Letteratura e oltre. Studi in onore di Giorgio Baroni 9788862274289, 9788862274296

L'ampia adesione suscitata dagli Studi in onore di Giorgio Baroni non può dirsi una sorpresa, se si considerano le

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Letteratura e oltre. Studi in onore di Giorgio Baroni
 9788862274289, 9788862274296

Table of contents :
STUDIA ERUDITA
SOMMARIO
PER GIORGIO BARONI Paola Ponti
CURRICULUM DIDATTICO E SCIENTIFICO DI GIORGIO BARONI
TABULA GRATULATORIA
RELIGIONE E RELIGIOSITÀ NELLA LETTERATURA ITALIANA* Enzo Noè Girardi
INTERTESTUALITÀ DANTESCHE NEL SEICENTO (I LINCEI, MARINO, ACCETTO) Erminia Ardissino
L’ATTORE ITALIANO sei-settecentesco. IL CONTRIBUTO DI PIETRO COTTA tra testo e scena Gaetano Oliva
REDI RIMATORE BAROCCO Giorgio Bárberi Squarotti
ISOLA E PENISOLA : CORRENTI ANGLO-ITALIANE Arturo Cattaneo
MISOGINIA NELLA LETTERATURA ITALIANA : NOTE MISOGINE NEL SETTECENTO Vicente González Martín
LA PRODUZIONE ACCADEMICA INEDITA DEL PATRIZIO CATANESE NICCOLÒ PATERNÒ CASTELLO, PASTORE ETNEO Rita Verdirame
PARINI E LA NON-
Davide De Camilli
CRITICA, ERMENEUTICA, DECOSTRUZIONE. UN PERCORSO FILOSOFICO TRA MODERNO E POSTMODERNO Dario Sacchi
LA « LEGGE » DI CREONTE E LA TRAGEDIA DI ANTIGONE IN ALFIERI ALLA LUCE DELL’ARCHETIPO SOFOCLEO Maria Maslanka Soro
LA CADUTA DEL PARINI «NEL GRAN VORTICE DI MILANO»
NELL’EPISTOLARIO DE NECCHI-RICCI (1785-1786) Paolo Bartesaghi
ASTERISCHI FOSCOLIANI TRA
E
Leonardo Terrusi
RINASCIMENTO ITALIANO E ROMANTICISMO : FOSCOLO, SHELLEY E GLI INGLESI Gian Mario Anselmi
« SPEZIERIE ACCADEMICHE » DA PELLI A CARDUCCI1 Angelo Fabrizi
GIOVANNI BATTISTA CASTI E JACOPO VITTORELLI NELLA LETTERATURA SERBA DEL PRIMO OTTOCENTO (IL CASO DEL POETA JOVAN DOŠENOVIC) Želj
MANZONI E LA CRITICA DELLA RAGION TEATRALE Carlo Annoni
« CHE NUOVE CI SONO IN FRANCIA ? ». LA TRADUZIONE FINORA SCONOSCIUTA DI CARLO LEOPARDI DELLE
DI WARDEN SULL’ULTIMO VIAGGIO DI NAPOLEONE Vincenzo Placella
RIFERIMENTI ARCHETIPICI NELLA DISPERSIONE. DAL MOLTEPLICE DELLE ROVINE ALL’UNITÀ DELLA MEMORIA Fabio Russo
LEOPARDI :
LO SGUARDO OLTRE L’« ORIZZONTE » Bortolo Martinelli
IL SENTIRE DELLO SCIENZIATO. LEOPARDI, RUYSCH E COPERNICO TRA EVIDENZA E SAPERE Elena Landoni
IL CORSO IRREVERSIBILE DELLA STORIA : L’ADYNATON DEI FIUMI IN
Giuseppe Langella
GOETHE TRADUTTORE DEL CINQUE MAGGIO MANZONIANO. NUOVI ASPETTI DEL DIBATTITO Gisela Schlüter
PER L’EDIZIONE CRITICA DEL
DI VINCENZO MONTI SUL
DI DANTE (A MARGINE DI UN POSTILLATO SMARRITO) Angelo Colombo
ANGELO MARIA RICCI E LA
Maria Cristina Albonico
MAZZINI TRA LETTERATURA E STORIA. APPUNTI DI LETTURA Fulvio Salimbeni
LEOPARDI : PARADOSSO DI SPIRITUALITÀ Raffaele Cavalluzzi
RISORGIMENTO E LETTERATURE DIALETTALI. NOTE PER UNA RICERCA Massimiliano Mancini
LA PSICHE DELLA CULTURA INDUSTRIALISTA. LETTERATURA E ALTRE ARTI PER UN’ICONA DEL CONTEMPORANEO Michele Rak
LE ORIGINI DI CAPITAN FRACASSA Giovanni R. Ricci
SULLE MEMORIE DI LUIGI LA VISTA Milena Montanile
LA « REINCARNAZIONE DEGLI ASTRATTI ». CRITICA E SOGGETTIVITà DA DE SANCTIS A SERRA Cristina Terrile
LA RIVINCITA DEL FANTASTICO Guido Mura
IL VERISMO ‘PRIVATO’ DI VERGA E
(IN MARGINE AD ALCUNE LETTERE) Giuseppe Savoca
LA MEMORIA LETTERARIA NEL
DI ANTONIO STOPPANI Federica Millefiorini
DA VICTOR HUGO AD ARRIGO BOITO, DA PADov A A VENEZIA : ULTIMO CANTO DELLA ‘GIOCONDA’ Deirdre O’Grady
IL TEMA DELLA ZOLFARA NEGLI SCRITTORI SICILIANI Lia Fava Guzzetta
PADRE CRISTOFORO A MALTA : IL MODELLO MANZONIANO DEL PERSONAGGIO DEL FRATE NEL ROMANZO STORICO MALTESE
DI RAMIRO BARBARO Sergio Portelli
ROBERTO SACCHETTI E IL SUO ROMANZO RISORGIMENTALE
Giuseppe Farinelli
AMORI E LETTORI.
DI CARLO COLLODI Paola Ponti
L’ANIMA DEL BURATTINO : RILETTURA DI
Pietro Gibellini
LA PROVINCIA NEL ROMANZO REALISTA DI FINE OTTOCENTO : TORRIANI, ZUCCARI, SERAO Patrizia Zambon
« UNA TROTTOLINA CHE GIRA, SENZA SAPER PERCHÉ ». SCHEDA PER PIRANDELLO POETA Enrico Elli
alla poesia italiana . Giuseppe Sabalich una voce lirica dalla Dalmazia Anna Bellio
PIRANDELLO A COLLOQUIO CON VERGA, CAPUANA E DE ROBERTO Sarah Zappulla Muscarà
SGUARDI E IMMAGINI NE
DI GABRIELE D’ANNUNZIO E
DI EUGENIO MONTALE Patrizia La Trecchia
« ALTRA GRAZIA NON AVEA NEL VISO / CHE LO SPLENDOR DEGLI OCCHI SOVRUMANI » : ADA NEGRI TRA CORPO E ANIMA Cristina Tagliaferri
Nora e le altre Vanna Zaccaro
LA NEGAZIONE E IL RESTO. SAGGIO SULL’ONTOLOGIA DI SVEVO Mauro Caselli
“L’ENCYCLOPÉDIE” DI ITALO SVEVO. SPERICOLATE INDAGINI SULLA BIBLIOTECA PERDUTA DELLO SCRITTORE TRIESTINO Riccardo Cepach
UNO STORICISMO INTERMEDIO. TORRACA, CROCE E L’EREDITÀ DI DE SANCTIS Fabio Moliterni
STENDHAL DI MATILDE SERAO Enza Biagini
MISTERIOSA VITTORIA AGANOOR Anna Folli
CRONACA E MISTICISMO :
DI MATILDE SERAO Wanda De Nunzio Schilardi
« NÉ IN CIELO NÉ IN TERRA ». IL
DI CAPUANA FRA SCIENZA, PSEUDOSCIENZA E LETTERATURA Maria Isabel Giabakgi
L’ESORDIO TEATRALE DI ROSSO DI SAN SECONDO E GLI SPERIMENTALISMI PROTO-NOVECENTESCHI Flora Di Legami
LA POESIA FUTURISTA E L’IMMAGINE Edoardo Esposito
AUTOMOBILI IN RIVISTA Francesca Strazzi
L’AVVOCATO GOZZANO E LE STRADE INCROCIATE Marina Paino
ALDO PALAZZESCHI E IL FUTURISMO FIORENTINO Luigi Fontanella
FIGURE DELLA FOLLIA NELLA NARRATIVA CONTEMPORANEA Ada Neiger
PIRANDELLO : OLTRE LA POSTMODERNITÀ ? Nicoletta De Vecchi Pellati
PER I CENTO ANNI DEGLI « SCRITTORI D’ITALIA » Leonardo Sebastio
GIOVINEZZA GIOVINEZZA ! LA FONDAZIONE DI UN MITO NELLA LETTERATURA ITALIANA DEL PRIMO NOVECENTO Dario Tomasello
ELODY OBLATH STUPARICH, UNA DONNA ‘FUORI DEL SUO TEMPO’ Giusy Criscione
QUANDO IL FUTURISMO INVOCÒ CESARE. INEDITI BUZZIANI TRA LEALISMO ALLA CORONA E TENTAZIONI BONAPARTISTE Elena Rampazzo
CARLO MICHELSTAEDTER : LA « RETTORICA » DELLA MODERNITÀ Fulvio Senardi
MICHELSTAEDTER E SLATAPER SULLA VIA DI IBSEN Fabio Pierangeli
VIRGILIO BROCCHI NELL’ISOLA DI RABELAIS Angelo Lacchini
GIROLAMO COMI E LA POESIA EUROPEA NEL SALENTO Chiara Galassi
QUATTRO TITOLI ESEMPLARI DELLA POESIA ITALIANA DEL PRIMO NOVECENTO Silvio Ramat
REBORA ALLA RICERCA DEL « BISBIGLIO » Pietro Zovatto
TRA LE INARCATURE DELLE PAROLE. OSSERVAZIONI SULLA LINGUA DESCRITTIVA DEL PRIMO DE PISIS Massimiliano Pecora
GUIDO GOZZANO A GOA “LA DOURADA”
Riccardo Scrivano
ADA NEGRI E LA « RIVISTA D’ITALIA » (ATTRAVERSO LE LETTERE A MICHELE SAPONARO) Antonio Lucio Giannone
L’ITALIA NEL CONTESTO DEL PENSIERO CRITICO SLOVENO DELLA PRIMA METÀ DEL NOVECENTO Tatjana Rojc
ORALITÀ E LINGUAGGIO IN BIAGIO MARIN Edda Serra
COME TU MI VUOI : IL PIRANDELLO DEGLI SPAGNOLI Maria Belén Hernández González
MONTALE O IL « BORGHESE SVIATO ». SU MONTALE E THOMAS MANN Mario Ceroti
SAVINIO AL CINEMA Rosita Tordi
LETTURA E CREAZIONE. NOTE A MARGINE DI una LETTERA INEDITA DI ROBERTO BAZLEN Silvia Assenza
MIRAGGI E NOSTALGIE NEI
DI ADA NEGRI Barbara Stagnitti
MONTALE DA PETRARCA A PETRARCA Bartolo Calderone
LA «FARFALLINA COLOR ZAFFERANO». ABBOZZO DI UNA GEOGRAFIA MONTALIANA Sandro Maxia
NUOVE OMBRE SUL DIFFICILE RAPPORTO TRA PIRANDELLO E MANUEL AGUIRRE IN UN BREVE CARTEGGIO DEL 1926 : M. AGUIRRES. PIRANDELLOA. PE
IL CONCETTO DI MEMORIA IN UNGARETTI : CONSIDERAZIONI E PROPOSTE Massimo Migliorati
DUE SCRITTI INEDITI DI DOLORES PRATO Elena Frontaloni
ALFONSO GATTO : ESERCIZI DI LETTURA Francesco D’Episcopo
SALAMANDRA DEL SOL. UNGARETTI
GÓNGORA Marzio Pieri
UN POETA ANTICO-MODERNO : LORENZO CALOGERO Carmine Chiodo
IL MARE, IL SELVAGGIO E ALTRE EBBREZZE PAVESIANE Anco Marzio Mutterle
TRA MONTALE E CONTINI. GENESI E RAGIONI DI
Uberto Motta
VERITÀ DEL QUOTIDIANO E DELLA POESIA : « NINETTA-N. », L’AMATA DI ATTILIO BERTOLUCCI Gabriella Palli Baroni
IL TESTAMENTO SPIRITUALE DI SALVATORE CAMBOSU Bruno Rombi
I COLORI NELLE POESIE DI CARLO LEVI Giulia Dell’Aquila
DUE SCRITTORI AL CONFINO (1935-1936) : CARLO LEVI E CESARE PAVESE Donato Sperduto
« VITA LETTERARIA E DEGLI SCRITTORI » : UN ESPERIMENTO DI ‘CONVIVENZA’ TRA LETTERATURA E GIORNALISMO A PARMA (1937-38) Paolo Bri
SILVIO BENCO E VITTORIO BETTELONI (CON UN’IPOTESI SU UMBERTO SABA) Alberto Brambilla
NOTA SUL LAVORO CRITICO DI GIOVANNI GETTO Angelo R. Pupino
LA POESIA DI BASSANI. L’IO BIOGRAFICO E LA STORIA Alfredo Luzi
MONTALE E « L’ARNO BALSAMO FINO » Donato Pirovano
FEDERICO GARCÍA LORCA NELL’ITALIA FASCISTA. GUANDA, BO, MACRÌ E UN EPISODIO DI CENSURA* Massimo Castoldi
« AGRONOMUS SED FIDENS ». NOTE PER MONTALE E IL GIOVANE CALVINO Eraldo Bellini
IL VELIERO DI QUASIMODO,
L’APOCALISSE E
XX : UNA GLOSSA1 Maria Gabriella Riccobono
GUERRA COME ALLEGORIA NELLE
DI ANTONIO BAROLINI Ilaria Crotti
« SE VUOI CHIAMARLO GIORNALISMO »
IL GIORNALISMO DI FAUSTA CIALENTE TRA RIFIUTO E IMPEGNO1 Maria Pagliara
IDIOMI GENTILI. VALORE E FUNZIONE DEI DIALETTI NELLE RIFLESSIONI E NELLA PRATICA LETTERARIA DI PASOLINI E SCIASCIA Titus Heydenr
PER UNA RILETTURA DI CESARE PAVESE IN CHIAVE FILOSOFICA Ferruccio Monterosso SUPERSTIZIOSO-SELVAGGIO-PRIMITIVO : ASPETTI FILOSOF
DI CESARE PAVESE Rossella Rossetti
« ARETUSA », LA PRIMA RIVISTA NEL SEGNO DELL’ITALIA LIBERATA Apollonia Striano
CARTEGGIO GIUSEPPE UNGARETTI-FRANCESCO FLORA Enrica Mezzetta
LETTERATURA IN ONDA. UN CANONE LETTERARIO PER LA RADIO DEL DOPOGUERRA Antonio Iurilli
SU ALCUNE “RESISTENZE” TEORICHE ALLA CRITICA DELLE VARIANTI Franco Suitner
LA RETE BUCATA DELLA MEMORIA. CALVINO E L’AUTOBIOGRAFIA IMPOSSIBILE Elisabetta Bacchereti
I RACCONTI DI ENRICO MOROVICH PER IL « GIORNALE DI BRESCIA » Carla Boroni
« LA SFILATA DEGLI IMBECILLI » IN
Wafaa El Beith
« O mia poesia, salvami ... perché tu sei la primavera ». Il ruolo della poesia in Alda Merini Paola Baioni
LA CALABRIA DI LEONIDA RÈPACI Pasquale Tuscano
LETTERATURA E CINEMA.
DI MORAVIA DAL ROMANZO AL FILM Alberto Granese
DAL RACCONTO-SAGGIO DI CALVINO AL FILM-SAGGIO DI FRANCESCO MASELLI Vito Santoro
PIER PAOLO PASOLINI. UNA
(E DI MARE) Luigi Martellini
IL PROFETA, IL SOGNATORE, IL RE IN ESILIO. NATALIA GINZBURG, OTTIERO OTTIERI E GIORGIO SOAVI DI FRONTE AD ADRIANO OLIVETTI Giuse
MARIO PETRUCCIANI : UNA RISCOPERTA E UN’EDIZIONE Emerico Giachery
CELESTINO V : DA DANTE A SILONE Domenico Cofano
VIAGGIO ATTRAVERSO LE
DI ALFONSO GATTO : I SONETTI Barbara Carle
LA CHIAVE METAFISICA DEL
BREVE SAGGIO SUL PASCALISMO (BORGESIANO) DI SCIASCIA Antonio Sichera
FINE DELL’IDILLIO NELLA POESIA DI PAOLO VOLPONI. PER UNA LETTURA DE
Salvatore Ritrovato
TRA « GENOCIDIO » E « LALÌA » : IL
DI PASOLINI Pasquale Voza
UN TESTO DISPERSO DI MONTALE Paolo Senna
VIRGILIO GIOTTI NEI LIBRETTI DI «MAL’ARIA». LA PIÙ ESILE, MA SOSTANZIOSA, BIBLIOTECA DEL MONDO Francesco Cenetiempo
I
DI ANTONIO DELFINI : IL ROMANZO DEL SÉ Antonella Agostino
ALDA MERINI E
Cristina Benussi
MARISA MADIERI. APPUNTI PER UNA BIOGRAFIA Graziella Semacchi Gliubich
I PRIMI LIBRI DI PAOLA CAPRIOLO Cesare De Michelis
«COME AL TEMPO DELLA NOSTRA INDIMENTICABILE INES». LETTERE INEDITE DI BRUNO MAIER A GIOVANNI CRISTINI SULLA COLLABORAZIONE AL «R
IL GIALLO IN ITALIA : UN ARCOBALENO DI GENERI* Marco Santoro
ALLA DERIVA : L’ISOLA COME FIGURA DI DECENTRAMENTO IN
DI UMBERTO ECO Ulla Musarra-SchrØder · Franco Musarra
CARO GIORGIO, GRAZIE ! Giorgio Cavallini
CRITICA DELLE METODOLOGIE DELLA CRITICA Claudio A. D’Antoni
ITALO CALVINO NEL NUOVO MILLENNIO Andrea Rondini
IL CONFINE DI ANNA MARIA MORI Natalie Dupré
STORIA E POESIA NELLE VICENDE DELL’EMIGRAZIONE ITALIANA NEGLI USA Celestina Milani
I GIALLI PISANI DI MARCO MALVALDI Bruno Porcelli
L’officina poetica di Mauro Sambi , voce raffinata della contemporanea lirica istro -quarnerina Elis Deghenghi Olujic

Citation preview

STUDIA ERUDITA * 16.

Comitato promotore Anna Bellio, Cristina Benussi, Giorgio Cavallini, Ilaria Crotti, Davide De Camilli, Edoardo Esposito, Giuseppe Farinelli, Luigi Fontanella, Pierantonio Frare, Pietro Frassica, Vicente Gonzáles Martín, Renata Lollo, Bortolo Martinelli, Ermanno Paccagnini, Maria Pagliara, Paola Ponti, Angelo R. Pupino, Andrea Rondini, Giuseppe Savoca, Fabrizio Serra Hanno partecipato al lavoro redazionale Maria Cristina Albonico, Silvia Assenza, Paola Baioni, Elisa Bolchi, Rita Gianfelice, Enrica Mezzetta, Federica Millefiorini, Anna Pastore, Paola Ponti, Barbara Stagnitti, Francesca Strazzi

lette ratu ra E oltre Studi in onore di Giorgio Baroni a c ur a d i paola ponti

P IS A · RO M A FABR IZI O SE RRA E DI TO RE M M XII

La pubblicazione di questo volume ha ricevuto il contributo finanziario dell’Università Cattolica del Sacro Cuore sulla base di una valutazione dei risultati della ricerca in essa espressa (anno 2011). * Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l’adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfilm, la memorizzazione elettronica, ecc., senza la preventiva autorizzazione scritta della Fabrizio Serra editore, Pisa · Roma. Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge. Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 2012 by Fabrizio Serra editore, Pisa · Roma. Fabrizio Serra editore incorporates the Imprints Accademia editoriale, Edizioni dell’Ateneo, Fabrizio Serra editore, Giardini editori e stampatori in Pisa, Gruppo editoriale internazionale and Istituti editoriali e poligrafici internazionali. * Uffici di Pisa: Via Santa Bibbiana 28, I 56127 Pisa, tel. +39 050 542332, fax +39 050 574888, [email protected] Uffici di Roma: Via Carlo Emanuele I 48, I 00185 Roma, tel. +39 06 70493456, fax +39 06 70476605, [email protected] www.libraweb.net issn 1828-8731 isbn 978-88-6227-428-9 isbn elettronico 978-88-6227-42 9-6

SOMMARIO Per Giorgio Baroni Curriculum didattico e scientifico di Giorgio Baroni Tabula gratulatoria

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Enzo Noè Girardi, Religione e religiosità nella letteratura italiana Erminia Ardissino, Intertestualità dantesche nel Seicento (i Lincei, Marino, Accetto) Gaetano Oliva, L’attore italiano sei-settecentesco. Il contributo di Pietro Cotta tra testo e scena Giorgio Bárberi Squarotti, Redi rimatore barocco Arturo Cattaneo, Isola e Penisola : correnti anglo-italiane Vicente González Martín, Misoginia nella letteratura italiana : note misogine nel Settecento Rita Verdirame, Raccolta di Prose e Poesie fatte per propria occupazione letteraria. La produzione accademica inedita del patrizio catanese Niccolò Paternò Castello, Pastore Etneo Davide De Camilli, Parini e la non-nominatio Dario Sacchi, Critica, ermeneutica, decostruzione. Un percorso filosofico tra moderno e postmoderno Maria Maślanka Soro, La « legge » di Creonte e la tragedia di Antigone in Alfieri alla luce dell’archetipo sofocleo Paolo Bartesaghi, La Caduta del Parini “nel gran vortice di Milano” nell’epistolario De Necchi-Ricci (1785-1786) Leonardo Terrusi, Asterischi foscoliani tra Ortis e Viaggio sentimentale Gian Mario Anselmi, Rinascimento italiano e Romanticismo : Foscolo, Shelley e gli inglesi Angelo Fabrizi, « Spezierie accademiche » da Pelli a Carducci Željko Djurić, Giovanni Battista Casti e Jacopo Vittorelli nella letteratura serba del primo Ottocento (il caso del poeta Jovan Došenović) Carlo Annoni, Manzoni e la critica della ragion teatrale Vincenzo Placella, « Che nuove ci sono in Francia ? ». La traduzione finora sconosciuta di Carlo Leopardi delle Letters di Warden sull’ultimo viaggio di Napoleone Fabio Russo, Riferimenti archetipici nella Dispersione. Dal molteplice delle Rovine all’unità della Memoria Bortolo Martinelli, Leopardi : L’infinito. Lo sguardo oltre l’« orizzonte » Elena Landoni, Il sentire dello scienziato. Leopardi, Ruysch e Copernico tra evidenza e sapere Giuseppe Langella, Il corso irreversibile della storia: l’adynaton dei fiumi in Marzo 1821 Gisela Schlüter, Der fünfte Mai. Goethe traduttore del Cinque Maggio manzoniano. Nuovi aspetti del dibattito Angelo Colombo, Per l’edizione critica del Saggio di Vincenzo Monti sul Convivio di Dante (a margine di un postillato smarrito) Maria Cristina Albonico, Angelo Maria Ricci e la Georgica de’ Fiori Fulvio Salimbeni, Mazzini tra letteratura e storia. Appunti di lettura Raffaele Cavalluzzi, Leopardi : paradosso di spiritualità Massimiliano Mancini, Risorgimento e letterature dialettali. Note per una ricerca Michele Rak, La psiche della cultura industrialista. Letteratura e altre arti per un’icona del Contemporaneo Giovanni R. Ricci, Le origini di Capitan Fracassa Milena Montanile, Sulle memorie di Luigi La Vista Cristina Terrile, La « reincarnazione degli astratti ». Critica e soggettività da De Sanctis a Serra Guido Mura, La rivincita del fantastico Giuseppe Savoca, Il verismo ‘privato’ di Verga e I Malavoglia (in margine ad alcune lettere) Federica Millefiorini, La memoria letteraria nel Bel Paese di Antonio Stoppani Deirdre O’Grady, Da Victor Hugo ad Arrigo Boito, da Padova a Venezia : ultimo canto della ‘gioconda’ Lia Fava Guzzetta, Il tema della zolfara negli scrittori siciliani Sergio Portelli, Padre Cristoforo a Malta : il modello manzoniano del personaggio del frate nel romanzo storico maltese Un martire di Ramiro Barbaro Giuseppe Farinelli, Roberto Sacchetti e il suo romanzo risorgimentale Entusiasmi Paola Ponti, Amori e lettori. Un nome prosaico di Carlo Collodi Pietro Gibellini, L’anima del burattino : rilettura di Pinocchio Patrizia Zambon, La provincia nel romanzo realista di fine Ottocento : Torriani, Zuccari, Serao Enrico Elli, «Una trottolina che gira, senza saper perché». Scheda per Pirandello poeta Anna Bellio, El sì alla poesia italiana. Giuseppe Sabalich una voce lirica dalla Dalmazia Sarah Zappulla Muscarà, Pirandello a colloquio con Verga, Capuana e De Roberto Patrizia La Trecchia, Sguardi e immagini ne Il vespro di Gabriele d’Annunzio e Forse un mattino di Eugenio Montale Cristina Tagliaferri, « Altra grazia non avea nel viso / che lo splendor degli occhi sovrumani » : Ada Negri tra corpo e anima Vanna Zaccaro, Nora e le altre Mauro Caselli, La negazione e il resto. Saggio sull’ontologia di Svevo Riccardo Cepach, “L’encyclopédie” di Italo Svevo. Spericolate indagini sulla biblioteca perduta dello scrittore triestino Fabio Moliterni, Uno storicismo intermedio. Torraca, Croce e l’eredità di De Sanctis Enza Biagini, Stendhal di Matilde Serao Anna Folli, Misteriosa Vittoria Aganoor Wanda De Nunzio Schilardi, Tra cronaca e misticismo : Nel Paese di Gesù di Matilde Serao Maria Isabel Giabakgi, « Né in cielo né in terra ». Il Decameroncino di Capuana fra scienza, pseudoscienza e letteratura Flora Di Legami, L’esordio teatrale di Rosso di San Secondo e gli sperimentalismi proto-novecenteschi

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sommario

Edoardo Esposito, La poesia futurista e l’immagine Francesca Strazzi, Automobili in rivista Marina Paino, L’avvocato Gozzano e le strade incrociate Luigi Fontanella, Aldo Palazzeschi e il futurismo fiorentino Ada Neiger, Figure della follia nella narrativa contemporanea Nicoletta De Vecchi Pellati, Pirandello : oltre la postmodernità ? Leonardo Sebastio, Per i cento anni degli « Scrittori d’Italia » Dario Tomasello, Giovinezza giovinezza ! La fondazione di un mito nella letteratura italiana del primo Novecento Giusy Criscione, Elody Oblath Stuparich, una donna ‘fuori del suo tempo’ Elena Rampazzo, Quando il Futurismo invocò Cesare. Inediti buzziani tra lealismo alla corona e tentazioni bonapartiste Fulvio Senardi, Carlo Michelstaedter : la « rettorica » della modernità Fabio Pierangeli, Michelstaedter e Slataper sulla via di Ibsen Angelo Lacchini, Virgilio Brocchi nell’isola di Rabelais Chiara Galassi, Girolamo Comi e la poesia europea nel Salento Silvio Ramat, Quattro titoli esemplari della poesia italiana del primo Novecento Pietro Zovatto, Rebora alla ricerca del «bisbliglio» Massimiliano Pecora, Tra le inarcature delle parole. Osservazioni sulla lingua descrittiva del primo de Pisis Riccardo Scrivano, Guido Gozzano a Goa “La Dourada” Antonio Lucio Giannone, Ada Negri e la « Rivista d’Italia » (attraverso le lettere a Michele Saponaro) Tatjana Rojc, L’Italia nel contesto del pensiero critico sloveno della prima metà del Novecento Edda Serra, Oralità e linguaggio in Biagio Marin Maria Belén Hernandez González, Come tu mi vuoi : il Pirandello degli spagnoli Mario Ceroti, Montale o il « borghese sviato ». Su Montale e Thomas Mann Rosita Tordi, Savinio al cinema Silvia Assenza, Lettura e creazione. Note a margine di una lettera inedita di Roberto Bazlen Barbara Stagnitti, Miraggi e nostalgie nei Canti dell’isola di Ada Negri Bartolo Calderone, Montale da Petrarca a Petrarca Sandro Maxia, La «farfallina color zafferano». Abbozzo di una geografia montaliana Pietro Frassica, Nuove ombre sul difficile rapporto tra Pirandello e Manuel Aguirre in un breve carteggio del 1926: M. Aguirre-S. Pirandello-A. Pereira Massimo Migliorati, Il concetto di memoria in Ungaretti : considerazioni e proposte Elena Frontaloni, Due scritti inediti di Dolores Prato Francesco D’Episcopo, Alfonso Gatto : esercizi di lettura Marzio Pieri, Salamandra del sol, Ungaretti vs Góngora Carmine Chiodo, Un poeta antico-moderno : Lorenzo Calogero Anco Marzio Mutterle, Il mare, il selvaggio e altre ebbrezze pavesiane Uberto Motta, Tra Montale e Contini. Genesi e ragioni di Costa San Giorgio Gabriella Palli Baroni, Verità del quotidiano e della poesia : « Ninetta-N. », l’amata di Attilio Bertolucci Bruno Rombi, Il testamento spirituale di Salvatore Cambosu Giulia Dell’Aquila, I colori nelle poesie di Carlo Levi Donato Sperduto, Due scrittori al confino (1935-36) : Carlo Levi e Cesare Pavese Paolo Briganti, « Vita letteraria e degli scrittori » : un esperimento di “convivenza” tra letteratura e giornalismo a Parma (1937-38) Alberto Brambilla, Silvio Benco e Vittorio Betteloni (con un’ipotesi su Umberto Saba) Angelo R. Pupino, Nota sul lavoro critico di Giovanni Getto Alfredo Luzi, La poesia di Bassani. L’io biografico e la storia Donato Pirovano, Montale e « l’Arno balsamo fino » Massimo Castoldi, Federico García Lorca nell’Italia fascista. Guanda, Bo, Macrì e un episodio di censura Eraldo Bellini, « Agronomus sed fidens ». Note per Montale e il giovane Calvino Maria Gabriella Riccobono, Il veliero di Quasimodo, Ezechiele, l’Apocalisse e Purgatorio XX : una glossa Ilaria Crotti, Guerra come allegoria nelle Giornate di Stefano di Antonio Barolini Maria Pagliara, « Se vuoi chiamarlo giornalismo ». Il giornalismo di Fausta Cialente tra rifiuto e impegno Titus Heydenreich, Idiomi gentili. Valore e funzione dei dialetti nelle riflessioni e nella pratica letteraria di Pasolini e Sciascia Rossella Rossetti, Superstizioso-selvaggio-primitivo : aspetti filosofici e irrazionali nel Mestiere di vivere di Cesare Pavese (con una nota di Ferruccio Monterosso) Apollonia Striano, « Aretusa », la prima rivista nel segno dell’Italia liberata Enrica Mezzetta, Carteggio Giuseppe Ungaretti-Francesco Flora Antonio Iurilli, Letteratura in onda. Un canone letterario per la radio del dopoguerra Franco Suitner, Su alcune “resistenze” teoriche alla critica delle varianti Elisabetta Bacchereti, La rete bucata della memoria. Calvino e l’autobiografia impossibile Carla Boroni, I racconti di Enrico Morovich per il « Giornale di Brescia » Wafaa El Beith, « La sfilata degli imbecilli » in Cristo si è fermato a Eboli Paola Baioni, « O mia poesia, salvami... perché tu sei la primavera ». Il ruolo della poesia in Alda Merini Pasquale Tuscano, La Calabria di Leonida Rèpaci Alberto Granese, Letteratura e cinema. Il disprezzo di Moravia dal romanzo al film Vito Santoro, Avventura di un fotografo. Dal racconto-saggio di Calvino al film-saggio di Francesco Maselli Luigi Martellini, Pier Paolo Pasolini, una Lunga strada di sabbia (e di mare) Giuseppe Lupo, Il profeta, il sognatore, il re in esilio. Natalia Ginzburg, Ottiero Ottieri e Giorgio Soavi di fronte ad Adriano Olivetti Emerico Giachery, Mario Petrucciani: una riscoperta e un’edizione  



























































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sommario Domenico Cofano, Celestino V : da Dante a Silone Barbara Carle, Viaggio attraverso le Rime di Alfonso Gatto : i sonetti Antonio Sichera, La chiave metafisica del Contesto. Breve saggio sul pascalismo (borgesiano) di Sciascia Salvatore Ritrovato, Fine dell’idillio nella poesia di Paolo Volponi. Per una lettura de Il pomeriggio di un dirigente Pasquale Voza, Tra « genocidio » e « lalìa » : il Volgar’ eloquio di Pasolini Paolo Senna, Talento, mediocrità e neologismi. Un testo disperso di Montale Francesco Cenetiempo, Virgilio Giotti nei libretti di «Mal’aria». La più esile, ma sostanziosa, biblioteca del mondo Antonella Agostino, I Diari di Antonio Delfini : il romanzo del sé Cristina Benussi, Alda Merini e La Terra Santa Graziella Semacchi Gliubich, Marisa Madieri. Appunti per una biografia Cesare De Michelis, I primi libri di Paola Capriolo Anna Pastore, « Come al tempo della nostra indimenticabile Ines ». Lettere inedite di Bruno Maier a Giovanni Cristini sulla collaborazione al « Ragguaglio Librario » Marco Santoro, Il giallo in Italia : un arcobaleno di generi Ulla Musarra-Schrøder, Franco Musarra, Alla deriva : l’isola come figura di decentramento in L’isola del giorno prima di Umberto Eco Giorgio Cavallini, Caro Giorgio, grazie ! Claudio A. D’Antoni, Critica delle metodologie della critica Andrea Rondini, Italo Calvino nel nuovo Millennio Natalie Dupré, Nata in Istria. Il confine di Anna Maria Mori Celestina Milani, Storia e poesia nelle vicende dell’emigrazione italiana negli USA Bruno Porcelli, I gialli pisani di Marco Malvaldi Elis Deghenghi Olujić, L’officina poetica di Mauro Sambi, voce raffinata della contemporanea lirica istro-quarnerina  















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PER GIORGIO BARONI Paola Ponti

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’am pia adesione suscitata dagli Studi in onore di Giorgio Baroni non può dirsi una sorpresa, se si considerano le molte fila che legano la sua persona al mondo dell’università e dell’italianistica. Ad un primo sguardo il volume sembrerebbe imporsi per la mole, ma un occhio più attento ai nomi di chi ha aderito e agli argomenti trattati coglie, tra indice, curriculum e bibliografia, una serie di vicendevoli rimandi che sono il frutto di una militanza letteraria spesa tra ricerca, insegnamento e servizio presso il sindacato e il miur. Nel lungo cammino avviato nel 1969, questa miscellanea vorrebbe quindi rappresentare un omaggio dovuto e sincero allo studioso, e restituire, in filigrana, l’idea del suo modus operandi. Nella grande varietà dei contributi raccolti non è difficile individuare autori e tematiche che hanno visto Giorgio Baroni impegnato per molti anni nel connubio tra studio individuale e lavoro di gruppo : da Parini, Ungaretti, Saba e Quasimodo, al Futurismo, ad Ada Negri e a Calvino, dalle riviste letterarie ai testi inediti e rari, dall’onomastica, alla letteratura triestina e dalmata, ognuno di questi argomenti ha rappresentato l’avvio di indagini destinate a concretizzarsi in convegni e iniziative culturali, che hanno coinvolto specialisti di molte università, anche straniere. La compresenza di generazioni diverse e di profili critici non solo accademici è quindi un’eredità di tali iniziative, nella quale si riflette un orientamento coerente di Baroni, da sempre convinto della necessità di coinvolgere in base al merito prima che all’anzianità e al ruolo. E d’altra parte, è sembrato naturale che, tra i molti contributi, ve ne fossero alcuni più vicini all’omaggio amichevole che allo studio scientifico in senso stretto, come testimonianza di un sodalizio intellettuale e affettivo di lunga data. Esiste pertanto una duplice linea, scientifica e umana, sottesa a questo volume, a cui il titolo, Letteratura e oltre, fa implicito riferimento. Gli studi critico-letterari e filologici hanno sempre costituito il centro dell’attività di Giorgio Baroni, oggi più che mai attivo nel dirigere l’Edizione nazionale  

dell’opera di Parini e nella pubblicazione di articoli e studi vari, di cui la bibliografia dà ampio saggio. E tuttavia la letteratura non è mai stata oggetto di un interesse solo specialistico, perché l’aspetto tecnico dell’analisi ha sempre presupposto la valorizzazione di un contenuto umano, fruibile tanto dall’addetto ai lavori, quanto dallo studente o dal lettore comune. La letteratura, quindi, è stata negli anni considerata in rapporto dialettico con il destinatario a cui si rivolge come stimolo vitale, forma di interrogazione e risposta ad una ricerca di senso. In questa peculiare sensibilità, si avverte l’insegnamento di colei che ha avviato Baroni agli studi di italianistica, Ines Scaramucci, docente presso l’Università Cattolica e anima del « Ragguaglio librario », su cui la firma dello studioso compare per più di un ventennio. L’“oltre” a cui fa riferimento il titolo vuole rendere ragione anche della prospettiva, versatile e originale, che ha consentito a Baroni di indagare i nessi tra il testo letterario e realtà apparentemente distanti, come il mondo dei trasporti o quello dell’ecologia. Anche grazie a questa libertà d’impostazione, i suoi studi sociologico-letterari hanno sempre riscosso un notevole seguito presso gli studenti, rispondendo alla loro esigenza di misurarsi con le dinamiche concrete che condizionano la vita di un’opera e con le sue possibili forme di ricezione e di fortuna critica. Nell’affidare questo volume ai lettori, desidero ricordare una delle raccomandazioni che, in qualità di maestro, Giorgio ha rinnovato ai suoi allievi, ogni qualvolta gli presentavano dei dubbi sul proprio lavoro. Coerente con quanto emerge dalle sue ampie indagini sul termine e sulla funzione della critica, ha sempre invitato ad affinare le proprie intuizioni attraverso un costante ritorno ai testi, avendo cura di maturare un’espressione compiuta e personale, che rispondesse alla sensibilità letteraria di ciascuno di noi. Il primo studio di Baroni, che a breve sarà ristampato, si intitola Trieste e « La Voce ». Questa iniziale formazione, a contatto con uno dei periodici più importanti del secolo scorso, ha avuto più im 







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paola ponti

portanza di quanto appaia leggendo il lungo elenco delle pubblicazioni dello studioso. È stata, per alcuni aspetti, una presenza carsica ma costante, che ha accompagnato la sua attività come pubblicista, fecondo recensore, autore di articoli scientifici e poi direttore della « Rivista di letteratura italiana » e del sito Iride900. Apparentemente così lontana dalla forma ‘rivista’, la miscellanea ne richiama invece  

lo spirito, nella misura in cui un modo di esprimere l’attività di letterato e di professore ha alimentato un orizzonte di collaborazioni, dove profili e interessi anche molto diversi hanno potuto coesistere e completarsi. Con lo stesso spirito il Dipartimento di Italianistica e Comparatistica, gli allievi e i colleghi offrono questo volume in segno di sincera riconoscenza e di affettuosa gratitudine.



* Desidero ringraziare gli allievi di Baroni che mi hanno generosamente aiutato nel lavoro redazionale : Maria Cristina Albonico, Silvia Assenza, Paola Baioni, Elisa Bolchi, Enrica Mezzetta, Federica Millefiorini, Anna Pastore, Barbara Stagnitti, Francesca Strazzi. È inoltre doveroso ricordare la preziosa collaborazione dell’editore Fabrizio Serra, della valente dott.ssa Rita Gianfelice, e delle nostre infaticabili segretarie, Domenica Cuzzocrea e Ivana Maggi. Ai professori che hanno fatto parte del comitato scientifico va la mia profonda gratitudine : Anna Bellio, Cristina Benussi, Giorgio Cavallini, Ilaria Crotti, Davide De Camilli, Edoardo Esposito, Giuseppe Farinelli, Luigi Fontanella, Pierantonio Fra 



re, Pietro Frassica, Vicente Gonzáles Martín, Renata Lollo, Bortolo Martinelli, Ermanno Paccagnini, Maria Pagliara, Angelo R. Pupino, Andrea Rondini, Giuseppe Savoca, Fabrizio Serra. Ho avuto modo di confrontarmi nel corso del lavoro con i professori Giuseppe Farinelli ed Ermanno Paccagnini, che hanno preceduto e seguito il professor Baroni alla guida del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica. A loro e al professor Pierantonio Frare, che pure ringrazio molto per l’amichevole disponibilità, esprimo la mia più sincera riconoscenza. Questo volume esce con il sostegno della Facoltà di Scienze della Formazione e del preside Michele Lenoci, a cui rivolgo uno speciale ringraziamento.

CURRICULUM DIDATTICO E SCIENTIFICO DI GIORGIO BARONI Formazione

Attività scientifica

ato da genitori dalmati il 27 giugno 1946 a Trieste, vi ha ricevuto la prima formazione. Conseguita la maturità classica nel 1964 al Liceo Classico Manzoni di Milano, ha frequentato la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore della medesima città, laureandosi in Lettere (ind. moderno) nel 1969 con una tesi in Storia della letteratura italiana moderna e contemporanea (Contributo allo studio di Umberto Saba), relatrice la prof.ssa Ines Scaramucci, sotto la cui direzione si è poi perfezionato in Filologia moderna presso la medesima Facoltà, ottenendo un punteggio di 70/70 e la lode per una tesi su Trieste e « La Voce ».

Alla qui accennata attività didattica si connette direttamente quella scientifica. Dopo essersi occupato nell’ambito di un circolo giovanile, da lui presieduto, di letteratura contemporanea, ha scelto di dedicarsi allo studio critico della letteratura triestina del Novecento e, in particolare, di Umberto Saba, che è stato poi l’argomento della sua tesi di laurea, discussa con la prof.ssa Ines Scaramucci. Per invito di questa è rimasto nell’Istituto per continuarvi le ricerche e svolgervi attività didattica, collaborando anche al « Ragguaglio librario », dalla stessa diretto. Desideroso di completare la propria preparazione ha frequentato un corso di perfezionamento in Filologia moderna (diretto prima dal prof. De Cesare e poi dal prof. Billanovich), elaborando una tesi su Trieste e « La Voce », che è stata pubblicata dall’Istituto di Propaganda Libraria di Milano nel 1975. Ha continuato intanto lo studio di altri autori giuliani del Novecento, di alcuni scrittori minori viventi e delle correnti letterarie del primo Novecento (vedi le numerose recensioni e i saggi degli anni 1970-77). Il ritrovamento di alcuni scritti dispersi di Scipio Slataper gli ha fornito l’occasione per un saggio su Coerenza e impegno nell’opera politica di Scipio Slataper (« Otto-Novecento », gennaio-febbraio 1977), per l’edizione degli scritti ritrovati (Scipio Slataper, Scritti politici, 1914-1915, a cura di Giorgio Baroni, Trieste, I. Svevo ed., 1977) e per un saggio su Scipio Slataper, destinato al Novecento di Marzorati (1979). Sono continuati intanto, e hanno veduto la luce in varie riviste, alcuni suoi studi su minori giuliani, su futuristi, su autori del primo Novecento. Allo scopo di approfondire le indagini in questo settore, dietro sollecitazione editoriale, ha pubblicato un volume su Giuseppe Ungaretti (Firenze, Le Monnier, 19801, 19925), cui hanno fatto seguito alcuni saggi, usciti in periodici e in volumi miscellanei, su particolari aspetti del complesso itinerario poetico ungarettiano. Sempre nel 1980 vedeva la luce uno studio su Libero Bigiaretti (Firenze, La Nuova Italia). Dal 1980 al 1984, mentre continuava a occuparsi della letteratura del Novecento, partecipava a un pluriennale lavoro di ricerca di gruppo coordinata dal prof. Giuseppe Farinelli (subentrato alla prof. ssa Scaramucci nell’insegnamento di Storia della letteratura italiana moderna e contemporanea) su La pubblicistica nel periodo della Scapigliatura con il regesto di numerose riviste degli anni 1860-1880, fra le quali il « Corriere della Sera » : da tali indagini, oltre al volume edito dall’ Istituto Propaganda Libraria (Milano 1984), sono derivati alcuni saggi fra cui Lingua e artigianato in prose dell’Ottocento. Nel 1982 Giorgio Baroni ha coordinato un fascicolo del « Ragguaglio librario » dedicato agli autori giuliani, nel 1983 un numero speciale di « Otto-Novecento » in occasione del centenario di Umberto Saba ; nel 1984 un altro numero del « Ragguaglio » dedicato alle Lettere triestine ; altri due numeri speciali di « Otto-Novecento » per il centenario di Virgilio Giotti e per quello di Scipio Slataper, rispettivamente nel 1985 e nel 1988. Nel 1984, allo scopo di riunire in volume alcuni studi sulla letteratura giuliana apparsi in vari luoghi e date, rivedendone l’impostazione e aggiornandone l’indirizzo, ha pubblicato Umberto Saba e dintorni. Appunti per una storia della letteratura giuliana (Milano, Istituto Propaganda Libraria) : un libro che contiene la base per una proposta di sistemazione storico-critica dell’argomento, con un ampliamento d’orizzonte verso i secoli passati ; l’opera, premiata a Tagliacozzo,

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Attività didattica e servizi prestati negli Atenei Dall’anno scolastico 1966-67 ha insegnato nella scuola media ; dal 1969/70 italiano e latino nei licei (Manzoni, Leonardo da Vinci, Parini, Tenca, tutti di Milano) fino al passaggio nei ruoli universitari. Presso la Facoltà di Magistero dell’Università Cattolica di Milano, per l’insegnamento della Storia della letteratura italiana moderna e contemporanea, è stato addetto alle esercitazioni dal 1971 e quindi contrattista dal 1975 al 1980 quando è stato confermato ricercatore ; in tale ruolo ha continuato il servizio fino al 1989 avendo come referenti, oltre alla prof.ssa Scaramucci, il prof. Ernesto Travi che già era stato suo insegnante al Liceo Manzoni. Nel 1973-74 ha collaborato anche con la cattedra di Letteratura italiana (prof. Domenico Consoli) della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Macerata. Avendo vinto un concorso nazionale, è stato chiamato a ricoprire il posto di professore associato di Storia della critica alla Facoltà di Magistero dell’Università Cattolica del Sacro Cuore dal 1° novembre 1989 ; ha ricoperto tale carica accademica fino al 28 febbraio 2001 con mutazioni solamente nominali in quanto nel frattempo la denominazione della Facoltà è mutata in Scienze della Formazione e quella dell’insegnamento in Storia della critica e della storiografia letteraria. Il 1° marzo 2001, vincitore di concorso di prima fascia, è stato chiamato come professore straordinario di Letteratura italiana contemporanea nella medesima facoltà ; promosso regolarmente ordinario tre anni dopo, ha mantenuto tale ruolo sino alle dimissioni volontarie nel 2009. Per affidamento ha inoltre insegnato nello stesso ateneo dal 1991 al 1993 Lingua e letteratura italiana e, dal 1993 al termine del servizio Sociologia della letteratura. Da ordinario è stato Direttore dell’Istituto di Italianistica e quindi fondatore e Direttore del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica ; docente dalla fondazione (1992) nella scuola di dottorato di ricerca in Critica, teoria e storia della letteratura e delle arti e quindi in quella di Storia e letteratura dell’Europa moderna e contemporanea. Nel 1997 in Università Cattolica ha fondato e quindi diretto per quattro anni il corso di perfezionamento post lauream in Critica (dizione mutata in Critica letteraria e artistica nel 1998) che ha visto tra i propri docenti numerosi professori universitari italiani e stranieri. È stato visting professor in diverse università italiane ed estere (Arcavacata, Bari, Brescia, Chieti, Orientale di Napoli, Roma, Trieste, Trento, Urbino, Venezia, Barcellona, Belgrado, Coimbra, Lovanio, New York, Princeton, Salamanca, Salonicco, ecc.).  



















































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curriculum didattico e scientifico di giorgio baroni

fu scelta a livello internazionale per rappresentare l’Italia in quell’anno a New York. In collegamento con i proff. Bruno Maier di Trieste ed Ernesto Travi, Giorgio Baroni avviava intanto studi sulla letteratura fra Settecento e Ottocento, con particolare riguardo a Ippolito Pindemonte : un primo esito di tali indagini è l’edizione in « Otto-Novecento » nel gennaio 1987 del carteggio Ippolito Pindemonte-Giovanni Rosini. Negli stessi anni è continuata la sua attenzione per la letteratura del Novecento, con particolare riguardo alla sperimentazione promossa dalle avanguardie : accanto a studi in rivista e in volumi miscellanei, nel 1988 ha pubblicato un volume su Italo Calvino (Firenze, Le Monnier) e curato, per i « Quaderni di Palazzo Sormani », l’edizione critica del Teatro sintetico di Paolo Buzzi. Questo volume ha segnato l’inizio di un periodo dedicato prevalentemente alla filologia e alla critica : sul primo fronte si registrano le edizioni del carteggio Prezzolini-Novaro, della Carlinga dei senza naso di Paolo Buzzi e del Teatro della politica di Salvator Rosa, che attesta pure un estendersi degli interessi al secolo diciassettesimo ; sul secondo, l’indagine-inchiesta sulla definizione di Critica, apparsa in « Otto-Novecento », dalla quale sono derivati altri contributi e interventi in congressi, e alcune panoramiche della critica con particolare attenzione ai problemi teorici delle più aggiornate metodologie. Il lavoro filologico si è mantenuto in stretta correlazione con il lavoro interuniversitario di ricerca di prevalente interesse nazionale, di cui Giorgio Baroni è stato spesso coordinatore nazionale o locale dal 1987, con progetti riguardanti inediti e rari degli ultimi quattro secoli. Momenti di sintesi di tali ricerche sono i volumi, pubblicati a sua cura : L’enigma, la confessione, il volo. ‘Lettere’ sommerse fra Sei e Novecento, Il gusto del raro, Dalla sala riservata reperti d’autore, Archeologia futurista ; e, inoltre, La scrittura dispersa. Testi e studi su inediti e rari tra Seicento e Novecento, a cura di Michele Dell’Aquila. Gli interessi per la letteratura fra Ottocento e Novecento sono in questi anni attestati da numerosi saggi e recensioni, riguardanti il mondo giuliano e dalmata, la poesia e le avanguardie del primo Novecento ; in qualità di coordinatore di unità locale, Baroni ha inoltre preso parte alle ricerche coordinate dal prof. Giuseppe Savoca sulla lingua poetica fra Ottocento e Novecento. In collegamento con l’attività didattica Baroni realizzava studi specifici sulla critica letteraria, a partire dall’inchiesta e da alcuni aggiornamenti pubblicati in rivista, per continuare con l’impegnativo rifacimento del Manuale critico-bibliografico per lo studio della letteratura italiana, ideato da Mario Puppo ; nel rifacimento aggiornava tra l’altro la trattazione dei metodi critici e affrontava i problemi relativi alla diffusione dei testi letterari : di tale opera è stata poi curata una nuova edizione ampliata e riveduta (2002). Progettava quindi e dirigeva una ricerca pluriennale di diversi colleghi sulla critica letteraria dalle origini a oggi, dalla quale è nato il volume Storia della critica letteraria in Italia edito da Utet libreria, di cui Baroni, oltre al progetto e alla direzione, ha realizzato il primo capitolo e quello relativo alla critica letteraria del primo Novecento. Collateralmente all’insegnamento di Sociologia della letteratura e sollecitato da richieste aziendali concretizzatesi in commesse di ricerca, progettava e dirigeva delle ricerche su letteratura e smaltimento dei rifiuti e su letteratura e trasporto pubblico. Di tali indagini sono esiti tangibili i volumi da lui coordinati Spazio alla vita, Quando lo scrittore s’attacca al tram. La presenza del mezzo pubblico urbano nella letteratura e nell’arte, Treni d’autore, Scrittori al voloWriters on flight oltre al contributo Il trasporto nella letteratura-Transportation in literature nel catalogo della mostra Il trasporto pubblico urbano. Milano 1900-2000. Altri studi di taglio sociologico sono attestati da saggi in rivista. In collaborazione con un proprio allievo, Andrea Rondini, ha inoltre realiz 





























zato L’Orlando comprato. Manuale di sociologia della letteratura, particolarmente dedicato ai problemi critici relativi alla diffusione dei testi letterari. Nel 1999 per incarico rettorale e in collaborazione con la Regione Lombardia e altri enti locali ha organizzato le celebrazioni del bicentenario della morte e l’edizione delle opere di Giuseppe Parini, riuscendo a far istituire dal Ministero dei Beni Culturali il Comitato per l’edizione Nazionale e quello per le celebrazioni di cui è vicepresidente. Ha così organizzato e coordinato il Convegno internazionale Attualità di Giuseppe Parini. Poesia e impegno civile celebratosi a VarennaBosisio Parini-Milano, con la partecipazione di quasi cento studiosi di tutto il mondo. Ha inoltre coordinato quattro altri convegni pariniani in Lombardia, intervenendo con proprie relazioni. Dell’Edizione Nazionale è attualmente Presidente e nel 2011 è uscito il primo volume. Ha promosso la creazione del Centro internazionale di studi Giuseppe Parini a Bosisio Parini. Nel 2002 organizzava e coordinava le celebrazioni del centenario quasimodiano con il convegno internazionale Nell’antico linguaggio, altri segni. Salvatore Quasimodo poeta e critico tenutosi in Università Cattolica e altri convegni all’estero (New York, Lovanio) Continuava intanto a coordinare ricerche sulle riviste del Novecento ; sul tema ha pure diretto il volume collettivo Letteratura e riviste, edito da Giardini, e organizzato il convegno tenutosi presso l’Università Cattolica nel marzo-aprile 2004, con la partecipazione di circa 150 relatori, provenienti anche da altri continenti. Durante il convegno è stato presentato il sito internet Iride900, già consultabile (www.unicatt.it/iride900), che conteneva allora gli spogli di circa 50 riviste della prima metà del Novecento, realizzati in questi anni dal gruppo di lavoro da lui diretto ; il sito, oggi condiretto con Paola Ponti e con il coordinamento di Andrea Rondini e Federica Millefiorini, ha superato le 110 riviste. Nel 2005, per il centenario della fondazione della rivista fondata a Marinetti, organizzava e coordinava in Università Cattolica il Convegno internazionale Il Futurismo sulla rampa di lancio. « Poesia ». 1905-2005. Nel 2007, per il cinquantesimo della scomparsa di Saba, organizzava e coordinava un convegno a Trieste, « Si pesa dopo morto », e uno presso l’Università Cattolica di Milano, Saba extravagante. Di tutti questi convegni ha pure curato l’edizione degli atti. Altri convegni ha organizzato negli ultimi anni su Mario Luzi e Ada Negri, mentre ha partecipato variamente a numerose altre iniziative in Italia e all’estero. Un altro settore d’indagine ha riguardato l’onomastica letteraria per la quale ha scritto alcuni saggi, partecipato ai convegni della Società di Onomastica e letteratura, organizzato quattro convegni internazionali a Milano, curandone gli atti. Ha collaborato a diversi periodici, in certi casi partecipando anche ai relativi comitati : « Otto-Novecento », « Testo », « Il Ragguaglio librario », « Italianistica », « Vita e Pensiero », « Italyan Filolojisi », « Nuova Rivista Europea », « Humanitas », « Esperienze letterarie », « Studi sul Settecento e l’Ottocento », « Gradiva », «Avvenire» e altri. Dall’anno 1996 è direttore della « Rivista di letteratura italiana » e della connessa collana. Nel 2011 per il cinquantenario della morte di Stuparich ha organizzato a Trieste il convegno internazionale Giani Stuparich tra ritorno e ricordo. È membro di Società scientifiche, socio dell’Arcadia e della Scuola Dalmata dei Santi Giorgio e Trifone. Dal 2003 al 2005 per nomina ministeriale è stato Garante della Ricerca Scientifica di Prevalente interesse nazionale (PRIN). Nel 2004-2005 per nomina ministeriale è stato membro per l’area 10 del Comitato per la Valutazione della Ricerca (CIVR).  





























































curriculum didattico e scientifico di giorgio baroni

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Volumi

Edizioni

Contributo allo studio di Umberto Saba, Milano, 1969. Arnaldo Fontana. Storia dell’uomo, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 1975. Trieste e « La Voce », Milano, Istituto Propaganda Libraria, 1975. L’itinerario di un maudit verso la Luce. La poesia di Ennio Emili, Trieste, tst, 1978. Libero Bigiaretti, Firenze, La Nuova Italia, 1980. Giuseppe Ungaretti, Firenze, Le Monnier, 19801, 19925. Umberto Saba e dintorni. Appunti per una Storia della letteratura giuliana, Milano, Istituto Propaganda Libraria, 1984. Chicca Zapparoli, Milano, Istituto Propaganda Libraria, 1986. Italo Calvino, Firenze, Le Monnier, 1988. 1888-1988. Slataper a cento anni dalla nascita, Azzate, ed. Otto-Novecento, 1988. L’enigma, la confessione, il volo. « Lettere » sommerse fra Sei e Novecento, a cura di Giorgio Baroni, Azzate, Edizioni Otto-Novecento, 1992. Spazio alla vita. Il servizio di pulizia nei secoli e oggi nel mondo, Milano, Right Answer, 1993. Manuale critico-bibliografico per lo studio della letteratura italiana, Torino, sei, 1994 (20022). Storia della critica letteraria in Italia, Torino, utet, 1997. Quando lo scrittore s’attacca al tram. La presenza del mezzo pubblico urbano nella letteratura e nell’arte, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore e a.t.m., 1997. L’Orlando comprato. Manuale di sociologia della letteratura, Torino, Sei, 1998 (Napoli, Liguori, 20072). Attualità di Giuseppe Parini : poesia e impegno civile, a cura e con introduzione di Giorgio Baroni, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 1999 (nn. 2-3, 1999 della « Rivista di letteratura italiana »). Dalla sala riservata : reperti d’autore, a cura di Giorgio Baroni, PisaRoma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2001 (nn. 2-3, 2001 della « Rivista di letteratura italiana »). Tempo e tempo. Ungaretti e Quasimodo, Milano, isu-Università Cattolica del Sacro Cuore, 2002. L’incanto del nome, a cura di Maria Giovanna Arcamone, Giorgio Baroni, Donatella Bremer, Pisa, ets, 2002. Nell’antico linguaggio altri segni. Salvatore Quasimodo poeta e critico, a cura e con introduzione di Giorgio Baroni, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2003 (nn. 1-2, 2003 della « Rivista di letteratura italiana »). Letteratura e riviste, a cura di Giorgio Baroni, Pisa, Giardini, 2004. Parini ludens, Bari, Laterza, 2004. Letteratura e riviste. Atti del convegno internazionale. Milano 31 marzo-2 aprile 2004, a cura e con introduzione di Giorgio Baroni, Pisa, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2005, 2 voll. (nn. 3, 2004 e 1-2, 2005 della « Rivista di letteratura italiana »). Il Futurismo sulla rampa di lancio. « Poesia » 1905-2005, a cura di Giorgio Baroni, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2006 (n. 2, 2006 della « Rivista di letteratura italiana »). Scrittori al volo. L’aviazione nella letteratura, Roma, Alenia Aeronautica-Università Cattolica del Sacro Cuore, 2006. Writers on flight. Aviation in literature, Roma, Alenia Aeronautica-Università Cattolica del Sacro Cuore, 2007. Ada Negri. « Parole e ritmo sgorgan per incanto ». Atti del convegno internazionale di studi. Lodi, 14-15 dicembre 2005, a cura e con introduzione di Giorgio Baroni, Pisa, Giardini, 2007. « Si pesa dopo morto ». Atti del convegno internazionale di studi per il cinquantenario della scomparsa di Umberto Saba e Virgilio Giotti. Trieste 25-26 ottobre 2007, a cura di Giorgio Baroni, Pisa-Roma, Serra, 2008 (n. 1, 2008 della « Rivista di letteratura italiana »). Saba extravagante. Atti del convegno internazionale di studi, Milano 14-16 novembre 2007, a cura e con introduzione di Giorgio Baroni, PisaRoma, Serra, 2008 (nn. 2-3, 2008 della « Rivista di letteratura italiana »). Treni d’autore. LeNord nell’immagine del pubblico colta attraverso la letteratura e l’arte, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 2008. Archeologia futurista, a cura e con introduzione di Giorgio Baroni, Pisa-Roma, Serra, 2010 (n. 3, 2009 della « Rivista di letteratura italiana »).

Scipio Slataper, Scritti politici (1914-1915), a cura di Giorgio Baroni, introduzione di Roberto Damiani, Trieste, Italo Svevo ed., 1977. Ippolito Pindemonte - Giovanni Rosini. Carteggio (1802-1827), « Otto-Novecento », Azzate, gennaio-febbraio 1987, pp. 129-206. Paolo Buzzi, « Teatro sintetico. Diciotto sintesi teatrali futuriste », Edizione critica a cura di Giorgio Baroni, Milano, Settore cultura e spettacolo - Biblioteca Comunale Palazzo Sormani, 1988. Scipio Slataper a cento anni dalla nascita (1888-1988). Undici lettere di Scipio Slataper al ‘Presidente morale’ della « Voce » e una risposta, « OttoNovecento », Azzate, settembre-ottobre 1988, pp. 2-24. Giuseppe Prezzolini - Fratelli Novaro. Carteggio 1911-1938, « Otto-Novecento », Azzate, novembre-dicembre 1989, pp. 121-173. A Umberto Saba il riconoscimento di benemerenze eccezionali per intervento del Duce, « Metodi e ricerche », Udine, luglio-dicembre 1989, pp. 118-120. Pagine rare di Scipio Slataper, « Quaderni giuliani di storia », Trieste, dicembre 1989, pp. 213-218. Salvator Rosa, « Il teatro della Politica. Sentenziosi afforismi della prudenza ». Edizione critica a cura di Giorgio Baroni, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1991. « Poesia. Rassegna internazionale ». Ristampa anastatica con Presentazione di Giorgio Baroni, indice e un saggio di Federica Millefiorini, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2005, 5 voll.





























































































Articoli, prefazioni, saggi in miscellanee, in atti di convegni, recensioni 1970 Prefazione a Gaetano Telloli, Pelle di cane, Grosseto, Antiedizione, 1970. 1971 Gaetano Telloli, « Pelle di cane » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, marzo 1971, p. 96. Vladimiro Lisiani, « Co son lontan de ti » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, giugno 1971, p. 220. Giuseppe Bonura, « La pista del Minotauro » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, settembre 1971, p. 275. Giani Stuparich, « Ricordi istriani » (recensione), ibidem. Lina Galli, « Dal fondo della stiva » (recensione), ivi, p. 291. Vittorio Benito Venturini, « Appunti per un libro d’ore » (recensione), ibidem. Divagazioni su Biagio Marin - Visita a Biagio Marin, « Il Ragguaglio librario », ottobre 1971, pp. 306-309. Invenzione anni 70, « Splendor », Milano, dicembre 1971, p. 9.  











































1972 Incontro con Giuseppe Bonura, « Il Ragguaglio librario », Milano, maggio 1972, pp. 170-171. Voci poetiche giovani a Milano, « Il Ragguaglio librario », Milano, luglioagosto 1972, pp. 264-265. Alfredo Bonazzi, « L’infanzia di Caino » (recensione), ivi, p. 279. Manlio Malabotta, « Fiori de nailon » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, settembre 1972, p. 324. Giuseppe Bonura, « Invito alla lettura di Calvino » (recensione), « Vita e Pensiero », Milano, settembre-ottobre, 1972, pp. 128-129.  



























1973 Bruno G. Sanzin, « Guardiamoci in faccia » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, maggio 1973, p. 192. Studi sulla cultura triestina del Novecento, « Il Ragguaglio librario », Milano, giugno 1973, p. 221. Gaetano Telloli, « Il Falco » (recensione), ivi, p. 226. Renato Barberi, « Il Viandante » (recensione), ibidem. Anna Rinonapoli, « Sfida al pianeta » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, ottobre 1973, p. 350. Anderson, Dickinson, Silverberg, « Quando il sole si fermò » (recensione), ibidem. Carlo Sgorlon. Romanzo come alternativa alla vita, « Vita e Pensiero », Milano, novembre-dicembre 1973, pp. 156-158.  



































16

curriculum didattico e scientifico di giorgio baroni Claudio Toscani, « Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini » (recensione), « Vita e Pensiero », Milano, gennaio-giugno 1976, p. 344. Giuseppe Prezzolini, « Italia fragile » (recensione), ivi, p. 336. Manlio Cecovini, « Per favore chiamatemi Von » (recensione), « L’Esule », Milano, 10 giugno 1976, p. 3. Arnaldo Fontana, « Il Ragguaglio librario », Milano, luglio-agosto 1976, pp. 262-263. Francesco Semi, « Capris – Iustinopolis – Capodistria » (recensione), ivi, p. 274. Gaetano Telloli, « Carlin Matera » (recensione), ivi, p. 284. Gilda Musa, « Giungla domestica » (recensione), ibidem. Un libro di Luigi Papo (recensione), « L’Esule », Milano, 28 agosto 1976, p. 3. Triestinità e impegno di Manlio Cecovini, « Il Ragguaglio librario », Milano, settembre 1976, pp. 292-293. Vittorio Benito Venturini, « Il guado » (recensione), ivi, p. 306. Emanuela Stramana, « Abbatti la scimmia » (recensione), ivi, p. 322. Alberto Fazio, « Proletari in crociera » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, ottobre 1976, p. 362. Renato Barberi, « Le campane di Golasecca » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, novembre 1976, p. 402. Mario Spera, « L’Azione » (recensione), ibidem. Gaetano L’Acqua, « La Prealpina », Varese, 10 dicembre 1976. Aa.Vv., « Racconti stregati » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, dicembre 1976, p. 419. Neill Graham, « Solo Malcom l’investigatore » (recensione), ibidem. Giuseppe Marotta Iunior, « Savio da legare » (recensione), ibidem.  

1974 Presentazione, in Arnaldo Fontana, Sette disegni tirati in serigrafia, Milano, R. Dones, 1974. Massimo Grillandi, « Invito alla lettura di Bassani » (recensione), « Vita e Pensiero », Milano, gennaio-aprile 1974, pp. 324-325. Per una rilettura di Virgilio Giotti, « Il Ragguaglio librario », Milano, aprile 1974, p. 133. Aurelio Benevento, « Studi su Piero Jahier », ivi, pp. 148-149. Claudio Toscani, « Il dèmone meridiano. Narrativa e poesia di Sandro Bevilacqua », « Vita e Pensiero », Milano, maggio-giugno 1974, p. 206. Gustavo Gasparini, « La donna immortale » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, ottobre 1974, p. 364. Bruno G. Sanzin, « Scatola a sorpresa » – « Senza rete » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, novembre 1974, p. 381. Emilio Gentile, « “La Voce” e l’età giolittiana », ivi, p. 395. Lina Galli, « Eppure ancora un mattino » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, dicembre 1974, pp. 434-435.  

















































































































1975 Pier Mario Sala, in Arte a Lecco, Lecco, Agielle, 1975. « A sol calao » di Biagio Marin, « Il Ragguaglio librario », Milano, gennaio 1975, p. 23. Giuseppe Prezzolini, « Amendola e “La Voce” » (recensione), « Vita e Pensiero », Milano, gennaio-febbraio 1975, p. 194. Lina Galli, « Eppure ancora un mattino » (recensione), ivi, pp. 194-195. Gaetano Telloli, « Il Falco » (recensione), ibidem. Nera Gnoli Fuzzi, « Tre letterati a Trieste » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, marzo 1975, p. 120. Vincenzo Tavormina, « Monologhi » (recensione), « Vita e Pensiero », Milano, marzo-aprile 1975, p. 201. Antonio Pippo Cifarelli, « Il mio nome è legione » (recensione), « Luce », Varese, 18 maggio 1975, p. 22. Fulvio Tomizza, « Dove tornare » (recensione), ibidem. Bruno G. Sanzin, « Non si sa mai » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, maggio 1975, p. 186. James Blish, « Le mappe del cielo » (recensione), ivi, p. 200. Iolanda de Vonderweid, « Ricette antiche e moderne di Trieste, dell’Istria, della Dalmazia » – « Dolci di ieri e di oggi » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, giugno 1975, p. 240. Fausto Montanari, « Amore di Orlando » (recensione), « Luce », Varese, 29 giugno 1975. Renato Barberi, « Le campane di Golasecca » (recensione), « Luce », Varese, 6 luglio 1975. Un grando scuro : ricordo di Alberto Spaini e Virgilio Giotti, « Vita e Pensiero », maggio-agosto 1975, pp. 181-187. Teresa Pinto, Alberto Bracco, Michele Coco, Antonio Motta, Cosma Siani, (recensione), ivi, pp. 237-238. Fulvio Tomizza, « Dove tornare » (recensione), « Studium », Roma, luglio-agosto 1975, pp. 645-646. Piero Raimondi, « Invito alla lettura di Saba » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, settembre 1975, p. 324. Inediti di Lina Galli, « Il Ragguaglio librario », Milano, ottobre 1975, p. 328. Antonio Pippo Cifarelli, « Il mio nome è legione » (recensione), ivi, p. 359. Larry Niven, « Il Difensore » (recensione), ibidem. Tre opere di Nera Gnoli, « Luce », Varese, 12 ottobre 1975. Margherita Guidacci, « Studi su Eliot » (recensione), « Studium », Roma, novembre-dicembre 1975, pp. 969-970.  









































































































































1976 Prefazione a Bruno G. Sanzin, Io e il futurismo, Milano, Istituto Propaganda Libraria, 1976. Nera Gnoli Fuzzi, « In prima persona » – « Addio al passato » – « Fiori quadri cuori picche » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, gennaio 1976, p. 40. Poesie di Giulio Gianelli, « L’Italia che scrive », Roma, gennaio-marzo 1976, p. 5. Robert Silverberg, « Vacanze nel deserto » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, aprile 1976, p. 160. Chino Alessi, « Debiti d’amore » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, maggio 1976, p. 176. Ennio Emili, « Nella spirale » (recensione), ivi, p. 177. Aa.Vv., « Zoo-fantascienza » (recensione), ivi, p. 194. Antonio Chiarelotto, « Mon fumo » (recensione), ivi, p. 200.  















































































1977 Prefazione a Ennio Emili, Litanie, Trieste, tst, 1977. Un Saba minore, « Il Ragguaglio librario », Milano, gennaio 1977, p. 9. Sergio Campailla, « L’agnizione tragica. Studi sulla cultura di Slataper » (recensione), ivi, p. 25. Coerenza e impegno nell’opera politica di Scipio Slataper (con nuova bibliografia), « Otto-Novecento », Brunello, gennaio-febbraio 1977, pp. 38-55. William Riley Burnett, « I gangster » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, marzo-aprile 1977, p. 119. Guido Piovene, « Opere narrative » (recensione), « Vita e Pensiero », Milano, marzo-giugno 1977, pp. 231-232. Aldo Zagni, « S. Venerio Abate e il suo culto a Reggiolo » (recensione), ivi, p. 124. Guido Piovene, « Opere narrative » (recensione), « Studium », Roma, maggio-giugno 1977, pp. 401-402. Lina Galli, « Parenzo » (recensione), « L’Esule », Milano, 22 giugno 1977, p. 3. Giuseppe Cuscito – Lina Galli, « Parenzo » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, luglio-agosto 1977, p. 248. Giacomo Scotti (a cura di), « Storie istriane » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, ottobre 1977, p. 328. Aa.Vv., « Poesia dialettale triestina. Antologia 1875-1975 » (recensione), ivi, p. 322. Bruno G. Sanzin, « Cambiale in bianco » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, novembre 1977, p. 351. Vladimiro Lisiani, « Una vicenda personale » (recensione), ivi, p. 363. Silvio Benco, « Scritti di critica letteraria e figurativa » (recensione), « Nuova Rivista Europea », Trento, novembre-dicembre 1977, pp. 164-165. Paolo Buzzi : poeta futurista ? (con inediti), « Otto-Novecento », Brunello, novembre-dicembre 1977, pp. 85-128. Prezzoliniana, ivi, p. 275-277. Incontro con Vittoria Marinetti, « Il Ragguaglio librario », Milano, dicembre 1977, pp. 378-379. Prampolini, Dottori, Depero, Fillia, ivi, pp. 388-389. Geppo Tedeschi, ivi, p. 394. Lina Galli, ibidem.  



































































































1978 Stenio Solinas, « Prezzolini, un testimone scomodo » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, gennaio 1978, p. 35. Ruggero Bianchi, « Isaac Asimov » (recensione), ivi, p. 40. Tergestina, « Otto-Novecento », Brunello, gennaio-febbraio 1978, pp. 248-252. Tino Sangiglio, « Sapersi necessaria arsione » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, febbraio 1978, p. 59. La poesia di Lina Galli, « Iniziativa isontina », Gorizia, marzo 1978, p. 70.  



























curriculum didattico e scientifico di giorgio baroni Giuseppe Prezzolini, « Sul fascismo » – « Storia tascabile della letteratura italiana » (recensione), « Vita e Pensiero », Milano, gennaio-aprile 1978, pp. 221 e 231. Livia Veneziani Svevo, « Vita di mio marito » (recensione), ivi, p. 232. Claudio Toscani (a cura di), « Gli scrittori d’oggi e il Manzoni » (recensione), « Studium », Roma, marzo-aprile 1978, pp. 283-284. Domande all’autore de « L’Albero nudo », « Il Ragguaglio librario », Milano, aprile-maggio 1978, pp. 128-129. Graziano Comite, « Addio gabbiano Jonathan » (recensione), ivi, p. 149. Egidia D’Errico, « Verità bellissimo fiore » (recensione), ivi, p. 160. Anita Pittoni, « Caro Saba » (recensione), ibidem. Giovanni Romeo, « Cronon » – « I Prati della luna » – « Reviviscenze » (recensione), ibidem. Manlio Cecovini, « Discorso di un triestino agli italiani » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, giugno 1978, p. 195. Enzo Striano, « Indecenze di Sorcier » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, luglio-agosto 1978, pp. 244-245. A vent’anni dalla morte del poeta dell’amicizia : Umberto Saba, « Italyan Filolojisi », Ankara, 11, 1978, pp. 69-82. Enzo Striano, « Indecenze di Sorcier » (recensione), ivi, p. 189. Dino Claudio, « L’albero nudo », ivi, pp. 189-190. Bruno G. Sanzin, « Cambiale in bianco » (recensione), ivi, pp. 190-191. Aa.Vv., « Nella rete di Afrodite e di Dioniso » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, settembre 1978, p. 287. Enzo Bertinazzo, « El lupo, el leon, la volpe, el cocodrilo » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, ottobre 1978, p. 332. Paolo Venanzi, « Italia o morte » (recensione), ibidem. Aa.Vv., « Istria romantica » (recensione), « L’Esule », Milano, 20 ottobre 1978. Giorgio Maremmi, « Scrittore sì scrittore no » (recensione), « Otto-Novecento », Brunello, settembre-ottobre 1978, pp. 319-320. Giorgio Maremmi, « Scrittore sì scrittore no » (recensione), « Vita e Pensiero », Milano, luglio-dicembre 1978, pp. 409-410.  





































Mario Doria, « Storia del dialetto triestino » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, settembre 1979, p. 274. Lalla Kezich, « Marina indiana » (recensione), ivi, p. 283. Manlio Cecovini narratore, «La salvezza dell’uomo è nei calli delle mani», « Studium », Roma, settembre-ottobre 1979, pp. 669-675. Inediti e disegni di Virgilio Giotti, « Il Ragguaglio librario », Milano, ottobre 1979, pp. 308-309. Luigi Silori, « Invito alla lettura di Libero Bigiaretti » – Ugo Piscopo, « Libero Bigiaretti » (recensione), ivi, p. 313.  

















































































































1980 « Due senza » di Libero Bigiaretti. Incontro con Libero Bigiaretti, « Il Ragguaglio librario », Milano, marzo 1980, pp. 84-85. Rodolfo Doni, « Ultimatum alla coscienza » (recensione), « Studium », Roma, marzo-aprile 1980, pp. 261-262. Sante Domenico Sfriso, « Adherere Deo. L’unione con Dio » (recensione), ivi, p. 265. Sergio Campailla, « Scrittori giuliani » (recensione), « Otto-Novecento », Brunello, maggio-agosto 1980, p. 315. L’enigmatico toro di Renzo Rosso, « Il Ragguaglio librario », Milano, ottobre 1980, p. 346. Renzo Rosso, « Il segno del toro » (recensione), « Iniziativa isontina », Gorizia, novembre 1980, pp. 68-69. Renzo Rosso, « Il segno del toro » (recensione), « Studium », Roma, novembre-dicembre 1980, pp. 814-815.  





























































































































1981 Nicolas Powell, « Viaggiatori a Trieste » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, gennaio 1981, p. 40. Giorgio Voghera : letteratura ed ebraismo, « Otto-Novecento », Brunello, gennaio-febbraio 1981, pp. 313-321. Corrado Donati, « La solitudine allo specchio. Luigi Pirandello » (recensione), ivi, pp. 339-340. Raffaele Cecconi, « Viaggio in canoa » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, marzo 1981, p. 107. Luigi Frasca, « Verga, grande narratore » – Giovanni Verga, « I nuovi tartufi », commedia in 4 atti a cura di Carmelo Musumarra con una prefazione di Giovanni Spadolini sul mondo di Firenze capitale (recensione), « Otto-Novecento », Azzate, marzo-aprile 1981, p. 362. Remo Pagnanelli, « La ripetizione dell’esistere. Lettura dell’opera poetica di Vittorio Sereni » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, maggio 1981, p. 200. Giuseppe Farinelli, « Il romanzo fra le due guerre » (recensione), « Studium », Roma, maggio-giugno 1981, pp. 369-370. Bruno G. Sanzin, « Estratti » – « Bagaglio a mano » (recensione), ivi, pp. 374-375. Scrittori giuliani, « Il Ragguaglio librario », Milano, giugno 1981, p. 210. Fulvio Muiesan, « Città privata. Appunti per una certa Trieste » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, settembre 1981, p. 324. Claudio Toscani, « La “provincia” del “lettore” » (recensione), « Studium », Roma, settembre-ottobre 1981, p. 623. Stefano Crespi (a cura di), « L’uomo. Pagine di vita morale » (recensione), ivi, pp. 623-624. Manlio Valerio, « Vecia aria nostrana a Trieste e della “Siora Nineta” » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, novembre 1981, p. 391. Franco Masiero, « Le isole delle lagune venete-Natura, storia arte, turismo » (recensione), ibidem. L’ansia di Marcello Fraulini (con appunti per una bibliografia), « OttoNovecento », Azzate, settembre-dicembre 1981, pp. 325-346.  



































































































































1979 Scipio Slataper, in Letteratura italiana. Novecento, ii, Milano, Marzorati, 1979, pp. 1597-1630. Christopher Priest, « Mondo temporale » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, gennaio 1979, p. 17. Vincenzo Cornaro, « Erotocrito » (recensione), ivi, p. 24. Luigi Scorrano, « Modi ed esempi di dantismo novecentesco » (recensione), « Otto-Novecento », Brunello, gennaio-febbraio 1979, pp. 368-369. Roberto Damiani, « Carlo Sgorlon narratore » (recensione), ivi, pp. 358359. Aurelio Benevento, « Saggi di letteratura triestina » (recensione), « Studium », Roma, gennaio-febbraio 1979, pp. 129-130. Dino Claudio, « L’Albero nudo » (recensione), ivi, pp. 130-131. Tino Sangiglio, « Inventario d’anima » (recensione), ibidem. Claudio Toscani, « La Metastasi analitica » (recensione), ivi, pp. 131-132. Aa.Vv., « Istria romantica » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, febbraio 1979, p. 69. Inisero Cremaschi – Gilda Musa, « Dossier extraterrestri » (recensione), ivi, p. 80. Sante Domenico Sfriso, « Maria Storti » (recensione), ibidem. Il canto magico di Biagio Marin, « L’Osservatore romano », Città del Vaticano, 10 marzo 1979, p. 3. Luigi Scorrano, « Modi ed esempi di dantismo novecentesco » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, marzo 1979, p. 120. Inisero Cremaschi – Gilda Musa, « Dossier extraterrestri » (recensione), « La Punta », San Giuliano, marzo 1979, p. 8. Victor Hugo Rubelli, « El campielo » (recensione), ibidem. Aa.Vv., « Istria romantica » (recensione), ibidem. Acqua bagnata di B. Sanzin (recensione), « Futurismo-oggi », Roma, maggio 1979, pp. 196-197. Ennio Laudazi, « L’esperienza religiosa di Giuseppe Ungaretti » (recensione), « Studium », Roma, maggio-giugno 1979, p. 419. Elias Pater, « Variazioni su temi di Bialik » (recensione), ivi, pp. 419-420. Valerio Volpini, « Quasi un pellegrinaggio in Russia » (recensione), ibidem. Sopra le onde di questa tempesta fatta di errori e di dolori il servizio pastorale di Antonio Santin, « Il Ragguaglio librario », Milano, giugno 1979, pp. 196-197. Marcello Fraulini, « Il Ragguaglio librario », Milano, luglio-agosto 1979, pp. 239-240.  













17





1982 Alessandro Manzoni, « Lettre à M. C*** sur l’unité de temps et de lieu dans la tragedie » – « Inchiesta sulla Ventisettana. Un problema manzoniano » (recensione), « Studium », Roma, gennaio-febbraio 1982, p. 121. Libero Bigiaretti, « Questa Roma » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, febbraio 1982, p. 69. « Da un varco ignoto » : la poesia di Lina Galli (con bibliografia delle opere), « Otto-Novecento », Azzate, marzo-aprile 1982, pp. 369-379. Umberto Saba, « Il Canzoniere 1921 », edizione critica a cura di Giordano Castellani (recensione), ivi, pp. 405-406 La poesia di Biagio Marin, « Il Ragguaglio librario », numero dedicato alla letteratura giuliana coordinato da Giorgio Baroni, Milano, aprile 1982, pp. 126-127.  





































18

curriculum didattico e scientifico di giorgio baroni

Sabiana, ivi, pp. 128-129. Piccola antologia, ibidem. La questione di Trieste (firmato con pseudonimo Giorgio Faki), ivi, pp. 131-132. L’incontro di Cecovini con la narrativa, ibidem. Nera Gnoli Fuzzi, « Il giorno della cavalla » (recensione), ivi, p. 141. Aa.Vv., Trivialliteratur – Letterature di massa e di consumo (recensione), ivi, p. 147. Tullio Kezich, « Il campeggio di Duttogliano » (recensione), ivi, p. 160. Giorgio Bergamini, « Il signore delle maschere » (recensione), ibidem. Ennio Emili, « Soror dulcissima » (recensione), ibidem. Primo bilancio per Cecovini, « Nuova Rivista Europea », Trento, marzomaggio 1982, pp. 142-144. Stefano Crespi, « L’Uomo. Pagine di vita morale » (recensione), « Alma mater », Milano, aprile-giugno 1982, p. 83. Mario Panigatti, « Una bella generazione di scrittori cattolici » (recensione), ivi, pp. 83-84. In margine a un epistolario inedito di Slataper. Dare a Slataper quel che è di Slataper, « Nuova Rivista Europea », Trento, giugno-agosto 1982, pp. 176-180. Mario Panigatti, « Una bella stagione di scrittori cattolici » (recensione), « Studium », Roma, luglio-agosto 1982, pp. 527-528. Liliana Passagnoli, « Trieste in poesia » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, settembre 1982, p. 324. Aa.Vv., « Marche : poeti d’oggi » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, novembre 1982, p. 404.  





























































1983 « Fuggitivo tremito » : il tempo secondo Ungaretti, « Italyan Filolojisi », Ankara, 13, 1983, pp. 25-45. Libero Bigiaretti, « Questa Roma », ivi, pp. 196-197. Giuseppe Langella, « Il secolo delle riviste. Lo statuto letterario dal “Baretti” a “Primato” » (recensione), « Otto-Novecento », Azzate, gennaiofebbraio 1983, pp. 267-268. Presentazione a « Contributi su Umberto Saba : 1883-1983 », « Otto-Novecento », numero dedicato a Saba coordinato da Giorgio Baroni, Azzate, marzo-aprile 1983, pp. 5-7. « Dio forse nessuno » : il senso del divino nell’opera poetica di Saba, ivi, pp. 29-46. Notizie. Convegno Nazionale su Umberto Saba «Un canzoniere e una città» (Trieste 25, 26 e 27 marzo 1983), ivi, pp. 241-242. Umberto Saba, « Testo », Milano, gennaio-giugno, 1983, pp. 56-72. Bruno G. Sanzin, « Prendere o lasciare » (recensione), « Studium », Roma, maggio-giugno 1983, pp. 437-438. Alvaro Valentini, « Palinsesto montaliano e altre letture » (recensione), « Otto-Novecento », Azzate, maggio-agosto 1983, pp. 271-272. Matteo Ricci nel cuore della Cina, « Nuova Rivista Europea », TrentoMilano, settembre 1983, p. 99. Caterina Felici, « Vastità nei frammenti » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, ottobre 1983, p. 379. Giuseppe Amoroso, « Narrativa italiana 1975-1983 con vecchie e nuove varianti » (recensione), « Otto-Novecento », Azzate, settembre-dicembre 1983, p. 197.  













































































1984 Prefazione a Marcello Fraulini, Vedere nella notte – Esperienze in poesia, Milano, Istituto Propaganda libraria, 1984. La dimensione temporale nella lirica di Giuseppe Ungaretti, in Diritto, persona e vita sociale. Scritti in memoria di Orio Giacchi, Milano, Vita e Pensiero, 1984, pp. 479-494. La dimensione temporale nella lirica di Ungaretti, in Ungaretti : il sentimento del tempo, Assisi, Cittadella, 1984, pp. 54-78. Spoglio delle seguenti riviste : « L’Alleanza », « Almanacco della Biblioteca delle Famiglie », « L’Anticristo », « Capricci letterari », « Corriere della Sera », « Costumi del Giorno », « Don Marzio », « L’Eco degli Operaj », « Effemeride della Pubblica Istruzione », « L’Eleganza », « Fanfulla della Domenica », « Farfallino », « Letture di Famiglia », « Il Lombardo », « La Penna giovanile », « La Platea », « Le Prime letture », « La Unità della Lingua », « L’Unità Italiana », in La Pubblicistica nel periodo della Scapigliatura. Regesto per soggetti dei giornali e delle riviste esistenti a Milano e relativi al primo ventennio dello Stato unitario : 1860-1880, a cura di Giuseppe Farinelli, Milano, Istituto Propaganda Libraria, 1984, ad vocem. Umberto Saba dimidiato, « Il Ragguaglio librario », numero dedicato alle Lettere triestine per il centenario di Saba, a cura di Giorgio Baroni, Milano, gennaio 1984, p. 7.  







     





































































   

I due mondi della lirica di Lina Galli, ivi, pp. 9-10. Lingua dialetto e altro nelle prose di Umberto Saba, ivi, p. 11. Il quasi romanzo di Nera Gnoli Fuzzi, ivi, pp. 12-13. Stelio Mattioni, « Dove » (recensione), ivi p. 19 Marcello Fraulini, « La Gastalda » (recensione), ibidem. Aa.Vv., « Enciclopedia monografica del Friuli Venezia Giulia » (recensione), ivi, pp. 24-25. Paolo Venanzi, « Conflitto di spie e terroristi a Fiume e nella Venezia Giulia » (recensione), ivi, p. 25. Wladimiro Dorigo, « Venezia. Origini, fondamenti, ipotesi, metodi » (recensione), ivi, p. 25. Un anno di storia italiana e triestina nella testimonianza di Edoardo Schott (recensione), ivi, p. 26. Ragguaglio delle riviste, ivi, pp. 36-37. Anna Maria Accerboni Pavanello, « Trieste, Saba e la psicanalisi. Mostra » (recensione), ivi, p. 40. Enrico Morovich, « La caricatura » (recensione), ibidem. Alma Dorfles, « Vita di stelle e altre vite » (recensione), ibidem. Renata L. Cargnelli, « Love is another place. Anglo italian poems /Amore è un altro luogo. Poesie anglo-italiane » (recensione), ibidem. Stelio Mattioni, « Dove » (recensione), « Nuova Rivista Europea », Trento, marzo 1984, p. 87. « Veleggiare » di Costas Stamatis, (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, aprile 1984, p. 131. Tomizza e « La miglior vita », « Testo », Milano, gennaio-giugno, 1984, pp. 70-83. Libero Bigiaretti, « Epigrammi, proverbi e altre inezie (1975-1981) » (recensione), « Studium », Roma, maggio-giugno 1984, pp. 427-428. Sante Domenico Sfriso, « Maria di Czestochowa tra leggenda e storia » (recensione), ivi, p. 436. Friedrich Hebbel, « Judith » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, giugno 1984, p. 229. Lingua e artigianato in prose dell’Ottocento. « L’arte muraria ». « I fuochi lavorati », « Otto-Novecento », Azzate, maggio-agosto 1984, pp. 147-184. L’umanesimo in Istria, « Il Ragguaglio librario », Milano, settembre 1984, p. 291. Domenico Balestrieri, « Lagrime in morte di un gatto » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, ottobre 1984, p. 354. Pietro Giacomazzi, « La pazzia necessaria » (recensione), ivi, p. 364. Tergestina, « Il Ragguaglio librario », Milano, novembre 1984, pp. 368369. Biagio Marin in prosa (recensione), ivi, p. 367. « La prima età » di Marcello Fraulini (recensione), ivi, p. 369 (firmato da Giorgio Faki) Manlio Cecovini e altre voci giuliane, (recensione), ivi, p. 383. Paolo Zanetti – Alessandro Vigevani, « L’ultimo crociato. Un volontario friulano del ’600. Ricerche storiche di Doimo Frangipane » (recensione), ivi, p. 389. Matteo di Bevilacqua, « Descrizione della fedelissima imperiale e regia città e portofranco di Trieste » (recensione), ibidem. Achille Gorlato, « Antiche leggende veneto-giuliane » (recensione), ivi, p. 404. Giacomo Scotti, « Gli arcipelaghi di Zara e Sebenico » (recensione), ibidem. Aa.Vv., « L’umanesimo in Istria » (recensione), « Studium », Roma, novembre-dicembre 1984, p. 917-919.  











































































































































1985 Prefazione a Lina Galli, Il tempo perduto, Milano, Istituto Propaganda libraria, 1985. Roberto Bazlen, « Scritti. Il capitano di lungo corso. Note senza testo. Lettere editoriali. Lettere a Montale » (recensione), « Otto-Novecento », Azzate, gennaio-febbraio 1985, p. 200. Lettere di Ungaretti. Da Pea a Soffici, « Il Ragguaglio librario », Milano, febbraio 1985, p. 52. « Cô la gno gola canta ». La sera di Biagio Marin, « Il Ragguaglio librario », Milano, maggio 1985, p. 169. Il carteggio Ungaretti-De Robertis, ivi, p. 173. Pierpaolo Luzzato Fegiz, « Lettere da Zabodaski » (recensione), ivi, pp. 188-189 (firmato Giorgio Faki). Paolo Buzzi, « Futurismo. Scritti Carteggi Testimonianze » (recensione), ibidem. Enzo Esposito, « Piccola guida alla ricerca bibliografica » (recensione), ivi, p. 191.  































curriculum didattico e scientifico di giorgio baroni Il « Minore » nella storiografia letteraria, « Il Ragguaglio librario », Milano, giugno 1985, pp. 208-209. Ricordo di Graziano Comite, ivi, pp. 214-215. Geoffrey Cox, « La corsa per Trieste » (recensione), ivi, p. 231. Uta e Heinz Mackowitz, « Venezia » (recensione), ivi, p. 233. Giorgio Varanini, « L’acceso strale. Saggi e ricerche sulla “Commedia” » (recensione), « Testo », Milano, gennaio-giugno 1985, pp. 148-149. Manzoni allo specchio, « Il Ragguaglio librario », Milano, luglio-agosto 1985, p. 217. Giuseppe Cesare Abba, « Scritti garibaldini » (recensione), ivi, pp. 232-233. Luca M. Venturi, « Portolano del lago di Como » (recensione), ivi, p. 246 (firmato G. Faki). Giorgio Voghera, « Carcere a Giaffa » (recensione), « Studium », Roma, luglio-agosto 1985, pp. 555-556. Mariuccia Coretti – Graziano Comite, « Interno con retrospettiva. Performance poetica » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, ottobre 1985, p. 419. Virgilio Giotti a cento anni dalla nascita, « Otto-Novecento », numero dedicato a Virgilio Giotti, coordinato da Giorgio Baroni, settembre-dicembre 1985, pp. 5-6. La laica sacralità della donna in « Colori » di Virgilio Giotti, ivi, pp. 7-28. Aa.Vv., « Studi su Giovan Battista Niccolini. Atti del Convegno di San Giuliano Terme» (recensione), ivi, pp. 233-234. Lorenzo Greco, « Dubbiosi disiri. Famiglia e amori proibiti nella narrativa italiana fra ’800 e ’900» (recensione), ivi, p. 241. Enzo Concardi, « Sentinelle del nulla » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, dicembre 1985, p. 491.  







































































1986 Lo « smarrimento » di Marcello Fraulini, in Trieste tra umanesimo e religiosità, Trieste, Centro studi storico-religiosi del Friuli-Venezia Giulia, 1986, p. 167 sgg. « Dio, forse nessuno » : il senso del divino nell’opera poetica di Saba, in Atti del Convegno Nazionale «Umberto Saba : un Canzoniere e una città», Trieste, Circolo della Cultura e delle Arti, 1986, p. 65 sgg. Ricordo di Biagio Marin, « Il Ragguaglio librario », Milano, gennaio 1986, p. 6. A quarant’anni dai quaranta giorni, ivi, p. 19. Omaggio a Manzoni, « Il Ragguaglio librario », Milano, febbraio 1986, p. 66. Alberto Frattini, « Introduzione a Giorgio Vigolo » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, marzo 1986, pp. 106-107. Mario Petrucciani, « Il condizionale di Didone. Studi su Ungaretti » (recensione), « Italianistica », Pisa, gennaio-aprile 1986, pp. 191-192. Dodici domande a Dino Claudio, « Il Ragguaglio librario », Milano, aprile 1986, pp. 136-137. Alvaro Valentini, « Perlocuzioni » (recensione), ivi, p. 160. Aa.Vv., « Vita e processo di suor Virginia Maria de Leyva Monaca di Monza» (recensione), « Studium », Roma, marzo-aprile 1986, pp. 286-288. Carteggi del Settecento, « Testo », Milano, gennaio-giugno 1986, p. 118. Bruno Maier, « Carlo Sgorlon » (recensione), ivi, p. 131-133. Domenico Manzella – Emilio Pozzi, « I teatri di Milano » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, giugno 1986, p. 227. Aa.Vv., « Stefano Kociančič (1818-1883) un ecclesiastico al servizio della cultura fra Sloveni e Friulani » (recensione), ivi, p. 233. Giorgio Berti, « La narrativa di Minnie Alzona » (recensione), « OttoNovecento », Azzate, maggio-agosto 1986, p. 206. Michele Dell’Aquila, « Humilemque Italiam. Studi pugliesi e lucani di cultura letteraria tra Sette e Novecento (recensione), ivi, pp. 208-209. Libero Bigiaretti - Quasi un autoritratto, a cura di Giorgio Baroni, « Il Ragguaglio librario », Milano, settembre 1986, pp. 292-293. « Posto di blocco » di Libero Bigiaretti, ivi, p. 298. Manlio Cecovini, « Trieste ribelle. La lista del Melone, un insegnamento da meditare » (recensione), ivi, p. 311 (firmato Giorgio Faki) Le ragioni critiche (recensione), ivi, p. 321. Bruno Maier, « Carlo Sgorlon » (recensione), « Studium », Roma, settembre-ottobre 1986, pp. 728-730. Lingua, letteratura e computer, « Il Ragguaglio librario », Milano, ottobre 1986, p. 339. Fulvio Burdin, « L’amoroso » (recensione), ivi, p. 341. Da « La sfida nel labirinto » a « Il sogno della morte », « Il Ragguaglio librario », Milano, novembre 1986, p. 369. Bruno Rombi, « Morovich scrittore tra gioco e sogno » (recensione), ivi, p. 389. Rassegna di studi sulla letteratura triestina del Novecento, « Otto-Novecento », Azzate, settembre-dicembre 1986, p. 225-243.  

























































































































1987 Realtà e idealità della donna nell’opera di Giotti, in Trieste religiosa, Trieste, Centro studi storico-religiosi Friuli-Venezia Giulia, 1987, pp. 223-234. Poesia a Trieste, « Il Ragguaglio librario », Milano, gennaio 1987, pp. 4-5. Postille per l’anno di Umberto Saba, ivi, p. 13. Ferdinando Durand, « Vecchi canti », - Remo Pagnanelli, « Dopo » (recensione), ivi, pp. 28-29. Vinicio Ongaro, « Il viale di Sant’Andrea » (recensione), « Il Raggua­glio librario », Milano, febbraio 1987, p. 59. La promessa al condizionale, « Il Sodalizio. Rivista di lettere, storia, informazioni editoriali », Rimini, 3, 1987, pp. 17-19. Claudio Toscani, « Panzini e Moretti. Carteggio 1914-1936 » (recensione), ivi, p. 51. Emerico Giachery, « Metamorfosi dell’orto e altri scritti montaliani » (recensione), « Italianistica », Pisa, gennaio-aprile 1987, pp. 165-166. Aa.Vv., « Lessicografia, filologia e critica » (recensione), « Studium », Roma, marzo-aprile 1987, pp. 298-300. Memmo Pinori, « Viviana » (recensione), ivi, pp. 304-305. Postille per Virginia Maria de Leyva, «Ragguaglio librario», Milano, maggio 1987, p. 156. Concordanza della poesia di Sergio Corazzini, « Il Ragguaglio librario », Milano, giugno 1987, p. 190. Dimensione Trieste, ivi, p. 198. Ernestina Pellegrini, « Trieste dentro Trieste » (recensione), ivi, p. 224. Sveviana, « Testo », Milano, gennaio-giugno 1987, pp. 87-89. Donne in colori per il centenario di Virgilio Giotti, « Italyan filolojisi », Ankara, 15, 1987, pp. 137-162. Nanda Poli, « La critica unitaria » (recensione), ivi, p. 225. Antonio Brancaforte, « Ripetere il gioco » (recensione), « Il Raggua­glio librario », Milano, luglio-agosto 1987, p. 255. Magia triestina nei saggi di Bruno Maier (recensione), « Avvenire », Milano, 22 agosto 1987. Alberto Fortis, « Viaggio in Dalmazia » (recensione), « Il Sodalizio. Rivista di lettere, storia, informazioni editoriali », Rimini, 4, 1987, p. 42. Il libro e la circolazione della cultura nel Settecento tramite la stampa, « Il Ragguaglio librario », Milano, settembre 1987, p. 306. L’ultimo Striano. Marchesa Lenòr, Napoli non è Parigi (recensione), « Avvenire », Milano, 15 settembre 1987. Umberto Saba, problema aperto (recensione), « Avvenire », Milano, 20 settembre 1987. A trent’anni dalla morte di Virgilio Giotti, « Il Ragguaglio librario », Milano, ottobre 1987, p. 311. Donato Riccesi, ivi, p. 333 (firmato Giorgio Faki). D’Annunzio, gli editori : un amore tormentato (recensione), « Avvenire », Milano, 27 novembre 1987. Isaac Asimov, « Asimov story. La storia e le storie introvabili » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, novembre 1987, p. 371. Felice Conti – Orazio Locatelli, « Quel posto al sole » (recensione), ivi, p. 388. Pierre Sicouri - Paola Pozzolini, « Navigare in oceano. Come e perché ol­ trepassare le colonne d’Ercole raccontato dalla più famosa coppia di navigatori italiani » (recensione), ibidem. Manrico Viti, « Guida alla biblioteca », (recensione), ibidem. Un poeta triestino, « Il Sodalizio. Rivista di lettere, storia, informazioni editoriali », Rimini, ottobre-dicembre 1987, p. 17 sg. Muore l’italiano perché c’è il vizio del regionalismo (recensione), « Avvenire », Milano, 22 dicembre 1987. D’Annunzio e i suoi editori (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, dicembre 1987, p. 399. Stendhal e Manzoni, ivi, p. 402. Enzo Striano, « Il resto di niente » (recensione), ivi, p. 407. Alberto Fortis, « Viaggio in Dalmazia » (recensione), ivi, p. 419. Concordanze di poeti : Montale, Corazzini e Cardarelli, « Testo », Milano, luglio-dicembre 1987, pp. 132-134. Il libro e la circolazione della cultura tramite la stampa, ivi, p. 135.  

































































































































































19

1988 Il testo passato al setaccio computer, « Avvenire », Milano, 9 gennaio 1988. « Le arpe di silenzio ». Grecia e Trieste nei versi di Tino Sangiglio, « Il Ragguaglio librario », Milano, gennaio 1988, p. 14.  











20

curriculum didattico e scientifico di giorgio baroni

Enrico Fraulini, ivi, p. 17. Luisa Ricaldone, « Vienna italiana » (recensione), ivi, p. 25 Marcello Bogneri, « La stampa periodica italiana in Istria (1807-1947) » (recensione), ibidem. Paolo Briganti, « Italo Svevo scrittore. Italo Svevo nella sua nobile vita », (recensione), ibidem. Ernestina Pellegrini, « La Trieste di carta. Aspetti della letteratura triestina del Novecento » (recensione), ivi, p. 27. Emerentienne De Lagrange - Marie De Lagrange - René Bel, « Il complotto contro la vita » (recensione), ivi, p. 28 (firmato Giorgio Faki). Letizia Svevo Fonda Savio, « Niobe moderna » (recensione), ivi, p. 34. Leopoldo Bari, « L’Istria di ieri e oggi. Note geografiche, storiche ed etniche » (recensione), ivi, p. 40. Raffaello Brignetti (recensione), « “Arco di sabbia” e lettere agli amici » (recensione), « Otto-Novecento », Azzate, gennaio-febbraio 1988, p. 246. Massimo D’Azeglio, « Epistolario (1819-1866) » (recensione), ivi, p. 252. Riccardo Scrivano, « La vocazione contesa. Note su Pirandello e il tea­tro » (recensione), ivi, p. 271. L’Elba libera secondo Brignetti, « Avvenire », Milano, 27 feb­braio 1988. Maura Del Serra, « Meridiana » (recensione), « Il Ragguaglio libra­rio », Milano, febbraio 1988, p. 69. La Dalmazia vista da Fortis (recensione), « Avvenire », Milano, 5 marzo 1988. Giovan Battista Casti, « Gli animali parlanti » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, marzo 1988, p. 105. Marcello Dardi, « Controcanto » (recensione), ibidem. Carlo Del Teglio, « Leucensia. Prose fra lago e monte » (recensione), ivi, p. 111. Caterina Felici, « Il vecchio e altri racconti » (recensione), ivi, p. 120. Giuseppe Savoca, « Concordanza delle poesie di Sergio Corazzini. Testo, Concordanza, Liste di frequenza, Indici », « Il Sodalizio. Rivista di lettere, storia, informazioni editoriali », Ri­mini, marzo 1988, p. 29. Elvio Guagnini, « Il punto su Saba » (recensione), « Studium », Roma, marzo-aprile 1988, pp. 320-321. Tino Sangiglio, « Marginalia » - « Il Banco di lettura, inediti di autori triestini », ivi, pp. 330-332. « Ti darò / prima di andare / parole ignude ». Trent’anni di poesia di Dino Claudio, « Otto/Novecento », Azzate, marzo-aprile 1988, pp. 209223. Emerico Giachery, « L’interprete al poeta. Lettere ad Albino Pierro » (recensione), ivi, pp. 230-231. L’interprete al poeta (recensione), « Avvenire », Milano, 9 aprile 1988. Una mostra e quattro libri sul rapporto tra le due culture. A Vienna si parla italiano. Tra ’700 e ’800 un ponte tra Venezia e la Corte asburgica, « Avvenire », Milano, 28 aprile 1988. Isabella Teotochi Albrizzi, « Ritratti » - Antonio Chiades, « Addio bello sublime ingegno, addio. Ugo Foscolo e Isabella Teotochi Albrizzi » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, apri­le 1988, pp. 144-145. Atroce paese che amo, ivi, p. 145. Angelo Peroni, « Cresce l’ombra » (recensione), ivi, p. 151. Raimondo Cornet (Corrai), « Versi dialettali » (recensione), ibidem. Aa.Vv., « Lussino nel passato. Lettere e documenti » (recensione), ivi, p. 160. Massimo D’Azeglio, « Epistolario (1819-1866) » - Raffaello Brignetti, « Arco di sabbia e lettere agli amici » – Emerico Giachery, « L’interprete al poeta. Lettere ad Albino Pierro » (recensioni), « Testo », Milano, gennaiogiugno 1988, pp. 121-122. Due romanzieri a confronto in un saggio di Grechi. In quella Mo­naca di Monza c’è un pizzico di Stendhal (recensione), « Avvenire », Milano, 4 giugno 1988. E Magris si strugge per l’unità perduta (recensione), « Avvenire », Milano, 18 giugno 1988. Longoni Asnago Vago, tre pittori di Barlassina, « Il Ragguaglio librario », Milano, giugno 1988, pp. 220-221. Giuseppe Pomba, Giampietro Vieusseux, Carlo Tenca, « Scritti sul commercio librario in Italia » - Antonio Fortunato Stella, « Pensieri d’un vecchio stampatore » (recen­sione), ivi, p. 227. Massimo Bontempelli, « Il purosangue » (recensione), ivi, p. 229. Fulvio Caputo e Roberto Masiero, « Trieste e l’impero » (recensione), ivi, p. 230. Giuseppe Giacosa, « Teatro » (recensione), ivi, pp. 232-233. Così Trieste divenne città europea (recensione), « Avvenire », Milano, 22 luglio 1988. Così il « Codex purpureus » si fa ammirare (recensione), « Avvenire », Milano, 30 luglio 1988.  















































































































































































































E la Serenissima scoprì i miti d’Oltreoceano (recensione), « Avvenire », Mi­lano, 13 agosto 1988. Fu Mattia Pascal, nuove letture (recensione), « Avvenire », Milano, 3 settem­bre 1988. Slataper tragico ed etico, ibidem. Le opere di Verga « laico e terrestre », « Avvenire », Milano, 10 settembre 1988. La Milano di Delio Tessa (recensione), « Avvenire », Milano, 24 settembre 1988. Delio Tessa, « Il Ragguaglio librario », Milano, settembre 1988, p. 287. Diario di un bibliotecario, ivi, p. 293. Ferruccio Ulivi, « Opere » di Matteo Maria Boiardo (recensione), ivi, p. 316. Rilettura di Slataper, ivi, p. 320. Uno studio di Travi. Un Napoleone inedito che restaurò l’italiano (recensione), « Avvenire », Milano, 29 ottobre 1988. Franca Magnani, « La Zingaresca. Storia e testi di una forma » (recen­ sione), « Il Ragguaglio librario », Milano, ottobre 1988, pp. 354-355. Paola Tettamanzi, « A Lecco, due secoli di vita ospedaliera » (recensione), ivi, p. 364 (firmato Giorgio Faki) Fernando Gioviale, « Luigi Pirandello » (recensione), « Otto-Novecento », Azzate, settembre-ottobre 1988, p. 175. Anco Marzio Mutterle, « Il professore ombroso. Quattro studi su Giacomo Zanella » (recensione), ivi, pp. 175-176. Ernesto Travi, « La lingua in Italia tra riforme e letteratura » (recen­sione), ivi, pp. 177-178. Le siringhe del ’600. Quando i monatti diffondevano il contagio per rubare (recen­sione), « Avvenire », Milano, 11 novembre 1988. Giovanni Faldella riproposto, « Il Ragguaglio librario », Milano, novembre 1988, p. 376. Concordanze di Pirandello, « Testo », Milano, luglio-dicembre 1988, p. 105. Alessandro Manzoni : bilancio d’un centenario, « Il Sodalizio. Rivista di lettere, storia, informazioni editoriali », Rimini, dicembre 1988, pp. 15-18. Alberto Frattini, « Stupendo enigma » (recensione), ivi, p. 27. Un nuovo contributo alla definizione della lingua poetica del Novecento. Le concordanze di D’Annunzio realizzate da Giuseppe Savoca, « Il Ragguaglio librario », Milano, dicembre 1988, p. 412. Umberto Saba, « Tutte le poesie » (recensione), ivi, p. 425. Gian Antonio Cibotto, « Veneto segreto. Diario veneto » (recensione), ivi, p. 441.  





























































































1989 Un Leopardi riveduto e corretto, al di là di quel « pessimismo » (recensione), « Avvenire », Milano, 28 gennaio 1989. I novant’anni di Lina Galli, « Il Ragguaglio librario », Mi­lano, gennaio 1989, p. 7. Elio Apih, « Trieste » (recensione), ivi, p. 33. Pietro Del Negro, « Il mito americano nella Venezia del ’700 » (recensione), ibidem. Ragguaglio delle riviste, Il Banco di lettura, ivi, p. 36. Gioacchino Scognamiglio (a cura di), « Epigrammisti dell’Ottocento » (recensione), « Otto-Novecento », Azzate, gennaio-febbraio 1989, p. 255. Ernesto Travi, « Immaginazione sentimento e ragione in Giacomo Leopardi » (recensione), ivi, pp. 255-256. Frammenti d’ironia scritti nei secoli (recensione), « Avvenire », Milano, 8 febbraio 1989. Studi su Trieste fra storia e letteratura, « Humanitas », Brescia, febbraio 1989, pp. 119-122. Fulvio Tomizza, « L’ereditiera veneziana », « Il Ragguaglio librario », Milano, febbraio 1989, p. 59. Catullo, « 30 poesie », ivi, p. 80. Il presente e l’eterno : mille e una Venezia del Calvino combinatorio, « Il Banco di lettura », Trieste, febbraio 1989, pp. 3-5. Attraverso Paolina Venezia torna al mito istriano (recensione), « Avvenire », Milano, 4 marzo 1989. La guerra, gli istriani e un volto per sognare (recensione), « Avvenire », Milano, 31 marzo 1989. La prima stesura inedita della « Lettre à M. Chauvet », « Il Ragguaglio librario », Milano, marzo 1989, p. 82. La promessa al condizionale. Studi su Giuseppe Ungaretti, ivi, p. 86. « La danza dell’ombre e delle ore » : cinquant’anni di poesia di Giuseppe Antonio Brunelli, « Otto-Novecento », Azzate, marzo-aprile 1989, pp. 251-260.  



















































































curriculum didattico e scientifico di giorgio baroni Un nuovo volto per Manzoni (recensione), « Avvenire », Milano, 1° aprile 1989. Le suggestioni di Ungaretti (recensione), « Avvenire », Milano, 6 maggio 1989. L’Europa di Pirandello (recensione), « Avvenire », Milano, 27 maggio 1989. Pietro Fortini, « Le giornate delle novelle dei novizi » (recensione), « Testo », Milano, gennaio-giugno 1989, p. 130. Ippolito Pindemonte, « La Francia. Poemetto del Cav. Pindemonte » (recensione), ivi, pp. 130-131. Romanzi del ’700. Antologia italiana (recensione), « Avvenire », Milano, 17 giugno 1989. Scipione Maffei, « De’ teatri antichi e moderni e altri scritti teatrali » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, giugno 1989, p. 204. Gianrinaldo Carli e l’ereditiera, « Salpare », Alghero, giugno-luglio 1989, p. 5. Michele Dell’Aquila, « Profilo di Ludovico di Breme » (recensione), « OttoNovecento », Azzate, maggio-agosto 1989, p. 287. Aldo Palazzeschi - Giuseppe Prezzolini, « Carteggio 1912-1973 » ; Francesca Pino Pongolini e Diana Rüesch, « Archivio Prezzolini. Inventario » ; Scipio Slataper, « Lettere triestine col seguito di altri scritti di polemica su Trieste », Idem,« Passato ribelle » (recensione), ivi, pp. 291-293. Il carteggio Palazzeschi-Prezzolini e la bibliografia di Flaiano, « Il Ragguaglio librario », Milano, luglio-agosto 1989, p. 232. Francesca Pino Pongolini e Diana Rüesch (a cura di), « Archivio Prezzolini. Inventario » (recensione), ivi, p. 232-233. Pietro Fortini, « Le giornate delle novelle dei novizi » (recensione), ivi, p. 248. L’intreccio complesso delle minoranze. Lo spazio ideale per un dialogo ecumenico, « Avvenire », Milano, 30 agosto 1989. Caro Verga sei partigiano (recensione), « Avvenire », Milano, 9 settembre 1989. Stuparich, voce nella bora. Lo specchio degli intellettuali giuliani (recensione), « Avvenire », Milano, 23 settembre 1989. Emerico Giachery, « Nostro Ungaretti » (recensione), « Otto-Novecento », Azzate, settembre-ottobre 1989, p. 250. Stelio Mattioni, « Storia di Umberto Saba » (recensione), ivi, pp. 252-253. Giuseppe Savoca, « Strutture e personaggi. Da Verga a Bonaviri » (recensione), ivi, p. 256. Giani Stuparich, « Il ritorno del padre e altri racconti » - Elio Apih, « Il ritorno di Giani Stuparich » (recensione), ivi, p. 257-258. Grido accorato in sette racconti (recensione), « Avvenire », Milano, 7 ottobre 1989. Giorgio Bertoni (a cura di), « Italo Calvino, la letteratura, la scienza, la città » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, ottobre 1989, p. 328. Quei poeti del Settecento (recensione), « Avvenire », Milano, 28 ottobre 1989. Pietro Fortini novelliere del ’500 (recensione), « Avvenire », Milano, 4 novembre 1989. Otto secoli di capolavori. Il preziosissimo « Dizionario della letteratura italiana » suddiviso per opere coordinato da Stefano Jacomuzzi (recensione), « Avvenire », Milano, 11 novembre 1989. Ippolito Pindemonte e Vittorio Alfieri testimoni oculari dell’’89 parigino, « Vita e Pensiero », Milano, novembre 1989, pp. 749-760. Trieste. La mappa di una città, « Il Ragguaglio librario », Milano, 1989, pp. 335-336. Memmo Pinori, « Poesie ai miei animali mio prossimo (recensione), ivi, p. 352. Liliana Passagnoli, « Lo splendore del mondo » (recensione), ivi, p. 353. Giorgio Taffon, « Concordanza delle poesie di Mario Novaro » (recensione), ivi, p. 354. Venere in libris (recensione), « Salpare », Alghero, 7, 1989, p. 3. Scrittori italiani negli ultimi cinque anni (recensione), « Avvenire », Milano, 2 dicembre 1989. Aspirazioni e crisi del secolo dei lumi (recensione), « Avvenire », Milano, 16 dicembre 1989. Chi ha rubato la scopa alle streghe ? (recensione), « Avvenire », Milano, 20 dicembre 1989. Italo Calvino e il suo gioco, « Testo », Milano, luglio-dicembre 1989, pp. 92-96. Giuseppe Savoca, « Strutture e personaggi. Da Verga a Bonaviri » (recensione), ivi, p. 113. Wladimir Krysinski, « Il paradigma inquieto » (recensione), ivi, p. 114. Francesca Pino Pongolini e Diana Rüesch (a cura di), « Archivio Prezzolini. Inventario » (recensione), ivi, p. 120.  





























































































































































































Aldo Palazzeschi - Giuseppe Prezzolini, « Carteggio » (recensione), ivi, p. 120. Arturo Colautti, « Otto-Novecento », Azzate, novembre-dicembre 1989, pp. 73-82. Concordanza di poeti : Montale e Corazzini, « Italyan Filolojisi », Ankara, 16, 1989, pp. 33-36. Italo Calvino e il suo gioco, ivi, pp. 37-43. Anco Marzio Mutterle, « Il professore ombroso » (recensione), ivi, p. 144. Ernesto Travi, « La lingua in Italia tra riforme e letteratura, 1750-1800 » (recensione), ivi, pp. 144 -145. Luisa Ricaldone, « Vienna italiana » ; Isabella Teotochi Albrizzi, « Ritratti » ; Antonio Chiades, « Addio, bello e sublime ingegno, addio. Ugo Foscolo e Isabella Teotochi Albrizzi » ; Giovan Battista Casti, « Gli animali parlanti » (recensione), ivi, pp. 145-147. Quasi un’autobiografia di Libero Bigiaretti (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, dicembre 1989, p. 380. Arti e scritture. La nuova collana di « Vita e pensiero », ivi, p. 382. Stefano Jacomuzzi, « Dizionario della letteratura italiana » (recensione), « Humanitas », Brescia, dicembre 1989, pp. 919-920.  

































































21

1990 Introduzione a Manlio Cecovini, Escursioni in Elicona, Trieste, lint, 1990, p. vii sgg. Italiano d’autore. Saggi sul ‘900 (recensione), « Avvenire », Milano, 13 gennaio 1990. La fantascienza di Anna Rinonapoli. I « romiti » del futuro : una gondola nello spazio (recensione), « Avvenire », Milano, 20 gennaio 1990. Gli scrittori della Grazia (recensione), « Avvenire », Milano, 27 gennaio 1990. Nostro Ungaretti di Emerico Giachery (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, gennaio 1990, p. 6. Pietro Zovatto, « Ugo Mioni, scrittore popolare » (recensione), « Il Sodalizio. Rivista di lettere, storia, informazioni editoriali », Rimini, gennaio 1990, pp. 11-12. Scipio Slataper, « Lettere triestine - Passato ribelle - Il mio Carso » (recensione), « Studium », Roma, gennaio-febbraio 1990, pp. 147-148. Aa.Vv., « Trieste. Lineamenti di una città » (recensione), ivi, pp. 148-149. Alberto Frattini, « Stupendo enigma » (recensione), ivi, p. 149. Passeggiate col pensiero libero (recensione), « Avvenire », Milano, 3 febbraio 1990. Bigiaretti, la ricerca di un miscredente. Dalla simpatia per Adriano Olivetti alla delusione del marxismo, « Avvenire », Milano, 10 febbraio 1990. Questa sera si recita Tasso. Una raccolta di studi critici dal Duecento al Cinquecento (recensione), « Avvenire », Milano, 24 febbraio 1990. Torna Luigi Gualdo con tutte le poesie (recensione), « Avvenire », Milano, 10 marzo 1990. Girolamo dottore visto da Larbaud (recensione), « Avvenire », Milano, 24 marzo 1990. Lucio Zaniboni, « La luna sul colle » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, marzo-aprile 1990, p. 98. Vittorio Coletti, « Italiano d’autore » (recensione), ivi, p. 99. Ferruccio Mazzariol, « I capelli di Sansone » (recensione), ivi, p. 100. Una bibliografia raccoglie tutti i titoli degli scritti sull’Alighieri. Dante a quota novemiladuecento (recensione), « Avvenire », Milano, 1° aprile 1990. Narrativa, i racconti di Campailla. L’uomo che vola e l’angelo misterioso (recensione), « Avvenire », Milano, 7 aprile 1990. L’etimologia formato tascabile (recensione), « Avvenire », Milano, 21 aprile 1990. E i grilli udirono la voce della luna (recensione), « Avvenire », Milano, 12 maggio 1990. Lina Galli, il passato tra il sogno e la lirica (recensione), « Avvenire », Milano, 19 maggio 1990. Enrico Malato, « Lo fedele consiglio de la ragione » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, maggio 1990, p. 140. Sabba e roghi in Lombardia, « Metodi e ricerche », Udine, gennaio-giugno 1990, pp. 115-116. C’è uno scrittore ben nascosto nella corrispondenza, « Avvenire », Milano, 8 giugno 1990. Travi e la « Commedia ». Dal centro al cerchio cercando il Dio di Dante (recensione), « Avvenire », Milano, 9 giugno 1990. Linee di sviluppo della letteratura (recensione), « Avvenire », Milano, 23 giugno 1990. Il testo e l’uomo (memoria di Ines Scaramucci), « Il Ragguaglio librario », Milano, giugno 1990, p. 167. Anna Rinonapoli, « I romiti del terzo millennio » (recensione), ivi, p. 176.  









































































































































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curriculum didattico e scientifico di giorgio baroni

Enzo Esposito, « Bibliografia analitica degli scritti su Dante 1950-1970 » (recensione), « Humanitas », Brescia, giugno 1990, pp. 393-394. Poesia, parole di pietra dall’ansia religiosa (recensione), « Avvenire », Milano, 7 luglio 1990. Vittorio Sereni, poesia e ricerca (recensione), « Avvenire », Milano, 14 luglio 1990. Nuova giovinezza per « Senilità » (recensione), « Avvenire », Milano, 28 luglio 1990. Italo Svevo, « Senilità », a cura di Bruno Maier (recensione), « Otto-Novecento », Azzate, maggio-agosto 1990, pp. 302-303. Ernesto Travi, « Dal cerchio al centro » (recensione), « Studium », Roma, luglio-agosto 1990, pp. 620-621. Classici in economia (recensione), « Avvenire », Milano, 4 agosto 1990. Occasioni critiche tra l’antico e il moderno (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, settembre 1990, p. 258. Alfredo Luzi, « Introduzione a Sereni » (recensione), ibidem. Aforismi. Se Esopo il saggio si butta in politica (recensione), « Avvenire », Milano, 15 settembre 1990. Per una definizione di ‘Critica’. Inchiesta (i), « Otto-Novecento », Azzate, settembre-ottobre 1990, pp. 5-54. Adriana Carisi, « Il Ragguaglio librario », Milano, ottobre 1990, p. 295. Collana « Minima » della Salerno Editrice (recensione), ivi, p. 301. Romanzieri del Settecento - Poeti del Settecento, ivi, p. 302. Da Enea e San Paolo al viaggio di Dante (recensione), « Avvenire », Milano, 6 ottobre 1990. Manzoni e dintorni. Quel lago che bagna perfino Firenze, « Avvenire », Milano, 13 ottobre 1990. E la guerra divise Croce e Prezzolini (recensione), « Avvenire », Milano, 27 ottobre 1990. Vite parallele, fughe incrociate (recensione), « Avvenire », Milano, 10 novembre 1990. Walter Mauro, « Vita di Giuseppe Ungaretti » - Giuseppe Ungaretti, « Il Porto sepolto » (recensione), « Otto-Novecento », Azzate, novembredicembre, 1990, p. 230. Il ’700 e il rumore della laicità (recensione), « Avvenire », Milano, 1° dicembre 1990. Letteratura e Rivoluzione francese : Ippolito Pindemonte e Vittorio Alfieri alla presa della Bastiglia, « Il Banco di lettura », Trieste, 7-8, 1990, pp. 3-6. All’ombra delle fate (recensione), « Avvenire », Milano, 29 dicembre 1990. Difendendo anche il lupo (recensione), « Salpare », Alghero, dicembre 1990, p. 11. Musica e parole nella Trieste del ‘900 (recensione), « TriesteOggi », Trieste, 30 dicembre 1990.  





















































































































1991 Permanenza della poesia (recensione), « Avvenire », Milano, 19 gennaio 1991. Walter Mauro, « Vita di Giuseppe Ungaretti » - Giuseppe Ungaretti, « Il Porto Sepolto » (recensione), « Salpare », Alghero, gennaio-febbraio 1991, p. 4. Le radici del futurismo e l’elegia dannunziana (recensione), « Avvenire », Milano, 17 febbraio 1991. Personaggi rivisitati attraverso le loro lettere. Dal Bembo a Zanella, Croce, Prezzolini e Marinetti. Problemi ecdotici e una guida per trovare lettere inedite, « Il Ragguaglio librario », Milano, febbraio 1991, pp. 51-52. Monica Farnetti, « La scrittura concertante », « Humanitas », Brescia, febbraio 1991, pp. 150-151. Italo Calvino, « La strada di San Giovanni » (recensione), ivi, pp. 151-152. Arturo Colautti cronista impietoso della miseria nella vita pubblica italiana, « TriesteOggi », Trieste, 10 marzo 1991. Per una definizione di ‘Critica’. Inchiesta (ii ), « Otto-Novecento », Azzate, marzo-aprile 1991, pp. 5-37. Stefano Tani, « Il romanzo di ritorno. Dal romanzo medio degli anni Sessanta alla giovane narrativa degli anni Ottanta » (recensione), « Humanitas », Brescia, aprile 1991, pp. 309-310. Leopardi e « l’immagine antica » (recensione), « Avvenire », Milano, 16 giugno 1991. Manlio Cecovini « escursionista » e « testimone », « Otto-Novecento », Azzate, maggio-agosto 1991, pp. 203-207. Trieste mia ! Il vino e il paradiso. 75 poeti in dialetto triestino, « Il Ragguaglio librario », Milano, settembre 1991, p. 256. Il galateo e l’arte di star bene a tavola nella letteratura italiana del Cinquecento, « Il Banco di lettura », Trieste, 10, 1991, pp. 4-5.  

































































































1992 Arturo Colautti, in Francesco Semi – Vanni Tacconi, Istria e Dalmazia. Uomini e tempi, ii, Udine, Del Bianco editore, 1992, pp. 458-464. L’800 tra storia e società, « Avvenire », Milano, 5 gennaio 1992. Un passato italiano per le terre slave. Lo strascico di ricordi e rancori per la crudeltà dell’ultima guerra, « Avvenire », Milano, 24 gennaio 1992. Giuseppe Savoca - Alida D’Aquino, « Concordanza dell’“Isotteo” e delle “Elegie romane” di Gabriele d’Annunzio » (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, febbraio 1992, pp. 73-74. Aldo Vallone, « Strutture e modulazioni nella “Divina Commedia” » (recensione), ivi, p. 74. Gianni Eugenio Viola, « Gli anni del futurismo », « Il Ragguaglio librario », Milano, marzo-aprile 1992, p. 111. Reali ed eterne le donne d’Alessandro. Celebrato il bicentenario della nascita di Enrichetta Blondel, « Avvenire », Milano, 31 maggio 1992. Arturo Carlo Jemolo e Biagio Marin. Attualità di un carteggio, « Il Ragguaglio librario », Milano, maggio 1992, pp. 127-128. Aggiornamenti di critica : edizioni e studi tra Otto e Novecento, « Humanitas », Brescia, giugno 1992, pp. 395-402. Prezzolini. Una mostra sullo scrittore. Da New York a Lugano. Fuga per la libertà, « Avvenire », Milano, 24 settembre 1992. La vera aliena è la fiction (recensione), « Avvenire », Milano, 17 ottobre 1992. D’Annunzio e la poetica dell’invenzione, « Il Ragguaglio librario », Milano, ottobre 1992, p. 298. Lucia Battaglia Ricci, « Palazzo Vecchio e dintorni. Studio su Franco Sacchetti e le fabbriche di Firenze » (recensione), ivi, p. 315. Antoni Maczak, « Viaggi e viaggiatori nell’Europa moderna », ivi, p. 316. Lo scrittore ? È vitale quando è eretico (recensione), « Avvenire », Milano, 7 novembre 1992. « Canti di una stagione alta » di Vittorio Benito Venturini (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, novembre 1992, p. 336. Dante : percorsi italiani e stranieri (recensione), ivi, p. 356. Il piacere di leggere e il mestiere di scrivere. Tredici narratori italiani intervistati da Pasquale Maffeo (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, dicembre 1992, p. 378.  































































































































Aggiornamenti di critica. Teoria e Novecento, « Humanitas », Brescia, ottobre 1991, pp. 751-758. Da Leopardi uno « scartafaccio » per meditare, « Avvenire », Milano, 3 ottobre 1991. Riproposto « Il Decameroncino » di Luigi Capuana, « Il Ragguaglio librario », Milano, ottobre 1991, p. 302. Roberto Fedi, « La memoria della poesia. Canzonieri, lirici e libri di rime nel Rinascimento » (recensione), ivi, p. 319. Due libri postumi per i cent’anni di Biagio Marin. « Gabbiano reale » e « Rama de rosmarin », « Il Ragguaglio librario », Milano, novembre 1991, pp. 341-342. Pomilio e « Il Ragguaglio librario », « Abruzzo. Rivista dell’Istituto di Studi abruzzesi », Chieti, gennaio-dicembre 1991, pp. 305-312. Un seminario nel centenario della nascita. Stuparich, il mondo scomparso della vecchia Mitteleuropa, « Avvenire », Milano, 3 dicembre 1991. Francesco Giuseppe. Il « Povero nostro Franz » nei racconti umoristici del vecchio Bortolo (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, dicembre 1991, p. 378. La brocca, l’aneto. 3 poesie di Mariuccia Coretti (recensione), ivi, p. 380. Scrittori triestini del Novecento (recensione), « Testo », Milano, lugliodicembre 1991, pp. 99-100. Saggi triestini di Bruno Maier (recensione), « Italianistica », Pisa, settembre-dicembre 1991, pp. 569-573.



