Storia d’Italia. Il cammino tormentato di una nazione. 1861-2016 9788858429525

Dall'evoluzione dell'Italia unita dalle origini fino ai primi anni Novanta del xx secolo emergono tre principa

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Storia d’Italia. Il cammino tormentato di una nazione. 1861-2016
 9788858429525

Table of contents :
Indice......Page 617
Frontespizio......Page 3
Il libro......Page 613
L’autore......Page 615
Prefazione......Page 4
1. L’egemonia dei liberali moderati nel Risorgimento e la sconfitta dei democratici......Page 16
2. La «piemontesizzazione» dello Stato unitario e la nascita di una nazione divisa......Page 19
3. La battaglia di Cavour per la separazione di Chiesa e Stato......Page 24
1. I problemi e le difficoltà del nuovo Stato unitario......Page 26
2. La situazione economico-sociale dell’Italia nel 1861......Page 28
3. La morte di Cavour. Destra e Sinistra dopo di lui......Page 31
4. Il compimento dell’unità nazionale. La guerra del 1866 e la presa di Roma nel 1870......Page 34
5. La questione del Mezzogiorno. La guerra del brigantaggio: la prima delle tre guerre civili della storia d’Italia......Page 42
6. L’unificazione legislativa e la politica economica......Page 49
1. La fine del potere della Destra......Page 53
2. Depretis e il «trasformismo». La riforma elettorale del 1882.......Page 55
3. La Triplice Alleanza e gli infelici esordi del colonialismo italiano......Page 60
4. L’ispirazione «bismarckiana» di Crispi. Tensione con la Francia, ripresa dell’azione coloniale e politica interna......Page 64
5. Il movimento operaio e contadino dall’anarchismo alla fondazione del Partito socialista. Bakunin, Turati e Antonio Labriola......Page 69
6. Dal primo ministero Giolitti all’ultimo Crispi. I Fasci siciliani e la sconfitta in Africa......Page 73
7. La crisi di fine secolo. L’Italia alle soglie di una crisi di sistema, la sconfitta del tentativo reazionario......Page 79
8. Lo sviluppo dell’economia italiana: protezionismo e nascita della grande industria......Page 89
1. Il decollo industriale e la modernizzazione «monca» dell’Italia......Page 97
2. Il «doppio volto» di Giolitti. L’insuccesso del suo disegno di «nazionalizzazione delle masse»......Page 101
3. Il governo Zanardelli e le lotte del lavoro......Page 104
4. Il secondo e il terzo ministero Giolitti. Movimento socialista, cattolici, liberisti e nazionalisti, concentrazioni monopolistiche......Page 106
5. Quarto ministero Giolitti, suffragio universale e inasprimento dei conflitti di classe......Page 115
6. Il costo del fallimento del disegno giolittiano......Page 122
7. Il carattere ambivalente della politica estera italiana. La guerra italo-turca per la Libia......Page 127
1. L’Italia dalla neutralità all’intervento......Page 130
2. La logorante guerra di trincea......Page 137
3. Dalla catastrofe di Caporetto alla vittoria......Page 140
4. La società italiana durante la guerra. Accresciuto intervento dello Stato e fermenti antiparlamentari......Page 145
1. Le classi sociali nel dopoguerra. La frustrazione delle aspirazioni dei nazionalisti......Page 149
2. La risposta alla crisi del mondo cattolico. La nascita del Partito popolare......Page 153
3. Il Partito socialista e l’ondata «massimalista» e bolscevizzante. L’«Ordine Nuovo»......Page 156
4. Il «biennio rosso» e la genesi del fascismo......Page 159
5. Le agitazioni sociali e la «scioperomania». Le elezioni e la crisi del liberalismo. I governi Nitti e Giolitti......Page 163
6. L’occupazione delle fabbriche. Il «biennio nero»: riflusso del movimento operaio e controffensiva fascista......Page 172
1. Bonapartismo e fascismo......Page 185
2. La marcia su Roma e il primo governo Mussolini......Page 188
3. Il fascismo verso la conquista del “monopolio politico”. Le elezioni del 1924 e la “crisi Matteotti”. L’Aventino e la disfatta delle opposizioni......Page 200
4. Le leggi «fascistissime» e la fine formale dello Stato liberale. L’avvento della dittatura......Page 208
5. La «linea De Stefani» e il liberismo iniziale del fascismo. La ripresa dell’economia......Page 212
1. Il fascismo italiano, forma debole e incompiuta di totalitarismo......Page 216
2. Il carattere «razionale» del culto del capo......Page 220
3. I diversi fondamenti di fascismo e nazionalsocialismo: lo Stato nazionale e la comunità popolare razziale. Differenze tra i due regimi......Page 222
1. Lo Stato fascista e le sue istituzioni......Page 229
2. La conciliazione fra Stato e Chiesa. Il «connubio» fra clericalismo e fascismo. Il conflitto del 1931 sull’educazione giovanile......Page 233
3. L’ordine «corporativo». La Carta del Lavoro. La ricerca di una «terza via» fra capitalismo e collettivismo sovietico. L’«era Starace» e la campagna «antiborghese»......Page 236
4. L’economia nel periodo fascista. Capitalismo di Stato e autarchia. La politica assistenziale. Il mito della potenza demografica......Page 242
5. L’organizzazione della cultura e la ricerca del consenso.......Page 250
6. Gli oppositori del fascismo......Page 255
7. Il varo delle leggi razziali e il rinnovarsi del conflitto con la Chiesa nel 1938......Page 263
8. La politica estera italiana negli anni Venti......Page 267
9. Il timore della rinascita della potenza tedesca e il fronte anglo-franco-italiano. La questione austriaca.......Page 271
10. La guerra d’Etiopia e l’inerzia della Società delle Nazioni......Page 277
11. La guerra civile spagnola e l’intervento dell’Italia......Page 282
12. L’«asse Roma-Berlino» e il patto anti-Komintern......Page 287
13. La distruzione dell’Austria e della Cecoslovacchia. Il trionfo della Germania......Page 288
14. Dal «patto d’acciaio» al patto nazi-sovietico......Page 293
1. L’Italia dalla «non belligeranza» all’intervento. L’impreparazione militare. Lo scacco dell’attacco alla Francia......Page 299
2. Il fallimento della «guerra parallela» italiana. Insuccessi in Africa. La sconfitta fascista in Grecia......Page 304
3. Il crollo militare dell’Italia e la caduta del fascismo. Il governo Badoglio dei «quarantacinque giorni»......Page 310
1. Il carattere della Resistenza......Page 322
2. La Repubblica Sociale Italiana e il Regno del Sud. La lotta tra partigiani e nazifascisti al Nord......Page 328
3. L’insurrezione, la fuga di Mussolini e la “resa dei conti”......Page 341
1. I difficili equilibri politici dopo la Liberazione......Page 344
2. Il governo Parri: un governo transitorio di compromesso.......Page 349
3. De Gasperi al governo. Repubblica e Assemblea costituente. L’estromissione delle Sinistre dal governo......Page 352
4. La Costituzione......Page 361
5. Il trionfo della Dc alle elezioni del 18 aprile 1948 e la nascita del terzo sistema politico bloccato nella storia dell’Italia unita......Page 368
6. La ricostruzione economica sotto il segno del moderatismo. La «dittatura» dei liberisti e la debolezza programmatica delle sinistre......Page 376
7. La situazione delle campagne. Le lotte per la terra nel Mezzogiorno......Page 383
1. I governi De Gasperi dopo il 1948. Contrasti interni ai partiti di centro e persistente ambiguità della politica del Pci......Page 386
2. Il «riformismo dall’alto». La riforma agraria e la Cassa per il Mezzogiorno......Page 392
3. La «legge truffa» e le elezioni del 1953. La fine politica di De Gasperi. Le oscillazioni della Dc. Le elezioni del 1958......Page 396
4. Il “miracolo economico”......Page 404
1. Le radici del «Centro-sinistra». La linea di Fanfani. Le diverse evoluzioni del Psi e del Pci. Il rinnovamento della Chiesa......Page 408
2. Le resistenze all’apertura al Psi. Il governo Tambroni. La “svolta” della Dc: il Congresso di Napoli. Il terzo governo Fanfani e gli inizi del Centro-sinistra......Page 416
3. Le elezioni del 1963. Il moderatismo dei primi due governi Moro. L’unificazione di Psi e Psdi. Il dibattito nel Pci sulla strategia delle riforme......Page 423
4. Il terzo governo Moro. Le elezioni del 1968. Gli inizi della «contestazione» nei confronti del “sistema”......Page 434
5. L’andamento dell’economia: dal «miracolo» alla recessione......Page 437
6. L’«autunno caldo» e la «strategia della tensione». Gli inizi del terrorismo......Page 441
1. Uno sguardo generale sugli anni Settanta e Ottanta......Page 447
2. Gli «anni di piombo» e la «lunga notte» della Repubblica......Page 451
3. Dall’esaurimento del «Centro-sinistra» al fallimento politico degli «opposti estremismi» e alla sconfitta del terrorismo......Page 454
4. Craxi al governo e il conflitto con il Pci. Corruzione, “questione morale” e nuovo ruolo dei giudici......Page 471
5. ”Tangentopoli” e la crisi di sistema......Page 482
6. L’economia e la società italiana fra sviluppo e squilibri......Page 496
1. Caratteristiche della vita politica e sociale nel “ventennio berlusconiano”......Page 504
2. La «discesa in campo» di Berlusconi. La caduta del primo governo del Cavaliere e il governo dei tecnici......Page 510
3. L’Ulivo al governo: da Prodi ad Amato, passando per D’Alema......Page 515
4. Il secondo governo Berlusconi. Il conflitto di interessi e l’attacco alla magistratura «comunista»......Page 519
5. L’andamento sfavorevole dell’economia......Page 523
6. La politica estera euroscettica del governo Berlusconi. Tra Bush e Putin......Page 525
7. Il secondo governo Prodi. La nascita del Partito Democratico e del Popolo della libertà.......Page 526
8. Il terzo governo Berlusconi. Dall’apogeo alla crisi del «berlusconismo»......Page 531
9. Il tema della «sicurezza» e la minaccia di declino socio-economico dell’Italia......Page 537
10. La seconda crisi di sistema nella storia repubblicana. Le «larghe intese» e il governo «tecnico» di Monti......Page 539
11. Il successo elettorale del Movimento 5stelle. Il governo Letta......Page 542
12. Il governo Renzi e la sua parabola. I drammi dell’immigrazione. Il fallimento del progetto di riforma della Costituzione......Page 549
Bibliografia......Page 559
Indici dei nomi e delle sigle......Page 591
Indice dei nomi......Page 592
Indice delle sigle......Page 610

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Massimo Salvadori

Storia d’Italia Il cammino tormentato di una nazione 1861-2016

Prefazione

L’Italia e altri ventisette Paesi sono oggi membri dell’Unione Europea, la cui formazione ha rappresentato una svolta epocale nella storia del Vecchio continente. Da ciò la sollecitazione a riflettere sul rapporto tra le vicende trascorse dei singoli Stati che compongono l’Unione e le caratteristiche di quest’ultima; su come essa assolva o meno al compito di essere la guida efficace di tanti soggetti profondamente segnati da differenti identità culturali, politiche, sociali e religiose. Tali identità – proiettate nel corpo dell’Unione da un passato di secolari reciproci conflitti periodicamente culminati in autentiche catastrofi – sono difficili da amalgamare. Tanto che non si può evitare di osservare che l’Unione si presenta come una creatura ancora fragile, largamente incompiuta, esposta a crisi ricorrenti, insomma un’affaticata confederazione. Stanti le istituzioni che la governano, non si può intravvedere se e quando i suoi Stati membri avranno effettivamente la volontà e la capacità di superare i tenaci interessi particolaristici che ostacolano, per non dire sbarrano, la strada che porta all’avvento di una compiuta federazione, retta da un governo centrale e da una costituzione solidalmente condivisa. Della debolezza dell’Unione – allargatasi grandemente e troppo velocemente dopo il crollo dell’impero sovietico – è testimonianza preoccupante il diffondersi di aggressivi movimenti e partiti che invocano a gran voce la restituzione ai propri Paesi della “sovranità” usurpata, quando non addirittura l’uscita da un’Unione considerata matrigna, accusata di essere dominata da burocrati proni ai voleri di oligarchie troppo spesso in conflitto l’una con l’altra, insensibili ai bisogni dei loro popoli e soggetti ai dettati degli Stati piú forti. Si tratta di preoccupanti ondate di rigetto, che hanno trovato la loro allarmante manifestazione nel referendum popolare che nel 2016 ha deciso l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione. È in relazione a questi problemi e nodi irrisolti che occorre perciò soffermarsi su quanto il peso delle singole storie degli Stati nazionali abbia contribuito a far nascere l’Unione non già giovane ma per molti aspetti vecchia.

A confronto con le grandi federazioni esistenti, l’Unione Europea presenta un elemento di estrema forza e al contempo di estrema debolezza. La forza sta nel fatto che nessuna di queste è formata da Stati con un passato contraddistinto da tradizioni culturali altrettanto ricche e articolate, esperienze politiche che hanno toccato l’intero campo, vuoi in positivo vuoi in negativo, delle forme di governo, un accumulo cosí elevato di risorse economiche, scientifiche e tecniche e una simile varietà di geografia fisica. La debolezza dell’Europa è per contro riconducibile agli ostacoli che proprio questa grandiosa eredità pone oggi al processo di unificazione politica e istituzionale, facendo oscillare l’Unione Europea in maniera irrisolta tra l’impulso a una sostanziale unificazione e le resistenze a essa: insomma, tra due opposte volontà. Da un simile quadro emerge appunto il bisogno che governanti, classi dirigenti politiche ed economiche, uomini di cultura e cittadini pensosi europei facciano i conti con le storie dei propri Paesi, con ciò che in esse favorisca o freni l’affermarsi di una identità superiore alle identità singole, la formazione di una cittadinanza europea e la nascita di quella forte Unione federale che sola può essere in grado di porsi accanto e di fronte ai grandi soggetti che dominano e si avviano a dominare ancor piú la scena del mondo: gli Stati Uniti, la Cina, la Federazione Russa, l’Unione Indiana. Intento dell’autore è di ripercorrere la vicenda dell’Italia a partire dalla nascita dello Stato unitario, analizzando il cammino che da un lato ha portato il Paese a divenire uno dei membri fondatori dell’Europa orientata verso l’unione federale, dall’altro ha compiuto la scelta europeistica gravato dalle sue carenze politiche, istituzionali ed economico-sociali. Scelta oggi indebolita dal vigoreggiare dei movimenti a essa ostili, cosí come avviene in non pochi altri Paesi. Si vada alle storie dei vari Stati, nel nostro caso a quella d’Italia, per cercare di comprendere come queste, ciascuna con i propri specifici tratti, condizionino il presente e il futuro dell’Unione. Chi osservi l’Italia dei nostri giorni, a oltre un secolo e mezzo dal conseguimento della sua unità istituzionale, non fatica a notare come il Paese si trovi ancora a fare i conti con tutta una serie di grandi e irrisolti problemi che già si presentavano nel 1861: l’accentuata divaricazione economica e sociale tra il Nord e il Sud; il ridotto consenso popolare alle classi dirigenti che sono andate a mano a mano succedendosi; una costante elevata

conflittualità politica e sociale periodicamente culminata in momenti di grande asprezza; la presenza di un’articolata rete di organizzazioni criminali che dal Mezzogiorno sono andate progressivamente estendendosi al resto del territorio; il ruolo e l’influenza che il Vaticano e il movimento cattolico, in un Paese segnato da un quasi monopolio religioso, hanno avuto e continuano a esercitare sulla vita del Paese, avendo come costante direttrice la volontà di contrastare la marcia verso l’avvento di istituzioni propriamente, coerentemente laiche e il riconoscimento di diritti civili divenuti da tempo conquiste degli Stati democratico-liberali piú avanzati. Dall’evoluzione dell’Italia unita dalle origini fino ai primi anni Novanta del XX secolo emergono poi tre principali caratteristiche reciprocamente correlate in un contesto che ha visto il succedersi di tipi di Stato e di regimi politici (il liberale, il fascista, entrambi monarchici, e il democraticorepubblicano) opposti per le loro caratteristiche politiche e istituzionali. La prima è che la contrapposizione delle forme di governo ha impresso alla storia dello Stato un segno di profonda discontinuità. La seconda – tratto invece di forte continuità – che in ciascuno dei tre tipi di Stato le forze di opposizione d’impronta radicale sono state costantemente considerate dalle forze di governo come pericolosi soggetti “anti-sistema”, “anti-Stato”, ai quali occorreva sbarrare la strada al potere; e che le forze escluse o autoescludentisi dall’area del potere hanno a loro volta individuato in quelle dominanti gli strumenti di classi dirigenti oppressive. Conseguenza è stata che per oltre centotrent’anni i sistemi politici hanno protratto la propria esistenza in una condizione di “eccezionalità”: l’impossibilità per i maggiori partiti di opposizione (salvo che per componenti minoritarie, piú o meno consistenti, disposte a passare, seguendo la prassi del “trasformismo”, da un campo all’altro) di accedere alla guida del Paese. Tutto ciò in un contesto in cui è emerso un forte legame dei lavoratori urbani e rurali con le correnti anarchiche, socialiste e comuniste votate a progetti rivoluzionari, cosí da scavare e mantenere vivo un solco profondo fra tanta parte delle masse lavoratrici e il potere politico ed economico: un solco che, se per la sua profondità ha alimentato ripetuti progetti rivoluzionari, non ha portato ad alcuna rivoluzione, salvo che alla “rivoluzione fascista”, che è stata piuttosto una controrivoluzione rivolta contro la sinistra incapace di fare essa la propria rivoluzione. La terza caratteristica è che le classi politiche di governo e i ceti

piú elevati nella gerarchia sociale hanno sistematicamente reagito arroccandosi in blocchi di potere oligopolistici (come nei casi del regime liberale monarchico e di quello democratico-repubblicano) o monopolistici (come nel caso del regime fascista) contro le forze ritenute non legittimate a governare. È però da sottolineare che, quando si parla di blocchi di potere nel periodo liberale e democratico-repubblicano, non si intendono entità monolitiche, poiché, pur nella inamovibilità di quegli stessi blocchi, i contrasti e le differenze di orientamenti e interessi tra le varie correnti al loro interno, con le relative disomogeneità politiche e sociali, hanno causato il sorgere e il cadere di un gran numero di governi, subendo continue scomposizioni e ricomposizioni. Neppure lo Stato fascista, al di là della continuità assicurata al regime mussoliniano dalla dittatura e dalla facciata totalitaria, ebbe, a differenza dei regimi hitleriano e staliniano, un carattere monolitico. L’impossibilità tra il 1861 e il 1994 di dare vita in Italia a una normale dialettica tra opposti schieramenti ha fatto sí che tutti i blocchi di potere che si sono succeduti, quando nel Paese la conflittualità ha raggiunto livelli tali da sfuggire alla capacità di controllo delle forze di governo, sono andati incontro al loro dissolvimento nella forma, nei casi dello Stato liberale e dello Stato fascista, della caduta dei rispettivi regimi, in quello della cosiddetta Prima Repubblica, del crollo del sistema dei partiti al potere a partire dal 1945. La crisi di sistema consumatasi nel 1992-94 si è differenziata dai casi precedenti per due aspetti di grande importanza: non ha provocato il crollo delle istituzioni democratico-liberali; e ha creato per la prima volta le condizioni dell’accesso alla guida del Paese di schieramenti in competizione. Si è detto che il crollo sia dello Stato liberale sia dello Stato fascista hanno rappresentato momenti di netta discontinuità politica e istituzionale; ma occorre notare che i due processi hanno messo in luce al contempo due importanti aspetti di continuità. L’uno è individuabile nel fatto che tanto lo Stato fascista quanto lo Stato democratico-repubblicano (quest’ultimo fino all’introduzione su scala nazionale a partire dal 1968 delle autonomie regionali previste dalla Costituzione) mantennero quale proprio caposaldo il centralismo politico e amministrativo ereditato dallo Stato liberale, avendo quale giustificazione la necessità – affermata con il massimo rigore e completezza sistemica dal fascismo – di tenere sotto controllo e reprimere le correnti considerate disgregatrici dell’unità nazionale. L’altro aspetto

riguarda le dinamiche di sviluppo delle crisi seguite al crollo dello Stato liberale e dello Stato fascista in relazione all’ingrossamento della sinistra anticapitalistica e alla risposta messa in atto da articolati rassemblements – di carattere accentuatamente trasformistico – delle correnti avverse per fronteggiare e respingere la marea rossa. Durante il biennio 1919-20 e il triennio 1945-48 le gravi condizioni economiche e sociali provocate dall’eredità delle due guerre mondiali ebbero quale inevitabile effetto di dare un vigoroso impulso alla sinistra. Messi in allarme, la borghesia, gran parte dei ceti medi e le masse popolari sotto l’influenza dei partiti di centro e di destra fiancheggiati dalla Chiesa cattolica affidarono la loro difesa prima al fascismo e poi allo schieramento di cui la Democrazia cristiana costituiva lo scudo maggiore. La sinistra radicale, che in entrambi i momenti storici aveva del tutto sopravvalutato la propria forza e sottovalutato la capacità di ripresa del capitalismo, venne respinta e posta ai margini del sistema di potere. Trovò allora conferma la predizione di Cavour che in Italia la minaccia all’ordine sociale fondato sulla proprietà privata sarebbe naufragata di fronte a una invalicabile barriera. Se dal primo dopoguerra fino alla caduta dell’impero sovietico la sinistra maggioritaria italiana era stata dominata da una ideologia rivoluzionaria, nella prima metà degli anni Novanta solo una piccola minoranza di essa restava ancorata a tale ideologia. Sennonché anche allora, quando il pericolo rosso, per altro da tempo assai ammorbidito, era ormai inesistente, un terzo rassemblement ostile alla sinistra seppe, agitando ancora quello che non era se non un innocuo fantasma, raccogliere e ricollocare con successo i disarticolati e dispersi residui dei partiti che avevano retto il potere fino alla loro débâcle. Cosí la sinistra nelle sue successive incarnazioni – democraticorepubblicana nel 1860-61, socialista massimalista e comunista nel 1921-22, socialcomunista nel 1945-48 e da ultimo quella residualmente incarnata dal Partito Democratico della Sinistra nel 1994 – andò costantemente incontro alla sconfitta, di cui i maggiori artefici furono il conte di Cavour, Benito Mussolini, Alcide De Gasperi e Silvio Berlusconi. Al fine di chiarire adeguatamente i motivi per i quali nei regimi liberale, fascista e democratico-repubblicano si siano affermate forme oligo/monopolistiche di potere, occorre soffermarsi sulla natura delle relazioni venute a crearsi tra le forze di governo ovvero “lo Stato” e le forze di opposizione che costituirono nel succedersi del tempo l’articolato “anti-

sistema” ovvero l’“anti-Stato”, tenendo presente che ciascuna delle diverse componenti di quest’ultimo perseguiva progetti di rovesciamento o quanto meno di mutamento qualitativo delle istituzioni. Nel periodo liberale si trattò delle correnti reazionarie legate ai Borbone e al Papato, che alimentarono la guerra del brigantaggio e, puntando sulla fragilità del giovane Stato unitario dominato dai “piemontesi”, agitarono la bandiera della restaurazione dei regimi caduti; dei democratici repubblicani di scuola sia mazziniana sia federalistica, che negarono la legittimità di uno Stato monarchico che aveva negato al popolo il diritto di decidere, a opera di un’Assemblea costituente, delle istituzioni chiamate a governarlo; dei cattolici intransigenti in lotta contro lo “Stato usurpatore” che aveva abbattuto il venerando potere temporale dei papi; degli anarchici, dei socialisti massimalisti, dei sindacalisti rivoluzionari, dei comunisti, i quali, pur nella diversità quando non nella contrapposizione delle loro posizioni ideologiche e politiche, alzarono insieme la bandiera della rivoluzione sociale, dell’abbattimento del capitalismo e dello “Stato dei padroni”. Poi nel ventennio mussoliniano si trattò della lotta tra gli antifascisti e i fascisti. L’ultimo capitolo fu scritto dai gruppi estraparlamentari dell’estrema destra e dell’estrema sinistra votatisi, durante quelli che furono definiti gli “anni di piombo”, all’eversione e al terrorismo. Tutte queste componenti costituirono insomma tra il 1861 e gli anni Ottanta del XX secolo un vasto fronte, seppure disomogeneo, contro Stato e governi. La “logica” che inevitabilmente ne derivò fu che le classi dirigenti mirarono sistematicamente a costituire barriere non valicabili dai “cartaginesi” che premevano alle porte di Roma. Altra costante della storia nazionale fu il persistere della disomogeneità – che in taluni momenti assunse i caratteri di una frattura – tra le regioni del Nord e quelle del Sud; disomogeneità che, non ancora sanata, ha ininterrottamente mantenuto aperta l’annosa “questione meridionale”. Il divario tra le due parti del Paese si è manifestato, oltre che nel campo economico, in accentuate differenze di mentalità, comportamenti e stili di vita. La “questione”, che aveva le sue radici nella società del Sud prima del 1861, si era presentata in maniera drammatica subito agli inizi dello Stato unitario. Emerse in tutta la sua gravità quando si fece evidente che il processo di unificazione aveva un carattere essenzialmente istituzionale, non economico, sociale e culturale. La classe dirigente piemontese, a partire da

Cavour, non aveva alcuna conoscenza della situazione nel Mezzogiorno, di quanto rilevante fosse in esso l’arretratezza complessiva della società (al di là di ristrette zone agricole e industriali destinate a entrare in una crisi precoce); tanto che, cadute le iniziali illusioni sulle potenziali ricchezze dell’ex Stato borbonico, i primi contatti dei “nordici” con gli abitanti del Sud suscitarono grandi e motivati timori di fronte alla dilagante miseria e ai conflitti tra grandi proprietari e contadini, inducendo i governi a pensare che occorresse tenere sotto controllo quel territorio con il pugno di ferro. Timori, che raggiunsero l’apice nel decennio seguente l’unificazione, quando il movimento di reazione alla “conquista piemontese” del Mezzogiorno assunse una dimensione estremamente critica con l’erompere della “guerra del brigantaggio”: la prima delle tre guerre civili – cui seguirono quelle tra antifascisti e fascisti nel 1920-22 e tra partigiani e neofascisti della Repubblica sociale nel 1943-45 – avvenute dopo la fondazione dell’Italia unita. Per far conoscere al resto del Paese il volto reale del Mezzogiorno fu necessaria l’opera di svelamento condotta dalla brillante élite culturale e politica dei “meridionalisti”. Aspetto cruciale della questione meridionale è il ruolo esercitato dal “potere criminale”, che, insediatosi stabilmente nel Sud fin dagli inizi dell’Italia unita, è andato estendendosi non solo nel Centro-Nord, ma anche in altri Paesi europei. Le sue organizzazioni hanno creato un’altra forma di “anti-Stato”, con una sua “classe dirigente”, i suoi quadri intermedi, i suoi “soldati”. Potendo contare sul consenso sia attivo sia passivo di settori consistenti della popolazione urbana e rurale, esso ha costituito una struttura finalizzata a sfruttare, ricorrendo al ricatto e alla violenza, imprenditori, commercianti e piccoli proprietari, a comprare voti, infiltrare propri uomini nei partiti, nelle forze dell’ordine e nella stessa magistratura, penetrare profondamente nell’economia nazionale. La lotta delle mafie non solo contro lo Stato ma anche quella all’interno del loro stesso mondo per la supremazia dell’una sull’altra ha segnato con un mare di sangue la storia del Paese. Per cogliere le cause della corruzione nelle sue molteplici manifestazioni, è necessario richiamare il nesso esistente tra questa e il fatto che nelle “tre Italie” – liberale, fascista e democratico-repubblicana – si siano succeduti blocchi di potere inamovibili fino al loro collasso. Se la corruzione è esistita in tutte le epoche e in tutti i Paesi e, secondo il noto adagio, di per sé “il potere corrompe”, è evidente che gli oligopoli/monopoli di potere ne

favoriscono la diffusione e accrescono le difficoltà nel contrastarla. Negli Stati in cui le maggioranze parlamentari e i governi cedono periodicamente la guida alle opposizioni, è meno facile superare certi limiti nell’esercizio di poteri indebiti, la burocrazia svolge le proprie funzioni avendo la possibilità di resistere, almeno in parte, alle pressioni e agli interessi illeciti delle forze politiche ed economiche dominanti e la magistratura è a sua volta maggiormente in grado di agire nella tutela della legalità. Per contro, là dove si diano lunghi e inamovibili blocchi di potere, la burocrazia e in non pochi casi la stessa magistratura soggiacciono assai piú facilmente a quelle pressioni e a quegli interessi. È significativo che la magistratura italiana abbia dovuto attendere prima l’indebolimento e poi il crollo negli anni di “Tangentopoli” dell’ultimo blocco di potere per far valere con uno slancio senza precedenti la propria indipendenza, capacità e volontà di iniziativa (il che non significa che – come si è avuto modo di vedere dal 1994 in poi – dopo la fine dei blocchi di potere inamovibili e l’avvento del meccanismo dell’alternanza al governo di opposti schieramenti, la corruzione in Italia abbia “mollato la presa”). Sul versante della corruzione e dell’illegalità un posto di primaria importanza ha sempre avuto l’atteggiamento di una parte consistente dei cittadini rispetto all’imposizione fiscale. Lo Stato italiano ha tradizionalmente fatto gravare il peso delle tasse assai piú sugli strati inferiori e medio-bassi che non su quelli benestanti o decisamente ricchi. Per parte loro le classi dirigenti si sono sistematicamente, e con successo, opposte all’introduzione della tassazione progressiva sul reddito; e, quando la legge l’ha finalmente introdotta, essa è stata largamente evasa. L’evasione è stata persino favorita in non pochi casi dai governi e dall’amministrazione pubblica per assecondare le forze politiche alle quali andava il consenso degli strati sociali beneficiati. Industriali, proprietari terrieri, commercianti, titolari di medie e piccole imprese, professionisti e artigiani hanno formato un vero e proprio esercito di evasori, che ha avuto la sua roccaforte nella cosiddetta “economia sommersa”. Si tratta di un fenomeno che ha provocato e provoca danni enormi alle finanze pubbliche. La contemporanea presenza e attività delle forze anti-Stato e anti-sistema di carattere politico-sociale e criminale ha concorso nel rendere piú deboli in Italia l’attaccamento alle istituzioni e il legame di cooperazione e solidarietà tra le classi dirigenti e le classi subalterne, impedendo il rafforzamento del

sentimento di “unità nazionale”, a differenza di quanto avvenuto – per lo meno in periodi significativi della loro storia – negli Stati Uniti, in Canada, Gran Bretagna, Francia, Germania, Scandinavia e in altri Paesi. A impedirlo sono stati la costante conflittualità ideologica, politica e sociale in un quadro contraddistinto dalla dialettica che ha contrapposto le tendenze rivoluzionarie a quelle moderate, conservatrici o decisamente reazionarie; il fatto che il riformismo delle classi dirigenti, messo in atto con un andamento oscillatorio e inadeguato (sia pure con alcune importanti eccezioni nella storia del Paese), ha trovato per i suoi limiti scarso o nessun consenso in gran parte delle masse lavoratrici, favorendo il forte radicamento delle ideologie rivoluzionarie anticapitalistiche. Sicché il sentimento di solidarietà nazionale è stato nel nostro Paese soprattutto un elemento che ha coinvolto ristrette minoranze. Nell’età liberale leader come Crispi e Giolitti hanno tentato di suscitarlo l’uno alla luce di un nazionalismo retorico e autoritario, l’altro mediante un progetto di riformismo liberale progressista, ma entrambi senza successo. Quanto al fascismo, il suo obiettivo di porre la solidarietà nazionale a fondamento e fine supremo della sua ideologia statalistica utilizzando gli strumenti della dittatura, è andato incontro al fallimento. Infine, anche la Repubblica non si è rivelata all’altezza del compito. La “nazionalizzazione delle masse” in Italia non ha pertanto mai avuto attuazione. A impedirlo non sono stati unicamente i fattori sopra indicati, ma anche, in maniera determinante, i sentimenti e gli atteggiamenti particolaristici diffusi ai livelli sottostanti alla struttura dello Stato. La solidarietà piú sentita dagli italiani è andata infatti alle famiglie, ai sindacati, ai movimenti e partiti politici, ai comuni, alle regioni, alle categorie economiche, alle associazioni e confraternite di vario tipo, alle squadre sportive e, last but not least, alle organizzazioni dell’universo criminale. Tutto ciò ha avuto il suo riflesso nella debolezza dello spirito militare, nella prevalente indisponibilità delle masse operaie e contadine a combattere per uno Stato sentito distante quando non esplicitamente nemico. Lo spirito militare, che aveva avuto un suo vigore nello Stato sabaudo, non venne ereditato da quello unitario. I ceti popolari – che hanno dato prova di volontà combattiva nelle lotte risorgimentali del 1848-49 e del 1859-60, durante la guerra del brigantaggio e la guerra civile tra il 1943 e il 1945 – non hanno mostrato un eguale impulso nel sostenere le guerre proclamate dallo Stato. Lo si vide nel 1866, nelle aggressioni colonialistiche dell’epoca liberale, nel

1915-18, nel 1936-39 in Spagna e nel 1940-43. Tutte guerre impopolari anche perché mal preparate e mal dirette dai vertici militari. Unica eccezione la conquista dell’Etiopia nel 1935-36, divenuta popolare perché resa facile dalla sproporzione delle forze in campo e dall’efficacia della propaganda del regime fascista che prometteva ai contadini poveri e ai disoccupati la terra e le opportunità di lavoro nella nuova colonia che non avevano in patria. Debolezza grave delle guerre in cui l’esercito nazionale dovette misurarsi con grandi potenze fu che contadini e operai le sentirono come “guerre degli altri”, vale a dire della monarchia, degli alti comandi militari, delle classi dirigenti. Si pensi alla differenza con le guerre condotte dai britannici, dai tedeschi, dagli americani, dai sovietici e dai giapponesi. La storia d’Italia dopo il 1861 è passata attraverso tre maggiori “grandi tempeste”, segnate dall’erompere di guerre civili accompagnate dallo spargimento di sangue e dal divampare degli odi politici e civili. Le abbiamo già ricordate. L’ultima di queste guerre civili portò nel 1943-45 nientemeno che al sorgere di due Stati nemici, la Repubblica sociale italiana e il Regno del Sud, spezzando l’unità stessa del Paese. Resta da dire – e non si vuole indulgere allo spirito consolatorio – che, quali che siano state le fragilità e persino le storture della sua storia, l’Italia è riuscita, andando ora avanti ora indietro, a superare, seppure parzialmente, l’arretratezza civile, sociale ed economica che al momento dell’unificazione la poneva in condizioni di grave inferiorità a confronto dei Paesi piú avanzati d’Europa, e a entrare infine nel novero delle potenze economiche, seppure non nelle primissime file. Ora il suo destino – e qui torniamo all’inizio del discorso – è legato a quello dell’Unione Europea, che, lo abbiamo sottolineato, si trova anch’essa a dover affrontare numerosi e importanti problemi non ancora risolti; problemi i quali – rispetto al traguardo di approdare a una compiuta unificazione istituzionale, politica, economica e civile, di attivare nei cittadini dei vari Stati che la compongono il senso di una comune identità, di diffondere il sentimento e il legame della solidarietà – presentano per molti aspetti una non superficiale analogia con quelli che l’Italia ha incontrato e ancora incontra nel suo cammino. L’Italia di oggi è un Paese che a partire dal 1994 ha visto la fine dei blocchi di potere oligo/monopolistici, il formarsi di un sistema di partiti basato su schieramenti in competizione reciproca per la guida della cosa pubblica e l’alternarsi di essi al governo; cosí aprendo la via a una

“normalizzazione” rispetto ai canoni propri degli Stati liberaldemocratici. Un passo importante; ma accompagnato, nel contesto della cosiddetta “Seconda Repubblica”, da istituzioni inadeguate (tutti i tentativi di renderle piú efficienti modificando la Costituzione entrata in vigore nel 1948 sono caduti nel vuoto); dall’avvento prima di un bipolarismo e poi di un tripolarismo poggianti su alleanze insicure, precarie; dal persistere di una elevata conflittualità tra gli schieramenti politici e tra le loro stesse componenti, tra il mondo politico e la magistratura e da troppe inadempienze da parte delle coalizioni e dei governi rispetto a programmi e promesse. L’Italia, concludendo, si presenta attualmente sulla scena internazionale mantenendo aperte quattro grandi questioni: la scarsa efficienza delle istituzioni e l’insufficiente capacità decisionale del Parlamento e dei governi; il divario economico tra Nord e Sud; l’elevatissima evasione fiscale; la pervasiva presenza delle organizzazioni mafiose. E il pericolo che si intravvede all’orizzonte, nel momento della stesura di questa Prefazione, è, se non addirittura l’ingovernabilità del Paese, una governabilità non all’altezza delle sue esigenze. Un pericolo che, allo stato delle cose, insidia non soltanto l’Italia, ma anche altri membri dell’Unione Europea e la stessa Unione. Torino, 11 giugno 2018.

Storia d’Italia

Dedico questo libro ai miei nipoti Elisa, Chiara, Tommaso e Riccardo

Capitolo primo La realizzazione dell’unità italiana e la vittoria politica di Cavour

1. L’egemonia dei liberali moderati nel Risorgimento e la sconfitta dei democratici. Fra il 1849 e il 1860 l’Italia vide intensificarsi l’azione delle forze per un verso liberali moderate e monarchiche, prevalentemente piemontesi, il cui leader indiscusso divenne il torinese conte Camillo Benso di Cavour, per l’altro democratiche repubblicane, radicate nell’intera penisola, nelle quali assunsero un ruolo dirigente il genovese Giuseppe Mazzini, il nizzardo Giuseppe Garibaldi, i milanesi Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari. Entrambe le correnti aspiravano a conseguire l’indipendenza del Paese dallo straniero, ma ne concepivano la ristrutturazione politica e istituzionale in maniera opposta. La prima mirava a una confederazione di Stati monarchici fondati su un blocco di potere aristocratico-borghese; quanto alla seconda, essa era divisa al suo interno, poiché Mazzini si poneva come obiettivo la nascita di uno Stato unitario democratico e repubblicano, mentre Cattaneo e Ferrari guardavano a una federazione di liberi Stati repubblicani. I due schieramenti si trovarono in aspro contrasto circa i mezzi da impiegare nella lotta per l’indipendenza. I liberali piemontesi puntavano sulla guerra tra Stati, sulle risorse militari del Regno di Sardegna, sull’alleanza anzitutto con la Francia di Napoleone III, sulla diplomazia e su una strategia saldamente nelle mani della monarchia sabauda e dei ceti alti; i democratici sulla guerra rivoluzionaria ovvero sull’insurrezione delle masse popolari e sulla futura convocazione a suffragio universale di una Assemblea nazionale costituente designata a dare le istituzioni alla nuova Italia. L’intero percorso del Risorgimento fu dominato dallo scontro tra le due correnti in uno scenario in cui spiccavano le figure di Cavour e Mazzini: leader entrambi di eccezionale statura, ma mortalmente nemici e decisi a provocare l’uno la sconfitta dell’altro. Non poteva darsi alcuna intesa tra il conte – il leader nuovo salito alla ribalta pubblica nel Regno Sardo nel 1848 e divenuto presidente del Consiglio dei ministri nel 1852, che perseguiva l’espansione dello Stato sardo in vista della creazione di un regno dell’Alta Italia in grado

di stabilire la sua egemonia in un’Italia indipendente e solo tardivamente, in circostanze da lui del tutto impreviste, abbracciò la prospettiva dell’unità italiana – e il repubblicano, che, assurto al ruolo di maggiore capo dei rivoluzionari italiani, considerava sua missione agire infaticabilmente e inflessibilmente al fine di coniugare l’indipendenza con l’unità di tutto il Paese e la democrazia. L’esito del Risorgimento e della sua dialettica politica e sociale nel 185960 smentí al tempo stesso le aspettative di Cavour, poiché approdò alla formazione di uno Stato unitario che a lungo egli aveva ritenuto sia non auspicabile sia impossibile, e di Mazzini, in quanto il nuovo Stato non nacque né democratico né repubblicano, non fu il frutto della rivoluzione popolare e nazionale ma della diplomazia e dell’iniziativa politica e militare del Piemonte, che subordinò infine, nel corso di vicende assai tormentate e accompagnate da forti tensioni, la conquista del Mezzogiorno compiuta da Garibaldi alla strategia sabauda e liberale moderata orientata politicamente e socialmente in senso conservatore. Il processo risorgimentale venne dunque profondamente segnato dalle iniziative e dalle personalità di Cavour e Mazzini. Il piemontese perseguí con geniale capacità e ottenendo pieno successo tre obiettivi fondamentali: consolidare il regime liberale in Piemonte, modernizzarne lo Stato e promuoverne lo sviluppo economico; inserire la propria strategia nel contesto internazionale sfruttandolo in vista dei propri scopi; dividere le forze repubblicane, isolando i democratici e le correnti “estremistiche” legate a Mazzini, considerato da lui niente meno di un terrorista, e assimilandone una parte alla strategia della monarchia sabauda. Il ligure continuò infaticabilmente a contrapporre all’“iniziativa dall’alto” incarnata da Cavour, da lui denunciato come un nemico della democrazia, quella popolare e insurrezionale, subendo una irrimediabile sconfitta. Sennonché le due strategie, pur contrapposte, finirono per intrecciarsi nei cruciali anni finali del Risorgimento e concorrere entrambe al suo compimento. Ma fu Cavour a “tirare le fila”. Quando avvertí che il movimento nazionale aveva assunto, in un contesto internazionale maturato in senso favorevole, un’ampiezza tale da rendere non solo possibile ma inevitabile oltrepassare i confini dell’impostazione indipendentistaconfederale dando concretezza alla prospettiva dell’unità istituzionale, egli procedette arditamente in tale direzione, imponendo con vigore grazie alla

superiorità militare l’iniziativa piemontese. Fu destino storico di Mazzini di avere posto le basi politiche per la formazione prima e il consolidamento poi di un forte spirito unitario, ma di non essere riuscito a contrapporre alla monarchia sabauda una forza popolare democratica capace di dare allo Stato unitario fondamenta che non fossero quelle volute e imposte da Cavour. Questi ottenne cosí una brillante vittoria sul composito schieramento democratico, culminata nell’inglobare nel proprio disegno l’azione di Garibaldi, il prestigioso liberatore del Mezzogiorno, che, partito con le sue mille camicie rosse, portò a conclusione un’impresa che quasi nessuno, a partire dal conte, aveva creduto possibile. Un punto decisivo di forza nella visione politica di Cavour era stata la penetrante intelligenza con cui egli aveva compreso che non esistevano le condizioni favorevoli all’avvento dell’Italia auspicata dai democratici, basata sul suffragio universale e tanto meno, secondo i propositi della loro ala sinistra piú sensibile alla questione sociale, sul sovvertimento, a partire dal Sud, dei rapporti di proprietà nel settore agrario. Con estrema lucidità, il conte capí che nel Paese non avrebbe potuto avere successo una rivoluzione democratica e che, se mai la proprietà fosse stata veramente minacciata, non pochi sarebbero stati i democratici ad arretrare spaventati. Aveva espresso il suo pensiero in proposito fin dal 1846, quando aveva scritto: In Italia, una rivoluzione democratica non ha possibilità dí successo. Per convincersene, è sufficiente analizzare gli elementi che compongono il partito favorevole alle novità politiche. Questo partito non incontra grandi simpatie nelle masse che, fatta eccezione per certe limitate popolazioni urbane, sono in generale assai attaccate alle antiche istituzioni del Paese.

E aveva proseguito con queste parole, le quali avrebbero ricevuto piena conferma allorché in Sicilia nel 1860 furono capi garibaldini come Nino Bixio a reprimere sanguinosamente le insorgenze dei contadini che avevano dato inizio all’assalto alle proprietà dei loro padroni: Se l’ordine sociale venisse realmente minacciato, se i grandi principî sui quali esso è fondato corressero un pericolo vero, si vedrebbe, ne siamo certi, un buon numero dei frondisti piú determinati, dei repubblicani piú estremi, presentarsi fra i primi nelle file del partito conservatore 1.

Queste considerazioni mostrano come Cavour avesse piena coscienza della debolezza intrinseca del movimento democratico; il quale, se disponeva di una brillante élite politica e intellettuale, da un lato non poteva contare su strati sociali popolari sufficientemente ampi e dotati di un’adeguata omogeneità, in quanto costituiti da ristretti nuclei di lavoratori urbani e di artigiani, dall’altro non trovava un seguito attivo nelle masse rurali: povere, arretrate, prive di coscienza politica, quasi completamente analfabete, a cui i democratici non avevano un programma politico e sociale da offrire e a cui non potevano assicurare un’organizzazione e una guida efficace. Per contro il movimento liberale conservatore guidato da Cavour nel corso del Risorgimento fu sostenuto da un blocco di forze politiche e sociali dotato della solidità e compattezza che mancavano a quello democratico, cosí da poter esercitare una netta superiorità strategica su quest’ultimo. Il che rende pregnante il giudizio di Gramsci (pur rimasto ancorato alla convinzione, o piuttosto all’illusione, che sarebbe stata oggettivamente possibile la vittoria finale dei democratici se solo essi avessero saputo comprendere e utilizzare, in chiave “giacobina”, la potenziale forza rivoluzionaria delle masse contadine anzitutto del Mezzogiorno), che suona: mentre Cavour era consapevole del suo compito in quanto era consapevole criticamente del compito di Mazzini, Mazzini, per la scarsa o nulla consapevolezza del compito di Cavour, era in realtà anche poco consapevole del suo proprio compito 2.

E ancora: i moderati rappresentavano un gruppo sociale relativamente omogeneo, per cui la loro direzione subí oscillazioni relativamente limitate (e in ogni caso secondo una linea di sviluppo organicamente progressivo), mentre il cosí detto Partito d’Azione non si appoggiava specificamente a nessuna classe storica e le oscillazioni subite dai suoi organi dirigenti in ultima analisi si componevano secondo gli interessi dei moderati: cioè storicamente il Partito d’Azione fu guidato dai moderati 3.

2. La «piemontesizzazione» dello Stato unitario e la nascita di una nazione divisa.

Il Regno d’Italia costituitosi nel 1861 aveva 22 182 000 abitanti e un’estensione di 247 495 km 2. La maggiore delle sue città era Napoli, con circa 445 000 abitanti; seguivano Torino con circa 200 000, Milano, con circa 185 000, Firenze con circa 110 000. Roma, ancora papale, ne aveva poco piú di 180 000. L’unificazione politica del Paese rese necessario procedere alla costituzione di un nuovo Parlamento da eleggersi su base nazionale e secondo criteri di censo. Il corpo elettorale risultò essere di 418 696 persone, pari all’1,9% della popolazione. Degli aventi diritto al voto (riservato a coloro che avessero piú di 25 anni, appartenessero alle categorie professionali ammesse o pagassero al minimo tasse per 40 lire), solo il 57,2% si recò alle urne alle elezioni svoltesi il 27 gennaio 1861. Non andò a votare la maggioranza dei cattolici che seguí la direttiva lanciata da don Giacomo Margotti «né eletti, né elettori», a indicare l’opposizione allo “Stato usurpatore” che aveva oltraggiato il pontefice e violato i suoi diritti di sovrano temporale e quasi distrutto lo Stato della Chiesa annettendosi gran parte dei suoi territori e riducendolo al solo Lazio. Tra i 443 deputati della Camera, oltre 300 erano sostenitori del governo. La nobiltà ebbe una cospicua rappresentanza con 85 membri, 72 gli avvocati, 52 i docenti universitari e i professionisti, 28 gli appartenenti ai vertici delle forze armate. Tra i rappresentanti della sinistra vi erano il livornese Francesco Domenico Guerrazzi, il toscano Giuseppe Montanelli, il milanese Giuseppe Ferrari, il siciliano Francesco Crispi. Cattaneo, pur eletto, rifiutò di diventare deputato per non dover giurare fedeltà alla monarchia. La seconda camera del Regno era il Senato, composto da 222 membri nominati dal sovrano e scelti tra ex deputati ed ex membri del governo, eminenti funzionari, militari di rango, uomini di cultura, grandi proprietari. Il sistema era dunque bicamerale. Era però funzione preminente della Camera dei deputati l’approvazione delle leggi finanziarie e del bilancio dello Stato. Al Senato era riservato il compito di costituirsi in Alta Corte di giustizia per giudicare dei reati di alto tradimento, degli attentati alla sicurezza dello Stato e dei crimini commessi dai ministri posti in stato di accusa dalla Camera dei deputati. Cavour, volendo sottolineare la continuità istituzionale tra lo Stato sardo e lo Stato italiano – espressa significativamente dal fatto che il nuovo regno adottò come propria costituzione lo Statuto carloalbertino del 1848 – nonché

la sconfitta del Partito democratico che aveva innalzato la bandiera della repubblica e concepito la nascita delle istituzioni dell’Italia unita come frutto di un’Assemblea nazionale costituente eletta a suffragio universale, fece proclamare dal Parlamento Vittorio Emanuele II re d’Italia «per grazia di Dio e volontà della Nazione», dove il II stava a indicare che il regno andava inteso come l’ampliamento del precedente regno di Sardegna. Il 17 marzo 1861 ebbe luogo la proclamazione ufficiale del Regno d’Italia; e il 23 venne formato il primo governo dell’Italia unita, con presidente del Consiglio e ministro degli Esteri e della Marina Cavour, ministro degli Interni il bolognese Marco Minghetti, ministro dell’Istruzione l’avellinese Francesco De Sanctis, il grande critico letterario. Un illuminante aspetto della “piemontesizzazione” dell’Italia unita fu l’esito del dibattito tra i fautori di un ordinamento centralistico dell’amministrazione e i “regionalisti”, favorevoli a un sostanziale decentramento regionale. Minghetti, esponente di questi ultimi, presentò alla Camera un progetto che assegnava alle regioni, alle province e ai comuni consistenti margini di autonomia amministrativa; e alle regioni e alle loro istituzioni elettive, in particolare, poteri in materia di opere pubbliche, istruzione, sanità, agricoltura. I sindaci avrebbero dovuto essere elettivi. Rivolgendosi alla Camera il 13 marzo, disse in relazione alla secolare varietà delle leggi, delle tradizioni e delle abitudini del Paese: Non vogliamo la centralità francese. Per quanto grandi siano i pregi della centralità [...]; nondimeno tali sono gli inconvenienti che generalmente seco adduce, e che recherebbe piú specialmente in Italia, che io credo sia opinione comune in questa Camera e fuori che noi dobbiamo evitare accuratamente questo sistema 4.

I regionalisti persero la battaglia. Cavour si disse decisamente contrario a una «tirannia centralizzatrice», dichiarandosi favorevole per il futuro alla concessione di «un vero self-government alle regioni e alle province», ma non nel presente. Sostenne che il centralismo politico-amministrativo fosse necessario per impedire lo smembramento di un’Italia sí ormai unita dal punto di vista istituzionale, ma percorsa da assai pericolose tensioni particolaristiche e regionalistiche, retaggio dell’età precedente. Prevalse dunque il partito di coloro i quali temevano, con fondati motivi, che il decentramento alimentasse divisioni e opposizioni, facendo gravare inquietanti minacce su uno Stato ancora tutto da consolidare. In giugno-luglio

il progetto Minghetti venne lasciato di fatto cadere, anche se non ancora definitivamente; ma esso non sarebbe stato piú riproposto. Si decise l’estensione all’intera Italia delle leggi piemontesi sull’amministrazione degli enti locali, di carattere nettamente centralistico. Anche in questo campo venne quindi affermata la continuità con il Piemonte sabaudo. Il perfezionamento e il completamento dell’unificazione amministrativa e legislativa sarebbero stati attuati nel corso del 1865-66. Si stabilí che i sindaci fossero di nomina regia, che il controllo dei territori venisse affidato alla rete di prefetti direttamente responsabili di fronte al governo; e furono varati i codici civile, di procedura penale, del commercio e della marina mercantile. L’ispirazione veniva dai codici napoleonici. La magistratura, costituita da giudici di indirizzo conservatore, nonostante venisse proclamata formalmente la sua autonomia, fu sottoposta al controllo del ministero della Giustizia, che decideva in misura sostanziale del reclutamento, delle carriere e dei trasferimenti dei soggetti poco o per nulla graditi. Obbedendo allo spirito del tempo (dominante anche nella liberale Inghilterra), la condizione delle donne fu relegata in una posizione di netta inferiorità. Escluse dal voto, rese dipendenti dai mariti in materia patrimoniale, non ammesse a testimoniare nei tribunali, esse non ebbero neppure libertà di iniziativa nell’educazione della prole, affidata ai capifamiglia. Cavour e il liberalismo monarchico avevano cosí vinto la loro battaglia, sconfiggendo quel Partito d’Azione che, sebbene fosse stato per lunghi anni l’unico sostenitore dell’ideale dell’unità del Paese e avesse assunto l’ardita iniziativa della spedizione dei Mille che aveva consegnato il Mezzogiorno alla nuova Italia, non era stato in grado di reggere il confronto politico e sociale con le assai piú organiche e solide forze guidate dallo Stato piemontese. L’Italia uscita dal Risorgimento aveva raggiunto la sua unità istituzionale e politica, ma restava un Paese profondamente diviso: da un lato i liberali conservatori al potere; dall’altro, in aperta opposizione alla nuova classe dirigente, sia i democratici e i repubblicani, sia i cattolici i quali, guidati da un clero ostile, non votavano e restavano schierati dietro a Pio IX, obbedendo alla condanna da lui pronunciata contro l’unità italiana e i suoi promotori, sia i legittimisti borbonici e papalini, sia infine i contadini meridionali. Questi ultimi, i quali avevano creduto che dalla “rivoluzione” avrebbero ricevuto la terra e vedevano ora i padroni trasformatisi in amici ferventi dei “piemontesi” erettisi a loro protettori, presto avrebbero

alimentato quella ribellione sociale che, sfruttata politicamente e in parte diretta dai legittimisti, sarebbe stata marchiata dalle nuove autorità come una «guerra di brigantaggio», aprendo nel Mezzogiorno il drammatico capitolo di una sanguinosa guerra civile, implacabilmente repressa dall’esercito. Venne cosí a crearsi un vero e proprio divorzio tra la nuova classe dirigente e le masse povere del Sud, destinato a protrarsi nel tempo. Un aspetto assai importante e significativo del modo in cui vennero gettate le basi dello Stato unitario fu l’unificazione delle forze armate. Anche in questo settore il criterio fu quello della “piemontesizzazione”, che rispose essenzialmente a due esigenze: far valere il peso oggettivamente preponderante dell’esercito sardo rispetto alle minori forze dei disciolti eserciti dell’Italia centrale e meridionale; tradurre anche in chiave militare la sconfitta subita dalla sinistra democratica, emarginando e infine smantellando l’esercito garibaldino protagonista della sconfitta di quello borbonico. Va fatto preliminarmente notare che il nuovo esercito nazionale – la cui nascita venne formalmente proclamata il 4 maggio 1861 –, dopo la conclusione della Seconda guerra del Risorgimento e prima dell’inizio della guerra del 1866 condotta a fianco della Prussia contro l’Austria, assunse primariamente il compito di controllo del territorio per fronteggiare le minacce interne: le insorgenze popolari, i nuclei residuali costituiti per un verso dagli oppositori della sinistra democratica e per l’altro dai borbonici e dai papalini. Dunque, un ruolo di carattere poliziesco, reso indispensabile dalla debolezza delle forze propriamente di polizia e dalla esiguità del corpo dei carabinieri, che si aggirava intorno ai 20 000 uomini. La decisione del governo, a cavallo tra la fine del 1860 e l’inizio del 1861, di respingere la richiesta di incorporazione nell’esercito nazionale di quello garibaldino il 18 aprile 1861 suscitò in Parlamento una tempesta politica e la veemente indignata protesta di Garibaldi. Unica eccezione era stato l’inserimento nel maggio 1860 dei Cacciatori delle Alpi che, sotto il comando di Garibaldi, avevano partecipato alla guerra del 1859. Ciò che venne concesso fu unicamente l’accoglimento nelle file dell’esercito di soldati e ufficiali garibaldini (questi ultimi in numero inferiore ai 2000) a titolo individuale dopo il parere favorevole di una commissione. Non furono inseriti soldati semplici dell’ex esercito borbonico, mentre vennero accolti 2300 ufficiali. Altri ufficiali vennero dalle divisioni lombarde e dalle disciolte forze toscane ed emiliane; sicché nel 1861 l’esercito unitario – saldamente nelle mani dei generali piemontesi – giunse a

disporre di circa 9500 ufficiali. Problemi assai meno difficili pose l’unificazione delle marine. La marina italiana risultò dalla fusione di quella piemontese con quella napoletana, con l’aggiunta di un piccolo numero di navigli già toscani e garibaldini. L’esercito di terra italiano si presentò fin dagli inizi scarsamente addestrato. L’amalgama non fu accompagnato da significativi episodi di insubordinazione; la macchina della disciplina funzionò. Il reclutamento venne condotto su base nazionale e non già regionale, rispondendo alla preoccupazione di impedire il sorgere di solidarietà locali specie tra i contadini meridionali, che avevano risentito fortemente dell’introduzione della leva obbligatoria – non in vigore nel regno borbonico – introdotta in tutto il territorio italiano. Determinante era l’influenza del re sulle forze armate, anche se questa allora, e anche in seguito, non fu mai tale da entrare in contrasto con l’autorità del Parlamento. La scelta del ministro della Guerra – sistematicamente un generale, per lo piú un piemontese – derivava dall’intesa tra il sovrano e il presidente del Consiglio.

3. La battaglia di Cavour per la separazione di Chiesa e Stato. La vita della nuova Italia dovette subito fare i conti con la gravissima frattura tra la Chiesa cattolica e lo Stato, che Cavour aveva cercato in tutti i modi di evitare. Laico convinto, personalmente non credente ma proclamantesi cattolico nella sfera pubblica, ben consapevole dell’importanza cruciale dei rapporti tra le due autorità, aveva costantemente auspicato la pacificazione politico-religiosa e difeso i principî della libertà di coscienza e di culto. Fin dal 1848 aveva mostrato avversione per l’art. 1 dello Statuto carloalbertino che proclamava quella cattolica l’unica religione dello Stato sabaudo, e guardato con approvazione all’esempio degli Stati Uniti, dove era stata affermata «l’assoluta separazione della Chiesa dallo Stato». Rendendosi conto delle gravi tensioni causate da una contrapposizione frontale tra i cattolici e i liberali aveva mirato negli anni del suo governo nel regno sardo alla normalizzazione dei loro rapporti, che però era stata impedita dalla destra clericale intransigentemente antiliberale; e, avvertendo gli effetti negativi che potevano venire al funzionamento delle istituzioni da quella sorta di monopolio politico tenuto dal governo del Partito liberale in seguito al

«connubio» delle forze di centro-destra e di centro-sinistra di cui era stato l’artefice nel 1852, si augurava il superamento delle condizioni venute a crearsi. Per questo aveva ripetutamente auspicato la formazione di un partito cattolico che, abbandonato il clericalismo anti-istituzionale e conciliatosi con il liberalismo moderno, si inserisse a pieno titolo nella dialettica politica e nello Stato, assumendo la fisionomia di una forza conservatrice «costituzionale». Nel 1861, pochi mesi prima della morte, Cavour affrontò la grande questione dei rapporti tra Stato e Chiesa cattolica, ben sapendo quanto fosse destinata a pesare e a condizionare il futuro dell’Italia unita. Affermò di non considerare «maggiore sventura» per un popolo che «vedere riunita in una sola mano, in mano de’ suoi governanti, il potere civile e il potere religioso», espressione del «piú schifoso dispotismo» 5; invitò la Chiesa a comprendere che un regime di separazione avrebbe non già diminuita bensí accresciuta l’autorità del papa; ma ammoní che «se il pontefice volesse impegnare contro la nazione» una «lotta fatale», allora la responsabilità sarebbe andata a coloro che si fossero opposti alla «pace fra la Chiesa e lo Stato, fra lo spirito di religione e i grandi principii della libertà» 6. E disse solennemente: «Noi siamo disposti a proclamare nell’Italia questo gran principio: Libera Chiesa in libero Stato» 7. Ma Pio IX e la Chiesa accolsero la proposta con un rifiuto senza appello: cosí ebbe inizio il contrasto tra la Chiesa e lo Stato che, con toni piú o meno acuti a seconda dei tempi, avrebbe segnato il percorso dello Stato liberale fino all’avvento del fascismo. 1. Tutti gli scritti di Camillo Cavour, raccolti e curati da C. Pischedda e G. Talamo, vol. II, Centro Studi Piemontesi, Torino 1976, p. 952. Il testo originale è in francese. 2. A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, vol. III, pp. 1767-68. 3. Ibid., p. 2010. 4. M. Minghetti, Discorsi parlamentari, vol. I, Tipografia della Camera dei Deputati, Roma 1888, p. 103. 5. C. Cavour, Discorsi parlamentari, vol. XV, a cura di A. Saitta, La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 487. 6. Ibid., pp. 500-1. 7. Ibid., p. 518.

Capitolo secondo L’Italia nell’età della Destra storica

1. I problemi e le difficoltà del nuovo Stato unitario. Nel 1861, nonostante il Veneto e il Trentino fossero ancora sotto il dominio austriaco e Roma restasse papale, l’Italia aveva raggiunto sostanzialmente la sua unità nazionale. I problemi all’ordine del giorno erano di enorme portata. Anzitutto vi era quello, estremamente complesso per un Paese che dalle secolari divisioni delle entità statali che lo componevano aveva ereditato differenziazioni di ogni tipo, di tradurre l’unità politicoistituzionale in unità amministrativa. Bisognava unificare i codici, i bilanci, le forze armate, creare un apparato burocratico e un’organizzazione militare omogenei. In secondo luogo occorreva elaborare una linea di sviluppo economico partendo dalla varietà degli interessi e delle esigenze e dalle caratteristiche sociali ed economiche delle singole regioni che configuravano uno Stato in una condizione di globale arretratezza rispetto agli Stati piú avanzati dell’Occidente europeo. In terzo luogo, bisognava dare una salda direzione politica a un Paese esposto ad acute tensioni politiche e sociali: si pensi solo al brigantaggio di segno antiunitario presto divampato nel Mezzogiorno, alla grande miseria delle masse sia urbane sia contadine, all’aspro conflitto fra liberali e cattolici e al fatto che le correnti sconfitte dei democratici e dei repubblicani negavano come i cattolici il loro consenso all’ordine costituito. Un motivo di palese debolezza per le forze di governo era il fatto che settori consistenti della plebe rurale meridionale, gli ambienti in cui si annidavano le residue correnti del legittimismo, i cattolici decisi a non votare alle elezioni e a non partecipare alla vita politica, i democratici repubblicani convergevano nel formare un composito fronte che negava legittimità al nuovo Stato monarchico e liberale. In quarto luogo, si doveva trovare una soluzione al complesso problema dei rapporti con la Chiesa e dell’unificazione di Roma al resto del Paese. Era poi necessario prepararsi a una nuova guerra per strappare all’Austria il Veneto. Infine, veniva la delicata questione della collocazione dell’Italia nei rapporti internazionali in un’età che avrebbe visto in Europa la guerra del 1866, il crollo dell’Impero di

Napoleone III nel 1870 e la formazione del Reich germanico nel 1871. Nel quindicennio in cui la Destra liberale resse le sorti del Paese dalla morte di Cavour avvenuta il 6 giugno 1861 fino al 1876, quando cedette il potere ai liberali della Sinistra, la classe dirigente riuscí, affrontando molteplici difficoltà, alcune delle quali di estrema gravità, a svolgere un’azione imponente per conseguire l’obiettivo di rinsaldare il fragile organismo unitario. Venne attuata l’unificazione amministrativa, fu creata una burocrazia italiana e organizzato un esercito nazionale; il brigantaggio meridionale fu stroncato; i pericoli borbonico e clericale furono il primo eliminato e il secondo contenuto; il Veneto e Roma furono uniti allo Stato; Stato e Chiesa trovarono un modus vivendi destinato a consolidarsi nonostante l’intransigenza papale. Ma ciascuno di questi successi ebbe il suo pesante rovescio. Per unificare amministrativamente il Paese si procedette a estendere la legislazione piemontese che mal si adattava alle diversità regionali. Per stroncare il brigantaggio si mise in atto una repressione militare accompagnata da un fiume di sangue, che non abolí le radici principalmente sociali ed economiche del suo divampare e suscitò un duraturo aspro risentimento nelle masse meridionali, che alimentò la loro profonda ostilità verso lo Stato. Per conquistare il Veneto si condusse una guerra che risultò vittoriosa solo grazie ai trionfi della Prussia e umiliò l’Italia in conseguenza delle gravissime sconfitte subite. Per affrontare il nodo di Roma mediante il ricorso alla forza, si accrebbero le tensioni fra Stato e Chiesa in un Paese a stragrande maggioranza cattolica. Per esercitare un controllo politico e sociale in grado di fronteggiare le opposizioni e le tensioni politiche e sociali, la borghesia settentrionale rinsaldò l’alleanza di interessi stabilita fin dal 1860 con i proprietari terrieri del Sud sulla base di un forte conservatorismo sociale, inducendo le masse popolari a vedere in quello italiano “lo Stato dei signori”. E per assicurare alle finanze pubbliche la possibilità di sopravvivenza, la classe dirigente ricorse a un fiscalismo con tratti di implacabilità che colpí in maniera del tutto sproporzionata e squilibrata i contadini e i lavoratori in genere, e fu causa determinante di ripetuti moti di protesta e di esplosioni di violenza ribellistica persino significativamente nutriti di nostalgia per i piú miti regimi preunitari. L’Italia si presentava sulla scena europea come uno Stato politicamente giovane, militarmente debole, economicamente e socialmente arretrato e chiamato a misurarsi con le molteplici difficoltà che incontrava la sua

modernizzazione: ultima delle maggiori potenze del continente, prima di quelle di secondo rango. In questo contesto, la «Destra storica», l’élite dirigente dello Stato che si trovò a governare l’Italia nel primo quindicennio – i cui membri appartenevano prevalentemente al ceto dei proprietari terrieri, degli imprenditori, dei professionisti e degli intellettuali di elevato livello in un amalgama tra aristocratici e alta borghesia che aveva la sua prevalente collocazione territoriale nell’Italia settentrionale e centrale, ma era affiancata nel Mezzogiorno da personalità come Silvio Spaventa e Francesco De Sanctis – reagí alle difficoltà che ne segnavano il cammino assumendo uno stile di governo che mostrava, nonostante la sua natura di forza liberale conservatrice, un tratto “giacobino”, e faceva leva sulla sua relativa eppure consistente omogeneità sociale. Essa era consapevole di vivere in una situazione di “emergenza”, di dover affrontare compiti eccezionali poggiando su basi rese precarie dall’intransigente opposizione sia della Chiesa sia delle forze della democrazia repubblicana, sconfitte ma pur sempre presenti e attive; di scontare la mancanza di consenso da parte delle masse lavoratrici; e di dover misurarsi con l’arretratezza degli apparati produttivi nazionali nel loro complesso. La Destra mancava, insomma, di un appoggio sufficientemente ampio e stabile. Da ciò il “giacobinismo” di cui si è detto, che nutriva nelle sue file l’idea dello “Stato etico”, avente il compito di tenere ferme le redini del potere e unite le deboli membra di una società percorsa da forti tendenze centrifughe. Nel 1886 il napoletano Spaventa avrebbe dato una classica espressione a questa concezione affermando che lo Stato «è intrinseco a noi come il nostro naturale organismo», veicolo di un volere finalizzato al «bene comune»: un volere «organizzato fuori di noi sotto il nome di Stato» 1. Un’alta lode delle virtú della Destra avrebbe levato nella sua Storia d’Italia dal 1871 al 1915 Benedetto Croce, scrivendo che «di rado un popolo ebbe a capo della cosa pubblica un’eletta di uomini come quelli della vecchia Destra» 2: un giudizio che, depurato dall’enfasi, ha giustificazione e fondamento.

2. La situazione economico-sociale dell’Italia nel 1861. Il Partito liberale, che dal 1861 resse il governo, rispecchiava fedelmente al suo interno i rapporti fra le varie componenti della classe dirigente che

tenevano nelle loro mani il destino del Paese. Accanto ai gruppi capitalistici industriali e agrari piú dinamici del Nord e del Centro, piuttosto ristretti, stavano i latifondisti meridionali, proprietari di vaste terre in gran parte mal coltivate, quando non abbandonate all’incuria: tutti consideravano dovere del nuovo governo unitario di condurre l’impresa della costruzione dello Stato avendo come stella polare anzitutto la tutela degli interessi degli strati socialmente e politicamente dominanti. Se si tiene conto che nel Sud e nelle isole la grande proprietà terriera arretrata poggiava su relazioni di fatto semifeudali, si può comprendere come la classe dirigente italiana non potesse che apparire agli occhi contadini del Mezzogiorno – sottoposti a una sorta di effettiva servitú – alla stregua di una forza nemica. Il grave ritardo del Sud ebbe conseguenze assai rilevanti, poiché, data la limitatezza della base industriale, l’economia italiana si trovò fin dai suoi inizi sotto il peso di un’accentuata arretratezza nel settore di gran lunga prevalente della produzione, cioè quello agricolo, e – in conseguenza di quella vera e propria guerra civile che furono il brigantaggio e la sua repressione – della menzionata drammatica frattura tra i contadini meridionali e lo Stato. Anche nel Nord e nel Centro la situazione presentava rilevanti debolezze: il capitalismo moderno nell’agricoltura aveva dimensioni ristrette; vi predominavano, infatti, la grande e media proprietà con una modesta capacità di investimenti, accanto a una piccola proprietà spesso non in grado di sfamare coloro che vi lavoravano, i quali vivevano ancora in larga misura in una condizione di isolamento. Il netto predominio del settore agricolo nell’economia nazionale era mostrato dal dato che nel 1861 l’agricoltura forniva circa il 58% del prodotto lordo nazionale, impiegando il 70% della manodopera, di contro a un’industria – compreso il settore artigianale – che dava il 20% del prodotto con il 18% della manodopera e a un settore terziario da cui veniva il 22% del prodotto con il 10% della manodopera. Il generale ritardo del Paese risultava evidente anche dal rapporto cittàcampagna. Nel 1861 l’Italia, comprendendo il Veneto allora ancora sotto il dominio austriaco, con circa 26 milioni di abitanti, aveva un grado elevatissimo di urbanizzazione dovuto alle caratteristiche del suo sviluppo storico; ma, nella maggior parte dei casi, si trattava di città dal punto di vista produttivo largamente parassitarie, cioè di centri che vivevano sulle campagne senza essere in condizione, se non in misura assai limitata, di fornire a queste prodotti industriali; soltanto Torino, Milano, Genova e alcune

altre città del Nord e del Centro, con la quasi assenza del Sud, si presentavano in parte con una diversa connotazione. Napoli, allora la maggiore città italiana con circa mezzo milione di abitanti, era un grande centro di consumo senza alcuna consistente risorsa produttiva. Si limitavano a venti le città italiane che superavano i 50 000 abitanti, dislocate nel CentroNord, con l’eccezione di Napoli, Palermo e Catania. Si tenga poi conto delle diverse caratteristiche del tessuto abitativo nel Centro-Nord rispetto al Sud per quanto riguardava la popolazione rurale, che costituiva la grande maggioranza nel Paese. Nel primo le campagne vedevano un’abbastanza diffusa presenza di case in campagne variamente coltivate, mentre nel secondo i contadini, a protezione dalla malaria, vivevano in grossi borghi collocati in zone collinari e montagnose, dai quali scendevano per lavorare durante la giornata nei grandi latifondi pressoché privi di vegetazione e di abitazioni. Un altro indice dell’arretratezza del Paese in generale e del Sud in particolare era offerto dal bassissimo grado di alfabetizzazione. Gli analfabeti superavano in Italia il 70%: circa il 75% nel Veneto; nelle regioni piú avanzate (Lombardia, Piemonte e Liguria) la percentuale si abbassava al 5354%, ma nel Mezzogiorno e nelle isole saliva a poco meno del 90%. Nel Centro la media si aggirava intorno all’80%. Il realtà, la situazione risultava ancora piú negativa considerando il semianalfabetismo. Un gravissimo ostacolo allo sviluppo civile ed economico era rappresentato inoltre dalla limitatezza della rete ferroviaria dello Stato e dalla sua dislocazione. Nel 1861, comprendendo i territori ancora soggetti al dominio austriaco, essa ammontava a 2743 km, di cui il 90% in Piemonte e Lombardia; la grande parte dell’Italia centrale e meridionale e le isole erano prive di collegamenti ferroviari. Il Sud si fermava a poco piú di 100 km, concentrati quasi completamente nel Napoletano. Anche la rete stradale mostrava una marcatissima inferiorità delle regioni meridionali, dove la rete stradale era di circa 15 000 km mentre nel Centro-Nord di circa 75 000. Il che costituiva un impedimento molto grave alla formazione di un vitale mercato nazionale. Alla povertà del Paese facevano riscontro le forti necessità di spesa da parte del nuovo Stato, che doveva provvedere alla ristrutturazione dell’apparato amministrativo-burocratico, i cui addetti si aggiravano intorno ai 50 000, al mantenimento delle forze armate, all’istruzione, alle

comunicazioni. La situazione di partenza delle finanze si presentava assai sfavorevole ove si tenga presente che nel 1861, in seguito all’unificazione dei bilanci degli ex Stati italiani e in conseguenza dei debiti elevatissimi del Regno sardo causati dalle spese sostenute per le guerre del Risorgimento, il debito pubblico era enorme e il bilancio dello Stato registrava un disavanzo di circa mezzo miliardo. Di qui, anche in relazione a un sistema che colpiva assai moderatamente la rendita fondiaria e gravava soprattutto sui consumi popolari, la genesi di un durissimo fiscalismo destinato a provocare ricorrenti e violente reazioni popolari.

3. La morte di Cavour. Destra e Sinistra dopo di lui. Cavour lasciò una gravosa eredità, senza che nessuna fra le personalità piú eminenti della sua corrente potesse avvicinarglisi per le qualità di statista. Secondo una celebre testimonianza trasmessa dal suo biografo William de La Rive, nel suo letto di morte Cavour indicò quattro direttrici per la futura politica italiana: la necessità di amalgamare Nord e Sud, tener fermo al metodo liberale di governo, il compimento dell’unità nazionale, la soluzione della questione religiosa e romana secondo il principio della separazione dello Stato e della Chiesa nella reciproca libertà e indipendenza. Ecco alcune fra le sue parole, cosí come sono state tramandate: L’Italia settentrionale è fatta. Non vi son piú né Lombardi, né Piemontesi, né Toscani, né Romagnoli, noi siamo tutti Italiani; ma vi sono ancora i Napoletani. [...] Niente stato d’assedio, nessun mezzo da governo assoluto. Tutti son buoni di governare collo stato d’assedio […]. No, niente stato d’assedio: ve lo raccomando 3.

E al frate giunto con l’olio santo, disse: Frate, frate, libera Chiesa in libero Stato! 4.

La morte prematura del grande statista – aveva appena superato i cinquant’anni – a Torino provocò una grande e diffusa commozione e costernazione in tutti gli strati della popolazione. Non fu cosí tra coloro che erano stati i maggiori leader del Risorgimento e i suoi avversari politici. A

non essere particolarmente infelice fu anzitutto re Vittorio, nel quale Cavour, un primo ministro dalla incombente e superiore personalità, aveva suscitato gelosia e molta insofferenza. Nella sua memorabile biografia del conte, Rosario Romeo ha riportato le reazioni del sovrano, di Mazzini, Garibaldi, Cattaneo e della «Civiltà Cattolica». Il re – scrive lo storico –, obbedendo a un odio «invincibile», «col pretesto degli obblighi di studio vietò che i principi reali partecipassero ai funerali»; il capo sconfitto del Partito d’Azione «ritenne “vantaggiosa” la morte del conte»; l’eroe dei due mondi «restò fermo nella sua chiusa ostilità»; il grande intellettuale milanese prima definí l’estinto un «idiota», poi un «furbo»; l’organo dei gesuiti «vide nella morte del conte una “vendetta celeste”» 5. Si sono voluti menzionare questi atteggiamenti impietosi per sottolineare quali ostilità e divisioni, non solo politico-ideologiche ma anche umane, sopravvivessero nell’Italia appena unificata: ostilità e divisioni destinate a perpetuarsi, mutatis mutandis, negli annali successivi della storia del Paese. Per quanto riguarda la “strategia” dell’unificazione, Cavour aveva agito nell’ultimo periodo della sua vita in modo da preparare l’estensione al resto d’Italia degli ordinamenti politici e amministrativi del Regno sardo. Nonostante fosse ideologicamente orientato verso il decentramento amministrativo, si adoperò sul piano parlamentare per l’affermazione, poi pienamente attuata, di un sistema amministrativo centralistico ispirato al modello napoleonico e quindi per l’accantonamento del progetto Minghetti. La preoccupazione dei moderati, destinata a diventare una “ossessione”, era di creare un sistema di controllo politico amministrativo sicuro, efficiente ed esteso in maniera uniforme a tutto il Paese. Prefetti e sindaci nominati dal centro divennero i simboli della volontà unitaria dello Stato. Importanti conseguenze ebbe anche l’entrata in vigore della legge Casati sulla scuola, che era stata approvata nel 1859 in Piemonte. Questa legge rispecchiava un’impostazione elitaria, con il privilegiamento conferito all’istruzione classica, in un Paese dove sarebbe stato necessario potenziare l’istruzione tecnica e popolare. Si volle da un lato con il centralismo alla francese – attraverso cui passò la “piemontesizzazione” legislativa e burocratica – garantirsi contro le tendenze municipalistiche e regionalistiche e in generale centrifughe; e dall’altro, con un corpo elettorale molto ristretto, reclutato sulla base del censo (meno del 2% degli adulti maschi), fronteggiare le tensioni politiche e

sociali provenienti dal basso impedendo loro di trovare una sponda a livello parlamentare. Cogliere l’eredità politica di Cavour e assumere la guida del governo dopo la sua morte fu il compito di coloro che formavano la Destra, in seguito definita «storica», nello schieramento parlamentare. Ne facevano parte conservatori che, per lo piú del Nord e del Centro, intendevano la difesa dell’appena costituita unità nazionale e il consolidamento del nuovo Stato come una missione, nel duplice aspetto di esercizio intransigente dei propri doveri pubblici e di difesa degli interessi sociali delle classi alte, dando al proprio liberalismo un carattere di chiusura verso ogni allargamento agli strati inferiori in quanto incolti, nella grande maggioranza addirittura privi del controllo dell’alfabeto, ritenuti incapaci di giudizio e sensibili ai messaggi demagogici. Le figure piú rappresentative della Destra provenivano dalla classe dirigente subalpina, come Urbano Rattazzi, Quintino Sella, Giovanni Lanza, Alfonso La Marmora; o dalle file dei moderati del resto d’Italia, come i toscani Bettino Ricasoli e Ubaldino Peruzzi, i lombardi Emilio Visconti Venosta e Stefano Jacini, gli emiliani Marco Minghetti e Luigi Carlo Farini, i meridionali Silvio Spaventa, Antonio Scialoja, Ruggero Bonghi, Francesco De Sanctis. Alla Destra si contrapponeva la Sinistra, anch’essa poi definita «storica», che univa esponenti da un lato della sinistra costituzionale moderata cui appartenevano il lombardo Agostino Depretis e il piemontese Angelo Brofferio e dall’altro ex mazziniani e garibaldini come il siciliano Francesco Crispi, il lombardo Benedetto Cairoli, il calabrese Giovanni Nicotera, i lombardi Giuseppe Zanardelli e Agostino Bertani, i quali gradualmente, abbandonata la pregiudiziale repubblicana, avevano aderito alla monarchia. Ridottasi la repubblica a un’alternativa ideologica priva di concretezza, nonostante Mazzini mantenesse attiva la sua agitazione antimonarchica, la Sinistra faceva valere di fronte alla Destra, pur fra molti contrasti e differenziazioni, la richiesta di un piú ampio suffragio fino al limite di quello universale e il principio dell’iniziativa popolare nel proseguimento delle lotte per acquisire all’Italia Roma e il Veneto, denunciando le tendenze oligarchiche della Destra e l’insufficienza delle azioni diplomatiche dirette a completare l’unità nazionale. Anche socialmente Destra e Sinistra si differenziavano: la prima era legata all’aristocrazia e alla grande borghesia; la seconda aveva una base in larga misura medio e piccoloborghese. Dal punto di vista della loro organizzazione interna, le due

formazioni non costituivano certo partiti di tipo moderno. Data la limitatezza del suffragio e quindi non dovendo influenzare e tanto meno organizzare grandi masse, ma solo ristrette élites, erano essenzialmente “partiti di notabili”, movimenti di opinione, i cui esponenti si legavano agli elettori attraverso le proprie “clientele” e, in occasione del rinnovo del Parlamento, i rispettivi comitati elettorali.

4. Il compimento dell’unità nazionale. La guerra del 1866 e la presa di Roma nel 1870. Dopo la morte di Cavour, la guida del governo passò tra il giugno 1861 e il febbraio 1862 a Bettino Ricasoli. Di convincimenti cattolici e ansioso di favorire la riforma morale della Chiesa, in relazione alla questione di Roma proseguí i contatti che Cavour aveva senza esito avviato con il papa tra la fine del 1860 e gli inizi del 1861 chiedendo la rinuncia al potere temporale da parte del pontefice e un regime separatista fra Stato e Chiesa. Ma anch’egli fallí. Pio IX non condivideva naturalmente la convinzione di Ricasoli che la fine del potere temporale e un regime di piena libertà per la Chiesa potessero costituire la premessa per un corso di normalizzate relazioni reciproche, tanto piú che, forte dell’appoggio di Napoleone III, era deciso a resistere sfidando la “provocatoria” proclamazione di Roma a capitale d’Italia da parte del Parlamento italiano nel marzo 1861. Di fronte alle richieste di iniziative ardite verso il Veneto e Roma provenienti da Garibaldi e alle manovre del re fautore di una politica meno timorosa di complicazioni internazionali e in grado di portare al compimento dell’unità, Ricasoli cedette il potere al candidato di Vittorio Emanuele, Urbano Rattazzi. Volendo riprendere le direttrici della strategia cavouriana, Rattazzi si avventurò per una strada spericolata: pensò di favorire in maniera coperta l’iniziativa di Garibaldi, cosí da non compromettere apertamente lo Stato, e raccoglierne i frutti. Il primo ministro e il re non valutarono le implicazioni dell’ostilità, aperta e decisa, di Napoleone III, che mirava a farsi perdonare dai clericali francesi l’alleanza con il Piemonte e la guerra del 1859, e dell’impossibilità dell’Italia di sostenere da sola una guerra contro l’Austria. Dal canto suo Garibaldi, credendo di avere via libera, si diede a reclutare un corpo di spedizione per accendere la guerra nel Veneto. A questo punto

Rattazzi fu costretto a fare i conti con la sua ambiguità; e, preso dal timore di un conflitto con l’Austria, il 14 maggio 1862 fece sciogliere con la forza a Sarnico le forze garibaldine e arrestare oltre cento volontari. Seguirono dimostrazioni, con alcuni morti. Garibaldi allora puntò su un’azione verso Roma. Per prepararla, si recò in Sicilia a fine giugno, dove lo raggiunsero volontari provenienti da tutta Italia. Napoleone III protestò energicamente, mentre Vittorio Emanuele e i moderati intravidero la minaccia che l’impresa garibaldina potesse favorire, a maggior ragione in caso di successo, la ripresa politica dei democratici. Il re sconfessò allora la spedizione. Venne proclamato lo stato d’assedio nelle province napoletane. Ciò nonostante Garibaldi e i suoi volontari, sbarcati in Calabria, iniziarono la marcia verso Nord. Il governo reagí ordinando alle truppe regie di fermare i volontari, ammontanti a circa 1500. I soldati, incontratisi il 29 agosto 1862 nell’Aspromonte con i garibaldini, aprirono il fuoco con il risultato che vi furono sette morti tra i volontari, cinque tra i soldati e 34 feriti fra le due parti. Alcuni soldati che si erano uniti ai volontari furono passati per le armi. Lo stesso Garibaldi, che tentò vanamente di impedire ai suoi di sparare, fu ferito. Arrestato e deportato nel forte di Varignano, dopo essere stato amnistiato si ritirò a Caprera. La reazione nell’opinione pubblica fu vivissima. Rattazzi, messo in crisi in Parlamento dall’accaduto, nel novembre 1862 rassegnò le dimissioni. Dopo un ministero di breve durata presieduto da Farini, durante il quale venne varata una commissione d’inchiesta sul brigantaggio meridionale, nel marzo 1863 fu nominato presidente del Consiglio Minghetti. Durante il suo governo, due furono le iniziative piú significative: nell’agosto di quell’anno l’approvazione di una legge speciale sulla repressione delle insorgenze nel Sud (detta legge Pica dal cognome del deputato che la presentò); poi la negoziazione con la Francia di un compromesso relativo a Roma – con l’intento da parte italiana di trovare un accomodamento con l’imperatore francese e di mettere il Partito d’Azione di fronte al fatto compiuto di una soluzione – culminata il 15 settembre 1864 nella sottoscrizione da Italia e Francia della cosiddetta «convenzione di settembre», con la quale la prima si impegnava a rispettare Roma e a difendere lo Stato pontificio da qualsiasi attacco esterno e la seconda a ritirare le proprie truppe da Roma entro due anni. A garanzia dell’impegno assunto dall’Italia, l’imperatore pretese che il governo sottoscrivesse un protocollo in base al quale la capitale del Paese

sarebbe stata trasferita entro sei mesi da Torino in un’altra città, che poi sarebbe risultata essere Firenze. La convenzione venne firmata dal governo italiano in realtà senza pensare affatto a una definitiva rinuncia a Roma, ma in attesa di nuovi sviluppi in situazioni piú favorevoli. La decisione di trasferire la capitale provocò il 21-22 settembre violenti disordini nella capitale del Risorgimento, Torino, repressi cosí duramente da provocare 52 morti e 187 feriti. I torinesi temevano fra l’altro gli effetti economici della perdita degli uffici ministeriali. Come Rattazzi dopo Aspromonte, cosí Minghetti dopo i fatti di Torino il 23 settembre dovette lasciare il potere, che passò al generale Alfonso La Marmora, sotto il cui governo l’11 dicembre 1864 fu approvata la legge di trasferimento della capitale a Firenze. L’abbandono di Roma da parte delle truppe francesi fu completato nel dicembre 1866. Firmata la convenzione di settembre, non giovò ai rapporti fra lo Stato liberale e la Chiesa la totale condanna di tutti gli «errori» moderni, fra cui il liberalismo, emessa da Pio IX nel dicembre 1864 con il Sillabo, secondo uno spirito di vero e proprio oscurantismo. Rispettivamente nel marzo e nell’aprile 1865 vennero varate leggi relative all’unificazione amministrativa del regno e all’introduzione dei codici civile, di procedura civile, del commercio e della marina mercantile. Fu durante il governo La Marmora che giunse dalla Prussia l’offerta di un’alleanza militare contro l’Austria; offerta cui non si opponeva Napoleone III, il quale considerava con favore una guerra fra le due potenze germaniche, sperando che l’indebolimento di entrambe consentisse alla Francia di stabilire senza ostacoli la sua egemonia sull’Europa continentale. Firmata a Berlino l’8 aprile 1866, l’alleanza scattò per iniziativa del cancelliere Bismarck, che il 17 giugno ordinò all’esercito prussiano di attaccare l’Austria. La guerra – la terza guerra d’indipendenza – fu dichiarata dall’Italia il 20; il suo successo prevedeva l’acquisizione dei territori italiani ancora in possesso dell’Austria. La Marmora si dimise per assumere il comando dell’esercito lasciando la guida del governo a Bettino Ricasoli. La guerra segnò il trionfo dell’alleato e l’umiliazione dell’Italia, il cui esercito e flotta andarono incontro a brucianti sconfitte per la pessima direzione e le inadeguate organizzazione e preparazione. Nel dicembre 1864, quindi pressoché alla vigilia della guerra, il vertice dell’esercito era costituito da 150 generali, al cui comando si trovava un corpo di 15 200 ufficiali tra alti e inferiori. Il comando supremo era nelle

mani di un ristretto gruppo di generali piemontesi. Nell’insieme l’esercito appariva relativamente stabilizzato dal momento che la renitenza alla leva era scesa a meno del 6%, anche se il numero dei disertori restava abbastanza elevato. Negli anni immediatamente precedenti al 1866 il numero complessivo dei militari aveva oscillato tra i 250 e i 300 000. La conduzione del conflitto fu segnata fin dagli inizi da una gravissima mancanza di intesa nello svolgimento delle operazioni, causata anzitutto dalla rivalità tra i generali La Marmora ed Enrico Cialdini. Essi non riuscirono a coordinare i movimenti delle loro truppe, e, nonostante godessero di una schiacciante superiorità numerica sugli austriaci (220 000 uomini con 452 cannoni, e inoltre 38 000 volontari guidati da Garibaldi, contro 75 000 avversari con 152 cannoni) vennero duramente battuti. Mentre La Marmora affrontava gli austriaci a Custoza il 24 giugno, Cialdini rimase fermo con le sue truppe sulla linea del basso Po. Dal canto suo, l’ammiraglio Carlo Pellion di Persano, che pure disponeva di una flotta piú numerosa e dotata di maggiori armamenti ma piú lenta di quella austriaca (12 corazzate e 13 grandi navi italiane contro 7 corazzate austriache e 7 altre grandi navi), pressato dal governo ad agire per rimediare al disastro cui era andato incontro l’esercito, si fece battere a Lissa il 20 luglio dall’ammiraglio Wilhelm von Tegetthoff, perdendo due corazzate e dimostrando la totale incapacità di comando sua e degli altri comandanti. Unicamente i volontari guidati da Garibaldi riuscirono a cogliere un successo a Bezzecca, nel Trentino, il 21 luglio. A salvare in qualche modo la situazione fu la reazione dei comandi inferiori e della truppa, che mantennero le file evitando pericolosi sbandamenti. Terminato il conflitto in seguito alle clamorose vittorie prussiane, il 12 agosto 1866 fu firmato a Cormons l’armistizio fra l’Italia e l’Austria e quindi la pace a Vienna il 3 ottobre 1866. L’Austria cedette all’Italia, che non era stata neppure invitata ai preliminari di pace a Nikolsburg in segno palese di spregio, il Veneto, ma, come già nel 1859 nel caso della Lombardia, tramite la Francia, volendo umiliare un Paese vincitore solo grazie alle armi altrui. L’infelice esito della guerra suscitò violente polemiche nel Paese. Il governo fece di tutto per mascherare le responsabilità di La Marmora e Cialdini, mentre la gogna fu gettata su Persano, fatto a pezzi dalla stampa, messo sotto processo dal Senato, privato delle onorificenze e del grado, espulso dalla marina. La sconfitta fu denunciata dai piú vari settori

dell’opposizione come il segno della debolezza cronica del giovane Stato e delle sue basi politiche e sociali. Mazzini attaccò la monarchia e i suoi governanti incapaci; i cattolici gioirono delle difficoltà dello Stato «nemico del papa» e «usurpatore delle legittime autorità»; e Pasquale Villari, grande storico e meridionalista, in un celebre articolo del 1866, Di chi è la colpa?, criticò apertamente il sistema di governo e la classe dirigente e sottolineò anch’egli come la disastrosa sconfitta fosse lo specchio delle basi precarie su cui poggiava l’Italia unita. Dal canto loro, Garibaldi e il Partito d’Azione videro nell’inettitudine dei generali monarchici una conferma della necessità di assumere nuove autonome iniziative per liberare Roma. Il malessere del Paese raggiunse il culmine in seguito a una rivolta scoppiata a Palermo nel settembre 1866 e sanguinosamente repressa. Nell’aprile 1867 tornò nuovamente al potere Rattazzi, il cui governo ebbe vita assai breve. Il Partito d’Azione si diede a organizzare una forza di intervento in direzione di Roma e a promuovere contemporaneamente un’insurrezione nella città, che avrebbe dovuto legittimare l’azione dei volontari di fronte all’inevitabile reazione pontificia in contrasto con la manifesta volontà del popolo. Replicando il comportamento ambiguo messo in atto nel 1862, Rattazzi non si sbilanciò ufficialmente; ma guardava con attesa a una sollevazione a Roma, considerandola la via per risolvere la questione romana e aggirare i patti con la Francia adducendo condizioni di eccezionalità non previste dalla convenzione di settembre. Comunque, il governo non poteva permettere attacchi dall’esterno prima che iniziasse la progettata sollevazione. Sicché, di fronte ai preparativi di Garibaldi, Rattazzi fece arrestare il generale a Sinalunga, presso Siena, il 24 settembre 1867, pur continuando in un atteggiamento di fatto permissivo verso le iniziative dei volontari, che penetrarono infine nel territorio pontificio. Napoleone minacciò l’intervento. Intanto Garibaldi, che dopo l’arresto si era recato a Caprera dove si trovava in residenza sorvegliata, sbarcò a Livorno il 20 ottobre e si mise a capo dei volontari. Ma gli avvenimenti assunsero una piega nettamente sfavorevole. Il 22-23 ottobre fallí a Roma quel tentativo di insurrezione che avrebbe giustificato politicamente l’intervento dei garibaldini e lo avrebbe sorretto militarmente; ciò provocò la sconfitta della loro avanguardia accorsa a dare man forte agli insorti, che fu circondata a Villa Glori dai pontifici. I capi della pattuglia, Enrico e Giovanni Cairoli, morirono l’uno sul posto, l’altro successivamente per le ferite riportate.

Garibaldi non rinunciò all’azione; e con le sue forze penetrò nei domini pontifici, ma in uno stato di incertezza e confusione che indusse molti dei suoi seguaci a disertare. Il re, messo di fronte alla minaccia di un intervento francese – truppe lasciarono Tolone il 26 ottobre – ne sconfessò l’operato e, dopo le dimissioni di Rattazzi il 27, diede l’incarico di formare il governo a un esponente di estrema destra, il generale Luigi Federico Menabrea. Dopo uno scontro con i papalini a Monterotondo, il 3 novembre Garibaldi venne battuto a Mentana dalle truppe francesi armate con i moderni fucili a retrocarica Chassepot, e quindi fatto arrestare da Menabrea e rinchiuso, come già dopo Aspromonte, nel forte di Varignano da dove in seguito raggiunse Caprera. Un simile fallimento segnò un grave colpo per il Partito d’Azione, ma non solo per esso; anche il re e il governo ne uscirono assai male. L’opinione pubblica italiana maturò un profondo risentimento per Napoleone III, il cui governo affermò solennemente che l’Italia non avrebbe mai avuto Roma, e per Pio IX, che si abbandonò a una dura repressione interna e il cui potere temporale reggeva ormai unicamente grazie alle baionette straniere. Ad aprire la possibilità di procedere alla liberazione di Roma fu il del tutto imprevisto rapido crollo dell’impero di Napoleone III sotto i colpi inferti dalla Prussia di Bismarck. Scoppiato nel luglio 1870 il conflitto tra Francia e Prussia, nonostante il desiderio del re e dei militari di intervenire a fianco dell’antico alleato nella guerra del 1859, e nella errata convinzione che la vittoria sarebbe toccata ai francesi, il governo, guidato da Giovanni Lanza, optò per la neutralità e prese la decisione di porre fine al potere temporale, approfittando della situazione critica di Napoleone, le cui truppe furono costrette a lasciare Roma. Il papa dal canto suo non volle accettare una pacifica trattativa con lo Stato italiano proposta dal ministro degli Esteri Emilio Visconti Venosta, che prevedeva la rinuncia dell’Italia a occupare militarmente Roma in cambio dello scioglimento dell’esercito pontificio. Sicché il 20 settembre 1870 truppe comandate da Raffaele Cadorna, dopo un breve cannoneggiamento a Porta Pia e una modesta resistenza dei papalini – lo scontro costò complessivamente una sessantina di morti e un centinaio di feriti – entrarono in Roma occupandola. La conquista della città avvenne non senza l’opposizione di eminenti esponenti della classe dirigente come Massimo D’Azeglio, La Marmora, Carlo Alfieri e Stefano Jacini, il quale ultimo espresse le piú gravi preoccupazioni per un ulteriore approfondimento

del conflitto tra Italia e papato che avrebbe pesato negativamente sulla vita di uno Stato ancora fragile e spese parole molto critiche per il cedimento al mito retorico di Roma. Nelle file dei moderati settentrionali circolavano poi riserve su Roma capitale, dettate dal timore di una spinta verso la “meridionalizzazione” dello Stato. Entusiasta sostenitore ne era invece Sella, convinto che dalla Città Eterna venisse un alto messaggio di valore universalistico. Entusiasti della conquista di Roma erano anche i leader della Sinistra, che, sensibili alla suggestione mazziniana della «Terza Roma», consideravano la fine del potere temporale quale premessa della laicizzazione dello spirito nazionale e della vita pubblica. Tra le due correnti stava però la maggioranza dello schieramento moderato, favorevole a un compromesso tra Chiesa e Stato, basato su un separatismo tale da creare un accettabile equilibrio rispettoso delle reciproche esigenze. Il 2 ottobre un plebiscito sanzionò il fatto compiuto: su 135 188 votanti, i favorevoli furono 133 681 e i contrari 1507. Pio IX, protestando ancora una volta contro lo «Stato usurpatore», si ritirò in Vaticano. Il 1 o novembre emanò l’enciclica Respicientes, in cui bollava la conquista come «ingiusta, violenta, nulla e invalida», denunciava «la cattività» del pontefice privato del potere temporale garanzia della sua libertà anzitutto spirituale e religiosa, e scomunicava i colpevoli dell’usurpazione e lo stesso re d’Italia, che ne fu profondamente turbato. Il 1 o luglio 1871 la capitale del regno venne ufficialmente trasferita a Roma. Arduo compito per il governo e il Parlamento fu definire le relazioni fra uno Stato che aveva posto fine al potere dei papi contro la volontà del pontefice e una Chiesa il cui capo non riconosceva la legittimità di quello Stato e ne scomunicava il re e i governanti. Si definí cosí allora in tutta la sua portata quella «questione romana» che sarebbe durata fino alla conciliazione delle due parti l’11 febbraio 1929 a opera del governo fascista. L’atteggiamento di Pio IX era tanto piú grave in quanto coinvolgeva il comportamento politico dei cittadini italiani cattolici, ai quali nel settembre 1874 dal Vaticano sarebbe stato espressamente vietato (non expedit) di partecipare alle elezioni del Parlamento. A quel punto il governo italiano si trovò nella necessità di definire unilateralmente i rapporti dello Stato con la Chiesa. E lo fece con la «legge delle guarentigie», entrata in vigore il 15 maggio 1871, ma non riconosciuta dal destinatario. Questa legge, che si ispirava al principio cavouriano della

separazione dello Stato dalla Chiesa, sia pure alla luce di uno Statuto che riconosceva la religione cattolica come unica religione dello Stato, era ispirata a una visione liberale aperta verso la Chiesa, la cui libertà risultò pienamente tutelata. Fu riconosciuta l’extraterritorialità dei palazzi del Vaticano, del Laterano, della Cancelleria e di Castel Gandolfo; fu assegnata alla Santa Sede una dotazione finanziaria annua di 3 250 000 lire; furono assicurati gli onori sovrani al pontefice e l’inviolabilità della sua persona; il libero esercizio del potere spirituale e la possibilità di comunicazione del papa in Italia e con l’estero vennero garantiti; si riconobbe la piena indipendenza dell’azione del clero da ogni controllo, con alcune limitazioni solo in materia economica; si esentarono i vescovi dal giuramento di fedeltà allo Stato. Respinta dalla Santa Sede, denunciata da Pio IX nell’enciclica Ubi nos dello stesso 15 maggio come volta a «ingannare i cattolici», oggetto di una furiosa campagna di denigrazione da parte dei gesuiti, la legge delle guarentigie venne però applicata da parte dello Stato in modo rigoroso. In un clima di libertà, la Chiesa poté continuare la sua protesta, atteggiandosi a perseguitata. Conseguenza di storica portata e dalle grandi implicazioni fu che l’atteggiamento della Chiesa precluse ogni possibilità per i cattolici di dare vita a un proprio partito che – come auspicato da Cavour – potesse competere per la guida del Paese su un versante conservatore ma non reazionario, creando le premesse per attivare nel sistema politico il meccanismo dell’alternanza al potere di opposti schieramenti. Il che ebbe quale effetto di consolidare il monopolio di governo nelle mani del composito fronte liberale. Sarebbe stato necessario attendere il 1919 perché si formasse il Partito popolare dei cattolici italiani per impulso del sacerdote Luigi Sturzo. L’unità nazionale era cosí quasi compiuta (restavano sotto la dominazione austriaca il Trentino e la Venezia Giulia), in un contesto nel quale la dialettica fra la Destra e la Sinistra liberali non poteva piú esprimersi sulla base delle tematiche del passato, a partire da quella attinente al ruolo giocato rispettivamente dal governo e dalla diplomazia o dall’iniziativa popolare nel processo di unificazione nazionale, ma degli incombenti, gravi e irrisolti problemi di carattere politico, sociale ed economico, tra i quali grandeggiava la questione meridionale.

5. La questione del Mezzogiorno. La guerra del brigantaggio: la prima

delle tre guerre civili della storia d’Italia. La crisi interna piú grave attraversata dallo Stato italiano nel suo primo decennio di vita – durante il quale divenne corrente parlare della contrapposizione tra «Paese legale» e «Paese reale» – fu indubbiamente la grande rivolta scoppiata nel Mezzogiorno che assunse i caratteri di una «guerra civile» (a definirla subito tale fu Sella); guerra che passò sotto il nome di «brigantaggio» e poté dirsi chiusa solo intorno al 1865, per quanto a quella data non ne fossero state affatto recise le radici. Tant’è che la «questione meridionale», cioè l’irrisolto rapporto fra Nord e Sud, avrebbe continuato a segnare tutta la storia successiva d’Italia, assumendo forme diverse in relazione alle fasi specifiche dello sviluppo complessivo del Paese. I contadini poveri del Mezzogiorno, come si è visto, furono profondamente delusi dal modo in cui il Risorgimento si era concluso nelle loro regioni. Frustrata la speranza che si inaugurasse una fase di lotta sociale tale da aprire loro la prospettiva di una redistribuzione della proprietà terriera e che lo Stato unitario favorisse il superamento dei rapporti formalmente regolati dal diritto borghese ma di fatto semifeudali, essi videro l’Italia postrisorgimentale alla luce della continuità delle vecchie forme di sfruttamento, che aveva fatto sí che tutto cambiasse nella forma istituzionale ma nulla cambiasse nella sostanza della loro vita. Di qui l’origine di un’acuta frustrazione, che fece da humus favorevole al divampare di una grande rivolta dei “cafoni” diretta insieme contro i “galantuomini” e lo “Stato piemontese” e il suo esercito venuti, dopo il crollo dello Stato borbonico, a rinsaldare il potere che i padroni facevano gravare su di loro. Fu cosí inevitabile che – nella totale assenza di quel «partito sociale» la cui nascita era stata auspicata da Pisacane e Ferrari, e nella “ritirata” compiuta da Garibaldi, dai suoi seguaci e piú in generale dal Partito d’Azione intimoriti, secondo la previsione di Cavour, di fronte alla prospettiva di un conflitto radicale che essi stessi temevano e sapevano di non essere in grado di controllare e tanto meno dirigere – una parte consistente dei contadini desse il proprio sostegno, quando non attivo almeno passivo, all’iniziativa eversiva assunta da bande di briganti e dai loro capi, strumentalizzata dai legittimisti borbonici e papalini, i quali finanziarono le bande e cercarono di imprimere alla protesta sociale una direzione reazionaria con lo scopo di provocare il crollo dell’appena costituito Stato unitario e ricostituire sulle sue macerie il Regno dei Borbone

e lo Stato della Chiesa. La classe dirigente settentrionale – socialmente assai conservatrice, decisa a difendere ovunque la proprietà e persuasa che l’ordine politico, istituzionale e sociale a livello nazionale non potesse che poggiare sulla sua alleanza con i latifondisti meridionali – dopo l’unificazione del Paese aveva una conoscenza molto limitata delle reali condizioni del Sud o non ne aveva alcuna. Rimase celebre l’impressione fortemente negativa di Luigi Farini che, inviato nel Sud, il 27 ottobre 1860 scriveva a Cavour: amico mio, che paesi son mai questi, il Molise e la Terra di Lavoro! Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini a riscontro di questi caffoni, son fior di virtú civile 6.

Il governo, con l’appoggio dell’élite politica ed economica del Nord, reagí al brigantaggio stabilendo una stretta intesa con i grandi proprietari meridionali, che, sentendosi minacciati dalla rivolta plebea, divennero accesamente “unitari”; e concepí la lotta contro il brigantaggio essenzialmente in termini di difesa dell’unità dello Stato contro il pericolo di restaurazione borbonica e quindi di repressione militare. Il brigantaggio, che aveva avuto inizio fin dall’autunno del 1860, divampò nel corso del 1861. L’ampiezza dell’azione repressiva può essere valutata tenendo presente che tra il 1861 e il 1864 furono dislocati nel Sud dalle regioni settentrionali oltre 120 000 soldati, vale a dire poco meno della metà dell’intero esercito; e che, secondo dati ufficiali orientati a nascondere una realtà ben piú drammatica, fra il giugno 1861 e il dicembre 1865 vennero uccisi in combattimento o fucilati 5212 briganti e molte migliaia furono arrestati. I processi furono 3600, coinvolgendo oltre 10 000 imputati. La lotta assunse caratteri di implacabilità da entrambe le parti. I briganti davano l’assalto a villaggi e centri urbani e, con ferocia e riti barbarici, distruggevano beni, uccidevano senza pietà proprietari e amici supposti o reali del nemico piemontese e i soldati da questo inviati. I soldati, che operavano in un territorio ostile che mal conoscevano, procedettero a loro volta a esecuzioni sommarie degli uomini sorpresi con le armi e di quanti accusati di complicità, ad arresti e imprigionamenti su vasta scala con l’appoggio di tribunali che non badavano al sottile, alla distruzione di interi Paesi accusati di offrire rifugio e sostegno alle bande, di greggi e colture per fare terra bruciata. Il governo italiano,

comprensibilmente molto allarmato, si preoccupò di indagare sulle radici del brigantaggio; e a questo scopo fu nominata nel dicembre 1862 la commissione parlamentare d’inchiesta presieduta dal deputato pugliese Giuseppe Massari, la quale lavorò intensamente e nel maggio 1863 giunse alla conclusione che nella spiegazione dei fatti, accanto all’azione degli agenti reazionari, andava messo anzitutto il disperante malessere economico e sociale dei contadini. Si trattò di una prima presa di coscienza da parte della classe dirigente del Nord di un volto del Sud che fino ad allora non aveva saputo e neppure tentato di comprendere. Massari, nella sua relazione al Parlamento, dopo aver sottolineato, come «prima» fra le «cause predisponenti» del brigantaggio, «la condizione sociale, lo stato economico del campagnolo» scriveva con parole assai forti: Il contadino non ha nessun vincolo che lo stringa alla terra […]. Il contadino sa che le sue fatiche non gli fruttano benessere né prosperità; sa che il prodotto della terra innaffiata dai suoi sudori non sarà suo; si vede e si sente condannato a perpetua miseria, e l’istinto della vendetta sorge spontaneo nell’animo suo. L’occasione si presenta; egli non se la lascia sfuggire; si fa brigante […]. Il brigantaggio diventa in tal guisa la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche secolari ingiustizie 7.

La risposta all’inchiesta furono da un lato la proclamazione astratta della necessità di provvedere in futuro con misure adeguate al malessere del Sud e dall’altro l’emanazione nell’agosto 1863 della legge Pica, che affidò la repressione ai tribunali militari, puní la resistenza armata con l’immediata fucilazione e condannò a pene pesanti i semplici «sospetti» di complicità con i briganti. La legge venne poi estesa anche alla Sicilia, per combattere la diffusa renitenza alla leva. Agli inizi del 1865 il brigantaggio era ormai sostanzialmente stroncato, anche se si sarebbe trascinato in forma attenuata per alcuni anni. All’estrema determinazione nella lotta contro il brigantaggio la nuova classe dirigente nazionale fu mossa da motivazioni di conservazione sociale e dalla consapevolezza del tutto realistica che la posta in gioco era niente meno che la sopravvivenza stessa dello Stato unitario appena costituito. Un’altra manifestazione del profondo disagio politico e sociale esistente nell’ex regno borbonico fu la rivolta scoppiata a Palermo e in altre località dell’isola nel settembre 1866. In Sicilia grande era stata la delusione seguita

alla battaglia perduta dal regionalismo e dall’autonomismo e all’incontrastato sopravvento del centralismo politico e amministrativo. L’introduzione della leva obbligatoria, prima inesistente, contribuí ad acuire nell’isola, come del resto in tutto il Mezzogiorno, il malcontento negli strati popolari. Di fronte alle dimensioni del fenomeno della renitenza e della diserzione, le autorità militari avevano effettuato rastrellamenti e proceduto a migliaia di arresti. Sennonché l’opposizione diretta contro lo Stato e la sua politica nel Palermitano si allargò dagli strati popolari agli altri strati sociali e alle diverse e persino piú contrastanti correnti politiche. Venne dunque a formarsi un vero e proprio blocco che abbracciava poveri e ricchi, plebei, borghesi e nobili, democratici, autonomisti, legittimisti filoborbonici e clericali. Iniziata a Palermo il 15 settembre e presto estesasi, la rivolta durò fino al 22 settembre. La capitale siciliana fu dapprima interamente occupata dagli insorti, i quali inneggiarono alla repubblica, a Francesco II e ai santi. Le bande dei rivoltosi giunsero a raccogliere molte migliaia di persone. La repressione militare venne affidata al generale Raffaele Cadorna, le cui truppe penetrarono a Palermo il 21 settembre, assumendone il controllo dopo due giorni di scontri durissimi nel corso dei quali i morti nelle file dei militari furono oltre 200, i feriti un migliaio, i prigionieri circa 2200. Seguirono numerose condanne a morte e ai lavori forzati. La repressione del brigantaggio e della rivolta del Palermitano creò un ambiente favorevole allo sviluppo ramificato di organizzazioni come la mafia e la camorra: premessa del progressivo consolidarsi di un vero e proprio «anti-Stato criminale», in un clima di fedeltà, complicità, omertà e ossequio diffusi alle “autorità” dei gruppi criminali da parte di larghi strati della popolazione, che si piegavano o consentivano alle loro “leggi”. A spiegare il malcontento delle masse meridionali verso lo Stato non stavano soltanto la questione della terra, che era la piú importante, e l’avversione verso la coscrizione militare obbligatoria, ma anche il forte inasprimento fiscale. Un’occasione per avviare quei provvedimenti economici e sociali di cui parlava la relazione Massari avrebbe potuto essere offerta dalla liquidazione delle terre dell’asse ecclesiastico e dei demani comunali incamerati dallo Stato. Ma, anziché promuovere la formazione della piccola e media proprietà assegnando terre ai contadini a fronte di rimborsi differiti, lo Stato, il quale, date le condizioni assai precarie della finanza pubblica, desiderava un rapido realizzo, optò per la vendita accelerata delle

terre ai grandi proprietari, che rafforzarono ulteriormente la propria potenza economica e quindi la loro influenza sociale e politica. Il “divorzio” fra i contadini meridionali e lo Stato si arricchí cosí di nuove ragioni. Dal canto suo, nel Mezzogiorno l’industria perse ogni possibilità di sviluppo. L’introduzione nel 1861 di una legislazione improntata a criteri liberistici ebbe effetti deleteri su di essa. Gli impianti siderurgici, meccanici, cantieristici, cotonieri, lanieri, le cartiere regredirono del tutto; e altri settori deperirono rapidamente. Punto di forza dell’economia del Sud rimaneva il settore cerealicolo, che, nel rapporto della produzione per abitante, mostrava un certa superiorità rispetto al Nord e al Centro. La «questione meridionale» venne affrontata e analizzata specie a partire dagli anni Settanta, da studiosi e uomini politici liberali come il napoletano Pasquale Villari, i toscani Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti e il basilicatese Giustino Fortunato, i quali in una serie di brillanti inchieste e studi animati da un’alta coscienza morale e civile denunciarono le ragioni economiche e sociali delle penose condizioni di vita dei contadini ed elaborarono un programma di riforme basato sulla diminuzione di una pressione fiscale insostenibile per il Mezzogiorno, sugli investimenti produttivi, sulla lotta alla proprietà assenteista e sul risanamento della vita pubblica. Ma gli effetti della loro denuncia e dei loro programmi furono sostanzialmente nulli, poiché la classe dirigente da un lato non intendeva mettere in crisi l’alleanza politico-sociale con la grande proprietà meridionale e dall’altro puntava ad aumentare al massimo gli introiti fiscali dello Stato, gravando in primo luogo sui contadini, nel quadro di una politica economica che lasciava ai margini il Sud. In un discorso alla Camera del 1880, palesando tutta la gravità della condizione dei contadini italiani, di cui quelli meridionali costituivano la parte piú miseranda, Sonnino usò parole severe: L’esattore e il carabiniere: ecco i soli propagatori della religione di patria in mezzo alle masse abbrutite del nostro contadiname; è con la bolletta di esazione, con l’ammonizione e il domicilio coatto, colla libertà di usura, colla prepotenza delle classi piú ricche, colla disuguaglianza politica, e colla disuguaglianza di fatto dinanzi alla giustizia, che s’insegna al contadino essere l’Italia la gran madre comune, che vigila con cura amorevole su tutti i suoi figli indistintamente 8.

Nel corso di un infinito dibattito, la storiografia italiana e quella straniera

dedicata alla nostra vicenda nazionale si sono domandate, arrivando a divergenti conclusioni, se il processo di accentramento politico e amministrativo che – voluto, diciamo pure imposto, con estrema determinazione dai governi della Destra liberale e dal Parlamento – si estese dal Piemonte al resto del Nord e al Sud, sia stato o meno un “errore”, una forzatura che contraddiceva la storia stessa dell’Italia avente alle spalle tutto un passato di molteplici e differenti tradizioni, culture, mentalità, istituzioni politiche e giuridiche in un quadro segnato da uno sviluppo economico e sociale assai disomogeneo: insomma una scelta troppo unilaterale a scapito di un’altra – quella regionalistica – che corrispondeva ai valori e alla cultura dei Cavour e dei Minghetti. Fatto è che – come si è visto – nello stato delle cose d’Italia del decennio successivo alla fondazione dello Stato nazionale, l’unificazione effettiva del Paese aveva radici assai precarie, in quanto minacciata dalla presenza di tendenze centrifughe molto forti che si dispiegavano su vari fronti. Il che faceva sí che l’unità del Paese fosse realmente in pericolo e portò la classe dirigente della Destra a imporre una Realpolitik che non aveva alternative se quell’unità si intendeva salvare. Non sempre la Realpolitik è l’espressione di interessi sordidi, fatti valere da una parte per desiderio di sopraffazione sull’altra. Tra gli uomini della generazione che assistettero all’unificazione e operarono per essa, a chiarire e giustificare la “piemontesizzazione” dello Stato con pregnanti parole fu un napoletano, illustre esponente della Destra, Silvio Spaventa; il quale in un discorso del 1879 cosí si espresse a proposito dell’accusa che si fosse data «troppo larga parte agli uomini, alle leggi e alle cose del Piemonte nell’ordinamento e nell’amministrazione del nuovo Stato»: Questa accusa era in qualche modo vera; ma condannava un fatto che non era in nostro potere di evitare, poiché il Piemonte, per la parte precipua che aveva avuta nei sacrifizî e nella politica con cui l’Italia era stata fatta, diventò naturalmente, con le sue leggi, co’ suoi uomini e con le sue armi, il centro di tutta l’organizzazione del nuovo regno. Non era in potere di nessuno evitare cotesta preponderanza, la quale, dopo la Dinastia e l’esercito, fu forse il fattore piú energico della nostra unificazione. Una nazione, da lunga pezza divisa e retta da ordinamenti diversi, non si unifica veramente se non per un elemento che vi preponderi dentro e subordini gli altri a sé, e imprima all’insieme un concetto unico e direttivo 9.

Oltre cinquant’anni dopo, a manifestare un analogo punto di vista fu un altro meridionale, il pugliese Gaetano Salvemini – tra i massimi storici italiani del Novecento, grande meridionalista e fervente democratico della generazione successiva a quella dei Villari, Sonnino, Franchetti e Fortunato, fautore del federalismo cattaneano – nel saggio del 1925 L’Italia politica nel secolo XIX , dove è contenuta la piú lucida “difesa” della scelta centralistica compiuta dalla Destra, che avrebbe dato la sua impronta all’Italia – di fronte alle mai venute meno inconciliabili contrapposizioni politiche e sociali interne – fino a oltre un secolo dopo l’unificazione. Premesso che negli anni Sessanta dell’Ottocento italiano le correnti dell’opinione pubblica «si dividevano in tre gruppi fondamentali: 1) i legittimisti, che rimpiangevano gli antichi regimi; 2) i gruppi nazionali moderati monarchici; 3) i gruppi nazionali democratici ad accentuazioni piú o meno repubblicane», Salvemini continuava: Ciò posto, un’amministrazione a base di autonomie locali e di suffragio universale, come l’avrebbero voluta gli autonomisti democratici alla Cattaneo, avrebbe prodotto lo sfacelo, a breve scadenza, del regime nazionale. La grande maggioranza dei contadini, abbandonata a sé nelle amministrazioni locali autonome, a base di suffragio universale, avrebbe data, in poco tempo, la prevalenza alle forze legittimiste. Perciò i moderati rigettavano la teoria autonomista e democratica di Cattaneo. Questi rimase quasi del tutto isolato; individualità forte e fulgida, ma circondata dal deserto. Neanche la soluzione mazziniana del centralismo democratico poteva avere fortuna. Gli elementi essenziali di essa erano l’unico parlamento centrale e le elezioni a suffragio universale. Queste avrebbero fatto eleggere il parlamento centrale dai contadini. I contadini, per la stessa grande maggioranza dei democratici, erano un pericolo. Perciò i democratici ripetevano nei loro programmi la formula del suffragio universale, ma non mettevano nessuna passione per ottenere che questa formula fosse attuata. La ripetevano per tradizione; ma senza convinzione e senza slancio. [...] In queste condizioni, la minoranza nazionale nel Mezzogiorno poteva mantenersi al potere solamente se un aiuto esterno fosse venuto a rafforzarla. Questo aiuto poteva venire soltanto da una gerarchia di funzionari, indipendenti dalle popolazioni locali, mandati dal nord ad inquadrare, disciplinare, dominare quelle popolazioni, e assicurare su di esse il governo della minoranza nazionale moderata. Un’amministrazione accentrata era, dunque, una necessità assoluta, se non si voleva mandare in isfacelo l’unità nazionale

d’Italia, attraverso l’anarchia amministrativa dell’Italia meridionale. Cosí si spiega come le idee centraliste si siano diffuse nel partito moderato immediatamente dopo la spedizione di Garibaldi, cioè dopo l’unione politica del Mezzogiorno al Nord e al Centro d’Italia. L’unità nazionale portò come conseguenza l’accentramento amministrativo. I piú tenaci centralisti furono sempre in Italia i liberali meridionali. Essi non riescivano a concepire sotto altra forma l’unità nazionale 10.

6. L’unificazione legislativa e la politica economica. Entro il 1865 poté dirsi pressoché ultimato il lavoro di unificazione sul piano doganale, monetario, finanziario, amministrativo e legislativo. Si trattò di un’opera imponente, compiuta nel giro di pochissimi anni e di portata assai vasta, ma nella sua impostazione ed esecuzione accompagnata da molti limiti e difficoltà. Come già notato, prevalse il criterio di estendere al resto del Paese la legislazione e gli ordinamenti del Regno sardo; il che non poté non provocare seri inconvenienti e squilibri sia in conseguenza delle differenze regionali, molto accentuate in Italia, sia perché, sotto vari aspetti, la legislazione piemontese era piú arretrata di quella vigente, per esempio, in Lombardia o in Toscana. La “piemontesizzazione” legislativa e amministrativa ebbe in realtà un significato accentuatamente politico; e fu una conseguenza e un aspetto della vittoria politico-militare del regno sardo. Ne derivò che la burocrazia piemontese diventò il fulcro di quella del nuovo Stato, che nei primi anni dell’unità si aggirava intorno a 50 000 funzionari. Il generale principio centralistico corrispose dunque a una preminente esigenza di controllo politico della classe dirigente piemontese e piú in generale settentrionale sul resto d’Italia. La Destra affrontò la situazione economica e in primo luogo quella finanziaria con grande energia, ma con una rigida aderenza agli interessi della classe dirigente, che si espresse in modo particolarmente evidente nella politica fiscale. In corrispondenza con il prevalere degli interessi agricoli e con le esigenze di esportazione dei prodotti della terra e di importazione di manufatti e macchine che l’industria nazionale per le sue modeste dimensioni non era in grado di produrre in misura adeguata, fu estesa a tutto il regno la legislazione doganale piemontese ispirata a un accentuato liberismo,

provocando difficoltà notevoli ad ampi settori dell’industria interna. L’importazione di capitali e di materiali provenienti dall’estero contribuí largamente allo sviluppo della rete ferroviaria italiana che passò dai 2743 km del 1861 a 8720 nel 1879 e a 9110 nel 1880, arrivando a collegare, anche in questo settore, a livelli diversi nel Nord e nel Sud, tutta la penisola e la Sicilia. Si trattò – date le enormi difficoltà di costruzione dovute ai complessi problemi tecnici che poneva la natura del territorio italiano – di uno sforzo imponente che va ascritto alla lungimiranza dei governi della Destra che compresero come lo sviluppo delle ferrovie costituisse la condizione necessaria dello sviluppo di un mercato nazionale. Per sanare il deficit del bilancio – pari nel 1865 a 2178 milioni – e fare fronte al crescente debito pubblico, giunto nel 1865 a 4800 milioni di cui 1700 composti da titoli in mano straniera, il carico delle imposte assunse un peso del tutto sproporzionato alle possibilità della grande parte della popolazione. Si determinò cosí una contraddizione, che non trovò soluzione, tra lo stringente bisogno dello Stato di prelevare risorse dalla società e l’incapacità di questa di fornirgliele, tra il bisogno di sostenere lo sviluppo dell’economia e delle infrastrutture e l’impoverimento indotto da una fiscalità troppo esosa. Rispondendo agli interessi prevalentemente agrari della classe dirigente, l’imposta fondiaria, nonostante il determinante peso economico della proprietà terriera, fu mantenuta entro limiti assai modesti, mentre vennero maggiormente gravati, seppure in maniera relativa, gli industriali, i commercianti e i professionisti. Ma il gettito piú forte venne assicurato dalle imposte indirette che colpivano soprattutto le masse popolari. Si giunse al punto estremo di tassare in base al numero di finestre le abitazioni dei contadini, che perciò si affrettarono a ridurle al minimo. A rendere davvero magra la vita dei contadini era poi il fatto che essi fossero in gran numero colpiti dall’imperversare nel Sud della malaria e nel Nord dalla pellagra. Fra le misure piú importanti varate dal governo vanno indicate l’introduzione nel 1866 del corso forzoso, vale a dire l’inconvertibilità dei biglietti della Banca Nazionale in oro e quindi la possibilità per lo Stato, attraverso una politica inflazionistica, di far fronte ai suoi bisogni piú urgenti con la semplice stampa, entro limiti determinati, di biglietti di banca appunto a corso forzoso, e la tassa sul macinato, denominata per la sua impopolarità «tassa della fame». Questa, calcolata in base alla quantità dei cereali macinati dai mulini, entrò in vigore nel gennaio 1869, colpendo le basi primarie

dell’alimentazione popolare. All’inizio di quell’anno scoppiarono moti di protesta in tutta Italia, ma soprattutto nel Nord e nel Centro, che vennero soffocati duramente con oltre 250 morti e un migliaio di feriti; gli arresti furono di poco inferiori ai 4000. I contadini durante i tumulti inneggiarono persino all’Austria e al papa in odio al fiscalismo imposto dal nuovo Stato. Gli effetti di un simile impietoso inasprimento fiscale si fecero sentire, in termini strettamente finanziari, positivamente. Sotto la direzione di Sella, un industriale biellese di grandi capacità e tipico esponente della Destra, che tra il 1862 e il 1873 resse il ministero delle Finanze, la situazione finanziaria dello Stato, per effetto delle continue strette economie e della tassa sul macinato fortemente voluta dallo stesso Sella, migliorò rapidamente. Sicché nel gennaio 1876 il presidente del Consiglio Minghetti poté annunciare il pareggio del bilancio. Un segno dunque del successo della politica finanziaria della Destra, che però rivelava il profondo divario fra gli interessi della classe dirigente e quelli delle masse popolari. Nel 1876 la popolazione italiana era di poco inferiore ai 28 milioni. La stragrande maggioranza era dedita all’agricoltura. I lavoratori impiegati nell’industria erano meno di 400 000 (l’11,36%). Di questi i maschi superavano di poco i 100 000, le donne erano circa 190 000 e la manodopera infantile toccava i 90 000. Predominava il settore tessile. I maggiori impianti di carattere industriale riguardavano la metallurgia, la meccanica, la cantieristica e la chimica; ma il loro peso era complessivamente modesto. Diffusa era l’attività artigianale. Accanto allo sviluppo delle ferrovie, notevole fu altresí quello della rete delle strade nazionali e provinciali, che tra il 1861 e il 1880 passarono da 22 500 km a 35 500. Gli uffici postali da 1632 arrivarono a 3328, le linee telegrafiche da 9900 km a 26 100. Significativo fu poi l’incremento della flotta mercantile. Come nel settore industriale, anche in quello delle comunicazioni lo sviluppo del Mezzogiorno fu molto piú lento e limitato. 1. Il discorso di Silvio Spaventa contro la conciliazione; il testo in N. Valeri, La lotta politica in Italia dall’unità al 1925. Idee e documenti, Le Monnier, Firenze 1958, p. 101. 2. B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano 1991, p. 16. 3. W. de La Rive, Il conte di Cavour. Racconti e memorie, Fondazione Cavour, Santena 2003, pp. 339-40. 4. Ibid., p. 342. 5. R. Romeo, Vita di Cavour, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 526.

6. La liberazione del Mezzogiorno e la formazione del Regno d’Italia, vol. III, Zanichelli, Bologna 1952, p. 208. 7. Il brigantaggio nelle provincie napoletane. Relazioni fatte a nome della Commissione d’inchiesta della Camera dei Deputati da G. Massari e S. Castagnola, Stamperia dell’Iride, Napoli 1863, pp. 10 e 14. 8. Discorsi parlamentari di Sidney Sonnino, vol. I, Tipografia della Camera dei deputati, Roma 1925, p. 8. 9. Il discorso di Spaventa in Valeri, La lotta politica in Italia cit. Il testo della citazione a p. 132. 10. G. Salvemini, Scritti sul Risorgimento, vol. II, a cura di P. Pieri e C. Pischedda, Feltrinelli, Milano 1961, pp. 432-33. Il saggio del 1925 è stato ripubblicato nel volume citato con il titolo Il Risorgimento italiano.

Capitolo terzo Dall’avvento della Sinistra alla crisi di fine secolo

1. La fine del potere della Destra. Nel 1876, come si è detto, fu raggiunto il pareggio del bilancio. Dal punto di vista strettamente finanziario si trattava di un importante successo; ma le condizioni economico-sociali rivelavano la gravità della situazione in cui versava l’Italia. Un tale stato di cose provocava di necessità forti e continue tensioni. In una parte della classe dirigente si faceva piú pressante il desiderio di dare una piú larga base di consenso alle istituzioni e ai governanti. Si approfondiva altresí il bisogno di una maggiore consapevolezza della realtà, a partire da quella delle regioni meridionali; e di inaugurare un nuovo corso di riforme, in grado di offrire risposte piú adeguate ai bisogni insoddisfatti di larga parte della popolazione. Nel 1875 Franchetti aveva pubblicato una grande inchiesta sulle Condizioni economiche ed amministrative delle province napoletane; poco dopo, nel 1877, venne pubblicata un’altra inchiesta, rimasta classica, condotta da lui e da Sonnino, sulla Sicilia nel 1876. Da entrambe emergeva l’enorme gravità dei problemi di un Mezzogiorno in larga misura ancora sconosciuto al resto dell’Italia. Dal canto suo, il mondo industriale prendeva a elaborare in forma organica le proprie esigenze. Nel 1875 un gruppo di economisti, fra cui Luigi Luzzatti, fondò la rivista «Giornale degli Economisti», avanzando, in polemica con i liberisti puri come Francesco Ferrara e seguendo nell’ispirazione le teorie di studiosi tedeschi, l’esigenza di un sia pur moderato intervento dello Stato tanto sul piano della legislazione sociale quanto su quello della politica economica per sostenere lo sviluppo dell’industria. Fra il 1870 e il 1874 si svolse, per iniziativa del governo, una Inchiesta industriale, dalla quale emerse chiaramente come influenti ambienti imprenditoriali vedessero con favore, ora che con lo sviluppo della rete ferroviaria si erano poste le premesse per la creazione di un mercato nazionale, l’istituzione, in concomitanza con le tendenze protezionistiche diffusesi in Europa, di dazi doganali che tutelassero la produzione industriale

mettendola al riparo dalla concorrenza della piú forte industria straniera in grado di produrre strumenti e macchinari di migliore qualità e a prezzi inferiori. Anche sul piano politico andarono accelerandosi le condizioni per un mutamento. La Destra aveva portato a compimento l’unificazione nazionale e aveva creato il sistema istituzionale che, nelle linee generali, sarebbe durato fino all’avvento del fascismo; e a sostegno di questo compito aveva creato un blocco politico-sociale che si rivelava ormai troppo ristretto. Essa era sempre piú contestata dalla Sinistra cosiddetta «giovane», costituitasi intorno a De Sanctis staccatosi dalla Destra e a Rattazzi, che insisteva sull’urgenza di aprire un corso di ampie riforme, andando oltre gli orizzonti non solo della Destra ma anche della Sinistra «storica». Nell’insieme la Sinistra era formata da forze eterogenee: comprendeva esponenti della Sinistra storica piemontese con a capo Agostino Depretis – già appartenente alla sinistra repubblicana e poi convertitosi alla monarchia – e personalità come Benedetto Cairoli, Giuseppe Zanardelli, Francesco Crispi e Giovanni Nicotera. A questa Sinistra guardavano tanto gli strati borghesi settentrionali che rivendicavano riforme sul piano fiscale e politico quanto i proprietari e intellettuali meridionali uniti nel chiedere minor fiscalismo, maggiori interventi dello Stato a favore del Mezzogiorno, la possibilità di pesare di piú politicamente in Parlamento. Un tratto proprio degli esponenti della Sinistra era poi un laicismo venato di spiriti anticlericali e l’appartenenza di gran parte di loro alle logge massoniche. Andarono, insomma, coalizzandosi intorno al programma di Depretis, il leader dello schieramento, gruppi e interessi sociali diversi. Di fronte alla Destra, che aveva espresso il predominio degli interessi dei proprietari terrieri, la Sinistra intendeva inaugurare una linea politica piú sensibile agli interessi degli ambienti finanziari e commerciali. Guardavano alla Sinistra anche quei settori industriali – anzitutto gli armatori navali – che soffrivano della politica di contenimento della spesa pubblica portata avanti dalla Destra in vista del pareggio del bilancio, e ne auspicavano per contro l’allargamento. Nel Mezzogiorno convergevano inoltre verso la Sinistra quei professionisti – in larga misura avvocati –, che nel periodo cruciale del processo risorgimentale erano confluiti nelle file del Partito d’Azione, e che, accostatisi dopo la sua sconfitta politica alla monarchia e legatisi agli ambienti della proprietà terriera, soffrivano dell’accentramento “piemontese”

e aspiravano a un allargamento delle basi dello Stato per rompere il quasi monopolio politico detenuto dalla ristretta élite dei moderati settentrionali. La Sinistra andò precisando fra il 1874 e il 1876 la propria strategia. Depretis enunciò il proprio programma in un discorso tenuto a Stradella, nei pressi di Pavia, il 10 ottobre 1875: allargamento del suffragio a tutti i cittadini in grado di leggere e scrivere, difesa dello Stato laico e lotta al clericalismo, istruzione elementare obbligatoria, decentramento amministrativo, diminuzione e redistribuzione del carico fiscale a favore del Mezzogiorno, fedeltà alla monarchia. Egli si era poi preoccupato nel corso della battaglia elettorale di assicurarsi l’appoggio di importanti gruppi industriali e degli armatori con la promessa della revisione delle tariffe doganali e dell’incremento della marina da guerra. Le elezioni del novembre 1874 avevano conservato alla Destra, ancorché indebolita, la maggioranza parlamentare. Su 571 939 aventi diritto di voto, alle urne si recò solo il 55,7%. La Destra, che perse trenta deputati, prevalse nel Nord e nel Centro, ottenendo 276 deputati; alla Sinistra andarono 232 deputati, di cui solo 85 non meridionali. Il vento della politica era significativamente cambiato, spostando fortemente in Parlamento gli equilibri tra Settentrione e Mezzogiorno. Il primo beneficiario dell’esito elettorale fu il lombardo Depretis.

2. Depretis e il «trasformismo». La riforma elettorale del 1882. Quando il governo Minghetti cadde per aver respinto l’invito a discutere una mozione sulla tassa del macinato, il re assegnò il compito di formare il ministero a Depretis, che entrò in carica il 25 marzo 1876. L’era della Destra era finita. Il passaggio dalla Destra alla Sinistra avvenne in un quadro di continuità, nel senso che non mise in discussione gli equilibri politico-sociali del regno e il blocco di potere dei liberali nel loro insieme. Sotto questo profilo avrebbe avuto una certa, e solo relativa, ragione Croce di notare nella sua Storia d’Italia: «Si passi a rassegna ogni parte dell’opera della Sinistra al potere, e si riscontrerà dappertutto la medesimezza di concetti effettuati con l’opera della Destra» 1; ma non di esaltare la seconda, vista come «un ideale puro» e di sminuire la prima riducendola a «un ideale accomodato alla realtà empirica» 2. Poiché anche la Sinistra ebbe i suoi ideali, e, se continuità vi fu

per aspetti significativi, per altri, riconducibili a una sostanziosa progettualità politica e ideologica, la discontinuità fu importante. Basti citare a proposito di questi ultimi: il fatto che le elezioni del novembre 1874 crearono le condizioni dell’alternanza al governo tra le correnti di sinistra e di destra del blocco liberale (che, iniziata nel 1876, sarebbe durata, con varie contaminazioni, fino all’avvento del fascismo); il proposito, poi messo in pratica, di allargare notevolmente il corpo elettorale; un rinnovato e maggiore impegno nell’affermare la laicità dello Stato; rilevanti riforme nel settore dell’amministrazione, dell’istruzione e della legislazione sociale. Certo comunque che – ridottasi a posizioni di sempre maggiore debolezza l’opposizione rappresentata dagli eredi del Partito d’Azione – le due articolazioni del liberalismo si trovarono in primo luogo a dover continuare a fare i conti con l’opposizione cattolica e in secondo luogo ad affrontare una nuova e piú pericolosa opposizione, anch’essa antistatale prima ancora che antigovernativa: quella rivoluzionaria degli anarchici e dei socialisti. Il primo governo Depretis ebbe vita breve, poiché nell’ottobre 1876 la Camera venne sciolta una volta preso atto che la maggioranza di cui godeva non era sufficiente all’attuazione delle riforme che riteneva necessarie. A novembre le urne decretarono il suo trionfo: la Sinistra ottenne 414 seggi, la Destra 94. Si parlò allora di una «rivoluzione parlamentare». Depretis governò il Paese quasi ininterrottamente dal marzo 1876 fino alla sua morte nel luglio 1887. La caduta della Destra e la scomparsa dalla scena nel giro di un decennio dei maggiori protagonisti delle lotte per il conseguimento dell’unità nazionale – Mazzini, che aveva proclamato tutta la sua delusione per ciò che era divenuta la nuova Italia (nell’agosto 1871 aveva parlato di «una menzogna d’Italia») morí il 10 marzo 1872 in condizioni di semiclandestinità, seguirono il 9 gennaio 1878 Vittorio Emanuele II, poco dopo, il 7 febbraio, Pio IX e il 2 giugno 1882 Garibaldi – contribuirono a far prendere piena coscienza che il post-Risorgimento si era concluso. Salito al potere con intenti riformatori, Depretis si preoccupò per un verso di far varare alcune incisive riforme, ma per l’altro di rendere possibile, mettendo acqua nel vino del proprio programma, la convergenza nelle sue maggioranze parlamentari, da lui costruite con un’abilità consumata divenuta proverbiale, di parte degli esponenti della Destra. I vecchi contrasti risorgimentali apparivano in effetti alla classe dirigente sempre piú lontani; e il presidente del Consiglio lavorò espressamente alla loro attenuazione e persino

vanificazione. La dialettica politica non poteva infatti avere piú il suo baricentro nelle antiche divisioni, bensí nei problemi attinenti dell’allargamento della partecipazione politica e quindi del suffragio, dell’economia, della legislazione sociale, delle questioni del lavoro. Sicché Depretis si adoperò per unire a sé uomini della Destra e di isolare con il loro contributo l’estrema Sinistra, formata dai repubblicani, dai radicali e, a sinistra di questi, dagli anarchici e dai primi socialisti. Il proposito, in seguito portato avanti con notevole successo, di dar vita a un amalgama tra i liberali di destra e i liberali di sinistra, egli lo aveva manifestato con chiarezza in un discorso tenuto, sempre a Stradella, l’8 ottobre 1876 alla vigilia delle elezioni, nel quale aveva affermato che il suo programma mirava a facilitare quella concordia, quella feconda trasformazione dei partiti, quella unificazione delle parti liberali della Camera, che varranno a costituire quella tanto invocata e salda maggioranza, la quale, ai nomi storici tante volte abusati [...], sostituisca per proprio segnacolo una idea comprensiva, popolare, vecchia come il moto, come il moto sempre nuovo, «il progresso» 3.

E, in un discorso dell’8 ottobre 1882, cosí rinnovò il suo invito alla convergenza: se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole accettare il mio modesto programma, se qualcheduno vuole trasformarsi e diventare progressista, come posso io respingerlo? 4.

Questo invito a «trasformarsi» venne largamente accolto a livello politico e parlamentare. Esso diede origine a quel fenomeno che è stato chiamato appunto «trasformismo» e che aveva già avuto un significativo precedente nel «connubio» tra il Centro-destra e il Centro-sinistra messo in atto da Cavour nel 1852 nel Parlamento subalpino, obbedendo alla logica di isolare le posizioni estreme di destra e di sinistra. Denunciato da conservatori della Destra come Stefano Jacini quale una confusione di programmi e un pericoloso immiserimento della vita pubblica, il trasformismo stava in effetti a indicare il raggiungimento di un sostanziale consenso di fondo nelle file della classe egemone sulle basi istituzionali e sociali dello Stato e quindi la tendenza e la disponibilità dei diversi gruppi liberali a misurarsi sulle scelte

specifiche di governo piú che su programmi ideologicamente contrapposti. Naturalmente quest’opera di «unificazione delle parti liberali» invocata da Depretis, se necessaria a rinsaldare il «trasformismo», comportò il ricorso a una politica di favori verso gruppi sociali e anche singoli deputati che non arretrava di fronte alla corruzione. In piú occasioni infatti le maggioranze parlamentari furono largamente “comprate”; e in modo sempre piú massiccio i successi dei deputati governativi alle elezioni vennero conseguiti con brogli sistematici e pressioni aperte sugli elettori esercitate dalle autorità di governo in specie tramite i prefetti. Il tratto autoritario della pratica di governo divenne una caratteristica costante dei governi prima di Depretis e poi, in maniera piú accentuata, di Crispi. Il tentativo di inaugurare una stagione piú rispettosa delle libertà politiche e civili effettuato da Cairoli – presidente del Consiglio dal marzo al dicembre 1878 e dal luglio 1879 al maggio 1881 – trovò forti opposizioni e non ebbe seguito. La politica trasformistica inaugurata da Depretis aveva un significato di fondo: unificare su una base piú larga la borghesia e i gruppi politici dominanti; formare un fronte piú solido e articolato di fronte alle opposizioni della democrazia repubblicana, dei cattolici intransigenti ostili allo Stato e al nascente movimento operaio. Tra coloro che denunciarono con maggiore asprezza il trasformismo vi fu Crispi, che nel 1886 disse: Sin dal 1878, in Italia, non vi furono partiti politici, ma uomini politici. [...] Ogni gruppo anziché comprendere un ordine di idee, comprendeva un’associazione d’individui, i quali fatalmente, secondo i casi, mutavano d’opinione. Gli uomini che erano al potere favorivano questo disordine. Le infedeltà, le apostasie erano un merito per salire in alto; e però le maggioranze erano mutabili; mutabili i ministri, non i Ministeri 5.

Era la voce di un Crispi che, una volta giunto al potere, contraddicendo platealmente il suo appello a che si tenesse ferma la distinzione tra due fronti in competizione invocando l’esempio inglese dei tories e dei whigs, avrebbe agito con le tecniche piú spregiudicate per stringere intorno alla sua persona e alla sua politica esponenti delle piú diverse correnti in nome della superiore unità nazionale di tutte le “forze sane”. Le riforme introdotte nell’era di Depretis rispecchiarono la duplice esigenza di allargare la base del consenso sociale e di soddisfare alcune istanze di evoluzione civile ormai largamente affermatesi nei Paesi piú

progrediti. Nel luglio 1877 venne varata la legge Coppino, diretta a fronteggiare la piaga dell’analfabetismo della popolazione, la quale, secondo il censimento del 1881, era di 28 459 628 abitanti. La legge stabilí l’obbligo scolastico a titolo gratuito per i bambini dai 6 ai 9 anni e abolí quello di seguire le lezioni di catechismo; ma la sua applicazione fu assai lacunosa specie nel Sud, che ottenne dallo Stato minori risorse che non il Nord. Nel 1879 fu alleviata la tassa sul macinato, poi abolita nel 1884; ma il carico della tassazione sui consumi popolari non subí sostanziali mutamenti. Nel maggio 1880 si svolsero le ultime elezioni a suffragio fortemente ristretto (621 896 aventi diritto al voto; il 2,2% della popolazione), che segnarono una ripresa della Destra e l’indebolimento del secondo governo presieduto da Cairoli. Questi formò comunque il suo terzo governo, che però nel maggio 1881 fu indotto alle dimissioni dall’accusa di non essere riuscito a impedire la riduzione della Tunisia in protettorato francese. Seguí un nuovo governo Depretis, che fino alla sua morte nel 1887 avrebbe saldamente tenuto nelle proprie mani la guida del Paese. Poco prima delle elezioni egli aveva presentato un progetto di riforma elettorale, con lo scopo di fare poggiare il Parlamento e quindi il governo su un allargamento della base elettorale e quindi del consenso sociale che era stato uno degli obiettivi caratterizzanti della Sinistra di fronte alla Destra. La riforma venne definitivamente varata nel maggio 1882. Per timore dell’opposizione costituita a sinistra da repubblicani, radicali e socialisti e a destra da un potenziale partito se non propriamente dei cattolici a questi collegato, fu respinta la richiesta di suffragio universale, avanzata non solo dall’estrema Sinistra, ma anche da Sonnino, convinto che il voto dei contadini avrebbe rafforzato in senso conservatore lo Stato. La riforma abbassò l’età elettorale da 25 a 21 anni, stabilí che potessero votare coloro che non risultassero analfabeti a meno che pagassero una certa quota di imposta e introdusse lo scrutinio di lista (che sarebbe stato abolito nel 1891 con il ripristino dei collegi uninominali). Di conseguenza, se il voto venne aperto a una parte degli operai e degli artigiani specie settentrionali, fu soprattutto la piccola borghesia a beneficiare della riforma e ad acquistare cosí un nuovo peso. Il bacino elettorale passò da 621 896 a 2 017 829, cioè dal 2,2% della popolazione al 6,9%. La massa dei contadini, sia meridionali sia settentrionali, essendo nella grande maggioranza analfabeta, rimase esclusa. Le elezioni dell’ottobre-novembre 1882, cui partecipò il 60,7% degli aventi diritto, indebolirono fortemente il

settore della Destra contrario a confluire nell’assemblamento di carattere trasformistico patrocinato da Depretis, portarono alla non rielezione di un numero consistente di ex deputati, all’ingresso in Parlamento di ben 163 nuovi deputati e al relativo rafforzamento dell’estrema Sinistra formata da radicali, repubblicani e socialisti (fece la sua comparsa il primo deputato socialista, Andrea Costa, eletto a Ravenna); ma in particolare consolidarono il gruppo di cui Depretis era il leader. Va inoltre notato che le elezioni segnarono una inversione di tendenza rispetto a quella delle elezioni del 1874 e del 1876, in quanto allargarono il corpo elettorale nel Nord in maniera assai maggiore che nel Sud, collocando saldamente il baricentro politico del capo del governo nella rappresentanza parlamentare del primo.

3. La Triplice Alleanza e gli infelici esordi del colonialismo italiano. Proprio nello stesso anno della riforma elettorale veniva sanzionata una nuova linea di politica estera, le cui premesse erano state l’alleanza con la Prussia nel 1866, l’ostilità tra Francia e Italia, prima per la questione romana e poi per la tensione causata dal fatto che la prima nel 1881 aveva stabilito il proprio protettorato sulla Tunisia, su cui l’Italia nutriva ambizioni. Alle spalle di quest’ultimo evento vi era anche stata la delusione subita al Congresso di Berlino del 1878 – seguito alla vittoria della Russia sull’Impero ottomano –, da cui l’Italia era uscita vedendo frustrate le speranze di compensi, a fronte dei vantaggi altrui (tanto che la politica di Cairoli venne ironicamente definita delle «mani nette»). Con la Germania e con l’Austria – alla quale ultima, dopo l’acquisto del Veneto, era andata avvicinandosi –, l’Italia il 20 maggio 1882, per consolidare la sua posizione internazionale e interna, concluse il trattato della Triplice Alleanza, della durata di cinque anni. Questo trattato, firmato dal conte di Robilant e il cui testo rimase segreto fino alla Prima guerra mondiale, aveva un duplice scopo: di costituire un forte blocco militare in funzione antifrancese e «di rafforzare il principio monarchico e di assicurare in tal modo la conservazione intatta dell’ordine sociale e politico dei loro Stati». Ciascuna delle parti si impegnava a non stringere alleanze con altri Stati; si prevedeva l’intervento dell’Italia a sostegno della Germania nel caso di un’aggressione a questa da parte della Francia e dell’intervento di Germania e Austria di fronte a un attacco della Francia all’Italia; si dichiarava

inoltre che l’alleanza non poteva valere nei confronti della Gran Bretagna. L’importanza del trattato fu infine che, per quanto non formalmente, le due potenze alleate riconoscevano l’integrità territoriale dell’Italia e quindi anche l’acquisto di Roma. Il legame stabilito dall’Italia con i due grandi imperi centrali ebbe significative ripercussioni sulla politica del Paese. Bismarck era oggetto di grande ammirazione da parte di settori della classe dirigente. A corte, il re Umberto I, succeduto nel 1878 al padre Vittorio Emanuele II, e i suoi generali erano fieri di accomunare le fortune del Paese a due imperi contraddistinti da una forte tradizione militare e da un accentuato conservatorismo politico. Naturalmente l’alleanza con l’Austria ebbe come inevitabile conseguenza che l’irredentismo, cioè il movimento di rivendicazione delle terre italiane ancora soggette all’Austria (Trento, Trieste, l’Istria) venisse sottoposto a stretto controllo e, nei momenti di particolare agitazione, soffocato. L’inchiostro della firma della Triplice non era ancora asciugato, che il 20 dicembre 1882 il giovane triestino Guglielmo Oberdan, accusato di aver voluto assassinare l’imperatore Francesco Giuseppe, venne impiccato a Trieste, suscitando le proteste degli irredentisti. Toccò a Depretis anche iniziare un nuovo capitolo della storia della giovane nazione, inaugurando la politica coloniale italiana, che avrebbe però provocato tali delusioni da confermare agli occhi dell’Europa la debolezza dell’Italia, che da un lato aspirava a prendere posto tra le maggiori potenze ma dall’altro presentava un’immagine fortemente appannata dalle umilianti sconfitte subite dagli austriaci per terra e per mare nel 1866. La politica coloniale di Paesi come la Gran Bretagna e la Francia e in seguito anche, in misura assai piú contenuta, della Germania era espressione di un robusto capitalismo finanziario e industriale, che mirava alla conquista di territori coloniali per dare sbocco agli investimenti, impadronirsi di nuovi mercati e procurare a un’industria progredita e consolidata le materie prime necessarie. Flotte ed eserciti potenti sostenevano questo espansionismo. Ma l’Italia versava in tutt’altre condizioni. La sua industria restava debole e il capitalismo finanziario nazionale non era in grado di esportare grandi quantità di denaro; inoltre i mezzi militari a sua disposizione rispecchiavano le scarse risorse di bilancio, per quanto le spese a essi destinate fossero molto pesanti rispetto alle possibilità del Paese. Il colonialismo italiano non fu dunque il prodotto di un solido capitalismo, bensí della spinta proveniente da

un insieme di fattori che ruotavano attorno agli interessi settoriali di gruppi ristretti della classe dirigente, decisamente frustrati dalla penetrazione della Francia in Tunisia nel 1881 e dall’impetuosa espansione coloniale inglese e francese. Una nazione, si pensava, per essere grande doveva avere un impero. Sicché le ragioni esteriori di prestigio contarono molto nei piani coloniali dell’Italia. Inoltre, di fronte al fatto che l’emigrazione contadina era decisamente elevata, si auspicò che questa venisse indirizzata verso terre «italiane». A spingere verso le conquiste di oltremare erano in particolare gli ambienti industriali e armatoriali che vedevano nelle guerre coloniali un ottimo affare in relazione alle commesse militari e ai trasporti delle truppe. Il risultato fu che l’Italia si imbarcò in imprese che non fu poi in grado di sostenere con la necessaria determinazione data l’inadeguatezza delle risorse disponibili e la debolezza delle sue forze armate. A ciò aggiungasi che ai progetti espansionistici venne a mancare il sostegno popolare che invece venne a essi dato dalle masse inglesi e francesi. L’attaccamento degli strati inferiori italiani, in primo luogo dei contadini, all’esercito era decisamente scarso, quando non inesistente. Del che erano ben consapevoli sia i comandi militari sia i governanti, che cercarono di rimediare attivando una propaganda in cui si esaltava con grande enfasi il carattere umanamente e politicamente formativo del servizio di leva e il vincolo positivo stabilitosi fra i coscritti del Nord e del Sud. Sennonché nella coscienza di contadini e operai bruciavano l’estrema durezza della repressione negli anni della guerra del brigantaggio, dell’insurrezione di Palermo, il risentimento per il sistematico impiego delle truppe contro le dimostrazioni e i moti popolari, il discredito diffuso dalla cattiva prova dell’esercito nella guerra del 1866. A ben poco valse perciò l’opera svolta da numerosi intellettuali, tra i quali si distinse Edmondo De Amicis, che – in scritti come La vita militare, pubblicato nel 1866 a ridosso dell’infelice conflitto italo-austriaco, cui avrebbe fatto seguito nel 1886 il romanzo Cuore – dipingeva in termini acritici la bellezza della «vita del campo», luogo di fraternizzazione tra i soldati delle varie regioni d’Italia guidati da benevoli ufficiali, e oggetto di ammirazione da parte dell’intero Paese. Le imprese coloniali ebbero inizio nel marzo 1882 con l’acquisto da parte dell’Italia dei diritti sulla baia di Assab, in Eritrea, ceduti dalla compagnia di navigazione genovese Rubattino, che li aveva a sua volta acquistati nel 186970 con l’incoraggiamento della Gran Bretagna. Nel febbraio 1885 un corpo di

spedizione iniziò l’occupazione della fascia costiera fra Massaua e Assab, avviando la penetrazione nella regione, che suscitò le proteste dell’Egitto e dell’Impero ottomano. Una opposizione decisa venne dai repubblicani e dai socialisti. L’occupazione di quel territorio causò un crescente stato di tensione fra l’Italia e l’Impero etiopico, governato dal negus Giovanni, le cui capacità militari venivano sottovalutate. Quando il 26 gennaio 1887 un reparto italiano di 500 uomini venne sorpreso e annientato dal ras Alula al comando di 7000 uomini nei pressi di Dogali, in Eritrea, il governo dovette fronteggiare tanto la reazione dei nazionalisti delusi quanto l’opposizione popolare, che considerava l’espansione coloniale una scriteriata avventura. Il socialista Costa alla Camera espresse l’avversione dei socialisti affermando: «Né un uomo, né un soldo» per l’Africa. Cosí il primo tentativo coloniale italiano terminò in una cocente disfatta, in una ennesima umiliazione dell’Italia e nelle dimissioni del governo Depretis. Poco dopo la disfatta di Dogali, fu rinnovato il 20 febbraio 1887 il trattato della Triplice Alleanza, con cui l’Italia vide notevolmente migliorata la sua posizione, in seguito alle trattative condotte dal Robilant. Questi ottenne che al trattato del 1882 si affiancassero due altri trattati separati: l’uno con l’Austria, che riconosceva all’Italia il diritto a compensi nel caso di vantaggi dell’impero nei Balcani; l’altro con la Germania, che si impegnava ad aiutare militarmente l’Italia nell’eventualità di una guerra contro la Francia dovuta a contrasti per la Tripolitania o il Marocco (il 30 giugno 1891 i trattati sarebbero stati rifusi in un unico testo, e l’alleanza rinnovata per dodici anni). Intanto il 12 febbraio era stato firmato dall’Italia un accordo con la Gran Bretagna per la cooperazione nel Mar Rosso – cui aderí anche l’Austria il 24 marzo – che conteneva anche il riconoscimento dei diritti italiani sulla Tripolitania e sulla Cirenaica. L’ultima iniziativa di politica interna di rilievo presa da Depretis, che nell’aprile 1887 aveva ricostituito il suo governo, fu un tentativo di conciliazione fra lo Stato e la Chiesa, compiuto nella prima metà dell’anno; tentativo sostenuto da un lato dal governo e dall’altro dai cattolici detti «transigenti», i quali speravano che Leone XIII, salito al soglio nel 1878, fosse disponibile ad avviare un nuovo corso nelle relazioni con lo Stato, creando in prospettiva le condizioni per la partecipazione dei cattolici alla vita politica e parlamentare. Le loro speranze nascevano da un’allocuzione rivolta in maggio dal papa ai cardinali, in cui si auspicava la pacificazione

con lo Stato italiano qualora questo si mostrasse disposto a riconoscere gli inalienabili diritti della Chiesa. Crispi, ministro degli Interni, stabilí contatti segreti con l’abate Luigi Tosti. Depretis mirava a rinsaldare le basi dello Stato; ma l’impossibilità di un accordo sul problema del potere temporale portò al fallimento della trattativa, e quindi al rinfocolarsi dell’anticlericalismo da parte liberale e della polemica di segno opposto da parte dei cattolici «intransigenti», che del potere temporale erano accesi sostenitori. Il 29 luglio 1887 Depretis morí. La sua morte lasciò uno strascico di polemiche tra coloro che ne celebrarono l’opera di governo, le riforme realizzate, la capacità di leadership che aveva rafforzato l’egemonia dei liberali e coloro, in testa radicali e socialisti, i quali lo bollarono come un grande corruttore della vita pubblica. Gli successe il siciliano Francesco Crispi, la personalità piú eminente della maggioranza parlamentare, cui il 6 agosto Umberto I diede l’incarico di formare il governo, nel quale ricoprí il ruolo di presidente del Consiglio e di ministro degli Esteri. La sua ascesa al potere ebbe un carattere simbolico in quanto era la prima volta che le redini passavano nelle mani di un uomo del Mezzogiorno.

4. L’ispirazione «bismarckiana» di Crispi. Tensione con la Francia, ripresa dell’azione coloniale e politica interna. Crispi, l’uomo che per quasi un decennio avrebbe dominato con la sua forte personalità la scena politica italiana, incarnava con la sua evoluzione politica la trasformazione di molti democratici repubblicani in nazionalisti monarchici. Ex cospiratore, rivoluzionario, mazziniano, garibaldino, sostenitore del suffragio universale, si era convertito alla monarchia diventando uno degli esponenti principali della Sinistra governativa. In una lettera a Mazzini del 18 marzo 1865 aveva dichiarato la sua adesione alla monarchia in nome dell’unità nazionale e affermato che l’ideale repubblicano era ormai causa di sterile divisione: Sí – scriveva – la monarchia ci unisce e la repubblica ci dividerebbe, e bisogna non conoscere il paese, ignorare le condizioni d’Europa per credere altrimenti.

E proseguiva dicendo che soltanto la monarchia poteva incarnare quell’«unità nazionale» che costituiva «la gloria della nostra generazione» 6. Crispi divenne un acceso fautore della politica condotta con energia e decisione – che trovava genialmente incarnata nel “cancelliere di ferro” Bismarck, da lui molto ammirato –, un nazionalista ardente desideroso di accreditare il volto militare della nazione, un colonialista convinto che l’Italia dovesse imporsi in Africa, un conservatore che vedeva nei socialisti i piú pericolosi nemici interni e considerava i conflitti sociali degli operai e dei contadini come attentati alla legalità, all’unità e alla saldezza del Paese, un laico di spiriti che sconfinavano in un acceso anticlericalismo. Era al tempo stesso un leader di elevate capacità e intelligenza politica, che lo indussero a promuovere importanti riforme modernizzatrici. Sostenuto nel suo nazionalismo dai gruppi di industriali e di armatori che miravano a sviluppare le proprie imprese grazie alle commesse statali per le forze armate nonché a ottenere una legislazione doganale sempre piú protezionistica, appena giunto al potere, volle dare al trattato di alleanza con la Germania e l’Austria un carattere di netta ostilità verso la Francia. Nell’ottobre 1887 si recò a Friedrichsruhe in visita a Bismarck, e assunse nuovi impegni dell’Italia in caso di guerra con la Francia. Il conseguente inasprimento dei rapporti con quest’ultima portò non solo al naufragio delle trattative commerciali tra i due Paesi che adottarono l’uno nei confronti dell’altro pesanti tariffe doganali, ma all’esplodere nel febbraio 1888 di una “guerra commerciale” aperta, che danneggiò molto le esportazioni agricole specie dal Mezzogiorno, e infine a una tensione politica tale per cui Crispi giunse, in modo del tutto fantasioso, a suscitare grande allarme per un supposto imminente attacco della flotta francese contro la Liguria, risultato senza fondamento. In campo coloniale, Crispi – i cui due primi ministeri durarono dall’agosto 1887 al gennaio 1891 – si propose di risollevare il prestigio italiano. Fece perciò inviare notevoli rinforzi in Africa, con i quali, rotte le trattative con il negus Giovanni, il generale Antonio Baldissera diede inizio a un’azione espansiva in Eritrea. Un successo parve essere il trattato di Uccialli, firmato, dopo la morte di Giovanni, il 2 maggio 1889 con il negus Menelik in base al quale l’Etiopia riconosceva le conquiste italiane in Eritrea. All’art. 17 però i testi italiano e aramaico, di cui il ministero degli Esteri non accertò la piena corrispondenza, divergevano in un punto importante. Nel

primo si affermava che il sovrano dell’Etiopia consentiva a «servirsi» del governo italiano «per tutte le trattative di affari» con gli altri Stati (il che venne considerato come il riconoscimento da parte etiopica di un protettorato di fatto; mentre nel secondo si scriveva che il re d’Etiopia poteva «trattare tutti gli affari che desidera con i regni d’Europa mediante l’aiuto del Regno d’Italia». Si trattò di un’ambiguità destinata a provocare gravi sviluppi. Esaltando quello che riteneva un pieno successo, il 14 ottobre 1889 Crispi dichiarò alla Camera: Un vastissimo regno si aprirà alla nostra industria e al nostro commercio senza sacrifici di sangue, con un danaro messo a sicuro e largo frutto. Vaste zone di terra colonizzabili s’offriranno in un avvenire non remoto alla esuberante fecondità italiana 7.

Il 5 gennaio 1890 venne proclamata ufficialmente la Colonia Eritrea, posta sotto l’autorità di un governatore. Quando però ci si accorse che Menelik continuava ad agire come un sovrano indipendente, si tentò invano di far valere il testo italiano del trattato. Nel febbraio 1891, dopo le dimissioni di Crispi presentate il 31 gennaio, le trattative fra l’Italia e l’Etiopia vennero interrotte. In politica interna, durante i suoi primi due ministeri Crispi ispirò la sua azione a criteri che, se risentivano della sua vocazione insieme «bismarckiana» e «giacobina», rispondevano a esigenze di modernizzazione. Coerentemente con quella che era stata in effetti l’ispirazione prima della Destra e poi di Depretis, si adoperò per rafforzare ulteriormente il potere esecutivo. I poteri della presidenza del Consiglio sui ministri furono accresciuti. Nel dicembre 1888 vennero votate: una legge di riforma della sanità pubblica; una che sanciva la libertà di emigrare; e una che allargava la base elettorale delle amministrazioni locali (da 2 026 619 a 3 343 875 elettori), rendeva eleggibili i sindaci dai maschi di età superiore ai ventun anni alfabetizzati e paganti un determinato contributo ai comuni (non dalle donne che – disse Crispi – non potrebbero avere «sempre la mente serena e tranquilla» nel giudicare della «cosa pubblica») nei comuni con oltre 10 000 abitanti, con l’intento di sottrarre le amministrazioni stesse alla preponderante influenza dei ceti alti, ponendone l’operato sotto il controllo dei prefetti. Nel giugno 1889 vennero varati un nuovo Codice penale – detto Codice Zanardelli, dal cognome del ministro della Giustizia, suo principale artefice

–, che abolí la pena di morte salvo che nel codice militare, ridusse le pene per i reati contro la proprietà, sancí la libertà di sciopero e puní, rispecchiando la tensione con la Chiesa cattolica, le offese allo Stato da parte dei ministri del culto; e una legge che ampliava i diritti di riunione, affidando al contempo alle forze di polizia il compito di vigilare a che le manifestazioni e riunioni pubbliche non costituissero turbativa dell’ordine pubblico. Importante fu altresí la normativa secondo cui l’accesso alla magistratura doveva avvenire mediante concorso, limitando a casi eccezionali il reclutamento per iniziativa del ministro della Giustizia. Nel luglio 1890 seguí una legge sulle opere pie, che ne affidava l’amministrazione alle Congregazioni di Carità comunali, escludendone il personale ecclesiastico. Vi erano in queste leggi elementi indubbiamente progressivi, a partire anzitutto dalla riconosciuta libertà di sciopero; ma esse si inserivano in un disegno complessivo ispirato alla volontà del capo del governo di affermare fortemente l’autorità dello Stato in termini che sfociavano nell’autoritarismo. Quest’ultimo si rispecchiò in una pratica che non esitava a ricorrere alla repressione per tenere a bada le opposizioni tanto dei repubblicani, degli anarchici e dei socialisti. In questo quadro si inseriva anche l’anticlericalismo di Crispi, che conobbe una brusca accelerazione dopo il fallimento delle trattative per una conciliazione con la Chiesa. Ne furono clamorose espressioni prima la destituzione nel gennaio 1888 del sindaco di Roma Leopoldo Torlonia per aver rivolto voti augurali al papa a nome del popolo romano in occasione del suo giubileo sacerdotale, poi il favore accordato dal governo alla grande manifestazione anticlericale – che suscitò le accese rimostranze del pontefice – per l’inaugurazione il 9 giugno 1889 del monumento a Giordano Bruno nel Campo de’ Fiori a Roma, dove il filosofo era stato bruciato vivo. Un altro aspetto significativo della linea politica di Crispi fu la sua netta contrarietà a tollerare le manifestazioni degli irredentisti che, agitando l’italianità di Trento e Trieste che creavano tensioni con l’Austria, al punto che tra il 1889 e il 1890 non esitò a decretare lo scioglimento di comitati e giunte di comuni accusati di avere favorito tali manifestazioni. Crispi si trovò a fronteggiare una difficile situazione economica e finanziaria. Non solo l’agricoltura ma anche l’industria attraversava una fase di crisi acuta; e il bilancio dello Stato presentava un disavanzo crescente. A tutto ciò si aggiungeva il fatto che numerose banche, impegnatesi in consistenti finanziamenti per nuove costruzioni e in sfrenate speculazioni in

una fase di boom edilizio che aveva raggiunto il suo apice a Roma, vennero coinvolte nel crollo finanziario provocato dalla fine dell’espansione. Il governo si impegnò nel loro salvataggio, in un giro di manovre poco chiare. Una commissione di nomina ministeriale di fronte all’emergere di evidenti irregolarità tenne segreti i risultati dell’indagine. La crisi del settore edile, che aveva colpito in particolare la capitale con la chiusura di molti cantieri, nel marzo 1888 provocò violente agitazioni degli operai edili sfociate in tumulti e assalti ai negozi. Con l’intento di dare voce all’opposizione alla politica di Crispi, radicali e repubblicani elaborarono un programma, steso dal radicale Felice Cavallotti e firmato nel maggio 1890, che venne denominato il «Patto di Roma». In esso si chiedevano il ridimensionamento dei poteri dell’esecutivo, il decentramento amministrativo, la difesa intransigente dei diritti di libertà a partire da quelli di riunione e di associazione, l’autonomia della magistratura, la tutela dello Stato laico, l’indennità per i parlamentari, l’innalzamento dell’età dell’istruzione obbligatoria e la gratuità dell’istruzione preuniversitaria, la diminuzione delle spese militari e la «nazione armata» già invocata da Garibaldi e Cattaneo, sgravi fiscali, provvedimenti in materia sociale, l’orario di lavoro di otto ore, l’uscita dell’Italia dalla Triplice in quanto alleanza posta sotto il segno del conservatorismo, la rinuncia alle conquiste coloniali. Con il loro Patto, vero e proprio manifesto della “democrazia borghese”, i firmatari speravano di trascinare con sé anche parte degli operai, ma ottennero un assai scarso consenso tra i lavoratori, che, politicamente risvegliati dai socialisti, si muovevano in modo sempre piú autonomo rispetto ai movimenti democratico-borghesi. Le elezioni del novembre 1890 – che videro solo il 53,7% degli elettori recarsi alle urne, con un forte astensionismo favorito dalla campagna condotta dai cattolici intransigenti contro l’“anticlericale” Crispi – diedero all’area governativa una vasta maggioranza con 405 deputati, ma segnarono un netto spostamento al suo interno verso destra. Crispi cadde nel gennaio 1891 perché la Camera non volle accogliere alcune proposte di inasprimento fiscale, che suscitavano contrasti tra gli stessi ministri e non erano appoggiate dalla maggioranza parlamentare. A un discorso del napoletano Ruggero Bonghi, autorevole esponente della Destra il quale aveva ricordato che durante i governi di questa era stata condotta una politica finanziaria improntata a criteri di responsabile prudenza, il presidente del Consiglio

replicò, suscitando sdegnate proteste, che tale prudenza era stata causata da «una politica servile verso lo straniero». Dopo un voto a lui sfavorevole, Crispi diede le dimissioni. Il 9 febbraio 1891 entrò in carica un ministero presieduto dal marchese siciliano Antonio di Rudiní, già esponente intransigente della Destra storica e avversario di Depretis e di Crispi. In politica estera il governo di Rudiní tentò un ravvicinamento alla Francia con risultati deludenti, quindi nel maggio 1891 fece rinnovare per dodici anni il trattato della Triplice Alleanza, con l’introduzione di un articolo che prevedeva la collaborazione tra Italia e Germania nell’eventualità di mutamenti del quadro geopolitico in Africa. Sul versante interno, in aprile venne abolito lo scrutinio di lista introdotto con la legge elettorale del 1882 e furono ripristinati i collegi uninominali. Il governo cadde nell’aprile 1892, inciampando nel tentativo di ridurre le spese militari. Nel maggio 1892 la formazione del nuovo governo venne affidata al piemontese Giovanni Giolitti, colui che si sarebbe rivelato il piú eminente e abile statista liberale dopo Cavour.

5. Il movimento operaio e contadino dall’anarchismo alla fondazione del Partito socialista. Bakunin, Turati e Antonio Labriola. La formazione di un movimento operaio indipendente in Italia, rispetto a Paesi economicamente piú avanzati e maggiormente industrializzati come la Francia e la Germania, fu tardiva, in corrispondenza con i limiti dello sviluppo industriale del Paese. Già intorno al 1860 esistevano, specie nel Nord e nel Centro, società operaie con compiti prevalentemente di mutuo soccorso. A partire dall’inizio degli anni Settanta erano andate formandosi leghe di resistenza che, in un clima di costante repressione, avevano condotto agitazioni e scioperi, ma fu solo in seguito che il socialismo, dotato di una sua capacità organizzativa e di una propria ideologia, fece la sua comparsa, aprendo un nuovo capitolo nella storia del movimento dei lavoratori. Mazzini aveva continuato fino alla morte a lottare contro il socialismo e la sua teoria dell’inconciliabilità del conflitto tra le classi, temendo che esso potesse soppiantare il programma repubblicano e il pensiero sociale democraticoriformista; e, dopo avere aderito nel 1864 all’Internazionale dei lavoratori, ben presto se ne era allontanato criticandone l’operato e assumendo nel 1871

una posizione di netta condanna della Comune di Parigi, esaltata invece da Marx. Ciò non aveva impedito all’Internazionale di estendere la sua influenza in Italia e soprattutto nel Sud grazie all’attivismo del rivoluzionario russo Michail Bakunin – uno dei padri dell’anarchismo internazionale e acceso avversario sia di Marx sia di Mazzini – che vi si era stabilito nel 1864 trovando la fervente collaborazione di uomini come Carlo Cafiero, un aristocratico e ricco possidente meridionale divenuto suo seguace e finanziatore. Una notevole eco ebbe la presa di posizione a favore dell’Internazionale, per quanto fondata su motivazioni soprattutto umanitarie e accompagnata da una buona dose di confusione teorica, del vecchio Garibaldi; il che riempí di soddisfazione Marx ed Engels. Il lavoro di propaganda di Bakunin, in assenza di un consistente proletariato, oltre che su ristretti nuclei di operai, fece presa, specie nel Sud e nel Centro, in particolare su artigiani e intellettuali. Fu cosí l’anarchismo, con il suo vangelo di immediata ribellione sociale e di rifiuto pregiudiziale alla partecipazione e alla organizzazione politica, e non il socialismo, a fornire il primo indirizzo e la prima ideologia al movimento popolare italiano in lotta con l’ordine costituito. Bakunin si era illuso che in Italia vi fossero tutte le condizioni per una rivoluzione sociale, facendo leva sulla miseria dei contadini e sulla loro ostilità verso il fiscalismo e l’autoritarismo dello Stato. Per questo gli anarchici, con il concorso di gruppi repubblicani, tentarono tra il 1874 e il 1877 di suscitare ripetuti moti eversivi nel Centro e nel Sud. Nell’agosto ’74 un moto promosso nei pressi di Imola fallí provocando numerosi arresti, fra cui quello di Andrea Costa, allora anarchico convinto e non ancora convertitosi al socialismo. Bakunin, che era tornato in Italia dopo varie peregrinazioni, deluso per la mancata partecipazione delle masse, riuscí a fuggire in Svizzera travestito da prete. Nell’aprile 1877, guidati da Cafiero ed Errico Malatesta, gli anarchici rinnovarono il tentativo, questa volta agendo in provincia di Benevento, dove occuparono due villaggi. Fu un nuovo fallimento, conclusosi con numerosi arresti. Questi avvenimenti spinsero Costa a rompere nel 1879 con l’ortodossia anarchica e a fondare, nell’agosto 1881 e in condizioni di clandestinità, il Partito socialista rivoluzionario di Romagna, accettando di agire politicamente attraverso un partito e respingendo l’insurrezione come arma esclusiva. Alle elezioni dell’ottobre 1882 Costa venne eletto deputato. Poco prima, nel maggio di quell’anno, a Milano, esprimendo l’esigenza di gruppi della nuova classe

operaia di liberarsi dalla tutela politica dei radicali, era nato il Partito operaio italiano, con una forte caratterizzazione “operaista” e con l’obiettivo di promuovere le lotte rivendicative e sindacali. Depretis lo fece sciogliere nel giugno 1886 con l’accusa di essere «una associazione di malfattori». Sotto l’impulso della forte disoccupazione, nel 1884-85 si svilupparono agitazioni e grandi scioperi, particolarmente nel Mantovano e nel Cremonese, dove furono in prima fila i braccianti. Fu allora che emersero come leader e organizzatori socialisti Camillo Prampolini, Costantino Lazzari, Rinaldo Rigola e Leonida Bissolati. Negli anni successivi, fra il 1887 e il 1891, i progressi del movimento, nonostante la repressione governativa, furono rapidi e intensi. Nel gennaio 1891 venne fondata a Milano da Osvaldo Gnocchi-Viani la prima Camera del lavoro, seguita presto da altre, con compiti di collocamento e tutela sindacale. Anche in Italia andavano cosí maturando le condizioni per la creazione di un partito socialista su scala nazionale. Spingevano in questa direzione sia le lotte rivendicative e il salto qualitativo compiuto dal movimento nella sua organizzazione sia l’allargamento della base elettorale seguita alla riforma del 1882, sia l’influenza esercitata dall’esterno dai successi del Partito socialdemocratico tedesco e dall’avvenuta fondazione della II Internazionale operaia nel 1889, sia, infine, la diffusione della dottrina marxista. Un ruolo decisivo nella nascita del partito ebbe l’intellettuale milanese Filippo Turati, attivamente coadiuvato dalla sua compagna Anna Kuliscioff, un’esule russa. Divenuto socialista dopo aver rotto con il radicalismo, Turati fondò nel 1889 a Milano una Lega socialista che contribuí, con la rivista fondata nel 1891, la «Critica Sociale», a orientare le forze socialiste e operaie verso l’unità organizzativa sulla base della separazione dagli anarchici. Il socialismo di Turati, che stabilí contatti con Engels, aveva una matrice umanitaria, nella quale si combinavano in maniera eclettica positivismo, evoluzionismo e marxismo. Suo obiettivo divenne la formazione di un partito socialista autonomo frutto dell’incontro del movimento operaio con una nuova leva di intellettuali “simpatizzanti” inclini a vedere nel proletariato la forza in grado di intraprendere un’energica lotta per le libertà politiche, civili e sindacali, e avente come scopo di democratizzare la società e di preparare le condizioni per un graduale percorso verso la società socialista. Dall’incontro dei gruppi socialisti milanesi, emiliano-romagnoli e di una parte delle organizzazioni operaie già mazziniane orientatesi verso il

socialismo e dalla separazione dagli anarchici, al Congresso di Genova del 14-15 agosto 1892, in rappresentanza di 324 associazioni, nacque il Partito dei lavoratori italiani. Nel suo programma, genericamente ispirato dal marxismo, si affermava che lo «scopo finale» dell’emancipazione dei lavoratori «non può raggiungersi che mediante l’azione del proletariato organizzato in partito di classe, indipendente da tutti gli altri partiti» e «una lotta piú ampia intesa a conquistare i poteri pubblici (Stato, Comuni, Amministrazioni pubbliche ecc.) per trasformarli, di strumento che oggi sono di oppressione e di sfruttamento, in uno strumento per l’espropriazione economica e politica della classe dominante» 8. Al Congresso di Reggio Emilia del settembre 1893 il partito assunse la denominazione di Partito socialista dei lavoratori italiani, nel 1895 mutata in Partito socialista italiano. L’iniziativa di Turati venne seguita al tempo stesso con partecipazione e atteggiamento critico da Antonio Labriola, un filosofo napoletano convertitosi al socialismo e al marxismo negli anni Ottanta. Labriola, che fu uno fra i piú insigni teorici marxisti europei ed ebbe stretti legami con Engels che ne aveva grande stima, stese fra il 1895 e il 1899 alcuni scritti – poi raccolti nel volume Saggi sulla concezione materialistica della storia – in forte polemica con il positivismo; nei quali sosteneva che il marxismo non andava confuso con una scienza astratta e generale della società in quanto esprimeva la concezione critica della prassi rivoluzionaria del proletariato, in piena autonomia da tutte le correnti culturali borghesi, dunque anche da quelle democratiche e progressiste. Se considerò con favore l’azione pratica di Turati per la creazione di un partito autonomo della classe operaia, ne criticò però l’eclettismo culturale e ideologico e l’evoluzionismo di stampo positivistico considerati fattori di indebolimento dell’autonomia ideologica e politica del Partito socialista. La nascita del Partito socialista ebbe un’importanza cruciale per tre motivi della massima importanza: perché diede vita a un soggetto politico delle masse lavoratrici destinato a segnare profondamente la storia italiana successiva; perché – in netto contrasto per le sue caratteristiche con il Partito liberale basato su gruppi di notabili – portò sulla scena nazionale il primo partito politico moderno e di massa; e perché segnò l’emergere di una cospicua forza collocata programmaticamente in antitesi allo Stato liberale e alle sue basi sociali e istituzionali: andando sotto questo profilo ad affiancarsi, oltre che ai repubblicani, ai cattolici intransigenti nel non

riconoscere i fondamenti dello Stato liberale. Socialisti, repubblicani e cattolici si proponevano dunque congiuntamente, pur con contrastanti finalità, di mettere in atto non già normali “alternative di governo”, ma “alternative di sistema”; sicché i liberali furono per parte loro indotti a persistere nell’opporre alle forze considerate «nemiche dello Stato» un blocco di potere che poteva sí mostrarsi piú o meno rigido a seconda degli orientamenti delle sue correnti interne, ma che, considerandosi il baluardo delle istituzioni, era unitariamente determinato a non cedere la guida del governo.

