piena soddisfazione. Ma non sono affatto vere se assunte in senso rigoroso, poiché è altrettanto impossibile che ci siano più fini in se stessi quanto che ci siano più assoluti. L’unico fine in se stesso, al di fuori del quale non ce ne può essere nessun altro, è la vita spirituale. Ora, questa in parte si esprime e appare come un eterno fluire da se stessa, come scaturigine, cioè come eterna attività. Questa attività riceve eternamente dalla scienza la sua immagine esemplare, dall’arte l’abilità di configurarsi secondo questa immagine, e in questo senso potrebbe sembrare che scienza e arte esistano come mezzi per la vita attiva in quanto scopo. Ora però, in questa forma dell’attività, la vita stessa non è mai compiuta e chiusa in unità, bensì va avanti all’infinito. Se però la vita deve esistere come una siffatta unità chiusa, allora deve esistere in un’altra forma. Ora, questa forma è quella del pensiero puro, che fornisce la visione religiosa descritta nel Terzo discorso1; una forma, che in quanto unità chiusa si separa assolutamente dall’infinità del fare, e in quest’ultimo, nel fare, non può mai essere espressa completamente. Tutti e due quindi, il pensiero e l’attività, sono forme separate solo nel fenomeno, al di là del fenomeno, invece, esse sono, l’una come l’altra, la medesima unica vita assoluta; e non si può dire che il pensiero sia e sia così per il fare, oppure il fare per il pensiero; bensì [331] che entrambi devono essere assolutamente in quanto la vita deve essere anche nel fenomeno un intero compiuto, così come essa lo è al di là di ogni fenomeno. Dunque all’interno di quest’ambito, e secondo questa considerazione, è ancora troppo poco dire che la scienza influisce sulla vita; piuttosto, è essa stessa e in se stessa vita consistente. Oppure, per collegarci a un noto modo di dire: “A che cosa serve il sapere – si sente dire talvolta – se non si agisce in modo conforme a esso?” In questa espressione, il sapere viene inteso come mezzo per l’agire, e quest’ultimo come lo scopo vero e proprio. Viceversa, si potrebbe dire: “come si può agire bene senza conoscere il bene?”, e in questa espressione il sapere verrebbe considerato come ciò che condiziona l’agire. Ma entrambe le espressioni sono unilaterali: e la verità è che entrambi, sapere e agire, sono allo stesso modo parti inseparabili della vita razionale. 1

Cfr. supra, pp. 35 sgg.

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Ma la scienza è vita consistente in se stessa, come abbiamo detto, solo quando il pensiero è il senso effettivo e la disposizione d’animo del pensante, in modo tale che egli, senza fatica particolare e addirittura senza averne una chiara coscienza, pensa e considera secondo quel pensiero fondamentale tutto il resto di ciò che egli pensa, considera e giudica; e, nel caso in cui esso influisca sull’agire, agisce in modo altrettanto necessario conformemente ad esso. Invece, il pensiero non è affatto vita e disposizione d’animo se viene pensato solo come pensiero di una vita estranea, per quanto possa essere compreso in modo chiaro e completo come un siffatto pensiero meramente possibile, e per quanto chiaramente si riesca a immaginare che qualcuno possa pensare in questo modo. In questo secondo caso, tra il nostro pensare pensato e il nostro pensare effettivo si stende un grande campo di casualità e di libertà. Può darsi che noi non esercitiamo quest’ultima, e così quel pensare pensato resta distante da noi, e un pensare puramente possibile, fatto liberamente da noi, e da ripetere liberamente di continuo. In quel primo caso, il pensiero ha catturato il nostro Sé immediatamente mediante se stesso, e lo ha reso se stesso, e mediante questa effettualità del pensiero per noi, sorta in tal modo, [332] la nostra visione trapassa nella necessità di quello. Che ora tutto ciò accada così, non può, come abbiamo detto, essere ottenuto con la forza da nessuna libertà, bensì appunto deve svilupparsi da sé, e ci deve catturare il pensiero stesso, e ci deve formare secondo sé. Ora, quando si pensa e si designa in una lingua viva, questa vivente efficacia del pensiero viene molto favorita; anzi, purché il pensare abbia profondità e forza adeguate, è resa perfino necessaria. Il segno stesso, in quella lingua, è immediatamente vivo e sensibile, e riproduce l’intera vita personale, catturandola e intervenendo in essa; col possessore di una lingua del genere, lo spirito parla immediatamente e gli si rivela, come un uomo fa con l’altro uomo. Al contrario, il segno di una lingua morta non stimola immediatamente niente; per immergersi nel suo flusso vivente, bisogna prima ripetersi nozioni di un mondo defunto apprese storicamente, e sprofondare in un modo di pensare estraneo. Quanto dovrebbe essere potente l’impulso del pensare personale, per non estenuarsi in questo sconfinato campo della storia, e non accontentarsi, alla fine, di restare modestamente sul suo terreno! Se 66

il pensare di un possessore della lingua viva non diventa vivo, lo si può incolpare senza scrupoli del fatto di non avere pensato, ma soltanto fantasticato. Nello stesso caso, non si può subito incolpare di ciò il possessore di una lingua morta: infatti, può darsi che egli abbia pensato a modo suo, sviluppando accuratamente i concetti deposti nella sua lingua; egli non ha fatto solo ciò che, se gli riuscisse, sarebbe da considerare quasi un miracolo. Per inciso, è chiaro che all’inizio, nel popolo di una lingua morta, quando la lingua non è ancora abbastanza chiara in tutti i sensi, l’impulso del pensare sarà ancora presente nel modo più forte, e produrrà i risultati più appariscenti; che però esso, non appena la lingua diventa più chiara e precisa, deperirà sempre più tra le sue catene; e che in definitiva, la filosofia di un popolo siffatto [333] si accontenterà della propria consapevolezza di essere soltanto una spiegazione del vocabolario, oppure, come ha affermato enfaticamente uno spirito non tedesco tra noi, una metacritica del linguaggio2. Un popolo del genere finirà col riconoscere la sua più grande opera filosofica in un mediocre poema didascalico sull’ipocrisia in forma di commedia3. In questo modo, dico, la cultura spirituale, e qui particolarmente il pensare, in una lingua originaria non confluisce nella vita, bensì è esso stesso vita del pensante. Tuttavia, esso tende necessariamente a influire, da questa vita pensante, su un’altra vita al di fuori di essa, e così sull’universale vita presente, e a configurarla secondo sé. Infatti, proprio perché quel pensare è vita, esso viene sentito dal suo possessore con interiore benessere, nella sua forza vivificante, trasfiguratrice e liberatoria. Ma chiunque abbia scorto la salvezza nel suo intimo, vuole necessariamente parteciparla a tutti gli altri, e così è spinto e deve lavorare affinché la fonte da cui è scaturito il suo benessere si diffonda anche sugli altri. Diversamente chi ha concepito come possibile solo un pensare estraneo. Come il contenuto di quest’ultimo non gli procura né bene né male, bensì occupa e intrattiene gradevolmente solo il suo 2 Il riferimento è all’opera di J.G. Herder, Verstand und Erfahrung: eine Metakritik zur Kritik der reinen Vernunft, Leipzig 1799, rist. nella collana “Aetas Kantiana”, Bruxelles 1969; trad. it. parziale Metacritica: passi scelti, a cura di I. Tani, Roma 1993. 3 Allusione al Tartufo di Molière (1669).

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tempo libero, così anch’egli non può credere che a un altro esso possa fare bene o male, e in definitiva ritiene indifferente su che cosa qualcuno eserciti la sua intelligenza, e come riempia le sue ore di ozio. Tra i mezzi per introdurre nella vita universale il pensare cominciato nella vita singola, quello più eccellente è la poesia, e così questa è la seconda ramificazione principale della cultura spirituale di un popolo. Già immediatamente il pensatore, quando designa i suoi pensieri nel linguaggio, il che, secondo quanto sopra, non può accadere altrimenti che simbolicamente, e cioè creando in modo nuovo al di là di quello che fino ad ora era stato l’ambito della simbolizzazione, è poeta; e se non lo è, già al primo pensiero gli verrà meno il linguaggio, e tentando il secondo gli verrà meno il pensare stesso. [334] Diffondere questo ampliamento e completamento del circolo simbolico del linguaggio iniziato dal pensatore attraverso l’intero ambito dei simboli, cosicché ogni cosa al suo posto riceva la parte che le spetta della nuova nobilitazione spirituale, e così tutta la vita fino al suo ultimo terreno sensibile appaia immersa nel nuovo raggio di luce, procuri benessere, e in inconsapevole illusione si nobiliti come di per sé, questo è opera dell’autentica poesia. Solo una lingua viva può avere una poesia siffatta, poiché solo in essa il circolo simbolico può essere ampliato mediante un pensare creativo, e soltanto in essa ciò che è già stato creato rimane vivo e aperto all’irrompere di una vita affine. Una lingua siffatta reca in sé una facoltà d’infinita poesia, da rinnovare e da ringiovanire eternamente, poiché ogni animazione del pensare vivente dischiude in essa una nuova vena d’ispirazione poetica; e così per essa questa poesia è il mezzo più eccellente di diffusione nella vita universale della formazione spirituale raggiunta. Una lingua morta non può avere poesia in questo senso superiore, poiché in essa le condizioni indicate della poesia non sono presenti. Al contrario, essa per un certo periodo può avere un sostituto della poesia, nel modo seguente. I risultati dell’arte poetica presenti nella lingua d’origine susciteranno attenzione. È vero che il popolo sorto di recente non può continuare a poetare nella direzione intrapresa, poiché questa è estranea alla sua vita; però la poesia può introdurre la loro vita, e i nuovi rapporti di questa, nel circolo simbolico e poetico in cui i loro avi esprimevano la loro vita, travestendo ad esempio il loro cavaliere da eroe e viceversa, e 68

scambiando gli abiti tra gli dei antichi e nuovi. Proprio con questo rivestimento estraneo di ciò che è abituale, quest’ultimo riceverà un’attrattiva analoga a ciò che viene idealizzato, e sorgeranno figure assolutamente amabili. Ma entrambi, tanto il circolo simbolico e poetico della lingua d’origine, quanto i nuovi rapporti di vita, sono grandezze finite e limitate, da qualche parte la loro compenetrazione reciproca si compie; [335] ma là dove essa è compiuta, il popolo celebra la sua età dell’oro, e la fonte della sua poesia si estingue4. Da qualche parte, c’è necessariamente un punto supremo nell’adeguamento di parole chiuse a concetti chiusi, e di simboli chiusi a rapporti di vita chiusi. Dopo aver raggiunto questo punto, il popolo non può più far altro che ripetere in forma modificata i suoi più riusciti capolavori, così da farli sembrare qualcosa di nuovo, mentre non sono altro che il vecchio ben noto; oppure, se vogliono assolutamente essere nuovi, devono ricorrere a ciò che è inadeguato e maldestro, e a mescolare, nell’arte poetica, il brutto col bello, dedicandosi alla caricatura e all’umorismo; allo stesso modo in cui, nella prosa, se vogliono parlare in modi nuovi, sono costretti a confondere i concetti, e a mischiare reciprocamente vizio e virtù. Poiché in tal modo, in un popolo, cultura spirituale e vita vanno ciascuna per la propria strada, è naturale che i ceti che non hanno accesso alla prima, e ai quali non giungono neppure le conseguenze di questa cultura, come accade in un popolo libero, vengano retrocessi rispetto ai ceti colti, e considerati per così dire come un’altra specie di uomini, che originariamente e per semplice nascita non sono uguali ai primi quanto a forze spirituali. Perciò, i ceti colti non nutrono alcun interesse davvero amorevole per loro, e non hanno alcun impulso ad aiutarli seriamente, poiché appunto essi credono che non ci sia nessuno da aiutare a causa della naturale ineguaglianza, e chi ne fa parte viene piuttosto spinto a utilizzarli e a farli utilizzare così come sono. Anche questa conseguenza dell’uccisione della lingua, all’inizio del nuovo popolo, può essere attenuata da una religione compassionevole e dalla mancanza di proprie abilità da parte dei ceti superiori, ma andando avanti questo disprezzo del popolo diventa sempre più ma4

Fichte riprende questa posizione nel Settimo discorso, infra, pp. 98-99.

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nifesto e terribile. A questo motivo generale dell’elevarsi e prevalere dei ceti colti [336] se n’è aggiunto uno di tipo particolare, che qui non può essere trascurato, poiché esso ha avuto un influsso molto esteso anche sui tedeschi. Ovvero i Romani, che all’inizio di fronte ai Greci, seguendo ingenuamente il loro modo di dire, chiamarono se stessi barbari, e barbara la loro lingua, in seguito trasferirono ad altri l’epiteto che si erano assunti, e trovarono nei Germani la stessa fiduciosa schiettezza, che essi prima avevano mostrato ai Greci. I Germani credettero di poter sfuggire alla barbarie solo diventando Romani. Quelli che migrarono nei territori un tempo romani lo diventarono con tutte le loro forze. Ma nella loro immaginazione, barbaro ricevette assai presto il significato accessorio di comune, plebeo, ottuso, e così romano al contrario divenne sinonimo di nobile. Questo fenomeno è penetrato fin negli aspetti universali e particolari delle loro lingue, poiché nel momento in cui furono fondate istituzioni per la formazione meditata e consapevole della lingua, queste procedettero a espungere le radici germaniche, e a formare le parole da radici romane, e così a generare il romanzo [die Romance] come lingua colta e cortese; ma in particolare poiché, quasi senza eccezione, di fronte all’eguale significato di due parole, quella con radice germanica significa ciò che è ignobile e vile, quella con radice romana invece ciò che è più nobile e superiore. Tutto ciò, come se fosse un’infezione profonda dell’intero ceppo germanico, colpisce i tedeschi anche nella madrepatria, a meno che essi non si preparino a fronteggiarlo con la massima serietà. Anche al nostro orecchio il suono romano suona facilmente elevato, anche ai nostri occhi il costume romano appare più nobile, mentre ciò che è tedesco volgare; e poiché non siamo stati così fortunati da ricevere tutto questo di prima mano, ce lo facciamo dare anche di seconda, e per il tramite dei nuovi Romani. Finché siamo tedeschi, sembriamo a noi stessi uomini come gli altri; quando parliamo per metà o anche più in non tedesco, e imitiamo abiti e costumi che sembrano venire da molto lontano, allora ci vantiamo di essere eleganti; ma il culmine del nostro trionfo è quando non [337] veniamo più scambiati per tedeschi, bensì magari per spagnoli o inglesi, a seconda di quale dei due è più alla moda. Abbiamo ragione. Naturalezza da parte tedesca, arbitrarietà e artificiosità da parte dell’estero sono le differenze di fondo. Se ci at70

teniamo alla prima, allora siamo esattamente come il nostro popolo, questo ci comprende e ci considera come uguali a lui; solo se ricorriamo alle seconde, diventiamo per lui incomprensibili, ed esso ci scambia per esseri di natura diversa. Agli stranieri questa innaturalità capita spontaneamente nella loro vita, poiché essi hanno deviato dalla natura originariamente e in un aspetto capitale; noi dobbiamo prima ricercarla, e abituarci prima a credere che sia bello, elegante e comodo qualcosa che naturalmente non ci sembra tale. Ora, il motivo principale di tutto ciò nei tedeschi è la loro fede nella superiorità dell’estero romanizzato, accanto al desiderio di agire altrettanto nobilmente, e di costruire artificiosamente anche in Germania quell’abisso tra ceti superiori e popolo, che all’estero si è sviluppato naturalmente. Qui basti avere indicato la sorgente di questa esterofilia tra i tedeschi. In un altro momento mostreremo l’ampiezza dei suoi effetti, e mostreremo che tutti i guai per cui siamo andati a fondo, i quali certo poterono provocare la nostra rovina soltanto insieme con la serietà tedesca e con l’influsso sulla loro vita, sono di origine estera. Oltre a questi due fenomeni risultanti dalla differenza fondamentale, secondo cui la cultura spirituale interviene nella vita oppure no, e tra i ceti colti e il popolo sussiste una parete divisoria oppure no, ho addotto anche il seguente, secondo cui il popolo della lingua viva sarà serio e diligente e s’impegnerà in tutte le cose, mentre quello della lingua morta considera l’occupazione spirituale più un gioco geniale, e si lascia andare alla sua felice natura. Questa circostanza risulta spontaneamente da quanto detto. Nel popolo della lingua viva, la ricerca procede da un [338] bisogno della vita, che deve essere soddisfatto da essa, e così riceve tutti gli stimoli necessari che la vita stessa reca con sé. Nel popolo della lingua morta, la ricerca non vuole nient’altro che far trascorrere il tempo in modo piacevole e adeguato al senso del bello, e se ha fatto questo, ha raggiunto completamente il proprio scopo. Negli stranieri, tutto ciò è quasi necessario; nei tedeschi, quando questo fenomeno si presenta, vantarsi di genio e felice natura è un’esterofilia indegna di loro, che come ogni esterofilia sorge dal desiderio di darsi arie da gran signore. Certo, in nessun popolo al mondo sorgerà mai qualcosa di eccellente senza uno stimolo originario nell’uomo, che in quanto è un che di soprasensibile viene chiamato a ragione col nome straniero di genio. Ma di 71

per sé questo stimolo anima soltanto l’immaginazione, e proietta in essa figure ondeggianti mai perfettamente determinate. Perché queste vengano completate fin sul terreno della vita reale, e determinate al punto da potersi sostenere in esso, c’è bisogno di un pensare diligente, meditato e procedente secondo regole fisse. La genialità offre alla diligenza la materia per l’elaborazione, e quest’ultima senza la prima avrebbe da elaborare soltanto ciò che è già stato elaborato, oppure nulla. Ma la diligenza introduce questa materia, che senza di essa resterebbe un vuoto gioco, nella vita; e così entrambe possono fare qualcosa solo nella loro unificazione, mentre separate non valgono niente. Inoltre, nel popolo di una lingua morta non può esprimersi una genialità veramente creativa, poiché esso è privo della facoltà di designazione originaria, ma può soltanto continuare a formare ciò che è già stato iniziato, e diffonderlo nell’insieme della designazione già presente e compiuta. Per quanto riguarda in particolare l’impegno maggiore, è naturale che questo ricada sul popolo della lingua viva. Una lingua viva può trovarsi a un alto livello di cultura rispetto a un’altra, ma non potrà ottenere in se stessa quel compimento e quella formazione che una lingua morta ottiene del tutto facilmente. [339] In quest’ultima, l’ambito delle parole è chiuso, anche le loro possibili connessioni corrette vengono gradualmente esaurite, e così chi parla questa lingua la deve parlare proprio così come essa è; ma una volta che l’abbia imparata, la lingua sulla sua bocca parla se stessa, e pensa e compone per lui. In una lingua vivente, invece, purché si viva veramente in essa, le parole e i loro significati aumentano e cambiano continuamente, e proprio per questo diventano possibili nuove combinazioni, e la lingua, che mai è, bensì diviene di continuo, non parla se stessa, ma chi vuole usarla deve parlarla egli stesso a suo modo, e in modo creativo per le sue esigenze. Senza dubbio, ciò esige molto più impegno ed esercizio del primo caso. Allo stesso modo, come ho già detto, le ricerche del popolo di una lingua viva vanno alla radice dello scaturire dei concetti dalla natura spirituale stessa, mentre quelle di una lingua morta cercano di compenetrare e di rendersi comprensibile solo un concetto estraneo, e così di fatto sono soltanto storiche e interpretative, mentre le prime sono autenticamente filosofiche. Va da sé che una ricerca del secon72

do tipo può essere completata prima e più facilmente che una del primo. Dopo tutto, il genio straniero spargerà di fiori i sentieri percorsi dagli eserciti dell’antichità, e tesserà un velo prezioso alla saggezza di vita, che scambierà facilmente per filosofia; al contrario, il genio tedesco aprirà nuovi pozzi, e nei loro abissi porterà la luce del giorno, e scaglierà masse rocciose di pensieri, con cui le età future edificheranno le loro dimore. Il genio straniero sarà come una silfide graziosa, che con passo leggero scivola sul terreno da cui spontaneamente sbocciano i fiori, e si distende su questi senza piegarli, assorbendone la rugiada ristoratrice; o come un’ape, che dagli stessi fiori raccoglie con arte operosa il miele, disponendolo in cellette regolarmente costruite. Il genio tedesco [340] sarà come un’aquila, che solleva con forza il suo corpo pesante, e con ali possenti e allenate muove molta aria intorno a sé per sollevarsi più vicino al sole, dalla cui visione è rapita. Riassumiamo quanto abbiamo detto da un unico punto di vista principale. In generale, per quanto riguarda la storia culturale di un genere umano storicamente scisso tra antichità e mondo moderno, le popolazioni principali prima descritte avranno, con l’ulteriore formazione originaria di questo mondo moderno nel suo insieme, il seguente rapporto. La parte della giovane nazione divenuta straniera, assumendo la lingua dell’antichità, ha ottenuto con questa un’affinità molto maggiore. All’inizio, per questa parte sarà molto più facile comprendere la lingua dell’antichità anche nella sua prima e immutata figura, penetrare nei monumenti della sua cultura, portandovi all’incirca così tanta freschezza, che essi potranno adattarsi alla nuova vita che è sorta. In breve, lo studio dell’antichità classica si diffonderà da essa su tutta l’Europa moderna. Entusiasmata dai compiti lasciati irrisolti da quella, essa continuerà a rielaborarli, ma certo soltanto come si lavora a un compito dettato non da un bisogno della vita, ma da mera brama di sapere, prendendolo alla leggera, assumendolo non con tutto il cuore, ma soltanto con l’immaginazione, e dandogli un corpo evanescente solo in questa. Con la ricchezza dei materiali lasciatici dall’antichità, con la leggerezza con cui si può lavorare in questo modo, essa introdurrà nell’orizzonte visivo del nuovo mondo una ricchezza di immagini simili. Queste immagini del mondo antico, già elaborate nella nuova forma, giunte a quella parte del ceppo 73

originario rimasta nel flusso della cultura originaria grazie alla conservazione della lingua – immagini che forse, se fossero rimaste nell’antica forma, sarebbero passate davanti a essa inosservate e senza essere notate – stimoleranno anche la sua attenzione e attività spontanea. Ma se le comprende davvero, [341] e non le passa solo di mano in mano, essa le comprenderà conformemente alla sua natura, non nel mero sapere di un che di estraneo, ma come componenti di una vita; e così, non solo le ricaverà dalla vita del nuovo mondo, ma le introdurrà nuovamente in essa, dando alle figure prima evanescenti un corpo consistente e sostenibile nell’elemento della vita reale. In questa trasformazione, che l’estero stesso non avrebbe mai potuto dargli, esso ora lo riceve indietro da loro, e solo mediante questo passaggio diventa possibile una formazione progressiva del genere umano sulla strada dell’antichità, un’unificazione delle due metà principali, e uno scorrere regolare dello sviluppo umano. In questo nuovo ordine di cose, la madrepatria non farà scoperte in senso proprio, bensì dovrà sempre confessare, nelle cose meno e più importanti, che essa è stata stimolata da un qualche cenno dell’estero, il quale estero fu stimolato a sua volta dagli antichi; ma la madrepatria prenderà sul serio e introdurrà nella vita ciò che all’estero fu proiettato solo dall’alto e fugacemente. Come ho detto, non è qui il luogo per dare esempi pertinenti e profondi di questo rapporto, cosa che ci riserviamo di fare nel prossimo discorso. In questo modo, tutte e due le parti della nazione comune restano un’unica cosa, e soltanto in questa separazione e unità al tempo stesso, esse sono un innesto sul tronco della cultura antica, che altrimenti sarebbe stata interrotta dall’età moderna, mentre l’umanità avrebbe dovuto ricominciare il suo cammino dall’inizio. Ora, in queste loro destinazioni diverse nel punto di partenza, ma concorrenti alla stessa meta, ambedue le parti devono conoscere ciascuna se stessa e l’altra, e trattarsi reciprocamente in conformità alle loro destinazioni; ma soprattutto, se vogliamo procedere bene, con una formazione onnilaterale e completa dell’intero, ciascuna deve acconsentire a conservare l’altra e a lasciarla intatta nella sua specificità. Per quanto riguarda questa conoscenza, essa dovrebbe ben [342] scaturire dalla madrepatria, alla quale il senso della profondità è stato dato per prima. Se però, nella sua 74

cecità per questi rapporti, e trascinato dall’apparenza superficiale, lo straniero dovesse mai procedere a privare la madrepatria dell’indipendenza, e in questo modo a distruggerla e ad assimilarsela, allora esso, se questo proposito gli riuscisse, taglierebbe per se stesso l’ultima vena con cui finora era rimasto collegato alla natura e alla vita, e cadrebbe completamente in preda alla morte spirituale, che comunque nel corso dei tempi si è sempre più visibilmente rivelata come la sua essenza; allora il flusso della formazione della nostra specie, che finora è andato continuamente avanti, sarebbe davvero concluso, e ricomincerebbe la barbarie, proseguendo senza scampo finché non tornassimo a vivere tutti nelle caverne come bestie selvagge, sbranandoci a vicenda come queste. Ma certo, che le cose stiano davvero così, e debbano necessariamente andare così, può capirlo solo un tedesco, ed egli è anche il solo a doverlo fare: allo straniero che, non conoscendo alcuna cultura estranea, ha un campo illimitato per ammirare la propria, ciò deve e potrebbe sempre apparire come l’invettiva priva di gusto di un’ignoranza male istruita. L’estero è la terra da cui si sprigionano vapori fecondi, alzandosi fino alle nuvole, e mediante i quali anche gli antichi dei, cacciati nel Tartaro, restano in contatto con la sfera della vita. La madrepatria è il cielo eterno che la circonda, in cui i tenui vapori diventano nuvole compatte, che fecondate dal lampo tonante che proviene da un altro mondo, ricadono come pioggia fruttificante, che unisce cielo e terra, e fa sbocciare anche dal grembo della seconda i doni che sono propri del primo. Vogliono forse nuovi titani dare ancora una volta l’assalto al cielo? Per loro non sarà un cielo, poiché essi sono figli della terra; semplicemente, verranno privati della vista e degli effetti del cielo, e a loro resterà soltanto la loro terra, come una dimora fredda, sterile e buia. Ma come dice [343] un poeta di Roma, che cosa può fare un Tifeo, o il potente Mima, o Porfirio in atto di minaccia, o Reto, o il lanciatore audace di tronchi divelti, Encelado, quando si scagliano contro il risonante scudo di Atena?5 È questo lo scudo che senza 5 Il passo citato da Fichte è in Orazio, Carmina, III, 4, 53-58, e suona per esteso: “Sed quid Typhoeus et validus Mimas / aut quid minaci Porphyrion statu, / quid Rhoetus evolsisque truncis / Enceladus iaculator audax / contra sonantem Palladis aegida / possent ruentes?”.

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dubbio proteggerà anche noi, se sapremo metterci sotto la sua protezione. Nota alle pp. 70-71 Anche sulla maggiore o minore musicalità di una lingua, secondo noi, non si dovrebbe decidere in base alla prima impressione, ma si dovrebbe ricondurre questo giudizio a saldi princìpi. Il merito di una lingua, da questo punto di vista, andrebbe posto senz’altro, anzitutto, nel fatto di sfruttare fino in fondo e di presentare esaustivamente la facoltà dell’organo vocale umano; poi, nel fatto di collegare i singoli suoni in una fluidità naturale e gradevole. Già da qui, emerge che nazioni che formano i loro organi vocali solo unilateralmente e a metà, e con la scusa della difficoltà o della cacofonia evitano certi suoni o collegamenti, e per le quali è facile che suoni bene solo ciò che sono abituate ad ascoltare e possono produrre, non hanno alcuna voce in questa ricerca. Qui può restare indeciso in che modo, sulla base di quei princìpi superiori, verrebbe giudicata da questo punto di vista la lingua tedesca. La stessa lingua latina di provenienza viene pronunciata da ciascuna nazione dell’Europa moderna secondo il proprio modo di parlare, e sarebbe tutt’altro che facile ripristinare la sua vera pronuncia. Perciò, resterebbe solo da chiedersi se la lingua tedesca, rispetto a quelle neolatine, suoni così male, aspra e dura come sono portati a credere alcuni. Finché questa questione non viene decisa seriamente, si può almeno spiegare, in via preliminare, come mai gli stranieri e perfino i tedeschi, anche quando sono imparziali e senza odio o preferenze, hanno questa impressione. Un popolo ancora incolto, dall’immaginazione molto vivace, di grande sensibilità infantile, e libero da vanità nazionale (sembra che i Germani siano stati tutto questo) viene attirato dalla lontananza, e trasferisce volentieri in questa, in paesi remoti e isole beate, gli oggetti dei suoi desideri e gli splendori cui anela. [344] In lui si sviluppa un senso romantico [ein romantischer Sinn] (la parola si spiega da sola, e non potrebbe essere formata meglio). I suoni e le voci di quelle contrade ora colpiscono questo senso, e risvegliano tutto il suo mondo di meraviglie, e perciò piacciono. Potrebbe essere dipeso da questo il fatto che i nostri connazionali emigrati abbiano abbandonato così facilmente la loro lingua per quella straniera, e che a noi, loro parenti assai lontani, quei suoni sembrino così meravigliosi ancora oggi.

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Sesto discorso

Presentazione nella storia dei tratti fondamentali dei tedeschi

Nel discorso precedente, abbiamo mostrato quali dovrebbero essere le differenze principali tra un popolo che ha continuato a formarsi nella sua lingua originaria, e un popolo che ha assunto una lingua straniera. A questo proposito, abbiamo detto che, per quanto riguarda l’estero, volevamo lasciare alla decisione di ciascun osservatore se in esso siano effettivamente comparsi quei fenomeni che, secondo le nostre considerazioni, sarebbero dovuti comparire. Invece, per quanto riguarda i tedeschi, ci eravamo impegnati a mostrare che questi si sono espressi effettivamente nel modo in cui, secondo le nostre considerazioni, dovrebbe esprimersi il popolo di una lingua originaria. Oggi ci accingiamo a esaudire la nostra promessa, e mostreremo ciò che si tratta di dimostrare anzitutto nell’ultima, grande azione universale che il popolo tedesco abbia, in un certo senso, portato a termine: la Riforma della Chiesa. Il cristianesimo proveniente dall’Asia, e divenuto più che mai asiatico con la sua corruzione, che predicava soltanto ottusa devozione e cieca fede, era qualcosa di estraneo e di straniero già per i Romani. Esso non venne mai veramente compenetrato e assorbito da loro, e [345] suddivise la loro essenza in due metà incompatibili l’una con l’altra, in cui l’adattamento della parte estranea venne mediato dalla triste superstizione originaria. Nei Germani immigrati, questa religione ottenne dei seguaci in cui nessuna precedente formazione intellettuale le era di ostacolo, ma neppure 77

un’innata superstizione la favoriva, e così essa si presentò loro come un elemento peculiare dei Romani, quali ormai anch’essi volevano essere, senza particolare influsso sulla loro vita. Va da sé che questi educatori cristiani, dell’antica cultura romana e della comprensione linguistica che la conteneva, facevano giungere a questi neofiti soltanto ciò che era compatibile con le loro intenzioni; e anche qui sta un motivo della decadenza e dell’uccisione della lingua latina sulle loro labbra. Quando in seguito i genuini e autentici monumenti dell’antica cultura caddero nelle mani di questi popoli, e con ciò in essi venne suscitato l’impulso di pensare e capire autonomamente, la contraddizione tra una fede cieca e le stranezze che, nel corso del tempo, ne erano divenute oggetto, li colpì in modo addirittura più forte dei Romani, ai quali il cristianesimo era stato portato per la prima volta, in parte perché quell’impulso era, per loro, una cosa nuova e recente, in parte perché non era stato tramandato un terrore di fronte agli dei che potesse fare da contrappeso. Accorgersi della perfetta contraddizione risultante da ciò in cui finora avevamo sinceramente creduto, suscita il riso; quelli che avevano sciolto l’enigma risero e se ne fecero beffe, e risero anche i preti, che l’avevano risolto essi pure, tranquillizzati dal fatto che l’accesso alla cultura dell’antichità, come mezzo per lo scioglimento dell’incantesimo, fosse aperto solo a una ristretta minoranza. Con questo, mi riferisco soprattutto all’Italia, in quanto allora era la sede principale della cultura neolatina, nei cui confronti le altre popolazioni neolatine erano ancora assai arretrate da ogni punto di vista1. Essi risero dell’inganno, poiché in essi non c’era serietà che potesse amareggiarli; attraverso il possesso esclusivo di una conoscenza non comune, divennero in modo ancora più sicuro un [346] ceto colto e raffinato, e potevano ben tollerare che la grande massa, per cui non avevano alcuna pietà, continuasse a essere vittima dell’inganno, e fosse ancora più docile ai loro scopi. Dunque poteva durare così, che il popolo fosse ingannato, e che chi stava più in alto usasse l’inganno, e ne ridesse; e probabilmente, se nella nuova epoca fossero esistiti solo i neolatini, così sarebbe durato sino alla fine dei giorni. 1 Evidente riferimento all’Umanesimo e al Rinascimento italiani, di cui Fichte sottolinea i risvolti critici rispetto alla religione e alla tradizione della Chiesa.

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Qui, voi avete una chiara prova di ciò che abbiamo detto prima sulla prosecuzione della cultura antica attraverso la nuova, e sulla parte che in essa può spettare ai neolatini. La nuova chiarezza derivò dagli antichi, illuminò in un primo tempo il centro della cultura neolatina, e lì venne formata solo fino a una concezione intellettuale, senza afferrare la vita e plasmarla diversamente. Ma questo stato di cose non poté durare più a lungo, dal momento in cui questa luce illuminò un animo autenticamente religioso fin nella sua stessa vita, e quando questo animo venne attorniato da un popolo al quale poté facilmente comunicare la sua più seria concezione della cosa, e questo popolo trovò dei capi che diedero qualcosa al suo urgente bisogno. Per quanto in basso possa cadere il cristianesimo, tuttavia in esso resta pur sempre una componente fondamentale in cui c’è verità, e che sicuramente stimola una vita, purché sia vita effettiva e indipendente; la questione è: che cosa dobbiamo fare per essere beati? Se questa domanda fosse caduta su un terreno arido, in cui o fosse rimasto indeciso in generale se qualcosa come la beatitudine sia seriamente possibile, oppure, anche assumendo questa ipotesi, non ci fosse stata una ferma e decisa volontà di diventare beati, allora, su questo terreno, la religione non sarebbe intervenuta fin dall’inizio nella vita e nella volontà, bensì sarebbe rimasta attaccata alla memoria e all’immaginazione come un’ombra pallida e tremolante; e così, naturalmente, anche tutte le ulteriori delucidazioni sullo stato dei concetti religiosi disponibili sarebbero rimaste senza alcun influsso sulla [347] vita. Ma quando, al contrario, quella domanda cadde su un terreno originariamente vivo, in cui si credeva seriamente all’esistenza della beatitudine, e in cui era presente la ferma volontà di diventare beati, e i mezzi per la beatitudine forniti fino a quel momento dalla religione erano stati impiegati a questo scopo con fede intima e onesta serietà: allora, quando questa luce finalmente cadde su questo terreno, che proprio per aver preso sul serio quei mezzi si era rifiutato di fare chiarezza sulla loro natura, essa dovette provocare uno spaventoso terrore di fronte all’inganno sulla salvezza dell’anima, e una tumultuosa agitazione per conseguire in altro modo questa salvezza; e ciò che sembrava precipitare come un’eterna rovina, non poté essere preso come uno scherzo. Inoltre, il singolo che ebbe per primo questa visione non poteva affatto accontentarsi di salvare solo la sua anima, indiffe79

rente al bene di tutte le altre anime immortali, poiché in questo modo egli, secondo la sua religione più profonda, non avrebbe salvato neppure la propria anima; bensì, con la stessa angoscia che egli sentiva per quest’ultima, dovette lottare per aprire gli occhi a tutti gli uomini indistintamente su quell’esecrabile illusione. In questo modo, la visione che molti stranieri prima di lui avevano avuto anche con maggiore chiarezza intellettuale, penetrò nel cuore dell’uomo tedesco, Lutero. Non solo stranieri, ma anche molti nella sua nazione lo superavano per finezza di cultura e conoscenza dell’antichità, per erudizione e altre prerogative. Ma egli fu catturato da uno stimolo onnipotente, l’angoscia per la salvezza eterna, ed esso divenne vita nella sua vita, gli fece rischiare continuamente quest’ultima, e gli diede la forza e le qualità ammirate dai posteri. Sebbene altri, nella Riforma, possano avere avuto scopi terreni, essi non avrebbero mai vinto, se alla loro testa non ci fosse stato un condottiero ispirato dall’eterno. Che costui, che vedeva continuamente in bilico la salvezza di tutte le anime immortali, abbia contrastato in tutta serietà tutti i diavoli dell’inferno, è naturale [348] e non può destare meraviglia. Tutto ciò è una prova della serietà e del coraggio tedeschi. Come ho detto, sta nelle cose che Lutero si sia rivolto a tutti, e innanzi tutto alla totalità della sua nazione, con questa disposizione puramente umana, che ciascuno doveva procurarsi da se stesso. Ma come accolse il suo popolo questo appello? Restò nella sua quiete ottusa, incatenato al suolo da occupazioni terrene, continuando indisturbato la sua vita abituale, oppure quella straordinaria apparizione di possente entusiasmo suscitò soltanto le sue risate? Niente affatto; esso venne catturato come da una fiamma divorante dalla stessa cura per la salvezza dell’anima, e questa cura aprì rapidamente anche i suoi occhi alla perfetta chiarezza, ed essi colsero al volo ciò che loro veniva offerto. Fu questo entusiasmo solo un’elevazione momentanea dell’immaginazione, che non resse contro i gravi pericoli e le lotte nella vita? Assolutamente no, essi abbandonarono ogni cosa e sopportarono martìri di ogni tipo, combattendo guerre incerte e sanguinose solo per non tornare sotto il potere dell’esecrabile papato, ma perché per loro e per i loro figli continuasse a splendere la luce del Vangelo, che sola rende beati; e in loro si rinnovarono, in epoca più tarda, tutti i miracoli che il cristianesimo al suo inizio aveva 80

mostrato nei suoi seguaci. Tutte le espressioni di quell’epoca sono piene di questa preoccupazione universalmente diffusa per l’eternità. Vedete qui una prova della peculiarità del popolo tedesco. Esso è pronto a sollevarsi con entusiasmo verso qualsiasi tipo di entusiasmo e di chiarezza, e il suo entusiasmo dura per la vita e la trasforma. Anche in precedenza e da altre parti riformatori avevano entusiasmato masse di popolo, riunendole e plasmandole in comunità; tuttavia, queste comunità non ottennero alcuna stabile consistenza fondata sul terreno della precedente costituzione, poiché i capi del popolo e i principi della precedente costituzione non camminarono al loro fianco. Anche la Riforma di Lutero, all’inizio, non sembrava votata a un destino più favorevole. Il saggio [349] principe elettore sotto i cui occhi essa iniziò2, sembrava essere saggio più nel senso degli stranieri che in quello tedesco; non sembrava aver colto precisamente la natura della disputa, né dare molta importanza a quello che gli sembrava un conflitto fra due ordini mendicanti; al massimo appariva preoccupato per il buon nome dell’università che aveva appena fondato3. Ma egli aveva seguaci che, molto meno saggi di lui, erano catturati dalla stessa seria preoccupazione per la loro beatitudine che era viva nei loro popoli, e tramite questa eguaglianza si fusero con essi in una comunanza di vita o di morte, di vittoria o di sconfitta. In ciò, potete vedere una prova del tratto fondamentale su indicato dei tedeschi come totalità, e della loro costituzione basata sulla natura. Finora, le grandi questioni nazionali e internazionali sono state portate al popolo da oratori entrati volontariamente sulla scena, e dibattute presso di esso. Anche se all’inizio i principi, per esterofilia e desiderio di superiorità e distinzione, avrebbero voluto separarsi dalla nazione e abbandonarla o tradirla, in seguito vennero di nuovo facilmente trascinati all’accordo con essa, ed ebbero compassione dei loro popoli. Che si sia sempre verificato il primo caso, è quanto in seguito mostreremo con altre prove; che possa valere continuamente il secondo, possiamo solo augurarcelo ardentemente. Federico di Sassonia, detto il Saggio (1463-1525), protettore di Lutero. L’università in questione è quella di Wittenberg; gli ordini mendicanti in conflitto erano gli agostiniani (cui apparteneva Lutero) e i domenicani. 2 3

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Ora, benché si debba confessare che nell’angoscia di quel periodo per la salvezza delle anime restò una certa oscurità e indistinzione, in quanto non si trattava solo di cambiare il mediatore esterno tra Dio e gli uomini, bensì di fare a meno di ogni mediatore esterno, e di trovare il vincolo connettivo in se stessi, forse fu comunque necessario che la formazione religiosa degli uomini, nel complesso, passasse per questa situazione intermedia. A Lutero stesso, il suo zelo sincero ha dato ancor più di quello che cercava, e lo ha portato molto al di là del suo edificio dottrinale. Dopo aver sostenuto le prime battaglie contro il senso di colpa provocatogli dallo strappo audace [350] dall’intera fede tramandata, tutte le sue espressioni sono piene di giubilo e trionfo sulla raggiunta libertà dei figli di Dio, che non cercavano più la beatitudine al di fuori di sé e al di là della tomba, bensì erano l’espressione del sentimento immediato di essa. In ciò, egli è diventato il precursore di ogni epoca futura, e ha compiuto la sua opera per tutti noi. Vedete anche qui un tratto fondamentale dello spirito tedesco. Purché cerchi, esso trova più di quello che cercava, perché s’immerge nella corrente della vita vivente, che scorre di continuo mediante se stessa e lo trascina con sé. Il papato, considerato e valutato secondo la sua disposizione interiore, ha senza dubbio subìto un torto dal modo in cui è stato trattato dalla Riforma. Le sue espressioni, estratte per la maggior parte alla cieca dal linguaggio disponibile, e di un’oratoria asiatica portata all’eccesso, valevano quello che valevano, e contavano sul fatto che magari se ne sarebbe sottratto più del dovuto, ma non sarebbero mai state valutate, soppesate o intese seriamente. La Riforma le prese con serietà tedesca in tutto il loro peso; e aveva ragione sul fatto che tutto andrebbe preso così, ma torto a credere che quelli le avessero prese così, e li accusò di altre cose ancora, oltre alla loro fiacchezza e superficialità naturali. In generale, questo è ciò che ricorre in modo sempre uguale in ogni conflitto della serietà tedesca contro ciò che è straniero, si trovi questo all’esterno o all’interno del territorio, ovvero il fatto che gli stranieri non riescono a capire come si possa dare tanta importanza a cose così indifferenti come parole e modi di dire, né ammettono, riascoltandolo detto da bocca tedesca, di aver voluto dire ciò che pure hanno detto e dicono e diranno sempre; e se uno, benché sia molto lontano dall’attribuire a loro personalmente coerenza e 82

chiara coscienza di ciò di cui parlano, prende le loro espressioni in senso letterale, e le considera come elementi di una serie consequenziale di pensieri, che viene ricostruita all’indietro secondo i suoi princìpi e in avanti secondo le sue [351] conseguenze, essi si ritengono diffamati da ciò che chiamano cavillosità. In quella presunzione, secondo cui appunto ogni cosa dovrebbe essere presa com’è intesa, ma poi non si dovrebbe più chiamare in causa il diritto d’intendere e di opinare, si tradisce sempre l’esterofilia ancora così profondamente celata. La serietà con cui la dottrina della vecchia religione venne trattata, costrinse quest’ultima a una serietà maggiore di quella avuta finora, a un rinnovato esame, trasformazione, rafforzamento della vecchia dottrina, e a una maggiore riservatezza di vita e dottrina per il futuro: e questo, come ciò che seguirà immediatamente, vi sia di prova per il modo in cui la Germania ha sempre retroagito sul resto d’Europa. In questo modo, la vecchia dottrina ottenne per la generalità almeno quella innocua efficacia che essa poteva avere, una volta che non fosse stata rigettata; ma in particolare, per i suoi difensori essa divenne esigenza ed esortazione a una riflessione più profonda e conseguente di quanto avvenuto fino ad allora. Qui vogliamo tacere come un fatto transitorio che la dottrina emendata in Germania si sia diffusa anche nei paesi neolatini, e abbia prodotto anche lì lo stesso effetto di superiore entusiasmo: benché sia sempre degno di nota che la nuova dottrina in nessun paese propriamente neolatino abbia raggiunto uno statuto riconosciuto dallo Stato; poiché sembra che ci sia stato bisogno della profondità tedesca tra i governanti, e della docilità tedesca tra il popolo, per trovare questa dottrina compatibile col potere supremo, e renderla tale. Ma da un altro punto di vista, e precisamente non rispetto al popolo ma ai ceti superiori, la Germania con la sua riforma della Chiesa ha esercitato sull’estero un’influenza generale e duratura; mediante questa influenza, essa ha nuovamente trasformato questo estero in precursore per se stessa, e in uno stimolo per le sue nuove creazioni. Il pensiero libero e spontaneo, cioè la filosofia, era [352] già stato spesso stimolato ed esercitato, nei secoli precedenti, sotto il dominio della vecchia dottrina, ma non per produrre verità da se stesso, bensì soltanto per mostrare che e in che modo la dottrina della Chiesa era vera. In un primo tempo, la fi83

losofia ricevette lo stesso compito anche presso i protestanti tedeschi in riferimento alla loro dottrina, e da loro era serva del Vangelo come negli scolastici era stata serva della Chiesa. All’estero, che o non aveva il Vangelo, oppure non lo aveva accolto con devozione e profondità di cuore puramente tedesche, il libero pensiero si sollevò più facilmente e più in alto senza le catene di una fede nel soprasensibile, acceso dallo splendido trionfo raggiunto; ma restò alla catena sensibile della fede nell’intelletto naturale, cresciuto senza cultura e costume; e ben lungi dall’aver scoperto nella ragione la fonte di una verità fondata in se stessa, i verdetti di questo rozzo intelletto divennero per gli stranieri ciò che per gli scolastici era la Chiesa, per i primi teologi protestanti il Vangelo; non si sollevava alcun dubbio sulla loro verità, la questione era semplicemente come poter affermare questa verità contro pretese contrastanti. Ora, poiché questo pensiero non penetrò nel campo della ragione, la cui resistenza sarebbe stata più significativa, esso non trovò altro avversario che la religione storicamente presente, e la liquidò facilmente, poiché la misurò col criterio dell’intelletto presupposto sano, e chiaramente si mostrò che essa lo contraddiceva; e così si arrivò al punto che all’estero, quando fu chiarito definitivamente tutto ciò, l’epiteto di filosofo e quello di irreligioso e negatore di Dio divennero sinonimi, e furono contraddistinti da eguale onore4. Il tentativo di sollevarsi completamente oltre ogni fede in un’autorità estranea era ciò che di giusto vi era in questi sforzi compiuti all’estero, e divenne [353] un nuovo stimolo per i tedeschi, dai quali esso era iniziato tramite la riforma della Chiesa. È vero che tra noi teste di second’ordine e non indipendenti ripeterono pedissequamente questa dottrina straniera – più volentieri, sembra, quella degli stranieri che l’altra, altrettanto facile da procurarsi, dei loro compatrioti, perché la prima sembrava loro più raffinata – e queste teste cercarono, per quanto possibile, di con4 L’allusione all’Illuminismo francese s’incrocia curiosamente con la vicenda dello stesso Fichte nella cosiddetta “disputa sull’ateismo”. La presa di distanza dal primo sembra confermare l’inconsistenza delle accuse che vennero mosse al secondo. Un più esplicito riferimento a questa vicenda si ha infra, Ottavo discorso, pp. 123 sg.