1993 Archetipi italiani in forma colloquiale (recen­sione), « Avvenire », Milano, 6 febbraio 1993. Dal Liberty al Futurismo. I segreti del successo di « Poesia » la rivista di Filippo T. Marinetti, « Il Ragguaglio librario », Milano, febbraio 1993, p. 52. Poeti austriaci, « Il Ragguaglio librario », Milano, marzo-aprile 1993, p. 108. Claudio Varese fra Otto e Novecento, ivi, p. 109. Claudio Varese, « Sfide del Novecento. Letteratura come scelta » (recensione), « Otto-Novecento », Azzate, marzo-aprile 1993, p. 211. Giuseppe Prezzolini testimone di un’epoca. Lugano ricorda il decimo anniversario della morte dello scrittore con una mostra che toccherà New York, Roma e Firenze, « Il Ragguaglio librario », Milano, maggio 1993, pp. 133-134.  



























curriculum didattico e scientifico di giorgio baroni Fulvio Muiesan, ivi, p. 148. Dal liberty al futurismo. I segreti del successo di « Poesia », « Testo », Milano, gennaio-giugno 1993, pp. 110-111. Manzoni e l’ambiguità romantica (recensione), « Avvenire », Milano, 10 luglio 1993. Le concordanze dei maggiori poeti del ’900. È meno nero di Montale il cielo di Ungaretti (recensione), « Avvenire », Milano, 21 agosto 1993. Aggiornamenti di critica : studi sul primo Novecento, « Humanitas », Brescia, agosto 1993, pp. 587-596. Per una definizione della lingua poetica del Novecento. Ungaretti schedato, « Il Ragguaglio librario », Milano, novembre 1993, p. 336.  

























1994 Postfatio, in Giuseppe Antonio Brunelli, Poesie per Giovanna. 19461982. Vers nouveaux et vers anciens traduits en français par B. F. Pino, Firenze, Università degli Studi, Facoltà di Scienze politiche « Cesare Alfieri », 1994, pp. 140-155. Quante penne rosa a Trieste. Incontro al «moderno» per la patria (recensione), « Avvenire », Milano, 16 febbraio 1994. Bianco rosa e verde : scrittrici a Trieste. Condizione femminile e patriottismo, « Il Ragguaglio librario », Milano, giugno 1994, p. 175. Lo Zeno-Svevo nella versione teatrale di Tullio Kezich, « Il Ragguaglio librario », Milano, novembre 1994, p. 347.  

















23

Il suo paese : « un segno iniziale ». Su Bigiaretti, « Hortus. Rivista di poesia e arte », Grottammare, 20, 1997, p. 113 sgg.  









1998 Introduzione - Introduction a Giuseppe Antonio Brunelli, Se canto se rido se gioco. Poesie di pace e di guerra 1938-1942, trad. francese di Ben Felix Pino, a cura di Giorgio Baroni e di Odile Malas, Firenze, Facoltà di Scienze politiche « Cesare Alfieri », 1999, pp. 6-19. Il teatro di Marinetti, « Il Banco di lettura », Trieste, 18, 1998, pp. 3-6.  







1999 Attualità di Giuseppe Parini, in Parini e il Lario. Atti del convegno. Como – Villa Gallia, 29 ottobre 1999, Como, Amministrazione provinciale di Como – Assessorato Cultura e Istruzione, 1999, pp. 7-14. Prefazione, in Arnaldo Fontana, Ragioni dell’arte figurativa, Albenga, Bacchetta, 1999, pp. 3-4. Figure sulla spiaggia, in Arnaldo Fontana, Grafica, Albenga, Bacchetta, 1999, pp. 31-33. La risonanza delle edizioni Carabba nella pubblicistica dell’epoca : rilevamento per campione, in La casa editrice Carabba e la cultura europea tra Otto e Novecento, a cura di Gianni Oliva, Roma, Bulzoni, 1999, pp. 139-148. La rivoluzione futurista. Cambia il modo di vivere di fronte alla natura e alla storia, « Giornale del popolo », Lugano, 14 settembre 1999, p. 4. Mitologia e altro nei nomi del «Giorno» di Giuseppe Parini, « Il Nome nel testo », Pisa, i, 1999, pp. 119-128. Parini critico, in Attualità di Giuseppe Parini : poesia e impegno civile, a cura e con introduzione di Giorgio Baroni, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 1999 (nn. 2-3, 1999 della « Rivista di letteratura italiana »), pp. 459-472.  



1995 Biagio Marin ricorda Giulio Camber Barni, il cantore della Grande Guerra, in La scrittura dispersa. Testi e studi su inediti e rari tra Seicento e Novecento, a cura di Michele Dell’Aquila, Pisa, Giardini, 1995, pp. 151-159. « E non avrò fatto che sognare », nel catalogo della mostra Un altro vento... La poesia di Lina Galli, Comune di Trieste - Biblioteca Civica “A. Hortis”, Trieste, 1995. « L’Assente » di Bruno Maier (recensione), « Il Ragguaglio librario », Milano, giugno 1995, p. 171. L’edizione postuma dei « Canti » di Biagio Marin, « Il Ragguaglio librario », Milano, settembre 1995, pp. 248-249. La recente narrativa di Stelio Mattioni, « Otto-Novecento », Azzate, settembre-ottobre 1995, pp. 183-192. I Moderni mecenati, « Il Ragguaglio librario », Milano, ottobre 1995, pp. 295-296. Due voci per Cecovini, « Archeografo triestino », Trieste, lv, 1995, pp. 158-165. Simboli, scaramanzie e presagi nel « Gattopardo » di Tomasi di Lampedusa, « Humanitas », Brescia, dicembre 1995, pp. 843-854.  

































1996 Inesplorato, infinito, sognato : mitiche visioni nell’opera letteraria di Bruno G. Sanzin, in Visioni e Archetipi. Il mito nell’arte sperimentale e di avanguardia del primo Novecento, a cura di Francesco Bartoli, Rossana Dalmonte, Corrado Donati, Trento, Università degli Studi di Trento, 1996, pp. 135-146. Letteratura e dialetto in area giuliana, in Lingua e dialetto nella tradizione letteraria italiana. Atti del Convegno di Salerno, 5-6 novembre 1993, Roma, Salerno ed., 1996, pp. 423-428. Bibliografia, in Giuseppe Antonio Brunelli, Le cascate d’agosto. Poesie 1943-1945, Università degli Studi di Firenze - Facoltà di Scienze politiche “Cesare Alfieri”, Firenze, 1996, pp. 160-167. « E tu non saresti che un sogno ? ». La ricerca ungarettiana di Dio tra poesia e preghiera, « Humanitas », Brescia, aprile 1996, pp. 206-218. Il gusto del raro, « Rivista di letteratura italiana », Pisa, 1-3, 1996, p. 11. Pier Antonio Quarantotti Gambini sul « Pensiero », ivi, pp. 183-196.  



















1997 Il trasporto nella letteratura-Transportation in literature, in Il trasporto pubblico urbano. Milano 1900-2000, Milano, Electa, 1997, pp. 32-38. « Scoppia al sole una parola semplice e meravigliosa come una genziana del Carso ». La ricerca di Scipio Slataper nei suoi anni vociani, in Scipio Slataper. L’inquietudine dei moderni, a cura di Elvio Guagnini, Trieste, Edizioni ricerche, 1997, pp. 25-34. « Per un Iddio che rida come un bimbo ». Il senso del divino nella lirica di Ungaretti, « Testo », Milano, gennaio-giugno 1997, pp. 36-48. « Le piccole anime sole » : orfanezza e letteratura, « Esperienze letterarie », Napoli, luglio-settembre 1997, pp. 39-53. Giulio Pinchetti : uno spirito infermo alle prese con un demonio tenace, « Rivista di letteratura italiana », Pisa, 1-3, 1997, pp. 141-160.  





































2000 L’« oltre » di Libero Bigiaretti, in Libero Bigiaretti. La storia, le storie, la scrittura, a cura di Alfredo Luzi, Fossombrone, Metauro ed., 2000, pp. 79-88.  











2001 Metamorfosi di un genere : le mobili frontiere della critica, in La lotta con Proteo. Metamorfosi del testo e testualità della critica. Atti del xvi congresso a.i .s.l.l.i. Los Angeles, 6-9 ottobre 1997, i, a cura di Luigi Ballerini, Gay Bardin e Massimo Ciavolella, Fiesole, Cadmo, 2001, pp. 63-68. Presentazione ad Andrea Rondini, Cose da pazzi. Cesare Lombroso e la letteratura, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2001, p. 7. Il segno del potere e la nominazione, « Il Nome nel testo », Pisa, ii-iii, 2000-2001, pp. 213-218. Dalla sala riservata : reperti d’autore, in Dalla sala riservata : reperti d’autore, a cura di Giorgio Baroni, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2001 (nn. 2-3, 2001 della « Rivista di letteratura italiana »), pp. 9-10. Biagio Marin su Goethe, Saba e altro, ivi, pp. 357-372. « La vita, eterno andâ / verso l’eternità ». L’attesa di Biagio Marin, « Studi medievali e moderni », Napoli, 2, 2001, pp. 329-344.  





















2002 Sulla poesia di Giuseppe A. Brunelli, in Giuseppe Antonio Brunelli, Ritratto come un paesaggio, Firenze, Il Cenacolo, 2002, pp. 29-45. L’incanto del nome, in L’incanto del nome, a cura di Maria Giovanna Arcamone, Giorgio Baroni, Donatella Bremer, Pisa, ets, 2002, pp. 7-8. Introduzione a Trieste e un poeta. Pietro Zovatto, Trieste, Parnaso, 2002, pp. 13-14. Silenzio di luce, ivi, pp. 143-154. Rivista di letteratura italiana, in Le riviste di italianistica nel mondo. Atti del convegno internazionale, Napoli, 23-25 novembre 2000, Roma-Pisa, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2002, pp. 121-125. Elementi primordiali nella lirica di Salvatore Quasimodo, « Otto-Novecento », Milano, gennaio-aprile 2002, pp. 5-16. La tremenda attualità di Lina Galli, « Gradiva », Stony Brook-New York, 20-21, 2001-2002, pp. 65-74. [Nessun processo umano...], risposta a Cinque domande sulla letteratura, « Testo », Milano, gennaio-giugno 2002, pp. 17-18. Rapporti letterari liguro-giuliani al tempo de « La Voce », « Studi mariniani », dicembre 2002, pp. 7-12.  



















24

curriculum didattico e scientifico di giorgio baroni

Da Aristofane a Calvino. Il mezzo pubblico urbano nella letteratura, « Il Banco di lettura », Trieste, 25, 2002, pp. 3-8. Tempo : subito sera, « Italianistica », Pisa, maggio-dicembre 2002, pp. 29-34. Presente o assente ?, « Rivista di letteratura italiana », Pisa-Roma, 3, 2002, pp. 25-36.  















2003 « Le parole della vita », « Rivista di letteratura italiana », Pisa-Roma, 1-2, 2003, pp. 133-140. « Nell’antico linguaggio / altri segni », in Nell’antico linguaggio altri segni. Salvatore Quasimodo poeta e critico, a cura e con introduzione di Giorgio Baroni, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2003 (nn. 1-2, 2003 della « Rivista di letteratura italiana »), pp. 11-14. La presenza dell’assente, in « Dal centro al cerchio » e sì dal cerchio al centro, Atti del Convegno del 20 giugno 2002, Trieste, Circolo della Cultura e delle arti, 2003, pp. 41-51. La ricezione di Enrico Morovich nelle riviste del ventennio, in Enrico Morovich e il surrealismo in Italia, a cura di Edda Serra, Gorizia-Trieste, Istituto Giuliano di Storia, Cultura e Documentazione, 2003, pp. 73-86. Giuseppe Ungaretti : Amore e amore, in La Filología italiana ante el nuevo milenio, a cura di Vicente González Martín, Salamanca, Edicione Universidad de Salamanca, 2003, pp. 36-54. Trieste e un poeta : Pietro Zovatto, « Rivista teologica di Lugano », Lugano, 1, 2003, pp. 207 sg. Per una rilettura di Pier Antonio Quarantotti Gambini, « La Nuova ricerca », Pisa-Roma, 12, 2003, pp. 303-314. Atti del Convegno « Emblemi eterni, nomi ». Quarto incontro internazionale di onomastica in Lombardia », a cura di Giorgio Baroni, « Rivista italiana di onomastica », Roma, ii semestre 2003, pp. 501-639. Nome faro, ivi, pp. 503-507.  









Quale Europa nel « Giorno » del Parini ?, in Giuseppe Parinis. Il Giorno. Im Kontext der europäischen Auf klärung, herausgegeben von Andreas Gipper und Gisela Schlüter, Würzburg, Neumann, 2006, pp. 139-152. « Parole e ritmo sgorgan per incanto ». L‘idea di una rivista, « Magazine Bipitalia », Lodi, 16, 2006, pp. 48-49. Giuseppe Parini cantore della globalizzazione. Il risveglio del nobile viziato con « la serica zimarra chinese », « Magazine bipitalia », Lodi, 18, 2006, pp. 46-47. Letteratura dalmata italiana fra Ottocento e Novecento, Pisa-Roma, « Rivista di letteratura italiana », 3, 2006, pp. 33-46.  

























































2004 Il Novecento in rivista, in Letteratura e riviste, a cura di Giorgio Baroni, Pisa, Giardini, 2004, pp. 9-10. « Ogni ora / nel tempo […] parve eterna ». La dimensione temporale nel primo Quasimodo, in Segni e sogni quasimodiani, a cura di Laura Di Nicola e Maria Luisi, Pesaro, Metauro, 2004, pp. 137-146. Eros e libido nella « Vita d’un uomo », in Manlio Cecovini. Testimonianze degli amici per i suoi novant’anni. Da Poggio Boschetto a Padriciano, Gorizia-Trieste, Istituto Giuliano di storia, cultura e documentazione, 2004, pp. 191-202. Parini e Bosisio, Breve orazione celebrativa…, in 1799-1999. Celebrazione del bicentenario della morte del poeta Giuseppe Parini nel paese natale, Missaglia, Bellavita, 2004, pp. 16-20. « Nò papà nò mama », « Il Banco di lettura », Turriaco, 27/2003 – 28/2004, pp. 9-18.  















2005 Rivista delle riviste, in Letteratura e riviste. Atti del convegno internazionale. Milano 31 marzo-2 aprile 2004, i, a cura e con introduzione di Giorgio Baroni, Pisa, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2005, 2 voll. (nn. 3, 2004 e 1-2, 2005 della « Rivista di letteratura italiana »), pp. 9-10. Presentazione di Iride 900, ii, ivi, pp. 11-14. Prefazione a Virgilio Giotti, Piccolo Canzoniere in dialetto triestino, Genova, San Marco dei Giustiniani, 2005, pp. 7-12. Eros e libido nella « Vita d’un uomo », in Giuseppe Ungaretti. Identità e metamorfosi. Colloquio internazionale. Lucca 4-6 aprile 2002, a cura di Lia Fava Guzzetta, Rosario Gennaro, Maria Luisi e Franco Musarra, Lucca, Pacini Fazzi, 2005, pp. 25-34. « L’aurora non è scomparsa dall’universo » di Ungaretti, in Letteratura, verità e vita, a cura di Paolo Viti, Roma, Storia e letteratura, 2005, pp. 609-628. L’Europa del Giovin Signore, « Esperienze letterarie », Pisa-Roma, 3-4, 2005, pp. 189-204.  















2006 Prefazione a Graziella Semacchi Gliubich, Sui scoi de la veciaia. Poesie, Empoli, Ibiskos, 2006, pp. 5-6. La rampa di lancio, in Il Futurismo sulla rampa di lancio. « Poesia ». 19052005, a cura di Giorgio Baroni, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, Pisa-Roma, 2006 (n. 2, 2006 della «Rivista di letteratura italiana»), pp. 9-10.  



2007 La meta ultima, in Giuseppe Strazzi, Ombre di cicale. 47 liriche senza legge, San Cesario di Lecce, Manni, 2007, pp. 6-8. « Nostalgia d’un canto / largo, felice », in Ada Negri. « Parole e ritmo sgorgan per incanto ». Atti del convegno internazionale di studi. Lodi, 14-15 dicembre 2005, a cura e con introduzione di Giorgio Baroni, Pisa, Giardini, 2007, pp. 109-114. L’ascosa dimora di Umberto Saba, in « Innumerevoli contrasti d’innesti » : la poesia del Novecento (e altro). Miscellanea in onore di Franco Musarra, Leuven, Leuven University Press, 2007, pp. 31-42. Salvatore Quasimodo « operaio di sogni », in Studi di onomastica e letteratura offerti a Bruno Porcelli, a cura di Davide De Camilli, PisaRoma, Gruppo editoriale internazionale, 2007, pp. 271-280. « La bontà non morta ». Interni triestini, in Interni familiari nella letteratura italiana, a cura di Maria Pagliara, Bari, Progedit, 2007, pp. 180-192. Prefazione a Bruno G. Sanzin futurista triestino raccontato dal figlio Paolo nel centenario della nascita, Trieste, irci, 2007, p. 6. Salvatore Quasimodo. « Sono miti, le nostre metamorfosi », in Il mito nella letteratura italiana, iv, L’età contemporanea, Brescia, Morcelliana, 2007, pp. 325-343. Storie e colori, in Atti del Convegno internazionale « Il dialetto come lingua della poesia », a cura di Fulvio Senardi, Trieste, Università degli studi di Trieste – Università degli studi di Pécs – Centro studi Biagio Marin, 2007, pp. 9-22. Il gusto dell’inedito, in Critica letteraria e stile didattico, Giornata di studio su Michele Dell’Aquila, a cura di Cosimo Laneve, Bari, Laterza, 2007, pp. 31-36. Raffaele Cecconi, « Il venditore di giardini » (recensione), « Nuova antologia », Firenze, aprile-giugno 2007, pp. 387-389. Virgilio Giotti : storie tra penna e matita, « Rivista di letteratura italiana », Pisa-Roma, 2, 2007, pp. 77-86.  











































2008 Saba e Giotti : congedi, in « Si pesa dopo morto ». Atti del convegno internazionale di studi per il cinquantenario della scomparsa di Umberto Saba e Virgilio Giotti. Trieste 25-26 ottobre 2007, a cura di Giorgio Baroni, Pisa-Roma, Serra, 2008 (n. 1, 2008 della « Rivista di letteratura italiana »), pp. 65-74. Introduzione a Paesaggi. Storia e memoria. Pagine rare e inedite dell’Archivio Marin della Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia, PisaRoma, Serra, 2008, pp. 9-10. Zovatto « sulle orme / di un Dio fuggitivo », in In un concerto di voci amiche. Studi di letteratura italiana dell’Otto e Novecento in onore di Donato Valli, ii, a cura di Antonio Lucio Giannone, Lecce, Congedo, 2008, pp. 885-895. Prefazione a Željko Djurić, Osmosi letterarie. Ricerche comparate, Pisa-Roma, Serra, 2008, p. 9. Saba quasi extravagante, in Saba extravagante. Atti del convegno internazionale di studi. Milano 14-16 novembre 2007, a cura e con introduzione di Giorgio Baroni, Pisa-Roma, Serra, 2008 (nn. 2-3, 2008 della « Rivista di letteratura italiana »), pp. 339-346.  

















2009 I tempi di Ada Negri, in Da donna a donna. Immagini ed emozioni, Lodi, Associazione Poesia, La Vita, 2009, pp. 110-120. Ricordo di Libero Bigiaretti, in Studi sulla letteratura italiana della modernità. Per Angelo Pupino. ii. Dal Secondo Novecento ai giorni nostri, a cura di Elena Candela, Napoli, Liguori, 2009, pp. 151-157. La letteratura dalmata italiana tra Ottocento e Novecento, in Civiltà italiana e geografie d’Europa, Atti del xix Congresso a.i.s.l.l.i., 19-24 settembre 2006, Trieste Capodistria Padova Pola, Relazioni, a cura di Bianca Maria Da Rif, Trieste, Edizioni Università di Trieste, 2009, pp. 102-116.

curriculum didattico e scientifico di giorgio baroni La ricerca di Dio nella poesia di Ungaretti, in La Bibbia nella letteratura italiana. Opera diretta da Pietro Gibellini, ii, L’età contemporanea, a cura di Pietro Gibellini e Nicola Di Nino, Brescia, Morcelliana, 2009, pp. 213-230.

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Lavori in corso per l’Edizione Nazionale : promesse e problemi, in Rileggendo Giuseppe Parini : storia e testi. Atti delle giornate di studio 10-12 maggio 2010, a cura di Marco Ballarini, Paolo Bartesaghi, Milano – Roma, Biblioteca Ambrosiana – Bulzoni, 2011, pp. 259-263. Umberto Saba, between Nature and Divine Providence, « Mediterranean Review », Pusan (Korea), giugno 2011, pp. 33-68. Segnali di tempo. Al sole e al vento, in Il tempo fa crescere tutto ciò che non distrugge. L’opera di Pier Antonio Quarantotti Gambini nei suoi aspetti letterari ed editoriali, Atti delle giornate di studio. Trieste, 15-16 aprile 2010, a cura di Daniela Picamus, Pisa-Roma, Fabrizio Serra ed., Pisa-Roma, 2011, pp. 57-62. «Perduta strada d’amore». Su Quasimodo, Acque e terre, in Un tremore di foglie. Scritti e studi in ricordo di Anna Panicali, a cura di Andrea Csillaghy, Antonella Riem Natale, Milena Romero Allué et alii, Udine, Editrice universitaria udinese, 2011, pp. 49-56. Parini e la sua terra, in Studi di storia e critica della letteratura italiana dell’Ottocento e del Novecento in onore di Giuseppe Farinelli, a cura di Angela Ida Villa, Milano, Otto-Novecento, 2011, pp 83-92.  





2010 Giani Stuparich critico, in Studi di onomastica e critica letteraria offerti a Davide De Camilli, a cura di Maria Giovanna Arcamone, Donatella Bremer, Bruno Porcelli, Pisa-Roma, Serra, 2010, pp. 69-73. 2011 Presentazione, in Giuseppe Parini, Alcune poesie di Ripano Eupilino, a cura di Maria Cristina Albonico, con introduzione di Anna Bellio, Edizione nazionale delle opere diretta da Giorgio Baroni, PisaRoma, Serra, 2011, pp. 9-12. “Fra ritorno e ricordo”. Per celebrare Giani Stuparich nel cinquantenario della morte, « Istria Fiume Dalmazia. Tempi & Cultura », Trieste, 23-24, 2011, p. 84 sgg.  





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TABULA GRATULATORIA Antonella Agostino, Università degli studi di Bari ‘Aldo Moro’ Maria Cristina Albonico, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano Carlo Annoni, Letteratura italiana, Università Cattolica del Sacro Cuore, Brescia Gian Mario Anselmi, Università degli studi Bologna Erminia Ardissino, Università degli studi di Torino Elisabetta Bacchereti, Università degli studi di Firenze Paola Baioni, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano Mari Carmen Barrado Belmar Paolo Bartesaghi Cristina Benussi, Università degli studi di Trieste Enza Biagini, Università degli studi di Firenze Biblioteca del Dipartimento di Filologia, Linguistica e Letteratura, Università degli studi di Lecce Biblioteca dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Sede di Milano Giuseppe Bomprezzi Paolo Briganti, Università degli studi di Parma Giuseppe Antonio Brunelli Loreto Busquets, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano Mauro Caselli, Trieste Arturo Cattaneo, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano Raffaele Cavalluzzi, Università degli studi di Bari Centro di Ricerche storiche di Rovigno Riccardo Cepach, Museo sveviano, Trieste Carmine Chiodo, Università degli studi di Roma ‘Tor Vergata’ Domenico Cofano, Università degli studi di Foggia Angelo Colombo, Università di Besançon Ilaria Crotti, Università di Venezia Giuseppe De Marco Cesare De Michelis, Università degli studi di Padova Francesco D’Episcopo, Università degli studi di Napoli ‘Federico II’ Dipartimento di Lettere, Lingue, Arti, Italianistica e Culture comparate, Università degli studi di Bari ‘Aldo Moro’ Željko Djurić, Università degli studi di Belgrado Edizione Nazionale Opera omnia di Italo Svevo Wafaa Abdel Raouf El Beith, Università di Helwan Enrico Elli, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano Edoardo Esposito, Università degli studi di Milano Angelo Fabrizi, Firenze Pierantonio Frare, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano Maria Isabel Giabakgi, Università degli studi di Foggia Emerico e Noemi Giachery Enzo Noè e Maria Teresa Girardi, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano Vicente González Martín, Universidad de Salamanca Alberto Granese, Università degli studi di Salerno Claudio Griggio, Università degli studi di Udine Javier Gutiérrez Carou, Universitade de Santiago de Compostela Titus Heydenreich, Erlangen Georgio Tergestino Angelus Lacchini Cremonensis Elena Landoni, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano

Paolo Leoncini, Università degli studi di Venezia Giovanna Liconti Franco Luxardo, Società Dalmata di Storia patria, Venezia Claudio Magris Massimiliano Mancini, ‘Sapienza’, Università di Roma Luigi Martellini, Università degli studi della Tuscia Bortolo Martinelli, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano e Brescia Maria MaŚlanka Soro, Uniwersytet Jagielloński w Krakowie Sandro Maxia, Università degli studi di Cagliari Celestina Milani, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano Federica Millefiorini, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano Franco e Ulla Musarra, Università Cattolica di Lovanio Ada Neiger Deirdre O’Grady, University College Dublin Maria Pagliara, Università degli studi di Bari Rosanna Pettinelli, ‘Sapienza’ Università di Roma Fabio Pierangeli, Università degli studi di Roma ‘Tor Vergata’ Donato Pirovano, Università degli studi del Molise Vincenzo Placella, Napoli Sergio Portelli, Università degli studi di Malta Angelo R. Pupino, Università degli studi di Napoli ‘L’Orientale’ Elena Rampazzo, Università degli studi di Padova Giovanni R. Ricci, Accademia di Belle Arti, Firenze Ricciarda Ricorda, Università degli studi di Venezia Salvatore Ritrovato, Università degli studi di Urbino ‘Carlo Bo’ Tatiana Rojć Bruno Rombi, Poeta critico-letterario Rossella Rossetti Fabio Russo, Università degli studi di Trieste Dario Sacchi, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano Salvatore Sanna, Deutsch-Italienische Vereinigung E.V. Vito Santoro, Università degli studi di Bari ‘Aldo Moro’ Claudio Scarpati Gisela Schlüter, Friedrich-Alexander Universität Roberta Schwartz Luigi Scorrano Riccardo Scrivano Scuola Normale Superiore di Pisa, Biblioteca Graziella Semacchi Gliubich Apollonia Striano, Università degli studi di Napoli ‘L’Orientale’ Rosita Tordi Castria, Società italiana di comparatistica letteraria Università Cattolica del Sacro Cuore, Sede di Brescia, Biblioteca University of California, Berkeley, The Library Margherita Verdirame, Università degli studi di Catania Corrado Viola, Università degli studi di Verona Patrizia Zambon, Università degli studi di Padova Sarah Zappulla Muscarà, Università degli studi di Catania

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RELIGIONE E RELIGIOSITÀ NELLA LETTERATURA ITALIANA* Enzo Noè Girardi 1

È

sempre un buon metodo per arrivare alle cose, intendersi prima sulle parole. Chiediamoci dunque : la parola ‘religione’ che cosa significa ? Se io dico : religione cattolica, oppure religione musulmana, ebraica, buddista, ecc., è chiaro che con religione mi riferisco in modo generico a un rapporto con Dio o col divino, quale può aversi sulla base di una precisa dottrina e pratica rivelata e insegnata da un antico fondatore, Messia o Profeta o Maestro, che si è poi tramandata nel tempo e variamente diffusa tra gli uomini. Se invece io dico : ‘il Croce aveva la religione della libertà’, oppure : ‘gli italiani hanno la religione della famiglia’, o ‘nel secolo scorso c’era la religione del dovere’, è chiaro che in tal caso o mi servo del termine religione in modo puramente metaforico, per indicare un particolare attaccamento pratico a quei valori, oppure assumo religione come termine generico di un qualsiasi principio o istituto umano che viene elevato a valore primo e indiscutibile, che viene, in un certo senso, divinizzato e posto come oggetto di un assenso di fede, simile a quello che nasce dal rapporto col divino, ma con questa non lieve differenza : che in tal caso il rapporto col divino non c’è più. Ora, se noi assumiamo religione in questo significato del tutto umano e immanente, il discorso che vogliamo fare non avrebbe senso, perché non avrebbe senso il binomio stesso che gli dà il titolo, cioè il rapporto tra religione e religiosità. Consideriamo infatti quest’altra parola del binomio : religiosità. Anch’essa ci offre due significati. Se diciamo, per esempio, ‘la religiosità benedettina’ o ‘la religiosità dei fedeli di questa parrocchia’ o ancora ‘la religiosità sunnita è diversa da quella sciita’, è chiaro che assumiamo ‘religiosità’ con significato di tipo o carattere o grado di spiritualità, di pietà, di pratica concreta, a livello individuale o collettivo, di una religione positiva, come appunto la religione cristiana o la musulmana. Se invece parliamo, ancora, della ‘religiosità dei popoli primitivi o degli antichi’ o diciamo che ‘con la parabola del samaritano Gesù ha voluto avvertirci che ci sono degli atei o comunque dei lontani dalla Chiesa che hanno più religiosità di certi suoi ministri’, o ancora ‘che il Carducci esprime la sua religiosità nell’ode alla chiesa di Polenta’ (Rime e ritmi, nn. 101128), sarà non meno chiaro che in tal caso ci riferiamo a quel sentimento naturale di Dio e del divino, inteso come qualcosa di infinitamente altro da sé e superiore a sé, che l’uomo può avere ed esprimere, più o meno vivo e attivo secondo gli individui e le circostanze, anche in assenza di una fede specifica : quel sentimento e bisogno naturale del divino, che è da presupporsi alle stesse religioni positive, se è vero che proprio su di esso i fondatori di quelle hanno fatto leva perché fosse accolto e diffuso il loro messaggio. Orbene, si intenda religiosità nel primo senso, cioè come pietà, fatto interno alla religione positiva in quanto modo della sua attuazione concreta da parte dei fedeli ; o si intenda nel secondo senso, come pietas generica, esterna ad essa, ma senza la quale essa storicamente non si sarebbe sviluppata, e dalla quale comunque anche fedeli e sacerdoti possono avere  

















* In onore del caro collega ed amico Giorgio Baroni ripropongo qui con le opportune modifiche questo saggio di Teoria e Storia della Letteratura Italiana che fu oggetto di una conferenza, rimasta inedita, tenuta a Bologna nell’aprile del 1982, nel quadro dell’attività del centro di orientamento culturale e spirituale S. Salvatore.

molto da imparare : certo è che essa costituisce la negazione in termini di ogni immanentismo, cosicché il nostro binomio ha senso solo se la religione vi viene intesa nel suo primo significato. Vuol dire che, nel primo caso esso binomio ci introdurrà ad una indagine sul rapporto tra religione come corpus obbiettivo di dottrine e di precetti astratti e religione come pratica concreta e personale e quindi relativamente soggettiva. Nel secondo caso esso ci porterà invece a chiarire il rapporto tra religione positiva, considerata globalmente come dottrina e pratica e il sentimento naturale del divino e del trascendente. Poiché, d’altra parte, non è pensabile che la religiosità di colui che va alla messa non sia, oltre che obbedienza al precetto, nel suo grado e nel suo modo, risposta ad un naturale bisogno e sentimento del divino, proprio del fedele, né che la religiosità di chi non ci va abbia per oggetto un divino più divino di quello che è oggetto del culto del fedele : ecco che potremo benissimo unificare i due discorsi e disporci in sostanza a riflettere sul problema umano e storico della coesistenza di questi due modi del rapporto con Dio o col divino. Si tratterà pertanto di chiedersi innanzitutto il perché di questo divaricarsi della naturale esigenza religiosa nella forma positiva, determinata o teologica dell’istituzione religiosa, e in quella negativa, indeterminata e ateologica della religione personale. Si tratterà poi anche di considerare se sia possibile, al di là del più comune atteggiamento per cui chi va alla messa tende a considerarsi, anche se non lo dice, migliore di chi non ci va ; e chi pratica Dio soltanto nel segreto del cuore, nell’onestà della vita e nel rispetto del proprio simile, può talora credersi a sua volta migliore, o quanto meno più intelligente e libero di coloro che restano tuttora legati alle forme della religione ufficiale (ma in verità c’è anche chi, al contrario e a torto, si crede peggiore) : si tratterà di considerare, dico, se sia possibile trovare un punto di incontro e di reciproco aiuto. E qui io potrei, per rispondere alla prima questione, far ricorso a varie ragioni. Innanzitutto, come mi par giusto, a quelle stesse della religione e della fede, la quale – come ci avverte bene Dante (« State contenti, umana gente, al quia… ») –, ci dissuade dall’indagare sul mistero per il quale Dio ad alcuni si apre e ad altri si nega ma meglio sarebbe dire, nel nostro caso, ad alcuni si rivela in un modo, ad altri in un altro meno esplicito, e ad altri ancora che si direbbero negati ad ogni lume di religiosità, sembra che non si riveli per nulla. Poi, per ciò che pure la questione può offrire di umanamente spiegabile, potrei ricorrere alle ragioni della psicologia, e dire che ci sono indoli disposte a uniformarsi, pur realizzandosi e dando il meglio di sé, entro la istituzione religiosa, e indoli, per contro, insofferenti d’ogni disciplina ; o ancora, tipi per così dire, estetici, che sentono il divino solo se calato nella concretezza di fatti, persone, segni e figure, e tipi metafisici, come gli antichi iconoclasti, insofferenti di ogni mediazione storica e rappresentativa. E potrei ancora, individuando non tanto nei singoli quanto negli istituti la responsabilità di quella divaricazione, addurre le ragioni della storia ecclesiastica e della storia culturale, e far colpa, da un lato, alla Chiesa stessa di essersi ad un certo punto troppo chiusa, nella sua istituzionalità formale, alle istanze dello spirito, e di aver dato talora motivi di scandalo per aver male amministrato le cose di Dio  













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enzo noè girardi

o averle mal rappresentate agli uomini ; e far colpa, dall’altro, alla cultura moderna di essersi data, per troppo orgoglio o per superficialità, fondamenti ateistici e materialistici, nonché di aver assunto talora per eccesso polemico atteggiamenti antichiesastici e anticlericali, sì da rendere arduo per molti dei suoi seguaci il problema di conciliare il loro bisogno e sentimento religioso con la preoccupazione di non essere esclusi dal ceto dei cosiddetti ‘intellettuali’, cioè uomini di cultura capaci di pensare e vivere modernamente. Così, per quanto riguarda la questione del punto di incontro e di reciproco aiuto, potrei dire che quelli che vanno alla messa, come, ed ancor più, quelli che la dicono, dovrebbero soprattutto guardarsi sia dal ridurre la loro religiosità a una pura burocratica osservanza del precetto della funzione, sia dal trasferirla tutta in quel tipo di teologia e di attivismo religioso, che mettendo in parentesi la prima parte del precetto evangelico dell’amore (« Amerai il Signore con tutto il tuo cuore e con tutta la tua mente »)1 risolvono il divino nel sociale, sì che più che vedere, nel povero, il Cristo, vedono nel Cristo un povero e solo quello ; per modo che, se si guarda alla sostanza delle cose, non si capisce in che differisca questa religione che si appella ai valori del populismo e del socialismo, da quelle già nominate di tipo immanentistico e laico, che si appellano ai valori borghesi della libertà, della famiglia, della patria ecc. e potrei dire d’altro canto, per coloro che alla messa non ci vanno, ch’essi dovrebbero comunque considerare se la loro scelta non sia in qualche misura suggerita da pigrizia e da egoismo. Ma, nella prospettiva di un superamento della distanza e del contrasto che separano le due schiere di credenti con la Chiesa e dei credenti senza Chiesa, o dei non credenti che pure vorrebbero credere (superamento che mi pare altrettanto auspicabile, se non più, di quello delle divisioni confessionali all’interno della cristianità), io penso, a questo punto, che sia più utile, oltre che più consono alla mia professione e competenza di letterato, mettere in luce il particolare significato che, a questo proposito, si deduce dalla testimonianza della storia letteraria, e, più precisamente dei poeti – e dico : dei poeti in quanto tali, cioè in quanto produttori di bellezza, che è soprattutto pace e armonia, indipendentemente dalla loro personale professione di fede o di agnosticismo. Considerati spesso con sospetto, e talora anche condannati, se cattolici, dai più rigorosi ma non sempre illuminati interpreti e tutori dell’ortodossia – di Dante fu messa all’indice la Monarchia ; Manzoni stava antipatico ai monsignori della curia ambrosiana, ai cattolici intransigenti e a gesuiti come il padre Bresciani ; Fogazzaro andò anche all’indice per Il santo e per Leila ; poco intesi e volentieri deformati o considerati reazionari o non abbastanza radicali quanto a materialismo ed agnosticismo se materialisti ed agnostici come Leopardi e Montale con la loro poesia, ove l’ortodossia spesso si manifesta in forme libere, non istituzionali, e ove per contro lo scetticismo di base viene coinvolto e virtualmente smentito da un sentimento del divino e da una pietas che appaiono talora anche più autentici di quelli dei poeti dichiaratamente religiosi – i poeti sembrano insomma additare non già una via di mezzo, non già un possibile compromesso sul piano dottrinale, che non avrebbe senso alcuno, bensì una prospettiva verso il futuro o l’intemporale : un punto lontano e pur non utopistico né fantastico, ma reale di convergenza tra fede viva e miscredenza religiosa, tra religiosità interna e religiosità esterna alla Chiesa. Esterna, però, si badi bene, in quanto si consideri la Chiesa unicamente nel suo aspetto storico, istituzionale, visibile, hic et nunc ; ma non affatto esterna in quanto la si consideri, come si deve, anche nella dimensione invisibile, spirituale, sovratemporale ed escatologica, nella luce di quella promessa  

unità finale di tutti quelli che sperano (« campo di quei che sperano », pel Manzoni de La Pentecoste, v. 9), senza di che la stessa chiesa visibile non avrebbe senso alcuno. Ho citato Manzoni. L’autore della Pentecoste e dei Promessi Sposi, forse le sole opere moderne in cui hanno potuto incontrarsi più generazioni di cattolici non meschini e di laici aperti al divino, consentendo non soltanto sulla forma ma anche sostanzialmente sul contenuto religioso, è certamente colui che più e meglio ci autorizza a tenere questo discorso. Poiché tuttavia poco fa ho parlato di religiosità dei primitivi e degli antichi, io non vorrei qui trascurare la testimonianza di Dante, il primo grande poeta che abbia riscoperto e riproposto alla nuova cristianità « li raggi delle quattro luci sante », cioè il valore irrinunciabile della religiosità naturale :  





Quelli c’anticamente poetaro l’età dell’oro e suo stato felice, forse in Parnaso esto loco sognaro 2













egli fa dire a Matelda nel Paradiso terrestre, riferendosi ai più antichi poeti interpreti della sensibilità religiosa dei primitivi. Ma nel Paradiso va assai più in là, pronosticando il capovolgimento delle sorti dei cristiani e dei barbari di fronte alla salvezza :  

A questo regno Non salì mai chi non credette in Cristo, né pria né poi ch’el si chiavasse al legno. Ma vedi : molti gridan “Cristo, Cristo !”, che saranno in giudicio assai men prope a lui, che tal che non conosce Cristo ; e tai Cristian dannerà l’Etiope, quando si partiranno i due collegi, l’uno in etterno ricco, e l’altro inope. 3  

Ho detto che Dante va più in là, ma non più in là del Vangelo, non più in là di Matteo, viii, 11-12 : « Dico autem vobis quod multi ab oriente et occidente venient et recumbent cum Abram et Isaac, et Jacob in regno coelorum : filii autem regni eicientur in tenebras exteriores ». Solo che il Vangelo è disatteso e soffocato e sostituito da canoni e decretali nell’interesse di una Chiesa troppo preoccupata del temporale e, per conseguenza, del giuridico. E allora Dante lo traduce in volgare e lo ripropone nella sua più intrinseca sostanza spirituale ; e in appoggio al Vangelo ripropone la testimonianza degli antichi che lo ‘sognarono’ e lo sospirarono e ne avvertirono imminente l’avvento. Non a caso Dante fa esprimere proprio a Virgilio l’ammonimento all’umiltà da parte dell’uomo che cerca le ragioni ultime delle cose e la necessità razionale della fede :  







« Matto è chi spera che nostra ragione possa trascorrer la infinita via che tiene una sustanza in tre persone. State contenti, umana gente, al quia ; ché se potuto aveste veder tutto, mestier non era parturir Maria ; e disïar vedeste sanza frutto tai che sarebbe lor disio quetato, ch’etternalmente è dato lor per lutto : io dico d’Aristotile e di Plato e di molt’altri » ; e qui chinò la fronte, e più non disse, e rimase turbato. 4  











Io non conosco altro testo in cui la condizione della religiosità naturale fuori della fede sia stata implicitamente definita meglio, nell’essenziale della sua nobiltà e della sua pena. Si dirà che l’esempio vale soprattutto per gli antichi, per coloro che « furon dinanzi al Cristianesmo » (Inf iv, 37), mentre nei moderni, per i quali il Cristianesimo è ormai avvenuto, la re 



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  Matteo xxii, 37.







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  Purg xxviii, 139-141.   Purg iii, 34-45.

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  Par xix, 103-111.

religione e religiosità nella letteratura italiana ligiosità naturale sembra accompagnarsi più spesso con spirito polemico e con un atteggiamento di sufficienza, che con l’inquietudine e con la pena di chi vorrebbe e non ha. Ma se è così, non è religiosità vera, ma religiosità ideologizzata, fatta religione immanente, perciò irreligiosa. Non è comunque la religiosità dei poeti, quando sono autentici poeti. Sarà quella che ritroviamo nel Leopardi polemico dei Nuovi credenti e della Palinodia o di qualche tratto della Ginestra, o nel Montale astioso e superbo di qualche prosa e di qualche lirica troppo legata al contingente, come Le processioni del 1949 ; ma non nel Leopardi del Canto notturno, non nel Montale dei Mottetti e di tante altre liriche, non nei poeti quando sono veramente ispirati, quando superano la loro stessa ideologia, in versi ove solo una critica miope e settaria può vedere ciò o soltanto ciò ch’essi indubbiamente anche significano di rifiuto delle risposte e dei conforti della religione positiva, anziché ciò cui positivamente e pur inconsciamente alludono e preparano, e per i quali i loro autori ci appaiono, in ordine all’avvento di quella terza ed ultima religione dell’umanità unificata, simili all’antico Virgilio, secondo che di lui dice Stazio :  



Facesti come quei che va di notte, che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte.1

È questo Virgilio, simbolo e figura della retta ragione, dunque della ragione naturalmente orientata al divino, dunque della religiosità naturale, che Dante immagina che, per diretto intervento celeste, venga a salvarlo dallo smarrimento della selva e dall’invincibile ostacolo della lupa, cioè della cupidigia mondana che guasta la stessa Chiesa, per condurlo alla soglia del Paradiso. E poiché Virgilio è poeta, è suo maestro ed autore di poesia, in Virgilio Dante raffigura la sua stessa funzione di poeta profeta, la sua stessa consapevolezza del compito proprio dei grandi poeti di tener viva tra gli uomini divisi la speranza finale dell’unità. Si dirà che Virgilio ha solo il compito di ricondurre Dante a Beatrice, cioè alla scienza della teologia, e che è solo per questa che poi egli potrà pervenire alla visione di Dio. Ma, a parte il fatto che Dante non svaluta mai, bensì trasvaluta sempre le acquisizioni precedenti nelle successive, e che alla sapienza e al mito, cioè alla religiosità naturale degli antichi egli fa omaggio anche nella terza cantica ; a parte questo, domandiamoci : chi è Beatrice, chi è il personaggio chiamato a impersonare la scienza della teologia, se non anch’esso, come Virgilio, una figura strettamente legata alla sua vita ed esperienza umana ? E non dice nulla il fatto che, dove le varie legendae e visiones di viaggi nell’aldilà, cui Dante pure si è ispirato, gli avrebbero suggerito di farsi guidare da un angelo o da un santo eremita, egli abbia invece scelto di investire della dignità e del magistero teologico nel cammino dal paradiso terrestre all’Empireo, la donna amata ? A me pare che anche con questa scelta, non meno che con quella di Virgilio, Dante implicitamente ci venga a dire che i principi del Vangelo e i precetti della Chiesa restano sterilità se sono accolti come entità separate e separabili dalla nostra più intima vita di pensieri e d’affetti umani ; che non s’arriva al paradiso se non ci mettiamo in via, portando con noi, e con noi via via sublimando, quegli stessi sentimenti e interessi e compiti umani che nascono da doti e attitudini che possiamo ben far risalire alla provvidenza divina – così come Dante riconosceva il suo ingegno dal benefico influsso dei Gemelli alla sua nascita – e considerare anch’esse, quelle doti e attitudini, come strumenti di esperienza religiosa, quando, beninteso, siano impiegate con rettitudine di mezzi e di intenzioni. Ma proprio con la Beatrice di Dante si tocca anche un altro importante e, direi, attualissimo aspetto del tema del rappor 









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  Purg xxii, 67-69.

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to tra religione rivelata e religiosità naturale, quale si presenta nella prospettiva dei poeti e degli artisti di autentica ispirazione : un aspetto, peraltro, assai delicato e che potrebbe fornire appiglio a grossi equivoci, quando non fosse trattato con la massima chiarezza : quello dell’amore naturale, considerato nella sua assolutezza e integralità di naturale rapporto delle anime e dei corpi, indipendentemente dal fatto che sia vissuto nel matrimonio e al di fuori di esso, come modo e strumento dell’esperienza del divino. Beatrice è certo la più degna tra le donne amate da Dante, e Dante non l’avrebbe mai elevata a quel ruolo, se non fosse riuscito a superare nei suoi riguardi ogni minimo moto di concupiscenza e ogni pretesa di corrispondenza, e se infine, prima della composizione del poema, Beatrice non avesse pensato bene di morire, consentendo così a Dante di pensarla come un angelo o un santo del paradiso. Resta comunque il fatto che neppure nel paradiso Beatrice sacrifica alla sua funzione di simbolo teologico i suoi caratteri e la sua bellezza di donna amata ; e che questa donna amata non fu la moglie di Dante, ma quella di Simone de’ Bardi. Sicché non si capisce perché almeno un poco dello scandalo preso dai critici del Fogazzaro per aver rappresentato in termini moderni, cioè nel romanzo di Daniele Cortis, una del tutto analoga sublimazione religiosa dell’amore naturale extramatrimoniale, non si capisce perché quei critici non l’abbiano preso anche per Dante. Vero è che ciò che spesso più dà scandalo, cioè l’elemento più propriamente sensuale e sensibile, comunque intrinseco e costitutivo dell’amore naturale, non appare esplicitamente nella Beatrice dantesca che nell’episodio del paradiso terrestre, dove la scienza della teologia si compiace di rievocare le « belle membra in ch’io rinchiusa fui » e il « sommo piacere »2 provato da Dante nel riguardarle e che gli fu tolto dalla morte, e poi si scopre donnescamente gelosa della pargoletta e di qualche altro peccatuccio di Dante. Quell’elemento è invece già ben presente nel Canzoniere petrarchesco, e anch’esso compare implicitamente nella pur chiara rivendicazione che il Petrarca fa della sacralità dell’amore naturale nel famoso sonetto 61, ove il poeta benedice il giorno il mese l’anno e la stagione e il tempo e l’ora e il punto in cui s’innamorò di Laura, e i begli occhi e il dolce affanno ch’egli ebbe ad esser con amor congiunto. Di questa celebrazione religiosa dell’amore naturale, e per di più contrario al nono comandamento, il Petrarca sembra far subito ammenda nel sonetto successivo Padre del ciel, ove il poeta appunto chiede perdono di quel lungo e peccaminoso desiderio e prega Dio di ricondurlo a più degni pensieri e alla meditazione della sua passione e morte (« rammenta lor come oggi fusti in croce »). Ma proprio la collocazione, evidentemente voluta, dei due sonetti a confronto e contrasto, ove l’ultimo verso ci obbliga a tener presente che il giorno celebrato nel sonetto precedente era appunto un venerdì santo, e il loco la chiesa avignonese di S. Chiara, non consentono dubbi sul fatto che il Poeta abbia voluto qui rappresentarsi, nel modo implicito e indiretto che è proprio della poesia, la contemporanea e contraddittoria presenza nel suo pensiero e nel suo animo, con pari intensità, di due religioni : quella ortodossa che conduce a Dio attraverso la rinuncia alla gioia sensibile dell’amore, tanto più se illecito, e quella eterodossa, che vede proprio nei dolci affanni dell’amore terrestre uno dei modi più efficaci e comuni attraverso cui il divino può rivelarsi naturalmente all’uomo, e vede nella circostanza che l’amore per Laura sia cominciato proprio in quel tempo e in quel luogo sacri, quasi un segno della sua provvidenzialità e sacralità. Dopo il Petrarca, il motivo è ripreso vigorosamente da Michelangelo poeta ; ove addirittura lo stesso amore omosessuale sembra pretendere le sue patenti di religiosità. Nel sonetto  





















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  Purg xxxi, 50-52.

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enzo noè girardi

83, dedicato al Cavalieri, Michelangelo afferma che ogni bellezza terrena, a giudizio delle persone sagge, assomiglia più d’ogni altra cosa a quella divina fonte da cui tutti deriviamo :  

A quel pietoso fonte onde sian tutti s’assembra ogni beltà che qua si vede più c’altra cosa alle persone accorte (vv. 9-11)

anzi essa è, per Michelangelo nel momento in cui scrive questo sonetto, l’unica manifestazione terrestre del divino : « né altro saggio abbian né altri frutti / del cielo in terra » e l’amore per essa, e per chi materialmente la impersona, è scala a Dio : « e chi v’ama con fede / trascende a Dio e fa dolce la morte » (vv. 12-14). È da dire che nello stesso sonetto il poeta dissuade dall’interpretare il suo amore per il Cavalieri come qualcosa di più o d’altro che una spirituale attrazione ; ma a parte che c’è poi chi interpreta questa stessa avvertenza come un’excusatio non petita, quindi come accusatio manifesta ; e che comunque anche Michelangelo farà ammenda di questa celebrazione eterodossa della bellezza corporea e dell’arte stessa che la riproduce nel marmo come tramiti tra Dio e l’uomo e tra l’uomo e Dio : resta il fatto che la poesia e l’arte stessa del Buonarroti sarebbero incomprensibili se non si collocassero appunto in questa prospettiva di tensione verso il superamento della condizione terrestre di contrasto, nell’itinerario a Dio, tra la via della fede e quella della natura. La separazione che la scienza moderna, il sensismo e la filosofia idealistica determinano tra natura e spirito rendono inattuale il tema per quasi tutto l’Ottocento. Così Manzoni bandisce l’aspetto sessuale dal romanzo dichiarando che di amore (e avrebbe forse detto sesso, se la parola in quel tempo non fosse stata tabù, e sarebbe stato più corretto) al mondo ce n’è seicento volte di più di quanto necessario alla continuazione della nostra riverita specie ; mentre la donna che Leopardi vagheggia nella canzone Alla sua donna, in modo da farne una delle espressioni più alte della sua religiosità poetica, non è tuttavia che la idea pura della donna, una donna senza corpo, in rapporto alla quale la Beatrice di Dante potrebbe sembrare addirittura sensuale. Ma a partire appunto dal Fogazzaro le cose cambiano. Nel già ricordato Daniele Cortis e nel successivo discorso fiorentino su Un’opinione di Alessandro Manzoni, manifestando il suo dissenso dalla sopra ricordata affermazione sulla inopportunità di rappresentare l’amore in letteratura (che implicherebbe una concezione materialistica dell’amore stesso), lo scrittore rivendica anche in termini teorici la spiritualità e religiosità dell’amore, anche di quello extramatrimoniale, una volta che sia sublimato e proiettato sull’orizzonte dell’escatologia cristiana. Poi per l’influenza di correnti di pensiero e di narratori di altri paesi, e finalmente per effetto dell’ultimo concilio ecumenico in cui la Chiesa ha largamente accolto nell’ambito della ortodossia il valore delle cosiddette realtà terrene ; l’antico tema dell’amore come rivelazione naturale del divino è ritornato di piena attualità, e con esso il problema, non certo trascurabile, di stabilire fino a che punto il rapporto poetico dell’erotico con il teologale possa essere accolto, anche nei termini del più spregiudicato realismo contemporaneo, nella prospettiva dantesca e fogazzariana di una rivalutazione religiosa del terrestre, e vada invece respinto come indebita contaminazione di sacro e profano e come, per dirla col Manzoni giudice del Tommaseo, una mistura di giovedì grasso e di venerdì santo. Il problema si pone, per fare un solo esempio recentissimo, nel caso dell’ultimo romanzo di uno scrittore cattolico, il Santucci, intitolato Il mandragolo, un racconto fantastico tra farsa paesana, ironia, tra mistero sacro e danza macabra, dove, per il tramite dello spiritismo e della magia, i temi del peccato, della fede e della salvezza per Cristo si coniugano con l’eroti 





















smo più spinto, a sostegno appunto della tesi che la musica, rappresentata da un vecchio organo suonato dal fantasma di Frescobaldi evocato spiritisticamente dal protagonista, e l’amore, considerato nella sua stessa carnalità, impersonato dal protagonista, che è poi il sagrestano del paese, possono essere vie alla salvezza, arrivando là dove la religione ufficiale, impersonata dal parroco, fallisce il suo compito. Nell’’84 avevo pensato di invitare Santucci all’Università Cattolica a parlare del suo romanzo e a difenderne le intenzioni in un pubblico dibattito ov’erano giovani studenti e anziani laureati. Devo dire che il dibattito è stato seguito con grande interesse e che i più mi sono parsi persuasi dalle argomentazioni dello scrittore, anche se ciò non mi ha risparmiato, prima e dopo la riunione, le proteste e i ‘si vergogni !’ di qualche signora sinceramente scandalizzata sia dal contenuto del romanzo, sia dal fatto che avessi pensato di farlo discutere proprio alla Cattolica. Legittima e forse lodevole la prima ragione, se dimostra purezza d’animo e rifiuto di accettare l’andazzo di una letteratura che talora troppo si compiace di avvoltolarsi nel letamaio. Inaccettabile invece la seconda. Perché, dove mai si dovrà discutere di un libro che si propone come religioso e anzi cattolico, se non tra cattolici ? E discutere non significa approvare o approvare tutto, e tanto più di fronte ad opere recentissime, nei riguardi delle quali è difficile anzi impossibile formulare quel giudizio estetico definitivo che unicamente taglia la testa al toro. Se infatti Il mandragolo fosse un capolavoro, anziché un’opera, appunto, discutibile, il problema non ci sarebbe neppure : non potremmo che esser d’accordo con Santucci e con la sua pretesa di porsi come continuatore e rinnovatore della linea manzoniana. Siamo ritornati così al Manzoni, e col Manzoni vogliamo finire. Linea manzoniana : che cosa significa ? Romanzo edificante ? Romanzo consolatorio ? Romanzo cristiano in quanto romanzo dei poveri e degli umili ? Nulla di tutto questo. Linea manzoniana, per mio conto, significa linea di incontro tra le ragioni della natura, cioè della realtà e della storia, che continuamente si evolvono e pongono nuovi problemi e perciò nuova attenzione e nuove capacità interpretative, e le ragioni eterne della fede : significa, dunque, nuova poesia, nuova prefigurazione in versi o in prosa di ciò che il Manzoni prefigura colla favola del difficile, ma finalmente realizzato matrimonio del terrestre Renzo con la teologale Lucia : l’identificazione di umanità e Chiesa, la riunificazione della cristianità con la scomparsa di ogni distinzione tra cristiani della lettera e cristiani dello spirito. Questo implica, per parte degli scrittori cattolici, ch’essi imitino il Manzoni non già nei contenuti e nelle forme, ma in ciò che egli, ad un certo momento, si pone come scrittore non più all’interno del tempio ch’egli pure frequenta come credente, ma sulla soglia ; non più dunque come interprete delle certezze e dei testi e riti antichissimi e famigliari ai fedeli praticanti, bensì come interprete della speranza che accomuna quelli che stanno nel tempio e quelli che, pur restandone fuori, non accettano neppure essi che la vita umana si riduca nel cerchio breve dell’esistenza biologica e della ferrea necessità. È questo il momento cruciale che, nella carriera letteraria del Manzoni, segna il passaggio dai primi Inni sacri alla Pentecoste. Se infatti, subito dopo la conversione, tutto compreso della sua nuova condizione di pecora smarrita che ha fatto ritorno all’ovile, Manzoni pensa di uniformare il suo nuovo compito di poeta cristiano a quello degli antichi innografi latini e volgari, celebrando le feste e i riti della Chiesa con lo stesso linguaggio culturale e dogmatico che era stato di quelli, la difficoltà dell’assunto e certo, io penso, anche un’intima insoddisfazione per i risultati conseguiti lo inducono a chiedersi se al poeta moderno che voglia essere veramente moderno (che è poi, per il poeta, l’unico modo di essere poeta !) e insieme  























religione e religiosità nella letteratura italiana autenticamente cristiano, non convenga percorrere altra via da quella dell’imitazione dell’antica innografia. Perché è vero che Ambrogio, Rabano Mauro, Venunzio Fortunato e ancora Tommaso d’Aquino e Jacopone da Todi celebrando i fatti, i riti e i dogmi del cristianesimo con le parole stesse dei testi sacri e della tradizione liturgica avevano fatto opera insieme di edificazione e di alta poesia, aperta a tutti e da tutti intesa. Ma ciò era avvenuto perché, nonché il linguaggio dei testi, dei riti e dei dogmi cattolici, quello era il linguaggio di tutti, perché allora la cultura della chiesa si identificava praticamente con la cultura di tutta la società, con la cultura senza aggettivi ; e la distinzione tra religioso e laico era solo una distinzione di funzioni all’interno della chiesa e non anche e minimamente di cultura e di mentalità. Ma al tempo del Manzoni, cioè dopo il Rinascimento, la riforma, il razionalismo e lo scientismo, l’assolutismo illuminato e la Rivoluzione, che cosa poteva significare il ritorno a quel linguaggio se non la rinuncia a farsi intendere altro che da una parte dei lettori, e non la maggiore, e quella, per di più, che essendo già famigliare a quei tempi e a quel linguaggio, meno ne aveva bisogno ? La Pentecoste, ove il linguaggio moderno, il linguaggio civile di tutti è utilizzato a rendere non più la lettera, ma lo spirito del fatto e della dottrina cristiana della Pentecoste, è il primo vero capolavoro del Manzoni, perché appunto vi si realizza appieno la condizione del poeta religioso, antico e moderno che sia, quello di farsi voce universale, intesa da tutti, la voce stessa dello Spirito che, dopo la Pentecoste, predicava per bocca degli apostoli :  





tal risonò molteplice la voce dello Spiro : l’Arabo, il Parto, il Siro in suo sermon l’udì (vv. 45-48).  

Concludendo, ho cercato di dimostrare che : i. Religione e religiosità non sono ideologizzabili, non sono  

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riducibili in termini di spiegazione immanentistica del mondo, in quanto consistono nella postulazione di un assoluto altro. Chi non ammette questo ‘altro’ non ha né religione né religiosità, e l’ateo convinto, se esiste, non è nemmeno un vero ateo, ma una persona di poco cervello. ii. Religione e religiosità si richiamano reciprocamente : la prima senza la seconda è sterile o finta ; la seconda invece può stare e spesso sta senza la prima, ma non senza quello che è l’oggetto della prima : Dio e il divino. iii. I poeti, più dei filosofi, più dei maestri, più, talora degli stessi sacerdoti, in virtù della loro specifica vocazione alla bellezza che è felicità e pace, felicità nella pace e nell’amicizia, danno opera a prefigurare e ad affrettare, per quanto è loro possibile, l’unità tra tutti gli uomini religiosi dentro e fuori della Chiesa. iv. L’amore, tema poetico per eccellenza, è considerato tra i più potenti modi di manifestazione naturale del divino tra gli uomini, e di naturale percezione del divino da parte degli uomini. Naturalmente, l’amore inteso come rapporto erotico, non è che un aspetto particolare di quella più vasta realtà che è l’amore predicato dal Vangelo. Avendo io trattato solo del primo, non vorrei mi si fraintendesse circa il secondo. Manifestazione del divino e scala a Dio è anche e prima di tutto il dono disinteressato che si fa al proprio fratello bisognoso, anche se ci è estraneo, anche se ci è antipatico, anche se ci è nemico. Che se poi uno dà la vita per i propri fratelli, anche per lui si potrà dire quello che dice Saffo dell’amante – uso la versione di Catullo – « ille mi par esse deo videtur ». Solo che questa cosa è così alta e rara che sarei imbarazzato a dire che essa sia naturale. Diciamo allora che in essa già si realizza hic et nunc la caduta di ogni divisione : si tratti di madre Teresa o si tratti di un qualche disprezzato samaritano senz’altra precisa convinzione che quella che lo fa chinare sulle piaghe del fratello malconcio, la Chiesa degli ultimi tempi per essi è già, qui ed ora, tra noi.  











INTERTESTUALITÀ DANTESCHE NEL SEICENTO (I LINCEI, MARINO, ACCETTO) Erminia Ardissino

L

’opera di Dante sembra avere nel Seicento una vita carsica. Solo tre in Italia le edizioni del poema, 1 nessuna edizione italiana delle opere minori, anche se all’estero, nei paesi protestanti, il De monarchia viene pubblicato ripetutamente. 2 Scarsi i commenti, nessuno di rilievo storico, nessuna ampia discussione teorica sul valore della poesia dantesca, come invece troviamo nei secoli precedenti e nei successivi. 3 Tanto più sorprendente risulta questo disinteresse per il « poema sacro » se si considera l’abbondanza e il successo del genere all’epoca, ma tranne il Giudizio estremo di Toldo Costantini, 4 delle molte opere che esibiscono nel titolo lo stilema « poema sacro » nessuna sembra coltivare memoria del suo nobile precedente. Ma proprio questi dati ci aiutano a mettere a fuoco meglio la ragione dell’emarginazione di Dante, che fu certo letteraria, ma forse soprattutto religiosa. I dubbi e le controversie sulla sua ortodossia, che dal Medioevo raggiungono l’età moderna, non potevano non coinvolgere un’epoca tutta tesa verso la salvaguardia di una monolitica ortodossia. L’opera di Dante appare tanto inquietante e irriverente, da interessare la censura ecclesiastica, che infatti pone il trattato politico nell’indice dei libri proibiti. 5 Il disinteresse dell’editoria, del pubblico e dei teorici della letteratura non è pareggiato tuttavia da un’eguale apatia degli scrittori, che invece hanno continuato a leggere le opere di Dante e a usarle nella loro officina. 6 Recenti saggi hanno ancor meglio mostrato quanto la Divina Commedia fosse presente a poeti e scrittori, quanto fecondo il loro dialogare con le terzine dantesche. 7 Ulteriori prove della permanenza di Dante nelle letture, nel pensiero e nell’ispirazione degli scrittori del Seicento, vengono da intertestualità implicite o dichiarate con

un’opera minore, il Convivio, rimasto finora fuori del dibattito critico su Dante nel ’600. 8 Un primo tassello proviene da quella che fu l’istituzione più nuova e coraggiosa nel secolo, in Italia e all’estero, ovvero dall’Accademia dei Lincei, che, nata nel 1603 per opera di alcuni giovani, aveva l’ambizione di riformare gli studi e il sapere. Dopo anni di incerti successi, in effetti i Lincei riuscirono a incidere nella storia delle idee : furono loro i sostenitori appassionati del metodo galileiano e dello scienziato. Il discorso programmatico dell’Accademia, intitolato Del natural desiderio di sapere et institutione de’ Lincei per adempimento di esso, che il principe Federico Cesi, presentò ai soci, forse nell’adunanza del 26 gennaio 1616, il periodo più fulgido dell’istituzione, prende il via dalla considerazione sui problemi degli studi all’epoca. 9 Si chiede il Cesi :

1  Le edizioni sono le seguenti : La visione. Poema di Dante Alighieri, Padova, Leni, 1613 ; con lo stesso titolo nel 1629 esce sempre a Padova, presso D. Pasquardi e Compagni, e a Venezia, presso N. Misserini. La successiva edizione sarà nel 1702. Ricavo le informazioni da Giuliano Mambelli, Gli annali delle edizioni dantesche, Bologna, Zanichelli, 1931, pp. 55-57. 2   Le città delle edizioni del trattato politico sono : Basilea 1559 ; Strasburgo (Argentorati) 1566 e 1609 ; Offenbach 1610, tutte sono senza indicazioni tipografiche. Ancora Strasburgo 1618, presso Heredi L. Zetneri. 3   Sui commenti (il più significativo è quello di Federico Ubaldini) e sulle polemiche (la più fervida difesa è quella di Belisario Bulgarini) cfr. Umberto Bosco, Con Dante attraverso il Seicento, Firenze, La Nuova Italia, 1976 (1943), pp. 17-75. 4   Toldo Costantini, Giudizio estremo, Padova, S. Sardi, 1651. Su cui Umberto Bosco, Un imitatore di Dante nel Seicento : Toldo Costantini, in Idem, Con Dante attraverso il Seicento, cit., pp. 106-142. 5   Cfr. Umberto Bosco, Dubbi e controversie sull’ortodossia di Dante, in Idem, Con Dante attraverso il Seicento, cit., pp. 76-105 ; Index des livres interdits. Index de Rome 1590-1593-1596, a cura di Jesus Martinez De Bujanda, Génève, Centre d’Etudes de la Renaissance-Droz, 1994, p. 941 (indice del 1596). Ma già nel 1580 si trova tra i proibiti la voce “Monarchia volgare”, che fa pensare all’opera politica di Dante (ivi, p. 155). Cfr. Paget Toynbee, Dante and the Index, in Idem, Dante Studies, Oxford, Clarendon Press, 1921, pp. 111-112. 6   Si vedano gli storici saggi di Umberto Bosco, Con Dante attraverso il Seicento, cit. ; Giuseppe Tavani, Dante nel Seicento. Saggi su A. Guarini, N. Villano, L. Magalotti, Firenze, Olschki, 1976. 7   Cfr. Marco Arnaudo, Un inferno barocco : Dante, Stigliani, Marino e l’intertestualità, « Studi secenteschi », xlvii, 2006, pp. 89-104 ; Idem, Reminiscenze di Dante nei poemi epici del Seicento, « Seicento e Settecento », iii, 2008, pp. 107137 ; Teresa Bonaccorsi, Dante nella poesia di Tommaso Campanella. Citazione, riuso, innovazione, « Lettere italiane », lx, 4, 2008, pp. 581-622 ; Enzo Noè Girardi, Dante nel pensiero e nella poesia di Campanella, « Critica letteraria », xxx, 115-116, 2002, pp. 423-440.

Il discorso, tenuto forse alla presenza di Galileo, è la più esplicita dichiarazione di intenti e di metodi dei Lincei. Ma prima di avanzare nuove proposte, Cesi mette a fuoco gli aspetti negativi degli studi ai suoi tempi. Disgusto per la fatica e desiderio di guadagno sarebbero i due mali che per Cesi ottenebrano la ricerca del vero sapere. In queste righe, come in tutto il discorso, non è menzionato Dante quando invece più avanti sono ripetutamente citati poeti latini come Ovidio e Orazio. La conoscenza filologica è infatti, con quella matematica, ritenuta dai Lincei uno dei punti di forza del nuovo sapere. Ma il passo appare straordinariamente prossimo all’avvio del Convivio, il trattato filosofico di Dante, più che per dei precisi prestiti, per la sua impostazione. Così inizia il trattato di Dante :





















































Se in ciascuno è nato il desiderio di sapere, se nodrido dalla nobiltà e dignità dell’oggetto, fomentato dal diletto che porge, accresciuto dall’utile e dalla perfettione compita che evidentemente vien sempre apportando in qualsivoglia grado, conditione ed essercitio che sia fra gl’huomini, anzi se è notissimo che il sapere è proprio dell’huomo tra tutti i viventi et che a questo egli ha la ragione, né vi è altro uso di quella né più sublime operatione che quella dell’intelletto, onde diremo che venga che così pochi, in numero sì grande, così rari siano che arrivino non pur alla perfetione del sapere e compìto adempimento di questo affetto innato, ma né anco a sodisfare a qualche particella d’esso, ottenendo pur alcuna notizia o scienza particolare ? Sarà vana la natural inclinatione ? Sarà impedito il servirsi della ragione da Dio donataci nello stesso rivolversi a valersi di essa ? Che incolparemo ? La parte de gli huomini per fiacchezza in affetto sì principale, o per debolezza e trascuraggine nell’esecutione d’esso, o pur la parte della cosa desiderata per difficultà grande che accosti all’impossibile, per scarsezza di mezzi, di modi, di requisiti ? Confessiamo primieramente che ad un istesso parto con sì degna inclinatione (se però non precede ancora) insorge in noi l’odio della fatiga. 10  











Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li 8   Il trattato filosofico era stato edito già nel 1490, poi uscì nel 1521, 1529, 1531. Si registra quindi un’assenza di quasi due secoli, perché la successiva edizione è del 1723. Cfr. Giuliano Mambelli, Gli annali delle edizioni dantesche, cit., pp. 258-259. 9   Il discorso si legge in Federico Cesi, Opere scelte, a cura di Carlo Vinti, Antonio Allegra, Perugia, EFFE Fabrizio Fabbri Editore, 2003, pp. 21-56. Per la datazione Maria Luisa Altieri Biagi, Bruno Basile, Nota introduttiva a Federico Cesi, Del natural desiderio di sapere et institutione dei Lincei per adempimento di esso, in Scienziati del Seicento, a cura di Maria Luisa Altieri Biagi, Bruno Basile, Napoli-Milano, Ricciardi, 1980, pp. 3-8. 10   Federico Cesi, Opere scelte, cit., p. 21.

intertestualità dantesche nel seicento (i lincei, marino, accetto) uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere ed è che ciascuna cosa, da providenza di propria natura impinta, è inclinabile a la sua propria perfezione ; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti. Veramente da questa nobilissima perfezione molti sono privati per diverse cagioni, che dentro a l’uomo e di fuori da esso lui rimovono da l’abito di scienza. Dentro da l’uomo possono essere due difetti e impedimenti : l’uno da la parte del corpo, l’altro da la parte de l’anima. Da la parte del corpo è quando le parti sono indebitamente disposte, sì che nulla ricevere può, sì come sono sordi e muti e loro simili. Da la parte de l’anima è quando la malizia vince in essa, sì che si fa seguitatrice di viziose delettazioni, ne le quali riceve tanto inganno che per quelle ogni cosa tiene a vile. Di fuori da l’uomo possono essere similmente due cagioni intese, l’una de le quali è induttrice di necessitade, l’altra di pigrizia. La prima è la cura familiare e civile, la quale convenevolemente a sé tiene de li uomini lo maggior numero, sì che in ozio di speculazione esser non possono. L’altra è lo difetto del luogo dove la persona è nata e nutrita, che tal ora sarà da ogni studio non solamente privato, ma da gente studiosa lontano. 1  



Ovviamente ambedue i testi dipendono, in modo dichiarato per Dante e in modo implicito per Cesi, dall’incipit di un archetipo filosofico, la Metafisica di Aristotele (i, 1, 980a), dove si afferma che « Tutti gli uomini sono protesi per natura alla conoscenza ». 2 Dunque le somiglianze fra il passo cesiano e quello dantesco potrebbero derivare dalla comune fonte. Tuttavia, mentre Aristotele non si pone questioni sugli impedimenti alla soddisfazione di questo istinto, Cesi, come già Dante, pone molta attenzione alla considerazione degli ostacoli al sapere. Le somiglianze tra le parti incipitarie del Discorso del Cesi e del Convivio sono tenui e non provano una dipendenza diretta, ma potrà essere di conforto all’ipotesi di un’ispirazione dantesca, come stimolo alla scrittura cesiana, il sapere che nella biblioteca del Cesi vi era una copia del trattato dantesco. Il catalogo cumulativo ricavato dal manoscritto Archivio Linceo xxxii riporta alla carta 53 la voce « L’amoroso convivio di Dante con l’additione, et molti suoi notandi Ven : 1531 », con cui è indicata l’edizione veneziana del 1531. 3 Il trattato dunque poteva essere giunto sotto gli occhi attenti e curiosi del giovane Cesi, che nella biblioteca aveva altre opere di Dante. 4 Ma se questa ipotesi è assai tenue, un poco più fondata può apparire la somiglianza di alcune tesi del primo trattato del Convivio con una pagina galileiana. Si tratta di una lettera indirizzata dallo scienziato all’amico padovano Paolo Gualdo e datata 16 giugno 1612, in cui si giustifica la scelta del volgare come veicolo linguistico per l’Istoria e dimostrazione sulle macchie solari e loro accidenti. Destinate al tedesco Mark Welser, che peraltro conosceva bene l’italiano, le lettere solari implicavano però un lettore nascosto, quell’Apelles latens post tabulam, pseudonimo dell’autore del De maculis solaribus, che aveva causato la scrittura galileiana. Colui che si nascondeva dietro lo pseudonimo era il gesuita Christopher Scheiner, che non conosceva l’italiano e si era lamentato perciò con il Welser di aver bisogno di un interprete per leggere gli scritti di Galileo. 5  









1   Dante, Convivio, in Idem, Opere minori, a cura di Cesare Vasoli, Domenico De Robertis, Milano-Napoli, Ricciardi, 1995, i, i, 4 (di seguito indicato con la sigla Cn). 2   Aristotele, Metafisica, trad. it. a cura di Antonino Russo, Bari, Laterza, 1990, p. 3. 3   L’edizione del 1531 (Venezia, Sessa) porta infatti, come le precedenti, il titolo L’amoroso convivio di Dante con la additione et molti suoi notandi, accuratamente revisto et emendato. Cfr. Maria Teresa Biagetti, La biblioteca di Federico Cesi, Roma, Bulzoni, 2008, p. 214. 4   Possedeva due edizioni della Commedia, una con il commento di Alessandro Vellutello datata 1544, l’altra edita a Lione nel 1547 (Maria Teresa Biagetti, La biblioteca di Federico Cesi, cit., pp. 219 e 348) ; aveva il De vulgari eloquentia del 1529 (ivi, p. 194) e ancora la Quaestio de acqua et terra, in un volume miscellaneo (Napoli, 1576); ivi, p. 370. 5   Cfr. la lettera di Mark Welser a Galileo del 1 giugno 1612 in Galileo Galilei, Le opere, xi, a cura di Antonio Favaro, Firenze, Giunti-Barbera, 1968 (1890-1909), pp. 253-254.  

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Doveva parere alquanto improprio che delle lettere destinate a un pubblico di scienziati internazionale non fossero scritte in latino, lingua accademica che Galileo aveva ancora pochi anni prima usato per il Sidereus Nuncius. Quello che a noi importa è che Galileo proponga al Gualdo una motivazione che, più che dei destinatari, ipotetici lettori, tiene conto di coloro che non possono in Italia leggere il latino e non hanno quindi accesso al sapere. Scrive Galileo :  

Ho ricevuto dal S. Velsero avviso come la mia gl’è pervenuta, e che gl’è stata grata, ma che Apelle per ora non potrà vederla, per non intender la lingua. Io l’ho scritta vulgare perché ho bisogno che ogni persona la possi leggere, e per questo medesimo rispetto ho scritto nel medesimo idioma questo ultimo mio trattatello : 6 e la ragione, che mi muove, è il vedere, che mandandosi per gli Studii indifferentemente i gioveni per farsi medici, filosofi etc., sì come molti si applicano a tali professioni essendovi inettissimi, così altri, che sariano atti, restano occupati o nelle cure familiari o in altre occupazioni aliene dalla litteratura, li quali poi, benché, come dice Ruzzante, forniti d’un bon snaturale, 7 tutta via, non potendo vedere le cose scritte in baos, 8 si vanno persuadendo che in que’ slibrazzon gh’è suppie de gran noelle de luorica e de filuorica, e conse purassè che strapasse in elto purassè ; 9 ed io voglio ch’e’ vegghino che la natura, sì come gl’ha dati gl’occhi per veder l’opere sue così bene come a i filuorichi, 10 gli ha anco dato il cervello da poterle intendere e capire. 11  



Se nel passo risaltano soprattutto le espressioni in pavano, appare tuttavia evidente che Galileo usa motivazioni simili a quelle che Dante portava per la sua scelta del volgare nella scrittura filosofica. Tra le molte articolate giustificazioni che egli offre vi è la ripetutta preoccupazione che il latino non servisse che ai letterati. Si legge nel Convivio :  

E lo latino non l’averebbe esposte se non a’ litterati, ché li altri non l’averebbero inteso. Onde con ciò sia cosa che molti più siano quelli che desiderano intendere quelle [canzoni] non litterati che litterati, seguitasi che non avrebbe pieno lo suo comandamento come ‘l volgare, che da li litterati e non litterati è inteso. […] Tornando dunque al principale proposito, dico che manifestamente si può vedere come lo latino averebbe a pochi dato lo suo beneficio, ma lo volgare servirà veramente a molti. Ché la bontà de l’animo, la quale questo servigio attende, è in coloro che per malvagia disusanza del mondo hanno lasciata la litteratura a coloro che l’hanno fatta di donna meretrice. (Cn i, vii, 12 e i, ix, 4-5).

È ben nota la familiarità di Galileo con l’opera di Dante, di cui aveva commentato geometricamente l’Inferno e i cui sintagmi o parti di verso egli usa come suo proprio patrimonio linguistico anche nelle opere scientifiche. 12 Le motivazioni portate nella lettera da Galileo a giustificazione del volgare per una trattazione filosofica, perché di filosofia oltre che di scienza si tratta nelle lettere sulle macchie solari, sono assai prossime a quelle di Dante, riconducendo anche lo scienziato il mancato impegno a impedimenti familiari, a quella « cura familiare e civile » di cui si parlava nel già citato passo di Convivio i, i, 4.  



6   Galileo Galilei, Discorso […] intorno alle cose che stanno in su l’acqua e che in quella si muovono, Firenze, C. Giusti, 1612. 7   ‘Buona tempra’. L’espressione è usata da Ruzante in La Moscheta. Ruzante, Teatro, a cura di Lodovico Zorzi, Torino, Einaudi, 1967, p. 585. 8   Indica il latino della filosofia tradizionale. 9   « In quei libracci vi siano di gran nozioni di logica e di filosofia, e che molto si salga in alto per esse ». Le parole in dialetto pavano sono in parte citazioni dal prologo della Betìa del Ruzzante, ove si legge « N’hetu fato Missier Fra Ruberto, che è stò sì gran sletràn de luòrica, filuòrica, teluòrica, smatafisica ? » (« Non hai tu fatto Messer Fra Roberto, che è stato sì gran letterato in logica, filosofia, teologia e metafisica ? »), Ruzante, Prologo per le recite in 10   Filosofi. Pavana, in Idem, Teatro, cit., p. 155. 11   Galileo Galilei, Le opere, xi, cit., pp. 271-272. 12   Cfr. Galileo Galilei, Due lezioni all’Accademia fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell’inferno di Dante, in Idem, Opere, ix, cit., pp. 29-57 ; su cui Alfredo Cottignoli, Galileo lettore di Dante, « Studi e problemi di critica testuale », lxiv, 1, 2002, pp. 83-91 ; Matteo Motolese, Misurare l’invisibile. Appunti sulle lezioni galileiane circa la figura, sito e grandezza dell’inferno di Dante, in Scrittori in cattedra. La forma della ‘lezione’ dalle Origini al Novecento, a cura di Floriana Calitti, Roma, Bulzoni, 2002, pp. 79-103.  





   



   









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Si può supporre che Galileo, ottimo conoscitore del poema, fosse anche familiare con altre opere dantesche, sebbene nella sua biblioteca il trattato filosofico non fosse presente.1 Si aggiunga che, proprio a conclusione della prima delle lettere solari, Galileo illustra come per la sua scelta linguistica gli paia « che Firenze estenda i suoi confini, anzi il recinto delle sue mura, sino ad Augusta ». 2 Lo scienziato, dal 1605 anche Accademico della Crusca, mostra così un certo interesse per la sorte del fiorentino, anche se la sua confessione non è certo pari al dichiarato amore di Dante per « lo nostro volgare, lo qual naturalmente e accidentalmente amo e ho amato » (Cn i, x, 6). Ma se anche questa appare un’intertestualità non certissima, nessun dubbio ci può essere invece sul quasi contemporaneo uso del Convivio da parte di un poeta che potrebbe sembrare assai alieno dalla scrittura filosofica del trattato lasciato da Dante incompiuto : Giambattista Marino. Sappiamo bene della sua attenzione famelica alle più strane letture, del « rampino » con cui dichiarava di leggere i testi altrui e usarli come fonte per le proprie scritture. 3 Il poema di Dante è tra i testi presenti nel gigantesco poema sull’Adone. 4 Meno noto però, anche se dichiarato dallo stesso autore tra le sue fonti a margine della prima edizione, è l’uso di un passo del Convivio in una delle sue Dicerie sacre. 5 Si tratta della diceria seconda, La musica, sulle sette parole di Cristo in Croce. Quasi alla fine della prima parte, nel discorso in esaltazione della musica, termine metaforico appunto per il lamento di Cristo morente, volendo affermare la superiorità di questa arte in confronto alle altre discipline liberali, Marino riporta assai fedelmente l’attribuzione di ciascuna delle arti alle sfere celesti, che Dante propone nel secondo trattato della sua opera. Scrive il Marino : 6  















E queste, comunque si dicano, arti o facoltà, sono ancora tutte all’ordine ed al numero de’ Cieli rispondenti. Risponde la Grammatica alla Luna perché siccome quella è in parte ombrosa per la rarità del suo corpo e muta il lume or da un lato or da un altro, secondo che ‘l Sole la vede, così quella per la sua infinità non termina i raggi della ragione, almeno nella parte de’ vocaboli, e va l’uso delle voci d’uno in un altro variando. 7 Risponde la dialettica a Mercurio, perché siccome quello è la più picciola stella tra l’erranti e va più d’ogni altra velata de’ raggi del Sole, così questa è minore in suo corpo d’ogni altra scienza, perfettamente compilata, ed anche più fosca, in quanto con più sofistici argomenti procede. 8 Risponde la ritorica a Venere,

perché sicome quella ha l’aspetto chiaro, sereno e più d’alcun altro pianeta al vedere dilettevole, ed oltracciò appare all’apparire e disparire del giorno, così questa è sopra tutte l’altre professioni soave all’udire, e con la luce mattutina delle parole colorate rende benevolo, e con la vespertina delle ragioni argute rende docile l’uditore. 9 Risponde l’aritmetica al Sole perché sicome quello tutte l’altre stelle illumina, ed è sì lucido che la vista non vi si può fermare, così questa dà lume a tutte l’altre discipline, i cui soggetti tutti sotto alcun numero consistono, e di più abbaglia l’occhio dell’intelletto, perché il numero per sé considerato è infinito. 10 Risponde la musica a Marte, perché sicome quello da qualunque sfera mobile si cominci o dall’infima o dalla somma, è il mezo, ed è pianeta acceso il cui calore arde e dissecca le cose a guisa di fuoco, onde tira in alto le impressioni aduste, così questa è tutta (come diremo) di belle relazioni piena, e, quasi vapori del cuore, trae a sé gli spiriti umani quando l’ascoltano. 11 Risponde la geometria a Giove, perché sicome quello è stella di temperata complessione in mezo al calore di Marte ed alla freddura di Saturno, e fra tutte l’altre bianca si dimostra, quasi d’argento, così questa fra due cose ad essa ripugnanti si versa, cioè tra ‘l punto ed il cerchio, essendo l’uno per la sua indivisibilità immisurabile e l’altro per lo suo arco impossibile a quadrare, ed è ancora candidissima, non avendo in sé macchia alcuna d’errore, come quella che rischiara le sue prove con dimostrazioni certe e reali. 12 Risponde finalmente l’astrologia a Saturno, perché sicome quello è di tutti gli altri giri il più alto e di tardo movimento, così questa è altissima per la nobiltà del suo suggetto ch’è il Cielo, e per la difficoltà de’ suoi giudizi richiede più d’ogni altra dottrina lungo spazio di tempo. 13

Marino si limita a registrare il confronto fra le sette arti del Trivio e del Quadrivio e i sette corpi celesti che, secondo l’ordine aristotelico-tolemaico, circondano la Terra : Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno, senza tener conto delle successive comparazioni che Dante pone tra fisica e metafisica e il cielo delle Stelle Fisse, tra morale filosofia e il Primo Mobile, tra teologia e l’Empireo. Il mancato proseguimento sulla traccia dantesca, seguìta prima fedelmente, può essere semplicemente dovuto al fatto che il sette, non il  

raggi del Sole che null’altra stella » (Cn ii, xiii, 11-12). Marino ignora la misurazione del diametro di Mercurio derivata da Alfragano, ma come Dante considera la dialettica scienza minore e « velata », poiché procede « con più sofistici e probabili argomenti che ogni altra ». 9   « E lo cielo di Venere si può comparare a la Rettorica per due proprietadi : l’una si è la chiarezza del suo aspetto, che è soavissima a vedere più che altra stella ; l’altra si è la sua apparenza, or da mane or da sera » (Cn ii, xiii, 13-14). Anche Dante aveva diviso le influenze della retorica tra mattina e sera, ma secondo i trattati di retorica medievale riconduceva la differenza alle due modalità del parlare : in presenza e in assenza per lettera. Inoltre diceva che è « soavissima di tutte le altre scienze ». 10   Le proprietà del Sole sono per Dante : «L’una si è che del suo lume tutte l’altre stelle s’informano ; l’altra si è che l’occhio nol può mirare» (Cn ii, xiii, 15-19). E ancora « del suo lume [aritmetica] tutte s’illuminano le scienze, però che li loro subietti sono tutti sotto alcuni numeri considerati […]. […] ‘l numero, quant’è in sé considerato, è infinito ». Marino ignora la lunga e complessa esposizione dantesca sui rapporti tra scienza naturale e aritmetica. 11   Le due proprietà che Dante attribuisce a Marte per paragonarlo alla musica sono appunto : l’essere al centro dei cieli e il fatto che « dissecca e arde le cose » (Cn ii, xiii, 20-24). Per Dante il cielo di Marte era il quinto di dieci cieli. Per Marino le stelle elencate sono solo sette, dunque questa proprietà di Marte presuppone che si tenga conto dei cieli elencati da Dante e ignorati da Marino, non altrimenti menzionati. Il rapporto di intertestualità è essenziale alla giustificazione del passo. Marino poi ignora anche il discorso sui vapori di Marte, che Dante deriva da Aristotele e Seneca. 12   Marino inverte il modo in cui Dante espone le due proprietà di Giove che lo rendono paragonbile alla geometria : « l’una è che muove tra due cieli repugnanti a la sua buona temperanza, sì come quello di Marte e quello di Saturno ; onde Tolomeo dice, ne lo allegato libro, che Giove è stella di temperata complessione, in mezzo de la freddura di Saturno e de lo calore di Marte. L’altra sì è che intra tutte le stelle bianca si mostra, quasi argentata ». (Cn ii, xiii, 25-27). Interessante l’omissione dei riferimenti a Tolomeo. Le qualità della geometria sono molto riassunte, ma rispecchiano quelle di Dante. 13   Dante così dice delle due proprietà di Saturno : « l’una sì è la tardezza del suo movimento per i dodici segni, ché ventinove anni e più, secondo le scritture de li astrologi, vuole di tempo lo suo cerchio ; l’altra sì è che sopra tutti li altri pianeti esso è alto ». Anche qui Marino evita le determinazioni desunte da Alfragano per il tempo necessario a percorrere la sua orbita. Anche quanto Dante espone sulle caratteristiche dell’astrologia è molto riassunto, sebbene fedelmente (Cn ii, xiii, 28-30).  















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  Antonio Favaro, La libreria di Galileo Galilei, Roma, Tipografia delle Scienze Matematiche e Fisiche, 1887, p. 61. Galileo possedeva l’edizione della Commedia con il commento del Landino (Venezia, Scoto da Monza, 1484), quella con il commento di Alessandro Vellutello (Venezia, F. Marcolini, 1544), e un’edizione intitolata Commedia di Dante insieme con un dialogo circa al sito, forma et misura dello inferno (Firenze, F. Giunta, 1506). 2   Galileo Galilei, Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, in Idem, Opere, v, cit., p. 189. 3   Cfr. Giovan Battista Marino, Lettere, a cura di Marziano Guglielminetti, Torino, Einaudi, 1966, p. 249. 4   Cfr. Marco Corradini, Marino e Dante, in Il centro e il cerchio. Atti del convegno (Brescia 30-31 ottobre 2009), a cura di Cristina Cappelletti, xxxii, 6162, 2011, pp. 263-284. 5   Giovan Battista Marino, Dicerie sacre e la strage de gl’Innocenti, a cura di Giovanni Pozzi, Torino, Einaudi, 1960. L’informazione è riportata senza commento dal moderno editore, Giovanni Pozzi (p. 240). 6   Giovan Battista Marino, Dicerie sacre, cit., pp. 240-242. 7   Non possiamo qui riportare tutto il capitolo xiii del secondo trattato di Dante, esposto ancora a commento dell’incipit della canzone : Voi ch’intendendo il terzo ciel movete. Riportiamo però le parti di cui Marino tiene conto. Per la Luna si legge : « Dico che ‘l cielo de la Luna con la Gramatica si somiglia, perché ad esso si può comparare [per due proprietadi]. Che se la Luna si guarda bene, due cose si veggiono in essa proprie, che non si veggiono ne l’altre stelle. L’una si è che l’ombra che è in essa, la quale non è altro che raritade del suo corpo, a la quale non possono terminare li raggi del Sole e ripercuotersi così come ne l’altre parti ; l’altra si è la variazione de la sua luminositade, che ora luce da uno lato, e ora luce da uno altro, secondo che lo sole la vede ». Anche Dante rapporta queste qualità alle fluttuazioni della grammatica nel lessico, morfologia, sintassi (« certi vocabuli, certe declinazioni, certe costruzioni sono in uso che già non furono, e molte già furono che ancor saranno »; Cn ii, xiii, 9-10. 8   « Mercurio è la più piccola stella del cielo […]. […] più va velata de li  





















































intertestualità dantesche nel seicento (i lincei, marino, accetto) nove, è il numero ricorrente e simbolico della diceria (sette le canne della siringa di Pan, figura di Cristo, da cui prende il via l’orazione, come sette le parole espresse dalla croce, di cui si tratta). Quindi gli ultimi cieli e le ultime scienze non interesserebbero il tema della diceria e il suo autore per una mera ragione numerologica. Si vorrebbe attribuire questo disinteresse a motivi più complessi, per esempio al rifiuto di una concezione artistotelica dell’universo, con un Primo Mobile e un Empireo fisicamente collocati dopo i sette cieli. Il Marino, che, come si sa, nell’Adone loda Galileo e lo strumento delle sue scoperte, 1 poteva ben essere venuto a conoscenza almeno del Sidereus nuncius, uscito a Venezia nel marzo 1610. Ma le affermazioni sull’ombrosità della Luna, che restano fedeli all’ipotesi della rarità o densità del suo corpo, non solo non tengono conto del mutamento delle teorie dantesche esposte in Par ii, 58, dove la causa è ricondotta a « formal principio », ma escludono ogni ipotesi di conoscenza del Sidereus nuncius, dove la descrizione della superficie lunare è di un tale fascino e convinzione che non sembra potesse essere ignorata nella composizione di questa prosa. L’arretratezza astronomica di Marino non è di poco interesse, perché questo relitto di un’astrologia e una filosofia che stavano per essere scalzate confermano una precoce stesura di questa parte della diceria o comunque una tarda consapevolezza delle novità che egli così felicemente invece accoglie nella sua poesia. Le Dicerie escono nel 1614. Per La musica si ipotizza una stesura in più tempi. 2 Potrebbe essere stata iniziata già nel soggiorno ravennate, quando Marino, al servizio di Pietro Aldobrandini, arcivescovo della città, vi si era trasferito (1606). Qui certamente era venuto a contatto con l’obbligo di predicazione, il « praecipuum episcoporum munus » nella riforma cattolica, e con le memorie dantesche della città che risultano in questa eccentrica pagina. 3 Anche se Marino rielabora (sintetizzando) il trattato dantesco, è sorprendente la stretta dipendenza di un così lungo passo. Il poeta cita in altre occasioni Dante (ben tre versi dell’episodio del conte Ugolino da Inf xxxiii, 61-63) e deriva dalla Difesa di Dante di Mazzoni persino la lettura dell’episodio di Ulisse e Circe, ricavandone una citazione di Ammonio. Egli si mostra così lettore non solo del poema maggiore, ma anche delle opere minori e della critica contemporanea. 4 Certo la sosta a Ravenna deve aver avuto un qualche peso nella scelta di letture relative al poeta fiorentino, anche se l’interesse per Dante doveva essere parte della sua formazione, soggetta all’influsso di Tasso, che leggeva Mazzoni e postillava ripetutamente Dante. Non dal Convivio, ma dal poema attinge invece ricorrentemente Torquato Accetto per il suo brevissimo ma denso trattato Della dissimulazione onesta, una pietra miliare della letteratura secentesca. Poco si sa della sua composizione e pochissimo del suo autore, 5 ma evidentemente egli mostra quella passione per i versi di Dante che lo accomuna ad altri  







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autori del Seicento, specie meridionali. Nell’economia del libretto la parola dantesca ha un notevole peso. Già nel terzo capitoletto dell’opera : Non è mai lecito di abbandonar la verità, l’autore si appoggia alla terzina di Inf xvi, 124-126, dove Dante, nel prepararsi a parlare di Gerione, « sozza imagine » della frode, per parere verosimile mette in guardia il lettore contro il suo stesso racconto. La straordinaria figura necessita appunto di un preventivo avviso, che si risolve in una frase gnomica, sulla veridicità del racconto che il poeta sta per proporre :  







sempre a quel ver c’ha faccia di menzogna de’ l’uom chiuder le labbra fin ch’el puote, però che sanza colpa fa vergogna ;  

Dante precede la descrizione del mostro in arrivo, giurando al lettore sulla sua ‘comedia’, dunque su quanto ha di più caro, che la stranezza di ciò che ha visto è verità. Il mostro si presenta con la « faccia d’uom giusto », con « benigna […] pelle », ma è « fiera » che « tutto il mondo appuzza ». Rappresenta tutte le frodi che saranno punite nei due ultimi gironi. Il suo corpo di « serpente » è emblematico della frode originale, da cui dipendono tutti i mali della storia. Dante non solo vuol convincere il lettore che fu vero quel che può apparire falso, ma vuole indicare soprattutto l’ambigua condizione della verità, quando corre il pericolo di non essere creduta. Accetto, che fa dell’ambiguità la base del suo trattato, coglie il suggerimento che gli viene da Dante e ribadisce che mai si deve « permetter che della menzogna (considerata secondo se stessa) appena un neo si lasci veder nella faccia dell’umana corrispondenza ; e di più, quando il vero non par di esser vero, convien di tacere ». 6 L’autorità di Dante è sufficiente per avvalorare il rifiuto della falsità, che Accetto ha appena definito « il vacuo della favella e del pensiero ». La terzina portata a prova è citata però, nota il moderno editore, a memoria, tanto che occorre correggere il primo dei tre versi. 7 La citazione a memoria indica una grande familiarità dell’autore con il testo dantesco, una familiarità che si vede anche subito di seguito per l’affermazione : « e dico che ciò [lo spazio dell’equivoco, ovvero della dissimulazione] avviene fuor di sé, perché niuno, il qual non abbia perduto il bene dell’intelletto, ha persuaso se stesso al contrario del suo concetto che sia da lui appreso con la ragion in atto », in cui spicca la dantesca espressione ‘perdere’ « il ben dell’intelletto » di Inf v, 18, che fa impennare la densa prosa di Accetto, lasciando al lettore anche l’impressione di smarrimento del mondo dei dannati. 8 La parola dantesca è parte del lessico dell’Accetto anche in alcuni passi del secondo capitolo, dove si parla di Dio come « verità medesima », da cui derivano tutte le cose e a cui ritornano «le sostanzie, gli accidenti e le loro operazioni», che sembra riprendere esattamente, pur con una leggera variatio, dal verso di Par xxxiii, 88 : « sustanze e accidenti e lor costume ». 9 A questa intertestualità ne fa eco poco oltre un’altra nella frase « in quella prima luce che tanto si leva dai concetti mortali, internandosi nel suo profondo, con nodo d’amore, tutto che si spande per l’universo », che mette insieme i « concetti mortali » dell’invocazione (Par xxxiii, 69) con la terzina della visione « nel suo profondo vidi che s’interna, / legato con amore in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna » (Par xxxiii, 85-87). La vicinanza di queste reminiscenze, tutte dall’ultimo canto del Paradiso, rende più evidente la dipendenza di Accetto dal lessico di Dante.  



















































1   Giovan Battista Marino, Adone, a cura di Giovanni Pozzi, Milano, Mondadori, 1976, x, 42-46 e Idem, La galeria, i, a cura di Marzio Pieri, Padova, Liviana, 1979, 159. Cfr. Andrea Battistini, Il cannocchiale nell’immaginario barocco e Due esploratori a confronto, in Idem, Galileo e i gesuiti. Miti letterari e retorica della scienza, Milano, Vita e Pensiero, 2000, pp. 15-85. 2   Cfr. Giovanni Pozzi, Introduzione, in Giovan Battista Marino, Dicerie sacre, cit., pp. 22-30 ; Emilio Russo, Marino, Roma, Salerno, 2008, p. 120 ; mi permetto di rimandare anche al mio Le dicerie sacre del Marino e la predicazione del Seicento, in Marino e il Barocco. Da Napoli a Parigi. Convegno Internazionale di Studi (Università di Basilea, 8-10 giugno 2007), a cura di Emilio Russo, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2008, pp. 167-168. 3   Su Marino a Ravenna : Emilio Russo, Marino, cit., pp. 24-32. 4   Giovan Battista Marino, Dicerie sacre, cit., pp. 362 e 123. 5   Rimando alla nota biografica di Salvatore Silvano Nigro, in Torquato Accetto, Della dissimulazione onesta, a cura di Salvatore Silvano Nigro, Torino, Einaudi, 1997, pp. xxxviii-xl. Sull’opera si veda ora lo studio di John Snyder, Dissimulation and the Culture of Secrecy in Early Modern Europe, Los Angeles, California University Press, 2009, pp. 27-67.  















6

  Torquato Accetto, Della dissimulazione onesta, cit., p. 15.   Così scrive Accetto : « a quel vero c’ha faccia di menzogna / dee l’uom chiuder le labbra quant’ei puote, / però che senza colpa fa vergogna ». Ibidem. 8   Questa sola intertestualità è indicata nelle note della moderna edizione, non le successive. Ivi, p. 16. 9   Ivi, p. 12. Da qui anche la successiva citazione. 7







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Allo stesso modo nel capitolo xvii si sente l’eco della parola dantesca nell’affermazione : « L’ordine è forma che fa il tutto simigliante a Dio, che lo creò e lo serba col dono della sua providenza, la qual per lo gran mar de l’essere ogni cosa conduce con prospero viaggio », che unisce Par i, 102-105 con Par i, 112-113. E ancora si avverte nell’espressione « ricever per giusto quanto consòna alla volontà di Dio », che riprende Par xix, 88 : « cotanto è giusto quanto a lei consuona », detto nel cielo di Giove per connotare la giustizia divina. 1 Anche l’espressione : « giudizio divino che per tutto va penetrando » richiama Par i, 1-2 : « La gloria di colui che tutto move, / per l’universo penetra e risplende ». 2 Il linguaggio di Accetto è forgiato dunque con la parola di Dante, dimostrando, per il suo autore una grande familiarità e una diuturna lettura, che poi ingemmano la prosa sapida del suo trattato. Dichiarate sono invece altre due citazioni dantesche. La prima è accompagnata da due versi di Petrarca ed è espressa quando si tratta del « vero valor », con cui l’essere umano guadagna la fama oltre la morte. Scrive Accetto :  































Di notevole ampiezza è invece la citazione nel capitolo Della disposizione naturale a poter dissimulare, che riprende ampiamente il discorso di Marco Lombardo in Purg xvi sul libero arbitrio (versi 67-81). 4 Accetto fa sua la dimostrazione offerta da Dante sulla responsabilità attribuita al singolo, nonostante l’esistenza di disposizioni naturali. Nell’economia del capitolo una buona metà è assegnata ai versi, attribuendo l’autore la sua scelta al fatto che il principio fu « leggiadramente espresso da Dante ». Se queste sono le intertestualità dantesche di eccellenza, l’indagine in un autore decisamente marginale regala qualche sorpresa. Scorrendo l’Arte di predicar bene di Paolo Aresi scopriamo non solo la frequenza delle citazioni dalla Commedia, 5 ma anche che gli erano presenti le sue rime. Nel distinguere la metafora dall’allegoria, Aresi porta l’esempio della canzone Al poco giorno et al gran cerchio d’ombra :  





L’allegoria dunque è una Metafora continuata in tutta una sentenza o periodo, come quella di Dante in una sestina :  



perché il vero valor è che fa per fama gli uomini immortali, come disse il Petrarca ; e prima di lui Dante :  



vedi se far si dee l’uomo eccellente sì ch’altra vita la prima relinqua. 3

I versi di Dante sono parte del discorso di Cunizza da Romano (Par ix, 41-42), che nel presentare il poeta Folchetto di Marsiglia, ne preannuncia la fama. Come Petrarca nel sonetto a Pandolfo Malatesta (Rerum vulgarium fragmenta, civ) assegna al « nostro studio » (gli studi storici e poetici) la capacità di eternare un nome, così per Dante la poesia fa « l’uomo eccellente ». La ripresa dei due poeti è inserita da Accetto nella riflessione relativa al modo di superare l’amarezza che prova chi si vede « quasi seppellito vivo », pur essendo di « eccellente virtù », mentre gloria terrena viene tributata all’ignoranza, come si vede spesso nelle corti.  















1

  Ivi, p. 49.

2

  Ivi, p. 50.

3

  Ivi, p. 52.

Al poco giorno et al gran cerchio d’ombra Son gionto lasso al biancheggiar de’ colli. Significando per queste parole, esser egli giunto alla vecchiezza e aver già il capo canuto. 6

Anche se l’Aresi mostra di non accordarsi col significato di allegoria che Dante propone, 7 la citazione prova che tutta l’opera di Dante raggiunge il lettore attento nel Seicento, nonostante lo scarso impegno dell’editoria nei suoi confronti. 4

  Ivi, p. 24.   Paolo Aresi, Arte di predicar bene, Venezia, Ciotti, 1610. A p. 405 cita da Par i, 21 ; p. 479 da Par xxxii, 113-114 ; p. 480 da Inf xxxiv, 7-10 ; p. 536 da Inf i, 36 ; p. 575 da Par xx, 108-109 ; p. 615 da Purg i, 118. 6   Paolo Aresi, Arte di predicar bene, cit., p. 389. Cfr. Dante, Rime, a cura di Domenico De Robertis, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2005, pp. 103-110. Le rime di Dante erano state edite nel 1518 (Rime e madrigali di Dante, Milano, A. de Vimercate), e nelle raccolte miscellanee : Rime antiche, Venezia, Guglielmo da Monferraro, 1518 ; Sonetti e canzoni di diversi antichi autori toscani, Firenze, Giunta, 1527 ; Rime antiche, Venezia, A. e fratelli Sabio, 1532. 7   Se non poteva essergli nota l’epistola a Cangrande, che ebbe la prima edizione nel 1700 (Pistola latina […] al Cangrande, Venezia, G. Albrizzi), poteva avere a disposizione quella offerta nel Convivio. 5

















L’ATTORE ITALIANO sei-settecentesco. IL CONTRIBUTO DI PIETRO COTTA tra testo e scena Gaetano Oliva

I

n Italia a partire dalla seconda metà del Seicento il teatro delle maschere era diventato sempre più inadeguato a riflettere una realtà sociale in movimento. Da un lato nelle rappresentazioni delle compagnie più quotate l’elemento colto e serio tendeva a prevalere, trasformando la vitalità un po’ disordinata ma originale dei personaggi comici in gesti piacevolmente eleganti, impregnati di buon gusto, ma stancamente ripetitivi ; dall’altro le compagnie meno colte abbassavano sempre di più la qualità del loro teatro, risolvendolo in volgari e a volte sconce buffonerie, che offrivano un pretesto decisivo a quanti cominciavano a sentire l’esigenza di una riforma. Il ceto borghese in continua espansione non si rispecchiava più nella cristallizzazione del tipo : voleva scoprire dietro la maschera marrone e il naso a becco di Pantalone un volto e un carattere che lo rappresentasse e che ricreasse quel contatto con la realtà che gli attori dell’Arte avevano felicemente realizzato. Invece, la struttura di queste compagnie fatte di ruoli fissi, la loro vita nomade, l’uso di tramandarsi di padre in figlio i segreti del mestiere, la necessità di un capocomico (di solito l’attore più importante) come principio disciplinante, e persino i contorni biografici di rivalità, esibizionismi, intrighi amorosi, liti e polemiche tra i membri resistettero al declino della Commedia dell’Arte rimanendo una consuetudine della vita teatrale italiana fino alla fine dell’Ottocento. Accanto alle velleitarie ambizioni riformatrici di molti letterati (che lamentavano una netta frattura tra la teoria e la pratica) e contro questo processo di involuzione tentarono di opporsi, su diversi fronti intellettuali, studiosi e arcadisti, (si vedano in questo senso Della perfetta poesia italiana, 1706 e Riflessioni sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti, in due parti, 1709 e 1713 di Ludovico Antonio Muratori, oppure La Ragione poetica, 1709 e il trattato Della tragedia, 1715 di Gian Vincenzo Gravina), e, anche se inutilmente, autori e attori dell’epoca come Pietro Cotta e Luigi Riccoboni. Ludovico Muratori considerava la commedia secentesca solo un insieme di atti buffoneschi e istrionici intrecci, dove nelle azioni sceniche non si trovava il ‘verosimile’ che era necessario alla favola. La sua opinione era condivisa dall’opera tardo seicentesca di altri autori come Carlo Maria Maggi e poi, nel primo Settecento, da Girolamo Gigli, Jacopo Angelo Nelli e Giovan Battista Fagiuli che rappresentarono i tentativi più organici di un rinnovamento, irrisolto sul piano artistico, e di un distacco dalla Commedia dell’Arte. L’attore romano Pietro Cotta, 1 che aveva iniziato la sua carriera nella compagnia di Francesco e Agata Calderoni, condusse una feroce battaglia contro la degradazione degli spettacoli, fatti sempre più in larga parte da scurrilità, tentando di restituire alla recitazione degli attori comici opere teatrali  



scritte con dignità poetica. Egli fu il primo attore italiano che conferì al suo repertorio un carattere antologico, includendovi grandi opere come l’Aminta di Torquato Tasso e altre della letteratura drammatica straniera. Tentò inoltre di porre sullo stesso piano la recitazione del genere comico e del genere tragico, stabilendo le basi della figura dell’attore moderno, che era disponibile e in grado di recitare un qualsiasi testo, dato che i professionisti della scena fino a quel momento si erano dedicati quasi esclusivamente ad una recitazione comica e farsesca. Infatti, fin dal Cinquecento, mentre la Commedia dell’Arte era al massimo del suo trionfo, la recitazione della tragedia e della favola pastorale restava un dominio quasi esclusivo di attori dilettanti e delle Accademie, anche se, nelle cronache dell’epoca era riportato che fra gli spettacoli della Commedia dell’Arte vi erano delle rappresentazioni di tragedie e di favole pastorali. Tommaso Garzoni ne La Piazza Universale di tutte le professioni del mondo, stampata nel 1587, rievocava la recitazione di tragedie e favole pastorali da parte di compagnie di comici. Nel 1588, durante la celebrazione del Carnevale, la Compagnia dei Desiosi recitava a Roma commedie e tragedie diversificando il pagamento del prezzo d’ingresso, facendo pagare di più per la recitazione della tragedia. A Padova si rappresentavano tragedie nel 1581, nel 1597 e nel 1600. Ma nella maggior parte dei casi le tragedie e le favole pastorali, rappresentate dai comici dell’Arte, erano improvvisate sulla base di schematici canovacci, nei quali generalmente il tema tragico era sviluppato con un intreccio favoloso, perché si potesse prestare ad una recitazione all’improvviso con l’introduzione di dialoghi comici per alleggerirlo. Inoltre i personaggi, attraverso una serie di traslazioni, erano ricondotti su dei tipi fissi, cioè dentro le linee prestabilite di una maschera. Accanto ad alcuni autori più sensibili alla scena, i tentativi più interessanti di superare questo incerto rapporto tra testo e scena si concretizzò nel Seicento ad opera di alcuni attori che, forti del loro mestiere, cercarono di produrre un repertorio di commedie. Queste produzioni furono chiamate ‘scritte’, ossia quelle opere composte direttamente dai Comici dell’Arte e stese per intero ; gli esempi più fecondi furono : Il finto marito (1618) di Flaminio Scala (Roma 1547-Roma 1624), L’inavvertito (1629) di Nicolò Barbieri (Vercelli 1576-Modena 1641), L’amico tradito (1633) di Pier Maria Cecchini (Ferrara 1563-Ferrara 1640) e le opere di Giovan Battista Andreini (1576 o 1579-1654).  



I canovacci Il punto di partenza, per così dire, di questi tentativi d’attore di scrivere per se stesso, è rappresentato dai canovacci. Il teatro delle favole rappresentative, pubblicato nel 1611 da Flaminio Scala, è l’esempio storico più illustre ; in esso l’attore-autore fece una raccolta delle sue opere, gli scenari. Lo schema era molto semplice : veniva indicato l’argomento, i personaggi (ossia i tipi e le maschere), le ‘robbe’ necessarie per l’allestimento scenico, infine il canovaccio vero e proprio. Esso, come documenta l’esempio, era una traccia delle azioni sulla quale gli attori avrebbero improvvisato. Gli scenari erano materiali scenici ad uso dei comici ; tuttavia, come si è detto, già in seno alla Commedia dell’Arte nacque l’esigenza di un testo diverso. Non fu un caso perciò che gli stessi attori iniziarono a scrivere. I comici arrivarono a produrre le cosiddette  

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  Pietro Cotta nacque a Roma nel 1650 circa e fu noto in teatro con il nome di Celio, con il quale recitò in ogni ruolo della Commedia dell’Arte entrando poi nella compagnia di Francesco e Agata Calderoni ; dotato di un grande ingegno, divenne molto presto primo attore. Divenuto capocomico, propose di abolire dalla scena tutte le volgarità in uso in quegli anni e spinse a portare a un pubblico più vasto un repertorio pastorale e tragico, italiano e francese, unitamente ai primi tentativi tragici contemporanei facendolo uscire dal circuito dei teatri di accademia o dai collegi dei Gesuiti. Il Cotta, rimasto solo a lottare contro l’opinione del pubblico che, stanco delle innovazioni dell’attore, ritornava a reclamare i lazzi e le acrobazie delle maschere della Commedia dell’Arte, si dichiarò sconfitto e per questo abbandonò il teatro per sempre. Morì nel 1720 circa.  





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‘scritte’, ossia dei testi stesi per intero ; pur conservando una caratterizzazione e un intento letterario, questi testi si contraddistinguono per un’influenza più diretta al palcoscenico : queste commedie, infatti, ricalcano l’esperienza attoriale degli scrittori. In esse ancora si può trovare una presentazione della trama ; ne La Flaminia schiava, ad esempio, Pier Maria Cecchini inserisce l’argomento 1 (come in uso nei canovacci ad evidente utilizzo per le compagnie) ; i personaggi rimandano ai tipi dell’Arte (ci sono le tipologie di vecchio, quelle dei giovani, i servi ; in alcuni casi hanno nomi propri, in altri direttamente quelli delle maschere : Flaminia, Pantalone, Scapino, Beltrame, Capitano), così come la costruzione scenica, formata prevalentemente da monologhi, duetti e terzetti. Le parti delle commedie sono tutte scritte ; un esempio è tratto dalla Flaminia, atto i, scena i :  

Voi dar potete al vostro nome, eguali loro il merto, la fama e lo splendore, sol che accolte da voi, traggon l’onore d’ir coll’aquile vostre alzando l’ali. Io, che fra l’ombre osai trarle alla luce, gran Ferdinando, le consacro a voi, e in voi più bello il fasto lor riluce. Che se in queste costanza ha i pregi suoi, son vostri vanti, e siete voi quel Duce, per cui splende Virtù negli altri Eroi. 5















Orazio e Frittellino suo servo Orat. Frittellino non mi voler (ti prego) nel mio maggior bisogno abbandonare, né del primo errore ch’io ho commesso così severamente riprendere. Fritt. Io vi riprendo, perché non vi posso castigare ; né crediate di meritar poco castigo, havendo levato di Pisa Flaminia a quel povero Mercante, il quale (chi potesse vedere) non doveva haver altro capitale che costei (quello, che più mi importa senza havergliela pagata, ché quasi una truffa. 2  

Nella conclusione de La Veneziana di Giovan Battista Andreini (commedia molto dinamica, in dialetto, con la presenza di canzoni e con l’uso di onomatopee direttamente legate al lavoro vocale dei comici) l’autore, in appendice alla conclusione, inserisce un Ordine delle Robbe, per minor fatica, che vanno d’Atto in Atto nella Veneziana. 3 Questo particolare, sulla falsariga dei vecchi elenchi delle ‘robbe’ presente nei canovacci dello Scala, mostra l’attenzione dell’autore a considerare nella stesura del testo quegli elementi utili per l’allestimento. Andreini inserisce queste indicazioni in molte delle sue opere ; ne Lo Schiavetto, presenta una nota specifica Per li Rappresentanti, in cui si legge :  



Se per felice sorte a questo schiavetto si concedesse tanto di libertà, che dal Ceppo si sciogliesse al Teatro, si potrebbe agevolare il modo di rappresentarlo con quel, che si legge al fine della presente Operetta ; ove a ciascuna delle scene, e degli Atti, si veggono descritti gli ordigni, hornamenti, e le cose necessarie a rappresentarlo. Leggasi l’opera adunque, e non sia chi si sdegni d’osservar questo modo, per facilitar l’opere rappresentative. 4  

Questa breve nota mostra come gli attori avessero cominciato, già nel primo Seicento, a cercare uno sviluppo del proprio mestiere occupandosi del testo. Il ruolo di Pietro Cotta In questa direzione si sviluppò il lavoro di Pietro Cotta. Il suo tentativo di riforma dell’attore, che nel testo aveva uno dei suoi obiettivi, trovò spazio anche nella produzione come autore. Il Cotta scrisse due opere : Il Romolo (1679) e Le peripezie di Aleramo e di Adelasia ovvero la discendenza degli eroi del Monferrato (1698), dedicata al Duca di Mantova con il seguente sonetto :  



Le opere, se sotto il profilo strettamente letterario si possono giudicare minori, al contrario risultano interessanti se rilette all’interno della ‘battaglia poetica e teatrale’ che l’attore stava portando avanti sia con l’opinione del pubblico, sia con gli attori stessi. Esse risultano interessanti per due caratteristiche : le tematiche e la modalità di scrittura. Se si prende in esame Il Romolo, i temi si caratterizzano per la presenza di diversi generi : storico, drammatico, lirico, amoroso, non tralasciando la presenza di alcune scene comiche (composte secondo quella volontà moralizzante di eliminare scurrilità e volgari giochi per divertire). La scelta di far coesistere piani espressivi differenti rientra proprio nelle intenzioni del Cotta di creare un attore moderno, capace di recitare tutti i registri. Per quanto riguarda la scrittura, invece, queste due opere rappresentano un tentativo di elaborazione drammaturgico-scenica in grado di unire la dignità poetica del testo con le modalità di interpretazione. Tralasciando i limiti letterari (uno stile a volte troppo gonfio, l’uso eccessivo di coup de théâtre nelle trame), Il Romolo è un’opera assai preziosa perché costituisce il tentativo di partire dall’attore e dal suo lavoro sulla scena per scrivere il testo. Nella prefazione al ‘cortese lettore’ dell’edizione del 1679 il testo viene definito dal Cotta stesso « scenica composizione ». 6 Se da un lato il Cotta si rese conto dei limiti e dei cliché in cui l’attore del suo tempo si era rinchiuso, dall’altra parte era ben consapevole che per superarli era necessario un testo, ma un testo per l’attore e dell’attore. Infatti, quando Cotta scrive lo fa da uomo di teatro, per questo era così attento alle esigenze della scena, e la scrittura doveva essere funzionale alla comunicazione teatrale. Ad esempio, nella scrittura del Romolo, il Cotta si dimostra un attore intento ad occuparsi della scena nella sua complessità. Il suo tentativo si discosta sia dalle opere degli scrittori di teatro suoi contemporanei (attenti per lo più al testo in quanto parola poetica) sia da quelle degli altri attori, interessati al testo prima di tutto perché visto come un mezzo per affermare il proprio prestigio culturale (una dignità che la professione di attori solitamente non possedeva negli ambienti intellettuali). Questa prima produzione fu un tentativo interessante proprio perché Cotta, pensando alla scena, la scrive dall’interno, indica le battute, le azioni dei personaggi, gli oggetti che essi utilizzano, la musica, la scenografia. L’attore creò una forma al testo drammaturgico a partire dal suo concetto di attore moderno ; nello specifico, per quanto riguarda la scrittura del Romolo, essa si contraddistingue per tre elementi fondamentali : la struttura della composizione scenica, la qualità delle battute, la presenza di didascalie. Innanzitutto Cotta predilige il dialogo costruito in sequenze di battute brevi. Domande e risposte si alternano in uno scambio veloce e rapido, proprio per questo le frasi non presentano subordinate o costruzioni complesse. Un esempio, tratto dalla scena vi del i atto :  











Queste peripezie d’Alme Reali, che ad illustrar la fedeltà d’Amore compariscono in Scena, a voi Signore corrono ad implorar glorie immortali. 1

  Cfr. Pier Maria Cecchini, La Flaminia schiava, Venezia, appresso Gia2   Ivi, p. 6. como Antonio Somasco, 1612, p. 4 sg. 3   Giovan Battista Andreini, La Veneziana comedia de Sier Cocalin dei Cocalini da Torzelo academico Vizilante dito el Dormioto, Venezia, appresso Alessandro Polo, 1619, p. 113. 4   Giovan Battista Andreini, Lo schiavetto, Venezia, appresso Gio. Battisti Ciotti, 1620, p. 13.



5   Cfr. Luigi Rasi, I Comici Italiani, ii, Firenze, Francesco Lumachi Editore, 1905, p. 728 sg. 6   Pietro Cotta, Prefazione, in Idem, Il Romolo. Opera scenica di Pietro Cotta detto Celio. Accademico Costante. Dedicata all’Illustrissimo ed Eccellentissimo Sig. Vincenzo Abbate Grimani, Nobile Veneto, Bologna, per il Longhi, 1679.

l ’ attore italiano sei-settecentesco. il contributo di pietro cotta tra testo e scena Hersilia. Eh parliamo di guerra, e non d’amore. Hostilio. Via, che brami sapere ? Her. Chi è ‘l nemico al Quirino ? Hos. Estero Sole. Her. Aspra guerra intraprende. Hos. Perché ? Her. Perché solo coi raggi puote acciecar chi lo mira. 1  





Se si confronta questa caratteristica con la drammaturgia dei primi del ‘600 degli scrittori e degli accademici, da Michelangelo Buonarroti il Giovane al Cicognini, dal Verucci al Briccio, ci si accorge che Cotta operò una notevole inversione di rotta, proprio grazie al suo essere attore. Il Buonarroti, ad esempio, era un letterato di corte, e pur operando invenzione e soluzioni originali, mirava con le sue commedie a riaffermare il proprio patrimonio linguistico; la sua era una sensibilità d’autore anche se nello scrivere si lasciò influenzare dalle modalità rappresentative. Del resto, gli stessi autori della ‘commedia ridicolosa’, pur guardando al teatro agito, nella realtà partivano da un’ideazione a tavolino, le cui modalità sceniche erano prese come pretesto per costruire divertimenti letterari. C’era un interesse alla scena ma nella sua dimensione esteriore e formale ; nell’uso dei vocaboli scelti e nella costruzione sintattica è evidente il gusto letterario. A questo proposito si riporta un esempio tratto dalla prima scena de La spada fatale del Verucci :  



Atto Primo Scena Prima Lelio, Negromante di strada Non so padre amorevole (che per tale vi ho tenuto sempre, non havendo fin hora conosciuto al mondo altro genitore) quando piacerà alla mia sorte di porgermi occasione, ch’io possa ricompensarvi se non in tutto, almeno in parte di tanta gratie, e beneficij che vi sete degnato farmi, allevandomi da fanciullo, anzi da bambino, da lattante con tanta cura e diligenza. Neg. L’ho fatto volentierissimo, e non senza gran cagione ti ho fatto muovere dalle mie grotte dove ti ho tenuto per tanti anni, e ti ho allevato per figlio, et da pochi giorni in qua ti ho condotto in questa patria, dove spero che incorrerai bona fortuna, se vorrai essere obbediente ai miei comandamenti. 2

Gli elementi che si rifanno alla scena in questa ‘commedia ridicolosa’ sono innumerevoli. Tra questi si nota l’uso del dialetto e la particolare scelta dei personaggi (ad esempio ne I diversi linguaggi del Verucci compaiono Pantalone, gli zanni e i servi, il Capitano e i giovani ; in Pulcinella amante di Colombina, sempre del Verrucci i personaggi sono tutte maschere dell’Arte così come ne La zingara sdegnosa dove il Briccio inserisce dialetti diversi ognuno per la provenienza dei diversi tipi). Tuttavia come si vede nell’esempio, si è di fronte a un linguaggio totalmente diverso da quello per la scena proposto dal Cotta ; quello di questi scrittori è più accademico e colto, letterario, costruito per frasi lunghe e coordinate, che necessita di un tempo di esecuzione più lungo, quasi una lettura, non è attento alle azioni dei personaggi e quindi al lavoro che gli attori avrebbero potuto sviluppare. Più vicini al Cotta sono invece gli attori-scrittori delle ‘scritte’ per il fatto che partono tutti dall’esperienza della scena. Ad ogni modo, la motivazione di questi attori nello scrivere era molto spesso solamente letteraria, in quanto rivolta alla ricerca di un proprio riconoscimento culturale, e la scrittura si caratterizzava per la cura della lingua. Un esempio è l’inizio de Il finto marito dello Scala, atto i, scena i :  



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vostro ritorno, o il desiderio di sapere, perché così celermente sei venuto : E quanto più la cagione sarà potente, tanto più mi terrò favorito da voi : Hora se non vi apporta noia il palesarmela, vi prego per quella stretta amicizia, ch’era tra di noi, che si come mi rallegrate con la presenza, così vogliate ancora rallegrarmi con lo scoprirmi questo vostro segreto. Lep. Essendomi voi caro, e leale amico, è dovere, che d’ogni vostro volere, io mi faccia legge ; e però volentieri vi racconterò il male ; e crediate Sig. Flavio, che non fu giammai Nave, da procellosa tempesta di rabbiosi venti così agitata, e percossa, come di presente è l’anima mia nel tempestoso mare dei miei tormenti. 3  







La differenza con il Cotta emerge immediatamente ; un caso più particolare fu, invece, quello dell’Andreini ; egli cercò di attenuare la distanza tra testo recitato e testo pubblicato ; si riporta un esempio dall’atto iv, scena vii de Li duo Leli simili :  







Lucignolo. Io son Lucignolo, cioè stoppino alla lombarda ; E siccome lo stoppino è quello che acceso vi fa andar sicuro, così acceso anch’io del mio solito furore, fò camminare sicuri tutti quelli, che meco vengono ad alcuna perigliosa impresa ; et in questo giorno, ben voi stessi accettar lo potrete : ma che gente è questa qua ? Fuora l’armi. Fusetto. Ammazza. Ammazza. Trinchetto. Piano, piano figliuoli ; Questo è il mio padrone. Silvestro. Trinchetto son io sicuro ? Trinchetto. Sicurissimo signore. Lucignolo. Signori io son Lucignolo, e però forse per mia opera discoperti, siamo con questo nostro amico, per vendicarlo di un offesa fatale. Silimberto. Figliuoli, siete tanti, che fareste paura a Marte ; lasciate il carico a noi, che senza fallo alcuno faremo questa pace co’l signor Lelio. […] Silvestro. Cos’è quell’altro ? Fusetto. È la mia rotella che mi cadde. Trinchetto. Fratelli havete per dir il vero tant’armi, tò su quell’altro. Gomitolo. Quest’è la manopola ch’è in terra. Cicerbita. M’è caduto il pugnale. Silvestro. Andiam disgrazia, che non vi cada ancora il naso. Qui nell’ultimo partire à tutti in un colpo caderano tutte le armi, cioè a ciaschedduno una cosa per uno ; onde Silvestro ridendo dirà ; havete le mani di cera signori soldati, e tornando Silvestro, e Silimberto a ridere finirà l’Atto Quarto. 4  



















In questo caso Andreini inserisce anche una specie di didascalia (caso piuttosto raro) a metà tra indicazioni sceniche e canovaccio ; l’espressione : « onde Silvestro ridendo dirà ; havete le mani di cera signori soldati », 5 infatti, è una costruzione tipica degli scenari, dove gli scrittori raccontavano la traccia di quello che succedeva inserendovi, a volte, anche qualche suggerimento sulle battute, come lo Scala nel Creduto morto, in cui : « Pantalone lo guarda dicendo chi va là ». 6 Interessante è proprio questo primo passo che è stato compiuto nel pensare alla scrittura di un testo completo nelle sue parti ma funzionale alla scena, nato dalla scena, che fosse capace di trascrivere sulla carta le azioni e i moduli recitativi propri degli attori. In Andreini compaiono onomatopee (si indica il ridere e il piangere) trascritte in segni grafici (gli stessi che utilizzerà il Cotta), sui quali gli attori potevano costruire la propria vocalità :  

















Ram. Dico per tutti di si, mio Signore. Nott. Si ? Tutti hor hor paingete. Ram. Ecco Signore uh, uh, uh. Nott. Più forte.  