6. Dal primo ministero Giolitti all’ultimo Crispi. I Fasci siciliani e la sconfitta in Africa. Giovanni Giolitti, che successe a Rudiní nel maggio 1892, era nato a Mondoví il 27 ottobre 1842. Laureatosi in legge, era entrato nel 1862 nella magistratura, prestando la sua opera al ministero prima di Grazia e Giustizia, e poi delle Finanze. A contatto con Sella, Minghetti e Depretis, aveva acquistato una profonda conoscenza della macchina statale. Nel 1882 aveva abbandonato la carriera burocratica, entrando nella vita politica. Eletto in quell’anno deputato a Cuneo, aveva appoggiato Depretis fino al 1886, quando aveva preso posizione contro il «trasformismo», cui rimproverava di impedire il formarsi di schieramenti definiti, e a favore del risanamento finanziario che giudicava ostacolato dalla linea di «finanza allegra» seguita dal ministro Agostino Magliani. Il 7 novembre 1886 in un discorso ai suoi elettori cosí si era espresso, dimostrando di avere maturato una concezione liberale piú moderna e dinamica di quella dei Depretis e dei Crispi: Due sono i sistemi politici ai quali può informare la sua condotta una nazione. Quella che suole chiamarsi politica imperiale e la politica democratica. [...] Una politica imperiale non può farsi senza destinare all’esercito e alla marina le maggiori risorse del Paese e senza una direzione politica costantemente uniforme; essa richiede quindi un forte governo che abbia l’appoggio di una potente aristocrazia la quale, a sua volta, non può esistere senza la grande proprietà. Ne sono necessaria conseguenza poca libertà all’interno e il sacrifizio del privato al pubblico interesse. […] La politica democratica tende invece ad assicurare il benessere del maggior numero di cittadini; deve perciò favorire

l’istruzione pubblica, l’industria, l’agricoltura, ridurre al necessario i pubblici pesi, provvedere alle classi lavoratrici, garantire la libertà. [...] Quale delle due politiche conviene all’Italia? Non esito ad affermare che dobbiamo fare una politica sinceramente democratica. Ce lo impongono la nostra origine, la nostra costituzione politica e sociale, i nostri interessi 9.

Divenuto nel marzo 1889 ministro del Tesoro nel governo Crispi e poi nel settembre 1890 anche delle Finanze, Giolitti aveva dapprima cercato di contemperare le esigenze poste dalle spese militari con i limiti di bilancio; poi, dinanzi all’indirizzo militaristico e coloniale di Crispi, che gravava eccessivamente su uno stato delle finanze non in grado di sostenerlo, si era dimesso nel dicembre 1890. Caduto Crispi nel gennaio 1891, durante la crisi del ministero di Rudiní seppe abilmente e disinvoltamente preparare la sua nomina a presidente del Consiglio facendo sapere al re che come capo del governo non avrebbe ridotto le spese militari. Il 15 maggio 1892 il sovrano lo nominò contro il parere di Crispi, il quale disse di lui che era «incapace di reggere lo Stato». Le origini del primo governo Giolitti mostrarono chiaramente che il critico del «trasformismo» non esitava dinanzi ai compromessi. E in questo modo ottenne la fiducia del re. Il suo primo ministero, che durò fino al novembre 1893, fu troppo breve per far emergere la statura politica dell’uomo; eppure le sue caratteristiche essenziali ne uscirono fin da allora delineate. Giolitti manifestò il proposito di rivedere il sistema fiscale diminuendo il carico per i non abbienti; fece sentire alle opposizioni e in particolare ai socialisti un clima meno repressivo; ma al tempo stesso, per procurarsi una sicura maggioranza in Parlamento nelle elezioni del novembre 1892, si dimostrò maestro consumato nell’arte, usata largamente dai precedenti governi, di servirsi dell’apparato statale e dei prefetti per esercitare pressioni e fare opera di corruzione nei confronti degli elettori. La logica di questi orientamenti era di dotare il Paese di strumenti in grado di portarlo verso un equilibrio piú moderno tra le parti sociali, lasciando un certo spazio al movimento popolare cosí da indurre la borghesia a un confronto con esso piú dinamico e avanzato sulla scia dei Paesi piú sviluppati. In sostanza, con Giolitti veniva alla ribalta una Sinistra liberale dai connotati nuovi. Egli era contrario a che la spesa pubblica servisse di sostegno agli interessi parassitari; e perciò mirava al risanamento del bilancio, ricorrendo a una piú severa

politica fiscale nei confronti delle classi alte, che evadevano largamente, con l’introduzione della tassazione progressiva. Il che doveva servire a dare una base piú larga di consenso alla classe dirigente, mediante una redistribuzione dei pesi a vantaggio della piccola proprietà terriera e delle classi popolari. Le elezioni politiche del novembre 1892, svoltesi sulla base di collegi uninominali, diedero a Giolitti un’ampia maggioranza parlamentare. Sennonché l’opera del presidente del Consiglio fu interrotta da due eventi: lo scoppio dello scandalo della Banca Romana e la grave crisi provocata dalle agitazioni in Sicilia dirette dai «Fasci», organizzazioni di contadini, braccianti e piccoli proprietari. Il primo esplose con grande violenza tra il dicembre 1892 e il marzo 1893 in relazione alla questione, già emersa con Crispi, degli scandali bancari, e in particolare alla irregolare gestione della Banca Romana, il cui direttore, Bernardo Tanlongo, era stato fatto nominare senatore da Giolitti. Lo scandalo della Banca Romana indusse il governo a farsi promotore dell’istituzione della Banca d’Italia, con legge varata nell’agosto 1893, sulla base della fusione della Banca Nazionale, della Banca Romana, della Banca Nazionale Toscana e della Banca Toscana di Credito. Negli scandali bancari furono coinvolti molti uomini politici e lo stesso Crispi, che però riuscí a manovrare con successo per indebolire Giolitti, in effetti anch’egli immischiato nella vicenda. Il secondo fu l’emergenza venuta a crearsi in Sicilia, dove la crisi agraria aveva provocato una fortissima tensione sociale. Le agitazioni erano guidate nell’isola da uomini di orientamento socialista come Giuseppe De Felice-Giuffrida, Nicola Barbato, Rosario Garibaldi Bosco e organizzate dal movimento dei Fasci, diffusosi nel 1892 e agli inizi del 1893. Si trattava di un vasto movimento di protesta, in cui si univano la rivolta contro l’eccessivo fiscalismo, quella contro la tirannia dei «galantuomini» nelle amministrazioni e la rivendicazione di terre da coltivare. Giolitti, al contrario di Crispi e dei proprietari che invocavano una rapida ed energica repressione manu militari, pur dando disposizioni alla polizia di colpire ogni atto illegale, memore di uno degli ultimi ammonimenti di Cavour, non volle affrontare un problema sociale con misure di stato d’assedio. Il 24 novembre 1893, ancora coinvolto nello scandalo della Banca Romana e accusato di debolezza di fronte all’agitazione dei Fasci, diede le dimissioni; e il 15 dicembre Crispi tornò al potere. Crispi ebbe il plauso della maggior parte della borghesia, che vide in lui

l’“uomo forte” richiesto dal momento, in grado di far rispettare la legge. Nel gennaio 1894 fece proclamare lo stato d’assedio in Sicilia, dove venne inviato un forte contingente di truppe e fu nominato commissario straordinario il generale Roberto Morra di Lavriano con poteri di governo sull’intera isola. La repressione iniziò immediatamente e provocò un centinaio di morti. A creare un clima da “patria in pericolo” contribuí un tentativo di insurrezione sempre in gennaio promosso in Lunigiana dagli anarchici con l’appoggio dei cavatori di marmo di Carrara e prontamente soffocato dopo la messa in stato d’assedio della regione. Crispi sostenne che ci si trovava di fronte non tanto a movimenti sociali, quanto a una vasta cospirazione su scala nazionale diretta a sovvertire lo Stato e a colpire la sua unità. Arrivò al punto di credere e far credere che i Fasci intendessero staccare la Sicilia dall’Italia con la partecipazione di agenti russi e francesi per consegnarla a una potenza straniera. Cosí i capi del movimento – alcuni dei quali, socialisti ma soprattutto anarchici, in Sicilia avevano progettato di rispondere alla repressione con l’insurrezione – vennero condannati a pesantissime pene detentive; circa 2000 furono gli arresti. Scampato a Roma a un attentato il 16 giugno, Crispi concepí a questo punto un disegno repressivo ad ampio raggio contro le organizzazioni operaie, socialiste e anarchiche. Occorre però ricordare che in luglio Crispi, il quale non mancava di intelligenza politica, mostrò di comprendere che l’azione dei Fasci non era unicamente riconducibile a volontà eversiva e aveva serie motivazioni economiche e sociali; sicché, sostenendo che bisognava portare a termine la «rivoluzione borghese», presentò un disegno di legge diretto a dividere i latifondi estendendo l’area della piccola e media proprietà; ma il disegno venne fatto cadere dai deputati legati agli interessi dei grandi proprietari. In ottobre il Partito socialista fu sciolto in quanto organizzazione sovversiva, e con esso le organizzazioni sindacali. Infine, in previsione delle elezioni del 1895, dopo avere governato per un lungo periodo limitando al massimo l’attività del Parlamento, per assicurarsi una piú solida maggioranza Crispi fece manipolare le liste elettorali e cancellare da esse moltissimi oppositori specie nel Mezzogiorno, restringendo il corpo elettorale da 2 934 445 a 2 120 185. E raggiunse il suo intento, tanto che le elezioni del maggio-giugno 1895 diedero alle forze raccolte intorno a lui 334 deputati, alle opposizioni liberali di sinistra e di destra guidate rispettivamente da Zanardelli, Giolitti e Di Rudiní 104, ai radicali 47, ai socialisti 15. È però assai significativo che in

Lombardia, la regione piú avanzata d’Italia, i deputati vicini a Crispi furono solamente 24, mentre all’opposizione liberale andarono 22 deputati e 17 all’estrema sinistra radicale, repubblicana e socialista. Alla politica di Crispi si opposero fermamente radicali come Cavallotti e Napoleone Colajanni, un pubblicista siciliano di grande coraggio. Dal canto loro i socialisti, che durante la vicenda dei Fasci, con l’eccezione di Turati e Labriola, avevano assunto un atteggiamento incerto e sostanzialmente critico giudicando il movimento siciliano come tendenzialmente anarchico e primitivo, si accostarono ai democratici borghesi radicali e repubblicani per resistere all’ondata autoritaria e presentarono in marzo un «programma minimo» fondato sulla difesa delle libertà politiche, civili e sindacali, il suffragio universale, la sostituzione della nazione armata all’esercito permanente, l’eguaglianza politica e giuridica di uomini e donne, la concessione ai contadini delle terre incolte, la tassa unica progressiva, la giornata lavorativa di otto ore, la tutela del lavoro di donne e bambini, l’istruzione laica per tutti fino alla quinta classe elementare. Nel frattempo era tornata alla ribalta la questione degli scandali bancari, nei quali chiare erano apparse le responsabilità di Crispi, che fece di tutto per fare di Giolitti il maggiore capro espiatorio. Contro il presidente del Consiglio e la sua politica il 10 giugno Cavallotti pubblicò una Lettera agli onesti di tutti i partiti, nella quale affermava che nel Paese era ormai scoppiata una grande «questione morale», e accusava Crispi di essere responsabile di una vasta opera di corruzione. Sennonché alla Camera la maggioranza votò pochi giorni dopo per il rinvio del dibattito sulle accuse mosse da Cavallotti. Il precipitare della situazione in Africa, che segnò la disfatta politica di Crispi, fece poi sí che l’affaire venisse messo definitivamente a tacere. Dopo la proclamazione nel 1890 della Colonia Eritrea e la rottura delle trattative con Menelik nel 1891 sulla questione del testo del trattato di Uccialli, i rapporti fra Italia ed Etiopia erano andati sempre piú deteriorandosi, sfociando nella denuncia formale del trattato stesso da parte del negus nel febbraio 1893. Emerse ancora una volta come le ambizioni colonialistiche dell’Italia fossero viziate dalla sproporzione fra i mezzi che il Paese era in grado di mettere in campo e i fini di un imperialismo che in Crispi era sorretto dal velleitarismo ideologico di matrice nazionalistica. Fu Menelik a prendere l’iniziativa militare. Il 3 dicembre 1895 un contingente

italiano di circa 2400 uomini, agli ordini del maggiore Pietro Toselli in un clima di dissensi tra i comandi militari, subí una sanguinosa sconfitta sull’Amba Alagi. Toselli cadde in combattimento, e solo 300 furono gli scampati. Crispi che, attaccato dai socialisti e dai radicali, era alla ricerca di un successo militare a ogni costo, esortò a quel punto il generale Oreste Baratieri ad agire con decisione inviandogli un telegramma in cui sprezzantemente diceva che ci si trovava di fronte a «una tisi militare» e non a «una guerra». Il 1 o marzo 1896 le forze di Baratieri ammontanti a 16 000 uomini, si scontrarono con 70 000 abissini presso Adua e vennero sbaragliate, lasciando sul campo circa 4000 morti italiani e 2600 ascari; i prigionieri furono 1800; l’esercito di Menelik ebbe circa 9000 morti. In Italia scoppiarono violente dimostrazioni contro la guerra e colui che sopra tutti l’aveva patrocinata. Crispi rassegnò le dimissioni il 5 marzo. Gli successe Di Rudiní, cui non rimase che fare la pace con Menelik, ponendo fine alle illusioni di un’espansione in direzione dell’Etiopia. In base al trattato di Addis Abeba, firmato il 26 ottobre, il trattato di Uccialli venne annullato e all’Italia venne riconosciuto il possesso della sola Eritrea. Si concluse cosí la parabola politica di Crispi, che sarebbe morto a Napoli nel 1901. Era stato la piú forte personalità politica dell’Italia liberale dopo Cavour e prima di Giolitti. Come parlamentare e capo del governo aveva oscillato tra posizioni progressiste e posizioni autoritarie fino alla reazione, avendo come stella polare la difesa piú intransigente dell’unità della nazione e dello Stato divenuta una vera e propria “ossessione”. In vita, Crispi fu oggetto di indiscriminate esaltazioni e di profondissime avversioni; e dopo la morte, di giudizi contrastanti, che in ogni caso rispecchiarono sia l’importanza della leadership da lui esercitata nell’Italia liberale sia il significato che ebbe la proiezione della sua immagine nella coscienza politica e storiografica del Paese. Tra i suoi piú caldi ammiratori vale citare Carducci, che nel 1893 disse di lui che era «il solo grande uomo di Stato cresciuto dalla democrazia italiana del 1860» 10. Nel riflettere sull’opera di Crispi, quando il fascismo aveva ormai consolidato la sua dittatura, il fascista Gioacchino Volpe e il liberale Benedetto Croce – orientato il primo a evidenziare i limiti e le incompiutezze dell’Italia liberale rispetto al compito di portare la nazione a una nuova grandezza poi intrapreso da Mussolini e dal suo regime; il secondo a una difesa di quell’Italia che sconfinava nella celebrazione – tradussero queste loro generali interpretazioni nei giudizi sulla persona

dell’uomo politico siciliano. Nell’Italia in cammino del 1927 Volpe fece di lui in certo senso un “precursore” della missione mussoliniana: «forse primo fra gli uomini di governo della nuova Italia, Crispi ebbe alte ambizioni per la sua patria risorta; le additò, credé di poterle imporre alte vette», ma «poco realizzò di quanto gli ferveva nell’anima e nel pensiero», ponendo l’interrogativo se ciò non fosse stato dovuto ai tempi «immaturi» 11. Di tutt’altro segno quanto scritto l’anno seguente da Croce nella sua Storia d’Italia. Per il filosofo – e qui incombeva come figura di statista positivo l’ammirato Giolitti – Crispi incarnò le esigenze di coloro che chiedevano «una sorta di dittatore» in grado di compiere «qualche miracolo»; «le speranze riposte nel Crispi erano, dunque, a ben guardare, non un segno di gagliardia, ma una particolare manifestazione dello smarrimento e dello sconforto», cui faceva riscontro solo una «formale energia». Pertanto, concludeva Croce, egli «non era un precursore, ma un uomo politico, affatto chiuso nella società del suo tempo, legato alla potenza e impotenza di essa, alla sua volontà e alle sue velleità» 12. È infine interessante ricordare il giudizio di Giolitti, che nelle sue Memorie – cogliendo il nucleo della personalità contraddittoria di Crispi – si inchinò di fronte alla figura del «fervido patriota, che sentiva altamente dell’Italia, ed avrebbe voluto condurla a sempre piú alti destini» ed era dotato di «grande energia» e di «mente larga e pronta», ma al tempo stesso individuò il suo tallone d’Achille nell’incapacità, rispetto anzitutto al suo «largo ed audace programma di espansione, sproporzionato però alle potenzialità del Paese», di «curare le esecuzioni ed adeguare i mezzi allo scopo», nella «scarsa attitudine e abitudine all’esame ponderato delle cose», che «lo portava alle volte addirittura al fantastico» 13.

7. La crisi di fine secolo. L’Italia alle soglie di una crisi di sistema, la sconfitta del tentativo reazionario. Il secondo governo Di Rudiní, che rimase in carica dal marzo 1896 al giugno 1898, dovette fronteggiare un’eredità pesante. Il fallimento della politica di Crispi lo indusse a cercare di attenuare la tensione politica interna; sicché il governo concesse un’amnistia che liberò i condannati dei Fasci. Analogamente, in politica estera, riprendendo la linea già accennata nel suo

precedente governo, avviò un processo di distensione con la Francia. Sennonché la situazione interna andò progressivamente aggravandosi, cosí da gettare le istituzioni e il Paese in una crisi destinata a diventare a mano a mano piú grave e ad acquistare il carattere di una crisi di sistema. Le forze che avevano sostenuto Crispi – gli industriali e gli armatori interessati alle spese militari e all’espansione coloniale, gli agrari meridionali che avevano plaudito allo stato d’assedio in Sicilia, certa piccola borghesia intellettuale oziosa, nazionalista per vocazione, i militari che si sentivano rivalutati, nonostante gli insuccessi, dalle guerre coloniali e dalla politica “ardita”, gli ambienti di corte – auspicavano il proseguimento della politica autoritaria, riprendendo in chiave politica le posizioni teoriche di intellettuali i quali da alcuni anni avevano preso a criticare frontalmente il sistema parlamentare e a invocare il primato della corona e del suo governo sul Parlamento. Nel 1882 era comparso il libro del napoletano Pasquale Turiello, Governo e governati in Italia, in cui l’attacco al parlamentarismo era totale. L’autore scriveva che «non sono piú vitali oggi gli organismi volgarmente parlamentari, poiché questi per natura curano solo i brevi interessi quotidiani e urgenti degli Stati, che vivacchiano: ma senza sguardo e sforzi al poi»; che, dopo esaurito il programma nazionale il 1870, quella che si chiama corruzione parlamentare diventò però una forma naturale e necessaria, finché il Governo parlamentare non ritorni alle legale forma rappresentativa. Finché il Re non scelga lui davvero i ministri, questi tra minoranze e individui disgregati non potranno vivere che come indispensabili. In fondo è piú facile un buon ministero in un governo assoluto che in uno parlamentare odierno 14.

A Turiello aveva fatto eco il siciliano Gaetano Mosca, uno dei padri della scienza politica italiana, nella sua Teorica dei governi e governo parlamentare, pubblicata nel 1883, in cui, a seguito dell’affermazione che nel sistema parlamentare «tutti [...], dal piú alto al piú basso, dal ministro all’elettore, trovano il loro privato interesse nel tradire quegli interessi pubblici che sono loro affidati» 15, concludeva che «se si vogliono porre dei freni al potere dei cosí detti rappresentanti del popolo, e freni che siano veramente efficaci», occorre che il re e il Senato di nomina regia «siano davvero i centri di valori politici reali e indipendenti» 16. A farsi portavoce di questa corrente nelle file della classe dirigente dopo

la rovinosa caduta di Crispi fu un insigne studioso e uomo politico liberale fra i piú autorevoli membri del Parlamento come Sonnino. Convintosi che lo schieramento liberale mostrasse un’inaccettabile debolezza di fronte agli opposti pericoli «rosso» e «nero» e che l’Italia potesse sollevarsi solo con una netta svolta politica, il 1 o gennaio 1897 egli pubblicò sulla «Nuova Antologia» un articolo, Torniamo allo Statuto, nel quale, dopo aver affermato che «senza dubbio alcuno, il parlamentarismo, quale si esplica oggi in Italia, è ammalato», suggestionato dall’esempio tedesco chiedeva che si ponesse fine ai particolarismi espressi dal Parlamento rendendo responsabili i ministri solo verso il re. Scriveva: Il socialismo si organizza minaccioso da un lato; il clericalismo con intenti teocratici dall’altro; dispotismi soffocanti ogni libertà civile e morale, tanto questo che quello; [mentre] la parte liberale moderata […] è paralizzata dal sentimento dell’insuccesso delle principali dottrine da lei fin qui professate e decantate 17.

In un tale situazione, concludeva Sonnino, solo il re può rappresentare la tradizione di governo, la continuità nell’azione dello Stato, la stabilità dei suoi ordinamenti, in una parola […] l’interesse generale della patria tanto nel presente che nel futuro 18.

Funzione del Parlamento, una volta reso indipendente da questo il ministero, sarebbe stata di dare indicazioni al sovrano e al governo da lui emanato. Sonnino, insomma, auspicava che il regime liberale spostasse il proprio baricentro dal parlamentarismo a un potere esecutivo rafforzato ponendo la necessaria energica iniziativa nelle mani del re, secondo l’esempio prussiano. Un simile progetto era un vero e proprio grido d’allarme provocato dalla consapevolezza che la classe dirigente liberale appariva indebolita e incerta a causa della sua incapacità, o meglio impossibilità, di allargare la base del consenso in direzione conservatrice con un’alleanza organica con i cattolici oppure in direzione democratica con un riformismo capace di assimilare forze radicali, repubblicane e anche socialiste. Il successo conseguito alle elezioni anticipate del marzo 1897, volute dal capo del governo e dalla corte, dall’estrema Sinistra che ottenne un’ottantina di deputati (i socialisti quasi raddoppiarono i loro voti passando da 77 000 a 135

663) indebolí il governo, accrescendo irritazione e preoccupazione nelle file dei conservatori, tanto piú dopo il fallito attentato a Umberto da parte di un anarchico il 22 aprile. La situazione precipitò nel corso del 1898. Quando il 6 marzo Cavallotti venne ucciso in un duello da un deputato di destra le polemiche divamparono violente. Ma la tensione esplose in maggio a Milano. Il prezzo del pane, base dell’alimentazione popolare, era notevolmente rincarato in seguito agli effetti congiunti del cattivo raccolto interno e del mancato flusso delle importazioni dagli Stati Uniti impegnati nella guerra con Cuba. Fin dal 26 aprile, partendo dalla Romagna e dalle Puglie, erano scoppiate agitazioni che si erano estese a diverse regioni del Paese. Nella capitale lombarda tra il 6 e il 9 maggio lo scontento popolare sfociò in tumulti, che assunsero apertamente il carattere di protesta politica. Venne proclamato lo stato di assedio, e il 7 maggio il generale Fiorenzo Bava Beccaris affrontò la folla con le artiglierie, convinto di reprimere un’insurrezione capeggiata dai socialisti, con un bilancio secondo i dati forniti dalle autorità di 80 morti e in base ad altre fonti di oltre 300. Dando prova di insensibilità umana e di cecità politica, Umberto I decorò il massacratore di Milano con la Gran Croce dell’Ordine militare di Savoia a riconoscimento dei servizi da lui resi «alle istituzioni ed alla civiltà»; il che provocò l’indignazione non solo dei socialisti ma anche di molti borghesi. La linea di Crispi di fronte ai Fasci siciliani si ripeté. Vennero effettuati centinaia di arresti, fra cui quelli dei capi socialisti Turati, Bissolati, Costa, Kuliscioff, Lazzari, di radicali e repubblicani e anche di don Davide Albertario, un cattolico intransigente, reo di aver attribuito dalle colonne del giornale da lui diretto, «L’Osservatore cattolico», lo scoppio dei tumulti non a una congiura politica ma alla miseria popolare. Le organizzazioni socialiste e sindacali vennero sciolte, colpite numerosissime anche le organizzazioni cattoliche, molti giornali furono sospesi, i redattori del quotidiano socialista «Avanti!» arrestati, le principali università chiuse. I tribunali pronunciarono pesanti condanne. Turati e il repubblicano De Andreis furono condannati a dodici anni di reclusione, don Albertario a tre. A questo punto all’interno dello stesso ministero emersero contrasti. Di Rudiní, dopo avere proposto un pacchetto di leggi di carattere repressivo che non aveva incontrato il favore della maggioranza dei deputati, chiese al re di sciogliere le Camere e di indire nuove elezioni, nella speranza che queste lo rafforzassero; ma il re rifiutò, provocandone le dimissioni, e nominò al suo

posto il generale Luigi Pelloux, che sarebbe rimasto in carica per due anni, dal 29 giugno 1898 al 18 giugno 1900. Pelloux, che agli inizi ebbe l’appoggio di autorevoli esponenti della sinistra liberale come Zanardelli e Giolitti, dapprima tentò di riportare il Paese a condizioni di una pur relativa normalità, ponendo fine allo stato d’assedio, che da Milano era stato esteso anche alle province di Firenze, Livorno e Napoli, ridando libertà di movimento alle organizzazioni e ai giornali soppressi e varando un indulto a favore dei condannati politici. Sennonché – anche per la sua condizione di militare soggetto a stretta dipendenza dal re e dagli ambienti della corte i quali, sotto la diretta influenza di Sonnino, spingevano per un rafforzamento del potere esecutivo a scapito di quello legislativo – ben presto, mutato indirizzo, si fece strumento della corrente reazionaria che desiderava porre fine al regime parlamentare e instaurare un regime di tipo “prussiano”. Per attuare un simile piano era necessario tagliare le ali alle opposizioni. Il 4 febbraio 1899 venne presentata alla Camera una serie di disegni di legge finalizzati a porre sotto controllo la stampa, limitare il diritto di riunione, colpire il diritto di associazione e vietare lo sciopero nei servizi pubblici. Il tentativo reazionario era ora appoggiato direttamente da ambienti milanesi e toscani – questi ultimi direttamente collegati a Sonnino – in precedenza di orientamento moderato. L’adesione dei milanesi aveva una particolare importanza, in quanto esprimeva gli umori della grande industria, la quale – a differenza di settori della piccola e media industria favorevoli a una linea liberal-democratica –, dopo aver avversato il conservatorismo di Crispi, si era spostata a destra spaventata dalle violente agitazioni sociali culminate nei tumulti di Milano. Contro una simile svolta reazionaria – il cui successo avrebbe significato la fine del sistema istituzionale e della forma di governo liberale – prese corpo un’opposizione che andava dai socialisti fino a quella parte del ceto politico liberale che, di fronte alla prospettiva di un ulteriore acuirsi dei conflitti politici sociali dagli esiti imprevedibili, optava per una linea di apertura democratica e riformistica. Se il movimento operaio e socialista ben comprendeva che sarebbe stato la prima vittima della vittoria della linea reazionaria, se radicali e repubblicani erano consapevoli che dovevano giocare il tutto per tutto per difendere le condizioni stesse della loro opposizione, una componente influente della borghesia, specie settentrionale, finí per arretrare di fronte alla prospettiva di uno scontro frontale anzitutto con i socialisti, ritenendo meglio garantite le condizioni del proprio sviluppo

dal mantenimento del regime liberale. In maggio Pelloux, nel tentativo di sottrarsi a un voto parlamentare sfavorevole sulla posizione italiana nella crisi apertasi in Cina, diede le dimissioni; dopo di che formò il suo secondo governo con l’appoggio di Sonnino. Zanardelli, esprimendo il dissenso della sinistra liberale dall’indirizzo del governo, si dimise da presidente della Camera. Nel dibattito in Parlamento sull’approvazione dei disegni di legge di segno reazionario, emanati per decreto il 22 giugno, i socialisti ricorsero all’ostruzionismo, parlando ininterrottamente, e il 30 giugno, quando il presidente della Camera chiuse d’autorità il dibattito in modo illegale, ordinando che si passasse alle votazioni, Bissolati venne addirittura allo scontro fisico con Sonnino, mentre Prampolini e De Felice rovesciarono le urne. A questo punto Pelloux tentò di dare valore esecutivo al decreto del 22 giugno, denunciato come anticostituzionale da Giolitti, che, in sintonia con Zanardelli, si era schierato apertamente contro il governo, dichiarando che si rendeva necessaria la formazione di un esecutivo orientato a «impadronirsi di ciò che vi è di ragionevole nel programma socialista e richiamare a sé la fiducia delle masse popolari». Il 20 febbraio 1900 la Corte di cassazione di Roma dichiarò il decreto nullo per la mancata approvazione del Parlamento. Dopo che Pelloux in marzo ebbe compiuto un nuovo tentativo di farlo passare e cercato di far modificare il regolamento della Camera, l’estrema Sinistra e la Sinistra liberale abbandonarono i lavori parlamentari. Il 6 aprile il governo, prendendo atto della sconfitta, ritirò il tanto contestato disegno di legge del 22 giugno 1899. In questo clima divenuto via via piú turbolento, anche la grande industria milanese, avendo giudicato troppo pericoloso il disegno reazionario di fronte alle resistenze emerse, tolse il proprio appoggio a Pelloux. Convinto di poter ottenere la fiducia dell’elettorato, questi ottenne dal re lo scioglimento delle Camere. I risultati delle elezioni del 3 e 10 giugno 1900 portarono a un notevole rafforzamento di radicali, repubblicani e socialisti, che passarono da 67 a 96 seggi (di cui 34 radicali, 29 repubblicani e 33 socialisti, che in precedenza ne avevano 16), e della sinistra liberale, cui andarono 116 seggi. I governativi ottennero 296 seggi; ma un indice negativo per il governo fu che la maggioranza a suo favore fu tale solo per effetto dei collegi uninominali, in quanto i partiti di opposizione ottennero un numero superiore di voti (circa 10 000) e nelle regioni del Nord il consenso allo schieramento governativo risultò minoritario. Di fronte a questi dati, Pelloux, pur disponendo ancora

della maggioranza, ma con margini ristretti, il 18 giugno rassegnò le dimissioni. Il re Umberto, anziché dare l’incarico, come logico in base alla prassi parlamentare, al capo dell’opposizione liberale Zanardelli, scelse il vecchio senatore Giuseppe Saracco, il cui governo entrò in carica il 24 giugno. Fu l’ultimo atto politico del sovrano, poiché il 29 luglio un anarchico, Gaetano Bresci, venuto dagli Stati Uniti, lo assassinò a Monza per vendicare i morti di Milano del 1898 e l’offesa recata al popolo con la decorazione concessa a Bava Beccaris. L’anarchico, condannato all’ergastolo, sarebbe stato ucciso in carcere nel maggio 1901. A Umberto I successe il figlio Vittorio Emanuele III, che avrebbe regnato fino al 1946. Questo assassinio, nonostante le sue ripercussioni, non rimise in discussione il dato storico della vittoria del liberalismo parlamentare. I fatti politici piú notevoli avvenuti durante il governo Saracco riguardarono il movimento operaio: il Congresso del Partito socialista italiano e lo sciopero generale scoppiato a Genova. Il Psi era uscito dalle prove affrontate durante la crisi di fine secolo con un senso di grande sicurezza in se stesso, come apparve evidente dal congresso tenutosi a Roma tra l’8 e l’11 settembre 1900. Punto centrale dell’ordine del giorno era la questione del rapporto tra la lotta per le riforme parziali da conseguirsi nella società borghese (programma minimo) e la lotta per il fine ultimo ovvero la rivoluzione socialista (programma massimo). Nell’indicazione delle riforme si riprendevano per aspetti essenziali le linee del programma del 1895. Si trattava di riforme che per la loro natura e le loro implicazioni non erano incompatibili con quelle di cui potevano farsi portatrici le correnti liberali progressiste e quelle democratiche non socialiste. Il che poneva il problema della opportunità o meno per il Psi di stringere alleanze con liberali e democratici “borghesi”. E nella direzione dell’opportunità parve spingere la netta vittoria conseguita al congresso dai riformisti guidati da Turati. Ma non era soltanto il Psi a interrogarsi sulle vie da seguire dopo la crisi di fine secolo. Lo facevano anche i leader liberali. Pochi giorni dopo il congresso socialista, il 16 settembre Sonnino pubblicò sulla «Nuova Antologia» un articolo, dal titolo Quid agendum? Appunti di politica e di economia, nel quale colui che era stato il teorico della “via prussiana” indicava, combinando elementi conservatori e progressisti, le linee di fondo di un proprio eventuale governo avente il baricentro in un corso di riforme. Dopo aver dichiarato che «il Paese è ammalato, moralmente e politicamente»,

si richiamava come già nel 1897 alla necessità di rinsaldare intorno alla monarchia, che «rappresenta la collettività sociale», un «fascio» conservatore unitario e liberale quale contrappeso al «premere dei partiti estremi»: «la Sinistra dei sovversivi» e «la Destra dei clericali»; ma sollecitava al tempo stesso un piano di riforme giungendo a chiedere di far partecipare il mondo del lavoro agli utili e alla gestione delle aziende tanto industriali quanto agricole e di procedere alla revisione integrale dei patti agrari, troppo iniqui per i contadini. Leitmotiv assai significativo del discorso era la preoccupazione suscitata dalle divergenze interne del composito Partito liberale, di cui Sonnino auspicava una maggiore unità per fronteggiare efficacemente i nemici delle istituzioni. Era necessario un Partito liberale unito, in grado di perseguire la organizzazione di uno Stato forte, retto da un Governo forte, che possa affrontare risolutamente i maggiori e piú ardui problemi di giustizia e d’igiene sociale 19.

La risposta di Giolitti – che intendeva accogliere l’invito a rafforzare il Partito liberale lanciato da Sonnino, ma al contempo rendere palese all’opinione pubblica che non era quest’ultimo, pesantemente compromesso con la reazione, ad avere i titoli migliori per guidare un nuovo corso politico – venne affidata alle colonne della «Stampa» del 23 settembre con un articolo intitolato Per un programma liberale di governo. Giolitti respingeva nettamente la concezione espressa da Sonnino circa i modi e le basi su cui era da stabilire l’accordo tra «tutti gli uomini d’ordine» per dare un migliore fondamento allo Stato e rinsaldare le file del Partito liberale. Se per ottenere l’accordo – scriveva – si dovessero invece mettere in disparte quelle quistioni che il Paese vuole vedere risolte [...], in tal caso noi otterremmo un solo risultato: quello di rendere egualmente odiose al Paese tutte le frazioni del partito monarchico, e di gettarlo nelle braccia dei partiti estremi 20.

E aggiungeva: il Paese, – dice l’on. Sonnino – è ammalato politicamente e moralmente, ed è vero; ma la causa piú grave di tale malattia è il fatto che le classi dirigenti spesero enormi somme a beneficio proprio quasi esclusivo, e vi fecero fronte con imposte, il peso delle quali cade

in gran parte sulle classi piú povere. Noi abbiamo un grande numero di imposte sulla miseria; [...] non ne abbiamo una sola che colpisca esclusivamente la ricchezza vera. [...] Io deploro quanto altri mai la lotta di classe; ma, siamo giusti, chi l’ha iniziata? 21.

La conclusione era graffiante: È necessario persuadere le classi dirigenti che senza qualche sacrificio esse non possono sperare durevole quella pace sociale senza cui non vi è sicurezza né per le persone né per gli averi. Continuando ora nella resistenza cieca, sorgerà, in un tempo non lontano, la indeclinabile necessità di sacrifici molto piú gravi; allora si cederà all’impeto popolare, alla paura, ma i sacrifici non serviranno piú ad altro che a dimostrare la superiorità delle forze popolari, la debolezza delle classi ricche, e ne verrà a queste tale discredito da compromettere le nostre istituzioni e il nostro ordinamento sociale 22.

Chiara era dunque la strategia giolittiana: fare uscire l’Italia dalla crisi politica che aveva rischiato di sfociare nella crisi dello stesso sistema istituzionale aprendo un nuovo corso politico di segno progressista. Lo sciopero generale proclamato a Genova ed estesosi all’intera regione ligure nel dicembre 1900 dopo il decreto emanato il 18 di quel mese di scioglimento della Camera del lavoro mise il governo Saracco di fronte a un secco dilemma: reprimere o revocare lo scioglimento cosí da confermare la svolta liberale. Dopo molte incertezze, esso decise di far revocare il 21 lo scioglimento. Il 4 febbraio 1901 Giolitti, a completamento e chiarimento dello scritto del settembre dell’anno precedente, tenne alla Camera un discorso di grande rilievo, poiché letteralmente rovesciava l’impostazione non soltanto di Sonnino ma quella dell’intera classe dirigente italiana dopo l’unificazione: impedire alle “masse pericolose” di affacciarsi sulla scena politica, di darsi un’organizzazione autonoma e riconosciuta dal potere, di diventare un soggetto con il quale i governi fossero chiamati a interloquire. Bisognava invece finalmente favorire l’ingresso attivo delle masse lavoratrici nella vita delle istituzioni: Io [...] non temo mai – disse – le forze organizzate, temo assai piú le forze inorganiche, perché su di quelle l’azione del Governo si può esercitare legittimamente ed utilmente, contro i moti inorganici non vi può essere che l’uso della forza. [...] Il moto ascendente delle classi popolari si accelera ogni giorno di piú, ed è un moto invincibile

perché comune a tutti i paesi civili, e perché poggiato sul principio dell’eguaglianza tra gli uomini. Nessuno si può illudere di potere impedire che le classi popolari conquistino la loro parte di influenza economica e di influenza politica. Gli amici delle istituzioni hanno un dovere soprattutto, quello di persuadere queste classi, e di persuaderle coi fatti, che dalle istituzioni attuali esse possono sperare assai piú che da sogni dell’avvenire; che ogni legittimo loro interesse trova efficace tutela negli attuali ordinamenti politici e sociali.

Spetta ai «partiti costituzionali» fare sí che «l’avvento di queste classi sia una nuova forza conservatrice» anziché «un turbine che travolge la fortuna della Patria» 23. Si trattava né piú né meno che di un progetto ardito e di ampio respiro per addivenire a quella “nazionalizzazione delle masse” che in Italia era sempre mancata, vale a dire di spostare le masse dal fronte dell’“anti-Stato” al fronte dello Stato. Ma, perché il progetto avesse successo, occorrevano due presupposti: la conversione della classe dirigente a una politica di nuovo liberalismo e la prevalenza nel movimento dei lavoratori e nelle file socialiste di un indirizzo riformistico che voltasse le spalle al radicalismo ideologico e ai propositi rivoluzionari. Si può ben capire come il leader socialista Claudio Treves avesse potuto dire di Giolitti fin dall’agosto 1899: C’è dall’altra riva un uomo che ci ha capito. [...] Di mezzo alla selva reazionaria, che minaccia di soffocare lui come noi [...] non dovremo essergli scarsi di aiuto; ma a sua volta ei dovrà rispondere a noi delle promesse che da molti anni si ripetono sempre, e di cui ha osato una volta, tra lo scroscio violento dei vituperi della maggioranza, chiedere conto… agli altri! 24.

Il governo Saracco rassegnò le dimissioni il 7 febbraio 1901, dopo che la maggioranza della Camera aveva espresso la sfiducia nei suoi confronti. Il nuovo re, Vittorio Emanuele III, salito al trono dopo l’assassinio del padre, con intelligenza politica tirò a questo punto le somme dalla situazione creatasi nel Paese in seguito alla sconfitta della reazione e affidò l’incarico di formare il governo a colui che era stato il capo dell’opposizione liberale a Pelloux, Giuseppe Zanardelli, il quale chiamò Giolitti al ministero degli Interni. Il governo entrò in carica il 15 febbraio. L’Italia si avviava verso una nuova fase politica, agevolata dal fatto che stava conoscendo uno sviluppo economico dotato di un notevole slancio nel quadro del piú generale

movimento favorevole dell’economia europea.

8. Lo sviluppo dell’economia italiana: protezionismo e nascita della grande industria. Nel 1879 la rete ferroviaria nazionale, con i suoi 8713 km (nel 1890 avrebbe raggiuto i 12 228 km), poteva considerarsi nelle grandi linee largamente completata; non solo le regioni italiane erano collegate fra loro, ma il Paese era collegato con la Francia e l’Europa centrale. Il che costituiva una condizione di primaria importanza per il superamento degli ostacoli posti allo sviluppo di un mercato propriamente nazionale. Restava però il limite pesante costituito sia dalla ristrettezza dei beni prodotti e messi in circolazione sia dalla ancora assai scarsa capacità di consumo delle classi popolari, le cui retribuzioni erano estremamente modeste. La politica delle grandi opere pubbliche e la formazione delle strutture unitarie dello Stato, grande merito della Destra, avevano richiesto l’introduzione di un sistema fiscale che spremeva fino all’osso i lavoratori rurali e urbani. Molta parte del ceto imprenditoriale era alle prese con le gravi difficoltà causate dal convergere degli effetti prodotti da un’agguerrita concorrenza estera, da una scarsa disponibilità di capitali per gli investimenti e da un mercato interno poco stimolante. In queste condizioni, durante i governi della Sinistra andò in Italia affermandosi un tipo di sviluppo che per talune caratteristiche di fondo si sarebbe protratto per tutto il periodo liberale e per quello fascista. Nel giro di un decennio, fra il 1878 e il 1887, lo Stato impose una legislazione doganale, che, sulla scia dell’esempio dato dalla Germania bismarckiana e in generale da tutti i Paesi europei con l’eccezione della Gran Bretagna rimasta fedele al liberismo, creò un mercato protetto da alti dazi sui prodotti industriali stranieri, per renderne svantaggioso l’acquisto in Italia. Del pari fu introdotto un dazio sul grano, al fine di attenuare gli effetti della concorrenza americana e russa, sotto la spinta dei proprietari tanto settentrionali quanto meridionali. Il dazio sul grano ebbe però effetti diversi nel Centro-Nord e nel Sud. I proprietari settentrionali procedettero a una significativa razionalizzazione delle tecniche di coltura elevando i tassi di produttività, mentre i latifondisti e in generale i proprietari meridionali si adagiarono prevalentemente su rendite

garantite. Va considerato che il protezionismo, mentre portò a un ulteriore approfondimento del divario economico tra le due parti del Paese, dal punto di vista politico rinnovò le basi dell’alleanza fra la borghesia industriale e agraria settentrionale e gli agrari meridionali. Ma per dare impulso in Italia all’industrializzazione – in tempi notevolmente differiti rispetto a quelli della Gran Bretagna, della Francia, del Belgio e della Germania e in un’epoca in cui, sotto la spinta impressa dalle tendenze all’imperialismo, la formazione di grandi eserciti e flotte richiedevano enormi spese e la disponibilità anzitutto di robusti impianti siderurgici (un Paese che nutriva ambizioni da grande potenza non poteva dipendere dalla siderurgia di un altro Paese) – era necessario disporre di rilevanti capitali; i quali, dato l’insufficiente grado di accumulazione capitalistica raggiunto dai privati, potevano venire solo dall’intervento dello Stato e dalla tassazione. Il fiscalismo continuò perciò a essere molto forte; e il Sud ne fu la vittima principale, sia perché pagò in una misura percentuale superiore al Nord e al Centro sia perché gli investimenti statali e il processo di industrializzazione lo lasciarono quasi del tutto escluso. Si può capire, in questo quadro, quale importanza acquistarono le spese militari e il mercato protetto per promuovere l’industrializzazione, e le motivazioni per cui siderurgici e armatori si fecero attivi sostenitori delle imprese coloniali e del militarismo. Nel Mezzogiorno la legislazione protezionistica da un lato incentivò la produzione cerealicola dell’arretrato latifondo meridionale a coltura estensiva, poco o nulla interessato a investire per rinnovare le proprie tecniche, e in conseguenza restrinse le aree delle coltivazioni pregiate orientate all’esportazione; dall’altro quanto era sopravvissuto dell’industria meridionale non resse alla concorrenza di quella settentrionale sebbene in una fase di sviluppo ancora modesto. Di qui una naturale reazione, che andò sempre piú intensificandosi, e cioè l’impulso all’emigrazione di quote significative dei poveri del Sud (ma anche di quelli del Nord) verso i lidi piú ospitali offerti in Paesi europei d’Oltralpe e nelle Americhe. Gli effetti negativi sul Mezzogiorno del protezionismo, accusato di essere causa determinante dell’accrescersi del divario tra le due parti del Paese, indussero una componente significativa degli intellettuali meridionali e non solo meridionali ad attaccare le tariffe doganali rivalutando il liberismo. Per quanto riguarda la struttura della giovane industria pesante, dal fatto di operare in un mercato tanto protetto e di non subire una concorrenza

interna data la sua concentrazione derivò il suo carattere accentuatamente monopolistico. Dal canto loro le banche – vale a dire il settore del capitalismo finanziario, che prima del protezionismo si era impegnato nei grandi prestiti pubblici e privati per la rete ferroviaria, l’edilizia e le opere pubbliche, la vendita dei beni demaniali – si legarono a doppio filo agli interessi dell’industria pesante (impianti siderurgici, cantieri ecc.), concorrendo alle spese di investimento e di crescita e formando quindi con essa un potente blocco di pressione nei confronti dello Stato per influenzarne le scelte nel campo della politica interna ed estera. In linea generale, si può concludere che in Italia il problema dell’accumulazione di capitali necessari a finanziare l’industrializzazione non venne risolto, come nello schema classico dello sviluppo inglese, da un consistente risparmio privato reso disponibile dallo sviluppo dell’agricoltura e del commercio, bensí grazie al ruolo decisivo assunto dallo Stato. Questo con una politica fiscale che, mediante le imposte indirette, pesava soprattutto sugli strati popolari e piccolo-borghesi urbani e rurali, con la legislazione doganale, con il finanziamento alle imprese stimolò e favorí il processo di industrializzazione, un aspetto decisivo del quale fu il “sacrificio” delle campagne, in parte rilevante condannate all’arretratezza tecnica e produttiva per carenza di investimenti. Già l’Inchiesta industriale del 1870-74 aveva messo in rilievo le aspirazioni protezionistiche degli industriali. Queste aspirazioni si fecero via via piú pressanti dopo il manifestarsi nel 1873 di una crisi economica mondiale, e trovarono una risposta con il varo nel 1878 delle prime tariffe protezionistiche che favorirono anzitutto quello che allora era il settore industriale piú forte, cioè il tessile. Un dazio moderato fu anche imposto sulle importazioni di frumento. Il fatto che il protezionismo rispondesse in primo luogo agli interessi dell’industria in un Paese ancora prevalentemente agricolo fu il segno che gli ambienti industriali avevano ormai assunto, in corrispondenza con la dinamica dello sviluppo moderno, la guida dell’economia nazionale. L’agricoltura aveva avuto un certo incremento produttivo nel decennio 186675, ma questo era stato ottenuto essenzialmente con lo sfruttamento intensivo della manodopera e non grazie a una consistente ristrutturazione. I collegamenti ferroviari avevano contribuito ad accrescere l’esportazione dei prodotti pregiati, con ricadute positive sulla finanza pubblica e sul bilancio

che raggiunse il pareggio nel 1876; ma questa tendenza venne bruscamente invertita dagli effetti della legislazione protezionistica, che favorí le colture cerealicole interne a danno di quelle piú pregiate, specie del Sud, orientate verso l’estero. Come mise in luce l’Inchiesta agraria del 1877-84, votata dal Parlamento e diretta da Stefano Jacini, l’agricoltura versava in uno stato di persistente grave arretratezza. Jacini scriveva: Insomma, da qualunque parte ci rivolgiamo, l’Italia agricola ci si presenta come un ammalato cronico e canceroso, in uno stato estremo, per salvarla dal quale occorrerebbe un miracolo di energia, di operosità e di saggezza in tutti gli italiani, un miracolo piuttosto desiderabile che possibile 25.

Dal canto suo, in un passo del già citato discorso parlamentare del 1880, Sonnino cosí tratteggiava la condizione dei contadini e il loro rapporto con le classi alte e lo Stato: Mal pagato, male alloggiato, mal nutrito, schiacciato da un lavoro soverchio che egli esercita nelle condizioni piú insalubri, per il contadino di una gran parte d’Italia ogni consiglio di risparmio è una ironia; ogni dichiarazione di legge che lo dichiari libero e eguale a ogni altro cittadino, un amaro sarcasmo. A lui che nulla sa di quel che sta al di là del suo comune, il nome d’Italia suona leva, suona imposte, suona prepotenze delle classi agiate […]. L’esattore e il carabiniere: ecco i soli propagatori della religione di patria in mezzo alle masse abbrutite del nostro contadiname 26.

Le condizioni dell’agricoltura italiana intorno agli anni Ottanta erano dunque di diffusa arretratezza, con isole parziali di sviluppo piú o meno accentuato. Il centro dello sviluppo capitalistico nelle campagne, secondo le linee di tendenza precedenti, continuò a essere la Valle Padana. In Emilia, specie nel Ferrarese, un importante elemento di trasformazione furono le bonifiche iniziate nel 1872, che favorirono l’estensione delle aziende e quindi anche la concentrazione del bracciantato. All’infuori della Valle Padana, il resto dell’agricoltura settentrionale rimase sostanzialmente statico, con particolare evidenza nel Veneto. Stazionaria, in misura ancora piú marcata che nel Nord, rimase l’agricoltura nel Centro, dove però la forte presenza delle colture miste assicurava ai contadini una esistenza generalmente migliore che non a quelli del Nord. Nel Mezzogiorno i latifondi, coltivati per

lo piú da braccianti poverissimi con tecniche rudimentali e a coltura estensiva cerealicola, rimasero il simbolo di un sottosviluppo favorito, come si è detto, dalla protezione doganale, vale a dire da un mercato garantito che, in quanto tale, non stimolava l’innovazione. Un settore promettente era quello delle zone con colture specializzate (vite, agrumi, frutta, ortaggi), situato nelle zone irrigue della Sicilia, della Campania e delle Puglie, dove – e particolarmente in queste ultime – un ruolo notevole assunse la viticoltura in seguito alle possibilità di esportazione verso la Francia, i cui vigneti erano stati devastati dalla fillossera all’inizio degli anni Ottanta. Investita dagli effetti di una crisi agraria di portata europea, che ebbe inizio intorno al 1880 e si protrasse in Italia fin verso il 1894, l’agricoltura italiana non poté reggere alla caduta dei prezzi causata dalla concorrenza in primo luogo del grano nordamericano e russo e poi del riso indiano, il cui trasporto divenne redditizio in seguito ai sempre maggiori progressi delle comunicazioni marittime. Nella prima metà degli anni Ottanta la crisi provocò vaste agitazioni da parte dei braccianti nella Bassa Padana, divenuta una delle basi di diffusione del socialismo, e nel decennio seguente in Sicilia, contribuendo in maniera determinante al sorgere dei Fasci. Agli inizi degli anni Ottanta l’industria italiana, concentrata soprattutto nel triangolo Lombardia-Piemonte-Liguria, vedeva ancora la prevalenza del settore tessile. L’industria siderurgica e meccanica stentava a svilupparsi non potendo all’epoca, anche dopo la tariffa del 1878, sostenere la concorrenza estera, per quanto andassero delineandosi progressi. Un settore decisamente in sofferenza era quello della cantieristica, che, dopo aver rappresentato in passato un punto di forza dell’industria italiana, incontrava notevoli difficoltà ad affrontare il passaggio dalla navigazione a vela a quella a vapore. Determinante, nel promuovere lo sviluppo della siderurgia, della meccanica e quindi anche della cantieristica, fu l’aumento consistente della spesa pubblica, che dedicò risorse finanziarie crescenti specie al settore militare; il che stimolò per conseguenza l’interessamento delle banche nei confronti degli investimenti industriali. Il sostegno dato dallo Stato al settore armatoriale favorí la nascita nel 1881 della compagnia della Navigazione Generale Italiana, che si impegnò a fondo nel sostenere il colonialismo. L’incremento della flotta militare, con le sue evidenti ricadute sullo sviluppo siderurgico e meccanico, trovò un tenace sostenitore nell’ammiraglio Benedetto Brin, ripetutamente ministro della Marina tra il 1876 e il 1898.

Con il suo appoggio e grazie al ruolo svolto dall’ingegnere Vincenzo Breda, venne fondata a Terni nel 1884 la Società Altiforni, fonderie e acciaierie per la produzione di materiali siderurgici. Si ampliarono del pari gli stabilimenti meccanici per la produzione di macchine per l’industria e materiali ferroviari. Sorsero nello stesso anno società come la Edison nello stesso anno, che diede impulso all’industria elettrica, e nel 1888 la Montecatini, che iniziò la sua attività nel campo minerario. Era naturale che le industrie, spalleggiate dai grandi agrari, premessero per una piú decisa spinta protezionistica. Fu cosí che si arrivò alla tariffa del 1887, che elevò ulteriormente i dazi doganali rispetto a quella del 1878 giudicata toppo blanda. L’inasprimento del protezionismo ebbe la sua piú grave ripercussione nei rapporti con la Francia, che replicò con dazi di rappresaglia, dando inizio a una guerra commerciale fra i due Paesi. La prima vittima fu il settore delle colture specializzate del Mezzogiorno, e specie la viticoltura pugliese, la quale, privata del suo piú importante mercato di esportazione, entrò rapidamente in crisi; mentre venne ancor piú privilegiato il settore della coltura arretrata del latifondo. Ma il protezionismo non risultò una panacea, poiché dopo alcuni anni di sviluppo la stessa industria, in corrispondenza con la crisi economica internazionale del 1890-95, andò incontro a forti difficoltà, dovute alla ristrettezza del mercato interno, il quale, in relazione con i problemi anche dell’agricoltura, subí un’ulteriore contrazione. Il difficile problema dell’occupazione era confermato dalle statistiche sull’emigrazione. La popolazione italiana, che nel 1881 era di 28 460 000 abitanti, passò nel 1901 a 32 614 000; ma queste cifre indicate dei censimenti non tengono conto dell’ondata migratoria che subí un’accelerazione a partire dall’inizio degli anni Ottanta. Gli emigranti, che inizialmente espatriavano per lo piú temporaneamente e in direzione dei Paesi europei, presero in misura via via crescente la via delle Americhe, trasferendovisi in modo stabile. Nel corso dell’ultimo ventennio del secolo superarono la cifra di 2 milioni. Si è detto dell’importanza che nello sviluppo economico assunse la politica finanziaria dello Stato. Raggiunto nel 1876, grazie a una durissima politica fiscale, il pareggio del bilancio, un notevole successo fu l’abolizione nel 1883 del corso forzoso, in seguito alla quale la lira poté essere nuovamente convertita in moneta aurea e argentea; ciò contribuí a ristabilire

la fiducia internazionale verso l’Italia e a farvi confluire capitali stranieri. Sennonché, per effetto del costante aumento della spesa pubblica il disavanzo ricomparve negli ultimi anni di governo di Depretis, nonostante i tentativi di mascheramento a opera del ministro delle Finanze Agostino Magliani, definito non a caso il ministro della «finanza allegra». Una energica opera di risanamento venne in seguito messa in atto negli anni 1893-96 da Sonnino, ministro delle Finanze e poi del Tesoro nel governo Crispi. Questi, che avrebbe voluto introdurre maggiori tasse per i ceti privilegiati, incontrò un’opposizione insuperabile, sicché il miglioramento del bilancio fu ottenuto con dazi e tasse che, secondo la linea tradizionale, incisero principalmente sui consumi popolari. Nel 1899 si giunse a un attivo destinato a durare per oltre dieci anni. Nel 1894 fu avviata la riorganizzazione bancaria, resa necessaria anche dagli scandali e dal disordine che ne derivava; dopo la creazione nel 1893 della Banca d’Italia sulla base della fusione di quattro banche regionali, si ebbe a Milano quella – inizialmente con capitale quasi totalmente tedesco – di due grandi istituti, la Banca Commerciale Italiana (1894) e il Credito Italiano (1895), che si impegnarono fortemente nel promuovere il credito industriale. Stavano finendo gli «anni neri» dell’economia italiana, che, in concomitanza con un boom economico mondiale, doveva conoscere a partire dal 1896 una fase di notevole sviluppo. 1. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915 cit., p. 19. 2. Ibid., p. 100. 3. Discorso dell’onorevole Depretis, Tipografia Barbera, Roma 1876, p. 7. 4. Discorso pronunciato dall’onorevole Agostino Depretis, Stamperia dell’Unione tipograficoeditrice, Torino 1882, p. 22. 5. La citazione nel discorso dal titolo Il trasformismo nel giudizio di Crispi in Valeri, La lotta politica in Italia cit., p. 156. 6. Il testo della lettera in Valeri, La lotta politica in Italia cit., p. 139. 7. F. Crispi, Scritti e discorsi politici (1849-1890), Casa Editrice Nazionale, Roma 1890, p. 740. 8. Il testo citato in C. Cartiglia (a cura di), Documenti della storia. Il Partito socialista italiano 1892-1962, Loescher, Torino 1978, p. 51. 9. G. Giolitti, Discorsi extraparlamentari, Einaudi, Torino 1952, pp. 105-6. 10. G. Carducci, Opere, vol. XIX, serie II, Zanichelli, Bologna 1939-40, p. 368. 11. G. Volpe, L’Italia in cammino, Donzelli, Roma 2010, pp. 49-50. 12. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915 cit., pp. 223-24. 13. G. Giolitti, Memorie della mia vita, Garzanti, Milano 1982, pp. 53-54.

14. P. Turiello, Governo e governati in Italia, vol. I, Zanichelli, Bologna 1889 2, p. 323. 15. G. Mosca, Teorica dei governi e governo parlamentare, in Id., Scritti politici, vol. I, Utet, Torino 1982, p. 486. 16. Ibid., p. 493. 17. S. Sonnino, Torniamo allo Statuto, in «Nuova Antologia», 1 o gennaio 1897, pp. 9-11. 18. Ibid., p. 21. 19. S. Sonnino, Quid agendum? Appunti di politica e di economia, in «Nuova Antologia». 16 settembre 1900, pp. 351-64. 20. Giolitti, Discorsi extraparlamentari cit., p. 238. 21. Ibid., pp. 240-41. 22. Ibid., p. 246. 23. Il testo integrale in Discorsi parlamentari di Giovanni Giolitti, vol. III, Camera dei deputati, Roma 1953, pp. 626-33. 24. C. Treves, Giolitti, in «Critica Sociale», 1 o agosto 1899, pp. 182-84, poi in M. Spinella et al. (a cura di), Critica sociale, Feltrinelli, Milano 1959, vol. I, pp. 101 e 104-5. 25. Atti della Giunta parlamentare per l’inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, vol. I, Forzani & C, tipografi del Senato, Roma 1881, pp. 7-8. 26. Discorsi parlamentari di Sidney Sonnino cit., vol. I, p. 8.

Capitolo quarto L’età giolittiana

1. Il decollo industriale e la modernizzazione «monca» dell’Italia. Mentre Paesi come la Gran Bretagna, la Germania, la Francia e gli Stati Uniti vivevano ormai una stagione da tempo marcatamene caratterizzata dalla consolidata potenza dell’industria, l’Italia fra il 1896 e il 1914 diede inizio, in forte ritardo, al suo “decollo industriale”. Il processo di industrializzazione, però, per il fatto di essere localizzato quasi esclusivamente nelle regioni settentrionali, ebbe quale effetto di approfondire ulteriormente la divisione del Paese in due Italie: quella moderna e quella decisamente arretrata. L’industrializzazione italiana prese slancio nel decennio compreso fra la metà degli anni Novanta del XIX secolo e il 1907. Questo segnò il rinvigorirsi delle organizzazioni sia dei lavoratori sia dei datori di lavoro, e pose la necessità di affrontare a nuovi livelli i problemi attinenti alla gestione sociale e politica dell’industria moderna e quindi ai rapporti fra poteri pubblici, imprenditori e masse popolari. Ciò nonostante l’Italia rimase sotto la persistente influenza di ceti sostanzialmente parassitari come i latifondisti e la piccola borghesia meridionali: influenza solida, la loro, tanto da renderli costantemente corteggiati dai governi a fini elettorali. “Interpretare” una situazione cosí complessa e differenziata, con un misto di elevata intelligenza politica, astuta prudenza e ferma determinazione, fu quanto tentò di fare Giolitti negli anni del nuovo secolo che da lui presero il nome di «età giolittiana». Nominato il 15 febbraio 1901 ministro degli Interni nel gabinetto Zanardelli, Giolitti, anche guardando alle esperienze dei Paesi piú sviluppati, come si è già avuto modo di notare, aveva maturato la consapevolezza che il movimento operaio e contadino non doveva essere affrontato facendo ricorso alla semplice repressione, e che era giunto il tempo che la borghesia italiana piú lungimirante inaugurasse la via di un pur non facile confronto con i socialisti e i sindacati. Questa consapevolezza egli aveva pienamente manifestato nel citato discorso del 4 febbraio 1901, pronunciato nel corso del

dibattito parlamentare che aveva sanzionato la caduta del gabinetto Saracco – pochi giorni prima quindi della sua nomina – in cui aveva tratteggiato la necessità di mettere in atto una strategia innovativa, fondata per un verso sul riconoscimento dei diritti del movimento dei lavoratori e per l’altro sulla mediazione politica e sociale dello Stato nei confronti delle varie componenti della comunità nazionale. Il suo era, insomma, un programma di difesa delle istituzioni borghesi caratterizzato dall’accentuazione del carattere liberale e riformatore dello Stato; un programma che egli auspicava potesse riuscire congeniale sia ai settori piú aperti della classe dirigente sia alle correnti riformistiche del Partito socialista e dei sindacati, i quali potevano cosí vedere riconosciuto un proprio spazio, ma che nei fatti era destinato a essere avversato sia dalla Destra liberale sia dalla Sinistra rivoluzionaria, che lo considerarono l’una un pericoloso eccesso di aperture alla Sinistra e l’altra un invito ad accettare un compromesso di stampo «trasformistico» volto all’integrazione delle classi lavoratrici nel sistema dominante. L’opera di governo di Giolitti – considerando il decennio che precedette lo scoppio della Prima guerra mondiale – durò, salvo brevi interruzioni, dal 1901 al 1903 nella funzione di ministro degli Interni, poi dal 1903 al 1905, dal 1906 al 1909 e dal 1911 al 1914 in quella di presidente del Consiglio. Lo statista piemontese si trovò al timone dello Stato sia nella fase di rapido progresso dell’industria durato fino al 1907, sia nella seguente fase di relativa crisi economica. Fu infatti nel quinquennio 1902-907 che l’industrializzazione del Paese conobbe la massima accelerazione all’interno del ciclo iniziato nel 1896 e durato complessivamente, seppure con una decelerazione, fino al 1913. Durante questi anni l’Italia del Nord assunse il carattere di un Paese industriale, nonostante il settore agricolo continuasse a essere nell’insieme del Paese di gran lunga prevalente. Su una popolazione di circa 32,6 milioni abitanti, nel 1901 gli addetti all’industria – quindi non i soli operai, ma anche i dirigenti, gli impiegati e il comparto artigiano – ammontavano a circa quattro milioni. Nel 1911 essi salirono a circa 4,4 milioni, con un incremento quantitativo non molto rilevante di circa il 10% su una popolazione complessiva di poco piú di 35 milioni di abitanti, ma assai significativo dal punto di vista del potenziamento della capacità produttiva, ottenuto grazie a una notevole intensificazione dei ritmi, a una migliore organizzazione del lavoro e al rinnovamento degli impianti.

Lo sviluppo dell’industria italiana avvenne in questo periodo in un quadro caratterizzato dal ruolo dominante di monopoli sostenuti dal capitale finanziario e dallo Stato. Il “connubio” tra industria, finanza e Stato fu segnato dalla persistente debolezza della struttura produttiva nazionale, che, nonostante le mete raggiunte, non era ancora in grado di sostenere adeguatamente il confronto con la concorrenza estera sul mercato internazionale. Sicché il protezionismo doganale, le commesse statali, un regime di alti prezzi e il controllo del mercato interno da parte di gruppi monopolistici costituirono i tratti prevalenti, in continuità con le linee di tendenza iniziate negli anni Ottanta. I progressi furono rilevanti nel campo della siderurgia e della meccanica, e in quello nuovo dell’industria elettrica; fu in questi settori, i quali agivano come elementi propulsori, che risultò particolarmente massiccio l’intervento del capitale bancario. L’industria siderurgica conobbe una importante ristrutturazione nel 1905 in seguito alla costituzione dell’Ilva, per iniziativa delle Società Savona, Ligure, Terni ed Elba; dal che derivò che il settore acquistò rapidamente la fisionomia di un potente trust, assai influente sui circoli governativi, il quale prosperava soprattutto grazie alle commesse dello Stato (ferrovie, navi, armamenti). L’industria meccanica, il cui sviluppo fu ragguardevole nonostante i costi elevati delle materie prime, irrobustitasi nel campo delle macchine pesanti (locomotive, motori per navi ecc.), rimase invece piuttosto debole nel settore delle macchine utensili, delle macchine agricole ecc., anche se con avanzamenti promettenti. Uno slancio notevolissimo ebbe l’industria automobilistica, concentrata soprattutto a Torino. Tra le varie imprese del settore – che contava anche l’Itala, la Scat, la Lancia e l’Alfa Romeo –, la Fabbrica italiana automobili Torino (Fiat), sorta nel 1899 per iniziativa di un gruppo di imprenditori tra cui Giovanni Agnelli, acquistò presto una netta preminenza. Nel 1908 Camillo Olivetti fondò a Ivrea una fabbrica di macchine da scrivere destinata a un grande avvenire. Ma l’industria “nuova” per eccellenza era quella elettrica, che aveva conosciuto i suoi esordi con la fondazione a Milano nel 1884 della società Edison, che ebbe un rapido sviluppo, suscitando speranze nella possibilità di incidere positivamente sul passivo della bilancia dei pagamenti causato dalla massiccia importazione del carbone dall’estero. Studiosi come l’economista lucano Francesco Saverio Nitti, tenace fautore del suo potenziamento, pensarono che l’Italia, ricca nel Nord di risorse idriche, potesse con il “carbone bianco” coprire in misura

sostanziosa il proprio fabbisogno energetico. I risultati ottenuti con l’impiego dell’energia elettrica furono notevoli – dai circa 100 milioni di kilowattora del 1898 si passò nel 1914 a 2575 milioni – ma non sufficienti a soddisfare le esigenze del consumo interno. Altri settori in ascesa furono quello dell’industria chimica, che aumentò molto la produzione specie di fertilizzanti e di materiale elettrico, e quello della gomma che aveva a Milano la sua fabbrica maggiore, la Pirelli, fondata nel 1872. Fra le industrie tessili, la piú dinamica era quella del cotone, mentre minori progressi conobbero l’industria laniera e l’industria della seta che verso il 1907 iniziò il suo declino. Nell’età giolittiana lo sviluppo dell’industria, secondo la tendenza di fondo dell’economia nazionale, contribuí ad accentuare ulteriormente il divario fra il Nord e il Sud. Infatti, l’industria si concentrò prevalentemente nel cosiddetto «triangolo industriale», con i suoi punti nevralgici a Genova, Torino e Milano, favorito da tutta una serie di fattori, quali il maggior sviluppo civile, le migliori comunicazioni interne e internazionali, la formazione piú rapida e intensiva di capitali, la presenza di un ceto imprenditoriale piú dinamico e dotato di piú solide tradizioni e di maestranze maggiormente qualificate. La politica della spesa pubblica a sostegno del processo di industrializzazione del Nord costituí un ulteriore fattore del divario, messo in piena evidenza dal fatto che nel 1911 le imprese industriali erano in esso concentrate per il 68%. Anche l’agricoltura, presa nel suo insieme, fece progressi, soprattutto nei settori della cerealicoltura e della zootecnia. Ma l’incremento sia quantitativo che qualitativo, dovuto al miglioramento delle tecniche produttive in un quadro di estensione dei rapporti capitalistici moderni, fu anch’esso, come quello industriale, il risultato di iniziative intraprese per lo piú nel Nord e in parte anche nel Centro. La sola Pianura Padana giunse a produrre il 40% del frumento italiano; e anche l’incremento della zootecnia fu localizzato nel Nord. Le tariffe protettive in campo agricolo agirono come fattore di stasi nel Mezzogiorno. I grandi latifondisti, che videro tutelate grazie al protezionismo doganale le loro rendite, sostennero in cambio in modo sistematico i governi con il loro “ministerialismo”, mettendo i voti dei deputati da loro controllati a disposizione della maggioranza parlamentare. I settori attinenti alla produzione delle colture pregiate, che avrebbero potuto con esportazioni

adeguate introdurre notevoli capitali, rimasero al di sotto delle loro potenzialità, a causa dell’inadeguatezza dell’apparato tecnico e della politica commerciale dello Stato, che ne trascurò largamente interessi e bisogni. Si spiega cosí come, specie nel Sud d’Italia, la piaga della disoccupazione e della sottoccupazione rimanesse cronica, e come l’ondata dell’emigrazione dalle sue regioni – unitamente con quella dalle zone piú sottosviluppate del Nord e particolarmente dal Veneto – raggiungesse, proprio nel periodo giolittiano, cifre enormi. Tra il 1901 e il 1914 gli emigrati furono complessivamente poco meno di 5,8 milioni. Nel solo 1913 toccarono il picco di 872 598. Eppure proprio questi disperati, fuggiti dalla miseria del loro Paese, attraverso le loro rimesse, fonte preziosa di valuta pregiata, diventarono un fattore di ricchezza sia per le finanze dello Stato sia per le famiglie rimaste nei luoghi di origine sia, tramite la spesa pubblica che privilegiava il Nord industriale, dell’Italia piú progredita. Anche nell’età giolittiana, la «questione meridionale» non conobbe dunque sostanziali miglioramenti, nonostante l’inizio di una legislazione speciale a favore del Sud, dagli effetti troppo limitati. Un evento tragico fu per il Mezzogiorno il catastrofico sisma che il 28 dicembre 1908 colpí Messina e Reggio Calabria, provocando circa 80 000 vittime ed enormi distruzioni. Indice significativo del complessivo sviluppo economico del Paese fu che il reddito nazionale, a prezzi correnti, da 10 010 milioni nel 1897 arrivò a 18 702 milioni nel 1914. La rete ferroviaria dello Stato nello stesso periodo passò da 14 318 km a 15 832 nel 1914.

2. Il «doppio volto» di Giolitti. L’insuccesso del suo disegno di «nazionalizzazione delle masse». Guardando al modo in cui Giolitti affrontò i problemi nazionali fra il 1901 e il 1914, si può concludere che la sua politica non riuscí, se non parzialmente, a combattere le ragioni strutturali degli squilibri interni della società italiana. In questo senso l’Italia del 1914, se piú ricca e moderna in alcune sue parti, non si presentava fondamentalmente diversa da quella del 1901 nelle caratteristiche di fondo. Quel che per contro Giolitti fece con abilità e chiarezza di idee fu di promuovere lo sviluppo sociale ed economico là dove esso presentava le condizioni piú favorevoli e rendere piú efficienti

l’amministrazione e la macchina dello Stato. Inoltre – date le resistenze a mano a mano maggiori incontrate in un secondo tempo, dopo i modesti successi conseguiti in un primo tempo – non riuscí nell’intento di indurre la classe dirigente italiana a concepire i suoi rapporti con le masse secondo una visione piú dinamica, fondata su una piú aperta accettazione delle organizzazioni politiche e sindacali dei lavoratori e su una strategia riformistica capace di legare maggiormente le classi subalterne alle istituzioni liberali e borghesi e alla monarchia. Sul piano delle tecniche politiche, Giolitti portò a perfezione, con consumata abilità, il sistema del trasformismo inaugurato dal Depretis, sforzandosi, dopo che Depretis aveva coinvolto nella sfera pubblica e nello Stato la piccola e media borghesia, di allargarne le basi con il coinvolgimento di correnti della sinistra riformista e del cattolicesimo moderato. Punto essenziale della sua strategia fu l’allargamento del corpo elettorale, culminato nella legge che introdusse il suffragio universale maschile nel 1912. Per formare e consolidare le sue maggioranze parlamentari Giolitti non mancò di ricorrere a pressioni di ogni tipo e anche all’aperta corruzione. In occasione delle elezioni, mentre mantenne una linea di sostanziale correttezza nell’Italia centro-settentrionale, dove le organizzazioni dei lavoratori agivano da elemento di controllo, nell’Italia meridionale e nelle isole si serví, secondo i metodi ereditati dai suoi predecessori, dei prefetti e della polizia per brogli e violenze, tanto da venire denunciato dagli oppositori liberali, democratici e dell’estrema Sinistra come un “corruttore della vita pubblica”. Egli considerava infatti il Sud essenzialmente come un serbatoio di voti ministeriali. E in quest’opera venne in tutti i modi appoggiato dai notabili meridionali e dai grandi proprietari, ancorché si adoperasse, riprendendo la linea che era stata della Destra storica, per contenere il peso dei deputati meridionali in Parlamento (che però non esitò a tenere soggiogati a sé). D’altro canto, per il volto progressista che mostrava nel Settentrione, ottenne il consenso quasi ininterrotto dei socialisti riformisti, i quali vedevano in lui il borghese moderno che aveva promosso un nuovo corso nei rapporti con le organizzazioni dei lavoratori e incarnato la svolta dopo il “fallito colpo di Stato” negli anni di fine secolo. Il fatto di disporre di larghe maggioranze consentí a Giolitti di accrescere il potere dell’esecutivo, che egli esercitò con determinazione ma anche con senso del limite e del possibile e sempre nel rispetto del ruolo e dei diritti del Parlamento in contrasto con gli umori

antiparlamentari che andavano crescendo in settori sia della Destra sia della Sinistra. La forza di carattere, la grande abilità nell’attuazione della propria politica, l’avere impresso fortemente la sua orma nella storia italiana in un’epoca di notevole progresso complessivo del Paese furono le caratteristiche che fecero di Giolitti, come si è già detto, la piú notevole figura di statista liberale dopo Cavour. Detto questo, occorre ribadire che, nonostante i risultati raggiunti, il suo progetto strategico fondamentale – stringere intorno alle istituzioni classe dirigente, grande, media e piccola borghesia, classi popolari, riducendo alla marginalità forze di destra e sinistra dell’“anti-Stato” e portando i conflitti politici e sociali nell’ambito della legalità costituzionale – andò incontro all’insuccesso. I socialisti e i sindacalisti rivoluzionari, i repubblicani piú estremisti, i cattolici intransigenti, i nazionalisti votatisi all’autoritarismo e all’imperialismo bellicistico, pur nella loro diversità e opposizione reciproca, non cessarono di formare un fronte comune decisamente antigiolittiano. Non riuscí neppure a Giolitti di stringere intorno alla sua linea di governo settori influenti del composito Partito liberale e piú in generale delle correnti moderate. Furono contro di lui i liberali di destra e i liberali conservatori sonniniani, i borghesi, industriali e agrari, e anche una parte consistente della magistratura, in maggioranza di provenienza meridionale, che mal tolleravano o apertamente avversavano la sua supposta debolezza nei confronti delle indebite pretese del mondo del lavoro e delle sue organizzazioni. E furono infine contro di lui i meridionalisti contrari al protezionismo – come Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini, Antonio De Viti de Marco (con l’eccezione di Nitti divenuto un sostenitore del protezionismo) – che lo accusavano, non senza fondati motivi, di favorire il Nord a scapito del Sud. Il programma economico di Giolitti – dare al capitalismo nazionale un carattere piú dinamico e moderno, opponendosi alle pretese dei monopoli privati, ridurre il peso e i privilegi dei settori finanziari legati alla difesa di rendite parassitarie, salvaguardare il bilancio dello Stato dagli assalti degli interessi privatistici e favorire la finanza italiana contro quella estera, potenziare le opere e gli interventi pubblici, combattere la speculazione edilizia, spoliticizzare il movimento operaio e socialista facendone essenzialmente un movimento di tutela degli interessi economici – ottenne risultati al di sotto delle sue aspettative. Un simile difficile contesto fu, insomma, alla radice dell’insuccesso del

disegno complessivo dello statista piemontese, l’unico politico dello Stato liberale che si era posto consapevolmente l’obiettivo di attuare anche in Italia – come si è già avuto modo di sottolineare – quella “nazionalizzazione delle masse” che era stata conseguita, seppure in forme, con metodi assai diversi e risultati diseguali, nei Paesi europei piú avanzati. Fu cosí che nell’età giolittiana continuarono a prosperare in Italia i germi dell’acuta conflittualità politica, ideologica e sociale, che, dopo avere già segnato l’età precedente, avrebbe provocato – per l’effetto moltiplicatore della Prima guerra mondiale e della dirompente crisi del dopoguerra – la fine dello Stato liberale.

3. Il governo Zanardelli e le lotte del lavoro. Divenuto ministro degli Interni nel governo Zanardelli, Giolitti fece subito “sensazione” per il suo atteggiamento nei confronti dei conflitti di lavoro. Gli scioperi, che nel 1900 erano stati 410, ebbero una brusca impennata: nel 1901 furono 1034 e 801 nel 1902, con una partecipazione senza precedenti dei lavoratori dell’industria e delle campagne. Giolitti adottò un nuovo atteggiamento ispirato a una linea precisa: ordinò ai prefetti di lasciare svolgere senza interventi e talora persino di favorire gli scioperi di carattere economico per consentire il rialzo dei salari reso possibile dall’alta congiuntura e giudicato utile ad allargare la domanda interna e quindi di stimolo alla produzione, ma combatté quelli di natura politica in quanto perturbatori dell’ordine pubblico. Il 1901 segnò una serie di sostanziali successi dei lavoratori industriali e agricoli; ma già nel 1902 la resistenza padronale, in particolare nelle campagne, assunse caratteri di estrema durezza, portando a ripetuti scontri aperti con la forza pubblica, che, specie nell’Italia meridionale, provocarono morti e feriti. Dal canto suo la magistratura assunse in generale un atteggiamento di appoggio agli interessi padronali. Quanto a Giolitti, fece intravvedere l’aspetto piú conservatore della sua politica minacciando la militarizzazione dei ferrovieri, intenzionati a scendere in sciopero. Nel luglio 1902 – persistendo in un atteggiamento che durava da quarant’anni e mettendo in luce ancora una volta le resistenze delle classi alte verso riforme che toccassero i loro tradizionali privilegi – venne respinto un progetto di riforma tributaria elaborato dal ministro delle Finanze Leone

Wollemborg, teso a spostare maggiormente il peso della tassazione dai tributi diretti a quelli indiretti. Giolitti stesso, dopo avere sostenuto la riforma, la abbandonò. Furono invece approvate alcune misure in materia di legislazione sociale, specie per quanto riguardava la tutela del lavoro minorile e femminile. A partire sempre dal 1902, in conseguenza del fatto che si aggravava il divario fra Nord e Sud, venne avviata una serie di interventi speciali a favore del Mezzogiorno con la legge per la Basilicata. A questa nel decennio successivo sarebbero seguiti altri provvedimenti: la legge del 1904 a favore dell’industrializzazione di Napoli, con la costruzione dell’impianto siderurgico di Bagnoli; la legge per la costruzione dell’acquedotto pugliese, iniziata nel 1906; nel 1911 misure per la tutela dei bacini montani. Pur nella loro utilità tali interventi non rimossero in maniera significativa alcuna delle ragioni strutturali dell’inferiorità meridionale né modificarono la tendenza della spesa pubblica a favorire lo sviluppo del Nord. Le organizzazioni del movimento operaio presero un grande impulso nel contesto politico creato dal governo Zanardelli e dallo slancio delle lotte sociali. Centri motori del sindacalismo operaio divennero, piú che non le Federazioni nazionali di mestiere, le Camere del lavoro, le quali raggruppavano i lavoratori su base territoriale e la cui influenza andava molto al di là del numero ancora ristretto degli iscritti (270 376 nel 1902). Nelle campagne della Valle Padana crebbe vigoroso il movimento delle leghe e delle cooperative. Il Partito socialista, che, oltre a essere radicato tra gli operai dell’industria, aveva una forte componente contadina e in particolare bracciantile, diventò l’elemento dirigente del movimento dei lavoratori. La sua influenza si estese anche a frange significative della piccola e media borghesia impiegatizia e professionale e del ceto intellettuale. Numerosi furono gli intellettuali di prestigio, come i professori universitari Enrico Ferri e Cesare Lombroso, i popolari scrittori Giovanni Pascoli ed Edmondo De Amicis ecc., che guardarono con simpatia e partecipazione al «sole dell’avvenire», anche se il loro era per i piú un socialismo essenzialmente umanitario dalle basi teoriche alquanto incerte e confuse. Le principali tendenze interne al partito, che pur nel mutare delle persone sarebbero sopravvissute fino al 1915, erano quella riformistica, guidata da Turati e Bissolati, e quella «intransigente» o rivoluzionaria, guidata da Arturo Labriola ed Enrico Ferri. Turati e i riformisti, convinti dei benefici della linea giolittiana, indussero il partito nel 1901 e nei primi mesi del 1902 a sostenere

il governo; ma nella seconda parte del 1902 e nel 1903, dinanzi all’inasprimento dei conflitti sociali la corrente rivoluzionaria andò rafforzando le sue posizioni, denunciando i troppo ristretti limiti dell’“apertura” giolittiana.

4. Il secondo e il terzo ministero Giolitti. Movimento socialista, cattolici, liberisti e nazionalisti, concentrazioni monopolistiche. Zanardelli, malato, si dimise nell’ottobre 1903. Gli successe alla guida del governo Giolitti, che, dopo il primo del 1892-93, formò il suo secondo ministero, durato dal novembre 1903 al marzo 1905. E subito fece emergere un disegno destinato a costituire uno degli assi centrali della sua strategia. Sapendo di apparire quale “uomo nuovo” della borghesia a una parte dei socialisti, puntò a scindere il Partito socialista, con il proposito di legare a sé la corrente riformista e isolare quella rivoluzionaria; e perciò rivolse a Turati l’invito a entrare nel ministero. Questi, pur convinto del fatto che avrebbero potuto aprirsi prospettive positive, rifiutò nella realistica convinzione che il partito non lo avrebbe seguito. E infatti nel Partito socialista si era delineato un netto spostamento a sinistra, che al Congresso di Bologna dell’aprile 1904 portò Arturo Labriola e Ferri a ottenere la maggioranza e ad assumere la guida. Dei due leader della Sinistra, Labriola, dotato di una notevole statura intellettuale, si presentava come la personalità piú spiccata. Era andato sempre piú avvicinandosi alle idee del sindacalismo rivoluzionario, propagandate in Francia da Georges Sorel e da Hubert Lagardelle; e si era persuaso che lo sciopero generale rappresentasse la massima espressione della spontanea combattività proletaria e l’unico strumento atto a mutare i rapporti di forza tra la classe padronale e quella dei lavoratori. Di lí a pochi mesi questo orientamento ideologico poté in Italia misurarsi con la pratica. In seguito agli eccessi commessi dalla forza pubblica il 4 settembre contro gli scioperanti nel Cagliaritano e il 14 dello stesso mese nel Trapanese, in entrambi i casi con morti e feriti, fu proclamato, con l’intenzione da parte della corrente rivoluzionaria del Psi di provocare la caduta di Giolitti, lo sciopero generale nazionale, che si svolse tra il 16 e il 21 settembre, si estese a tutto il Paese e nel corso del quale vi furono altri tre morti. Appoggiato anche dai radicali, lo sciopero fu diretto in prima persona dalle Camere del

lavoro e non dal Psi, che si divise tra i riformisti contrari e i rivoluzionari che rimproveravano ai primi di riporre vane speranze nel piccolo cabotaggio del riformismo borghese. Giolitti non cedette ai conservatori spaventati che chiedevano la repressione aperta, ma non mostrò allo stesso tempo alcuna debolezza di fronte gli scioperanti e ai loro dirigenti. Prese misure militari per prudenza, ma lasciò che lo sciopero si sfogasse e si esaurisse. Lo sciopero segnò per la corrente rivoluzionaria del Psi una grave sconfitta; ma indusse molti lavoratori a vedere in Giolitti il loro ennesimo nemico al potere. Questi dal canto suo non esitò a sfruttare subito sul piano politico la paura diffusasi tra i borghesi e in altri ampi settori della società. Fece sciogliere la Camera e indire dal re le elezioni, che si svolsero in novembre. Intanto, nel maggio 1904 era stato fondato a Roma il Partito radicale, diviso nella corrente maggioritaria guidata da Ettore Sacchi, favorevole alla monarchia, e nella minoritaria di Giuseppe Marcora, per il quale invece la monarchia rappresentava un ostacolo alla democratizzazione del Paese. Le elezioni furono un successo per Giolitti, ma solo relativo. I socialisti videro i propri deputati scendere da 33 a 29, ma solo per effetto dei collegi uninominali, in quanto aumentarono i loro voti dai 164 946 del 1900 a 301 525. La sconfitta dello sciopero giocò comunque a favore dei riformisti, al punto che la corrente rivoluzionaria ottenne un unico deputato e non riuscí a far eleggere Labriola. Anche i repubblicani e i radicali subirono una flessione. Al rafforzamento parlamentare dei liberali ministeriali, che ottennero 339 seggi, si accompagnò uno spostamento dell’asse in senso conservatore, cui concorse anche il fatto che Pio X, successo a Leone XIII nell’agosto 1903, per l’occasione consentí, facendo eccezione al non expedit, a che in alcuni collegi i cattolici votassero per i liberali per impedire la vittoria dei candidati socialisti. Furono anche eletti in Lombardia tre cattolici di orientamento filoliberale, i cosiddetti “clerico-moderati”. Si trattava dell’inizio di un processo destinato ad avere in avvenire importanti implicazioni, tra le quali contribuire ad approfondire il solco tra la sinistra socialista, radicale e repubblicana e il blocco di potere liberale che trovava nei clerico-moderati un nuovo appoggio. La decisione di Pio X faceva seguito a un’intensa attività svolta dai cattolici in campo politico e sociale. Le organizzazioni cattoliche, che facevano capo all’Opera dei congressi fondata nel 1874, avevano dato vita –

secondo criteri ispirati all’ideologia “corporativa” contraria alla lotta di classe e favorevole alla conciliazione fra lavoratori e padroni – a una serie di istituzioni sociali, economiche e culturali, fra cui spiccavano le casse rurali, create a sostegno del credito ai contadini, diffusesi specie nel Veneto e in Lombardia, e le società di mutuo soccorso. Tali istituzioni oscillavano fra il solidarismo e il paternalismo a sfondo caritativo e rispondevano alle esigenze dei cattolici piú moderati. Esse lasciavano però insoddisfatti gli ambienti piú avanzati del mondo cattolico; i quali, appartenenti alla corrente della «democrazia cristiana», si opponevano al tempo stesso ai «clerico-moderati» favorevoli all’avvicinamento ai liberali, e agli «intransigenti», e cioè a quei cattolici che, ostili per fedeltà al Vaticano allo Stato degli «usurpatori», si trovavano però vicini ai clerico-moderati nella comune avversione all’organizzazione autonoma dei lavoratori. I «democratici cristiani», pur avversando l’ideologia classista, ritenevano che non fosse possibile attuare un’efficace opera di contrasto al socialismo se non si fosse intrapresa la difesa, mediante organizzazioni ispirate alla dottrina sociale della Chiesa ma autonome, degli interessi dei lavoratori contro l’ottuso conservatorismo delle classi alte. Traevano ispirazione dall’enciclica che Leone XIII aveva emanato nel 1891 in materia sociale, la Rerum novarum. Sulla condizione degli operai, considerata una fonte di legittimazione delle proprie idee e della loro azione. Tra la fine del secolo e il 1904, guidati dal dinamico sacerdote marchigiano Romolo Murri, fondatore della rivista «Cultura Sociale», promossero un sindacalismo cattolico, di non grande incidenza, che mise radici soprattutto nel Nord e specie nelle industrie tessili. In Sicilia, un altro giovane prete, Luigi Sturzo, meridionalista e federalista, si fece energico organizzatore di leghe contadine. Sennonché, il “radicalismo” dei democratici cristiani preoccupò i moderati all’interno del mondo cattolico; tanto che Pio X, accogliendo le loro istanze e per porre fine ai contrasti interni, sciolse nel luglio 1904 l’Opera dei congressi, esprimendo una netta ostilità verso la “democrazia cristiana”. Il movimento cattolico venne posto alle dipendenze dei vescovi. E sempre nel 1904, come si è detto, consentí ai cattolici di soccorrere sul piano elettorale i liberali. Il secondo ministero di Giolitti terminò nel marzo 1905, in seguito alle agitazioni indette dai ferrovieri contro un progetto di statizzazione delle ferrovie, con cui si vietava ai dipendenti di scioperare. Suo successore fu Alessandro Fortis (marzo 1905 - febbraio 1906), un luogotenente di Giolitti

che, dopo uno sciopero non riuscito dei ferrovieri guidato dai socialisti rivoluzionari, fece approvare la statizzazione. La caduta di Fortis venne provocata dall’opposizione liberale ai giolittiani capeggiata da Sonnino. Fu dunque Sonnino a formare il governo (febbraio-maggio 1906), detto dei «cento giorni», che ebbe l’appoggio anche dei socialisti, nelle cui file, dopo il fallimento dello sciopero generale del 1904, si era avuto un avvicinamento di Ferri ai riformisti. Sonnino, che aveva ormai accettato il nuovo corso liberale, perseguiva il disegno di un’iniziativa in grado di guadagnare consenso nel Mezzogiorno trascurato da Giolitti; si presentò dunque con un programma di riforme, nel quale, prestando particolare attenzione a quest’ultimo, si chiedeva uno sgravio fiscale per i contadini e la revisione dei patti agrari. Ma questo programma, non gradito né ai proprietari meridionali né agli industriali settentrionali, decisi a non modificare la situazione esistente, non trovò la necessaria maggioranza in Parlamento, provocando la caduta di Sonnino e il ritorno di Giolitti al governo. Il terzo ministero Giolitti fu abbastanza lungo, dal maggio 1906 al dicembre 1909. Nel giugno 1906, grazie al buon andamento delle finanze pubbliche, venne approvata la conversione della rendita dal tasso di interesse sui titoli del debito pubblico del 5%, assai pesante per le casse statali, a un tasso del 3,75. Seguirono le leggi speciali a favore della Calabria e della Sicilia, di portata limitata, e al tempo stesso sgravi fiscali per i proprietari. Nel 1907-908 le acque andarono agitandosi, quando una crisi industriale provocata da un eccesso di investimenti e da un insufficiente assorbimento dei beni prodotti investí con tutti i Paesi piú avanzati anche l’Italia. Nel 1907 l’ondata degli scioperi fu assai vigorosa, con l’adesione di oltre mezzo milione di scioperanti, in prevalenza nel settore industriale. La crisi, attenuatasi alla fine del 1908, ebbe una soluzione destinata a diventare «classica» in futuro; e cioè una maggiore concentrazione delle imprese piú forti e l’accentuazione del loro carattere monopolistico, con la formazione di consorzi specie nei settori della siderurgia, del cotone, dello zucchero e dello zolfo, tesi a limitare la produzione quando necessario e a controllare i prezzi. Fra il 1909 e il 1913 il tasso di crescita del Paese sarebbe risultato piú contenuto rispetto al decennio precedente, anche se nel 1911 e 1912 si ebbero segni di una ripresa dell’industria, che portò al miglioramento dei salari degli operai e degli impiegati pubblici, ma non dei salariati agricoli, la cui condizione sarebbe andata invece progressivamente peggiorando. A partire

dal 1909 ricomparve poi il disavanzo del bilancio dello Stato, destinato ad aumentare notevolmente. Il carattere piú moderno delle relazioni industriali e al tempo stesso il processo di concentrazione delle imprese spingevano verso la centralizzazione organizzativa sia nel campo sindacale che in quello imprenditoriale. Fu cosí che, per correggere il carattere talvolta troppo locale dell’azione delle Camere del lavoro, nel settembre 1906 fu creata la Confederazione generale del lavoro (Cgl), basata su federazioni nazionali di mestiere, che sotto la guida di Rinaldo Rigola, eletto segretario, diventò una roccaforte dei riformisti, grazie anche alla maggioranza che questi mantennero nel Psi fino al 1911. Dal canto loro gli imprenditori seguirono un percorso analogo. Nel luglio 1906 a Torino sorse una Lega industriale, il primo nucleo di quella che nel maggio 1910 sarebbe diventata la Confederazione italiana dell’industria. La piú vasta e drammatica lotta dei lavoratori di quegli anni fu lo sciopero generale dei braccianti svoltosi tra l’aprile e il giugno 1908. Indetto nel Parmense dalla Camera del lavoro di Parma, dove detenevano la maggioranza i sindacalisti rivoluzionari – i quali nel luglio 1907 avevano abbandonato il Psi per reazione alla direzione riformista –, lo sciopero, caratterizzato da un inasprimento degli scontri, fallí. In quell’occasione gli agrari fecero ricorso al reclutamento di gruppi armati per stroncare l’azione degli scioperanti, che avevano adottato forme di boicottaggio, e suscitare paura nelle file dei lavoratori. Un grande sciopero di oltre 10 000 operai metallurgici fu dichiarato anche a Torino in maggio, per protesta contro il giro di vite attuato dalla Lega industriale in seguito alle conquiste precedentemente ottenute dai lavoratori, tra cui il diritto di formare commissioni interne. Lo sciopero ebbe in parte successo, perché indusse gli industriali a recedere su alcuni punti dalle loro posizioni. Ma in casa socialista emersero divergenze destinate ad approfondirsi, come si vide al Congresso del Psi svoltosi a Milano nell’ottobre 1910. Quanto mai significativa di queste divergenze fu la proposta, non approvata, avanzata da Rigola e appoggiata da Bissolati che definí il Psi un «ramo secco», di dare vita sul modello inglese a un Partito del lavoro autonomo dal Psi, che rappresentasse direttamente in Parlamento gli interessi dei lavoratori. Dal canto suo Salvemini protestò contro la strategia dei riformisti, accusati di proteggere unicamente gli interessi dei lavoratori del Nord seguendo un’ispirazione corporativa e piegandosi alla strategia di

Giolitti. Il congresso si chiuse dando alla linea di Turati la prevalenza sulle posizioni della sinistra interna – di cui era esponente Costantino Lazzari – sulla base di un programma di allargamento della legislazione sociale e di sostegno alla battaglia per il suffragio universale caldeggiata da Salvemini (ma a cui il partito avrebbe dato di fatto un debole appoggio). Si trattava di una linea che andava a cozzare contro quella degli imprenditori industriali e degli agrari decisi nel 1910-11 a contrastare con durezza i socialisti. In campo cattolico, dopo lo scioglimento dell’Opera dei congressi, il movimento si riorganizzò nel 1906, seguendo le direttive vaticane, in varie «Unioni» (popolare, economico-sociale ed elettorale). Murri, che non volle piegarsi alla condanna della «democrazia cristiana» e creò una propria organizzazione, la Lega democratica nazionale, venne scomunicato e, eletto deputato nel 1909, finí nelle file dei radicali; mentre Sturzo – che pure si era distinto per una lucida battaglia a favore del programma democratico cristiano puntando sul rinnovamento della vita pubblica intorno ai temi del decentramento amministrativo, della contrapposizione delle organizzazioni cattoliche alle oligarchie liberali e ai clerico-moderati, di un meridionalismo imbevuto di idealità federalistiche e favorevole alla diffusione della piccola e media proprietà con accenti aspramente critici verso il «giolittismo» accusato di perpetuare l’inferiorità meridionale –, mostrandosi di temperamento piú politico di Murri, obbedí alle direttive vaticane, in attesa che i tempi fossero maturi per la ripresa del movimento democristiano. Intanto il sindacalismo cattolico continuò a rafforzarsi con la costituzione nel 1909 dei primi sindacati nazionali di categoria e un piú deciso intervento nei settori piú tradizionali delle casse rurali e delle società di mutuo soccorso. Pio X da un lato precisò la sua strategia di appoggio dei cattolici ai liberali nella lotta contro il socialismo, dall’altro accentuò il controllo della gerarchia ecclesiastica sul movimento cattolico, di cui la nuova organizzazione delle Unioni e la condanna del «modernismo» nel 1907 – condanna che lasciò largamente indifferenti la cultura tanto liberale quanto socialista, le quali consideravano entrambe una “contraddizione in termini” il tentativo di conciliare cattolicesimo e cultura moderna – furono aspetti correlativi. Un importante successo per la Chiesa e i cattolici e una sconfitta per i laici fu la bocciatura subita alla Camera nel febbraio 1908 di una mozione presentata da Bissolati, nella quale si chiedeva che venisse assicurato il carattere laico della scuola elementare, vietando l’insegnamento religioso. Significativo

dell’orientamento di gran lunga maggioritario dei liberali, intenzionati a non inasprire per motivi elettorali i rapporti con i cattolici, fu che la mozione venne respinta con 347 voti contrari e solo 60 favorevoli. Murri e Sturzo erano entrambi accesi antigiolittiani, poiché consideravano Giolitti l’esponente di un liberalismo che non aveva cessato di essere trasformista, rimaneva legato al centralismo di tipo francese e privilegiava i rapporti con le organizzazioni socialiste emarginando quelle cattoliche, specie nelle questioni attinenti alle lotte del lavoro. Un antigiolittismo di diverso tipo era quello di alcuni fra i piú prestigiosi intellettuali italiani, che si ispiravano a un credo liberista, come gli economisti Antonio De Viti de Marco e il piemontese Luigi Einaudi, Luigi Albertini, direttore del maggiore quotidiano italiano, il milanese «Corriere della Sera» e lo storico pugliese Gaetano Salvemini. Gli economisti liberisti facevano carico a Giolitti di aver rinnovato il protezionismo doganale che non solo danneggiava i consumatori, con un innalzamento artificiale dei prezzi, ma potenziava patologicamente settori produttivi industriali e agricoli che accentuavano sempre piú il loro carattere parassitario, gravando sull’economia nazionale e sulla finanza pubblica. Costoro auspicavano un commercio internazionale piú libero, tale da stimolare le esportazioni dei prodotti delle imprese agricole e industriali competitive e riattivare su basi piú sane il mercato interno. In particolare, il liberismo di De Viti de Marco presentava un carattere decisamente meridionalista, in quanto vedeva nel protezionismo uno strumento dannoso per lo sviluppo delle colture pregiate del Sud che avrebbero potuto essere esportate. Anche l’economista e sociologo Vilfredo Pareto condusse una forte polemica antiprotezionista, denunciando il sistema di potere giolittiano come una «plutocrazia demagogica», che favoriva l’industria protetta dal governo e sostenuta dagli strati operai cui la politica protezionistica garantiva l’occupazione. Mentre la critica di Pareto partiva da un’avversione di fondo verso il liberalismo giolittiano, Gaetano Mosca, il fondatore della scienza politica italiana, pur concordando con lui nella condanna del protezionismo plutocratico «demagogico», conteneva le sue critiche al sistema giolittiano. Una posizione di prima fila nella lotta al “giolittismo” teneva Salvemini, che, dopo aver subito l’influenza del marxismo e avere abbracciato durante la crisi di fine secolo posizioni rivoluzionarie, era poi diventato un ardente discepolo della dottrina federalistica di Cattaneo. Socialista, nei primi anni dell’età giolittiana aveva tracciato le linee di un programma riformistico che

aveva nel meridionalismo il suo asse centrale: rottura del latifondo, diffusione della piccola e media proprietà nel Mezzogiorno, lotta al protezionismo doganale, suffragio universale, decentramento amministrativo, ristrutturazione in senso federalistico dello Stato: questi i punti qualificanti della sua concezione, che non aveva alcuna fiducia nello Stato centralistico e faceva appello all’iniziativa diretta delle masse. Egli si era dapprima schierato a favore dell’alleanza fra proletari settentrionali e contadini meridionali guidata dal Psi; ma in seguito, sfiduciato dal fatto che il partito perseguiva a suo avviso una politica settoriale di difesa corporativa degli operai del Nord mostrando una sostanziale indifferenza verso il Sud, puntò soprattutto le sue speranze sul suffragio universale, considerato l’arma che avrebbe consentito alle masse meridionali di rompere gli equilibri sociali e politici che inquinavano l’intera vita pubblica nazionale, ma soprattutto del Mezzogiorno. Per lo storico, Giolitti rappresentava il volto tradizionalmente antimeridionalistico della classe dirigente liberale, mentre il Partito socialista quello degli operai interessati all’industria protetta. La sua lotta contro Giolitti fu aspra e tenace, anche per i brogli e le violenze messi in atto dai suoi seguaci e dai prefetti nel Sud in occasione delle elezioni. Uscito da un Psi giudicato ormai inutile, si legò strettamente agli intellettuali liberisti, i quali trovarono nella rivista «L’Unità» da lui fondata nel 1911 una palestra, e caldeggiò un’iniziativa politica autonoma dei contadini meridionali sotto la loro leadership politica. Fra le personalità di maggior rilievo dell’epoca un posto eminente aveva il filosofo Benedetto Croce, che nel 1903 diede vita alla rivista «La Critica», destinata a esercitare grande influenza. Anche Croce, che dopo la Prima guerra mondiale e negli anni del fascismo avrebbe celebrato l’opera di Giolitti e il suo liberalismo, nell’età giolittiana tenne nei confronti dello statista piemontese un atteggiamento non benevolo. L’ascendente di Croce si fece sentire, oltre che su molti altri intellettuali, su uno dei maggiori organizzatori della cultura dell’epoca, Giuseppe Prezzolini, che dopo avere fondato sempre nel 1903 con Giovanni Papini una rivista dai toni antidemocratici e antigiolittiani, «Il Leonardo», politicamente intesa a promuovere «il risveglio della borghesia», nel 1908, dopo la cessazione della prima nel 1907, promosse una nuova rivista, «La Voce» che, assai critica nei confronti di Giolitti accusato di corrompere la vita pubblica, raccolse le penne di Croce, Salvemini, Einaudi e Papini.

Di orientamento nettamente antigiolittiano fu poi il movimento nazionalista, una corrente che si nutrí di fermenti ideologico-culturali che erano stati del «Leonardo» e della rivista «Il Regno», nata anch’essa nel 1903 per iniziativa di Enrico Corradini. I collaboratori delle due riviste assunsero posizioni non solo antisocialiste, ma anche ostili al liberalismo borghese che consideravano boccheggiante, e sottoposero a critiche pesanti la democrazia, accusata di essere essenzialmente un mito demagogico incapace di fare spazio alle energie delle forti individualità che hanno nella storia il ruolo di creatori e anticipatori e alle minoranze consapevoli di sé. Corradini in particolare esaltava la nuova realtà dell’imperialismo e sosteneva la necessità di perseguire con rinnovato vigore le vie dell’espansionismo coloniale. Il movimento nel dicembre 1910 si costituí in Associazione nazionalista italiana. Tra i suoi esponenti di spicco figuravano, oltre a Corradini, Luigi Federzoni, Francesco Coppola e Roberto Forges Davanzati. Esso faceva propri motivi letterari come quelli del poeta Gabriele D’Annunzio, impregnati di esaltato individualismo, di suggestioni riecheggianti i temi nietzschiani del superuomo, di entusiasmo patriottico e guerresco; motivi letterario-ideologico-storiografici come quelli avanzati nell’opera di Alfredo Oriani con la sua critica alla «mediocrità» dell’Italia liberale e la rivalutazione del crispismo; motivi propri della nuova corrente futuristica di Filippo Tommaso Marinetti, con la sua violenta polemica antitradizionalistica che in chiave politica diventava antiliberale, antidemocratica, antisocialista e bellicistica (la guerra considerata «igiene del mondo»); e infine anche spunti del pensiero di Sorel per quanto riguardava la funzione positiva da lui attribuita alla violenza e al soggettivismo volontaristico. Cosí ispirato a molteplici componenti e venato anche di tendenze antisemite, il nazionalismo era approdato a una compatta coerenza politico-ideologica. Tale nazionalismo non aveva nulla in comune con il nazionalismo democratico ottocentesco, di cui era stato un grande esponente Mazzini, collegato alle lotte di emancipazione dei popoli: guardava invece direttamente e positivamente all’autoritarismo e all’imperialismo, elevati a essenza e dinamico motore dell’epoca. Il nuovo nazionalismo predicava che la guerra fra gli Stati costituiva una manifestazione della virilità dei popoli, necessaria a misurare la forza delle nazioni, e una fonte morale di disciplina e compattezza del corpo sociale. Denunciando la lotta fra le classi quale una malattia mortale, causa prima della debolezza dello Stato nazionale,

auspicava una riorganizzazione della società basata sui principî di gerarchia, forza e autorità. Rinnegando liberalismo, democrazia, socialismo, il movimento proponeva nel campo dei rapporti di lavoro una strutturazione «corporativa» per molti aspetti simile a quella auspicata dai cattolici, tale da conciliare le classi e consentire di accumulare le comuni energie in vista dell’inevitabile scontro tra gli opposti imperialismi, nel quale l’Italia era chiamata a inserirsi. Tutto questo bagaglio ideologico trovò la sua espressione nella rivista «L’Idea Nazionale», fondata nel 1911 da Corradini, Federzoni e Coppola.

5. Quarto ministero Giolitti, suffragio universale e inasprimento dei conflitti di classe. Nel marzo 1909 le elezioni segnarono un notevole avanzamento dei socialisti, i cui deputati salirono da 29 a 41. Anche i radicali si rafforzarono. Pio X, riprendendo in modo piú ampio le direttive già date nel 1904 ma continuando a opporsi alla costituzione di un partito cattolico, permise che i cattolici votassero in numerosi collegi, attenuando cosí ulteriormente il valore del non expedit. Il suo disegno era chiaro: sostenere i liberali conservatori, a patto che questi si impegnassero nella difesa degli interessi cattolici o quanto meno non li attaccassero, essendo sempre vivo il timore dell’esempio che veniva dalla Francia anticlericale di Combes, dove nel 1905 si era giunti alla totale separazione tra Stato e Chiesa. Furono cosí eletti anche sedici deputati cattolici, fra cui il milanese Filippo Meda, approdato dalle file dei democristiani a quelle dei cattolici moderati. Giolitti presentò un programma di rinnovato riformismo. In maggio – dopo che Salvemini, nel quadro della piú ampia campagna condotta dalle opposizioni, aveva pubblicato il suo bruciante saggio Il ministro della malavita, in cui denunciava le pressioni e i brogli messi in atto dal governo nel Mezzogiorno per favorire i candidati ministeriali – presentò un disegno di legge diretto ad assicurare la correttezza delle elezioni. Ne seguirono un secondo in base al quale lo Stato interveniva nel campo dei servizi marittimi ponendo fine al monopolio delle società private; e un terzo che prevedeva l’introduzione di una imposta progressiva generale sui redditi e la diminuzione della tassa sullo zucchero. Sennonché venne battuto alla Camera

dagli interessi coalizzati delle forze contrarie alla riforma tributaria. Diede allora le dimissioni nel dicembre 1909, lasciando la guida del governo a Sonnino, il quale formò il suo secondo ministero – che sarebbe durato dal dicembre 1909 al marzo 1910 – spostando l’asse dal Centro-sinistra al Centro-destra. I punti piú qualificanti del suo programma erano la riorganizzazione di vari ministeri, la revisione delle leggi doganali, la riforma dei tributi a partire da quelli locali e un piú ampio impegno dello Stato nel sostegno alla scuola elementare. Ma, non disponendo di una solida maggioranza, Sonnino cadde dopo pochi mesi, venendo sostituito da un altro esponente della Destra visto benevolmente da Giolitti, Luigi Luzzatti, al potere dal marzo 1910 al marzo 1911. Questi realizzò, in forma attenuata rispetto al progetto giolittiano, la riforma dei servizi marittimi, avviò un piano inteso ad affidare allo Stato l’insegnamento nella scuola elementare e propose l’elezione di una parte dei senatori e l’estensione del suffragio a tutti gli alfabeti. Ma di fronte al fatto che Giolitti si espresse a favore del suffragio universale maschile, scavalcando il progetto di riforma presentato da Luzzatti, il ministero ebbe termine e si ebbe il ritorno al potere di Giolitti, che formò il suo quarto governo. L’introduzione del suffragio universale era infatti ormai matura: anche perché era diffusa tra i parlamentari liberali la convinzione, condivisa non solo da Sonnino ma ora anche da Giolitti, che esso potesse venire utilizzato in chiave antisocialista e conservatrice anzitutto per l’apporto del voto dei contadini tanto settentrionali quanto meridionali influenzato dalla Chiesa. Il suffragio universale venne quindi giocato da Giolitti in un senso politicamente democratico e socialmente conservatore. Nell’attuare la svolta nel sistema elettorale, che era stata a lungo attesa dalle sinistre, Giolitti motivò l’introduzione del suffragio universale per i cittadini che avessero prestato il servizio militare o avessero superato i trent’anni, con l’esigenza di dare al Paese «una rappresentanza sincera e completa», nella persuasione che i progressi sociali compiuti togliessero alla riforma ogni valore eversivo. Il 6 aprile dichiarò alla Camera: Nel determinare quali cittadini debbano partecipare all’esercizio della sovranità nazionale, piú che ad una superficiale istruzione acquistata al solo fine di superare un facile esame, noi crediamo si debba guardare alla maturità della mente, la quale si acquista o nella scuola educativa o con l’esperienza della vita 1.

Ribadí l’impegno precedentemente assunto di combattere la corruzione elettorale e di introdurre l’indennità per i deputati al fine di consentire anche ai meno agiati i mezzi materiali per ottemperare al compito della rappresentanza. Infine espresse il proposito di istituire il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita, attribuendo i proventi alla Cassa per la vecchiaia e l’invalidità dei lavoratori. Concedendo il suffragio universale, Giolitti pensava, non a torto, di attenuare l’opposizione dei socialisti alla guerra per la conquista della Libia, ormai chiaramente nelle sue intenzioni, anche se su questo punto, che doveva invece riuscire gradito a vari ambienti conservatori, tacque presentando il programma del suo ministero. Nel formare il suo quarto governo, Giolitti riprese il disegno abortito nel 1903 di provocare una scissione nel Partito socialista e di fare dell’ala riformista una formazione decisamente ministeriale; ma questa volta, anziché a Turati, si rivolse a Bissolati, il quale, se rifiutò con motivazioni analoghe a quelle che avevano in precedenza giustificato il rifiuto di Turati, seguendo il consiglio di quest’ultimo prese parte alle consultazioni dietro invito del re, suscitando le proteste dei socialisti non riformisti. Fu in tale contesto che Giolitti alla Camera affermò che il Partito socialista era ormai un partito assai piú moderato rispetto al passato e che Marx era stato «mandato in soffitta». Non seguí allora l’auspicata scissione, ma il governo ottenne la fiducia dei socialisti. In giugno venne approvata la legge Daneo-Credaro, che riorganizzò l’istruzione elementare ponendola quasi completamente sotto il controllo dello Stato e migliorò gli stipendi dei maestri. Fu inoltre presentato il progetto di legge – fortemente contrastato da conservatori come Sonnino e Antonio Salandra e da economisti come Einaudi appoggiati dal «Corriere della Sera» – che istituiva il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita. Contro di esso – avrebbe scritto Giolitti nelle sue Memorie – «si cercò anzitutto di eccitare una vera sollevazione di tutti gli interessi borghesi, capitalistici, industriali e commerciali», in quanto considerato «un attentato alla proprietà», preludio della «monopolizzazione di gran parte delle industrie». Il progetto, pur trasformato in legge nel marzo 1912, rimase sulla carta. Il suffragio universale maschile divenne legge il 25 maggio 1912. Con essa il corpo elettorale passò da 3 329 147 a 8 672 249 aventi diritto di voto (dal 9,50% al 24,49 della popolazione); i contadini maschi ottennero per la prima volta il voto. Giolitti attuò cosí una rivendicazione tradizionale sia del

liberale Sonnino sia del Partito socialista, il quale però, temendo che il voto dei contadini andasse ai conservatori, non aveva mai condotto una convinta battaglia per ottenerlo, fatta eccezione per la voce solitaria di Salvemini e dei suoi sostenitori (tardiva fu la conversione dello stesso Turati). Dopo avere posto con queste leggi le premesse per allargare auspicabilmente il consenso a sinistra, Giolitti si volse all’impresa libica. I motivi erano in parte di natura internazionale, in parte di natura interna. Sul piano internazionale, egli intendeva scongiurare il pericolo che la Libia, data la sua delicata posizione strategica per l’Italia, cadesse sotto la sovranità o il controllo di un’altra potenza europea. Sul piano interno, con il caratteristico “pendolarismo” di tutta la sua strategia, desiderava compiacere quegli ambienti della finanza vaticana che avevano consistenti interessi economici nel territorio libico, in particolare attraverso il Banco di Roma; i settori del capitalismo finanziario rafforzatosi anche in Italia che miravano a penetrare nel Medioriente e nell’Africa settentrionale; l’industria pesante da sempre interessata all’aumento delle spese militari; e le correnti nazionalistiche tanto della destra liberale quanto del movimento nazionalista in senso stretto e dei cattolici. La stampa favorevole all’impresa avviò una campagna propagandistica carica di demagogia, e, ripetendo quanto era avvenuto in passato e sarebbe avvenuto in futuro a sostegno delle conquiste coloniali, venne agitata agli occhi delle masse povere in particolare rurali la prospettiva di nuove grandi opportunità aperte all’emigrazione italiana in terre ricche. Si opponevano solo alcune voci isolate, come quella di Salvemini, che, inascoltato e in contrasto con il coro di quanti favoleggiavano persino di immense ricchezze, documentò la povertà delle risorse naturali della Libia. Nell’insieme la campagna, che valse a guadagnare alla guerra un ampio consenso anche nelle masse popolari, ebbe inizialmente un sostanziale successo, anche se l’Italia – a differenza dei grandi Paesi imperialistici – disponeva di cosí scarsi capitali da investire nelle colonie da giustificare la voce che il suo fosse un «imperialismo straccione». Mentre i nazionalisti parlavano del ritorno di Roma imperiale, i cattolici e moltissimi vescovi inneggiavano alla «crociata cristiana» contro gli infedeli, facendo assistere per la prima volta dalla nascita dello Stato unitario allo sposalizio del cattolicesimo con il patriottismo. Anche socialisti riformisti come Bissolati si dichiararono favorevoli; persino sindacalisti rivoluzionari come Labriola si accodarono. Il Partito socialista era internamente diviso e indebolito; solo la

sua sinistra era decisamente e attivamente contraria. Uno sciopero generale svoltosi il 27 settembre 1911 contro la guerra venne contenuto entro limiti legalitari e di protesta pacifica. Un’eccezione fu la Romagna, dove il socialista rivoluzionario Benito Mussolini e il repubblicano Pietro Nenni promossero violente agitazioni. La guerra, dichiarata senza l’approvazione del Parlamento il 29 settembre 1911, contro la Turchia sotto la cui sovranità si trovava la Libia, avrebbe avuto termine il 15 ottobre 1912. Fu assai piú lunga e difficile del previsto; provocò migliaia di morti e feriti tra gli italiani, consumò molto materiale bellico e diede un forte colpo al disavanzo finanziario dello Stato. Il protrarsi del conflitto, con tutte le sue impreviste difficoltà e il suo carattere divenuto a mano a mano sempre meno popolare, ebbe un forte contraccolpo sul Psi, nel quale l’acuirsi dei contrasti fra i riformisti piú ministeriali, Leonida Bissolati, Ivanoe Bonomi e Angiolo Cabrini – che il 14 marzo 1912 si erano recati al Quirinale per congratularsi con il re sfuggito all’attentato di un anarchico – e la sinistra rivoluzionaria rendeva improcrastinabile un chiarimento interno. Al Congresso di Reggio Emilia del 7-10 luglio Mussolini, assurto alla guida dei rivoluzionari, mise in stato d’accusa i riformisti Bissolati, Bonomi, Cabrini e Guido Podrecca, ottenendone l’espulsione. Questi e altri nove deputati risposero dando vita il 10 luglio al Partito socialista riformista italiano (Psri), che rimase senza seguito nelle masse e non ottenne l’adesione del piú eminente fra i riformisti italiani, Turati, che ne deplorò la formazione. La maggioranza del partito si schierò sulle posizioni della sinistra radicale; sicché l’obiettivo lungamente perseguito da Giolitti della scissione socialista fu conseguito, ma senza provocare alcun sostanziale spostamento di forze. Il Psi optò per una linea antiriformistica, anticlericale e persino antiparlamentare, che trovò il suo piú acceso portavoce in Mussolini, cui in dicembre venne affidata la direzione del quotidiano del partito «Avanti!», trasformato in organo della corrente estremista. Il riformismo però, se indebolito nel partito, manteneva la sua importante roccaforte nella Cgl. Anche i sindacati andarono incontro alla scissione; infatti, in novembre i sindacalisti rivoluzionari abbandonarono la Cgl e crearono a Modena l’Unione sindacale italiana (Usi), ritenendo inaccettabile la linea riformistica della Confederazione, troppo inserita nel sistema dominante. L’influenza crescente dei sindacalisti rivoluzionari si fece sentire nel corso di grandi scioperi svoltisi nel Nord fra il 1912 e il 1913 con

al centro Torino e Milano. Il 26 ottobre e il 2 novembre del 1913 si tennero le prime elezioni a suffragio universale maschile in una difficile situazione dell’economia italiana, investita da una crisi di carattere internazionale, che aggravava i problemi iniziati nel 1907-908, allargava l’area della disoccupazione e dava un’ulteriore spinta all’emigrazione. Il suffragio universale preoccupò grandemente i liberali, privi di un’organizzazione capace di mobilitare le masse e di una struttura partitica moderna, che solo i socialisti possedevano. In soccorso dei liberali, sul fondamento del comune antisocialismo, vennero i cattolici, gli unici in grado di contrapporre alla rete delle sezioni socialiste quella capillare delle parrocchie e delle proprie organizzazioni, particolarmente forti nelle campagne. Non potendo ancora presentare proprie liste autonome, il presidente dell’Unione elettorale cattolica, il conte Ottorino Gentiloni, invitò i candidati liberali a sottoscrivere un patto – detto da lui «Patto Gentiloni» –, in cui si chiedeva loro, in cambio del voto, di opporsi nella nuova Camera a ogni legge in materia di divorzio, insegnamento ecc., che potesse ledere gli interessi dei cattolici. Giolitti non assunse personalmente alcun impegno, ma lasciò fare. L’appoggio dei cattolici, che intervenivano per la prima volta in forze nelle elezioni con il consenso vaticano (il non expedit venne sospeso in 330 collegi), valse a salvare i liberali da una severa sconfitta. Da parte sua, Giolitti mise in moto con un’ampiezza senza precedenti, specie nell’Italia meridionale, la macchina dei prefetti e della polizia e la stessa mafia, per intimidire le opposizioni. Ciò nonostante i risultati elettorali videro una notevole affermazione dei socialisti che, fra Psi, Psri e sindacalisti rivoluzionari indipendenti (tra cui Arturo Labriola), ottennero 79 deputati. Un successo però minato dalle profonde divisioni tra le correnti del socialismo. Anche i radicali ebbero una notevole affermazione. Il peso del sostegno dei cattolici ai liberali fu tale che «L’Osservatore Romano» poté rivendicare che su 304 deputati liberali ben 228 erano stati eletti grazie a esso. Queste elezioni rivelarono da un lato le gravi difficoltà dei liberali in un sistema politico basato sul suffragio universale e dall’altro il ruolo determinante assunto dai cattolici, i quali si presentarono alla ribalta come insostituibile baluardo antisocialista. Giolitti si illuse, a cose fatte, di poter disfarsi di quell’ipoteca affermando che i cattolici avrebbero aspettato «per un pezzo il compenso». In realtà, cosí facendo,

dimostrava di non avere compreso le trasformazioni in atto nelle tecniche di formazione del consenso e di non valutare adeguatamente l’importanza per i liberali di disporre di una permanente organizzazione di massa: un compito per il quale essi, come si è notato, non erano in alcun modo attrezzati. Quanto ai cattolici, come già Cavour quando era presidente del Consiglio nel regno sardo, egli auspicava che, abbandonate le ostilità residuali allo Stato unitario, si attestassero su posizioni di accettazione delle istituzioni liberali; ma, a differenza del Conte, non era in alcun modo favorevole a che si costituissero in un partito autonomo in grado di formare un’alternativa di governo ai liberali. Li voleva integrati in modo subalterno nel suo sistema; e per questo aveva accolto con soddisfazione la contrarietà di Pio X alle ambizioni della corrente democratico-cristiana di dar vita al da essi auspicato partito autonomo. La nuova Camera (che aveva segnato un notevole ricambio, in quanto circa un terzo dei deputati uscenti erano risultati esclusi), con i 79 socialisti, 90 radicali e repubblicani, 6 nazionalisti, 20 cattolici moderati, 9 cattolici conservatori e 304 liberali su posizioni assai diversificate, non era quella che Giolitti sperava. Il 10 marzo 1914 diede le dimissioni. Il clima politico e sociale nel Paese, come le elezioni avevano attestato, era assai mutato. Il disegno giolittiano, fondato sulla disponibilità di una maggioranza parlamentare docile, cozzava contro la svolta in senso radicale della maggioranza dei socialisti, contro l’agitazione antidemocratica e antiliberale dei nazionalisti, contro il nuovo ruolo assunto dai cattolici, contro le divisioni interne al campo liberale. Inoltre la crisi economica, con le sue conseguenze, acuiva i contrasti di classe: la mediazione giolittiana fra capitale e lavoro non soddisfaceva piú né il proletariato né gli industriali e gli agrari, decisi a fronteggiare in modo diretto e intransigente le rivendicazioni dei lavoratori. In questo quadro l’«età giolittiana» tramontava e il suo interprete usciva di scena, pur rimanendo personalmente l’uomo piú notevole della classe dirigente liberale. Fu Giolitti stesso a indicare al re come proprio successore Antonio Salandra, un pugliese liberale di destra e di tendenze autoritarie, legato agli agrari meridionali ma gradito anche alla grande industria, ritenendo di poter tornare a tempi brevi al potere da una posizione di centro-sinistra. Sennonché Salandra era uomo energico e niente affatto disposto a essere lo strumento di Giolitti. Il suo ministero (marzo 1914 - giugno 1916) affrontò la prima prova

importante nella repressione delle agitazioni scoppiate nel giugno 1914. Dopo l’uccisione di tre operai da parte della polizia il 7 giugno a seguito di un comizio antimilitarista ad Ancona, il 10 venne proclamato dal Psi e dalla Cgl lo sciopero generale di protesta dopo che esso era divampato spontaneamente. Estesosi in gran parte del Paese, lo sciopero ebbe termine il 14. In Romagna e nelle Marche, dove il movimento di protesta venne diretto dal socialista Mussolini, dal repubblicano Nenni e dall’anarchico Errico Malatesta, si giunse a veri e propri scoppi insurrezionali, saccheggi e atti di sabotaggio a carattere rivoluzionario sotto bandiera repubblicana. Questo momento cruciale dei conflitti politici e sociali è passato alla storia come la «settimana rossa». La classe dirigente, esasperata e intimorita, invocò una repressione esemplare, che fu attuata inviando nelle Marche e in Romagna ben 100 000 soldati. I morti furono tredici nelle file dei dimostranti e uno tra i soldati, numerosi i feriti. Tale era la turbolenta situazione in Italia nel giugno 1914. Pochi giorni dopo l’attentato compiuto dal nazionalista serbo-bosniaco Gavrilo Princip il 28 giugno a Sarajevo, in Bosnia, che costò la vita all’erede al trono asburgico Francesco Ferdinando, doveva innescare una crisi europea catastrofica, sfociata nella Prima guerra mondiale, la quale, per i suoi effetti dirompenti, avrebbe provocato in Italia quella «esplosione delle antitesi» politiche e sociali che nel dopoguerra sarebbe sfociata nell’avvento del fascismo. Con le dimissioni di Giolitti nel marzo 1914 si era chiusa l’età che da lui prese nome, anche se egli sarebbe tornato al potere dopo la fine della guerra mondiale.

6. Il costo del fallimento del disegno giolittiano. L’opera dello statista piemontese nel decennio del suo potere è stata oggetto delle piú accese e contrastanti controversie politiche e dopo la sua morte storiografiche. Ebbe i suoi piú convinti celebratori e i piú aspri accusatori. Tra le molte valutazioni che sono state pronunciate su Giolitti, spiccano per rappresentatività e significato quelle di Croce, Salvemini, Volpe, Gramsci e Togliatti: sono le voci nel Novecento del maggiore tra gli esponenti della cultura liberale, di un grande storico democratico e campione del meridionalismo, del piú eminente tra gli storici fascisti e dei due maggiori

leader del Partito comunista italiano. Nella Storia d’Italia (1928) Croce fece di Giolitti un elogio che piú alto non avrebbe potuto essere. Disse di lui che era «uomo di molta accortezza e di grande sapienza parlamentare, come è incontrastato giudizio, ma non meno di seria devozione alla patria, di vigoroso sentimento dello stato, di profonda perizia amministrativa», nel cui «animo popolare, erano connaturate la sollecitudine per le sofferenze delle classi meno abbienti e l’avversione all’egoismo dei ricchi e dei plutocrati, che allo stato sogliono chiedere unicamente la garanzia dei propri averi e del proprio comodo». Croce continuava sottolineando come Giolitti fosse stato consapevole della necessità di porre rimedio con la riforma elettorale al fatto che «la classe politica italiana» risultasse «troppo ristretta e a rischio di esaurirsi e che perciò convenisse chiamare via via nuovi strati sociali ai pubblici affari» 2. Volpe – il cui “eroe” era Crispi, da lui considerato uomo di alti e vigorosi ideali e acceso da un ardente amore per la patria – nell’Italia in cammino (1927) vide in Giolitti colui che aveva lavorato «accortamente un decennio a farsi una Camera a sua immagine», in un’epoca segnata dal «tramontar quasi ogni fede in principî fissi e in programmi politici determinati» 3: insomma, un manovratore a cui mancava la fiamma ideale, un esponente, come già Zanardelli, del «liberalismo del “lasciar fare”, che ritenne affari privati le controversie fra operai e imprenditori e si limitò a tutelare l’ordine pubblico», pur dovendosi riconoscere che «ebbe, quel liberalismo, alcuni suoi lati buoni, poiché aiutò a trovare il nuovo equilibrio tra le forze sociali in giuoco; a render possibile una piú equa ripartizione dei profitti e redditi industriali e agricoli» 4. Su una sponda opposta rispetto a Croce si collocò anche Salvemini. Questi, riandando nel 1949-50 ai tempi passati, diede un giudizio tranchant: se riconobbe a Giolitti di avere avuto «il buon senso di capire che occorreva cambiare strada» rispetto alla politica della classe dirigente che aveva gettato il Paese nella crisi di fine secolo, lo accusò di non aver saputo andare oltre 5. Guardando alla protezione che aveva assicurato alla pratica dei brogli, ai mazzieri, alla corruzione che avevano funestato le elezioni nel suo Mezzogiorno e al ruolo avuto negli anni dell’ascesa di Mussolini, si spinse a bollare lo statista piemontese come «fra i manutengoli del fascismo [...] il piú immediato e maggiore di tutti» 6. Sintetizzando il suo pensiero, affermò che «Giolitti era quel che nel secolo XVIII sarebbe stato definito come un sostenitore del dispotismo illuminato:

cioè un conservatore paternalista che riconosceva ai poveri diavoli» il diritto di vivere un poco meglio, «ma non pensò mai che i poveri diavoli potessero cambiare le basi della società, in cui erano nati, o dovessero ardire di cambiarle» 7. L’intransigente polemica condotta da Salvemini contro Giolitti negli anni del suo potere e poi da lui tradotta in termini storiografici influenzò profondamente i giudizi, anch’essi tutti aspramente critici, di Piero Gobetti, di Guido Dorso e di Gramsci. Nei Quaderni del carcere quest’ultimo sostenne che: Giolitti non creò nulla: egli “capí” che occorreva concedere a tempo per evitare guai peggiori e per controllare lo sviluppo politico del paese e ci riuscí. In realtà Giolitti fu un grande conservatore e un abile reazionario, che impedí la formazione di un’Italia democratica, consolidò la monarchia con tutte le sue prerogative e legò la monarchia piú strettamente alla borghesia attraverso il rafforzato potere esecutivo che permetteva di mettere al servizio degli industriali tutte le forze economiche del paese 8.

Un deciso distacco rispetto a questi orientamenti rappresentò un saggio del 1950 di Togliatti. Ancorché segnato dall’intento politico di contrapporre in chiave polemica la figura dello statista piemontese a quella dell’allora capo del governo, il democristiano Alcide De Gasperi, il discorso va oltre quell’intento. L’interpretazione di Togliatti è in palese controtendenza rispetto alla valutazione di Salvemini e anche di Gramsci. Per il leader comunista Giolitti fu l’uomo che, «falliti attorno al 1900 i tentativi di impedire ogni evoluzione democratica» e di comprimere i diritti e le esigenze del movimento operaio, seppe intraprendere «la strada di una democrazia borghese senza pregiudizi verso una sinistra radicale e socialista», respingendo «la strada di un semplice travestimento parlamentare dei vecchi governi paternalistici e di corte», come quella in atto in Germania e Austria 9, comprendendo che «non bastava che i gruppi dirigenti tradizionali resistessero sulle vecchie posizioni, ma occorreva cambiare qualche cosa nel vecchio modo di vivere e di governare» 10. Il suo mutamento di passo nei confronti delle lotte dei lavoratori non si poteva ridurre «alla pura estensione del vecchio metodo trasformistico in direzione dei nuovi quadri democratici e socialisti portati in alto dal movimento operaio» 11. Certo, suo limite grave fu di avere perseguito una strategia di riforme settoriale, «unilaterale», in relazione ai rapporti tra Nord e Sud, ignorando «la questione centrale, che è

quella della terra e del suo possesso da parte di chi la lavora» 12. Quanto all’accusa a Giolitti di essere stato «il ministro della malavita», Togliatti l’affrontava con le seguenti considerazioni: che c’era un unanime accordo «nel riprovare i brogli e le illecite pressioni sul corpo elettorale»; ma che occorreva d’altra parte «constatare che ci troviamo davanti al tratto specifico non di un uomo ma di un tempo e di un sistema». Merito comunque dello statista fu di essere stato in Italia «il piú autorevole rappresentante» della tendenza in atto a cavallo tra fine Ottocento e inizi Novecento «favorevole alla estensione del suffragio fino al limite della universalità» 13. Altro grande merito della politica giolittiana dopo il 1900 fu di essere «tutta costruita sulla richiesta della collaborazione governativa con il partito della classe operaia e con i suoi uomini piú rappresentativi» 14. Il nucleo del discorso di Togliatti su Giolitti poggia in ultima analisi su due punti. L’uno è che «tra gli uomini politici della borghesia egli si è spinto piú innanzi, sia nella comprensione dei bisogni delle masse popolari, sia nel tentativo di dar vita a un ordine politico di democrazia, sia nella formulazione di un programma nel quale si scorge, anche se in germe, la speranza di un rinnovamento» 15; l’altro che il programma giolittiano andò a urtare contro «contrasti profondi» i quali non consentirono ad esso di «consolidarsi come ordinamento democratico», lo resero «labile e non consistente proprio come democrazia, incapace di dominare le forze avverse che maturano nel suo seno», cosí da destinarlo «a soccombere sotto il loro urto» 16. Avere bollato Giolitti, come fece Salvemini, quale un tardivo fautore del dispotismo illuminato del XVIII secolo, che guardava alle plebi con gli occhi di un conservatore paternalista unicamente disposto a concedere loro di migliorare un poco le loro precarie condizioni di vita e addirittura come uno dei manutengoli del fascismo, fu una esasperazione polemica dettata dal suo risentimento di meridionalista. In realtà, Giolitti fu tutt’altro che un cinico, inteso a «tirare avanti la baracca» (come pensava Volpe). Fu un leader e uomo di governo che combinava un senso quanto mai realistico della politica e dei modi in cui si può acquisire e mantenere il potere in certe condizioni con le alte idealità di un riformatore sensibile come nessun altro prima e dopo di lui tra i maggiori esponenti della classe dirigente liberale all’esigenza sia di sollevare le masse lavoratrici non mediante le leve offerte dal paternalismo, ma il riconoscimento di nuovi diritti da esercitarsi con la libertà di

organizzazione e di azione politica; sia di spostare decisamente all’interno della borghesia italiana e della sua rappresentanza parlamentare il baricentro dalla conservazione e persino dalla reazione all’accettazione di rapporti improntati a una maggiore apertura verso le classi popolari; sia di dare il segno di questo spostamento con un nuovo indirizzo in materia fiscale ispirato a una pur relativa equità; sia di contenere le velleità degli ambienti militaristici ed espansionistici e quindi le spese militari. Nella sostanza, Giolitti fu l’unico statista che tra il 1861 e il 1914 si sia caratterizzato per essere non solo un liberale ma anche un democratico. Certo, era al tempo stesso un conservatore: credeva nella monarchia, nel naturale primato sociale e politico della borghesia e nel suo ruolo direttivo nella vita del Paese, ed era convinto della superiorità del capitalismo rispetto alle alternative di cui si faceva portatrice la Sinistra radicale che aspirava a un mutamento qualitativo del sistema politico ed economico. Giolitti incarnò la grande occasione mancata per la trasformazione dell’Italia in un moderno Paese liberal-democratico. Ebbe contro di sé i liberali di destra, i socialisti di sinistra e i sindacalisti rivoluzionari ancorati al mito della rivoluzione proletaria, i liberisti dottrinali, i nuovi nazionalisti che favoleggiavano di un’Italia militaristica e colonialista entrata nel novero delle grandi potenze imperialistiche, i cattolici intransigenti nemici dello Stato liberale, e i democristiani da un lato e dall’altro i clerico-moderati ansiosi di catturare nella loro rete i liberali disposti per motivi elettorali a impedire allo Stato di mantenere e consolidare il proprio carattere laico. Ebbe anche contro di sé – lo si è ricordato – i meridionalisti come, in prima fila, Sturzo e Salvemini, il quale ultimo però, merita se ne faccia menzione, in sede di bilancio tardivo del suo antigiolittismo, si rammaricò che gli attacchi da lui condotti contro Giolitti «non favorirono una evoluzione della vita italiana verso forme meno imperfette di democrazia, ma favorirono la vittoria dei gruppi militaristi, nazionalisti e reazionari che trovavano la democrazia di Giolitti anche troppo perfetta» 17. La convergenza di tutte queste forze, reciprocamente confliggenti ma unite contro Giolitti – tutte espressione dei nodi irrisolti del Paese – ebbero quale effetto finale di portare al sostanziale fallimento della strategia dello statista piemontese, che lasciò comunque in eredità un’Italia piú moderna e piú prospera di quanto l’avesse trovata. Fu allora che l’Italia non riuscí a diventare “nazione”, e dopo non lo sarebbe piú propriamente diventata.

Grande scacco di Giolitti fu di avere mancato in quello che era stato il suo grande obiettivo: legare le masse popolari alle istituzioni, portarle dal fronte dell’“anti-Stato” al fronte dello Stato. Il prezzo di tale scacco sarebbe stato drammaticamente pagato con lo scatenamento dei conflitti provocati nel Paese dall’impopolare Prima guerra mondiale, alla cui partecipazione dell’Italia lo statista con preveggenza si sarebbe opposto, e col tumultuoso dopoguerra sfociato nell’ingovernabilità a cui avrebbe posto fine Mussolini.

7. Il carattere ambivalente della politica estera italiana. La guerra italoturca per la Libia. L’Italia aveva partecipato nel luglio 1900 alla spedizione internazionale in Cina per la repressione dei boxers; e nel 1901 aveva ottenuto in concessione una piccola zona a Tianjin. Questo intervento era nato non solo dalla pretesa italiana di giocare un ruolo internazionale; ma soprattutto dalla volontà di acquistare il diritto di non essere esclusa dalle intese tra le maggiori potenze. Ma il settore fondamentale della politica estera italiana nei primi anni del secolo fu quello relativo alla Tripolitania-Cirenaica. Fra il 1899 e il 1901 il ministro degli Esteri Emilio Visconti Venosta intavolò trattative con la Francia per ottenere, in cambio del consenso italiano alla penetrazione francese in Marocco, il riconoscimento dell’influenza dell’Italia sulla regione libica. Questi preliminari furono sanzionati da un accordo italo-francese firmato da Giulio Prinetti, ministro degli Esteri nel governo Zanardelli, il 30 giugno 1902, subito dopo che, il 28, l’Italia aveva rinnovato la Triplice Alleanza con Germania e Austria. Dal canto loro, gli alleati si erano mostrati disponibili a dare il via libera all’Italia in Libia. Anche con l’Inghilterra era stato raggiunto un accordo che consentiva a una futura azione italiana nella regione nordafricana. Questo incrociarsi di accordi con Francia e Gran Bretagna sulla Tripolitania-Cirenaica avvicinava di fatto l’Italia all’Intesa. Si trattava della posizione che il cancelliere tedesco Bernhard von Bülow, non senza ironia, descrisse come il «giro di valzer» dell’alleata Italia con «un altro ballerino», e cioè la Francia, il cui presidente Émile Loubet venne in Italia nel 1904 in visita di Stato. La trama tessuta dalla diplomazia italiana sulla questione libica fu completata dal nuovo ministro degli Esteri Tommaso

Tittoni con l’accordo italo-russo, firmato a Racconigi il 24 ottobre 1909 in occasione di una visita dello zar Nicola II in Italia, in base al quale la Russia appoggiava le mire italiane in Africa settentrionale e gli italiani ricambiavano assecondando le mire russe sugli Stretti; e si concordava infine sulla comune opposizione all’espansionismo dell’Austria nel settore balcanico. Lo stesso Tittoni peraltro pochi giorni prima, il 20 ottobre, aveva firmato un accordo – in palese contrasto rispetto a quello successivamente firmato con la Russia – con il ministro austriaco Alois von Aehrenthal, nel quale non solo si prevedevano compensi all’Italia nel caso di espansione dell’Austria nei Balcani, ma le due potenze si impegnavano a non stringere accordi con altri Stati sulla situazione della regione. Questo accordo fra Italia e Austria, se faceva apparire soddisfacente lo stato delle relazioni fra i due Paesi, non poteva certo eliminare i contrasti determinati dalla questione delle terre «irredente» – Trento, Trieste e le altre zone con popolazione in prevalenza italiana soggette a sovranità austriaca – in relazione alla quale si era sviluppata in Italia, specie nel corso del 1903 e poi del 1908, un’ondata di agitazioni tale da provocare tensioni che portarono alcuni ambienti militari austriaci a discutere addirittura a piú riprese l’ipotesi di un attacco preventivo all’Italia. La seconda crisi marocchina, iniziata nel luglio 1911, convinse Giolitti e il ministro degli Esteri Antonino di San Giuliano che era venuto il momento per l’Italia di giocare la carta libica e di raccogliere i frutti del lavoro diplomatico durato un decennio. Il 29 settembre venne dichiarata la guerra alla Turchia. È significativo che il Parlamento venisse escluso dalla decisione, presa dai ministri, dalla corte e dagli alti comandi militari. Sotto il profilo militare la guerra si protrasse assai piú del previsto e richiese ampi mezzi. Il corpo di spedizione iniziale di 35 000 uomini, guidato dal generale Carlo Caneva, dovette essere portato a 100 000 uomini. Agli inizi di ottobre gli italiani occuparono Tripoli e Bengasi e verso la fine del mese assunsero il controllo delle coste della Tripolitania e della Cirenaica. I turchi si posero alla testa della resistenza di gruppi irregolari arabi evitando battaglie frontali e iniziando una sorta di guerra partigiana, cui gli italiani risposero con centinaia di fucilazioni. Per infrangere la resistenza dei turchi, forze italiane tra l’aprile e il maggio 1912 bombardarono i Dardanelli e occuparono Rodi e le isole del Dodecaneso. L’Italia fin dal 5 novembre 1911 aveva proclamato la propria sovranità «piena e integra» su Tripolitania e Cirenaica. La pace, cui la

Turchia si piegò perché si profilava lo scoppio della guerra nei Balcani, venne firmata a Losanna il 18 ottobre 1912, con la cessione della Tripolitania e della Cirenaica all’Italia, ma con la rinuncia dei turchi a esercitare unicamente in via di fatto la propria sovranità sui territori perduti, intendendo cosí sottolineare l’incapacità dell’esercito italiano di conseguire una risolutiva vittoria militare. L’Italia mantenne l’occupazione di Rodi e delle isole del Dodecaneso. La guerra era costata al Paese 3431 morti e 4220 feriti. Poco dopo, il 5 dicembre 1912, l’Italia rinnovò il trattato della Triplice Alleanza. 1. Discorsi parlamentari di Giovanni Giolitti cit., vol. III, p. 1367. 2. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915 cit., p. 283. 3. Volpe, L’Italia in cammino cit., p. 128. 4. Ibid., pp. 70-71. 5. G. Salvemini, Il ministro della malavita e altri scritti sull’età giolittiana, a cura di E. Apih, Feltrinelli, Milano 1966, p. 546. 6. Ibid., p. 568. 7. Ibid., pp. 546-47. 8. Gramsci, Quaderni del carcere cit., vol. II, pp. 997-98. 9. P. Togliatti, Opere, V. 1944-1955, a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti, Roma 1984, p. 545. 10. Ibid., p. 547. 11. Ibid., p. 551. 12. Ibid., pp. 551-52. 13. Ibid., p. 544. 14. Ibid., p. 540. 15. Ibid., pp. 563-64. 16. Ibid., p. 555. 17. Salvemini, Il ministro della malavita cit., p. 530.

Capitolo quinto Nella bufera della Prima guerra mondiale. Una guerra senza consenso popolare

1. L’Italia dalla neutralità all’intervento. La guerra italo-turca si congiunse senza soluzioni di continuità alla prima e alla seconda guerra balcanica, nel corso delle quali tra l’ottobre 1912 e l’agosto 1913 Montenegro, Bulgaria, Serbia, Grecia, Romania e Turchia, con repentini rovesciamenti di alleanze e di fronti, alterarono gli equilibri nei Balcani. La pace di Bucarest sancí il ritorno alla Turchia di Adrianopoli e di gran parte della Tracia, che aveva prima perdute, il passaggio della Dobrugia meridionale alla Romania e la spartizione della maggior parte della Macedonia tra la Serbia e la Grecia. Fu motivo di grande allarme per l’Austria la sconfitta dell’amica Bulgaria e il rafforzamento della nemica Serbia. Il primo decennio del Novecento si chiudeva mostrando come tra le potenze europee strette in opposte alleanze le tensioni montassero pericolosamente. I contrasti erano andati crescendo pressoché ininterrottamente: le due crisi marocchine, la guerra italo-turca, le guerre balcaniche; e ciò in un contesto nel quale gli interessi e le ambizioni della Francia e della Gran Bretagna si contrapponevano a quelli della Germania e gli interessi e le ambizioni dell’Austria a quelli della Russia e il militarismo grandeggiava nel quadro di una ininterrotta spinta agli armamenti. Quando la guerra europea, destinata a diventare mondiale, scoppiò nell’agosto 1914 l’imperialismo caratterizzava lo spirito e gli atteggiamenti di tutte le maggiori potenze. La scintilla che diede origine alla deflagrazione fu, come si è già ricordato, l’assassinio il 28 giugno per mano di uno studente serbo-bosniaco dell’arciduca Francesco Ferdinando, l’erede al trono austro-ungarico che era il piú acceso esponente delle mire aggressive dell’Austria nei confronti della Serbia. L’assassinio diede all’Austria, che aveva l’appoggio della Germania, l’occasione per tentare di schiacciare la Serbia, che, nonostante potesse contare sulla protezione della Russia, venne attaccata il 28 luglio. La Germania il 1 o agosto dichiarò guerra alla Russia e il 3 alla Francia; il 4 agosto la Gran Bretagna alla Germania. Il 15 agosto il Giappone si schierò a

fianco della Gran Bretagna. La Prima guerra mondiale della storia era cosí incominciata. Una guerra senza precedenti per il numero dei Paesi coinvolti, per la mobilitazione di eserciti immensi dotati di armamenti micidiali messi a disposizione dai progressi della scienza e della tecnologia, il coinvolgimento delle popolazioni civili impegnate in maniera massiccia a sostenere anzitutto nell’industria le esigenze belliche, il numero spaventoso dei morti e feriti, la vastità delle distruzioni di città e campagne. L’Italia dichiarò la propria neutralità il 2 agosto, dimostrando da un lato quanto poco solida fosse l’alleanza in primo luogo con l’Austria, da cui la dividevano la questione delle «terre irredente» e i contrasti nei Balcani su cui entrambi i Paesi nutrivano aspirazioni egemoniche, e dall’altro la sua insufficiente preparazione militare, già emersa nella guerra libica. Proclamando la neutralità l’Italia si era attenuta alla lettera del trattato della Triplice, la quale non aveva carattere offensivo e prevedeva che in caso di guerra le potenze alleate si informassero reciprocamente circa i propri obiettivi e discutessero dei compensi. L’Austria per contro aveva dichiarato guerra alla Serbia lasciando l’Italia all’oscuro, e dando cosí a vedere in quale scarsa considerazione tenesse l’alleata. In Italia le maggiori forze politiche italiane erano favorevoli alla neutralità. I liberali giolittiani temevano l’intervento per l’impreparazione militare del Paese e per le possibili conseguenze che sulla politica interna avrebbe avuto uno sforzo come quello imposto da una grande guerra europea a un Paese ancora fragile economicamente come l’Italia, con il pericolo di alimentare forti e pericolose tensioni sociali. Non mancavano settori dell’industria – si tenga presente che l’Italia riceveva gran parte del carbone dalla Gran Bretagna – i quali ritenevano che la neutralità avrebbe consentito di fare buoni affari rifornendo i campi opposti. Per essa era per lo piú l’industria leggera, affiancata da parte del capitale finanziario e della stessa industria pesante. Il Psi guidava l’opposizione degli strati popolari alla guerra. I cattolici, i quali rappresentavano sia il punto di vista del Vaticano sia lo spirito pacifista delle masse contadine che li seguivano, accentuarono la loro opposizione alla guerra a mano a mano che andò profilandosi l’eventualità che l’Italia entrasse in campo a fianco dell’Intesa, perché le loro simpatie andavano alla cattolica Austria e persino alla monarchica Germania per avversione verso la Francia radicale e laica. In conclusione, la grande maggioranza tanto del Parlamento quanto del Paese era contraria

all’intervento. Convinto neutralista era Giolitti, che nelle Memorie della mia vita avrebbe ben spiegato le ragioni della sua opposizione all’intervento dell’Italia: perché – in pieno dissenso con coloro che fuori ed entro il governo ritenevano che esso «rompendo l’equilibrio delle forze, avrebbe fatto finire la guerra in tre o quattro mesi» – egli aveva invece «la convinzione che la guerra sarebbe stata lunghissima», che questa «sarebbe durata almeno tre anni» in quanto «si trattava di debellare i due imperi militarmente piú organizzati del mondo»; perché «una guerra lunga avrebbe richiesto colossali sacrifici finanziari, specialmente gravi e rovinosi per un Paese come il nostro, ancora scarso di capitali, con molti bisogni e con imposte ad altissima pressione»; e, infine, perché in una guerra che aveva assunto «il carattere di lotta per la egemonia del mondo [...] era interesse dell’Italia l’equilibrio europeo, a mantenere il quale essa poteva concorrere solamente serbando intatte le sue forze» 1. Seguendo la posizione di Giolitti, era contraria all’intervento la maggioranza dei parlamentari, prevalentemente composta da deputati del Nord e del Centro. Sennonché lo schieramento avverso all’ingresso dell’Italia nel conflitto palesava la propria grave debolezza in relazione al fatto che tra giolittiani, socialisti e cattolici mancava ogni intesa, ogni possibilità di stabilire fronte comune facendo pesare la propria prevalenza. Il che lasciò via libera all’iniziativa degli interventisti, i quali, sebbene a loro volta assai divisi, furono nondimeno in grado di convergere sull’obiettivo di portare il Paese in guerra. A favore dell’intervento si mosse una minoranza di forze nettamente discorde anzitutto sulla questione di quale dei due schieramenti in lotta l’Italia dovesse schierarsi al fianco. Un’ala, di non grande peso politico, composta da uomini come il socialista riformista Bissolati, lo storico Salvemini, i repubblicani Chiesa e De Andreis, Romolo Murri, il socialista trentino «irredentista» Cesare Battisti era fin dall’inizio apertamente simpatizzante per l’Intesa e ostile all’Austria, «carcere dei popoli», dal cui crollo si aspettava il compimento del Risorgimento con la conquista di Trento e Trieste e la liberazione delle nazionalità oppresse nella prospettiva della nascita di un’Europa democratica dei popoli di mazziniana memoria. I suoi seguaci costituivano i cosiddetti «interventisti democratici». A favore dell’intervento a fianco dell’Intesa erano anche sindacalisti rivoluzionari quali Alceste De Ambris, Filippo Corridoni e Arturo Labriola, i quali da esso si aspettavano non solo l’abbattimento degli Imperi centrali conservatori, ma

soprattutto una crisi politica e istituzionale che avrebbe creato i presupposti della rivoluzione sociale. Poi vi erano i nazionalisti di destra, che non tacevano i loro propositi imperialistici. Costoro sostenevano rumorosamente che, se fosse rimasta neutrale, l’Italia si sarebbe vergognosamente condannata alla posizione di potenza di secondo rango e di vittima in ogni caso delle imposizioni dei vincitori. I nazionalisti erano notoriamente sostenuti da quei settori dell’industria pesante, alla cui testa stava l’Ansaldo di Genova, i quali si aspettavano lauti profitti da un ingresso nel conflitto che li avrebbe visti grandi fornitori di armamenti. Nelle file nazionaliste confluirono numerosi studenti specie universitari e futuristi come Filippo Tommaso Marinetti, che proclamava a gran voce la bellezza morale della guerra. Fra gli interventisti piú accesi era anche il poeta Gabriele D’Annunzio. I nazionalisti dapprima chiesero il rispetto dell’alleanza con la Germania e con l’Austria agitando gli obiettivi di Nizza, della Corsica e della Tunisia, quindi, dopo il fallimento della prima ondata offensiva tedesca, passarono al campo opposto ritenendo si potesse ricavarne maggior bottino. Una recluta ardente conquistarono gli interventisti con Mussolini; il quale, dopo essersi mostrato allo scoppio della guerra nel 1914 uno dei piú risoluti avversari dell’intervento, nell’autunno di quell’anno – dopo avere sostenuto la necessità di passare «dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante» – transitò tout court nelle file degli interventisti e fondò in novembre, con sovvenzioni francesi e di alcuni industriali italiani, il quotidiano «Il Popolo d’Italia», il cui primo numero uscí il 15 novembre. In risposta il Partito socialista il 24 novembre espulse come rinnegato quello che era stato il leader piú in vista e radicale della sua sinistra. Di capitale importanza era infine la posizione dei liberali di destra antigiolittiani, appoggiati dal re, a partire da Salandra, capo del ministero, e da Sonnino, nominato ministro degli Esteri in novembre. I liberali antigiolittiani auspicavano l’ingresso dell’Italia in guerra, quando maturassero le condizioni favorevoli. Essi erano attivamente sostenuti da Albertini e dal suo influente giornale, il «Corriere della Sera». Loro obiettivi erano in politica estera la conquista delle terre «irredente» e l’espansione in direzione dell’Anatolia, dell’Africa nord-orientale, dei Balcani; in politica interna riprendere saldamente in mano la guida del Paese che nel 1901 era passata alla corrente giolittiana. Nelle loro aspettative, la guerra avrebbe consentito di stabilire con le masse nell’esercito e nei luoghi di lavoro

“militarizzati” un rapporto improntato a un accentuato autoritarismo. Dal “connubio” fra liberali antigiolittiani e nazionalisti uscí la forza determinante che finí per trascinare l’Italia nel grande conflitto. Il blocco interventista compensò la sua nettissima inferiorità numerica con l’influenza che aveva direttamente sullo Stato attraverso il governo e la monarchia e sulle piazze occupate da minoranze quanto mai chiassose grazie alla capacità di mobilitazione di cui disponevano in particolare i nazionalisti. Il passaggio dalla neutralità all’intervento venne dunque deciso dagli ambienti di corte, dal governo e dalle alte gerarchie militari, con l’appoggio degli interventisti di destra e di sinistra. Alla decisione gravida di enormi conseguenze sulla storia successiva del Paese si giunse dopo – per riprendere l’espressione già usata nei confronti dell’Italia – una serie di “giri di valzer” compiuti dal governo nelle trattative condotte con gli opposti schieramenti già in guerra al fine di assicurarsi il migliore compenso. Il che volle dire attirare il crescente disprezzo per l’Italia anzitutto da parte dell’Austria e della Germania, che si considerarono tradite quando la scelta portò l’esercito italiano a fianco di quelli di Francia, Gran Bretagna e Russia. Salandra seguí dapprima una politica di patteggiamenti in tutte le direzioni, tanto cioè con gl’Imperi centrali quanto con l’Intesa. Ma la logica degli interessi spingeva l’Italia nel campo dell’Intesa. Il Paese aveva rivendicazioni – Trento, Trieste, controllo dell’Adriatico, influenza nei Balcani, appunto – che per essere soddisfatte richiedevano dall’Austria concessioni che questa non intendeva fare o solo molto parzialmente, nonostante le pressioni dei tedeschi che premevano per un accordo e inviarono a Roma a questo scopo l’ex cancelliere Von Bülow. Inoltre si nutriva il timore che, nell’eventualità di una vittoria degli Imperi centrali – fosse pure ottenuta con il concorso dell’Italia –, l’Austria non tenesse fede ai patti. All’Intesa invece non costava nulla soddisfare tutte le richieste italiane a spese dei suoi potenti nemici. Spinti, appunto, dalla logica di questa situazione, i governanti italiani, dopo una prima fase di orientamento favorevole a un intervento a fianco degli Imperi centrali quando questi stavano ottenendo grandi vittorie, accelerarono gli accordi con l’Intesa in particolare sotto l’impressione della grande battaglia della Marna che aveva fermato lo slancio offensivo tedesco. Il ministro degli Esteri Sonnino, dapprima filotedesco e filoaustriaco, poiché, come il suo predecessore San Giuliano, temeva gli effetti dirompenti che sarebbero derivati dal

disfacimento dell’Impero austro-ungarico, iniziò trattative con l’Intesa, proprio mentre erano ancora in corso quelle con l’Austria, che procedevano con difficoltà anche quando questa sembrava infine piegarsi obtorto collo all’idea di fare notevoli concessioni. Il 26 aprile 1915 venne firmato a Londra un trattato in base al quale l’Italia s’impegnava a entrare in guerra entro un mese dalla firma. Il trattato, che sarebbe stato tenuto segreto non solo all’opinione pubblica ma anche al Parlamento fino al 1917 (quando venne reso pubblico dal governo bolscevico), mentre prevedeva l’unione all’Italia delle terre soggette all’Austria e popolate da italiani in nome del principio di nazionalità, contraddiceva apertamente il principio stesso assumendo un carattere imperialistico, poiché prevedeva altresí l’estensione del dominio italiano su territori popolati da non italiani. All’Italia venivano promessi il Trentino, il Tirolo cisalpino fino al Brennero, con inclusa la popolazione austriaca; Trieste, Gorizia, l’Istria fino al Quarnaro con popolazione slava, con l’esclusione di Fiume; gran parte della Dalmazia, Valona in Albania e il protettorato su questa regione, il Dodecaneso; e inoltre, come parte del bottino da spartire in conseguenza della distruzione dell’Impero ottomano, il bacino carbonifero di Adalia in Asia Minore, e non precisati compensi territoriali in Africa. Infine, la Gran Bretagna si impegnava a concedere gli ingenti crediti di cui l’Italia aveva assoluto bisogno. Cosí gli italiani si disponevano a entrare nella guerra europea con un programma che andava molto oltre le rivendicazioni dirette al compimento dell’unità nazionale e collocavano il loro Paese nelle file degli opposti Stati imperialistici. Giolitti, rimasto fermamente contrario alla guerra, pur avendo dietro di sé la maggioranza parlamentare, di fronte al fatto che la corona era in prima persona coinvolta nelle trattative con l’Intesa, finí per rinunciare a ogni opposizione attiva. La spiegazione di questo atteggiamento non era certo riconducibile a un’improvvisa debolezza o stanchezza dell’uomo, ma a un calcolo di natura schiettamente politica. Egli era un fedele monarchico, fermamente convinto della funzione positiva della monarchia e ben consapevole che se avesse guidato la maggioranza di cui disponeva in Parlamento contro la linea del governo, decisamente appoggiata dal sovrano, ne sarebbe inevitabilmente derivata una crisi istituzionale dagli effetti imprevedibili; e dunque, quando ormai il dado era tratto, si ritirò in una sorta di Aventino politico. Questo atteggiamento favorí naturalmente in maniera

determinante il governo e preparò la conversione della maggioranza parlamentare su posizioni interventiste. Dopo aver denunciato il 3 maggio la Triplice Alleanza, il governo Salandra manovrò le manifestazioni di piazza che ebbero in quel mese il loro massimo sviluppo – le cosiddette «radiose giornate di maggio» – per invocare di fronte al Paese un intervento già deciso. Studenti, nazionalisti, intellettuali interventisti tennero accesi comizi a favore della guerra in un clima di violenze e minacce agli oppositori. La funzione di queste agitazioni indette da minoranze ristrette era di controbilanciare l’opposizione notoria della maggioranza delle masse lavoratrici, del Partito socialista e dei cattolici. Entusiasticamente acclamati dai nazionalisti furono gli infiammati discorsi di D’Annunzio. La difficoltà piú rilevante per il governo stava nel fatto che la maggioranza parlamentare era neutralista. L’ostacolo fu aggirato dal re. Quando Salandra compí la mossa tattica di dare il 13 maggio le dimissioni, Vittorio Emanuele III – volutamente accreditando le agitazioni nazionaliste come l’espressione della volontà della nazione – le respinse, con l’implicita motivazione che il Paese era interventista. La Camera dei deputati a questo punto votò il 20-21 maggio i pieni poteri al governo in caso di guerra con 407 voti contro soli 74, e il Senato all’unanimità. Ciò fu il frutto congiunto del capovolgimento provocato nelle file dei liberali giolittiani dal rifiuto di Giolitti di capeggiare l’opposizione alla guerra e delle pressioni e violenze dei nazionalisti e dell’intero fronte interventista. Il 23 maggio l’Italia indirizzò un ultimatum all’Austria; e il 24 entrò in guerra con questa, ma non ancora con la Germania, con cui vennero però rotte le relazioni diplomatiche. L’esautoramento di fatto del Parlamento, tenuto – come si è detto – all’oscuro del trattato di Londra, le violenze dei nazionalisti che volevano la guerra per ristabilire il senso della disciplina e dell’autorità, il richiamo alle finalità imperialistiche – D’Annunzio parlò di fine dell’«Italietta», di benefica violenza, di rinascita dello spirito «romano» – lasciavano intravvedere la volontà di chiudere il capitolo di un’Italia liberale debole e di sostituirvi uno Stato forte e piú autoritario. Nelle seguenti parole pronunciate subito dopo la dichiarazione della guerra sempre da D’Annunzio, in prima fila nella campagna denigratoria scatenata contro Giolitti accusato di tradimento nei confronti degli interessi vitali del Paese, vi era qualcosa di sinistro. Egli disse: questa guerra, che sembra opera di distruzione e di abominazione, è la piú feconda

matrice di bellezza e di virtú apparsa sulla terra 2.

I fanti, che presto si sarebbero trovati a morire in massa nelle trincee, avrebbero avvertito negli anni seguenti tutta la brutalità e il cinismo di chi li aveva trascinati in guerra con una simile mistificante retorica. Il Partito socialista, che aveva votato contro i crediti di guerra al governo, pur nella sua opposizione e ben conoscendo l’avversione delle masse all’intervento, rinunciò a guidare i suoi seguaci e simpatizzanti in un’azione rivolta a contrastare efficacemente quella degli interventisti. L’unica voce che si levò energica a favore di essa fu quella del giovane Giacomo Matteotti. Si può dire in questo senso che il Partito assunse sul versante del movimento operaio un atteggiamento analogo a quello di Giolitti. L’insanabile contrasto che aveva trascinato su sponde opposte gli interventisti divisi tra loro e i neutralisti a loro volta divisi costituiva l’ennesimo segnale di quanto fossero profondi i conflitti all’interno del Paese. La guerra – rivelatasi, secondo le previsioni di Giolitti, tanto piú lunga, sanguinosa e disastrosa per i suoi effetti di quanto pensassero il re, Salandra e gli interventisti – avrebbe conferito alla conflittualità politica e sociale nel corso della guerra e nel dopoguerra un carattere cosí acuto da minare le basi dello Stato liberale. L’idea degli interventisti che dalla discesa in campo sarebbe finalmente nata una nuova solidale nazione venne completamente smentita.

2. La logorante guerra di trincea. Al momento del suo ingresso in guerra l’esercito italiano disponeva di 35 divisioni di fanteria. Esso entrò in azione proprio quando i russi incominciarono a subire grandi rovesci da parte degli austriaci, che furono cosí in condizione di rafforzare le difese contro l’Italia. In effetti, gli italiani, il cui comandante supremo era il generale Luigi Cadorna, figlio del Raffaele Cadorna che aveva guidato le truppe italiane a Porta Pia nel 1870, godevano di una netta superiorità numerica nei confronti degli avversari, già duramente provati da dieci mesi di guerra, e del vantaggio di disporre di forze fresche. Ma, come già nel 1866, l’esercito mancava di preparazione: l’addestramento dei soldati di truppa non era adeguato, il corpo degli ufficiali difettava di quadri, per cui si dovette ricorrere frettolosamente a giovanissimi ufficiali di

complemento poco qualificati, particolarmente carenti erano il parco dell’artiglieria specie pesante e il numero delle mitragliatrici, mentre l’aviazione di fatto ancora non esisteva. Sui 5 750 000 richiamati nel corso della guerra, oltre la metà, 2 600 000 furono contadini, nella grande maggioranza analfabeti o semianalfabeti. I soldati mancavano persino degli elmetti, introdotti solo tra gli ultimi mesi del 1915 e i primi del 1916. Ciò nonostante, Cadorna ordinò una serie di azioni offensive nella zona dell’Isonzo e del Carso. Tra la fine di giugno e l’inizio di dicembre 1915 gli italiani sferrarono ben quattro attacchi, senza ottenere alcun risultato, in primo luogo per la scarsa copertura d’artiglieria, nonostante il valore dimostrato dalla fanteria. Anche sul fronte francese gli alleati non facevano alcun passo avanti. In agosto l’Italia dichiarò guerra alla Turchia. Nei Balcani la situazione tendeva a peggiorare nettamente per l’Intesa. L’entrata in campo della Bulgaria in ottobre a fianco degli Imperi centrali aggravò irreparabilmente la posizione della Serbia, la quale, invasa da austriaci e bulgari, si trovò presa tra due fuochi. Un’azione inglese negli Stretti contro i turchi, iniziata in febbraio con il bombardamento dei Dardanelli e il seguente sbarco nella penisola di Gallipoli, era fallita e in novembre il corpo di spedizione dovette reimbarcarsi. Le speranze in una guerra breve, su cui aveva contato il governo italiano, erano svanite. In conclusione, il 1915 si chiudeva con un bilancio favorevole agli Imperi centrali. La Germania controllava il Belgio, parte della Francia, la Polonia, ed era penetrata nella Lituania e nella Bielorussia. La Serbia era sconfitta, gli austriaci bloccavano gli italiani, i tedeschi i francesi e gli inglesi, mentre la Russia aveva subito pesanti rovesci. Vi era però un fattore fortemente negativo per gli Imperi centrali, che, in seguito al fallimento della strategia dell’annientamento, cominciavano a risentire pesantemente del blocco navale stabilito dalla potente flotta britannica intorno alle coste tedesche e quindi della scarsezza crescente di prodotti alimentari: il «blocco della fame». Le risorse complessive dell’Intesa, in vista di una guerra lunga e terribilmente costosa, erano notevolmente superiori a quelle degli Imperi centrali. Il 1916 fu contraddistinto da una serie di grandi offensive tedesche sul fronte occidentale, da un’inaspettata ripresa offensiva della Russia e da un tentativo austriaco di eliminare l’Italia dallo scenario bellico, che venne infine frustrato. Il generale Erich von Falkenhayn, comandante supremo tedesco, era convinto che la sconfitta della Serbia e i gravissimi colpi subiti

dalla Russia nel 1915 creassero le migliori opportunità per infliggere il colpo decisivo alla Francia. Nel febbraio 1916 i tedeschi investirono Verdun con un grande dispiegamento di forze. Gli attacchi e i contrattacchi delle due parti proseguirono quasi senza interruzione fino a giugno, con perdite spaventose. I francesi riuscirono a tenere le linee, fino a che in luglio, per alleggerire Verdun, con il contributo degli inglesi iniziarono durissimi combattimenti sul fronte della Somme. Per la prima volta nella storia gli inglesi impiegarono i carri armati. Il fronte della Somme salvò cosí Verdun, dove la grande battaglia proseguí fino a dicembre. Le offensive tedesche si chiusero con un sostanziale insuccesso, che portò in agosto alla sostituzione di Falkenhayn con Paul Ludwig Hindenburg, coadiuvato da Erich Ludendorff. Di fronte all’offensiva tedesca contro Verdun, il generale Joseph Joffre, comandante supremo francese, in marzo aveva sollecitato gli italiani e i russi a intraprendere delle azioni offensive per alleggerire gli anglo-francesi. Ebbe perciò inizio sul fronte italiano la quinta offensiva dell’Isonzo, che, messa in atto tra l’11 e 19 marzo 1916, ancora una volta non raggiunse lo scopo. Fu questo insuccesso italiano a convincere il capo di Stato maggiore austriaco, generale Franz Conrad von Hötzendorf, che fosse possibile vibrare il colpo risolutivo all’Italia. Il 15 maggio cominciò la Strafexpedition – la «spedizione punitiva contro l’alleato traditore» –, che si sviluppò fra il Lago di Garda e il fiume Brenta, e che, grazie a una schiacciante superiorità di artiglieria, portò gli austriaci a significativi successi iniziali. Nel corso dell’offensiva gli austriaci presero prigioniero l’irredentista Cesare Battisti, che, in quanto suddito austriaco, venne impiccato a Trento il 12 luglio insieme con un altro irredentista, Fabio Filzi, cui avrebbe fatto seguito il 10 agosto anche l’impiccagione del sommergibilista istriano Nazario Sauro. Fu in quelle circostanze drammatiche che il re Vittorio Emanuele e Cadorna rivolsero una pressante richiesta di soccorso allo zar. Il 4 giugno, con grande sorpresa dei tedeschi e degli austriaci che credevano la Russia ormai incapace di reazione, i russi passarono all’attacco, sfondando le linee austriache e arrivando fino ai Carpazi meridionali. Solo l’intervento di truppe tedesche valse in agosto a contenere i russi nonché a evitare la capitolazione dell’Austria. Il grande successo dei russi ebbe due conseguenze importanti. Da un lato indusse la Romania a entrare in guerra a fianco dell’Intesa nell’agosto 1916; ma questo debole Paese non riuscí a resistere ai tedeschi, dai quali in dicembre venne messo fuori combattimento, lasciando in tal modo nelle mani

degli Imperi centrali le sue ricche risorse petrolifere. Dall’altro, unitamente all’apertura del fronte della Somme a Occidente, esso consentí all’esercito italiano di passare al contrattacco e di conquistare il 9 agosto Gorizia. Il 27 agosto l’Italia dichiarò guerra alla Germania. Sennonché, fra l’inizio dell’offensiva austriaca e la controffensiva italiana, si aprí in Italia una grave crisi politica. Si era fatto ormai inequivocabilmente chiaro come tutti i calcoli, in base ai quali il governo Salandra e lo Stato maggiore dell’esercito avevano portato il Paese in guerra nella persuasione che il conflitto sarebbe stato breve, fossero sbagliati. La Strafexpedition, mettendo a nudo l’impreparazione e la debolezza dell’esercito italiano, ebbe come contraccolpo di provocare la caduta del governo il 12 giugno. Gli italiani potevano ora misurare la fondatezza delle posizioni neutraliste e i timori espressi da Giolitti circa l’intervento nel conflitto. Il sovrano affidò la formazione di un “ministero nazionale” al settantottenne Paolo Boselli, come Salandra un esponente della Destra liberale, che sarebbe rimasto in carica fino all’ottobre 1917; nel governo, sempre restando Sonnino agli Esteri a garantire la continuità degli obiettivi bellici, entrarono anche esponenti della Sinistra costituzionale, tra cui Vittorio Emanuele Orlando, i socialisti riformisti Bissolati e Bonomi, due radicali, un repubblicano e, a titolo personale, il cattolico Filippo Meda. Solo il Partito socialista rimase all’opposizione. Boselli era personalità incolore e incapace di contrastare la strategia militare di Cadorna, che rimase a capo delle forze armate nonostante le prove negative offerte. In definitiva, anche il 1916 si chiuse senza risultati decisivi dal punto di vista militare.

3. Dalla catastrofe di Caporetto alla vittoria. In Italia, come anche in Francia, nel 1917 il pacifismo, o il «disfattismo» secondo la definizione che ne davano gli avversari, fece passi da gigante. Il governo Boselli era debole, il costo umano della guerra drammatico e quello materiale al di sopra delle possibilità del Paese. Il Partito socialista rimaneva arroccato nella linea del «non aderire né sabotare»: una formula di compromesso, lontana dalle posizioni piú intransigenti che volevano trasformare il pacifismo in opposizione attiva, ma al tempo stesso di non

adesione alla guerra. La condotta delle operazioni militari, affidata al generale Cadorna, era ispirata al disinteresse per la vita dei soldati e faceva affidamento sulla piú dura disciplina, suscitando ormai un serpeggiante spirito di rivolta in parte delle truppe. Anche le masse lavoratrici erano esauste. Fu in questo clima che il fermento nelle file popolari sfociò in atti di protesta e agitazioni che il Psi e la Cgl cercarono di contenere. Tra il dicembre 1916 e l’aprile 1917 vi furono numerose manifestazioni spontanee – con attacchi ai negozi alimentari, ad abitazioni di persone agiate, ai municipi – contro le peggiorate condizioni di vita in vari centri d’Italia, cui fecero seguito in maggio quelle a Milano e in altre località della Lombardia. Intanto la situazione militare peggiorava decisamente. Risultati scarsi o nulli diedero tra la seconda metà di maggio e la fine di giugno prima la decima offensiva sull’Isonzo e poi gli attacchi sul Carso e sul fronte del Trentino, che causarono pesanti perdite. Nel Paese le proteste popolari e gli scioperi andarono di pari passo con atti di insubordinazione e diserzione nelle file dell’esercito, fra i quali particolarmente grave fu l’ammutinamento scoppiato in marzo nella brigata Ravenna, cui fecero seguito 28 fucilazioni, e ancor piú quello divampato in luglio nella brigata Catanzaro, che causò la morte in un primo tempo di alcuni soldati e ufficiali e poi, quando venne messa in atto la repressione, la fucilazione di 32 soldati, l’allontanamento di altri 463, l’invio a processo di 135 insieme a 33 ufficiali e sottufficiali accusati di debolezza nei confronti dei rivoltosi. Sempre piú numerosi si facevano gli atti di autolesionismo compiuti da soldati semplici per essere esentati dal servizio, le diserzioni e gli imboscamenti. L’insofferenza per la disciplina andò diffondendosi e di pari passo si levavano le invocazioni della pace. Il 22 agosto a Torino si giunse a una vera e propria insurrezione. In vari quartieri della città furono alzate barricate e gli operai inneggiarono alla rivoluzione russa e ai soviet. Sebbene fosse nata spontaneamente a causa della mancanza di generi alimentari, l’insurrezione acquistò un chiaro significato politico e antigovernativo. Il Partito socialista, che non ne era stato il promotore, la difese e se ne rese corresponsabile, denunciando le ricchezze accumulate da quanti speculavano sulla guerra a spese dei lavoratori. La repressione del moto di Torino, che si spense il 28, provocò 41 morti e circa 200 feriti e lasciò dietro di sé una serie di arresti di lavoratori e dirigenti socialisti, processi e condanne emesse dai tribunali militari. Nell’esercito il consenso attivo alla guerra, fin dai suoi inizi assai debole, era ormai ridotto al minimo e

si limitava a parte della fascia costituita dagli ufficiali subalterni di complemento che, animata da sentimenti patriottici, si sforzava di mantenere la disciplina e la fedeltà della truppa. Primi responsabili di una guida militare che non riusciva a raggiungere gli obiettivi fissati erano gli alti quadri militari e anzitutto il capo supremo dell’esercito, Cadorna. Questi reagirono alle gravi difficoltà da un lato ricorrendo a un intollerabile inasprimento della disciplina, dall’altro accusando in particolare i socialisti, ma in seconda linea anche i cattolici, di essere i propagandisti di un disfattismo che minava la fedeltà delle forze armate. La stanchezza estrema per la guerra e il montare delle proteste nei Paesi belligeranti erano ormai tali da indurre in agosto il pontefice Benedetto XV a indirizzare ai capi degli Stati coinvolti una Nota, in cui invitava ad aprire trattative in vista della pace e a porre fine all’«inutile strage». L’invito venne unanimemente respinto; e in Italia Sonnino affermò in ottobre che la Nota papale non aveva alcuna prospettiva di essere accolta. In ottobre l’esercito subí un rovescio che fece temere la disfatta definitiva, addirittura la finis Italiae. Le truppe erano state logorate da una serie di continue azioni offensive, con successi di portata limitata, quali la presa dell’altopiano della Bainsizza avvenuta nel corso dell’undicesima battaglia dell’Isonzo in agosto. Si tenga presente che la rivoluzione scoppiata in marzo (febbraio secondo il calendario russo) a Pietrogrado stava provocando la rapida disgregazione dell’esercito zarista, rendendo possibile agli Imperi centrali di dislocare sugli altri fronti nuove forze. Il 24 ottobre gli austriaci, rafforzati da sette divisioni tedesche, agli ordini del generale tedesco Otto von Below, sfondarono le linee italiane nei pressi di Caporetto, ricorrendo anche al lancio di gas asfissianti, e penetrarono in profondità per circa 150 km. La ritirata acquistò ben presto il carattere di una rotta disordinata di enormi proporzioni – di cui uno dei maggiori responsabili fu il generale Pietro Badoglio –, nel corso della quale gli austro-tedeschi fecero un grande numero di prigionieri e un ricco bottino in armi e materiali. I prigionieri furono circa 294 000, gli sbandati 350 000, 40 000 i morti e i feriti, 400 000 i civili in fuga. Andarono perduti 3139 pezzi di artiglieria, 1732 bombarde, 3000 mitragliatrici. Di fronte a una simile catastrofe militare, Cadorna accusò i soldati di essersi «vilmente ritiratisi senza combattere e ignominiosamente arresisi al nemico», insistendo sul disfattismo alimentato dai socialisti e dai cattolici. La minaccia di una incontrollabile invasione in profondità era concreta. La disfatta di Caporetto ebbe immediate ripercussioni sul governo e

sul Comando supremo. Boselli il 26 ottobre diede le dimissioni, e fu sostituito alla guida del governo da Vittorio Emanuele Orlando, che, sostenuto anche dai liberali giolittiani, sarebbe rimasto al potere fino al giugno 1919. Il 22 dicembre il governo ottenne una larghissima fiducia, con 345 voti a favore e 50 contrari. Intanto il 9 novembre Cadorna, anche per le sollecitazioni pervenute da Francia e Gran Bretagna, venne sostituito dal generale Armando Diaz. Un documento eloquente di quanto profonda fosse l’avversione per la guerra da parte dei lavoratori e della gente comune è offerto dalla lettera che Diaz inviò il 24 novembre a Orlando. In essa il generale scriveva che «il contegno delle popolazioni rurali nel Veronese, nel Mantovano e nel Padovano» era «ostile alla guerra», che le donne «non desiderano altro che l’occupazione austriaca, perché cosí la guerra sarebbe finita» e che i vecchi affermavano «che sotto l’Austria si stava benissimo e che tutto costava molto meno» 3. Un episodio incredibilmente sintomatico fu che il giovane ufficiale tedesco Erwin Rommel, uno degli artefici della disfatta di Caporetto, venne portato in trionfo da soldati italiani che inneggiavano alla Germania. Sul piano militare, dopo la disastrosa rotta che minacciava di aprire al nemico le porte della Pianura Padana, l’esercito riuscí a contenere l’offensiva austro-tedesca. Sul Piave e sul monte Grappa gli italiani, con il concorso di limitati aiuti franco-britannici, tra novembre e dicembre opposero una resistenza che non fu spezzata. Fu allora evidente che, alla resa dei conti, la massa dei soldati e con essa il Paese, quali che fossero la stanchezza, le sofferenze e le divisioni, non volevano un’Italia sconfitta e consegnata agli invasori. I vuoti umani furono in tutta fretta colmati richiamando la leva del 1899. Dopo avere raggiunto il massimo del loro slancio offensivo grazie alla disponibilità di truppe e materiali resa possibile dal crollo del fronte russo, gli austro-tedeschi vennero dunque fermati e costretti a iniziare il ripiegamento. Nonostante i contrasti politici e sociali all’interno del Paese fossero tutt’altro che sopiti, nelle truppe e nelle parti politiche e sociali emersero lo spirito di solidarietà e la volontà di uno sforzo collettivo diretto a salvare il Paese. Anche il segretario della Confederazione generale del lavoro Rinaldo Rigola e i socialisti riformisti Filippo Turati e Claudio Treves esortarono alla resistenza. Nelle stesse file della classe operaia si ebbe un risveglio di patriottismo. A contribuire a migliorare il clima sia al fronte sia tra la popolazione fu il cambiamento dello stile di comando introdotto nell’esercito

da Diaz e dal governo, che smisero di usare le truppe come carne da cannone, resero meno rigida la regolamentazione delle licenze, migliorarono il vitto nelle trincee, provvidero a elevare le pensioni di guerra e a stabilire polizze di assicurazione a beneficio di graduati e soldati semplici. Nell’aprile 1917 il presidente Wilson aveva portato in guerra gli Stati Uniti. L’intervento americano fu determinante per l’esito del conflitto che in sua assenza si sarebbe probabilmente concluso a favore degli Imperi centrali, tanto piú dopo la sconfitta della Russia. L’aiuto americano risultò di enorme importanza dal punto di vista tanto economico quanto militare. Nel marzo 1918, quando raggiunsero il massimo del loro dispiegamento, i soldati d’oltreoceano, molto bene armati, superarono il milione di unità. Le sorti della Germania furono decise nella seconda grande battaglia della Marna, svoltasi fra metà luglio e i primi di agosto, nella quale si trovarono fianco a fianco francesi, inglesi e americani. Ne seguí il progressivo sbandamento dell’esercito tedesco, che in novembre provocò la capitolazione della Germania. Dopo Caporetto sul fronte italiano la guerra proseguí con alterne vicende, che in una prima fase videro l’esercito italiano resistere alle ultime puntate offensive di quello austriaco e in una seconda la graduale prevalenza italiana. A metà giugno gli austriaci lanciarono un ultimo contrattacco nella cosiddetta “battaglia del solstizio”, ottenendo notevoli successi; ma vennero infine contenuti e respinti. Il 24 ottobre iniziò il definitivo confronto tra i due eserciti, che ebbe il momento culminante nella battaglia di Vittorio Veneto – avvenuta quando le truppe austriache si trovavano ormai in uno stato di dissolvimento – e si concluse, dopo che già il 29 ottobre l’Austria aveva chiesto l’armistizio all’Italia, il 3 novembre. In quello stesso giorno le truppe italiane occuparono Trento e Trieste e a Villa Giusti, nei pressi di Padova, venne firmato l’armistizio. L’11 seguí quello con la Germania. Il 17 gli italiani presero possesso di Fiume. Alla fine della guerra il bilancio umano risultava per l’Italia assai pesante. I soldati mobilitati erano stati 5 750 000, dei quali 4 200 000 operanti al fronte; i morti caduti in combattimento 571 000; 57 000 morti in prigionia; oltre 1 000 000 i feriti, dei quali poco meno della metà rimasti invalidi; gli ufficiali mobilitati 176 000, di cui 16 800 caduti; 600 000 circa i prigionieri. In ogni caso il costo umano del Paese era stato molto inferiore a quello pagato da Russia, Francia, Germania e Austria-Ungheria. Estremamente dura

era stata la repressione da parte delle autorità e della polizia militari nei confronti dei soldati accusati di atti di ribellione, fuga dinanzi a nemico, autolesionismo, diserzione e renitenza alla leva. Se aveva colpito pesantemente in tutti i fronti, in quello italiano la repressione aveva raggiunto livelli altissimi, a testimonianza del basso livello di consenso dato dalla massa dei soldati alla guerra. Le denunce ai tribunali militari furono ben 870 000, con migliaia di condannati all’ergastolo e numerosi alla pena di morte, le condanne per diserzione furono 101 665 e le denunce per renitenza alla leva 470 000. A tutto ciò bisogna aggiungere le denunce a carico di 60 000 civili. Infine alla catastrofe demografica provocata dai caduti in guerra venne ad aggiungersi quella causata dall’epidemia di “spagnola”, che, divampata tra il 1918 e il 1920, ebbe una portata mondiale e in Italia portò a centinaia di migliaia di decessi (forse, ma la cifra è rimasta incerta, intorno ai 500 000).