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vincersene esse stesse; ma quando si risvegliò lo spirito tedesco, allora il sensibile non bastò più, bensì sorse il compito di ricercare il soprasensibile, che non poteva più essere creduto in base a un’autorità estranea, nella ragione stessa, e solo così di creare un’autentica filosofia, in quanto del libero pensiero si fece, come doveva essere, la fonte di una verità indipendente. A questo aspirava Leibniz, in lotta con quella filosofia straniera; questo raggiunse il vero e proprio fondatore della nuova filosofia tedesca, non senza ammettere di essere stato sollecitato dall’espressione di un paese estero, che nel frattempo era stata intesa in modo più profondo5. Da allora, il compito tra noi è stato pienamente risolto, e la filosofia realizzata: ma per ora bisogna accontentarsi di dirlo, in attesa di un’epoca che lo comprenda6. Se questo è vero, allora, attraverso la sollecitazione dell’antichità filtrata dai paesi neolatini, nella madrepatria tedesca sarebbe avvenuta ancora una volta la creazione di qualcosa di nuovo, assolutamente mai esistito prima. Sotto gli occhi dei contemporanei, l’estero ha assunto con facilità e impetuosa audacia un altro compito della ragione e della filosofia nel mondo moderno, l’istituzione dello Stato perfetto, e poco dopo lo ha abbandonato, in modo tale che ora, dalla sua condizione attuale, è costretto a condannare come un crimine anche il semplice pensiero di quel compito e, se potesse, dovrebbe fare di tutto per cancellare quegli sforzi dagli annali della sua sto5 Evidente riferimento a Kant e al “risveglio dal sonno dogmatico” in lui suscitato dalla lettura di Hume (cfr. I. Kant, Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird eintreten können (1783), in Kant’s Gesammelte Schriften, Akademie-Ausgabe [d’ora in avanti KGS], vol. IV, p. 260; trad. it. Prolegomeni ad ogni futura metafisica, a cura di R. Assunto, Roma-Bari 1979, p. 8). 6 Qui Fichte intende se stesso e la sua dottrina della scienza, assieme alla sua insoddisfacente ricezione da parte dell’“epoca”, cioè dei suoi contemporanei. Questo problema si affaccia già nello scritto Sonnenklarer Bericht an das größere Publikum über das eigentliche Wesen der neuesten Philosophie. Ein Versuch, die Leser zum Verstehen zu zwingen (1801), GA, I, 7, pp. 165-268; trad. it. Rapporto chiaro come il sole per un più vasto pubblico sull’essenza propria della più recente filosofia. Un tentativo di costringere il lettore a capire, in Fichte, Scritti sulla dottrina della scienza cit., pp. 480-569 (ma confrontare anche l’edizione di questo scritto comparsa nella collana “Fichtiana”, col titolo Rendiconto chiaro come il sole. Al grande pubblico sull’essenza propria della filosofia più recente. Un tentativo di costringere i lettori a capire, a cura di F. Rocci, Milano 2002).

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ria7. Il motivo di questo risultato è evidente: lo Stato secondo ragione non può essere costruito con procedimenti artificiali da un materiale qualunque, ma prima la nazione deve essere formata ed educata a esso. [354] Solo quella nazione che avrà prima assolto il compito dell’educazione all’uomo perfetto mediante la sua effettiva esecuzione, potrà allora assolvere anche quello dello Stato perfetto8. Da quando abbiamo attuato la riforma della Chiesa, anche il compito dell’educazione nominato per ultimo è stato intrapreso più volte da paesi esteri, in modo pieno di spirito, ma nel senso della loro filosofia. In un primo momento, questi inizi fra noi hanno trovato seguaci fanatici. A suo tempo, riferiremo più ampiamente fino a che punto, ancora una volta, l’animo tedesco abbia sviluppato questa questione ai nostri giorni. In ciò che abbiamo detto, voi avete una chiara panoramica di tutta la storia della cultura del mondo moderno, e del rapporto immutabile tra le diverse parti di questo mondo e l’animo tedesco. La vera religione nella forma del cristianesimo è stata il germe del mondo moderno, e compito generale di quest’ultimo è stato quello di far confluire questa religione nella cultura già presente dell’antichità, in modo tale che essa venisse spiritualizzata e santificata. Il primo passo su questa strada è stato quello di separare da questa religione l’autorità esterna della sua forma, che la privava della libertà, e di introdurre anche in essa il libero pensiero dell’antichità. L’estero ha spinto a questo passo, il tedesco lo ha fatto. Il secondo passo, che in senso proprio è la continuazione e il compimento del primo, è di scoprire questa religione e con essa ogni saggezza in noi stessi. Anche questo è stato preparato all’estero e realizzato dai tedeschi. Il progresso che ora nell’eternità si trova all’ordine del giorno è l’educazione perfetta della nazione 7 Fichte così sintetizza la vicenda che dalla Rivoluzione francese ha condotto all’impero napoleonico. 8 Alla recente storia di Francia, Fichte contrappone la destinazione presente e futura che a suo avviso avrebbe dovuto assumere la Germania. Le Reden, e più in generale la dottrina della scienza, dovevano essere la chiave di volta per l’assunzione di questa responsabilità da parte della “nazione tedesca”. La locuzione “Stato secondo ragione” (vernunftgemäße Staat) rimanda ad altre espressioni analoghe, innanzitutto a quella di Vernunftstaat presente nello Stato commerciale chiuso.

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in senso umano. Senza di questo, la filosofia ora raggiunta non troverà mai ampia comprensibilità, meno che mai una universale applicabilità nella vita; così come, all’inverso, senza filosofia l’arte dell’educazione non giungerà mai a completa chiarezza in se stessa. L’una è intrecciata all’altra, e senza l’altra è incompleta e inutile. Già solo per il fatto che i tedeschi, finora, hanno portato a compimento ogni passo della cultura, e [355] nel mondo moderno sono stati riservati propriamente a questo, a essi spetta di fare lo stesso anche con l’educazione; ma quando sarà stato messo ordine in quest’ultima, sarà facile farlo anche col resto delle attività umane. In età moderna, dunque, il rapporto tra la nazione tedesca e lo sviluppo del genere umano è stato effettivamente questo. Resta da chiarire maggiormente l’osservazione, già fatta un paio di volte, sul corso naturale con cui questa nazione vi ha preso parte, che cioè in Germania ogni cultura è partita dal popolo. Che la faccenda della riforma della Chiesa sia stata prima portata al popolo, e abbia avuto successo solo perché è diventata una faccenda sua, lo abbiamo già visto. Ma resta da mostrare che questo singolo caso non è un’eccezione, bensì è stato la regola. I tedeschi rimasti in patria avevano conservato tutte le virtù che un tempo erano di casa nel loro territorio, fedeltà, semplicità, onore, ingenuità; ma di cultura finalizzata ad una vita superiore e spirituale, non avevano ricevuto più di quella che il cristianesimo di allora e i suoi maestri avevano potuto portare a uomini dispersi. Ciò era ben poco, e così essi erano rimasti indietro rispetto alle popolazioni che erano emigrate. Erano davvero semplici e coraggiosi, ma semibarbari. Nel frattempo, tra loro sorsero città istituite da membri del popolo. In queste, la vita giunse rapidamente alla più bella fioritura in ogni ramo della cultura. In esse sorsero costituzioni e istituzioni cittadine, che benché fossero commisurate a piccole dimensioni, tuttavia erano eccellenti, e da esse si diffuse per la prima volta sul resto del territorio un’immagine e un amore dell’ordine. Il loro esteso commercio contribuì alla scoperta del mondo. I re temevano la loro lega. I monumenti della loro architettura durano ancora oggi, hanno sfidato la distruzione 87

dei secoli, e i posteri stanno ammirati di fronte a essi, confessando la loro impotenza. [356] Io non voglio confrontare questi cittadini delle città imperiali tedesche del medioevo con gli altri ceti loro contemporanei, e chiedere che cosa facessero nel frattempo la nobiltà e i principi; ma a parte alcune zone dell’Italia, nei cui confronti, comunque, i tedeschi non restarono indietro neppure nelle belle arti, mentre nelle arti utili le superarono e ne divennero i maestri – a parte queste, rispetto alle altre nazioni germaniche ora i cittadini tedeschi erano gli uomini civilizzati, e quelle erano i barbari. La storia della Germania, della potenza tedesca, delle imprese, delle scoperte, dei monumenti e dello spirito tedeschi, in questo periodo è solamente la storia di queste città, e tutto il resto, come la cessione e il riscatto di territori, non è degno di essere menzionato. Questo è anche l’unico momento nella storia tedesca, in cui questa nazione sia splendidamente e gloriosamente presente col rango che spetta al suo popolo. Non appena il desiderio di possesso e di dominio da parte dei principi distruggerà la loro fioritura e calpesterà la loro libertà, il tutto sprofonderà gradualmente sempre più in basso, e andrà incontro alla condizione presente. Ma quando sprofonda la Germania, vediamo sprofondare anche il resto d’Europa, e non solo per quanto riguarda l’apparenza esterna, ma anche l’essenza stessa. L’influsso decisivo di questo ceto dominante a tutti gli effetti sullo sviluppo della costituzione imperiale tedesca, sulla riforma della Chiesa e su tutto ciò che ha sempre contraddistinto la nazione tedesca, e che da essa si è diffuso all’estero, non può essere disconosciuto da nessuno, e si può dimostrare che tutto ciò che ancora oggi tra i tedeschi è degno di onore è sorto dal suo seno. E quale fu lo spirito con cui questo ceto tedesco produsse e godette questa fioritura? Fu lo spirito della pietà, della rettitudine, della modestia e del buon senso. Avevano pochi bisogni per se stessi, ma sostenevano spese immense per imprese pubbliche. Raramente emerge e si segnala il nome di un singolo, [357] poiché tutti avevano un’unica volontà ed erano egualmente pronti a fare sacrifici per il bene comune. Esattamente nelle stesse condizioni 88

esterne della Germania, erano sorte città libere anche in Italia. Confrontiamo la loro storia; accostiamo i continui disordini, i contrasti e addirittura le guerre interne, il cambiamento incessante delle costituzioni e dei governanti in queste ultime, alla pacifica tranquillità e concordia delle altre. Com’è possibile esprimere in modo più chiaro che nell’animo delle due nazioni deve esserci stata un’intima differenza? La nazione tedesca è l’unica, tra le nazioni dell’Europa moderna, che nel suo ceto cittadino ha già mostrato da secoli, coi fatti, di poter sostenere una costituzione repubblicana. Tra i mezzi individuali e particolari per risollevare lo spirito tedesco, uno assai potente sarebbe quello di avere una storia entusiasmante dei tedeschi di questo periodo, che potesse diventare un libro nazionale e popolare, come lo sono la Bibbia o il libro dei Salmi, finché noi stessi non producessimo ancora una volta qualcosa che valga la pena di ricordare. Ma questa storia non dovrebbe enumerare gli atti e gli eventi come in una cronaca, bensì dovrebbe farci sprofondare nella vita di quel periodo catturandoci in modo meraviglioso, senza intervento o chiara coscienza da parte nostra: cosicché a noi stessi sembrerebbe di camminare, stare, decidere, agire con essi, e questo non mediante invenzioni carezzevoli e infantili, come tanti romanzi storici hanno fatto, bensì mediante la verità; ed essa dovrebbe far sbocciare gli atti e gli eventi da questa loro vita come testimonianze di questa. Certo, un’opera del genere potrebbe essere solo il frutto di ampie conoscenze, e di ricerche che forse non sono ancora mai state intraprese; ma l’autore dovrebbe risparmiarci la messa in mostra di queste conoscenze e ricerche, e presentarcene solo il frutto maturo nella lingua attuale, in un modo comprensibile a ciascun tedesco senza eccezione. Oltre a quelle conoscenze storiche, un’opera simile [358] richiederebbe anche un’alta misura di spirito filosofico, che altrettanto poco dovrebbe far mostra di sé; e soprattutto, un animo fedele e appassionato. Quel tempo è stato, in cerchie ristrette, il sogno giovanile della nazione riguardo azioni, lotte e vittorie future, e la profezia di ciò che essa un giorno sarebbe stata, una volta dispiegate le sue forze. Una compagnia corruttrice e l’attrattiva della vanità ha trascinato la nazione ancora in crescita in cerchie che non sono le sue e, mentre voleva risplendere anche in queste, ora essa sta coperta 89

di vergogna, e lotta addirittura per sopravvivere. Ma è davvero invecchiata e infiacchita? Da allora, e ancora fino a oggi, la sorgente della vita originaria non ha sempre zampillato per essa come per nessun’altra nazione? Possono restare inadempiute quelle profezie della sua vita giovanile, che vengono confermate dalla natura degli altri popoli e dal piano formativo dell’intero genere umano? Non sia mai. Purché, prima di tutto, facciamo recedere questa nazione dalla falsa direzione che ha preso, mostrandole, nello specchio di quei suoi sogni giovanili, la sua vera tendenza e la sua vera destinazione, finché, tra queste considerazioni, non diventi abbastanza potente da afferrare con forza questa sua destinazione. Possa questa esortazione contribuire a far sì che un tedesco dotato allo scopo assolva questo compito preliminare in tempi brevi!

Settimo discorso

Comprensione ancora più profonda del carattere originario e tedesco di un popolo

[359] Nei discorsi precedenti, abbiamo indicato e dimostrato nella storia i tratti fondamentali dei tedeschi in quanto popolo originario, e in quanto essi hanno il diritto di chiamarsi “il popolo” semplicemente, al contrario delle altre popolazioni che si sono separate da loro. Anche la parola “tedesco”, nel suo autentico significato letterale, dimostra quanto abbiamo detto1. È opportuno indugiare un’altra ora su questo argomento, e rispondere all’obiezione secondo cui, se tutto ciò costituisce il peculiare carattere tedesco, si dovrebbe ammettere che oggi, tra gli stessi tedeschi, di tedesco è rimasto ben poco. Poiché neppure noi possiamo negare questo fenomeno, bensì al contrario vogliamo riconoscerlo ed esaminarlo nei suoi diversi aspetti, vogliamo cominciare con una sua spiegazione. Nel complesso, il rapporto del popolo originario del mondo moderno col progresso della cultura di questo mondo è consistito nel fatto che il primo, dagli sforzi incompleti e superficiali dei paesi esteri, è stato solo stimolato a creazioni più profonde, da sviluppare nel suo proprio seno. Poiché indubbiamente dallo stimolo al compimento ci vuole tempo, allora è chiaro che un simile rapporto comporti dei periodi in cui il popolo originario deve confluire quasi interamente con l’estero, e apparire eguale a esso. Ciò 1 Fichte fa riferimento al significato etimologico di deutsch, aat diutisc, sost. aat diot, che voleva dire appunto “popolo”.

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dipende dal trovarsi nella condizione di essere solo stimolati, mentre la creazione che si ha in vista non è ancora giunta a realizzarsi. [360] Ora, la Germania si trova esattamente in un periodo del genere per quanto riguarda la grande maggioranza dei suoi abitanti colti, e da ciò derivano i fenomeni di esterofilia che si sono infiltrati profondamente nell’intero essere e vivere di questa maggioranza. Noi abbiamo visto, nel precedente discorso, che la filosofia, come libero pensiero sciolto da tutte le catene della fede in un’autorità estranea, è ciò attraverso cui l’estero stimola la sua madrepatria. Ora, nel caso in cui da siffatto stimolo non si passi alla nuova creazione, che essendo ignota alla grande maggioranza, ha raggiunto pochissime persone, succede che, in parte, quella filosofia straniera già prima indicata assume forme sempre diverse; in parte, lo spirito di essa s’impadronisce anche delle altre scienze confinanti più da vicino con la filosofia, e considera queste ultime dal suo punto di vista; infine, poiché i tedeschi non possono mai abbandonare la loro serietà e il loro immediato intervenire nella vita, questa filosofia influisce sui modi della vita pubblica, e sulle sue regole e princìpi. Noi mostreremo questo in dettaglio. Anzitutto: l’uomo non forma la sua concezione scientifica con libertà e arbitrio, in un modo o nell’altro, bensì essa gli viene formata dalla sua vita, e in senso proprio è la radice interna della sua stessa vita divenuta intuizione, e per il resto a lui sconosciuta. Ciò che tu sei veramente al tuo interno, viene fuori davanti al tuo occhio esterno, e tu non potrai mai vedere qualcos’altro. Per vedere altrimenti, dovresti diventare altrimenti2. Ora, l’intima essenza dell’estero, o della non originarietà, è la fede in qualcosa di ultimo, saldo, immutabilmente stabile, in un limite al di qua del quale certo la vita fa liberamente il suo gioco, che però essa non po2 Anche questa posizione era ben presente nel Fichte di Jena. Cfr., per tutti, il passo seguente dalla Prima introduzione alla dottrina della scienza del 1797: “Da quanto detto risulta che la scelta della filosofia dipende da che uomo si sia: un sistema filosofico, infatti, non è un’inerte suppellettile, che si possa abbandonare o accettare a proprio piacimento: al contrario, esso è animato dall’anima dell’uomo che lo ha fatto proprio” (J.G. Fichte, Prima e Seconda Introduzione alla dottrina della scienza, a cura di C. Cesa, Roma-Bari 1999, p. 19; testo originale in GA, I, 4, p. 195).

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trà mai infrangere e fluidificare, confluendo in esso. Questo limite impenetrabile, perciò, gli appare in qualche modo necessariamente anche davanti agli occhi, ed esso non può pensare o credere altrimenti che presupponendo qualcosa di simile, se la sua essenza non deve essere completamente trasformata, e il suo cuore non deve essergli strappato. [361] Esso crede necessariamente nella morte come elemento ultimo e originario, come sorgente fondamentale di tutte le cose, e con esse della vita. Noi qui dobbiamo mostrare anzitutto in che modo si manifesti tra i tedeschi questa fondamentale fede straniera. Essa si manifesta anzitutto nella filosofia vera e propria. L’attuale filosofia tedesca, nella misura in cui vale la pena di menzionarla qui, vuole profondità e forma scientifica, benché non sia in grado di ottenerle; essa vuole unità, non senza essere stata anticipata dall’estero; vuole realtà ed essenza – non semplici fenomeni, bensì una base di questi fenomeni apparente nei fenomeni. In tutti questi passaggi essa ha ragione, e supera di gran lunga le filosofie attualmente dominanti all’estero, poiché nell’esterofilia è molto più seria e conseguente degli stranieri stessi. Ora, per essi, questa base sottostante ai semplici fenomeni, per quanto possano determinarla ulteriormente in modo ancora più sbagliato, è sempre un essere saldo, che è proprio ciò che è e nient’altro, incatenato in sé e vincolato alla sua propria essenza; e così la morte e l’estraniazione dall’originarietà, che risiedono in loro stessi, vengono fuori anche davanti ai loro occhi. Poiché essi non possono sollevarsi alla vita direttamente da se stessi, ma per librarsi liberamente hanno sempre bisogno di un supporto e di un appoggio, essi non oltrepassano questo supporto neppure col loro pensiero, che è l’immagine della loro vita. Ciò che non è qualcosa, per loro è necessariamente nulla, poiché tra quell’essere in sé compatto e il nulla, il loro occhio non vede nient’altro, giacché la loro vita qui non ha nient’altro. Il loro sentimento, cui soltanto possono appellarsi, appare loro infallibile; e se qualcuno non ammette questo supporto, allora essi sono ben lontani dall’immaginare che questi si accontenti della vita solamente, ma credono che gli manchi l’intelligenza per osservare il supporto che indubbiamente sostiene anche lui, e che difetti della capacità [362] di librarsi alle loro elevate concezioni. È perciò vano e impossibile istruirli; bisognerebbe 93

farli e, se si potesse, farli diversamente. Da questo punto di vista, l’attuale filosofia tedesca non è tedesca, bensì esterofilia3. Al contrario la vera filosofia, giunta in se stessa a termine, e veramente penetrata oltre il fenomeno al nocciolo di questo, procede dall’unica e pura vita divina – in quanto vita immediatamente, che resta tale in tutta l’eternità, rimanendo in essa sempre una, non invece in quanto vita di questa o quella cosa; ed essa vede come solamente nel fenomeno la vita si chiude e di nuovo si apre all’infinito, e diventa in generale un essere e un qualcosa solo secondo questa legge. L’essere sorge dinnanzi ad essa, mentre quella se lo fa dare in precedenza. E così, soltanto questa filosofia è autenticamente tedesca, cioè originaria; e viceversa, se qualcuno fosse un vero tedesco, allora non potrebbe filosofare altrimenti che così4. Quel sistema di pensiero dominante tra la maggior parte dei filosofanti in tedesco – ma che non è tedesco in senso proprio – sia che venga edificato consapevolmente come vera e propria dottrina filosofica, sia che stia alla base del nostro modo di pensare solo inconsapevolmente, interviene nelle restanti concezioni scientifiche del nostro tempo. Allo stesso modo, un’altra tendenza fondamentale del nostro tempo stimolata dall’estero è quella di non limitarsi a memorizzare la materia scientifica, come facevano i nostri avi, ma anche di rielaborarla col proprio pensiero e filosofando. Il tempo ha ragione per quanto riguarda in generale questa tendenza; ma se, nell’attuazione di questo filosofare, esso proce3 Fichte condensa in questo capoverso le critiche che aveva rivolto a più riprese, nel corso degli anni, alla filosofia di Schelling e alla concezione da questi sostenuta dei rapporti tra Assoluto (unità) e fenomeno (molteplicità), in particolare a partire dal Sistema dell’idealismo trascendentale (1800) e dalla Esposizione del mio sistema filosofico (1801) sino a Filosofia e religione (1804). 4 All’inverso, qui Fichte caratterizza nella sua impostazione di fondo la dottrina della scienza come autentica filosofia trascendentale: l’opposizione tra quest’ultima e la schellinghiana “filosofia dell’identità” esprime quella tra “vita” e “morte” (su cui cfr. WL 1807, GA, II, 10, pp. 115-120; trad. it., cit., pp. 31-40), e assume storicamente la forma di una dicotomica filosofia delle nazionalità, in cui all’originarietà tedesca, basata sul carattere “vivo” della lingua, si contrappongono l’“estero” e l’“esterofilia”, la cui preferenza per l’essere “morto” è condizionata dal carattere altrettanto “morto” delle lingue “romanze”. È “condizionata”, ma non “determinata”: se così fosse, infatti, non si spiegherebbe la possibilità di un’esterofilia “tedesca”.

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de, come c’è da aspettarsi, dalla filosofia straniera che crede nella morte, esso avrà torto. Noi qui vogliamo dare un’occhiata alle scienze più vicine al nostro proposito generale, e ricercare i concetti e le concezioni straniere in esse diffuse. Nel fatto che l’istituzione e il governo degli Stati [363] vengano considerati come una libera arte, che ha le sue regole fisse, l’estero ci è indubbiamente servito da precursore, seguendo esso stesso il modello dell’antichità. Ora, in che cosa riporranno quest’arte dello Stato gli stranieri, che già nell’elemento del loro pensare e volere, nella loro lingua, hanno un supporto fisso, chiuso e morto, e tutti coloro che in questo li seguono? Senza dubbio, nell’arte di trovare un ordine di cose egualmente fisso e morto, dalla cui morte sorga il vivo movimento della società, e sorga come lo intendono loro: cioè, nell’arte di ricondurre tutta la vita nella società a un immenso ingranaggio artificiale, in cui ciascun singolo sia sempre costretto dall’intero a servire l’intero; nell’arte di risolvere un problema aritmetico in una somma calcolabile, a partire da grandezze finite e già date: cioè di costringere ciascuno a promuovere controvoglia il bene generale, a partire dal presupposto che ciascuno voglia il bene suo proprio. Gli stranieri hanno in vari modi enunciato questo principio e fornito artefatti di quell’arte sociale meccanica; la madrepatria ha accolto la loro teoria, e ha ulteriormente elaborato la sua applicazione per la produzione di macchine sociali, anche qui, come sempre, in modo più ampio, più profondo, più vero, superando di gran lunga il suo modello5. Se, nel corso seguito dalla società fino a quel momento, s’inceppa qualcosa, tali artefici di Stato non lo sanno spiegare se non col fatto che una delle sue rotelle potrebbe essere saltata, e non conoscono altro rimedio che quello di eliminare le rotelle danneggiate e di inserirne di nuove. Quanto più qualcuno è radicato in questa concezione meccanica della società, quanto più sa semplificare 5 Qui Fichte prende le distanze dalla scienza politica moderna, per come si era venuta definendo nel contrattualismo e giusnaturalismo moderno a partire da Hobbes; ma critica aspramente anche il modo in cui tale tradizione di pensiero “estera” era stata recepita nella teoria politica tedesca, e messa in pratica dal dispotismo più o meno illuminato dei diversi sovrani tedeschi (non ultimi, Federico II e l’assolutismo prussiano). Tuttavia, non è azzardato immaginare una presa di distanza anche dall’impostazione e da alcune formulazioni del suo Naturrecht jenese (1796/97).

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questo meccanismo rendendo il più possibile uguali tutte le parti della macchina, e trattando tutti come materiale indifferente, tanto più è considerato un grande artefice di Stato: e in questa nostra epoca, a ragione – perché con chi oscilla indeciso e non è capace di avere un saldo punto di vista, le cose vanno ancora peggio. Questa concezione dell’arte dello Stato suscita rispetto per la sua ferrea consequenzialità e la parvenza di sublimità che [364] ricade su di essa. Inoltre, particolarmente dove tutto spinge verso una costituzione monarchica – e che tale sta diventando in modo sempre più puro – essa fornisce buoni servizi fino a un certo punto. Ma quando si è raggiunto questo punto, salta agli occhi la sua impotenza. Io cioè voglio assumere che voi siate riusciti a dotare la vostra macchina di tutta la perfezione che vi eravate prefissati, e che in essa ogni membro inferiore venga immancabilmente e irresistibilmente costretto a costringere da un membro superiore, e così via fino al vertice: ora, da che cosa viene costretto a costringere il vostro ultimo membro, da cui proviene tutta la coazione presente nella macchina? Voi dovreste aver superato assolutamente ogni resistenza che potrebbe sorgere dall’attrito dei materiali contro quell’ultima molla, e averle dato una forza contro cui ogni altra forza dileguerebbe in nulla – ciò che potreste fare ancora una volta solo per meccanismo – e così dovreste avere creato la più potente tra tutte le costituzioni monarchiche: ma come fate ora a muovere queste molle, costringendole a vedere e a volere il giusto senza eccezione? Come fate a inserire nel vostro ingranaggio, calcolato e disposto sì in modo esatto, ma fermo, l’eternamente mobile? Dovrebbe forse l’intera opera, come talvolta dite nel vostro imbarazzo, agire a ritroso e sollecitare la prima molla? O questo avviene mediante una forza che deriva dalla sollecitazione della molla, oppure avviene mediante una forza tale che non deriva da essa, bensì si trova nell’intero stesso indipendentemente dalla molla; e un terzo caso non è possibile. Se assumete il primo, allora vi trovate in un circolo che annulla ogni pensiero e ogni meccanismo; l’intera opera può costringere la molla solo nella misura in cui essa stessa è da quella costretta a costringerla, dunque nella misura in cui la molla, però mediatamente, costringe se stessa; ma se essa non costringe se stessa, difetto al quale appunto volevamo rimediare, allora non risulta nessun movimento. Se assumete il secondo, allora ammettete che l’origine del 96

movimento nella vostra opera proviene da una [365] forza che non è affatto entrata nel vostro calcolo e ordinamento, e che non è vincolata dal vostro meccanismo, ma indubbiamente agisce come può senza vostro intervento, secondo le sue proprie leggi a voi sconosciute. In ciascuno dei due casi dovete confessare di essere dei pasticcioni e dei chiacchieroni incapaci. In effetti, si è anche avuto sentore di ciò, e in questa dottrina, che contando sulla sua coazione, può disinteressarsi del resto dei cittadini, si è voluto educare almeno il principe con buone dottrine e insegnamenti di ogni tipo. Ma come ci si può assicurare di incontrare una natura suscettibile, in generale, di essere educata a fare il principe? Oppure, qualora si avesse questa fortuna, che costui, che nessun uomo può costringere, sia docile e disposto ad accettare una disciplina? Una simile concezione dell’arte dello Stato, che venga incontrata su suolo straniero o tedesco, è sempre esterofilia6. Tuttavia, a onore dell’indole e dell’animo tedeschi, c’è da notare in proposito che, per quanto noi volessimo essere buoni artisti nella mera teoria del calcolo di questa coazione, tuttavia, quando si trattò di passare all’esecuzione, ne fummo assai impediti dal sentimento oscuro che così non dovrebbe essere, e da questo lato restammo indietro rispetto all’estero. Anche se dovessimo essere costretti ad accogliere il presunto beneficio di forme e leg6 Qui è senz’altro presente un riferimento a Machiavelli; ma la messa in luce del carattere aporetico nell’educazione del sovrano sembra rimandare in modo ancora più determinato al Kant dello scritto Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht (1784), KGS, vol. VIII, pp. 15-31; trad. it. Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, a cura di N. Bobbio, L. Firpo e V. Mathieu, Torino 1956, pp. 123-139: in particolare, confrontare la tesi VI, in cui Kant scrive: “l’uomo è un animale che ha bisogno di un padrone [Herr][...] Ma questo padrone è a sua volta un essere animale che ha bisogno di un padrone [...] Il capo supremo [Oberhaupt]deve essere giusto per se stesso e tuttavia essere un uomo. Questo problema è quindi il più difficile di tutti e una soluzione perfetta di esso è impossibile” (ivi, p. 23; trad. it., cit., pp. 129-130). Su questa linea, si confronti anche l’affermazione più tarda, secondo cui: “L’uomo ha bisogno, dunque, d’essere educato al bene; ma colui che ha il dovere di educarlo è ancora un uomo...” (I. Kant, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht (1798), KGS, vol. VII, p. 325; trad. it. Antropologia pragmatica, a cura di G. Vidari, riveduta da A. Guerra, Roma-Bari 2001, p. 220). Con la proposta formulata nelle Reden, Fichte intende portare a “compimento” la filosofia kantiana anche da questo punto di vista.

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gi estranee, almeno non dovremo vergognarci al riguardo più del dovuto, come se il nostro spirito fosse stato incapace di conseguire queste altezze della legislazione. Poiché, quando abbiamo la penna in mano, non siamo secondi a nessuna nazione, può darsi che noi per la nostra vita, sentendo che tutto ciò non era ancora la cosa giusta, preferissimo lasciare stare il vecchio fino all’arrivo del perfetto, piuttosto che scambiare la vecchia moda con una moda nuova e altrettanto caduca. Diversamente l’arte dello Stato autenticamente tedesca. Anch’essa vuole solidità, sicurezza e indipendenza dalla natura cieca e incerta, e in questo è completamente d’accordo con l’estero. Solo che, a differenza di questo, essa non [366] vuole una cosa salda e certa come primo elemento mediante il quale soltanto lo spirito, come secondo elemento, diventi certo, bensì essa vuole subito fin dall’inizio uno spirito saldo e certo come elemento unico e primo di tutti. Questo è per essa la molla eternamente mobile e da se stessa vivente che ordinerà e continuerà a muovere la vita della società. Essa comprende di non poter produrre questo spirito mediante invettive contro gli adulti già compromessi, bensì solo mediante l’educazione della gioventù ancora incorrotta; e precisamente, essa con questa educazione non vuole rivolgersi, come fa l’estero, alle ripide cime, ai principi, bensì con essa vuole rivolgersi alla vasta pianura, alla nazione, poiché senza dubbio ne farà parte anche il principe. Come lo Stato è la prosecuzione dell’educazione del genere umano nelle persone dei suoi cittadini adulti, così – dice quest’arte dello Stato – il futuro cittadino dovrebbe essere educato più che mai a ricevere quell’educazione superiore. Così, questa tedesca e nuovissima arte dello Stato diventa a sua volta la più antica, poiché anche questa presso i Greci basava la cittadinanza sull’educazione, e formava cittadini come le epoche successive non ne hanno più visti. Nella forma, i tedeschi faranno lo stesso; nel contenuto, con spirito non ristretto ed esclusivo, bensì universale e cosmopolitico. La grande maggioranza dei nostri compatrioti è dominata dallo spirito estero anche nella sua concezione della vita d’insieme del genere umano, e della storia in quanto immagine di quella vita. Come abbiamo mostrato altrove, una nazione che, nella sua lingua, ha una base conclusa e morta, in tutte le arti del discorso può giungere solo fino a un certo livello di formazione, consenti98

to da quella base, e lì vivrà una propria età dell’oro7. Senza la più grande modestia e umiltà, una tale nazione non può trovare conveniente il pensiero che il genere umano sia superiore a quanto essa pensa di se stessa; perciò, essa deve presupporre che anche per la formazione del genere umano ci sia una meta ultima, suprema e insuperabile. [367] Come le specie animali dei castori o delle api costruiscono ancora oggi come costruivano migliaia di anni fa, e in questo lungo periodo la loro arte non ha fatto alcun progresso, lo stesso accadrà, secondo costoro, con la specie animale chiamata uomo, in tutti i rami della sua formazione. Questi rami, impulsi e capacità potranno essere valutati in modo esaustivo, anzi forse in un paio di articolazioni si offriranno perfino allo sguardo, e potrà essere indicato il più alto sviluppo possibile per ciascuno di essi. Forse al genere umano andrà ancora peggio che ai castori e alle api, per il fatto che questi, non essendo istruiti, nella loro arte non possono neppure tornare indietro, mentre l’uomo, anche quando avesse raggiunto la cima, potrebbe sempre esserne scagliato giù, e potrebbero occorrergli secoli di sforzi per raggiungere nuovamente il punto in cui si sarebbe fatto meglio a lasciarlo stare. Secondo costoro, il genere umano avrà senza dubbio già raggiunto simili punti culminanti della sua cultura e simili età dell’oro: il loro zelo consisterà nel ricercare con cura tali momenti nella storia, nel valutare secondo questi tutti gli sforzi dell’umanità, e nel tentare di ricondurla a essi. Secondo loro, la storia è finita da lungo tempo, ed è già finita più volte; secondo loro, nulla di nuovo accade sotto il sole, poiché essi hanno cancellato sopra e sotto il sole la sorgente dell’eterno scorrere della vita, e lasciano soltanto che la morte sempre ricorrente si ripeta e si ponga più volte. È noto che questa filosofia della storia ci è arrivata dall’estero, benché adesso essa sia scomparsa anche in questo, e sia diventata quasi esclusivamente una proprietà tedesca. Da questa affinità più profonda, dunque, dipende anche il fatto che questa nostra filosofia della storia possa capire in modo così completo gli sforzi dei paesi esteri, i quali, anche se non esprimono più così spesso questa concezione della storia, fanno ancora di più, poiché agiscono 7

Cfr. supra, Quinto discorso, pp. 68-69.

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in essa e realizzano di nuovo un’età dell’oro; e a essi può addirittura prefigurare in modo profetico il cammino che seguiranno, [368] ammirandoli così apertamente, come chi pensa in tedesco non può vantarsi di fare. Come potrebbe del resto? Le età dell’oro sono per lui sotto ogni riguardo una limitatezza dell’essere morto. Egli pensa che l’oro può essere sì la materia più nobile nel seno della morta terra, ma che la materia dello spirito vivente è al di là del sole e di tutti i soli, e ne è la sorgente. Per lui la storia, e con essa il genere umano, non si dipana secondo la legge magica e nascosta di una danza circolare, ma secondo lui è l’uomo vero e autentico a farla, non ripetendo soltanto ciò che è già stato, bensì creando l’assolutamente nuovo nel corso del tempo. Egli perciò non si aspetta mai una ripetizione pura e semplice, e se anche essa dovesse accadere, parola per parola, com’è scritto nell’antico libro, almeno non suscita la sua ammirazione8. 8 Sul tema affrontato in questo brano, confrontare ciò che Fichte scriveva già nella Bestimmung des Menschen (1800), GA, I, 6, pp. 266 sgg., e la conclusione dell’opera, ivi, pp. 306-309 (trad. it. La destinazione dell’uomo, a cura di C. Cesa, Roma-Bari 2001, rispettivamente a pp. 90 sgg. e pp. 134-136). Il problema attraversa l’Illuminismo tedesco, e da quest’ultimo viene lasciato in eredità all’idealismo. Per quanto riguarda il primo, si confronti la seguente affermazione di Mendelssohn, risalente al 1782: “Lo scopo della natura non è il perfezionamento del genere umano. No! Il perfezionamento dell’uomo, dell’individuo. Ogni singolo uomo deve sviluppare le sue disposizioni e capacità, e in questo modo diventare sempre più perfetto. Proprio perché a questo è tenuto ciascun individuo, l’intero genere deve ripetere il corso circolare per il quale ci preoccupiamo tanto” (JubA, XIII, 65: citato in L. Fonnesu, Antropologia e idealismo. La destinazione dell’uomo nel primo idealismo, Roma-Bari 1993, p. 51; ma sul grande tema della “educazione del genere umano” e del “perfezionamento” di quest’ultimo e/o del singolo individuo, cfr. tutto il cap. I, Premesse settecentesche, pp. 25-56). Per la ripresa della questione in ambito idealistico, oltre alla Destinazione dell’uomo di Fichte, cfr. la coeva opera di Schelling, System des transzendentalen Idealismus, a cura di R.-E. Schulz, Hamburg 1957, p. 261; trad. it. Sistema dell’idealismo trascendentale, a cura di G. Semerari, Roma-Bari 1990, p. 264: “Che nel concetto della storia sia implicito quello di una progressività infinita, si è dimostrato abbastanza nella parte precedente. Di qui peraltro non si può certo immediatamente concludere per l’infinita perfettibilità della specie umana, poiché, quelli che la negano, possono con altrettanta ragione affermare che l’uomo abbia una storia tanto poco quanto l’animale, che egli invece sia rinchiuso in un eterno circolo di operazioni, in cui egli si aggiri incessantemente, come Issione intorno alla sua ruota, e, tra continue oscillazioni e talora anche tra visibili deviazioni dalla linea curva, ritorni pur sempre al punto da cui era partito”.

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In modo simile, lo spirito mortifero dell’estero si diffonde senza nostra piena coscienza sul resto delle nostre concezioni scientifiche, delle quali dovrebbero bastare gli esempi che abbiamo addotto; e questo accade perché proprio adesso noi elaboriamo a modo nostro le sollecitazioni prima ricevute dall’estero, e attraversiamo questa situazione intermedia. Ho portato questi esempi perché ciò rientrava nell’argomento; ma, per inciso, anche perché nessuno creda di poter contraddire le affermazioni fatte, traendo conseguenze dai princìpi addotti. Ben lungi dall’esserci rimasti sconosciuti, o dal fatto di non essere riusciti a sollevarci fino a essi, li conosciamo invece piuttosto bene, e forse, se ci avanzasse del tempo, saremmo capaci di svolgerli in tutta la loro consequenzialità in avanti e all’indietro. Il punto è che noi li rigettiamo fin dall’inizio, e così tutto ciò che deriva da essi, di cui nel pensiero che abbiamo ereditato c’è più di quanto potrebbe credere l’osservatore superficiale. Come nelle nostre concezioni scientifiche, così questo spirito dei paesi esteri s’infiltra anche nella nostra [369] vita comune, e nelle sue regole; ma perché questo sia chiaro, e ciò che precede diventi ancora più chiaro, è necessario dapprima compenetrare con sguardo profondo l’essenza della vita originaria, cioè della libertà 9. La libertà, presa nel senso dell’oscillare indeciso tra più possibili equivalenti, non è vita, bensì soltanto soglia e accesso alla vita reale. Alla fine, da questo oscillare bisogna pur pervenire una buona volta alla decisione e all’agire, e la vita comincia soltanto adesso. Ora, ogni decisione della volontà appare immediatamente e a prima vista come un che di primo, niente affatto come un che di secondo, e come conseguenza di un primo in quanto suo fondamento – come esistente assolutamente mediante sé, ed esistente così come essa è; significato che vogliamo fissare in quanto è l’unico significato comprensibile della parola libertà. Ma riguardo al contenuto interno di una siffatta decisione della volontà sono possibili due casi; cioè, o in essa appare solo il fenomeno separato dall’essenza, e senza che l’essenza subentri in qualche modo nel suo 9 Le pagine che seguono costituiscono una delle sintesi migliori della concezione filosofica del Fichte berlinese.