Flavio, e Lepido Lep. Son per servirvi sig. Flavio, et il medesimo Lepido vostro. Fla. Io non so qual sia maggiore in me, o il piacere, ch’io sento del 1

  Pietro Cotta, Il Romolo, cit., p. 15 sg.   Virgilio Verucci, La spada fatale, Venezia, appresso Angelo Salvadori, 1636, p. 7 sg. 2

3   Flaminio Scala, Il finto marito, Venezia, appresso Andrea Baba, 1619, p. 27. 4   Giovan Battista Andreini, Li duo Leli simili, Parigi, presso Nicolas del 5   Ibidem. la Vigne, 1622, pp. 79-81. 6   Flaminio Scala, Il teatro delle favole rappresentative, ovvero la ricreazione comica boschereccia, e tragica : divisa in cinquanta giornate, composta da Flaminio Scala detto Flamino comico della Sereniss. sig. duca di Mantova, Venezia, appresso Gio. Battista Pulciani, 1611, p. 64.  

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gaetano oliva Ram. Uh, uh, uh. Nott. Più ancora. Ram. Uh, uh, uh. Nott. Hor sa fermatevi ; havete caro di rallegrarmi ? Ram. Come Signore, altro non bramano questi sconsolati. 1  





Si può cogliere in questo un’anticipazione del lavoro del Cotta ; l’impegno e i tentativi dell’autore romano si spinsero oltre, sviluppando questa direzione. Per Cotta, infatti, la questione del testo non si risolveva semplicemente nello scrivere, in modo completo, tutte le battute e fissarle ; questo era solo l’aspetto formale del problema. L’elemento più importante fu, invece, quali parole utilizzare e come. Questa attenzione si concretizzava nel fatto che egli scriveva da attore quelle parole che si potevano recitare. Tutto ciò emerge ancora di più se si guarda ai monologhi. Dalla Commedia dell’Arte, dalla quale proveniva, il Cotta riprese la struttura : un movimento scenico dinamico in continuo cambiamento creato attraverso la successione di duetti, terzetti e monologhi. A questi era destinato un momento ben preciso e specifico, ossia quello del personaggio ‘solo’ in scena ; si riporta un esempio dall’atto i, scena xx del Romolo ; in esso Nespo, un servitore, si esprime riguardo la corte e i suoi intrighi di potere (l’idea sulla quale si incentra l’opera) :  











Nespo solo Maledetto il servire, e chi n’è stato inventore ; O poveri Camaleonti di Corte, voi che cangiate ogni momento all’altrui voglie voleri, sempre intenti ad incontrare variati colori de signori capricci, voi, che in eterno digiuno sempre vivete alimentati dal cibo de la speranza, affaticatevi pure nell’imparare le sofferenze, assottigliate a le lusinghe l’ingegno, apprendete l’arte del simulare, che addottrinati che siete sol per un minimo fallo perdete la Laurea bramata dell’altrui gratia ; Corte infida, aspro carcere, tetro inferno degli ambitiosi, falsa Hiena rapace, che con promesse t’inganna finché t’induce a i tormenti per farti poi confessare con mille morti le tue miserie ; Corte che corta vita con le sue lunghe speranze ; Corte, che d’ogni infamia è l’Asilo, d’ogni improperij il ricetto, d’ogni ingiustizia ministra, che d’ogni fiera è la selva, d’ogni Scirone il rifugio ; Corte, corte odiosa, ò quant’ogn’hot’aborrisco, è quant’ogn’hor ti bestemmio ! 2  











È importante soffermarsi sullo stile. Tralasciando il fatto che la costruzione verbale utilizzata è per sua natura più complessa rispetto al dialogo (è la situazione stessa che lo consente: questi soliloqui, infatti, venivano utilizzati per ragionare e commentare la scena ; il personaggio discute ‘da solo’ e il ritmo può rallentare), è da notare la forma : una prosa ritmica, il ritorno continuo al soggetto dell’argomento (la Corte), l’utilizzo di aggettivi che lo caratterizzano. L’attore che recita parte dal soggetto e lo sviluppa, lo definisce e lo qualifica e poi vi ritorna per riaprire di nuovo il ragionamento. In questo senso si tratta di un monologo prettamente teatrale, procede per frasi brevi e non per lunghi periodi di subordinate ; quello che emerge chiaramente è l’esperienza di attore del Cotta. Un altro aspetto interessante consiste nel fatto che la scrittura si sviluppa allo stesso modo nelle parti liriche e drammatiche ; un esempio è il seguente di Romolo :  









Scena xii. Romolo solo Parte Hostilio, ma parmi, che in questa soglia restino i sdegni suoi ; Oh Cieli in che trascorro ? Egli al sicuro si sarà avvisto dei miei affetti, penetrerà il mio inganno, desterà l’ira contro me stesso ; Che saprà fare ? Che saprà fare ! Ho folle io che gli do l’armi in potere, e non haurò a paventare delle sue forze ! Ah che Hostilio predomina ogni volere nelle Quirine Militie, potrà usurparmi il Regno, e insidiarmi la vita, e chi sarà dei miei, che poi si opponga al nuovo Amulio, perché non cada della sua soglia Numitore ? 3  













La presenza di termini aulici non scompone l’effetto teatrale, perché essi vengono inseriti all’interno di una costruzione paratattica ; in questo caso l’elemento su cui ruota il ‘pezzo’ sono i sentimenti e gli affetti (si parla di ira, di paura, di follia). Anche in questo caso l’autore utilizza una struttura verbale semplice ; la punteggiatura diventa funzionale a rendere il testo dicibile, infatti, attraverso le pause dettate da virgole, punti esclamativi e interrogativi, il Cotta costruisce un ritmo legato al contenuto ; le interpunzioni, a questo proposito, offrono le indicazioni agli attori sul dove e in che modo cambiare toni e volumi. Dal punto di vista tematico è da notare il fatto che la scelta del contenuto rispecchia l’idea di un repertorio eterogeneo che sapesse travalicare i generi e che desse la possibilità ai comici di esprimersi su tutti i registri, il comico, il poetico e il tragico (modalità ad uso esclusivo, fino a quel momento, degli accademici e dei collegi). In questo caso il tentativo non si riferisce solamente al repertorio in senso lato (un repertorio in cui si comprendessero opere diverse), ma una variazione all’interno della stessa opera (un’iniziativa tentata a suo modo da Andreini nella sua Centaura del 1622), nella quale parti serie si alternano a parti comiche. Un esempio di quest’ultimo è la scena xviii del i atto. In essa ha luogo un battibecco comico tra una soldatessa e il suo servo ; la didascalia iniziale recita : « Tarpeia, e Moraspino, scudo d’armi diverse ». 4 Verso la metà della scena l’autore inserisce un’indicazione utile per chiarire i rapporti tra i due personaggi e l’andamento dell’azione :  









Tarpeia. Che hai ! Moraspino. No’l dicesti ? Patisco di vertigini. Tar. Che vertigini ; vou tù dir di pazzia, io dissi vertigine, cioè l’orme, à pedate, come tù voi. Mor. Nò, nò, ti ringrazio. Tar. Di che ? Mor. Delle pedate, ch’io non le voglio. Tar. Tu sei balordo, od io non ho tolleranza ; Cammina vien avanti Lo tira fuori per forza Mor. Pu vh, vh. Tar. Di che tremi ? Mor. De la paura. Tar. Già conobbi che la viltà del tuo cuore ti fugge alla lingua nel proferire goffaggini ; ma chi segue a Tarpeia non dee conoscer spavento. Mor. Io non lo conosco, ma s’egli viene per conoscere a me ? Tar. Lo scaccerai con l’ardire. Mor. Nò, l’ho pensata meglio ; mi coprirò con questo scudo, perché non mi vedrà. Tar. Come tù voi, andiamo. 5  

















Cotta costruisce il ‘litigio’ attraverso la sua esperienza di comico ; il testo è scritto in tutte le sue parti, oltretutto con la presenza di didascalie, ma i moduli stilistici sono quelli dell’Arte : un padrone che litiga con il proprio servo, con tanto di azione verbale grottesca, il « Pu vh, vh », e di azione fisica comica : « Lo tira fuori per forza ». È proprio attraverso l’accostamento di parole e di azione che il Cotta dà vita alla sua opera scenica ; l’attore, infatti, basandosi sul proprio bagaglio di esperienze, scrive la scena, ma una scena pronta ad essere realizzata. L’importanza del Cotta risiede proprio in questo passaggio storico, quello di un attore che scrive dal punto di vista del teatro e non per una ricerca linguistica. La trama ha una sua certa complessità, tuttavia l’opera gioca sugli elementi basilari del teatro dell’arte : l’alternanza continua tra scene d’amore, di guerra (o di litigi), di nascondimenti e svelamenti. Analizzando nel dettaglio questo dialogo si possono di nuovo rimarcare la presenza di quegli accorgimenti tipicamente scenici nel ritmo delle battute, nelle parole, nel periodare ; tuttavia quello che più di tutti demarca la condizione teatrale è proprio l’uti 



















1

  Giovan Battista Andreini, Lo schiavetto, cit., p. 5. 3   Pietro Cotta, Il Romolo, cit., p. 22.   Ivi, p. 25.

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4

  Ivi, p. 29.

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  Ivi, p. 29 sg.

l ’ attore italiano sei-settecentesco. il contributo di pietro cotta tra testo e scena lizzo della trama verbale articolata con quella agita e fisica delle didascalie. Nell’ottica del Cotta il lavoro dell’attore non viene tradito né oscurato, anzi, viene solamente guidato da un tessuto verbale di un certo contenuto (ripulito dai facili lazzi scurrili e dalle infinite ripetizioni divenute cliché) e forma e da quelle indicazioni sceniche (già utili e necessarie tanto da essersi definite nei canovacci) pronte a trasformarsi attraverso il lavoro e l’improvvisazione dei commedianti. Proprio questo secondo aspetto è l’elemento più innovativo che il Cotta inserisce nelle sue due opere. Anche se da un punto di vista strettamente quantitativo le didascalie non sono moltissime, tuttavia la loro presenza segna un’importante strategia : il Cotta autore segue le proprie necessità di interprete e inserisce, in alcuni punti strategici, quelle indicazioni utili per realizzare la scena ; ossia esse sono ad uso degli attori e sono funzionali alla recitazione. Le didascalie utilizzate sono di diverse tipologie ; le più tecniche sono quelle che indicano le entrate e le uscite dei personaggi dalla scena e gli oggetti che ognuno di loro ha con sé. Si riporta ad esemplificazione di queste l’incipit del Romolo :  







Atto Primo Scena Prima Cursio, e Pomponio ambasciatori. Cursio con Ramo d’Olivo, e Pomponio con spada nuda. 1

Queste indicazioni hanno una funzione molto pratica: servono per l’allestimento e sostituiscono gli elenchi delle ‘robbe’ che già gli scrittori dei canovacci erano soliti inserire. Molto più interessanti sono, come si è anticipato, quelle che servono per indicare i movimenti scenici dei personaggi ; dalla scena ii del ii atto :  



Romolo ascende al trono, circondato da sue guardie, Hostilio, Polifenore Senatori Nel comparir di Romolo suonano Trombe. 2

In questo come in altri casi il Cotta indica anche la presenza di un effetto musicale ; questo particolare è interessante perché dimostra come l’attore romano presti attenzione a tutti gli elementi e i linguaggi della teatralità. Cotta non scrive in astratto, ma utilizza quegli elementi che normalmente erano presenti nel suo lavoro e nel lavoro delle sue compagnie, e si sforza di creare un progetto unitario che tenga conto di tutte le componenti. In questa tipologia di didascalie rientrano anche quelle che descrivono la scenografia. Nella tragicommedia Le peripezie di Aleramo e di Adelasia ovvero la discendenza degli eroi del Monferrato, ad esempio, egli definisce anche gli scenari in cui si muovono i personaggi ; in detto caso, nel passaggio tra il primo e il secondo atto utilizza due ambientazioni diverse e, infatti, indica che il primo atto si svolge sopra i Monti di Savona : « Boschereccia con capanna », 3 il secondo atto si svolge nel Palazzo Reale della stessa città e la didascalia riporta : « Regia ». 4 Una seconda tipologia di didascalie è quella in cui l’autore individua le azioni degli interlocutori ; esse sono piuttosto semplici e riguardano movimenti o gesti che indicano un particolare sentimento o una determinata situazione emotiva. Queste azioni sono quelle della gestualità tipica degli attori del tempo, sono, cioè, modalità di azioni che Cotta e i suoi attori erano soliti utilizzare nel loro mestiere. Il più delle vol 

















te esse definiscono l’uso di un particolar oggetto (una spada, l’apertura di una lettera, l’uso di un attrezzo) ; di seguito si riporta un esempio tratto dal i atto, scena ii del Romolo :  



Romolo. Prendine dunque il possesso, che già sei il Sole nell’armi. Polifenore. Che delirij ! Gli dà la sua spada. Hostilio. Sire io non son degno di tanto dono. Rom. Ne io di donartela intendo, mentre invece di questa bramo cinger segnalata la tua. Hos. Si cinge il ferro, e glielo porge. Ma perché tanto Honore ?5  



È proprio la tipologia stessa delle azioni descritte che mostra il legame profondo con la scena : « La vuol rapire abbracciandola », 6 « Cursio, e Tarpeia, combattendo » ; 7 « getta l’armi, e via », 8 « Cursio hà fatto prigioniero Moraspino. Ma con disprezzo lo lascia » 9 e così via. Di particolare interesse risultano due brevissime scene del ii atto che racchiudono in poche battute le considerazioni fin qui esaminate e che si potrebbero prendere come prototipo della scrittura scenica operata dal Cotta :  





















Scena ix Romolo solo. Che diletto, e piacer ! che forza è questa, così a Romolo tiranna All’armi, a la ragione, così molesta ? Come cangiossi in un punto a comparire d’Hersilia l’imperioso consiglio che mi dettò… 10  



Scena x Un uomo abbuffato con Arco, e Strale colpisce verso Romolo, Holsilio, e detti Hostilio. Accorre dall’altra parte. Ah sacrilego ferma. Gli travia il colpo, conficcandosi la saetta in una parete. Romolo. Qual colpo ? Hos. Romolo sei tradito, via seguendo l’arciero che fugge. Rom. Hostilio ? Ho Dei qual fellonia ! Parto forte dei miei demeriti, o pur fatale al mio Regno quivi d’intorno s’aggira l’ira di furie armate a miei danni ! 11  







L’autore nel definire questo passaggio lo descrive fisicamente attraverso le didascalie. In questo modo risulta piuttosto agile per l’attore mettere in scena il testo : Romolo è solo e monologa gioioso sulle parole appena udite (da Hersilia) ; un arciere lo sorprende per ucciderlo, giunge a sua volta Hostilio che sventa l’attentato e si mette all’inseguimento del sicario. Romolo, spaventato, resta di nuovo solo e commenta l’accaduto. A partire dalle didascalie si potrebbe dunque riscrivere agevolmente l’azione come un canovaccio, o meglio è lo stesso Cotta che, a partire da una struttura a canovaccio, la elabora inserendoci anche la partitura di battute (le azioni sono le stesse che lo Scala utilizza nelle sue Favole rappresentative). Un’ultima indicazione si può trarre da D’Alerame e Adelasia, opera in cui il Cotta ha un interesse molto più letterario che scenico ; in essa vi è la presenza di una particolare tipologia di didascalie, assente nel Romolo: quella che indica il ‘fra sé’. L’autore nel testo lo utilizza svariate volte. Un esempio su tutti, dall’atto i, scena vii :  







Ottone. Saranno intorno ai vent’anni, che si smarrì Adelasia ; ò come bene s’accorda il tempo ù miei dubbij [fra sé] Quali sono de vostri genitori i nomi ? Guglielmo. Intriso e Alassia. Ot. Sembrano ad arte di poco variari i nomi [fra sé] Avete dei fratelli ? Gu. Cinque ne lasciai o Sire nella mia partenza Ot. A voi minori d’età ? Gu. Si mio Signore io sono il primogenito. Ot. Il sospetto s’accresce [fra sé] Guglielmo, gradisco l’istanza, e vi  





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2   Ivi, p. 1.   Ivi, p. 4.   Pietro Cotta, Le peripezie di Aleramo e di Adelasia ovvero la discendenza degli eroi del Monferrato, tragicommedia di Pietro Cotta detto Celio, Comico del Serenissimo Ferdinando Carlo Duca di Mantova, Monferrato, Carlovilla, Guastalla et consacrata alla medesima altezza, Bologna e Venezia, appresso Gio. Maria Rossi, 1697, p. 6. 4   Ivi, p. 50. In questo caso, trattandosi di tragicommedia, si può notare che le indicazioni rispettano la consuetudine degli scenari tipici delle favole pastorali rappresentate dagli attori dilettanti nelle Accademie. 3

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  Pietro Cotta, Il Romolo, cit., p. 6 sg. 7   Ivi, p. 34.   Ivi, p. 36. 8 9   Ivi, p. 38.   Ivi, p. 39. 10 11   Ivi, p. 48.   Ibidem. 6

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gaetano oliva accordo volentieri la grazia ; ritiratevi, e preparate la vostra partenza. 1  

Il Cotta non utilizza didascalie che entrano nella modalità vocale di pronunciare le battute, non ne ha bisogno, queste sono abilità che gli attori con i quali lavora già posseggono. Il ‘fra sé’, però, indica, dal punto di vista formale, un’indicazione piuttosto precisa : all’interno di una battuta ci devono essere due distinti momenti e l’attore deve distinguerli poiché mentre una parte del discorso è diretto verso l’interlocutore in scena, l’altra non è udita da questo (per convenzione) ma è una sorta di ragionamento personale. Questa indicazione entra con più specificità nella dinamica del testo : il Cotta segnala all’attore che deve produrre per lo spettatore due intenzionalità diverse e precise. Da questa analisi emerge come il Cotta sviluppò una prima visione drammaturgica che si sforzasse di mettere insieme testo e scena ; è interessante notare il fatto che negli anni seguenti gli stessi autori cominciarono a porsi il problema di testi che comprendessero anche le azioni degli attori : per questo una nuova attenzione fu posta alle didascalie. Nel primo Settecento, infatti, il Gigli, il Nelli e il Fagiuli, e diversi altri autori vicini al teatro, le utilizzarono cominciando ad abbozzare un ‘disegno’ scenico complessivo. A testimonianza di questo si riporta un breve frammento de L’amante per disprezzo del Nelli, tratto dall’atto i, scena xiii :  









Vol. a Lucin Non vi gettate. Dom. Forse qualche idea più bella le terrà occupata la mente si va accostando un poco verso di lui, ed egli sta fermo da non poter riflettere alle più minute obbligazioni. La compatisco. 1

  Ivi, p. 22.

Vol. – Zimbella, Zimbella – Luc. si accosta verso Dom. Non ho altro in pensiero se non che passa il tempo per andar a fare una partita a palla a corda. Vol. a Luc. Bravo, bravo. Dom. fa atto d’ammirazione. Palla a corda ? Bel genio di Cavaliere ! Ironicamente. 2  



Nel complesso si può affermare che il Cotta riuscì a porre tutto questo su un piano diverso rispetto ai tentativi operati dai soli scrittori, proprio perché era un attore: il testo nasceva, infatti, sulla base della sua esperienza, dalla costruzione delle frasi e dall’utilizzo delle parole più adatte ‘all’uso vocale’, giungendo all’impiego delle didascalie che indicavano agli attori le azioni da svolgere nella messinscena. Cotta scrisse, di fatto, la scena agita cercando di comporre un testo funzionale al proprio lavoro. Pur con tutti i limiti, con tutte le incertezze e l’inconsapevolezza, il risultato pratico dato alle stampe nel Romolo testimonia questa riflessione. Il lavoro di Cotta risulta importante da molti punti di vista. Innanzitutto poiché, nel mettere le basi della figura del moderno attore, egli stesso cercò un riconoscimento culturale attraverso lo studio e la composizione poetica e non si accontentò della sola dignità spettacolare come buon recitante. In secondo luogo perché, se dal punto di vista scenico il suo grande sforzo si profuse nel concepire il mestiere dell’attore come arte doverosamente in grado di recitare qualsiasi testo, lo stesso sforzo non si esaurì solamente nel tentativo di creare un repertorio (mettendo in scena i testi dei poeti contemporanei), ma anche di dimostrare che esso era possibile. 2   Jacopo Angelo Nelli, L’amante per disprezzo, in Idem, Le commedie del signor dottore Jacopo Angelo Nelli, sanese, iv, Milano, per Federico Agnelli, 1762, p. 147.

REDI RIMATORE BAROCCO Giorgio Bárberi Squarotti

I

l ditirambo di Redi è la più clamorosa dimostrazione della specificità del ‘comico’ barocco in quanto variazione di parole sinonimiche fino all’aspirazione all’esaurimento del vocabolario, e fino all’invenzione fantasiosa di termini che siano puro sogno, giocosa deformazione. Basta citare il Leporeo, con i suoi leporeambi come diversa ma convergente aspirazione all’assoluta invenzione del linguaggio comico. È però soprattutto, per forza di giochi di parole, un’interpretazione concettuale di visione del mondo e della vita e delle attività umane in quel momento in cui si è ormai presso che dissolto il ‘comico’ bernesco, che ha come estremo confine il ‘capitolo’ di Galileo, che riassume la ricerca tenace e illimitata della metaforicità oscena, quella che si è moltiplicata nei ‘capitoli’ del Berni e dei berneschi col Casa, il Molza, Mattio Franzesi, il Fiorenzuola e tanti altri ancora. È vero che il Berni si serve del ‘comico’ con tutti gli orpelli osceni per discorrere di politica, di moralità, di religione (ed esemplari sono i ‘capitoli’ sulla peste e su Aristotele), ma il trionfo delle metafore a doppio senso sembra concludersi nel momento in cui il complessivo progetto letterario si amplia con i racconti dei viaggi per mare e con le relazioni delle ricerche scientifiche, e ne è spia evidente il vocabolario della Crusca con il Redi come collaboratore molto attivo, in contrapposizione con il volgare irrigidito e strenuamente canonico del Bembo e della sua idea di lingua esclusivamente letteraria nell’aspirazione alla celebrazione di una scrittura analoga per perfezione e rigore a quella latina. Il ditirambo del Redi propone tutta una serie di argomenti che sono molto al di là del canone ‘comico’ : di carattere letterario, scientifico, scenografico, intellettuale, a partire dal vino, che non è certamente adatto a crearvi attorno giochi di metafore oscene, ma è l’emblema trionfale del capovolgimento moderno della prospettiva dei comportamenti in conseguenza della diversa visione scientifica e geografica del cielo e dei mari e delle terre. Anzi il vino viene a essere la forza infinita del mutamento non soltanto della parola, ma anche dell’interpretazione della Natura : non per nulla il Redi sfata definitivamente nei suoi scritti scientifici sugli insetti la favola della generazione spontanea e traccia l’anatomia degli insetti, ne rappresenta la nascita, la crescita, l’accoppiamento, le funzioni, le metamorfosi, e in questo modo rivela e analizza i microcosmi del mondo, così come Galileo ha contemplato e interpretato i macrocosmi, le stelle, i pianeti. Nel ditirambo il vino è celebrato e descritto ed enumerato come lo strumento necessario e trionfalmente felice della trasformazione delle cose, della lingua, degli strumenti di lettura e d’indagine delle forme del creato. Tutta la scatenata, bislacca, ironica, cordiale citazione di amici scienziati e letterati, di paesaggi, di vitigni e di viti, di botti e bicchieri, pronunciata da Bacco, è in funzione della clamorosa e grandiosa lode del mondo moderno nell’ampliamento enorme della conoscenza delle scienze e dell’uso della parola, e anche della stessa vita, per il tramite delle frequenti ammirazioni e invocazioni all’amata Arianna, che è continuamente invitata a bere i migliori vini che il dio elenca e loda, cioè a partecipare alla metamorfosi attuale del mondo, dove anche l’amore si è trasformato radicalmente, facendosi gioia, pienezza, avventura, gioco, in contrapposizione con la concezione dell’amor come tormento, colpa, passione irrimediabile e indomabile, malattia dell’anima e del corpo, secondo la tradizione classica e soprattutto secondo il  



modello del Petrarca e dei petrarchisti. Non si dimentichi il fatto che il Redi scrive una buona quantità di sonetti con qualche madrigale e strambotto, dove c’è, sì, l’eco del Petrarca, ma rivoltato verso l’esasperazione comica, le variazioni metaforicamente eccessive, fino al puro gioco di lingua. Va altresì ricordato il fatto che la scrittura del medico e scienziato di Arezzo è altrettanto originale e vivace quando egli spedisce ai malati, ad altri medici e ai loro famigliari i suoi Consulti medici, e quando compie l’anatomia degli insetti. La celebrazione del vino e di se stesso a opera di Bacco ha, come punto di partenza, la citazione e la contrapposizione rispetto al celeberrimo canto carnascialesco di Lorenzo de’ Medici : i protagonisti sono, canonicamente, gli stessi, cioè Bacco e Arianna con Sileno, le Baccanti e i Satiri, secondo la lezione del mito, ma la prospettiva è radicalmente diversa, a incominciare dal proemio – per altro brevissimo, di soli dieci versi – che appare una pura e semplice didascalia, ma subito è agevole cogliere la diversità non soltanto rispetto al canto carnascialesco, ma con tutta la classica rappresentazione del dio della terra e dello sfrenamento totale dei sensi e lo sconvolgimento della mente, la negazione della ragione, il congiungimento di uomini e donne senza limite, l’avventura e i canti e i giochi, il superamento, infine, della norma fino alla violenza, al sangue, allo strazio (e le vicende di Orfeo e di Panteo ne Le Baccanti di Euripide sono i modelli fondamentali). Il proemio del ditirambo rediano dice : « Dell’indico Oriente / domator glorioso il Dio del vino / fermato avea l’allegro suo soggiorno / a i colli etruschi intorno ; / e colà dove imperial palagio / l’aurata fronte invêr le nubi innalza / sul verdeggiante prato / con la vaga Arianna in dì sedea, / e bevendo e cantando / al bell’idolo suo così dicea ». Alcuni termini sono immediatamente indicativi del tono del ditirambo : «allegro» è il soggiorno in Toscana dove Bacco si è fermato nel tradizionale viaggio dall’Oriente all’Occidente, e la conquista dell’Occidente è la festa suprema del vino senza condurre nessuno alla follia. Arianna è detta «vaga», e il termine è quello comune della lirica amorosa, anzi di ogni citazione di bella donna a cui il poeta voglia recare un omaggio galante ; Bacco beve e, al tempo stesso, canta, nel felice impegno a unire compiutamente la gioia dei sensi che coincide con il vino, che ne è l’emblema, e la bellezza della poesia ; e l’«idolo» di Bacco, appunto Arianna (il termine è tipicamente petrarchista), è la fondamentale dedicataria del canto e della lode del vino come strumento di sublimazione della visione capovolta del mondo così profondamente mutato, sia nella scienza, sia nella letteratura e nelle arti, sia nelle attività umane e nelle tecnologie. Il ditirambo è pronunciato dal dio, ed è rivolto alla sua « vaga Arianna », ed è un omaggio soltanto in apparenza leggero, mondano : in lei si compendia la donna moderna, curiosa e avventurosa e libera, e così il Redi cita e modifica la dedica del Boccaccio alle donne del suo Decameron, ma fa anche qualche riferimento alle rappresentazioni delle scienze e alle straordinarie metamorfosi che il Marino ha moltiplicato nell’Adone. Bacco è arrivato in Toscana, là dove mai ha fatto soggiorno a quanto i miti dionisiaci dicono. È la regione della scienza moderna (Galileo, Redi, Viviani, Magalotti, i Granduchi), ma, al tempo stesso, dei vini migliori. Il Redi suggerisce che questa somiglianza di situazioni sia esemplare e ammonitoria : la scienza moderna non può offrire i suoi pieni frutti se,  























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insieme, non ci sono anche la pienezza dei sensi, la bizzarria e il gioco che il vino suscita, lo stupore delle possibili variazioni del linguaggio, la libertà dei comportamenti, la scienza che libera e salva da ogni eccesso della violenza e della follia. Il ditirambo offre subito la presa di posizione nei confronti del canto carnascialesco di Lorenzo de’ Medici : « Se dell’uve il sangue amabile / non rinfranca ognor le vene, / questa vita è troppo labile, / troppo breve e sempre in pene. / Sì bel sangue è un raggio acceso / di quel Sol che in ciel vedete, / e rimase avvinto e preso / di più grappoli alla rete. / Su su dunque in questo sangue / rinnoviam l’arterie e i musculi ; / e per chi s’invecchia e langue / prepariam vetri maiuscoli ». Il ‘trionfo’ di Bacco e Arianna composto da Lorenzo è segnato dall’unica verità che è il presente, mentre nel futuro non c’è certezza, e il vino è l’emblema altrettanto sicuro del piacere che ha da essere assoluto e sfrenato, dell’amore che non può condurre altro che in quell’istante – straordinario, assoluto – proprio perché il tempo è imprevedibile. Bisogna allora consumare interamente l’istante di gioia e di pienezza dei sensi, così come il vino dà forza vitale nel momento immediato in cui lo si beve, e dopo non c’è più nulla, se non il bicchiere (o la botte) vuoto. Lorenzo de’ Medici celebra l’istantaneità del piacere, e vino e amore si identificano : il Redi, al contrario, rappresenta la continuità della gioia al di là del tempo e del rapido trapassare della vita. La certezza di Bacco, nel ditirambo rediano, è nella quantità, che conduce alla durata, la moltiplicazione dei vitigni, dei luoghi dove sono piantati, delle varie tinte dei vini, della produzione, dei loro nomi soprattutto. È il modo tipicamente barocco di invenzione poetica : conta la quantità, la moltiplicazione, quasi fino all’esaurimento del predicabile, e allora i nomi corrispondono alla possibilità di variare la gioia del piacere che – tuttavia allusivamente – porta a identificare quello del bere con quello del rapporto amoroso, che coincide con il nome assoluto di Arianna, che giocosamente il Redi predica « Arianuccia, vaguccia, belluccia ». Da buon medico, il Redi rende più concreta e attuale la lode del vino, citando il sangue come sinonimo del vino, le arterie, i muscoli, ma soprattutto affermando che il vino è assolutamente necessario per chi invecchia e rischia di languire, ed è ulteriore modo per rilevare la vittoria sul tempo che il mondo attuale ha raggiunto con l’abilità della tecnologia e della sapienza dei medici. Il vino viene ad apparire come l’allegoria della forza inventiva della scienza moderna ; e Bacco è il dio laico – libero e giocoso – di tale conquista, che allude al successo sulla vecchiaia e sulla morte. Il Bacco del ‘trionfo’ di Lorenzo de’ Medici è il dio che condivide la stessa sorte umana del tempo che fugge e della labilità del piacere : il corteo, sì, sfrenato e appassionato, ma sta passando, e andando via, nel momento in cui il poeta lo descrive con la consapevolezza della fragilità dei godimenti mondani, e questo trascorrere allude al rapido giungere, venire e scomparire della bellezza, della felicità, dell’amore, del dio stesso e della ragazza che ha preso per sé, dopo che è stata abbandonata sulla spiaggia solitaria dell’isola di Lemno. Anche il Bacco e l’Arianna di Lorenzo de’ Medici sono arrivati in Toscana – anzi a Firenze – e lì celebrano il loro trionfo, ma al di là dell’istante non ci sarà più nulla se non l’estrema incertezza del futuro, del giorno che segue il carnevale. Al contrario il Bacco ‘scienziato’ del Redi afferma che il vino è la panacea per giovani e vecchi, cioè esso sa curare e rendere gioiosi e sani tutti gli uomini in forza della conoscenza delle scienze attuali, capaci di far durare a lungo ormai la vita, e sempre in modo festoso e salvifico. È la vittoria sul Tempo : « In festa baldanzosa / tra gli scherzi e tra le risa / lasciam pur, lasciam passare / Lui che in numeri e in misure / si ravvolge e si consuma / e quaggiù Tempo si chiama ; / e bevendo e ribevendo, / i pensier mandiamo in bando ». È la lode del presente, oltre il quale non c’è già l’incertezza del  



























giorno che viene dopo il carnevale e il trionfo di Bacco e di Arianna, ma il ripetersi sempre gioiosa della festa del signore del vino e della ragazza che ha con sé, «vaguccia e belluccia», come emblemi della vittoria su tutte le angosce del tempo che passa. Il bere comporta la cancellazione dei pensieri dubbiosi e turbati dell’invecchiamento e della morte, perché il vino è la fonte della nuova giovinezza pur che sia frenatamente bevuto. Il mondo barocco e la poesia che ne è la rappresentazione, secondo il Redi, sono di ben più dell’idea che esprime il Marino, celebratore della pace. Il Redi afferma anche che è necessario bere il vino senza limiti, e quello migliore, più robusto e vigoroso, allora si è capaci di rafforzare le arterie e i muscoli e di ridare energia giovanile ai vecchi e liberare l’animo da ogni pensiero molesto, passando le giornate in scherzi e in risa. È la rappresentazione dell’eccesso al di là dell’immaginabile, e il ditirambo, infatti, è una continua variazione anche lessicale degli strumenti in cui il vino è collocato e dei vitigni e dei luoghi dove le viti sono coltivate, e c’è per contrasto anche l’elencazione dei paesi dove il vino non riesce efficace e valoroso, o dei vitigni inetti e deboli, o delle altre bevande che la moda ha messo in auge (come il caffè e il tè), o, fra quelle tradizionali, la birra, giudicata volgare e inetta a suscitare vera gioia e sanità. C’è, dentro, la legge della meraviglia in quanto esaltazione ed esemplificazione della sapienza della parola infinitamente sinonimica o inventata ed inventabile, ed esagerazione proprio nell’ambito del vino e del bere, che già di per sé sono un eccesso, una sfida alla norma, alla stessa ragione, quella della filosofia e della medicina antiche. Il tempo moderno è quello della scienza nuova, e l’eco di Galileo si avverte in questo ampliamento enorme degli spazi celesti e delle ricerche anatomiche sugli esseri viventi, del macrocosmo come del microcosmo ; ma la nuova scienza deve coincidere con le forme della nuova poesia, quella dell’enormità e dell’illimitata moltiplicazione (mariniana). Proprio di tali novità della poesia il vino viene a essere funzione e figura, come delle scoperte della scienza. Dice Bacco dopo la presa di posizione iniziale sull’uso moderno del vino in contrapposizione al dio carnascialesco di Lorenzo de’ Medici : « Benedetto / quel Claretto / che si spilla in Avignone, / questo vasto Bellicone / io ne verso entro ’l mio petto ; / ma di quel che sì puretto / si vendemmia in Artimino, / vo’ trincarne più d’un tino ; / ed in sì dolce e nobile lavacro, / mentre il polmone mio tutto s’abbevera, / Arianna mia, mio Nume, a te consacro / il tino, il fiasco, il botticin, la pevera ». È la prima esemplificazione del canone della quantità che è tipico della concezione poetica dell’età barocca : non la scelta, la rarità di forme e figure, la tendenza all’eccezione, ma, al contrario, la moltiplicazione dei sinonimi, la variazione più abbondante ; e una caratteristica costruzione è l’affermazione che corregge la prima o l’amplia, l’arricchisce di spiegazioni, di precisazioni. Ecco, infatti, la climax del Claretto di Avignone al vino vendemmiato di Artimino, dal vino che Bacco vuole versarsi nel petto a quello di cui vuole interamente abbeverarsi fino a trincarne più d’un tino ; e, alla conclusione, c’è l’elencazione dei contenitori grandi e piccoli di cui il dio vuole riempire quel privilegiato vino, rivolgendosi ad Arianna, come omaggio supremo. Il dedicare tino, fiasco, botticino e pevera ad Arianna è parodia ditirambica delle lodi amorose della donna amata di Petrarca e di tutti i rimatori lirici fino ai tempi barocchi. La donna amata, nel capovolgimento della poesia parodica e bizzarra del Redi, merita di essere esaltata dedicando a lei non rose e viole, non nobiltà e seduzione, non bellezze fisiche e morali, ma gli strumenti che riguardano il vino e sono allegoria della felicità, dell’avventura, del gioco, dei piaceri, della natura rivelata e studiata dalla scienza. È un esempio tipico della didascalia poetica, che vuole mostrare al lettore il modo di coltivare, sull’esempio delle Georgiche virgiliane ; ma il Redi,  



















redi rimatore barocco da buon barocco, sostituisce alla razionalità cinquecentesca dell’Alamanni e del Rucellai la bizzarria e la sfrenatezza della lode o dell’esecrazione ripetuta delle viti, dei vitigni e del vino. Poiché a parlare è un dio, ecco che la disposizione didascalica dei versi non può che procedere per condanne e approvazioni. La lezione si volge all’elencazione dei piaceri del vino autentico e all’omaggio alla donna amata : « Or che stiamo in festa e in giôlito, / bèi di questo crisolito / c’è figliuolo / d’un magliuolo / che fa viver più del solito ; / se di questo tu berrai, / Arianna mia bellissima, / crescerà sì tua vaghezza / che nel fior di giovinezza / parrai Venere stessissima ». C’è, negli ultimi versi, l’allusione alla Venere mariniana, la protagonista dell’Adone ; ma c’è anche qualche allegra ironia, se il Redi viene a dire che proprio per il tramite dell’eccellente Moscadello Arianna diventa bellissima, anzi identica a Venere. Il vino – quando sia egregio – è in grado di trasformare qualsiasi Arianna in una copia di Venere. Il Redi si avvale di un altro fondamentale aspetto della natura e della letteratura che è la metamorfosi ; e non il Marino ne è la dimostrazione nella poesia, ma Galileo, quando descrive i movimenti dei pianeti e il sole e le stelle, in forza della capacità del telescopio e dei calcoli matematici. La scienza moderna conduce a una meraviglia che è più numerosa e ammirevole di quella che suscita le invenzioni della letteratura lirica e poematica ; e Bacco e il vino ne sono la figurazione allegorica. L’arrivo di Bacco in Toscana, dove vuole farsi autorevole giudice dei vini d’Italia, è descritto con una calcolata confusione di divinità pagane e di attualità scientifica, di mitologia e di cronaca culturale e geografica, di interessi e amicizie, e il poeta viene a identificarsi con il dio per suscitare meraviglia proprio con questa bizzarria di cronaca e di mito e acuire l’originalità barocca del suo ‘comico’. Il Redi gioca con l’anacronismo, e, in questo modo, coinvolge nel divertimento ironico gli amici e i colleghi scienziati, letterati, eruditi per acuire meglio l’effetto giocoso del ditirambo. Anche nella poesia ‘boschereccia’ e georgica, Teocrito, Virgilio, il Tasso, il Guarini, sotto gli abiti e i nomi di pastori, ninfe, agricoltori, convocano nello spettacolo i personaggi della corte o della società letteraria e politica ; ma il Redi capovolge la rappresentazione : non i personaggi moderni assumono i nomi dei miti e del genere bucolico, ma Bacco si rivolge direttamente alle figure significative del mondo contemporaneo per giudicarne l’inettitudine o la capacità di bevitori, cioè in un ambito del tutto estraneo alla serietà delle loro conoscenze. Così essi sono coinvolti direttamente nel divertimento ‘comico’. Il ‘catalogo’ degli eroi o delle navi nei poemi epici diventa quello dei vini e dei vigneti, ed è anche questo una vigorosa variazione poetica. Il vino sostituisce Achille, Enea, Goffredo, Agramante. È l’elegante ammodernamento del mito dionisiaco ; e ne è prova decisiva il lunghissimo commento che il Redi aggiunge al ditirambo, con infinite citazioni classiche e moderne e con il bizzarro piacere di mettere insieme, non senza una calcolata contraddizione : Plinio e Aristofane, Cicerone e lo Scruttendìo, il barocchissimo autore in dialetto napoletano della Tiorba a taccone, Lapo Gianni e Boileau, Fra Giordano e lo Scaligero, Orazio e l’Alamanni, Omero e Virgilio, Tibullo e il Salvini, Euripide e Ateneo, il Piovano Arlotto, il Berni e il Covarruvias, il Boccaccio e una numerosa schiera di rimatori provenzali. Il Redi intende mostrare clamorosamente la sua dottrina di linguista, da redattore esemplare del vocabolario della Crusca, di cui è il fondatore. Il ditirambo è un libero e alacre gioco letterario, ma vuole essere anche il dizionario di letterati e scienziati della seconda metà del Seicento ; e, al tempo stesso, intende offrire l’esempio serioso e arguto della linguistica moderna, non soltanto dell’italiano, ma anche delle lingue classiche e di quelle moderne. C’è un’enorme sproporzione fra il testo poetico del ditirambo e il commento con tutte le citazioni linguistiche ed erudite. È un altro esempio e  























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fino a quel momento inedito della pretesa barocca di esaurire per forza di parola tutto il predicabile in poesia e in prosa e, in più, il Redi aggiunge l’impegno del vocabolarista, che vuole documentare tutti i termini antichi e nuovi del volgare italiano, fino ad aggiungere per giocosa sfida tante parole nuove, consacrandole nel ditirambo. È opportuna qualche citazione : « arcifreddissimo » (il superlativo portato all’estremo è un bell’esempio di lingua baroccheggiante per sapientissima enfasi) ; « rintuonano » ; « dabbuddà » ; « arciballandolo » ; « spippola » ; « caprobarbicornioede », una sfida che fa entrare nel verso endecasillabico ottosillabe ; « egidarmato » ; « inferrifoca » ; « ariciricchissimo » ; « brindisevol » ; « cucurucucù » ; « Leggiadribelluccia » ; « oro crinite ». Ugualmente significativo è l’uso di termini rari con svariati sinonimi e variazioni con il privilegio di diminutivi e (più spesso) di sdruccioli : « caraffini », « buffoncini », « zampilletti », « borbottini », « cantinette e cantinplore », « dirompetelo » « sgregolatelo », « infragnetelo », « stritolatelo », « constantiassimo », « arcifreddissimo », « risuonino e rintuonino », « al suon del cembalo,/ al suon del crotalo, sbarbica i denti la mascella sganghera, passavoga, arranca / ... / Arianna, Brindisi, Brindisi, / e se a te, e se a te Brindisi io fo, / perché a me, perché a me, per ché a me faccia il buon pro, / il buon pro, cantami un poco e ricantami tu / sulla mandola la cuccurucù / la cuccurucù ». Siamo al di là della comunicazione, fino alla pura invenzione suggerita dal giocoso scatenamento fisico e mentale dell’ebbrezza. Con l’eccesso poetico del bere e dell’ebbrezza il Redi è in grado di proporre un nuovo linguaggio sfrenato e avventuroso, al di là del ‘comico’ bernesco, vicino tuttavia alle altre sperimentazioni linguistiche nell’ambito barocco come infinito arricchimento di forme e ritmi, ed esemplare è il caso del Leporeo. Di passaggio, vale la pena di chiedersi se, nella sequenza dei versi in lode del Maggi, il verso del Redi non abbia suggerito al Foscolo la rappresentazione dei buoi abduani di cui s’impinguano i patrizi milanesi : « post’in non cale i lodigiani armenti ». Bacco invita il Maggi ad abbandonare i vini lombardi per mettersi a « trincar... il vin toscano ». Il Redi arriva fino a dare uno schizzo di se stesso, con il manifesto piacere di un ritratto antifrastico di sé celebratore dei vini toscani : è una grandiosa finzione, una splendido gioco anacronistico, un esempio di barocca libertà creativa, in contrapposizione al canto carnascialesco di Lorenzo de’ Medici, filologicamente rigoroso. Dice Bacco quando proclama di voler bere vino toscano a iosa : « Sì facendo del nevoso cielo / non temo il gielo, / né mai nel più gran ghiado m’imbacucco / nel zamberlucco, / come ognor vi s’imbacucca / dalla linda sua parrucca / per infino a tutti i piedi / il segaligno e freddoloso Redi ». Anche la parrucca come lo zamberlucco sono anacronismi, di fronte al dio Bacco, costantemente raffigurato, secondo il mito e soprattutto nelle pitture più specificamente barocche (i Carracci, Caravaggio, il Giordano e tanti altri ancora), come grasso, nudo o seminudo, secondo l’idea classica delle manifestazioni divine. L’anacronismo viene a essere una figura retorica fondamentale nel ditirambo, come il gioco supremo. Il Redi può appieno identificarsi con Bacco nel momento in cui sceglie il genere dionisiaco per la sua poesia ; e, in questo modo, può anch’egli celebrare, oltre che i vini toscani, i granduchi e Galileo che ha scoperto i pianeti detti per questo « medicei », e una preziosa sequenza di letterati e di scienziati, italiani e stranieri, non per ossequio cortigiano, ma per ulteriore divertimento anacronistico. L’impostazione delle varie sequenze del ditirambo è sinonimica e moltiplicativa, con i punti più clamorosi quando Bacco descrive la propria esasperata gioia di beone e i personaggi del suo corteggio ; e i termini sdruccioli vengono a essere quelli più adatti a rappresentare l’eccesso dei vini o delle bevute o a esecrare i vini stranieri o le altre bevande diventate di moda, come il caffè, la cioccolata, il tè, la cedrata, il limoncello, i sorbetti, il sidro, la cervogia.  





























































































































































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Se la rassegna dei vini è l’argomento del rimare del Redi, in quanto è un eccesso, un’esasperazione, una lotta vittoriosa contro la ragione e la misura, tali devono essere pure la scrittura e il ritmo, le rime. Di qui deriva l’uso degli accrescitivi (« calicioni » meglio di « calici », quando Bacco decide di volersi sfogare bevendo il vino privilegiato), dei superlativi e dei vezzeggiativi o dei diminutivi ; e tali forme, di conseguenza, invadono anche le lodi di Arianna che Bacco pronuncia mentre beve ; ed è una forma di ironica e quasi antifrastica rappresentazione amorosa, fino a dire che la bellezza di Arianna (pur garantita dal mito e dalla pittura) diventa sublime e inarrivabile, simile a quella di Venere, quando lo sposo la guarda tutto annebbiato dall’ubriachezza. Il vino è, unico, in grado di portare a perfezione la filosofia e le scienze. È un altro modo del Redi di offrire la tensione all’eccesso e all’esasperazione della poesia come del pensiero che indaga quella verità del mondo che le scienze ugualmente investigano. I tempi moderni, nell’ambito della letteratura come in quello delle scienze, hanno portato al piacere dell’eccesso e della meraviglia che ne deriva, e per bocca di Bacco il Redi vuole rilevare il fatto che c’è un altro strumento per rendere la mente e i sensi più ricchi e affinati e perfetti, per toccare il punto più alto di visioni e invenzioni linguistiche e rivelazioni, ed è il bere i buoni vini e ubriacarsi. Per contrapposizione il Redi rappresenta anche l’eccesso del negativo, come, per esempio, i vinelli francesi, pur amati anche dalle dame inglesi, mentre più clamorose sono le condanne delle bevande dei popoli nordici, che non conoscono o, meglio, non apprezzano i vini. Proclama Bacco : « Chi la squallida cervogia / alle labbra sue congiugne / presto muore o rado giugne / all’età vecchia e barbogia. / Beva il sidro d’Inghilterra / chi vuol gir presto sotterra. / Chi vuol gir presto alla morte / le bevande usi del Norte. / Fanno i pazzi beveroni / quei Norvegi e quei Lapponi ; / quei Lapponi son pur tangheri, / son pur sozzi nel lor bere ; / solamente nel vedere / mi fariano uscir de’ gangheri. / Ma si restin col mal die / sì profane dicerie, / e il mio labbro profanato / si purifichi, s’immerga / si sommerga / dentro un pecchero indurato / colmo in giro di quel vino / del vitigno / sì benigno / che fiammeggia in Sansavino, / o di quel che, vermigliuzzo, / brillantuzzo, / fa superbo l’aretino, / che lo alleva in Tregozzano / e tra’ sassi di Viaggiano ». Si noti la diversità d’impostazione metrica e linguistica delle lodi dei vini rispetto all’esecrazione delle bevande degli abitanti del Nord. Anche questa è esasperata, ma nell’iterazione accanita del rischio mortale che comporta bere cervogia, sidro e altre bevande che Norvegesi e Lapponi amano, presi come esempi dei popoli più settentrionali. Il discorso è rigoroso, un poco solenne, quasi un giudizio di medico quale il Redi è, chiamato nei consulti medici a fare diagnosi sulle malattie di persone del Nord, quindi esperto (e anche in questo caso Bacco viene a identificarsi con il Redi). Tre volte Bacco dichiara che sidro e altre bevande del genere sono da pazzi, perché conducono alla morte, ed è, a questo punto, una sottile allusione alla diversa pazzia, che il Redi conosce per la sua esperienza di letterato più che di medico, e una è quella che obnubila la mente e imbestia, mentre l’altra – acuita dal vino – è quella eroica che conduce a sublimi scoperte e a imprese straordinarie. È la follia eroicomica del poeta dionisiaco. L‘estremo scatenarsi dell’ebbrezza è perfettamente coerente con gli stupori di nuove scienze e lingue e comportamenti e visioni delle cose. Le bevande dei Paesi freddi non possono condurre alla visionarietà e alle scoperte di verità filosofiche e scientifiche invece fascinose e splendidamente ammirabili che suscita il vino. Bacco esecra le bevande esotiche – il tè e il caffè più specificamente – che comportano la banalità della parola, la debolezza del pensiero e la fredda incapacità del nuovo. È uno dei passi più noti del ditirambo. Siamo nella seconda metà dell’età barocca, e di lì a poco l’eccesso del vino sarà  





















bandito dalla letteratura a favore delle bevande – come il caffè – che non provocano gli sconvolgimenti della ragione ; il Goldoni, alla metà del secolo dei Lumi, scriverà La bottega del caffè come il luogo d’incontro fra le persone ammodo e misurata a conversare, a leggere le gazzette, a scambiarsi opinioni, a giudicare i costumi morali con il buon senso, del tutto ormai al di fuori delle bizzarrie e degli sconcerti che il vino provoca. Il caffè diventa l’emblema della misura, centellinato con tranquillità e misura e capace di acuire la mente. L’esecrazione rediana delle bevande nuove è contrapposta alla celebrazione del bere vino fino all’ebbrezza, ed è un altro aspetto della tensione alla totalità e all’eccesso della letteratura barocca, proprio mentre sta declinando. Cioccolata, caffè e tè sono, al dire di Bacco, non « medicine » ma veleni : il Redi giocosamente le condanna per l’aspetto oltre che per il sapore : « nero » è il caffè, e la tinta cupa facilmente è collegabile con il segno del veleno e della morte. Le Furie, a giudizio di Bacco, hanno inventato il caffè per il danno della salute degli uomini : al contrario il vino dal bel colore di fragola – il rosso – è emblema della vita, del sangue, della forza, della festa. Il caffè « nero e torbido », è invece l’emblema della malinconia, della freddezza dei sensi e della mente, della perdita dello slancio della parola poetica e delle capacità di variare infinitamente le visioni, i sogni, il piacere delle invenzioni della lingua e della ricerca scientifica e vitale. L’eccesso che il vino suscita porta a rendere sfrenata la descrizione e, insieme, a evocare Bassaridi, Fauni, Menadi, Egipani, abitanti di villa, i nomi canonici della poesia dionisiaca. L’uso costante dello sdrucciolo è la dimostrazione più clamorosa dell’ulteriore arricchimento della lingua e della tecnica poetica dell’età moderna. Esempio ulteriore dell’enciclopedismo tipico del Redi baroccheggiante è l’elencazione dei profumi più raffinati e preziosi e ricercati dalle donne e dagli uomini (con il Magalotti come punto di riferimento fondamentale), per confrontarli con quello dei grandi vini, che Bacco – con la conferma autorevole di Arianna – afferma essere infinitamente migliore. Come la cioccolata, il caffè, il tè, i profumi vengono dai più remoti luoghi esotici e dalle manipolazioni dei profumieri di moda : « Vin polputo / qual è quel ch’a diluvi oggi è venduto / dal Cavalier dall’Ambra / per ricomprarne poco muschio ed ambra. / Ei s’è fitto in umore / di trovare un odore / sì delicato e fino / che sia più grato dell’odor del vino : / mille inventa odori eletti, / fa ventagli e guancialetti, fa soavi profumiere / e ricchissime canziere, / fa polvigli, / fa borsigli / che per certo son perfetti ; / ma non trova il poverino / odor che agguagli il grande odor del vino. / Fin da’ gioghi del Perù / e da’ boschi del Tolù / fa venire, / sto per dire, / mille droghe e forse più, / ma non trova il poverino / odor che agguagli il grande odor del vino ». È uno degli esempi più alacri della moltiplicazione e delle variazioni d’immagini e di parole, quelle delle sperimentazioni tecnologiche e scientifiche dell’età barocca, unite con il gioco verbale, l’originalità delle rime, la sorpresa della mescolanza di termini antichi e delle lingue straniere. Le celebrazioni del vino che Bacco certifica vengono a sostituire trionfalmente le immagini canoniche della lirica (petrarchesca e classicheggiante) : per il vino «suo pregio perde / la brunetta / mammoletta / quando spunta dal suo verde» ; il bevitore gareggia con Apollo (« S’io ne bevo, / mi sollevo / sovra i gioghi di Permesso, / e nel canto sì m’accendo / che pretendo e mi do vanto / gareggiar con Febo istesso »), e Arianna è la suprema donna bionda della lirica volgare : « Al suon d’una ghironda / o d’un’aurea cannamella, / Arianna, idolo mio, / loderò tua chioma bionda, / loderò tua bocca bella ». È una variazione della stessa rimeria barocca : la meschianza di ‘comico’ e di lirismo, con l’aggiunta della filastrocca dei vini toscani e d’altri paesi italiani e stranieri. Il Redi dedica una lunghissima lassa all’esecrazione dell’acqua, naturalmente in contrapposizione alla sublimità  













































redi rimatore barocco del vino, e la affida a Bacco. È un procedimento tipicamente variantistico : la lode e la dannazione, con in più l’intreccio di comico e di serio, di faceto e di drammatico, di realistico e di grottesco. Caratteristico è qui il passare del discorso del Redi dall’acqua come fonte di indebolimento del corpo, alla forza corroborante, invece, del vino, ma l’esecrazione dell’acqua si allarga ai danni dei fiumi e delle alluvioni che essi provocano. L’enfasi comica è attraversata dalla seria drammaticità delle rovine che le acque possono procurare : il Pascoli dirà con Pindaro le acque ora ottime, ora pessime, e il Redi prima già aveva ricordato la solenne sentenza pindarica. Poiché siamo nell’età barocca dello sviluppo clamoroso delle scienze, il Redi parla anche delle medicine erronee dei suoi colleghi, e incarica Bacco di spiegare la sua idea della buona ed efficace dieta che prevede il vino e condanna l’acqua ; ma il discorso è alquanto ambiguo e antifrastico, e infatti Bacco chiama a soccorso il matematico galileiano Viviani per pronunciare una battuta bizzarra e bislacca : i medici, dice, che consigliano di bere soltanto acqua hanno la testa dura e grossa, incapace di ogni saggezza, di ogni eleganza, di ogni piacere della parola, che il vino, invece, facilita, in quanto rende la mente agile e sciolta. Il Redi sa bene che la scienza non è comprensibile e vitale se non è messa insieme con la vivacità e con l’inventività della letteratura, come ha dimostrato proprio Galileo. L’ultima sezione del ditirambo, pur sviluppandosi sempre per moltiplicazione, dimostra conclusivamente che nell’età barocca non ci sono più la Terra, immobile e stabile al centro dell’universo, l’ordine, la misura, la regola, ma tutto è mobile fino alla vertigine, e la testa gira e le parole si confondono, così come girano i pianeti e le stelle. Il vino fa girare la testa : è un parallelismo – a ben vedere – del sistema copernicano a cui il Redi rende galileianamente omaggio. L’inizio della raffigurazione del mondo non più immobile, ma capovolto e in preda a vertigini, è subito grandioso, e varia i giochi di parole, le invenzioni, le ripetizioni continuamente usate a prova della perdita di un ordine del linguaggio – così come del comportamento – nell’eccesso dell’ebbrezza : « Quali strani capogiri / d’improvviso mi fan guerra ? / Parmi proprio che la terra / sotto i più mi si raggiri ; ma se la terra comincia a tremare / e traballando minaccia disastri, / lascio la terra, mi salvo nel mare ». È un’ulteriore parodia, una raddoppiata rappresentazione della perdita della solidità e della fermezza del mondo, il fatto che Bacco si imbarchi su una gondola per andare a Brindisi, purché, naturalmente, essa « sia carca / di brindisevol merce », e si affidi proprio all’elemento più infido e mutabile, quale è il mare, e avendo pure dichiarato tanto volte di non sopportare alcun genere di acqua ; ma se la Terra gira e gira la testa, è lo stesso affidarsi al mare, anche a costo di essere coinvolto in una tempesta. Brindisi è, naturalmente, un facilissimo gioco di parole fra il nome della città e il finale di ogni bevuta grandiosa : « Su, voghiamo, / navighiamo, / navighiamo infino a Brindisi, / Arianna, Brindis, Brindisi ». Le ripetizioni diventano ossessive e vertiginose : non ci sono più una rotta precisa e un punto di riferimento : la meta a cui Bacco invita i rematori della sua barca è al tempo stesso Brindisi e il brindisi conclusivo con tutti i vini che la barca porta con sé ; e anche l’invio amoroso di Bacco all’amata Arianna diventa l’occasione per bizzarrie ulteriori, con un capovolgimento del canone poetico, anche di quello ‘comico’, perché vi si inseriscono battute suscitate esclusivamente dalla perdita di ordine e ragione e sentimento, coinvolti anch’essi nello sconvolgimento del mondo : « Su, voghiamo, / navighiamo, / navighiamo infino a Brindisi : / Arianna, Brindis, Brindisi. / Passavoga, arranca, arranca, / ché la ciurma non si stanca, / anzi lieta si rinfranca, / quando arranca inverso Brindisi : / Arianna, Brindis, Brindisi. / E se a te brindisi io fo, / perché a me faccia il buon pro, / arianuccia, vaguccia, belluccia, / cantami un poco e ricantami  













































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tu / sulla mandola la cuccurucù ». La mescolanza delle parole e degli stessi accenti arriva fino ad apparire in totale libertà, senza più regola e misura. Se il mondo è capovolto e gira, anche le parole si disfanno e si ricompongono capricciosamente, in una strampalata moltiplicazione : « La cuccurucù / la cuccurucù / sulla mandola la cuccurucù. / Passa vo / passa vo, / passavoga, arranca, arranca. / [...] / Arianna, Brindis, Brindisi, / e se a te, / e se a te brindisi io fo, / perché a me, / perché a me, / perché a me faccia il buon pro, / il buon pro, / Arianuccia, leggiadribelluccia, / cantami un po’, / cantami un po’, / cantami un poco e ricantami tu / sulla viò, / sulla viola la cuccurucù, / sulla viola la cuccurucù ». Anche il mare, allora, non può che essere in armonia (o, meglio, in analoga disarmonia) con lo sconvolgimento delle cose, e suscita una tempesta. Il Redi non rinunci a un sottogenere poetico quale è la tempesta di mare, a incominciare dall’Odissea per giungere fino a Virgilio e all’Eneide e avere poi un’esemplificazione suprema nell’Orlando furioso ; ma forse più vicino è quello del Baldus, per la non canonicità della rappresentazione che mescola la partecipazione degli dèi e le venture di fulmini, ondate mostruose, piogge, tuoni. La tempesta del Redi però è, in realtà, un’allegoria : è la tempesta nel mare che combatte vanamente con quello del vino, vincitore alla fine, quando giunge all’ebbrezza che è l’immagine del mondo capovolto e sconvolto. Il racconto della tempesta di mare incomincia con tutti i particolari canonici : « Or qual nera con fremiti orribili / scatenossi tempesta fierissima, / che de’ tuoni fra gli orridi sibili / sbuffa nembi di grandine asprissima ? / Su, nocchiero ardito e fiero, / su, nocchiero, adopra ogn’arte / per fuggire il reo periglio: / ma, già vinto ogni consiglio, / veggio rotti e remi e sarte, / e s’infurian tuttavia / venti e mare in traversìa. / Gitta spere omai per poppa, / e rintoppa, o marangone, / l’arcipoggia e l’artimone, / ché la nave se ne va / colà dove è il finimondo, / e forse anco un po’ più in là ». È, in realtà, una tempesta del tutto infinta : è uno spettacolo, con, in sintesi, tutti i componenti del fortunale canonico, ma con quell’eccesso e con quelle esclamazioni (gli incoraggiamenti e gli ordini dati ai marinai) che rivelano il fatto che siamo alle prese con una finzione, con una ‘meraviglia’ a cui assistono Bacco con i suoi accoliti e Arianna come in un teatro, in quel porto di Brindisi che è il sinonimo del brindisi supremo delle bevute. L’esagerazione esclamativa della tempesta è un gioco, a maggiore gloria di Bacco e del vino, che calma il mare, perché esso è infinitamente potente, guarisce tutti i mali e rende sereno il mare del cuore, oltre che quello reale. La rappresentazione della tempesta si trasforma in fretta da drammatica e terrificante in una festa del vino. Bacco non è giustamente esperto dell’acqua, che ha detto di avere in odio e di temere, perché sempre infida, ma sa che la tempesta è uno spettacolo di teatro, tanto è vero che continua a raccontare : « Scendon Sion dall’aerea chiostra / per rinforzar coll’acqua un nuovo assalto, / e per la lizza del ceruleo smalto / i cavalli del mare urtansi in giostra. / Ecco, oimè, ch’io mi mareggio. / E m’avveggio / che noi siam tutti perduti. / Ecco, oimè, ch’io faccio getto / con grandissimo rammarico delle merci preziose, /delle merci mie vinose ; / ma mi sento un po’ più scarico. / Allegrezza, allegrezza ! Io già rimiro, / per apportar salute al legno infermo, / sull’antenna da prua muoversi in giro / l’oricrinite stelle di Santermo. / Ah ! no, no, non sono stelle : / sono due belle fiasche gravide di buoni vini. / I buon’ vini son quegli che acquetano / le procelle sì fosche e rubelle, / che nel lago del cuor l’anime inquetano ». Il lago del cuore è una citazione dantesca, ma è anche un termine tecnico della medicina ; ed è un altro momento in cui il ditirambo allude alle scienze moderne, quelle di cui è interprete e indagatore il Redi stesso. Esso è tuttavia anche uno dei molti sintomi del fatto che la  





































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tempesta è un gioco letterario e, al tempo stesso, lo scioglimento dell’avventura : la tempesta è stata lo scontro fra l’acqua e il vino, e il furore dei marosi subito si acquieta quando Bacco butta in mare il suo vino, e scopre allora di trovarsi in mezzo alla tranquillità e alla gioia, perché a farlo galleggiare e a salvare la nave che va al brindisi conclusivo sono « due belle / fiasche gravide di buon vini ». È il rifacimento del mito di Dioniso che, catturato dai pirati, trasforma la nave in un vigneto carico di grappoli d’uva, ed è il lieto fine di tutte le avventure di Bacco in Toscana. La conclusione del ditirambo, dopo un’ulteriore dimostrazione di barocca catalogazione dei recipienti migliori e peggiori o addirittura disdicevoli adoperati per bere il vino, con la solita esasperazione enfatica (Bacco vuole uno « sterminato calicione », mentre minaccia di esecrazione « chi s’arrisica di bere / ad un piccolo bicchiere », dicendogli che non fa altro che fare « la zuppa nel paniere », e rifiuta « bicchieretti fatti a foggia », « arnesi da ammalati », « tazze spase e piane », « caraffini, / buffoncini, / zampilletti  































e borbottini », che sono « trastulli da bambini, / son minuzie che raccattole / per fregiarne in gran dovizia / le moderne scarabattole / delle donne fiorentine ; / voglio dir non delle dame, / ma bensì delle pedine »), è un’antifrasi : le Baccanti cantano e si adornano di edere e di corimbi, mentre i satiri dormono perché ubriachi fradici. Si ritorna al gioco della mescolanza fra le ripetizioni del canone classico e l’ammodernamento della scrittura moderna, toscana e sottilmente barocca : « A così lieti accenti / d’edere e di corimbi il crine adorne / alternavano i canti / le festose Baccanti ; / ma i Satiri, che avean bevuto a insonne, / si sdraiaron sull’erbetta / tutti cotti come monne ». L’aspetto esemplarmente originale del ditirambo è proprio quello di aver adoperato – con ironia e giocosità – i modi barocchi della scrittura poetica : certamente il Marino degli Idilli favolosi è il punto di riferimento, ma il Redi vi inserisce accanitamente le forme del ‘comico’ toscano, di eco bernesca : un ampliamento non piccolo della vicenda della poesia toscana.  





















ISOLA E PENISOLA : CORRENTI ANGLO-ITALIANE  

Arturo Cattaneo

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’im magine dell’isola come madre, nutrice, protettrice, specchio in cui l’anima inglese si palesa e trova i suoi contorni, scorre sottesa a tutta la letteratura britannica. Nasce da nobilissimi lombi, da quella tradizione elisabettiana che è alla base della moderna Inghilterra, nell’arte come in politica. La sconfitta del primo grande nemico europeo, l’Invincibile Armata di Filippo II, nel 1588, fa sgorgare dai petti della nazione non solo Te Deum di ringraziamento, ma un anelito di celebrazione dell’isola dei beati che pervade tutte le arti del tempo. E se nel celebre Ditchley Portrait (1592 circa, forse di Marcus Gheeraerts il Giovane, oggi alla National Gallery) vediamo Elisabetta imperatrice calcare come una divinità la mappa della sua isola, nello splendore di un ampio abito riccamente decorato di gemme che sembra renderla alata come Minerva, in quegli stessi anni le arene dei teatri elisabettiani risuonavano dell’alta retorica patriottica dei drammi storici di Shakespeare :  

Questo trono augusto di re, questa isola scettrata, questa terra di maestà, questo seggio di Marte, quest’altro Eden, questo mezzo paradiso, fortezza che la natura eresse a sua difesa contro la peste e la violenza della guerra, questa felice stirpe d’uomini, questo piccolo universo, questa pietra preziosa incastonata nell’argento del mare che le è intorno come un vallo o una fossa a difesa di un castello contro l’invidia di paesi meno prosperi ; questa aiuola benedetta, questa terra, questo regno, questa Inghilterra, questa nutrice, questo grembo di re augusti..., 1  

e così via per molti versi ancora che accendevano le menti e i cuori degli elisabettiani di ogni condizione sociale e cultura, stretti gomito a gomito intorno a quel palcoscenico che Shakespeare definì «zero di legno», ad indicarne la forma circolare, così come circolare era il teatro stesso, che in proiezione si allargava all’isola e poi, ma solo in alati e guardinghi voli di fantasia, al mondo stesso. Ma più che seguire gli sviluppi di quest’unione indissolubile, nell’anima britannica, della presenza fisica dell’isola – la sua terra, il suo mare, i suoi contorni, la lingua che vi si parla – con la percezione dell’identità personale, unione che potrebbe riassumersi nel brano di una lettera del poeta gallese Dylan Thomas, intenso come il pensiero sensuale dei suoi più celebri versi : « Attraverso la mia piccola isola tenuta insieme dalle ossa io ho appreso tutto quello che so, ho esperimentato tutto, sentito tutto. Tutto ciò che scrivo è inseparabile da codesta isola. Per quanto io posso, dunque, impiego la scena dell’isola per descrivere la scena dei miei pensieri » ; più che seguire quegli sviluppi, è interessante, in ambito comparatistico, rilevare come questo senso geloso di insularità si sia poi sposato, di fatto, a una grande, e nel Rinascimento totale, apertura alla letteratura italiana, e più in generale europea. Ed è allora l’immagine del ponte che, idealmente, si presta a qualche riflessione sugli scambi tra un’isola e una penisola – Inghilterra e Italia, ovviamente – che fino alla comparsa dell’aereo furono divise, di fatto, da un braccio di mare, un continente, e una barriera alpina. Vedremo, nei limiti di spazio a nostra disposizione, come l’immagine del ponte sia an 







data gradualmente affermandosi, a partire da un uso neutro e puramente referenziale del termine, all’interno della letteratura e delle arti figurative legate al viaggio, in particolare al Grand Tour fra Sette e Ottocento ; e come la stessa immagine, dalla categoria del pittoresco sia stata poi utilizzata per la definizione di stati d’animo più ampi e non così strettamente dipendenti dalle idee di viaggio, di passaggio, di movimento.  

Storicamente, e per la sociologia della letteratura, il nodo centrale dei rapporti complessi tra Italia e Inghilterra, fatti di arte ma anche di paesaggi, città e villaggi vivi o sonnacchiosi, uomini e donne che parevano racchiudere in sé tutta la tipologia umana immaginabile (e anche di più), aria, acque, clima, mode, cucina – tutto quanto oggi riassumeremmo nel termine ‘cultura’ – è senza dubbio il Grand Tour, il viaggio iniziatico che, dall’Europa del nord, portava i viaggiatori al cuore della civiltà occidentale : l’Italia. Raramente un singolo termine ha riassunto tanto efficacemente tanta diversità di contenuti, dandogli omogeneità al solo pronunciarlo, come è stato per secoli. La formula del viaggio di conoscenza colloca poi gli scambi culturali tra i due paesi in una prospettiva cangiante d’acqua e di terra che tocca, inevitabilmente, non solo il concetto e l’immagine di isola e penisola, ma anche quelli del ponte – che peraltro occupano una parte non indifferente nell’immaginario romantico e moderno. Una prospettiva di viaggio, come ben scrisse Vernon Lee, grande amica dell’Italia, in cui ambientò molte delle sue opere, dove le strade stesse posseggono una qualità acquatica e di mediazione tra mondi diversi : « Che strana cosa sono le strade, fiumi creati dalla mano dell’uomo, lungo i quali scorrono lingue e usanze, tutta una civiltà, e le nostre stesse fantasie, se ne abbiamo ». Anche, aggiungerei, le nostre paure. Strade e ponti sono stati utili e oggetto di ammirazione per gli Inglesi, in patria e soprattutto all’estero, assecondandone la tendenza all’esplorazione e alla colonizzazione, ma tanto più rassicuranti quanto più contemplati dalla sicurezza delle isole britanniche. Il tunnel che ora scorre sotto la Manica, inaugurato il 7 maggio 2003, ha posto fine a un millenario isolamento di cui gli Inglesi andavano fieri. Rievocando, al tempo stesso, le più tipiche paure anglo-sassoni della contaminazione con gli altri, gli stranieri. « Non dimentichiamoci », ha osservato lo storico Daniel Pick, « che l’eugenetica nasce in Inghilterra, non in Germania. È qui che si chiede al governo di approntare una politica volta alla preservazione della pura razza inglese contro le degenerazioni in atto. Ed è su questo stesso sfondo che si innestano sia un revival malthusiano, preoccupato di segnalare che a far figli sono più gli ‘irresponsabili’ che i ‘virtuosi’, gli ‘stranieri’ che gli ‘inglesi’, sia il terrore sessuale per una contaminazione volta a intaccare quella terra che il padre di Winston Churchill, Randolph, definiva ‘virgo intacta’ ». Del ponte, il tunnel è stato a lungo la controparte sotterranea, il doppio oscuro, come le divinità pagane del sottosuolo stavano a quelle celesti. Persino al ponte, però, l’immaginario collettivo inglese ha attribuito una certa dose di pericolosità. Si confronti la definizione di ponte data dall’Enciclopedia Treccani, tanto neutra e tecnica da lasciare il lettore nel dubbio, dopo poche righe, su cosa sia realmente un ponte, con quella che ne dava l’Enciclopedia Britannica nel 1929, quando ancora la coscienza imperiale non era sopita : « la funzione del ponte può essere descritta come l’inizio di un flusso di rapporti umani fino ad allora impossibili, il superamento di una  

















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  William Shakespeare, Riccardo II, ii, i, 40-51, in Idem, I drammi storici, i, a cura di Giorgio Melchiori, Milano, Mondadori, 1996.



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arturo cattaneo

barriera, l’unione di due mondi divisi da una spaccatura. Una di queste barriere, il grande fiume Severn, più di una volta ha deciso il destino dell’Inghilterra ». E seguono esempi tratti dalla storia inglese. L’accento è sulla funzione tutt’altro che neutra del ponte, sui rapporti che esso instaura tra individui e popoli. La morale sembra essere : attenzione a dove si costruiscono i ponti.  



Una descrizione del viaggio che tenga conto dell’effetto estetico e psicologico che gli elementi del paesaggio, uomini inclusi, hanno sul viaggiatore, è cosa recente, rappresentando nell’antichità più l’eccezione che la regola. Curiosamente, nel Cinquecento non esisteva il paesaggio come noi l’intendiamo, ma piuttosto il ‘paese’, inteso come insieme di particolarità fisico-ambientali, di insediamenti umani e di sfruttamento delle risorse naturali : qualcosa di molto simile alla nostra geografia economica, e che potrebbe riassumersi nei termini moderni ‘territorio’ o, ancor meglio, environnement, alla francese, o environment, all’inglese. I taccuini di viaggio spagnoli del Guicciardini (così come le lettere del Castiglione, inviato come nunzio pontificio in Spagna), rivelano un occhio attento alle notizie pratiche, ma insensibile al colore locale : « A dì 5 da Girona venimmo colla neve a Stelich, discosto leghe cinque ; è castello di poca qualità ; ed el paese, allo usato, salvatico e cattivo. Quello poco che io veddi di Ragona è paese sterile, inculto e quasi disabitato [...] ed anche è una terra di pochi quattrini, molto penuriosa di acque ; vi è pecore assai, che cavono utile grande di lana ; ed anche fa zafferani assai. La poca gente che vi è fa che non vi è carestia ; alloggiamenti cattivi e mal serviti, che communemente sono uomini asini e villani ». 1 E le Alpi venivano percorse non per cavarne brividi romantici e paesaggistici, ma con intenti molto concreti : per definire la Summa lacticinorum (1477), come fece il medico Pantaleone da Confienza, percorrendo, valle dopo valle, tutto l’arco alpino, descrivendo la geografia dei formaggi d’Europa. Come osserva Piero Camporesi, « immagini ‘paesaggistiche’, scorci ‘panoramici’, ‘viste’ pittoresche sono impensabili per gli uomini del Cinquecento ». 2 E lo saranno ancora a lungo, per tutto il Seicento almeno. Montaigne, con il suo Voyage d’Italie, inaugura per il Grand Tour la strada delle riflessioni personali, come si addiceva a chi nel creare quella moderna forma di confessione letteraria che è il saggio, proclamava al lettore : « c’est moy que je peins », dipingo me stesso ; e ancora, « je suis moy-mesmes la matière de mon livre », son io la materia del mio scrivere. Ma erano riflessioni destinate a non far scuola se non dopo cento e più anni. Joseph Addison, le cui Remarks on Several Parts of Italy (1705), più volte ristampate, furono il vademecum dei viaggiatori inglesi del Settecento, avverte il lettore, nella prefazione, di avere intrapreso il viaggio per ragioni di studio, sulle orme dei classici, e ha sempre sulle labbra o uno sprezzante giudizio sulle condizioni attuali degli Italiani o una citazione latina : il Clitumno è per lui sì fonte, ma più dei versi di Properzio, Virgilio, Silio Italico, Lucano, Stazio e Giovenale, che non di limpide acque e ameni ponticelli, come sarà per Byron e Carducci. I due ponti che più lo colpiscono sono quello dell’acquedotto di Spoleto, il più alto d’Europa, e il ponte d’Augusto a Narni, nobilissima rovina classica. Non stupisce che Horace Walpole lo criticasse poi per aver viaggiato attraverso i poeti e non attraverso l’Italia. Simile sarà anche l’animo di viaggiatore di Johann Caspar Goethe, padre del poeta, che non solo fu in Italia nel 1740, ma in italiano redasse il suo Viaggio in Italia, tratto dall’oblio dal Farinelli nel 1932. Più interessato a lapidi e iscrizioni che a  





































1   Francesco Guicciardini, Diario del viaggio in Spagna pubblicato e illustrato da Paolo Guicciardini, Firenze, Le Monnier, 1932, pp. 49-56. 2   Piero Camporesi, Le belle contrade, Milano, Garzanti, 1992, p. 11.

uomini e paesaggi, sempre di Spoleto commenta : « luogo non meno deplorevole del precedente [Foligno] », in quanto « appena incontrammo una persona sopra la strada nonostante che camminassimo per tutta la città ascendendo e discendendo ». 3 E in questa passeggiata vede « un certo ponte », osservandolo « con occhio non indifferente ». Tale reazione, che oggi appare quasi blasée, da viaggiatore inglese tra le due guerre che fugge la nota e arcinota civiltà occidentale per sfondi più esotici, alla Robert Byron o alla John Bowles, sorprende, sia per l’oggettiva maestosità del Ponte delle Torri, che ancor oggi collega la montagna di Spoleto ai fianchi fitti di lecci del prospiciente Monteluco, sia perché, di lì a poco più di cinquant’anni, la stessa vista strapperà commenti rapiti agli artisti romantici. Si veda la lettera di Shelley all’amico, poeta e romanziere, Thomas Love Peacock, del novembre 1818 :  



















Da Fano lasciammo la costa dell’Adriatico ed entrammo negli Appennini. Abbiamo viaggiato due giorni fino a Spoleto. Io credo che sia la più romantica città che abbia mai visto. Vi è un acquedotto di stupefacente altezza che unisce due montagne rocciose, sotto vi scorre un torrente che imbianca la verde e angusta valle con il suo ampio letto sassoso e sopra di esso vi è un castello apparentemente di grande solidità e di straordinaria grandezza, che domina la città, e i cui bastioni marmorei sono perpendicolari al precipizio. Non ho mai visto un quadro più impressionante, in cui le forme della natura sono del genere più stupendo, ma dove la creazione dell’uomo, sublime per la sua antichità e grandiosità, sembra predominare. 4

L’anno seguente fu il pittore J. W. M. Turner a passare per Spoleto, e a fissare il Ponte delle Torri in un disegno che servì di base al suo celebre dipinto dello stesso soggetto, oggi alla National Gallery di Londra. La formazione di questa sensibilità può rintracciarsi, in campo figurativo come in letteratura, attraverso i mutamenti che il viaggio in Italia subisce nella seconda parte del Settecento. Non perché questo diventi più popolare che in passato, anche se alla metà del secolo Samuel Johnson, l’arbiter litterarum d’Inghilterra, sentenziava che chi non avesse compiuto il Grand Tour avrebbe sempre sofferto di un complesso d’inferiorità. Né perché le condizioni fisiche in cui si svolgeva il viaggio fossero mutate di molto : in Italia si giungeva sempre traversando le Alpi ; solo pochi vi arrivavano via mare, e spesso se ne pentivano, come fu per Keats, cui la lunga e disagevole traversata accorciò sicuramente la già brevissima vita. A mutare era stata la cognitio ocularis, che ora permetteva di scorgere bellezza e punti d’interesse dove prima non trovava che ostacoli da superare con pericolo e fatica :  





Un viaggiatore del Cinquecento non si muoveva per ‘vedere’ come un turista dell’Otto e del Novecento le bellezze delle chiese, ma vi entrava da pellegrino, per devozione ; se viaggiava per affari, frequentava fondachi, porti, fiere, mercati ; se doveva attraversare, con non poca fatica, montagne, ascendere per dirupi, passare fra strette gole, non poteva né cercare il pittoresco né estasiarsi alla vista di vette scintillanti. Aborriva neve e ghiaccio, detestava o per lo meno non amava i monti. 5  



Nel giro di pochi anni, nella prima metà del Settecento, comincia a farsi strada, e poi dilaga, il culto del pittoresco, dei paesaggi alpini, di picchi, ghiacciai, burroni, orridi e, non ultimi, dei ponti, che cessano di essere considerati semplice prolungamento della strada, e acquistano invece valenze emotive rapportabili a quelle del paesaggio in cui si inseriscono e, più tardi, in piena sensibilità romantica, dello stato d’animo di chi li calca. A metà strada tra i viaggiatori rinascimentali e quelli romantici si situa, e non solo per ragioni cronologiche, John Evelyn, il più famoso diarista della Restaurazione insieme a 3   Cit. in Marilena De Vecchi Ranieri, Viaggiatori stranieri in Umbria. 4   Ivi, p. 100. 1500-1915, Perugia, Volumnia, 1986, p. 72. 5   Piero Camporesi, Le belle contrade, cit., p. 79.

isola e penisola: correnti anglo-italiane Samuel Pepys. Nel suo Diary, alla data del maggio 1646, « reduce dagli incanti dell’isola di Armida sul lago Maggiore », e cioè l’Isola Bella delle Isole Borromee, Evelyn evoca, passata Domodossola, « l’atmosfera del viaggio periglioso e supremo, in un tempo in cui ponti, botri e cascate non erano solo spettacolo e sublime visione di lato alla strada, bensì pericolo imminente e motivo di continua apprensione ». 1 E racconta, in una prosa che la precisione dei dettagli e la tensione drammatica rendono già moderna :  









Alcune di queste enormi montagne erano costituite da un unico ammasso di roccia fra le cui fenditure si riversavano, di tanto in tanto, enormi quantità di neve liquefatta e di torrenti d’acqua che facevano un fragore tremendo, la cui eco veniva rinviata da rocce e anfratti. Poiché in alcuni luoghi queste acque precipitavano in cascate, ci bagnavamo come se fossimo passati attraverso la bruma, e non ci permettevano di vedere, né di sentirci gli uni con gli altri. Riuscivamo a proseguire solo a tentoni, affidandoci ciecamente ai nostri fedeli muli. Gli esili ponti, costituiti in vari luoghi da grossi tronchi d’abete caduti al suolo e gettati da una sponda all’altra, sopra cascate di incredibile profondità, sono oltremodo pericolosi e del pari lo sono gli stretti cunicoli e i sentieri scavati nella roccia. 2

Quasi un secolo dopo, le stesse difficoltà generano entusiasmo e rapimento estetico in Horace Walpole, il padre del romanzo gotico con il suo Castle of Otranto, e in Thomas Gray, l’autore della celeberrima Elegy Written in a Country Churchyard, che insieme attraversarono il Moncenisio diretti in Italia. Scriveva il Walpole a Richard West, a fine settembre 1739 : « Ma la strada, West, la strada ! serpeggiava intorno a una montagna di dimensioni prodigiose, ed era circondata da altre montagne, fitte di una vegetazione incombente, oscurate dai pini o nascoste dalle nubi ! E, sotto, un torrente che si apriva a forza il cammino tra pareti rocciose, correndo tra massi sgretolati ! Cascate tese come lamine spingevano la loro massa argentata giù per precipizi, come canali, precipitando verso il fondo in un fiume turbolento ! Qua e là un vecchio ponticello dai bordi rotti, una croce pendente, una malva, o le rovine di un romitaggio ! Tutto ciò suona troppo esaltato e romantico per chi non l’ha mai visto, troppo freddo per chi ha potuto ammirarlo ». Il ponticello pericolante appartiene, con i torrenti rovinosi, le rocce immense e incombenti, le cascate assordanti e accecanti, le « due adorabili tempeste che riecheggiano il reciproco furore », citate più oltre nella lettera, al medesimo genere di « orror bello », voluttà della paura, sbigottimento di fronte alle grandi e irresistibili forze della natura, cui vent’anni più tardi, nel 1759, Edmund Burke darà esposizione sistematica nella sua Philosophical Enquiry Into the Origin of the Sublime and Beautiful, che fisserà i parametri di certa sensibilità romantica fino ai Decadenti di fine Ottocento. Altri passi della stessa lettera del Walpole chiariscono la qualità pittorica di questa ispirazione, altrettanto fondamentale di quella filosofica, e a questa collegata : dall’asindeto rapsodico con cui celebra « precipizi, montagne, torrenti, lupi, rimbombi, Salvator Rosa ! », fino all’invocazione finale : « rientrammo a cavallo per questo quadro incantevole ; avremmo voluto con noi un pittore, avremmo voluto esser poeti ! ». L’evocazione di Salvator Rosa precisa i termini della visione di Walpole, che non è solo quella che gli si para materialmente dinnanzi, ma è la stessa, filtrata dall’arte del pittore e incisore napoletano che, da un secolo ormai, andava insegnando agli stranieri a ‘vedere’ l’Italia secondo la categoria del pittoresco. Suoi sono quei celebri paesaggi ariosi, presto imitati in tutta Europa, chiusi da monti e città che sfumano in distanza, illuminati da un cielo che digrada dall’ocra al cilestrino, gettando bagliori di luce sulla penombra delle masse enormi in primo  



























   







   

1   Attilio Brilli, Alla ricerca degli itinerari perduti, Milano, Silvana, 1988, p. 33. 2   Attilio Brilli, Quando viaggiare era un’arte, Bologna, il Mulino, 1995, p. 61.

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piano, massicci irregolari e impervi da cui escono, con un che di piacevolmente irregolare, spuntoni di roccia, frammenti di antiche rovine, e una vegetazione scarna e nervosa : la scena è popolata da figurine di banditti, come si diceva in Inghilterra, e straccioni variopinti che fissano, per un’intera epoca, il colore locale italiano. A connettere, nei paesaggi del Rosa, selve oscure, monti impervi, rovine classiche, e umanità variopinta, provvede un ponte, come nel celebre Paesaggio che si conserva a Palazzo Pitti, dove il ponte diroccato, in primissimo piano, da cui pendono resti di stemmi nobiliari e di cartigli di pietra, è attraversato da uomini a cavallo, giacche rosse con maniche a sbuffo e cappellacci flosci, come i bravi del Manzoni. Ispirazione visiva e verbale viaggiano insieme, ed è la seconda, contrariamente a quanto accadeva nel Rinascimento, ad inseguire semmai la prima, e ad esserne stimolata. Il viaggiatore sembra si muova per dar voce a quel pittoresco che fissa le tappe e i modi del suo viaggio con la determinazione inesorabile delle moderne agenzie turistiche, aprendo la strada a quella che, nel 1957, Roland Barthes chiamerà la « promozione borghese della montagna ». La gita a Tivoli, ad esempio, con la visita a villa d’Este, così come il pellegrinaggio ai castelli romani, « non solo divengono prassi d’obbligo per qualsiasi viaggiatore, bensì rituale per i paesaggisti di ogni cultura. Gli uni e gli altri vi colgono l’essenza del paesaggio italiano e vi sperimentano gli insegnamenti di una lunga tradizione di vedutismo topografico che risale al Poussin, al Lorenese, a Salvator Rosa e che si è venuta via via arricchendo con il concorso di Hubert Robert e di Fragonard, di Francis Towne e di John ‘Warwick’ Smith, di Ducros e di Philipp Hackert ». 3 Non c’è praticamente veduta settecentesca di Tivoli, dall’incisione della villa di Mecenate, di John Smith, o del Tempio di Vesta di Miss Batty, alle acqueforti dello svizzero Louis Ducros (veduta di Tivoli con il tempio della Sibilla), fino allo splendido quadro di Claude-Joseph Vernet, dove tra masse di roccia e d’acqua dai colori pastello filtrano imponenti vestigia antiche e semplici figure umane, non c’è veduta che non contempli la prospettiva dal basso, la caduta verticale delle acque delle cascate, e il taglio orizzontale che su di esse opera, immancabilmente, il ponte. Proprio la cascata del Teverone a Tivoli, che non aveva impressionato Montaigne più di tanto, all’inizio del Settecento incanta invece il francese De Brosses, che sente la presenza di antiche divinità dei boschi e sceglie come punto di osservazione privilegiato il ponte :  











L’altro giorno me ne sono andato solo soletto a Tivoli, l’antica Tibur [...] Non vedete anche voi, un po’ oltre il Soratte, il dio dei boschi che, tornando d’Arcadia, corre col piede bisulco verso la sua dimora, nei pressi della casa di campagna di Orazio ? [...] feci una passeggiata sul ponte per andare a vedere la cascata del Teverone, altrimenti detto Aniene, la cui acqua si precipita rapida da un’altezza mediocre su di un ammasso di rocce acuminate che la polverizzano, e donde sprizza in milioni di perle brillanti... Non è possibile trovar nulla di più gradito di questo luogo, al quale il tempio della pretesa Sibilla alburnea conferisce ulteriore incanto. 4  

La compenetrazione di pittoresco iconografico e verbale è tanto stretta che, persino nel caso di quel particolare del paesaggio che è il ponte, è quasi impossibile trovare un riferimento letterario cui non corrisponda un quadro, un’incisione, un acquarello. Così George Dennis, dipendente della dogana britannica, erudito pioniere dell’etruscologia, autore di Cities and Cemeteries of Etruria, descrive nell’Ottocento Civita Castellana :  

Qual è il viaggiatore che, recandosi a Roma prima del tempo delle ferrovie, non è passato da Civita Castellana ? Nessun monumento italiano è più conosciuto del suo ponte, nessuno di sicuro è più frequentemente ritratto dai turisti, e se lo merita. Benché abbia solo  

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  Attilio Brilli, Alla ricerca degli itinerari perduti, cit., pp. 133-134.   Ivi, p. 135.

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poco più di un secolo, questo ponte o viadotto è degno dello splendore della Roma imperiale. Insieme alla forra, alla città eretta sul suo ciglio, alla lontana Campagna, al Soratte e agli Appennini, forma uno degli accostamenti spontanei più riusciti fra natura ed arte che si trovino in questa terra dove, più che in altri luoghi, natura ed arte si compenetrano. 1

Proseguendo una vecchia tradizione, Dennis ne fa eseguire un acquarello, leggero e arioso come gli alti pilastri del ponte, a Samuel James Ainsley, autore delle illustrazioni di Cities and Cemeteries of Etruria, dove sul lato in basso a sinistra si vede un gentiluomo in tuba e bastone da passeggio, con alle spalle il ponte e la città, seduto in una posizione inclinata che è variante già borghese di quella reclinata neoclassica di Goethe, nel celebre ritratto che di lui fece Tischbein nella Campagna romana. Lo stesso identico sentire tra parola e immagine si verifica nel caso del più aereo e luminoso dei ponti : l’arcobaleno sulla cascata delle Marmore, presso Terni, immortalato in un dipinto di Turner a cui i versi di Byron nel Childe Harold (qui nella traduzione del ternano Diocleziano Mancini) potrebbero far da epigrafe : « E sull’estremo / ciglio di questo infernal gorgo s’affaccia / all’alba radiosa ad ambo i lati / l’iride bella come la speranza / sopra un letto di morte, e inalterata / resta ne’ suoi colori mentre intorno / tutto han le vorticose acque percosso ». 2 E a poca distanza in linea d’aria, sulle sponde del lago di Bolsena, nel 1780 William Beckford, il decadente ante litteram autore del Vathek, aveva registrato le sue impressioni di viaggiatore, incantato dall’unione di naturale e artificiale in quei ponti fantastici fatti di archi di edifici diruti che si lanciavano di roccia in roccia, sotto grotte nascoste dai cespugli e « sgretolati pinnacoli coronati da torri smozzicate » : una scena, osservava Beckford, tipica dei dipinti di Polembourg e Peter de Laer. Non solo quindi, come ci rammenta Attilio Brilli, « nell’immaginario del viaggiatore europeo fermentano le relazioni di precedenti viaggiatori o i manifesti della de Staël, di Byron o del Foscolo piuttosto che le pagine di esperti del paesaggio alpino come von Humboldt o Dolomieu » ; 3 non solo i viaggiatori letterati sono spesso anche disegnatori, dilettanti di gusto come Goethe o artisti figurativi a buon diritto come John Ruskin ; ma la forma mentale dello scrittore si predispone, già nel viaggio, nella fase di ricezione di immagini, secondo le formule del pittoresco correnti. Henry James, in Cavalcate romane, ci ha lasciato osservazioni come : « si trattava proprio del pastore adatto a comparire in primo piano in una acquaforte » ; o, ancora : « non valicavo mai la porta di un antico casolare, senza estrarre il mio taccuino mentale e annotarne quasi uno schizzo nell’inconsistente ricordo ». 4 Non sorprende quindi che toni e inquadrature delle cavalcate romane di James ricalchino la maniera pittorica con cui la campagna romana era nota : « Mi ricorderò sempre della prima cavalcata fuori Porta del Popolo, fin dove Ponte Molle, la cui singola arcata sostiene il peso di una lunga tradizione storica, costringe le acque giallastre del Tevere a scorrere [...] lungo l’antica via di posta per Firenze ». 5 I ponti, gli archi, le rovine romane, le messi bionde, i villici minuscoli e gentili come figurine di un presepe, sono gli stessi del Lorenese, familiarmente ricordato come Claude, che emerge dalle pagine di James quasi fosse un’apparizione, nume tutelare, genius loci. Questa contaminazione tra immagine dipinta e parola si riflette, in campo più strettamente letterario, in una contaminazione tra narrativa di viaggio e fiction che oggi può apparir scontata, ma che all’epoca, quando ancora il romanzo e il sag 









































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  Cit. in Attilio Brilli, Alla ricerca degli itinerari perduti, cit., p. 118.   Ivi, p. 119. 3   Attilio Brilli, Il ‘Petit Tour’. Itinerari minori del viaggio in Italia, Milano, Silvana Editoriale, 1988, p. 46. 4 5   Ivi, p. 124.   Ivi, p. 125.

gio la facevano da vassalli alla poesia, era tutt’altro che pacifica. Si consideri il brano seguente, meditazioni ambientate in un romantico paesaggio alpino :  

Alfine eccomi in pace ! – Che pace ? stanchezza, sopore di sepoltura. Ho vagato per queste montagne. Non v’è albero, non tugurio, non erba. Tutto è bronchi ; aspri e lividi macigni ; e qua e là molte croci che segnano il sito de’ viandanti assassinati. – Là giù è il Roja, un torrente che quando si disfanno i ghiacci precipita dalle viscere delle Alpi, e per gran tratto ha spaccato in due questa immensa montagna. V’è un ponte presso alla marina che ricongiunge il sentiero. Mi sono fermato su quel ponte, e ho spinto gli occhi sin dove può giungere la vista ; e percorrendo due argini di altissime rupi e di burroni cavernosi, appena si vedono imposte su le cervici dell’Alpi altre Alpi di neve che s’immergono nel Cielo e tutto biancheggia e si confonde – da quelle spalancate Alpi cala e passeggia ondeggiando la tramontana, e per quelle fauci invade il Mediterraneo. La Natura siede qui solitaria e minacciosa, e caccia da questo suo regno tutti i viventi. 6  









Qui il viaggiatore è della stessa razza di quelli che abbiamo incontrato finora, anche se porta un nome di fantasia : Jacopo Ortis. Il trapasso dalla letteratura di viaggio a quella più propriamente di fantasia è inavvertito : identici sono gli scenari, il senso del pittoresco e del romantico, la descrizione rapita che inavvertitamente e con estrema naturalezza assume l’accento dell’io lirico, i particolari che aiutano a definire uno stato d’animo, un’emozione, lo schiudersi di una sensibilità. Il ponte, in Foscolo, media tra uomo e Natura, non nel senso di una riconciliazione, perché la Natura è ostile, « solitaria e minacciosa », anche se circonfusa di un alone di terribile sacralità. Vengono alla mente le parole di Thomas Gray di fronte alle Alpi, le stesse Alpi Marittime, in una lettera a Richard West, scritta quasi cent’anni prima, il 16 novembre 1739 : « Non occorre avere un’immaginazione particolarmente portata alle fantasie per vedere delle presenze spirituali qui, nell’ora del mezzogiorno. La Morte è perpetuamente di fronte ai nostri occhi, solo tanto distante da dare un senso di calma alla mente senza spaventarla ». In Ortis, giovane anima romantica in pena, ogni traccia di serenità settecentesca è scomparsa. La sua inquietudine, la febbre che lo porta a vagare per le montagne, è la stessa che spinge Alastor, lo spirito della poesia di Shelley, a vagare sull’orlo di precipizi incommensurabili, ad alzare lo sguardo verso le cime mute, maestose e impassibili, in continua ascesa e interrogazione, o che sospinge il Prometeo di Shelley e il Manfred di Byron a sfidare il destino su quelle cornici di roccia, quegli archi tesi sull’abisso che sono altrettanti ponti spezzati tra vita e morte, tra aspirazioni infinite e finitezza della condizione umana. Una volta messo a fuoco sotto la lente del pittoresco, il ponte diventa il correlativo oggettivo di uno stato d’animo che non deve necessariamente dipendere da impressioni di viaggio, né da un uso funzionale del ponte all’interno di una sequenza narrativa (attraversamento, sosta, battaglia, etc.), e neppure da uno dei tanti miti e motivi legati al ponte, sia nella tradizione popolare che nell’arte maggiore ; ma che dipende invece dalla sensibilità individuale, e solo attraverso di essa è comunicabile. William Wordsworth, il 3 settembre 1802, come annota nel titolo con caratteristica precisione, scrive il sonetto Composed upon Westminster Bridge, dove lo sguardo dal celebre ponte londinese consente al poeta quella pace e tranquillità che altrove, nelle Lyrical Ballads o nel Prelude, trova in mezzo alla natura, tra laghi e monti. È mattina, albeggia appena : la città, con metafora shakespeariana, « indossa come un manto / la bellezza del mattino ; silenziosi, deserti, / navi, campanili, cupole, teatri e templi giacciono/aperti verso i campi e il cielo ; / tutto è luce e scintilla nell’aria senza fumo ». L’attacco è di  

























2

6   Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, Milano, Garzanti, 1974, pp. 155-156.

isola e penisola: correnti anglo-italiane composta adorazione : « La terra non può mostrare spettacolo più bello al mondo », e Londra è definita « vista toccante nella sua maestà ». Il poeta è in comunione con lo spettacolo che gli si apre dinnanzi, e il suo cuore si acquieta fino a pulsare con i battiti lenti della città che dorme : « Non ho mai visto, né ho mai sentito, calma così profonda ! / Il fiume scorre seguendo la sua dolce inclinazione : / Signore ! Le stesse case sembrano assopite ; / e quel gran cuore, ovunque, giace quieto ». Tanto slancio lirico per ciò che, in Tintern Abbey, Wordsworth aveva bollato come « il frastuono di città e paesi », contrapponendolo all’isolamento nella natura, da cui scaturisce la poesia, si spiega con il sentimento di chi, come il poeta, era appena tornato in patria dalla Francia, abbandonando la donna che aveva amato, Annette Villon, e la figlia da lei avuta, oltre alle giovanili speranze rivoluzionarie. È un giuramento di nuova fedeltà quello che Wordsworth presta alla sua terra, e da quel ponte che è un simbolo dell’Inghilterra. Altra è la fedeltà che giura Byron, sempre da un ponte, nelle Stanzas to the River Po (1819) : mai corrente anglo-italiana fu più carica di passione e di malinconia. Il poeta è a Pontelagoscuro, dove il burchiello del Brenta scaricava i passeggeri da Venezia, che lì sostavano in attesa d’imbarcarsi sulle chiatte che discendevano il Po, una volta passati i tediosi controlli doganali. È diretto a Ravenna, per ricongiungersi a Teresa Guiccioli, l’ultimo, e il più grande, dei suoi amori, conosciuta da poche settimane. Byron, trentunenne, smania per la diciannovenne contessina ravennate, sposata ad un marito troppo più vecchio di lei. Ci sarebbero gli elementi per un altro dei romanzi sentimentali che accompagnavano le peregrinazioni di Byron per l’Europa, simile in questo al suo eroe eponimo, Don Juan. Solo che, questa volta, Byron è realmente innamorato. L’opera buffa cadrebbe fin dalla prima scena, e Byron lascia da parte la musa giocosa e galante del suo amato Pulci per assumere altri toni, altri accenti : « O fiume che scorri presso le antiche / mura ove sosta la mia donna amata, / quand’ella lungo gli argini passeggia / e per caso di me le risovviene / un debole e fuggevole ricordo ; / e se fosse il tuo corso cupo e fondo / lo specchio del mio cuore, dove leggere / ella può i mille pensieri che a te / consegno, tempestosi come l’onda / tua ed irruenti come le tue rapide ? ». Byron chiede al fiume di portare il suo messaggio d’amore, così come Dante e gli stilnovisti, che qui, nella sua lirica più compiuta, il poeta inglese riecheggia, l’affidavano ad una ballata che andasse per il mondo : « La corrente ch’io miro sfiorerà / la riva ov’ella nacque e ai piedi suoi / mormorerà. Su te si poseranno / i suoi sguardi, la brezza del crepuscolo / respirando, non tocca dai calori / dell’estate ». L’envoi è venato di tristezza, non solo per la lontananza, ma per ragioni più profonde, « il tormento di un diverso destino, / diverso come i climi sotto i quali / siam nati ». Le ultime riflessioni dal ponte si chiudono, come ogni « bella storia d’amore e di morte », in una vena malinconica, che annuncia la fine prossima e prematura del poeta : « È vano battagliare. Lasciatemi morire giovane, / vivere come ho vissuto, amare come ho sempre amato ; / se tornerò alla cenere, di cenere fui fatto, / e allora, almeno, questo mio cuore non sarà più smosso ».  





























































amare e umilianti delusioni amorose da lui patite, decide di farla finita : « Rientrato a casa, faccio testamento a favore del Signor Bragadin, prendo le mie pistole, ed eccomi in cammino verso il Tamigi, con l’intenzione di fracassarmi il cranio sul parapetto. Arrivato sul ponte di Westminster, qualcuno mi afferra per il braccio : è un giovane gentiluomo di nome Egard, di cui avevo fatto la conoscenza presso Lord Pembroke ». L’intervento è provvidenziale, e il giovane Egard non fatica a convincere Casanova a seguirlo al Kanone, locale alla moda, dove dopo il tè e i liquori ragazze compiacenti attendono il mancato suicida (che, comunque, ancora scosso dalla vicenda, non sarà all’altezza della sua fama). Il suicidio di una giovane donna, il cui cadavere è stato tratto dal Tamigi, e la cui sorte sventurata nessuno piange, è collegato al ponte – il più celebre dei ponti italiani – fin dal titolo di una poesia di Thomas Hood, The Bridge of Sighs, pubblicata nel 1844, dove l’interesse romantico per la sorte delle creature umili si sposa a un interesse sociale che risente delle opere di Dickens. E la connessione tra il ponte e la morte è spesso sfumata, nella letteratura in lingua inglese tra Otto e Novecento, in analisi sottili dello stato di ‘morte in vita’, o di vita senza significato, con variazioni interessanti : le eroine esangui di Tennyson, ad esempio, Mariana e la Lady of Shalott, sfinite dalla mancanza di contatto umano, sono confinate in piccole isole solitarie, senza però alcun ponte a collegarle con la terraferma, e quindi con la vita e l’amore. Nell’ambito delle influenze italiane sulla letteratura inglese, uno degli sviluppi più interessanti del binomio ponte/morte (o morte in vita) è quello che ne fa T. S. Eliot nella prima sezione di The Waste Land : The Burial of the Dead. La ‘sepoltura dei morti’ si chiude con la visione tragica di una teoria di larve umane che, « sotto la nebbia marrone d’un’alba d’inverno », sfilano fitte sul London Bridge, dirette agli uffici della City :  

















Città irreale, sotto la nebbia marrone d’un’alba d’inverno, la gente si riversava su London Bridge, tanta, ch’io non avrei mai creduto che morte tanta n’avesse disfatta. Sospiri, corti e rari, ne esalavano, e ognuno fissava gli occhi davanti ai suoi piedi. Affluivano sulla salita, e giù per King William Street, fin dove Saint Mary Woolnoth segnava l’ore con suono sordo sull’ultimo tocco delle nove. 1

È un’umanità irreale (o forse troppo reale) quella che sfila sul London Bridge, fitta come le anime dei dannati che sgomentano Dante nel terzo canto dell’Inferno : l’inglese « so many / I had not thought death had undone so many » traduce « sì lunga tratta / di gente, ch’io non averei creduto / che morte tanta n’avesse disfatta ». Sono gli ignavi, che riflettono la condizione-peccato di un’umanità indifferente e gregaria, esalante sospiri, corti e rari, come altri dannati dell’inferno, le anime pagane del canto iv (« Quivi, secondo che per ascoltare,/non avea pianto mai che di sospiri, / che l’aura etterna facevan tremare »). Dal poema di Dante Eliot potè certamente derivare, almeno in parte, l’associazione della condizione infernale ai tanti ponti e ponticelli che attraversano la prima cantica, ma la visione del London Bridge rimane inequivocabilmente inglese e moderna : « e ognuno fissava gli occhi davanti ai suoi piedi » ha l’impressionante qualità visiva delle metafore dantesche, ma la rassegnazione curva degli impiegati che ogni mattina attraversano il Ponte di Londra per entrare nella città degli affari è la stessa che si può vedere in certe foto d’epoca, che, prese dall’alto, offrono lo spettacolo impressionante di un esercito di bombette in marcia per file serrate, lucide e rigonfie come tanti scarafaggi. Quando si pensi che, in Omero, Virgilio, Milton, simili flussi di folle sono paragonati a sciami  



















Il collegamento tra ponti e morte è forse uno dei più saldi in letteratura, e senza voler qui cercare spiegazioni di tipo psicologico, è chiaro che, molto concretamente, i ponti furono spesso i luoghi deputati al suicidio. Dopo la morte stoica romana, per dissanguamento o su una daga o una spada, quella per annegamento, o sfracellamento, giù da un ponte, fu una delle forme di suicidio più praticate, fino alla comparsa dei grattacieli. Persino Giacomo Casanova, durante il suo soggiorno a Londra nel 1763, in un momento di profonda crisi, in quella che egli definì « la fine del primo atto della tragicommedia che noi recitiamo quaggiù », in seguito ad una delle più

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1   Thomas Stearns Eliot, La terra desolata, a cura e con traduzione di Mario Praz, Torino, Einaudi, 1963.

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di aeree e voracissime locuste, si avrà la misura della distanza che separa quell’umanità feroce ed eroica dagli ignavi di Eliot. Siamo nell’età dell’ansia, che è fenomeno collettivo, e fa massa delle emozioni di singoli uomini sospesi nel vuoto su un ponte. Il contatto coi ponti, oggi, è mediato da un mezzo meccanico, evitato da tunnel, metropolitane, aerei. La prospettiva mutevole di acque e ponti si è persa, annullata dall’uniformità del cemento, angosciosa come certe piatte caligginose dei mari del Sud di Conrad, foriere di morte ; o sostituita dalla prospettiva aerea, che sarà pur suggestiva in certi casi, ma per lo più toglie profondità, fa di un paesaggio vivo e animato una carta geografica, e, benché porti più vicini alle stelle, non consente di misurarne l’incanto come da terra. Vista da vicino, da telecamere poste su satelliti, la luna è certamente meno poetica che non dalla riva del mare, o tra gli angoli delle vie di Parigi, o riflessa nelle acque di un canale. « Rimpiango l’Europa dai parapetti vetusti !». Torna alla mente il Rimbaud del Bateau ivre, che vede profeticamente se  





stesso lontano da casa, forse già in Abissinia, e si immagina ingoiato dalle arcate dei ponti, vuote e angosciose come le orbite di un teschio :  

Se desidero un’acqua d’Europa, è la fredda Nera pozza dove, nel crepuscolo odoroso, Un bimbo accovacciato e triste vara Il suo battello, tenue come farfalla a maggio. Non posso più, onde, intriso dei vostri languori, Inseguire la scia dei portatori di cotone, Né fendere l’orgoglio di vessilli e di fiamme, O nuotare, sotto lo sguardo orrendo dei ponti !1  

Nostalgia di un mondo di acque, di ponti, di uomini che sanno sentire :  

Eterno filatore dell’immobile azzurro, Io rimpiango l’Europa dai parapetti vetusti ! 2  

1   Arthur Rimbaud, Opere, a cura di Diana Grange Fiori, Milano, Monda2   Ivi, p. 147. dori, 2006, p. 149.

MISOGINIA NELLA LETTERATURA ITALIANA : NOTE MISOGINE NEL SETTECENTO  

Vicente González Martín

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 esto saggio non pretende di trattare esaustivamenu te un argomento che gode di una lunga tradizione di studi e polemiche lungo tutta la storia del pensiero e s’inserisce in una linea di ricerca e di docenza che vengo sviluppando da alcuni anni in collaborazione con la Asociación Universitaria de Estudios sobre la Mujer (audem). Il suo obiettivo in questo momento concreto è quello di presentare alcuni dei punti principali della ricerca, che, come è ovvio, sono puramente indicativi dei numerosi studi parziali, oltre a quelli già compiuti, che ancora bisogna fare per completare una storia della misoginia nella letteratura italiana. La misognia, nei suoi differenti gradi, dall’estremo che è l’odio verso le donne per il solo fatto di essere tali, agli altri livelli, come quello della subordinazione della donna all’uomo, o quello di considerarla solo adatta alla riproduzione della specie o a svolgere determinati compiti o come enigma dell’uomo, si è mantenuta nel corso della storia con maggiore o minore intensità e con diverse caratteristiche a seconda delle epoche. A questa visione degradata della donna contribuì un determinato sostegno religioso, filosofico e letterario che cercava di giustificare con argomentazioni illegittime questa supposta inferiorità. Così, per fare alcuni esempi, nel mondo classico Giovenale satirizza le donne come fa anche Petronio nel Satyricon, evidenziando il loro carattere malvagio, possessivo, bugiardo, ecc. Anche il diritto romano restringe al massimo i diritti della donna nella società. La religione cristiana, da un lato, esaltò la donna come immagine della Vergine Maria e dall’altro rinforzò in molti aspetti la tradizione misogina considerando la seduzione, attribuita generalmente alle donne, come opera del demonio e, pertanto, come un peccato mortale. Perciò non è strano che alcuni Padri della Chiesa, come Sant’Agostino, San Tommaso d’Aquino, San Giovanni Crisostomo e altri, usassero, nei loro scritti, frasi di disappunto compresi insulti contro le donne che vedevano solamente come un corpo capace di corrompere gli uomini. Alla base di questa attitudine stava la visione di Eva, incitatrice e colpevole del peccato di Adamo. Nel Medioevo l’attitudine misogina si rinforzerà considerando la donna come fonte di peccato sessuale e, come indicato precedentemente, il corpo si trasformerà in qualcosa di diabolico, in una specie di ‘mappa immonda’, che è necessario occultare e denunciare per il suo potere dannante per l’uomo. 1 In questo contesto di credenza generalizzata dell’inferiorità della donna rispetto all’uomo, nasce la letteratura romanza e, all’interno di essa, quella italiana, che, dalle origini, riferendosi al trattamento della donna, si muove in un doppio binario : l’esaltazione, a volte esagerata, e il vituperio. Queste due tendenze si possono notare già al momento stesso della nascita dell’attività letteraria in Italia. Da un lato, i poeti della magna curia siciliana, protetti dalla politica culturale di Federico ii in Sicilia e in altre zone del Sud Italia, creano un universo poetico dove la donna diventa il centro dell’esperienza amorosa e sentimentale, arrivando  

1   Cfr. Sue Niebrzydowski, La donna nel tempo delle cattedrali, Milano, Rizzoli, 1982.

ad una idealizzazione straordinaria, la stessa che servirà da modello a molti scrittori e correnti letterarie posteriori, come il Dolce Stil Novo e il Petrarchismo. Questa linea fu messa in rilievo dalle storie letterarie tanto per il valore intrinseco dei suoi contenuti, quanto per l’importanza di alcuni dei suoi massimi illustri rappresentanti, come Dante Alghieri, Francesco Petrarca, Pietro Bembo, ecc., e determinò la visione della donna per molti secoli. Senza dubbio, però, non era possibile che, nel momento della nascita delle letterature italiane e, per molto tempo, nei loro sviluppi, essa fosse l’unica visione della donna. Infatti, dall’altro lato, c’era un mondo dove il disprezzo o lo sprezzo delle donne era evidente e si mantenne così per secoli, e non potè fare a meno di lasciare sorgere, come realmente successe in Italia già dal xiii secolo, altre visioni del mondo femminile che rispondessero all’antica tradizione dei testi ‘misogamici’ ; cioè di tradizione classica, contro il matrimonio con la donna. Su questa linea nascono testi come l’anonimo lombardoveneto della fine del secolo xii o dell’inizio del xiii, conosciuto con il titolo di Proverbia quae dicuntur super natura feminarum, che fin dai primi versi dichiara la sua intenzione di porre in chiaro la maldad delle donne :  



Bona çent, entendetelo Per le malvasie femene Quele qe ver li omini Cui plui ad elle serve,

per que sto libro ai fato : l’aio en rime trovato, no tien complito pato ; plui lo tien fol e mato. 2  



Nei versi seguenti del poema si presenta il contrasto tra bellezza fisica e fedeltà morale, che è un motivo costante nella tradizione misogina, e si riporta tutta una sfilza di accuse, una specie di manuale, dove si possono trovare tutte le accuse infamanti che di secolo in secolo sono state rivolte alle donne da posizioni misogine : 3 rendono gli uomini « fol e mato », sono « falsiseme, plene de fellonia », « Eva ingannò Adamo », « Pessima et orgoiosa e de forte talento », « l’oclo de la femena è de luxuria pleno », « Li ogli de la femena del demonio è speclo » ecc. Alcune di queste opinioni appartengono anche al Dante filosofo, che nel suo De vulgari eloquentia non può accettare che – nonostante ciò che dice la Genesi – sia la donna, Eva, la prima cui è stato fatto il dono della parola, perché non era possibile che una cosa così importante fosse stata realizzata dalla ‘presuntuosissima Eva’ :  



























Sed quanquam mulier in scriptis prius inveniatur locuta, rationabilius tamen est ut hominem prius locutum fuiste credamus ; et inconvenienter putatur tam egregium humani generis actum non prius a viro quam a femina pro fluisse. 4  

Continua su questo filone il Corbaccio di Giovanni Boccaccio, 2   Adolf Tobler, Proverbia quae dicuntur super natura feminarum, « Zeitschrift für romanische Philologie », ix, 1885, pp. 287-331, ora in Poeti del Duecento, i, a cura di Gianfranco Contini, Milano-Napoli, Ricciardi, 1960, pp. 523-555. 3   San Tommaso d’Aquino affermava che le donne si ornavano il corpo, perché, mancando le loro capacità della ragione, non raggiungevano la bellezza interiore, di cui solo è capace l’uomo. Cfr. Contra las mujeres : poemas medievales de rechazo y vituperio, Estudio y Edición de Robert Archer, Isabel de Riquer, Barcelona, Quaderns Crema, 1998, pp. 97-98. 4   Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, a cura di Matilde Rovina, Manuel Gil, Madrid, Universidad Complutense de Madrid, 1982, p. 16.  





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che in parte trae ispirazione da Giovenale. Con un realismo crudo, con una violenza verbale straordinaria, con esagerazioni che arrivano fino ai limiti del paradosso, con deformazioni e immagini grottesche lo scrittore fiorentino materializza le sue invettive contro le donne e apre la strada ad altri testi misogini suoi 1 e di altre epoche. Il recupero della classicità e con essa del diritto romano è un fattore decisivo per consolidare l’emarginazione della donna nel Rinascimento, come si può vedere nei numerosi trattati e opere letterarie nelle quali le donne sono sottovalutate, quando non addirittura vilipese e maltrattate, anche se parallelamente si perpetua la tradizione letteraria nella quale si loda la donna, seguendo la scia di Beatrice e di Laura. I testi misogini proliferano, anche con affermazioni di grande durezza nei confronti delle donne, più appropriate a forme di fanatismo religioso non cristiano, come quella che troviamo in Franco Sacchetti : « buona femmina e mala femmina vuol bastone ». 2 Più frequenti sono quelli che la sminuiscono segnalando un presunto difetto, come la capacità di fingere e cambiare l’aspetto fisico grazie ai trucchi :  







se la bocca o il naso grande picciolo hanno pili del dovere o i denti lividi o torti o rari o longhi fuora d’ordine o gli occhi mal composti o l’altre simili parti in che bellezza suol consistere. 3

A tutto ciò si aggiungeranno numerosi trattati sul comportamento delle donne. 4 La riforma protestante non cambiò la situazione, bensì, al contrario, accentuò ulteriormente il concetto di inferiorità della donna e il relegamento agli ambiti tradizionali a lei consentiti. Lo stesso Erasmo da Rotterdam nell’Elogio della pazzia definì la donna come un « animale inetto e stolto ». 5 Un’ulteriore prova di questa visione della donna come essere inferiore è la scarsa attenzione che si mostrò nel corso dei secoli per le donne scrittrici, come chiaramente segnala Mercedes Arriaga :  





Se passiamo in rassegna la storia della critica letteraria in Italia, dal Rinascimento in poi, possiamo affermare che, eccetto casi isolati e fino alla diffusione della critica femminista, si tratta di una storia avversa alla produzione letteraria creata dalle donne. In generale, si ritiene che le scrittrici rappresentino casi isolati, casi eccezionali, casi “rari” anche quando la sua presenza è diffusa in un periodo e in un genere letterario, come succede per le poetesse del Rinascimento (Veronica Franco, Tullia d’Aragona, Vittoria Colonna, Lucrezia Gonzaga, Gaspara Stampa, Laura Terracina, Isabella Morra, Veronica Gambara). 6

Con una situazione molto simile a quella segnalata in precedenza arriviamo al Settecento, al secolo delle luci, rinnovatore in molti aspetti, anche nella considerazione della donna, ma anche conservatore e prosecutore di molte delle idee misogine dei secoli precedenti sebbene camuffate da altra apparen-

za. Per dimostrare ciò basterebbero le parole che scrisse nella « Pensatriz salmantina » nel 1777 la sua direttrice7 :  





Digo, Señora, que los Señores Hombres han de ser solos los que manden, los que riñan, los que gobiernen, los que corrijan, y los que estampen, y à las pobrecitas mujeres, engañadas, con el falso oropel de hermosas, y Damas, solo se las ha de permitir tiren gages de rendimientos fingidos, y pasen plaza de Señoras de Theatro, que en acabándose la Comedia de la pretensión todo se oculta y solo se descubre el engaño, y la falsedad.

L’autrice di queste parole, donna istruita e di studi, appartiene a una classe borghese, con buone relazioni e cattolica convinta, sa distinguere perfettamente il ruolo che nel suo secolo si vuole attribuire alle donne : quello di un ornamento che si vuol privare di una educazione completa per mantenere sempre la sua inferiorità rispetto all’uomo. In definitiva il punto di partenza del secolo xviii, con le nuove proposte di uguaglianza che la rivoluzione francese diffonde in tutta Europa, sembrava essere quello della rivendicazione della parità della donna con l’uomo, 8 parallelamente alle affermazioni di scrittori come Jean Jacques Rousseau che propugna la reclusione della donna nell’ambito privato. Ciò nonostante, la ricerca storica constata una situazione non molto favorevole all’uguaglianza :  



Il nuovo sistema morale e ideale sulla questione femminile, così come era stato ereditato dall’etica De l’égalité des deux sexes di Poullain de la Barre, è patrimonio ricco, ma sostanzialmente ancora incapace di determinare cambiamenti decisivi nella realtà storica del secolo dei Lumi. In effetti, dopo la morte di Luigi xiv e fino alle soglie della rivoluzione la Francia assisterà ad un lento ma progressivo ribaltamento del pregiudizio sull’inferiorità della donna. 9

Il Settecento italiano non parte sotto migliori auspici in favore del ruolo delle donne nella società e vedremo come, nonostante un’apparente accondiscendenza verso i comportamenti trasgressivi di alcune donne famose, l’opinione comune riguardo alla donna sia quella espressa dal conte Gasparo Gozzi :  

Alle femmine, secondo lo stato loro che ha dipendenza dall’altrui, non rimane altro fine a cui mirare, fuorché quello di rendersi grate a’ maschi, e di piacer loro, per aver con essi pace, buona confederazione e compagnia amichevole. 10

Queste affermazioni categoriche di Gasparo Gozzi sono equivalenti a molte altre, anche provenienti da personaggi illustri e istruiti, come lo scienziato bergamasco Lorenzo Mascheroni, che nelle sue lettere si definiva misogino, o l’abate Gregorio Fontana, grande ammiratore di Paolina Secco Suardi Grismondi, la Lesbia Cidonia bergamasca, il quale, quando resta deluso dalla bellezza sfiorita della sua donna nascosta sotto il trucco, esclama :  

Dio immortale : fulminatemi subito prima, se mai mi venisse la fantasia di cangiarmi in Donna. 11  

In tal modo dunque, in forma più o meno nascosta, nel Sette1

  L’epiteto « fingitrice », per esempio, attribuito alla donna, lo troviamo anche nel Filostrato, ii, 112 : « quel che più dalle donne è bramato. Di ciò ciascuna è ischifa e crucciosa. Si mostra innanzi altrui »; oppure si veda la diatriba di Fileno nel libro iv del Filocolo nell’attacare Amore e le donne. 2   Franco Sacchetti, Novelle, Milano, Giovanni Silvestri, 1815, parte ii, p. 67. 3   Ludovico Ariosto, La Cassaria, Vinegia, G. Giolitti de’ Ferrari, 1570, atto iii, p. 49. Esempi misogini possiamo trovarli in molti altri testi dell’epoca, così Lorenzo de’ Medici, Opere, ii, a cura di Attilio Simioni, Bari, Laterza, 1914, canzone ix : « Le donne ciarlone » ; Niccolò Macchiavelli, La Mandragola (1518) ; Sabadino degli Arienti, Le porretane (1475) ; Antonio Vignali, La Cazzaria (1525-26) ; Pietro Aretino, ecc. 4   Trattati del Cinquecento sulla Donna, a cura di Giuseppe Zonta, Bari, Laterza, 1913. 5   Cfr. John Knox, The First Blast of the Trumpet Against the Monstrous Regimen of Women (1558). 6   Mercedes Arriaga, Escritoras italianas : violencia y exclusión por parte de la crítica, www.escritorasyescrituras.com, p. 2.  

























7   « La Pensatriz salmantina », por Dª Escolástica Hurtado Girón y Silva de Pico, Oficina de la Santa Cruz, Salamanca, 1777. Fu la prima rivista diretta da una donna in Spagna. 8   In Europa, prima e dopo la Rivoluzione Francese, saranno pubblicati molti saggi, in cui si rivendicheranno i diritti delle donne, come quelli di Mary Wollstonecraft, The Rights of Woman (1792) ; Olympe De Gouges, Les droits de la femme et de la citoyenne (1791) ; Fray Benito Feijoo, Defensa de las mujeres, in Theatro crítico universal de errores comunes (1726), ecc. Per una visione generale cfr. Luciano Guerci, La discussione sulla donna nell’Italia del Settecento, Torino, Tirrenia Stampatori, 1987. 9   Fiamma Lussana, Misoginia e adulazione : ambiguità dell’immagine femminile nel secolo dei lumi, « Studi storici », xxv, apr.-jun. 1984, p. 547. 10   Gasparo Gozzi, Discorso dell’educazione delle donne, in Idem, L’osservatore di G.G. coll’aggiunta della difesa di Dante, i, Milano, Sonzogno, 1906, p. 259. 11   Francesco Tadini, Lesbia Cidonia. Società, moda e cultura nella vita della contessa Paolina Secco Suardo Grismondi, Bergamo, Moretti-Vitali, 1995, p. 180.  













misoginia nella letteratura italiana: note misogine nel settecento cento italiano si accumuleranno osservazioni misogine nella descrizione del carattere e dell’attività delle donne, riprendendo, generalmente, le vecchie caratteristiche che perduravano a partire dal Medioevo. Sarà facile, dunque, trovare tra gli scrittori italiani del Settecento testimonianze che andranno da una sottile umiliazione della donna nell’attribuirle ruoli inferiori all’uomo, fino ad una caratterizzazione pienamente misogina. Saverio Bettinelli oscilla nei suoi scritti tra una certa accondiscendenza nei confronti della donna e un’intenzione manifesta di fissare chiaramente i suoi limiti. In contrapposizione agli uomini, ai quali attribuisce una conoscenza speculativa acquisita, alle donne riconoscerà solo un sapere intuitivo naturale, che fa a meno di ‘studio e dottrina’ e che si basa su sentimenti che scaturiscono naturalmente dal cuore.1 Con ciò, in realtà, sta coscientemente dichiarando la donna incapace di fare scienza e anche letteratura seria. Per l’abate mantovano è chiaro quali sono i ruoli dei due sessi :  

le donne destinate “a vita domestica, ritirata, tranquilla”, ai “doveri semplici e uniformi di moglie, di madre, d’economia, di regolamento interno” devono stare lontane da “ogni passione quanto si può” ; all’uomo, invece, “destinato a figurare, a governare, a combattere… son necessarie le passioni sin da’ primi anni”. 2  

Arriva fino a fissare le letture appropriate per la donna, che deve avere un carattere frivolo, e propone per lei autori come Metastasio, Petrarca, Bembo e le impone di evitare alcuni divertimenti moderni come i romanzi e il teatro moderno. È vero che, in contrapposizione a queste idee, altri difesero la necessità di tenere in considerazione individualmente le capacità delle donne, indipendentemente dalla posizione che hanno occupato grazie alla loro nascita, fortuna o matrimonio. In questo modo si rese possibile, in una certa misura, la partecipazione delle donne alle istituzioni : accademie, società, università, mercato editoriale ecc. Prova di ciò sarà il conseguimento della laurea in giurisprudenza della prima donna italiana : Maria Pellegrina Amoretti, 3 cantata da Parini, nel 1772, con l’ode La Laurea. In contrasto con questi fatti oggettivi di riconoscimento della donna, si generalizzarono maggiormente l’idea e l’intenzione di limitare l’ambito di educazione delle donne, come dice apertamente Francesco Tadini quando ci parla delle regole seguite nella educazione di Lesbia Cidonia :  





La piccola fu affidata in seguito ad un precettore senza molte pretese, poiché la cultura di una dama a Bergamo come nelle altre città venete e quasi ovunque non doveva essere né vasta né profonda. Bastava che sapesse leggere, scrivere e far di conto. L’erudizione delle donne era addirittura esecrata. 4

Nonostante tutto, le donne cominciano ad acquisire grande importanza divenendo referenti per la cultura e il mercato culturale. Come lettrici saranno fondamentali per determinati tipi di pubblicazioni, tra cui quelle note come ‘erudizione di color rosa’, considerate dagli scrittori di rilievo come cose letterarie, fatte con poca fatica e con molto diletto. D’altra parte entrano nel mondo delle pubblicazioni come traduttrici e scrittrici, anche se sempre con difficoltà aggiuntive a causa del loro sesso, poiché su di esse quasi sempre incombe il giudizio negativo degli uomini, anche di quelli del secolo successivo, come è il caso di Giosue Carducci :  

1

  Saverio Bettinelli, Lettere sui pregj delle donne, in Idem, Opere Edite e Inedite in prosa ed in versi, xiii, Venezia, Adolfo Cesare, 1799-1801, pp. 277-278. 2   Saverio Bettinelli. Un gesuita alla scuola del mondo, a cura di Ilaria Crotti, Ricciarda Ricorda, Roma, Bulzoni, 1998, p. 104. 3   Nel 1784 entrò nella Real Academia Española de la Lengua María Isidra Quintana Guzmán de Lacerda. 4   Francesco Tadini, op. cit., p. 31.