4. La società italiana durante la guerra. Accresciuto intervento dello Stato e fermenti antiparlamentari. Come in tutti i Paesi convolti, la guerra comportò – con una progressiva accentuazione – un forte intervento dello Stato nei rapporti sociali ed economici. Esso fu l’inevitabile portato delle cose. Mai si era infatti resa necessaria una mobilitazione cosí generale delle risorse tanto umane quanto materiali degli Stati in conflitto. A mano a mano che i mesi passavano la guerra acquistò sempre piú un “volto industriale”. Nei vari fronti essa divorava, insieme con gli uomini, gli armamenti e i relativi apparati di supporto. E questi armamenti e apparati erano, oltre ai tradizionali fucili, i pezzi di artiglieria di vario tipo, le mitragliatrici, le bombe a mano, le armi chimiche, le siluranti, i sottomarini, gli aerei, gli autocarri ecc.; i quali dovevano essere prodotti su una scala via via piú ampia – legando la fabbricazione ai ritrovati della scienza e della tecnologia – dagli impianti siderurgici, dalle moderne fabbriche metallurgiche e metalmeccaniche e da quelle di prodotti chimici, le cui dimensioni richiedevano massicci investimenti e un enorme aumento della manodopera mobilitata. Non fu un caso che tra le maggiori potenze la prima a cedere fu la piú arretrata industrialmente, la Russia zarista, che, mentre disponeva di risorse umane in abbondanza, non era in grado di fornire ai

soldati armamenti adeguati. L’Italia dovette compiere uno sforzo industriale e in generale economico grandissimo, cui poté fare fronte solo grazie ai consistenti aiuti forniti dagli alleati. Nonostante le difficoltà, l’esito fu positivo, ma dissestò pesantemente le finanze pubbliche. La congiunta mobilitazione delle risorse umane e materiali – anche questo in sintonia con quanto avvenuto negli altri Paesi – ebbe due principali conseguenze: il potenziamento dei poteri del governo, con la sostanziale marginalizzazione del Parlamento che – in misura assai maggiore che in Gran Bretagna, in Francia e nella stessa Germania – andò di pari passo con il diffondersi nei vertici politici e militari di sentimenti e atteggiamenti antiparlamentari e l’assunzione sempre piú rilevante nelle mani dello Stato della direzione e del controllo dell’economia. In Italia si assistette cosí a una graduale “militarizzazione della società”, la quale, in relazione ai compiti di sorveglianza delle opinioni e di repressione delle manifestazioni di dissenso assunti dagli organi dello Stato, conferí a questo tratti tipici dello “Stato di polizia”. L’esercizio delle libertà politiche e civili venne fortemente limitato, le autorità e i tribunali militari andarono gradualmente estendendo il loro controllo dalle zone di guerra alle retrovie considerate piú sensibili con l’attribuzione di poteri crescenti in tema di sorveglianza delle fabbriche e in particolare di quelle direttamente coinvolte nella produzione per l’esercito, di censura sulla corrispondenza e di limitazioni all’attività delle organizzazioni dei lavoratori. In campo economico, lo Stato assunse insomma nelle proprie mani l’organizzazione della produzione industriale, del mondo del lavoro e della fornitura e distribuzione dei prodotti. Fin dal giugno 1915 venne istituito il Sottosegretariato delle armi e munizioni. Al tempo stesso, lo Stato lasciò campo libero alle imprese per quanto concerneva la fissazione dei prezzi e dei beni messi a disposizione sia delle forze armate sia della popolazione. Il che volle dire favorire un impressionante aumento dei profitti a vantaggio soprattutto delle élites industriali e finanziarie ovvero di coloro che, definiti “pescecani di guerra”, divennero oggetto di disprezzo e odio da parte delle masse popolari, tanto piú che il forte aumento del prelievo fiscale – reso indispensabile dalle esigenze delle finanze pubbliche – avvenne non già colpendo adeguatamente i profitti ma mediante l’inasprimento delle tasse indirette. Tutto ciò avveniva mentre il tenore di vita e le retribuzioni degli operai e ancora piú dei contadini si abbassavano costantemente, con

l’eccezione di gruppi di lavoratori impiegati in alcuni settori dell’industria. Nell’agosto 1916 fu introdotto il tesseramento dei beni alimentari, riguardante dapprima alcuni di essi e poi grandemente estesosi nel 1917. Conseguenza fu che a pagare i costi della guerra furono in misura del tutto squilibrata gli strati popolari, facendo crescere in essi l’ostilità verso lo Stato e i ceti alti. Ma l’ostilità non si limitava a quella rivolta dai lavoratori contro i ricchi, poiché coinvolse anche i soldati al fronte che consideravano degli “imboscati” gli operai che venivano esentati dal servizio militare in quanto indispensabili per la produzione nelle industrie. La richiesta di armamenti costituí un fattore determinante del grande sviluppo e della concentrazione dell’industria, in particolar modo siderurgica, metalmeccanica e chimica. Bastino gli esempi del gruppo Ansaldo e della Fiat: il primo nel 1918 superò gli 80 000 addetti, la seconda negli anni di guerra passò da 4300 a 40 000. I profitti aumentarono corrispondentemente in maniera esponenziale. Non solo: le maggiori imprese si costituirono in trust e cartelli che dominavano il loro mercato di riferimento secondo criteri monopolistici. Un’altra rilevantissima conseguenza della mobilitazione in campo industriale fu il ricorso alla manodopera femminile e minorile, chiamata a colmare i vuoti lasciati dai maschi chiamati alle armi. Il numero delle donne – escludendo quelle impiegate nelle campagne – si aggirò intorno alle 200 000, con una percentuale del 22% del totale degli addetti. Retribuiti in misura nettamente inferiore ai maschi adulti, donne e anche ragazzi diedero un contributo di grande importanza. Altra conseguenza della guerra, derivante dalle maggiori responsabilità assunte, fu la dilatazione delle file della burocrazia statale. Il numero di funzionari e impiegati che al momento iniziale del conflitto era di 286 670 arrivò a 359 537. Costoro, come i lavoratori – ma con essi anche i medi e piccoli professionisti, i pensionati, i risparmiatori, i possessori di rendite modeste –, videro diminuire drasticamente i loro redditi. Deposte le armi, il costo della guerra appariva letteralmente spaventoso. Il reddito netto del Paese era diminuito da 94 miliardi e 691 milioni di lire nel 1914 a 76 miliardi e 997 milioni nel 1918; il costo complessivo della guerra era stato di 157 miliardi; il debito pubblico, nel giugno 1914 di 15 miliardi e 705 milioni, aumentò nel giugno 1919 a 69 miliardi e 200 milioni; la circolazione cartacea in quello stesso periodo passò da 2 miliardi e 199 milioni a 12 miliardi e 281 milioni. Enormi furono i debiti contratti dall’Italia

in particolare con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Con questa situazione avrebbero dovuto confrontarsi i governi nel dopoguerra: una situazione che, per le sue implicazioni politiche, economiche e sociali, avrebbe fatto divampare nel Paese la conflittualità tra le classi dirigenti e le masse popolari, tra quanti si erano enormemente arricchiti e quanti decisamente impoveriti. La “grande guerra patriottica” aveva ulteriormente approfondito il divorzio tra gli operai e i contadini da un lato e la borghesia dall’altro, diffondendo nei primi il desiderio di una palingenesi che introducesse la vera giustizia sociale e nella seconda una volontà via via crescente e determinata di restaurare l’ordine sfidato. 1. Giolitti, Memorie della mia vita cit., pp. 322-23. 2. G. D’Annunzio, Per la piú grande Italia, in Id., Prose di ricerca, di lotta, di comando, di conquista, di tormento, d’indovinamento, di rinnovamento, Mondadori, Milano 1947, vol. I, p. 666. 3. La lettera è citata da P. Melograni, Storia politica della grande guerra 1915-1918, Laterza, Bari 1971, p. 473.

Capitolo sesto L’”esplosione delle antitesi”: l’Italia fra «vittoria mutilata», «biennio rosso» e «biennio nero». La genesi del fascismo

1. Le classi sociali nel dopoguerra. La frustrazione delle aspirazioni dei nazionalisti. L’Italia uscí dalla guerra mondiale in preda a una crisi senza precedenti. Infatti, mentre figurava – piú formalmente che sostanzialmente, dato il forte divario che la divideva da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia – come una delle potenze “grandi vincitrici”, all’interno si trovava nelle condizioni sociali e politiche, certo non drammatiche quali quelle dell’ex Austria-Ungheria e della Germania, proprie di un Paese vinto. Al tavolo della pace e delle trattative per i compensi, le due maggiori potenze europee e gli Stati Uniti trattarono l’Italia non da pari a pari, bensí come una potenza di secondo rango quale in effetti era, gettando in uno stato di profonda frustrazione gli ambienti che avevano voluto e sostenuto l’intervento con la speranza di ottenere risultati assai piú consistenti di quelli – di per sé tutt’altro che trascurabili – raggiunti con l’acquisto del Trentino, dell’Alto Adige, dell’Istria e delle isole del Dodecaneso. Nel contribuire a creare una situazione di grande fermento in Italia era poi il fatto che la delusione e il risentimento dei gruppi nazionalistici che la guerra avevano esaltato si coniugavano, ancorché in una sintesi del tutto conflittuale, con i sentimenti delle masse popolari, che, largamente sotto l’influenza dei socialisti e dei cattolici, la guerra avevano decisamente avversata o malamente tollerata. Il che era l’effetto congiunto della debolezza dell’imperialismo italiano e dei forti limiti del consenso di cui tradizionalmente godeva la classe dirigente e che la partecipazione al conflitto mondiale aveva contribuito a ridurre ulteriormente. L’unico tra i maggiori esponenti della classe dirigente liberale che aveva un legittimo diritto di critica verso un intervento che non aveva voluto e che ora presentava un conto pesantissimo per una nazione economicamente debole e attraversata da incomponibili conflitti politici come l’Italia era Giolitti. A guerra finita, a differenza di quanto avveniva in Gran Bretagna e in Francia, in luogo dell’esaltazione comune per la vittoria, si ravvivò quanto

mai violenta la polemica fra «neutralisti» e «interventisti». Di fronte alla crisi sociale ed economica provocata dalla guerra i primi – e con particolare virulenza i socialisti – misero sotto accusa i secondi. Gli interventisti, dal canto loro, erano, come già nel 1914-15, divisi fra i «democratici», come Bissolati e Salvemini, sostanzialmente soddisfatti dei risultati raggiunti con l’acquisto del Trentino, di Trieste e dell’Istria, vale a dire con il compimento dell’unità nazionale, e gli interventisti di destra, imperialisti dalle varie sfumature i quali, facendo riferimento alle promesse contenute nel trattato di Londra del 1915, rivendicavano rumorosamente il possesso di territori in Dalmazia, di Fiume, di ampie zone dell’Anatolia e ingrandimenti coloniali. Alle trattative di pace a Parigi, Orlando e Sonnino dovettero misurarsi con la ferma ostilità di Wilson – il quale, sentendosi vincolato dal trattato di Londra che non aveva sottoscritto, rinfacciò agli italiani di perseguire una linea incoerente: per un verso rivendicare Trento e Trieste in nome del principio di nazionalità e per l’altro voler violare i diritti di altre nazionalità, specie nei Balcani – e con la freddezza di Lloyd George e Clemenceau, che – consci della debolezza italiana e dimentichi delle promesse fatte nel 1915 – trovarono comodo lasciare inasprire il contrasto fra Wilson e gli italiani. La “questione adriatica” – cioè la contemporanea rivendicazione da parte dell’Italia della Dalmazia per ragioni espansionistiche in spregio al principio di nazionalità, e di Fiume in quanto città popolata in maggioranza da italiani in omaggio a questo stesso principio – suscitò dissidi cosí aspri a Parigi che Orlando e Sonnino nell’aprile 1919 abbandonarono la conferenza interalleata, per farvi ritorno il mese seguente senza ottenere nulla di sostanziale. Sicché nelle file degli imperialisti e in numerosi borghesi ed ex ufficiali, si diffuse quel senso di umiliazione che li indusse a ritenere che quella dell’Italia fosse una «vittoria mutilata» e che a essa fosse stata imposta una «pace punitiva». I gruppi nazionalistici di destra soffiarono sul fuoco; e D’Annunzio, uno dei capi delle “radiose giornate di maggio”, tornò alla ribalta con un’azione spettacolare: il 12 settembre, contando sulla complicità di alcuni comandi militari e sull’esasperazione nazionalistica di ufficiali dell’esercito, occupò Fiume con reparti ribelli, composti in parte da soldati e in parte da volontari – all’incirca 2500 uomini –, proclamandone l’annessione all’Italia e stabilendovi un proprio governo. Era questo il primo caso di ribellione nella storia dell’esercito. Il Paese si divise fra entusiasti sostenitori di D’Annunzio e quanti, in prima fila i socialisti, denunciarono il carattere irresponsabile e

avventuristico dell’impresa. Dunque l’atteggiamento di fronte ai frutti della vittoria opponeva le forze politiche e sociali; ma questa divisione non era che un aspetto della frattura generale e profonda di natura economica. Il dopoguerra vedeva infatti una società italiana profondamente mutata. Come si è già detto, il bilancio dello Stato mostrava un deficit pauroso e il debito pubblico raggiungeva cifre altissime. La moneta si deprezzava sempre piú. I risparmiatori piccoli e medi, i pensionati, i possessori di rendite modeste vedevano i loro capitali faticosamente accumulati perdere di valore, mentre le tasse crescevano notevolmente. Lo stesso discorso valeva per i piccoli proprietari di alloggi o di terreni dati in affitto, soggetti a blocco. Tutto ciò mentre i prezzi subivano forti impennate. Anche la massa degli impiegati statali riceveva salari che non tenevano dietro all’aumento del costo della vita. La piccola e media borghesia insomma, che aveva fornito i quadri degli ufficiali di complemento all’esercito, da un lato era orgogliosa della vittoria, cui aveva contribuito sacrificandosi in prima persona, ma dall’altro, impoveritasi durante la guerra e nell’immediato dopoguerra, era in preda a grande inquietudine per le proprie crescenti difficoltà materiali. Molti ufficiali dei gradi inferiori, che si erano abituati al comando durante la guerra, quando vennero smobilitati si trovarono disoccupati e socialmente emarginati in un sistema produttivo troppo debole per offrire loro adeguate opportunità di lavoro. Ed era venuta meno in quanti vi avevano contato l’illusione che al Paese potessero toccare terre da colonizzare o protettorati su regioni ricche di materie prime. Tutt’altra era la condizione della grande borghesia finanziaria e industriale, la vera beneficiaria della guerra. Le fabbriche si erano dilatate per far fronte alle esigenze belliche; lo Stato, indebitandosi all’esterno e all’interno, aveva pagato prontamente senza badare troppo al rapporto prezzo-qualità delle merci prodotte. I maggiori commercianti, fornitori dell’esercito, avevano speculato aumentando di molto i loro beni. Lo sviluppo dell’industria aveva rafforzato finanzieri e industriali, e al tempo stesso consentito agli operai rimasti nelle fabbriche e organizzati nei sindacati quanto meno di resistere all’ascesa dei prezzi ottenendo aumenti salariali; diversa era la condizione della maggioranza delle masse lavoratrici, formata da operai, braccianti, contadini con poca terra, piccoli borghesi disorganizzati e privi di strumenti di difesa che avevano assistito al drastico taglio dei loro redditi e talvolta al crollo del proprio status sociale. Frequente

era il caso di piccoli proprietari rurali in difficoltà che avevano dovuto e dovevano vendere la loro forza lavoro come braccianti. La massa bracciantile, diffusa specie nella Pianura Padana, in Lombardia, nel Piemonte orientale e nel Mezzogiorno, soggetta a disoccupazione cronica e costretta a lavorare la terra altrui per lo piú per salari irrisori, aveva come naturale aspirazione quella di avere terra propria sufficiente a una vita dignitosa. Ai contadini poveri e ai braccianti che avevano formato la massa dei soldati in guerra il governo nell’anno cruciale del 1917 aveva promesso leggi di riforma agraria; e alla fine del conflitto costoro erano ansiosi di veder mantenute le promesse. Anche gli operai che erano riusciti a difendere bene o male il potere d’acquisto dei loro salari non per questo avevano accettato la guerra. Anzi la loro opposizione era stata fra le piú risolute. Il desiderio di un drastico mutamento sociale era nelle loro file sentito fortemente e molto diffuso, per cui essi, insieme con i contadini e i braccianti, a guerra finita entrarono in un’agitazione prolungata e vigorosa. Gli obiettivi erano però diversi per gli operai e i braccianti da un lato e i contadini dall’altro. Il proletariato industriale e una parte importante dei braccianti – che avevano ormai da alcuni decenni nel Partito socialista, nelle Camere del lavoro e nei sindacati i propri strumenti di organizzazione, tutela sociale e di lotta – nella grande maggioranza erano esaltati dalla rivoluzione bolscevica in Russia; e – sotto la dominante influenza delle correnti socialiste rivoluzionarie e comuniste, in sintonia con le aspettative che animavano la sinistra radicale a livello internazionale – volevano seguirne l’esempio, convinti che fosse finalmente giunta l’occasione di dare il potere al popolo, abbattere il capitalismo, procedere alla socializzazione dei mezzi di produzione, ponendo fine allo sfruttamento del mondo del lavoro e inaugurando il regno della giustizia e la società degli eguali. Per contro la maggioranza dei proprietari di poca terra e dei contadini poveri del Mezzogiorno e non solo di esso mirava a ottenere piú terra di quanto non possedesse o la terra che non possedeva affatto, e cioè a una riforma agraria in grado di allargare in maniera consistente i confini della media e piccola proprietà. Nell’insieme, dopo la fine della guerra, si assistette in Italia a uno straordinario rafforzamento della pressione esercitata, pur con diverse finalità, sia degli operai sia delle masse rurali nei confronti della classe dirigente e dello Stato. Gli anni 1919-20 passarono sotto il nome di «biennio

rosso» in relazione al fatto che in quel periodo il Partito socialista, affascinato dal «mito bolscevico», diede la propria impronta e il proprio avallo a una eccezionale ondata di conflitti politici, scioperi, tumulti nelle zone urbane e rurali, occupazione di terre, continui attacchi alla proprietà privata. Ciò che socialisti, operai e braccianti non compresero era che la guerra aveva sí lasciato la borghesia italiana in preda a una grave crisi delle forze politiche, ma che essa, in armonia con quanto avvenuto in Gran Bretagna e in Francia, era uscita dal conflitto molto rafforzata economicamente, e disponeva di una potenziale grande capacità di reazione, del tutto imprevista da quanti pensarono di poter dare l’assalto al suo potere.

2. La risposta alla crisi del mondo cattolico. La nascita del Partito popolare. Il timore del radicale mutamento politico e sociale progettato dai socialisti indusse il Vaticano a prendere una decisione storica. Le gerarchie ecclesiastiche erano pienamente consapevoli della grave debolezza in cui versava la classe dirigente liberale; e convinte che, per far fronte ai socialisti, fosse necessario andare incontro alle esigenze di rinnovamento provenienti in primo luogo dai contadini, cosí da sottrarli all’egemonia socialista e all’alleanza con il proletariato industriale. Pertanto il Vaticano consentí a ciò cui prima di allora non aveva mai consentito: la formazione di un partito dei cattolici italiani – non però ufficialmente di un “partito cattolico”, data la mancata conciliazione della Chiesa con lo Stato –, che assunse il nome di Partito popolare italiano (Ppi). Questo sorse nel gennaio 1919, sotto la direzione di Luigi Sturzo, il prete che aveva partecipato al movimento democratico cristiano fra la fine del secolo e i primi anni del Novecento e, dopo l’emarginazione del movimento voluta dalle gerarchie ecclesiastiche, a differenza di Murri aveva aspettato disciplinatamente che giungesse l’ora per i cattolici di intervenire sulla scena politica in prima persona. La nascita del partito segnò una svolta nei rapporti non solo fra i cattolici e lo Stato italiano – poiché significava l’accettazione da parte dei primi delle istituzioni vigenti e il loro inserimento e autonomo nella lotta politica –, ma anche nei rapporti con i liberali. La formazione del partito segnò in certo modo la conclusione del processo di avvicinamento fra i cattolici moderati e la classe dirigente

liberale iniziato nel periodo giolittiano, ma posta sotto il segno della fine del sostegno subalterno a quest’ultima. Mentre, infatti, condivideva con i clericomoderati l’intento di intervenire nelle lotte politiche e nelle elezioni in funzione antisocialista, Sturzo pensava che i cattolici dovessero farsi interpreti di un nuovo corso riformatore, da avviarsi unicamente mettendo in crisi tanto il conservatorismo liberale, vecchio ed elitario, quanto quello dei settori cattolici incapaci di comprendere e fare proprie le ansie e le richieste di avanzamento sociale dei ceti popolari, a partire da quelli rurali. Insomma, Sturzo era convinto che non fosse piú tempo per i cattolici di “fare da spalla” al liberalismo italiano, cosí com’era avvenuto prima della guerra. Se era pronto a dirigere tutto il peso della macchina organizzativa del partito, con l’aiuto della Chiesa, contro i socialisti, il “popolarismo” si presentava di fronte ai liberali come una forza autonoma che rivendicava riforme sociali e politiche e decisivi cambiamenti nella distribuzione del potere. Da Roma il 18 gennaio 1919 Sturzo indirizzò un Appello al Paese che cosí iniziava: A tutti gli uomini liberi e forti, che in questa grave ora sentono alto il dovere di cooperare ai fini supremi della Patria, senza pregiudizi né preconcetti, facciamo appello perché, uniti insieme, propugnino nella loro interezza gli ideali di giustizia e libertà.

Sturzo proseguiva affermando, con accenti neogiobertiani, che la bandiera dei popolari si ispirava «ai saldi principî del cristianesimo, che consacrò la grande missione civilizzatrice dell’Italia» 1. Nel loro programma, accanto alla difesa dei valori propriamente cattolici – «integrità della famiglia», «libertà d’insegnamento in ogni grado», lo «sviluppo del probivirato e dell’arbitrato per i conflitti anche collettivi del lavoro industriale e agricolo», lo «sviluppo della cooperazione», «libertà ed indipendenza della chiesa nella piena esplicazione del suo magistero spirituale» – e al pieno riconoscimento delle proprie organizzazioni culturali, religiose, politiche e sindacali, i popolari chiedevano riforme incisive quali: la colonizzazione del latifondo e l’incremento e la protezione della piccola proprietà contadina, considerata il piú efficace baluardo contro il socialismo e i suoi propositi di socializzazione delle industrie e della terra; «la riforma tributaria generale e locale, sulla base della imposta progressiva globale con l’esenzione delle quote minime» (la riforma che i governi liberali si erano

sempre rifiutati o erano stati incapaci di attuare); la riforma elettorale «con il collegio plurinominale a larga base con rappresentanza proporzionale»; il voto alle donne; assicurazioni a protezione di malati, vecchi, invalidi e disoccupati e la riorganizzazione di beneficenza e assistenza pubbliche; l’elettività del Senato «con prevalente rappresentanza dei corpi della nazione»; una «politica coloniale in rapporto agl’interessi della nazione e ispirata ad un programma di progressivo incivilimento». Inoltre i popolari invocavano la fine dello Stato centralistico e burocratico costruito dai liberali, e il riconoscimento della piena «libertà ed autonomia degli enti pubblici locali» 2. Pur accettando la necessità della difesa organizzata degli interessi settoriali dei lavoratori, ponevano come obiettivo preminente la collaborazione fra capitale e lavoro, secondo gli indirizzi e gli ideali propri del corporativismo cattolico e della dottrina sociale della Chiesa. Mancava però nel programma del Partito popolare una seria e approfondita analisi dei problemi dell’industria e del proletariato di fabbrica. Le caratteristiche fondamentali del nuovo partito, che trovò la sua base di massa soprattutto nelle campagne, furono dunque l’antisocialismo frontale, un antiliberalismo che mirava a ottenere dalla borghesia il riconoscimento per i cattolici di un nuovo ruolo nello Stato e nella sua direzione, un interclassismo che rivolgeva il suo messaggio a tutti gli strati sociali (di qui la sua rivendicazione di essere «popolare»). L’ambizione era quella di sostituire ai liberali, a tempo debito, i popolari alla direzione dello Stato. Confluirono nel partito sia grandi proprietari terrieri che, pur non condividendo il riformismo sociale, vedevano nel popolarismo un’efficace arma contro il socialismo, sia medi e piccoli borghesi che desideravano invece riforme che i liberali non erano in grado di assicurare, sia masse contadine che auspicavano la formazione di una piú robusta area di piccole e medie proprietà e anche una componente, pur ridotta, della classe operaia. L’ala piú radicale in campo sociale del popolarismo era guidata dal lombardo Guido Miglioli. Il legame comune era il cattolicesimo. Ciò nondimeno nelle intenzioni di Sturzo, non condivise da tutti gli aderenti, il partito non doveva essere considerato formalmente cattolico e tanto meno clericale. In risposta alla «Civiltà Cattolica», la quale aveva ammonito che in quanto «ristretto all’ordine prettamente politico, il nuovo “partito popolare” non è, non si denomina e non si può denominare, con proprietà di termini, “partito cattolico”» 3, egli al primo Congresso del partito del 14-16 giugno 1919, cosí

spiegò la natura del partito: È superfluo dire perché non ci siamo chiamati partito cattolico: i due termini sono antitetici; il cattolicesimo è religione, è universalità; il partito è politica, è divisione. Fin dall’inizio abbiamo escluso che la nostra insegna politica fosse la religione, ed abbiamo voluto chiaramente metterci sul terreno specifico di un partito, che ha per oggetto diretto la vita pubblica della nazione. [...] Cerchiamo nella religione lo spirito vivificatore di tutta la vita individuale e collettiva; ma non possiamo trasformarci da partito politico in ordinamento di chiesa, né abbiamo diritto di parlare in nome della chiesa, né possiamo essere emanazione e dipendenza di organismi ecclesiastici, né possiamo avvalorare con la forza della chiesa la nostra azione politica 4.

Era chiaro il proposito di Sturzo di evitare che il partito assumesse il carattere di “clericale”. Il Partito popolare entrò sulla scena nazionale con tutta la forza che proveniva dall’appoggio dei parroci e delle parrocchie, dai circoli sociali cattolici, da una rete di stampa molto forte e diffusa, dalle casse rurali e dalle banche cattoliche. L’organizzazione sindacale cattolica, la Confederazione italiana dei lavoratori, nel 1920 raccoglieva 1 661 238 organizzati, di cui 944 812 erano contadini di varia condizione. La forza del partito era concentrata prevalentemente nell’Italia centro-settentrionale.

3. Il Partito socialista e l’ondata «massimalista» e bolscevizzante. L’«Ordine Nuovo». Il maggiore partito di massa restava comunque il Partito socialista, la cui base era costituita prevalentemente da operai e braccianti. Accanto a esso stava la Confederazione generale del lavoro, i cui iscritti passarono da 249 000 nel 1918 a oltre 1,5 milioni nel 1919, fino a raggiungere i 2 320 163 nel 1920. I socialisti, indicati dai nazionalisti come coloro che avevano sabotato la guerra, davano voce – come si è già sottolineato – alla volontà di un radicale mutamento sociale che saliva da milioni di lavoratori, colpiti e affascinati dalla rivoluzione russa. Il programma del partito del dicembre 1918 esprimeva a tutte lettere la convinzione che in Italia fosse iniziata la fase di trapasso dal capitalismo al socialismo da attuarsi mediante la dittatura

di classe. Il Partito socialista, si diceva espressamente: si propone come proprio obiettivo l’istituzione della Repubblica socialista e la dittatura del proletariato, coi seguenti scopi: 1 o) Socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio (terra, industrie, miniere, ferrovie, piroscafi) con la gestione diretta dei contadini, operai, minatori, ferrovieri e marinai; 2 o) Distribuzione dei prodotti eseguita esclusivamente dalla collettività a mezzo degli enti cooperativi e comunali; 3 o) Abolizione della coscrizione militare e disarmo universale in seguito all’unione di tutte le Repubbliche proletarie nella Internazionale socialista; 4 o) Municipalizzazione delle abitazioni civili e del servizio ospedaliero; trasformazione della burocrazia, affidata alla gestione diretta degli impiegati 5.

Al XVI Congresso, svoltosi a Bologna tra il 5 e l’8 ottobre 1919, la direzione del Partito socialista, che aderí alla Terza Internazionale fondata a Mosca nel marzo di quell’anno e il cui piú eminente dirigente era Giacinto Menotti Serrati, cadde nelle mani dei «massimalisti», cioè coloro che ritenevano fosse giunto il momento di realizzare il «programma massimo», ovvero di “fare come in Russia”. Si affidò ai Consigli (Soviet) delle masse lavoratrici il compito di agire prima come «strumenti della violenta lotta di liberazione» e «poi organismi di trasformazione sociale ed economica e di ricostruzione del nuovo ordine comunista», di portarle «nell’orbita della rivoluzione socialista», e al partito il ruolo di farsi «l’iniziatore, l’animatore e la guida politica e rivoluzionaria dei Soviet» 6. Apparentemente i massimalisti dominavano il partito; ma si trattava appunto di apparenza. Il gruppo parlamentare socialista nella sua maggioranza, i riformisti come Turati e Treves, i dirigenti sindacali non credevano alla rivoluzione ed erano decisamente favorevoli a seguire la via delle riforme. Anche i fautori della rivoluzione erano divisi. Infatti, accanto alla corrente massimalista, vi era quella formata dall’estrema sinistra del partito, costituita dal gruppo guidato dal napoletano Amadeo Bordiga, con il suo centro a Napoli, e dal gruppo torinese diretto dal sardo Antonio Gramsci, il piú brillante teorico del gruppo, dal genovese Umberto Terracini e dai piemontesi Angelo Tasca e Palmiro Togliatti, che fondò nel maggio 1919 la rivista settimanale «L’Ordine Nuovo». Bordighisti e ordinovisti costituirono all’interno del Psi una corrente comunista, che prese via via a criticare sempre piú duramente la maggioranza massimalista, accusandola di non andare al di là delle parole d’ordine

rivoluzionarie e di essere incapace di preparare il partito e le masse alla concreta azione contro il capitalismo e il suo Stato. I primi, volendo sottolineare la totale rottura con le istituzioni della borghesia, ancorati a una visione “chiusa” del partito, respingevano la stessa partecipazione alle elezioni. I secondi, favorevoli invece alla partecipazione, insistevano sulla necessità di educare e organizzare le masse proletarie alla rivoluzione organizzando Consigli degli operai di fabbrica e dei contadini poveri, seguendo il modello dei soviet russi. Ai Consigli attribuivano la funzione di mettere operai e contadini, con l’ausilio degli intellettuali e dei tecnici disposti a unirsi a loro, in condizione di affrontare i compiti di gestione della macchina produttiva, indispensabile presupposto perché i lavoratori potessero elevarsi al ruolo di classe dirigente. Si trattava di un progetto di democrazia classista in antitesi con quella liberale e parlamentare. Nell’ottobre 1919 Gramsci, il leader ideologico della corrente ordinovista – la cui visione comunista, accentuatamente volontaristica, poggiava sulle suggestioni che gli provenivano insieme, in maniera eclettica, dal pensiero dei maestri dell’idealismo italiano e in particolare di Giovanni Gentile, di Henri Bergson, del teorico del sindacalismo rivoluzionario Georges Sorel e dell’americano Daniel De Leon organizzatore degli Industrial Workers of the World – era allora largamente ignaro del pensiero di Lenin in particolare per quanto riguardava la concezione del partito. Egli cosí delineava la centralità del consiglio di fabbrica nel processo rivoluzionario: Il Consiglio di fabbrica è il modello dello Stato proletario. Tutti i problemi che sono inerenti all’organizzazione dello Stato proletario, sono inerenti all’organizzazione del Consiglio. Nell’uno e nell’altro il concetto di cittadino decade e subentra il concetto di compagno […]. Il Consiglio è il piú idoneo organo di educazione reciproca e di sviluppo del nuovo spirito sociale che il proletariato sia riuscito a esprimere dall’esperienza viva e feconda della comunità di lavoro 7.

Per Gramsci compito del partito era non già di sovrapporsi autoritariamente all’iniziativa spontanea delle masse, ma di favorirne l’organizzazione e di incanalarla. Spettava ai Consigli guidare la lotta di classe contro i padroni all’interno dei luoghi di produzione; poi, quando fosse iniziato il processo rivoluzionario, diventare l’avanguardia, ideologicamente e politicamente guidata dal partito, della lotta contro lo Stato capitalistico.

Gramsci insisteva sulla necessità che il Partito socialista facesse dell’alleanza fra gli operai del Nord, la punta avanzata del fronte rivoluzionario, i braccianti e i contadini poveri del Sud l’asse centrale della propria strategia per la conquista del potere, impedendo che le masse rurali venissero egemonizzate dalle forze conservatrici liberali e popolari. I massimalisti respinsero sia l’astensionismo elettorale di Bordiga sia la via consiliare indicata dai comunisti torinesi, nella quale scorgevano una minaccia per il primato del partito. Anche i centri sindacali legati ai socialisti considerarono con ostilità le tesi dell’«Ordine Nuovo», vedendo a loro volta nella teoria della funzione dirigente dei Consigli un pericolo per il loro ruolo e la loro influenza sulle masse. Comunque, quali che fossero le divisioni e le polemiche interne, il Partito socialista nella sua grande maggioranza era schierato su posizioni tali da suscitare nelle classi dominanti grande allarme; ma ciò che d’altra parte andava profilandosi chiaramente era il fatto che le forze socialiste erano in profondo contrasto al loro interno quanto alle strategie da seguire.

4. Il «biennio rosso» e la genesi del fascismo. Se il Partito socialista e il Partito popolare raccoglievano intorno a sé le grandi masse e ne interpretavano, sia pure con divergenti programmi e prospettive, l’ansia di rinnovamento, a svolgere un analogo ruolo ambivano anche altri settori dello schieramento politico. Tra il novembre 1918 e il giugno 1919 si formò il «Movimento dei combattenti», che, mentre rivendicava il valore e gli ideali della guerra, avanzava l’esigenza di una maggiore giustizia sociale. Gli ex combattenti, che raccoglievano strati per lo piú piccolo-borghesi e conquistarono posizioni notevoli nel Mezzogiorno e in Sardegna, chiedevano la convocazione di un’Assemblea costituente per dare un nuovo assetto al Paese; anche il Partito socialista riformista di Bissolati e il Partito repubblicano concordavano con questa parola d’ordine, che però rimase lettera morta in primo luogo a causa della contrarietà del Partito socialista il quale, avendo come fine la dittatura del proletariato, respingeva quella prospettiva perché non andava oltre un orizzonte “democraticoborghese”. Gli ex combattenti, costituitisi nell’Associazione nazionale combattenti che nel giugno 1919 tenne il suo primo congresso, chiedevano la

liquidazione dei latifondi e la concessione ai contadini delle terre incolte o malcoltivate. In Sardegna crearono tra il 1919 e il 1920, per iniziativa di Camillo Bellieni ed Emilio Lussu, entrambi valorosi ufficiali durante la guerra, un movimento improntato a forti finalità autonomistiche, che nell’aprile 1921 sarebbe sfociato nella fondazione del Partito sardo d’azione, la cui base era formata da contadini poveri, braccianti, pastori e minatori. Nel pieno della crisi sociale e politica italiana si inserí l’azione dell’ex dirigente socialista Benito Mussolini, che, già acceso interventista e diventato focoso antisocialista, il 23 marzo 1919 fondò a Milano i «Fasci di combattimento». Nato il 29 luglio 1883 a Dovia, frazione di Predappio, in Romagna, figlio di un fabbro e di una maestra, aveva conseguito il diploma di maestro nel 1901; e in quello stesso periodo si era accostato alle organizzazioni socialiste. Dopo avere esercitato per breve tempo l’insegnamento, volendo sottrarsi al servizio militare era emigrato nel luglio 1902 in Svizzera, dove aveva iniziato una carriera di agitatore politico socialista su posizioni di internazionalismo e acceso anticlericalismo. La sua formazione intellettuale era avvenuta sui testi insieme di Marx, Stirner, Blanqui, Nietzsche, Schopenhauer, Sorel, Pareto, secondo un’ispirazione quanto mai composita che intrecciava motivi sindacalisti-rivoluzionari, anarchici, blanquisti ed elitistici. Dalla Svizzera era tornato in Italia nel novembre 1904. Nel febbraio 1909 si era recato a Trento, dove aveva conosciuto Cesare Battisti, che lo aveva introdotto negli ambienti socialisti locali. Espulso dal Trentino nel settembre di quell’anno dalle autorità austriache, si era stabilito a Forlí, diventandovi segretario della federazione socialista e direttore del settimanale «Lotta di Classe». Schieratosi con l’ala rivoluzionaria e intransigente del partito, aveva improntato il suo pensiero e la sua attività giornalistica al sindacalismo di Sorel, all’antimilitarismo, a un concetto insurrezionale della rivoluzione. Durante le manifestazioni contro la guerra di Libia del settembre 1911, Mussolini era stato uno dei capi delle violente agitazioni in Romagna, cosí da venire arrestato in ottobre con Pietro Nenni, processato e condannato a cinque mesi e mezzo di prigione, dalla quale era uscito nel marzo 1912. Al XIII Congresso socialista di Reggio Emilia del luglio 1912 Mussolini, ormai assurto a leader del socialismo romagnolo, era stato il maggiore accusatore di Bissolati, Bonomi e Cabrini, espulsi dal partito per essersi recati al Quirinale a congratularsi con il sovrano scampato a un attentato. Nominato direttore del quotidiano socialista

«Avanti!», era entrato a far parte della direzione del partito, emergendo cosí come uomo politico di importanza nazionale. Durante la “settimana rossa” del giugno 1914 aveva dato il suo sostegno alle azioni insurrezionali. Scoppiata in agosto la guerra mondiale, Mussolini dapprima si era schierato sulle posizioni del partito ispirate alla «neutralità assoluta», ma tra ottobre e novembre, in una rapida successione di tempi, si era espresso prima a favore della «neutralità condizionata», poi della «neutralità attiva e operante» e infine dell’intervento a fianco delle potenze dell’Intesa, essendosi convinto che il Partito socialista con il suo neutralismo passivo si fosse attestato su posizioni di inerte dottrinarismo. Costretto a lasciare la direzione dell’«Avanti!», con fondi fornitigli da industriali italiani e in seguito anche da ambienti politici francesi interessati all’intervento dell’Italia nel conflitto, a metà del novembre 1914 aveva fondato «Il Popolo d’Italia», il cui primo numero, uscito il 15 di quel mese con il sottotitolo «Quotidiano socialista», nella testata riportava – a indicazione dello spirito del fondatore – il motto di Napoleone «La rivoluzione è un’idea che ha trovato delle baionette» e quello del cospiratore francese Auguste Blanqui «Chi ha del ferro, ha del pane». Il 24 i socialisti lo avevano espulso dal partito per indegnità e tradimento. Sul suo quotidiano, Mussolini aveva sostenuto con forza che l’Italia dovesse intervenire a fianco dell’Intesa e che la guerra dovesse assumere «un contenuto sociale». Richiamato alle armi nell’agosto 1915, era stato congedato nel febbraio 1917 per ferite riportate durante un’esercitazione. Se, dopo la sua espulsione dal partito, Mussolini rivendicava di essere rimasto un socialista rivoluzionario, in seguito era andato elaborando un pensiero in cui prevalevano le idee nazionalistiche, pur combinate con propositi di rinnovamento politico e sociale dai toni radicali. Nell’immediato dopoguerra, approdato quindi a posizioni di fervente nazionalismo e virulento antisocialismo, Mussolini, con l’intenzione di fare concorrenza su questo piano ai socialisti, si preoccupò di dare sue risposte alla richiesta di cambiamento che saliva dal movimento operaio e contadino. Deciso a giocare un ruolo accentuatamente personale, raccolse intorno a sé gruppi di piccoli borghesi ed ex combattenti di spiriti nazionalistici, antisocialisti e antiliberali, e non esitò a utilizzare anche la carta della denuncia della plutocrazia formata dagli arricchiti e dagli speculatori di guerra. Tratti caratterizzanti della sua personalità, dotata di un acuto intuito politico, erano insieme il senso vivo e preciso dell’ampiezza della crisi storica

che stava investendo la società italiana, la ferma volontà di intervenire in essa, la determinazione a sfruttare lo scontro fra borghesi e masse lavoratrici, fra liberali, popolari e socialisti, inserendosi in esso senza esitare a spostare le proprie posizioni a seconda delle opportunità offerte dalle circostanze. Il fascismo – termine che richiamava i fasci littori della Roma antica – nacque ufficialmente, come si è ricordato, a Milano il 23 marzo 1919, allorché Mussolini in una riunione cui partecipò un numero rimasto imprecisato (a seconda delle fonti tra cento e trecento circa) di ex socialisti, repubblicani, sindacalisti rivoluzionari, ex componenti delle formazioni degli arditi e futuristi, creò i «Fasci di combattimento», presentati da «Il popolo d’Italia» come «l’antipartito». Di un «fascio di azione rivoluzionaria» Mussolini aveva già parlato sulle colonne del suo quotidiano nell’aprile del 1915, a indicare una tendenza innovatrice diretta contro i partiti tradizionali e le loro esaurite ideologie. Il fascismo battezzato a Milano, che voleva essere un movimento giovane e di giovani, si basava su quattro istanze fondamentali: la difesa delle ragioni della guerra e dell’intervento; la messa sotto accusa della classe dirigente liberale e la contemporanea richiesta di ampi mutamenti sociali e politici; la decisa avversione per il progetto rivoluzionario, classista e antinazionale, dei socialisti; un ostentato spirito repubblicano venato di anticlericalismo. «Il popolo d’Italia» – che il 1 o agosto 1918 aveva sostituito il sottotitolo «Quotidiano socialista» con quello di «Quotidiano dei combattenti e dei produttori», rivelando lo spregiudicato pragmatismo e opportunismo mussoliniano, che palesemente si muoveva al di là delle vecchie logiche di schieramento – il 23 marzo 1919 scriveva: Noi ci permettiamo il lusso di essere aristocratici e democratici; conservatori e progressisti; reazionari e rivoluzionari, legalitari e illegalitari, a seconda delle circostanze di tempo, di luogo e di ambiente.

Il programma del movimento fascista, reso pubblico il 6 giugno 1919 e successivamente integrato, si presentava insomma come una contaminazione di nazionalismo imperialistico e di rivendicazioni democratiche e sociali. Un programma che bene esprimeva le oscillazioni di strati piccolo-borghesi in posizione intermedia tra borghesia e proletariato, nonché il proposito di porsi in concorrenza col socialismo antinazionale e dissolutore della disciplina sociale. Vi si chiedeva l’abbassamento dell’età degli elettori a diciotto anni, il

voto alle donne e la loro eleggibilità, la rappresentanza proporzionale, l’abolizione del Senato e la costituzione di un Consiglio tecnico delle professioni, la convocazione di un’Assemblea nazionale con il compito di «stabilire la forma di costituzione dello Stato» (che si auspicava repubblicana); si rivendicavano, inoltre, la giornata lavorativa di otto ore, minimi salariali, la partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori alla gestione delle industrie e dei servizi pubblici, la concessione delle terre non coltivate a cooperative di contadini, la nazionalizzazione delle fabbriche di armi ed esplosivi, una scuola a carattere «rigidamente laico» con un insegnamento volto a potenziare lo spirito patriottico, la riforma della burocrazia, un’imposta straordinaria sul capitale avente «la forma di vera espropriazione parziale di tutte le ricchezze», il sequestro dei beni delle Congregazioni religiose, la confisca dell’85% dei profitti di guerra, l’istituzione di una milizia armata con compiti di difesa, una politica estera volta a opporsi all’imperialismo straniero e all’«egemonia delle attuali potenze plutocratiche» 8. Mussolini e i fascisti chiarirono ben presto come loro primo obiettivo fosse attaccare i socialisti. Il 15 aprile 1919 a Milano, durante uno sciopero generale, una colonna di attivisti incendiò la sede dell’«Avanti!» Mussolini assunse «tutta la responsabilità» dell’impresa. La forza del fascismo, nonostante la sua aggressività, era allora assai modesta. Alla fine del 1919 i fasci erano solo 37 e gli iscritti si aggiravano intorno a 800, dislocati soprattutto nel Nord Italia.

5. Le agitazioni sociali e la «scioperomania». Le elezioni e la crisi del liberalismo. I governi Nitti e Giolitti. Di fronte alla crisi che la società stava attraversando, la classe dirigente liberale si mostrava incerta, priva di vigore. Le elezioni a suffragio universale maschile del 1913 ne avevano già messo in rilievo la debolezza e le conseguenze derivanti sia dalle accentuate divergenze delle linee sostenute dai leader maggiori, sia dalla mancanza di una struttura moderna di partito e di un’ideologia che, in competizione con socialisti e popolari, potesse far presa sulle masse, sia dal fatto che in quel periodo di esasperazione dei contrasti politici e sociali, agli occhi degli operai, dei braccianti e dei

contadini i liberali apparivano tout court come i tradizionali difensori degli interessi di classe degli industriali e degli agrari. Nel 1913 questi avevano potuto mantenere le redini del governo grazie all’appoggio massiccio, ma ancora subalterno, dei cattolici. La fondazione del Partito popolare, che incanalava ormai in modo autonomo le masse cattoliche, cambiò completamente la scena. I popolari assumevano ora in proprio il compito di combattere i socialisti e il pericolo rivoluzionario, miravano ad accedere in prima persona al governo dello Stato e denunciavano l’inadeguatezza della guida liberale dei governi, alla cui partecipazione nel dopoguerra si adattarono unicamente per fronteggiare la minaccia socialista, assumendo atteggiamenti apertamente critici. Contro i liberali si muovevano dunque non solo i socialisti, ma anche i cattolici e con i toni e gli atteggiamenti piú aggressivi, i nazionalisti di destra e i neonati fascisti. La crisi politica della classe dirigente liberale maturava in un contesto segnato non solo dall’organizzazione delle masse in due grandi partiti politici fortemente strutturati e in antagonismo reciproco, ma anche dall’emergere della piú vasta ondata di agitazioni economico-sociali cui si fosse assistito nella storia dello Stato unitario: nel solo 1919 si ebbero 1663 scioperi nell’industria e 208 nell’agricoltura, con una perdita complessiva di oltre 22 milioni di giornate lavorative. Obiettivi di questi scioperi erano la conquista della giornata di otto ore, la difesa dei salari e dei posti di lavoro, messi a rischio dal fatto che nell’industria la riconversione da produzione di guerra a produzione di pace comportava ampie ristrutturazioni e allargava le file dei disoccupati, mentre nell’agricoltura, specie nelle maggiori proprietà, i padroni tendevano a ridurre a loro volta la manodopera. Accanto agli scioperi piú strettamente economici, numerosi erano poi quelli dichiaratamente politici; e gli uni si confondevano con gli altri. Agli inizi del 1919 divampò nelle campagne del Centro-Nord una serie di scioperi e di agitazioni da parte di braccianti e coloni attivamente sostenuti dai sindacati socialisti, che si protrasse per mesi. Le agitazioni, che ottennero sostanziali successi in materia di orari di lavoro e di condizioni salariali, provocarono la rabbiosa reazione dei proprietari i quali, costretti a subire l’imponibile di manodopera da concordarsi con i sindacati, videro in particolare in questa misura un aperto attentato al principio della libertà economica. Il culmine del movimento degli scioperi, cui diede un forte impulso l’aumento dei prezzi, fu raggiunto nell’estate del 1919, allorquando l’esasperazione delle masse rurali e operaie,

che si erano mosse spontaneamente cogliendo di sorpresa il Partito socialista e la Cgl rimasti in una posizione di inerzia, culminò nel saccheggio di negozi e mercati, e nell’imposizione forzata di ribassi del prezzo delle merci. Contemporaneamente si misero in moto le masse dei contadini senza terra nel Centro e nel Mezzogiorno, che procedettero all’occupazione di terre incolte. Questi movimenti proseguirono nel 1920, sotto la guida non solo dei socialisti, ma anche delle leghe organizzate dai popolari di sinistra battezzati “bolscevichi bianchi”, il cui leader era Guido Miglioli. Nel 1920 il numero degli scioperi superò i 2000. Si trattò del fenomeno che venne bollato dalle classi proprietarie come una irresponsabile “scioperomania”, che minava alle fondamenta l’ordine sociale. La borghesia italiana, impreparata al pari della classe politica liberale a fronteggiare un sommovimento di tale portata, oscillò in un primo tempo fra una linea di concessioni parziali e il proposito, ancora incerto nei mezzi e nelle finalità, di reagire a quella che si profilava ai loro occhi come un’insubordinazione su vasta scala che minacciava di trasformarsi in una vera e propria rivoluzione sociale. Il timore della borghesia si accompagnava però contemporaneamente alla coscienza della propria forza economica, che essa, con un senso di crescente delusione, chiedeva ai governi di proteggere politicamente. Sennonché, se dalla guerra erano usciti rafforzati sia il capitalismo finanziario e la grande industria sia i grandi e medi affittuari, e con essi taluni strati di mezzadri e medi proprietari, si era molto indebolito il legame di interessi di questi strati con i ceti – composti da detentori di rendite modeste, piccoli professionisti, impiegati di grado inferiore, insegnanti – i quali, in una situazione di deprezzamento rapido della moneta, vedevano i loro redditi costantemente erosi. Sicché numerosi piccolo-borghesi impoveriti nel 1919-20 si schierarono con le masse lavoratrici accorrendo dietro alle bandiere dei socialisti, con l’effetto di rafforzare la crisi di fiducia di una gran parte della popolazione nei confronti dello Stato e dei liberali. La riconversione da un’economia di guerra a una di pace creava gravi difficoltà finanziarie e di occupazione per quei settori che si erano espansi in modo patologico grazie all’aumento della domanda statale per le esigenze belliche. Difficoltà di questo tipo ebbero in primo luogo le due grandi concentrazioni della siderurgia e della meccanica pesante, l’Ilva e l’Ansaldo, le quali stentavano a trovare le vie di un equilibrato reinserimento in un mercato contraddistinto dalla fine dell’abnorme domanda generata dalla

guerra. In conclusione, come si è detto, il rafforzamento complessivo della borghesia portava con sé costi sociali assai pesanti, che si rovesciavano contro il sistema politico liberale, per parte sua troppo ristretto nelle proprie basi di consenso e quindi destinato a indebolirsi in relazione alle fortissime tensioni che attraversavano il Paese. Se i settori dell’industria in grado di attuare la riconversione senza grandi scossoni – come per esempio la Fiat – si mostravano ancora favorevoli all’ordine istituzionale poggiante su governi liberali, la siderurgia e l’industria pesante premevano per un indirizzo di governo piú autoritario e impegnato a mantenere elevata anche in tempo di pace la spesa pubblica per le forze armate. Inoltre, la borghesia agraria centro-settentrionale e i latifondisti meridionali chiedevano apertamente una linea dura, antisindacale, diretta a contrastare i movimenti e le rivendicazioni dei braccianti e dei contadini. Anche i professionisti e possidenti appartenenti al ceto alto e medio-alto chiedevano a loro volta allo Stato di proteggere le loro fonti di benessere. Richiesta comune di tutti costoro era insomma che la classe politica al potere opponesse una salda diga alla marea delle classi popolari che invocavano una maggiore giustizia sociale inneggiando alla rivoluzione contro il capitalismo. Tutto ciò portava all’inasprimento dei rapporti tra le opposte componenti della società e a una loro crescente contrapposizione. Si assisteva cosí per aspetti sostanziali ma con caratteri di maggiore gravità a una situazione politica e sociale che ricordava l’acuirsi dei conflitti economico-sociali degli anni precedenti lo scoppio della guerra mondiale e, prima ancora, la crisi di fine secolo. La crisi degli anni immediatamente precedenti l’ingresso in guerra aveva potuto essere contenuta dagli effetti della mobilitazione militare. Quella di fine secolo era stata superata grazie alla ripresa dell’economia iniziata nella seconda metà dell’Ottocento e all’iniziativa politica di indirizzo riformistico di Zanardelli e Giolitti, la quale aveva consentito il rilancio della leadership della classe dirigente liberale. L’interrogativo che si apriva nel dopoguerra era se un analogo rilancio potesse o meno ripetersi. Presto apparve chiaro che le condizioni non erano affatto favorevoli a un simile esito, poiché i contrasti all’interno del Paese erano molto piú profondi e si dispiegavano su una scala di gran lunga piú ampia. Era la stessa classe dirigente liberale ad avvertire che la sua autorità e il suo prestigio erano scossi come mai in precedenza. I governi che si succedettero nel 1919-20 manifestarono appieno la sua incertezza e

debolezza politica. Il 19 giugno 1919 cadde il governo presieduto da Orlando, che pagò anche gli insuccessi al tavolo delle trattative di pace. Gli succedette Francesco Saverio Nitti, il quale il 23 formò il suo governo, che, con la partecipazione dei popolari, sarebbe rimasto in carica fino al 9 giugno 1920. Nitti era un economista illustre, un eminente meridionalista fautore dell’industrializzazione del Sud, un liberale di origini radicali, che era stato ministro dell’Agricoltura, industria e commercio nel quarto governo Giolitti tra il 1911 e il 1914 e ministro del Tesoro nel governo Orlando dal 1917 al 1919. Egli affrontò i tumulti per il caroviveri dell’estate 1919 e l’ondata delle occupazioni delle terre dell’agosto-settembre da un lato riorganizzando le forze dell’ordine – creò la Guardia regia e aumentò l’organico dei carabinieri –, dall’altro con concessioni quali il controllo, risultato poco efficace, sui prezzi, il mantenimento del prezzo politico del pane, un debole inasprimento fiscale a carico degli abbienti: misure che vennero giudicate del tutto insufficienti dai socialisti e irritarono la borghesia. Un importante atto di governo, testimonianza della volontà riformatrice di Nitti, fu il varo nel settembre 1919 del decreto del ministro dell’Agricoltura Achille Visocchi, che, in risposta alle ondate di occupazioni delle terre che erano andate dilagando nell’Italia centrale e meridionale e per ottemperare in qualche modo alle promesse fatte ai contadini nel corso della guerra, conferí ai prefetti il potere di cedere terreni incolti a cooperative e associazioni agrarie: altra misura per nulla gradita ai proprietari nonostante rimanesse pressoché senza risultati. Di fronte all’impresa di Fiume, che deplorava, Nitti tenne un atteggiamento incerto e finí per tollerarla, attirandosi anche per questo la generale insoddisfazione tanto degli avversari quanto dei sostenitori di D’Annunzio. Durante il suo governo si svolsero le elezioni generali del 16 novembre 1919, destinate a chiarire i rapporti di forza maturati tra i partiti in uno stato di crisi politica ed economica generale. Sotto la pressione esercitata dai socialisti e dai popolari, Nitti aveva fatto approvare in agosto una nuova legge elettorale, che introduceva lo scrutinio di lista con la rappresentanza proporzionale e allargava di molto i collegi elettorali, cosí favorendo i partiti di massa e ponendo le candidature sotto il rigido controllo delle loro segreterie. Ebbero diritto di voto tutti i maschi che avessero compiuto ventun anni e quelli di minore età che avessero prestato servizio militare durante la guerra. Il numero degli iscritti alle liste elettorali passò cosí dagli 8 672 249 a

11 115 441. In netta controtendenza con le diffuse pratiche pregiolittiane e giolittiane, Nitti si adoperò con energia e con successo – era la prima volta che ciò avveniva – affinché le autorità prefettizie non interferissero nelle elezioni. Alle urne si recò il 56,6%. I risultati misero a nudo la gravità della crisi di consenso alle forze di governo. Lo schieramento costituzionale, formato dai liberali di centro-destra e dai democratico-liberali di sinistra e radicali, ottenne 179 seggi contro i 310 precedenti; i socialisti massimalisti 156 seggi contro i 52 del 1913; i popolari 100 deputati; 39 furono i radicali eletti, 27 i socialisti riformisti, 20 i combattenti, 9 i repubblicani. I fascisti, che si presentarono solo a Milano, rastrellarono meno di 5000 voti e non ottennero alcun seggio. Su 508 seggi oltre la metà andò dunque ai due grandi partiti di massa. Ormai qualsiasi governo liberale non poteva piú contare su una maggioranza autonoma, e doveva dipendere dall’appoggio dei socialisti, che era da escludersi, o da quello, possibile ma critico, dei popolari. I socialisti, che, in quanto primo singolo partito si sentivano trionfatori, videro nei risultati elettorali la conferma che si avvicinava la loro ora. Per esprimere la propria avversione nei confronti della monarchia, il 1 o dicembre, in occasione dell’inaugurazione della nuova legislatura e del discorso di rito del re, uscirono dalla Camera dopo aver inneggiato alla repubblica socialista. Vennero aggrediti da un gruppo di nazionalisti, e all’aggressione seguirono scioperi di protesta accompagnati da scoppi di violenza. Il governo Nitti, che dopo le elezioni aveva ottenuto solo un tiepido sostegno dei popolari, nel marzo 1920 procedette a un rimpasto che lo privò di questo appoggio. Rimasto senza fiducia alla Camera, il 21 maggio formò, con la partecipazione di due popolari, il suo secondo ministero, che riuscí a sopravvivere solo per poche settimane. Il 9 giugno Nitti si dimise. Per riequilibrare il bilancio statale gravato dal peso del prezzo politico del pane, ne aveva deciso l’aumento, provocando scioperi e tumulti. Combattuto dai socialisti, non piú sostenuto dai popolari, che avevano accusato il governo di non aver tutelato le loro organizzazioni sindacali e sostenuto la loro lotta per la libertà del lavoro di fronte alle prevaricazioni dei socialisti, avversato da una larga parte dei liberali che deploravano i suoi progetti di nazionalizzazione, venne sostituito da Giolitti, che aveva allora settantasette anni. Giolitti formò il suo quinto governo, che sarebbe durato dal 15 giugno 1920 al 27 giugno 1921, con l’appoggio di una maggioranza formata da

liberali, democratici e popolari. Un segno della sua volontà di apertura in senso sociale fu la nomina a ministro del Lavoro e della Previdenza sociale di Arturo Labriola, che da tempo aveva abbandonato le posizioni sindacaliste rivoluzionarie e si era convertito al socialismo riformista. Benedetto Croce fu posto alla guida del ministero dell’Istruzione. Due i ministri popolari: Filippo Meda al Tesoro e Giuseppe Micheli all’Agricoltura. Sturzo, dato il suo notorio antigiolittismo, aveva consentito solo con riluttanza all’ingresso del Partito popolare nella maggioranza parlamentare e di due suoi ministri nell’esecutivo avendo ottenuto l’assenso di Giolitti all’introduzione dell’esame di Stato nelle scuole secondarie e all’impegno a tutelare la parità di diritti delle organizzazioni sindacali cattoliche con quelle socialiste. Ancora una volta, Turati respinse l’invito a entrare nel governo, con la motivazione che non sarebbe stato capito dal suo partito, dal quale, nonostante il dissenso sulla linea estremistica da esso adottata, non intendeva separarsi. Di età ormai avanzata, Giolitti rimaneva la piú eminente personalità del ceto politico liberale italiano, la sua mente piú lucida. Proprio il fatto che il suo ministero si sarebbe concluso con un pesante fallimento mostrò il carattere organico della crisi del sistema liberale. Il 12 ottobre 1919, durante la campagna elettorale per le elezioni di novembre, Giolitti aveva rivolto ai suoi elettori a Dronero un vigoroso discorso nel quale delineava un programma di governo in termini tali da indurre nazionalisti e conservatori retrivi a definirlo – con riferimento al fatto che a Giolitti era stato attribuito il collare dell’Annunziata, massima onorificenza concessa da Casa Savoia – il «bolscevico dell’Annunziata». I tratti piú caratterizzanti della sua linea erano la personale separazione dalla responsabilità per l’intervento nella guerra europea che aveva gettato l’Italia in una crisi tanto profonda, il duro attacco ai governi che avevano operato durante il conflitto, la rivendicazione della necessità di introdurre riforme atte a contrastare la crisi stessa, la ripresa del suo tradizionale Leitmotiv secondo cui il liberalismo italiano poteva continuare a esercitare la guida del Paese unicamente aprendosi alle esigenze di progresso delle classi lavoratrici e a una maggiore giustizia sociale, unitamente alla difesa delle istituzioni parlamentari, della democrazia politica, delle ragioni insomma che rendevano urgente un profondo rinnovamento nazionale. Si trattava dell’orgogliosa rivendicazione, diretta insieme contro reazionari, angusti conservatori, nazionalisti, popolari e socialisti, della non esaurita funzione di un

liberalismo capace di fare leva sulla democrazia e sul riformismo. Occorreva – disse – impedire una volta per tutte che il governo si arrogasse la facoltà di trascinare il Paese in guerra senza l’approvazione delle Camere e di stipulare accordi segreti come il patto di Londra, vanificando «la possibilità che minoranze audaci, o governi senza intelligenza e senza coscienza riescano a portare in guerra un popolo contro la sua volontà»; accrescere i poteri del Parlamento, rendendolo «piú indipendente dal potere esecutivo», e respingere quindi le campagne antiparlamentari dei «partiti reazionari»; capire che ormai «un governo il quale rappresenti principalmente le classi privilegiate è impossibile»; attribuire allo Stato il «sacro» compito di tutelare invalidi, mutilati e famiglie dei caduti; stabilire un’efficace tassazione progressiva rispondente appieno ai principî di una «vera giustizia sociale», colpendo in primo luogo le fortune accumulate dagli speculatori di guerra. Occorreva quindi battere «lo spirito conservatore piú ristretto, l’avversione ad ogni novità». Con un’intonazione radicale, Giolitti non esitò a denunciare «la crudele, delittuosa avidità di denaro che spinse uomini già ricchi a frodare lo Stato imponendo prezzi iniqui per ciò che era indispensabile alla difesa del Paese; a ingannare sulla qualità e quantità delle forniture con danno dei combattenti; e a giunger fino all’infamia di fornire al nemico le materie che gli occorrevano per abbattere il nostro esercito». I punti culminanti del grande discorso, che riprendeva punti essenziali della posizione espressa durante e dopo la crisi di fine secolo, furono la messa sotto accusa delle classi dirigenti che avevano provocato la guerra disastrosa e l’affermazione che si era aperta l’era del definitivo risveglio delle classi lavoratrici: Le tendenze reazionarie però non potranno piú prevalere, poiché l’immane conflitto, se impose alle classi popolari i maggiori sacrifici, diede in compenso alle medesime la coscienza dei loro diritti e della loro forza; e le classi privilegiate della società, che condussero l’umanità al disastro, piú non possono essere le sole dirigenti del mondo, i cui destini saranno d’ora innanzi nelle mani dei popoli 9.

Tornato al governo, come all’inizio del secolo Giolitti pensava di poter inaugurare un nuovo corso riformatore in Italia grazie alla sua abilità di mediatore fra le forze politiche. Ma si illuse, poiché in realtà mancavano i presupposti necessari per ripetere una simile operazione. In primo luogo egli non disponeva di una sicura maggioranza parlamentare e di un saldo

controllo sugli stessi liberali, una parte dei quali lo considerava troppo spostato a sinistra; in quanto neutralista aveva di fronte l’ostilità implacabile degli ex interventisti e dei nazionalisti; non poteva contare, all’interno delle file socialiste, sull’autorità di un Turati ormai emarginato dalle correnti maggioritarie, convinte che fosse giunta l’ora della rivoluzione socialista; i cattolici erano organizzati dal partito guidato da Sturzo, vecchio avversario di Giolitti, il quale dava all’esecutivo un sostegno ambiguo. Infine, il capo del governo doveva fare i conti con la furiosa ostilità di quei settori della borghesia che egli aveva denunciato come profittatori di guerra. Era dunque considerato nemico dai socialisti che vedevano in lui il difensore di una borghesia agonizzante, dai borghesi che lo detestavano perché supposto amico degli operai e dei contadini, dai nazionalisti e dai fascisti perché infame detrattore delle forze autenticamente patriottiche e della loro guerra. Quanto alla situazione economica, essa non era, come agli inizi del secolo, in una fase di espansione, ma in preda a gravissime difficoltà. Il programma di Giolitti si fondava essenzialmente su tre punti: chiudere con l’“avventura” di Fiume, che Nitti non aveva saputo affrontare, e definire le frontiere con la Iugoslavia; istituzionalizzare i conflitti fra capitale e lavoro e dare loro uno sfogo “normale” attraverso la contrattazione; avviare il risanamento del bilancio dello Stato con un nuovo regime fiscale in vista di una redistribuzione del reddito – sempre duramente avversata dagli strati privilegiati –, e abolire il prezzo politico del pane, ritenuto insostenibile per le finanze pubbliche. In politica estera Giolitti ottenne successi che lo resero piú che mai inviso agli occhi dei nazionalisti di tutte le correnti. Per spegnere un pericoloso focolaio di tensioni, nell’agosto 1920 l’Italia rinunciò al mandato dell’Italia sull’Albania, che venne sgombrata dalle truppe italiane e di cui venne riconosciuta l’indipendenza. Il 12 novembre, dopo una fase di intense trattative, venne firmato il trattato di Rapallo, in base al quale all’Italia erano riconosciuti il confine della Venezia Giulia secondo quanto stabilito dal trattato di Londra con piccoli ingrandimenti e il possesso di Zara, lasciando alla Iugoslavia la Dalmazia, mentre Fiume fu dichiarata «Stato libero». Cosí composta la tensione con il nuovo Stato iugoslavo, il quale accettò che entro i confini italiani fossero inglobati circa mezzo milione di slavi, Giolitti si accinse con energia a far sgombrare D’Annunzio da Fiume. All’inizio di dicembre il generale Enrico Caviglia prese le prime misure per attuare le

clausole del trattato con la Iugoslavia. Poiché D’Annunzio, che naturalmente aveva respinto il trattato di Rapallo, rifiutava di cedere il campo, il 24 dicembre una nave da guerra aprí il fuoco contro il “palazzo del governo” dannunziano. Gli scontri tra militari italiani e legionari dannunziani si protrassero per quattro giorni. Si trattò di quello che venne in seguito celebrato dai nazionalisti come il «Natale di sangue». D’Annunzio, che aveva giurato di voler morire piuttosto che abbandonare la città, si affrettò a cedere tutti i poteri; negli ultimi giorni del mese gli occupanti iniziarono lo sgombero e D’Annunzio il 18 gennaio 1921 abbandonò la città. Molti legionari sarebbero poi confluiti nelle file fasciste, nonostante Mussolini avesse allora di fatto abbandonato il poeta al suo destino e ne avesse respinto come velleitario il proposito di fare della questione fiumana l’occasione per un tentativo insurrezionale contro il governo, non solo per un maggiore spirito realistico ma anche perché temeva che D’Annunzio intendesse per quella via assumere lui la leadership delle forze nazionaliste e fasciste. In politica interna, pochi mesi dopo il suo insediamento, Giolitti dovette misurarsi con il piú grande conflitto del lavoro scoppiato in Italia nel dopoguerra. Il modo in cui lo affrontò mise in evidenza gli insuperabili ostacoli che minavano la sua strategia. Giolitti intendeva riconoscere un adeguato spazio al ruolo istituzionale del sindacato, voleva creare le condizioni per una redistribuzione del reddito colpendo gli extraprofitti di guerra e ristabilire un rapporto costruttivo fra la classe dirigente liberale e le correnti del socialismo riformista. Ma proprio questa insistenza sulla necessità di realizzare un processo di democratizzazione sociale e politica non gli consentiva di ottenere l’appoggio della borghesia, decisa a mantenere i propri privilegi, mentre il movimento operaio nella sua maggioranza dominato dai socialisti massimalisti lo avversava e la minoranza riformista invocava un maggiore grado di trasformazione del Paese in senso democratico e sociale che Giolitti non era in grado di assicurare: tanto piú non potendo contare sul sostegno dei popolari.

6. L’occupazione delle fabbriche. Il «biennio nero»: riflusso del movimento operaio e controffensiva fascista. Nel settembre 1919 si era costituito alla Fiat di Torino il primo Consiglio

di fabbrica, eletto non dai soli iscritti al sindacato ma da tutti gli operai. Tra l’autunno di quell’anno e la primavera del 1920 i Consigli, sotto l’influenza del gruppo comunista dell’«Ordine Nuovo», erano andati moltiplicandosi, rimanendo però limitati quasi esclusivamente alle industrie metallurgiche. Essi si ponevano in tensione con le commissioni interne accusate di essere diventate organi di collaborazione tra forza lavoro e direzioni aziendali e miravano a porle sotto il proprio controllo. Nel marzo-aprile 1920, durante il governo Nitti, si era avuto nella capitale piemontese un grande sciopero che, partito dalla Fiat, si era diffuso nella provincia, avendo come obiettivo principale il riconoscimento da parte degli industriali dei Consigli stessi. Ma lo sciopero, divenuto generale e giunto a mobilitare circa 120 000 operai, di fronte alla decisa opposizione della controparte e al mancato sostegno del Partito socialista e dei sindacati riformisti, fallí. Gli industriali non riconobbero i Consigli di fabbrica, con il consenso della Cgl che li considerava una minaccia alla propria autorità, e nel marzo decisero di rinserrare le proprie file, dando vita alla Confederazione generale dell’industria, come strumento per concordare una strategia comune di fronte all’inasprimento delle lotte operaie. A metà agosto maturò una situazione destinata a provocare un confronto durissimo fra il movimento operaio, gli industriali e la classe dirigente. Lo scontro mise a nudo tutto il velleitarismo e l’inconsistenza del massimalismo del Partito socialista, che, mentre diffondeva nelle masse la parola d’ordine «fare come in Russia», non avendo alcuna capacità di dirigerle concretamente verso la rivoluzione faceva al tempo stesso montare nella borghesia una volontà controrivoluzionaria e inclinazioni autoritarie. Avendo gli industriali rifiutato ogni aumento salariale e respinto la richiesta di aprire un’indagine sulle condizioni dell’industria siderurgica, la Fiom, il sindacato degli operai metallurgici, proclamò l’ostruzionismo, cioè il rallentamento della produzione, nelle officine metallurgiche e nei cantieri navali. Avendo poi la direzione delle officine dell’Alfa Romeo di Milano risposto il 30 agosto con la serrata, vale a dire con la sospensione dell’attività produttiva e la chiusura dei cancelli, la Fiom il giorno stesso decise di rimando l’occupazione delle fabbriche del settore in tutta la città. Da Milano il movimento dilagò. Il 1 o settembre l’occupazione si estese a Torino, che divenne il centro maggiore del movimento, al Piemonte, alla Liguria e ad altre zone d’Italia, andando ben oltre il settore metallurgico. Dinanzi all’imponenza delle occupazioni, che

giunsero a coinvolgere circa 500 000 operai, si aprí nel Partito socialista e nei sindacati un affannoso dibattito sul da farsi, nel corso del quale emerse il contrasto tra un’ala radicale che si interrogava sui passi da intraprendere per guidare un movimento che a essa pareva costituire il preludio, finalmente giunto, della rivoluzione proletaria e un’ala contraria guidata dal segretario nazionale della Cgl Ludovico D’Aragona la quale temeva che dall’insurrezione operaia non sarebbe derivato altro che «il massacro del popolo». Intanto gli operai presero a gestire in proprio la produzione e apprestarono una parvenza di difesa militare delle fabbriche, con la comparsa di “guardie rosse” malamente armate. Da Mosca l’Internazionale comunista affermò che l’Italia era giunta alle soglie della rivoluzione socialista; convinzione a questo punto condivisa anche da gran parte della borghesia. Per decidere il da farsi furono convocati quelli che – echeggiando gli inizi della rivoluzione francese del 1789 – vennero chiamati gli «Stati generali operai». In una prima riunione del 4-5 settembre le opposte correnti assunsero posizioni interlocutorie. Tra il 9 e l’11 settembre si ebbe un susseguirsi di altre riunioni, in cui i dirigenti del Psi e quelli della Cgl si confrontarono in clima di incertezza e confusione. In un primo tempo il segretario del Psi Egidio Gennari espresse la disponibilità del partito ad assumere la guida del movimento estendendolo a tutto il Paese. Togliatti, segretario del Psi di Torino e portavoce del gruppo dell’«Ordine Nuovo», affermò che occorreva definire quale fosse il fine da perseguire e che, se si fosse intrapresa la via dell’insurrezione, i torinesi non sarebbero stati in grado di attaccare «da soli». D’Aragona, decisamente contrario alle velleità rivoluzionarie, fece infine prevalere un ordine del giorno sfavorevole all’estensione delle occupazioni e alla mobilitazione delle masse in senso rivoluzionario, inducendo a quel punto Gennari a dichiarare che, in assenza di unità tra partito e sindacato, il partito rinunciava a guidare il movimento. Venne invece approvata la richiesta del «controllo sindacale delle aziende», avanzata dai dirigenti riformisti. La rivoluzione proletaria italiana, in assenza di chi se ne assumesse la responsabilità, date le profonde divisioni all’interno degli organi direttivi delle organizzazioni delle masse lavoratrici e non avendo i rivoluzionari la necessaria determinazione, rivelò la sua natura di progetto velleitario. Si tenga conto che i “rivoluzionari” non si ponevano il problema del proprio armamento né avrebbero avuto modo di risolverlo. Giolitti dal canto suo, chiamato a fronteggiare una situazione delicata e

difficile, agí con lucidità e mantenendo i nervi saldi. Avendo compreso che il temuto sbocco rivoluzionario si sarebbe esaurito se non si fosse fatto ricorso alla repressione militare, riuscí a disinnescare la mina che sarebbe esplosa nel caso di uno scontro tra soldati e operai. Sennonché – per essersi rifiutato di impiegare l’esercito contro gli occupanti delle fabbriche, come industriali e i conservatori di varia tendenza chiedevano a gran voce, per avere atteso che emergessero le contraddizioni e le incertezze dei dirigenti socialisti e sindacali e che la spinta iniziale del movimento si esaurisse e per aver cercato e ottenuto infine un’intesa con i sindacati – vide ergersi contro di lui una barriera di aperta ostilità da parte degli industriali, scandalizzati per quella che ai loro occhi appariva la mancata difesa dell’autorità dello Stato e dei diritti di proprietà. Eppure Giolitti aveva preso tutte le misure necessarie per far fronte a ogni evenienza: aveva fatto circondare le fabbriche dalle forze dell’ordine, posto sotto controllo i punti nevralgici dell’apparato statale, favorito l’azione dei sindacalisti riformisti: tutto ciò per impedire l’unificazione in senso rivoluzionario delle varie componenti del movimento operaio e lo scoppio di un’insurrezione politica violenta, insomma per scongiurare la guerra civile. Quando vide che i socialisti rinunciavano a dirigere una rivoluzione si adoperò, con l’opposizione iniziale degli industriali, per raggiungere un accordo sulla base di un progetto di “controllo operaio” sulle aziende, che venne prima approvato il 22 settembre a grande maggioranza da un congresso della Cgl e poi, anche qui con una forte maggioranza, dagli operai mediante un referendum. Ebbe cosí fine l’occupazione delle fabbriche. Il progetto di controllo operaio non sarebbe mai stato attuato. Dopo il ritorno alla normalità, l’organo degli industriali metallurgici condusse un attacco frontale alla linea seguita da Giolitti, scrivendo che «contro le innumeri violazioni» ai «sacrosanti principî» della libertà e della proprietà «era doveroso attendersi un energico atteggiamento del Governo a difesa delle istituzioni e per la rigida applicazione delle leggi vigenti», mentre si era assistito alla «abdicazione dei poteri dello Stato a una massa che intendeva imporsi e sovrapporsi allo Stato medesimo con i mezzi violenti»; che «di fronte alle piú sfacciate violazioni della legge» lo Stato «è rimasto inerte spettatore, confessando anzi la sua impotenza ad intervenire» 10. Una tale presa di posizione degli industriali trasformò cosí il successo ottenuto da Giolitti nella composizione del conflitto innescato dall’occupazione delle fabbriche in una sconfitta politica per il capo del

governo, segnando un divorzio che non sarebbe stato piú superato tra la componente democratico-riformista della classe dirigente e quella – avviata a diventare maggioritaria – favorevole a imboccare la via della reazione sociale e dell’autoritarismo politico. Andava profilandosi nella crisi del dopoguerra un esito opposto a quello che si era avuto nella crisi di fine secolo. La conclusione dell’occupazione delle fabbriche ebbe un triplice effetto: diede un colpo gravissimo alla linea politica di Giolitti; rappresentò una irrimediabile débâcle per il Partito socialista; inasprí ulteriormente i conflitti politici e sociali all’interno del Paese. Nelle file degli operai si diffuse la sensazione di avere subito una grave sconfitta a causa dei dissidi sorti tra il partito e la Cgl. L’estrema sinistra del Partito socialista, di indirizzo comunista e diretta da Amadeo Bordiga e da Antonio Gramsci, considerò la condotta della maggioranza massimalista come la dimostrazione di tutti gli equivoci e le debolezze del massimalismo, rivoluzionario a parole ma incapace nei fatti, e ne trasse la conclusione che fosse giunta l’ora di scindersi dal Partito socialista e di dare al proletariato la guida che, in forza della sua determinazione nell’azione e della superiorità della propria ideologia, lo avrebbe portato alla vittoria. Dal canto suo, la grande industria, allineandosi sulle posizioni che erano già state anticipate dagli agrari particolarmente del Ferrarese, incominciò a considerare i fascisti un utile, persino necessario strumento da contrapporre al movimento operaio e prese perciò a finanziarli in modo consistente. Fu cosí che gli effetti indotti dalla conclusione dell’occupazione delle fabbriche portarono alla separazione da un lato della borghesia industriale e agraria dal governo Giolitti e dall’altro dei comunisti dal Partito socialista. Un doppio movimento dagli aspetti speculari: il clamoroso insuccesso sia del piú notevole leader di cui disponessero i liberali sia del massimalismo socialista pseudorivoluzionario. Si erano create a quel punto tutte le condizioni favorevoli al determinante intervento di un fascismo avviato a veder crescere rapidamente le sue forze con l’appoggio di industriali, agrari, settori importanti dell’esercito, della polizia e dell’apparato dello Stato e con la benevolenza di ampi settori della magistratura. Fu soprattutto a partire dalle campagne che tra la fine del 1920 e gli inizi del 1921 il fascismo si sviluppò e prese rapidamente quota. Nelle aree intorno a Cremona, Ferrara, Bologna si mobilitarono i cosiddetti “ras”, i cui esponenti piú rappresentativi erano Roberto Farinacci, Italo Balbo, Achille Grandi, i quali con le loro squadre – fornite di armamenti e di mezzi di

trasporto anche dallo stesso esercito – aggredivano i socialisti e i sindacalisti e commettevano violenze contro le organizzazioni del movimento operaio (sezioni socialiste, camere del lavoro, cooperative ecc.), in molti casi con la tolleranza e persino l’aperta complicità delle autorità pubbliche. Gli agrari, che vedevano con soddisfazione le già forti posizioni dei socialisti crollare sotto i colpi dei fascisti, non lesinavano i finanziamenti. Dall’EmiliaRomagna lo squadrismo fascista si diffuse rapidamente in Toscana e Umbria. Nuovi sindacati fascisti imposero con la forza contratti favorevoli ai proprietari. Ma era ormai in tutta l’Italia centro-settentrionale che le “squadre d’azione” prendevano d’assalto le sedi dei sindacati e del Partito socialista. Erano formate non solo da giovani e piccoli borghesi, ma anche da sottoproletari e da avventurieri prezzolati. Ebbe in tal modo inizio la seconda guerra civile nella storia dello Stato unitario – dopo la prima rappresentata dalla guerra di brigantaggio – che Giolitti aveva vanamente tentato di risparmiare al Paese. Le leggi fatte approvare da Giolitti tra il luglio e l’agosto 1920, con cui furono stabilite la nominatività dei titoli azionari, l’aumento delle tasse di successione e l’avocazione allo Stato dei sovraprofitti di guerra, vennero congiuntamente avversate dalla borghesia e dal Vaticano il quale, in possesso di quote ingenti di titoli non nominativi, influí sulla crescente ostilità del Partito popolare verso Giolitti. Tali leggi non entrarono in vigore e sarebbero state in seguito abrogate. Nel febbraio 1921 Giolitti prese un’altra importante misura, e cioè l’abolizione del prezzo politico del pane, favorita dal calo del prezzo dei cereali nel mercato internazionale; il che contribuí ad alleggerire il deficit dello Stato. Nell’ottobre-novembre 1920 si svolsero le elezioni amministrative. E ancora una volta i due partiti di massa ottennero una forte affermazione. I socialisti conquistarono la maggioranza in 2022 comuni su 8836, i popolari in 1613, i liberali e democratici in 4655. Nonostante la sconfitta subita dalla classe operaia nell’occupazione delle fabbriche e una perdita relativa di consenso, il Psi restava elettoralmente forte; e ciò acuiva la volontà di reazione di gran parte della classe dirigente. L’ora del fascismo era davvero ormai suonata. I fasci e i loro iscritti andarono moltiplicandosi rapidamente, mettendo radici anche nelle masse popolari. Gli iscritti, che nel dicembre 1920 erano circa 20 000, nel luglio 1921 salirono a oltre 200 000, con una percentuale di oltre il 40% formata da lavoratori della terra e dell’industria,

del 28 da impiegati, insegnanti e studenti, del 12 da proprietari terrieri e agricoltori, del 9 da commercianti, del 6-7 da professionisti, del 3 circa da industriali. La vittoria conseguita dai socialisti alle elezioni comunali di Bologna fu all’origine il 21 novembre di uno dei maggiori episodi di violenza compiuti dalle squadre nere. Un mezzo migliaio di fascisti circondarono Palazzo d’Accursio, sede del comune, mentre i socialisti festeggiavano. Ne nacque uno scontro violento, con dieci morti e una cinquantina di feriti, tutti socialisti; il che provocò lo scioglimento della nuova amministrazione da parte del governo. Il 20 dicembre a Ferrara un altro scontro causò tre morti tra i fascisti e uno tra i socialisti. Nei soli mesi tra il gennaio e l’aprile 1920 i morti avevano superato il centinaio, tra i quali 25 fascisti, 41 socialisti e 20 appartenenti alle forze dell’ordine. Giolitti, il cui piano riformistico era ormai in piena crisi, reagí allo squadrismo fascista in modo analogo a quello di una parte dei liberali e della borghesia. Egli riteneva di poter servirsi del fascismo come di uno strumento per reprimere l’estremismo socialista, creare le condizioni atte a rinvigorire lo Stato liberale e portare in un secondo tempo il movimento nell’alveo parlamentare, seguendo i canoni tipici del trasformismo. Sperava – secondo un piano ispirato alla Realpolitik destinato a rivelarsi illusorio – di coinvolgere non solo i popolari ma anche una componente dei socialisti nella strategia guidata dai liberali, avvantaggiati dall’indebolimento dei massimalisti seguito al fallimento dell’occupazione delle fabbriche. Ma il suo piano urtava anzitutto contro il fatto di non disporre piú di un sufficiente consenso in primo luogo da parte delle varie correnti interne al liberalismo. Il 1921 fu l’anno che segnò una svolta decisiva nella crisi – divenuta a quel punto di carattere organico – dello Stato liberale, preannunciata dall’esito delle elezioni del novembre 1919. All’approfondirsi delle divisioni all’interno dei liberali corrispose un processo analogo nel Partito socialista, che si concluse con la scissione e la nascita del Partito comunista d’Italia. L’ala comunista del Psi era convinta che in Italia persistessero tutte le condizioni favorevoli alla rivoluzione, che soltanto una direzione politica non all’altezza del compito – come dimostrato dalle vicende dell’occupazione delle fabbriche – impedisse la presa del potere da parte del proletariato e che fosse quindi giunto il momento di dare alle masse operaie e contadine la guida che queste attendevano e a loro mancava. Essa insomma continuava a ritenere che la borghesia fosse irrimediabilmente

indebolita e il capitalismo non avesse piú un avvenire; si sentiva confortata e sorretta da quanto erano profondi e diffusi nelle masse lavoratrici i sentimenti anticapitalistici e considerava il fascismo come il tentativo antistorico, fallimentare di salvare un ordine politico e sociale entrato nella fase della sua rovina. L’ipotesi si rivelò del tutto errata a partire dal fatto che venne a mancare ai comunisti il primo presupposto della loro strategia: la conquista del consenso maggioritario dei lavoratori. Infatti, dopo la costituzione del Partito comunista, l’influenza di questo sulle masse rimase assai inferiore a quella del Partito socialista e dei sindacati riformisti. Ma i comunisti rimasero fermi nella persuasione che a cambiare la situazione avrebbe provveduto immancabilmente l’avvenire. La scissione del Partito socialista si consumò al XVII Congresso, svoltosi a Livorno tra il 15 e il 21 gennaio 1921 nella sede del teatro Goldoni. Terracini, che rappresentava la corrente torinese dei comunisti, nel corso dei suoi lavori sostenne che in Italia esistevano «le premesse materiali rivoluzionarie», ma che mancavano «le premesse spirituali» e che occorreva perciò creare il Partito comunista, «poiché solo la sua esistenza» era in grado di crearle; che il Partito comunista, a differenza del Partito socialista, era «quello che non si lascia mai sorpassare dai fatti, ma li prevede e sa guidarli verso una meta» 11 seguendo l’esempio vittorioso dei bolscevichi russi. Bordiga, leader della corrente comunista napoletana, disse che, una volta svelato ai lavoratori il volto della «insidia revisionista» 12 e la natura della crisi italiana che suonava «dittatura borghese o dittatura proletaria», sarebbe stata spianata la via al potere della classe operaia 13. Il capo dei massimalisti, Serrati, messo sotto accusa, replicò ai comunisti che le loro correnti di Torino e di Napoli erano divise anzitutto sui modi di affrontare la rivoluzione. Rivolgendosi a essi, disse: «Non siete neppure omogenei per il vostro atteggiamento anche di fronte ai problemi piú urgenti, come sono, per esempio, quelli della rivoluzione, per cui fra Gramsci e Gennari, fra Gramsci e Bordiga vi è profonda differenza. [...] Neppure su ciò che si riferisce agli elementi sostanziali della vostra dottrina» 14. Contro massimalisti e comunisti si pronunciò Turati, il quale respinse la parola d’ordine della dittatura del proletariato, condivisa dai massimalisti: La dittatura del proletariato, per noi, o è dittatura di minoranza, e allora è imprescindibilmente dispotismo tirannico, o è dittatura di maggioranza, ed è un vero non

senso, poiché la maggioranza non è dittatura, è la volontà del popolo, è la volontà sovrana 15.

Levando la sua voce di Cassandra, il leader storico dei riformisti predisse che il rivoluzionarismo inconcludente avrebbe avuto quale unico effetto di scatenare la violenza degli avversari: Noi lavoriamo troppo spesso per i nostri nemici: noi creiamo la reazione, creiamo il fascismo, creiamo il partito popolare, intimidendo, intimorendo oltre misura, proclamando con una suprema ingenuità, anche dal punto di vista cospiratorio, la preparazione dell’azione ultima 16.

E predisse anche che i riformisti denunciati come «socialtraditori» sarebbero stati «vincitori alla fine», «quando il mito bolscevico», divenuto per i comunisti una religione, «sarà evaporato», perché «avrà fatto fallimento, o sarà trasformato dalla forza delle cose» 17. I comunisti, ribadito che il loro scopo era «l’abbattimento violento del potere borghese», abbandonato il teatro Goldoni, si trasferirono al teatro San Marco e qui proclamarono ufficialmente costituito il «Partito Comunista d’Italia, sezione dell’Internazionale comunista». La duplice sconfitta di Giolitti nel campo liberale e di Turati in quello socialista, il riflusso del movimento operaio legato alla sinistra dopo l’occupazione delle fabbriche e l’ascesa del fascismo sostenuto da borghesi e agrari significarono il passaggio dal «biennio rosso» del 1919-20 al «biennio nero» del 1921-22 nel corso del quale l’“esplosione delle antitesi” avrebbe raggiunto il culmine provocando tra l’ottobre 1922 e il 1925 il crollo dello Stato liberale e l’avvento della dittatura fascista. Una partecipazione democratica che non aveva precedenti, manifestatasi nelle elezioni del novembre 1919, aveva creato in Italia le condizioni, in conseguenza dell’erompere di conflitti politici e sociali non componibili, non già di una piú solida democrazia ma della sua disgregazione. Dal canto suo Mussolini, mostrando la lucidità che mancava ai socialisti massimalisti e ai comunisti, s’era reso esattamente conto che la rivoluzione socialista di stampo bolscevico in Italia era un mito ideologico che non aveva alcuna possibilità di realizzarsi e che il movimento operaio andava perdendo irrimediabilmente slancio. Dopo avere offerto, obbedendo alla sua tipica

tattica opportunistica, i suoi servigi alla classe operaia quando l’occupazione delle fabbriche era al culmine, nel gennaio 1921 fece un’aperta professione di fede nei valori «insostituibili» del capitalismo. D’altro canto, era del pari conscio della crisi in cui versavano i liberali. Sicché si inoltrò nella strada che lo avrebbe portato al successo seguendo tre direttrici: attaccare frontalmente i “rossi”, conquistare il consenso dei ceti medi e alti, accattivarsi le simpatie del Vaticano per indebolire e infine dividere i popolari. Già al II Congresso nazionale del maggio 1920 il fascismo aveva esplicitamente messo in soffitta il radicalismo sociale del 1919. Intanto la crisi economica nei primi mesi del 1921 andava aggravandosi. La produzione industriale subí una notevole contrazione, in conseguenza dell’elevato rialzo dei prezzi internazionali delle materie prime; seguí una forte disoccupazione accompagnata dalla decisa volontà degli industriali di puntare all’abbassamento dei salari. Il timore della disoccupazione agí su una classe operaia ormai sfiduciata; e il numero degli scioperi, il cui moltiplicarsi aveva provocato in gran parte del Paese un senso di grande stanchezza e disagio, diminuí drasticamente. In questo quadro il Giolitti promotore di una mediazione fra le varie forze politiche e sociali e di leggi che colpivano sul piano fiscale i grandi profitti era sempre piú sgradito agli industriali e agli agrari, i quali invece guardavano con aperta simpatia a Mussolini, convertitosi ai «valori del capitalismo», e alle sue squadre che nel 1921 stavano aggredendo con successo le organizzazioni dei lavoratori. Mentre i soldi di industriali e agrari confluivano in misura crescente nelle casse fasciste, le direttive, pur impartite dal governo, per far rispettare l’ordine pubblico rimanevano lettera morta, grazie alla complicità delle autorità con le squadre fasciste, e si moltiplicavano gli attacchi condotti contro i loro avversari. Sentendo traballare la sua maggioranza in Parlamento, in aprile Giolitti fece sciogliere le Camere e indire nuove elezioni, che ebbero luogo il 15 maggio 1921. Queste sanzionarono l’inserimento del fascismo negli schieramenti della classe dirigente e il riconoscimento esplicito dell’utilità della sua azione contro il socialismo. La campagna elettorale e le due settimane seguenti furono accompagnate da un’ondata di violenze, con 176 morti, in maggioranza socialisti. Complessivamente nei primi sei mesi dell’anno i fascisti distrussero, secondo dati probabilmente per difetto, oltre 700 sedi di tipografie e giornali, case del popolo, camere del lavoro, sedi di

cooperative, leghe, sindacati, società di mutuo soccorso, sezioni e circoli socialisti e comunisti, sedi di associazioni culturali e ricreative. Come già nelle elezioni amministrative del novembre 1920, furono formati “blocchi nazionali” per far fronte ai due grandi partiti di massa. Con l’intento di riassorbirli e condizionarli, Giolitti vi incluse i fascisti, che cosí ricevettero una palese legittimazione politica da parte della classe dirigente liberale. Il Psi ottenne 1 631 435 voti e 123 seggi, rispetto ai 156 precedenti; il Pc d’Italia 304 719 voti e 15 seggi; il Partito popolare 1 347 305 voti salendo da 100 a 108 seggi; alle liste di liberali, democratici di varia sfumatura e aderenti ai blocchi nazionali andarono 2 846 745 voti e 265 seggi, di cui 35 ai fascisti e 10 ai nazionalisti. Eletto deputato, Mussolini nel suo primo discorso alla Camera del 21 giugno non esitò a respingere il disegno giolittiano di integrare il fascismo nel campo moderato liberale. Affermò che «è inutile che Giolitti dica che vuole restaurare l’autorità dello Stato [...], perché ci sono già tre o quattro Stati in Italia, che si contendono il probabile, possibile esercizio del potere». Ai comunisti disse che inseguivano «assurdità» e che con loro «non ci potrà essere che il combattimento»; naturalmente accusò anche i socialisti di essere nemici della nazione, mentre riconobbe alla Cgl di avere nel suo seno dirigenti di valore e – dichiarandosi favorevole «a perfezionare la nostra legislazione sociale» – la esortò a separare le sue sorti da quelle del Psi. Ai popolari mostrò la mano tesa, ma solo relativamente; soprattutto si preoccupò di trovare orecchie benevole in Vaticano. Assicurò che il fascismo non era anticlericale, che lui non era un divorzista, che sosteneva la libertà della scuola ed era vicino al popolarismo nel programma di difesa della piccola proprietà rurale. Parlando alla Chiesa, prima proclamò che «l’unica idea universale che oggi esista a Roma, è quella che si irradia dal Vaticano»; poi proseguí che, se questo avesse rinunciato definitivamente ai suoi sogni temporalistici, l’Italia avrebbe dovuto assicurare ad esso tutti gli aiuti e le agevolazioni «che una potenza profana ha a sua disposizione». Cosí ammonito il Partito popolare che il fascismo aveva una sua linea di conciliazione con la Chiesa, lanciò una sorta di ultimatum: «Il Partito popolare deve scegliere: o amico nostro o nostro nemico o neutrale». In tema di politica economica e sociale, con il chiaro intento di ottenere la benevolenza della borghesia, inneggiò al capitalismo:

ci opporremo con tutte le nostre forze a tentativi di socializzazione, di statizzazione, di collettivizzazione [...], comincia adesso la vera storia del capitalismo, perché il capitalismo non è solo un sistema di oppressione, ma è anche una selezione di valori, una coordinazione di gerarchie, un senso piú ampiamente sviluppato della responsabilità individuale.

Bisognava «abolire lo Stato collettivista» frutto dell’economia di guerra e «ritornare allo Stato manchesteriano» Quanto alle condizioni del Paese, non esitò a definirle di una «guerra civile» che «si aggrava». E assicurò tutte le parti ostili alla sinistra: «è pacifico, ormai, che sul terreno della violenza le masse operaie saranno battute». Definí le masse operaie «pacifondaie», in quanto sono «sempre le riserve statiche delle società umane», contrapponendole alle «piccole aristocrazie» che sanno sfidare «il rischio, il pericolo» e hanno «il gusto dell’avventura»; e assicurò che i socialisti e i comunisti sarebbero stati debellati. Dopo avere fatto l’elogio del bastone, Mussolini concluse mostrandosi disponibile anche all’uso della carota. La violenza era stata imposta ai fascisti da quella dei suoi nemici, e perciò essi erano «disposti a disarmare», se gli altri disarmassero a loro volta 18. Il leader del fascismo aveva giocato assai abilmente le sue carte. Con quel discorso mostrò di avere ormai percorso tutto il tragitto che lo aveva portato dalle posizioni piú rivoluzionarie a quella di guardiano materialmente e politicamente armato di quei valori e principî che in passato aveva dichiarato di voler distruggere. Poco piú di un mese dalle elezioni, il 27 giugno Giolitti presentò le dimissioni, dopo che la Camera gli aveva dato la fiducia con una maggioranza risicata e avere preso atto che le linee programmatiche da lui delineate avevano suscitato critiche e opposizioni da parte di un vasto e articolato fronte che andava dai liberali di destra e dai democratici di Nitti ai popolari e ai socialisti riformisti. La caduta, questa volta senza ritorni, del vecchio ed eminente uomo politico liberale indicava che lo Stato liberale andava inesorabilmente avviandosi verso la crisi finale. La borghesia era pronta a ricavare tutti i frutti possibili dal fallimento dell’offensiva condotta dal movimento operaio nel 1919-20; offensiva che, guidata al peggio dal Partito socialista, si era esaurita di fronte alla resistenza opposta da un blocco sociale industriale-agrario che – sorretto da ampi strati del ceto medio e reso piú sicuro di sé dall’appoggio fornitogli dal fascismo – aveva dimostrato di

possedere forze sufficienti per vanificare una rivoluzione socialista e di essere in grado di guidare una controffensiva generale nel quadro di un sempre piú marcato spostamento politico orientato a destra e in senso via via piú antiparlamentare. Socialisti e comunisti mantenevano ancora complessivamente un notevole consenso elettorale, ma erano divisi da contrasti inconciliabili e poggiavano su un movimento operaio estremamente indebolito. L’ipotesi poi su cui era nato il Partito comunista, secondo cui la guida da essi fornita alle masse lavoratrici avrebbe consentito di rovesciare i rapporti di forza sia tra comunisti e socialisti, sia tra forze della conservazione e forze della rivoluzione sociale, risultò rapidamente una mera illusione. 1. L. Sturzo, I discorsi politici, Istituto Luigi Sturzo, Roma 1951, pp. 3-5. 2. Il programma in M. Reineri, Documenti della storia. Il movimento cattolico italiano dall’unità al 1948, Loescher, Torino 1983, pp. 132-33. 3. Ibid., p. 134. 4. Sturzo, I discorsi politici cit., p. 13. 5. Il testo in Cartiglia (a cura di), Documenti della storia, Il partito socialista italiano 1892-1962 cit., p. 218. 6. Ibid., pp. 220-23. 7. A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1920, Einaudi, Torino 1955, p. 37. 8. Il testo del programma in R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario 1883-1920, Appendice, Einaudi, Torino 1965, pp. 742-45. 9. Il testo del discorso in Giolitti, Discorsi extraparlamentari cit., pp. 294-327. 10. La vertenza metallurgica, in «La metallurgia italiana», XII (1920), n. 9, p. 203. 11. L. Cortesi (a cura di), Il socialismo italiano tra riforme e rivoluzione. Dibattiti congressuali del Psi 1892-1921, Laterza, Bari 1969, pp. 882-84. 12. Ibid., p. 897. 13. Ibid., p. 900. 14. Ibid., p. 931. 15. Ibid., p. 938. 16. Ibid., p. 940. 17. Ibid., p. 947. 18. Opera omnia di Benito Mussolini, a cura di E. e D. Susmel, 44 voll., La Fenice, Firenze, 1951-80, vol. XVI, pp. 440-45. D’ora innanzi i volumi dell’opera saranno indicati solo con Opera omnia e numero romano.

Capitolo settimo L’avvento al potere del fascismo in Italia e il crollo dello Stato liberale

1. Bonapartismo e fascismo. Il movimento fascista e quello nazionalsocialista sorsero in Italia e in Germania nel 1919-20 in un periodo di acuta crisi politica e sociale, con l’intento di opporsi tanto al socialismo e al comunismo quanto alla liberaldemocrazia. Dopo essere rimasti per un certo periodo forze di scarso peso, fascismo e nazionalsocialismo presero infine, l’uno dapprima in Italia e l’altro poi in Germania, un vigore tale da consentire loro di annientare non solo il movimento operaio, le sue organizzazioni sindacali e i suoi partiti, ma anche tutte le altre formazioni politiche di varia tendenza, fino a conquistare il monopolio dell’azione politica, con un carattere cosí radicale e globale che non aveva precedenti nella storia dell’Europa occidentale. Nonostante fossero i nemici piú irriducibili dei comunisti, nel distruggere il pluralismo partitico e le libertà politiche e civili fascisti e nazisti seguirono le orme della dittatura instaurata dai bolscevichi in Russia, perseguendo l’obiettivo di creare nei loro rispettivi Paesi degli Stati «totalitari». «Fascismo» è il termine con cui vennero correntemente accomunati i regimi fascista italiano e nazionalsocialista tedesco per le importanti analogie tra di essi, al di là delle tutt’altro che secondarie differenze, per l’influenza che il primo esercitò sul secondo, asceso al potere dieci anni dopo. Già altri regimi, in primo luogo quello «bonapartistico» nella Francia di Napoleone III e quello «bismarckiano» in Germania, avevano realizzato nel corso della seconda metà dell’Ottocento forme di dominio basate sul “monopolio dell’autorità” politica da parte di un blocco di forze che controllava lo Stato, l’amministrazione, le forze armate; ma tale tipo di dominio non escludeva che nella società restassero operanti una pluralità di indirizzi culturali e organizzazioni anche partitiche e che queste mantenessero una loro agibilità, anche se con la loro esclusione dalla direzione dello Stato. I fascismi hanno rappresentato un salto ulteriore nella tipologia delle reazioni moderne. Essi hanno dato vita a regimi in cui ogni forma di opposizione politica e sociale veniva combattuta, stroncata e messa fuori legge. Dal «monopolio

dell’autorità» a livello della direzione politica e statale i «fascismi» sono passati al «monopolio politico». Questo nuovo tipo di «monopolio» non veniva piú realizzato, come nei regimi autoritari tradizionali, prevalentemente mediante il controllo esercitato dal governo e dagli apparati dello Stato (burocrazia, magistratura, esercito, polizia) sulla società e le manipolazioni piú o meno esplicite del voto, ma attraverso l’abolizione tout court del pluralismo ideologico, politico e partitico e lo stretto e organico rapporto fra gli apparati statali e le organizzazioni del partito unico al potere. Di qui il carattere dittatoriale, «totalitario», dei fascismi, i quali, oltre a distruggere tutte altre le forze politiche, si posero al tempo stesso il compito – riuscito con un successo molto maggiore ai nazisti che ai fascisti italiani – di ottenere il consenso delle masse lavoratrici da essi irreggimentate, manipolate e manovrate. Gli unici soggetti a cui fu consentito di mantenere una relativa autonomia furono le chiese, perché considerate funzionali alla stabilità dei regimi. Fu appunto questa relativa autonomia che consentí ad ambienti limitati delle Chiese protestanti e cattoliche di opporre significative resistenze, in particolar modo nei confronti della politica razziale, subendo persecuzioni in Germania soprattutto ma anche in Italia, seppure con misure assai meno sistematiche e violente. La conquista del monopolio politico da parte dei fascisti e dei nazisti fu il prodotto di circostanze nuove della lotta tra i partiti e tra i gruppi e le classi sociali. Nel clima tumultuoso creato dalla crisi sociale e politica seguita alla fine della guerra mondiale, profonda in Italia e profondissima in Germania, e nel contesto della sempre maggiore crisi di autorità e di capacità di direzione da parte dei partiti di governo fedeli alle istituzioni parlamentari, i rapporti fra le classi e i soggetti politici si delineavano in un quadro caratterizzato dalla presenza di un forte movimento operaio, una parte del quale – formato dai socialisti di orientamento radicale e dai comunisti – aveva come esplicito programma di mettere in atto la rivoluzione anticapitalistica. Di qui l’avversione dei fascismi verso non soltanto il socialismo e il comunismo, considerati elementi disgregatori della nazione, ma anche il liberalismo e il parlamentarismo accusati di non essere in grado di unire le forze “sane” del Paese contro il “pericolo rosso” e di pacificare una società dilaniata da conflitti tra le classi e inconciliabili ideologie. Di qui la “missione” rigeneratrice che si assegnarono i fascismi: fare del partito unico dittatoriale,

dei suoi capi carismatici e dello Stato gli strumenti per ricostruire l’unità organica del corpo politico e sociale; imporre il rispetto delle inevitabili differenze economiche e sociali; affermare i giusti principî gerarchici. Al fine di consolidare il monopolio politico non bastava procedere alla centralizzazione dell’autorità. Si rendeva necessario compiere il salto di qualità consistente nel creare una forza organizzata composta oltre che dal partito da una milizia armata, e dotarla di un’ideologia in grado, superata la fase della lotta frontale nelle strade e nelle piazze contro le forze avversarie, di arrivare da ultimo all’asservimento dello Stato e dei suoi apparati; e, sgombrato il campo dai nemici, stabilire un intimo rapporto fra partito e Stato e procedere alla totale «fascistizzazione» o «nazificazione» delle istituzioni, servendosi dell’uso sistematico e capillare della violenza e della repressione di ogni residua opposizione. Il successo di una simile strategia aveva come presupposto – oltre che il disarmo politico del movimento operaio e dei partiti liberaldemocratici – la conquista della fiducia delle classi alte: il grande capitale, i quadri superiori della burocrazia, la magistratura, i vertici delle forze armate, la borghesia, i ceti medi. Senza la disponibilità di tali soggetti a un mutamento qualitativo delle forme di direzione politica, le forze fasciste non avrebbero potuto puntare alla conquista dello Stato. Alla marcia unitaria dei fascismi si opposero vanamente sia i partiti di un movimento operaio diviso in correnti e partiti reciprocamente nemici sia le frazioni della borghesia rimaste ancorate ai principî del liberalismo e del parlamentarismo: tutti segnati da contrasti tra loro, incertezze, scoraggiamento e, infine, dall’incapacità di resistenza o dalla disposizione all’acquiescenza. La conquista del potere da parte dei fascisti e dei nazisti ebbe quale presupposto il sistematico ricorso alla violenza, esercitata mediante le loro formazioni paramilitari. I comunisti e altri gruppi radicali minoritari cercarono, soprattutto in Germania, di rispondere sullo stesso terreno; ma vennero duramente battuti: vuoi per l’insufficiente consenso di cui godevano nelle file degli stessi lavoratori, rimasti nella maggioranza fedeli ai partiti socialisti e ai sindacati riformisti e in parte confluiti nelle file fasciste, vuoi in conseguenza del sostegno che influenti settori degli apparati statali diedero a Mussolini e a Hitler prima della loro ascesa al potere e della crescente simpatia di cui questi godevano da parte di quelle correnti conservatrici che si illusero di poter manovrarli e portarli al governo in via transitoria, in attesa

cioè di riprendere in mano le redini del potere.

2. La marcia su Roma e il primo governo Mussolini. Nel luglio 1921 a Giolitti successe Ivanoe Bonomi, che costituí un governo di coalizione fra liberali, popolari e socialriformisti. Bonomi proveniva dal Partito socialista; espulso, nel 1912 aveva fondato con Bissolati il Partito socialista riformista. Volontario nella Prima guerra mondiale, era poi stato ministro nei governi Boselli, Orlando, Nitti e Giolitti. Fu durante il suo governo che fallí definitivamente il progetto di “costituzionalizzare” il fascismo, secondo quelle che erano state le speranze di Giolitti. Mussolini, entrato per la prima volta in Parlamento come uno dei 35 deputati fascisti eletti nei “blocchi nazionali”, era alla testa di un movimento che nel corso del 1921 andò depurandosi dei toni radicaleggianti delle origini – si pensi ai toni “anticapitalistici” o alle riforme politiche radicali indicate nel programma del 1919 – e ormai si presentava come una forza affidabile ad agrari e industriali, anche per aver accolto nelle sue file elementi decisamente conservatori. A questo punto, Mussolini si sforzò di togliere al fascismo la caratterizzazione di forza da utilizzare strumentalmente negli scontri violenti contro i rossi. E, dopo varie oscillazioni, giunse a precisare quella che doveva diventare una consapevole strategia: fare della propria persona all’interno del movimento fascista l’ago della bilancia fra gli “estremisti” raccolti nelle squadre d’azione mantenute in attività come minaccia verso gli avversari irriducibili e gli elementi piú moderati e inclini a una linea centrata sulle trattative e manovre parlamentari. Cosí si apprestò a raccogliere in sede politica i frutti delle violenze extraparlamentari. Si preoccupò anzitutto di stabilire migliori rapporti con il Vaticano e la monarchia, rendendosi conto che il fascismo non avrebbe potuto diventare forza di governo senza il benestare non solo della borghesia ma anche della Chiesa e del sovrano, dietro a cui stava l’esercito. Non a caso nel suo, già ricordato, primo discorso in Parlamento aveva gettato un ponte verso la Chiesa, affermando che «l’unica idea universale che oggi esista a Roma è quella che si irradia dal Vaticano». Per dimostrare che il fascismo era ormai una forza politicamente matura e affidabile, ma soprattutto per sottolineare che esso era indispensabile al fine

di dare al Paese la pace civile, Mussolini si fece promotore di un «patto di pacificazione» con il Partito socialista e la Cgl, firmato il 2 agosto 1921 – cui non aderirono i popolari, i repubblicani e i comunisti –, con la mediazione, appoggiata da Bonomi, del presidente della Camera Luigi De Nicola. A questo patto era stato spinto anche dalla preoccupazione che l’inasprimento delle violenze delle squadre fasciste potesse suscitare una reazione dalle conseguenze imprevedibili. Nell’estate di quell’anno era sorta infatti per iniziativa di repubblicani e anarchici, con l’adesione di alcuni socialisti e comunisti che non ebbero però l’appoggio dei loro partiti, l’organizzazione degli “Arditi del popolo”, che mise radici specialmente nell’Italia centrale e in Liguria. Essa armò – era il primo esempio di iniziativa armata da parte della sinistra – gruppi di popolani e proletari e con successo ingaggiò scontri con i fascisti. A Sarzana, nei pressi di La Spezia, il 21 luglio, pochi giorni dopo la formazione del governo Bonomi, una squadra di circa 500 fascisti era stata affrontata e respinta da un manipolo di carabinieri e di civili, subendo gravi perdite (18 morti e una trentina di feriti); fu questo uno dei rarissimi casi in cui la forza pubblica colpí i fascisti. Il “patto di pacificazione” fallí ben presto di fronte al rifiuto di sottoscriverlo da parte dei fascisti dell’Emilia-Romagna, dove si annidavano i nuclei piú riottosi del movimento; al che Mussolini reagí dando le sue dimissioni dalla Commissione esecutiva dei fasci. Si profilava il pericolo di una scissione, che venne fugato dopo che le dimissioni vennero respinte e fu lasciata ai vari fasci la facoltà di applicare o meno il patto di pacificazione a seconda delle situazioni. Mussolini, la cui leadership era stata messa in discussione, si attenne a quel ruolo di «ago della bilancia» già menzionato. Ma le violenze fasciste presero nuovo vigore; e gli Arditi del popolo, lasciati soli dai partiti che pure continuavano ad agitare la bandiera della rivoluzione proletaria, furono oggetto di una vigorosa repressione da parte delle forze di polizia. Al III Congresso di Roma del 7-11 novembre il movimento fascista, forte di 2200 fasci e di oltre 300 000 iscritti, si trasformò in Partito nazionale fascista (Pnf), di cui venne eletto segretario l’ex sindacalista rivoluzionario Michele Bianchi. Nel suo programma si affermava che il partito aspirava «all’onore supremo del Governo del Paese», mirando a fare il «supremo interesse della nazione» contro il prevalere degli interessi di partiti e clientele. Suo compito fondamentale era la difesa dello Stato di fronte agli elementi di disgregazione. Nei confronti del Parlamento – di cui si chiedeva una

limitazione di poteri e funzioni, affidando a Consigli tecnici i problemi attinenti «alle varie forme di attività degli individui nella loro qualità di produttori» – e della monarchia si adombrava una larvata minaccia, laddove si sottolineava che l’atteggiamento del fascismo di fronte «alle forme delle singole Istituzioni politiche» era subordinato «agli interessi morali e materiali della Nazione»: un avvertimento rivolto in particolare al re e quindi un invito a non contrapporre la monarchia al fascismo e anzi a legare le loro sorti. Si esaltava il ruolo delle Corporazioni, «espressione della solidarietà nazionale» e «mezzo di sviluppo della produzione». In campo economico, si chiedeva sia che «l’eventuale intervento dello Stato», là dove si rendesse necessario, non valesse ad «assicurare un parassitario sfruttamento dell’economia nazionale da parte di gruppi plutocratici», sia che si provvedesse alla «restituzione all’industria privata delle aziende industriali alla cui gestione lo Stato si è dimostrato inadatto»; si riconosceva «la funzione sociale della proprietà privata la quale è, insieme, un diritto e un dovere»; e si chiedeva che venissero «disciplinate le incomposte lotte degli interessi di categorie e di classi» e si stabilisse «il divieto di sciopero nei servizi pubblici». In politica estera, si diceva che «il Fascismo non crede alla vitalità e ai principî che ispirano la cosí detta Società delle Nazioni». Indispensabile che il Paese, per essere pronto «nell’ora del pericolo e della gloria», disponesse di un esercito «in formazione completa e perfetta»; ed era perciò «dovere dello Stato di provvedere esso all’istruzione premilitare». Infine, rivolgendo un ammonimento a destra e a manca, si dichiarava che «nel campo dell’organizzazione di combattimento il Partito Nazionale Fascista forma un tutto unico con le sue squadre: milizia volontaria al servizio dello Stato nazionale, forza viva in cui l’Idea Fascista si incarna e con cui si difende» 1. L’unica possibilità di arrivare alla formazione di un governo dotato dell’autorità sufficiente per affrontare il fascismo dipendeva dall’intesa tra i due partiti di massa, il socialista e il popolare. Ma si trattava di un’ipotesi astratta date le insuperabili divergenze tra le parti, nessuna delle quali aveva ancora compreso tutta la forza dinamica di un fascismo ormai appoggiato da industriali, agrari e apparati dello Stato. Lo sguardo restava fisso, in maniera rassicurante, alla conta dei numeri in sede elettorale. Era questo l’atteggiamento non solo dei popolari, ma anche dei socialisti massimalisti, sempre in preda alla convinzione che, nonostante tutte le difficoltà, l’epoca presente restasse quella che avrebbe visto il trionfo della rivoluzione sociale,

e i cui congressi si erano svolti poco prima di quello fascista. Al Congresso di Milano dell’ottobre 1921 il Psi escluse l’eventualità della sua partecipazione a un governo borghese, respingendo la posizione della minoranza riformista a esso favorevole. Dal canto suo il Ppi, che tenne il proprio congresso alcuni giorni dopo quello dei socialisti, mise a sua volta in luce le proprie divisioni interne. Mentre gli esponenti dell’ala di destra si espressero in senso contrario a una intesa con i socialisti riformisti (che erano oltretutto in netta minoranza nel loro partito), la maggioranza non escluse la possibilità di un accordo con questi ultimi e con i liberaldemocratici, ponendo tra le condizioni il rispetto della concezione cattolica della famiglia, la libertà delle scuole private e il pieno riconoscimento della parità dei diritti delle diverse organizzazioni dei lavoratori. Venne respinta di fatto, se non esplicitamente sulla carta, la richiesta della sinistra popolare guidata da Francesco Luigi Ferrari e da Guido Miglioli di impegnare il partito a evitare ogni collaborazione con il fascismo. Ma ciò che di piú significativo uscí dal congresso fu che il Ppi non volle assumere in prima persona una proposta diretta a mutare il quadro di governo esistente, lasciandone ad altri la responsabilità. Era palese che nelle sue file si rafforzava la corrente di destra che considerava la lotta al socialismo il suo compito primario e nutriva una sostanziale simpatia per il fascismo e la sua azione contro il “bolscevismo”. L’inizio del 1922 fu aperto da un discorso vigoroso, ma nella sua essenza intimamente contraddittorio, tenuto il 18 gennaio dal segretario del Partito popolare, Sturzo. Il quale espresse la sua avversione in generale verso i liberaldemocratici e in particolare Giolitti, che, disse, si era illuso di parlamentarizzare e costituzionalizzare il fascismo, che invece aveva dimostrato di saper difendersi «dalle insidie giolittiane e dagli abbracciamenti democratici», appoggiandosi però ai nazionalisti «rigidamente monarchici e imperialisti»; e presentò la crisi in atto come caratterizzata dall’orientamento di una borghesia, che, «sfiduciata dei suoi istituti e degli uomini che la rappresentano, fa l’estremo sforzo di difesa, e dove non han piú valore gli ordinamenti politici fa ricorso alle armi», obbedendo a un «istinto di conservazione contro la propaganda bolscevizzante, che aveva morfinizzato la democrazia e i suoi istituti; e non può non sboccare verso una nuova forma di liberalismo conservatore, antisocialista, antidemocratico» 2. Una tale ostilità contemporaneamente rivolta verso liberaldemocratici, socialisti e fascisti vanificava la possibilità di formare un governo determinato a sbarrare

la strada a questi ultimi. Il 1 o febbraio 1922, in seguito al fallimento della Banca di Sconto legata ai fratelli Perrone, principali proprietari della società Ansaldo, il governo Bonomi, che si dibatteva tra i contrasti dei partiti che sempre piú debolmente lo avevano sostenuto, cadde. Industriali e risparmiatori accusarono il governo di non avere evitato il fallimento; e questo atteggiamento fu essenziale nel provocare la caduta del governo. Una candidatura Giolitti venne bloccata dall’opposizione del Partito popolare e del suo leader. Si trattò di quello che sarebbe stato definito «il veto Sturzo» alla formazione di un nuovo governo Giolitti, accompagnato in avvenire da un mai chiuso dibattito storiografico intorno all’interrogativo se il leader del Ppi non si fosse assunta la responsabilità di sbarrare l’ascesa al governo all’unica personalità in grado di impedire a Mussolini di accedere al potere. È interessante notare che Salvemini, un antigiolittiano ancora piú aspro di Sturzo, riflettendo nel 1938 sulla questione scrisse che quella di Giolitti «era la sola soluzione possibile in quel momento» e che quello compiuto dal segretario del Partito popolare era stato un grave errore 3. Caduto Bonomi, si susseguirono una serie di tentativi, che coinvolsero De Nicola, Orlando e il popolare Meda, ma non andarono in porto. Infine, dopo estenuanti trattative, l’incarico venne affidato – sulla base di una intesa tra liberali, democratici e popolari (alla quale non fu favorevole Sturzo) – a Luigi Facta, un giolittiano piemontese, incolore, di scarsa levatura politica. Questi formò un esecutivo con la partecipazione di liberali e democratici di varia corrente, popolari, demosociali e un socialriformista. Si trattava dell’ultimo atto di una classe politica esausta. Il 18 marzo la grande maggioranza dei deputati espresse la fiducia a Facta, con 275 voti favorevoli – tra cui i fascisti e i nazionalisti – e 89 contrari: quelli dei socialisti e dei comunisti ormai andati incontro alla loro sconfitta. Il debole uomo di Giolitti fu l’ultimo primo ministro liberale. Il 1922 fu l’anno in cui il fascismo si organizzò anche sul piano sindacale, cogliendo i successi della violenta offensiva condotta contro il movimento operaio, che proseguí ininterrottamente. Il sindacalismo fascista aveva fatto la sua comparsa agli inizi del 1921 nel Ferrarese, dove il fascismo aveva stroncato la forte organizzazione socialista, terrorizzato i suoi iscritti e creato una propria rete. Questo sindacalismo aveva dietro di sé l’appoggio degli agrari, che, vedendo finalmente instaurarsi un “ordine” che essi

apprezzavano, firmavano i contratti di lavoro soltanto con i sindacati fascisti. In gennaio venne costituita la Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali, diretta dall’ex sindacalista rivoluzionario Edmondo Rossoni, intenzionata a coprire tutti i settori produttivi, e a cui andavano ormai le congiunte simpatie non solo degli agrari ma anche degli industriali. Il consenso ottenuto dalla Confederazione fra gli operai fu tuttavia limitato, nonostante che al suo Congresso di giugno vantasse circa 450 000 iscritti, poiché il proletariato industriale rimaneva fedele nella sua maggioranza alla Cgl. Intanto il fascismo aveva ripreso in pieno la sua aggressività. Il 1 o maggio fu occasione di una serie di attacchi in grande stile contro i comizi socialisti indetti per celebrare la festa del lavoro. Tra maggio e luglio a Bologna, Rovigo, Ferrara, Cremona, Andria, Novara, Tolentino, Magenta e in varie altre località ci furono disordini provocati dalle squadre, con occupazioni di municipi, assalti alle sedi socialiste e sindacali, alle cooperative e alle abitazioni di esponenti politici socialisti, repubblicani e popolari. I morti ammontarono a molte decine. Tutto ciò mentre polizia e magistratura colpivano inesorabilmente socialisti, comunisti e Arditi del popolo. Negli ambienti della corte le simpatie verso Mussolini erano ormai scoperte. La debolezza con cui Facta affrontava il dilagare delle violenze fasciste provocò un voto di sfiducia al governo, che cadde il 19 luglio. Come dopo le dimissioni di Bonomi, ricominciò il balletto degli incarichi, che vide coinvolti, con un nulla di fatto, Orlando, Bonomi, Meda, Giuseppe De Nava. Giolitti, sfiduciato, si tirò indietro. L’impotenza della vecchia classe dirigente liberale era ormai totale. Turati, che ebbe un colloquio con il re, sostenuto dalla destra socialista e dalla direzione della Cgl ma osteggiato dalla maggioranza massimalista, dovette constatare l’impossibilità di formare un governo di centro-sinistra che restaurasse la legalità costituzionale e affrontasse il fascismo. I comunisti, dal canto loro, erano piú che mai contrari a un’intesa Turati-Sturzo. Mentre la crisi di governo si trascinava, il 31 luglio l’Alleanza del lavoro, che riuniva organizzazioni politiche e sindacali delle sinistre, proclamò uno sciopero generale «per la libertà», contro il terrorismo fascista. Questo sciopero, che Turati definí «legalitario», fu un completo fallimento. I fascisti si mobilitarono prontamente e scatenarono un’offensiva violentissima contro le sedi dei partiti antifascisti. Furono, ancora una volta, occupati municipi, distrutte sedi di cooperative e di Camere del lavoro, attaccati interi quartieri. Dopo che Facta, cui il re in mancanza di alternative

aveva nuovamente assegnato l’incarico, il 1 o agosto aveva formato il suo secondo governo, con il proposito meramente verbale di restaurare «l’imperio della legge», a Milano il giorno 3 le squadre fasciste occuparono palazzo Marino, sede del comune guidato dai socialisti, e devastarono per la seconda volta la sede dell’«Avanti!» A Parma però gli Arditi del popolo inflissero dure perdite agli assalitori in una battaglia durata cinque giorni. Numerosi furono i morti nelle varie parti del Paese dove ebbero luogo gli scontri. Lo “sciopero legalitario”, terminato il 3 agosto, mise fine a ogni possibilità di intesa fra socialisti riformisti e popolari. In ottobre la crisi politica e istituzionale precipitò. Essendo palese la debolezza e inconsistenza di Facta, Giolitti aveva iniziato trattative in varie direzioni, specie con il Partito popolare e con i fascisti. Il suo disegno riecheggiava la strategia seguita con i socialisti e i cattolici prima della guerra mondiale: assimilare cioè il fascismo facendone una forza subalterna allo Stato liberale. Ma l’ipotesi di un governo guidato da Giolitti con la partecipazione di popolari, socialisti riformisti e anche fascisti, incontrò ancora una volta il veto di Sturzo, ammonito dall’opposizione dell’ala destra del suo partito e dalla contrarietà della Chiesa, al cui soglio, dopo la morte di Benedetto XV, era salito Pio XI. Dal canto suo, Mussolini spinse in un binario morto le sue trattative con Giolitti, e pochi giorni dopo diede inizio ai preparativi per scendere a Roma con le sue milizie. Per lui la posta era ormai la presa del potere e la formazione di un governo di cui egli fosse il capo. Per procurarsi il consenso delle classi alte e del re, il 20 settembre dichiarò che i fascisti avrebbero appoggiato una monarchia forte, aggiungendo che «bisogna avere il coraggio di essere monarchici», che occorre sia dare nuovo spazio all’iniziativa degli imprenditori sia smantellare «tutta la struttura socialistoide-democratica». I sempre piú stringenti contatti del fascismo con gli ambienti di corte e i vertici militari vennero favoriti da influenti settori della massoneria, cui erano affiliati numerosi esponenti fascisti. Intanto la sinistra nelle sue varie componenti consumava la propria bancarotta: una bancarotta che si saldava con quella in cui versavano anche i liberali e i popolari. Nel Partito socialista si arrivò a una nuova scissione, dopo quella del gennaio 1921. La maggioranza massimalista, guidata da Serrati, nel XIX Congresso tenutosi a Roma dal 1 o al 4 ottobre 1922 espulse i riformisti, i quali il 4 fondarono il Partito socialista unitario italiano (Psui) i cui maggiori esponenti erano Turati, Claudio Treves e Giacomo Matteotti,

nominato segretario. L’«Avanti» commentò che era ormai «una menzogna» l’unità tra chi considera funzione e scopo del socialismo la collaborazione con partiti e gruppi borghesi, nell’orbita della istituzioni monarchiche e al servizio della ricostruzione capitalistica, e chi pensa [...] che il socialismo deve tenersi sul terreno della piú assoluta intransigenza e deve fare aperta e coraggiosa professione delle sue finalità rivoluzionarie 4.

Ulteriori fattori di indebolimento del socialismo italiano furono la denuncia il 6 del patto di alleanza con il Partito socialista da parte della Cgl a direzione riformista, che proclamò la propria autonomia da tutti i partiti; e le divergenze fra massimalisti e comunisti, i quali anche dopo l’espulsione dei riformisti dal Partito socialista, rifiutarono di riunificarsi con i primi. I fascisti potevano cosí trarre tutti i vantaggi non solo dalla crisi strutturale del liberalismo, ma anche da quella dei partiti del movimento operaio e delle sue organizzazioni sindacali. Mentre nelle file dei liberali vi era chi ancora si illudeva di indurre i fascisti ad accettare la loro leadership politica, Mussolini strinse i tempi. Ai primi di ottobre le squadre avevano dato una ulteriore prova di forza cacciando a Bolzano il sindaco e a Trento il governatore del Trentino-Alto Adige. Il timore che Mussolini intendeva assolutamente fugare era la possibilità di un ritorno di Giolitti al potere. Forti di un’estesa organizzazione paramilitare, sotto la guida di un “quadrumvirato” formato il 16 ottobre da Italo Balbo, Cesare Maria De Vecchi, Emilio De Bono e Michele Bianchi, con la complicità aperta di ampi strati dell’alta burocrazia e membri delle alte sfere militari – numerosi ufficiali, anche di alto grado, comandavano le truppe fasciste – circa 40 000 camicie nere si concentrarono il 24 a Napoli. Qui Mussolini affermò che il problema politico in Italia si poneva a quel punto come «un problema di forza», poiché, «tutte le volte che nella storia si determinano dei forti contrasti di interesse e di idee, è la forza che all’ultimo decide», che la monarchia non aveva ragione di opporsi al fascismo, poiché «il Parlamento [...] e tutto l’armamentario della democrazia non hanno niente a che vedere con l’istituto monarchico», anche se non era intenzione del fascismo di «togliere al popolo il suo giocattolo (il Parlamento)» 5. Dietro la minaccia del ricorso alla forza, si celava una decisa pressione politica volta

direttamente al re. I fascisti, il cui armamento era raffazzonato, non avevano certo una forza sufficiente a sostenere un eventuale scontro con l’esercito. Mussolini ne era ben consapevole; ma sperava, a ragione, che l’impotenza della classe dirigente liberale e la simpatia del ceto imprenditoriale e degli ambienti di corte verso il fascismo agissero su Vittorio Emanuele III cosí da indurlo a rinunciare all’ipotesi di un governo con partecipazione fascista ma guidato ancora da un notabile liberale. Il 26 ottobre l’“esercito delle camicie nere”, superate le ultime esitazioni avanzate da alcuni esponenti del gruppo dirigente fascista, fu chiamato alla mobilitazione e a dispiegare le sue forze avendo come obiettivo finale Roma. L’azione delle squadre iniziò il 27 con l’occupazione di prefetture, uffici postali e telegrafici, reti telefoniche, mentre il governo impartí disposizioni all’esercito al fine di salvaguardare l’ordine pubblico. Continuavano intanto ad affacciarsi, in maniera affannosa, possibili soluzioni come la formazione di un gabinetto Giolitti o di un gabinetto Salandra-Mussolini. Il re in un primo tempo parve orientato verso la proclamazione dello stato d’assedio, il cui decreto era stato apprestato da Facta; ma – dopo avere inviato il 26 a quest’ultimo un telegramma in cui si diceva che occorreva per «evitare scosse pericolose» apprestarsi ad «associare il fascismo al governo nelle vie legali» – il 28 rifiutò di apporvi la firma. Cosí si consumò la capitolazione della classe dirigente liberale. Nel pomeriggio del 29 Mussolini venne informato della disponibilità del sovrano di affidargli la guida del governo. La sera dello stesso giorno partí da Milano, da lui raggiunta il 26 dopo aver lasciato Napoli il 25 e da dove prudentemente non si era mosso per essere vicino alla frontiera nel caso che gli avvenimenti assumessero una piega sfavorevole all’iniziativa insurrezionale fascista, e arrivò la mattina del 30 a Roma. Si presentò quindi al re, e, secondo una testimonianza, dichiarò enfaticamente: Chiedo perdono a Vostra Maestà se sono costretto a presentarmi ancora in camicia nera, reduce dalla battaglia, fortunatamente incruenta, che si è dovuta impegnare. Porto a Vostra Maestà l’Italia di Vittorio Veneto, riconsacrata dalla vittoria, e sono il fedele servo di Vostra Maestà 6.

Le milizie fasciste invasero la capitale, mettendo a sacco sedi sindacali,

socialiste e comuniste. Nel quartiere San Lorenzo vi furono scontri violenti tra fascisti e popolani. Gli avvenimenti di fine ottobre 1922 presentarono una precisa analogia con quelli che nel maggio 1915 avevano portato l’Italia in guerra. Entrambi videro il re assumere l’iniziativa e la responsabilità di affidare il potere a chi esprimeva solo una minoranza del Paese; entrambi mostrarono l’impotenza delle forze che, irrimediabilmente divise tra loro, costituivano per contro la maggioranza. Il ministero Mussolini, costituitosi la sera stessa del 30, assunse la forma di un governo di coalizione; ma in realtà era l’espressione inequivocabile della vittoria del fascismo sulla vecchia classe dirigente liberale e su quella nuova popolare. Pur disponendo al Parlamento di una debolissima rappresentanza – soltanto 35 deputati –, i fascisti avevano però dietro di sé l’appoggio attivo degli ambienti dotati di maggiore influenza e potere; inoltre tra i liberali prevaleva la convinzione che fosse indispensabile e positivo che il Paese passasse attraverso un temporaneo “esperimento fascista” per ridare autorità allo Stato e ristabilire le condizioni per il ritorno alla preminenza liberale. Anche i popolari furono disposti a collaborare. Tutti costoro non erano ancora in grado di valutare le implicazioni di tre essenziali dati di fatto: che, in una fase di crescente indebolimento delle istituzioni rappresentative, per quanto molto minoritario sul piano parlamentare, il fascismo era guidato dalla piú forte personalità politica apparsa sulla scena nazionale dopo Crispi e Giolitti; che esso era l’unico soggetto politico a disporre di una propria forza militare ed era estremamente rafforzato da un ormai solido rapporto con la grande borghesia – che chiedeva agli «uomini nuovi» di riportare l’ordine e la disciplina –, con il monarca e i vertici militari; che dunque, se non della “maggioranza quantitativa”, disponeva della “maggioranza qualitativa” e godeva della superiorità politica che gli veniva dall’estenuazione della vecchia classe dirigente liberale, dall’insuccesso dei popolari nel loro intento di assumere la guida dei governi e dalla disfatta subita dalla sinistra in tutte le sue correnti. Nel ministero Mussolini entrarono cinque fascisti – che, oltre alla presidenza del Consiglio, ebbero i dicasteri chiave degli Interni e degli Esteri (tenuti questi da Mussolini stesso), delle Finanze, della Giustizia, dell’Assistenza e delle Terre liberate – due liberali, due demosociali, un nazionalista, Luigi Federzoni alle Colonie, due popolari, tre aperti fiancheggiatori del fascismo – il maresciallo Armando Diaz alla Guerra e

l’ammiraglio Paolo Thaon di Revel alla Marina, il filosofo Giovanni Gentile (che nel giugno 1923 avrebbe preso la tessera fascista) all’Istruzione. Guardavano con approvazione al ministero Giolitti, il quale affermò che Mussolini era l’unico in grado con il suo governo di «ristabilire la pace sociale», e i due maggiori esponenti della cultura liberale, Benedetto Croce e Luigi Einaudi. La Confederazione dell’industria salutò Mussolini dicendo che le forze produttive contavano su un governo forte pronto ad agire indipendentemente dai partiti. Il 16 novembre, nel chiedere alla Camera la fiducia al governo, Mussolini fece sentire la sua voce di padrone nel discorso che venne definito del «bivacco». Dichiarò che il governo era stato formato «al di fuori, al di sopra e contro ogni designazione del Parlamento», quindi affermò minacciosamente: Mi sono rifiutato di stravincere, e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. [...] Con trecentomila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad ogni mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il fascismo. Mi sono imposto dei limiti. […] Potevo fare di questa aula sorda e grigia un bivacco di manipoli [...] potevo sprangare il Parlamento e costruire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto 7.

E concluse pretendendo i pieni poteri. Il 17 la Camera votò la fiducia al governo Mussolini con 306 voti favorevoli, 116 contrari (socialisti, comunisti, repubblicani, sardisti) e 7 astenuti (i deputati delle minoranze tedesca e slava). Fra coloro che votarono a favore vi furono Bonomi, Giolitti, Orlando, Salandra e i popolari De Gasperi, Gronchi e Meda. La reazione dei comunisti fu che il nuovo governo non avrebbe potuto fermare la marcia dei proletari verso la rivoluzione sociale. Già il 16 il presidente del Consiglio aveva chiarito di voler limitare i poteri del Parlamento, presentando un progetto di legge, poi approvato il 24 di quel mese dalla Camera a grande maggioranza, con la quale il governo si attribuiva pieni poteri in varie materie di carattere finanziario, economico e amministrativo. L’avvento al potere di Mussolini – che sarebbe stato celebrato da lui e dai suoi seguaci come il momento cruciale della «rivoluzione nazionale fascista» iniziata nel marzo 1919 e conclusasi nel 1925-26 quando si sarebbe

provveduto a distruggere le ormai comatose istituzioni liberali e il pluralismo partitico instaurando la dittatura del Partito fascista – segnò l’atto iniziale della costruzione del secondo regime nella storia dello Stato unitario senza possibilità di alternative di governo da parte delle forze di opposizione. Il primo aveva visto la guida del governo rimanere ininterrottamente nelle mani dei liberali, i quali affidarono il proprio relativo rinnovamento alla dialettica interna tra le loro diverse correnti e all’assimilazione trasformistica di frazioni dei gruppi e partiti già di opposizione. Il fascismo creò dunque non solo un secondo regime bloccato, ma quello piú rigidamente strutturato, nel quale, dopo la fine nel 1926 del pluralismo partitico, ogni forma di opposizione divenne un crimine contro lo Stato perseguito dalla legge e fu oggetto di sistematica repressione. Tra il 1925-26 e il 1943 il divorzio tra i sostenitori del regime e i suoi oppositori divenne ancora piú aspro e acuto di quello che in precedenza aveva separato le forze dello Stato e le forze dell’anti-Stato. Non pare forzata un’analogia tra il 1860-61 e il 1919-22. Come il primo periodo si concluse con la sconfitta della sinistra democratico-repubblicana, cosí il secondo vide la sconfitta della sinistra nelle sue molteplici versioni: socialista riformista, socialista massimalista e comunista. Avevano invocato l’una “la rivoluzione democratica”, l’altra “la rivoluzione sociale” ed entrambe erano state ridotte all’impotenza. Un’altra analogia appare pertinente: quella tra l’iter di Francesco Crispi e l’iter di Benito Mussolini. Crispi da fautore del repubblicanesimo democratico mazziniano era divenuto un acceso sostenitore della monarchia e un ammiratore del bismarckismo; Mussolini da capo dell’ala piú intransigentemente rivoluzionaria del Partito socialista e tenace anticlericale e antinazionalista si era trasformato in interventista, imperialista, supernazionalista, esaltatore del capitalismo e dei valori universali del cattolicesimo, sostenitore di Casa Savoia. I loro furono i piú classici e clamorosi esempi di “trasformismo” nella storia del Paese: la via che diede a entrambi la chiave dell’accesso al potere. Ma il trasformismo del leader del fascismo, che raggiunse il suo culmine tra il 1919 e il 1922, costituí solo un aspetto del piú generale processo trasformistico che coinvolse tra il 1922 e il 1923 la destra liberale e l’ala del partito popolare divenuta apertamente clerico-fascista, che si piegarono entrambe a Mussolini.

3. Il fascismo verso la conquista del “monopolio politico”. Le elezioni del 1924 e la “crisi Matteotti”. L’Aventino e la disfatta delle opposizioni. Giunto al potere nell’ottobre 1922 con l’appoggio di ampi strati delle classi dirigenti e forte delle camicie nere in armi, tra la fine di quell’anno e il 1926 il fascismo percorse il tratto che doveva portarlo da un uso autoritario del potere nel quadro di esauste istituzioni liberali al “monopolio politico” e all’instaurazione della dittatura. Se disponeva del controllo degli apparati dello Stato, ciò nonostante, non aveva ancora la solidità cui aspirava. Fino a che permanessero le istituzioni parlamentari, il nuovo governo doveva passare attraverso la fiducia della maggioranza; inoltre, nonostante la sconfitta subita, le masse lavoratrici specie industriali militavano ancor sempre in misura consistente nelle organizzazioni “rosse”. Fra l’ottobre 1922 e il 1926, per consolidarsi in maniera definitiva, il fascismo perseguí con successo, superando alcuni momenti di crisi anche molto gravi, una linea volta a liquidare le istituzioni liberali, la pluralità dei partiti, la libertà di organizzazione sindacale: l’esito finale fu la costituzione di un regime antiparlamentare e antidemocratico, fondato su un partito unico, sull’irreggimentazione coatta dei lavoratori nelle organizzazioni fasciste e sulla liquidazione delle libertà politiche e civili. A quel punto tutto il potere venne assunto dal partito e lo Stato venne fascistizzato. Servendosi sia della propria superiore forza politica di fronte allo scompaginamento delle opposizioni divise tra loro sia del sostegno della borghesia sia del controllo della polizia e delle forze armate sia dell’appoggio della monarchia e della Chiesa, il fascismo passò dal controllo autoritario delle istituzioni dello Stato alla costruzione della dittatura. Il periodo 1922-26 fu insomma il periodo di trapasso durante il quale il fascismo svuotò le istituzioni ereditate dallo Stato liberale in vista di una loro abolizione. Come già nel 1921 e nel 1922, anche in questi anni, liberali e popolari, salvo deboli minoranze, non vollero opporsi al fascismo, mentre socialisti e comunisti lo fecero ma senza alcun successo. La mutazione del partito fascista da partito guida del governo a partito cardine del regime dittatoriale trovò cosí la strada aperta. Una volta al governo, Mussolini lasciò intendere di voler avviare la “normalizzazione del fascismo”, facendo intravedere la fine delle violenze sistematiche. Sennonché le squadre fasciste continuarono a colpire. Il 15 dicembre 1922 fu costituito il Gran consiglio del fascismo, organo di

suprema direzione politica del partito e delle sue organizzazioni sindacali e cooperative, con il compito di fungere da trait d’union fra partito e governo. Il 18 a Torino i fascisti incendiarono la Camera del lavoro e vari circoli operai, devastarono la sede dell’«Ordine Nuovo» – trasformatosi in quotidiano nel gennaio 1921 – e uccisero ventidue oppositori. Il 28 venne deciso l’inquadramento delle forze paramilitari fasciste nella Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (Mvsn), un’organizzazione non statale, ma di partito posta alle dipendenze personali di Mussolini, col compito di «proteggere gli inevitabili e inesorabili sviluppi» di quella che veniva chiamata ormai la «rivoluzione d’ottobre» del fascismo. Anche i primi mesi del 1923 furono segnati da ricorrenti atti di violenza. Nonostante le persistenti illusioni delle forze che speravano nell’inserimento del fascismo nell’ambito delle istituzioni parlamentari, il capo del governo usava un linguaggio assai chiaro e piú chiari ancora erano i fatti. L’8 gennaio 1923 affermò che la «rivoluzione fascista» aveva spazzato via le vecchie classi, i vecchi partiti, i vecchi uomini. A fargli eco era un Salvemini che, indignato ed esasperato, l’8 marzo in una nota di diario scriveva: «Se Mussolini arriverà a spazzar via queste vecchie mummie canaglie, avrà fatto opera utile al Paese», aggiungendo a consolazione: «Dopo che lui abbia compiuto questo lavoro di spazzature, verranno avanti uomini nuovi, che spazzeranno lui» 8. In febbraio furono arrestati l’intellettuale torinese Piero Gobetti, rilasciato poco dopo, il capo del Partito comunista Amadeo Bordiga e con lui oltre cento dirigenti, mentre altri ripararono all’estero; il deputato socialista Giuseppe Emanuele Modigliani venne picchiato a Livorno e cacciato dalla città; in marzo fu arrestato il socialista Giacinto Serrati. Protagoniste dell’azione repressiva furono tra il 1923 e il 1924 le squadre che facevano capo ai vari ras, tra i quali spiccavano Roberto Farinacci a Cremona e Italo Balbo a Ferrara, esponenti dell’ala piú decisamente eversiva del fascismo, che fu oggetto di critiche aperte da parte di Giuseppe Bottai e Massimo Rocca, i quali sostenevano che il Partito fascista dovesse ormai avviare la fase di normalizzazione della vita politica e civile. Mussolini si serví con spregiudicatezza dell’una e dell’altra corrente a seconda della convenienza. Il 7 marzo 1923 ammoní che se la forza non avesse creato il «consenso», in mancanza di quest’ultimo sarebbe bastata la forza. Il fatto che il partito al governo disponesse di un “governo ombra” come il Gran consiglio e di un’organizzazione armata come la Mvsn, che a differenza dell’esercito non

prestava giuramento di fedeltà al re, costituiva un’alterazione clamorosa delle istituzioni del boccheggiante regime liberale. Il disegno del presidente del Consiglio era ormai quello di piegare definitivamente i liberali e i popolari che collaboravano nel governo con i fascisti e permettere al fascismo di raggiungere una maggioranza in grado di consolidare definitivamente anche a livello parlamentare la presa del potere grazie a una nuova legge elettorale. Il 26 febbraio 1923 si realizzò la fusione fra il Partito fascista e l’Associazione nazionalista. Questa fusione ebbe una grande importanza, perché il nazionalismo, la cui ideologia autoritaria era stata elaborata nell’età giolittiana, diede al fascismo, che fino ad allora era stato molto eclettico sul piano delle idee di cui si faceva portatore, una teoria politica piú stabile e coerente che si richiamava al principio monarchico, all’assoluto primato dello Stato nel governo della società, al corporativismo e all’imperialismo. Dopo essere stato alle origini un miscuglio di demagogia oscillante fra reazione e radicalismo democratico, dopo avere agito nel 192122 direttamente come strumento antioperaio e antipopolare al servizio degli agrari e degli industriali, il fascismo si dava ora una piattaforma nettamente di destra, che ne sanzionava aspetti determinanti acquisiti già in precedenza, seppure in maniera oscillante. Pochi giorni prima, per sottolineare il carattere nuovo del fascismo, il Gran consiglio aveva decretato, ma non all’unanimità essendo ancora presenti massoni al suo interno, l’incompatibilità tra l’iscrizione al Pnf e quella alla massoneria, nonostante quest’ultima avesse dato al fascismo importanti appoggi. Il 21 aprile venne abolita la festività del Primo maggio in quanto festa del lavoro di tradizione socialista e istituita quella del Natale di Roma. Reagendo al fatto che il Partito popolare nel Congresso di Torino apertosi il 12 aprile aveva nella sua maggioranza sostenuto, per diretto impulso del segretario Sturzo – il quale non aveva mancato di sottolineare la differenza che separava i popolari non solo dai socialisti ma anche dai fascisti per il fatto di non considerare lo Stato «il primo etico», «una religione» e la nazione non «un ente spirituale assorbente la vita dei singoli» 9 – una posizione di collaborazione al governo ma critica e «condizionata», Mussolini chiese e ottenne il 23 le dimissioni dei ministri popolari, provocando la spaccatura del partito, la cui ala destra si espresse in senso dichiaratamente clerico-fascista. Il 25 il segretario di Stato del Vaticano, il cardinale Pietro Gasparri, esortò i buoni cattolici a «non mescolarsi ai partiti politici» e a non «favorirli». Si

trattava del segno di una scelta destinata a diventare sempre piú palese della politica filomussoliniana della Santa Sede. La corrente del popolarismo rimasta antifascista trovò allora la sua tribuna ne «Il Popolo», un quotidiano che, diretto da Giuseppe Donati, aveva iniziato le pubblicazioni il 5 aprile. Per parte sua Mussolini si preoccupò di stringere i migliori rapporti con il Vaticano. A questo fine il 27 venne approvata dal governo la riforma scolastica varata dal ministro Gentile, che con i suoi sviluppi doveva segnare la fine della scuola laica. La riforma dava un nuovo grande peso, in quanto «fondamento e coronamento della istruzione elementare», all’«insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta nella tradizione cattolica» e favoriva con l’introduzione dell’esame di Stato – vecchia rivendicazione dei cattolici e dei popolari – la scuola privata. Dietro pressione del Vaticano, il 10 luglio Sturzo, dopo che monsignor Enrico Pucci lo aveva esortato a non creare ulteriori imbarazzi alla Santa Sede, si dimise dalla segreteria del Partito popolare. Era chiaro che fascismo e Vaticano cercavano ormai un’intesa senza la fastidiosa mediazione di un Partito popolare diretto da Sturzo, che, in aperto contrasto con i clerico-fascisti, si opponeva alla capitolazione di fronte al fascismo e alla sua progettata riforma del sistema elettorale proporzionale. Intanto proseguivano le violenze contro gli oppositori. Il 24 agosto venne assassinato ad Argenta, nel Ferrarese, il sacerdote Giovanni Minzoni; il 29 novembre l’abitazione di Nitti fu assaltata e devastata; il 26 dicembre il deputato democratico meridionale Giovanni Amendola fu vittima di una bastonatura. Le sedi di numerosi giornali, soprattutto socialisti e comunisti, furono devastate e costrette a sospendere le pubblicazioni. Una nuova legge elettorale, chiamata legge Acerbo dal cognome del suo promotore, portò a conclusione il piano fascista di sanzionare in ambito parlamentare la propria posizione di forza. Approvata alla Camera il 21 luglio 1923 dai fascisti, dalla maggioranza dei liberali (tra cui Giolitti, Orlando e Salandra) e da una parte dei popolari con 223 voti favorevoli e 123 contrari e licenziata in via definitiva il 14 novembre 1923 dal Senato con 165 voti favorevoli e 41 contrari, la legge stabiliva che la lista di maggioranza relativa, che avesse raggiunto anche solo il 25% dei suffragi, avrebbe ottenuto i due terzi dei seggi alla Camera. Alle elezioni, fissate per il 6 aprile 1924, si presentò, come espressione del governo e dei suoi alleati, un «listone», sotto il diretto controllo del Gran consiglio e di Mussolini, cui aderí la

maggioranza dei liberali. La minoranza liberale, con Giolitti, presentò proprie liste; fra gli oppositori «costituzionali» – chiamati cosí per distinguerli dai socialisti e comunisti – vi erano Amendola e Bonomi. La campagna elettorale si svolse in un clima di violenze e intimidazioni contro tutte le opposizioni, ma specialmente contro le sinistre, con l’ormai consueta protezione delle autorità dello Stato. I fascisti e i loro alleati ottennero il 64,9% dei voti e 374 seggi; i liberali indipendenti ebbero il 3,3; gli «oppositori costituzionali» il 2,2; i popolari il 9; i socialisti unitari di Turati e Matteotti il 5,9; i socialisti massimalisti il 5; i comunisti, fra i cui eletti vi fu Antonio Gramsci, il 3,7. Il fascismo aveva cosí raggiunto, e poco importava con quali mezzi, l’agognata grande maggioranza in un Parlamento ridotto a docile strumento del governo con cui vanificare le stesse istituzioni parlamentari. Nel discorso della Corona alla nuova Camera, il re disse: «Oggi la stessa generazione della vittoria regge il governo e costituisce la grande maggioranza dell’Assemblea elettiva». Il 30 maggio, quando la Camera fu chiamata a ratificare la convalida delle elezioni, il segretario del Partito socialista unitario, Giacomo Matteotti – che, nell’ora del comune disastro della sinistra, aveva avuto nonostante tutto la soddisfazione di vedere il suo partito riformista ottenere piú voti di quelli massimalista e comunista, che lo avevano attaccato ferocemente – levò la sua voce di protesta. Nel novembre 1923 egli aveva invano invocato la formazione di un «fronte unico» delle opposizioni in difesa della libertà e della democrazia, respinto sdegnosamente da socialisti massimalisti e comunisti come espressione di una volontà di collaborazionismo con i democratico-borghesi; e a sua volta aveva giudicato velleitaria la proposta di costituire un fronte dei tre «partiti di classe». Nel suo discorso alla Camera fece la cronistoria delle violenze fasciste contro gli oppositori durante la campagna elettorale e, dopo avere denunciato i «sistemi impiegati per impedire la libera espressione della volontà popolare», chiese «l’annullamento in blocco della elezione di maggioranza» 10. Questo discorso coraggioso fu la sua sentenza di morte: il 10 giugno 1924 venne rapito e quindi assassinato da sicari fascisti, guidati dallo squadrista toscano Amerigo Dumini, convinti di interpretare la volontà di Mussolini. La reazione nel Paese fu enorme; anche ampi settori della borghesia e della piccola borghesia, che avevano sostenuto il fascismo, furono disorientati, ritenendo che si fosse superato il limite del lecito. Il 13 e 14

quattro ministri (De Stefani, Federzoni, Oviglio e Gentile) si dimisero auspicando che la composizione del governo realizzasse «prontamente» la promessa «conciliazione nazionale». Mussolini, dal canto suo, in un primo tempo si proclamò del tutto estraneo al delitto e il 17 lasciò dimostrativamente il ministero degli Interni, che venne affidato all’ex nazionalista Federzoni, ben visto dalla corte, promettendo che i colpevoli sarebbero stati individuati e puniti. Emilio De Bono, capo della polizia, fu sostituito e gli esecutori materiali, individuati, vennero arrestati. Nelle stesse file fasciste lo sbandamento era grande. Ma le opposizioni non seppero andare oltre la condanna politica e morale; il che confermò nei fascisti la fiducia nella maniera forte. Dopo aver costituito il 13 un comitato unitario – che comprendeva comunisti, liberali e democratici di varia corrente, socialisti riformisti, massimalisti, popolari e repubblicani – i gruppi di opposizione respinsero la proposta avanzata da Gramsci il 14 giugno di proclamare lo sciopero generale. I liberali temevano che un’azione di massa e il ricorso ai lavoratori contro il fascismo provocasse un “salto nel buio”; la Cgl non aderí alla proposta temendo la ripetizione del fallito “sciopero legalitario”; i comunisti, dal canto loro, erano troppo deboli per guidare da soli uno sciopero generale. I contrasti all’interno della sinistra erano tali per cui Gramsci, pur rendendo omaggio al coraggio dimostrato da Matteotti, in un articolo in memoria lo definí politicamente un «pellegrino del nulla» 11, aggiungendo: Partiva da un desiderio generoso di redenzione totale, e si esauriva miseramente nel nulla di una azione senza vie di uscita, di una politica senza prospettiva [...]. Il sacrificio di Matteotti è celebrato nel solo modo degno e profondo dai militanti che nelle file del partito e della Internazionale comunista si stringono per prepararsi a tutte le lotte del domani 12.

Il Pcd’I respinse ogni possibilità di sanare la scissione con il Psi massimalista che persino dichiarò diretto da controrivoluzionari e il 18 si ritirò dal comitato. Amendola, capo dell’«opposizione costituzionale», riponeva le sue speranze nel re, da cui si aspettava che togliesse la fiducia a Mussolini, creando una situazione nuova; ma il re non si mosse e lasciò al fascismo il tempo necessario per superare la sua crisi interna. Anche il Vaticano appoggiò Mussolini.

Il 13 giugno erano stati provvisoriamente sospesi i lavori della Camera, per impedire alle opposizioni di servirsi della sua tribuna. Il 25, avendo Mussolini affermato il giorno precedente che il governo si impegnava a salvaguardare «la normalità politica e la pacificazione nazionale», la Camera e il Senato confermarono a grande maggioranza la fiducia al governo; tra i senatori favorevoli vi fu Benedetto Croce. Ai primi di luglio il governo varò norme contro la libertà di stampa, che di fatto sottoponevano al controllo delle autorità i giornali di opposizione, suscettibili di chiusura. In agosto, per dare prova al re della fedeltà alla monarchia e mantenerne le simpatie in un momento critico, la Mvsn venne inglobata nell’esercito, pur rimanendo significativamente alle dipendenze del presidente del Consiglio. La maniera in cui le opposizioni si mossero dimostrò la portata dello sbandamento in cui versavano. Dopo la costituzione del «comitato» unitario, dal quale erano poi usciti i comunisti, il 27 giugno i deputati che vi avevano aderito decisero di non partecipare piú ai lavori della Camera ritirandosi, secondo un’espressione di Turati, «sull’Aventino delle loro coscienze». Fu la cosiddetta secessione dell’Aventino. Gli oppositori affermarono che sarebbero rientrati alla Camera solo quando fosse stata restaurata la legalità e abolita la Milizia. Amendola impostò la lotta al fascismo in termini di «questione morale». Il vecchio Giolitti, ben cogliendo il velleitarismo degli “aventiniani”, non partecipò alla secessione. Il 30 giugno Vittorio Emanuele esortò alla «concordia», manifestando cosí il proprio appoggio al fascismo e il 31 agosto Mussolini sbeffeggiò le opposizioni dichiarando che «il giorno in cui uscissero dalla vociferazione molesta per andare alle cose concrete, quel giorno noi di costoro faremo lo strame per gli accampamenti delle camicie nere» 13. I comunisti – alla cui direzione Bordiga era stato sostituito da Gramsci e che nulla smuoveva dalla convinzione che la situazione costituisse il preludio della crisi della borghesia e che maturassero le prospettive di una vicina soluzione rivoluzionaria, proposero in ottobre alle opposizioni di costituirsi, come tappa intermedia, in «vero Parlamento delle opposizioni», in contrasto con il Parlamento fascista. Ma i gruppi dell’Aventino respinsero questa opzione, temendone le implicazioni e ancor sempre fiduciosi in una possibile iniziativa del re. Intanto, come già era accaduto dopo il «patto di pacificazione», di fronte a Mussolini che di pacificazione nazionale continuava a parlare, furono i ras fascisti della provincia a riprendere

l’iniziativa. Farinacci minacciò una «seconda ondata» di violenze. Il 5 settembre venne aggredito e picchiato dagli squadristi, con conseguenze sulla sua precaria salute, Gobetti, che sarebbe morto a Parigi nel febbraio 1926. Pochi giorni dopo, il 12, un comunista, volendo vendicare l’assassinio di Matteotti, uccise il deputato fascista Armando Casalini. Motivi di relativa preoccupazione sorsero in Mussolini al delinearsi di un accordo, in vista di un assai improbabile governo, tra il Partito socialista unitario guidato da Turati e il Partito popolare a cui non aveva chiuso la porta Alcide De Gasperi, succeduto nella segreteria a Sturzo (accordo che venne vanificato in agosto dalla netta opposizione del Vaticano); all’emergere all’interno sia di settori del ceto industriale sia dei movimenti dei mutilati e dei combattenti di una certa insofferenza verso la politica fascista; e al prevalere in ottobre nel partito liberale di una maggioranza critica verso la linea del governo. Il 25 ottobre, cedendo alle pressioni del cardinale Gasparri, Sturzo – che alla vigilia delle elezioni aveva avuto la fermezza di denunciare lo «spirito antidemocratico» del fascismo 14 – lasciò l’Italia. Il 12 novembre venne riaperto il Parlamento; e il 26 i comunisti, avendo constatato il fallimento dell’Aventino, rientrarono alla Camera. Questa, in assenza degli “aventiniani”, votò la fiducia a Mussolini a stragrande maggioranza; tra i contrari vi fu Giolitti, allarmato dalle leggi contro la libertà di stampa. Il voto del vecchio statista pose il sigillo, fuori tempo massimo, a quelle che erano state le sue illusioni sulla possibilità di “addomesticare” il fascismo. In novembre il tentativo di Amendola di riorganizzare le forze antifasciste liberali dando vita a una «Unione nazionale delle forze liberali e democratiche» non ebbe alcun effetto nel modificare la situazione politica. In dicembre prese a circolare un’ipotesi di formazione, con il possibile consenso del sovrano, di un governo retto da Giolitti o da altri leader liberali come Salandra oppure Orlando o persino da un’alta carica dell’esercito, ma anch’essa rimase sulla carta. Pericolose per il fascismo furono le clamorose rivelazioni rese da Cesare Rossi, ex capo dell’ufficio stampa della Presidenza del Consiglio, in un memoriale diffuso in quel mese, nel quale si indicava esplicitamente Mussolini come il responsabile politico del delitto Matteotti. Ma ormai il capo dei fascismo disponeva delle necessarie risorse per mettere in atto la controffensiva generale contro le opposizioni in vista del loro definitivo annientamento. La stampa avversaria venne colpita in modo generalizzato; gli antifascisti furono per l’ennesima volta sottoposti a

violenze e intimidazioni. Avendo i capi della Milizia chiesto mano libera contro le opposizioni, Mussolini il 3 gennaio 1925 chiuse politicamente la questione apertasi il 10 giugno 1924. Alla Camera assunse apertamente la responsabilità per l’accaduto dicendo: dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. [...] Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere! [...] Quando due elementi sono in lotta e sono irriducibili, la soluzione è la forza 15.

4. Le leggi «fascistissime» e la fine formale dello Stato liberale. L’avvento della dittatura. Dopo questo discorso la vita dei partiti di opposizione venne resa quasi impossibile. A indicare dopo il 3 gennaio quanto il fascismo volesse mostrare un volto intransigente fu la nomina il 12 febbraio 1925 del ras Farinacci a segretario generale del Pnf, sia pure preceduta dall’espulsione di alcuni squadristi. In un gioco di contrappesi, Mussolini lanciò un messaggio rassicurante al mondo dell’economia e alla monarchia chiamando a far parte dell’esecutivo uomini di matrice nazionalista come Federzoni, il giurista Alfredo Rocco e l’uomo d’affari Giuseppe Volpi e nominando il generale Pietro Badoglio capo di Stato maggiore. Fu questo il momento in cui anche Croce, preceduto da Einaudi dopo l’assassinio di Matteotti, avendo dovuto arrendersi di fronte all’evidenza che ogni speranza in una «normalizzazione costituzionale» del fascismo nell’ambito delle istituzioni liberali era stata un’illusione, tolse a esso il suo precedente benevolo assenso. Reagendo a un Manifesto degli intellettuali fascisti agli intellettuali di tutte le nazioni, redatto da Gentile e pubblicato il 21 aprile 1925, nel quale si registrava la condanna a morte del liberalismo e della democrazia, egli scrisse una Risposta, uscita il 1 o maggio e divenuta nota come Manifesto degli intellettuali antifascisti. Nel manifesto gentiliano si esaltava il fascismo, che – si diceva – è l’erede del Risorgimento e della Grande Guerra che ha coronato l’unità nazionale, porta nella sua bandiera l’idea di una patria «scuola di subordinazione di ciò che è particolare e inferiore a ciò che è

universale e immortale; è rispetto della legge e disciplina; è libertà, ma libertà da conquistare attraverso la legge, che si instaura con la rinuncia a tutto ciò che è piccolo arbitrio e velleità irragionevole e dissipatrice»; si proclamava che il fascismo intendeva «rompere la crosta che il vecchio ordinamento politico aveva creato, attraverso apparenza fallace del vecchio liberalismo democratico, intorno alla effettiva attività individuale del cittadino» 16. Nell’opposto manifesto crociano si denunciava una concezione della patria che evocava «una guerra di religione», «un nuovo evangelo» e «un nuovo apostolato», diretti contro «la nostra vecchia fede» liberale, che «da due secoli e mezzo è stata l’anima dell’Italia che risorgeva, dell’Italia moderna». Il testo si chiudeva con la fiducia che «la presente lotta politica in Italia varrà, per ragione di contrasto, a ravvivare e a fare intendere in modo piú profondo e piú concreto al nostro popolo il pregio degli ordinamenti e dei metodi liberali, e a farli amare con piú consapevole affetto» 17. Tra i firmatari Giovanni Amendola, Guido de Ruggiero, Luigi Einaudi, Guglielmo Ferrero, Giustino Fortunato, Arturo Carlo Jemolo, Francesco Ruffini, Luigi Salvatorelli, Matilde Serao, Alberto e Luigi Albertini, Corrado Alvaro, Antonio Banfi, Corrado Barbagallo, Filippo Burzio, Piero Calamandrei, Gaetano De Sanctis, Giuseppe Donati, Arturo Labriola, Gaetano Salvemini, Adriano Tilgher, Silvio Trentin, Mario Vinciguerra, Vito Volterra, Umberto Zanotti Bianco. Era la voce dei vinti contro quella dei vincitori. Il 20 luglio Amendola venne per la seconda volta aggredito da squadristi; esule in Francia, sarebbe morto per le percosse subite nell’aprile dell’anno seguente. Fra gli atti innumerevoli di violenza fascista particolarmente cruenti furono quelli commessi a Firenze contro gli antifascisti nella notte di terrore dal 3 al 4 ottobre. Il 4 novembre 1925, Tito Zaniboni, deputato del Partito socialista unitario, che aveva progettato di attentare alla vita di Mussolini quello stesso giorno, venne arrestato dalla polizia che, informata preventivamente, ne approfittò per creare un “caso” che consentisse al governo di prendere piú organiche misure repressive. Il giorno seguente fu arrestato anche il generale Luigi Capello, accusato di complicità. Per rappresaglia il Psu venne sciolto e numerosi giornali di opposizione sottoposti a sequestro. Il 7 aprile 1926, un’anziana signora irlandese, Violet Gibson, figlia di un Lord già governatore d’Irlanda, ferí in modo lieve con un colpo di rivoltella Mussolini, che subito dopo pronunciò uno dei suoi piú celebri motti: «Se avanzo seguitemi; se

indietreggio, uccidetemi; se muoio vendicatemi». L’11 settembre un anarchico, Gino Lucetti, lanciò invano una bomba contro l’auto di Mussolini. Il 31 ottobre un altro anarchico, un ragazzo sedicenne, Anteo Zamboni, sparò al duce senza colpirlo e venne ucciso immediatamente. Questi attentati furono sfruttati dal fascismo per completare una legislazione destinata a segnare, ora anche formalmente, la fine definitiva di quanto rimaneva delle istituzioni liberali. La trasformazione dello Stato liberale parlamentare dominato dai fascisti in regime fondato sul monopolio politico del fascismo fu realizzata per mezzo di una serie di leggi dette «fascistissime». Il 2 ottobre 1925 con il patto di Palazzo Vidoni si provvide a esautorare definitivamente la Cgl, che sarebbe ufficialmente scomparsa nel gennaio 1927. Le Corporazioni nazionali, cioè i sindacati fascisti, furono riconosciuti dalla Confederazione dell’industria come le uniche rappresentanze dei lavoratori; le commissioni interne vennero abolite. Il 12 novembre la Confindustria si proclamò ufficialmente organizzazione «fascista», ottenendo di essere rappresentata nel Gran consiglio. Una legge del 20 di quel mese sottopose tutte le associazioni al controllo della polizia, causando tra l’altro lo scioglimento delle logge massoniche. Di eccezionale rilievo fu la legge del 24 dicembre, la quale – modificando lo Statuto del 1848 – stabilí che «il potere esecutivo è esercitato dal Re per mezzo del suo Governo»; che la figura del presidente del Consiglio veniva mutata in quella di «Capo del Governo»; che questi era nominato dal re e poteva essere revocato solo da lui; che a loro volta i ministri venivano nominati e revocati «su proposta del Capo del Governo»; che i ministri erano «responsabili» unicamente «verso il Re e il Capo del Governo»; e che «nessun oggetto può essere messo all’ordine del giorno di una delle due Camere, senza l’adesione del Capo del Governo» 18. Tutto ciò comportò un enorme rafforzamento del potere esecutivo e l’esautoramento del Parlamento, ridotto a cassa di risonanza del capo del governo, ormai rivestito dei panni di dittatore. A liquidare quanto rimaneva della libertà di stampa provvide la legge del 31 dicembre, che introdusse la figura del direttore responsabile soggetto al riconoscimento del procuratore generale della corte d’appello del luogo di stampa e legò l’esercizio della professione giornalistica all’iscrizione a un albo professionale nazionale. Giornali di indirizzo liberale come il «Corriere della Sera» di Milano e «La Stampa» di Torino furono costretti a cambiare linea, avviando una generale

fascistizzazione degli organi di informazione. Numerosi giornali sospesero le pubblicazioni; e la residua stampa di opposizione fu oggetto di sistematiche misure vessatorie. Tra il febbraio e il settembre 1926 una serie di norme abolí le amministrazioni locali di nomina elettiva. I podestà, nominati dai prefetti e affiancati da consulte comunali con funzioni solo consultive e sottoposte al benestare dei prefetti, presero il posto dei sindaci. L’attentato compiuto da Zamboni forní il pretesto per completare le leggi che instauravano in maniera formale la dittatura. Soppressi tutti i giornali antifascisti, il 5 novembre furono sciolti tutti i partiti di opposizione e il 9 120 deputati privati del mandato parlamentare; venne posta sotto controllo la concessione dei passaporti; fu istituito il confino di polizia in località particolari per gli oppositori; gli esuli furono soggetti alla confisca dei beni e alla perdita della cittadinanza. A coronamento dell’opera, venne istituito in novembre un Tribunale speciale per la difesa dello Stato, con un collegio giudicante formato da ufficiali dei tribunali militari, membri della Milizia, e presieduto da un generale. Fu decretata la pena di morte per chi attentasse alla vita del re, della regina, del principe ereditario e del capo del governo e per altri reati contro lo Stato. Decisivo fu il contributo dato da Federzoni e da Rocco all’elaborazione della legislazione repressiva. Il 1 o novembre un gruppo di fascisti assaltò l’abitazione del leader del Partito sardo d’azione, Emilio Lussu, che, dopo aver ucciso uno degli aggressori, venne incarcerato per oltre un anno, quindi prosciolto ma condannato al confino. L’8 novembre fu arrestato il comunista Gramsci e pochi giorni dopo espatriarono i socialisti Claudio Treves, Giuseppe Saragat, Nenni e Turati. Nell’agosto 1925 Salvemini, dopo essere stato arrestato per attività antifascista, era riparato in Francia. Con le leggi del novembre 1926 – cui fece seguito la costituzione nel 1927 di una speciale polizia politica, l’Organizzazione per la vigilanza e la repressione dell’antifascismo (Ovra) – il fascismo si era reso padrone assoluto dello Stato. E Mussolini, non essendovi piú forza alcuna in grado di opporsi al regime, ritenne necessario e opportuno attuare una politica di consolidamento che facesse leva sulle istituzioni e sugli apparati statali, chiudendo la fase in cui era stato dato grande spazio all’azione delle squadre. Nel settembre 1926 era stato nominato capo della polizia il prefetto Arturo Bocchini, un uomo di grande abilità che avrebbe servito il regime con estrema efficacia fino alla sua morte nel 1940. Dopo che Farinacci era stato

indotto alle dimissioni da segretario del Pnf già in marzo, il suo successore Augusto Turati, tra la fine del 1926 e gli inizi del 1927, provvide a un drastica epurazione all’interno del partito con l’espulsione di migliaia di membri ancora legati al sovversivismo dei ras: Mussolini sanzionò l’iniziativa con una circolare ai prefetti del 5 gennaio 1927 in cui stabiliva di fatto il primato della loro autorità su quella delle periferie fasciste, dichiarando che lo squadrismo «nel 1927 è semplicemente anacronistico, sporadico» e che «l’illegalismo deve finire». Questa linea riuscí molto gradita alle classi dirigenti del Paese e alla monarchia. Con la liquidazione dello Stato liberale venne in primo piano la questione relativa alla natura dello Stato fascista. Era chiaro che non si trattava di uno Stato autoritario tradizionale e che la dittatura instaurata in Italia aveva l’ambizione non solo di piegare a sé le istituzioni politiche e gli apparati burocratici e polizieschi, ma anche di plasmare in maniera profonda la società civile. Furono per primi gli antifascisti a interrogarsi sulle specificità del fascismo ancor prima del 1925-26. Già nel 1923 lo storico Luigi Salvatorelli aveva parlato del proposito di attuare una «totale dittatura di partito» e Giovanni Amendola della pretesa di stabilire «una religione» politica animata da uno «spirito totalitario»; l’anno seguente anche Luigi Sturzo fece riferimento a una «trasformazione totalitaria» in atto, decisa a permeare tutte le sfere della vita politica e sociale. Nasceva cosí la categoria del «totalitarismo» per qualificare questa di dittatura di tipo nuovo, anche se già anticipata nei suoi aspetti sostanziali dalla dittatura sovietica. Il termine «totalitario», elaborato dapprima dagli antifascisti con un’accezione palesemente negativa, nel 1925-26 venne fatto proprio con un significato positivo dai fascisti per esaltare il loro intento di compattare l’intera società avviandola verso la «rinascita nazionale» nell’ambito di uno Stato rigenerato dalle fondamenta.

5. La «linea De Stefani» e il liberismo iniziale del fascismo. La ripresa dell’economia. Il progressivo consolidamento del fascismo al potere fra l’ottobre 1922 e il 1926 non avrebbe potuto realizzarsi in modo cosí compiuto se il fascismo stesso non avesse goduto dell’appoggio delle forze economiche, i cui

interessi furono a loro volta attivamente sostenuti dal governo. Anzitutto, in contrasto con la linea indicata da Giolitti nel 1920, fu invertita la tendenza ad accrescere il peso delle tasse dirette. Il ministro delle Finanze, Alberto De Stefani, favorí l’aumento delle imposte indirette, per agevolare i capitalisti e gli investimenti privati, e in generale i ceti abbienti. Pochi giorni dopo la marcia su Roma, il 10 novembre 1922 la legge sulla nominatività dei titoli – varata da Giolitti, ma rimasta inoperante – venne ritirata da Mussolini, che in tal modo ottenne la gratitudine del Vaticano, molto interessato a questa misura per ragioni fiscali; e per favorire i proprietari meridionali fu accantonato ogni progetto di riforma agraria. Nel dicembre 1923 venne abolita la legge sulle successioni, anch’essa introdotta da Giolitti, e le relative quote fiscali furono drasticamente ridotte. Ma il governo fascista andò molto oltre. All’insegna di un “produttivismo” privatistico, che il fascismo agitava con il comprensibile gradimento dei capitalisti, il governo invertí nei suoi primi anni quella tendenza allo “statalismo” che Giolitti prima e dopo la guerra aveva sostenuto per conferire allo Stato le leve di controllo su certi settori dell’economia e che durante la guerra si era ampiamente, ma anche patologicamente, sviluppata; tendenza che gli imprenditori privati ora combattevano nel contesto del progressivo smantellamento delle “bardature di guerra” e della riconversione dell’industria. Per soddisfare tali esigenze, Mussolini riprivatizzò l’industria dei fiammiferi e gran parte della rete telefonica. Cosí pure venne abolito il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita. In generale, dunque, la “linea De Stefani” favorí gli interessi dei capitalisti in una fase in cui questi chiedevano una maggiore libertà di iniziativa e minori carichi fiscali. Fu questo il periodo in cui il fascismo si caratterizzò come “liberista”, anche se non mancarono misure dirette al salvataggio con interventi pubblici di banche e industrie che non avevano retto agli effetti della crisi del 1921-22. Una misura significativa in tal senso fu il salvataggio nel 1923 del Banco di Roma, espressione diretta degli interessi finanziari vaticani, che versava in condizioni critiche. Della politica liberista del governo fu espressione anche il fatto di favorire l’aumento dei profitti dell’industria a scapito dei salari operai, i quali subirono fra il 1922 e il 1925 un calo costante favorito dalla sempre maggiore debolezza dei sindacati. Il “connubio” tra fascismo e interessi capitalistici negli anni iniziali del governo Mussolini fu decisamente agevolato dalla ripresa che, in

corrispondenza con la fase di espansione economica mondiale in atto, si era fatta sentire in Italia già prima dell’ottobre 1922. Questa ripresa decollò anzitutto in campo agricolo. Negli anni 1920-22 il raccolto medio di frumento si era aggirato intorno ai 44 milioni di quintali; quello del mais intorno ai 23 milioni; quello del riso era stato di poco superiore ai 5 milioni. Nel 1923-25 la produzione del frumento toccò in media i 56 milioni di quintali; quella del mais quasi i 27; quella del riso i 6,5. Anche il patrimonio zootecnico aumentò in misura non grandissima, ma sensibile. La ripresa dell’agricoltura ebbe un immediato riflesso positivo sulla produzione di concimi nell’industria chimica. Anche negli altri settori si ebbe un accelerato aumento della produzione, tanto che fra il 1922 e il 1925, fatta pari a 100 quella del 1922, essa passò complessivamente a 116 nel 1923, 137,5 nel 1924, 157,3 nel 1925, con una particolare accentuazione per l’industria metallurgica, che nel 1925 quasi raddoppiò la produzione raggiungendo l’indice di 193,3. La tendenza favorevole non era merito particolare del governo fascista, poiché era legata alla generale ripresa internazionale; ma è indubbio che il fascismo ne beneficiò largamente ai fini del suo consolidamento. La ripresa aveva però il suo punto debole nelle precarie basi finanziarie. L’industria italiana dipendeva largamente dalle importazioni di materie prime dall’estero, mentre le esportazioni rimanevano inferiori al complesso delle importazioni. In questo quadro si inserí la politica di riduzioni salariali per contrarre i consumi. Essendo la bilancia dei pagamenti fortemente deficitaria, i prestiti esteri diventavano un’impellente necessità. Due dei maggiori veicoli di valuta estera pregiata, il turismo e le rimesse degli emigrati, erano entrati in crisi, il primo per la sfavorevole situazione politica interna, il secondo per le leggi restrittive internazionali, e specie statunitensi, sull’emigrazione. Ma nel 1925 la grande banca statunitense Morgan concesse un prestito di 100 milioni di dollari allo Stato italiano a sostegno della lira. Alla fine di quell’anno, grazie alle rimesse degli emigrati, ancor sempre significative, alla riduzione della spesa pubblica e alla ripresa delle esportazioni, le condizioni del bilancio mostrarono un notevole miglioramento, presentandosi per la prima volta dopo la fine della guerra in attivo; anche il disavanzo commerciale subí una significativa riduzione. 1. Il testo del programma in R. De Felice, Mussolini il fascista, I. La conquista del potere 19211925, Appendice, Einaudi, Torino 1966, pp. 756-63.

2. Sturzo, I discorsi politici cit., p. 199. 3. G. Salvemini, Lettere americane 1927-1949, a cura di R. Camurri, Donzelli, Roma 2015, p. 153. 4. Cartiglia (a cura di), Documenti della storia. Il Partito socialista italiano 1892-1962 cit., p. 262. 5. Opera omnia, XVIII, pp. 456-57. 6. Cfr. L. Salvatorelli e G. Mira, Storia d’Italia nel periodo fascista, Einaudi, Torino 1959, p. 222. 7. Opera omnia, XIX, p. 17. 8. G. Salvemini, Scritti sul fascismo, vol. II, Feltrinelli, Milano 1966, p. 149. 9. Sturzo, I discorsi politici cit., pp. 321-33. 10. G. Matteotti, L’avvento del fascismo, a cura di S. Caretti, Plus - Pisa University Press, Pisa 2011, pp. 349-50. 11. A. Gramsci, La costruzione del Partito comunista 1923-1926, Einaudi, Torino 1971, p. 40. 12. Ibid. 13. Opera omnia, XXI, p. 57. 14. Sturzo, I discorsi politici cit., p. 347. 15. Opera omnia, XXXI, pp. 238-40. 16. Il testo del Manifesto in Valeri, La lotta politica in Italia cit., pp. 583-89. 17. Il testo di Croce ibid., pp. 590-93. 18. Il testo della legge in A. Aquarone, L’organizzazione dello Stato totalitario. Appendice, Einaudi, Torino 1965, pp. 395-96.