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apparire; oppure subentra l’essenza stessa, apparendo in questo fenomeno di una decisione della volontà: e qui dobbiamo subito aggiungere che l’essenza può apparire solo in una decisione della volontà e assolutamente in nient’altro, benché all’inverso ci possano essere decisioni della volontà in cui non appare assolutamente l’essenza, bensì soltanto il mero fenomeno. Noi parleremo dapprima di quest’ultimo caso. Il puro fenomeno è determinato immutabilmente, semplicemente come tale, dalla sua separazione e opposizione con l’essenza, poi per il fatto di essere capace di apparire e di esporsi esso stesso, e perciò esso è necessariamente così come è e si trova a essere. Se quindi, come ipotizziamo, una data decisione della volontà nel suo contenuto è mero fenomeno, allora proprio per questo essa di fatto non è libera, non è un che di primo e originario, bensì è necessaria, ed è un secondo [370] elemento risultante da un primo elemento superiore, che scaturisce così com’è dalla legge del fenomeno in generale. Ora, come è stato ricordato più volte anche qui, poiché il pensiero dell’uomo lo pone davanti a lui stesso così come egli è realmente, e resta per sempre impronta e specchio fedele della sua interiorità, una siffatta decisione della volontà, benché a prima vista appaia come libera (in quanto appunto decisione della volontà), tuttavia non può assolutamente apparire così a una riflessione ripetuta e più approfondita, bensì in questa deve essere pensata come necessaria, così come è realmente e di fatto. Per uomini, la cui volontà non si è ancora sollevata in un circolo superiore a quello per cui in essi c’è soltanto l’apparire di una volontà, la fede nella libertà è senz’altro follia e illusione di un intuire passeggero, che resta fermo alla superficie; per loro, la verità esiste solo nel pensiero, che a loro mostra dovunque solo le catene della dura necessità. La prima legge fondamentale del fenomeno, assolutamente in quanto tale (siamo autorizzati a tralasciarne la ragione, poiché lo abbiamo fatto ampiamente altrove), consiste nel fatto che esso si disgrega in un molteplice, che da un certo punto di vista è infinito, da un altro è un intero chiuso, nel quale intero chiuso del molteplice ciascun singolo è determinato da tutti gli altri, e viceversa tutti gli altri sono determinati da questo singolo10. Perciò, se dal10

Fichte rimanda probabilmente in primo luogo alla Anweisung zum seli-

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la decisione della volontà del singolo, nel fenomeno non emerge altro che la fenomenicità, rappresentabilità e visibilità in generale, che di fatto è la visibilità di niente, allora il contenuto di una siffatta decisione della volontà è determinato dall’intero chiuso di tutte le possibili decisioni volontarie di questa singola volontà e di tutte le altre possibili volontà, ed essa non contiene né può contenere altro se non ciò che resta da volere dopo la sottrazione di tutte quelle possibili decisioni della volontà. Perciò, di fatto, in quella decisione non vi è nulla di indipendente, originale e proprio, bensì essa è la mera conseguenza secondaria, risultante dalla connessione universale dell’intero fenomeno nelle sue singole parti. Allo stesso modo, [371] perciò, essa è anche stata conosciuta come tale da tutti quelli che si trovavano a questo stadio della cultura, ma pensavano profondamente alla questione, e questa loro conoscenza è stata anche espressa con le stesse parole di cui ci siamo appena serviti. Tutto questo, però, accade perché in loro l’essenza non subentra nel fenomeno, bensì subentra soltanto il mero fenomeno. Al contrario, quando nel fenomeno di una decisione della volontà subentra immediatamente l’essenza stessa, per così dire in prima persona e non mediante un rappresentante, tutto ciò che abbiamo menzionato sopra, risultante dal fenomeno in quanto intero chiuso, è senz’altro egualmente presente, poiché certo il fenomeno appare anche qui; però un siffatto fenomeno non si risolve in tale elemento, e non è esaurito da questo, bensì in esso si trova ancora un che di eccedente, un altro elemento che non si può spiegare in base a quella connessione, bensì resta dopo la sottrazione di ciò che può essere spiegato. Ho detto che quel primo elemento si trova anche qui; quel di più diventa visibile, ed entra sotto la legge e le condizioni dell’evidenza in generale, per mezzo di questa sua visibilità, niente affatto per mezzo della sua gen Leben, lez. 4-5, GA, I, 9, pp. 92-114 (trad. it. Iniziazione alla vita beata, in J.G. Fichte, La dottrina della religione, a cura di G. Moretto, Napoli 1989, pp. 285-309); ma l’accenno alla “ragione” o “fondamento” (Grund) sembra imporre un rimando più ampio ai corsi di dottrina della scienza che proprio in quegli anni egli aveva tenuto a Berlino (pensiamo anzitutto ai tre cicli di conferenze del 1804), Erlangen (1805) e nei primi mesi del 1807 a Königsberg (in particolare, cfr. WL 1807, lez. 16, GA, II, 10, pp. 157-159; trad. it., cit., pp. 97-101).

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essenza interna. Però, esso è ancora di più che questo suo sorgere da una legge qualsiasi, e perciò come necessario e secondo; e in rapporto a questo di più esso è ciò che è mediante se stesso, cioè qualcosa di veramente primo, originale e libero; e poiché è questo, esso anche appare così al pensiero più profondo e giunto a termine in se stesso. Come ho detto, la legge suprema dell’evidenza consiste nel fatto che ciò che appare si scinda in un molteplice infinito. Quel di più diventa visibile ogni volta come di più rispetto a ciò che risulta qui e ora dalla connessione del fenomeno, e così via all’infinito; e così dunque questo di più appare esso stesso come un infinito. Ma è chiaro come il sole che esso consegue questa infinità solo perché ogni volta può essere visto, pensato e scoperto esclusivamente mediante la sua opposizione a ciò che risulta all’infinito dalla connessione, e mediante il suo essere più di quello. Ma a parte questo [372] bisogno del suo pensiero, questo di più che tutto l’infinito, rappresentabile all’infinito, esiste fin dall’inizio in pura semplicità e immutabilità, e in tutta l’infinità non diventa né più né meno che questo di più; ed è soltanto la sua evidenza, in quanto più dell’infinito, a creare l’infinito e tutto ciò che in esso sembra apparire. Nella sua suprema purezza, esso non può rendersi visibile altrimenti. Ora, quando questo di più, che può subentrare solo in un volere, subentra effettivamente come un di più evidente, allora l’essenza stessa, che sola è e può essere, ed esiste da sé e mediante sé, l’essenza divina subentra nel fenomeno e si rende immediatamente visibile; e proprio perciò lì c’è vera originalità e libertà, e quindi anche la fede in esse. E così, dunque, alla questione generale se l’uomo sia o non sia libero, non si trova alcuna risposta generale; infatti, proprio perché l’uomo è libero nel senso più basso, proprio perché comincia con un oscillare e un tentennare indecisi, egli può essere libero o anche non libero nel senso più alto della parola. In realtà, il modo in cui ciascuno risponde a questa domanda è il limpido specchio del suo vero essere interiore. Di fatto, chi non è più che un membro nella catena dei fenomeni, può sì illudersi per un attimo di essere libero, però questa illusione non resiste al suo pensiero più rigoroso; ma così come egli trova se stesso, allo stesso modo necessariamente concepisce tutta la sua specie. Al contrario, colui la cui vita è afferrata da ciò che è veridico ed è divenuta vita 104

immediatamente da Dio, costui è libero e crede alla libertà in sé e negli altri. Chi crede in un essere fisso, morto e persistente, crede in esso solo perché è morto in se stesso; e una volta morto, non appena faccia chiarezza in se stesso, non può credere altrimenti che così. Egli stesso e tutta la sua specie diventano per lui, dall’inizio alla fine, un che di secondario ed una conseguenza necessaria da un [373] primo elemento, che dev’essere presupposto. Questo presupposto è il suo pensiero effettivo e non meramente pensato, il suo senso vero, il punto in cui il suo pensiero è immediatamente vita; e così, è la fonte di tutto il resto dei suoi pensieri e giudizi sulla sua specie – nel suo passato, la storia; nel suo futuro, le aspettative su di essa; e nel suo presente, la vita effettiva in lui stesso e negli altri. Noi abbiamo chiamato questa fede nella morte, in opposizione a un popolo che vive in modo originario, esterofilia. Con ciò, una volta che si sia infiltrata tra i tedeschi, questa esterofilia si mostrerà anche nella loro vita effettiva, come tranquillo abbandono alla necessità ormai immutabile del loro essere, come rinuncia a ogni miglioramento di noi stessi o degli altri mediante la libertà, come inclinazione a utilizzare se stessi e tutti così come sono, e a ricavare dal loro essere il maggior vantaggio possibile; in breve, come professione di fede che si riflette di continuo in tutte le attività della vita, e che ho descritto a sufficienza altrove*, nell’universale ed equivalente peccaminosità di tutti. Lascio a voi la rilettura di questa descrizione, come anche il giudizio sulla sua adeguatezza al presente. Come ho spesso ricordato, per chi è spento interiormente questo modo di pensare e di agire sorge solo facendo chiarezza in se stesso, altrimenti costui, finché resta all’oscuro, mantiene la fede nella libertà, che in sé è vera ed è illusione solo nell’applicazione al suo essere attuale. Qui emerge con evidenza lo svantaggio della chiarezza per chi è interiormente malvagio. Finché questa malvagità resta oscura, essa viene continuamente disturbata, pungolata e sospinta dalla costante esigenza della libertà, e offre un appiglio ai tentativi di emendarla. Ma la chiarezza la completa e la perfeziona in se stessa, aggiunge ad es* Cfr. Anweisung zum seligen Leben, lez. 11 [GA, I, 9, pp. 175-187; trad. it., cit., pp. 381-393].

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sa il [374] gioioso abbandono, la tranquillità di una buona coscienza, il compiacimento di se stessa; ai malvagi capita ciò in cui essi credono, davvero d’ora in poi non possono più migliorare, e servono al massimo per mantenere vivo, tra i migliori, l’orrore spietato contro il male, o l’abbandono alla volontà di Dio, e non servono a nient’altro al mondo. E così, finalmente, emerge nella sua completa chiarezza ciò che nella nostra descrizione precedente abbiamo inteso per “tedeschi”. Il fondamento vero e proprio della distinzione sta qui: se si crede in qualcosa di assolutamente primo e originale nell’uomo stesso, nella libertà, nella migliorabilità infinita, nell’eterno progredire della nostra specie; oppure, se non si crede a nulla di tutto ciò, anzi erroneamente si ritiene d’intendere e di capire che è vero il contrario di tutto questo. Tutti coloro i quali o vivono in prima persona creativamente e producendo il nuovo, oppure, qualora ciò non sia loro toccato, perlomeno lasciano cadere decisamente ciò che non vale nulla, e vivono prestando attenzione all’eventualità che il flusso della vita originaria li afferri, oppure, qualora non siano progrediti neppure fin qui, hanno perlomeno il presentimento della libertà, e non la odiano né sono terrorizzati da essa, bensì la amano: tutti costoro sono uomini in senso originario; essi, considerati come un popolo, sono un popolo originario, il popolo in senso assoluto, tedeschi. Tutti coloro che si rassegnano a essere un che di secondario e di derivato, e si riconoscono e si comprendono manifestamente così, lo sono di fatto, e mediante questa fede lo diventano sempre più; essi sono un’appendice della vita, che si è destata per proprio impulso di fronte o accanto a loro, l’eco risonante dalla roccia di una voce già estinta; essi, considerati come popolo, sono fuori dal popolo originario, e per esso estranei, e stranieri. Nella nazione che a tutt’oggi si chiama il popolo in senso assoluto, cioè la nazione tedesca, in epoca moderna è venuto alla luce, perlomeno finora, qualcosa di originale, e si è rivelata una forza creatrice del nuovo. Ora, finalmente, una [375] filosofia divenuta chiara a se stessa tiene di fronte a questa nazione lo specchio, in cui essa può conoscere con la chiarezza del concetto ciò che finora essa è stata per natura senza coscienza manifesta, e ciò verso cui essa è destinata dalla natura. A essa viene fatta la proposta di fare di se stessa, in modo intero e completo, secondo quel concetto chiaro e con arte meditata e li106

bera, ciò che essa dovrebbe essere, di rinnovare il patto, e chiudere il suo cerchio. Il principio secondo cui deve chiuderlo le sta pronto davanti: chiunque creda nella spiritualità e nella libertà di questa spiritualità, e voglia l’eterna e continua formazione di questa spiritualità mediante la libertà, costui, ovunque sia nato e qualunque lingua parli, è della nostra specie, ci appartiene e si unirà a noi. Chiunque creda nella stasi, nel regresso e nella danza circolare, o addirittura ponga al timone del governo del mondo una morta natura, costui, ovunque sia nato e qualunque lingua parli, non è un tedesco ed è per noi un estraneo, ed è auspicabile che si separi completamente da noi, quanto prima, tanto meglio. E così, in questa occasione, appoggiandoci a ciò che abbiamo detto prima sulla libertà, venga finalmente fuori a voce alta, e chi ha orecchie per intendere, intenda quali sono le vere intenzioni di quella filosofia che a buon diritto si chiama tedesca; e qual è il punto in cui essa si oppone con rigore serio e inesorabile a ogni filosofia straniera che creda nella morte. Non lo diciamo perché ciò che è morto possa capirla, il che è impossibile, bensì perché per esso diventi più difficile distorcere le sue parole, e fingere che anch’esso voglia e in fondo intenda la stessa cosa. Questa filosofia tedesca s’innalza effettivamente, con l’atto del suo pensiero, all’immutabile “più di tutta l’infinità”, e trova solamente in questo l’essere veridico; non se ne vanta semplicemente in base all’oscuro presentimento che dovrebbe essere così, senza essere in grado di realizzarlo. Essa scorge tempo, eternità e infinità nel loro sorgere dall’apparire e diventare visibile di quell’Uno che in sé [376] è assolutamente invisibile, e che viene colto, e colto correttamente, soltanto in questa sua invisibilità. Secondo questa filosofia, già l’infinità è niente in sé, e non le spetta assolutamente un essere veridico: essa è solo il mezzo in cui ciò che unicamente esiste, e che è soltanto nella sua invisibilità, diventa visibile; e da cui, nell’ambito della figurabilità, gli viene costruita un’immagine, uno schema e ombra di se stesso. Ora, tutto ciò che può ancora diventare visibile, all’interno di questa infinità del mondo delle immagini, è completamente un niente del niente, un’ombra dell’ombra, ed è soltanto il mezzo in cui diventa visibile quel primo niente dell’infinità e del tempo, e in cui al pensiero si apre lo slancio verso l’essere infigurabile e invisibile. Ora, all’interno di questa immagine unicamente possibile dell’infinità, l’invisibile emerge immediatamente solo in quanto vita 107

del vedere libera e originale; ovvero in quanto decisione della volontà di un essere razionale, e non può assolutamente emergere e apparire diversamente. Ogni esserci permanente, che appare come vita non spirituale, è solo un’ombra vuota, proiettata dal vedere, mediata in modo molteplice dal niente. Contrapponendosi a questa, e conoscendola in quanto niente mediato in modo molteplice, il vedere stesso deve elevarsi alla conoscenza del suo proprio niente, e al riconoscimento dell’invisibile in quanto unico vero. Ora, quella filosofia dell’essere, che crede nella morte, resta prigioniera in queste ombre delle ombre di ombre11. Essa diventa senz’altro filosofia della natura, la più morta di tutte le filosofie, e teme ed è devota alla sua propria creatura12. Ora, questo persistere è l’espressione della sua vera vita e del suo amore, e su ciò a questa filosofia si può credere. Se però, inoltre, essa dice che questo essere, da essa presupposto come veramente essente, sia un’unica e la stessa cosa dell’Assoluto, non bisogna crederle, per quante assicurazioni essa possa fornire, prestasse pure dei giuramenti. Essa questo non lo sa, ma lo dice soltanto sperando nella buona sorte, [377] ripetendolo da un’altra filosofia alla quale non osa contestarlo13. Se lo sapesse, non dovrebbe partire dalla dualità in quanto fatto indubitabile, che con quel colpo di mano essa si limita a togliere, e tuttavia lascia stare, bensì dovrebbe partire dall’unità, ed essere in grado di dedurne, in modo comprensibile ed evidente, la dualità e con essa tutta la

11 Leggi: resta prigioniera nei singoli enti intesi come oggetti particolari, come “qualcosa”; tali “qualcosa” però sono semplici proiezioni o concrezioni dell’infinità dello spazio e del tempo (“ombre delle ombre”), i quali rappresentano, a loro volta, proiezioni, immagini o “schemi” delle “ombre” primarie, costituite dal “vedere” e dal “volere” in quanto immagini elementari della “vita”. Se teniamo conto che quest’ultima è l’immagine originaria (Urbild) dell’Assoluto, abbiamo uno schematismo quintuplice come struttura fondamentale dell’apparire, o in altri termini: abbiamo la ricostruzione in senso trascendentalegenetico delle cinque condizioni di possibilità principali, a partire da cui è possibile comprendere il fenomeno nel suo manifestarsi: 1) Assoluto “infigurabile”; 2) Vita come sua “immagine originaria”; 3) Vedere e volere; 4) Infinità spaziotemporale; 5) Enti singolari, o “qualcosa”. 12 Cioè, alla “natura” intesa come insieme dei singoli enti o “qualcosa”. Trasparente, soprattutto ai contemporanei, doveva apparire il riferimento a Schelling e ai suoi seguaci. 13 Quasi certamente, questa “altra filosofia” è quella di Spinoza.

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molteplicità. Ma per fare questo c’è bisogno del pensiero, della riflessione attuata e portata fino al termine. In parte, essa non ha imparato l’arte di questo pensiero e ne è in generale incapace, essa è in grado solo di esaltarsi; in parte, essa è nemica di questo pensiero e non ama provarlo, perché verrebbe turbata nella sua illusione prediletta14. Ora, questo è il punto in cui la nostra filosofia si contrappone seriamente a quella filosofia, e in questa occasione lo abbiamo voluto dichiarare e testimoniare nella maniera più esplicita possibile. 14 È il caso di ribadire che in queste osservazioni Fichte condensa il frutto di un incessante lavoro di approfondimento della sua dottrina della scienza, attraverso il quale la distanza con Schelling era apparsa al filosofo di Rammenau sempre più ampia e incolmabile. Sul confronto Fichte-Schelling, fondamentale resta l’edizione del loro Carteggio e scritti polemici, a cura di F. Moiso, Napoli 1986. La polemica si sviluppò pubblicamente con l’uscita, nell’autunno del 1806, dello scritto di Schelling Darlegung des wahren Verhältnisses der Naturphilosophie zu der verbesserten Fichteschen Lehre (cfr. F.W.J. Schelling, SW, a cura di K.F.A. Schelling, Stuttgart-Augsburg 1856-1861, vol. VII, pp. 1-126; trad. it. Esposizione del vero rapporto della filosofia della natura con la dottrina fichtiana migliorata, in Carteggio cit., pp. 233-355). Non sembra che Fichte, il quale nel frattempo si era trasferito a Königsberg, abbia preso immediata visione del saggio di Schelling; ma certo, la sua comparsa contribuisce a delineare lo sfondo in cui va inserito il successivo scritto (rimasto inedito) di Fichte, Bericht über den Begriff der Wissenschaftslehre und die bisherigen Schicksale derselben (1806/07), GA, II, 10, pp. 21-65, trad. it. Rapporto sul concetto della dottrina della scienza e sulle sorti che essa ha avuto sinora, in Carteggio cit., pp. 191-231.

Ottavo discorso

Che cos’è un popolo nel più alto significato della parola, e che cos’è amor di patria?

Gli ultimi quattro discorsi hanno risposto alla domanda: “che cosa sono i tedeschi, in opposizione agli altri popoli di provenienza germanica?” La dimostrazione che, mediante tutto ciò, deve essere condotta per tutta la nostra ricerca, viene completata se alla nostra ricerca aggiungiamo la domanda: che cos’è un popolo? Quest’ultima domanda equivale a un’altra domanda, spesso sollevata e alla quale si è risposto in modi molto diversi, e risponde anche a questa: che cos’è amor di patria? Oppure, esprimendoci ancora più esattamente: che cos’è l’amore del singolo per la sua nazione?1 Se l’andamento della nostra ricerca fino a qui è stato giusto, allora dovrebbe essere chiaro che soltanto il [378] tedesco (l’essere umano autentico, non quello che si è spento in un complesso arbitrario di regole) ha e può contare veramente su un popolo; e che soltanto egli è capace di un amore per la sua nazione genuino e ragionevole. La seguente considerazione, che in un primo tempo sembra esterna alla nostra ricerca, ci apre la strada per la soluzione del compito che abbiamo di fronte. Come abbiamo già notato nel nostro Terzo discorso, la religione ci può trasportare assolutamente oltre il tempo e oltre l’in1 Inevitabile il rimando a J.G. Fichte, Der Patriotismus, und sein Gegenteil (1806/07) [Il patriottismo e il suo contrario], ora in GA, II, 9, pp. 393-445.

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tera vita sensibile presente, senza perciò incrinare minimamente la rettitudine, la moralità e la sacralità della vita afferrata da questa fede. Anche se si è convinti che tutto ciò che facciamo su questa terra non lascerà dietro di sé la minima traccia, e non porterà alcun frutto; anzi, che il divino verrà addirittura pervertito e utilizzato come strumento del male e di una corruzione morale ancora più profonda; tuttavia, noi possiamo continuare ad agire, anche solo per salvaguardare la vita divina sbocciata in noi, e in riferimento a un ordine delle cose più alto in un mondo futuro, in cui nulla di ciò che è accaduto in Dio va distrutto. Così per esempio gli apostoli, e in generale i primi cristiani, con la loro fede nel cielo si erano sollevati dalla terra già in questa vita, e avevano a tal punto rinunciato agli affari terreni, allo Stato, alla patria e alla nazione terrene, che non li degnavano nemmeno più della loro considerazione. Ora, per quanto tutto ciò sia possibile, e per quanto sia facile abbandonarsi gioiosamente alla fede, se la volontà immutabile di Dio è che noi non abbiamo più una patria sulla terra, e che quaggiù siamo schiavi e reietti; tuttavia, questo non è lo stato naturale e la regola del corso del mondo, bensì una rara eccezione. Inoltre, è fare un uso assai cattivo della religione, che tra gli altri è stato fatto molto di frequente anche dal cristianesimo, se essa fin dall’inizio, e senza considerare le circostanze presenti, [379] mira a raccomandare questo ritirarsi dagli affari dello Stato e della nazione come vera disposizione religiosa. In una simile situazione, se essa è vera ed effettiva, e non è semplicemente provocata da fanatismo religioso, la vita temporale perde ogni autonoma consistenza, e diventa soltanto una soglia di ingresso alla vera vita, e un difficile esame che si sopporta solo per obbedienza e rassegnazione alla volontà di Dio; e allora è vero, come molti hanno immaginato, che spiriti immortali siano stati immersi solo per punizione in corpi terreni come in una prigione. Al contrario, nell’ordine normale delle cose, la vita terrena deve essere essa stessa veramente vita, di cui si possa gioire e godere con gratitudine, certo in attesa di una vita più alta; e benché sia vero che la religione è anche la consolazione dello schiavo oppresso ingiustamente, tuttavia il senso religioso consiste innanzi tutto nell’insorgere contro la schiavitù e, se lo si può impedire, nel non fare scadere la religione a mera consolazione dei prigionieri. Al tiranno, certo, conviene predicare rassegnazione religiosa, e rimandare al cielo colo111

ro ai quali non vuole concedere neppure un posticino sulla terra; noi altri non dobbiamo avere tanta fretta di fare nostra questa concezione della religione – che egli raccomanda – e, se possiamo, dobbiamo impedire che qualcuno trasformi la terra in un inferno, per poter suscitare una nostalgia tanto più grande del cielo. L’impulso dell’uomo, cui si può rinunciare solo in caso di vera necessità, è di trovare il cielo già su questa terra, e di immettere ciò che dura in eterno nella sua opera terrena quotidiana; è di piantare e di coltivare nel tempo ciò che non passa – di non essere collegato all’eterno in modo incomprensibile e solo attraverso un baratro inaccessibile a occhio mortale, bensì in un modo visibile all’occhio mortale stesso. Vorrei fare un esempio banale. Quale uomo di animo nobile non vuole e non desidera ripetere di nuovo, in modo migliore, la sua vita personale nei suoi figli e poi ancora nei figli di questi? E [380] sopravvivere ancora a lungo su questa terra dopo la morte, in modo più nobile e perfetto, nella vita di costoro? Chi non desidera strappare alla mortalità lo spirito, l’animo e i costumi, con i quali egli forse, ai suoi giorni, faceva orrore alla perversione e alla corruzione, mentre rafforzava la rettitudine, rianimava l’inerzia, risollevava l’umiliazione? E deporre tutto ciò, come il suo lascito migliore per i posteri, negli animi dei suoi successori, affinché un giorno anche loro possano nuovamente lasciarlo in eredità, più bello e più ricco? Quale uomo di animo nobile non vuole, con la sua azione o il suo pensiero, spargere un seme per l’infinito perfezionamento, che va sempre avanti, della sua specie? Gettare nel tempo qualcosa di nuovo, di mai prima esistito, che resti, e che divenga fonte inesauribile di creazioni? Chi non desidera ripagare il suo posto su questa terra, e il breve lasso di tempo che gli è concesso, con qualcosa che duri in eterno anche quaggiù, in modo tale che egli, questo singolo, se anche non venisse ricordato dalla storia (perché aspirare alla fama dei posteri è una spregevole vanità), tuttavia manifesti, lasci testimonianze, nella sua coscienza personale e nella sua fede, del fatto che anch’egli è esistito? Quale uomo di animo nobile non vuole tutto questo, ho detto; ma il mondo va considerato e organizzato solo secondo i bisogni di coloro che la pensano così, e il mondo esiste unicamente per amor loro. Essi ne sono il nucleo, e anche quelli che pensano in altro modo, finché la pensano così, esisto112

no solo per amor loro, e devono adattarsi a loro, finché non siano divenuti come loro. Ora, che cosa potrebbe fornire garanzia a questa esortazione e a questa fede dell’uomo nobile nell’eternità e immortalità della sua opera? Evidentemente, solo un ordine delle cose che egli potesse riconoscere per se stesso eterno, e capace di accogliere in sé l’eterno. Ma un siffatto ordine è la particolare natura spirituale dell’ambiente umano, che certo non si può afferrare in un concetto, ma pure è veramente presente, dalla quale [381] è sorto egli stesso con tutto il suo pensare e il suo fare, e con la sua fede nella loro eternità; è il popolo da cui egli proviene e tra cui è stato formato, sino a divenire ciò che egli è adesso. Perché, per quanto sia indubbio che la sua opera, se egli si appella alla sua eternità a buon diritto, non è affatto il mero risultato della legge di natura spirituale della sua nazione, né si esaurisce in questo, bensì è un che di eccedente e – in quanto tale – promana immediatamente dalla vita originaria e divina; tuttavia, è altrettanto vero che quell’eccedente, fin dalla sua prima configurazione in un fenomeno visibile, si è disposto sotto quella particolare legge di natura spirituale, e si è formato un’espressione sensibile solo conformemente a essa. Ora, finché questo popolo sussiste, anche tutte le ulteriori manifestazioni del divino, in esso, rientreranno e si daranno una figura sotto la stessa legge. Ma per il fatto che anch’egli è esistito e ha agito così, questa stessa legge è stata ulteriormente determinata, e la sua efficacia è diventata una componente costante di essa. E così, dunque, egli è sicuro che la formazione raggiunta attraverso di lui resterà nel suo popolo finché questo stesso popolo esisterà, e diventerà duraturo fondamento di determinazione per ogni ulteriore sviluppo. Ora, nel significato superiore della parola, inteso dal punto di vista della concezione di un mondo spirituale in generale, un popolo è il tutto degli uomini che sopravvivono insieme in società, e che si generano con continuità da se stessi in senso naturale e spirituale, il quale tutto, nel complesso, si trova sotto una certa legge particolare dello sviluppo del divino da esso. La condivisione di questa legge è ciò che nel mondo eterno, e perciò anche in quello temporale, unisce questa moltitudine in un tutto naturale e da se stesso compenetrato. Questa stessa legge, riguardo al suo contenuto, può sì essere colta nell’insieme, come noi abbiamo fatto 113

con i tedeschi in quanto popolo originario; essa può perfino [382] essere compresa più precisamente, in alcune sue ulteriori determinazioni, riflettendo sulle manifestazioni di un popolo siffatto; ma non potrà mai essere compenetrata interamente col concetto da chiunque resti continuamente sotto il suo influsso inconsapevole; benché, in generale, si possa intendere chiaramente che una legge del genere esiste. Questa legge è un di più della figurabilità, che nel fenomeno si fonde immediatamente con il di più dell’originarietà infigurabile; e così dunque entrambi, appunto nel fenomeno, non possono più venire separati. Quella legge, in quanto legge dello sviluppo di ciò che è originario e divino, determina assolutamente e completamente ciò che è stato chiamato il carattere nazionale di un popolo. Da queste ultime considerazioni è chiaro che uomini i quali, secondo la nostra descrizione dell’esterofilia, non credono affatto in qualcosa di originario e in un suo progressivo sviluppo, bensì soltanto in un circolo eterno della vita apparente e, mediante la loro fede, diventano come credono di essere, non sono affatto un popolo nel senso superiore; e poiché di fatto, in senso proprio, neppure esistono, non sono in grado nemmeno di avere un carattere nazionale. La fede dell’uomo nobile nell’eterna durata della sua efficacia anche su questa terra si basa dunque sulla speranza nell’eterna durata del popolo da cui egli stesso si è sviluppato, e della sua peculiarità in accordo con quella legge nascosta; senza mescolanza e corruzione da parte di qualunque cosa sia estranea e non pertinente al tutto di questa legislazione. Questa peculiarità è l’eterno al quale egli affida l’eternità di se stesso e del suo progressivo operare, l’eterno ordine delle cose, in cui egli ripone il suo eterno; egli deve volere la sua durata, poiché soltanto essa è per lui il mezzo di liberazione, mediante cui il breve lasso di tempo della sua vita quaggiù può prolungarsi in una vita duratura quaggiù. La sua fede e il suo sforzo di piantare qualcosa che non passi; il suo concetto, in cui egli coglie la sua vita personale come vita eterna, sono il vincolo che congiunge a lui nel modo più intimo dapprima la sua nazione, e per mezzo di essa l’intero genere umano, e [383] che introducono nel suo cuore allargato i bisogni di tutti gli uomini, sino alla fine dei giorni. Questo è il suo amore per il suo popolo: dapprima rispettoso, fiducioso, contento di esso, orgoglioso della sua discendenza da esso. In esso è apparso un che di di114

vino, e l’originario lo ha degnato di farne la sua scorza e il suo mezzo immediato di confluenza nel mondo; perciò anche in seguito, da esso, scaturirà qualcosa di divino. Poi attivo, efficace, sacrificantesi per esso. La vita, come nuda vita, come continuazione dell’esserci mutevole, per lui comunque non ha mai avuto valore, egli l’ha voluta soltanto come sorgente di ciò che dura; ma questa durata gli viene promessa solo dal fatto che la sua nazione continui a esistere in modo indipendente; per salvare questa, egli deve essere disposto anche a morire, perché essa viva, ed egli viva, in essa, l’unica vita che abbia mai desiderato. Così è. L’amore, che sia veramente amore, e non semplicemente un’attrazione passeggera, non si appunta mai su qualcosa di transeunte, ma si risveglia e si accende e riposa soltanto nell’eterno. L’uomo non può amare nemmeno se stesso, a meno che non si colga come un che di eterno; altrimenti non può nemmeno rispettarsi, né approvarsi. Ancora meno egli può amare qualcosa al di fuori di sé, a meno di non accoglierlo nell’eternità della sua fede e del suo animo, e di collegarlo a questi. Chi innanzitutto non scorge sé come eterno, questi in generale non ha amore, e dunque non può neppure amare una patria, che per lui non esiste. Chi magari scorge come eterna la sua vita invisibile, ma non altrettanto la sua vita visibile, costui può ben avere un paradiso e in esso la sua patria, ma quaggiù egli non ha alcuna patria, poiché anche questa viene scorta solo sotto l’immagine dell’eternità, e precisamente dell’eternità visibile e resa sensibile, e perciò neppure lui può amare la sua patria. Egli deve essere compianto, se non gliene è stata tramandata alcuna; ma a chi essa è stata tramandata, nell’animo del quale si compenetrano cielo e terra, visibile e invisibile, [384] creando soltanto così un cielo vero e compatto, costui lotta fino all’ultima goccia di sangue, per trasmettere ancora una volta il caro possesso, intatto, alla posterità. Così anche è stato da sempre, benché non sia mai stato espresso con questa universalità e con questa chiarezza. Che cosa entusiasmava i nobili romani, le cui disposizioni d’animo e modi di pensare vivono e respirano ancora tra noi nei loro monumenti, fino al punto di sopportare e di compiere fatiche e sacrifici per la patria? Lo dicono essi stessi, spesso e chiaramente. Era la saldezza della loro fede nella durata eterna della loro Roma, e la loro fiducia nella prospettiva di sopravvivere essi stessi, in questa eter115

nità, eternamente nella corrente del tempo. Nella misura in cui era fondata e in cui essi stessi l’avrebbero colta, se fossero stati perfettamente chiari in se stessi, questa fede non li ha ingannati. Ciò che nella loro Roma eterna era davvero eterno, sopravvive in mezzo a noi ancora oggi insieme a loro, e sopravviverà nelle sue conseguenze sino alla fine dei giorni. Popolo e patria in questo significato, come supporto e pegno dell’eternità terrena, e come ciò che quaggiù può essere eterno, si trovano molto al di là dello Stato nel senso comune della parola – oltre l’ordine sociale, per come esso viene colto nella mera chiarezza del concetto, e viene istituito e conservato sotto la direzione di quest’ultimo. Il concetto esige diritto certo, pace interna, e che ciascuno trovi col suo impegno il suo sostentamento e la conservazione della sua esistenza sensibile, finché Dio gliela voglia garantire. Tutto questo è soltanto mezzo, condizione e sostegno di ciò che propriamente esige l’amor di patria, dello sbocciare dell’eterno e divino nel mondo, in modo sempre più puro, perfetto e adeguato nell’infinito procedere. Proprio perciò questo amor di patria deve governare lo Stato stesso, come autorità assolutamente suprema, ultima e indipendente: anzitutto, limitandolo nella scelta dei mezzi per il suo scopo più immediato, la pace interna. A tale scopo, la libertà naturale del singolo deve essere senz’altro limitata in vario modo, e se [385] con gli uomini non si avesse nessun altro riguardo né scopo, allora si farebbe bene a limitarli nel modo più stretto possibile, a sottoporre tutte le loro attività a una regola uniforme, e a mantenerli sotto una continua sorveglianza. Se anche questo rigore non fosse necessario, almeno per quest’unico scopo non potrebbe essere dannoso. Solo una concezione superiore del genere umano e dei popoli allarga questa valutazione limitata. La libertà, anche nelle attività della vita esteriore, è il terreno su cui germoglia la cultura superiore; una legislazione che tenga in vista quest’ultima, lascerà alla prima una cerchia ampia il più possibile, perfino a rischio di una minore uniformità quanto a quiete e tranquillità, e benché governare diventi più difficile e faticoso. Per chiarirlo con un esempio: abbiamo visto che ad alcune nazioni è stato detto apertamente che esse non avrebbero bisogno di tanta libertà quanto alcune altre. Questo discorso può contenere perfino un eufemismo, poiché in realtà si voleva dire che esse non 116

potrebbero affatto sopportare tanta libertà, e che solo una grande severità potrebbe impedire loro di logorarsi reciprocamente. Ma se le parole vengono intese così come sono dette, allora esse sono vere solo presupponendo che una nazione simile sia assolutamente incapace della vita originaria e dell’impulso a essa. Una nazione simile, qualora fosse possibile che in essa neppure una minoranza di più virtuosi faccia eccezione alla regola generale, non avrebbe bisogno effettivamente di alcuna libertà, poiché questa è solo per gli scopi superiori che si trovano al di là dello Stato. Essa ha bisogno soltanto dell’addomesticamento e addestramento che consenta ai singoli di esistere pacificamente gli uni accanto agli altri, e al tutto di venire predisposto come mezzo adeguato per scopi da porre arbitrariamente, che si trovano fuori di esso. Noi possiamo lasciare indeciso, se questo possa dirsi con verità di una nazione qualsiasi; chiaro è che un popolo originario ha bisogno della libertà, che questa è il pegno del suo persistere come originario, e che nel corso della sua durata [386] esso sopporta senza alcun pericolo un grado di libertà sempre crescente. E questo è il primo aspetto riguardo al quale l’amor di patria deve governare lo Stato stesso. In secondo luogo, esso deve governare lo Stato dandogli uno scopo superiore a quello comune della conservazione della pace interna, della proprietà, della libertà personale, della vita, e del benessere di tutti. Solo per questo scopo superiore, e con nessun altro intento, lo Stato riunisce una potenza armata. Quando entra in questione l’applicazione di questa, quando si tratta di porre in gioco tutti gli scopi dello Stato nel mero concetto, proprietà, libertà personale, vita e benessere, anzi l’esistenza dello Stato stesso; quando si tratta di decidere, senza un chiaro concetto intellettuale del sicuro raggiungimento di ciò che ci si prefigge, responsabili in senso originario e solo verso Dio: allora soltanto, al timone dello Stato, vige una vita veramente prima e originaria, e solo a questo punto subentrano i veri diritti di maestà del governo, quelli di mettere a repentaglio, come Dio, la vita inferiore per amore di una vita più alta. Nella conservazione della costituzione tramandata, delle leggi, del benessere borghese, non vi è nessuna vita autentica in senso proprio, e nessuna decisione originaria. Tutto ciò è il frutto di circostanze e situazioni, di legislatori forse morti da lungo tempo; le epoche seguenti procedono fiduciose 117

lungo la via tracciata, e così di fatto non vivono una vita pubblica loro propria, bensì ripetono soltanto la vita di un tempo. In queste epoche non c’è bisogno di un governo in senso proprio. Ma quando questo procedere uniforme entra in pericolo, e ora si tratta di decidere su casi nuovi mai ancora esistiti, allora c’è bisogno di una vita che viva da se stessa. Qual è ora lo spirito cui in casi simili è concesso di porsi al timone, che con personale certezza e sicurezza, e senza oscillare incerto di qua e di là, è in grado di decidere, che ha l’indubbio diritto di pretendere in modo imperativo da ciascuno che ne sia coinvolto, lo voglia questi o meno, e di costringere chi oppone resistenza [387] a rischiare tutto, finanche la propria vita? Non è lo spirito del tranquillo amore borghese della costituzione e delle leggi, bensì la fiamma divorante del superiore amor di patria, che abbraccia la nazione come scorza dell’eterno, per la quale il virtuoso si sacrifica con gioia, e il vile, che esiste solo in funzione del primo, si deve appunto sacrificare. Non è quell’amore borghese della costituzione; a meno che non perda il ben dell’intelletto, esso non ne è affatto in grado. Comunque vada, poiché nessuno governa per niente, un governante per loro si troverà sempre. Lasciate che il nuovo governante pretenda perfino la schiavitù (e in che cosa consiste la schiavitù, se non nell’assenza di rispetto e nell’oppressione della peculiarità di un popolo originario, che per quella mente non è presente?) – lasciate che pretenda anche la schiavitù, poiché dalla vita degli schiavi, dalla loro moltitudine, perfino dal loro benessere si può trarre vantaggio; allora, se quello è sufficientemente calcolatore, perfino la schiavitù sotto di lui sembrerà accettabile. Perché dunque dovrebbero lottare? Per quei due, la cosa più importante è la tranquillità. Questa viene soltanto disturbata dalla continuazione della lotta. Essi perciò faranno di tutto per terminarla il prima possibile, si adatteranno, cederanno, e perché non dovrebbero? Per loro non si è mai trattato di altro, e dalla vita non hanno mai sperato di più che proseguire nell’abitudine di esistere in condizioni accettabili. La promessa di una vita anche quaggiù che duri oltre la vita quaggiù – soltanto questa promessa può entusiasmare fino alla morte per la patria. Così anche è stato finora. Laddove si è davvero governato, dove si sono affrontate serie lotte, dove la vittoria è stata raggiunta contro una forte resistenza, lì è stata quella promessa di vita eter118

na che governava, lottava e vinceva. È nella fede in questa promessa che hanno lottato i protestanti tedeschi ricordati prima in questi discorsi. Ignoravano forse che i popoli [388] potevano essere governati e tenuti in un ordine giuridico anche con la vecchia fede, e che anche in questa fede si può trovare un discreto sostentamento? Perché dunque i loro principi decisero la resistenza armata, e perché i popoli la fornirono con entusiasmo? – Erano il cielo e la beatitudine eterna ciò per cui essi versavano volentieri il loro sangue. Ma quale potere terreno avrebbe dunque potuto penetrare nell’intimo santuario del loro animo, e cancellarvi la fede che ormai era sorta per essi, e su cui soltanto essi fondavano la speranza nella loro beatitudine? Dunque, non era neanche la loro personale beatitudine ciò per cui essi lottavano; di questa essi erano già sicuri: era la beatitudine dei loro figli, di tutti i loro nipoti e discendenti che non erano ancora nati; anche questi dovevano essere allevati in quella stessa dottrina che a loro era apparsa come l’unica apportatrice di salvezza, anche questi dovevano diventare partecipi della salvezza che era giunta per loro; fu solamente questa speranza che veniva minacciata dal nemico, fu per essa, per un ordine di cose che sarebbe dovuto fiorire sulle loro tombe a lungo dopo la loro morte, che essi versarono con tanta gioia il loro sangue. Ammettiamo che non fossero del tutto chiari in se stessi, che nel designare ciò che di più nobile era in loro usassero le parole sbagliate, e facessero torto con la bocca al loro cuore; confessiamo volentieri che la loro professione di fede non era il mezzo unico ed esclusivo per diventare partecipi del cielo al di là della tomba: tuttavia questo è vero in eterno, cioè che mediante il loro sacrificio, in tutta la vita delle età seguenti è arrivato più cielo al di qua della tomba, un più coraggioso e più gioioso sollevare lo sguardo da terra, e una più libera attività dello spirito; e tanto i discendenti dei loro avversari, quanto noi loro discendenti, godiamo fino a oggi dei frutti delle loro fatiche. In questa fede, i nostri più antichi antenati comuni, il popolo che ha dato inizio alla nuova cultura, i tedeschi che i Romani chiamavano Germani, si opposero con coraggio all’incombente dominio universale dei Romani. Non avevano dunque essi davanti agli occhi la superiore prosperità delle province [389] romane vicino a loro, i godimenti più fini in esse presenti, e inoltre leggi, scranni giudiziari, fasci littori e scuri in abbondanza? Non erano 119

forse i Romani ben disposti a renderli partecipi di tante benedizioni? Non ebbero prova della tanto lodata clemenza romana in più d’uno dei loro stessi principi, purché questi si facessero convincere del fatto che la guerra contro simili benefattori dell’umanità era ribellione, mentre gli accondiscendenti venivano insigniti di titoli regi, posti da condottiero nei loro eserciti, bende sacerdotali romane, trovando rifugio e sostentamento nelle colonie, se venivano scacciati dai loro compatrioti? Non avevano alcun senso per i vantaggi della cultura romana, ad esempio per la migliore organizzazione dei loro eserciti, in cui persino un Arminio non si era vergognato di apprendere il mestiere delle armi?2 Non può essere loro imputato nulla di una siffatta ignoranza o mancanza di considerazione. I loro discendenti, non appena hanno potuto farlo senza perdere la loro libertà, si sono addirittura appropriati della loro cultura, nella misura in cui era possibile farlo senza smarrire la propria peculiarità. Perché dunque hanno lottato per diverse generazioni in una guerra sanguinosa, che si è sempre rinnovata con la stessa forza? Uno scrittore romano fa parlare così i loro condottieri: “A voi non resta che affermare la libertà, o morire prima di diventare schiavi”3. Libertà era per loro il fatto di ri2 Arminio fu il vincitore della battaglia di Teutoburgo (9 d.C.) contro le legioni romane guidate da Quintilio Varo. L’episodio citato alla nota seguente è successivo a questo evento. 3 Fichte si riferisce a Tacito, Annali, Libro II, cap. XV, che riteniamo opportuno citare per esteso: “Orationem ducis secutus militum ardor, signumque pugnae datum. Nec Arminius aut ceteri Germanorum proceres omittebant suos quisque testari, hos esse Romanos Variani exercitus fugacissimos qui ne bellum tolerarent, seditionem induerint; quorum pars onusta uulneribus terga, pars fluctibus et procellis fractos artus infensis rursum hostibus, aduersis dis obiciant, nulla boni spe. Classem quippe et auia Oceani quaesita ne quis uenientibus occurreret, ne pulsos premeret: sed ubi miscuerint manus, inane uictis uentorum remorumue subsidium. Meminissent modo auaritiae, crudelitatis, superbiae: aliud sibi reliquum quam tenere libertatem aut mori ante seruitium?” (cfr. la trad. it. di B. Ceva, Milano 1951, vol. 1, p. 71: “Le parole di Germanico, alle quali seguì il segnale dell’inizio della battaglia, accesero l’ardore dei soldati. Nel campo opposto, frattanto, sia Arminio, sia ciascuno degli altri capi dei Germani, non cessavano dal dimostrare ai loro che i nemici che stavan di fronte erano proprio quei Romani dell’esercito di Varo, che erano stati più veloci nella fuga, e che, per non voler sopportare la guerra, s’erano ribellati. Parte di essi aveva il dorso pieno di ferite, parte con le membra spezzate dalle onde procellose erano di nuovo gettati a sfidare l’ostilità degli dei e la ferocia dei nemici, senza speranza alcuna. Per quanto si fossero serviti della flotta e avessero intrapreso le vie

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manere tedeschi, di continuare a decidere i loro affari in modo indipendente e originario, secondo il loro proprio spirito, e di trapiantare questa indipendenza anche nei loro discendenti: tutte quelle benedizioni, che i Romani offrivano loro, significavano per loro la schiavitù, poiché in questo modo essi sarebbero dovuti diventare qualcosa di diverso dall’essere tedeschi, sarebbero dovuti diventare mezzi romani. Essi ritenevano naturale che chiunque avrebbe preferito morire piuttosto che ridursi a questo, e che un autentico tedesco, appunto, potesse desiderare la vita solo per essere e rimanere tedesco, e per formare tra i suoi dei tedeschi. [390] Essi non sono tutti morti, non hanno visto la schiavitù, hanno lasciato la libertà in eredità ai loro figli. L’intero mondo moderno deve alla loro tenace resistenza se esso esiste come esiste. Se i Romani fossero riusciti a sottomettere anche loro, e a distruggerli in quanto nazione come hanno fatto dovunque, l’intero sviluppo successivo dell’umanità avrebbe preso un’altra direzione, che non si può credere migliore. Noi, che siamo gli eredi più immediati del loro territorio, della loro lingua e della loro disposizione d’animo, dobbiamo a loro il fatto di essere ancora tedeschi, di essere ancora sostenuti dalla corrente di una vita originaria e indipendente; a essi noi dobbiamo tutto ciò che siamo stati da allora in quanto nazione, a essi dobbiamo ciò che saremo ancora in futuro, a meno che adesso per noi non sia finita, e nelle nostre vene non si sia disseccata l’ultima goccia del loro sangue. A essi devono la loro esistenza perfino gli altri popoli, che ora per noi fanno parte dell’estero, ma in loro sono nostri fratelli. Quando essi sconfissero la Roma eterna, non esisteva ancora nessuno di questi popoli; allora venne conquistata anche per loro la possibilità della loro nascita futura. Costoro hanno vinto perché erano ispirati dall’eterno, e così tutti gli altri nella storia universale che erano animati dallo stesso spirito; e così questo entusiasmo vince sempre e necessariamente su chi non ha entusiasmo. Non è la forza delle braccia che fa connon tentate dell’Oceano, perché nessuno si opponesse a loro avanzanti e li incalzasse, respinti, allorché avessero attaccato battaglia, sarebbero stati sopraffatti e vano aiuto sarebbero stati i remi e i venti. Si ricordassero i Germani della cupidigia, della crudeltà, della superbia romane: che altro mai a loro sarebbe rimasto, più che salvare la libertà o morire prima di cadere in schiavitù?”).