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Chi può leggere oggi le lettere o in genere le prose della Paolina Grismondi, della Silvia Curtoni Verza, della Isabella Teotochi Albrizzi, della Cornelia Marinetti ? O a chi leggendole non viene fatto di pensare : Ma queste donne vissero ? Vissero oltre la vita imbelletttata di pupattole da sala od oltre le pose scultorie e poetiche o procaci di modelle. 5  





Il giudizio negativo generalizzato e lo sguardo accusatorio di molti hanno come conseguenza il fatto che la donna scrittrice, essendo la vittima, si senta colpevole e debba dissimulare le sue conoscenze, si rifiuti di pubblicare le sue opere e addirittura giunga a nascondere l’attribuzione della sua opera mediante pseudonimi, come succederà, per esempio, con Elisabetta Credi-Fortini, Beatrice Cecchi, Elisabetta Mosconi Contarini, ecc. In definitiva nel Settecento italiano si realizzano determinati progressi per quanto riguarda la partecipazione della donna alla produzione e creazione letteraria e culturale, però sussiste in fondo il pregiudizio misogino dell’inferiorità naturale della donna, a causa delle sue limitate capacità e conoscenze, e permane l’idea che suo luogo naturale sia la casa. Esempio tipico di ciò – ma gli esempi si potrebbero moltiplicare – sono le parole con le quali Carlo Gozzi descrive sua cognata, la scrittrice Luisa Bergalli, conosciuta in Arcadia come Irminda Partenide :  

Questa femmina di fervida, e volante immaginazione, e per ciò abilissima a’ poetici rapimenti, volle per i stimoli d’un buon animo misti con quelli dell’ambizione, e della presunzione che aveva della sua attività, inoltrarsi a regolare le cose domestiche disordinate, ma i suoi progetti e gl’ordini suoi non poterono uscire da’ ratti romanzeschi e pindarici. Innamoratasi d’un dominio ideale, e divenuta Sovrana d’un regno tisico, col desiderio di farci tutti felici, con verace disinteresse, altro non fece, che tessere delle maggiori infelicità a tutti gl’altri non meno che a se medesima. 6

Come possiamo vedere neppure le donne di status sociale elevato possono essere esenti dall’esame e dal disprezzo dello sguardo degli uomini, anche se appartengono alla loro famiglia. Possiamo immaginare quale visione si ha delle donne di classi sociali umili. Assieme a queste posizioni sulla donna che rasentano la misoginia, vi sono molte altre caratterizzazioni delle donne settecentesche che sono misogine senz’altro e che si manifesteranno con intensità maggiore o minore nei diversi generi letterari. Tra queste – e con un gran numero di esempi – troviamo questo tipo di misoginia nelle satire e favole di scrittori come Carlo Cantoni, Leandro Borin, Gian Carlo Passeroni, Carlo Felici, Aurelio de’ Giorgi Bertola, ecc., i quali nelle loro opere giocano con le caratteristiche misogine attribuite alle donne dalla tradizione letteraria classica e italiana, a partire dall’attribuzione ad esse della capacità di ingannare, di usare trucchi e posticci, di essere volubili, infedeli, bugiarde, provocatrici degli uomini, corte d’ingegno, chiacchierone, amiche delle polemiche con le altre donne, avare, vanitose... fino a sostenere il castigo corporale della donna :  

Non sai tu, le fu risposto, Con distinta e chiara voce, Che la femmina, ed il noce Senza busse usi non sono A far mai nulla di buono ? 7  

Con una minore intensità, ma confermando i luoghi comuni 5   Giosue Carducci, Un ritratto femminile. Maria Teresa Serego Alighieri contessa Gozzadini, « La Nuova antologia », s. ii, a. xix, vol. xliv, 6, 1884, p. 199. 6   Carlo Gozzi, Memorie inutili, a cura di Paolo Bosisio, Milano, Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia, 2006, p. 216. 7   Giancarlo Passeroni, Favole esopiane, Milano, 1779-1788, in Alice Di Stefano, « Posso, rispose il mago, e me ne vanto, / Farla diventar sasso, arbor, pantera, / Ma sincera e fedel…non posso tanto » : casi di misoginia garbata nella favolistica settecentesca di tradizione esopica, « TriceVersa. Rivista do Centro ItaloLuso-Brasileiro de Estudos Linguísticos e Culturais », iii, 1, Assis, 2009, p. 60.  





   





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contro la donna, Pietro Chiari attribuirà alle donne nella sua « Gazzetta Veneta » i caratteri misogini di verbosità, instabilità, infedeltà, ecc. In questi movimenti di partecipazione e rifiuto, la donna trova lo spazio per una certa libertà e protagonismo nei salotti e nel teatro. I salotti nel Settecento italiano imitano i loro omologhi francesi, trasformandosi, sempre nell’ambito di una cultura riservata alla élite, in un luogo d’incontro, di discussione e di presentazione in società, in cui le donne raggiungono un protagonismo ed esercitano la funzione direttiva proibita in molte altre attività sociali. Nei salotti, o per condiscendenza o per la forte personalità della padrona di casa che li presiede, le donne possono esprimersi con sufficiente libertà e proporre dibattiti che vanno dalla letteratura alla moda, al gusto, ai costumi. Esse dividono con gli uomini compiti un tempo riservati solo al genere femminile, per esempio il cucito e il ricamo; esse recitano opere teatrali o compongono versi, chiacchierano dei fatti grandi e piccoli della città, impongono la moda e danno lezioni di seduzione, sempre nel tono giusto che imponeva il buon gusto. Nei salotti, inoltre, la donna può manifestare, senza eccessivi ostacoli, le sue attività di scrittrice e avere l’approvazione di un pubblico incline all’accettazione di questo ruolo della donna e affascinato dagli incanti delle anfitrione. Così alcune riescono perfino ad essere ammesse nell’Arcadia come, per esempio, Paolina Secco Suardo, ‘Lesbia Cidonnia’ o Maria Maddalena Morelli, ‘Corilla Olimpica’. 1 Dal salotto, luogo in cui si recitavano e si presentavano opere teatrali, al teatro, il passaggio per le donne era molto facile e naturale, anche se il ruolo che la donna interpreta nelle diverse sfaccettature del teatro italiano del Settecento non fu sempre tanto amabile quanto quello interpretato nei salotti. 2 La presenza sempre più frequente della donna nel teatro come spettatrice, attrice, drammaturga e personaggio, e i pregiudizi secolari ancora presenti, fa sì che nel Settecento si presti un’attenzione speciale a questo genere letterario da parte di trattatisti, di moralisti e della Chiesa. Anche in quest’ambito s’incontreranno opinioni diverse. Da un lato, i difensori del teatro sottolineano la capacità che ha la finzione scenica di superare le barriere di classe e di rendere, di conseguenza, la convivenza sociale più fluida e piacevole, convivenza ancora fortemente gerarchizzata in Italia. Per tale motivo Parini giustifica il sostegno pubblico al teatro :  





con l’intento “di spargere… sentimenti di probità, di fede, di amicizia, di gloria, di amor della patria… ; e finalmente di tener lontano dall’ozio il popolo, in modo che non gli restasse tempo da pensare a dannosi macchinamenti contro al governo, e perché, trattenuto in quelli onesti sollazzi, non si desse in preda de’ vizii alla società perniciosi”. Il diletto dunque è visto come fine e come mezzo insieme. 3  

A sua volta, Saverio Bettinelli, nel suo Discorso sopra il teatro italiano, pubblicato nel 1788, giudica generalmente in modo positivo la bontà del teatro, sebbene tema che l’eccessiva popolarità dello stesso finisca per diminuire il suo valore. Dall’altro lato, come esempio, tra i detrattori del teatro potremmo considerare a ragione Luigi Riccoboni, che, nonostante fosse un uomo di teatro, sposato con un’attrice e padre di un attore, in alcuni momenti sostiene la causa della sop-

pressione del teatro moderno poiché fonte di libertinaggio e diffusione di costumi cattivi e disonesti. 4 L’aumento del numero delle attrici scatena lo zelo della Chiesa che vede, generalmente, in esse una fonte di incitazione all’erotismo e alla lussuria, vizi secolarmente legati alla donna nella tradizione misogina. 5 Di fronte a queste visioni negative, alcuni, come Scipione Maffei, negano che la presenza della donna nel teatro possa essere uno scandalo o inciti ad alcun vizio :  

Ma ne’ publici Teatri pretende egli, che il sol vedersi donne nobilmente vestite, ed ornate, e l’udirle recitare, o cantare, serva di bastante scandalo, ed ecciti pensieri impuri : il che in que’ paesi, dove non si veggon donne se non col volto coperto, e in quelli, non escono di casa mai, potrebbe forse avvenire ; ma dove ne son piene le strade e le Chiese, e le radunanze, e dove si parla con loro a piacere, e si conversa onestamente con esse, come mai può far tanto effetto il vederle in palco ? 6  





Le drammaturghe, accettate spesso con condiscendenza dagli uomini, non si libereranno nemmeno di alcuni giudizi puramente misogini, pronunciati con l’intenzione di sminuirle e screditarle, come quelli di Carlo Gozzi contro Luisa Bergalli. In definitiva, sebbene la presenza di numerose donne nel teatro come spettatrici, attrici o drammaturghe susciti controversie e, spesso, diffamazioni e anatemi, gradualmente questa situazione si va consolidando e diventa parte della normalità e i temi da loro preferiti o di cui sono protagoniste, come il matrimonio, 7 il marito consenziente, il cavalier servente, la seduzione o la moda 8 predominano in buona parte del teatro del secolo xviii e sono visti dalla prospettiva misogina rispettivamente come una forma per ascendere nella scala sociale, un mezzo per conquistare uomini e soldi e un modo di occultare la realtà. 9 Per chiudere questa panoramica si dovrebbe far riferimento a come la misoginia si rifletta sui personaggi del teatro del Settecento italiano, come i don Giovanni, i Casanova e, soprattutto quelli femminili, come Mirandolina, Rosaura, Corallina, La Contessina e tante altre delle commedie goldoniane. Si pensi anche a Lucrezia Cherdalosi e a sua madre Annetta ne Il Divorzio di Vittorio Alfieri, alla Vedova nei Dialoghi d’Amore di Saverio Bettinelli, a Cidippe ne Il Narciso di Apostolo Zeno, ecc. ; tutte donne che si caratterizzano per il garbo malizioso, il fascino della femminilità, la civetteria, l’attaccamento all’interesse materiale, l’egoismo, il narcisismo e certe volte per la scaltrezza, il cinismo profittatore e una segreta avversione per gli uomini. Questo, però, è un altro discorso, che merita un lavoro a parte.  

4   Cfr. María Dolores Valencia, Escena y control ideológico : la mujer en los debates sobre la moralidad del teatro en Italia (siglos xvi-xviii ), in Mujeres y máscaras, edizione di Vicente González Martín et alii, Sevilla, Arcibel, 2010, pp. 255271. Interessante è il breve brano Ragionamento contro il teatro che Clementino Vannetti incluse nel suo giornale burlesco « Il Lazzaretto letterario » e che possiamo consultare in Anna Bellio, Il « Lazzaretto letterario » di Clementino Vannetti, in L’Enigma, la confessione, il volo. “Lettere” sommerse fra Sei e Novecento, a cura di Giorgio Baroni, Azzate, Edizioni Otto-Novecento, 1992, p. 157. 5   Cfr. Daniele Concina, De’ teatri moderni contrarj alla professione cristiana (1755) e Giovanni Antonio Bianchi, Dei vizj e dei difetti del moderno teatro e del modo di correggerli e d’emmendarli (1753). 6   Scipione Maffei, De’ teatri antichi e moderni…, Verona, presso Agostino Carattoni, 1753, pp. 32-33. Una acuta panoramica sulla morale ed il teatro può trovarsi in Elena Sala di Felice, La moralità del teatro, « Atti e Memorie », s. iii, ix, 2-3-4, Roma, 1991-1994, pp. 75-106. 7   Cfr. Luciano Guerci, La sposa obediente. Donna e matrimonio nella discussione dell’Italia del Settecento, Torino, Tirrenia Stampatori, 1988. 8   Nel Dialogo x, de I Dialoghi d’Amore di Saverio Bettinelli, « la Gran Moda, oggetto di culto anche presso gli economisti del Settecento, si mostrava come un sozzo, ributtante scheletro », Elena Sala Di Felice, I Dialoghi d’Amore : conversazione di fine secolo, in Saverio Bettinelli. Un gesuita alla scuola del mondo, cit., p. 169. 9   I giudizi di Giuseppe Parini su questi aspetti, che Giorgio Baroni e Anna Bellio presentano in Parini ludens, cit., sono chiarificatori di questa prospettiva.  















1   Cfr. Salotti e ruolo femminile in Italia, a cura di Elena Brambilla, Maria Luisa Betri, Venezia, Marsilio, 2004. 2   Cfr. Nadia Maria Filippini, Donne sulla scena pubblica : società e politica in Veneto tra Sette e Ottocento, Milano, Franco Angeli, 2006. 3   Giorgio Baroni, Anna Bellio, Parini ludens, Bari, Laterza, 2004, pp. 10-11.  





RACCOLTA DI PROSE E POESIE FATTE PER PROPRIA OCCUPAZIONE LETTERARIA. LA PRODUZIONE ACCADEMICA INEDITA DEL PATRIZIO CATANESE NICCOLÒ PATERNÒ CASTELLO, PASTORE ETNEO Rita Verdirame Questo bellissimo frutto rendono alle Città le luminose Accademie ; perchè i giovani, la cui età per lo buon sangue, e per la poca sperienza è tutta fiducia, e piena di alte speranze, s’infiammino a studiare per la via della lode, e della gloria, affinchè poi, venendo l’età del senno, e che cura l’utilità, essi le si proccurino per valore, e per merito onestamente  

spiegava il Vico autobiografo nel 1728, 1 magnificando l’operato delle Accademie, con un parere sempre meno condiviso dagli intellettuali via via che il secolo decimottavo volgeva al tramonto. Il Tiraboschi, per esempio, nella Storia della letteratura italiana lamentava :  

nella maggior parte di quelle del secolo xvii, a me par che ogni cosa sia languida e fredda ; e se pur vi ha qualche accademia che con impegno prenda a coltivare le belle arti, gli accademici comunemente, sedotti dal pessimo gusto di quell’età ci offrono tali componimenti che non si possono da noi leggere senza la nausea. 2  

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ur nell’oscillazione dei giudizi, ancora a metà Settecento era opinione prevalente che quelle che il Leopardi dello Zibaldone avrebbe in seguito stigmatizzato come anacronistiche adunanze « cattedratiche e legislatrici » svolgessero un ruolo educativo di ‘incivilimento’ sociale, promuovendo un dibattito fecondo e proponendosi come polo di riferimento artistico, speculativo e scientifico. Considerate spazi di gaudenti leggiadri intrattenimenti o viceversa loci privilegiati dell’interscambio culturale nel Settecento, a ogni modo le Accademie dilagavano per l’intera penisola accogliendo tra gli adepti letterati, poeti, pittori, musicisti, giuristi, botanici, medici, astronomi, farmacisti, filosofi, agronomi, scienziati, patrizi, borghesi, religiosi e dame. Tuttavia proprio tale proliferazione suscitava qualche perplessità, icasticamente espressa fin dal 1703 dal Muratori nei Primi disegni sulla repubblica letteraria d’Italia :  





In Italia non c’è ormai città che non abbia un’accademia, anzi due, anzi tre e talvolta ancora più, secondo il numero grande o scarso degli studiosi. È assai glorioso cotesto nome d’accademia e con esso intendiamo un’adunanza di letterati, che in certi giorni dell’anno con uno o due ragionamenti sopra qualche materia e con vari sonetti ed altri versi recitati, esercitano il loro sapere, la loro vena. Ma sì fatte accademie sapreste voi dirmi a qual fine siano istituite ? Qual profitto per la città, qual miglioramento apportino ? Il fine può essere stato nobile ; ma ora in buona coscienza non può dirsi che il frutto corrisponda all’intenzione. 3

seduta degli Etnei rivendicava con forza la funzione educativa di tali Società :  

Chi nacque alla virtù, onde proviene la vera gloria, non già ne’ passatempi, e nelle delizie, ma nelle sublimi cognizioni, e negli eruditi ragionamenti il suo maggior diletto rinviene […]. Coloro, che capitano in questa, o in altra sala di sapienza per ascoltar chi ragiona, si propongono per loro fine l’utile, o il diletto. 4

Non diversamente argomentava il palermitano Domenico Scinà, insistendo sugli obiettivi sociali di queste enclavi, in quanto supplivano in parte alla mancanza delle pubbliche librerie in quei tempi le adunanze letterarie, che numerose erano allora in Sicilia, e molto conferivano tra noi alla riforma del gusto, ed al progresso delle lettere. Ma è forza prima d’ogn’altro di manifestare, che quelle adunanze erano istituite da nostri magnati, i quali vaghi del sapere raccoglievano presso loro i letterati e gli eccitavano a novelle fatiche fondando a proprie spese novelle accademie, 5

vere « erudite palestre dove gl’ingegni già formati si esercitano » 6 in latino, in italiano o in dialetto. È tutto un piacevole « declamar poesie e recitar commedie », 7 da Palermo (« Panhormus hortus academicus tota est » attestava il teatino Girolamo Matranga nel De Academia syntagmata septem), 8 dove i membri dei circoli si attivavano per « isvegliare dalla loro pigrezza gl’ingegni per altro acuti, e fecondi de’ nostri Nazionali » ; 9 a Catania, dove spiccavano i Chiari (o Clari, 1621, soci della più antica delle adunanze cittadine, per impresa l’immagine di un sole e il motto Me duce totum), gli Elevati (1665), gli Informi (1672), gli Incogniti (1673), i Palladj (1674), gli Etnei, gli Sregolati (1676), i Cassinesi (1688), i Gioviali (1728, tra i soci il principe di Biscari, Giuseppe Lombardo Longo, Giacinto Maria Paternò Castello e il canonico Giuseppe Recupero, quest’ultimo segretario degli Etnei e associato ai Colombari di Firenze e alla Royal Society londinese, esperto di scienze naturali e di vulcanologia, plaudito per la Storia naturale e generale dell’Etna) 10 e la più tarda Accademia Gioenia (1824); e ancora gli Anonimi (1672-1673), gli Oscuri (1672), i Riuniti (1688), i Pescatori Renati (1736), i Febei, cultori della poesia dialettale e umoristica della seconda metà xviii secolo. Nell’area di Si 























Al di là di encomi, censure e riserve, della moda erano investiti anche i centri metropolitani e periferici della Sicilia borbonica, tanto che un giacobino catanese, l’avvocato poeta Felice Gambino (nome pastorale Filemo Eurimede), durante una 1   Gian Battista Vico, Vita di Giambattista Vico Scritta da se medesimo, Venezia, Cristoforo Zane, 1728 ; la citazione è tratta da Rita Verdirame, La Vita e gli “affetti” di G. B. Vico. Gli « acerbi martìri » e le « delizie oneste » nel racconto di sé di un savant, Catania, cuecm, 2010, p. 75. 2   Girolamo Tiraboschi, Storia della letteratura italiana : dall’anno md all’anno mdc, i, Modena, Società Tipografica, mdccxci ; la citazione è da qui desunta, p. 390. 3   Lodovico Antonio Muratori, Delle riflessioni sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti, Venezia, Niccolò Pezzano, 1723.  













4   Carlo Felice Gambino, Dell’uso lodevole della brevità ne’ discorsi. Raggionamento Accademico da recitarsi all’assemblea degl’Etnei da Carlo Fe Gambini P.E. detto Filemo Eurimede, s. d. [1748 ?], autografo conservato a Catania nel Fondo Musumarra, di cui abbiamo potuto prendere visione per la cortesia degli eredi. 5   Domenico Scinà, Prospetto della Storia letteraria di Sicilia nel secolo decimottavo, i, Palermo, Dato, 1824-1827, p. 34. 6   Alessio Narbone, Bibliografia Sicola Sistematica o Apparato Metodico alla Storia Letteraria della Sicilia, ii, Palermo, Pedone, 1850-1855, pp. 114-115. 7   Fedele Marletta, La vita e la cultura catanese ai tempi di Don Francesco Lanario (sec. xvii), « Archivio storico per la Sicilia orientale », vii, 1931, pp. 213240. 8   Girolamo Matranga, De Academia syntagmata septem, Palermo, Martarelli, 1637, p. 96. 9   Domenico Schiavo, Saggio sopra la Storia Letteraria, e le antiche Accademie di Palermo, in Idem, Saggi di Dissertazioni dell’Accademia palermitana del Buon Gusto, Palermo, Bentivenga, 1755, pp. xlii-xliii. 10   Uscita postuma a Catania, Stamperia della Regia Università degli Studi, 1815.  





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racusa erano radicati gli Aretusei, e nel Val di Noto, compresa la zona iblea e la Contea di Modica, dove emergevano come pensatori e medici-poeti gli Infiammati o Infuocati. Documento utile alla ricostruzione del contesto accademico etneo è un discorso inedito, pronunciato ai Chiari dal medico-poeta autore di melodrammi metastasiani e priore dell’Università Agostino Giuffrida, in occasione della sua nomina a prorettore nel 1741. Questo scritto ci fornisce tra l’altro importanti indicazioni sulla dimensione istituzionale e sulla pratica gestionale delle congregazioni municipali ; dalla relazione del Giuffrida ricaviamo infatti i nomi dei capi del simposio e apprendiamo che ogni esposizione doveva essere preventivamente approvata. È possibile, quindi, affermare che tra i Chiari – ma si tratta, in effetti, di un usus piuttosto diffuso tra le assisi della città – fosse sempre rispettata una certa impostazione formale delle riunioni, che si svolgevano in una sede fissa (probabilmente in una sala del Siculorum Gymnasium), con norme precise e oculata distribuzione delle cariche ai membri. Inoltre le principali istituzioni creavano collegamenti con l’Università, i musei e le biblioteche, e pubblicavano molto, sia gli atti delle assemblee sia le sillogi poetiche, per pubblicizzare le attività condotte. Analoga nella composizione sociale e nell’organizzazione operativa l’Accademia degli Etnei, su cui qui ci soffermiamo in modo più dettagliato. Risalente al 1675 1 ma rifondata nel 1744, « due anni appresso il suo felice maritaggio [nel 1742, Ignazio Biscari] apre il Museo Biscariano alla veduta del pubblico, vi stabilisce e riforma una letteraria Adunanza col titolo di Accademia degli Etnei », 2 essa fu inaugurata dalla solenne prolusione dell’antiquario principe Ignazio, Discorso agli Pastori Etnei nella prima loro adunanza di Ignazio Paternò Castello detto tra essi Tirsi Etneo, primo Custode, e Patrono de’ medesimi. 14 giugno 1744. È questo il manifesto (ad oggi inedito, rinvenuto tra le carte del Fondo Musumarra) di un’opzione poetica ‘spontanea’ e avversa alle ampollose costruzioni barocche, ma in realtà obbediente a clichés arcadici che ricalca pedissequamente : « addiviene, che gli pastorali carmi incisi da rustica mano, su la liscia corteccia de’ faggi, e degli allori, la mente di chi legge non meno appagano, che gli studiati versi, nelle rase e terse carte degli indorati libri ben scritti ». Nel 1758 lo stesso mecenate fissò la sede dei colleghi etnei nel proprio palazzo-museo, tappa ineludibile per i colti visitatori stranieri in tour; evento di cui il nobile ospite « segnar volle l’epoca con una canzone […] stampata in Firenze nel 1776 e ristampata in Livorno nel 1787, e con una medaglia immaginata dal Paciaudi ». 3 Accanto al Biscari un’altra personalità si profilava nel panorama cittadino dell’epoca, il vescovo Salvatore Ventimiglia, punta di diamante del più dinamico orientamento riformatore che Niccolò Paternò Castello, fratello cadetto di Ignazio quanto lui operoso nelle lettere ma molto meno osannato e noto del primogenito, esaltava con enfasi : « Sveller vedremo i rei costumi, e molli, / […] degli error nocivi / schiantar gli religiosi empj  



















1   La datazione così arretrata è fissata da Francesco Saverio Quadrio che, in Della Storia e della Ragione d’ogni Poesia, i, Bologna, Pisarri, 1739, pp. 62-63, non fa espressamente il nome dell’accademia ma parla di una società catanese ‘di Giovani’, esistente già nel 1672 e avente come impresa il monte Etna e il motto Tempore ascendemus. Altre notizie fornisce Alfredo Libertini, L’Accademia degli Etnei e le Scienze e le Lettere in Catania nella seconda metà del secolo passato, Palermo, Era Nova, 1900. 2   Cfr. Giuseppe Lombardo Buda, La necessità principale origine di ogni bene per la Società stabilita su principj interessanti all’Istoria (particolarmente Naturale) e al Commercio. Poema accademico di Giuseppe Lombardo Buda, catanese, pastore Ereino-Palladio, Catania, Pastore, 1778. 3   Domenico Scinà, Prospetto…, i, cit., pp. 37-38. In quanto a Paolo Maria Paciaudi basti qui ricordare che fu celebrato archeologo ed epigrafista. Per la canzone e la medaglia cfr. la Descrizione del Museo d’Antiquaria e del gabinetto d’Istoria Naturale di Sua Eccellenza il Sig. Principe di Biscari Ignazio Paternò Castello patrizio catanese data alle stampe a Firenze nel 1776 dall’abate fiorentino Domenico Sestini, in seconda edizione Livorno, Giorgi, 1787, ora ristampata con il titolo Il Museo del principe di Biscari, a cura di Giovanni Salmeri, Catania, Maimone, 2001.

rampolli ». 4 Come numerosi tra i dotti che si strinsero intorno al vescovo (il canonico bibliotecario Vito Coco, principe e censore febeo oltre che socio etneo, il già citato Giuseppe Recupero, Raimondo Platania…) frequentavano la congrega del Biscari, specularmente gli accademici – che annoveravano tra le loro fila non pochi congiunti di Ignazio, oltre a Niccolò, anche Giovanni Andrea Paternò Castello, filosofo e matematico docente di dogmatica e di morale presso l’Università, socio della Reale Accademia di Londra, Niceta Filalete per i Febei e Orfeo Simetino per gli Etnei – tenevano spesso i loro consessi nelle chiese dei teatini, i religiosi più all’avanguardia nella promozione delle idee riformatrici in contrasto con il fronte gesuitico. Storia naturale, antichità e poesia, i tre indirizzi principali dei sodali Etnei. Se il primo scopo scientifico di misurare l’esatta altezza dell’Etna non fu raggiunto facilmente – tanto che si decise di affidarne l’incarico al matematico maltese Giuseppe Zara, riporta la cronaca odeporica di Brydone A tour through Sicily and Malta, 1773, e riferisce Lombardo Buda in un Elogio –, 5 il repertorio letterario del consesso fu invece ricchissimo. Gli Etnei si sfidavano nella composizione di prose e versi adeguandosi a ciò che imponeva la formula stessa delle riunioni, avverse a qualsiasi tipo di specializzazione settoriale e fautrici della diffusione di un sapere universale ed enciclopedico. Innegabile appare però nella loro produzione quella pesante ipoteca classicheggiante, quella reiterazione di stucchevoli moduli petrarcheggianti che costituiscono la maniera accademica vulgata, leziosa, risaputa, tanto che anche ai nostri letterati possono essere applicate le meritate frustate inflitte dal Baretti al Crescimbeni, reo d’abbandonarsi a « fantasie parte di piombo e parte di legno », e allo Zappi, con « i suoi smascolinati sonettini, pargoletti piccinini, mollemente femminini, tutti pieni d’amorini ! ». 6 Forgiata sugli stereotipi della lirica e dell’oratoria in auge, la pratica versificatoria e prosastica degli Etnei si declinava secondo le convenzioni delle rime e dei discorsi d’occasione, impegnandosi in pietosi componimenti religiosi e agiografici, in patetici necrologi, in pastorellerie tramate di bucolici dettagli ; applicandosi così anch’essi a  







   



un curioso mestiere, una nuova manifattura, un lanifizio – l’accusa è rivolta ai letterati suoi concittadini da un irritato Bettinelli –. Mi son trovato agli sposalizi più d’una volta, ne ho veduti i preparativi e le feste più solenni. I poeti vi lavoravano al pari dei falegnami, de’ pittori, degli stuccatori e de’ macchinisti. 7

I taglienti sarcasmi del Bettinelli si attagliano perfettamente ai pastori etnei, ma è d’obbligo smussarli quando si osserva la loro poesia in vernacolo, che mostra una verve degna di apprezzamento, da un lato, per la schiettezza del registro comico da loro adottato e la vivacità con cui rielaborano i paradigmi stilistici della satira dialettale, dall’altro, per la qualità del loro linguaggio, non vezzoso ricalco plebeo bensì zampillante da una reale adesione alla cultura popolare. Spicca tra i poeti vernacolari Giovanni Sardo, canonico e cattedratico di umanità latina, autore prolifico di versi burleschi (esemplare la Cicalata supra l’acqua annivata). Agli antipodi si erge il sacerdote e professore di eloquenza Raimondo Platania, accademico del Buon Gusto, pastore Ereino, attivo nel seminario dei Teatini di Palermo, protagonista della reazione al secentismo, autore di prose e versi in lingua o in latino. Al doppio filone burlesco-satirico e sacro-eloquente, cui è intonata tutta la lirica del Settecento siciliano, alle suggestioni oscillanti tra il codice 4   Queste le aspettative dei catanesi esplicitate da Niccolò Paternò Castello nel sonetto (tratto dal suo ms. inedito) recitato in una sessione degli Etnei per la Promozione al Vescovato di Catania di Mons.r D. Salvadore Ventimiglia. 5   Giuseppe Lombardo Buda, Elogio di Ignazio Paternò Castello principe di Biscari, Catania, Pastore, 1787, pp. 28-30. 6   Le stroncature apparvero sulla « Frusta letteraria », i, 1763. 7   Cfr. Saverio Bettinelli, Dodici Lettere Inglesi sopra varii argomenti e sopra la letteratura italiana, Venezia, Pasquali, 1766, p. 163.  



la produzione accademica inedita del patrizio catanese niccolò paternò castello, pastore etneo 63 faceto e quello classicheggiante non fu estraneo il succitato Niccolò Paternò Castello. Barone di Ricalcaccia dei Principi di Biscari, 1 presidente e custode dei Pastori Etnei, seguace di un’Arcadia raffinata e salottiera che restava punto di riferimento irrinunciabile per una scrittura connessa alle galanti conversazioni degli ambienti aristocratici, ma al tempo stesso cultore di un gusto giocoso e salace rivelatore di una arguta ironia, che nell’ordito lessicale e morfosintattico siciliano trovava la più adeguata espressione. Egli ha lasciato inediti (e ancora inesplorati) due corposi tomi di Discorsi e Poesie Diverse, 2 che riuniscono i suoi diletti letterari, testi d’argomento sacro e profano : cicalate, capitoli su argomenti fittizi (per esempio in lode delle mosche), idilli, sonetti, canzoni e canzonette, necrologi, epitalami e vari componimenti d’occasione, su Roma antica, su santi, in onore di Carlo Sebastiano Borbone re delle due Sicilie, sull’amor profano, sulla virtù, sui fuochi dell’Etna, sull’origine delle fonti e delle nevi ; e poi congratulazioni per nomine a cariche di qualche nobile o religioso come il padre teatino Giovanni Spinelli arcivescovo di Messina, oppure per le nozze della Regina Amalia con Carlo III, o epitaffi per la dipartita di soci o familiari – il medico Agostino Giuffrida, la moglie Eleonora Paternò, il fratello Ignazio, Raimondo Platania – ovvero per circostanze drammatiche come le pestilenze. Nei tomi del principe degli Etnei si sgranano così  



1   Si legge nell’orazione funebre di Francesco Landolina Trigona, In morte dell’illustre Niccolò M. Paternò Castello, e Scammacca, Barone di Ricalcaccia de’ Principi Di Biscari Patrizio Catanese, Catania, Reggio, 1803 : « correva l’anno del trascorso secolo 1721, quando la provvidenza volle fare alla nostra patria un secondo dono di virtù dopo la nascita dell’immortale Ignazio Paternò Castello nella persona del nostro Niccolò. Alli 27 agosto di questo anno egli nasce » ; educato dai Padri Teatini di Palermo, il cadetto dei Biscari torna a Catania nel 1740 e subito entra a far parte dei Gioviali, nel 1750 sposa Eleonora Paternò dei Manganelli e ne ha due figli ; nel 1785, colpito da lutti familiari, si ritira nella sua villa del Fegotto e vi muore nel 1803. 2   L’autografo di Niccolò Paternò Castello, in atto conservato nel Fondo Strano della Biblioteca Regionale Giambattista Caruso di Catania con le segnature U.MS.BS.5 e U.MS.BS.6 (olim Fondo Vetimiliano, MS.Vent. 75 e MS.Vent. 76), è composto da due tomi cartacei, con fascicoli legati, coperta in pergamena, assi in cartone, tassello rosso con lettere oro, del sec. xviii [17581770], discretamente conservati. Nella facciata interna del piatto di entrambi i tomi è incollata l’incisione dello stemma della Biblioteca Ventimiliana. I due manoscritti, infatti, furono donati nel 1830 dal nipote dell’autore, Nicola Anzalone, al direttore della Ventimiliana, il canonico Francesco Strano di Aci-Catena, titolare della cattedra universitaria di umanità latina, autore di svariati discorsi e ricordato soprattutto per il Catalogo ragionato della Biblioteca Ventimiliana esistente nella Regia Università degli Studi di Catania, Catania, Tipografia della R. Università degli Studi e presso Carmelo Pastore Tipografo della stessa, 1830. Il volume i è composto da 292 carte con numerazione originale delle pagine, da 1 a 590 ; dopo il foglio di guardia su una pagina bianca è incollato il ritratto dell’autore inciso da Antonio Zacco ; l’antiporta raffigura un angelo reggente un cartiglio con il titolo abbreviato dell’opera : Discorsi e Poesie Diverse ; il frontespizio porta il titolo esteso : Raccolta di Prose e Poesie fatte per propria occupazione Letteraria, e recitate in diverse adunanze Accademiche da Niccolò M :ª Paternò Castello Barone di Ricalcaccia dei Ppi di Biscari Patrizio Catanese Volume Pmo° Originale di Carattere proprio del med.° Autore. L’esemplare risulta purtroppo lacunoso da pagina 9 a pagina 26, le nove carte mancanti contenevano il testo del Discorso intorno alla origine della poesia, per noi oggi perduto. Il volume ii è numerato di pugno dell’autore da pagina 1 a pagina 507, segue una numerazione fino a pagina 542 aggiunta successivamente a matita da altra mano. In entrambi i manoscritti la grafia presenta un ductus omogeneo e facilmente leggibile ; l’inchiostro è di colore bruno. La lindura del testo e la mancanza di segni attestanti il travaglio compositivo suggeriscono che si tratta di una copia tirata in pulito, su cui l’autore apportò tuttavia una serie cospicua di emendamenti che mettono in luce una successiva operazione correttoria di tipo sostitutivo, destitutivo e integrativo. L’autografo fu riordinato e di nuovo ricopiato in tre tomi (con qualche lacuna e con l’inserimento di componimenti giovanili assenti nell’autografo), forse in vista di una stampa mai realizzata, dal figlio di Niccolò, Vincenzo Domenico, che intitolò l’opera paterna, Raccolta di poesie Scritte per propria occupazione e recitate in diverse adunanze accademiche, riordinata e tirata in pulito a Catania nel 1805, e anch’essa custodita presso la medesima Biblioteca Regionale. I manoscritti di Niccolò Paternò Castello, registrati dallo Strano, sono stati da noi rintracciati, trascritti ed esaminati avvalendoci della generosa disponibilità e della non comune competenza della paleografa Salvina Bosco, della suddetta Biblioteca Regionale ; lo stesso materiale è attualmente oggetto della tesi di dottorato di Manuela Spina, al cui lavoro di ricerca si deve il reperimento di non poche notizie e di preziosi documenti sulle accademie isolane. A entrambe va il nostro sentito ringraziamento.  

























elegie, componimenti in terza e sesta rima, canzoni, capitoli, endecasillabi, ottave siciliane d’argomento sacro, accanto alle immancabili egloghe (gradevole una piscatoria su Glauce e Mopso) e a versi anacreontici, nonché cantate e cantatine mitologiche ; insomma, tutto l’archivio e il vocabolario della rimeria arcadica riassunti nelle cadenze del prediletto Filicaja. Dentro la medesima cornice si collocano le poesie bernesche e le cicalate vernacolari in cui la sua dichiarata « musa testarda » estrinseca una vena autenticamente divertita – quando non francamente farsesca, come nello spassoso testamento del porco – o liricamente coinvolta ; di notevole impatto, infine, le variazioni sul motivo dell’ebbrezza bacchica, che nella Catania settecentesca si articolava sui ritmi buffoneschi e contestativi della licenziosa irriverenza tempiana. Le « letterarie bagattelle », come lo stesso nobiluomo definisce la sua raccolta, sono precedute dalla colta prefazione L’autore agli amici, vera dichiarazione di poetica che si muove sulla scia delle analoghe considerazioni del Menzini Dell’arte poetica e dell’Averani (le sue Orationes uscirono nel 1688 in una con l’opera del Menzini), del Crescimbeni e del Muratori, dei quali il barone cita L’istoria della volgar poesia e Della perfetta poesia italiana, e soprattutto dell’arcade matematico e studioso di retorica, Tommaso Ceva, alle cui opinioni si conforma rintracciandole nella Scelta di sonetti con varie critiche osservazioni, ed una dissertazione intorno al sonetto in generale del 1735. Niccolò precisa inoltre di aver studiosamente seguito e puntigliosamente tentato di imitare « gli Autori più applauditi del nostro secolo [...] or lo stile maestoso, or la subblimità dei concetti, e colla purezza della lingua tutto ciò, che per essere difficile, e raro, rende vaga e preggiata l’arte del Poetare ». L’introduzione si conclude con un essenziale accenno ai generi letterari in voga tra gli accademici : « Qui dunque troverete un po’ di tutto. Discorsetti di materie diverse, Componimenti Sacri, e Profani, e qualche cosa sull’ultimo di Bernesco. Tutto però senza ordine alcuno, e quasi raccolto alla rinfusa ». Con il richiamo, da una parte, allo « stile maestoso, difficile, e raro » e, dall’altra, alla « purezza della lingua », il prologo svela quindi i due campi d’azione dell’autore, quello della produzione creativa e il versante della speculazione sui temi, le strategie, gli strumenti connessi alla costruzione letteraria. Pertanto, da un canto ci imbattiamo nella sua poesia, sia in lingua italiana ancora intrisa di una certa maestosità barocca seppur stemperata in più tenui stilemi arcadici (« Perciò di un crine né prigionier, né cieco / Mi chiamo al vago lampeggiar d’un viso ; / Amor, qual sei tiranno io ti ravviso »), sia in siciliano, dove prevalgono le tonalità dello scherno e del divertimento. Esemplare al riguardo la Cicalata sopra la Pazzia Universale (« Tra nui c’è pazzi ccu varva, e mustazzu, / Chi ammustranu la luna ‘ntra lu puzzu »), tema molto frequentato in area isolana, più precisamente iblea, dal Campailla e dal Galfo. 3 Dall’altro lato egli si misura con declamazioni prosastiche e imposta sapienti pagine di ‘ragionamenti’ focalizzate sulla lingua, sui generi, sulla retorica, sulla prosodia e la metrica. Tra i metri, prediletto risulta il sonetto, cui è dedicato l’incipitario Discorso intorno alla origine della Poesia e intorno alla Difficoltà e Bellezza del Sonetto ; qui il barone discetta sulla distribuzione (‘l’economia’) della materia, sulla necessità della proporzionata trattazione dell’argomento tra le quartine e le terzine, e accenna una brevissima ma pungente polemica antimarinista, definendo i « contrapposti puerili », le « allusioni ridicole » e le « acutezze di pensieri fondati quasi esclusivamente sul falso » non il sale della poesia bensì « il vero veleno dell’arte Poetica ». Questa attinge le vette dell’espressività proprio nel sonetto,  

























































3   Della follia dissertarono i modicani Tommaso Campailla, Del disordinato discorso dell’uomo nelle varie pazzie, deliri e sogni, edito in prima battuta nel 1727, poi nel 1737 negli Opuscoli filosofici, Palermo, Gramignani, quindi ristampato a cura di Salvatore Grillo, Caltanissetta, Lussografica, 1995 ; e Antonino Galfo, Il Tempio della follia, incluso nel ponderoso Saggio Poetico, Roma, Giunchi, 1790.  

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« il più vago, il più nobile, ed il più perfetto Poema che abbiasi la Lirica italiana », forma ‘piana e moderata’ che consente « in un chiaro oscuro di sentimenti » di far « lampeggiare le passioni e gli affetti, e così adattasi assai bene al mezzano stile, in cui vanno annoverati i Sonetti Amorosi, Gravi, Eloquenti, Dolci, e Fioriti ». 1 Espresso con convinzione, il giudizio del barone non è tuttavia originale, limitandosi l’autore a ripercorrere i sentieri già battuti oltre che dal Crescimbeni, dal Quadrio e dall’Avolio, 2 il quale spiegava che « Il sonetto piace, illumina, sorprende : è un’arma, che ferisce ; è un piccol corpo, composto di proporzionate membra, capace a communicarci delle grandi idee, se mai si versi nelle sublimi materie, o ad istruirci in profittevoli verità sotto un semplice stile ». 3 L’imperativo del buon gusto (« la finezza del buon gusto del secolo oggidì ») mette un argine ai « varj disordini » della letteratura del recente passato e coincide con la ricerca de « La Purità della lingua, la Chiarezza nell’esprimersi, e la Elocuzione, o sia l’ornamento nel maneggio delle Figure ». Queste « le tre principali doti del buon discorso ». Altrettanto recise le affermazioni sulla lingua e la sua ‘nobiltà’ da parte del custode etneo, che riecheggia i termini delle controversie diffusissime nella repubblica delle lettere d’Italia a partire dalle muratoriane Riflessioni sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti di Lamindo Pritanio (1708) disquisite in tutte le accademie, nelle cui riunioni ci si interrogava sulle cause della corruzione dell’eloquenza e della poesia e sulla necessità di nascondere il più possibile gli artifici retorici adoperati in prosa e in rima. Tra gli Etnei, accanto al barone, ad interessarsi particolarmente a tali questioni è Giovanni Sardo di cui conosciamo una Dissertazione sull’indole della lingua italiana e un Discorso sulla natura dell’eloquenza in generale e della poesia in particolare ; anche il secondogenito dei Paternò stila un sapiente e puntuale Discorso Accademico in occasione dell’apertura del Museo Biscari eretto nella città di Catania dal Sig.r Ignazio Vincenzo Paternò, e Castello Principe del Biscari, 1758, oscillando tra l’autocritica e la propositiva istanza del giovamento pubblico mediante la trattazione di argomenti « utili e fruttuosi » piuttosto che fioriti e dilettevoli :  











































io più di me stesso non mi stupisco, se annoiato della primiera mia 1

  La citazione è tratta dal manoscritto inedito. Cfr. nota 2 di p. 63.   I due letterati ne trattarono, il primo in Della Storia e della Ragione d’ogni poesia, i, Bologna, Pisarri, 1739, p. 40 ; il secondo nel Saggio sovra lo stato presente della poesia in Sicilia, per servire alla storia della letteratura nazionale del secolo xviii, Siracusa, Pulejo, 1744. 3   La citazione è tratta dal manoscritto inedito. Cfr. nota 2 di p. 63. 2



propensione in rintracciare argomenti capaci della più splendida pomposa eloquenza, da quegli oggi tragga maggior diletto, che a me, et ad altrui parmi che sieno per riuscire utili, e fruttuosi. Per me [...] passò quella più fresca staggione degli anni, quando [...] sforzandomi ad abbellire la Orazion mia coi più vivaci colori della facondia, e con il liscio dello stil più fiorito, anzi che al profitto di chi mi ascoltava, ebbi la mira al piacere. In vece di sì fatti, altri in mia mente oggi risvegliati si sono, e forse meglio librati consigli, per cui più presto di aver premura di comparire eloquente [...] desiderio anzi provo che questi più ricco divenga dal mio parlare, di buone cose, e degne di esser sapute. 4

La produzione di scuola settecentesca, la scorribanda ludica sugli antipoetici motivi messi in circolo dalla ricerca del meraviglioso barocco, la ripresa di forme espressive più attente al buon gusto che alla seduzione dello ‘stupefacente’ sono il fulcro di questa ancora sconosciuta produzione accademica di Niccolò ; tuttavia non ne esauriscono la gamma contenutistica. Vale la pena infatti di concludere la nostra sommaria rassegna-presentazione con un accenno ad almeno tre componimenti che attestano la volontà del patrizio letterato etneo di incrociare gli avvenimenti dell’attualità storica, anche se da un’ottica conservatrice : gli endecasillabi I voti dei Popoli negli sconvolgimenti di Europa (« Al suon infausto la folta gente / Sboccò rabbiosa […] / Raggione oppressa da forza, e arbitrio, / Non altro aspettasi, che ceppi, e morte ») e l’elegia La pace nelle due Sicilie (« Torni alla mesta Italia oggi il primiero / Sembiante, e sedi, o rechi ad alta riva / Gl’impeti valorosi il Dio guerriero ; / Dell’Isola felice in ogni lido / Industria regna, e fedeltà »), che non sono datati ma probabilmente composti a ridosso del 1792 poiché alludono ai disordini seguiti alla Rivoluzione Francese e all’opera restauratrice di Ferdinando III di Sicilia ; come peraltro è detto più esplicitamente in un sonetto degli stessi anni dedicato al sovrano Borbone : « il Nume, e vuol, che a te si affidi / L’opra o Fernando, onde abbian di ridenti / I fertili di esperia estremi lidi ». Al di fuori di questi esempi prevalgono però, nella miscellanea del patrizio catanese, la facile cantabilità, il disinvolto edonismo, la glorificazione dell’ovvio poetico che costituiscono il segno più scontato delle ‘belle lettere’ di cui erano sacerdoti e custodi gli accademici, sempre alla ricerca (è di nuovo la denuncia di Leopardi, Zibaldone, i) di « cose straordinarie, finezze, spirito, mille bagattelle » per meritare « gli applausi di un’Accademia ».  

























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  Ibidem.





PARINI E LA NON-NOMINATIO Davide De Camilli

S

i sa che Parini operò in una Milano culturalmente soggetta a diversi influssi : l’Arcadia ancora vitale, il sensismo, il classicismo, il preromanticismo, l’illuminismo d’Oltralpe che di lì a poco avrebbe condotto agli sconvolgimenti della Rivoluzione. Ma su di lui agì pure la satira di natura realistica e in certa misura popolare, tipica della poesia dialettale, cui Parini fu particolarmente sensibile, convinto, come era, del valore del dialetto meneghino, del che sono testimoni le polemiche letterarie del tempo, tra cui la celebre Brandana. Il che tuttavia non gli impedì di divenire uno dei più alti poeti in lingua toscana del Settecento. Quanto detto può spiegare le sue scelte onomastiche, che in linea di massima sono di natura arcadica o classica, mentre più raramente fanno riferimento a nomi appartenenti alla realtà storica o contemporanea. Ma vi è un aspetto che val la pena di esplorare, quello della mancata nominatio. In primo luogo il Giovin Signore. Di lì a poco sarebbe apparso sulla scena letteraria Manzoni, geniale anche in questo. Le invenzioni dell’Anonimo e dell’Innominato ne sono testimoni. Quali furono le ragioni che condussero i due autori a una tale scelta ? Forse la prudenza per non offendere famiglie potenti, soprattutto nel caso dell’abate, o la carità cristiana, o ancora l’esigenza di proiettare questi nomi-non-nomi e i relativi personaggi sullo schermo della poesia universale. E questo discorso riporta alle origini della nostra letteratura, a Dante, che pure nomina e non nomina, e spesso allude.  



si nascose nel Giorno dietro la formula del precettore e volle l’anonimato quando ne pubblicò le prime due parti. D’altra parte avrebbe potuto usare un nome mitologico per il suo alunno, o qualcosa di simile se avesse voluto insistere sulla sua soggettività, ma non lo fece, sottolineando l’impersonalità e quindi l’universalità del personaggio. Se si considera Il Giorno in tutta la sua estensione ci si rende conto del diluvio di nomi presenti. Nomi che tuttavia non toccano i personaggi del poema, rigorosamente anonimi. Così nell’indice di Dante Isella, 3 ricordato anche da Giorgio Baroni in un suo saggio onomastico, 4 si trovano complessivamente oltre trecento nomi, senza contare le prosopopee. Tuttavia sono nomi di invenzione, nomi della mitologia classica, tra i quali Giove, Giunone, Plutone, le Furie, Citerea, Cupido, Imene, Bromio (Bacco), Febo o Apollo, le Muse, Minerva, Morfeo, Proteo, Nettuno, Teti, Marte ; e a tutte le divinità vengono applicate le caratteristiche più varie e rare, tipiche di una competenza assai raffinata. Molti dei miti cui Parini fa riferimento sono ricercati e poco noti, come quelli della poesia alessandrina e callimachea. D’altra parte era nota la sua singolare conoscenza della mitologia classica. Troviamo poi nomi e aggettivi tratti da leggende, popoli, località, o dalla Storia, come Penelope, Patroclo, Achille, Artù, e Francesi, Ispani, Turchi, Ungheresi, Guatemaltesi, Caribei, Messicani, Incas, Etiopi e Argivi ; e ancora Crotone, Aleppo, Moca, la Senna, il Tamigi, il Rodano, Valchiusa, il Giappone, Cuba, il Messico, la California ; e infine Pizzarro, Cortes, e altri in gran numero, cui si aggiungono le prosopopee come il Sonno, il Piacere, la Fama, la Pace, la Notte, l’Ozio, la Vanità, il Puntiglio, la Noia, in questo ‘giorno’ infinito, per migliaia di versi. Di fronte a questo elenco, solo esemplificativo, di nomi, si collocano gli innumerevoli soggetti non-nominati. Infatti, a parte le varie definizioni del gran giovane, tutti gli altri personaggi che compaiono sulla scena sono rigorosamente privi di nome. Al punto che Il Giorno è il racconto di come una serie di innominati, a partire dal protagonista, trascorre futilmente le ore che lo compongono. Come « il fido servo », « i valletti gentili », « il damigel ben pettinato », il « villano sartor », « il garrulo forense », il « castaldo », il « dolce mastro », « il precettor del tenero idioma », la « dama », il « buon cultore », « l’industre artier », « l’ammirato cucinier », « l’empio servo » dell’episodio della « vergine cuccia ». Per non dire delle allusioni, come ad esempio « i sofi novelli », ad indicare gli Illuministi.  





L’assenza di un nome è in effetti un buco nero, la cui sostanza è densissima di significati e la cui funzione nel testo è anche quella di focalizzare la curiosità del lettore. Così è per l’Anonimo manzoniano, vero alter ego, o doppio, dello scrittore con cui egli dialoga di continuo, se non altro per trattarlo male e accusarlo per tutto ciò che costui ‘tace’, o meglio Manzoni non vuole dire. Tanto più questo vale per l’Innominato che l’autore è libero di ricreare come vuole. E il personaggio manzoniano è grandioso. Angelo Pupino ha scritto che costui è come Dio. 1 Infatti come Dio l’Innominato affanna e consola, male assoluto e assoluto bene. Nel Giorno il Giovin Signore è anonimo e in tal modo può agire da centro motore del discorso, come nobile-tipo ; la sua perfezione tipologica è assoluta. A nessun essere umano, che non fosse tipico, sarebbe stato possibile svolgere una giornata perfetta per un nobile, adempiendo a tutte quelle futili imprese, in modo che nulla fosse tralasciato e che tutti i difetti di una classe sociale fossero da costui rappresentati. Lo stesso discorso vale per i due personaggi del Dialogo sopra la Nobiltà dove solo l’anonimato può permettere ai due di essere compiutamente un nobile e un poeta. Il Poeta del Dialogo può essere il poeta-tipo, e a sua volta il Nobile rappresenta la propria classe nel ’700, con la sua alterigia e tutti i suoi privilegi, che egli ritiene intatti anche da morto. Diverso fu invece il caso di Pietro Verri, che fece svolgere il suo Dialogue des morts, secondo un’antica tradizione risalente a Luciano, da personaggi storici, Federico il Grande e Voltaire. 2 E poi chi potrebbe mai essere il poeta del Dialogo ? Il Parini stesso ? Di certo gli parve più prudente nascondersi così come  





1   Cfr. Angelo Pupino, Un nome negato, in Studi di Onomastica e Letteratura offerti a Bruno Porcelli, Pisa-Roma, Gruppo editoriale internazionale, 2007, p. 180. 2   Cfr. il mio Giuseppe Parini e la Rivoluzione Francese, in Attualità di Giuseppe Parini, « Rivista di letteratura italiana », xvii, 2-3, 1999, p. 342.  































































Non v’è dubbio che il Dialogo contenga già in sé l’argomento dominante del Giorno, vale a dire il rifiuto della pretesa superiorità dei nobili sulle altre categorie sociali. D’altra parte l’égalité è di netta matrice illuministica ed è al centro del pensiero su cui si innestò la grande Rivoluzione. Ma Parini non fu un rivoluzionario, bensì un riformista. Non v’era odio nel suo animo fermo ma mite. Tutta la sua satira fu indirizzata a educare i giovani, ad allontanare gli eccessi della Nobiltà, che peraltro non lo rifiutò mai e dalla quale ottenne prebende ed onori. Anche Manzoni fu sostanzialmente un moderato, devoto ad una giustizia superiore di matrice religiosa, né mai 3   Giuseppe Parini, Il Giorno, edizione critica a cura di Dante Isella, Parma, Fondazione Pietro Bembo-Guanda, 1996. 4   Giorgio Baroni, Mitologia e altro nei nomi del Giorno di Giuseppe Parini, « Il Nome nel testo », 1, 1999, pp. 119-128.  



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davide de camilli

volle eccedere contro quella Nobiltà della quale faceva pur parte. Fu così che l’Innominato, o conte del Sagrato, rimase sconosciuto anche se si vollero individuare dei precisi riferimenti. Ottorino Visconti sarebbe stato il malvagio signore poi convertito, ma Manzoni non volle rivelare esplicitamente quale personaggio l’avesse ispirato. Allo stesso modo il Giovin Signore non ebbe altro nome. Si disse che Parini volesse riferirsi al principe Alberico di Belgioioso, ma rimane una supposizione. L’assenza della nominatio da parte del Parini in questo caso riflette quindi, almeno in parte, una precisa strategia. Pure il rifiuto del nome, che si verifica in tutti gli episodi del poema, rientra in una precisa volontà di non far riferimento ad episodi reali, o tanto meno a personaggi maschili o femminili noti, per poter cosi mantenere il discorso sul piano di una satira impersonale. La mancata identificazione del Signore pariniano, o dell’Innominato di Manzoni, permettono agli autori assoluta libertà di immaginazione. Così fu possibile a Parini creare una figura tipica per rappresentare in una sola giornata tutti i difetti dei giovani nobili milanesi del tempo, che Parini conosceva perfettamente. Allo stesso modo Manzoni poté inventare a suo uso il personaggio dell’Innominato e ritagliarlo su misura per le esigenze del romanzo, personaggio di invenzione più che non storico. Quando Parini scrive il suo poemetto, la grande Rivoluzione non è ancora arrivata, benché manchino pochi anni. L’Illuminismo lombardo è vicinissimo a quello francese. I Verri e Beccaria sono nobili, ma ‘illuminati’, e in una certa misura sono su posizioni più avanzate rispetto a quelle dei francesi. Beccaria nega il diritto alla tortura e alla pena di morte. In Francia ci si limiterà a cercare una morte pietosa per i condannati e la soluzione sarà la ghigliottina, la veuve, espressione concreta del supplizio indolore. Già nel Dialogo il Poeta, umile e povero, cerca di riportare il Nobile alla ragione e alla misera realtà in cui entrambi si trovano. Questo Nobile è forse lo stesso che sarà il personaggio del Giorno. E il Parini ne sarà il precettore come tale fu presso le case nobiliari prima di raggiungere a Brera una certa autonomia economica, anche grazie a Maria Teresa e al ministro Firmian, nonché alla classe stessa dei nobili dei cui favori godette sempre, anche quando arrivò Napoleone. Di conseguenza non poteva esplicitamente attirare su di sé gli strali dei nobili, soprattutto di quelli milanesi così pronti ad ogni accomodamento con il potere politico, austriaco o francese che fosse, purché le loro immense proprietà restassero intatte. Anzi con Napoleone si accrebbero pure, quando il condottiero soppresse i conventi, e i loro vastissimi possedimenti vennero acquistati per poco dagli stessi nobili. E l’uscita del moderato e prudente poeta dalla Municipalità non fu forse un grande atto di protesta contro i nuovi padroni, quanto piuttosto dovuta a senile stanchezza. Il Parini insomma non volle mai la fine della nobiltà, ma un comportamento più giusto, per cui rifiutò un certo modello di vita. Con parola moderna si sarebbe detto un riformista. Si disse che lasciò i Serbelloni per un ceffone affibbiato dalla duchessa alla figlia del maestro Sammartini. Eppure la nobildonna era ‘illuminata‘, teneva un salotto di bei nomi della Milano intellettuale ed era aperta al nuovo vento che soffiava da Parigi. Probabilmente la ragione fu più semplice e immediata, legata a una persona sempre in fuga dalla povertà. Più volte il poeta chiama il suo discepolo semplicemente Signore, oppure « mio signor », « nobil signor », « mio divino Achille », « mio Rinaldo », « giovane signore », « almo signore », « magnanimo signor », « mio eroe », « fior degli eroi », « possente signor », « mio giovan eroe », « magnanimo garzon », « almo garzon », « nobil garzon », « invitto garzone », « mio giovane  















































































































illustre modello d’ogni nobil virtù ». Quante volte ? Personalmente ne ho contate una sessantina, escludendo i pronomi « tu » o « te ». Molte, pur trattandosi di un poema di ben 3366 versi (Mattino 1166, Meriggio 1178, Vespro 349, Notte 673). Ma questa non-nominatio ha forse una sola funzione, quella di dimostrare l’impossibilità della nominatio. Perché questo giovane signore non esiste, non è un personaggio. Non sappiamo cosa pensi, né conosciamo il vero colore dei suoi capelli incipriati, né altre sue caratteristiche fisiche : è come un automa che si sposta di continuo in ambienti, di cui invece siamo informati, popolati da altri automi. Conosciamo le essenze che lo profumano, la cipria e la relativa cerimonia che tutto lo imbianca, anzi lo invecchia, le pasticche che gli ingentiliscono l’alito, il belletto per le guance, e mille altri artifici che ne fanno un giovane alla moda. Così siamo informati delle stoffe dei suoi abiti, delle sue carrozze, dei gioielli, delle miniature che porta con sé e perfino del coltello da scalco che l’accompagna ai banchetti, e appunto sappiamo delle tavole imbandite, dei vini, ma non in particolare dei cibi, del canapé, del gioco e se si vuole dei riti dell’amore in un tempo di mariti indifferenti e di cicisbei, vale a dire di amanti piuttosto inconcludenti. Tuttavia poco o nulla sappiamo della sua bella, se non che è maritata, che soffre di crisi isteriche e che gioca di continuo con la pazienza del suo cavaliere. Grandezza del Parini è aver costruito un registro completo della vita vuota di quei nobili, delle loro frequentazioni e dell’apparato che li circondava. Una realtà che solo chi li frequentava da vicino poteva conoscere. Ma questo giovane non ha vita né anima ed è inevitabile che non abbia nome. E pochi momenti del poema sono attraversati da un vero sentimento di pietà e di indignazione di fronte a tanta vacuità, come l’episodio sublime della « vergine cuccia ». Si tratta di un testo che vuole essere, ma solo ironicamente, didascalico, come fu didascalica una gran mole della letteratura settecentesca. Lo testimonia anche l’Emilio roussoiano, il cui protagonista tuttavia ha un nome ben definito. Mario Fubini affermò che il protagonista del Giorno altro non è se non « una bocca aperta in atto di sbadiglio », o « una mano » che regge un pollo sul coltello. Lo ricorda Giorgio Ficara in una introduzione al Giorno. 1 Il Foscolo parlò dello « scarso interesse » suscitato dall’eroe del poemetto. Momigliano disse della « difficile poesia » a proposito degli oggetti e degli ambienti, mentre non c’è poesia che riguardi il personaggio in sé. Ficara aggiunge che il Giovin Signore è « qualcosa che non c’è e che per vedere bisogna inseguire al suo esterno ». E aggiunge che il « Giovin Signore è un nome, il nome più frequentemente e vanamente invocato nel Giorno », 2 per poi parlare dell’« irrealtà » del protagonista. Ma è proprio questa a determinare l’impossibilità del nome. Non è un personaggio e quindi non ha nome. Insomma « Giovin Signore » non è un nome, è un’illusione. Difatti il giovanotto non parla. Si chiese Momigliano cosa sarebbe successo se avesse detto qualcosa. Semmai protesta o urla col parrucchiere. Ma che cosa dice ? Non lo sappiamo, perché se noi conoscessimo le sue parole, anche parole d’ira, il personaggio diverrebbe concreto e prenderebbe vita. Inoltre non può vedere. Le opere d’arte sono per lui solo ornamento, non sa giudicarle. Se prende un libro in mano ne ammira la rilegatura e la copertina e, se legge, fossero anche letture alla moda, si annoia subito, e, casomai riflettesse, il poeta non ne sa nulla. Analogamente tutti i personaggi che popolano il poemetto sono fittizi e quindi non possono avere nomi. Gli amici del giovane, le dame, le matrone, i relativi mariti, tutto il mondo che ruota attorno a questi dominatori, valletti e cameriere,



1   Giorgio Ficara, Introduzione a Giuseppe Parini, Il Giorno, a cura di 2   Ivi, p. 8. Giorgio Ficara, Milano, Mondadori, 2009.

parini e la non- nominatio domestici e cocchieri, sarti e maestri di ballo o di canto, tutti sono innominati e solo fuggevolmente accennati. Ma trionfano, come s’è detto, i nomi della mitologia, testimone di un mondo immaginario e imperituro ben diverso da quello di una Nobiltà vuota, sciocca ed estenuata, di cui forse Parini avvertiva la caducità, e della quale la vicina Rivoluzione avrebbe fatto strage in Francia. In questo senso il Giorno col ritratto di una società al tramonto, costituita da personaggi privi di vera umanità, e quindi di nomi, è la testimonianza più trasparente, o se si vuole il tragico presentimento, di quanto di lì a poco sarebbe successo. Non per nulla Parini, che « in Arcadia almeno il tacco del piè sinistro ce l’ebbe sempre » secondo Carducci, sogna spesso un altro mondo, quello ancora presente nella realtà rurale, lo stesso della Salubrità, dove il poeta è, come ebbe a dire Renzo Negri, un « ecologista ante litteram ». Tuttavia il suo era solo un sentimento di rimpianto di un passato irrecuperabile, destinato a scemare col progressivo indebolirsi dell’Arcadia, piegata dal vento preromantico. C’è sempre molta amarezza nei versi pariniani che sono di satira sì, ma senza fiducia in un avvenire migliore. E anche per questo egli non fu un rivoluzionario, non perché non credesse nella rivoluzione possibile ma perché in fondo non credeva che i risultati di questa potessero in qualche modo sovvertire i destini del mondo. Amò la giustizia, ma anche in questo caso con ben poche speranze. La sua dirittura morale era in grado di ironizzare sui mali della società, ma forse non fino al punto di credere di poterli estirpare. Più semplicemente i tempi non erano maturi ed egli li precorse. Per questo il poema è pervaso da una tristezza profonda. Questo mondo artificiale, dove la luce solare è schermata per garantire il sonno all’eroe della notte, dove la vita è così lontana dagli ambienti naturali e si svolge tra salotti, banchetti e gioco, al vespro e soprattutto di notte, è dominato da una noia mortale. C’è di più. Questo mondo è governato dai vecchi. Il giovin signore fa di tutto per somigliare a loro, per essere egli stesso vecchio. Parini conosce il farmaco che guarisce dalla noia e allontana dalla morte, e questo è la poesia. Ma rinuncia a proporre questa salvezza al suo discepolo, che non potrebbe capire, e così lo lascia al suo destino, e lascia allo stesso destino i suoi personaggi senza anima e non solo i signori ma anche i servi, tutti dediti a compiti privi di significato, e che, se diventano improvvisamente umani, escono di scena, come il servo cui tocca in sorte di dare un calcio all’amata cagnolina della dama. Forse l’amore potrebbe porre rimedio alla noia in cui questa società vive immersa, se non altro una passione fisica e sensuale, ma qui non c’è vera passione. I mariti non amano le mogli e lasciano che si immergano nel vuoto rito del cicisbeismo, che lascia supporre qualche sorta di amore proibito, ma non nel caso del giovin signore per il quale esso è solo moda, in questo vuoto mondo infarcito di regole di società che lo  







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fanno ruotare senza senso e senza lasciare spiragli per una vera felicità. Parini non pubblicò né il Vespro, né la Notte. E forse queste due parti sarebbero rimaste inedite se non vi avesse provveduto il Reina. Perché non le pubblicò ? Si disse che il crollo di quel mondo dorato, seppure in una Lombardia non pienamente coinvolta dalla Rivoluzione, salvo che per le conquiste napoleoniche, impedì al poeta di infierire sui suoi anonimi protagonisti. Sarà anche vero. Ma è più credibile che abbia sentito isterilirsi quella vena poetica. Tant’è che sul letto di morte si disse abbia dettato quel sonetto che sconfessava ogni velleità di mutamenti radicali « Predaro i Filistei l’arca di Dio ». La poesia del Giorno era irrimediabilmente finita. Erano mutati i tempi. Presto sarebbero comparsi sulla scena Foscolo, Manzoni, Leopardi, e sul versante neoclassico Monti. Anche Parini aveva dunque avvertito il crepuscolo del suo mondo poetico. Difatti nella Notte del Giovin Signore aleggiano note neoclassiche e romantiche, qua e là anticipatrici di una poesia leopardiana. Bastano pochi versi dedicati alla notte, di classica e preromantica bellezza, per poter sentire che la nostra poesia si avviava verso il sublime : « sola squallida mesta alto sedevi / su la timida terra. Il debil raggio / de le stelle remote e de’ pianeti, che nel silenzio camminando vanno » (La notte, vv. 5-8) ; oppure : « Mira la notte, / Che col carro stellato alta sen vola / Per l’eterea campagna » (vv. 141-143). Si trova nella Notte un ultimo guizzo di vitalità di questa povera creatura : le stanze sono già ricolme di cavalieri e dame, e « Tu per quelle t’avvolgi. Ardito e baldo / Vanne, torna, ti assidi, ergiti, cedi, / Premi, chiedi perdono, odi, domanda, / Sfuggi, accenna, schiamazza. Entra e ti mesci / A i divini drappelli, e a un punto empiendo / Ogni cosa di te, mira e conosci » (vv. 459-464). L’automa pare scosso da frenesia quasi ad affermare la propia vitalità. E la notte, la « vasta quiete » (v. 638) viene rotta da personaggi grotteschi e surreali, a simboleggiare quel mondo di disperati, che imitano Pantalone, Pulcinella e Arlecchino o si riflettono mascherati in immagini di animali, l’orso, il gatto, la scimmia o l’asinello. Una vera mascherata dove non c’è posto per i nomi che si danno agli umani. Tutte queste bambole meccaniche tanto care al Settecento sembrano qui impazzite. Il De Sanctis vide nella poesia pariniana il risveglio morale della letteratura italiana. Infatti fu questa poesia a rivelare la povertà morale, il vuoto spirituale di una società al tramonto. Ed è la Notte l’invenzione poetica più geniale del Parini. Questa notte squallida e mesta che alta siede proiettando sulla terra il debole raggio delle stelle remote e dei pianeti che nel silenzio vanno camminando, e che oscura gli specchi, gli ori e le gemme di quel palcoscenico, mentre abbassa il sipario sul manichino del Giovin Signore, e degli altri automi che si afflosciano senza più movimento dopo tanta agitazione, e senza nome, per sempre.  





























CRITICA, ERMENEUTICA, DECOSTRUZIONE. UN PERCORSO FILOSOFICO TRA MODERNO E POSTMODERNO Dario Sacchi

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a novità più rilevante che, nel bene e nel male, ha caratterizzato il pensiero filosofico di questi ultimi due secoli rispetto a quello delle epoche precedenti concerne la maniera di intendere il rapporto fra soggetto e oggetto. Queste due nozioni sembrano ovvie nel loro significato a chiunque, anche all’uomo della strada : sembra ovvio, cioè, che esistano da una parte e dall’altra, in qualche modo contrapposti o comunque impegnati a fronteggiarsi reciprocamente, un soggetto, che è il soggetto pensante, conoscente, e un oggetto che è la realtà che sta al di fuori di questo soggetto. Vedremo assai presto che una simile rappresentazione non vale molto : ciò non toglie che sia profondamente radicata in noi alla maniera di una credenza istintiva. In particolare, agganciata a questa rappresentazione troviamo una parola chiave, verità, che in qualche modo è sempre stata intesa come la corrispondenza, la concordanza tra le due sfere. La verità sarebbe, nella classica formulazione medioevale rinvenibile ad esempio in S. Tommaso d’Aquino, la adaequatio rei et intellectus, ove res denota l’oggetto e intellectus il soggetto. In linea di massima noi siamo convinti di avere dei contenuti mentali, delle idee, che sono un po’ come delle immagini, delle rappresentazioni che possono o no accordarsi, conformarsi a una realtà che è indipendente da noi. Se si accordano, allora tutto va bene e possiamo dire di essere nella verità, altrimenti siamo sequestrati in una soggettività illusoria, siamo nella falsità e nell’errore. Tutto questo a un certo momento è cominciato ad apparire meno ragionevole e meno pacifico (oggi è fuor di dubbio, ad esempio, che chiunque voglia esercitare il mestiere di critico letterario – ma poi anche quello di scienziato sperimentale, e tanti altri ancora – deve liberarsi da un siffatto modo di pensare). Le cose, propriamente, non stanno in questo modo. Di verità bisogna ovviamente continuare a parlare, ma forse non è così certo che se si mette in dubbio il concetto di adaequatio si corre il rischio di finire nel relativismo e nello scetticismo, distruggendo il valore stesso della nostra conoscenza. Invece si può anche raggiungere un’altra conclusione, che cioè la verità in qualche modo rimane, ma non esattamente in quei termini. Chi dà per così dire il primo colpo di piccone al concetto di adaequatio è il criticismo kantiano : questo è il fondamentale orientamento di pensiero cui, sul finire del secolo xviii, si deve quella svolta decisiva della filosofia occidentale che mette definitivamente in crisi la concezione della verità come corrispondenza fra due ambiti distinti e indipendenti. Ma perché a un certo punto della storia della filosofia si comincia a dubitare di una tale veneranda concezione ? Kant, in quella sezione della Critica della ragion pura che è l’Analitica trascendentale, dedicata specificamente alla conoscenza intellettiva, riesce a dare a questa domanda una risposta tutto sommato piuttosto chiara. Il suo ragionamento, ridotto all’osso, si può enunciare così : a livello empirico io non potrò mai verificare concretamente né una congruenza né un disaccordo fra una mia percezione e l’oggetto, proprio perché non sarò mai in grado di compiere quel paragone, quel confronto che è in qualche modo implicito nel concetto stesso di adaequatio. E perché no ? Perché l’oggetto non mi è mai dato se non tramite le mie percezioni ! Come potrebbe infatti essermi dato indi 







pendentemente da esse (come noumeno) in modo che io possa operare questo raffronto e decidere che la tale percezione è vera o falsa ? Se d’altra parte io fossi così fortunato da avere a disposizione l’oggetto anche indipendentemente dalla serie sempre mutevole e in qualche modo sempre sfuggente delle mie percezioni, avrei saltato a piè pari il problema stesso, perché allora non avrei più bisogno di effettuare alcun paragone. Ma siccome l’oggetto mi è sempre dato attraverso queste immagini, queste rappresentazioni, io potrò certamente operare confronti (che è poi quello che effettivamente tutti noi facciamo), ma non si tratterà mai dell’impossibile confronto fra le rappresentazioni e l’oggetto, bensì di un confronto, sempre molto complicato e accidentato, fra le rappresentazioni stesse. E l’oggetto potrà semmai scaturire come risultato o conclusione di una molteplicità di operazioni di raffronto eseguite fra una serie di percezioni particolarmente fortunate e felici. 1 Kant vuol dire insomma che non ha senso che io ‘presupponga’ l’oggetto al di là delle rappresentazioni : un oggetto così potrà anche esistere, ma paradossalmente è quel tipo di oggetto di cui posso tranquillamente disinteressarmi perché è qualcosa con cui non verrò mai a contatto. L’oggetto, per me, è quello che io vado costruendo a tentoni, appunto ‘per tentativi ed errori’, paragonando fra loro le varie rappresentazioni e in qualche modo stabilendo che la serie di rappresentazioni meglio connessa, meglio organizzata al suo interno, è quella che incarna la res, mentre le rappresentazioni che non si connettono con le altre, che rimangono ai margini, che se assunte come vere danno luogo a contraddizioni, sono quelle che ritengo essere puramente soggettive. Ciò significa che l’oggetto non è qualcosa che mi stia di fronte come pietra di paragone cui io debba commisurare le mie rappresentazioni, ma deve essere faticosamente ricostruito attraverso un raffronto tutto interno a queste ultime. Secondo una formula che ha avuto fortuna specialmente nella filosofia analitica – ossia in quella corrente filosofica, predominante nella cultura anglofona contemporanea, il cui interesse ruota in prevalenza intorno all’analisi logica del linguaggio – posso sostituire l’antico criterio di verità come adaequatio con un criterio di verità come coerenza fra tutti i contenuti della mia soggettività. E quindi l’oggetto è ciò che fonda o rende possibile il migliore accordo, la migliore sistematicità fra le mie rappresentazioni. Se ora eseguiamo un’operazione che a dispetto di certe apparenze non comporta eccessive forzature, cioè se ai termini ‘rappresentazione’ o ‘percezione’ sostituiamo il termine ‘interpretazione’ e al posto di ‘oggetto’ (l’oggetto fisico prediletto da Kant, un pensatore appartenente a un contesto culturale che privilegiava le scienze della natura, la fisica, ecc.) mettiamo la parola ‘testo’, allora quanto abbiamo appena visto si potrà agevolmente riformulare dicendo che l’interpretazione migliore non è quella che si commisura in qualche modo a  









1   Cfr. Immanuel Kant, Critica della ragion pura, trad. di Giovanni Gentile, Giuseppe Lombardo-Radice, riveduta da Vittorio Mathieu, Roma-Bari, Laterza, 1993 (e successive ristampe), p. 530. Si tratta di una versione condotta sulla ii edizione (1787) dell’opera kantiana, dotata però di un’appendice nella quale sono riportate le varianti della i edizione (1781). Da tale appendice è tratto il passo che abbiamo qui riassunto liberamente, appartenente alla prima formulazione della Deduzione trascendentale delle categorie.

critica, ermeneutica, decostruzione. un percorso filosofico tra moderno e postmoderno un testo che sarebbe dato – non si sa come – indipendentemente da ogni interpretazione, ma è quella che ci dà il senso migliore, il senso complessivamente più soddisfacente ; e che proprio quest’ultimo, fra vari sensi possibili, è ciò che noi in qualche modo decidiamo di considerare come ‘il testo’. Già solo per aver usato il verbo decidere si intende che abbiamo inserito in questa operazione una componente di libertà. Il termine ‘interpretazione’ assume un rilievo strategico all’interno di quasi tutta la filosofia del Novecento, alludendo a qualcosa che delle sue principali correnti è ad un tempo la lingua comune (la koiné) e il patrimonio comune, qualcosa che consiste essenzialmente nel concepire la filosofia stessa come ‘ermeneutica’, come ‘esercizio di interpretazione’. Ma le radici di questo atteggiamento stanno nella svolta kantiana sopra ricordata, quella che Kant stesso chiamava, non proprio modestamente, la sua ‘rivoluzione copernicana’ : e cioè l’idea che non sia più il soggetto a doversi adeguare a un oggetto indipendente da lui, ma che sia l’oggetto che, per essere conosciuto, per essere ‘significativo’, debba in qualche modo adeguarsi alle caratteristiche del soggetto. Kant era anche convinto di poter redigere un inventario completo di queste caratteristiche del soggetto, che per lui erano gli ‘apriori’ : spazio, tempo e poi soprattutto le categorie, addirittura elencate in numero di dodici. Si può dire allora che, oggi come oggi, ciò per cui un pensatore come Kant ci appare lontano dalla nostra prospettiva culturale non sia per nulla la preziosa intuizione che l’oggetto debba essere ricostruito a partire dai fenomeni, ma la pretesa che i criteri in base ai quali deve avvenire questa ricostruzione siano dati una volta per tutte, siano eterni, uguali per ogni mente o per ogni intelletto possibile, universali e necessari. E che si possano perciò esprimere in una tavola delle categorie. Insomma, se è vero che l’oggetto è l’oggetto ‘per me’, non è la ‘cosa in sé’, e che quindi io paragono sempre le percezioni tra loro e non le paragono mai a un ipotetico noumeno, dobbiamo però ammettere che i criteri con cui mettiamo in atto questa operazione dell’intelletto sono qualcosa di mutevole, di storicamente condizionato. Il termine con il quale la filosofia contemporanea esprime ciò per cui Kant aveva chiamato in causa le categorie è la parola ‘precomprensione’, ma poi anche ‘pregiudizio’. Precomprensione è un termine preso a prestito da un pensatore che molti ritengono essere stato il più grande del Novecento, in ogni caso quello che più di ogni altro si è sforzato di dare le coordinate di un pensiero ermeneutico a livello generale, e cioè Martin Heidegger. Parlando di pregiudizio invece si evoca soprattutto la riflessione di uno dei suoi discepoli più illustri, autore di un’opera particolarmente degna di nota per la notevole influenza che ha esercitato sul mondo della critica letteraria e della critica d’arte : si tratta di H. G. Gadamer e del suo capolavoro, Wahrheit und Methode, il cui primo volume, quello più noto e importante, risale al 1960. 1 Ma, come vedremo, almeno una parte di ciò che è stato messo in luce da Heidegger e dagli orientamenti che si possono ricondurre al suo magistero è poi rinvenibile nella sostanza anche entro settori del pensiero contemporaneo che si richiamano a interessi e a metodi di ricerca completamente diversi dai suoi : pensiamo agli studi di filosofia della scienza coltivati soprattutto nei paesi di lingua inglese, un filone d’indagine al quale Karl R. Popper per alcuni versi e Thomas S. Kuhn per altri versi hanno dato nel secolo scorso contributi di prim’ordine. Heidegger ha sostenuto che se la verità non può più essere intesa come corrispondenza fra soggetto e oggetto allora deve essere intesa come un ‘orizzonte’, un’‘apertura origina 









1   Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo, trad. di Gianni Vattimo, Milano, Bompiani, 1983 (il successivo Verità e metodo 2. Integrazioni, trad. di Riccardo Dottori, Milano, Bompiani, 1996, è la versione italiana di una raccolta di saggi che si stendono su un arco di tempo molto lungo, dal 1943 sino al 1994).

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ria’ : un’apertura che si dà in forza, come si diceva prima, di una precomprensione che può mutare storicamente, e che da altri 2 è stata chiamata ‘paradigma’. Questo è un punto decisivo, perché accettare il principio che ‘conoscere è interpretare’ significa rifiutare l’idea, che ha avuto credito da Aristotele in poi, secondo cui la nostra mente sarebbe una tabula rasa. Se infatti la nostra mente non avesse di per sé nessun contenuto non potrebbe neppure reagire ai messaggi e agli stimoli che le vengono dall’esterno. In questo senso il temine pregiudizio non ha necessariamente tutte le connotazioni negative che storicamente gli sono state attribuite e che possiede tuttora : non solo infatti i pregiudizi sono utili, ma talora sono indispensabili. Se io non mi accostassi alla mia esperienza con un sistema di aspettative, di esigenze, di motivazioni ben precise, anche se magari non perfettamente consapevoli, non potrei neppure iniziare il processo conoscitivo. Il conoscere, quindi, è sempre un interpretare alla luce di un sistema di attese, ossia di pregiudizi condivisi all’interno della situazione culturale nella quale ci formiamo perché, per usare una celebre espressione di Heidegger, è la situazione in cui ‘siamo-gettati’. In generale, poi, Heidegger, Gadamer e i loro seguaci hanno sostenuto che tutto questo sistema di credenze e di attese che condiziona essenzialmente il nostro pensiero ha la sua sede naturale nel linguaggio, il quale, lungi dall’essere un medium neutro e indifferente dal punto di vista logico, è qualcosa che si struttura in base a un apparato categoriale così profondamente incorporato nella sua stessa sintassi che non è per nulla un’impresa facile riuscire a individuarlo e a portarlo alla luce. La lingua ci condiziona ab initio perché implica tutto un modo di pensare, tutta una particolare maniera di organizzare ed elaborare il dato e, in definitiva, di vedere il mondo. Essa non si risolve in un insieme di etichette che applicheremmo alle cose, in una ‘nomenclatura’ : al contrario, come si è testé ricordato e come peraltro si sa bene (pur se poi, in generale, si fa fatica a trarne le debite implicazioni a livello filosofico), è una ‘sintassi’, incorporante nel proprio funzionamento abituale un sistema di categorie mediante il quale il mondo, che in sé non avrebbe alcun significato, assume i significati che sono familiari all’interno di una determinata cultura. In tal senso il linguaggio ‘crea’ il suo mondo (e su questa strada si è poi talvolta proceduto troppo oltre, abbandonandosi a biasimevoli eccessi ; eppure si deve prendere atto della validità di fondo di una siffatta prospettiva, fiorita nel secolo che si è chiuso ormai da un decennio). Un autore come Popper, ad esempio, ha sviluppato per suo conto le suddette indicazioni, che valgono anche per la scienza empirica, dicendo che non esiste mai qualcosa di puramente immediato, perché il dato è sempre theory-laden (‘carico di teoria’), è sempre già passato attraverso il filtro di credenze e di presupposti di natura non sperimentale, è sempre già assunto all’interno di un apparato teorico, per quanto rudimentale. Ci sono teorie che ad esempio non possono ‘vedere’ – prima ancora che ‘spiegare’ – determinate cose perché non sono attrezzate per coglierle ; ci sono dati che possono emergere soltanto se si cambia la prospettiva di fondo, se si inforca un altro paio di occhiali. Ma allora (ed è questa un’ulteriore conferma, sul versante epistemologico, del rifiuto di una prospettiva di adaequatio del soggetto all’oggetto) non si deve pensare alle teorie come se fossero in concorrenza fra loro cercando di conformarsi, quale più quale meno, a un sistema di oggetti che se ne starebbe lì davanti ad esse, soltanto in attesa di essere fotografato : la teoria come tale implica una interazione continua di soggetto e oggetto, per cui, seguendo Kuhn, ogni teoria (e questo è sicuramente un punto di vista ben più radicale di quello di Popper) si fabbrica sostanzialmente il suo mondo, il suo universo di oggetti.  











2   Thomas S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, trad. di Adriano Carugo, Torino, Einaudi, 1978.

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Ma vediamo come questo discorso si ripercuote sull’arte. Non a caso Heidegger ha scritto che l’opera d’arte è ciò che apre, che dischiude un mondo intero. 1 Un grande romanzo, un grande dipinto, una grande sinfonia, sono grandi non perché esprimano particolarmente bene qualcosa di indipendente da loro, ma perché aprono, ‘disvelano’, un orizzonte nuovo. Per certi versi qui si riprendono posizioni già espresse dai romantici all’inizio del secolo xix : l’opera d’arte è un organismo perfetto, compiuto, autosufficiente. Per capirla noi non dobbiamo affidarci a qualcosa di esterno ad essa. Questo discorso, che vale per quanto riguarda il rapporto tra l’opera d’arte e il mondo, o la realtà, che nell’opera stessa dovrebbe trovare espressione, vale anche per il rapporto fra l’‘interpretazione’ e l’opera. Se l’opera è un mondo in sé compiuto e perfetto, è una ‘prospettiva’ che si articola in un sistema e ruota intorno a un centro ben preciso, anche la mia interpretazione dell’opera è a sua volta qualcosa che cresce dentro un orizzonte organicamente definito da lei stessa. Vediamo però di comprendere in che senso un simile punto di vista renda possibile una migliore comprensione di ciò che avviene quando interpretiamo un’opera d’arte. L’interpretazione, sostiene Gadamer, è un ‘evento’ che si inscrive nella storia dell’opera stessa : egli indica questo aspetto con il termine di Wirkungsgeschichte, la ‘storia degli effetti’. Per capire il senso del suo discorso occorre far riferimento all’indole di quelle arti nelle quali l’aspetto interpretativo emerge in modo più palese : tali sono soprattutto il teatro e la musica. Anche chi stenta a rendersi conto del fatto che la semplice lettura di una novella o la semplice visione, purché non meramente distratta, di un quadro anche dipinto nello stile più realistico sono già a tutti gli effetti un’interpretazione del loro oggetto non ha dubbi sulla natura genuinamente interpretativa di una messa in scena teatrale o dell’esecuzione di uno spartito, quantunque possa essere ben lontano dal trarre tutte le conseguenze implicite in questa sua rudimentale consapevolezza. Si parte, dunque, da un copione teatrale e si tratta di metterlo in scena ; ma si può forse pensare che la messa in scena rappresenti il tentativo di adeguarsi a un copione che sarebbe già compiuto nella sua interezza e che aspetta soltanto qualcuno che gli si accosti e lo riproduca così come nell’antichità si pensava che la mente riproducesse e rispecchiasse l’oggetto a lei esterno ? Ovviamente no. L’interpretazione è un ‘evento’ nel senso che fa ‘maturare’ l’opera d’arte, che la fa essere quello che è, e per il soggetto che la compie consiste in un’autentica esperienza, cosicché promuove una parallela modificazione in lui stesso. È giustamente diffusa l’idea che vera esperienza sia quella al termine della quale noi non siamo più ciò che eravamo prima, ma ci ritroviamo per qualche aspetto modificati. E in che cosa consista questa modificazione, che qui stiamo appunto considerando in quanto sia collegata alla fruizione di un’opera musicale o teatrale, in che cosa consista la stessa opera d’arte, noi lo possiamo sapere soltanto dopo, non prima. L’opera infatti non è qualcosa che stia ‘al di qua’ del modo in cui io la giudico e la interpreto, ma si viene gradualmente costituendo attraverso la storia infinita delle sue interpretazioni in una sorta di processo circolare. Per cui si parla, appunto, di ‘circolo ermeneutico’ : che, si badi, in base alla concezione di chi distingue e contrappone soggetto e oggetto sarebbe un circolo vizioso. Ma bisogna appunto liberarsi di questa concezione e accedere a una prospettiva di mutuo condizionamento e di reciprocità. Limitiamoci a questa semplice riflessione. Se io vado una sera a teatro o ascolto un brano musicale e alla fine valuto negativamente l’interpretazione che mi viene proposta, stando alla mentalità tradizionale l’unico significato che dovrei  











1   Martin Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Idem, Sentieri interrotti, trad. di Pietro Chiodi, Firenze, La Nuova Italia, 1968.

attribuire alla mia presa di posizione è che l’interpretazione da me criticata non si confà al suo oggetto, cioè alla pièce rappresentata o al brano ascoltato. Ma secondo la prospettiva ermeneutica il mio rifiuto di questa o quella interpretazione dell’opera in questione non è altro che una nuova interpretazione, destinata ad allungare la lista delle medesime. 2 Ecco perché l’opera d’arte è in un certo senso ‘inesauribile’ : l’interprete cerca di comprendere un oggetto che si muove con lui in forza dello stesso processo di comprensione. Quest’ultimo, lo abbiamo visto, è un ‘evento’ perché entra nella costituzione dell’oggetto stesso, in un certo senso modificandolo. Ma solo modificando l’oggetto è possibile farlo apparire, è possibile trarlo alla luce. Non avrebbe senso, allora, proporsi di raggiungere l’interpretazione autentica di una determinata opera mettendo a tacere tutti gli altri tentativi, come se la persistente presenza di molte voci, nessuna delle quali sia in grado di zittire le altre, fosse di per sé un sintomo del fallimento dello sforzo interpretativo. Piuttosto, l’opera manifesta tutta la sua ricchezza e fecondità proprio perché è in grado di ispirare sempre nuove interpretazioni, tanto più che queste ultime non sono esterne ad essa ma valgono a esplicitarne sempre meglio l’orizzonte. Evidentemente l’opera non è mai completamente oggettivabile, non è qualcosa di fronte a cui la mente umana possa dire prima o poi ‘ecco, adesso la conosco per intero, e quindi non ho più nulla da capire’, perché è qualcosa che cresce con la soggettività stessa che cerca di impadronirsene. In fondo è come dire che noi oggi sappiamo molto meglio di Beethoven stesso che cosa fosse in realtà la nona sinfonia. Uno degli aspetti sui quali Gadamer si contrappone maggiormente ad altri teorici dell’interpretazione (in particolare a Schleiermacher, il pensatore della prima metà del secolo xix che notoriamente diede inizio all’ermeneutica come prospettiva filosofica generale), è che questi vedevano l’operazione ermeneutica come se si trattasse di arrivare a comprendere nella sua assoluta purezza l’opera stessa e le intenzioni dell’autore, quasi un rivivere lo stesso travaglio psicologico vissuto dall’autore mentre componeva quella musica o scriveva quel testo, laddove secondo Gadamer, e ancor prima secondo Heidegger, questa è una visione psicologistica dell’interpretazione, perché in realtà non si tratta di ricreare ciò che l’autore avrebbe voluto esprimere così come lo intendeva e lo viveva lui – e che noi non potremmo mai riprodurre perché viviamo e pensiamo in un orizzonte culturale ben diverso 3 – ma si tratta di spremere  

2   In fondo il punto di vista tradizionale implica che il ‘no’ da me pronunciato dinanzi a ciò che ho visto o ascoltato non sia propriamente ‘mio’ perché, a rigore, chi lo pronuncia è l’oggetto stesso. Ma ciò a ben vedere significa che anche per il punto di vista tradizionale esiste il campo dell’interpretazione : con l’unica sostanziale differenza che io ne escludo me stesso e la mia posizione, collocandovi solamente le posizioni altrui nella misura in cui divergono dalla mia. 3   Infatti non si giungerebbe mai a cogliere l’opera così come l’ha pensata e così come l’ha colta, dopo averla realizzata, il suo autore molti secoli prima. Perché questi secoli che si stendono fra noi e lui noi non possiamo cancellarli con un colpo di spugna, e anche se potessimo non ne trarremmo alcun vantaggio, anzi. Si direbbe che qui più che altrove il gioco di interazione fra soggetto e oggetto è particolarmente visibile. Quando io mi pongo di fronte a un’opera del passato, tanto più se dotata di qualche rilievo, lo faccio stando in un orizzonte che, guarda caso, si è venuto costituendo anche in virtù di quella stessa opera, e mi affido a un gusto che si è modellato anche su di essa. Se dunque io dissociassi da me l’opera insieme con la sua ‘fortuna’ (la Wirkungsgeschische di cui si diceva sopra) mi priverei di una parte magari importante di ciò che ha storicamente contribuito a formare il gusto con cui ora tento di accostarmi ad essa : tant’è vero che chi provenisse da una cultura che da quell’opera non è mai stata influenzata non sarebbe affatto in condizione di comprenderla meglio di me. Né potrebbe comprenderla meglio chi riuscisse a mettersi nella testa di chi l’ha scritta. Non è tornando indietro che si ricostruisce l’opera d’arte, ma andando avanti. Anche le pretese ricostruzioni filologiche, per esempio in campo musicale, non ci presentano nient’altro che una ulteriore interpretazione, come testé si diceva. Non sembra quindi né realistica né desiderabile la via di una lettura mirante alla ricostruzione della mens auctoris.  



critica, ermeneutica, decostruzione. un percorso filosofico tra moderno e postmoderno tutte le virtualità dell’opera, per portarne sempre più alla luce l’autentica natura. Sì che, soprattutto se ci troviamo in presenza di una grande opera, questo lavoro di interpretazione sarà infinito. Dunque, la nota e discussa affermazione secondo la quale l’interprete può capire l’opus operatum meglio dell’autore stesso sembra qui esibire la sua intelligibilità. Anche perché il significato dell’opera d’arte non è in realtà perfettamente dispiegato nella mente dell’artista, ma si viene costituendo in un certo senso da sé e l’artista in qualche modo ne è solo uno strumento. Si pensi qui alla teoria romantica del ‘genio’ : Gadamer se ne rammenta all’inizio di Verità e Metodo. Il genio è inconsapevole, non potrebbe mai progettare coscientemente le modalità della sua opera. Noi possiamo progettare un congegno meccanico, perché lì si tratta di mettere insieme delle parti : ma qui non si tratta di mettere insieme delle parti, bensì di articolare sempre più quel previo ‘colpo d’occhio’ nel quale, in maniera necessariamente confusa e indeterminata, si manifesta l’orizzonte esistenziale entro cui ci moviamo. Ma è ormai arrivato il momento di affrontare la terza parola-chiave contenuta nel titolo che abbiamo dato al presente saggio, e cioè ‘decostruzione’ : il nome principale che si deve fare al riguardo è quello di Jacques Derrida, la cui prospettiva, il decostruzionismo, rappresenta senza dubbio l’ultimo approdo di una certa maniera di interpretare la filosofia di Heidegger. Secondo questo pensatore non basta limitarsi a criticare il concetto della verità come adaequatio nonché le nozioni metafisiche ad esso variamente legate, come quelle di soggetto, di sostanza, di causa, di fondamento, bisogna saper fare qualcosa di più : bisogna appunto decostruire tutto ciò, bisogna in un certo senso ‘smontarlo’ nei suoi elementi costitutivi, in maniera tale da smascherare, secondo un’ispirazione molto vicina a quella di Nietzsche, il machiavello o il marchingegno che è alla base, specie nella nostra civiltà occidentale, del modo in cui tali elementi sono stati ‘assemblati’ : così da ricostruire l’autentica ‘genealogia’ di quelle venerande nozioni, per richiamarsi a un’altra figura concettuale notoriamente tipica del filosofo or ora menzionato. La posta in gioco è ovviamente il passaggio a uno stile di pensiero – il ‘pensiero debole’, come spesso lo si è voluto chiamare – che prende congedo da tutte le strutture ‘forti’ del pensiero tradizionale, in particolare da ogni concetto di verità, per immergersi a capofitto, quasi gioiosamente, nella dinamica infinita delle interpretazioni, perdendo così ogni ideale anche solo teorico (anche solo regolativo, per dirla con Kant) di unità. Per esempio Derrida 1 muove dall’analisi della celebre affermazione del Socrate platonico, secondo cui il vero filosofare è quello che si compie oralmente (poiché i testi scritti, se interrogati, tacciono maestosamente, laddove l’indagine filosofica è stimolata proprio dal confronto e dal dialogo) per denunciare i due pregiudizi estremamente nocivi (‘fonocentrismo’ e ‘logocentrismo’) che sarebbero alla base di un simile atteggiamento e che poi si identificano in uno solo. A suo avviso, infatti, mettendo al centro la phoné si finisce per mettere al centro il lògos, ma proprio così si legittima lo schema ben noto dell’adaequatio di soggetto e oggetto : la parola infatti è di per sé qualcosa di fluido che poi scompare di fronte all’oggetto (non a caso si dice : verba volant…), cosicché, nella misura in cui il contenuto mentale e interpretativo diventa suono (phoné) nella parola, si ha la sensazione che esso sia qualcosa che di fronte alla realtà ha semplicemente il destino, e il compito, di scomparire. Ne viene allora l’idea – un autentico caposaldo della gnoseologia tradizionale – che la mente sia qualco 













1   Soprattutto nelle opere seguenti, che risalgono tutte al 1967 : Jacques Derrida, Della grammatologia, trad. di Gianfranco Dalmasso, Milano, Jaca Book, 1998 ; Idem, La scrittura e la differenza, trad. di Gianni Pozzi, Torino, Einaudi, 1971 ; Idem, La voce e il fenomeno, trad. di Gianfranco Dalmasso, Milano, Jaca Book, 1997.  





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sa di trasparente che si lascia informare dall’oggetto, che sia come la luce che, non essendo nulla in se stessa e non essendo visibile come tale, fa però vedere le cose. Ma se invece si pensa al linguaggio come a un medium, come a un quid che si frappone fra noi e le cose, appunto perché la verità non è corrispondenza immediata fra soggetto e oggetto ma si costituisce tramite una mediazione, allora la vera essenza del linguaggio si manifesta solo attraverso la scrittura. Questa, a differenza della voce, è qualcosa che non svanisce ma rimane fissa e stabile (di nuovo, non a caso si dice : scripta manent), evitando di occultare il suo carattere problematico perché continua a differenziarsi dall’oggetto, non scomparendo davanti ad esso. Per questo motivo Derrida giunge a parlare di una priorità del linguaggio scritto su quello orale, priorità da non intendersi ovviamente in senso temporale perché si sa che l’uomo ha cominciato prima a parlare che a scrivere. Dunque solo passando da una cultura fonocentrica a una cultura ‘grammatocentrica’ ci si libera veramente da una prospettiva di realismo ingenuo e si comincia a muoversi in un quadro culturale pervaso dall’interpretazione. Una simile prospettiva ha dato luogo – come già si accennava – ad eccessi che, se magari non sono sempre facilissimi da confutare su un piano strettamente logico, non per questo cessano di essere inaccettabili, come ora cercheremo di far vedere accennando anche ad alcuni temi che ci vengono dall’antropologia culturale. Non è che cambieremo discorso rispetto a quanto abbiamo detto finora, ma cercheremo di dimostrare come, radicalizzando certe conclusioni, si possa giungere a una prospettiva che addirittura capovolge le medesime premesse che l’hanno generata, cioè le medesime premesse che rendevano possibile, anzi necessaria l’adozione del punto di vista caratteristico di una filosofia ermeneutica. Torniamo per un istante alle fondamentali acquisizioni dell’epistemologia contemporanea ricordate a suo tempo, e cioè alla consapevolezza che non esiste alcun dato se non all’interno di determinate coordinate teoriche, che non esiste alcuno sguardo nudo sui fatti indipendentemente da qualsiasi precomprensione o da qualsiasi pregiudizio, sì che in definitiva una teoria non si confronta con dati ad essa esterni ma li viene in qualche modo ponendo e costituendo al suo interno. Si comprende allora come Kuhn affermi che Copernico e Galileo ci hanno presentato un mondo propriamente diverso dal mondo di Aristotele e Tolomeo e non si sono limitati a ‘comprendere meglio’ lo stesso mondo, come noi invece saremmo comunemente portati a pensare (in maniera del tutto simile è da intendersi, ovviamente, la posizione di Einstein nei confronti di Galileo o di Newton). Ma questo significa che i vari paradigmi non possono propriamente essere messi a confronto, perché sono incommensurabili fra loro. Si passa infatti da un paradigma a un altro solo mediante una ‘rivoluzione scientifica’ che per lo più è compiuta secondo criteri non razionali, ma irrazionali : emotivi o di altra natura. Non è che si possa passare logicamente dal paradigma di Tolomeo a quello di Galilei : il primo a un certo punto implode al proprio interno e il secondo si presenta come un’alternativa. E, naturalmente, tutti i vecchi concetti vanno a inserirsi in un sistema dove non mantengono più lo stesso significato. Ma perché prima accennavamo all’antropologia culturale ? Una convinzione oggi molto diffusa è che le culture sarebbero tra loro talmente differenti che ogni forma di comunicazione e di intesa è solo apparente e anzi la comunicazione creerebbe solo equivoci, traducendosi in danno più che in beneficio. Si applichi ora questo discorso al tema del rapporto fra le culture, dove fra l’altro entrano in gioco tutti i sensi di colpa della civiltà occidentale con il suo passato coloniale : una volta infatti si credeva di sapere senza tanti scrupoli quali fossero le civiltà più avanzate e quali le più arretrate. Allora non si avevano dubbi sulla commensurabilità di cultu 









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re differenti : si era convinti di poter raggiungere un punto di vista neutro nel quale insediarsi e dal quale poter valutare le diverse culture. Ma oggi si ritiene appunto che le culture non siano confrontabili, che non ci sia un paradigma superiore a tutti gli altri nel quale potersi insediare per giudicare le diverse civiltà. Allora l’unico modo di rispettare le culture diventerebbe, paradossalmente, quello di favorire il meno possibile i contatti, proprio perché una qualsiasi mescolanza sarebbe una violenza che la cultura in quel momento più forte esercita sull’identità dell’altra cultura. Inoltre ci troviamo spesso davanti a gravi problemi a livello individuale e collettivo, dovuti al fatto che proprio quelle culture che ci proponiamo di rispettare non sono a loro volta rispettose di qualche cosa. Pensiamo ad esempio al delicato problema della condizione femminile nel mondo islamico. Contrapponendo una visione almeno tendenzialmente paritaria del rapporto uomo-donna, com’è la nostra, non facciamo forse violenza a quella cultura ? Dobbiamo o no ammettere che all’interno di altre culture possano accadere cose ritenute intollerabili nella nostra ? Ovviamente qui non si sa bene che cosa fare e per uscirne si finisce in sostanza col privilegiare la nostra concezione dei ‘diritti umani’, ma in un atteggiamento del genere è ovviamente implicita l’attribuzione alla nostra cultura di un valore superiore alle altre. Accade in ultima analisi che per il bene delle altre culture, anche se non più in un’ottica imperialistica come nel passato, ci si mette al di sopra di esse e si finisce col considerare la nostra cultura come un punto di riferimento assoluto, il che è ovviamente scorretto dal punto di vista della teoria ora vista. Oggi come oggi siamo un po’ in un vicolo cieco, perché da un lato viviamo in un clima culturale condizionato dalle decisive innovazioni teoriche originariamente messe in moto dal criticismo kantiano, dall’altro accade sempre più spesso di rendersi conto che portando fino alle estreme conseguenze gli assunti impliciti in tali innovazioni si arriva a una forma di relativismo, secondo cui ogni cultura sarebbe un po’ come una monade senza porte e senza finestre. Siamo dunque di fronte a un punto di vista provvisto di indubbi pregi, appunto perché impedisce il prevaricare delle culture le une sulle altre, ma che contiene anche notevoli elementi di chiusura. Certo, se noi pensiamo che il linguaggio sia un orizzonte intrascendibile, che tutto sia interno al linguaggio, che addirittura ‘siamo parlati’ da quel linguaggio che è il linguaggio della nostra tradizione ecc., ecc., allora è difficile resistere alle conclusioni cui abbiamo accennato, che cioè ogni cultura può essere giudicata soltanto dal suo interno. Noi, in questa sede, vorremmo osservare quanto segue. Nella concezione tradizionale la verità era, almeno in linea di principio, qualcosa di oggettivabile dalla nostra mente, laddove secondo la teoria ermeneutica – lo abbiamo visto, almeno in parte – si deve dire piuttosto che noi siamo ‘dentro’ la verità, che ne siamo come avvolti e circondati. Non a caso si è passati, come abbiamo visto, dalla nozione di verità come adaequatio, che virtualmente contiene in sé tutto l’equivoco della posizione tradizionale, alla nozione di verità come ‘orizzonte’. Piuttosto, si tratterà di vedere se questo orizzonte ermeneutico sia qualcosa che è puramente nella storia o se va anche oltre la storia. In effetti, poiché si tratta di qualcosa che concepisco come inesauribile, qualcosa di cui io non potrò impadronirmi perché in effetti ci sono dentro – tanto che sarebbe la verità a disporre di me e non io a disporre della verità, come appunto dice Heidegger –, svolgere ancora un discorso di tipo tradizio 





nale sulla verità diventa difficile. Se noi pensiamo alla metafisica come a un insieme di asserti che devono valere in senso assoluto, non si può negare che l’approccio ermeneutico tenda a vanificare questa visuale. Si dovrebbe però riconoscere che se il suddetto orizzonte è comunque inclusivo di tutti i punti di vista relativi e finiti, allora non è puramente storico, perché la storia medesima è dentro di esso. Il che significa poi che, come télos o, per usare un termine kantiano, come ideale regolativo, la verità rimane un concetto estremamente importante. La metafisica tradizionale pretendeva di coglierla oggettivandola, e come si è visto tale posizione cede alla critica. Ma la nozione di verità rimane comunque qualcosa di irrinunciabile. Anche per questo motivo : quando si tirano in ballo il ‘dialogo’, la ‘discussione’, la ‘ricerca’, la ‘democrazia’, ecc., se queste nozioni hanno un significato lo hanno proprio perché si suppone implicitamente che ci sia una verità a cui tendere che comprende le singole prospettive individuali. Altrimenti, che senso potrebbero avere ? Sì, certo, la disponibilità di ogni soggetto ad imparare qualcosa dagli altri soggetti, ma questo vale quando, almeno implicitamente, si ammette che qualcosa che trascende il punto di vista soggettivo ci sia. Anche perché se noi fossimo puramente a contatto con punti di vista individuali e soggettivi, senza cioè ammettere questo nesso inclusivo e trascendentale, il parlare con gli altri avrebbe semplicemente valore di curiosità, dato che in ogni caso la soggettività dei punti di vista sarebbe irriducibile. Paradossalmente, il punto di vista che vede nel relativismo l’unica condizione di possibilità della comunicazione finisce così per vanificare le premesse della comunicazione stessa, perché in questo modo ognuno sarebbe incline a costruirsi un suo spazio di verità soggettiva e sarebbe tendenzialmente portato a considerare come una minaccia, anziché come un’occasione di crescita e di maturazione, tutto ciò che mette in discussione la sicurezza di questo spazio. Allora è certamente vero che quando noi accettiamo di dialogare più o meno socraticamente con gli altri è perché pensiamo che nessuno di noi ha la verità in tasca : le premesse ermeneutiche escludono infatti che possa esserci qualcuno che possiede la chiave della verità e possa con grande degnazione trasmetterla ad altri. Non è però meno vero che il pensare che nessuno abbia in tasca la verità ha senso solo se riteniamo che effettivamente da qualche parte una verità ci sia. Se la verità infatti non ci fosse in assoluto, avremmo stavolta un altro argomento, diverso da quello di un tempo, per non voler discutere. Prima infatti non si doveva discutere perché c’era qualcuno che andava soltanto ascoltato e riverito mentre gli altri dovevano solo pendere dalle sue labbra, ora invece non ha senso discutere perché è venuto meno il concetto stesso di scambio comunicativo. Certo, la verità oggi è intesa soprattutto come un ideale regolativo : però il fatto che sia assunta come qualcosa a cui tendere è sufficiente a delineare un quadro molto differente da quello che avremmo se rinunciassimo anche a questo. È paradossale come ogni autentica comunicazione venga meno o quando qualcuno pensa che la verità possa essere trovata una volta per tutte (metafisica tradizionale) o quando qualcuno pensa che non ci sia (scetticismo e relativismo). La prospettiva ermeneutica invece dice che la verità esiste ma possiamo ricostruirla solo faticosamente e indirettamente, a partire dall’interpretazione del fenomeno. Dal canto loro scetticismo e relativismo, che non vanno assolutamente confusi con la prospettiva ermeneutica, racchiudono in sé, come abbiamo visto, molta più arroganza di quanto si pensi.  







LA « LEGGE » DI CREONTE E LA TRAGEDIA DI ANTIGONE IN ALFIERI ALLA LUCE DELL’ARCHETIPO SOFOCLEO  



Maria Maślanka Soro

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elle varie riletture critiche dell’Antigone alfieriana ce ne sono poche 1 che abbiano come testo di riferimento la famosa tragedia di Sofocle. La ragione principale di questa situazione credo sia dovuta soprattutto alla notizia che l’Astigiano ci dà nella Vita, dove leggiamo : « L’Antigone, prima non imbrattata di origine esotica, mi venne fatta leggendo il xii libro di Stazio nella traduzione su mentovata, del Bentivoglio ». 2 Sappiamo, però, che nonostante questa esplicita affermazione di non « esotismo » della sua pièce, oltre alla Tebaide di Stazio Alfieri nel momento della stesura aveva presente anche l’Antigone di Jean de Rotrou, contemporaneo di Corneille, e quella di Sofocle, conosciuta nel compendio fattone da Pierre Brumoy. Questa analisi ha come obiettivo riesaminare il rapporto tra Creonte e Antigone e – per meglio comprendere il dramma della donna – presentarlo sullo sfondo del simile e allo stesso tempo molto diverso rapporto tra i loro modelli archetipici nella omonima tragedia di Sofocle. Nel dramma sofocleo sia Antigone che Creonte sono protagonisti tragici : le loro tragedie si susseguono con l’accento finale che cade su quella di Creonte, conformemente alla cronologia degli eventi e al principio causa-effetto. Il loro conflitto, superata ormai la tesi hegeliana 3 dell’antitesi fra idea dello stato e idea della famiglia, si pone in termini di scontro tra due persone di cui ciascuna crede in determinati valori e agisce di conseguenza. Creonte, grazie allo strumento del potere, punisce la donna che ha infranto la legge con cui egli vietava il seppellimento del cadavere di Polinice, ma la morte di Antigone diventa causa di altre due morti – quella del figlio Emone e della moglie Euridice – provocando il suo crollo finale. Con paradossale inversione, colui che aveva negato sepoltura ad un morto si rivela da ultimo come « un morto che respira » 4 e dietro questa « peripezia » (peripeteia) si scopre la volontà divina : « un dio, sì un dio allora mi percosse sul capo col suo peso enorme, e su atroci sentieri mi traviò, ahimè, e col piede calpestò la mia felicità. Ah, patimenti intollerabili degli uomini ! ». 5 Il Creonte sofocleo fin dall’inizio non si presenta come un tipico tiranno e neanche come un usurpatore, ma solo come un sovrano autoritario il quale crede che l’obbedienza assoluta dei sudditi alle decisioni ritenute giuste da chi esercita il potere sia la condizione fondamentale di un buon funzionamento dello stato. In base a questo principio egli rifiuta la sepoltura a Polinice, che considera nemico della patria e degli dei, poiché questi « ritornò dall’esilio per mettere a ferro e fuoco la terra paterna e gli altari degli dei indigeni ». 6 Egli è convinto che il suo comportamento nei confronti del « traditore » rimanga nell’interesse della polis e troppo tardi capisce di aver, invece,  























   









1   Penso, soprattutto, al libro di Nicola Matera, L’Antigone di Sofocle e l’Antigone dell’Alfieri, Trani, Vecchi, 1893, nonché a quello di Vincenzo Ulargiu, L’Antigone di Sofocle e di Vittorio Alfieri. Parallelo critico-estetico, Iglesias, Atzeni & Ferrara, 1935. 2   iv, 2. La citazione è tratta dall’edizione Vittorio Alfieri, Vita, introduzione e note di Giulio Cattaneo, Milano, Garzanti, 200410. 3   Cfr. Sofocle, Antigone. Edipo Re. Edipo a Colono, introduzione, trad. e note di Franco Ferrari, Milano, bur, 19894, p. 7. Tutte le citazioni dell’Antigone saranno tratte da questa edizione. 4   Sofocle, Antigone, cit., v. 1167. 5   Ivi, vv. 1272-1276 ; anche vv. 1345-1346 : « Un destino intollerabile sul mio 6   Ivi, vv. 199-201. capo è balzato ».  







sbagliato, di aver commesso una hybris (di cui prima accusava Antigone). 7 Fin dall’inizio il suo ragionamento e l’agire sono basati su premesse erronee e ingiuste che urtano contro le leggi divine e contro i legittimi affetti familiari, rappresentati da Antigone. Nei suoi sentimenti la donna non fa distinzione tra i fratelli morti, perché, come dice, è fatta « per condividere l’amore, non l’odio » 8 e a conferma della sua azione pietosa verso Polinice si richiama « alle leggi non scritte, incrollabili, degli dei, che non da oggi né da ieri, ma da sempre sono in vita, né alcuno sa quando vennero alla luce ». 9 La tragedia di Creonte risponde al modulo eschileo della colpa punita, con l’accento finale che batte, però, sulla infelicità e sulla sofferenza del colpevole, infranto dal disperato dolore, e non sulla ‘lezione’ che egli avrebbe da imparare dalla propria disgrazia (come spesso avviene in Eschilo, in virtù del principio del pathei mathos). 10 La tragedia di Antigone è più sconvolgente, perché lei muore senza aver commesso alcuna colpa, anzi muore in seguito ad un’azione che rispecchia ideali alti e nobili (l’amore fraterno, la gloria 11 che le può venire dal seppellimento del fratello a rischio della vita, le leggi naturali e quelle divine). Nella sua vicenda tragica l’accento cade sull’ingiustizia della sorte toccatale, messa in un rilievo particolare durante il dialogo lirico (kommos) che si svolge tra lei e il Coro nel momento in cui viene condotta a morte, ad essere sepolta viva in una grotta : allora la giovane donna non nasconde il suo dolore per dover lasciare la vita prima di averla vissuta, per non aver conosciuto la felicità come moglie e madre, e, inoltre, date le risposte evasive e perfino un po’ ostili del Coro, si sente incompresa da esso e abbandonata da tutti, perfino dagli dei. 12 In questa parte della tragedia si conosce l’altra faccia dell’umanità della figlia di Edipo, quella meno eroica e più ‘umana’. Il Creonte alfieriano, a differenza del suo modello greco, è un malvagio la cui vicenda difficilmente, contro il parere di una parte della critica, si potrebbe iscrivere in uno schema tragico, almeno nel senso classico della parola. 13 Il suo status di personaggio « iniquo » 14 egli lo ha ‘ereditato’ dal personaggio omonimo nel Polinice, 15 il vero e proprio « antefatto dell’Anti 















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  Cfr. ivi, ad es. vv. 480 sgg.   Ivi, v. 523. La migliore interpretazione di questa frase è data, a quanto pare, dalle parole dello scoliaste : « anche se i fratelli si odiano l’un l’altro, io non sono per natura tale da odiare l’uno insieme con l’altro, ma sono tale da amare insieme con chi ama » ; cfr. la nota al v. 523 dell’Antigone nella edizione 9   Ivi, vv. 454-457. citata. 10   Cfr. Vincenzo di Benedetto, Sofocle, Firenze, La Nuova Italia, 1983, p. 4 sgg. 11   Sofocle, Antigone, cit., vv. 502-503 : « Eppure, come acquistare fama più illustre che dando sepoltura a mio fratello ? ». La gloria, soprattutto quella postuma, era per i Greci uno dei valori più alti : cfr. Omero, Iliade, 18, 120-121 ; Erodoto, 12   Cfr. Sofocle, Antigone, cit., vv. 806 sgg. Storie, 1, 28-32. 13   Mi riferisco, naturalmente, in primo luogo alla Poetica di Aristotele, in particolare alla famosa definizione dell’eroe tragico, il quale « non è volto in disgrazia per vizio e malvagità, ma per un errore » (Aristotele, Poetica, introduzione, trad. e note di Diego Lanza, Milano, bur, 200216, pp. 157-159). 14   Cfr. Vittorio Alfieri, Antigone, atto i, scena iii, v. 119, in Vittorio Alfieri, Tragedie, i, a cura di Luca Toschi, introduzione di Sergio Romagnoli, Firenze, Sansoni, 1985. Tutte le citazioni dell’Antigone nel presente articolo provengono da questa edizione. 15   Idem, Il parere dell’autore su Polinice : « Di Creonte poi, altro non dirò, se non che questo iniquo carattere, senza cui pure la tragedia star non potrebbe, (almeno, come l’ho ideata) verrà ad ottener favore dagli spettatori, ove egli non ne cavi le fischiate » (cito dall’edizione Vittorio Alfieri, Tragedie, iii, a cura di Nicola Bruscoli, Bari, Laterza & Figli, 1947, p. 333). 8













   















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gone, o la prima parte di un dittico », 1 dove Creonte, per servirci delle parole di Ranieri de’ Calzabigi « intreccia l’azione col suo carattere ambizioso e falso ; accende i suoi nipoti alle gare, agli sdegni ; trama insidie e tradimenti : disegna disfarsi de’ due prìncipi, ed occupare il trono ». 2 Glielo rinfaccerà la protagonista della seconda tragedia tebana, nel momento del decisivo scontro verbale con il tiranno :  













ant. Empio tu, vile, che lor spingevi ai colpi scellerati. – [...] Ministro tu della nefanda guerra, tu nutritor degli odi, aggiunger fuoco al fuoco ardivi ; adulator dell’uno, l’altro istigavi, e li tradivi entrambi. La via così tu ti sgombrasti al soglio, ed alla infamia. 3









1   Folco Portinari, La recita in palazzo. L’idea di tragico e Alfieri, « Lettere italiane », xxix, 3, 1977, p. 313. 2   Lettera di Ranieri de’ Calzabigi all’autore sulle quattro sue prime tragedie, in Vittorio Alfieri, Tragedie, a cura di Luca Toschi, cit., p. 97. 3   Vittorio Alfieri, Antigone, cit., atto ii, scena ii, vv. 227-228 ; 232-237. 4   In questa versione della sorte di Edipo Alfieri segue Stazio, Tebaide, xi, vv. 750 sgg. 5   Occorre precisare che il suo divieto si riferisce a tutti gli Argivi, ma in realtà esso rimane in vigore solo fino al momento della morte di Antigone, il vero obiettivo di questa ‘legge’. 6   Cfr. Vittorio Alfieri, Antigone, cit., atto i, scena i, vv. 9-10. 7   Ivi, atto ii, scena i, v. 54 : « crudele divieto » ; atto ii, scena ii, v. 176 : « cruda 8   Cfr. ivi, atto ii, scena ii, v. 227. legge ». 9   Cfr Sofocle, Antigone, cit., vv. 683 sgg.  









Anche se altrove dirà di averlo fatto in nome della « ragione alta di stato », 11 dimostrerà l’inutilità di questa « legge », quando libererà Argia, moglie di Polinice, venuta da Argo per ricuperare le ceneri del marito 12 e catturata assieme ad Antigone, e la manderà in patria con « il dolce incarco », 13 dopo aver considerato i pro e i contro. 14 Antigone intuisce già prima il significato del perfido piano di Creonte, quando, dopo aver compiuto il rito funebre nel campo di battaglia assieme alla cognata, condotta in catene al suo cospetto gli dice apertamente di aver onorato il fratello morto. 15 Insistendo sul fatto che l’iniziativa è venuta da lei e perciò Argia – che nella nobile gara protesta energicamente incolpando se stessa dell’accaduto – non va punita, Antigone fa un tale appello alla cognata :  



















Antigone capisce bene che Creonte rimane in parte responsabile dell’infamia della sua stirpe (« Ministro tu della nefanda guerra ») – il che non è certo il caso del Creonte sofocleo – e ha il coraggio di dirglielo. Il divieto che egli pronuncia da usurpatore (dopo aver esiliato da Tebe Edipo) 4 a proposito di lasciare insepolto (e quindi disonorato) il corpo morto di Polinice, 5 ucciso in maniera subdola dal fratello moribondo, 6 ricalca, invece, l’editto proclamato nell’omonima tragedia greca (e non poteva essere diversamente, perché questo dato risulta essenziale per il mito tebano e deve costituire il motore dell’azione), ma differisce da quello negli obiettivi che tramite esso egli spera di raggiungere, il che influisce direttamente sulla vicenda di Antigone e sul senso del suo destino tragico. Questo divieto, visto da Antigone e da Emone come crudele 7 ed empio – in quanto di empietà viene accusato chi l’aveva pronunciato 8 – si presenta tanto più ingiusto perché riguarda il migliore dei fratelli, come si evince sia dalla trama del Polinice che dai cenni sparsi un po’ dovunque nell’Antigone. Non è così in Sofocle, dove viene ribadita (da Creonte) la giusta causa per cui morì il più giovane dei fratelli (Eteocle), difendendo la patria aggredita dal « traditore » Polinice e il nuovo sovrano si serve appunto di questa motivazione per giustificare l’editto. In effetti egli identifica il bene dello stato con la propria visione arbitraria del potere che non ammette altre prospettive oltre la sua. In questa ottica egli interpreta anche le leggi naturali e quelle divine. Il suo governo – come gli rimproverà Emone durante lo scontro verbale nel terzo atto 9 – è basato sul timore dei cittadini che non approvano il suo comportamento da sovrano, ma non sono capaci di una aperta ribellione. Nonostante tutto ciò, il Creonte sofocleo non si presenta né come empio né come malvagio, se lo si giudica considerando soprattutto le sue intenzioni e non l’effetto delle sue azioni. Egli vive in un errore di valutazione (hamartia) e trasgredisce le norme morali e religiose (commettendo, come si è già detto, una hybris), convinto nel suo accecamento morale e conoscitivo che la verità sia dalla sua parte. Troppo tardi egli ammette di aver sbagliato e, fiducioso nella possibilità di disfare i precedenti ordini e di salvare ancora la situazione, si affretta a seppellire Polinice e a liberare Antigone : ma è qui che scatta il meccanismo della ironia tragica sofoclea.





CR. Credei, sperai ; che dico ? A forza io volli, che il mio divieto in Tebe a infranger prima, sola, Antigone fosse ; al fin l’ottenni, rea s’è fatt’ella ; omai la inutil legge sia tolta... 10





Malvagio è, invece, come si è già detto prima, il personaggio omonimo in Alfieri per il quale il menzionato editto fa parte di un preciso piano politico per trovare il pretesto di far morire Antigone, come prima aveva fatto con i suoi fratelli. Egli stesso svela al figlio incredulo, che in tutti i modi cercava di distoglierlo dalla « empia » decisione, il vero obiettivo con cui ha promulgato l’editto :















ANT. Cessa, o sorella ; ah ! meglio costui conosci : ei non è crudo a caso, né indarno. Io spero omai per te ; già veggo, ch’io gli basto, e n’esulto. Il trono ei vuole, e non l’hai tu : ma per infausto dritto, questo ch’ei vuole, e ch’ei si usurpa, è mio. 16  









Il trono e il potere sono per lui un valore supremo a cui egli sacrifica quelli che considera i suoi « nemici », 17 ma anche la felicità del figlio innamorato di Antigone, il quale nelle parti centrali della tragedia cerca invano di convincerlo dell’alto valore dell’atto compiuto dalla donna e alla fine gli dice di amarla, con la speranza di salvarle la vita. Ma al tiranno che non sa cosa siano i sentimenti (e in questo rassomiglia al Creonte sofocleo), dapprima questa verità suona come una notizia sgradevolissima che potrebbe contrastare i suoi piani, ma subito dopo vi scorge un’occasione per far tacere la figlia di Edipo e per sottometterla rendendo del tutto inoperativo l’odio che lei nutre nei suoi confronti. 18 Ci sembra poco opportuna l’opinione di chi, nella concessione che il tiranno è disposto ad accordare al figlio (del resto, si badi bene, senza il  



10   Vittorio Alfieri, Antigone, cit., atto iii, scena i, vv. 32-36. Creonte allude, rivolgendosi sempre al figlio, già prima che il divieto sia stato infranto, alla premeditazione con cui è stato pensato : « Rompasi ; ch’altro / non bramo io, no ; purché la vita io m’abbia / di qual primier la infrangerà » (atto ii, scena i, vv. 95-97). È significativa la sua reazione alla vista di Antigone che viene da lui condotta in catene : « Cadde l’incauta entro la mia rete ; uscirne male il potrà » (ivi, vv. 115-116). 11   Ivi, atto iv, scena ii, v. 120 ; cfr. anche atto ii, scena i, v. 85. 12   Introducendo questo personaggio Alfieri segue l’episodio raccontato da Stazio nella Tebaide (xii, vv. 177 sgg.), ma significativamente cambia qualche particolare rispetto al poeta romano che si dilunga nel raccontare il coraggio e l’eroismo di Argia che arriva al luogo, dove giace il Polinice morto anche prima di Antigone ; invece in Alfieri è Antigone a guidarvi Argia a cui era ignoto l’editto di Creonte. 13   Cfr. Vittorio Alfieri, Antigone, cit., atto iv, scena v, v. 198. 14   Cfr. ivi, atto iv, scena iv, vv. 170 sgg. 15 16   Cfr. ivi, atto ii, scena ii, vv. 119-120.   Ivi, vv. 216-221. 17   Così Creonte chiama Antigone (ivi, atto ii, scena i, vv. 69-70) ; egli scopre al figlio la sua ‘strategia politica’ degna di un tiranno : « Re gli odi altrui prevenir dee ; nemico / stimare ogni uom, che offeso ei stima » (ivi, vv. 76-77). 18   Mario Trovato parla, invece, della « perennità del trono » che Creonte, da freddo calcolatore qual è, vedrebbe così salvata (cfr. Mario Trovato, Il messaggio poetico dell’Alfieri : la natura del limite tragico, Roma, Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri, 1978, p. 58).  





































la «legge» di creonte e la tragedia di antigone in alfieri alla luce dell ’ archetipo sofocleo 75 suo consenso, perché Emone intuisce bene che Antigone non en bloc, secondo cui una forza arcana si serve della passione umana (in questo caso della brama di potere di Creonte) per darebbe mai la mano « a chi di un sangue nasce / a lei fatale, costringere il tiranno ad una situazione tragica, ma prima ane a’ suoi » 1), scorge nient’altro che un atto di amore paterno. 2 cora per colpire per mezzo di lui qualcun altro (l’antitiranno, Occorre notare che anche la natura di questo amore lascia diqui : Antigone), responsabile indirettamente di una colpa da scutere e la miglior prova ne abbiamo nelle parole dello stesso cui questi vuole liberarsi opponendosi al tiranno. 9 Ciò signiEmone che sempre di più si convince di essere per il padre ficherebbe che sia Creonte che Antigone siano vittime di una solo « il compimento della sua ambizione di regno » : 3 stessa tirannia, quella del Destino o Fato. Ma in questa trageEM. Il trono iniquo por ti fa in non cale dia è la volontà umana (e non il Fato) ad avere un’importanza di re, di padre, d’uomo, ogni più sacro decisiva nello sviluppo degli eventi e Creonte non fa altro che dovere omai : ma, più tu il credi immoto, usurpare un ruolo (quello del Destino) che non gli spetta afpiù crolla il trono sotto al rio tuo piede. fatto. Le sue ultime parole, dove egli constata di essere sopraf[...] fatto e punito da una forza superiore che lo fa tremare (« O Oh ! di quai dritti del celeste sdegno / prima tremenda giustizia di sangue,... / favelli tu ? Tutto sei re : tuo figlio pur giungi, al fine... Io ti ravviso. – Io tremo »), 10 richiamate non puoi tu amare : a tirannia sostegno cerchi, non altro. Io, di te nato, deggio spesso dai critici a conferma della tesi ricordata sopra, avrebdritto alcuno di sangue aver per sacro ? 4 bero, ci sembra, un altro significato. Dalla sua affermazione si evince che egli, perfino nel momento della sconfitta, non è in Lo stesso potere è da lui inteso come assoluto, di cui non deve grado di ammettere la propria responsabiltà dell’accaduto ; si rendere il conto a nessuno 5 se non ai Numi che per lui – fino al potrebbe quindi osservare la coerenza che questo personagcrollo finale – sono solo un nome di cui egli si serve in modo gio ha fino alla fine. Inoltre, queste parole vanno lette, come illegittimo, che con la religione ha poco o niente a che fare, crediamo, in chiave intertestuale facendo riferimento alla parper ‘sancire’ il proprio agire malvagio e tutte le decisioni ad te finale dell’Antigone di Sofocle e in particolare al passo già esso legate. Questa verità traspare chiaramente nel diverbio citato in precedenza, 11 dove Creonte, schiacciato dagli eventi, con Antigone che mette a nudo le sue vere intenzioni : si lamenta del destino che lo ha abbattuto. 12 Del resto, come nota Franco Ferrari, l’immagine del demone (o della sorte) CR. A trarvi a morte, che « salta » addosso alla vittima è ricorrente nella tragedia anfratelli abbominevoli del padre, mestier non eran tradimenti miei : tica, specialmente in Eschilo. 13 tutti a prova il volean gl’irati Numi. Il potere costituisce per Creonte una vera e propria ossesANT. Che nomi tu gli Dei ? tu, ch’altro Dio sione nonché il motivo principale del suo odio verso la stirpe non hai, che l’util tuo, per cui sei presto di Edipo e, di conseguenza, del suo accanito desiderio di diad immolar, e amici, e figli, e fama ; struggerla fino all’ultimo membro (Antigone). Il suo acceca6 se tu l’avessi. mento legato al trono viene ribadito più di una volta ; ogni cenno al fatto che lui esercita il potere da usurpatore14 oppure Ma il dialogo smaschera ancora un’altra verità su Creonte che la mancanza di rispetto verso la sua persona da parte di Antraspare fin dal suo inizio : egli si sente strumento di dio o, tigone lo fanno sospettare – contro ogni evidenza 15 – che la comunque, di una forza trascendente che si è abbattuta sulla donna costituisca un grave pericolo per il suo governo : casa (ghenos) di Edipo per sgombrare la terra tebana dalla sua infame presenza ; in realtà è lui che strumentalizza la divinità CR. ed ami, e preghi, e vuoi per far credere che il suo agire – in modo particolare quello salva colei, che il mio poter deride ; nei confronti di Antigone e della sua stirpe – sia conforme alla che me dispregia, e dirmel osa ; e in petto volontà superiore : cova del trono ambizïosa brama ? 16  























































CR.