Capitolo ottavo Caratteristiche del regime e natura del totalitarismo fascista

1. Il fascismo italiano, forma debole e incompiuta di totalitarismo. Il primo Paese ad assumere in Europa un volto totalitario fu la Russia nei primi anni Venti, il secondo l’Italia nel 1925-26, il terzo la Germania nel 1933-34. Il regime sovietico fu quello in cui il totalitarismo raggiunse il tasso di maggiore organicità, in quanto in esso si assistette alla concentrazione di tutti i poteri: politico, ideologico, economico e militare, rendendo lo Stato completamente assoggettato al partito; il regime nazista come quello sovietico privò di ogni autonomia gli apparati statali, affidò all’élite e al capo del partito il pieno potere politico, ideologico e militare, ma, a differenza del primo, pur imponendo il proprio comando sull’economia, non procedette, salvo che in settori assai limitati, alla sua statizzazione. Diverso fu il caso del regime fascista. In Italia questo impose sí il proprio monopolio politico, ma Mussolini dovette, a differenza di Stalin e di Hitler, condividere le massime cariche con il re, nelle cui mani restavano la facoltà di ritirare la fiducia al capo del governo e il comando supremo delle forze armate. Non a caso, per indicare il tipo di rapporti instauratisi tra il Duce e il sovrano, si parlò di una «diarchia». Si trattò di elementi assai importanti di debolezza. Inoltre, in Italia il fascismo non fu in grado di acquistare il monopolio ideologico cui pure aspirava, che dovette condividere, provocando ricorrenti e in alcuni momenti tensioni anche gravi, con la Chiesa cattolica, che in prima persona e mediante le sue varie e molteplici organizzazioni esercitava una vasta influenza sulle masse, sulla classe dirigente del Paese e sui quadri alti e medi del fascismo. Inoltre, sono da sottolineare i limiti che derivarono alla pretesa di fascistizzazione dello Stato dall’importanza conservata nella burocrazia e nell’amministrazione dal personale formatosi durante i governi di Giolitti, Salandra e Nitti. Infine, le élites economiche italiane, mentre si adeguarono, soprattutto dopo la crisi internazionale del 1929, all’incisivo intervento dello Stato nell’industria e nella finanza, continuarono a godere di un’autonomia impensabile in Germania. Il fascismo nutrí sí la viva aspirazione a trasformare l’Italia in uno Stato compiutamente

totalitario, ma gli ostacoli sopra indicati gli impedirono di raggiungere lo scopo; sicché quello fascista si configurò di fatto come un “totalitarismo incompiuto”. Quello sovietico fu il totalitarismo “rosso”, quello italiano e tedesco costituirono le forme del totalitarismo “nero”, che sono state e continuano a essere considerate come i due volti del fascismo e quindi ridotte sotto un’unica categoria (sotto la quale viene talora posto impropriamente anche il franchismo). Una simile reductio ad unum ha una sua legittimità, a condizione di mantenerla entro limiti ben definiti. Mussolini venne considerato da Hitler il suo “maestro” e il nazismo fu per molti aspetti tributario delle “lezioni” a esso fornite dal fascismo italiano. Quest’ultimo costituí poi una fonte decisiva di ispirazione e un esempio per tutta una serie di capi di movimenti e regimi fascistoidi in vari Paesi d’Europa e anche fuori di questa; sicché non a caso negli anni Venti e Trenta si prese a parlare del fascismo come di un fenomeno internazionale. Detto questo, è necessario sottolineare le importanti differenze tra il fascismo italiano e il nazionalsocialismo; distinguere tra i vari contesti in cui essi si svilupparono e giunsero al potere; e tenere conto dei tempi e delle fasi attraverso cui questo obiettivo è stato perseguito e l’esito conseguito. Per quanto riguarda in particolare l’avvento dei fascismi in Italia e in Germania, è possibile scorgere alcune rilevanti analogie. Esso avvenne nel corso di una profonda crisi politica e sociale che sconvolse entrambi i Paesi, contraddistinta per un verso dal fatto che il movimento operaio possedeva una forza sufficiente per attaccare e, nel caso delle sue correnti piú estremistiche, per minacciare, le posizioni delle classi dirigenti, ma insufficiente a realizzare un mutamento di regime sociale; per l’altro dalla debolezza del liberalismo borghese, dall’incapacità della borghesia e piú in generale dei ceti alti di ottenere fra le masse popolari un consenso abbastanza largo per dare uno sbocco alla crisi nel quadro delle istituzioni parlamentari e della democrazia pluralistica. Considerandosi insufficientemente tutelati dalle istituzioni liberali, industriali e agrari, ben saldi nel loro potere economico, e strati consistenti dei ceti medi si gettarono nelle braccia del fascismo, conferendogli quella base sociale e quella forza senza le quali esso non avrebbe potuto giungere al potere e porsi il compito di restaurare, secondo le proprie specifiche modalità e finalità e con inedite caratteristiche politiche e istituzionali, l’ordine sociale dominante. Dove, come in Gran Bretagna e in

Francia fino all’avvento dei regime fascistoide di Vichy, il pericolo di mutamento sociale non si fece sentire con paragonabile intensità e la borghesia liberale godeva di una base piú larga e piú solida, il fascismo non si affermò. Quanto ai tempi, in Italia esso giunse al potere nel 1922 e il nazismo in Germania nel 1933, sfruttando l’uno la crisi del primo dopoguerra, l’altro gli effetti catastrofici della “grande depressione” economica del 1929. Per intraprendere con successo la lotta per il potere, le forze fasciste dovevano risolvere un problema fondamentale: la costruzione di una base di massa sufficiente da mobilitare contro socialisti e comunisti, ma anche contro i liberaldemocratici e i partiti cattolici. In misura notevole, tale base venne offerta dalla piccola borghesia: ex combattenti delusi in Germania dalla sconfitta militare, in Italia della “vittoria mutilata”, quadri inferiori della burocrazia, piccoli e medi proprietari, studenti, insegnanti, professionisti, intellettuali orientati in senso accesamente nazionalista. Non mancò anche l’adesione di strati piú o meno larghi – in Germania, dopo la crisi del 1929, molto piú consistenti – di lavoratori, disoccupati e sottoproletari, ai quali si aggiunsero, in posizione necessariamente minoritaria ma con grande influenza, ricchi borghesi e alti burocrati, esponenti dei comandi militari, aristocratici, magistrati: tutti desiderosi di vedere restaurata “l’autorità dello Stato” e difesa la proprietà dai suoi assalitori. Un ruolo cruciale svolse la piccola borghesia nel consentire ai movimenti di Mussolini e Hitler di disporre di una rete capillare di militanti e di quadri e di una consistente base di massa. Senza questa essi non avrebbero potuto condurre la lotta extraparlamentare e violenta contro le grandi organizzazioni dei lavoratori, i partiti socialisti e comunisti, i sindacati e altre correnti politiche e sociali. D’altra parte la piccola borghesia fascista e nazista, se era antiproletaria, guardava al tempo stesso con ostilità ai grandi capitalisti, accusati di non saper fronteggiare con l’energia necessaria “i rossi” e di sovrapporre i propri interessi particolaristici a quelli generali. Essa vagheggiava una “conciliazione nazionale” da realizzare mediante l’uso della violenza per porre fine alle divisioni e ai conflitti politici e sociali che le istituzioni della democrazia liberale permettevano di amplificare e acuire. Siffatto “mito” della conciliazione assunse nell’ideologia fascista delle origini il carattere di una rivolta tanto contro il socialismo quanto contro gli “egoismi” del grande capitale, e portò alla formulazione di un progetto di riorganizzazione della società e dello Stato fondato sulla “giusta” compenetrazione degli interessi

delle masse lavoratrici e dei capitalisti. Il che la piccola borghesia fascista e nazista chiamò “rivoluzione nazionale”. Tutto ciò inquietò assai poco la grande borghesia, che colse ben presto la natura contraddittoria e secondaria degli accenti “anticapitalistici” presenti nelle ideologie fasciste e per contro la natura annientatrice della lotta condotta dai fascisti contro le organizzazioni del movimento operaio; e si diede perciò con spirito realistico a sostenere i fascismi, nel corso di un processo che coinvolse componenti dapprima minoritarie e poi sempre piú consistenti delle classi dirigenti. Mussolini e Hitler, a loro volta, capirono altrettanto presto che le loro possibilità di successo nella lotta per il potere erano legate all’appoggio dei centri di potere della conservazione sociale, e che essi non avrebbero mai potuto sostenere contemporaneamente – come pure avrebbero voluto certe correnti di “sinistra” del fascismo e del nazionalsocialismo – la lotta contro il movimento operaio e contro il grande capitale; per cui giunsero a siglare un’alleanza organica con i ceti conservatori decisi a sostenere una generale offensiva antioperaia, antisocialista, anticomunista e antidemocratica. Ma, per non restringere la loro base di massa, indispensabile al successo, i leader fascisti continuarono ad agitare e utilizzare elementi ideologici, sempre piú di facciata, “antiborghesi”, presentando il fascismo e il nazismo come determinanti per superare gli interessi particolaristici delle varie classi e come le forze mediatrici necessarie al raggiungimento della compattezza dell’intero corpo sociale. Giunti al potere – dopo una fase intermedia che serví per assumere le leve del comando – i fascismi si volsero alla realizzazione del loro progetto totalitario, che – come si è sottolineato – ebbe un’attuazione molto piú radicale e compiuta in Germania, con l’intento di integrare pienamente la società civile nelle istituzioni da essi dominate. Strumento essenziale di tale integrazione furono il partito unico e la subordinazione dello Stato alle sue direttive. Soddisfatto dalla piega moderata in campo economico-sociale presa dai fascismi già prima di essere giunti al potere, il grande capitale industriale e finanziario accettò e sostenne in Italia e Germania i nuovi tipi di regime. L’inquadramento delle organizzazioni dei lavoratori, la fine della lotta di classe, la pronta disponibilità del potere politico a favorire le esigenze della proprietà giovavano enormemente alla riaffermazione del potere economico della grande borghesia dopo i disordini provocati da anni di scontri violenti

tra le parti in conflitto. Il successo dei regimi fascisti dipendeva dalla scomparsa per esaurimento o dall’eliminazione mediante la violenza di tutte le forze politiche estranee e dalla loro capacità di esercitare il loro incontrastato predominio politico; quindi il problema del condizionamento ideologico e pratico di tutte le classi assunse per essi un significato vitale. Seguendo l’esempio sovietico, i regimi fascisti svilupparono gli apparati della propaganda di massa su una scala che non aveva precedenti, facendo leva sugli strumenti offerti dalle tecniche moderne, a partire da una radio e da un cinema piegati ai loro fini. La stampa, le organizzazioni culturali e le istituzioni scolastiche furono chiamate a celebrare in maniera martellante i regimi e in primo luogo i loro capi supremi. Anche alle chiese venne chiesto di fare la loro parte. Un altro mezzo di primaria importanza fu l’architettura di regime. Accanto ai condizionamenti ideologici, stava il ricorso a capillari strumenti di controllo e sorveglianza dei nuclei di “opposizione morbida” e la repressione violenta di quelli clandestini votatisi all’opposizione attiva. La polizia politica diventò quindi una delle colonne fondamentali del potere statale posto al servizio del partito unico e dell’ordine “totalitario”. Va però sottolineato che in Italia l’attività repressiva, pur capillare e continuativa, non ebbe dimensioni neppure lontanamente paragonabili a quella messa in atto nella Russia sovietica e in Germania. In questi Paesi i condannati alla detenzione, alla deportazione e alla morte si contarono in milioni, in Italia gli imprigionati e i confinati a migliaia e i condannati a morte a decine, mettendo in luce la natura assai meno feroce della dittatura.

2. Il carattere «razionale» del culto del capo. Al vertice del sistemi fascisti basati sui principî di gerarchia e di obbedienza degli strati inferiori a quelli superiori stava il “capo”, dotato dell’attributo dell’infallibilità. Questa pretesa di infallibilità – spesso presentata come un elemento irrazionale – era al contrario del tutto razionale in relazione alla natura e alle esigenze di funzionalità della struttura del potere. Mussolini e Hitler erano stati i fondatori della dottrina fascista e nazionalsocialista e coloro che avevano portato i rispettivi movimenti alla conquista dello Stato. Essendo di formazione recente, i partiti fascisti

mancavano di criteri di orientamento se non fossero quelli riconducibili anzitutto alla soggettività dei loro capi carismatici. In quanto creatori dei valori fascisti, questi costituivano la fonte e l’incarnazione vivente del “vero” e del “giusto” nell’ambito del nuovo ordine e le uniche personalità dotate dell’autorità per assicurare all’interno dei propri partiti l’amalgama necessario delle diverse componenti in essi confluite e il superamento o il contenimento delle tensioni che potessero affiorare. Non basandosi sul pluralismo e su correnti istituzionalizzate e avendo come principio supremo quello dell’unità, i movimenti fascisti delegarono ai loro condottieri il compito “sovrano” sia di assicurare quella compattezza ideologica e organizzativa senza la quale non avrebbero potuto sopravvivere, sia di determinare la scala gerarchica del sistema di potere. Nessun gerarca fascista o nazista disponeva di garanzie di autonomia e tanto meno di indipendenza che non fosse quella concessa e sanzionata dal “Führer” o dal “Duce”. Un simile rapporto rendeva inevitabile propagandare in modo incessante all’interno e all’esterno delle organizzazioni fasciste il dovere di fedeltà assoluta verso il capo, alimentando uno sfrenato “culto della personalità”: culto finalizzato ad assicurare stabilità nella cerchia piú stretta che lo circondava e nelle gerarchie inferiori. Questo processo, ancora una volta, ebbe la sua espressione molto piú radicale nella Germania hitleriana, ma costituí parimenti una caratteristica essenziale dell’Italia fascista. Regimi come quelli fascisti, che si reggevano sul principio del monopolio politico, che predicavano l’obbedienza assoluta ai vertici del potere come virtú etica e sociale, non potevano non portare a rinnegare tutti i valori dell’umanesimo sia liberale sia socialista. L’obbedienza e il conformismo furono considerati doveri verso lo Stato; la denuncia alle autorità di ogni avversario un obbligo civile; la disponibilità servile degli intellettuali verso il potere e la sua celebrazione un compito intrinseco al loro ruolo; la repressione sistematica nei confronti dei “nemici dello Stato” igiene pubblica. L’esaltazione dell’interesse comune (mentre si lasciavano i lavoratori senza difese e si dava libero corso ai privilegi dei ricchi) e il proclamare l’uso della forza quale fattore risolutivo sia per garantire la pace sociale sia per affrontare i conflitti tra i popoli diventarono i fondamenti del “credo” dei regimi fascisti. Elevando la compattezza nazionale a scopo supremo dello Stato e della nazione, questi regimi crearono le condizioni piú favorevoli per lo sviluppo

dell’imperialismo italiano e tedesco. Italia e Germania erano entrambe Paesi con una disponibilità di materie prime non paragonabile a quella di Paesi come la Gran Bretagna, la Francia e gli Stati Uniti; sicché si posero come obiettivo necessario di alterare gli sfavorevoli equilibri internazionali usciti dalle paci seguite alla Prima guerra mondiale. Di qui la loro volontà di preparare una nuova guerra che mutasse radicalmente la carta geopolitica europea e mondiale; di qui l’esaltazione del militarismo e dell’imperialismo.

3. I diversi fondamenti di fascismo e nazionalsocialismo: lo Stato nazionale e la comunità popolare razziale. Differenze tra i due regimi. Il significato di un’analisi comparativa è da mettersi in relazione all’importanza dei rapporti che legarono i due regimi dopo l’avvento al potere di Hitler in Germania nel 1933. Il fascismo italiano fin dalle sue origini ebbe una componente repubblicana e una monarchica. Mussolini, che era stato un acceso repubblicano, finí per accettare la monarchia e allearsi con essa quando si rese conto che, in vista dell’ascesa al potere, era necessaria per ottenere l’appoggio dell’alta burocrazia statale, dell’esercito e della magistratura. Comunque la componente repubblicana all’interno del fascismo permase, se pure sotterranea ed emarginata, fino a prevalere quando la monarchia nel 1943 avrebbe divorziato dal fascismo. Inoltre il fascismo ebbe fin dalle origini un’ala irreligiosa e un’altra cattolica. Anche su questo terreno, Mussolini, che era stato un deciso anticlericale, mutò atteggiamento alleandosi con la Chiesa e “clericalizzando” il fascismo, per cui la massa dei fascisti sentí come naturale l’essere a un tempo fascista e cattolica. Il fascismo ebbe altresí due radici ideologico-politiche non omogenee: quella di sinistra che riuniva soreliani, sindacalisti, populistico-democratici; e quella di destra rappresentata dal filone nazionalista-monarchico, confluito nel 1921 nel partito, di Federzoni, Coppola, Corradini e Rocco. Queste due anime si composero nel partito e nello Stato, lasciando però spazio a frizioni che, pur contenute, sarebbero emerse periodicamente. Infine, il fascismo italiano era “statalista” e individuava nel carattere “etico” dello Stato la forma unificante suprema della nazione, senza fare appello prima del 1938 a fattori di natura biologico-razziale.

Anche dopo la sua trasformazione in regime nel 1925-26, il fascismo italiano mostrò di avere una forza interna assai minore del nazionalsocialismo, riconducibile in maniera determinante, come già messo in luce, a un fattore della massima importanza: che, anche negli anni del suo massimo consolidamento, continuò ad avere di fronte a sé la Chiesa cattolica e la monarchia, suoi alleati ma costituiti in poteri autonomi. Sicché il regime dovette “fare i conti” con i loro specifici interessi e le loro ambizioni. Da ciò ostacoli non superabili alla piena realizzazione dell’ordine totalitario, che pure era la vocazione e l’aspirazione ideologica profonda del fascismo. Per contro il nazismo, salito al potere in una repubblica, non ebbe mai il problema dei rapporti con centri di potere quali la monarchia e il Vaticano. Hitler poté assumere insieme – il che non riuscí mai a Mussolini – le funzioni di leader del partito unico, capo del governo e dello Stato e anche delle forze armate, legate a lui personalmente da giuramento di fedeltà. Le radici ideologiche del nazismo affondavano nella dottrina della superiorità biologica della razza ariana e nell’antisemitismo; il fascismo, non esistendo in Italia “un problema ebraico”, diventò razzista tardivamente per effetto della guerra d’Etiopia e antisemita per imitazione e cedimento al nazismo. In quest’ultimo a essere considerata la suprema realtà unificante del popolo non era lo Stato nazionale, bensí l’appartenenza a una comunità razziale (Volksgemeinschaft) mistico-biologica basata «sul sangue e sul suolo», diretta all’interno del Paese contro le minoranze considerate elementi estranei, come ebrei e polacchi, e all’esterno contro i «popoli inferiori», quali in Europa anzitutto gli ebrei dovunque dislocati e gli slavi. Lo Stato tedesco veniva considerato dai nazisti come lo strumento materiale per riunire gli ariani su base sovranazionale e assicurare in prospettiva mediante il trionfo della potenza militare della Germania la loro supremazia su scala mondiale. Per il fascismo invece il popolo si inverava interamente nello Stato. La formula di Mussolini, pronunciata nell’ottobre 1928, era: «Tutto nello Stato, niente contro lo Stato, nulla al di fuori dello Stato». Il totalitarismo nazista si espresse inoltre anche nel tentativo, in parte notevole riuscito, di creare una “moralità” e una “religiosità” nazista autonome e opposte rispetto ai valori tradizionali del cristianesimo, in vistosa differenza con il fascismo che puntò invece sul “connubio” con il cattolicesimo. Entrambi i regimi svilupparono una loro mistica, che nel nazismo aveva un nucleo anzitutto biologico: il culto della purezza del

sangue ariano, presupposto necessario per l’appartenenza al partito e agli apparati civili e militari dello Stato, per l’esercizio delle professioni e per il ruolo dirigente nei settori dell’economia; mentre nel fascismo il nucleo era politico: il culto dello Stato e della nazione e la fedeltà politica. La forte compattezza interna del nazismo fu il risultato dell’implacabilità con cui Hitler, una volta giunto al potere, provvide nel 1934 a epurare con lo sterminio le correnti di sinistra anticapitalistiche, che dapprima aveva tollerato e usato in quanto utili nel periodo in cui tra il 1929 e i primi anni Trenta la Germania era stata sconvolta dagli effetti della grande crisi imputata alle responsabilità di industriali e finanzieri, ma che considerò pericolose dopo avere ottenuto il pressoché completo appoggio della grande borghesia. In Italia non fu mai raggiunta una paragonabile omogeneità, poiché nel fascismo – oltre alla componente monarchica di matrice nazionalistica e a quella sotterranea ma sopravvissuta filorepubblicana già menzionate – ne convissero altre: una clericaleggiante, una che mal tollerava il connubio tra fascismo e Chiesa, una decisamente filocapitalistica e una di sinistra che, persino con confuse simpatie per l’esperimento sovietico, vagheggiava di utilizzare le corporazioni come mezzi per affermare una nuova, diversa socialità atta a legare le masse lavoratrici al regime. Infine, in politica estera, all’interno del gruppo dirigente fascista vi furono coloro che, dopo l’ascesa al potere di Hitler nel 1933, avevano un orientamento filobritannico o comunque critico verso le ambizioni espansionistiche tedesche e coloro invece che erano decisi a legare saldamente le sorti dell’Italia alla Germania. Di grande importanza il fatto che il nazismo, anche per essersi affermato in un Paese industriale molto piú solido di quello italiano, fu in grado di assumere la leadership dei fascismi, fino a trasformare l’Italia prima in uno Stato subalterno e poi in una sorta di satellite della Germania. In campo economico esso colse successi assai piú consistenti rispetto a quelli ottenuti dal fascismo in Italia, data la superiorità della macchina produttiva tedesca. Di conseguenza il riarmo della Germania, che oltretutto aveva alle proprie spalle una fortissima tradizione militare, ebbe dimensioni gigantesche; mentre quello italiano rimase un bluff, con grave discredito per il fascismo che esaltava la potenza militare italiana senza alcuna corrispondenza tra le parole e i fatti e la capacità di coinvolgere le masse nel suo retorico bellicismo. A ciò aggiungasi che il permanere in Italia di vaste zone di grave arretratezza economica e culturale nel Mezzogiorno, nelle isole e anche in

alcune aree del Settentrione rendeva assai problematico l’inquadramento politico non formale di milioni di contadini ancora analfabeti o semianalfabeti, rimasti sensibili alla voce del clero, affinata da lunga esperienza, o delle oligarchie locali. Le campagne arretrate poterono essere sí oggetto di controllo, ma non terreno fertile per un efficace indottrinamento politico. In Germania l’intera società fu avvolta in una solidissima rete di potere e sottoposta a un processo di integrazione ideologica rapida e profonda, che ottenne dalla grande maggioranza della popolazione un’adesione entusiastica, non paragonabile a quanto ottenuto dal regime in Italia; dove il consenso fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale si fece a mano a mano piú largo nella borghesia, negli strati medio e piccolo-borghesi ma non in eguale misura negli strati popolari, il cui atteggiamento di gran lunga prevalente fu quello del consenso passivo o del mero adeguamento. Il risultato finale fu che la Seconda guerra mondiale uní saldamente intorno a Hitler la massa dei tedeschi, ma non la massa degli italiani intorno a Mussolini. Anche nel tipo di totalitarismo attuato e di dittatura personale esercitata dal Duce e dal Führer le differenze furono marcate. In Italia le istituzioni dello Stato, i suoi apparati amministrativi e il personale dei ministeri costituirono certamente un asse portante ed essenziale del regime, ma mantennero in misura significativa nelle strutture di fondo il loro carattere tradizionale, riconducibile in maniera determinante al persistere della monarchia. Sotto questo profilo fu quanto mai significativa una direttiva impartita da Mussolini nel gennaio 1927, in cui si affermava che i segretari provinciali del Pnf dovevano «obbedienza e rispetto» ai prefetti, naturalmente tenuti, a loro volta, ad agire come strumenti fedeli del regime. Nel regime italiano, insomma, lo Stato come struttura giuridica e amministrativa non solo conservò ma potenziò, soprattutto in campo economico a partire dagli anni Trenta, molte delle sue funzioni. È inoltre da sottolineare, nonostante il progressivo accentramento dei poteri nelle mani di Mussolini, l’importanza del ruolo svolto dal Gran consiglio del fascismo, all’interno del quale veniva formalizzato il rapporto tra il Duce e l’élite del potere: importanza che sarebbe apparsa in tutta la sua portata nel luglio 1943, quando una componente del Consiglio avrebbe provocato, in parallelo e in parte in intesa con la monarchia, la caduta di Mussolini. Completamente diverso il quadro in Germania. Qui, sebbene i leader e i

teorici nazisti nei primi anni avessero anch’essi esaltato lo “Stato totalitario”, lo Stato come struttura giuridica e amministrativa basata su regole di carattere formale subí un rapido deterioramento culminato in una sostanziale dissoluzione, accompagnata da quella del governo collegiale come organo del potere esecutivo. Tutto venne accentrato nelle mani di Hitler e, ma sempre in subordine, del ristrettissimo gruppo dirigente intorno a lui. Nel partito nazista non vi fu nulla di analogo al Gran consiglio del fascismo. Avendo il plebiscito del 19 agosto 1934 approvato l’unione delle cariche di cancelliere e di presidente della Repubblica nella sua persona, Hitler si sentí pienamente legittimato a presentarsi e ad agire come incontrastato unico interprete della volontà e degli interessi non già dello Stato come istituzione ma della vivente «comunità del popolo» e guida suprema del governo. Gli apparati burocratici presero a rispondere alle direttive personali di Hitler. La rete dei poteri subí un processo di “feudalizzazione”. Il corso di assolutizzazione del potere nelle mani di Hitler raggiunse l’apice a partire dal 1938, anno in cui egli stabilí la sua piena potestà anche sulle alte sfere delle forze armate. Quella di Hitler fu dunque una dittatura personale assai piú integrale di quella di Mussolini. Tanto assoluto divenne il potere di Hitler, che, mentre Mussolini, quando nel luglio del 1943 la sconfitta militare dell’Italia apparve inevitabile, venne esautorato, tra il tripudio popolare, dal Gran consiglio e dal sovrano senza che i fascisti opponessero alcuna resistenza, il dittatore tedesco, anche dopo che il crollo militare della Germania si era profilato inevitabile, superando attentati e resistenze, riuscí a mantenere nelle proprie mani il pieno comando sino al 1945, grazie agli effetti congiunti della macchina del terrore, della fedeltà del partito, della prevalente obbedienza dell’esercito, epurato dagli elementi di opposizione, e della maggioranza della popolazione. Entrambi i regimi nutrirono l’ambizione di creare popoli di «uomini nuovi». Sennonché nel modo di concepirne i tratti caratteriali emergeva una grande differenza. Nel 1925-26, fin dalle origini dunque del regime dittatoriale, Mussolini affermò il proposito di forgiare una «nuova generazione», mediante un processo di selezione, in grado da un lato di stabilire una gerarchia di funzioni – «la classe dei guerrieri, che è sempre pronta a morire», le classi degli inventori, dei giudici, dei capitani di industria, degli esploratori, dei governatori – e dall’altro di saldare le gerarchie al comando e le masse in un solido corpo unitario. Lo spirito dell’uomo nuovo fascista doveva trovare il proprio humus in una

“rivoluzione culturale” che scaturisse dalla riforma morale degli italiani, fondamento di uno Stato totalitario in grado di permeare di sé l’intera società civile, di controllarla e subordinarla alle sue finalità, cosí da realizzare quella “nazionalizzazione delle masse” che, non realizzata nello Sato liberale, il regime indicava come la propria grande missione. Nel 1926 Mussolini dichiarò che occorreva «correggere gli italiani» dai loro vizi tradizionali, far nascere «un italiano che non rassomiglierà a quello di ieri». Nella seconda parte del saggio Dottrina del fascismo – pubblicata nel 1932 nella Enciclopedia Italiana – Mussolini esaltava lo Stato quale fondamento del fascismo. Per il fascismo, da considerarsi «una democrazia organizzata, centralizzata, autoritaria», lo Stato «è un assoluto, davanti al quale individui e gruppi sono il relativo». Uno Stato definito «uno Stato “etico”» che «rappresenta la coscienza immanente della nazione», che «non ha una teologia, ma ha una morale» e considera la religione «come una delle manifestazioni piú profonde dello spirito» da difendere e proteggere, che «è una volontà di potenza e d’imperio». Uno Stato che è la manifestazione massima del fascismo che «ha ormai nel mondo l’universalità di tutte le dottrine che, realizzandosi, rappresentano un momento nella storia dello spirito umano» 1. Per contro lo spirito dell’ideologia del regime nuovo di Hitler si basava sul mito della razza ariana e del sangue, in netta antitesi con i principî cristiani; era permeato di valori ispirati a una sorta di neopaganesimo. I perfetti esponenti della mistica biologica nazista furono i membri delle SS, che non avevano altra fede che non fosse quella nel Führer. L’ambizione di dare un senso ultimo alla vita, di dettare precetti atti a guidare gli uomini verso la rigenerazione e la salvezza dei popoli lottando contro le cause della degenerazione, di creare un mondo e uomini nuovi sulle ceneri di un passato esecrato ha sempre caratterizzato le religioni e i loro messaggi. Orbene, fascismo e nazismo aspirarono entrambi a creare un mondo e uomini nuovi sotto il magistero non già delle Chiese tradizionali, ma del partito unico e delle sue organizzazioni che ricevevano il verbo da capi carismatici e lo trasmettevano alle masse dei loro fedeli. Da ciò il carattere neosacrale conferito alle figure dei dittatori e alla loro parola diffusa da un clero politico. Da ciò il volto di “religioni politiche” proprio dei fascismi con tanto di simboli e riti, basate nel caso italiano sul primato dello Stato e della nazione, in quello germanico sul primato della razza ariana. È comunque da sottolineare che la religione politica del nazismo, che pure restò al potere solo

per poco piú di dodici anni rispetto ai venti anni del fascismo, ebbe una natura assai piú radicale e penetrò nel tessuto sociale molto piú in profondità che non la religione di quest’ultimo, la quale ebbe un contenuto piú eclettico e composito anche perché ostacolata e limitata dall’influenza e dalla contaminazione con il cattolicesimo. Un altro tratto che accomunò profondamente i due regimi fu la costante mobilitazione politica delle masse, a differenza di quanto avveniva nei regimi autoritari di tipo tradizionale, che tendevano invece a escluderle dalla scena politica. I grandi raduni costituirono le occasioni in cui i dittatori dettavano le loro direttive e comunicavano le loro decisioni – prese nei luoghi arcani del potere – ai popoli chiamati a eseguirle sotto la guida del partito. I plebisciti, in cui il ruolo dei votanti era dire Sí o No ai quesiti posti, avevano la funzione di far risaltare il trionfale consenso dato al Duce o al Führer e al loro sistema di potere. Infine, Italia fascista e Germania nazista si presentarono entrambe sulla scena internazionale come «Paesi nuovi», «popoli giovani», decisi a liberarsi una volta per tutte degli ostacoli che alle loro energie vitali ponevano i Paesi e i popoli «vecchi», a espandersi come potenze virilmente aggressive, a ridisegnare la mappa del potere mondiale. Dal che l’importanza data alla preparazione alla guerra, eterna legge che premia i forti e umilia i deboli, al mito della forza, all’addestramento militare come grande scuola di virtú morale e civile, alla lotta imperialistica ed espansionistica vista come tribunale della Storia, prova suprema della vitalità degli Stati e dei popoli. 1. B. Mussolini, Fascismo. Dottrina, in Enciclopedia Italiana, vol. XIV, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1951, pp. 849-51.

Capitolo nono Dall’avvento della dittatura alla vigilia della Seconda guerra mondiale

1. Lo Stato fascista e le sue istituzioni. Le leggi «fascistissime» del 1925-26 costituirono la premessa per la costruzione del nuovo tipo di regime e di Stato. Una volta costituito un ordine politico e civile stabile e distrutte le opposizioni – salvo quelle ristrette agenti nella clandestinità –, diventava superflua la sopravvivenza delle formazioni squadristiche. Perciò nel 1927 Mussolini inaugurò un corso di “normalizzazione”. Spettava in primo luogo all’autorità statale il compito di regolare la vita pubblica. Il partito costituiva la colonna politica portante della dittatura, ma era chiamato a restare subordinato allo Stato. Contemporaneamente però la burocrazia statale venne sempre piú infoltita di elementi fascisti. Allorché nel gennaio di quell’anno proclamò i prefetti – cui nel 1926 era stata imposta l’iscrizione al partito – le piú alte autorità delle province e lo squadrismo un fenomeno «anacronistico», Mussolini intese chiarire che era lo Stato a esercitare il ruolo primario nella “fascistizzazione” della società, mentre spettava al partito e alle sue organizzazioni diffondere lo spirito del fascismo negli organi dello Stato e nella società a esso sottoposta. L’amministrazione pubblica venne naturalmente epurata da tutti gli elementi i cui orientamenti fossero «in contrasto con le direttive del governo»; oltre cento furono tra il 1923 e il 1926 i magistrati espulsi. Da allora in avanti lo zelo fascista diventò una qualifica necessaria per fare carriera nel settore pubblico. Un processo di capillare fascistizzazione subí la scuola. Il 25 marzo 1927 il ministro della Pubblica istruzione, Pietro Fedele, disse alla Camera che «fascistizzare la scuola» era il suo «compito». Nel luglio 1928 venne decisa l’introduzione nelle scuole elementari del «testo unico di Stato», che sarebbe stato adottato a partire dall’anno scolastico 1930-31. L’anno seguente fu imposto il giuramento di fedeltà al regime agli insegnanti elementari, cui fecero seguito gli insegnanti delle scuole medie. Nell’agosto 1931, dietro proposta di Gentile, anche ai professori d’università venne chiesto il giuramento con cui si imponeva ai docenti di «esercitare l’ufficio di insegnante e adempiere tutti i doveri

accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla patria e al regime fascista» e di non appartenere ad associazioni o partiti, la cui attività non fosse conciliabile con i doveri di ufficio 1. Su circa 1250 professori, solo 12 rifiutarono di giurare e furono perciò dimessi. A esortare i professori a giurare furono congiuntamente Togliatti, Croce e Pio XI, per non privare le università di validi insegnanti. Nel 1932 i candidati ai concorsi pubblici, tra cui quelli per entrare in magistratura, furono tenuti a iscriversi al Pnf; nel 1940 sarebbe stata richiesta l’iscrizione anche ai magistrati in carriera, e nello stesso anno agli impiegati dello Stato quale presupposto degli avanzamenti in carriera. Intanto nel dicembre 1925 era stato creato, per iniziativa di Gentile, un Istituto fascista di cultura, che nel 1937 avrebbe mutato la denominazione in Istituto di cultura fascista. E, per creare un centro fascista di aggregazione per gli intellettuali piú eminenti, nel gennaio 1926 era stata costituita l’Accademia d’Italia, che avrebbe iniziato la sua attività nell’ottobre 1929. Già nel novembre 1923 era stato istituito il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), inteso a promuovere lo sviluppo della scienza e della tecnica, che sarebbe però diventato operante soltanto nel febbraio 1929, sotto la presidenza di Guglielmo Marconi, la cui adesione al regime fu molto ostentata dal regime stesso. Tra il 1932 e il 1936 la fascistizzazione della scuola venne perseguita con grande zelo prima dai ministri dell’Educazione nazionale Francesco Ercole e Cesare De Vecchi e dopo da Giuseppe Bottai. Quest’ultimo, consapevole dei limiti della riforma Gentile, che aveva privilegiato in maniera unilaterale l’insegnamento di tipo umanistico, nel gennaio 1939 presentò al Gran consiglio del fascismo una Carta della scuola, destinata a collegare la scuola al mondo delle professioni e del lavoro. Sennonché la Carta non venne attuata, salvo che per quanto riguardava la scuola media inferiore, dove vennero unificati i primi tre anni del ginnasio e degli istituti magistrale e tecnico, mantenendo in vigore la scuola di avviamento professionale. Nell’aprile 1926 incominciò l’inquadramento sistematico dei bambini, dei ragazzi e dei giovani dei due sessi nelle organizzazioni di regime con l’istituzione dell’Opera Nazionale Balilla (Onb). I maschi vi ricevevano un’educazione di carattere premilitare. I bambini fra i sei e i sette anni diventarono «figli della lupa» (la lupa di Roma); i ragazzi fra gli otto e i quattordici anni «balilla»; i giovani fra i quindici e i diciotto «avanguardisti». Gli studenti universitari aderenti ai Fasci, che fin dal 1920 erano stati raccolti

nei Gruppi universitari fascisti (Guf) nel 1927 furono ristrutturati. Nell’ottobre 1937 tutte le organizzazioni della gioventú, tra cui quelle delle «piccole» e delle «giovani italiane», per un totale di circa otto milioni di iscritti, vennero inquadrate nella Gioventú italiana del Littorio (Gil), posta alle dipendenze del segretario del Pnf e il cui motto – «Credere, obbedire, combattere» – fu lo stesso che si intendeva imporre a tutti gli italiani. Ai giovani fu richiesto il seguente giuramento: In nome di Dio e dell’Italia giuro di eseguire gli ordini del Duce e di servire con tutte le mie forze e se necessario col mio sangue la causa della Rivoluzione Fascista.

La stampa, la radio e il cinema furono sottoposti alla piú stretta sorveglianza e a una censura rigorosa. I giornalisti potevano esercitare solo se in linea con il partito. Mussolini affermò nel 1928 che il giornalismo disponeva della piú ampia libertà, purché «nell’ambito delle leggi del regime». Nel giugno 1935 al fine di controllare l’intero settore della propaganda di regime fu creato il Ministero per la Stampa e la Propaganda, riorganizzato nel maggio 1937 in Ministero della cultura popolare (Minculpop), che vigilava su case editrici, pubblicazioni periodiche e quotidiani, radio, cinema. Alcune direttive dei censori toccavano il grottesco, come quella che prescriveva di «non pubblicare fotografie di Carnera a terra»; altre, come quella che ingiungeva di passare sotto silenzio la morte dello scrittore sovietico Maksim Gor′kij, esprimevano la piú ottusa grettezza ideologica; altre erano inqualificabili, come quella che ordinava di «non interessarsi mai di Einstein». Anche lo sport dovette diventare «sport fascista». Il regime diede alle organizzazioni sportive un notevole impulso, considerandole la necessaria premessa e integrazione alla formazione militare dei giovani. Tutte le federazioni sportive vennero inquadrate nel Comitato olimpico nazionale italiano (Coni), fatto dipendere dal partito. Il regime considerò della massima importanza divulgare la simbologia e il costume fascisti. Il fascio littorio della Roma antica fu elevato a emblema del regime e diffuso in ogni parte del Paese. Nel dicembre 1926 fu stabilito l’obbligo di indicare gli anni negli atti ufficiali dell’amministrazione statale in numeri romani a partire dall’anno I (1922) dell’era fascista. Si fece di tutto per diffondere il saluto romano, reso d’obbligo nelle adunanze del partito.

Nel 1928 fu introdotta la «befana fascista». Per preparare i giovani al «nuovo pensiero» e alla «nuova fede» nel Duce e nel suo regime, nell’aprile 1930 venne fondata a Milano la Scuola di mistica fascista. Nel maggio 1928 fu promulgata una legge elaborata da Alfredo Rocco che mutava drasticamente i criteri della rappresentanza politica, in modo tale da consolidare il potere assoluto del Partito fascista. La Camera sarebbe stata composta da 400 membri; i candidati sarebbero stati scelti dal Gran Consiglio del fascismo fra i mille proposti dalle organizzazioni del «mondo del lavoro» e altri elementi «attivi» della nazione. Questi candidati avrebbero costituito una «lista unica» nazionale presentata agli elettori per l’approvazione in blocco. Gli elettori avrebbero potuto rispondere solo Sí o No. Il vecchio Giolitti alla Camera dichiarò: Affinché un’assemblea possa essere la rappresentanza della nazione occorre che i suoi componenti siano scelti, con piena libertà, dagli elettori, nei collegi elettorali, come del resto prescrive l’articolo 39 dello Statuto. Ogni facoltà di scelta invece è qui esclusa dal fatto che, per legge, una sola lista può essere proposta agli elettori. Questa legge la quale, affidando la scelta dei deputati al Gran Consiglio fascista, esclude dalla Camera qualsiasi opposizione di carattere politico, segna il deciso distacco del regime fascista dal regime retto dallo Statuto 2.

Giolitti – seguito al Senato da Croce, Albertini, Einaudi, Ettore Ciccotti, Achille Loria e Francesco Ruffini al Senato – votò contro. Egli morí poco dopo, il 17 luglio 1928 a 86 anni. Ripetendo la scena avvenuta ai funerali di Cavour, nessun membro della casa reale e delle istituzioni intervenne a quelli del grande statista liberale. Con questa legge, le elezioni diventarono un semplice plebiscito a favore del governo. E infatti, alle elezioni del 24 marzo 1929, la lista unica venne approvata con 8 517 838 sí (98,4%) contro 135 773 no (1,6%). A questo punto il fascismo – fondato sul culto del Duce infallibile, sul consenso attivo degli aderenti ai principî e agli interessi del regime, sul consenso mascherato degli opportunisti, sull’adeguamento indecifrabile delle masse popolari, sull’annientamento di tutte le forze di opposizione e sulla persecuzione dei ristrettissimi gruppi di antifascisti che agivano nella clandestinità – poteva presentarsi, secondo quanto Mussolini aveva affermato già nel 1926, come una democrazia di tipo nuovo, «uno Stato di popolo» quale non si era mai visto nella storia.

La nuova Camera fu esautorata dai suoi compiti precedenti, che fra il 1928 e il 1929 vennero attribuiti al Gran Consiglio del fascismo. Il 9 dicembre 1928 fu promulgata una legge, anch’essa predisposta da Rocco, che trasformò il Consiglio, fino ad allora organo di partito, in «organo supremo che coordina e integra tutte le attività del regime» con valore costituzionale, fissandone funzioni e composizione. Ne erano presidente il capo del governo, segretario colui che ricopriva la stessa carica nel Pnf, membri gli appartenenti all’élite del partito, del governo, delle confederazioni sindacali e il presidente del Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Le sue funzioni andavano dalla scelta dei candidati alle elezioni all’azione di controllo sugli organi e gli statuti del partito. Al Consiglio spettava poi di esprimere il proprio parere sulla successione al trono, sulle prerogative del capo del governo, sul funzionamento di Camera e Senato, sulle relazioni tra Stato e Chiesa, su aspetti della politica internazionale, sull’organizzazione dei sindacati e delle corporazioni. Una seconda legge del dicembre 1929 ridusse il numero dei membri di diritto del Consiglio, mentre un decreto stabilí che il segretario del Pnf potesse partecipare ai lavori di vari organi di governo. La macchina della dittatura assunse in tal modo la sua fisionomia pressoché definitiva. L’unico centro a conservare ancora nel quadro delle istituzioni dello Stato un potere formalmente indipendente, pur intaccato dalle prerogative attribuite al Gran consiglio, era a quel punto la monarchia, che dovette nondimeno piegarsi al fatto che nel 1925 le forze armate passarono alle dipendenze di Mussolini e che un numero cospicuo di ufficiali inferiori e superiori si iscrisse al Partito fascista.

2. La conciliazione fra Stato e Chiesa. Il «connubio» fra clericalismo e fascismo. Il conflitto del 1931 sull’educazione giovanile. Il risultato plebiscitario alle elezioni del marzo 1929 era stato ottenuto anche grazie all’invito della Chiesa a votare sí; invito che suggellava lo storico accordo poco prima raggiunto con lo Stato fascista, il quale aveva sancito la «conciliazione» fra le due istituzioni e chiuso l’annosa «questione romana» apertasi con la conquista di Porta Pia nel settembre del 1870 da parte delle truppe regie. La conciliazione e i relativi atti giuridici furono firmati da Mussolini e dal cardinale Pietro Gasparri l’11 febbraio 1929 – a

conclusione di una serie di complesse trattative e del cammino intrapreso fin dal 1923 da Mussolini con ripetute iniziative, dichiarazioni e leggi a favore della Chiesa – nel Palazzo del Laterano a Roma; da qui il nome di Patti lateranensi. Questi si articolavano in tre parti: un trattato, una convenzione finanziaria e un concordato. I punti centrali del trattato erano: il riconoscimento che «la religione cattolica apostolica romana è la sola religione dello Stato»; il riconoscimento da parte dello Stato italiano di uno Stato della Città del Vaticano pienamente sovrano e indipendente e da parte vaticana del Regno d’Italia e di Roma sua capitale. La convenzione finanziaria stabiliva il pagamento di un miliardo e 750 milioni di lire, in contanti e in cartelle al portatore, a estinzione di ogni indennizzo dovuto per la perdita subita dal Vaticano dei proventi dell’ex Stato pontificio. Il concordato regolava gli interessi dello Stato fascista e della Chiesa in uno spirito di reciproche concessioni e di mutuo appoggio. Il carattere laico dello Stato uscito dal Risorgimento veniva cancellato e si realizzava il proposito di Mussolini di fare del cattolicesimo – con propositi non privi di strumentalità – un pilastro essenziale del nuovo ordine politico e quello della Chiesa di utilizzare lo Stato italiano per rinsaldare e allargare la sua influenza nella società civile. In proposito le clausole piú importanti prevedevano: 1) la protezione dello Stato al clero nell’esercizio delle sue funzioni, il riconoscimento del carattere «sacro» di Roma e l’impegno del governo di «impedire» tutto ciò che potesse contrastare con tale sacralità; 2) l’abolizione dell’exequatur e del placet regio in materia di provvisione degli uffici e degli enti ecclesiastici; il Vaticano a sua volta avrebbe nominato i vescovi solo dopo comunicazione al governo e la sua approvazione, vincolandoli a giurare fedeltà allo Stato e a rispettare e far rispettare il re e il capo del governo; 3) l’esonero dei membri del clero dal servizio militare; 4) l’impegno dello Stato a non tenere negli uffici pubblici «sacerdoti apostati o irretiti da censura»; 5) il valore ai fini civili del «sacramento del matrimonio disciplinato dal diritto canonico», vale a dire il valore legale del matrimonio religioso; 6) l’insegnamento della dottrina cattolica – considerata «fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica» – anche nelle scuole secondarie; 7) il riconoscimento delle «organizzazioni dipendenti dall’Azione cattolica», a condizione che agissero «al di fuori di ogni partito politico e sotto l’immediata dipendenza della gerarchia della Chiesa per la diffusione e l’attuazione dei principî cattolici»; 8) il divieto «a tutti gli ecclesiastici e

religiosi d’Italia di iscriversi e militare in qualsiasi partito politico». La soddisfazione della Chiesa per i risultati raggiunti con i Patti lateranensi venne espressa il 13 febbraio da Pio XI in termini che rivelavano tutta la portata dell’appoggio dato dalla Chiesa al regime fascista. Egli disse, parlando delle trattative e del loro esito: siamo stati anche dall’altra parte [il governo] nobilmente assecondati. E forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza Ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale.

E proseguiva affermando che con il concordato erano stati restituiti «Dio all’Italia e l’Italia a Dio» 3. Dopo di allora, Mussolini diventò agli occhi degli italiani «l’uomo della Provvidenza». Con la conciliazione, il Duce appariva come colui che aveva riportato l’ordine non solo nella sfera politica e sociale, ma anche in quella religiosa. Poco dopo, il plebiscito del marzo 1929 sanzionò, oltre che la pacificazione religiosa, anche quella politica. I Patti del Laterano – approvati al Senato con il voto contrario per appello nominale di soli sei senatori tra cui Croce, Ruffini e Albertini – lasciarono pienamente soddisfatti tanto lo Stato fascista quanto la Chiesa. A Croce, che nella discussione al Senato aveva affermato che il fascismo nello stringere il concordato ispirava la propria linea al principio che Parigi val bene una messa, Mussolini replicò che il filosofo non era se non uno tra i vari «imboscati della storia», i quali, «per la loro impotenza creatrice», cercano miserevolmente di vendicarsi di coloro che invece la posseggono 4. Gran festa di Stato e Chiesa, il concordato non comportò però l’appianamento di ogni problema tra i due contraenti. Il 13 maggio Mussolini volle sottolineare che lo Stato fascista «è cattolico, ma fascista, anzi è soprattutto, esclusivamente, essenzialmente fascista». Pochi giorni dopo, il 25 maggio, con disappunto del Vaticano, – in risposta a Pio XI che aveva pochi giorni prima sostenuto che «la missione dell’educazione spetta innanzi tutto, soprattutto, in primo luogo alla Chiesa e alla famiglia [...] per diritto naturale e divino» – il dittatore dichiarò che era compito dello Stato provvedere all’educazione dei giovani e a quella «totalitaria» dei cittadini. La Chiesa e il fascismo entrarono poi in conflitto nel corso del 1931 in relazione al ruolo svolto dall’Azione cattolica, accusata di perseguire finalità politiche. L’oggetto primario della contesa erano sempre la gioventú e la sua

educazione. Di fronte al fascismo, che mirava a riaffermare in questo campo i suoi esclusivi diritti, la Chiesa intendeva mantenere in piedi e in modo autonomo le proprie organizzazioni. Lo scontro toccò l’apice in maggio, con violenze contro le sedi dei giovani e degli universitari cattolici; ma, dopo la protesta levata da Pio XI, il 2 settembre esso venne composto da un accordo secondo cui l’Azione cattolica rimaneva in vita, ma si impegnava a limitare la propria attività nell’ambito religioso, a epurare i propri organi direttivi dagli elementi sospettati di antifascismo e a rinunciare alle attività sportive. Il contrasto con l’Azione cattolica e con la Chiesa fu una spia significativa delle profonde difficoltà che il fascismo incontrava nell’attuazione del suo progetto totalitario.

3. L’ordine «corporativo». La Carta del Lavoro. La ricerca di una «terza via» fra capitalismo e collettivismo sovietico. L’«era Starace» e la campagna «antiborghese». L’ambizione di risolvere il conflitto fra capitale e lavoro, di avviare un corso di pacifiche relazioni tra imprenditori e lavoratori, di privare delle sue ragioni la lotta tra le classi e di introdurre l’“armonia sociale” aveva caratterizzato sia il pensiero corporativo cattolico sia quello nazionalista. Dopo il divieto imposto nell’aprile 1926 ai lavoratori di scioperare e agli imprenditori di ricorrere alla serrata, con una legge concepita da Rocco in luglio vennero delineati i criteri per la ristrutturazione «corporativa» dei rapporti fra capitale e lavoro, la cui regolazione veniva assegnata al Ministero delle corporazioni. La legge, che costituí un ulteriore motivo di avvicinamento fra cattolicesimo e fascismo, stabiliva che le organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori facessero capo a organismi statali superiori, le corporazioni, il cui compito sarebbe stato di coordinare i vari settori della produzione, dando loro una disciplina ispirata al superiore interesse nazionale. La soluzione delle controversie fu affidata a una Magistratura del lavoro. Ormai privata di ogni possibilità di azione, la Confederazione generale del lavoro, l’organizzazione che aveva guidato per vent’anni le lotte dei lavoratori italiani, si autosciolse nel gennaio 1927. Seguí il 21 aprile l’approvazione della Carta del Lavoro, un manifesto programmatico emesso dal Gran Consiglio del fascismo, nel quale, in 30

articoli, si enunciavano i principî generali del corporativismo, da considerarsi la risposta tanto al liberalismo quanto al socialismo. Per sottolineare il dovere delle classi di cooperare al bene comune, si partiva dall’esaltazione della «Nazione italiana», che «è una unità morale, politica ed economica, che si realizza integralmente nello Stato fascista». I fini della produzione «si riassumono nel benessere dei singoli e nello sviluppo della potenza nazionale». «Le Corporazioni costituiscono l’organizzazione unitaria della produzione e ne rappresentano integralmente gli interessi». Accanto al richiamo alle classi sociali del dovere di operare in uno spirito di reciproca collaborazione, si dichiarava esplicitamente che il corporativismo poggiava sul capitalismo e sulla proprietà privata: L’intervento dello Stato nella produzione economica ha luogo soltanto quando manchi o sia insufficiente l’iniziativa privata o quando siano in gioco interessi politici dello Stato. Tale intervento può assumere la forma del controllo, dell’incoraggiamento e della gestione diretta 5.

In sostanza la Carta sanciva la fine di ogni capacità di difesa autonoma dei lavoratori dinanzi ai datori di lavoro, la piena accettazione del sistema capitalistico, la volontà di erigere lo Stato a supremo regolatore dei rapporti fra le classi sociali. Il sistema corporativo delineato nel 1926-27 trovò la sua attuazione solo con la legge del 5 febbraio 1934, che istituí ventidue corporazioni, ciascuna delle quali legata a un particolare ciclo produttivo e comprendente rappresentanze paritetiche dei datori di lavoro e dei lavoratori. Dopo che la crisi economica internazionale del 1929 aveva investito anche l’Italia, Mussolini presentò il corporativismo come una «terza via» fra il capitalismo e il collettivismo di tipo sovietico. Egli affermò: «La crisi che viviamo e che tutto il mondo vive non è una crisi nel sistema: è la crisi del sistema». Soltanto il corporativismo era in grado di contemperare in un giusto rapporto le esigenze «sociali» della comunità nazionale con il superamento del sistema economico figlio dell’individualismo liberale. Negli anni fra il 1932 e il 1935 il regime favorí un dibattito di una certa ampiezza sul corporativismo, che ebbe il suo elemento propulsore in Bottai. In questo contesto, una corrente di “sinistra” cercò di accentuare gli elementi «sociali» della dottrina corporativa auspicando la realizzazione di un sistema di «capitalismo di Stato» e

l’attribuzione alle corporazioni di un crescente controllo sul capitalismo privato. Ma questa tendenza, in cui teneva un ruolo ideologico di spicco il filosofo Ugo Spirito, fu aspramente criticata da Bottai e persino accusata di filobolscevismo; essa venne quindi emarginata, in un periodo in cui il grande capitale finanziario e industriale approfittava della grave crisi economica in corso per ristrutturarsi e accrescere la sua potenza in stretta unione con lo Stato. Il risultato non fu dunque il controllo «sociale» sulle imprese, ma una ulteriore concentrazione capitalistica favorita dallo Stato. Dopo quella sulle corporazioni del febbraio 1934, una legge del 19 gennaio 1939 abolí la Camera dei deputati, per la quale le ultime elezioni si erano tenute il 25 marzo 1934 con un esito plebiscitario, e istituí la Camera dei fasci e delle corporazioni. Rimase invece in vita il Senato. La rappresentanza degli interessi nazionali venne ora affidata non piú a deputati eletti dal popolo, sia pure con una lista unica, ma ai «componenti del Consiglio nazionale del Partito nazionale fascista e ai componenti del Consiglio nazionale delle corporazioni». Alla nuova Camera era affidato il mero compito di registrare le decisioni del governo. A impedire qualsiasi possibilità di dissenso provvedeva il fatto che le votazioni dovessero avere luogo «sempre in modo palese». In sostanza, il corporativismo fu lo strumento con cui l’Italia imboccò la strada dell’intervento pubblico nell’economia e nei rapporti di lavoro, in un quadro di sostegno statale al capitalismo monopolistico. Il progetto “totalitario” aveva cosí raggiunto una fase di ulteriore completamento. Il partito dominava incontrastato. Sul partito a sua volta dominava il «Duce del fascismo», che aveva diritto di nomina e di controllo su tutti gli organismi del partito e del governo. Il potere di Mussolini poteva essere messo in discussione solo da un’iniziativa contro di lui del Gran Consiglio del fascismo e dalla revoca della sua carica di capo del governo da parte del sovrano; cioè unicamente nell’eventualità che una violenta crisi interna del Paese e un grave insuccesso del Capo provocassero una crisi di autorità ovvero una crisi di fiducia fra questo e le sue stesse creature politiche. Un altro importante pilastro del regime fu il Codice Rocco, che sarebbe in parte sopravvissuto alla fine del fascismo. Cosí chiamato dal ministro della Giustizia Alfredo Rocco che ne fu l’artefice, varò nuove norme di natura penale e una serie di provvedimenti attinenti alla sicurezza dello Stato –

entrati in vigore nel luglio 1931 – ristabilendo per reati anche non politici la pena di morte. Gli anni Trenta furono gli anni della dittatura pienamente consolidata, durante i quali il protagonismo di Mussolini raggiunse l’apice, tanto da rendere equivalenti fascismo e «mussolinismo»; e anche quelli in cui il dittatore trovò in Achille Starace – nominato segretario del Pnf il 7 dicembre 1931 e rimasto in carica fino al 31 ottobre 1939, quando fu sostituito da Ettore Muti – il suo docile ed entusiasta portavoce ed esecutore. Nel settembre 1930 era stato rimosso dalla carica di segretario Augusto Turati, fatto oggetto di una campagna di denigrazione anche per aver voluto colpire numerosi gerarchi coinvolti in operazioni di malaffare suscitando scandalo. Gli era subentrato Giovanni Giurati, che provvide a epurare gli iscritti su cui gravava l’ombra di opportunismo, ma scontentò il Duce da un lato per avere mostrato troppa energia, dall’altro per non aver voluto espellere il “ribelle” Farinacci, che dal suo feudo cremonese gli dava ombra. Starace fu l’uomo della piena obbedienza conformistica, che inaugurò un’era di sfrenata retorica, di allargamento smisurato degli iscritti al partito, di manifestazioni di massa caratterizzate da una coreografia tutta esteriormente celebrativa. Il risultato fu che il Pnf cessò di essere un organo propriamente politico e assunse il carattere di un elefantiaco organismo burocratico, di una fabbrica di slogan enfatici e ripetuti. Si trattò di una linea che diede la stura a diffusi motteggi e a barzellette mordaci che circolavano con discredito del regime. Nel corso del segretariato di Starace gli iscritti passarono da circa un milione nell’ottobre del 1932 a 2,6 milioni nell’ottobre del 1939, cui dovevano aggiungersi 770 000 donne dei fasci femminili e i poco meno di otto milioni di appartenenti alle organizzazioni giovanili maschili e femminili. Quello degli anni Trenta fu comunque il periodo della sua storia in cui il fascismo godette del maggiore consenso. I gruppi attivamente antifascisti erano sconfitti; nel Paese essi erano ridotti al silenzio oppure avevano legami con piccoli nuclei di militanti isolati e oggetto del controllo e della repressione dell’efficiente polizia del regime. La monarchia, i vertici militari, la borghesia – alta, media e piccola – accettavano, con un grado maggiore o minore di convinzione, lo stato delle cose. La Chiesa, pacificata con lo Stato dalla reciproca conciliazione celebrata dai Patti lateranensi, aveva sostanziosi motivi di soddisfazione, anche se con limiti non trascurabili in relazione sia al disegno del fascismo di fondare una «religione politica» nel quadro di una

«rivoluzione culturale» finalizzata a creare un «uomo nuovo» e culminata nel 1938 nella promulgazione di leggi razziali in palese contrasto con i valori del cattolicesimo sia alla ricorrente ostilità del regime verso le organizzazioni cattoliche e in primis l’Azione cattolica che intendevano preservare margini di autonomia in tema di educazione della gioventú: ostilità solo parzialmente attenuata da temporanei compromessi. Il limite maggiore del consenso ottenuto dal fascismo fu il sostanziale insuccesso conseguito nell’obiettivo – grande ambizione di Mussolini – di realizzare la «nazionalizzazione delle masse». Le masse, a partire da quelle operaie, erano soggiogate, acquiescenti, irreggimentate ma solo in parte conquistate. Se fossero sopraggiunti importanti insuccessi del regime, per non dire tempeste, il consenso – ottenuto mediante un inquadramento burocratico e coreografico, largamente sorretto dal conformismo – avrebbe mostrato inevitabilmente tutte le sue profonde debolezze. Ma l’apparenza dava sicurezza a Mussolini, che nell’ottobre 1932 poté, con la massima enfasi, proclamare il Ventesimo “secolo del fascismo assurto a guida delle civiltà”: Oggi, con piena tranquillità di coscienza, dico a voi, moltitudine immensa, che il secolo XX sarà il secolo del fascismo, sarà il secolo della potenza italiana, sarà il secolo durante il quale l’Italia tornerà per la terza volta ad essere la direttrice della civiltà umana, poiché fuori dei nostri principî non c’è salvezza né per gli individui, né tanto meno per i popoli. [...] Tra un decennio l’Europa sarà fascista o fascistizzata! 6.

Un anno dopo, rivolgendosi ai decorati, indicò con queste esaltate parole il destino di un’Italia votata al predominio, oltre che politico-ideologico, militare: Oggi 28 ottobre dell’anno XI voglio darvi una dura, una severa, ma magnifica consegna: la consegna del primato italiano. L’Italia fascista deve tendere al primato sulla terra, sui mari, nei cieli, nella materia e negli spiriti 7.

Il dittatore guardava con soddisfazione alla mappa del mondo e dovunque, in Europa, nelle Americhe e in Asia vedeva imporsi e diffondersi movimenti e regimi dai tratti riconducibili per ispirazione e caratteri al modello fascista di cui l’Italia era stata la culla ed era il centro propulsore.

Negli ultimi anni Trenta il regime varò una serie di misure volte a dare un’impronta piú radicale alla costruzione dell’ordine totalitario, di cui principali espressioni furono la cosiddetta «campagna antiborghese», il rinnovato contrasto con la Chiesa e il varo delle leggi razziali. Lo scopo era di portare a termine la riforma del costume italiano improntandolo ai valori «maschi» del fascismo e dando compattezza alla «razza italiana». Venne cosí avviata una «terza ondata» rigeneratrice dopo la marcia su Roma del 1922 e l’instaurazione della dittatura nel 1925-26. La campagna antiborghese fu lanciata da Mussolini il 25 ottobre 1938. Già nel marzo 1934 egli aveva dichiarato che «lo spirito borghese», il quale, fatto proprio dal «fascista imborghesito», si manifestava nella «tendenza allo scetticismo, al compromesso, alla vita comoda, al carrierismo», costituiva un «pericolo» a cui occorreva rispondere ravvivando «il principio della rivoluzione continua» 8. Nell’ottobre 1938 al Consiglio nazionale del partito parlò della necessità di colpire «un nemico del nostro regime», la borghesia, in quanto non «categoria economica», ma «una categoria a carattere politico-morale» incline all’«esterofilia», permeata di «pessimismo», «pacifista», con tre «poderosi cazzotti nello stomaco»: l’introduzione nelle parate militari del virile «passo romano di parata»; l’introduzione nel linguaggio del «voi» in sostituzione del «lei», da considerarsi «forma servile»; «la questione razziale». «Ora – concluse il dittatore – questo spirito borghese, una volta identificato, deve essere isolato e distrutto» 9. L’attacco ai borghesi, accusati di inquinare il costume, non aveva naturalmente a che fare con una critica di classe a una classe che rappresentava un solido pilastro del regime e i cui interessi il regime tutelava fortemente; atteneva invece alle sfera dei comportamenti e costituiva una spia di come il dittatore avvertisse i limiti della presa sui ceti borghesi dello spirito fascista eroico e militare. Elementi essenziali della dittatura e della sua rivoluzione culturale furono anche le misure persecutorie adottate contro le minoranze di lingua tedesca in Alto Adige, di lingua francese nella Valle d’Aosta e nelle regioni come l’Istria e la Venezia Giulia, dove vivevano forti gruppi slavi, che vennero tutte sottoposte a una sistematica politica di “italianizzazione” forzata. A tal fine nel corso degli anni in quelle regioni non solo fu imposto l’italiano, ma nomi di luoghi e persone dovettero essere “tradotti”.

4. L’economia nel periodo fascista. Capitalismo di Stato e autarchia. La politica assistenziale. Il mito della potenza demografica. Nei primi anni di governo il fascismo aveva dato alla politica economica un indirizzo accentuatamente liberistico, sotto la guida del ministro delle Finanze Alberto De Stefani. Lo Stato aveva lasciato libero corso all’iniziativa privata. La quasi scomparsa delle agitazioni sociali dopo l’ottobre 1922 e la tendenza alla diminuzione dei salari contribuirono all’aumento della produzione e dei profitti, in un quadro di slancio dell’economia mondiale. Ma questa situazione presentava due punti deboli: da un lato era quasi cessata, in conseguenza anzitutto delle leggi restrittive in materia di immigrazione varate negli Stati Uniti, l’emigrazione, che aveva tradizionalmente costituito una valvola di sfogo per l’eccedenza della manodopera e favorito il miglioramento delle finanze grazie alle rimesse degli emigrati, da cui pervenivano notevoli quantità di valuta pregiata; dall’altro l’incremento della produzione industriale avveniva in presenza di un disavanzo crescente tra il valore delle importazioni di materie prime, macchinari ecc. e quello delle esportazioni, con il risultato di provocare un forte rialzo dei prezzi, un rapido processo di inflazione, la perdita della capacità di acquisto dei salari. Nel 1926 la lira aveva un valore che era solo un settimo di quello d’anteguerra. A partire dal 1925, con l’insediamento alle Finanze del conte Giuseppe Volpi al posto di De Stefani, il fascismo inaugurò una linea di politica economica ispirata a un deciso “interventismo” statalista. Gli obiettivi diventarono per un verso la rivalutazione e la stabilizzazione della lira e per l’altro lo sviluppo della produzione sulla base dello sfruttamento delle risorse interne. Nel giugno 1925 venne lanciata la «battaglia del grano», volta a estendere l’area seminativa con lo stimolo di un forte protezionismo doganale sul prodotto estero. Il tentativo di contrastare la perdita di valore della lira e di raggiungere la stabilizzazione monetaria fu compiuto con la legge del 21 dicembre 1927, che fissò l’equivalenza di 92,46 lire italiane per una lira sterlina e di 19 lire per un dollaro; venne cosí raggiunto l’obiettivo della «quota 90» indicato da Mussolini a Pesaro nell’agosto 1926. La rivalutazione della lira, tesa anche a contrastare la crescente corrosione, causata dall’inflazione, del reddito delle classi medie, importante base di consenso al fascismo, non era però ancorata al suo valore reale, con il risultato che i prodotti nazionali rincararono e le

esportazioni divennero ancora piú difficili, causando la contrazione della produzione tanto industriale quanto agricola. Le misure prese ebbero nondimeno due effetti importanti: riuscirono, sia pure solo relativamente, vantaggiose al reddito dei ceti impiegatizi piccolo-borghesi; e determinarono un’ulteriore concentrazione industriale, poiché, mentre le grandi imprese superarono il momento critico, molte di quelle minori non furono in grado di reggere. In ogni caso, nel corso dei due anni seguenti, prima che la crisi economica mondiale del 1929 investisse anche l’Italia, la produzione andò gradualmente riprendendosi. In complesso fra il 1920 e il 1929, sull’onda dell’espansione mondiale, l’industria italiana conobbe un incremento produttivo di circa il 60%. Il che giovò al consolidamento del fascismo. Il crollo dell’economia nel 1929, partito dagli Stati Uniti e diffusosi in Europa, ebbe pesanti ripercussioni anche in Italia, dove si registrarono forti perdite dei titoli azionari e il cedimento dei prezzi dei prodotti agricoli e industriali. La produzione diminuí in misura considerevole e una drastica riduzione subí anche il commercio con l’estero. La disoccupazione – che colpí piú il settore industriale che non quello agricolo – ebbe un’impennata e da circa 300 000 unità nell’ottobre 1929 passò nel 1933-34 a circa 1,3 milioni, per diminuire e assestarsi nel 1935 intorno a poco meno di 800 000. Molto critiche furono le condizioni dei disoccupati, cui venne garantito un modesto sussidio per soli tre mesi. Tra il 1928 e il 1934 si ebbe una progressiva riduzione dei salari rispetto al livello raggiunto nel 1927. Per contrastare la disoccupazione, nell’ottobre 1934 la durata della settimana lavorativa venne abbassata a 40 ore. Tutto ciò provocò una diminuzione del reddito nazionale che fino al 1935 rimase inferiore a quello raggiunto all’inizio della grande crisi. In Italia, come altrove, la depressione favorí l’ulteriore concentrazione delle imprese, già iniziata come riflesso della rivalutazione della lira. Il processo nei Paesi di piú robusta industrializzazione si risolse in una razionalizzazione produttiva e tecnologica e quindi in una maggiore efficienza; per contro in Italia esso acquistò caratteri accentuatamente speculativi e parassitari, in quanto gli accordi fra le grandi imprese per il controllo dei prezzi e la spartizione del mercato interno – un mercato assai ristretto – aprirono una facile via al consolidamento di rendite monopolistiche, sovente senza un significativo miglioramento nell’organizzazione del lavoro e abbassamento dei costi. Questi sviluppi

avvennero con l’appoggio delle autorità, che nel gennaio 1933 avevano varato una legge che rafforzava e istituzionalizzava il potere dei monopoli, vietando il sorgere di nuovi impianti industriali senza l’approvazione del governo; legge che univa strettamente dirigismo statale e interessi del grande capitale monopolistico. I colossi dell’industria italiana, per fare i nomi maggiori, erano il trust elettrico, dominato dalla Edison, la Montecatini (industria chimica), la Snia Viscosa (industria tessile, protagonista della rivoluzione detta della seta artificiale), la Fiat, l’Ansaldo, la Breda (industrie meccaniche). La grande crisi indusse il governo fascista a intervenire secondo alcune direttrici di fondo. Per alleviare la disoccupazione si misero in cantiere impegnativi programmi di lavori pubblici, in parte già programmati nel 1928. Si migliorò ed estese la rete stradale, compresa quella autostradale; fu portato a termine l’acquedotto pugliese; si incrementò l’edilizia pubblica. Anche le ferrovie migliorarono le loro prestazioni. Inoltre si fecero grandi lavori in Roma, per ridare alla capitale, secondo il desiderio di Mussolini, il carattere di città imperiale. L’impresa di maggiore respiro furono i lavori per la bonifica delle Paludi Pontine, nel quadro del piú vasto programma della «bonifica integrale». Il programma era stato varato con una legge del 24 dicembre 1928, elaborata da un tecnico di valore, Arrigo Serpieri, nominato nel settembre 1929 sottosegretario per la bonifica, e diretta alla valorizzazione di una serie di terreni paludosi bisognosi di intervento per rendere possibili la messa in coltura e l’insediamento di popolazione contadina, con la relativa opera di costruzione di case coloniche, acquedotti e centrali elettriche. Se la «bonifica integrale» rimase largamente inattuata rispetto ai grandiosi progetti, quella dell’Agro Pontino venne condotta fra il 1931 e il 1934 con energia e successo; e portò al recupero di circa 250 000 ettari, alla costituzione di circa 3000 poderi e alla fondazione di città rurali «fasciste» come Littoria e Sabaudia. La politica della bonifica ebbe un importante significato nella storia delle trasformazioni agrarie, poiché, con il sostegno della finanza statale e le opere pubbliche, favorí un ulteriore grado di penetrazione del capitalismo finanziario nelle campagne. Essa consolidò il blocco industriale-agrario, ma i suoi risultati non furono tali da comportare un consistente incremento della produzione agricola su scala nazionale. La battaglia per la bonifica fu un aspetto della piú generale campagna per la «ruralizzazione» del Paese, volta a combattere i mali dell’urbanesimo e, in

particolare dopo l’inizio della crisi del 1929, a trasferire nelle campagne disoccupati e famiglie male alloggiate. Il piano, che ebbe scarsi effetti pratici, fu accompagnato da una chiassosa azione propagandistica, di sapore retorico e quanto mai anacronistica, che esaltava la vita sana dei campi, la famiglia contadina come fucina di virtú etiche e civili, in contrasto con la depravazione diffusa nei quartieri popolari e operai delle città. Il piano era altresí finalizzato a potenziare lo strato dei piccoli e medi proprietari e dei mezzadri; sennonché tra il 1931 e il 1936 ad aumentare fu soprattutto il numero dei braccianti. Ma l’azione piú rilevante venne condotta in campo industriale. La crisi economica, con il crollo dei titoli azionari, aveva colpito duramente le grandi banche, che a loro volta controllavano tanta parte dell’industria. Ciò indusse lo Stato a intervenire robustamente con la finanza pubblica. Nel novembre 1931 venne creato l’Istituto mobiliare italiano (Imi), un ente di diritto pubblico, sostenuto dallo Stato allo scopo di coordinare il credito all’industria. Quando la situazione andò peggiorando, l’azione dello Stato assunse un carattere ancora piú massiccio con la creazione nel gennaio 1933 dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale (Iri), il quale, intervenendo nel salvataggio di banche e industrie, assunse le caratteristiche di un grande ente bancario-industriale a carattere “misto”, cioè in parte statale e in parte privato. Lo Stato, che fin dal 1926 aveva sottoposto a stretto controllo la Banca d’Italia, per mezzo dell’Iri assunse il controllo non solo delle piú grandi banche italiane – Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano, Banco di Roma –, ma anche di imprese industriali di grandi dimensioni soprattutto nei settori della siderurgia, della cantieristica, della navigazione e della meccanica. Si trattava dei settori in cui piú elevati erano i rischi imprenditoriali e piú incerti i profitti. Per cui studiosi antifascisti poterono affermare che lo Stato «privatizzava i profitti» e «socializzava le perdite». Lo sviluppo dell’Iri fu strettamente legato all’impulso di due personalità di alto profilo e grandi capacità: Alberto Beneduce, ex socialista riformista e nel 1921 ministro nel governo Bonomi, poi postosi al servizio del fascismo, e Donato Menichella, dirigente bancario. La penetrazione dello Stato nel campo finanziario e industriale fu tale che nel 1939 l’Italia era il Paese che, fatta eccezione per l’Unione Sovietica, possedeva la maggior quota di banche e industrie di proprietà dello Stato o da esso controllate. Il che non significò l’affermazione dell’interesse pubblico su quello privato; al contrario, lo Stato

agiva a sostegno del profitto privato surrogando là dove i privati non erano in grado di agire da soli e con diretto interesse. Tale era la situazione nel settembre 1939, che l’imprenditore Ettore Conti poteva scrivere nel suo diario: In questo periodo, in cui si afferma quotidianamente di voler andare verso il popolo, si è venuta formando una oligarchia finanziaria che richiama, nel campo industriale, l’antico feudalesimo. La produzione è, in gran parte, controllata da pochi gruppi, ad ognuno dei quali presiede un uomo. Agnelli, Cini, Volpi, Pirelli, Donegani, Falck, pochissimi altri, dominano completamente i vari rami dell’industria 10.

Il corporativismo, la parola d’ordine della conciliazione fra le classi, e il richiamo continuo all’interesse superiore della nazione costituivano il paravento dietro a cui prosperava il grande capitale privato o gestito dallo Stato con criteri privatistici. Il discorso tenuto da Mussolini agli operai di Milano il 4 ottobre 1934, nel quale affermò che il fascismo e il sistema corporativo rappresentavano la fine di un sistema economico che «mette l’accento sul profitto individuale», l’emergere di un progetto «rivoluzionario» e il sorgere di una nuova economia «che si preoccupa dell’interesse collettivo» suonava mera propaganda. È a questo proposito significativo che il tentativo dello stesso ministro delle Corporazioni, Bottai, di affrontare gli effetti della crisi anziché riducendo il volume della produzione industriale con l’aumento dei beni a basso costo e allargando il mercato, venne respinta dalla Confindustria con l’appoggio di Mussolini. Da parte sua la Confindustria scelse una linea di contenimento produttivo e di alti prezzi all’interno di un mercato il piú possibile garantito. Quel che stava avvenendo era la fine del liberismo economico nel quadro di un accentuato consolidamento del capitalismo di Stato. Nel marzo 1936 all’Assemblea nazionale delle corporazioni Mussolini proclamò che, allo scopo di ridurre al minimo le spese per le importazioni, occorreva «realizzare nel piú breve termine possibile il massimo possibile di autonomia nella vita economica della Nazione»; il che significava inaugurare una politica economica «autarchica», basata sulla produzione di tutta una serie di beni fino ad allora importati, ricorrendo allo sfruttamento delle risorse interne disponibili e alle applicazioni della scienza e della tecnologia. Dopo che nel 1935 il regime si fu lanciato alla conquista dell’Etiopia con la

conseguenza di essere sottoposto dalla Società delle Nazioni a sanzioni economiche – divieto di esportazione in Italia di materie di valore strategico e boicottaggio dei prodotti italiani –, la battaglia per l’autarchia diventò preminente nella politica economica del fascismo. La politica autarchica, che andò a mano a mano sviluppandosi tra il 1937 e il 1939, favorí un ulteriore inasprimento della tradizionale politica protezionistica. La «battaglia del grano» venne intensificata con buoni successi. I prodotti furono sottoposti a un regime di ammassi obbligatori da parte della Federazione dei consorzi agrari. Ma l’agricoltura rappresentava il settore meno importante per l’autarchia. Data la grande carenza di materie prime dell’Italia, lo Stato ordinò lo sfruttamento intensivo del poco esistente nel Paese, indipendentemente dai costi di estrazione. Il povero sottosuolo nazionale venne spremuto da una serie di enti in parte privati e in parte statali: Montecatini, Azienda generale italiana petroli, Azienda minerali metallici italiani, Azienda carboni italiani. Si iniziò la produzione di benzina sintetica a opera di una società “mista”, in parte privata e in parte statale, l’Azienda nazionale idrogenazione e combustibili. I costi di produzione erano del tutto antieconomici – l’acciaio italiano costava perfino il doppio di quello straniero – e gravavano pesantemente sui consumatori. La linea dell’autarchia fu un tipico esempio di quanto in un regime come quello fascista la politica potesse dominare l’economia. Essa rispondeva alla volontà politica di rendere il piú possibile indipendente il Paese in particolare nel settore militare; ma si trattava di un’illusione. In realtà sul piano delle materie prime l’Italia non poteva non rimanere largamente tributaria di altri Paesi. Lo sarebbe diventata in maniera particolare, per le sue scelte di alleanza, della Germania. Comunque la politica autarchica e il riarmo, intensificato a partire dal 1935, si risolsero in un ottimo affare per la grande industria italiana, che produceva a prezzi altissimi essendo sul mercato nazionale interamente protetta da ogni concorrenza. I profitti salirono costantemente proprio dopo il 1935 e nel complesso la produzione industriale ebbe fra il 1929 e il 1939 un significativo incremento del 15%, restando però inferiore a quello medio dei Paesi piú avanzati dell’Europa occidentale. Nel 1935-39 l’inflazione riprese il suo corso, sia pure in misura contenuta. Lo sviluppo dell’industria portò con sé un certo aumento dei salari e una modesta diminuzione dei disoccupati, i quali però nel 1939 ammontavano ancora a 670 000. Nel novembre di quell’anno si tornò alla settimana lavorativa di 48 ore.

Risultati molto modesti ebbe la politica del fascismo per quanto riguardava i problemi del Mezzogiorno. Occorre sottolineare che essa si inserí in una linea di continuità con quella affermatasi durante la guerra mondiale e prima ancora nell’età giolittiana, orientata a promuovere la sempre maggiore concentrazione dell’industria nel triangolo Milano-TorinoGenova e piú in generale nel Nord occidentale. Tra il 1915 e il 1918 questo processo aveva ricevuto la sua spinta determinante dalle stringenti esigenze belliche. La risposta del governo alla crisi del 1929 ripeté un analogo schema, cosí che il divario tra le due parti del Paese, favorito anche dalla chiusura negli Stati Uniti delle porte agli immigrati dal Sud, andò senza sosta approfondendosi, nonostante i miglioramenti apportati in alcune zone all’agricoltura nel quadro della “bonifica integrale” e alcune iniziative, concentrate soprattutto in Campania, nei comparti dell’industria meccanica ed elettrica. Molto grave rimaneva poi il ritardo nel Mezzogiorno nel campo delle comunicazioni ferroviarie, della rete idrica e dell’elettrificazione. Il regime che, dopo la crisi del 1929, cercò di contenere l’emigrazione dalle campagne verso le città, dove era impossibile trovare lavoro, esaltando la «ruralità» del fascismo e gli antichi e sani valori del mondo contadino, non andò oltre l’elaborazione di piani che nei propositi prevedevano una vasta riforma agraria nel Sud, ma nei fatti non restrinsero se non in misura molto limitata l’area del latifondo. Nonostante gli scarsi successi, Mussolini dichiarò con enfasi retorica che il regime aveva ridotto la differenza fra Nord e Sud a una mera espressione geografica. Una vasta azione il regime condusse tra il 1925 e il 1927 in alcune zone della Sicilia, sotto la direzione di Cesare Mori, nominato prefetto di Palermo, contro la mafia. Investito di poteri eccezionali, il prefetto ricorse a energiche misure militari e a metodi brutali – che gli valsero il soprannome di “prefetto di ferro” – contro cosche di mafiosi; nel gennaio 1926 la cittadina di Gangi venne posta in stato di assedio e occupata dalle truppe. Ma quando emersero l’incrocio di interessi della mafia con il notabilato siciliano e le infiltrazioni mafiose nell’apparato dello Stato e nel partito fascista, a Roma venne deciso di fermare il prefetto e la Procura di Palermo. Nel 1928 Moro fu fatto senatore e l’anno seguente messo a riposo. Mussolini proclamò alla Camera che la mafia siciliana era stata «sconfitta». Il duplice programma di irreggimentare il mondo del lavoro e di far fronte con opportune misure alle condizioni dei lavoratori, divenute particolarmente

difficili dopo la crisi economica del 1929, indussero il regime a riformare precedenti istituti e a crearne di nuovi. Nel maggio 1925 fu fondata l’Opera nazionale dopolavoro, che provvide a organizzare circoli ricreativi, attività sportive, spettacoli, escursioni turistiche. Nel dicembre dello stesso anno fu varata la legge che istituiva l’Opera nazionale per la maternità e l’infanzia, diretta a tutelare la salute delle madri e dei figli piccoli. Nel 1928 ebbe inizio una vasta opera di riorganizzazione della previdenza sociale, proseguita negli anni successivi, con l’emanazione di norme relative alle pensioni dei lavoratori, alle assicurazioni per l’invalidità e la vecchiaia, per gli infortuni sul lavoro, per le malattie, che nel marzo 1933 culminò nella costituzione dell’Istituto nazionale fascista della previdenza sociale e dell’Istituto nazionale fascista per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. Si trattò della versione fascista delle politiche di Welfare che andavano prendendo piede in vari Paesi d’Europa e negli Stati Uniti. Dotato di insufficienti risorse economiche, il popolo italiano venne nondimeno esortato dal fascismo a crescere e moltiplicarsi, in base alla teoria che l’avvenire appartenesse agli Stati demograficamente forti. La politica demografica divenne cosí un aspetto della politica imperialistica ed espansionistica del regime, ispirata a una visione anacronistica e demagogica della grande guerra futura, cui esso si preparava. Mussolini vedeva nel numero la base della potenza militare, in un’epoca in cui gli eserciti si fondavano sulle macchine e sulla tecnologia. Al tempo stesso egli sperava che la pressione demografica generasse negli italiani una volontà colonizzatrice, quando ormai la potenza coloniale era condizionata dalla forza economica e quando un Paese come la Gran Bretagna passava dal colonialismo tradizionale al Commonwealth e cioè si apprestava a dare al proprio impero basi che superavano il colonialismo classico ormai obsoleto. La popolazione italiana, che nel 1922 era di 38 370 000 abitanti, era passata nel 1936 a 43 122 000. La demagogia demografica e il suo rapporto con l’imperialismo vennero espressi da Mussolini in numerose occasioni. Nel maggio 1927 egli dichiarò che «dato [...] pregiudiziale della potenza politica, e quindi economica e morale delle nazioni, è la loro potenza demografica» 11. E nell’agosto 1936 avrebbe dichiarato: I popoli dalle culle vuote non possono conquistare un impero [...] Hanno diritto

all’impero i popoli fecondi, quelli che hanno l’orgoglio e la volontà di propagare la loro razza sulla faccia della terra, i popoli virili nel senso piú letterale della parola 12.

Per sostenere tale politica demografica, fin dal febbraio 1927 era stata stabilita un’imposta sui celibi dai 25 ai 65 anni, allo scopo di dare, disse il Duce, «una frustrata demografica alla nazione». Nel 1928 il demografo Corrado Gini pubblicò un volume, che esercitò una notevole influenza su Mussolini, il cui titolo significativo suonava Il numero come forza. Furono esaltate e premiate le famiglie numerose e concesse loro agevolazioni economiche; ai padri di molti figli fu assegnata la priorità nei posti di lavoro. Le sedi prime dove dare sfogo alla crescita demografica dovevano essere le terre di un piú grande impero presidiate da un forte esercito: un esercito che fosse – disse il Duce in un discorso alle camicie nere nell’ottobre 1936 – «la foresta di otto milioni di baionette, bene affilate e impugnate da giovani intrepidi e forti» 13.

5. L’organizzazione della cultura e la ricerca del consenso. Come inevitabile, la dittatura osteggiava decisamente la libertà di espressione ideologica e culturale. Ambizione del regime era diffondere una cultura improntata allo spirito del fascismo e avente il fine politico di fare da megafono alla sua propaganda. La censura e il rigido e occhiuto controllo sulle istituzioni dove si elaboravano e comunicavano idee, si producevano articoli, saggi e libri, sulle riviste e sulle pagine culturali dei quotidiani costituirono strumenti essenziali a tale scopo. Detto questo, occorre sottolineare che, se in nessun campo della cultura e dell’ideologia mostrò un atteggiamento indulgente (salvo in pochissime eccezioni), il regime adottò una strategia che può essere definita dei due binari: l’uno, assai rigido, riguardante gli strati medi e inferiori della società; l’altro, piú duttile e sottile, concernente sia gli intellettuali di grado elevato sia l’editoria di qualità, ai quali furono lasciati anche notevoli spazi di autonomia. Nei loro confronti vennero esercitati un controllo e una repressione in nessun modo paragonabili per durezza e sistematicità a quelli messi in atto negli altri Stati totalitari, e cioè nella Germania nazista e nell’Unione Sovietica. Il regime condusse infatti la sua battaglia per il predominio culturale lasciando margini di

tolleranza affatto impensabili in questi due ultimi Paesi nei confronti di talune personalità della cultura antifascista di matrice liberale moderata, purché accettassero il patto non scritto di non superare il limite non valicabile di manifestare il loro pensiero in una chiave esplicitamente politica. Esempio significativo fu la libertà di espressione concessa dal regime – che cosí intendeva dare una prova, da sfruttare in chiave propagandistica in particolare nei confronti dell’opinione pubblica internazionale, della “generosità” di Mussolini – a due grandi intellettuali, assai noti anche all’estero, come Benedetto Croce e Luigi Einaudi, ai quali venne consentito di continuare a svolgere la loro opera. Questi due esponenti del pensiero liberale poterono tra l’altro esercitare una qualificante influenza l’uno sulla prestigiosa casa editrice di Bari Laterza, l’altro su quella fondata a Torino nel novembre 1933 dal figlio Giulio, le quali furono veicoli della loro produzione intellettuale e centri di apertura alle correnti culturali europee e americane. Al leader comunista Antonio Gramsci poi – caso neppure immaginabile in Germania o nell’Unione Sovietica – fu concesso di disporre in carcere di un ricco materiale bibliografico e di scrivere quei Quaderni del carcere, che, pubblicati a partire dal 1948, avrebbero costituito un monumento del pensiero marxista italiano. Il regime poteva contare sull’opera di vari intellettuali fascisti di valore, tra i quali spiccavano per il loro alto profilo il filosofo Giovanni Gentile, lo storico Gioacchino Volpe e il giurista Alfredo Rocco. Il primo era stato, con Croce, il protagonista della “rinascita idealistica” avvenuta in Italia nel primo Novecento; il secondo, già uno dei piú insigni esponenti della corrente economico-giuridica della storiografia italiana, era assurto al rango di massimo storico fascista; il terzo, giurista di primo piano della scuola antidemocratica, celebratore dello Stato autoritario come strumento principe per la regolazione dei rapporti tra le classi sociali e dell’intera società civile, aveva avuto un ruolo determinante nel legare ideologicamente fascismo e nazionalismo. Furono essi i maggiori architetti della cultura fascista in campo umanistico: tutti collocati in posizioni altamente strategiche. Gentile lasciò un’impronta duratura nella direzione della Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti; Volpe, segretario dell’Accademia d’Italia dal 1929 al 1934 e direttore della Scuola di storia moderna e contemporanea dal 1926 al 1943, fu nel campo storiografico una sorta di “anti-Croce”, cosí come Gentile nel campo filosofico-politico; Rocco, ministro della Giustizia dal 1925 al 1932,

diede un apporto fondamentale nel forgiare le istituzioni della dittatura e riformò il Codice penale. Progettata nel 1925 con il contributo finanziario dell’industriale e senatore Giovanni Treccani, l’Enciclopedia italiana, il cui primo volume apparve nel 1929 e l’ultimo, il trentaseiesimo, nel 1937, fu la maggiore impresa culturale del fascismo. Dopo la creazione nel 1933 dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, toccò a Gentile dirigere l’impresa fino al suo compimento. Questi, e con lui Volpe che sovraintendeva al settore storico, era consapevole che il progetto non avrebbe potuto toccare l’alto livello in effetti complessivamente conseguito senza la collaborazione, per quanto riguardava in particolare le scienze umane, di studiosi non fascisti. Stabilí pertanto con questi ultimi una sorta di “compromesso” che caratterizzò l’intera opera: cercò e ottenne la partecipazione di eminenti intellettuali di orientamento poco ortodosso e anche non fascista, salvo che per i settori e le voci sulle quali riteneva necessario imprimere nettamente il marchio ideologico del fascismo e per quelli la cui non appropriata trattazione potesse risultare sgradita alle gerarchie ecclesiastiche. Le voci “strategiche” dal punto di vista politico, di cui massimo esempio fu La dottrina del fascismo stesa da Mussolini e da Gentile, vennero perciò affidate a uomini di sicura fede. Essenziale per il regime era fornire ai giovani e all’opinione pubblica una narrazione centrata sulla tesi che il fascismo rappresentasse lo sbocco positivo della storia nazionale. Già in tal senso si era mosso il Manifesto gentiliano del 1925; ma il compito di fornire in maniera esaustiva questa narrazione fu assunto da Volpe, che nel 1927, quando cioè la dittatura era consolidata, pubblicò il già menzionato volume dal titolo quanto mai indicativo: L’Italia in cammino. L’ultimo cinquantennio. Accanto a Gentile e Volpe un ruolo di primo piano in campo culturale e ideologico svolse Giuseppe Bottai, ministro delle Corporazioni dal 1929 al 1932 e dell’Educazione nazionale dal 1936 al 1943. Come i primi due – che erano riusciti a far collaborare alle loro iniziative studiosi di sentire non fascista –, Bottai si propose, ottenendo un largo successo, di inglobare nella sua strategia culturale giovani e meno giovani, i quali, fascisti o quanto meno non palesemente schierati su posizioni antifasciste, aspiravano a vedere riconosciuti i loro interessi e favorite le loro ambizioni. Tra le iniziative da lui prese, due furono particolarmente significative, l’una rivolta ai giovani universitari, l’altra agli intellettuali: l’organizzazione dei Littoriali della

cultura e dell’arte, che si svolsero annualmente dal 1934 al 1940, e la pubblicazione della rivista «Primato», pubblicata tra il marzo 1940 e l’agosto 1943. I Littoriali intendevano laureare «littori» i giovani che avessero prodotto i migliori saggi ispirati allo spirito della cultura fascista. La rivista venne fondata quando era già scoppiata la Seconda guerra mondiale ma l’Italia non era ancora intervenuta. Consapevole del disagio provocato dal controllo attuato dal regime sugli intellettuali – la maggior parte dei quali non vedeva ancora altro orizzonte possibile che non fosse quello da lui aperto – Bottai compí il tentativo di fornire loro una “palestra” che consentisse un confronto, se non libero, quanto meno relativamente aperto, in un momento in cui – come scrisse in una lettera a Mussolini – «l’anima è in un grande e pericoloso disorientamento», avendo ovviamente quale scopo di rinsaldare il rapporto tra cultura e fascismo. Il notevole successo dell’operazione appare dal numero e dalla qualità dei collaboratori alla rivista, tra i quali vi furono Mario Alicata, Riccardo Bacchelli, Arrigo Benedetti, Walter Binni, Vitaliano Brancati, Galvano della Volpe, Carlo Emilio Gadda, Renato Guttuso, Mario Luzi, Paolo Monelli, Carlo Morandi, Carlo Muscetta, Giaime Pintor, Guido Piovene, Vasco Pratolini, Mario Praz, Salvatore Quasimodo, Sergio Solmi, Giani Stuparich, Giuseppe Ungaretti, Manara Valgimigli, Giancarlo Vigorelli, Cesare Zavattini. Ma il corso della guerra vanificò il proposito di Bottai, poiché fece maturare un atteggiamento di distacco dal fascismo, culminato per non pochi nell’adesione all’antifascismo e persino al comunismo. Il regime cercava di allargare e consolidare il consenso non solo nelle classi alte e medie, ma anche nelle masse popolari. Scopo essenziale della dittatura fascista, come quello delle dittature sovietica e nazista, era di mobilitare permanentemente le masse e di organizzarle entro le proprie istituzioni. In Italia le tirature dei quotidiani erano modeste, ed essi raggiungevano pressoché unicamente i ceti alti e medi, escludendo la quasi totalità degli altri strati. Per questo, per fare “colloquiare” direttamente il regime con la massa popolare, acquistò la massima importanza il ricorso alla radio e al cinema, veicoli anzitutto della voce e dell’esibizione del Duce. Già nel 1924 venne creata, per iniziativa di Costanzo Ciano, l’Unione radiofonica italiana, che ottenne dallo Stato la concessione in esclusiva delle trasmissioni; nel 1927 questa venne trasformata in Ente italiano per le audizioni radiofoniche, finanziato dallo Stato; e nel 1933 fu creato l’Ente radio rurale al

fine di favorire «l’elevazione morale e culturale delle popolazioni agricole». Negli anni Trenta la radio penetrò capillarmente nella vita degli italiani, coinvolgendo anche le scuole, comprese le elementari, dove i fanciulli furono chiamati a sentire «la soddisfazione di servire l’Italia, di obbedire all’alto e sublime comando del Re e del Duce». Nel 1931 iniziò le trasmissioni anche la Radio vaticana, nel corso delle quali il predicatore francescano padre Vittorio Facchinetti assunse il ruolo di celebratore del regime e di Mussolini, indicati come restauratori dei valori religiosi e protettori della Chiesa cattolica. Accanto alla radio – i cui abbonati crebbero rapidamente arrivando nel 1939 a poco meno di un milione e duecentomila collocati prevalentemente nel Settentrione – una funzione primaria nella propaganda fascista svolse il cinema, a partire dagli anni Trenta strumento di primo piano della diffusione dei messaggi che il regime rivolgeva agli italiani. Tra il 1931 e il 1933 vennero varate leggi per riorganizzare con l’aiuto finanziario dello Stato il settore e favorire lo sviluppo del cinema nazionale. Nel 1924 prese vita l’Istituto «Luce» per la ricreazione e la diffusione di pellicole in gran parte di propaganda; e nel 1927 iniziarono i cinegiornali. Nel 1937 – dopo la creazione nel 1935 dell’Ente nazionale industrie cinematografiche – iniziò la sua attività, a Roma, Cinecittà, che divenne il principale centro di produzione della cinematografia italiana. La grande maggioranza dei film di intrattenimento che circolavano nelle sale era però costituita da pellicole straniere, soprattutto americane. La produzione nazionale rimase limitata, dividendosi per lo piú tra temi bellici (le guerre di Libia, d’Etiopia e di Spagna) e temi di intrattenimento leggero. Tuttavia la cultura cinematografica trovò espressione in due riviste di notevole profilo, «Cinema» e «Bianco e Nero», fondate rispettivamente nel 1936 e nel 1937. Intorno alla prima – diretta dal 1938 al 1943 dal figlio di Mussolini, Vittorio – si raggrupparono persone che avrebbero avuto un ruolo rilevante dopo il 1945 come Giuseppe De Sanctis, Carlo Lizzani, Michelangelo Antonioni e Luchino Visconti, la cui ricerca per stile e contenuto indicava un tentativo di fuoruscita dai canoni fascisti aprendo per certi aspetti la strada all’avvento del neorealismo. Toccò quindi a Vittorio Mussolini con la rivista da lui diretta di svolgere nel settore cinematografico un ruolo analogo a quello esercitato da Bottai con «Primato», con un esito paragonabile nel senso che all’uno e all’altro non riuscí di consolidare la presa del regime su molti dei piú importanti

collaboratori, cosí riflettendo una crisi di consenso destinata a incrinarsi e poi ad accelerarsi durante la Seconda guerra mondiale. La pittura e la scultura portarono i segni della fascistizzazione. Accanto alla pittura tradizionale si sviluppò la pittura murale, dove si ritraevano personaggi del regime, eventi legati alla sua storia e attività, alla vita industriale e rurale. Anche in questo settore vi furono opere di notevole qualità. Il volto di Mussolini, esprimente mascolinità fisica e imperiosità spirituale, venne riprodotto da pittori e scultori in migliaia di copie. I muri d’Italia ne furono letteralmente invasi insieme con i detti memorabili pronunciati dal Duce. Lasciare una grande impronta nel presente e nel futuro attraverso l’architettura fu in Italia come in Germania una speciale ambizione del regime e del suo capo. Nelle facciate delle nuove costruzioni vennero impresse le date della nuova era accompagnate dai fasci littori; in numerose città e cittadine furono erette le «case del fascio», improntate a semplicità geometrica; e specie a Roma furono compiuti imponenti lavori a scopo celebrativo. Il proposito, espresso da Mussolini il 31 dicembre 1925, era di fare apparire Roma «meravigliosa a tutte le genti del mondo; vasta, ordinata, potente, come fu ai tempi del primo impero di Augusto». Massimo esponente dell’architettura di regime fu Marcello Piacentini, nominato commissario generale per l’architettura.

6. Gli oppositori del fascismo. In Italia ogni opposizione al fascismo era diventata dopo il 1926 un delitto contro lo Stato. Chi si opponeva andava incontro al Tribunale speciale, alla condanna alla prigione o al confino in zone sotto sorveglianza speciale e, in casi estremi, alla pena di morte. Vi erano però le ricordate eccezioni di eminenti personalità come Croce ed Einaudi, le quali – dopo aver sostenuto il governo fascista nei primi anni di governo, fino a quando avevano potuto pensare che esso costituisse un mezzo utile ma transitorio per riaffermare l’autorità dello Stato in vista del ritorno alle buone vie del vecchio e sperimentato sistema liberale – arrendendosi al fatto che i fascisti andavano costruendo una dittatura, passarono nelle file dell’opposizione. Era però quella di Croce ed Einaudi un’opposizione essenzialmente culturale e

intellettuale, senza alcuna trasposizione attiva nel campo politico. Per questo Mussolini tollerò che Croce continuasse a vivere a Napoli, dedito ai suoi studi di storia e filosofia e alla direzione della rivista «La Critica». Il filosofo e storico napoletano intendeva mantenere viva nel Paese la tradizione liberale, in polemica esplicita con l’attività svolta anzitutto dai due maggiori esponenti della cultura umanistica fascista: Gentile e Volpe. Croce contrappose un’interpretazione del regime fascista in termini di rottura e discontinuità con l’Italia liberale, con l’intento di mantenere alta la fede che sarebbe venuto il tempo per la nazione di riprendere il cammino interrotto una volta riconquistata la libertà. Della sua fede nel principio della libertà e nella sua concreta applicazione storica mediante le istituzioni parlamentari, dopo la Storia d’Italia dal 1871 al 1915 del 1928 diede un’altra testimonianza nella Storia d’Europa nel secolo decimonono del 1932, in cui, contro i trionfanti nazionalismi e i regimi autoritari, rilanciava il sempre vivo e superiore ideale della civiltà europea fecondata dall’affermazione e dalla circolazione dei valori liberali. Il filosofo vi esaltava «la libertà» come sinonimo di «umanità», come «l’unico ideale che abbia la saldezza che ebbe un tempo il cattolicesimo [...], l’unico che affronti sempre l’avvenire», che ha per sé «l’eterno»; e plaudiva a un processo di Unione Europea, che è direttamente opposto alle competizioni dei nazionalismi e sta contro di essi e un giorno potrà liberarne affatto l’Europa, tende a liberarla in pari tempo da tutta la psicologia che ai nazionalismi si congiunge e li sostiene e ingenera modi, abiti e azioni affini. E se tal cosa avverrà, o quando essa avverrà, l’ideale liberale sarà a pieno restaurato negli animi e ripiglierà il dominio 14.

L’eccezione fatta per Croce e anche per Einaudi confermò però la regola. Una sorte ben diversa toccò a un altro dei maggiori intellettuali italiani dell’epoca, Gaetano Salvemini, uno dei piú tenaci antifascisti della prima ora. Nel 1925 questi divenne l’anima di una delle prime pubblicazioni clandestine, il «Non mollare», e si dimise dalla cattedra dell’Università di Firenze, dichiarando che sarebbe tornato a servire nella scuola solo quando il Paese avesse «riacquistato un governo civile». Nel 1926, dopo essere espatriato nel 1925, venne privato della cittadinanza italiana e i suoi beni furono sequestrati. Salvemini fu il primo grande storico antifascista del fascismo. In opere, naturalmente tutte pubblicate all’estero, come La dittatura

fascista in Italia, la cui prima edizione uscí nel 1927, Mussolini diplomatico del 1932, Sotto la scure del fascismo del 1936, Lezioni di Harvard scritte nella prima metà degli anni Quaranta, Salvemini analizzò la genesi, lo sviluppo e il rafforzamento del fascismo, sostenendo (in consonanza con le tesi di Gobetti e di Guido Dorso) che per le masse italiane esso altro non era se non un regime oppressivo che – e qui evidente appariva la contrapposizione polemica a Croce – aveva potuto affermarsi a causa alle congenite, profonde debolezze dello Stato liberale; un regime che riduceva in primo luogo i lavoratori ma in generale l’intero popolo italiano in uno stato di servitú politica e sociale. Salvemini fu inoltre uno dei maggiori protagonisti della lotta degli esuli antifascisti. Fra coloro che emigrarono vi furono numerose fra le piú eminenti personalità della politica italiana: l’ex presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti; Luigi Sturzo, il leader del Partito popolare, con i suoi seguaci Giuseppe Donati e Francesco Luigi Ferrari; Piero Gobetti, uno degli intellettuali piú brillanti della nuova generazione, che nel novembre 1923 aveva definito il fascismo come l’«autobiografia della nazione», cioè una falsa rivoluzione e l’erede dei vizi storici di un Paese immaturo; il democratico liberale Giovanni Amendola; i socialisti riformisti Claudio Treves, Giuseppe Saragat, Pietro Nenni e Filippo Turati; Carlo Sforza, ex ministro degli Esteri; Carlo Rosselli, discepolo di Salvemini ed Einaudi e fondatore della rivista milanese «Il Quarto Stato», soppressa nell’ottobre 1926; Emilio Lussu, leader del Partito sardo d’Azione e Fausto Nitti (i tre fuggirono da Lipari, dove erano stati confinati, nel luglio 1929); Palmiro Togliatti, esule nel febbraio 1926 e divenuto il capo del Partito comunista dopo l’arresto di Antonio Gramsci nel novembre di quell’anno. Quanto ad Alcide De Gasperi, ultimo segretario politico del Partito popolare, egli, dopo aver subito un periodo di incarcerazione tra il 1927 e il 1928, trovò rifugio in Vaticano. Per iniziativa di esponenti del riformista Partito socialista dei lavoratori italiani, del massimalista Partito socialista italiano, del Partito repubblicano, della Confederazione del lavoro e della Lega dei diritti dell’uomo, sorse in Francia nell’aprile 1927 la Concentrazione d’azione antifascista, la cui attività principale fu la propaganda contro il regime. Punto di convergenza di forze assai eterogenee, la Concentrazione non riuscí però a operare concretamente in Italia per mancanza di un’organizzazione clandestina, e

quindi la sua attività fu soprattutto diretta a denunciare all’opinione pubblica estera la dittatura fascista. Nelle sue file era diffusa la convinzione che il regime sarebbe crollato in tempi brevi e che al crollo sarebbe seguita la restaurazione dello Stato parlamentare. Nel luglio 1930, i socialisti riformisti e i socialisti massimalisti, salvo una minoranza di antifusionisti, si unificarono in un solo Partito socialista, che continuò a aderire alla Concentrazione antifascista. Sennonché l’attività della Concentrazione, che i comunisti consideravano una mera ombra del passato, non soddisfaceva neppure emigrati come Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Fausto Nitti. Dopo la fuga da Lipari, essi fondarono a Parigi nell’autunno 1929 il movimento «Giustizia e libertà» (Gl). Al nuovo movimento, che non intendeva essere un “cartello” di partiti come la Concentrazione ma darsi una propria fisionomia, aderirono repubblicani, socialisti e democratici. Anche Salvemini si spostò in quella direzione. Il capo e il teorico di Gl diventò Rosselli, che nell’opera Socialismo liberale, pubblicata nel 1930, indicò la strada di un socialismo che, respinto l’«economicismo» e il «fatalismo» marxisti, fosse nondimeno rivoluzionario e capace di coniugare un’avanzata democrazia e le libertà politiche e civili proprie del liberalismo con la giustizia sociale di cui il socialismo aveva alzato la bandiera. Gl mirava a costituire una “terza via” fra il fascismo e il comunismo, entrambi totalitari, e superare al tempo stesso le debolezze del socialismo tradizionale, che con i suoi errori aveva favorito l’avvento del fascismo. Essa respingeva parimenti la restaurazione del vecchio regime liberale, conservatore e oligarchico, e nel suo manifesto programmatico indicò quali fossero gli obiettivi della lotta antifascista: la repubblica, la democrazia politica, profonde riforme sociali e in primo luogo la riforma agraria, la nazionalizzazione delle grandi imprese capitalistiche e monopolistiche che costituivano il sostegno del fascismo. Inoltre sosteneva l’urgenza di una lotta immediata al fascismo da condursi in Italia mediante l’attività di gruppi clandestini. Azioni clamorose come l’attentato compiuto il 24 ottobre 1929 da Fernando De Rosa contro il principe di Piemonte in visita a Bruxelles e il volo su Milano di Giovanni Bassanesi e Gioacchino Dolci l’11 luglio 1930 con lancio di manifestini contro il regime testimoniarono del tipo di ardito attivismo patrocinato da Gl. In Italia il movimento riuscí a organizzare in varie città gruppi di militanti che diffondevano materiale dell’emigrazione e producevano stampa clandestina, i cui membri subirono

numerosi arresti e condanne. Scopo ultimo di Gl erano l’insurrezione popolare contro il fascismo e la «rivoluzione democratica». Molto piú organizzata ed estesa di quella condotta dalle altre forze antifasciste fu l’azione del Partito comunista. Questa maggiore capacità operativa non era frutto soltanto della determinazione dei singoli militanti e dei quadri dirigenti, ma anche, e in misura essenziale, del collegamento dei comunisti italiani con un’organizzazione importante come l’Internazionale comunista e con l’Unione Sovietica e del sostegno anche economico da esse fornito. L’impegno dei comunisti italiani nella lotta contro il regime fu testimoniato dal fatto che il numero maggiore dei condannati dai tribunali fascisti proveniva dal loro partito. Diretto in un primo tempo da Bordiga, divenuto critico delle direttive provenienti da Mosca e dello stesso regime sovietico, il partito era passato nel 1924 sotto la direzione di Gramsci. Nelle Tesi di Lione del gennaio 1926, stese da lui e da Togliatti, i comunisti, mentre indicavano nel fascismo la punta piú avanzata della reazione italiana, con una valutazione completamente errata non solo persistevano nel considerare ancora attuale la prospettiva rivoluzionaria, ma denunciavano tutti gli altri partiti antifascisti come articolazioni di una catena di forze reazionarie, la quale partendo dal fascismo comprende i gruppi antifascisti che non hanno grandi basi di massa (liberali), quelli che hanno una base nei contadini e nella piccola borghesia (democratici, combattenti, popolari, repubblicani), e in parte anche negli operai (partito riformista), e quelli che avendo una base proletaria tendono a mantenere la masse operaie in una condizione di passività e far loro seguire la politica di altre classi (partito massimalista). Anche il gruppo che dirige la Confederazione del lavoro deve essere considerato a questa stregua, cioè come il veicolo di una influenza disgregatrice di altre classi sopra i lavoratori.

Anche gruppi e partiti democratici o regionali, come l’Unione nazionale, i Partiti d’azione sardo, molisano, irpino ecc., venivano denunciati come «un ostacolo alla realizzazione dell’alleanza tra operai e contadini». La prospettiva era, si diceva, quella di dare «inizio» a una «lotta rivoluzionaria diretta», vale a dire alla «guerra civile […] per la conquista del potere politico», additando in via transitoria e agitatoria la formazione di un «governo operaio e contadino», come fase della «lotta per la dittatura del proletariato» 15.

Dopo l’arresto di Gramsci nel novembre del 1926, la direzione del partito passò a Palmiro Togliatti, che ne sarebbe rimasto il capo fino alla morte nel 1964. Una volta entrate in vigore le leggi «fascistissime» che soppressero i partiti politici, i comunisti entrarono nella clandestinità; e dall’estero, specie da Parigi, presero a tessere la rete dei propri gruppi interni. Nel febbraio 1927 costituirono clandestinamente a Milano, con il concorso di socialisti massimalisti e di anarchici, una loro Cgl clandestina, nello stesso mese in cui Bruno Buozzi provvedeva a fare risorgere a Parigi la Cgl di indirizzo riformistico. Sempre fiduciosi in un’imminente e irrimediabile crisi generale del capitalismo, nel conseguente crollo del fascismo e quindi nella possibilità di instaurare la dittatura del proletariato, i comunisti denunciavano i socialisti come opportunisti che facevano il gioco del capitalismo. Il lavoro di formazione di centri clandestini in Italia, diretti dal Centro estero con sede a Parigi, era quindi condotto in vista della preparazione della rivoluzione. Quando la crisi del 1929 scosse nel profondo l’economia mondiale, Togliatti, seguendo le direttive della Terza Internazionale – dopo una grave lotta intestina all’interno del gruppo dirigente del partito culminata in una serie di espulsioni poiché una parte non condivideva l’ipotesi di una rapida prossima crisi del fascismo – decise di inviare i quadri piú esperti in Italia con il risultato che tra il 1930 e il 1932 essi vennero decimati dagli arresti. Nel 1933 la polizia fascista poteva vantarsi di avere quasi completamente scompaginato l’organizzazione clandestina comunista. Con l’ascesa di Hitler al potere in Germania nel gennaio 1933, il fascismo diventò un pericolo continentale. In questa situazione, la prospettiva dell’imminente rivoluzione socialista perdeva ogni significato attuale: il problema che si imponeva alle varie correnti dell’antifascismo internazionale era come impedire la fascistizzazione di altri Paesi europei, a partire da una nazione cruciale come la Francia. In base alle direttive della Terza Internazionale dettate dai sovietici, i comunisti italiani cercarono un accordo con il Partito socialista, che, come già ricordato, nel 1930 aveva riunito riformisti e massimalisti. L’era della lotta ai socialisti, prima considerati addirittura battistrada del fascismo ovvero «socialfascisti», venne perciò accantonata dall’Internazionale, che lanciò la direttiva della formazione in ogni Paese di «fronti popolari» con la partecipazione di tutti i partiti antifascisti: dai democratico-borghesi ai comunisti. Un patto di unità d’azione fra il Pcd’I e il Psi venne firmato a Parigi il 17 agosto 1934. Era cosí aperta la

strada per una collaborazione che, nonostante forti divergenze non superate, indicava ai due partiti il compito di lottare «contro il fascismo e la guerra», e trovò un importante punto di partenza nella comune agitazione condotta contro l’aggressione dell’Italia fascista nei confronti dell’Etiopia. Mentre il partito comunista combatteva la battaglia contro il fascismo, e molti fra i suoi militanti e dirigenti si trovavano nelle galere fasciste o al confino, Gramsci, condannato dal Tribunale speciale a vent’anni nel giugno 1928, conduceva in carcere una riflessione di grande rilievo sui problemi della rivoluzione italiana e internazionale in rapporto alla storia d’Italia e d’Europa. Frutto di questo lavoro furono i già citati Quaderni del carcere, nei quali espresse la sopravvenuta consapevolezza delle differenze esistenti, in relazione al progetto di rivoluzione comunista, tra la Russia sovietica del 1917 e i Paesi europei sviluppati. Egli notava che negli Stati piú avanzati «la “società civile” è diventata una struttura molto complessa e resistente», mentre «in Oriente, lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa». Il che doveva indurre i comunisti occidentali ad attrezzarsi per il passaggio dalla «guerra di movimento» alla «guerra di posizione» 16; e a operare per raggruppare intorno a sé e dirigere (era questo il concetto di «egemonia») l’insieme delle forze dotate delle facoltà intellettuali e tecniche indispensabili per poter guidare la società «già prima di conquistare il potere governativo». Soltanto cosí il partito e il proletariato avrebbero creato le condizioni per dare una base solida alla dittatura (il «dominio») sui gruppi ostili e controrivoluzionari 17. Dal carcere Gramsci poté mantenere intermittenti contatti con il centro estero del partito; ma non mancarono momenti di aperto contrasto intorno al 1930, quando egli, andando incontro all’isolamento politico, si oppose all’illusione nutrita da Togliatti e dagli altri dirigenti circa una imminente rivoluzione favorita dagli effetti della crisi economica mondiale iniziata nel 1929. Gramsci morí il 27 aprile 1937, in una clinica di Roma, dove era stato trasferito a causa del precipitare del suo stato di salute. Quello dell’emigrazione e dei gruppi attivi in Italia fu in misura prevalente un antifascismo di sinistra alimentato dai comunisti, dai giellisti e dai socialisti (in realtà soprattutto dai primi due raggruppamenti, che pagarono il maggiore prezzo alla repressione). Ma esistevano altri filoni di antifascismo. Oltre a quello formato dagli intellettuali che guardavano a Croce, punto di riferimento per gli ex popolari ostili al regime era Sturzo,

esule dapprima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti. In questi ultimi, dove l’emigrazione antifascista era andata notevolmente ingrossando, un gruppo di esuli diede vita nel settembre 1939 alla Mazzini Society, il cui programma era la lotta al fascismo da posizioni democratico-repubblicane. Suoi esponenti importanti furono Salvemini, G. A. Borgese, Giorgio La Piana, Max Ascoli, Lionello Venturi e Carlo Sforza. Dalla società finí però per allontanarsi lo storico pugliese perché in polemica con le strategie delle potenze occidentali, sostenute all’interno del gruppo in particolare da Sforza e da lui accusate di eccessive debolezze nei confronti del fascismo. Vi erano, infine, ristretti nuclei di oppositori di segno conservatore monarchico e cattolico, che continuavano a riporre le proprie speranze in un’iniziativa del re contro il fascismo e nella sua condanna morale da parte del papa. Eroe di tale corrente fu il giovane Lauro De Bosis, che, partito in aereo da una località nei pressi di Marsiglia, scomparve in mare al ritorno da un volo su Roma compiuto il 3 ottobre 1931 dopo aver lanciato manifestini incitanti il re a liberare l’Italia dal fascismo. Se riuscirono a mantenere viva l’opposizione piú all’estero che in Italia, gli esuli, i cospiratori, gli ideologi dell’antifascismo non costituirono mai un concreto pericolo per il regime fascista, saldo per l’appoggio delle grandi forze economiche, della monarchia, del Vaticano, dotato anche di un consenso, pur difficilmente misurabile nella sua entità, fra masse deluse dalla sconfitta subita dalle forze politiche prefasciste, e capace di esercitare un’azione repressiva estremamente efficace nei confronti degli oppositori. Questa azione ebbe i suoi principali strumenti nell’Ovra e in una vasta rete di provocatori e delatori infiltrati nelle file dei gruppi antifascisti all’interno e all’estero, nel Tribunale speciale per la difesa dello Stato e nell’istituto del confino. L’Ovra e il Tribunale si accanirono specialmente nei confronti dei comunisti. Questi ultimi, giudicati i nemici piú pericolosi, totalizzarono circa l’80% delle condanne emesse dal Tribunale; e analoga fu la percentuale di quelle contro operai, artigiani e contadini rispetto agli appartenenti agli altri gruppi sociali. Nell’insieme tra il 1927 e il 1943 gli imputati politici condannati dal Tribunale furono circa 4600, e tra le 42 condanne a morte e le 31 eseguite 26 colpirono irredentisti croati e sloveni; 15 470 furono i condannati al confino e 160 000 gli ammoniti o sottoposti a vigilanza speciale. Ma un elemento giocava implacabilmente a favore dell’antifascismo: il carattere bellicista e imperialista connaturato al fascismo.

Questo, nella sua veste di imperialismo tanto aggressivo quanto militarmente debole, avrebbe infine coinvolto il Paese in una guerra che non era preparato a sostenere e lo avrebbe portato alla catastrofe, culminata nel crollo del regime nel luglio 1943 e nella disgregazione dell’esercito in settembre, creando le condizioni perché le forze antifasciste diventassero le forze protagoniste della lotta condotta tra il 1943 e il 1945 contro i tedeschi e i neofascisti nell’Italia centro-settentrionale da essi occupata.

7. Il varo delle leggi razziali e il rinnovarsi del conflitto con la Chiesa nel 1938. In Germania gli ebrei, giudicati primi responsabili dell’inquinamento della razza ariana e delle supposte congiure interne contro il regime nazionalsocialista in combutta con i loro correligionari all’estero, fin dal 1933 erano stati messi ai margini della vita pubblica e civile; ma solo con le leggi di Norimberga emanate nel settembre 1935 vennero ridotti alla condizione di «soggetti», in contrapposizione agli ariani, unici ad essere considerati cittadini del Reich. Il matrimonio e i rapporti sessuali fra ebrei e ariani furono vietati. Gli ebrei ricevettero cosí lo status legale di razza inferiore, fu loro impedito ogni normale rapporto con gli altri e contro di loro vennero scatenate masse di fanatici. Tra il 1937 e il 1939 furono circa 140 000 gli ebrei che emigrarono, in un primo tempo col favore dei nazisti, che, non avendo ancora maturata l’idea dello sterminio, pensavano cosí di disfarsene. Al Congresso del partito del settembre 1937 a Norimberga Hitler denunciò il pericolo estremo e intollerabile che veniva dal «bolscevismo ebraico», lanciando un segnale che provocò un’ondata di violenze nella primavera e nell’estate del 1938 contro gli ebrei e i loro averi. L’ondata – scatenata in seguito all’uccisione di un diplomatico tedesco a Parigi da parte di un ebreo per protesta contro l’antisemitismo – culminò tra il 9 e il 10 novembre di quell’anno nella «notte dei cristalli» e nella giornata successiva. Furono 91 i morti, 191 le sinagoghe distrutte, 7500 i negozi devastati e saccheggiati. Subito dopo circa 30 000 ebrei maschi vennero arrestati e avviati ai campi di concentramento. Tutti gli ebrei vennero definitivamente espulsi dalle posizioni che ancora detenevano nell’economia e nella finanza; e costretti a pagare un’«indennità» di 1,25 miliardi di marchi. A Adolf Eichmann e alle

SS fu affidata la gestione della «questione ebraica». Il 30 gennaio 1939, di fronte al Reichstag, Hitler dichiarò che una nuova guerra, provocata dalla congiura ebraica internazionale, avrebbe provocato «lo sterminio totale della razza ebraica in Europa». Mentre in Germania divampavano le violenze antisemite, nel 1938 in Italia il regime fascista emanò a sua volta leggi razziali dirette a difendere la purezza della popolazione italiana proclamata di origine ariana nonché a emarginare dalla vita pubblica e civile gli ebrei. Si trattava di una svolta, maturata gradualmente dopo l’ascesa al potere di Hitler, rispetto all’ideologia originaria del fascismo italiano la quale, facendo riferimento allo Statonazione, aveva ignorato l’antisemitismo, tanto che numerosi erano stati gli ebrei che avevano appoggiato il regime. Mussolini stesso non aveva mancato in passato di bollare con toni sprezzanti il razzismo nazista, tanto da dichiarare nel settembre 1934: «Trenta secoli di storia ci permettono di guardare con sovrana pietà talune dottrine di oltr’Alpe, sostenute dalla progenie di gente che ignorava la scrittura [...], nel tempo in cui Roma aveva Cesare, Virgilio e Augusto» 18; e da parlare del “razzismo” tedesco come frutto di «isolamento» ed espressione della «difesa feroce e scientifica della razza germanica o piuttosto delle sei razze (oltre le secondarie) che compongono il popolo tedesco» in cui «i sintomi della degenerazione sono innumerevoli e impressionanti» 19. È pur vero che fin dai primi anni Venti erano esistite nel seno del fascismo correnti che avevano agitato l’antisemitismo, come quella facente capo a Giovanni Preziosi, traduttore dei Protocolli dei Savi di Sion e direttore della rivista antiebraica «La vita italiana», ma erano rimaste decisamente minoritarie. La loro influenza aumentò, ma non oltre certi limiti, dopo il 1933. Alcuni organi di stampa presero ad agitarne la bandiera, ricorrendo all’argomento che tra gli antifascisti arrestati, in particolare tra i seguaci di Gl, vi erano vari ebrei, cosí adombrando l’esistenza di un nesso organico tra ebraismo e antifascismo. Dopo che nell’Africa Orientale Italiana tra il 1936 e il 1937 era stata introdotta la rigida separazione tra italiani e indigeni culminata nella legge del 19 aprile 1937 in difesa della razza italiana, la spinta decisiva verso il razzismo come componente ufficiale dell’ideologia e della politica del regime venne sia dalle implicazioni della sempre piú stretta alleanza tra i due regimi totalitari, sia dal regime coloniale. Le leggi antisemite costituirono il coronamento del processo. Il 14 luglio 1938 venne pubblicato il Manifesto

degli scienziati razzisti, nel quale si affermava: «esistono grandi razze e piccole razze» biologicamente diverse, quindi «il concetto di razza è puramente biologico»; la popolazione italiana e la sua civiltà sono ariane; gli italiani costituiscono una razza di «antica purezza di sangue»; occorre «fare una netta distinzione tra i mediterranei d’Europa (occidentali) da una parte, gli orientali e gli africani dall’altra»; «gli ebrei non appartengono alla razza italiana» 20. Organo del razzismo divenne la rivista «La difesa della razza». Il 1 o settembre il Consiglio dei ministri stabilí il divieto per gli ebrei stranieri di risiedere in Italia e nelle colonie, il licenziamento degli insegnanti ebrei, l’espulsione degli alunni ebrei – ai quali fu concesso di frequentare le scuole delle comunità ebraiche – dalle scuole statali medie e superiori, il raggruppamento dei bambini ebrei delle scuole elementari che raggiungessero il numero di dieci in sezioni separate, la perdita della cittadinanza italiana qualora ottenuta dopo il 1918. Tra il 10 e il 17 novembre, seguendo le direttive del Gran Consiglio, il governo varò provvedimenti i quali stabilivano la proibizione di matrimoni tra ariani e appartenenti ad altre razze, l’esclusione degli ebrei dal servizio militare, il loro allontanamento da ogni carica pubblica e amministrativa, limitazioni nel campo della proprietà, della conduzione di aziende e delle attività professionali. Il ministro dell’Educazione nazionale Bottai, che tra i gerarchi fu con Farinacci il piú zelante sostenitore delle leggi antisemite, fece espellere dalle università centinaia di professori e assistenti ebrei; ordinò inoltre un censimento tra i membri delle accademie italiane, con richiesta di chiarire le loro ascendenze razziali, ottenendo molte risposte dettate da paura, conformismo, servilismo e anche zelo antisemita (unica luminosa eccezione quella di Croce). Su pressione del re, si provvide ad attenuare il rigore dei provvedimenti per gli ebrei che avevano particolari meriti patriottici e militari. Il Gran Consiglio esentò dalle misure in materia di proprietà e di gestione delle aziende i mutilati, gli invalidi di guerra, le famiglie dei caduti e gli iscritti al Partito fascista prima del 1922. La campagna razziale suscitò le proteste di Pio XI. Questi nel marzo 1937 aveva emanato l’enciclica Mit brennender Sorge («Con viva ansia»), nella quale aveva espresso la sua grande preoccupazione per «la via dolorosa» della Chiesa in Germania e per «il progressivo acuirsi dell’oppressione dei fedeli» da parte del regime nazista; e la ferma condanna di «una sedicente concezione precristiana dell’antico germanesimo» che esaltava la razza, il

popolo, lo Stato «divinizzandoli con culto idolatrico» e cadeva «nell’errore di parlare di un Dio nazionale, di una religione nazionale» posti a guida di «un solo popolo, nella ristrettezza etnica di una sola razza» 21. Posto di fronte alla campagna razziale messa in atto dal regime fascista, Pio XI ripetutamente affermò che il razzismo costituiva un grave vulnus morale e storico alle tradizioni dell’Italia e non mancò di sottolineare che essa era un prodotto di imitazione della legislazione nazista; al che Mussolini, quanto mai piccato, replicò: «anche nella questione della razza noi tireremo diritto. Dire che il fascismo ha imitato qualcuno o qualcosa è semplicemente assurdo» 22. La Chiesa e il mondo cattolico avevano accolto senza reagire, e persino con favore, le norme rivolte a impedire la “contaminazione” tra italiani e indigeni in Africa; mentre diverso fu l’atteggiamento di fronte all’antisemitismo giustificato su base biologica. Nel cattolicesimo l’antisemitismo aveva radici secolari, ma era legato a motivazioni di ordine religioso, non razziali. Non mancarono ambienti legati in particolar modo ai gesuiti che cercarono di attenuare e persino negare il rapporto tra il razzismo nazista e quello fascista; sennonché Pio XI rimase fermo nel denunciare l’estraneità di quest’ultimo allo spirito e alle tradizioni italiane, avendo oltretutto compreso che le leggi razziali costituivano nell’intento mussoliniano un aspetto essenziale della «rivoluzione culturale» cui aspirava il regime per arrivare, in palese contrasto con i principî e la morale propri del cattolicesimo, all’affermazione di un «uomo nuovo» italiano. La legislazione razziale – che, pur molto dura e disumana, non aveva paragoni con la spietatezza e la crudeltà di quella nazista – venne accolta dalla grande maggioranza degli italiani con un atteggiamento di passività e di conformismo, ma senza entusiasmo, anche perché fu vista come il segno inequivocabile che l’Italia era ormai ridotta alla condizione di satellite della Germania. Se estremamente gravi furono le leggi di discriminazione politica e civile, non vi furono se non sporadiche violenze fisiche contro le persone. Fatta eccezione per gruppi minoritari fascisti e anche clericali nei quali era vivo l’antisemitismo, non si sviluppò in Italia un fanatismo antiebraico generalizzato. Sempre nel 1938, accanto a quello sulla questione razziale, scoppiò il conflitto tra la Chiesa e il regime in relazione al ruolo dell’Azione cattolica, la cui forza organizzativa (agli inizi degli anni Trenta i suoi iscritti si aggiravano intorno a un milione) e autonomia il regime considerava un grave

ostacolo all’inquadramento totalitario della gioventú e al successo della sua programmata «rivoluzione culturale», al punto da intravvedere in essa il nucleo di un potenziale, seppure dormiente, partito politico, portatore di valori e finalità in palese tensione con quelli del fascismo. L’irritazione di Mussolini fu tale da indurlo ad affermare, secondo la testimonianza di Ciano, di voler «fare a meno» del Vaticano. In questa situazione – che invertí quella precedente di rapporti pacificati tra la Chiesa e il regime – si moltiplicarono gli attacchi della stampa fascista contro le organizzazioni cattoliche, accompagnati da azioni ostili. Il che indusse Pio XI il 5 gennaio ad alzare i toni, nonostante non godesse dell’appoggio di parte delle gerarchie ecclesiastiche, rivolgendosi alla leadership fascista con le seguenti parole: «io vi raccomando di non colpire l’Azione cattolica; ve lo raccomando, ve ne prego per il vostro bene, perché chi colpisce l’Azione cattolica colpisce il Papa, e chi colpisce il Papa muore» 23. Il grave conflitto venne in seguito composto, ma solo parzialmente, da un’intesa tra il segretario del Pnf Starace e il presidente dell’AC, con la riaffermazione dell’accordo stipulato nel 1931. Ma sarebbe stato necessario attendere l’avvento al soglio di Pio XII nel marzo 1939, perché l’approvazione di nuovi statuti dell’AC vedesse appagati «i desideri del Governo Fascista».

8. La politica estera italiana negli anni Venti. Nel periodo che va dal 1923 al patto Briand-Kellogg del 1928, che mise al bando la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, la politica estera del regime fascista ebbe un carattere ondivago per effetto di una contraddizione fondamentale: da un lato l’Italia, in quanto potenza vincitrice che aveva tratto dalla pace vantaggi come l’inglobamento nel suo territorio nazionale non solo delle regioni italiane già sotto dominazione austriaca, ma anche delle minoranze tedesca dell’Alto Adige e slava della Venezia Giulia, aveva buoni motivi per opporsi alla «revisione» dei trattati di pace; dall’altro, essendo stata profondamente frustrata dalla mancata cessione di congrui compensi coloniali, dalla fallita penetrazione nell’ex Impero turco, in particolare nella zona mineraria di Adalia, e dall’insuccesso nei tentativi di annessione di parte della Dalmazia, spingeva nella direzione opposta. L’Italia era insomma contemporaneamente

contraria a un «revisionismo» a favore dell’Austria e della Iugoslavia e sostenitrice di un revisionismo a proprio profitto, e agiva quindi alla luce di questa contraddizione. Il peso che, nonostante il suo status formale di grande potenza, l’Italia era in grado di esercitare effettivamente nella scena politica europea, dominata dalla Gran Bretagna, dalla Francia e dalla questione tedesca, era sostanzialmente modesto. Sotto questo aspetto si riproponeva per aspetti significativi la condizione del Paese nel periodo liberale: condizione che Mussolini era smanioso di superare. Impossibilitata, nonostante le ambizioni, a formare un solido polo autonomo stabilendo la propria influenza sugli Stati minori dell’Europa orientale, l’Italia si mosse nell’orbita delle due maggiori potenze europee, cercando di volgere a proprio vantaggio le loro diverse strategie. In relazione all’eredità ricevuta dallo Stato liberale nel primo dopoguerra in materia di politica estera – il trattato di Rapallo con la Iugoslavia, il ritiro dall’Asia Minore e dall’Albania –, Mussolini, mentre doveva tenere conto delle realtà precostituite, bollò come timida la politica che le aveva determinate; il che mostrò fin dall’inizio il proposito del fascismo di entrare in concorrenza con gli imperialismi piú potenti. Comunque negli anni Venti esso si allineò in buona sostanza alla politica di equilibrio europeo, non intravvedendo allora alcuna concreta possibilità di mutarlo. Va tenuto conto che Mussolini poté sfruttare i vantaggi che gli venivano dalla larga simpatia che gli ambienti conservatori in Gran Bretagna e in Francia nutrivano per il fascismo, meritevole ai loro occhi di avere fermato il bolscevismo in Italia contribuendo in modo determinante alla difesa dell’ordine borghese capitalistico nel continente. Nelle linee generali la politica estera fascista nel periodo fra il 1923 e il 1928 conobbe due fasi differenti: una dal 1923 al 1925 e un’altra posteriore al 1925. L’asse della prima fase fu costituito dall’appoggio dato alla Francia contro la Germania, come si vide in occasione dell’occupazione francese della Ruhr nel 1923, e dalla ricerca dell’amicizia con la Gran Bretagna finalizzata a una politica nel settore danubiano-balcanico che facesse da contrappeso all’influenza che su di esso esercitava la Francia; aspetto questo gradito agli inglesi, i quali vedevano con favore un accrescimento dell’influenza italiana nei Balcani e nel Mediterraneo. Sennonché i limiti della strategia fascista nel settore balcanico si fecero presto evidenti; questa, infatti, puntava su una penetrazione dell’industria italiana che cozzava con la

concorrenza francese, che aveva alle spalle uno Stato assai piú forte. Desiderio di affermazione della potenza italiana e necessità di prendere atto dei suoi limiti si alternavano e confliggevano. Ma quando e dove le circostanze lo permettevano, Mussolini non esitò a fare la voce grossa. Manifestazione tipica del nuovo stile mussoliniano fu l’azione di forza dell’Italia intrapresa nei confronti della Grecia nel 1923. Essendo stato assassinato nell’agosto di quell’anno un generale italiano membro di una commissione alleata con altri tre connazionali nei pressi di Giannina, il 31 Mussolini fece bombardare per rappresaglia e quindi occupare dalla marina l’isola di Corfú. L’incidente venne composto con la mediazione soprattutto della Gran Bretagna. L’isola fu sgombrata a fine settembre, dopo aver ottenuto dalla Grecia un’indennità. Mussolini fu soddisfatto per aver mostrato in Italia e fuori che era finito il tempo della “debolezza liberale”. Ma quel che era possibile con la Grecia, non lo era con la Gran Bretagna e la Francia; per questo il primo periodo della politica estera fascista fu improntato a sostanziale moderazione. Un successo rilevante anzitutto per i riflessi all’interno fu l’accordo italo-iugoslavo – il trattato di Roma del 27 gennaio 1924 – che stabilí il passaggio di Fiume sotto la sovranità italiana in cambio del riconoscimento alla Iugoslavia del territorio circostante alla città. I buoni rapporti tra i due Paesi erano però minati dall’atteggiamento di fondo dell’Italia, che considerava la Iugoslavia un fragile agglomerato di nazionalità e nutriva ambizioni di ingerenza nella sua politica interna. Un altro avvenimento importante fu il riconoscimento dell’Unione Sovietica da parte dell’Italia l’8 febbraio 1924. Un segno dei buoni rapporti con la Gran Bretagna fu la cessione in luglio all’Italia, in ottemperanza a quanto stabilito dal patto di Londra del 1915, del territorio dell’Oltre Giuba, regione meridionale della Somalia. Infine, l’Italia aderí nell’ottobre 1925 alla conferenza di Locarno in base alla quale venivano riconosciute le frontiere uscite dai trattati di pace del 1919 e fu una delle potenze garanti della frontiera franco-tedesca. In questo modo l’Italia si inseriva nel ricostituito equilibrio europeo, con un senso di soddisfazione per i risultati ottenuti: il riemergere della Germania e il conseguente ridimensionamento della potenza francese. Il secondo periodo della politica estera fascista corre dal 1925 alla fine del 1927. Furono questi gli anni in cui Mussolini, sempre forte dell’appoggio, per quanto non incondizionato, della Gran Bretagna, ritenne di poter assumere

una piú decisa iniziativa antifrancese sia nel settore danubiano-balcanico sia in quello mediterraneo, con il risultato di farsi piú nettamente fautore del “revisionismo” dei trattati, evidenziando un elemento della politica estera fascista destinato successivamente a diventarne una componente fissa: la contrapposizione fra il vecchio “mondo della democrazia” e il “mondo del fascismo”, astro sorgente del secolo. Mussolini era confortato nello spingersi in questa direzione dal diffondersi in vari Paesi d’Europa di regimi autoritari di destra e di movimenti filofascisti. Motivi di solidarietà sociale conservatrice spingevano poi esponenti di primo piano del Partito conservatore inglese, come Churchill e Chamberlain, a magnificare la politica interna di Mussolini. Il 27 novembre 1926 l’Italia firmò un patto di mutua assistenza con l’Albania, dove nel 1925 aveva assunto la presidenza Ahmed Bey Zogu, seguito nel novembre 1927 da un secondo trattato, che sanciva una vera e propria alleanza in funzione anti-iugoslava; ciò significò l’entrata del piccolo Paese nell’orbita italiana, e favorí, per contrappeso, la firma nello stesso mese del trattato di alleanza tra Francia e Iugoslavia. Il 1 o settembre 1928 Zogu assunse la corona d’Albania, con il sostegno politico e finanziario dell’Italia. L’espansionismo italiano era dunque diretto essenzialmente in quel periodo contro la Iugoslavia e la Francia. In occasione di un viaggio in Libia nell’aprile 1926, Mussolini indicò chiaramente la volontà di realizzare un piú grande impero nell’ambito del mare nostrum italiano e alla luce della contrapposizione tra «democrazia» e «fascismo». Il regime affermava di voler estendere l’influenza italiana, oltre che in Albania, nella Siria controllata dalla Francia e in direzione della Turchia (Smirne, Adalia), sollevando inoltre il problema della Tunisia, anch’essa soggetta alla Francia ma con una forte presenza di immigrazione italiana. Nel maggio 1927 Mussolini dichiarò che lo «spirito di Locarno», cioè l’intesa pacifica europea, «è straordinariamente decolorato»; che «bisogna potere, ad un certo momento, mobilitare cinque milioni di uomini, e bisogna poterli armare; bisogna rafforzare la nostra Marina e bisogna che l’Aviazione [...] sia cosí numerosa e cosí potente che l’urlío dei suoi motori deve coprire qualunque altro rumore nella penisola e la superficie delle sue ali deve oscurare il sole sulla nostra terra»; che «tra il 1935 e il 1940 saremo nuovamente ad un punto che direi cruciale della storia europea, potremo far sentire la nostra voce e vedere finalmente riconosciuti i nostri diritti» 24.

Contemporaneamente alla proclamazione delle mire nell’area mediterranea, il fascismo sviluppò un’iniziativa volta a estendere l’area dell’influenza italiana. Nel settembre 1926 venne firmato un trattato di amicizia con la Romania, cui si affiancò un’intesa con la Bulgaria. Nell’aprile 1927 fu la volta dell’Ungheria, con cui fu firmato un trattato di amicizia, che dava particolare significato allo spirito «revisionista» dell’Italia fascista, in quanto l’Ungheria, che nutriva mire nei confronti di Cecoslovacchia, Iugoslavia e Romania dove erano state inglobate minoranze ungheresi, era il Paese che nell’Europa centrale e nei Balcani respingeva con maggiore decisione i confini stabiliti nel 1919. Obiettivo fondamentale della politica italiana era accerchiare la Iugoslavia. L’accerchiamento venne perfezionato attraverso un nuovo corso di rapporti con l’Austria. L’intesa con questo Paese doveva servire non solo a rafforzare lo schieramento anti-iugoslavo, ma anche e soprattutto a consolidare la posizione strategica dell’Italia di fronte alla Germania. In relazione a quest’ultimo aspetto Mussolini, assumendo in questo caso il ruolo di tutore “antirevisionista” dei trattati di pace, si eresse a paladino dell’indipendenza dell’Austria contro l’ambizione della Germania di unificare i due Paesi. Di fronte a una simile minaccia, che avrebbe portato le frontiere tedesche fino al Brennero facendo saltare lo “Stato cuscinetto” austriaco, nel luglio 1927 dichiarò che una tale unificazione non era «conciliabile col rispetto dei trattati di pace esistenti», poiché «l’unione dell’Austria con la Germania cambierebbe profondamente la carta politica dell’Europa cosí come fu determinata dai trattati di pace» 25. La firma nell’agosto 1928 da parte dell’Italia del patto Briand-Kellogg fu un atto meramente formale, poiché il fascismo, avendo ormai assunta una linea “revisionista”, considerava inevitabile nei tempi prossimi l’avvento di un nuovo assetto europeo e mondiale.

9. Il timore della rinascita della potenza tedesca e il fronte anglo-francoitaliano. La questione austriaca. Dopo la fine della Prima guerra mondiale, vi erano state numerose conferenze per il disarmo; ma si era ogni volta trattato di solenni affermazioni di principio o tutt’al piú di accordi per mantenere determinati equilibri negli armamenti. La Germania era l’unico Stato, fra quelli di primo piano, nei cui

confronti il disarmo aveva avuto effettive conseguenze. Ma già nel 1932 il cancelliere tedesco Franz von Papen ottenne per i tedeschi il riconoscimento del diritto alla parità con le altre potenze nel quadro di un sistema di sicurezza comune. Nel febbraio 1933, quando ripresero le trattative sul disarmo, toccò a Hitler, subito dopo essere diventato il 30 gennaio cancelliere del Reich, contrattare con le altre potenze la posizione della Germania, che venne riammessa al tavolo delle maggiori potenze del continente. L’ascesa del nazismo al potere venne considerata in un primo tempo da Mussolini come la dimostrazione che il fascismo era diventato una forza internazionale, e quindi con soddisfazione. Egli, che allora neppure immaginava a quale grado di potenza il nazismo avrebbe ben presto nuovamente elevato la Germania, riteneva che una ripresa, entro limiti moderati, della forza tedesca avrebbe costituito un utile contrappeso alla Francia e perciò offerto all’Italia fascista la possibilità di accrescere il proprio ruolo nella costruzione di un nuovo assetto europeo. Fu cosí che nel marzo 1933 Mussolini assunse l’iniziativa di un «patto a quattro», cioè fra Gran Bretagna, Francia, Italia e Germania, per mantenere la pace, sulla base della revisione divenuta inevitabile dei trattati conclusi nel primo dopoguerra. Tale patto suscitò l’allarme non solo dei Paesi della Piccola intesa, cioè degli Stati balcanici alleati della Francia, i quali temevano l’egemonia delle grandi potenze, ma anche dell’Unione Sovietica. A questo punto la Francia prese l’iniziativa di portare il problema di un’eventuale revisione dei trattati di pace nell’ambito della Società delle Nazioni; ma il patto, firmato il 15 luglio, non venne poi ratificato da Francia e Germania. La lezione che in primo luogo la Germania ne tirò fu che la sua potenza poteva essere ricostituita solo contro la Società delle Nazioni. Il 27 marzo 1933 il Giappone, per protesta contro la condanna ricevuta in seguito all’aggressione alla Cina, si ritirò dalla Società delle Nazioni. Pochi mesi dopo la Germania inferse a quest’ultima un altro grave colpo. Alla ripresa nell’autunno di quell’anno della conferenza sul disarmo, i tedeschi mostrarono chiaramente di voler passare dal riconoscimento in via di principio del loro diritto a un riarmo effettivo e consistente alla parità sostanziale con le altre potenze. Di fronte alle resistenze della Francia, Hitler il 14 ottobre fece ritirare la delegazione dalla conferenza e annunciò l’uscita del suo Paese dalla Società delle Nazioni. Intanto il riarmo tedesco era ripreso a ritmi accelerati. Il 26 gennaio 1934, per indebolire la Francia a oriente, la

Germania firmò un patto decennale di non aggressione con la Polonia. In un primo tempo Mussolini – come si è detto – aveva appoggiato, entro certi limiti, la rinascita della posizione internazionale della Germania; ma quando Hitler, in nome del programma “pangermanico” della riunificazione in un solo Reich di tutti i tedeschi, fece intravvedere chiaramente la minaccia dell’annessione (Anschluss) dell’Austria, reagí, al di là delle affinità fra i due regimi, per il timore di trovarsi i tedeschi al Brennero. Dopo le elezioni dell’ottobre 1920, l’Austria era stata governata da un blocco conservatore composto da cristiano-sociali e tedesco-nazionali. La socialdemocrazia, che aveva la sua roccaforte a Vienna da essa mirabilmente amministrata, stava all’opposizione. Il sacerdote cattolico e leader politico monsignor Ignaz Seipel nel suo ruolo di cancelliere rimase alla guida dell’Austria quasi ininterrottamente fra il 1922 e il 1929, in un Paese lacerato dai conflitti politici e sociali, con una socialdemocrazia assai piú a sinistra e meglio organizzata di quanto non fosse quella degli altri Paesi europei. La guerra civile era permanentemente nell’aria, tanto piú che i socialdemocratici disponevano di uno Schutzbund («lega difensiva») armato che si contrapponeva alla Heimwehr («milizia patria») di stampo fascista. Nel luglio 1927 la situazione sfociò in dimostrazioni di strada indette dai socialdemocratici, nel corso delle quali i morti furono circa un centinaio. In seguito all’acuirsi delle tensioni provocate dallo scoppio della crisi economica mondiale che investí in pieno l’Austria e dell’instabilità parlamentare, nel dicembre 1929 i cristiano-sociali fecero modificare la costituzione in senso autoritario, conferendo al presidente della Repubblica la possibilità di governare con decreti-legge. Il successo elettorale della socialdemocrazia nelle elezioni del novembre 1930, che ne fecero il partito singolarmente piú forte, provocò l’ulteriore aggravamento della situazione interna. Il tentativo del capo del governo Johann Schober, leader dei nazionalisti, di promuovere un’unione doganale con la Germania nel marzo 1931 suscitò l’opposizione in primo luogo della Francia e dei Paesi della Piccola intesa; esso dunque fallí, determinando la caduta di Schober. Nel maggio 1932 divenne cancelliere Engelbert Dollfuss, un cristiano-sociale deciso a basare la politica interna su principî piú che mai autoritari e la politica estera sulla protezione dell’Italia fascista, verso cui andavano le sue aperte simpatie. Nel marzo 1933 Dollfuss pose fine al regime parlamentare. Di fronte all’ascesa di Hitler al potere e alla comparsa nel proprio Paese di un

Partito nazista apertamente fautore dell’unione dell’Austria alla Germania, il cancelliere, che sperava di poter conservare l’indipendenza grazie all’aiuto italiano, nell’agosto 1933 si incontrò a Riccione con Mussolini, dal quale ricevette assicurazioni in tal senso e l’invito a stroncare con la forza la socialdemocrazia e a stabilire un regime clerico-fascista basato su istituzioni corporative diretto a combattere anche i nazisti oltre che i socialdemocratici. Dollfuss sottopose questi ultimi a crescenti provocazioni con lo scopo di eliminarli in uno scontro armato frontale. Nel febbraio 1934 scoppiò a Vienna la guerra civile; e dopo quattro giorni di resistenza lo Schutzbund e gli operai insorti furono annientati dall’esercito e dalla Heimwehr. Il Partito socialdemocratico venne sciolto e unico partito ammesso fu il Fronte patriottico, fondato da Dollfuss nel 1933. Gran Bretagna, Francia e Italia dichiararono, contro le mire annessionistiche naziste, la «necessità di mantenere l’indipendenza e l’integrità dell’Austria secondo i trattati esistenti». Il 10 luglio 1934 Dollfuss varò una costituzione modellata sul corporativismo fascista che gli conferiva poteri dittatoriali. Di fronte al nazionalismo fascistoide ma antitedesco di Dollfuss, i nazisti tentarono un colpo di Stato. Il 25 luglio assassinarono il cancelliere e proclamarono un governo nazista; ma il colpo venne sanguinosamente sventato. Mussolini reagí alla minaccia tedesca ordinando la sera di quello stesso giorno la concentrazione di truppe italiane al confine tra il Brennero e Tarvisio. A Dollfuss successe Kurt von Schuschnigg. Seguí prontamente in Italia una violenta campagna propagandistica contro la Germania. L’Italia fascista si faceva cosí principale garante dell’indipendenza austriaca contro le ambizioni naziste. Hitler, ancora troppo debole, si piegò a condannare il tentativo di colpo di Stato, negando qualsiasi ingerenza della Germania, e ordinò lo scioglimento del Partito nazista austriaco. Il Paese che fra le potenze occidentali si sentiva piú minacciato dalla Germania nazista era la Francia. Il ministro degli Esteri Louis Barthou, succeduto a Briand morto nel 1932, cercò nel 1934 di costruire un sistema di mutua garanzia che doveva comprendere la stessa Germania, l’Unione Sovietica, la Polonia, la Cecoslovacchia e i Paesi della Piccola intesa. Ma la Polonia respinse il progetto, per ostilità verso l’Unione Sovietica; e cosí la Germania. Alla Francia non rimase che rinsaldare i suoi rapporti con la Piccola intesa e con l’Unione Sovietica. Quest’ultima – che nel 1932 aveva stabilito patti di non aggressione con Polonia, Estonia, Lettonia e Finlandia,

cui aveva fatto seguito il piú importante con la Francia nel novembre di quell’anno – rafforzò i legami con le potenze occidentali, mutando il suo precedente atteggiamento, che l’aveva portata a stabilire un’alleanza di fatto con la Germania negli anni Venti quando questa era debole e rappresentava ai suoi occhi un utile partner nella denuncia dell’«imperialismo» dei Paesi vincitori della Prima guerra mondiale, dell’iniquità del trattato di Versailles, e della Società delle Nazioni, vista come strumento delle grandi potenze capitalistiche. Essendo le circostanze mutate tanto profondamente, il 18 settembre 1934 l’Unione Sovietica aderí alla Società delle Nazioni. Il pericolo di una forte Germania nazista, notoriamente nemica della Russia, portava Stalin – che, avviata la costruzione del «socialismo in un Paese solo», aveva messo in soffitta la rivoluzione internazionale, giudicata all’epoca non realizzabile – a cercare di utilizzare a proprio favore i contrasti fra i Paesi capitalistici. Barthou venne assassinato a Marsiglia, con Alessandro di Iugoslavia, da un nazionalista croato in un attentato il 9 ottobre 1934. Il suo successore al ministero degli Esteri francese, Pierre Laval, ne rettificò la linea politica, riflettendo l’orientamento degli ambienti conservatori francesi, i quali, ostili all’Unione Sovietica, caldeggiavano un’intesa con l’Italia fascista in funzione antitedesca. Fu cosí che il 7 gennaio 1935 si arrivò a Roma a un accordo franco-italiano stipulato tra Laval e Mussolini, che prevedeva concessioni territoriali di scarsa importanza della Francia all’Italia, vale a dire una zona desertica del Fezzan in Libia e una striscia della Somalia francese. I due convennero inoltre sulla necessità di difendere l’integrità dell’Austria. Infine un’intesa segreta sancí il riconoscimento da parte della Francia dell’Etiopia come area di influenza italiana; riconoscimento che Mussolini interpretò come il via libera alla conquista militare del Paese, laddove, secondo quanto poi affermato da Laval, esso concerneva soltanto gli aspetti economici. Ciò che piú premeva in quel momento al ministro francese era l’eventuale appoggio militare italiano contro le mire della Germania sull’Austria, in vista del quale furono stabiliti accordi segreti tra i due Paesi. Sennonché la fermezza di Laval nei confronti della Germania era quanto mai relativa, come apparve in maniera palese dall’atteggiamento assunto dalla Francia di fronte alla questione della Saar. Questa regione dopo la pace aveva uno statuto internazionale di durata quindicennale, con la garanzia che al suo termine, nel 1935, un plebiscito avrebbe deciso della sua annessione alla Francia o alla

Germania. Il 13 gennaio di quell’anno ebbe luogo il plebiscito; il 90% optò per il ritorno alla Germania, che procedette all’annessione della regione dopo il ritiro delle truppe francesi avvenuto il 1 o marzo. Hitler esultò e proclamò che il suo Paese non aveva piú rivendicazioni nei confronti della Francia. Ma, mentre ostentava intenzioni pacifiche, il 16 marzo denunciò le clausole del trattato di Versailles e reintrodusse la coscrizione obbligatoria nel Reich, suscitando le proteste inglesi, francesi e anche italiane. Gran Bretagna, Francia e Italia si riunirono tra l’11 e il 14 aprile 1935 a Stresa in un convegno – da cui nacque il cosiddetto «fronte di Stresa» – nel corso del quale si condannò il riarmo tedesco e si ribadí la necessità di difendere l’indipendenza austriaca e di mantenere gli equilibri concordati nel 1925 a Locarno. Ma non venne presa nessuna misura concreta; sicché Hitler vide piú che mai alzarsi il suo prestigio all’interno del suo Paese. Era finito lo stato di inferiorità della Germania: la pace di Versailles doveva considerarsi definitivamente cancellata. Poco dopo, il 2 maggio 1935, Laval per la Francia, la quale, di fronte alle misure militari prese da Hitler in marzo, aveva vinto le sue riluttanze, e Maksim Litvinov per l’Unione Sovietica firmarono un piú ampio patto di mutua assistenza chiaramente diretto contro la Germania; il 16 maggio l’Unione Sovietica strinse un analogo patto con la Cecoslovacchia. Un’importante conseguenza della nuova politica estera sovietica furono le deliberazioni nell’agosto 1935 del VII Congresso dell’Internazionale comunista, che diede ai partiti associati la direttiva di concorrere alla difesa dell’Unione Sovietica denunciando il militarismo aggressivo dei regimi fascisti; di impegnarsi per costruire nei rispettivi Paesi alleanze popolariantifasciste volte a impedire la nascita di nuovi regimi fascisti e a favorire il sorgere di governi «democratici» disposti ad allearsi militarmente ai sovietici; di abbandonare quindi, sia pure transitoriamente, ogni ostilità pregiudiziale verso le «democrazie borghesi». L’accettazione sostanziale in Europa del dato di fatto del riarmo tedesco fu messa in evidenza dagli accordi navali che la Gran Bretagna stabilí nel giugno 1935 con la Germania, secondo i quali si fissavano i limiti della flotta tedesca al 35% di quella britannica. Il 1935 fu dunque un anno cruciale nella storia europea. Proprio in quell’anno l’Italia seppellí definitivamente l’autorità della Società delle Nazioni, che non fu in grado di adottare alcuna seria misura in risposta

all’aggressione lanciata in ottobre contro l’Etiopia, che, nonostante fosse membro a pieno diritto della Società stessa, venne abbandonata alla sua sorte.

10. La guerra d’Etiopia e l’inerzia della Società delle Nazioni. Il fronte di Stresa, formato nella primavera del 1935, mostrò tutta la sua fragilità prima che l’anno finisse. Infatti l’attacco dell’Italia all’Etiopia non solo determinò la crisi definitiva della Società delle Nazioni, ma pose le basi per l’allineamento, che sarebbe divenuto a mano a mano un vero e proprio appiattimento, del fascismo italiano al nazismo anche sul piano della politica estera. Mussolini era deciso a dare all’Italia un piú grande impero, ampliando quello già esistente, ereditato dallo Stato liberale e composto da Libia, Eritrea e Somalia. Fu nel 1934 che Mussolini prese la decisione di procedere alla conquista dell’Etiopia. La crisi economica faceva sentire ancora profondamente i suoi effetti in Italia. L’emigrazione, che nel periodo precedente la guerra aveva costituito una grande valvola di sfogo, era scesa a cifre bassissime in conseguenza sia della decisione degli Stati Uniti nel 1921 di ridurre drasticamente le quote degli immigrati, sia delle diminuite possibilità di lavoro negli altri Paesi d’Europa afflitti da una forte disoccupazione prodotta dal generale calo della produzione negli anni 1929-33. D’altro canto il regime fascista era contrario, per motivi di prestigio, all’emigrazione; e ambiva a risolvere il problema attraverso l’impero. Vi erano anche crescenti difficoltà di esportazione in mercati come quelli balcanici, ora nuovamente invasi dalle merci tedesche. Gli ambienti della grande industria – nonostante il loro scetticismo verso la propaganda fascista che faceva intravvedere terre fertili ai contadini e all’industria materie prime a buon mercato – erano favorevoli all’impresa coloniale perché contavano sulle commesse statali dei materiali di ogni genere necessari alla guerra. Calcoli non errati, poiché nel 1935 e nel 1936, dopo lo scoppio della guerra, la produzione salí notevolmente e con essa i profitti. Quanto a Mussolini, con una vittoriosa impresa coloniale intendeva provare al popolo italiano che il fascismo era in grado di portare il Paese a un prestigio e a una potenza che il regime liberale non aveva saputo raggiungere e che le armi fasciste avrebbero riscattato le sconfitte coloniali subite nel secolo precedente. Dalla costruzione di un grande impero il

fascismo si aspettava il conseguimento di due importanti obiettivi: dimostrare di saper dare sostanza alla propria ideologia espansionistica e imperialistica e allargare l’area del consenso al regime. Fra il 1922 e il 1932 – con inizio dunque ancora nel periodo liberale – l’Italia aveva condotto quella che è stata definita la «riconquista» della Libia, il cui territorio in molta parte sfuggiva al suo controllo. Per raggiungere lo scopo, il fascismo agí con grande brutalità e violenza, ricorrendo a fucilazioni in massa, alla distruzione di interi villaggi e delle colture, all’uccisione su vasta scala del bestiame, alla costruzione di campi di concentramento. I deportati furono circa 80 000. In prima fila tra gli artefici nella repressione vi fu il generale Rodolfo Graziani, nominato vicegovernatore della Cirenaica (governatore era Badoglio) e messo a capo nel marzo 1930 della lotta contro i resistenti libici. Agli inizi del 1932, dopo che Graziani aveva catturato e fatto impiccare nel settembre 1931 il capo della resistenza Omar al-Mukhtar, Badoglio annunciò che la Libia era definitivamente «pacificata». L’opera di insediamento dei coloni italiani ebbe risultati modesti; per contro furono avviate e proseguite negli anni seguenti opere pubbliche di notevole importanza quali anzitutto strade considerate di interesse militare. Con l’Etiopia l’Italia fascista aveva stabilito in un primo tempo rapporti di grande cordialità. Non solo nel 1923 aveva appoggiato il suo ingresso nella Società delle Nazioni, ma il 2 agosto 1928 strinse con essa un patto ventennale di amicizia, impegnandosi a migliorare la rete di comunicazioni del Paese e a rispettarne l’indipendenza. Ma nel giro di pochi anni il vento cambiò direzione. Già nel 1932 l’Italia preparò piani aggressivi. Dopo di allora gli incidenti fra i due Paesi diventarono via via piú frequenti, fino a che il 5 dicembre 1934 nella località di Ual Ual, al confine tra Etiopia e Somalia, si venne a uno scontro fra truppe coloniali (i dubat) al servizio dell’Italia e abissini, con decine di morti dalle due parti. Nel gennaio 1935, dopo gli incontri a Roma con Laval, Mussolini ritenne di aver ricevuto “mano libera” da parte della Francia in Etiopia, Paese povero, quasi esclusivamente agricolo e pastorale, su cui dal 1930 governava il negus Hailé Selassié. Essendo l’Etiopia membro di diritto della Società delle Nazioni, una guerra fra i due Paesi non avrebbe potuto che gettare quest’ultima in una crisi gravissima. Il 4 settembre 1935 l’Italia denunciò di fronte al Consiglio della Società delle Nazioni l’Etiopia come un Paese barbarico e schiavista, che non aveva titolo per far parte della Società stessa e del consesso delle nazioni civili. All’inizio

del 1935 si procedette a inviare truppe in Africa. Trattative per una composizione del contrasto italo-etiopico specie fra Gran Bretagna e Italia non portarono a nulla di fatto. Mussolini non intendeva accettare alcun accordo poiché tra Italia ed Etiopia, disse, esisteva ormai unicamente «un problema di forza». Egli era convinto, a ragione, che inglesi e francesi non volessero una rottura con l’Italia a causa dell’Etiopia, nell’illusione di averla al proprio fianco di fronte alla minaccia costituita dal riarmo tedesco. Il 28 settembre 1935 il negus ordinò la mobilitazione generale. Il 3 ottobre gli italiani, senza dichiarare guerra e dare gran peso al fatto che la Gran Bretagna, piú che altro a titolo dimostrativo, aveva concentrato nel Mediterraneo ingenti forze navali, iniziarono l’invasione dell’Etiopia. Pochi giorni dopo, tra il 7 e l’11 ottobre, la Società delle Nazioni, con 51 voti contro tre (Austria, Ungheria e Albania), condannò l’Italia come aggressore. Il 18 novembre entrarono in vigore sanzioni economiche, che colpivano le importazioni dall’Italia e vietavano l’esportazione in essa di una serie di materiali di interesse militare e la concessione di crediti. Le sanzioni, solennemente proclamate, risultarono un atto poco piú che formale, perché non solo, in maniera sorprendente, non comprendevano carbone, acciaio e petrolio – quest’ultimo durante la guerra venne fornito in notevole misura nientemeno che dall’Unione Sovietica –, ma soprattutto perché furono largamente disattese dagli stessi Paesi che le avevano approvate. Oltretutto, fra i Paesi che non avevano firmato le sanzioni, vi erano Stati Uniti e Germania, entrambi fuori dalla Società delle Nazioni. Il regime fascista, con una martellante campagna propagandistica, presentò le sanzioni come un tentativo di «strangolamento» della «nuova Italia», che cercava il suo «posto al sole». L’apparato propagandistico sfruttò a fondo la situazione per esaltare lo spirito di compattezza della nazione e far credere alla popolazione che l’Italia fascista, con le sue sole forze, fosse in grado di resistere a 51 Stati. Il “fronte interno” venne cosí mobilitato in grande stile. Il basso clero, numerosi cardinali, «La Civiltà Cattolica» e «L’Osservatore Romano» diedero pieno appoggio all’impresa coloniale; ma Pio XI non era affatto favorevole a una guerra condotta contro un Paese cristiano come l’Etiopia, e un orientamento simile aveva anche l’influente monsignor Domenico Tardini, consigliere del papa. Ciò nonostante, non emerse alcuna presa di posizione ufficiale da parte della Chiesa contro l’impresa coloniale. Per riunire le masse intorno al regime nel momento del “pericolo” e dimostrarne il consenso il 18 dicembre –

definito «giornata della fede» – fu organizzata la raccolta delle fedi matrimoniali d’oro, sostituite con fedi d’acciaio, di oggetti preziosi e di rottami metallici. La messe fu assai cospicua: vennero raccolte 35,5 tonnellate di oro e 114 di argento. Anche illustri personaggi come Benedetto Croce, Vittorio Emanuele Orlando, Arturo Labriola, Luigi Albertini, pur notoriamente ostili al fascismo, fecero dono delle loro medaglie d’oro di senatori. Alle masse contadine il fascismo assicurò che la vittoria in Etiopia avrebbe finalmente dato pane e terra a tutti. Il regime riuscí cosí a rendere popolare la guerra e a raggiungere nel 1935-36 un consenso che non aveva precedenti e quale non avrebbe piú avuto. L’Etiopia rivelò di non essere materialmente in grado di resistere. L’Italia aveva mobilitato un corpo di spedizione che, dotato di imponenti mezzi poiché il regime voleva una vittoria rapida, totale e strepitosa, mostrò fin dall’inizio la sua superiorità. Il comando delle truppe italiane nel novembre 1935 venne assunto, in sostituzione del generale Emilio De Bono, dal generale Badoglio, che, collaborando con il generale Graziani, condusse alla vittoria un esercito composto al momento di massimo concentramento delle forze di 17 959 ufficiali, quasi mezzo milione tra sottufficiali e soldati, senza contare le truppe indigene, 1542 cannoni, 498 carri armati, 18 932 automezzi, 14 570 mitragliatrici, 500 aerei. A opporsi vi erano circa 300 000 etiopi con una debole artiglieria, privi di carri armati e mezzi di trasporto moderni e dotati di pochi aerei. Per accelerare la vittoria, gli italiani impiegarono anche armi chimiche (gas asfissianti e bombe all’iprite), il cui uso venne nascosto, e procedettero a bombardamenti aerei su vasta scala. Si susseguirono battaglie che piegarono la resistenza etiopica: tra il gennaio e il marzo 1936 le due di Tembien e quelle dell’Endertà e dello Sciré; il 31 marzo a essere sconfitta nella battaglia di Mai Ceu fu l’armata comandata dallo stesso negus. Il 3 maggio il negus abbandonò il Paese e il 5 Badoglio entrò in Addis Abeba; sicché la guerra ebbe termine. Le facili gesta degli aviatori italiani, tra cui i due figli di Mussolini e suo genero Ciano, furono oggetto di un’accesa propaganda. Il 9 maggio il Duce, parlando di fronte a circa 40 000 romani osannanti proclamò la formazione dell’Impero d’Etiopia, con imperatore Vittorio Emanuele III, con enfatiche parole: Tutti i nodi furono tagliati dalla nostra spada lucente [...]. L’Italia ha finalmente il suo impero. Impero fascista. [...] Impero di civiltà e di umanità per tutte le popolazioni

dell’Etiopia. [...] Il popolo italiano ha creato col suo sangue l’impero. Lo feconderà col suo lavoro e lo difenderà contro chiunque con le sue armi. In questa certezza suprema, levate in alto, o legionari, le insegne, il ferro e i cuori, a salutare, dopo quindici secoli, la riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma 26.

Secondo la testimonianza del maestro della storiografia fascista, Volpe, ad abbracciarsi con lui in una ondata di commozione vi erano gli storici Federico Chabod, Carlo Morandi, Walter Maturi, Ernesto Sestan e Alberto Maria Ghisalberti. Il sovrano decorò il Duce con la Gran Croce dell’Ordine di Savoia perché «condusse e vinse la piú grande guerra coloniale che la storia ricordi». A Badoglio, nominato viceré della nuova colonia, oltre a molto denaro e ingenti beni materiali fu conferito il titolo di duca di Addis Abeba. Gratificato dall’avere sconfitto l’Impero etiopico, una potenza di quart’ordine, il regime si presentò all’Italia come quello che l’aveva finalmente riscattata dalle umilianti sconfitte coloniali e non solo coloniali subite nell’epoca liberale. Quando il 30 giugno l’imperatore etiopico chiese a quella stessa Assemblea della SdN che aveva condannato l’Italia come Paese aggressore di non riconoscere la conquista italiana, ne ottenne un rifiuto che rese plateale il premio dato alla pura forza. La Società delle Nazioni, ormai di fronte al fatto compiuto, doveva decidere se mantenere le sanzioni o riconoscere l’annessione dell’Etiopia all’Italia. Il 4 luglio votò l’abolizione delle sanzioni, seguendo l’indicazione dei governi inglese e francese. In seguito i singoli Paesi riconobbero l’annessione. In Italia e all’estero il prestigio di Mussolini raggiunse il culmine. Agli inizi del 1937 nella quasi totalità dell’Etiopia erano stati spenti gli ultimi focolai di resistenza tenuti accesi da bande di guerriglieri che operavano unicamente nello Scioà. Ma un attentato compiuto il 19 febbraio ad Addis Abeba contro Graziani, nominato viceré dopo la partenza di Badoglio, da giovani etiopi che in occasione di un’affollata cerimonia lanciarono contro di lui delle bombe a mano, ferendolo assieme a una cinquantina di altri e facendo sette morti, provocò una rappresaglia di estrema ferocia. Prima i soldati aprirono il fuoco contro la folla, poi venne dato il via libera a squadre armate, composte anche da civili, che uccisero in maniera indiscriminata un numero imprecisato di persone, forse intorno alle 3000, e devastarono e incendiarono numerose abitazioni e chiese. Fu solo l’inizio.

Infatti seguirono centinaia di fucilazioni di notabili e giovani sospetti, mentre altri 3000 abissini furono rinchiusi in campo di concentramento e circa 400 notabili deportati in Italia. La conclusione trionfale per il regime della guerra d’Etiopia inferse un duro colpo alle forze dell’opposizione antifascista. Un segno quanto mai significativo fu il fatto che nel giugno-agosto 1936 lo stesso gruppo dirigente del Partito comunista rivolgesse dalle colonne dello «Stato Operaio» un appello ai «fascisti nostri fratelli di lavoro e di sofferenze» per salvare l’Italia «dalla catastrofe», difendere la pace e arrivare alla «riconciliazione del popolo italiano». Si proclamava la disponibilità dei comunisti «a combattere assieme a voi e a tutto il popolo italiano per la realizzazione del programma fascista del 1919»: «un programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori», cosí da ristabilire «l’unità della Nazione» 27. Appello che cadde naturalmente nel nulla. Dopo il maggio 1936 il dittatore si sentiva ormai cosí fiducioso nella saldezza del proprio potere personale e nel fatto che il fascismo si confondeva totalmente nel “mussolinismo”, da pensare – secondo le testimonianze di Grandi e di Federzoni – niente meno che alla possibilità di disfarsi della monarchia: posizione a cui lo spingevano Starace e Ciano. Nel 1938, quando era in atto il contrasto tra il regime e la Chiesa in relazione al ruolo dell’Azione cattolica e alle leggi razziali, egli avrebbe espresso un analogo atteggiamento verso il Vaticano. Queste posizioni – spia delle ambizioni frustrate di Mussolini – erano chiaramente il frutto di una esaltazione tanto narcisistica quanto velleitaria, che quasi incredibilmente sottovalutava sia la forza che conservavano nello Stato la monarchia e nel Paese il Vaticano, sia il fatto che il regime non poggiava su una classe dirigente fascista in grado e anche disposta a percorrere la strada di Hitler nella concentrazione di tutti i poteri nelle proprie mani.

11. La guerra civile spagnola e l’intervento dell’Italia. Era da poco terminata la guerra d’Etiopia che l’Italia si trovò militarmente impegnata in Spagna a sostegno della ribellione dei nazionalisti contro il legittimo governo repubblicano sostenuto dalle forze che nel febbraio 1936 avevano vinto le elezioni. Nel corso degli anni Venti e nella

prima metà dei Trenta la Spagna aveva conosciuto lotte politiche e sociali molto aspre. Nel 1923 il generale Miguel Primo de Rivera, con l’appoggio del re Alfonso XIII aveva imposto la sua dittatura, che sarebbe durata fino agli inizi del 1930. Ma una svolta clamorosa era avvenuta col successo dei partiti repubblicani alle elezioni amministrative dell’aprile 1931, che aveva indotto il sovrano ad abbandonare il Paese, dove era stata instaurata la repubblica. In giugno la vittoria dello schieramento costituito dalla borghesia repubblicana, dai radicali e dai socialisti alle elezioni politiche aveva portato alla formazione di un governo di coalizione guidato da Manuel Azaña, il quale per un verso provvide a definire la struttura democratica dello Stato, a conferire a esso un carattere laico stabilendo che non veniva piú riconosciuta alcuna religione ufficiale, a decretare l’autonomia della Catalogna; per l’altro a varare una riforma agraria, che andava incontro alle aspettative delle masse rurali, ma ebbe effetti assai limitati. L’esito era stato di suscitare contemporaneamente sia la furibonda risposta della destra reazionaria, appoggiata dal clero e dalla Chiesa, e degli ambienti sociali conservatori, sia la delusione dei contadini poveri. Nel 1933 José María Gil Robles aveva fondato la Confederazione spagnola delle destre autonome e José Antonio Primo de Rivera, monarchico e figlio di Miguel, la Falange, un partito di ispirazione fascista. Le elezioni del novembre 1933 riportarono la destra, che passò da 42 a 207 deputati, al potere. Iniziò quello che venne denominato il bienio negro, nel corso del quale le riforme introdotte dal precedente governo furono cancellate e il tenore di vita delle masse popolari subí un deciso abbassamento. Ne seguirono agitazioni promosse principalmente dagli anarchici, che in Spagna, e soprattutto in Catalogna, godevano di un forte seguito. Il culmine di queste agitazioni fu raggiunto con la rivolta dei minatori delle Asturie tra il 5 e il 17 ottobre 1934, spenta in maniera sanguinosa con l’intervento di truppe di colore e della Legione straniera, che uccisero circa 3000 insorti. La risposta alla politica della destra e delle forze economiche che la sostenevano fu, in vista delle elezioni del febbraio 1936, la formazione di un “Fronte popolare” assai composito di borghesi di orientamento repubblicano-democratico, socialisti, comunisti di osservanza moscovita, comunisti antistalinisti e anche anarchici che per la prima volta accettarono di partecipare a una competizione elettorale. Lo stesso sistema elettorale che nel novembre 1933 aveva favorito la destra, nel febbraio 1936

sortí l’effetto opposto, dando al Fronte 267 seggi e alla destra 132. La vittoria in sede parlamentare era netta, ma le divisioni tra le componenti repubblicane di matrice borghese e quelle della sinistra socialista e comunista, decise a imprimere una svolta sociale radicale alla linea del nuovo governo, erano profonde. La clamorosa sconfitta della destra infiammò le masse, che si mossero con grande violenza contro coloro che consideravano i loro oppressori: proprietari, ecclesiastici, funzionari. Molti di questi vennero uccisi e abitazioni di persone ricche o anche solo abbienti, chiese, conventi vennero assaltati e dati alle fiamme. Mentre il governo era impotente a fronteggiare gli avvenimenti, i comandi militari legati alla destra, i gruppi monarchici e fascistoidi fecero piani per scatenare una reazione armata e presero contatti con l’Italia fascista e la Germania nazista per ottenerne l’appoggio. La situazione precipitò quando alcuni socialisti, che intendevano vendicare un loro compagno ucciso da uomini della Falange, assassinarono il 13 luglio Calvo Sotelo, esponente di primo piano della destra alle Cortes. Tra il 17 e il 19 luglio ebbe inizio l’insurrezione dei militari golpisti. Con mezzi di trasporto forniti dall’Italia e dalla Germania, reparti marocchini e della Legione straniera sbarcarono dall’Africa in Spagna, unendosi a reparti infedeli dell’esercito metropolitano. Cominciò cosí la guerra civile spagnola, che si sarebbe conclusa nel marzo 1939 con la vittoria delle forze ribelli. Tra i generali golpisti emerse infine il generale Francisco Franco, proclamato in settembre «generalissimo». In Francia era allora capo di un governo di Fronte Popolare il socialista Léon Blum, che palesemente simpatizzava per i repubblicani, i quali si rivolsero a lui nella speranza di ottenere consistenti aiuti militari. Sennonché Blum, il cui Paese era a sua volta in preda ad acuti conflitti politici e sociali e dove le forze di destra erano accesamente ostili alla Repubblica spagnola, non poté, anche per la contrarietà dei comandi militari, che inviare soccorsi assai limitati e soprattutto poche armi. Nell’agosto 1936 fu lo stesso Blum – per evitare aiuti massicci da parte di Italia e Germania – a proporre alle grandi potenze una linea di «non intervento», a cui aderirono la Gran Bretagna, dove il governo conservatore parteggiava apertamente per gli insorti, e le due potenze fasciste, che però violarono impunemente in grande stile il patto pur sottoscritto. Dopo aver riconosciuto il governo di Franco, in novembre l’Italia firmò con esso un protocollo segreto, nel quale si affermava che il governo fascista e il governo

franchista, «uniti nella lotta comune contro il comunismo», intendevano collaborare in nome dell’«ordine politico e sociale dell’Europa» e che «il governo fascista continuerà a prestare aiuto e assistenza al governo nazionalista spagnolo». Mussolini – che, spinto inizialmente soprattutto dalla volontà di impedire il saldarsi di un asse tra i governi di Fronte popolare di Spagna e di Francia, vide poi nella vittoria dei franchisti la premessa della formazione di uno Stato fascistoide nell’era del trionfo del fascismo in Europa – fece inviare, con l’etichetta di “volontari”, un corpo di spedizione denominato Corpo truppe volontarie, sotto il comando del generale Mario Roatta, composto inizialmente da 35 000 uomini, e che sarebbe poi arrivato a 60 000, con una larga dotazione di aerei, cannoni, automezzi e unità navali. Hitler, ansioso di sperimentare la qualità dei nuovi armamenti tedeschi, assunse un impegno molto minore mettendo a disposizione circa 6000 uomini (aviatori, carristi e tecnici), con aerei, carri armati e artiglierie, lasciando all’Italia il compito di sostenere con forze assai maggiori i nazionalisti. Di fronte alla “buffonata” del non intervento, ad appoggiare la Repubblica in maniera consistente, sebbene molto inferiore rispetto a Italia e Germania, fu l’Unione Sovietica, che, sotto la copertura dell’Internazionale comunista, inviò un migliaio di uomini – consiglieri politici e militari, tecnici e aviatori – con armamenti vari, automezzi e carburante. L’unico altro Paese a fornire limitati aiuti alla Repubblica fu il Messico. La guerra civile spagnola ebbe un’importante conseguenza. Comunicò ai regimi nazista e fascista il messaggio che con essa si era aperto in Europa un doppio confronto da un lato tra il fascismo internazionale e la decadente democrazia liberale incarnata dalla Gran Bretagna e dalla Francia, dall’altro tra il fascismo e la sinistra socialista e comunista. Ma il messaggio sul significato internazionale della guerra venne percepito anche dal fronte opposto dell’antifascismo italiano e internazionale nelle sue varie componenti. Se i fascisti videro nella vittoria di Franco in Spagna la conferma dell’irresistibile dinamismo della tendenza storica di cui erano stati gli antesignani, negli antifascisti si radicò la convinzione che bisognava prepararsi alla prossima inevitabile crisi europea dalla quale sarebbe scaturito il confronto decisivo con i loro nemici e le forze loro alleate. Fu cosí che la guerra civile spagnola assunse un carattere ideologico generale. Se l’Italia mussoliniana intervenne massicciamente a favore dei franchisti, gli antifascisti italiani presero un posto significativo tra coloro che, provenienti

da un gran numero di Paesi, accorsero per difendere la Repubblica spagnola con il sostegno determinante della Terza Internazionale che organizzò le Brigate internazionali. L’antifascismo italiano conobbe in questo contesto il suo risveglio alla luce della parola d’ordine lanciata da Carlo Rosselli nel novembre 1936: «Oggi in Spagna, domani in Italia». Nelle file degli oltre 3000 volontari italiani giunti a combattere in Spagna vi furono Rosselli, il leader di Giustizia e Libertà, il repubblicano Randolfo Pacciardi, i socialisti Nenni e Fernando De Rosa, i comunisti Vittorio Vitali, Luigi Longo e Togliatti, l’anarchico Camillo Berneri. Lo scontro diretto tra fascisti e antifascisti italiani trovò dunque la sua espressione anche in Spagna. Qui i primi disponevano di una grande superiorità di mezzi, ma i secondi erano molto piú motivati. Umiliante fu la sconfitta inflitta dai repubblicani, in cui un ruolo importante ebbero gli antifascisti italiani, alle truppe del corpo di spedizione mussoliniano affiancate da forze franchiste nella battaglia di Guadalajara, che si protrasse dall’8 al 18 marzo 1937. Le prestazioni militari dei cosiddetti “volontari” italiani, comandati da ufficiali dell’esercito e della milizia, furono in generale molto mediocri, anche perché reclutati in grande maggioranza tra disoccupati e poveri, privi di addestramento adeguato; tanto che il generale Roatta, alla vigilia della battaglia di Guadalajara, aveva osservato come i reparti «difettino sovente di “mordente” e di aggressività, e si lascino con facilità impressionare dalle vicende del combattimento», dimostrandosi «apatici, passivi, ed ispirati al programma utilitario e pacifista, indegno del conduttore italiano di uomini dell’anno XV dell’Era fascista, del “tira a campà”» 28. Mentre era ancora in corso la guerra, il regime fascista prese la sua vendetta nei confronti di Carlo Rosselli. Questi, ammalato, si era recato in Francia per curarsi. Il 9 giugno 1937, in prossimità di Bagnoles-sur-l’Orne, dietro mandato dei servizi segreti italiani venne assassinato, insieme con il fratello Nello, da un gruppo di cagoulards («incappucciati»), terroristi di destra al soldo fascista. Di fronte alla netta inferiorità di uomini e mezzi, nel dicembre 1938 l’esercito repubblicano entrò in una crisi via via maggiore, che trovò la sua conclusione con l’ingresso a Madrid delle truppe franchiste il 28 marzo 1939. Il bilancio della guerra spagnola fu pesante per gli italiani dei campi opposti. Le truppe fasciste contarono 3819 morti e tra 11 000 e 12 000 feriti; gli antifascisti ebbero oltre 500 morti e circa 2000 feriti. Per l’Italia il consumo

di armamenti fu molto pesante e il costo finanziario si aggirò intorno ai nove miliardi. Già usurato dalla guerra d’Etiopia, l’esercito lo fu ulteriormente dall’intervento in Spagna, che contribuí notevolmente alla sua debolezza al momento dell’ingresso dell’Italia nella guerra mondiale nel giugno 1940. La formazione in Spagna del regime dittatoriale franchista venne considerata da Mussolini come un successo storico del fascismo internazionale. A benedire con toni enfatici la vittoria dei nazionalisti spagnoli fu anche Pio XII, che in un messaggio a Franco diceva: Con immenso gaudio ci dirigiamo a voi, figli dilettissimi della cattolica Spagna, provati da tante e cosí generose sofferenze, per esprimervi le nostre paterne felicitazioni per il dono della pace e della vittoria con cui Dio si è degnato di coronare l’eroismo cristiano nella vostra fede e carità. [...] I disegni della Provvidenza, amatissimi figli, sono tornati a manifestarsi ancora una volta nell’eroica Spagna 29.