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quistare le vittorie, né l’abilità nelle armi, bensì la forza dell’animo. Chi pone un obiettivo limitato ai suoi sacrifici, e non ama rischiare oltre un certo punto, abbandona la resistenza non appena il pericolo arriva a questo punto, che egli non può assolutamente abbandonare, e di cui non può assolutamente fare a meno. Chi non si è posto un obiettivo particolare, bensì ha messo in gioco tutto, e la cosa suprema che si possa perdere quaggiù, cioè la vita, non abbandona mai la resistenza, e se l’avversario ha un obiettivo limitato, vince senza dubbio. Un popolo capace – sia pure soltanto nei suoi supremi rappresentanti e condottieri – di fissare lo sguardo sulla visione proveniente dal mondo degli spiriti, quella dell’indipendenza, [391] e di farsi catturare dall’amore per essa, come i nostri antichi antenati, vince senz’altro su un popolo usato, come gli eserciti romani, solo come strumento di un’estranea brama di dominio, e per la sottomissione di popoli indipendenti; perché i primi hanno tutto da perdere, i secondi solo qualcosa da guadagnare. Ma per vincere su un modo di pensare che considera la guerra come un gioco d’azzardo con guadagni o perdite temporanei, e in cui la posta è già fissata prima che cominci la partita, basta anche un capriccio. Pensate per esempio a un Maometto – non quello reale della storia, su cui confesso di non avere alcun giudizio, ma quello di un noto poeta francese4 – che si sia messo in testa di essere una delle rare nature chiamate a guidare l’oscura plebe della terra, e a cui tutte le sue trovate, per quanto misere e limitate possano essere in realtà, in conformità a quel primo presupposto devono necessariamente apparire, in quanto sono le sue, come idee grandi, sublimi e beatificanti, e tutto ciò che si contrappone a esse come oscura plebe, nemici del loro stesso bene, malvagi e odiosi; il quale ora, per giustificare di fronte a se stesso questa sua presunzione come chiamata divina, e completamente immerso in questo pensiero con tutta la sua vita, deve puntare tutto su questo, e non può stare tranquillo finché non ha cal4 Voltaire pubblicò la “tragedia” Le Fanatisme ou Mahomet le prophète nel 1743. Quanto all’affermazione di Fichte, secondo cui egli non avrebbe avuto alcuna idea sul Maometto personaggio storico, ciò non deve trarre in inganno rispetto alla valutazione che egli diede dell’islamismo come movimento teologico-politico a carattere fortemente espansivo. Su questo, Fichte sembra avere le idee abbastanza chiare: cfr. GZ, lez. 13, pp. 350-352 (trad. it., cit., pp. 306-308).

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pestato chiunque non abbia di lui un’opinione altrettanto alta, e finché tutti coloro che lo circondano non riflettano a lui la sua stessa fede nella sua missione divina. Io non voglio dire che cosa gli succederebbe, se davvero entrasse in lizza con lui una visione spirituale vera e chiara in se stessa; ma con quei limitati giocatori d’azzardo egli la spunterà senz’altro, poiché egli punta tutto contro di loro, che non puntano tutto; nessuno spirito li spinge, egli invece è spinto da uno spirito fanatico – quello della sua forte e potente presunzione. Da tutto ciò risulta che lo Stato, come mera conduzione della [392] vita umana che procede nel suo pacifico cammino consueto, non è niente di primo e di essente per sé, bensì è soltanto il mezzo per lo scopo superiore della formazione – che eternamente procede in modo uniforme – del puramente umano in questa nazione. È soltanto la visione dell’idea, e l’amore per questa eterna formazione progressiva, che deve assumere, anche nei periodi di pace, la superiore sorveglianza sull’amministrazione dello Stato, e che può salvare l’indipendenza del popolo, quando essa è in pericolo. Tra i tedeschi, in quanto sono un popolo originario, questo amor di patria è possibile e, come crediamo fermamente, fino a ora è stato anche effettivo, e ha potuto contare con grande fiducia sulla sicurezza dei suoi affari più importanti. Come avvenne soltanto presso i Greci nell’antichità, anche presso di loro lo Stato e la nazione erano separati l’uno dall’altra, e rappresentati ciascuno per sé. Il primo era rappresentato nei particolari regni e principati tedeschi. La seconda era rappresentata, in modo visibile, nella federazione imperiale; in modo invisibile, in una moltitudine di consuetudini e istituzioni. Essa vigeva non secondo un diritto fissato per iscritto, ma vivente nell’animo di tutti, e saltava agli occhi dappertutto nelle sue conseguenze. Fin dove giungeva la lingua tedesca, chiunque venisse alla luce nel suo ambito poteva considerarsi doppiamente cittadino: in parte del suo Stato di nascita, alla cura del quale egli era affidato in un primo tempo, in parte dell’intera patria comune della nazione tedesca. A ciascuno era consentito di ricercare sull’intera superficie di questa patria quella cultura che avesse la massima affinità con il proprio spirito, o l’ambito d’azione a questo adeguato, e il talento non cresceva restando al suo posto, come un albero, ma gli era permesso di cercarsene uno. Chi, a causa della direzione presa dalla sua cultu123

ra, entrava in conflitto col suo ambiente circostante, trovava facilmente pronta accoglienza altrove, trovava nuovi amici al posto dei vecchi, trovava tempo e tranquillità per spiegarsi meglio, forse per conquistare e riconciliare quegli stessi che si erano irritati, ripristinando così l’accordo nel tutto5. Nessun principe tedesco ha mai preteso [393] di fissare la patria per i suoi sudditi entro le montagne o i fiumi su cui governava, e di considerarli vincolati a una zolla di terra. Una verità che non poteva farsi sentire da una parte, poteva farlo da un’altra, in cui forse al contrario erano vietate quelle cose che là erano permesse; e così dunque, nonostante diverse unilateralità e meschinità degli Stati particolari, in Germania, considerata questa come un tutto, vigeva la massima libertà di ricerca e di comunicazione che mai un popolo abbia posseduto; e la cultura superiore era e rimase ovunque il risultato dell’azione reciproca dei cittadini di tutti gli Stati tedeschi, e questa cultura superiore giungeva dunque per gradi, in questa forma, anche al popolo più ignorante, che perciò nella sua globalità continuò sempre a educarsi da se stesso. Questo pegno essenziale per la sopravvivenza di una nazione tedesca, come abbiamo detto, non fu sminuito da nessuno spirito tedesco al timone del governo. Può darsi che non sempre sia avvenuto ciò che il superiore amor di patria tedesco avrebbe auspicato rispetto ad altre decisioni originarie, ma almeno nessuno ha mai agito direttamente contro il suo interesse, né ha cercato di seppellire, estirpare e sostituire quell’amore con un amore opposto. Ma se ora la guida originaria tanto di quella cultura superiore, quanto della potenza nazionale che può avere come suo scopo solo quella cultura e la sua durata, se l’impiego del patrimonio tedesco e del sangue tedesco dovessero passare, dal comando di uno spirito tedesco, sotto un altro comando, che cosa succederebbe necessariamente? Questo è il punto in cui soprattutto c’è bisogno della disponibilità, cui ci siamo appellati nel nostro Primo discorso, a non vo5 Lo sfondo per la comprensione del passo è costituito dalla “disputa sull’ateismo”, che si concluse con l’abbandono, da parte di Fichte, dell’università di Jena, e col suo trasferimento a Berlino. Sulle implicazioni filosofiche della vicenda, cfr. G. Rotta, La “idea Dio”. Il pensiero religioso di Fichte fino all’Atheismusstreit, Genova 1995.

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lersi ingannare sulle proprie faccende, e del coraggio di voler vedere e ammettere la verità a se stessi; a quanto mi risulta, è ancora permesso parlare gli uni con gli altri o almeno sussurrare della patria in lingua tedesca, e io credo [394] che non faremmo bene se anticipassimo un simile divieto al nostro stesso interno, e volessimo incatenare alla viltà di singoli il coraggio che già in precedenza, senza dubbio, avrà ponderato il rischio. Dipingetevi dunque il nuovo potere tanto benigno e benevolo quanto volete, fatelo buono come Dio; riuscirete a inserire in esso anche una divina intelligenza? Poniamo che voglia in tutta serietà la suprema felicità e benessere di tutti: sarà il benessere supremo, che esso è in grado di concepire, anche un benessere tedesco? Così, spero che mi abbiate capito perfettamente sul punto principale che vi ho esposto oggi, spero che molti di voi abbiano pensato e sentito che io esprimo chiaramente ed enuncio con parole solo ciò che è riposto da sempre nel vostro animo; spero che le cose stiano così anche per gli altri tedeschi che un giorno leggeranno questi discorsi; inoltre, altri tedeschi hanno detto più o meno le stesse cose prima di me; e quell’intimo sentimento è stato oscuramente alla base della resistenza continuamente attestata contro un’organizzazione e una disposizione meramente meccanica dello Stato. E ora, io invito tutti coloro che abbiano dimestichezza con la letteratura moderna dei paesi esteri, a indicarmi quale tra i loro saggi, poeti e legislatori più recenti abbia mai tradito un presentimento simile a questo, che consideri il genere umano come eternamente progrediente, e riferisca tutto il suo agitarsi nel tempo solo a questo progresso; se uno qualsiasi, anche nel momento della sua più audace creatività politica, abbia mai preteso dallo Stato qualcosa di più che semplice non diseguaglianza, pace all’interno, gloria nazionale all’estero e, quando ci si spingeva al punto più alto, felicità domestica. Se questo, come bisogna concludere da tutti questi segnali, è ciò che per essi vi è di più alto, allora essi non attribuiranno anche a noi nessun bisogno più alto e nessuna esigenza superiore riguardo alla vita, e sempre [395] presupponendo quelle benevole disposizioni verso di noi e l’assenza di ogni egoismo e di ogni desiderio di voler essere superiori a noi, crederanno di averci trattato in modo eccellente mettendo a nostra disposizione tutto ciò che essi ritengono degno di essere desiderato. Ma allora, ciò per cui solamente i migliori tra 125

noi amano vivere verrebbe cancellato dalla vita pubblica, e il popolo, che si è sempre mostrato ricettivo alle sollecitazioni dei migliori, e che era lecito sperare potesse innalzarsi per la maggior parte a quella eccellenza, è abbassato sotto il suo rango, non appena venga trattato come vogliono essere trattati loro, privato della sua dignità, cancellato dalla serie degli enti, poiché confluisce in quello di tipo inferiore. Ora, colui nel quale quelle superiori esigenze riguardo alla vita, assieme al sentimento del loro divino diritto, sono comunque rimaste vive e forti, si sente suo malgrado ricacciato in quei primi tempi del cristianesimo, in cui si diceva: “Voi non dovete resistere al male, bensì, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgi l’altra guancia, e se qualcuno vuole prenderti il vestito, tu dagli anche il mantello”6; quest’ultima cosa, a ragione: perché finché vedrà che indossi un mantello, cercherà di entrare in contatto con te per prenderti anche questo; solo quando sarai completamente nudo sfuggirai alla sua attenzione e verrai lasciato in pace. Proprio il suo senso superiore, che gli fa onore, rende per lui la terra un inferno e una nausea, egli desidera non essere mai nato, desidera che i suoi occhi si chiudano il prima possibile alla luce del giorno, i suoi giorni sono avvolti da un dolore inestinguibile fino alla tomba; a chi gli è caro, egli non può augurare dono migliore che una mente ottusa e senza pretese, per andare incontro con meno dolore a una vita eterna al di là della tomba. Questi discorsi vi chiedono di impedire un simile annullamento di ogni più nobile impulso che possa in futuro svilupparsi tra noi, e un simile abbassamento di tutta la nostra nazione, mediante l’unico mezzo che sia ancora rimasto, dopo che gli altri sono stati applicati invano. Essi vi chiedono di piantare [396] in tutti gli animi il vero e onnipotente amor di patria mediante l’educazione, in modo profondo e indelebile, nella comprensione del nostro popolo come eterno e come garanzia della nostra eternità personale. Quale sia l’educazione in grado di farlo, e in che modo, lo vedremo nei discorsi seguenti.

6 Vangelo secondo Matteo, 5, 39 (La Bibbia concordata cit., p. 18 – traduzione modificata per omogeneità col testo tedesco).

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Nono discorso

A quale punto dato nella realtà sia da collegare la nuova educazione nazionale dei tedeschi

Col nostro ultimo discorso sono state condotte e completate diverse dimostrazioni già promesse nel primo. Adesso, dicevamo, si tratta soltanto di salvaguardare direttamente l’esistenza e la continuazione di ciò che è tedesco, e questo è il primo compito. Tutte le altre differenze sono sparite a un superiore sguardo d’insieme; e con ciò non viene recato alcun danno ai legami particolari che qualcuno crede di avere. Se teniamo a mente la distinzione compiuta tra Stato e nazione, è chiaro che anche in precedenza gli affari di questi due non potevano mai entrare in conflitto. Il superiore amor di patria per il popolo della nazione tedesca nel suo insieme doveva e dovrebbe comunque assumere la direzione suprema in ogni Stato tedesco particolare; nessuno di loro dovrebbe mai perdere di vista questo affare superiore, senza respingere da sé tutto ciò che è nobile e valido, e accelerare così il suo proprio tramonto. Perciò, quanto più qualcuno era preso e animato da quell’affare superiore, tanto migliore era come cittadino dello Stato tedesco particolare, in cui cadeva la sua sfera d’azione immediata. Stati tedeschi potevano entrare in contrasto con Stati tedeschi su [397] particolari diritti tradizionali. Chi voleva la continuazione dello stato tradizionale – e chiunque fosse dotato d’intelligenza la doveva volere senza dubbio in ragione delle più lontane conseguenze – doveva desiderare che vincesse la giusta causa, da qualunque parte essa fosse. Al massimo, uno Stato tedesco particolare sarebbe potuto arrivare al punto di unificare sotto il 127

suo governo l’intera nazione tedesca, introducendo un unico dominio invece della repubblica di popoli precedente. Se è vero, come io ritengo senz’altro, che proprio questa costituzione repubblicana è stata finora la fonte principale della cultura tedesca, e il primo mezzo per assicurare il suo carattere specifico, allora, se la presupposta unità del governo non avesse assunto la forma repubblicana, bensì quella monarchica, in cui al detentore del potere fosse stato possibile, per la durata della sua vita, schiacciare sull’intero territorio tedesco un qualsiasi germoglio di cultura originale; se questo è vero, allora dico che in questo caso sarebbe stata senz’altro una grande disgrazia per l’interesse dell’amor di patria tedesco se questo proposito fosse riuscito, e ciascun uomo di nobile animo sull’intera superficie del territorio comune si sarebbe dovuto ribellare a tutto ciò. Tuttavia, anche in questo caso peggiore di tutti, sarebbero stati pur sempre tedeschi a governare sopra tedeschi, e a dirigere originariamente i loro affari, e se pure per un periodo passeggero si fosse sentita la mancanza dello specifico spirito tedesco, sarebbe comunque rimasta la speranza di un suo nuovo risveglio, e ogni animo più forte si sarebbe potuto ripromettere di trovare ascolto e di farsi intendere su tutto il territorio; una nazione tedesca avrebbe comunque conservato la sua esistenza, e avrebbe governato se stessa, e non sarebbe precipitata in un’esistenza di ordine inferiore. Qui l’essenziale resta sempre la nostra valutazione che l’amore nazionale tedesco sieda al timone dello Stato tedesco, oppure possa raggiungerlo con il suo influsso. Ma se in seguito alla nostra premessa precedente questo Stato tedesco, – [398] non importa se esso appaia come uno o diversi, di fatto è comunque uno – cade in generale da una direzione tedesca sotto una direzione straniera, allora è sicuro, e il contrario sarebbe del tutto contro natura e assolutamente impossibile, è sicuro, dico, che d’ora in poi non deciderebbe più un affare tedesco, bensì un affare straniero. L’interesse nazionale tedesco verrebbe scacciato nel suo complesso dal luogo in cui finora aveva avuto la sua sede e veniva rappresentato, dal timone dello Stato. Se ora con ciò non deve essere completamente cancellato dalla faccia della terra, allora deve essergli preparato un altro rifugio, e precisamente nell’unica cosa rimasta, presso i governati e nei cittadini. Ma se esso fosse già presso di questi e nella loro maggioranza, non saremmo arrivati al punto su cui ora ci consultiamo; es128

so perciò non è presso di loro, e vi deve essere ancora portato. In altre parole, ciò significa che la maggioranza dei cittadini deve essere educata a questo senso patriottico, e per essere sicuri della maggioranza, questa educazione deve essere tentata con tutti. E così dunque, come avevamo promesso in precedenza, abbiamo anche dimostrato, chiaramente e senza giri di parole, che l’educazione e nient’altro è assolutamente l’unico mezzo che possa salvare l’indipendenza tedesca; e senza dubbio non sarebbe colpa nostra se a questo punto non si riuscisse ancora a capire il contenuto vero e proprio e l’intenzione di questi nostri discorsi, e il senso in cui devono essere prese tutte le nostre affermazioni. Per riassumere ancora più brevemente: sempre in base alla nostra premessa, i minori sono stati privati dei loro tutori paterni e affini, e al loro posto sono subentrati dei padroni; se quei minori non vogliono diventare schiavi, allora devono uscire di tutela e, per poter fare questo, devono essere innanzitutto educati alla maggiore età. L’amor di patria tedesco ha perduto la sua sede; deve ottenerne un’altra più ampia e più profonda, in cui esso si fondi e si tempri in quieto nascondimento, e a tempo debito erompa con forza giovanile, e restituisca anche allo Stato l’indipendenza perduta. Ma su quest’ultimo punto, [399] possono stare tranquilli tanto l’estero, quanto le afflizioni piccole e meschine tra noi stessi; a loro consolazione, possiamo rassicurarli sul fatto che nel complesso essi non ne avranno esperienza, e che il tempo che ne avrà esperienza, la penserà diversamente da loro. Ma per quanto rigorosamente i membri di questa dimostrazione possano essere reciprocamente connessi, il fatto che essa convinca anche altri e li spinga all’attività dipende innanzitutto da questo, se qualcosa di simile a ciò che abbiamo descritto come specificità tedesca e amor di patria tedesco esista in generale, e se esso meriti di essere conservato e che ci si sforzi per questo, oppure no. Che lo straniero, sia esso estero o interno, risponda a questa domanda con un no, si capisce da sé; ma questi non è neppure chiamato a consulto. Del resto bisogna notare, in proposito, che la risposta a questa domanda non dipende affatto da una dimostrazione per concetti, che possono senz’altro portare chiarezza, ma non possono affatto dare informazioni sull’esistenza o il valore effettivi, bensì questi ultimi possono venire accertati solo dall’immediata esperienza di ciascuno in lui stesso. In un caso simi129

le, in milioni potrebbero dire che non c’è, ma in questo modo non si può mai dire nulla di più se non che, semplicemente, non c’è in loro, e niente affatto che non c’è in generale; e se anche uno solo insorge contro questi milioni e assicura che c’è, allora egli ottiene ragione contro tutti loro. Nulla impedisce, visto che ora parlo proprio io, che nel caso presente io sia questo unico ad assicurare di sapere per esperienza immediata in se stesso che esiste qualcosa come un amor di patria tedesco, di conoscere il valore infinito del suo oggetto, di essere stato spinto solo da questo amore a dire – a suo rischio e pericolo – ciò che ha detto e che ancora dirà, visto che al momento non ci è rimasto nient’altro che il dire, e perfino questo ci viene ostacolato e impedito in ogni modo. Chi in sé sente lo stesso, questi verrà convinto; chi non lo sente non può essere convinto, poiché la mia dimostrazione si basa solo su quella premessa; con lui [400] ho sprecato le mie parole, ma chi non vorrebbe rischiare qualcosa di così poco conto come le parole? Quella determinata educazione da cui noi ci ripromettiamo la salvezza della nazione tedesca è stata descritta in generale nel nostro secondo e terzo discorso. Noi l’abbiamo designata come una totale trasformazione del genere umano, e sarà opportuno ricollegare a questa designazione una ricapitolazione complessiva dell’intero. Di regola il mondo sensibile è invalso finora come il mondo giusto, autentico, vero ed effettivamente sussistente, esso era il primo che veniva presentato all’allievo dell’educazione; egli veniva condotto al pensiero solo a partire da esso, e il più delle volte solo a un pensiero diretto a esso e al suo servizio. La nuova educazione inverte esattamente questo ordine. Per essa, solo il mondo che viene colto dal pensiero è il mondo vero ed effettivamente sussistente; essa vuole introdurvi il suo allievo non appena inizia con lui. Essa vuole legare a questo mondo tutto il suo amore e tutto il suo compiacimento, in modo tale che presso di lui una vita sorga e scaturisca necessariamente solo in questo mondo dello spirito. Nella maggioranza, finora ha vissuto solo la carne, la materia, la natura; mediante la nuova educazione, nella maggioranza, e anzi presto in tutti gli uomini, deve vivere e spingere solo lo spirito. Lo spirito saldo e certo, di cui prima abbiamo parlato come dell’unica base possibile di uno Stato bene istituito, deve essere universalmente generato. 130

Mediante una siffatta educazione, lo scopo che ci siamo proposti per primo, e da cui sono partiti i nostri discorsi, viene raggiunto senza alcun dubbio. Quello spirito da generare reca immediatamente in se stesso il superiore amor di patria, il coglimento della sua vita terrena come qualcosa di eterno, e della patria come portatrice di questa eternità, e qualora venga edificato tra i tedeschi, reca l’amore per la patria tedesca in quanto una delle sue componenti necessarie; e da questo amore segue da sé il coraggioso difensore della patria, e il quieto e retto cittadino. Mediante una siffatta educazione viene ottenuto ancor più di questo scopo immediato, [401] come sempre avviene quando un grande obiettivo viene voluto mediante un mezzo comprensivo; tutto l’uomo viene compiuto in tutte le sue parti, perfezionato in se stesso, e dotato verso l’esterno di perfetta capacità per tutti i suoi scopi nel tempo e nell’eternità. La natura spirituale ha indissolubilmente collegato la nostra perfetta guarigione da tutti i mali che ci opprimono alla nostra convalescenza per la nazione e la patria. Noi qui non abbiamo più nulla a che fare né con l’ottusa meraviglia che un siffatto mondo del puro pensiero venga affermato, e addirittura venga affermato come l’unico mondo possibile, mentre al contrario il mondo sensibile viene completamente rifiutato; né con la negazione del primo, o in generale, o anche soltanto riguardo alla possibilità che possa venirvi introdotta la maggioranza del popolo incolto. Noi le abbiamo già prima completamente respinte da noi. Chi ancora non sa che c’è un mondo del pensiero, se ne può istruire altrove coi mezzi a sua disposizione, noi qui non abbiamo tempo per questa istruzione. Invece, vogliamo mostrare come persino la maggioranza del popolo incolto possa essere innalzata a quel mondo. Ora, poiché secondo il nostro intendimento ben meditato il pensiero di una siffatta nuova educazione non deve essere considerato come una semplice immagine per l’esercizio dell’acume e dell’abilità polemica, bensì deve essere impiegato e introdotto nella vita all’istante, dobbiamo innanzitutto indicare a quale membro già presente nel mondo reale questa attuazione debba collegarsi. A questa domanda, noi diamo la risposta: essa dovrebbe collegarsi al metodo di istruzione scoperto, proposto, e già felice131

mente attuato sotto i suoi occhi da Johann Heinrich Pestalozzi1. Noi vogliamo motivare e determinare più da vicino questa nostra decisione. Anzitutto, noi abbiamo letto e meditato gli scritti originali dell’uomo, e ci siamo formati da questi il nostro concetto della sua arte nell’istruzione e nell’educazione. [402] Invece, non abbiamo voluto per niente informarci su ciò che a questo proposito hanno riportato, opinato, e sulle opinioni di nuovo opinato le gazzette dei dotti. Osserviamo questo per raccomandare a chiunque voglia avere un concetto su questo argomento di seguire la stessa strada, e di evitare costantemente quella opposta. Altrettanto poco abbiamo voluto vedere finora qualcosa dell’effettiva attuazione, assolutamente non per trascuratezza, bensì perché volevamo prima procurarci un concetto saldo e sicuro della vera intenzione dello scopritore, rispetto al quale l’attuazione spesso può restare indietro. Ma da questo concetto, il concetto dell’attuazione e dell’esito necessario risulta da sé senza alcun tentativo, e dotati solo di esso, possiamo capire veramente l’attuazione e giudicarla in modo corretto. Se, come credono alcuni, anche questo metodo d’istruzione dovesse già essere degenerato, qui e là, in un cieco brancolamento empirico e in un vuoto giocherellare e tirare a indovinare, a mio avviso la concezione fondamentale dello scopritore è almeno in ciò del tutto innocente. Per questa concezione fondamentale, garantisce innanzitutto ai miei occhi il carattere particolare dell’uomo stesso, per come egli lo presenta nei suoi scritti con la franchezza più sincera e appassionata. Io avrei potuto presentare i tratti fondamentali dell’animo tedesco in lui altrettanto bene che in Lutero o in qualsiasi 1 Del celebre pedagogista svizzero (1746-1827) Fichte tiene presente, oltre allo scritto citato infra, p. 143 in nota, le seguenti opere: Wie Gertrud ihre Kinder lehrt, ein Versuch den Müttern Anleitung zu geben, ihre Kinder selbst zu unterrichten (1801), trad. it. Come Geltrude istruisce i suoi figli, a cura di A. Banfi, Firenze 1929, o quella più recente di E. Becchi, in J.H. Pestalozzi, Scritti scelti, a cura della stessa, Torino 1970, pp. 229-410; Buch der Mütter oder Anleitung für Mütter ihre Kinder bemerken und reden zu lehren (1803) [Libro delle madri, ovvero guida per le madri ad insegnare ai loro bambini a osservare e a leggere]; ABC der Anschauung oder Anschauungs-Lehre der Maßverhältnisse (1803) [ABC dell’intuizione, ovvero teoria intuitiva dei rapporti di misura]; Anschauungslehre der Zahlenverhältnisse (1803-1804) [Teoria intuitiva dei rapporti numerici].

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altro, qualora ci siano stati altri pari a loro, e dimostrare con gioia che quest’animo è stato presente fino a oggi in tutta la sua forza prodigiosa nell’ambito della lingua tedesca. Anch’egli ha avuto una vita difficile, e ha lottato con ogni possibile ostacolo, interiormente con la propria cocciuta oscurità e debolezza, egli stesso scarsamente dotato dei più comuni strumenti di un’educazione dotta; all’esterno, con un persistente misconoscimento, verso un obiettivo appena presentito e a lui stesso del tutto ignoto, sostenuto e sospinto da un impulso inesauribile, onnipotente e tedesco: l’amore per il popolo povero più indifeso. Questo amore onnipotente ne aveva fatto un suo strumento, proprio come Lutero, solo in [403] un rapporto diverso e più conforme al suo tempo, ed era divenuto la vita nella sua vita. Esso fu per lui il filo conduttore saldo e immutabile, a lui stesso sconosciuto, di questa sua vita, che lo ha condotto attraverso la notte che lo circondava da ogni parte, e che coronò la sera di quella vita – poiché era impossibile che un amore del genere abbandonasse la terra senza ricompensa – con la sua scoperta autenticamente spirituale, che ha fatto molto di più di quanto egli avesse mai desiderato con i suoi più audaci desideri. Egli voleva semplicemente aiutare il popolo; ma la sua scoperta, assunta in tutta la sua estensione, annulla il popolo, toglie ogni differenza tra questo e un ceto colto, invece della ricercata educazione popolare fornisce una educazione nazionale, e avrebbe senz’altro la capacità di sollevare i popoli e l’intero genere umano dalla profondità della sua attuale miseria. Questa sua concezione fondamentale si trova nei suoi scritti con perfetta chiarezza e precisione non misconoscibile. Prima di tutto egli vuole, per quanto riguarda la forma, non l’arbitrio vigente fino a ora e il brancolare alla cieca, bensì un’arte dell’educazione salda e sicuramente calcolata, come vogliamo anche noi, e come la scrupolosità tedesca deve necessariamente volere; ed egli racconta molto ingenuamente come un modo di dire francese, secondo cui egli avrebbe voluto meccanizzare l’educazione, lo abbia aiutato a far emergere dal sogno questo suo scopo. Per quanto riguarda il contenuto, il primo passo della nuova educazione da me descritta consiste nello stimolare e nel formare la libera attività dello spirito del suo allievo, il suo pensiero, in cui più tardi deve sorgere per lui il mondo del suo amore. Gli scritti di Pestalozzi si occupano soprattutto di questo primo passo, e il nostro 133

esame della sua concezione fondamentale si rivolge prima di tutto a questo argomento. Ora, da questo punto di vista, il suo biasimo dell’istruzione fino a oggi, secondo cui quest’ultima immerge l’allievo soltanto in nebbia e in ombre, senza farlo mai arrivare all’effettiva verità e realtà, ha lo stesso significato del nostro, secondo cui questa istruzione non è potuta intervenire nella vita, né formarla alla radice; e il rimedio proposto da Pestalozzi, [404] di introdurre l’allievo nell’intuizione immediata, ha lo stesso significato del nostro, di stimolarne l’attività spirituale alla proiezione di immagini, e di fargli apprendere tutto ciò che apprende solo in questo libero formare, poiché l’intuizione è possibile solo di ciò che è proiettato liberamente. Che lo scopritore abbia effettivamente inteso così, e non intenda affatto per intuizione quella percezione brancolante alla cieca e a tentoni, è dimostrato dall’esercizio illustrato in seguito. Allo stesso modo, a questa sollecitazione dell’intuizione dell’allievo mediante l’educazione viene prescritta, del tutto giustamente, la legge generale e che va molto in profondità di andare esattamente di pari passo con l’inizio e il progresso delle facoltà del bambino che si tratta di sviluppare. Al contrario, tutti gli sbagli nelle espressioni e proposte di questo programma di istruzione pestalozziano hanno come unica fonte comune il fatto che lo scopo misero e limitato al quale si mirava all’inizio, cioè fornire, da un lato, l’aiuto necessario ai bambini straordinariamente trascurati del popolo, presupponendo che l’intero rimanesse come era, e dall’altro, il mezzo che porta a uno scopo ben più alto, si confondono ed entrano in conflitto reciproco; e si sarà al sicuro da ogni errore, e si otterrà un concetto perfettamente in accordo con se stesso, se si lascerà cadere il primo e tutto ciò che è seguito alla sua presa in considerazione, e ci si atterrà esclusivamente al secondo e alla sua applicazione conseguente. Senza dubbio, la sopravvalutazione del leggere e dello scrivere, la loro posizione quasi a meta e vertice dell’istruzione popolare, la sua fede ingenua nel detto dei secoli trascorsi, secondo cui essi sarebbero i mezzi d’istruzione migliori, sono sorte nell’animo pieno d’amore di Pestalozzi soltanto dal desiderio di lasciare liberi il prima possibile dalla scuola per guadagnarsi il pane quei figli della più estrema miseria, e tuttavia di fornire loro un mezzo con cui potessero riprendere l’istruzione interrotta. Altrimenti, egli avrebbe certamente trovato che proprio questo legge134

re e scrivere è stato finora il vero e proprio strumento [405] per avvolgere gli uomini in nebbia e in ombre, rendendoli saccenti. Da qui, senza dubbio, derivano anche diverse altre proposte che stanno in contraddizione col suo principio dell’intuizione immediata, e in particolare la sua concezione completamente sbagliata del linguaggio come mezzo per sollevare la nostra specie dall’intuizione oscura ai concetti chiari. Da parte nostra, noi non abbiamo parlato di educazione del popolo in opposizione ai ceti superiori, poiché noi non vogliamo più avere il popolo in questo senso di plebe inferiore e volgare, né questa può più essere sopportata per gli affari nazionali tedeschi, bensì abbiamo parlato di educazione nazionale. Se mai si dovrà giungere a essa, allora il desiderio miserabile che l’educazione sia terminata il prima possibile perché il fanciullo possa essere messo al lavoro subito dopo non deve più farsi sentire, bensì dev’essere respinto subito alla soglia della consultazione su questa faccenda. Certo, a mio avviso, questa educazione non sarà costosa, le istituzioni potranno in buona parte mantenersi, e il lavoro non subirà alcun danno. A suo tempo esporrò i miei pensieri sull’argomento: ma anche se non fosse così, comunque l’allievo deve restare nell’educazione incondizionatamente e a ogni costo, finché essa sia e possa essere conclusa. Quell’educazione a metà non è per niente migliore che nessuna educazione affatto. Essa lascia tutto come prima, e se si vuole questo, allora è meglio risparmiarsi anche la metà, e dichiarare subito in partenza che non si vuole venire incontro all’umanità. Ora, posta quella premessa, finché dura la semplice educazione nazionale leggere e scrivere non servono a niente, mentre invece possono essere assai dannosi, poiché [406] potrebbero facilmente sviare, come del resto è accaduto finora, dall’intuizione immediata al mero segno, e dall’attenzione, che sa di non sapere niente finché non lo afferra sul momento, alla distrazione che si fida del suo trascrivere, e vuole imparare dalla carta ciò che probabilmente non imparerà mai, e in generale alla fantasticheria che accompagna così spesso la pratica con le lettere. Queste arti potrebbero essere comunicate solo alla conclusione dell’educazione e come suo ultimo dono, e l’allievo potrebbe essere condotto a scoprire e a usare le lettere scomponendo il linguaggio, che egli controlla perfettamente già da lungo tempo. Vista la formazione già conseguita, ciò sarebbe per lui un gioco da ragazzi. 135

Così nella semplice e universale educazione nazionale. Le cose stanno un po’ diversamente col futuro dotto. Questi non dovrà pronunciarsi soltanto su ciò che vale universalmente, nel modo in cui lo sa a memoria, bensì dovrà innalzare alla luce del linguaggio, anche in solitaria meditazione, la profondità nascosta e a lui stesso ignota del suo animo, e perciò egli, nella scrittura, dovrà acquisire e imparare a formare in anticipo lo strumento di questo pensiero solitario, eppure sonoro; tuttavia, anche con lui bisognerà avere meno fretta di quanto accaduto finora. Ciò risulterà più chiaro a suo tempo, con la distinzione tra la semplice educazione nazionale e quella per i dotti. Tutto ciò che lo scopritore dice su parola e suono come mezzi per lo sviluppo della facoltà spirituale, andrà corretto e limitato in conformità con questa concezione. Il programma di questi discorsi non mi permette di entrare nel dettaglio. Soltanto un’ultima osservazione per penetrare l’intero in profondità. La base per lo sviluppo di ogni conoscenza è contenuta nel suo libro per le madri, poiché tra l’altro egli conta molto sull’educazione familiare. Anzitutto, per quanto riguarda quest’ultima, l’educazione familiare, noi non vogliamo assolutamente entrare in contrasto con lui sulle speranze che egli ripone sulle madri; ma per quanto riguarda il nostro concetto superiore di un’educazione nazionale, noi siamo fermamente convinti che questa, particolarmente presso i ceti lavorativi, non può assolutamente essere né cominciata, né continuata, né completata nella casa dei genitori, e in generale senza una completa separazione dei fanciulli da essi. La pressione, l’ansia per il sopravvivere quotidiano, la meschina piccineria e brama di guadagno che si aggiunge, infetterebbero necessariamente i fanciulli, [407] li umilierebbero e impedirebbero loro di spiccare liberamente il volo nel mondo del pensiero. Anche questo è uno dei presupposti indispensabili per l’attuazione del nostro programma, e non può essere in nessun modo trascurato. Abbiamo visto a sufficienza che cosa succede quando in complesso l’umanità in ogni epoca successiva si ripete così come era in quella precedente; se deve essere intrapresa una totale trasformazione di essa, allora deve essere strappata totalmente da se stessa, e nel suo tradizionale modo di vivere deve essere inserita una cesura. Soltanto dopo che una generazione sarà passata attraverso la nuova educazione si potrà decidere quale parte dell’educazione na136

zionale si potrà affidare alla famiglia. Ma a parte questo, e considerando il libro di Pestalozzi per le madri solo come base iniziale dell’istruzione, anche il suo contenuto, il corpo del bambino, è completamente sbagliato. Egli parte dalla proposizione giustissima che il primo oggetto della conoscenza del bambino debba essere il bambino stesso, ma è dunque il corpo del bambino il bambino stesso? Se si trattasse di un corpo umano, il corpo della madre non gli sarebbe molto più vicino e visibile? E come fa il bambino ad acquisire una conoscenza intuitiva del suo corpo senza avere prima imparato a usarlo? Quella cognizione non è una conoscenza, bensì un semplice imparare a memoria dei segni verbali arbitrari, che viene provocato dalla sopravvalutazione del parlare. La vera base dell’istruzione e della conoscenza sarebbe, per dirlo nel linguaggio di Pestalozzi, un ABC delle sensazioni. Appena il bambino comincia a percepire suoni linguistici e a formarne egli stesso in caso di bisogno, egli dovrebbe essere guidato a capire esattamente se ha fame o se ha sonno, se vede o se ode la sensazione presente che egli designa con questa o quella espressione, eccetera, o se pensa semplicemente a qualcosa; in che modo si distinguano le diverse impressioni sullo stesso senso designate da parole particolari, per esempio i colori, il suono dei [408] diversi corpi, eccetera, e in quali gradazioni; tutto ciò nella giusta sequenza, che sviluppi regolarmente la facoltà della sensazione. Solo così il bambino ottiene un Io che egli separa nel concetto libero e riflesso, e compenetra con esso, e appena si risveglia alla vita, in questa vita viene inserito un occhio spirituale, che d’ora in poi non l’abbandonerà più. In questo modo, anche le forme in sé vuote della misura e del numero per i successivi esercizi dell’intuizione ottengono il loro contenuto interno chiaramente conosciuto, che invece nel modo di procedere di Pestalozzi può essere loro aggiunto solo attraverso oscura inclinazione e costrizione. Negli scritti di Pestalozzi si presenta, da questo punto di vista, la singolare ammissione di uno dei suoi insegnanti, il quale, iniziato a questo procedimento, cominciò a scorgere soltanto corpi geometrici svuotati. Lo stesso capiterebbe a tutti gli allievi di questo procedimento, se in modo inavvertito la natura spirituale non proteggesse da questo. Qui, nel comprendere con chiarezza che cosa si senta veramente, è anche il luogo in cui non il segno linguistico, ma il parlare stesso, e il bisogno di esprimersi per gli al137

tri, forma l’uomo e lo innalza dall’oscurità e dalla confusione alla chiarezza e alla precisione. Sul bambino che per la prima volta si risveglia alla coscienza, tutte le impressioni della natura che lo circonda premono nello stesso tempo, e si mescolano in un caos opprimente in cui dalla confusione generale non emerge nulla di singolare. Com’è mai possibile uscire da questa ottusità? C’è bisogno dell’aiuto di altri; egli può procurarsi questo aiuto solo dicendo precisamente di che cosa ha bisogno, con le distinzioni da bisogni analoghi che sono già deposte nel linguaggio. Seguendo quelle distinzioni egli viene costretto, ritirandosi e concentrandosi su di sé, a osservare ciò che sente veramente, a confrontarlo e a distinguerlo da altro, che pure conosce, ma che al momento non sente. Solo in tal modo, in lui, si separa un [409] Io libero e consapevole. Ora questo cammino, che in noi cominciano necessità e natura, deve essere continuato dall’educazione con arte libera e consapevole. Nel campo della conoscenza obiettiva, che si rivolge a oggetti esterni, la familiarità col segno linguistico non aggiunge assolutamente nulla per il conoscente stesso alla chiarezza e precisione della conoscenza interna, bensì la innalza soltanto alla sfera completamente diversa della comunicabilità per altri. La chiarezza di quella conoscenza si basa totalmente sull’intuizione, e ciò che nell’immaginazione si può riprodurre a proprio piacimento in tutte le sue parti, esattamente nel modo in cui esiste effettivamente, è conosciuto perfettamente sia che si abbia la parola per dirlo, oppure no. Noi siamo addirittura convinti del fatto che quel completamento dell’intuizione debba precedere la familiarità col segno linguistico, e che il percorso inverso conduca esattamente a quel mondo di ombre e nebbia, e al precedente parlare a vuoto, che Pestalozzi a ragione tanto detesta. Anzi, crediamo che chi desidera sapere la parola quanto prima tanto meglio, e pensa di avere accresciuto la sua conoscenza non appena la sa, viva proprio in quel mondo di nebbia e si preoccupi soltanto di estenderlo. Considerando l’edificio di pensiero dello scopritore nella sua interezza, io credo che proprio questo ABC della sensazione fosse ciò cui egli aspirava come base iniziale dello sviluppo spirituale e come contenuto del suo libro per le madri, e che gli passava confusamente davanti in tutte le sue affermazioni sul linguaggio, e che soltanto la mancanza 138

di studi filosofici gli abbia impedito di diventare perfettamente chiaro a se stesso su questo punto. Ora, presupposto questo sviluppo del soggetto conoscente stesso nella sensazione, e messo a fondamento come base dell’educazione nazionale che abbiamo di mira, il pestalozziano ABC dell’intuizione, la dottrina dei rapporti numerici e di misura, ne è la conseguenza perfettamente adeguata ed eccellente. A questa intuizione si può collegare una parte a piacere del mondo sensibile, essa può essere introdotta nell’ambito della matematica, finché l’allievo sia sufficientemente formato in questi esercizi preliminari [410] da essere condotto alla proiezione di un ordine sociale tra gli uomini e all’amore di questo ordine, come secondo ed essenziale passo della sua formazione. Non va tralasciato un altro argomento egualmente toccato da Pestalozzi nella prima parte dell’educazione: lo sviluppo delle abilità corporee dell’allievo, che devono necessariamente progredire di pari passo con le abilità spirituali. Egli esige un ABC dell’arte, cioè del potere corporeo. Le affermazioni che risaltano maggiormente, al riguardo, sono le seguenti: “colpire, portare, lanciare, urtare, tirare, girare, lottare, ruotare, eccetera sono gli esercizi più facili della forza. C’è una successione naturale dagli inizi in questi esercizi fino alla loro arte compiuta, cioè fino al grado supremo del ritmo nervoso, che renderebbe sicuri colpo e urto, salto e lancio in centinaia di gradazioni, e renderebbe certi la mano e il piede”. Qui tutto dipende dalla successione naturale, e non basta intervenire con cieco arbitrio e introdurre un esercizio qualsiasi per poter dire che anche noi abbiamo un’educazione corporea come i Greci. Da questo punto di vista è ancora tutto da fare, poiché Pestalozzi non ha lasciato alcun ABC dell’arte. Questo andrebbe fornito, e ci sarebbe bisogno di un uomo che, egualmente a suo agio nell’anatomia del corpo umano e nella meccanica scientifica, unisse con queste cognizioni un alto grado di spirito filosofico, e in questo modo fosse capace con completezza onnilaterale di scoprire quella macchina in conformità alla quale è stato progettato il corpo umano, e di mostrare come questa macchina possa essere gradualmente sviluppata, in modo che ogni passo accada nell’unica giusta sequenza possibile, tutti quelli futuri preparati e facilitati da ogni altro, cosicché non solo la salute e bellezza del corpo e la forza dello spirito non verrebbero messe in pericolo, ma 139

addirittura rafforzate ed elevate – come questa macchina, dicevo, possa essere sviluppata in questo modo a partire da ogni sano corpo umano. L’indispensabilità di questa componente, per un’educazione [411] che si ripromette di formare tutto l’uomo, e che si determina, in particolare, per una nazione che deve recuperare la sua indipendenza, e in seguito mantenerla, salta agli occhi senza bisogno di ulteriore commento. Ciò che resta ancora da dire per una determinazione più precisa del nostro concetto di educazione nazionale tedesca, lo riserviamo al prossimo discorso.