Oh degna copia ! Il cielo oggi v’ha poste in mano mia : ministro a sue vendette oggi m’ha il ciel prescelto. [...] Chieggon Numi diversi ostie diverse. Vittima tu, già sacra agli infernali, degna ed ultima andrai d’infame prole. 7  



Lo conferma il dialogo precedente con il figlio, dove Creonte così commenta la situazione a Tebe dopo la morte fratricida di Eteocle e Polinice a cui egli stesso li spinse :  

CR. Compiuto appena il lor destin, più puro in Tebe il sol, l’aer più sereno, i Numi tornar più miti : or sì, sperar ne giova più lieti dì. 8

L’odio di Creonte si esprime verbalmente nell’uso del temine ‘infame’ riferito alla famiglia di Edipo, 17 che costituisce (assieme alle sue varianti) un vero e proprio leit-motiv di questa tragedia, in quanto anche Antigone, da parte sua, si serve della stessa parola per attaccare il tiranno. Questo particolare è importante, perché permette di capire meglio il gesto della donna e la tragicità del suo destino da esso inscindibile. L’Antigone alfieriana, diversamente da quella sofoclea, vive con il pensiero fisso di essere erede della colpa della propria stirpe, di rimanere fin dalla nascita sotto il peso della maledizione ancestrale, « incalzata dall’orrore di sé e del suo sangue, che scolora il gusto della vita, ne sancisce l’impossibilità, e  



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  Cfr. Mario Trovato, op. cit., pp. 7, 13, passim.   Vittorio Alfieri, Antigone, cit., atto v, scena vii, vv. 174-176.   Sofocle, Antigone, cit., vv. 1272-1276 ; cfr. la nota 5 a p. 73 del presente articolo. 12   Altrove, però, Creonte sofocleo, a differenza di quello alfieriano, ammette esplicitamente la propria colpa : cfr. ivi, vv. 1261 sgg., 1317 sgg. 13   Cfr. Franco Ferrari, la nota ai vv. 515-516 dei Persiani di Eschilo nell’edizione Eschilo, Persiani. Sette contro Tebe. Supplici, introduzione, trad. e note di Franco Ferrari, Milano, bur, 1987. 14   Vittorio Alfieri, Antigone, cit., atto ii, scena ii, vv. 219-221, in particolare v. 221 : « questo ch’ei vuole, e ch’ei si usurpa, è mio » ; atto iii, scena ii, vv. 179-181 : « Rea / me troppo or fa l’incontrastabil mio / trono, che usurpi tu ». 15   Ivi, atto iii, scena i, v. 111 : « non è regno il pensier suo » (Emone a Creonte) ; atto iii, scena ii, vv. 181-182 : « non ti chieggio / né la vita, né il trono » (Antigone a Creonte). 16   Ivi, atto iii, scena i, vv. 77-80. 17   Ivi, atto ii, scena i, vv. 13-14 : « rei nepoti, infami figli / del delitto » ; atto ii, scena ii, vv. 223-224 : « Infami / figli d’incesto ». 10

Non credo che sia del tutto appropriato interpretare questa tragedia in base al principio, applicato al teatro di Alfieri

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1

  Vittorio Alfieri, Antigone, cit., atto iii, scena i, vv. 124-125.   Cfr. ad es. Folco Portinari, op. cit., p. 318, nota 40. Non è neanche per l’amore paterno che Creonte dispera dopo la morte del figlio, ma, come giustamente osserva Mario Trovato, « solo perché, con la morte del figlio, è crollato il mondo dei sogni e delle aspirazioni tiranniche » (cit., p. 64). 3   Vittorio Alfieri, Risposta dell’autore a Ranieri de’ Calzabigi, in Idem, Tragedie, a cura di Luca Toschi, cit., p. 120. 4   Vittorio Alfieri, Antigone, cit., atto iv, scena ii, vv. 87-90 ; 121-125. 5   Cfr. ivi, atto iii, scena i, vv. 20-23 ; 55-56 : « Al poter mio, / altro confin che il voler mio non veggio » ; cfr. anche ivi, atto iv, scena ii, vv. 107-108. 6   Ivi, atto ii, scena ii, vv. 247-254. 7 8   Ivi, vv. 146-148 ; 255-257.   Ivi, atto ii, scena i, vv. 17-20. 2





























































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maria maślank a soro

lascia intravedere, unico scampo, la morte ». 1 Lo testimoniano le parole che lei rivolge ad Argia e ad Emone, due persone a lei care e con cui può sfogarsi senza il rischio di rimanerne offesa :  

purezza tanto desiderata, che è legata al sacrificio, perché avrà come conseguenza inevitabile la morte :  

ANT. prova è non dubbia d’alta innocenza, esser di morte afflitte dove Creonte è il re. ANT. Mi sia la scure trionfo quasi. ANT. Misero padre ! il so, pur troppo ; io mai non ti vedrò, mai più :... ma, de’ tuoi figli ultima, e sola, io almen morrò non rea... 11



ANT. Ed io che fo ?... Di questo sangue impuro avanzo [...] Argìa, teco non voglio io gareggiar di amore ; di morte, sì. Vedova sei ; qual sposo perdesti, il so : ma tu, figlia non nasci d’incesto ; ancor la madre tua respira ; esul non hai, non cieco, non mendico, non colpevole, il padre : il ciel più mite fratelli a te non diè, che l’un dell’altro nel sangue a gara si bagnasser empi. Deh ! non ti offender, s’io morir vo’ sola ; io, di morir, pria che nascessi, degna. [...] A fera morte già, fin dal nascer mio, dannata m’ebbe il mio destino 2  















Ma non si tratta solo di questo. Abbiamo già potuto constatare da alcune citazioni riportate sopra, come Creonte, per affermare la presunta legittimità del suo potere, non smetteva di ribadire l’infamia di chi ha governato prima di lui e in genere di tutta la stirpe di Edipo. Questa stessa idea riceve una forma materiale, concreta nel lasciare insepolto il corpo di Polinice :











CR.

Nella tragedia del poeta greco questo motivo – di per sé eschileo – è del tutto marginale 3 e quindi non ha importanza per lo sviluppo degli eventi. Invece il peso dei misfatti del ghenos che l’eroina del poeta italiano si trascina dietro, influisce sul senso che lei darà sia all’infrazione del divieto di Creonte che alla propria morte. La protagonista compie il rito funebre per amore e pietà che sono dovute a Polinice da lei come sorella (« e sprone / santo mi punge, alto fraterno amore... ») 4 e in ciò non si allontana dalla protagonista sofoclea. D’altra parte i critici vorrebbero vedere in questo gesto anche un tratto tipicamente alfieriano, cioè l’ansia di totale realizzazione di sé in uno slancio antitirannico e la volontà di una rivalsa morale, ché entrambe caratterizzano i personaggi del teatro dell’Astigiano, quando sopraffatti, ma non vinti dalla realtà a loro avversa, cercano la morte per liberarsi dal taedium vitae. 5 Ma la lettura attenta del testo permette di arricchire questa caratteristica di una motivazione a cui finora si è dato poco peso. Antigone chiama il gesto che sta per compiere (con Argia, ma a questo personaggio ritorneremo più avanti) « la sant’opra ». 6 Significativamente questa espressione viene usata anche da Argia e da Emone nel dialogo con il padre. 7 La « santità » su cui batte l’accento coinvolgerebbe il personaggio di Polinice e quindi si tratterebbe di un atto che gli restituisce la dignità e che permette alla sua anima di trovare la pace, 8 ma essa può anche riguardare l’autrice di quel « santo crimine » 9 che fin dalla nascita si trova in uno stato di impurità morale (per colpa non sua) ; in questo caso il gesto eroico e pio che solo agli occhi di Creonte si presenta come « reo » (« al fin l’ottenni, / rea s’è fatt’ella ») 10 le restituisce – almeno in parte – la  





Antigone opponendosi all’ordine crudele ed empio, e sapendo di doverlo pagare con la morte, intende cancellare anche la loro infamia :  

ANT. avranno così lor fine in me di Edippo i figli. Io non men dolgo ; ad espïare i tanti oribili delitti di mia stirpe, bastasse pur mia lunga morte !... 13  





















1   Vitilio Masiello, L’ideologia tragica di Vittorio Alfieri, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1964, p. 65. 2   Vittorio Alfieri, Antigone, cit., atto i, scena iii, vv. 154-155 ; 199-209 ; atto iv, scena ii, vv. 79-81. 3   Cfr. Vincenzo di Benedetto, op. cit., pp. 23-24 ; cfr. anche Maria Maślanka Soro, La colpa e il colpevole nell’Antigone di Sofocle, « Sandalion », 15, 1992, p. 30. 4   Vittorio Alfieri, Antigone, cit., atto i, scena ii, vv. 56-57. 5   Cfr. ad es. Vitilio Masiello, op. cit., p. 40, nota 52 ; pp. 54-55, 66 ; Vittorio Alfieri, Antigone, a cura di Giulio Galetto, S. Martino B. A. (Verona), r.a.d.a.r., 1967, p. 16. 6   Vittorio Alfieri, Antigone, cit., atto ii, scena ii, v. 135 ; cfr. anche atto i, scena ii, v. 56 ; atto iii, scena ii, v. 186. 7   Cfr. ivi, atto ii, scena ii, v. 142 ; atto iii, scena i, v. 14. 8   Vittorio Alfieri, Antigone, cit., atto ii, scena i, vv. 54-57 : « Il tuo crudel divieto, / che le fiere de’ Greci ombre insepolte / varcar non lascia oltre Acheronte, al cielo / grida vendetta ». 9   Questa espressione appare nella tragedia sofoclea (cfr. Sofocle, Antigone, cit., v. 74), ma si addice anche all’eroina di Alfieri. 10   Ivi, atto iii, scena i, vv. 34-35. Creonte, infatti, non può sopportare la nobiltà d’animo di Antigone e vorrebbe ad ogni costo vederla coinvolta in una  



Ma, se l’orrendo lor nascimento con più orrenda morte emendato hanno, eterno obblio li copra. 12



La morte in nome di così nobili ideali confermerà invece l’infamia e l’empietà del tiranno che ha osato promulgare una « legge » 14 con cui deride e calpesta le leggi naturali :  





ARG. Ognor Creonte sarà l’infame : del suo nome ogni uomo sentirà orror, pietà del nostro... ANT. E tormi tal gloria vuoi ? 15  



Ma nelle parole di Antigone spunta anche il motivo della gloria. Della gloria postuma (kleos) parlava pure l’Antigone di Sofocle. 16 Infatti, entrambe le donne sono ben consapevoli del valore eroico del proprio comportamento : indubbiamente questo tratto del carattere dell’eroina sofoclea poté rivelarsi fecondo nel caso della protagonista alfieriana. Ma la situazione di quest’ultima è diversa, in quanto la sua fama futura rimane in funzione della vittoria morale su Creonte ; lei non può condividerla con Argia, come non può condividere con lei la morte, 17 perché solo chi appartiene alla stirpe maledetta dagli dei è in grado di cancellarne le colpe ; per questo Antigone deve respingere la generosa offerta da parte di Argia che la vorrebbe ‘sostituire’ nella pena ; la stessa ragione le vieta di accettare il matrimonio con Emone, il quale anzi renderebbe più grave l’infamia dei suoi. 18 Proprio questo vorrebbe Cre 





























colpa per trovare un pretesto di farla morire di una morte « infame » : « Morte, che infame, / qual vi si dee, v’appresto, or or ben altra / sorger farà gara tra voi, di prieghi / e pianti » (ivi, atto ii, scena ii, vv. 196-199). 11   Ivi, atto ii, scena ii, vv. 159-161 ; atto iii, scena iii, vv. 248-249 ; 314-316. 12   Ivi, atto ii, scena i, vv. 14-16. 13   Ivi, atto v, scena ii, vv. 47-51. 14   Il dialogo tra Creonte ed Emone che apre il iii atto rivela un uso abusivo di questo concetto da parte del tiranno ; infatti gli altri personaggi adoperano altri termini che rendono meglio l’idea della natura del divieto oppure, se parlano della « legge », aggiungono un epiteto che le dà una qualifica negativa : cfr. atto ii, scena i, v. 54 : « crudel divieto » ; atto ii, scena ii, v. 170 : « l’orribil divieto » ; v. 176 : « cruda legge » ; v. 180 : « inuman divieto ». 15   Ivi, atto i, scena iii, vv. 227-230. 16   Cfr. Sofocle, Antigone, cit., v. 502 e la nota 11 a p. 73 del presente articolo. 17   Cfr. Vittorio Alfieri, Antigone, cit., atto v, scena ii, vv. 61-66. 18   Cfr. ivi, atto iii, scena iii, vv. 303 sgg.  



















































la «legge» di creonte e la tragedia di antigone in alfieri alla luce dell ’ archetipo sofocleo 77 onte che coglie ‘al volo’ l’occasione che gli si presenta con la interiore chiamandola vittima della passione. 3 Il fatto che lei confessione che gli fa il figlio a proposito del suo amore per ama Emone, come pure il fatto che l’Antigone sofoclea ama la figlia di Edipo. il figlio di Creonte e piange perchè le è stata negata la felicità, 4 Credo che occorra interpretare la rinuncia di Antigone al rende solo più tragica la condizione umana di entrambe. Ma matrimonio con chi lei ama e da chi è riamata proprio in quenon significa che ci sia una lotta tra volontà e sentimento. sto senso, come anche l’esplicita, dolorosa protesta che lei riL’Antigone alfieriana è davvero una degna erede della favolge ad Emone, 1 il quale non è in grado di capire, non meno mosa protagonista sofoclea e condivide con lei la magnanimità, il tratto che, se nel caso di altri eroi alfieriani può avere di Argia, l’intero significato del suo sacrificio. Anche nella trauna origine plutarchiana, 5 nel suo, invece, è prima di tutto gedia greca il movente delle azioni del personaggio principale è spesso difficilmente compreso fino in fondo da chi gli sta visofocleo. cino. Detto questo ci sembra semplificatoria la tesi di chi vor« Emone, ah ! tutto io sento, / tutto l’amor, che a te portava : io sento / il rebbe vedere nelle sue effusioni liriche 2 la prova di un dissidio  





dolor tutto, a cui ti lascio ». 3   Cfr. ad es. Mario Trovato, op. cit., pp. 54, 59. 4   Cfr. la nota 12 p. 73 del presente articolo. 5   Cfr. Vitilio Masiello, op. cit., p. 8.  

1

  Cfr. ibidem.   Cfr. ivi, atto iii, scena iii, vv. 296 sgg., 303 sgg., atto v, scena ii, vv. 66-68 :

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LA CADUTA DEL PARINI «NEL GRAN VORTICE DI MILANO» 1 NELL’EPISTOLARIO DE NECCHI-RICCI (1785-1786) Paolo Bartesaghi

I

Premessa

1



n questo intervento, limitato a poche considerazioni sintetiche per lasciar spazio ai documenti, si trascrivono cinque missive da Milano di De Necchi 2 a Ricci, 3 canonico in Chiari. Coprono il periodo marzo 1785-aprile 1786 e offrono una viva rappresentazione del turbine che sconvolge la Milano di Verri e Parini ai tempi delle riforme di Giuseppe II, con il quadro un po’ desolante dei milanesi che « amano la busecca più che i libri » (lettera [v]). Personaggio caro al De Necchi (lettera [ii]), Parini, nella corrispondenza del De Necchi col Corniani di cinque anni prima, già era assurto a protagonista nell’episodio del (mancato) elogio a Maria Teresa. In questo caso invece la selezione ha come filo conduttore la Caduta. La sequenza degli avvenimenti pariniani in queste lettere può essere così sintetizzata : - Parini, che giudica « molesta » (La caduta, v. 30) anche la schiera dei suoi sostenitori, appare isolato nella società milanese : sembra un Sordello purgatoriale, chiuso tra emarginazione e disdegno (lettera [i]) ; la bile, a lungo « costretta » (v. 77), è pronta ad esplodere alla prima « occasione » ; - Parini cade ma, fortunatamente, non si fa male : da qui l’origine, realistica, dell’ode e, insieme, la dilatazione dell’episodio ad uno stramazzar « sovente » (v. 12). Segno che il ‘contrasto’ tra i suggerimenti perversi del soccorritore e il decalogo del « buon cittadino » (v. 85) si agita da tempo nella mente e nel cuore del poeta del Giorno. L’ode circola a Milano manoscritta ; - De Necchi accenna alla caduta nell’ordinario del 15 febbraio 1786 (lettera [iii]), con l’indicazione generica « ne’ scorsi dì ». L’incidente e la composizione dell’ode potrebbero risalire a fine dicembre ’85-inizio gennaio ’86 ; - De Necchi vorrebbe pubblicar la poesia sul « Giornale letterario di Milano » [d’ora in poi : glm], quindicinale che ha da poco fondato e a cui collaborano il Verri, il Giovio e il Ricci stesso. Quella di De Necchi sarebbe la prima edizione : un bel  

















































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  Lettera di De Necchi, 4 giugno 1788, da Lodi.   Giuseppe De Necchi Aquila (Pavia settembre 1755-Milano 2 luglio 1800), poeta del Regio Teatro Ducale, è in rapporti amichevoli col card. Durini e con il Corniani, con cui tiene una corrispondenza dal 1779 al 1782 (le lettere del De Necchi sono pubblicate in Cronaca milanese in un epistolario del Settecento, a cura di Rosy Candiani, con presentazione di Gennaro Barbarisi, Milano, Cariplo-Laterza, 1988 ; d’ora in poi Barbarisi-Candiani). Nel 1782 viene assunto al Magistrato Camerale, come alunno della Commissione di Guerra e Stato, per l’appoggio amichevole di Pietro Verri. Nel 1786 viene trasferito a Lodi come Cancelliere dell’Intendenza provinciale. Nel 1795 passa a Pavia con la stessa funzione. Con l’invasione austro-russa si rifugia a Milano, dove passa gli ultimi anni della sua vita. Su di lui, oltre a Barbarisi-Candiani, vedi la voce che gli dedica Mirko Volpi in Idem et alii, Poeti, scienziati, cittadini nell’Ateneo Pavese tra riforma e rivoluzione, Pavia, Tip. com. Pavese, 2000, pp. 407-413 (compresa una scheda di Felice Milani su uno dei tanti programmi di ballo del De Necchi). 3   Lodovico Ricci (Chiari 10 febbraio 1710-24 gennaio 1805), canonico e appassionato di letteratura e di storia locale, fu in contatto con i maggiori intellettuali del tempo, da Mazzuchelli a Tiraboschi, da Tamburini a Zola, da Tanzi a Zamboni, scambiando con tutti un fitto epistolario. Accademico Trasformato, alla morte dell’Imbonati, restauratore dell’Accademia milanese, ne scrive l’elogio funebre. Le lettere dei suoi corrispondenti si trovano nella Biblioteca Morcelliana-Repossi di Chiari ; le 68 lettere del De Necchi sono collocate nel Fondo Ricci, busta 1. Lì si trovano anche le sue Poesie manoscritte, raccolte in due volumi segnati Arm. Mss. D. I. 17/18 (d’ora in poi Poesie, i/ii). Su Ricci vedi le tesi di laurea promosse da Carlo Capra all’Università Statale di Milano, segnalate in Barbarisi-Candiani, p. xxxii. 2





successo editoriale, per lui. La Censura però trova l’ode « troppo satirica » (lettera [iii]) e ne proibisce la stampa. - Nel terzo, e ultimo, numero di gennaio 1786 (quindi a fine mese) delle « Memorie per le belle arti », l’ed. Pagliarini di Roma pubblica il testo (pp. xx-xxiv), dicendo di averlo ricevuto anonimo da un associato lombardo, ma di averne facilmente riconosciuto l’autore (v. 31 dell’ode). Conferma altresì la genesi della « recentissima ode scritta nell’occasione delle dirotte pioggie, che hanno più dell’usato reso incomodo il corrente inverno » (p. xix) ; - De Necchi deve aver tentato ancora di ottenere il permesso di pubblicazione (lettera [iv]), ma la Censura respinge la richiesta, trovando l’ode « alquanto mordace ». De Necchi allora si impegna a far giungere a Chiari il manoscritto : ha contattato la duchessa Serbelloni, presso la quale il poeta pranza spesso. La duchessa gli ha promesso l’ode ; - De Necchi, ricevuto l’esemplare dell’ode, lo mostra al Parini, suscitando una reazione violenta. Parini disconosce il testo, su cui i lettori devono essere intervenuti con modifiche, variazioni, correzioni… (lettera [v]). Nessun accenno ad una circolazione a stampa della poesia. Siamo al mese di aprile. De Necchi non torna più sull’argomento ; - ne parla invece Parini, a distanza di anni, l’11 novembre 1795, nella lettera a Giuseppe Bernardoni, dove accenna ad una prima edizione milanese, che avrebbe anticipato le edizioni successive, compresa quindi quella di Roma. Le lettere del De Necchi sembrano però escludere tale possibilità : troppo espliciti e ripetuti i riferimenti ai divieti della Censura milanese ; - l’esemplare glm (gennaio 1786), unico numero del periodico presente all’Ambrosiana nel fondo Parini (S.P. 6/I, II 1/d), porta numerose correzioni autografe : il testo rivisto corrisponde alla lezione confluita nella edizione Gambarelli del 1791, in un clima politico e censorio mutato (le correzioni introdotte dal Parini sono comunque più interpuntorie e grafiche che ideologiche). Che nel ’95 la memoria abbia tradito Parini ? Che la presunta edizione milanese non sia mai esistita o coincida con l’ed. del ’91 ?  































Testi [i] Amico Carissimo Bravo, Sig.r Canonico, bravo bravissimo. Ella non mi potea fare più aggradevol sorpresa della visita fattami col preg.mo di lei Foglio 27. scaduto Feb.o Di una tale visita io Le sono obbligatissimo, perchè mi serve di prova della sua bontà a mio riguardo, e della continuazione della sua padronanza. Spontanea affatto è stata la lode con cui ho accompagnata al nostro Conte Corniani 4 la restituzione de’ di lei sciolti in morte dell’immortal Co. Duranti. 5 Detti Versi a me parvero robusti, dignitosi, eleganti, veridici, appassionati. Tali sembrarono anche ad alcuni amici miei, cui li ho comunicati. Venendo alle di lei premure, che oggi, e sempre riconoscerò come 4   Giovanni Battista Corniani (Orzinuovi 18 febbraio 1742-Brescia 13 novembre 1813), è ricordato per I primi quattro secoli della letteratura italiana dopo il suo risorgimento e I secoli della letteratura italiana. 5   Durante Duranti (Brescia 6 ottobre-Palazzolo 14 novembre 1780), allievo del Bettinelli, fu Accademico Trasformato, in rapporti amichevoli con il Parini, lodato dal Baretti. I versi sciolti di Ricci al Duranti (Ai gravi studj, alle noiose cure) sono in Poesie, i, pp. 196–206.

la caduta del parini «nel gran vortice di milano» nell ’ epistolario de necchi-ricci (1785-1786) mie, ho l’onore di ragguagliarla, che il valente ex rocchettino Casati1 predica nella città di Torino, dove per quanto ne dicono i suoi amici, egli riscuote l’applauso più denso, e lusinghiero. Quando poi uscirà l’Eloggio Verriano dell’Ab.e Frisi 2 mi ricorderò di farne a lei tenere un esemplare, siccome farò i di lei Complimenti al nostro Esimio Parini tostocchè io lo vegga. Questo Letterato sembra disgustato dello strepito della fumosa Città, talchè rare volte egli appare ove tutti sogliono intervenire. Il suo carattere schietto, e franco gli ha fatto dei nemici. La superiorità del suo merito gli ha destato contro un nembo d’individui. Ma egli non ama i primi, e disprezza i secondi con invidiabil fermezza. Desidero anch’io di secondare lo storico Bresciano di lei amico. Sonomi perciò procurato non senza stento le notizie dei libri, ch’ella desidera. L’Opera di Mons.r Bullet in tre tomi in foglio legati alla Francese, trovasi presso questi Stampat.i e Libraj Reicends, ma si vende al caro prezzo di £ 81. 3 – Un amico mio però, che è molto bibliografo mi assicura, che si possono far venire da Torino a minor prezzo. Anche l’Opera dell’Ab.e Jacopo Durando dell’antico stato d’Italia si può avere dai libraj sud.ti al prezzo di £ 3.15. Milanesi. Ella dunque non ha che a comandarmi intorno alli med.mi, che sarà tosto servito. 4 Rispetto alle notizie di guerra il cambio della Baviera colle Fiandre non è più un mistero per noi, e siccome si prevede, che la Francia, e la Prussia si opporranno validam.e a tale novità, così temiamo di non essere anche noi negli infortunj di una guerra, che minaccia diventar universale in Europa. 5 Rispetto alle novità politiche di questa Provincia si parla di altre molte soppressioni di Conventi dell’un sesso, e dell’altro per ultimare il proposto sistema di rifforma nella monastica disciplina. Sarebbe un bell’aver Capitali da impiegare in compere, affitti, e livelli di fondi delle Mani morte, i quali si alienano dalla Giunta Economale a picciol prezzo, perché è scarso il danaro, e non si hanno aventori. Da ultimo stimo avvertirla, che avendo mio Padre nel grandioso naufragio da lui sofferto de’ propri beni, alienato in favore de’ Conti Marliani 6 l’avito feudo, a me più non compete il titolo di Conte. Volendo ella dunque favorirmi di sue preg.me nuove, si compiacerà nominarmi Don Gius.e De Necchi Aquila nella Commissaria Gen[era] le di Guerra, e Stato. In quanto a me stò bene, e procuro di esser assiduo al mio dovere per acquistarmi almeno in vecchiaia un più comodo stabilimento. Le lettere sono ancora la mia delizia, sebbene io le coltivi languidam.e per moltiplicità di occupazioni. Confesso a V. Ill.ma di sentirmi di quella immutab.e stima, ed attacam.o con cui sono Di V. S. Ill.ma Dev.mo Obbl.mo ed A.co V.ro Giuseppe de Necchi Aquila Milano 9. Marzo 1785. 1   Carlo Casati, canonico Lateranense, fu eccellente oratore, lettore di Sacra Scrittura in S. Maria della Passione. Di lui sono stati pubblicati una orazione funebre e un Ragionamento politico-morale, pronunciato nella sala del senato della repubblica di Lucca nel 1765, edito da Filippo Maria Benedini. Testimonianza del suo successo oratorio sono gli Applausi umiliati al merito sublime del padre lettore d. Carlo Casati milanese de’ Canonici regolari lateranensi il quale con universale approvazione e copioso frutto predicò il quaresimale nella primaziale di Pisa l’anno mdcclxxvii, Pisa, Pieraccini, 1777. La silloge è costituita da quattordici sonetti, un’anacreontica e due odi latine. Tra i sonetti si segnala quello di p. 16, Ogni cuore ammollisce, e a se l’inclina, a firma dell’A[bate] G. P. Nel 1782, alla morte del Firmian, Carlo Casati viene incaricato di pronunciare l’elogio funebre (vedi Barbarisi-Candiani, p. 275 ; nell’indice dei nomi, p. 435, viene identificato in Francesco). È detto ex-rocchettino perchè con regio dispaccio del settembre dell’82 vengono soppresse le due Canoniche dei padri Lateranensi di Milano e di Cremona e i religiosi vengono secolarizzati. Ne parla anche il Borrani nel suo Diario, in Ambrosiana N 40 suss., p. 114. 2   Pietro Verri, Memorie appartenenti alla vita e agli studi del Signor Don Paolo Frisi, Milano, Marelli, 1787. 3   Jean Baptiste Bullet, Memoires sur la langue celtique, Besançon, Daclin, 1754-1760, 3 voll. 4   Jacopo Durandi, Dell’antico stato d’Italia in cui si esamina l’opera del P. Bardetti su i primi abitatori d’Italia, Torino, Derossi, 1772. Durandi (Santhià 1737-Torino 1817) fu celebre autore anche di poesie e melodrammi di vasto successo, tra cui l’Armida. 5   Nel glm, t. vi, 1° aprile 1786, De Necchi parla dell’accordo del settembre 1785 per il cambio del Ducato di Baviera con le Fiandre Austriache da cedere all’elettore Palatino (pp. 111-116). 6   Rocco Marliani, avvocato, presidente della Municipalità di Milano e poi senatore del Regno, è celebre per le sue amicizie con Monti, Porta, Torti, Foscolo, Canova, Appiani, Mascheroni, Stendhal e il pittore Bossi. Anche Parini lo avrebbe frequentato tra il 1797 e il 1799.  

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[ii] Pregiatiss.o Padrone, ed Amico Carissimo Accuso il preg.mo vostro Foglio 5. corr.e, e primamente mi consolo con voi della felicità con cui scrivete i più difficili Componimenti quali sono i Sonetti. In verità quel Sonetto nella malattia della Sig.ra Contessa Suardo Grismondi non può esser più bello ; io l’ho unito agli altri due già favoritimi, uno de’ quali incominciava Quel bacio, o Donna, che a te in fronte diede ecc., cui ho sostituito l’altro verso L’onor del bacio che a te in fronte diede ecc., a tenore della non necessaria, ma però plausibile emendazione che mi scriveste. Sarebbe molto felice anche l’altro Sonetto, che principia Balli, corsi, teatri, e caccie, e pesche ecc., ma vi è un errore imperdonabile, d’esser cioè indirizzato a me :7 non saprei pertanto suggerirvi altro modo di migliorarlo, che sostituendo al mio nome quello di Parini, o di qualche altra Divinità dell’Insubre Parnaso. Che voi mi amiate, caro Canonico, ne sono contento, ne sono ambizioso ; ma non vorrei che l’amcizia vi facesse travvedere. Comunque sia mi onoro de’ vostri raggi, e adorno delle vostre lodi piaccio anche più del solito a me stesso. Aggradirò, che mi procuriate l’incontro di conoscere il Sig.r Giovanni Bettolini, e perché ei mi trovi più facil.e in questa Città, potete indirizzarmelo qui all’Officio, cioè nella Commissaria di Guerra, e Stato nella Ecc.ma Casa Litta, 8 e potrò riceverlo più decentemente, che non nella mia Casa ; e siate certo, che dove mi si presenti opportunità di servirlo, lo farò ben volontieri, siccome volontieri farò inserire nell’Almanacco delle Muse 9 i Sonetti, che mi promettete del S.r D. Mauro di lui Fr[at]ello, sebbene non abbia troppo motivo d’esser contento del Raccoglitore, il quale per sovverchia parzialità ha ommessi in quest’anno degli ottimi componimenti per dar luogo ai più meschini. 10 Mi chiamo in debito di notificare a voi il mio, ed altrui sentimento intorno a quel Verso di Giovenale nec pueri credunt ecc. 11 siccome pure di noti[fi]care la versione di quel Distico Tibulliano Casta placent superis ecc. 12 Ma differisco al venturo Ordinario, perchè al presente non ho un momento di respiro. Attendo il Sonetto vostro per lo ritratto della Diamante Medaglia Faini, e ricordatevi, che promissio boni viri est obbligatio. 13 Eccovi in succinto l’altro Anecdoto 14 promessovi, e di  







7   Dedica : Al Signor don Giuseppe De’ Necchi Aquila | Patrizio Pavese | che aveva invitato l’autore a Milano quando | c’era l’Imperad.e il Re, e la Regina di Napoli. De Necchi (in glm, vol. ix, 15 maggio 1786) recensisce la Epistola in versi sciolti della Contessa Paolina Secco Suardo Grismondi tra le Arcadi Lesbia Cidonia al sig. le Mierre dell’Accademia Francese, Bergamo, Locatelli, 1786. Nella nota delle pp. 52-53, De Necchi riporta il sonetto del Ricci, «Cigno italiano» (p. 52), E tu vedesti, o Febo, e tu soffristi. La contessa Paolina (Bergamo 1746-1801), incoraggiata dai genitori a seguire la vocazione poetica, a 18 anni sposò il Grismondi, e si trasferì a Verona, dove strinse amicizia con Pindemonte. Nel 1779 fu associata all’Arcadia di Roma con il nome di Lesbia Cidonia. Lorenzo Mascheroni compone L’invito a Lesbia Cidonia, epistola in 529 endecasillabi sciolti, pubblicata nel 1793, in cui la invita a visitare le collezioni di storia naturale dell’Università di Pavia. Ricci, suo estimatore, le dedicò l’Elogio istorico della cont. Paolina Secco-Suardi Grismondi fra le pastorelle d’Arcadia Lesbia Cidonia, pubblicato a Milano nel 1809 da Giovanni Labus. 8   Si tratta del marchese Pompeo Litta Visconti Arese (1727-1797), commissario generale dell’esercito e dello stato di Milano dal 1761. 9   Nell’« Almanacco delle Muse Italiane » del 1785 sono presenti, alla p. 74, i sonetti del Parini Scorre Cesare il mondo e tutto ei splende e Teseo Osiri Giason Bacco ed Alcide, unificati dal titolo Nella venuta di Cesare a Milano. Mazzoni (Tutte le opere edite ed inedite di Giuseppe Parini, Firenze, Barbèra, 1925, pp. 392393) segnala solo il secondo. Il v. 7 del secondo sonetto nell’Almanacco è : E offrir se stessi, e stabilir le genti e non E offrir sè stessi a stabilir le genti (gli esemplari dell’Ambrosiana e di Brera offrono la medesima lezione, con se stessi non accentato), come stranamente afferma Mazzoni nella nota al testo, p. 393. 10   I fratelli Bettolini, di Chiari, compaesani del Ricci, hanno ampio spazio nell’epistolario del De Necchi. Il primo, Giovanni Battista, è ricordato per la « Gazzetta di Brescia », trasformatasi poi in « Notizie enciclopediche », con cui la « Gazzetta di Lugano » polemizzò violentemente. Più intimo del Ricci fu l’abate Mauro Bettolini (1735-1808), gesuita. Aggregato dal 1791 alla Società Patriotica di Milano, fu autore di versi italiani e latini e di una dissertazione sui balli pantomimi. Su di loro vedi : Germano Jacopo Gussago, Biblioteca clarense, ovvero notizie istorico – critiche intorno agli scrittori e letterati di Chiari, iii, Chiari, Tellaroli, 1824, pp. 229-235 (d’ora in poi Gussago ii/iii). Alla p. 231 il sonetto del Ricci a celebrazione di Mauro. 11   Giovenale, Satire, ii 150. 12   Tibullo, Elegie, ii 1-13. 13   Vd. il sonetto in glm, t. iii, 1786, p. 11. Alcuni versi dedicati alla stessa erano già editi in appendice a Diamante Medaglia Faini, Poesie e prose, a cura di Giuseppe Pontara Salò, presso Bartolomeo Righetti. 14   De Necchi aveva raccontato il primo aneddoto nell’ordinario del primo giugno 1786 : « Son qui accaduti due anecdoti, che fanno ridere dell’ingegnosa malizia del uomo. Due giovani di bel tempo addocchiano in un Caffè una di  

























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cui si è molto parlato nelle nostre Conversaz.ni. V’ha un Monaco Olivetano per nome de’ Lemene, il quale guarda la camera da molti anni per abituale infermità. Questi consegnò un Lunedì due suoi Abiti al Lavandajo perchè li imbiancasse, instando per riaverli al Giovedì successivo. Il Lavandajo promise di rendergli le lane purificate nel Sabbato. Cert’uno passeggiava a caso nel Chiostro : costui udì il discorso tra il Frate, e l’Imbiancatore ; e si preffisse di approfittarne. Seguì il Lavandajo, addocchiò la Casa di lui, e l’uscio nel quale abitava ; e quindi nel Giovedì, entrò dal med.mo, e disse che il P. Lemene mandava a riprendere i suoi abiti, e che gli avrebbe aggraditi anche bagnati per farli asciugare al Monistero. Il buon Lavandajo glieli consegnò. Allora quel mariolo fatte asciugare le Sante Lane, se ne coprì le laide membra, e nell’arnese di Monaco sotto il nome del P. Lemene accordò con diversi vetturali varj Calessi per Roma prendendo da ciascun vetturini la Caparra, e fissando loro varie ore del successivo sabbato. Quindi se ne andò nella spelonca dell’Astutissmo Caco. Giunto il Mattino di Sabbato ecco al Monistero di S. Vittore diversi legni da viaggio, e tutti cercare del P. Lemene per condurlo a Roma. Que’ Monaci prottestavano, che il Lemene da tanto tempo infermo non poteva aver accordo con vetturale alcuno, ma biastemavano i vetturini contro de’ Frati, e contro se stessi reciprocam.e dimenticandosi l’onore di portare a Roma il P. Lemene. Convenne, che l’Abate facesse sfilare tutti i Monaci per confermare ai vetturini, che niuno di quella famiglia avea fatto il supposto accordo. La scena però si fece più bella allorchè venuto in quell’istante il Lavandajo, e richiesto delle tonache del P. Lemene prottestò di averle fino da Giovedì consegnate ancor umide a persona da lui mandata a levarle. Si conobbe in tal modo la furberia di quel birbante. Si attende qui S. M. l’Imperad.re per Giovedì imminente. Addio, caro Canonico : raccomandatemi a Dio. Sono con immutab.e tenerezza Mil.o 15. Giugno 1785 Vostro Devmo Ser.e e Aff.mo Giuseppe Aquila  







[iii] Amico Carissimo Voi siete veramente benemerito del Giornale, poichè in un borgo qual è codesto avete riuniti sei Associati. Ciò si deve non al merito della produzione, ma alla stima, che si ha di voi dalle Persone, le quali per farvi cosa grata han dato il loro nome. Nello scorso Ordinario avrete ricevuto le due Copie del primo, e del 2° Volume pei Ss.ri Canonico Bosetti, 1 e Giovanni Bigoni. 2 Rispetto alla trasmission quelle Frini, o Sirene capaci a spogliar gli uomini, ed a cambiarli in animali. Il primo che si era nel possesso, imprudente si vanta coll’altro di avere un diritto esclusivo alle confidenze di quella Circe. Soghigna l’altro conoscitore più esperto della muliebre venalità, e scomette di possederla in men di tre giorni. Piccati entrambi depongono presso di un terzo, uomo del pari sguajato, otto doppie premio del vincitore. Il primo corre a prevenire la sua tiranna dell’impegno, e la scongiura a tener fermo contr’ogni assalto, nulla piegando alle offerte, alle preghiere, alle insidie. Promette ella con sagramento d’esser fedele, e chiama in testimonio de’ suoi giuramenti le lagrime sue prepotenti. Si abbandona l’altro ad un amico astutissimo, il quale trattagli di Capo la parrucca lo veste da Vescovo, e gli pone sul collo profano la sacra pastoral Croce, e nel dito l’annello, arnesi tutti del fu Monsig. Vescovo Gallarati. Prende forma l’astuto d’interprete e nell’ora bruna allorchè il credulo amante stava lieto in teatro a vaneggiare con Arlicchino, si presenta egli alla Donna, e gli dice : Signora, Mons. Di Beaumon Vescovo di Aix, è giunto in questa Città, e nel passeggio ha veduto la vostra persona : voi gli piacete, egli sospira di farvi una visita e trovasi già alla porta in Carrozza ad aspettare la vostra risposta. Io lo servo da interprete, e vi assicuro, che non ho trattato mai più splendido uomo, o più pulito. Egli ha gettati questa mane più di cento zecchini presso un Chincagliere per alcune gallanterie di cui fare acquisto. La Donna non resiste e si protesta anzi onorata da una tal visita. Ascende il Prelato, e con svisceram.o francese palesa a colei l’interna sua fiamma, e ne riman consolato ; parte finalmente lasciando alla Donna in premio una mostra di Oriuolo. Partono i due furbi ridendo, e deposte le abusate vesti si recano al Teatro, trovano l’amico, gli raccontano la scena, e pretendono il premio della scommessa. Ei non crede : si contrasta da ambo le parti, finalm.e si viene ad un confronto, da cui emerge la verità, e si scopre, che l’orologgio regalato altro non era che una semplice cassa di rame indorato con entrovi poco piombo. La donna piange, si adira. Il buon uomo sbuffa, freme, s’arrabbia. Gli altri due ridono a creppa pancia, e pretendono la pattuita somma. Il Governo intanto informato dell’abuso fatto d’un nome illustre, e d’un sacro Abito costringe lo sfacciato giovane a gir spontaneo alla Prigione. Questa è la novella del g[io]rno. L’altro accidente in altro Foglio ». 1   Bosetti Paolo, canonico in Chiari, si distinse negli studi teologici. Scrisse numerose poesie, distribuite in fogli volanti. Morì il 28 giugno 1813. Vedi : Gussago, ii, pp. 289–290. 2   Lodovico Bigoni (Chiari 29 giugno 1712-10 aprile 1785) studiò presso i Ge 











del denaro prevaletevi pure dell’opportunità del Sig. Ab.e Bettolini, mentre mi procurerete così il piacere di riverirlo. Attendo l’Estratto sulla Dissertazione di Tamburini, e di questa attendo pure la traduzione, lavoro di vostra mano per farne cenno. 3 Questa sarà la maniera di rendervi più ancora benemerito del Giornale insieme, e della mia sanità col somministrarmi materiali all’opera. Non è questa la preghiera d’un poltrone, ma d’un uomo occupatissimo, il quale ha assunto questo nuovo peso per favorire la verità, per iscuotere il giogo delle Gazzette, che lodano tutto, e per ritornar qualche volta sul cammin delle Lettere da cui aveami dilungato l’Officio mio semi militare. Riceverete qui uniti i due Esemplari del Regolam.o del Processo Civile pei quali ho spese £ 2. di Milano attesa l’aggiunta fattavi di fresco intitolata Istruzione per le Preture ; altrimenti sarebbero costati soldi 30. solam.e. Suppongo, che voi aggradirete, che vi abbia procurata l’opera completa. Vi unisco pure il Luganese Almanacco La Scuola di Minerva. Non avendolo trovato legato in pecora ho fatto il risparmio d’una parpagliola, poichè l’Almanacco stesso non mi costa che soldi 7. 4 Le Poesie di Villa costano £ 3. al Tomo, e fin ora non è uscito, che il tomo primo. 5 Non mi venne fatto per anche di trovare qui le Lettere del Filelfo. 6 Villa al termine del Carnovale è solito venire a Milano. Da lui saprò il prezzo del suo Prodromo alla Storia Patria. 7 Al medesimo mi ricorderò di far presenti i vostri saluti, e la buona memoria che di lui conservate. Lo stesso ho eseguito l’altro dì con Parini. Quest’uomo grande fè una caduta ne’ scorsi dì senza nocumento. Questo accidente gli strappò dalla penna un Ode degna di lui. Supponevo di poterla inserir nel Giornale, ma la rigettarono i Censori come troppo satirica. Mi fu involato il manoscritto ; quando mi riesca di riaverlo lo trascriverò per voi, caro Canonico, che siete una degna persona, ed amate la gente di Lettere. La sorte del Ministero pende ancora indecisa, giacchè la rifforma avrà effetto col p[ri]mo Maggio. Intanto tutto si va preparando alla fatal rivoluzione. Giacchè voi prendete parte in ciò, che mi appartiene, vi unisco due Lettere una di S. E. Verri, l’altra del Card.e Durini, che parlan di me e del Giornale, e vi aggiungo copia di Lettera scritta da questo Porporato a S. E. Wilzek per favor mio. Spero, che avrò miglior pane, ma temo forte di non esser mandato fuor di Patria, e fors’anco a Mantova Città insalubre, e dove per fatalità io trovai persone, che presero ad amarmi. Vi prego di ritornarmi le pred.te Lettere, ma non col mezzo della posta : potreste unirle alla Dissertaz.e Tamburiniana. Non ho altra novità che quella di essere costantemente Di V. S. Ill.ma Dev.o Aff.mo Amico Gius.e De’ Necchi Aquila Mil.o 15. Feb.o 1786.  





suiti di Brescia. Dopo un matrimonio infelice, che troncò perchè di ostacolo ai suoi veri interessi, si dedicò completamente agli studi di storia, filosofia, lettere e legge. Dopo il gradimento ottenuto dalle sue Rime, edite a Brescia dall’editore Turlino nel 1763, fu associato all’Accademia degli Agiati di Rovereto, nel 1767. Presso l’Accademia delle scienze e belle arti di Mantova, pronunciò la dissertazione L’uso della filosofia, relativamente alla morale ed alla religione. Frutto degli studi teologici la Dissertazione sopra la pena del danno che prova l’anima del Purgatorio. Tradusse il De partu Virginis del Sannazzaro. Vedi : Gussago, ii, pp. 205-210. 3   Dissertazione intorno all’eccellenza dell’etica cristiana e alla sua necessità sì per la privata, come per la pubblica felicità contro gli increduli de’ nostri giorni di P. Tamburini, tradotta dal latino in volgare dal Can. Lodovico Ricci Volsinio, Accademico Agiato, edita a Brescia dall’editore Vescovi nel 1786. De Necchi la recensì nel t. vii del 15 aprile 1786 del glm, pp. 5-16. 4   « La Scuola di Minerva. Osservazioni astronomiche, storiche, critiche, morali e giocose », edita a Lugano dall’Agnelli di Milano, era almanacco annuale che dava ampio spazio ad informazioni religiose relative alla chiesa ambrosiana e comasca. Al termine aveva un compendio degli avvenimenti più significativi verificatisi nell’anno appena trascorso. 5   Il primo tomo delle Poesie di Angelo Teodoro Villa venne pubblicato a Pavia dall’editore Pietro Galeazzi, nel 1785 e fu recensito dal De Necchi nel glm, t. ii, 31 gennaio 1786, pp. 5-12. Un confronto fra le lezioni di eloquenza del Parini e del Villa si trova nella lettera del 12 settembre 1782 del De Necchi al Corniani in Barbarisi-Candiani, pp. 25-26. 6   Francesco Filelfo (Tolentino 25 luglio 1398-Firenze 31 luglio 1481), umanista e scrittore, fu autore del poema epico Sforziade, dedicato a Francesco Sforza. 7   Nel 1770, Villa aveva pubblicato Ad historiam oratio, Milano, ed. Galeazzi. Qui però si fa riferimento a De studiis literariis Ticinensium ante Galeatium 2. Vicecomitem sive ad historiam gymnasii Ticinensis prodromus, Pavia, Monastero di S. Salvatore, 1782.  





la caduta del parini «nel gran vortice di milano» nell ’ epistolario de necchi-ricci (1785-1786) [iv] Caro Amico Quanto ved’io volontieri le vostre Lettere, quanto mi sono esse care. Per verità voi scrivete con una grazia, che mi piace estremam.e. Rispondo dunque all’ultimo vostro Foglio, cui vi siete scordato di segnare la data, ma che perciò non mi è meno gradito massime per lo Sonetto Allegorico, che appena nato mi trascrivete riguardante l’ottimo Sig. Co. Verri. 1 Il pensiero di un tal sonetto mi piace infinitam.e, come mi piace la di lui elocuzione, onde non saprei sinceram.e qual cambiamento potervi fare. Quindi se voi lo permetete, lo presenterò al Ministro, ch’io chiamo l’Insubre Socrate, 2 e son certo, che questa tal quale consolazione gli sarà molto grata, tanto più ch’ei si è tranquillato sulle peripezie della Corte. Purchè venga da voi, sia di vostra invenzione, sia d’altrui, aggradirò sommam.e qualunque componimento, e farò che si inchiuda nel Giornale, molto più poi le notizie degli uomini illustri Cappello, 3 e Bracchetti, 4 e il Sonetto vostro sulla loro morte. Accettate adunque dal vostro amico l’offerte, che vi fà, e ringraziatelo anzi in mio nome. Sperar mi faceste, ch’io riceverei prima del termine di Carnovale gli accennati vostri Articoli, ma ciò non avenne. Ve ne avverto perchè osserviate a chi li avete consegnati. L’Avviso, che è posto in fronte al 4° volume non è fatto per voi, ma per certi seccatori Poeti, che trasmettono le più insulse cose del mondo. Con tale avviso ho preteso di parlare ad alcuni parlando in generale. Almeno diffidati così non si potran dolere se le cose loro rimarranno escluse. Voi però siete esentato da tal legge, anzi sapete, che vi ho supplicato, e vi supplico ad ajutarmi. Attendo l’Estratto della Dissertazione Tamburiniana e la vostra Traduzione, di cui farò cenno onorato entro il Giornale. Se non nel presente Ordinario, nel venturo certamente avrete copia della Canzone Pariniana, la quale doveva aver luogo nel sud.o Giornale, ma dai Censori non fu permessa perché la trovarono alquanto mordace. L’ho richiesta a S. E. la Duchessa Serbelloni, ove Parini pranza assai di spesso ; me l’ha promessa : onde l’attendo forse oggi. Le due Copie del Regolam.o Giudiziario costano £ 2. insieme prese, cioè £ 1. per ogni esemplare. Assicurate il S. D. Mauro 5 della mia stima. Quando mi mandiate i di lui Talenti Latini li presenterò a Sua Eminenza Durini se sarà in questa Città, e quando sia al suo Mirabello li addrizzerò a lui per lettera. Questo Illustre Porporato mi raccomandò con lettera al Governo ; onde mi ama da vero, e vorebbe vedermi reimpiegato quì. Ho poi somma amicizia colla di lui sorella attualme Abbadessa del Monistero Maggiore, la quale ebbe in cura la sorella mia ex maritata e le fa molto bene. Al Card.e Durini ho già avanzato i vostri complim.i ier l’altro nel rimettergli il 4° volumetto, giacchè anch’egli è associato. Quando mi vengano rimessi i cinque Tomi del S.r Cav.e Tiraboschi 6 vedrò di trovare occasion sicura di rimetterli costì, o almeno a Calcio senza spesa, e ve ne darò a parte con mia lettera. Mi duole, che voi dobbiate pagare ogni quindici dì soldi dieci, ed è giusto, che tale partita si ripartisca su cod.ti 6. Associati, voi compreso, che in tale guisa riuscirà a tutti meno sensibile. Voi già sapete, e lo disse il manifesto, che il porto dev’essere a carico de’ SS.ri Associati. Figuratevi cosa spenderanno i 4. Associati, che ho a Mantova a’ quali vien trasmesso il Tometto col mezzo della Posta. Mi piace, che malgrado le vostre serie, e nojose occupazioni vi divertiate colle Muse, e colle Lettere. Anch’io eseguisco lo stesso. Guai a me se non avessi questo soglievo. Di presente, che guardo la stanza per un reuma al petto, che mi travagliò assai assai, trovo una consolaz.e nel leggere, e nello scrivere qualche cosa.  





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  Poesie, ii, p. 97 (Questa per mille pregi altera e vaga).   Pietro Verri. 3   Francesco Cappello (Brescia 14 ottobre 1704-5 novembre 1785), sacerdote, considerato tra i migliori grecisti del tempo, dal 1758 appartenne all’Accademia degli Agiati. Sue Poesie ms. sono contenute nel codice G. VI della Queriniana, cc. 97-140. Anche suo fratello Marco (1762–1782) fu autore di versi estrosi. 4   Jacopo Bracchetti (13 gennaio 1710-3 febbraio 1786) a 26 anni divenne professore nel seminario di Brescia, ove, tra i suoi scolari, ebbe Lodovico Ricci. Socio dell’Accademia degli Agiati dal 1754, lasciò versi in varie raccolte. 5   Mauro Bettolini. 6   Girolamo Tiraboschi, Storia della Letteratura italiana, Modena, Società Tipografica, 1772-1782. Ricci collaborò col Tiraboschi, con informazioni relative ad Alberto da Carrara (vd. p. 82, n. 1), segnalate nel vol. 6°, t. ii, pp. 688-689 della ed. modenese del 1790. 2

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A proposito parmi di avervi trasmesse alcune Lettere di Durini appunto, e di Verri. Vi prego a ritornarmele quando mi rimetterete qualche altro involto. Fin ora nulla sò del mio destino, ma spero qualche cosa. Venendo alle novità ve le epilogo in breve. L’Imperat.e è soddisfatto della docilità dell’esule nostro Arciduca, gli scrisse una lettera molto obbligante. Questo Prin.e andrà in Francia a ringraziare quella Sovrana, che fu la mediatrice dell’accomodamento, e poi tornerà quì, ed avrà la stessa influenza di prima. 7 Egli è quì generalmente desiderato. Due motivi si adducono della or cessata fredezza tra lui, e Cesare. 1° il disgusto, che l’Arciduca ebbe l’anno scorso con q.to Comand.te dell’Arma Conte Stain, 8 il quale di presente vien destinato in Moravia, e in sua vece avrem quì quel Governatore M[arche]se Gen[era]le Botta di nazione Pavese. 2° l’aver l’Arciduca protestato contro la vendita della Mesola come un Allodiale su cui han ragione gli eredi di Casa d’Este suoi Figli. Ma tutto ora è aquietato. Un nostro Caval.e di tempra troppo viva è stato condannato all’arresto in Cappella per aver impedito alla propria moglie di gire alla veglia nobile presso S. E. Wilzek col Caval.e Servente, e per averla scarmigliata, e tagliatagli la veste di dosso. Veramente il modo fu villano assai per un Caval.e, e la damina meritava forse da lui maggiore indulgenza. In una Villa distante da quì 14. Miglia detta Mesaro furono catturati molti giovani villani per aver portate all’ultimo ridicolo le più venerande costumanze di Chiesa Santa. Rappresentarono mascherati la Missione, la Confessione, e la Comunione gen[era]le, quale celebrarono con fetticini di rape ec. ec. Quel Parroco in mio senso poteva ovviare allo scandalo con un maneggio secreto, e con una pubblica amonizione. Il Capo di tal brigata la passerà male. Anche quì in Città una maschera a cavallo, che rappresentava al naturale un Cappuccino andante alla cerca fu catturata, perchè vi è un recente Editto che vieta il contrafare i Ministri del Santuario di qualunque ordine, tanto in Teatro, che fuori. Il foglio è finito, e mi duole lo stomaco. Due motivi per cessare dallo intrattenervi più oltre, ma non per cessare di essere Tutto vostro Amico e Servid.e Il Peppo Aquila Milano 8. Marzo 1786. [v] Pregiatissimo Sig. Can.o, Amico Carissimo

Mil.o. 5. Aprile 1786. Oggi che non ho tanti cani alle gambe, come dice il proverbio, posso trattenermi con voi un po’ più a lungo, e rispondere adeguatamente ai due vostri Fogli 14. e 26. scaduto Marzo. Primieram.e mi accuso a voi debitore di £ 1. 12. 6. moneta di Milano per il danaro, che mi avete rimesso al di più del mio credito, che era poi in fine credito vostro, poichè sendo io istesso di vostra ragione, viene ad esser vostro tutto ciò, che mi appartiene. Perchè vediate il conto disteso ve lo unisco. Attendevo gli Articoli riguardanti il Bracchetti, e quell’altro dotto uomo, ma valuto le difficoltà, che vi si frapposero, e non posso che desiderare, che prosseguiate ad impiegare qualche momento per me. Aggradirò, che mi facciate l’onore di farmi conoscere il deg.mo Sig. Arciprete Zamboni. 9 Indirizzatelo al Commissariato in Casa Litta, mentre fino al p[ri]mo di Maggio, e forse anche più oltre dovrò restare in tale impiego, del resto sono ancora all’oscuro della nuova mia destinazione. Anche in quest’ordinario mandar non vi posso la Canzone Pariniana. Egli ha veduto l’esemplare, che mi era stato favorito, e montò sulle furie dicendomi, che era stravolto in maniera il suo componim.o che non lo conoscea più suo. Gli lasciai il m[anoscri]tto a condizione di emendarlo, ma questo difficil uomo mi va menando per le sale. Egli è diventato incontentabile. Mi incarica però di salutarvi, e di assicurarvi della sua stima. Domani lo vedrò di nuovo, e forse avrò il dono sospiratissimo anche da me.

7   L’Arciduca parte da Milano il 29 dicembre 1785, arriva a Parigi l’11 maggio 1786 e rientra a Milano il 18 dicembre 1786. 8   Si tratta di Emerich von Stein, comandante delle truppe austriache. 9   Baldassare Zamboni (Montichiari 1723-1797) fu docente di teologia al seminario di Brescia ai tempi del card. Querini. Amico di Tamburini e Zola, mostrò simpatie per il giansenismo. Per la sua vastissima cultura era soprannominato il Muratori della provincia bresciana. Potrebbe essere lui lo « storico Bresciano » della lettera [i] ?  





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paolo bartesaghi

Se il ragguaglio intorno a Gian Michele Alberti, 1 che meditate di stendere volesse degnarsi d’entrar nel giornale, insieme alle notizie degli altri, cui egli indirizzò i suoi carmi, vi sarei molto obbligato. Desidero, che il S. Co. Agliardi vi fornisca sollecitam.e il promessovi Codice. 2 Bello, bellissimo l’estratto trasmessomi della Dissertazione Tamburiniana. Io che ho letta la traduzione vostra attentamente, ebbi molto gusto nel riscontrare così ben epilogata tutta la Dissertaz.e in maniera, che leggendo l’Estratto si ha una sufficiente idea di tutta l’Opera, che è per certo interessante. Ho trascritto di mio pugno il manoscritto, tuttocchè decente, e ciò per facilitare l’intelligenza agli Stampatori acciò la stampa ne riesca meno scorretta. Bravo Sig. Can[oni]co, lodo la vostra Traduz.e, e lodo chi la compendiò così bene. 3 Io soglio dire che la Bresciana paragonata al Milanese, ed avuta proporzione alla rispettiva popolazione è una provincia, che fornisce molti uomini di ingegno eccellente. Quindi cod.to felice paese è la delizia de’ miei pensieri. Voi siete tranquilli, contenti nella vostra mediocrità, allegri sotto un mite Governo scevro di novità disgustose. Quì si ha il vantaggio di un Sovrano più vigile, ma le circostanze de’ tempi son perigliose massime per la gioventù, che brama prodursi. Le riforme stringono il cuore e d’altra parte il lusso mette in certa violenza di spendere, che affligge. Favorirete rispondere all’Autor dell’Estratto da voi trasmessomi, che dove si compiaccia mandarmi per mezzo vostro alcuna delle sue Operette da inserirsi nel Giornale, egli si avrà in ricambio 6. Copie di quel Tometto del Giornale, a cui sarà inchiusa qualche cosa del suo. E quando siano pezzi di importanza si stamperanno

anche a parte, e allora è padrone di tante copie, quante ne saprà bramare. Nulla sò della Dissertaz.e sul Limbo, che stampisi dal Galeazzi, 4 sò bensì che avrei gusto ne faceste voi un Estratto essendo appunto una materia che vi appartiene per istituto, o che lo facciate fare dalla mano maestra a voi sì cortese. Io sono un buon battezzato, e perciò non ho più a che far niente col Limbo. Se voi amate l’Autor suo, servitelo dunque voi come egli merita. Vi ringrazio delle molte brighe, che vi prendete per me, e pel Giornale. E vi sarei obbligato eziandio di più se procuraste qualche altro Associato. Oh indiscreto direte voi ! Eppure crediate che gli associati attuali son pochi, e non bastano a coprire metà della spesa. Forse il buon mercato alletterà. Questi buoni lombardi amano la busecca più che i libri ; altronde il raggiro e il maneggio sono mancanti a chi dirigge questo Lett.o tentativo. Non ho veduto ancora il S. Ab.e Bettolini dacchè egli fu all’officio mio a raccomandarmi un Ingeg[ne]re, che volea esser da me presentato a S. E. M[arche]se Litta. Vedendolo gli rammenterò le sementi. Qui si spargono certe voci, che fanno fremere. Si dice, che Cesare tronchi ogni corrispondenza con il Papa, che chiamerà un Concilio, e farà eleggere un Patriarca da cui dipendere in cose di Religione ; si dice che sarà tolta di mezzo la salutare Confessione Auricolare tanto vantaggiosa anche politicam.e presa ; si dice, che sarà emendata la seconda parte dell’Evangelica salutaz[ion]e e in vece di Sancta Maria Mater Dei si dirà Jesu Christi. Si dice, che alle monache soppresse si darà la facoltà di prendere marito. Si dice… ma che diavolo vado io annoverando le bestialità che si dicono, che si mettono in bocca del Sovrano, che è più religioso, e cattolico di molti suoi sudditi ! Tutte ciance de’ libertini, che escono dai Caffè e dalle Conversaz[ion]i e si diramano per la Città. Povero Principe ! quanto è mal servito, quanto è poco amato. Io che non ebbi a provare alcun suo beneficio, la cui famiglia fu vittima dei disastri del R.e Servizio : io darei il sangue per lui piuttostocchè infamarlo così. Addio ho scritto con gotica ortografia scusate. Sono il vostro D.mo S.e ed A.co vero Gius.e De’ Necchi Aquila  









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  Si tratta di Giovanni Michele Alberto da Carrara (1438-1490). Bergamasco, umanista e medico, scrisse di filosofia, storia, scienza e medicina. L’opera che qui interessa è l’Oratio de laudibus Gabrielis Rangonis S.R.E. Cardinalis, perché il card. Rangone era di Chiari e fu oggetto delle ricerche erudite di Ricci, che su di lui lasciò appunti inediti. Vedi : Gussago, iii, pp. 53-82. 2   Il Codex diplomaticus civitatis, et ecclesiae bergomatis è opera di capitale importanza per la raccolta sistematica di documenti medievali su Bergamo. Ne era autore Mario Lupo, nato a Bergamo il 14 marzo 1720, sacerdote e canonico nella collegiata della sua città, dove morì il 7 novembre 1789. Sul Codex intervenne il canonico Camillo Agliardi (Bergamo 1749-1795), che lasciò inedite numerose pagine su di esso. De Necchi aspettava estratti del Codex per farne parola sul glm. 3   Vedi l’elogio della traduzione in glm, t. vii, cit., p. 6.  





4   La dissertazione sul limbo, edita a Pavia da Pietro Galeazzi, è l’Esame delle Riflessioni teologiche e critiche di Giovanni Battista Guadagnini (Esine 22 ottobre 1723-Cividate 22 marzo 1807) ; l’estratto fu pubblicato sul glm, t. ix, 15 maggio 1786, pp. 44-51.  

ASTERISCHI FOSCOLIANI TRA ORTIS E VIAGGIO SENTIMENTALE Leonardo Terrusi 1. «

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uesti asterischi vengon tutti dalla circospezione del mio anonimo » : così il Narratore dei Promessi sposi, all’inizio del cap. iv, interviene a glossare la reticenza, imputata all’anonimo estensore del manoscritto di cui egli trascrive la ‘dicitura’, del nome del luogo d’origine di « padre Cristoforo da *** », nel momento in cui gli asterischi ricomparivano a proposito dello stesso personaggio (« era figliuolo d’un mercante di *** »). S’inaugurava così quello che è l’esempio italiano più noto dell’uso letterario dei tre asterischi per indicare l’omissione del nome proprio : una scelta maturata da Manzoni gradualmente, all’altezza della Ventisettana, abbandonando i punti usati con la stessa funzione nel Fermo e Lucia, e in ogni caso approdando a un’acuta consapevolezza metalinguistica, testimoniata dalla chiosa citata in apertura. 1 Ma, per quanto l’uso di Manzoni sia ancor oggi percepito come « caratteristico », 2 esso non era ovviamente una sua invenzione. Le radici dell’espediente (‘asteronimo’ o ‘asterismo’, se gli asterischi sostituiscono integralmente il nome ; ‘inizialismo’, se preceduti dalla sua iniziale 3) affondavano in una vasta tradizione europea, e avevano trovato in Italia una prima significativa attestazione nell’opera di un altro geniale sperimentatore, anche in materia interpuntiva : il Foscolo delle Ultime lettere di Iacopo Ortis. La scelta foscoliana rappresenta in realtà il frutto di un ben meditato travaglio interpuntivo, configurandosi come tappa fondante per l’affermazione in Italia di tale stilema, ben lungi all’altezza dell’Ortis dall’essersi stabilizzato in una norma precisa. L’asterisco era slittato già nel ’600 dalla funzione originaria di segno filologico destinato a stare al posto di ciò che mancava (lacune del tràdito), 4 a quella di coprire ciò che c’era ma veniva deliberatamente omesso per scrupoli censori. Una risorsa ben presto sfruttata in ambito finzionale, dove gli asterischi si trasformano in espediente finzionale in grado di accrescere, con l’esibizione smaccata di reticenze vere o per lo più simulate, l’illusione del vero perseguita dai nascenti generi romanzeschi ; un’illusione fondata non tanto sulla corrispondenza con elementi storici esterni, oggettivi e verificabili, quanto su parametri di « verosimiglianza interna », cioè sul modo in cui i contenuti erano stilisticamente enunciati e narratologicamente organizzati. 5 Modalità tra cui si collocano naturaliter strategie di autenticazione come, appunto, gli asterischi onomastici, che, com’è stato scritto per quelli manzoniani, si offrono quali privilegiati « operatori di realismo », ‘indici’ o ‘puntatori’ testuali che segnalano la volontà di individuare luoghi e personaggi reali. 6 Dilaganti appaiono simili espedienti nel romanzo europeo, specie francese e inglese,  



























del ’700; 7 e se si guarda ai ‘protoromanzi’ italiani, non mancano certo nomi puntati (che trovano anzi nelle parole della narratrice de La bella pellegrina del Chiari una significativa mise en abyme 8), ma assenti o minoritarie sono soluzioni iconiche più complesse come gli asterischi : segno ed effetto anch’esso del ritardo italiano di un genere ‘proscritto’. Rare, e non narrative, le eccezioni : il titolo pindemontiano Alla bellissima ed ornatissima fanciulla Agnese H****, pubblicato a Londra nel 1791, o quello dello stesso Foscolo La morte di * (o di ***) del 1795-96. 9 Non stupisce dunque che la stabilizzazione di una precisa opzione nell’Ortis appaia graduale, e in ogni caso complicata dalla sua travagliata vicenda editoriale. Una polimorfia apparentemente inestricabile caratterizza infatti le forme di reticenza onomastica del ‘primo’ Ortis, cioè delle varie edizioni che ne tramandano il testo : da quella intrapresa nel settembre 1798 a Bologna presso il Marsigli, supervisionata dall’autore solo sino alla lettera xlv, e il cui completamento fu affidato dal tipografo ad Angelo Sassoli (Ortis 1798), ai successivi rimaneggiamenti dovuti alla stessa coppia Marsigli/Sassoli, che al titolo originale premettono quello apocrifo di Vera storia di due amanti infelici. 10 Esaminando infatti il testo di tali versioni, 11 vi si coglie, come si accennava, la coesistenza di variatissime tipologie, la cui paternità sarebbe a rigore di difficile definizione, considerati i dubbi sull’effettiva consistenza del rimaneggiamento sassoliano sul testo d’autore. 12 Ma Maria Antonietta Terzoli rileva che le incongruenze della seconda parte dell’Ortis bolognese « si possono spiegare solo ipotizzando che il Sassoli lavorasse su un libro che era già tutto scritto, modificando in economia e rapidamente solo quanto sembrava indispensabile » : su tale base è possibile distinguere talora la sua mano da quella foscoliana, e proprio le abbreviazioni dei nomi costituirebbero uno dei settori in cui più indubitabilmente sia dato di sceverare tra i due strati. 13 Ascrivibili a Foscolo sarebbero alcune tipologie esclusive nella prima parte, come l’iniziale maiuscola puntata, « Lorenzo F. » (p. 3), nella prefazione dell’« Editore », o, all’interno delle lettere di Jacopo, quella con punto e asterisco (« patrizio T.* », p. 28, « Professori C.* e G.* », p. 32, « Olivo P.* », p. 40 14), ma anche l’omissione con  

























7   Per la documentazione, rinvio al mio ‘Ritrovare il nome’, « il Nome nel testo », in corso di stampa. 8   « [P]ochi nomi soltanto […] letti avevo nelle manoscritte memorie del padre mio, che artifiziosamente segnava gli altri colle sole lettere iniziali » (La bella pellegrina, o sia memorie di una dama moscovita, scritte da lei medesima, ii, Parma, Carmignani, 1763, p. 101). 9   Rispettivamente in Poesie di Ippolito Pindemonte veronese, Firenze, presso Molini, Landi e comp., 1805, p. 140 ; e in Ugo Foscolo, Tragedie e poesie minori, a cura di Guido Bézzola, Firenze, Le Monnier, 1961 (EN ii), p. 293 (La morte di *) ; Idem, Opere, ii, a cura di Franco Gavazzeni, Milano-Napoli, Ricciardi, 1981, p. 31 (La morte di ***). 10   Subito bloccato l’Ortis 1798 dalla censura, Marsigli ne muta alcune pagine e aggiunge delle Annotazioni per neutralizzare i dati più scomodi (Vera storia 1799A), conservate nelle successive Vera storia 1799B e Vera storia 1801 che pur ritornano al testo dell’Ortis 1798 : cfr. Maria Antonietta Terzoli, Le prime lettere di Jacopo Ortis. Un giallo editoriale tra politica e censura, Roma, Salerno, 2004, pp. 50-56, e Giovanni Gambarin, Introduzione a Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, Firenze, Le Monnier, 1955 (EN iv), pp. xi-xxxv. 11   EN iv, pp. 1-129, che riporta a testo l’Ortis 1798, in nota e in calce le varianti delle successive edd. della Vera storia. 12   All’ipotesi di una natura spuria della seconda parte si oppone quella di un’integrale responsabilità d’autore, o di un rimaneggiamento compiuto da Sassoli su precedenti materiali foscoliani : cfr. Maria Antonietta Terzoli, Le prime lettere, cit., pp. 50-56. 13   Ivi, pp. 175-176 (da qui la citazione), e pp. 186-87. 14   Così ivi, p. 186, e l’ed. a cura di Vittorio Cian, Ugo Foscolo, Prose, i, Bari, Laterza, 1912, p. 113 ; ma « Olivo P*** » in EN iv, p. 40, e in Idem, Ultime lettere di Jacopo Ortis, a cura di Giuseppe Nicoletti, Giunti, Firenze, 1997, p. 223.  











  Su questo, mi permetto di rinviare al mio Silenzi, nomi, asterischi : gli asteronimi manzoniani, « Il Nome nel testo », in corso di stampa. 2   Così Luca Serianni, Grammatica italiana. Italiano comune e lingua letteraria, Torino, utet, 19912, p. 81. 3   Cfr. Giuseppe Fumagalli, Cataloghi di biblioteche e indici bibliografici, Firenze, Sansoni, 1887, p. 20. 4   Cfr. almeno Malcom B. Parkes, Pause and Effect. An Introduction to the History of Punctuation in the West, Berkeley-Los Angeles, University of California Press, 19932, p. 57, e, per la diffusione nella stampa, a partire dalle aldine di Bembo (1502), Paolo Trovato, Con ogni diligenza corretto. La stampa e le revisioni editoriali dei testi letterari italiani (1470-1570), Bologna, Il Mulino, 1991, p. 100, nota 75, e pp. 80, 100. 5   Jan Herman, Le Mensonge romanesque. Paramétres pour l’étude du roman épistolaire en France, Amsterdam, Rodopi, Louvain, Presses Universitaires de Louvain, 1989, pp. 8, 127-128, 151, 172. 6   Cfr. Marcello La Matina, Realismo e indicalità nei testi narrativi, « Versus », 42, 1985, pp. 75-84 : 81-82.  



















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meri punti (« la villa di…. », p. 8). Nelle zone sassoliane, presenti solo nella Vera storia e/o in sezioni rimaneggiate dell’Ortis 1798, gli stessi tipi ritornano nelle « modifiche puntuali » a passi d’autore ; 1 mentre altrove s’affacciano soluzioni inedite, come la maiuscola seguita da punti (« Lorenzo F…. » e « Angelo S…. », p. 123, « Olivo P…. », p. 42, nota 1, « Teresa N…. », p. 9 nota 2, presente nella sola Vera storia 1799A, unica reticente emersione del cognome del personaggio ; 2 « Nina A…. », p. 199, « di M…. di V…. », p. 127, « nacque nel V…… », p. 124) ; e ben più ampio regesto conta nelle parti sassoliane il tipo con semplici punti (« vedova di…. », p. 9 nota 2, « rive di…. », p. 76, « carceri di…. », ibidem, « signor di…. », « sig. di…. », pp. 118-19, « colline di…. », p. 124). 3 Sarebbe in ogni caso confermata l’esistenza, nel primo Ortis, di una polimorfia degli usi relativi alle abbreviazioni onomastiche, accresciuta certo dallo stratificarsi della mano sassoliana, ma in sostanza già del Foscolo. I suoi usi in materia appaiono qui effettivamente « elementi minimi, quasi inconsapevoli », come scrive la Terzoli, « manierismi automatici », 4 ai quali sembrerebbe difficile assegnare valori stilistici consapevoli o diversi da un intento di mera mimesi di usi scrittori ‘privati’. La situazione vira verso la totale stabilizzazione nel ‘secondo’ Ortis, nel momento in cui Foscolo ritorna al romanzo, prima con l’edizione uscita a fine 1801 presso Mainardi, interrotta alla lettera xlvii, e poi in quella integrale pubblicata sempre a Milano per il Genio Tipografico nel 1802. È a quest’altezza, e già nella Mainardi, 5 che infatti sistematicamente si afferma il tipo con iniziale maiuscola e tre asterischi senza punto : dal cognome dell’« Editore », « Lorenzo A*** » (con nuova iniziale destinata a esser sciolta in « Alderani » nell’ed. zurighese del 1816), a quello di Teresa, nei vari « Teresa T*** », « signore T*** », « casa T*** », « famiglia T*** » (sia nelle lettere di Jacopo sia negli intermezzi di raccordo, tipograficamente in corsivo, integrati dall’Editore), ai nomi già diversamente abbreviati nella prima stesura, « patrizio M*** », « Olivo P*** », « professore C*** », e all’asteronimo di « l’Algarotti e il *** » ; tutte forme che resisteranno nelle edizioni del ’16 e ’17. Sorgerebbe il dubbio, considerando il « tradizionale dominio dei tipografi » sull’interpuzione, 6 che possa trattarsi di mera omologazione tipografica. Contrari a una paternità autoriale sarebbero del resto i differenti e oscillanti usi di reticenza onomastica attestati lungo tutto l’arco cronologico dell’Epistolario foscoliano, e la loro persistenza nei successivi frammenti di traduzione sterniana. 7 Ma a deporre in favore di una precisa volontà foscoliana non c’è solo l’affermazione dell’errata corrige dell’Ortis 1802 (« La interpunzione sebbene or nuova ed or varia si è serbata come sta negli originali »), ritenuta testimonianza probante di uno stretto controllo autoriale sugli aspetti interpuntivi ; 8 ancor più preziosa è infatti la dichiarazione consegnata da Foscolo a una lettera a Giambattista Bodoni (Milano, 24 ottobre 1802), che docu 



































































































































menta la sua diretta e attiva presenza nella stamperia del Genio Tipografico : « Eccovi una nitida edizione.... nitida, quanto lo concede la inopia di carta e l’ostinata ignoranza di questi stampatori. L’autore ha dovuto fare da compositore, da torcoliere, da proto, da legatore : nè mi si volle sempre obbedire ». 9 Che si tratti di forme radicate nelle scelte stilistiche di Foscolo sarà poi confermato dalla loro riapparizione nell’altra operazione romanzesca, lato sensu, da lui portata a termine : la traduzione del Sentimental Journey di Laurence Sterne, apparsa nel 1813 a nome di Didimo Chierico10, in cui esse sono attestate in oltre 30 casi complessivi (« il conte di L *** », p. 45, « madame de R *** », p. 74, « madame de L *** », p. 74, ecc.) ; con rarissime varianti (i due asterismi puri « conte de *** », p. 121, e « mister *** », p. 131 ; l’hapax « le duc de C___ », p. 162).  





































2. Non sarà inutile a questo punto indagare in direzione dei modelli da cui Foscolo avrebbe potuto trarre indicazioni in materia. Obbligato appare anzitutto il confronto con il Werther goethiano, la cui influenza sull’Ortis, a più riprese contrastata da Foscolo (per stornare l’accusa di plagio, o quella non meno sminuente d’imitazione) 11 è innegabile, e attiva sin dai tempi della prima stesura. Ma se abbondano senz’altro nel Werther i casi di reticenze onomastiche, com’è normale, all’epoca, per un romanzo epistolare, tuttavia sia l’erste Fassung, pubblicata anonima presso Weygand nel 1774, sia la zweite Fassung, approntata nel 1787, 12 mostrano un uso assai parco di asterischi, attestandoli infatti in soli tre casi, in forma di asteronimi puri (« dem Gesandten nach *** gehen soll » [I parte, 19. julius], « der General in ***schen Diensten ist » [II parte, 25. mai], e, con due asterischi, in « der Fürst ** » [II parte, 24. märz]), cui la 2a ed. aggiunge un caso isolato con iniziale (« Grafen von M*** » [i parte, 4. mai]), a fronte di una vasta fenomenologia di iniziali seguite da punti. 13 Certo, Foscolo si era avvicinato al Werther non attraverso gli originali in tedesco, che non conosceva, ma grazie a due versioni italiane, che rappresentano anzi per l’Ortis un « prezioso deposito di situazioni narrative e di procedimenti sintattico-linguistici » : 14 quella di Gaetano Grassi del 1782 (dipendente dalla precoce versione francese del Deyverdun, 1776), 15 e quella, stampata a Venezia nell’88 (e poi nel ’96), del medico ebreo padovano Michiel Salom, tradotta direttamente dall’erste Fassung ; 16 ma entrambe hanno in luogo degli asterischi il tipo con iniziale seguita da  























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  In EN xv, i, p. 154 (corsivo mio).   Viaggio sentimentale di Yorick lungo la Francia e l’Italia. Traduzione di Didimo Chierico, Pisa, co’ caratteri di Didot, m. dccc. xiii (da qui i numeri di pag.). 11   Cfr. la Lettera al Bartholdy del 1808 (Epistolario (1804-1808), a cura di Plinio Carli, Firenze, Le Monnier, 1952 [EN xv, ii], pp. 480-493), e la Notizia bibliografica, secondo cui solo ad Ortis già in stampa « gli venne […] sott’occhio una traduzione italiana del Werther », EN iv, p. 506). Ma il debito è riconosciuto nella lettera che accompagnava, il 16 gennaio 1802, l’invio di una copia del romanzo a Goethe (EN xv, i, n. 86). 12   Consulto l’erste nell’ed. critica Der junge Goethe, a cura di Hanna FischerLamberg, Berlin-New York, De Gruyter, 1999, pp. 105 sgg. ; la zweite in Leiden des jungen Werther von Goethe, Leipzig, bei Georg Joachim Göschen, 1787. 13   Tra tali altri casi, nell’ed. 1774 prevale l’iniziale + due punti (tranne che in due casi con iniziale + un punto, « Frau M. », « dem Obrist B. », e due con acronimo N.N.). La 2a ed. conferma la polimorfia originaria, aggiungendo il tipo, prevalente, con iniziale + tre punti (« Amtmann S… », « Charlotten S…, ecc.), più di rado con due (« iungen V.. »). 14   Giuseppe Nicoletti, Strategie di scrittura nell’imago romantica di Jacopo Ortis, in Ugo Foscolo, Ultime lettere, cit., p. xlvi. Foscolo stesso cita due versioni italiane al Bartholdy (EN xv, i, p. 489) ; si veda anche la Notizia bibliografica (EN iv, p. 526, nota c), e per tutto Giorgio Manacorda, Quale Werther, in Idem, Materialismo e masochismo. Il Werther, Foscolo e Leopardi, Roma, Artemide, 20012, pp. 41-68. 15   Werther opera di sentimento del Dottor Goethe Celebre scrittor Tedesco tradotta da Gaetano Grassi milanese Coll’aggiunta di un’Apologia in favore dell’opera medesima, in Poschiavo, per Giuseppe Ambrosioni [s.d. ma 1782]. 16   Verter Opera Originale Tedesca del celebre signor Goethe trasportata in italiano dal D.M.S., Venezia, Presso Giuseppe Rosa, 1788 ; Foscolo ne userebbe l’ed. del ’96 per Giorgio Manacorda, Quale Werther, cit., p. 46 nota 25 ; ma Tatiana Crivelli, Ugo Foscolo e le Ultime lettere di Jacopo Ortis, « Testo », xxv, 2004, pp. 45-67 : 56-57, rivaluta il ruolo della Grassi). 10







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  Come « Angelo S. » (p. 75), o « Enrichetta D. » (p. 115), « Lorenzo F. » (p. 76), sempre in zone ‘paratestuali’. 2   Il passo (« Teresa N…., vedova di…. ») sembra apposto per renderne più lineare la presentazione, anticipando notizie dislocate più avanti in Ortis 1798, tra cui però non c’è l’iniziale del cognome : aggiunta dunque per iniziativa sassoliana ? 3   La Terzoli segnala anche il tipo « Angelo S…..* » (ivi, pp. 112 e 187, ma in EN iv, p. 199, è a testo « Angelo S…. »). 4   Cfr. Maria Antonietta Terzoli, Le prime lettere, cit., p. 187. 5   E così poi nelle altre due edd. del 1802, a valutare in tal senso l’assenza di varianti relative nell’apparato di EN iv. 6   Bianca Persiani, L’interpunzione dell’Ortis e della prosa del secondo Settecento, « Studi di grammatica italiana », xvii, 1998, pp. 127-244 : 132-133. 7   Si veda « Bern.... » nell’Epistolario (1794-1804), a cura di Plinio Carli, Firenze, Le Monnier, 1949 (EN xv, i), n. 39, « B.... » (n. 127), « mad. F. » (n. 301) ; « Madame de R » nel Saggio di traduzione di Sterne (in Prose varie d’arte, a cura di Mario Fubini, Firenze, Le Monnier, 1951 [EN v], p. 204), « Madame R* » (ivi, p. 205) ; e « Conte de B. » (ivi, p. 214). 8   Emilio Bigi, Nota sull’interpunzione dell’Ortis, « gsli », vol. clxii, fasc. 520, 1985, pp. 520-538 ; Mario Fubini, Introduzione, EN v, p. liv.  

































































































astrischi foscoliani tra ortis e viaggio sentimentale punti. 1 Era semmai una terza traduzione in italiano, esemplata da Conrad Lüdger sul tedesco e uscita a Londra nell’88, a generalizzare l’iniziale con tre asterischi o l’asteronimo puro : ma essa non risulta nota a Foscolo. 2 Interessante può essere il confronto con un altro referente romanzesco sin da subito attivo, il Sentimental journey di Sterne, la cui influenza gradualmente s’intensifica dopo il 1798 su Foscolo, sostituendo in un certo senso quella del Werther. 3 La 1a edizione, uscita a Londra nel febbraio 1768 presso Becket e de Hond, mostra nel I vol. l’esclusiva presenza di iniziali con tre asterischi (« Count de L *** », « madame de R *** », « Madame de L *** », ecc.), ripetute anche nel II vol. (« Madame de Q *** », « Madame de V *** », « Mons. D *** », ecc.), in cui però prevalgono quelle con quattro asterischi (« Count de B **** », « Madame R **** », ecc. ; « Mr **** »), o cinque (« Le Duc de C ***** »). 4 Se ci si fermasse al regesto finora raccolto, potrebbe dunque nascere il sospetto che il passaggio al tipo esclusivo con asterischi nell’Ortis 1802 vada attribuito proprio alla suggestione del romanzo sterniano. Anzi, forzando la mano, si potrebbe affermare che Foscolo passi sotto tale profilo dal polimorfo modello wertheriano a quello più regolare del Sentimental journey. Tuttavia, un influsso di Sterne sulla punteggiatura foscoliana è accertato solo per il periodo dopo il 1805, 5 ed altrettanto certo è che al tempo delle stesure ortisiane, compresa quella del 1802, Foscolo non padroneggiasse l’inglese, affidando la sua lettura del Sentimental Journey a traduzioni come quella francese del Frénais (uscita nel 1769 e ripetutamente ristampata), se non alle due italiane del ’92, comunque esemplate sulla Frénais : 6 ma essa ignora del tutto gli asterischi, in favore di iniziali con punti. 7 Se non può dunque retrodatarsi l’influsso dell’originale sterniano già al secondo Ortis, l’iniziativa dei tre asterischi risponde interamente all’iniziativa foscoliana, pur accostandosi agli usi di un’ampia koinè romanzesca. Altri rilievi interessanti si colgono dalla successiva traduzione del Viaggio. È dimostrato che, sin dai primi esperimenti di traduzione avviati a Calais nel 1805, la lettura del testo sterniano fosse finalmente compiuta in lingua originale. Dopo la prima « letteralissima » versione, Foscolo ci lavora a più riprese tra il 1812 e il ’13, fino all’uscita, nel luglio 1813, 8 della stampa, in cui è generalizzata l’iniziale con tre asterischi. Una circostanza permette di individuare con certezza una delle edizioni inglesi utilizzate da Foscolo : nel manoscritto della prima versione dell’agosto-ottobre 1812, conservato nel cod. D 119 della Marucelliana, 9 è interfoliato infatti l’esemplare di un’edizione in inglese pubblicata a Parigi nel 1802 dall’editore Renouard ; 10 si potrà rilevare come tra gli elementi che la congiungono alla versione foscoliana vi siano proprio casi relativi  





















































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ad abbreviazioni onomastiche ; 11 ma a distinguerle è proprio la totale assenza di asterischi della Renouard, che sistematizza l’uso dell’iniziale seguito dal trattino, obliterando la pur variabile presenza di asterischi nelle edizioni sterniane precedenti. Ciò spiega il singolare hapax della versione foscoliana, che in un’unica occasione attesta il trattino, « monsieur le duc de C___ » (p. 162), dove la Renouard ha « the duc de C___ » (p. 145), scoprendo così una significativa spia dell’‘esemplare di servizio’ usato da Foscolo. Del resto, se non si vuol escludere che ancora attivo fosse un confronto con versioni francesi come quella del Crassous (1801), caratterizzata dallo « sforzo di scrupolosa adesione al testo », 12 e da cui Foscolo attinge per le note didimee al testo sterniano, 13 si verificherà come anch’essa presenti non asterischi, ma tre punti. Si conferma così come i tre asterischi siano originale opzione del Foscolo traduttore, non facendo che vidimare quella già esperita nel secondo Ortis.  











3. Se questo caso può esser letto come tappa rilevante per la storia di un misconosciuto segno interpuntivo in Italia, s’impone di accennare al senso che nell’Ortis esso assume sul piano, per così dire, narratologico. In generale, è evidente che gli scorciamenti onomastici foscoliani siano funzionali alla ricerca di quella ‘illusione del vero’, di cui, come s’è detto, simili forme erano parte integrante. Tale intenzione troverebbe riscontro nei molteplici proclami di ‘verità’ rilasciati da Foscolo intorno al suo romanzo nei corredi paratestuali delle varie edizioni ortisiane : oltre che nella prefazione dell’Editore, anche nel sottotitolo Tratte dagli autografi che ne completa il frontespizio dal 1802 in poi, o nella stessa assenza del nome dell’autore, consuetudine del genere epistolare (Pamela del Richardson, Werther, romanzi del Chiari). Gli asterischi, assieme ad altri espedienti, sarebbero dunque anche qui destinati ad accentuare l’impressione, come in tanti romanzi settecenteschi, che si parlasse di persone e fatti reali, il cui nome doveva essere cautelato da parte di chi, assumendo il ruolo di mero editore e azzerando ogni parvenza di creazione autoriale, rendeva pubblico un ‘documento vero’. Eppure, a distanziare l’Ortis da tanti romanzi coevi c’è, come nota Tatiana Crivelli, la pletora di ‘istanze intermedie’ che l’autore frappone fra sé e l’opera, tra testo e lettore : il ‘libraio’, l’‘editore’, il ‘depositario degli originali’, il ‘giovane letterato che lo continua’ (il Sassoli, non a caso sospettato di costituire un ulteriore schermo finzionale da Giorgio Padoan 14), l’‘autore a cui viene attribuito il testo’, il ‘vero autore’. Istanze i cui profili e le cui reciproche relazioni sono oggetto, attraverso la cangiante strategia paratestuale delle varie edizioni, 15 di un continuo gioco di specchi che alternativamente li confonde o distingue, 16 alimentando un ambiguo « effetto di apocrifo ». 17 Ma a quale di queste istanze, nella specifica finzione narrativa del romanzo, andrà  





1   Quella di Grassi anche quando Deveyrdun (edd. Maestricht, Dufour & Roux, 1776 e 1784) conservava gli asterischi. 2   Gli affanni del Giovane Verter : dall’originale tedesco ; tradotte in lingua toscana, da Corrado Ludger, Londra, per T. Hooker, mdcclxxxviii (« Conte di M*** », p. 4, « un certo V*** », p. 18, ecc. ; « andar a *** », p. 101, « Principe **** », p. 38, ecc.). Inattingibile, ma comunque posteriore, la versione fornita a Foscolo dalla Fagnani Arese tra fine 1801 e il 1803. 3   Cfr. Pino Fasano, Stratigrafie foscoliane, Roma, Bulzoni, 1974, p. 85 ; Maria Antonietta Terzoli, Le prime lettere, cit., pp. 147, 153. 4   Poco aggiungono le varianti relative nelle edizioni inglesi successive, pur con qualche ritocco, ma mai sistematico. 5   Ancora nel Sesto tomo dell’io (ante 1801), Bigi, Nota sull’interpunzione, cit., p. 530, ne nota l’assenza per le lineette. 6   Così Foscolo scrive a Mme Bagien nel 1805 : « Mon ami Jacopo Ortis […] quand écrivait ses lubies n’entendait guère l’anglais » (EN xv, ii, p. 76). Sull’influsso della Frénais, cfr. Giovanni Rabizzani, Sterne in Italia. Riflessi nostrani dell’umorismo sentimentale, Roma, Formiggini, 1920, p. 42 ; sulle tradd. italiane, Pino Fasano, Stratigrafie, cit., pp. 85-88. 7   Cfr. le edd. Amsterdam/Paris, Rey et Gauguery, 1769 ; Liege, Plomteux, 1770 ; Lausanne, Mourer, 1776. 8   Per tutto, cfr. Pino Fasano, Stratigrafie, cit., pp. 113, 124-42 e 156. 9   Descritto da Mario Fubini, in EN v, pp. xxxviii-xxxix (un saggio è editato a pp. 196-226). 10   A Sentimental Journey through France and Italy : by Laur. Sterne, Paris, Printed for Ant. Aug. Renouard, x-1802.  









































11   Ad esempio, la lezione « the count de B**** » dell’originale e successive edd. inglesi e francesi, nella Renouard diviene « the count de ____ » (p. 124), senza iniziale, come in Foscolo « il conte de *** » (p. 121) ; ancora, all’equivoco foscoliano tra « Madame de Q*** » e « Madame de V*** » (p. 199) corrisponde nella Renouard l’omologazione dei due nomi in Madame de V___. 12   Cfr. Clotilde Bertoni, Il filtro francese : Frénais & C.nie nella diffusione europea di Sterne, in Effetto Sterne. La narrazione umoristica in Italia da Foscolo a Pirandello, Pisa, Nistri Lischi, 1990, pp. 19-59 : 33 nota 40. 13   Cfr. Gennaro Barbarisi, Le postille di Didimo Chierico al Viaggio sentimentale, « gsli », vol. cxxxv, fasc. 409, 1958, pp. 81-97 ; l’ed. Crassous è presente nel Fondo Martelli della Marucelliana (Giuseppe Nicoletti, La biblioteca fiorentina del Foscolo nella Biblioteca Marucelliana, Firenze, SPES, 1979, p. 52, n. 23). 14   Giorgio Padoan, Il gioco degli specchi in Foscolo : Lorenzo Alderani, Angelo Sassoli, Jacopo Ortis, « Quaderni veneti », 18, 1993, pp. 9-63. 15   Su cui cfr. Alberto Cadioli, La storia finta, Milano, il Saggiatore, 2001, p. 78. 16   Ad esempio, nel rifiuto delle edizioni apocrife precedenti, uscito nel 1801 sulla « Gazzetta universale », Foscolo arroga per sé il titolo di ‘depositario degli autografi ’, attribuito invece all’Editore nell’analoga smentita nelle edd. del 1801/02. 17   Che, pur non cedendo all’anonimato, rompe però « l’immediatezza fra il prodotto e il suo autore » (Tatiana Crivelli, Ugo Foscolo, cit. pp. 65-66).  













































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leonardo terrusi

ascritto l’espediente ? Insomma, parafrasando Manzoni, a chi si devono gli asterischi dell’Ortis ? Nessuna indicazione esplicita Foscolo concede su questo, 1 a differenza di Manzoni che lo attribuisce all’‘anonimo’, facendone così emergere materialmente e anzi iconicamente la ‘voce’ dal palinsesto originario. Esaminando il testo del primo Ortis, nella generale polimorfia possono in realtà distinguersi abbreviazioni diverse a seconda della voce narrativa a cui sono ascritte : se quella con il punto (Lorenzo F.) è esclusiva delle zone paratestuali e dunque da attribuirsi all’‘Editore’, Jacopo alterna nelle lettere altri usi : insomma, a ciascuno la sua reticenza onomastica. Le cose cambiano dopo l’edizione del 1802 : un’omologazione perfetta le accomuna tutte. È forse il segno che si vuole ora caratterizzarle come espressione di un’unica ‘istanza’ o ‘voce’ narrativa ? Ma quale ? Ora, ferma restando l’ambigua pluralità di tali istanze, si potrà almeno distinguervi quella interna ( Jacopo) dalle esterne (dall’Editore/Lorenzo all’autore/Foscolo, passando per il depositario degli autografi, di oscillante identificazione). Alla prima, cioè a Jacopo, ascrive gli asterischi reticenti Bianca Persiani, come « segnale grafico interno al testo », mentre a Lorenzo spetterebbero solo quelli con funzioni ‘esterne’ (segni di rinvio a note e riferimenti bibliografici o indicatori di lacune). 2 In realtà, è certo l’Editore il responsabile degli asterischi reticenti attestati negli intermezzi di raccordo ; e, a ben vedere, nulla impedirebbe di ritenere, e ciò anzi appare più plausibile, che sempre a Lorenzo (o, a rigore, a un’altra delle istanze esterne che si alternano sul testo originario) siano dovuti anche tutti gli altri, quale normale cautela reticente nel momento di rendere ‘pubbliche’ le lettere indirizzategli privatamente da Jacopo. 3 Del resto, sarebbe ben arduo per il  



















1   Ad attribuire a sé le reticenze era semmai lo spurio « Editore » Angelo S. in Vera storia 1799A : « Non è permesso specificare il luogo della morte di Jacopo […]. Del resto si ripete che questa storia è vera precisamente, soltando essendosi cambiati alcuni nomi, e taciute varie notizie appartenenti alle persone o famiglie di Jacopo e di Teresa, così volendo la condizione de’ tempi e le circostanze degli Editori » (EN iv, p. 113 nota 2). Maria Antonietta Terzoli, Le prime lettere, cit., p. 100, vi legge l’autodescrizione dell’operazione compiuta da Sassoli sull’originale ; ma può scorgervisi comunque un’affinità con quanto Foscolo afferma (pur su un altro piano, relativo ai rapporti tra autore reale e materia fittiva) nella Lettera al Bartholdy (EN xv, ii, p. 485) : « Teresa, Odoardo, Isabellina, suo padre, Michele e mia madre erano caratteri vivi […] le descrizioni campestri sono tratte dal vero ; solo vi sono mutati i nomi delle persone e dei luoghi » : indizio di un riciclaggio di passi sassoliani, o all’opposto della matrice autoriale di materiali a suo tempo sfruttati dal rimaneggiatore ? 2   Bianca Persiani, L’interpunzione, cit., pp. 231-233. 3   Come fa Hariote, confidente/editore della Nouvelle Clarice, histoire vérita 















lettore addebitare a Jacopo i tre asterischi che lambiscono nel secondo Ortis il cognome di Lorenzo nella prefazione firmata da quest’ultimo. Tale questione generale s’intreccia, ricevendone forse anche luce, a quella specifica del passaggio dalla polimorfia del primo Ortis alla misura dei tre asterischi del 1802. Come si è detto, la polimorfia caratterizza le abbreviazioni onomastiche originarie quali meri riflessi automatici e meccanici, propri di abitudini scrittorie private, lontani da quella normalizzazione tipografica ed ‘editoriale’ che si richiederebbe a una scrittura destinata a un libro, rivolta a un pubblico esterno ; e infatti polimorfi, si potrebbe chiosare, continuano a essere gli usi foscoliani dell’Epistolario e delle stesse stesure provvisorie della traduzione sterniana. È una distinzione di cui, riguardo ad altri segni interpuntivi, Foscolo si dichiara lucidamente cosciente, per esempio quando nella Notizia bibliografica segnala come arbitrio delle precedenti edizioni (date tutte per spurie) i puntini di sospensione, in luogo della lineetta attestata dalla fantomatica edizione veneziana del 1802 (la « prima, e l’unica esatta rispetto agli originali »), affermando dunque che quest’ultimo segno « si direbbe trascorso dalla penna affrettata piuttosto che per avvertimento a chi legge », coerente con lo stile ‘spontaneo’ e ‘naturale’ con cui egli intende caratterizzare Jacopo, quello « d’uomo che scrive a sé unicamente, e per sé ; che non pensa a chi leggerà ». 4 Si tratta, com’è noto, di un’ulteriore finzione, che si propone di giustificare le varianti della zurighese, comprese quelle relative alla punteggiatura, come recupero di un testo originario. Ma riflettendo su queste affermazioni Bigi riteneva che l’introduzione della lineetta in luogo dei puntini mirasse appunto a riprodurre la spontaneità e naturalezza di cui s’è detto, rendendo la spezzatura impetuosa e anche contraddittoria di un ‘discorso’ intimo e immediato. 5 Del ‘discorso’, ovviamente, di Jacopo. Ma non sarebbe stato più efficace, ci si chiederà, rispetto all’intenzione di simulare tale immediatezza, conservare la vecchia polimorfia dei segni di reticenza onomastica ? A meno che, appunto, essi dovessero essere attribuiti, nelle intenzioni dell’autore del secondo Ortis, non al livello ‘interno’ del discorso di Jacopo, ma a una delle istanze narrative esterne che ne mediano il rapporto con il lettore.  

























ble di Mme Leprince de Beaumont, che dichiara : « je veux garder l’incognito, & l’auteur sera Madame trois étoiles » (Lyon, Bruyset-Ponthus, 1767, ii, p. 29). 4   EN iv, pp. 482, 484, e 495-96. 5   Emilio Bigi, Nota sull’interpunzione, cit., pp. 533-534.  





RINASCIMENTO ITALIANO E ROMANTICISMO : FOSCOLO, SHELLEY E GLI INGLESI  

Gian Mario Anselmi

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i è un’Isola dei Beati e degli Eroi in cui insieme dialogano, fra i tanti, Sigfrido con Achille, Ofelia con Ifigenia, Re Lear con Edipo, Elena con Isotta : è l’isola immaginata, sulla scorta di tante suggestioni (da Esiodo a Pindaro a Virgilio al Limbo dantesco), da Carducci, nel 1884, in una delle sue più celebri Odi barbare, ovvero Presso l’urna di Percy Bysshe Shelley. 1 Carducci, con grandissimo intuito poetico ed ermeneutico, proprio nel celebrare Shelley, pone l’accento sulla complessità di intrecci che ormai lega i protagonisti magnanimi della cultura classica con quelli della grande tradizione nordica, specie inglese e tedesca (da Shakespeare fino a Wagner) : un vero e proprio crogiuolo che il ‘classicista’ Carducci, in realtà fra i veri, grandi lettori ed interpreti del Romanticismo europeo, non a caso non esita a ricondurre idealmente alla ‘titanica’ (e ‘virginea’ al tempo stesso) figura di Shelley e alla sua età. Età davvero difficile da definire, per l’Europa intera, quella tra il tardo Settecento e i primi decenni dell’Ottocento : età dell’intreccio tra neoclassicismo e nascente romanticismo, si potrebbe dire, se non fosse che queste categorie, pur onuste di storia gloriosa, sembrano ormai come mostrare la corda di fronte alla grandiosità di quel periodo e dei suoi protagonisti, in ogni campo delle arti. ‘Specchio’ e ‘lampada’, per usare la ormai celebre metafora di Abrams, si rilanciano, in quei pochi decenni tra Sette e Ottocento, giochi di luci in cui non sapresti davvero dire cos’è ‘riflesso’ e cosa splende di proprio. 2 Carducci, a suo modo, l’abbiamo visto, una risposta l’aveva data : era una risposta coerente con la più vivace tradizione umanistica propria della letteratura italiana. Se Umanesimo, infatti, come tanti studiosi ormai hanno ampiamente mostrato, non fu solo armonia, decoro, ripetizione frigida di modelli, ma soprattutto complessità, inquietudine, dialogo, tolleranza, ideale di saggezza magnanima, allora è proprio qui, in questa nostra grande cultura umanistica e rinascimentale (e con quel che ne derivò in seguito per l’Italia e per gli altri paesi europei, soprattutto per l’Inghilterra) che occorre guardare per trovare chiavi più idonee a penetrare nel crogiuolo europeo sette-ottocentesco, il cui bandolo pare così difficile da dipanare. 3 Aggiungo : il Rinascimento, fino al suo culmine estremo, il Tasso, fu per l’appunto anche capacità di far coesistere gli opposti che confliggono, capacità di sovvertire, di conseguenza, le gerarchie consolidate dei saperi, per affermare il primato della letteratura, della poesia, delle arti. La letteratura e la mitopoiesi come veicoli essenziali di verità e di saggezza da  









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contrapporre ai saperi forti e accademicamente rilevanti (filosofia, diritto, medicina, teologia) è tema centrale nella riflessione che da Petrarca, attraverso Valla, L. B. Alberti e l’Umanesimo padano, giunge fino al Tasso : il saggio è magnanimo, la letteratura, luogo per eccellenza delegato a far coesistere ciò che le discipline ‘forti’ dividono, unico luogo in cui può sistematicamente violarsi il principio di non contraddizione di Aristotele, luogo quindi del dialogo possibile, dell’utopia, della complessità e del molteplice, è l’apprendistato stesso del vero saggio, è il vero sapere che è in grado di ‘ordinare’ il mondo (e già si comprende come ci stiamo avvicinando a Shelley, a passaggi decisivi della sua Defence).4 Ma se stiamo a questa questione, alla sua grandiosa latitudine, è anche ovvio che dobbiamo scardinare le periodizzazioni letterarie di breve durata cui siamo abituati da una ormai inossidabile pratica manualistica : se sono vere le esigenze di ‘lunga durata’ che per il Medioevo letterario manifestò con forza Curtius, ancora di più esigenze di periodizzazioni ampie si pongono per l’epoca successiva. 5 In realtà il primato conoscitivo della letteratura come apprendistato essenziale del saggio fu posto già tutto per intero, e con sconvolgente senso di novità epistemica e ideologica, da Dante (Shelley lo comprese benissimo : lungi dal farsi irretire da dibattiti sulla maggiore o minore ‘medievalità’ di Dante, nella Defence, 6 lo definì senza mezzi termini vero e proprio ‘ponte’ verso l’età moderna, verso la sua età, in una serie che lo vedeva accomunato a Shakespeare, Milton e alle stesse avanguardie romantiche). Di tale tradizione è ancora, da noi, estremo e originale interprete il Foscolo, tutto il Foscolo, protagonista emblematico e vitale della migliore nostra cultura umanistica. 7 Bisognerebbe infatti cominciare da Foscolo. Per capire l’importanza e gli esiti della tradizione umanistica e rinascimentale più suggestiva e brillante bisognerebbe proprio riavvicinarsi con occhi nuovi a Foscolo. E forse non solo a Foscolo ma a quell’intera, incredibile stagione della vita culturale europea che può iscriversi tra il tardo Settecento e i primi venti, trent’anni dell’Ottocento : Alfieri, Mozart, Rossini, Beethoven, Kant, Schelling, Goethe, Stendhal, Foscolo, Leopardi, Turner, Canova, Shelley, l’età dei geni, l’età di coloro che hanno radicalmente cambiato, attraverso riflessioni fondamentali sull’arte ed i suoi statuti, attraverso la loro stessa pratica altissima dell’arte, la nostra percezione del mondo, il nostro essere tra gli uomini, nel mondo. Nei Sepolcri l’andamento complesso dei motivi, ora dolci e patetici ora maestosi e solenni ora ansiosi e drammatici, sta saldo intorno a un punto decisivo e fondante : quale riscatto per l’uomo, questo grande, tragico ‘vinto’ (l’amore, la morte, la natura, il tempo congiurano, tutti, a vincerlo), che in modo  









  « Ah, ma non ivi alcuno de’ novi poeti mai surse, / “se non tu forse, Shelley, spirito di titano” // entro virginee forme : dal divo complesso di Teti “Sofocle a volo tolse te fra gli eroici cori”. // O cuor de’ cuori, sopra quest’urna che freddo ti chiude / “odora e tepe e brilla la primavera in fiore”. // “O cuor de’ cuori, il sole divino padre ti avvolge” / de’ suoi raggianti amori, povero muto cuore. // “Fremono freschi i pini per l’aura grande di Roma” : / tu dove sei, poeta del liberato mondo ? // “Tu dove sei ? m’ascolti ? Lo sguardo mio umido fugge” / oltre l’aureliana cerchia su’l mesto piano » (vv. 13-52). Per la fortuna di Shelley essenziale consultare : Lilla Maria Crisafulli Jones, Interpretazioni. P. B. Shelley fra Ottocento e Novecento, Bologna, Clueb, 1990. 2   Meyer Howard Abrams, Lo specchio e la lampada, Bologna, Il Mulino, 1976 (ed. inglese 19692). Sempre di Abrams ovvio il riferimento anche a Natural Supernaturalism, London, Norton, 1971. 3   Molte le coordinate critiche per questa rivisitazione del concetto di Rinascimento : basti rammentare studiosi come Garin, Dionisotti, Raimondi, Bachtin e Batkin, fra i tanti che si potrebbero citare.  

















4   Mi permetto di rinviare a quanto argomento ne Il tempo ritrovato, Modena, Mucchi, 1992. 5   Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, a cura di Roberto Antonelli, Firenze, La Nuova Italia, 1992 (ed. tedesca 1948). 6   « The poetry of Dante may be considered as the bridge thrown over the stream of time, which unites the modern and antient world ». 7   Cfr. Vincenzo Di Benedetto, Lo scrittoio di Ugo Foscolo, Torino, Einaudi, 1990. Per tutto quanto anche più avanti si dirà è risultata preziosa (per introduzione e annotazioni) l’edizione delle Opere di Foscolo in due volumi diretta da Franco Gavazzeni, Torino, Einaudi-Gallimard, 1992-1995 ; nonché i saggi dedicati all’Ortis e ai Sepolcri da Giuseppe Nicoletti nella Letteratura Italiana, Le Opere, iii, diretta da Alberto Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1995. A tutti i testi qui citati rinvio per l’ampia bibliografia foscoliana.  





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gian mario anselmi

splendido Foscolo rappresenta in Ettore, l’eroe vinto e grandissimo al tempo stesso, quale riscatto è dato ? La risposta ultima dei Sepolcri è di una commossa sicurezza : la poesia. Ovvero è nell’arte, nella letteratura solamente che l’uomo può, in qualche modo, intravvedere forse un’ombra dell’assoluto (non è questa anche l’‘epoca’ di Kant ?), certo radicare il senso della sua, altrimenti inafferrabile, identità. L’onore della sepoltura, la pietà dei congiunti, il cimento eroico nelle grandi imprese (il famoso ‘catalogo’ di eroi dei Sepolcri) non sono in grado, da soli, di dare scacco alla morte : è Omero che può, con il filo ininterrotto dei cantori e dei poeti, quello dei testimoni del Bello che sfuggono alle regole implacabili del tempo. Ettore, il vinto, ha vinto a sua volta il tempo e la morte grazie ad Omero ma tutti i lettori di Omero, leggendo di Ettore, partecipano di una universale, e però ‘sublime’, civitas, oltre le cadenze imposte dagli inderogabili cicli della natura, di cui l’uomo pure è parte : è un cammino austero, ma dolce, di consolazione, legato non tanto al viatico boeziano della filosofia quanto a quello, più lucreziano (autore fra i più cari alla generazione di Foscolo) o meglio ancora più dantesco, della poesia. E se la poesia, se l’arte, se la letteratura sono questa radice sublime che accomuna eroi e semplici, vinti e vincitori nel loro legarsi, da protagonisti o da fruitori, al testo, all’opera d’arte allora è lì che si definisce il profilo stesso di una possibile civiltà, dell’utopia di una civiltà che ha la grazia e la durata e la tollerante modulazione (Ettore, il vinto, accanto ai vincitori) della civitas che prima richiamavamo. Ancora la letteratura, come in Tasso, come in Dante, al vertice della scala dei saperi, primario ‘luogo’ della conoscenza e dell’agire. Se così procediamo, forse anche l’altra grande opera, ancorché incompiuta, di Foscolo, le Grazie, ci apparirà più vicina e tutt’altro che dissonante rispetto ai Sepolcri : la ‘grazia’, sillabata dal mitico linguaggio delle arti, si esibisce come il fondamento stesso della civiltà, garante dell’armonica convivenza degli uomini, intessuta di sapienza, di magnanimità, di parola dialogante. Che è molto di più di quanto comunemente suole intendersi per ‘poetica’ foscoliana : è la contestuale edificazione infatti di un’utopia di mondi possibili, di un ostinato eppure inquieto traguardare, attraverso la poesia, oltre le colonne d’Ercole del ‘principio di non contraddizione’, nel regno dove gli opposti convivono, della dialogicità, della sapienza liberale e magnanima (scolpita in quegli anni mirabilmente da Canova). A questo punto si può capire come ben poco ci possano appassionare le astratte dispute sul romanticismo o sul neoclassicismo di Foscolo (o di Goethe) e molto di più ci interessi capire come abbia potuto darsi questo straordinario approdo in Foscolo : le radici settecentesche della sua formazione sono indubbie, la sua lettura costante e appassionata dei classici antichi ben nota, la sua attenzione ai fermenti nuovi (il ‘romanticismo’ appunto) inequivocabile. Eppure vi è un ‘tono’ particolare in Foscolo, in realtà una ‘appartenenza’ alla tradizione umanistica e rinascimentale italiana che non possono essere elusi : Foscolo rivisita a modo suo la straordinaria avventura delle nostre lettere per farsene quasi come emblematico spartiacque, in un periodo cruciale e decisivo della storia italiana ed europea. È così che, partendo da Foscolo, siamo obbligati a risalire a Dante. Ed è così che, un po’ per paradosso e un po’ sul serio, si potrebbe anche dire che vi è un grande periodo, una ‘lunga durata’, della nostra letteratura che da Dante giunge fino a Foscolo : e questo periodo non spiacerebbe chiamarlo il periodo della ‘saggezza’, la ‘saggezza del Rinascimento’, appunto, il cui ‘indice’ per intero abbiamo ritrovato nella poetica foscoliana. Non a caso l’‘eroe’ foscoliano è magnanimo (altra parola 



















chiave) e si nutre di una letteratura a forte stratificazione mitopoietica (il tenore pindarico dei Sepolcri o il preziosismo callimacheo delle Grazie) al vertice della scala ermeneutica e sapienziale, mediata in quanto tale dalla tradizione umanistica italiana (a cui, per molti fili, sembrerebbe ancorato il Vico stesso, auctor ben presente a Foscolo). L’utopia foscoliana (e shelleyana) è perciò della tempra di altre più volte richiamate (da Dante a Tasso), mitopoietica più che ideologica in senso stretto : la ‘patria’ cara alla generazione foscoliana non ha nulla ad esempio del retorico nazionalismo tracotante con cui poi gli assolutismi ottocenteschi la caratterizzeranno. È vicina all’idea classica di ‘terra dei padri’, di luogo delle memorie, della comunità che accoglie anche i vinti e rispetta il loro pianto (anche le donne, le vinte per eccellenza di ogni guerra, come le memorabili figure femminili che rendono sublime i Sepolcri, Elettra, Cassandra) : è la comunità dei saggi del Paradiso dantesco ed è anche la ‘respubblica’ che fu cara a Machiavelli. Non è un caso se Foscolo legge in chiave forte e legittima Machiavelli, in più di uno scritto, fra l’altro, dichiarando diffidenza per Rousseau e ammirazione piuttosto per Hobbes. Non paia una contraddizione : il naturalismo umanistico e laico di Foscolo, forgiato innanzitutto alla lezione di Lucrezio, non è ingenuo e astratto. Esso tende comunque a misurarsi con la natura umana, con le sue contraddizioni laceranti per tentare poi, da lì, come Machiavelli in definitiva, da quel punto virile e disincantato di consapevolezza, di edificare un eroe possibile, una patria dignitosa, una magnanimità come misura ideale di chi governa e di chi è governato (tema accorato e costante, fin dall’Ortis). Le storie di molti grandi esuli romantici, del loro ‘spaesamento’, della loro ricerca di una ‘patria’ vera (‘repubblica’ di saggi, di giuste leggi, di tolleranti dispositivi) si nutre di tutte le linfe culturali e letterarie più volte richiamate, è anch’essa un po’ legata alla ‘saggezza del Rinascimento’. Ed è anche l’itinerario, utopico e ribelle insieme, disincantato eppure coraggioso, indomabile che da Foscolo immediatamente ci conduce a riflettere sui protagonisti primi del romanticismo inglese, su Shelley e Byron, sui loro legami con la letteratura italiana, ‘italiani’ nella loro stessa biografia come ‘inglese’ fu Foscolo nei suoi ultimi anni. Anch’essi si collocano (e dichiaratamente Shelley nella Defence) sullo stesso spartiacque epocale di Foscolo, lungo il crinale di quel Rinascimento, di quella tradizione umanistica più volte evocati. La necessità di riaprire lo spartito delle periodizzazioni in questi termini è in realtà essenziale per comprendere a fondo – come si è visto – gli stessi grandi romantici, in un’ottica, in altre parole, che non li schiacci esclusivamente nel raffronto con la cultura del Settecento e con l’Illuminismo ma li veda sullo sfondo di un periodo ben più ampio e complesso che giunge al Rinascimento e guarda appunto, fino a Dante (Shelley stesso, e non solo nella Defence, si muove di fatto con questa implicita periodizzazione). Oggi, del resto, i più avvertiti studiosi del Settecento, persino quando si soffermano ad indagare le origini dei moderni saperi enciclopedici, ambiscono andare oltre le tradizionali colonne d’Ercole fissate dai canoni neo-illuministi per procedere più in là, nella cultura Quattro, Cinque e Secentesca, verso saperi ‘altri’ veicolati per lo più dagli immensi serbatoi degli universi mitopoietici artistici e letterari e dai loro ‘segni’ (basti pensare alla tradizione impresistica ed emblematica, in questo senso, ad esempio, o a quella dei teatri della memoria o alla fisiognomica). 1 Si può davvero allora affermare che la radice della difficilmente catalogabile complessità romantica (specie nel suo rapporto con la classicità : esemplari i casi italiani di Alfieri, Foscolo e  







1   Ricerche interdisciplinari in questa direzione si svolsero tra il Dipartimento di Italianistica e quello di Filosofia dell’Università di Bologna.

rinascimento italiano e romanticismo: foscolo, shelley e gli inglesi Leopardi) si salda alla stessa complessità rinascimentale, al suo enciclopedismo letterario, di cui appunto i romantici, e in particolare i grandi inglesi, furono geniali lettori, ermeneuti, interpreti. Di Shelley già si è accennato e ancora si dirà : ma si pensi alle mitopoiesi di Keats o di Coleridge e all’uso ‘fondante’ che Byron fa di una parola-chiave per la nostra stessa tradizione letteraria e dialogica umanistica, ‘conversazione’ (prodromo della dialogicità come libertà). Questi sono solo accenni : ma in realtà è il nostro Rinascimento nella sua ‘integralità’, nei suoi ‘estremi’ che viene recuperato, più in Inghilterra che in altri paesi europei, e non per caso. La chiave di accesso verso il nostro Rinascimento è data agli Shelley, ai Byron, ai Keats dalla stessa tradizione letteraria inglese cinque-secentesca, che è in un certo senso forse la più geniale riscrittura della letteratura italiana e delle sue radici che si sia mai data in Europa. Tanto da poter affermare che uno dei punti focali del dibattito sulla modernità deve oggi nettamente cominciare da una adeguata riflessione sulla tradizione umanistica e rinascimentale tra Italia e Inghilterra fino agli esiti dirompenti che conobbe nel primo Ottocento. E intanto occorre sgomberare il campo da un equivoco, meglio da luoghi comuni che non è tanto semplice sfatare, benché affidati ad ormai antiche formule manualistiche : ad esempio, quello che la grandezza di autori come Shakespeare e Milton sarebbe consistita nell’aver saputo coniugare la misura e l’armonia del nostro Rinascimento con il ‘fuoco’ del temperamento tragico e ‘sregolato’ nordico. 1 Se però (come tutti gli studiosi oggi accreditano) il Rinascimento italiano fu quell’inquieto e complesso campo di estremi che conosciamo, allora possiamo ben dire che in realtà la grande letteratura inglese (in anticipo sui tempi e su altre letterature) seppe leggere e reinterpretare tutta la nostra tradizione, quella armonica come quella satanica, quella bucolica come quella lacerata e inquieta, quella petrarchesca come quella dantesca-infernale, le intuizioni latine di un Poliziano, di un Marullo, di un Mantovano ma anche le ottave dissacranti e carnevalesche di un Pulci (su cui vediamo, e non a caso, operare in felice esperimento traduttorio Byron !). Basti pensare alla fortuna, enorme per altro, in Inghilterra, di un autore come Boccaccio (ancora ‘riproposto’ esplicitamente da Coleridge nel 1828) : fortuna di tutta l’opera sua, e non solo del Decameron. Fortuna, ad esempio, già quattrocentesca (con le prime traduzioni) di un testo come il Corbaccio (archetipo di tanta letteratura, anche teatrale, a sfondo misogino) e fortuna di una dotta summa umanistica come le Genealogiae deorum gentilium (fortuna ininterotta se è fonte, ad esempio, per Shelley nel Prometheus, laddove delinea la figura di Demogorgone, specie alla scena iv dell’atto ii). 2 E per lo stesso Decameron occorrerebbe ricordare che, a parte le più note novelle di beffa erotica, altre pagine furono ben presenti all’animo ‘tragico’ e ‘satanico’ di grandi autori inglesi : che archetipo folgorante (e mai ricordato) di satanismo eversivo e irridente (ante litteram) è Ser Ciappelletto, proprio protagonista della prima novella del Decameron ! E quali terribili, titaniche, sanguinarie figure di padri, mariti, fratelli occupano la fosca, memorabile quarta giornata accanto a coraggiose, dolci e sfortunate eroine, tanto da farcene intravvedere proiezioni in varie tragedie, da Shakespeare fino agli stessi Cenci di Shelley. Boccaccio è un esempio particolarmente significativo di questa profonda linfa letteraria italiana che circola nella tradi 













1   Versioni illustri e molto argomentate di queste formulazioni possiamo trovare anche in saggi ormai classici di critici come Croce, Cecchi, Praz. 2   Su questa singolare figura mitologica e la sua fortuna umanistica cfr. Lucia Cesarini Martinelli, Sozomeno maestro e filologo, « Interpres », xi, 1991, pp. 7-92: 66-92.  



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zione inglese : ma come non ricordare, per altri aspetti, la fortuna costante e profonda di cui poté godere il Cortegiano del Castiglione, vero arcitesto, insieme alla Civil Conversazione del Guazzo, di manuali di formazione del gentleman, dell’apprendistato al controllo di sé come equilibrio tra grazia ed armi, tra saggezza politica e primato della letteratura come conoscenza. Né va dimenticato che un classico inglese, particolarmente caro a Shelley e a tanti romantici, The Faerie Queen di Spenser, attinge radici robuste in molte linfe letterarie italiane tre-quattrocentesche : significativo che in esso il protagonista centrale, Re Artù, sia personificazione della ‘magnanimità’ (magnificence), dote per eccellenza propria dell’eroe saggio, del politico sapiente, del dotto letterato, concetto decisivo su cui ruota l’intera serie di sistemi utopici, fantastici e mitpoietici ravvisabili nell’umanità ideale del Paradiso dantesco, della decima giornata del Decameron, dell’Arcadia del Sannazaro fino alla Liberata del Tasso. Magnanimità come dedizione, saggezza, donazione di sé e slancio verso l’umanità dolente, che non a caso ritroviamo in certi eroi shakespeariani ma poi soprattutto nel cuore della stagione romantico-utopica inglese, a cominciare da Shelley e Byron. E bisognerebbe ancora dire della grandissima influenza del Machiavelli ‘ferino’ e ‘luciferino’ e di Tasso (anche in questo caso di tutto Tasso, non solo dell’autore della Liberata : come non pensare a Milton senza rammentare la ‘poesia del cosmo’ della Liberata ma anche del Mondo Creato ?) e poi dire (ma non basterebbero le pagine) della fucina grandiosa che particolarmente Shakespeare e Milton, fra i classici più cari a Shelley, approntarono della nostra intera tradizione, da Dante in poi (per giungere magari fino a quell’eccezionale visionario dantesco che fu Blake). Nella grande letteratura inglese, insomma, si accampa con forza dirompente questo Rinascimento italiano integrale, questa geniale e costante rivisitazione della nostra tradizione umanistica. Per questa via maestra, dunque, e che via maestra !, Shelley giunge a frequentare i nostri classici, a decrittarne e riproporne la complessità, a far proprio (si pensi ad alcuni punti fondamentali della Defence) il nostro intricato, molteplice, multiforme filone letterario. Non a caso, dei grandi classici europei, Shelley finisce con l’approssimarsi ad alcuni che più di altri si legano a questa proteica linfa generativa italiana : il mondo ingannevole delle ombre e dei sogni di Calderòn, l’esercizio magnanimo e tollerante di Montaigne, l’istanza utopica, libertaria, radicalmente umanistica di Rousseau. Ci sembra, perciò, anche alla luce di quanto finora detto, un po’ riduttivo e rituale continuare a parlare, specie per i rapporti con certa tradizione classica, solo del ‘platonismo’ di Shelley. 3 C’è platonismo, certo, in Shelley ma mediato dalla nostra tradizione neoplatonica che è, per molti versi, poi, in realtà, plotiniana, con tutto ciò che questa doverosa distinzione comporta : la scala dell’essere, l’Uno e il Molteplice, la vertigine della bellezza creatrice, la dignità dell’arte, sono i concetti attraverso cui Plotino si distanzia profondamente da Platone, influenza la nostra stessa cultura umanistica e approda al tardo Settecento inglese, anche attraverso Milton. E però, comunque, c’è ancora altro in Shelley, come una attenta campionatura delle sue stesse Letters o del suo Journal possono mostrarci : le letture classiche sono amplissime, sia greche che latine, e accanto a Platone troviamo testi significativi come Lucrezio, Apuleio, Luciano. E poi, ovviamente, in posizione preminente tante letture italiane, con interessi, anche particolari rivolti al Cavalcanti, al Sacchetti, al Guarini, al Manso fino al Beccaria e all’Alfieri.  















3   Abrams stesso usa la chiave ‘platonica’ per leggere Shelley, come del resto molta della critica shelleyana. Cfr. Robert Bertram Woodings, Shelley, Modern Judgements, London, Macmillian, 1968.