Dal canto suo l’antifascismo internazionale, nonostante la sconfitta subita, aveva dimostrato per la prima volta di saper resistere militarmente all’espansione violenta del fascismo, del nazismo e dei loro alleati. Ma aveva anche messo in luce le profonde divisioni e contrapposizioni tra le sue diverse e persino opposte correnti: da un lato quelle moderate e conservatrici liberaldemocratiche di matrice borghese e socialiste riformiste; dall’altro quelle socialiste radicali, comuniste e anarchiche a loro volta fortemente divise e attraversate da divergenze tanto acute da indurre i comunisti staliniani a combattere in vari momenti della guerra civile contro i comunisti antistaliniani e gli anarchici, come avvenne in primo luogo nelle tragiche giornate di Barcellona del maggio 1937. Si trattava di conflitti interni al fronte antifascista e antinazista destinati a riemergere nel corso della Seconda guerra mondiale.

12. L’«asse Roma-Berlino» e il patto anti-Komintern. La guerra civile spagnola e l’intervento italo-tedesco a fianco dei nazionalisti costituirono una tappa decisiva nel cammino verso una sempre piú stretta intesa fra l’Italia e la Germania, con la conseguenza di indurre Mussolini a rinunciare definitivamente alla precedente politica di

contenimento della minaccia nazista in Europa. Questa svolta avrebbe trovato la sua prima clamorosa espressione nel totale cedimento al disegno di Hitler di annettere l’Austria al Reich. Dopo una serie di colloqui italo-tedeschi svoltisi a Roma alla fine del settembre 1936, Ciano, che in giugno era stato nominato ministro degli Esteri, fra il 21 e il 24 ottobre stipulò a Berlino l’accordo che venne chiamato l’«Asse Roma-Berlino». I punti su cui esso si basava erano: la permanenza solo piú formale dell’Italia nella Società delle Nazioni; l’impegno comune a lottare contro il «pericolo bolscevico» e a sostenere Franco nella guerra civile spagnola; la collaborazione economica nei Balcani e nella soluzione della questione austriaca; il riconoscimento tedesco dell’Impero d’Etiopia. A completamento della sua strategia delle alleanze, il 25 novembre la Germania firmò con il Giappone in funzione antisovietica il patto antiKomintern (Internazionale comunista), a cui si uní l’Italia il 6 novembre 1937; cosí che a quel punto l’asse Roma-Berlino e l’asse Berlino-Tōkyō vennero a confluire in un unico asse: Roma-Berlino-Tōkyō. L’11 dicembre infine l’Italia annunciò il ritiro dalla Società delle Nazioni. Data la potenza senza paragone maggiore di Germania e Giappone, l’Italia fascista si trovò di fatto come un vaso di coccio tra vasi di ferro. Inseguendo una politica dei contrappesi destinata a rivelarsi troppo contraddittoria e alla luce del fatto che la politica inglese del “lasciar fare” agli italiani in Spagna sembrava creare presupposti favorevoli, essa si sforzò di conservare buoni rapporti con la Gran Bretagna governata dai conservatori. Il 2 gennaio 1937 era stato firmato un gentlemen’s agreement fra i due Paesi che escludeva «ogni proposito di modificare [...] lo status quo» nel bacino del Mediterraneo. In sostanza con questo accordo i due Paesi si impegnavano a mantenere in quell’area l’assetto vigente, riconosciuto vitale per entrambi.

13. La distruzione dell’Austria e della Cecoslovacchia. Il trionfo della Germania. Alla fine del 1937 Hitler poteva considerare realizzata la prima fase del suo programma: la ricostituzione della potenza tedesca fondata sull’accettazione da parte delle altre potenze della Germania posta su una base di piena parità. Egli si apprestò quindi ad attuare la seconda fase:

l’unificazione nel Terzo Reich di tutti i tedeschi europei viventi al di fuori dei suoi confini, nella grande maggioranza in Austria e nei Sudeti appartenenti alla Cecoslovacchia. Mentre la Gran Bretagna conservatrice conduceva verso la Germania nazista una politica di appeasement, nella vana convinzione che, ritornata a una posizione di prestigio, essa si sarebbe sentita appagata dal suo reinserimento nel gioco degli equilibri europei, Hitler si apprestò a intraprendere la scalata nella direzione opposta, ovvero della rottura di quegli equilibri, ponendo i passi iniziali della costruzione di un «nuovo ordine europeo» sotto l’egemonia tedesca. In una riunione segreta con alti esponenti militari e politici, il 5 novembre 1937 affermò che l’acquisizione dello «spazio vitale» indispensabile alla Germania poteva essere ottenuta unicamente ricorrendo alla forza, e indicò nell’annessione dell’Austria e dei Sudeti e nell’annientamento della Cecoslovacchia i primi concreti obiettivi. Il dittatore prospettò inoltre la necessità storica della guerra con Gran Bretagna e Francia. Sennonché questa incontrò la resistenza del ministro della Guerra Werner von Blomberg, del capo delle forze armate Werner Fritsch e del ministro degli Esteri Konstantin von Neurath. Per stroncare senza indugio le opposizioni ai suoi piani, Hitler destituí i primi due sotto il peso di scandali umilianti. Quanto a Neurath, egli venne sostituito nel febbraio 1938 da Joachim von Ribbentrop; sostituzione che stava a indicare una piú integrale nazificazione della politica estera. Il comando dell’esercito fu riorganizzato cosí da assicurare a Hitler l’assoluto controllo. Il 12 febbraio 1938 il cancelliere austriaco Schuschnigg, su invito ultimativo di Hitler, si recò a Berchtesgaden, residenza del Führer. Questi lo minacciò apertamente, imponendogli di fare entrare nel governo, nella posizione chiave di ministro degli Interni, il capo dei nazisti austriaci, Arthur Seyss-Inquart, e di accettare un accordo economico che subordinasse l’economia austriaca a quella tedesca. Schuschnigg firmò l’accordo. Espresse però l’intenzione di indire un plebiscito pro o contro l’annessione dell’Austria alla Germania; ma le minacce hitleriane lo dissuasero e quindi si dimise da cancelliere l’11 marzo. Il suo posto venne preso da Arthur SeyssInquart, che formò un governo provvisorio e il giorno stesso inviò un telegramma a Hitler chiedendogli di intervenire in Austria per salvare il Paese dal «caos». Il 12 marzo le truppe tedesche invasero l’Austria, che il 13 venne unita al Reich come «Ostmark» (provincia di Levante). Il 10 aprile un plebiscito, con il 99% dei consensi, sanzionò l’Anschluss («annessione») del

Paese: nessuna delle grandi potenze intervenne. Mussolini, che in passato aveva assunto le vesti di protettore dell’Austria, lasciò fare; anzi, fece sapere a Hitler che il destino di quel Paese gli era ormai «indifferente», inducendolo a rispondere che non avrebbe «mai dimenticato» questo atto di generosità. La Gran Bretagna, dove capo del governo era il conservatore Neville Chamberlain, accettò il fatto compiuto, sempre nella convinzione che una Germania piú soddisfatta nella sua «naturale sfera di influenza» sarebbe stata meno aggressiva nei confronti di Gran Bretagna e Francia. L’atteggiamento di inerte complicità di Mussolini nell’affare austriaco fu la prova che ormai l’Italia fascista si era posta al carro della Germania nazista. In Italia l’annessione dell’Austria alla Germania, percepita come una capitolazione all’aggressività di questa, provocò timori e reazioni negative non solo nella massa dei cittadini ma anche in esponenti dell’élite dirigente fascista, tra i quali vi era in prima fila Balbo. Hitler, inglobata l’Austria, poteva ora volgersi a smembrare la Cecoslovacchia. Lo Stato cecoslovacco, sorto nel 1919, comprendeva una minoranza tedesca di circa 3,5 milioni di abitanti, insediati nei Sudeti. Nel 1935 da un originario Fronte patriottico dei Sudeti era sorto un Partito tedesco dei Sudeti, che nell’aprile 1938, dopo l’Anschluss dell’Austria, avanzò la richiesta di una serie di autonomie, con l’appoggio della stampa tedesca tutta volta a protestare contro le angherie cui i cechi sottoponevano i “fratelli tedeschi”. In maggio, dopo lo scoppio di gravi disordini nella regione, la situazione precipitò, tanto che i cechi, che avevano un notevole esercito protetto da grandi fortificazioni, lo mobilitarono, contando sul fatto che il loro Paese era legato alla Francia da un patto di alleanza e sull’appoggio della Gran Bretagna. Ma Chamberlain fece sapere che l’Impero britannico non avrebbe combattuto per «un lontano Paese del quale sappiamo poco». Hitler ebbe cosí via libera; e i cechi cedettero alla richiesta di autonomia dei Sudeti. Ciò non bastò a soddisfare Hitler, che ora, minacciando un intervento militare, pretese l’annessione dei Sudeti al Reich. Una politica cosí bellicosa nei confronti della Cecoslovacchia provocò una nuova crisi all’interno dei comandi delle forze armate tedesche, con le dimissioni il 18 agosto del capo di Stato maggiore Ludwig Beck. Chamberlain dal canto suo prese l’iniziativa di un incontro con Hitler a Berchtesgaden il 15 settembre. Il risultato fu che egli accettò la richiesta tedesca e fece pressione sulla Francia perché l’accettasse a sua volta; sia la Gran Bretagna sia la Francia, che venne cosí meno al trattato

stipulato con i cechi, indussero la Cecoslovacchia a capitolare. Nei giorni 2223 settembre Chamberlain incontrò nuovamente a Bad Godesberg Hitler, che ora gli fece sapere di voler occupare militarmente entro il 1 o ottobre il territorio dei Sudeti. A questo punto, essendo chiaro che la Germania intendeva stravincere e la Cecoslovacchia, per parte sua, era decisa a resistere, si profilò il pericolo di un conflitto europeo. Dopo che i cechi avevano mobilitato l’esercito, anche la Francia e la Gran Bretagna presero misure militari. Chamberlain fece un ultimo tentativo. Pregò Mussolini di fare da mediatore presso Hitler. Il Duce accettò, per cui si arrivò alla conferenza a Monaco di Baviera del 29-30 settembre, alla quale parteciparono Hitler, Mussolini, il presidente del Consiglio francese Daladier e Chamberlain. I cechi, oggetto delle trattative, furono esclusi. Esclusa dalla conferenza fu anche l’Unione Sovietica. Mussolini si adoperò perché venisse accolto quanto chiedeva Hitler, che l’ottenne. Gli accordi di Monaco, salutati dall’Europa conservatrice e filofascista come provvidenziali per aver salvaguardato la pace – con grande prestigio per il “mediatore” Mussolini – furono null’altro che la copertura diplomatica della resa a tutte le pretese tedesche e dello strangolamento della Cecoslovacchia. Il ritorno del Duce in treno fu accompagnato da manifestazioni di entusiasmo per il salvatore della pace, il quale ne rimase, anziché compiaciuto, profondamente indispettito in quanto chiara testimonianza che gli italiani erano ben lungi dall’essere animati da quello spirito guerriero che il dittatore si era invano sforzato di infondere in loro. Alla Germania vennero cedute una vasta area della Boemia nella quale vivevano i tedeschi dei Sudeti e varie centinaia di migliaia di cechi, con tutte le principali fortificazioni costruite dalla Cecoslovacchia a sua difesa; ebbero il loro bottino anche la Polonia e l’Ungheria, che si impadronirono di alcune regioni del Paese. Il 1 o ottobre le truppe tedesche penetrarono nei Sudeti. Dopo questo accordo, condotto a danno di un popolo che era stato oggetto di mercato da parte delle potenze, Gran Bretagna e Germania si impegnarono a risolvere mediante negoziati qualsiasi possibile divergenza; e il 6 dicembre Francia e Germania firmarono un trattato di reciproca garanzia delle frontiere con l’impegno a dirimere pacificamente a loro volta ogni eventuale controversia. Hitler aveva trionfato su tutta la linea. A differenza di Chamberlain, convinto che la Germania fosse ormai soddisfatta di quanto ottenuto, Winston Churchill – esponente del Partito

conservatore che, dopo avere in passato celebrato il fascismo come la giusta medicina per i Paesi minacciati dal pericolo rosso e osteggiato la causa dei repubblicani spagnoli, aveva compreso come la Germania mirasse non già, come Chamberlain si illudeva, a «riprendere i suoi diritti», ma a dare nuovamente, come un ventennio prima, l’assalto al potere mondiale sfidando gli assetti costituiti e minacciando gli interessi diretti della Gran Bretagna – il 5 ottobre 1938 alla Camera dei Comuni, commentando gli accordi di Monaco, affermò: Ci troviamo di fronte a un disastro di prima grandezza che si è abbattuto sulla Gran Bretagna e sulla Francia. Non inganniamoci su questo. Adesso bisogna accettare che tutti i paesi dell’Europa centrale e orientale vengano a patti come meglio possono con il potere nazista trionfante. [...] Non pensate che sia finita; questo è solo l’inizio della resa dei conti, solo il primo passo, un assaggio dell’amaro calice che ci verrà propinato anno per anno, se non risorgeremo per difendere la libertà come in passato, ritrovando con uno sforzo supremo la salute morale e il vigore marziale 30.

Nel marzo 1939 la situazione si aggravò ulteriormente in Cecoslovacchia. Inserendosi nei contrasti fra cechi e slovacchi, il 14-16 marzo – proprio mentre in Spagna i nazionalisti di Franco stavano vincendo la partita –, Hitler fece occupare Praga dalle truppe tedesche e stabilí il «Protettorato del Reich sulla Boemia e Moravia», mentre la Slovacchia proclamò la propria indipendenza, riducendosi alla condizione di satellite della Germania, con la quale firmò un trattato di amicizia. La Cecoslovacchia era stata distrutta dall’espansionismo tedesco e dalla capitolazione di Gran Bretagna e Francia con la complicità dell’Italia. Prima di allora, Hitler aveva potuto far credere di voler solo riunire nel Reich tutti i “fratelli tedeschi”; ma stabilire il protettorato su Boemia e Moravia costituiva la piú palese espressione di un espansionismo imperialistico frutto della volontà di arrivare ormai alla resa dei conti con le potenze occidentali e con l’Unione Sovietica per mutare in modo definitivo la carta geopolitica dell’Europa. In Gran Bretagna, questa volta, anche l’opinione pubblica conservatrice reagí. Chamberlain mise in guardia Hitler, invitandolo a fermarsi; il 17 marzo disse che la volontà inglese di evitare una guerra aveva limiti ben precisi. Mussolini, che dopo Monaco non era stato messo al corrente da Hitler delle sue intenzioni di procedere all’annientamento della Cecoslovacchia (non era che l’inizio di un

atteggiamento che si sarebbe in seguito ripetutamente rinnovato), rimase profondamente irritato e frustrato; mentre in Italia ancora una volta in tutti gli strati sociali e nei vertici fascisti si diffuse l’ostilità verso l’aggressività dei nazisti. Ciano reagí scrivendo nel suo Diario che era venuta l’ora che l’Italia reagisse all’umiliazione inferta dall’espansionismo tedesco inglobando l’Albania e prospettò inoltre l’opportunità di stabilire nuovi rapporti con la Francia e la Gran Bretagna. Ma la conclusione fu la totale acquiescenza alla politica della Germania. Sennonché il crescendo degli appetiti hitleriani non cessò. Il 21 marzo la Germania rivolse alla Polonia la richiesta di ottenere Danzica e il diritto di extraterritorialità del corridoio fra la città e il Reich, cui la Polonia oppose un netto rifiuto. Pochi giorni dopo, il 23 marzo, truppe tedesche occuparono il distretto di Memel, di popolazione tedesca, sottraendolo alla Lituania. Fu a questo punto che Chamberlain fissò i limiti della tolleranza britannica, che tanto aveva giovato a far deteriorare la situazione. Parlando il 31 marzo ai Comuni disse che «nel caso di un’azione che minacciasse apertamente l’indipendenza della Polonia» il governo britannico, congiuntamente a quello francese, avrebbe dato «ogni sostegno» a quel Paese. Mussolini era ridotto al ruolo di un osservatore inerte.

14. Dal «patto d’acciaio» al patto nazi-sovietico. Liquidata la Cecoslovacchia, Hitler si volse dunque con la massima determinazione alla questione polacca, nonostante il rifiuto della Polonia di cedere Danzica e l’ammonimento della Gran Bretagna. Danzica, una “città libera” con una popolazione in maggioranza tedesca, il cui territorio spezzava la continuità fra la Prussia orientale e il resto del Reich, doveva diventare germanica. La tecnica hitleriana seguí le linee già sperimentate nella questione ceca. Il 28 aprile 1939 Hitler denunciò il patto tedesco-polacco del 1934, avendo già dato il 3 aprile alla Wehrmacht l’ordine di prepararsi all’invasione della Polonia. A Danzica gruppi nazisti si diedero a fomentare incidenti a catena, mentre in Germania si denunciava l’oppressione polacca contro la minoranza tedesca. In realtà il conflitto per Danzica era un pretesto. Hitler lo disse chiaramente il 23 maggio ai capi militari, invitandoli a prepararsi a una guerra generale.

A questo punto, anche l’imperialismo italiano si mise in movimento. Mussolini aveva seguito con un misto di ammirazione e di frustrazione la marcia tedesca prima in Austria e poi in Cecoslovacchia ed era perciò ansioso di dare anch’egli prove della sua forza e di avere un suo bottino. A fine novembre 1938 in Italia fu scatenata una campagna contro la Francia, verso cui si avanzavano rivendicazioni riguardanti la Tunisia, la Corsica, Nizza e la Savoia. In concreto, l’Italia passò all’azione in Albania, lo Stato satellite retto da re Ahmed Zogu. Il 6 aprile 1939 ebbe inizio l’invasione: il re fuggí in Grecia e il 12 un’assemblea di notabili riunita a Tirana offrí la corona a Vittorio Emanuele III, che il 16 assunse il titolo di re d’Albania. Fin da questa modesta operazione militare apparve evidente qual era lo stato reale dell’esercito italiano: una macchina farraginosa e inefficiente. Il 13 la Gran Bretagna pose formalmente la Grecia sotto la propria protezione. Dal canto suo il presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, preoccupato da quanto avveniva in Europa, il 15 indirizzò a Hitler e Mussolini un messaggio in cui si chiedeva di dare garanzie di pace per il futuro, ottenendo una risposta sostanzialmente derisoria. Il 22 maggio 1939 le due potenze fasciste strinsero un «Patto di amicizia e di alleanza tra l’Italia e la Germania», che venne definito «patto d’acciaio», firmato a Berlino dai due rispettivi ministri degli Esteri Ciano e Ribbentrop. Questo patto mise l’Italia alla mercé dei piani piú aggressivi della Germania, in quanto all’art. 3 stabiliva: Se, malgrado i desideri e le speranze delle Parti Contraenti, dovesse accadere che una di Esse venisse trascinata in complicazioni belliche con un’altra o con altre Potenze, l’altra Parte Contraente si porrà immediatamente come Alleato al suo fianco e la sosterrà con tutte le sue forze militari per terra, per mare e nell’aria.

Si ribadiva altresí l’impegno delle parti a non concludere una pace separata «se non in pieno accordo tra loro» nell’eventualità di una guerra. E infine si esaltavano le affinità ideologiche dei due regimi, la loro solidarietà nell’assicurare «la sicurezza del loro spazio vitale» e la comune missione nell’«adempiere al loro compito di assicurare le basi della civiltà europea» 31. Ma proprio mentre firmava il patto, l’Italia era del tutto impreparata a una guerra europea. Nel 1939, il suo armamento, fortemente compromesso dalla guerra d’Etiopia e dall’intervento in Spagna, era comparativamente inferiore

a quello che aveva quando era intervenuta nella Prima guerra mondiale. Di questa inferiorità militare il fascismo era consapevole, tanto che Mussolini con un memoriale del 30 maggio fatto pervenire a Hitler tramite il generale Ugo Cavallero fece sapere ai tedeschi che essa sarebbe stata pronta alla guerra non prima di tre anni. Dopo che Hitler ebbe distrutto la Cecoslovacchia e stabilito il protettorato della Germania sulla Boemia e Moravia, Francia e Gran Bretagna mostrarono un nuovo interessamento verso l’Unione Sovietica, la quale però, essendo stata esclusa dagli accordi di Monaco, era animata da una forte e comprensibile diffidenza e nutriva il sospetto che la cedevolezza delle potenze occidentali verso Hitler potesse nascondere il “via libera” ai nazisti in direzione dell’Oriente. Di fronte al crollo dell’illusione che le enormi concessioni avessero appagato la Germania, le potenze occidentali avviarono in aprile, con cautela e scarsa convinzione, negoziati con l’Unione Sovietica, che il 17 aprile propose un’alleanza con Gran Bretagna e Francia. I negoziati si protrassero, rivelandosi fin dall’inizio assai difficili. Le due potenze occidentali procedettero con esasperante lentezza; e si dimostrarono riluttanti nell’affrontare due scogli di vitale importanza per i sovietici: indurre il governo polacco che, per quanto minacciato dalla Germania, restava violentemente antisovietico, a consentire il transito dell’Armata Rossa sul suo territorio in caso di aggressione tedesca (il rifiuto polacco fu netto); estendere anche alla Polonia la garanzia data agli Stati baltici, dai quali i nazisti avrebbero potuto lanciare un’invasione verso Est. Il 21 agosto, in mancanza di intesa, le trattative vennero ufficialmente interrotte. A quel punto Stalin, convinto che la guerra stesse avvicinandosi a grandi passi e constatato che le potenze occidentali non agivano con la necessaria determinazione, compí il “salto della quaglia”: con un realismo e cinismo pari a quelli di Hitler, decise – mettendo da parte la tradizionale ostilità antisovietica della Germania culminata nel patto anti-Komintern – di accettare le profferte fattegli dal dittatore tedesco, il quale, ormai deciso alla guerra, voleva evitare l’apertura di due fronti accordandosi con l’Unione Sovietica. Naturalmente l’antibolscevismo dei nazisti rimaneva intatto. Osservando la lentezza e l’inconcludenza delle trattative franco-anglo-sovietiche, fin dal maggio Hitler aveva ricercato un avvicinamento con l’Unione Sovietica, che mostrò al riguardo un serio interesse solo all’inizio di agosto, dopo avere appurato che gli accordi con gli occidentali non si concretavano. Una spia assai

significativa della disponibilità sovietica a un’intesa con la Germania fu l’esonero il 3 maggio di Maksim Litvinov, fautore tenace dell’accordo con Francia e Gran Bretagna, dalla carica di ministro degli Esteri e la sua sostituzione con Vjačeslav Molotov. Ai primi di agosto la Germania offrí all’Unione Sovietica la normalizzazione dei rapporti fra i due Stati. Stalin ordinò alla diplomazia sovietica di stringere le trattative. Egli perseguiva due obiettivi principali: tenere il proprio Paese fuori da una guerra mondiale, consentendogli di portare avanti i suoi preparativi militari; e lasciare che la guerra indebolisse le potenze capitalistiche, aumentando in tal modo il peso internazionale e militare dei sovietici. Cosí il 23 agosto, due soli giorni dopo l’interruzione delle trattative con Gran Bretagna e Francia, quelli che fino ad allora si erano considerati nemici mortali, la Germania nazista e l’Unione Sovietica, con una sorprendente speditezza e lasciando sbalordito il mondo, firmarono a Mosca un patto di non aggressione della durata di dieci anni che, in realtà, aveva il carattere di una vera e propria alleanza. Al testo ufficiale faceva seguito un protocollo segreto – la cui esistenza sarebbe stata negata da parte sovietica fino al crollo dell’Unione Sovietica – con cui i due Stati si accordavano per conseguire i propri obiettivi di potenza a danno in un primo tempo soprattutto della Polonia, di cui si prevedeva la spartizione. Stalin dava cosí mano libera a Hitler all’attacco contro quel Paese e si apprestava a raccogliere a sua volta consistenti vantaggi. Nel protocollo segreto si parlava di delimitazione delle «rispettive sfere di influenza nell’Europa orientale» e si stabiliva che, in una nuova sistemazione territoriale e politica delle zone appartenenti agli Stati baltici (Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania), la frontiera settentrionale della Lituania avrebbe segnato il confine delle sfere di influenza della Germania e dell’Unione Sovietica; e che un’analoga sistemazione dei territori appartenenti alla Polonia avrebbe comportato che le sfere di influenza della Germania e dell’Unione Sovietica sarebbero state delimitate dalla linea dei fiumi Narew, Vistola e San. Infine l’Unione Sovietica otteneva l’assenso della Germania alle eventuali misure che intendesse assumere per salvaguardare i suoi interessi in Bessarabia. Anche in quel caso Hitler tenne Mussolini all’oscuro della sua intenzione di stringere un patto con Stalin. Il 25 agosto la Gran Bretagna e la Polonia firmarono un trattato di alleanza militare. Quello stesso giorno Mussolini fece pervenire un secondo messaggio a Hitler, nel quale ritornava sull’impreparazione militare italiana,

asserendo che l’Italia non sarebbe stata in condizione di intervenire in guerra a meno che la Germania non fornisse «subito i mezzi bellici e le materie prime» per affrontare le forze francesi e inglesi. Ma la Germania, sentendosi ormai le spalle coperte dal patto con l’Unione Sovietica, il 1 o settembre attaccò la Polonia. Al che Gran Bretagna e Francia risposero il 3 settembre dichiarando guerra alla Germania. 1. «Gazzetta Ufficiale», n. 233, 8 ottobre 1931. 2. Atti parlamentari, Legislatura XXVIII, 1 a Sessione, 16 marzo 1928, vol. XIV, pp. 8680-81. 3. Parole pontificie sugli accordi del Laterano, Tipografia de «L’Osservatore Romano», Città del Vaticano 1929, pp. 29-30. 4. Opera omnia, XXIV, p. 105. 5. Il testo della Carta è riportato in R. De Felice, Mussolini il fascista, II. L’organizzazione dello Stato fascista 1925-1929. Appendice, Einaudi, Torino 1968, pp. 542-47. 6. Opera omnia, XXV, pp. 147-48. 7. Opera omnia, XXVI, p. 82. 8. Opera omnia, XXVI, p. 192. 9. Opera omnia, XXIX, pp. 187-92. 10. E. Conti, Dal taccuino di un borghese, Garzanti, Milano 1946, p. 655. 11. Opera omnia, XXII, p. 364. 12. Opera omnia, XXVIII, pp. 29-30. 13. Opera omnia, XXVIII, p. 59. 14. B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano 1991, pp. 433-36. 15. Il testo delle Tesi in Gramsci, La costruzione del Partito comunista 1923-1926 cit., pp. 488513. 16. Gramsci, Quaderni del carcere cit., vol. II, p. 866. 17. Ibid., vol. III, 1975, pp. 2010-11. 18. Opera omnia, XXVI, p. 319. 19. Ibid., p. 327. 20. Il testo in R. De Felice, Mussolini il duce, II. Lo Stato totalitario, 1936-1940. Appendice, Einaudi, Torino 1981, pp. 866-68. 21. Tutte le Encicliche dei Sommi Pontefici, Edizioni Corbaccio, Milano 1940, pp. 1292, 129798. 22. Opera omnia, XXIX, p. 126. 23. La citazione in R. De Felice, Mussolini il duce, II. Lo Stato totalitario 1936-1940 cit., p. 150. 24. Opera omnia, XXII, pp. 385-86.

25. Opera omnia, XXIII, p. 18. 26. Opera omnia, XXVII, pp. 268-69. 27. Le citazioni in R. De Felice, Mussolini il duce, I. Gli anni del consenso 1929-1936, Einaudi, Torino 1996, pp. 774-75. 28. La citazione in G. Ranzato (a cura di), Documenti della storia. Rivoluzione e guerra civile in Spagna 1931-1939, Loescher, Torino 1975, p. 201. 29. Ibid., p. 212. 30. Il discorso citato in M. Gilbert, Churchill, Mondadori, Milano 1992, pp. 382-84. 31. Il testo del patto in De Felice, Mussolini il duce, II. Lo Stato totalitario 1936-1940. Appendice cit., pp. 918-19.

Capitolo decimo L’Italia dall’intervento nella Seconda guerra mondiale al crollo del regime fascista

1. L’Italia dalla «non belligeranza» all’intervento. L’impreparazione militare. Lo scacco dell’attacco alla Francia. Quando scoppiò la Seconda guerra mondiale nel settembre 1939, l’Italia – come si è già sottolineato – era del tutto impreparata, nonostante l’ideologia bellicistica che aveva caratterizzato il regime fin dal suo sorgere. Il Paese non era in grado né finanziariamente né tecnicamente di schierare un esercito pronto a misurarsi con nemici che non fossero di terzo o quart’ordine. Molta parte delle armi leggere e dell’artiglieria risaliva alla Prima guerra mondiale. Mancavano del tutto i carri armati pesanti; e quelli medi e leggeri erano pochi, difettosi e di scarsa potenza. La motorizzazione delle truppe, essenziale in una guerra moderna, era molto al di sotto delle esigenze. La fanteria aveva in dotazione un equipaggiamento, a partire dal vestiario, di qualità scadente. L’addestramento era ispirato a criteri superati; e la preparazione tecnica degli ufficiali specie di complemento lasciava decisamente a desiderare. Relativamente piú elevato era il livello della truppa e degli ufficiali nell’aviazione e nella marina. L’aviazione si trovava comunque in una posizione di inferiorità sia per il numero di velivoli realmente utilizzabili sia per le loro prestazioni in confronto con quelli in dotazione alle forze armate delle maggiori potenze. La marina costituiva il settore piú solido, in quanto disponeva di navi moderne e potenti; eppure anch’essa era gravemente carente per aspetti decisivi: lo scarso coordinamento con l’aviazione, la mancanza di portaerei e il fatto di non disporre del radar, il cui impiego si sarebbe rivelato fondamentale e alla messa a punto del quale si era incredibilmente rinunciato nonostante gli ingegneri ne avessero approntato validi prototipi. L’Italia possedeva la piú numerosa flotta di sottomarini del mondo, ma questi mancavano di strumentazioni adeguate. Le scorte di munizioni e di materie prime erano gravemente insufficienti. Le forze armate italiane erano, come si è già avuto modo di sottolineare, piú deboli nel 1940 di quanto non fossero state nel 1915.

Mussolini aveva ripetutamente fatto presente a Hitler l’impossibilità di un intervento immediato dell’Italia nel conflitto che andava profilandosi, a causa della sua impreparazione militare; ma Hitler non se ne era dato pensiero. Scoppiato il conflitto, l’Italia proclamò il 1 o settembre 1939 la «non belligeranza», vale a dire una sorta di “pace armata”. Si aprí in tal modo per Mussolini e il suo governo una fase contraddistinta da un lato dal desiderio di assistere da una posizione non impegnata all’andamento della guerra, da un’ambiguità che si spinse persino ad accordi economici con la Gran Bretagna e la Francia e a forniture militari a questi Paesi per ottenere valuta pregiata e materie prime, dai tentativi delle potenze occidentali di indurre a trasformare la «non belligeranza» in neutralità; dall’altro dalla crescente sofferenza del dittatore italiano per la posizione di inerzia dell’Italia e dalla sua invidia di fronte agli imprevisti travolgenti successi militari dei tedeschi, dal desiderio che il conflitto si prolungasse senza una rapida vittoria dell’una o dell’altra parte, cosí da dargli la possibilità di recitare il ruolo del mediatore in una pace di compromesso che assicurasse sostanziosi vantaggi all’Italia fascista. Ciò che in nessun caso Mussolini auspicava era una vittoria tedesca che lasciasse ai margini un’Italia risultata inessenziale e mettesse il Paese interamente alla mercé di una strapotente Germania. Il Duce doveva inoltre tener conto dei contrasti interni al gruppo dirigente fascista, diviso fra coloro che chiedevano l’immediato intervento a fianco della Germania e coloro che – come Ciano, che pure era stato il firmatario dell’alleanza con i nazisti – si rendevano conto che una guerra italiana sarebbe stata condizionata dall’inevitabile supremazia della Germania e ritenevano che il conflitto avrebbe potuto essere di lunga durata, mettendo in grave pericolo un Paese debole come l’Italia. Ma Mussolini era tormentato dai fantasmi della neutralità tenuta dall’Italia tra l’agosto 1914 e il maggio 1915, quando questa era parsa agli uni e agli altri incerta, infida e profittatrice. A fine dicembre 1939 Ciano, dopo avere scritto nel suo Diario: «La guerra a fianco della Germania non deve farsi e non si farà mai: sarebbe un crimine e una idiozia. Contro, non ne vedo per ora le ragioni. Comunque, caso mai, contro la Germania. Mai insieme», notava al tempo stesso che il punto di vista di Mussolini, in preda a una irrisolta contraddittorietà, era «esattamente il contrario: mai contro e, quando saremo pronti, insieme per abbattere le democrazie, che, invece, sono i soli Paesi con cui si può fare una politica seria e onesta» 1. Il proprio tormento Mussolini lo manifestò in un

promemoria segreto del 31 marzo 1940, inviato al re, a Badoglio, ai capi di Stato maggiore, a Ciano e al segretario del partito Muti, nel quale, mentre delineava le eventuali linee di azione delle forze armate, scriveva: «l’Italia non può rimanere neutrale per tutta la durata della guerra, senza dimissionare dal suo ruolo, senza squalificarsi, senza ridursi al livello di una Svizzera moltiplicata per dieci», ma «non può fare una guerra lunga» senza dissanguarsi; pertanto (e qui l’Italia di Mussolini rinnovava l’illusione che era stata dell’Italia liberale nel 1915) il suo intervento deve avvenire al momento in cui esso «determini la decisione» di un conflitto destinato a risolversi in tempi brevi 2. Oltre a Ciano all’intervento erano contrari il re, Badoglio, Balbo, Grandi e Bottai. Il contrasto tra la consapevolezza della debolezza militare dell’Italia e il desiderio di non vederla relegata a una posizione tale da liquidarla come grande potenza venne sciolto nel tormentato Mussolini, tenuto all’oscuro anche dalla decisione di Hitler di scatenare l’offensiva generale contro la Francia, dal rapido e da lui del tutto imprevisto e non auspicato crollo militare di questo Paese nel maggio 1940, il quale lo convinse che la vittoria della Germania fosse ormai sicura e che pertanto l’impreparazione dell’Italia costituisse un fattore sostanzialmente trascurabile. Umiliato dal fatto che gli italiani fossero a quel punto «già abbastanza disonorati» 3, deciso ad affermare la sua volontà e il suo potere personali su quanti ai vertici dell’élite politica e militare del regime si opponevano all’intervento, timoroso che un Hitler vittorioso potesse vendicarsi della pusillanimità degli italiani, Mussolini volle a ogni costo che l’Italia, entrando in gioco prima che fosse irrimediabilmente tardi, ottenesse la sua parte del bottino e – secondo quanto riferito da Badoglio – avesse «alcune migliaia di morti da buttare sul tavolo della pace», ritenuta prossima 4. Il 16 maggio, deplorando i pacifisti, i paurosi che «preferirebbero non battersi», disse parlando da Palazzo Venezia: In questo particolare momento, noi che abbiamo sempre predicato da questo balcone la necessità di preparare una gioventú guerriera, esaltando la “selva di baionette”, non possiamo rimanere dietro le persiane 5.

Secondo i piani del dittatore, il Paese avrebbe dovuto condurre una «guerra parallela» a quella tedesca, avente come linee direttrici l’espansione sia nel Mediterraneo – Nizza, Savoia, Corsica, Africa – sia nel settore

danubiano-balcanico. Il 10 giugno 1940, dopo il crollo dell’esercito francese, l’Italia, ignorati i pressanti inviti di Paul Reynaud, di Churchill e di Roosevelt a non compiere il passo, dichiarò guerra alla Francia e alla Gran Bretagna, suscitando il disprezzo di tutte le parti in causa. L’Italia guerriera fascista faceva la parte di un “Maramaldo”. L’ambasciatore francese, all’atto di ricevere da Ciano la dichiarazione di guerra, gli disse: «voi avete atteso che noi fossimo a terra per darci un colpo di pugnale alla schiena». Per giustificare la dichiarazione Mussolini alzò la bandiera della «guerra proletaria» contro le potenze decadenti e plutocratiche. La guerra venne presentata come la continuazione della rivoluzione fascista. Parlando al popolo italiano dal balcone di Palazzo Venezia a Roma, il Duce dichiarò: Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L’ora delle decisioni irrevocabili. […] Questa lotta gigantesca non è che una fase dello sviluppo logico della nostra rivoluzione; è la lotta dei popoli poveri e numerosi di braccia contro gli affamatori che detengono ferocemente il monopolio di tutte le ricchezze e di tutto l’oro della terra; è la lotta dei popoli fecondi e giovani contro i popoli isteriliti e volgenti al tramonto; è la lotta tra due secoli e due idee. […] L’Italia, proletaria e fascista, è per la terza volta in piedi, forte, fiera e compatta come non mai. La parola d’ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed accende i cuori dalle Alpi all’Oceano Indiano: vincere! E vinceremo […]. Popolo italiano! Corri alle armi, e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo valore! 6.

La folla accorsa ad acclamarlo appariva esultante. Ma Bottai annotò nel suo diario: La piazza si gremisce d’una folla ora silenziosa ora tumultuante. Si avverte la fatica dei pochi nuclei volitivi a indirizzare gridi e acclamazioni. Senso d’una quasi stupita disciplina, che il Partito non à saputo illuminare con parole d’ordine. [...] Intorno i gerarchi convenuti presso il balcone, ànno un’aria confusa di circostanza 7.

Lo stato d’animo di molta parte della popolazione italiana alla vigilia della decisione del giugno 1940 era stato di segno negativo. Di contro all’entusiasmo di un’ala di fascisti accesamente mussoliniani, tra i quali i giovani e i giovanissimi sui quali aveva fatto maggiormente presa la propaganda del regime, a temere le incognite dell’intervento erano – oltre alle

personalità del regime sopra menzionate – buona parte dei quadri militari, influenti settori della grande borghesia, la grande maggioranza delle masse lavoratrici operaie e rurali, mentre oscillanti apparivano la media e la piccola borghesia. Diffusi dunque i sentimenti di ansia e di turbamento per quanto potesse riservare il futuro. Ma di fronte alla fulminea sconfitta della Francia, a una Germania che appariva imbattibile, si ebbe un rapido e pressoché generale allineamento della gente comune e della borghesia dietro la decisione ormai sostanzialmente unanime assunta dal dittatore, dai gerarchi, dal re e dai vertici militari, nella persuasione che il costo dell’intervento sarebbe stato minimo, la guerra breve e la messe abbondante: un allineamento che i comunisti dovettero registrare con impotente costernazione. Vi era dunque una non secondaria analogia tra l’intervento dell’Italia nel 1915 e quello nel 1940. In entrambi i casi esso fu deciso quando il governo riteneva che il campo a cui il Paese stava per unirsi stesse prevalendo e nell’ipotesi che il conflitto sarebbe stato breve. Sennonché nel primo caso il calcolo sulle alleanze piú convenienti risultò alla fine vantaggioso, nel secondo caso sbagliato contro tutte le apparenze. Un altro elemento comune fu che entrambi gli interventi, sostenuti da insufficienti risorse politiche, materiali e militari, ebbero quale esito finale di scatenare conflitti tra le varie componenti della società italiana tali da scavare un solco profondo tra classi dirigenti e masse popolari e da provocare il crollo tanto del regime liberale quanto di quello fascista. L’esercito al suo ingresso in guerra nel giugno 1940 aveva una forza di 1 450 000 uomini, che poco dopo salirono a 1,6 milioni, di cui circa 50 000 appartenenti alla Milizia (nel 1943 avrebbero superato i 3 000 000). Contro il fronte delle Alpi, difeso da truppe francesi ancora saldamente attestate dietro valide fortificazioni, nonostante il crollo militare in atto nel loro Paese, mossero oltre 300 000 uomini dell’esercito italiano, che passarono all’attacco il 20 giugno, dopo che il maresciallo Henri-Philippe Pétain aveva già chiesto l’armistizio ai tedeschi. Avverse condizioni atmosferiche e cattiva preparazione fecero sí che l’attacco si risolvesse in notevoli perdite – oltre 600 morti e circa 6000 tra feriti, congelati e dispersi – e scarsi progressi, infrangendosi contro la persistente combattività del nemico. L’unico risultato fu la conquista del piccolo centro costiero di Mentone. Intanto tra il 12 e il 14 giugno l’aviazione inglese aveva bombardato Torino e la flotta francese la costa ligure, senza alcuna capacità di reazione italiana. Il 24 giugno, due

giorni dopo l’armistizio con la Germania, che aveva rifiutato di negoziare in comune con l’Italia le condizioni di armistizio con la Francia, quest’ultima firmò quello con l’Italia. Mussolini – non avendo alcuna stima per i vertici militari e consapevole del fatto che, al di là dell’apparenza, non vi era stata una reale fascistizzazione dell’esercito e della marina – cercò invano di essere investito da Vittorio Emanuele III della carica di comandante supremo delle forze armate, ma dovette accontentarsi del titolo di comandante delle «truppe operanti su tutti i fronti».

2. Il fallimento della «guerra parallela» italiana. Insuccessi in Africa. La sconfitta fascista in Grecia. Ritenendo imminente anche la caduta dell’Inghilterra, l’Italia, come già in occasione del crollo della Francia, voleva trovarsi con qualcosa in mano nell’eventualità di un armistizio anglo-tedesco. Il 26 giugno Mussolini offrí a Hitler un corpo di spedizione in vista della prossima invasione della Gran Bretagna, ma l’offerta venne declinata. Sicché egli decise di prendere l’iniziativa attaccando gli inglesi in Africa. I britannici sembravano in una posizione di irrimediabile inferiorità, poiché sul fronte libico disponevano di soli 36 000 uomini, con 270 carri armati, di fronte a oltre 200 000 italiani con piú di 1400 pezzi di artiglieria e circa 340 carri. Essi erano però efficacemente appoggiati dalla marina e dall’aviazione, mentre l’aviazione italiana era inadeguata. Gli italiani, dopo l’abbattimento il 28 giugno dell’aereo di Italo Balbo, scambiato per nemico, da parte della contraerea italiana, erano comandati da Rodolfo Graziani. L’offensiva ebbe inizio agli inizi di luglio. Furono colti dapprima alcuni limitati successi. Le truppe del duca Amedeo d’Aosta, partendo dall’Etiopia, tra luglio e agosto penetrarono nel Sudan e occuparono la Somalia britannica. In settembre Graziani, avendo ricevuto rinforzi in uomini e mezzi, sviluppò l’azione in direzione di Alessandria d’Egitto, avanzando fino a Sidi el Barrani. Ma già alla fine di ottobre l’offensiva in Africa settentrionale era bloccata; mentre in novembre e dicembre si ebbe una controffensiva inglese in Egitto ed emersero gravi difficoltà nel settore etiopico. Era il preludio della sconfitta. Le truppe di Graziani vennero investite e respinte. Dopo Sidi el Barrani ai primi di dicembre, caddero in gennaio Bardia e Tobruk; nel febbraio 1941 l’offensiva

inglese si fermò al Golfo della Sirte. Circa 130 000 italiani vennero fatti prigionieri, con la perdita di un gran numero di cannoni, carri, aerei e automezzi, mentre le perdite inglesi furono modeste. Netta fu anche la sconfitta in Africa orientale. Sempre in febbraio caddero Bengasi e Mogadiscio, in aprile Addis Abeba – dove il negus fece il suo ingresso il 5 maggio –, e Massaua. Dopo una vana resistenza nel massiccio dell’Amba Alagi, il duca d’Aosta si arrese il 19 maggio. Le forze italiane nel Goggiam capitolarono a fine novembre. L’illusione di una facile vittoria dell’Italia in Africa era tramontata. La guerra su questo fronte venne resa piú difficile dalla decisione di Mussolini di attaccare la Grecia, convinto di poter ottenere un rapido successo, che avrebbe compensato l’occupazione della Romania da parte dei tedeschi. Grande sostenitore dell’attacco era Ciano, che aveva assicurato il dittatore di avere predisposto, ricorrendo anche a un vasta opera di corruzione negli ambienti politici e militari greci, tutte le condizioni favorevoli per il rapido cedimento dei greci. L’attacco iniziò il 28 ottobre 1940. Mussolini era stato spinto a questa decisione dal desiderio di dare corpo alla strategia della guerra «parallela» a quella tedesca, per dare all’Italia una sua sfera di influenza ben precisa nel nuovo assetto mondiale, tanto piú dopo che il 27 settembre Germania, Italia e Giappone avevano firmato a Berlino il «patto tripartito», con il quale vennero tracciate le linee generali di un mondo dominato dalle potenze dell’Asse e le sfere di influenza del «nuovo ordine». In base a esso il Giappone si impegnava a riconoscere «il compito direttivo dell’Italia e della Germania nello stabilimento di un nuovo ordine in Europa» e l’Italia e la Germania a riconoscere quello del Giappone «nello stabilimento di un nuovo ordine nella piú grande Asia Orientale». L’aggressione alla Grecia aveva suscitato le riserve di Badoglio, capo di Stato maggiore, e del generale Mario Roatta, ma queste erano state respinte da un Mussolini ottimista. In Albania vennero concentrati circa 140 000 uomini, privi di mezzi sufficienti, che nell’aprile 1941 sarebbero saliti a circa 500 000, di fronte a un esercito greco, piccolo ma bene armato e organizzato dagli inglesi, efficacemente comandato e deciso a resistere. Hitler fu vivamente contrariato dall’iniziativa presa da Mussolini. Già agli inizi di novembre quella che doveva essere una rapida avanzata venne bloccata, tanto che a metà mese fu necessaria la ritirata. Toccò a Badoglio pagare il prezzo con le dimissioni il 4 dicembre da capo di Stato maggiore generale, carica che

passò al generale Ugo Cavallero, il quale assunse il comando delle operazioni e ordinò un’azione offensiva che, iniziata il 9 marzo 1941, pochi giorni dopo andò incontro all’ennesimo scacco. Il 23 dicembre 1940 in un messaggio al popolo italiano Churchill aveva denunciato l’«uomo solo», il «criminale» che aveva portato gli italiani «a fianco di barbari feroci e pagani», alla «tragedia» in un turbine «di follia e di vergogna» 8. In quello stesso dicembre Mussolini, scaricando sui soldati, accusati di «comportamento mediocre», le sue responsabilità personali e quelle dei vertici militari, confessava a Ciano con queste parole il fallimento dell’intera sua politica militare e dell’educazione guerriera del popolo italiano intrapresa dal regime: «Devo pure riconoscere che gli italiani del 1914 erano migliori di questi di oggi. Non è un bel risultato per il Regime, ma è cosí!» 9. Con i gravi insuccessi subiti in Africa e in Grecia, l’Italia dimostrava di non essere in grado di condurre alcuna guerra «parallela». Le ambizioni di Mussolini e del regime cadevano nel generale discredito agli occhi degli alleati tedeschi, dell’opinione pubblica interna e dei nemici inglesi. Il bluff di un’Italia grande potenza militare era ormai svelato. Da allora in avanti l’esercito italiano dovette ricorrere all’aiuto determinante della Wehrmacht per proseguire una guerra affidata alla leadership tedesca e segnata dalla totale subordinazione del primo alla seconda. Il che fu reso evidente dal rapidissimo capovolgimento avvenuto in Grecia in seguito all’intervento dei tedeschi. Hitler, che aveva deciso di attaccare l’Unione Sovietica, mirava a ottenere preliminarmente il pieno controllo dei Balcani, e, di fronte al fallimento italiano, si apprestò a invadere la Iugoslavia e la Grecia con l’appoggio della Bulgaria. I tedeschi si mossero il 6 aprile 1941. La Iugoslavia, il cui governo aveva in un primo tempo aderito al patto tripartito, aveva rovesciato le alleanze in seguito a un colpo di Stato, attuato il 25-27 marzo, e stretto un patto di amicizia con l’Unione Sovietica, firmato il 5 aprile. Hitler ne decise immediatamente l’invasione, che venne completata, con la marginale collaborazione italiana, in pochi giorni. Il 18 aprile la Iugoslavia firmò l’armistizio, dopo di che fu smembrata e posta sotto l’influenza italo-tedesca. Quindi i tedeschi portarono a termine l’annientamento della Grecia, il cui esercito venne travolto. Il 27 aprile le truppe del Reich entrarono ad Atene. Fu necessario l’intervento di Hitler perché i greci si piegassero a firmare l’armistizio anche con gli italiani, da cui non erano stati sconfitti. La disastrosa e umiliante campagna era costata

all’Italia circa 14 000 morti e circa 140 000 tra feriti, dispersi e ammalati. Creta venne occupata a fine maggio da paracadutisti tedeschi, impadronitisi cosí di una base importantissima nel Mediterraneo. Una volta completata la conquista, Iugoslavia e Grecia furono sottoposte all’occupazione di tedeschi e italiani. In Iugoslavia la zona di Lubiana e la maggior parte della Dalmazia – dove in Croazia fu creato un regno, cui venne annessa la Bosnia, affidato ad Aimone duca di Spoleto, ma governato di fatto da Ante Pavelić, capo collaborazionista degli ustascia – furono occupate dalle truppe italiane, che, nel trattare la popolazione e nel fronteggiare i presto attivi gruppi partigiani, ricorsero a metodi di repressione terroristica in collaborazione con le milizie locali. Anche in Africa settentrionale le sorti pericolanti dell’Italia, incapace di fronteggiare la controffensiva inglese, vennero sollevate dai tedeschi, i quali con il loro Afrikakorps, sbarcato nel febbraio 1941 e comandato dal generale Erwin Rommel, con il concorso italiano riuscirono tra marzo e aprile a respingere gli inglesi dalla Cirenaica. Neppure sul mare l’Italia riuscí a ottenere successi. Nel corso di alcune grandi battaglie – quelle di Punta Stilo del 9 luglio 1940, di Capo Teulada del 27 novembre, di Capo Matapan del 28-29 marzo 1941 – emerse con evidenza la grave inferiorità della flotta italiana, che – come si è già sottolineato – aveva i suoi maggiori punti deboli nei difetti di coordinamento con l’aviazione, nella mancanza di portaerei e del radar, nella capacità degli inglesi di decifrare i codici di trasmissione e nella scarsa efficacia dell’azione dei pur numerosi sottomarini italiani. Un colpo molto duro in termini tanto materiali quanto propagandistici fu lo straordinario successo conseguito nella base di Taranto da 20 aerosiluranti inglesi, i quali, decollati da una portaerei, nella notte tra l’11 e il 12 novembre 1940 affondarono nel porto di Taranto una corazzata e ne danneggiarono gravemente altre due, perdendo due soli aerei. L’isola di Malta, in possesso degli inglesi, risultò una base ideale per la flotta britannica nella lotta contro i trasporti italo-tedeschi, resistendo a tutti gli attacchi per farla cadere. Nel settore mediorientale, gli inglesi rafforzarono le loro posizioni occupando nel 1941, con la collaborazione di forze francesi fedeli al generale De Gaulle che non aveva accettato la resa della Francia, l’Iraq, delle cui grandi risorse petrolifere assunsero il controllo, la Siria e il Libano. L’Egitto e il canale di Suez erano in tal modo protetti da un vasto retroterra saldamente in mano britannica.

Intanto, in seguito alla decisione di Hitler di attaccare il 22 giugno 1941 l’Unione Sovietica, nell’Europa orientale si aprí un fronte le cui vicende avrebbero avuto enormi conseguenze sull’andamento della guerra in generale e della guerra italiana in particolare. L’attacco iniziò con una forza dirompente. I tedeschi, e con essi contingenti finlandesi, romeni e ungheresi, investirono il nemico con uno schieramento di circa 3 milioni di uomini, appoggiati da 10 000 carri armati, un gran numero di artiglierie e 3000 aerei. L’Armata Rossa fu colta completamente di sorpresa, cosí da consentire agli aggressori di penetrare rapidamente in profondità infliggendo ai sovietici colpi devastanti. I nazisti prevedevano e gli inglesi temevano che la resistenza sovietica sarebbe crollata nel giro di pochi mesi. In queste circostanze, Mussolini, nonostante Hitler non lo richiedesse, ripetendo quanto fatto nei confronti della Francia nel giugno 1940, decise il 26 giugno l’invio in Russia di un contingente per non vedersi escluso dal prossimo enorme bottino: il Corpo di spedizione italiano in Russia (Csir) di 62 000 uomini, dotato di 5500 automezzi e 83 aerei, sotto il comando del generale Giovanni Messe. Il Duce commise un doppio errore. L’uno fu di sottovalutare completamente (ma in ciò non fu certo il solo) la capacità di resistenza dell’Armata Rossa, che, dopo le iniziali catastrofiche sconfitte, mostrò di avere una imprevista capacità di ripresa; l’altro di disperdere in un nuovo settore le già scarse riserve delle forze italiane, inviando in Russia ingenti risorse che sarebbero state quanto mai indispensabili in Africa. Nel luglio 1942 l’impegno italiano sul fronte orientale venne ulteriormente accresciuto con la trasformazione del Csir in Armir (Armata italiana in Russia), che – costituita da 229 000 uomini, dotati di 16 700 automezzi, 4470 motomezzi, un migliaio tra pezzi di artiglieria e cannoni anticarro, pochissimi mediocri carri armati, una sessantina di aerei e 25 000 muli e cavalli – iniziò le operazioni in luglio sotto il comando del generale Italo Gariboldi. L’equipaggiamento della truppa era scadente e gli automezzi non disponevano neppure di lubrificanti adatti al clima russo. L’Armir andò incontro a una sorte amara, quando, dopo la grande vittoria conseguita dai sovietici tra la fine del 1942 e gli inizi del 1943 nella battaglia di Stalingrado, venne investita insieme con tedeschi, ungheresi e rumeni dalla controffensiva dell’Armata Rossa. La rotta degli italiani fu penosa: nella mancanza quasi totale di mezzi di trasporto, la massa dei soldati, indifesa e sbandata, si mise in marcia per la gran parte a piedi. Si calcola che i caduti nella campagna di Russia furono circa 75 000; i feriti e

gli ammalati rimpatriati 30 000. Circa 85 000 i prigionieri e i dispersi. Di quanti fatti prigionieri 10 000 circa sarebbero rimpatriati dopo la fine della guerra. Pochi mesi prima che la battaglia di Stalingrado segnasse l’inizio del capovolgimento delle sorti della guerra sul fronte orientale, un’analoga situazione si era delineata in Africa settentrionale. Qui a fine maggio 1942 un’offensiva dell’Asse, che aveva conseguito un notevole successo, si era assestata nei pressi di El Alamein, portando le truppe italo-tedesche a circa 100 chilometri da Alessandria d’Egitto. In giugno gli inglesi si erano arresi a Tobruk. Subito dopo Mussolini si era recato in Africa, in attesa di fare la propria entrata trionfale ad Alessandria. Ma l’offensiva guidata da Rommel aveva dovuto arrestarsi per mancanza dei necessari rifornimenti. All’inizio di settembre l’offensiva venne rilanciata, ma fu bloccata dalla VIII armata britannica, comandata dal generale Bernard Montgomery. Tra il 23 ottobre e il 4 novembre gli opposti eserciti si affrontarono a El Alamein, la battaglia che segnò le sorti della guerra africana. La superiorità britannica in uomini e mezzi era schiacciante. I 230 000 inglesi in campo disponevano di 1230 carri armati e di una soprastante superiorità in pezzi di artiglieria e in aerei; gli italiani erano 53 000 e i tedeschi 27 000 con 540 carri armati, 670 cannoni e scarse forze aeree. La sconfitta fu totale: i prigionieri ammontarono a circa 30 000, dei quali 20 000 italiani. Ai primi di novembre le forze anglo-americane sbarcarono in Marocco e Algeria, dando inizio alla conquista dell’Africa settentrionale. Nel gennaio 1943 venne occupata Tripoli. Era ormai in atto un processo irreversibile che si concluse con la capitolazione delle forze dell’Asse in Tunisia il 12-13 maggio. La loro campagna africana si concluse cosí nel disastro. Nonostante i sovietici avessero avuto a Stalingrado una vittoria di enorme importanza, sia per i suoi effetti pratici (la capitolazione dell’intera armata del generale Friedrich von Paulus) sia per il suo significato simbolico (avere fatto crollare il mito dell’invincibilità dell’esercito tedesco), sul fronte russo la pressione delle truppe naziste continuava a essere molto forte; pertanto Stalin chiedeva con insistenza agli anglo-americani l’apertura di un “secondo fronte” sul continente europeo che alleggerisse in maniera significativa quella pressione. Fu proprio il crollo delle forze dell’Asse in Africa a creare le condizioni perché la richiesta del dittatore sovietico trovasse una risposta con l’invasione della Sicilia, sebbene questi avrebbe preferito che si puntasse

prioritariamente sulle coste francesi. Il successo dell’Armata Rossa a Stalingrado e la disfatta degli italo-tedeschi a El Alamein avveniva in un contesto in cui in Europa i rapporti di forza tra le potenze dell’Asse da una parte e le potenze avversarie dall’altra erano ulteriormente peggiorati a sfavore delle prime per il peso sempre maggiore dell’intervento degli Stati Uniti nel conflitto, ai quali Germania e Italia avevano dichiarato guerra l’11 dicembre 1941. Un esame della situazione successiva alla battaglia di Stalingrado e alla disfatta italo-tedesca in Africa induce a una importante considerazione, e cioè che la partecipazione dell’Italia alla guerra costituí una vera e propria palla al piede per la Germania, tale da far prendere al conflitto una piega che avrebbe forse potuto essere diversa. Infatti, l’aggressione fallita dell’esercito italiano alla Grecia aveva costretto Hitler a prestare un urgente soccorso, rinviando dall’aprile al 22 giugno 1941 l’attacco all’Unione Sovietica, con una grave perdita di efficacia provocata dal precoce arrivo dell’inverno russo, che contribuí in maniera determinante a vanificare la conquista di Mosca. I disastrosi insuccessi italiani in Africa furono causa di un’ulteriore dispersione delle forze naziste, indotte anche in questo caso a sostenere le traballanti divisioni di Mussolini.

3. Il crollo militare dell’Italia e la caduta del fascismo. Il governo Badoglio dei «quarantacinque giorni». Di fronte alle sconfitte militari il fronte interno italiano mostrò tutta la sua debolezza, facendo emergere il solco ormai profondissimo fra il regime fascista, che aveva promesso un futuro di grandezza imperiale e militare rivelatosi un bluff, e le masse popolari, colpite sempre piú duramente nel loro tenore di vita e ormai consapevoli dell’approssimarsi della sconfitta. Superata la fase in cui le iniziali grandi vittorie tedesche avevano fatto ritenere possibile una guerra breve, grazie alla sconfitta della Francia e alla resistenza, che sembrava disperata, della Gran Bretagna isolata, intorno alla fine del 1941 il consenso sia attivo sia passivo al regime, sempre piú screditato, era andato sempre piú restringendosi. L’imprevista capacità di reazione dell’Armata Rossa, l’intervento in guerra degli Stati Uniti, le miserevoli prove offerte dalle forze armate fasciste in Grecia e in Africa e il fatto che la

«guerra parallela» dell’Italia si era rivelata una “spacconata” mussoliniana e non aveva avuto altro esito che mettere definitivamente il Paese al carro della “guerra tedesca” parlavano un linguaggio inequivocabile. Assai differente si presentava rispetto a quella dell’Italia la situazione della Germania. Questa continuava a disporre di una forza militare molto notevole; in essa il consenso di massa al nazismo restava ampio, la leadership politica di Hitler solida e in grado di controllare e reprimere con brutale e sanguinosa efficacia le sfide al potere assoluto del dittatore (culminate nel fallito attentato del luglio 1944), tanto che la Wehrmacht avrebbe continuato a combattere fino alla presa di Berlino da parte dell’Armata Rossa nel maggio 1945. In Italia, invece, l’invasione anglo-americana della Sicilia nel giugno-luglio 1943 provocò non solo un vero e proprio crollo del consenso al regime e alla sua guerra da parte delle masse popolari, ma anche di quei settori della borghesia e dei ceti piccolo-borghesi che – con maggiore o minore convinzione o obtorto collo – avevano sostenuto il fascismo sino a che il profilarsi dell’invitabile sconfitta militare non li indusse infine ad abbandonarlo. In questo quadro Mussolini venne lasciato alla sua sorte non solo dalla monarchia, che pensò a salvarsi di fronte al disastro incombente, dagli ambienti di corte e dai vertici militari a capo dei quali si pose Badoglio, ma anche – e ciò fu il segno piú eloquente – da un gruppo di gerarchi di primissimo piano i quali agirono in parallelo con il re per provocare la caduta del dittatore. Vi è da sottolineare che le due “congiure” messe in atto contro il Duce – quella della monarchia e quella dei gerarchi passati all’opposizione –, una volta conseguito lo scopo con la destituzione di Mussolini, provocarono il 25 luglio un generale tripudio popolare nel corso del quale si assistette a un fuggi-fuggi generale dei fascisti, nessuno dei quali mosse un dito in difesa del Capo al quale avevano giurato fedeltà fino alla morte. Dopo la caduta dello Stato liberale nel primo dopoguerra, il crollo della dittatura fascista rappresentò la seconda crisi di regime nella storia dello Stato unitario e l’inizio delle terza guerra civile italiana – seguita alla guerra del brigantaggio e alla guerra del 1921-22 che oppose alle squadre fasciste le minoranze antifasciste – combattuta tra partigiani e neofascisti della Repubblica sociale italiana e protrattasi dal 1943 al 1945. Fu nella prima metà del 1943 che il disagio della popolazione prese a farsi molto pesante: convergevano le sempre piú gravi sconfitte militari all’esterno e l’inarrestabile peggioramento della vita materiale all’interno del

Paese. Massicci bombardamenti via via piú frequenti colpirono a partire dagli ultimi mesi del 1942 le città del triangolo industriale – Milano, Torino, Genova –, La Spezia, Napoli e altre città. Il che rendeva per un numero crescente di persone impossibili o quanto mai precarie le condizioni abitative e alimentava il fenomeno dello sfollamento dalle città verso le periferie, le campagne e le zone di montagna, aggravando lo stato già molto deteriorato delle comunicazioni. I prezzi, e in primo luogo quelli dei generi alimentari, salivano costantemente, mentre la scarsità di beni disponibili – da ricondursi sia alla contrazione della produzione agricola sia alla larga violazione delle norme relative all’ammasso – colpiva con particolare gravità i ceti meno abbienti, favorendo il mercato nero. Stipendi e salari perdevano in misura consistente la loro capacità di acquisto. A reagire per primi in maniera aperta e clamorosa a un tale deterioramento della qualità della vita furono gli operai delle fabbriche del Nord. Il 5 marzo 1943 a Torino gli operai della Fiat Mirafiori scesero in sciopero. Gli scioperi andarono rapidamente diffondendosi nel corso del mese in Piemonte e in Lombardia. Si chiedevano aumenti delle retribuzioni e si invocava anche la pace separata. Scoppiati alla Fiat spontaneamente, non organizzati dunque dai partiti antifascisti clandestini – sebbene nella fabbrica agissero ristretti gruppi di militanti, in particolare comunisti, che cercarono di favorire il movimento di protesta – gli scioperi furono i primi avvenuti nell’Europa occupata dai nazifascisti, ed ebbero una grande eco internazionale. Le autorità fasciste, colte di sorpresa, reagirono per un verso promuovendo un accordo tra la Confindustria e gli operai, in base al quale vennero concessi aumenti salariali, dall’altro procedendo a una repressione su vasta scala. All’incirca 2000 furono gli arrestati, a partire naturalmente da coloro che erano sospettati di simpatizzare o appartenere ai gruppi antifascisti. Il 14 aprile, a pagare per gli scioperi di marzo, fu il capo della polizia, Carmine Senise, al cui posto venne nominato Renzo Chierici. La crisi che andava approfondendosi nel Paese investiva ormai lo stesso gruppo dirigente militare e politico. Il 1 o febbraio il generale Vittorio Ambrosio aveva sostituito il generale Ugo Cavallero nel ruolo di capo di Stato maggiore. Pochi giorni dopo, il 6, fu la volta del governo, che vide un largo ricambio nei ministeri. I mutamenti politicamente piú significativi colpirono personalità come Ciano, Grandi e Bottai, che, già tra i piú sicuri pilastri del regime, nutrivano ormai non secondarie riserve nei confronti della

leadership di Mussolini. Ciano, nominato ambasciatore presso il Vaticano, venne allontanato dal ministero degli Esteri, Grandi dal ministero di Grazia e giustizia, Bottai dal ministero dell’Educazione nazionale, Guido BuffariniGuidi dal ministero degli Interni. Mussolini concentrò al massimo i suoi poteri, assumendo i ministeri degli Esteri, degli Interni, della Guerra, della Marina e dell’Aeronautica. Il Partito fascista, che nel giugno 1943 aveva raggiunto ben 4 770 770 iscritti, si presentava come un organismo elefantiaco senza vigore, frutto di un’iscrizione divenuta di fatto obbligatoria. Tra il 1939 e il 1943 si erano susseguiti una serie di segretari, nessuno dei quali rispose alle aspettative del Duce. Nell’ottobre 1939 Achille Starace era stato sostituito da Ettore Muti, rivelatosi ben presto privo di capacità. Esattamente un anno dopo, la nomina era passata ad Adelchi Serena, cui nel dicembre 1941 subentrò il giovane Aldo Vidussoni, che fece un pessima prova. Dopo il trauma degli scioperi operai del marzo 1943 Mussolini aveva affidato le sue speranze di riorganizzazione del partito a colui che ne sarebbe stato l’ultimo segretario: il vecchio squadrista Carlo Scorza. Tutto ciò stava a dimostrare quanto il Partito nazionale fascista fosse ormai completamente incapace di assolvere al compito di organizzare e mantenere il consenso a un regime sul quale le disfatte militari, susseguitesi inesorabilmente l’una all’altra, gettavano un discredito a ondate sempre meno controllabili. Le sorti sempre piú critiche dell’Asse indussero Mussolini a chiedere a Hitler, in un incontro nell’aprile 1943 a Klessheim, in Austria, di prendere in considerazione un radicale cambiamento di strategia, vale a dire di sondare le possibilità di addivenire a un armistizio con l’Unione Sovietica, cosí da rendere disponibili forze da gettare in difesa delle ultime posizioni in Africa e respingere un eventuale attacco contro l’Italia meridionale. Ottenne la promessa di aiuti, ma nessuna disponibilità a rinunciare al proseguimento delle operazioni contro la Russia, che Hitler pensava ancora di poter sconfiggere. In questo quadro, le promesse rivolte da Mussolini agli italiani di riconquista dell’Africa e di capovolgimento delle sorti del conflitto suonavano come una propaganda tanto irresponsabile quanto inefficace. La conquista della Tunisia in maggio da parte degli alleati costituí il preludio per l’invasione della Sicilia, che iniziò con la caduta dell’isola fortificata di Pantelleria l’11 giugno 1943. Pochi giorni dopo, il 24 giugno, parlando al Direttorio nazionale del partito, con un tono millantatorio che rivelava fino a

che punto avesse perso il senso della realtà, Mussolini asserí: «Bisogna che non appena il nemico tenterà di sbarcare, sia congelato su quella linea che i marinai chiamano del “bagnasciuga”, la linea della sabbia, dove l’acqua finisce e comincia la terra» (parlò di bagnasciuga invece di “battigia”), annientando gli sbarcati «sino all’ultimo uomo» 10. La Sicilia venne investita il 9 luglio da forze anglo-canadesi-statunitensi, comprendenti 180 000 uomini, con 280 navi da guerra, 320 da trasporto, 3700 aerei, 2125 mezzi da sbarco. Il 10 luglio gli alleati sbarcarono; la resistenza italiana fu assai debole e la conquista dell’isola, contrastata soprattutto dai tedeschi, venne portata a termine a metà agosto. Nel complesso le truppe italiane combatterono al di sotto delle loro possibilità, rivelando con la mancata volontà di lotta una crisi di fiducia nel regime sempre piú profonda. Mussolini, incontratosi a Feltre con Hitler il 19 luglio mentre era in corso l’occupazione della Sicilia, nonostante fosse stato consigliato in tal senso dal generale Ambrosio, non ebbe il coraggio di porre sul tappeto la questione dell’impossibilità dell’Italia di continuare la guerra e si appagò dell’impegno da parte del dittatore tedesco di inviare rapidamente aiuti per contrastare l’invasione degli alleati. Fu in queste circostanze che il re, con il pieno appoggio di Badoglio, effettuò una manovra di sganciamento delle proprie sorti da quelle del vacillante regime, con lo scopo di rimuovere Mussolini dal potere. Fu questa la “congiura” monarchica contro il Duce, favorita dagli ambienti industriali, da consistenti gruppi di ufficiali e sottufficiali dell’esercito, da membri della casa regnante come la principessa del Piemonte Maria José, moglie dell’erede al trono Umberto, e l’ammiraglio Aimone di Savoia-Aosta. Ai vertici del partito fascista maturò l’altra “congiura”: quella ordita da una parte del massimo gruppo dirigente del regime. Le due congiure finirono per saldarsi. A prendere l’iniziativa fu Dino Grandi, presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni, che pose al sovrano la questione di come intervenire per far fronte alla crisi ormai aperta del regime. Egli prese preventivamente contatti con Scorza, Bottai, Federzoni e Farinacci. A contribuire a muovere sia il re sia Grandi fu anche il pesante bombardamento di Roma del 19 luglio, che colpí in particolare il quartiere San Lorenzo, provocando circa 1500 morti e migliaia di feriti. Grandi, che, secondo la sua testimonianza, era stato esortato dal re «a fare di tutto per mettere in moto, almeno, la macchina del Gran Consiglio», si fece centro motore del colpo di Stato contro Mussolini. Dopo che in una riunione del 16

luglio influenti gerarchi avevano sottolineato che era ormai indilazionabile un confronto sulla strategia politica da seguire e alcuni di essi criticato la sua condotta della guerra, Mussolini cedette alla richiesta di convocare il Gran consiglio del fascismo, che non si era piú riunito dal dicembre 1939, per il pomeriggio del 24 luglio. Era evidente che il confronto diretto tra gerarchi di orientamento opposto e tra Mussolini e i suoi critici creava una situazione assai pericolosa per il regime. Grandi, uomo assai lucido e determinato nei suoi propositi, ne era pienamente consapevole e durante un incontro, il 22 luglio, propose al Duce una via d’uscita, che avrebbe evitato sia il confronto tra i gerarchi dalle diverse posizioni sia un intervento diretto del re nei suoi confronti, ovvero le dimissioni da capo del governo. Il Duce respinse la proposta. Non volle essere lui stesso il notaio del proprio fallimento, anche perché pensava che le sorti della guerra non fossero decise poiché la Germania restava molto forte, tanto piú potendo puntare sull’entrata in scena di armi segrete delle quali aveva avuto notizia. In questo modo Mussolini manifestò chiaramente che la sua linea era di mettere le sorti del Paese nelle mani di Hitler. Alla seduta del Gran consiglio del 24 luglio parteciparono ventotto membri, oltre al Duce. Grandi presentò un ordine del giorno – firmato anche da altri diciassette gerarchi tra cui Federzoni, De Bono, De Vecchi, Ciano, Bottai e Rossoni – il cui punto essenziale suonava: Esaminata la situazione interna ed internazionale, e la condotta politica e militare della guerra [...], è necessario l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle corporazioni, i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie e costituzionali; [pertanto si] invita il capo del Governo a pregare la Maestà del Re [...], affinché egli voglia, per l’onore e la salvezza della Patria, assumere, con l’effettivo comando delle Forze armate di terra, di mare e dell’aria, secondo l’articolo cinque dello statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono.

Nel motivare le ragioni del suo ordine del giorno, Grandi svolse una critica serrata dello stato in cui versava il partito e della conduzione mussoliniana della guerra. Ciano si spinse a sostenere l’opportunità e il diritto dell’Italia di porre fine all’alleanza con la Germania. Dal canto suo, Farinacci presentò un proprio ordine del giorno in cui, mentre – in sintonia con il punto

decisivo della posizione illustrata da Grandi – si associava alla richiesta del «ripristino integrale di tutte le funzioni statali» e all’invito al re di assumere «l’effettivo comando di tutte le forze armate», sosteneva «il dovere sacro» di continuare la guerra a fianco dei tedeschi «nell’osservanza delle alleanze concluse». Infine, anche Scorza presentò un suo ordine del giorno, dove si affermava la «necessità della resistenza ad ogni costo» ma di affrontare la situazione «con metodi e mezzi nuovi» e «riforme e innovazioni nel Governo, nel Comando supremo, nella vita interna del Paese, le quali, nella piena funzionalità degli organi costituzionali del regime, possano rendere vittorioso lo sforzo unitario del popolo italiano» 11. Di fronte a quella che si profilava come la crisi del regime da lui fondato, un Mussolini fortemente sconcertato nelle prime ore della notte del 25 luglio mise in votazione l’ordine del giorno presentato da Grandi, che venne approvato a maggioranza: diciannove voti a favore – tra cui quelli di Ciano, Bottai, De Bono, De Vecchi, Federzoni, Rossoni – sette contro, un’astensione. Il testo di Farinacci ebbe il solo voto del proponente. Mettendosi di fatto nelle mani del sovrano, i gerarchi che avevano decretato la caduta di Mussolini persero ogni concreta possibilità di iniziativa. Fu cosí che a passare all’azione di fronte al caos politico determinatosi ai vertici del regime furono Vittorio Emanuele III, il partito di corte e i militari a essi legati. Il re, scartata l’ipotesi di un governo presieduto da Bonomi e formato da militari e politici antifascisti, nominò capo del governo il maresciallo Badoglio; quindi nel pomeriggio del 25 fece arrestare Mussolini da ufficiali dei carabinieri mentre usciva da Villa Savoia dove si era recato a conferire con il sovrano. Il colpo di Stato ordito dalla corona venne attuato senza che fosse stata ancora stabilita alcuna intesa con le potenze alleate. Nella notte fra il 25 e il 26 luglio e nei giorni seguenti, dopo un comunicato radio che dava notizia della caduta del dittatore, in tutta Italia esplosero le manifestazioni di tripudio popolare. Vennero assaltate sedi del Pnf e abbattuti simboli del regime, si formarono assembramenti e cortei di cittadini e lavoratori, numerosi prigionieri politici furono liberati. I fascisti si dispersero, senza volontà e capacità di reazione, mostrando fino a quale punto fosse crollato il consenso alla dittatura e quanto grave fossero la crisi morale e la disfatta politica del fascismo. Il re assunse il comando delle forze armate. La caduta del fascismo fece da subito gravare sull’Italia la minaccia della reazione tedesca. Badoglio fin dal 25 luglio si era affrettato a dichiarare che

l’Italia rimaneva fedele all’alleanza con un comunicato in cui affermava che «la guerra continua» e che chiunque avesse turbato l’ordine pubblico sarebbe stato «inesorabilmente colpito»; ma i tedeschi diffidavano a ragione di lui e del sovrano e quindi maturarono subito il proposito di assumere il controllo militare del Paese. Preso fra il timore di una reazione fascista – di cui però non si videro neppure le avvisaglie – e quello di movimenti antimonarchici e rivoluzionari, Badoglio, costituito il 26 luglio un governo di sei generali e undici alti burocrati, procedette per un verso a smantellare gli apparati della dittatura fascista e a sciogliere il Pnf, per l’altro a organizzare la repressione nei confronti dei “facinorosi”, che nel giro di cinque giorni provocò 83 morti, 308 feriti, 1554 arrestati. Il disegno monarchico-badogliano era cosí riassumibile: preparare in prospettiva le condizioni per il ritorno al regime prefascista evitando un’Assemblea costituente; lasciare intatte le strutture conservatrici in campo economico-sociale; impedire che la caduta del fascismo mettesse in discussione la monarchia; sganciare l’Italia dai tedeschi. I partiti antifascisti erano rimasti estranei al colpo di Stato del 25 luglio. Ma subito dopo comparvero sulla scena politica, e, nonostante non ne fosse ancora stata riconosciuta la legalità, costituirono un Comitato nazionale. Ma nel loro seno subito riemersero le differenze e divergenze legate alle rispettive basi sociali di riferimento e ideologie politiche. Il problema piú urgente era definire le proprie posizioni di fronte al governo Badoglio. I socialisti e gli aderenti al Partito d’Azione, sorto a Roma clandestinamente nel giugno 1942 dal ceppo del movimento di Giustizia e Libertà, erano decisamente ostili alla monarchia e al maresciallo, complici del fascismo; i comunisti oscillavano fra la richiesta di un governo formato dai partiti antifascisti e l’appoggio al governo Badoglio come mezzo per far uscire l’Italia dalla guerra; i democristiani, che nell’agosto 1942 avevano posto le basi di un loro partito sull’eredità del Partito popolare di Sturzo, e i liberali, infine, erano favorevoli a Badoglio. Punto di convergenza erano la richiesta di vedere riconosciuta la loro agibilità politica, che fu rivolta direttamente a Badoglio, il quale però non volle assumere impegni in tale senso, e neppure quello di porre fine alla guerra. Il governo – stretto tra i tedeschi, che sempre meno si fidavano della dichiarazione dell’Italia di volere continuare la guerra al loro fianco, e le potenze alleate, decise a imporre la rottura con la Germania e la firma di un armistizio – venne a trovarsi in una situazione estremamente delicata e

difficile, dominato dal timore della reazione dei nazisti, le cui truppe, poste sotto il comando del feldmaresciallo Albert Kesselring e affiancate da unità di SS, erano presenti in forze particolarmente nell’Italia del Sud. Hitler – infuriato per la caduta di Mussolini, pieno di disprezzo per il fatto che, con sua grande sorpresa, il Partito nazionale fascista si era squagliato come neve al sole e consapevole che il re e Badoglio intendevano tradire l’alleanza con la Germania nonostante l’impegno a continuare al suo fianco la guerra – si apprestava a fare occupare l’Italia settentrionale e centrale. Due incontri italotedeschi ebbero l’unico effetto di convincere i tedeschi dell’inaffidabilità di quell’impegno. Dal canto loro gli anglo-americani esigevano la resa incondizionata dell’Italia e, per esercitare una pressione adeguata, intensificarono i bombardamenti aerei sulle città italiane e sui centri industriali. In agosto scoppiarono scioperi in Piemonte e Lombardia, che terminarono grazie all’intervento dei dirigenti sindacali nominati dal governo commissari straordinari in sostituzione delle decadute autorità sindacali fasciste. Il 22 agosto, in circostanze non chiare in cui si vociferò di una congiura fascista messa in atto da militari e politici fascisti, vennero arrestati Ettore Muti, che fu ucciso dai carabinieri, e il generale Ugo Cavallero, ucciso o morto suicida a metà settembre. I propositi anglo-americani furono comunicati a Lisbona il 19 agosto al generale Giuseppe Castellano, emissario di Badoglio, in un documento in dodici articoli elaborato dal generale americano Dwight David Eisenhower, comandante delle forze alleate nel Mediterraneo, nel quale si dettavano le condizioni dell’armistizio: fine delle ostilità da parte dell’Italia, rottura con la Germania, consegna dei prigionieri, trasferimento delle flotte marina e aerea in porti e aeroporti designati, messa a disposizione della marina mercantile, disponibilità del territorio per le operazioni contro i tedeschi. L’armistizio, detto «armistizio corto» (cosí chiamato per distinguerlo dall’«armistizio lungo» in 44 articoli firmato a Malta da Badoglio e Eisenhower il 29 settembre, che avrebbe fissato le condizioni dell’assunzione dei poteri delle potenze alleate nel territorio italiano da esse occupato) venne firmato a Cassibile, presso Siracusa, dal generale Castellano e dal generale Walter Bedell Smith alla presenza di Eisenhower nel pomeriggio del 3 settembre. Con esso il governo Badoglio conseguí l’obiettivo di essere riconosciuto come controparte legittima. Intanto continuò il doppio gioco con i tedeschi, ai

quali, già dopo la firma dell’armistizio rimasta segreta, il re e Badoglio ribadirono che l’Italia non intendeva venire meno all’alleanza con la Germania. Nel timore della reazione tedesca, il mattino dell’8 settembre Badoglio comunicò agli alleati l’intenzione di rinviare l’annuncio dell’armistizio, ottenendo una dura risposta da Eisenhower, che fece diffondere per radio la notizia. Ciò costrinse Badoglio a leggere a sua volta un comunicato via radio con cui si rendeva noto che il governo italiano, «riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria», aveva chiesto l’armistizio e che «conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo», aggiungendo che queste «però reagiranno a eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza». L’annuncio dell’armistizio gettò nel caos i capi militari e le truppe, lasciati colpevolmente da Badoglio senza istruzioni operative, ma invitati a reagire agli attacchi tedeschi. Nei giorni seguenti l’esercito si disgregò. Fin dal pomeriggio dell’8 settembre le truppe tedesche, comandate dal feldmaresciallo Albert Kesselring, occuparono Roma, mentre gli alleati tentarono uno sbarco nei pressi di Salerno. Il 9 settembre il re, il principe Umberto, Badoglio e vari capi militari – mentre reparti italiani, cui si unirono gruppi di civili, resistevano di loro iniziativa in Roma, specie nella zona di Porta San Paolo – abbandonarono la capitale, e fuggirono prima a Pescara e quindi a Brindisi, in zona occupata dagli alleati, dove si insediò il governo del «Regno del Sud». La lotta nella capitale di reparti dell’esercito italiano e di gruppi di civili, che si arresero il 10 settembre, costituí il primo atto della Resistenza italiana. I morti italiani furono circa 400. Il 12 settembre Mussolini, che, prigioniero, era stato portato a Campo Imperatore sul Gran Sasso, in Abruzzo – e dei cui trasferimenti Ciano aveva informato i tedeschi – venne liberato da un gruppo di paracadutisti tedeschi comandati dal capitano Otto Skorzeny e portato in Germania senza che i carabinieri che lo custodivano opponessero resistenza. I circa due milioni di militari italiani che si trovavano sul territorio nazionale si sbandarono nel giro di pochi giorni abbandonando le armi e si dispersero con l’appoggio offerto dalle popolazioni locali, ma in un gran numero furono fatti prigionieri dai tedeschi e avviati in campi di concentramento in Germania. Soltanto pochi reparti si unirono ai tedeschi, cosa che fece invece pressoché in blocco la Milizia. La sorte dei reparti

dislocati in Iugoslavia, Albania e Grecia fu segnata da una serie di sanguinose tragedie. Molti militari vennero uccisi dai tedeschi, altri fatti prigionieri, altri infine, specialmente in Iugoslavia, si unirono ai partigiani. I presidi di Corfú, di Cefalonia, di varie isole dell’Egeo resistettero coraggiosamente. A Cefalonia la divisione Acqui, al comando del generale Antonio Gandin e forte di 11 500 uomini, rifiutò di cedere le armi e, dopo una lotta iniziata il 15 settembre e conclusasi il 24, fu annientata; alcune migliaia di uomini (il numero è rimasto assai controverso) caddero in combattimento o vennero fucilati dopo la resa. Nell’isola di Lero il presidio italiano e reparti inglesi per un totale di circa 12 000 uomini vennero sopraffatti; e il 16 novembre i circa 1500 sopravvissuti si arresero. La flotta aerea e la marina italiana raggiunsero le basi alleate, subendo notevoli perdite. Il bilancio dello sfacelo di un esercito abbandonato a se stesso fu il seguente: circa 800 000 militari italiani vennero fatti prigionieri, di cui 650 000 deportati in Germania; 40 000 furono i caduti e i feriti e 20 000 i dispersi. La gran parte degli equipaggiamenti e degli armamenti caddero nelle mani dei tedeschi. Il governo Badoglio dei «quarantacinque giorni» (25 luglio - 8 settembre 1943) aveva cosí portato l’Italia fuori dall’alleanza tedesca, ma in modo talmente disastroso da provocare, lasciando campo libero ai tedeschi in tutto il Paese non occupato dagli alleati, la catastrofe dell’esercito e una tragedia nazionale di immense proporzioni. Alle gravi sconfitte subite dall’Asse del 1942 e della primavera del 1943, si aggiungevano ora il crollo del fascismo e la defezione dell’Italia. Come riconosciuto dallo stesso Mussolini, la guerra dell’“Italietta” liberale tra il 1915 e il 1918 era stata sostenuta con convinzione da una parte assai maggiore e piú determinata della classe dirigente e delle forze economiche, della borghesia e soprattutto della media e piccola borghesia; per contro nel 1940-43 la borghesia oscillò tra adeguamento alle direttive del regime, scarsa convinzione e malumore. L’adesione attiva alla “guerra fascista” fu quella offerta, in misura decrescente, prevalentemente da una minoranza della piccola borghesia – il cui nucleo era costituito da giovani educati dal fascismo –, mentre la massa dei soldati combatté con un spirito minato dallo spettacolo dell’impreparazione militare del Paese, dalle gravi manchevolezze degli alti quadri militari, dall’esibizione di un bellicismo di regime retorico e vacuo. 1. G. Ciano, Diario 1937-1943, a cura di R. De Felice, Rizzoli, Milano 1980, p. 380.

2. Opera omnia, XXIX, p. 366. 3. Ciano, Diario cit., p. 430. 4. P. Badoglio, L’Italia nella seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano 1946, p. 37. 5. Opera omnia, XXIX, pp. 393-94. 6. Opera omnia, XXIX, pp. 403-5. 7. G. Bottai, Diario 1935-1944, a cura di G. B. Guerri, Bur, Milano 2006, p. 193. 8. W. Churchill, In guerra. Discorsi pubblici e segreti, Rizzoli, Milano 1948, vol. I, p. 103. 9. Ciano, Diario cit., p. 491. 10. Opera omnia, XXXI, p. 196. 11. Il testo dei tre ordini del giorno in R. De Felice, Mussolini l’alleato 1940-1945, I. L’Italia in guerra 1940-1943, tomo 2. Crisi e agonia del regime, Einaudi, Torino 1990, pp. 1541-42.

Capitolo undicesimo Due Stati nemici in un solo Paese. La terza guerra civile: la Repubblica di Salò e la Resistenza

1. Il carattere della Resistenza. Nel settembre 1943 si levarono l’una contro l’altra due Italie: l’Italia neofascista ricostituitasi in Repubblica Sociale Italiana e l’Italia della Resistenza. La prima posta sotto la tutela delle armi naziste; la seconda collegata al Regno del Sud, dove avevano ripreso ad agire i partiti antifascisti – i principali erano divenuti partecipi dei governi guidati dal maresciallo Badoglio e successivamente dall’ex socialista riformista Ivanoe Bonomi – e alle potenze alleate. Ciascuna delle due Italie considerava quella avversa l’espressione del tradimento e dell’asservimento agli stranieri delle sponde opposte. Per i partigiani e i partiti antifascisti la Repubblica Sociale era unicamente un regime fantoccio tenuto in vita dagli invasori tedeschi e posto sotto il loro tallone; per i neofascisti i partigiani erano dei banditi fuorilegge e il Regno del Sud il governo dei voltagabbana. Ebbe cosí inizio una guerra civile senza quartiere: la piú grande “esplosione delle antitesi” della storia italiana dopo la formazione dello Stato unitario. Le due Italie si negavano quindi reciprocamente. Eppure entrambe esistevano e avevano un loro consenso, ma molto diverso per quantità e per caratteristiche. Di fronte agli eventi che si svolsero tra il luglio 1943 e l’aprile 1945 il vulnus maggiore dal punto di vista umano e morale lo subirono i giovani, che, nel contesto della comune tragedia, piú attivamente e con convinzione si schierarono con una delle parti contrapposte. I neofascisti accusavano sia i gerarchi che avevano abbandonato e tradito Mussolini nel momento del pericolo sia il re e Badoglio che, dopo avere dato il loro pieno appoggio al fascismo, avevano abbandonato la barca che stava affondando; di qui la determinazione di aderire alla Repubblica Sociale e di continuare la guerra a fianco degli alleati tedeschi per riscattare l’Italia dall’onta del tradimento. Gli antifascisti, nelle cui file molti erano gli ex fascisti disillusi, accusavano un’intera classe dirigente – il Duce, i gerarchi, gli alti burocrati, i generali, gli industriali, gli agrari, i borghesi grandi e piccoli che avevano sostenuto il regime nei suoi anni trionfanti – prima di avere asservito l’Italia

ai nazisti, poi di averla coinvolta in una guerra sciagurata a cui non era preparata, infine di averla gettata nel caos con la propria viltà e inettitudine. La coscienza divisa dei giovani fu lo specchio di quella dell’intero Paese. La guerra civile iniziata nel settembre 1943 durò venti lunghissimi mesi, nel corso dei quali si combatterono le due Italie nemiche. Lo Stato neofascista nel battersi contro i partigiani e i loro sostenitori attivi lo fece con una ferocia che pareggiava quella dei nazisti. Esso dispose in un primo tempo di un modesto esercito guidato da Graziani, male armato e in vari settori di dubbia o nessuna fedeltà. Nelle file della Repubblica, oltre ai neofascisti idealisti provenienti soprattutto dalle file dei giovani animati, come si è detto, dal desiderio di riscattare agli occhi dei camerati tedeschi l’onore dei figli di Mussolini, entrarono – fiancheggiati da quanti erano spinti dal conformismo o dal timore – mercenari, avventurieri, collaborazionisti e delatori per denaro o per convinzione, spietati torturatori. Tutti costoro nutrirono per un certo tempo l’illusione di un capovolgimento delle sorti della guerra alimentata dal persistente prestigio della Wehrmacht e dalla fiducia nelle mitiche invincibili armi segrete che si riteneva Hitler tenesse in serbo; poi, quando la guerra si profilò inesorabilmente perduta, si moltiplicarono nelle loro file i cedimenti e le diserzioni. La fine di Mussolini – il capo che aveva inondato i muri d’Italia con il motto «Se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi» e che nell’ora estrema della disfatta avrebbe abbandonato i suoi uomini, cercando, prima di essere ucciso dai partigiani, la propria personale salvezza fuggendo travestito da soldato tedesco – fu l’episodio simbolo del crollo della Repubblica Sociale; che, avversata dalla grande maggioranza della popolazione, aveva nondimeno goduto in alcuni settori della società del Centro e del Nord di un non trascurabile consenso. A testimoniarlo furono, ad esempio, il fatto che nel novembre 1943 gli iscritti al Partito fascista repubblicano ammontavano a 251 000, seppure in buona parte raccogliticci, saliti secondo i dati ufficiali a 487 000 nel marzo 1944; e che nel dicembre di quest’ultimo anno – quando il punto di non ritorno della vicenda del neofascismo era ormai chiaro – circa 30 000 persone entusiaste si riunirono a Milano per ascoltare l’ultimo discorso pubblico di Mussolini. A schierarsi con lo Stato neofascista furono anche intellettuali di nome, tra cui Giovanni Gentile, il pittore Ardengo Soffici, il fondatore del futurismo Filippo Tommaso Marinetti, Ugo Ojetti, Guido Manacorda, Edmondo Cione, Ezra Pound, i giovanissimi Giovanni Spadolini e Roberto Vivarelli, divenuti entrambi storici e il primo dei quali

destinato a una importante carriera giornalistica e politica dopo il 1945. Non mancarono i prelati e i preti, come monsignor Francesco Borgongini Duca, i vescovi Cesare Boccoleri ed Evasio Colli, don Diego Calcagno che, sospeso a divinis, diresse il giornale «Crociata italica». La Resistenza nelle regioni occupate dai nazifascisti fu la lotta condotta dagli italiani decisi a rompere con il passato e a cercare per il Paese un diverso futuro. Sarebbe diventato un luogo comune definire la Resistenza il «secondo Risorgimento». A essa presero parte giovani educati dal regime, numerosi dei quali partiti per la guerra ferventi fascisti, che prima la penosa condotta delle operazioni belliche e poi la catastrofe del 1943 avevano condotto sull’altra sponda; persone piú mature, che in passato avevano dato il loro consenso al fascismo oppure erano restate in uno stato di passività o ancora avevano nutrito sentimenti soffocati di ostilità al regime; soldati, ufficiali e sottufficiali del disciolto esercito, tra i quali non mancavano coloro che continuarono a sentirsi impegnati dal giuramento di fedeltà prestato al re rifugiatosi nel Sud. Vi era infine il nucleo piú politicizzato costituito dai ristretti gruppi che avevano attraversato la lunga notte fascista nell’emigrazione o nella clandestinità essendo sorvegliati, perseguitati, confinati, imprigionati. Furono i capi di questa minoranza, a cui si aggiunsero alcuni esponenti provenienti dagli alti quadri militari, ad assumere la direzione della Resistenza. Non mancò la zavorra formata sia da quanti sotto il manto di resistenti compirono atti di violenza privata e appropriazioni indebite sia dai molti che nella penultima o ultima ora accorsero senza merito e per opportunismo a ingrossare le file del partigianato. Quella della Resistenza fu, secondo una definizione divenuta corrente, “l’Italia della speranza”, che, passando attraverso una lotta dura e sanguinosa, dopo un inizio estremamente difficile, persino disperato, vide sempre piú consolidarsi la certezza della vittoria, mentre quella neofascista fu “l’Italia della disperazione”, che mese dopo mese sentí avvicinarsi la propria inevitabile rovina. Nelle zone del Paese occupate dai tedeschi, tra i seguaci di Mussolini sottoposti al comando dei loro padroni nazisti e le formazioni partigiane stava la massa della popolazione: stanca della lunga guerra, impaurita, e, con l’eccezione di alcuni gruppi di privilegiati, necessitata a condurre una esistenza estremamente precaria, quando non decisamente misera, e che lottava per un pane scarso spesso in preda alla fame, subiva gli orrori fisici,

materiali e spirituali causati dallo scontro tra gli eserciti e da una guerra civile crudele, con ciò condividendo la sorte degli altri Paesi soggetti alla dominazione tedesca e dei collaborazionisti, seppure in condizioni non cosí tragiche come quelle conosciute dalle popolazioni polacca, sovietica e balcaniche. In quale grado gli italiani residenti nella Repubblica Sociale dessero il loro consenso a ciascuna delle parti in lotta è una questione tanto importante quanto complessa e difficile. Dopo il 1945 i capi partigiani e gli storici intesi a celebrare la Resistenza sostennero, con toni in molti casi acritici e retorici (paragonabili a quelli con cui erano stati celebrati in sede ufficiale il Risorgimento e la Rivoluzione nazionale fascista) che l’Italia neofascista fosse stata unicamente una creatura artificiale creata dai nazisti, uno Stato fantoccio senza altro appoggio se non di una ristretta minoranza di fanatici e di venduti ai padroni tedeschi, mentre la grande maggioranza della popolazione avesse sostenuto con passione e convinta determinazione i partigiani. Questa visione è stata sottoposta a pesanti critiche dalla corrente storiografica, definita “revisionista”, guidata da Renzo De Felice, autore di una monumentale biografia di Mussolini – pubblicata tra il 1965 e il 1997 – che in realtà si presenta come una storia integrale del fascismo e del regime e solo parziale del neofascismo repubblicano, essendo stata la narrazione delle vicende di quest’ultimo interrotta dalla morte dell’autore. Nella citata biografia e in numerosi altri scritti, De Felice in primo luogo negò che Mussolini dopo il settembre 1943 si fosse ridotto a essere un Quisling italiano, accreditando l’idea che egli fosse stato a modo suo un patriota in quanto, con la costituzione della Repubblica Sociale, si era proposto di impedire che nella parte d’Italia da essi occupata i tedeschi stabilissero un dominio paragonabile per violenza e brutalità a quello imposto alla Polonia; in secondo luogo affermò che la tesi secondo cui la grande maggioranza della popolazione avesse appoggiato convintamente, seppure in varia misura e intensità, la Resistenza era priva di fondamento. Per contro, egli insistette sull’esistenza di una vasta, prevalente «zona grigia», che si collocava tra neofascisti e partigiani, formata dagli indifferenti, apatici, impauriti, opportunisti rimasti passivamente in attesa della piega che avrebbero assunto gli eventi. Orbene, se la visione piú superficialmente celebrativa della Resistenza è criticabile, poiché senza dubbio vi fu una componente non trascurabile della popolazione rimasta sulle posizioni indicate dal De Felice,

quella “revisionistica” appare inadeguata nel suo nucleo centrale. Una risposta persuasiva all’interrogativo circa il tipo di consenso dato tra il 1943 e il 1945 dalla maggioranza della popolazione dell’Italia occupata dai tedeschi rispettivamente ai partigiani e ai neofascisti, è stata offerta dallo scrittore Beppe Fenoglio, che gli eventi della guerra civile visse in prima persona da partigiano dotato di una penetrante capacità di giudizio. Fenoglio ha analizzato con partecipazione umana e acutezza analitica lo spirito dei combattenti delle parti in lotta, e il sentire della gente comune presa tra i due fuochi, l’atteggiamento soprattutto dei contadini e dei montanari, per lo piú poveri o poverissimi. I quali, terribilmente provati dalla guerra e stanchi di chiunque la facesse, gravati dalle confische delle loro assai scarse risorse alimentari da parte dei partigiani e fatti oggetto delle rappresaglie – arresti, uccisioni, incendi di abitazioni – di tedeschi e fascisti, con i loro miseri mezzi sostennero nonostante tutto, pur spesso maledicendo, i partigiani in cui riconoscevano, quando non anche figli e fratelli, certamente “i loro”. E pare un fatto incontrovertibile che, senza il sostegno della maggioranza della popolazione non solo rurale ma anche urbana, le formazioni partigiane – inizialmente di poche migliaia di uomini (10-15 000 nell’inverno 1943-44) – giunte, secondo le non sospettabili fonti fasciste, a comprendere nell’ottobre 1944 (quando la lotta toccò il culmine dell’asprezza, prima quindi che giungessero le numerose adesioni della ventiquattresima ora) circa 110 000 combattenti, un numero di per sé imponente ed eloquente data la durezza della repressione – non avrebbero potuto sopravvivere. La Resistenza godette inoltre di un largo appoggio da parte degli operai dell’industria. La «zona grigia» su cui ha insistito De Felice vi è stata, ma prevalentemente composta da quegli strati della borghesia, grande, media e piccola, che, fatte le debite eccezioni, come in precedenza avevano appoggiato il regime fascista con entusiasmo o con conformismo, cosí negli anni della guerra civile si tennero al riparo cercando di tutelare i propri destini individuali e collettivi. Detto questo, è da sottolineare che il consenso dato dalla popolazione alla Resistenza organizzata dai diversi gruppi politici e militari antifascisti, se si rivolgeva unitariamente contro il nemico nazifascista, era segnato da forti contrasti nelle aspettative circa ciò che avrebbe dovuto essere l’Italia del dopoguerra nei suoi fondamenti politici e sociali. Si trattò di contrasti che in ripetuti momenti e in vari luoghi giunsero a provocare anche scontri armati in particolare tra le bande partigiane comuniste e quelle di altro indirizzo. Nel

corpo stesso della Resistenza si riproposero insomma i conflitti che, mutatis mutandis, avevano caratterizzato l’intero percorso dello Stato unitario. La Resistenza al Nord e la vita politica nel Regno del Sud, nel quale agivano i ricostituiti partiti, videro scontrarsi comunisti, socialisti, giellisti, democristiani, liberali, repubblicani e monarchici, con i relativi riflessi nei loro rapporti con Gran Bretagna, Stati Uniti e Unione Sovietica. Pressoché generale era il plauso alla democrazia; ma divergenti erano le concezioni che se ne avevano. Comunisti e socialisti, conquistati dal modello offerto dall’Unione Sovietica, miravano a instaurare una repubblica, a impedire la restaurazione dello Stato prefascista, le cui profonde inadeguatezze istituzionali e sociali avevano contribuito in maniera sostanziale a favorire l’avvento della dittatura, e a spodestare la monarchia, i grandi capitalisti dell’industria e della finanza e i grandi agrari che ne erano stati i complici, avendo come fine di preparare le condizioni per instaurare una società socialista fondata sulla collettivizzazione dei mezzi di produzione. I seguaci del Partito d’Azione – l’erede di Giustizia e Libertà, che con quello comunista era stato alla testa della lotta contro il regime – condividevano l’obiettivo di esautorare le forze che avevano sorretto il fascismo, ma erano fermi nel proposito sia di ristabilire le libertà politiche e civili nel quadro di una democrazia profondamente rinnovata e repubblicana sia di seguire le vie di un riformismo economico-sociale in grado di combinare la proprietà pubblica e quella privata, con una visione lontana dalle suggestioni del comunismo sovietico. Al centro si collocavano i moderati che, rappresentati in primo luogo dai democristiani, oscillavano tra monarchia e repubblica e, pur essi persuasi della necessità di riforme politiche e sociali, tenevano saldo l’obiettivo di difendere i diritti di proprietà privata, respingendo i programmi tanto dei comunisti e dei socialisti quanto degli azionisti. A destra, infine, stavano i liberali e gli ambienti militari legati al re, i quali intendevano conservare nel dopoguerra la monarchia considerata soggetto “moderatore” dei conflitti e concepivano lo Stato postfascista essenzialmente nei termini di una restaurazione dello Stato liberale, il cui positivo cammino (secondo l’interpretazione di Croce) era stato interrotto dal fascismo, da considerarsi quale una «parentesi» nella storia d’Italia.

2. La Repubblica Sociale Italiana e il Regno del Sud. La lotta tra

partigiani e nazifascisti al Nord. La sorte dell’Italia centro-settentrionale dopo l’8 settembre 1943 e la fuga di Badoglio e del re da Roma fu decisa dalla fulminea occupazione tedesca. Sotto la protezione dei nazisti il fascismo risorse dalle sue ceneri, cercando di darsi, almeno in parte, una veste nuova. Prima ancora che Mussolini e i gerarchi rifugiatisi in Germania provvedessero a dar vita a un nuovo governo fascista, in varie parti del Paese gruppi di giovani fascisti e di squadristi, reagendo alla paralisi che li aveva colpiti dopo il 25 luglio, si mossero con iniziative spontanee. Il governo neofascista ebbe la sua consacrazione dopo che Mussolini, liberato dai tedeschi il 12 settembre, ritornò al potere. Messa sotto accusa la monarchia “traditrice” del regime e dell’alleato tedesco, il partito fascista si ricostituí con il nome di Partito fascista repubblicano (Pfr) e il nuovo Stato, di cui il 18 settembre Mussolini aveva annunciato da Monaco la nascita, si chiamò, secondo la denominazione assunta il 25 novembre, Repubblica sociale italiana, che si trovò a controllare un territorio di poco piú di 17 milioni di persone. Il governo si formò il 23 settembre e si insediò sulle rive del lago di Garda con il centro a Salò, sicché la repubblica venne altresí denominata Repubblica di Salò. Il Duce tenne il ministero degli Esteri; fra i ministri Alessandro Pavolini, ministro segretario di Stato e segretario del partito, Guido Buffarini Guidi ministro dell’Interno, il maresciallo Graziani ministro della Difesa nazionale. L’operato di Mussolini e del suo governo furono posti sotto la diretta e stretta sorveglianza del generale delle SS Karl Wolff e dell’ambasciatore Rudolf Rahn; e i tedeschi provvidero a creare nell’Italia occupata una loro amministrazione parallela, che aveva naturalmente l’ultima parola sulla vita della repubblica. I propositi di Mussolini erano la continuazione della guerra a fianco dei nazisti con la formazione di forze armate repubblicane; la punizione dei “traditori” sia fascisti, a partire dagli artefici del voto del Gran Consiglio del 24-25 luglio, sia badogliani; la repressione del nascente movimento di resistenza delle bande partigiane; il rinnovamento del fascismo – disse – «nel senso delle nostre origini». Il primo Congresso del partito si svolse a Verona il 14-16 novembre 1943; e da esso uscí un manifesto programmatico nel quale venivano indicati come punti qualificanti: la convocazione di un’Assemblea costituente chiamata a sancire la caduta della monarchia; il carattere sociale della repubblica fondata sul lavoro, il riconoscimento della proprietà privata a

condizione che non entrasse in conflitto con l’interesse collettivo, l’attribuzione allo Stato della tutela degli interessi generali, la formazione tanto di un partito quanto di un sindacato unico, e naturalmente la conferma dello status di stranieri per gli ebrei. Nel gennaio 1944 il governo, desideroso di darsi una base popolare, approvò un piano di «socializzazione» delle imprese, con la partecipazione dei lavoratori alla loro gestione e agli utili. Si trattò di un programma di natura propagandistica e privo di efficacia, tanto che quando fu compiuto il tentativo di metterlo in pratica nel febbraio 1945, poco prima cioè che il regime neofascista collassasse, incontrò l’opposizione non soltanto delle autorità tedesche e degli industriali, ma anzitutto degli operai, che vedevano nel governo neofascista un fantoccio nelle mani naziste e nelle misure “sociali” da esso varate un mero espediente escogitato da chi entro breve non avrebbe piú avuto alcun potere. Gli industriali, come mostrato dall’atteggiamento del capo della Fiat Vittorio Valletta e di quello della Snia Viscosa Franco Marinotti, fecero le viste di approvare le linee generali della socializzazione, ma con l’unico scopo di sabotarla. La punizione dei «traditori» del 25 luglio, fortemente voluta da Hitler, fu eseguita l’11 gennaio 1944, quando, dopo un processo farsa, Ciano, De Bono e altri tre ex gerarchi vennero fucilati. Grandi e Bottai furono condannati a morte in contumacia, ma il primo riparò in Portogallo e il secondo, dopo essersi nascosto, si arruolò nella Legione straniera francese nelle cui file combatté contro i tedeschi. La ricostituzione delle forze armate repubblicane – composte dapprima dall’esercito, dalla Guardia nazionale repubblicana (l’ex Milizia), dalla «X Mas», dalla legione «Muti» e dagli assai ridotti resti dell’aviazione e della marina – ebbe luogo a partire dagli inizi del novembre 1943, raggiungendo a fine anno la cifra nominale di circa 200 000 uomini. Hitler non era favorevole alla formazione di un esercito neofascista; ma alla fine cedette alle insistenze di Mussolini, senza però accondiscendere alla sua richiesta di dotarlo di armamenti adeguati e tanto meno di impiegarlo contro gli anglo-americani (il che avvenne in pochi casi e con obiettivi molto limitati). I compiti affidati ai «repubblichini» furono perciò in maniera quasi esclusiva quelli della repressione dei partigiani, denunciati come “banditi” fuorilegge e criminali: una repressione che tra l’ottobre 1943 e il giugno 1944 raggiunse scarsi risultati, sicché furono i tedeschi ad assumersene il carico maggiore. A costituire le forze repubblicane furono i chiamati alla leva – molti dei quali però non si presentarono o presto disertarono –, gruppi di

militari italiani prigionieri in Germania e giovani fascisti. Circa 20 000 furono poi gli italiani che entrarono nelle file delle SS sotto comando germanico. Nonostante l’indipendenza formale, il nuovo regime fascista era oggetto di disprezzo da parte dei suoi protettori tedeschi, i quali non ebbero alcun ritegno nel procedere fin dal settembre 1943 all’annessione di fatto al Reich – assestando un colpo assai grave al già tanto traballante prestigio della repubblica mussoliniana – del Trentino e della Venezia Giulia. A mano a mano che la sconfitta tedesca si profilava inevitabile, il destino della Repubblica di Salò apparve inesorabilmente segnato. I «repubblichini» furono circondati dalla crescente avversione della popolazione, che li vedeva impegnati spesso con autentica ferocia contro le bande partigiane e nella caccia ai gruppi clandestini antifascisti e agli ebrei. Il 16 dicembre 1944 Milano assistette al canto del cigno di Mussolini, che al teatro Lirico tenne un discorso di fronte ad alcune migliaia di fedelissimi, in cui affermò: «Nel 1945 la partecipazione dell’Italia alla guerra avrà maggiori sviluppi»; esaltò il significato della legge sulla socializzazione delle imprese; confermò che una futura Assemblea costituente avrebbe dato all’Italia rinnovate istituzioni «a guerra conclusa»; assicurò che la Germania grazie anche alle «armi nuove» (le armi segrete) avrebbe senza dubbio alcuno vinto la guerra; espresse «la nostra fede assoluta nella vittoria». E cosí lanciò l’estremo invito alla battaglia: Noi vogliamo difendere, con le unghie e coi denti, la valle del Po; noi vogliamo che la valle del Po resti repubblicana in attesa che tutta l’Italia sia repubblicana. [...] Faremo una sola Atene di tutta la valle del Po 1.

Nella repressione messa in atto dalla Repubblica di Salò contro i nemici politici del nazifascismo e gli ebrei ebbero un posto anche i campi di concentramento, come quelli di Fossoli, presso Modena, di Greis, in Alto Adige e, il piú tristemente famoso, della risiera di San Sabba, presso Trieste, attrezzato con camere a gas. La caccia agli ebrei, che, imposta dai tedeschi e volenterosamente aiutata dalle autorità di Salò, portò alla deportazione di circa 8000 persone, delle quali circa 6000 andarono incontro alla morte, ebbe il capitolo piú tragico nell’irruzione effettuata il 16 ottobre 1943 dai soldati tedeschi nel ghetto di Roma, dove 1024 ebrei vennero arrestati e avviati ai campi di sterminio in Germania (i sopravvissuti sarebbero stati sedici).

Di contro al governo neofascista stava il «Regno del Sud», con il re e Badoglio stabilitisi prima a Brindisi e quindi a Salerno. Il governo monarchico il 13 ottobre 1943 dichiarò guerra alla Germania, ottenendo dagli alleati per il Regno del Sud la qualifica non di alleato ma di «cobelligerante». Nel febbraio 1944, quando il governo si trasferí a Salerno, gli angloamericani restituirono a esso l’autorità amministrativa del territorio a sud di Foggia e di Napoli, anche se sotto il permanente controllo della Allied Control Commission, una sorta di amministrazione parallela, che non esitò a favorire il ristabilimento dell’autorità dei prefetti e dei quadri burocratici in carica nell’ordinamento precedente. Nel Regno del Sud era urgente la formazione di un gabinetto che, a differenza di quanto avvenuto durante i “quarantacinque giorni”, fosse in grado di rappresentare i partiti politici antifascisti che avevano ripreso legalmente la loro attività. Ma ci si trovò di fronte a un grave contrasto: mentre inglesi e americani esigevano il rispetto del ruolo del re e di Badoglio, garanti dell’armistizio – Roosevelt subí in ciò l’iniziativa di Churchill, strenuo difensore della monarchia dei Savoia –, nei partiti antifascisti prevaleva un diverso orientamento. Fin dal 16 ottobre 1943 il Comitato centrale di liberazione nazionale (Ccln) – l’organo direttivo creato a Roma il 9 settembre dai partiti su base paritetica e a cui si erano affiancati i Comitati di liberazione nazionale (Cln) regionali. – aveva dichiarato, manifestando la propria ostilità verso il re e Badoglio considerati troppo compromessi con il regime fascista, che questi non potevano né rappresentare l’unità nazionale né guidare la lotta di liberazione e aveva quindi chiesto un nuovo governo, espressione delle forze antifasciste. Inoltre il Comitato sosteneva che a guerra finita la questione della forma dello Stato avrebbe dovuto essere risolta dal voto del popolo sovrano. Dal canto suo Badoglio avvertiva il peso che anche per il suo governo aveva l’ostinata contrarietà del sovrano alle sollecitazioni sue e di illustri personalità moderate come i liberali Croce ed Enrico De Nicola ad abdicare. Comprendendo comunque la necessità di un rinnovamento, ma al tempo stesso non intendendo aprire all’ingresso dei partiti nell’esecutivo, egli decise il 16 novembre di procedere a un rimpasto, con l’immissione di esponenti monarchici e della destra liberale di scarso rilievo e peso politico. Il distacco dei partiti da Badoglio emerse chiaramente al congresso dei Comitati di liberazione nazionale che si svolse a Bari il 28-29 gennaio 1944 e che – per impulso principalmente degli azionisti e dei socialisti, appoggiati dai

comunisti che si impegnarono per il raggiungimento di un accordo superando le resistenze di liberali, democristiani e demolaburisti – convenne nel chiedere l’abdicazione del re e il rinvio a guerra finita del referendum popolare che avrebbe deciso tra monarchia e repubblica. Tra il governo di Badoglio e i Cln non si intravvedeva la possibilità di raggiungere un accordo. Sennonché un appoggio decisivo, e del tutto imprevisto, al governo monarchico venne dall’Unione Sovietica, che, prima tra le potenze alleate, il 14 marzo, fra la sorpresa generale anche di Gran Bretagna e Stati Uniti, lo riconobbe, con una mossa dettata dall’intento di sottrarre a inglesi e americani l’esclusiva influenza sulla politica del Regno del Sud e di favorire il rafforzamento del ruolo del Partito comunista italiano. Pochi giorni dopo, Togliatti, sbarcato a Napoli il 27 marzo di ritorno dall’esilio nell’Unione Sovietica, parlando l’11 aprile ai quadri comunisti napoletani si espresse a favore della formazione di un nuovo governo Badoglio, con la partecipazione dei partiti al fine di realizzare l’unità nazionale nella lotta contro il nazifascismo, e del rinvio a guerra finita della soluzione della questione monarchia o repubblica a opera di un’Assemblea costituente, chiamata a decidere «delle sorti del Paese e della forma delle sue istituzioni». Fu questa la “svolta di Salerno” messa in atto dal leader comunista. In sintonia con la strategia dell’Unione Sovietica – che intendeva dare prova di non voler accelerare un processo decisamente antimoderato in un Paese destinato a cadere dopo la fine del conflitto sotto l’influenza angloamericana, aspettandosi in cambio il riconoscimento della propria preponderante influenza nell’Europa orientale –, Togliatti vide da parte sua la possibilità non solo di acquistare con l’appoggio a Badoglio una posizione chiave nella politica italiana per il suo partito ma anche di accedere direttamente al governo, ottenendo cosí una legittimazione della massima importanza. Inoltre, egli teorizzò la necessità per il partito di darsi una nuova fisionomia. «Noi non possiamo piú essere – disse – una piccola, ristretta associazione di propagandisti delle idee generali del comunismo e del marxismo. Dobbiamo essere un grande partito, un partito di massa, il quale attinga dalla classe operaia le sue forze decisive, al quale si accostino gli elementi migliori dell’intellettualità di avanguardia, gli elementi migliori delle classi contadine», che marci con i fratelli socialisti nella prospettiva di dare vita a «un partito unico della classe operaia», capace di trovare «un terreno di intesa e di azione comune» anche con le masse contadine

cattoliche. Obiettivo dei comunisti nella rinata democrazia italiana era di creare in Italia «un regime democratico e progressivo», un sistema fondato sul pluralismo partitico e culturale, non quindi «un regime il quale si basi sull’esistenza e sul dominio di un solo partito». Per «adempiere ai propri compiti» il partito doveva essere «unito e disciplinato». Nel tracciare questa linea strategica per l’Italia, Togliatti non mancò di esaltare l’Unione Sovietica, il suo regime, Stalin, i «rapporti sociali nuovi che esistono nella Russia, e che sono, dal punto di vista materiale e umano, i piú avanzati», aggiungendo che, se «qui non siamo ancora arrivati a un tal punto», era auspicabile che «l’esempio dell’Unione Sovietica» potesse «incitare tutti i buoni italiani» 2. Quanto al partito (che aveva cambiato il proprio nome da Partito comunista d’Italia in Partito comunista italiano), Togliatti lo definí un «partito nuovo», aperto a tutti coloro che accettassero il suo programma a prescindere dalla fede religiosa e dalle convinzioni filosofiche, ma la cui guida ideologica non poteva essere che la dottrina marxista e leninista. Il leader comunista prese a evocare in termini positivi anche l’idea di nazione, unitamente a quella di un partito rivoluzionario che perseguiva gli interessi generali del Paese. La “mossa” di Togliatti di sostenere il governo monarchico-badogliano con l’ingresso del proprio partito suscitò un acceso dibattito e contrasti non solo tra i partiti ma tra gli stessi comunisti, i quali però finirono per allinearsi rapidamente alle direttive del loro capo. Il Partito socialista, che non era stato neppure messo preventivamente al corrente dei propositi togliattiani, e il Partito d’Azione meridionale, con una scelta poi criticata dalla direzione nazionale, timorosa che si fosse in tal modo compiuto un passo pericoloso verso l’affermazione della continuità del vecchio Stato, si accodarono alla posizione comunista; dal canto loro il Partito liberale, con Croce, la Democrazia cristiana e la Democrazia del lavoro legata a Bonomi accolsero con soddisfazione la posizione comunista. Essendosi il re infine impegnato il 12 aprile a trasmettere i propri poteri al figlio Umberto in qualità di luogotenente generale del Regno all’atto della liberazione di Roma, il 22 si formò il nuovo governo Badoglio con gli uomini e l’appoggio dei partiti antifascisti. Ne divennero ministri tra gli altri i comunisti Togliatti e Fausto Gullo, il socialista Pietro Mancini, il democristiano Salvatore Aldisio, i liberali Croce e Vincenzo Arangio Ruiz, l’indipendente Carlo Sforza, gli azionisti Adolfo Omodeo e Alberto Tarchiani e il demolaburista Francesco

Carabona. Il governo deliberò che alla conclusione del conflitto sarebbe stata eletta a suffragio universale un’Assemblea costituente legislativa. Il 4 giugno Roma venne liberata. Il giorno seguente Vittorio Emanuele III affidò al figlio Umberto la luogotenenza; e il 6 Badoglio presentò le dimissioni del suo governo. Il 18 entrò in carica, suscitando la forte contrarietà di Churchill, un governo diretta emanazione dei partiti, guidato da Ivanoe Bonomi, leader della Democrazia del lavoro, in cui entrarono Croce per i liberali, De Gasperi per i democristiani, Saragat per i socialisti, Togliatti per i comunisti, Alberto Cianca per gli azionisti, Sforza come indipendente. Al suo interno emersero profonde divergenze, specie in relazione a due problemi: i rapporti con le forze della Resistenza del Nord e l’epurazione politica dei fascisti. Fu in particolare la questione dell’epurazione – spia essenziale per intendere se si volesse rinnovare in profondità le istituzioni oppure restare nella linea, che era stata di Badoglio, di far prevalere la continuità con il vecchio Stato – a provocare la crisi del primo ministero Bonomi, apertasi dopo che il leader socialista Nenni il 12 novembre aveva lanciato la parola d’ordine «Tutto il potere ai Cln!» Mentre liberali, democristiani e demolaboristi intendevano limitare al massimo l’ambito delle epurazioni, le sinistre (azionisti, socialisti e comunisti) volevano spingere piú a fondo. Apertasi la crisi il 25 novembre, il 12 dicembre 1944 Bonomi formò un suo secondo governo, da cui si astennero i socialisti e gli azionisti, ma non i comunisti. Questi ultimi, che pure avevano avuto una parte importante nel provocare la crisi, non soltanto rimasero al governo con i liberali e i democristiani, quindi in un governo spostato piú a destra, ma Togliatti, deciso a mantenere il Partito comunista nella sfera del potere, tenne la vicepresidenza con il democristiano Giulio Rodinò. Il secondo governo Bonomi sarebbe rimasto in carica fino alla liberazione totale del Paese. La questione dei rapporti con la Resistenza del Nord fu la principale che si trovò ad affrontare. Il movimento partigiano ebbe il suo massimo sviluppo nelle regioni settentrionali e in secondo luogo in quelle centrali. A fare muovere in maniera efficace i primi passi della Resistenza non furono i gruppi iniziali di militari sbandati e di civili saliti nelle montagne, ma i Gruppi di azione patriottica (a cui si affiancarono a partire dall’estate 1944 le Squadre di azione patriottica), organizzati e diretti dai comunisti, che condussero, con i metodi tipici del terrorismo, operazioni di sabotaggio a depositi e di

distruzione di impianti e procedettero nelle città all’uccisione di numerosi esponenti fascisti. Anche nel Mezzogiorno vi furono iniziali atti di resistenza nei confronti dei tedeschi in ritirata; ma si trattò di brevi e limitati episodi. Fece eccezione un evento di grande rilievo: l’insurrezione di Napoli, dove la popolazione, ribellatasi all’imposizione dei tedeschi di fornire 30 000 lavoratori da impegnare in opere di fortificazione, dopo una dura lotta iniziata il 27 settembre 1943, con il contributo di giovanissimi e persino di bambini, liberò la città, che venne occupata il 1 o ottobre dagli alleati. Il fatto che in generale la Resistenza nel Mezzogiorno non abbia avuto sviluppo dopo l’arrivo delle truppe anglo-americane ebbe una conseguenza di grande importanza, vale a dire che questa parte del Paese non venne investita dal processo politico e sociale che la lotta partigiana innestava nel Settentrione e nel Centro: quello che fu definito il «vento del Nord». Nel Sud, infatti, misero piú profonde radici le forze che dopo la fine del conflitto avrebbero maggiormente contrastato il rinnovamento dello Stato. Nell’Italia centrale la Resistenza cominciò subito dopo l’8 settembre 1943. A Roma si erano avuti, come si è ricordato, i primi scontri fra tedeschi, soldati italiani e gruppi di civili. Nel Lazio si assistette ad azioni di guerriglia e a sabotaggi. A Roma – fatta dichiarare da Badoglio il 14 agosto “città aperta” – la Gestapo comandata dal colonnello delle SS Herbert Kappler, la polizia fascista e la banda di cui era a capo Pietro Koch (poi trasferitasi a Milano), divenuta presto nota per la crudeltà dei suoi metodi di tortura, avviarono una vasta opera repressiva delle cellule clandestine antifasciste. A rivaleggiare con la banda Koch vi era la banda Carità, guidata dal maggiore Mario Carità. Dal canto suo la Guardia nazionale repubblicana mise in azione i suoi Upi (Uffici politici). A Roma la già ricordata retata del 16 novembre 1943 segnò l’avvio dell’implacabile caccia agli ultimi ebrei condotta dai tedeschi e dai collaborazionisti di Salò. Alla tragedia degli ebrei italiani, parte di quella piú grande degli ebrei di tutta Europa, la Chiesa cattolica in Italia rispose prestando soccorso, aiuti e luoghi di rifugio, senza però che Pio XII – suscitando polemiche che non sarebbero venute meno – levasse una condanna esplicita e ufficiale, presumibilmente per il timore di gravi rappresaglie nei confronti dello stesso Vaticano. Sempre a Roma il 23 marzo 1944 i Gruppi di azione patriottica (Gap) comunisti commisero in via Rasella un attentato dinamitardo che provocò la morte di 33 militari tedeschi e

numerosi feriti. La vendetta, voluta da Hitler personalmente e organizzata da Kappler con la collaborazione della polizia fascista, fu spietata: 335 detenuti politici ed ebrei furono trucidati il 24 alle Fosse Ardeatine, cave di arena sulla via Ardeatina. Un altro atto clamoroso compiuto dai Gap fu l’uccisione a Firenze il 15 aprile di Gentile, che si era apertamente schierato con la Repubblica di Salò. Il 4 giugno, giorno della liberazione di Roma, i nazisti in ritirata fucilarono il leader sindacalista socialista Bruno Buozzi e altri tredici detenuti politici. Piú ampie che nel Lazio furono le azioni dei partigiani nell’Italia centrale a nord di Roma. In agosto si svolse la lotta per la liberazione di Firenze, alla quale le formazioni partigiane concorsero sostenendo efficacemente le truppe alleate nella battaglia contro i tedeschi, che abbandonarono definitivamente la città il 1 o settembre. La Resistenza armata al nazifascismo – che nel Nord ebbe il suo massimo sviluppo, caratterizzandosi appieno sia come lotta contro gli occupanti tedeschi sia come guerra civile tra i partigiani e i sostenitori della Repubblica Sociale – travalicò rapidamente i limiti che in un primo tempo avrebbero voluto assegnarle gli Alleati, ovvero di un’azione di appoggio da parte di gruppi ristretti di sabotatori e di informatori. Come si è già sottolineato, le componenti della Resistenza furono principalmente tre: i partiti e i gruppi antifascisti che avevano lottato contro il regime prima del 1943; i soldati, gli operai, i contadini, gli studenti, gli intellettuali che costituirono il corpo centrale delle bande partigiane; i militari del disciolto esercito fedeli al re e a Badoglio. Un discorso a parte riguarda i membri dell’élite economica, anzitutto industriale, che, staccatisi dal regime quando le sue fortune erano andate volgendo al peggio sotto il peso della sconfitta militare, tra il settembre 1943 e l’aprile 1945 si destreggiarono tra tedeschi, fascisti e partigiani, costretti a collaborare con i primi e i secondi, ma non pochi di essi disposti ad aiutare con materiali e denaro i partigiani in previsione della ormai certa vittoria degli alleati. Dal punto di vista sociale, la Resistenza abbracciò tutte le classi; ma la massa dei combattenti fu composta da elementi popolari. In molta parte di questi era diffusa la convinzione che la resistenza armata al nazifascismo potesse e dovesse rappresentare il preludio della rottura con il vecchio Stato e della fine del predominio degli strati sociali tradizionalmente privilegiati. Interpreti di queste esigenze erano le formazioni partigiane di sinistra: le brigate Garibaldi, comuniste, le piú forti, nelle quali era diffusa la convinzione che la fine della guerra avrebbe creato

le condizioni favorevoli per attuare la rivoluzione socialista fallita nel primo dopoguerra; quelle di Giustizia e Libertà, che, guidate dal Partito d’Azione, avevano come parola d’ordine una «rivoluzione democratica» in grado di coniugare il radicale rinnovamento delle strutture dello Stato con profonde riforme economiche, sociali e istituzionali e guardavano con simpatia all’ideale dell’Europa federale; in subordine le meno forti brigate Matteotti, socialiste. Accanto a queste stavano le organizzazioni di orientamento moderato: le «autonome», composte dagli «azzurri», formalmente apartitiche, a cui aderirono per lo piú militari monarchico-badogliani; le «brigate del popolo» e brigate come le Fiamme verdi del Bresciano sotto la prevalente influenza della Democrazia cristiana. Complessivamente le organizzazioni di indirizzo centrista e moderato e quelle «azzurre» sul piano numerico erano minoritarie rispetto a quelle della sinistra; esse però godevano dell’appoggio privilegiato non solo del governo del Sud, della maggioranza del clero cattolico e degli alleati – i quali ultimi sostennero i partigiani di indirizzo politico moderato con lanci di armi e rifornimenti selettivi e discriminatori –, ma anche di quella parte delle classi alte che forniva aiuti economici alla Resistenza. Le bande costituite dai moderati, che per lo piú si erano unite alla lotta armata con ritardo, non condividevano l’impulso a quel tipo di rinnovamento sociale e istituzionale su cui puntavano comunisti, socialisti e azionisti, sostenuti dai lavoratori dell’industria. Se nell’Italia del Nord la lotta partigiana poté giovarsi, con i limiti imposti dalla durezza dell’occupazione tedesca e fascista, di un sostegno popolare abbastanza vasto tanto nelle città quanto nelle campagne, fu pur sempre una minoranza della popolazione la parte – in cui si distinsero molte donne – disposta ad appoggiare attivamente le bande, rischiando rappresaglie, prigione e vita. A porsi alla testa di questa minoranza furono gli operai, che, dopo una fase iniziale di sbandamento e di incertezza, andarono sempre piú politicizzandosi. Del che fu testimonianza la ventata di scioperi, in cui le motivazioni economiche si intrecciavano con quelle politiche, che scosse Piemonte, Lombardia e Liguria nel novembre-dicembre 1943, partendo dalla Fiat di Torino e provocando a Genova il 16 dicembre una sanguinosa repressione da parte dei tedeschi. Il culmine fu raggiunto con il grande sciopero generale che fra il 1 o e l’8 marzo 1944 paralizzò le fabbriche di Piemonte e Lombardia e coinvolse intorno al mezzo milione di lavoratori, centinaia dei quali vennero arrestati e deportati in Germania. Fu questo il

maggiore sciopero dell’industria nell’Europa occupata dai nazisti. Vi fu una sorta di parallelismo tra l’atteggiamento dei tedeschi nei confronti delle forze armate della Repubblica sociale e quello degli alleati verso la Resistenza. I primi considerarono l’esercito di Salò sostanzialmente come un peso di cui avrebbero fatto volentieri a meno; allo stesso modo i secondi per un certo tempo non credettero all’efficacia del movimento partigiano (come pure non accolsero di buon grado la costituzione di un corpo militare italiano nel Regno del Sud); ma infine tanto i tedeschi quanto gli alleati finirono per accettare lo stato delle cose, preoccupandosi di mantenere il loro superiore controllo. La direzione politica della Resistenza fu assunta dai Comitati di liberazione nazionale regionali, i quali, sottostando al Comitato di liberazione nazionale Alta Italia, mentre si ponevano il compito di guidare la lotta delle diverse bande partigiane contro il nemico comune, riflettevano anche le divergenze delle loro varie correnti in materia di strategia politica. Un problema importante era quello dei rapporti fra il Clnai, il governo del Sud e gli Alleati. Questi ultimi, e fra loro soprattutto gli inglesi, erano preoccupati che nel Nord i partigiani, la cui direzione militare era affidata al Corpo volontari della libertà costituitosi il 19 giugno 1944, potessero diventare un fattore di radicalizzazione politica e sociale, di difficile incanalamento e controllo dopo la conclusione della guerra. Il 13 novembre 1944 il maresciallo inglese Harold Rupert Alexander, adducendo motivazioni di carattere militare legate al fatto che l’avanzata alleata incontrava impreviste difficoltà, invitò le forze partigiane a «cessare le operazioni organizzate su vasta scala» e a «stare in difesa»: invito che, interpretato come diretto in primo luogo a ridurre il ruolo di primaria importanza che nella lotta di Resistenza esercitavano i comunisti, non venne accolto. All’appello di Alexander fece seguito il 7 dicembre un accordo fra i delegati del Clnai e il generale britannico Maitland Wilson, che, mentre riconosceva solennemente il movimento partigiano e l’autorità del Comitato, assoggettava nel contempo le forze partigiane a un comando militare supremo avente a capo il generale dell’esercito regolare italiano Raffaele Cadorna, affiancato dai vicecomandanti Luigi Longo, comunista, e Ferruccio Parri, azionista. L’accordo sottoponeva inoltre questo comando alle direttive degli Alleati e impegnava le forze partigiane all’atto della liberazione ad accettare le decisioni del governo militare alleato, a cedergli tutti i poteri, a collaborare

per la piena restaurazione dell’ordine e della legalità e a sciogliere le truppe partigiane con la consegna delle armi. Poco dopo, il 26 dicembre, anche il governo Bonomi riconobbe come proprio «delegato» nel Nord il Clnai, che a sua volta accettò il governo del Sud quale «solo governo legittimo». La linea sopra indicata mirava a limitare l’autonomia politica e militare del Clnai, vale a dire impedire che dalla lotta partigiana potesse scaturire una forza di governo alternativa rispetto a quella del Sud. Ad assumere una posizione decisamente critica nei confronti di questa impostazione fu il Partito d’Azione, che intendeva fare dei Cln il nucleo di un futuro governo nazionale di rinnovamento democratico e istituzionale; posizione che però non venne appoggiata da comunisti e socialisti. I governi del Sud, prima Badoglio e poi Bonomi, avevano ottenuto dagli Alleati l’assenso a costituire, con truppe regolari, un Corpo italiano di liberazione, che operò a partire dall’aprile 1944 raggiungendo la consistenza di 24 000 uomini. Ma come ostacolarono lo sviluppo delle forze partigiane al Nord, cosí gli Alleati vollero una partecipazione assai limitata delle truppe italiane, le quali vennero impiegate sul fronte di Cassino e nel settore adriatico, senza autonomia e solo in azioni secondarie. Nell’Italia settentrionale le forze partigiane affrontarono i tedeschi e le bande fasciste in scontri duri e sanguinosi. Nel maggio-giugno 1944, mentre la Gnr andava progressivamente indebolendosi, le formazioni partigiane presero l’iniziativa arrivando a impegnare nell’ottobre 1944 fino a otto divisioni germaniche. A contrastarle erano a quel punto in primo luogo i tedeschi. Un rilevante peso politico ebbero le «repubbliche partigiane», che, costituite tra la primavera e l’inizio dell’inverno in località temporaneamente sottratte al nemico, diedero vita a zone libere nella Valsesia, nell’Appennino parmense, a Montefiorino, nelle valli di Lanzo, nel Friuli orientale, nella valle di Torriglia, nella Carnia, nell’Ossola, nelle Langhe e nell’Alto Monferrato, dove si insediarono forme provvisorie di governo popolare. Nella durezza della guerra civile e della lotta contro i tedeschi, le popolazioni ebbero a soffrire di atroci rappresaglie in risposta ad azioni partigiane. Una delle prime ebbe luogo a Boves, nel Cuneese, dove il 19 settembre 1943 vennero uccise ventitre persone e il 15 novembre altre undici da un gruppo di fascisti. A Sant’Anna di Stazzema, in Versilia, il 12 agosto 1944 un massacro indiscriminato provocò la morte di 560 uomini, donne e bambini; a Marzabotto, nel Bolognese, fra il 28-29 settembre vennero trucidati 1836

civili e il Paese fu raso al suolo. Tra i dirigenti del movimento di liberazione persero la vita il generale Giuseppe Perotti, con sette membri del Comitato militare piemontese, fucilati il 5 aprile in seguito all’uccisione di un giornalista fascista da parte dei gappisti; e l’azionista Duccio Galimberti e il comunista Eugenio Curiel, giustiziati rispettivamente nel dicembre 1944 e nel febbraio 1945. Il 2 gennaio 1945 venne arrestato Ferruccio Parri, fatto però liberare in marzo dal generale delle SS Wolff, impegnato in trattative segrete con gli Alleati, dietro la pressione di questi ultimi. A partire dal giugno 1944, quando la Gnr andava disgregandosi e il neofascismo perdeva il controllo dell’Italia centrale in concomitanza con le azioni offensive delle bande partigiane e il loro irrobustimento, la Repubblica Sociale riuscí a mettere in campo nuove forze, assai combattive, costituite principalmente dalle «bande nere» giunte a comprendere intorno a 40 000 uomini e da quattro divisioni di circa 20 000 unità, bene addestrate in Germania. Sia le prime che soprattutto le seconde vennero questa volta dotate dai tedeschi di armamenti adeguati. Ad affiancarle efficacemente fu la X Mas. Tedeschi e fascisti insieme attaccarono con feroce determinazione le formazioni partigiane, compiendo spietati rastrellamenti. L’offensiva nazifascista dell’autunno 1944 decretò la fine delle repubbliche partigiane. Fu in quel periodo che cadde il citato proclama del generale Alexander che, non ascoltato, invitava i combattenti delle montagne a nascondere le armi e a cercare rifugi. Nei rapporti tra le formazioni partigiane di diverso indirizzo non mancarono, come si è detto, momenti di gravi contrasti, culminanti in alcuni casi in eventi drammatici. In relazione al fatto che gli Alleati concedevano i loro aiuti, mediante lanci aerei selezionati, soprattutto alle bande non comuniste, queste ultime in numerose occasioni agirono manu militari per strappare armi alle altre. L’episodio piú tragico fu quello avvenuto agli inizi del febbraio 1945 nei boschi di Malga Porzûs, nel Friuli: qui diciassette membri delle brigate Osoppo, di orientamento prevalentemente cattolico, vennero uccisi da partigiani comunisti con l’accusa di avere preso accordi con la X Mas in vista di un’intesa diretta a contrastare i partigiani di Tito. Gravi tensioni vi furono anche tra comunisti da un lato e formazioni cattoliche in Lombardia e nel Modenese e gielliste in Piemonte.

3. L’insurrezione, la fuga di Mussolini e la “resa dei conti”. L’irresistibile avanzata delle armate alleate nell’Italia del Nord creò le condizioni favorevoli alla proclamazione dell’insurrezione nazionale da parte dei partigiani il 25-26 aprile 1945. Il generale americano Mark Clark il 13 aprile aveva rivolto alle forze della Resistenza l’invito a non scendere in pianura e a non scontrarsi frontalmente con i tedeschi; invito che andava incontro alle richieste degli ambienti italiani interessati a realizzare un trapasso il meno traumatico possibile per favorire uno sbocco politico moderato gestito dagli alleati e dal governo del Sud. Si trattava di una linea in netto contrasto con la volontà delle bande partigiane e dei partiti decisi a far pesare politicamente a guerra finita il contributo da essi dato alla liberazione dell’Italia. L’appello di Clark venne respinto non solo dal Partito comunista, dal Partito d’Azione e dal Partito socialista italiano di unità proletaria, ma anche dalla Democrazia cristiana e dal Partito liberale. Mentre le truppe alleate – britannici, americani, polacchi – e soldati del Corpo italiano di liberazione iniziavano l’invasione della valle del Po, il Clnai impartí ai partigiani l’ordine di insurrezione generale. Il 25 aprile esso assunse i poteri provvisori di governo ed emanò la sentenza di morte o la punizione dell’ergastolo per i membri del governo di Salò e i gerarchi fascisti. Il 1 o maggio Trieste venne liberata dai partigiani iugoslavi. Gli operai occuparono le fabbriche e le difesero. I tedeschi si arresero o si ritirarono e la Repubblica di Salò si disgregò. Mussolini – dopo un incontro il 25 aprile a Milano, patrocinato dal cardinale Ildefonso Schuster, con membri del Clnai (in assenza però dei comunisti), che gli intimarono la resa incondizionata delle forze armate di Salò – lasciò cadere il progetto vagheggiato da Pavolini di concentrare le truppe fasciste superstiti in un’ultima, disperata resistenza in Valtellina. Fallito il tentativo di trovare accoglienza in Svizzera, a Como abbandonò al loro destino alcune migliaia di suoi seguaci ivi concentratisi, cercando una via personale di scampo. Aggregatosi a Menaggio il 27 aprile a una colonna tedesca diretta in Svizzera con la sua compagna Claretta Petacci, a Musso, presso Dongo, venne riconosciuto, nonostante si fosse travestito da soldato tedesco, arrestato e rinchiuso in una casa di contadini a Giulino di Mezzegra. Il 28 Mussolini e la Petacci, che volle condividere la sorte del suo compagno, furono prelevati dal “colonnello Valerio”, il comunista Walter Audisio, e uccisi. In quello stesso giorno vennero giustiziati altri gerarchi, tra

cui Pavolini. Caddero anche Starace e Farinacci. I corpi di Mussolini, della Petacci e di alcuni gerarchi, trasportati a Milano, furono appesi a testa in giú a Piazzale Loreto, dove nell’agosto 1944 erano stati esposti i cadaveri di quindici ostaggi fucilati dai fascisti, e abbandonati al ludibrio della folla. Giovanni Preziosi, il teorico del razzismo, aveva intanto commesso suicidio con la moglie. Graziani e Borghese riuscirono a scampare: l’uno salvato dal generale Cadorna e consegnato agli alleati, l’altro messo al riparo dai servizi segreti americani. La definitiva capitolazione delle forze tedesche in Italia avvenne il 2 maggio 1945. I giorni della liberazione e quelli successivi furono anche i “giorni dell’ira” nei confronti dei fascisti, dei collaborazionisti, dei delatori, dei torturatori, in generale di coloro che avevano sostenuto piú attivamente la Repubblica di Salò. Entrarono in azione «tribunali popolari» che procedettero a esecuzioni sommarie. Non mancarono numerose vendette private. Una cifra precisa dei giustiziati non è stata accertata, ma è realisticamente valutabile tra i 12 000 e i 15 000. Aveva cosí fine la tragedia di una lotta di liberazione nazionale che aveva altresí assunto il carattere di una terribile guerra civile, costata ai partigiani circa 40 000 caduti in combattimento o assassinati e alla popolazione civile circa 10 000 vittime di eccidi e rappresaglie. Circa 3000 furono i soldati del Corpo di liberazione italiano morti nella campagna d’Italia. Quanto ai militari della Repubblica Sociale caduti tra il 1943 e il 1945, si calcola (ma la cifra è assai incerta) che si siano aggirati intorno ai 5000. Complessivamente tra il 1940 e il 1945 i morti causati dalla guerra ammontarono a una cifra intorno ai 450 000, di cui circa 90 000 donne. Dal conto loro i partigiani di Tito provvidero a “regolare i conti” nelle regioni da essi occupate a est di Trieste, che erano state oggetto nel periodo fascista e dell’occupazione nazista di una politica di discriminazione, intessuta di gravi prevaricazioni e culminata in numerose uccisioni, nei confronti della popolazione slava. Nel corso della lotta partigiana e negli anni seguenti ammontarono ad alcune migliaia le esecuzioni di rappresaglia nei confronti di italiani, una parte dei quali gettati nelle “foibe”, voragini di origine carsica. Tra le vittime, uccise o avviate in campi di concentramento in Iugoslavia, vi furono non soltanto collaborazionisti, delatori, militari responsabili di azioni repressive, ma anche partigiani e altri italiani anticomunisti o reputati tali. 1. Opera omnia, XXXII, pp. 128-38.

2. Il testo della relazione in Togliatti, Opere, V. 1944-1955 cit., pp. 4-37.

Capitolo dodicesimo L’Italia dal 1945 al 1948. Il sopravvento del moderatismo

1. I difficili equilibri politici dopo la Liberazione. Alla fine della Seconda guerra mondiale l’Italia, la cui popolazione ammontava a poco piú di 46 milioni di abitanti, dovette affrontare una serie di problemi assai gravi, la sintesi dei quali era nientemeno che la seguente: “rifare lo Stato”, lo Stato che tra il 1943 e il 1945 si era dissolto. Si trattava di una situazione che in un certo senso richiamava quella esistente nel 1860-61. Occorreva infatti ricomporre l’unità del Paese lacerata negli anni dell’occupazione degli opposti eserciti stranieri e della guerra civile, partendo dal fatto che la lotta partigiana contro il nazifascismo si era sviluppata in misura di gran lunga prevalente nel Nord e che questo, in relazione ai progetti di rinnovamento del Paese, si trovava su posizioni piú progressiste che non il Sud, dove la monarchia e i governi che in esso si erano succeduti dopo l’armistizio avevano operato cosí da favorire la continuità con le precedenti strutture dello Stato; iniziare la ricostruzione di un sistema politico e di un quadro istituzionale capace di assicurare un governo in un contesto in cui i partiti antifascisti, con le loro organizzazioni in via di ridefinizione e consolidamento, in assenza di elezioni politiche generali non conoscevano ancora gli orientamenti di fondo del Paese e quindi i reciproci rapporti di forza; affrontare i compiti della ricostruzione di un’economia prostrata dagli effetti del conflitto. Infine, vi era la questione posta dalla presenza nel Paese delle forze di occupazione inglesi e americane, le quali, come comprensibile e inevitabile, sorvegliavano attentamente gli sviluppi politici della situazione italiana, con palesi simpatie, particolarmente accentuate da parte inglese, per le forze moderate e la netta ostilità verso i partiti di sinistra. L’influenza dell’Amministrazione militare alleata (Amg) costituiva un fattore da cui le forze politiche italiane non potevano prescindere e la presenza delle truppe anglo-americane era una garanzia per i partiti di centro e di destra nei confronti di una sinistra comunista e socialista filosovietica al cui interno si coltivavano propositi di mutamenti di carattere radicale che le potenze occidentali non erano disposte a consentire in un Paese che esse, nel quadro

geopolitico che andava delineandosi di un confronto con l’Unione Sovietica destinato ad acutizzarsi, erano decise a mantenere sotto il loro controllo. Dal punto di vista economico le condizioni dell’Italia nel 1945, pur notevolmente migliori di quelle dei Paesi dell’Europa centro-orientale e meridionale, si presentavano decisamente precarie. Le distruzioni belliche avevano comportato la perdita di circa il 20% del patrimonio economico nazionale. L’industria si era salvata in una misura consistente, poiché i danni si aggiravano intorno all’8% degli impianti; ma le capacità produttive complessive, scese nel 1945 al 29% rispetto al 1938, erano gravemente compromesse dalla mancanza di materie prime e dall’invecchiamento tecnologico e dal logoramento subito dalle attrezzature durante la guerra. L’agricoltura registrava un forte calo produttivo, dovuto tanto all’abbandono o alla rovina delle coltivazioni e dei terreni in vaste zone quanto all’impoverimento del suolo, rimasto senza sufficienti concimazioni. Il raccolto del grano, che nel 1938 era stato di 81 838 000 quintali, scese nel 1945 a 41 766 000. Il patrimonio zootecnico aveva subito a sua volta una pesante riduzione. Complessivamente la produzione agricolo-zootecnica era, sempre rispetto al 1938, calata al 63,3%. L’agricoltura nazionale non riusciva quindi ad assicurare un’alimentazione neppure lontanamente adeguata alle necessità della popolazione (la media di calorie disponibili per abitante nel 1938 era di 2723, nel 1947 di 1737); il che fece subito emergere la grande importanza degli aiuti materiali che solo gli americani erano in grado di fornire in misura consistente, con evidenti conseguenze politiche, a una popolazione in molta parte ridotta a vivere in miseria. Grandi danni aveva subito il sistema dei trasporti ferroviari, ridotto per il 40%, e quello dei trasporti marittimi, sceso al 10%. Anche nel settore dell’edilizia, con la messa fuori uso di oltre il 10% del totale dei fabbricati, la situazione era difficile, in particolare nelle maggiori città. Il reddito nazionale si era dimezzato, ammontando al 51,9% rispetto al 1938; e una tale ingente caduta colpiva in maniera assai diversa gli strati popolari rispetto a quelli alti e medio-alti. In un simile contesto lo Stato e gli imprenditori privati non erano in condizioni di avviare una consistente ripresa produttiva per l’insufficienza di capitali, che, anche in questo caso, potevano essere forniti unicamente dagli Stati Uniti. I prezzi erano saliti nel 1945, rispetto al 1939, di 18,4 volte. I disoccupati e i sottoccupati censiti nel 1946 risultarono essere 1 654 872. Nel 1945 il salario reale medio era circa la metà di quello del 1938.

Come ben comprensibile, incombente era il problema del tipo di direzione politica e sociale da dare allo Stato. Nell’Italia settentrionale la speranza che l’impulso venuto dalla Resistenza avrebbe portato a un rinnovamento profondo del Paese era molto viva, soprattutto nei partiti comunista, socialista, azionista e dei loro simpatizzanti. Il leader del Partito socialista (ufficialmente Partito socialista di unità proletaria), Nenni, espresse la convinzione che il «vento del Nord» sarebbe prevalso su quello di segno moderato che saliva dal Sud; sennonché essa si rivelò illusoria: il «vento del Sud» si dimostrò infatti complessivamente piú forte di quello del Nord. In un breve volgere di tempo, secondo le implicazioni dell’accordo del 26 dicembre 1944 fra il governo Bonomi e il Clnai, gli organismi installati dai Cln regionali dopo la resa nazifascista dovettero cedere tutti i poteri al governo di Roma. Anche i Consigli di gestione, istituiti nelle fabbriche per porre l’amministrazione aziendale sotto il controllo degli operai in vista dell’epurazione degli industriali maggiormente compromessi con il regime fascista e la Repubblica sociale, vennero rapidamente esautorati. Sicché, con l’appoggio determinante dell’Amministrazione militare alleata, il governo italiano fece prevalere la continuità delle strutture amministrative dello Stato contro ogni proposito, sostenuto dalle forze maggioritarie della Resistenza, di attuare un cambiamento qualitativo. Tra i partiti di sinistra il Partito d’Azione si trovava in prima fila nel rivendicare la necessità di avviare una «rivoluzione democratica». Le forze partigiane furono disarmate, ma parzialmente, poiché soprattutto i comunisti, e non solo essi, provvidero a nascondere in misura consistente le proprie armi, come risultò dai sequestri operati tra il 1945 e il 1952. La “normalizzazione” venne favorita dalla linea perseguita dal Partito comunista, che, in coerenza con quella stabilita dal suo leader Togliatti nel 1944, adottò una strategia che aveva quale obiettivo di contenere entro certi limiti le pur inevitabili tensioni politiche e sociali, collocare il partito nella dialettica elettorale e parlamentare, rafforzare la propria legittimazione di forza rivoluzionaria ma non eversiva. Valutando con spirito realistico il significato della presenza anglo-americana in Italia e tenendo conto delle implicazioni degli accordi intervenuti fra le grandi potenze che assegnavano l’Italia alla sfera occidentale, il partito si orientò verso l’accettazione delle regole della democrazia parlamentare, senza d’altra parte rinunciare ad alimentare nelle masse che lo seguivano la fiducia che un consenso popolare

maggioritario ai partiti della sinistra marxista avrebbe permesso in un secondo tempo di inaugurare per via parlamentare un incisivo processo riformatore, che è dire un corso di «democrazia progressiva», non ancora socialista, ma tale da aprire la strada al socialismo, tenendo fermo il modello fornito dall’Unione Sovietica, considerata il Paese destinato a vincere la partita finale contro il mondo capitalistico con le relative conseguenze sull’Italia. Al tempo stesso il partito si teneva pronto all’eventualità di una nuova guerra civile nel caso in cui la situazione internazionale precipitasse sfociando in un terzo conflitto mondiale o le forze conservatrici e di destra interne mirassero a instaurare nel Paese un nuovo regime autoritario diretto a reprimere la sinistra di classe. Certo è che il ritrovamento degli importanti depositi di armi del quale si è detto contribuiva ad alimentare nei confronti del Partito comunista la profonda diffidenza delle forze politiche avversarie. Nell’immediato dopoguerra i partiti politici vivevano in una situazione di attesa, di incertezza. Liberali, democristiani, azionisti, socialisti, comunisti, repubblicani e monarchici guardavano alle prime elezioni per poter valutare i rispettivi rapporti di forza e in quale misura l’influenza esercitata rispettivamente dalla Resistenza e dal Regno del Sud si traducesse in consenso popolare. Appariva nondimeno ormai chiara la loro fisionomia. Il Partito liberale, il protagonista dello Stato prefascista sul versante del governo, era su posizioni apertamente conservatrici, poggiava su una ristretta base sociale, formata da strati borghesi e medio-borghesi favorevoli a restaurare il vecchio Stato travolto dal fascismo e decisi a opporsi a ogni sostanziale mutamento che turbasse gli assetti della proprietà e i tradizionali rapporti tra le classi. La Democrazia cristiana si richiamava al Partito popolare di Sturzo: la sua era un’ideologia interclassista che faceva presa su tutti gli strati e in particolar modo su quelli rurali; ma, in sintonia con la dottrina della Chiesa, si presentava come un partito impegnato nell’affrontare questioni come la riforma agraria, auspicava rapporti di collaborazione tra capitale e lavoro nel pieno rispetto della proprietà privata e la valorizzazione a fini sociali della produzione. A essa andava l’appoggio diretto e massiccio dell’Azione cattolica, delle sue organizzazioni, del clero, della rete diffusa delle parrocchie e del Vaticano con la sua dimensione e influenza internazionali. Il Partito socialista poteva contare sulla forza della propria tradizione e sul fatto di essere stato la prima espressione politica organizzata delle masse lavoratrici italiane e il maggiore partito della sinistra prima

dell’avvento del fascismo. Diviso fra rivoluzionari e riformisti, durante il regime fascista e la Resistenza aveva intrecciato, data la netta prevalenza dei primi, legami molto stretti con i comunisti. Sennonché questi legami, che la sinistra del partito intendeva come premessa per l’unificazione con i comunisti in vista della ricostituzione di un unico partito proletario, erano poco accetti alla minoranza che, animata dagli ideali di Turati e Matteotti, considerava la linea dell’ala sinistra un cedimento verso un Partito comunista di osservanza sovietica e portatore di un’ideologia antidemocratica. Si trattava né piú né meno che della riproposizione del contrasto che aveva segnato in passato le due correnti. Il Partito comunista, che era stato in prima fila nel combattere il fascismo sopportando i sacrifici piú pesanti e nella Resistenza aveva dato il maggior contributo di uomini, costitutiva il piú forte e meglio organizzato partito di massa (nel 1947 contava 2 250 000 iscritti, di fronte ai poco piú dei 500 000 del Partito socialista e nel 1948 ai 1 200 000 della Dc, che però godeva dell’appoggio anche dei circa 2 000 000 di membri dell’Azione cattolica). Esso manteneva strettissimi rapporti di dipendenza dall’Unione Sovietica (che d’altronde corrispondevano a quelli, seppure meno rigidamente vincolanti, della Dc dagli Stati Uniti); e da questa traeva appoggio politico ed economico, vantando ed esaltando in maniera incondizionata il prestigio di Stalin e del suo Paese, principale artefice della vittoria sulla Germania, guida dei lavoratori di tutto il mondo ed esempio luminoso di socialismo realizzato. Se la strategia seguita da Togliatti tendeva a fare del Pci una forza che si muoveva sul terreno legalitario, nondimeno al suo interno persistevano «doppiezza» e ambiguità, poiché esso lasciava spazio alle istanze di gruppi piú radicali persuasi che il partito, non appena le circostanze, da considerarsi non lontane, fossero state favorevoli, avrebbe agito per instaurare una dittatura proletaria secondo il modello sovietico. Queste posizioni, largamente diffuse tra gli iscritti e i simpatizzanti, erano favorite dal fatto che il partito si dichiarava pienamente solidale con il regime totalitario staliniano, con la politica estera sovietica e con i regimi dittatoriali instaurati dai comunisti, sotto la copertura di governi di «democrazia popolare», nei Paesi dell’Europa orientale occupati dall’Armata Rossa. Erano gli aspetti che facevano apparire il Pci agli occhi sia delle masse comuniste e socialiste sia dei ceti borghesi e popolari legati alle forze moderate e di destra, da punti di vista e con sentimenti opposti, come “il partito sovietico” in Italia, contro cui De Gasperi chiamava a raccolta i democratici di

orientamento occidentale. La direzione togliattiana, mentre manteneva il partito, nelle circostanze date, sul piano della legalità, non esitava a propagandare quale sbocco finale della sua azione la rivoluzione socialista, con l’intento di non allontanare l’ala del partito e gli strati popolari piú estremisti e piú sensibili alla promessa del non lontano avvento di un ordine che avrebbe abbattuto quel capitalismo che in Italia aveva fatto combutta con il fascismo. Una tale “doppia anima” del partito, da una parte legalitaria e dall’altra potenzialmente eversiva, era un motivo di gravi tensioni con tutte le forze anticomuniste di centro e di destra. Comunisti e socialisti potevano contare sull’importante appoggio della Confederazione generale italiana del lavoro, ricostituitasi nel giugno 1944 e da essi controllata, nonostante la presenza di altre componenti, fra cui anzitutto quella cattolica. Infine, il Partito d’Azione, che denunciava fin dal nome l’ispirazione mazziniana, era l’unico partito nuovo comparso sulla scena nazionale. Fondato a Roma nel giugno 1942, ancora dunque durante il regime fascista, aveva raggiunto con le sue brigate di Giustizia e Libertà una notevole forza militare nella Resistenza, seconda solo a quella delle brigate comuniste Garibaldi. Si dichiarava erede di quella «Giustizia e Libertà» che, nata principalmente dall’iniziativa di Rosselli e Lussu, era stata fin dagli anni Trenta con i comunisti alla testa della lotta clandestina al regime. Ma nel 1945-46 appariva come un soggetto eterogeneo, in quanto riuniva esponenti di dichiarate tendenze socialiste e classiste come Emilio Lussu e liberaldemocratiche come Ugo La Malfa, orientati in campo economicosociale in senso riformatore ma non radicale e tanto meno anticapitalistico. Sostenuto da un folto numero di eminenti personalità del mondo culturale, era considerato come un “partito di intellettuali”. Non aveva alle spalle una tradizione politica paragonabile a quella dei socialisti, dei comunisti e dei democristiani e non poteva contare su alcuna organizzazione di massa. Insomma, nell’immediato dopoguerra costituivano grandi incognite i rapporti di forza sia tra i singoli partiti sia tra repubblicani e monarchici.

2. Il governo Parri: un governo transitorio di compromesso. Dopo la Liberazione, il governo Bonomi presentò le dimissioni. Occorreva formare un governo che rispecchiasse la realtà dell’avvenuta

riunificazione dello Stato e tenesse conto della pressione, ancora forte, esercitata dai Comitati di liberazione. Venute a cadere per mancanza di accordo le candidature di Nenni e di De Gasperi, si giunse alla designazione di uno dei maggiori esponenti della Resistenza, l’azionista Ferruccio Parri, che il 21 giugno 1945 formò il suo governo, frutto di un compromesso fra i partiti democristiano, comunista, socialista, azionista, liberale e demolaburista, i quali, in assenza – come si è detto – di una verifica elettorale, e quindi dei rispettivi rapporti di forza, si accordarono su un punto di equilibrio tra le correnti di sinistra e quelle moderate. Ebbe cosí inizio la fase – che sarebbe durata dal giugno 1945 al maggio 1947 – dei governi di «alleanza antifascista». Parri resse anche il ministero dell’Interno, Nenni fu con il liberale Manlio Brosio uno dei due vicepresidenti del Consiglio, De Gasperi assunse gli Esteri e Togliatti la Giustizia. Il presidente del Consiglio, una personalità di grande prestigio ma priva delle qualità di leadership, dell’energia personale e della forza politica proprie di De Gasperi, Nenni e Togliatti, si trovò subito ad affrontare non soltanto le pesanti difficoltà dell’economia, ma anche le forti agitazioni nelle fabbriche e nelle campagne e l’inquietante azione di forze separatiste, particolarmente pericolose anzitutto in Sicilia, dove i ceti conservatori – appoggiati dalla mafia riemersa sulla scena dell’isola anche grazie all’appoggio determinante ricevuto dagli americani dopo lo sbarco per la sua fama di “antifascista” – manovravano per spezzare l’unità nazionale al fine di poter meglio difendere i propri privilegi e preservare il proprio predominio economico e sociale. Nell’isola prese piede il Movimento per l’indipendenza della Sicilia, con a capo Andrea Finocchiaro Aprile, rampollo di una famiglia della sinistra risorgimentale e già sottosegretario nel governo Nitti del 1919-20, che non esitò a far leva sul malcontento dei contadini. Il movimento si dotò nel 1944 di un braccio armato, l’Esercito volontario per l’indipendenza siciliana, cui si unirono anche fuorilegge come il mafioso Salvatore Giuliano di Montelepre. I leader del Movimento – che avevano inizialmente basato le loro speranze su contatti avuti con esponenti americani – arrivarono a inviare nel settembre 1945 un documento con le loro richieste alle potenze alleate, provocando a quel punto la ferma reazione del governo, che fece arrestare Finocchiaro Aprile. Dopo di che l’esercito provvide alla repressione dei gruppi armati separatistici. Comunque il movimento contribuí in maniera determinante a una soluzione politico-istituzionale culminata nel 1946 nel varo di uno statuto regionale per

l’isola e nel 1947 nell’elezione dell’Assemblea siciliana dotata di rilevanti poteri autonomi. Parri fronteggiò i problemi economici con progetti tendenti a sostenere la piccola e media impresa, a ridimensionare le imprese monopolistiche, i cui elevati profitti di guerra intendeva colpire con tasse elevate, a riformare il sistema fiscale con l’introduzione dell’imposta progressiva, a introdurre il cambio della moneta per colpire gli extraprofitti di guerra; ma gli effetti pratici non seguirono. Tipico fu il caso del cambio della moneta, che, proposto dal ministro comunista Mauro Scoccimarro, incontrò la decisa ostilità di Luigi Einaudi, che reggeva la Banca d’Italia, e del ministero del Tesoro, nonché la freddezza della Dc. In campo politico Parri sollevò la questione dell’epurazione dei maggiori responsabili del fascismo, che però si presentò fin dall’inizio quanto mai complicata per le resistenze ad affrontarla con energia. Il governo collaborò poi con le autorità alleate al completamento del disarmo delle formazioni partigiane, che risultò tutt’altro che totale poiché – come già ricordato – numerosi gruppi specie di sinistra, nei quali serpeggiavano velleità di rivoluzione sociale, occultarono ingenti quantità di armi e munizioni. Il disarmo era reso tanto piú urgente dal fatto che dopo l’aprile vennero perpetrati non solo numerosi assassinii di carattere politico che colpirono ex fascisti e collaborazionisti, ma anche atti di violenza privata e rapine. Nel settembre 1945 venne convocata una Consulta nazionale, di 430 membri e presieduta da Sforza, una sorta di parlamento consultivo formato da membri designati dai partiti e da altre componenti. Le sinistre intendevano attribuire a essa una funzione propulsiva come organo politico-legislativo per dare l’avvio a un’azione incisivamente riformatrice, ma i democristiani e ancora piú i liberali erano contrari. Al suo interno emerse il contrasto tra coloro che come Parri concepivano la democrazia quale deciso superamento del sistema liberale prefascista, considerato ancora oligarchico, e come Croce, saldamente ancorato alla tesi che il fascismo avesse soltanto rappresentato «una parentesi», quel sistema invece intendevano sostanzialmente restaurare. Il programma di Parri venne giudicato dai conservatori troppo sbilanciato a sinistra; sicché i liberali, seguiti dai democristiani, presero l’iniziativa di ritirarsi dal governo, provocandone la caduta il 24 novembre 1945. All’atto delle sue dimissioni, il leader azionista, che aveva avvertito il peso dell’isolamento in cui era stato lasciato, pronunciò

un duro discorso in relazione a quella che avvertiva come una pericolosa involuzione in atto rispetto agli ideali di rinnovamento che avevano animato le forze piú progressiste della Resistenza, spingendosi a dire che la situazione si configurava come «prefascismo» e che quello in atto aveva il carattere di un «colpo di Stato». Socialisti e comunisti, dal canto loro, si astennero dal sostenere l’esecutivo guidato dal leader azionista. Togliatti e Nenni giudicavano necessario il passaggio della guida e delle responsabilità di governo ai maggiori partiti, sulla base di una intesa tra i loro schieramenti e la Democrazia cristiana, evitando un irrigidimento quale era venuto a crearsi tra quest’ultima e il Partito liberale da un lato e il Partito d’Azione dall’altro. Cosí ebbe inizio il rapido declino del ruolo politico di quest’ultimo, che, risultato privo di un significativo consenso elettorale e internamente diviso, nell’ottobre 1947 avrebbe deciso il proprio scioglimento.

3. De Gasperi al governo. Repubblica e Assemblea costituente. L’estromissione delle Sinistre dal governo. Il 10 dicembre 1945 entrò in carica il primo governo guidato da De Gasperi che, pur vedendo ancora la partecipazione dei precedenti partiti, attuò una svolta in senso moderato. Forte del fatto che il 1 o gennaio 1946 gli Alleati restituirono alle autorità italiane l’amministrazione dell’Italia del Nord, con l’eccezione della Venezia Giulia, De Gasperi, il cui governo godeva del determinante appoggio degli anglo-americani, degli industriali, degli agrari, dell’Azione cattolica e del Vaticano, provvide a eliminare i prefetti e i questori nominati dai Cln all’atto della Liberazione, reintegrando nella pienezza dei suoi poteri la burocrazia centrale. Del pari l’epurazione dei fascisti, condotta fino ad allora in maniera molto timida, fu di fatto chiusa, con soddisfazione dei moderati di tutte le tendenze; tanto piú che a chiuderla formalmente non fu un ministro appartenente al loro campo, ma Togliatti, il quale, in qualità di ministro della Giustizia, nel giugno 1946 promulgò una vasta amnistia per i reati politici, che mise in libertà numerosi ex fascisti imprigionati in attesa di processo, anche imputati di gravi delitti, e comportò la revisione di gran parte dei processi a loro carico già conclusisi con condanne. Al pari di numerosi membri dell’amministrazione pubblica, anche un certo numero di magistrati venne investito dalla macchina dell’epurazione,

ma le condanne furono assai contenute. Ministro del Tesoro, e in quanto tale in larga misura artefice della politica economico-finanziaria, era Epicarmo Corbino, un liberista ortodosso, che era stato in prima linea nell’attacco alle misure proposte da Parri di introduzione dell’imposta progressiva, di cambio della moneta quale strumento della lotta all’inflazione e dell’emersione dei patrimoni nascosti e del varo di un’imposta straordinaria progressiva sui patrimoni. Gli Alleati inaugurarono un corso di relazioni assai piú cordiale con il governo e fecero valere, a beneficio politico dei partiti filo-occidentali, la concessione di piú larghi aiuti materiali da parte della United Nations Relief and Rehabilitation Administration (Unrra). Un avvenimento importantissimo furono le elezioni amministrative svoltesi nel marzo-aprile 1946 in 5722 comuni su 7294, in quanto fornirono la prima misura del consenso goduto da ciascun partito e videro per la prima volta le donne esercitare il diritto di votare e di essere elette. I risultati mostrarono che i socialisti e i comunisti, con 2289 comuni conquistati, avevano le loro roccaforti nell’Italia nord-occidentale e centrale, invece la Democrazia cristiana, vittoriosa in 2534 comuni, dominava nell’Italia nordorientale. Nel Sud democristiani e socialcomunisti prevalevano alternativamente a macchia di leopardo; era comunque nel Sud e in zone del Centro che le forze moderate e di destra occupavano le posizioni piú forti. Qui alle correnti guidate dai notabili liberali e dai monarchici si aggiunse il movimento lanciato dal giornalista Guglielmo Giannini, fondatore dell’«Uomo qualunque» (da cui il nome «qualunquismo»), rassemblement di piccoli borghesi con chiare venature neofasciste, che ottenne un notevole successo a Roma. La situazione si profilava in maniera tale da indurre il giovane dirigente democristiano pugliese Aldo Moro a parlare di un «vento del Sud» che andava levandosi in contrasto con il «vento del Nord» evocato da Nenni. Dal canto suo Pio XII deplorava, con toni preoccupati, «la confusione che ingenera la tendenza alla collaborazione con le sinistre da parte delle forze cattoliche, tra cui anche la Democrazia Cristiana» 1. Le elezioni misero in evidenza che i partiti di massa erano tre soli: la Democrazia cristiana, il Partito socialista e il Partito comunista. Il Partito d’Azione subí una clamorosa sconfitta, seppure inferiore a quella del Partito liberale, della Democrazia del lavoro e del Partito repubblicano. Il 2 giugno si svolsero contemporaneamente le elezioni per l’Assemblea costituente, che avrebbe dovuto dare allo Stato la sua costituzione, e il

referendum per la scelta della forma istituzionale: monarchia o repubblica. Le sinistre avrebbero voluto che fosse la futura Assemblea, al cui interno ritenevano che avrebbero prevalso un orientamento favorevole alla repubblica, a decidere anche della forma istituzionale, mentre i monarchici e le destre chiedevano il referendum nella convinzione che la maggioranza degli italiani volesse il mantenimento della monarchia. De Gasperi, poiché non solo i governi alleati ma anche le gerarchie ecclesiastiche erano favorevoli al pronunciamento popolare, fece prevalere la tesi del referendum. Alle elezioni per la Costituente la Dc ottenne 8 101 004 voti (35,2%) con 207 seggi su 556; il Partito socialista 4 758 129 voti (20,7%) con 115 seggi; il Pci 4 356 686 voti (18,9%) con 104 seggi. I grandi partiti ottennero cosí da soli quasi il 75%. Al Partito liberale e alle forze con esso alleate, presentatisi con la denominazione di Unione democratica nazionale, nonostante avessero nelle loro liste uomini come Croce, Bonomi, Orlando, Nitti, andarono soltanto 1 560 638 voti (6,8%) con 41 seggi. Una sconfitta severissima per il partito che era stato al potere nel primo sessantennio di vita dello Stato unitario. Una sconfitta ancora piú severa subí il Partito d’Azione: ottenne 334 748 voti (1,5%) con 7 seggi. Un risultato relativamente notevole ebbe invece la lista di destra dell’Uomo qualunque: 1 211 956 voti (5,3%) con 30 seggi. Al Partito repubblicano andarono 1 003 007 voti (4,4%) e 23 seggi. La Dc ebbe una forte affermazione in tutta Italia. Per essa votò la maggioranza dei ceti medi, dei contadini, delle donne e dei monarchici. I comunisti e i socialisti risultarono deboli soprattutto al Sud; mentre a essi andò in prevalenza il voto del proletariato industriale e del bracciantato agricolo del Nord e del Centro. Al successo della Dc contribuí notevolmente l’influenza della Chiesa, schieratasi a suo favore in modo massiccio. Pio XII parlò, con toni di crociata, di scelta fra una «ultramillenaria civiltà» e uno «Stato materialista, senza Dio». Le “lezioni” emerse dal voto furono essenzialmente tre: che le scelte dell’elettorato avevano premiato le grandi forze popolari dell’Italia prefascista, ossia il movimento cattolico e quello socialistacomunista; che il notabilato liberale aveva perso il consenso della gran parte dei ceti medi; che il progressismo democratico di indirizzo azionista godeva di una base di consenso del tutto insufficiente a renderlo un soggetto di qualche rilievo in grado di sopravvivere sulla scena pubblica. Il referendum istituzionale sancí la vittoria della repubblica. Per influenzare il voto degli elettori, Vittorio Emanuele III il 9 maggio abdicò a

favore del figlio Umberto e andò in esilio in Egitto. Era una mossa per sgombrare il campo dalla sua persona – tanto gravemente compromessa dal sostegno dato al fascismo e dal ruolo avuto nella catastrofe dell’esercito nel settembre 1943 – , e rafforzare le chances di Umberto II. I voti per la repubblica furono 12 718 641 (54,3%); quelli per la monarchia 10 718 502 (45,7%). I risultati, comunicati in via provvisoria dal ministro degli Interni, il socialista Giuseppe Romita, in un primo tempo il 5 giugno e abbastanza tardivamente in via definitiva dalla Corte di cassazione il 18 giugno, sollevarono le contestazioni dei monarchici, i quali denunciarono brogli. Come nelle elezioni politiche, anche in occasione del referendum il Sud votò in senso piú conservatore, e cioè in maggioranza per la monarchia, anche se non nella misura sperata dai suoi sostenitori. La Dc, pur esprimendosi ufficialmente per la repubblica, aveva lasciato i suoi iscritti liberi di scegliere; eguale libertà aveva concesso il Partito liberale, ufficialmente favorevole alla monarchia. Il 13 giugno Umberto II partí per il Portogallo. Il 25 l’Assemblea costituente iniziò i lavori, eleggendo presidente a grande maggioranza il socialista Giuseppe Saragat e quattro vicepresidenti, tra cui il comunista Umberto Terracini. Il 28, su proposta di Togliatti, venne eletto dall’Assemblea costituente presidente provvisorio della Repubblica il liberale indipendente napoletano Enrico De Nicola. Primo presidente eletto dalle Camere dopo il varo della Costituzione sarebbe stato l’11 maggio 1948 il liberale piemontese Luigi Einaudi. Il 15 luglio De Gasperi formò il suo secondo governo. Si trattò ancora di un governo di coalizione, in cui erano presenti, oltre alla Dc, anche gli altri due partiti di massa, il Pci e il Psiup, e il Pr. Ne furono esclusi liberali e azionisti. Pur perseguendo una linea moderata, sostanziata dalla sempre piú rapida liquidazione delle istanze politico-sociali espresse dalla Resistenza, De Gasperi, in una situazione in cui il fermento politico e sociale restava quanto mai vivo, ritenne opportuno continuare a condividere con socialisti e comunisti – i quali in ottobre avrebbero rinnovato il patto di unità d’azione – le responsabilità di governo. Dal canto suo la sinistra intendeva far valere il proprio grande peso nell’esecutivo per porre un argine alla svolta in atto. Dunque gli interessi della Dc e della sinistra, ciascuna delle quali sperava in una prossima vittoria elettorale e intendeva aspettarla dalle sponde del potere, si incontravano. Nenni entrò al governo, mentre Togliatti decise di non partecipare per dedicarsi alla guida del suo partito in una fase assai delicata.

In politica interna continuò il consolidamento degli apparati burocratici nella gran parte formati da funzionari pre-1945, mentre si intensificava l’azione delle forze di polizia per il rastrellamento delle armi nascoste e per tenere sotto controllo i gruppi ancora legati da stretti vincoli stabiliti durante la Resistenza. Un grave sintomo della frustrazione diffusa nelle file degli ex partigiani specialmente comunisti dagli effetti dell’amnistia varata da Togliatti, che aveva di fatto vanificato l’epurazione dei fascisti e dei collaborazionisti, e della protesta per il mancato mantenimento di provvidenze economiche a favore dei combattenti contro il nazifascismo fu la rivolta che nell’agosto 1946 partí dall’Astigiano e si estese a varie località del Piemonte, della Liguria, della Lombardia e del Veneto. Alcune centinaia di ex partigiani disseppellirono le armi e ripresero la via delle montagne. Il movimento eversivo, che si spense solo in ottobre, allarmò molto non solo il governo – il quale si affrettò a fare la promessa, poi sostanzialmente disattesa, di varare misure economiche a favore degli ex partigiani e anche di inserire parte di essi nelle forze di pubblica sicurezza – ma anche le direzioni del Pci e del Psiup, che si adoperarono per indurre le bande a rientrare nella legalità temendo che si aprisse una fase di scontro armato e di reazione politica tale da mettere in crisi la loro strategia legalitaria. Seppure conclusosi pacificamente, l’episodio valse a consolidare negli avversari delle sinistre la convinzione che il legalitarismo fosse solo un aspetto della doppiezza della sinistra socialcomunista e una maschera in attesa dell’“ora X” della rivoluzione. L’allarme nelle file conservatrici e moderate per l’“eversione” comunista contribuí in maniera determinante a mettere la sordina all’epurazione delle forze di polizia, dove furono lasciati ai loro posti numerosi funzionari con ruoli di responsabilità durante il fascismo. Un significato politico rilevante ebbero le elezioni amministrative di novembre. Nei comuni maggiori il Pci superò il Psiup e i due insieme superarono notevolmente la Dc, aumentando i propri voti rispetto al 2 giugno. Il calo della Dc suscitò preoccupazione nel campo moderato. I risultati indicavano che nella sinistra andava prevalendo il Pci rispetto al Psiup, travagliato da una profonda crisi interna, e che la sinistra nel suo insieme si rafforzava; mentre nel fronte opposto la posizione della Dc veniva messa in discussione anche dalla relativa avanzata delle destre. La persistenza di comunisti e socialisti al governo e i risultati elettorali di novembre suscitarono grande allarme in Vaticano. Pio XII fece conoscere la propria

avversione per la formula di governo a De Gasperi, il quale però resistette alle pressioni convinto che fosse opportuno rinviare in condizioni piú favorevoli l’aperto conflitto con la sinistra che riteneva ormai inevitabile. Rivolgendosi ai fedeli in piazza San Pietro il 22 dicembre, il papa rese palese la sua volontà di scontro affermando: noi ripetiamo oggi con raddoppiata energia il grido a voi la cui città natale è ora teatro di sforzi incessanti, volti a infiammare la lotta tra due opposti schieramenti: o con Cristo o contro Cristo; o per la sua Chiesa o contro la sua Chiesa. [...] L’ora è suonata, per non pochi fra voi, di svegliarvi da un troppo lungo sonno 2.

De Gasperi venne spinto a rivedere la strategia dei governi di unità nazionale antifascista da un contesto internazionale in cui si inasprivano, in un clima di “guerra fredda”, le tensioni tra Occidente e Oriente, che in Italia vedevano il centro moderato e la destra nettamente schierate con il primo e la sinistra socialcomunista con il secondo. Egli si pose il duplice obiettivo di arginare e isolare le sinistre e di allargare il consenso al centro a scapito delle destre: operazione nella quale venne decisamente favorito, come si è detto, dall’inizio della guerra fredda scoppiata tra le potenze occidentali e l’Unione Sovietica. Si preparò quindi ad affrontare gli inevitabili riflessi sulla scena politica italiana e sui rapporti tra i partiti che avevano dato vita ai governi di unità antifascista: eredità politica di una Resistenza che andava rapidamente usurandosi. Sicché, mentre i comunisti e i socialisti cercavano di garantire la loro permanenza al governo, si profilava la frattura destinata a opporre il Pci e il Psiup alla Dc e ai suoi alleati nel quadro – come affermava la propaganda anticomunista – della «scelta di civiltà» di cui parlava Pio XII. Fattore determinante del successo della mutata linea di De Gasperi fu la ricomparsa all’interno della sinistra socialista del fenomeno tradizionale dello scissionismo, che oppose l’ala filocomunista a quella riformista e «autonomista»; scissionismo che ebbe le sue puntuali ripercussioni in campo sindacale. La scissione si consumò nel gennaio 1947 al XXV Congresso del Partito socialista. Il leader dell’ala contraria al patto di unità di azione con i comunisti, Giuseppe Saragat, diede vita al Partito socialista dei lavoratori italiani (Psli) – che avrebbe in seguito assunto la denominazione di Partito socialista democratico italiano (Psdi) –, provocando la fuoruscita di ben 52

sui 115 membri eletti alla Costituente nelle file socialiste. Il programma saragattiano era filo-occidentale, di netta opposizione in politica interna al Pci e in politica estera all’Unione Sovietica, accusata di essere un Paese totalitario che andava soggiogando l’Europa orientale. Saragat non si peritò di dire all’ambasciatore americano James C. Dunn che i comunisti italiani si apprestavano a prendere il potere: «Non siamo al penultimo stadio, ma all’ultimo» 3. Dal canto suo il Psiup ritornò al vecchio nome di Partito socialista italiano. La scissione da un lato indebolí la sinistra italiana, all’interno della quale il Pci prese il sopravvento, che prima di essere quantitativo era di indirizzo ideologico e politico; dall’altro rafforzò la Dc, poiché il partito di Saragat si sarebbe reso disponibile ad allearsi con essa. Nel 1948 e 1949 il Psi avrebbe conosciuto due altre scissioni. Proprio mentre avveniva la scissione socialista, De Gasperi si trovava negli Stati Uniti, dove rimase dal 5 al 15 gennaio, per sollecitare consistenti aiuti economici e l’appoggio a una linea politica orientata in prospettiva, anche se non immediatamente, al confronto decisivo con la sinistra socialcomunista. Il leader democristiano conseguí il suo scopo. Messo di fronte alla divisione dei socialisti, che modificava i rapporti interni ai partiti di governo, diede le dimissioni e formò il suo terzo governo; il quale, destinato chiaramente a essere transitorio, entrò in carica il 2 febbraio, con l’immissione di esponenti indipendenti ma ancora con la partecipazione, indebolita, di comunisti e socialisti (Nenni, che nell’ottobre 1946 aveva assunto la carica di ministro degli Esteri, venne sostituito da Carlo Sforza). De Gasperi non ritenne allora opportuno escludere la sinistra per non inasprire le reciproche relazioni in vista di due principali obiettivi: la firma del trattato di pace, che avvenne il 10 febbraio, e l’approvazione da parte dell’Assemblea costituente dell’inserimento nel testo costituzionale dei Patti lateranensi, varato il 25 marzo. In maggio, giudicando ormai mature le condizioni interne e internazionali, De Gasperi decise di liquidare i governi di coalizione con le sinistre, in parallelo con quanto avvenuto poco prima in Francia, inserendo la propria strategia nel disegno anticomunista internazionale patrocinato dagli Stati Uniti. A indurlo a questo passo contribuí l’esito delle elezioni svoltesi il 20 aprile della prima Assemblea regionale siciliana, nelle quali il Blocco del popolo superò il 30%, la Dc, con il 20,5%, perse oltre il 13% rispetto alle elezioni del 2 giugno 1946 e le forze di destra ottennero un notevole

successo. Poco dopo il leader democristiano affermò che occorreva che gli imprenditori e le classi medie si sentissero partecipi del governo del Paese, e il 30 aprile al Consiglio dei ministri, con toni espliciti, parlò della necessità di impedire che ad agire contro il governo fosse un partito, da lui definito un quarto Partito, che può non avere molti elettori, ma che è capace di paralizzare e di rendere vano ogni nostro sforzo, organizzando il sabotaggio del prestito e la fuga dei capitali, l’aumento dei prezzi o le campagne scandalistiche. L’esperienza mi ha convinto che non si governa oggi l’Italia senza attrarre nella nuova formazione di Governo, in una forma o nell’altra, i rappresentanti di questo quarto Partito, del partito di coloro che dispongono del denaro e della forza economica 4.