Decimo discorso

Per la determinazione più precisa dell’educazione nazionale tedesca

La conduzione dell’allievo a rendersi chiare prima le sue sensazioni, quindi le sue intuizioni, con cui deve andare di pari passo una regolare formazione artistica del suo corpo, è la prima parte principale della nuova educazione nazionale tedesca. Per ciò che riguarda la formazione dell’intuizione, Pestalozzi ci dà un orientamento adeguato; quello ancora mancante per la formazione della facoltà della sensazione potranno darlo facilmente egli stesso e i suoi collaboratori. Manca ancora una guida per la regolare formazione della forza corporea: ma ciò che si richiede per la soluzione di questo compito è stabilito, ed è da sperare che, se la nazione dovesse dimostrare desiderio per questa soluzione, questa stessa si troverà. Tutta questa parte dell’educazione è soltanto mezzo e preparazione per la sua seconda parte essenziale, l’educazione civile e religiosa. Ciò che in generale è necessario dire in proposito, è stato esposto nel nostro secondo e terzo discorso, e da questo punto di vista non abbiamo nient’altro da aggiungere. Dare una guida precisa per l’arte di questa educazione – sempre, [412] come si capisce, in consultazione e dialogo con l’autentica arte educativa di Pestalozzi – è compito della stessa filosofia che propone in generale un’educazione nazionale tedesca; e questa filosofia non mancherà di fornirla, purché sorga il bisogno di una guida siffatta mediante la completa attuazione della prima parte. Come sarà possibile che ogni allievo, nato anche nel ceto più umile, visto che il ceto di nascita non fa veramente alcuna differenza 141

nelle disposizioni, comprenda, e addirittura comprenda facilmente, l’istruzione su questi argomenti che riguardano, se così si vuol dire, la metafisica più profonda, ed è il bottino della speculazione più astratta, e che risulta impossibile da comprendere perfino a dotti e a teste che speculano in proprio, su tutto ciò non è il caso di stancarsi prima di cominciare, dubitando di qua e di là: purché si vogliano seguire i primi passi, ci verrà insegnato dall’esperienza. Solo perché il nostro tempo è in generale prigioniero nel mondo dei vuoti concetti, e non è giunto da nessuna parte al mondo della vera realtà e intuizione, non ci si può attendere da esso che cominci a intuire proprio all’altezza dell’intuizione più spirituale e più alta di tutte, e dopo essere già diventato saccente. Da esso, la filosofia deve pretendere che abbandoni il mondo che aveva fino a oggi, e che se ne crei uno completamente diverso, e non bisogna meravigliarsi che una tale pretesa resti senza successo. L’allievo della nostra educazione, invece, è subito fin dall’inizio divenuto intimo nel mondo dell’intuizione, e non ne ha mai visto un altro; egli non deve cambiare il suo mondo, bensì solo accentuarlo, e questo avviene da sé. Quell’educazione, come abbiamo già detto, è anche l’unica educazione possibile per la filosofia, e l’unico mezzo per rendere quest’ultima universale. Ora, con questa educazione civile e religiosa l’educazione è conclusa, e l’allievo deve essere lasciato libero, e così in primo luogo noi saremmo a posto rispetto al contenuto dell’educazione proposta. [413] Non bisognerebbe mai stimolare la facoltà conoscitiva dell’allievo senza che in pari tempo essa diventi amore per l’oggetto conosciuto, poiché altrimenti la conoscenza resterebbe morta, e allo stesso modo non bisognerebbe mai stimolare l’amore senza che esso diventi chiaro alla conoscenza, poiché altrimenti l’amore resterebbe cieco: si tratta di uno dei princìpi fondamentali dell’educazione da noi proposta, con cui anche Pestalozzi deve essere d’accordo, in coerenza con l’impianto del suo pensiero. Ora, la sollecitazione e lo sviluppo di questo amore si collegano da sé al percorso regolare dell’istruzione seguendo il filo della sensazione, e arrivano senza alcun proposito o intervento da parte nostra. Il bambino ha un impulso naturale alla chiarezza e all’ordine; tale impulso viene continuamente soddisfatto in quel percorso di istruzione, e così riempie il bambino di gioia e piacere; ma, in mez142

zo alla soddisfazione, esso viene di nuovo sollecitato dalle nuove difficoltà che appaiono, e così viene ulteriormente soddisfatto, e così la vita procede nell’amore e nel piacere di imparare. Questo è l’amore con cui ciascuno è collegato al mondo del pensiero, il legame in generale tra mondo sensibile e mondo degli spiriti. Da questo amore sorge, in questa educazione in modo certo e calcolato, il facile sviluppo della facoltà conoscitiva, e la felice elaborazione dei campi della scienza, ciò che finora è avvenuto per caso in alcune teste straordinariamente dotate. Ma c’è ancora un altro amore, quello che lega l’uomo all’uomo, e tutti i singoli in una concorde comunità della ragione dall’uguale disposizione d’animo. Come quell’amore forma la conoscenza, così questo forma la vita attiva, e spinge a rappresentare il conosciuto in sé e ad altri. Poiché per il nostro scopo vero e proprio servirebbe a poco migliorare solo l’educazione dei dotti, e l’educazione nazionale che abbiamo di mira è diretta anzitutto non a formare dotti, bensì appunto uomini, è chiaro che anche lo sviluppo del secondo amore accanto al primo è dovere indispensabile di questa educazione. [414] Pestalozzi* parla di questo argomento con nobile entusiasmo; però dobbiamo ammettere che tutto questo non ci è parso minimamente chiaro, e tanto meno se dovesse servire come base per uno sviluppo a regola d’arte di quell’amore. Perciò è necessario che noi comunichiamo le nostre idee personali per una base simile. La comune ammissione che l’uomo sia per natura egoista, e che anche il bambino nasca con questo egoismo, e che sia soltanto l’educazione a impiantare in esso un movente etico, si basa su un’osservazione assai superficiale, ed è assolutamente falsa. Poiché da niente non si può fare qualcosa, e lo sviluppo per quanto avanzato di un impulso fondamentale non può mai farlo diventare il suo contrario, come sarebbe possibile per l’educazione introdurre l’eticità nel bambino, se questa non fosse in lui originariamente e prima di ogni educazione? E così è effettiva-

* Ansichten, Erfahrungen und Mittel zur Beförderung einer der Menschennatur angemessenen Erziehungsweise [Punti di vista, esperienze e mezzi per promuovere un’educazione conforme alla natura umana], Gräff, Leipzig 1807.

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mente in tutti i bambini che vengono al mondo; il compito è soltanto di sondare la figura più originaria e più pura in cui essa compare. Tanto la speculazione conseguente quanto l’osservazione nel suo insieme concordano sul fatto che questa figura più originaria e più pura è l’impulso al rispetto, e che in questo impulso per primo si danno a conoscere l’etico, come unico oggetto possibile di rispetto, il giusto e il buono, la veracità, la facoltà dell’autocontrollo. Nel bambino, questo impulso si mostra anzitutto come impulso anche a essere rispettato da chi gli incute il più profondo rispetto; e questo impulso, a sicura dimostrazione che l’amore non deriva assolutamente dall’egoismo, si rivolge di regola in modo più forte e più deciso al padre, più serio, spesso assente, e che non appare immediatamente come qualcuno che gli fa del bene, [415] piuttosto che alla madre, sempre presente con le sue cure. Il bambino vuol essere notato da lui, vuole avere la sua approvazione; è contento di se stesso solo nella misura in cui questi è contento di lui. Questo è l’amore naturale del bambino per il padre; non per colui che cura il suo benessere sensibile, ma per lo specchio che gli riflette il suo proprio valore o disvalore. A questo amore, il padre ora può collegare facilmente dura obbedienza e ogni sacrificio; per la ricompensa della sua affettuosa approvazione, egli obbedisce con gioia. Ancora, l’amore che egli desidera dal padre è che questi noti il suo sforzo di essere buono e lo riconosca, che mostri di essere contento quando lo può approvare, e di essere dispiaciuto di cuore quando lo deve rimproverare; che non desideri nient’altro se non di poter essere sempre contento di lui, e che tutte le sue esigenze verso il bambino hanno soltanto l’intenzione di renderlo sempre migliore e più degno di rispetto. La vista di questo amore vivifica e rafforza a sua volta durevolmente l’amore del bambino, e gli dà nuova forza per tutti i suoi sforzi ulteriori. Al contrario, questo amore viene ucciso dalla non considerazione, o da un continuo e iniquo misconoscimento, ma in modo particolare genera addirittura odio, se nel modo di trattare il bambino si fa scorgere egoismo, e per esempio una perdita causata dalla sua imprudenza viene trattata come un crimine gravissimo. Egli allora si vede trattato come un mero strumento, e questo indigna il suo sentimento, certo oscuro ma pure mai assente, che egli dovrebbe avere un valore per se stesso. 144

Per provare questo con un esempio. Che cos’è che al dolore della correzione nel bambino aggiunge la vergogna, e che cos’è questa vergogna? Evidentemente, essa è il sentimento dell’autodisprezzo che deve sopraggiungere quando gli viene testimoniata la disapprovazione dei suoi genitori ed educatori. Perciò anche, in un contesto in cui la punizione non è accompagnata da vergogna, non abbiamo più a che fare con l’educazione, e la punizione appare come una violenza [416] da cui l’allievo si distanzia con senso superiore, prendendosi gioco di essa. Dunque questo è il legame che connette gli uomini nell’unità del senso, e il cui sviluppo è una delle componenti principali dell’educazione per diventare uomo – niente affatto amore sensibile, bensì impulso al rispetto reciproco. Questo impulso si forma in un duplice modo: nel bambino, a partire dal rispetto incondizionato per l’umanità adulta fuori di lui, all’impulso di essere rispettato da essa, e a ricavare, dall’effettivo rispetto di questa, in che misura anch’egli possa rispettarsi. Questa fiducia in una misura estranea dell’autostima, che si trova fuori di noi, è anche il fondamentale tratto caratteristico dell’infanzia e dell’immaturità, sulla cui presenza esclusivamente si basa la possibilità di ogni insegnamento e di ogni educazione a uomo completo della gioventù in crescita. L’uomo maturo ha la misura della sua autovalutazione in lui stesso, e vuole essere rispettato da altri solo nella misura in cui essi stessi si sono resi degni del suo rispetto; e in lui questo impulso prende la forma del desiderio di poter rispettare altri, e di produrre qualcosa al di fuori di sé che sia degno di rispetto. Se nell’uomo non ci fosse un simile impulso fondamentale, come si spiegherebbe il fenomeno per cui anche all’uomo solo passabilmente buono dispiace trovare gli uomini peggiori di quello che pensava, e che lo addolora profondamente doverli disprezzare, mentre all’egoismo, al contrario, dovrebbe fare piacere potersi sollevare altezzosamente sugli altri? Ora, quest’ultimo tratto fondamentale della maturità deve essere rappresentato dall’educatore, come si può contare con sicurezza sul primo per quanto riguarda l’allievo. Da questo punto di vista, lo scopo dell’educazione è quello di produrre la maturità nel senso da noi indicato, e solo dopo che questo scopo è stato raggiunto l’educazione è effettivamente completa e terminata. Finora molti uomini sono rimasti bambini per tutta la loro vita; quelli che per essere contenti avevano bisogno dell’approvazione dell’ambiente, e 145

[417] credevano di non aver fatto nulla di buono a meno che non fossero approvati da esso. A loro si sono contrapposti, come caratteri forti e potenti, i pochi che furono in grado di sollevarsi oltre il giudizio degli altri, e di bastare a se stessi; e di regola questi sono stati odiati, mentre quegli altri, benché non stimati, venivano considerati amabili. La base di ogni educazione etica è sapere che nel bambino esiste un simile impulso, e presupporlo con fermezza, in modo da riconoscerlo quando appare, e da svilupparlo gradualmente sempre di più mediante adeguate sollecitazioni e la presentazione di una materia in cui si possa soddisfare. La regola prima di tutte è dirigerlo sull’unico oggetto a esso adeguato, cioè l’etico, senza invece metterlo a tacere con una materia a esso estranea. Per esempio, l’imparare ha la sua attrattiva e la sua ricompensa in se stesso; al massimo, potrebbe meritare approvazione un impegno esasperato, come esercizio di autosuperamento. Ma questo libero impegno, che va oltre quanto viene richiesto, difficilmente troverà posto almeno nella semplice, universale educazione nazionale. Perciò, che l’allievo impari ciò che deve, deve essere considerato come qualcosa di ovvio e su cui non c’è niente da dire; anche l’apprendere più veloce e migliore dell’intelligenza più dotata deve essere considerato come un semplice fatto naturale, che non le procura nessuna lode o distinzione, e ancora meno copre altri difetti. A questo impulso deve essere assegnata la sua sfera d’azione solo nell’etico; ma la radice di ogni eticità è l’autocontrollo, l’autosuperamento, la subordinazione dei propri impulsi egoistici al concetto dell’intero. Solo in virtù di quest’ultima e assolutamente di nient’altro sarebbe possibile all’allievo ottenere l’approvazione dell’educatore, di cui è destinato ad avere bisogno dalla sua natura spirituale e dall’abitudine creata dall’educazione. Come abbiamo già ricordato nel nostro secondo discorso, ci sono due modi molto diversi di quella subordinazione del Sé personale all’intero: innanzitutto, quella [418] che deve essere assolutamente, e non deve essere tralasciata da nessuno in nessuna parte, la sottomissione alla legge della costituzione, stabilita per amore del semplice ordine dell’intero. Chi non va contro di essa si limita a non ricevere disapprovazione, ma non gli viene assolutamente tributata approvazione; mentre chi va contro di essa verrebbe colpito da disapprovazione e biasimo effettivi, che nel caso in cui la mancanza 146

fosse pubblica, dovrebbero essere comminati altrettanto pubblicamente e, qualora non dessero alcun frutto, dovrebbero essere rafforzati persino con una punizione supplementare. Poi c’è una subordinazione del singolo all’intero che non può essere pretesa, ma soltanto fornita volontariamente: aumentare e accrescere il benessere dell’intero mediante il proprio sacrificio. Per imprimere agli allievi fin dalla giovinezza il vero rapporto reciproco tra la mera legalità e questa virtù superiore, sarà opportuno permettere questi sacrifici volontari solo a chi per un certo periodo di tempo non è stato accusato di niente per il primo aspetto, di negare invece il permesso a chi non è ancora sicuro nella regolarità e nell’ordine di se stesso. Gli oggetti di queste prestazioni volontarie sono stati indicati in generale già prima, e risulteranno ancora più chiaramente in seguito. A questa specie di sacrificio venga tributata attiva approvazione, effettivo riconoscimento dei suoi meriti, ma assolutamente non pubblicamente, come lode che potrebbe corrompere l’animo e renderlo vanitoso, allontanandolo dall’indipendenza, bensì in segreto e con l’allievo da solo. Questo riconoscimento non deve essere nulla più che la sua buona coscienza presentata all’esterno, e la conferma della sua soddisfazione con se stesso, della sua autostima, e l’incoraggiamento a confidare in se stesso anche in seguito. I vantaggi che in tal caso si hanno di mira verrebbero promossi in modo eccellente dalla istituzione seguente. Nel caso in cui vi siano diversi educatori ed educatrici, il che presupponiamo come la regola, ogni bambino ne scelga liberamente uno, a seconda di come lo spinge la sua fiducia e il suo sentimento, come amico particolare [419] e per così dire consigliere di coscienza. Da lui egli cerchi consiglio ogniqualvolta gli riesca difficile fare la cosa giusta; questi lo assista con consigli amichevoli; sia il confidente delle prestazioni volontarie che egli assume; e infine sia quello che corona con la sua approvazione ciò che è eccellente. Ora, nelle persone di questi consiglieri di coscienza, l’educazione dovrebbe promuovere con forza progressivamente sempre maggiore, in ciascuno alla sua maniera, l’autosuperamento e l’autocontrollo; e così sorgeranno gradualmente fermezza e indipendenza, con la generazione delle quali l’educazione si conclude e si conserva per il futuro. L’ambito del mondo etico si schiude per noi nel modo più chiaro mediante il nostro fare e il nostro agire, ed a colui per il quale è sorto in questo modo, es147

so è sorto effettivamente. Costui, ora, sa da sé ciò che ne costituisce il contenuto, e non ha più bisogno di un testimone estraneo, bensì può formulare in prima persona un giudizio giusto su di sé, e d’ora in poi è maggiorenne. Con ciò che abbiamo appena detto, noi abbiamo colmato una lacuna che era rimasta nella nostra presentazione precedente, e abbiamo reso infine la nostra proposta veramente attuabile. Il compiacimento in ciò che è buono e giusto per amore di esso deve subentrare mediante la nuova educazione al posto della speranza o paura sensibile impiegata finora, e questo compiacimento deve porre in movimento tutta la vita futura come unico movente. Questo è l’aspetto principale della nostra proposta. La prima domanda che ora incalza è: “Ma come può essere prodotto quel compiacimento?” Prodotto, nel senso vero e proprio della parola, certo non può essere, poiché l’uomo dal nulla non può fare qualcosa. Se la nostra proposta deve essere in qualche modo realizzabile, questo compiacimento deve essere presente in modo originario e assolutamente in tutti gli uomini senza eccezione, ed essere loro innato. E così è anche effettivamente. Il bambino senza eccezione vuol essere buono e giusto, non vuole affatto semplicemente stare bene come un giovane animale. L’amore è la [420] componente fondamentale dell’uomo; esso esiste appena esiste l’uomo, in modo intero e completo, e non gli si può aggiungere niente; poiché esso giace al di fuori del fenomeno sempre crescente della vita sensibile, ed è indipendente da essa. Solo la conoscenza è ciò a cui questa vita sensibile si collega, e che sorge e continua a crescere con questa. Essa si sviluppa solo lentamente e gradualmente nel corso del tempo. Ora, come potrebbe quell’amore innato venir fuori, svilupparsi ed esercitarsi oltre i tempi dell’ignoranza, finché non sorga un intero ordinato di concetti del buono e del giusto, al quale il trainante compiacimento possa collegarsi? La natura razionale ha risolto la difficoltà senza il nostro intervento. La coscienza che al bambino manca nella sua interiorità gli si rappresenta e incorpora all’esterno nel mondo degli adulti. Finché in lui stesso non si sviluppa un giudice intelligente, egli viene rinviato a questo da un impulso naturale, e così gli viene data una coscienza al di fuori di lui, fino a che non se ne produca una in lui stesso. Questa verità finora poco nota deve essere riconosciuta dalla nuova educazione, ed essa deve guidare verso il giusto l’amore che è presente senza il suo interven148

to. Finora questa ingenuità e infantile credulità dei minori nella superiore perfezione degli adulti è stata impiegata di regola per la loro rovina; proprio la loro innocenza e la loro fede naturale in noi ci hanno reso possibile trapiantare in essi, ancor prima che potessero distinguere il bene e il male, invece del bene che interiormente volevano, la nostra corruzione, che se avessero potuto conoscere avrebbero respinto. Questa è la colpa più grande che grava sul nostro tempo; e così si spiega anche il fenomeno che si presenta ogni giorno, per cui di regola l’uomo diventa tanto più cattivo, egoista, morto a ogni buona sollecitazione, e inadatto a ogni opera buona, quanti più anni conta, e perciò quanto più si è allontanato dai primi giorni della sua innocenza, che in un primo momento continuano pur sempre a risuonare sommessamente in alcune premonizioni del bene; [421] inoltre, così si dimostra che la presente generazione, se non opera una cesura assolutamente lacerante nel suo sopravvivere, lascerà necessariamente dietro di sé una posterità ancora più corrotta, e questa così a sua volta. Di tali uomini, un maestro del genere umano degno di venerazione dice, con verità che coglie nel segno, che per loro sarebbe meglio se per tempo venisse loro appeso al collo un masso, ed essi venissero annegati nel mare, nel punto dov’è più profondo1. È una calunnia ripugnante della natura umana dire che l’uomo è nato peccatore; se fosse vero, come potrebbe mai giungergli anche soltanto un concetto di peccato, che certo è possibile soltanto per opposizione a ciò che peccato non è? Egli si fa peccatore vivendo; e la vita umana fino a oggi, di regola, era uno sviluppo della peccaminosità colto in crescente progresso. Ciò che abbiamo detto mostra in una nuova luce la necessità di fare posto senza indugio a un’effettiva educazione. Se la gioventù in crescita potesse soltanto crescere senza alcun contatto con gli adulti e del tutto senza educazione, allora si potrebbe pur sempre fare il tentativo di vedere che cosa ne verrebbe fuori. Ma anche se noi la lasciamo solo in nostra compagnia, la sua educazione si fa da sola senza alcun nostro desiderio o volontà; essi stessi si educano su di noi: il nostro modo di essere si imprime su di loro come loro modello, ci imitano anche senza che noi lo vogliamo, e non desidera1

Vangelo secondo Matteo, 18, 6.

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no altro che diventare come siamo noi. Ora però noi siamo, di regola e in gran maggioranza, assolutamente viziosi, in parte senza saperlo, e in quanto noi stessi, altrettanto ingenui dei nostri figli, prendiamo per giusta la nostra viziosità; oppure, se anche lo sapessimo, come potremmo noi, in compagnia dei nostri figli, deporre immediatamente ciò che una lunga vita ha trasformato in una seconda natura, e scambiare tutto il nostro vecchio senso e spirito con uno nuovo? Essi devono corrompersi al nostro contatto, questo è inevitabile; se abbiamo una scintilla d’amore per loro, allora dobbiamo [422] allontanarli dal cerchio della nostra influenza appestante, ed edificare per loro un soggiorno più puro. Noi dobbiamo portarli nella società di uomini che, comunque stiano le cose con loro per il resto, attraverso esercizio e abitudine costanti abbiano almeno acquisito la capacità di capire che i bambini li osservano, e la facoltà di controllarsi almeno per quel periodo, e la cognizione di come si debba apparire ai bambini; noi non dobbiamo più riammetterli da questa società alla nostra, prima che abbiano imparato a respingere opportunamente tutta la nostra corruzione, e siano completamente protetti da ogni infezione. Tanto abbiamo ritenuto necessario presentare qui sull’educazione all’eticità in generale. È stato più volte ricordato che i bambini dovrebbero vivere assieme soltanto ai loro insegnanti e custodi, in totale separazione dagli adulti. È ovvio senza bisogno di sottolinearlo che questa educazione deve essere impartita a entrambi i sessi nello stesso modo. Una separazione di questi in istituzioni particolari per ragazzi e ragazze sarebbe controproducente, e annullerebbe molte parti importanti dell’educazione per diventare un essere umano completo. Gli oggetti dell’istruzione sono eguali per entrambi i sessi; la differenza che ha luogo nei lavori potrebbe essere osservata facilmente anche nella comunanza della restante educazione. La società minore in cui essi vengono formati a esseri umani deve consistere nell’unificazione di entrambi i sessi, come la società maggiore in cui un domani entreranno come esseri umani completi; entrambi devono prima reciprocamente riconoscere l’uno nell’altro la comune umanità, e imparare ad amarla, e avere amici e amiche prima che la loro attenzione si appunti sulla differenza sessuale, ed essi diventino sposi e spose. Inoltre, il rapporto reciproco tra i due sessi deve essere rappresentato nell’istituzione 150

educativa e venire formato negli allievi, in completa, salda protezione da un lato, in amorosa prossimità dall’altro. [423] Se si dovesse arrivare all’attuazione della nostra proposta, il primo compito sarebbe quello di progettare una legge per la costituzione interna di queste istituzioni educative. Se si è capito bene il concetto fondamentale da noi stabilito, questo è un lavoro facilissimo, e noi non ci vogliamo fermare proprio qui. Una delle principali esigenze di questa nuova educazione nazionale è che in essa imparare e lavorare siano unificati, che l’istituzione almeno agli allievi sembri mantenersi mediante se stessa, e che ciascuno venga mantenuto nella coscienza di contribuire a questo scopo con tutte le sue forze. Questo è richiesto immediatamente già dal compito dell’educazione stessa, assolutamente ancora senza alcun riferimento allo scopo della sua attuabilità esterna e della sua economicità, che senza dubbio si richiederà alla nostra proposta. In parte, perché tutti quelli che passano semplicemente attraverso l’educazione nazionale universale sono destinati ai ceti lavorativi, e della loro educazione fa parte senz’altro la formazione ad abili lavoratori; ma in modo particolare, perché la fondata fiducia di potersela cavare nel mondo grazie alle proprie forze, e di non avere bisogno per il proprio sostentamento di alcuna benevolenza estranea, fa parte dell’indipendenza personale dell’uomo, e condiziona l’indipendenza etica molto più di quanto si sia creduto finora. Questa formazione fornirebbe un’altra parte dell’educazione, che finora di regola è stata anch’essa lasciata in preda al cieco caso, che si potrebbe chiamare l’educazione economica, e che non deve essere in nessun modo considerata dal misero e limitato punto di vista di cui alcuni si prendono gioco chiamandolo economia, bensì dalla posizione etica superiore. Il nostro tempo stabilisce spesso come un principio superiore a ogni obiezione che, se si vuole vivere, si deve adulare, strisciare, farsi utilizzare per qualsiasi cosa, e che non può andare altrimenti. Esso non si accorge che, se anche gli si volesse risparmiare l’eroico, ma assolutamente vero, detto contrario, che se è così, esso [424] dovrebbe non vivere, ma morire, rimane ancora l’osservazione, che esso avrebbe dovuto imparare a vivere con onore. Proviamo a informarci più da vicino sulle persone che si contraddistinguono per una condotta disonorevole; si troverà sempre che non hanno imparato a lavorare, o che disprezzano il lavoro, e che per giunta sono anche cattivi economi. Perciò l’al151

lievo della nostra educazione deve essere abituato alla laboriosità, affinché sia immune dalla tentazione della disonestà mediante la cura per il nutrimento, e come primissimo principio dell’onore deve essergli impresso nell’animo il fatto che è vergognoso voler essere debitore del proprio sostentamento ad altro che non sia il proprio lavoro. Pestalozzi vuole accompagnare all’apprendimento l’esercizio di un lavoro manuale di ogni tipo. Mentre non vogliamo negare la possibilità di questa unificazione alla condizione da lui stabilita che il bambino possa svolgere già perfettamente il lavoro manuale, pure questa proposta ci sembra derivare dalla povertà del primo scopo. A mio parere, l’istruzione dovrebbe essere presentata in modo così sacro e degno di onore, che essa avrebbe bisogno di tutta l’attenzione e la concentrazione, e non potrebbe essere ricevuta vicino a un’altra attività. Se nelle stagioni in cui l’allievo è comunque chiuso nella sua stanza si dovessero esercitare, nelle ore di lavoro, lavori come fare a maglia, tessere e simili, allora affinché lo spirito resti in attività sarà assai opportuno collegare a essi esercitazioni spirituali in comune sotto sorveglianza; tuttavia adesso la cosa principale è il lavoro, e queste esercitazioni non devono essere considerate come istruzione, ma solo come un gioco rasserenante. Tutti questi lavori di tipo inferiore devono essere rappresentati in generale solo come cosa accessoria, assolutamente non come il lavoro principale. Questo lavoro principale è l’esercizio dell’agricoltura e del giardinaggio, dell’allevamento, e di quelle attività artigianali di cui hanno bisogno nel loro piccolo Stato. Si capisce che la partecipazione richiesta a ciascuno dovrà essere proporzionata alla forza corporea della sua età, e [425] la forza mancante dovrà essere sostituita da macchine e strumenti da inventare. Il punto di vista principale in proposito è che essi, per quanto possibile, devono capire nei suoi fondamenti ciò che fanno, che essi abbiano già ottenuto le cognizioni, necessarie alle loro attività, sulla generazione delle piante, sulle proprietà e i bisogni del corpo animale, sulle leggi della meccanica. In questo modo, in parte la loro educazione diventa già un’istruzione conseguente sulle attività che essi dovranno intraprendere in seguito, e l’agricoltore pensante e intelligente viene formato nell’intuizione immediata; in parte, il loro lavoro meccanico viene già ora nobilitato e spiri152

tualizzato, esso è prova nella libera intuizione di ciò che essi hanno compreso proprio nella misura in cui esso è lavoro per il sostentamento, e anche in compagnia con l’animale e la zolla di terra essi restano nell’ambito del mondo spirituale, e non si abbassano a questi ultimi. La legge fondamentale di questo piccolo Stato economico è che in esso non può essere usato nessun articolo di cibo, vestiario, eccetera né, nella misura del possibile, nessuno strumento che non sia stato prodotto e perfezionato al suo stesso interno. Se questa amministrazione domestica ha bisogno di un sostegno dall’esterno, allora i prodotti le verranno offerti in natura, ma non di specie diversa da quelli che ha anch’essa, e certo senza che gli allievi sappiano che la loro riserva è stata accresciuta, o qualora ciò sia opportuno, che essi la ricevono solo in prestito, e dovranno restituirla a tempo debito. Ciascuno ora lavori con tutte le sue forze per questa indipendenza e autosufficienza dell’intero, senza però fare calcoli con esso o pretendere per sé una qualche proprietà. Ciascuno sappia di essere interamente debitore dell’intero, e goda solo o, se è necessario, soffra con l’intero. In questo modo, l’indipendenza onorevole dello Stato e della famiglia in cui dovrà entrare un domani, e il rapporto con essi dei loro singoli membri, [426] viene presentato all’intuizione vivente e prende radice in modo indelebile nel suo animo. Qui, in questa guida al lavoro meccanico, è il punto in cui si separa l’educazione dei dotti che fa parte dell’educazione nazionale universale e che si basa su di essa, e qui dobbiamo parlarne. Ho detto: l’educazione dei dotti che fa parte dell’educazione nazionale universale. Se poi venga anche permesso, a chiunque creda di avere abbastanza patrimonio per studiare, o per qualunque motivo si annoveri tra gli attuali ceti superiori, di seguire il cammino finora consueto dell’educazione dei dotti, lo lascio in sospeso: se mai si dovesse arrivare all’educazione nazionale, l’esperienza insegnerà come la maggioranza di questi dotti, con l’erudizione che si sono comprati, potrà reggere il confronto non voglio dire col dotto formato nella nuova scuola, ma addirittura con l’uomo comune uscito da essa. Ma ora non voglio parlare di questo, ma dell’educazione dei dotti nel nuovo modo. Per quanto riguarda i princìpi di essa, anche il dotto futuro deve essere passato attraverso l’educazione nazionale universale, e 153

deve avere ottenuto in modo chiaro e completo la prima parte di essa, lo sviluppo della conoscenza nella sensazione, nell’intuizione e in ciò che si collega a esse. Solo al fanciullo che mostri un’eminente predisposizione per l’apprendere, e una spiccata inclinazione per il mondo dei concetti, la nuova educazione nazionale può permettere di raggiungere questo ceto; ma essa dovrà permetterlo a chiunque mostri queste qualità, senza eccezione e senza riguardo per una presunta differenza di nascita; poiché il dotto non è affatto a sua propria disposizione, e ogni talento a tal fine è una preziosa proprietà della nazione, che non può esserle sottratta. Il non dotto è destinato a conservare il genere umano nella posizione culturale raggiunta, il dotto a farlo andare avanti secondo un concetto chiaro e con arte consapevole. [427] Quest’ultimo col suo concetto deve essere sempre in anticipo sul presente, cogliere il futuro, ed essere in grado di trapiantarlo nel presente per lo sviluppo futuro. Per fare questo, c’è bisogno di un chiaro sguardo d’insieme sullo stato del mondo finora vigente, di una libera abilità nel pensiero puro e libero dal fenomeno e, per potersi comunicare, del possesso del linguaggio fin nella sua radice vivente e creativa. Tutto questo richiede spontaneità spirituale senza direzione estranea, e meditazione solitaria, in cui perciò il dotto futuro deve essere esercitato fin dall’ora in cui è decisa la sua professione; non semplicemente, come per il non dotto, un pensiero sotto l’occhio dell’insegnante sempre presente. È richiesta una quantità di nozioni ausiliarie che al non dotto risultano assolutamente inutili per la sua destinazione. Il lavoro del dotto, e l’opera quotidiana della sua vita, sarà proprio quella riflessione solitaria; a questo lavoro egli deve essere condotto subito, mentre deve essere lasciato libero dall’altro lavoro meccanico. Mentre così l’educazione del dotto futuro a uomo in generale procederebbe fin qui di pari passo con l’educazione nazionale universale, ed egli assisterebbe con tutti gli altri all’istruzione relativa, solo quelle ore che per gli altri sono ore di lavoro dovrebbero essere trasformate egualmente per lui in ore di istruzione in ciò che è specificamente richiesto dalla sua professione futura; e questa sarebbe tutta la differenza. Le nozioni generali dell’agricoltura, di altre arti meccaniche, e delle abilità manuali in proposito, che sono richieste già al semplice uomo, le avrà già imparate senza dubbio frequentan154

do la prima classe o, se questo non dovesse essere il caso, queste nozioni dovrebbero essere riprese. È ovvio che egli molto meno di qualsiasi altro potrebbe essere assolto dagli esercizi fisici in programma. Ma fornire i particolari argomenti di insegnamento che ricadrebbero nell’istruzione dotta, così come lo sviluppo dell’insegnamento da osservare in essa, si trova al di fuori del piano di questi discorsi.

Undicesimo discorso

A chi spetterà l’attuazione di questo programma educativo?

[428] Il programma della nuova educazione nazionale tedesca è stato esposto a sufficienza per il nostro scopo. La prossima domanda che si presenta è: “Chi deve porsi al vertice dell’attuazione di questo programma? Su chi dobbiamo contare, e su chi abbiamo contato?” Noi abbiamo stabilito questa educazione come il supremo e per il momento unico affare dell’amor di patria tedesco, e con questo legame vogliamo introdurre nel mondo per la prima volta il miglioramento e la trasformazione dell’intero genere umano. Ma quell’amor di patria deve entusiasmare anzitutto lo Stato tedesco, ovunque siano governati dei tedeschi, e avere la preminenza ed essere la forza trainante in tutte le sue decisioni. Lo Stato sarebbe dunque ciò al quale il nostro trepido sguardo dovrebbe rivolgersi per primo. Esaudirà esso le nostre speranze? Quali sono le aspettative che possiamo avere nei suoi confronti secondo quanto abbiamo detto finora, sempre guardando, si capisce, non a uno Stato particolare, ma all’intera Germania? Nell’Europa moderna l’educazione non è partita propriamente dallo Stato, ma da quel potere da cui gli Stati perlopiù hanno ricevuto anche il loro, dal regno spirituale-celeste della Chiesa. Questa non si considerava tanto una componente del corpo comune terreno, quanto piuttosto come una colonia del cielo totalmente estranea, che sarebbe stata inviata per procurare cittadini 156

a questo Stato estero in ogni luogo in cui essa avesse potuto mettere radice. La sua educazione era preoccupata soltanto del fatto che gli uomini [429] non fossero dannati, bensì beati nell’altro mondo. Con la Riforma, questo potere ecclesiastico, che per il resto manteneva l’aspetto di prima, venne semplicemente unificato col potere mondano, con cui in precedenza era entrato spesso in conflitto; questa fu tutta la differenza che a questo riguardo scaturì da quell’avvenimento. Perciò rimase anche la vecchia concezione dell’educazione. Anche in tempi recenti, e fino a oggi, la formazione dei ceti possidenti è stata considerata una faccenda privata dei genitori, che potevano orientarsi a loro piacimento, e i loro figli di regola venivano preparati soltanto a essere utili a se stessi in futuro; l’unica educazione pubblica invece, quella del popolo, era soltanto un’educazione finalizzata alla beatitudine celeste; la cosa principale era un po’ di cristianesimo, di saper leggere e, nel caso in cui si potesse ottenere, scrivere, il tutto per amore del cristianesimo. Ogni altro sviluppo degli uomini veniva lasciato all’influsso cieco e casuale della società in cui crescevano e alla vita reale. Perfino le istituzioni per l’educazione dotta erano soprattutto dirette alla formazione di ecclesiastici; questa era la facoltà principale, di cui le altre costituivano solo l’appendice, e anche, il più delle volte, ricevevano soltanto chi si era ritirato da quella. Finché quelli che erano al vertice del governo restavano all’oscuro del suo scopo autentico, e anche per la loro persona erano presi da quella coscienziosa preoccupazione per la beatitudine loro e di altri, si poteva contare sul loro zelo per questa specie di educazione pubblica, e sulle loro serie preoccupazioni per essa. Ma non appena vennero in chiaro su quello scopo, e compresero che la sfera d’azione dello Stato risiede all’interno del mondo visibile, allora dovette apparire loro evidente che quella cura per la beatitudine eterna dei loro sudditi non poteva gravare su di loro, e che chiunque voleva essere beato doveva cavarsela da solo. D’ora in poi, essi credettero di fare abbastanza [430] lasciando ancora alla loro prima destinazione le fondazioni e le istituzioni risalenti a tempi più devoti. Per quanto poco adeguate e sufficienti esse potessero essere in rapporto ai tempi del tutto cambiati, essi non si ritennero obbligati a sostenerle economizzando su scopi di altro tipo; non si ritennero autorizzati a intervenire attivamente, e a sostituire ciò che era diventato vecchio e inutilizzabile col nuo157

vo adatto allo scopo; e a ogni proposta di questo tipo, era sempre pronta la risposta: “Lo Stato non ha i soldi per questo”. Se mai fu fatta un’eccezione a questa regola, ciò accadde a vantaggio delle istituzioni culturali superiori, che irraggiano splendore all’intorno e promettono gloria ai loro sostenitori; invece, la formazione di quella classe che è il terreno vero e proprio del genere umano, da cui continua a compiersi la formazione superiore, e su cui quest’ultima deve costantemente retroagire, la formazione del popolo, restò trascurata, e dalla Riforma sino ai nostri giorni si trova in uno stato di decadenza crescente. Per poter sperare in qualcosa di meglio da parte dello Stato in rapporto alla nostra faccenda sarebbe necessario, per il futuro e da questo momento, che esso cambiasse il concetto fondamentale dello scopo dell’educazione apparentemente avuto finora con un concetto completamente diverso. Lo Stato dovrebbe capire di avere completamente ragione nel respingere, come ha fatto finora, la cura per l’eterna beatitudine dei suoi concittadini, poiché per questa beatitudine non c’è affatto bisogno di una formazione particolare, e un vivaio per il cielo come la Chiesa, il cui potere alla fine gli è stato trasferito, non c’entra affatto, è solo un ostacolo per ogni valida formazione, e dovrebbe essere esonerata da questo servizio; mentre al contrario c’è molto bisogno di formazione per la vita sulla terra e, da una solida educazione per quest’ultima, quella per il cielo viene fuori da sé come un semplice accessorio. Sembra che finora lo Stato, quanto più illuminato pensava di essere, tanto più fermamente abbia creduto di poter raggiungere il suo scopo vero e proprio anche senza la religione e l’eticità dei suoi cittadini, mediante il semplice istituto della coazione e che, rispetto alle prime, questi potessero fare come potevano. Speriamo che dalle esperienze recenti [431] abbia almeno imparato che non può riuscirci, e che proprio la mancanza di religione e di eticità lo ha portato al punto in cui si trova adesso. Riguardo al suo dubbio, se esso abbia le risorse per sostenere i costi di una educazione nazionale, speriamo di convincerlo del fatto che con questa unica spesa provvederà alla maggior parte delle spese restanti nel modo più economico possibile, e purché se la assuma, esso avrà in breve tempo solo quest’unica spesa principale. Fino a oggi, la maggior parte delle entrate dello Stato è stata impiegata per il mantenimento di eserciti permanenti. Il suc158

cesso di questo investimento lo abbiamo visto; basti questo, poiché indagare più profondamente le ragioni particolari di questo risultato esula dal nostro programma. Al contrario, lo Stato che introducesse in modo universale l’educazione nazionale da noi proposta, dall’istante in cui una generazione di giovani fosse giunta a maturità passando attraverso di essa, non avrebbe più bisogno di un esercito permanente, bensì in loro avrebbe un esercito come non è stato mai visto. Ogni singolo è perfettamente esercitato a ogni possibile uso della sua forza fisica, e la comprende immediatamente, abituato a sopportare ogni fatica e sforzo; il suo spirito cresciuto nell’intuizione immediata è sempre presente e presso se stesso, nel suo animo vive l’amore per l’intero di cui egli è membro, dello Stato e della patria, e distrugge ogni altro stimolo egoistico. Lo Stato li può chiamare e mettere sotto le armi appena vuole, e può essere certo che nessun nemico li abbatterà. Un’altra parte della cura e delle uscite negli Stati saggiamente governati era diretta sinora al miglioramento dell’economia statale nel senso più esteso e in tutti i suoi rami, e per l’ignoranza e incapacità dei ceti inferiori molte misure e molte spese sono state realizzate invano, e la cosa è progredita dappertutto assai poco. Mediante la nostra educazione, lo Stato ottiene ceti lavorativi [432] abituati fin dalla giovinezza a riflettere sui loro compiti, e che hanno già capacità e inclinazione per provvedere a se stessi da soli; se ora anche lo Stato sarà in grado di prenderli sotto braccio in modo adeguato, essi lo capiranno con mezza parola, e accetteranno il suo insegnamento con molta riconoscenza. Tutti i rami dell’amministrazione domestica otterranno in breve tempo, senza molta fatica, una floridezza tale da non essere ancora mai stata vista, e allo Stato, se esso si farà i conti e nel frattempo apprenderà il vero valore fondamentale delle cose, la sua spesa iniziale porterà migliaia di interessi. Finora lo Stato ha dovuto fare molto per istituzioni di giustizia e polizia, eppure non ha mai potuto fare abbastanza; case di detenzione e di correzione hanno comportato spese, le istituzioni per i poveri infine hanno richiesto una spesa tanto maggiore quanto più si spendeva per esse e, nell’insieme della situazione attuale, appaiono come vere e proprie istituzioni per produrre poveri. In uno Stato che ha reso universale la nuova educazione, le prime saranno assai limitate, le ultime verranno del tutto eliminate. Una precoce disciplina assicura dalla detenzione e 159

dalla correzione successive e assai incresciose; poveri, invece, tra un popolo così educato non ce ne sono affatto. Possano lo Stato e tutti coloro che lo consigliano avere il coraggio di guardare veramente in faccia la sua situazione attuale, e di confessarla a se stessi; possa lo Stato capire vivamente che non gli è rimasta nessun’altra sfera d’azione in cui possa muoversi e decidere qualcosa in modo originale e indipendente come uno Stato effettivo, tranne l’educazione delle generazioni a venire; possa capire che, se non vuole limitarsi a non far niente, può fare ancora soltanto questo; ma che questo merito gli verrà lasciato senza riserve e senza invidie. Che noi non siamo più in grado di opporre una resistenza attiva, è stato già presupposto da noi come qualcosa che balza agli occhi ed è ammesso da tutti. Come possiamo ora giustificare il perdurare della nostra esistenza, che abbiamo perduto in questo modo, nei confronti di quanti ci accusano di viltà e di un indegno amore per la vita? [433] In nessun altro modo, se non decidendoci a vivere non per noi stessi e mostrando questo coi fatti; facendo di noi il seme di una posterità più degna, e volendoci conservare solo per amore di essa quel tanto che basta per impiantarla. Senza più gusto per quel primo scopo della vita, che altro potremmo fare? Le nostre costituzioni ci verranno fatte, ci verranno prescritte le nostre alleanze e l’impiego delle nostre forze militari, ci verrà fornita una legislazione, e talvolta ci verranno tolti perfino i tribunali, le sentenze e la loro esecuzione. Per il prossimo futuro, saremo sollevati da queste preoccupazioni. Solo all’educazione non si è pensato; se cerchiamo un’occupazione, allora scegliamo questa! C’è da aspettarsi che in questa verremo lasciati tranquilli. Io spero – forse in questo m’inganno, ma poiché riesco a vivere solo in virtù di questa speranza, non posso fare a meno di sperare – io spero di convincere alcuni tedeschi e di far loro capire che solo l’educazione ci può salvare da tutti i mali che ci opprimono. Io conto sul fatto che la necessità ci abbia resi più inclini a fare attenzione e a meditare seriamente. L’estero ha altre consolazioni e altri mezzi; non c’è da aspettarsi che esso presti una qualche attenzione a questo pensiero, o che gli dia un qualche credito, nel caso in cui dovesse imbattersi in esso; io spero, invece, che per i lettori dei loro giornali diventi una ricca fonte di divertimento venire a sapere che qualcuno si aspetta cose così grandi dall’educazione. 160