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gian mario anselmi

E infine la grande letteratura inglese, i romantici tedeschi e, come già si diceva, in particolare evidenza autori come Montaigne, Calderòn, Rousseau. 1 Se rapportiamo questa campionatura alle tante suggestioni, allusioni e fonti presenti nel complesso dell’opera di Shelley possiamo scorgervi la preminenza della linea umanistica italiana e della particolare lettura della tradizione classica che vi era connessa. Sicché, anche in Shelley, la presenza di echi plotiniani (in parte forse mediati dal Tasso) si accompagna ad una costante attenzione per la realtà come fluire, come inafferrabile e proteica mutevolezza, la cui discorribilità è associata più alla forza immaginativa delle fabulae che a ferrei postulati ontologici : è, in altre parole, il riprodursi di quel nobile filone scettico rinascimentale che attingendo dal mondo classico le radici più varie (da Ovidio a Luciano) emerge nella grande cultura padana ferrarese e bolognese (Boiardo, Ariosto, Codro), nel pensiero di umanisti come l’Alberti o il Pontano, nel lucido disincanto di Machiavelli e soprattutto di Guicciardini. 2 Particolarmente in The Sensitive Plant, nei versi conclusivi (dal 121 e sgg.), è straordinario il riscontro con questo filone di pensiero, fino al culmine espressivo dei vv. 128-129 : tutto (compresa la morte) non è che mockery (irrisione) e richiama le più paradossali e irriverenti formule care, ad esempio, al Momus dell’Alberti, all’Elogio della follia di Erasmo o a certi Sermones di Codro. Ma nella Sensitive così come in certi passaggi di Julian and Maddalo o di The Witch of Atlas altri echi è possibile cogliere, laddove la natura dell’Amore sembra ricondotta da Shelley a suggestioni nient’affatto platoniche e piuttosto vicine al concetto, nel suo senso più elevato ed elaborato, di divina voluptas : il che attesta la lezione di Lucrezio, mirabilmente già mediata nel nostro Umanesimo dal Valla con propaggini che si addentrano fin nella Liberata, nell’Aminta, nelle Rime del Tasso per riemergere possenti in tutto il Settecento europeo. 3 Si badi : non vogliamo certo postulare una sorta di eclettismo in Shelley. Tutt’altro : vogliamo piuttosto mettere in luce come le radici romantiche e originalissime della sua poetica (così come del resto egli ben articola nella Defence) attingono linfa preziosa nella peculiarità stessa del nostro Rinascimento, ovvero nella sua dinamica dialogica e tollerante che non pretende di risolvere gli estremi ma di ‘co-esibirli’, di ‘co-esisterli’ attraverso il supporto essenziale dell’arte e della sua ‘imaginativa’ (unico luogo in cui il discorso di Platone può intrecciarsi con Lucrezio). 4 Non è un caso se, nelle lettere, Shelley dichiari apertamente di preferire Raffaello a Michelangelo : Raffaello, La scuola di Atene, sono il vero e proprio manifesto di quel Rinascimento di cui or ora accennavamo (e non a caso ancora, come Stendhal, Shelley mostra entusiasmo per i grandi bolo 











1   Importante per questa ‘campionatura’ : The letters of P. B. Shelley, a cura di Frederick L. Jones, Oxford, Clarendon Press, 1964, fornito di preziosi indici. 2   Su questo filone si veda quanto argomentavo in un mio intervento in : Letteratura italiana. Storia e geografia, ii .1, L’età moderna, diretta da Alberto Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1988. Per i contatti di Shelley con la tradizione scettica rinascimentale è prezioso : Christos E. Pulos, The deep thruth, Lincoln, University of Nebraska Press, 1962. 3   Dell’importanza di Lucrezio per l’età tra Sette e Ottocento è da noi testimone esemplare Foscolo : di lui è bene frequentare (anche per capire il contesto in cui opera Shelley stesso) Letture di Lucrezio, a cura di Franco Longoni e presentazione di Gennaro Barbarisi, Milano, Guerini, 1990. Sulle fonti classiche di Shelley da consultare : Neville Rogers, Shelley at work, Oxford, Clarendon Press, 1956. 4   Su mito e mitopoiesi in Shelley e più in generale : Harold Bloom, Shelley’s Mythmaking, New Haven, Yale University Press, 1959 ; Douglas Bush, Mythology and the Renaissance Tradition in English Poetry, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1932 e Idem, Mithology and the Romantic tradition in English Poetry, Cambridge, Harvard Universiry Press, 1937. Ricca di spunti poi l’edizione italiana delle Opere di Shelley curata da Francesco Rognoni, Torino, Einaudi, 1995, con ampie introduzioni e annotazioni nonché completo aggiornamento bibliografico.  













gnesi, appena riscoperti, e proprio per tutto ciò che si diceva, dai romantici, come i Carracci o Guido Reni !). 5 Platonico allora Shelley ? È meglio forse rispondere : rinascimentale piuttosto, grande reinterprete della poetica e della filosofia della nostra tradizione letteraria, in perfetta sintonia con gli stessi classici inglesi cinquecenteschi da lui tanto amati e citati. Tutto ciò è dispiegato con impressionante coerenza da Shelley nella Defence : laddove nel rimarcare i diversi campi d’azione della filosofia e della poesia, finisce con l’attribuire proprio al poeta il primato della vera sapienza, la sapienza che appunto ‘unisce’ e non ‘separa’, che fa ripercepire in modo nuovo la realtà, straniandola dalla banalizzazione dell’empirismo quotidiano.Tanto che i filosofi sono grandi quando sono anche veri poeti (e appunto cita Platone) e poeti grandi sono i veri sapienti-filosofi, della tempra dei ‘profeti’ : non nel senso errato e usuale del termine (sorta di predittori del futuro) ma nel senso biblico più autentico, ovvero di testimoni in grado, con la potenza liberatoria della mitopoiesi, di ‘spezzare’ la storia, di aprire – unici – la strada alla possibilità del nuovo (e così il richiamo, appunto, a Lucrezio, a Dante, a Tasso, a Shakespeare, a Milton). Per questo (e l’affermazione è del tutto coerente con la rivisitazione della nostra tradizione umanistica e rinascimentale, coi suoi dibattiti sul primato della poesia, sulla poesia come luogo centrale della conoscenza e della messa in atto di ogni possibile renovatio, e già da Dante e Petrarca in poi) i poeti sono, ancorché non riconosciuti, per Shelley, i veri legislatori del mondo. 6 Se il poeta è anche profeta, il ‘visionario’ per eccellenza, è anche comprensibile come Shelley frequenti con assiduità, nelle sue poesie, il genere, di ascendenza medievale e umanistica, del ‘sogno-visione’, rivitalizzando (anche con particolari scelte metriche come la efficacissima ripresa della terzina dantesca, ad esempio) i complessi apparati allegorici che vi erano connessi. Tutto ciò è evidente nelle sue odi politiche innanzitutto, dove la ripresa dell’antico genere del ‘sogno-visione’ si arricchisce di geniali prestiti pindarici : così è per l’Ode to Liberty, così è per The Mask of Anarchy, così è per il Triumph of Life. In quest’ultima l’allegorismo dantesco si fonde con le suggestioni dei Trionfi petrarcheschi : ma l’impianto stesso dell’intera ode, sospesa sul dubbio irrisolto, sulle domande ultime che non possono conoscere risposte ultime e sistematiche (e tutto si inarca in quella domanda finale, sospesa, sulla vita), sembra riproporre il paradigma della contraddizione, della complessità, del dialogo, inaugurato decisamente, nella cultura occidentale, da un ‘altro’ Petrarca, quello del Secretum, e rinvigorito da molta della nostra tradizione letteraria. 7 Si badi poi alla consumata perizia con cui Shelley, particolarmente nelle odi politiche-utopiche, ma anche in altre (The Sensitive Plant, ad esempio), sa giovarsi dell’antichissimo topos dell’enumeratio, rappresentando gallerie di figure, personaggi, eventi, via via piegando su questa o quell’altra fonte e accrescendo il pathos tragico di un accumulo seriale cui non può essere però fornita alcuna risposta definitiva e consolatoria (Manzoni diceva che non si può concepire ‘il riposo dell’etica’). Così l’enumerazione di eroi di The Triumph of Life richiama insieme Virgilio, Ariosto, Alberti e Platone. In The Ode to Liberty, nella prosopografia stessa della libertà, è evidente l’eco della vicenda grandiosa dell’Aquila-Roma narrata da  













5   Sulla centralità dell’interpretazione della Scuola di Atene come ‘manifesto’ di un certo Rinascimento ‘dialogico’ vedi : Leonid Mohajlovic Batkin, Gli umanisti italiani. Stile di vita e di pensiero, Bari, Laterza, 1990. Dello stesso studioso vedi L’idea di individualità nel Rinascimento italiano, Bari, Laterza, 1992. 6   In tutta la Defence aleggia sicuramente anche l’eco di fondamentali riflessioni vichiane. 7   Cfr. Lilla Maria Crisafulli Jones, The Triumph of Life : il frammentario nell’ultimo Shelley, in Letteratura e seduzione, a cura di Tomaso Kemeny, Lia Guerra, Anthony Baldry, Fasano, Schena, 1984, pp. 241-249.  



rinascimento italiano e romanticismo: foscolo, shelley e gli inglesi Giustiniano in Paradiso, vi, di Dante. E, nella Sensitive, in altro contesto, la numerazione delle piante come costitutive di un eternamente rinnovato locus amoenus ci richiama i preziosi precedenti di Poliziano, Boiardo, Ariosto e di tanti poeti umanisti, latini e volgari, ispiratori della stessa più significativa letteratura bucolica inglese. Ma il ‘poeta-profeta’ è anche il ‘viaggiatore’ per eccellenza, colui che, come già Dante (e Virgilio e S. Paolo), sa penetrare nell’abisso dell’inferno umano per tentare di ritrovare il bandolo di una umanità redenta, magari nel segno e nel sogno di un Amore universale. 1 Shelley ha tanto fatto proprio questo archetipo di ‘viaggio’ dantesco che costantemente ne possiamo trovare tracce vigorose e geniali nelle sue poesie : Julian and Maddalo è, emblematicamente, una sorta di viaggio da un inferno dolente al mistero finale dell’indicibilità di amore. Il poemetto è nella serie dei gloriosi viaggi verso l’Amore (‘dicibile’ solo dalla poesia) di Dante, Boccaccio, Castiglione (il memorabile iv libro del Cortegiano), solo a stare agli esempi più noti (e noti certo a Shelley). Ma anche il dolente incontro col ‘pazzo’ e il terribile contesto in cui avviene e il modo di dialogare fra i personaggi che si parlano in quell’‘inferno’ richiamano i tanti colloqui di Dante con le anime dolenti del suo viaggio, la tecnica stessa con cui Dante costruisce quegli incontri. Paradigma dantesco che si incrocia (e non a caso per il ‘pazzo’ si è in modo convincente pensato ad un’allusione a Tasso) col paradigma elegiaco e lucreziano e umanistico (da Petrarca a Tasso, appunto) dell’amore dolente, lacerante, sofferto. Paradigma che troviamo dispiegato ad altissimo livello in Adonais, dove il prezioso incastro dei rimandi allusivi (con piena padronanza della tecnica della mutatio) all’elegia e a Teocrito, Bione, Mosco, Diogene Laerzio ha fatto giustamente parlare di Shelley come di uno degli autori più abili e geniali nel riproporre le forme e i modi della poesia umanistica. 2 Paradigma che, da dolente e sofferto, sembra aprirsi alla speranza dantesca della Vita Nova, attraverso una sorta di idealizzata storia del sé amoroso, così come emerge dal bellissimo canto Epipsychidion. È un Amore che riscatta l’umanità dall’inferno dei Cenci, dove Shelley, in dialogo ideale con Alfieri, Tasso, Boccaccio e Shakespeare, mette sulla scena la lacerazione estrema che prelude al riscatto estremo della morte : Beatrice Cenci è della tempra di Mirra, di Miranda, di Cordelia, di Erminia e delle splendide figure femminili (veri archetipi di tanti personaggi tragici ed elegiaci) della iv giornata del Decameron. 3 Figure femminili che costantemente, in Shelley, raffigurano la potenza pacificatrice d’Amore, redentrice del satanismo ferino, proprio di certo universo maschile, che la letteratura ha appunto incarnato in una trafila che dal Conte Cenci possiamo far risalire a Ser Ciappelletto o a certe figure dantesche.  



1   Cfr. Joseph Cheyne, Lilla Maria Crisafulli Jones, L’esilio romantico. Forme di un conflitto, Bari, Adriatica, 1990, in particolare per l’intervento di A. Lombardo (pp. 25-32). La questione dell’Amore, come punto finale di approdo, è costante e centrale in tutta la Defence. Così come il tema della Bellezza, ad esso connesso, e i cui echi umanistici rintracciamo in varie poesie, da Hymn to intellectual Beauty a On the Medusa of Leonardo da Vinci a The Witch of Atlas. 2   Cfr. Perly Bysshe Shelley, Poemetti, introduzione e note a cura di Raffaello Piccoli, Firenze, Sansoni, 1925 ed esattamente a p. xx dell’introduzione. Sui rapporti con la tradizione letteraria italiana è sempre di utile consultazione : Giovanni Caldana, Giudizi di P. B. Shelley sui poeti italiani, « Nuova antologia di lettere, scienze ed arti », s. v, vol. cxxix, maggio-giugno 1907, pp. 660-672. Ed infine ora l’ed. cit. delle Opere di Shelley curata da Francesco Rognoni. 3   La speciale ammirazione di Shelley per Boccaccio (in lui vedeva, oltre che il narratore e il poeta, anche il ‘filosofo’, con grande anticipo sulle più recenti e approfondite esegesi boccacciane) è ribadita in una lettera del 27 settembre 1819 a Leight Hunt da Livorno (Letters of P. B. Shelley, ii, cit., pp. 121-122).  





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Questa rielaborazione di infinite suggestioni classiche ed umanistiche che Shelley opera intorno alla grande utopia amorosa è uno dei tanti modi con cui egli finisce col rapportarsi all’utopia in quanto tale, al sogno di un mondo altro, di un ‘possibile’ che il ‘viaggio’ e l’‘amore’, attraverso la poesia, ci fanno intravvedere o ci mantengono vivo anche nella più desolata landa dello sconforto quotidiano. 4 Tutto ciò è particolarmente in evidenza in The Witch of Atlas : Shelley sa rielaborare una gamma cospicua di luoghi e di generi che ci riconducono al macrosistema dell’utopia letteraria, il viaggio, il ‘sogno-visione’, il sonno ristoratore e profetico (da lxi) fino alla visione di un possibile mondo ‘altro’, nuovo rispetto all’ipocrisia e alla dura crudeltà di quello contemporaneo. Se i richiami a tanti filoni ideologici settecenteschi sono ovvi, sono tutt’altro che da sottovalutare, ormai, per tutto ciò che si è detto, anche i saldi legami con l’età umanistica e rinascimentale, con i suoi grandi testi, che abbiamo più volte richiamato, e con altri, anche meno scontati : sicché l’eco di Erasmo, del Paradiso dantesco, della x giornata del Decameron e del iv libro del Cortegiano o del Tasso o del Sannazaro si confonde con preziosi intarsi tratti dal Pulci (campione comico dei ‘mondi alla rovescia’), dall’Ariosto, dal Ricciardetto del Forteguerri, dalla tradizione del Ninfale (da Boccaccio fino a Lorenzo e Poliziano). Sta, insomma, anche in tutto ciò, la fonte cui attinge energia, fra gli altri, quell’emblematica ‘new birth’ evocata al v. 64 dell’Ode to the West Wind, quella vera e propria ‘rinascita’ che dà ansia, speranza, e pathos antico al distico finale stesso dell’ode. Sta, insomma, nella tradizione letteraria italiana, nel suo prorompente mito della ‘rinascita’ come liberazione, nella sua conseguente rielaborazione del crogiuolo mitopoietico classico il viatico essenziale per comprendere la grandiosa utopia del Prometheus shelleyiano. Ma il discorso ci porterebbe molto lontano e ci costringerebbe ad aprire nuovi, ulteriori capitoli : qui ci è sufficiente aver indicato un sentiero da percorrere, un’ottica particolare da cui osservare Shelley e le stesse radici del romanticismo inglese ed europeo. Sul rapporto col Classicismo e l’Umanesimo, in Italia, ci si interroga con vigore del resto proprio negli anni stessi in cui Shelley viaggia nella nostra Penisola : vi era infatti diffusa la consapevolezza, da noi come ormai da tempo in tutta Europa, che di lì passasse un punto di riflessione essenziale sulla nascente idea di modernità, sulle sue valenze di complessità, lacerazione, plurivocità dialogante. 5 Da lì noi dobbiamo ancora oggi incominciare : il movimento romantico ci apparirà probabilmente meno vincolato da un confronto esclusivo con la stagione dell’illuminismo e ci svelerà imprevedibili percorsi che ci recheranno nel cuore stesso della letteratura italiana, dantesca e rinascimentale. Shelley e gli altri poeti inglesi l’avevano del tutto compreso e portato alla luce. Forse non a caso M.me de Staël già nel 1807, nel creare l’eroina del suo fortunato romanzo Corinne (una delle letture più amate dai romantici italiani), l’aveva ideata a doppia ascendenza, proprio inglese e italiana.  









4   L’utopia di Shelley va intesa più in questa accezione ‘rinascimentale’ e mitopoietica che in una strettamente politica e ideologica, per la quale sarebbe molto problematico parlare di ‘utopia’ in senso sistematico : cfr. P. M. S. Dawson, The Unacknowledged Legislator. Shelley and Politic, Oxford-New York, Clarendon Press-Oxford University Press, 1980, nonché vari saggi e interventi di Lilla Maria Crisafulli Jones su queste tematiche. 5   Ancora utile, di Giacomo Zanella, P. B. Shelley e G. Leopardi, in « Nuova antologia di scienze, lettere ed arti », s. ii, a xviii, vol. xl, fasc. xv, 1883, pp. 409-429. Un originale affresco dell’intero contesto in Ezio Raimondi, Romanticismo italiano e Romanticismo europeo, Milano, B. Mondadori, 1998.  





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o storico Gustavo Bertoli mette generosamente a mia disposizione due autografi della sua collezione di manoscritti. Si tratta di una lettera di Giovanni Paolo Schultesius a Giuseppe Pelli Bencivenni (1729-1808) e della minuta della risposta di questo. In data 19 aprile 1807 lo Schultesius chiede al Pelli di aderire all’appena fondata Accademia di scienze, lettere ed arti. Giovanni Paolo Schultesius o Schulthesius (14.9.174818.4.1816 ; nelle lettere si firma sempre Schuelthesius) fu musicista, compositore, e pastore luterano di Livorno. Fu autore di pochi scritti letterari e di argomento musicale. Nato a Fechenheim in Germania, fu chiamato a Livorno nel 1773 dagli Anziani della nazione olandese e alemanna. Si firmava « Ministro Ecclesiastico della nazione olandese, alemana e danese ». Dal 1804 entrò come socio onorario nell’Accademia Italiana, fondata nel 1798. Nella nuova Accademia di scienze, lettere ed arti, sorta nel 1807 a Livorno da una scissione interna dell’Accademia Italiana, divenne subito segretario perpetuo della iv classe, ovvero delle Belle Arti. Lo Schultesius, come Herman Schubart, diplomatico danese in Italia e futuro vicepresidente della nuova Accademia, fu in stretto contatto col vescovo massone danese Friedrich Münter (1761-1830), degli Illuminati di Baviera, che viaggiò per la Toscana tra il 1784 e il 1787 e fu attivissimo agente della massoneria in Italia. La lettera dello Schultesius è una circolare che egli inviava ai soci della vecchia Accademia Italiana e a possibili soci della nuova Accademia, per cercare di ottenerne l’adesione. Il Pelli risponde il 22 aprile successivo, rifiutando l’invito per motivi di età. Della minuta del Pelli si ha anche la bella copia (Firenze, Biblioteca Nazionale), quasi identica alla minuta ed effettivamente spedita allo Schultesius. Per intendere le ragioni del diniego bisogna immergersi in quelle che Foscolo definirà (vedremo più avanti) « spezierie accademiche », alquanto accentuandone il significato negativo. Nella sua malcelata avversione alle Accademie, Foscolo si comportava da buon discepolo di Alfieri, divenuto dopo la giovinezza antiaccademico dichiarato. Il Pelli, già infaticabile lettore e scrittore delle monumentali Efemeridi e di innumerevoli altre opere, ormai vecchio e stanco, non era più disposto ad assumersi nuovi impegni. Anche se di scritti sulle arti ne aveva, inediti, in gran quantità, la volontà di defilarsi lo porta a escludere qualsiasi forma di collaborazione con la nuova Accademia livornese. Essendo poi già socio della vecchia Accademia, Pelli non volle aderire alla nuova, né mentiva adducendo come motivo soprattutto la sua tarda età. Egli risultava infatti socio onorario della vecchia Accademia Italiana in un documento del 18 aprile 1806. I buoni rapporti tra Pelli e il segretario della vecchia Accademia Italiana, Giacomo Sacchetti, sono testimoniati da una lettera che quest’ultimo gli invia il 25 maggio 1807. Il Sacchetti il 3 giugno 1807 annota al riguardo : « Pelli da Firenze in data del dì due non accede ; ma si unisce alla fazione contraria de’ Novatori ». In realtà Pelli non aderiva (come non aveva aderito alla nuova Accademia Italiana) alla Confederazione letteraria progettata dal Sacchetti per rafforzare la vecchia Accademia e debellare gli scissionisti. Il Sacchetti interpreta il rifiuto come adesione  

















1   Si dà qui una prima sintetica esposizione di una mia ricerca, che sfocerà in un prossimo e assai più ampio saggio. Per questo motivo ho rinunciato a offrire indicazioni relative alle innumerevoli fonti manoscritte e a stampa da me utilizzate. Per dette fonti si rimanda al ricordato prossimo saggio.

di fatto ai « Novatori » ; ma si sbagliava, come si è visto. Pelli muore il 31 luglio 1808 ; verrà peraltro onorevolmente ricordato dal Sacchetti negli Atti dell’Accademia Italiana del 1808. La prima idea dell’Accademia Italiana, secondo Giacomo Sacchetti (1766-1840), canonico e lettore di filosofia presso l’Università di Pisa, risale al 1784 e fu sua. Egli dichiara di averla tratta dal Muratori, Pindemonte e Arteaga. Il Muratori nella sua opera Delle riflessioni sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti, di Lamindo Pritanio, Colonia, per Benedetto Renaud, 1715 (2 voll.) criticava il fatto che ci fossero in Italia tante e troppe Accademie, che si baloccavano nel comporre e recitare non altro che « Versi, e poi versi ; e in una parola solamente certe bagattelle canore ». Meglio sarebbe stato invece, secondo Muratori, che le Accademie si fossero occupate non solo di lettere, ma anche di scienze e di arti. Meglio ancora sarebbe, osservava, se invece di tante Accademie ce ne fosse una sola, che quasi Repubblica letteraria, avesse come oggetto il « perfezionar le Arti, e Scienze col mostrarne, e correggerne gli abusi, e coll’insegnarne l’uso vero », ovvero « la purgazione, il miglioramento, e l’accrescimento delle Scienze, e dell’Arti liberali ». Questa Unione o Repubblica o Lega non avrà alcun « luogo fisso », distendendosi in tutta Italia. L’Accademia avrà un capo, il primo arconte, e un segretario. Il capo abbia competenza in lettere, scienze e arti. Il Sacchetti seguì a puntino e con zelo le indicazioni del Muratori. Questo potrebbe spiegare perché a presidente dell’Accademia Italiana non propose se stesso, ma uno strano personaggio, il sedicente conte Eduardo Romeo De Vargas-Bedemar, dotto in letteratura e scienze varie. Secondo il Muratori le divisioni politiche dell’Italia avrebbero animato gl’ingegni italiani a unirsi, a far progredire la cultura in ogni campo, a costituire una biblioteca, ricca anche di oggetti antichi e di manoscritti di varie lingue, a far prevalere il buon gusto, la moderazione, la pietà cristiana, e a non cadere in discordie interne. Quest’ultima possibilità, con grande dolore del Sacchetti, ebbe poi a concretizzarsi. Il Sacchetti ebbe il merito di avviare una prima accademia letteraria a Pisa, una seconda (Accademia Valdarnese del Poggio) a Montevarchi nel 1804, una terza appunto che fu l’Accademia Italiana. Questa fu fondata il 2 marzo 1798, con l’approvazione del granduca Ferdinando iii di Lorena, senza che avesse una sede fissa, e fu aperta a soci italiani e stranieri. Ne fu primo presidente il Vargas e segretario perpetuo lo stesso Sacchetti. L’Atto di Fondazione dell’Accademia Italiana fu stilato in Siena il 4 marzo 1798. L’Accademia si proponeva « di formare un’intima unione fra i principali Dotti Italiani » e aveva « per oggetto il Buon gusto nelle Scienze e nelle Arti ». Il programma è varie volte enunciato in carte del Sacchetti. In una, risalente presumibilmente al 1799, leggesi :  



































L’Accademia o Ateneo italiano oltre gli oggetti generali di Lettere, Scienze e Arti si propone di promuovere specialmente la storia naturale, civile, letteraria ecclesiastica, i dialetti, l’agricoltura, l’arti, il commercio e la statistica delle varie parti d’Italia per mezzo di corrispondenze, di premj d’incoraggiamento e di collezioni locali.

Il Sacchetti divise i soci, oltre che in classi e queste in sezioni, secondo la loro residenza in dieci comitati regionali (dal Piemonte alla Sicilia). Scrisse moltissime lettere a tutti i più noti e meno noti esponenti della cultura italiana. Ricordo solo Lorenzo Pignotti, Bertòla, Denina, Bettinelli, Cesarotti, i fratelli Pindemonte, Parini. Ma furono tanti gli intellettuali italiani che ebbero un qualche rapporto con l’Accademia Italiana (e,

«spezierie accademiche» da pelli a carducci dopo il 1807, anche con la nuova Accademia scissionista) : bastino qui per tutti i nomi di Alfieri, Pietro Napoli Signorelli, Monti, Fantoni, Foscolo, Pindemonte, Ignazio Martignoni, Carducci. Fin dal 1798 il Sacchetti aveva informato il Denina del suo desiderio di avere Alfieri tra i soci della neonata Accademia. Per conto del Sacchetti il senese abate Francesco Maria Lenzini (che nel 1784 aveva difeso il valore delle tragedie alfieriane, appena stampate a Siena) aveva invitato il poeta ad aggregarsi alla vecchia Accademia Italiana. Alfieri rifiutò con lettera al Lenzini del 29.5.1798, che il Sacchetti stamperà negli Atti del 1808. L’interesse per Alfieri, oltre che in Sacchetti, in Lenzini e in Vargas, era anche in un altro accademico, Arsène Thiébaut de Berneaud, sospeso su sua richiesta il 17 giugno 1807 per ritorno in Francia. Il nome di Vincenzo Monti è presente in un elenco di soci redatto dal Sacchetti ai primi del secolo come « m[embro] ord[inario] ». Il 10 maggio 1807 poi il Sacchetti annota puntigliosamente : « Ricevuta una lettera di Monti in data del dì 2., che accede ; e dà il suo suffragio per un Presidente Italiano, e sempre Italiano, dichiarando in caso contrario di non appartenere a questa confederazione ». Non pago ancora annota nello stesso giorno : « Vincenzio Monti Cav. dell’Ordine della Corona di Ferro, assessore della Direzione dell’Istruzione pubblica del Regno d’Italia, Storiografo del medesimo Regno[,] Socio ordinario nella Seconda Sezione della terza classe del catalogo Livornese. Vota per un Presidente Italiano, sempre Italiano, dichiarando in caso diverso di non appartenere a questa associazione ». Il 14 giugno 1807 di nuovo inserisce Monti tra coloro che votano « per un Presidente Italiano ». In un elenco, del 1808, di destinatari del progetto di una Confederazione Letteraria, il Sacchetti aggiunge anche il nome di Monti. E nell’elenco dei Membri della Confederazione Letteraria da ammettersi fra’ membri Ordinarj leggesi : « Monti Vincenzo da nominarsi da [Domenico] Rossetti ». Di nuovo ricorre Monti in un elenco di Operazioni per l’organizzazione dell’Accademia Italiana : « Ringraziamenti a term[ini ?] del Decreto (…) Monti – Ringraziato », in un elenco di soci della legittima Accademia Italiana, e in un elenco di Accademici distinti per Paesi : « Monti – Soc[io] Ord[inario] dal 3.i. [180]3 ». Il 2 giugno 1808 Antonio Renzi comunica al Sacchetti che « il Cav.e Monti » è « attaccatissimo alla buona causa » della vecchia Accademia Italiana. Il poeta stesso, il 26 settembre 1808, rassicura il Sacchetti circa la sua « costante adesione al suo partito ». Considera una « villana e sporca impostura » l’inserimento del suo nome nel catalogo della nuova Accademia. Si addolora per il prolungarsi della « lite » e auspica una riunificazione « sotto la bandiera della ragione, e dell’onor nazionale ». Il Sacchetti annota al riguardo puntualmente : « Monti da Milano in data del dì 26 Settembre rinnova l’adesione alla legittima Accademia ; dichiara, che se il partito contrario ha inserito il suo nome nel catalogo, ciò è una villana e sporca impostura ». Il 7 gennaio 1811 a Monti scrive il suo vecchio amico Giuseppe Tambroni (che era stato con lui uno dei segretari del Direttorio Cisalpino e allora era console a Livorno del Regno Italico). Lo informa che l’Accademia pisana del Sacchetti è quasi estinta, che la nuova Accademia, ora Società, di Livorno ha avuto il plauso del Denina, di Napoleone, delle accademie europee. Pagnini ha abbandonato il Sacchetti, il quale è divenuto « il ridicolo di tutti ». Lo prega di aderire caldamente alla Società livornese. Monti rispose al Tambroni il 13 gennaio, rifiutando di entrare nella nuova Società, che, precisa, non ha accolto dotti meritevoli e invece ha associato a sé chi non era degno, e poi perché le discordie tra i due istituti erano sempre vive. Intende perciò aspettare tempi più sereni. Il 12 febbraio 1811 Tambroni torna alla carica e di nuovo esorta il Monti a entrare nella Società livornese. Lo informa che ormai non si può più parlare di « scisma », visto che l’Accademia del « fanatico-caparbio-teologo Sacchetti »,  























































































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divenuta Ateneo Italiano, non ha alcuna affinità con la Società livornese. Il 4 aprile 1811 il giurista pisano Giovanni Carmignani, noto come autore della corrosiva Dissertazione critica sulle tragedie di Alfieri (1806), informa Monti che egli non trova ragione sufficiente di aderire alla nuova Accademia, e che resta amico del Sacchetti, e prega il poeta di fare altrettanto. La vita dell’Accademia Italiana non fu facile ed ebbe alti e bassi. Anche per questo nel 1807 Vargas e altri ventisei accademici se ne staccarono, dando vita a una nuova associazione. Era col tempo nato un contrasto insanabile tra Vargas e il Sacchetti, tra l’apertura europea e filoprotestante (e filomassonica) del primo e le posizioni ligie alle autorità costituite e alla ortodossia cattolica del secondo. Mentre il Vargas dichiarava decaduto dal posto di segretario il Sacchetti, questi fece nominare presidente della vecchia Accademia per un quadriennio, al posto di Vargas, Giuseppe Maria Pagnini, professore di Lettere Umane all’Università di Pisa, restandone lui segretario generale perpetuo. Il 18 aprile 1807, da Pisa, Vargas informa il Sacchetti di averlo sostituito con Gaetano Palloni, con l’approvazione di molti accademici, tra i quali l’ab. Simon, Melchiorre Delfico, Cagnazzi, Cerati, Schubart, Marini, Del Rosso, Napoli Signorelli. Da una parte e dall’altra si manifestarono risentimenti e si cercarono adesioni. Tra gli scrittori contesi dalle due istituzioni vi fu Giovanni Fantoni (Labindo), il quale, sollecitato a entrare nella nuova Accademia, rifiutò, dichiarando essere le accademie espressioni di una concezione elitaria della cultura, a lui ormai estranea. Il 10 giugno 1798 Sacchetti (firmando Vargas) invita Ippolito Pindemonte ad aderire all’Accademia Italiana, nata sul modello « di quella, che Ella propose nel suo discorso sul Gusto della moderna Letteratura Italiana ». Il 16 giugno 1798 Ippolito Pindemonte chiede quasi soccorso a Isabella Teotochi Albrizzi, per essere stato, suo malgrado, invitato a far parte dell’Accademia Italiana. Con una lunga lettera del 10 ottobre 1798 il Sacchetti annuncia a Ippolito di avergli spedito la patente di accademico, le leggi accademiche, e la nomina a conservatore dell’Accademia ; lo invita a proporre nuovi soci e a mandare articoli per il progettato Giornale dell’Accademia. Il Sacchetti nell’aprile 1809 elenca ben 545 soci. Tra i soci ci sono tutti i rappresentanti della cultura italiana (e talora straniera di un qualche nome, come Madame De Stäel) ; si citino almeno Antonio Canova, Basilio Puoti, Gino Capponi. Il nuovo segretario generale perpetuo, succeduto al Sacchetti dopo la sua morte (1840), il canonico Casimiro Basi, ci ha lasciato una utile storia dell’Accademia. Il Sacchetti fece quasi una malattia della scissione. Tentò inizialmente e inutilmente di creare una Confederazione letteraria. Dimostrò un nazionalismo filoitaliano esasperato. Nella nuova associazione vuole aderenti perlopiù italiani e soprattutto « il Presidente dee esser sempre Italiano, nato e commorante in Italia ». In una Protesta manoscritta arriva a dire che sulla Costituzione della nuova Accademia « hanno influito degli Olandesi, de’ Danesi (nuova specie di gotica invasione letteraria) degli Spagnuoli ; e se vi ha avuto parte qualche Italiano, egli vi fa la più miserabil figura nel servir di vile strumento a persone straniere a’ rapporti letterarj e sociali della Nazione ». Vi furono tentativi di riconciliazione tra le due accademie, esperiti dallo Schubart, dal Carmignani e da altri, che però non ebbero alcun esito. Molti anni dopo nel ricordare le vicende dell’Accademia Italiana lo Schubart espresse un giudizio assai duro sul Sacchetti, il quale « ne respiroit que vengeance, comme c’est le cas des prêtres catholiques ». Racconta ancora Schubart che in casa sua fu fondata la nuova Accademia Italiana, che ebbe la protezione delle autorità francesi. Dalla scissione derivò la concorrente ed omonima Accademia Italiana di Scienze, Lettere, ed Arti, con sede in Livorno,  





















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con presidente il Vargas, e segretario perpetuo l’illustre medico Gaetano Palloni (1776-1830). La nuova Accademia è detta anche « Accademia, o Società Letteraria » negli Atti del 1810, e « Società » si diceva nel 1811. Dovette assumere dal 1811 la denominazione di Società, rimanendo riservato alle università quello di Accademia. Gli ambiziosi intenti della nuova Accademia sono esposti nella Costituzione dell’Accademia Italiana di Scienze, Lettere, ed Arti, cui segue il Catalogo de’ componenti l’Accademia Italiana di Scienze, Lettere, ed Arti, e nella Costituzione dell’Accademia Italiana di Scienze, Lettere, ed Arti secondo la Riforma del 1808, con annesso elenco davvero imponente di soci italiani e stranieri. Il 27 giugno 1808 lo Schubart informa Giovanni Fabbroni che il vicepresidente della nuova Accademia, Pietro Moscati (celebre medico milanese), sarà il nuovo presidente, non appena Vargas lascerà l’Italia. Così avvenne in quello stesso anno. Nel 1808 il Vargas veniva infatti espulso, per ragioni ancora da chiarire, dalle autorità toscane e si trasferiva in Danimarca. Il Vargas (1768-1847), tedesco di nascita, pare si chiamasse in realtà Carl Friedrich August Grosse e non era nobile. Fu una singolare figura di avventuriero e di poligrafo, ma soprattutto geografo e geologo. Nelle lettere inviate al Sacchetti da Napoli, dove era capitano dell’artiglieria, direttore del gabinetto di mineralogia del Corpo Reale, direttore del corpo del genio, nei primi anni di vita dell’Accademia si mostra attivissimo nel reclutare soci italiani ed europei (perfino Kant), nel progettare e stampare scritti letterari, militari, scientifici. Fu noto anche ad Alfieri, cui inviò un suo saggio sull’epigramma greco, tradotto (dal francese) in italiano da Teresa Regoli Mocenni (Dell’epigramma greco, saggio di Eduard Romeo conte di Vargas, Siena, Pazzini Carli, 1795 [e poi 1796]). Di una sua Introduzione allo studio della mineralogia il Vargas parla al Sacchetti in lettera direttagli il 6 luglio 1800. Vargas intendeva scrivere su Alfieri. Il 28 novembre 1803 da Napoli scrive al Sacchetti : « Mi occupo attualmente di due biografie : l’una quella d’Alfieri, l’altra, quella di Hernstorf, di cui, anni fa, diedi già alcune notizie nella Gazzetta Fiorentina ». Il 12 marzo 1804, da Napoli, informa lo stesso di essersi assunto l’incarico di comporre una « Biografia letteraria di Alfieri ». Il 12 giugno 1804, ancora da Napoli, il Vargas confida al Sacchetti di stare lavorando ad una lunga analisi delle tragedie alfieriane. Il 19 febbraio 1805, sempre da Napoli, scrive al Sacchetti perché preghi l’incisore Raffaello Morghen « s’il voudroit me faire le plaisir de tenir mon Portrait dans son Portefeuille jusqu’au commencement de l’an prochain, où je le publierai alors ensemble avec mon ouvrage sur Alfieri ». L’interesse per Alfieri era, come si dice oggi, trasversale. Schubart racconta, nella sua autobiografia in francese, di aver incontrato personalmente Alfieri a Firenze in casa sua, nel corso dei ricevimenti settimanali dati dall’Albany. Nel 1812 la nuova Accademia Italiana indisse un concorso con premio in danaro per il miglior Elogio di Alfieri e di tutte le sue opere. Nel 1817 una gazzetta fiorentina aveva annunziato « il Programma dell’Elogio di Alfieri » proposto dalla Società Italiana di Scienze, Lettere, ed Arti livornese. Il concorso traeva spunto evidentemente da quello analogo bandito a Lucca nel 1806 dall’Accademia Napoleone e in cui era riuscito vincitore il Carmignani con la summenzionata Dissertazione critica, apparsa negli Atti dell’Accademia lucchese (Lucca, Bertini, 1806). Dell’Accademia Italiana risulta socio fin dal 1798 il Caluso, e nel 1846 il già segretario di Alfieri, Francesco Tassi. Come procacciatore di soci per la nuova Accademia lo Schultesius fa qualche comparsa nell’epistolario foscoliano. In data 12 ottobre 1807 Foscolo era stato nominato membro ordinario della iii classe, sezione ii, ovvero Eloquenza e Poesia. Una lettera circolare stampata di Gaetano Palloni, del 3 agosto 1808, comunicherà poi al poeta che al Vargas, di cui è già avvenuta « la partenza dall’Italia », è succeduto come nuovo  































presidente della nuova Accademia Pietro Moscati e come vicepresidente lo Schubart, che già dal 1804 era socio onorario della vecchia Accademia. In data 11 novembre 1807 Foscolo aveva chiesto a Giovan Battista Niccolini notizie di un’Accademia Italiana livornese, presieduta dal Vargas, e avente come segretario perpetuo Gaetano Palloni :  

mi hanno eletto motu proprio ; e sebbene nel banchetto delle Muse io mi diletti poco di queste spezierie accademiche, pure mi parve di rispondere accettando per fuggire la taccia di rusticità.  

Di nuovo il 27 novembre 1807 chiede la stessa informazione a Ippolito Pindemonte, socio straordinario dell’Accademia Italiana dal 5 luglio 1798. Foscolo appare pochissimo interessato alla sua ascrizione alla nuova Accademia Italiana. Ma lo Schultesius non demordeva. In data 11 agosto 1809 scrive al poeta, e loda altamente l’orazione pavese Dell’origine e dell’ufficio della letteratura, che Foscolo doveva avergli mandato ; lo invita a offrire qualche contributo agli Atti dell’Accademia Italiana, spedendolo al suo vicepresidente, ovvero il barone Schubart. In data 25 dicembre 1809 Foscolo ringrazia caldamente per il giudizio positivo sulla sua « orazione inaugurale » Dell’origine e dell’ufficio della letteratura (Milano, Dalla Stamperia Reale, 1808), ma comunica che non manderà nulla per gli Atti, per poter continuare a scrivere con la massima libertà e per non creare problemi all’Accademia livornese. Il 27 agosto 1812 ancora Foscolo scrive allo Schultesius per declinare l’offerta di collaborazione agli Atti dell’Accademia. Tutta la lettera è poi occupata da un progetto di dizionario della lingua italiana e dall’esposizione dei criteri da usarsi nel definire i significati delle parole nonché i vari aspetti della lingua italiana. Il 13 settembre 1812 Foscolo ancora risponde allo Schultesius. Questi gli aveva mandato alcuni scritti in lettura : il poeta ne dà giudizio non positivo. Con lettera del 31 ottobre 1812 lo stesso dà notizie sul suo lavoro di traduzione del Viaggio sentimentale dello Sterne e, a richiesta del pastore, elenca le sue opere pubblicate fino allora. Promette di spedirgli in futuro l’Orazione pel congresso di Lione e il discorso Su la morale del letterato. Da notare che anche il Sacchetti aveva annotato : « Ugo Foscolo a Milano », tra i Nomi di soggetti da proporsi per l’Accademia Italiana. In questo elenco si legge anche : « Gaethe – artista Svezzese ». Forse si tratta di Goethe, già nominato in una lontana lettera di Vargas a Sacchetti. Stupefacente il fatto che solo rarissimamente nei documenti, lettere e scritti stampati delle due Accademie, si accenni al loro rapporto con i liberi muratori. In una lettera del 31 agosto 1807 da Pisa A[ntonio] R[enzi], scrivendo al Sacchetti, a proposito di una stampa della nuova Accademia Italiana, parla esplicitamente del suo « Stemma Frammassonico ». Il 14 agosto 1808 una lettera non firmata informa il Sacchetti sulla nuova Accademia, e la dice posta « sotto la salvaguardia della Franc-massoneria ». Pare indubbia la ispirazione massonica della nuova Accademia Italiana. Chiudendosi l’epoca napoleonica e annunciandosi, non senza toni minacciosi, la Restaurazione, lo Schulthesius coglie lucidamente i segni e le possibili conseguenze del trapasso storico. Egli paventa lo scatenarsi di una nuova inquisizione, ma, conclude, « la lotta della luce con le tenebre durerà finchè gli uomini saranno uomini » (lettera a Napoli Signorelli). È mia convinzione che già l’Accademia Italiana, fondata nel 1798, dovesse essere, per lo meno nelle intenzioni non dichiarate del suo primo presidente, il Vargas, uno strumento di diffusione della cultura illuministica in chiave massonica. Proprio il legame di Vargas con la massoneria potrebbe spiegare tre fatti : la sua espulsione dalla Toscana, la scissione interna dell’Accademia (1807), la inspiegabile attività e rapida carriera del Vargas, ovunque egli si spostasse in Italia. I suoi legami con gli esponenti della massoneria italiana (in Tosca 

































«spezierie accademiche» da pelli a carducci na e a Napoli) sono da considerarsi certi. Credo anche che solo tardi (nel 1807) il Sacchetti si rendesse conto delle finalità massoniche nutrite dal Vargas. Non se ne rese conto l’Albany, frequentata a Firenze dal Vargas : l’Albany, acuta osservatrice, si accorse che Vargas nascondeva la sua vera personalità, e non riusciva a spiegarsi di che vivesse e a cosa mirassero i suoi viaggi e la sua attività. Finché visse, il Sacchetti sollecitò intellettuali italiani e stranieri ad aderire alla sua Accademia. Tra gli italiani da lui (pur antiromantico dichiarato) sollecitati vi fu Manzoni. Gli scrisse nel settembre 1827 per proporgli la nomina a socio dell’Accademia (ed ebbe risposta positiva), e di nuovo nel febbraio 1828. Nulla di tutto questo figura nell’epistolario manzoniano. Manzoni fu nominato socio anche dell’Accademia Labronica di Livorno nel 1828. Quali furono gli esiti della contesa tra le due Accademie ? L’Accademia Italiana del Sacchetti già nel 1814 aveva mutato il nome in quello di Ateneo Italiano, ebbe sede a Firenze, e sopravvisse con fasi alterne fino oltre la metà del secolo. Dette segno di vitalità negli anni 1856-1857 con le seguenti stampe : Adunanza solenne tenuta in Firenze dall’I. e R. Ateneo Italiano, la mattina del dì 24 febbraio 1856 per onorar la memoria del prof. Ab. Giuseppe Arcangeli, Firenze, Tip. Tofani, 1856 ; Atti dell’I. e R. Ateneo Italiano, In Firenze, Per Barbera, Bianchi e c., 1856, che accolgono i discorsi tenuti il 24 settembre 1856 nella sala di Luca Giordano del palazzo Medici Riccardi di Firenze dal presidente dell’Ateneo Attilio Zuccagni-Orlandini, e da Francesco Puccinotti, Cesare Guasti, Luigi Venturi ; Atti dell’I. e R. Ateneo Italiano, Seconda Dispensa, In Firenze, Per Barbera, Bianchi e c., 1857, che accolgono i discorsi della tornata del 25 gennaio 1857 di Marco Tabarrini, Alfredo Reumont, Eugenio Albèri, e del 17 maggio 1857 di Augusto Conti, Maurizio Bufalini, Francesco Corbani ; Atti dell’I. e R. Ateneo Italiano, Terza Dispensa, In Firenze, Per Barbera, Bianchi e c., 1861, che accolgono i discorsi del 6 dicembre 1857 di Ubaldino Peruzzi, di aprile 1858 di Giuseppe Maggio, del 20 giugno 1858 di Agenore Gelli. Ancora il 10 maggio e 25 ottobre 1865 il segretario provvisorio dell’Ateneo Italiano, Guglielmo Enrico Saltini (1829-1903), scrive al presidente dell’Ateneo Italiano, Attilio Zuccagni Orlandini, noto cartografo e geografo, in relazione a un discorso che Carducci deve tenere e che va prima stampato. Carducci accennava al suo discorso dantesco in lettera del primo aprile 1865 al Del Lungo : « Della poesia dantesca ho avuto cagione di scrivere questi giorni al Saltini ». Agli inizi di maggio 1865 scrive a Giuseppe Chiarini : « Intanto oggi co 





















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mincio a scrivere un discorso che leggerò all’Ateneo » ; il 9 giugno 1865 al Del Lungo : « Il magnifico Ateneo farà stampare » una sua « lettura non dantesca ma discorsiva di più e diverse cose » ; il 30 giugno 1865 a Giuseppe Chiarini : « Bada che que’ dell’Ateneo mi han chiesto il Discorso per istamparlo » ; il 19 novembre 1865 allo stesso : « appena ricevuta questa, mandami il discorso atenaico » (in nota si precisa che trattasi del discorso su Dante letto nell’Ateneo di Firenze) ; allo stesso il 17, il 20 e il 29 dicembre 1865 ancora accenna al discorso dantesco per l’Ateneo ; l’8 gennaio 1866 si rallegra col Chiarini per l’Ateneo italiano stampato e diretto dallo stesso Chiarini. Questi infatti aveva fondato a Firenze la rivista « L’Ateneo italiano. Giornale di scienze, lettere ed arti con le efemeridi del pubblico insegnamento », che durò solo per il 1866. Difficile pensare che il Chiarini non volesse in qualche modo collegarsi all’accademia fiorentina chiamata Ateneo Italiano, col quale Carducci era in relazione tramite il Saltini. Probabilmente questi fatti sono gli ultimi riferibili alla ormai vecchia accademia nata nel 1798. « L’Ateneo italiano » continuava ben tre riviste : la « Rivista italiana con le effemeridi della pubblica istruzione » (a sua volta continuazione della « Effemeride della pubblica istruzione »), la « Civiltà italiana », il « Borghini ». Nella presentazione il direttore, cioè Chiarini, dichiarava che la nuova rivista si proponeva di ospitare contributi non solo letterari, ma anche scientifici, economici e sociali, tutti ispirati al « trionfo del vero » e della « umana ragione ». Nessun accenno era riservato al fatto che la rivista avesse assunto la denominazione medesima dell’accademia denominata Ateneo Italiano. Aveva cadenza settimanale. Nell’esemplare da me consultato sono presenti ventidue fascicoli, pubblicati dal gennaio al giugno 1866. Di Carducci la rivista pubblicò sei contributi, tra i quali tre di argomento dantesco. L’anello mancante tra l’Ateneo Italiano e la nuova rivista dello stesso nome può essere considerata la menzione del saggio del Saltini nel primo dei due contributi danteschi di Carducci. Quanto all’Accademia Italiana di Scienze, Lettere, ed Arti, essa ebbe sede in Livorno, mutò il nome da Accademia a Società. Il 2 maggio 1816 veniva fondata l’Accademia Labronica, che continuava l’Accademia nata dalla scissione del 1807. Lo stemma dell’Accademia Labronica non ricorda però in nulla lo stemma dell’Accademia di scienze, lettere ed arti del Vargas. L’Accademia si dotò con gli anni di una ricca biblioteca, donata al Comune di Livorno nel 1852 e che prese il nome di Biblioteca Labronica, tuttora esistente. Da allora quasi certamente l’Accademia Labronica cessò di esistere.  



































































GIOVANNI BATTISTA CASTI E JACOPO VITTORELLI NELLA LETTERATURA SERBA DEL PRIMO OTTOCENTO (IL CASO DEL POETA JOVAN DOŠENOVIĆ) Željko Djurić Nota introduttiva

Vittorelli e Casti poeti erotici

l poeta serbo Jovan Došenović (1781-1813) fa parte di quel gruppo di letterati serbi di origine dalmato-montenegrina che a partire dal Settecento diedero un contributo e un’impronta del tutto particolare alla sostanza culturale e letteraria serba. In diretto contatto con la cultura italiana, soprattutto tramite la formazione scolastica italiana, alle volte anche quella universitaria, i letterati di quel gruppo hanno in seguito trasferito le proprie esperienze culturali, letterarie e linguistiche nell’ambito della cultura, letteratura e lingua serba. Questo fenomeno merita, generalmente, uno studio approfondito e dettagliato proprio per la sua cospicua singolarità e per la ricchissima gamma di contributi alla cultura serba. Il caso di Jovan Došenović è da questo punto di vista, insieme letterario e linguistico, estremamente importante e significativo. Con lui ci troviamo agli albori della poesia serba, in una situazione storico-linguistica del tutto singolare, nel pieno, come dicono gli storici della lingua serba, di un ‘pluralismo linguistico’ in cui il serbo volgare popolare, più o meno quello stabilito più tardi da Vuk Karadžić, si trovava in un rapporto di coesistenza e di interferenza con lo slavoserbo, con lo slavo ecclesiastico, con il russo. Došenović, proprio durante il suo soggiorno triestino, all’inizio dell’Ottocento, aderisce al movimento illuministico serbo promosso e guidato dal grande illuminista serbo Dosetej Obradović che anche agli intellettuali serbi residenti a Trieste sapientemente suggeriva, proponeva o imponeva le varie attività culturali da svolgere (nel campo delle scienze, della lingua, della letteratura, dei costumi, cioè di studiare, scrivere, tradurre, diffondere notizie ecc.) con lo scopo principale di modernizzare la cultura serba secondo i criteri dell’illuminismo europeo. Il giovane Došenović, dottore di filosofia dell’Università di Padova, si trova dunque su quella strada e coglie al volo, ci sembra, il messaggio e il programma di Dositej Obradović. Il suo amore principale è la poesia ma approfitta anche della sua attività commerciale per scrivere la Čislenica, uno dei primi manuali serbi di matematica. 1 Quanto alla poesia, Došenović, seguendo sempre il progetto di Dositej decide di produrre per il pubblico serbo una raccolta di poesie piacevoli e orecchiabili. Buon conoscitore della poesia italiana dell’epoca, Došenović come modelli poetici sceglie la poesia leggera di Giambattista Casti e di Jacopo Vittorelli (anacreontiche, odi, poemetti). Ma il problema più serio che doveva risolvere era quello delle scelte linguistiche. Si è trovato nella situazione di dover ‘creare’ un linguaggio poetico serbo quasi inesistente fino a quel momento, o per meglio dire inesistente nella sua forma popolareggiante. Nel nostro lavoro seguiremo appunto la sua avventura letteraria svolta e realizzata sulle tracce dei due poeti italiani. In questa sede presentiamo soltanto la prima parte, quella incentrata sul rapporto tra Jovan Došenović e Giovanni Battista Casti. 2

Giosue Carducci inserì anche Giambattista Casti e Iacopo Vittorelli nella sua famosa antologia Poeti erotici del secolo xviii. In quel contesto l’eros viene inteso come un generale attaccamento di quei poeti ai temi dell’amore terrestre. Se i due poeti italiani della seconda metà del xviii e dell’inizio del xix secolo erano, per questo aspetto, paragonabili tra di loro, per la loro dimensione dell’immaginario e per il coraggio nell’uso delle tematiche erotiche, invece, non lo erano affatto. Giambattista Casti nel suo opus letterario ricco di generi utilizzò spesso quel tipo di espressività deviando non di rado nell’indecente e nell’osceno. Una tale scelta poetica, evidentemente era in stretta relazione con la sua indole e la sua concezione della vita. Uno dei biografi di Casti sottolinea la sua « allegria un po’ malsana » e « la sensualità che non sta bene a nessuno, soprattutto a uno che prese i voti » 3 come fece Casti. Per questo motivo, relativamente presto cominciò ad essere considerato un uomo e un poeta che tendeva a esagerare, ad essere sfacciato e indecente. In questo, però, consisteva in buona parte, all’epoca, anche la sua non trascurabile fama poetica. 4 D’altra parte, tra antichi interpreti della poesia di Vittorelli gira un interessante aneddoto di come a Parini piacque particolarmente un’anacreontica di Vittorelli (Fingi, vezzosa Irene) che egli trascrisse e tenne tra le sue carte in modo tale che per un certo tempo fu addirittura considerata un suo testo. 5 Parini fu benevolo nei confronti della poesia di Vittorelli non solo per la sua qualità letteraria, ma anche per la sua purezza morale, castità e moderatezza. Dunque, a differenza di Casti, la poesia di Vittorelli era caratterizzata da una moderatezza e decenza per quanto riguardava i temi e le immagini dell’amore terrestre. Il suo biografo Simioni, facendo riferimento alla considerazione di Niccolò Tommaseo, scrive a un certo punto che fu merito di Vittorelli aver reso la poesia d’amore italiana « meno indecente » e di aver riportato la forma anacreontica verso la castità di una volta. 6 La popolarità delle anacreontiche di Vittorelli influenzò la comparsa di tanti seguaci tra giovani poeti (tra i quali ci fu anche il nostro Došenović). In una tale situazione, il poeta italiano doveva a volte anche lottare per mantenere il proprio modello di casta anacreontica. Una volta, già cinquantenne, in una lettera lamentava di ricevere moltissimi versi di quel tipo da leggere, tra i quali ce n’erano tanti anche indecenti e spudorati :

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1   Jovan Došenović, Čislenica ili nauka računa, Buda, Università Reale Ungherese, 1809. 2   La seconda parte contiene i capitoli : Došenović, Vittorelli e il “difficilissimo stile d’Anacreonte” e Došenović, Foscolo, Redaelli.  















Ma quello che soprattutto mi duole si è, che essendo io stato il primo a mettere in uso quelle piccole canzoncine, la loro picolezza e non altro, ha destato uno sciame di giovani a volerne fare delle simili ; e veggo continuamente con mio dolore e mi vengono continuamente mandate di coteste piccole anacreontiche così fracide, e così piene di  

3   Camillo Ugoni, Della letteratura italiana nella seconda metà del secolo xviii, i, Brescia, Bettoni, 1820, p. 190. 4   Si veda il famoso sonetto Un prete brutto, vecchio e puzzolente di Giuseppe Parini, in Idem, Le poesie, Milano, Hoepli, 1925, p. 133. 5   Attilio Simioni, Jacopo Vittorelli (1749-1835), Rocca S. Casciano, Cappelli, 6   Ivi, p. 114. 1907, p. 98.

giovanni battista casti e jacopo vittorelli nella letteratura serba del primo ottocento lordura, che ne arrossirebbero le donne di partito, nonché le vergini Muse. 1

Jovan Došenović, quindi, scelse come propri modelli due poeti ‘erotici’ della poesia lirica italiana della fine del Settecento completamente diversi ma allo stesso tempo complementari. Da un lato troviamo Giambattista Casti, ‘scapigliato’, provocatorio e irriverente che non rispetta le santità e le autorità e dall’altro Iacopo Vittorelli, moderato, rispettoso e attaccato alla purezza morale. Tale scelta, cercheremo di mostrare, avrebbe condizionato nello stesso Došenović e nella sua poesia la creazione e lo sviluppo di una duplice prospettiva instabile e non sempre controllata, la quale avrebbe dato continuamente l’impronta alla sua carriera letteraria. Una componente di tale duplicità, che maggiormente dipendeva dalla lettura dei versi castiani, fu quella dell’esaltazione giovanile e della ribellione, quella della conquista dell’autonomia, mentre l’altra, quella segnata dalle letture vittorelliane, cercava la pacatezza, la concretezza riflessiva e creativa. Sul piano storico-letterario, si potrebbe dire che nel Došenović pulsavano, confrontandosi e intrecciandosi, eredità e aspirazioni illuministiche, fermenti e cupe passioni del preromanticismo e del romanticismo. In questo pulsare maturava la sua individualità letteraria. 2 Che cosa Došenović prendeva da Casti e che cosa Casti era per Došenović Se cerchiamo di localizzare gli elementi della poesia di Casti nella raccolta di Došenović dal titolo Liričeska pjenija, lo stesso titolo porta anche la raccolta di poesie di Casti del 1792 3 (Poesie liriche), ci rendiamo conto che esiste una precisa dimensione strutturale. Nel Predislovije (Prefazione), quasi all’inizio, Došenović, nel contesto in cui formula un certo tipo di « difesa della poesia » dai possibili e reali tentativi di annullamento e di disprezzo, inserisce versi che rimandano ad una poesia di Casti :  









Son poeta in primo loco : Né tal merto è mica poco ; Perché tutti i gran profeti Tutti furono poeti ; E Barucco ed Abacucco, E colui che al gran Nabucco Con ispirato profetico Spiegò un sogno assai bisbetico ; E quel re sì santo e buono Che cantò dell’arpa al suono De profundis, Miserere, E altre flebili preghiere ; Né sdegnò, benché monarca, Di ballare innanzi all’arca !5  











Vediamo che Došenović segue Casti nella sua prima decina di versi. Ci sono i profeti Barucco, Abacucco e Daniele, il cui nome non viene citato, c’è il re Davide che suona e balla, ci sono Miserere e Pomiluj mja ; in questa decina di versi Došenović, con una accorta scelta di parole, evitò l’intonazione scherzosa e ironica di Casti, il che gli permise di organizzare di seguito un segmento poetico ‘religioso’ sui ‘nuovi Santi padri’ che, secondo Došenović, sono altrettanti poeti o sostenitori della poesia. Come unico esempio, tra i nuovi santi padri-poeti, Došenović cita Damaskina pjesnopisca (il poeta Damasceno). Perché proprio lui, Damasceno, 6 ovvero Damascio, neoplatonico del v-vi secolo ? Il nome di Damascio non si trova nella posizione della rima, cosa che poteva fino a un certo punto relativizzare l’importanza della scelta di inserirlo nei versi. Došenović nutriva una particolare ammirazione per quel filosofo ? Si tratta di un omaggio a una sua passione intellettuale della giovinezza ? Ecco un possibile suggerimento a proposito. Il patriarca di Costantinopoli e biografo Fozio, del ix secolo, grazie al quale furono conservati i testi di alcuni pensatori greci, tra i quali anche quelli di Damascio, non ne scrive in modo positivo :  











Benché appartenga alla religione, egli è spiccatamente miscredente e inserisce dappertutto nuove e vecchie storie inventate. In modo tale che non di rado bestemmia la nostra santa fede, sebbene lo faccia in modo timido e con una dissimulata malizia. 7 Egli altrettanto usa, raramente ma con molta disinvoltura, le forme poetiche. Nei propri discorsi poi inserisce tropi che non rendono la sua espressione sgradevole e fredda e i suoi passaggi bruschi, ma al contrario, le aggiungono dolcezza e armonia. 8







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  Ivi, p. 101. 2   Non è del tutto sicuro che nel caso di Došenović valga la consolidata opinione che i giovani poeti serbi scegliessero « iniziali e miste forme » della letteratura europea di quel tempo e « marginali scrittori europei » (Dragiša Živković, Evropski okviri srpske književnosti, i, Beograd, Prosveta, 1994, p. 67). Nei tempi in cui Došenović produceva, né Casti né Vittorelli erano scrittori marginali. Erano, se non altro, largamente popolari e solo con il passare del tempo si collocarono poi in una posizione marginale per quanto riguarda l’Italia, all’ombra di un Parini, di un Foscolo e più tardi di un Manzoni e Leopardi. Per i giovani scrittori, e così anche per Došenović, il principale criterio poteva essere il livello della vitalità dell’ambiente letterario e di alcuni autori al suo interno, oltre alle adeguate possibilità di identificazione ed affermazione poetica. 3   Giovanni Battista Casti, Poesie liriche del signore abate Casti, Pescia, Bartolini, 1792 ; le edizioni successive sono del 1795 e del 1796. 4   Jovan Došenović, Sabrane pesme, in Idem, Liričeska pjenija, Buda, Università Reale Ungerese, 1809, pp. 9-10.  



Questo brano è ispirato ai versi di Casti che troviamo nella composizione poetica, tratta dalla raccolta Poesie liriche, sotto il titolo Memoriale (dato per celia in occasione della vacanza del vescovato di V...). La poesia di Casti, come si può intuire dal sottotitolo, ha un’intonazione umoristica. In essa il Poeta immagina la situazione in cui lui stesso si presenta come candidato per un posto sacerdotale vacante. In un tale contesto offre il proprio autoritratto di poeta, fortemente caratterizzato da autoironia. Ecco i suoi versi :



Da veliki svi proroci Jesu bili pjesnotvorci ; Počinjući od Baruka, I slavnoga Abakuka. Pjevec, silni onaj prorok, Tolkovatel o snu dubok, Koj jest Navuhodonosoru Predrekao put u goru ; I car onaj David sveti, Što nuz harfu znade pjeti ; Pomiluj mja, Bože, divno, I ostale psalme slavno ; Pa i novi sveti oci, Stihotvorci, slatkopjevci. Ot pripjeva i kanona, Molitava od Zakona Krase mnogo Cerkov svoju Sa čestiju i slavoju : Ko ne sluša s draga serca Damaskina pjesnopisca ? 4



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Poteva, dunque, quel Damascio avere particolare attrazione per Došenović, nella sua figura di pensatore (poeta) caratterizzato da autonomia o eccentricità ? Tornando ai versi citati, notiamo che Došenović, in effetti, interviene in modo molteplice sul testo di Casti : da un lungo testo intonato umoristicamente e ironicamente trae un brano al quale attribuisce la funzione di ‘manifesto’ poetico, lo rende più serio e vi aggiunge, in modo ragionato, la dimensione religiosa del Nuovo Testamento, di nuovo come rafforzamen 



5   Giovanni Battista Casti, Opere complete, Parigi, Libreria Europea di Baudry, 1838, p. 271. 6   Gli italiani lo chiamano Damascio Damasceno, probabilmente da quest’ultimo deriva la forma di Došenović. 7   Photius, Biblioteca di Fozio Patriarca di Costantinopoli, Milano, Silvestri, 8   Ivi, p. 206. 1836, p. 205.

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to del proprio fondamento poetico. È difficile, quindi, parlare in questo caso di semplice traduzione ; si tratta piuttosto di una rielaborazione molto pensata e creativa, di una manipolazione del testo altrui. Quindi, Casti è presente all’inizio della Liričeska pjenija. Casti, però, è presente anche alla fine di questa raccolta di Došenović. Si tratta della poesia di Casti dal titolo A Fille, protestasi contento di mediocre stato senza affanarsi in traccia di richezze e di onori 1 (i quinari italiani, il primo e il terzo verso finiscono con le parole sdrucciole, il secondo e il quarto verso sono in rima, 27 strofe) e della composizione di Došenović dal titolo Anakreontika, prvo moje sočinenije posle trimesečne mi ljute bolesti sad 1809. u Pešti 2 (i senari, il secondo e il terzo verso sono in rima, 28 strofe). La poesia di Casti inizia con il richiamo all’amata Fillide : « O cara Fillide, / che spesso sei / soggetto amabile / de’ carmi miei ». Došenović per questa strofa di Casti ne fece tre sue : per esempio, la terza è la traduzione della prima strofa di Casti (« Ti si često predmet / moje lire bila, / I svi njeni djela »), solo che Došenović sposta il primo verso di Casti nella sua seconda strofa (« Daj, draga Filido »). Due strofe che aggiunse, che non sono presenti in Casti, hanno una dimensione autobiografica e hanno a che fare con il sottotitolo in cui si parla della malattia e della guarigione di Došenović : « Raduj mi se Nimfo, / Ja izbego mertvu / Grozni Parka žertvu », « Daj, draga Filido ! / Za me radost tvoju, / Da tvoju i moju / Ja obnovim ljubov ». Più tardi, Došenović nelle due strofe che inizia a tradurre, inserisce, abbandonando la traduzione, un tono amoroso più intimo ; mentre in Casti leggiamo dei versi abbastanza convenzionali : « Perciò se placide / Mi volgi, o Fille / Quelle bellissime / Care pupille », in Došenović troviamo dei versi forse altrettanto convenzionali, ma che seguono la tradizione della poesia serba (popolare lirica o borghese) : « Zato... kad me ljubo ! / Milostivo gledneš, / I uz mene sedneš / U bašči na travi ». Poi, nella strofa successiva, Došenović segue Casti, ma procede anche per conto suo. Casti, nella strofa che fa parte di una lunga frase, canta : « Se i pronti cantici / Mi detta Amore, / Loquela armonica / Di un lieto core » ; in Došenović, invece, leggiamo dei versi con una forte inversione : « I tvoja mi ljubva / Koju pjesnu speva, / Da serce uživa / I moje tvoj glagol ». Comunque, Došenović rimane nella sfera più intima della coesistenza del poeta e dell’amata. Leggendo più avanti, troviamo un altro esempio molto interessante : di nuovo Došenović inserì abilmente le strofe di Casti nel suo personale flusso di pensiero e di emozioni : Casti progetta la propria strofa, di nuovo in modo molto convenzionale, nel tempo e nello spazio della sua personale e profonda vecchiaia : « Benché la frigida / Vecchiezza il crine / Mi venga a spargere / Di bianche brine // Sul verde margine, / Del tosco fiume, / Ripieno l’animo / Del sacro nume » ; Došenović non traduce affatto la seconda delle due strofe, mentre la prima, sulla vecchiaia, la sfrutta per ricordare il proprio contesto presentato all’inizio della poesia (la sua malattia e la guarigione) : « O draga Filido, !/ Ako sam i nemoćan, / Još slab i nevoljan, / Pretrpevši bol ». Alla fine, non traduce l’ultima strofa di Casti che è in effetti la ripetizione della prima e che una volta aveva già tradotto « O draga Filido ... ». Giambattista Casti lo incontriamo un’altra volta nel Predislovije. 3 Došenović sfruttò una parte di un’altra sua anacreontica dal titolo A Fille, le mostra il pregio di un virtuoso amore. 4 Il segmento scelto da Došenović (« Vita, principio, ed Anima / Dell’Universo è amore ») e il modo in cui lui lo delimitò com 























































































portano il fatto che questi versi risultino totalmente atipici per Casti, come se li avesse scritti, per esempio, Niccolò Tommaseo nel suo caratteristico impeto religioso e cosmico. Della sopracitata poesia di Casti, che ha 24 strofe, Došenović ne tradusse sette. Scelse esattamente quel brano che corrispondeva alle sue intenzioni poetiche, ovvero quelle di trovare nei versi di un famoso poeta l’illustrazione del proprio concetto poetico-religioso dell’amore. Tutto quello che nella poesia di Casti fu rivolto alla giovane Fille nella forma di un convincimento ‘privato’ in versi a non rinunciare all’amore nella vita, Došenović omise ; per esempio, prima della strofa che tradusse, leggiamo questa : « Poiché si bella e amabile’ / Ti fer benigni i Dei, / Seguir le dolci e placide / Leggi di amor tu dei ». I versi di Casti vengono sapientemente incastrati in quella parte del Predislovije che Došenović dedica alla discussione sull’amore, toccando le dimensioni filosofico-religiose, estetiche e umane del fenomeno. Le strofe di Casti le troviamo in un altro punto strutturalmente importante della raccolta di Došenović ; nella posizione della prima poesia, introduttiva che, come di solito succede, ha il significato di un programma. Došenović, sotto il titolo di Vstuplenije, 5 tradusse otto su quindici strofe della prima, anch’essa introduttiva anacreontica di Casti nella quale il poeta dice che « non cura di cantare guerre od arti ma solo canta di amore per piacere alle donne ». 6 Questa nota di Casti, nel titolo, Došenović non la traduce come non traduce le altre sette strofe (la sesta, e poi dalla decima alla quindicesima) nelle quali Casti si rivolge soprattutto alle donne. Scrive all’inizio, insieme a Casti, che non canterà odiate guerre e sanguinose battaglie. Poi traduce una strofa autobiografica di Casti : « Gaio umor, placido ingegno / A me diero amici i numi, / E da grave aspro contegno / Alienissimi costumi ». La strofa di Došenović dice così : « Ljupku volju, tihi način / Dadoše mi blagi Bozi ; / A nemila strogost pričin / Sa mnom nikad nije u slozi ». Si tratta, in tutti e due i poeti, dello sviluppo di un programma scritto in versi di leggera poesia d’amore. Scegliendo poi di tradurre otto su quindici strofe di Casti, Došenović in un certo senso adeguò a sé anche le intenzioni poetiche di Casti, ma fece anche vedere una propria virtù poetica di grande importanza : la sensibilità per l’economia delle parole, per contrarre e concentrare le espressioni. Evitò di tradurre quelle strofe e quei versi nei quali Casti si rivolge direttamente alle donne (« Donne belle che ascoltate », « O donne care », « Donne mie ») e assicurò in questo modo alla propria poesia più unità stilistica e più densità di contenuto. Non tradusse alcune strofe anche perché aveva acutamente notato che Casti alle volte era troppo ripetitivo. Così, per esempio, nella sua quinta strofa unì con tanta maestria dal punto di vista del contenuto, i primi due versi della quinta strofa di Casti (« Aureo crin, pupille nere,/ Molli sdegni e molli amori/ Cose tai che con piacere/ Legger possa e Fille e Dori » – corsivo mio). La quinta strofa di Došenović dice : « Zlatne vlase, crne oke, / Prigož sostav nježne ljubve ; / One stvari što su sladke, / I što služe na zabave ». Con la seconda parte della strofa è come se avesse interpretato i versi della tredicesima strofa di Casti : « Ma si appaghi e si riposi / La tranquilla fantasia / Su i concerti dilettosi / Della facil poesia ». È interessante, da questo punto di vista, anche la traduzione della nona strofa di Casti, e l’ultima di Došenović : « Io temprar di quella cetra / Vo’ le corde argute e pronte / Per cui va famosa all’etra / L’ amoroso Anacreonte » di Casti, Došenović traduce con « Ja ću struni soglasiti, / Gusl jasnu ljubkog zvona / Sledujući serca slasti / Ljubimog’Anakreona » (corsivo mio) rafforzando le sfumature di dolcezza e di musicalità.  



































































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  Giovanni Battista Casti, Opere complete, cit., pp. 241-242.   Jovan Došenović, Sabrane pesme, cit., pp. 122-128. 3   Ivi, pp. 15-17. 4   Giovanni Battista Casti, Opere complete, cit., pp. 246-247. 2

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  Jovan Došenović, Sabrane pesme, cit., pp. 25-27.   Giovan Battista Casti, Opere complete, cit., p. 241.

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giovanni battista casti e jacopo vittorelli nella letteratura serba del primo ottocento Delle sfumature singolari possiamo parlare anche per quanto riguarda la quarta strofa. In questa Casti dice : « Cantar vo’ Dori e Fille, / Ed esporre in dolce stile / Idee facili e tranquille, / Grate sempre a un cor gentile » ; Došenović la rielabora nel seguente modo : « Popevaću o Irini / I o Filis slatkoglasno, / Lakom misli u tišini, / Što je nežnom srcu časno ». Il « dolce stile » e il « cor gentile » di Casti, diretto e consolidato riflesso della tradizione poetica italiana del periodo di Dante, sono addolciti da Došenović, che li rende più tenui e più intimi : « slatkoglasno », « tišina », « nežno srce ». Per adesso, in base agli esempi presentati, possiamo concludere almeno questo : che, innanzi tutto, Došenović non traduce Casti in modo « servile e letterale » come è stato detto ; 1 traducendo in maniera ingegnosa, ma anche manipolando abilmente e cambiando intenzionalmente il carattere del testo, presenta con successo, da una parte, il poeta italiano al pubblico serbo, il che fu probabilmente uno dei suoi obiettivi, ma intanto, e questo riteniamo sia la dimensione più importante, Došenović in un processo di identificazione controllata con Casti crea anche la sua personale esibizione da poeta e il suo profilo poetico. Dalle strofe appena citate un altro dettaglio merita attenzione. Došenović, è stato ancora detto, « Dori traduce con Irine ». 2 Riteniamo che la ragione non sia proprio così semplice. Primo, Došenović, come Casti, non vuole cantare a una sola donna, ma attraverso due nomi femminili pastorali canta potenzialmente tutto il genere femminile. Seconda cosa, il nome Irina (Irene), secondo noi, è introdotto da Došenović proprio nel Vstuplenije perché seguono anacreontiche scritte sul modello di Vittorelli, le quali, come si sa, sono dedicate ad una donna che porta tale nome (Anacreontiche ad Irene è il titolo più diffuso di questo famoso ciclo di Vittorelli). Ancora più interessante è il fatto che questi due nomi femminili del Vstuplenije, Irina e File (Filis), esistono davvero nelle anacreontiche di Došenović scritte sul modello di Vittorelli le quali occupano il posto centrale della sua raccolta. Mentre Vittorelli, ovviamente, dedica tutte le anacreontiche a Irene, Došenović, nelle sei anacreontiche, mette il nome di Irina (ii, iv, v, viii, xvii, xxiii), e nelle altre sei quello di Filis, ovvero Filida (vi, x, xi, xvi, xxiv, xxix). Dunque, non si tratta assolutamente di suoi errori o incoerenze ma del rispetto di una scelta poetica, se non di un motivo psicologico più profondo. Un altro testo poetico di Casti ha un posto importante nella Liričeska pjenija di Došenović. Infatti, dopo il menzionato blocco di anacreontiche ispirate dalle Anacreontiche ad Irene di Vittorelli, il nostro poeta conclude con una composizione intitolata Anakreontika sama 3 che nel sottotitolo offre una lunga spiegazione : « Un amante scrive alla giovane che prima amava ; ma quando scopre il suo carattere immorale e il suo comportamento, la abbandona e totalmente la disdegna ». Per la composizione di questa anacreontica Došenović usò l’anacreontica di Casti A Fille, congedo di amore. 4 Questa anacreontica di Casti, forse più di tutte le altre composizioni poetiche che Došenović qui tradusse e imitò, contengono un certo potenziale psicologico da melodramma : l’amore tradito, frugare tra le ferite d’amore, l’amore che si trasforma nell’odio, l’uomo sincero e ingenuo e la donna volubile, propensa al tradimento ; sono questi gli elementi della poesia che, probabilmente, attrassero Došenović. Casti l’aveva scritta in maniera virtuosa, con un’espressione sicura e classica, con i sentimenti accennati ma non vissuti. Došenović la traduce enfatizzando fin dall’inizio i momenti emozionali, ovunque trovi l’occasione per farlo. Non  



























































  Ivanka Jovičić, Jovan A. Došenović i Đambatista Kasti, « Godišnjak filozof2   Ivi, p. 276. skog fakulteta u novom sadu », ii, 1957, p. 274. 3   Jovan Došenović, Sabrane pesme, cit., pp. 58-64. 4   Giovanni Battista Casti, Opere complete, cit., pp. 256-257. 1





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è stato per niente facile tradurre le strofe corte, precisamente formate e i versi in cui la leggerezza e la musicalità sono frutto di una grande esperienza di verseggiatore e di maestria. È particolarmente interessante seguire come nel testo di Došenović vengano creati ampliamenti ; di lui, infatti, abbiamo 27 strofe, contro le 24 strofe di Casti. Nel furore dell’odio poetico Casti dice della sua infedele amata che per quantità di veleno che porta nel seno supera anche le aspidi egizie ; mentre Došenović lo presenta in questo modo : « Niti smrtonosna / Egipatska Aspida 5 / U svom njedru nema / Tako zloga jeda ». Questa immagine di Casti, con serpenti, stimolò Došenović a elaborare in maniera suggestiva l’immagine della sua ex amata usando, un’altra volta, l’immagine del serpente. Casti descrive in una strofa l’inclinazione di lei verso il tradimento : « Schernir, deludere / Con scaltri modi / Gli amanti creduli / Esulti e godi » ; a Došenović, invece, servono due strofe che sono più forti e più suggestive di quelle di Casti : « Vrtoglave gatke / i miganje zmija / Ljubovnike mnoge / Oko tebe vija // A ti si im samo / Vesela i rada / Da i menjaš često / Kako sreća nada ». Sono molto particolari ed espressive « vrtoglave gatke » che sarebbero invenzioni o fandonie che « fanno girare la testa » all’uomo e il « miganje zmija » (movimento sinuoso dei serpenti) che ricordano anche i movimenti seduttivi del corpo femminile. La tendenza ad inserire il personale ed il vissuto in questi versi, Došenović la mostrò soprattutto verso la fine della Anakreontika sama. La strofa di Casti porta l’intonazione iniziale : « Per te, rea femmina / Pur troppo io fui / Oggetto misero / De’ scherni altrui » (Zbog tebe sam, zla ženo / Bio, na žalost, / Bedni predmet / Tuđih poruga – traduzione di Zˇeljko Djurić). Il contenuto di questa strofa Došenović la sviluppa creandone tre proprie :  











































Za te ženo gnusna Pravda, ja sam bio Predmet sasvim bednij, Pa i ukor dobio. Od razumni ljudi, Od celoga sveta I hulu, i mrzost I svaki navjeta ; Ali sve to onda, Dok te nisam znao, Ja pretrpi za te, I dragom te zvao.  

Dunque, da parte della gente ragionevole, il poeta fu deriso, rimproverato, offeso, 6 divenne oggetto di scherno, di pettegolezzi e di intrighi ; il poeta sopportò tutto questo per un amore che non era veramente ricambiato. Che i versi scelti da Casti offrissero a Došenović un forte stimolo di programma, lo vediamo nello stesso frontespizio della Liričeska pjenija ; sotto il titolo e il nome dell’autore leggiamo i versi di Casti e la loro traduzione : « Su laurea cetra, in dolci modi ; / A Fille, e a Venere tesserò lodi », « V’gusle zlatni struna, pjesne hoću plesti ; / Filis, i Veneri s’ umiljatom česti ». Nell’originale, ma anche nella traduzione di Došenović di questa poesia, i versi sono messi in modo diverso ; sono, infatti, quattro versi di una strofa di Casti. I versi sono presi dall’anacreontica di Casti dal titolo Preghiera a Venere, per la malattia di Fille. 7 Nella Liričeska pjenija Jovan Došenović incluse anche la traduzione di questa poesia  



















5   È un esempio di deviazione di Došenović verso la versificazione accentuativa : il presente verso è un senario solo grazie ad una sinalefe che fa sì che la -a- finale della parola « Egipatska » e la -a- iniziale della parola « Aspida » si fondano in una sola sillaba. 6   ‘Hula’ – offesa. Secondo Vuk questa parola trae origine da Dubrovnik. 7   Giovanni Battista Casti, Opere complete, cit., pp. 244-246.  









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di Casti mettendola nel gruppo di odi, intitolato Molitva k’ Veneri vo iscjelenije Device Filis. 1 In questa poesia il verso di Casti è quinario, quindi con accento rigorosamente sulla quarta sillaba ; intanto il primo e il terzo verso di ogni strofa finiscono con le parole sdrucciole, mentre il secondo e il quarto hanno accento sulla penultima sillaba. Così, il primo e il terzo verso dopo una sillaba tonica hanno ancora due sillabe atone (sei in totale), mentre il secondo e il quarto ne hanno una (cinque in totale). Ci pare che Došenović fosse ispirato proprio da questa particolare musicalità di verso corto di Casti, e soprattutto dalla possibilità di usare le parole con l’accento sulla terzultima sillaba. In occasione della traduzione di questa composizione di Casti, Došenović trovò una moltitudine di tali parole serbe che mise alla fine del verso : slàdosti, mòlitvu, mìlosti, ùpravi, ljùbavi, prevòshodi, nèbesne, òčima, plàmena, ljùpkosti, njèžnome, ùtjeha, òbična, vnùtreno, skàzuju, kàmenje, prìvode, pèčalne, bèsilne, čèkaju, plàčući, bòljezni, plàčemo, prèstanka, òbraze, zàzora, vàrvarski, Bòginjo, ljùbila, nàšega, zàvjeta, bèžati, skòrije, ràdosti, hvàlio, ùstavi, ìnome ecc. Ci sono tantissimi casi nei quali queste parole vengono inserite anche all’interno del verso. Ne consegue che quasi tutti i senari serbi di Došenović in questa traduzione hanno l’ultimo accento sulla quarta sillaba e quindi suonano come quinari italiani. In questo modo lui riuscì a conquistare del tutto la particolare musicalità del verso italiano e a creare, in lingua serba, un verso rapido e melodico, forse il più corto e il più veloce in questa fase iniziale dello sviluppo della poesia serba :  



Ùsliši mòlitvu Zàradi mìlosti.

Vediamo con quanta maestria e sicurezza Došenović ricompone, per esempio, i seguenti versi di Casti : « Chè se alle misere / Nostre querele / Inesorabile 2/ Morte crudele // (L’infausto augurio/ Ah ! tolga il Cielo) / Sopra di Fillide / Scoccasse il telo » ( Jer ako na naše / Jadikovke neumitna / Surova smrt / – Taj strašni naum, / Nek otkolone, avaj, Nebesa – / Odapne na Filidu strelu). Rispettando il forte enjambement tra le due strofe rafforzato dai pezzi inseriti (tra parentesi da Casti, tra trattini da Došenović), il nostro poeta lo rende così : « Jer ako sver toga / Vopijanja našega / Smert neumitna / Osta kod svojega // – O Bože otkloni – / Svirjepa zavjeta, / I Filis rastavi / Od ovoga svjeta ». A volte lo stesso Došenović, non seguendo Casti, crea enjambement fra una strofa e l’altra (fra la quattordicesima e la quindicesima, fra la ventitreesima e la ventriquattresima, fra la ventinovesima e la trentesima). È interessante l’efficace soluzione che propone Došenović per la traduzione del superlativo assoluto italiano (« belissimo », « lontanissimo », « amorosissimo ») usando la forma propria dello slavoserbo : «krasnjejša», «dalečajša», «sveljubeznjejša». Troviamo un esempio, non l’unico, di rima tra la traduzione e l’originale : « I drug s drugom složno / Imne na znak dara / Slavne tebi pjeti / Okolo oltara » e « E andranno unanimi / Cantando a gara / Indi Giubilo / D’Intorno all’ara » (corsivo mio).  







































O krasna Vènera ! Bòginjo slàdosti,  

1

2   Došenović è consapevole di questo uso di Casti di un’intera parola come il verso quinario : « Inesorabile » o « ardentemente » ; si avvicinò alla soluzione nel verso « Ti sveljubeznjejša ».  

  Jovan Došenović, Sabrane pesme, cit., pp. 92-101.















MANZONI E LA CRITICA DELLA RAGION TEATRALE Carlo Annoni

A

tt estiamo il bisogno di teoria di Manzoni con un autoritratto del maestro in figura, una volta tanto, di scolaro, educato alla retorica e orecchiante di filosofia, dove l’ironia su di sé appare divisa fra i ben consueti understatement e arguzia brillante (ma siamo addestrati a fondo, circa il peculiare valore da dare a questa modalità argomentativa nello scrittore, la stessa che lo induce a chiamare « opericciuola » la Morale cattolica, « mon avorton » l’Adelchi, « ma grosse bluette » il romanzo). Egli, fra tant’altro, così scrive confidenzialmente nella lettera non spedita al Cousin : « Vous savez que je suis un élève de rhétorique qui a écouté, quelque fois et en passant, à la porte de la salle de philosophie ». 1 Manzoni allinea un numero imponente di pagine di drammaturgia storico-teorica, partendo dalla constatazione che « [l]’arte drammatica si trova presso tutti i popoli civilizzati : essa è considerata da alcuni come un mezzo potente di miglioramento, da altri come un mezzo potente di corruttela, da nessuno come una cosa indifferente ». Il lettore riconosce che stiamo citando dalla Prefazione al Carmagnola, la quale in parte riassume e ripropone, e in parte integra con altro, i precedenti fogli sparsi sull’argomento, quegli stessi che l’editore di fine Ottocento, il Bonghi, raccolse sotto il titolo complessivo di Materiali estetici. Il secondo e più sistematico capitolo del libro virtuale di istituzioni drammaturgiche è costituito, come ben noto, dalla Lettre à M. Chauvet, 2 cui va aggiunta la parte del Discorso sul romanzo storico che si occupa della tragedia di argomento storico e che contiene anche un abbozzo di dottrina dell’attore e della scena. Non è possibile trascurare, e giungeremmo ad una terza ed ultima parte, l’insieme delle discussioni e delle sistemazioni che spiccano nell’Epistolario (senza però omettere di recuperare, a conclusione, anche l’arguta raccomandazione di Manzoni a se stesso, sul libro che nasce per giustificarne un altro : « Ci bisognerebbe un libro : e il cortese censore sarà d’accordo con me che di libri uno per volta è sufficiente, quando non è troppo »). 3 Verrà aggiunta un’ulteriore avvertenza : che cioè nell’unità della mente del Manzoni le riflessioni sul teatro si intrecciano con quelle sul romanzo, per poggiare in prima ed ultima istanza sul concetto ordinatore della parola responsabile, dove si ritaglia un suo spazio assai importante la parola letteraria. Egli, dunque, avverte :  



































Tutto ciò che ha relazione con l’arti della parola, e coi diversi modi d’influire sulle idee e sugli affetti degli uomini, è legato di sua natura con oggetti gravissimi. 4

Un passaggio di eguale nobiltà, meno solenne, ma anche più immediatamente applicativo, viene incontrato dallo studioso nella stesso giro d’anni, offertogli dalla ricca minuta della novella milanese. È un intenso appello al lettore :  

[S]e dopo aver letto questo libro voi non trovate di aver acquisito alcuna idea sulla storia dell’epoca che vi è descritta, e sui mali

dell’umanità, e sui mezzi ai quali ognuno può facilmente arrivare per diminuirli in sé e negli altri, se leggendo voi non avete in molte occasioni provato un sentimento di avversione al male di ogni genere, di simpatia, di rispetto per tutto ciò che è pio, nobile, umano, giusto, allora la pubblicazione di questo libro sarà veramente inutile. 5

A monte di tali idee sta la giustificazione antropologica 6 che rende sicuri della forza asseverativa e della certezza dello strumento, perché, secondo Manzoni – il quale prende posizione all’interno di una querelle di antichità non documentabile, ma che nel pensiero cristiano fa capo ad Agostino –, la lingua è creata originariamente da Dio con il primo uomo, ammesse poi tutte le corruttele e differenziazioni, esse stesse seguite « per cagione soprannaturale ». Leggiamo, infatti, limitandoci a questo estratto, nell’opera incompiuta Della lingua italiana : « La Rivelazione […] c’insegna […] che un primo linguaggio è stato comunicato al primo uomo da Chi gli ha dato l’essere ». 7 Riportando la nostra attenzione alla Prefazione al Carmagnola, 8 osserviamo che la critica delle unità drammatiche ha perso per noi l’urgenza fortemente presente in Manzoni, il quale legava strutturalmente tale forma del teatro ad altri aspetti negativi della società di antico regime, tutti confluenti in una dimensione ostile alla societas della « Madre dei santi ». Noi guardiamo, piuttosto, con attenzione, a caratteristiche di tipo diverso, ma egualmente presenti nel patto drammaturgico manzoniano ; ed in particolare ci rivolgiamo a tutto ciò che in tale patto tende ad indebolire l’aspetto incantatorio e di sospensione del giudizio prodotti dalla messa in scena. Manzoni interrompe il circuito perfettamente mimetico e partecipativo fra spettatore e testo ‘performato’, con una serie di osservazioni/prescrizioni notevolissime, le quali, entrando in maniera decisiva fra le costituzioni del teatro della città nuova, vogliono tutelare la « riflessione sentita » e, dunque, l’abito del giudizio su quel che avviene in scena da parte di chi vi assiste, evitando ogni forma di ingresso ingenuo, per immedesimazione, nello specchio magico dello spettacolo e sotto le luci della ribalta. Stampiamo, togliendo ogni enfasi, due scritte sul frontone ideale che introduce alla scena del maestro lombardo : « La platea non entra nel dramma […]. Lo spettatore è una mente estrinseca che contempla ». Di eguale importanza sono poi le riflessioni sul Coro possibile nella tragedia moderna : poiché, una volta accertata la non riproponibilità del personaggio collettivo del dramma antico, e presa, da parte nostra, la misura della sprezzatura per la parola e per l’idea del « cantuccio riservato al poeta », Manzoni immagina un luogo lirico e in voce propria, il quale, « riverberando, per così dire, allo spettatore reale le emozioni [provate e temperandole], gliele rimanda […] raddolcite e lo conduce […] nel campo più tranquillo della contemplazione ». È esattamente quanto avviene, ci sembra, nel Carmagnola e nell’Adelchi, dove la persona corale, che  















  Cfr. la Lettre à Victor Cousin (una lettera mai partita da Milano, come sappiamo, e databile agli anni 1829-1830, in Alessandro Manzoni, Epistolario, i, a cura di Cesare Arieti, Dante Isella, Milano, Adelphi, 1986, p. 583). 2   E dalle carte preparatorie, prime fra tutte quelle dello Sbozzo. 3   Cfr. Alessandro Manzoni, Introduzione (seconda stesura) a F (Fermo e Lucia), p. 17 (si faccia sempre riferimento ai tre tomi della stampa Mondadori, per cura di Silvano Salvatore Nigro, Milano, collana « I Meridiani »). 4   Su questo peculiare passaggio della Prefazione al Carmagnola vedi Claudio Scarpati, Pietà e terrore nell’Adelchi, in Studi di letteratura italiana, Milano, Vita e Pensiero, 2006, pp. 256-287.  





















5

1



  F, p. 9.   S’intenda di un’antropologia sovraordinata, come d’abitudine in questo autore, alla metafisica. 7   Cfr. Alessandro Manzoni, Della lingua italiana, in Scritti linguistici inediti, i, per cura e introduzione di Angelo Stella, Maurizio Vitale, con una estesa premessa di Giovanni Nencioni (L’incessante itinerario di una ‘concezione democratica’ della lingua), Milano, Centro Nazionale Studi Manzoniani, 2000 («Edizione nazionale ed europea», 17), p. 157. Ed è, fra l’altro, la medesima tesi di Dante, un altro poeta instauratore, nel De vulgari eloquentia, i, iv, 3 e v, 1. 8   Che si leggerà nell’edizione Bardazzi, Milano, Fondazione Mondadori, 1985. 6

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carlo annoni

è divenuta pars auctoris, si costituisce in qualità di spettatore trascendentale (« organo de’ sentimenti del poeta che parla in nome dell’intera umanità […], difensore della causa dell’umanità »). Le pagine della Lettre allo Chauvet, successive alla Prefazione del Carmagnola, toccano poi un altro motivo sostanziale nel dibattito d’allora, ma che ha perso un po’ di interesse per noi, laddove il poeta propone la lettura, e non la recita, quale destinazione più efficace per i Cori (« Io propongo che siano destinati alla lettura » ; ed aveva anche autorizzato, nella stessa sede, una idea generale di tragedia « come un poema in dialogo, fatto per la lettura, del pari che il narrativo »). Insomma, Manzoni si piega a molte concessioni relativamente alla pratica teatrale, senza però transigere, anzi valorizzando al massimo possibile ciò che riguarda l’essenziale del suo « progetto », il quale « [gli] sembra poter essere atto a dare all’arte più importanza e perfezionamento, somministrandole un mezzo più diretto, più certo e più determinato d’influenza morale ». Credo si possa, infine, collocare qui la conclusione della parte di capitolo che Manzoni dedica nel Fermo e Lucia a Racine ; il quale, a suo dire, « per aver la grazia dei potenti, adulò in essi apertamente il vizio, ch’egli conosceva come tale ». Manzoni svaluta la tragedia raciniana dell’ossessione erotica nello spazio chiuso della corte a favore del teatro di fiera dell’improvvisazione popolare ; e, se anche può apparire spregiudicato, egli è invece soprattutto poeta di humaniora, quando scrive, collocandosi in basso, vicino al « buffone » 1 del villaggio :  



































Se le lettere dovessero aver per fine di divertire quella classe d’uomini che non fa quasi altro che divertirsi, sarebbero la più frivola, la più servile, l’ultima delle professioni. E vi confesso che troverei qualche cosa di più ragionevole, di più umano, e di più degno nelle occupazioni di un montambanco che in una fiera trattiene con le sue storie una folla di contadini : costui almeno può aver fatti passare qualche momenti gaj a quelli che vivono di stenti e di malinconie ; ed è già qualche cosa.  



Questo passo cadrà nella stesura definitiva del romanzo, e non conoscerà alcuna ripresa altrove, nella teoria drammaturgica (men che meno nella Lettre allo Chauvet, stampata a Parigi, dove avrebbe assunto l’aspetto della provocazione), ma ci sia concesso di vedervi un bel tratto di consenso, anche se solo implicito, con l’unica testa pensante realmente confrontabile alla manzoniana nella cerchia della Milano primo-romantica, quella di Carlo Porta, cantore della Ninetta, del Marchionn, del Gioanin. 2 La Lettre à M. Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie, pubblicata nel 1823 a Parigi, come già si diceva, se nata con l’intenzione di essere la risposta ad una recensione francese del Carmagnola, travalica poi immediatamente l’occasione, divenendo un testo-manifesto, perfino troppo denso di motivi. Si sa che Manzoni possiede anche il talento del grande

critico e come sono note le pagine dedicate nei Materiali estetici al Tell di Schiller e al Riccardo ii di Shakespeare (due casi nei quali l’esegesi diventa insieme luogo della prima enunciazione di importanti concetti teorici), così appare oggetto assiduo di attenzione da parte degli studiosi della Lettre l’estesa analisi, e l’ipotesi di riscrittura, che lì toccano all’Andromaque di Racine. L’accessus e l’interpretazione generale della tragedia francese sono polemici, perché muovono, dissentendo, al cuore di ciò che ne occupa principalmente la scena, « aux agitations et aux souffrances de ces héros et de ces héroines qui s’aiment tous à contre-temps » (di Oreste che ama Ermione che ama Pirro che ama, non ricambiato, Andromaca, fedele alla memoria del marito ucciso), mentre « ce pauvre Astyanax, ce malheureux fils d’Hector, ne paraît jamais dans la pièce que comme un accessoire, comme un moyen ». Il suo destino appare in effetti quasi confinato nel fondo e tra le quinte, mentre – e qui si motiva e scatta l’indignazione manzoniana – si tratta d’« un enfant innocent qu’en veut égorger » ; per il quale, tra l’altro, alla discesa del sipario, continua a restare incombente e indeciso « le projet de toute la Grèce de l’immoler », allo scopo di annientare l’ultimo erede della dinastia regia di Troia. Tale suspence pare invece non turbare né l’autore d’oltralpe né il suo pubblico, perché la trama invariante della drammaturgia del Grand siècle costringe il poeta ad abbandonare – secondo pare, due secoli dopo, a questo lettore risentito – « les cordes du coeur humain les plus graves et les plus morales », che pur sono sue, come avrà modo di mostrare successivamente, giostrando invece, per tutto lo spazio del testo, in questa ronda degli amori principeschi a contrattempo. 3 Astianatte, un « incolpato » – e anche lui, in ciò, figura Christi –, entra fra i personaggi manzoniani, attraverso le pagine dedicategli nella Lettre ; ed è del pari straordinaria la ridisposizione dei colori morali attorno ad Andromaca, la quale, da possibile sorella della buona Ermengarda e della buona Lucia (e magari sotto l’insegna, ancora più sua, della Mater dolorosa), diventa compagna pratica della « sventurata » Virginia di Leyva, perché sceglie la categoria dei complici del male, mandando a morire con intenzione un falso Astianatte, allo scopo di salvare il proprio figlio, ed entrando di fatto nella congiura di un infanticidio che la fa passare dal ruolo della vittima innocente a quello del carnefice crudele (come ci dichiara l’impassibile rima baciata degli alessandrini raciniani : « J’appris que pour ravir son enfance au supplice, / Andromaque trompa l’ingénieux Ulysse, / tandis qu’un autre enfant, arraché de ses braces, / sous le nom de son fils fuit conduit au trépas »). Il vero e il falso Astianatte entrano così nella famiglia dei tapini, prediletta da Manzoni ; e con loro abitano i piccoli del Piazza e del Mora. 4 Ne consegue però che l’atto crudele della principessa troiana fa venir meno la pietà dello spettatore, mentre le lacrime della donna ci appaiono insozzate (« souillées ») nella loro radice ; non solo : quella medesima Andromaca che non ha conosciuto e praticato la compassione corre il rischio, quando ne abbia bisogno realmente ella stessa, di non suscitare che un interesse debole. In aggiunta, continua Manzoni, essendo 



































































1   Variante di « montambanco », documentata in apparato. Cfr. F, ii, i, pp. 146-149, per unire tutte le citazioni della pagina. Infra. 2   Fa sempre testo il giudizio di Contini, difficilmente revocabile in appello, sulla mediocrità della querelle milanese fra classici e romantici, fatta ovvia eccezione per i sopracitati Manzoni e Porta (e, beninteso, per Foscolo e per il Leopardi milanese, il quale ultimo giunge però nella città quando il dibattito può considerarsi di fatto esaurito, almeno nella sua fase più accesa). Cfr. il cappello al sermone Sulla mitologia, p. 37, dove leggiamo : « [È questo] uno dei testi più celebri della polemica fra classici e romantici (1825), anzi “l’ultimo tentativo della scuola classica”, secondo la famosa stroncatura (1855) del De Sanctis. Ma non è pertinente scandagliarne la portata teorica (quasi che la maggior parte delle scritture provenienti dalla “setta romantica” non palesassero pari indigenza mentale) ». La referenza completa va alla Letteratura italiana del Risorgimento, i, Firenze, Sansoni, 1986 (ma già a p. 5 della stessa opera, nel capitolo generale sul Monti era dato leggere : « Inizialmente furono anche conciliativi i rapporti fra i romantici e il Monti […] : il dissidio interverrà su un punto preciso, di modesto vigore intellettuale (come del resto la maggioranza delle scritture italiane pro e contro il romanticismo) ». Il giudizio, tanto sulla « pari indigenza mentale », quanto sul « modesto vigore intellettuale » della ‘classicoromanticomachia’ milanese e, in genere, italiana viene anche riportato in altri luoghi continiani, che non produrremo.







3   Leggi le pagine sull’Andromaque raciniana nella Lettre : Alessandro Manzoni, Scritti linguistici e letterari, in Idem, Opera omnia, v, Milano («I Classici Mondadori», 1991), pp. 139-147. Da qui si citerà anche per lo Sbozzo. 4   Ma anche, se si vuole, i discepoli orfani del Cristo crocifisso, che la complessa minuta della Pentecoste rappresenta al modo di nidiaci cui il cacciatore ha abbattuto la madre. Ogni morte dell’innocente, sappiamo, si riconduce per Manzoni alla scena fondante della Passione, qui raccontata nei modi dell’exemplum analogico e del fiore esposto alla edificazione popolare da un’omelia del padre Cristoforo, nella chiesa del convento di Pescarenico, o del cardinal Borromeo, durante una visita pastorale, magari quella stessa del romanzo. Comprensibilmente, il passo piacque molto al Pascoli, il quale giunse in tempo a leggerlo e ad imitarlo più d’una volta : « Come in lor macchia i parvoli / sparsi di piuma lieve, / cheti la madre aspettano / che più tornar non deve, / che discendendo al tepido / nido con l’esca usata / per l’aria insanguinata / cadde percossa al suol ». Cfr. anche Carlo Annoni, Lo spettacolo dell’uomo interiore, Milano, Vita e Pensiero, 1997, p. 238.  







manzoni e la critica della ragion teatrale si esclusa tanto dalla comunità pentecostale dei santi, quanto dalla gens naturale dei pii, la più umanamente nobile, l’eroina in titolo provoca solo una penosa mescolanza di pietà e di intenso disgusto (« une penible mélange de commiseration et d’horreur », commentano esattamente le parole della Lettre). Nella lunga recensione passa anche una riscrittura : per Manzoni la vera tragedia, e la sua propria e virtuale Andromaque, consisterebbero nel mettere a tema e nel mostrare, con tutto il rigore necessario, la perversione di una civiltà che considera accessorio e strumentale il sacrificio di un bambino, di un innocente per antonomasia, ripetiamolo, e fondamentale, al contrario, l’eros inappagato degli adulti. Pagine esemplari : Racine rinasce trasformato in Manzoni, mentre la nuova idea e stesura avrebbero il compito di rendere evidente in atto come « telles moeurs » (« abominables préjugés, fausses institutions, passions effrenées ») possano portare all’oblio « de l’humanité et de la nature […], des sentimens les plus universels de l’humanité ». Il correttore romantico posporrebbe, dunque, in secondo piano, i sospiri e i furori degli amanti, facendo invece centro sul destino di morte che immane sopra Astianatte (ed ha già provocato l’uccisione di un suo sostituto), cosicché lo spettatore della tragedia ora riformata verrebbe guidato a pensare più altamente del poeta barocco. 1 Forse ad un ascolto d’oggi sembra che la specifica dottrina teatrale « ci abbia poco a che fare » con tutto questo, e che sia piuttosto il caso consueto dell’etica e delle fabulae del gentilesimo 2 e, insomma, della « feroce forza » e del « feroce tripudio » della Grecia pagana e della Francia neo-pagana ad improntare di sé il Racine tragediografo ; anche per il fatto che, diversamente, non si spiegherebbe, o con molta difficoltà, l’opposizione del cristianesimo radicale di Pascal all’età di Luigi xiv, agli stili di vita ed alla cattiva giustificazione della pubblicistica di regime che li regge. E però dobbiamo accettare, almeno in qualità di strumento, l’idea che il carattere deformante delle regole pseudo-aristoteliche venga tanto direttamente implicato da Manzoni nella produzione di fenomeni morali strani e mostruosi e di personaggi stupefacenti, cosicché vediamo, non solo metaforicamente, la tragédie sur les echasses, quella degli attori alzati su coturni-trampoli spropositati e con costumi e gesti di scena fuori misura, dedotti dalla moda e dal linguaggio del corpo in uso nella corte : quali ce li restituiscono le stampe e i quadri dell’epoca. 3 Unicamente con tale adesione metodologica riusciamo infatti a seguire Manzoni nella serie delle applicazioni successive che lo portano ad un ritratto intero del versante negativo di quella particolare civiltà, quando (e quale) essa si rappresenta a teatro ; diversamente non capiremmo, dal momento che la forma ‘tecnica’ del teatro francese è, insomma, già, per buona parte, la sua etica. Al fine di allargare non inutilmente il discorso, cogliendo, anzi, ulteriori specificità della trattazione manzoniana, collochiamoci a due terzi circa della Lettre, allorché, terminata la breve, ma vera e propria monografia sull’Andromaque, l’autore torna a quello che pare il suo architema, le regole. Prima la questione viene buttata in commedia, quando si immagina un Aristotele, ritornato in vita e nient’affatto contento di questi figli spurii – gli assiomi drammaturgici – attribuitigli. È il Manzoni ironico e giocoso, tanto di casa, poi, nel romanzo :  















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Languedociens et à ces jeunes Picards dont on veut à toute force qu’il se déclare le père ? 4  

Ben presto, però, la pagina allegra del mimo molieresco si sviluppa in fantasma cruento, con l’immagine terribile della garrotte, muovendosi, e noi con lei, dall’errore comico all’orrore tragico. Quando infatti leggiamo che « tels hommes [Corneille et Racine] se sont laissés garrotter par [les] liens [des règles] », intravediamo dei condannati al palo della loro morte. 5 Appare egualmente inatteso ciò che segue, anche per il nuovo parallelismo istituito. Si veda, infatti :  





Chaque erreur a son temps et, pour ainsi dire, son règne, pendant lequel elle subjuge les esprits les plus élevés : des hommes supérieurs ont cru, pendant des siècles aux sorciers, et il n’y a assurement aujourd’hui d’orgueil pour personne à se prétendre plus éclairé qu’eux sur le point de la sorcellerie. 6  

























Ah ! Si Aristote le savait […]. Si ce philosophe revenait, et qu’on lui présentât nos axiomes dramatiques comme issus de lui, ne leur ferait-il le même accueil que fait M. de Pourceaugnac à ces jeunes  

1   Assistiamo qui, se si vuole, anche ad una delle ultime manifestazioni dell’antica polemica, che nel Settecento va raccolta attorno ai nomi di Muratori e Maffei, contro le tragedie francesi fondate sugli ‘amori’. 2   Il giudizio di Manzoni su molti aspetti della storia della classicità è, come noto, fortemente negativo. 3   Già posto in rilievo da Lonardi, come ben noto agli studiosi di questo Manzoni (cfr. il cap. iv, di Gilberto Lonardi, Ermengarda e « Il Pirata », Bologna, Il Mulino, 1991).  



Per eccessiva e sorprendente ci possa apparire, cominciamo dunque con il dare per acclarata la seriazione della dottrina delle regole con la credenza nella stregoneria, dopo che con l’uso del cerchio di ferro alla gola ; ma non basta, dal momento che, accanto alle due espressioni del male appena descritte, Manzoni pone ulteriormente, collocandola in analogia al sistema delle unità, la pratica della tortura che stenta a tramontare, secondo quanto aggiunge poco dopo :  



L’erreur ne se laisse nulle part, et dans aucune genre, détruire en un jour. La torture a duré long-temps encore après l’immortel traité Des délits et des peines, cela reconnu, il faudrait être bien impatient et bien égoïste pour se plaindre de la ténacité des préjugés litteraires. 7

Una fioritura di parallelismi ben impressionante, nella quale regole personificate, autori di poetiche e autori tragici ci appaiono con le maschere di maghi, giudici e carnefici, torturati e condannati a morte : il saggista meta-teatrale ci fa assistere, tanto appare, ad una rappresentazione ante litteram di una specie di ‘teatro della crudeltà’, il quale si dipana nelle segrete con ceppi e catene e nelle stanze arredate da ingegni crudeli di qualche prigione seicentesca. La Lettre, così da noi addensata attorno ai suoi costituenti più ripetuti, oltre a far somigliare il castello di carta della precettistica intransigibile a una durissima casa di pena, descritta minutamente, ombra su ombra, come in un’acquaforte del Piranesi, sembra persino ricevere l’evidenza di un paesaggio in qualche modo interiore e addizione notturna, dolorosamente trasformata, di esperienze diurne, magari remote, le quali riescono a venire narrate solo da immagini culturali. Forse l’autore conserva un deposito di sofferenza che esprime e trasfigura in questi modi così singolari e inattesi, cancellandone l’origine ; d’altra parte, se paia troppo o troppo poco, anche dove sembra restare più stretto all’argomento, e non andare in cerca di paragoni eccessivamente violenti, Manzoni discorre poi di trappole micidiali create dai critici in agguato come cacciatori e delle norme quale giogo pesante che preme sulla schiena di poeti resi servi. Veniamo parafrasando o traducendo dall’originale : diciamo allora, dalla fine, come in queste pagine si muova spesso qualcosa di spaventoso, che non riusciamo a definire, e come le associazioni del discorso del maestro lombardo ci appaiano ben al di là di ogni possibile dottrina della rappresentazione. Ci sia permesso aggiungere un’altra tessera, presente nello Sbozzo e scomparsa nella stampa, dedicata alla morte dell’errore ed affidata ad un’immagine sadica, senza meno : « Lorsque une erreur a reçu le coup mortel elle ne tombe pas au premier moment, mais qu’elle se traîne encore quelque temps en allant se cacher pour mourir ». 8 È in primo luogo la mimesi verbale, di fascinazione allucinata, dell’animale che  











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  Cfr. la Lettre, cit., p. 150.   Dal momento che, si badi, « garrotter » e « garrotte » sono termini tecnici, azione in atto e strumento dell’esecuzione capitale; ivi, p. 152. 6 7 8   Ibidem.   Ivi, p. 154.   Cfr. p. 204. 5









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cade sotto la scure ; ma, se non vado errato, è anche Dante, quando il poeta descrive l’ira scomposta e il gran grottesco di Minosse, giudice del tribunale dei morti, Inf xii, 22-24 : « Qual è quel toro che si slaccia in quella / ch’ha ricevuto già il colpo mortale, / che non sa gir, ma qua e là saltella ». Abbiamo incontrato una estesa fenomenologia storica dell’errore, la quale ci sembra però ricorrere ad una somma di affinità esemplari fra loro ben coestensibili, ma del pari estranee o eccessive per qualsiasi poetica della scena ; a meno che tutto non venga letto, allargando l’attenzione all’intero atelier manzoniano, con le carte del periodo, minute e stampe, mescolate sullo scrittoio e con un continuo passaggio di materiali fra i diversi testi : cosicché in molte pagine della Lettre ci appaiono in vista soprattutto la Milano della peste ed i casi nefandi degli untori e della colonna infame. Una conferma ulteriore ci viene accrescendo lo spoglio delle ricorrenze verbali più frequenti o sorprendenti, tra le quali ci limitiamo a segnalare un « entortiller » e un « estropier » allo scopo di « entasser » persone ed eventi nel « cadre étroit » e « reserré » della tragedia classicistica : letto di Procuste e palestra di supplizi (e Manzoni è, si badi, serissimo), su cui non documentiamo di più, limitandoci a riassumere con una formulazione esemplare, nella quale la norma costrittiva del tempo e dello spazio secondo le regole viene tradotta in una semiotica del corpo straziato. Leghiamo nell’essenziale, estraendo ad evidenza parti del discorso : « [Il faut] défigurer [l’action], la tronquer de pur caprice […], mutiler [les caractéres et les incidens] au point où la durée de vingt-quatre heures et l’enceinte d’un palais suffiraient à leur développement ». 1 Sfigurare, troncare, mutilare : certo, date tutte le spiegazioni possibili, resta molto di irriducibile al senso della ‘ragion teatrale’ e credo che abbia, al riguardo, già segnalato perfettamente Lonardi. Difficile dir meglio : « Sono definizioni affini, il loro riproporsi sinonimicamente irradia un tanto d’ansia, si avverte che la “cosa” va oltre una questione di regole per il miglior teatro e pare di toccare la nevrosi di chi le ha scritte ». 2 La Lettre, dunque, ospita e nasconde un allacciarsi di figure che ci conduce una volta ancora (e ci sia nuovamente concesso di prendere in prestito un celebre titolo) dalle metafore ossessive al mito personale ; difficile, allora, non sostare sulla fine di una assai lunga storia di poeta, quando le luci del teatro si stanno appunto attenuando e spegnendo, per leggere l’ultimo, a tutti gli effetti, Coro manzoniano, quello delle anates in gabbia, 3 con il desiderio vietato delle « aperte aure » e, in cerca di libertà, la convulsa lacerazione dei petti contro le sbarre. Riconosciamo, ancora una volta, l’angoscia del morire per soffocamento e l’orrore della mutilazione, già temute dalla Lettre e dallo Sbozzo, entro la levità tutta apparente di un apologo umanistico de senectute ; ottenendo insieme, quasi a modo di congedo per gli attori principali, una nuova presenza di Carmagnola, Napoleone, Adelchi, Ermengarda, e tutti gli altri, nel passeggio familiare dei Giardini pubblici di Milano. Non essendo Volucres fra le liriche più conosciute dell’autore, trascriverò il distico 7-8 della stampa Bonghi, con in primo piano lo strazio delle ‘ali immemori’, quasi sogno frustrato del prigioniero : « Si quando immemores auris expandimur alas[,] / tristibus a clathris penna repulsa cadit », sottoponendovi la minuta Rossari, l’unico autografo che possediamo : « Immemores si forte clathris illidimus alas, / fert ventus laceri pectoris exuvias ». Proponiamoci di capire qualcosa di più sulla selvosa Lettre, aprendovi magari uno spiraglio di intimità. Iniziamo con l’indicare come un tragediografo/personaggio fisso di tutti  



































































gli scritti meta-teatrali manzoniani (ed estesamente, dunque, anche e in particolare nella Lettre) sia Corneille, mostrato sempre in posizione di difesa o di ripiegamento più o meno duttile nei confronti dei tutori del sistema ; e sempre « straziato e tormentato », 4 benché « buono e grande ». 5 Diamo una osservazione laterale : non siamo in grado di decidere se con intenzione o senza, ma certo una lettura ripetuta e insistita di queste pagine ne mette in rilievo progressivo una struttura drammatica profonda, come se un testo espositivo, non di rado minuzioso e in sospetto di prolissità, giungesse a coprire un testo agito che inquietamente soggiace ed è come un mosaico eraso, il quale conserva inopinatamente nel nuovo soggetto frammenti incongrui, e per ciò stesso evidentissimi, del precedente. 6 In sostanza il manifesto di Manzoni permette o esige, ci sembra, una forma ed una rappresentazione teatrale in atto ; di fantasmi e di ricordi, forse : uno, allora, dei tanti verbi che conducono la « feroce forza » ed il « feroce tripudio » della dottrina drammaturgica ricevuta, e che non abbiamo ancora citato, è « tyranniser », messo in campo per indicare la costrittività della precettistica e dei suoi custodi (per cui verrebbe subito fatto di annotare ben significativamente, al riguardo : dove mai è arrivata la lotta contro i giganti malvagi dell’Alfieri !). 7 Seguitiamo a dare ora la profondità necessaria al caso di Corneille il quale, più di Racine, pare anche il nome da Manzoni attribuito ad un suo simile e fratello, un familiaris, in sostanza, nell’aeropago dei tragici che lo precedono. 8 Il maestro romantico costruisce una situazione ben caratteristica attorno al collega barocco ed ai suoi, alla lettera, tiranni, come già venivamo anticipando : « Il y a eu dans l’ame si simple de Corneille assez de malice pour tromper ses tyrans qu’il n’osait pas braver » ; 9 e sembra la messinscena di una commedia di scuola, più paurosa che giocosa, in cui lo scolaro intelligente e senza difese inganna il prefetto plagosus di turno che non può sfidare apertamente, pena la risposta immancabile della sanzione disciplinare. È troppo spingersi molto indietro, vedendo altre carte dietro quelle della Lettre, e occhieggiare, in una caricatura a penna su un quaderno, il « santo zelo » del « padre fra’ Volpino », un nome parlante che è un programma ? E, insomma, è così fuori luogo decidere di abitare con l’adolescente Manzoni la vita uniforme, e uniformemente scandita, dell’internato presso i padri Somaschi ed i padri Barnabiti, in mezzo ai quali così a lungo trascorsero gli anni dell’adolescente senza famiglia e dove si alimentò, prevedibilmente scavato a fondo, il solco di intensissime fantasticherie di rivolta e di aspirazione alla libertà ? I pensieri del collegiale, diventato adulto e scrittore (e che scrittore !) vivono poi per sempre in qualità di impulso, fra terrore e collera, ma rimossa l’origine : così si spiegherebbe non certo il complesso tessuto culturale della Lettre, ma sì l’idiosincrasia di tante sue zone, che affiora con  























































4   Quanto il primo termine è rimasto auto-evidente, altrettanto il secondo appare oggi un po’ indebolito di senso, mentre era stato la parola tecnica del tormento, inteso direttamente come tortura (registrando non a caso, a conferma di ciò, una frequenza assai alta nella Storia della colonna infame). Non si trascuri, beninteso, il precedente dantesco dei « nuovi tormenti e nuovi tormentati ». 5   Oppure « bon et grand », come viene sistematicamente definito, con l’alternativa di questa dittologia analoga nella seconda lingua di cultura del Manzoni. 6   Per questa partita fra memoria e oblio ci presta aiuto un saggio, giustamente famoso, di Franco Fortini, Le mani di Radek, Verifica dei poteri, Milano, Il Saggiatore, 1965, pp. 99-112. 7   Si capisce l’alzata di spalle insofferente di Foscolo, 1823, p. 584 (vol. vi dell’edizione Nazionale), verso quelli che chiamava « non so quali arzigogoli delle regole », respingendo in blocco la Lettre. Il poeta greco-veneto, il quale sembrava possedere nel merito qualche ragione, aveva poi, in realtà, i propri diavoli di casa che lo tormentavano, e che lo esoneravano dal tentativo di capire quelli diversi del Manzoni ! 8   A Shakespeare viene riservato altro sentimento e pensiero : l’ammirazione, senza riserva alcuna, per il sommo fra i poeti di teatro. 9   Il Primo Sbozzo, p. 187.  











1

  Cfr. la Lettre, cit., p. 118.   Gilberto Lonardi, Ermengarda e il « Il Pirata », cit., p. 98. 3   Cfr., per la restituzione e interpretazione del testo, stampe e varianti, Carlo Annoni, Le ali immemori, in Idem, La poesia di Parini e la città secolare, Milano, Vita e Pensiero, 2002, pp. 123-161. 2









manzoni e la critica della ragion teatrale attestazioni – l’abbiamo visto – numerose e sempre sorprendenti, quasi dettate dall’automatismo di un dolore/rancore non placato, in cerca di voci e di immagini che lo dicano. Il clima di parentela spirituale con l’Alfieri sarebbe, quindi, almeno in questo, assai più stretto di quanto non paia a prima vista ; mentre la Lettre costituirebbe una, non l’unica, prosecuzione della lontana volontà di insurrezione giovanile che diventa, quanto impensatamente trasfigurata (non da sola, naturalmente, e in quantità e modi neppure approssimabili), la rivoluzione romantica del teatro e dell’eroe tragico e dei « furibondi » del Marzo 1821 e dell’onnipotente Napoleone del Cinque Maggio, dietro cui sta appiattato il poeta che costruisce le sue sanguinosissime vendette ed i suoi progetti di ordine nuovo. La proposta è insomma quella di assumere in chiave di romanzo dell’autore, almeno parzialmente e con ogni possibile cautela, il lungo manifesto di poetica, come di un racconto, insomma, che aggira e oppone la disciplina del castigo, il divieto antico del non dire e del non fare, la pedagogia collegiale, si sottolinei, delle regole e della punizione corporale (con la consapevolezza ben presente di un rischio : quello di  







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sostituire un Manzoni che non è agevole comprendere con un Manzoni affatto immaginario ; o di sciogliere la sua poesia, e quale poesia !, in un biografismo del tutto insufficiente). Se prima abbiamo proposto il modo del teatro e poi quello del romanzo, l’intenzione era peraltro la medesima : di mostrare, cioè, percorsi di invenzione letteraria ben dentro, e ben a fondo, un testo di riflessione. 1 Molto altro resterebbe, come sempre, da dire, ma queste poche pagine servano almeno a introdurre qualche inquietudine in più in un ambito così complesso, e povero, mi sembra, di nuove letture, qual è quello della dottrina meta-letteraria di Manzoni.  





1   Perché venga usata indulgenza verso l’azzardo e l’approssimazione di metodo, facciamo ricorso ad uno dei più bei proverbi critici di Giacomo Debenedetti, il quale cerca di avvicinare, con un apologo ingegnoso, la nascita della poesia e il mistero del poeta, discorrendone nei termini della ‘malattia dell’ostrica’, cioè della sofferenza per l’intrusione del granello di sabbia che ferisce la carne, mentre subito attorno al chiuso dolore vengono intrecciati fili luminosissimi, il cui destino è di concretarsi nella perla. Qui insisterei, collocandovi, insieme, la trasparenza, spiegabile, che ci può condurre, con la necessaria perplessità, nelle vicinanze dell’occasione e l’unicità, inspiegabile, dell’occasione medesima divenuta poesia.

« CHE NUOVE CI SONO IN FRANCIA ? ». LA TRADUZIONE FINORA SCONOSCIUTA DI CARLO LEOPARDI DELLE LETTERS DI WARDEN SULL’ULTIMO VIAGGIO DI NAPOLEONE  





Vincenzo Placella

T

rent’anni fa pubblicai due lettere, 1 allora inedite, autografe di Giacomo Leopardi relative, in parte (ma in effetti principalmente, come vedremo), ad una traduzione che stava curando Carlo, 2 il fratello maggiore di Giacomo, delle Letters written on board His Majesty’s Ship the Northumberland and at Saint Helena di William Warden, 3 il chirurgo che accompagnò Napoleone al suo esilio di Sant’Elena nel 1815 e si trattenne alquanto tempo nell’isola. I fratelli Leopardi si rivolsero poi allo zio Carlo Antici, fratello della loro madre Adelaide, il quale si trovava a Roma ed era molto influente in Vaticano, per ottenere il permesso di pubblicare la traduzione di Carlo. La vicenda, come vedremo, non andò a buon fine, in quanto il nome di Napoleone non si poteva neanche pronunciare a Roma : Carlo Antici informò i nipoti che l’editore che aveva pubblicato la traduzione francese di quell’opera era andato in galera. Ma converrà ricordare qui qualche particolare della questione.

Nell’Archivum Generale Ordinis Praedicatorum, in S. Sabina, a Roma, furono rinvenute e da me pubblicate due lettere autografe di Giacomo Leopardi, datate, rispettivamente, Recanati 19 settembre 1817 e Recanati 6 febbraio [in realtà, marzo] 1818. Il nome del destinatario non compare né sull’una né sull’altra, ma ambedue sono certamente dirette al padre Giuseppe M. Silvestrini, 4 anconetano, teologo casanatense negli anni 18171818 sgg. : esse, infatti, furono trovate all’interno del carteggio del p. Silvestrini stesso. Inoltre, le due lettere costituiscono, con ogni evidenza, risposte ad altrettante del Silvestrini al Leopardi, note e contenute nell’Epistolario Leopardiano, già in quello a cura del Moroncini.  

Testo delle due lettere di Giacomo Leopardi da noi pubblicate



1   Vincenzo Placella, Due lettere inedite autografe di Giacomo Leopardi, Città di Castello, Stabilimento grafico C. S. Leonardo da Vinci, 1979, poi, con poche modifiche e senza la riproduzione fotografica delle lettere, « Critica letteraria », ix, 1, 1981, pp. 112-124. In questa veste il saggio è più noto agli studiosi : Brioschi, nella sua edizione dell’Epistolario leopardiano, nel pubblicare queste lettere, fa riferimento a « Placella 1981 » (Giacomo Leopardi, Epistolario, i, a cura di Franco Brioschi, Patrizia Landi, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, pp. 139 s. e 119 ss.). Dal nostro precedente saggio attingiamo largamente qui per la parte introduttiva all’illustrazione della riscoperta del manoscritto di Carlo Leopardi. Per comodità del lettore conserviamo tutte le sigle da noi usate in quel saggio, al quale il lettore stesso è, ovviamente, rimandato. agop = Archivum Generale Ordinis Praedicatorum – S. Sabina, Roma. mor= Epistolario di Giacomo Leopardi, Nuova edizione completa con lettere di corrispondenti e con note illustrative, a cura di Francesco Moroncini, Firenze, Le Monnier, 1934-1941, in 7 voll. Flora = Le lettere con indici delle persone e delle materie, in Tutte le Opere di Giacomo Leopardi, a cura di Francesco Flora, Milano, Mondadori, 1963. Nelle citazioni il primo numero, in caratteri arabi, è quello progressivo della lettera all’interno dell’Epistolario. A = lettera, datata « Roma Minerva-Ospizio 10 Settembre 1817 », del p. Giuseppe M. Silvestrini a G. Leopardi (= mor i, pp. 122-123). Al = lettera (da noi pubblicata) di G. Leopardi al p. Giuseppe M. Silvestrini, datata « Recanati 19 Settembre 1817 » (in agop xiv, 558). B = lettera (= mor 101, i, pp. 160-161) del padre Giuseppe M. Silvestrini a G. Leopardi datata « Roma-Minerva-Ospizio 24 Febbraio 1818 ». BI = lettera (da noi pubblicata) di G. Leopardi al p. Giuseppe M. Silvestrini datata Recanati 6 Febbraio 1818 (ma in realtà di marzo), in agop xiv, 558. 2   Giacomo insiste in più occasioni, come vedremo, sull’esclusiva paternità di Carlo della traduzione ; una volta giunge anche a sostenere di non conoscere per niente la lingua inglese (a proposito di Giacomo Leopardi e l’inglese abbiamo una curiosa testimonianza di Francesco Puccinotti (cfr. Loretta Marcon, Kant e Leopardi. Saggi, Napoli, Guida, 2011, p. 12), il quale attesta che Giacomo studiava l’inglese da una grammatica che aveva a portata di mano nei tempuscoli in cui si asciugava, dall’inchiostro, una pagina dei suoi scritti). Carlo aveva pubblicato già alcune traduzioni dall’inglese, insieme con traduzioni dal latino e dal greco di Giacomo : cfr. Opere di G. Leopardi: 16 novembre 1816 [...] traduzione di diverse odi, epigrammi e frammenti dal greco [...], a cura di Ermanno Carini, presentazione di Franco Foschi, Recanati, Centro Nazionale di Studi Leopardiani, 1989. Il Piergili, come vedremo, ritenne che nella traduzione delle Letters del Warden fosse presente anche la mano di Giacomo. Certo è che Giacomo ‘sponsorizzò’ energicamente la pubblicazione della traduzione dal Warden. 3   Letters Written on Board His Majesty’s Ship the Northumerland and at Saint Helena in which The Conduct and Conversations of Napoleon Buonaparte, and his suite, during the voyage, and the first months of his residence in that Island, are faithfully described and related, By William Warden, Surgeon on board the Northumberland.. – non ego, sed democritus dixit. Fifth Edition, London, Published for the Author, By R. Ackermann […], 1816.  

