La posizione degasperiana era dettata dalla convinzione che occorresse aprire una nuova fase politica, che passava necessariamente per l’inevitabile confronto-scontro tra le forze moderate legate all’Occidente capitalistico e quelle della sinistra che guardavano all’Oriente comunista e da questo facevano dipendere il loro orientamento. Il 13 maggio, forte dell’appoggio americano, De Gasperi presentò le dimissioni del governo. Bruciatisi rapidamente due tentativi intrapresi prima da Nitti e poi da Orlando, il leader della Dc ottenne l’incarico di formare il suo quarto governo, che si insediò il 31 maggio e a cui parteciparono tra gli altri il liberale Einaudi, vicepresidente del Consiglio e ministro del Bilancio, i democristiani Mario Scelba all’Interno, Giuseppe Pella alle Finanze, Guido Gonella all’Istruzione, Antonio Segni all’Agricoltura, Umberto Tupini ai Lavori pubblici, Giuseppe Togni all’Industria e commercio, Amintore Fanfani al Lavoro e previdenza sociale, gli indipendenti Carlo Sforza agli Esteri, Cesare Merzagora al Commercio con l’estero, Gustavo Del Vecchio al Tesoro. Si trattava di un governo contemporaneamente gradito al Vaticano, agli ambienti economici e agli Stati Uniti, che chiudeva cosí la collaborazione governativa fra i grandi partiti di massa. Qualunquisti e monarchici votarono la fiducia al governo, di segno nettamente anticomunista. Durante questo governo, Einaudi per risanare il bilancio e promuovere la ripresa della produzione attuò una rigorosa politica economica di stampo liberista. Del pari, il democristiano Scelba resse gli Interni con propositi decisamente anticomunisti e orientati a difendere l’ordine pubblico anche con mezzi duramente repressivi.

Un atto di grande importanza era stata la firma il 10 febbraio 1947, pochi giorni dopo la formazione del terzo governo De Gasperi, del trattato di pace dell’Italia con i Paesi vincitori. Il 10 agosto 1946 De Gasperi aveva tenuto alla conferenza di pace di Parigi dinanzi alle potenze vincitrici un discorso di grande dignità nel quale aveva detto tra l’altro: Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: e soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa ritenere un imputato [...] Ho il dovere innanzi alla coscienza del mio Paese e per difendere la vitalità del mio popolo di parlare come italiano; ma sento la responsabilità e il diritto di parlare anche come democratico antifascista, come rappresentante della nuova Repubblica che [...] è tutta rivolta verso quella pace duratura e ricostruttiva che voi cercate e verso quella cooperazione fra i popoli che avete il compito di stabilire 5.

L’Italia dovette cedere alla Francia Briga e Tenda, alla Iugoslavia la parte maggiore della Venezia Giulia, le città di Pola e Zara e alcune isole della Dalmazia. La delicatissima questione della città di Trieste – che coinvolgeva Italia, Iugoslavia e Potenze alleate – trovò una soluzione solo provvisoria, con la costituzione di un «Territorio libero» diviso in due zone (A e B) affidate all’amministrazione rispettivamente degli iugoslavi e degli Alleati. L’Albania e l’Etiopia videro riconosciuta la loro indipendenza; mentre non venne decisa allora la sorte di Libia (sarebbe divenuta indipendente nel 1951), Eritrea (poi unita all’Etiopia) e Somalia (che fu posta sotto amministrazione fiduciaria italiana, ottenendo l’indipendenza nel 1960). Rodi e il Dodecaneso andarono alla Grecia. L’Italia vide drasticamente ridotte le proprie forze armate, e le vennero imposte riparazioni alle quali poi Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia avrebbero rinunciato, mentre vennero pagate all’Urss (soprattutto con la consegna di navi), alla Iugoslavia, alla Grecia, all’Albania e all’Etiopia. Il confine italo-austriaco non fu modificato, nonostante l’Austria avesse invano chiesto l’annessione dell’Alto Adige, la cui popolazione era in grande maggioranza di lingua tedesca. A moderare la tensione sorta tra Italia e Austria, che però non sarebbe venuta meno per molti anni, fu l’accordo raggiunto il 5 settembre 1946 tra De Gasperi e il ministro degli Esteri austriaco Karl Gruber, in base al quale l’Italia riconosceva all’Alto Adige - Sud Tirolo l’autonomia amministrativa e culturale, benefici economici, la parità di accesso agli uffici pubblici dei due

gruppi etnici e il bilinguismo.

4. La Costituzione. Il 22 dicembre 1947 l’Assemblea costituente approvò con 453 voti contro 62 il testo della nuova Costituzione repubblicana, la quale entrò in vigore il 1 o gennaio 1948. A predisporne il testo era stata la Commissione dei 75, nominata dal presidente dell’Assemblea il 19 luglio 1946 su designazione dei gruppi parlamentari e in corrispondenza con i rispettivi rapporti di forza. A comporla tra le personalità piú rappresentative vi erano (ma si ebbero numerose sostituzioni in corso d’opera) il liberale Einaudi; i democristiani Attilio Piccioni, Giuseppe Dossetti, Amintore Fanfani, Giorgio La Pira, Giovanni Leone, Aldo Moro, Costantino Mortati, Paolo Emilio Taviani, Ezio Vanoni; i comunisti Togliatti, Giorgio Amendola, Giuseppe Di Vittorio, Ruggiero Greco, Umberto Terracini, Nilde Iotti, Teresa Noce; i socialisti Lelio Basso, Ivan Matteo Lombardo, Lina Merlin, Sandro Pertini; Emilio Lussu e Piero Calamandrei del Gruppo autonomista; e infine alcuni repubblicani, socialdemocratici, demolaburisti, un qualunquista, un monarchico, il separatista siciliano Andrea Finocchiaro Aprile e Meuccio Ruini del Gruppo misto. La Commissione aveva a sua volta formato un Comitato di 18 membri con il compito di dare unità e coerenza alle proposte pervenute dai lavori delle sottocommissioni. Il testo uscito dalla Commissione venne discusso e approvato dall’Assemblea costituente a partire dal 4 marzo 1947 fino al 22 dicembre. Dopo l’approvazione della Costituzione e della legge elettorale della Camera, l’Assemblea fu ancora impegnata fino al 31 gennaio 1948 in lavori di completamento come gli statuti speciali delle regioni autonome di Sardegna, Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta, la legge elettorale del Senato, la legge sulla stampa, le norme a tutela dell’autonomia dell’operato della Corte costituzionale. La discussione e l’approvazione della Costituzione si svolsero in due congiunture politiche diverse: la prima segnata dalla collaborazione governativa tra i partiti di sinistra e la Democrazia cristiana; la seconda dall’avvenuta esclusione dei primi dal quarto governo De Gasperi. Nonostante i lavori della Costituente si fossero svolti in un clima segnato da contrapposizioni anche assai aspre su varie materie, prevalse infine la volontà

di accettare gli inevitabili compromessi anche dopo quella esclusione. Il testo costituzionale, che segnò una rottura netta con le istituzioni del fascismo, fu caratterizzato anzitutto dalla scelta di dar vita a una repubblica parlamentare basata su due Camere elettive – la Camera dei deputati e il Senato – investite delle stesse funzioni in campo legislativo, per cui le leggi potevano entrare in vigore solo con l’approvazione di entrambe. Venne in tal modo introdotto un sistema di “bicameralismo paritario” o “perfetto”. In un primo tempo Togliatti e Nenni si dichiararono nettamente contrari al bicameralismo. Il leader comunista, con riferimento anche alla formazione di una Corte costituzionale e all’istituto del referendum, parlò di un «sistema di inciampi» caratterizzato dalla «pesantezza e lentezza nella elaborazione legislativa», ispirato dal timore «che domani vi possa essere una maggioranza che sia espressione libera e diretta di quelle classi lavoratrici, le quali vogliono profondamente innovare la struttura politica, economica e sociale del Paese»; De Gasperi dal canto suo sostenne l’opportunità di un Senato che fosse «un’Assemblea rappresentativa degli interessi organizzati, prevalentemente eletta dalle rappresentanze del lavoro e delle professioni». Infine, si impose il bicameralismo paritario. A esso si erano convertiti De Gasperi e la Dc, spinti – come avrebbe lucidamente ammesso l’esponente della sinistra democristiana Giuseppe Dossetti – da «una voluta intenzionalità nel delineare certe strutture» quali il governo e la doppia Camera «non perché funzionassero ma perché fossero deboli», data la preoccupazione «che il Pci potesse diventare maggioranza» 6. A un eguale proposito rispose la scelta per una legge elettorale proporzionale. I comunisti e i socialisti accolsero in un secondo tempo la posizione della Dc nel timore che potesse essere questa ad assumere un eccessivo potere. La repubblica presidenziale ebbe ben pochi sostenitori: tra questi vi fu in particolare Piero Calamandrei, il quale ammoní i suoi critici che le esperienze storiche, come anche quella dello Stato prefascista in Italia, mostravano che erano le istituzioni parlamentari inefficienti e gli esecutivi dotati di insufficienti poteri e autorità ad agevolare, a causa dell’instabilità delle istituzioni, l’avvento di regimi autoritari. Fatto è che la grande maggioranza dei costituenti si trovò ad assumere le proprie deliberazioni prima che le elezioni politiche avessero reso sufficientemente chiari i rapporti di forza degli schieramenti contrapposti, con la conseguenza di indurre ciascuno di essi a paventare un tipo di istituzioni che potesse agevolare un indirizzo autoritario da parte di quello vincente.

I contenuti della Carta costituzionale espressero una serie di compromessi fra i principî generali del liberalismo democratico e le istanze sociali avanzate, pur con diverse impostazioni e finalità, da un lato dai comunisti e dai socialisti e dall’altro dai democristiani. I principî liberali che ivi affermati – i «diritti dell’uomo», le libertà politiche e civili, la sovranità popolare, la divisione dei poteri – trovarono il loro completamento nel riconoscimento dei «diritti «sociali»; il che stava a indicare il peso acquistato dalle masse lavoratrici. Vennero cosí introdotti il diritto al lavoro – l’articolo 1 o proclamava che «l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro» –, disposizioni a tutela dei lavoratori, il diritto di sciopero da esercitarsi «nell’ambito delle leggi che lo regolano», provvidenze intese a sostenere i disoccupati, gli inabili e i minorati. Furono affermati l’impegno a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»; il diritto del lavoratore a una retribuzione atta «ad assicurare e sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa»; il diritto della donna lavoratrice di ricevere una retribuzione pari a quella dell’uomo. La famiglia veniva riconosciuta e difesa come «società naturale fondata sul matrimonio». Di particolare importanza l’enunciazione esplicita della possibilità di procedere a nazionalizzazioni e di porre limiti alla tutela della proprietà privata qualora lo richiedesse il benessere della società nel suo complesso. Si giungeva a contemplare l’eventualità di esproprio dietro indennizzo «per motivi di interesse generale». Il che significava che la proprietà privata veniva messa dai costituenti in rapporto con il diritto al lavoro di tutti i cittadini e con il principio della sua funzione sociale, e pertanto considerata non inviolabile. Inoltre, per un’evidente influenza del pensiero sociale cattolico, si indicavano quali fini da perseguire la salvaguardia e la diffusione della «piccola e media proprietà» agricola e «l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi». Era sancito – e qui si sentiva l’influenza delle sinistre – «il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende». Tra i principî cardine della Costituzione era la piena eguaglianza tra i cittadini dei due sessi e l’impegno della repubblica a rimuovere tutti gli ostacoli che

impedissero lo sviluppo della personalità di ciascuno e l’accesso alle cariche pubbliche. Per quanto riguardava le istituzioni parlamentari, la Costituzione stabiliva, come si è detto, il bicameralismo, ovvero la formazione di due assemblee con funzioni paritarie: la Camera dei Deputati, della durata di cinque anni; e il Senato, della durata di sei, del quale oltre agli eletti erano membri a vita gli ex presidenti della Repubblica e cinque personalità di alto profilo per i meriti acquisiti «nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario» nominati dal Capo dello Stato. Il diritto di voto segreto fu dato ai cittadini di entrambi i sessi che avessero raggiunto ventun anni per la Camera e venticinque per il Senato; il limite di età per gli eleggibili fu posto rispettivamente a venticinque e a quarant’anni. Compito delle assemblee, ciascun membro delle quali «rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza alcun vincolo di mandato», era sia la concessione o il ritiro della fiducia al governo sia la discussione e l’approvazione delle leggi. Quanto al processo legislativo, «l’iniziativa delle leggi appartiene al Governo, a ciascun membro delle Camere ed agli organi ed enti ai quali sia conferita da legge costituzionale». Ai parlamentari veniva riconosciuta l’impunibilità per le loro opinioni e per i voti espressi «nell’esercizio delle loro funzioni». Il presidente della Repubblica era eletto – a scrutinio segreto con la maggioranza di due terzi e dopo il terzo scrutinio dalla maggioranza assoluta – dalle Camere in seduta congiunta, con la partecipazione di delegati delle regioni, per la durata di sette anni. A lui erano conferiti la facoltà di inviare messaggi alle Camere, il potere di nominare il presidente del Consiglio dei ministri e i ministri su proposta di questo, di indire nuove elezioni, di promulgare le leggi, di indire i referendum popolari, di tenere il comando delle forze armate, di invitare le Camere sia a procedere a una nuova deliberazione delle leggi (ma per una sola volta) prima della loro promulgazione, di sciogliere le Camere o una sola di esse, sentiti i pareri dei loro presidenti, non però negli ultimi sei mesi del suo mandato. Compito del presidente del Consiglio dei ministri è guidare la politica del governo e mantenere «l’unità di indirizzo politico e amministrativo». La magistratura veniva riconosciuta come «un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere» e il suo autogoverno affidato a un Consiglio superiore della magistratura (Csm), presieduto dal presidente della

Repubblica. I magistrati erano resi inamovibili. Una innovazione assai importante introdotta dalla Costituzione fu l’istituzione delle Regioni, accanto alle province e ai comuni. Per contrastare il vecchio accentramento burocratico di origine napoleonica, fatto proprio dallo Stato liberale e in maniera ancor piú accentuata dal regime fascista, i costituenti – secondo una rivendicazione tipica del pensiero democraticorepubblicano nel periodo liberale e del pensiero cattolico – provvidero a creare l’istituto regionale, in base al quale le regioni, rette da Consigli e dotate di loro Statuti, erano chiamate a esercitare poteri non soltanto di carattere amministrativo, ma anche legislativo nell’ambito del proprio territorio limitatamente a determinate aree di competenza. Per contrastare e depotenziare gli impulsi separatistici che andavano piú o meno vigoreggiando, alla Sicilia, alla Sardegna, al Trentino-Alto Adige, al FriuliVenezia Giulia e alla Valle d’Aosta furono attribuite «forme e condizioni particolari di autonomia» definite in «statuti speciali». Il compito di assicurare la conformità delle leggi con la Costituzione venne assegnato alla Corte costituzionale, chiamata a dirimere qualsiasi controversia avesse a sorgere in materia. La volontà dei costituenti di imprimere una netta svolta rispetto al passato emerse chiaramente nell’esplicito divieto sia di sottoporre a revisione costituzionale la forma repubblicana sia di ricostituire «sotto qualsiasi forma» il partito fascista. Il ruolo dei partiti, organi della libera associazione dei cittadini, doveva essere di «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Ai sindacati si indicava l’obbligo di dotarsi di statuti tali da sancire «un ordinamento interno a base democratica». In materia di istruzione, venne riconosciuto il diritto a enti privati di «istituire scuole ed istituti di educazione», ma «senza oneri per lo Stato». I rapporti fra Stato e Chiesa, in base all’art. 7, furono «regolati dai Patti lateranensi» stipulati nel 1929 tra il regime fascista e il Vaticano, con la conseguenza che lo Stato democratico repubblicano veniva a configurarsi di fatto come semilaico e per tratti significativi ancora confessionale. L’articolo affermava che «lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani», sancendo l’esistenza di una sfera di rapporti nello stesso territorio nazionale sottratta alla competenza dello Stato. Da ciò una chiara impronta illiberale per i privilegi concessi al cattolicesimo rispetto alle altre confessioni, le quali dall’art. 8 venivano proclamate «libere ed

eguali», ma erano tenute – in quanto non riconosciute a differenza della Chiesa cattolica come ordinamenti giuridici autonomi – a darsi statuti non contrastanti «con l’ordinamento giuridico italiano» e a regolare i loro rapporti con lo Stato «sulla base di intese con le relative rappresentanze». L’approvazione dell’art. 7 da parte dell’Assemblea costituente era stata preceduta da un illuminante dibattito culminato nell’intesa-compromesso tra la Democrazia cristiana e il Partito comunista. De Gasperi chiese con forza che l’articolo venisse approvato, adducendo sia il valore primario che nel formarsi della «morale sociale» aveva l’insegnamento della Chiesa cattolica sia l’argomento, con richiamo alla statistica, che la stragrande maggioranza degli italiani «si sono dichiarati cattolici»: un dato di cui «non si può non tener conto quando si decide, o si amministra, o si governa» 7; e minacciò, in caso della mancata approvazione, di sottoporre il testo costituzionale a referendum popolare secondo la richiesta dei monarchici. Temendo uno scontro frontale non solo con la Dc, ma anche e soprattutto con il Vaticano, Togliatti annunciò il voto favorevole del suo partito appellandosi al dovere di non turbare «la pace religiosa» e alla necessità di salvaguardare «l’unità politica e morale di tutta la nazione», a partire da quella delle masse lavoratrici, che sarebbe stata compromessa irrimediabilmente, con pericolose ricadute sociali e politiche, da una guerra religiosa 8. A rivendicare in opposizione le ragioni del carattere coerentemente laico dello Stato si levarono in prima fila il socialista Pietro Nenni, il giurista di matrice azionista Piero Calamandrei – il quale affermò che «i Patti lateranensi realizzano uno Stato confessionale [...] inconciliabile colla tutela della libertà di coscienza» 9 – e il liberale Benedetto Croce, che definí l’inclusione dei Patti lateranensi nella Costituzione «uno scandalo giuridico» 10. L’articolo 7 fu approvato il 25 marzo 1947 con 350 voti e 149 contrari; tra i favorevoli 201 democristiani, 95 comunisti (salvo Teresa Noce e lo storico Concetto Marchesi che si astenne dal voto), e altri 54 di varia corrente. Nell’insieme la Costituzione italiana si configurò dunque come l’incontro-compromesso fra i principî generali di carattere liberaldemocratico e i principî «sociali» patrocinati, pur con diverse sensibilità e finalità, dalle sinistre e dalla Dc. Le prime la considerarono una costituzione “democratico-borghese” avanzata, dove l’aspetto avanzato stava soprattutto nel riconoscimento dei diritti dei lavoratori, nella limitazione per ragioni di interesse collettivo del diritto di proprietà privata e nella possibilità di

ricorrere alle nazionalizzazioni. I cattolici dal canto loro videro nel contemperamento del principio della proprietà con il rispetto delle istanze “sociali” l’accoglimento della loro critica tradizionale agli “eccessi” del capitalismo. L’affermazione del principio della diffusione della piccola e media proprietà fu da essi considerato il riconoscimento dell’opportunità di porre limiti agli interessi del grande capitale e un mezzo per contrastare il collettivismo di stampo marxista e socialista. Alla Costituzione fu dato un carattere “rigido”, in quanto venne stabilito che «le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni a intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione». Queste leggi – a meno che non fossero state approvate nella seconda votazione dalle Camere con una maggioranza dei due terzi – potevano essere sottoposte a referendum popolare su richiesta di un quinto dei membri di una delle Camere o 500 000 elettori o cinque consigli regionali, salvo che in materia tributaria e di bilancio, di amnistia e di indulto, di ratifica dei trattati internazionali. Era previsto il referendum popolare abrogativo anche per le leggi ordinarie, sempre su richiesta di 500 000 elettori o di cinque Consigli regionali. Una volta varata, la Costituzione rimase per molti anni disattesa non soltanto nelle sue parti “sociali”, ma anche per quanto riguardava innovazioni fondamentali come: l’insediamento della Corte costituzionale (avvenuto nel 1956), del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (1957) e del Consiglio superiore della magistratura (1958), l’entrata in vigore delle regioni a statuto ordinario, che, avvenuta solo nel 1970, incontrò la tenace opposizione delle forze moderate, timorose che i governi delle regioni “rosse” potessero mettere in forse l’autorità del potere centrale. Il mantenimento di vecchie norme relative agli apparati burocratici, alle forze armate e di polizia e la sopravvivenza in settori cruciali del centralismo e di varie norme illiberali risalenti al Codice Rocco costituí esplicita testimonianza di quale peso avesse la determinazione a far valere per aspetti essenziali la continuità con lo Stato prerepubblicano. Le norme sui diritti personali e sulle libertà civili furono a lungo in parte inattuate o violate, in quanto considerate dai governanti una minaccia alla pubblica moralità, al buon costume e alla sicurezza e in conflitto con l’opinione pubblica moderata. In particolare, l’art. 7 diventò a piú riprese la copertura per una

politica di discriminazione, non di rado di persecuzione, nei confronti dei cittadini di altre confessioni o non religiosi.

5. Il trionfo della Dc alle elezioni del 18 aprile 1948 e la nascita del terzo sistema politico bloccato nella storia dell’Italia unita. La divisione sempre piú netta dell’Europa in due sfere di influenza facenti capo agli Stati Uniti e all’Unione Sovietica ebbe decisive conseguenze sulla politica interna italiana. De Gasperi seppe efficacemente utilizzare a profitto della Dc e del blocco moderato il rapporto privilegiato con gli Stati Uniti, che trovò nel maggio 1947 la sua significativa manifestazione nell’esclusione dal governo, caldeggiata dagli americani, dei socialisti e dei comunisti; il che favorí la concessione all’Italia di consistenti aiuti economici. A disapprovare il protrarsi dei governi di unità antifascista non erano solo gli americani, ma anche i sovietici. Infatti, alla conferenza svoltasi nel settembre 1947 a Szklarska Poręba in Polonia per la fondazione del Cominform (Ufficio di informazione dei Partiti comunisti e operai), volto a sostituire la Terza Internazionale sciolta nel 1943 e a coordinare le linee politiche dei vari partiti, il Partito comunista italiano, insieme a quello francese, venne aspramente criticato dai sovietici e dagli iugoslavi (questi ultimi schierati allora su posizioni di strettissima ortodossia staliniana) per la sua collaborazione a livello di governo con la borghesia, per non avere insomma compreso che non era piú il tempo dell’unità antifascista ma quello del confronto-scontro tra il mondo capitalistico e il mondo socialista. Luigi Longo, che rappresentava il Pci, si piegò a fare l’autocritica. La riprovazione sovietica della linea togliattiana diede modo a Pietro Secchia – dirigente di primo piano del Pci e sostenitore di una linea secondo cui il partito disponeva delle risorse sia politiche che militari in vista di uno scontro risolutivo con forze conservatrici e reazionarie – di tentare di conquistarsi la fiducia personale di Stalin, che però, pur senza sconfessarlo, lo invitò a rinviare l’attacco a tempi piú favorevoli. Secchia, comunque, a testimonianza dei limiti che allora aveva la leadership di Togliatti, nel 1948 venne nominato vicesegretario del Pci (posizione che avrebbe tenuto fino al 1954), messo a capo dell’organizzazione del partito e fatto responsabile della gestione della cassa in cui confluivano gli aiuti finanziari sovietici.

Dinanzi alla divisione dell’Europa e all’atteggiamento apertamente filoamericano della Dc e a quello altrettanto apertamente filosovietico del Pci (condiviso dalla maggioranza del Partito socialista), la guerra fredda si trasferí tout court dall’esterno all’interno dell’Italia e l’opinione pubblica del Paese si trovò cosí spaccata. Il 18 aprile 1948 si svolsero le elezioni politiche generali per la formazione del Parlamento della Repubblica: le prime dopo la fine della guerra. Grandi erano le speranze nella vittoria di Pci e Psiup, che nel gennaio, sormontando l’opposizione di una modesta minoranza dei socialisti, avevano dato vita al Fronte democratico popolare – patrocinato in primo luogo da Nenni – con liste unificate e poste sotto il simbolo di Garibaldi: essi contavano di poter finalmente dare un duro colpo alla Dc e di farle pagare la rottura dell’unità antifascista a livello governativo. La fiduciosa aspettativa dei socialcomunisti era rafforzata dalla persuasione di una maggiore capacità di mobilitazione delle masse rispetto a quella dei loro avversari. Togliatti si spinse a dichiarare che dopo le elezioni avrebbe cacciato De Gasperi con il suo «stivale chiodato». Sul fronte opposto stavano i democristiani, i socialdemocratici, i repubblicani; i liberali alleatisi con i qualunquisti in un «Blocco nazionale»; infine, all’estrema destra, i monarchici e il Movimento sociale italiano (Msi), partito neofascista fondato nel dicembre 1946 – aggirando il divieto costituzionale con un appena mascherato camuffamento – da un gruppo di reduci della Repubblica Sociale guidati da Giorgio Almirante, Arturo Michelini e Pino Romualdi. De Gasperi invitò la Dc a farsi «partito nazionale» e le assegnò la missione di essere scudo della «civiltà cristiana». Nella campagna elettorale i temi di politica interna e di politica internazionale si intrecciarono in maniera strettissima. I toni polemici divennero violentissimi: il Fronte accusava la Dc e gli altri partiti avversari di essere i sostenitori degli interessi dei ricchi e di volere asservire l’Italia all’imperialismo americano; questi rispondevano che il Fronte era la longa manus dello spietato totalitarismo sovietico, mirava a instaurare una dittatura comunista, minava con l’appello alla lotta di classe la pace sociale, era nemico della religione e in caso di successo avrebbe assicurato alle masse non già il benessere ma la piú nera miseria grazie al venir meno degli aiuti americani. Il ruolo degli aiuti nel sostenere non solo la ripresa economica del Paese, ma anche la battaglia dei partiti che si opponevano alla sinistra era diventato molto rilevante dopo che nel giugno 1947 il segretario di Stato

americano George Marshall aveva annunciato che gli Stati Uniti avrebbero lanciato l’European Recovery Program (Erp), detto comunemente «piano Marshall». Al Fronte nocque notevolmente il colpo di Stato avvenuto a Praga nel febbraio 1948, con cui i comunisti, nonostante costituissero una minoranza della popolazione, assunsero il potere in Cecoslovacchia con lo scoperto appoggio dei sovietici e il sostegno delle masse operaie senza passare attraverso elezioni generali; colpo di Stato che venne salutato con entusiasmo dal Pci, che forní in tal modo efficaci argomenti alle forze che mettevano in dubbio la sua fedeltà alle istituzioni democratiche. Inoltre, alcuni mesi prima aveva suscitato profonda inquietudine nello schieramento ostile alla sinistra un conato insurrezionale scoppiato nel novembre 1947 a Milano, al quale avevano preso parte numerosi partigiani armati, guidati dal dirigente comunista Gian Carlo Pajetta. La causa era stata la rimozione da parte del ministro Scelba di Ettore Troilo, un prefetto non di carriera nominato dal Cln. Culminato nell’occupazione della prefettura e di altri edifici pubblici, l’episodio si era risolto senza lo scoppio di violenze per la convergente azione di De Gasperi e di Togliatti, irritatissimo per quell’iniziativa di cui era stato tenuto all’oscuro. All’interno del blocco anticomunista, la Dc – appoggiata da consistenti finanziamenti statunitensi, sostenuta con tutte le sue energie dalla Chiesa, il cui clero indicò nel voto al partito cattolico un dovere religioso (i muri furono coperti da manifesti con la scritta «Dio ti vede, Stalin no») – si presentò come l’unica alternativa in grado di evitare al Paese da un lato un regime comunista e dall’altro di imboccare la deriva reazionaria auspicata dalla destra. Pio XII dichiarò che «la grande ora della coscienza cristiana è sonata». Fiancheggiata dalla rete di “Comitati civici” che contava centinaia di migliaia di militanti guidati da Luigi Gedda e dall’Azione cattolica, la Dc condusse una campagna propagandistica di grandi proporzioni e molto efficace. Massiccio fu anche l’intervento sulla comunità italo-americana, che dagli Stati Uniti inviò una valanga di lettere a congiunti e amici, specie meridionali. Una determinante influenza ebbe inoltre il fatto che la Dc apparisse, facendo presa sugli strati bisognosi della popolazione e non soltanto su di essi, come il “partito degli aiuti americani” tanto necessari alla ripresa dell’Italia. De Gasperi l’11 aprile 1948 affermò:

I comunisti sono contro il piano Marshall perché la sua applicazione, eliminando le cause della crisi europea, renderebbe impossibile o estremamente difficile il grande piano russo di conquista della Francia, dell’Italia e del Mediterraneo in genere, per il bolscevismo universale. E non è vero che gli americani ci aiutano per asservirci; ci aiutano per mantenere la pace e perché [...] ci sia un popolo ordinato in un regime di libera democrazia 11.

Il 20 marzo, alla vigilia delle elezioni, Marshall dichiarò che, se il popolo italiano avesse votato cosí da affidare il potere a un governo ostile agli Stati Uniti, ciò avrebbe significato la rinuncia al programma di assistenza americano. Sull’esito delle elezioni gravava infine la minaccia di un intervento militare degli americani, che non esitarono a rafforzare dimostrativamente la loro flotta nei porti italiani. I partiti del Fronte democratico popolare potevano, dal canto loro, contare sull’appoggio della maggioranza sindacale. Ma il Pci scontò la contraddizione che caratterizzava la sua strategia: la convivenza della scelta in senso legalitario, risalente al 1944, con gli strettissimi legami con l’Unione Sovietica e l’appoggio dato ai regimi comunisti sorti nell’Europa centroorientale sotto la copertura di «democrazie popolari»; atteggiamento che apparve il segno inquietante di una linea contraddittoria, che cercava di far convivere il pieno appoggio dato alle dittature dell’Est e la fedeltà alle istituzioni democratiche stabilite in Italia dalla Costituzione di cui i comunisti erano stati artefici in prima persona. A sua volta il Psiup, indebolito dalla scissione saragattiana (Saragat aveva unito in un cartello elettorale, sotto il nome di Unità socialista, il Psli e vari gruppi di socialisti indipendenti), dato il fronte costituito con il Pci prestava il fianco all’accusa di essere una succursale comunista camuffata sotto le spoglie dell’irrealistica proposta, avanzata dal suo leader Nenni, di neutralità dell’Italia rispetto ai due campi mondiali contrapposti. La denuncia da parte del Fronte della politica degasperiana di asservimento agli Stati Uniti ebbe una presa limitata data la concretezza degli aiuti previsti dal piano Marshall, assai sostanziosi e chiaramente non sostituibili con eventuali aiuti, in caso di vittoria della sinistra, da parte di un’Unione Sovietica devastata dalla guerra nazista ed estremamente impoverita. Il deciso sostegno dato ai socialcomunisti dalla maggioranza del proletariato industriale e dei braccianti, dai disoccupati – nelle cui file si nutriva la speranza che il successo del Fronte avrebbe

costituito la premessa della rivoluzione sociale o almeno l’avvio di un corso profondamente innovatore all’insegna della non ben definita «democrazia progressiva» – non fu sufficiente a fronteggiare le forze moderate di centro e quelle di destra e a scuotere la solida presa della Dc non solo sui ceti alti e medi, ma anche su assai ampi strati popolari e anzitutto sui contadini piccoli e medi proprietari. Un sostegno alla Dc venne dagli Alleati anche con l’impegno a restituire prossimamente all’Italia il Territorio libero di Trieste. Ma, dietro alla facciata della campagna elettorale, entrambi gli schieramenti elaboravano disegni che prevedevano l’eventualità di un ricorso alle armi. Il Pci, nella prospettiva di una vittoria elettorale del Fronte, si preparava a rispondere con la violenza nel caso che le «forze reazionarie» non intendessero riconoscerla uscendo dai binari della legalità; al che si accompagnava la corrispettiva mobilitazione in varie zone di formazioni di ex partigiani bianchi e autonomi, che al pari del comunisti avevano nascosto le armi dopo la Liberazione e alla vigilia delle elezioni si tenevano pronti a fronteggiare l’eventuale attacco comunista. Tale era la preoccupazione nel mondo cattolico che Pio XII manifestò agli americani un nero pessimismo sull’esito elettorale e che l’influente diplomatico e politologo statunitense George Frost Kennan si spinse al punto di invitare a prendere in considerazione la messa fuori legge del Pci. La partecipazione alle elezioni del 18 aprile fu elevatissima: votò il 92,23% dell’elettorato. La vittoria della Dc alla Camera fu clamorosa, superando le piú ottimistiche previsioni: essa ottenne 12 741 299 voti (48,5%), con 305 seggi su 574 (il 2 giugno 1946 aveva avuto il 35,2%); il Fronte democratico popolare 8 137 047 voti (31,0) con 183 seggi (il 2 giugno il 39). I monarchici ebbero 729 174 voti (2,8) con 14 seggi; e il Msi 526 670 voti (2,0) e 6 seggi; i socialdemocratici (Unità socialista) 1 858 346 voti (7,1) e 33 seggi; il Blocco nazionale (liberali e Uomo qualunque) 1 004 889 voti (3,8) con 19 seggi; il Pri 652 477 voti (2,5) con 9 seggi. Repubblicani e liberali subirono sensibili perdite, dimostrando l’esodo di una parte significativa del loro elettorato verso la Dc considerata l’unica forza in grado di fare scudo contro il Fronte. Dal punto di vista della geografia elettorale, i socialcomunisti ebbero un calo nel Nord e un aumento in alcune zone del Centro e del Sud. Nettamente sconfitto, il Fronte vide vanificati dalla schiacciante vittoria democristiana i suoi programmi e le sue aspettative. Fattore importante per questa sconfitta fu il fatto che, nel momento avvertito

piú pericoloso dalle forze moderate, la Dc ottenesse il consenso non soltanto di grandi masse popolari, ma anche di larghi strati borghesi di ispirazione laica. Partito interclassista per eccellenza, essa si profilava a questo punto anche come il partito della borghesia, assicurandosi la prevalente fiducia delle classi alte e medio-alte al modo in cui l’avevano ottenuta i liberali nel primo cinquantennio dell’Unità e poi il regime fascista. Le elezioni ebbero l’effetto di decretare la crisi definitiva delle correnti qualunquiste. Travolgente fu il successo della Dc anche al Senato, dove ottenne 131 seggi su 237, mentre il Fronte ne ebbe 72. Era chiaro dall’esito elettorale che il sistema politico italiano sarebbe stato caratterizzato da un bipolarismo che vedeva rispettivamente la Dc perno delle forze di governo e il Pci di quelle di opposizione, attestate agli occhi degli avversari in una sorta di nuovo antiStato, che riproponeva sotto questo profilo il ruolo dei repubblicani intransigenti, degli anarchici, dei socialisti e dei socialrivoluzionari nello Stato liberale e degli antifascisti nello Stato fascista. La vittoria conseguita in proporzioni impreviste consegnò alla Dc le chiavi dell’elezione del presidente della Repubblica, essendo scaduto il mandato provvisorio di Capo dello Stato affidato a De Nicola dall’Assemblea costituente nel giugno 1946. De Gasperi era personalmente favorevole a Carlo Sforza, che però non risultava gradito a una parte della Dc; sicché egli, con il sostegno oltre che del suo partito anche di quello socialdemocratico e naturalmente di quello liberale, si rivolse a Luigi Einaudi. L’11 maggio questi fu eletto presidente della Repubblica con 518 voti su 871, superando nettamente Vittorio Emanuele Orlando, candidato delle sinistre. Il giorno seguente, all’atto del giuramento, Einaudi onestamente ricordò come, date le sue convinzioni, nel referendum istituzionale del 1946 avesse votato per la monarchia. Detentore della maggioranza assoluta alla Camera dei deputati, De Gasperi avrebbe potuto formare un governo monocolore democristiano. Sennonché, dando prova insieme di abilità, prudenza e senso del limite, volle evitare di affidare alla sola Dc la responsabilità del potere in una situazione sociale e politica ancora assai difficile; per questo offrí ai partiti minori – quelli che vennero definiti “laici”: il Pli, il Pri e il Psli – di entrare al governo. Inoltre De Gasperi si propose, obbedendo all’ispirazione che era stata di Sturzo, di resistere alle forti pressioni degli ambienti che miravano a fare della grande vittoria elettorale il trampolino di lancio per una politica di

stampo clericale. Prese cosí avvio nel maggio 1948 un governo quadripartito, il quinto guidato da De Gasperi, sotto il saldo controllo della Dc. La sconfitta delle sinistre pose definitivamente fine alle illusioni di quanti al loro interno avevano sperato che sull’onda della Resistenza si sarebbe aperta la strada a una trasformazione socialista dell’Italia. Essa fu la terza grande sconfitta subita dalla sinistra nella storia dello Stato unitario: le prime due erano toccate alla sinistra democratico-repubblicana a conclusione del Risorgimento e alla sinistra socialista e comunista nel 1919-22. Si impose cosí il terzo sistema politico bloccato della storia d’Italia in cui venne interdetto alle forze di opposizione di accedere al governo. Dopo il 1948 al Partito comunista – che di quelle forze avrebbe continuato a rappresentare invariabilmente il nerbo – sarebbe stata preclusa, per le sue caratteristiche, le sue finalità e i limiti del consenso elettorale, la possibilità di costituire un’alternativa di governo; infatti esso non sarebbe piú tornato al governo neppure nel quadro di una coalizione. Per contro il Partito socialista vi avrebbe avuto nuovamente accesso nel 1963, in una posizione subalterna alla Dc, in seguito alla rottura dell’alleanza con i comunisti; e nel 1983 sarebbe giunto alla guida del governo senza però disporre di una propria maggioranza parlamentare. Sul Pci legato all’Unione Sovietica venne cosí a cadere una conventio ad excludendum fatta valere sotto lo stringente controllo degli Stati Uniti sulla politica interna italiana. Nell’aprile 1948 ebbe cosí inizio una stabilizzazione del sistema politico e sociale dell’Italia di segno moderato, resa possibile dalla concomitanza di tre fattori: la supremazia della Dc; la salda collocazione del Paese nella sfera americana; il conseguente venire meno nella sinistra socialcomunista delle correnti che nutrivano velleità di massimalismo estremistico, le quali, se avessero trovato sfogo, avrebbero potuto al limite creare condizioni di scontro simili a quelle maturate nel primo dopoguerra durante il «biennio rosso» e, sul fronte opposto, indurre la Dc a cedere alle ripetute richieste provenienti da vari ambienti interni e internazionali di mettere fuori legge il Pci con conseguenze imprevedibili. Nel clima di forte contrapposizione tra comunismo e anticomunismo, alla scissione del Partito socialista seguí nel 1948 la scissione sindacale, allorché gli esponenti di minoranza all’interno della Cgil – che si era in un primo tempo ricostituita come organismo unitario di tutti i lavoratori – decisero di non poter piú militare in un’organizzazione accusata di essere strumento del Partito comunista. L’avvio alla scissione sindacale fu dato dalla drammatica

crisi politica che investí il Paese quando il 14 luglio un giovane studente siciliano nazionalista di destra, Antonio Pallante, sparò a Togliatti all’uscita da Montecitorio, ferendolo gravemente. La reazione della gran parte dei lavoratori fu immediata e spontanea. Dilagarono in tutta Italia scontri violenti fra polizia e operai, con blocchi stradali, occupazioni di fabbriche e di edifici pubblici e la mobilitazione di gruppi di ex partigiani. Nelle file del Pci e dei suoi simpatizzanti era diffusa la convinzione che la vittoria del 18 aprile fosse stata il frutto di brogli sostenuti dalla Chiesa e dagli americani e che l’attentato fosse il segnale che le forze conservatrici intendessero aprire una fase di reazione. In numerose città, da Genova, Torino, Milano, Livorno ad altre minori, le agitazioni assunsero un carattere insurrezionale, poiché i lavoratori ripresero le armi sfuggite ai rastrellamenti della forza pubblica. Il movimento si diffuse soprattutto nell’Italia settentrionale e centrale. A Monte Amiata, in Toscana, minatori armati si impadronirono della centrale telefonica interrompendo le comunicazioni tra Nord e Sud. L’Italia pareva alle soglie della guerra civile. Ma i dirigenti del Pci, e in primo luogo Togliatti che fece pervenire loro un messaggio dall’ospedale, si opposero fermamente a un’insurrezione (l’ipotesi venne discussa ma respinta) priva di prospettive, di carattere avventuristico, sicché l’ondata di agitazioni venne contenuta e si spense. Fu cosí reso evidente che i comunisti italiani non avevano intenzione di seguire la strada aperta dai loro compagni in Grecia, dove avevano iniziato una guerra civile che li aveva portati a scontrarsi con le truppe inglesi e i reazionari greci, sostenuti dagli americani, andando incontro alla sconfitta. De Gasperi comunque reagí alzando i toni, fino a dichiarare che «i comunisti hanno pronto un piano che intendono attuare al momento opportuno», adombrando «il pericolo di dittatura comunista». Dal canto suo il ministro degli Interni Scelba diede inizio a un vasta ondata di repressione. Al che Togliatti replicò che il Pci era intenzionato a perseguire la via della «democrazia progressiva» e della legalità, ma ammoní che, nel caso in cui gli avversari aprissero lo scenario della reazione, allora avrebbero portato essi la responsabilità di aprire le porte alla «guerra civile». Saldamente alla guida dell’opposizione di sinistra, il Pci veniva considerato e si considerava una forza «anti-sistema». Il 14 luglio la Cgil aveva proclamato lo sciopero generale di protesta, sospeso il 16, dopo che il suo segretario generale, il comunista Giuseppe Di Vittorio, aveva chiesto le dimissioni del governo. I contrasti scoppiati in

quell’occasione in relazione alla linea da tenere, indussero i sindacalisti cattolici ad attuare in ottobre una prima scissione, creando la Libera confederazione generale italiana dei lavoratori (Lcgil) con segretario il democristiano Giulio Pastore. A essa fece seguito nel giugno 1949 una seconda scissione a opera dei socialdemocratici e dei repubblicani, che costituirono la Federazione italiana dei lavoratori (Fil). Nel maggio 1950 dalla fusione delle due organizzazioni sorse la Confederazione italiana sindacati lavoratori (Cisl), di prevalente impronta cattolica; poco prima, a marzo, si era avuta la fondazione dell’Unione italiana del lavoro (Uil) a opera di una minoranza della Fil e di socialisti riformisti usciti dalla Cgil. Sempre in marzo si ebbe la nascita della Confederazione italiana sindacati nazionali dei lavoratori (Cisnal), di matrice neofascista. Anche il mondo del lavoro fu dunque investito dalla guerra fredda. La repressione messa in atto da Scelba, dopo avere portato in un primo tempo all’arresto e al rinvio a giudizio di migliaia di lavoratori, nella gran parte comunisti, si protrasse dal 1948 fino al 1950 allargandosi ai luoghi di lavoro, dove cominciò una sistematica azione di controllo e di discriminazione nei confronti degli elementi giudicati infidi e sospetti. Nel corso di quei due anni oltre 15 000 comunisti subirono condanne penali e un centinaio di operai e lavoratori agricoli vennero uccisi dalla polizia, da squadre prezzolate dagli agrari e da gruppi di neofascisti. Sistematica fu l’azione di “spionaggio” in particolare alla Fiat, dove, con l’ausilio di carabinieri e poliziotti, molti lavoratori vennero schedati e posti sotto sorveglianza per i loro orientamenti politici e sindacali. Un’analoga attenzione venne rivolta a quelli da assumere. I licenziamenti di carattere discriminatorio furono all’ordine del giorno. In questo clima cadde la scomunica dei comunisti decretata dal Sant’Uffizio nel luglio 1949. Venne cosí ad accendersi nell’Italia repubblicana una “guerra civile” ideologica e politica, che mostrava tutti i limiti e le difficoltà di quella pur sostanziale stabilizzazione di segno moderato di cui si è detto.

6. La ricostruzione economica sotto il segno del moderatismo. La «dittatura» dei liberisti e la debolezza programmatica delle sinistre.

Nel 1945 l’Italia dovette fronteggiare problemi assai gravi oltre che in campo politico anche in quello economico. Le industrie difettavano di capitali da investire e di materie prime; e lo Stato, il cui apparato fiscale favoriva vistosamente l’evasione delle classi piú abbienti, soffriva di un deficit pesantissimo, mentre si imponevano ingenti spese per la ricostruzione. In questa situazione ci si domandò se e in quale misura lo Stato dovesse assumere nelle proprie mani il controllo della ricostruzione, oppure se non fosse preferibile che questa venisse affidata principalmente all’iniziativa privata. Alcuni importanti elementi favorevoli all’adozione della prima alternativa esistevano. Anzitutto erano disponibili gli strumenti che il fascismo aveva approntato per le esigenze della politica corporativa e autarchica e dell’economia di guerra; questi strumenti si prestavano a essere utilizzati secondo nuove esigenze programmatiche. In secondo luogo, esisteva un ampio settore pubblico nel campo sia industriale sia finanziario: anche questo eredità della politica di intervento attuata dal fascismo negli anni Trenta (si tenga presente che lo Stato deteneva il possesso di circa il 90% delle banche e una quota notevole dell’industria, specie pesante). La legge bancaria del 1936 rendeva possibile allo Stato di operare una selezione del credito secondo finalità specifiche. Prevalse invece la seconda alternativa. A determinare tale scelta concorse una serie di motivi, anche psicologici. La maggior parte degli industriali temeva che, in una situazione quale quella del dopoguerra, con le sinistre inserite nella sfera di governo, una politica accentuatamente “statalistica” potesse aprire le porte, in prospettiva, a tendenze collettivistiche. Per questo molti di loro erano addirittura favorevoli allo smantellamento dell’Iri e in genere dell’industria pubblica. Contrari allo “statalismo” erano poi i maggiori economisti italiani, per lo piú liberali, tra i quali spiccavano Luigi Einaudi, Epicarmo Corbino, Gustavo Del Vecchio, convinti che una politica liberistica avrebbe portato al rilancio dell’iniziativa privata vista come condizione per una drastica “defascistizzazione” dell’economia. Furono in particolare i primi due a dirigere la strategia economica dell’Italia nel periodo della ricostruzione. Essi ritenevano che per combattere il carattere monopolistico, burocratico e anche parassitario di tanta parte dell’industria italiana fosse indispensabile puntare sulla libertà d’impresa, il mezzo migliore per conseguire il massimo utile con i costi minori. Accanto alla piú ampia libertà per l’iniziativa privata, miravano alla contrazione della spesa pubblica, causa primaria dell’inflazione. Il cambio

della moneta che, con i dovuti controlli, avrebbe consentito di sottoporre a verifica gli extraprofitti di guerra e sottoporli a adeguata tassazione, fu combattuto con successo dai liberisti, decisi a mantenere basse le tasse sul capitale, favorire gli investimenti e tutelare i profitti come condizioni dello sviluppo. Nella proposta avanzata dalle sinistre di fare del cambio della moneta lo strumento per una tassazione progressiva e l’imposizione di un prestito forzoso a favore dello Stato, per aumentare le entrate fiscali in vista della ricostruzione, i liberisti vedevano una misura dirigistica punitiva diretta contro le classi alte. In effetti, la sola minaccia del cambio favorí la fuga di capitali all’estero, classica risposta dei capitalisti nei casi di emergenza. Per dare loro una garanzia, nel corso del 1946 ogni incisiva riforma fiscale venne lasciata cadere. Di questa linea furono coerenti esecutori a livello di governo prima il ministro liberale Corbino, poi i democristiani Giovanni Battista Bertone e Pietro Campilli. La ripresa economica e produttiva nel 1945-46 tardò a venire. Di fronte alle pressanti esigenze di spesa dello Stato, che ricorse largamente all’emissione di moneta, e al bisogno di alzare i salari per adeguarli sia pure in misura assai parziale al carovita, dopo una prima fase di relativa stabilità dei prezzi, a partire dalla primavera del 1946 l’inflazione accelerò pericolosamente, colpendo duramente i lavoratori a reddito fisso e la piccola borghesia impiegatizia e autonoma. L’inverno 1946-47 ebbe un andamento decisamente negativo, anche in relazione al fatto che la ripresa era ostacolata dalla grave deficienza di combustibili, dovuta alla crisi della produzione del carbone in Gran Bretagna, la maggiore fornitrice dell’Italia. L’allargamento del credito alle industrie, senza un sufficiente aumento della produttività, contribuiva a sua volta all’aumento dell’inflazione. Poiché non si intendeva combattere quest’ultima con misure fiscali sul patrimonio e con il controllo sui capitali e sui loro movimenti, la situazione venne affrontata con gli strumenti congiunti della svalutazione della lira e della deflazione. La svolta in questo senso si ebbe con la politica economica di Einaudi, ministro del Bilancio, e le misure da lui prese nell’agosto 1947. Forte del sostegno di De Gasperi, Einaudi operò per contenere a ogni costo l’inflazione, anche per combattere la perdita della capacità d’acquisto dei ceti medi e impedire il loro spostamento verso l’estrema sinistra o l’estrema destra. La svalutazione rispose all’intento di favorire la riduzione delle importazioni, il rientro di capitali e il rilancio delle

esportazioni. Per promuovere l’immissione nella produzione delle scorte, accaparrate dagli industriali sotto lo stimolo dell’inflazione con lo scopo di poi immetterle sul mercato in una fase di ulteriore aumento dei prezzi, fu adottata una severa politica di restrizione dei crediti all’industria e al commercio, secondo una linea deflazionistica. I risultati non tardarono. Le scorte entrarono nel circuito del mercato contribuendo a frenare la corsa dei prezzi, e quindi anche quella al rialzo dei salari. I prezzi all’ingrosso e al minuto scesero significativamente. E la svalutazione stimolò il rientro di capitali, che, permettendo di lucrare nel rientro, a sua volta diede una spinta agli investimenti e alla ripresa delle esportazioni. La svolta “einaudiana” andò di pari passo con l’abbassamento del livello di occupazione, che nel 1948 faceva contare 2 142 474 disoccupati. Alla fine di quell’anno la produzione industriale raggiunse l’89% di quella del 1938; e quella agricola l’84. La politica congiunta di svalutazione e deflazione ebbe un importante effetto sulla struttura delle imprese italiane, favorendone la concentrazione, poiché quelle meno robuste incontrarono difficoltà insormontabili in un periodo di stretta creditizia e di selettività dei finanziamenti. È però significativo che l’Iri avesse superato la tempesta antistatalistica e ripreso a operare ottenendo nel 1948 consistenti finanziamenti, i quali dovevano costituire un elemento determinante del rilancio del settore dell’industria pubblica. In conclusione, se ottenne rilevanti risultati rispetto all’obiettivo di rilanciare l’iniziativa privata e di contrastare una politica di programmazione, la linea liberista alla Einaudi non ebbe alcun effetto in relazione a quello di limitare il carattere monopolistico delle maggiori concentrazioni finanziarie e industriali. L’atteggiamento di comunisti e socialisti di fronte ai problemi della ricostruzione fu improntato in generale a uno spirito di “solidarietà nazionale”, vale a dire di collaborazione, sia pure condizionata, con le forze imprenditoriali. Questa impostazione era coerente con la scelta iniziale di assumere posti di responsabilità nei governi di coalizione e con una impostazione che, in circostanze giudicate non favorevoli, non puntava su un’alternativa rivoluzionaria e tanto meno sull’espropriazione anche soltanto parziale dei mezzi di produzione. Pur con differenze interne, i socialcomunisti frenarono lo “spontaneismo” anticapitalistico di strati consistenti del proletariato di fabbrica e dei contadini meridionali in lotta per la terra. I comunisti, in particolare, premevano perché si desse spazio

all’iniziativa privata, ritenuta insostituibile nella fase della ricostruzione; e del pari appoggiarono il ricorso al capitale straniero e l’utilizzazione degli aiuti americani forniti all’Italia a partire al 1946 dall’Unrra. Ciò che chiedevano come contropartita era che l’iniziativa privata non agisse in piena autonomia, ma sotto il controllo per un verso del governo – dal quale non prevedevano allora di essere estromessi – e per l’altro dei sindacati e di organismi di base come i «Consigli di gestione». Il fatto che i comunisti convenissero nel lasciare largo spazio all’iniziativa privata portò i capitalisti, trovatisi inizialmente in una situazione di debolezza, ad accettare tatticamente il rapporto che essi chiedevano; dopo di che, riprese le redini delle aziende, passarono a un’offensiva generalizzata contro le sinistre e le loro richieste di controllo. A quel punto, il Pci chiese invano di imboccare la strada della programmazione economica, che in un primo tempo aveva ritenuto impraticabile per mancanza di strumenti. In sostanza, all’estromissione nel 1947 delle sinistre dal governo si accompagnò quella degli organismi a esse collegate nei luoghi di lavoro. Accettati in un primo tempo dagli imprenditori, in quanto utili a mantenere una certa disciplina sul lavoro, i Consigli di gestione vennero da essi ricusati formalmente agli inizi del 1946 in nome della libertà imprenditoriale e della necessità di ristabilire le indispensabili gerarchie aziendali. Progressivamente svuotati di contenuto e soprattutto della loro natura di organi di controllo, i Consigli furono messi fuori gioco definitivamente da De Gasperi nel 1948 senza che sindacati e partiti di sinistra avessero la forza di reagire. Circa i criteri con cui si doveva procedere alla ricostruzione, le sinistre si attennero a una linea fondamentalmente difensiva. Nell’agosto 1945 cosí Togliatti aveva espresso la sua contrarietà alla richiesta di una programmazione generale: Prima di tutto, desidero dire che la rivendicazione di un piano economico nazionale in questo momento, […] secondo me è utopistica. Può darsi che non tutti i compagni siano d’accordo, ma io attendo ancora che mi si dimostri che esiste la possibilità di elaborare oggi in Italia un piano economico nazionale. […] Voglio dire che, anche se fossimo oggi al potere da soli, faremmo appello per la ricostruzione all’iniziativa privata. […] Il controllo di cui si può parlare oggi non è altro che il controllo che viene introdotto in tutte le società ben ordinate quando ci si trova di fronte a situazioni di emergenza […]. La lotta si impegna quindi non contro il capitalismo in generale, ma contro forme particolari di

rapina, di speculazione e di corruzione che sono proprie di determinati gruppi capitalistici, allo scopo di imporre a questi gruppi e a tutta la società italiana un massimo di solidarietà nazionale 12.

Quando, alla fine del 1946, di fronte agli effetti della linea liberistaprivatistica esasperata personificata dal ministro Corbino, il Pci rivendicò un «nuovo corso» economico che inaugurasse un’«azione pianificatrice» da parte dello Stato e del governo con l’appoggio dei consigli di gestione, iniziando dalla nazionalizzazione delle imprese monopolistiche e dall’avvio di una riforma agraria, apparve evidente che si trattava di una richiesta priva di possibilità di attuazione in un quadro politico ed economico generale sempre piú segnato dalla ripresa dell’iniziativa dei gruppi capitalistici dominanti. La debolezza delle analisi del Pci, che era la forza guida delle sinistre, emerse chiaramente anche di fronte al piano Marshall. Estromessi dal governo nel maggio 1947 con i socialisti, i comunisti furono condizionati dalle posizioni dei sovietici e del Cominform, i quali videro fantasiosamente che il piano costituiva un tentativo estremo compiuto dagli Stati Uniti per sottrarsi a una prossima inevitabile crisi economica generale. Associatisi a questa linea e ormai desiderosi di isolare la Dc accusata di essere il partito al servizio dell’imperialismo straniero, sottovalutarono il rilancio in atto del capitalismo internazionale, e con esso, di quello nazionale; e definirono il piano Marshall e la politica economica italiana soluzioni «disperate» di un sistema produttivo condannato ad avvitarsi in una fase sempre piú involutiva. Dal canto suo la Confederazione generale italiana del lavoro aveva visto nel 1945 accrescere rapidamente la propria influenza fra le masse lavoratrici. La sua azione fu condizionata da tre fattori principali: la linea politica dei partiti di sinistra, coinvolti fino al 1947 nella sfera di governo; la riorganizzazione nel 1945 sotto la guida dell’armatore genovese Angelo Costa della Confindustria, impegnata a restituire al piú presto agli imprenditori la piena autorità nelle aziende; la spinta spontanea di larghi strati del proletariato e dei contadini meridionali a modificare i tradizionali rapporti di potere fra le classi sociali. In sostanza la Cgil dovette attestarsi su posizioni difensive, senza essere in grado di contrastare il recupero di potere dei ceti dirigenti. In primo luogo non riuscí a opporsi allo sblocco dei licenziamenti che nel gennaio 1946 diventò totale – anche se scaglionato – e rispondeva alla richiesta degli industriali di contenere l’occupazione in funzione delle

dimensioni degli apparati produttivi. Al tempo stesso il sindacato accettò la richiesta della Confindustria di regolare i rapporti fra capitale e lavoro sulla base di accordi centrali e nazionali, che, se prevedevano un’importante conquista come la scala mobile, cioè la rivalutazione automatica di una quota del salario seguendo gli indici del costo della vita, sancirono anche una struttura differenziata delle retribuzioni in base a tabelle nazionali per categorie e al ricorso al cottimo, finalizzati a legare il salario alla produttività e a stabilire il controllo sulla manodopera attraverso gli scatti di avanzamento. Nell’ottobre 1946 un accordo tra la Cgil e la Confindustria sancí da un lato notevoli conquiste come l’aumento dei minimi salariali, la tredicesima per gli operai e le ferie retribuite, dall’altro una tregua salariale che durò un anno, venendo cosí incontro alle richieste del padronato, in nome delle esigenze della ricostruzione. Una situazione assai critica per la Cgil S i delineò quando il processo inflattivo prese a erodere i salari per effetto della politica recessiva messa in atto da Einaudi e a partire dagli ultimi mesi del 1947 il numero dei licenziamenti si fece rilevante. Le reazioni degli strati piú colpiti e dei disoccupati, le quali assunsero il carattere di agitazioni in taluni casi di natura ribellistica, vennero in genere frenate e condannate dal sindacato, impossibilitato a dare alle proteste degli operai uno sbocco diverso da quello legato alle prospettive di una futura ripresa economica. Le scissioni che misero fine all’unità sindacale, nel quadro di un’offensiva moderata generalizzata, crearono ulteriori difficoltà e provocarono l’indebolimento complessivo del movimento operaio coinvolto anche a livello sindacale dalla sconfitta politica subita dalla sinistra alle elezioni dell’aprile 1948. Il 1948 fu l’anno chiave nelle vicende del dopoguerra. Il divario fra il testo costituzionale, che, entrato in vigore nel gennaio di quell’anno, appariva notevolmente avanzato sul piano sociale proclamando sia pure con una genericità non casuale l’Italia una repubblica «fondata sul lavoro», e la politica di ricostruzione intrapresa dopo il 1945 sotto il segno dominante del moderatismo, caratterizzò in modo marcato le modalità della nascita e del consolidamento della Repubblica italiana. La vittoria schiacciante della Dc nelle elezioni del 1948 e gli importanti aiuti statunitensi dati al Paese costituirono la premessa perché l’ulteriore sviluppo politico ed economico avvenisse in un contesto di crescente isolamento dei partiti della sinistra e

della Cgil.

7. La situazione delle campagne. Le lotte per la terra nel Mezzogiorno. Condizione essenziale della ripresa economica del dopoguerra era il miglioramento della situazione dei mezzadri, dei contadini medi e piccoli proprietari e dei braccianti. L’Italia della seconda metà degli anni Quaranta era un Paese in cui prevalevano ancora nettamente le attività agricole rispetto a quelle industriali e terziarie. Nel 1951 si contavano 8 640 000 addetti all’agricoltura, 5 803 000 all’industria, 4 112 000 alle attività terziarie e 1 138 000 impiegati nell’amministrazione pubblica. Occorre tenere conto che il fascismo aveva fortemente compresso le condizioni di vita e i rapporti di lavoro della manodopera agricola, la quale, finita la guerra, era pronta a porre sul tappeto forti rivendicazioni; e che in particolare queste condizioni e questi rapporti erano marcatamente peggiori nel Sud, dove l’agricoltura continuava a mostrare i tratti di una profonda arretratezza. Nel 1945-46 nelle campagne del Centro e del Nord, dove era diffuso l’istituto della mezzadria, i mezzadri, con l’appoggio della Cgil e della Coldiretti guidata da Paolo Bonomi e legata alla Dc, promossero ripetute agitazioni tendenti ad aumentare la quota di prodotto a loro favore. I proprietari, organizzati nella Confederazione degli agricoltori, opposero forti resistenze. La vertenza venne infine composta nel giugno 1946 con il «lodo De Gasperi», che, divenuto esecutivo nel maggio 1947, rispose in via provvisoria e parziale alle richieste dei mezzadri. Ma il punto maggiormente critico delle agitazioni agrarie fu rappresentato dalle diffuse e forti lotte dei contadini meridionali che, iniziate fin dagli ultimi mesi del 1943, si protrassero fino ai primi anni Cinquanta. Esse miravano a portare un risoluto attacco al latifondo ed erano spinte dalla rivendicazione che le terre male o non coltivate venissero date in gestione a cooperative. Nell’ottobre 1944 il ministro comunista dell’Agricoltura nel governo Bonomi, Fausto Gullo, varò decreti in tal senso, che però rimasero sostanzialmente lettera morta. Il movimento dei contadini e dei braccianti del Sud si protrasse durante il governo Parri, il primo governo De Gasperi e negli anni seguenti. In vari luoghi del Mezzogiorno si ebbero rivolte finite in repressioni anche sanguinose.

Nel contesto delle tensioni provocate dalla questione agraria nel Sud, si inserí in Sicilia l’azione del movimento separatista, sostenuto da settori della borghesia e della aristocrazia – che vedevano in esso un efficace strumento per opporsi direttamente su base locale alle lotte dei contadini e difendere i tradizionali rapporti di proprietà e di potere –, dalla mafia e da bande di fuorilegge a questa legate. L’energica reazione del governo Parri portò al rapido declino del separatismo, ma i rigurgiti del movimento, ormai direttamente nelle mani di bande criminali come quella guidata da Salvatore Giuliano in stretto collegamento con la mafia e forse anche in rapporto con apparati dello Stato impegnati nella lotta al comunismo, si fecero sentire in maniera drammatica dopo le elezioni per l’Assemblea regionale siciliana, che in aprile segnarono un forte successo delle sinistre unitesi nel Blocco del popolo. Il 1 o maggio 1947 nella piana di Portella delle Ginestre, presso Palermo, gli uomini di Giuliano aprirono il fuoco contro una pacifica manifestazione di lavoratori, uccidendo undici persone e ferendone una trentina. Fatto oggetto di una caccia all’uomo e abbandonato a quel punto dai suoi protettori politici e mafiosi, il bandito venne ucciso nel luglio 1950 in circostanze mai chiarite, probabilmente dal cugino Gaspare Pisciotta che agí di intesa con settori della pubblica sicurezza. Pisciotta sarebbe stato trovato morto in carcere nel 1954, avvelenato per impedirgli di svelare i retroscena della vicenda di Giuliano e le complicità di cui aveva goduto. Nel dopoguerra il Mezzogiorno era dunque in forte fermento, e si imponeva una strategia di riforme atte a dare risposte al suo profondo malessere. 1. Citato in G. Sale, Dalla monarchia alla repubblica. Santa Sede, cattolici italiani e referendum (1943-1946), Jaca Book, Milano 2003, p. 220. 2. «Il Popolo», 23 dicembre 1946. 3. Cfr. G. Formigoni, Storia d’Italia nella guerra fredda (1943-1978), il Mulino, Bologna 2016, p. 100. 4. Citazione da E. Sereni, Il Mezzogiorno all’opposizione, Einaudi, Torino 1948, p. 21. 5. A. De Gasperi, Scritti e discorsi politici, il Mulino, Bologna 2008, vol. III, tomo 2, p. 1738. 6. Le citazioni in G. Crainz, Gli insegnamenti di una storia, in Id. e C. Fusaro, Aggiornare la Costituzione. Storia e ragioni di una riforma, Donzelli, Roma 2016, pp. 21-24. 7. Le citazioni in P. Scoppola (a cura di), Chiesa e Stato nella storia d’Italia. Storia documentaria dall’Unità alla Repubblica, Laterza, Bari 1967, pp. 814-15. 8. Ibid., pp. 825 e 828.

9. Ibid., pp. 800-1. 10. Ibid., p. 836. 11. De Gasperi, Scritti e discorsi politici cit., vol. III, tomo 2, pp. 1304-305. 12. Togliatti, Opere, V. 1944-1955 cit., pp. 166-68.

Capitolo tredicesimo L’Italia negli anni del «centrismo». Il «miracolo economico»

1. I governi De Gasperi dopo il 1948. Contrasti interni ai partiti di centro e persistente ambiguità della politica del Pci. Dopo le elezioni del 18 aprile 1948 il timone del governo venne saldamente tenuto da De Gasperi. Come si è già ricordato, questi formò i propri governi ricercando l’appoggio diretto, con assunzione di responsabilità ministeriali, dei piccoli partiti laici, sia perché non intendeva lasciare alla sola Dc tutti gli oneri dell’azione di governo in anni ancor sempre difficili, sia perché voleva evitare che il partito cattolico e con esso il governo andassero incontro a una deriva di tipo clericale. L’accordo “quadripartito” (DC- Psli-PriPli) caratterizzò dunque il periodo successivo al 1948. Ma si trattò di una formula che non poteva mascherare il netto predominio della Dc, che basava il suo potere su quattro elementi essenziali: un anticomunismo da crociata; lo stretto appoggio del Vaticano e del clero; una “fedeltà atlantica”, cioè agli Stati Uniti, senza riserve; il sostegno degli strati moderati – a partire dai piú privilegiati che vedevano nell’anticomunismo della Dc una garanzia politica e sociale e nell’interclassismo che la caratterizzava un saldo fondamento per la difesa dell’ordine costituito – e il consenso radicato di vaste aree tanto del ceto medio quanto delle masse soprattutto contadine ma in parte anche operaie. Sennonché il “centrismo quadripartito” imperniato sulla leadership di De Gasperi finí per essere, per aspetti significativi, una formula depotenziata dal fatto che, se uniti dall’anticomunismo, i partiti di governo non lo erano se non in modo relativo circa i modi in cui affrontare i problemi di politica interna. Queste divisioni non riguardavano soltanto i partiti, ma anche le loro correnti interne; e in primo luogo quelle della Dc, dove la destra conservatrice clericale e persino monarchica fronteggiava le correnti riformiste di centro e di sinistra. In questa complessa e contraddittoria situazione, De Gasperi si rivelò un abile mediatore che, subito dopo il 1948, si sforzò di affiancare all’anticomunismo il riformismo sociale, entro i vincoli derivanti per un verso

dai limiti propri dell’impostazione delle riforme varate e dalle resistenze che queste incontrarono nei settori piú accesamente conservatori e dall’altro dall’opposizione della sinistra socialcomunista e delle masse da essa rappresentate, che le consideravano del tutto insufficienti. Ciò nonostante, il processo riformatore introdusse in Italia mutamenti importanti, conseguendo significativi successi. Fra il 1948 e il 1953, anno di nuove elezioni, si succedettero – come si è visto – tre governi De Gasperi, tutti di coalizione e con l’appoggio parlamentare dei quattro partiti di «centro» (ma l’unico partito minore rimasto continuativamente una componente dell’esecutivo fu il Pri). Il capo del governo si trovò impegnato a mediare, prima ancora che tra le diverse componenti della maggioranza parlamentare, tra quelle organizzate all’interno del proprio partito. La presenza di tali correnti sarebbe restata una caratteristica permanente del maggiore partito italiano. Esse rappresentavano al tempo stesso un fattore di debolezza e di forza: di debolezza in quanto conferivano fragilità ai singoli esecutivi (che non a caso si susseguirono in gran numero, pur nella continuità del fatto che la guida del governo restasse nelle mani della Dc); di forza in quanto costituivano i punti di riferimento e di coagulo di una vasta e articolata rete di interessi diffusa in tutti gli strati sociali (rendendo possibile che la Dc rimanesse invariabilmente il partito con il maggiore consenso dal 1948 al 1992). La mappa delle correnti democristiane dopo l’aprile 1948 si presentava essenzialmente secondo le seguenti linee. La destra, strettamente legata al Vaticano, era contraria alle riforme sociali nonché a ogni allentamento del centralismo burocratico, considerato una garanzia contro il comunismo. Al centro si collocava De Gasperi con Mario Scelba (in realtà un centrista che tendeva a destra). Alla sinistra stavano uomini come Giovanni Gronchi, Amintore Fanfani, Giuseppe Dossetti e Giorgio La Pira, personalità queste due ultime caratterizzate dalla spiccata tendenza all’integralismo cattolico. Era comunque da essa che veniva la spinta propulsiva nella direzione di un’azione riformatrice in campo sociale in grado di assicurare al partito un consistente consenso da parte dei ceti inferiori in quanto favorevole alla riforma agraria e a un maggiore intervento statale nell’economia. Il ritiro di Dossetti dalla vita politica nel 1951 aprí la strada all’iniziativa di Fanfani, un economista e abile organizzatore che mirava a rendere la Dc meno dipendente dall’appoggio diretto dell’Azione cattolica e del Vaticano e piú ancorata a posizioni di

potere derivanti dal controllo della macchina statale e del settore pubblico dell’economia. Fu dunque questo volto composito che assicurò alla Dc l’adesione di ampi e diversi strati sociali, ciascuno dei quali poteva riconoscersi in questa o quella corrente. Nell’area dei partiti minori del centro governativo, socialdemocratici e repubblicani rappresentavano una forza di appoggio al riformismo di De Gasperi e della sinistra democristiana; i liberali vi si opponevano dato il loro stretto legame con gli interessi della conservazione, anzitutto nel settore agrario. Nel gennaio 1952, dalla fusione del Psli, fondato da Saragat, e del Partito socialista unitario (Psu) di Romita – una formazione nata nel maggio 1949 da un’ennesima scissione del Psi – sorse il Partito socialista democratico italiano (Psdi), di indirizzo riformista e anticomunista e avente una ristretta base negli strati popolari e nel ceto medio. Quanto ai partiti della sinistra marxista, la strepitosa vittoria della Dc nel 1948 li aveva posti in una sorta di “ghetto”. Pci e Psi avevano dietro di sé la maggioranza della classe operaia e dei salariati agricoli e influenti gruppi di intellettuali. Una solida riserva di consenso era loro assicurata dalla Cgil, che, anche se indebolita dalle scissioni sindacali, restava il piú forte sindacato del Paese ed era strettamente collegato ai due partiti tanto per la base sociale quanto per l’appartenenza politica dei suoi dirigenti. Fatto è che Pci e Psi avevano una strategia intrinsecamente ambigua, particolarmente evidente nel primo, nel quale la teoria leninista del partito centralizzato e della dittatura del proletariato come necessaria fase di passaggio dalla società capitalistica a quella socialista, il “legame di ferro” con l’Unione Sovietica, e l’esaltazione continua del suo «modello» di società convivevano con la scelta di aderire, in attesa del “salto rivoluzionario” anticapitalistico, alle istituzioni democraticoparlamentari. Convivevano cosí nella sinistra classista due “anime”: quella ancorata alle finalità rivoluzionarie dettate dall’ideologia leninista e quella che, piegandosi ai rapporti di forza esistenti in Italia e nel mondo occidentale, induceva a percorrere la strada delle «riforme di struttura» e a radicarsi via via piú profondamente nel sistema politico nazionale. Era un nodo allora non sciolto (e destinato a non esserlo in avvenire), come mostrato dalla presenza nel Pci della linea rappresentata da Secchia, impegnato nel tenere in piedi il suo «partito nel partito» e la struttura militare clandestina di cui era a capo. Col mantenere vive l’una e l’altra anima, i comunisti si fecero portavoce e veicolo dello spirito di opposizione delle masse da essi egemonizzate

all’attività del governo in politica interna e all’antiamericanismo in politica estera, mentre contemporaneamente si ponevano a capo delle lotte per allargare l’ambito delle riforme sociali. La salda disciplina entro il partito, la mancanza di correnti organizzate – vietate dal principio leninista del “centralismo democratico” –, l’anticapitalismo e il filosovietismo diedero quindi alle forze di centro (per non dire di quelle di destra) la possibilità di presentare l’immagine di un Pci e piú in generale della sinistra di classe come un nemico infido, un “anti-Stato” cui occorreva sbarrare a ogni costo l’accesso al potere. A mantenere piú che mai acceso lo scontro tra filoamericani e filosovietici furono il trionfo nel 1949 dei comunisti in Cina, lo scoppio nel giugno 1950 della guerra di Corea, nel corso della quale il Pci presentò la Corea del Nord come la paladina della liberazione delle masse popolari oppresse nel Sud dagli imperialisti americani e dai loro clienti indigeni. Anche in Italia si affermò il movimento, largamente patrocinato e sostenuto dai sovietici, dei “Partigiani della pace”, schierati per la neutralità dell’Italia e contro l’adesione del Paese, votata dal Parlamento nel marzo 1949 tra grandi contrasti, alla Nato (North Atlantic Treaty Organization), detta altresí Patto atlantico. L’ostilità o quanto meno riserve critiche nei confronti del Patto coinvolse anche filoni del movimento cattolico, esponenti della stessa Dc come Giovanni Gronchi e Giorgio La Pira e intellettuali quali Arturo Carlo Jemolo, Piero Calamandrei e Luigi Russo. Il Psi restava strettamente legato al Pci. Le redini dell’organizzazione del partito erano tenute da Rodolfo Morandi, che teorizzava la piú stretta unità con il Pci, l’adesione al marxismo-leninismo e l’appoggio senza riserve all’Unione Sovietica. Riconoscimento altamente simbolico del rapporto tra Pci e Psi fu l’attribuzione a Nenni nel 1952 del «Premio per la pace», che gli venne conferito a Mosca. Ma nel Psi era anche presente una corrente, rappresentata da leader come Riccardo Lombardi e Sandro Pertini, i quali sostenevano una linea di “autonomia” socialista, pur nel quadro dell’alleanza con il Pci e dell’unità di classe di operai e contadini. Quale fosse il clima lo testimoniava il fatto che sia ambienti del dipartimento di Stato americano sia Pio XII persistessero nell’opinione che si dovesse prendere in considerazione la messa fuori legge dei comunisti. La destra monarchica aveva il maggiore consenso nel Sud e in particolare in città come Napoli, Palermo, Bari e Foggia. Quella neofascista aveva

diramazioni non solo nel Sud e nel Centro, ma anche al Nord; il Msi, con forti toni populistici, puntava a fare presa sui nostalgici del regime fascista e della Repubblica di Salò e su poveri e sottoproletari che cercava di legare a sé con messaggi demagogici in campo sociale. Nella sua orbita si muovevano gruppi di giovani dediti alla violenza. In base al dettato costituzionale, il Msi avrebbe potuto e dovuto essere sciolto, ma De Gasperi non ritenne opportuno percorrere una tale strada, perché la sapeva non gradita a parte dello stesso elettorato democristiano e perché temeva, con fondate ragioni, che lo scioglimento del Msi avrebbe scatenato una campagna di quanti avrebbero invocato un’analoga messa fuori legge del Pci, aprendo uno scenario molto pericoloso. Il quadro politico interno era insomma segnato da profonde fratture e da forti inquietudini negli ambienti anticomunisti, all’interno dei quali si presero a concepire, al di sotto del livello della legalità, piani per la formazione di organizzazioni pronte a fronteggiare situazioni di emergenza create da ipotetiche azioni eversive delle sinistre. Nella Dc si discusse persino dell’opportunità di creare una «milizia di partito», proposta che però venne respinta; l’ex partigiano azzurro medaglia d’oro e all’epoca funzionario del ministero degli Esteri Edgardo Sogno prese contatti con Scelba per costituire gruppi di difesa anticomunista, gli Atlantici d’Italia, in grado di fiancheggiare polizia ed esercito. Un progetto che, anch’esso allora non approvato, sarebbe ripetutamente riemerso per poi essere attuato negli anni successivi. Nel campo dei diritti civili e dell’esercizio concreto delle libertà a partire da quelle delle minoranze religiose, l’Italia del primo decennio del dopoguerra si presentava molto arretrata. Sotto questo profilo la Costituzione esprimeva un’idea di società che assai poco corrispondeva alla realtà delle cose, per quanto riguardava sia i rapporti che correvano tra le persone e i gruppi sia i criteri che ispiravano l’azione della magistratura, in varie sue componenti decisamente retriva, e delle forze dell’ordine impegnate nella sorveglianza e nella repressione dei comportamenti considerati devianti. Si ricordi in proposito che molti articoli del Codice Rocco rimasero a lungo in vigore. Tutto ciò si rispecchiava anche nei modi di considerare la tutela e la vita della famiglia, che privilegiavano i diritti degli uomini rispetto a quelli delle donne, in una concezione bigotta della moralità pubblica e privata, nella difesa intransigente dei diritti e degli interessi della Chiesa cattolica a scapito di quelli delle minoranze religiose e dei laici non credenti, con pesanti

limitazioni e divieti posti alla libera diffusione delle loro idee. Ma vi era un altro aspetto di grande importanza: l’interdizione di ogni “attacco” nei confronti dell’“onore” dell’esercito italiano. Dopo che l’amnistia varata da Togliatti aveva creato le condizioni favorevoli a che la magistratura, con un vero e proprio processo di inversione, mettesse sotto accusa numerosi partigiani, si insistette in una “strategia del silenzio” per coprire i numerosi gravi crimini commessi dall’esercito italiano nelle colonie e, durante il secondo conflitto mondiale particolarmente in Iugoslavia e in Grecia. L’Italia uscita dalla Resistenza, con il concorso in ciò di tutte le forze politiche, non aveva voluto un imbarazzante processo – come invece in Germania e in Giappone – nei confronti dei criminali di guerra italiani e dei loro complici. Si indulse allo slogan degli «italiani brava gente», dei militari che non avevano avuto a che fare con le atrocità commesse dai nazisti. Fu necessario attendere decenni prima che la storiografia italiana cominciasse a sollevare la pesante cortina del silenzio e dell’omertà. Sintomatico del clima di quegli anni fu l’episodio che nel 1952 coinvolse i critici cinematografici Renzo Renzi e Guido Aristarco. Il primo aveva pubblicato sulla rivista diretta dal secondo, «Cinema nuovo», il canovaccio di una sceneggiatura per un film dal titolo L’armata s’agapò sul comportamento dell’esercito italiano nella Grecia occupata. I due critici – essendo Renzi un ex tenente e Aristarco un ex sergente maggiore in congedo – furono chiamati a risponderne davanti a un tribunale militare, rinchiusi nella fortezza di Peschiera, condannati ad alcuni mesi di prigione per avere commesso «oltraggio alle Forze Armate combattenti». Renzi fu anche degradato. Non si trattò dell’unico caso di giornalisti arrestati per oltraggio non solo alle forze armate, ma anche alla polizia e al governo. Testimonianze eloquenti dell’atteggiamento di una magistratura retrograda furono altri due casi particolarmente significativi avvenuti nel 1956. Il primo coinvolse lo scrittore Danilo Dolci, arrestato, processato e condannato come «noto agitatore politico» per aver promosso uno sciopero di disoccupati a Partinico. Il secondo coinvolse il vescovo di Prato Pietro Fiordelli, che aveva messo allo gogna della comunità locale due giovani in quanto «pubblici peccatori e concubini» per essersi sposati con il rito civile. Denunciato e condannato in primo grado a pagare una multa, il vescovo, al cui fianco si era schierato indebitamente lo stesso governo, venne in seguito assolto per l’«insindacabilità dell’atto».

2. Il «riformismo dall’alto». La riforma agraria e la Cassa per il Mezzogiorno. Dopo il grande successo elettorale dell’aprile 1948 De Gasperi avvertí l’esigenza di avviare un processo riformatore vuoi per dare risposte ai bisogni del Paese vuoi per dimostrare che le forze moderate vincitrici non erano il baluardo della conservazione secondo quanto sostenuto dalla sinistra sconfitta. La Dc degasperiana intendeva insomma contrapporre a comunisti e socialisti una sua politica riformatrice, anche per allargare la propria area di consenso a partire dalle campagne meridionali, dove il Pci, a differenza di quanto avvenuto nel Nord, aveva visto accrescersi la sua base elettorale. Era pur vero che essa disponeva, per il controllo delle campagne, del potente strumento della Confederazione dei coltivatori diretti; ma ciò non appariva sufficiente, tanto piú che la Confederazione aveva i suoi punti di forza al di fuori del Sud. A premere per le riforme nei settori piú arretrati dell’economia nazionale erano anche le forze imprenditoriali piú avanzate, consapevoli che una struttura agraria troppo arcaica quale quella del Mezzogiorno poneva un forte freno allo sviluppo capitalistico. Dal canto suo, dopo la notte fatta calare su di esso dal fascismo, il “meridionalismo” tornò vigorosamente alla ribalta. Nel 1945 era apparso il memorabile libro di Carlo Levi Cristo si è fermato a Eboli, che, dando una descrizione magistrale in chiave letteraria dell’arretratezza della vita civile nel Sud, ottenne un grandissimo successo e scosse la coscienza nazionale; nello stesso anno venne ripubblicato il libro di Guido Dorso (apparso in prima edizione nel 1925) La rivoluzione meridionale, in cui si auspicava una rivoluzione autonomista del Sud guidata da una élite di ideologi illuminati; prese poi a circolare largamente il saggio di Antonio Gramsci, steso nel 1926, Alcuni temi della quistione meridionale, nel quale si invocava l’alleanza in chiave rivoluzionaria degli operai del Nord capitalistico con i contadini poveri del Sud; nel 1954 sarebbero apparse due importanti riviste: l’una, «Cronache meridionali», fondata da Giorgio Amendola, espressione del meridionalismo comunista, l’altra, «Nord e Sud», fondata da Francesco Compagna, di indirizzo riformistico e liberaldemocratico e nettamente critico nei confronti di quello di ispirazione gramsciana. I governi De Gasperi vararono a favore delle masse rurali del Sud quello

che venne definito “un riformismo dall’alto”, che produsse risultati tutt’altro che sottovalutabili. Ma l’obiettivo di “rimettere in moto il Mezzogiorno”, spezzando il latifondo mediante la mitica “riforma agraria” invocata fin dal Risorgimento, venne allora mancato. Significativo che a premere per le misure di riforma furono anche gli americani. Vennero approvate tre leggi fondamentali: la legge per la Sila del maggio 1950, la «legge stralcio» – cosí chiamata perché prima applicazione di un piú vasto progetto – la legge di riforma siciliana rispettivamente dell’ottobre e del dicembre dello stesso anno. Nel complesso la riforma agraria, che interessava oltre che il Sud anche alcune zone del Centro-Nord, nel decennio 1950-60 portò all’esproprio di circa 770 000 ettari, con la formazione di poco piú di 100 000 aziende a conduzione familiare, di cui 89 000 nel Sud. Le nuove proprietà, che i contadini beneficiari avrebbero dovuto riscattare ratealmente, erano per lo piú troppo piccole, male assistite tecnicamente dagli enti di riforma, costituite in larga parte da terre di scarsa qualità. Sicché molti assegnatari, delusi, avrebbero in seguito abbandonato le terre ricevute prendendo la via dell’emigrazione verso il Nord Italia e i Paesi dell’Europa settentrionale alla ricerca di posti di lavoro come operai e manovali. In ogni caso la legislazione di esproprio delle terre poco o malcoltivate ebbe un effetto di importanza storica: quello di sanzionare il tramonto della potenza nel Mezzogiorno dei latifondisti, i grandi proprietari assenteisti. La riforma agraria mirava a promuovere lo sviluppo del Sud. Sennonché era ormai maturata la coscienza che occorreva intervenire anche nel settore dell’industria ovvero nell’altro corno dell’arretratezza meridionale. Fin dal 1946 era stata fondata, per impulso di Rodolfo Morandi, ministro dell’Industria, dell’economista Pasquale Saraceno e di Domenico Menichella, alto dirigente dell’Iri, l’Associazione per lo sviluppo economico del Mezzogiorno (Svimez). L’obiettivo di passare dai propositi ai fatti fu assunto dalla legge che nell’agosto 1950 istituí la Cassa per il Mezzogiorno, promossa da Pasquale Saraceno e varata con l’ambizione di avviare la trasformazione dell’intera area. La legge – aspramente criticata dalla sinistra che la riteneva inadeguata rispetto all’esigenza di cambiare qualitativamente la società meridionale – intendeva creare attraverso il finanziamento pubblico una rete di “infrastrutture” (strade, acquedotti, elettrificazione ecc.), tali da promuovere lo sviluppo dell’industria e migliorare l’agricoltura. Nel 1952 la Cassa allargò notevolmente l’ambito del proprio intervento, fornendo crediti

alle iniziative industriali private, con agevolazioni notevoli per alleggerire i rischi imprenditoriali, piú elevati di quelli esistenti nel piú preparato e sviluppato Centro-Nord. Le somme predisposte furono consistenti: 1280 miliardi per gli anni 1951-62. Ma le pressioni locali clientelari ed elettoralistiche portarono a una forte dispersione dei finanziamenti, sicché in molti casi gli interventi dello Stato e le opere pubbliche, in mancanza di adeguati criteri di coordinamento, produssero effetti molto al di sotto delle aspettative. Le organizzazioni criminali trovarono canali favorevoli all’infiltrazione. Comunque l’intervento pubblico favorí l’avvio di una modernizzazione del contesto meridionale sia pure relativa e squilibrata. A beneficiare dei finanziamenti furono le grandi imprese pubbliche e private, tra cui l’Iri, l’Eni, la Montecatini e la Sir, che costruirono impianti siderurgici e petrolchimici, i quali però, data la mancanza delle necessarie infrastrutture di sostegno, vissero in una posizione di sistematica precarietà che li fecero definire polemicamente «cattedrali nel deserto». Altre significative misure di indirizzo riformatore furono il varo nel febbraio 1949, per iniziativa del ministro del Lavoro Amintore Fanfani, del piano Ina-Casa, diretto a finanziare – con l’erogazione per sette anni di 15 miliardi annuali provenienti congiuntamente da prelievi sui salari, contributi dei datori di lavoro e dello Stato – la costruzione di case popolari (sarebbero stati costruiti circa 350 000 alloggi in poco piú di dieci anni); e nel gennaio 1951 la riforma, di cui fu artefice il ministro delle Finanze Ezio Vanoni, che istituí l’obbligo della dichiarazione annuale dei redditi, l’imposta progressiva e l’aumento dei minimi imponibili, dando inizio – pur con notevoli lacune, che consentivano alla vasta area dei percettori di un reddito non fisso di evadere largamente – alla razionalizzazione della legislazione fiscale. Il «riformismo dall’alto» attuato dai governi De Gasperi fra il 1948 e il 1953 lasciò profondamente insoddisfatte le sinistre, che lo giudicarono male impostato e troppo limitato. La linea di “austerità” portata avanti tra il 1950 e il 1953 dal ministro del Bilancio Giuseppe Pella, continuatore di quella inaugurata da Einaudi, e fondata sui bassi salari, sul contenimento dell’occupazione per combattere l’inflazione e sull’obiettivo del pareggio del bilancio, fu contrastata dai sindacati vigorosamente ma con scarso successo. Un «piano del lavoro» presentato nell’ottobre 1949 dal leader della Cgil Giuseppe Di Vittorio, per promuovere una serie di interventi pubblici (nazionalizzazione del settore elettrico, opere di bonifica, edilizia popolare

ecc.) volti a incrementare l’occupazione, fu lasciato cadere. Egualmente insoddisfatti, per ragioni opposte, erano i conservatori piú retrivi facenti capo ai monarchici, ai liberali e alla destra democristiana, i quali ritenevano le riforme troppo innovatrici e contrarie ai propri interessi. Le sinistre poi contestarono le spese militari, notevoli, che l’Italia fece per assolvere ai propri impegni di riarmo nell’ambito dell’Alleanza atlantica. Al di là dei suoi limiti, il bilancio economico del quinquennio appariva complessivamente tutt’altro che trascurabile; infatti nel 1950 la ricostruzione poteva considerarsi ultimata e nel 1954 la produzione industriale aveva ormai superato dell’81% quella del 1938. Ma questo incremento, dovuto alla piú elevata produttività, era stato ottenuto senza attenuare i persistenti forti squilibri sociali. Agli elevati profitti corrispondevano bassi salari e pesanti condizioni di lavoro. Quale che fosse il giudizio che se ne volesse o potesse dare, l’iniziativa riformatrice conseguí un risultato politico di grande importanza: mostrare che anche in Italia il capitalismo non era affatto avviato verso una crisi organica e relegare l’opposizione dei comunisti e dei socialisti, in un contesto di potere politico e sociale consolidato, a un ruolo di protesta e mobilitazione contro le insufficienze che accompagnavano un innegabile sviluppo destinato ad accentuarsi fino a dar luogo a quello che sarebbe stato «il miracolo economico» italiano. Fu cosí che la strategia del Pci di superare prima o poi le frontiere della democrazia borghese e del capitalismo non ebbe alcuna possibilità di successo, restando un Leitmotiv agitatorio. Occorre ribadire che il blocco di potere stabilizzatosi a livello di governo nel 1948 poteva contare sua una vasta e articolata serie di organizzazioni radicate nel mondo cattolico in grado di ottenere il consenso di grandi masse, soprattutto nelle campagne ma non solo. Le parrocchie continuavano a costituire una salda base di sostegno alla Dc. L’Azione cattolica nel 1954 arrivava a comprendere oltre due milioni e mezzo di membri ed era di gran lunga piú forte nell’Italia settentrionale, proprio nella parte del Paese piú industrializzata dove erano concentrate le masse lavoratrici legate alla sinistra. Una vera e propria potenza, anch’essa strettamente legata alla Dc era la Coldiretti che, in stretto rapporto con la Federconsorzi, provvedeva a organizzare i contadini proprietari e tutelarne gli interessi. Nel 1956, con oltre 13 000 sezioni e avendo a sua disposizione numerosi periodici, essa arrivò a unire piú di un milione e mezzo di famiglie. A loro volta le Acli

(Associazioni cristiane dei lavoratori italiani) e la Cisl controllavano saldamente le masse operaie di orientamento cattolico.

3. La «legge truffa» e le elezioni del 1953. La fine politica di De Gasperi. Le oscillazioni della Dc. Le elezioni del 1958. I fattori che nel 1948 avevano favorito la strepitosa vittoria della Dc – l’anticomunismo sfrenato, gli aiuti statunitensi condizionati al voto, il convergere dietro lo scudo offerto da questo partito e dalla destra contro la minaccia dei “rossi” non solo di grandi masse popolari ma anche di gran parte dei ceti moderati e di destra – erano venuti indebolendosi. Dopo che le elezioni amministrative del maggio 1951 e quelle regionali della Sicilia del giugno dello stesso anno avevano mostrato un consistente calo elettorale del partito di De Gasperi, in vista di un’altra tornata di elezioni amministrative da tenersi nel maggio 1952, motivo di grave preoccupazione per il Vaticano e la Dc era la possibilità che a Roma il Blocco del popolo formato dalle sinistre potesse prevalere. Questa preoccupazione portò in aprile alla cosiddetta «Operazione Sturzo». Pio XII e Gedda, presidente dell’Azione cattolica, indussero Sturzo a sondare la possibilità di opporre al Blocco una Lista civica; iniziativa giudicata non opportuna da De Gasperi, il quale temeva che si arrivasse a chiedere l’apporto di monarchici e neofascisti auspicato da Gedda e dall’«Osservatore Romano». Ma quando tale prospettiva divenne reale, Sturzo manifestò il proprio dissenso e i partiti laici di centro si tirarono fuori, provocando il fallimento dell’operazione (nonostante i timori, il Blocco del popolo sarebbe stato sconfitto). L’atteggiamento assunto da De Gasperi di fronte all’operazione Sturzo suscitò un vivo risentimento negli ambienti vaticani e anzitutto nel pontefice; tant’è che alla richiesta in giugno del leader democristiano – che di lí a poco avrebbe concluso la propria carriera politica – di essere ricevuto in udienza con la propria famiglia, Pio XII oppose un diniego. Con un alto senso dello Stato, De Gasperi reagí affermando che, se come cristiano poteva accettare «l’umiliazione», in quanto capo del governo italiano doveva «esprimere lo stupore per un rifiuto cosí eccezionale». Di fronte al rischio che alle elezioni politiche nazionali del 1953 la coalizione di centro perdesse una solida maggioranza parlamentare con il

conseguente indebolimento del governo e volendo al tempo stesso evitare di dipendere dall’appoggio della destra monarchica e neofascista, la Dc intravvide la soluzione in una legge elettorale maggioritaria, secondo la quale al partito o alla coalizione che avesse ottenuto almeno il 50,01% dei voti sarebbe stato assegnato alla Camera (il Senato avrebbe mantenuto la vecchia legge) il 65% dei seggi. De Gasperi – spinto dalla volontà di assicurare all’Italia una «democrazia protetta» –, ponendo la fiducia sul governo, fece approvare la legge con l’appoggio alla Dc degli altri partiti di centro il 21 gennaio 1953, con 332 voti contro 17, dopo che l’opposizione di sinistra, risultate vane le pratiche ostruzionistiche, aveva abbandonato l’aula. La legge fu bollata dalle sinistre come «legge truffa» per il suo meccanismo che ricordava la legge Acerbo del 1923, con la quale i fascisti si erano impadroniti del Parlamento alle elezioni del 1924. Per protesta, sette deputati del Psdi lasciarono il partito; e Parri il Partito repubblicano. Costoro costituirono il movimento di «Unità popolare». Aspramente combattuta oltre che dalla sinistra anche dalla destra, la legge divise profondamente gli italiani. In Parlamento vi furono tafferugli, nel Paese grandi e accese manifestazioni di protesta che denunciavano il tradimento dei principî democratici. In un clima politico incandescente, a sostegno dei partiti anticomunisti si prodigò infaticabilmente l’ambasciatrice cattolica Clare Boothe Luce, nominata dal presidente Eisenhower, che ostentava il suo odio per il comunismo. Strumento importante a livello pubblico della propaganda americana fu la United States Information Agency; dagli Stati Uniti vennero inoltre erogati sostanziosi finanziamenti; mentre, a livello occulto, andava delineandosi un apparato clandestino, che coinvolgeva servizi segreti italiani e americani: le cosiddette strutture Stay Behind divenute poi note come «Gladio», formate da nuclei armati, pronti a entrare in azione nell’eventualità di eversione comunista. Le elezioni si svolsero il 7-8 giugno 1953. Alla Camera, Dc, Psdi, Pri e Pli non riuscirono a raggiungere la quota necessaria a far scattare la legge per la mancanza di 57 000 voti. Ottennero complessivamente il 49,2%. La Dc perse quasi due milioni di voti passando, rispetto al 1948, dal 48,5 al 40,1. In regresso anche gli altri tre partiti della maggioranza, con il 9,1. La sinistra ebbe un notevole successo, passando dal 31,0% ottenuto dal Fronte popolare nel 1948 al 35,3 (il Pci, con un forte incremento, ebbe il 22,6%; il Psi il 12,7%). Avanzò sensibilmente anche la destra: il Msi salí dal 2 0 al 5,8 e il

Partito monarchico dal 2,8 al 6,9%. Una funzione essenziale nel far fallire la «legge truffa» ebbe Unità popolare, con 171 099 voti. I risultati videro dunque il rafforzamento delle opposizioni. Non solo. Indicativo dello scarso consenso con cui era stato accolto il “riformismo dall’alto” era il fatto che il Pci aveva guadagnato voti proprio nel Mezzogiorno, il principale destinatario della riforma agraria. Le elezioni sancirono la fine della leadership di De Gasperi. In luglio un governo monocolore democristiano, l’ultimo da lui formato, non ottenne la fiducia del Parlamento, con la significativa astensione di Psdi, Pli e Pri. Era cosí finita l’“era degasperiana”, contrassegnata dal ruolo esercitato da un leader di alta statura – paragonabile per il suo rilievo a Depretis, Crispi e Giolitti nel periodo liberale –, un democratico di orientamento cattolicoliberale, assai devoto alla Chiesa ma anche animato dal senso dell’autonomia dello Stato e quindi ostile al clericalismo politico, che aveva guidato il Paese in un periodo di forti contrasti politici e sociali, in netta opposizione al socialcomunismo ma contrario alle aperture in nome dell’anticomunismo alla destra monarchica e neofascista; aveva collocato con determinazione l’Italia nel campo occidentale e stabilito un legame privilegiato con gli Stati Uniti; era stato, insieme con altri insigni statisti, protagonista dell’azione diretta ad avviare gli Stati europei occidentali sul cammino della cooperazione economica e politica. Giudizi acuti e interessanti ma di diverso tenore sul tipo di leadership esercitata da De Gasperi sono, tra i molti che si potrebbero citare, quelli espressi da due storici eminenti: Giampiero Carocci, autore di una importante Storia d’Italia dall’Unità ad oggi (1975), e Pietro Scoppola autore del saggio La proposta politica di De Gasperi (1977). Il primo, orientato a sinistra, nota come lo statista trentino, alleandosi con i partiti laici minori «ebbe cura di contenere le spinte, sempre presenti nel mondo cattolico e nel Vaticano, verso la destra clericale»; ma che, nel modo di concepire lo Stato, rimase legato alla suggestione del «vecchio stato liberale oligarchico», la quale ebbe a riflettersi nel suo atteggiamento nei confronti del partito democristiano, «che per lui non fu altro che un insieme di notabili appoggiati dall’apparato organizzativo della chiesa». A differenza di Giolitti, che «aveva considerato, soprattutto nella prima parte del suo periodo, il movimento operaio uno dei suoi interlocutori privilegiati», «De Gasperi mirò a creare una concentrazione di borghesia, ceti medi e contadini a carattere sostanzialmente antioperaio»; e, animato dalla «tendenza a privilegiare la forza coercitiva

dello stato, a dirigere il Paese dall’alto», cercò nell’anticomunismo «un cemento aggregante di forze diverse piú forte di quanto non fosse stato il trasformismo di Depretis e di Giolitti» 1. Il secondo, tra i maggiori storici cattolici, sottolinea invece come De Gasperi abbia efficacemente operato per favorire un non scontato consenso della Chiesa alla democrazia, ponendo «la democrazia politica» come «l’elemento fondante» della sua «proposta», esprimendo «una precisa e sicura consapevolezza della distinzione fra i valori della coscienza religiosa e la sfera propria di competenza dello Stato e della legge» in opposizione alle tendenze favorevoli «ad una qualche forma di governo autoritario» di tipo franchista o salazariano; per evitare derive del mondo cattolico in senso confessionale o reazionario (dal che il significato dell’alleanza stabilita nel 1948 con i partiti laici minori); per indurre i comunisti verso un’opposizione al governo non al sistema. Altro punto significativo su cui insiste lo Scoppola è che la Democrazia cristiana di De Gasperi «ha offerto al capitalismo italiano, in una nuova fase del suo sviluppo, un consenso di massa che ha reso possibile una crescita economica senza precedenti nella storia del nostro Paese», facendo della propria «ferma opposizione al comunismo stalinista [...] una condizione della maturazione democratica del movimento operaio» 2. I cinque anni della legislatura dal 1953 al 1958 furono poco incisivi dal punto di vista politico, e segnarono un arresto delle riforme di ampio respiro. All’ultimo tentativo di De Gasperi seguirono ben cinque governi, di cui tre «monocolore» democristiani (i primi due e l’ultimo) e due con l’apporto di socialdemocratici e liberali. La successione di De Gasperi passò a Giuseppe Pella, che, dopo non superati contrasti all’interno della Dc, formò il proprio governo nell’agosto 1953, rimasto in carica fino agli inizi del gennaio 1954. Uomo di destra legato strettamente agli ambienti d’affari settentrionali, Pella formò il monocolore Dc con la partecipazione di alcuni tecnici. Il suo ministero si trovò ad affrontare la questione di Trieste e una grave crisi dei rapporti italo-iugoslavi. Dopo la dichiarazione fatta alla vigilia delle elezioni del 1948, con cui promettevano il ritorno della zona A del Territorio libero di Trieste all’Italia, gli anglo-americani avevano congelato il problema. Finalmente nell’ottobre 1953 si dichiararono disposti a lasciare il territorio occupato e a trasferire i poteri al governo italiano, suscitando le energiche proteste di Tito. Si giunse addirittura alla mobilitazione di truppe iugoslave e italiane. L’“energia” di Pella provocò un’ondata di nazionalismo, che,

gonfiata dalle destre, in novembre sfociò in violente manifestazioni a Trieste, con alcuni morti e feriti; dopo di che la tensione si allentò, in seguito all’impegno delle parti ad avviare trattative, senza che si intravvedessero ancora le basi di un possibile accordo, salvo il ritiro delle truppe. Entrato in crisi il governo Pella, che aveva iniziato una politica di apertura verso destra (la crisi era nata all’interno della stessa Dc), l’incarico di formare un nuovo governo venne affidato a Fanfani, che però non ottenne la fiducia. Fu allora la volta di Scelba. Con la fine dell’era De Gasperi, si affermò la tendenza, piú o meno accentuata a seconda dei momenti, che avrebbe caratterizzato la storia successiva della Repubblica: tendenza – dovuta sia all’alternarsi dei rapporti tra i partiti candidabili al governo e alle loro tensioni e divergenze interne sia alla contrapposizione tra questi e i partiti dell’opposizione di sinistra e di destra – a fare nascere e cadere con facilità le maggioranze parlamentari e gli esecutivi a scapito della coerenza del processo legislativo, della capacità decisionale del Parlamento e dell’efficienza degli esecutivi stessi. Il tutto nel quadro dell’inamovibile monopolio di potere della Dc e dei suoi alleati che non faceva loro temere di poter essere scalzati dall’avvento al potere dell’opposizione di sinistra. Scelba – formalmente esponente del centro Dc, in realtà vicino agli ambienti piú conservatori del partito – costituí nel febbraio 1954 un governo composto da democristiani, liberali e socialdemocratici. Su Scelba esercitò fortissime pressioni l’ambasciatrice Luce perché combattesse con maggiore energia i comunisti, risfoderando l‘invito a prendere in considerazione una misura estrema come la messa fuori legge del Pci di fronte al pericolo ritenuto reale che l’Italia cadesse nelle mani della sinistra. L’ambasciatrice arrivò fino a minacciare la sospensione di aiuti e commesse. Le sue pressioni andarono in parallelo con quelle provenienti non solo da settori della destra democristiana, ma anche da liberali e repubblicani, tra cui personalità come Malagodi, Pacciardi e persino La Malfa, che invocavano misure dirette a combattere le infiltrazioni comuniste negli organi dello Stato (burocrazia, esercito, magistratura). Scelba, con senso della realtà, mostrò fermezza di fronte alla Luce, affermando che spettava all’Italia e alla sua classe dirigente decidere in quali modi e con quali misure fronteggiare il comunismo; ma al tempo stesso procedette a colpire i comunisti e i sindacalisti della Cgil con procedure discriminatorie nelle file della pubblica amministrazione, requisizioni di sedi, controlli finanziari ecc. Dal canto suo il Pci evitò di

lasciarsi trascinare in uno scontro aperto con il governo, che sarebbe stato quanto mai pericoloso. A far prevalere questa linea di prudenza contribuí l’emarginazione di Secchia, che divenne definitiva nel luglio 1954, dopo che il suo segretario Giulio Seniga era fuggito portando con sé buona parte della cassa del partito e documenti riservati. Durante questo governo vi furono gli strascichi di scandali clamorosi, quali il “caso Pisciotta”, il luogotenente del bandito Giuliano avvelenato in carcere dopo aver minacciato rivelazioni sui contatti fra mafia, polizia e ministero degli Interni, cui seguí la morte sospetta sempre in carcere di Angelo Russo, un altro membro della banda Giuliano; e il “caso” legato alla giovane Wilma Montesi – trovata morta nell’aprile 1953 nella spiaggia di Torvaianica, nei pressi di Roma, in circostanze mai chiarite, ma tali da tirare in ballo la “dolce vita” e la corruzione di ambienti vicini al potere democristiano –, che, coinvolgendo Piero, il figlio di Attilio Piccioni, eminente esponente della Dc, compromise la carriera politica di quest’ultimo. Importante fu l’intesa raggiunta nell’ottobre 1954 sulla questione del Territorio libero di Trieste. L’Italia rinunciò alla zona B a favore della Iugoslavia e ottenne la zona A e la città di Trieste, con piccole rettifiche di confine (l’intesa sarebbe stata però sanzionata definitivamente solo nel novembre 1975 con il trattato di Osimo). Sempre durante il governo Scelba cadde l’elezione del nuovo presidente della Repubblica, dopo la conclusione del settennato di Einaudi. La Dc subí un duro scacco, perché non riuscí a far eleggere il proprio candidato, Cesare Merzagora; e dovette alla fine accettare l’elezione il 29 aprile 1955 di Giovanni Gronchi, candidato della sinistra DC sostenuto sia dai comunisti e socialisti sia dai missini e da alcuni monarchici. Questa elezione contribuí in modo determinante alle dimissioni di Scelba in giugno. Nel messaggio alla nazione dopo la sua elezione, Gronchi invitò le classi dirigenti a inaugurare un nuovo corso riformatore. Con toni che richiamavano quelli del Giolitti di primo Novecento, parlò della necessità di aprire lo Stato a quelle masse lavoratrici ed a quei ceti medi che il suffragio universale ha condotto sino alle soglie dell’edificio dello Stato, senza introdurle effettivamente dove viene esercitata la direzione politica di questo. Io credo fermamente che sia interesse

fondamentale della democrazia realizzare pacificamente tale inserzione, per rafforzare le basi della stabilità degli istituti attraverso l’ampliato consenso 3.

Sembrava un chiaro invito a porre fine al centrismo attuando una svolta politica. Ma la Dc, divisa al proprio interno, scelse come presidente del Consiglio Antonio Segni, di orientamento conservatore, il cui governo, composto da Dc, Psdi e Pli, fu comparativamente lungo, dal luglio 1955 al maggio 1957. Il governo, di cui Saragat assunse la vicepresidenza, ebbe chiaramente un carattere di transizione; fu l’espressione di un’incertezza di prospettive. Nel novembre 1955 si ebbe la nomina dei giudici della Corte costituzionale, presieduta da De Nicola e divenuta operativa nell’aprile 1956 dopo anni di rinvii che indicavano quanto riuscissero ostici alle forze piú conservatrici l’applicazione della Costituzione repubblicana e il conseguente adeguamento della legislazione fascista alle norme da essa previste. Un altro rilevante avvenimento fu la scissione del Pli, da cui nel dicembre 1955 si staccò, per dissenso verso la direzione di Giovanni Malagodi giudicata troppo subalterna agli interessi economici dominanti, l’ala sinistra, che nel febbraio 1956 fondò il Partito radicale, con l’adesione di Bruno Villabruna, Nicolò Carandini, Leone Cattani, Eugenio Scalfari, Ernesto Rossi, Leo Valiani, Mario Pannunzio, direttore dell’influente settimanale «Il Mondo». Erano costoro esponenti di una cultura politica ispirata a un liberalismo di sinistra, riformista e laico insofferente verso il conservatorismo politico e sociale e il codinismo clericale, cultura che trovò una sua palestra nel settimanale «L’Espresso», fondato nel 1955 da Arrigo Benedetti e Scalfari. Nel campo della stampa quotidiana una significativa innovazione costituí la fondazione nel 1956 a Milano del quotidiano «Il Giorno», con il determinante appoggio finanziario del manager dell’industria pubblica Enrico Mattei. Il giornale, in aperta concorrenza con il conservatore «Corriere della Sera», si contraddistinse per un indirizzo critico nei confronti del centrismo politico e in politica estera dell’eccessiva sudditanza dell’Italia agli Stati Uniti. Un evento di grande importanza storica caduto durante il governo Segni fu la firma a Roma nel marzo 1957 da parte di Francia, Germania occidentale, Italia, Olanda, Belgio e Lussemburgo dei trattati che istituirono la Comunità economica europea (Cee) e la Comunità europea dell’energia atomica (Euratom), che segnarono un passo significativo nella direzione di una sia pure ancora molto relativa integrazione dei Paesi firmatari. Opposte

furono le reazioni dei partiti. Mentre la Dc diede la sua piena approvazione, il Pci denunciò i trattati come l’espressione delle tendenze antidemocratiche del capitale monopolistico internazionale e il Psi espresse a sua volta valutazioni fortemente critiche in particolare verso l’Euratom. A manifestare una netta insoddisfazione nei confronti dei trattati in quanto del tutto inadeguati fu Altiero Spinelli, fautore intransigente degli “Stati Uniti d’Europa”, vale a dire del superamento nella direzione di una soluzione federale sull’esempio americano della sovranità dei singoli Stati responsabili di un passato di incessanti, disastrosi conflitti, e principale fondatore a Milano nel 1943 del Movimento federalista europeo. L’intransigenza di Spinelli, che si collegava alle posizioni espresse da Einaudi fin dalla Prima guerra mondiale, nasceva dalla sua reazione alla catastrofe provocata in Europa dallo scoppio della Seconda guerra mondiale, che nell’agosto 1941 lo aveva indotto a stendere con Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, confinati a Ventotene, quello che divenne celebre come il Manifesto di Ventotene, nel quale si dichiarava inutile, anzi dannoso, qualsiasi progetto di dare vita a una sorta di nuova Società delle Nazioni, poiché: Il problema che in primo luogo va risolto e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani 4.

Al governo Segni successe l’ultimo governo della seconda legislatura, un monocolore democristiano presieduto da Adone Zoli. Formato nel maggio 1957, durò fino al giugno 1958: si trattò, nonostante l’appoggio di Gronchi, di un governo estremamente debole, privo di una stabile maggioranza. Le elezioni del 25 maggio 1958 non segnarono grandi variazioni rispetto al 1953. La Dc, che non poteva vantare di fronte agli elettori un bilancio di riforme incisive ma poteva ascrivere a proprio merito un notevole sviluppo economico del Paese, si presentò come il partito della stabilità e – imitando lo slogan del cancelliere tedesco Konrad Adenauer – del «progresso senza avventure». Riuscí a guadagnare rispetto al 1953 circa 2,7 milioni di voti (dal 40,1 al 42,3%). Il Pci mantenne pressoché intatte le sue posizioni (22,7%), dimostrando di aver superato con successo le ripercussioni del processo di destalinizzazione nell’Unione Sovietica, della rivoluzione in Ungheria e

dell’intervento militare sovietico in questo Paese. Un avanzamento ebbe il Psi, che passò dal 12,7 al 14,2%; stazionario rimase il Psdi; un leggero incremento ebbero i liberali; mentre i repubblicani subirono una relativa flessione. Perdite subirono anche monarchici e fascisti. Pesante fu come sempre l’intervento del clero a favore della Dc.

4. Il “miracolo economico”. Se sul piano politico e legislativo gli anni fra il 1953 e il 1958 furono piuttosto incolori, assai importanti furono invece i progressi economici del Paese, di cui la Dc beneficiò largamente e comprensibilmente dal punto di vista elettorale. Il reddito nazionale aumentò di circa un quarto. La modernizzazione della grande industria subí un’accelerazione, tanto che i prodotti industriali italiani divennero largamente competitivi sul mercato internazionale, con grande vantaggio per le esportazioni che raddoppiarono (da 1227 a 2418 miliardi) e benefici per la bilancia commerciale. Progressi eccezionali fecero l’industria siderurgica sotto l’abile guida di Oscar Sinigaglia, i settori della meccanica, della chimica e dell’industria petrolifera. Le risorse energetiche del Paese, tradizionalmente poverissime, vennero accresciute in seguito alla scoperta di ampi giacimenti di gas naturale nella Valle Padana e di giacimenti, questi invece modesti, di petrolio. La compagnia petrolifera di Stato, l’Agip (Agenzia generale italiana petroli), di cui dopo la guerra Enrico Mattei aveva preso le redini, venne incorporata nell’Eni (Ente nazionale idrocarburi), costituito nel febbraio 1953, trovando nello stesso Mattei un dirigente di eccezionali capacità e dinamismo. Nel corso del decennio successivo, questi acquistò un potere e una influenza enormi. L’impulso da lui impresso alla costruzione di gasdotti e oleodotti, di impianti petrolchimici, al finanziamento e al potenziamento della rete autostradale, al settore dell’energia nucleare e all’incremento dei servizi fu determinante nel dotare il Paese di impreviste possibilità di sviluppo; e fece di lui un imprenditore di fama internazionale. Egli divenne noto, oltre che per le sue qualità manageriali, anche per la spregiudicatezza con cui non esitò a foraggiare con pratiche illegali i partiti (particolarmente stretto era il suo rapporto con la Dc), discriminando tra le loro correnti, e i giornali allo scopo di ricevere appoggi alla propria strategia. Mattei entrò in “zona di pericolo”

quando, ex partigiano, prese a finanziare la resistenza algerina contro la Francia, attirandosi l’odio dell’Organisation Armée Secrète (organizzazione paramilitare clandestina francese) e, in aperto contrasto con le grandi compagnie petrolifere straniere che dominavano il mercato, stabilí legami diretti con i Paesi del Terzo mondo produttori di petrolio. Mentre la tendenza complessiva in Italia andava verso l’aumento della produttività e dei profitti, i salari continuavano a restare bassi, notevolmente al di sotto della media dei Paesi europei piú avanzati, favorendo la competitività dell’industria italiana in campo internazionale e le esportazioni. Nel gennaio 1955 venne varato il Piano decennale per «lo sviluppo del reddito e della occupazione», detto «schema Vanoni», concepito come strumento per un verso di previsione e per l’altro di sostegno alla politica degli investimenti nei settori dell’industria pubblica e privata, con particolare riguardo alle esigenze del Mezzogiorno. Sebbene piuttosto moderato nei suoi obiettivi, esso venne boicottato dalla destra democristiana e privato di sostanziale incisività. Nel dicembre 1956, per dare una soluzione organica alla guida del settore pubblico dell’economia, fu creato, dietro l’impulso del repubblicano Ugo La Malfa, il ministero delle Partecipazioni statali, contro cui votarono le destre. Il ministero agí da propulsore dell’iniziativa e dell’espansione del settore industriale pubblico, tanto che nel 1961 l’Iri costituiva uno dei maggiori colossi europei e l’Eni un’impresa di alto profilo, attivamente impegnata su scala internazionale nella ricerca degli approvvigionamenti energetici di cui necessitava il Paese. Il 27 ottobre 1962 Mattei, che – come si è poco sopra menzionato – aveva stabilito contatti diretti con i Paesi produttori di petrolio entrando in conflitto con gli interessi delle grandi compagnie petrolifere europee e americane, morí a Bascapè, nei pressi di Pavia, in una sciagura aerea su cui gravarono sospetti di sabotaggio mai chiariti. Come mise in luce anche una inchiesta parlamentare sulle condizioni dei lavoratori nelle fabbriche, varata nell’aprile 1955 e conclusasi nel giugno 1958, lo sviluppo era caratterizzato dall’aumento della produttività, da alti profitti e bassi salari, e il mondo imprenditoriale portava avanti una dura politica di attacco ai sindacati. Durante il governo Scelba, in un clima di «guerra fredda» interna molto acceso, e dopo che l’ambasciatore statunitense in Italia, Clare Boothe Luce, aveva dichiarato che gli Stati Uniti non avrebbero piú dato commesse alle imprese, a partire dalla Fiat, nelle quali alle

elezioni per le commissioni interne la Cgil avesse ottenuto piú del 50%, si dispiegò in pieno l’azione padronale. Sotto il peso della minaccia, nel marzo 1955 alle elezioni per le commissioni interne alla Fiat la Fiom-Cgil subí un tracollo, passando dal 63,2% al 36,7% dei voti e venendo superata dalla Cisl, cui andò il 40%. Fu questo il caso piú clamoroso fra i molti altri provocati dalla generale strategia antisindacale adottata dagli imprenditori con l’appoggio delle forze politiche moderate e degli americani. Nonostante limiti, ombre e squilibri, gli anni Cinquanta furono dunque un periodo di grande modernizzazione economica e sociale, al punto che anche per l’Italia, come per la Germania occidentale e per il Giappone, si poté parlare di «miracolo economico». Nel 1962 rispetto al 1952 gli addetti all’industria erano saliti dal 31,69% al 40,38%, mentre quelli all’agricoltura erano scesi dal 42,40 al 27,44; e gli addetti ai servizi erano passati dal 25,90% al 32,17%. Nel corso del decennio l’aumento complessivo dei posti di lavoro fu di poco inferiore ai 2,5 milioni. Il prodotto interno lordo crebbe tra il 1951 e il 1963 del 97%. Il ventre molle debole del Paese continuava a essere il Mezzogiorno, dove le condizioni di vita e di occupazione restavano assai precarie e il reddito pro capite medio era notevolmente inferiore a quello dell’Italia centrale e settentrionale. La risposta di moltissimi meridionali fu l’emigrazione, che nel corso degli anni Cinquanta interessò circa 1,7 milioni di persone, le quali si diressero verso le città industriali del Nord Italia oppure Oltralpe, dove dovettero affrontare difficili problemi di integrazione e sovente anche ostilità di segno razzistico. Le loro rimesse dall’estero contribuirono a sostenere i parenti rimasti nel Sud e a far migliorare la bilancia dei pagamenti. Lo sviluppo economico portò con sé un vistoso aumento della capacità complessiva di consumo, che si adeguò al flusso crescente di beni prodotti dall’industria. Un impatto enorme ebbe l’incremento dei mezzi di trasporto. La Fiat prese a produrre a ritmi crescenti vetture utilitarie come la Cinquecento e la Seicento; si diffusero i motoscooter come la Vespa della Piaggio e la Lambretta dell’Innocenti; nel 1955 venne avviato un vasto piano per l’estensione della rete autostradale. Nelle case si diffusero gli elettrodomestici, e nel gennaio 1954 iniziarono le trasmissioni televisive, presto divenute strumento oltre che di informazione e di propaganda politica anche di intrattenimento e di pubblicità commerciale. Gli abbonamenti alla televisione, che nel 1954 erano 88 118, nel 1963 raggiunsero i 4 284 889. Un

problema grave restava l’analfabetismo nel Sud: nel 1961 era nel TrentinoAlto Adige lo 0,6%, in Piemonte - Valle d’Aosta il 2,0, in Lombardia l’1,6, in Liguria il 2,6, in Veneto il 3,8, mentre in Campania il 15,0, in Puglia il 15,3, in Basilicata il 20,3, in Calabria il 21,2, in Sicilia il 15,4, in Sardegna il 14,2. La media nazionale era l’8,4%. 1. G. Carocci, Storia d’Italia dall’Unità ad oggi, Feltrinelli, Milano 1975, pp. 341-42. 2. P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, il Mulino, Bologna 1977; le citazioni alle pp. 74, 85, 115, 312-13. 3. G. Gronchi, Discorsi parlamentari, Senato della Repubblica, Roma 1986, pp. 484-85. 4. Il testo del Manifesto in L. Levi, L’unificazione europea. Trent’anni di storia, Sei, Torino 1979, la citazione a p. 28.

Capitolo quattordicesimo Dal Centro-sinistra all’«autunno caldo» e alla «strategia della tensione»

1. Le radici del «Centro-sinistra». La linea di Fanfani. Le diverse evoluzioni del Psi e del Pci. Il rinnovamento della Chiesa. Le elezioni del maggio 1958 – che videro la Dc, presentatasi agli elettori come il partito del «progresso senza avventure», aumentare i suoi voti di oltre il 2% arrivando al 42,3 – caddero in un clima politico interno e internazionale notevolmente modificato rispetto alle condizioni che avevano favorito la genesi e quindi la stabilizzazione dei governi «centristi», vale a dire quell’indiscussa egemonia democristiana appoggiata dai partiti minori di centro che, nel clima segnato dal divampare della guerra fredda nei rapporti interni e internazionali, era iniziata nell’aprile 1948 e di fronte alla quale stava l’opposizione dei comunisti e dei socialisti legati da un patto di un’unità di azione che vedeva la subordinazione dei secondi ai primi. La formula del “centrismo”, che era stata avallata dalla Chiesa cattolica, sostenuta dagli Stati Uniti, caratterizzata per un verso dal contrasto frontale con la sinistra socialcomunista e dall’altro dal rifiuto di cercare appoggio nella destra monarchica e neofascista – mostrava segni di deterioramento. A indicare il graduale mutamento dei tempi e a mettere in discussione in Italia le rigide barriere erette all’ombra della guerra fredda erano sia l’avvio, per quanto limitato e soggetto a contraccolpi, della distensione tra le due superpotenze, sia l’effetto dell’impetuoso sviluppo economico degli anni Cinquanta, che, con la formazione di un piú robusto proletariato industriale, poneva ormai all’ordine del giorno anche per le forze fino ad allora al governo il problema politico – segnalato da Gronchi all’atto della sua elezione a presidente della Repubblica – di stabilire nuovi rapporti con le masse lavoratrici e di riaprire il corso delle riforme. Era pur vero che la Dc aveva fatto la sua irruzione sulla scena politica e sociale fin dal dopoguerra come un partito di massa, con una vasta base elettorale non solo borghese e piccolo-borghese e contadina, ma anche operaia; sennonché persisteva il fatto che il proletariato industriale nella maggioranza restava fedele ai partiti comunista e socialista e alla Cgil. La

crescita economica del Paese, assai rilevante ma squilibrata e accompagnata da un’elevata conflittualità, alimentava la domanda di una piú ampia azione riformatrice, pressoché congelata dalla Dc durante la seconda legislatura. Andò perciò maturando un clima favorevole a un’intesa politica fra la Dc e la componente socialista dell’opposizione. Si tenga conto che, per quanto nella «sinistra di classe» l’aspirazione al superamento della società capitalistica e della «democrazia borghese» e alla rivoluzione socialista restasse salda, lo spettro del sopravvento dei socialcomunisti, assai vivo tra il 1945 e il 1948, stava venendo gradualmente meno. L’Italia infatti era saldamente inserita nel mondo occidentale e non si intravvedeva alcuna possibilità di un drammatico mutamento di fronte. Ciò nondimeno, la “guerra civile ideologica” tra filosovietici e filo-occidentali costituiva ormai un tratto stabile del panorama politico nazionale e il consenso ai partiti di sinistra, alimentato anzitutto dai pesanti squilibri dello sviluppo economico, restava consistente. A convergere nel cambiare la situazione furono principalmente due fattori: l’affacciarsi nell’ala piú progressista della Dc della volontà di aprire un nuovo corso riformistico e la disposizione della corrente maggioritaria del Psi a rendersi via via piú autonoma dal Pci: disposizione che – per effetto del discredito gettato nel 1956 sul “modello sovietico” dalla rivelazione da parte della dirigenza del Partito comunista dell’Urss dei crimini staliniani e dalla crisi scoppiata nei Paesi dell’Est europeo e culminata nella sanguinosa rivoluzione ungherese soffocata dall’Armata Rossa – sarebbe sfociata nella rottura del rapporto privilegiato tra il Pci e il Psi e nell’apertura del dialogo di quest’ultimo con la Dc. Il processo che portò il Psi da posizioni frontiste e subalterne al Pci al suo inserimento, seppure con oscillazioni, contraddizioni e resistenze interne, nel filone del socialismo democratico europeo, inducendolo infine a entrare prima nella maggioranza parlamentare e poi nel governo, ebbe inizio nella seconda metà degli anni Cinquanta e si concluse nei primi anni Sessanta. Il Psi imboccò cosí la strada della propria autonomia e arrivò a compiere una scelta definitiva a favore del «riformismo» ovvero di una strategia politica gradualistica; strategia aspramente avversata dal Pci, che perseguiva la via di «riforme di struttura» capaci di provocare cambiamenti qualitativi nei rapporti di forza tra le classi e nell’assetto della società. Furono cosí create condizioni che portarono i socialisti nel 1962 a entrare nella maggioranza parlamentare e nel 1963 a partecipare in prima persona al governo. La

componente innovativa della Dc dal canto suo ritenne conveniente stringere con i socialisti un’intesa che, traendo profitto dalla divisione fra socialisti e comunisti, consentí al partito di consolidare per un ventennio la propria preminenza nel Parlamento e nel governo. Su queste basi si giunse alla formula di “Centro-sinistra”, che ebbe come prezzo la fine della collaborazione governativa della Dc con il Pli, contrario all’intesa con il Psi, l’ostilità dichiarata del Vaticano e quella, ora aperta ora mascherata, dell’ala piú conservatrice della stessa Dc. Il Centro-sinistra fu però contrassegnato fin dagli inizi da limiti che lo resero inadeguato rispetto sia alle necessità del Paese sia alle sue stesse dichiarazioni programmatiche. La Dc era infatti complessivamente troppo condizionata dagli ambienti della società interessati alla conservazione per procedere con decisione in un cammino che potesse scontentarli. Di conseguenza, nonostante alcune importanti riforme, il Centro-sinistra scontò un forte scarto tra i suoi programmi e le sue realizzazioni; conobbe crisi politiche accompagnate da accese polemiche, irrisolte ambiguità; e infine generò un senso diffuso di insoddisfazione e frustrazione nei suoi stessi artefici sia socialisti sia democristiani. Nei disegni della Dc vi era l’ambizione dichiarata, condivisa dall’ala autonomista Psi, di ridurre l’area del consenso di cui godeva il Pci e pertanto il vigore della sua opposizione. Orbene, l’inadeguatezza dell’azione riformatrice ebbe quale effetto non soltanto di non diminuire il peso elettorale del Partito comunista, ma al contrario di accrescerlo, come pure di dare spazio all’opposizione di destra, a partire da quella del Partito liberale, divenuto punto di aggregazione di influenti settori della borghesia contrari alla svolta messa in atto dalla Dc con il concorso del Psi. Le origini della politica di centro-sinistra vanno rintracciate in esigenze e atteggiamenti emersi già poco meno di un decennio prima della sua realizzazione concreta. Il segno piú significativo fu la linea politica perseguita da Fanfani, eletto, dopo il Congresso di Napoli del giugno 1954, segretario della Dc. Questi, mentre da un lato operò per dare una piú moderna base di potere al partito, collegandola strettamente all’industria di Stato sulla quale esso assunse un forte potere di controllo e ricorrendo a un uso spregiudicato delle finanze pubbliche per appoggiare gruppi di pressione e clientele di tipo nuovo, dall’altro comprese che la modernizzazione del Paese, per andare di pari passo con lo sviluppo economico, richiedeva l’apertura di

un corso riformatore che poteva scaturire unicamente dalla collaborazioneintesa fra democristiani e socialisti. In campo socialista maturò un processo destinato a convergere con quello dell’ala piú progressista della Dc. Dopo le elezioni del 1953, avendo alle spalle l’esperienza negativa del Fronte popolare del 1948, il Psi aveva iniziato a cercare un proprio spazio fra Dc e Pci. Già al Congresso del marzo 1955, Nenni aveva parlato della disponibilità dei socialisti ad aprire un dialogo con i cattolici e ad appoggiare un governo riformatore che agisse per la piena attuazione della Costituzione, la riforma agraria e la nazionalizzazione dei monopoli. «Noi non possiamo – disse – stare a guardare in attesa di un crollo inevitabile» della società esistente come i socialisti massimalisti avevano fatto nel primo dopoguerra. Occorre «affrontare e cercare di risolvere per il meglio e su un piano nuovo il problema dei nostri rapporti con le masse cattoliche, col loro partito e le loro organizzazioni», seguire la politica delle «cose concrete». «Quando si fa sul serio del riformismo sociale bisogna porsi seriamente il quesito delle alleanze» 1. Restavano però ostacoli decisivi a un’intesa non soltanto per le resistenze all’interno della Dc, ma anche per le sue implicazioni di politica estera a partire dal fatto che il Psi, una volta messo in soffitta il passato neutralismo filosovietico, avrebbe dovuto accettare il Patto atlantico. Furono le ripetute gravi crisi determinatesi nel 1956 nel movimento comunista internazionale e le loro ripercussioni in Italia ad accelerare l’evoluzione socialista. Sotto i traumi provocati prima dal “rapporto segreto” di Chruščëv, che aveva denunciato i crimini commessi da Stalin, poi soprattutto degli eventi nei Paesi dell’Est europeo culminati nella rivolta d’Ungheria e nella sanguinosa repressione sovietica approvata dal Pci, Nenni attaccò senza riserve il “modello sovietico” e assunse posizioni che ormai facevano presagire, se non ancora la rottura con i comunisti, la volontà di autonomia dei socialisti e l’accettazione del riformismo gradualistico come proprio orizzonte strategico nel quadro del sistema democratico-parlamentare. Nenni era convinto – ma venne smentito – che il 1956 segnasse l’inizio di un cedimento di vaste proporzioni del Partito comunista e l’occasione storica per i socialisti di riacquistare il perduto consenso della maggioranza della classe operaia. A fine agosto di quell’anno a Pralognan, in Savoia, vi fu un incontro fra Nenni e Saragat avente come oggetto le prospettive della riunificazione di Psi e Psdi ovvero della creazione di un partito socialista unificato teso in prospettiva a

rendere possibile un’alternativa ai governi a guida democristiana. Si trattava di primi passi, poiché all’interno del Psi permanevano forti opposizioni a uno spostamento a “destra” e a una troppo accentuata autonomia dal Pci che potessero mettere in forse l’unità della classe lavoratrice. Ma il leader socialista era ormai deciso. In un articolo sull’«Avanti!» in novembre scrisse senza mezzi termini che il prezzo dell’unificazione era da un lato «la liquidazione del centrismo» da parte dei socialdemocratici e dall’altro quella del «patto di unità d’azione» e anche solo di un «patto di consultazione» con il Pci. Al XXXII Congresso del Psi del febbraio 1957 Nenni pose all’ordine del giorno l’unificazione con il Psdi, dichiarandola ormai «aperta», mentre «la politica frontista non è né possibile né utile nella nuova prospettiva socialista»; e la costruzione di «un’alternativa politica e di governo» ai governi guidati dalla Dc alla cui realizzazione invitava «le forze laiche e cattoliche che abbiano comuni obiettivi democratici» 2. A mostrare il peso delle resistenze alla sua linea fu il fatto che Nenni venne rieletto segretario, ma la sua corrente non ottenne la maggioranza né nel Comitato centrale né nella Direzione del partito. A queste difficoltà si aggiunsero quelle esterne, in quanto, mentre plaudivano all’autonomismo dei socialisti, non solo i democristiani ma neppure i socialdemocratici gradivano la linea dell’alternativa. Il segretario della Dc, Amintore Fanfani, fece conoscere, come vi era da aspettarsi, il proprio giudizio negativo. Ne seguí che l’unificazione tra Psi e Psdi, con dichiarata soddisfazione dell’ala sinistra del primo, venne congelata. Dal canto suo nel 1956 il Pci conobbe un pericoloso sbandamento. La perdita di credibilità del “modello sovietico”, da sempre esaltato dal suo gruppo dirigente e propagandato nelle file dei seguaci, sollevò inevitabilmente il problema politico e morale delle corresponsabilità con il sistema staliniano in primo luogo di Togliatti, che negli anni del potere del dittatore sovietico era stato una delle personalità piú eminenti del comunismo internazionale, tra il 1926 e il 1944 aveva vissuto a lungo nell’Unione Sovietica e si era distinto nell’esaltazione di Stalin e della sua linea politica. Di fronte alla brutale repressione nei Paesi dell’Est e soprattutto nell’Ungheria invasa dalle truppe sovietiche, si fecero tesi i rapporti fra il Pci e la Cgil di cui pure era segretario il comunista Giuseppe Di Vittorio, il quale condannò fermamente l’operato sovietico. In ottobre un manifesto di 101 intellettuali iscritti al partito, negando che la sollevazione ungherese avesse

caratteri controrivoluzionari, prese posizione contraria alla linea ufficiale. Tra i numerosi intellettuali di prestigio che lasciarono il partito vi furono lo scrittore Italo Calvino, il giurista Vezio Crisafulli, gli storici e filosofi Natalino Sapegno, Delio Cantimori, Furio Diaz, Luciano Cafagna, Lucio Colletti e Renzo De Felice. Uscí dal partito anche Antonio Giolitti, nipote del grande statista, che avrebbe poi aderito al Psi diventandone uno dei dirigenti e ministro. In quel momento assai critico per il suo partito, Togliatti riuscí nondimeno a impedire che le ripercussioni della repressione sovietica nell’Est europeo provocassero una frana nella base comunista, rassicurando iscritti al partito e simpatizzanti. In febbraio, da una parte, richiamandosi al pensiero di Gramsci, affermò che «costante preoccupazione» del Pci era stata la ricerca di una «via nostra, di sviluppo verso il socialismo»; dall’altra, temendo gli effetti potenzialmente dirompenti sulla massa degli iscritti al partito della demolizione del mito di Stalin che lui stesso aveva tanto contribuito ad alimentare, sostenne che gli «errori» del dittatore, da considerarsi ancor sempre «un grande pensatore marxista», non avevano influito negativamente sulla linea generale del partito e del governo sovietici, che era stata «giusta, prima della guerra, nella guerra, dopo la guerra». La tesi di Togliatti era che l’Urss e gli Stati comunisti dell’Est costituivano una libera comunità di pesi liberi e indipendenti, in costante ascesa 3. E in un’intervista apparsa in giugno sulla rivista «Nuovi Argomenti» – dopo che il rapporto segreto di Chruščëv sui crimini di Stalin era stato reso pubblico dal «New York Times» – mentre criticava alcuni aspetti dello stalinismo e della stessa organizzazione della società sovietica, insistette nel sostenere che le parziali degenerazioni avvenute nell’Urss non erano state tali da intaccare «quei fondamentali lineamenti della società sovietica da cui deriva il suo carattere democratico e socialista e che rendono questa società superiore, per la sua qualità, alle moderne società capitalistiche» e rilanciò con forza – approfondendo e facendo propri temi già avanzati da Chruščëv al XX Congresso del Partito comunista sovietico – la linea secondo cui il sistema comunista internazionale «diventa policentrico» per cui al suo interno «non si può parlare di una guida unica, bensí di un progresso che si compie seguendo strade spesso diverse». Affermò insomma che il modello sovietico non poteva e non doveva essere considerato obbligatorio e che ogni partito comunista era tenuto ad agire nel proprio contesto nazionale cercando la via piú adatta a portarlo al governo e a

costruire la società socialista 4. Quanto ai crimini e alle «violazioni della legalità rivoluzionaria ai danni di dirigenti stessi del partito» sovietico, al Comitato centrale del Pci, mettendosi personalmente al riparo, disse in maniera autoassolutoria e non credibile: «noi non potevamo né sapere né immaginare» 5. Ponendo al centro il richiamo alla via italiana al socialismo, Togliatti intendeva valorizzare la continuità con la «svolta di Salerno» del 1944, quando il partito aveva optato per l’inserimento nel governo rinunciando a dare al movimento di resistenza armata un carattere di sovversione sociale di tipo rivoluzionario, quale quella dei comunisti greci, culminata nella disfatta. L’adeguamento della base del partito alla linea delineata da Togliatti – che aveva definito l’invasione sovietica dell’Ungheria nel novembre 1956 un atto di doverosa «solidarietà interna» al campo comunista diretto a vanificare i tentativi controrivoluzionari – dimostrò quanto stretto rimanesse il legame del Pci, dei suoi militanti e simpatizzanti con l’Unione Sovietica. La frana che si era temuta non ebbe luogo, anche grazie al fatto che il radicamento di questo partito nelle masse lavoratrici e nella Cgil era assai piú forte di quello del Psi. All’VIII Congresso del partito svoltosi in dicembre il leader confermò che i comunisti italiani perseguivano il socialismo «nell’ambito della democrazia politica» e delle istituzioni parlamentari e lottavano per introdurre «riforme di struttura» in grado di incidere profondamente sui rapporti politici ed economici. Come si è visto, le elezioni del 1958 mostrarono che il partito non solo non aveva visto scossa la sua influenza sul suo elettorato, ma aveva addirittura beneficiato di un sia pur piccolo aumento percentuale rispetto al 1953, passando dal 22,6 al 22,7%. Al tempo stesso la teoria della «via italiana» al socialismo non comportò alcuna evoluzione del Pci verso la socialdemocrazia europea – che continuava a essere accusata di subalternità al capitalismo e alle istituzioni borghesi – e la messa in discussione del legame privilegiato con i regimi e i partiti comunisti d’Oriente considerati fratelli per il grande merito storico di avere abbattuto il capitalismo e compiuto il grande salto verso l’edificazione della società socialista. Certo è che la posizione di un Pci che, ciò nondimeno, si proclamava e nei fatti si dimostrava fedele alla Costituzione, rispettoso della legalità e delle istituzioni democratico-parlamentari e la fine dell’unità di azione tra comunisti e socialisti e quindi del blocco da essi cementato, ebbe come esito sia di attenuare all’interno del Paese i toni piú

accesi della conflittualità politico-ideologica, seppure tutt’altro che scomparsi, sia di agevolare il cammino che portava all’intesa tra il Psi e la Dc (o meglio tra le correnti interne ai due partiti a essa favorevoli), poiché indeboliva la credibilità della persistente minaccia di sovversione da parte della “sinistra moscovita” su cui la Dc aveva fondato la sua politica centrista. Ma la linea “costituzionalista” del Pci non valeva a rassicurare né gli apparati dello Stato impegnati a tenere sotto vigile controllo quel partito né gli americani, tanto che proprio nel novembre 1956 i servizi segreti italiano e statunitense diedero una sanzione formale alle strutture della rete clandestina Stay Behind. Un fattore importante che, con le sue ripercussioni sulla politica interna italiana, contribuí a creare il terreno favorevole al passaggio dal centrismo al Centro-sinistra fu l’evoluzione avvenuta nel papato. Il 9 ottobre 1958 morí Pio XII, il papa che, asceso al soglio nel 1939, l’anno d’inizio della guerra mondiale, aveva guidato la Chiesa cattolica durante il terribile conflitto e nel dopoguerra aveva fatto della lotta frontale al comunismo il suo principale obiettivo politico, scomunicando nel 1949 i marxisti e dando sostegno alle correnti piú conservatrici della Dc. In un certo senso, può dirsi che Pio XII, ferreo centralizzatore nella conduzione delle cose della Chiesa, era stato il papa della “guerra fredda”. Gli successe Giovanni XXIII, Angelo Roncalli, uomo di diversa tempra e di grande fascino umano, destinato a una vastissima popolarità. La funzione svolta dal nuovo papa all’interno della Chiesa cattolica suggerisce un paragone con quella di Chruščëv nell’Unione Sovietica. Come questi allentò relativamente i rigori della dittatura sovietica, ponendo fine agli eccessi del terrorismo staliniano, cosí Giovanni XXIII aprí la Chiesa alle nuove esigenze che emergevano nella società e nel seno del cattolicesimo, facendo spazio allo spirito di distensione e di dialogo. In due importanti encicliche, Mater et magistra (1961) e Pacem in terris (1963), egli delineò in senso rinnovatore il ruolo nella società della Chiesa e dei cattolici. Nella prima, ribadendo con forte sottolineatura i principî della dottrina della Chiesa, si pronunciò a favore di una «socializzazione» diretta a dare attuazione ai diritti «economico-sociali», sostenendo l’aspirazione dei lavoratori a «partecipare attivamente alla vita delle imprese», e affermò il dovere della proprietà privata di ispirarsi a «una funzione sociale» 6. Nella seconda, oltre a riprendere il tema del pieno riconoscimento della «ascesa economico-sociale delle classi lavoratrici», insistette sulla necessità di

promuovere «l’ingresso della donna nella vita pubblica», sul ripudio delle «discriminazioni razziali», sul diritto di tutti di avere «la libertà di scegliere le persone investite del compito» di esercitare l’autorità, secondo una dottrina «pienamente conciliabile con ogni sorta di regimi genuinamente democratici». In campo internazionale, invitò al disarmo e alla distensione. Fece inoltre sentire toni inediti in materia di rapporti tra cattolici e non cattolici, auspicando il dialogo non solo tra cattolici e «cristiani separati» ma anche tra credenti e non credenti ed esortando a «mai confondere l’errore con l’errante» 7. Nell’ottobre 1962, il papa inaugurò i lavori del Concilio ecumenico Vaticano II, che sanzionò la linea del rinnovamento. Nella politica italiana il “giovannismo” incoraggiò l’iniziativa delle correnti di sinistra della Dc e in generale una maggiore autonomia del mondo politico cattolico dalle gerarchie ecclesiastiche, contribuendo a preparare quel clima di cui il Centrosinistra sarebbe stata la traduzione a livello di formule di governo. Il Concilio – che naturalmente ribadí fermamente l’inconciliabilità della dottrina cattolica con quella marxista – costituí comunque un fattore di apertura destinato ad agevolare l’incontro fra la Democrazia cristiana e il Partito socialista.

2. Le resistenze all’apertura al Psi. Il governo Tambroni. La “svolta” della Dc: il Congresso di Napoli. Il terzo governo Fanfani e gli inizi del Centro-sinistra. Dopo le elezioni del 1958 dovettero passare ancora quattro anni prima che si costituisse nel febbraio 1962 il primo governo di centro-sinistra. Al governo Zoli, subito dopo le elezioni era succeduto nel luglio 1958 il secondo governo Fanfani, con la partecipazione dei socialdemocratici, il quale però – osteggiato dalla destra e dal centro della Dc, che temevano premature iniziative di apertura a sinistra e non appoggiato dai socialisti, i quali consideravano insoddisfacente la linea del governo – ebbe vita breve. Durante questo governo era scoppiato il “caso Milazzo”. Nell’ottobre 1958 Silvio Milazzo, un notabile democristiano, con una mossa diretta a creare difficoltà alla corrente fanfaniana, era stato eletto presidente della Regione Sicilia grazie ai voti di dissidenti democristiani e di comunisti, socialisti, socialdemocratici, alcuni monarchici, e perciò era stato espulso dal suo

partito. Il caso preoccupò la Dc a livello nazionale. Fanfani si dimise a fine gennaio 1959 dal governo e anche dalla segreteria del partito. Poco dopo la caduta di Fanfani e la formazione in febbraio di un governo Segni, «La Civiltà Cattolica», quando non si era ancora delineata l’evoluzione promossa da Giovanni XXIII, espresse la propria netta contrarietà alla linea di apertura ai socialisti patrocinata da Fanfani, scrivendo che «il solo prospettare come possibilità concreta la collaborazione politica tra cattolici e socialisti nenniani scuote e minaccia di rompere senz’altro l’unità dei cattolici intorno alla Dc» e che «l’apertura a sinistra [...] si presenta politicamente come una flagrante contraddizione e, moralmente, come un vero e proprio tradimento» 8. Le dimissioni di Fanfani provocarono un riassetto delle correnti interne alla Dc. A metà marzo venne formata la corrente dei «dorotei» (nome con cui vennero chiamati i membri di «Iniziativa democratica» convenuti nel convento delle suore di santa Dorotea). Della corrente, maggioritaria nel partito, erano esponenti Antonio Segni, Aldo Moro, Mariano Rumor e Luigi Gui. Essa affidò la segreteria della Dc a Moro, un abile uomo politico pugliese, di tendenze piú moderate di Fanfani, che, con l’appoggio anche di Mario Scelba e Giulio Andreotti, in ottobre al Congresso di Firenze fu confermato nella carica. Dal canto suo, Fanfani riuní intorno a sé nella corrente di sinistra «Nuove cronache» Franco Maria Malfatti, Arnaldo Forlani e Giovanni Goria. Il governo Segni fu un monocolore democristiano di transizione, che ottenne la fiducia oltre che dei liberali e delle destre monarchica e neofascista, ma vide contrari socialdemocratici, socialisti, repubblicani e comunisti. Nel febbraio 1960 si aprí la crisi, poiché i liberali, avendo constatato che nella Dc andavano rafforzandosi le correnti favorevoli all’apertura ai socialisti, tolsero la fiducia al governo. In gennaio era stato anche «L’Osservatore Romano» a esprimere la condanna di ogni iniziativa rivolta a portare i socialisti nell’area di governo. La situazione era, insomma, carica di incertezze e di tensioni, in un quadro che vedeva le correnti democristiane e il mondo cattolico in aperto contrasto tra loro circa la strategia da seguire. Fallito il tentativo di Segni di formare un altro esecutivo, il presidente Gronchi affidò l’incarico a Fernando Tambroni, che sarebbe restato alla guida di un altro monocolore democristiano dal marzo al luglio 1960. Ma, a questo punto, i nodi vennero al pettine. Repubblicani, socialdemocratici e socialisti non intendevano

sostenere un governo che esprimeva le resistenze nella Dc, appoggiate e ispirate da influenti ambienti del Vaticano, alla svolta politica. Le destre offrirono i loro voti al governo, che alla Camera ottenne una risicata fiducia con 300 voti contro 293, grazie all’apporto determinante del Msi e di alcuni monarchici, che indusse i ministri della sinistra democristiana a dimettersi. La direzione della Dc cercò di indurre Tambroni a dimettersi a sua volta, ma, essendosi Gronchi opposto, dopo un vano tentativo di Fanfani di formare un governo con l’appoggio parlamentare del Psi, fallito per le contrarietà interne al suo partito, Tambroni ricostituí con una stretta maggioranza l’esecutivo nettamente sbilanciato a destra. In maggio «L’Osservatore Romano», per la penna del cardinale Ottaviani, ribadí l’opposizione delle gerarchie cattoliche a una «immorale» intesa della Dc con il Psi. Apparve evidente anche dalla durezza con cui affrontò le proteste popolari per il connubio Dc-destre che il governo Tambroni – con l’avallo di Gronchi che alimentò il sospetto di coltivare disegni di repubblica presidenziale – era diventato lo strumento delle forze conservatrici per resistere all’apertura a sinistra. Dopo che il governo ebbe autorizzato il Msi a tenere tra la fine di giugno e i primi di luglio il proprio congresso a Genova, città profondamente antifascista, nientemeno che sotto la presidenza dell’ex prefetto della Repubblica sociale italiana, si giunse a scontri fra polizia e manifestanti di un’asprezza quale non si era piú conosciuta dopo l’attentato del 1948 a Togliatti. L’autorizzazione e la convocazione del congresso vennero considerate come inaccettabili provocazioni dalle forze antifasciste di tutti gli schieramenti. La reazione a Genova e nelle principali città italiane, fra cui Roma, Modena, Reggio Emilia, Palermo e Catania, portò ad agitazioni massicce e a scioperi affrontati dalla polizia con estrema brutalità e violenza, al punto da provocare numerosi morti. Il 19 luglio, sotto un’ondata di indignazione enorme che coinvolse anche una parte della Dc, Tambroni, che aveva denunciato il movimento di protesta come «un’azione preordinata e coordinata» dal Pci con il sostegno sovietico, fu costretto a rassegnare le dimissioni. Venne allora formato il 27 luglio 1960 il terzo governo Fanfani, ancora un monocolore democristiano, che sarebbe rimasto in carica fino al 2 febbraio 1962. A testimoniare di un nuovo clima instauratosi fra Dc e Psi fu il fatto che al momento del voto di fiducia i socialisti non votarono contro il governo e optarono per l’astensione. Le elezioni amministrative, tenutesi in novembre

1960 videro una sensibile perdita della Dc (-2,1), un assai modesto miglioramento del Psi (+0,2), un incremento del Pci (+1,8). Seguí la formazione di giunte locali di centro-sinistra a Milano, Genova e Firenze. Era un’anticipazione di quel che sarebbe avvenuto a livello governativo, nonostante i contrasti provocati dal rifiuto socialista di rompere con i comunisti gli accordi nelle giunte locali dove mancasse una maggioranza di centro-sinistra. Il governo si trovò ad affrontare una situazione assai difficile in relazione a drammatici eventi in Alto Adige, dove il 12 giugno 1961, nella cosiddetta «notte dei fuochi», gruppi che miravano alla separazione della regione dall’Italia, compirono una serie di attentati terroristici facendo scoppiare una quarantina di bombe. La grave situazione portò a nuove trattative per la concessione di maggiori margini di autonomia. Nel gennaio 1962 – dopo che nel giugno dell’anno precedente Fanfani e Segni si erano recati in visita dal presidente americano John Fitzgerald Kennedy, che non si era mostrato contrario alla eventualità di dare vita in Italia a un governo di centro-sinistra – si svolse a Napoli l’VIII Congresso della Dc, che varò definitivamente, con un accordo fra Moro e Fanfani, l’assenso di Andreotti, l’appoggio del leader sindacale Pastore ma l’opposizione di Scelba, la linea di centro-sinistra come formula di governo. Obiettivo della maggioranza del partito era di allargare l’area del consenso, stringere un’alleanza con i socialisti – che si sarebbero trovati di necessità in posizione subalterna, dati i rapporti di forza –, isolare l’opposizione comunista e avviare una politica di programmazione economica, teorizzata dall’economista Pasquale Saraceno, facendo leva sull’industria pubblica. Moro, segretario del partito, indicò in un discorso di significato storico i tre obiettivi nell’esclusione della destra monarchico-fascista, nell’esclusione dei comunisti e nell’apertura ai socialisti. Della destra disse che essa doveva essere tenuta ai margini per il suo stesso carattere e per la minaccia che faceva gravare sulla democrazia; che con il Partito comunista non potevano esservi «nessuna confusione, nessun collegamento né visibile, né invisibile, nessuna collaborazione»; che l’unica direzione nella quale si possa guardare, anche senza abbandonarsi a un facile ottimismo, è quella rappresentata dai settori di opinione pubblica, dal complesso delle forze degli interessi e degli ideali che fanno capo al Partito Socialista 9.

Sembrava profilarsi nell’Italia dei primi anni Sessanta un processo che ricordava quanto avvenuto in Italia tra fine Ottocento e inizi del Novecento. Dopo la caduta del governo Tambroni e delle sue ambizioni autoritarie che richiamavano quelle di Pelloux, si creò una situazione tale da far pensare che Fanfani e Moro aspirassero a essere i nuovi Zanardelli e Giolitti. Anche l’orientamento della sinistra ripropose nelle linee di fondo la posizione tenuta di fronte alla svolta messa in atto dall’ala innovatrice del Partito liberale un sessantennio prima: si divise tra una parte disposta a collaborare con l’ala progressista della “borghesia” e una parte decisamente contraria, con accuse reciproche di massimalismo estremistico e di capitolazione agli interessi della classe dominante, e con il correlativo seguito di scissioni nel partito socialista. Nenni, deciso a portare il Psi prima nell’area di governo e poi direttamente al governo, giocò il ruolo che Turati non aveva osato assumere di fronte all’offerta avanzatagli da Giolitti nel 1903. Ma, ancora una volta, la maggioranza della sinistra, composta dal Pci e dalla frazione socialista che dissentiva dalla linea di Nenni, mantenne il prevalente consenso dell’elettorato rimasto su una posizione di ostilità al cedimento alla “collaborazione di classe”. Le divisioni albergavano anche all’interno della stessa corrente del Partito socialista che aveva alzato la bandiera dell’autonomia dal Pci e della collaborazione con la Dc. I socialisti autonomisti erano infatti divisi fra una maggioranza piú moderata capeggiata da Nenni, che aveva ormai aderito pienamente al gradualismo riformistico, e una minoranza piú radicale, capeggiata da Riccardo Lombardi, il quale, in ciò in sintonia con il Pci, considerava il Centro-sinistra come lo strumento per attuare profonde «riforme di struttura» miranti a porre le premesse per una trasformazione del Paese in senso socialista: insomma, per dare l’avvio a un «riformismo rivoluzionario». Di fronte poi agli autonomisti stava una corrente che guardava con sospetto o con decisa contrarietà alla linea di centro-sinistra. A creare comunque le condizioni per l’affermazione di quest’ultima contribuí in modo decisivo la posizione espressa da Nenni nel gennaio 1962, che sanciva l’accettazione da parte del Psi della Nato, ma al tempo stesso affermava la necessità per l’Italia di agire al suo interno e nelle altre organizzazioni internazionali per promuovere i rapporti con «i Paesi neutrali e non impegnati» e la distensione internazionale. Il Congresso di Napoli della Dc diede il via libera alla formazione del

primo governo di centro-sinistra, dovendo però fare i conti con l’opposizione di autorevoli esponenti come Scelba, Gonella, Tambroni e di Segni, che denunciavano il pericolo concreto del rafforzamento dei comunisti e dello scivolamento in politica estera verso il neutralismo, e del cardinale Siri. Dopo aver presentato le dimissioni del suo precedente governo, Fanfani formò nel febbraio 1962 il quarto governo da lui guidato, che sarebbe rimasto in carica sino al giugno 1963, con la partecipazione di socialdemocratici e repubblicani. I socialisti non entrarono ancora nell’esecutivo, ma parteciparono alla stesura del programma; e, sebbene si fossero astenuti dal votare formalmente la fiducia al governo, divennero una componente essenziale e qualificante della maggioranza parlamentare. Il 5 marzo Togliatti, pur motivando alla Camera il voto contrario dei comunisti ed esprimendo la sua critica alla linea assunta dal Partito socialista, disse: L’opposizione di cui questo Governo ha bisogno è di un tipo particolare. Deve essere una opposizione che riconosca quanto vi possa essere di positivo nelle ricerche e affermazioni programmatiche che possano esser fatte, ma che richieda realizzazioni conseguenti alla affermata volontà di rinnovare qualcosa nella direzione della vita pubblica del paese e spinga in questa direzione 10.

Si trattava di un’apertura che dopo la fine dei governi di unità antifascista non aveva precedenti. I punti principali del programma del governo Fanfani erano: l’istituzione delle regioni; la riforma dell’amministrazione dello Stato; il varo della scuola media unica obbligatoria; la riforma agraria con abolizione della mezzadria; la nazionalizzazione dell’industria elettrica e il controllo delle fonti energetiche; condizioni, queste ultime, giudicate necessarie per avviare la programmazione economica. Le ambizioni riformatrici del governo furono ribadite con forza nella Nota aggiuntiva al bilancio presentata in maggio 1962 alla Camera dal ministro del Bilancio Ugo La Malfa, in cui si indicavano quali obiettivi di una innovativa linea di programmazione l’innalzamento dell’efficienza dell’agricoltura, il potenziamento delle misure a favore del Mezzogiorno, scelte oculate nello stabilire le priorità negli investimenti, lo sviluppo dell’edilizia secondo criteri non speculativi, un prelievo fiscale piú incisivo nei confronti degli strati piú abbienti, una politica dei redditi, il miglioramento dei servizi pubblici. Accordatisi sui punti essenziali, democristiani e socialisti dissentivano circa

le modalità e sui tempi di attuazione di quasi tutti questi punti. La maggioranza della Dc era intenzionata a frenare per il timore di perdere il consenso di una parte qualificata e importante del suo elettorato, a partire da quello che vedeva nel programma di riforme una sfida alle sue tradizionali posizioni di potere in campo economico. Il timore era tutt’altro che infondato. Infatti, se settori importanti dell’industria pubblica e privata come quelli rappresentati dalla Fiat di Valletta, dalla Olivetti, dalla Pirelli, dall’Eni di Mattei e dall’Iri si dichiararono favorevoli alla linea di centro-sinistra, le reazioni della Confindustria e di molti imprenditori furono decisamente negative: venne addirittura evocata la minaccia di una collettivizzazione di tipo comunista. Quanto al governo americano, se il presidente Kennedy manteneva una posizione di cauto appoggio al Centro-sinistra, influenti settori della sua amministrazione erano diffidenti o contrari. Prova significativa delle resistenze in Italia alla svolta di centro-sinistra e del persistente conservatorismo di ampi e assai influenti ambienti della Dc fu l’elezione in maggio, con i voti del centro e della destra monarchica e missina, di Antonio Segni alla carica di presidente della Repubblica; elezione avvenuta in contrapposizione alla candidatura di Saragat, sostenuta da Pri, Psdi, Psi e Pci. Il che volle dire che il nuovo corso politico avrebbe visto il Capo dello Stato nettamente ostile. Il governo Fanfani, che interpretò con energia la volontà della corrente del suo partito decisa a percorrere la via delle riforme, durò poco piú di un anno. Non mancarono risultati di rilievo. Nel marzo 1962 vennero aumentate le pensioni di invalidità e vecchiaia; in agosto fu varata la Commissione nazionale per la programmazione economica, composta da esponenti delle organizzazioni imprenditoriali e sindacali e da singoli esperti. In novembre venne nazionalizzata, con il voto favorevole anche del Pci e contrario di Pli, Msi e monarchici, l’industria elettrica, cui seguí l’istituzione dell’Ente nazionale per l’energia elettrica (Enel). Le società private espropriate ricevettero indennizzi assai rilevanti, pari a oltre 2200 miliardi di lire. Fu questa la riforma fondamentale del governo Fanfani. In dicembre fu la volta della legge sulla scuola media unica, che portò l’obbligo scolastico a quattordici anni. Subito dopo seguí la legge che introduceva la cedolare d’acconto, rendendo palese la nominatività dei titoli azionari con le relative conseguenze fiscali. La legge provocò un’immediata e consistente fuga di capitali all’estero. Altre misure importanti furono quelle dirette a contrastare

gli ostacoli che incontravano le donne nel campo delle professioni e degli impieghi pubblici e la riduzione della leva militare da 18 a 15 mesi. Venne invece respinto il punto del programma che, in adempimento della Costituzione, prevedeva l’istituzione delle regioni a statuto ordinario (sempre rinviata dalla Dc, la cui direzione nel gennaio 1963 affermò che, in assenza di una stabile «maggioranza democratica organica», essa poteva diventare strumento della «iniziativa disarticolante del Partito comunista»). Un altro grave scacco fu la bocciatura di un innovativo progetto di legge urbanistica presentato dal ministro democristiano dei Lavori pubblici Fiorentino Sullo, che intendeva combattere la speculazione edilizia; bocciatura frutto della sconfessione del progetto nell’aprile 1963 da parte della direzione democristiana, col sostegno dei liberali e del presidente Segni. Nulla di concreto inoltre venne fatto per rimediare alle vistose carenze dell’amministrazione pubblica e in materia della pur progettata programmazione economica. Le resistenze della maggioranza democristiana a estendere oltre un certo limite l’area delle riforme nascevano, insomma, dalla preoccupazione, divenuta a mano a mano crescente e i cui segni si erano fatti sempre piú evidenti, di pagare un tributo troppo alto al Psi, allontanando l’elettorato piú conservatore dal partito.

3. Le elezioni del 1963. Il moderatismo dei primi due governi Moro. L’unificazione di Psi e Psdi. Il dibattito nel Pci sulla strategia delle riforme. In vista delle elezioni, il Parlamento fu sciolto il 18 febbraio 1963. I partiti di centro-sinistra si presentarono all’appuntamento elettorale sotto un duplice attacco: quello delle destre – tra queste i liberali – che denunciavano la svolta della Dc come un’apertura non solo al Psi ma in prospettiva allo stesso Pci; e quello del Pci, che – superata la fase iniziale in cui aveva sperato di trovare anch’esso un certo spazio nell’elaborazione della strategia delle riforme – era passato a criticare con toni forti l’inadeguatezza della linea del governo in un Paese che esigeva profondi mutamenti impossibili da realizzare mediante un accordo di tipo trasformistico fra il moderatismo democristiano e il Partito socialista nenniano, considerato nulla piú di una forma di “centrismo allargato”. Ad attaccare il governo era anche l’ala

sinistra del Psi, in dissenso con la maggioranza del partito. I risultati elettorali del 28-29 aprile confermarono che il primo governo espressione dell’alleanza di centro-sinistra non era riuscito ad accrescere complessivamente l’area del consenso intorno ai partiti che lo avevano sostenuto. La Dc, con 11 775 970 voti (38,3%), perse il 4%; il Psi, con 4 257 300 voti (13,8), lo 0,3. Guadagnò invece l’1,5 (6,1), con 1 876 409 voti, il Psdi, che si era presentato come una forza di sinistra assai moderata. Un notevole incremento del 3,5 ebbe il Pli (7), verso cui si riversarono i voti della componente della borghesia ormai diffidente nei confronti della Dc. Il Pci ottenne 7 768 228 voti (25,3), con un aumento del 2,6. Sulle loro posizioni rimasero i repubblicani. Il Msi (5,1) aumentò leggermente, mentre conobbero un vero e proprio collasso i monarchici che dal 4,8 del 1958 scesero all’1,7%. I risultati mostrarono inequivocabilmente che l’obiettivo strategico del Centro-sinistra, condiviso da democristiani e socialisti nenniani, di ridurre il peso dei comunisti era stato mancato, e che la Dc era stata abbandonata da una componente significativa del suo elettorato tradizionale. L’aspetto piú significativo delle elezioni era dunque stato il contemporaneo successo dei comunisti e dei liberali. La risposta avrebbe potuto essere un rilancio piú incisivo delle riforme oppure un riflusso in senso piú moderato. Prevalse una battuta d’arresto nella politica di centrosinistra, che, seppure non abbandonata dalla Dc, subí un progressivo svuotamento. Lo si vide dal fatto che Moro, designato a formare il governo riproponendo la formula di centro-sinistra, dovette rinunciare per i dissensi sorti sul programma fra la Dc e il Psi e le turbolenze tanto in casa democristiana quanto in quella socialista. Nella Dc forti erano le tendenze ad annacquare il programma; nel Psi la corrente di Lombardi e la sinistra antinenniana ritenevano che un compromesso al ribasso avrebbe ulteriormente indebolito il consenso al partito da parte delle masse lavoratrici. Si giunse cosí alla formazione di un “governo-ponte”, un monocolore democristiano di transizione presieduto tra il giugno e il novembre 1963 da Giovanni Leone, in attesa che potesse stabilirsi un nuovo accordo tra democristiani e socialisti. Di grande rilievo fu nel corso di questo governo il clamoroso attacco – che si sospettò architettato per sudditanza agli interessi delle grandi compagnie petrolifere straniere, in primo luogo americane – sferrato in

agosto da Saragat, con l’accusa di sperpero di capitali pubblici e di incapacità manageriale, contro il professor Felice Ippolito, segretario generale del Comitato nazionale per l’energia nucleare (Cnen), un ente impegnato con successo nella progettazione in Italia di impianti per l’utilizzazione di questa forma di energia al fine di accrescere l’autonomia del Paese dal petrolio. Conseguenza fu che Ippolito venne prima destituito dal suo incarico dal ministro dell’Industria Giuseppe Togni e poi, nel febbraio 1964, addirittura arrestato e in seguito condannato a undici anni di carcere. Nel 1964 sarebbe poi stato inferto un altro decisivo e grave colpo allo sviluppo dei settori scientifico-tecnologici avanzati italiani con la cessione del 75% della Divisione elettronica della Olivetti alla General Electric americana, che poi l’avrebbe messa in liquidazione. Si trattò di un cedimento agli interessi statunitensi, i cui capitoli si aggiungevano a quello che aveva in precedenza visto le «sette sorelle», le maggiori compagnie petrolifere straniere, contrastare pesantemente le iniziative di Mattei. Una tragedia nazionale fu il crollo il 10 ottobre 1963 della diga del Vajont, che provocò nel Bellunese e nell’Udinese la distruzione di numerosi Paesi e la morte di circa 2000 persone, e a cui fecero seguito le accuse rivolte alla società costruttrice di aver eseguito male i lavori e agli organismi pubblici di non avere effettuato i necessari controlli. Le condizioni per il rilancio del Centro-sinistra vennero create dalla vittoria ottenuta nell’ottobre 1963 all’interno del Psi dalla corrente di Nenni al Congresso di Roma; vittoria però assai indebolita dalla presenza nel partito di una corrente, che si aggirava intorno a poco meno del 40%, su posizioni di netta contrarietà. In dicembre Moro – avendo di fronte un presidente Segni che non cessava di allertare gli americani contro le trame eversive di un Pci che si preparava a prendere il potere – formò il suo primo governo, appoggiato da Dc, Psi, Psdi, Pri, con la partecipazione diretta dei socialisti e in cui Nenni ricopriva la carica di vicepresidente del Consiglio e Antonio Giolitti di ministro del Bilancio. I punti piú significativi del programma riguardavano l’attuazione dell’ordinamento regionale e l’avvio della programmazione avente il suo manifesto nel “rapporto” presentato da Saraceno nel gennaio 1964, in cui si indicavano quali obiettivi prioritari la localizzazione nel Mezzogiorno di circa il 40% dei nuovi posti di lavoro, da sostenersi con il 45% degli investimenti effettuati dalle aziende di Stato. Contro il governo si erano schierate nella Dc la corrente capeggiata da Scelba

e la sinistra del Psi. Questa il 12-13 gennaio 1964 passò dal dissenso alla scissione, dando vita al Partito socialista italiano di unità proletaria (Psiup), al quale aderirono personalità di rilievo ma quanto mai eterogenee per provenienza politica e orientamenti ideologici come Tullio Vecchietti, segretario del nuovo partito, Lelio Basso, Emilio Lussu, Dario Valori, Lucio Libertini, Fernando Schiavetti e Vittorio Foa, segretario della Cgil. Il richiamo al concetto di «unità proletaria» stava a indicare non solo l’avversione alla linea di Nenni, accusata di collaborazione con i nemici della classe lavoratrice, ma anche il proposito di ristabilire l’intesa politica con il Pci. La nascita del Psiup, che per darsi un’identità non avrebbe esitato a collocarsi in piú occasioni su posizioni piú radicali del Pci, non venne favorita da quest’ultimo, che dovette però accettare il dato di fatto. Su un opposto versante, a collocarsi contro il Centro-sinistra fu Randolfo Pacciardi, che, espulso dal Pri, fondò sempre in gennaio una «Unione democratica per la nuova repubblica» di ispirazione gollista. Nei vertici militari andava emergendo nello stesso tempo una corrente favorevole alla nascita di un nuovo partito di destra che raggruppasse liberali, monarchici e missini. Il generale Giovanni De Lorenzo, comandante dei carabinieri, prospettò agli americani l’opportunità di un’iniziativa in tal senso. Dal canto suo il governatore della Banca d’Italia Guido Carli alimentava la diffidenza verso la presenza del Psi al governo nel Capo dello Stato, divenuto il punto di riferimento di tutti i nemici del Centro-sinistra. Al governo Moro toccò fin dall’inizio di misurarsi sia con l’opposizione di parte della Dc sia con gli effetti della scissione socialista che indebolí Nenni sia con la fase recessiva in cui l’economia italiana era entrata proprio nel 1964. La Commissione per la programmazione economica presieduta da Saraceno non andò oltre la formulazione di linee destinate a rimanere largamente inattuate. Le misure prese dal governo ebbero un certo successo nel favorire il rilancio delle esportazioni; ma l’inflazione e la disoccupazione destavano serie preoccupazioni. Le resistenze e gli attacchi ai progetti riformistici si fecero sempre piú forti, cosí come i contrasti interni ai partiti di governo, esemplificati dal dissenso tra la Dc e i partiti laici sul finanziamento pubblico alle scuole private; sicché il 26 giugno 1964 Moro si dimise. Mentre erano in corso le trattative per la formazione del nuovo governo, ebbe luogo un tentativo di natura eversiva (rimasto allora nascosto) che coinvolse in prima persona il Capo dello Stato Segni e il generale De

Lorenzo, mostrando fino a che punto fossero pronte a spingersi le forze che si opponevano alla ricostituzione di un esecutivo di centro-sinistra e come esse non rimanessero interne ai partiti e nei confini della legalità, ma assumessero ormai contenuti e forme extraistituzionali. Lo “scandalo” sarebbe stato rivelato solo nel gennaio 1967 sulle colonne dell’«Espresso» dai giornalisti Lino Jannuzzi ed Eugenio Scalfari. Risultò che De Lorenzo aveva organizzato la schedatura massiccia di personalità della politica e dell’economia, di sindacalisti e persino di vescovi e sacerdoti e aveva preso contatto con esponenti moderati e di destra contrari all’apertura ai socialisti. Durante le consultazioni per la formazione del governo, il generale era stato convocato da Segni, che aveva concepito il disegno di varare un governo «tecnico-presidenziale» libero dai partiti. Si giunse a progettare un colpo di Stato («piano Solo») – di cui era stata messa al corrente l’amministrazione americana – da effettuarsi nel giugno-luglio 1964 mediante i carabinieri, con il compito di occupare ministeri, la Rai, sedi di partito e sindacali e di procedere alla deportazione in Sardegna di 731 arrestati. Il piano fallí per la determinazione dei partiti dell’area di governo, decisi a sostenere un secondo esecutivo guidato da Moro. Condizione posta dalla direzione democristiana ai socialisti fu che questi ultimi non ponessero ostacoli al corretto funzionamento dell’economia di mercato e che allargassero l’intesa alle amministrazioni locali, ponendo fine all’accordo in questo settore con i comunisti. Il secondo governo Moro, con la partecipazione di Psi, Psdi e Pri, avrebbe avuto, dati gli standard italiani, una durata relativamente lunga: dal luglio 1964 al gennaio 1966. La corrente di Fanfani non vi partecipò. Quanto ai socialisti, Nenni fu confermato alla vicepresidenza del Consiglio, ma nell’esecutivo non entrò la corrente di Lombardi (Giolitti lasciò il suo ministero), ritenendo che il programma di riforme fosse troppo debole. Pertini si espresse a favore del solo appoggio in sede parlamentare. Era chiaro che lo slancio riformatore appariva in affanno. Scontata era l’opposizione del Pci, che parlò di un Centro-sinistra completamente svuotato e bollò il Psi come complice di un programma esangue. Alla base dell’impostazione di Moro vi era l’idea che il governo dovesse perseguire la linea cosiddetta dei «due tempi»: prima la ricerca della stabilità dell’esecutivo e della maggioranza parlamentare, poi le riforme, la cui attuazione venne di fatto rinviata. Il 6 dicembre 1964 Segni, colpito da un ictus in agosto, si dimise

dalla presidenza della Repubblica. Una serie di estenuanti votazioni nel corso delle quali furono bruciate in successione le candidature di Leone, Fanfani, Saragat, Terracini e Nenni, mise ancora una volta in luce i dissensi che travagliavano i partiti di centro-sinistra nonché il Partito comunista. Il 28 dicembre venne infine eletto presidente della Repubblica il socialdemocratico Giuseppe Saragat, con i voti di Psi, Psdi, Pri, Pci e parte della Dc. Voltosi ad affrontare la recessione economica, il governo adottò una politica deflazionistica che scaricava i costi maggiori della crisi sulle masse lavoratrici e, subendo il condizionamento delle forti spinte conservatrici, accantonò programmazione e riforme incisive. Non bene per la Dc erano andate in novembre le elezioni regionali nel Trentino-Alto Adige e quelle provinciali e comunali. Il passaggio dal centrismo al Centro-sinistra influí profondamente sull’intero schieramento dei partiti, a cominciare dalla Dc, che, dopo aver costituito il perno – destinato a restare tale – di ogni governo a partire dal dopoguerra, doveva però misurarsi con condizioni assai diverse da quelle del passato. Divisa in varie correnti, al suo interno persisteva la frattura maggiore, che passava tra assai moderati o decisamente conservatori, che consideravano il Centro-sinistra una pericolosa concessione alla sinistra o tutt’al piú uno stato di necessità in vista del ritorno alla situazione precedente, e quanti consideravano la formula una strategia necessaria all’attuazione di non eludibili riforme e ad assicurare alla Dc un volto piú dinamico: condizione indispensabile, come si è detto, per erodere in maniera significativa il consenso dato ai comunisti. Sovente i due atteggiamenti coesistevano o si alternavano negli stessi gruppi e persone. Il rinnovamento della Chiesa avvenuto durante il pontificato di Giovanni XXIII, che morí il 3 giugno 1963, e a cui successe il cardinale arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini come papa Paolo VI, contribuí alle divisioni politiche nel mondo cattolico. Gruppi di sinistra nelle organizzazioni sindacali, nelle Associazioni cristiane dei lavoratori italiani (Acli), nella stessa Dc, interpretando il messaggio giovanneo come stimolo all’impegno sociale, premevano per la fine dell’intesa fra la Dc e le forze conservatrici. Il travaglio interno al partito era quindi profondo. Ma a uno spostamento deciso della Dc verso il “progressismo riformistico” si opponevano non solo la sua base sociale organicamente interclassista, ma soprattutto il peso preponderante che nei rapporti di forza interni avevano gli interessi dei ceti piú conservatori e,

inoltre, la struttura di potere che il partito si era costruito nel tempo attraverso una fitta rete di clientele a tutti i livelli della scala sociale e la protezione sistematica data a gruppi ed enti parassitari che sarebbe stato necessario colpire per dare slancio all’azione riformatrice. A questo travaglio contribuivano poi da un lato il fatto che, pur restando di gran lunga il piú forte partito della maggioranza parlamentare, la Dc non riusciva a scalfire la solidità dell’opposizione comunista, alimentata dalla debolezza e dalle contraddizioni del riformismo governativo, e dall’altro la presenza nella sinistra cattolica e democristiana di personalità propense a coinvolgere in prospettiva, seppure in modi ancora indefiniti, il Pci in vista delle riforme: una prospettiva nettamente respinta dalla maggioranza del partito perché, se accolta, avrebbe messo in pericolo l’interclassismo e contraddetto la difesa degli interessi conservatori che costituivano una delle sue “anime” fondamentali. Preso fra il maggiore colosso democristiano e il minore colosso comunista, che faceva della critica alla «socialdemocratizzazione» dei socialisti un Leitmotiv di grande presa sulle masse lavoratrici, il Psi, una volta consumatasi la scissione del Psiup, considerò mature le condizioni per la sua unificazione con il Psdi, a cui anche quest’ultimo appariva ormai favorevole. Era comune convinzione che un partito socialista unificato avrebbe potuto ottenere un consenso tale da consentirgli finalmente in futuro di poter porsi come un’efficace alternativa di governo alla lunga egemonia della Dc, ampliando la propria base elettorale a spese dei partiti laici minori, del Pci e di parte della Dc. La prospettiva era la creazione di una situazione analoga a quella esistente in Germania e Gran Bretagna, con l’esistenza di due grandi partiti in grado di competere per il governo: l’uno moderato-conservatore, l’altro di “sinistra democratica”. Si trattava di una sfida ambiziosa, che, sostenuta da intellettuali prestigiosi – tra i quali Norberto Bobbio, Guido Calogero, Aldo Garosci, Paolo Grassi, Manlio Rossi-Doria e Bruno Zevi – non poteva ovviamente riuscire gradita né ai democristiani né ai comunisti. Nel Psi, contrario all’unificazione era il gruppo di Lombardi, nel timore che l’intera operazione si riducesse a un appiattimento del partito sulle posizioni troppo moderate del Psdi. Tra il 27 e il 29 ottobre 1966 – dopo la costituzione in febbraio del terzo governo Moro – i congressi del Psi e del Psdi decisero l’unificazione, proclamata in un clima di euforia il 30 ottobre. Nacque cosí il Partito socialista unificato (Psu), del quale furono eletti presidente Nenni e

co-segretari Francesco De Martino, già socialista, e Mario Tanassi, già socialdemocratico. La base programmatica del partito – espressa in una Carta dell’unificazione – relegava a elemento residuale il rapporto con il marxismo e plaudiva a una strategia democratico-riformistica vicina a quella della socialdemocrazia europea, attestata dall’adesione del nuovo partito all’Internazionale socialista. L’omaggio al tradizionale classismo anticapitalistico e conflittuale di ispirazione marxistica era comunque evidenziato dall’affermazione, in toni attenuati, che non si rinunciava «alla lotta e alla critica sistematica del capitalismo». Anche il Pci si trovò dinanzi a problemi che richiedevano iniziative di tipo nuovo. Con la teoria del policentrismo e della via italiana al socialismo, esso aveva compiuto significativi passi avanti nella direzione di un piú pieno inserimento nel sistema politico del Paese, di cui era una componente essenziale, senza per altro mettere in discussione l’obiettivo alla trasformazione dell’Italia in un Paese socialista, mantenuto vivo dalla convinzione che la marcia vittoriosa del socialismo mondiale avrebbe coinvolto anche l’Italia. L’attestarsi sulla teoria della «via italiana al socialismo» stava a indicare che il Pci avrebbe imboccato una strada verso il potere inserita nelle istituzioni nazionali, ma intesa ad arrivare al socialismo per mezzo di incisive riforme capaci di incidere in maniera determinante sul potere del grande capitale monopolistico e di rovesciare infine gli equilibri di fondo tra le classi dominanti e quelle subalterne. Nel dicembre 1962 al X Congresso del Pci Togliatti spiegò che il partito doveva «ristabilire la prospettiva di una democrazia di tipo nuovo», battersi per introdurre «riforme nella struttura economica», attuando le «indicazioni programmatiche» contenute nella Costituzione 11; ma al tempo stesso ammoní che la Costituzione repubblicana «non è una Costituzione socialista, non ha cambiato la natura dello Stato»; che il fine era un «mutamento di qualità», «il rinnovamento di tutta la struttura sociale», non certo alle porte, per il quale si doveva però lottare. E aggiunse che, se erano da respingere velleità di impronta estremistica, ridurre questa lotta alle competizioni elettorali per il parlamento e aspettare la conquista del 51 per cento sarebbe, oltre che ingenuo, illusorio. Una classe dominante borghese può sempre riuscire a impedire questa conquista 12.

Nel 1964 batté sul tasto della «funzione illuminatrice e di avanguardia» svolta in seno a tutto il movimento operaio e comunista dal Partito sovietico. Il rimprovero rivolto dal Pci al Partito socialista era di non riuscire a imporre quel tipo di riforme, per il cui ottenimento si rendeva necessario l’apporto e l’ingresso al governo dei comunisti: insomma di avere intrapreso la via inconcludente del riformismo socialdemocratico. Il 21 agosto di quell’anno Togliatti, che per oltre trent’anni era stato il capo indiscusso del partito, morí a Yalta, in Crimea. Nel suo testamento politico, il Promemoria sulle questioni del movimento operaio internazionale e della sua unità, parlò della necessità che i comunisti si battessero per riforme profonde nel quadro di una grande battaglia democratica, sfruttando le possibilità di successo offerte da una marcia pacifica verso il socialismo. Nel complesso – scriveva –, noi partiamo, e siamo sempre convinti che si debba partire, nella elaborazione della nostra politica, dalle posizioni del XX Congresso [del Pcus]. Anche queste posizioni hanno però bisogno, oggi, di essere approfondite e sviluppate. Per esempio, una piú profonda riflessione sul tema della possibilità di una via pacifica di accesso al socialismo ci porta a precisare che cosa intendiamo per democrazia in uno Stato borghese […]. Sorge cosí la questione della possibilità di conquista di posizioni di potere, da parte delle classi lavoratrici, nell’ambito di uno Stato che non ha cambiato la sua natura di Stato borghese e quindi se sia possibile la lotta per una progressiva trasformazione, dall’interno, di questa natura. In paesi dove il movimento comunista sia diventato forte come da noi (e in Francia), questa è la questione di fondo che oggi sorge nella lotta politica. Ciò comporta, naturalmente, una radicalizzazione di questa lotta e da questa dipendono le ulteriori prospettive. [...] Ogni partito deve sapersi muovere in modo autonomo 13.