Possano lo Stato e coloro che lo consigliano non essere scoraggiati, nell’assumersi questo compito, dall’osservazione che il successo sperato sta in lontananza. Se tra i molteplici e assai complicati motivi che hanno avuto come conseguenza il nostro attuale destino si volesse distinguere quello che pesa soltanto ed esclusivamente sui governi, si scoprirebbe che questi, che più di chiunque altro sarebbero tenuti [434] a guardare in faccia e a dominare il futuro, nell’affrontare i grandi avvenimenti dell’epoca hanno sempre cercato, per quanto potevano, di togliersi dall’imbarazzo immediatamente presente mentre, rispetto al futuro, hanno contato non sul loro presente, ma su un qualunque colpo di fortuna che avrebbe dovuto recidere il filo continuo delle cause e degli effetti. Ma speranze del genere sono ingannevoli. Una forza trainante, una volta che la si sia lasciata operare nel tempo, continua a spingere e compie il proprio cammino, e dopo che è stata commessa la prima sbadataggine, non può più essere trattenuta da una consapevolezza giunta troppo tardi. Il nostro destino ci ha sollevati per il prossimo futuro dal primo caso, quello di pensare solo al presente; il presente non è più nostro. Del secondo caso, quello di avere un futuro migliore da qualcun altro che da noi stessi, ne faremmo volentieri a meno. È vero che chiunque tra noi abbia bisogno, per vivere, di qualcosa di più del nutrimento, non può trovare nel presente alcuna consolazione al dovere di vivere; solo la speranza in un futuro migliore è l’elemento in cui possiamo ancora respirare. Ma solo chi sogna può riporre questa speranza su qualcosa di diverso da ciò che egli stesso può porre nel presente in vista di uno sviluppo futuro. Perdonino, coloro che ci governano, se noi pensiamo anche di loro le stesse cose che pensiamo tra di noi l’uno dell’altro, e che vengono sentite dai migliori; si pongano al vertice dell’opera che anche a noi è del tutto chiara, affinché possiamo ancora vedere sorgere, davanti ai nostri occhi, ciò che un giorno cancellerà dalla nostra memoria la vergogna che accompagna, davanti ai nostri occhi, il nome tedesco! Se lo Stato si assumerà il compito che gli è richiesto, esso renderà universale questa educazione su tutto il suo territorio, per ciascuno dei suoi cittadini futuri, senza alcuna eccezione; inoltre, è solo per questa universalità che noi abbiamo bisogno dello Stato poiché, per singole iniziative e tentativi fatti qua e là, basterebbe senz’altro il patrimonio di persone private bene intenzionate. 161

Ora, non c’è sicuramente da aspettarsi che i genitori siano generalmente ben disposti [435] a separarsi dai loro bambini per affidarli a questa nuova educazione, di cui sarà difficile comunicare loro un’idea; bensì, in base all’esperienza passata, bisognerà aspettarsi che chiunque creda ancora di avere un patrimonio per nutrire i suoi bambini a casa si opporrà all’educazione pubblica, e in particolare a un’educazione pubblica che separa in modo così netto, e dura così a lungo. Finora, in casi del genere, quando c’era da aspettarsi ostilità, siamo stati abituati a sentire gli uomini di Stato respingere la proposta con la risposta: “Lo Stato non ha il diritto di esercitare coazione a questo scopo”. Poiché essi vogliono aspettare finché gli uomini in generale avranno buona volontà, ma senza educazione non si potrà mai giungere a una buona volontà in generale, essi sono protetti da ogni miglioramento, e possono sperare che le cose restino come sono fino alla fine dei giorni. Nella misura in cui la pensano così quelli che, in generale, ritengono l’educazione un lusso di cui si può fare a meno, e rispetto al quale bisogna comportarsi nel modo più parsimonioso possibile, oppure quelli che nella nostra proposta scorgono soltanto un nuovo azzardato esperimento con l’umanità, che può riuscire o anche no, la loro coscienziosità va lodata. Da coloro che ammirano lo stato attuale della formazione pubblica, e sono entusiasti della perfezione cui essa sarebbe giunta sotto la loro direzione, non possiamo assolutamente pretendere che intervengano su qualcosa che ignorano completamente. Con tutti costoro non c’è nulla da fare per il nostro scopo, e sarebbe deplorevole se la decisione su questa faccenda dovesse spettare a loro. Ma se si potessero trovare e chiamare a consulto uomini di Stato che, prima di tutto, abbiano dato un’educazione a se stessi mediante un profondo e solido studio della filosofia e delle scienze in generale, che facciano veramente sul serio col loro compito, che possiedano un saldo concetto dell’uomo e della sua destinazione, che siano capaci di capire il presente e di comprendere che cosa [436] manchi davvero, improrogabilmente, all’umanità attuale; se avessero inteso da soli, mediante quei concetti preliminari, che soltanto l’educazione ci può salvare dalla barbarie e dall’inselvatichimento, altrimenti irrompenti su di noi in maniera inarrestabile, se balenasse loro l’immagine del nuovo genere umano che sorgerebbe mediante questa educazione, se essi stessi fossero intimamente 162

convinti dell’infallibilità e affidabilità dei mezzi proposti; allora, da uomini simili potremmo aspettarci anche che essi comprendano come lo Stato, in quanto supremo amministratore delle faccende umane, e in quanto tutore dei minori, responsabile solo di fronte a Dio e alla sua coscienza, abbia anche il pieno diritto di costringere questi ultimi a salvarsi. Dove esiste attualmente uno Stato che dubiti del suo diritto di costringere i suoi sudditi al servizio di guerra, e di togliere a tal fine i figli ai genitori, sia che uno dei due o entrambi lo vogliano oppure no? E tuttavia, questa coazione è molto più discutibile, e di solito ha le peggiori conseguenze per lo stato etico e la salute e la vita di chi vi è costretto; mentre al contrario la coazione di cui stiamo parlando, una volta completata l’educazione, restituisce tutta intera la libertà personale, e può avere solo le più vantaggiose conseguenze. Certo, in un primo tempo si era lasciata alla libera volontà anche l’assunzione del servizio di guerra; ma dopo aver visto che ciò non era sufficiente per lo scopo prefisso, non si è avuto alcuno scrupolo a promuoverlo mediante coazione, perché la questione per noi era abbastanza importante, e la necessità imponeva la coazione. Quella scrupolosità verrebbe meno da sola, se i nostri occhi potessero aprirsi sulle nostre necessità anche da questo punto di vista, e l’oggetto diventasse per noi della stessa importanza; tanto più che ci sarebbe bisogno della coazione solo nella prima generazione, e nella successiva, passata essa stessa attraverso questa educazione, sparirebbe. Anche quella prima coazione per il servizio di guerra, in questo modo, verrebbe eliminata, poiché quelli che sono stati così educati sono tutti egualmente pronti [437] a prendere le armi per la patria. Se per ridurre il clamore, all’inizio, si volesse limitare questa coazione all’educazione nazionale pubblica nello stesso modo in cui essa è stata limitata per il servizio di guerra, ed escludere da essa i ceti liberati da quest’ultima, ciò non avrebbe conseguenze particolarmente negative. I genitori intelligenti tra gli esclusi affideranno volontariamente i loro bambini a questa educazione; il numero dei bambini, insignificante rispetto all’intero, di genitori poco intelligenti appartenenti a questi ceti, cresca pure nel modo finora consueto, ed entri nell’epoca migliore che si tratta di produrre. Esso servirà solo come strano ricordo del tempo antico, e per infiammare il nuovo alla viva consapevolezza della sua superiore fortuna. 163

Se ora questa educazione deve essere educazione nazionale dei tedeschi semplicemente, e se la grande maggioranza di tutti coloro che parlano la lingua tedesca, e non invece soltanto la cittadinanza di questo o quel particolare Stato tedesco, deve esistere come un nuovo genere umano, allora tutti gli Stati tedeschi, ciascuno per sé e indipendentemente da tutti gli altri, devono assumere questo compito. La lingua in cui questa faccenda è stata per la prima volta messa sul tappeto, in cui sono redatti e verranno ancora redatti i sussidi, in cui avviene il tirocinio degli insegnanti, il cammino della simbolizzazione che procede in modo unitario attraverso tutto questo, è comune a tutti i tedeschi. Stento a immaginare come, e con quali trasformazioni, questi mezzi di formazione potrebbero essere trasferiti nel loro insieme, particolarmente in quella estensione che noi abbiamo dato al nostro programma, in una lingua qualunque dell’estero, in modo da apparire non come un che di estraneo e di tradotto, ma come un che di intimo e di risultante dalla vita propria della loro lingua. Questa difficoltà è superata nello stesso modo per tutti i tedeschi; per loro, la cosa è fatta e basta che l’afferrino. Buon per noi, in questo caso, che ci siano ancora diversi Stati tedeschi separati l’uno dall’altro! In questo importante [438] affare nazionale, ciò che così spesso ci ha danneggiato forse potrebbe andare a nostro vantaggio. Forse l’emulazione dei più, e il desiderio di primeggiare sugli altri, potrà fare ciò che il tranquillo appagamento del singolo non avrebbe potuto compiere; poiché è chiaro che quello tra gli Stati tedeschi che inizierà per primo in questa faccenda conquisterà il primato quanto a rispetto, amore, gratitudine dell’intero nei suoi confronti; egli si ergerà come il supremo benefattore e l’autentico fondatore della nazione. Egli darà coraggio agli altri, fornirà loro un esempio istruttivo, e diventerà il loro modello; metterà da parte le riserve in cui restavano impigliati gli altri; i manuali e i primi insegnanti saranno provenienti dal suo seno, e verranno forniti agli altri; e chi arriverà secondo dopo di lui, sarà secondo anche nella gloria. A confortante testimonianza che tra i tedeschi un senso per ciò che è superiore non è ancora del tutto estinto, finora diversi popoli e Stati tedeschi hanno lottato tra di loro per la gloria di una maggiore cultura; alcuni hanno una più ampia libertà di stampa, una maggiore distanza dalle opinioni tramandate, altri hanno gloria e meriti di an164

tica data, altri hanno addotto a loro favore qualcos’altro, e il conflitto non ha potuto essere deciso. Lo sarà alla presente occasione. Solo quella cultura che aspira e osa rendersi universale, e afferrare tutti gli uomini senza distinzione, è un’effettiva componente della vita, ed è sicura di se stessa. Ogni altra è un’aggiunta estranea, di cui si fa sfoggio e che non si può possedere neppure in buona coscienza. In questa occasione si scoprirà se la cultura di cui ci si vanta è presente solo in alcune persone del ceto medio che la presentano nei loro scritti, uomini quali ce ne possono mostrare tutti gli Stati tedeschi; o se invece essa è salita fino ai ceti superiori che consigliano lo Stato. Allora si mostrerà anche come bisogna giudicare lo zelo qua e là dimostrato per la fondazione e lo sviluppo [439] di istituzioni di cultura superiore, e se a suo fondamento ci sia stato un puro amore per la formazione umana, che coinvolgerebbe senz’altro con eguale zelo ogni ramo di essa e in particolare la sua primissima base, o il semplice desiderio di mettersi in mostra, e forse misere speculazioni finanziarie. Ho detto che lo Stato tedesco che realizzerà per primo questa proposta ne avrà la gloria più grande. Ma inoltre, questo Stato tedesco non resterà a lungo da solo, bensì indubbiamente troverà presto seguaci e imitatori. La cosa principale è che si cominci. Anche se fosse solo questo, sentimento dell’onore, invidia, il desiderio di avere anche noi ciò che ha un altro, e se possibile ancora meglio, spingeranno uno dopo l’altro a seguire l’esempio. Anche le nostre precedenti considerazioni sul vantaggio del singolo Stato, che adesso potranno far dubitare qualcuno, diventeranno allora più evidenti, poiché confermate nell’intuizione vivente. Se potessimo aspettarci che subito e all’istante tutti gli Stati tedeschi prendessero serie misure per realizzare quel programma, allora già tra venticinque anni potrebbe esistere la migliore generazione di cui abbiamo bisogno, e chi potesse sperare di vivere così a lungo, potrebbe sperare di vederla con i propri occhi. Ma noi dobbiamo considerare anche il caso che, tra tutti gli Stati tedeschi attuali, non ce ne sia uno ad avere tra i suoi supremi consiglieri un uomo in grado d’intendere tutto ciò che abbiamo premesso e di farsene coinvolgere, e in cui la maggioranza dei 165

consiglieri almeno non gli si opponga. Allora, questa faccenda spetterebbe senz’altro a persone private ben disposte, e bisognerebbe auspicare che fossero queste a dare inizio alla nuova educazione proposta. Abbiamo in mente anzitutto i grandi proprietari terrieri, che sui loro possedimenti potrebbero erigere simili istituzioni educative per i figli dei loro [440] sottoposti. Va a gloria della Germania, e della preminenza che le fa onore sulle altre nazioni dell’Europa moderna, il fatto che nel ceto suddetto ci sia sempre stato qualcuno, qua e là, che si è impegnato seriamente per l’istruzione e la formazione dei bambini sui suoi possedimenti, e che ha voluto fare il meglio che poteva a questo scopo. C’è da sperare che costoro siano tuttora disposti a farsi illuminare su ciò che di perfetto viene loro offerto, e vogliano fare in grande e compiutamente ciò che finora hanno fatto in piccolo e parzialmente. Certo, qua e là potrebbe avere contribuito l’idea che per loro sarebbe stato più vantaggioso avere sudditi istruiti invece che ignoranti. Là dove lo Stato, avendo annullato il rapporto di sudditanza, ha eliminato quest’ultimo stimolo, esso dovrebbe meditare tanto più seriamente sul suo imprescindibile dovere di non annullare anche l’unica cosa buona che nei bene intenzionati era collegata a questo rapporto, e in questo caso non dovrebbe indugiare a fare ciò che comunque gli spetta, dopo aver sollevato coloro che lo facevano volontariamente al posto suo. Riguardo ai ceti, inoltre, abbiamo in mente le associazioni volontarie di cittadini ben disposti a questo scopo. L’inclinazione a fare il bene, per quanto ho potuto vedere, non si è ancora estinta negli animi tedeschi sotto la pressione della necessità. Tuttavia, a causa di una serie di difetti nelle nostre istituzioni, i quali nell’insieme si potrebbero ricondurre alla trascuratezza dell’educazione, questa operosità raramente rimedia alla necessità, ma spesso sembra ancora aumentarla. Speriamo che quell’eccellente inclinazione possa infine dirigersi a quell’azione benefica che pone fine a ogni necessità e a ogni ulteriore benevolenza, cioè all’azione benefica dell’educazione. Ma noi abbiamo ancora bisogno e facciamo affidamento su un’azione benefica e su un sacrificio di altro tipo, che non consiste in un dare, bensì in un fare e operare. Possano i dotti esordienti, ai quali la loro situazione lo permette, [441] dedicare il tempo restante tra l’università e l’impiego in un pubblico ufficio a istruirsi sul modo di insegnare in queste istituzioni, e a in166

segnarvi essi stessi! A parte che in questo modo acquisterebbero enormi meriti per l’intero, possono star certi anche del fatto che a trarne il guadagno più grande sarebbero essi stessi. Tutte le loro nozioni, che essi spesso si tirano dietro così smorte dalla comune istruzione universitaria, riceveranno chiarezza e vitalità nell’elemento dell’intuizione universale in cui qui vengono immerse. Essi impareranno a riprodurle e a impiegarle con abilità; acquisteranno un tesoro di vera cognizione umana, l’unica che meriti questo nome, poiché nel bambino l’intera pienezza dell’umanità è presente in modo aperto e innocente; verranno condotti alla grande arte del vivere e dell’agire, per cui di regola la scuola superiore non dà alcuna guida. Se lo Stato rifiuta il compito che gli è assegnato, allora è una gloria tanto maggiore per le persone private che lo accettano. Lungi da noi anticipare il futuro con supposizioni, o assumere il tono del dubbio e della sfiducia. Noi abbiamo detto con chiarezza a chi si rivolgono innanzitutto i nostri auspici. Ci sia consentito osservare solo questo, che, se davvero si dovesse arrivare al punto che lo Stato e i principi abbandonino la questione a persone private, ciò sarebbe conforme, come abbiamo già osservato e dimostrato con esempi, all’andamento dello sviluppo e della cultura tedeschi, e questo resterebbe fino in fondo eguale a se stesso. Anche in questo caso, lo Stato seguirebbe a suo tempo, dapprima come un singolo che vuol fare la parte che gli spetta, fino ad accorgersi più tardi di non essere una parte, ma l’intero, e di avere tanto il dovere quanto il diritto di occuparsi dell’intero. Da questo momento, tutte le preoccupazioni indipendenti delle persone private spariscono, e si sottomettono al programma universale dello Stato. [442] Se la faccenda dovesse prendere questa strada, allora certo col prefisso miglioramento della nostra specie si procederà solo lentamente, senza una certa e salda visione d’insieme, e senza una possibile valutazione dell’intero. Ma non facciamoci trattenere per questo dal cominciare! È nella natura della cosa stessa che essa non possa mai tramontare, ma che una volta messa in opera, continui a vivere mediante se stessa, e si espanda sempre di più. Chiunque sarà passato per questa formazione, sarà un testimone a suo favore, e un suo devoto divulgatore; ciascuno sarà ricompensato per la dottrina acquisita diventando a sua volta insegnan167

te, e formando quanti più allievi possibile, che un giorno diventeranno a loro volta insegnanti; e questo continua necessariamente finché il tutto non sia conquistato senza eccezione. Nel caso in cui lo Stato non si occupi della cosa, allora le iniziative private dovranno temere che tutti i genitori dotati di un qualche patrimonio non affidino i loro figli a questa educazione. Ci si rivolga allora, nel nome di Dio e con piena fiducia, ai poveri bambini abbandonati, a tutti coloro che l’umanità adulta ha respinto e gettato via! Così come finora, particolarmente in quegli Stati tedeschi in cui la pietà degli avi aveva molto accresciuto e riccamente dotato le pubbliche istituzioni educative, molti genitori hanno permesso che l’istruzione arrivasse ai loro figli, poiché qui essi trovavano il sostentamento che non avrebbero trovato in nessun’altra attività, allo stesso modo, spinti dalla necessità, lasciate che ci voltiamo e che diamo il pane a coloro cui nessun altro ne dà, affinché essi col pane ricevano anche la formazione dello spirito. Non dobbiamo temere che la povertà e l’inselvatichimento del loro stato precedente siano di ostacolo al nostro intento! Purché li strappiamo improvvisamente e completamente da esso, e li portiamo in un mondo assolutamente nuovo; se in loro non lasceremo niente che possa riportarli al passato, essi si dimenticheranno di se stessi, e staranno lì come esseri nuovi appena creati. [443] La nostra istruzione e il nostro ordinamento domestico dovranno garantire che in questa tavoletta fresca e pulita venga inciso soltanto il bene. Per tutta la posterità, sarà un ammonimento sulla nostra epoca il fatto che proprio coloro che essa ha respinto abbiano ricevuto, solo mediante questa esclusione, il privilegio di dare inizio a una specie migliore: quando costoro porteranno la cultura che rende beati ai figli di chi preferì non stare insieme a loro, ed essi diventeranno i capostipiti dei nostri futuri eroi, saggi, legislatori e salvatori dell’umanità. Per la fondazione iniziale c’è bisogno anzitutto di insegnanti ed educatori capaci. Di questi, la scuola pestalozziana ne ha formati ed è sempre pronta a formarne altri. Una delle caratteristiche principali, all’inizio, sarà che ogni istituzione di questo tipo si consideri al tempo stesso come un vivaio di insegnanti, e che intorno a essa, oltre agli insegnanti già pronti, si riunisca una moltitudine di giovani che imparino a insegnare, e al tempo stesso insegnino, e nell’esercizio imparino a farlo sempre meglio. Ciò ren168

derà molto più facile anche il mantenimento degli insegnanti, qualora all’inizio questi istituti dovessero lottare con una penuria di mezzi. La maggior parte, però, è presente solo per imparare. Per questo, per un certo periodo, essi potrebbero applicare ciò che hanno imparato a vantaggio dell’istituto in cui lo hanno imparato, anche senza un compenso di altro tipo. Inoltre, un simile istituto ha bisogno di un tetto e di una superficie, di una prima dotazione, e di un pezzo di terra sufficiente. Appare evidente che, nell’ulteriore sviluppo di queste istituzioni, quando in questi istituti si troverà una relativa moltitudine di giovani già maturi, negli anni in cui questi, secondo l’istituzione vigente, guadagneranno come servitori non soltanto il loro sostentamento, ma anche un salario annuale, essi potranno provvedere per i più deboli e, con la laboriosità e la saggia economia comunque necessarie, questi istituti per la massima parte potranno mantenersi da soli. In un primo tempo, finché il tipo di allievi prima menzionato non è ancora presente, tali istituti potrebbero avere bisogno di maggiori sovvenzioni. È sperabile che si sia più disponibili a fornire contributi di cui si scorge il termine. [444] Resti lungi da noi una parsimonia dannosa allo scopo; è molto meglio non fare niente, che permettersi qualcosa di simile. E così, purché ci sia la buona volontà, io ritengo che, nell’attuazione di questo programma, non vi sia alcuna difficoltà che non possa venire facilmente superata mediante l’unione di molti, e la direzione di tutte le loro forze verso quest’unico scopo.

Dodicesimo discorso

Sui mezzi per conservare noi stessi fino al raggiungimento del nostro scopo principale

L’educazione che noi proponiamo ai tedeschi per la loro futura educazione nazionale è ora descritta a sufficienza. Se mai esisterà la generazione formata da essa, una generazione mossa soltanto dal suo gusto per ciò che è buono e giusto; dotata di un’intelligenza che, nell’essere adeguata alla posizione in cui si trova, riconosca sempre con certezza ciò che è giusto; e fornita della forza fisica e spirituale per attuare sempre ciò che vuole; allora, tutto ciò cui possiamo aspirare coi nostri più audaci desideri scaturirà spontaneamente dalla sua esistenza, e si svilupperà da essa in modo naturale. Quest’epoca avrebbe così poco bisogno dei nostri consigli, che piuttosto dovremmo noi imparare da essa. Ma poiché intanto quella generazione non è ancora presente, ma deve essere prima educata e, prima di arrivare a quel momento, anche se tutto andasse oltre le nostre attese, ci sarebbe bisogno di un intervallo di tempo piuttosto lungo, sorge immediatamente la domanda: “Come potremo [445] passare questo intervallo? Come potremo conservarci, visto che non possiamo far niente di meglio, almeno in quanto terreno su cui potrà procedere il miglioramento, e in quanto punto di partenza a cui esso potrà collegarsi? Come possiamo impedire che, se un giorno quella generazione così formata venisse tra noi uscendo dal suo isolamento, non trovi in noi una realtà effettiva che non ha la minima affinità con l’ordine di cose che essa ha compreso essere giusto, e in cui nessuno la capirebbe, o proverebbe il minimo desiderio e bisogno di 170

un siffatto ordine di cose, bensì considerasse quello presente come del tutto naturale e come l’unico possibile? Non si perderebbero ben presto costoro, che nel loro petto portano un altro mondo, e così non svanirebbe la nuova cultura in modo altrettanto inutile per il miglioramento della vita effettiva della cultura finora vigente?” Se la maggioranza va avanti nella sua consueta sconsideratezza, superficialità e distrazione, allora dobbiamo aspettarci che accada necessariamente proprio questo. Chi si lascia andare senza fare attenzione a se stesso, e si fa plasmare dalle circostanze a loro discrezione, costui si adatta in fretta a ogni possibile ordine di cose. Per quanto il suo occhio, all’inizio, possa essere stato danneggiato da qualcosa quando l’ha visto per la prima volta, è sufficiente farlo ritornare quotidianamente allo stesso modo perché vi si adatti, e in seguito trovi che è naturale, e che è esattamente così come deve essere. Alla fine, ne prova perfino piacere, e gli si farebbe un cattivo servizio se gli si procurasse la situazione migliore che aveva prima, perché questa lo strapperebbe dal modo al quale ormai si è abituato. In questo modo ci si abitua perfino alla schiavitù, purché resti intatta la nostra sopravvivenza sensibile, e col tempo ce ne affezioniamo; e proprio questo è il massimo pericolo nell’assoggettamento, cioè che esso ottunde il senso dell’onore, e per l’inetto ha anche il lato assai confortante di sollevarlo da molte preoccupazioni e dal pensare autonomamente. [446] Non facciamoci sorprendere dalla dolcezza della servitù, poiché essa deruba della speranza in una liberazione futura anche la nostra posterità. Se il nostro agire all’esterno è gettato in catene, fateci almeno sollevare tanto più audacemente il nostro spirito al pensiero della libertà, alla vita in questo pensiero, a desiderare e ad aspirare solo a quest’ultimo. Lasciate pure che la libertà scompaia, per qualche tempo, dal mondo visibile; ma diamole un rifugio nel più intimo dei nostri pensieri, finché intorno a noi non si sviluppi il mondo nuovo, che abbia la forza di presentare questi pensieri anche all’esterno. Col nostro animo, che senza dubbio dovrà restare libero a nostra discrezione, trasformiamo noi stessi in prefigurazione, profezia, garanzia di ciò che la realtà effettiva diventerà dopo di noi. Non lasciamo che, assieme al nostro corpo, venga piegato e soggiogato, e trascinato nella prigionia anche il nostro spirito! 171

Se mi si chiede come potremo raggiungere tutto ciò, l’unica possibile risposta, che riassume tutto, è questa: noi dobbiamo diventare, all’istante, ciò che dovremmo già essere, tedeschi. Noi non dobbiamo sottomettere il nostro spirito: quindi dobbiamo per prima cosa procurarci uno spirito, e uno spirito saldo e certo; dobbiamo diventare seri in ogni cosa, e non tirare avanti con leggerezza, ed esistere solo per scherzo; dobbiamo formarci princìpi sostenibili e incrollabili, che fungano da solido criterio per tutto il resto del nostro pensare e agire; vivere e pensare devono essere, per noi, una cosa sola, e formare un tutto che si compenetra compatto; in entrambi dobbiamo conformarci alla natura e alla verità, e rigettare da noi gli artifici estranei. Per dirlo in una parola, noi dobbiamo procurarci un carattere, poiché avere carattere ed essere tedeschi significa indubbiamente la stessa cosa, e questa cosa nella nostra lingua non ha un nome particolare, perché deve scaturire immediatamente dal nostro essere, senza il nostro sapere e la nostra riflessione1. [447] Prima di tutto, dobbiamo meditare sui grandi eventi dei nostri giorni, sul loro rapporto con noi, e su ciò che dobbiamo aspettarci da essi, mettendo in moto autonomamente i nostri pensieri; dobbiamo farci un’idea chiara e precisa su tutti questi argomenti, arrivando, sulle questioni che li riguardano, a un deciso e immutabile sì oppure no. Chiunque abbia la minima pretesa di cultura deve farlo. La vita animale dell’uomo scorre in tutte le epoche secondo le stesse leggi, e in ciò ogni tempo è uguale a se stesso. Tempi diversi esistono solo per l’intelletto, e solo colui che li comprende nel concetto vive con essi, ed esiste in questo suo tempo; una vita diversa è soltanto una vita da bestia o da pianta. Lasciar passare su di sé tutto ciò che accade, ignorandolo; addirittura tapparsi diligentemente occhi e orecchi di fronte al suo assalto; vantarsi di questa assenza di pensiero come di una grande saggezza, può andar bene per una roccia su cui le onde del mare si infrangono sen1 Secondo E. Fuchs, si tratterebbe qui della risposta fichtiana al brano seguente, che concludeva la Drammaturgia amburghese (1768) di Lessing: “Oh, l’idea generosa di creare per i tedeschi un teatro nazionale, quando noi tedeschi non siamo ancora una nazione! E non parlo nemmeno di costituzione politica, ma semplicemente di carattere morale, il quale, vien quasi da concludere, parrebbe consistere appunto nel non volerne avere affatto” (citato in N. Merker, L’illuminismo in Germania. L’età di Lessing, Roma 1989, p. 60).

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za che essa lo senta, o per un tronco d’albero, che le tempeste scuotono di qua e di là senza che esso se ne accorga, ma non è degno di un essere pensante. Perfino il librarsi nei superiori circoli del pensiero non assolve dall’obbligo universale di capire il proprio tempo. Tutto ciò che è superiore deve voler intervenire, a suo modo, nell’immediato presente, e chi vive veramente in quello, vive al tempo stesso anche in quest’ultimo; se non vivesse anche in questo, allora ciò sarebbe la dimostrazione che non viveva neppure in quello, ma in esso sognava soltanto. Quella indifferenza per ciò che accade sotto i nostri occhi, e l’artificiosa deviazione dell’attenzione, sorta comunque, sarebbe quanto di più auspicabile potesse capitare a un nemico della nostra indipendenza. Se questi è certo che noi non pensiamo niente a proposito di nulla, allora con noi può fare tutto ciò che vuole, proprio come con degli strumenti inanimati. È proprio l’assenza di pensiero, infatti, che si abitua a tutto; là dove invece veglia costantemente il pensiero chiaro e comprensivo, e in questo l’immagine di ciò che dovrebbe essere, allora non ci si riesce ad abituare. [448] Questi discorsi si sono rivolti innanzitutto a voi, e si rivolgeranno all’intera nazione tedesca, nella misura in cui oggi la stampa rende possibile raccoglierla intorno a sé, con l’invito a prendere una salda e meditata decisione, e a diventare intimamente concorde con se stessa sulle questioni seguenti: 1) se è vero o non è vero che c’è una nazione tedesca, e che la sua sopravvivenza nella sua essenza specifica e indipendente è attualmente in pericolo; 2) se vale la pena conservarla, o no; 3) se per questa conservazione c’è un mezzo sicuro e completo, e quale. In precedenza, tra noi era costume consolidato che la chiacchiera quotidiana si impadronisse di qualunque parola detta con serietà, oralmente o a stampa, e la trasformasse in spassosa materia d’intrattenimento per la sua noia opprimente. Adesso, anzitutto intorno a me, non mi sono accorto, come altre volte in passato, che di queste mie conferenze si facesse lo stesso uso; ma non mi sono informato del tono attualmente in voga tra i circoli mondani in campo editoriale, intendo dire le riviste letterarie e altri prodotti giornalistici; e non so se da questo lato ci si debba aspettare scherzo o serietà. Qualunque cosa succeda, almeno la mia intenzione non è stata quella di scherzare, né di alimentare la ben nota spiritosaggine della nostra epoca. 173

Tra noi tedeschi, il costume di considerare tutto ciò che veniva portato all’attualità come un’esortazione a dire la propria, rivolta a chiunque avesse una bocca, purché lo facesse rapidamente e all’istante, e a informarci se anch’egli aveva la stessa opinione o no, si era radicato ancora più profondamente, ed era quasi diventato una seconda natura, mentre il contrario era pressoché inaudito. Questa votazione chiudeva la questione, e il dibattito pubblico doveva correre a un altro argomento. In questo modo, tutta la comunicazione letteraria tra i tedeschi si era [449] trasformata, come l’eco delle antiche fiabe, in un puro e semplice suono, senza corpo e senza sostanza. Come in tutte le cattive compagnie nelle frequentazioni personali, anche in questa l’unica cosa importante divenne far sentire forte la propria voce, perché ciascuno la riprendesse senza fermarsi e la rilanciasse al vicino, senza pensare minimamente a ciò che echeggiava in essa. Che cos’è questo, se non mancanza di carattere e di natura tedesca? Non ho inteso neppure rendere omaggio a questo costume e alimentare il pubblico dibattito. Già molto tempo fa, ho contribuito a sufficienza a questo pubblico intrattenimento, anche se miravo a qualcos’altro, e alla fine mi si potrebbe sciogliere da questo obbligo. Non voglio affatto sapere all’istante che cosa pensi, l’uno o l’altro, sulle questioni che ho sollevato, cioè che cosa ne ha pensato o non ne ha pensato finora. Egli dovrebbe riflettere e meditare per conto suo, finché non si sia formato un giudizio chiaro e completo, e dovrebbe prendersi tutto il tempo necessario. Se le nozioni preliminari e il grado di cultura richiesti per formulare un giudizio in questioni del genere dovessero ancora mancargli, allora deve darsi il tempo per acquisirli. Se ora, in questo modo, si è fatto il suo giudizio chiaro e completo, ciò non vuol dire che egli lo debba rendere pubblico. Se è d’accordo con ciò che abbiamo detto qui, allora è stato già detto, e non occorre dirlo due volte. È sollecitato a parlare solo chi può dire qualcos’altro e meglio. Invece, ciascuno lo deve vivere e agire effettivamente in ogni singolo caso, a modo suo e nella sua situazione. Meno che mai, infine, con questi discorsi è stata mia intenzione presentare un’esercitazione di scrittura ai nostri maestri tedeschi di dottrina e di stile, perché essi li correggano e io possa ve174

nire a sapere con l’occasione quali speranze possano essere riposte in me. Anche da questo punto di vista mi sono state somministrate dosi sufficienti di buoni consigli e di dottrina, e [450] ormai dovrebbe essere chiaro se ci si può aspettare o no qualche miglioramento. No, il mio intento è stato anzitutto quello di ricondurre il più alto numero possibile dei nostri uomini di cultura, dallo sciame di domande e ricerche, e dall’esercito di opinioni contraddittorie in cui sono stati sbattuti di qua e di là, a un punto in cui potessero assumere una posizione stabile, e precisamente al punto che ci riguarda più da vicino, quello delle nostre faccende comuni. Il mio intento è stato di condurli, in quest’unico punto, a un’opinione salda da sostenere senza incertezze, e a una chiarezza in cui essi potessero effettivamente orientarsi. Per quante controversie li possano dividere su altri argomenti, ho inteso raccoglierli almeno su questo punto in una comune unità d’intenti. In questo modo, infine, ho inteso dare stabilità a un tratto fondamentale dell’uomo tedesco, quello per cui egli ha ritenuto che valesse la pena farsi un’opinione su ciò che concerne i tedeschi; mentre colui che su questo argomento preferirebbe non sentire e non pensare niente, d’ora in poi può essere considerato a buon diritto come qualcuno che non ci appartiene. La creazione di una simile saldezza di opinione, assieme all’unificazione e alla comprensione reciproca di diverse persone al riguardo, non soltanto è la salvezza immediata del nostro carattere da una dissoluzione indegna di noi, ma costituirà anche un mezzo potente per raggiungere il nostro scopo principale, l’introduzione della nuova educazione nazionale. Anche i nostri governi, che sono stati a sentirci più di quanto consigliasse la prudenza, si sono fatti sviare e hanno ondeggiato di qua e di là come la nostra opinione; in particolare per il fatto che non eravamo mai d’accordo né ciascuno con se stesso né gli uni con gli altri, oggi volevamo questo e domani qualcos’altro, e ciascuno contribuiva a modo suo alle grida e alla confusione. Se negli affari comuni dovremo riuscire, un giorno, a perseguire un cammino stabile e certo, che cosa impedisce di cominciare innanzitutto da noi stessi, [451] dando esempio di risolutezza e di fermezza? Facciamo sentire un’opinione stabile e concorde; faccia175

mo percepire in modo deciso e universalmente condiviso il bisogno dell’educazione nazionale, come abbiamo premesso; io credo che i nostri governi ci aiuteranno e ci ascolteranno, se noi ci mostriamo pronti ad aiutare noi stessi. Se non altro, nel caso opposto, avremo per la prima volta il diritto di lamentarcene; ora il lamento mal ci si addice, visto che i governi sono più o meno come noi li vogliamo. La domanda più importante che ho sottoposto alla decisione della nazione tedesca è se esista un mezzo sicuro ed efficace per conservarla, e quale esso sia. Io ho risposto a questa domanda, e ho mostrato i motivi del mio modo di rispondervi, non per imporre il giudizio finale. Fare così non servirebbe a niente, poiché chiunque debba mettere mano a questa questione, deve essersi convinto interiormente da se stesso. Al contrario, l’ho fatto solo per stimolare una riflessione e un giudizio autonomi. D’ora in poi, devo lasciare ciascuno a se stesso. Posso solo esortarvi a non farvi ingannare da pensieri scialbi e superficiali, che circolano anche intorno a questo argomento; a non farvi distogliere da una meditazione più profonda; e a non accontentarvi di consolazioni che non valgono niente. Per esempio, già prima degli ultimi eventi noi abbiamo dovuto ascoltare fino alla sazietà, e da allora ci è stato ripetuto di frequente che, se anche la nostra indipendenza politica andasse perduta, noi manterremmo pur sempre la nostra lingua e la nostra letteratura, e in queste resteremmo ancora una nazione, e così potremmo facilmente consolarci di tutto il resto. Ma su che cosa si fonda la speranza che noi manterremo la nostra lingua anche senza indipendenza politica? Quelli che dicono così, non [452] ascrivono forse a questi loro appelli e ammonimenti una forza miracolosa, fino ai figli e ai nipoti e a tutti i secoli futuri? Gli adulti nostri contemporanei, che sono abituati a parlare, a scrivere e a leggere in tedesco, continueranno senz’altro a fare così; ma che cosa farà la prossima generazione, e quella successiva? Quale contrappeso pensiamo di dare a queste generazioni, per mettere le briglie al loro desiderio di compiacere a chi risplende di successo e distribuisce ogni favore anche con la lingua e la scrittura? Non abbiamo mai sentito dire di una lingua che essa è la prima al mondo, benché venga proclamato che in questa lingua le prime opere devono ancora essere 176

scritte?2 E non vediamo già ora, sotto i nostri occhi, che scritti dal contenuto compiacente vengono redatti in essa? Ci si appella all’esempio di due altre lingue, una del mondo antico, una del mondo moderno, che sono sopravvissute come lingue vive nonostante il tramonto politico dei popoli che le parlavano3. Non voglio neppure entrare nel modo in cui lo hanno fatto; però è chiaro a prima vista che tutt’e due avevano qualcosa che la nostra non ha, in virtù di cui hanno trovato grazia presso i vincitori, grazia che la nostra non potrà mai trovare. Se questi consolatori si fossero guardati un po’ meglio intorno, avrebbero trovato un altro esempio, che a nostro avviso fa al caso nostro, quello della lingua vendica. Anche questa sopravvive fin dai secoli lontani in cui il popolo che la parla ha perduto la sua libertà, e precisamente nelle povere capanne del servo della gleba legato alla terra, perché in essa possa lamentare il suo destino, non capito dai suoi oppressori4. Ma poniamo il caso che la nostra lingua resti viva anche come lingua di scrittori, e così conservi la sua letteratura: che letteratura può essere la letteratura di un popolo senza indipendenza politica? Che cosa vuole, che cosa può volere uno scrittore ragionevole? Nient’altro che intervenire nella universale [453] vita pubblica, formandola e trasformandola secondo la sua immagine; e se vuol fare qualcos’altro, allora tutto il suo parlare è vuoto suono, buono per solleticare orecchie oziose. Egli vuole pensare originariamente e alla radice della vita spirituale, per coloro che agiscono in modo altrettanto originario, cioè governano. Perciò, egli può scrivere soltanto in una lingua in cui pensano anche i governanti, in una lingua in cui si governa, nella lingua di un popolo che costituisce uno Stato indipendente. Che cosa vogliono, in ultima L’allusione, piuttosto ingiustificata, è al francese. Fichte potrebbe riferirsi al greco antico e all’italiano. 4 Cfr. Enciclopedia Europea, vol. X, s.v. “sorabi”: “sorabi o vendi, popolazione slava occidentale, più comunemente nota con il nome di ‘serbi di Lusazia’, dalla regione storica di stanziamento a partire dalla fine del sec.VI d.C. [...] I sorabi, pur nella loro tormentata storia, conservarono il senso della propria coscienza nazionale, che a partire dal sec. XIX si tradusse anche in una produzione letteraria nelle due varianti linguistiche”, ovvero l’alto e il basso sorabo. L’esempio scelto da Fichte non sembra dunque adatto a confermare la sua argomentazione. 2 3

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analisi, tutte le nostre occupazioni intorno alle scienze più astratte? Lasciate stare lo scopo più immediato, che sarebbe quello di trapiantare la scienza di generazione in generazione e di tenerla al mondo: perché mai dovrebbe essere tenuta al mondo? Evidentemente solo per configurare al momento giusto la vita universale e l’intero ordine delle cose umane. Questo è il suo scopo ultimo; mediatamente dunque, sia pure solo in un lontano futuro, ogni attività scientifica serve allo Stato. Se rinuncia a questo scopo, essa perde anche la sua dignità e la sua indipendenza. Ma chi ha questo scopo deve scrivere nella lingua del popolo dominante. Com’è vero, senza dubbio, che ovunque si incontri una lingua particolare è presente anche una nazione particolare, che ha diritto di curare i suoi interessi e di governare se stessa in modo indipendente; così, all’inverso, si può dire che quando un popolo ha smesso di governare se stesso ha anche l’obbligo di rinunciare alla sua lingua e di confluire coi suoi vincitori, perché possano sorgere unità, pace interna e la completa dimenticanza di rapporti che non ci sono più. Anche un condottiero poco intelligente dovrà spingere una mescolanza del genere in questa direzione, e possiamo stare certi che con noi succederà così. Finché questa fusione non viene raggiunta, ci saranno traduzioni dei manuali autorizzati nella lingua dei barbari, cioè di coloro che sono troppo poco dotati per imparare la lingua del popolo dominante, e che proprio per questo [454] si escludono da qualsiasi influenza sugli affari pubblici, e si condannano a essere sottomessi per tutta la vita. A costoro, che sulle vicende della realtà si sono condannati a un ottuso mutismo, verrà anche permesso di esercitare la loro eloquenza nell’invenzione di vicende immaginarie, o di servirsi per imitazione di antiche forme ormai invecchiate. I sostegni si possono cercare, per il primo caso nella lingua antica portata ad esempio, per il secondo in quella moderna. Forse, per qualche tempo ci piacerà tenere una letteratura simile, e chi non ha migliore consolazione, potrà consolarsi con questa. Ma ciò che vorrei impedire, se potessi, è che una simile consolazione da nulla, che servirebbe perfettamente a un nemico della nostra indipendenza, tenga nell’inerzia del sonno uomini che sarebbero capaci di guardare in faccia la verità, e di venire scossi alla sua vista fino al punto di decidere e di agire. Così, ci viene promessa la continuazione di una letteratura tedesca sino alle nuove generazioni. Per giudicare più da vicino le 178

speranze che possiamo nutrire su questo punto, sarebbe molto utile guardarsi intorno, anche solo per vedere se al momento noi abbiamo già una letteratura tedesca nel vero senso della parola. Il più nobile privilegio e l’ufficio più sacro dello scrittore è di riunire la sua nazione, e di deliberare con essa sulle questioni più importanti che la riguardano. Ma in modo del tutto particolare, questo è stato da sempre l’ufficio esclusivo dello scrittore in Germania, poiché essa era divisa in più Stati separati, e come un tutto comune era tenuta insieme quasi soltanto dallo strumento dello scrittore, la lingua e gli scritti. Questo diventa il suo ufficio in modo tanto più proprio e più urgente in tempi come questi, in cui è stato strappato anche l’ultimo vincolo esterno che univa i tedeschi, la costituzione dell’impero. Ora – non parliamo di qualcosa che sappiamo o temiamo, ma solo di una possibilità, che dobbiamo comunque prendere anticipatamente in considerazione – se dovesse [455] risultare che già adesso i ministri di particolari Stati sono catturati dall’ansia, dalla paura e dal terrore a tal punto, da impedire in un primo momento alle voci che presuppongono una nazione come ancora esistente, e a essa si rivolgono, di farsi sentire oppure, mediante divieti, di diffondersi, allora questa sarebbe una dimostrazione del fatto che già ora noi non abbiamo più un ceto di scrittori tedeschi, e sapremmo come siamo messi con le prospettive di una letteratura futura. Ma che cosa dovrebbero temere? Forse il fatto che qualcuno non sarebbe contento di udire quelle voci? Il minimo che si possa dire, è che per essere così teneramente premurosi hanno scelto il momento sbagliato. Se non possono impedire che ciò che appartiene alla patria subisca umiliazioni vergognose, e che allo straniero vengano rivolte adulazioni disgustose, almeno non siano così severi contro una parola animata dall’amor di patria! È senz’altro possibile che non tutti saranno egualmente contenti di sentire tutto; ma in questo momento non ce ne possiamo preoccupare. È la necessità che ci spinge, e noi appunto dobbiamo dire ciò che essa ci comanda di dire. Noi lottiamo per la vita: vogliono forse costoro che noi misuriamo i nostri passi, perché qualche uniforme statale non rischi di essere sporcata dalla polvere che si solleva? Noi sprofondiamo nei flutti: dovremmo forse rinunciare a chiamare aiuto, per non spaventare qualche nostro vicino debole di nervi? 179

Chi sono dunque coloro che potrebbero non essere contenti di ascoltare, e a quale condizione potrebbero non esserlo? È sempre solo l’oscurità e la tenebra che spaventa. Ogni spauracchio scompare se lo fissiamo negli occhi. Fateci comparire dinnanzi a questo spettro con la stessa audacia e spregiudicatezza con cui finora abbiamo analizzato ogni argomento in queste conferenze. O si assume che l’essere che attualmente ha in pugno la direzione di una gran parte degli affari mondiali sia un animo veramente grande5, o si assume il contrario; un terzo caso non è [456] possibile. Nel primo caso: in che cosa consiste ogni grandezza umana, se non nell’indipendenza e originarietà della persona, e nel fatto che essa non sia un artefatto della sua epoca, ma una creatura che si è sviluppata in tutto e per tutto dall’eterno e originario mondo degli spiriti? Nel fatto che per essa è sorta una concezione del mondo nuova e peculiare, e che essa ha ferma volontà e forza inflessibile per introdurre questa sua concezione nella realtà effettiva? Ma è assolutamente impossibile che un animo siffatto non onori anche fuori di sé, in popoli e individui, ciò che costituisce la sua personale grandezza nella sua interiorità: l’indipendenza, la fermezza, l’originalità del modo di essere. Quanto più certo e fidato è il sentimento della sua grandezza, tanto più egli disdegna dominare su anime servili, ed essere grande tra i nani; disprezza il pensiero che per comandare sugli uomini, bisogna prima umiliarli; è oppresso dalla vista della corruzione che lo circonda, lo addolora non poter rispettare gli uomini; ma tutto ciò che innalza, nobilita, pone in una luce più degna la specie che gli è sorella, fa bene al suo nobile spirito ed è il suo supremo godimento. Com’è possibile che un animo siffatto sia scontento di sentire che gli sconvolgimenti portati dall’epoca vengono utilizzati per scuotere dal suo sonno profondo un’antica e onorata nazione, che è all’origine della maggior parte dei popoli dell’Europa moderna, e li ha formati tutti? E per spingerla ad afferrare un sicuro mezzo di conservazione, che le consenta di sollevarsi dalla rovina, al tempo stesso preservandola da ogni ricaduta, e di sollevare insieme con sé tutti gli altri popoli? Qui non si incita a ribellioni che turbino 5

Il riferimento, tanto trasparente quanto sarcastico, è a Napoleone.