Signor mio pregiatmo Ella mi ringrazia del piccolissimo dono in maniera che io stesso resto in obbligo di ringraziarla. Ella veda che fa, quando mi esorta a continuare la traduzione di Virgilio. Non è da me il vincere un traduttore così grande come è il Caro, e se non lo vincessi, ritraducendo l’Eneide, actum agerem : oltrechè da pochi versi, posto che non sieno pessimi, non si può argomentare che io sia buono a tradurre un gran poema. Ma la sua bontà per me, non l’ha lasciata considerare queste ragioni. Le domande al P. Taylor non sono mie ma di mio fratello Carlo, che avrà molto obbligo così a Lei come al nominato Padre dello scioglimento di quei dubbi che gli bisognerebbe per compire una sua traduzione delle lettere sopra Buonaparte a Santelena di Guglielmo Warden, le quali non so se ella abbia vedute costì, essendo rarissime in italia, e non trovandosi vendibili nè anche a Milano. Con piacere vedrei il manifesto della nuova edizione del Caro, la quale mi par difficile che riesca meglio di quella che s’è fatta in Milano l’anno passato colle belle stampe del Sonzogno, e colle cure fra gli altri del sommo poeta italiano de’ nostri tempi, voglio dire Vincenzo Monti. Avendo in mano qualche copia di cotesto manifesto mi farebbe favore trasmettendomela o direttamente o per mezzo di D. Natanaele. Capitandomi l’occasione ben volentieri adempirò quel che Ella m’ingiunge colla Sigra Masucci, e col Mse Melchiori, che ora passano la più parte dell’anno in campagna. I miei di casa la risalutano cordialmente. Avrò molto caro che Ella mi conservi la sua benevolenza e mi dia occasione di mostrarmele Recanati 19 7bre 1817 Dmo Obblmo Servitore Giacomo Leopardi  

mo

Preg Sig re e Prone Le debbo infinite grazie per la premura datasi prima di sollecitare e poi di spedirmi la risposta ai noti quesiti. L’ho data a mio fratello al quale apparteneva, e ne resta obbligatissimo così a Lei come al P. Taylor al quale a parte ha reso grazie, incaricandomi di fare i suoi doveri con Lei. Parimente le sono tenutissimo delle notizie che mi comunica e ho 4   Per questa figura rimandiamo al nostro contributo citato. Dalla corrispondenza del Silvestrini degli anni 1816 sgg., contenuta in agop xiv, 550, risulta che il padre conosceva i parenti del Leopardi ed altre famiglie notabili di Recanati. Interessante, ai fini della presente ricerca, sottolineare la corrispondenza del Silvestrini con il Maestro dei SS. Palazzi Apostolici, il p. Filippo Anfossi, di cui si dirà nel corso di questo lavoro e che era il severo revisore dei libri che vedremo. La Minerva era, all’epoca, la Casa Generalizia dell’Ordine domenicano ; l’« Ospizio » era il locale attiguo che accoglieva i dirigenti della Curia ; accanto, era la Casanatense, i cui teologi risiedevano nel detto Ospizio.  







«che nuove ci sono in francia?» molto piacere che la stampa dell’Annibal Caro debba riuscir così bella come sento, e superiore senza dubbio a quella di Milano la quale non è di lusso ma di semplice uso, bensì tanto corretta che io credo che cotesti editori la sceglieranno per testo della loro ristampa. Le ritorno i complimenti di mio Zio, e le debbo anche i saluti della Contessa Mazzagalli che me n’ha incaricato spontaneamente. Mi conservi la sua padronanza, e mi creda desideroso de’ suoi comandi Recanati 6 Febbraio 1818 Suo Dmo Obblmo Sre Giacomo Leopardi

Le due lettere autografe del Leopardi si trovavano in agop xiv 550, fra la corrispondenza del p. Giuseppe M. Silvestrini : in seguito alla scoperta di esse l’Archivista Generale dell’Ordine, padre Guglielmo Esposito, le isolò dal resto di tale corrispondenza, inserendole in un’apposita custodia, con la collocazione xiv 558. La lettera datata Recanati 17 settembre 1818 (qui : A1) consta complessivamente di 27 righi. Essa manca del nome del destinatario e della soprascritta. La seconda lettera (quella con la data di Recanati 6 febbraio 1818), è contenuta in 16 righi di scrittura. Anche questa lettera (qui : B1) manca del nome del destinatario e della soprascritta, essendo anche qui stata strappata la seconda carta, quella esterna, cioè. Nel trascrivere le due lettere rispettammo la grafia, il modo d’interpungere e il modo di usare le maiuscole e quello di fare capoverso del Leopardi. Non correggemmo la svista dell’autore nella data, lasciando « 6 Febbraio » avvertendo in apparato che doveva essere « 6 marzo ». 1 II ritrovamento delle due lettere leopardiane fu dovuto al padre Guglielmo Esposito, domenicano, Archivista Generale dell’Ordine. La prima lettera (A1) è la risposta a quella del p. Silvestrini al Leopardi, datata « Roma-Minerva-Ospizio 10 Settembre 1817 » (mor 75, i, pp. 122-123 ; qui : A). Da A apprendiamo : i. che il Silvestrini ha ricevuto, tramite D. Natanaele Fucili 2 un esemplare della stampa del secondo libro dell’Eneide tradotto dal Leopardi, 3 lavoro che il Silvestrini giudicava « veramente prezioso per la purezza ed eleganza dello stile, e per la proprietà esatta o fedele e concisa del sempre grande Auto 

























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re » ; il domenicano aggiungeva d’aver fatto leggere la traduzione anche ad altri e che « tutti encomiandola fino alle stelle bramano dalla di Lei felice penna la traduzione degli altri libri che si lagnano d’essere dimenticati ». ii. Sempre da A apprendiamo che il Silvestrini ha consegnato al p. Taylor 4 la « pagella » fattagli recapitare dal Leopardi e che lo stesso p. Taylor stentava « alcun poco a determinare i vocaboli tecnici di marineria », ma che era « già a buon termine ». In A1 Leopardi informa il suo corrispondente che le domande al p. Taylor non sono direttamente sue, ma del fratello Carlo, il quale sta traducendo le lettere su Buonaparte a Sant’Elena di Guglielmo Warden. Anche la seconda lettera del Leopardi da noi già pubblicata (B1) risponde certamente ad una indirizzatagli dal Silvestrini (B) : In B il p. Silvestrini comunicava al Leopardi di aver ricevuto, finalmente, dal Padre Maestro Taylor, « la sospirata risposta », acclusa alla lettera, e aggiungeva : « Si assicuri, che ho insistito almeno cin­quanta volte, onde non è mia la colpa di tanta tardanza ». Leopardi, in B1 ringrazia il suo corrispondente per la premura datasi nel procurargli e nello spedirgli « la risposta ai noti quesiti » e dichiara di averla passata al fratello Carlo il quale, a parte, ha ringraziato il p. Taylor, pregando, nello stesso tempo, lui, Giacomo, a « fare i suoi doveri » col destinatario della presente lettera del Leopardi. Come si vede, si tratta di un periodo nel quale l’interesse per le traduzioni era sovrano in casa Leopardi : Giacomo alle prese con Virgilio e Omero ; Carlo, il ‘modernista’ della famiglia, con quella dal Warden. L’occasione che mise in contatto il Leopardi col p. Silvestrini, tramite D. Natanaele, fu, ci sembra chiaro, la necessità per Carlo di vedersi spiegati alcuni termini di marineria per la propria traduzione delle Letters del Warden : si dovette pensare al Silvestrini come mediatore nei confronti del p. Taylor : chi poteva assolvere questa funzione, dovette pensare il servizievole D. Natanaele, meglio dell’anconetano p. Silvestrini, ossequioso nei confronti della famiglia Leopardi, amante delle belle lettere e che poteva vedere continuamente il p. Taylor (non ci sembra possano sussistere dubbi su quest’ultimo punto : dal modo in cui sia in A che in B il Silvestrini parla del p. Taylor si deduce che egli aveva occasione di seguirne con costanza il lavoro : molto probabilmente il Taylor risiedeva anch’egli nell’Ospizio della Minerva) ? E chissà che la scelta del mediatore non fosse anche dettata dal fatto che si sapeva che il Maestro dei Sacri Palazzi, il severissimo padre Filippo Anfossi, si serviva della collaborazione del p. Silvestrini : i fratelli Leopardi erano sin d’allora consci delle difficoltà che avrebbero incontrato da parte della Censura per la stampa della traduzione. Quest’ultima, poi, doveva stare molto a cuore a Giacomo : il Piergili non dubitava che il poeta avesse avuto parte alla stesura di essa. Il dono al p. Silvestrini, da parte del Leopardi, del volume della propria traduzione del secondo libro dell’Eneide dovett’essere, perciò, affatto strumentale (anche se, poi, esso ebbe autonomamente un séguito, nell’elogio, gradito, e nell’esortazione a tradurre l’intero poema, nell’informazione, sempre da parte del Silvestrini, sull’edizione del Caro in allestimento a Roma, e nei successivi contatti da Giacomo presi con la duchessa di Devonshire). L’Epistolario leopardiano ci attesta una laboriosa vicenda connessa con la traduzione del Warden (che il Piergili 5 de 





















































1   Questo tipo di svista non è presente qui come unico esempio in Leopardi. Del resto, capita che chi scriva agli inizi di un mese sia portato a indicare il nome del mese precedente, per abitudine. 2   II nome di questo sacerdote ritorna in A1. D. Natanaele Fucili, « un sacerdote recanatese, trasferitosi a Roma, assai devoto ai Leopardi, ai quali anche da Roma si faceva un pregio di rendere qualche servigio » (mor, i, p. 122, nota 2), ricorre più volte nel carteggio di Giacomo e di casa Leopardi (come pure in quello del p. Silvestrini) : cfr. mor i, p. 125, in nota alla lettera n. 78, di Giacomo a Pietro Giordani datata Recanati 26 settembre 1818. Si vedano, inoltre, Flora 82, p. 154 ; mor vii, p. 12, in nota ; mor 1932, vii, pp. 13-14. Risulta da questi documenti, fra l’altro, che D. Natanaele si occupava anche di trattenere presso di sé o di provvedere alla spedizione, talora con mezzi più rapidi e sicuri delle poste ordinarie, oggetti (in particolare, libri) che stessero a cuore ai Leopardi. Così, il Fucili funse da mediatore tra Giacomo e il Silvestrini per la questione dei termini di marineria che interessavano a Carlo (si veda qui, oltre) ; fu egli a recapitare, insieme con le richieste di Carlo (la « pagella », di cui in A), un esemplare della traduzione leopardiana del secondo libro dell’Eneide : non è necessario pensare (anzi, escluderei senz’altro) che Giacomo accompagnasse con una propria lettera quel materiale : Al è la prima lettera di Giacomo al Silvestrini. Lo si deduce, tra l’altro, dal fatto che in essa il poeta, nel rispondere al Silvestrini, il quale aveva scritto, in A : « ho consegnato la di Lei pagella », precisa che le informazioni richieste sono per Carlo e non per lui. 3   Libro secondo della Eneide, Traduzione del Conte Giacomo Leopardi, Milano, co’ tipi di Giovanni Pirotta, 1817. Nella prefazione, Giacomo scrive che non intende andar oltre questo saggio nel tradurre il poema virgiliano, e che tale scelta non è dovuta a timore reverenziale nei confronti del Caro, ma deriva dal senso di inadeguatezza che egli sente nei confronti di Virgilio stesso. Per quanto riguarda l’idea di Leopardi di tradurre tutta l’Odissea ci sia con­sentito rimandare anche al nostro Leopardi e Vico, in Leopardi e la letteratura italiana dal Duecento al Seicento, Atti del iv Convegno Internazionale di Studi leopardiani (Recanati, 13-16 settembre 1976), Firenze, Olschki, 1978, pp. 731-757, in particolare, pp. 732-733.  





























4   Non ho potuto saper di più su questo padre (« P. M. », cioe « Padre Mae­ stro », lo denomina il Silvestrini in B) : forse era un padre irlandese. 5   Cfr. Nuovi documenti intorno alla vita e agli scritti di Giacomo Leopardi raccolti e pubblicati da Giuseppe Piergili, Firenze, Le Monnier, 1882, p. 169 : « Reputo questa la cosa più importante rimastaci di lui », cioè di Carlo, perché, continua lo studioso, « indubitabilmente vi avrà avuto parte coll’opera e col consiglio il fratello mag­g iore » ; si veda, inoltre, la lettera di Giacomo Leopardi a Niccoló Capurro, del 5 dicembre 1817 (Flora 57, pp. 113-114) dove, parlando della traduzione dal Warden, pur sostenendo che, essendo egli stesso « affatto digiuno di lingua ingle­se »), non è in grado di darne un compiuto  

























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vincenzo placella

finiva la miglior cosa di Carlo), dalla richiesta dell’originale inglese dell’opera allo Stella e dalla dichiarazione di questi sull’impossibilità di procurarlo, 1 alla richiesta di tale originale da Parigi, 2 alla ricerca di un editore (Capurro di Pisa, Mordacchini di Roma), 3 alla definitiva dichiarazione, da parte di Carlo Antici, sull’impossibilità di aver il permesso di stampare la traduzione, dato il protagonista dell’opera (Napoleone) il quale, «divenuto da Padrone lo spavento di Europa, vi è rappresentato con colori troppo contrari agl’interessi dei Governi ed alla tranquillità delle Nazioni», con le esortazioni ai nipoti, in particolare a Carlo, a darsi ad imprese culturali più serie. 4 Nel preparare l’articolo dell’81 mi ero recato a Recanati per controllare, nella Biblioteca di Casa Leopardi, la presenza di materiali che potessero interessare la mia inchiesta. La Contessa Anna Leopardi (recentemente scomparsa : a Lei va il mio reverente ricordo) mi accolse con molta cortesia e mi aiutò nelle ricerche. Trovammo l’edizione inglese delle Letters del Warden, ma non il manoscritto recante la traduzione. Nell’estate del 2009 ebbi una telefonata dalla Contessa la quale m’informava del reperimento del manoscritto. Mi precipitai a Recanati dove svolsi, aiutato anche da mia figlia Annarita, esperta di studi filologici e di archivio, un primo esame del manoscritto, con l’assistenza, squisita e competente, della Contessa e della Signora Carmela Magri, della Biblioteca di Casa Leopardi.  

In quell’occasione già avemmo modo di apprezzare la traduzione di Carlo, di cui Giacomo diceva gran bene in una lettera all’editore Capurro di Pisa (vedi supra) affermando che era scritta in maniera esemplare, a differenza di tante sciatte traduzioni correnti (e Giacomo s’intendeva bene di traduzioni, avendone egli stesso fatte di mirabili !). In quella lettera il grande poeta non faceva il nome del fratello, attribuendo il lavoro a un ‘conoscente’. Del resto, nel manoscritto che sto esaminando non è nominato il traduttore : il libro (mai pubblicato, né in vita, né dopo la morte dei due fratelli), sarebbe dovuto uscire anonimo per quel che riguardava il traduttore. Un minimo di prudenza, dato che l’argomento (Napoleone) scottava e si sapeva che lo stampatore che aveva pubblicato la traduzione francese del libro di Warden era andato in galera. L’opera del chirurgo inglese aveva destato un interesse a livello europeo, un vero e proprio scoop : in Inghilterra, nell’arco di pochi mesi (1816) si erano avute ben sei edizioni e tra Francia e Belgio, immediatamente, era stata pubblicata almeno una traduzione integrale in lingua francese e almeno una scelta, sempre in traduzione francese, delle Letters del Warden. L’interesse dei fratelli Leopardi per l’opera fu molto forte, come viene documentato dalle lettere leopardiane che io pubblicai. C’era stata un’antica intesa puerile tra i due fratelli a giocare all’eroe e quale eroe, nell’immaginario di tutti, più affascinante di Napoleone, indipendentemente dal giudizio che ciascuno poteva dare di lui ? 5 Il resoconto di ciò che aveva fatto l’ex-Imperatore durante il lungo viaggio della nave inglese Northumberland che lo accompagnava all’esilio di Sant’Elena doveva destare l’interesse di tutti e l’uscita di questa relazione, da parte di un testimone d’eccezione, William Warden, il chirurgo della nave, doveva essere troppo ghiotto per chiunque : storici, nemici, amici… Il libro di Warden esce l’anno successivo all’accompagnamento di Napoleone a Sant’Elena. La scrittura ha un suo fascino, pur nel forte, mai dimenticato, self-control e patriottismo del medico inglese. Napoleone vi è trattato con rigoroso rispetto, ma senza che incontrollati moti di ammirazione si manifestino. La personalità dell’illustre ospite della nave è disegnata con attenzione estrema e ricerca quasi anatomica di precisione, come quando il medico ritrae il volto dell’ex-Imperatore nel quale, quando parla, non si muovono i muscoli del volto se non, esclusivamente, accanto alla bocca, così come il condottiero, desume il Warden, era abituato ad atteggiarsi nei confronti dei suoi soggetti nei momenti cruciali del comando. La traduzione di Carlo (ma soltanto un’attenta, accurata analisi stilistico-linguistica, condotta applicando i più moderni criteri metodologici, potrà accertare quanto sia presente, in quella prosa, del maggior fratello) è molto interessante per la fluidità del dettato, per certe punte stilistiche (ho potuto notare la presenza di espressioni addirittura proprie della poesia di Giacomo) e per un garbato rapportarsi col testo inglese di cui il traduttore non appare pedissequo servo, ma elegante interprete. La presenza di Giacomo (alluderò qui, a mo’ d’esempio, ad un solo caso) si sospetta fortemente nella traduzione di due versi del Macbeth di Shakespeare, resi con tre endecasillabi molto belli. L’eventuale pubblicazione dell’interessante traduzione andrebbe condotta secondo i metodi più avanzati della moderna scienza ecdotica, col testo inglese a fronte (è necessario offrirlo, oltre che per comodità del lettore, per seguire uno dei principali dettami della moderna Physical Bibliography, dagli studiosi francofoni denominata Bibliographie matérielle e molto più tardi, in Italia, Bibliografia materiale, in particolare dopo il Congresso internazionale da me organizzato su I moderni  







giudizio, dichiara, da alcuni « squarci » che n’ha letto, che « quanto allo stile », «ella si distingue dalla maggior parte delle traduzioni usuali e frettolose tanto comuni ai giorni nostri » e che « intende pure che sia fatta con molta fedeltà e diIigenza, e che ne’ pochi pezzi di quest’opera che si son veduti nelle gazzette italiane e tedesche, a stento si ravvisa quello che leggesi nel testo e che comparisce in questa traduzione ». 1   Lettera del Leopardi allo Stella del 12 maggio 1817 (Flora 33, pp. 66-69, in particolare p. 67) e lettera dello stesso Antonio Fortunato Stella a G. Leopardi del 21 maggio 1817 (mor 53, i, pp. 95-96, in particolare p. 95). 2   Si veda la lettera di G. Leopardi a Niccolò Capurro cit., in particolate laddove il Leopardi afferma che il traduttore (cioè il fratello Carlo), « dopo aver tentato altre strade », s’era fatto « venir l’originale da Parigi donde fu assicurato da chi glielo procurò che esso era rarissimo ». 3   Lettera cit. alla nota precedente. Cfr. mor i, p. 95, nota 4. 4   Cfr. mor 140, i, pp. 198-200 (lettera di Carlo Antici a Giacomo Leopardi datata « Roma 9 Decembre 1818 »). Nella stessa lettera : « Avvertite Carlo che la celebre Storia di Hume ha trovato già in Lombardia il traduttore, che si nomina nel frontespizio, e che adesso non l’ho presente alla memoria. Perciò ancor egli lasci le bagatelle e ci dia in nobile stile Italiano (non Fiorentino) la traduzione di qualche classico Inglese, scegliendolo fra quei Biografi, di cui due anni addietro gli rimisi nota [...]. Dunque cari Nepoti, lasciate tante fatiche per oggetti ingrati, ed indegni delle vostre forze » (i corsivi sono miei, a sottolineare il riferimento, tutto da studiare e approfondire, ad un fiorentinismo della lingua di Carlo Leopardi e l’invito dello zio Carlo ad un impegno per traduzioni, a suo parere, più importanti). Teresa Teja-Leopardi attesta che il manoscritto originale di questa traduzione fu lasciato da Carlo nella Biblioteca paterna, insieme con altre traduzioni prosa­stiche (« Carlo [...] apprese perfettamente l’inglese senza maestri. Mi lasciò qualche buona traduzione di poesie in quella lingua. Ne rimasero altre in prosa pure nella biblioteca paterna, manoscritte nel suo largo e nitido carattere. Una di queste è anche legata, ed era di una relazione o ricordi – non rammento bene ­del D.r Warren [sic] su Napoleone i durante il suo soggiorno a S. Elena. I gio­vani Leopardi avevano una cura particolare di ciò che scrivevano » : Contessa Teresa Teja Leopardi, Note biografiche sopra Leopardi e la sua famiglia, con introduzione di François Alphonse A. Aulard, Traduzione dell’Autrice, Milano, Fratelli Dumolard, 1882, pp. 41-42, il corsivo è nostro). Una conferma dell’esistenza di tale manoscritto in casa Leopardi ci viene, nel medesimo anno 1882, dal Piergili, il quale, nell’opera citata, p. 169, scrive : « Carlo Leopardi fece parecchie traduzioni dall’inglese, fra le quali pregevole è quella delle Lettere scritte a bordo delta nave il Northumberland ed a Sant’Elena di Guglielmo Warden [...] Carlo depose il suo ms. originale di nettis­sima e bella lettera [...] nella biblioteca paterna, e reputo questo la cosa più importante rimastaci di lui, perchè indubitabilmente vi avrà avuto parte coll’opera e col consiglio il fratello maggiore ». Clemente Benedettucci (Vecchie pagine di bibliografia leopardiana, Recanati, Tipografia Simboli, 1938, pp. 41-42), a proposito di questa traduzione non fa che ripetere quanto asserito dal Piergili e dalla Teja (« Carlo depose il suo ms. originale di nettissima e bella lettera nella biblioteca paterna »). Il ritrovamento del manoscritto di Carlo avvenne nel 2009, come ho scritto sopra (non ancora trovata la risposta del p. Taylor circa i termini di marineria : di quest’ultima anche il Moroncini dichiara di non aver trovato traccia : mor, i, p. 160, nota 3).  





















































5   Per l’accenno a Napoleone nei Ricordi d’infanzia e di adolescenza leopardiani rimando a Vincenzo Placella, Gli « interni » familiari in Giacomo Leopardi, nel volume Interni familiari nella letteratura italiana, a cura di Maria Pagliara, Bari, Progedit, 2007, pp. 36-50 (37, in nota).  



«che nuove ci sono in francia?» ausili all’ecdotica : 1 questo settore delle metodologie filologiche per l’edizione dei testi moderni ci ha messo fortemente in guardia contro un ingenuo atteggiamento nei confronti di libri stampati che ci portava a ritenere tutti uguali gli esemplari di una data edizione. S’è visto come, invece, esemplari di una medesima dichiarata edizione, per ragioni che qui per brevità si omettono, possono essere tutti diversi tra loro. Per questo, il testo inglese a fronte alla traduzione di Carlo, dovrebbe essere proprio quello utilizzato da Carlo e presente nella Biblioteca Leopardi). Una eventuale pubblicazione della traduzione di Carlo Leopardi costituirebbe un forte riconoscimento della fatica di questo operatore culturale, ovviamente e necessariamente oscurato dalla fama del grande fratello. Inoltre offrirebbe uno strumento di studio della prosa italiana dell’epoca. Sappiamo quanto lavoro, e di altissima qualità, abbia fatto Giacomo Leopardi per una ricerca di una grande prosa, in parte sotto la suggestione del mito dell’epoca in questo campo, il Giordani. Si è detto che la prosa italiana dell’avvenire sarebbe stata quella dello Zibaldone (e non quella del Romanzo manzoniano ; ovviamente, discorso a parte è quello della grande prosa d’arte delle Operette). Alla traduzione di Carlo, che Giacomo elogia per lo stile e la lingua e per la tenuta linguistica, avrà certamente contribuito, anche per lingua e stile, il maggior fratello e ciò sarà forse, uno strumento in più per una storia della ricerca leopardiana della prosa. Ecco qualche piccolo saggio della traduzione. Si tratta di uno dei tanti dialoghi di Napoleone con Warden, un dialogo, questo, piuttosto disteso, ma tale da tradire sempre l’imprescindibile interesse di Napoleone per le cose di Francia. Ecco il racconto del chirurgo-scrittore :  





Qualche giorno dopo avendo saputo che era giunto un vascello dall’Inghilterra volle dare una scorsa a cavallo fino alla città. La sera appena tornato fui avvertito che Napoleone mi aspettava nella stanza del Generale Gourgand. 2 Ve lo trovai di fatti, e tosto ch’entrai 1

  I moderni ausili all’ecdotica, a cura di Vincenzo Placella, Sebastiano Martelli, Napoli, esi, 1994. 2   Il nome del generale è trascritto in forma (errata) diversa dall’originale a stampa del Warden.

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m’interrogò sullo stato dell’infermo : poi cangiando repentinamente discorso “Voi siete stato in città”, mi disse “la nave arrivata viene presentemente d’Inghilterra ? se è così avrà portato lettere e giornali. – Sicuro ; ho veduto un fascetto di numeri del Courier” “Non v’è il Morning Cronicle ?” “Non l’ho visto. Gli altri giornali a cui ho dato un’occhiata sono il Times, e un foglio di provincia” “Che nuove ci sono in Francia ?” “Non ho letto che alla sfuggita le date Francesi”. “Tutto quel che volete ; non può essere che non vi ricordiate di qualche cosa : sentiamola” : “V’erano degli articoli intorno a voi, ma la maggior parte delle date Francesi che ho potuto vedere si riferivano al processo e alla condanna del Maresciallo Ney” […] Dissi di aver veduto in una Gazzetta di Londra che si temeva potesse seguire a Parigi una sollevazione al momento dell’esecuzione del Maresciallo Ney : “Una sollevazione ?”, disse Napoleone con una placidezza sprezzante “eh via ! […]. Il Duca di Wellington è partito da Parigi ?” “Non so dirlo”. “Gli Inglesi e le truppe degli alleati stanno ancora vicino alla capitale ?” “Gl’Inglesi credo di sì, ma i Russi ed i Prussiani mi par di vedere dalle gazzette che si siano ritirati al Reno”. “Ottima disposizione” diss’egli “ma che vuol dire” continuò “che fra i giornali che mi si danno da leggere non vedo quasi mai il Morning Cronichle ?”  



























Napoleone faceva molte domande a Warden. Questi una volta espose al Generale Las Cases3 il proprio timore che le sue risposte all’Imperatore fossero insoddisfacenti, ma il generale lo rassicurò dicendo che se non si fosse stati soddisfatti delle sue risposte egli non avrebbe continuato ad essere sempre infastidito con domande. Le richieste dell’Imperatore erano di vario tipo ; tra le molte, ne citerò una accanita e insistita da parte di Napoleone al chirurgo Warden circa il momento della separazione dell’anima dal corpo. Tratti di questa conversazione fanno tornare alla mente, con impressionante evidenza, luoghi dell’Operetta, di diversi anni successiva, di Giacomo sul Ruysch. Altri tratti della traduzione di Carlo ricordano stilemi della poesia di Giacomo.  

3   Uno degli accompagnatori di Napoleone a Sant’Elena. Scrisse, in séguito (1823, nuova edizione curata dall’autore: 1840), un grosso libro su Napoleone a Sant’Elena. Di esso è disponibile un’edizione italiana antologica : Emmanuel de Las Cases, Memoriale di Sant’Elena, a cura di Luigi Mascilli Migliorini, Milano, Rizzoli (bur), 2004, 2 voll.  

RIFERIMENTI ARCHETIPICI NELLA DISPERSIONE. DAL MOLTEPLICE DELLE ROVINE ALL’UNITÀ DELLA MEMORIA Fabio Russo i. Funes, o della memoria. Giacomo, o la ‘giovinetta immortal’

U

n filo spinge dalla suggestiva vicenda che del personaggio Funes riferisce Borges alla puntualizzazione specifica del ricordare. La capacità di ricordare, non solo al modo prodigioso di Giovan Pico Della Mirandola, ma in uno (più) profondo di vedere in maniera inconsueta le cose, a distanza di luogo o di tempo, e magari a distanza di logica comune, sul filo di una problematicità :

1.



Il vedere del cieco per Rilke, con un sapor di conoscere e ricordare, quanto quello del protagonista del suo breve racconto Singolare evento, o Esperienza (variante italiana di titolo rispetto all’originale Erlebnis). I pensieri penetranti sulla memoria per Valéry, nei Quaderni (V). I ricordi che per Pavese sono la base della nostra esperienza conoscitiva, e già per Leopardi. La memoria insicura che per Pratolini « ricorda solo quello che le conviene ». Quella inquieta della Yourcenar per Adriano o la stessa propria « ombra » attenta, che vede incontrarsi strati di ricordi (con il cane Ku-Ku-Hai). La memoria infallibile di Funes, nelle Finzioni di Borges, straordinariamente in grado di « sapere tutto ». Il « cumulo » dei ricordi per Manzoni, il loro peso pure per Giovan Battista Angioletti. L’idea poi del tradurre rispetto all’originale e a un senso unitario trascurato (così Il Disperso e la Memoria nella “voce seconda”). 1  















Così, riguardo il protagonista del racconto omonimo di Borges, « Noi, in un’occhiata, percepiamo : tre bicchieri su una tavola. Funes : tutti i tralci, i grappoli e gli acini d’una pergola. Sapeva le forme delle nubi australi dell’alba del 30 aprile 1882, e poteva confrontarle, nel ricordo, con la copertina marmorizzata d’un libro che aveva visto una sola volta, o con le spume che sollevò un remo, nel Rio Negro, la vigilia della battaglia di Quebracho. Questi ricordi non erano semplici : ogni immagine visiva era legata a sensazioni muscolari, termiche, ecc. Poteva ricostruire tutti i sogni dei suoi sonni ». 2 Di fronte alle figure storiche di emblematicità del grado di memoria, la panoramica seriosa dei casi rilevanti in tal senso fa il gioco di Ireneo Funes. Appunto « Ireneo cominciò con l’enumerare, in latino e in spagnolo, i casi di memoria prodigiosa registrati dalla Naturalis historia : Ciro, re dei persiani, che sapeva chiamare per nome tutti i soldati del suo esercito ; Mitridate Eupatore che amministrava la giustizia nelle ventidue lingue del suo impero ; Simonide, inventore della mnemotecnica ; Metrodoro, che professava l’arte di ripetere fedelmente ciò che avesse ascoltato una sola volta. Con evidente buona fede, si meravigliò che simili casi potessero sorprendere ». 3 Funes non menziona Giordano Bruno per la mnemotecnica, non Leopardi (già, non si potrebbe pretenderlo) fra vari nomi pure fatti nella finzione precisa circostanziata di Borges, ma mette in luce questa capacità speciale, esasperata. L’atten 





















1   Fabio Russo, Il Disperso e la Memoria nella “voce seconda”, in Eco-Magris : autori e traduttori a confronto, a cura di Liljana Avirovic, Udine-Trieste, Scuola superiore di lingue moderne-Università di Trieste-Campanotto, 1992, pp. 329-41. 2   Jorge Luis Borges, Funes, o della memoria (1942), in Idem, Finzioni [1944], trad. di Franco Lucentini, Torino, Einaudi, 1955 e 1985, da cui si cita, p. 102. 3   Ibidem.  

zione di Leopardi al ricordare non è esasperata, ma tesa a spingersi oltre l’ordinario delle cose, certo sì. Le figure di Silvia, Nerina, delle « vaghe stelle », dell’Islandese, di Dedalo sono simboli di un guardare calmo-drammatico, di una tensione più o meno luminosa, sempre intensa e grande, di profondo spessore. Basti pensare a taluni passaggi delle Ricordanze : « Viene il vento recando il suon dell’ora / dalla torre del borgo. Era conforto / questo suon, mi rimembra, alle mie notti, / […]. Qui non è cosa / ch’io vegga o senta, onde un’immagin dentro / non torni, e un dolce rimembrar non sorga. / Dolce per sé ; ma con dolor sottentra / il pensier del presente », o ancora : « O Nerina ! E di te forse non odo / questi luoghi parlar ? […] qui sola di te la ricordanza / trovo ». Lungi dall’essere « metafora dell’insonnia » (la vicenda di Funes per Borges, con un mondo « sovraccarico » fatto di « dettagli, quasi immediati », incalzanti), questa di Leopardi lo è del vivere che altrimenti cade di mano, rischia di non essere abbastanza « sperimentato », di fatti e cose che si perdono. Quindi della facoltà/capacità di ricordare, bella forza di natura (anche tra gli animali) di accrescere il grado di esperienza, proprio attraverso il confronto di una situazione in momenti diversi (per Valéry, fra l’‘io’ e il ‘moi’, dove sussiste differenza e quindi intercorre « tempo »). Prospettiva problematica, su un lungo raggio, memoria « lontana », non carezzevole, non edonistica, tale da distanziare le cose, i vari momenti in una dimensione non contingente. Ricordare dunque occorre, intensifica l’esperienza per Leopardi, ma può far male. Difficile è prendere coscienza, specie di sé. Ma far male non vuol dire non essere d’altra parte utile, costruttivo. Ricordare mette a confronto quanto avvenuto con ciò che si deve ancora sistemare, con un assetto da trovare, magari condividere con altri. E si entra nel campo dell’Ignoto (il ricordare essendo questa configurazione nuova del già trascorso), appunto del « non sperimentato », così vicino a quello dell’Infinito in quanto inesperibile. Gioco di razionalità (lo sperimentato e il non sperimentato) verso quanto sfugge al dominio dell’intelletto, non si conosce (appunto l’Ignoto) e sta nell’enigma, nel mistero. Qui ricordare si affianca all’immaginare intenso e generoso, « magnanimo ». Proprio il ricordare di Leopardi, quanto il suo tipico guardare/immaginare, riprende le cose da più punti di vista e a diversi livelli. Mostra così una tenacia del ricordare, calmo e profondo, che indica in ciò il bisogno imperativo di vivere (« il faut tenter de vivre » per Valéry, addirittura, o viceversa il « vizio » secondo Pratolini di cedere alle debolezze che trattengono il coraggio di vivere, appunto). Un ricordare dunque tutto speciale, come garanzia di vita, anche se privo di quel senso di assurdo caratteristico di Borges. Un ricordare forte e dominante, che rileva le cose soprattutto dal versante della Morte (« Vivemmo : [...] / confusa ricordanza : / […] / Cosa arcana e stupenda / oggi è la vita al pensier nostro », suona il Coro di Morti nello studio di Federico Ruysch ; oppure lo sguardo di Leccafondi e Dedalo dal regno dei morti animali nei Paralipomeni, canto vii), della Morte con la sua portata sacra e mitica, esteso in tutte le direzioni o funzioni dell’esistere. Da un punto di osservazione anche terreno o umano, però sintonizzato su una prospettiva non contingente e invece simbolica. Da un punto di vista dunque diverso e tutto ribaltato da quello usuale.  







































































riferimenti archetipici nella dispersione Leopardi non ha un personaggio solo come Funes o un oggetto particolare come l’Aleph che permetta di vedere in modo singolare le cose lontane. È lui la figura speciale e singolare attraverso i suoi vari personaggi e tratti simbolici, lui lo sguardo caleidoscopico in apparenza razionale, nella sostanza tale da smontare i criteri consueti del conoscere, del prendere cognizione del dolore come della serenità. Rivoluzionario del pensiero, ha lasciato la rivoluzione al colmo dell’animo per sdegno etico-sociale e per senso della discrezione inappariscente. E lui proietta lo sguardo, dei vari suoi personaggi e figure, su un elemento persistente come una Urform, la Luna. Questa sì, se non l’unico segnale della memoria, sembra essere il più intenso e sorprendente depositario di uno spessore conoscitivo fuor del comune, in quanto colto da un angolo visuale diverso, particolarmente in queste riflessioni : « E tu certo comprendi / il perché delle cose, e vedi il frutto / […] / del tacito, infinito andar del tempo. / Tu sai, tu certo, […]. / Mille cose sai tu, mille discopri, / che son celate al semplice pastore / […] Ma tu per certo, / giovinetta immortal, conosci il tutto » (Canto notturno).  A sua volta per Saba « ella sa le presenti e le passate / cose, e per quelle che saranno porta / un finissimo intuito » (Nuovi versi alla Lina, in Trieste e una donna). Nella magica piccola sfera di Borges, L’Aleph, questi in prima persona scruta e annuncia « Vidi il popoloso mare, vidi l’alba e la sera, vidi le moltitudini d’America, vidi un’argentea ragnatela al centro d’una nera piramide, vidi un labirinto spezzato (era Londra) ». 1 Nel singolare volo di Dedalo e Leccafondi immaginato da Leopardi, « Vider città di cui non pur l’aspetto, / ma la memoria ancor copron le zolle, / e vider campo o fitta selva o letto / d’acque palustri limaccioso e molle / […] / Sparsa era tutta di vulcani ardenti, / e incenerita in questo lato e in quello. / Fumavan gli Apennini allor frequenti / come or fuman Vesuvio e Mongibello, / e di liquide pietre ignei torrenti / al mar tosco ed all’Adria eran flagello ; / fumavan l’Alpi e la nevosa schiena / solcavan fiamme ed infocata arena. / […] / Tonare i monti e rintronar s’udiva / or l’illirica spiaggia ed or la sarda » (Paralipomeni, canto vii). Una tale enumerazione di circostanze emblematiche denota gradi di sperimentazione evidenziati o sentiti paradigmatici di un comportamento. Anche per il leopardiano Islandese spicca un simile modo di procedere, però con significato negativo, provare mai pago molteplici esperienze per poi tenersi senza fastidi al margine della vita. « Non mi proposi altra cura che di tenermi lontano dai patimenti. […] Quasi tutto il mondo ho cercato, e fatta esperienza di quasi tutti i paesi ; sempre osservando il mio proposito, di non dar molestia alle altre creature […], e di procurare la sola tranquillità della vita. Ma io sono stato arso dal caldo fra i tropici, rappreso dal freddo verso i poli, afflitto nei climi temperati dall’incostanza dell’aria, infestato dalle commozioni degli elementi in ogni dove. Più luoghi ho veduto […]. Dal sole e dall’aria, cose vitali, […] siamo ingiuriati di continuo » (Dialogo della Natura e di un Islandese). Una tecnica analoga, da casistica a oltranza, sostiene la vicenda del Giramondo in un articolato quadro del viaggiare labirintico prospettato da Michael Ende lungo il susseguirsi di scene de Lo specchio nello specchio : « Si sedette sugli sporchi gradini di pietra che conducevano alla porta di una casa alta e stretta […], congiunse le mani sul pomo del suo bastone da passeggio, […] fissò lo sguardo, senza vedere nulla […]. Aveva visto tutti i prodigi e i misteri del mondo. Conosceva la colonna di pietra lunare che si libra nel tempio di Tiamat e le torri di vetro di Manhattan ; aveva bevuto dai geyser di  































1   Jorge Luis Borges, L’Aleph, [1952], trad. di Francesco Tentori Montalto, Milano, Feltrinelli, 1959 e 1961, ora 2009, da cui si cita, p. 165.

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sangue nell’isola di Hod e parlato dell’essenza del destino con il signore cieco della biblioteca di Buenos Aires, aveva portato al dito l’anello della regina Mrabatan che conferisce il potere sui ricordi dell’umanità […]. Innumerevoli cose aveva visto, ma di tutti quei misteri non gli importava niente. Il suo non vi era compreso ». Così cercava invano « il segno che valeva per lui […], che era la chiave per sciogliere l’enigma della sua esistenza ». 2 Un labirinto da decifrare, portato al massimo sperimentabile, alla prova suprema che manca.  





2. Dal motivo di Borges ci viene, per tali meccanismi di richiami, uno spunto di riflessione. Utile (questo singolare aprirsi continuo di memoria) per cogliere l’insistita fede (a oltranza) nel ricordare le esperienze messe a confronto, proprio di Leopardi. Uno spunto, dalle prospettazioni precise quanto imprevedibili, enigmatiche secondo lo stile di Borges. E nelle abitudini di famiglia, articolate fra spagnolo e inglese, egli confida essere il racconto Funes autobiografico : « Sì, è autobiografico. È una metafora dell’insonnia. Ricordo che avevo passato molte notti senza riuscire a dormire, e allora avevo cercato di dimenticarmi di me stesso, di dimenticare la stanza in cui mi trovavo, di dimenticare il giardino fuori dalla stanza […], e non ci riuscii. E così pensai a un uomo oppresso da una memoria perfetta. Quindi scrissi quell’incubo », 3 nell’omonimo racconto figura di una « implacabile memoria » (o « un deposito di rifiuti »). 4 Ci viene anche dalle puntualizzazioni dell’indagare minuzioso suggestivo eppur impassibile di lui sulla natura e sul nome dell’Aleph, nel ben noto lavoro. Ciò dopo una rassegna serrata di casi centrati sul riflettersi e sullo specchio : « Esiste codesto Aleph all’interno d’una pietra ? L’ho visto quando vidi tutte le cose, e l’ho dimenticato ? La nostra mente è porosa per l’oblìo […] ». 5 E si ripercuote nella casistica di risposte, da modulo elencatorio reiterato, all’interrogativo « che sarà Buenos Aires ? ». Appunto, « È la Piazza di Maggio […]. È il dedalo crescente di luci […]. È il muro della Recoleta […]. È un grande albero di calle Jiunin ». 6 Ora, la memoria per Leopardi ha un sapore magico, nonostante la sua problematicità tutt’altro che fredda. Non si misura mai sull’immediato, sul tecnico, su un meccanismo dallo spirito geometrico. Essa è ricca e piena. Si dispone su un lungo raggio di distanza, che respinge il presente. Fiuta lontano, nelle fasi passate, in quelle che devono venire grazie a siffatto sguardo inusuale (quello della Morte, quello del lato non visto delle cose). La Memoria è « conservatrice della sapienza » (Detti memorabili di Filippo Ottonieri, cap. ii), anche se poi impoverita e ridotta a un « fantasma » (pure le virtù, nell’operetta Storia del genere umano). Per un tale sguardo sul fronte dell’Ignoto la Luna si carica di esperienze che non sono dell’uomo soltanto e la Memoria si sintonizza con queste, le capta. La Memoria non è semplice strumento tecnico, ma spessore conoscitivo che s’incontra con la portata della Luna, provocandola o ricevendone segnali. Risponde la Luna all’uomo ? Dà a lui la Memoria un grado di maggior carica vitale ? Sì per entrambe (Dialogo della Terra e della Luna inoltre Detti memorabili di Filippo Ottonieri), nella misura che le si crede o le si ascolta ; nella misura che si riesce a fiutare il mistero man mano che ci si libera magari in una piega di ironia della nostra sagomatura razionale (in qual misura una cosa può essere presa con slancio o con scetticismo). Sicché sul fondo dell’Ignoto, di là dal contingente, Luna e Memoria racchiu 















































2   Michael Ende, Lo specchio nello specchio [1984], trad. di Donatella Frediani, diciotto illustrazioni di Edgar Ende, Milano, Longanesi, 1986, da cui si cita, pp. 164-165. 3   Jorge Luis Borges, Conversazioni americane [1984], trad. di Franco Mogni, Roma, Editori Riuniti, 1984, cap. vi. 4 5   Idem, Funes, cit., pp. 106, e 103.   Idem, L’Aleph, p. 170. 6   Idem, Buenos Aires, in Elogio dell’ombra [1969], trad. di Francesco Tentori Montalto e Floriana Bossi, Torino, Einaudi, 2007.

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dono (sono depositarie di) un segreto, quello dell’uomo che (il segreto) sta oltre la siepe : il tramontar della luna, le fallaci apparenze, la meschinità delle cose (presenti o viste da vicino) sempre inadeguate nel loro esser « fantasma » di fronte al loro intimo nucleo. Segreto complesso, sacro, propriamente labirintico. Non è anche l’Ignoto un labirinto in stato d’ombra ? Non visto, non percepito. Chissà poter tener presente qui la tesi suggestiva di Kàroly Kerényi, per il quale in un sottile passaggio di considerazioni « Laggiù [negli inferi] la Signora del Labirinto regnava nelle vesti di Arianna, Ariadne, ovvero la ‘purissima’ […]. Non solo ella poteva liberare qualcuno dagli Inferi, se lo voleva, ma poteva lei stessa ritornare indietro da quel luogo, ed era allora la ‘chiarissima’, quell’Aridela che sta nel cielo, come veniva chiamata anche a Creta con un altro nome greco. Come figura preomerica era la fanciulla divina dei cretesi, una dea lunare : non però semplicemente la luna, bensì anche una signora del Regno dei morti, una dea piena di grazia, che aveva il potere di ricondurre alla vita ». 1 Non è facile indicare le tracce precise, e in breve spazio, di quanto in tal senso può aver scorto nella sua anche sotterranea conoscenza del mondo antico Leopardi. Certo, i messaggi di un’opera vanno tanto al di là del loro autore stesso, su una lunghezza d’onda non solo in avanti, per cui taluni elementi si richiamano comunque. Un’esperienza singolare ce la dà Rilke, in questo segreto sovrapporsi di emozioni, mosse da un meccanismo del ricordare vicino a quello del veggente. Protagonista il personaggio Rilke, assorto nel parco sul mare di Duino, tutto assorto a sentire strana un’impressione, per cui « doveva essere finito dall’altra parte della natura » : « Allora, lentamente, e senza mai abbandonare la posizione assunta, si guardò attorno : riconobbe ogni cosa, ricordò ogni cosa, e con un lontano sorriso di tenerezza lasciò che tutto rimanesse al suo posto come oggetti che una volta, in circostanze ormai remote, erano stati in qualche modo con lui. La presenza di un uccello nell’aria, un’ombra che si allungava per terra, il viottolo stesso che continuava e si perdeva alla vista, lo colmarono di una coscienza pensosa […] : che egli a queste cose ritornava e da lì, dal suo corpo, come dal fondo di una finestra abbandonata, le guardava. Di questo fu per un paio di secondi convinto ; al punto che l’improvvisa apparizione di un abitante del castello lo avrebbe sconcertato nella maniera più crudele. Mentre egli, realmente, nella sua presente disposizione non sarebbe stato minimamente turbato dal vedere apparire al fondo del viottolo Polissena o Raimondina o un’altra persona defunta del castello. E gli pareva di poter osservare, dall’intimo, la innumere configurazione di tutte le cose ». 2 Effettivamente, « egli ora guardava le cose come dall’altra parte, dal di dietro », su un filo sottile di capacità di ricordare, di stabilire collegamenti appunto su una lunga distanza. E Memoria è questo modo di tracciare relazioni sul lontano o sul sotterraneo. Se prestiamo fede al ragionare strenuo, intellettualistico di Valéry (nella sezione Memoria dei Quaderni), essa non è « nozione del passato ». Anzi, « Il tratto della memoria che più colpisce è che essa rende il ‘pensiero’, ossia il possibile, la libertà – possibili non già fornendo il passato (ciò che è il caso iniziale ristretto), ma del passato come materiali, come elementi conservati, fissi, preparati per le combinazioni, smerciati e utilizzati nelle costruzioni istantanee ulteriori ». 3 Ancora, « Il passato dimentica che è passato ; e a questo  













































1   Karoli Kerényi, Nel labirinto [1966], trad. di Leda Spiller, introduzione di Corrado Bologna, Torino, Boringhieri, 1983, pp. 169-170 (cap. v, La Signora del Labirinto, ma anche iv, L’origine della religione di Dioniso). 2   Rainer Maria Rilke, Singolare evento [1913], in Idem, Del poeta, trad. di Nello Sato, Torino, Einaudi, 1948. 3   Paul Valéry, Quaderni - Quinto [1980], a cura di Judith Robinson-Valéry, trad. di Ruggero Guarini, Milano, Adelphi, 2002.

prezzo, gioca nel presente ». E, « La memoria non ‘serve’ tanto a rappresentare il passato quanto a costituire il permanente ». Sulla memoria non sappiamo nulla, rileva egli nel ’28, e questa rimane per vari lati un enigma. Oltre alle sue poesie come Il cimitero marino, Valéry ci dà nei Quaderni la sua cospicua consistenza speculativa. Altrettanto Leopardi, oltre alla parte poetico-saggistica, tratta ripetutamente il termine alla voce omonima nello Zibaldone. Allora, « non v’è memoria senza attenzione », « è una facoltà dell’intelletto : errore di chi vuol considerarnela distinta » (Zib. 965-966), « massima platonica : scire nostrum est reminisci », « la sensazione presente è una ricordanza dell’immagine e della sensazione provata da fanciulli », in Zib. 405 (cui si avvicina tanto l’idea di Pavese), e altre osservazioni anche in rapporto alla società, al costume, alla psicologia in una linea di antropologia culturale densa di intrecci, con l’assuefazione, l’imitazione, la stessa dimenticanza. « E pure è certissimo che tutto quello che facciamo lo facciamo in forza di una distrazione e di una dimenticanza, la quale è contraria direttamente alla ragione » (Zib. 104). E poi, « Perché infatti l’uomo (e l’animale) niente sapendo per natura ec. tanto sa, si ricorda, cioè quanto ha imparato mediante le esperienze de’ sensi. Si può dire che la memoria sia l’unica fonte del sapere, ch’ella sia legata, e quasi costituisca tutte le nostre cognizioni ed abilità materiali o mentali, e che senza memoria l’uomo non saprebbe nulla, e non saprebbe far nulla » (Zib. 1675-1676). Ribadendo di seguito « E siccome ho detto che la memoria non è altro che assuefazione […] così vicendevolmente può dirsi ch’ella contiene tutte le assuefazioni, ed è il fondamento di tutte, vale a dire d’ogni nostra scienza e attitudine. Anche le materiali sono legate in gran parte con la memoria. Insomma siccome la memoria è essenzialmente assuefazione dell’intelletto, così può dirsi che tutte le assuefazioni dell’animale sieno quasi memorie proprie de’ respettivi organi che si assuefanno ». Vengono fuori le pieghe del comportamento, i meandri dell’anima rilevati da questo instancabile osservatore della condizione umana. Ecco, « Chi viaggia molto, ha questo vantaggio dagli altri, che i soggetti delle sue rimembranze presto divengono remoti ; di maniera che esse acquistano in breve quel vago e quel poetico, che negli altri non è dato loro se non dal tempo. Chi non ha viaggiato punto, ha questo svantaggio, che tutte le sue rimembranze sono di cose in qualche parte presenti, poiché presenti sono i luoghi ai quali ogni sua memoria si riferisce » (Pensieri, 87°, già in precedenza passo analogo in Zib. del ’29). Allora (Borges), « So di aver perduto tante cose da non poterle contare e che queste perdite, ora, sono ciò che è mio […]. Mio padre è morto e mi sta sempre accanto. Quando voglio scandire dei versi di Swinburne, lo faccio, mi dicono, con la sua voce. Soltanto ciò che è morto è nostro, soltanto è nostro ciò che abbiamo perduto. Ilio fu, ma Ilio perdura nell’esametro che la piange. Israele fu quando era un’antica nostalgia » (Possesso dell’ieri). 4 Per di più, « Vissi stregato, prigioniero di un corpo / e di un’umile anima. / Conobbi la memoria, / moneta che non è mai la medesima » (Giovanni, i, 14).5 Avere, anche ciò che (Leopardi) sta oltre la siepe, la sagomatura di un termine (come gli addii, l’« ultima volta », osservati nello Zibaldone, in partic. 645-6), oltre la ricorrenza solo meccanica di un compleanno, o sta nel riferirsi di un luogo (non circoscritto) a un altro : « Notano quelli che hanno molto viaggiato (Vieusseux parlando meco), che […] un luogo ci riesce romantico e sentimentale, non per sé, che non ha nulla di ciò, ma perché ci desta la memoria di un altro luogo da noi conosciuto » (Zib. 4471).  





























































4   Jorge Luis Borges, I congiurati [1985], trad. di H. Lyria, Milano Monda5   Idem, Elogio dell’ombra, trad. cit. dori, 1986.

riferimenti archetipici nella dispersione 3. Così il pensiero problematico dietro i toni larghi della scrittura, nel colloquio profondo con la Luna, fa emergere emblematici i motivi del peregrinare, del termine e del ritorno (« or volge l’anno », « tu pendevi allor […] / siccome or fai »), vissuti in uno stato riflesso di ricordo (« io mi rammento »), quando conta ciò che viene richiamato dal momento del fatto a quello presente in cui si medita (Alla luna). Anche se vale non il presente di per sé ma la disposizione stessa di rimembrare lo specifico già avvenuto, che perciò risulta distanziato, lontano, in contrasto con quello attuale e vicino, e solo così si fa importante e importante al presente. Si allarga l’esperienza, cresce la forza di immaginare. « Chiudo oggi queste ciarle che ho fatte con me stesso […] perché mi servissero a conoscere me medesimo e le passioni […]. E così ora la passione sarebbe più vigorosa che non è, se dopo nata avesse avuto spazio di crescere alquanto e di pigliar piede nutrendosi d’altro che di rimembranza ». Così queste giovanili osservazioni, sperimentazioni, del precoce Leopardi (Memorie del primo amore, dicembre 1817). E la « giovinetta immortal » si fa simbolo, nel mondo labirintico, di un legame confidenziale quanto di un enigma. Su una intensa carica differita, lontana. Di pensosa capacità di rimemorare, o sapere. Si potrebbe dire che la chiarezza viene solo dal mistero, da questo stato di incognita non scalfibile dal razionale. Solo dal senso del mistero. Quel sapore di « giovinetta » e di « immortal », che appartiene già alla figura di Core, la candida, la pura, simbolo di una tale condizione, di fanciulla divina per eccellenza. 1 Di arcana magìa nel suo richiamo irresistibile, casta diva che inargenta i sacri antichi profili delle cose.  



























ii. Rovine circolari profanate. La vita lontana (immortale)

addirittura un’anima che non si spegne, se ascoltiamo Georg Simmel per il quale L’ultima Cena di Leonardo fa sentire in modo essenziale lo spirito del dipinto, nonostante il distaccarsi progressivo di particelle di colore dalla tela (« è privilegio di alcuni grandi uomini che la natura, anche dove distrugge, lo faccia quasi seguendo un piano più elevato e trasformi la distruzione in un mezzo per separare l’eterno dalla superficie, da far credere che le particelle di colore cadute si siano sfaldate dalla superficie, senza toccare il nucleo essenziale, anzi, rendendolo sempre più visibile, Il volto e il ritratto).2 Così lo spirito delle pietre in rovina non perde ventura, o grandezza. Percorrere Roma al lume della luna, suggerisce Gregorovius nelle Passeggiate in Italia : « allora uno resuscita i morti, essi balzano fuori dalle loro tombe, e cominciano a dar vita alle rovine, a popolarle ». E già da Montaigne, nel Journal de voyage e nel saggio De la vanité, Roma appare piena di nobili rovine dal palpito « umano ». Non meno il Du Bellay, in Les Antiquitez de Rome, « non poteva affisare il suo sguardo su quei vecchi palazzi, quelle mura, quegli archi, quei templi e quelle terme in rovina, senza esaltare subito dopo la bellezza delle opere divine che, alimentandosi di quel vigore antico, arricchivano la Roma moderna. Esiste un ‘dèmone romano’, un’energia sotterranea che risuscita con mano fatale le stesse rovine ridotte in polvere ». Così osserva G. Macchia nel suo capitolo sulle rovine Un paesaggio : la morte (1972). 3 Prende spicco questo spirito delle pietre, e risalto proprio nel nucleo animatore de I Sepolcri. « Ed oggi nella Troade inseminata / eterno splende a’ peregrini un loco ». Da qui interrogare, come le tombe, le rovine. Perché anche le tombe (a loro volta deteriorabili) racchiudono un corpo materialmente in rovina, un rudere, con la dignità di far ricordare e quindi non perire, anche di risorgere. Le Muse, per il Foscolo, « Siedon custodi de’ sepolcri, e quando / il tempo con sue fredde ale vi spazza / fin le rovine, le Pimplèe fan lieti / di lor canto i deserti ». E le tombe degli Scipioni, per Alessandro Verri in Le notti romane, legano chi le contempla in silenzioso colloquio : « Sono quelle tombe venerevoli per la modestia loro [...]. Quand’ecco udii un flebile mormorio [...]. Rilucea dentro gli avelli uno splendore fosforico, dal quale incominciarono a sorgere alcuni volti umani con lento progresso » (Proemio). Le tombe, le rovine parlano quando le si fa parlare, mostrano quel segreto che raggelato acquista solo allora un significato nuovo. Anche uno sprazzo di verità e bellezza, quale può venire dall’urna greca nell’Ode di Keats. Il fascino delle rovine, tema affermatosi nel secondo Settecento specialmente, colorato di malinconia pure in certe vedute romantiche d’inizio Ottocento. Tutto un paesaggio archeologico si dispiega protagonista. I dipinti di Piranesi sulle rovine, lo scorcio etico-politico di Leopardi « vedo le mura e gli archi / e le colonne e i simulacri e l’erme / torri degli avi nostri, / ma la gloria non vedo ». Giovanni Macchia, fra altre ipotesi critiche sottili sempre nello stesso capitolo in La caduta della luna, ricostruisce tale ambientazione nel suo spirito : « Quegli archi sbrecciati e crollanti, quei fantasmi senza forma, che si innalzano improvvisamente come spettri in uno spazio vuoto, non si sa fino a dove, fino a quando, sono come archi trionfali posti all’ingresso dei regni della morte. […] La polvere delle nazioni, delle nazioni che muoiono come gli individui, […]. La civiltà contaminata, sopraffatta, ritornava a cedere la propria regalità alla natura dominatrice e dissolvitrice delle opere umane. Tutto il contrario di quanto doveva accadere verso la fine del secolo a Huysmans, ad esempio, che amava la periferia parigina, con le sue fabbriche e i capannoni  























1. Anche le rovine ci riportano al senso della memoria. Nella loro irregolarità sbocconcellata e precaria, esse sono un segno grande, una prova che costituisce materia di memoria. Di là da documento, anzi, monumento di portata rilevante : piuttosto che mostrare il deperire, il deteriorarsi, uno stato di morte, denotano invece il perdurare vitale, anche nell’irrigidimento, di qualcosa che non è passato. I monumenti non si compromettono con il presente. Acquistano, quando non banali, una portata di mito e di sacro per la specificità del loro significato, messo in luce dall’azione della mente che ripensa, riflette. Si può ridere delle rovine, riducendone la portata e finalizzandole a un presente miope presuntuoso, autoritenutosi punto d’arrivo importante. Ridere, come in certo Seicento (Tassoni, Boccalini, quanto a spirito generale ; proprio SaintAmant, per le rovine schernite nella sua Rome ridicule), come taluni nobili inglesi nel Grand Tour in Roma o nei luoghi d’obbligo della mediterraneità classica. Tappe d’altra parte di un percorso formativo edificante, quale il caso emblematico di Goethe. Se ne può avvertire invece il forte richiamo, per quella sottile suggestione che viene dal discrimine tra vivo e morto, presente e passato. Discrimine impercettibile che non distingue, non separa, sovrapponendo e mescolando il trascorso con l’attuale su un filo segreto di ripercorrimenti a tratti inavvertiti. Un mistero la vita che si ferma e non muore, vedere o scoprire forme inerti pur ricche di significato che vivono in altro modo. Le cose poi, specie se guastate, tengono un resto di vita, sembrano avere un’anima, ancor più misteriosa. Le pietre architettoniche, certi testi letterari di cui sia da ristabilire filologicamente la stesura originaria, le raffigurazioni pittoriche, architettoniche bisognose di restauro. Queste hanno  



1   Ancora Kerenyi, cit., per Luna, Giovane, Immortale (cap. i, Studi sul labirinto : il labirinto come fonte di disegno-riflesso di un’idea mitologica).  

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2   Georg Simmel, Il volto e il ritratto. Saggi sull’arte, ed. ital. a cura di Lucio Perucchi, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 95. 3   Giovanni Macchia, La caduta della luna, Milano, Mondadori, 1973, p. 157.

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delle industrie ». 1 E poco più avanti « La campagna romana era come il mare di Ulisse. Sulla sua superficie eguale e silente si respirava la fine del mondo antico. E le cicatrici indelebili di quella scomparsa appariva facile riconoscerle più nelle immense distese dell’agro che nelle vie di Roma ». 2 Una suggestione cara all’idea romantica, appunto anticlassica. Un ripercorrimento si dispiega alla nostra mente sopita, che via via si sveglia e prende coscienza ‘presente’ di quelle tracce fossilizzate (lo stesso mondo dei fossili, la « conchiglia fossile » dello Zanella). Da decorativo si carica di drammatico e tragico, in certi casi. Le rovine di Ercolano e Pompei, la « ruina » di cui parla Leopardi nei Paralipomeni. La rovina sinistra di un mondo e di una mentalità ignara del pericolo, sempre in agguato, per di più coperta dallo stratificarsi di un presente volgare. « D’Ercolano così sotto Resina, / che d’ignobili case e di taverne / copre la nibilissima ruina, / al tremolar di pallide lucerne / scende a veder la gente pellegrina / le membra afflitte e pur di fama eterne, / magioni e scene e templi e colonnati » (canto iii, 11). Così lo sguardo in La Ginestra sul Vesuvio, su un quadro di distruzione e di morte, sulla possibilità che il passato si ripresenti. La rovina sembra essere salda, la vita presente incerta nell’incognita aperta. La stoltezza dell’uomo fuor di discussione, illuso e sviato da ciò che conta sul serio. « Questi campi cosparsi / di ceneri infeconde, e ricoperti / dell’impietrata lava, / […] / fur liete ville e colti, / […] / fur giardini e palagi / […] / Sovente in queste rive, / che, desolate, a bruno / veste il flutto indurato, e par che ondeggi, / seggo la notte ». Panorama di rovine come monito grave, non spettacolo. Per Pascoli le colonne, gli archi indicano uno stato di estesa decadenza, tengono « sol per l’abbraccio d’edere contorte » (Sanctus Theodorus). L’antico nel presente è in perdita, proprio il paganesimo ormai in decadenza (politica, morale, psicologica) di fronte all’affermantesi mondo cristiano. Il declino di una civiltà grande, di un mondo illustre. « Giacean rottami candidi di marmo / tra i rovi e i pruni, e sorrideano al suolo / i capitelli ai cardi ispidi e duri. / Muri con archi, cui copriva il musco, / pendean crollanti, […]. / Ruderi a terra sparsi e statue infrante, / scabbia di pietre, lue di sassi verdi / per tutto, ed archi che teneano appena ». Estenuazione e tramonto, entro una psicologia fatta di timori e apprensioni. Uno spettacolo di morte, senza appello. Ma di morte carezzata, blandita come una presenza sotterranea, in certo modo gustata non in virtù della ‘bella forma’ (il disintegratore, Pascoli, della forma poetica tradizionale, secondo lo Schiaffini come il Contini), ma di un dolore diramato e familiare, fatto domestico. Un dolore sommesso, tenuto sopito sotto il pianto, e insieme lanciato come una denuncia nel fremito di vite trascorse, stravolte della terra natìa di Lina Galli, staccata da lei, perduta (dopo un confine subentrato), si agita sul filo delle esperienze, quando non solo luoghi ma proprio persone lontane e note ci sorprendono in una realtà amara, che non è più quella naturale di loro, in un ritorno di attenzione. « Queste vie anguste contennero / un giorno le nostre vite / che così intense credevo ? / Si svolgono in stretto legame, / sentivo le voci della casa accanto. / […] // È peggio che ritornare morti / dopo decenni. / Riapparirebbero nei nuovi nati gli scomparsi / sguardi, voci, moti conosciuti, / il succo delle memorie. // Oggi qui le tue pietre sole / come quelle di un museo astratto » (Ritorno a Parenzo). 3 Così chi non c’è più, simile a un residuo di elemento vitale, si fa strada nella nebbia dell’abbandono come un reperto archeologico fuori dall’iniziale ignoranza, radici divelte, parvenze ormai nel nostro esistere. « Ombre ! I giorni si popolano d’ombre / s’incontrano per le vie / escono dai portoni / con un sorriso e un lampo negli occhi. / Non ci toccano. /  





































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2   Ivi, pp. 153-154.   Ivi, p. 157.   Lina Galli, Ritorno a Parenzo, in Eadem, Un volto per sognare. Poesie scelte (1950-1986), con un’antologia della critica a cura di Nora Baldi, Fabio Russo, Trieste, Comune di Trieste, 1987.

Ci aspettano silenziosi nei caffè / sono più fitti della gente che passa / vacua e indifferente » (Non ci toccano, ivi). Parvenze, insopprimibili. « Dalle fotografie intensamente ci guardano / escono con i ricordi dai cassetti, / anche le cose diventano ombre. / Sussurra una voce scomparsa / da una porta socchiusa. // Per un suono, un colore / irrompono vicende trascorse / vivide nella memoria / e il tempo si confonde e si moltiplica / […] ». Questo mescolarsi di momenti diversi, questo dilatarsi del tempo mostra un’emozione invero straordinaria, in linea con la misura dell’« attesa » e della « sorpresa », dell’evento che deve compiersi o che si è già realizzato quasi d’un salto senza passaggi, così caro alla mente di Paul Valéry. Le rovine sono sparse, disseminate, sono viceversa isolate singole in uno spazio circoscritto (anche cosmico, le meteoriti !) o a gruppo in forma circolare, magari non casualmente disposta a modo di segnale. Oppure possono fluttuare nel tempo, variare da una stagione all’altra, e ritornare ? Mostrare di ricomporsi, come per lo spazio, nell’unità d’origine, per lo meno di richiamarla, cosicché l’unità non sia mai perduta.  

















2. Sulle rovine sta tanto l’occhio saggistico-narrativo di Borges, che con distacco vede l’ambito sacro depauperato e profanato. Così Le rovine circolari, resti di uno spazio dedicato alla divinità.« L’uomo grigio baciò il fango, montò sulla riva senza scostare […] i rovi […], e si trasse melmoso e insanguinato fino al recinto circolare che corona una tigre o cavallo di pietra […]. Questa rotonda è ciò che resta d’un tempio che antichi incendi divorarono, cui profanò la vegetazione delle paludi, e il cui dio non riceve più onori dagli uomini. Lo straniero […] Sapeva che questo tempio era il luogo che conveniva al suo invincibile proposito ; sapeva che gli alberi incessanti non erano riusciti a soffocare, più a valle, le rovine d’un altro tempio propizio, anch’esso di dèi incendiati e morti ». E poi, « Gli conveniva il tempio disabitato e rotto, perché era un minimo di mondo visibile. 4 Un po’ come l’albero annerito dal fulmine, residuo sacro inteso da Leopardi fra gli errori popolari degli antichi, individuato da Pavese nella saggistica e nel diario, osservando dal treno la pineta presso Viareggio e « i focherelli lontani » accesi (Il mestiere di vivere, 1942, 10 febbraio). Il ‘ritornare’, spontaneo o voluto, diventa motivo emblematico della precarietà di un punto di riferimento, che al momento manca o non si vede, non si avverte, eppure c’è. Dell’enigma del nostro esistere, che sente, cerca l’Unità iniziale perduta. Per questa si potrebbe dire con Valéry « io attendo l’eco della mia grandezza interna », dell’Unità appunto, cui anela l’« anima grande » (Cimitero marino, viii). Enigma, perché con le parole ancora della Galli « Un vento vuoto s’alza / dallo spazio indistinto, / scivola sui vostri tetti o morti, / e successivi venti senza sponda / s’ingolfano nei madidi cortili / entro i vicoli afosi, / s’avvolgono alla campana della sera / ai balconi dolci dell’attesa. / La turba delle ombre che ritorna / da mare a mare negli anni s’addensa. / In tenue pioggia lagrime cadono / sulle case deserte, / grondano sui cimiteri abbandonati, / si mischiano alle zolle, / e arde la polvere impalpabile, / resto di generazioni che ansimano nella memoria / di mille fatiche, di mille dolori » (Ritornano, in Un volto per sognare, cit.), e perché l’uomo non sembra più in grado di dominare le situazioni in cui si trova, prendendo queste il sopravvento su di lui, sulla sua presunta consapevolezza. Così, pensando al Cimitero di Valéry, « Sulle case dei morti la mia ombra passa » (Cimitero…, vi), e, di nuovo con la Galli, « riaffiorano dall’inconscio / le creature perdute, / […] / Riappaiono gli scomparsi / in case murate, in ignoti paesaggi / per scale erte, li ricerchiamo / per corridoi cadenti. // […] / Filtrano di continuo / queste memorie nascoste / nella vita apparente » (Nei sogni, in Un volto per sognare, cit.).  































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4   Appartenente alla raccolta Il giardino dei sentieri che si biforcano (1941). Parte prima, di Jorge Luis Borges, Finzioni, cit., pp. 48 e 49.

riferimenti archetipici nella dispersione Mentre per Biagio Marin non solo ruderi, ma pietre vetuste di basiliche e monumenti hanno un’anima quando riscaldate dal canto (Canti spirituali nella grande basilica, in Gabbiano reale), la « terra ha un’anima » (Gorizia, la città mutilata), 1 e una persona morta dal canto suo non è un rudere, un esser vinto, ma qualcosa di imperituro se ha avuto il coraggio generoso di un’anima grande, se non ha « subìto » la morte, quel « non patire la morte ». Così il suo figliolo Falco, colpito nella Seconda Guerra da una pallottola nemica nel fiore degli anni, nei limiti impercettibili fra vita e morte, in quella possibilità di vivere ancora dopo la morte. « Era davvero morto il suo figliolo […] ? […] Non era più necessario che vivesse, perché tutto ormai era stato vissuto, tutto consumato ciò che vi era di temporale, ed egli era stato assunto nell’eterno. Nell’eterno bisognava dunque cercarlo, in Dio si sarebbe ritrovato. […] morendo, anche lui aveva vinto la morte. Sono rari gli uomini che vivono e non patiscono la morte. E quando la morte non è semplicemente sofferta, ma è atto supremo di vita, porta all’immortalità » (Falco, in Gabbiano reale). « Immortale era il suo figliolo ». Che si ritrova pure nella nota trepida dei Diari per la ricorrenza della morte di lui. In altro ambito il motivo delle rovine ancora entra a costituire il tessuto di un appassionato canto a più voci Il Resto. Percorso in poesia, 2 composto da Fedele Boffoli, Walter Curini, Franco Naglein, tre autori impegnati a dar voce a una singolare esperienza viaggiatoria di pensiero, intrapresa  





















1   Biagio Marin, Gabbiano reale, a cura di Elvio Guagnini, Gorizia, Editrice Goriziana, 1991; Idem, Gorizia, la città mutilata, Gorizia, Comune di Gorizia, 19563. 2   Illustrazioni di Francesco Mignacca e Grazia Semeraro, postfazione di Fabio Russo, Trieste, Anforah-Il Murice, 2005.

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da Trieste, sull’itinerario esistenziale dell’uomo nel tempo, lungo i percorsi caratteristici dell’area mediterranea e zone contermini (dell’Asia, dell’Africa). Le piste aprono una traccia non unicamente nei luoghi, e il sovrapporsi segreto del passato che emerge nel presente dilata il campo conoscitivo. Nel susseguirsi tematico dei tre autori « Le rovine di luoghi sacri / resi tali dal respiro / di esseri viventi, / i boschi incatenati / ridotti in cenere, / le paure intime / trasformate in realtà, / il silenzio di ghiaccio / sudario dell’esistenza, / ora si ricoprono / della tua stanchezza », tua, del « Dio dell’Aria, / antica divinità », a cui va l’invocazione di piegare le ginocchia e lasciare che « il cielo / si unisca alla terra » (Rovine). Non meno conta questo deciso proposito « Voglio ritrovare / nel solco del tempo / le vere radici / e tolto il velo / alla trasparenza / baciare infine / in ginocchio / la luce » (Trasparenza), sempre in Il Resto. Un concentrato di Sacro, di esistenziale nei suoi sbandamenti di profano (pro-fanum) e dimenticanza manchevole. Nel ricupero di valore di Ombra e Orma. E la Rovina porta al senso della vita (non nei motivi irrigiditi di morte considerati dal Macchia). Come rimanda al principio dell’Uno, 3 paradigmatico e ‘aggregante’ per tutte le successive diversificazioni e ricomposizioni (la ‘riscrittura’), comunque variate, altrimenti ‘disperse’ senza un centro memorizzatore, identificatore.  















3   Per questo tema va tenuta presente la linea di ricerche del cism, Centro Internaz. Studi sul Mito, Direttore Sergio Sconocchia e Vicedirettore Gianfranco Romagnoli, presso il Centro Mondiale della Poesia e della Cultura in Recanati, con Delegazioni a Palermo, Gradisca d’Isonzo, Pistoia, e che coinvolge chi scrive, in paticolare su Archetipo (Ermete Trismegisto, M. Ficino, G. Bruno), Simbolo (Ombra e Labirinto per Leopardi), Attesa (i segnali dell’A. per Pavese e Valéry e gli Archetipi conoscitivi in Antonio Conti).

LEOPARDI : L’INFINITO. LO SGUARDO OLTRE L’« ORIZZONTE »  





Bortolo Martinelli 1. Preambolo critico

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’ i nfinito costituisce non solo uno dei testi più significativi della poesia di ogni epoca, ma anche uno dei punti di svolta riguardo all’autoeffigie e al pensiero dell’autore, in uno dei periodi cruciali della sua esistenza. Il modulo che viene impiegato, lo schema della visione dall’alto, costituisce un vero archetipo nella storia della poesia e, più in generale, nella storia della cultura. Il modulo della visione dall’alto, utilizzato dal poeta anche nella Ginestra, si fonda principalmente sul funzionamento dello sguardo, che si proietta in lontananza e in profondità, facendo emergere una serie di relazioni topologiche : vicino-lontano, alto-basso, finito e transfinito ; fisiche e sensoriali : sguardo e udito, principalmente ; intellettive : immaginazione, pensiero, ragione ; psichiche : piacere, dolore, angoscia, paura, speranza, illusione, esaltazione, delusione. Il reale fluisce dinnanzi allo sguardo, per far scattare la serie delle immagini, che dal vicino trapassano al lontano, all’interminato e immenso, e dal presente si volgono al passato, anzi all’eterno, che sta ad indicare la stabilità delle cose, nel loro emergere, nel loro fluire e nel loro permanere, in una dimensione che è insieme fisica e metafisica, e non unicamente memoriale. Centrale è il punto di stazione, la determinazione di uno spazio circoscritto, entro il quale e a partire dal quale si determina la scena dell’esperienza, in forme che trapassano dal reale all’ideale, dal percepito al pensato, all’immaginato. Il modello della scena non è tuttavia per nulla nuovo, basti pensare ad una serie cronologicamente unitaria di autori, tra preromanticismo e romanticismo : Rousseau, Goethe, Alfieri, Foscolo, frammenti di esperienze e realtà in gran parte affini, segno di una specifica e nuova realtà della sensibilità e dello spirito, che anche Leopardi si è trovato ad avvertire, a sperimentare e a vivere. 1 La scena del punto di stazione, con la sua doppia coordinata del sedere e del mirare, dello stare e del vedere, scena che fa da proscenio alla successiva attività riflessiva e immaginativa, la quale si compendia nell’attività del « fingere », muove da un preciso suggerimento aristotelico, fin qui purtroppo ignorato, ma che era assolutamente noto a tutti i cultori della filosofia quanto meno fino all’età di Galileo. Mentre decade per sempre, riguardo all’immagine dello spaurarsi del cuore (« ove per poco / il cor non si spaura » : sbigottimento, stupore, angoscia, paura), il possibile richiamo ad un noto pensiero di Pascal, « le silence éternel de ces éspaces infinis m’effrait », tenuto a battesimo anche da un grande francesista, 2 e fonte di tante inverosimili elucubrazioni, perché esso non c’era nella raccolta dei Pensieri di Pascal a cui il poeta, al pari di tutti i suoi contemporanei, poteva attingere. 3 La dimensione del testo è anche di tipo figurativo e si svi 























1   Al riguardo si può vedere il nostro saggio, Bortolo Martinelli, Il « colle » e la « siepe » : gli archetipi dell’Infinito, in Idem, Leopardi tra Leibniz e Locke. Alla ricerca di un orientamento e di un fondamento, Roma, Carocci, 2003, pp. 227-287 : 239-243. 2   Giovanni Macchia, La paura di Pascal vinta dalla poesia, « Corriere della sera », 16 dicembre 1980. 3   In proposito può valere quanto osservo nel saggio, Bortolo Martinelli, « Ed io che sono ? », L’interrogativo del Canto notturno, in Idem, Leopardi e la condizione dell’uomo, Pisa, Giardini editori e stampatori, 2005, p. 263, n. 15.  





   









   

2. L’I nfinito , o della modernità







luppa in una doppia direzione, del vedutismo settecentesco, 4 caratterizzato dal punto di stazione e dallo spazio circoscritto, e del vedutismo preromantico e romantico, caratterizzato sì dal punto di stazione, ma lo sguardo, anzi il pensiero, è proiettato in lontananza, verso lo spazio aperto, fino all’orizzonte e oltre. 5 L’io del poeta e dell’artista non è più solo spettatore, perché si proietta sulla scena e vi trasfonde i tratti di una nuova sensibilità, che svaria verso forme simboliche e cariche di psichismo. Il poeta, l’artista, figura al confine tra due realtà, l’una visibile e l’altra intuita o immaginata, che sfuma tra vaghe ombre in un orizzonte lontano, quasi dissolvendosi.

L’infinito, con la sua storia interna e con la sua fortuna, nell’àmbito della poesia dell’Ottocento e del Novecento e nelle varie stagioni della critica, segna un punto di snodo sulla via verso la modernità lirica, non solo riguardo alla poesia italiana, ma anche riguardo a quella europea. Il testo presenta due tratti fondamentali : la riduzione dell’esperienza alla scena dell’io, come unico collettore delle immagini e dei pensieri ; 6 la scena dell’io quale scena organica in cui si fondono tutte le pulsioni dello spirito e le tensioni del reale, in forma di progressiva scoperta di ciò che affiora dai fondali della memoria e si proietta sul reale circostante, trasponendolo in una serie di immagini sublimate dalla cultura dei secoli (gli archetipi) : il colle, la siepe, l’orizzonte, il vento, il mare, al punto che ci si è spinti a parlare, invero con grande disinvoltura, di una sorta di esperienza mistica e nirvanica. Leopardi abbandona la via descrittiva e contemplativa, ma patetica e sentimentale, degli idilli di Salomon Gessner, allora ampiamente diffusi in traduzione e anche in adattamenti, 7 e si concentra, senza disperdersi, sull’evento dell’esperienza (il poeta isolato dietro la siepe), quale atto psichico e gnoseolo 





4   Sull’analogia tra la forma della veduta dell’Infinito e il modello del vedutismo pittorico settecentesco rinvio al saggio, Bortolo Martinelli, Il « colle » e la « siepe » : gli archetipi dell’Infinito, cit., pp. 227-287. 5   Su questo modello di rappresentazione, in forma di veduta, nella pittura romantica, e in particolare in Caspar David Friedrich (1774-1840), desidero rinviare al nostro, Bortolo Martinelli, Leopardi : L’Infinito. In forma di lirica riflessione, in Idem, Riletture leopardiane, « Nuova secondaria », Brescia, xxviii, 4, 2010, pp. 30-36. Sulla poetica di Leopardi e sulla poetica di Friedrich si veda altresì, Titus Heydenreich, « E il naufragar m’è dolce in questo mare ». Prospettive e immagini ne L’infinito, in Leopardi poeta e pensatore / Dichter und Denker, a cura di Sebastian Neumeister, Raffaele Sirri, Napoli, Guida, 1997, pp. 227-234 ; Enrico Cesaretti, La parola e l’immagine. Alcune riflessioni su G. Leopardi e C. D. Friedrich, « Testo », xxi, 40, 2000, pp. 77-92. 6   Sui tratti specifici della poesia lirica, che ha come sua forma o statuto non solo l’idea della presenzialità dell’io dell’autore, ma anche dell’io del lettore, a cui il testo si rivolge quasi in forma ostensiva, si veda l’acuta indagine condotta da Giuseppe Bernardelli, Un discorso in presenza, in Idem, Il testo lirico. Logica e forma di un tipo letterario, Milano, Vita e Pensiero, 2002, parte seconda, pp. 127-155, con precisi riferimenti proprio all’Infinito leopardiano. Secondo Bernardelli il testo lirico presuppone la presenza e coscienza del contesto da parte del destinatario e si articola linguisticamente in relazione proprio a tale presupposto ; uno dei principali indici linguistici di questo « discorso in presenza » è dato, in particolare, dall’uso abbondante dei deittici, le forme che collocano nello spazio e nel tempo l’atto della locuzione. 7   Salomon Gessner, Idilli, Vercelli, Tip. Patria, 1777 ; Venezia, presso Carlo Pesce, 1777 ; poi, presso altri editori e sedi, 1787, 1807, 1815, 1820, 1821, 1823, 1825, 1827, 1830 ; Idem, I nuovi idilli, Vercelli, Stamperia Patria, 1778 ; poi, presso altre sedi ed editori, 1784, 1790, 1792, 1801, 1807, 1815, 1817, 1819, 1831.  





   































leopardi: l ’ infinito . lo sguardo oltre l ’ «orizzonte» 117 gico, attivando tutte le potenze dell’anima. La tematica delLa cronologia dei due idilli è ancora sub iudice e, a diffelo sguardo e del pensiero mette in scena due diverse attività, renza di quanto abbiamo sostenuto altrove, 5 la data 1819 asdei sensi e della mente, quella esterna e quella interna, in un segnabile all’Infinito ci pare quanto meno necessaria di ripenrapporto di reciproca implicanza a partire dal Saggio sull’insamento. Si consideri infatti il rapporto tra i due idilli in seno telletto umano di Locke, che Leopardi conosceva attraverso la all’autografo vissano : scena carica d’angoscia e di fatica del traduzione-riduzione del Padre Francesco Soave. La precluvivere, Alla luna ; scena meditativo-contemplativa, L’Infinito ; sione dello sguardo fa scattare la molla della finzione con il ora, mutando la disposizione, la polarità oppositiva angoscia pensiero, proprio come in Locke e altresì in Berkeley, e in / meditazione-contemplazione si rovescia e la seconda viene questo modo il pensiero travalica lo spazio contingente per fatta precedere alla prima. Tenendo conto delle osservazioni proiettarsi oltre l’orizzonte, nell’indeterminato e interminato del poeta sul tema del silenzio 6 nel 1820, oltre che del vasto, 1 dello spazio, e quindi anche del tempo. del vago, dell’interminato nel 1820 e 1821, trovo non incongruo pensare ad una data posticipata anche per L’infinito ; e L’io si proietta oltre la propria determinatezza fisica, per spaziare liberamente oltre il limite, il confine, l’orizzonte, 2 pure la data assegnata ad Alla luna, 1819, per quanto ci riguarda, deve essere considerata sub iudice, cioè 1820 e non 1819. oltre il noto, per sperimentare opposti sentimenti, di paura Negli Indici delle opere composte da Giacomo Leopardi compilati (« ove per poco il cor non si spaura ») e di gioia (« il naufragar da lui stesso, iii, in data 25 febbraio 1826, al n. 20 si legge : « 1819. m’è dolce »), in analogia con il finale del Canto notturno, dove la scena archetipica del volo si conclude, in questo caso dram1820. 1821 », e in una graffa : « Idilli – pubblicati in Milano nel maticamente, con la pulsione certa di morte. 3 N. Raccoglitore 1825.1826 ». 7 Il parere dell’autore è senza dubbio di grande peso, ma in questioni di questo genere non può essere considerato determinante, dal momento che il riferi3. L’infinito e Alla luna mento concerne la cronologia dell’intera breve serie e non I due idilli appartengono alla serie degli idilli della prima madei singoli testi. niera, o primi idilli, caratterizzati principalmente dalla figura del poeta che ha come schermo una siepe e come luogo 4. « Sedendo e mirando » un colle e la riviera di un fiume (La vita solitaria). Sono tratti isomorfi che contrassegnano soprattutto i primi due idilli, Su questa coppia, con valore di sintagma, alcuni critici si sono L’infinito e Alla luna, i quali sono in certo modo paralleli, sisbizzarriti in diverse interpretazioni, per lo più fantasiose, curamente in fase di trascrizione, e fors’anche in fase di comcome capita spesso a chi si esercita in territori di cui ha scarposizione, sia pure non molto ravvicinata. L’idillio Alla luna sa o nessuna conoscenza. Tenendo presente la formulazione fa riferimento all’anno che precede, come pieno d’angoscia dittologica e l’implicita carica semantica, si rileva che l’attività che dura ancora al presente ; 4 ora, non occorre una particolare dello stare seduto in un luogo viene connessa, in forma di simultaneità e di correlazione, all’attività del mirare, secondo capacità divinatoria per concludere che l’anno in questione è la modalità dell’attività del pensiero (« Ma sedendo e miranil 1819. Ma nell’autografo vissano (vn) Alla luna precede L’infinito, mentre nell’autografo napoletano (an, Bibl. Naz. Napoli, do, interminati / spazi di là da quella e sovrumani / silenzi, x, 2) la coppia si scinde e, ai fini della stampa degli Idilli (« Nuoe profondissima quiete / io nel pensier mi fingo »). I critici si vo ricoglitore », 1825-1826, in due puntate) e dei Versi (Bolosono profusi qui in dubbie interpretazioni, prima di tutto riguardo al « ma », quindi riguardo al sintagma « di là da quella ». gna, Stamperia delle Muse, 1826), si generano due nuclei : il primo, aperto dall’Infinito e seguito dalla Sera del dì di festa ; il Il « ma » non ha valore avversativo, ma di copula, come si posecondo, aperto da Alla luna e seguìto da Il sogno, Lo spavento trebbe provare mediante alcuni esempi (significa: ‘E quando notturno, La vita solitaria. siedo e contemplo, io mi fingo interminati spazi’) ; quanto al sintagma « di là da quella », il riferimento non è legato alla siepe, come con sconcertante insipienza si continua a ripetere, 1   In proposito si veda il nostro, Bortolo Martinelli, Il « colle » e la « sieperché, come abbiamo verificato altrove,8 alla luce della filope » : gli archetipi dell’Infinito, cit., in particolare pp. 247-254. 2 sofia e della cosmologia del Settecento, gli spazi interminati, i   Il poeta dapprima sull’autografo napoletano, al v. 3, ha apposto la leziosilenzi sovrumani, la quiete profondissima non possono stare ne : « che da tanta parte / del celeste confine il guardo esclude », poi, in sede di revisione, ha corretto il sintagma in questione con « ultimo orizzonte » : al di là della siepe, ma al di là « dell’ultimo orizzonte ». « che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude », passando da La coppia, « sedendo e mirando », è di matrice filosofica e una determinazione meramente fisica e giuridica ad una più ideativa e letricorre, glossata oltre che in centinaia di commenti alla Fiteraria, con una vistosa ripresa di Francesco Petrarca, Rerum Vulgarium Fragmenta, 28, 35, « dal Pireneo a l’ultimo orizzonte ». « Ultimo » e « orizzonte » sica ad Aristotele, in molte questioni relative all’attività del rientrano poi, come lessemi, nella teoria della poetica del vago e dell’indefifilosofare e del pensare, e questo quanto meno fino all’età di  





































































   



































nito che presiede alla composizione dei primi idilli, come si riscontra nello Zibaldone, in data 8 gennaio 1820, riguardo ai diversi effetti della poesia antica, contrapposta alla poesia moderna e romantica, la quale tutto analizza e tutto circoscrive. Analogo riferimento Leopardi ci presenta anche in relazione alla teoria del bello aereo, 12-23 luglio 1820, p. 170, per tornare poi sulla medesima riflessione in data 1° agosto 1821, con rinvio specifico proprio all’idillio L’infinito, pp. 1430-1431. « Ultimo » è di per sé parola poeticissima, come leggiamo nello Zibaldone in data 3 ottobre 1821, p. 1826 : « Le parole che indicano moltitudine, copia, grandezza, lunghezza, larghezza, altezza, vastità ec. ec. sia in estensione, o in forza, intensità ec. ec. sono pure poeticissime, e così le immagini corrispondenti. Come nel Petrarca : “Te solo aspetto, e quel che tanto amasti, / e laggiuso è rimaso, il mio bel velo”. E in Ippolito Pindemonte : “Fermossi alfine il cor che balzò tanto”. Dove notate che il tanto essendo indefinito, fa maggiore effetto che non farebbe molto, moltissimo, eccessivamente, sommamente. Così pure le parole e le idee ultimo, mai più, l’ultima volta ec. ec. sono di grand’effetto poetico, per l’infinità ». 3   Per questa riflessione rinvio qui al mio studio, Bortolo Martinelli, « Ed io che sono ». L’interrogativo del Canto notturno, in Idem, Leopardi e la condizione dell’uomo, cit., pp. 251-321. 4   « O graziosa luna, io mi rammento / che, or volge l’anno, sovra questo colle / io venia pien d’angoscia a rimirarti », vv. 1-3 ; chiaro poi, in questo caso, il richiamo a Francesco Petrarca, Rerum Vulgarium Fragmenta, 62, 9-11 : « Or volge Signor mio l’undecimo anno / ch’i’ fui sommesso al dietato giogo, / che sopra i più soggetti è più feroce ».  































5   Si veda il nostro già citato saggio, Bortolo Martinelli, Il « colle » e la « siepe » : gli archetipi dell’Infinito, pp. 228-229. 6   « La parola è un’arte imparata dagli uomini. Lo prova la varietà delle lingue. Il gesto è cosa naturale e insegnata dalla natura. Un’arte 1. non può mai uguagliar la natura, 2. per quanto sia familiare agli uomini, si danno certi momenti in cui questi non la sanno adoperare. Perciò negli accessi delle grandi passioni, 1. come la forza della natura è straordinaria, quella della parola non arriva ad esprimerla, 2. l’uomo è così occupato, che l’uso di un’arte per quanto familiarissima, gli è impossibile. Ma il gesto essendo naturale, lo vedrete facilmente dar segno di quello che prova con gesti e moti spesso vivissimi, o con grida inarticolate, fremiti, muggiti ec. che non hanno che fare colla parola, e si possono considerare come gesti. Eccetto se quella passione non produrrà in lui l’immobilità che suol essere effetto delle grandi passioni ne’ primi momenti in cui egli non è buono a nessun’azione. Nei momenti successivi non essendo buono all’uso della parola cioè dell’arte, pur è capace degli atti e del movimento. Del resto lo vedrete sempre in silenzio. Il silenzio è il linguaggio di tutte le forti passioni, dell’amore (anche nei momenti dolci) dell’ira, della maraviglia, del timore ec. », Zibaldone, 27 giugno 1820, p. 141. 7   Giacomo Leopardi, Tutte le poesie e tutte le prose, a cura di Lucio Felici, Emanuele Trevi, Roma, Newton & Compton, 1997, p. 1040. 8   Bortolo Martinelli, « Il colle » e la « siepe » : gli archetipi dell’Infinito, cit., pp. 247-243.  



   











   



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Galileo. La suggestione della coppia, sedere e mirare, discende retta via da Aristotele, ma Leopardi può averla incontrata anche in forma di citazione tra gli autori oggetto dei suoi studi di filosofia e di fisica. Questo il segmento aristotelico, Physica vii (H), 3, 247 a 28247 b 28 ; lo Stagirita sta parlando del modo di acquisizione della scienza e scrive : 1

rare » ha un’intensità che non c’è nel testo dello Stagirita. Il « mirare », in Leopardi, fa scattare la molla del pensiero che distende le proprie ali al di là della siepe, prolungano la vista oltre l’orizzonte visibile, oltre il quale stanno lo spazio interminato, i silenzi sovrumani e la quiete profondissima.

Neppure nella parte dianoetica dell’anima c’è alterazione : infatti, colui che sa, secondo noi, fa parte più di ogni altro dei relativi. E questo è evidente, giacché l’essenza della scienza non si genera in quei soggetti che siano mossi secondo qualche potenza, ma perché esiste una data cosa particolare. Infatti, dall’esperienza particolare non acquistiamo la scienza universale. E neppure l’atto della scienza è generazione, a meno che non si voglia chiamare generazione la vista e il tatto, dato che l’atto della scienza è una cosa di tal genere. L’acquisizione iniziale della scienza non è né generazione né alterazione : infatti, l’uomo diventa conoscitore e saggio mediante la quiete e la distensione dell’anima. Questo, dunque, avviene allo stesso modo di come l’uomo, allorché si desta dal sonno o si libera dall’ebbrezza o si ristabilisce da una malattia, non per questo acquista la scienza ; e quantunque prima egli non potesse praticarla né attuarla, soltanto in seguito, rimosso il turbamento e ritornato il pensiero nella quiete e nella distensione, la potenza rivolta all’uso della scienza può passare in atto. Qualcosa di tal genere si produce, di certo dapprincipio nel mondo della scienza, giacché è una certa quiete del turbamento e una certa distensione. E così i fanciulli non possono acquistar conoscenza né formulare un giudizio relativo alle sensazioni alla stessa guisa che i più maturi, perché grandi sono in loro il turbamento e il moto. Ma la distensione e la sospensione del turbamento hanno luogo talora ad opera della natura, talora ad opera di altri fattori [corsivo nostro]. 2

Come per Aristotele, anche per Leopardi, quando la mente è in quiete, si apre la via alla riflessione e alla finzione. La locuzione « nel pensiero » designa la mente nel suo complesso, quale camera oscura in cui si producono gli atti mentali, in ordine alle due attività qui designate, la finzione e, poi, la comparazione. Pensiero (« nel pensiero ») designa qui la capacità di autoriflessione o di percepire dentro di sé le modificazioni prodotte dalle proprie idee, come leggiamo in d’Holbach :









5. « Io nel pensier mi fingo »























Pensiero […] è l’esercizio del poter di ripiegarsi su se stesso che si indica con il nome di riflessione. 4

La finzione appartiene all’attività del pensiero ; « mi fingo », in forma riflessiva, designa il coinvolgimento dell’immaginazione, che produce oggetti diversi, combinando le idee, come ci chiarisce Condillac :  







Immaginarsi significa, così fingere, rappresentarsi una cosa che non c’è, ma significa anche di più, cioè che si crede, benché senza fondamento, che la cosa è tale quale la si finge. 5

All’atto dell’immaginazione-finzione è correlato l’insorgere di immagini mentali, come oggetti prodotti dalla finzione : « interminati spazi », « sovrumani silenzi », « profondissima quiete », tre diverse determinazioni, la prima spaziale, la seconda auditiva, la terza fisio-psichica, che designano tre stati di cose o idee, il vasto e l’indeterminato, il sovrasensibile, la profondità. Si tratta di tre modalità dell’infinito, inteso nella sua peculiare dimensione di spazialità (l’esteso, come grandezza), in virtù delle quali la mente è spinta, nella sua attività, al di là di ogni condizionamento visibile e sensibile, e il cuore, come centro delle pulsioni dell’io, compenetrandosi nelle immagini, prova quasi sgomento, in una sorta di pascalismo avant lettre. Leopardi, infatti, non poteva leggere nelle Pensées l’espressione che tutti citano : « Le silence éternel de ces éspaces infinis m’effraie », perché non c’era nelle edizioni dell’epoca ; poteva leggere nondimeno il seguente passo, che però aveva ben altro significato, perché era quello che Pascal combatteva, contro gli atei e i pirronisti (« Voici comment raisonnent les hommes ») : « Je vois ces effroyables éspaces de l’Univers qui m’enferment, et je me trouve attaché à un coin de cette vaste étendue, sans savoir pourquoi je suis plutôt placé en ce lieu qu’en un autre ».  



Annota in proposito anche l’Aquinate :











In pueris, et in omnibus in quibus motus non quiescunt, non de facili invenitur sapientia. Sed tunc aliquis sapientiam acquirit, quando quiescit : unde dicit, quod in quiescendo et sedendo, anima fit sapiens et prudens 3 [Nei fanciulli e in tutti quelli in cui i moti dell’animo non sono ancora quiescenti, non si può trovare facilmente la sapienza. Ma allorché uno è in quiete, tosto può acquisire la sapienza : onde dice il Filosofo che, quando si è in riposo e in posizione sedentaria, l’anima può acquisire la sapienza e diventare prudente, traduzione nostra].  



L’occorrenza aristotelica, non c’è dubbio, doveva essere nota a Leopardi, anche se il testo della Fisica non risulta presente nella biblioteca della casa paterna. L’impiego della dittologia aristotelica, « quiescendo et sedendo », ha un funzionamento analogo in Leopardi e si applica ad un contesto di acquisizione della scienza, cioè del pensare, anche se il valore del « mi 















1   Aristotele, Fisica, vii (H), 3, 247 a-b, in Idem, Opere, 3, trad. di Antonio Russo, Bari, Laterza, 1973, pp. 184-185. 2   « At vero neque in intellectiva parte anime est alteratio. Sciens enim maxime ad aliquid dicitur. Hoc autem manifestum est ; secundum nullam enim potentiam in moventibus factum est quod est scientie, sed existente quodam ; ex ea enim que est secundum partem experientia, universalem accipimus scientiam. Neque igitur actus generatio est, nisi quis revisionem et tactum generationes dicat ; huius enim est actus. Que autem est ex principio acceptio scientie non est generatio neque alteratio ; in quiescendo namque et sedendo anima sciens fit et prudens. Sicut igitur neque cum dormiens surgat aliquis aut ebrius pauset aut infirmans ordinetur, factus est sciens ; et etiam prius non poterat uti et secundum scientiam agere, sed mutata perturbatione et in statum veniente intellectu inerat potentia ad scientie congruitatem. Huius igitur aliquid fit, et quod est ex principio in scientie existentia ; turbationis enim quies quedam est et restitutio. Neque igitur infantes possunt addiscere neque iudicant sensibus similiter presbiteris. Multa enim turbatio circa hos et motus. Statur autem et pausatur turbatio aliquando quidem a natura, aliquando quidem ab aliis », Aristotele, Physica, vii (H), 3, 247 a 28-247 b 28, testo premesso ad Alberto Magno, Physica, Pars secunda, vii, tract. 1, cap. 9, in Idem, Opera omnia, iv/2, Köln, Monasterii Westfalorum in aedibus Aschendorff, 1993, pp. 533-534 (translatio vetus, dal greco in latino, dovuta a Giacomo Veneto). 3   Tommaso d’Aquino, In Aristotelis De anima, i, 8, 19, in Idem, Opera omnia, vi, a cura di Roberto Busa, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann-Holzboog, 1980, p. 11b (il i libro del commento tomistico al De anima fa parte delle reportationes e figura tra gli opuscoli di dubbia autenticità) ; Idem, In Aristotelis librum De anima commentarium, i, 8, § 125, cura ac studio Angeli M. Pirotta, Torino, Marietti, 1959, p. 33a.  



























6. « E come il vento »  



Nello scenario d’isolamento e di silenzio in cui il poeta si trova, all’improvviso irrompe la voce del vento che stormisce tra le fronde. 6 La sequenza ha il valore di un evento naturalistico, sperimentato e sperimentabile, che fa tuttavia scattare la mol4   « C’est l’exercise de pouvoir de se replier sur lui-même que l’on nomme réflexion », Paul-Henry Th. D’Holbach, Système de la Nature, i, cap. 8, Paris, Ledoux, 1821, p. 137 ; in questa stessa pagina D’Holbach chiarisce anche che cosa si deve intendere per facoltà di pensare : « Faculté de penser, c’est-àdire d’aperçevoir en lui même, ou de sentir les différentes modifications ou idées qu’il a reçues, de les combiner et de les séparer, de les étendre et de les restreindre, de les comparer, de les renouveler ». 5   « S’imaginer signifie, ainsi que feindre, se répresenter une chose qui n’est pas, mais il signifie de plus, qu’on croit, quoique sans fondement, que la chose est telle qu’on l’imagine », Etienne Bonnot de Condillac, Dictionnaire des synonymes, in Idem, Oeuvres philosophiques, iii, Paris, puf, 1947, p. 322a. 6   Sull’immagine del vento, come valenza fisica, mnestica, letteraria, non si può che rinviare a Luigi Blasucci, Lo stormire del vento tra le piante : parabola di un’immagine, in Idem, Lo stormire del vento tra le piante. Testi e percorsi leopardiani, Venezia, Marsilio, 2003, pp. 31-46.  

















leopardi: l ’ infinito . lo sguardo oltre l ’ «orizzonte» 119 la dell’attività della mente, con la comparazione. L’atto del e concluso ; il presente è attuale, anzi vivo, e ha un propria ‘comparare’ si situa nella seconda parte del testo, subito dopo voce e suono. La dimensione del presente è la dimensione l’atto del ‘fingere’ ; e a sua volta l’atto del ‘comparare’ si comdell’esperienza, quale attualità degli eventi, ma la sua ragione è per così dire trascesa da due atti : il ‘fingere’, che sospinge pleta nell’atto del « sovvenire ». Concettualmente lo sviluppo del componimento si struttura intorno a queste due attività, il la mente verso gli spazi interminati e il silenzio degli spazi fingere e il comparare-sovvenire. Il ‘fingere’ introduce direttasiderali ; il ‘sovvenire’, che sospinge la mente verso l’eterno e mente l’idea dell’infinito, come una sorta di creazione e astrala fa oscillare tra il presente e il passato. L’io sperimentatore si zione mentale, mediante l’atto della ‘finzione nel pensiero’, colloca così al confine tra due soglie : l’oltre secondo lo spazio, mentre il ‘comparare’ riconduce l’idea dell’infinito al presente l’interminato ; l’oltre secondo il tempo, l’eterno, e secondo la dell’esperienza, imperniata non più sulle coordinate spaziali, memoria, il passato. Manca, come si può vedere, qualsiasi acma su quelle temporali : « io quello / infinito silenzio a questa cenno o proiezione al futuro e questo sembra essere conforme alla poetica degli idilli della prima maniera, che oscilla tra voce / vo comparando ». la dimensione della memoria (Alla luna), il sogno (Il sogno), E come il ‘fingere’ dà luogo ad una serie di immagini menla solitudine (La vita solitaria), e l’auscultazione delle vicende tali, anche il ‘comparare’ prelude al manifestarsi di una serie dell’io, in una proiezione tra il circoscritto e l’interminato, tra di immagini mentali, originate dal ‘sovvenire’ : « e mi sovvien il temporale e l’eterno. l’eterno, / e le morte stagioni, e la presente / e viva, e il suon di lei ».1 La serie si volge in forma di catena associativa, che 7. « E il naufragar m’è dolce » si apre a cascata, in modalità discendente, secondo un possibile ordito con cui si presentano le immagini mentali. La La storia, la letteratura, l’arte sono piene in ogni tempo di peculiarità però della serie, fatto finora mai osservato, è che naufragi. Coeva all’idillio leopardiano è La zattera della Medul’aggancio, in forma verticale, è costituito dall’eterno e che sa di Théodore Géricault, presentata a Parigi al Salon del 1819 senza l’eterno non si giustifica la catena. Irrompe ora nell’idilcon il titolo Scena di naufragio : un olio su tela di grandi dimenlio la nozione del tempo, che si affianca a quella dello spazio, sioni (cm. 491 x 716, Parigi, Musée du Louvre), che rappresene come questo trova la sua superiore determinazione nell’inta al vivo la zattera su cui erano alcuni naufraghi sopravvissuti finito, così il tempo trova la sua superiore determinazione dopo un lungo periodo di permanenza in mare, in séguito 2 nell’eterno. Basti qui, per tacer d’altri, il richiamo di Heidegal naufragio della fregata Meduse (2 luglio 1816). La scena è ger : « Se il tempo trova il suo senso nell’eternità, allora esso va drammatica : i corpi nudi abbandonati, con i tratti lividi delcompreso muovendo da quest’ultima » (Il concetto di tempo). la morte ; due piramidi di uomini sovrapposti ed accatastati, Al pari della catena del ‘fingere’, la catena del ‘sovvenire’ culminanti, da un lato, con l’albero della nave inclinato e quapresenta tre elementi : l’eterno, le morte stagioni, la stagione si divelto, dall’altro, con una serie di braccia proiettate verso presente. Si tratta di tre indicazioni precise : l’eterno, il pasl’orizzonte in un’attesa che per quasi tutti sarà vana. 3 sato, il presente ; di esse, solo l’eterno non ha specificazioni, Géricault trasporta sulla tela un grande fatto di cronaca e perché è fuori dal tempo ; il passato è considerato terminato ne rende i tratti con tinte tragiche, in un accavallarsi di nuvole e di onde. Leopardi, per contro, trasfonde nel verso un’espe1   L’Infinito, in quanto fonde insieme riflessione ed esperienza, anzi esperienza privata, in cui s’avverte una sorta di afflato verso l’inrimento, può essere chiaramente considerato come una sorta di esperimenfinito e l’eterno, modellata su basi percettive e cognitive che to mentale : per una trattazione sulla natura e la forma degli esperimenti richiamano le forme di un esperimento mentale. Il pensiero, mentali si veda, Marco Buzzoni, Esperimento ed esperimento mentale, Milano, FrancoAngeli, 2004. proiettato oltre il reale, si sente come alienato da se stesso 2   Per una originale riflessione sulla categoria delle immagini mentali signie, senza poter attingere alcun confine, pare perdersi nell’imficativo rinvio è il volume collettaneo, Le immagini mentali. Teorie e processi, a menso, in una sorta di placido abbandono al fluttuare delle cura di Francesco S. Marucci, Roma, Carocci, 1998, da cui si possono trarre cose e il naufragare, intriso di suggestione, è « dolce ». utili considerazioni per cercare di cogliere la classe delle immagini mentali  























































che strutturano l’idillio leopardiano. Esse sono principalmente di tre specie, concettuali, eidetiche, sonore, oltre che memoriali. Per i modelli e le forme delle immagini a cascata il rinvio specifico è a Cesare Cornoldi, La memoria di lavoro visuo-spaziale, in Le immagini mentali…, cit., pp. 145-181.



3   Si veda Jonathan Miles, La zattera della Medusa, trad. di Benedetta De Vito, Roma, Nutrimenti, 2010.

IL SENTIRE DELLO SCIENZIATO. LEOPARDI, RUYSCH E COPERNICO TRA EVIDENZA E SAPERE Elena Landoni Pertinenza cognitiva del sentire secondo Leopardi

assolutamente la natura, perché non conosce il suo modo di essere (1833-1835, 4-10-1821).

E si può dire che da una stessa sorgente, da una stessa qualità dell’animo, diversamente applicata, e diversamente modificata e determinata da diverse circostanze e abitudini, vennero i poemi di Omero e di Dante, e i principii matematici della filosofia naturale di Newton. Semplicissimo è il sistema e l’ordine della macchina umana in natura, pochissime le molle, e gli ordigni di essa, e i principii che la compongono…(2132-2133, 20-11-1821).

È interessante notare che in questo passaggio il ruolo del filosofo e la conoscenza della natura sono accomunati dallo stesso modo di affrontare la realtà, autorizzando così a postulare un’implicita omologazione tra la procedura del filosofo e quella dello scienziato. Del resto già alla p. 1219 si legge « La filosofia (con tutti quanti i diversissimi suoi rami) è scienza ». Leopardi spiega che il contributo portato alla filosofia dall’immaginazione consiste nella facoltà di individuare un gran numero di similitudini : « L’animo in entusiasmo, nel caldo della passione qualunque ec ec discopre vivissime somiglianze fra le cose ». È precisamente questa la facoltà che accomuna il filosofo al poeta : « Tutte facoltà del gran poeta, e tutte contenute e derivanti dalla facoltà di scoprire i rapporti delle cose, anche i menomi e più lontani, anche delle cose che paiono le meno analoghe ecc. Or questo è tutto il filosofo : facoltà di scoprire e conoscere i rapporti, di legare insieme i particolari, e di generalizzare » (1650, 7-9-1821). Ma questo è anche il meccanismo conoscitivo che sta alla base della « scienza della natura » :

N

el novembre del 1821, Leopardi affida a questo celebre passo dello Zibaldone uno degli sbocchi più significativi di un percorso riflessivo che lo occupa ormai da diverso tempo, e che proprio nei mesi precedenti di settembre e ottobre era andato a depositarsi con particolare frequenza nelle pagine del diario : quello dell’auspicabile integrazione tra immaginazione e intelletto. Il pensiero appena citato prosegue notando come si tenda solitamente a distinguere in diverse facoltà e principi, che possono produrre effetti addirittura contrari tra loro, « forze » ed « elementi » che in realtà sono « unici e indivisibili », ma che soggetti a « circostanze » e ad « accidenti » infinitamente variabili inducono l’osservatore a moltiplicarne le parti, provocando la distorta impressione di un’oggettiva distinzione di facoltà. 1 In effetti, è l’immaginazione  





















la sorgente della ragione, come del sentimento, delle passioni, della poesia ; ed essa facoltà che noi supponiamo essere un principio, una qualità distinta e determinata dell’animo umano, o non esiste, o non è che una cosa stessa, una stessa disposizione con cento altre che noi ne distinguiamo assolutamente, e con quella stessa che si chiama riflessione o facoltà di riflettere, con quella che si chiama intelletto ec. Immaginaz. e intelletto è tutt’uno. L’intelletto acquista ciò che si chiama immaginazione, mediante gli abiti e le circostanze, e le disposizioni naturali analoghe ; acquista nello stesso modo, ciò che si chiama riflessione ec. ec. (2233-2234, 20-11-1821).  



Il pensiero, si diceva, è tutt’altro che isolato, ed è immediatamente preceduto da una nutrita serie di asserzioni circa la necessità che il perfetto filosofo sia anche « sommo e perfetto poeta », proprio per poter esaminare « da freddissimo ragionatore e calcolatore ciò che il solo ardentissimo poeta può conoscere » (1838, 4-10-1821). Leopardi pone quindi l’approccio poetico sul piano della conoscenza, insistendo sulla convinzione che  







Chi non ha o non ha mai avuto immaginazione, sentimento, capacità di entusiasmo, di eroismo, d’illusioni vive e grandi, di forti e varie passioni, chi non conosce l’immenso sistema del bello, chi non legge o non sente, o non ha mai letto e sentito i poeti, non può assolutamente essere un grande, vero e perfetto filosofo, anzi non sarà mai se non un filosofo dimezzato, di corta vista, di colpo d’occhio assai debole, di penetrazione scarsa […] colui che ignora il poetico della natura, ignora una grandissima parte della natura, anzi non conosce 1   Ecco come prosegue il passo : « ma noi discorrendo dagli effetti che sono infiniti e infinitamente variabili secondo le circostanze, le assuefazioni, e gli accidenti, moltiplichiamo gli elementi, le parti, le forze del nostro sistema e distinguiamo, e suddividiamo delle facoltà, dei principii, che sono realmente unici e indivisibili, benché producano e possano sempre produrre non solo nuovi, non solo diversi, ma dirittamente contrarii effetti ». Le citazioni dallo Zibaldone sono tratte dall’edizione critica a cura di Giuseppe Pacella, Milano, Garzanti, 1991.  





























La scienza della natura non è che scienza di rapporti. Tutti i progressi del nostro spirito consistono nello scoprire i rapporti. Ora, oltre che l’immaginaz. è la più feconda e maravigliosa ritrovatrice de’ rapporti e delle armonie le più nascoste, come ho detto altrove ; è manifesto che colui che ignora una parte, o piuttosto una qualità una faccia della natura, legata con qualsivoglia cosa che possa formar soggetto di ragionamento, ignora un’infinità di rapporti, e quindi non può non ragionar male, non veder falso, non iscuoprire imperfettamente, non lasciar di vedere le cose le più importanti, le più necessarie, ed anche le più evidenti (1836-1837, 4-10-1821). 2  

A questo sviluppo di pensiero ha certamente contribuito anche la speculazione sul linguaggio, che il poeta portava avanti sin dai primi giorni di scrittura dello Zibaldone. In particolare l’equiparabilità di filosofo e scienziato è favorita dall’utilizzo di un analogo strumento linguistico : quei « termini » che consentono di veicolare nel lessema il concetto più definito e preciso possibile, e che proprio per questo si distinguono dalle « parole » del poeta, che al contrario permettono di far passare non « la sola idea dell’oggetto significato, ma quando più quando meno immagini accessorie » (109, 30-4-1820). I termini appartengono innanzi tutto allo scienziato : « Le voci scientifiche presentano la nuda e circoscritta idea di quel tale oggetto, e perciò si chiamano termini perché determinano e definiscono la cosa da tutte le parti » (ibidem) ; ma un anno dopo vengono estesi anche al filosofo, che col collega naturalista condivide il bisogno di precisione enunciativa e una finalità comunicativa ben distinta da quella del poeta :  























La bellezza […] della poesia consiste nel destarci gruppi d’idee, e nel fare errare la nostra mente nella moltitudine delle concezioni, e nel loro vago, confuso, indeterminato, incircoscritto. Il che si ottiene colle parole proprie, ch’esprimono un’idea composta di molte parti, e legata con molte idee concomitanti ; ma non si ottiene colle parole  

2   Ma già cinque mesi prima aveva scritto : « Non si conoscono mai perfettamente le ragioni, né tutte le ragioni di nessuna verità, anzi nessuna verità si conosce mai perfettamente, se non si conoscono perfettamente tutti i rapporti che ha essa verità con le altre » (1090, 26-5-1821).  





il sentire dello scienziato. leopardi, ruysch e copernico tra evidenza e sapere precise o co’ termini (sieno filosofici, politici, diplomatici, spettanti alle scienze, manifatture, arti ec. ec.) i quali esprimono un’idea più semplice e nuda che si possa (1235-1236, 28-6-1821).

Passo dopo passo, il quadro è venuto chiarendosi. La compatibilità tra ragione e immaginazione, constatata nell’attitudine a creare similitudini e incoraggiata per un’adesione più completa alla realtà, alimenta due attività che restano ben distinte nei rispettivi esiti (il passo citato del 4 ottobre 1821 lo afferma inequivocabilmente : il solo ardentissimo poeta può conoscere certi aspetti della natura, ma solo il filosofo può osservare il suo oggetto di indagine da freddissimo ragionatore e calcolatore). Bisogna però tener conto di un altro elemento, per chiarire ulteriormente le interferenze tra i diversi fattori chiamati in causa nel processo conoscitivo : il sentimento. Si tratta di una categoria che appare presto accanto all’immaginazione, quasi sempre in funzione coordinata, ma non sinonimica. A questo proposito, è piuttosto sorprendente notare che nello Zibaldone il verbo ‘sentire’ entra ripetutamente e insistentemente in associazione con verbi appartenenti a un versante semantico apparentemente antitetico, quali ‘giudicare’,‘conoscere’, ‘comprendere’, ‘intendere’, ‘pensare’, ‘considerare’, assumendo quindi una valenza gnoseologica ancora più marcata dell’‘immaginare’. La complementarietà con il partner co-occorrente è quasi sempre affidata a una coordinazione congiuntiva o asindetica : « sul giudizio e sul sentimento » (1589), « d’inventare, di pensare, di sentire, di giudicare » (1661), « giudicano e sentono » (1941) ; più raramente ad altre costruzioni sintattiche : « potesse sentire… vale a dire giudicare » (156), « senza intimamente sentire, né quindi perfettamente conoscere » (1852), « di conoscere…e per conseguenza di sentirla » (2681). 1 Tuttavia, è proprio la frequente struttura dittologica a suggerire che l’omologia delle funzioni non coincide con quella delle categorie. In sostanza, il ‘sentire’ leopardiano coopera strettamente con ‘giudicare’, ‘conoscere’, ‘pensare’, ecc., ma rimane distinto da essi. Infatti l’inventario delle presenze include anche qualche formulazione (molto poche in verità) di tipo disgiuntivo o contrastivo, come quella di p. 325 : « Come i più ardenti zelatori delle illusioni sono forse quelli che ne conoscono e sentono più vivamente e universalmente la vanità, così i loro più ardenti impugnatori son quelli che non la conoscono bene, o se la conoscono bene, non la sentono intimamente e in tutta l’estensione della vita ; cioè la conoscono in teoria, ma non in pratica », che aiuta a identificare lo specifico del ‘sentire’ rispetto ad altre facoltà tangenziali nella sua attitudine a coinvolgere tutti gli aspetti della vita, e quindi ad estendere la conoscenza dal campo teorico a quello pratico. 2  























Uno sguardo alle date delle annotazioni zibaldoniane indicherebbe che Leopardi si è progressivamente orientato verso l’idea di un’integrazione tra classi di facoltà da lui stesso definite « contrarissime » (« La ricerca delle verità, massime delle più grandi, sopra tutto di quelle che spettano alla scienza dell’uomo ha bisogno di mescolanza, ed equilibrato temperamento di qualità contrarissime, immaginazione, sentimento, e ragione, calore e freddezza, vita e morte » (1962, 21-101821) ; 3 in primo luogo tra ‘immaginazione’, ‘sentimento’ e ‘intelletto’. 4 Grazie a questa complementarietà dei suoi costituenti, il ‘sentimento’ si arricchisce di maggiori connotazioni rispetto all’‘immaginazione’, e non a caso caratterizza l’età adulta : « l’immaginazione è propria de’ fanciulli, e il sentimento degli adulti » (1449, 3-8-1821). Gli scritti leopardiani tuttavia non autorizzano una distinzione più circostanziata tra ‘immaginazione’ e ‘sentimento’ e tra le rispettive zone di competenza. Qualcosa però si può inferire dall’osservazione ravvicinata dei due lemmi e dei loro derivati. Per esempio, è indicativo il fatto che la coppia ‘sentire’– ‘immaginare’ sia sempre solidale quando viene usata in contrapposizione all’area semantica di ‘ragione’ – ‘intelletto’. Ma quando la coppia è osservata in azione all’interno dell’attività poetica, la distinzione dei due campi di pertinenza diventa più rilevante. L’autore viene  

































ciocché se per sentire noi intendiamo soltanto fare un’azione di movimento all’occasione d’una scossa, o d’una resistenza, noi troveremo che la pianta detta sensitiva è capace di questa specie di sentimento al paro degli animali ; che se per lo contrario vuolsi che sentire significhi concepire e comparare percezioni, noi non siamo certi che gli animali abbiano questa specie di sentimento ; e se accordano alcuna cosa di simile ai cani, ed agli elefanti, ec., di cui le azioni mostrano d’avere le medesime cagioni delle nostre, noi le negheremo ad un infinito numero di specie d’animali, e principalmente a quelli che ci sembrano essere immobili e senza azioni ». Georges Leclerc De Buffon, Storia degli animali, che Leopardi aveva probabilmente letto nell’edizione veneziana che conteneva il volgarizzamento completo dell’opera di Buffon, presente nella biblioteca di casa : Storia naturale, generale e particolare, ix, Venezia, F.lli Baffaglia, 1782, p. 249. La gnoseologia sensista aveva consegnato ai poeti preromantici l’idea di rispondenze precise tra i fenomeni fisici e quelli spirituali, secondo cui le sensazioni derivate dagli oggetti lascerebbero la loro impronta indefinita, proprio nel sentimento e nella meditazione (la dottrina di Malebranche su un’armonia voluta da Dio tra sfera fisica e spirituale avrebbe poi contribuito fortemente a coniugare sensismo e sentimento religioso). Su questo si legga Aurelia Accame Bobbio, Bernardin de Saint Pierre, Werther e l’origine dell’idillio leopardiano, in Leopardi e il Settecento. Atti del I Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati, 13-16 settembre 1962), Firenze, Olschki, 1964, pp. 175-222 : 176. Il passaggio indistinto dalle sensazioni al pensiero si può sorprendere per esempio in questo brano di Etienne Bonnot de Condillac : « Considérons un homme au premier moment de son existence : son âme éprouve d’abord différentes sensations ; telles que la lumière, les couleurs, la douleur, le plaisir, le mouvement, le repos : voilà ses premières pensées. Suivons-le dans les moments où il commence à réfléchir sur ce que les sensations occasionnent en lui » (Essai sur l’origine des connaissances humaines, partie i, sect. i, 1, 1746, ora leggibile in Oeuvres philosophiques, i, texte établi par G. Le Roy, Paris, puf, 1947, p.6). 3   Si vedano anche le pagine 1833, 1838, 1841, 3237, 3244. Sulle insufficienze di una filosofia ‘tecnica’, lontana dal cuore e dalla poesia, Savoca ricorda Pascal, non a caso citato nel 1823 dallo stesso Leopardi accanto a Platone, Cartesio, Rousseau e M.me de Staël (Giuseppe Savoca, Giacomo Leopardi, Roma, Marzorati-Editalia, 1998, p. 98 ; e su una ricognizione del pascalismo leopardiano si veda anche Alberto Frattini, Leopardi alle soglie dell’infinito, in Idem, Leopardi alle soglie dell’infinito e altri saggi leopardiani, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 1998, pp. 9-19 :11). Ma Carlo Ferrucci evoca anche l’accenno leopardiano alla tesi di Cicerone, secondo cui il perfetto oratore non può fare a meno della filosofia, e l’osservazione che « per compiere come Buffon “considerazioni sopra la scienza” non basta l’esattezza con cui questa procede abitualmente ma si richiedono anche “immaginazione” e “pensieri filosofici” » (Carlo Ferrucci, Leopardi filosofo e le ragioni della poesia, Venezia, Marsilio, 1987, p. 82. Su questo si veda anche Gaspare Polizzi, Motivi per una filosofia delle circostanze nello Zibaldone, in I diletti del vero, a cura di Alberto Folin, Padova, Il Poligrafo, 2001, pp. 173-203 : 191-192). 4   La tendenza appare confermata ripetutamente : si confronti per esempio un abbozzo di definizione vergato a p. 181 con quello di p. 1011, col relativo passaggio da una concezione meramente spiritualistica del sentimento a una sensuale-spirituale ; o ancora l’idea espressa a p. 964 con quella di p. 3218, che attribuisce anche all’intelletto quel « reale sensorio » prima riferito solo al sentimento.  





















1   Si dà qui di seguito un inventario solo rappresentativo (per motivi di spazio) delle rispettive occorrenze, facilmente ampliabile con gli attuali programmi di ricerca informatica. ‘Sentire’ in coppia con ‘giudicare’ : « a giudicare e a sentire » (1184), « non giudichiamo…né la sentiamo » (1197), « sentimento e giudizio » (3089), « né per sentire né per giudicare » (4271). In coppia con ‘conoscere’ : « conosce e sente » (318 e 682), « conoscono e sentono » (325), « sente e conosce » (473), « conosce bene e sente » (802), « conosciamo e sentiamo » (1364, 1461, 1872), « conoscere e sentire » (1961, 2343, 3214, 3423), « non sentì non conobbe » (1449). In coppia con ‘comprendere’ : « per sentirle e comprenderle » (1975), « si può facilmente comprendere e sentire » (2957), « conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire » (3171), « tu senti benissimo che quello è un volto e ne comprendi la fisionomia » (4085). In coppia con ‘pensare’ : « sentono e pensano » (129), « pensino e sentano » (4059), « il pensiero e il sentimento » (479), « il sentimento e il pensiero » (3160), « pensare e sentire » (4252), « di sentire e di pensare » (4419). 2   Sul ‘sentire’ di Leopardi si legga Anna Dolfi, Ragione e Passione. Su una modalità del ‘sentire’ nello Zibaldone, in Lo Zibaldone cento anni dopo : composizione, edizioni, temi. Atti del x Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati, 14-19 settembre 1998), ii, Firenze, Olschki, 2001, pp. 771-783. Per Buffon, autore letto e ripetutamente discusso da Leopardi, il ‘sentire’ costituisce la differenza sostanziale tra il regno animale e il regno vegetale, pur con le cautele dovute al fatto che « questa parola sentire rinchiude sì gran numero d’idee, che non si vuole pronunziare prima d’averne fatta l’analisi ; imper 

















































































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elena landoni

sull’argomento parlando del Monti, « nel quale tutto è immaginazione, e nulla parte ha il sentimento » (3477, 20-9-1823) e di Lord Byron, in cui ciò che pertiene alla pittura dei caratteri e dei sentimenti degli uomini « pare, e forse è piuttosto dettato dall’immaginazione che dal sentimento e dal cuore, piuttosto immaginato che sentito, immaginato che vero, inventato che imitato o congetturato, creato che ritratto ed espresso… » (3821, 3-11-1823). Qui compare un reticolato di sinonimie estremamente interessante ai nostri fini : se ‘immaginato’ è parallelo a ‘inventato’ e ‘creato’, ‘sentito’ al contrario è parallelo a ‘vero’, ‘imitato’ o ‘congetturato’, ‘ritratto’ ed ‘espresso’. È il ‘sentire’ quindi, disposizione tipica degli adulti, coinvolgente la totalità e l’interezza dell’essere umano, ad affacciarsi sul versante del vero, e a impegnarsi nell’imitazione e nell’espressione della realtà. Coadiuvato dall’immaginazione per quanto riguarda la capacità di individuare i rapporti più nascosti tra i diversi profili della realtà, esso rappresenta la condizione necessaria per una conoscenza non parcellizzata della realtà e l’unica possibilità di trattenere una certezza. Il Leopardi attesta questi aspetti in più occasioni. Innanzi tutto, insistendo con forza sulla superiorità del sentimento e dell’immaginazione sulla ragione, anche per l’oggettiva ‘dipendenza’ cronologica di quest’ultima dalla natura :  











deducete : 1. L’impotenza, e la contraddiz. che involve in sé, ed introduce nell’uomo, e nell’ordine delle cose umane, la ragione, la quale per far grandi effetti e decisi progressi ha bisogno di quelle stesse disposizioni naturali ch’ella distrugge o n’è distrutta, l’immagin. e il sentimento. […] Laddove l’immaginaz. e il sentim. non hanno alcun bisogno della ragione (1858/1859, 5/6-10-1821). non si può considerar la ragione staccatamente dalla natura (bensì al contrario) perché la ragione sebbene nemica, è posteriore alla natura, e da lei dipende, ed ha in lei sola il fondam. e il soggetto della sua esistenza, e del suo modo di essere (1842, 4-10-1821). 1  

Poi attribuendo a ‘sentimento’ e ‘immaginazione’ la scoperta e la conferma delle più importanti « verità filosofiche », e la rivelazione dei più grandi « misteri che si conoscono, della natura e delle cose » (3245, 22-8-1823). E questo perché  







Spetta all’immaginazione e alla sensibilità lo scoprire e l’intendere tutte le sopraddette cose [e cioè “la natura viva”, il “modo”, le “cagioni”, gli “effetti”, gli “andamenti e i processi”] ; ed elle il possono, perocché noi ne’ quali risiedono esse facoltà, siamo pur parte di questa natura e di questa università ch’esaminiamo ; e queste facoltà nostre sono esse sole in armonia col poetico ch’è nella natura ; la ragione non lo è ; onde quelle sono molte più atte e potenti a indovinar la natura che non è la ragione a scoprirla (3242, 22-8-1823).  







Ma soprattutto riconoscendo che solo grazie alla facoltà connettiva di immaginazione e sentimento i vari comparti della realtà, minuziosamente studiati dallo scienziato e dal filosofo, possono essere ricostituiti in unità, restituendo un’immagine più veritiera della realtà : « Oltreché a chi manca il colpo d’occhio non può veder molti né grandi rapporti, e chi non vede molti e grandi rapporti, erra per necessità bene spesso, con tutta la possibile esattezza » (1853, 5/6-10-1821). 2 E due anni dopo :  







1   E si legga anche la p. 3242, dove si arriva addirittura a sostenere che : « siccome alla sola immaginazione ed al cuore spetta il sentire e quindi conoscere ciò ch’è poetico, però ad essi soli è possibile ed appartiene l’entrare e il penetrare addentro ne’ grandi misteri della vita, dei destini, delle intenzioni sì generali, sì anche particolari, della natura. Essi soli possono meno imperfettamente contemplare, conoscere, abbracciare, comprendere il tutto della natura, il suo modo di essere di operare, di vivere, i suoi generali e grandi effetti, i suoi fini. […] Essi soli sono atti a concepire, creare, formare, perfezionare un sistema filosofico, metafisico, politico, che abbia il meno possibile di falso, […] di assurdo, d’improbabile, di stravagante ». 2   La ragione di questa necessità ‘connettiva’ era stata chiaramente formulata nello Zibaldone pochi mesi prima, nel maggio dello stesso anno : « tutte le verità e tutte le cose esistenti, sono legate fra loro assai più strettamente ed intimamente ed essenzialmente, di quello che creda o possa credere e concepire il comune degli stessi filosofi » (1090-1091, 26-5-1821).  