L’eredità che Togliatti lasciava al suo partito era dunque fondata su tre pilastri: la necessità di non cedere al mito della conquista del socialismo mediante la violenza insurrezionale e di tenere fermi le elezioni e il Parlamento come palestra della lotta di classe; il rifiuto della via socialdemocratica; l’impegno dei comunisti italiani, pur nella tutela della propria autonomia, a non attenuare il legame con il movimento comunista internazionale. Sennonché questa linea, che insisteva, secondo una impostazione da tempo consolidata, nel presentare il Pci come una forza fedele alla Costituzione democratico-borghese ma al tempo stesso decisa un

giorno a superarla, induceva gli avversari a continuare a battere e ribattere sul tasto della “doppiezza comunista” e sulla necessità di sbarrare al partito l’accesso al governo, in quanto il suo fine era non già una normale alternativa di governo ma un’alternativa di sistema. A succedere a Togliatti – ai cui funerali a Roma parteciparono una folla immensa e una folta delegazione di leader degli Stati e dei partiti comunisti a testimonianza del vincolo tra essi e il Pci – fu Luigi Longo, eletto il 26 agosto segretario del partito. La morte del leader la cui autorità sovrastava quella di tutti gli altri dirigenti ebbe l’effetto da un lato di aprire un importante dibattito al vertice sulla strategia da seguire, dall’altro di portare all’emergere – cosa che Togliatti aveva sistematicamente combattuto con successo – di correnti, sia pure assai piú contenute e meno “bellicose” di quelle esistenti negli altri partiti. Dopo la morte del leader, i temi dibattuti dai maggiori dirigenti – tra i quali spiccavano Pietro Ingrao, capo della “sinistra” interna e Giorgio Amendola, capo della “destra” – presero a vertere non piú sull’alternativa tra la via parlamentare o la via rivoluzionaria al potere, essendo data per scontata la prima, ma sulla via da seguire per inserire in prospettiva il partito nell’area di governo o almeno per dargli un’influenza determinante sull’indirizzo politico del Paese, togliendolo dal “limbo” di un’opposizione sostenuta da vaste masse ma strategicamente congelata. Inoltre si poneva la questione di come dovesse configurarsi il partito nella società e nel sistema politico italiano e internazionale. Il gruppo dirigente era unito sulla necessità di arrivare a una nuova «maggioranza democratica», ma non su chi dovesse farne parte. Nel novembre 1964 Amendola, con un’uscita inattesa e sorprendente, arrivò a mettere in discussione l’esperienza globale del movimento comunista internazionale, che era stato incapace, al pari della socialdemocrazia, di portare l’Occidente europeo al socialismo. Con toni del tutto inediti nel Pci e tali da suonare eretici, si spinse a dire che: nessuna delle due soluzioni prospettate alla classe operaia dei paesi capitalistici, la soluzione socialdemocratica e la soluzione comunista, si era rivelata fino allora valida al fine di realizzare una trasformazione socialista della società, un mutamento di sistema

e che:

una organizzazione politica, che non raggiunga i suoi obiettivi in un cinquantennio con almeno tre generazioni di militanti, deve ricercare le ragioni di questo insuccesso e sapersi trasformare 14.

Di qui la proposta della «formazione di un grande partito unico del movimento operaio» in cui potessero trovare posto comunisti, socialisti e gli eredi del Partito d’Azione di matrice gobettiana. Ma la proposta, accolta con prevalenti reazioni negative nel Pci e severamente criticata dai sovietici, fu lasciata cadere dallo stesso Amendola. Per contro Ingrao sosteneva che occorresse stringere un rapporto nuovo e solido con la sinistra di classe cattolica in vista di un accordo strategico, per mantenere al partito, nel quadro di un rinnovamento democratico interno, una solida base classista e porsi un programma di rivoluzione sociale dal basso. La linea di Ingrao nei confronti della sinistra cattolica diventò dopo di allora una componente essenziale della politica del partito. L’obiettivo era di esercitare una pressione sia sulla sinistra socialista sia sulla componente “popolare” della Dc. All’XI Congresso del Pci, svoltosi nel gennaio 1966, il contrasto tra la posizione di Amendola e quella di Ingrao – il quale non solo individuava la leva del cambiamento nell’iniziativa dal basso delle forze di classe, ma giunse a chiedere, in ciò in sintonia con Amendola, il superamento del «centralismo democratico» in nome di un maggiore pluralismo interno al partito – fu al centro del dibattito. Prevalse però la linea “centrista” sostenuta dal segretario Longo, la quale, sotto il segno della continuità, oppose una netta chiusura alle proposte sia di Amendola sia di Ingrao, respingendo la prospettiva di fare del partito «un club di disquisitori» in preda alle correnti; e ribadí l’importanza cruciale del legame del Pci con i Paesi socialisti, «i cui problemi – disse – sono sempre piú intimamente anche i nostri, e le cui soluzioni ci aiutano sempre piú a definire le nostre linee di sviluppo e le nostre prospettive di sviluppo». Il congresso rinnovò infine la condanna nei confronti della socialdemocrazia. La lotta al Centro-sinistra, accusato di voler «integrare» la classe operaia nel sistema capitalistico mediante le lusinghe del «consumismo» e di voler relegare il Pci in una posizione marginale, divenne l’asse della politica comunista.

4. Il terzo governo Moro. Le elezioni del 1968. Gli inizi della «contestazione» nei confronti del “sistema”. Nel febbraio 1966 Moro formò il suo terzo governo, un quadripartito, che sarebbe durato fino alle elezioni del maggio 1968. Ancora una volta il bilancio mise in luce la mancanza di incisività del Centro-sinistra e la difficoltà di superare i continui contrasti fra l’ala piú conservatrice della Dc e i socialisti. Furono bensí approvate leggi come quelle relative alla «giusta causa» per i licenziamenti del maggio 1966, al primo piano quinquennale di sviluppo del luglio 1967, alla riforma del sistema pensionistico del marzo 1968; ma rimasero lettera morta la riforma universitaria, quella tributaria – che avrebbe dovuto quanto meno porre limiti allo scandalo della diffusissima evasione fiscale – e quella sul diritto di famiglia. Anche le riforme approvate risultarono poco efficaci per mancanza di adeguati strumenti tecnici, amministrativi e finanziari. Il 1966 fu funestato da gravissimi eventi naturali. In luglio una frana colpí Agrigento, investendo ben cinque quartieri, con crolli di numerosi edifici: specchio di un irresponsabile degrado e di una sfrenata e sfacciata speculazione edilizia; il che indusse il ministro dei Lavori pubblici, Giacomo Mancini, a dichiarare che nella città «per anni ha regnato non la legge, ma l’arbitrio piú incontrastato». In novembre disastrose alluvioni devastarono vaste zone dell’Italia, provocando danni enormi. Tra le città coinvolte Venezia, Firenze e Siena. Pesantissime le conseguenze materiali, i morti oltre un centinaio e gli sfollati si contarono a decine di migliaia. Era un campanello di allarme della pressoché totale mancanza di politiche di difesa del territorio nazionale, che, rimasto inascoltato, avrebbe accompagnato il futuro del Paese. Nel gennaio 1967, come si è già ricordato, l’Italia apprese con sbigottimento del «piano Solo» progettato nel 1964, che venne rivelato sulle colonne dell’«Espresso» dai giornalisti Lino Jannuzzi ed Eugenio Scalfari. In politica estera, i governi di centro-sinistra si mossero nel quadro della tradizionale stretta alleanza con gli Stati Uniti. Ciò nonostante, pur in quest’alveo e con molte cautele, il governo italiano, che sentiva crescere nel Paese e non solo nelle masse popolari orientate a sinistra l’indignazione per le durezze dell’intervento degli Stati Uniti in Vietnam, si espresse a favore di un «onorevole» disimpegno della grande potenza in quell’area. Un

atteggiamento di ponderata mediazione assunse il governo quando nel giugno 1967 scoppiò un nuovo conflitto fra Paesi arabi e Israele. Fanfani, ministro degli Esteri, fu accusato dai filoisraeliani di filoarabismo e di farsi paladino di una mediazione quale quella patrocinata dalla Francia di De Gaulle, diversa dalle posizioni statunitensi. Il 19 maggio 1968 si svolsero le elezioni politiche. I risultati rafforzarono sia la Dc, che ne uscí convinta della bontà di una linea oscillante fra moderatismo e prudente riformismo, sia il Pci, che poté raccogliere i voti degli oppositori, insoddisfatti della scarsa efficacia riformatrice dei partiti di governo; segnarono invece un netto insuccesso per il Psu, che vide andare deluse le ipotesi ottimistiche su cui esso si era formato. La Dc, con 12 441 553 voti, passò dal 38,3 al 39,1%; il Pci, con 8 557 404 voti, dal 25,3 al 26,9; il Psu ottenne 4 605 832 voti (14,5), con la perdita di un quarto dell’elettorato complessivamente ottenuto in precedenza da Psi e Psdi. Il risultato negativo del Psu fu tanto pesante perché non solo non prese voti da altri partiti, ma il Psiup, in stretta alleanza con il Pci e dipendente materialmente dalle sovvenzioni sovietiche, ebbe una notevole affermazione, con il 4,4%, rafforzando ulteriormente all’interno della Sinistra il fronte ostile al Centrosinistra. Un certo incremento ebbe il Pri con il 2%, mentre regredirono in varia misura monarchici, neofascisti e il Pli, che dal 7,0 passò al 5,8%. La polarizzazione dell’elettorato intorno alla Dc e al Pci mostrò cosí la tendenza ad aumentare. Le “lezioni” venute da un tale risultato erano che in Italia non vi era spazio per un forte partito socialdemocratico; che, dopo i timori suscitati dal governo Fanfani del 1962 – il quale era stato e sarebbe stato l’unico a imprimere un forte slancio riformatore al Centro-sinistra nella sua fase iniziale –, l’elettorato moderato e conservatore, rassicurato dai tiepidi governi Moro, era largamente tornato nel seno della Dc; che la modesta prova offerta dal riformismo governativo rafforzava il Pci e i suoi alleati; che, stante l’incapacità dei socialisti di “sfondare” in termini di consenso popolare, ogni proposito di costruire un’alternativa ai governi a base parlamentare prevalentemente democristiana restava preclusa. Erano cosí poste tutte le basi per la continuità di una mappa degli schieramenti “bloccata” – che il passaggio dei socialisti all’area di governo non aveva modificato nel suo dato di fondo – e destinata a sfociare infine in una nuova “crisi di sistema”. In seguito alla delusione e alle conseguenti incertezze generate dalla

sconfitta elettorale nel Psu, che non ritenne opportuno appoggiare immediatamente un nuovo governo di centro-sinistra, si formò nel giugno 1968 un governo di transizione, un monocolore democristiano guidato da Giovanni Leone, poi dimessosi a novembre. I socialisti tornarono nell’esecutivo in dicembre con il governo di centro-sinistra – un tripartito Dc, Psu, Pri – presieduto da Mariano Rumor. Nel Psu, in preda a molti contrasti e unito solo dalla decisione di tornare al nome Partito socialista italiano, era infatti prevalsa infine la tesi della partecipazione. Il socialista Francesco De Martino divenne vicepresidente del Consiglio, Nenni ministro degli Esteri. Si trattò di un governo debole, che dovette fronteggiare le acutissime tensioni politiche e sociali esplose nel 1968 e culminate nel 1969, i cui prodromi furono prima nel febbraio e poi nel novembre 1967 le occupazioni da parte di gruppi di studenti di sedi universitarie a Pisa, Milano, Trento e Torino. Nel 1968 era divampata in Francia un’ondata di “contestazione” giovanile e operaia che assunse, in apparenza, l’aspetto di un processo potenzialmente rivoluzionario. Anche in Germania prese piede il movimento contestatore a opera della gioventú soprattutto universitaria. Intanto in Cina infuriava la «rivoluzione culturale» promossa da Mao Zedong contro i dirigenti accusati di imborghesimento e di tradimento degli ideali comunisti; in agosto si ebbe l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe sovietiche e di altri Paesi dell’Est. Infine irrisolta, sanguinosa, drammatica continuava la guerra vietnamita, che alimentava negli Stati Uniti, in Europa e in Italia continue manifestazioni contro l’imperialismo americano. In Italia i limiti e le palesi irresolutezze dei governi di centro-sinistra contribuivano in modo sostanziale a diffondere tra intellettuali, studenti e operai una profonda frustrazione e ad alimentare in essi una volontà di ribellione politica e di trasgressione sociale. Erano, questi, fattori che convergevano nel portare anche in Italia masse crescenti di giovani e di lavoratori a sottoporre a critica radicale non solo l’azione dei governi ma anche i partiti della sinistra tradizionale in un contesto internazionale quanto mai agitato. Molta parte della gioventú studentesca diresse in un primo tempo la sua protesta contro le obsolescenti istituzioni scolastiche e universitarie, aggredite in quanto incapaci di rispondere alle aspettative della società e contrassegnate dal potere di gerarchie autoritarie ormai inaccettabili. Prese cosí vigore la contestazione nelle università, che diventò rapidamente terreno fertile per il sorgere di gruppi politicizzati in antagonismo contro l’intero “sistema dominante”

costituito insieme dai padroni dell’economia, dai partiti al loro servizio, dagli apparati dello Stato, dai socialisti rinunciatari, dai comunisti ufficiali pseudorivoluzionari anch’essi integratisi nel sistema. I contestatori allargarono progressivamente le aree della società poste sotto accusa. Vennero cosí investiti, oltre che le università, le scuole e i luoghi di lavoro, i manicomi, le carceri, fino a toccare le forze armate e la polizia, la magistratura, la Chiesa. I gruppi di contestatori presero a elaborare e ad agitare programmi di «rivoluzione globale», ispirandosi, a seconda delle articolazioni ideologiche in conflitto tra loro, al leninismo, allo stalinismo, all’antistalinismo trockista, al maoismo, al luxemburghismo e all’iniziativa «spontanea» delle masse: tutti però uniti nell’aspra polemica, appunto, con il «revisionismo» non solo del Psi ma anche del Pci. A questi gruppi in un secondo tempo si collegarono frange di una certa consistenza del proletariato industriale e, in particolare nei centri industriali del Nord, degli immigrati meridionali, che maggiormente pagavano il prezzo di una crescita disordinata delle città e della carenza di infrastrutture atte a favorirne l’inserimento civile e soffrivano del fatto che lo sviluppo economico avvenisse lasciando intatte, quando non accrescendo, le piú gravi sperequazioni di reddito e scaricando i costi nei momenti difficili per l’economia prevalentemente sui lavoratori. Al movimento di contestazione studentesco e operaio nei confronti del “sistema” esploso nel 1968 e accompagnato da un susseguirsi di ondate di agitazione, scontri violenti con le forze di polizia e scioperi, finirono per accodarsi anche sottoproletari e contadini del Sud.

5. L’andamento dell’economia: dal «miracolo» alla recessione. Dall’esame dell’andamento dell’economia italiana nel ventennio compreso tra la fine degli anni Cinquanta e la fine degli anni Sessanta si vede come la protesta dei lavoratori avesse motivazioni giustificate. L’apertura a sinistra da parte della Dc era avvenuta in un clima di ottimismo per le prospettive dello sviluppo economico a proposito del quale, alla fine degli anni Cinquanta, si parlò di «miracolo». In effetti nel periodo 1952-62 il reddito nazionale era piú che raddoppiato, con una crescita negli ultimi quattro anni mediamente superiore al 6%. L’elemento trainante dello sviluppo era costituito dall’industria, che, in grado ormai di concorrere con

successo sul mercato internazionale, nel decennio conobbe un incremento annuale medio, assai notevole, del 9%. L’agricoltura restava relegata in secondo piano, poiché gli investimenti erano decisamente orientati verso il settore piú dinamico, al fine di aumentare le esportazioni di manufatti a piú alto valore aggiunto. La produttività crebbe assai piú nell’industria che nell’agricoltura. Questo tipo di sviluppo ebbe quale effetto di trasformare l’Italia, per la prima volta nella sua storia, da un Paese agricolo-industriale in un Paese industriale-agricolo, facendola cosí entrare nel novero degli Stati che potevano definirsi altamente industrializzati. Fra il 1952 e il 1962, in un decennio nel corso del quale la popolazione del Paese passò da 47 792 000 a 51 012 000 abitanti – con una leggera prevalenza delle femmine sui maschi –, il numero degli addetti al settore industriale passò da 6 002 000 a 7 810 000, mentre quello degli addetti al lavoro agricolo, al settore della pesca e delle foreste si ridusse da 8 422 000 a 5 810 000. Un incremento notevole si ebbe anche nelle attività terziarie (commercio, trasporti, servizi, amministrazione pubblica) con un aumento da 5 418 000 a 6 591 000 addetti. Considerato dunque in termini quantitativi, lo sviluppo economico di questo decennio appariva eccezionale; ma sotto il profilo qualitativo le cose stavano altrimenti. In primo luogo, gli alti profitti nel settore industriale dipendevano strettamente dal fatto che esso si presentava sul mercato internazionale con merci convenienti e concorrenziali in conseguenza dei salari operai piú bassi dell’Europa avanzata; in secondo luogo, l’espansione dell’industria avvenne con uno scarso interesse per la sorte delle campagne, anzitutto meridionali, nella convinzione che convenisse puntare le carte sullo sviluppo industriale piú rapido possibile; in terzo luogo, si prestò poca attenzione agli aspetti sociali e pressoché nessuna per l’ambiente. Le città industriali del Nord accolsero grandi masse di immigrati meridionali, senza che si apprestassero infrastrutture adeguate per quanto riguardava alloggi, servizi ecc. (fra il 1951 e il 1961 la popolazione di Milano passò da 1 274 000 a 1 558 276 abitanti, quella di Torino da 719 300 a 1 002 803). Il disordinato sviluppo dell’edilizia, con una netta prevalenza data a quella residenziale, avvenne sotto il segno di una sfrenata speculazione, che ebbe mano libera; di qui affitti elevati, prezzi crescenti, costi umani onerosi. In quarto luogo, la gestione amministrativa da parte dello Stato e degli enti locali, chiamata a misurarsi con compiti cosí complessi, avrebbe richiesto un’energica riforma della burocrazia, che, fattasi via via piú ipertrofica e inefficiente, particolarmente

nel Sud divenne strumento di un ramificato clientelismo politico e assistenzialistico da parte della Dc e dei suoi alleati di governo. Da ultimo, la crescita economica si compí senza che la ricerca tecnico-scientifica venisse sufficientemente riorganizzata e potenziata. In sintesi l’incremento quantitativo si compí in un involucro in larga misura invecchiato: mancato rinnovamento dell’apparato burocratico-amministrativo e del settore della ricerca scientifico-tecnologica; impoverimento del settore agricolo dovuto alla diminuzione della manodopera non compensato da una riorganizzazione produttiva su ampia scala; deterioramento dell’ambiente urbano e dei servizi; disgregazione di intere zone nel Sud abbandonate dagli immigrati (fra il 1951 e il 1961 la popolazione meridionale diminuí di 1 772 396 persone) e di vaste zone di montagna; regime di elevati profitti accompagnato da evasioni fiscali massicce; mancata rivalutazione per quasi tutto il decennio dei salari; aumento dei consumi di massa individuali a scapito di quelli collettivi; costi crescenti di un settore terziario e amministrativo in espansione e poco efficiente. Il divario fra Nord e Sud non diminuí: nel 1961 gli addetti all’industria e al commercio nel Mezzogiorno, in cui dominava un’attività manifatturiera di tipo semiartigianale condotta da piccole e piccolissime imprese, ammontavano a meno del 20% del totale nazionale. Ma, nonostante questi aspetti negativi, l’occupazione fece complessivamente un balzo in avanti; i consumi crebbero; l’allargamento complessivo della massa salariale consentí il rafforzamento del mercato interno. Simboli del «benessere» diventarono il rapido diffondersi della motorizzazione, l’uso degli elettrodomestici, l’inizio del turismo di massa. L’automobile, in parallelo alla costruzione intensiva di autostrade, diventò l’elemento trainante della produzione meccanica, con un eccezionale sviluppo della Fiat (i cui addetti passarono da 56 321 nel 1949 a 107 671 nel 1961, per arrivare a 135 374 nel 1966), dell’Alfa Romeo ecc. Importante fu anche l’incremento dell’industria siderurgica. Lo sviluppo fu dunque consistente, ma accompagnato da squilibri cui fu dato libero corso. Nato sull’onda dell’ottimismo generato dal «miracolo», il Centro-sinistra, che si era proposto di dare un assetto piú moderno alla società e allo Stato mediante le riforme, dovette affrontare quasi subito una fase recessiva, che aggravò i difetti del tipo di sviluppo sopra delineato. Fra il 1959 e il 1962 le lotte sindacali nel settore industriale, invertendo la tendenza precedente, avevano portato ad aumenti salariali notevoli e provocato un sensibile

aumento del costo del lavoro. Un sintomo significativo dell’acutezza dei conflitti di lavoro furono gli aspri scontri tra dimostranti e polizia scoppiati nel luglio 1962 a Torino, sostenuti in prima fila da giovani operai meridionali della Fiat di recente immigrazione e non sindacalizzati. L’accresciuta capacità di acquisto portò con sé un allargamento dei consumi rivolto in buona parte verso i beni alimentari, senza che l’agricoltura nazionale fosse in grado di farvi fronte. Fu perciò necessario accrescere le importazioni, con conseguenze negative sulla bilancia commerciale. I prezzi crebbero; si mise in moto una tendenza inflazionistica che nel 1963-64 prese a erodere in maniera significativa i recenti aumenti salariali. Gli industriali, abituati al facile regime degli alti profitti e dei bassi salari, erano inquieti e le critiche al Centro-sinistra, con aperte nostalgie per il centrismo, si diffusero nelle loro file, rivelando la mancanza di una moderna coscienza imprenditoriale capace di cogliere tutta l’urgenza di un incisivo processo riformatore. Nel 1964 il governo Moro – trovatosi a fare i conti con una massiccia fuga di capitali tra il 1962 e il 1964 causata dai timori suscitati dal Centrosinistra negli ambienti della finanza e dell’industria – affrontò la situazione con una strategia centrata sulla limitazione dei consumi e sul rilancio delle esportazioni industriali che, se ebbe un relativo momentaneo successo, ricalcava il meccanismo tradizionale della compressione dei salari. Gli ambienti finanziari e industriali, da parte loro, denunciavano le conquiste salariali come la causa principale delle difficoltà, invocando una «politica dei redditi» intesa a collegare l’aumento dei salari a quello della produttività, decisamente respinta dalla Cgil e dal Pci. La programmazione economica, che avrebbe dovuto affrontare proprio il problema degli squilibri, venne congelata. La linea di contenimento dei salari, cui seguí la contrazione dei consumi, provocò un arresto della crescita, con licenziamenti e aumento della disoccupazione. Era evidente che a pagare erano le masse lavoratrici, nelle cui file si accentuò la delusione verso l’inadeguatezza dei programmi riformistici del Centro-sinistra. Ne beneficò l’opposizione comunista, mentre la Dc oscillava fra conservazione, moderatismo e parziale riformismo. Nel 1966, prevalentemente grazie a una favorevole congiuntura internazionale, la situazione economica incominciò a migliorare, con un certo rilancio degli investimenti industriali. La relativa distensione intervenuta tra Occidente e Oriente ebbe a sua volta alcuni riflessi positivi sull’economia italiana. L’industria guardava con un nuovo interesse ai mercati dell’Est

europeo: nel maggio 1966 la Fiat concluse un importante accordo per la costruzione a Togliattigrad, nell’Unione Sovietica, di una importante fabbrica di automobili. Sennonché la parziale ripresa economica avveniva in un contesto di generale deterioramento sociale, politico e ideale, che tra il 1967 e il 1968 investí i partiti. Come si è detto, segmenti significativi delle masse giovanili studentesche e lavoratrici ritenevano tutti i partiti senza eccezioni incapaci di farsi promotori della trasformazione della società cui essi aspiravano. Quanto alla struttura del potere industriale, essa presentava nel 1967 un carattere fortemente verticistico e oligopolistico: 29 società private detenevano il 34% del capitale azionario nazionale e un centinaio di imprese, su un totale di circa 60 000 aziende manifatturiere, provvedeva a oltre il 40% delle esportazioni. Al vertice del sistema si collocavano le tre imprese pubbliche, l’Iri, l’Eni e l’Enel e pochissime società private – la piú importante delle quali era la Fiat – a controllo familiare. La costituzione del ministero delle Partecipazioni statali nel 1956 e la formazione di un settore di industria pubblica in ascesa, distaccatosi dalla Confindustria nel 1957, avevano avviato un processo destinato, per l’impulso determinante prima di Mattei e poi di Fanfani, ad avere conseguenze di grande rilievo nel rapporto tra politica e affari. Conseguenza, infatti, fu che venne affidato alla Dc e agli altri partiti di governo il potere di condizionare in maniera determinante l’allocazione delle risorse produttive, di controllare le nomine dei dirigenti e dei quadri dell’industria pubblica divenuti una sorta di “borghesia di Stato”, di procurarsi impropri mezzi di finanziamento e di legare a sé una rete di clientele creando un vasto spazio alla corruzione politica. Un segnale eloquente dell’intreccio tra potere e corruzione fu quello che nel 1965 vide coinvolto l’ex ministro delle finanze democristiano Giuseppe Trabucchi, accusato di contrabbando, peculato e abusi d’ufficio per sostenere il proprio partito.

6. L’«autunno caldo» e la «strategia della tensione». Gli inizi del terrorismo. Della crisi di fiducia nella Dc si avvantaggiarono il Msi e i gruppi a esso collegati; su quella che investiva il Pci fecero leva i movimenti della nuova

«sinistra extraparlamentare», che respingevano il vano “gioco istituzionale” e proclamavano la necessità di un mutamento radicale a opera delle masse lavoratrici che essi miravano a guidare. Se gli studenti presero a contestare le strutture educative, con violente agitazioni culminate nel 1968-69 in occupazioni a catena delle università, gli operai si rivoltarono contro un tipo di sviluppo economico che vedeva intensificarsi i ritmi di lavoro e creava gravi sperequazioni; contro i sistemi di cottimo e la forte parcellizzazione delle mansioni indotta dall’estensione del taylorismo; contro le carenze delle condizioni abitative e dei servizi sociali. Nel corso del 1968 la contestazione degli studenti andò saldandosi con quella degli operai piú radicalizzati. Le occupazioni, gli scioperi e le manifestazioni di massa dilagarono nel Paese assumendo forme di estrema durezza, con continui scontri con la polizia che provocarono feriti e morti. Mentre gli studenti delle università, seguiti da quelli delle scuole secondarie, si davano a organizzare esperimenti di «didattica alternativa» autogestita, gli operai praticavano forme di lotta dal basso attraverso i comitati di base e i consigli di fabbrica e premevano, in nome dell’«unità di classe», per un’azione congiunta dei sindacati esortati a superare le scissioni che li avevano divisi. Forza trainante di questo processo erano i metalmeccanici. Fatti significativi furono il successo conseguito nel dicembre 1968 alle elezioni delle commissioni interne alla Fiat dalla Cgil, che tornò a essere il primo sindacato; la decisione nel giugno 1969 delle Acli, di orientamento cattolico, di porre fine all’appoggio politico alla Dc ovvero al «collateralismo»; e l’approvazione in luglio da parte di Cgil, Cisl e Uil di una linea comune nelle trattative per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici. Nonostante venissero attaccati al pari dei socialisti e dei comunisti, i sindacati assunsero nel corso delle grandi lotte del 1969 un ruolo nuovo. Dalla pressione dei lavoratori furono indotti a farsi carico non piú soltanto delle tradizionali rivendicazioni normative e salariali, ma anche dei problemi connessi alla condizione umana e civile dei lavoratori stessi. In tutto ciò si rifletteva pienamente la debolezza dei partiti politici in quanto agenti capaci di guidare il mutamento sociale e la delusione verso i governi di centrosinistra. I sindacati, in vari momenti scavalcati dallo “spontaneismo” operaio e sottoposti alle critiche delle frange estremiste studentesche e operaie, reagirono sia muovendosi nella direzione di una rinnovata unità di azione sia affermando una maggiore autonomia dai partiti a cui facevano tradizionalmente riferimento. Nel giugno 1969 la Cgil stabilí

l’incompatibilità delle cariche sindacali con quelle politiche, decisione seguita nello stesso anno da Cisl e Uil. La lotta fra operai e imprenditori, che nel solo 1969 provocò la perdita di oltre 200 milioni di ore di lavoro, portò a notevoli conquiste sul piano salariale e delle condizioni di lavoro. Nel 1970 i salari italiani si erano ormai allineati alle medie europee; in maggio fu varato dal Parlamento lo «Statuto dei lavoratori», che migliorò il regime di fabbrica garantendo dai licenziamenti arbitrari, tutelando la presenza sindacale e creando piú ampi spazi di libertà nei luoghi di lavoro, tra cui quella di assemblea. La contestazione giovanile e soprattutto le lotte operaie ebbero importanti conseguenze politiche. Gli imprenditori avvertirono che il loro tradizionale potere nelle fabbriche era stato messo in forse e si allarmarono per la forza del movimento operaio. Sul fronte opposto, il Pci fu sempre piú investito dagli attacchi frontali dei gruppi extraparlamentari che, dotatisi di strumenti diretti, indebolivano in una misura senza precedenti il controllo degli organismi di partito e sindacali sui lavoratori. Anche i sindacati videro sfidata la loro autorità. Dopo iniziali incertezze di linea – che avevano indotto il segretario comunista Longo a dichiarare nel maggio 1968 che il movimento di contestazione esprimeva positive esigenze di cambiamento, poneva «problemi di tattica e strategia» e aveva il merito di avere «scosso la situazione politica», svolgendo un ruolo «largamente positivo nell’indebolire il sistema sociale italiano» – il Pci reagí con prontezza e durezza. Amendola denunciò l’«infantilismo estremista» di carattere anarcoide che improntava l’azione degli studenti contestatori. Il partito da un lato cercò di incanalare e indirizzare le spinte spontaneistiche studentesche e operaie, combattendo con energia le forme di lotta extraparlamentari e extraistituzionali; dall’altro si sforzò di imprimere alle rivendicazioni dei lavoratori il carattere di «conquiste democratiche», denunciando come irresponsabili le pratiche di sabotaggio della produzione, i danni di tipo luddistico alle macchine, le interruzioni improvvise del lavoro, l’assenteismo. E, se accettò la decisione della Cgil di sciogliere formalmente il vincolo di dipendenza da esso, il Pci non rinunciò a esercitare la propria speciale influenza su quello che rimaneva il maggiore sindacato del Paese. A subire un duro contraccolpo dall’esito sfavorevole delle elezioni del 1968 nel contesto della grave crisi sviluppatasi nel Paese fu il Partito socialista. La corrente guidata da Lombardi, constatando quanto l’intesa con

la componente socialdemocratica si fosse usurata, giudicava fallito il Centrosinistra; e insistenti erano i suoi richiami, dalle implicazioni non chiare, all’esigenza di «un’apertura a sinistra», vale a dire al Pci. In effetti, le ragioni che avevano spinto all’unità socialisti e socialdemocratici si erano esaurite. Di conseguenza, svanita l’ambizione del partito di veder crescere in misura significativa il consenso elettorale a suo favore ridimensionando contemporaneamente la Dc e il Pci, venne meno anche la speranza-illusione che il socialismo riformista potesse porre fine al monopolio-oligopolio di governo fondato sul primato democristiano e aprire la stagione di due grandi formazioni in competizione per la guida del Paese. Il 4 luglio 1969, dopo un vano tentativo di Nenni di salvarlo, il partito si divise nuovamente: i socialdemocratici costituirono il Partito socialista unitario (Psu); i socialisti il 9 luglio elessero Francesco De Martino segretario del Psi. La scissione portò con sé l’uscita dei ministri socialisti dal governo; e ai primi di agosto Rumor formò il suo secondo governo, un monocolore democristiano. Nel corso del 1969 la lotta sociale si inasprí raggiungendo livelli di guardia. Rumor era del tutto impreparato a padroneggiare una simile emergenza. Le agitazioni vennero affrontate in alcuni casi con la repressione violenta, come a Battipaglia, in Campania, dove in aprile negli scontri fra la polizia e i dimostranti che protestavano contro la disoccupazione vi furono due morti e circa 200 feriti. Il Msi, di cui in giugno divenne segretario Giorgio Almirante, e piú in generale le destre (compresa quella della Dc) presero ad attaccare tutto il corso politico degli ultimi anni, agitando il “pericolo rosso” in un clima che richiamava il fronte anticomunista del dopoguerra. Fece la sua comparsa il terrorismo neofascista. Squadre paramilitari, con il coinvolgimento di Pino Rauti fondatore di Ordine Nuovo, decise a bloccare il movimento di lotta degli operai, iniziarono ad agire sistematicamente. L’anno fu costellato da attentati dinamitardi volti a suscitare inquietudine e sfiducia nelle istituzioni. Il 9 agosto vennero compiuti ben otto attentati sui treni. L’autunno – passato alla storia della Repubblica sotto il nome di «autunno caldo» – vide la situazione diventare sempre piú tesa. I neofascisti, intenzionati a gettare il Paese nel panico facendo appello alla necessità di un governo autoritario, potevano contare sul sostegno di settori deviati dei servizi segreti e anche sull’appoggio dei colonnelli al potere in Grecia, che puntavano sull’ampliamento dell’area dei Paesi fascistoidi. Il loro disegno eversivo – che mirava a decapitare insieme

la sinistra extraparlamentare e la sinistra ufficiale, mettere in atto una «strategia della tensione» in grado di favorire un colpo di Stato guidato dalla destra e porre cosí fine al “disordine sociale e politico” – ebbe un momento culminante il 12 dicembre quando a Milano avvenne la prima strage da essi organizzata. Una bomba ad alto potenziale collocata nella Banca Nazionale dell’Agricoltura, in Piazza Fontana, provocò la morte di sedici persone e il ferimento di ottantotto. A Roma, nello stesso giorno, vi furono diversi attentati con sedici feriti. Il contesto in cui cadde la strage di Piazza Fontana – di cui dalle autorità furono subito ingiustamente e frettolosamente dichiarati responsabili gli anarchici, mentre sarebbe stata poi accertata inequivocabilmente la responsabilità dei terroristi neofascisti – stava a evidenziare tutti i contrasti di una società italiana presa nella morsa di drammatiche contraddizioni. La strage di Milano aprí dunque un capitolo tragico della storia italiana, segnato dal gonfiarsi sia dei gruppi terroristici di destra sia di quelli extraparlamentari di estrema sinistra votatisi entrambi all’eversione delle istituzioni. Andarono cosí prendendo volto e crescendo due opposti movimenti «anti-Stato», l’uno mirante all’instaurazione di un regime autoritario di stampo fascista e l’altro alla rivoluzione proletaria. Era una nuova “esplosione delle antitesi», che, mutatis mutandis, riproponeva le contrapposizioni del passato nei confronti dello Stato di anarchici, socialisti rivoluzionari, comunisti, antifascisti. Restava poi sempre nell’ombra il terzo anti-Stato, quello costituito dalle organizzazioni criminali di stampo mafioso. 1. Cartiglia (a cura di), Documenti della storia. Il Partito socialista italiano 1892-1962 cit., pp. 379-80. 2. Ibid., pp. 408-9. 3. P. Togliatti, Opere, VI. 1956-1964, Editori Riuniti, Roma 1984, le citazioni alle pp. 111, 119, 121. 4. Ibid., pp. 125-47. 5. Ibid., p. 163. 6. Le encicliche sociali, Edizioni Paoline, Roma 1984, le citazioni alle pp. 213, 223, 198. 7. Ibid., pp. 306-7, 312, 351-52. 8. La citazione in G. Tamburrano, Storia e cronaca del Centro-sinistra, Rizzoli, Milano 1990, p. 41. 9. A. Moro, Scritti e discorsi, II. 1951-1963, a cura di G. Rossini, Cinque Lune, Roma 1982, le citazioni alle pp. 1067, 1078-79.

10. P. Togliatti, Discorsi parlamentari, II. 1952-1964, Camera dei deputati, Roma 1984, p. 1230. 11. Togliatti, Opere, VI. 1956-1964 cit., p. 670. 12. Ibid., p. 675. 13. Ibid., pp. 829-30. 14. Le citazioni in M. L. Salvadori, La sinistra nella storia italiana, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 163.

Capitolo quindicesimo Dagli «anni di piombo» alla «crisi di sistema» dei primi anni Novanta

1. Uno sguardo generale sugli anni Settanta e Ottanta. Ci pare che i tratti piú significativi della storia italiana tra gli anni Settanta e i primi anni Novanta possano essere delineati come segue. Sebbene in maniera tutt’altro che lineare, il Paese proseguí nello sviluppo economico e sociale iniziato negli anni Cinquanta, mantenendo il suo posto nel novero delle maggiori potenze industriali. Grazie all’apporto dato congiuntamente dai partiti di governo, dal Pci e dai sindacati, il sistema liberaldemocratico si dimostrò in grado di affrontare e superare le minacce che nel corso di quasi vent’anni lo scossero profondamente, ponendolo di fronte alle sfide e ai pericoli molto gravi sopra menzionati. Detto questo, occorre sottolineare che il sistema dei partiti sorto all’indomani della fine della guerra mondiale imboccò con sempre maggiore affanno una strada che lo avrebbe portato alla crisi strutturale. L’alleanza tra la Dc e il Psi, pur rimasta in piedi, si mostrò incapace di mettere in campo strategie all’altezza delle esigenze del Paese; mentre il Pci oscillava tra la persistente fedeltà agli ideali di un comunismo entrato in una crisi ormai strutturale che insisteva nel negare respingendo ogni possibilità di approdo alla socialdemocrazia e la vana aspirazione a costruire un’alternativa di governo, condannandosi alla marginalità nonostante il merito acquisito per la sua difesa intransigente delle istituzioni contro gli attacchi delle forze eversive. Il periodo storico fu inoltre segnato dal dilagare della corruzione politica radicata nel sistema economico, che coinvolse in un intreccio inestricabile in primo luogo partiti al potere e imprenditori, dall’espansione del vasto settore dell’economia sommersa e dall’azione delle organizzazioni criminali. Il cammino del Paese fu dunque gravato da pesantissime carenze e storture. Lo sviluppo economico – confermando una tendenza storicamente consolidata – avvenne senza che il Sud, nonostante l’erogazione di massicce risorse da parte dello Stato, riuscisse a intraprendere un significativo processo di modernizzazione materiale e civile, restando al centro del sistema della pubblica corruzione alimentato dalle clientele largamente legate ai partiti al

governo e alle varie mafie. Queste ultime accrebbero la loro capacità di sfruttare a proprio vantaggio la spesa pubblica, interferire con efficacia nelle contese elettorali, distorcere le finalità dell’intervento statale a favore dell’economia meridionale, far prosperare le rendite parassitarie di gruppi e individui a scapito degli investimenti produttivi, collocare propri uomini nelle amministrazioni e legare ai propri interessi e fini elementi infedeli della burocrazia e persino della magistratura e delle forze dell’ordine. Il risultato fu che in vaste zone del Sud poté ulteriormente dilatarsi e consolidarsi l’antiStato mafioso, che controllava anche militarmente zone del territorio, reclutava e assoldava giovani per compiere azioni intimidatorie e assassinii, imponeva “pizzi” a commercianti e imprenditori, stabiliva la sua influenza su vasti strati della popolazione coinvolti nella rete delle intimidazioni, della malavita e del sistema delle solidarietà interne al mondo criminale, orientava il consenso elettorale a beneficio dei politici amici e collusi. Quanto al sistema politico, nel corso del ventennio esso accentuò le proprie contraddittorie e vistose inadeguatezze. Il potere centrale mantenne il suo carattere oligopolistico. Il fatto che i governi non avessero il necessario vigore per attuare le riforme istituzionali e sociali da tante parti invocate, che non affrontassero i disagi causati dalla proverbiale inefficienza delle amministrazioni e dei servizi pubblici, che il discredito dei partiti al potere si accentuasse per l’inadeguatezza della loro azione e per il dilagare della corruzione che li vedeva implicati, creò condizioni favorevoli a che gli opposti gruppi estremistici diventassero oggetto delle simpatie e degli appoggi da parte di non trascurabili settori della società. Agendo per mezzo delle loro organizzazioni datesi alla clandestinità, si ponevano apertamente e rumorosamente l’obiettivo di distruggere il sistema dei partiti e le istituzioni parlamentari. A partire dagli ultimi anni Sessanta, il terrorismo accompagnò la storia nazionale per il ventennio non a caso definito degli «anni di piombo», segnandola con una serie impressionante di violenze brutali ed estremamente sanguinose. I movimenti di estrema destra e di estrema sinistra si combatterono reciprocamente, ma si diressero congiuntamente contro lo Stato. Il terrorismo fu infine sconfitto non soltanto grazie all’intesa tra i partiti dell’«arco costituzionale» e i sindacati e all’azione repressiva divenuta a mano a mano piú efficace, ma anche e soprattutto perché esso rimase isolato dalla maggioranza del popolo italiano, la quale, nonostante i palesi difetti di funzionamento del sistema politico e sociale, sostenne le istituzioni

rifiutandosi di considerarli tali da giustificare la liquidazione della repubblica parlamentare. La Dc, pur dovendo cedere nel 1981 la presidenza del Consiglio prima a un esponente repubblicano, Giovanni Spadolini, poi nel 1983 a un socialista, Bettino Craxi, rimase fino ai primi anni Novanta il partito con il maggiore consenso elettorale e quindi il perno di tutti i governi. Il Psi conobbe una complessa e tormentata vicenda, continuando a muoversi tra l’aspirazione delusa a diventare la forza guida di un potenziale schieramento alternativo alla Dc e il proposito di far valere maggiormente il proprio peso nel quadro delle alleanze di governo. I socialisti approdarono infine a questa seconda linea, perseguendo, anche contemporaneamente, l’alleanza con la Dc a livello del governo centrale e con il Pci a livello delle amministrazioni locali. In tal modo sfruttarono sistematicamente la «rendita di posizione» che li faceva componente indispensabile per la formazione delle maggioranze al centro e nelle periferie. Ma, ciò facendo, alimentarono l’insofferenza nei loro confronti, in alcuni momenti molto accentuata, tanto dei democristiani quanto dei comunisti. Pli, Pri, Psdi, pur con alti e bassi, non riuscirono a sottrarsi alla loro condizione di netta “minorità” elettorale, conservando ciò nonostante importanti quote di potere grazie alla loro partecipazione ai governi di coalizione. Dal canto suo il Pci compí un’importante e progressiva revisione ideologica, che lo portò in una prima fase a distanziarsi parzialmente dalla politica sovietica; in una seconda ad assumere nel 1975-76 il ruolo di punta avanzata dell’«eurocomunismo» – ovvero del movimento di cui erano coprotagonisti i comunisti spagnoli e francesi, il quale mirava a perseguire una «terza via» tra socialdemocrazia e comunismo sovietico –, giungendo a riconoscere il valore anche nella fase di costruzione della società socialista delle libertà politiche e del pluralismo propri delle istituzioni di matrice democratico-liberale; nella terza e finale fase, che si svolse nel 1989-90, quando ormai i regimi comunisti stavano crollando, a porre all’ordine del giorno la trasformazione del Partito comunista in un partito di tipo nuovo, intenzionato a ricongiungersi all’Internazionale socialista; trasformazione conclusasi nel 1991 con lo scioglimento del partito stesso. Il Pci, che nelle amministrazioni dei comuni e delle regioni aveva offerto – in special modo in Emilia e Toscana – le migliori prove di buongoverno attenendosi a criteri tipici del riformismo socialista di tipo europeo, paradossalmente a livello

centrale persistette fino al suo scioglimento a condannare il “peccato socialdemocratico”. Il sistema politico italiano conservava, oltre alla caratteristica di sbarrare la strada ad alternative ai governi della Dc e dei suoi alleati, quella complementare di alimentare una pressoché cronica instabilità – che non aveva corrispondenza nei Paesi democratici dell’Europa occidentale – dei singoli governi. La correlazione tra i due aspetti era evidente: essendo preclusa la via dell’alternanza al potere tra due schieramenti opposti, i partiti dell’area di governo davano libero corso alla conflittualità tra di loro e tra le correnti a essi interne, provocando il susseguirsi di un esecutivo all’altro. Sicché il sistema delle alleanze era nei suoi fondamenti stabile, mentre i governi erano instabili. Conseguenza inevitabile della precarietà delle coalizioni di governo era la scarsa capacità operativa del Parlamento; ciò comportava che l’azione riformatrice, pur in alcuni momenti e per certi aspetti significativa, procedesse in maniera disordinata, insufficiente e ondivaga, pagando non di rado il prezzo alle resistenze opposte dalla burocrazia al cambiamento. Questa scarsa capacità operativa del Parlamento e l’insoddisfazione verso i partiti tradizionali di vario colore agevolarono la comparsa sulla scena di nuovi soggetti politici quali il Partito radicale, riorganizzatosi sotto la guida di Marco Pannella, i «Verdi» – che si fecero portavoce di istanze emergenti dal seno della società civile trovando un efficace strumento di lotta e di affermazione nell’istituto del referendum – e le «leghe» localistiche del Nord, che a partire dalla fine degli anni Settanta presero ad attaccare il centralismo statale, accusato di essere fonte di malgoverno e clientelismo, facendosi veicolo della «protesta settentrionale» contro lo «sfruttamento» del Nord da parte del Sud «parassitario». L’ingresso negli organismi rappresentativi di questi nuovi soggetti ebbe l’effetto di accrescere ulteriormente la frammentazione del sistema politico. Si fece cosí sentire urgente l’esigenza di riforme istituzionali in grado di dare maggiori poteri e incisività all’azione di governo. Ma ai propositi in questa direzione non seguí alcun risultato concreto. A partire dal 1983 il Parlamento procedette ripetutamente alla formazione di Commissioni bicamerali al fine di procedere alla revisione della Costituzione: tutte però chiusero i loro lavori con un nulla di fatto per la mancanza di accordo tra i partiti. Tra i leader politici a insistere senza esito su questo tema fu soprattutto il socialista Bettino Craxi.

Fra i partiti al potere e le categorie sociali schierate a difesa dei propri interessi “corporativi” si consolidarono legami strettissimi e organici. La lotta all’evasione fiscale rimase sempre molto blanda per il timore dei partiti al governo di perdere il consenso di larghi strati. Ne risultò di necessità che a una spesa pubblica molto elevata faceva sistematicamente riscontro una cronica insufficienza sul versante delle entrate, cosí da portare il debito dello Stato a livelli sempre piú insostenibili. Un’altra piaga di estrema gravità era la sfrenata speculazione edilizia, cui venne lasciato campo libero, e che fu beneficiata da continui condoni, con il risultato di disseminare il territorio nazionale, quanto mai fragile dal punto di vista sismico, di fabbricati costruiti frettolosamente e con materiali scadenti. I numerosi terremoti susseguitisi nel tempo furono lo specchio di questa piaga e dell’incuria generalizzata. Nei primi anni Novanta il sistema politico entrò in una crisi strutturale tanto profonda e irrimediabile da provocare la fine di quella che venne definita la «Prima Repubblica», sotto il peso di fattori reciprocamente connessi: l’attacco della magistratura contro il sistema corruttivo messo in atto anzitutto dai partiti di governo, che ne rimasero travolti; il venir meno definitivo della “guerra fredda” tra l’Occidente capitalistico e l’Oriente comunista in disfacimento che costituí la causa determinante dello scioglimento del Pci; l’emergere al Nord dell’agitazione a mano a mano piú aggressiva delle «leghe».

2. Gli «anni di piombo» e la «lunga notte» della Repubblica. Il secondo governo Rumor, un monocolore Dc, ebbe vita breve (dall’agosto 1969 al febbraio 1970). Lo caratterizzò un evento importante quale l’intesa raggiunta il 30 novembre tra Italia e Austria che, definendo in termini conclusivi l’autonomia del Sud Tirolo - Alto Adige, pose fine a una lunga controversia. Un terzo governo Rumor, anch’esso durato poco (dal marzo al luglio 1970), con la partecipazione di democristiani, repubblicani, socialdemocratici, socialisti, vide la sottoscrizione di un «preambolo» elaborato dal segretario della Dc Arnaldo Forlani, che stabiliva l’estensione della formula di centro-sinistra alle amministrazioni locali con la preclusione a qualsiasi intesa con i comunisti. Si trattava però di una posizione che non rispecchiava quella di Moro, che fin dal novembre 1968, staccandosi dalla

corrente dei dorotei, aveva parlato dell’avvento di «tempi nuovi» che richiedevano non solo di affrontare i problemi posti dalle agitazioni degli operai e degli studenti e dei giovani che «non si riconoscono nella società piú veramente partecipi», ma anche esortato ad aprire «un impegnativo confronto con il Partito comunista in ordine ai problemi vitali della società». Di lí a poco Moro avrebbe sostenuto l’opportunità di adottare verso i comunisti una «strategia dell’attenzione». I governi Rumor si dimostrarono incapaci di affrontare l’ondata delle agitazioni studentesche e operaie, che scuotevano fortemente i rapporti politici e sociali e sottoponevano l’ordine pubblico a tensioni sempre piú serie. Una grande esasperazione nelle file della polizia suscitò l’uccisione il 19 novembre 1969 dell’agente Antonio Annarumma nel corso di agitazioni di piazza a Milano. Il Msi e le forze piú conservatrici, fra cui la destra democristiana, denunciavano i pericoli di uno squilibrante spostamento a sinistra, dell’anarchia, persino della rivoluzione, e invocavano un «governo forte». Come si è detto, la «strategia della tensione» ebbe il suo momento iniziale con il già menzionato attentato del 12 dicembre 1969 nella Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano e le bombe fatte esplodere lo stesso giorno a Roma. Il comportamento delle forze dell’ordine e degli organi inquirenti mostrò come vi fosse chi intendeva sfruttare prontamente i tragici eventi a scopi politici. Dell’attentato a Milano fu subito incolpato il ballerino anarchico Pietro Valpreda, che venne arrestato, e la polizia si scatenò nella caccia dei suoi supposti complici anch’essi anarchici, privilegiando senza incertezze la «pista rossa» ed escludendo la «pista nera» (solo in seguito sarebbero emerse l’innocenza di Valpreda e la responsabilità degli ambienti della destra neofascista, protetta da coperture e depistaggi). Tra gli arrestati vi fu il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, che il 15 dicembre morí precipitando da una finestra della questura di Milano, suscitando, in contrasto con la versione ufficiale del suicidio, una serie di illazioni e l’accusa al commissario Luigi Calabresi e ai poliziotti che lo tenevano in custodia di averne procurato la morte. Di Pinelli sarebbe stata accertata l’innocenza; quanto a Calabresi, la magistratura lo avrebbe prosciolto dall’accusa. La serie degli atti eversivi prese a ingrossarsi in maniera paurosa. Nella notte fra il 7 e l’8 dicembre 1970 Junio Valerio Borghese, già comandante della X Mas durante la Repubblica di Salò, con elementi neofascisti, un gruppo di guardie forestali e

di ex paracadutisti e la complicità di settori dei servizi segreti e delle forze armate, tentò un “golpe” – invero da operetta ma tale da rivelare a quale punto arrivassero le “trame nere” – penetrando nel ministero degli Interni. L’eversione della destra estremista si fece ulteriormente sentire nelle violente agitazioni scoppiate a Reggio Calabria e all’Aquila fra l’estate del 1970 e i primi mesi del 1971. A Reggio scoppiò una vera e propria rivolta, che si protrasse dal luglio 1970 al febbraio 1971, trovando il proprio capopopolo in Ciccio Franco. Si susseguirono scioperi, attentati, occupazioni di edifici pubblici, blocchi stradali e ferroviari, con tre morti, alcune centinaia di feriti, 300 arresti e 426 persone denunciate. All’Aquila in febbraio i disordini sfociarono nell’assalto alle sedi dei partiti. L’eversione reazionaria di destra si trascinò per anni, culminando nella strage di Piazza della Loggia a Brescia, dove il 28 maggio 1974, nel corso di una manifestazione sindacale, una bomba fece otto morti e un centinaio di feriti; nell’attentato al treno Italicus, in cui il 4 agosto sempre di quell’anno un’esplosione causò 12 morti e 48 feriti; fino ad arrivare alla strage compiuta il 2 agosto 1980 nella stazione di Bologna, che fece 85 morti e circa 200 feriti. Il terrorismo di sinistra si affacciò sulla scena a partire dagli ultimi mesi del 1969. In un primo tempo comunisti e socialisti ritennero erroneamente che quest’ultimo fosse solo la mascheratura di un unico movimento reazionario, tardando a capire che ci si trovava invece di fronte a un fenomeno autonomo, che affondava le sue radici in ambienti studenteschi, operai e intellettuali. A fare da suo terreno di coltura furono organizzazioni della sinistra extraparlamentare – che si presentò come la «Nuova sinistra» – quali Servire il Popolo di indirizzo maoista, Avanguardia operaia e Potere operaio di scuola leninista, Movimento studentesco filostalinista, Autonomia operaia, Lotta comunista, Partito comunista d’Italia, Lotta continua di indirizzo libertario e vari altri gruppi ancora. Pur nella diversità delle sigle, degli indirizzi ideologici, delle strategie e delle reciproche rivalità, questi gruppi condividevano l’obiettivo di costituire un’alternativa alla destra neofascista, alla Dc e ai suoi alleati e al Pci. Sorse un vero e proprio “partito armato” di estrema sinistra, costituito da un arcipelago di organizzazioni sulle quali finirono per emergere le Brigate Rosse che – formatesi nel 1970 – divennero le protagoniste di un gran numero di sequestri, ferimenti e assassinii, con il loro seguito di «processi» rivoluzionari. Scopo dichiarato

era di portare un risolutivo «attacco al cuore dello Stato». Tutti questi gruppi condividevano la convinzione che l’Italia fosse alla vigilia di un processo rivoluzionario e che essi ne potessero essere le guide. A rafforzare tale convinzione furono gli aspri conflitti sviluppatisi nelle fabbriche a cavallo tra gli ultimi anni Sessanta e i primi anni Settanta, di cui furono un caso estremo gli eventi culminati il 3 luglio 1969 a Torino nella «battaglia di Corso Traiano», dove, durante uno sciopero generale indetto dai sindacati per protestare contro l’aumento degli affitti e gli sfratti, si accese un durissimo scontro, alimentato in particolare da Lotta continua, tra dimostranti e polizia, con varie decine di feriti e oltre cento arresti. In quello stesso periodo, gli americani – ai quali Rumor andava dicendo che Moro era «pericoloso» in quanto «ossessionato dalla sinistra» e Saragat che i comunisti, che non avevano cambiato pelle, premevano alle porte – manifestavano i loro timori che la situazione in Italia potesse precipitare al punto da portare il Pci al governo.

3. Dall’esaurimento del «Centro-sinistra» al fallimento politico degli «opposti estremismi» e alla sconfitta del terrorismo. Caduto il terzo governo Rumor, nell’agosto 1970 si ebbe la formazione di un quadripartito presieduto da Emilio Colombo, che risultò una versione sempre piú stanca della formula di centro-sinistra, anche se mentre egli era in carica venne approvata nel dicembre di quell’anno, superando la forte protesta delle gerarchie cattoliche, con 319 voti favorevoli e 286 contrari la legge sul divorzio, promossa dal socialista Loris Fortuna e dal liberale Antonio Baslini e sostenuta da Pri, Psu, Psiup e Pci. Al governo Colombo seguí nel febbraio 1972 un monocolore Dc presieduto da Giulio Andreotti, che però, non avendo ottenuto la fiducia del Senato, ebbe il compito di gestire le elezioni anticipate. Intanto nel dicembre 1971 vi era stata l’elezione a presidente della Repubblica del democristiano Giovanni Leone, con i voti del Msi. Pochi mesi prima delle elezioni anticipate si svolse a metà marzo 1972 il XIII Congresso del Pci, nel quale venne eletto segretario Enrico Berlinguer, che successe a Longo. Dell’Unione Sovietica egli sottolineò il ruolo determinante, anche se affermò che in quel Paese persistevano irrisolti

«problemi di democrazia politica». Per quanto riguardava l’Italia disse che essa era entrata in una fase di crisi generale e minacciata di «rovina», dove si poneva una grande questione di «rinnovamento e risanamento nazionale», da affrontarsi con la costruzione di una «alternativa di governo» a opera di un blocco sociale in grado di «far avanzare il nostro Paese verso una società socialista». In un paese come l’Italia, – disse – una prospettiva nuova può essere realizzata solo con la collaborazione tra le grandi correnti popolari: comunista, socialista, cattolica. Di questa collaborazione l’unità della sinistra è condizione necessaria ma non sufficiente. [...] Noi siamo disposti ad assumerci le nostre responsabilità 1.

Le elezioni anticipate svoltesi il 7 maggio – dopo una campagna condotta dal segretario della Dc Forlani contro gli «opposti estremismi» – videro alla Camera una leggera flessione della Dc (38,7%), un lieve incremento del Pci (27,1), una situazione stazionaria dei socialisti (9,6) e dei socialdemocratici (5,1), ma un consistente successo del Msi-Destra nazionale, che univa neofascisti e monarchici (8,7). Crollò il Psiup, cui andò l’1,9; dopo di che esso si sciolse e confluí nel Pci. Il 17, pochi giorni dopo le elezioni, venne assassinato a Milano il commissario di polizia Luigi Calabresi, fatto oggetto da parte di Lotta continua di un’aggressiva campagna di stampa con l’accusa di essere stato il responsabile della morte dell’anarchico Pinelli; quindi il 31 a Peteano, presso Gorizia, tre carabinieri furono uccisi e due feriti in un agguato organizzato da Ordine Nuovo. Dalla consultazione elettorale uscí in giugno un governo Dc-Psdi-Pli presieduto da Andreotti, che si distinse per una finanza piuttosto allegra, e cioè per una dilatazione della spesa pubblica chiaramente finalizzata a ottenere il consenso di alcune forti “corporazioni” sociali: espressione della tendenza ormai consolidata e destinata a durare per cui i partiti al governo facevano gravare sul debito dello Stato le loro strategie elettoralistiche. Nel luglio 1973 Rumor, tornato al governo, varò in un primo tempo misure economiche di un certo rilievo per fronteggiare l’inflazione e favorire la ripresa produttiva, ma la crisi energetica seguita al conflitto arabo-israeliano dell’ottobre dello stesso anno ebbe effetti pesantemente negativi su un apparato produttivo come quello italiano tanto dipendente dalle importazioni petrolifere dal Medio Oriente. Furono quindi avviate misure di «austerità»,

che provocarono contrasti tra i repubblicani, favorevoli a una politica deflazionistica e al contenimento della spesa pubblica, e i socialisti, favorevoli invece a un rilancio del credito per sostenere produzione e occupazione. Anche la Dc era divisa. Nel marzo 1974 Rumor varò il suo quinto e ultimo governo, un tripartito Dc-Psi-Psdi, senza la partecipazione del Pri; tuttavia, in seguito a un crescendo di conflittualità specie fra socialdemocratici e socialisti, mostrò a quale punto di esaurimento fosse giunta la formula di centro-sinistra. In luglio dalla confluenza del gruppo comunista dissidente «il Manifesto», espulso dal Pci nel novembre 1969 – di cui erano esponenti Lucio Magri, Aldo Natoli, Rossana Rossanda e Luigi Pintor – e di una componente già del Psiup guidata da Vittorio Foa sorse il fragile Partito di unità proletaria (Pdup): specchio questo, dopo i tormenti che avevano indotto socialisti e socialdemocratici a unirsi e a nuovamente separarsi, di quelli a sinistra del Pci. Era l’intero settore partitico a dare segni di cedimento. Il clima della vita pubblica si era a tal punto deteriorato che divenne corrente il termine «lottizzazione» per indicare la permanente e manifesta spartizione del potere da parte dei partiti di governo, con il diffondersi della pratica delle «tangenti» pagate dagli imprenditori ai partiti in cambio di favori e privilegi. Nel febbraio 1974 venne alla luce il grave scandalo delle elargizioni fatte dalle compagnie petrolifere per contrastare l’appoggio politico alla costruzione di centrali nucleari; dal che seguirono avvisi di reato a dirigenti dell’Enel e ai segretari amministrativi di Dc, Psi, Psdi e Pri. Per tentare di impedire la deriva degenerativa, il Parlamento in aprile approvò, con la sola opposizione del Pli, una legge con la quale lo Stato assumeva il compito di finanziare con denaro pubblico i partiti a seconda della loro consistenza elettorale. Ma la legge non raggiunse lo scopo, poiché dopo di allora gli atti corruttivi quasi non si sarebbero piú contati. Un altro scandalo di grande rilievo fu quello legato al finanziere d’assalto Michele Sindona, che aveva costruito un impero finanziario internazionale basato sugli interessi incrociati del Vaticano, il cui uomo di punta era monsignor Paul Marcinkus, presidente dell’Istituto per le opere di religione (Ior), di ambienti della Dc e della mafia. Per sfuggire alla cattura nell’ottobre 1974 il finanziere riparò negli Stati Uniti. Nel 1979 Mario Tanassi, ex ministro della Difesa ed ex segretario del Psdi, venne arrestato e condannato (ma rimesso in libertà pochi mesi dopo) per un affare di tangenti – dalle molte ramificazioni internazionali

e che in Italia giunse a coinvolgere lo stesso presidente Leone (poi scagionato) – pagate nel 1970 dalla società americana Lockheed per assicurarsi l’acquisto di aerei militari. Il diffondersi della corruzione pubblica da un lato e dall’altro l’emergere della complicità di influenti forze politiche e sociali a favore delle «trame nere» furono decisivi nello spingere sempre nuovi nuclei di giovani estremisti a sostenere direttamente o indirettamente il terrorismo di sinistra, che si tinse cosí anche di motivazioni moralistiche. Nella seconda parte del 1973 la magistratura portò alla luce l’esistenza della «Rosa dei venti», un’organizzazione terroristica formata da elementi di destra e militari. Il Paese si era inoltrato in un tunnel oscuro: indebolimento crescente del sistema politico, corruzione pubblica e privata, attacco dei gruppi eversivi e terroristici allo Stato, atti di aggressione tra le fazioni opposte votatesi alla violenza. Di quest’ultima tendenza fu un esempio raccapricciante l’azione condotta nell’aprile 1973 da militanti di Potere operaio contro il segretario di una sezione del Msi, la cui abitazione venne incendiata causando la morte di due suoi figli. Intanto andava intensificandosi l’attività delle Brigate rosse, a cui si affiancavano altre organizzazioni come i Gap (Gruppi di azione partigiana) fondati dall’editore milanese Giangiacomo Feltrinelli. Nel marzo 1972 l’editore morí mentre tentava di far saltare in aria un traliccio dell’alta tensione a Segrate. Nell’aprile 1974 avvenne a Genova il rapimento da parte delle Brigate rosse del giudice Mario Sossi, liberato poco piú di un mese dopo. Sequestri di persona e attentati, con ferimenti e morti, contro sindacalisti, quadri intermedi nelle industrie, membri della classe dirigente politica ed economica, giornalisti e intellettuali, si intensificarono da allora in poi, per oltre un decennio, lasciando dietro di sé una lunga scia sanguinosa. In questo contesto, che vedeva l’indebolimento dei sindacati, si assistette all’erompere in varie zone del Paese delle proteste per l’aumento delle tariffe dei trasporti, delle bollette elettriche e telefoniche e dei canoni di affitto, seguite dalla riduzione unilaterale dei pagamenti da parte degli utenti che adottarono forme di disubbidienza civile, in molti casi con l’incoraggiamento e il sostegno degli stessi sindacati; e al diffondersi nel Mezzogiorno di movimenti dei disoccupati. A partire poi dalla metà degli anni Settanta andarono prendendo consistenza i movimenti delle donne – le cui origini erano da ricondursi al 1968-69 –, i quali, reagendo al maschilismo imperante nella società, si mobilitarono per rivendicare la parità di diritti con gli uomini,

la parità dei salari, la libertà sessuale, la riforma del diritto di famiglia. Fu anche grazie alla spinta da esso impressa che nell’aprile 1975 fu approvata la legge che riconobbe la parità giuridica tra i coniugi, la comunione dei beni, l’abrogazione della discriminazione tra figli legittimi e naturali. Di fronte al reale pericolo di scardinamento dello Stato, si delineò un’azione convergente tra il Pci e una parte della Dc guidata da Moro. I comunisti, vivamente preoccupati di un possibile cedimento delle istituzioni, presentarono una loro linea di “difesa democratica”. Nel settembre-ottobre 1973 Berlinguer – che in gennaio, compiendo un passo significativo, aveva affermato che la posizione del Pci era favorevole a un’Europa «né antisovietica né antiamericana» – in alcuni articoli pubblicati sulla rivista «Rinascita» dal titolo Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile, sviluppando la linea già enucleata l’anno precedente al XIII Congresso del partito, lanciò la proposta di un patto tra comunisti, socialisti e democristiani. Disse di parlare non di una “alternativa di sinistra” ma di una “alternativa democratica”, e cioè della prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze popolari di ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento democratico 2.

Era urgente a suo avviso avviare un nuovo e piú vasto processo riformatore tale da portare alla formazione di un governo in grado di risanare la vita pubblica e dare una risposta forte e autorevole agli attacchi delle forze eversive. Se applicata, la formula avrebbe significato in certo modo il ritorno alla strategia che era stata dei governi di unità antifascista tra il 1945 e il 1947. Si trattava di dare vita a un «nuovo grande “compromesso storico”» 3. Berlinguer agí sotto l’influenza del drammatico rovesciamento in Cile, per mano dei militari, del governo di Salvador Allende. Secondo il leader comunista l’Italia stava attraversando una crisi di sistema analoga a quella che aveva attanagliato il Cile negli anni precedenti. La difesa delle istituzioni e la trasformazione in senso riformatore della società (da non confondersi con il “riformismo”, sinonimo di un gradualismo privo di incisività) non potevano essere opera di una sinistra che avesse raggiunto in sede elettorale il 51%. Il Pci – affermò il leader comunista nel dicembre 1974 – doveva favorire un’alleanza tra comunisti, socialisti, democratico-cristiani progressisti, il cui

compito non era «oggi di porre l’obiettivo della costruzione di una società socialista, ma di alcuni indirizzi e provvedimenti che noi valutiamo di tipo socialista». Il che implicava il superamento della formula rivelatasi del tutto inadeguata di centro-sinistra. Per mettere la strategia del compromesso storico al riparo da un insuperabile intoppo legato alla politica estera, il leader comunista – compiendo il passo che precedentemente i comunisti avevano aspramente rimproverato a Nenni – sostenne che «anche per quanto riguarda l’Italia non si pone pregiudizialmente da parte nostra il problema dell’uscita dell’Italia dal Patto atlantico» 4. La strategia del compromesso storico venne accolta negativamente sia dai sovietici sia dalla grande maggioranza della Dc, e senza entusiasmo dalla corrente interna al Pci guidata da Amendola, il quale vide il pericolo di una crisi dei rapporti con un Psi che si sarebbe sentito ridotto a partner minore di comunisti e democristiani. Nella Dc una posizione controcorrente assunse invece Moro, che, ormai persuasosi della convenienza di un accordo con i comunisti, dopo la linea dell’«attenzione» auspicò il passaggio al «dialogo», assumendo il ruolo di interlocutore privilegiato di Berlinguer. Un altro punto molto caldo del dibattito emerso in quel periodo, che divise frontalmente le forze politiche e la società italiana, fu quello del divorzio. Dopo l’approvazione nel dicembre 1970 col concorso di una maggioranza di sinistra e laica della legge che lo introduceva – denunciata dalla Chiesa come una catastrofe morale –, la Dc, con a capo Fanfani, e il Movimento sociale, appoggiati dalle organizzazioni cattoliche, cercarono la rivincita nel maggio 1974 con un referendum popolare, che però segnò la secca sconfitta degli antidivorzisti con il 59,3%. Costituí una sorpresa il consenso dato al mantenimento della legge anche nelle regioni meridionali, considerate il baluardo della concezione cattolica della famiglia. A impegnarsi nella battaglia referendaria furono anzitutto i radicali guidati da Marco Pannella e i socialisti, i quali ottennero il determinante sostegno del Pci, che superò le iniziali esitazioni causate dal timore di nuocere ai rapporti con il mondo cattolico. Fu assai significativo che a pronunciarsi a favore del divorzio furono anche settori minoritari della Cisl e di gruppi di cattolici di base. Altre leggi di grande importanza sarebbero state quella, approvata nel maggio 1978, che, concludendo una battaglia condotta in prima persona dallo psichiatra Franco Basaglia, abolí i manicomi istituendo in loro vece istituti di cura territoriali e quella, dello stesso mese, che riconobbe la liceità

dell’aborto. Tutto ciò stava a testimoniare da un lato un importante processo di secolarizzazione e di mutamento della mentalità e dei costumi all’interno di vasti settori della società italiana, ma dall’altro il permanere dell’acuto contrasto tra laici e clericali. Infine, conquista del massimo rilievo, fu il 23 dicembre sempre del 1978 la legge che – promossa dal ministro della Sanità Tina Anselmi, divenuta nel 1976 il primo ministro donna nella storia d’Italia – aboliva il sistema mutualistico e introduceva il Servizio sanitario nazionale, grazie al quale per la prima volta nella storia d’Italia tutti i cittadini avrebbero potuto accedere in una misura senza precedenti alle cure mediche. Nel novembre 1974 Moro formò il suo quarto governo, un bicolore DcPri, che, pur avendo l’appoggio parlamentare di socialisti e socialdemocratici, segnò la crisi formale di quella formula. Per Moro si trattava di una fase intermedia in vista di un nuovo corso fondato sul dialogo e sulla collaborazione con il Pci, ritenuti indispensabili per il consolidamento delle istituzioni. Si trattava di una linea che egli era ormai deciso a intraprendere, nonostante la fortissima contrarietà espressagli in settembre a New York dal segretario di Stato americano Henry Kissinger. Il governo dovette misurarsi con una situazione interna caratterizzata non soltanto da difficoltà economiche, causate in primo luogo dalle gravi ripercussioni sull’Italia della crisi energetica scoppiata a livello internazionale, ma anche dai problemi derivanti dalla lotta contro il terrorismo, per combattere piú efficacemente il quale nel maggio 1975, dopo molti contrasti e con l’opposizione del Pci, fu varata la legge sull’ordine pubblico promossa dal ministro della Giustizia Oronzo Reale, con cui si conferivano maggiori poteri alla polizia in merito di fermo giudiziario e di impiego delle armi. Un evento rilevante furono le elezioni amministrative di giugno, in cui votarono per la prima volta i diciottenni e che videro una notevole flessione della Dc e un forte balzo in avanti del Pci. In Piemonte, Liguria, Emilia, Toscana e Umbria si costituirono governi regionali di sinistra e sindaci di sinistra si insediarono a Torino, Milano, Genova, Bologna e Firenze. Il risultato elettorale suscitò allarme nella Dc, che provvide a eleggere segretario del partito Benigno Zaccagnini, stretto collaboratore di Moro, in sostituzione di Fanfani. In luglio al Consiglio nazionale del suo partito Moro ribadí che i rapporti di forza nel Paese erano mutati ed esortò la Dc a prendere atto che «l’avvenire non è piú, in parte, nelle nostre mani». Fece poi un passo avanti molto impegnativo verso la legittimazione del Pci,

sostenendo che la sua «diversità» apparteneva ormai piú al passato che al presente e al futuro. Il che non implicava che fosse all’orizzonte un’alleanza politica tra la Dc e il Pci, ma che quest’ultimo era ormai da considerarsi un interlocutore essenziale. Era evidente che egli considerava alle spalle il tempo in cui il Pci era stato ritenuto una forza anti-Stato. Kissinger espresse nuovamente l’assoluta contrarietà degli Stati Uniti alla posizione di Moro, destinata a suo avviso a portare i comunisti al governo. Furono i contrasti fra Dc e Psi – quest’ultimo, confermando la previsione di Amendola, preoccupato per i potenziali effetti del dialogo tra Pci e Dc e per il timore di venire emarginato – a provocare la fine del quarto governo Moro. Seguí nel febbraio 1976 la formazione di un monocolore Dc, il quinto presieduto da Moro, che cadde poco dopo in aprile, essendosi incagliato in relazione alle modalità di applicazione della legge allora in discussione sull’aborto, che democristiani e missini erano determinati a restringere fortemente, limitandolo ai casi di estremo pericolo per la salute della donna. Il presidente Leone decretò allora lo scioglimento anticipato del Parlamento. Le elezioni politiche, tenute il 20 giugno, furono precedute da una serie di azioni sanguinose effettuate sia da gruppi neofascisti sia dalle Brigate rosse, che uccisero il magistrato genovese Francesco Coco e due poliziotti della sua scorta. Il 15 giugno, pochi giorni, dunque, prima delle elezioni Berlinguer fece una clamorosa dichiarazione: Io sento che, non appartenendo l’Italia al Patto di Varsavia, da questo punto di vista c’è l’assoluta certezza che possiamo procedere lungo la via italiana al socialismo senza alcun condizionamento. [...] Mi sento piú sicuro stando di qua 5.

Dal canto suo, il Psi si presentò alle elezioni sostenendo che non avrebbe piú appoggiato un governo senza la partecipazione del Pci. I risultati videro alla Camera la tenuta della Dc (38,7%), a favore della quale il noto giornalista Indro Montanelli invitò a votare «turandosi il naso», il massimo successo fino ad allora raggiunto dal Pci (34,4, con un incremento di ben 48 seggi), la frustrazione delle aspettative del Psi, che ottenne il 9,6, e perdite per Psdi, Pli, Msi. Entrarono allora per la prima volta in Parlamento i radicali, protagonisti delle lotte per l’affermazione e l’allargamento di nuovi diritti civili, cui andarono quattro seggi. Il dato piú significativo emerso dalle elezioni era il notevole incremento

dei comunisti, che avevano migliorato quello già rimarchevole ottenuto alle elezioni amministrative. A spiegarlo concorreva una molteplicità di fattori: la pesante situazione economica, che provocò una caduta della produzione e dell’occupazione; l’insoddisfazione che una parte consistente del ceto medio – delusa dalla debolezza nell’azione di governo e rassicurata dal fatto che il Pci non solo aveva assunto una ferma posizione di condanna del terrorismo rosso ma che il suo segretario aveva persino riconosciuto pochi giorni prima delle elezioni la funzione positiva del Patto atlantico – intese manifestare ai partiti di governo; da ultimo, il beneficio venuto ai comunisti dall’indignazione per la dilagante corruzione e gli scandali che coinvolgevano i partiti al potere. Il successo del Pci creò le condizioni favorevoli per la formazione di un monocolore Dc presieduto da Andreotti (luglio 1976 - gennaio 1978), che si resse su una formula: la «non sfiducia», cosí detta perché alla Camera il governo, accanto al voto favorevole della Dc e del Südtiroler Volkspartei, ottenne l’astensione di Pci, Psi, Psdi, Pri, Pli e degli Indipendenti di sinistra. In un momento grave della vita nazionale il Pci scelse dunque la via della collaborazione in un clima favorito dalla svolta ideologica attuata tra il 1975 e il 1977 congiuntamente ai partiti comunisti spagnolo e francese, e riassunta nella formula dell’«eurocomunismo». Questa formula suonò come una grande novità, in quanto stava a indicare da parte dei partiti coinvolti un proposito di autonomia dal comunismo sovietico che non aveva precedenti. Ambizione dell’eurocomunismo – spiegò Berlinguer – era di costruire una «terza via» tra quella dei Paesi dell’Est, criticata per non essere in grado di sviluppare pienamente la democrazia socialista, e quella socialdemocratica subalterna agli interessi capitalistici. Punto chiave era il riconoscimento che nella fase di costruzione del socialismo dovessero valere il «diritto all’esistenza e all’attività per i partiti di opposizione» e la «possibilità dell’alternarsi democratico delle maggioranze e delle minoranze». Al tempo stesso però Berlinguer continuava a esaltare il valore del legame con i Paesi comunisti in virtú della superiorità complessiva del loro modello economico e sociale. Al XIV Congresso del partito del marzo 1975, egli, profondamente colpito dalle ripercussioni negative della crisi petrolifera del 1973-74 sull’Occidente, contrapponeva a quest’ultimo lo stato di buona salute dei Paesi comunisti, affermando che «nel mondo capitalistico c’è crisi, nel mondo socialista no». Non solo. Dichiarava:

È inoltre ormai universalmente riconosciuto che in quei paesi esiste un clima morale superiore, mentre le società capitalistiche sono sempre piú colpite da un decadimento di idealità e valori etici e da processi sempre piú ampi di corruzione e disgregazione 6.

Da ciò la conclusione che anche l’Italia doveva uscire «dalla logica del capitalismo» e andare «verso il socialismo» 7, che la «nuova fase di sviluppo della democrazia» alla cui apertura il partito intendeva concorrere con le sue forze doveva intendersi finalizzata a introdurre «nelle strutture della società [...] alcuni elementi di socialismo» nel quadro di «un processo che porti progressivamente ad uscire dalla logica dei meccanismi del sistema capitalistico» 8. Quanto alla crisi politica e sociale in atto in Italia, per Berlinguer era necessario aprire un corso fortemente innovativo segnato dalla «partecipazione diretta del Pci a responsabilità di governo», in subordine, dalla formazione di «una nuova maggioranza con i comunisti». Si trattava di una proposta di grande rilievo, che trovava consenso in quella parte dell’elettorato democristiano che, superato ormai il timore che il Pci potesse rappresentare una minaccia per le istituzioni, era giunta ad apprezzare il suo impegno nella loro difesa. Ma la strategia della «terza via» lanciata dal Pci da un lato inasprí la critica serrata dei gruppi estremistici di nuova formazione: quelli detti dell’area dell’«autonomia», dall’altro provocò la reazione negativa del Psi, che rimproverava a Berlinguer di tenere il piede in due staffe: avanzando riserve verso i limiti dei regimi comunisti in materia di democrazia senza però volerne riconoscere il carattere dittatoriale e totalitario e respingendo ancor sempre il riformismo come metodo e la cultura politica propria delle socialdemocrazie europee. Per i socialisti la «terza via» era una contraddittoria invenzione ideologica, non potendo darsi in concreto per la sinistra che due sole vie: quella comunista o quella socialdemocratica. A guardare invece con simpatia alla linea comunista era il Pri di La Malfa. Il governo Andreotti, in condizioni che nel 1976 vedevano un inizio di ripresa dopo la recessione produttiva del 1975, riuscí a prendere efficaci misure in campo economico e nella lotta contro il terrorismo. Ma nell’autunno del 1977 l’economia volse nuovamente al peggio. Un tratto estremamente preoccupante era l’andamento delle finanze dello Stato, con un

sempre maggiore indebitamento: la spesa pubblica che nel 1960 era equivalente al 31,2% del Pil nel 1983 sarebbe salita al 62,5, con il concorso della incontenibile evasione fiscale. Altrettanto allarmante la tendenza del debito pubblico, che nel 1975 ammontava al 60,3% del Pil e nel 1978 al 62,5, per scendere di due soli punti negli anni immediatamente successivi. Intanto l’inflazione galoppava, assestandosi nel 1974-1975 sul 20-25%. Una situazione, questa, che non aveva riscontri negli altri Paesi dell’Europa occidentale. Altri sintomi preoccupanti erano i massicci interventi dello Stato a sostegno di un gran numero di imprese in difficoltà, a partire da quelle pubbliche del gruppo Iri, sempre piú indebitate, a capo delle quali vi era Eugenio Cefis. I settori della chimica e della siderurgia erano letteralmente boccheggianti. Le aziende di maggiori dimensioni, superiori cioè ai 500 -1000 addetti, subirono quasi un tracollo, mentre crescevano le piccole-medie imprese, molte delle quali collocate nel settore dell’economia sommersa. Nel dicembre 1976 un gruppo di diciassette deputati e di otto senatori provenienti dal Msi costituirono Democrazia nazionale, che diede il proprio sostegno al governo. Intanto, Moro andava tessendo la tela (da ciò l’appellativo, che era già stato dato a Cavour, a lui conferito di «grande tessitore») di una operazione finalizzata a preparare le condizioni di un «confronto costruttivo» con un Pci impegnato nella collaborazione nella difesa delle istituzioni, in vista del suo possibile ingresso nella maggioranza parlamentare. L’operazione partiva dalla convinzione che andassero maturando le condizioni per ripetere nei confronti del maggiore partito della sinistra l’operazione compiuta nei primi anni Sessanta con il Psi. Un’ulteriore conferma per i fautori della linea di Moro suonò il fatto che Berlinguer, nel corso della celebrazione a Mosca del 60 o anniversario della rivoluzione di ottobre, nel novembre 1977 esaltò la democrazia come «valore universale» per una società socialista. Sennonché la strategia di Moro urtava contro la linea di parte della Dc e la sempre rinnovata opposizione di Kissinger, che negava ogni valore alla svolta «eurocomunista» e considerava una minaccia per l’Occidente il coinvolgimento nel governo del Paese, se non formale di fatto, del Pci, in quanto quest’ultimo restava legato all’Unione Sovietica e al movimento comunista internazionale e si proponeva il mutamento delle basi istituzionali ed economiche dell’Italia. Nel febbraio 1977 a Roma scoppiarono violente dimostrazioni che coinvolsero decine di migliaia di giovani. Per protestare contro il progetto di

riforma del ministro Franco Maria Malfatti, gli studenti occuparono l’università; e il 17 Luciano Lama, segretario della Cgil, che tentava di tenere un comizio in quella sede, fu oggetto di contestazioni sfociate in durissimi scontri che opposero gli «autonomi» e gli «indiani metropolitani» ai militanti sindacali e comunisti. A metà marzo Roma fu nuovamente scossa da tafferugli tra manifestanti, che assaltarono negozi e commissariati, e polizia; e quasi contemporaneamente toccò a Bologna di essere investita. Se a fronteggiare fisicamente i manifestanti erano le forze di polizia, a fare barriera contro di essi politicamente erano insieme i partiti di governo, i sindacati e il Pci. L’«attacco al cuore dello Stato» condotto dalle Brigate rosse e dai gruppi terroristici di sinistra era in pieno svolgimento. Segno quanto mai eloquente fu che nel maggio 1977 il processo a Torino contro esponenti delle Brigate rosse dovette essere in un primo tempo sospeso per il rifiuto dei giudici popolari, troppo spaventati, di ottemperare all’incarico. Tra il 1978 e il 1980 i soli assassinati, senza contare i feriti, furono sessantasei. Mentre coltivava la sua strategia diretta a favorire l’ingresso nella maggioranza parlamentare del Pci (resistendo però alle pressioni di questo per entrare nell’esecutivo), Moro, che aveva preso nelle proprie mani con fermezza e autorevolezza la leadership della Dc, era deciso a difendere il partito dalle accuse non solo di essere profondamente coinvolto nel sistema della corruzione, ma di esserne l’artefice principale. Schierandosi con decisione a fianco dei democristiani accusati di gravi responsabilità nello scandalo Lockheed, di fronte al Parlamento in seduta comune il 9 marzo 1977 si rivolse agli accusatori con parole di estrema durezza: «on. Colleghi, che ci avete preannunciato il processo sulle piazze, vi diciamo che noi non ci faremo processare» 9. Nel contesto creato dal fatto che Moro non cedeva alle pressioni americane, l’11 marzo 1978 si formò il quarto governo guidato da Andreotti, un monocolore Dc che, sostenuto non solo da Psi, Psdi e Pri, ma anche dal Pci divenuto cosí parte della maggioranza parlamentare, sarebbe durato fino al gennaio 1979. Si profilava ormai la possibilità che si arrivasse in futuro a una “grande coalizione” Dc-Pci: il passo che Kissinger aveva detto chiaramente inaccettabile dagli Stati Uniti. Il clima politico era dunque non solo in forte movimento, ma molto teso anche perché il Pci, insoddisfatto della composizione del governo, esitava nel concedere la fiducia ad Andreotti. In un simile contesto si arrivò a un evento drammatico che

nessuno avrebbe immaginato possibile. Il 16 marzo un commando delle Brigate rosse – pochi giorni dopo l’inizio a Torino del processo contro numerosi dei suoi “capi storici” – rapí Moro in via Fani, nel centro di Roma, dopo aver ucciso i cinque agenti della sua scorta. Di fronte a una situazione di tale emergenza il Pci reagí votando quel giorno stesso la fiducia al governo, che l’ottenne con una maggioranza senza precedenti di 545 voti favorevoli, 30 contrari e 3 astenuti. La formula, significativamente definita di «solidarietà nazionale», sanzionava il legame stabilitosi tra i partiti dell’«arco costituzionale» schieratisi in difesa dello Stato. Il rapimento di Moro segnò il momento culminante dell’attacco condotto dalle Brigate rosse. Percepito come prova di un altissimo livello di preparazione militare e di audacia, esso ebbe una enorme eco internazionale, gettò nel massimo allarme l’intero schieramento dei partiti e seminò il turbamento nella grande maggioranza della popolazione impaurita da un terrorismo che non conosceva limiti. Alimentò altresí una confusa ridda di sospetti circa l’appoggio dato ai terroristi vuoi dai servizi segreti sovietici interessati a destabilizzare l’Italia vuoi da quelli statunitensi decisi a togliere di mezzo un leader politico divenuto troppo scomodo. Il rapimento mise comprensibilmente nella piú profonda costernazione e agitazione anzitutto la Dc e il governo, in cui Francesco Cossiga teneva il ministero degli Interni, chiamato ad affrontare quella situazione di emergenza nazionale. Inevitabili furono poi le sue conseguenze sui partiti, che, incapaci di convergere, si divisero tra i contrari ad aprire trattative con le Brigate rosse – che avrebbero rappresentato il riconoscimento di fatto dell’organizzazione terroristica come controparte politica, assumendo il significato di una capitolazione dello Stato – e i favorevoli. Decise a trarre vantaggio dalla situazione erano sia le diverse correnti interne ai partiti sia i gruppi eversivi uniti nell’avversare il “nuovo corso” patrocinato da Moro. Il 9 maggio il corpo del leader democristiano, che era stato sottoposto a un processo dai terroristi durante la sua prigionia, venne trovato nel bagagliaio di un’auto in via Caetani, nel centro di Roma. Nella Dc – lacerata dalle lettere di Moro fatte pervenire dai brigatisti, nelle quali il prigioniero rivolgeva aspre accuse a quanti non erano disposti a trattare la sua liberazione e in particolare ad Andreotti – e ancor piú decisamente nel Pci era prevalsa la «linea della fermezza» per non gettare lo Stato nello sbaraglio cedendo, come si è detto, a una trattativa che avrebbe rappresentato un clamoroso successo per le Brigate rosse. Questa linea fu

vanamente contrastata, in nome di una posizione ispirata a valori umanitari, in primo luogo dal Psi guidato da Craxi, che si attirò per questo le critiche degli americani. Vani erano risultati gli appelli rivolti ai brigatisti da autorità come il papa Paolo VI e il segretario generale delle Nazioni Unite Kurt Waldheim affinché liberassero il prigioniero. Il 10 maggio Cossiga si dimise dal ministero degli Interni. La vicenda lasciò uno strascico di aspre polemiche circa il comportamento di settori della polizia e dei servizi segreti, sospettati di non avere fatto gli sforzi necessari per liberare il prigioniero e addirittura di essere in combutta con gli ambienti intenzionati a liquidare la sua linea politica. E, in effetti, dopo la morte di Moro, la sua linea fu liquidata. Dal canto loro le BR dovettero registrare il fallimento della loro strategia diretta ad aprire nel Paese una fase rivoluzionaria. Un avvenimento assai importante in un momento cosí critico per la vita nazionale fu l’8 luglio l’elezione a grandissima maggioranza del socialista Alessandro (detto Sandro) Pertini a presidente della Repubblica, dopo che Leone era stato costretto alle dimissioni sotto l’accusa di essere coinvolto nello scandalo Lockheed, oltre che in traffici immobiliari e infedeltà fiscale, che chiamavano in causa la sua stessa famiglia. Pertini, che diventò un presidente popolarissimo grazie alla sua figura adamantina e al prestigio del suo passato politico, giocò un ruolo fondamentale nella difesa delle istituzioni democratiche. «Nessun cedimento» alla violenza eversiva fu l’invito che egli rivolse alla nazione nel suo discorso di insediamento. L’uscita dei comunisti dalla maggioranza provocò la caduta del governo di «solidarietà nazionale». Venne allora formato nel marzo 1979 il quinto governo Andreotti, un tripartito Dc-Psdi-Pri, il quale, non avendo ottenuto la fiducia, non ebbe altro scopo se non di gestire le elezioni dopo lo scioglimento anticipato delle Camere. Le elezioni, svoltesi il 3 giugno, penalizzarono notevolmente il Pci, che alla Camera passò dal 34,4% al 30,4%, scontando l’insoddisfazione tanto di coloro che avevano visto il partito sostenere il governo senza riuscire ad accedervi quanto di coloro che all’opposto deploravano da sinistra quel sostegno. La Dc rimase sostanzialmente stabile, con il 38,3; mentre al Psi andò il 9,8. Un notevole successo ottennero i radicali, che beneficiarono della perdita comunista, passando dall’1,1 al 3,5. In marzo era morto Ugo La Malfa, prestigioso leader del Pri, che era stato un convinto sostenitore della linea di Moro nei confronti del Pci.

L’evoluzione politica degli anni Settanta aveva creato una situazione critica per il Psi. Dopo il fallimento dell’unificazione con i socialdemocratici, esso si era trovato a reggere in maniera sempre piú subalterna l’alleanza con la Dc nel quadro della formula in esaurimento di centro-sinistra. Si accentuò nei socialisti il timore della marginalità. I risultati elettorali erano infatti nettamente al di sotto delle sue aspettative e ambizioni. Le deludenti elezioni del 1976 produssero una reazione che aprí la strada all’emergere di una nuova leadership. Venne avviato un processo di rinnovamento interno destinato ad avere profonde ripercussioni su tutta la scena politica italiana. Dimessosi da segretario De Martino, il 15 luglio il Comitato centrale elesse segretario Bettino Craxi, un quarantenne “autonomista” milanese di scuola nenniana, che sconfisse Antonio Giolitti. A rendere possibile il suo successo fu un accordo tra i giovani dirigenti di diversa corrente uniti dalla convinzione che fosse necessario mettersi alle spalle l’era dei Nenni, Lombardi e De Martino e volgersi a contrastare la doppia subalternità alla Dc e al Pci. Craxi riuscí a rafforzare la sua leadership all’interno del partito fino a renderla agli inizi degli anni Ottanta incontrastata. Dopo la sua elezione a segretario, deciso ad affrontare i problemi posti dallo scacco elettorale del Psi e dal successo del Pci, Craxi, allora orientato a entrare da sinistra in concorrenza ai comunisti, non esitò a battere la strada di un radicalismo dai toni ideologicamente inediti. A fine 1976, per rendere palese la piena autonomia dalla cultura politica comunista, esaltò il pensiero libertario di Proudhon e affermò che i socialisti intendevano dare vita a «una società nella quale la partecipazione popolare sia istituzionalizzata a tutti i livelli», finalizzata a combinare «la programmazione democratica con il decentramento dei servizi e l’autogestione delle unità produttive», condannando il comunismo burocratico e dittatoriale di matrice marxistaleninista 10. Al XLI Congresso svoltosi nel marzo 1978 dichiarò che il Psi restava in prima linea nel condurre «la lotta contro il sistema capitalistico» 11 in una fase di «crisi dell’egemonia capitalistica» 12, deplorò «le grandi socialdemocrazie europee» per le loro «tendenze ad esaurire la propria visione del socialismo negli spazi di libertà e nei margini di redistribuzione della ricchezza aperti dall’assetto capitalistico» 13, invitò a sua volta ad agire al fine di introdurre in Italia «elementi di socialismo», propose infine al Pci la ricomposizione della «unità di classe» e «una nuova alleanza riformatrice» basata sull’alleanza tra i due partiti della sinistra e diretta a costruire

un’alternativa di governo alla Dc, superando le «residue discriminazioni ideologiche nei confronti dei lavoratori cattolici» 14. Fece tutto ciò in contrapposizione alla linea del «compromesso storico» e della «terza via» tra il comunismo di tipo sovietico e la via riformistica propria dei partiti socialisti europei, patrocinata dai comunisti italiani. L’«alternativa dei socialisti» avanzata da Craxi venne però respinta dal destinatario al mittente. I risultati elettorali del 1979 affossarono la strategia del compromesso storico proposta dai comunisti e resero del tutto velleitaria l’idea di un’alternativa di sinistra. Da quei risultati la Dc post-morotea e il Psi postdemartiniano e post-lombardiano trassero conclusioni convergenti. I due partiti convennero che era interesse reciproco formare una nuova alleanza di governo, lasciare il Pci fuori dall’area del potere e riattivare la comune ambizione di ridimensionare il suo peso elettorale. I primi due obiettivi furono conseguiti, ma non il terzo. Infatti, il Pci restò sí isolato ma il consenso a esso non venne significativamente scosso, nonostante la crisi attraversata dal partito a causa delle sfavorevoli condizioni maturate nel contesto politico italiano e al sempre piú irreversibile declino dei regimi dell’Est europeo: declino che Berlinguer continuava a negare. Al XV Congresso del Pci del marzo 1979 egli polemizzò infatti con chi parlasse di «fallimento» del pensiero e dell’opera di Lenin 15, assicurò che era pienamente confermata l’«ormai storica incapacità» del sistema capitalistico di assicurare il progresso; sostenne che vi era una «qualitativa differenza» tra le crisi dei Paesi capitalistici che presentavano un carattere organico e quelle parziali e superabili dei Paesi comunisti 16; rassicurò i dubbiosi che il partito non aveva intrapreso «una via opportunistica e di rinuncia di fronte ai compiti rivoluzionari» 17 e che la proposta di un «governo di coalizione democratica» era in sintonia con «le prospettive di avanzata democratica e socialista in Italia» 18. In questa situazione, se il Pci era privo di sponda, il Psi craxiano vide svanire l’illusione di riuscire ad attuare nei confronti del Pci un’operazione analoga a quella condotta da Mitterrand in Francia, ovvero di ridurre fortemente la forza dei comunisti rendendo maggioritario il proprio partito. Da allora in poi il Psi, all’interno di un sistema politico ormai cronicamente malato, sarebbe rimasto ancorato al ruolo di abile sfruttatore, detestato dai comunisti e mal tollerato dai democristiani, della “rendita di posizione” che lo faceva indispensabile alla formazione dei governi. Dal canto suo la Dc,

sempre beneficiaria del maggiore consenso elettorale, si sarebbe difesa dalle eccessive pretese del necessario alleato: via via piú scomodo, sottrattosi al vincolo di subalternità cui lo si sarebbe voluto destinato e in grado persino di imporsi come guida dell’esecutivo. Dopo la liquidazione della linea di Moro, la posizione di Craxi andò consolidandosi nel suo partito e nell’area della sinistra non comunista. Nel sostenere la critica mossa dagli autonomisti del Psi alla tradizione marxistaleninista del Pci, alla «terza via» da esso elaborata, ai regimi comunisti dell’Est furono in prima fila – trovando ospitalità sulle colonne della rivista «Mondoperaio» diretta da Federico Coen – alcuni intellettuali iscritti e non iscritti al partito e fautori della ricomposizione della sinistra sul versante della socialdemocrazia europea, come Norberto Bobbio, Lucio Colletti, Giuliano Amato, Ernesto Galli della Loggia, Luciano Cafagna, Furio Diaz, Giorgio Ruffolo e Massimo L. Salvadori. Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, reagendo all’evidente debolezza delle istituzioni, Craxi avanzò con forza il tema della «grande riforma», proponendo di modificare la Costituzione, rendere piú efficace l’attività del Parlamento e del governo e adeguare gli apparati amministrativi pubblici alle nuove esigenze della società. Il tema era importante, ma non superò lo stadio dell’agitazione. Quanto alla sua vita interna, il Psi divenne un docile strumento delle scelte e delle decisioni del suo leader. Il che provocò le critiche corrosive non solo del Pci che ne denunciò l’involuzione in un “partito personale”, ma anche quelle di non pochi degli intellettuali che pur appoggiavano la posizione di Craxi su terza via e comunismo. I rapporti tra il leader del Psi e il leader del Pci, due personalità dalle caratteristiche opposte, si fecero platealmente tesi. Gli ultimi anni Settanta e i primi Ottanta mostrarono quanto difficili restassero le condizioni del Paese. L’inflazione aveva superato il 20%, la situazione politica era segnata da forti tensioni, il terrorismo persisteva nei suoi attacchi, toccando il culmine nell’agosto 1980 con la già ricordata strage alla stazione di Bologna. Nella continua serie di assassinii spiccarono nel gennaio 1979 quello dell’operaio comunista dell’Italsider Guido Rossa, che aveva denunciato un fiancheggiatore delle BR, in luglio quello dell’avvocato Giulio Ambrosoli, nominato nel 1974 liquidatore della Banca privata italiana di Sindona, per mano di un killer della mafia assoldato da quest’ultimo. Ciò dopo che in marzo il governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi e il vicedirettore Mario Sarcinelli – i quali non avevano ceduto alle pressioni a

favore dello stesso Sindona e avevano portato alla luce gravi irregolarità nella gestione del Banco Ambrosiano del banchiere-faccendiere Roberto Calvi e della Italcasse – erano stati rinviati a giudizio con la falsa accusa di interesse privato in atti d’ufficio e favoreggiamento, da cui sarebbero poi stati completamente scagionati. Pochi giorni dopo Ambrosoli venne ucciso dalla mafia Boris Giuliano, capo della Squadra mobile di Palermo. Nel gennaio 1980 fu la volta, sempre a opera della mafia, del presidente democristiano della Regione Sicilia Piersanti Mattarella – che era in trattative per formare una giunta con il Pci ed era fortemente impegnato nel combattere le forme degenerative della vita pubblica e sociale dell’isola – e in febbraio di Vittorio Bachelet, docente universitario e vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, ucciso all’università di Roma dalle Brigate rosse. Estremamente sanguinose furono poi le lotte intestine che si svolsero nei primi anni Ottanta tra le bande della ’ndrangheta e della mafia, la cui area di azione si estendeva dalla Campania alla Calabria e dalla Puglia alla Sicilia, provocando una vera e propria mattanza, con centinaia di morti. Oggetto primario di queste lotte era la contesa per lo spaccio dell’eroina. Tuttavia il sistema politico e istituzionale reggeva, nonostante l’affanno in cui versava. Terrorismo nero e terrorismo rosso, nonostante i loro ancora lunghi e sanguinosi strascichi, avevano perso la partita politica che avevano vanamente giocato con lo scopo di provocare in Italia una vera e propria guerra civile. Un efficace strumento per combattere le organizzazioni criminali politiche e mafiose fu l’approvazione nel dicembre 1979 di norme che stabilivano l’inasprimento delle pene per i reati di terrorismo e la loro attenuazione per i «pentiti» che accettassero di collaborare con la giustizia.

4. Craxi al governo e il conflitto con il Pci. Corruzione, “questione morale” e nuovo ruolo dei giudici. La scomparsa di Moro e l’arretramento del Pci alle elezioni del 1979 posero, come si è detto, le condizioni per la ripresa dell’accordo politico tra la Dc e il Psi. Mentre era in corso il primo governo guidato da Cossiga, nel febbraio 1980 si svolse il XIV Congresso della Dc, che approvò un secondo «preambolo» (il primo era stato quello del 1970) al documento finale, anche questo presentato da Forlani, in cui si escludeva la possibilità di alleanze con

il Pci. Era il requiem in termini formali del compromesso storico e il via libera alla ripresa di una nuova stagione del Centro-sinistra, caratterizzata da un ruolo inedito del Psi guidato da Craxi. Il secondo governo Cossiga, formato nell’aprile 1980, fu un tripartito Dc-Psi-Pri, in cui i socialisti ebbero ben otto ministeri. La formula di governo, allargata con l’ingresso del Psdi, fu rinnovata dal governo Forlani entrato in carica nell’ottobre di quello stesso anno. Proprio poco prima che Forlani formasse il suo governo, a Torino era scoppiato un aperto conflitto tra la direzione della Fiat e i sindacati sostenuti dal Pci. I rapporti nell’azienda erano già andati deteriorandosi in seguito alla decisione nell’ottobre 1979 dell’amministratore delegato Cesare Romiti di licenziare 61 operai sospettati di violenze e di complicità con i gruppi terroristici. La situazione precipitò nel corso dell’anno seguente. Dopo l’interruzione all’inizio del settembre 1980 delle trattative con l’azienda, che aveva comunicato l’intenzione di licenziare 14 469 lavoratori, i sindacati proclamarono lo sciopero a oltranza e ricorsero a picchetti per impedire ai “crumiri” l’accesso a Mirafiori e al blocco delle merci in transito. Berlinguer, recatosi il 26 di quel mese a Torino, nell’esprimere la propria solidarietà agli operai affermò, lasciandosi trascinare da un incauto radicalismo, che, nel caso in cui essi procedessero all’occupazione della fabbrica, i comunisti sarebbero stati al loro fianco. Il clima si inasprí ulteriormente quando la direzione dell’azienda, che annunciò la Cassa integrazione a zero ore per 23 884 operai, fu accusata dai sindacati di utilizzare la misura in maniera discriminatoria per colpire anzitutto i delegati dei consigli di fabbrica. Si era cosí giunti a un braccio di ferro di cui non si intravvedeva l’esito. A sbloccare la situazione fu un evento senza precedenti, che provocò la pesante sconfitta dei sindacati e del Pci: il 14 ottobre un corteo nelle vie di Torino formato da quadri, impiegati e capi operai della Fiat andò a mano a mano ingrossandosi con la partecipazione di numerosi cittadini, dando luogo a quella che venne definita la «marcia dei quarantamila», la cui parola d’ordine era il ritorno al lavoro. A quel punto non restò ai sindacati che cedere, chiudendo la vertenza, conclusasi con la Cassa integrazione e la dislocazione di operai in soprannumero in altre aziende dell’indotto. Il 27 giugno 1980 il Paese venne profondamente scosso dalla notizia che nei pressi di Ustica un aereo DC9 dell’Itavia era esploso in volo, in circostanze mai chiarite, causando ottantuno morti. Il 23 novembre un

terremoto colpí vaste zone della Campania, in particolare l’Irpinia, e della Basilicata. Il bilancio fu di quasi 3000 morti, di molte migliaia di feriti e di un gran numero di senzatetto. I soccorsi, tardivi e inadeguati, indussero il presidente Pertini, la cui popolarità toccò il picco, a tuonare contro le gravissime inadempienze. La ricostruzione fu accompagnata dal saccheggio senza ritegno del denaro pubblico da parte dei centri della corruzione politica e del crimine organizzato. Il governo Forlani fu travolto dal dilagare degli scandali, uno dei piú gravi riguardava una gigantesca evasione fiscale, favorita dai vertici della Guardia di finanza in cambio di grosse “tangenti”, a beneficio di società petrolifere. Ma la punta dell’iceberg emerse nel maggio 1981 con lo scandalo della P2, una loggia massonica “coperta” avente fini eversivi e autoritari e guidata dal “maestro” Licio Gelli, un ex ufficiale della Repubblica sociale italiana trasferitosi nelle file partigiane, quindi legatosi ai servizi angloamericani e divenuto imprenditore. Alla loggia, le cui finalità Gelli aveva espresso in un «piano di rinascita democratica», risultarono iscritti un gran numero di personalità della politica, degli apparati dello Stato e del giornalismo. In una lista di 953 aderenti sarebbero comparsi tra gli altri i nomi del ministro socialista Enrico Manca, dei ministri democristiani Adolfo Sarti e Franco Foschi, del segretario del Psdi Pietro Longo, dei deputati socialisti Silvano Labriola e Fabrizio Cicchitto, dei finanzieri Michele Sindona e Roberto Calvi, del direttore del «Corriere della Sera» Franco di Bella, di noti imprenditori tra cui Angelo Rizzoli, Bruno Tassan Din, Silvio Berlusconi, di numerosi alti ufficiali delle forze armate e della Guardia di finanza e dirigenti dei Servizi segreti. Il che rivelò come l’attacco alla legalità e alle istituzioni non veniva piú condotto soltanto dai gruppi eversivi di estrema destra e di estrema sinistra e dalle organizzazioni criminali, ma anche da parte di un ramificato e vasto gruppo di esponenti della classe dirigente che, mossi dalla persuasione che le istituzioni fossero in preda a una crisi organica, tramavano in segreto contro il sistema democratico-parlamentare stretti da una solidarietà omertosa di tipo politico-mafioso. Gelli il 22 maggio fuggí all’estero. Il 26 Forlani fu costretto alle dimissioni. Scandali e corruzione indussero il Pci, per bocca del suo segretario Berlinguer, che protestava con fondate ragioni la sua «diversità» dal sistema inquinato, ad agitare la gravissima «questione morale» che affliggeva il Paese. In luglio il segretario comunista dichiarò:

I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le istituzioni, a partire dal governo. [...] Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. [...] La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano 19.

In un simile contesto di attacchi eversivi, di assassinii a catena perpetrati dai gruppi terroristici, di oscure manovre ordite da forze politiche della stessa area di governo e da influenti settori dell’economia contro le istituzioni, di dilagante corruzione pubblica e privata, si assistette a quella che può essere definita una vera e propria inversione del ruolo giocato in passato dalla magistratura e dalla polizia giudiziaria. Queste – con le debite eccezioni – avevano alle spalle una lunga e consolidata tradizione di subalternità nei confronti dei partiti al potere e nel Mezzogiorno di connivenze anche assai gravi con le organizzazioni mafiose e ambienti politici collusi. Partendo dalla Sicilia, coraggiosi magistrati e poliziotti avevano da alcuni anni intrapreso una lotta dura e intransigente contro tali connivenze, pagandone il prezzo con morti e ferimenti. Si aprí cosí un confronto-scontro, destinato a protrarsi nei decenni successivi, tra i tutori della legalità e i nidi della corruzione pubblica e privata e dei relativi intrecci di interesse. A rendere incandescente la situazione su un’altra sponda fu l’attentato compiuto il 13 maggio 1981 dal terrorista turco Mehmet Ali Ağca in Piazza San Pietro, a Roma, contro Giovanni Paolo II che fu gravemente ferito; attentato che alimentò il sospetto che i servizi segreti dell’Est europeo, in particolare bulgari, volessero colpire un papa polacco troppo influente in una Polonia il cui regime versava in aperta crisi. Nel giugno 1981, fatto assolutamente nuovo nella vita della repubblica ed effetto significativo dell’usura profonda subita dalla sua immagine, la Dc fu indotta a cedere la presidenza del Consiglio a un laico, lo storico e leader del Pri Giovanni Spadolini, che rimase al potere, guidando due governi pentapartito, fino al novembre del 1982. Spadolini sviluppò un’azione di

contenimento dell’inflazione e in politica estera diede al Paese una linea di attivo sostegno allo schieramento occidentale, concedendo in agosto agli americani di installare a Comiso, in Sicilia, i missili Cruise, per controbilanciare l’installazione di nuovi missili sovietici, e inviando in ottobre un contingente italiano alla Forza multinazionale di pace in Egitto e l‘anno successivo un altro contingente in Libano. Il 17 dicembre, con un’azione sorprendente, le Brigate rosse rapirono a Verona il generale americano James Lee Dozier, alto esponente della Nato, liberato dalle forze di sicurezza italiane a fine gennaio dell’anno successivo. Un’importante decisione del governo fu nel maggio 1982 l’invio a Palermo, con le funzioni di superprefetto per imprimere nuova energia alla lotta contro la crescente potenza mafiosa, del generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, che si era distinto per la sua energia e devozione allo Stato nella lotta contro i gruppi terroristici, a cui aveva inferto colpi decisivi. Dopo l’uccisione nell’aprile 1982 del deputato e segretario regionale del Pci Pio La Torre, la mafia il 3 settembre assassinò nel centro di Palermo anche il generale, con la moglie e un agente della scorta. Questo assassinio – seguito da uno strascico di polemiche avendo Dalla Chiesa lamentato che il governo non gli avesse attribuito i poteri necessari per eseguire il suo compito – era stato preceduto in giugno da un torbido episodio, quale la morte misteriosa a Londra, ufficialmente per suicidio ma in realtà per assassinio, di Roberto Calvi, ex presidente del Banco Ambrosiano, legato a Sindona e protagonista di una torbida trama di corruzione che coinvolgeva loschi ambienti, partiti e finanza vaticana. Il secondo governo Spadolini ebbe termine nel novembre 1982 in seguito alle tensioni generate all’interno della maggioranza da socialisti e democristiani. Toccò al quinto governo Fanfani, un quadripartito, gestire le elezioni, ancora un volta anticipate, causate dalla decisione di Craxi nell’aprile successivo di far uscire il Psi dalla maggioranza. Durante questo governo emersero nuovi scandali legati alla corruzione politica e alla pratica delle tangenti, che coinvolsero soprattutto esponenti socialisti. Nel marzo 1983 a Torino vennero messi sotto accusa il vicesindaco socialista Enzo Biffi Gentili, assessori, consiglieri comunali socialisti, democristiani e comunisti e un dirigente della Fiat; in giugno toccò all’ex presidente della Regione Liguria Alberto Teardo e ad altri sedici socialisti per associazione di tipo mafioso, corruzione e concussione. Craxi reagí denunciando il proposito della

magistratura politicizzata di colpire in particolare il Psi. Le elezioni del 26 giugno 1983 – giorno funestato dall’assassinio a Torino del procuratore della Repubblica Bruno Caccia – furono anzitutto un successo per il Pri, che beneficiò della buona prova di governo data da Spadolini. I repubblicani salirono al 5,1%, mentre la Dc perse consenso passando dal 38,3 al 32,9. Anche i socialisti guadagnarono voti, salendo dal 9,8 all’11,4. I comunisti ebbero una lieve flessione, con il 29,9. Per la prima volta entrarono in Parlamento esponenti della «Liga veneta», un movimento autonomista e federalista fortemente polemico nei confronti del centralismo istituzionale e accanito critico dei partiti di governo, cui andò un deputato (nell’aprile 1984 sarebbe stata formalmente costituita a Milano la Lega lombarda). Una certa affermazione ottennero con il 2,2% i radicali di Marco Pannella che, con un evidente intento di sfida nei confronti del “sistema”, fece eleggere il docente universitario Toni Negri, uno dei leader di Autonomia operaia mandato a processo per terrorismo. I contenuti cali elettorali della Dc e del Pci e l’avanzata, pur modesta, del Psi crearono le condizioni per un evento senza precedenti nella storia d’Italia: l’ascesa alla guida del governo di un socialista. La Dc si sentiva rassicurata dal fatto di continuare a tenere nelle proprie mani, data la sua forza parlamentare, le chiavi di qualsiasi governo e dalla conflittualità in atto tra il Pci berlingueriano e il Psi craxiano; mentre quest’ultimo esultava per un esito elettorale che invertiva il trend a esso sfavorevole e vedeva la maggioranza interna esaltare il leader che aveva sottratto i socialisti alla subalternità ai due partiti maggiori. Avvertendo che la situazione andava maturando in senso positivo, al XLII Congresso del Psi svoltosi a Palermo nell’aprile 1981 Craxi aveva presentato il proprio partito come il soggetto che, superato il vecchio spirito classista, era pronto a guidare l’Italia, interpretando gli interessi sia dei lavoratori sia degli strati medi emergenti e della borghesia aperta alla collaborazione con i fautori del progresso. Un anno dopo, alla Conferenza programmatica del partito posta sotto lo slogan «governare il cambiamento», il suo delfino Claudio Martelli invocò «l’alleanza tra il merito e il bisogno», vale a dire tra i ceti produttivi e le masse lavoratrici. A tirare il bilancio delle elezioni del giugno 1983 fu il presidente Pertini, affidando l’incarico di formare il governo a Craxi, che sarebbe restato alla guida di due successivi governi pentapartito – Dc-Psi-Psdi-Pri-Pli – tra l’agosto 1983 e il marzo 1987. La novità stava nella riproposizione della

formula di centro-sinistra con l’inclusione del Pli. La formazione del governo costituiva la palese dimostrazione di quale peso determinante potesse avere l’uso spregiudicato della “rendita di posizione” nelle mani di un partito minore deciso a farla valere nel quadro di squilibrati rapporti di consenso. Poco dopo avere assunto la presidenza del Consiglio, in autunno Craxi – consapevole della crisi in cui andava sempre piú avvitandosi il sistema dei partiti, del logoramento delle istituzioni e della scarsa capacità decisionale e operativa dei governi e intenzionato ad aprire un corso riformistico di indirizzo socialdemocratico (aveva ormai lasciato alle spalle il socialismo autogestionario) che portasse la sua impronta e fosse tale da mettere al centro del sistema il proprio partito – rilanciò il progetto della «grande riforma». Era necessario – affermò riprendendo la formula che Deng Xiaoping aveva lanciato alcuni anni prima in Cina – procedere con urgenza a «quattro grandi modernizzazioni»: dello Stato, delle strutture produttive, del sistema sociale e della ricerca scientifica. Il che implicava necessariamente mettere mano alla revisione della Costituzione. Sennonché gli anni del suo governo sarebbero trascorsi senza che tale programma approdasse a risultati concreti. Una commissione bicamerale per la revisione della Costituzione presieduta dal liberale Aldo Buozzi – che svolse i suoi lavori tra il novembre 1983 e il gennaio 1985 – terminò in un nulla di fatto per la mancanza di accordo tra i partiti. Lanciata con enfasi la questione, Craxi ne fece un uso soprattutto tattico, agitatorio, obbedendo agli interessi stretti e immediati di partito, dovendo infine prendere atto che, pur avendo il timone del governo, non aveva dietro di sé una maggioranza parlamentare disposta a seguirlo. Cozzò contro un duplice muro: la diffidenza della Dc e la netta ostilità del Pci, che considerava il Psi, coinvolto nella corruzione politica e nella pratica delle tangenti e soggetto alla leadership di un capo-padrone, ormai in preda a un processo di vera e propria degenerazione politica e morale e animato da un disegno di democrazia plebiscitaria. Salito al potere in una situazione economica inizialmente sfavorevole, il governo poté in seguito godere degli effetti di una sensibile ripresa nel quadro di una positiva congiuntura internazionale, conseguendo notevoli successi nella lotta contro l’inflazione e nello sforzo per contenere, anche a prezzo di aspri scontri con i sindacati e i comunisti, l’alto costo del lavoro. Intanto i rapporti tra il Psi e il Pci andavano facendosi sempre piú tesi. Nel maggio 1984 al XLIII Congresso del Psi svoltosi a Verona Berlinguer venne

fischiato e Craxi – fatto senza precedenti nella vita dei partiti – confermato segretario per acclamazione, attestando in tal modo la deriva personalistica della sua leadership. Questa deriva, unitamente al discredito che veniva dalle pratiche corruttive in cui era tanto implicato, allontanò sempre piú dal Psi i numerosi intellettuali, come in primo luogo Norberto Bobbio, che avevano assunto posizioni critiche verso la strategia berlingueriana della terza via e l’irrisolto filosovietismo del Pci e caldeggiato la ricomposizione della sinistra intorno ai principî della socialdemocrazia europea. Se la linea di Craxi della “grande riforma” non oltrepassava la soglia dell’agitazione propagandistica, la strategia di Berlinguer restava a sua volta come congelata. Il leader comunista aveva bensí accentuato la linea di autonomia del Pci dai regimi dell’Est – andando incontro alla reprimenda dei leader sovietici, che lo accusarono di rompere la solidarietà internazionalistica con i partiti comunisti e i Paesi del socialismo – ma non riusciva, dato il conflitto in atto con il Psi, a far uscire dall’astrattezza la sua parola d’ordine secondo cui occorreva costruire una «alternativa democratica» fondata sulla convergenza di comunisti, socialisti e cattolici progressisti. Nel 1981, reagendo all’ascesa al potere del generale Jaruzelski nella Polonia minacciata di invasione da parte delle truppe sovietiche, Berlinguer aveva affermato che «la capacità propulsiva di rinnovamento delle società (o almeno di alcune società) che si sono create nell’Est europeo è venuta esaurendosi» 20, ma al tempo stesso nel 1983 ribadí – cosí da mantenere sempre viva l’avversione degli anticomunisti di varia corrente – la validità della terza via come mezzo del «superamento del capitalismo» e della «trasformazione generale della società» 21. La sua insistenza, del tutto motivata, sulla gravità della questione morale che affliggeva l’Italia e la sua esortazione agli italiani a adottare, per combattere i mali di un consumismo indiscriminato e distorcente, uno stile di vita improntato all’«austerità», in quanto ancorate a una proposta di alternativa democratica priva di attendibilità, assumevano il sapore di un prospettiva piú moralistica che politica in un Paese in cui le pratiche corruttive – rispetto alle quali Berlinguer rivendicava la «diversità» dei comunisti – dilagavano e pervadevano non solo i partiti al governo, ma – nella forma di benefici derivanti dal clientelismo, dall’assistenzialismo parassitario, dall’evasione fiscale ecc. – anche una notevole parte della popolazione. L’invito rivolto dal segretario comunista all’austerità non trovò molte orecchie disposte ad

accoglierlo in una società che aveva mutato volto e assunto valori ben diversi rispetto a quelli del passato. Nel 1983 i ceti medi urbani costituivano il 46,4% della forza lavorativa e la classe operaia era scesa al 42,7. Non erano solo le classi alte, ma anche i ceti medi in espansione e gli operai – che avevano ormai poco o nulla a che fare con quelli che, pur nella lotta al capitalismo, avevano ispirato un tempo la loro attività all’«etica del lavoro» – a considerare quale scopo essenziale quello di aumentare la propria capacità di consumo. Colpito a Padova il 7 giugno 1984 da emorragia cerebrale durante un comizio, Berlinguer morí quattro giorni dopo; ai suoi funerali a Roma partecipò una folla immensa. Era stato un uomo di grande fascino personale, un politico probo e devoto agli interessi delle masse lavoratrici, ma al tempo stesso il leader di un partito ormai in preda a una crisi che, correndo in parallelo con quella epocale dell’intero mondo comunista, investiva ideali, cultura politica, strategia. Sia di questa crisi sia dei cambiamenti in corso nella società e nell’economia italiane non seppe comprendere le dinamiche. Colse invece con acutezza e un alto senso civile gli aspetti degenerativi della politica che inquinavano la vita del Paese, ai quali però non fu in grado di opporre risposte adeguate ed efficaci. Pochi giorni dopo, il 17 giugno, si svolsero le elezioni europee che, sull’onda della grande commozione non solo dei comunisti ma anche di tanti che avevano apprezzato la sua battaglia per fare della «questione morale» una grande questione politica, portarono il Pci al primo posto con il 33,3%, mentre la Dc ottenne il 32,96 e il Psi un deludente 11,2. Ma si trattava di un “tesoro” che i successori di Berlinguer non avrebbero saputo come spendere. I socialisti ebbero la loro rivincita nei confronti dei comunisti un anno dopo, quando nel giugno 1985 un referendum avente per oggetto l’abrogazione o meno del decreto legge che aveva sancito la riduzione di tre dei dodici punti di scala mobile decretò con il 54,3% a favore il successo della linea del governo; al che seguí immediatamente la disdetta da parte della Confindustria dell’accordo sulla scala mobile. Craxi si sforzò costantemente di apparire un capo di governo che non rifuggiva dall’assunzione di difficili responsabilità, atteggiamento per il quale venne coniato il termine «decisionismo craxiano». Questa immagine si consolidò, nel campo della politica estera, prima nell’ottobre 1983 allorché il governo si associò alla condanna internazionale per l’invasione di Grenada da

parte statunitense, e successivamente in relazione alla situazione molto delicata creata nell’ottobre 1985 dal dirottamento della nave Achille Lauro a opera di alcuni palestinesi, che uccisero un ebreo americano. Di fronte all’aperto contrasto venuto a crearsi tra il governo italiano – che prima aveva cercato e ottenuto la mediazione del leader palestinese Yāsser ’Arafāt per la soluzione del caso e poi impedito la consegna agli americani dei palestinesi coinvolti quando l’aereo egiziano che li trasportava era stato costretto da caccia statunitensi ad atterrare a Sigonella, in Sicilia – e l’amministrazione Reagan, l’opinione pubblica italiana osservò con stupore e larga approvazione l’insolito atteggiamento di fermezza nei confronti degli Stati Uniti. In quel caso il Pci plaudí senza riserve all’operato di Craxi. A non gradire invece fu il Pri, che uscí dal governo. In novembre Craxi espresse solidarietà all’Olp e alla sua lotta armata per la liberazione dei territori occupati dagli israeliani nella guerra del 1967. Il 27 dicembre un attacco di terroristi palestinesi a Fiumicino ai banchi della compagnia aerea americana Twa e dell’israeliana El Al provocò la morte di tredici persone e una settantina di feriti e accese vive polemiche tra le forze politiche circa l’atteggiamento da tenere verso la causa dei palestinesi. L’apertura del governo nei confronti del mondo arabo ebbe un’altra conferma nell’aprile 1986, con la deplorazione da parte di Craxi del bombardamento di Tripoli e Bengasi effettuato dall’aviazione statunitense. Il che non lo esentò dal rivolgere il 15 dello stesso mese un energico ammonimento alla Libia che aveva inviato due missili contro l’isola di Lampedusa, dove era installata una stazione radio americana. In politica interna, un’importante iniziativa del governo fu la firma, il 18 febbraio 1984, da parte di Craxi e del cardinale Agostino Casaroli, di un nuovo Concordato con la Chiesa cattolica, che sostituí quello stabilito fra il Vaticano e lo Stato fascista nel 1929. Esso segnava la cancellazione dei tratti che, in seguito all’introduzione dell’articolo 7 nella Costituzione, avevano dato allo Stato un volto confessionale, in quanto la religione cattolica non veniva piú riconosciuta come religione di Stato; ma perpetuava una serie di privilegi per la Chiesa, quale il fatto che l’insegnamento della religione nelle scuole continuasse a essere riservato alla sola confessione cattolica, lasciando però agli studenti la facoltà di avvalersene o meno. Alla Chiesa veniva poi concessa la possibilità di accedere a cospicui finanziamenti da parte dello Stato, pur ancorati all’apporto volontario dei contribuenti in ragione dell’otto

per mille del reddito dichiarato. Cessarono gli stipendi statali ai parroci, sostituiti da donazioni dei fedeli fiscalmente deducibili. Le proprietà della Chiesa vennero riconosciute tassabili; le banche del Vaticano sottoposte alla legislazione dello Stato italiano. Fu inoltre rivista la disciplina delle intese con le confessioni religiose ebraica e protestanti. In ottobre – prendendo una decisione destinata ad avere conseguenze di grande portata sulla politica e sulla società italiane – il governo presentò un decreto che mirava in via di principio a liberalizzare le emittenze televisive ponendo fine al monopolio della Rai, ma in concreto a consentire all’imprenditore milanese Silvio Berlusconi, assai vicino a Craxi, di utilizzare le reti Fininvest di sua proprietà su scala nazionale. Per questo si parlò di «decreto Berlusconi». Il 28 novembre la Camera lo respinse a stretta maggioranza, ma un «Berlusconi-bis» fu approvato in via definitiva dal Senato il 4 febbraio 1985. Le opposizioni levarono forti proteste temendo che le televisioni del plutocrate milanese diventassero un veicolo di propaganda al servizio dei suoi interessi personali e di quelli dell’esecutivo amico. Il 26 giugno 1986 il governo non ottenne la fiducia su un decreto riguardante la finanza locale; sicché Craxi si dimise, ma ricevette il reincarico dal presidente Francesco Cossiga, che nel giugno 1985, succedendo a Pertini, era stato eletto presidente della Repubblica a larghissima maggioranza, con il voto anche del Pci; e diede vita in agosto al suo secondo governo, un nuovo pentapartito. La crisi del secondo governo Craxi, avvenuta nel marzo 1987, si intrecciò con un’accesa polemica tra il Psi e la Dc circa le implicazioni del cosiddetto «patto della staffetta», secondo il quale, in base a un impegno assunto dal leader socialista all’atto del suo reincarico, avrebbe ceduto la guida del governo a un democristiano prima dello scadere della legislatura. Emerse nettamente la crescente insoddisfazione della Dc verso il Psi, considerato usurpatore del diritto di primogenitura politica. Quando Craxi fece capire di non essere disposto a cedere, esplose il conflitto con il segretario della Dc Ciriaco De Mita, che si concluse con la caduta del governo. Cossiga, fallito un tentativo di Andreotti, dopo avere affidato secondo una prassi inedita alla comunista Nilde Iotti presidente della Camera l’incarico di esplorare la possibilità di formare il governo e la rinuncia del democristiano Oscar Luigi Scalfaro, assegnò l’incarico a Fanfani. Questi formò in aprile il suo sesto governo, un monocolore democristiano con numerosi tecnici, ma, essendogli

stata negata la fiducia, non ebbe altra scelta che portare il Paese in giugno alle elezioni anticipate. La Dc ottenne il 34,3% (nel 1983 aveva avuto il 32,9). Il Psi riportò un notevole successo – ripetendo a favore di Craxi, che a fine marzo era stato rieletto segretario con il 93,25% dei voti, l’«effetto» che Spadolini aveva prodotto per il Pri –, con un incremento dall’11,4 al 14,3. Il Pci perse il 3,3, passando dal 29,9 al 26,6. Queste elezioni furono altresí significative per le perdite subite da liberali, repubblicani e socialdemocratici e per l’ingresso in Parlamento delle forze «verdi» ecologiste, che ottennero il 2,5. La Lega lombarda ebbe solo un seggio con lo 0,5. I radicali, cui andò il 2,6, rinnovarono la scelta provocatoria che li aveva indotti nel 1983 a far eleggere Negri, portando questa volta alla Camera la pornostar Ilona Staller, in arte Cicciolina. Un’eredità negativa che il governo Craxi lasciava ai suoi successori era l’ulteriore forte aumento del debito pubblico: salito in rapporto al Pil tra il 1982 e il 1988 dal 65 al 92,7%. Intanto la corruzione nelle sue varie forme continuava a scuotere il Paese. Nel settembre 1986 venne alla luce un vasto giro di false prescrizioni mediche che procurarono danni per molti miliardi al Servizio sanitario nazionale, le cui sedi, specie nel Mezzogiorno, divennero riserve di caccia per assunzioni clientelari e dimostrazione di mala amministrazione; in novembre dovette dimettersi da sindaco di Milano il socialista Carlo Tognoli accusato di malaffare in relazione al piano edilizio del comune; nel febbraio 1987 fu colpito da mandato di cattura per bancarotta fraudolenta il faccendiere vaticano, già in affari con Roberto Calvi, Paul Marcinkus, presidente dell’Istituto per le opere di religione; in giugno venne arrestato Rocco Trane, legato all’ex ministro socialista Claudio Signorile, per tangenti nel settore delle ferrovie; nel febbraio 1988 l’ex ministro dei Lavori pubblici Franco Nicolazzi si dimise da segretario del Psdi in seguito allo scandalo delle «carceri d’oro», che coinvolse anche alcuni ex ministri democristiani. La «questione morale» stava letteralmente esplodendo, mostrando a quale punto il sistema della corruzione avesse inquinato le sfere del potere politico e dell’economia e conferendo ulteriore prestigio ai magistrati impegnati nel combattere contemporaneamente corrotti e terroristi.

5. ”Tangentopoli” e la crisi di sistema.

Un governo pentapartito presieduto dal democristiano Giovanni Goria dal luglio 1987 al marzo 1988 si rivelò inconcludente. Goria si dimise per l’opposizione del Psi a che si mantenesse in attività la centrale nucleare di Montaldo di Castro, dopo lo scoppio nel 1986 della centrale nucleare di Černobyl´, in Ucraina, che aveva causato una catastrofe ambientale con ripercussioni anche nell’Europa occidentale. Un governo pentapartito presieduto dal segretario della Dc, Ciriaco De Mita, entrato in carica nell’aprile 1988 e durato fino al maggio 1989, non riuscí né a dare alle varie correnti della Dc una linea unitaria né a ridurre la conflittualità con il Psi, e neppure ad avviare le riforme istituzionali, pressoché universalmente auspicate, volte a rendere piú stabile il sistema politico. Ad agitare questo tema continuò a essere anzitutto Craxi, che avanzò la proposta di una riforma delle istituzioni in senso presidenzialista, incontrando la ferma opposizione non solo del Pci ma anche della Dc e degli altri partiti dell’area di governo, tutti convinti che, mediante l’elezione diretta da parte dei cittadini del Capo dello Stato e del capo del potere esecutivo, egli volesse trovare lo strumento per piegare il potere legislativo e acquisire su base plebiscitaria quel consenso che il Psi non era in grado di raggiungere in un sistema fondato sul primato dei partiti e del Parlamento. Nel maggio 1989 al XLV Congresso del Psi i toni polemici del leader socialista nei confronti della Dc e in particolare di De Mita furono molto accesi, con la conseguenza di indurre quest’ultimo a rassegnare le dimissioni. L’inconcludenza del governo e la conflittualità tra Psi e Dc contribuirono a spiegare perché alle elezioni per il Parlamento europeo di giugno il Pci, nonostante l’assenza di una strategia realistica di quel partito e gli effetti negativi della crisi in atto nei Paesi comunisti, riuscí a ottenere un imprevisto 27,58%, di fronte al 32,90 della Dc e al 14,80 del Psi. In luglio a De Mita subentrò Andreotti, che formò il suo sesto ministero, un pentapartito. Il nuovo governo poggiava sull’alleanza fra Craxi e Forlani, entrambi in contrasto con De Mita, leader della sinistra Dc, che nel 1988 era stato coinvolto in un scandalo, con l’accusa, da cui sarebbe poi stato prosciolto, di aver fatto un uso clientelare dei fondi erogati dallo Stato dopo il terremoto nell’Irpinia del 1980. Nel settembre 1989 esplose la vicenda dei finanziamenti illegali concessi all’Iraq dalla filiale statunitense di Atlanta della Banca Nazionale del Lavoro, presieduta dal socialista Nerio Nesi, per l’acquisto di armi.

Sebbene i governi si succedessero l’uno all’altro, alcune riforme vennero varate. Tra queste, rilevante fu l’introduzione nell’ottobre 1989 di un nuovo Codice di procedura penale, che, seguendo l’ispirazione anglo-sassone, stabilí la presunzione di innocenza dell’accusato fino alla conclusione del processo, introdusse il controinterrogatorio e la possibilità di ricorrere al rito abbreviato e al patteggiamento tra le parti in causa. Sennonché, secondo una pratica abituale, la riforma venne introdotta senza una sufficiente preparazione degli uffici giudiziari, creando rilevanti difficoltà nella sua applicazione. Nel corso del 1989 la vita politica italiana fu segnata da due eventi importanti: la costituzione formale il 4 dicembre della Lega Nord, nata dall’unificazione di sei movimenti e il cui leader incontrastato era Umberto Bossi, avente quale fine primario l’indipendenza della Padania; e il dibattito apertosi all’interno del Pci, coinvolto nel crollo del comunismo internazionale e alla ricerca di un nuovo ruolo e di una nuova identità. In novembre, il segretario Achille Occhetto, succeduto nel giugno dell’anno precedente al dimissionario Alessandro Natta, nello scompiglio provocato dalla caduta del muro di Berlino lanciò un progetto, approvato a grande maggioranza dal Comitato centrale, di rifondazione del partito, sottolineando altresí l’opportunità di cambiarne il nome. Si trattava di un passo difficile, che incontrava non pochi ostacoli in un partito come il Pci il cui legame con il mondo comunista già in parte crollato e che continuava a crollare era stato molto forte, al di là dell’autonomia che lo aveva contraddistinto a partire dall’invasione sovietica della Cecoslovacchia nel 1968. Assai significativo della tenacia di tale legame e delle illusioni da esso alimentate il fatto che ancora nel 1986 il maggior numero dei delegati al XVII Congresso del partito avesse espresso la convinzione che l’Unione Sovietica fosse il Paese del mondo nel quale meglio che in ogni altro era stato realizzato l’ideale della giustizia sociale e che solo pochi ritenessero che in Svezia la socialdemocrazia avesse raggiunto traguardi piú alti. Intanto in Italia andava imponendosi un problema assai rilevante, vale a dire la questione delle scelte legislative da operare nei confronti della crescente immigrazione extracomunitaria, in molta parte clandestina e proveniente soprattutto dall’Albania e dall’Africa. Nel febbraio 1990 si creò all’interno del governo una netta spaccatura. Mentre il Psi sosteneva l’opportunità di misure di condono verso i clandestini, nel quadro di una legislazione diretta a regolamentare l’afflusso secondo quote annuali, e di

varare una politica della casa a favore degli immigrati, il Pri protestò per quello che riteneva un atteggiamento troppo lassista e tale da provocare nel Paese conflitti razziali. Una legge patrocinata dal vicepresidente del Consiglio, il socialista Claudio Martelli, poi approvata con il voto contrario del Pri e del Msi, rappresentò un inizio di regolarizzazione del fenomeno immigratorio. Altre leggi significative varate in giugno furono quella – combattuta aspramente dai comunisti e dai radicali – che definí un reato anche solo il possesso di droga, modificando la legislazione precedente che consentiva il consumo in quantità modiche per uso privato; e quella che disciplinava lo sciopero nei servizi pubblici. Ad aggravare i sintomi della crisi politica che andava profilandosi nel Paese fu il comportamento del Capo dello Stato. Nel giugno 1990 esplose uno scontro aperto fra Cossiga e il Consiglio superiore della magistratura, con reciproche accuse di travalicamento dei rispettivi poteri. L’inquietudine della politica italiana, cosí incapace di introdurre le necessarie riforme in tempi adeguati, con sufficiente chiarezza e con i mezzi necessari trovò un’ulteriore espressione nei contrasti intorno alla riforma della legislazione attinente alla disciplina delle concentrazioni editoriali e delle emittenze televisive pubblica e privata. In agosto fu approvata la legge proposta dal repubblicano Oscar Mammì, che, diretta nelle intenzioni a tutelare il pluralismo dell’informazione televisiva, venne utilizzata dai maggiori partiti per lottizzare le reti televisive pubbliche e da Berlusconi, fortemente appoggiato dal Psi, per assumere infine un controllo di fatto monopolistico della televisione privata. Per esprimere il proprio dissenso sulla legge, il 26 luglio 5 ministri della sinistra democristiana si erano dimessi. Quanto alle riforme istituzionali, i progetti si moltiplicarono senza risultati. Le elezioni regionali del maggio 1990 diedero ai due maggiori partiti di governo l’impressione che, al di là di tutto, il loro consenso elettorale restasse solido. Infatti, il voto assegnò complessivamente il 33,4% alla Dc, il 15,3 al Psi, il 24,0 al Pci. Rispetto ai precedenti dati delle elezioni regionali del 1985, la Dc ebbe il calo abbastanza modesto dell’1,6, il Psi un incremento del 2,0, il Pci una perdita del 5,8. Quest’ultima costituí un dato rilevante. Ma quello piú significativo fu il risultato conseguito dalla Lega con il 4,8% su scala nazionale e il 18,9 in Lombardia, diventando la quarta forza politica del Paese: segno inequivocabile della protesta che saliva dalla regione piú ricca d’Italia e dal punto di vista economico maggiormente integrata nell’Europa

avanzata contro il centralismo statalistico, accusato di essere la fonte di un insopportabile burocratismo, e la politica di tutti gli altri partiti, tanto al governo quanto all’opposizione. La Lega fece della lotta alla disordinata immigrazione extracomunitaria e al drenaggio di risorse dal Nord al Sud il suo Leitmotiv accusatorio, alimentando una martellante propaganda, condotta con toni apertamente populistici contro la corruzione politica avente il suo centro di irradiazione in «Roma ladrona». La Lega contrapponeva cosí la «questione settentrionale» alla «questione meridionale». I leghisti, il cui ideologo piú influente era il giurista e politologo Gianfranco Miglio, innalzarono il vessillo del «nordismo» separatista in nome della «liberazione della Padania» e della difesa, venata di razzismo, della «identità celtica» delle superiori popolazioni settentrionali con una netta ostilità non solo verso gli immigrati extracomunitari ma anche verso la popolazione del Sud d’Italia. Un altro sviluppo quanto mai rilevante del panorama politico in trasformazione fu la fine del Pci. Questo – dopo che al XIX Congresso di Bologna del marzo 1990 la maggioranza aveva approvato la linea del segretario Occhetto intesa a costituire un nuovo partito collegato all’Internazionale socialista – al XX Congresso di Rimini del gennaiofebbraio 1991 si sciolse formando il Partito democratico della sinistra (Pds). A tale decisione si oppose una minoranza guidata da Pietro Ingrao, Armando Cossutta e Sergio Garavini; una parte della quale diede vita al Partito della rifondazione comunista (Prc). Sennonché la stessa maggioranza era divisa nel valutare l’eredità lasciata dal vecchio partito e le prospettive del nuovo. A destra vi era l’ala dei riformisti, soprannominati «miglioristi», guidata da Giorgio Napolitano, affiancato da Gherardo Chiaromonte ed Emanuele Macaluso, che mirava a collocare senza ambiguità il Pds nell’alveo della socialdemocrazia europea; al centro stavano coloro che – in qualche modo aggiornando la terza via di Berlinguer – intendevano andare contemporaneamente oltre il comunismo e la socialdemocrazia, giudicata a sua volta in crisi; a sinistra quanti, tra i quali Giovanni Berlinguer, fratello di Enrico, contrari alla scissione, formarono la corrente del «comunismo democratico». La guerra del Golfo, alla quale l’Italia diede una ridotta partecipazione militare, provocò all’inizio del 1991 la netta opposizione di un variegato schieramento «pacifista», il cui nucleo piú consistente fu formato dalle opposizioni di sinistra e da alcuni ambienti del mondo cattolico. Ma era

ormai l’intero quadro politico a essere frammentato e instabile, indicando chiaramente che si era imboccata la strada della crisi di sistema. Nell’ottobre 1990 Andreotti aveva fatto pervenire alla Commissione parlamentare incaricata di indagare sulle stragi un dossier dal quale risultava l’esistenza, fino ad allora rimasta coperta, della struttura militare clandestina denominata «Gladio» – ovvero della rete Stay Behind – che, organizzata in ambito Nato e sostenuta dagli americani, era rimasta operativa nel periodo della guerra fredda con lo scopo di fronteggiare un’eventuale invasione dall’Est e di mettere in atto un’azione eversiva nel caso dell’andata al governo del Pci. La polemica andò ingrossando, con Andreotti che difendeva la legittimità della Gladio. Nel 1991, dopo che le indagini sul caso lo avevano coinvolto in prima persona, il presidente Cossiga definí patrioti tanto i membri della Gladio quanto quelli della P2 e attaccò con violenza i magistrati e gli intellettuali che si erano opposti all’intervento dell’Italia nella guerra del Golfo. Inoltre, egli intervenne direttamente e pesantemente nel dibattito politico, come nessun Capo dello Stato aveva mai fatto, sull’ormai cronico e irrisolto problema delle riforme istituzionali: si espresse a favore di una «Seconda Repubblica», di tipo presidenziale, ricevendo il pieno appoggio di socialisti, missini, liberali e leghisti. Nel corso di ripetute «esternazioni» dai toni imperativi, andò assumendo il ruolo anomalo di leader di una sorta di “partito cossighiano” trasversale, alimentando ricorrenti conflitti fra presidenza della Repubblica, membri del governo, Consiglio superiore della magistratura e la stessa Dc, contraria, a partire da Andreotti, al presidenzialismo. Il crescente discredito dei partiti tradizionali accrebbe il consenso dato alla Lega lombarda, che a novembre alle elezioni amministrative di Brescia diventò il primo partito con il 24,4%. Dimessosi nel marzo 1991 per contrasti con il presidente della Repubblica, Andreotti formò in aprile il suo settimo governo, con il passaggio però pochi giorni dopo del Pri all’opposizione per la contrarietà del Psi all’attribuzione del ministero delle Poste e delle comunicazioni allo storico Giuseppe Galasso, considerato ostile al gruppo televisivo di proprietà di Berlusconi. Se era riuscito a far varare leggi sulla liberalizzazione del movimento dei capitali e sull’immigrazione, la riforma della scuola elementare, la legge sulla disciplina dello sciopero nei servizi pubblici e sull’uso degli stupefacenti, la legge sulle pari opportunità tra uomini e donne, Andreotti ottenne scarsi risultati sul terreno del debito pubblico (che avrebbe

superato il 105% del Pil nel 1992) e della lotta alla criminalità organizzata (nonostante misure come lo scioglimento di consigli comunali inquinati dalla mafia e altre sulla detenzione dei capi mafiosi). Il governo e il Parlamento erano di fatto paralizzati di fronte alla questione delle riforme istituzionali. Un debole impulso a procedere su questa strada venne dalla schiacciante vittoria (95,6% dei votanti) ottenuta al referendum tenutosi in giugno e promosso da uno schieramento che andava dal democristiano Mario Segni al Pds (ai quali si opponevano il Psi, la Lega e la maggioranza della Dc) per l’introduzione della preferenza unica nelle elezioni politiche, intesa a combattere i patti correntizi e il voto di scambio. Una situazione di emergenza venne creata dalla incessante ondata di immigrazione dall’Albania, che in agosto raggiunse il culmine in Puglia, allorché sbarcarono d’un colpo molte migliaia di persone, poi costrette a rimpatriare anche con l’uso della forza. Per sostenere la catastrofica situazione economica in Albania ed evitare il ripetersi di eventi analoghi, l’Italia si impegnò, con la Cee, in un piano di aiuti economici. Il clima politico era ormai segnato dalla crisi fattasi irrimediabile dei partiti tradizionali e dal conflitto tra il presidente Cossiga – che nel novembre 1991 minacciò di usare le forze dell’ordine contro il Consiglio superiore della magistratura – e non solo il Pds ma anche influenti settori della stessa Dc. Si arrivò infine allo scontro aperto tra i poteri dello Stato, quando il 3 dicembre la magistratura entrò in sciopero per protestare contro le minacce alla sua indipendenza provenienti dal presidente della Repubblica e dal ministro di Grazia e giustizia, il socialista Martelli. Il 6 dicembre il Pds e altre forze di opposizione chiesero la messa in stato di accusa, rimasta senza esito, per attentato alla Costituzione di Cossiga, a sostegno del quale il Msi-Dn indisse manifestazioni in tutta Italia. Mentre i partiti venivano investiti dall’esplodere per iniziativa della magistratura, a partire da Milano, di quella che venne definita «Tangentopoli», vale a dire del sistema di «tangenti» finalizzato non solo a finanziare illegalmente i partiti ma anche ad arricchire singoli individui, caddero le elezioni politiche del 5-6 aprile 1992. In gennaio Cossiga, che aveva dichiarato di voler lasciare la Dc, aveva sciolto anticipatamente le Camere. Craxi nel frattempo aveva visto fallire la sua strategia nei confronti del Pci. Nell’ottobre 1990 aveva lanciato la linea da lui definita dell’«Unità

socialista» diretta a ricomporre la scissione del 1921 su una base socialdemocratica, legandola alla pretesa che il Pci confluisse né piú né meno che nel Psi: pretesa naturalmente respinta dai comunisti. Avvenuto lo scioglimento del Pci, Craxi si convinse che il Pds nascesse come soggetto debole, tanto piú dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, e che fosse giunto il momento, lungamente atteso, di un sostanzioso incremento elettorale dei socialisti, tale da consentire al Psi di diventare il primo partito della sinistra. Il che non ebbe altro effetto se non di accentuare la conflittualità con il Pds. Al tempo stesso, contando su un cambiamento dei rapporti di forza anche con la Dc, ribadí il proposito di perpetuare l’intesa Craxi-Andreotti-Forlani (Caf) come presupposto del suo ritorno alla guida del governo. Ma l’esito elettorale sancí il fallimento anche di questa strategia, poiché la Dc, pur scendendo dal 34,3% al 29,7, mantenne una posizione solida; il Pds perse bensí 10 punti rispetto al Pci, ma rimase il piú forte partito della sinistra con il 16,1; mentre il Psi ebbe un leggero calo con il 13,6 rispetto al 14,3 precedente. Un certo successo ottenne Rifondazione comunista con il 5,6; e fece la sua apparizione la Rete, un movimento creato dall’ex sindaco democristiano di Palermo Leoluca Orlando, con l’1,9. Ma il risultato piú clamoroso fu quello conseguito dalla Lega, che si collocò al secondo posto in Piemonte, Lombardia e Veneto e incassò l’8,6% a livello nazionale. Craxi pagò cosí il prezzo per il modo in cui aveva gestito il rapporto politico-ideologico prima con l’ultimo Pci e poi con il Pds, ai quali aveva offerto unicamente una resa senza condizioni. Il 25 aprile 1992 Cossiga annunciò le proprie dimissioni, rese effettive il 28. Dalle elezioni uscí una situazione politica che indeboliva notevolmente l’alleanza di governo basata sull’asse Dc-Psi, ma non ne rendeva possibile un’altra. Craxi e Forlani si candidarono il primo alla presidenza del Consiglio e il secondo alla presidenza della Repubblica. Ma la loro linea entrò in crisi quando il 25 maggio il Parlamento elesse presidente della Repubblica, con il concorso del Pds, il democristiano Oscar Luigi Scalfaro, già deciso avversario di Cossiga; e andò incontro allo scacco dopo che la candidatura di Craxi alla guida del governo risultò impraticabile. Ciò nondimeno, su proposta di quest’ultimo, l’incarico venne dato al socialista Giuliano Amato, strettamente legato al leader del Psi, il cui governo, un quadripartito Dc-PsiPsdi-Pli, entrò in carica a fine giugno. In occasione del dibattito alla Camera sulla fiducia al governo, Craxi, pesantemente investito insieme al suo partito

da Tangentopoli, il 3 luglio pronunciò un discorso sulla corruzione e sulle responsabilità dei partiti. Disse: quella presente «non è una semplice crisi politica [...]. Essa è in realtà la profonda crisi di un intero sistema»; ma (con evidente allusione in primo luogo alla Lega) denunciò i propositi di quanti cercavano di sfruttare le debolezze dei partiti «che hanno costituito l’impianto e l’architrave della nostra struttura democratica» avanzando «progetti che contengono il germe demagogico e violento di inconfondibile natura antidemocratica». «C’è – ammise – un problema di moralizzazione nella vita pubblica che deve essere affrontato con rigore, senza infingimenti, ipocrisie, ingiustizie, processi sommari e grida spagnolesche». Quindi passò a esaminare il cuore della questione venuta «alla ribalta, in modo devastante» ovvero «il problema di finanziamento dei partiti, o meglio del finanziamento del sistema politico nel suo complesso, delle sue degenerazioni, degli abusi che si compiono in suo nome», di «una rete di corruttele grandi e piccole» che aveva pervaso il Paese, le istituzioni e le pubbliche amministrazioni. Delineò un quadro nel quale «buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale», proveniente da fonti non solo interne ma anche esterne, sottolineando che una componente importante era costituita dalla «materia tanto scottante dei finanziamenti dall’estero», di cui «tutti sapevano e nessuno parlava». Affermato tutto ciò, Craxi si domandò e domandò se dall’ammissione della diffusione della corruzione si dovesse concludere che «gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale» (il che egli non era evidentemente disposto ad ammettere), sostenendo che, quali che fossero le deplorevoli degenerazioni avvenute, un finanziamento irregolare e illegale al sistema politico [...] non è e non può essere considerato ed utilizzato da nessuno come un esplosivo per far saltare un sistema, per delegittimare una classe politica, per creare un clima nel quale di certo non possono nascere né le correzioni che si impongono né un’opera di risanamento efficace, ma solo la disgregazione e l’avventura 22.

E, per porre rimedio, Craxi invocò una nuova legge sul finanziamento dei partiti. Egli non raggiunse l’obiettivo che si era prefisso, ovvero di invitare il ceto politico a buttarsi alle spalle il passato e ad aprire una nuova fase. Il suo discorso venne accolto con grande ostilità dai suoi oppositori, che lo considerarono un estremo e fallimentare tentativo per salvare un sistema che

stava irrimediabilmente collassando e una inaccettabile giustificazione, nonostante ogni ammissione, della degenerazione di cui egli era ritenuto uno dei maggiori responsabili. Il governo Amato si trovò subito a dover affrontare una situazione economico-finanziaria di estrema gravità, che provocò in settembre l’uscita dell’Italia dal Sistema monetario europeo (Sme) e la svalutazione della lira. Amato, agendo con energia, con un decreto effettuò una manovra da 30 000 miliardi imponendo una patrimoniale sulla casa, un prelievo su conti correnti e depositi bancari, l’aumento dei bolli e una iniziale revisione del sistema delle pensioni. Lo scopo era quello di invertire la rotta verso il costante aumento di un debito pubblico fuori controllo. Pochi giorni dopo l’uscita della lira, che aveva subito una svalutazione del 7%, dallo Sme, seguí una seconda manovra di ben 93 000 miliardi di lire, con il blocco per il 1993 del pensionamento per anzianità, tagli alla spesa sanitaria e il blocco dei contratti nel settore pubblico. Queste misure incontrarono la netta opposizione in primo luogo del Pds, che accusò Amato di avere ceduto a una linea neoliberistica volta a smantellare le strutture dello Stato sociale, e suscitarono proteste di piazza. Di fronte alla crisi ormai innegabile dell’intero sistema politico, il Parlamento costituí una Commissione bicamerale incaricata di fornire uno schema di riforma delle istituzioni. Attiva tra il settembre 1992 e il gennaio 1994 prima sotto la presidenza di De Mita e poi della comunista Nilde Iotti, la Commissione chiuse i battenti ripetendo il fallimento di quella che, presieduta dal liberale Aldo Bozzi, aveva svolto i suoi lavori tra il 1983 e il 1985. Intanto gli effetti dell’azione della magistratura contro la corruzione politico-economica, denominata operazione «Mani pulite», andava producendo effetti di enorme risonanza, con la richiesta di autorizzazioni da parte dei giudici – che si muovevano con un’incisività e un’autonomia senza precedenti – a procedere contro decine e decine di parlamentari soprattutto della Dc, del Psi e in generale dei partiti che avevano condiviso le responsabilità di governo; tanto che lo stesso governo Amato si trovò nella necessità di procedere a vari rimpasti per sostituire ministri inquisiti. Era ormai in corso quella che veniva definita «la rivoluzione dei giudici». La slavina giudiziaria ebbe inizio dopo l’arresto a Milano il 17 febbraio 1992 del socialista Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, colto in flagrante mentre riceveva una tangente in contanti. La collaborazione di

Chiesa con i giudici rappresentò un momento cruciale per l’avvio di Mani pulite, che, sul versante degli inquirenti – guidati da Francesco Saverio Borrelli e Gherardo D’Ambrosio – vide emergere protagonista il sostituto procuratore Antonio Di Pietro, la cui popolarità sarebbe aumentata rapidamente fino a diventare immensa a livello nazionale e internazionale. L’azione della magistratura, diretta in primo luogo contro i partiti, andò investendo anche il mondo dell’industria, fino a toccare la Fiat, e settori dell’amministrazione pubblica. Nel 1992-93 vennero coinvolti direttamente, tra gli altri, l’ex segretario del Psdi Pietro Longo, i due ex sindaci socialisti di Milano Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri, l’ex ministro socialista Gianni De Michelis, l’ex segretario amministrativo del Psi Vincenzo Balzamo. Il 15 dicembre Craxi ricevette il primo avviso di garanzia. Claudio Martelli, raggiunto anch’egli da un avviso di garanzia, si dimise da ministro della Giustizia il 10 febbraio 1993. Tra gli investiti dal ciclone giudiziario vi furono nella Dc Giovanni Goria, Paolo Cirino Pomicino (poi entrambi prosciolti), Arnaldo Forlani e altri esponenti di primissimo piano; nel Pri Giorgio La Malfa e Renato Altissimo; nel Psdi Pietro Longo e Antonio Cariglia (prosciolto). I giudici non mancarono di rivolgere la loro attenzione anche a esponenti dell’ex Pci, ma con risultati marginali, poiché il sistema della corruzione aveva naturalmente il proprio epicentro nel potere dei partiti di governo. Nel settembre 1993 vennero trovati lingotti d’oro e altri beni per molti miliardi di lire nell’abitazione dell’ex presidente della Commissione unica dei farmaci Duilio Poggiolini, che aveva agito con la complicità dell’ex ministro liberale della Sanità Francesco De Lorenzo, dimessosi in febbraio. Gli arresti si susseguirono; le confessioni di molti imputati resero possibile delineare la mappa del malaffare in tutta la sua vastità e profondità. Non mancarono coloro che – come il deputato socialista Sergio Moroni, il presidente dell’Eni Gabriele Cagliari, l’imprenditore Raul Gardini – non ressero alle accuse, motivate o meno che fossero, e commisero suicidio; Balzamo morí per infarto. La magistratura, sostenuta da un pubblico consenso in crescendo, agí con una determinazione che sollevò contro di essa accuse di brutalità. Ciò che emergeva non era soltanto un problema giudiziario; si trattava piú in generale dello sgretolamento degli schieramenti politici, del sistema di alleanze, delle solidarietà, dei meccanismi di acquisizione, mantenimento e allargamento del consenso propri delle formazioni politiche che avevano

dominato fino ad allora la vita della Repubblica. Il crollo del comunismo internazionale, privando di significato la contrapposizione fra la Dc come scudo anticomunista e il suo maggiore antagonista storico, il Pci, creò le condizioni favorevoli al cedimento del sistema fondato su quella contrapposizione. La gravissima crisi interna portò la Dc nell’ottobre 1992 a nominare segretario Mino Martinazzoli dopo le dimissioni di Forlani, e il Psi, ormai in preda a un processo di sfaldamento, a sostituire nel febbraio 1993 Craxi, dimissionario, con Giorgio Benvenuto, sostituito a sua volta poco dopo. Intanto prese corpo Alleanza democratica, una formazione trasversale sorta nell’ottobre 1992, a cui avrebbe aderito in seguito anche Mario Segni uscito dalla Dc, con l’ambizione di costruire un nuovo schieramento progressista determinato a sostenere le riforme istituzionali. Segni si sarebbe però poi separato da Ad per fondare nel novembre 1993 il Patto Segni. Le elezioni amministrative parziali tenute nel corso del 1992 videro il successo della Lega – che, sentendosi con il vento in poppa, in maggio a Pontida proclamò per bocca di Bossi la «Repubblica del Nord» e chiamò alla lotta per l’instaurazione del federalismo –, una forte contrazione della Dc e un vero e proprio collasso del Psi. Sotto la pressione dell’ansia di rinnovamento fu approvata nel marzo 1993 la legge che introduceva l’elezione diretta in due turni dei sindaci e dei presidenti delle province con un premio di maggioranza finalizzato ad assicurare la stabilità dei governi locali. Esplicita manifestazione della volontà della gran parte del Paese di procedere nella direzione di cambiamenti incisivi fu la vittoria – nell’ambito di complessivi 8 referendum svoltisi il 18 aprile 1993 – del Sí (82,3%) a favore dell’introduzione al Senato di una riforma elettorale a carattere accentuatamente uninominale con premio di maggioranza. Il voto popolare esprimeva cosí l’esigenza di una profonda riforma non solo del sistema elettorale, ma dell’intero sistema politico. Contrari al sistema uninominale maggioritario si pronunciarono i partiti non disponibili a entrare in piú ampie alleanze, necessarie per concorrere con successo in un sistema riformato: il Msi, la Rete, Rifondazione comunista, parte dei Verdi. A schierarsi per il mantenimento della proporzionale furono anche esponenti dei partiti governativi, fra cui Craxi, e la minoranza dei comunisti democratici nel Pds. Le risposte ai quesiti referendari sancirono altresí, con maggioranze tra il 70 e il 90%, la fine del finanziamento pubblico ai partiti, l’abolizione dei ministeri delle Partecipazioni statali, del Turismo e dello spettacolo e dell’Agricoltura,

con l’attribuzione delle rispettive funzioni alle regioni e la cessazione della nomina da parte governativa di molta parte dei vertici delle Casse di risparmio, grandi fonti della commistione politica-affari. Con una maggioranza assai piú debole (55,4%) fu approvata la depenalizzazione del consumo personale di droga in piccole dosi. L’esito delle scelte referendarie di aprile aveva chiari significati: una critica radicale verso la lottizzazione dello Stato da parte dei partiti, la frammentazione del sistema politico, causa di permanente instabilità, il sistema della corruzione pubblica, le vecchie formule di governo. Prima ancora che fosse reso noto l’esito della consultazione popolare, il 22 aprile Amato rassegnò le dimissioni. Il presidente Scalfaro, recependo la difficoltà di far nascere un nuovo governo dalle trattative di partiti esausti, prese una decisione senza precedenti: non affidò l’incarico a un membro del Parlamento, ma a un’alta personalità dello Stato estranea al sistema partitico, il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi. Entrato in carica il 28, attenendosi all’articolo 92 della Costituzione, Ciampi scelse i ministri senza consultazioni e trattative ufficiali con i partiti e lanciò un significativo segnale di novità invitando tre esponenti del Pds, che accettarono, a entrare nel ministero. L’iniziativa di Scalfaro segnò la nascita del primo dei «governi del Presidente», cosí detti in quanto formati per iniziativa del Capo dello Stato. Sennonché, avendo la Camera dei deputati il 29 negato, a voto segreto e con una ristretta maggioranza, l’autorizzazione a procedere contro Craxi per i reati di corruzione e ricettazione contestatigli dalla Procura di Milano – fatto che fece sensazione e provocò manifestazioni di piazza – i ministri del Pds si dimisero, ritenendo inaccettabile confondersi con una maggioranza parlamentare che proteggeva gli inquisiti. Ciampi sostituí i tre ministri con eminenti personalità, ottenendo quindi la fiducia con 309 sí e 60 no, l’astensione del Pds, della Lega Nord, del Pri, dei Verdi e l’opposizione del Msi e di Rifondazione comunista. Di fronte al Parlamento egli assunse l’impegno di favorire, nei limiti dei propri compiti istituzionali, la rapida approvazione di una legge elettorale coerente per entrambi i rami del Parlamento. Un atto importante compiuto dall’Italia durante il governo Amato era stato la ratifica nell’ottobre 1992 del trattato di Maastricht, con cui venne espresso l’orientamento favorevole del Paese al cammino verso la

trasformazione in progress della Comunità economica europea in una Unione politica. Mentre era in corso la crisi strutturale del sistema dei partiti e delle istituzioni, il Paese fu investito in maniera drammatica dalla lotta fra lo Stato e le organizzazioni mafiose, la cui potenza economica e capacità di esercizio della violenza e di influenza sociale e politica non avevano fatto che crescere. Dopo l’assassinio a Palermo del generale Dalla Chiesa nel 1982 si era avuto nel Sud un seguito ininterrotto di azioni criminose, che ripresero in grande stile nei primi anni Novanta in risposta all’intensificazione dell’azione repressiva della magistratura e delle forze di polizia e all’inasprimento della legislazione contro la mafia. Per lanciare un segnale agli ambienti politici da cui tradizionalmente aveva ricevuto protezione (in prevalenza annidati nella Dc) e dai quali non si sentiva piú tutelata, il 12 marzo 1992 «Cosa nostra» – l’organizzazione mafiosa di cui era capo incontrastato Salvatore (Totò) Riina – assassinò l’eurodeputato democristiano Salvo Lima, con essa notoriamente colluso ed esponente della corrente di Andreotti. Quindi procedette a colpire due magistrati che piú di ogni altro erano in prima linea nell’opera di indagine e di repressione: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Il 23 maggio Falcone, la moglie e tre agenti di scorta vennero uccisi in un attacco dinamitardo sull’autostrada che collegava l’aeroporto di Palermo alla città; Borsellino e cinque agenti della sua scorta morirono il 19 luglio per lo scoppio di un’autobomba. Su questi attentati sarebbe poi calato il pesante sospetto che fossero stati attuati con il coinvolgimento di membri dei servizi segreti d’intesa con ambienti politici decisi a creare una situazione di caos politico e a favorire il rassemblement delle forze decise a fermare l’azione della magistratura. Nel marzo 1993 la Procura di Palermo chiese al Senato l’autorizzazione a procedere per associazione a delinquere di stampo mafioso nei confronti di Andreotti, accusato di essere stato un grande «referente politico» della mafia. Con la stessa imputazione ricevettero avvisi di garanzia altri esponenti democristiani, tra cui Antonio Gava e Paolo Cirino Pomicino, e un socialista. Lo scandalo per un’accusa di tale gravità rivolta ad Andreotti, uno dei massimi protagonisti della storia dell’Italia repubblicana e uno degli uomini piú potenti del Paese (che però rinunciò all’immunità parlamentare per non porre ostacoli al processo, venendo assolto dalla Cassazione nel 2003), fu comprensibilmente enorme non solo a livello nazionale ma anche internazionale; e mostrò a quale punto era arrivata l’azione della

magistratura. Agli inizi di maggio, papa Giovanni Paolo II, in visita in Sicilia, rivolse contro la mafia parole di veemente condanna. Il grande sconquasso provocato da «Tangentopoli», l’azione dei giudici nel quadro dell’operazione «Mani pulite», il crollo del sistema dei partiti tradizionali, l’impulso dato dal referendum per la riforma elettorale e piú in generale le riforme istituzionali, l’emergere di nuovi soggetti politici furono nel loro insieme segni inequivocabili della fine della Repubblica cosí come si era costituita a partire dal dopoguerra. Il che spiega come nel 1992-93 sempre piú insistentemente si iniziasse a parlare di fine della «Prima Repubblica» e di transizione verso una «Seconda Repubblica». Si era cosí giunti – dopo quelle che avevano posto fine allo Stato liberale e allo Stato fascista – alla terza crisi organica del sistema politico nella storia dell’Italia unita. La causa determinante era stata ancora una volta un sistema «bloccato» da ultimo collassato, nel quale il monopolio-oligopolio di potere detenuto dai partiti di governo aveva sistematicamente eretto una barriera non valicabile all’avvento di uno schieramento alternativo alla guida dello Stato. Parlare di fine della Prima Repubblica era improprio dal momento che la crisi del sistema politico non si era accompagnata a una crisi di regime ovvero al passaggio da una forma di Stato a un’altra, come invece avvenuto con il trapasso dallo Stato liberale al fascista e da questo allo Stato democratico repubblicano. Si tenga conto inoltre che nel periodo seguente ai primi anni Novanta sarebbe rimasta in vigore la costituzione varata dall’Assemblea costituente del 1946-47. Ciò nonostante, era un fatto denso di significato che quella che era stata la Repubblica fino ai primi anni Novanta venne svuotata dalla scomparsa, come si è sottolineato, dei partiti che avevano caratterizzato e dominato la scena italiana per circa mezzo secolo. È da questo che traeva una certa legittimazione il parlare di passaggio da una Prima ad una Seconda Repubblica.

6. L’economia e la società italiana fra sviluppo e squilibri. Il corso dell’economia italiana fra gli ultimi anni Sessanta, quando la popolazione si aggirava intorno ai 53 000 000 abitanti, e i primi anni Novanta, allorché toccò quasi i 57 000 000, confermò quella che era la sua caratteristica di fondo fin dagli anni Cinquanta: l’andamento oscillatorio tra

accelerazione e rallentamento, il persistere di vecchi squilibri e il sorgerne di nuovi, la tradizionale condizione di inferiorità del Sud nei confronti del Nord. Il quadro complessivo, che per gran parte degli anni Sessanta si era mantenuto nell’insieme positivo, incominciò ad assumere un andamento negativo alla fine del decennio e agli inizi di quello successivo, per gli effetti combinati dell’accentuata conflittualità sociale e della crisi petrolifera internazionale che, iniziata nel 1973 in seguito alla guerra fra arabi e israeliani, si era fatta sentire fortemente su un Paese come l’Italia tanto dipendente dalle importazioni in campo energetico. L’inflazione salí rapidamente, attestandosi per il decennio 1973-83 su una media superiore al 15% annuo, con punte superiori al 20%. Essa non era causata soltanto dall’elevato prezzo del petrolio, ma anche in parte notevole dal crescente costo del lavoro, dall’aumento dei consumi e da una spesa pubblica disordinata, in caotica espansione sotto le pressioni congiunte dell’ampliamento dello Stato del benessere, di un riformismo inefficiente, di un assistenzialismo in molta parte legato alle pratiche clientelari. Restava quale elemento caratterizzante del sistema economico del Paese una politica fiscale che lasciava il piú ampio spazio all’evasione. Leggi di riforma in questo campo, come quelle del 1974 e del 1984, rimasero largamente inefficaci per il mancato rinnovamento degli uffici finanziari, per la loro inerzia e per il tradizionale desiderio dei partiti di governo di non rischiare il consenso elettorale degli strati responsabili dell’evasione. Nel 1975 venne sottoscritto l’accordo sull’indennità di contingenza. Nel 1978 si ebbero la legge sull’equo canone e la legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale gratuito. Entrambe furono lo specchio di un riformismo che, mentre affrontava e cercava di risolvere problemi importanti, lo faceva però in maniera affrettata e confusa. La prima, in luogo di calmierare gli affitti, scatenò un vero e proprio mercato nero a vantaggio di chi poteva pagare canoni piú alti; la seconda, di grande rilievo sociale, in quanto affidava la gestione del Servizio a Unità sanitarie locali (Usl) dirette da manager di nomina pubblica, alimentò la lotta tra i partiti per il controllo di una cosí importante risorsa, contribuendo ad allargare la sfera della corruzione. Nell’insieme le riforme imposero allo Stato nuovi imponenti oneri, in assenza di un corrispettivo adeguato nelle entrate, tanto che, come si è già ricordato, il deficit pubblico prese a galoppare salendo nel 1992 al 108,6% del Pil. Ciò nonostante il Paese dimostrò ancora una volta un’elevata capacità di

tenuta e anche di ripresa. L’industria italiana, pur in un quadro di andamento fortemente contraddittorio segnato da periodi di accentuata depressione nel 1973-75, nel 1977, nel 1979, 1982-83, dimostrò una notevole solidità di fronte alla concorrenza internazionale. Ma le spinte espansive e la capacità competitiva riguardarono essenzialmente le imprese settentrionali, come mostrato dal dato che verso la fine degli anni Settanta nel Nord-Est gli occupati nell’industria avevano superato il 40% degli occupati, nel Centro si aggiravano intorno al 38, mentre nel Mezzogiorno erano attestati intorno al 26. Peculiarità dell’Italia in quel periodo, destinata a protrarsi, erano il ruolo e il peso crescenti acquistati dalle piccole e medie imprese industriali, sovente di dimensioni casalinghe, collocate anche queste soprattutto nel Nord e nel Centro, caratterizzate da un dinamismo che le poneva in grado di adattarsi alle congiunture del mercato anche grazie allo sfruttamento diffuso di lavoratori che, non sindacalizzati, sottopagati, privi di ogni garanzia, costituivano l’esercito del «lavoro nero». In larga misura queste imprese coincidevano con il vasto settore dell’economia detta «sommersa» in quanto espressione di un’imprenditorialità che agiva al di fuori di ogni regola istituzionale, non si faceva carico degli oneri previdenziali degli addetti, utilizzava anche manodopera clandestina e persone che svolgevano un secondo e persino un terzo lavoro, e sfuggiva al fisco. Il tasso di disoccupazione, in primo luogo giovanile e meridionale, restava elevato, sicché il diffuso malessere contribuí notevolmente a mantenere in stato di agitazione disoccupati, studenti e anche operai che esprimevano nelle piazze, sovente con la violenza, frustrazione e rabbia contro il potere costituito. A cercare di mobilitare politicamente tali strati furono le varie organizzazioni “anti-sistema”, e tra esse in prima fila Autonomia operaia, che divennero protagoniste di attacchi contro le istituzioni universitarie, i partiti di sinistra e i sindacati accusati di non saper rappresentare e guidare i deboli e gli emarginati. Nella prima metà degli anni Ottanta – grazie al calo del prezzo del petrolio, alla diminuzione del costo della manodopera e alla riduzione degli addetti nelle imprese maggiori favorita dall’impiego su scala crescente dell’automazione, alla riduzione della conflittualità operaia e all’indebolimento dei sindacati – lo sviluppo riprese a ritmi accelerati, tanto da potersi dire superata la crisi iniziata nel 1973. L’apparato produttivo industriale ne approfittò per rinnovarsi, anche dal punto di vista tecnologico,

seppure in misura inferiore rispetto alla tendenza in atto nei Paesi piú avanzati. Industrie come la Fiat, fortemente colpite dalla lunga ondata della contestazione e dagli effetti della crisi petrolifera, si ristrutturarono, introducendo nuove tecnologie (come la robotica) e ristabilendo l’autorità in fabbrica; dal canto suo anche l’industria pubblica iniziò una fase di riorganizzazione, sia produttiva che manageriale, ponendo le basi di una piú alta efficienza. Dal momento che, per rinnovarsi e aumentare la produttività, l’industria doveva ridurre il personale, lo Stato intervenne su un duplice fronte: si accollò il pesante onere, mediante la «cassa integrazione guadagni», di sostenere per un periodo consistente i lavoratori dimessi, e dilatò notevolmente i ranghi della pubblica amministrazione. Il che contribuí al suo ulteriore indebitamento. Una parte consistente dei lavoratori in cassa integrazione andò a rinfoltire le file della manodopera impiegata nel settore dell’economia sommersa, che conobbe una stagione di indubbia vitalità. Nel corso degli anni Ottanta si ebbero profondi mutamenti anche nelle culture politiche del Paese. L’estremismo di sinistra andò esaurendosi e il marxismo ufficiale comunista entrò in una fase di crisi via via piú profonda. Il Psi, cercava, con ondeggiamenti, di conciliare i diritti sociali col riconoscimento del ruolo positivo dello spirito imprenditoriale, il liberalismo e la tradizione socialista letta con la lente del riformismo. Significativo di questo clima fu l’indebolimento delle ideologie classiste, che investí anche le organizzazioni sindacali. La già menzionata «marcia dei quarantamila» svoltasi a Torino nell’ottobre 1980, organizzata dai capireparto e dai quadri intermedi della Fiat contro la politica sindacale e comunista, rappresentò come la fine simbolica dell’epoca apertasi con il «sessantottismo» e l’«autunno caldo» e da un punto di vista storico generale il segno del declino del «sinistrismo» pregiudizialmente anticapitalistico che per un secolo aveva ispirato la grande maggioranza del movimento operaio. Dopo quello del 1980 un altro insuccesso per il Pci fu la sconfitta nel giugno 1985 al referendum, da esso promosso, contro la riduzione degli scatti previsti dalla scala mobile diretta a rallentare il meccanismo di adeguamento dei salari al costo della vita e quindi ad abbassare il tasso di inflazione. Sempre negli anni Ottanta, in corrispondenza con le tendenze in atto in tutto il mondo sviluppato, anche in Italia andò crescendo il settore «terziario» – vale a dire il settore dei servizi (amministrazione, banche, istruzione, informazione, ricerca scientifica e tecnologica ecc.) – fino a diventare il

primo per numero di addetti (nel 1985 occupava il 54,2% di fronte al 33,7 dell’industria e all’11,7 dell’agricoltura). Verso la fine del decennio le “luci” e le “ombre” del sistema economico italiano apparivano chiaramente delineate. In termini complessivi l’Italia continuava a collocarsi fra i maggiori Paesi industriali del mondo. Nel 1990 la Fiat – che nel novembre 1986 aveva acquistato dall’Iri, con il sostegno del governo, l’Alfa Romeo, per la quale la Ford aveva vanamente presentato un’offerta, conquistando in Italia una posizione di monopolio nel settore automobilistico – occupava una delle prime posizioni nell’Europa occidentale. Altro indice importante era, nonostante l’aumento dei consumi, l’elevato tasso di risparmio delle famiglie italiane (ma il lato oscuro di quest’ultimo era di essere reso possibile dall’evasione fiscale), che consentí a un numero crescente di esse di accedere alla proprietà delle loro abitazioni. In sintesi, le «luci» erano riconducibili a due elementi principali: che nel corso degli anni Ottanta l’industria italiana aveva conosciuto un notevole livello di investimenti e di rinnovamento tecnologico e che l’apparato produttivo si era rafforzato nel Nord e nel Centro, investendo anche limitate zone del Sud. Le ombre restavano però molte e ponevano il Paese di fronte a seri problemi irrisolti. Una prima, persistente debolezza era rappresentata dalla quasi totale dipendenza energetica dalle importazioni dall’estero. Dopo il disastro nucleare di Černobyl´ nel 1986, l’Italia, che acquistava una notevole quantità di energia nucleare in primo luogo dalla vicina Francia, rinunciò a sviluppare tale settore. Un referendum popolare nel novembre 1987 pose le premesse per questa decisione. Un altro elemento negativo era l’alto tasso di disoccupazione, il piú alto della Comunità europea (circa il 12% nel 1988). Le ondate di immigrati specie dall’Africa provocarono forti contrasti circa il loro accoglimento, nonostante essi svolgessero utilmente in vari campi molti lavori non piú graditi agli italiani. A tutto ciò era da aggiungersi lo stato mediocre quando non deplorevole, per un Paese industriale avanzato, di molta parte dei servizi pubblici e delle prestazioni dell’amministrazione statale. E ancora. Pur con i buoni risultati raggiunti dall’industria italiana, il Paese restava indietro nei settori di piú alta tecnologia, quali l’aeronautica, la meccanica di precisione, l’informatica ecc., sottolineando le insufficienze della ricerca scientifica di frontiera. Inoltre, le imprese italiane di grandi dimensioni occupavano su scala mondiale un posto assai modesto (10 tra le prime 500, 4 tra le prime 100). Anche

l’organizzazione finanziaria e bancaria restava al di sotto degli standard americani ed europei piú elevati. Infine, il capitalismo italiano, che restava dominato da un assetto proprietario le cui leve maggiori erano nelle mani o dello Stato o di ristrette dinastie industriali e finanziarie, non poteva contare sull’apporto di un azionariato articolato e diffuso. Il tallone di Achille dell’economia italiana continuava a essere il Mezzogiorno. Grazie ai rilevanti interventi dello Stato, esso vide aumentare fra gli anni Sessanta e Ottanta il proprio reddito pro capite di circa tre volte; ma alla fine di quel periodo il divario con il Nord e il Centro non si attenuò (15 000 000 di lire di reddito annuo rispetto a 26 000 000). La disoccupazione era cresciuta di oltre due volte rispetto al 1951. A contribuire a un simile deludente risultato fu un insieme di fattori convergenti. Anzitutto l’intervento dello Stato si dimostrò poco efficace e venne largamente distorto. Dopo la chiusura nel 1984 della Cassa del Mezzogiorno, una nuova normativa varata nel 1986 istituí l’Agenzia per la Promozione dello Sviluppo del Mezzogiorno, che però, non essendo riuscita a promuovere un uso adeguato delle risorse pubbliche destinate agli investimenti produttivi, venne a sua volta abolita nel 1992. Ostacoli enormi allo sviluppo economico e civile erano il peso crescente in intere regioni delle organizzazioni di stampo mafioso, la mentalità incline al parassitismo, alimentato dall’assistenzialismo clientelare e la disposizione a puntare sui pubblici impieghi piú sicuri e meno esigenti. Le ingentissime spese sostenute dallo Stato per gli interventi a favore delle vittime di gravi terremoti in Sicilia con epicentro nel Belice nel gennaio 1968 e in Campania e Basilicata nel novembre 1980 mostrarono in maniera lampante l’ampiezza del controllo delle risorse pubbliche nel Sud da parte delle clientele di partito e delle organizzazioni criminali. Segni importanti dei nodi irrisolti dell’economia italiana erano anche le condizioni in cui versava l’industria del turismo, non adeguatamente attrezzata. Quasi del tutto assenti erano poi le politiche a tutela dell’ambiente naturale, con il dilagare della speculazione edilizia, la gestione irresponsabile dello smaltimento dei rifiuti urbani e industriali. La rete idrica si presentava come un “colabrodo”. Nella primavera del 1990, per l’effetto congiunto della siccità, della colpevole trascuratezza nella manutenzione delle strutture di convogliamento delle risorse idriche e di un inquinamento incontrollato, a Napoli si presentò il fenomeno dell’«acqua nera», destinato a ripetersi. La mancanza di acqua potabile provocò le proteste della popolazione.

Una misura economica di notevole rilievo fu la caduta nell’aprile 1990 delle «frontiere della lira», con l’autorizzazione ad aprire conti correnti all’estero e ad acquistare titoli esteri. Il governo aveva fatto precedentemente cadere le barriere opposte alla libera circolazione dei capitali nell’area dell’Europa comunitaria. Nel luglio 1992, dopo un’accesa controversia fra la Confindustria, che la considerava uno strumento invecchiato, e i sindacati, la scala mobile venne sospesa nel quadro di un accordo sulla politica dei redditi e sul costo del lavoro. Agli inizi degli anni Novanta l’apparato produttivo italiano mostrava dunque debolezze strutturali assai marcate, che lo ponevano in una posizione di rilevante inferiorità nel contesto della Comunità europea e piú in generale in quello internazionale. Era l’intera struttura a mostrare le sue carenze, data la prevalenza di produzioni dallo scarso valore aggiunto e di piccole e medie imprese, che contavano per circa l’80% rispetto, ad esempio, al 50 della Germania e della Gran Bretagna e al 65 della Francia. Preoccupazione destava poi il fatto che queste ultime si trovavano esposte in maniera via via maggiore alla concorrenza dei Paesi di recente industrializzazione, in grado di produrre a costi assai inferiori. 1. II testo della relazione in D. e O. Pugliese (a cura di), Da Gramsci a Berlinguer. La via italiana al socialismo attraverso i congressi del Partito Comunista Italiano, Edizioni del Calendario - Marsilio, Venezia 1985, vol. IV, pp. 275-314. 2. E. Berlinguer, La “questione comunista” 1969-1975, a cura di A. Tatò, Editori Riuniti, Roma 1975, vol. II, pp. 633-34. 3. Ibid., p. 639. 4. Ibid., pp. 869-70, 878. 5. E. Berlinguer, La politica internazionale dei comunisti italiani 1975-1976, a cura di A. Tatò, Editori Riuniti, Roma 1976, pp. 159-60. 6. La citazione in Pugliese (a cura di), Da Gramsci a Berlinguer cit., vol. IV, p. 372. 7. Ibid., p. 377. 8. Ibid., p. 393. 9. A. Moro, Scritti e discorsi, VI. 1974-1978, Edizioni Cinque Lune, Roma 1990, p. 3633. 10. B. Craxi, Costruire il futuro, Rizzoli, Milano 1977, p. 138. 11. L’alternativa dei socialisti. Il progetto di programma del Psi presentato da Bettino Craxi, Mondoperaio - Edizioni Avanti!, Roma 1978, p. 2. 12. Ibid., p. 11. 13. Ibid., pp. 26-27.