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la quiete pubblica; al contrario, si cerca di dissuadere da queste come sicure apportatrici di rovina, si fornisce una salda base immutabile su cui finalmente edificare, in un popolo del mondo, l’eticità più alta, più pura e mai ancora esistita tra gli uomini, in modo da assicurarla per tutti i tempi seguenti e diffonderla a partire da qui su tutti gli altri popoli; viene [457] indicata una trasformazione del genere umano, da creature terrene e sensibili in puri e nobili spiriti. Si crede forse che uno spirito puro, nobile e grande egli stesso, o chiunque si formi prendendolo a modello, possa venire offeso da una proposta del genere? Al contrario, che cosa dovrebbero ammettere e confessare pubblicamente, quelli che nutrissero questa paura, confermandola con le loro azioni? Dovrebbero confessare di credere che il principio da cui siamo dominati è sordido e meschino, nemico dell’umanità, turbato da ogni attività di forza indipendente, tale da non poter sentir parlare senza spaventarsi di eticità, religione, elevazione degli animi, mentre la sua salvezza e la sua speranza di conservarsi starebbero solo nell’umiliazione degli uomini, nella loro ottusità e nei loro vizi. Dovremmo forse essere d’accordo senz’altro, e senza la limpida dimostrazione precedente, con questa loro credenza, che a tutti gli altri nostri mali aggiungerebbe anche l’umiliazione di essere dominati da un principio del genere? Dovremmo agire conformemente a essa? Ma anche nel peggiore dei casi, posto che abbiano ragione loro e torto noi, che con la nostra azione abbiamo ammesso il primo caso: dovrebbe veramente il genere umano essere umiliato e abbassarsi al punto da compiacere a uno che vuol essere servito in questo modo, e a quelli che ne hanno avuto paura? E non dovrebbe essere permesso di avvertirli della loro caduta, a qualcuno cui lo comandi il suo cuore? Posto che essi non solo abbiano ragione, ma che ci si debba anche decidere a dar loro ragione di fronte ai contemporanei e ai posteri, pronunciando a voce alta il giudizio su se stessi appena emesso: quale sarebbe il peggio che potrebbe derivarne per l’ammonitore non gradito? Provino a immaginare qualcosa di superiore alla morte! Ma questa ci aspetta tutti comunque, e fin dal principio dell’umanità uomini magnanimi hanno [458] sfidato il rischio della morte anche per faccende di minor peso – perché dove mai ce n’è stata una più importante 181

di quella attuale? Chi ha il diritto di intromettersi in un’impresa che è cominciata con questo rischio? Se tra noi tedeschi dovessero esserci uomini del genere, cosa che non spero, allora essi offrirebbero il loro collo al giogo della servitù spirituale senza esserne richiesti, senza ottenerne riconoscenza e, come spero, venendo respinti. Adulando, crederebbero di comportarsi da politici prudenti poiché non conoscendo i pensieri della vera grandezza, li misurerebbero alla stregua della propria meschinità. Con smania carica di risentimento, userebbero la letteratura, di cui altrimenti non sanno che cosa fare, come capro espiatorio sul cui sacrificio costruire la loro corte. Noi invece, con l’atto della nostra fiducia e del nostro coraggio, lodiamo molto più di quanto potrebbero fare le parole la grandezza dell’animo presso cui si trova il potere. Ovunque la nostra voce risuoni liberamente, per tutta l’area di tutte le lingue tedesche, essa annuncia ai tedeschi con la sua semplice esistenza: “Nessuno vuole la vostra sottomissione, il vostro servilismo, la vostra oppressione da schiavi, bensì la vostra indipendenza, la vostra vera libertà, il vostro innalzamento e nobilitazione, questo è ciò che si vuole, poiché non ci viene impedito di consultarci pubblicamente con voi su tutto questo, e di mostrarvi il mezzo infallibile a questo scopo”. Se questa voce troverà l’ascolto e il successo auspicato, allora essa innalzerà nel corso dei secoli un monumento a questa grandezza e alla nostra fede in essa, che il tempo non potrà distruggere, ma che crescerà e si diffonderà sempre di più a ogni nuova generazione. Chi ha il diritto di opporsi al tentativo di erigere un monumento simile? Quindi, invece di consolarci della nostra perduta indipendenza con la fioritura della nostra letteratura futura, e di farci distogliere con questa consolazione dalla ricerca di un mezzo per ripristinarla, preferiremmo sapere se quei tedeschi, ai quali è toccata in sorte una specie di tutela sulla letteratura, permettano ancora, al resto dei tedeschi che scrivono o leggono, di avere una letteratura nel vero senso della parola, e se [459] ritengano che attualmente, in Germania, una simile letteratura sia consentita o meno; ma fra non molto si dovrà decidere come la pensano veramente6. 6

Qui Fichte allude alle autorità di censura.

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In conclusione, la prima cosa che dobbiamo fare, anche solo per poterci conservare fino al completo e profondo miglioramento del nostro popolo, è di procurarci un carattere, e di confermarlo anzitutto formandoci, mediante la riflessione personale, una salda opinione sulla nostra vera situazione e sul mezzo sicuro per migliorarla. Abbiamo mostrato la nullità della consolazione costituita dalla sopravvivenza della nostra lingua e letteratura. Ma ci sono anche altre finzioni, che in questi discorsi non abbiamo ancora affrontato, e che impediscono la formazione di una salda opinione simile. È opportuno prendere in considerazione anche queste. Ma è un compito che riserviamo all’ora successiva.

Sommario del tredicesimo discorso*

Continuazione delle considerazioni precedenti

Alla fine del nostro discorso precedente, abbiamo detto che sono ancora diverse le idee inconsistenti e le dottrine illusorie in circolazione tra noi circa le vicende dei popoli. Esse impediscono ai tedeschi di acquisire un punto di vista saldo e conforme alle loro caratteristiche sulla loro situazione presente. [460] Proprio perché ora questi sogni vengono diffusi con lo zelo più grande e imposti alla venerazione pubblica, sembra opportuno sottoporli a un esame più serio di quello che la loro importanza meriterebbe in altre circostanze, tanto più che l’incertezza generale fa sì che alcuni li utilizzino per riempire i posti rimasti vuoti. Anzitutto i confini primi, originari e veramente naturali degli Stati sono senza dubbio i loro confini interni. Quelli che parlano la stessa lingua sono collegati tra di loro da una molteplicità di legami invisibili mediante la semplice natura, ben prima che intervenga l’arte umana; sono capaci d’intendersi sempre più chiaramente, fanno parte di un tutto, e per natura sono Uno, e un unico inseparabile intero. Essi non possono accogliere in sé e mescolare con sé un popolo di altra lingua e provenienza, senza confondersi e disturbare violentemente il regolare procedere della loro formazione. La delimitazione esterna degli insediamenti risulta solo da questo limite interno, tracciato dalla natura spirituale del* Sul perché di questo discorso si fornisca solo il sommario, e non il discorso stesso, si veda la nota alla fine di questo sommario.

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l’uomo stesso come sua conseguenza e, nella considerazione naturale delle cose, gli uomini che vivono all’interno di determinati monti e fiumi non sono affatto un popolo per questo, bensì al contrario gli uomini vivono insieme e, se così ha deciso la loro fortuna, sono protetti da fiumi e monti, perché essi erano un popolo già da prima, mediante una legge di natura di gran lunga superiore. Così, la nazione tedesca si insediò al centro dell’Europa, sufficientemente unita in se stessa da una lingua e da un modo di pensare comuni, e separata abbastanza nettamente dagli altri popoli, come un muro divisorio tra stirpi non affini. Essa era coraggiosa abbastanza per proteggere i propri confini contro ogni attacco straniero, lasciata a se stessa, poco incline per tutto il suo modo di pensare a occuparsi delle popolazioni vicine, a mescolarsi nelle loro faccende, e a provocare con agitazioni la loro inimicizia. [461] Nel corso del tempo, la sua sorte favorevole la preservò dalla partecipazione immediata alla depredazione di altri mondi, cioè alla vicenda che ha condizionato più di ogni altra il tipo di sviluppo della moderna storia universale, i destini dei popoli e la massima parte dei loro concetti e opinioni1. È solo a partire da questa vicenda che l’Europa cristiana, che prima, anche senza averne una chiara coscienza, era stata una, e come tale si era mostrata in imprese comuni, si divise in diverse parti separate; solo a partire da quella vicenda fu individuata una preda comune, cui ciascuno aspirava allo stesso modo poiché tutti potevano utilizzarla allo stesso modo, e che ognuno scorgeva con invidia nelle mani dell’altro; soltanto ora fu presente un motivo di segreta inimicizia e voglia di guerra di tutti contro tutti. E fu anche soltanto ora che per i popoli divenne vantaggioso incorporare popoli anche di altre lingue e provenienza e appropriarsi delle loro forze, mediante la conquista oppure, se questa non era possibile, tramite alleanze. Un popolo rimasto fedele alla natura, se la sua sede d’insediamento è diventata per lui troppo stretta, può avere la volontà di 1 Il riferimento è alle conquiste coloniali e ai conflitti relativi, seguiti alla scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo. L’accentuazione fortemente critica di Fichte al riguardo non è certo nuova: cfr. per tutti Der geschloßne Handelsstaat, GA, I, 7, pp. 43-44 (lettera dedicatoria al ministro von Struensee; trad. it. Lo Stato secondo ragione o lo Stato commerciale chiuso, Milano 1909 [senza indicazione del curatore], pp. XII-XIII); e i capp. IV-VI del Libro secondo, ivi, pp. 99-112 (trad. it., cit., pp. 79-94).

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ampliarla mediante la conquista del territorio vicino, per conquistare più spazio, ed esso allora scaccerà i precedenti abitanti; può desiderare di cambiare una regione sterile e selvaggia con una più temperata e feconda; se degenera, può intraprendere semplici razzie, soltanto per impadronirsi di tutto ciò che è utilizzabile, senza desiderare il suolo o gli abitanti, e abbandonando nuovamente i territori saccheggiati; infine, può ripartire tra sé, in quanto cose egualmente utilizzabili, i precedenti abitanti del territorio conquistato, come schiavi di singoli individui: ma esso non ha il minimo vantaggio e non cadrà mai nella tentazione di annettersi la popolazione estranea, così come essa sussiste, in quanto parte costitutiva dello Stato. Ma se il caso è quello in cui [462] bisogna strappare a un contendente egualmente forte, o ancora più forte, una preda comune che attrae entrambi, il calcolo è diverso. Comunque il popolo sconfitto possa adattarsi a noi per il resto, almeno le sue energie possono essere impiegate per combattere l’avversario da depredare, e chiunque è per noi il benvenuto, in quanto accresce la pubblica forza armata. Se ora un uomo saggio, che desideri pace e tranquillità, aprisse gli occhi su questo stato di cose, da che cosa potrebbe attendersi la pace? Evidentemente non dalla limitazione naturale dell’avidità umana, per il fatto che il superfluo non serve a nessuno, poiché è presente una preda da cui tutti sono tentati; e altrettanto poco potrebbe aspettarsela da una volontà autolimitantesi, poiché tra uomini simili, in cui ciascuno prende per sé tutto ciò che può, colui che si limita deve necessariamente andare in rovina. Nessuno vuole dividere con l’altro ciò che adesso possiede; ciascuno vuole depredare l’altro del suo, per quanto può. Se uno è tranquillo, questo accade solo perché non si ritiene forte abbastanza per cominciare la lotta; la comincerà sicuramente, non appena sperimenterà di avere in sé la forza necessaria. Quindi, l’unico mezzo per ottenere la pace consiste nell’impedire che qualcuno raggiunga mai un potere tale da turbarla, e nel far sapere a chiunque che dall’altra parte c’è tanta forza di resistenza, quanto dalla sua c’è forza di attacco. Così deve sorgere un equilibrio e un riequilibrio del potere complessivo, mediante cui soltanto, dopo che sono spariti tutti gli altri mezzi, ciascuno venga tenuto nei suoi attuali possedimenti, e tutti siano tenuti tranquilli. Dunque quel noto sistema dell’equilibrio di potenza in Europa presuppone questi due elementi: un bottino al 186

quale nessuno ha diritto, ma verso cui tutti provano lo stesso desiderio, e quindi l’universale, effettivo desiderio di preda, che continua attivamente ad alimentarsi. Con queste premesse, questo equilibrio sarebbe certo l’unico mezzo per mantenere la pace, se solo si riuscisse a trovare il secondo mezzo per produrre quell’equilibrio, e trasformarlo da vuoto pensiero in cosa reale. [463] Ma quelle premesse, valevano davvero universalmente e senza eccezione? Al centro dell’Europa, la potentissima nazione tedesca non era rimasta intatta da quel bottino e dall’infezione del suo desiderio, e quasi senza la facoltà di rivendicarne il diritto? Se soltanto questa nazione fosse rimasta unita in un’unica volontà comune e in un’unica forza comune, anche se gli altri europei si fossero assassinati per tutti i mari e su tutte le isole e le coste: al centro dell’Europa, la salda muraglia dei tedeschi avrebbe impedito loro di scontrarsi gli uni con gli altri – qui sarebbe rimasta la pace, e i tedeschi si sarebbero conservati, insieme a una parte dei restanti popoli europei, in una condizione di tranquillità e benessere. Ma non era compatibile con gli interessi dell’estero, rivolti soltanto al momento immediatamente successivo, che le cose restassero così. Essi trovarono che il coraggio tedesco poteva essere utilizzato per condurre le loro guerre, e le loro braccia per strappare il bottino ai loro rivali; bisognava trovare un mezzo per raggiungere questo scopo, e la scaltrezza straniera la spuntò facilmente sull’ingenuità e la semplicità tedesche. È stato l’estero a sfruttare per primo la divisione degli animi, sorta nel corso dei conflitti di religione in Germania, per smembrare artificialmente anche questo esempio in miniatura di tutta l’Europa cristiana e trasformarlo, da un’unità intimamente intrecciata, in parti separate e per sé sussistenti, allo stesso modo in cui prima l’estero stesso si era naturalmente smembrato nel corso della comune razzia. L’estero ha saputo rappresentare questi Stati particolari, sorti in questo modo nel seno di un’unica nazione, che non aveva nemici se non nell’estero stesso, e non aveva affari tranne quello comune di contrapporsi unendo le forze alle tentazioni e ai secondi fini di quest’ultimo – li ha saputi rappresentare reciprocamente l’uno all’altro come nemici naturali, contro i quali ciascuno doveva continuamente stare in guardia, mentre ha saputo presentare se stesso come l’alleato naturale contro questo pericolo incombente da parte dei propri connazionali. I tedeschi sarebbero rimasti in pie187

di, o caduti, solamente con tali alleati, e [464] perciò dovevano appoggiarli nelle loro imprese con tutte le loro forze. Fu con questo vincolo artificiale che tutti i contrasti suscettibili di svilupparsi, qualunque fosse il loro oggetto, nel mondo antico o nel mondo moderno, divennero contrasti propri dei popoli tedeschi tra di loro. Ogni guerra, qualunque fosse il motivo per cui era sorta, doveva essere combattuta sul suolo tedesco e col sangue tedesco, ogni turbativa dell’equilibrio doveva essere appianata in quella nazione, alla quale l’origine prima di quei rapporti era del tutto estranea, e per essere qualcosa gli Stati tedeschi, la cui esistenza separata già cozzava contro ogni natura e ragione, dovettero ridursi a fare da aggiunte ai pesi principali nella bilancia dell’equilibrio europeo, di cui essi seguivano l’inclinazione ciecamente e senza volontà. Come in alcuni Stati esteri i cittadini si chiamano a seconda che siano di questo o di un altro partito straniero, e perché votarono per questa o quella alleanza con l’estero, mentre non si sa come chiamare chi è del partito della patria, così già da lungo tempo i tedeschi erano a favore soltanto di un partito straniero qualunque, e raramente ci si imbatteva in qualcuno che appoggiasse il partito dei tedeschi, e sostenesse che questo paese doveva allearsi con se stesso. Questa è dunque la vera origine e il significato, questo il risultato per la Germania e il mondo intero della dottrina, che abbiamo aspramente criticato, di un equilibrio del potere da mantenere artificialmente tra gli Stati europei. Se l’Europa cristiana fosse rimasta una come avrebbe dovuto, e come era in origine, non ci sarebbe mai stata occasione per generare un pensiero simile. Ciò che è uno poggia su se stesso, e sostiene se stesso, e non si divide in forze contrastanti, che dovrebbero essere condotte a un equilibrio reciproco. Quel pensiero ha ottenuto un significato provvisorio solo per un’Europa divisa e ormai ingiusta. Ma di questa Europa divisa e ingiusta, la Germania non faceva parte. Se almeno questa fosse rimasta una, allora avrebbe poggiato su se stessa al centro della terra civilizzata, come il sole al centro dell’universo; [465] si sarebbe mantenuta in pace, e con sé avrebbe mantenuto in pace i suoi più immediati vicini, e senza alcun procedimento artificiale, ma in virtù della sua semplice esistenza naturale, avrebbe dato equilibrio al tutto. Fu solo l’inganno dell’estero a invischiarla nella sua ingiustizia e nei suoi contrasti, e a fornirle in mo188

do interessato quel concetto come uno dei mezzi più efficaci per ingannarla sul suo vero vantaggio, e per mantenerla nell’inganno. Questo scopo ora è stato sufficientemente raggiunto, e il risultato che si voleva ottenere si trova compiuto sotto i nostri occhi. Ma anche se non possiamo annullarlo, perché non dovremmo cancellarne l’origine almeno nella nostra intelligenza, che è quasi l’unica cosa rimasta alla nostra giurisdizione? Perché dovremmo avere ancora davanti agli occhi il vecchio sogno, dopo che la sventura ci ha risvegliato dal sonno? Perché non dovremmo vedere la verità almeno adesso, e scorgere l’unico mezzo che avrebbe potuto salvarci – se mai i nostri discendenti vorranno fare ciò che noi ora capiamo, così come noi ora subiamo ciò che hanno sognato i nostri padri? Lasciateci comprendere che il pensiero di un equilibrio da conservare artificialmente poteva certo rappresentare per l’estero un sogno consolatorio, a fronte della colpa e del male che l’opprimevano; ma che però, come un prodotto assolutamente estero, non avrebbe mai dovuto radicarsi nell’animo di un tedesco, e i tedeschi non sarebbero mai dovuti arrivare a una situazione in cui esso avrebbe potuto radicarsi. Almeno ora, lasciatecelo penetrare nella sua nullità, in modo da dover capire che la salvezza generale non può essere trovata in quel pensiero, ma soltanto nella concordia dei tedeschi tra loro. Altrettanto estranea al tedesco è la libertà dei mari così spesso predicata ai giorni nostri, sia che ci si prefigga veramente questa libertà, oppure soltanto la facoltà di escludere da essa tutti gli altri. Per lunghi secoli, durante la competizione delle altre nazioni, il tedesco ha mostrato scarsa inclinazione a prendervi parte in misura estesa, e [466] non lo farà mai. Del resto, non ne ha nemmeno bisogno. Il suo territorio riccamente fornito e la sua laboriosità gli garantiscono tutto ciò di cui l’uomo civilizzato ha bisogno per vivere. Non gli manca nemmeno l’abilità tecnica per trasformarlo secondo i suoi scopi: e per quanto riguarda l’unico vero guadagno che il commercio mondiale porta con sé, l’ampliamento della cognizione scientifica della terra e dei suoi abitanti, il suo proprio spirito scientifico non gli farà mancare un mezzo di scambio. Magari la sorte favorevole avesse protetto il tedesco dalla partecipazione mediata al bottino degli altri mondi, allo stesso modo in cui essa lo aveva protetto dalla partecipazione immediata! La credulità e il desiderio di vivere in modo comodo e raffinato come gli 189

altri popoli non avrebbe trasformato in necessità le merci superflue prodotte in mondi estranei e, rispetto ai pochi prodotti meno superflui, sarebbe stato preferibile porre condizioni sopportabili al nostro libero concittadino, piuttosto che trarre guadagno dal sudore e dal sangue di un povero schiavo al di là dei mari. Almeno non avremmo fornito a noi stessi il pretesto per il nostro destino attuale, e non verremmo combattuti come compratori, e mandati in rovina come mercato2. Quasi un decennio fa, prima che chiunque potesse prevedere ciò che è accaduto in seguito, ai tedeschi fu consigliato di rendersi indipendenti dal commercio mondiale, e di chiudersi come Stato commerciale3. Questa proposta cozzava contro le nostre abitudini, ma in particolare contro la nostra adorazione idolatrica dei metalli preziosi, e fu veementemente contestata e messa da parte. Da allora abbiamo imparato, costretti da una violenza estranea e con disonore, a rinunciare a molto più di quello cui allora assicuravamo di non poter rinunciare con libertà e a nostro massimo onore. Possa almeno questa circostanza, in cui non ci pungola il godimento, spingerci a rettificare una volta per tutte le nostre idee! Speriamo di capire, alla fine, che tutti quei barcollanti edifici teorici sul commercio mondiale e sulla produzione per il mercato mondiale sono senz’altro adatti per lo straniero, e [467] fanno parte delle armi con cui egli ci ha sempre combattuto, ma non hanno applicazione presso i tedeschi, e che, accanto alla loro concordia reciproca, la loro interna autonomia e indipendenza commerciale è il secondo mezzo per la loro salvezza e, per suo tramite, per la salvezza dell’Europa. Si osi infine guardare in tutta la sua odiosità e irragionevolezza anche il sogno di una monarchia universale, che comincia a essere offerto alla venerazione pubblica al posto dell’equilibrio, divenuto da qualche tempo sempre meno credibile. La natura spirituale ha potuto rappresentare l’essenza dell’umanità solo per gradazioni massimamente molteplici, in singoli individui e nella singolarità in generale, cioè in popoli. Il fenomeno della divinità compare nel suo specchio vero e proprio solo quando ciascuno di questi si sviluppa e si configura lasciato a se stesso secondo la sua pe2 Trasparente allusione al blocco continentale imposto da Napoleone in funzione anti-inglese. 3 Lo Stato commerciale chiuso uscì alla fine del 1800.

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culiarità, e quando ciascun singolo fa lo stesso in ciascuno di loro, secondo la peculiarità comune al popolo e la sua personale. Solo chi mancasse di ogni presentimento per la legalità e l’ordine divino, o fosse un loro nemico incallito, potrebbe osare intervenire in questa legge suprema del mondo degli spiriti. Solo nelle particolari caratteristiche delle nazioni, invisibili e nascoste ai loro stessi occhi, si trova la garanzia della loro dignità, della loro virtù, del loro merito presenti e futuri. Mediante tali caratteristiche, infatti, le nazioni entrano in contatto con la fonte della vita originaria. Se tali caratteristiche vengono smussate per mescolanza e attrito, allora ne deriva la separazione dalla natura spirituale, da qui superficialità, da qui la fusione di tutte quelle caratteristiche in una corruzione uniforme e continua. Dovremmo credere agli scrittori, che ci consolano dei nostri mali con la prospettiva di diventare sudditi della nuova incipiente monarchia universale, secondo cui qualcuno avrebbe deciso di polverizzare tutti i germi dell’umano nell’umanità, per imprimere all’argilla che si scioglie una forma qualunque? Dovremmo credere possibile, nella nostra epoca, una così enorme rozzezza o inimicizia contro il genere umano? [468] Ma se anche volessimo decidere di credere, in un primo momento, all’assolutamente incredibile, con quale strumento si dovrebbe realizzare questo programma? Che tipo di popolo dovrebbe conquistare il mondo per un nuovo monarca universale, tenuto conto dell’attuale stato d’incivilimento dell’Europa? I popoli europei hanno già smesso da diversi secoli di essere selvaggi, e di gioire di un’attività distruttrice fine a se stessa. Tutti cercano dopo la guerra una pace definitiva; dopo lo sforzo la tranquillità, dopo la confusione l’ordine; e tutti vogliono vedere coronata la parabola della loro vita con la pace di una vita domestica e calma. Per un certo periodo, l’entusiasmo può spingerli alla guerra anche per un vantaggio nazionale solo immaginario; ma se l’esortazione ritorna sempre nello stesso modo, il sogno scompare insieme alla febbre che l’ha provocato; torna la nostalgia per un quieto ordine, e sorge la domanda: “A che scopo faccio e sopporto tutto questo?” Un conquistatore universale del nostro tempo dovrebbe per prima cosa cancellare tutti questi sentimenti, e formare con arte consapevole un popolo di selvaggi da inserire in quest’epoca, che per sua natura non ne fornisce. Ma ancora di più. Purché all’uomo si conceda solo un po’ di calma, l’occhio abituato fin dalla giovinez191

za a una civile coltivazione delle terre, a un certo ordine e benessere, gode della vista di condizioni simili ovunque esso le incontri, poiché gli presenta lo sfondo della sua personale nostalgia, che non può mai essere totalmente estirpata, e il fatto di doverle distruggere lo addolora. Anche per questa benevolenza profondamente impressa nell’uomo sociale, e per il dolore causato dal male che il soldato porta nelle terre conquistate, dev’essere trovato un contrappeso. Non c’è nient’altro che il desiderio di preda. Se la pulsione dominante del soldato diventa quella di farsi un bottino e, nella devastazione di terre fiorenti, viene abituato a pensare soltanto a ciò che può guadagnare per la sua persona nella miseria generale, allora c’è da aspettarsi che [469] i sentimenti della compassione e della pietà in lui ammutoliscano. Quindi, oltre a quella rozzezza barbarica, un conquistatore universale del nostro tempo dovrebbe anche formare i suoi a un desiderio di preda freddo e meditato. Egli non dovrebbe punire i saccheggi, ma piuttosto incoraggiarli. Inoltre, anche la vergogna insita naturalmente nella cosa dovrebbe venir meno, e il depredare dovrebbe valere come segno prestigioso di intelligenza raffinata, essere annoverato tra gli atti eroici, e aprire la via a tutti gli onori e a tutte le cariche. Dov’è nell’Europa moderna una nazione così ignobile da poter essere addestrata in questo modo? Ma poniamo che questa trasformazione le riesca: allora, il raggiungimento del suo scopo viene vanificato proprio dal mezzo utilizzato. D’ora in poi, in uomini, terre e manufatti conquistati, un popolo simile non vede altro che un mezzo per fare denaro nel più breve tempo possibile, andare avanti e fare ancora denaro; esso saccheggia velocemente, e abbandona ciò che ha sfruttato al suo destino, qualunque esso sia. Esso taglia l’albero di cui vuole conquistare i frutti. A chi agisce con strumenti del genere, tutte le arti della tentazione, della persuasione e dell’inganno diventeranno inutili. Esse possono ingannare solo da lontano. Appena le si guarda da vicino, la rozzezza animale e il desiderio di preda empio e spudorato balzeranno agli occhi anche dei più idioti, e tutto il genere umano esprimerà il suo orrore a voce alta. Con tali strumenti si potrà certo saccheggiare la terra e renderla un deserto, e polverizzarla in un cupo caos, ma non potrà mai più essere ordinata in una monarchia universale. I pensieri suddetti, e tutti i pensieri di questo tipo, sono prodotti di un pensare che gioca semplicemente con se stesso, e tal192

volta resta anche impigliato nei suoi fantasmi, indegno della profondità e della serietà tedesche. Al massimo, alcune di queste immagini, come per esempio quella di un equilibrio politico, sono utili linee ausiliarie per orientarsi e per ordinare un’ampia e confusa molteplicità di fenomeni; ma credere nell’esistenza naturale di queste cose, o [470] aspirare alla loro realizzazione, è come se qualcuno cercasse sull’effettivo globo terrestre l’espressione e l’indicazione dei poli, dell’equatore e dei tropici mediante i quali egli si orienta sulla terra. Quando nella nostra nazione diventerà costume pensare non soltanto per scherzo e per così dire stando a vedere che cosa verrà fuori, bensì come se ciò che pensiamo dovesse essere vero e valere effettivamente nella vita, allora diventerà superfluo mettere in guardia contro simili miraggi di una prudenza politica originariamente straniera, e utile solo per incantare i tedeschi. Questa profondità, serietà e solidità del nostro modo di pensare, se la possediamo davvero, irromperà anche nella nostra vita. Noi siamo dei vinti; se ora vogliamo essere anche disprezzati, e disprezzati a ragione; se oltre a tutto il resto vogliamo perdere anche l’onore, ciò dipenderà pur sempre da noi. La lotta con le armi si è conclusa; si apre, se vogliamo, la nuova lotta dei princìpi, dei costumi, del carattere. Diamo ai nostri ospiti un’immagine di fedele attaccamento alla patria e agli amici, di inattaccabile rettitudine e amore del dovere, di tutte le virtù civili e domestiche, come amichevole dono ospitale da riportare nella loro patria, alla quale infine faranno ritorno. Stiamo attenti a non indurli al disprezzo nei nostri confronti. Il modo più sicuro per farlo, sarebbe o di temerli in modo esagerato, oppure di rinunciare al nostro modo di essere, sforzandoci di imitare il loro. Lungi da noi il malcostume di sfidare e di provocare da singoli i singoli; ma, per il resto, il criterio più sicuro sarà di andare per la nostra strada come se fossimo da soli con noi stessi, e di non stringere relazioni che non ci siano imposte dalla necessità; e per questo, il mezzo più sicuro sarà che ciascuno si accontenti di ciò che possono fornirgli le vecchie relazioni coi compatrioti, porti il peso comune secondo le sue forze, ma consideri ogni favore da parte dello straniero come uno smacco disonorevole. [471] Purtroppo, è divenuto un costume europeo pressoché universale, e dunque anche tedesco, che in ca193

so di scelta si preferisca la propria umiliazione al rischio di sembrare, come si dice, persone che impongono soggezione, e forse si potrebbe ricondurre tutto il galateo delle cosiddette buone maniere a quest’unico principio. Magari potessimo noi tedeschi, nelle presenti circostanze, infrangere questo stile di vita invece di qualcosa di più alto! Potessimo restare come siamo, anche a costo di provocare un’infrazione del genere; anzi, essendone in grado, potessimo diventare in modo ancora più forte e più deciso come dovremmo essere! I rilievi che ci vengono fatti di solito, secondo i quali siamo privi di agilità e di destrezza, siamo grevi, pesanti e prendiamo tutto troppo sul serio, non dovrebbero imbarazzarci, bensì al contrario dovremmo sforzarci di meritarli a maggior ragione e in più ampia misura. Ci rafforzi in questa decisione la convinzione, facile da conseguire, che nonostante ogni sforzo a quelli non andremo mai bene finché non smetteremo di essere noi stessi, il che equivale a smettere di esistere semplicemente. Ci sono popoli che, mentre vogliono mantenere le loro caratteristiche e vogliono vederle rispettate, concedono anche agli altri popoli le loro, e gliele garantiscono e permettono. A questi appartengono senz’altro i tedeschi, e questo tratto è fondato così profondamente in tutta la loro vita terrena passata e presente, che molto spesso, per non fare torto ai loro stranieri contemporanei e agli antichi, hanno fatto torto a se stessi. Ancora, ci sono altri popoli ai quali il loro Sé, fortemente compatto in se stesso, non concede mai la libertà di ritrarsi a considerare l’estraneo in modo distaccato e tranquillo, e che perciò sono costretti a credere che vi sia un unico possibile stile di vita per l’uomo civilizzato, che il caso avrebbe destinato proprio a loro; tutti gli altri uomini al mondo non avrebbero altra destinazione tranne quella di diventare così [472] come sono loro, e dovrebbero dimostrare a loro, che prendono su di sé la fatica di formarli, la più grande riconoscenza. Tra i popoli del primo tipo ha luogo un’azione reciproca di cultura e di educazione, massimamente benefica per la formazione dell’uomo in generale, e una compenetrazione in cui tuttavia ciascuno, con l’approvazione dell’altro, resta eguale a se stesso. I popoli del secondo tipo non possono formare niente, poiché non possono accettare niente nel suo stato presente; vogliono soltanto azzerare tutto ciò che sussiste, e produrre ovunque al di fuori di loro uno spazio vuoto, in cui possano ripetere 194

sempre di nuovo la loro propria figura; perfino il loro iniziale, apparente immedesimarsi in costumi estranei, è solo il benevolo abbassarsi dell’educatore verso l’allievo che per il momento è ancora debole, però dà buone speranze. Perfino i personaggi dell’antichità a loro non piacciono finché non li hanno messi nei loro panni, e se potessero li richiamerebbero dalla tomba per educarli alla loro maniera. Lungi da me la presunzione di imputare questa limitatezza a una qualsiasi nazione del presente, presa nella sua globalità. Assumiamo piuttosto che, anche in questo caso, i migliori sono quelli che tacciono. Ma se quelli che sono venuti tra noi e hanno parlato si devono giudicare da quello che hanno detto, allora si dovrebbe concludere che essi vanno inseriti nella classe appena descritta. Una simile affermazione sembra avere bisogno di prove e, tacendo delle restanti manifestazioni che stanno sotto gli occhi dell’Europa, addurrò un’unica circostanza, la seguente. Noi ci siamo fatti la guerra; da parte nostra, noi siamo gli sconfitti, loro i vincitori; questo è vero, e lo ammettiamo. Quelli potrebbero senza dubbio accontentarsi di questo. Ora, se tra noi qualcuno andasse avanti dicendo che noi eravamo nel giusto e avremmo meritato la vittoria, e che è deplorevole che essa non sia stata nostra: sarebbe tutto ciò così grave, e potrebbero [473] biasimarci così tanto quelli che da parte loro possono pensare comunque quello che vogliono? E invece no, non possiamo azzardarci a pensarlo. Dobbiamo riconoscere quanto sia ingiusto avere una volontà diversa dalla loro e resistere a essi; dovremmo benedire le nostre disfatte come l’evento più salutare per noi stessi, e loro come i nostri più grandi benefattori. Non può essere altrimenti, e si spera per la bontà della nostra intelligenza che sarà così. Ma perché mi dilungo su ciò che quasi duemila anni fa è stato detto con molta esattezza per esempio nelle opere storiografiche di Tacito? La concezione dei Romani sui loro rapporti con i barbari che essi combattevano, secondo la quale opporre resistenza contro di loro sarebbe stata una ribellione criminale e una sollevazione contro le leggi umane e divine, e secondo cui le loro armi non potevano portare ai popoli nient’altro che benedizione, e le loro catene nient’altro che onore – concezione che in loro, comunque, aveva un apparente fondamento di giustificazione – questa concezione è la stessa che ci è stata offerta al giorno d’oggi, e che molto benevolmente ci è stata richiesta presup195

ponendo che fosse la nostra. Non sto dicendo che affermazioni simili siano soltanto scherni tracotanti; posso capire che una grande presunzione e limitatezza possa portare a credere seriamente che le cose stiano così, e possa onorevolmente attribuire la stessa fede all’avversario; per esempio, credo che i Romani la pensassero veramente così. Mi chiedo solo se quelli tra noi, per i quali risulta impossibile convertirsi a una fede del genere, potranno puntare a un qualche accordo. Ci rendiamo degni di profondo disprezzo da parte dello straniero quando sotto alle sue orecchie ci accusiamo l’un l’altro, popoli, persone, ceti tedeschi, del nostro comune destino, e ci scagliamo reciprocamente rimproveri aspri e veementi. Prima di tutto, tutte le accuse di questo tipo sono in gran parte inique, ingiuste, infondate. Quali siano le cause che hanno condotto all’estremo destino della Germania, lo abbiamo mostrato sopra; esse sono [474] insite da secoli in tutte le stirpi tedesche, senza eccezione e allo stesso modo; gli ultimi eventi non sono la conseguenza di un particolare passo falso di un singolo popolo o del suo governo, essi si andavano preparando da lungo tempo e, se si fosse trattato solo dei motivi presenti in noi stessi, avrebbero potuto colpirci allo stesso modo già molto tempo fa. La colpa o l’innocenza di tutti, al riguardo, è egualmente grande, e non è più possibile calcolarla. La precipitazione del risultato finale ha dimostrato che i singoli Stati tedeschi non conoscevano nemmeno se stessi, le loro forze e la loro vera situazione; come potrebbe dunque qualcuno pretendere di tirarsi fuori, e di pronunciare un giudizio definitivo, basato su una seria conoscenza, riguardo alla colpa di altri? Può darsi che, al di là dei popoli della patria tedesca, un determinato ceto sia colpito da un rimprovero maggiormente fondato, non perché anch’esso non abbia capito o non abbia potuto fare più di tutti gli altri, che è una colpa comune, ma perché si è dato l’apparenza di vedere e capire di più, cacciando tutti gli altri dall’amministrazione degli Stati. Ma se anche un tale rimprovero fosse fondato, chi lo deve pronunciare, e a che cosa serve che esso venga pronunciato e discusso proprio adesso, a voce più alta e più aspra che mai? Noi vediamo che alcuni scrittori lo fanno. Se questi scrittori hanno parlato come parlano adesso anche allora, quando presso quel ceto, con il consenso silenzioso della decisa 196

maggioranza del restante genere umano, si trovavano ancora tutto il prestigio e tutto il potere, chi li può biasimare per il fatto di richiamare i discorsi che facevano allora, ormai confermati dall’esperienza? Sentiamo anche che essi portano davanti al tribunale del popolo singole persone chiamate per nome, che un tempo stavano al vertice degli affari, mostrando la loro incapacità, la loro inerzia, la loro cattiva volontà, e dimostrando chiaramente che da simili cause dovevano scaturire necessariamente simili eventi. Se essi avevano [475] capito ciò che capiscono adesso già allora, quando gli accusati avevano ancora il potere, e quando i mali che dovevano risultare necessariamente dalla loro amministrazione potevano ancora essere evitati, e lo avevano detto a voce altrettanto alta; se essi avevano già allora accusato i loro colpevoli con la stessa forza, senza lasciare alcun mezzo intentato per salvare la patria dalle loro mani, e semplicemente non sono stati ascoltati; allora essi fanno assai bene a ricordare i loro avvertimenti allora disprezzati. Ma se hanno ricavato la loro attuale saggezza solo dal risultato, da cui tutto il popolo ha ricavato con loro la stessa identica saggezza, perché ora dicono proprio loro ciò che tutti gli altri sanno altrettanto bene? O forse allora hanno adulato per avidità, o taciuto per paura, davanti al ceto o alle persone su cui adesso, dopo che quelli hanno perduto il potere, la loro requisitoria si abbatte implacabile? In tal caso, sarebbe bene che in futuro non dimenticassero di menzionare tra le origini dei nostri mali, accanto alla nobiltà e ai ministri e generali incapaci, anche gli scrittori politici che sanno ciò che sarebbe dovuto accadere solo a cose fatte, allo stesso modo della plebe e che, mentre adulano i potenti, scherniscono contenti del male altrui chi è caduto in disgrazia! O forse biasimano gli errori del passato, che certo non può essere annullato da tutti i loro biasimi, solo perché in futuro non si ripetano? Ed è semplicemente il loro zelo nel provocare un profondo miglioramento dei rapporti umani a porli così audacemente al di là di ogni considerazione di prudenza e di rispetto? Saremmo lieti di poter attribuire loro questa buona coscienza, se solo la solidità della loro visione e della loro intelligenza li autorizzasse ad avere buona coscienza in questo campo. Non sono state le singole persone che per caso si sono trovate ai posti di comando ad aver provocato i nostri mali, ma la connessione e l’intreccio del tutto, l’intero spirito del tempo, gli errori, l’insipienza, 197

la superficialità, l’avvilimento e l’incerta condotta da questi inseparabile, insomma i costumi del tempo nel loro insieme. E così, [476] ad agire sono state molto meno le persone che i posti, e chiunque, perfino gli appassionati accusatori, può assumere con alta probabilità che, se si fosse trovato allo stesso posto, sarebbe stato trascinato dalle circostanze più o meno allo stesso punto. Smettiamola di immaginarci una malvagità e un tradimento deliberati! Inerzia e mancanza di intelligenza bastano a spiegare gli eventi un po’ ovunque; e questa è una colpa da cui nessuno dovrebbe assolversi completamente senza un profondo esame di coscienza. Tanto più che quando in tutta la massa si trova un grado assai alto d’inerzia, nel singolo che la dovrebbe scuotere dovrebbe risiedere un grado altrettanto alto di forza e di attività. Perciò, se anche gli errori dei singoli vengono messi così nettamente in rilievo, il motivo del male con ciò non è ancora scoperto, né viene superato dal fatto che errori simili saranno evitati in futuro. Se gli uomini restano imperfetti, non potranno far altro che commettere errori, e se anche sfuggono quelli dei loro predecessori, nello spazio infinito della fallibilità se ne troveranno facilmente di nuovi. Solo una completa trasformazione può aiutarci, solo il cominciamento di uno spirito interamente nuovo. Se essi collaboreranno al suo sviluppo, allora saremo lieti di concedere loro, accanto alla gloria della buona coscienza, anche quella di una giusta e salutare intelligenza. Queste accuse reciproche non sono soltanto inutili e ingiuste, ma anche estremamente imprudenti, e devono profondamente abbassarci agli occhi dello straniero, a cui facilitiamo e offriamo in tutti i modi la possibilità di venirne a conoscenza. Se non ci stuferemo di raccontare di fronte a loro quanto la nostra situazione fosse confusa e assurda, e quanto miseramente fossimo governati, non dovranno essi credere che, comunque si comporteranno nei nostri confronti, saranno pur sempre un bene per noi, e non potranno mai farci troppi danni? Non dovranno credere che noi, vista la nostra grande incapacità e inettitudine, siamo tenuti ad accogliere con la più umile riconoscenza qualsiasi cosa [477] essi ci abbiano offerto, o che ci riservano ancora per il futuro, dal ricco tesoro della loro arte di governo, amministrazione e legislazione? C’è davvero bisogno da parte nostra di appoggiare la loro comunque non sfavorevole opinione di se stessi, e quella miserabile 198

che essi hanno di noi? Non diventano in questo modo certe affermazioni, che altrimenti andrebbero prese come feroci prese in giro, secondo cui essi avrebbero dato per la prima volta una patria ai territori tedeschi, che prima non l’avevano, oppure avrebbero cancellato la dipendenza servile delle persone in quanto tali da altre persone, che da noi sarebbe stata legale, una ripetizione di nostre affermazioni personali, e un’eco delle nostre personali adulazioni? È una vergogna che noi tedeschi non condividiamo con nessun altro popolo che abbia avuto, in questo, il nostro stesso destino, il fatto che, non appena su di noi comandano armi straniere, proprio come se avessimo atteso questo momento già da lungo tempo, e volessimo approfittarne prima che il tempo passi, ci profondiamo in insulti contro i nostri governi e governanti, che in precedenza avevamo adulato in modo disgustoso, e contro tutto ciò che appartiene alla patria. Come possiamo stornare la vergogna dalla nostra testa noi altri, che siamo innocenti, e lasciare da soli i colpevoli? Un mezzo c’è. Non verranno più stampati scritti diffamatori dal momento in cui si sarà sicuri che non ne verranno più comprati, e gli autori e gli editori non potranno più contare su lettori attratti da pigrizia, vuota curiosità e gusto del pettegolezzo, oppure dalla gioia per il danno altrui, suscitata dal vedere umiliato ciò che un tempo instillava in loro il doloroso sentimento del rispetto. Chiunque provi vergogna, restituisca col disprezzo che merita ogni scritto diffamatorio che gli venga offerto da leggere; lo faccia anche se crede di essere l’unico ad agire così, finché tra noi non diventi costume per ogni uomo d’onore fare lo stesso; e ci libereremo assai presto di questa parte vergognosa della nostra letteratura, senza bisogno di vietare i libri con la violenza. [478] Infine, ciò che di fronte allo straniero ci umilia nel modo più profondo è quando ci mettiamo ad adularlo. Una parte di noi si era resa sufficientemente spregevole, ridicola e nauseante già in precedenza, quando in ogni occasione offriva incenso grossolano ai potenti della patria, e non era trattenuta né da ragione, né da decoro, gusto e buoni costumi, ogniqualvolta riteneva di poter presentare l’elogio dell’adulazione. Questo costume è diventato fuori moda, e in parte questi inni di lode si sono trasformati in parole d’insulto. Nel frattempo, per non restare – diciamo così – senza esercizio, alle nostre nuvole d’incenso abbiamo dato 199

un’altra direzione, dalla parte in cui adesso è il potere. Già il primo atteggiamento, sia l’adulazione stessa, sia il fatto che essa fosse tollerata, doveva addolorare ogni tedesco seriamente pensante; ma la cosa restava tra noi. Vogliamo ora rendere testimone anche lo straniero di questa nostra infima inclinazione, e della grande imperizia con cui ce ne liberiamo, aggiungendo così, al disprezzo per la nostra bassezza, la vista ridicola del nostro impaccio? In tale comportamento, ci manca completamente la finezza dello straniero; per non restare inascoltati, infatti, diventiamo goffi ed esagerati, e cominciamo subito con adorazioni e genuflessioni a scena aperta. A ciò si aggiunge il fatto che i nostri inni di lode ci sembrano spremuti a forza dalla paura e dal terrore; ma non c’è nulla di più ridicolo di un timoroso che fa l’elogio della bellezza e della grazia di colui che in realtà ritiene un mostro, e che con queste adulazioni vuole soltanto convincerlo a non stritolarlo. O forse questi elogi non sono adulazioni, ma l’autentica espressione della venerazione e dell’ammirazione che costoro sono costretti a tributare al grande genio, che secondo loro guida le vicende degli uomini? Quanto poco conoscono anche qui il sigillo della vera grandezza! In tutte le epoche e tra tutti i [479] popoli questa è rimasta sempre eguale a stessa nel non essere vanitosa, come viceversa ciò che ha mostrato vanità è sempre stato infimo e meschino. Alla vera grandezza, che poggia su se stessa, non piacciono le statue dei contemporanei, né l’appellativo di grande, e neppure il favore urlante e gli encomi della moltitudine; piuttosto, essa respinge da sé tutto ciò col dovuto disprezzo, e attende il suo verdetto anzitutto dal giudice personale nel suo intimo, e quello pubblico dalla giuria dei posteri. Inoltre, è sempre stata sua caratteristica quella di rispettare e di commiserare la sventura oscura e inesplicabile, di non dimenticare che la ruota del destino gira sempre, e di non farsi chiamare grande o beata prima della fine. Quindi quegli encomiasti sono in contraddizione con se stessi, e dicendo quello che dicono trasformano il contenuto delle loro parole in una menzogna. Se ritenessero davvero grande l’oggetto della loro presunta venerazione, si accontenterebbero della sua superiorità rispetto al loro favore e alla loro lode, e gli renderebbero onore in rispettoso silenzio. Mentre sono indaffarati a lodarlo, essi mostrano di ritenerlo piccolo e meschino, e così fatuo da gradire i loro elogi, sperando in tal modo di stornare da sé qualche danno, o di procurarsi qualche vantaggio. 200

Quel grido entusiasta: “Che genio sublime, che profonda saggezza, che vasto programma!” Che cosa significa in fondo, a ben considerarlo? Significa che il genio è così grande che possiamo comprenderlo perfettamente anche noi, la saggezza così profonda che anche noi possiamo penetrarla, il programma così vasto che anche noi possiamo completamente riprodurlo. Quindi, significa che chi è lodato è all’incirca della stessa grandezza di chi lo loda, ma non completamente, poiché quest’ultimo capisce il primo perfettamente, lo abbraccia con lo sguardo, e dunque gli è superiore e, se solo si sforzasse un po’, potrebbe fare qualcosa di ancora più grande. Bisogna [480] avere un’opinione assai alta di se stessi, per credere di poter costruire la propria corte a così buon mercato; e chi è lodato, deve avere un’opinione di sé assai scadente, se accetta con compiacimento questi omaggi. No, modesti, seri, posati, uomini e compatrioti tedeschi, resti lontana una siffatta mancanza d’intelligenza dal nostro spirito, e un siffatto insudiciamento dalla nostra lingua, nata per esprimere il vero! Lasciamo che lo straniero esulti ammirato a ogni nuova apparizione, e che in ogni decennio adotti un nuovo criterio per la grandezza, creandosi nuovi idoli e bestemmiando Dio per lodare gli uomini. Il nostro criterio per la grandezza resti l’antico: che grande è soltanto ciò che è capace di idee e che si entusiasma per esse, le quali sole portano salvezza ai popoli; sui vivi, affidiamo il verdetto alla giuria dei posteri! Nota a p. 184 Dopo aver atteso per diverse settimane la restituzione del manoscritto di questo tredicesimo discorso, che era stato inoltrato alle mie autorità di censura, ricevo infine, al suo posto, il seguente messaggio: “Il manoscritto del tredicesimo discorso del Sig. Professor Fichte è andato perduto in circostanze fortuite, dopo che aveva già ottenuto l’imprimatur e, nonostante gli sforzi compiuti, non è stato possibile ritrovarlo. Ora, per non ritardare l’editore ecc. Reimer nella stampa, prego l’Ill.mo Sig. Professor Fichte di integrare questo discorso coi suoi quaderni, e di spedirmelo per l’imprimatur. Berlino, 13 aprile 1808. v. S c h e v e” 201

Ciò che questo messaggio intenda con quaderni, non lo capisco, e ciò che nell’elaborazione del testo era stato disposto e preparato su fogli aggiuntivi è stato dato alle fiamme nel corso di un cambio di abitazione intervenuto nel frattempo. Io perciò sono stato costretto a insistere perché il manoscritto, che non doveva essere perduto, fosse nuovamente recuperato. Questo [481] non è stato possibile, come si è assicurato, neppure dopo le ricerche più accurate; o almeno non è successo, e io ho dovuto colmare la lacuna come ho potuto. Mentre io, a mia propria giustificazione, sono costretto a portare questa vicenda a conoscenza del pubblico esterno, lo prego tuttavia di credere che le stranezze che si potrebbero trovare tanto nella vicenda stessa, quanto nel messaggio sopra riportato, da noi non sono affatto costume generale; al contrario, questa vicenda costituisce un’eccezione rarissima, e forse mai verificatasi così prima d’ora. Si può immaginare che saranno prese le misure necessarie perché un caso simile non possa più ripetersi.

Quattordicesimo discorso

Conclusioni generali

I discorsi che così concludo si sono diretti certamente, a voce alta, innanzitutto a voi, ma hanno tenuto in vista l’intera nazione tedesca e, nella loro intenzione, hanno raccolto intorno a sé, nello spazio in cui respirate in modo visibile, tutti coloro che, fino a dove si estende la lingua tedesca, siano capaci di capirli. Se fossi riuscito a gettare, nei petti che qui hanno battuto sotto i miei occhi, una scintilla che continui a brillare e afferri la vita, allora io vorrei che essi non rimanessero soli ma che, per tutto il territorio comune, sentimenti e decisioni simili si unissero e si collegassero ai loro, cosicché per tutto il territorio della patria fino ai suoi confini più lontani, a partire da questo centro, si diffondesse la fiamma unica e continua di un modo di pensare patriottico. Questi discorsi non si sono rivolti alla nostra epoca per far passare il tempo a occhi e orecchi oziosi, ma per [482] sapere, come vuole chiunque la pensi come me, se anche al di fuori di noi esista qualcosa di affine al nostro modo di pensare. Ciascun tedesco, che creda ancora di essere membro di una nazione, che a suo riguardo pensi in modo grande e nobile, che speri in essa, che per essa osi, pazienti e sopporti, deve essere infine strappato dall’incertezza della sua fede; egli deve vedere chiaramente se ha ragione, o se è soltanto uno stolto e un fanatico; d’ora in poi, egli deve o proseguire sulla sua strada con sicura e gioiosa coscienza, oppure rinunciare con ferrea risolutezza ad avere una patria quaggiù, e consolarsi soltanto con quella celeste. A voi, non in quanto persone 203

di un certo tipo nella nostra limitata vita quotidiana, bensì in quanto esponenti della nazione e, attraverso i vostri organi uditivi, all’intera nazione, questi discorsi rivolgono il seguente appello. Sono passati secoli da quando non siete stati convocati insieme come oggi; in questo numero; in una faccenda così importante, così urgente, così comune; così assolutamente in quanto nazione e tedeschi. E non succederà mai più. Se adesso non fate attenzione e non rientrate in voi stessi; se fate passare questi discorsi come un vuoto solletico per le orecchie o uno strano mostro, nessun uomo potrà più contare su di voi. Per una buona volta, ascoltate e meditate. Almeno per questa volta, non andatevene senza aver preso una salda decisione; e chiunque senta questa voce, prenda questa decisione in se stesso e per se stesso, come se fosse solo e dovesse fare tutto da solo. Se ci saranno abbastanza individui che penseranno così, si formerà presto un grande intero, che potrà confluire in un’unica forza compatta. Se al contrario ciascuno, escludendo se stesso, spera negli altri e affida la cosa agli altri, allora non c’è nessun altro, e tutti restano com’erano prima. Prendetela subito, questa decisione. Non dite: “Facci riposare ancora un po’, facci dormire e sognare ancora un po’, forse il miglioramento arriverà da sé”. Non arriverà mai da sé. Chi, [483] dopo avere sprecato lo ieri, quando pensarci sarebbe stato ancora più facile, non può volere neppure oggi, costui lo potrà ancora meno domani. Ogni ritardo ci rende ancora più pigri, e ci culla ancora più profondamente nella pacifica abitudine del nostro misero stato. Anche gli stimoli esterni a pensarci non potranno mai essere più forti e più urgenti. Chi non si sente scosso da questo presente, ha sicuramente perduto ogni capacità di sentire. Voi siete chiamati a prendere una decisione e una conclusione salda e definitiva. Non a un comando, a un incarico, a un’esigenza da rivolgere ad altri, bensì a voi stessi. Voi dovete prendere una risoluzione che ciascuno può attuare solo da se stesso e in prima persona. Qui non basta quell’ozioso fare propositi, quella volontà di volere prima o poi, quel pigro accontentarsi nell’attesa di un miglioramento spontaneo; bensì da voi si pretende una decisione tale che al tempo stesso sia immediatamente vita e atto interiore, e che quindi, senza tentennamenti o attenuazioni, perduri e continui a farsi valere finché non sia giunta alla meta. 204

O forse in voi è del tutto estirpata e scomparsa la radice, da cui soltanto può germogliare una siffatta decisione che interviene nella vita? Davvero tutto il vostro essere si è assottigliato e dissolto in un’ombra vuota, senza linfa né sangue né autonoma forza motrice, come un sogno in cui visioni variopinte nascono e si incrociano operosamente, mentre il corpo giace immobile e come morto? Da lungo tempo, alla nostra epoca, è stato detto in faccia e ripetuto sotto ogni veste, che più o meno questo è ciò che se ne pensa. I suoi portavoce hanno creduto che così si volesse solo insultare, e l’hanno presa come un’esortazione a insultare a loro volta, perché la cosa tornasse nel suo ordine naturale. Per il resto, non si è intravisto il minimo cambiamento o miglioramento. Se voi avete udito quelle parole, [484] se ve ne siete scandalizzati, allora smentite quelli che pensano e parlano così di voi direttamente con i vostri atti: mostrate a tutto il mondo che siete diversi, e quelli saranno consegnati alla menzogna davanti a tutto il mondo. Forse hanno parlato di voi così duramente proprio nell’intento di venire così confutati da voi, e perché disperavano di potervi scuotere con qualsiasi altro mezzo. In questo caso, la loro opinione su di voi sarebbe stata ben migliore di quella di coloro che vi adulano perché restiate nell’inerte tranquillità e nell’assenza di pensiero che non si cura di nulla. Per quanto possiate essere così deboli e senza forze, in questo periodo la chiara e tranquilla meditazione vi è stata resa così facile, quanto non lo era mai stata prima. Ciò che propriamente ci ha fatto precipitare nella confusione sulla nostra situazione, nella nostra assenza di pensiero, nel nostro cieco lasciare andare, era la dolce contentezza di noi stessi e del nostro modo di essere. Finora aveva funzionato ed era continuato così; a chi ci esortava alla riflessione mostravamo trionfanti, al posto di un’altra confutazione, la nostra esistenza e sussistenza, che andava avanti senza che noi ci pensassimo. Ma funzionava solo perché non venivamo messi alla prova. Da allora, ci siamo passati in mezzo. Da questo momento, non dovevano dissolversi le illusioni, i miraggi, le false consolazioni, con le quali ci siamo storditi a vicenda? Non dovevano sparire i pregiudizi innati che, senza venire di qua o di là, si erano diffusi su tutti noi come una nebbia naturale, avvolgendoci tutti nello stesso crepuscolo? Quel crepuscolo non trattiene più i nostri occhi; ma non può più neppure servirci come scusa. Adesso noi stiamo qui, puri, vuoti, spogliati di ogni corteccia e rivesti205

mento estranei, semplicemente quali noi stessi siamo. Adesso dobbiamo mostrare che cosa questo Stesso è, oppure non è. Qualcuno tra voi potrebbe venir fuori e chiedermi: “Che cosa dà proprio a te, unico tra tutti gli uomini e gli scrittori tedeschi, il mandato, la vocazione e il privilegio di riunirci e di scagliarti contro di noi? [485] Non avrebbe ciascuno tra le migliaia degli scrittori tedeschi lo stesso diritto che hai tu, ma nessuno di loro lo fa, bensì solo tu salti fuori?” Io rispondo, che ciascuno avrebbe avuto senz’altro lo stesso diritto che ho io, e che io lo faccio proprio perché nessuno di loro lo ha fatto prima di me; e che io avrei taciuto, se un altro lo avesse fatto in precedenza. Questo era il primo passo verso la meta di un completo miglioramento; qualcuno doveva farlo. Io sono stato il primo che lo ha capito in modo vivo; perciò sono stato io che l’ho fatto per primo. Dopo questo, qualsiasi altro passo sarà il secondo; adesso tutti hanno lo stesso diritto di farlo; ma, ancora una volta, a farlo davvero sarà soltanto un singolo. Uno deve sempre essere il primo, e chi può esserlo, lo sia! Senza preoccuparvi di questa circostanza, indugiate un poco col vostro sguardo sulla considerazione, cui vi abbiamo condotto già in precedenza, dell’invidiabile condizione in cui si troverebbero la Germania e il mondo intero, se la prima avesse saputo utilizzare la felicità della sua situazione e riconoscere il suo vantaggio. Fissate gli occhi su ciò che ormai sono entrambi; e fatevi penetrare dal dolore e dallo sdegno da cui sarà catturato ogni nobile animo. Rivolgetevi quindi indietro a voi stessi, e vedete come siate voi quelli che il tempo vuole liberare dagli errori dei predecessori, i cui occhi vuole sgomberare dalla nebbia; che a voi è concesso, come a nessuna generazione prima di voi, di rendere l’accaduto non accaduto, e di cancellare questo intervallo poco onorevole dai libri di storia dei tedeschi. Fate scorrere davanti a voi le diverse condizioni tra le quali dovete fare una scelta. Se andate avanti così nella vostra ottusità e indifferenza, vi aspettano per primi tutti i mali della schiavitù, privazioni, umiliazioni, lo scherno e l’arroganza dei vincitori; voi verrete cacciati di qua e di là in tutti gli angoli, poiché non starete bene da nessuna parte finché, sacrificando la vostra nazionalità e la vostra lingua, [486] non vi procurerete un posticino subordinato, e il vostro popolo in questo modo non si estinguerà gradualmen206

te. Se invece vi deciderete a fare attenzione, allora troverete dapprima una sopravvivenza sopportabile e onorevole, e poi vedrete fiorire, tra voi e intorno a voi, una generazione che promette a voi e ai tedeschi di essere ricordati nel modo più glorioso. Attraverso questa generazione, voi vedrete in spirito il nome tedesco innalzarsi sino a divenire quello più celebrato tra tutti i popoli, voi vedrete questa nazione quale rigeneratrice e restauratrice del mondo. Dipende da voi, se volete essere la fine e gli ultimi di una generazione non degna di considerazione, e disprezzata dai posteri persino oltre il dovuto; oppure, se volete essere l’inizio e il punto di partenza di una nuova epoca, splendida oltre ogni vostra immaginazione, e coloro a partire dai quali i posteri conteranno gli anni della loro salvezza. Meditate sul fatto che voi siete gli ultimi ad avere la possibilità di operare questo grande cambiamento. Voi avete ancora sentito chiamare i tedeschi come una cosa sola, avete visto un segno visibile della loro unità, un impero e una federazione imperiale, o ne avete sentito parlare; tra voi si sono ancora fatte sentire di tanto in tanto voci ispirate da questo superiore amor di patria. Chi verrà dopo di voi, si abituerà ad altre idee, assumerà forme estranee e un altro corso di affari e di vita; e quanto passerà ancora, prima che non viva più nessuno che abbia visto tedeschi, o ne abbia sentito parlare? Non è molto ciò che vi si chiede. Dovete soltanto assumervi l’onere di concentrarvi per breve tempo, e di pensare a ciò che sta immediatamente sotto i vostri occhi. Dovete solo formarvene un’opinione salda, restarle fedeli, e poi esprimerla e dichiararla nel vostro ambiente circostante. Il presupposto, la nostra sicura convinzione, è che [487] questo pensiero produrrà in tutti voi lo stesso risultato; e che, se voi pensate veramente, e non andate avanti nella solita indifferenza, penserete in modo concorde. Purché vi procuriate in generale uno spirito, e non continuiate a vivere semplicemente come piante, l’unicità d’intenti e la concordia dello spirito verranno da sé. Ma una volta accaduto questo, verrà fuori da sé anche tutto il resto di cui abbiamo bisogno. Ma questo pensiero è effettivamente richiesto, in prima persona, a ciascuno tra voi che possa ancora pensare a qualcosa che ha sotto gli occhi. Avete tempo per farlo; l’attimo non vuole né stordirvi né sorprendervi; gli atti delle trattative intraprese con voi re207

stano sotto i vostri occhi. Non metteteli da parte, finché non vi siate messi d’accordo con voi stessi. No, non affidatevi, per pigrizia, ad altri o a qualunque cosa al di fuori di voi; né alla stolta saggezza del tempo, secondo cui le epoche si sviluppano per mezzo di una qualche forza sconosciuta, senza intervento umano. Questi discorsi non si stancano di ribadire che voi potete essere aiutati solo e soltanto da voi stessi, e trovano necessario ripetervelo fino all’ultimo momento. Certo, la pioggia e la rugiada, e anni fecondi o infecondi possono dipendere da una potenza a noi sconosciuta, che non è in nostro potere; ma il tempo in tutto e per tutto proprio degli uomini, i rapporti umani, se li fanno soltanto gli uomini, e assolutamente nessuna potenza che si trovi al di fuori di loro. Solo se tutti insieme sono egualmente ciechi e ignoranti, essi cadono preda di questa potenza nascosta: ma sta a loro non essere ciechi e ignoranti. Certo, la misura in cui le cose andranno male, potrebbe dipendere in parte da quella potenza sconosciuta, ma in modo del tutto particolare dall’intelligenza e dalla buona volontà di coloro cui siamo soggetti. Ma se mai [488] le cose dovranno tornare ad andarci bene, questo dipende esclusivamente da noi, e sicuramente non ci capiterà più alcun benessere, se non ce lo procureremo da noi stessi: e in particolare, se ciascun singolo tra noi, a suo modo, non farà e agirà come se fosse da solo, e come se la salvezza delle future generazioni dipendesse da lui soltanto1. Questo è ciò che dovete fare; questi discorsi vi scongiurano di farlo senza indugio. Scongiurano voi giovani. Io, che da parecchio tempo ho smesso di essere dei vostri, credo, e l’ho anche detto in questi discorsi, che voi siate ancora più capaci di ogni pensiero che vada al di là di ciò che è volgare, e più sensibili a ogni bene e virtù, poiché la vostra età è ancora più vicina agli anni dell’innocenza infantile e alla natura. La maggior parte degli adulti considera questa vostra caratteristica in modo del tutto diverso. Essi vi accusano di presunzio1 Fichte aggiunse l’ultima frase dopo i due punti (“e in particolare [...] dipendesse da lui soltanto”) come attenuazione per superare le obiezioni della censura, seguendo il suggerimento di von Stein.

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ne, di formulare giudizi affrettati, azzardati e superiori alle vostre forze, di voler sempre avere ragione, di amare le novità. Però sorridono benevolmente di questi vostri difetti. Essi ritengono che tutto questo dipenda soltanto dalla vostra scarsa conoscenza del mondo, cioè dell’universale corruzione umana, poiché essi non hanno occhi per nient’altro al mondo. Voi adesso avete coraggio solo perché sperate di trovare dei compagni che la pensino come voi, e ignorate la dura e rabbiosa resistenza che si opporrà ai vostri progetti di miglioramento. Ma quando lo slancio giovanile della vostra immaginazione si sarà spento, quando farete esperienza dell’egoismo, della pigrizia e dell’ignavia universali, quando avrete gustato la dolcezza di procedere nell’andazzo abituale, allora vi passerà anche la voglia di essere migliori e più intelligenti di tutti gli altri. Questa loro speranza nei vostri confronti non è campata in aria; essi ne hanno trovato conferma nella loro stessa persona. Essi devono confessare che nei giorni della loro stolta giovinezza hanno sognato di migliorare il mondo come fate voi adesso; ma [489] con l’accrescersi della loro maturità sono diventati docili e mansueti come voi li vedete adesso. Io a loro credo; io stesso ho già provato, nella mia non lunghissima esperienza, che giovani i quali dapprima suscitavano ben altre speranze, più tardi hanno perfettamente adempiuto le aspettative ben intenzionate di questa età matura. Giovani, non fatelo più: perché altrimenti come potrà mai cominciare una generazione migliore? Certo, vi abbandonerà lo smalto della giovinezza, e lo slancio della vostra immaginazione smetterà di autoalimentarsi, ma cogliete questo slancio, e tempratelo con la chiarezza del pensiero, appropriatevi dell’arte di questo pensiero, e in più riceverete come dono la più bella dote dell’uomo: il carattere. In quella chiarezza di pensiero, voi conserverete la sorgente dell’eterna fioritura giovanile; anche se il vostro corpo invecchierà, e le vostre ginocchia si piegheranno, il vostro spirito si rigenererà in freschezza sempre rinnovata, e il vostro carattere starà saldo e senza mutamenti. Afferrate subito l’occasione che qui vi si offre; pensate chiaramente all’oggetto che si propone alla vostra deliberazione; la chiarezza che per voi ha fatto irruzione in un punto, si diffonderà gradualmente anche in tutti gli altri. Questi discorsi scongiurano voi vecchi. Di voi si pensa e a voi si dice in faccia quello che avete appena udito; e l’oratore aggiun209

ge con franchezza in prima persona che, per quanto riguarda la grande maggioranza di voi, a parte le eccezioni che non di rado si presentano e che sono tanto più degne di rispetto, si ha perfettamente ragione. Ripercorriamo la storia degli ultimi due o tre decenni; tutti concordano eccetto voi stessi, anzi perfino ciascuno di voi, nel campo che non lo riguarda immediatamente, è d’accordo che, sempre a parte le eccezioni e considerando solo la maggioranza, in tutti i settori, nella scienza come negli affari della vita, l’incapacità e l’egoismo più grandi si sono sempre riscontrati nell’età più avanzata. Tutti i nostri contemporanei hanno visto che chiunque [490] volesse qualcosa di migliore e più perfetto, oltre alla lotta con la sua propria oscurità e con le altre circostanze, doveva condurre con voi la lotta più aspra; che il vostro fermo proposito era che non dovesse affacciarsi nulla che voi non avreste fatto e inteso allo stesso modo; che consideravate ogni vivacità di pensiero come un oltraggio alla vostra intelligenza; e che non risparmiavate alcuna energia per trionfare in questo conflitto su chi era migliore, come in effetti di solito è accaduto. Così, voi siete stati la forza che ha ritardato tutti i miglioramenti che la natura benigna ci ha offerto dal suo grembo eternamente giovane, finché non tornavate nella polvere che già prima eravate, e la generazione seguente, nella guerra con voi, non era diventata come voi, ereditando le vostre mansioni. Agite pure anche adesso come avete agito finora nei confronti di ogni istanza di miglioramento, preferite pure ancora una volta al bene comune il vostro fatuo onore, che tra cielo e terra non debba esserci nulla che voi non abbiate già scoperto; così, con questa lotta finale, sarete sollevati dalla continuazione della lotta, non ci sarà più nessun miglioramento, bensì peggioramento su peggioramento, in modo che voi possiate gioire ancora un po’. Non si creda che io disprezzi e sottovaluti la vecchiaia in quanto tale. Purché la fonte della vita originaria e del suo continuo movimento venga liberamente accolta nella vita, la chiarezza e con essa l’energia crescono finché la vita dura. Una vita simile si vive meglio, le scorie della vita terrena scompaiono sempre più, ed essa si innalza fiorente alla vita eterna. L’esperienza di una vecchiaia simile non viene a patti col male, ma rende soltanto più chiari i mezzi e più abile l’arte per combatterlo vittoriosamente. Il peggioramento con l’aumentare dell’età è colpa soltanto del nostro tempo, 210

e ovunque la società sia corrotta deve accadere lo stesso. Non è la natura che ci corrompe, essa ci genera nell’innocenza; è la società. [491] Chi si abbandona alla sua influenza, è naturale che debba peggiorare sempre più, quanto più a lungo resta esposto a questo influsso. Varrebbe la pena di studiare sotto questo punto di vista la storia di altre epoche molto corrotte, e di vedere se per esempio anche sotto il governo degli imperatori romani chi era cattivo non peggiorasse sempre più con il crescere dell’età. Questi discorsi dunque scongiurano innanzitutto voi, che tra i vecchi e dotati di esperienza siete le eccezioni, perché in questa faccenda incoraggiate, rafforziate, consigliate i più giovani, che pieni di rispetto volgono a voi il loro sguardo. Ma essi scongiurano voi altri, che siete nella norma: se non volete aiutare, almeno stavolta non siate di ostacolo, non mettetevi ancora in mezzo, come avete sempre fatto finora, con la vostra saggezza e i vostri mille scrupoli. Questa questione, come tutte le questioni razionali al mondo, non ha mille risvolti, bensì uno, il che fa parte anch’esso delle mille cose che ignorate. Se la vostra saggezza potesse salvarci, lo avrebbe già fatto in precedenza, poiché proprio voi siete quelli che ci avete consigliato finora. Ora, ciò è perdonato come tutto il resto, e non deve esservi più rinfacciato. Ma imparate una buona volta a conoscere voi stessi, e tacete. Questi discorsi scongiurano anche voi uomini d’affari. Salvo poche eccezioni, voi siete stati, finora, nemici dal profondo del cuore del pensiero astratto e di ogni scienza che aspirasse ad avere valore per se stessa, benché fingeste di disprezzare tutto ciò con aria di superiorità; tenevate distanti il più possibile gli uomini che se ne occupavano e le loro proposte; e il ringraziamento che essi potevano aspettarsi da voi era, nel più comune dei casi, il rimprovero di essere pazzi, o il consiglio di spedirli in manicomio. Al contrario, costoro non si azzardavano a pronunciarsi con la stessa franchezza nei vostri confronti, poiché essi dipendevano da voi, ma nel loro intimo essi in realtà pensavano che voi, salvo poche eccezioni, foste dei chiacchieroni superficiali e dei palloni gonfiati, degli istruiti a metà che hanno fatto le scuole di corsa, dei brancolanti alla cieca [492] che si trascinano nel vecchio andazzo, perché non hanno voluto o potuto fare di meglio. Mostrate con i fatti che essi mentono, e perciò cogliete l’occasione che adesso vi viene offerta; deponete quel disprezzo per il pensiero profondo e la 211

scienza, lasciatevi istruire, e ascoltate e imparate ciò che non sapete; altrimenti avranno ragione i vostri accusatori. Questi discorsi scongiurano voi pensatori, dotti, scrittori che siete ancora degni di questo nome. Quel biasimo degli uomini d’affari nei vostri confronti non era del tutto ingiustificato. Spesso siete andati avanti nel campo del pensiero puro troppo incuranti, senza preoccuparvi del mondo reale, e senza ricercare in che modo il primo possa entrare in collegamento con quest’ultimo. Per descrivere a voi stessi il vostro proprio mondo, avete messo da parte troppo sprezzantemente il mondo reale. È vero che ogni ordinamento e configurazione della vita reale deve procedere dal superiore concetto ordinante, e che non serve continuare nell’andazzo abituale; questa è un’eterna verità, e umilia con malcelato disprezzo nel nome di Dio chiunque osi occuparsi di affari senza conoscerla. Ma tra il concetto e la sua introduzione in una vita particolare, c’è un abisso. Colmare questo abisso è opera tanto dell’uomo d’affari, che certo già prima deve avere imparato abbastanza per capirvi, quanto vostra, che stando su nel mondo del pensiero non dovete dimenticare la vita. Qui potete incontrarvi entrambi. Invece di guardarvi di traverso e sminuirvi a vicenda al di là dell’abisso, sarebbe meglio che ciascuno dalla sua parte si desse da fare per colmare il baratro, e aprire così la strada all’unificazione. Cercate di capire, finalmente, che entrambi vi siete reciprocamente necessari come la mente e il braccio. Questi discorsi scongiurano voi pensatori, dotti, scrittori ancora degni di questo nome anche da un altro punto di vista. I vostri lamenti sulla superficialità, l’assenza di pensiero e la confusione generali, sulla parvenza di pensiero e sulla chiacchiera inestinguibile, sul disprezzo [493] della serietà e della profondità in tutti i ceti, possono anche essere veri, come in effetti sono. Ma qual è il ceto che ha educato questi ceti nel loro insieme? Che per loro ha tramutato in un gioco ogni scientificità, e li ha condotti fin dalla primissima giovinezza a quella parvenza di pensiero e a quella chiacchiera? Chi è dunque che continua a educare anche le generazioni già uscite dalla scuola? La ragione dell’ottusità dell’epoca, che balza maggiormente agli occhi, è che quest’ultima si è resa ottusa leggendo i libri che voi avete scritto. Ma perché siete così disposti a intrattenere questo popolo di oziosi, benché sappiate che non ha imparato niente e che non vuole imparare nien212

te? Perché lo chiamate “pubblico”, lo adulate come vostro giudice, lo aizzate contro i vostri concorrenti, e cercate con ogni mezzo di portare questa massa cieca e confusa dalla vostra parte? Perché infine, perfino sui vostri giornali e bollettini editoriali, fornite materia ed esempio alla sua smania di giudicare, dato che lì voi, in modo altrettanto incoerente, giudicate a casaccio, alla giornata, e il più delle volte in modo così privo di gusto, come potrebbe fare anche l’ultimo dei vostri lettori? Se non la pensate tutti così, se tra voi c’è ancora qualcuno che nutre intenzioni migliori, perché allora costoro non si uniscono per porre fine alla sventura? Per quanto riguarda in particolare quegli uomini d’affari, essi sono andati a scuola da voi, lo dite voi stessi. Perché non avete utilizzato questo loro passaggio almeno per instillare in loro un qualche muto rispetto per le scienze, e soprattutto per spezzare in tempo la presunzione dei giovani di alti natali, mostrando loro che nelle questioni di pensiero il ceto e la nascita non contano nulla? Se forse già allora li avete adulati, e li avete distinti senza merito, allora adesso sopportate ciò che voi stessi avete causato. Questi discorsi vogliono discolparvi, nel presupposto che voi non abbiate compreso l’importanza del vostro compito; essi vi scongiurano di rendervi conto fin da ora della sua importanza, [494] e che non lo esercitiate più come una semplice attività lavorativa. Se imparate a rispettare voi stessi, e mostrate di farlo nel vostro agire, sarete rispettati anche da tutti gli altri. Ne fornirete la prima prova con l’influenza che riuscirete a esercitare sulla decisione richiesta, e col modo in cui vi comporterete in questa occasione. Questi discorsi scongiurano voi, principi della Germania. Quelli che verso di voi si comportano come se non vi si potesse o non vi si dovesse dire niente, sono spregevoli adulatori, sono maligni calunniatori di voi stessi; mandateli lontano da voi. La verità è che anche voi nascete ignoranti come tutti noi e che, se volete uscire da questa naturale ignoranza, dovete anche voi ascoltare e imparare come noi. La vostra parte nella realizzazione del destino che ha colpito voi e i vostri popoli, qui è stata presentata nel modo più morbido e, riteniamo, nel solo che sia vero e giusto. A meno che non vogliate ascoltare solo adulazioni e mai la verità, non potete lamentarvi di questi discorsi. Dimentichiamo tutto questo, così come anche tutti noi altri auspichiamo che venga dimentica213

ta la nostra parte di colpa. Adesso, come per tutti noi, così anche per voi comincia una nuova vita. Speriamo che questa voce, attraversando gli ambienti che vi rendono solitamente inaccessibili, possa arrivare fino a voi! Con orgoglioso sentimento di sé essa può dirvi: voi dominate su popoli fedeli, malleabili, degni di felicità, come non è mai capitato ai principi di nessuna epoca e nazione. Essi hanno senso per la libertà e ne sono capaci; ma nella guerra sanguinosa contro ciò che a loro sembrava la libertà, vi hanno seguito, perché così voi avete voluto. In seguito, alcuni di voi hanno cambiato idea, ed essi vi hanno seguito in ciò che a loro doveva sembrare una guerra di sterminio contro uno degli ultimi resti di autonomia e indipendenza tedesche; ancora una volta perché così avete voluto. Da allora, pazienti, essi portano il peso opprimente del male comune; e non cessano di esservi fedeli, di dipendere da voi con intima devozione, [495] e di amarvi come loro tutori inviati da Dio. Se poteste osservarli senza che loro se ne accorgano; se poteste discendere, liberi da chi vi circonda e che non sempre vi mostra il lato più bello dell’umanità, nelle case dei cittadini, nelle capanne dei contadini, e poteste osservare la vita silenziosa e nascosta di questi ceti, nei quali sembrano essersi rifugiate la fedeltà e la semplicità divenute rare nei ceti superiori, sono più che certo che prendereste la decisione di pensare nel modo più serio possibile a come aiutarli. Questi discorsi vi hanno proposto un mezzo di aiuto, che essi ritengono sicuro, completo e decisivo. Lasciate che i vostri consiglieri decidano se è così anche per loro, oppure se hanno qualcosa di meglio, purché sia altrettanto decisivo. Ma la convinzione che qualcosa deve accadere, e immediatamente, e qualcosa di completo e di decisivo, e che il tempo delle mezze misure e degli stratagemmi per tirare avanti è passato: questa è la convinzione che i nostri discorsi vorrebbero, se potessero, produrre in voi stessi, poiché essi ripongono ancora la massima fiducia nel vostro buon senso. Questi discorsi scongiurano tutti voi tedeschi, qualunque sia il posto che occupate nella società, perché ciascuno che sappia pensare, tra voi, prima di tutto pensi all’argomento che abbiamo suscitato, e perché ciascuno in relazione a esso faccia ciò che può fare più facilmente nel posto in cui si trova. 214

A questi discorsi, si uniscono e vi scongiurano anche i vostri antenati. Pensate che nella mia voce si mescolano dal grigio passato le voci dei vostri avi, che si sono opposti coi loro corpi al dilagante dominio romano sul mondo, che col sangue hanno ottenuto l’indipendenza dei monti, dei fiumi e delle pianure che sotto di voi sono divenute preda dello straniero. Essi vi invocano così: “Siate nostri rappresentanti, trasmettete alla posterità il nostro ricordo puro e onorato come è giunto a voi, [496] che vi siete potuti vantare di noi e della vostra discendenza da noi. Finora, la nostra resistenza è stata un esempio di nobiltà, grandezza e saggezza, noi sembravamo i consacrati e gli ispirati del divino piano del mondo. Se la nostra stirpe finirà con voi, il nostro onore si tramuterà in vergogna, la nostra saggezza in stupidità. Perché, se il popolo tedesco doveva tramontare nella romanità, era meglio che lo facesse in quella antica che non in una moderna. Noi abbiamo resistito a quella, e l’abbiamo battuta; voi siete stati polverizzati davanti a questa. Ora che le cose stanno così, non potete batterla con armi materiali; è il vostro spirito che deve sollevarsi e stare diritto di fronte a loro. Voi avete ricevuto un destino più grande, quello di fondare in generale il regno dello spirito e della ragione, e di distruggere nel suo insieme la bruta forza materiale quale dominatrice del mondo. Se lo farete, allora sarete degni di discendere da noi”. Ma a queste voci si mescolano anche quelle dei vostri antenati più recenti, che caddero nella sacra lotta per la libertà di religione e di fede. Essi v’invocano così: “Salvate anche il nostro onore. Ciò per cui combattevamo non ci era del tutto chiaro. Oltre alla legittima decisione di non farci comandare da un potere esterno in questioni di coscienza, ci spingeva anche uno spirito superiore che a noi non si è mai rivelato del tutto. A voi si è rivelato, questo spirito, se avete una capacità visiva per il mondo degli spiriti, e vi guarda con il suo sguardo limpido e nobile. La mescolanza confusa e variopinta degli stimoli sensibili e spirituali deve essere cacciata dal dominio del mondo, e al timone delle faccende umane deve subentrare il solo spirito, puro e libero da ogni stimolo sensibile. Il nostro sangue è scorso perché questo spirito avesse la libertà di svilupparsi e di crescere fino a esistenza autonoma. Sta a voi dare a questo sacrificio il suo significato e la sua giustificazio215

ne, mettendo questo spirito al dominio del mondo che gli è destinato. Se questo non avviene, come ultima meta alla quale era diretto tutto il precedente sviluppo della nostra nazione, allora anche le nostre lotte diventano [497] una farsa passeggera e senza senso, e la libertà di coscienza e di spirito da noi conquistata è una parola vuota, se d’ora in poi non dovranno più esserci in generale né coscienza né spirito”. Vi scongiura la vostra posterità non ancora nata: “Voi vi gloriate dei vostri antenati, vi richiamate a loro e vi unite con orgoglio a una nobile schiera. Abbiate cura che questa catena non si strappi con voi; fate in modo che anche noi possiamo gloriarci di voi e, attraverso di voi, come membro intermedio senza macchia, possiamo unirci a quella stessa schiera gloriosa. Non costringeteci a vergognarci della nostra discendenza da voi, come se fosse una discendenza inferiore, barbara e servile; non costringeteci a nascondere la nostra provenienza, o a escogitare un nome estraneo e una discendenza estranea, per non essere respinti e umiliati senza ulteriore appello. Il modo in cui sarete ricordati dalla storia dipenderà dal modo in cui riuscirà la prossima generazione, che nascerà da voi: sarà onorevole, se essa testimonierà di voi in modo onorevole; sarà vergognoso anche oltre il dovuto, se voi non avrete nessuna autentica posterità, e la vostra storia sarà fatta dai vincitori. Nessun vincitore è mai stato incline o illuminato abbastanza da rendere giustizia ai vinti. Quanto più egli vi abbassa, tanto più egli si innalza. Chi può dire quante imprese, istituzioni eccellenti, nobili costumi dei popoli del passato sono entrati nell’oblio, perché i loro successori vennero sottomessi, e il vincitore ne ha dato notizia conformemente ai suoi scopi, senza poter essere contraddetto?”. Perfino l’estero vi scongiura, nella misura in cui è ancora in grado di capire se stesso e ha un occhio per il suo vero vantaggio. Sì, esistono ancora in tutti i popoli spiriti che non possono ancora credere che le grandi promesse di un regno del diritto, della ragione e della verità nel genere umano siano vane e un fatuo sogno, e che perciò ritengono che la presente età del ferro sia solo un passaggio verso uno stato migliore. Costoro, e in essi tutta l’umanità mo216

derna, contano su di voi. Una gran parte di essi [498] proviene da noi, gli altri hanno ricevuto da noi religione e ogni altra cultura. Quelli, in nome del comune territorio della patria, che fu anche loro culla, e che ci hanno lasciato liberamente; questi, in nome della cultura che hanno ricevuto da noi come pegno di una felicità più alta, ci scongiurano di conservarci anche per essi e per amor loro come siamo sempre stati, di non far strappare dal nesso della generazione sorta di recente questo elemento per lei così importante, perché non senta dolorosamente la nostra mancanza quando, un giorno, avrà bisogno del nostro consiglio, del nostro esempio, della nostra collaborazione verso la vera meta della vita terrena. In queste voci si mescolano tutte le epoche, tutti i saggi e i buoni che mai abbiano respirato su questa terra, tutti i loro pensieri e presentimenti di qualcosa di superiore, e vi circondano e sollevano a voi mani imploranti; perfino, se così si può dire, la provvidenza e il divino piano del mondo nella creazione di un genere umano, piano che esiste solo per essere pensato da parte degli uomini ed essere introdotto da essi nella realtà, vi scongiura di salvare il suo onore e la sua esistenza. Se dovranno avere ragione quelli che credettero che con l’umanità sarebbe dovuta andare sempre meglio, e che i pensieri di un suo ordinamento e di una sua dignità superiori non sono vuoti sogni, bensì la profezia e il pegno della realtà futura; oppure quelli che continuano a sonnecchiare nella loro vita animale e vegetale, e si prendono gioco di ogni slancio in mondi superiori – a voi è toccato di emanare un giudizio definitivo su questa questione. Il vecchio mondo con il suo splendore e la sua grandezza, così come con i suoi difetti, è crollato, per la sua propria indegnità e per la violenza dei vostri padri. Se in ciò che hanno mostrato questi discorsi c’è della verità, allora tra tutti i popoli moderni voi siete quello in cui il germe dell’umano perfezionamento si trova nel modo più decisivo, e a cui è dato di compiere il passo avanti nel suo sviluppo. Se voi in questa vostra essenzialità andate a fondo, [499] con voi vanno a fondo anche le speranze di tutto il genere umano nella salvezza dal baratro dei suoi mali. Non sperate e non consolatevi con l’opinione campata in aria, che conta solo sulla ripetizione dei casi già avvenuti, che una seconda volta, dopo il tramonto della vecchia 217

cultura, sulle rovine di quest’ultima ne sorgerà una nuova da una nazione semibarbara. Nel tempo antico un simile popolo, dotato di tutti i requisiti per questa destinazione, era presente, ed era ben noto al popolo della cultura, ed è stato da essi descritto2; e questi stessi, se avessero potuto ipotizzare il caso del loro tramonto, in questo popolo avrebbero potuto scoprire il mezzo per ripristinarsi. Anche noi conosciamo bene l’intera superficie della terra, e tutti i popoli che vivono su di essa. Conosciamo noi forse un popolo siffatto, simile al popolo capostipite del nuovo mondo, su cui possiamo coltivare eguali attese? Io penso che chiunque non si formi opinioni e speranze esaltate, ma pensi ricercando seriamente, dovrà rispondere “no” a questa domanda. Perciò non c’è nessuna via di uscita: se sprofondate voi, sprofonda l’intera umanità, senza speranza di ripristinarsi in futuro. Questo era ciò che io, Onorevole Assemblea, volevo e dovevo ancora una volta, alla fine di questi discorsi, instillare in voi come miei rappresentanti della nazione, e attraverso di voi a tutta la nazione. 2

Cfr. la Germania di Tacito.

Indice

Introduzione di Gaetano Rametta

V

DISCORSI ALLA NAZIONE TEDESCA Prefazione

3

Primo discorso. Considerazioni preliminari e sguardo d’insieme

5

Secondo discorso. Sull’essenza della nuova educazione in generale

20

Terzo discorso. Continua la descrizione della nuova educazione

34

Quarto discorso. La diversità capitale tra i tedeschi e gli altri popoli di provenienza germanica

48

Quinto discorso. Conseguenze della diversità indicata

63

Sesto discorso. Presentazione nella storia dei tratti fondamentali dei tedeschi

77

219

Settimo discorso. Comprensione ancora più profonda del carattere originario e tedesco di un popolo

91

Ottavo discorso. Che cos’è un popolo nel più alto significato della parola, e che cos’è amor di patria? 110 Nono discorso. A quale punto dato nella realtà sia da collegare la nuova educazione nazionale dei tedeschi

127

Decimo discorso. Per la determinazione più precisa dell’educazione nazionale tedesca

141

Undicesimo discorso. A chi spetterà l’attuazione di questo programma educativo?

156

Dodicesimo discorso. Sui mezzi per conservare noi stessi fino al raggiungimento del nostro scopo principale

170

Sommario del tredicesimo discorso. Continuazione delle considerazioni precedenti

184

Quattordicesimo discorso. Conclusioni generali

203