14. Ibid., pp. 100-4. 15. Il testo della relazione in Pugliese (a cura di), Da Gramsci a Berlinguer cit., vol. V, p. 7. 16. Ibid., pp. 9-10. 17. Ibid., p. 20. 18. Ibid., p. 55. 19. Il testo in «la Repubblica», 28 luglio 1981. 20. La citazione in G. Fiori, Vita di Enrico Berlinguer, Laterza, Roma-Bari 1989, p. 466. 21. La citazione in Pugliese (a cura di), Da Gramsci a Berlinguer cit., vol. V, p. 203. 22. Atti parlamentari, Camera dei deputati, XI Legislatura – Discussioni – Seduta del 3 luglio 1992, pp. 626-31.

Capitolo sedicesimo L’informe «Seconda Repubblica». Da Berlusconi a Renzi

1. Caratteristiche della vita politica e sociale nel “ventennio berlusconiano”. All’avvento della cosiddetta «Seconda Repubblica» si attribuiva a gran voce il compito di aprire una fase di profondo rinnovamento del Paese, favorito in maniera essenziale dal fatto che si erano create le condizioni per ciò che era sistematicamente mancato nella storia d’Italia: la possibilità che, lasciati alle spalle i sistemi politici «bloccati» nei quali si fronteggiavano schieramenti l’uno permanentemente alla guida dello Stato e l’altro escluso, si attivasse, secondo le modalità tipiche dei regimi liberaldemocratici “normali”, il meccanismo dell’alternanza al governo di partiti o coalizioni di partiti in competizione egualmente legittimati ad accedere a quella guida. Le aspettative erano molte. Sennonché lo scenario seguito al terremoto politico fu certo per tratti importanti diverso da quello precedente, ma non tale da rispondere a quelle aspettative. Si continuò a dibattere moltissimo intorno alla revisione della Costituzione, che a seconda degli schieramenti si voleva radicale o moderata. A ondate successive partiti, Parlamento e governi nel periodo tra la prima metà degli anni Novanta e il secondo decennio del XXI secolo proposero e misero in atto riforme istituzionali, ma parziali e soggette a continui e non coerenti ripensamenti. Si protrasse cosí nella sostanza lo stallo che si era avuto negli anni Ottanta. Il risultato fu che la Seconda Repubblica non prese mai forma. Quel che si ebbe invece fu un incessante processo di trasformazione dei partiti, il cui numero rimase elevato deludendo quanti si auguravano la loro drastica riduzione e l’allineamento del sistema politico italiano ai sistemi bipolari. Con la rilevante eccezione della Lega, i partiti videro attenuarsi decisamente il loro carattere di organizzazioni radicate nel territorio grazie a una rete di sezioni e circoli permanentemente attivi. Mezzo dominante della comunicazione e della propaganda politica diventò la televisione, accentuando la tendenza a ridurre i cittadini a soggetti meramente passivi, a

massa anonima. Si assistette all’avvento dell’era che un grande studioso della politica e della democrazia, Giovanni Sartori, in un saggio del 1997 avrebbe definito della «video-politica», scrivendo: La democrazia è stata spesso definita un governo di opinione. [...] Oggi il popolo sovrano “opina” soprattutto in funzione di come la televisione lo induce a opinare. E nel pilotare l’opinione il potere del video si pone davvero al centro di tutti i processi della politica contemporanea. Per cominciare, la televisione condiziona pesantemente il processo elettorale, sia nella scelta dei candidati, sia nel loro modo di combattere la contesa elettorale, sia, infine, nel far vincere chi vince. Inoltre, la televisione condiziona, o può fortemente condizionare, il governo, e cioè le scelte di governo: quel che un governo può fare, non può fare, e decide in concreto di fare. [...] L’ultimo punto è questo: che la video-politica tende a distruggere – dove piú, dove meno – il partito, o quantomeno il partito organizzativo di massa che in Europa ha dominato le scene per circa un secolo. [...] Il cosiddetto “partito pesante” non è piú indispensabile: il “partito leggero” è sufficiente 1.

Insomma, esauritesi le strutture “forti” dei partiti, di cui il Pci e la Dc avevano fornito il massimo esempio, contrattosi fortemente il numero degli iscritti e dei militanti, divenuti i “partiti leggeri” principalmente strumenti di manovra nelle mani di ristrette oligarchie e dei singoli leader, il rapporto dei cittadini con la politica assunse in sostanza un duplice carattere: da un lato di comunicazione da parte dei leader e delle élites a loro piú vicine dei messaggi rivolti dall’alto al mercato elettorale; dall’altro di periodiche mobilitazioni di piazza di impronta populistica ed estemporanea (particolarmente evidente nella Lega e in Forza Italia, il partito fondato nel 1994 da Berlusconi), per sostenere questa o quella causa, questa o quella parola d’ordine. I vari soggetti in competizione, in un contesto di crescente personalizzazione della politica, si appellarono ciascuna al proprio «popolo» dal volto indefinito e mutevole. Al contempo, grazie ai nuovi mezzi forniti da Internet, fecero anche la loro comparsa le consultazioni e le autoconvocazioni piú o meno spontanee promosse da una molteplicità di gruppi. In questo contesto, nel campo del Centro-sinistra, con l’intento di rivitalizzare in una certa misura la partecipazione popolare, si percorse la strada di elezioni «primarie» per la scelta dei candidati alle maggiori cariche pubbliche; ma il loro effetto non

poté però andare oltre la legittimazione da parte degli iscritti e dei simpatizzanti delle scelte compiute dalle oligarchie di partito o di coalizione. Se in tutti i Paesi il mezzo televisivo costituiva ormai il canale fondamentale della formazione del consenso politico, in Italia la questione acquistò un rilievo del tutto particolare in seguito all’ingresso nella competizione partitica e all’ascesa al governo di Silvio Berlusconi, il plutocrate proprietario dei maggiori canali privati nazionali – la rete di Mediaset –, di case editrici, quotidiani e periodici mobilitati al servizio della sua propaganda e a sostegno della sua linea politica. L’impero mediatico berlusconiano, motivo di un gigantesco conflitto di interessi mai risolto tra l’imprenditore e il leader politico divenuto presidente del Consiglio, si rivelò un fattore di importanza decisiva a favore dello schieramento da lui guidato, ulteriormente accresciuto dalla possibilità, quando questi si trovò al governo, di influenzare anche parte della rete televisiva pubblica. Con il sostegno di un simile apparato propagandistico, Berlusconi – che aveva perfettamente capito le implicazioni dell’avvento dell’era della «video-politica» illustrata da Sartori – fu in grado di esercitare sull’opinione pubblica nazionale una vera e propria «video-crazia». Si delineò in tal modo nel sistema politico una “anomalia” che per la sua radicalità e capillarità non aveva riscontro in alcun altro Paese occidentale. A partire dal 1994 si succedettero al potere due coalizioni in competizione. Si trattò però di una normalizzazione spuria, in quanto inquinata dal persistere di una costante e aspra contrapposizione – si può parlare di una rinnovata forma di “guerra civile ideologica” –, che vedeva le parti accusarsi reciprocamente e incessantemente di non essere propriamente legittimate a guidare lo Stato. Berlusconi e i suoi sostenitori e alleati, che diedero vita allo schieramento di centro-destra, non cessarono di accusare gli ex comunisti di essere «illiberali», presentando se stessi – una volta caduto quello rappresentato in passato dalla Dc – come il nuovo scudo della libertà contro i suoi nemici; dal canto loro le componenti dello schieramento di centro-sinistra denunciavano la minaccia proveniente dalla concentrazione nelle mani del plutocrate milanese dei poteri mediatico, economico e politico, dal suo piglio populistico e dalle sue collusioni con la rete della corruzione privata e pubblica, e parlarono perciò di uno stato di «emergenza democratica». Il clima politico e le violente contrapposizioni vennero poi ulteriormente inaspriti dai numerosi rinvii a giudizio di Berlusconi, che non

cessò di aggredire i «giudici comunisti» accusati di essere al servizio della causa dei suoi avversari, aprendo un continuo e inquietante scontro con la magistratura, e di coltivare il progetto di porre mano a una riforma della giustizia in grado di impedire a questa di agire come un’indebita forza politica. Infine, lo scontro trovò ulteriore alimento allorché vennero alla luce aspetti compromettenti della vita privata del magnate-leader politico, apparentemente solito partecipare a festini con giovani donne, da lui retribuite con regali, denaro e persino cariche pubbliche. Berlusconi presidente del Consiglio divenne cosí oggetto di severe critiche anche in sedi internazionali e motivo di discredito per l’Italia nel mondo. Ma ciò non valse a scuotere il consenso di cui egli godeva nel Paese, dove una parte assai consistente del popolo italiano continuò a riconoscere il proprio leader nella persona che si era “fatta da sé” fino a diventare uno degli uomini piú ricchi del pianeta, resisteva vigorosamente a ogni accusa e incarnava una sorta di nuovo “uomo della Provvidenza”, nonostante raccogliesse intorno a sé individui e clientele poco o per nulla rispettose della legalità ed estranee ai valori della probità personale e pubblica. Sul versante opposto la denuncia del «berlusconismo» e delle sue malefatte, vere o supposte, rimase una costante fin dal 1994, ma è significativo che i governi di centro-sinistra che si alternarono al potere nel corso dell’età che non pare improprio chiamare «berlusconiana» non furono in grado di affrontare e risolvere il conflitto di interessi del plutocrate milanese. Crollato il sistema politico rimasto in vigore per circa mezzo secolo, i maggiori partiti ebbero l’ambizione, naturalmente non condivisa dai medi e piccoli, di creare un sistema bipolare, tendenzialmente bipartitico, basato quindi su una drastica riduzione della frammentazione. Sennonché le cose andarono in una direzione opposta. La frammentazione non venne meno, poiché, scomparse vecchie sigle, ne sorsero nuove a ripetizione e in gran numero. Si giunse pertanto sí al bipolarismo, nel senso che la competizione per il governo ebbe per protagoniste due coalizioni; ma si trattò di un bipolarismo che non costituí affatto il preludio del bipartitismo poiché ciascuna di esse rimase fragile, composta da un molteplicità di soggetti divisi da contrasti di interessi destinati periodicamente a esplodere. Si protrasse cosí l’instabilità, naturalmente maggiore o minore a seconda delle fasi, delle maggioranze parlamentari e dei governi. Quando poi la tenuta delle coalizioni diventava troppo incerta, per sorreggere governi pericolanti non si esitò a fare

ricorso alle pratiche del «trasformismo», agevolate dal venire meno di salde ideologie politiche. Insomma, le speranze di quanti negli anni di Tangentopoli e del naufragio del precedente sistema politico avevano confidato in un profondo rinnovamento qualitativo dello spirito civile, delle istituzioni e dei partiti andarono deluse. Parimenti deluse furono quelle di coloro che avevano creduto che si fossero poste le premesse per una svolta autentica e duratura nel rapporto tra politica, mondo degli affari e corruzione, poiché ben presto, come testimoniano abbondantemente le cronache, il morbo tornò a crescere in maniera virulenta. Il settore degli appalti pubblici continuò a costituire, come in passato, un terreno privilegiato della corruzione. Superfluo aggiungere che una piaga restava la gigantesca evasione fiscale. Tornarono alla ribalta inoltre, sul versante del Centro-destra berlusconiano, gli eredi rinverditi di Licio Gelli e della sua P2, che diedero vita a quelle che vennero chiamate la P3 e la P4 allo scopo di costituire nuovi centri di potere occulto atti a favorire torbidi intrecci di interessi politici ed economici. Anche dopo lo scioglimento della Democrazia cristiana, l’influenza del Vaticano sulla politica nazionale, pur mutando carattere e strumenti, si mantenne forte. La Chiesa continuò a esercitare un ruolo centrale nella vita politica e sociale del Paese, ottenendo un’udienza ricercata da parte di tutti i partiti maggiori, che se ne contesero la benevolenza e l’appoggio elettorale e sistematicamente perpetuarono e rinnovarono a suo favore privilegi di varia natura, con costante attenzione e persino subalternità – maggiori senza dubbio nello schieramento di centro-destra che non in quello di centrosinistra – alle direttive delle gerarchie ecclesiastiche in costante opposizione all’allargamento di diritti civili da esse giudicate non consoni. Nonostante le reciproche dichiarazioni dello Stato e del Vaticano di riconoscere il carattere laico delle istituzioni, lo spirito di laicità nei governi restava quanto meno problematico, soggetto a palesi e grandi contraddizioni, cosí da continuare per molti aspetti a mantenere di fatto allo Stato italiano un carattere semilaico. Un rilievo crescente acquistò il problema creato dall’immigrazione, dopo l’ondata albanese, che proveniva dai Paesi poveri dell’Est europeo, del Medio Oriente e dell’Africa. Tra i membri dell’Unione Europea in particolare la Germania, la Gran Bretagna, la Francia e i Paesi Bassi avevano da decenni accolto consistenti flussi di immigrazione di varia provenienza geografica, etnica e religiosa, apprestando soluzioni, di per sé non facili e con esiti

diversamente soddisfacenti, al nodo della convivenza e del governo delle diversità. L’Italia era stata tradizionalmente un Paese in cui non si immigrava ma da cui, al contrario, si emigrava, come mostrato ancora negli anni Cinquanta e Sessanta quando moltissimi italiani, soprattutto meridionali, erano andati a cercare lavoro nei Paesi d’Oltralpe. In quegli stessi anni poi, il Paese aveva conosciuto la forte migrazione interna dal Sud verso un Nord in fase di impetuoso sviluppo economico, ignorando quella proveniente dall’estero. La situazione mutò profondamente a cavallo del secolo in relazione al sommarsi di tre principali fenomeni: la pressione proveniente dall’esterno, la tendenza al declino demografico e all’invecchiamento della popolazione, la crescente indisponibilità degli italiani a svolgere attività lavorative di basso livello e mal pagate. Si crearono cosí le condizioni per un’immigrazione a mano a mano piú consistente. La reazione fu assai contraddittoria: da un lato si dovette prendere atto, come si è già avuto modo di notare, che i nuovi immigrati costituivano un elemento positivo e ormai persino indispensabile per l’economia nazionale, dall’altro si svilupparono fenomeni di rigetto, dei quali si fece principale interprete la Lega, che all’ostilità nei confronti dei meridionali saldò – in consonanza con altri movimenti della destra xenofoba europea – quella verso i nuovi immigrati, specie musulmani, considerati fonte di “inquinamento” etnico, civile e religioso. Si gridò al grande allarme per la sicurezza dei cittadini italiani, minacciati dalla criminalità alimentata dagli stranieri. La legislazione sugli immigrati ebbe un andamento oscillante, in un contesto che vide i governi di centro-destra assumere un atteggiamento piú restrittivo e quelli di centrosinistra adottare politiche orientate a una maggiore accoglienza e integrazione. Se un tratto essenziale della società italiana è rimasto il divario tra il Nord e il Sud, un altro è da rintracciarsi nell’accentuarsi del relativo distacco dell’Italia dai Paesi piú avanzati dell’Unione Europea in fatto di sviluppo economico e di qualità delle infrastrutture. A ciò aggiungasi il problema cronico delle difficoltà nel campo dei rifornimenti energetici, che indusse i governi di centro-destra a tentare senza successo di progettare il rilancio delle centrali nucleari, sempre molto contestato – tanto piú dopo la catastrofe avvenuta in Giappone nel marzo 2011 – non solo in Italia, ma in molti altri Paesi d’Europa e del mondo; prospettiva infine affossata dai risultati di un referendum popolare nel giugno di quell’anno.

Secondo le tendenze prevalenti a livello internazionale nell’economia globalizzata e per l’impulso determinante venuto dalla gravissima crisi economica partita nel 2008 dagli Stati Uniti e diffusasi nel mondo, anche in Italia aumentarono pesantemente le disuguaglianze sociali, cosí da approfondire il divario tra i ceti alti e quelli medi e bassi, tra i lavoratori occupati con contratti a tempo indeterminato e quelli in stato di maggiore o minore precarietà, tra occupati e disoccupati, tra titolari di ricche pensioni e titolari di pensioni troppo modeste e persino da fame. La fascia dei decisamente poveri aumentò progressivamente, come sempre colpendo in maniera piú accentuata il Sud. Particolarmente pesante si presentava la condizione dei giovani, il cui tasso di disoccupazione o di occupazione instabile era di gran lunga il piú elevato tra i maggiori Paesi dell’Unione Europea. Nel 2011 caddero le celebrazioni del centocinquantenario dell’unità italiana. A tenerle a battesimo con ferma convinzione fu anzitutto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Il governo di centro-destra allora in carica, anche perché frenato dalla Lega, non svolse un ruolo attivo di promozione, che perciò venne dunque assunto in prima persona dal Presidente, che nei suoi ripetuti messaggi, pur non tacendo le difficoltà e i limiti del percorso unitario della nazione, ne esaltò il valore e il significato, sottolineando come solo un popolo italiano coeso intorno ai principî democratici e fedele ai vincoli comuni potesse costituire un membro autorevole e rispettato dell’Unione Europea. Ma il messaggio non ottenne l’udienza auspicata.

2. La «discesa in campo» di Berlusconi. La caduta del primo governo del Cavaliere e il governo dei tecnici. Dopo lo scioglimento da parte del presidente Scalfaro nel gennaio 1994 di quello che era stato bollato come «il Parlamento dei corrotti», lo schieramento guidato dal Partito democratico della sinistra nutriva la speranza di poter essere alle elezioni il maggior beneficiario di «Mani pulite». Il segretario del partito Achille Occhetto si disse convinto che la coalizione «progressista» – formata dal Pds, da Rifondazione comunista, dalla Rete di Leoluca Orlando, da Alleanza democratica, dal Psi, da Rinascita socialista,

dai Cristiano-sociali e dai Verdi – avrebbe strappato la vittoria, esprimendo fiducia nella capacità di mobilitazione della «gioiosa macchina da guerra» messa in campo. Ma a far andare le cose in una direzione del tutto diversa fu l’iniziativa assunta da Silvio Berlusconi, l’uomo d’affari già intimo sodale di Craxi della cui protezione aveva in passato ampiamente goduto. Padrone della holding Fininvest (Finanziaria investimenti), fondata a Milano nel 1978, deciso per un verso a difendere i propri interessi privati che versavano in condizioni precarie e per l’altro a opporsi alla minaccia costituita da un’eventuale vittoria della sinistra, Berlusconi si propose di chiamare a raccolta il «popolo» di persone disperse e prive di un punto di riferimento per fermare gli ex comunisti che egli considerava ancor sempre «comunisti». In un momento in cui infuriava in pressoché tutti i settori della società italiana l’indignazione nei confronti degli uomini che della politica avevano fatto la propria professione gettando il Paese in uno stato deplorevole, Berlusconi si presentò alla gente di ogni strato sociale nelle vesti di un imprenditore che doveva il proprio successo alle sue capacità personali e al suo spirito di iniziativa ed era determinato a respingere la politica dei vecchi partiti andati incontro al fallimento e a fare dello Stato, dell’amministrazione pubblica e del governo del Paese un’impresa efficiente al pari delle sue aziende. Chiamò a raccolta «la maggioranza silenziosa» e trovò una vasta udienza anche tra quanti in passato avevano dato il loro consenso elettorale non solo alla Dc ma anche al Psi e persino al Pci. Il 23 novembre 1993 manifestò il proposito di «scendere in campo»; e il 26 gennaio 1994 annunciò di voler presentarsi alle elezioni come candidato premier alla testa di un nuovo partito denominato «Forza Italia», articolato in una molteplicità di club. Per mettere insieme un adeguato agglomerato di forze – sormontando la difficoltà rappresentata dai contrasti tra la Lega, che agitava la parola d’ordine del secessionismo padano, e Alleanza nazionale (An), nata nel gennaio 1994 per iniziativa di Gianfranco Fini dall’unione del Msi-Dn e di gruppi minori di destra nettamente schierati contro la posizione leghista – Berlusconi compí in febbraio un’operazione spregiudicata e strategicamente brillante. Costituí da un lato il Polo delle Libertà, basato sull’alleanza tra Forza Italia, la Lega Nord, soggetti minori tra cui la Lista Pannella, ex liberali ed ex democristiani; dall’altro il Polo del Buongoverno formato da Forza Italia e Alleanza nazionale. L’efficacia dell’operazione stava nel fatto che i due Poli – collegati dal nuovo partito di Berlusconi – coprivano elettoralmente su un versante il Nord e sull’altro il

Sud. Per combattere la battaglia l’imprenditore non soltanto fece largo uso delle proprie grandi risorse economiche, ma forní l’esempio senza precedenti in Italia e negli altri Paesi occidentali di una mobilitazione dell’elettorato ottenuta mediante l’impiego di quadri messi a disposizione dalle sue aziende e una campagna martellante da parte delle televisioni private nelle mani dei suoi uomini. Promise al Paese di creare in tempi brevi almeno un milione di nuovi posti di lavoro liberando l’economia dagli ostacoli creati dalla sinistra statalista, dai sindacati e da una burocrazia dilatata e inefficiente e aprendo la strada alle doti e alle energie degli individui capaci. La strategia di Berlusconi colse di sorpresa lo schieramento guidato dal Pds, che non aveva ritenuto possibile la formazione di un’alleanza che arrivasse a legare insieme tramite Forza Italia i secessionisti della Lega e i nazionalisti di Fini. Le elezioni si svolsero il 27-28 marzo in base alla legge Mattarella, approvata nell’agosto 1993, che introduceva alla Camera un sistema maggioritario a doppio turno, con il 75% dei deputati eletti in collegi uninominali e il 25% eletti su base proporzionale. Esse segnarono il pieno successo dell’operazione berlusconiana, mostrando come il pur variegato schieramento contrario alla sinistra fosse abbastanza forte da prevalere dopo la profondissima crisi del sistema politico. Mutatis mutandis si ripeté quanto già avvenuto nel 1948 tra la Dc e il Fronte popolare. Alla Camera Forza Italia ottenne il 21,0%, Alleanza nazionale il 13,4, la Lega Nord l’8,3, la Lista Pannella il 3,5; al lato opposto il Pds il 20,3, Rifondazione comunista il 6,0, i Verdi il 2,7, il Psi il 2,1, la Rete l’1,8, Alleanza democratica l’1,1. Il Partito popolare e il Patto Segni, in posizione autonoma di centro, rispettivamente l’11,0 e il 4,6. Grazie al meccanismo elettorale, la Lega fu il partito cui andò il maggior numero di deputati, ben 123, superando Forza Italia che ne ebbe 102. I seggi complessivamente attribuiti alla coalizione tenuta a battesimo da Berlusconi furono 342 contro i 213 andati a quella «progressista». Al Senato il voto fu meno favorevole alla prima, che non riuscí a raggiungere la maggioranza assoluta. Le elezioni delinearono un’Italia politica dove la Lega e Forza Italia erano arroccate al Nord, la sinistra al Centro e An in misura significativa al Sud, con il caso particolare della Sicilia, dove prevalse Forza Italia. Da sottolineare il fatto che il sistema elettorale semimaggioritario non era servito a ridurre il numero dei partiti. Berlusconi formò in maggio il suo governo, che manifestò presto un orientamento euroscettico rappresentato in primo luogo dal ministro degli

Esteri Antonio Martino, dubbioso nei confronti dell’adozione della moneta unica. Punti caldi nello scontro tra il governo formato da componenti quanto mai eterogenee, segnate da forti tensioni tra loro, e le opposizioni divennero presto le questioni relative al conflitto di interessi del presidente del Consiglio nel suo doppio ruolo di governante e di imprenditore, alla giustizia, alla riforma delle pensioni e alla legge finanziaria. Toccato da indagini della magistratura che investivano lui e anche esponenti di spicco del suo piú stretto entourage, con una mossa estremamente spregiudicata Berlusconi non aveva esitato a offrire, ma senza successo, il ministero degli Interni ad Antonio Di Pietro, il magistrato che era stato l’uomo di punta del pool di «Mani pulite». Dopo di allora diede inizio a una personale battaglia contro la magistratura che non sarebbe piú cessata. Il primo grave scacco subito dal governo fu il ritiro del decreto presentato in luglio dal ministro della Giustizia Alfredo Biondi, col quale – attuando quello che venne denunciato come «un colpo di spugna» nei confronti di Tangentopoli – si riduceva il numero dei reati soggetti alla custodia cautelare, tra cui la concussione e la corruzione, e si stabiliva che gli avvisi di garanzia venissero notificati soltanto al termine delle indagini, con il risultato di aprire le porte del carcere a un gran numero di arrestati. La reazione della magistratura, sostenuta da molta parte dell’opinione pubblica, fu aspra, e indusse anche Fini e Bossi, che in passato erano stati in prima linea nell’assumere atteggiamenti “forcaioli”, a esprimere le loro riserve. A quel punto il governo lasciò cadere il decreto. La posizione di Berlusconi precipitò dopo che il 22 novembre fu raggiunto a Napoli, proprio mentre presiedeva un vertice internazionale sulla criminalità organizzata, da un avviso di garanzia da parte della Procura di Milano per tangenti pagate a funzionari della Guardia di finanza. Il fatto acquistò un significato simbolico. Berlusconi gridò al complotto dei giudici contro di lui. Poco dopo esplosero le contraddizioni all’interno di una maggioranza che aveva saputo sí unirsi contro gli avversari, ma non era in grado di mantenere una sufficiente coesione. A causare la crisi di governo fu l’iniziativa assunta in dicembre da Bossi, che accusò Berlusconi di non offrire adeguate garanzie democratiche poiché ostacolava la formazione di una commissione intesa a riformare il sistema televisivo e Fini di restare una fascista deciso a salvaguardare il carattere centralistico dello Stato. Dal canto suo il 6 dicembre Di Pietro, denunciando gli attacchi contro la sua persona e il suo operato, lasciò la magistratura; indagato nell’aprile 1995 per abusi d’ufficio,

sarebbe poi stato prosciolto. Il 22 dicembre 1994 il governo si dimise, mentre Berlusconi denunciava Bossi come un «traditore». Il Cavaliere chiese invano nuove elezioni, ma il presidente Scalfaro le negò e il 13 gennaio 1995 conferí l’incarico – nel quadro dell’operazione definita «il ribaltone» – a Lamberto Dini, già ministro del Tesoro nel precedente governo. Questi formò un esecutivo di tecnici, ricorrendo a ministri non parlamentari, con un netto cambio di maggioranza, vale a dire con il sostegno del Pds, del Partito popolare e della Lega al cui interno si era aperta una crisi, poi rientrata, per dissensi di linea politica tra l’ex ministro degli Interni Roberto Maroni, schieratosi contro il «governo del ribaltone», e Bossi. La decisione di Scalfaro di negare le elezioni nonostante il clamoroso mutamento nella maggioranza parlamentare confermò come, di fronte alla palese debolezza del sistema dei partiti, il presidente della Repubblica assumesse un esplicito ruolo di indirizzo politico. Fu il secondo esempio, dopo quello offerto dal governo Ciampi, di quelli che sarebbero stati definiti “governi del Presidente”; esempio che avrebbe avuto un seguito. La caduta del governo Berlusconi e l’avvento dell’esecutivo guidato da Dini con una diversa maggioranza parlamentare forní la dimostrazione che il sistema politico uscito da Tangentopoli, deludendo le aspettative, creava a sua volta instabilità e denunciava la mancanza di coerenza nei programmi e nella loro attuazione. Entrato in carica nel gennaio 1995 il governo, che il 30 dicembre si sarebbe dimesso, ebbe un evidente carattere di transizione. La sua azione restò legata soprattutto alla riforma previdenziale che ancorava le pensioni ai contributi versati ed elevava l’età del pensionamento; riforma che non ottenne il consenso della Confindustria in quanto troppo blanda, ma venne approvata dai sindacati. Un punto nettamente a favore di Berlusconi fu il referendum tenutosi in giugno, che respinse la proibizione per un soggetto privato di possedere piú di una rete televisiva. Testimonianza del permanente stato di tensione nei rapporti tra magistratura e politica fu l’azione promossa dal ministro della Giustizia Filippo Mancuso contro gli inquirenti milanesi, conclusasi con la sfiducia espressa dal Senato nei suoi confronti e il suo dimissionamento. Durante il governo Dini, il panorama dei partiti conobbe importanti mutamenti. In gennaio il XVII Congresso svoltosi a Fiuggi sanzionò lo scioglimento formale del Msi e la nascita di Alleanza nazionale, che lasciava alle spalle l’eredità fascista e si presentava come una destra nazional-democratica, provocando la scissione di una minoranza che costituí

il Msi-Fiamma tricolore. Poco dopo in febbraio Romano Prodi, ex presidente dell’Iri ed ex ministro democristiano dell’Industria, annunciò la propria candidatura a guidare una coalizione di centro-sinistra: «l’Ulivo». Questa candidatura presentava una certa analogia con quella di Berlusconi, in quanto anche Prodi non apparteneva alla categoria dei politici di professione. In marzo il segretario del Partito popolare italiano (Ppi), Rocco Buttiglione, con la decisione di allearsi con il Polo delle Libertà e di dare vita alla Cdu (Cristiani democratici uniti), provocò la scissione del partito, che si diede un nuovo segretario, Gerardo Bianco. In maggio la Lega dichiarò che avrebbe proceduto alla formazione di un «Parlamento del Nord», insediato a Mantova, in vista della secessione delle regioni settentrionali. Anche nel Pds le acque si mossero notevolmente. Massimo D’Alema, che era stato eletto segretario del partito nel luglio 1994 a preferenza di Walter Veltroni, lasciò intendere di voler dare al Pds un profilo «socialdemocratico», ponendo le premesse della cosiddetta «Cosa 2» (la Cosa 1 era stata la trasformazione del Pci in Pds); ma l’operazione urtò contro la decisa opposizione di Veltroni che si ispirava al “kennedismo”, guardava a Clinton e a Blair e mirava perciò a dare al partito un carattere «democratico» superando gli orizzonti della socialdemocrazia giudicata obsoleta; opposizione che trovò una sponda sia a sinistra nella corrente dei «comunisti democratici», contrari alla socialdemocratizzazione del partito, sia a destra negli «ulivisti» che guardavano a Prodi.

3. L’Ulivo al governo: da Prodi ad Amato, passando per D’Alema. Nel febbraio 1996 l’Ulivo – la coalizione di centro-sinistra formata da Pds, Movimento per l’Ulivo o Comitati Prodi, Ppi, Socialisti italiani, Patto dei democratici, Federazione laburista, Verdi, la Rete, Pri, Federazione dei liberali, Comunisti unitari, Cristiano-sociali, Lista Dini-Rinnovamento italiano – strinse un «patto di desistenza» con Rifondazione comunista, che, senza prevedere un’alleanza di governo, stabiliva che l’Ulivo non avrebbe presentato proprie candidature in un certo numero di collegi lasciando spazio libero a Rifondazione. Il 21 aprile si svolsero le elezioni politiche. La vittoria andò all’Ulivo, che ottenne alla Camera 322 seggi, mentre il Polo delle Libertà ne ebbe 246, la Lega Nord 59. Quanto ai singoli partiti secondo i dati

della quota proporzionale, il Pds risultava in testa con il 21,0%, seguito da Forza Italia con il 20,5%, An con il 15,6%, la Lega con il 10,0%, Rifondazione con l’8,5%. Al Senato alla coalizione prodiana andarono 169 seggi, al Polo 116 e alla Lega 27. Il governo Prodi – caratterizzato dalla netta prevalenza di ministri del Pds, il partito che aveva ricevuto il maggior numero di voti ma al tempo stesso, in conseguenza del suo non ancora ben definito profilo, non era stato in grado di candidare alla leadership un proprio esponente – nasceva con lo stesso vizio d’origine del precedente governo Berlusconi: disporre di una maggioranza debole e cosí poco omogenea da aprire le porte a conflitti interni non componibili. Gli opposti schieramenti erano insomma assemblamenti di forze cementate durante la competizione elettorale dalla reciproca contrapposizione ma privi dell’omogeneità politica necessaria ad assicurare forza e coerenza all’azione di governo. Nonostante le sue basi precarie, il governo riuscí ad approvare provvedimenti rilevanti. In luglio, per iniziativa del ministro della Funzione pubblica Franco Bassanini, venne varato un disegno di legge in senso autonomistico – trasformato in legge nel marzo 1997 – che, con l’evidente intento di contrastare la campagna federalistica della Lega, stabiliva il trasferimento a comuni, province e regioni di nuovi e piú larghi poteri e funzioni (una legge destinata a sollevare molti problemi nei rapporti tra amministrazioni locali e Stato centrale). Ma l’iniziativa piú significativa del governo, il cui ministro del Tesoro e del Bilancio era Carlo Azeglio Ciampi, fu l’azione di risanamento delle finanze pubbliche diretta a creare le condizioni per l’ingresso dell’Italia nell’area della moneta unica, l’euro, che avrebbe dovuto entrare in vigore nel gennaio 1999. Impegnato a raggiungere tale obiettivo, Prodi non esitò a perseguire una linea di rigore nei conti pubblici che dispiaceva contemporaneamente agli imprenditori, ai sindacati, a Rifondazione comunista, al Polo delle libertà e alla Lega. Per riuscire nel suo intento introdusse in settembre «una tassa per l’Europa». Il risultato fu positivo per lo scopo del governo, che nel maggio 1998 portò l’Italia nel club degli undici Paesi dell’Unione che avrebbero adottato l’euro. Infine, nel gennaio 1997 il ministro della Pubblica istruzione Luigi Berlinguer presentò una innovativa legge di riforma della scuola, che, approvata nel febbraio 2000, portava l’obbligo scolastico a quindici anni. Un deciso insuccesso non solo per il governo ma per l’intero sistema politico nazionale fu invece l’iter infelice della Commissione bicamerale,

formata nel gennaio 1997 e della quale venne eletto presidente a grande maggioranza D’Alema. Si trattava della terza commissione parlamentare costituita per rendere piú efficienti le istituzioni: dopo la prima presieduta da Buozzi (1983-85) e la seconda da De Mita e poi da Nilde Iotti (1992-94), di cui si è già ricordata l’inconcludenza. Fu elaborato un progetto di riforma, col quale si assegnavano alle regioni i poteri legislativi nelle materie non attribuite allo Stato, si riconosceva alle amministrazioni locali l’autonomia finanziaria, si configurava – con l’elezione diretta da parte dei cittadini del Capo dello Stato e un potenziamento dei suoi poteri – il semipresidenzialismo, si riduceva il numero di deputati e senatori, si differenziavano le funzioni di Camera e Senato, si vietava la sovrapposizione dei ruoli di giudici e pubblici ministeri, si conferiva ai cittadini la facoltà di rivolgersi direttamente alla Corte costituzionale. Sennonché nel giugno 1998 anche questa Commissione avrebbe chiuso i battenti senza alcun esito, dopo il ritiro di Berlusconi dalle trattative. Intanto, per iniziativa di D’Alema, segretario del Pds, nel febbraio di quell’anno gli Stati generali della sinistra, svoltisi a Firenze, avevano deciso la trasformazione del partito in quello dei Democratici di sinistra (Ds), nel cui simbolo, tolti la falce e il martello, fu inserita sotto la quercia la rosa del socialismo europeo, a sanzionare il definitivo superamento dei legami con il comunismo. Gli Stati generali avrebbero dovuto inoltre costituire il lancio formale della Cosa 2, mirante a dare ai Ds un indirizzo socialdemocratico. Condotta senza molta convinzione anzitutto dal suo promotore, l’iniziativa, contrastata tanto dalla destra quanto dalla sinistra interna, andò di fatto spegnendosi. Nell’ottobre 1997 si assistette alla prima crisi del governo Prodi, provocata dal dissenso di Rifondazione comunista nei confronti della legge finanziaria e della relativa manovra economica; crisi superata grazie alla promessa di una legge che, seguendo l’esempio francese, avrebbe introdotto anche in Italia entro il 2001 la settimana lavorativa di 35 ore. Ma quella raggiunta non fu altro che una tregua, destinata a durare esattamente un anno. Infatti, nell’ottobre 1998, Rifondazione ritirò il proprio appoggio al governo, sempre per opposizione alla legge finanziaria, pagando però il prezzo di una scissione per il contrasto sorto tra il segretario del partito Fausto Bertinotti e il presidente Armando Cossutta, contrario all’apertura della crisi, che diede vita al Partito dei comunisti italiani. La conseguente caduta di Prodi costituí l’ennesima dimostrazione del potere anomalo di cui poteva disporre nella

formazione e nella durata dei governi un partito minore ma determinante come Rifondazione comunista, grazie alla sua «rendita di posizione». Una malattia cronica, questa, del sistema politico italiano che avrebbe continuato a fare sentire i suoi effetti in futuro all’interno dell’uno e dell’altro schieramento. Stabilita l’impossibilità di un nuovo esecutivo guidato da Prodi, l’Ulivo indicò D’Alema come premier. Con una decisione di carattere trasformistico – che contraddiceva platealmente il solenne impegno assunto dall’Ulivo di non governare con una maggioranza parlamentare diversa da quella votata dagli elettori – questi accettò l’appoggio di una nuova formazione politica di centro, l’Unione democratica per la repubblica, fondata in febbraio da Cossiga. Il governo D’Alema entrò in carica il 21 ottobre, con la partecipazione di ministri non solo dell’Ulivo e del Centro, ma anche di due esponenti dei Comunisti italiani. Fu un altro governo travagliato dalle contraddizioni interne, ma dotato di un significato particolare in quanto presieduto per la prima volta da un ex comunista. Nel marzo 1999 Prodi, che aveva mal tollerato le modalità della crisi del suo governo e il suo esito, venne designato presidente della Commissione dell’Unione Europea. In quello stesso mese il governo D’Alema dovette affrontare la questione dell’atteggiamento da assumere di fronte all’intervento militare della Nato contro la Serbia di Milošević che aveva rifiutato di accettare i termini della pacificazione del Kosovo. La questione era delicata a livello internazionale, dove ci si interrogava circa la linea che avrebbe seguito un premier ex comunista, e a livello interno, per la netta contrarietà di Verdi e Comunisti italiani alla partecipazione italiana all’intervento. Superando le opposizioni, la maggioranza parlamentare, rafforzata dai voti del Polo, votò a favore del sostegno alla Nato e quindi per la concessione di basi e aerei italiani. Il 13 maggio 1999, a riconoscimento del grande prestigio personale dell’uomo, Ciampi venne eletto presidente della Repubblica con una maggioranza di oltre due terzi. Ma la situazione politica interna si faceva critica. Il 20 maggio nuovi nuclei delle Brigate rosse assassinarono Massimo D’Antona, uno studioso esperto di diritto del lavoro e collaboratore del governo. In giugno le elezioni per il Parlamento europeo segnarono un successo per Forza Italia, che ottenne il 25,2%, mentre i Ds raccolsero solo il 17,3. Poco dopo anche i risultati delle elezioni amministrative furono favorevoli al Centro-destra che conquistò il comune di Bologna, tradizionale roccaforte della sinistra. D’Alema si dimise il 17 aprile 2000, prendendo atto

delle implicazioni politiche generali della sconfitta, da lui del tutto imprevista, subita alle elezioni regionali del giorno precedente dal Centrosinistra con la consegna al Polo delle libertà di otto regioni – Lombardia, Piemonte, Liguria, Veneto, Lazio, Abruzzo, Puglia e Calabria – su quindici. Tra le leggi rilevanti varate durante il governo D’Alema vi furono quella che apriva la carriera militare alle donne e aboliva la leva militare introducendo un esercito professionale e quella che stabiliva l’elezione diretta dei presidenti delle regioni. A succedere a D’Alema fu Giuliano Amato. Durante il suo governo venne approvata l’8 marzo 2001, con l’opposizione del Centro-destra e specialmente della Lega perché la riteneva insufficiente, la legge costituzionale – poi confermata da un referendum popolare in ottobre, non essendo stata votata in Parlamento con la maggioranza dei due terzi – che sanciva la riforma istituzionale in senso federalistico, attribuendo nuovi poteri a comuni, province e regioni. In gennaio era stato firmato un accordo tra Italia e Francia per la realizzazione di una linea ferroviaria ad alta velocità tra Lione e Torino (Tav), i cui lavori avrebbero innescato una serie infinita di controversie e proteste alimentate in particolare nella Valle di Susa da sindaci e gruppi di cittadini residenti per i supposti gravi danni ambientali.

4. Il secondo governo Berlusconi. Il conflitto di interessi e l’attacco alla magistratura «comunista». Poco dopo lo scioglimento delle Camere da parte del presidente Ciampi avvenuto il 9 marzo 2001, a Napoli scoppiarono violenti incidenti, con oltre un centinaio di feriti, tra le forze di polizia e il cosiddetto «popolo di Seattle» che protestava contro il Global Forum internazionale. L’avvenimento fu motivo per il Centro-destra di sollevare il tema della sicurezza e di invocare misure piú energiche per garantirla. La campagna elettorale si profilò molto combattuta. Come candidato premier da contrapporre a Berlusconi, leader incontrastato del Centro-destra, il Centro-sinistra aveva scelto non già l’ex premier Amato, ma Francesco Rutelli, che in gennaio aveva fondato la Margherita, raggruppando quattro partiti dell’area di centro. Gli schieramenti in competizione erano da un lato la coalizione della Casa delle libertà creata da Berlusconi in febbraio, che comprendeva Forza Italia, Alleanza nazionale, Lega, democratici cristiani del

Ccd-Cdu, Pri e Nuovo Psi –, dall’altro quella dell’Ulivo formata da Ds, Margherita, Verdi, Socialisti democratici italiani e Comunisti italiani. L’Italia dei valori (IdV), di cui era leader Di Pietro, correva da sola, mentre Rifondazione comunista, pur presentando una lista autonoma, aveva stretto accordi con l’Ulivo. Alla vigilia delle elezioni, a fine aprile, alcuni tra i piú autorevoli periodici e quotidiani europei come il britannico «The Economist», il francese «Le Monde» e lo spagnolo «El Mundo» lanciarono una campagna di stampa contro Berlusconi, accusato – in quanto portatore di un gigantesco conflitto di interessi – di rappresentare un’assoluta anomalia nei sistemi democratici liberali e di essere pertanto inadatto a guidare il governo italiano. Si trattava di prese di posizione tanto forti quanto autorevoli, alle quali però la maggioranza degli elettori italiani si dimostrò insensibile. Berlusconi si presentò ancora una volta come l’imprenditore di successo che al successo avrebbe portato anche il Paese, solo che gli venisse dato il consenso necessario. Si trattava della replica del 1994. Il suo messaggio, amplificato anche questa volta dai mass media di sua proprietà o da lui controllati, trovò la larga udienza ch’egli auspicava. Rutelli non fu all’altezza della sfida. Un elemento che caratterizzò in senso accentuatamente personalistico queste elezioni fu l’apposizione sulle schede del nome dei due leader delle coalizioni in competizione. Alle urne, apertesi il 13 maggio, Forza Italia risultò il primo partito, con il 29,43% alla Camera, seguito dai Ds con un deludente 16,57, dalla Margherita con il 14,52, da An con il 12,02%, da Rifondazione comunista con il 5,03%, dalla Lega, molto ridimensionata, con il 3,94, dall’IdV con il 3,89. Alla Camera la Casa delle libertà ottenne 368 seggi contro i 250 all’Ulivo; e al Senato il rapporto fu di 176 contro 130. Berlusconi scelse Fini come vicepresidente del Consiglio e affidò a Bossi, di nuovo suo alleato di ferro, il ministero per le Riforme. Il governo era stato formato da poco, quando il Paese venne scosso dalle violenze scoppiate tra il 20 e il 22 luglio in occasione del vertice del G8 a Genova, dove, accanto alle pacifiche manifestazioni dei no global, si ebbero le devastazioni e gli attacchi alla polizia compiuti da gruppi di estremisti black block. Nel clima in cui il Centro-destra faceva del tema di una maggiore sicurezza un insistito Leitmotiv, le forze di polizia – poi accusate dalle opposizioni di aver agito dietro incitamento del governo – risposero facendo un gran numero di arresti e procedendo a brutali, sanguinosi pestaggi contro i manifestanti nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto. Un

giovane dimostrante fu ucciso da un carabiniere. Il Parlamento formò una commissione di inchiesta sulle cui conclusioni i rappresentanti dei due schieramenti non avrebbero trovato alcun accordo. Questi avvenimenti sarebbero stati oggetto di una serie di processi, portando alla condanna di numerosi estremisti e di membri delle forze di polizia e alti funzionari che ne avevano coperto gli atti di violenza. Il governo si contraddistinse ben presto per tre orientamenti principali, espressioni di un unico spirito di fondo: la tendenza a favorire i detentori di grandi patrimoni, l’attenuazione dei controlli di legalità e l’attacco alla magistratura. Tali orientamenti riflettevano gli interessi di un ceto politico ed economico, ma in primo luogo quelli del premier che – ricchissimo e insofferente delle regole che ostacolassero il suo cammino, nonché coinvolto in numerosi procedimenti penali – continuò in un inarrestabile crescendo ad attaccare la magistratura accusandola di congiurare contro di lui. Vennero varate leggi che posero limiti alle rogatorie internazionali nei processi allo scopo di intralciare lo scambio di informazioni e di documentazioni tra le magistrature italiana e straniere; abolirono le tasse sulle successioni e sulle donazioni senza riguardo per l’entità dei capitali; stabilirono pene trascurabili per il falso in bilancio e introdussero sanatorie per le evasioni fiscali nonché generosi condoni per le aziende che emergessero dall’economia sommersa e per quanti facessero rientrare capitali illegalmente trasferiti all’estero. Il conflitto tra il governo e i giudici andò a tal punto inasprendosi che nel gennaio 2002 il procuratore capo di Milano Francesco Saverio Borrelli, già a capo del pool di magistrati che aveva indagato su Tangentopoli, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, compiendo un atto stupefacente che suscitò una tempesta di polemiche, lanciò la parola d’ordine: «Resistere, resistere, resistere». Tra gli obiettivi principali di Berlusconi vi erano quelli di rendere piú flessibile il mercato del lavoro con la modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori introdotto nel 1970; di cambiare la seconda parte della Costituzione, accrescendo i poteri del premier con la correlativa diminuzione di quelli del presidente della Repubblica, sostituendo il Senato in vigore con un Senato delle regioni e allargando poteri e funzioni di queste ultime; di ridurre il numero di deputati e senatori; e di riformare la giustizia. I contrasti si fecero subito infuocati sulla prima questione; e in questo contesto nel marzo 2002 a Bologna le Brigate rosse uccisero il consulente di governo in

materia di diritto del lavoro Marco Biagi. Il mese seguente il Consiglio dei ministri approvò un decreto sulla riforma dell’accesso al lavoro, secondo linee elaborate dallo stesso Biagi, che suscitò grandi manifestazioni di protesta; ma nel giugno 2003 venne infine avviata l’attuazione della riforma stessa, con l’appoggio della Cisl e della Uil ma non della Cgil. Quanto alle modifiche della Costituzione, esse non ebbero successo: approvate nel novembre 2005 dal Parlamento, sarebbero decadute in seguito al referendum popolare del giugno 2006, che le respinse con il 61,3% dei voti. Non andò in porto neppure la riforma della giustizia predisposta dal ministro leghista Roberto Castelli e approvata nel dicembre 2004, che prevedeva la separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici, maggiori poteri ai capi delle procure, l’ancoraggio degli scatti di carriera oltre che all’anzianità a un sistema di esami, l’introduzione di sanzioni a carico dei magistrati responsabili di illeciti. Rinviata al Parlamento dal presidente Ciampi per alcuni aspetti di incostituzionalità, la legge, riapprovata, sarebbe poi stata fatta cadere dal successivo governo di centro-sinistra. In un contesto in cui il governo e la sua maggioranza parlamentare apparivano sempre piú intenzionati a creare scudi a protezione di Berlusconi e degli uomini a lui vicini, vennero varate leggi cosiddette ad personam come la legge Cirami sul trasferimento «per legittima suspicione» del processo da un tribunale a un altro supposto piú equo e la legge Cirielli relativa alla riduzione dei tempi di prescrizione dei processi. Quanto mai significativa fu inoltre la battaglia intrapresa dal governo per ridurre fortemente il numero dei reati cui fosse applicabile il mandato di cattura europeo. Nel giugno 2003 fu approvato il «Lodo Schifani» – in seguito giudicato incostituzionale per violazione del principio dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge – in base al quale le cinque piú alte cariche dello Stato non potevano essere processate nel corso del loro mandato neppure per i reati commessi prima dell’entrata in carica. Altra legge mirante a salvaguardare gli interessi, questa volta economici, del premier fu quella promossa dal ministro delle Comunicazioni Maurizio Gasparri relativa al settore delle reti televisive, che sancí in sostanza il duopolio della Rai e di Mediaset di proprietà di Berlusconi. Sempre stringente per la società e la politica italiane restava la questione dell’immigrazione proveniente dai Paesi poveri dell’Est europeo e dei continenti extraeuropei. La Lega occupava la prima fila nel lanciare l’allarme

nei confronti in particolare degli islamici, sospettati anche di favorire il reclutamento di fondamentalisti legati al terrorismo. Sicché nel luglio 2002 venne approvata la legge Bossi-Fini, che condizionava il permesso di soggiorno agli immigrati al possesso di un contratto di lavoro e prevedeva l’espulsione di quanti ne fossero sprovvisti e l’arresto in caso di recidiva; la legge dovette però essere modificata nel 2004 per alcuni aspetti giudicati incostituzionali. In materia penale nel dicembre 2002 venne reso definitivo l’articolo 41 bis sul carcere duro per capimafia, trafficanti di esseri umani e colpevoli di atti terroristici. In materia previdenziale, una legge varata nel luglio 2004 nonostante l’ostruzionismo delle opposizioni e destinata a entrare in vigore a partire dal 2008 vincolò l’andata in pensione al compimento di sessant’anni con trentacinque anni di contributi, o prima di quell’età alla maturazione di quarant’anni di contributi. Preoccupazione costante del governo Berlusconi fu di andare incontro alle richieste e agli interessi della Chiesa cattolica in vari campi. Nel settembre 2003 furono prese misure volte a erogare somme rilevanti a favore delle famiglie che mandassero i figli in scuole private, a larghissima maggioranza cattoliche, indipendentemente dal loro reddito. Nel febbraio 2004 venne poi varata la legge sulla procreazione assistita, con cui fu vietato il ricorso alla fecondazione eterologa e riconosciuta legale soltanto la fecondazione omologa, vale a dire l’utilizzazione del seme o dell’ovulo di persone appartenenti a coppie coniugate o conviventi. La legge suscitò vivaci proteste e divise trasversalmente il fronte politico, vedendo la Margherita affiancarsi a Forza Italia e alla Chiesa. Un referendum abrogativo nel giugno 2005 non raggiunse il quorum. Nel corso del secondo governo Berlusconi il clima politico del Paese rimase caratterizzato dallo scontro senza quartiere tra gli opposti schieramenti.

5. L’andamento sfavorevole dell’economia. Berlusconi era tornato al potere promettendo agli italiani di migliorare rapidamente e sostanzialmente le loro condizioni di vita, ma l’andamento dell’economia non gli consentí di mantenere le promesse. Già negli ultimi

mesi del 2000 la congiuntura internazionale aveva iniziato un trend negativo, con una sensibile ricaduta sull’Italia, che incontrò evidenti difficoltà a sostenere l’adozione dell’euro e il conseguente notevole aumento dei prezzi. Inoltre i conti pubblici mostrarono un deficit di bilancio e un debito pubblico in salita, che urtavano con le regole previste dal trattato di Maastricht. Ad aggravare la situazione tra il 2001 e il 2005 contribuirono l’aumento stentato della produzione industriale, la tendenza alla deindustrializzazione del Paese soprattutto nel settore manifatturiero, la diminuzione della produttività e la contrazione delle esportazioni. Altro elemento inquietante, che testimoniava del fallimento dei propositi del governo di dare al sistema Paese, mediante risolutive misure di liberalizzazione, un deciso impulso alla sua capacità di competere sui mercati internazionali, fu rivelato dal dato che nel 2006 l’Italia compariva al 42 o posto nella classifica mondiale della competitività. A questo quadro complessivamente non positivo fece parziale contrasto, per effetto determinante della legge Biagi sul mercato del lavoro, il calo della disoccupazione che dal 9,6% del 2001 scese al 6,8% nel 2006, creando nuovi posti di lavoro prevalentemente nel settore terziario; si trattava però di occupazioni che, avendo un carattere per lo piú temporaneo, finirono per dare impulso al precariato specialmente delle fasce giovanili della popolazione. Le condizioni delle finanze pubbliche, come sempre aggravate da un tasso di evasione fiscale elevatissimo, fecero mancare le risorse necessarie a sostenere gli investimenti nei settori dei trasporti, della lotta contro il degrado ambientale, della ricerca scientifica e dell’istruzione. In un simile contesto il progetto tanto caldeggiato dal presidente del Consiglio di costruire un gigantesco ponte tra le coste calabrese e siciliana, aspramente criticato dalle opposizioni e dagli ambientalisti per motivi relativi al costo e ai pericoli sismici, acquistò un significato meramente propagandistico. L’insensibilità del Centro-destra verso il rispetto delle regole e della legalità e le pratiche speculative largamente diffuse nel settore finanziario e industriale emersero platealmente nel 2003 in occasione di due clamorose bancarotte, riguardanti l’una l’azienda di prodotti alimentari Cirio e l’altra quella, ancora piú grave, di prodotti lattiero-caseari Parmalat. Il loro fallimento trascinò nella rovina un gran numero di investitori, fra i quali molti piccoli risparmiatori, mettendo in luce le responsabilità delle banche che, con intento truffaldino, quando era già loro noto lo stato disastroso delle aziende, avevano spinto i loro clienti a investire in esse e truccato i bilanci aziendali

con la complicità delle società di revisione contabile. Altra vicenda oscura, di fronte a cui il governo rimase inerte, fu quella scoppiata nel luglio 2005, che coinvolse in prima persona il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, accusato di aver illecitamente favorito la progettata scalata dell’Antonveneta da parte della Banca Popolare Italiana per contrastare l’acquisto della prima da parte del gruppo olandese Abn-Amro. In dicembre Fazio, raggiunto da un avviso di garanzia emesso dalla magistratura e successivamente condannato a quattro anni, venne sostituito da Mario Draghi.

6. La politica estera euroscettica del governo Berlusconi. Tra Bush e Putin. Nel campo della politica estera il governo Berlusconi si caratterizzò, stabilendo una marcata discontinuità con la linea di Prodi, per lo scarso entusiasmo nei confronti dell’Unione Europea, considerata sotto molti aspetti come un’entità incombente che esercitava una mal sopportata tutela sugli atti dell’esecutivo. Un punto di vista decisamente euroscettico aveva in particolare la Lega, la cui influenza sul premier era in netta ascesa. Berlusconi per un verso si sentiva in stretta sintonia con gli Stati Uniti di George H. Bush e per l’altro coltivava cordiali rapporti con la Russia di Vladimir Putin, che mostrava di gradire l’amicizia personale con il plutocrate e il cui Paese forniva una parte essenziale dei rifornimenti energetici italiani. L’euroscetticismo del Centro-destra trovò due significative manifestazioni. La prima furono le dimissioni nel gennaio 2002 del ministro degli Esteri Renato Ruggiero, considerato per il suo convinto europeismo non omogeneo alla linea prevalente nel governo; la seconda fu la rinuncia da parte di Berlusconi, che aveva avocato a sé il ministero degli Esteri, a partecipare a un programma europeo nel settore dell’aviazione militare, per favorire un programma statunitense. Il 2003 fu l’anno in cui la politica estera dell’Italia raggiunse il culmine del filoamericanismo. Dopo il controverso attacco in marzo all’Iraq, voluto dal presidente Bush, che spaccò letteralmente l’Unione Europea tra i Paesi che decisero di appoggiarlo e i contrari e sollevò proteste popolari in gran parte del continente, il governo italiano si schierò senza esitazioni con quella che l’amministrazione Bush definí la «nuova Europa» contro la «vecchia

Europa» incarnata da Francia, Germania e Belgio, e decise in aprile di partecipare al conflitto inviando un contingente italiano di circa 2500 uomini. Un momento penoso fu l’episodio che ebbe per scena il Parlamento europeo in luglio, quando toccò all’Italia assumere la presidenza dell’Unione Europea. Alla cerimonia inaugurale, Berlusconi, reagendo alle critiche rivoltegli dall’esponente socialdemocratico tedesco Martin Schulz in relazione al suo conflitto di interessi, apostrofò quest’ultimo con l’epiteto di «kapò», suscitando indignazione e sconcerto. Le posizioni accentuatamente filoisraeliane nel conflitto mediorientale e gli stretti rapporti con la Russia di Putin che portarono il governo italiano a sorvolare sulla questione della repressione in Cecenia contribuirono in maniera determinante a porre l’Italia in una condizione se non di un vero e proprio isolamento certo di relativa marginalità rispetto agli altri maggiori Paesi dell’Unione. Nell’opinione pubblica italiana, poi, crebbe l’insofferenza per la presenza del contingente in Iraq dopo che in novembre l’attacco di un gruppo di terroristi a un presidio italiano nella città di Nassiriya provocò la morte di diciassette militari e due civili. Il punto critico fu raggiunto quando nel marzo 2005 l’agente segreto Nicola Calipari venne ucciso in Iraq da un soldato americano che a un posto di blocco aprí il fuoco, in circostanze mai chiarite, mentre stava riportando a Baghdad la giornalista Giuliana Sgrena liberata dopo una detenzione nelle mani di sequestratori islamici. L’insieme di questi eventi fu determinante nell’indurre il governo ad annunciare nel gennaio 2006 di voler procedere al ritiro del contingente italiano, che sarebbe stato portato a termine alla fine dell’anno. Un altro fronte che vide la partecipazione italiana era quello dell’Afghanistan, avendo il governo assunto nel novembre 2001 la decisione di affiancare un contingente alle truppe di altri Paesi impegnate nell’operazione Enduring Freedom.

7. Il secondo governo Prodi. La nascita del Partito democratico e del Popolo della libertà. Alla scadenza della legislatura, nel dicembre 2005 il Parlamento approvò una nuova legge elettorale che, promossa dal Centro-destra, non trovò grande opposizione nel Centro-sinistra. La legge cambiava profondamente i meccanismi precedenti in quanto prevedeva l’abolizione dei collegi

uninominali, il ritorno alla distribuzione proporzionale dei seggi e un consistente premio di maggioranza alla coalizione vincente. Inoltre le liste dei candidati venivano bloccate, poiché la loro stesura era affidata alle direzioni dei partiti. L’abolizione del voto di preferenza privava gli elettori della possibilità di scelta tra i candidati, al punto da prefigurare – come fu poi detto – un «Parlamento di nominati». Mentre si favoriva la formazione di coalizioni, i cui capi venivano presentati come candidati al ruolo di premier, si dava il via libera al moltiplicarsi dei partiti, con il risultato di indebolire strutturalmente il bipolarismo e confermare la forte «rendita di posizione» lasciata ai piccoli partiti in pieno contrasto con l’obiettivo di conferire stabilità alle coalizioni stesse. Una novità fu la costituzione di collegi elettorali al di fuori del territorio nazionale per consentire agli italiani all’estero di votare. Per le coalizioni vennero poste soglie differenziate di sbarramento: del 10% alla Camera e del 20 al Senato; per i singoli partiti aderenti a una delle coalizioni rispettivamente del 2 e del 3; per i partiti non coalizzati del 4 e dell’8. Nella formulazione della legge – che contribuí a conferire ai partiti un carattere ancora piú oligarchico – un ruolo essenziale ebbe il leghista Roberto Calderoli, che in seguito l’avrebbe lui stesso definita «una porcata» (il politologo Sartori la battezzò Porcellum). La coalizione di centro-destra si presentò alle elezioni, fissate per il 9-10 aprile 2006, in una congiuntura nella quale andava profilandosi un miglioramento dell’economia, non tale però da consentirle di beneficiarne significativamente. Le elezioni riportarono al governo Prodi. Non serví a Berlusconi la promessa a sorpresa di abolire, se vincitore, l’Imposta comunale sugli immobili (Ici) relativamente alla prima casa. L’Unione – la coalizione di centro-sinistra il cui nucleo era formato dall’Ulivo (Ds, Margherita, Socialisti e Repubblicani europei) – ottenne alla Camera 349 seggi; la Casa delle libertà – la coalizione di centro-destra (Forza Italia, An, l’Udc, la Lega e altri partiti minori) – 281; al Senato alla prima andarono 159 seggi, alla seconda 156. Alla Camera l’Ulivo ottenne il 31,27%, Rifondazione comunista il 5,84, la Rosa nel pugno (socialisti-radicali) il 2,59, il partito dei Comunisti italiani il 2,31, l’IdV il 2,29, la federazione dei Verdi il 2,05; Forza Italia il 23,71, An il 12,33, l’Udc il 6,76, la Lega il 4,58. Il Centro-sinistra aveva vinto, ma la sua intrinseca debolezza stava nel disporre di una maggioranza minima al Senato e nella accentuata eterogeneità delle sue componenti. Il 10 maggio, con il prevalente sostegno dell’Unione, venne eletto presidente della Repubblica

con 543 voti su 990 Giorgio Napolitano, già uno dei maggiori dirigenti del Pci e fautore della sua trasformazione in senso socialdemocratico, ex presidente della Camera ed ex ministro dell’Interno nel primo governo Prodi. Tra le prime misure prese dal governo, fu il varo, per iniziativa del ministro dello Sviluppo economico Pierluigi Bersani, di due decreti legge, il primo in giugno e l’altro nel gennaio 2007, diretti a colpire gli interessi corporativi di varie categorie e a favorire una maggiore concorrenza. Seguirono agitazioni, in primo luogo dei taxisti, con la conseguenza che il processo delle liberalizzazioni venne notevolmente ridimensionato. Intanto non finivano i guai di Berlusconi, rinviato a giudizio con l’accusa di aver pagato l’avvocato britannico David Mills in cambio di false testimonianze in un caso di tangenti pagate da società dell’ex premier. La società italiana, i partiti, la Chiesa cattolica e lo stesso governo furono coinvolti in aspre polemiche in relazione alla vicenda di un malato terminale affetto da distrofia muscolare amiotrofica, Piergiorgio Welby che, in piena coscienza e in stato di lucidità mentale, chiedeva che si staccasse il ventilatore polmonare che lo teneva in vita contro la sua volontà. Il Paese si divise tra chi gridò allo scandalo perché si voleva mettere fine a una vita che apparteneva solo a Dio e chi per contro invocò il diritto di ciascuno di disporre della propria vita. Infine, il 20 dicembre 2006 un medico si assunse la responsabilità di “staccare la spina”; al che la Chiesa reagí negando al defunto i funerali religiosi. L’Italia era sempre piú investita, in un contesto di rapida trasformazione dei costumi e della mentalità, dalla divisione tra i laici, fossero essi non credenti o credenti, e i cattolici intransigenti in materia di diritti delle persone e diritti civili. Fin dagli ultimi anni Sessanta il processo di secolarizzazione, assai significativo in un Paese la cui popolazione continuava a professarsi nella grande maggioranza cattolica, era andato estendendosi: era diminuito il numero dei matrimoni religiosi e aumentato quello dei matrimoni civili, le pratiche di divorzio erano diventate correnti, l’omosessualità aveva cessato di essere un fenomeno clandestino, il ricorso alla contraccezione era generalizzato con conseguente contrazione delle nascite. Un fenomeno via via piú consistente era poi quello delle unioni di fatto, i cui componenti, anche avendo figli, non intendevano sposarsi né civilmente né religiosamente. Nel febbraio 2007 il governo presentò un disegno di legge per regolare i diritti e i doveri della coppie di fatto (Dico), vuoi di sesso diverso vuoi dello stesso sesso. Anche in questo caso, il Paese si

divise frontalmente, investendo il Centro-sinistra al cui interno i cattolici integralisti si unirono agli avversari dello schieramento opposto. La reazione della Chiesa cattolica, ferma nel riconoscimento del matrimonio fra appartenenti a sessi diversi quale unica legittima «famiglia naturale», fu durissima. Il disegno di legge venne accantonato. Nel 2007 si ebbero significative novità nel campo dell’organizzazione dei partiti, riflettendo uno stato di cose che mostrava il continuo spostarsi dei loro confini, il moltiplicarsi senza tregua di soggetti, il susseguirsi delle scissioni. La prima novità riguardò la conclusione del quasi ventennale percorso degli ex comunisti. Dopo lo scioglimento del Pci, che era stato accompagnato da tanti dissensi, la diaspora postcomunista si era divisa in tre principali correnti di cultura politica: una di orientamento socialdemocratico, che era andata esaurendosi; una, animata da Veltroni, che mirava alla formazione di un «Partito democratico» che guardasse insieme ai democratici americani, ai neolaburisti di Blair e al filone del cattolicesimo democratico e considerava l’Ulivo guidato da Prodi un modello per le forze progressiste in Europa e persino nel mondo; una, composta da una minoranza neocomunista, articolata in varie correnti e piú partiti. All’interno dei Ds prevalse infine la linea di Veltroni; sicché nell’aprile 2007 questi e la Margherita decisero la loro unificazione, divenuta effettiva il 14 ottobre, da cui prese vita il Partito democratico, con l’opposizione di un gruppo che costituí «Sinistra democratica». La piattaforma ideologica del partito trovò la sua espressione in un Manifesto dei valori. In esso si affermava l’ambizione di dare al Paese «una nuova guida», di operare per l’avvento di un «bipolarismo nuovo» capace di promuovere alleanze per il governo basate su coalizioni omogenee, di rendere realistica l’aspirazione del Partito democratico a porsi come soggetto a «vocazione maggioritaria» in Italia e di contribuire alla formazione «in Europa e nel mondo» di «un ampio campo riformista» di centro-sinistra. Si delineava inoltre un concetto di laicità «non come il luogo di una presunta neutralità, ma come il rispetto e valorizzazione del pluralismo degli orientamenti culturali», riconoscendo la «rilevanza, nella sfera pubblica e non solo privata» delle religioni. Quanto alle questioni economico-sociali, si sosteneva la necessità di riconoscere «l’interdipendenza fra impresa e lavoro» e si auspicava «la partecipazione dei lavoratori nell’impresa», nel quadro di un mercato aperto ma regolato; di perseguire «l’equità sociale» mediante una riforma del Welfare, contrastando gli effetti negativi provocati dalla

globalizzazione dell’economia; di favorire la riqualificazione permanente della forza lavoro. Si insisteva poi sul valore congiunto del binomio sicurezza dei cittadini e rispetto della legalità. Nel Manifesto era esplicito l’abbandono di ogni residuo di sinistra tradizionale e l’approdo a una concezione integralmente democratico-riformista; lo stesso termine «sinistra» veniva abbandonato per quello di «Centro-sinistra». In campo internazionale il Pd respingeva l’ approdo nella socialdemocrazia e si presentava quindi come una forza autonoma dall’Internazionale socialista e dal Partito socialista europeo, con i quali pure intendeva stabilire rapporti di collaborazione 2. La seconda piú importante novità fu la dichiarazione di Berlusconi nel novembre sempre del 2007 di voler creare il «Partito del Popolo della libertà: il partito del popolo italiano» che, dopo la confluenza in un’unica lista di Forza Italia e di An, nel marzo 2009 venne formalmente costituito come partito unitario. In dicembre nacque la federazione della «Sinistra Arcobaleno», nella quale confluirono Sinistra democratica, Rifondazione comunista, Comunisti italiani e Verdi. Dopo le parziali misure in materia di liberalizzazioni, i punti piú qualificanti dell’attività legislativa del governo Prodi riguardarono le modifiche relative alla legge Bossi-Fini sull’immigrazione e alla disciplina delle pensioni; una legge sulla giustizia che abolí la riforma approvata dal Centro-destra; l’adesione dell’Italia alla Global Nuclear Energy Partnership finalizzata alla creazione di centrali nucleari di ultima generazione; alcuni provvedimenti per sostenere le fasce piú deboli in materia sanitaria e fiscale e ridurre la spesa dell’amministrazione pubblica. Venne firmata un’intesa con la Libia per frenare il flusso di immigrati clandestini verso l’Italia. Il governo dovette inoltre affrontare la situazione di emergenza, iniziata già durante il precedente governo, riguardante i rifiuti che in maniera sempre piú grave invadevano specie le strade di Napoli e molte altre zone della Campania e che le autorità locali – di cui sarebbero emerse le complicità con le organizzazioni camorristiche pronte a speculare sugli inefficienti appalti pubblici in materia – si dimostravano incapaci di risolvere. Il problema della corruzione privata e pubblica continuava a essere un’emergenza senza fine. I suoi aspetti piú clamorosi erano sempre quelli: la gigantesca evasione fiscale, l’intreccio di interessi illeciti tra settori cospicui del ceto politico e amministrativo, l’attività di influenti rapaci speculatori e organizzazioni criminali ramificati in particolare nei settori dell’assistenza

sanitaria e degli appalti. Nel gennaio 2008 esplosero due casi clamorosi. L’uno investí il ministro della Giustizia ed esponente dell’Udeur Clemente Mastella e altri membri del suo partito, indagati per concorso in associazione a delinquere, concussione e abuso di ufficio, dopo che la moglie del ministro, Sandra Leonardo, presidente del Consiglio regionale della Campania, era stata messa agli arresti domiciliari per sospettata concussione (Mastella e la moglie sarebbero poi stati prosciolti dalle accuse nel 2017). Protestando la mancata solidarietà da parte del governo nei suoi confronti, Mastella si dimise e l’Udeur uscí dalla maggioranza parlamentare, mettendo cosí in crisi il governo e inducendo il presidente Napolitano il 6 febbraio a chiudere la legislatura. L’altro caso riguardò Salvatore Cuffaro, presidente della regione Sicilia che, condannato a cinque anni per aver favorito la mafia, si dimise e venne incarcerato.

8. Il terzo governo Berlusconi. Dall’apogeo alla crisi del «berlusconismo». Le elezioni si svolsero il 13-14 aprile 2008 con la «legge porcata», essendo fallito ogni tentativo di modificarla. La campagna elettorale fu dominata dal duello tra Berlusconi – a capo di una coalizione formata dal Popolo della libertà, dalla Lega e dal siciliano Movimento per le autonomie – e Walter Veltroni, sostenuto dal Partito democratico e dall’IdV di Di Pietro. Veltroni, che per candidarsi aveva lasciato la carica di sindaco di Roma, era un deciso fautore del bipolarismo come presupposto del passaggio al bipartitismo, nonché persuaso della forza di richiamo di un Pd che si candidasse a governare libero dai condizionamenti venuti a Prodi dal carattere composito e contraddittorio dell’Unione. Aveva insomma puntato le sue carte sulla capacità del nuovo partito, anche grazie al suo affrancamento dall’idea tradizionale di sinistra, di acquistare consensi significativi nell’area moderata di centro. In nome di una sfida basata sui programmi, egli respinse il Leitmotiv, giudicato troppo personalistico, dell’«antiberlusconismo», suscitando molte critiche all’interno del Centro-sinistra. Ma le cose andarono in tutt’altra direzione. La vittoria di Berlusconi fu netta. Comprendendo il voto degli italiani all’estero, alla Camera la sua coalizione ottenne 344 seggi, quella avversaria 246. Tra i partiti minori solo l’Udc guidata da Pier

Ferdinando Casini, che aveva rotto l’alleanza con Berlusconi, riuscí a superare la soglia di sbarramento; furono esclusi i partiti della Sinistra Arcobaleno. Il Popolo della libertà ottenne una percentuale del 37,38%, il Pd del 33,18. Al Senato 174 seggi andarono al Centro-destra, 132 al Pd-IdV. Pochi giorni dopo, un’altra sconfitta per il Centro-sinistra fu l’elezione a sindaco di Roma di Gianni Alemanno, esponente di An, che prevalse su Rutelli. Sembrava che Berlusconi avesse raggiunto l’obiettivo, fino ad allora fallito, di assicurare al governo in entrambe le Camere l’agognata maggioranza, aprendo una fase di stabilità. Il terzo governo Berlusconi iniziò dunque sotto il segno dell’euforia. Rilanciando con enfasi le sue tipiche promesse, assicurò che, disponendo ora della forza necessaria, avrebbe rapidamente risollevato l’economia del Paese rendendo piú libero il mercato, sostenendo le imprese e riducendo il carico fiscale; dato sicurezza ai cittadini (tema questo tradizionalmente caro in particolar modo alla Lega); e riformato, finalmente, le istituzioni e la Costituzione. I provvedimenti dell’esecutivo si susseguirono a ritmo accelerato. Uno dei primi atti fu l’abolizione dell’Imposta comunale (Ici) sulla prima casa, che suscitò le proteste dei comuni che videro venire meno una entrata cospicua per le loro finanze. In maggio Berlusconi fece nominare Guido Bertolaso, già a capo della Protezione civile, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con la delega all’emergenza rifiuti in Campania, promettendo la rapida soluzione del problema. Una nuova normativa inasprí le pene per gli immigrati clandestini. In giugno venne varato il «lodo Alfano», dal nome del ministro della Giustizia Angelino Alfano, il quale, riprendendo quello di Schifani, con l’intento di tutelare Berlusconi da processi in corso a suo carico stabiliva che le quattro piú alte cariche dello Stato non potessero essere processate durante l’esercizio delle loro funzioni (ma anch’esso sarebbe stato respinto dalla Corte costituzionale nell’ottobre 2009). A partire dall’agosto iniziò l’iter della riforma dell’istruzione, dalle scuole elementari all’università, presentata dal ministro Mariastella Gelmini e improntata per un verso a una politica di contenimento della spesa con forti ricadute sul personale, per l’altro a propositi di efficienza gestionale. Questa riforma provocò un’ondata di agitazioni da parte di studenti e personale docente. Nel febbraio 2009 il governo approvò un progetto di riforma giudiziaria presentato da Alfano che poneva limiti al potere dei pubblici ministeri, ampliava le prerogative della difesa e conferiva una maggiore

autonomia alla polizia giudiziaria. Nella prima metà del 2009 il Paese venne scosso da due eventi di carattere privato ma di grande rilievo pubblico. L’uno, legato alle modalità della morte di una giovane donna, Eluana Englaro, che viveva in stato vegetativo da quasi vent’anni, riportò alla ribalta la questione dei diritti civili. Fin dal 1997 il padre aveva richiesto alla magistratura l’autorizzazione a sospendere l’alimentazione e l’idratazione artificiali; ed essendo stata questa infine concessa, il 9 febbraio si procedette alla sospensione. La richiesta del padre prima e poi il suo accoglimento suscitarono una furibonda polemica, che ricordava quella avvenuta intorno al caso Welby. Si ripeté la divisione tra favorevoli e contrari, insomma – per adottare la terminologia dei cattolici integralisti, delle forze del Centro-destra e dell’ala cattolica del Pd (i cosiddetti «teodem») – tra «il partito della morte» e il «partito della vita». La Chiesa cattolica rinnovò anche per questo caso il proprio anatema, spingendo il governo a cercare in extremis, mediante un decreto urgente, di costringere i medici a continuare il trattamento artificiale; decreto però che non fu firmato dal presidente Napolitano in quanto in contrasto con precedenti sentenze. L’altro evento, altrettanto seppure diversamente clamoroso, fu il messaggio inviato a fine aprile all’agenzia Ansa dalla seconda moglie del premier, Veronica Lario – che già nel gennaio 2007 in una lettera al quotidiano «la Repubblica» aveva espresso la propria indignazione per le disinvolte frequentazioni femminili del marito – nel quale deplorava che questi si accompagnasse a giovani donne, premiandone persino alcune con la candidatura a cariche elettive, e annunciava la decisione, presa poco dopo essere venuta a conoscenza dei suoi incontri con una diciottenne napoletana, di chiedere la separazione. La vicenda ebbe una grande eco in Italia e all’estero, aprendo, accanto alle sempre irrisolte questioni del conflitto di interessi e dei processi per motivi finanziari, il “capitolo rosa”, destinato ad ancor piú eclatanti sviluppi, della vita del presidente del Consiglio. Un ulteriore motivo di scandalo riguardò l’accusa di pratiche sessuali sconvenienti – poi rivelatasi falsa – mossa in agosto dal quotidiano della famiglia Berlusconi «il Giornale» a Dino Boffo, direttore dell’«Avvenire», organo della Conferenza episcopale italiana, a causa di una linea politica considerata ostile. Il 6 aprile alla lunga e tragica serie di terremoti che avevano colpito in passato l’Italia si aggiunse quello di fortissima intensità che devastò L’Aquila

e il suo retroterra. Decine furono i comuni coinvolti, con circa trecento morti e varie centinaia di feriti. La città fu in gran parte distrutta. Dei primi aiuti si incaricarono personalmente Berlusconi e Bertolaso, con grande fragore propagandistico e la promessa di una rapida ricostruzione. Seguí uno strascico di polemiche per le inadempienze; al tempo stesso la magistratura, come avvenuto tante volte in casi simili, avviò procedimenti contro costruttori, tecnici e funzionari della pubblica amministrazione accusati di violazione delle norme antisismiche. Nonostante fosse costantemente attaccato dalle opposizioni sia per la sua politica sia per la sua vita privata, Berlusconi continuava a mantenere il consenso della maggioranza degli elettori. Una conferma fu l’esito delle elezioni per il Parlamento europeo svoltesi nel giugno 2009, nelle quali il Popolo della libertà ottenne il miglior risultato con il 35,26%, seguito dal Partito democratico con il 26,12, dalla Lega con il 10,21, dall’IdV con l’8 e dall’Udc con il 6,5. Sennonché a partire dalla fine di quell’anno andò maturando all’interno del Popolo della libertà una crisi destinata a porre in netta contrapposizione i suoi due leader – il premier Berlusconi e il presidente della Camera Fini – e a provocare la scissione del partito di cui erano stati cofondatori. Fini era diventato sempre piú insofferente della leadership esercitata con stile padronale da Berlusconi e dei suoi attacchi indiscriminati alla magistratura. Il contrasto emerse chiaramente allorché in dicembre il premier al Congresso del Partito popolare europeo svoltosi a Bonn affermò che in Italia la vera sovranità veniva esercitata non già dal popolo e dal Parlamento, ma dal «partito dei giudici» che rispondeva alle direttive dei comunisti. Unendosi al presidente della Repubblica, Fini manifestò le sue critiche. Lo scontro tra i due raggiunse il culmine nell’aprile 2010 alla direzione del partito, quando Berlusconi invitò Fini, che alle esplicite riserve sulla linea del partito uní la rivendicazione del proprio diritto al dissenso, a dimettersi dalla presidenza della Camera essendo egli diventato un capo corrente e dunque inadatto a esercitare la sua funzione super partes. Anche questo conflitto non ebbe grandi conseguenze sull’orientamento degli elettori del Centro-destra, che si dimostrarono assai poco sensibili al degrado dell’immagine dei loro leader. Infatti, le elezioni svoltesi a fine maggio in tredici regioni, pur segnando una vittoria complessiva del Centro-sinistra che prevalse in sette di esse, videro passare al Centro-destra il Piemonte, la Campania e la Calabria e in una

regione come l’Emilia-Romagna una notevole flessione del Partito democratico (oltre il 10%) cui faceva riscontro il 13,68% della Lega e il 7 del recentissimo Movimento 5stelle. Quest’ultimo era sorto formalmente a Milano il 4 ottobre 2009 per iniziativa dell’attore comico Beppe Grillo e dell’imprenditore Gianroberto Casaleggio. Aveva fatto le prime prove elettorali alle amministrative del 2008 e 2009. Le sue origini ricordavano per aspetti sostanziali quelle della Lega: denunciava con veemenza la politica di tutti gli altri partiti, faceva appello alla democrazia diretta contro la democrazia rappresentativa, definiva defunte le categorie di “destra” e “sinistra”, si presentava non già come un partito ma come una libera associazione di cittadini sulla cui bandiera erano iscritte le 5 stelle: acqua, ambiente, sviluppo, connettività e trasporti. Il linguaggio di Grillo riproponeva il carattere demagogico di Bossi. Se i leghisti nei giorni di Tangentopoli non avevano esitato a esporre alla Camera il cappio dell’impiccato all’indirizzo dei loro avversari, Grillo esortava il popolo indignato e furioso a ridurre in macerie il marcio sistema politico, contro il quale nelle giornate di mobilitazione dei suoi seguaci lanciava la parola d’ordine: «Vaffanculo». Come la Lega, il Movimento avrebbe trovato un’udienza crescente nell’elettorato, mettendo a sua volta in evidenza sia l’affanno dei partiti aggrediti sia la disponibilità di una parte cospicua della popolazione ad ascoltare un messaggio volgare ed estremista in nuova versione: veicolo di una protesta contro tutti e tutto. Il conflitto Berlusconi-Fini risultò incomponibile, in un clima caratterizzato da una violenta campagna di stampa contro Fini alimentata dai mass media berlusconiani in relazione alla vendita, avvenuta in maniera non limpida, di un alloggio, sito a Montecarlo e già proprietà di An, al fratello della sua compagna. Conseguenza fu che a fine luglio 2010 il Partito delle Libertà si scisse – avendo il suo ufficio di presidenza dichiarato l’incompatibilità politica tra la corrente finiana e il resto del partito – con la formazione nelle due Camere del gruppo autonomo denominato Futuro e Libertà per l’Italia, cui aderirono dieci senatori e trentacinque deputati, che si proclamò impegnato nella difesa di una destra liberale e dei principî della legalità costituzionale. Seguí la decisione di creare un partito che, costituitosi ufficialmente nel febbraio 2011, si collegò all’Udc di Casini. La scissione del Popolo della libertà metteva in pericolo la sopravvivenza della maggioranza parlamentare e del governo, ma Berlusconi reagí avviando con successo la

“compravendita” di deputati e senatori, riuscendo a riportare nella sua maggioranza alcuni parlamentari del neonato soggetto. Anche nel campo dell’opposizione non mancarono tensioni e scissioni. Nell’ottobre 2009 divenne segretario del Pd, in seguito a elezioni primarie, l’ex comunista ed ex ds Pierluigi Bersani, che esprimeva una linea diversa da quella veltroniana, mirante sia a ristabilire un’alleanza di centro-sinistra che si richiamasse all’Unione sia a riqualificare il partito come «di sinistra». La svolta indusse Rutelli e altri esponenti della ex Margherita a uscire dal Pd, a fondare l’Alleanza per l’Italia e a stabilire stretti rapporti con l’Udc in vista della nascita di un centro mosso dall’ambizione di porre fine al malriuscito bipolarismo con l’avvento di un sistema politico tripolare. Ma la scissione non serví a consegnare a Bersani un partito coeso. Infatti il Pd non riusciva a trovare al proprio interno un sufficiente accordo né sul tema cruciale dei diritti civili, né su quello delle alleanze e neppure sulla figura del suo segretario, la cui autorità veniva contestata. Questa condizione critica del partito e la sua incerta collocazione «a sinistra» creò spazio per Sinistra Ecologia e Libertà, guidata dal presidente della Regione Puglia Nicola (detto Nichi) Vendola. Tra la fine del 2010 e gli inizi del 2011 l’opinione pubblica italiana e internazionale venne investita dall’ennesimo scandalo legato alla vita privata di Berlusconi, che prese il nome popolare di «Rubygate». Nel novembre 2010 si venne a sapere che il presidente del Consiglio era intervenuto direttamente presso la questura di Milano per far liberare una giovane marocchina minorenne, detta Ruby, arrestata per furto e poi risultata parte della sua corte femminile. Della vicenda si occupò la procura della Repubblica di Milano, che avviò un procedimento giudiziario contro Berlusconi per i reati di concussione, corruzione e prostituzione minorile. L’iniziativa venne, come al solito, denunciata dal capo del governo e dai suoi sostenitori quale l’ennesima prova della congiura politica ordita dai magistrati per far cadere il suo governo. Berlusconi e l’esecutivo uscirono indeboliti dai risultati delle elezioni amministrative del maggio 2011 e dei referendum abrogativi di giugno riguardanti quesiti importanti come la privatizzazione dei servizi di gestione dell’acqua, il «legittimo impedimento» che consentiva al capo del governo e ai ministri di non presentarsi ai processi mentre sono in carica e la costruzione di centrali nucleari. Nelle prime il Centro-sinistra ottenne un

importante successo, in particolare con la conquista dei comuni di Milano e di Napoli; nei secondi, i «No» prevalsero con un quorum largamente superiore al 50%. Fu questo l’inizio della crisi della leadership di Berlusconi, resa evidente sia dalla nomina in luglio del ministro della Giustizia, Angelino Alfano, a segretario del PdL sia dalla sua dichiarazione di non voler ripresentarsi come candidato premier alle elezioni politiche del 2013. Ulteriori segni furono offerti dalle tensioni emerse all’interno del governo e della maggioranza in materia di politica economica tra il premier e Bossi, intenzionati a varare una legge finanziaria che venisse incontro alle richieste delle rispettive basi elettorali, e il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, deciso a rispettare le regole di rigore dell’Unione Europea e sottrarre il Paese ai rischi reali di attacco da parte della speculazione internazionale. Un ennesimo capitolo dello scontro frontale tra Berlusconi e la magistratura scoppiò in luglio in seguito alla sentenza che in secondo appello condannava la Fininvest a pagare alla Cir del finanziere Carlo De Benedetti 560 milioni di euro a risarcimento della «truffa» subita da quest’ultimo in seguito all’acquisto fraudolento della casa editrice Mondadori, di cui era considerato personalmente responsabile il premier.

9. Il tema della «sicurezza» e la minaccia di declino socio-economico dell’Italia. Come tutti i Paesi occidentali, anche l’Italia fu investita dagli effetti della depressione economica partita dagli Stati Uniti nell’autunno del 2008. Il governo agí su vari fronti: fornendo agevolazioni fiscali alle imprese, anche per contrastare la disoccupazione e favorire l’innovazione tecnologica; sostenendo il sistema bancario, non eccessivamente colpito dalla crisi data la sua limitata esposizione nelle pratiche speculative internazionali; prendendo misure per evitare i pensionamenti precoci, tra cui quella di innalzare a sessantacinque anni l’età pensionabile delle donne impiegate nella pubblica amministrazione cosí da contenere la spesa previdenziale. Ma il costo della cassa integrazione per un numero crescente di lavoratori gravò pesantemente sul bilancio dello Stato. In una situazione nella quale l’Italia subiva un accelerato processo di deindustrializzazione, l’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne – che negli anni precedenti era riuscito, superando

grandi difficoltà, a riportare l’azienda a livelli di competitività da tempo perduti e aveva stabilito una partnership con la Chrysler statunitense – decise di introdurre negli stabilimenti italiani del gruppo, con la minaccia di trasferire all’estero la produzione, nuove regole che comportavano una riduzione dei diritti dei lavoratori finalizzata all’aumento della produttività e la fuoruscita del gruppo stesso dal contratto nazionale dei lavoratori metalmeccanici. Il piano, che prevedeva l’esclusione dalla rappresentanza interna dei lavoratori dei sindacati che non accettassero l’accordo, ebbe l’appoggio della Cisl e della Uil, ma suscitò la netta opposizione della Cgil e in particolare della Fiom. Nel giugno 2010 si svolse un referendum tra i lavoratori nello stabilimento di Pomigliano d’Arco, in Campania, sui quali pendeva la prospettiva della chiusura nel caso di vittoria dei No. Il timore di perdere il posto di lavoro fece prevalere i voti favorevoli con oltre il 60%. Il referendum venne reiterato nel gennaio 2011 nello stabilimento Mirafiori di Torino, con un esito analogo, ma con una percentuale di Sí del 54%. La vicenda lanciò all’Italia un segnale importante circa il mutamento dei rapporti tra imprenditori, lavoratori e sindacati. Un aspetto molto indicativo dello sviluppo economico e sociale dell’Italia, in sintonia con quello di gran parte del resto del mondo avanzato, fu l’accentuarsi delle disuguaglianze, al punto che nel 2010 il 10% della popolazione, costituita dalla fascia piú ricca, deteneva il 45% della ricchezza nazionale. Su un diverso versante, un altro punto debole del Paese era il numero notevolmente inferiore rispetto ai Paesi piú avanzati dell’Unione Europea di diplomati e in particolare di laureati, troppi dei quali usciti da facoltà umanistiche prive di sbocchi lavorativi, con la conseguenza che la disoccupazione giovanile alla fine del primo decennio del secolo ammontava a circa il 30% a livello nazionale e al 50 nel Mezzogiorno. Nel 2010 la popolazione italiana si aggirava intorno a poco piú di 60 milioni di abitanti. Gli immigrati erano circa 4,5 milioni, dei quali circa mezzo milione si muoveva nella zona grigia dell’irregolarità e della clandestinità. Di fronte agli immigrati l’atteggiamento degli italiani, come del resto negli altri Paesi europei, era assai diviso. Una parte li accettava, un’altra piú o meno li tollerava, una terza – rappresentata politicamente soprattutto dalla Lega, che costituiva l’equivalente dei vari movimenti e partiti xenofobi esistenti in Europa – li avversava apertamente e auspicava misure atte a respingerli quanto piú possibile. L’allarme «sicurezza», per la determinante

pressione della Lega, divenne un tema agitato contro la sinistra troppo “tollerante” dal terzo governo di centro-destra, che nel luglio 2009 approvò una serie di provvedimenti diretti a far sentire la mano dura nei confronti dei clandestini considerati primi responsabili dell’estendersi della criminalità. Da allora, lo stato di clandestinità fu considerato un reato, mentre agli immigrati che volevano essere regolarizzati si richiedeva di superare un test di lingua italiana e di pagare una tassa per ottenere il permesso di soggiorno. Quanto mai sintomatica era inoltre l’autorizzazione a formare gruppi di volontari preposti a vigilare nei quartieri delle città a sostegno delle forze di polizia.

10. La seconda crisi di sistema nella storia repubblicana. Le «larghe intese» e il governo «tecnico» di Monti. La rottura determinatasi all’interno della coalizione di governo dopo il dissidio tra Berlusconi e Fini aprí un capitolo che si sarebbe concluso decretando la fine del suo governo e minando la leadership berlusconiana nel Centro-destra. Il cedimento della maggioranza parlamentare venne bruscamente accelerato dalla gravità dell’emergenza economica e finanziaria in cui era piombato il Paese, come mostrato dalla drammatica salita del differenziale (spread) tra i buoni del Tesoro pluriennali italiani e le obbligazioni federali tedesche, salito nell’ottobre 2011 a 575 punti, dall’impennata dei relativi interessi al 7% e dal fatto che il debito pubblico si aggirava intorno al 120% del Pil. Poiché persisteva nell’ostentare ottimismo, il premier apparve irresponsabile agli occhi non solo di gran parte del Paese ma anche di componenti delle forze politiche che lo avevano sostenuto e del tutto inaffidabile ai partner europei dell’Italia e agli investitori internazionali. L’Italia sembrava sull’orlo della bancarotta. A quel punto il 12 novembre Berlusconi presentò le sue dimissioni al Capo dello Stato, lanciando accuse ai «traditori» che lo avevano abbandonato. In relazione ai suoi effetti immediati e agli sviluppi successivi della situazione politica, le dimissioni costituirono i prodromi di quella che nel corso di poco piú di un anno avrebbe assunto i caratteri della seconda crisi di sistema nella storia della Repubblica. In una situazione caratterizzata dallo sbandamento in cui era caduto il Popolo della libertà, dal tramonto della leadership del suo capo che sembrava allora irreversibile e dalla palese debolezza dell’intero sistema dei partiti, il

presidente Napolitano, prendendo nelle proprie mani la situazione, affidò all’economista Mario Monti – docente universitario e già commissario europeo prima per il mercato dal 1995 al 1999 e poi per la concorrenza dal 1999 al 2004 – la formazione di un nuovo esecutivo. Questo, composto interamente da tecnici, si resse sull’appoggio parlamentare del Popolo della libertà e del Partito democratico, indotti a convergere dal senso di allarme per le condizioni dell’economia. Si trattava chiaramente di un «governo del Presidente», che richiamava i precedenti costituiti dai governi Ciampi e Dini e poggiava su «larghe intese». II governo Monti entrò in carica il 18 novembre 2011, dopo avere ottenuto una larghissima maggioranza sia al Senato (281 voti a favore, 25 contrari) sia alla Camera (556 contro 61). Era il segno della consapevolezza dei partiti non solo dell’emergenza economica ma anche di quella politica in cui si trovava il Paese e della presa d’atto di non essere in grado di esprimere un esecutivo. Il governo, non a caso definito «di impegno nazionale», ebbe subito un’accoglienza favorevole da parte dell’Unione Europea, che accolse con soddisfazione la caduta di Berlusconi. Quest’ultimo al momento si ritirò in buon ordine, ma in seguito avrebbe parlato di un «complotto» ordito ai suoi danni tanto dal presidente Napolitano quanto dalle autorità europee e da indeterminati «poteri forti». Il governo Monti si contraddistinse non solo per il fatto di essere interamente composto da tecnici, ma anche per l’elevata presenza femminile: agli Interni andò il prefetto Anna Maria Cancellieri, alla Giustizia l’avvocato Paola Severino, al Lavoro e Politiche sociali, con delega alle Pari opportunità, la docente universitaria Elsa Fornero; il presidente del Consiglio tenne per sé (fino al luglio 2012) il ministero dell’Economia e Finanze. Era nella logica delle cose che le misure di risanamento economico e finanziario avessero l’assoluta priorità. Agendo con rapidità, nella seconda metà di dicembre il governo fece approvare dal Parlamento – sempre a grande maggioranza, ma perdendo il sostegno dell’Italia dei valori – il cosiddetto decreto «Salva Italia», che, in funzione anticrisi, affrontava i nodi relativi al bilancio pubblico, al sistema previdenziale e allo sviluppo. Tra queste misure le piú significative furono la reintroduzione della tassa sulla prima casa, l’aumento dell’Iva, norme per promuovere la semplificazione in campo amministrativo e burocratico, norme sulle liberalizzazioni, sulla riforma del mercato del lavoro e sul fisco, la ratifica delle Convenzioni europee sulla corruzione. Importante l’approvazione della legge Severino,

entrata in vigore nel novembre 2012, che – con l’opposizione di oltre 100 deputati appartenenti alla Lega Nord, all’Italia dei valori, al Popolo della libertà e ad altri gruppi – prevedeva l’incandidabilità e il divieto di ricoprire cariche elettive e di governo per chi avesse subito una condanna in via definitiva. Una riforma di grande rilievo fu quella in materia pensionistica, la cosiddetta «riforma Fornero», che – data una spesa ormai insostenibile dalle finanze pubbliche – stabilí l’innalzamento dell’età pensionabile e l’erogazione delle pensioni in base non piú alle retribuzioni di fine rapporto ma dei contributi versati. La riforma incontrò l’ostilità dei sindacati e la ministra fu oggetto di una campagna denigratoria dai toni indegni e di estrema volgarità da parte delle opposizioni e in particolare della Lega capeggiata dal suo segretario Matteo Salvini. Pesanti furono le ricadute della riforma sulle molte decine di migliaia di “esodati”, vale a dire di coloro che, avendo posto fine al rapporto di lavoro o dovuto accettarne la fine, si trovarono privi dei requisiti per percepire la pensione in conseguenza dell’innalzamento dell’età richiesta. Mentre il governo vedeva erodersi il quasi unanime consenso ottenuto agli inizi da parte delle forze politiche, un test eloquente circa gli umori che andavano diffondendosi nel Paese fu dato dalle elezioni amministrative del maggio 2012. La Lega e il Popolo della libertà arretrarono decisamente, il Partito democratico ottenne buoni risultati, il Movimento 5stelle conquistò Parma. Ma quest’ultimo letteralmente esplose in ottobre alle elezioni regionali in Sicilia, dove con il 14,88% si collocò al primo posto, superando Pd e PdL. Le elezioni nell’isola misero in luce il crescente disinteresse popolare per il voto, data una percentuale inferiore al 48%. Il rigore finanziario si accompagnò a un’accentuata tendenza al peggioramento del settore produttivo e al forte aumento sia dei lavori precari sia della disoccupazione in particolare giovanile con le punte piú alte nel Mezzogiorno. A guidare con grande vigore polemico l’opposizione al governo erano in prima linea la Lega, l’Italia dei valori e Sinistra e Libertà. L’inedita coalizione PdL-Pd si sfaldò allorché in dicembre il PdL, nelle cui file era cresciuta la preoccupazione per il prezzo elettorale pagato per le misure sempre piú impopolari, tolse l’appoggio all’esecutivo, al quale non restò che provvedere al disbrigo degli affari correnti. Elemento determinante nella decisione del partito fu in ottobre la condanna di primo grado a quattro anni per frode fiscale nell’acquisizione dei diritti televisivi di Mediaset, con

esclusione per cinque anni dai pubblici uffici, inflitta a Berlusconi che, esacerbato, si lanciò ad attaccare i giudici, il presidente del Consiglio e le autorità europee accusati di tramare contro di lui. L’ambizione di Monti di essere il traghettatore del Paese dalla recessione economica alla ripresa, passando attraverso una fase di rigore finanziario e di riforme, andò delusa. Prendendo atto della dissoluzione della maggioranza, dopo le dimissioni di Monti il 21 dicembre il presidente Napolitano sciolse le Camere in vista delle elezioni da tenersi il 24-25 febbraio 2013. Nel gennaio 2012 l’opinione pubblica nazionale e internazionale aveva assistito sbalordita e indignata all’affondamento, nei pressi immediati della costa dell’isola del Giglio, della Costa Concordia in conseguenza di un’incauta manovra effettuata dal capitano Francesco Schettino, che, nell’intento di effettuare l’“inchino” della nave stessa a divertimento del pubblico sulla riva, aveva portato la nave a urtare contro gli scogli provocando nell’evacuazione la morte di trentadue persone. In maggio un terremoto in Emilia aveva causato la morte di ventisette persone e lasciato oltre 20 000 senza tetto, con il consueto seguito di aspre critiche per la tardività dei soccorsi.

11. Il successo elettorale del Movimento 5stelle. Il governo Letta. Le previsioni davano per scontato un solido successo del Centro-sinistra e al suo interno del Pd, cosí da portare alla formazione di quello che il suo leader Pierluigi Bersani annunciava come «il governo del cambiamento». A favorirlo sembrava contribuire la recente ondata di scandali che aveva investito prevalentemente esponenti del Centro-destra, accusati di avere abusato del denaro pubblico a fini privati, tra i quali primeggiava il capo della Lega Bossi. Il che fece salire la protesta, dilagata nei mass media, contro «la casta» formata dai governanti e dai rappresentanti eletti ai vari livelli istituzionali, troppi dei quali – in tempi che vedevano crescere la povertà in larghi strati della popolazione – pur godendo di elevate retribuzioni, non esitavano a insistere in pratiche corruttive a vantaggio proprio e dei loro clienti. La situazione era tale da indurre a parlare di una seconda e persino peggiore Tangentopoli. Il Centro-sinistra prometteva di fare pulizia, ma per parte sua non aveva le carte sufficientemente in regola.

A farsi sempre piú efficacemente portavoce dell’indignazione popolare fu anzitutto il Movimento 5stelle, che contro «il sistema» conduceva una violenta polemica che non risparmiava alcuno dei partiti presenti in Parlamento e prometteva la totale rifondazione di una politica malata e incapace di dare risposte alle esigenze dei cittadini. Come si è già notato, il Movimento e Grillo replicavano la parte recitata dalla Lega e da Bossi nella crisi della prima metà degli anni Novanta. Fino alle elezioni comunali del 2012 e soprattutto alle regionali siciliane i 5stelle erano stati considerati dagli avversari un soggetto tanto rumoroso quanto destinato a restare marginale. Dopo di allora scattò l’allarme. Non serví a contenere l’ascesa di Grillo l’accusa a lui rivolta che, mentre esaltava la «democrazia digitale» e presentava la vox populi come la vox dei in contrapposizione alle pratiche oligarchiche delle altre forze politiche, di fatto si comportava come un capo assoluto. La campagna elettorale si svolse in presenza di un governo Monti che restava in vita per forza d’inerzia. Ciò nondimeno, contraddicendo quanto affermato in precedenza e senza valutare adeguatamente la diffusione dello scontento provocato dalla sua politica economica, il professore – nominato dal Capo dello Stato senatore a vita nel novembre 2011 – decise, lasciando alle spalle la veste di tecnico, di «salire in politica» dando vita a una propria lista, Scelta Civica, appoggiata da Casini e Fini. Monti si era convinto di poter essere il rinnovatore del Centro-destra in grado di fare irruzione sia nello schieramento berlusconiano sia nel settore piú moderato del Centrosinistra, cosí da ottenere un largo consenso. L’ex premier – che aveva rifiutato l’offerta, fattagli da un Berlusconi che sembrava aver raggiunto il punto di non ritorno alla leadership politica, di diventare il federatore del Centro-destra – riteneva che gli fosse data l’occasione di tornare sulla scena a capo di un governo politico grazie al successo elettorale. Al lato opposto, dismessa la toga di magistrato, il napoletano Antonio Ingroia – appoggiato da Di Pietro il cui partito, l’Italia dei valori, era in piena crisi e impegnato in un’aspra polemica contro non solo il Pd ma anche il partito di Nichi Vendola, entrambi additati come residui di una sinistra svuotata – diede vita a una sua formazione: Rivoluzione civile. Intanto la perdita di consenso del governo dei tecnici aveva creato le condizioni favorevoli a una sorprendente ripresa del Popolo della libertà, di cui Berlusconi, dimostrando la tenacia e la determinazione che gli erano proprie, aveva ripreso in mano le redini

ricompattando intorno a sé seguaci dimostratisi fedeli e meno fedeli: rinsaldati dal desiderio di rivincita. Contro tutti si poneva Grillo, che agli «arnesi della vecchia politica» chiedeva di «arrendersi» al suo movimento, chiamando la parte sana del popolo alla ribellione. Mentre gli altri leader conducevano la loro propaganda pressoché esclusivamente dagli schermi televisivi, egli si rivolse direttamente alle piazze, facendo rivivere con successo i grandi comizi organizzati dai maggiori partiti del passato, che parevano definitivamente usciti di scena. La sua tecnica di comunicazione combinava il ricorso alla rete telematica con il rapporto diretto con la folla da lui arringata. Diventò a quel punto evidente che il “fenomeno Grillo”, fino a poco tempo prima considerato destinato a un rapido declino, era tutt’altra cosa. Comunque, i sondaggi alimentavano la previsione di una netta vittoria del Centro-sinistra e in particolare del Pd, guidato da Bersani, uscito candidato premier dalla vittoria ottenuta alle primarie di coalizione del dicembre 2012 nei confronti dello sfidante Matteo Renzi, il giovane sindaco di Firenze, al quale era andato un consistente 39,1% dei consensi che lo aveva consacrato dirigente emergente di primo piano. Questi, che proveniva dalle file prima della Dc e poi del Partito popolare, era salito alla ribalta nazionale quando nel novembre 2010 al meeting da lui organizzato presso l’ex stazione fiorentina della Leopolda aveva invocato, ricorrendo a toni polemici radicali, la «rottamazione» dei vecchi oligarchi del Pd in nome di un drastico rinnovamento dei dirigenti e dei candidati alle prossime elezioni politiche. Ai ripetuti moniti del Capo dello Stato al Parlamento che occorresse varare una nuova legge elettorale superando il tanto criticato Porcellum i maggiori partiti avevano risposto con l’inerzia; e lo aveva fatto anche il Pd, convinto di vincere mettendo al riparo il Centro-sinistra anche al Senato. I risultati delle elezioni del febbraio 2013 smentirono tutte le previsioni fatte dai sondaggisti. Tre furono i dati imprevisti: la sorprendente ripresa del PdL che tagliò le ali alle ambizioni della Scelta civica di Monti; lo strepitoso successo del Movimento 5stelle; la risicata vittoria, ben al di sotto delle aspettative, del Centro-sinistra, che superò i 5stelle solo grazie all’apporto dei voti degli italiani all’estero. Il premio di maggioranza stabilito dalla legge elettorale diede alla Camera una forte prevalenza al Centro-sinistra, accompagnata al tempo stesso da una situazione di quasi impotenza al Senato. La formazione di Ingroia scomparve. Il risultato complessivo fu che

il precario e incompiuto bipolarismo venne sepolto e che emerse un tripolarismo destinato a causare gravi difficoltà al Pd in Parlamento e al cammino del governo. Il Centro-sinistra ottenne alla Camera il 29,5% con 340 seggi e al Senato il 31,6 con 123 seggi; il Centro-destra berlusconiano il 29,1 con 124 seggi e il 30,6 con 117 seggi; il Centro montiano il 10,5, con 45 seggi e il 9,1 con 19 seggi; il Movimento 5stelle il 25,5, con 108 seggi e il 23,8 con 54 seggi. Quanto mai indicativo il fatto che quest’ultimo nel voto alla Camera (escluso quello estero) superasse il Pd, cui andò il 25,4. Insomma, un vero e proprio terremoto politico. A questo fece seguito l’incapacità dei parlamentari e dei rappresentanti delle regioni di eleggere il successore di Napolitano alla presidenza della Repubblica. Nella vicenda il Pd inciampò malamente. In un primo tempo, infatti, esso avanzò vanamente la candidatura di Franco Marini. Venute meno le chances di questo, presentò quella di Prodi, che però nel segreto dell’urna venne sabotata da ben 101 franchi tiratori di centro-sinistra. Dopo di che, registrata la totale mancanza di accordo su altri candidati, si arrivò infine il 20 aprile all’elezione a grande maggioranza per un secondo mandato di Napolitano, che, superando la sua personale contrarietà anche per l’età avanzata, cedette alle congiunte pressanti richieste di Bersani, Monti e Berlusconi. La rielezione venne denunciata da Grillo come un «colpo di Stato». Il 22 il Presidente nel suo discorso di insediamento si rivolse ai suoi elettori con toni non privi di asprezza, affermando di avere accettato sulla base del solenne impegno da parte della grande maggioranza delle forze politiche a procedere alle necessarie urgenti riforme istituzionali. Dopo aver deplorato che «negli ultimi anni, a esigenze fondate e domande pressanti di riforma delle istituzioni e di rinnovamento della politica e dei partiti» si era risposto facendo «prevalere contrapposizioni, lentezze, esitazioni circa le scelte da compiere, calcoli di convenienza, tatticismi e strumentalismi», definí «imperdonabile» la mancata riforma elettorale della legge del 2005, resa del tutto squilibrata dall’attribuzione al vincitore di un premio di maggioranza «senza che sia raggiunta una soglia minima di voti o di seggi», aggiungendo: La mancata revisione di quella legge ha prodotto una gara accanita per la conquista, sul filo del rasoio, di quell’abnorme premio, il cui vincitore ha finito per non riuscire a governare una simile sovrarappresentanza in Parlamento. Ed è un fatto, non certo

imprevedibile, che quella legge ha provocato un risultato elettorale di difficile governabilità [...]. Non meno imperdonabile resta il nulla di fatto in materia di sia pur limitate e mirate riforme della seconda parte della Costituzione, faticosamente concordate e poi affossate e, peraltro, mai giunte a infrangere il tabú del bicameralismo paritario.

E concluse esortando a non piú sottrarsi al dovere della proposta, alla ricerca della soluzione praticabile, alla decisione netta e tempestiva per le riforme di cui hanno bisogno improrogabile per sopravvivere e progredire la democrazia e la società italiana.

Era dalla mancata soluzione dei problemi politici e sociali e della carente moralità della vita pubblica che nascevano «l’insoddisfazione e la protesta verso la politica, i partiti, il Parlamento», che si manifestavano in «campagne di opinione demolitorie, da rappresentazioni unilaterali e indiscriminate in senso distruttivo del mondo dei politici, delle organizzazioni e delle istituzioni in cui essi si muovono» 3. Il discorso di Napolitano venne accolto dai suoi ascoltatori con una tempesta di applausi, che apparvero il segno del solenne impegno comune – risultato poi mendace – a procedere nelle riforme partendo da quelle istituzionali. Venuta meno la speranza di una forte affermazione elettorale, vissuta con frustrazione la vicenda dell’elezione dei suoi candidati alla presidenza della Repubblica, il Pd ebbe un ulteriore smacco quando l’ambizione di Bersani di formare un esecutivo naufragò dopo un velleitario tentativo di coinvolgervi il Movimento 5stelle, del quale mostrò di non comprendere la natura e gli scopi antisistema. A quel punto non gli rimase che dimettersi dalla segreteria del Pd. Come già avvenuto dopo le dimissioni di Berlusconi, il compito di fare uscire il sistema politico dallo stato di marasma toccò a Napolitano, che affidò al giovane Enrico Letta – proveniente dalle file democristiane e già vicesegretario del Pd – l’incarico di formare un secondo «governo di larghe intese» che, entrato in carica il 28 aprile 2013 e durato fino al 22 febbraio 2014, ebbe l’appoggio in Parlamento oltre che del Pd anche dei partiti di Berlusconi, di Monti e dei Radicali. Ma, ripetendosi una situazione nota, subito dopo la sua costituzione, il governo dovette fare i conti con i contrasti

esplosi tra il PdL e il Pd e con la ripresa dell’ininterrotta agitazione di Berlusconi, impegnato nei suoi vari processi, contro la magistratura: agitazione portata avanti con l’appoggio della componente ministeriale del partito di cui aveva ripreso in mano le redini. La seconda crisi di sistema nella storia della Repubblica era contraddistinta dal gravissimo scadimento dei partiti e del loro personale politico, da un Parlamento eletto sulla base di una sciagurata legge elettorale, dal ruolo supplente assunto dal Presidente e destinato a protrarsi, dal succedersi di governi basati su maggioranze parlamentari troppo disomogenee, da continui conflitti tra settori della politica e settori della magistratura che, a partire da Tangentopoli, si sentirono autorizzati ad assumere in molteplici casi in prima persona la salvaguardia non solo della legalità ma tout court della democrazia, travalicando i limiti delle proprie funzioni. Una novità del governo Letta fu l’ingresso di un medico di origini congolesi, Cécile Kyenge, cui venne affidato il ministero senza portafoglio dell’Integrazione: nomina accolta con avversione dalle correnti xenofobe e in particolare dalla Lega. Una delle prime iniziative fu nel maggio 2013 il decreto – divenuto legge nel febbraio 2014 – che, una volta abolito il finanziamento pubblico ai partiti, assegnava ai cittadini la possibilità sia di fare donazioni accompagnate da esenzioni fiscali sia di assegnare loro il due per mille nella dichiarazione dei redditi. In giugno venne deciso il commissariamento dell’Ilva, l’azienda siderurgica di Taranto su cui pendeva l’accusa di disastro ambientale. In quello stesso mese un particolare significato, in relazione all’esigenza di fare fronte alla cronica inefficienza delle istituzioni, fu l’avvio, fortemente caldeggiato dal Capo dello Stato, dei lavori di una Commissione incaricata di formulare proposte da presentare al Parlamento per la riforma della seconda parte della Costituzione, seguita in settembre dalla formazione di un comitato bicamerale di quaranta membri, la cui attività venne interrotta dalla caduta del governo. Sempre in giugno venne varato il «decreto del fare», ovvero una serie di misure anticrisi – che si sarebbero rivelate poco efficaci – per stimolare la ripresa di un’economia che stentava a risollevarsi. Poco dopo fu affrontato il problema annoso, e oggetto di molte contestazioni, delle Province, di cui venne prospettata l’abolizione e la loro trasformazione in «enti territoriali di secondo livello». Altra questione sul tappeto era quella della spesa pubblica troppo elevata. Letta volle dare un

segnale iniziando con tagli riguardanti le auto e gli aerei di Stato, ponendo inoltre sul tappeto il problema degli eccessivi privilegi di cui godevano parlamentari e alti burocrati, nonostante tali tagli avessero modeste ricadute sul debito. Ma, mentre si procedeva con timidezza in questa direzione, per palesi esigenze elettoralistiche venne decisa l’abolizione dell’Imu (Imposta municipale unica) sulla prima casa, con la sola esenzione delle abitazioni di lusso. In settembre la maggioranza che sosteneva il governo entrò in crisi. Per dissensi relativi all’aumento dell’Iva, Berlusconi impose ai suoi ministri di dimettersi; ma la caduta dell’esecutivo venne temporaneamente evitata dal rinnovo della fiducia da parte del PdL. Intanto la mappa dei partiti continuava a cambiare. In novembre Berlusconi riportò in vita Forza Italia, provocando la scissione della corrente guidata da Angelino Alfano, la quale formò il Nuovo centrodestra (Ncd). Pochi giorni dopo Forza Italia passò all’opposizione, in un clima arroventato dall’approvazione da parte del Senato della decadenza da senatore del suo leader in seguito alla sua condanna per frode fiscale. Il governo era ormai decisamente in bilico. In condizioni di profonda trasformazione, per non dire di turbolenza, si trovava anche il Pd. Con un risultato del tutto inatteso, alle primarie dell’8 dicembre 2013 Matteo Renzi uscí vincitore con il 67,55%, battendo nettamente Gianni Cuperlo, il candidato sostenuto da Bersani e dalla corrente di sinistra, e venendo quindi eletto segretario del partito: il che segnò la sconfitta della vecchia guardia ex comunista. Renzi confermò in un primo tempo l’appoggio del suo partito a Letta, ma presto emersero tensioni tra le opposte correnti del Pd e nei rapporti tra il suo segretario e il governo. L’arrivo di Renzi alla segreteria aveva messo in allarme la sinistra interna, che considerava l’ex sindaco di Firenze un elemento estraneo ai valori e alla storia della “sinistra”. Il primo segnale vistoso dei contrasti fu offerto dalle dimissioni il 4 gennaio 2014 del viceministro dell’Economia e delle Finanze Stefano Fassina, che aveva espresso il suo dissenso sulle linee di politica economica del neosegretario, da cui era stato oltretutto trattato personalmente con poco riguardo. Forte dell’appoggio della maggioranza dei parlamentari del partito e dei membri della Direzione, Renzi – poche settimane dopo avere espresso il sostegno al governo guidato da Letta –, convintosi che questi non avesse la necessaria energia nel procedere sulla via delle urgenti riforme, cambiò

direzione. Avvertendo il pericolo, il 12 febbraio Letta illustrò il proprio programma di rilancio nel documento Impegno Italia, ma il giorno dopo Renzi fece approvare dalla direzione Pd l’invito a dimettersi del governo. Avvenute le dimissioni, il presidente Napolitano diede a Renzi l’incarico di formare l’esecutivo, che entrò in carica il 22 di quel mese. Nel Pd, nel governo e nel Paese si aprí cosí una nuova stagione. L’irruzione di Renzi sulla scena nazionale presentava, al di là di tutte le differenze tra le persone e le loro linee, un’analogia con quella prima di Bossi e Berlusconi e da ultimo di Grillo. Li accomunava, infatti, nel ripetersi di contesti segnati dall’instabilità del quadro politico, l’ambizione e la convinzione di poter essere gli interpreti dell’innovazione di cui necessitava il Paese.

12. Il governo Renzi e la sua parabola. I drammi dell’immigrazione. Il fallimento del progetto di riforma della Costituzione. Il Renzi che si apprestava a prendere in mano le redini del governo a un’età che ne faceva a trentanove anni il piú giovane presidente del Consiglio della storia d’Italia mostrava molta sicurezza di sé ed era animato dal desiderio di dimostrare al Paese e alla sua classe politica che, avendone la determinazione e la capacità, era possibile superare ostacoli che sembravano insormontabili e raggiungere importanti risultati. Era evidente nel suo temperamento una robusta vena di volontarismo e di soggettivismo, considerata dai suoi oppositori di vario colore presunzione e velleitarismo. Non vi è da stupirsi che tra i suoi avversari a esprimere apprezzamento per le qualità di leader del giovane Renzi fosse Silvio Berlusconi, che vedeva in lui alcune delle qualità che attribuiva a se stesso. Sentendosi forte in seguito alla netta vittoria alle primarie del Pd e al sostegno della grande maggioranza nella sua direzione, Renzi procedette a formare un governo – espressione dell’alleanza Pd-Ncd – assai innovativo non solo per il programma ma anche per la presenza in ministeri chiave di giovani donne (Esteri, Difesa, Sviluppo economico, Istruzione, Salute, Riforme costituzionali e rapporti con il Parlamento, Semplificazione della Pubblica amministrazione, Affari regionali). Pochi giorni prima di diventare premier, Renzi – in un breve saggio steso in occasione della ripubblicazione del volume di Norberto Bobbio Destra e

sinistra, uscito vent’anni prima – espose nel febbraio 2104 la sua idea di sinistra. Criticava quella “vecchia maniera”, ma sosteneva comunque la validità della sinistra se concepita al passo di tempi che non erano piú quelli né della già gloriosa socialdemocrazia europea né del comunismo condannato dalla storia. Insomma, anche nel campo dell’ideologia e della cultura politica optava per una decisa “rottamazione”, esortando ad affrontare la questione con «coraggio, non paura». E, riflettendo sulla «vecchia contraddizione eguali/diseguali a lungo cosí nitida», si domandava se «non sia piú utile oggi declinare quella diade nei termini temporali di conservazione/innovazione», seppure «l’eguaglianza – non l’egualitarismo – resta la frontiera dei democratici, in un mondo interdipendente, dilaniato dalla disparità di diritti, reddito, cittadinanza». Per dare una base concreta e feconda alla lotta contro le diseguaglianze – scriveva – occorre puntare su «innovazione» contro «conservazione», su «movimento» contro «stagnazione», tenendo conto che i blocchi sociali che avevano segnato la storia del Novecento «non esistono piú». La conclusione era: La sinistra italiana è oggi chiamata a riconoscere e a conoscere il movimento continuo delle nuove dinamiche sociali, contro chi vorrebbe vanamente fare appello a blocchi che non esistono piú e che è bene non esistano piú!

Per dare un’efficace rappresentanza agli «ultimi» e agli «esclusi» era indispensabile partire dalle lezioni del passato: questa «la missione storica» della sinistra nel presente 4. Chiaro il senso del discorso: rimuovere gli ostacoli lasciati dal tempo liberando le energie congiunte di imprese e mondo del lavoro; creare lo sviluppo in grado di generare con le sue ricadute le risorse indispensabili per ridurre gli eccessi di diseguaglianza; rimuovere i freni che paralizzano il processo legislativo riformando le istituzioni dello Stato; ammodernare e rendere piú snelle ed efficienti le strutture burocratiche abbattendone le paralizzanti bardature. Alcuni mesi dopo quel saggio, in autunno, all’interno e all’esterno del Pd si sviluppò il dibattito sul «Partito della nazione»: concetto evocato da Alfredo Reichlin, ex dirigente e ideologo del Pci, suggestionato dall’invito che Togliatti aveva rivolto al suo partito e alla classe operaia a strappare dalle mani della borghesia la bandiera della nazione e a farsi interprete in prima persona dei bisogni del Paese. Il gruppo dirigente renziano si appropriò in un

primo tempo dell’espressione, pensando di riconoscervi la propria vocazione a riformare profondamente, quasi a rifondare, il Paese. Le critiche piovvero da tutte le parti, ma particolarmente graffianti furono quelle provenienti dalla sinistra del Pd. Dopo di che quella sortita ideologica venne accantonata. In effetti, parlare di Partito della nazione era infelice perché sembrava evocare una volontà totalizzante, un disegno rivolto a minimizzare la distinzione tra i progetti politici e la non omogeneità dei diversi interessi sociali, in contrasto con i principî dei sistemi liberaldemocratici, nei quali vi sono i partiti nella nazione e non un Partito della nazione. Insomma, il discorso renziano non piacque per nulla a quella che il giovane leader definiva la vecchia sinistra politica e sindacale, che lo lesse come il segno di un approccio essenzialmente neoautoritario, una versione persino di neoberlusconismo, un attacco da respingere ai propri valori e alla sua storia, insomma come la presenza di “un corpo estraneo”. Ansioso di procedere nella direzione delle riforme la cui attuazione doveva giustificare la destituzione di Letta e la sua ascesa alla guida del governo e sapendo di non poter procedere in Parlamento con le sole forze del Pd continuamente a rischio al Senato, Renzi prese una spregiudicata iniziativa: invitare al largo del Nazareno, nella sede del suo partito, Berlusconi, che accettò. Dall’incontro, avvenuto il 18 gennaio 2014, uscí il cosiddetto «Patto del Nazareno», il cui oggetto principale era quella riforma della seconda parte della Costituzione che in passato era sistematicamente fallita. Fu raggiunto un accordo di massima i cui punti chiave erano: la modifica del sistema elettorale, il superamento del “bicameralismo perfetto” e la modifica del titolo V in tema di rispettivi poteri dello Stato e delle regioni. L’intesa di Renzi con Berlusconi – giustificata dal premier con la necessità di procedere con tutte le forze della maggioranza e delle opposizioni disposte a confrontarsi per scrivere e fare approvare le regole comuni del sistema istituzionale e politico – venne aspramente contestata da un variegato fronte di oppositori, tra i quali non mancarono coloro che avanzarono il sospetto che essa coprisse anche accordi segreti riguardanti in primo luogo la difesa degli interessi aziendali del leader di Forza Italia. La sinistra Pd la denunciò come un’operazione di carattere trasformistico e imputò a Renzi di coltivare in materia costituzionale un progetto di «democrazia plebiscitaria» diretto a indebolire fortemente gli equilibri tra i poteri accentrandoli nelle mani di un Parlamento monocamerale assoggettato al premier. L’accusa, che si

affiancava a quella di essere un fautore del neoliberismo, era la testimonianza di quanto profondo fosse ormai il solco nel Pd tra renziani e antirenziani. In campo economico, il premier stimolava gli imprenditori ad accrescere gli investimenti, aspettandosi dal rilancio dello sviluppo il calo della disoccupazione e la possibilità di migliorare le condizioni dei ceti sociali piú deboli. A quest’ultimo scopo promosse nell’aprile 2014 l’erogazione di un bonus di 80 euro ai lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi, mirando ad allargare il consenso a favore del governo e del suo partito. Il risultato conseguito alle elezioni europee del 15 maggio di quell’anno vide un successo del Pd del tutto inaspettato, che parve conferire al premier la piena legittimazione che era mancata a Monti e Letta: il Pd ottenne il 40,82%, contro il 21,16 al Movimento 5stelle, il 16,83 a Forza Italia e il 6,16 alla Lega Nord. Intanto il 27 febbraio, dopo anni di discussioni sull’opportunità o meno di compiere un tale passo, il premier-segretario aveva fatto approvare dalla direzione, con un voto pressoché unanime, l’adesione del Pd al Partito socialista europeo. Nel corso del 2014-15 venne varata, per iniziativa del ministro Giuliano Poletti, una riforma del diritto del lavoro, denominata Jobs Act da un’analoga legge statunitense, con l’obiettivo di contrastare il precariato mediante l’introduzione di un nuovo tipo di contratto a tutele crescenti per i nuovi assunti a tempo indeterminato. La riforma implicava l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Nel 2015 fu la volta della «riforma della buona scuola», di cui punti qualificanti erano l’attribuzione ai presidi della facoltà di chiamare direttamente i docenti, il reclutamento delle future leve degli insegnanti mediante concorsi e, per sanare una situazione insostenibile, l’assunzione in ruolo di circa 100 000 precari. Seguí sempre nel 2015, per iniziativa della ministra Marianna Madia, la riforma della pubblica amministrazione, che stabiliva il merito come criterio per le retribuzioni dei dirigenti, la riorganizzazione delle forze dell’ordine, lo snellimento dei tempi burocratici, la riorganizzazione delle prefetture, la lotta contro i funzionari pubblici «fannulloni», da licenziarsi in caso di scarso rendimento, assenze ingiustificate e omissioni colpose di vario genere. Restava aperto il problema della revisione e del contenimento della spesa pubblica, al quale i governi Monti e Letta avevano iniziato a porre mano con difficoltà, dovendo far fronte a tenaci ostacoli e resistenze. Il governo Renzi nominò dei commissari che però ottennero a loro volta risultati modesti. Il Jobs Act, la riforma della

«buona scuola» e la riforma della pubblica amministrazione costituirono un sostanzioso “pacchetto”, che però incontrò il netto dissenso sia della minoranza del Pd e della Cgil, sia di molta parte dei lavoratori, degli insegnanti e degli studenti. In particolare, la reazione negativa alla riforma della scuola fu largamente dovuta all’errore compiuto dal governo di non averla discussa sufficientemente con i diretti interessati. Tra le misure piú contestate il potere discrezionale affidato ai presidi, la selezione meritocratica dei docenti e la supposta aziendalizzazione dell’insegnamento. La risposta furono scioperi e agitazioni. Ma la riforma su cui Renzi puntò tutte le sue carte fu quella riguardante la seconda parte della Costituzione, al punto di arrivare ad affermare che alla sua approvazione egli legava il destino dell’esecutivo e il suo personale in quanto uomo politico, tanto che, se avesse fallito nel suo intento, sarebbe tornato a vita privata. A precederla fu l’approvazione nel maggio 2015 della legge elettorale detta Italicum, che avrebbe dovuto sostituire la legge Calderoli in vigore nelle elezioni politiche del 2006, 2008 e 2013. Essa prevedeva per la Camera un sistema maggioritario a doppio turno, con premio di maggioranza alla Camera di 340 seggi (55%) alla lista vincitrice che avesse ottenuto il 40% dei voti al primo turno; il ballottaggio al secondo turno tra le due liste piú votate se nessuna avesse raggiunto la quota necessaria al primo; una soglia di sbarramento al 3% per tutti i partiti; la suddivisione del territorio in cento collegi plurinominali; un capolista bloccato in ogni collegio per tutti i partiti e la possibilità per i capilista (dello stesso sesso per non oltre il 60% dei collegi in una medesima circoscrizione regionale) di presentarsi in un massimo di dieci collegi. La legge, considerata da Renzi indispensabile per dare alla parte vincente e all’esecutivo la forza e l’autorevolezza necessarie per governare con efficacia, era pensata come tassello di una riforma della Costituzione il cui punto centrale doveva essere la fine del bicameralismo paritario, cosí da fare della Camera dei deputati il motore unico del processo legislativo. Dopo un iter lungo, faticoso e turbolento la riforma della Costituzione venne approvata nell’aprile 2016. I suoi punti cardine erano: il superamento del bicameralismo paritario e il potere alla sola Camera di dare e togliere la fiducia al governo; la formazione di un Senato – composto da non oltre cento membri, di cui fino a cinque nominati dal Capo dello Stato per sette anni e non rinnovabili e gli altri eletti a rappresentanza delle regioni e delle grandi

città metropolitane – con funzione legislativa paritaria con la Camera in alcune materie, tra cui la revisione della Costituzione e le leggi costituzionali; l’eliminazione delle competenze concorrenti tra Stato e regioni e la clausola di supremazia del primo sulle seconde; l’aumento delle firme necessarie per i progetti di iniziativa popolare; l’abbassamento del quorum alla maggioranza semplice dei votanti per la validità dei referendum abrogativi; e il potenziamento del principio di parità di genere nell’accesso alle cariche elettive. Essendo mancata l’approvazione della riforma da parte dei due terzi dei parlamentari delle due Camere, la sua entrata in vigore fu rinviata all’esito del necessario referendum popolare. Poco dopo, in maggio, fu approvata, a coronamento di annose battaglie da parte delle correnti laiche, la legge che legittimava le unioni civili, ma non consentiva in Italia, a differenza che in molti altri Paesi, di parlare di matrimoni tra appartenenti allo stesso sesso. Le riforme di carattere economico-sociale introdotte dal governo vennero accolte con favore sia da imprenditori come l’amministratore delegato della Fiat-Chrysler Sergio Marchionne e dalle principali istituzioni economiche internazionali sia da influenti esponenti e leader politici dell’Unione Europea. Sennonché nel Paese il fronte delle opposizioni nei confronti del governo e della persona di Renzi andò via via allargandosi. I sindacati rimproveravano al premier di non rispettare il loro consolidato diritto di contrattare le riforme con il governo; di stabilire rapporti privilegiati con gli imprenditori; di ostentare un ottimismo propagandistico sulla ripresa dell’economia che invece stentava ad arrivare. Al divorzio tra la sinistra antigovernativa e il governo venne a sommarsi quello tra Berlusconi e Renzi. L’elezione il 31 gennaio 2015 di Sergio Mattarella a presidente della Repubblica – in seguito alle dimissioni di Napolitano per la sua età avanzata – fortemente sostenuta da Renzi, venne considerata da Berlusconi come motivo per la rottura del Patto del Nazareno, lasciando il governo privo dell’appoggio parlamentare di Forza Italia, parzialmente compensato dal gruppo di Denis Verdini, staccatosi da Forza Italia. A quel punto Berlusconi si schierò rumorosamente contro l’Italicum e la riforma della Costituzione che aveva fino ad allora condiviso, denunciandoli come «un pericolo per la democrazia» e si uní al coro di quanti attribuivano a Renzi l’ambizione di esercitare una leadership personale autoritaria; il che sancí la sua piena consonanza con la Lega, il Movimento

5stelle, Fratelli d’Italia e Sinistra italiana. All’interno del Pd montava sempre piú l’insofferenza verso il premier da parte della corrente di sinistra guidata da Bersani, che convergeva all’esterno del partito con quella della Cgil e della Uil. Le critiche riguardavano in particolare tre aspetti della linea di Renzi: la volontà di cambiare la vocazione sociale del Pd e di trasformare quest’ultimo in uno strumento personale; un progetto di riforma elettorale e costituzionale volto a spingere il partito verso un’azzardata avventura solitaria rinnegando l’ancora valida eredità del Centro-sinistra; e, tasto insistentemente battuto, la scarsa sensibilità ai bisogni delle classi popolari. Renzi, sentendosi molto incoraggiato dal risultato ottenuto alle elezioni europee del 2014, pensò di avere acquisito un solido consenso popolare per procedere sulla via delle riforme; ma si trattò di una valutazione errata, di cui costituirono un segno i risultati negativi delle elezioni amministrative regionali e comunali del maggio 2015, che videro il Pd subire numerose sconfitte (la Liguria fu persa a causa di una rottura all’interno del partito). Nella successiva tornata di elezioni comunali del giugno 2016 si registrarono insuccessi ancora piú pesanti, a partire da Roma. Nella città retta dal sindaco Pd Ignazio Marino non solo era scoppiato lo scandalo di «Mafia capitale», che – radicato nell’amministrazione dell’ex sindaco di destra Gianni Alemanno – aveva scoperchiato un articolato sistema di corruzione; ma lo stesso Pd romano era risultato inquinato da personaggi ambigui, tanto da indurre il centro nazionale a commissariarlo. Privato dell’appoggio del suo partito per la sua supposta inadeguatezza al compito, Marino, che reagí attaccando Renzi, fu indotto alle dimissioni nell’ottobre 2015. Vennero cosí a crearsi le condizioni ideali per un’aggressiva campagna lanciata dalle opposizioni e soprattutto dal Movimento 5stelle, che alle elezioni comunali del giugno 2016 riuscí a capitalizzare a suo favore l’indignazione popolare. Roma venne conquistata dalla sua candidata Virginia Raggi, che ottenne il 67,15% contro il candidato Pd fermo al 32,85; cadde anche Torino, dove fu eletta Chiara Appendino, anch’essa dei 5stelle, sconfiggendo Piero Fassino, che pure aveva bene amministrato; Napoli vide riconfermato Luigi De Magistris a capo di Liste civiche; Savona andò alla Lega Nord; il Centrosinistra ottenne l’unico importante successo con la vittoria a Milano di Giuseppe Sala, aiutato dal prestigio del sindaco precedente Giuliano Pisapia, con il 51,70%. Si è detto che Renzi considerava la riforma della Costituzione l’asse

portante del suo programma. La legge di riforma – detta anche Renzi-Boschi in relazione all’impegno profuso da Maria Elena Boschi, ministra delle Riforme costituzionali (ma vi era anche chi, sul fronte degli avversari, la definiva «legge Napolitano» per l’appoggio dato dall’ex Capo dello Stato) – dopo la tormentata approvazione in sede parlamentare dovette essere sottoposta al voto popolare. La campagna per il Sí o per il No si svolse con toni accesissimi. I fautori del Sí presentarono la loro vittoria come la conclusione degli sforzi diretti a portare l’Italia alla pari con i Paesi piú moderni e avanzati; quelli del No batterono senza tregua sul tasto che il successo di Renzi avrebbe rappresentato il coronamento del suo progetto di leadership autoritaria. Messo in secondo piano il contenuto specifico della riforma, la contesa assunse il carattere di un plebiscito pro o contro Renzi, subendo cosí un processo di estrema «personalizzazione». A dividersi frontalmente furono in primo luogo i costituzionalisti ovvero gli esperti in materia, i quali, di fronte al medesimo oggetto, si divisero dando pareri diametralmente opposti. A personalizzare il referendum fu anche il premier, che – come si è ricordato – dichiarò ripetutamente che all’approvazione o alla sconfessione di quella riforma era legata la sua permanenza al governo. I suoi avversari – uno schieramento che piú composito non avrebbe potuto essere: da Forza Italia alla sinistra del Pd e alla Cgil, dall’Associazione partigiani d’Italia alla destra di matrice neofascista, da Berlusconi, Grillo, Salvini a Bersani e D’Alema – fecero barriera per fermare Renzi. Si era saldato un rassemblement da lui definito «un’accozzaglia», in cui confluí chi voleva preservare incarichi e prebende assicurate dal vecchio sistema, chi temeva uno sconquasso nello schieramento dei partiti, chi vedeva in Renzi un aspirante piccolo De Gaulle, chi voleva stroncare una leadership concorrenziale, chi considerava il governo dei rottamatori renziani amico dei ricchi. Non vi è dubbio che a favore del fronte del No giocasse il fatto che nel Paese, nonostante modesti miglioramenti, persistessero condizioni economiche difficili, rispetto alle quali l’insistito ottimismo del premier sulle potenzialità dell’Italia, solo che si proseguisse sulla strada delle misure da lui adottate e proposte, appariva propagandistico e suscitava il risentimento di quanti persistevano in pesanti difficoltà economiche. A rendere tutt’altro che agevole il percorso di Renzi era stata anche la disastrosa situazione creatasi nell’Africa settentrionale e in Medio Oriente. In Tunisia, Libia, Egitto, in Siria, Iraq e nello Yemen erano in corso laceranti

conflitti degenerati in guerre civili. Particolare importanza per l’Italia avevano avuto le conseguenze della caduta del regime di Gheddafi in Libia, divenuta la porta aperta per il riversarsi di una incontrollabile immigrazione sulle spiagge italiane. Il quadro era stato ulteriormente aggravato dall’emergere e dall’espandersi in ampie zone della Siria e dell’Iraq del cosiddetto Stato islamico, ispirato a un islamismo ultraradicale e crudele, contro il quale vennero mobilitate le forze militari di vari Paesi. La fuga disperata di milioni di persone dalla guerra e dalla miseria investí in maniera drammatica la Turchia, e in Europa soprattutto l’Italia e la Grecia. L’Italia si prodigò con generosità e pesanti oneri economici nell’opera di accoglienza a questi “dannati della terra”, non ricevendo dagli altri membri dell’Unione Europea – dove in Paesi come l’Ungheria e l’Austria si rafforzavano i movimenti xenofobi decisi a chiudere le frontiere agli immigrati e a respingerli – un adeguato sostegno, nonostante le ripetute proteste del governo italiano. Il quale all’interno si trovò a fare i conti con l’ostilità delle correnti xenofobe nostrane e con le continue controversie suscitate dalla dislocazione nei vari comuni di contingenti di profughi. Ma motivo di ripetute frizioni tra l’Italia e l’Unione fu anche la richiesta di una linea di politica economica che ponesse fine all’austerity e favorisse il rilancio degli investimenti pubblici e privati. Il giorno del referendum sulla riforma costituzionale – svoltosi il 4 dicembre 2016 – acquistò quindi il carattere di un pronunciamento, prima ancora che su quella specifica riforma, su Renzi e la sua azione di governo. Il risultato decretò la netta vittoria del No. L’affluenza fu elevata: il 65, 47%; il Sí ottenne 13 432 208 voti (il 40,89), il No 19 419 507 voti (il 59,11). Il Sí prevalse unicamente a Milano, nel Trentino-Alto Adige, in Toscana e in Emilia-Romagna; per esso si schierarono circa i tre quarti degli elettori del Pd. Il risultato dava tre indicazioni: che la grande maggioranza della popolazione aveva negato il suo consenso a Renzi; che la sconfitta della riforma era l’ultimo capitolo fallimentare di tutti i tentativi compiuti a partire dal 1983 di cambiare la seconda parte della Costituzione; che Renzi continuava ad avere con sé la grande maggioranza del Pd e dei suoi elettori. Prendendo atto dell’esito del referendum, il 5 dicembre il premier diede le dimissioni; dopo di che il presidente Mattarella affidò l’incarico di formare il nuovo governo a Paolo Gentiloni, esponente del Pd e già ministro degli Esteri, che entrò in carica il 12 dicembre. Alle dimissioni di Renzi da premier

seguirono il 19 febbraio 2017 anche quelle da segretario del Pd, aprendo in tal modo la fase congressuale del partito. Riflettendo sulle cause della sconfitta, il giovane leader ammise in chiave autocritica che al pacchetto delle numerose positive riforme varate dal governo da lui presieduto non aveva corrisposto una sufficiente capacità di comunicazione con l’opinione pubblica, tanto da aver favorito l’immagine che per aspetti sostanziali il suo fosse stato «un riformismo dall’alto». 1. G. Sartori, Homo videns. Televisione e post-pensiero, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 38 e 77. 2. Cfr. www.partitodemocratico.it/manifesto-dei-valori/. 3. Le citazioni in Camera dei deputati - Senato della Repubblica, XVII Legislatura – Discussioni – Seduta del 22 aprile 2013, pp. 2-3. 4. M. Renzi, Lo spazio della sinistra, il tempo dell’innovazione, in N. Bobbio, Destra e sinistra, Donzelli, Roma 2014, pp. 163-67.

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Indici dei nomi e delle sigle

Indice dei nomi

Adenauer, Konrad. Aehrenthal, Alois von. Agnelli, Giovanni. Aimone duca di Spoleto. Albertario, Davide. Albertini, Alberto. Albertini, Luigi. Aldisio, Salvatore. Alemanno, Gianni. Alessandro Karađorđević di Iugoslavia, primo re di Iugoslavia (1929-1934). Alexander, Harold Rupert. Alfano, Angelino. Alfieri, Carlo. Alfonso XIII di Borbone, re di Spagna (1886-1931). Ali Ağca, Mehmet. Alicata, Mario. Allende, Salvador. Almirante, Giorgio. Altissimo, Renato. Alula, ras etiope. Alvaro, Corrado. Amato, Giuliano. Ambrosio, Vittorio. Ambrosoli, Giulio. Amedeo d’Aosta, viceré d’Etiopia (1937-1941). Amendola, Giovanni. Andreotti, Giulio. Annarumma, Antonio. Anselmi, Tina. Antonioni, Michelangelo. Apih, Elio. Appendino, Chiara. Aquarone, Alberto. ’Arafāt, Yāsser. Arangio Ruiz, Vincenzo. Aristarco, Guido. Ascoli, Max. Audisio, Walter. Azaña, Manuel. Bacchelli, Riccardo.

Bachelet, Vittorio. Badoglio, Pietro. Baffi, Paolo. Bakunin, Michail. Balbo, Italo. Baldissera, Antonio. Balzamo, Vincenzo. Banfi, Antonio. Baratieri, Oreste. Barbagallo, Corrado. Barbato, Nicola. Barthou, Louis. Basaglia, Franco. Baslini, Antonio. Bassanesi, Giovanni. Bassanini, Franco. Basso, Lelio. Battisti, Cesare. Bava Beccaris, Fiorenzo. Beck, Ludwig. Bedell Smith, Walter. Bellieni, Camillo. Below, Otto von. Benedetti, Arrigo. Benedetto XV (Giacomo Paolo Giovanni Battista della Chiesa), papa (1914-1922). Beneduce, Alberto. Benvenuto, Giorgio. Bergson, Henri. Berlinguer, Enrico. Berlinguer, Giovanni. Berlinguer, Luigi. Berlusconi, Silvio. Berneri, Camillo. Bersani, Pierluigi. Bertani, Agostino. Bertinotti, Fausto. Bertolaso, Guido. Bertone, Giovanni Battista. Bey Zogu, Ahmed. Biagi, Marco. Bianchi, Michele. Bianco, Gerardo. Biffi Gentili, Enzo. Binni, Walter. Biondi, Alfredo. Bismarck, Otto von. Bissolati, Leonida. Bixio, Nino.

Blair, Tony. Blanqui, Auguste. Blomberg, Werner von. Blum, Léon. Bobbio, Norberto. Bocchini, Arturo. Boccoleri, Cesare. Boffo, Dino. Bonghi, Ruggero. Bonomi, Ivanoe. Bordiga, Amadeo. Borgese, Giuseppe Antonio. Borghese, Junio Valerio. Borgongini Duca, Francesco. Borrelli, Francesco Saverio. Borsellino, Paolo. Boschi, Maria Elena. Boselli, Paolo. Bossi, Umberto. Bottai, Giuseppe. Bozzi, Aldo. Brancati, Vitaliano. Breda, Vincenzo. Bresci, Gaetano. Briand, Aristide. Brin, Benedetto. Brofferio, Angelo. Brosio, Manlio. Bruno, Giordano. Buffarini-Guidi, Guido. Bülow, Bernhard von. Buozzi, Aldo. Buozzi, Bruno. Burzio, Filippo. Bush, George H. Buttiglione, Rocco. Cabrini, Angiolo. Caccia, Bruno. Cadorna, Luigi, Cadorna, Raffaele. Cafagna, Luciano. Cafiero, Carlo. Cagliari, Gabriele. Cairoli, Benedetto. Cairoli, Enrico. Cairoli, Giovanni. Calabresi, Luigi.

Calamandrei, Piero. Calcagno, Diego. Calderoli, Roberto. Calipari, Nicola. Calogero, Guido. Calvi, Roberto. Calvino, Italo. Calvo Sotelo, José. Campilli, Pietro. Camurri, Renato. Cancellieri, Anna Maria. Caneva, Carlo. Cantimori, Delio. Capello, Luigi. Carabona, Francesco. Carducci, Giosue. Caretti, Stefano. Cariglia, Antonio. Carità, Mario. Carli, Guido. Carocci, Giampiero. Cartiglia, Carlo. Casaleggio, Gianroberto. Casaroli, Agostino. Casini, Pier Ferdinando. Castellano, Giuseppe. Castelli, Roberto. Cattaneo, Carlo. Cavallero, Ugo. Cavallotti, Felice. Caviglia, Enrico. Cavour, Camillo Benso conte di. Cefis, Eugenio. Chabod, Federico. Chamberlain, Neville. Chiaromonte, Gherardo. Chierici, Renzo. Chiesa, Damiano. Chiesa, Mario. Chruščëv, Nikita Sergeevič. Churchill, Winston. Cialdini, Enrico. Ciampi, Carlo Azeglio. Cianca, Alberto. Ciano, Costanzo. Ciano, Galeazzo. Cicchitto, Fabrizio. Ciccotti, Ettore.

Cini, Bartolomeo. Cione, Edmondo. Cirino Pomicino, Paolo. Clark, Mark. Clemenceau, Georges. Clinton, William Jefferson “Bill”. Coco, Francesco. Coen, Federico. Colajanni, Napoleone. Colletti, Lucio. Colli, Evasio. Colombo, Emilio. Colombo, Vittorino. Colorni, Eugenio. Compagna, Francesco. Conti, Ettore. Coppola, Francesco. Corbino, Epicarmo. Corradini, Enrico. Corridoni, Filippo. Cortesi, Luigi. Cossiga, Francesco. Cossutta, Armando. Costa, Andrea. Costa, Angelo. Crainz, Guido. Craxi, Bettino. Crisafulli, Vezio. Crispi, Francesco. Croce, Benedetto. Cuffaro, Salvatore. Cuperlo, Gianni. Curiel, Eugenio. Daladier, Édouard. D’Alema, Massimo. Dalla Chiesa, Carlo Alberto. D’Ambrosio, Gherardo. D’Annunzio, Gabriele. D’Antona, Massimo. D’Aragona, Ludovico. Darida, Clelio. D’Azeglio, Massimo. De Ambris, Alceste. De Amicis, Edmondo. De Andreis. De Benedetti, Carlo. De Bono, Emilio.

De Bosis, Lauro. De Felice, Renzo. De Felice-Giuffrida, Giuseppe. De Gasperi, Alcide. De Gaulle. De Leon, Daniel. Della Volpe, Galvano. De Lorenzo, Francesco. De Lorenzo, Giovanni. Del Vecchio, Gustavo. De Magistris, Luigi. De Martino, Francesco. De Michelis, Gianni. De Mita, Ciriaco. De Nava, Giuseppe. Deng Xiaoping. De Nicola, Enrico. De Nicola, Luigi. Depretis, Agostino. De Rosa, Fernando. De Ruggiero, Guido. De Sanctis, Francesco. De Sanctis, Gaetano. De Sanctis, Giuseppe. De Stefani, Alberto. De Vecchi, Cesare Maria. De Viti de Marco, Antonio. Diaz, Armando. Diaz, Furio. Di Bella, Franco. Dini, Lamberto. Di Pietro, Antonio. Di Vittorio, Giuseppe. Dolci, Danilo. Dolci, Gioacchino. Dollfuss, Engelbert. Donati, Giuseppe. Donegani, Guido. Dorso, Guido. Dossetti, Giuseppe. Dozier, James Lee. Draghi, Mario. Dumini, Amerigo. Dunn, James C. Eichmann, Adolf. Einaudi, Luigi. Einstein, Albert.

Eisenhower, Dwight David. Engels, Friedrich. Englaro, Eluana. Ercole, Francesco. Facta, Luigi. Falck, Enrico. Falcone, Giovanni. Falkenhayn, Erich von. Fanfani, Amintore. Farinacci, Roberto. Farini, Luigi Carlo. Fassina, Stefano. Fassino, Piero. Fazio, Antonio. Fedele, Pietro. Federzoni, Luigi. Feltrinelli, Giangiacomo. Fenoglio, Beppe. Ferrara, Francesco. Ferrari, Francesco Luigi. Ferrari, Giuseppe. Ferrero, Guglielmo. Ferri, Enrico. Filzi, Fabio. Fini, Gianfranco. Finocchiaro Aprile, Andrea. Fiordelli, Pietro. Fiori, Giuseppe. Foa, Vittorio. Forges Davanzati, Roberto. Forlani, Arnaldo. Formigoni, Guido. Fornero, Elsa. Fortis, Alessandro. Fortuna, Loris. Fortunato, Giustino. Foschi, Franco. Francesco II di Borbone, re delle Due Sicilie (1859-1861). Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este, arciduca d’Austria (1896-1914). Francesco Giuseppe I, imperatore d’Austria (1848-1916). Franchetti, Leopoldo. Franco, Ciccio. Franco, Francisco. Fritsch, Werner. Fusaro, Carlo. Gadda, Carlo Emilio.

Galasso, Giuseppe. Galimberti, Duccio. Galli della Loggia, Ernesto. Gandin, Antonio. Garavini, Sergio. Gardini, Raul. Garibaldi, Giuseppe. Gariboldi, Italo. Garibaldi Bosco, Rosario. Garosci, Aldo. Gasparri, Maurizio. Gasparri, Pietro. Gava, Antonio. Gedda, Luigi. Gelli, Licio. Gelmini, Mariastella. Gennari, Egidio. Gentile, Giovanni. Gentiloni, Ottorino. Gentiloni, Paolo. Ghisalberti, Alberto Maria. Giannini, Guglielmo. Gibson, Violet. Gil Robles, José María. Gilbert, Martin. Gini, Corrado. Giolitti, Antonio. Giolitti, Giovanni. Giovanni IV, negus d’Etiopia (1871-1889). Giovanni XXIII (Giuseppe Angelo Roncalli), papa (1958-1963). Giovanni Paolo II (Karol Józef Wojtyła), papa (1978-2005). Giuliano, Boris. Giuliano, Salvatore. Giurati, Giovanni. Gnocchi-Viani, Osvaldo. Gobetti, Piero. Gonella, Guido. Goria, Giovanni. Gor'kij, Maksim. Gramsci, Antonio. Grandi, Achille. Grandi, Dino. Grassi, Paolo. Graziani, Rodolfo. Greco, Ruggiero. Grillo, Beppe. Gronchi, Giovanni. Gruber, Karl.

Gruppi, Luciano. Guerrazzi, Francesco Domenico. Guerri, Giordano Bruno. Gui, Luigi. Gullo, Fausto. Guttuso, Renato. Hindenburg, Paul Ludwig. Hitler, Adolf. Hötzendorf, Franz Conrad von. Ingrao, Pietro. Ingroia, Antonio. Iotti, Nilde. Ippolito, Felice. Jacini, Stefano. Jannuzzi, Lino. Jaruzelski, Wojciech Witold. Jemolo, Arturo Carlo. Joffre, Joseph. Kappler, Herbert. Kennan, George Frost. Kennedy, John Fitzgerald. Kesselring, Albert. Kissinger, Henry. Koch, Pietro. Kuliscioff, Anna. Kyenge, Cécile. Labriola, Antonio. Labriola, Arturo. Labriola, Silvano. Lagardelle, Hubert. Lama, Luciano. La Malfa, Giorgio. La Malfa, Ugo. La Marmora, Alfonso. Lanza, Giovanni. La Piana, Giorgio. La Pira, Giorgio. Lario, Veronica. La Rive, William de. La Torre, Pio. Laval, Pierre. Lazzari, Costantino. Lenin, Vladimir Il'ič Ul'janov, detto.

Leone, Giovanni. Leone XIII (Vincenzo Gioacchino Raffaele Luigi Pecci), papa (1878-1903). Letta, Enrico. Levi, Carlo. Levi, Lucio. Libertini, Lucio. Lima, Salvo. Litvinov, Maksim. Lizzani, Carlo. Lloyd George, David. Lombardi, Riccardo. Lombardo, Ivan Matteo. Lombroso, Cesare. Longo, Luigi. Longo, Pietro. Loria, Achille. Loubet, Émile. Luce, Clare Boothe. Lucetti, Gino. Ludendorff, Erich. Lussu, Emilio. Luzzatti, Luigi. Luzi, Mario. Macaluso, Emanuele. Madia, Marianna. Magliani, Agostino. Magri, Lucio. el Mahroug, Karima, vedi Ruby. Malagodi, Giovanni. Malatesta, Errico. Malfatti, Franco Maria. Mammì, Oscar. Manacorda, Guido. Manca, Enrico. Mancini, Giacomo. Mancini, Pietro. Mancuso, Filippo. Mao Zedong. Marchesi, Concetto. Marchionne, Sergio. Marcinkus, Paul. Marconi, Guglielmo. Marcora, Giuseppe. Margotti, Giacomo. Marinetti, Filippo Tommaso. Marini, Franco. Marino, Ignazio.

Marinotti, Franco. Maroni, Roberto. Marshall, George. Martelli, Claudio. Martinazzoli, Mino. Martino, Antonio. Marx, Karl. Massari, Giuseppe. Mastella, Clemente. Mattarella, Piersanti. Mattarella, Sergio. Mattei, Enrico. Matteotti, Giacomo. Maturi, Walter. Mazzini, Giuseppe. Meda, Filippo. Melograni, Piero. Menabrea, Luigi Federico. Menelik II, negus d’Etiopia (1889-1913). Menichella, Domenico. Menichella, Donato. Menotti Serrati, Giacinto. Merlin, Lina. Merzagora, Cesare. Messe, Giovanni. Micheli, Giuseppe. Michelini, Arturo. Miglio, Gianfranco. Miglioli, Guido. Milošević, Slobodan. Mills, David. Minghetti, Marco. Minzoni, Giovanni. Mira, Giovanni. Mitterrand, François. Modigliani, Giuseppe Emanuele. Molotov, Vjačeslav. Monelli, Paolo. Montanelli, Giuseppe. Montanelli, Indro. Montesi, Wilma. Montgomery, Bernard. Monti, Mario. Morandi, Carlo. Morandi, Rodolfo. Mori, Cesare. Moro, Aldo. Moroni, Sergio.

Morra di Lavriano, Roberto. Mortati, Costantino. Mosca, Gaetano. al-Mukhtar, Omar. Murri, Romolo. Muscetta, Carlo. Mussolini, Benito. Mussolini, Vittorio. Muti, Ettore. Napoleone III Bonaparte, imperatore dei francesi (1852-1870). Napolitano, Giorgio. Natoli, Aldo. Natta, Alessandro. Negri, Toni. Nenni, Pietro. Nesi, Nerio. Neurath, Konstantin von. Nicola II Romanov, imperatore di Russia (1894-1917). Nicolazzi, Franco. Nicotera, Giovanni. Nietzsche, Friedrich Wilhelm. Nitti, Francesco Saverio. Noce, Teresa. Oberdan, Guglielmo. Occhetto, Achille. Ojetti, Ugo. Olivetti, Camillo. Omodeo, Adolfo. Oriani, Alfredo. Orlando, Leoluca. Orlando, Vittorio Emanuele. Oviglio, Aldo. Pacciardi, Randolfo. Pajetta, Gian Carlo. Pallante, Antonio. Pannella, Marco. Pannunzio, Mario. Paolo VI (Giovanni Battista Montini), papa (1963-1978). Papen, Franz von. Papini, Giovanni. Pareto, Vilfredo. Parri, Ferruccio. Pascoli, Giovanni. Pastore, Giulio. Paulus, Friedrich von.

Pavelić, Ante. Pavolini, Alessandro. Pella, Giuseppe. Pelloux, Luigi. Perotti, Giuseppe. Perrone, fratelli. Persano, Carlo Pellion di. Pertini, Sandro, Peruzzi, Ubaldino. Petacci, Claretta. Pétain, Henri-Philippe. Piacentini, Marcello. Piccioni, Attilio. Pieri, Piero. Pillitteri, Paolo. Pinelli, Giuseppe. Pintor, Giaime. Pintor, Luigi. Pio IX (Giovanni Maria Mastai Ferretti), papa (1846-1870). Pio X (Giuseppe Melchiorre Sarto), papa (1903-1914). Pio XI (Achille Ambrogio Damiano Ratti), papa (1922-1939). Pio XII (Eugenio Maria Giuseppe Pacelli), papa (1939-1958). Piovene, Guido. Pirelli, Giovanni Battista. Pisacane, Carlo. Pisapia, Giuliano. Pischedda, Carlo. Pisciotta, Gaspare. Podrecca, Guido. Poggiolini, Duilio. Poletti, Giuliano. Pound, Ezra. Prampolini, Camillo. Pratolini, Vasco. Praz, Mario. Preziosi, Giovanni. Prezzolini, Giuseppe. Primo de Rivera, José Antonio. Primo de Rivera, Miguel. Princip, Gavrilo. Prinetti, Giulio. Prodi, Romano. Proudhon, Pierre-Joseph. Pucci, Enrico. Pugliese, Daniele. Pugliese, Orazio. Putin, Vladimir.

Quasimodo, Salvatore. Raggi, Virginia. Rahn, Rudolf. Ranzato, Gabriele. Rattazzi, Urbano. Rauti, Pino. Reale, Oronzo. Reichlin, Alfredo. Reineri, Michele. Renzi, Matteo. Renzi, Renzo. Reynaud, Paul. Ribbentrop, Joachim von. Ricasoli, Bettino. Rigola, Rinaldo. Riina, Salvatore, detto Totò. Rizzoli, Angelo. Roatta, Mario. Robilant, Carlo Felice Nicolis di. Rocca, Massimo. Rocco, Alfredo. Rodinò, Giulio. Romeo, Rosario. Romita, Giuseppe. Romiti, Cesare. Rommel, Erwin. Romualdi, Pino. Roosevelt, Franklin Delano. Rossa, Guido. Rossanda, Rossana. Rosselli, Carlo. Rosselli, Nello. Rossi, Cesare. Rossi, Ernesto. Rossi-Doria, Manlio. Rossini, Giuseppe. Rossoni, Edmondo. Ruby, Karima el Mahroug, detta. Rudiní, Antonio di. Ruffini, Francesco. Ruffolo, Giorgio. Ruggiero, Renato. Ruini, Meuccio. Rumor, Mariano. Russo, Angelo. Russo, Luigi. Rutelli, Francesco.

Saitta, Armando. Sala, Giuseppe. Salandra, Antonio. Sale, Giovanni. Salvadori, Massimo Luigi. Salvatorelli, Luigi. Salvemini, Gaetano. Salvini, Matteo. San Giuliano, Antonino Paternò-Castello di. Sapegno, Natalino. Saracco, Giuseppe. Saraceno, Pasquale. Saragat, Giuseppe. Sarcinelli, Mario. Sarti, Adolfo. Sartori, Giovanni. Sauro, Nazario. Savoia, casa. Savoia, Maria José. Savoia-Aosta, Aimone di. Scalfari, Eugenio. Scalfaro, Oscar Luigi. Scelba, Mario. Schettino, Francesco. Schiavetti, Fernando. Schifani, Renato. Schober, Johann. Schopenauer, Arthur. Schulz, Martin. Schuschnigg, Kurt von. Scialoja, Antonio. Scoppola, Pietro. Scoccimarro, Mauro. Scorza, Carlo. Secchia, Pietro. Segni, Antonio. Segni, Mario. Seipel, Ignaz. Selassié, Hailé. Sella, Quintino. Senise, Carmine. Serena, Adelchi. Sereni, Emilio. Serao, Matilde. Serpieri, Arrigo. Serrati, Giacinto Menotti. Sestan, Ernesto. Severino, Paola.

Seyss-Inquart, Arthur. Sforza, Carlo. Sgrena, Giuliana. Signorile, Claudio. Sindona, Michele. Sinigaglia, Oscar. Skorzeny, Otto. Soffici, Ardengo. Sogno, Edgardo. Solmi, Sergio. Sonnino, Sidney. Sorel, Georges. Sossi, Mario. Spadolini, Giovanni. Spaventa, Silvio. Spinella, Mario. Spinelli, Altiero. Spirito, Ugo. Stalin, Iosif. Staller, Ilona. Starace, Achille. Stirner, Max, pseud. di Johann Caspar Schmidt. Stuparich, Giani. Sturzo, Luigi. Susmel, Duilio. Susmel, Edoardo. Talamo, Giuseppe. Tambroni, Fernando. Tamburrano, Giuseppe. Tanassi, Mario. Tanlongo, Bernardo. Tarchiani, Alberto. Tardini, Domenico. Tasca, Angelo. Tassan Din, Bruno. Tatò, Antonio. Taviani, Paolo Emilio. Teardo, Alberto. Tegetthoff, Wilhelm von. Terracini, Umberto. Thaon di Revel, Paolo. Tilgher, Adriano. Tito, Josip Broz. Tittoni, Tommaso. Togliatti, Palmiro. Togni, Giuseppe. Tognoli, Carlo.

Torlonia, Leopoldo. Toselli, Pietro. Tosti, Luigi. Trabucchi, Giuseppe. Trane, Rocco. Treccani, Giovanni. Tremonti, Giulio. Trentin, Silvio. Treves, Claudio. Troilo, Ettore. Tupini, Umberto. Turati, Augusto. Turati, Filippo. Turiello, Pasquale. Umberto I di Savoia, re d’Italia (1878-1900). Umberto II di Savoia, re d’Italia (9 maggio - 10 giugno 1946). Ungaretti, Giuseppe. Valeri, Nino. Valgimigli, Manara. Valiani, Leo. Valletta, Vittorio. Valori, Dario. Valpreda, Pietro. Vanoni, Ezio. Vecchietti, Tullio. Veltroni, Walter. Vendola, Nicola detto Nichi. Venturi, Lionello. Verdini, Denis. Vidussoni, Aldo. Vigorelli, Giancarlo. Villabruna, Bruno. Villari, Pasquale. Vinciguerra, Mario. Visconti, Luchino. Visconti Venosta, Emilio. Visocchi, Achille. Vitali, Vittorio. Vittorio Emanuele II di Savoia, re di Sardegna (1849-1861) e re d’Italia (1861-1878). Vittorio Emanuele III di Savoia, re d’Italia (1900-1946). Vivarelli, Roberto. Volpe, Gioacchino. Volpi, Giuseppe. Volterra, Vito. Waldheim, Kurt.

Welby, Piergiorgio. Wilson, Thomas Woodrow. Wilson, Maitland. Wollemborg, Leone. Wolff, Karl. Zaccagnini, Benigno. Zamboni, Anteo. Zanardelli, Giuseppe. Zaniboni, Tito. Zanotti Bianco, Umberto. Zavattini, Cesare. Zevi, Bruno. Zoli, Adone.

Indice delle sigle

AC, Azione cattolica. Acli, Associazioni cristiane dei lavoratori italiani. Ad, Alleanza democratica. Agip, Agenzia generale italiana petroli. Amg, Amministrazione militare alleata. An, Alleanza nazionale. Armir, Armata italiana in Russia. BR, Brigate rosse. Ccd, Centro cristiano democratico. Ccln, Comitato centrale di liberazione nazionale. Cdu, Cristiani democratici uniti. Cee, Comunità economica europea. Cgil, Confederazione generale italiana del lavoro. Cgl, Confederazione generale del lavoro. Cir, Compagnie industriali riunite S.p.A.. Cisl, Confederazione italiana sindacati lavoratori. Cisnal, Confederazione italiana sindacati nazionali dei lavoratori. Cln, Comitati di liberazione nazionale. Clnai, Comitati di liberazione nazionale Alta Italia. Cnen, Comitato nazionale per l’energia nucleare. Cnr, Consiglio nazionale delle ricerche. Coldiretti, Confederazione nazionale coltivatori diretti. Cominform, Ufficio di informazione dei Partiti comunisti e laburisti. Confindustria, Confederazione generale dell’industria italiana. Coni, Comitato olimpico nazionale italiano. Csir, Corpo di spedizione italiano in Russia. Csm, Consiglio superiore della magistratura. Dc, Democrazia cristiana. Dico, diritti e i doveri della coppie di fatto. Enel, Ente nazionale per l’energia elettrica. Eni, Ente nazionale idrocarburi. Erp, European Recovery Program. Euratom, Comunità europea dell’energia atomica. Fil, Federazione italiana dei lavoratori. Fininvest, Finanziaria investimenti. Fiom, Federazione impiegati operai metallurgici.

Gap, Gruppi di azione partigiana. Gap, Gruppi di azione patriottica. Gil, Gioventu italiana del littorio. Gl, Giustizia e libertà. Gnr, Guardia nazionale repubblicana. Guf, Gruppi universitari fascisti. Ici, Imposta comunale sugli immobili. IdV, Italia dei valori. Imi, Istituto mobiliare italiano. Imu, Imposta municipale unica. Ina, Istituto nazionale assicurazioni. Iri, Istituto per la ricostruzione industriale. Lcgil, Libera confederazione generale italiana dei lavoratori. Minculpop, Ministero della cultura popolare. Msi, Movimento sociale italiano. Mvsn, Milizia volontaria per la sicurezza nazionale. Nato, North Atlantic Treaty Organization. Ncd, Nuovo centrodestra. Onb, Opera Nazionale Balilla. Ovra, Organizzazione per la vigilanza e la repressione dell’antifascismo. Pcd’I, Partito comunista d’Italia. Pci, Partito comunista italiano. Pd, Partito democratico. Pd’A, Partito d’Azione. PdL, Popolo della libertà. Pds, Partito democrat501, ico della sinistra. Pdup, Partito di unita proletaria. Pfr, Partito fascista repubblicano. Pli, Partito liberale italiano. Pnf, Partito nazionale fascista. Ppi, Partito popolare italiano. Prc, Partito della rifondazione comunista. Pri, Partito repubblicano italiano. Psd’a, Partito sardo d’azione. Psdi, Partito socialista democratico italiano. Psi, Partito socialista italiano. Psiup, Partito socialista italiano di unità proletaria. Psli, Partito socialista dei lavoratori italiani. Psri, Partito socialista riformista italiano. Psu, Partito socialista unificato. Psu, Partito socialista unitario. Psui, Partito socialista unitario italiano.

SdN, Società delle Nazioni. Sme, Sistema monetario europeo. Udc, Unione di Centro. Udeur, Unione democratica per l’Europa. Uil, Unione italiana del lavoro. Unrra, United Nations Relief and Rehabilitation Administration. Upi, Uffici politici. Usi, Unione sindacale italiana. Usl, Unita sanitarie locali.

Il libro

U

NA NUOVA, IMPORTANTE, STORIA D’ITALIA: LA STORIA DI UN

PAESE BLOCCATO.

Dall’evoluzione dell’Italia unita fino ai primi anni Novanta del XX

secolo emergono tre principali caratteristiche in un contesto che ha visto il

succedersi di regimi opposti (il liberale, il fascista e il democratico-repubblicano). La prima: la contrapposizione delle forme di governo ha impresso alla storia del Paese un segno profondo di discontinuità. La seconda: in ciascuno dei tre tipi di Stato le principali forze di opposizione sono state considerate da quelle al governo come pericolosi soggetti «anti-sistema», a cui occorreva impedire l’accesso al potere. La terza: le classi politiche di governo e i ceti piú elevati nella gerarchia sociale hanno reagito arroccandosi in blocchi di potere oligopolistici o monopolistici. Infine, il venire meno di tali blocchi non ha prodotto né stabilità né la necessaria innovazione istituzionale. Dall’evoluzione dell’Italia unita dalle origini fino ai primi anni Novanta del XX secolo emergono tre principali caratteristiche reciprocamente correlate in un contesto che ha visto il succedersi di tipi di Stato e di regimi politici (il liberale, il fascista, entrambi monarchici, e il democratico-repubblicano) opposti per le loro caratteristiche politiche e istituzionali. La prima è che la contrapposizione delle forme di governo ha impresso alla storia dello Stato un segno di profonda discontinuità. La seconda è che in ciascuno dei tre tipi di Stato le forze di opposizione d’impronta radicale sono state costantemente considerate dalle forze di governo come pericolosi soggetti «antisistema», ai quali occorreva sbarrare la strada al potere; e che le forze escluse dall’area del potere hanno individuato in quelle dominanti gli strumenti di classi dirigenti oppressive. Conseguenza è stata che per oltre centotrent’anni i sistemi politici hanno protratto la propria esistenza in una condizione di «eccezionalità»: l’impossibilità per l’opposizione di accedere alla guida del Paese. La terza caratteristica è che le classi politiche di governo e i ceti piú elevati hanno sistematicamente reagito arroccandosi in blocchi di potere oligopolistici (nei casi del regime liberale monarchico e di quello democratico-repubblicano) o monopolistici (nel caso del regime fascista) contro le forze ritenute non legittimate a governare. Il venir meno dei blocchi di potere agli inizi degli anni Novanta e il formarsi di schieramenti in competizione non ha prodotto né

stabilità né la necessaria innovazione istituzionale.

L’autore MASSIMO L. SALVADORI

è professore emerito dell’Università di Torino, dove ha

insegnato Storia contemporanea e Storia delle dottrine politiche. All’Università di Torino è stato allievo di Walter Maturi e all’Istituto Italiano per gli Studi Storici di Federico Chabod. Nel 1983-84 è stato Fellow al W. Wilson International Center for Scholars di Washington D.C. e Visiting Professor nel 1989 alla Columbia University e nel 1996 alla Harvard University. Tra le sue opere dedicate alla storia italiana si annoverano: Il mito del buongoverno. La questione meridionale da Cavour a Gramsci (Einaudi 1960), Gaetano Salvemini (Einaudi 1963), Gramsci e il problema storico della democrazia (Einaudi 1973), La Sinistra nella storia italiana, (Laterza 1999), Liberalismo italiano (Donzelli 2011) e Storia d’Italia, crisi di regime e crisi di sistema 1861-2013 (il Mulino 2013). Il suo ultimo lavoro è: Democrazia. Storia di un’idea tra mito e realtà (Donzelli 2015). Suoi libri e saggi sono stati tradotti in inglese, tedesco, francese, spagnolo e giapponese.

© 2018 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino In copertina: Umberto Boccioni, Stati d’animo III: quelli che restano (seconda serie), olio su tela, 1911, particolare. New York, Museum of Modern Art (© 2018. Foto The Museum of Modern Art, New York / Scala, Firenze MoMA). Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo cosí come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. www.einaudi.it Ebook ISBN 9788858429525

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Frontespizio Il libro L’autore Prefazione I. La realizzazione dell’unità italiana e la vittoria politica di Cavour 1. L’egemonia dei liberali moderati nel Risorgimento e la sconfitta dei democratici 2. La «piemontesizzazione» dello Stato unitario e la nascita di una nazione divisa 3. La battaglia di Cavour per la separazione di Chiesa e Stato II. L’Italia nell’età della Destra storica 1. I problemi e le difficoltà del nuovo Stato unitario 2. La situazione economico-sociale dell’Italia nel 1861 3. La morte di Cavour. Destra e Sinistra dopo di lui 4. Il compimento dell’unità nazionale. La guerra del 1866 e la presa di Roma nel 1870 5. La questione del Mezzogiorno. La guerra del brigantaggio: la prima delle tre guerre civili della storia d’Italia 6. L’unificazione legislativa e la politica economica III. Dall’avvento della Sinistra alla crisi di fine secolo 1. La fine del potere della Destra 2. Depretis e il «trasformismo». La riforma elettorale del 1882. 3. La Triplice Alleanza e gli infelici esordi del colonialismo italiano 4. L’ispirazione «bismarckiana» di Crispi. Tensione con la Francia, ripresa dell’azione coloniale e politica interna 5. Il movimento operaio e contadino dall’anarchismo alla fondazione del Partito socialista. Bakunin, Turati e Antonio Labriola 6. Dal primo ministero Giolitti all’ultimo Crispi. I Fasci siciliani e la sconfitta in Africa 7. La crisi di fine secolo. L’Italia alle soglie di una crisi di sistema, la sconfitta del tentativo reazionario 8. Lo sviluppo dell’economia italiana: protezionismo e nascita della grande industria IV. L’età giolittiana 1. Il decollo industriale e la modernizzazione «monca» dell’Italia 2. Il «doppio volto» di Giolitti. L’insuccesso del suo disegno di «nazionalizzazione delle masse» 3. Il governo Zanardelli e le lotte del lavoro 4. Il secondo e il terzo ministero Giolitti. Movimento socialista, cattolici, liberisti e nazionalisti, concentrazioni monopolistiche 5. Quarto ministero Giolitti, suffragio universale e inasprimento dei conflitti di classe 6. Il costo del fallimento del disegno giolittiano 7. Il carattere ambivalente della politica estera italiana. La guerra italo-turca per la Libia V. Nella bufera della Prima guerra mondiale. Una guerra senza consenso popolare 1. L’Italia dalla neutralità all’intervento 2. La logorante guerra di trincea 3. Dalla catastrofe di Caporetto alla vittoria 4. La società italiana durante la guerra. Accresciuto intervento dello Stato e fermenti antiparlamentari VI. L’”esplosione delle antitesi”: l’Italia fra «vittoria mutilata», «biennio rosso» e «biennio nero». La genesi del fascismo 1. Le classi sociali nel dopoguerra. La frustrazione delle aspirazioni dei nazionalisti 2. La risposta alla crisi del mondo cattolico. La nascita del Partito popolare 3. Il Partito socialista e l’ondata «massimalista» e bolscevizzante. L’«Ordine Nuovo» 4. Il «biennio rosso» e la genesi del fascismo 5. Le agitazioni sociali e la «scioperomania». Le elezioni e la crisi del liberalismo. I governi Nitti e Giolitti 6. L’occupazione delle fabbriche. Il «biennio nero»: riflusso del movimento operaio e controffensiva fascista VII. L’avvento al potere del fascismo in Italia e il crollo dello Stato liberale 1. Bonapartismo e fascismo 2. La marcia su Roma e il primo governo Mussolini 3. Il fascismo verso la conquista del “monopolio politico”. Le elezioni del 1924 e la “crisi Matteotti”. L’Aventino e la disfatta delle opposizioni 4. Le leggi «fascistissime» e la fine formale dello Stato liberale. L’avvento della dittatura 5. La «linea De Stefani» e il liberismo iniziale del fascismo. La ripresa dell’economia VIII. Caratteristiche del regime e natura del totalitarismo fascista 1. Il fascismo italiano, forma debole e incompiuta di totalitarismo 2. Il carattere «razionale» del culto del capo 3. I diversi fondamenti di fascismo e nazionalsocialismo: lo Stato nazionale e la comunità popolare razziale. Differenze tra i due regimi IX. Dall’avvento della dittatura alla vigilia della Seconda guerra mondiale 1. Lo Stato fascista e le sue istituzioni 2. La conciliazione fra Stato e Chiesa. Il «connubio» fra clericalismo e fascismo. Il conflitto del 1931 sull’educazione giovanile 3. L’ordine «corporativo». La Carta del Lavoro. La ricerca di una «terza via» fra capitalismo e collettivismo sovietico. L’«era Starace» e la campagna «antiborghese» 4. L’economia nel periodo fascista. Capitalismo di Stato e autarchia. La politica assistenziale. Il mito della potenza demografica 5. L’organizzazione della cultura e la ricerca del consenso. 6. Gli oppositori del fascismo 7. Il varo delle leggi razziali e il rinnovarsi del conflitto con la Chiesa nel 1938 8. La politica estera italiana negli anni Venti 9. Il timore della rinascita della potenza tedesca e il fronte anglo-franco-italiano. La questione austriaca. 10. La guerra d’Etiopia e l’inerzia della Società delle Nazioni 11. La guerra civile spagnola e l’intervento dell’Italia 12. L’«asse Roma-Berlino» e il patto anti-Komintern 13. La distruzione dell’Austria e della Cecoslovacchia. Il trionfo della Germania 14. Dal «patto d’acciaio» al patto nazi-sovietico X. L’Italia dall’intervento nella Seconda guerra mondiale al crollo del regime fascista 1. L’Italia dalla «non belligeranza» all’intervento. L’impreparazione militare. Lo scacco dell’attacco alla Francia 2. Il fallimento della «guerra parallela» italiana. Insuccessi in Africa. La sconfitta fascista in Grecia 3. Il crollo militare dell’Italia e la caduta del fascismo. Il governo Badoglio dei «quarantacinque giorni» XI. Due Stati nemici in un solo Paese. La terza guerra civile: la Repubblica di Salò e la Resistenza 1. Il carattere della Resistenza 2. La Repubblica Sociale Italiana e il Regno del Sud. La lotta tra partigiani e nazifascisti al Nord 3. L’insurrezione, la fuga di Mussolini e la “resa dei conti” XII. L’Italia dal 1945 al 1948. Il sopravvento del moderatismo 1. I difficili equilibri politici dopo la Liberazione 2. Il governo Parri: un governo transitorio di compromesso. 3. De Gasperi al governo. Repubblica e Assemblea costituente. L’estromissione delle Sinistre dal governo 4. La Costituzione

3 613 615 4 16 16 19 24 26 26 28 31 34 42 49 53 53 55 60 64 69 73 79 89 97 97 101 104 106 115 122 127 130 130 137 140 145 149 149 153 156 159 163 172 185 185 188 200 208 212 216 216 220 222 229 229 233 236 242 250 255 263 267 271 277 282 287 288 293 299 299 304 310 322 322 328 341 344 344 349 352 361

5. Il trionfo della Dc alle elezioni del 18 aprile 1948 e la nascita del terzo sistema politico bloccato nella storia dell’Italia unita 6. La ricostruzione economica sotto il segno del moderatismo. La «dittatura» dei liberisti e la debolezza programmatica delle sinistre 7. La situazione delle campagne. Le lotte per la terra nel Mezzogiorno XIII. L’Italia negli anni del «centrismo». Il «miracolo economico» 1. I governi De Gasperi dopo il 1948. Contrasti interni ai partiti di centro e persistente ambiguità della politica del Pci 2. Il «riformismo dall’alto». La riforma agraria e la Cassa per il Mezzogiorno 3. La «legge truffa» e le elezioni del 1953. La fine politica di De Gasperi. Le oscillazioni della Dc. Le elezioni del 1958 4. Il “miracolo economico” XIV. Dal Centro-sinistra all’«autunno caldo» e alla «strategia della tensione» 1. Le radici del «Centro-sinistra». La linea di Fanfani. Le diverse evoluzioni del Psi e del Pci. Il rinnovamento della Chiesa 2. Le resistenze all’apertura al Psi. Il governo Tambroni. La “svolta” della Dc: il Congresso di Napoli. Il terzo governo Fanfani e gli inizi del Centro-sinistra 3. Le elezioni del 1963. Il moderatismo dei primi due governi Moro. L’unificazione di Psi e Psdi. Il dibattito nel Pci sulla strategia delle riforme 4. Il terzo governo Moro. Le elezioni del 1968. Gli inizi della «contestazione» nei confronti del “sistema” 5. L’andamento dell’economia: dal «miracolo» alla recessione 6. L’«autunno caldo» e la «strategia della tensione». Gli inizi del terrorismo XV. Dagli «anni di piombo» alla «crisi di sistema» dei primi anni Novanta 1. Uno sguardo generale sugli anni Settanta e Ottanta 2. Gli «anni di piombo» e la «lunga notte» della Repubblica 3. Dall’esaurimento del «Centro-sinistra» al fallimento politico degli «opposti estremismi» e alla sconfitta del terrorismo 4. Craxi al governo e il conflitto con il Pci. Corruzione, “questione morale” e nuovo ruolo dei giudici 5. ”Tangentopoli” e la crisi di sistema 6. L’economia e la società italiana fra sviluppo e squilibri XVI. L’informe «Seconda Repubblica». Da Berlusconi a Renzi 1. Caratteristiche della vita politica e sociale nel “ventennio berlusconiano” 2. La «discesa in campo» di Berlusconi. La caduta del primo governo del Cavaliere e il governo dei tecnici 3. L’Ulivo al governo: da Prodi ad Amato, passando per D’Alema 4. Il secondo governo Berlusconi. Il conflitto di interessi e l’attacco alla magistratura «comunista» 5. L’andamento sfavorevole dell’economia 6. La politica estera euroscettica del governo Berlusconi. Tra Bush e Putin 7. Il secondo governo Prodi. La nascita del Partito Democratico e del Popolo della libertà. 8. Il terzo governo Berlusconi. Dall’apogeo alla crisi del «berlusconismo» 9. Il tema della «sicurezza» e la minaccia di declino socio-economico dell’Italia 10. La seconda crisi di sistema nella storia repubblicana. Le «larghe intese» e il governo «tecnico» di Monti 11. Il successo elettorale del Movimento 5stelle. Il governo Letta 12. Il governo Renzi e la sua parabola. I drammi dell’immigrazione. Il fallimento del progetto di riforma della Costituzione Bibliografia Indici dei nomi e delle sigle Indice dei nomi Indice delle sigle

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