Chiunque esamina la natura delle cose colla pura ragione, senz’aiutarsi dell’immaginazione né del sentimento, né dar loro alcun luogo, ch’è il procedere di molti tedeschi nella filosofia, come dire nella metafisica e nella politica, potrà ben quello che suona il vocabolo analizzare, cioè risolvere e disfar la natura, ma e’ non potrà mai ricomporla, voglio dire e’ non potrà mai dalle sue osservazioni e dalla sua analisi tirare una grande e generale conseguenza […] Io voglio anche supporre ch’egli arrivino colla loro analisi fino a scomporre e risolvere la natura ne’ suoi menomi ed ultimi elementi. […] Ma il tutto di essa, il fine e il rapporto scambievole di esse parti tra loro, e di ciascuna verso il tutto, lo scopo di questo tutto, e l’intenzion vera e profonda della natura, quel ch’ella ha destinato, la cagione (lasciamo ora star l’efficiente) la cagion finale del suo essere e del suo esser tale […] nella cognizione delle quali cose dee consistere lo scopo del filosofo, e intorno alle quali si aggirano insomma tutte le verità generali veramente grandi e importanti, queste cose, dico, è impossibile il ritrovarle e l’intenderle a chiunque colla sola ragione analizza ed esamina la natura (3237-3239, 22-8-1823).

Al solo ‘sentire’ però è riservata l’unica possibilità di accertare la verità da parte dell’uomo, superiore a quella del semplice ‘intendere’ proprio perché radicato in zone di consapevolezza inaccessibili alla verbalizzazione e veicolanti la persuasione :  

Non basta intendere una proposizione vera, bisogna sentirne la verità. C’è un senso della verità, come delle passioni, de’ sentimenti, bellezze, ec. : del vero, come del bello. Chi la intende, ma non la sente, intende ciò che significa quella verità, ma non intende che sia verità, perché non ne prova il senso, cioè la persuasione (348, 22-11-1820). 3  

Scienziati in azione nelle Operette morali : il ruolo decisivo dell’evidenza  

Si è visto come Leopardi ponga in risalto le implicazioni del ‘sentire’ nel processo gnoseologico già sul piano dell’organizzazione lessicale, mediante due procedimenti : da una parte l’assimilazione di ‘sentire’ a ‘giudicare’, ‘conoscere’, ‘comprendere’, ‘intendere’, ‘pensare’, ‘considerare’ ; dall’altra l’allineamento ad attività direttamente dipendenti dalla constatazione della realtà effettuale, quali ‘imitare’, ‘ritrarre’, ‘esprimere’. Non sarà inutile ricordare che la convinzione della discendenza diretta del ragionamento dall’osservazione e dall’evidenza costituisce una conquista precocissima, e in seguito mai disattesa, da parte di un Giacomo solo tredicenne, già in grado di fissare con lucidità sorprendente le linee metodologiche che gli sembrano più corrette per ogni tipo di ricerca. Nella sezione delle Dissertazioni filosofiche che va sotto la titolazione Dissertazioni fisiche, del 1811, così si legge :  





io vorrò piuttosto pensare da fanciullo, e sostener ciò che la natura c’insegna, che opinar da sapiente, ed oppormi all’interna voce della propria esperienza […] Io dimando se è lecito opporsi alla natura colle Filosofiche ipotesi, quando senza alcuna difficoltà posson seguirsi i suoi dogmi… 4

È un’intuizione che guiderà lo scrittore per tutta la vita, e che gli permetterà di formulare ipotesi e percorsi teorici sempre a partire dall’osservazione della realtà e di un ‘dato’ incontrovertibile. Dieci anni dopo, come molte altre volte ancora, sentirà il bisogno di ribadirlo con forza : « il fatto nel mio sistema decide, e la ragione non se gli può mai opporre » (Zibaldone, 1643, 5-9-1821). Il suo « sistema » deve pertanto annoverare un altro elemento, che viene a disciplinare il pool di categorie convocate nell’apprendimento della verità : l’ossequio al fatto, l’adesione  











3   Per l’itinerario gnoseologico delineato da Leopardi, e per le fondamentali implicanze del sentimento, mi permetto di rinviare al mio Questo deserto, quell’infinita felicità, Roma, Studium, 2000, dove il percorso viene seguito particolareggiatamente. 4   Giacomo Leopardi, Dissertazioni filosofiche, a cura di Tatiana Crivelli, Padova, Antenore, 1995, p. 119.

il sentire dello scienziato. leopardi, ruysch e copernico tra evidenza e sapere al reale. La stessa posizione di preminenza che il sentimento detiene rispetto alla ragione è dovuta alla sua familiarità con la natura, a cui invece la ragione è « posteriore ». La natura è l’unico richiamo incontrovertibile, l’evidenza è l’unica parola davvero definitiva. L’« interna voce della propria esperienza » è il solo efficace antidoto all’irresolutezza delle « filosofiche ipotesi » e alla violenza velleitaria delle opinioni del sapiente. L’esperienza intona il sentimento alla realtà, e indirizza la ragione all’oggettività dell’esistente. La determinazione leopardiana a sottrarre la conoscenza a un ambito esclusivamente razionale, consegnandola a quello prioritariamente esperienziale, è fuori discussione. Opportunamente Bortolo Martinelli in un saggio recente richiama l’attenzione sul paragrafo 25 del Dialogo di Timandro ed Eleandro, dove il calco del procedimento logico cartesiano presuppone la sostituzione, forse sulla scorta di Malebranche, dell’« io penso » di Cartesio con l’« io patisco » di Leopardi.  



















L’argomento di Cartesio porta a dire : se io penso, cioè mi riconosco come essere che pensa e vive, ciò significa che il pensiero mi inerisce, e che, per estensione, inerisce a tutti gli uomini ; l’argomento sembra fondarsi su una sorta di sentiment intime della propria esistenza e che ciascuno prova in se stesso, il quale è sorgente e principio di ogni certezza, come vuole Diderot (cfr. Sentiment intime in Oeuvres complètes de Diderot, xvii, Paris, Gavrier frères, 1876, pp.127-130). Alla stessa stregua anche Leopardi può dire : io patisco, cioè mi riconosco come essere che patisce e vive, e questo è vero oltre ogni dubbio, in quanto il patire mi inerisce e, per estensione, posso dire che inerisce a tutti gli uomini. 1  





Un « io patisco » che soppianta il « cogito » nella percezione di sé non inibisce la tensione al conoscere, ma favorisce una coerenza a quanto sperimentato rispetto a una coerenza logica, e restituisce alla cogenza razionale una posizione di dipendenza dall’impatto della realtà sul soggetto senziente e pensante. È questo, del resto, quanto viene esplicitamente dichiarato nelle due operette morali Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie e Il Copernico. In entrambe il protagonista è uno scienziato, che, di fronte alla forza incontrovertibile dell’osservazione, abdica a una competenza accumulata mediante lo studio per affidarsi all’evidenza dell’esperienza. Federico Ruysch è un naturalista olandese, famoso in tutta Europa nella prima metà del Settecento per la sua tecnica di imbalsamazione dei cadaveri. Nel pieno di una notte, all’improvviso, viene svegliato da un coro innalzato dalle mummie chiuse nel suo studio. Da un coro : composto, quindi, giusta la teoria linguistica leopardiana appena accennata, da ‘parole’poetiche ed evocative, non da ‘termini’ razionali ed univoci. La situazione si presenta subito come razionalmente poco decifrabile. Lo scienziato reagisce nel modo umanamente più corretto per ricercare il senso di quanto sta accadendo, « guardando per gli spiragli dell’uscio ». Ed è appunto il prendere atto dell’evidenza che fa crollare tutte le categorie logiche con lei contrastanti. Di fronte all’evento del tutto imprevisto (« Io non mi pensava perché gli ho preservati dalla corruzione, che mi risuscitassero »), la filosofia non fornisce nessuna ancora di salvezza (« con tutta la filosofia, tremo da capo a piedi ») e nessuna soluzione (« Non so che mi fare »). L’esperienza che si trova a dover fronteggiare costringe lo studioso a constatare non solo il proprio terrore ben poco filosofico (« In verità che io sudo  



























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freddo, e per poco non sono più morto di loro »), ma anche la posizione ridicola e disumana a cui il suo ruolo di scienziato lo condanna in un frangente come questo, quella di non poter chiedere aiuto nel momento del pericolo, giacché « Chiamare aiuto per paura de’ morti, non mi sta bene ». Sin dall’inizio il registro comico prende decisamente il sopravvento, quale unica strategia elocutiva in grado di gestire una realtà ormai incomunicabile in termini denotativi. Ruysch si rivolge alle sue mummie temporaneamente rianimate ponendo la questione sul piano del gioco : « a che giuoco giochiamo ? », « Io m’immagino che abbiate avuto intenzione di far da burla », rinunciando del tutto a considerare scientificamente il fenomeno che ha davanti agli occhi. Anzi, precisa che starà in disparte ad ascoltare, ma senza alcun interesse professionale, solo « per curiosità ». I morti però possono parlare solo rispondendo a una persona viva : nel dialogo che ne segue, Ruysch sembra dimenticare completamente il metodo scientifico, interloquendo con argomentazioni sprovvedute e quanto mai generiche. Per esempio, subordinando la tenuta di una legge fisica all’arbitrio di un gruppetto di defunti indisciplinati : « e vi pensate di non essere più soggetti alle leggi di prima ? » ; o ricorrendo alla minaccia biologicamente poco sostenibile di uccidere chi è già morto : « ch’io piglio la stanga dell’uscio, e vi ammazzo tutti » ; o ancora eclissando l’improvvisamente inutile competenza anatomo-fisiologica dietro un’opinione personale o una generica credenza comune : « Io mi pensava che sopra questa faccenda della morte, i vostri pari ne sapessero qualche cosa più che i vivi » ; « A ogni modo, tutti si persuadono che il sentimento della morte sia dolorosissimo ». Tanto da cedere il procedimento logico-maieutico all’interlocutore : un cadavere, appunto, la cui dialettica interrompe per un quarto d’ora uno stato di morte eterna. Nella breve conversazione il tasso di lessemi relativo a un procedimento extra-razionale è altissimo : « immagino » (2 volte), « mi meraviglio », « fantasia », « sentimento/i » (7 volte), « sentire/sentiva » (3 volte), più i rispettivi iponimi. La discussione stessa converge sull’eventualità che la morte sia un sentimento. La convinzione di chi ne ha fatto personale esperienza è unanime : la morte è precisamente caratterizzata dalla mancanza di sentimento. L’equazione è ovvia : è il sentimento a qualificare la vita. Meno ovvio, caso mai, è notare che al contrario il pensiero viene declassato a veicolo di idee sbagliate. Così, per lo meno, risulta dalle formulazioni adottate dall’impacciato Ruysch : « Io mi pensava che sopra questa faccenda della morte, i vostri pari ne sapessero qualche cosa più che i vivi ». Lo scienziato, peraltro, non ha nulla di decisivo da opporre ai suoi interlocutori, proprio perché il ragionamento di chi pensava diversamente non ha il conforto definitivo dell’esperienza : « Sia come voi dite : benché tutti quelli coi quali ho avuta occasione di ragionare sopra questa materia, giudicavano molto diversamente : ma, che io mi ricordi, non allegavano la loro esperienza propria ». Anche Il Copernico mette in scena il sovvertimento delle leggi : astronomiche questa volta, perché il sole una mattina si rifiuta di sorgere, si ribella alla fatica di dover correre intorno alla terra e decreta che, da quel momento in poi, sarà la terra a doversi muovere intorno a lui per avere luce e calore. 2 La presa di posizione è motivata dalla diversa prospettiva ‘ideologica’ assunta dal sole : « Questa mutazione in me, come ti ho detto, oltre a quel che ci ha cooperato l’età, l’hanno fatta i filosofi ; gente che in questi tempi è cominciata a montare in potenza, e monta ogni giorno più ». I filosofi, insomma, l’hanno persuaso che conviene perseguire il proprio utile, a costo di mandare a catafascio l’intero universo.  









































































































1

  Bortolo Martinelli, Leopardi e la condizione dell’uomo, Pisa, Giardini, 2005, p. 18. Il passo del Dialogo di Timandro ed Eleandro è il seguente : « In secondo luogo ; non tanto io cerco mordere ne’ miei scritti la nostra specie, quanto dolermi del fato. Nessuna cosa credo sia più manifesta e palpabile, che l’infelicità necessaria di tutti i viventi. Se questa infelicità non è vera, tutto è falso, e lasciamo pur questo e qualunque altro discorso. Se è vera, perché non mi ha da essere né pur lecito di dolermene apertamente e liberamente, e dire, io patisco ? »  



   





2   Sul sovvertimento attuato dall’operetta rispetto alla realtà effettuale si veda Alessandro Capata, Parodia di teatro nel Copernico di Giacomo Leopardi, « Filologia e critica », xxxiv, 3, 2009, pp. 321-342 : 333.  





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elena landoni

I poeti sono stati quelli che per l’addietro (perch’io era più giovane, e dava loro orecchio), con quelle belle canzoni, mi hanno fatto fare di buona voglia, come per un diporto, o per un esercizio onorevole, quella sciocchissima fatica di correre alla disperata, così grande e grosso come io sono, intorno a un granellino di sabbia. Ma ora che io sono maturo di tempo, e che mi sono voltato alla filosofia, cerco in ogni cosa l’utilità, e non il bello ; e i sentimenti dei poeti, se non mi muovono lo stomaco, mi fanno ridere. Voglio, per fare una cosa, averne buone ragioni, e che siano di sostanza : e perché io non trovo nessuna ragione di anteporre alla vita oziosa e agiata la vita attiva […] sono deliberato di lasciare le fatiche e i disagi agli altri, e io per la parte mia vivere in casa quieto e senza faccende. 1  



Si noti che anche nel caso di questa operetta, filosofo e scienziato vengono considerati sinonimi. Il sole infatti manda l’ultima ora del giorno in cerca di un filosofo disposto a raggiungerlo per accordarsi con lui, e la scelta cade su Copernico, interpellato in forza di un’unica precisazione : « tu non sei già un filosofo metafisico ». Come il dialogo di Ruysch con le sue mummie, anche quello di Copernico con l’ora messaggera e col sole è tutto svolto sul filo della comicità, scaturita soprattutto dalle paradossali risposte di uno scienziato adeguatosi fulmineamente alla situazione inverosimile che ha davanti. Una situazione esorbitante dal pre-giudizio scientifico vigente e da un modello astronomico sgretolato dai fatti. Qui sta il punto : con assoluta coerenza col suo metodo scientifico, Copernico si appella a tutte le dottrine disponibili per dare le ragioni di un fenomeno inusitato. Ma inutilmente. È in questo frangente che lascia aperta ogni altra possibilità, riconoscendo l’insufficienza della scienza a spiegare un evento misterioso.  







Io ho udito dire più volte della notte che Giove passò colla moglie d’Anfitrione : e così mi ricordo aver letto poco fa in un libro moderno di uno Spagnolo, che i Peruviani raccontano che una volta, in antico, fu nel paese loro, una notte lunghissima, anzi sterminata ; e che alla fine il sole uscì fuori da un certo lago, che chiamano di Titicaca. Ma insino a qui ho pensato che queste tali, non fossero se non ciance ; e io l’ho tenuto per fermo ; come fanno tutti gli uomini ragionevoli. Ora che io m’avveggo che la ragione e la scienza non rilevano, a dir proprio, un’acca ; mi risolvo a credere che queste e simili cose possano esser vere verissime : anzi io sono per andare a tutti i laghi e a tutti i pantani che io potrò, e vedere se io m’abbattessi, a pescare il sole.  











La conoscenza viene così guidata dall’oggettività del reale più che da una presunta certezza messa in crisi dal ‘fatto’. È questa disponibilità che porta Copernico a smantellare l’errore. Un’ultima osservazione prima di concludere. Si è avuto modo di constatare che Leopardi assimila lo scienziato Copernico al filosofo, secondo una tendenza già da tempo confermata nello Zibaldone. In realtà si tratta di molto di più. Era stato Galileo a definire il punto di vista copernicano come non solo matematico ma anche filosofico, individuando proprio in questo la svolta metodologica rivoluzionaria dell’astronomo polacco. Nella lettera a Piero Dini, del 23-3-16152, Galileo distingue tra un approccio puramente matematico volto a spiegare la fenomenicità di un evento, e quello filosofico, proprio appunto di Copernico, volto ad accertare la sostanzialità profonda

delle ragioni addotte, estendendole anche a tutti i casi osservabili. Quanto al primo particolare che ella mi tocca, che al più che potesse esser deliberato circa il libro del Copernico, sarebbe il mettervi qualche postilla, che la sua dottrina fusse introdotta per salvar l’apparenze, nel modo ch’altri introdussero gli eccentrici e gli epicicli, senza poi credere che veramente e’ sieno in natura, gli dico […] che quanto a salvar l’apparenze il medesimo Copernico aveva già per avanti fatta la fatica, e satisfatto alla parte de gli astrologi secondo la consueta e ricevuta maniera di Tolomeo ; ma che poi, vestendosi l’abito del filosofo, e considerando se tal costituzione delle parti dell’universo poteva realmente sussistere in rerum natura, e veduto che no, e parendogli pure che il problema della vera costituzione fusse degno d’esser ricercato, si mosse all’investigazione di tal costituzione, conoscendo che se una disposizione di parti finta e non vera poteva satisfar all’apparenze, molto più ciò si sarebbe ottenuto dalla vera e reale, e nell’istesso tempo si sarebbe in filosofia guadagnato una cognizione tanto eccellente, qual è il sapere la vera disposizione delle parti del mondo ; […] tal che il voler persuadere che il Copernico non stimasse vera la mobilità della Terra, per mio credere, non potrebbe trovar assenso se non forse appresso chi non l’avesse letto, essendo tutti 6 i suoi libri pieni di dottrina dependente dalla mobilità della Terra, e quella esplicante e confermante.  



In sostanza Galileo riconosceva a Copernico di aver superato il ruolo dell’astronomo tradizionale, ben descritto da Salviati nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo : 3  

il principale scopo de i puri astronomi è il render solamente ragione delle apparenze ne i corpi celesti ed ad esse ed a i movimenti delle stelle adattar tali strutture e composizioni di cerchi, che i moti secondo quelle calcolati rispondano alle medesime apparenze, poco curandosi di ammetter qualche esorbitanza che in fatto, per altri rispetti, avesse del difficile.

Riconosceva anche di avere inaugurato una nuova filosofia della natura, che accanto alla decifrazione di quanto è percepibile dai sensi fosse in grado di porre un solido edificio teorico ; fondato, a sua volta, sull’osservazione, ma ad essa integrato, così da poter dare ragione di tutti i fenomeni analoghi, seppure non ancora constatati. È questo Copernico, emblema di questa apertura mentale, che Leopardi vuole nella sua Operetta. Uno studioso che a partire dalla sua osservazione giudica, e, trovate inapplicabili le spiegazioni sino ad allora accolte, non censura nessuna delle ipotesi alternative a disposizione, neppure quelle offerte dalle leggende, che anzi si dichiara pronto ad andare a verificare. Un calco preciso del Copernico descritto da Galileo nelle Considerazioni circa l’opinione copernicana, il quale, accortosi che assunti da lui ritenuti falsi si attagliavano agevolmente alle apparenze, « si messe a ricercar diligentemente se alcuno tra gli antichi uomini segnalati avesse attribuita al mondo altra struttura che la comunemente ricevuta da Tolomeo ; e trovando che alcuni Pitagorici avevano in particolare attribuito alla Terra la conversione diurna, ed altri il movimento annuo ancora, cominciò a rincontrar con queste due nuove supposizioni le apparenze e le particolarità de i moti de i pianeti, le quali tutte cose egli aveva prontamente alle mani, e vedendo il tutto con mirabil facilità corrisponder con le sue parti, abbracciò questa nuova costituzione ed in essa si quietò ». 4 Fatto sta che il Copernico leopardiano non si ferma al lato astronomico della faccenda, ma, da « perfetto filosofo », abbraccia con lo sguardo la totalità dell’avvenimento, giungendo anche a lambirne i risvolti esistenziali :  













Ma voglio dire in sostanza, che il fatto nostro non sarà così semplicemente materiale, come pare a prima vista che debba essere ; e che gli effetti suoi non apparterranno alla fisica solamente : perché esso sconvolgerà i gradi della dignità delle cose, e l’ordine degli enti ; scambierà i fini delle creature ; e per tanto farà un grandissimo rivol 

1   Le Operette morali sono da leggersi nell’edizione critica a cura di Ottavio Besomi, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1979. 2   La si può leggere in Le opere di Galileo Galilei. Edizione Nazionale, v, Firenze, tip. Barbera, 1890-1909, pp. 297-298. L’opinione qui confutata si riferisce alla prefazione anonima aggiunta dal teologo luterano Andreas Osiander al De revolutionibus orbium coelestium libri vi, di Copernico, nel 1543, insinuando che l’autore stesso non fosse convinto della verità dei suoi assunti, ma solo della verosimiglianza.







3   In Le opere di Galileo Galilei, vii, cit., p. 369. Per tutta la questione si veda Stefano Gattei, Per desiderio del vero e delle sue cause. Galileo astronomo filosofo, « Testo », xxxi, 60, 2011, pp. 17-27 4   Le opere di Galileo Galilei, v, cit., p. 355.  



il sentire dello scienziato. leopardi, ruysch e copernico tra evidenza e sapere gimento anche nella metafisica, anzi in tutto quello che tocca alla parte speculativa del sapere.

Ma questo non scompone il sole, che pronostica la soluzione in una probabile, «facilissima» way of thinking : basta « raziocinare a rovescio », e cioè, decodificando assai leopardianamente, « argomentando in dispetto della evidenza delle cose » :  











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gli uomini si contenteranno di essere quello che sono : e se questo non piacerà loro, andranno raziocinando a rovescio, e argomentando in dispetto della evidenza delle cose ; come facilissimamente potranno fare ; e in questo modo continueranno a tenersi per quel che vorranno, o baroni o duchi o imperatori o altro di più che si vogliano : che essi ne staranno più consolati, e a me con questi loro giudizi non daranno un dispiacere al mondo.  







IL CORSO IRREVERSIBILE DELLA STORIA : L’ADYNATON DEI FIUMI IN MARZO 1821  

Giuseppe Langella

S

e Marzo 1821 è diventato il testo più citato della nostra poesia risorgimentale, è anche per merito del celebre distico che enumera i fattori identitari intorno ai quali si cementa l’unità di una nazione : « una d’arme, di lingua, d’altare, / di memorie, di sangue e di cor ». Ma guai a isolare questi versi dal contesto in cui sono calati : dandone un’interpretazione avulsa dalla complessa argomentazione di cui essi costituiscono il punto d’arrivo, si corre il rischio di distorcere il pensiero di Manzoni e di equivocare sul suo stesso sentimento patriottico, che incalza, bensì, la storia e cerca perfino di promuoverla, ma non è cieco né ignora lo stato reale delle cose, dal quale, del resto, nessuna azione unificatrice avrebbe potuto prescindere. Per cogliere, invece, l’esatta portata della formula manzoniana, senza tradirne il senso e le implicazioni, occorre tenere ben presente l’alveo concettuale di cui essa rappresenta lo sbocco. Scrive dunque il poeta :

In un’ampia voluta sintattica, che si snoda per due intere strofe, Manzoni svolge un ragionamento per assurdo, tirando in ballo un’ipotesi manifestamente priva di fondamento, ovvero che si riesca a distinguere, nel letto di un grande fiume, le acque dei suoi vari affluenti. L’esperienza comune insegna infatti che, una volta avvenuto lo sversamento dal bacino dell’immissario in quello del collettore, le acque si mescolano e si confondono, di modo che riuscirebbe quanto mai astrusa l’idea di tornare a separarle e si coprirebbe di ridicolo, come spirito quanto meno balzano, chi volesse cimentarsi in un’impresa tanto contraria all’ordine naturale dei fenomeni. Il poeta appoggia, insomma, il proprio teorema dell’ineluttabile trionfo della causa nazionale su quella paradossale figura di pensiero che l’arte retorica definisce adynaton, proprio perché costruita su un’eventualità da tutti giudicata impossibile. 1 Sincero e vibrante patriota, gli preme dimostrare che la storia d’Italia, sia pure in maniera graduale e tortuosa, sta marciando in una direzione ben precisa, quella dell’unificazione politica della penisola, e che tale processo deve considerarsi senz’ombra di dubbio irreversibile e fatale, come il compimento di un destino. 2 Di qui l’associazione tra il corso della

storia nazionale e quello dei fiumi : credere di poter invertire il cammino della storia, spingendola « a ritroso degli anni e dei fati », è disegno non meno velleitario e inconsistente del proposito di « scerner l’onde confuse nel Po » ; allo stesso modo in cui sarebbe inconcepibile stornare da un grande fiume le acque dei vari affluenti che vi si gettano, è illusorio e sbagliato sperare di « scindere » ancora « in volghi spregiati » una nazione « risorta », fermamente decisa a unire le forze per cacciare lo straniero e tornare libera sul suolo assegnatole dal « Padre di tutte le genti » (v. 69). L’efficacia persuasiva dell’argomento patriottico deriva proprio dal paragone coi fiumi : a nessun corso d’acqua, infatti, è dato di procedere a capriccio, né tanto meno di risalire verso la sorgente ; soggetto alla legge di gravità che avvince tutta la materia, il suo tracciato, da dove sgorga a dove sfocia, segue obbligatoriamente la conformazione del terreno, scorrendo verso il basso. Un fiume non può far altro che scendere a valle ; assecondare il dislivello del terreno, nel suo caso, non richiede alcuna deliberazione, non comporta alcun atto di volontà : obbedisce semplicemente all’ordine naturale delle cose, è un fatto necessario. Le leggi di natura sono tassative : nessuno, se non il creatore del mondo, ha il potere di sovvertirle. Viene in chiaro, allora, il movente della similitudine manzoniana, che cerca di attribuire alle vicende umane, di per sé tanto meno prevedibili, il medesimo carattere di ineluttabilità proprio dei fenomeni naturali. 3 Con l’adynaton dei fiumi, insomma, il poeta induce a leggere un processo storico dai contorni quanto mai problematici e dagli esiti tutt’altro che scontati come qualcosa, invece, di fatale, d’indubitabile. Qui, davvero, l’astuzia della ragione si pone al servizio della fede dell’uomo risorgimentale, dando per certa, complice un’ingegnosa trovata retorica, la redenzione d’Italia. Peraltro, l’immaginario fluviale non torna utile a Manzoni solo per rassicurare tutti i patrioti circa l’immancabile successo di un progetto politico che, almeno all’altezza del 1821, era poco più di un sogno : i fiumi, infatti, quando non si gettano direttamente in mare, riversano le loro acque in qualche altro bacino idrico, immettendosi in un lago o alimentando un fiume più grande ; in ogni caso è destino che essi mescolino le proprie acque con quelle del bacino in cui confluiscono. Nella fattispecie, le due Dore, la Baltea e la Riparia, il Tanaro, il Ticino, l’Adda e l’Oglio sono tutti affluenti, di destra e di sinistra, del Po e ricevono, a loro volta, il tributo di altri fiumi, come la Bormida o il « rapido Mella ». Anzi, il poeta si premura di citare persino l’« Orba selvosa », torrente che s’immette nella Bormida, evocando quindi addirittura una quadruplice sequenza di travasi di acque fluviali, dall’Orba alla Bormida al Tanaro al Po. Quest’ultimo funge quindi da collettore di tutti i corsi d’acqua che dalle Alpi e dal primo tratto della dorsale appenninica scendono verso la valle che da lui prende il nome. Ma è proprio questo aspetto della geografia padana a catalizzare l’ispirazione poetica di Manzoni : la visione, cioè, del progressivo confluire e mescolarsi di tante acque in un unico grande bacino. L’immagine convergente di tutti quei

1   Così annota Valter Boggione nel suo eccellente commento all’ode manzoniana : « l’adynaton conferisce al processo di unificazione italiana il sigillo dell’irreversibilità » : in Alessandro Manzoni, Poesie e tragedie, a cura di Valter Boggione, Torino, utet, 2002, p. 247. 2   Sulla prospettiva unitaria del patriottismo manzoniano cfr. Giovanni

Bognetti, L’unità d’Italia nel pensiero di A. Rosmini e di A. Manzoni, negli Atti dell’incontro di studio su Manzoni e Rosmini (Milano, 2 ottobre 1997), Milano, Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, 1998, pp. 113-205. 3   Cfr., su questo, Aurelia Accame Bobbio, Alessandro Manzoni. Segno di contraddizione, Roma, Studium, 1975, p. 160.











Chi potrà della gemina Dora, della Bormida al Tanaro sposa, del Ticino e dell’Orba selvosa scerner l’onde confuse nel Po ; chi stornargli del rapido Mella e dell’Oglio le miste correnti, chi ritogliergli i mille torrenti che la foce dell’Adda versò, quello ancora una gente risorta potrà scindere in volghi spregiati, e a ritroso degli anni e dei fati, risospingerla ai prischi dolor : una gente che libera tutta, o fia serva tra l’Alpe ed il mare ; una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor. (vv. 17-32)  

































































il corso irreversibile della storia: l ’ adynaton dei fiumi in marzo 1821 127 ruscelli, torrenti e fiumi che, scendendo a ventaglio dall’alto del territorio lombardo i seguenti. Additando, inoltre, su una dei monti, andavano unendosi e ingrossandosi via via, ciascuvirtuale carta geografica, i fiumi tributari del Po o i loro afno con la propria portata, per raccogliersi e fondersi, da ultifluenti, fino al terzo grado di immissione, Manzoni continua mo, in un fiume solo, temibile e maestoso nella sua acquisita in sostanza per otto versi a riproporre la medesima immagipotenza, gli richiama, per analogia, la storia millenaria del ne di acque che si mescolano, con un’insistenza resa ancor nostro Paese : anche l’Italia, infatti, era uscita discorde e divisa più martellante dalla triplice anafora del « chi » relativo, che dai secoli bui dell’alto medioevo, frazionata in mille comuni e introduce la medesima struttura sintattica. Si devono osservafaziosa, esuberante ma dissipata in una ridda impressionante re, poi, alcune significative spie lessicali, tutte riconducibili al di autorità, di istituzioni, di leggi, di monete, di dogane, di campo semantico del congiungere, che ‘commentano’ in senconsuetudini e di parlate regionali ; e tuttavia anch’essa col so patriottico l’immagine ricorrente della confluenza fluviale, accreditandone l’interpretazione unitaria : tali sono, segnatatempo si era incamminata, a poco a poco, per agglutinamenti successivi, dalle signorie ai principati, dai ducati ai regni, verso mente, « l’onde confuse » e « le miste correnti », cui dovremmo il traguardo della riunificazione nazionale, e gli eventi più reaggiungere la serie dei verbi disgiuntivi, « scernere », « stornacenti, dalla costituzione della Repubblica Cisalpina in avanti, re », « ritogliere » e « scindere », i quali rimandano all’ipotesi imdavano a vedere che questo progresso, per secoli lentissimo, possibile di separare di nuovo ciò che si è già amalgamato. 2 aveva subìto un’improvvisa e cruciale accelerazione, tanto da Un discorso a parte merita la « Bormida al Tanaro sposa », riuscire già a intravedere la meta. perché la metafora coniugale dei due fiumi che si uniscono, Non solo la natura, dunque, con le sue leggi inflessibili, fondendo le rispettive acque nello stesso letto, ricalca un toporta acqua – è proprio il caso di dirlo – al mulino dell’argopos abbastanza frequentato da tutte le letterature antiche e mentazione manzoniana, ma anche la geografia viene in socmoderne, specie nelle favole mitologiche d’amore, a comincorso della storia, fornendole un esempio quanto mai icastico ciare da quella, celeberrima, di Alfeo e Aretusa, immortalata della reductio ad unum che tanto stava a cuore agli uomini del da Ovidio nel quinto libro delle Metamorfosi. Alla base del conRisorgimento. Manzoni aveva già scritto, nel Proclama di Rigiungimento, che comporta sovente anche la trasformazione mini, « liberi non sarem se non siam uni » (v. 34), endecasillabo in fiume di uno o di entrambi gli amanti, sta dunque l’insorgenza di una relazione affettiva, da cui sgorga il desiderio di che, se non sarà da annoverare, per ammissione dello stesso possesso e di unione. Trasferita sul piano patriottico, come autore, tra i suoi versi più riusciti, 1 ha il merito, però, di riassurichiede il contesto dell’ode manzoniana, questa relazione si mere in estrema sintesi il suo programma politico. D’altrontraduce in vincolo solidale di fratellanza, in patto di mutuo de, l’idea che solo ritrovando un’unità d’intenti gli italiani si soccorso per la vita e per la morte, secondo la formula solensarebbero potuti scrollare di dosso la dominazione straniera, ne pronunciata, in Marzo 1821, dai congiurati in procinto di che toglieva loro in partenza ogni possibilità di darsi libere muovere guerra all’Austria : « o compagni sul letto di morte, istituzioni, accomuna tutti i nostri letterati di primo Ottocento, dal Foscolo dell’Ortis in avanti. Repubblicani che fossero o / o fratelli su libero suol » (vv. 15-16). 3 Il matrimonio, in ogni monarchico-costituzionali, unitari o federalisti, cattolico-libecaso, implica una piena sintonia, la condivisione di un progetrali o neoghibellini, su un punto almeno essi concordavano to e la volontà di realizzarlo insieme ; è un legame impegnapienamente : che la condicio sine qua non per conseguire la libertivo, anzi indissolubile, che intreccia per sempre l’esistenza di due persone in un unico destino. In questo senso, l’amor tà, scopo ultimo di tutte le battaglie risorgimentali, era l’unioconiugale può ben essere assunto a paradigma dell’amor di ne delle forze in vista di un obiettivo condiviso. Le discordie patria, perché se quest’ultimo non implica, ovviamente, lo municipali e il sistema dei contrappesi erano stati la rovina stesso grado di intimità, comporta tuttavia, rettamente inted’Italia, la causa prima della sua endemica debolezza e della so, le medesime responsabilità dell’altro e su scala allargata. sua secolare soggezione a questa o quella potenza europea. Nel confluire di tutte le acque nel grande bacino del Po, Gli italiani dovevano decidersi, una buona volta, nell’interesManzoni adombra – abbiamo detto – il compimento di un se comune, a solidarizzare tra loro, comprendendo di essere lunghissimo ciclo storico, che ristabilisce l’unità originaria partecipi di un medesimo destino ; erano chiamati a compiere della nazione italiana, costituitasi nel primo secolo avanti Criun salto di qualità, a far prevalere sulle spinte centrifughe e sto, in seguito all’estensione della cittadinanza romana a tutti autonomistiche le ragioni superiori dell’unità. Prendere una gli abitanti della penisola, e venutasi poi disgregando a causa simile decisione appariva agli occhi di Manzoni, più ancora delle invasioni barbariche e delle dominazioni straniere. Il Riche una prova di maturità e di intelligenza storica, una scelta sorgimento, in altre parole, viene vissuto dai profeti dell’Itaobbligata, un partito preso : il vettore della storia italiana, di lia unita alla stregua di una palingenesi. Questa circostanza cui il Risorgimento rappresentava la coscienza spiegata e la acquista una risonanza speciale nell’animo di un fervente risoluzione eroica, non poteva che mettere capo all’unificacattolico come Manzoni, al quale era ben noto il passo di zione nazionale. Il paragone dei fiumi dà evidenza apodittica Gen. 2, 10-14, che faceva scaturire, per ramificazione, i quattro a questa sua ferma convinzione, prefigurando l’indubitabile grandi corsi d’acqua, il Pison, il Ghicon, il Tigri e l’Eufrate, sbocco unitario che avrebbe avuto l’escalation risorgimentale. che rendevano fertili le principali regioni del mondo allora Collettore di affluenti che via via riversano le loro acque nel conosciuto, dall’unico fiume fatto sgorgare da Dio nel parasuo bacino, il Po dell’ode manzoniana assurge, perciò, ad allediso terrestre per irrigare il giardino di Eden. Alla luce di quei goria della fusione tra i popoli della penisola. versetti, se la separazione delle acque secondo itinerari diverA fare della prospettiva dell’unificazione il vero fuoco temagenti poteva suggerire un’idea della storia come tempo della tico dell’adynaton dei fiumi, concorre attivamente la costrudispersione e dell’autarchia, dell’odio e dell’avarizia, la conzione retorica della strofa, dove il Po è collocato esattamente fluenza di tutti i fiumi in un unico bacino simboleggiava, al al centro di una raggiera di corsi d’acqua, puntualmente elencontrario, il ritorno alla beata condizione di partenza, a quella cati, che convergono strutturalmente verso di esso : del Regno patria perduta che aveva i contorni di un paradiso. Quella che di Sardegna i primi, fino alla linea di demarcazione del Ticino,  

























































1   Stando, infatti, alla testimonianza di Cesare Cantù (Alessandro Manzoni. Reminiscenze, i, Milano, Treves, 1882, p. 308), Manzoni avrebbe affermato una volta di aver sempre nutrito una fede « così grande » nell’« indipendenza d’Italia, compiuta e assicurata con l’unità », da farle « il più grande dei sacrifizi, quello di scrivere scientemente un brutto verso : Liberi non sarem se non siam uni ».  













2   Cfr. le note di Valter Boggione a Marzo 1821, in Alessandro Manzoni, Poesie e tragedie, cit., p. 247. 3   Sul topos del giuramento, così frequente nella nostra letteratura patriottica e nei libretti d’opera, cfr. Alberto M. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Torino, Einaudi, 2000, pp. 56-58.

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si preparava, insomma, per l’Italia era molto più di una nuova fase storica : era l’escatologia della nazione ; donde quel tanto di sacro e di benedetto da Dio, quegli accenti da ‘guerra santa’ di liberazione, 1 con cui Manzoni saluta, in Marzo 1821, gli uomini in armi che avevano giurato di abbattere tutte le « barriere » (v. 7) interne, a cominciare da quella che divideva il Regno di Sardegna dal Lombardo-Veneto, in modo che tutti gli italiani potessero presto trovarsi nuovamente riuniti sotto la stessa bandiera. L’unificazione nazionale vagheggiata e precorsa da Manzoni andrà intesa, peraltro, in senso identitario non meno che politico. La prestante e versatile similitudine dei fiumi contempla anche questo risvolto. In quanto idealmente raffigura, proiettata nella dimensione spaziale di un atlante geografico, la storia d’Italia dal crollo dell’impero romano al pieno compimento del sogno risorgimentale, non può non registrare anche la situazione incresciosa da cui essa ha preso le mosse : che concerne tanto la frammentazione politico-amministrativa della penisola, quanto la difforme pluralità etnico-culturale dei gruppi umani che la popolavano. Se poi il corso degli eventi, come risultava chiaro a posteriori, osservandolo nel lungo periodo, aveva seguito il polo magnetico di un progressivo riavvicinamento, la diversità e la reciproca diffidenza erano rimaste per secoli lo stigma e il tallone d’Achille degli italiani. Manzoni ne era talmente consapevole, da imbastire intorno al motivo storico delle guerre fratricide la sua prima tragedia, Il conte di Carmagnola, data alle stampe appena un anno prima della stesura, almeno provvisoria e parziale, di Marzo 1821. All’inizio i fiumi sono tanti (Po escluso, l’ode ne enumera, selettivamente, nove) e di modesta portata. Il travaso da un bacino all’altro è graduale e solo alla fine le acque dei vari affluenti si troveranno confuse nelle « possenti et rapide onde » di quel Po che già Petrarca aveva apostrofato, in un sonetto del Canzoniere (Rerum vulgarium fragmenta, clxxx), come « superbo altero fiume ». 2 Perciò, se da un lato il convergere verso uno sbocco unitario è la direttrice di un processo storico ancora in atto durante il Risorgimento, dall’altro lo smembramento politico e la molteplicità delle identità locali sono le due facce di una stessa medaglia. Affinché il Risorgimento possa dirsi veramente compiuto, allora, non basta che l’Italia conquisti l’indipendenza e diventi libera e una, ma è necessario altresì che i suoi cittadini si amalgamino, che vincano pregiudizi e campanilismi, che si sentano figli della stessa patria, che maturino una coscienza nazionale, che costruiscano, infine, un’identità comune. Manzoni sa bene che la posta in gioco non è soltanto l’unificazione politica, e se saluta con calore l’intrepido patto stretto tra i carbonari piemontesi e i federati lombardi « sull’arida sponda » del « varcato Ticino », è anche per quel che significa, sul piano simbolico, il loro gesto rituale di stringersi scambievolmente la mano : ovvero la presa d’atto che a quanti vivono « dal Cenisio alla balza di Scilla » (v. 46), a dispetto delle loro secolari discordie, è toccato in sorte un identico destino e che quindi, volenti o nolenti, tutti gli italiani devono imparare a considerarsi « fratelli ». L’acquisizione di una simile consapevolezza è requisito necessario, seppure insufficiente, perché tanti « volghi spregiati » possano diventare « una gente risorta », né d’altra parte sarebbe pensabile sollevare la testa senza il conforto di sapere che un’intera nazione, unanime, è pronta a impugnare le armi contro l’oppressore, in vista di un traguardo comune. Il termine ‘volgo’ – si sa – nella poesia manzoniana ha sempre una connotazione marcatamente negativa, designando immanca 











































1   Sul motivo della « guerra santa contro l’usurpatore di diritti inalienabili, contro l’invasore, lo straniero che occupa il suolo d’un popolo », cfr. Renzo Negri, Manzoni e la politica, in Idem, Manzoni diverso, Milano, Marzorati, 1976, pp. 115-125 : 116. 2   Sull’argomento cfr. Rosanna Bettarini, I fiumi di Petrarca, « Studi di filologia italiana », l, 1992, pp. 5-18.  









bilmente una moltitudine imbelle e sottomessa, angariata e umiliata, privata di ogni diritto e di ogni dignità. Ma il disprezzo con cui essa è trattata dipende dalla sua debolezza e questa, a sua volta, è l’effetto indesiderato delle discordie e delle lotte intestine, della disunione. Non per nulla, nel coro dell’atto terzo di Adelchi, riferendosi alle pavide e inermi popolazioni italiche costrette dai longobardi ai lavori servili, Manzoni per ben due volte affianca a « volgo » l’aggettivo « disperso » (vv. 4 e 66) : finché un popolo non si unisce, finché non fa causa comune, non può riscattarsi, né aspirare all’indipendenza ; è condannato invece a rimanere « un volgo disperso che nome non ha », indegno, in altre parole, di conservare persino una riconoscibile identità, di cui il ‘nome’ è la prova e il diploma ufficiale. Non sfugga, a questo riguardo, l’opposizione morfologica tra « volghi spregiati », al plurale, 3 e « una gente risorta », al singolare, che in Marzo 1821 accompagna il salto di qualità, se non di un intero popolo, certo almeno degli italiani più avvertiti, disposti a una solidarietà più vasta delle mura cittadine o delle anguste frontiere di un piccolo Stato : il sentimento dell’unità nazionale è condizione imprescindibile tanto per risorgere che per guadagnarsi sul campo il titolo onorifico di ‘gente’, carico della nobiltà accordata dagli antichi romani a questo termine, riservato, di norma, solo alle grandi famiglie patrizie che avevano fondato la patria o erano state le artefici della grandezza dell’Urbe. Ecco perché nel vocabolario manzoniano ‘gente’, se non è sinonimo tout court di ‘nazione’, indica però se non altro la sua parte più consapevole e volitiva. Anche a giudizio di Mario D’Addio, l’unità d’« intenti », che Marzo 1821 celebra in maniera scenografica, col solenne giuramento pronunciato sulle rive del Ticino dai patrioti insorti, muove, per Manzoni, dalla « raggiunta consapevolezza » del « comune destino » 4 toccato agli italiani, nonostante la lunga vicenda di particolarismi che aveva contraddistinto la loro storia. Era naturale, del resto, che gli abitanti della penisola fossero chiamati a condividere la medesima sorte : bastava guardare alla conformazione del territorio per farsene persuasi. Si ricorderà, a questo proposito, la bella definizione che lo stesso Manzoni aveva dato dell’Italia fisica nel coro del Carmagnola (v. 24), ammirando il riguardo usatole, nella sua provvida sapienza, da madre natura, che per meglio separarla da tutte le altre terre emerse l’aveva « recinta coll’alpe e col mar », postulando al contempo un vincolo di fratellanza tra quanti vi avessero stabilito la loro dimora. Non è, perciò, senza peso il fatto che in Marzo 1821 l’enunciazione dei sei fattori identitari sia preceduta da una ripresa letterale del riferimento geografico ai confini naturali del Paese, racchiuso « tra l’Alpe ed il mare », di cui non è chi non colga l’immediata valenza politica. 5 Se, tuttavia, le caratteristiche morfologiche dello stivale giocano, alla lunga, un ruolo determinante in favore di un destino unitario della storia nazionale, l’esito, per il momento, è solo virtuale, intravisto all’orizzonte ma ancora da inseguire. Bisogna unire le forze, appunto, perché quello che è già scritto come una promessa, nel libro del futuro, si compia, diventi realtà. Per questo l’ode manzoniana presenta i congiurati, pronti a battersi contro l’Austria, « tutti assorti nel novo destino » (v. 3). Come ho già avuto modo di scrivere, « nell’Ottocento il sentimento nazionale matura nella prospettiva di un destino storico da portare a compimento ». 6  























































3   « Il plurale suggerisce la frantumazione politica quale causa del disprezzo di cui gli Italiani sono stati fatti oggetto » : così Valter Boggione in Alessandro Manzoni, Poesie e tragedie, cit., p. 247. 4   Cfr. Mario D’Addio, Manzoni politico, Lungro di Cosenza, Marco, 2005, p. 33. 5   È appena il caso di richiamare alla memoria, come fonte illustre di questo topos geografico, il Petrarca di Rerum vulgarium fragmenta cxlvi : « Udrallo il bel Paese, / ch’Appennin parte, e ’l mar circonda e l’Alpe » (vv. 13-14). 6   Giuseppe Langella, L’uno e il molteplice. I popoli d’Italia, in Idem, Amor di patria. Manzoni e altra letteratura del Risorgimento, Novara, Interlinea, 2005 (« Biblioteca letteraria dell’Italia unita », 10), p. 264.  















il corso irreversibile della storia: l ’ adynaton dei fiumi in marzo 1821 129 Questo spiega l’impronta fortemente intenzionale, se non stante l’« andamento narrativo » 4 di questi versi, quale si addice proprio volontaristica, 1 di Marzo 1821, che coinvolge gli aspetti a una materia storica, fornitrice di episodi concreti, Marzo 1821 resta essenzialmente l’espressione culminante delle aspettatiidentitari della nazione tanto quanto il coronamento politive risorgimentali di Manzoni, tutte volte al futuro. 5 co del programma risorgimentale. I commentatori del testo manzoniano non hanno badato, in genere, ai tempi verbali E di aspettative per un futuro che si spera non lontano si delle due strofe di cui ci stiamo occupando, che invece rivenutre anche il famoso distico dei fattori identitari, nel quale, stono, ai fini del nostro discorso, un’enorme importanza. Sia invece, troppo spesso si è voluta frettolosamente vedere l’atpure per svolgere un adynaton, Manzoni vira, con uno scartestazione di un patrimonio già acquisito e rivendicato, anzi, to repentino rispetto alla prima coppia di strofe, dal passato quale punto di partenza per l’unificazione politica della peniprossimo al futuro : « Chi potrà »… « quello ancora ». Il destino sola. Perché, se è innegabile che nella coscienza dei letterati un’idea unitaria dell’Italia non venne mai meno, 6 è altrettanto d’Italia è ancora di là da venire : i congiurati che si sono dati appuntamento sulla sponda lombarda del Ticino hanno mosvero che una mente lucida e pensosa come quella manzoniaso solo il primo passo di una sfida estremamente ardua, che na non poteva ingannarsi sul conto di un’identità nazionale potrebbe durare anni o decenni e comportare anche rovesci e lesa, deturpata o soffocata da troppi innesti, sedimenti allotrii sconfitte. Se sull’esito ultimo di essa è lecito confidare, anche e circostanze avverse. Sarà più che sufficiente, per fugare ogni perché, come si legge nell’ode, « Dio rigetta la forza straniemalinteso, effettuare una verifica anche minima sui primi due fattori identitari invocati da Manzoni : le unità « d’arme » e « di ra » (v. 54), nessuno può prevedere, tuttavia, che cosa accadrà nell’immediato, né a che prezzo di sangue si riuscirà a straplingua ». Con quale fondamento, per cominciare, egli avrebbe pare, infine, la sospirata vittoria. In Marzo 1821, a dispetto della potuto fare appello a un’unità d’arme, 7 quando appunto era sicurezza ostentata nell’adynaton dei fiumi, il timore di un instata la sua mancanza a permettere per secoli le facili scorresuccesso è pari allo slancio con cui Manzoni saluta e caldegrie degli eserciti stranieri sul suolo nazionale e, di recente, la gia la guerra all’Austria. Esso affiora, sintomaticamente, in tre misera fine del disegno unitario accarezzato da Gioacchino punti diversi dell’ode, ogni volta che il pensiero corre al risulMurat e la restaurazione in Italia delle vecchie case regnanti tato e alle conseguenze dell’insurrezione in atto : l’eventualità decretata dal Congresso di Vienna ? D’altronde, Manzoni non di un tragico fallimento è stata messa nel conto, per cominciaaveva forse composto Il conte di Carmagnola per stigmatizzare re, dai medesimi congiurati che hanno imbracciato le armi, i la piaga delle milizie mercenarie, che avevano dissipato il vaquali si vedono già « o compagni sul letto di morte, / o fratelli lore italiano in mille guerre fratricide, vantaggiose solo per la rapacità delle potenze europee ? Che dire, poi, dell’unità della su libero suol » (vv. 15-16) ; poi, nei versi che ci interessano più da vicino, dove viene seccamente ribadita l’alternativa tra la lingua, a fronte degli innumerevoli dialetti che si erano anconquista della libertà per tutti gli italiani o il prolungamento dati formando, col tempo, lungo la penisola per corruzione dell’egemonia asburgica (« una gente che libera tutta, / o fia dell’antico latino, non di rado tanto diversi tra loro da risultare reciprocamente incomprensibili ? Una lingua nazionale esisteserva tra l’alpe ed il mare ») ; infine nella vibrante exhortatio conclusiva, intesa a infondere coraggio nei combattenti affinva, bensì, e più d’un letterato, come il Bembo, aveva tentato ché, vincendo, scongiurino il paventato inasprimento del doanche di canonizzarla, ma era appunto una lingua letteraria, minio straniero : « per l’Italia si pugna, vincete ! / Il suo fato sui nata morta come fosse stata il latino di Orazio o di Cicerone, adibita a usi esclusivi, di casta, e nota, quel che era peggio, brandi vi sta. / O risorta per voi la vedremo / al convito de’ soltanto a una ristrettissima minoranza. Chi abbia un po’ popoli assisa, / o più serva, più vil, più derisa, / sotto l’orrida di dimestichezza con l’epistolario manzoniano, sa che della verga starà » (vv. 91-96). mancanza di una lingua nazional-popolare il nipote di Cesare Manzoni, insomma, è costretto a guardare avanti, proprio Beccaria si era lamentato fin dall’epoca degli sciolti In morte perché il processo risorgimentale è appena avviato. Con l’imdi Carlo Imbonati. 8 La necessità di una lingua comune costituì, pazienza tipica del patriota, arriva a vaticinare le « giornate del nostro riscatto » (v. 97), quando l’attesa rinascita dell’Italia polazione italica davanti alla rotta dei Longobardi dominatori, che cioè « con trà dirsi finalmente compiuta ; ma questo epilogo all’altezza l’agile speme precorre l’evento / e sogna la fine del duro servir » (vv. 29-30) : del Marzo 1821 appartiene assai più all’ordine virtuale dei sogni, cfr. Enzo Noè Girardi, La lirica civile del Manzoni, negli Atti del convegno su delle aspirazioni, delle ipotesi desiderabili, che non a quello Manzoni e il suo impegno civile (Brescia, 4-6 ottobre 1985), Azzate (Varese), Edireale degli eventi storici, dei fatti accaduti. Camerino ha meszioni « Otto/Novecento », 1986, pp. 5-21 : 6. Altrettanto legittimamente, Valter Boggione richiama i « mirabili Veggenti » della Risurrezione, « che narrarono il so opportunamente in risalto la « funzione esortativa » dell’ode futuro », facendo dell’autore di Marzo 1821 una sorta di profeta biblico : cfr. in manzoniana, che non dà per acquisita « la trasformazione » del Alessandro Manzoni, Poesie e tragedie cit., pp. 242-243. 2 « volgo disperso » in « gente risorta », ma formula un « auspicio ». 4   Nicola Merola, Manzoni e la poesia di tutti, in Idem, Poesia italiana moNon a caso i versi finali, di nuovo, sono coniugati al futuro. Solo derna. Da Parini a D’Annunzio, Roma, Carocci, 2004, p. 110. 5   Del resto, come ha notato acutamente Valter Boggione, « la stessa rapnell’attacco dell’ode il poeta, cedendo all’onda dell’entusiasmo, presentazione del fatto nulla ha in sé di realistico, configurandosi piuttosto « dà per accaduto » quello che invece, al massimo, era stato solo nella forma dell’emblema : il superamento del fiume, come momento di una concordato tra i capi della cospirazione, ovvero il « passaggio svolta radicale e definitiva, dalla quale è impossibile ritrarsi (con l’unica aldel Ticino da parte delle truppe piemontesi insorte » ; 3 ma nonoternativa costituita dalla vittoria o dalla morte), le spade che scintillano al  























































































































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  Sul carattere assai più ‘volontaristico’ che ‘genetico’ dell’idea di nazione su cui fecero leva gli apostoli dell’unità d’Italia ebbe a scrivere pagine memorabili Federico Chabod in L’idea di nazione [1943-1944], a cura di Armando Saitta, Ernesto Sestan, Roma-Bari, Laterza, 200213, p. 70 sgg. Quella suggestiva interpretazione dell’ideologia risorgimentale è stata però parzialmente corretta, in epoca più recente, da Alberto M. Banti, op. cit., p. 56 sgg. 2   Giuseppe Antonio Camerino, Profilo critico del Romanticismo italiano, Novara, Interlinea, 2009 (« Biblioteca letteraria dell’Italia unita », 15), p. 40. 3   Cfr. il Commento di Paola Azzolini ad Alessandro Manzoni, Tutte le poesie (1797-1872), a cura di Gilberto Lonardi, Venezia, Marsilio, 1992, pp. 402, 405. In margine a questa circostanza, abbastanza ricorrente in Manzoni, di una scrittura che gioca d’anticipo sugli eventi, anche a rischio di essere poi dolorosamente smentita dalla storia, è stato osservato, non a torto, che « la lirica manzoniana di ispirazione politica sembra essersi costruita [...] su fatti più veramente sperati che accaduti » e che vale anche per l’autore di Adelchi quel che egli avrebbe scritto, nel coro politico di quella tragedia, della popo 







sole, il giuramento sono ingredienti tutti che rinviano alla topica del genere, dal passaggio del Rubicone da parte di Cesare in poi. [...] Il poeta non è lo spettatore di una scena da ritrarre in versi, e neppure il cantore delle glorie nazionali : ne è in qualche modo l’artefice, il promotore » : in Alessandro Manzoni, Poesie e tragedie, cit., p. 242. 6   Cfr., su questo, Stefano Jossa, L’Italia letteraria, Bologna, il Mulino, 2006 (« L’identità italiana », 45), segnatamente i capp. i e iv : Un’identità letteraria ?, pp. 19-44, e Le ferite della storia, pp. 101-150 ; e Francesco Bruni, Italia. Vita e avventure di un’idea, Bologna, il Mulino, 2010. 7   Sempre che non si voglia dar credito alla spiegazione, invero alquanto fantasiosa, di Arangio Ruiz, che ha inteso l’« una d’arme » nel senso della produzione materiale dell’arsenale bellico : come se Manzoni avesse voluto rimarcare che le armi erano « tutte fabbricate in Italia » : cfr. Alessandro Manzoni, Liriche e Tragedie, a cura di Vladimiro Arangio Ruiz, Torino, utet, 1949, p. 99. 8   Alludo alla lettera inviata a Claude Fauriel il 9 febbraio 1806, accompagnando il dono del componimento poetico appena dato alle stampe. Vale forse la pena di trascriverne un frammento : « Per nostra sventura, lo stato  































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anzi, per Manzoni, un cruccio e un assillo tali, da giustificare il capillare lavoro di revisione del testo dei Promessi sposi (la famosa ‘risciacquatura in Arno’) e le infinite energie profuse, anche da vegliardo, affinché tutti gli italiani, « dal Cenisio alla balza di Scilla », potessero parlare la stessa lingua. Per Manzoni, insomma, la comunanza di origini e di carattere, di storia e di cultura, di fede e di ideali, posta in rilievo nel distico identitario come cemento dell’unità nazionale, lungi dall’essere un possesso a priori, per millenario retaggio, rappresenta la seconda conquista che l’età risorgimentale dovrà mettere a segno, non meno lunga e impegnativa dell’unificazione politica. Il poeta di Marzo 1821 guarda allo Stato unitario e all’identità nazionale come a due mete da raggiungere di pari passo, perché per forza di cose non si potrà progredire sul terreno politico della costituzione di un Paese libero, unito e indipendente, se parallelamente non crescerà negli italiani la consapevolezza delle radici comuni e dei nuovi doveri che comporta la concreta condivisione di un destino. La spia di questa proiezione in avanti dello sguardo storico di Manzoni è data, ancora una volta, da un verbo : da quel « fia » di v. 30 da cui dipende sintatticamente – anche questo è di cruciale importanza – tanto la sorte politica dell’Italia (« una gente che libera tutta / o fia serva » ecc.), quanto la successiva messa a profitto dei fattori identitari, introdotta dalla ripresa anaforica 1 di « una », al v. 31, che richiama, con l’« una gente » di cui sopra, anche il predicato nominale, sottinteso. Ora, ‘fia’ non è soltanto una forma arcaica e letteraria del congiuntivo presente del verbo ‘essere’, ma reca in sé, per trascinamento del significato etimologico del latino ‘fio’, ‘fieri’, da cui deriva, una sfumatura di senso che include l’idea evolutiva di ‘divenire’. Tant’è vero che nella stessa ode Manzoni adopera ‘sia’ quando gli preme sottolineare una condizione stabile, in qualche modo ontologica (« ogni gente sia libera », v. 55), mentre opta per ‘fia’ quando vuole enunciare un proposito, un obiettivo da realizzare (« Han giurato : Non fia che quest’onda  





























dell’Italia divisa in frammenti, la pigrizia e l’ignoranza quasi generale hanno posta tanta distanza tra la lingua parlata e la scritta, che questa può dirsi quasi lingua morta. Ed è perciò che gli Scrittori non possono produrre l’effetto che eglino (m’intendo i buoni) si propongono, d’erudire cioè la moltitudine, di farla invaghire del bello e dell’utile, e di rendere in questo modo le cose un po’ più come dovrebbono essere. Quindi è che i bei versi del Giorno non hanno corretti nell’universale i nostri torti costumi più di quello che i bei versi della Georgica di Virgilio migliorino la nostra agricoltura. Vi confesso ch’io veggo con un piacere misto d’invidia il popolo di Parigi intendere ed applaudire alle commedie di Moliere. Ma dovendo gli Scrittori Italiani assolutamente disperare di un effetto immediato, il Parini non ha fatto che perfezionare di più l’intelletto e il gusto di quei pochi che lo leggono e l’intendono » (Alessandro Manzoni - Claude Fauriel, Carteggio, a cura di Irene Botta, con una premessa di Ezio Raimondi, Milano, Centro Nazionale Studi Manzoniani, 2000 [« Edizione Nazionale ed Europea delle Opere di Alessandro Manzoni », 27], pp. 4-5). 1   Diversi interpreti di Marzo 1821 si sono soffermati sul largo uso che Manzoni vi fa delle figure logico-sintattiche dell’iterazione : cfr., in particolare, Cesare Federico Goffis, La lirica di Alessandro Manzoni, Firenze, La Nuova Italia, 1964, pp. 198-199.  







/ scorra più tra due rive straniere : / non fia loco ove sorgan barriere / tra l’Italia e l’Italia, mai più ! », vv. 5-8). Quindi ‘fia’ evoca, anche nel nostro caso, una situazione in movimento, un processo ‘in fieri’ : Manzoni addita agli italiani il traguardo da raggiungere, colloca la storia risorgimentale dentro un orizzonte di destino, sul piano del dover essere, mostrando a tutti non tanto quello che sono, quanto quello che sono chiamati a diventare. Fin dai tempi, almeno, del Proclama di Rimini Manzoni si era andato interrogando sulla strada più propizia che il Risorgimento avrebbe dovuto imboccare per giungere meglio e prima, con più probabilità di successo e più facilmente, all’approdo unitario desiderato. Il tentativo, per quanto velleitario, di Gioacchino Murat gli aveva infuso una prima certezza : che fosse necessario far convergere « le sparse verghe » (v. 50), ovvero tutte le forze disponibili nella penisola, sulle mire espansionistiche di quella, tra le monarchie italiane, che desse maggiori garanzie di indipendenza dalla politica austriaca e si dichiarasse pronta a cedere al popolo una parte delle prerogative sovrane, promulgando la costituzione. Se nel 1815 Manzoni aveva confidato nello spodestato re di Napoli, i preparativi dell’insurrezione lombardo-piemontese del 1821, che prevedeva la concessione dello statuto e la guerra all’Austria, lo persuadono che l’unica compagine su cui si sarebbe potuta riporre qualche ragionevole speranza di risorgimento nazionale era il piccolo ma fiero e indipendente Regno di Sardegna, tanto più in considerazione delle simpatie liberali manifestate da Carlo Alberto, prossimo ad assumerne lo scettro. 2 D’ora in avanti Manzoni non cambierà più il suo punto di riferimento e della sua lungimiranza potrà, molti anni dopo, congratularsi, quando vedrà finalmente coronato il sogno di un’Italia unita sotto Vittorio Emanuele II. Marzo 1821 non contiene dichiarazioni esplicite, ma l’orientamento filosabaudo di Manzoni si può cogliere tra le righe attraverso l’immagine degli affluenti che recano il loro tributo d’acque al grande fiume padano. Il Po, infatti, prima di diventare il fiume più lungo d’Italia, nasce in Piemonte e attraversa Torino. Se i fiumi, secondo un topos letterario caro anche al Petrarca civile di Italia mia, designano, per metonimia, i popoli che vivono lungo le loro rive, allora il Po rinvia anzitutto al regno subalpino. Così, più o meno come il Tevere virgiliano, che in Eneide viii, 36-65, rassicura i profughi troiani sul futuro del loro nuovo insediamento, il Po di Manzoni diventa il fiume della patria e del trionfale destino che attende, per merito anche della dinastia sabauda, la nazione italiana.  

   









2   Queste considerazioni saranno affidate da Manzoni a Dell’Indipendenza dell’Italia, uno scritto molto tardo, l’ultimo, anzi, cui vorrà dedicarsi, tra il 1872 e il 1873, per sciogliere un doveroso tributo di riconoscenza al Piemonte e a casa Savoia : cfr. ora in Alessandro Manzoni, La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859 - Dell’Indipendenza dell’Italia, a cura di Luca Danzi, Introduzione, Cronologia e Regesto di Giovanni Bognetti, Milano, Centro Nazionale Studi Manzoniani, 2000 (« Edizione Nazionale ed Europea delle Opere di Alessandro Manzoni », 15), pp. 275-293.  





DER FÜNFTE MAI. GOETHE TRADUTTORE DEL CINQUE MAGGIO MANZONIANO. NUOVI ASPETTI DEL DIBATTITO Gisela Schlüter

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i. atraduzione goethiana dell’ode Il Cinque Maggio fatta nel 1822 e pubblicata per la prima volta nel 1823, cioè dell’ode che Alessandro Manzoni aveva scritto nel luglio 1821 in occasione della morte di Napoleone, avvenuta a S. Elena il 5 maggio 1821, conta tra le opere più discusse del poeta tedesco. L’ode manzoniana – a sua volta particolare – era molto cara a Goethe che la recitava spesso nella sua traduzione. Manzoni, invece, come anche con altre delle sue opere, non ha risparmiato critiche sul Cinque Maggio considerando tale poesia con una certa distanza. 1 Manzoni ha ricevuto una copia della traduzione di Goethe e ne ha preso atto ringraziandolo senza però manifestare né plauso né critica. La lingua tedesca non gli era certo del tutto ignota. Significativa a tale riguardo è una lettera di Manzoni del 1832 nella quale egli ringrazia Gottlieb Mohnike che gli aveva inviato un suo volume uscito nel 1829 con parecchie poesie su Napoleone inclusa una traduzione in tedesco dell’ode manzoniana. 2 In questa lettera Manzoni deplora il fatto di avere scarse conoscenze del tedesco, che tuttavia si erano rivelate sufficienti « a scorgervi il merito distinto d’una disinvolta e felice fedeltà », a prescindere da una sola « infedeltà troppo scortese ». 3 La fedeltà traduttiva lodata da Manzoni era ciò che si era sforzato di raggiungere Goethe nella sua traduzione. Pur essendo soddisfatto del proprio lavoro e sottolineandone l’originalità, Goethe ha più tardi chiesto a Karl Streckfuß di tradurre di nuovo in tedesco l’ode del Manzoni ; 4 ma invano, poiché Streckfuß sapeva benissimo a quali difficoltà egli poteva andare incontro accettando tale incarico, e forse voleva anche evitare la concorrenza diretta con la traduzione goethiana. Già le prime celebri parole dell’ode – « Ei fu » (v. 1) –, secondo Streckfuß, erano quasi intraducibili ; 5 con ciò, Streckfuß aveva indicato una prima difficoltà insormontabile di ogni traduzione dell’ode manzoniana : quell’ « Ei fu » con cui viene aperta appunto in modo laconico e solenne l’ode e su cui ancora oggi i traduttori tedeschi discutono, criticando spesso la versione di Goethe (« Er war- », v. 1).  







La traduzione goethiana dal titolo Der fünfte Mai, che fin dall’inizio venne considerata di difficile comprensione 6 e che concorreva con altre traduzioni in tedesco dal 1828 7 in poi, è rimasta fino ad oggi fortemente discussa. Il perdurante dissenso da parte dei critici, filologi e traduttori professionisti ha raggiunto ultimamente un nuovo culmine nei giudizi contrari di Gustav Seibt e Burkhart Kroeber ; quest’ultimo ha fatto una nuova traduzione tedesca dei Promessi sposi nel 2000. Seibt giudica la traduzione di Goethe veramente grandiosa, 8 Kroeber invece la ritiene fallita. 9 Da parte italiana, dopo la nuova pubblicazione delle traduzioni goethiane uscite da Mondadori nel 1997, 10 Gianmarco Gaspari ha preso la difesa della versione (e persino degli errori) di Goethe nel 2000. 11 Dunque gli esperti italiani e tedeschi continuano ancor oggi ad esaminare criticamente questo famoso testo goethiano. Fra i numerosi contributi da parte tedesca, incontestati rimangono i meriti delle diverse pubblicazioni di Hugo Blank 12 come anche lo studio approfondito di Horst Rüdiger. 13 Intanto, si potrebbe fare una lista degli errori traduttivi goethiani sulla base di parecchi saggi critici su Der fünfte Mai. 14 Questa produzione goethiana corrisponde al suo concetto di Weltliteratur (letteratura mondiale) – coniato da lui (ma probabilmente dopo Wieland nell’area tedesca) nel 1827 15 e anticipato da autori francesi e dallo stesso Manzoni – 16, soprat 



















1   Molti giudizi sfavorevoli sul Cinque Maggio di Manzoni vengono citati da Hugo Blank, Manzonis Napoleon-Ode in deutschen Übersetzungen, Mit einem Beitrag von Vito R. Giustiniani, Bonn, Romanistischer, Verlag, 1995, p. 76 sg. 2   Gottlieb Mohnike, Napoleon. Stimmen aus dem Norden und Süden, Stralsund, Löfflersche Buchhandlung, 1829. 3   Alessandro Manzoni, Lettera a Gottlieb Mohnike del 22 agosto 1832, in Idem, Carteggi letterari, i, a cura di Serena Bertolucci, Giovanni Meda Riquier, Milano, Centro Nazionale di Studi Manzoniani, 2010 (Edizione Nazionale ed Europea delle Opere di Alessandro Manzoni, xxix, i, testi criticamente riveduti e commentati, a cura di Giancarlo Vigorelli), ix, sezione 2, p. 352. 4   Johann Wolfang v. Goethe, Theilnahme Goethe’s an Manzoni, in Idem, Werke, Frankfurter Ausgabe i, 12, Bezüge nach außen, Übersetzungen ii , Bearbeitungen, a cura di Hans-Georg Drewitz, Francoforte, Deutscher Klassiker Verlag, 1999, p. 292, linee 5-8. 5   Karl Streckfuss, Lettera a Johann Wolfgang Goethe del 7 maggio 1827 (in Alessandro Manzoni, Carteggi letterari, i, cit., sezione Documenti, 80, p. 478 sg.) : «La sollecitazione, aggiunta alle benevoli parole riguardo alla mia traduzione, di tentare una traduzione dell’ode su Napoleone ha suscitato il mio più vivo interesse a realizzarla. Tuttavia ancora non sono arrivato ad una chiara idea in merito al modo di trattarla. Il metro con gli enjambement [ !] non sarà riproducibile in tedesco e tuttavia non sarà possible cambiare la forma senza incrinatura o svantaggio sia per il magnifico, profondo e sentito contenuto, sia per la mirabile plasticità di alcune strofe. Già l’inizio è intraducibile poiché in tedesco non esiste un modo per il passato remoto da poter rendere ciò che è completamente passato. Er war rende ei fu in maniera molto deficitaria mentre er ist nicht mehr lo deruba di brevità e forza ».  





6   Documentazione in Johann Wolfang v. Goethe, Werke, Frankfurter Ausgabe i, 12, cit., p. 1164. 7   Alessandro Manzoni, Der fünfte Mai. Ode auf Napoleons Tod. In der Italischen Urschrift nebst Uebersetzungen von Goethe, Fouqué, Giesebrecht, Ribbeck, Zeune, Berlino, Maurer, 1828 ; in questo volume riguardante la gara delle traduzioni vd. Johann August Zeune, Vorrede, p. iii sg. Cfr. Lettera di Zeune a Manzoni del 1 aprile 1835, in Alessandro Manzoni, Carteggi letterari, i, cit., p. 377 sg. (lettera xii, 1). 8   Gustav Seibt, Goethe und Napoleon. Eine historische Begegnung, Monaco, Beck, 20094, p. 230. 9   Burkhart Kroeber, Manzonis Napoleon-Ode und ihre Verdeutschungen, « Akzente », lvii, 3, 2010, pp. 268-287 : p. 278 sg. Su questo punto sono da ringraziare le traduttrici Anna Bologna e Ernestina Gilardi per le loro utili indicazioni. 10   Johann Wolfgang v. Goethe, Tutte le poesie, iii, Divan occidentale-orientale, edizione diretta da Roberto Fertonani con la collaborazione di Enrico Gianni, prefazione di Roberto Fertonani, Milano, Mondadori, 1997 ; si veda ivi la sezione Da lingue straniere, a cura di Maria Teresa Giannelli, pp. 824-831, 1190-1193. 11   Gianmarco Gaspari, Goethe traduttore di Manzoni, in Atti del Premio Monselice per la traduzione letteraria e scientifica, 30, Monselice, Amministrazione comunale, 2000, pp. 233-244. 12   Hugo Blank, Manzonis Napoleon-Ode in deutschen Übersetzungen, cit. ; Idem, Goethe und Manzoni. Weimar und Mailand, Heidelberg, Winter, 1988 ; Weimar und Mailand. Briefe und Dokumente zu einem Austausch um Goethe und Manzoni, a cura di Hugo Blank, Heidelberg, Winter, 1992. Cfr. anche la recensione di Achim Aurnhammer : Manzonis‚ Napoleon-Ode‘ deutsch, « Romanische Forschungen », 111, 3, 1999, pp. 378-388. 13   Horst Rüdiger, Ein Versuch im Dienste der Weltliteratur-Idee. Goethes Übersetzung von Manzonis Ode Il Cinque Maggio, in Idem, Goethe und Europa. Essays und Aufsätze 1944-1983, a cura di Willy R. Berger, Erwin Koppen, Berlino-New York, de Gruyter, 1990, pp. 24-43. 14   Cfr., oltre ai già citati contributi, Vito R. Giustiniani, Goethes Übersetzungen aus dem Italienischen, in “Italien in Germanien”. Deutsche Italien-Rezeption von 1750-1850, a cura di Frank-Rutger Hausmann, Michael Knoche, Harro Stammerjohann, Tubinga, Narr, 1996, pp. 275-299. 15   Dieter Lamping, Die Idee der Weltliteratur. Ein Konzept Goethes und seine Karriere, Stoccarda, Kröner, 2010. 16   Clara Leri, Manzoni e la ‘littérature universelle’, introduzione di Ezio Raimondi, Milano, Centro Nazionale di Studi Manzoniani, 2002.  









   







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tutto per il fatto che proprio l’ode su Napoleone rientra in un contesto genuinamente europeo e cioè quello della poesia encomiastica contemporanea su Napoleone. 1 La ricerca tedesca sulla traduzione goethiana del Cinque Maggio è finora maggiormente ‘passata sopra’ l’apprezzamento filologico ed ermeneutico della dimensione religiosa del poema da parte della filologia italiana. L’apoteosi cristiana di Napoleone alla fine dell’ode viene criticata come « penosa » da Hugo Blank oppure come « bigotteria » da Burkhart Kroeber. Una delle prime traduzioni tedesche dell’ode manzoniana ne aveva già cancellato la fine religiosa, 2 e la critica tedesca è rimasta ostile a questa fine e tende a sottovalutare la dimensione religiosa dell’insieme dell’ode e il significato strutturale dell’apoteosi finale. Goethe invece aveva da sempre apprezzato il cattolicesimo manzoniano. Traducendo Il Cinque Maggio, Goethe ha scelto una poesia la cui spiritualità cattolica, 3 la cui straordinaria ricchezza semantica e complessità strutturale, il cui sottilissimo intreccio intertestuale richiedevano dal traduttore strategie di massimo avvicinamento, di massima fedeltà al testo. Goethe si è deciso per una versione quasi interlineare per mantenere le norme del genere letterario, per avvicinarsi il più possibile al lessico, alla prosodia e alla sintassi dell’originale, sia pure a carico della comprensibilità del testo tedesco. La versione tendenzialmente interlineare è dunque dovuta all’estrema complessità dell’ode manzoniana. Corrisponde all’ultimo ideale goethiano di una « Übersetzung der dritten Art » (« traduzione del terzo tipo ») nell’ambito della sua teoria della traduzione (vd. infra, parte iv), teoria che richiederebbe una decisa contestualizzazione europea ed italiana.  















ii. Goethe ha conosciuto Napoleone personalmente. Lo ammirava e probabilmente pensava che ci fosse fra di loro una certa confidenza tra grands hommes che Napoleone aveva accennato salutandolo con la famosa esclamazione : « Vous êtes un homme ! ». Ben noti e tramandati dallo stesso Goethe sono i commenti di Napoleone sull’opera di Goethe e soprattutto una sua osservazione sibillina riguardante il Werther. 4 Manzoni a sua volta, da giovane, ha visto Napoleone. La sua ode evoca proprio lo sguardo penetrante di Napoleone, tipico delle personalità carismatiche (« i rai fulminei », v. 75 ; « blitzende[r] Augenstrahl », v. 75, nella traduzione goethiana), con cui Napoleone, secondo il topos encomiastico, avrebbe dominato i grandi di questo mondo. Manzoni si era attenuto ad una ammirazione a distanza, mantenendo riserve. Mentre Goethe vedeva in Napoleone l’incarnazione del « demoniaco », 5 Manzoni invece, nel 1821, dopo la lettura del secondo articolo in cui la « Gazzetta di Milano » riferiva sulla  



   



















1   Cfr. Eileen Anne Millar, Napoleon in Italian Literature 1796-1821, Roma, Storia e letteratura,1977 ; Barbara Besslich, Der deutsche Napoleon-Mythos. Literatur und Erinnerung 1800-1945, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 2007, p. 137 sgg., e soprattutto Alessandra Di Ricco, Il Cinque Maggio e l’encomiastica napoleonica, « Nuova rivista di letteratura italiana » v, 1, 2002, pp. 81-114. 2   Cfr. la traduzione di Otto Ferdinand Dubislav von Pirch (1799-1832) del 1830, citato da Hugo Blank, Manzonis Napoleon-Ode in deutschen Übersetzungen, cit., pp. 223-226. 3   La ricerca italiana ha, fra l’altro, approfondito la filiazione fra Il Cinque Maggio e Les Oraisons funèbres di Bossuet già indicata dal Manzoni. Cfr. Luciano Parisi, Manzoni e Bossuet, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2002, Ettore Bonora, Il Cinque Maggio e L’orazione funebre per il principe di Condé, in Idem, Manzoni. Conclusioni e proposte, Torino, Einaudi, 1976. Per la lettura dell’ode in chiave religiosa cfr. Valter Boggione, « Ei si nomò » : Napoleone, Adamo e l’Anticristo. Per una lettura biblica del Cinque maggio, « Lettere italiane », liv, 2, 2002, pp. 262-285, Marino Boaglio, Conversione e poesia nel Cinque maggio manzoniano, « Critica letteraria », xxxi, 119, 2003, pp. 235-255. 4   Cfr. Gustav Seibt, op. cit. ; ironicamente sugli incontri fra Napoleone e Goethe e il resoconto di Goethe cfr. Johannes Willms, Napoleon. Eine Biographie, Monaco, C.H. Beck, 20052, p. 485. 5   Gustav Seibt, op. cit., p. 243 sgg.  





















morte di Napoleone a Sant’Elena, 6 scoprì in lui qualcosa di totalmente diverso : cioè l’uomo d’azione e bellicista purificato, che era morto cristianamente. Manzoni, come ben si sa, seguendo un impulso creativo e procedendo quasi con impeto napoleonico, buttò giù sulla carta il suo Cinque maggio in pochissimi giorni. L’ode poetizza difatti anche il dinamismo dell’azione e la forza decisionale, la quasi fulminea velocità di Napoleone stesso che Perticari, in un Panegirico di Napoleone il Massimo, aveva esaltato e che venne ovunque festeggiata : un « Giove » era stato costui, « ciò che il mattino pensò, compié la sera ». 7 Goethe ripete questa mimesi performativa traducendo in una sola notte l’ode del Manzoni. Fino a che punto Manzoni, che aveva fatto l’esperienza della conversione, ha prestato fede al resoconto della conversione e morte cristiana di Napoleone ? Verificare la notizia della morte cristiana di Napoleone era fuori discussione. Comunque sia, Napoleone aveva stilizzato il suo esilio a Sant’Elena, facendone un martirio in senso cristiano. Parecchi contemporanei – come per esempio Wieland – avevano visto in lui il « Heiland », cioè il Salvatore del mondo, 8 e Napoleone, negli ultimi anni della sua vita, si presentava come il Cristo sofferente. 9 L’autostilizzazione cristologica di Napoleone utilizza le codificazioni religiose correnti dell’interminabile panegirica napoleonica. L’ode di Manzoni s’iscrive quindi in questa tradizione encomiastica, sottoponendola però ad una profonda ricodificazione cattolica. Nell’ode sottilmente strutturata saltano all’occhio numerosi parallelismi e numerose inversioni in riferimento all’antitesi tra vita terrena e salvezza (terra vs. cielo). S’inserisce in contesti che permettono letture diverse e creano una polivalenza straordinaria degli elementi lessicali, sintattici, retorici ed iconologici. Ode civile, il poema di Manzoni è allo stesso tempo « cantico di ascendenza biblico-liturgica ». 10 Erede dell’encomiastica napoleonica e senza perdere d’occhio l’epos napoleonico, 11 Il Cinque Maggio trascende anche la solita soprelevazione provvidenzialistica di Napoleone nella panegirica di quei tempi per raggiungere la spiritualità cattolica. Goethe già vide la vicinanza di tale poesia all’Adelchi, ed è spesso stata sottolineata la vicinanza del Cinque Maggio agli Inni sacri – proprio quegli Heilige Hymnen che Goethe aveva ammirato già nel 1820 12 e che gli avevano dato occasione di elevare il cattolicesimo di Manzoni al di sopra della bigotteria dei romantici neo-cattolici : genuinamente cattolica e naïve gli appare la poesia religiosa del Manzoni.  























iii. Goethe traduce letteralmente il titolo dell’ode di Manzoni senza modificarlo. Esaminiamo qui di seguito, a mo’ di esempio, alcune sue scelte traduttive. 13 Tale titolo indica una svol6   L’articolo è citato in Claudio Scarpati, Note sull’elaborazione del Cinque maggio, in Studi di letteratura italiana in onore di Francesco Mattesini, a cura di Enrico Elli, Giuseppe Langella, Milano, Vita e pensiero, 2000, pp. 185-204 : p. 198 sg. Sulla rilevanza e il significato della liturgia cattolica e dei sacramenti alla fine della vita di Napoleone, cfr. Johannes Willms, op. cit., p. 687 sgg. 7   Citazione in Alessandra Di Ricco, Il Cinque Maggio e l’encomiastica napoleonica, cit., p. 96. 8   Gustav Seibt, op. cit., p. 44 e p. 142 sgg. 9   Johannes Willms, op. cit., p. 664. 10   Marino Boaglio, Conversione e poesia nel Cinque maggio manzoniano, cit., p. 251. 11   Nella prima metà l’ode porta tratti fortemente epici che si manifestano nei lunghi periodi paratattici con la congiunzione dell’enumeratio (e) spesso ripetuta. Poi l’epos sfocia nel merveilleux chrétien cioè in quella conversione di Napoleone che ha del miracoloso. 12   Johann Wolfgang v. Goethe, Klassiker und Romantiker in Italien, sich heftig bekämpfend, « Über Kunst und Altertum », i, 2, 1820, riguardante gli Inni sacri ; cfr. Idem, Werke, Frankfurter Ausgabe, i, 20, cit., p. 423 sg. Cfr. Luigi Quattrocchi, Gli Inni sacri di Manzoni nel giudizio di Goethe, in Goethe e Manzoni. Rapporti tra Italia e Germania intorno al 1800, a cura di Enzo Noè Girardi, Firenze, Olschki, 1992, pp. 135-146. 13   Sono state consultate le seguenti edizioni : Alessandro Manzoni, Tutte le poesie, 1812-1872, a cura di Gilberto Lonardi, commento di Paola Azzolini, Venezia, Marsilio, 1987, pp. 109-112, 233-245 ; Idem, Poesie e tragedie, a cura di  











der fünfte mai . goethe traduttore del cinque maggio manzoniano ta epocale senza nominare il protagonista della storia, l’eroe defunto. Manzoni ha tralasciato il nome di Napoleone, con buoni motivi, non solo nel titolo della sua poesia ma anche nell’ode stessa. Nella prima parte di ben 110 versi figura « Ei » come protagonista innominato ogni volta nei primi versi di singole strofe (« Ei fu », v. 1 ; « Lui folgorante » v. 13 ; « Tutto ei provò », v. 43 ; « Ei si nominò : », v. 49) – e questo, come riferito da Alessandra Di Ricco, accostandosi chiaramente all’encomiastica napoleonica del tempo in cui era abbastanza comune questo « Ei » antonomastico. 1 Immediatamente dopo la cesura figura ancora solo nel verso 55 : « E sparve » (v. 55), 2 evitando così il pronome personale ei/egli nella seconda parte del poema. Questo mezzo stilistico sta ad indicare il fallimento dell’eroe, uno sparire dell’individuo e un trascendere nel sovrapersonale religioso. Goethe naturalmente può a malapena riportare in tedesco questo mezzo stilistico. Nel verso 55 (« E sparve ») egli evita il pronome personale azzardando un laconico e perfino brusco « Verschwand ! » (v. 55). Un problema ermeneutico centrale dell’ode sta in quel « Ei si nomò » del verso 49. Non si può sapere fino a che punto Goethe si rendesse conto di tale problema. Il problema difatti consiste nel significato, nel riferimento insito in questo « Ei si nomò ». Goethe traduce : « Er trat hervor » (v. 49). C’è poi da chiedersi se egli capisse bene questa espressione oscura e se col suo « Er trat hervor » abbia tradotto adeguatamente il sintagma polivalente « Ei si nomò ». Nel poema, Manzoni si riferisce al motivo biblico di Dio come colui che dà il nome. 3 L’Innominato, nei Promessi sposi, prima della sua conversione, non ha un nome, e questo non solo per motivi di paura dei suoi contemporanei e di discrezione storiografica. Napoleone che ‘si nom[in]a’ (in tedesco, l’espressione fa pensare a ‘sich einen Namen macht’, ‘si fa un nome’) e si presenta come giudice del mondo e, secondo il testo, giudice in disputa fra due secoli, si arroga i diritti di Dio. Dopo la cesura fra la prima e la seconda parte dell’ode, la strofa seguente inizia con un puro e semplice « E sparve » (v. 55), reso da Goethe con « Verschwand ! » (v. 55). Qui scompare l’individuo e si prepara l’ascesa spirituale. Vi è quindi un buon motivo perchè Manzoni risparmi il nome di Napoleone e, al punto centrale del testo, metta questo « Ei si nomò » a seguito dell’introduttivo « Ei fu » : si rivela qui la fatale hybris dell’eroe, e secondo Boggione, Napoleone figura qui come Anticristo. C’è un’altra interpretazione del passo portata avanti da Alessandra Di Ricco allacciandosi ad una ipotesi di Accame Bobbio. Secondo lei, la strofa si riferisce al 18 Brumaire, cioè a quei giorni di novembre dell’anno 1799 in cui Napoleone sciolse di colpo il Direttorio nominandosi Primo Console : un episodio spettacolare e celebrato dall’encomiastica napoleonica. Tutta la strofa, secondo Di Ricco, mette in scena una « formula molto sfruttata nelle infinite scritture apologetiche che punteggiano il mito napoleonico nell’età consolare e imperiale ». 4 Goethe, come si è già detto, traduce « Ei si nomò » con « Er trat hervor ». Questa traduzione è troppo imprecisa, anche se non errata. Invece, ha il pregio di anticipare « E sparve » (v. 55), cioè : « Verschwand ! ». La versione goethiana si potrebbe giustificare se si tiene conto del contesto indicato. Corrispon 

























   















   





























   

































   

derebbe al significato storico-politico rivelato da Di Ricco ; ma non terrebbe conto del significato biblico, della complessa semantica religiosa del nome e del nominare tal nome. Tuttavia non è chiaro se Goethe nella sua traduzione avesse veramente davanti agli occhi quella versione dell’ode che conteneva il verso « Ei si nomò ». Una precedente versione comportava infatti « Egli apparì » in corrispondenza letterale con la traduzione goethiana (« Er trat hervor »). 5 Quindi si può dire che 1) forse Goethe non aveva di fronte l’espressione « Ei si nomò » oppure che 2) la sua traduzione si riferisce soltanto al significato storico-politico del verso, passando sopra le connotazioni bibliche, possibilmente 2a) per facilitare l’accostamento a « Verschwand ! » Se Manzoni aveva motivi teologici per tacere dappertutto nel suo poema il nome di Napoleone – al di là delle usanze antonomastiche dell’encomiastica –, si dovrebbe criticare il fatto che Goethe permettesse il cambiamento del titolo dell’ode nella sua Theilnahme Goethe’s an Manzoni. Il 10 febbraio 1827 egli scrisse al suo editore Frommann : « Über das letzte [Gedicht] könnte man gar wohl setzen : In morte di Napoleone », permettendogli così di aggiungere al titolo : In morte di Napoleone. 6 Dal punto di vista editoriale e pubblicistico, quest’ aggiunta al titolo può essere opportuna ; ma non era certo nelle intenzioni del Manzoni. Purtroppo questo titolo errato ha trovato addirittura posto nell’edizione di Monaco delle opere di Goethe, come presunto titolo originale. 7 Una certa sorpresa è stata espressa da più parti per il fatto che Goethe nei versi 7-8 (« all’ultima / ora dell’uom fatale ») abbia scelto un’espressione molto inusitata : « der letztesten [ultimissima]/Stunde des Schreckensmannes » (vv. 7-8). Avendo bisogno di una parola con tre sillabe, perché non ha messo « Schicksalsmann » ? Nel « Schreckensmann » invece risuona la terreur, com’è stato osservato. Secondo Burkhart Kroeber, Goethe si è trovato di fronte ad un ‘falso amico’, l’italiano fatale non corrispondendo qui a fatal in tedesco nel senso di verhängnisvoll, ma semplicemente a schicksalhaft, il che lascia aperto il giudizio morale su Napoleone. 8 Goethe ha quindi frainteso « uom fatal » come « fataler/verhängnisvoller Mann » e, evitando la trascrizione letterale di «fatal», ha tradotto con « Schreckensmann » («uomo che incute terrore»). Durante il celebre colloquio tra Napoleone e Goethe Napoleone aveva evocato il concetto del destino (« Schicksal ») come sigla poetica di moda, e secondo Goethe aveva detto che ai loro tempi la sola politica era il destino. 9 La comune avversione contro l’onnipresenza del concetto del Schicksal/ destino nel discorso contemporaneo può in parte spiegare perché Goethe abbia evitato questa parola nella sua traduzione di « uom fatale » come antonomasia di Napoleone. La parola « Schreckensmann » però non rende adeguatamente l’espressione italiana (« uom fatale »), accentuandola in modo troppo negativo e al tempo stesso troppo attivistico. Si deve considerare il significato complesso e di provenienza antica di « uom fatale » in tutto il poema. C’è un pendant nel verso 52 (« due secoli, / l’un contro l’altro armato, / sommessi a lui si volsero, / come aspettando il fato ») ; Goethe traduce infatti qui « fato » con « Schicksal » – Napoleone essendo colui che decide del destino e lo compie. Come « uom fatale », Napoleone è l’incarnazione del fato/destino. Ma nella prospettiva di trascendenza religiosa dominante nella seconda metà dell’ode dove il destino non figura più –, egli è parte della Provvidenza, guidato da quella stessa Provvidenza divina dai cui fili Renzo  



















   





























































































Valter Boggione, Torino, utet, 2002, pp. 221-240. Non era ancora accessibile il primo volume dell’Edizione Nazionale ed Europea delle Opere di Alessandro Manzoni, i, Inni sacri e Odi civili. 1   Alessandra Di Ricco, Il Cinque Maggio e l’encomiastica napoleonica, cit., p. 108 sg., nota 78. 2   Errore nella ristampa dell’ode manzoniana in Johann Wolfgang v. Goethe, Tutte le poesie, cit., p. 829 : « Ei sparve » invece di « E sparve » e nel verso 79: «Ei ripensò» invece di «E ripensò». 3   Fonti nella Bibblia e in Bossuet cfr. commenti in Alessandro Manzoni, Poesie e tragedie, a cura di Valter Boggione, cit., p. 232, nota 49. Cfr. anche Valter Boggione, « Ei si nomò ». Napoleone, Adamo e l’Anticristo. Per una lettura biblica del Cinque maggio, cit. 4   Alessandra Di Ricco, Il Cinque Maggio e l’encomiastica napoleonica, cit., p. 102, nota 64.

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  Hugo Blank, Goethe und Manzoni, cit., p. 251 sg.   Cfr. Alessandro Manzoni, Carteggi letterari, i, cit., p. 461. 7   Johann Wolfgang v. Goethe, Sämtliche Werke nach Epochen seines Schaffens, xiii, i, a cura di Karl Richter et alii, Monaco, Hanser, 1992, p. 651 sg. 8   Burkhart Kroeber, Manzonis Napoleon-Ode, cit., p. 277. 9   Gustav Seibt, op. cit., p. 126. 6

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e Lucia vengono guidati attraverso il mondo, 1 la Provvidenza che fa sì che Napoleone possa afferrare a Sant’Elena « una man dal cielo » (v. 88 ; questo motivo di provenienza biblica e agostiniana è tradotto in modo semplicistico con « ewige Hand von oben », v. 88). Il Cinque Maggio, celebrando il giorno in cui das welthistorische Individuum, Napoleone protagonista della storia profana, ritrova la fede, nella prima parte evoca il fato, nella seconda invece, in modo inesplicito, mette in scena la Provvidenza e la carità divina. Naturalmente il poema non può essere semplicisticamente interpretato come abbozzo lirico di una teologia della storia. Non è focalizzato il mondo storico illuminato dalla luce della divina Provvidenza, bensì Napoleone che, come essere umano, subisce una sconfitta esemplare e viene graziato in modo esemplare. Per la seconda parte dell’ode, in cui alla fine Napoleone si converte alla fede attraverso un misterioso consiglio di Dio, ci sarebbe da pensare, sulla linea di un’interpretazione storico-teologica, al forte concetto della Provvidenza di Bossuet – les Oraisons funèbres di quest’ultimo essendo una fonte d’ispirazione dell’ode manzoniana. Però, nell’encomiastica napoleonica dell’epoca si era profilato un forte provvidenzialismo, essendo il genio Napoleone uno strumento della Provvidenza – « tema, quest’ultimo, centrale e delicatissimo dell’encomiastica imperiale ». 2 Manzoni, probabilmente anche per distaccarsi dalla versione laica di questa provvidenza e per evitare il topos dell’encomiastica, non cita letteralmente il concetto della Provvidenza nemmeno nella seconda metà del poema. L’incomparabile gloria terrena di Napoleone viene interrogata e forse messa in dubbio nella prima parte (« Fu vera gloria ? Ai posteri / l’ardua sentenza », v. 31 sg.). « Mit wahrem Ruhm ? – die künft’ge Welt entscheide dies ! » La traduzione di Goethe indebolisce la ferma domanda : « Fu vera gloria ? » e attutisce la difficoltà del giudizio che i posteri dovranno pronunciare. Nella prospettiva di trascendenza religiosa l’eroe Napoleone appare come uomo debole e bisognoso della salvezza, e la sua effimera gloria (v. 43) finirà nel silenzio e nelle tenebre (« dov’è silenzio e tenebre / la gloria che passò », v. 95 sg.). « [Er sieht], wie auf Schweigen und Finsternis, / Auf den Ruhm den er durchdrungen » (v. 95 sg.). 3 La trascendenza della gloria terrena nella seconda parte corrisponde ad una serie di concetti e motivi della prima parte che nella seconda metà vengono ricodificati religiosamente. Goethe ha per lo più reso questi parallelismi e queste inversioni nella sua traduzione (per es. premio / Lohn, gloria / [Ehren]Ruhm ; ma non : orma 4/ Fuß[s]tapfen/Spur). Le ultime strofe celebrano la salvezza dell’eroe mortale dal mondo terreno e dai suoi campi di battaglia e la sua accoglienza nei « campi eterni » (v. 93) per mezzo di una Fede barocco-mitologica. « Bella Immortal ! Benefica / fede ai trionfi avvezza ! / Scrivi ancora questo, allegrati » (vv. 97-99), questi versi richiamano la Pronea del Cesarotti. 5 Goethe ha tradotto : « Schönste, unsterblich wohltätige / Glaubenskraft, immer triumphierend ! / sprich es aus ! erfreue dich / Daß » (vv. 9799). La versione goethiana si allontana molto dal testo di partenza. Sostituisce l’allegoria della Fede scrivente con quella di una Fede annunciante verbalmente la sua vittoria. Hugo Blank nota che Goethe ha « fatto bene » a sostituire la Fede scrivente con una Fede parlante senza però addurre ragioni. 6 La motivazione che Gaspari fornisce per la divergenza sem 























   















































bra difficilmente perseguibile. 7 Il motivo della Fede scrivente i suoi trionfi sotto molteplici aspetti corrisponde alla logica e all’iconografia dell’ode : prima di tutto l’immagine rispecchia Napoleone che non riesce a scrivere le sue mémoires per i posteri (« Oh quante volte ai posteri / narrar sé stesso imprese, / e sull’eterne pagine / cadde la stanca man ! » v. 69 sgg. ; nella versione di Goethe : « Ach ! Wie so oft den Künftigen / Wollt er sich selbst erzählen, / Und kraftlos auf das ewige Blatt / Sank die ermüdete Hand hin » (vv. 69-72). Napoleone scrive nella solitudine dell’esilio di vittorie che divennero sconfitte, egli scrive « sulle eterne pagine » ; il verso 71 viene dettagliatamente commentato dalla filologia italiana per la polivalenza dell’epiteto ; Goethe, scegliendo il singolare (« das ewige Blatt », v. 71), restringe il significato. Napoleone scrivendo le sue memorie fallisce per l’immensità del progetto – la Fede invece, registrando le sue vittorie, trionfa. La Fede scrivendo le sue vittorie forma allo stesso tempo anche un pendant al « cantico / che forse non morrà » (v. 23 sg.) che « il mio genio » (v. 14) 8 intona al fine di portare il defunto all’immortalità (« Die Urne kränzend mit Gesang, / Der wohl nicht sterben möchte » v. 23 sg.). Al canto con cui « il mio genio » vorrebbe affidare l’eroe morto alla memoria dei posteri può « forse » 9 essere destinata la durata. Ciò che l’eroe stesso voleva fosse trasmesso alla posterità non riuscì a metterlo per iscritto. La Fede invece fino alla fine di tutti i tempi farà per iscritto testimonianza della salvezza dell’eroe fallito in terra. L’allegoria della Fede o della Speranza che trascrive (come su marmo) la sua vittoria, corrisponde ad un motivo dell’arte sepolcrale neoclassica. Insomma, la decisione di Goethe di far parlare la Fede anziché farla scrivere sul suo trionfo sembra problematica ; può darsi che abbia voluto aprire una dimensione di oralità, l’io parlante rivolgendosi poi direttamente alla Fede (« Tu », v. 103) : « Und also von müder Asche denn / Entferne jedes widrige Wort » (v. 103 sg.). All’inizio dell’ultima strofa l’io (« il mio genio ») si rivolge direttamente alla Fede che ha anche il compito di proteggere il defunto da discorsi infami e condanne : « Tu dalle stanche ceneri / sperdi ogni ria parola » (v. 103 sg.). Rivolgendosi direttamente alla Fede (« Tu »), è ricordato l’« Ei fu » iniziale. L’appello finale rivolto alla Fede affinché protegga il defunto da calunnie e condanne, riporta alla frase iniziale, alla notizia della morte dell’eroe. Quest’ultima confluisce in una preghiera finale. Ritorniamo ancora una volta alla nona strofa che inizia col verso « Ei si nomò » al quale fa seguito la cesura nel mezzo dell’ode. Abbiamo già apprezzato la versione plausibile presentata da Alessandra di Ricco in cui viene fatto un riferimento in quei versi al colpo di stato di Napoleone del 18 Brumaio. La traduzione goethiana dei versi seguenti a quell’« Ei si nomò » (« due secoli / l’un contro l’altro armato, / sommessi a lui si volsero, / come aspettando il fato ; / ei fè silenzio, ed arbitro / s’assise in mezzo a lor », vv. 49-54) 10 è considerata problematica : « Er trat hervor : gespaltne Welt / Bewaffnet gegen einander, / Ergeben wandte sich zu ihm / Als lauschten sie dem Schicksal ; / Gebietend Schweigen, Schiedesmann / Setzt’ er sich mitten inne » (vv. 49-54). L’evidente infrazione delle regole della sintassi (« gespaltne Welt … wandte sich … Als  



   



  Cfr. Luciano Parisi, Il tema della Provvidenza, in Idem, op. cit., pp. 91-116.   Alessandra Di Ricco, Il Cinque Maggio e l’encomiastica napoleonica, cit., p. 95. 3   Qui la traduzione di Goethe non è corretta – non avendo Napoleone attraversato la gloria, ma essendo la gloria stessa passata. 4   Questo motivo era frequente nella poesia panegirica napoleonica, cfr. 4   Ivi, p. 113. Di Ricco, p. 110 sg. 6   Hugo Blank, Goethe und Manzoni, cit., p. 259. 2































































































7

  Gianmarco Gaspari, Goethe traduttore di Manzoni, cit., p. 242.   Goethe traduce « il mio genio » impersonalmente con « die Muse », una decisione traduttiva discutibile e più volte commentata criticamente nella ricerca. 9   Per Manzoni, autore estremamente autocritico, il « forse » è caratteristico e si riferisce qui al suo scetticismo a proposito della propria capacità artistica. Egli l’ha fatto rilevare espressamente nei confronti del traduttore Mohnike che, per cortesia, così pensava Manzoni, l’aveva saltato nella sua traduzione. 10   La ricerca ci riporta ad una fonte nell’ Athalie di Racine : Dio come arbitre des combats. 8

1

















der fünfte mai . goethe traduttore del cinque maggio manzoniano lauschten sie ») è stata criticata spesso. L’insolita parola « Schiedesmann » – una scelta lessicale risalente alle necessità prosodiche – sembra debba corrispondere al « Schreckensmann » dell’ottavo verso ; la parola « Schicksal » (destino) del precedente verso 52 forma il trait d’union. Del resto, abbastanza problematica appare la traduzione di « secoli » (Jahrhunderte) con « gespaltne Welt ». Goethe preferisce l’espressione « die gespaltne Welt » ai « due secoli » e infrange le regole sintattiche. Questa scelta lessicale non parendo molto chiara, non può invece essere definitivamente rifiutata a causa della complessa semantica religiosa insita nel concetto di saeculum. Napoleone presiede qui al giudizio universale, imponendo il silenzio alle parti in lotta. In un certo senso, è un’anticipazione dei versi dell’ultima strofa in cui la Fede impone il silenzio alle dicerie. Napoleone come giudice tra le epoche e come giudice del mondo – incarnazione dell’hybris - prefigura il giudizio universale. A questa immagine del sovrano del mondo che presiede il giudizio universale e quella dell’eroe guerriero percorrente il mondo segue, nella seconda parte del poema, l’icona di quello che, alla fine della giornata e alla fine del mondo, se ne sta assorto in meditazione : come una immagine di devozione e preghiera, che va in un certo senso a sovrapporsi ai famosi ritratti di Napoleone Imperatore : « chinati i rai fulminei / le braccia al sen conserte, /stette » (v. 75 sg.) « Gesenkt den blitzenden Augenstrahl, / Die Arme übergefaltet, / stand er » (v. 75 sg.) Nel 1828 Goethe ha messo in scena Napoleone – l’arrogante giudice universale che la Fede manzoniana aveva alla fine salvato dal peccato – davanti al giudizio universale in un modo molto burlesco. Qui non è la Fede a presentare la lista delle sue vittorie, ornata col nome finale di Napoleone. È Satana che presenta il registro dei peccati di quest’ultimo :  













































Am Jüngsten Gericht vor Gottes Thron / Stand endlich Held Napoleon. / Der Teufel hielt ein großes Register / Gegen denselben und seine Geschwister ; / War ein wundersam verruchtes Wesen : / Satan fing an, es abzulesen. 1  



E Goethe continua in un modo tanto blasfemo che anche dopo un quarto di secolo dalla morte del poeta con la pura e semplice pubblicazione del testo si rischiava un’accusa per bestemmia contro Dio – così ha commentato Gustav Seibt questo brano bizzarro. iv. « Das neuere Gedicht ist völlig in seiner individuellen Art, er bleibt sich durchaus ganz gleich, und vortrefflich », così scrive Goethe il 13 gennaio 1822 a Carl August « unter dem ersten Eindruck von Manzonis Gedicht » (« sotto il primo influsso della poesia di Manzoni [Il Cinque Maggio] » : « La nuova poesia corrisponde perfettamente alla sua maniera individuale, egli rimane completamente lo stesso, rimane eccellente »). 2 L’ode del Manzoni è un testo di straordinaria complessità, è ode civile e allo stesso tempo cantico religioso, radicato nella tradizione epica dell’Italia, compreso il meraviglioso ; si nutre di reminiscenze bibliche e patristiche e della retorica religiosa del Seicento francese ; è una ricodificazione cattolica dell’epopea napoleonica contemporanea con toni dell’antico e del neoclassicismo. È un palinsesto, un testo sfaccettato il cui « difetto di perspicuità » è stato notato da Manzoni stesso in una svolta autocritica già alcuni mesi dopo la stesura dell’ode. 3  

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La traduzione di Goethe rispecchia il principio di massima fedeltà all’orginale al di là delle particolarità nazionali, un ideale che aveva postulato nel suo commento al West-östlicher Divan datato 1819 dove distingue tre epoche e tre tipi di traduzioni. La « Uebersetzung der dritten Art »/« Uebersetzung der dritten Epoche » è quella « wo man die Uebersetzung dem Original identisch machen möchte » (« la traduzione della terza epoca […], dove si vorrebbe rendere la traduzione identica all’originale »). 4 Goethe traduttore del Cinque Maggio, nel riprendere il genere dell’ode, rinuncia però alla rima. La sua trascrizione in tedesco della forma metrica, 5 del ritmo e della sintassi dell’originale manzoniano è sembrata abbastanza ben riuscita ad alcuni critici. Con libero ritmo e in modo proprio ‘sperimentale’ (secondo Horst Rüdiger e Karl Maurer), Goethe imita l’asperità dell’ode manzoniana. Da un altro punto di vista, la sua traduzione, nella sua ruvidezza, si avvicina ad un’ideale estetico postulato da Schleiermacher nella sua teoria della traduzione. 6 Goethe è pronto a cimentarsi con l’intraducibile, esponendo la sua traduzione al rischio di essere incomprensibile. Il traduttore della « terza epoca » cerca di avvicinarsi il più possibile al testo di partenza, aspirando all’identificazione della sua traduzione con il testo di partenza. Una tale traduzione tende alla versione interlineare come ha spiegato Goethe nel 1819 :  





















Warum wir aber die dritte Epoche auch zugleich die letzte genannt, erklären wir noch mit Wenigem. Eine Uebersetzung die sich mit dem Original zu identificiren strebt nähert sich zuletzt der Interlinear-Version und erleichtert höchlich das Verständniß des Originals, hiedurch werden wir an den Grundtext hinangeführt, ja getrieben und so ist denn zuletzt der ganze Zirkel abgeschlossen, in welchem sich die Annäherung des Fremden und Einheimischen, des Bekannten und Unbekannten bewegt. 7

Goethe traduttore fedele ha cercato scrupolosamente fra le righe della poesia manzoniana ciò che gli era caro nel Manzoni : 8 il senso della storia e il senso cattolico, approfondito qui fino alla fede nei miracoli e alla pietà iconografica. Nel caso che l’enfasi dell’elevazione religiosa dell’eroe nel finale sia sembrata quasi inaccessibile a Goethe, la versione interlineare poteva apparire al traduttore come una scala verso il cielo.  

























1

  Cit. da Gustav Seibt, op. cit., p. 232 sg.   Johann Wolfgang v. Goethe, Werke, Frankfurter Ausgabe, i, 12, cit., p. 1163. 3   Alessandro Manzoni, Lettera a Pagani del 16 ottobre 1821, cit. da Hugo Blank, Manzonis Napoleon-Ode, cit., p. 77, nota 9. 2

4   Johann Wolfgang v. Goethe, Werke, Frankfurter Ausgabe i/ 3, 1, cit., p. 281, linee 17-20. Per il rapporto tra questo tipo di traduzione e la traduzione goethiana del Cinque Maggio, cfr. Horst Rüdiger, Ein Versuch im Dienste der Weltliteratur-Idee. Goethes Übersetzung von Manzonis Ode Il Cinque Maggio, cit., pp. 28-30. 5   Goethe ha domandato a Streckfuß una traduzione più fedele alla metrica dell’originale. 6   Friedrich Schleiermacher, Über die verschiedenen Methoden des Übersetzens, disponibile online : http ://users.unimi.it/dililefi/costazza/programmi/2006-07/Schleiermacher.pdf, p. 42. 7   Johann Wolfgang v. Goethe, Werke, Frankfurter Ausgabe, i/3, 1, cit., p. 283, linee 6-15. « Vogliamo infine spiegare brevemente perché abbiamo definito ultima la terza fase. Una traduzione che tenda a identificarsi con l’originale finisce per avvicinarsi alla versione interlineare e facilita molto la comprensione dell’originale ; veniamo dunque condotti, anzi sospinti verso il testo originale, e così da ultimo si chiude il cerchio in cui si compie l’accostamento di estraneo e familiare, di noto e ignoto », Johann Wolfgang v. Goethe, Traduzioni, in Idem, Tutte le poesie, iii, cit., p. 541. 8   Cfr. le sue conversazioni con Eckermann del 21 luglio 1827, in Johann Wolfgang v. Goethe, Werke, Frankfurter Ausgabe, ii, 12, 39, cit., Johann Peter Eckermann, Gespräche mit Goethe in den letzten Jahren seines Lebens, a cura di Christoph Michel, Hans Grüters, Francoforte, Deutscher Klassiker Verlag, 1999, p. 259 sg.  









PER L’EDIZIONE CRITICA DEL SAGGIO DI VINCENZO MONTI SUL CONVIVIO DI DANTE (A MARGINE DI UN POSTILLATO SMARRITO) Angelo Colombo

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a storia del Saggio dei molti e gravi errori trascorsi in tutte le edizioni del Convito di Dante, un’operetta del 1823 formalmente anonima e composita, benché rivendicata con energia alla propria responsabilità di autore da un Monti ormai anziano e declinante, si snoda attraverso il lungo preambolo della lettura e della postillazione di esemplari settecenteschi della « prima prosa severa che vanti la lingua illustre italiana », 1 compiute in special modo dal marchese Gian Giacomo Trivulzio grazie alle opportunità assicurate da una biblioteca di famiglia dalle proporzioni e dalla consistenza eccezionali. 2 Una traccia della lunga riflessione sul testo del Convivio custodiscono tre lettere del 1819 spedite dal Trivulzio a Daniele Francesconi, membro di rilievo della Società della Minerva, a Padova ; nella prima di esse, il marchese ringraziava il corrispondente « dell’offerta » di comunicare i « confronti de’ codici marciani per l’opera del Convivio » e nella seconda ribadiva quanto gli premesse di ricevere fra breve un simile materiale di collazione (« Le raccomando il Convivio [...] ; e non avrò pace se non vedo le varianti di quel codice della Marciana »), 3 mentre nella terza lo scambio dialogico appare più esplicito e circostanziato : « Anche quelle note mi saranno molto utili, avendo già corretto a forza di riflessioni, studi e pene la lezione del Convivio in ben più di 300 luoghi. Non vi è opera che più di quella sia stata trasfigurata da copisti e stampatori ». 4 Il risultato della correzione, come si vede, è affatto cospicuo, frutto di una massiccia campagna di ricerche e di uno sforzo analitico che può ancora sorprendere. L’emendazione testuale del Convivio non era tuttavia il solo cimento in corso, in quel giro di mesi, poiché fin dall’anno prima il Trivulzio aveva avvertito lo stesso Francesconi che stava sottoponendo ad accurata revisione il De vulgari eloquentia, approfittando del rarissimo testimone manoscritto in suo possesso (che con orgoglio il marchese arrivava a definire « unico ») : 5  































Ho quasi tutto letto il trattato del volgare eloquio confrontando il testo stampato col mio unico Codice, ed ho trovato alcune varianti di lezione, nate dall’avere l’editore Corbinelli voluto accomodare il testo a suo modo, non intendendolo ; molti sono i luoghi ove il Trissino ha malamente tradotto per difetto d’intelligenza (e ciò sia detto con la debita riverenza a quel grand’uomo) ; ma la perfetta critica non era la loda che si cercava in quel secolo, e il Trissino forse non avea mai letto il Convito, ove Dante spiega spesso la medesima dottrina che sparse nel trattato del volgare eloquio. 6  



1   Vincenzo Monti, Saggio diviso in quattro parti dei molti e gravi errori trascorsi in tutte le edizioni del Convito di Dante, Milano, Società tipografica dei Classici italiani, 1823, p. v (d’ora in poi Monti, Saggio). 2   Per un profilo culturale del Trivulzio cfr. Angelo Colombo, « I lunghi affanni ed il perduto regno ». Cultura letteraria, filologia e politica nella Milano della Restaurazione, Besançon, Presses universitaires de Franche-Comté, 2007 (« Annales littéraires de l’Université de Franche-Comté », 817), pp. 143-214. 3   Milano, Biblioteca Trivulziana (BTMi), ms. Triv. 2044, 5 e 6 (G. G. Trivulzio a D. Francesconi, 23 marzo e 7 luglio 1819). 4   BTMi, ms. Triv. 2044, 7 (G. G. Trivulzio a D. Francesconi, 20 aprile 1819). 5   BTMi, ms. Triv. 1088 ; sui testimoni del De vulgari eloquentia cfr. almeno Gianfranco Folena, La tradizione delle opere di Dante Alighieri, in Atti del Congresso internazionale di studi danteschi (Firenze-Verona-Ravenna, 20-27 aprile 1965), i, Firenze, Sansoni, 1965-1966 (« Comitato nazionale per le celebrazioni del vii centenario della nascita di Dante », 2), pp. 26-29. 6   BTMi, ms. Triv. 2044, 4 (G. G. Trivulzio a D. Francesconi, 22 ottobre 1818). Si pongono in corsivo, qui e in seguito, i lemmi sottolineati.  













Vale avvertire che della corbinelliana il Trivulzio e il Monti si servirono concordemente nel Saggio per rettificare un luogo dubbio del Convivio, 7 mentre un esemplare trivulziano del De vulgari eloquentia secondo l’edizione-traduzione dovuta al Trissino appare occasionalmente postillato da mano che ci è parsa, nonostante alcuni dubbi, quella del Monti, ma che più di recente si crede di identificare – senza altra prova che non sia di natura grafica – con la mano di Giovanni Antonio Maggi. 8 È ugualmente opportuno osservare che le testimonianze date al Francesconi coincidono con quanto poco dopo lo stesso Trivulzio afferma carteggiando con un altro membro di rilievo della Minerva, Fortunato Federici, al quale nella primavera del 1823 egli confida di « lavorare già da più anni » attorno al testo del Convivio e della Vita nuova. 9 In quel medesimo esercizio di lunga lena che portò il Trivulzio a operare con successo, in privato, sul testo del Convivio, presumibilmente nel quadriennio seguito alla scomparsa (dicembre 1815) del pittore bustese Giuseppe Bossi (dalla cui libreria il Trivulzio prelevò con tempestività i materiali danteschi), si inserì, da posizione inizialmente distinta, il Monti, a propria volta mediante una fitta sequenza di emendamenti e di riflessioni sul testo della quale riusciamo solo in parte, al livello odierno delle indagini, a stabilire i confini esatti. Gioverebbe dunque riandare ai primordi del Saggio e alla biforcazione autoriale che ne separa le radici, per ritrovarne i moventi e i caratteri originali : le testimonianze – in realtà, non abbondantissime – permettono infatti di leggerne la gestazione distinta con una certa precisione e di meglio apprezzare, in questo modo, le convergenze da cui, successivamente, scaturì il risultato editoriale che è fra le nostre mani e che circolò fra le mani di molti (comprese quelle dei detrattori più tempestivi, come il famigerato Farinello Semoli) subito dopo la sua comparsa. Per limiti giustificati, circoscriviamo invece il nostro intervento a qualche nota che riguarda il contributo offerto dalle indagini preliminari del Monti, destinate a confluire poco dopo, una volta riunite con i frutti delle ricerche effettuate dal Trivulzio, nel Saggio del 1823. La testimonianza di Mario Pieri, secondo cui nel 1821 il Monti era intento a postillare Dante, 10 potrebbe indurre a datare grosso modo tra la fine degli anni Dieci e gli inizi dei Venti l’esordio degli interventi sul testo del poema : « Le poche mie osservazioni sulla Divina Commedia sono tutte senz’ordine, o  









7   Monti, Saggio, p. 5 ; vedi Dantis Aligerii praecellentiss. poetae De vulgari eloquentia libri duo, nunc primum ad vetusti et unici scripti Codicis exemplar editi. Ex libris Corbinelli : eiusdemque adnotationibus illustrati, Parisiis, Apud Io. Corbon, 1577, L’Annotationi, p. 29 : « peroché per questo Comento la grandeza del Vulgare di sì si vedrà, et la sua virtù, si come per esso altissimi, et novissimi concetti convenevolmente, sufficientemente, et acconciamente, quasi come per essi latini manifestati nelle cose rimate per le accidentali adorneze ». 8   BTMi, Triv. Dante 97/4 : Dante Alighieri, Delle Opere, ii, Venezia, Pasquali, 1741 ; cfr. Angelo Colombo, La philologie dantesque à Milan et la naissance du Convito. Culture et civilisation d’une ville italienne entre l’expérience napoléonienne et l’âge de la Restauration, i, Lille, Presses universitaires du Septentrion, 2000, pp. 388-399. 9   Milano, Archivio Storico Civico (ASCMi), Acquisti e doni, cart. 32, fasc. x, 8 (G. G. Trivulzio a F. Federici, 26 aprile 1823). 10   Della vita di Mario Pieri corcirese scritta da lui medesimo, i, Firenze, Le Monnier, 1850, pp. 467 e 471.  













per l ’ edizione critica del saggio di vincenzo monti sul convivio di dante 137 disperse sul margine del mio Dante, che è quello del Lomparenza dal Maggi, che nel suo esemplare aveva provveduto a bardi », confessava del resto il Monti al Federici nel giugno inserire una testimonianza in merito : del 1819, in un momento in cui egli era premuto da altre urLe postille marginali al Convito sono autografe del Cav. Vincenzo genze, fra le quali la difesa della Proposta dagli attacchi proveMonti, il quale intraprese sopra questo mio esemplare i suoi studi nienti dall’ambiente fiorentino della Crusca, inopinatamente per la emendazione di quest’opera, e dopo averle fatte trascrivere amplificati, a Milano, dall’ospitalità concessa loro nella « Bisopra un altro che di poi erasi procurato dell’edizione di Antonio blioteca italiana » animata da Giuseppe Acerbi. 1 La riflessioZatta, me lo restituì nel giorno 7 di Gennaio dell’anno 1823. Alcune postille di diverso carattere sono mie ed è facile distinguerle. 7 ne dantesca si sarebbe così prodotta, a quanto insegnano le date, non soltanto in sintonia almeno parziale con l’analogo Avvertiamo, per iniziare, che del postillato apografo del Conesercizio del Trivulzio, ma anche in relazione immediata di vivio veneziano del 1760 (Zatta), cui si fa allusione, non è ficontiguità, fisica e mentale, con l’impegno della Proposta di nora riemersa traccia. Di maggiore rilievo è invece l’asserto alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca : anzi, secondo cui il Monti avrebbe cominciato proprio da quelle come annesso virtuale e precisazione del lavoro maggiore annotazioni il suo lavoro di revisione dell’opera dantesca, del quale si davano in quei momenti alla luce i primi tomi. che daterebbe, di conseguenza, al 1822 (ante quem essendoCerto è invece che nell’inverno del 1822 il Monti e il Trivulzio ne il gennaio dell’anno successivo), sicché l’applicazione del lavoravano ormai di comune accordo attorno al prosimetro poeta al Convivio sarebbe tardiva e di vari anni sfasata rispetto dantesco, quando Salvatore Betti avvertì il Monti, nel novemagli interventi del Trivulzio. La dichiarazione del Maggi non bre, di avere reperito « un altro bel codice del Convivio » presso merita tuttavia di essere considerata pienamente credibile, sia la biblioteca « Barberina » e venti giorni più tardi confermava perché egli mostra di tendere, anche in altre circostanze, alla al poeta che si sarebbe consacrato ben presto « all’emendaziodistorsione dei dati (conferendo ad esempio un ruolo primane del Convivio sul codice Barberiniano », assicurando inoltre : rio a se stesso – come responsabile e come testimone – negli « Di che state pure sicuri e voi e il Trivulzio : ch’io non farò studi che portarono alla stampa del Convito milanese, mentre i 2 nulla senza che voi non ne abbiate la vostra gran parte ». Il documenti in nostro possesso dimostrano tutt’altro), sia per il Monti rispose a sua volta in questi termini al Betti, dopo averfatto che, come abbiamo già appreso dalla lettera del poeta a gli annunciato che avrebbe ricevuto in seguito « un saggio dei Salvatore Betti (dell’inverno 1822), da qualche tempo il Monti grandi abbagli presi dagli Accademici [della Crusca] nelle ale il Trivulzio studiavano e correggevano insieme il Convivio ; legazioni del Convito, e degl’infiniti incredibili errori trascorsi questa fase comune di lavoro, a sua volta, teneva dietro a un sì nelle stampe, come ne’ testi a penna » : « Siamo impazienti, periodo nel quale i due futuri collaboratori avevano postillato il Trivulzio ed io, d’intendere se il codice Barberino vi rieil testo del prosimetro di Dante in forma separata : tra il 1820sca men reo di tutti gli altri fin qui conosciuti, cioè sette in 1821 (il Trivulzio, anzi, già qualche anno avanti, come abbiaFirenze e due in Venezia, tutti orribilmente contaminati dei mo documentato sulla base di una dichiarazione trasmessa al medesimi falli, e tutti, a quel che si vede, provenienti da un Francesconi nella primavera del 1819) e i primi mesi del 1822, 3 solo ». A una simile richiesta fa da suggello il ringraziamento di conseguenza. corrisposto al Betti nella prefazione del Convito milanese del Accanto a ciò, l’analisi delle postille montiane giunte fino 1826, dove sono « appalesati gli obblighi [...] grandissimi al sia noi suscita un altro dubbio evidente : se almeno dal dicemgnor Salvatore Betti, letterato d’illustre fama » e discepolo del bre del 1822 il Monti procedeva ormai da qualche tempo nello 4 compianto Perticari. studio del Convivio in compagnia dell’amico Trivulzio, a quale In assenza, almeno per ora, di postillati paragonabili a quelscopo il poeta avrebbe dovuto duplicare nell’esemplare del li del Trivulzio e che ci permettano di risalire a monte della Maggi, alla fine del 1822 e quando già annunciava al Betti l’intestimonianza epistolare appena rievocata, è necessario previo di un « saggio dei grandi abbagli presi dagli Accademici sumere tuttavia che lo studio del Convivio sia stato condotto nelle allegazioni del Convito », il medesimo plesso di annotasecondo i medesimi criteri della revisione e dell’interpretazioni che egli trovava nei due esemplari postillati dal marchezione letterale del testo (ope ingenii) anche dall’ormai anziase, specialmente in quello, nitidissimo e ordinato, del 1741 ? 8 La no poeta romagnolo. L’ipotesi è del resto suffragata da una risposta non appare così agevole, poiché la somiglianza evitestimonianza esplicita alla quale è il caso di concedere qualdente o, persino, la coincidenza perfetta di larga parte degli che considerazione. Sappiamo infatti – da Giuliano Mambelli emendamenti montiani superstiti con quelli del Trivulzio in– che il Monti postillò a sua volta un esemplare del Convivio durrebbe a sciogliere il dilemma rovesciando le funzioni degli veneziano del 1741 (Pasquali), « conservato nella biblioteca del attori impegnati nella partita : il marchese copiò nel proprio 5 Maggi » e oggi irreperibile, a conoscenza di chi scrive. Una esemplare del Convivio, alla fine, gran parte delle annotazioni parte di quelle postille è tuttavia giunta fino a noi, abbastanza che il Monti aveva deposto in quello del Maggi, proseguendo fortunosamente, per tradizione indiretta, poiché esse furono autonomamente il lavoro. Una soluzione del genere urta, tutviste e copiate, prima dello smarrimento dell’esemplare che tavia, contro tre difficoltà insormontabili : a quanto rivela la le ospitava, da uno studioso occasionale, che ne pubblicò un testimonianza del Maggi, infatti, le postille montiane furono primo blocco (corrispondente alle pp. 1-102), differendo le recopiate dall’esemplare del 1741 di sua proprietà in un esemplastanti a un secondo intervento a stampa rimasto invece allo re del 1760, mentre constatiamo che il postillato più completo, 6 stadio di progetto. La datazione delle postille è fornita in apoltre che più simile al postillato del Monti, è proprio quello che nella biblioteca del Trivulzio reca la data del 1741. Il secondo ostacolo è invece posto dalla lettera del Trivulzio al Fran1   Vincenzo Monti, Epistolario, v, raccolto ordinato e annotato da Alfoncesconi ricordata poc’anzi, del 1819, nella quale il marchese so Bertoldi, Firenze, Le Monnier, 1928-1931, p. 191, n. 2217 (V. Monti a F. Federici, 16 giugno 1819). dichiara di avere corretto ormai il testo di Dante in « ben più di 2   Ivi, p. 463, n. 2521 (S. Betti a V. Monti, 20 novembre 1822) ; p. 470, n. 2529 300 luoghi ». Il terzo e definitivo elemento discordante risiede (S. Betti a V. Monti, 10 dicembre 1822). nelle parole della già ricordata lettera del Trivulzio al Federi3   Ivi, p. 473, n. 2531 (V. Monti a S. Betti, 28 dicembre 1822). 4 ci, sotto la data dell’aprile 1823, dove il marchese asserisce di   Dante Alighieri, Convito ridotto a lezione migliore, Milano, Pogliani,  



































































1826, p. xxxix (d’ora in poi Dante, Convito). 5   Giuliano Mambelli, Gli annali delle edizioni dantesche, Bologna, Zanichelli, 1931, scheda n. 810. 6   Angelo Maria Pizzagalli, Vincenzo Monti e il Convito di Dante, in Annuario del R. Liceo-Ginnasio ‘Giovanni Berchet’ di Milano, anno 1926-1927, Milano, Arti grafiche V. Campanile, 1928, pp. 19-46.



7

  Ivi, p. 23.   BTMi, Triv. Dante 97/3 : Dante Alighieri, Delle Opere, i, Venezia, Pasquali, 1741 ; cfr. Angelo Colombo, La philologie dantesque à Milan et la naissance du Convito, i, cit., pp. 327-337. 8





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avere comunicato al Monti i risultati delle proprie indagini sul Convivio e di non disporne più. Produciamo uno stralcio di questa lettera, poiché esso offre altri elementi relativi al problema della datazione :  

quest’ultimo [il Convito] principalmente comparirà opera affatto nuova, tanto le antiche edizioni son piene zeppe d’errori, per cui era divenuto un libro affatto ostico, e inintelligibile, come fra poco ella vedrà per un Saggio che ne pubblica il Cav. Monti. Ma questo Convito, questa Vita nuova tratta da un mio Codice, queste Rime furono da me di buona voglia cedute al Cav. Monti, il quale aggiungendovi le sue dottissime osservazioni, quelle trovate nel MS. del Perticari, ed alcune postille scritte di mano di Torquato Tasso ad un’edizione del Convito spera poter trarre molto profitto dalla nuova ediz.e di quell’opera. 1

Il Monti aggiunse a quelle del Trivulzio – che dunque le precedettero – le proprie « dottissime osservazioni », le quali sono, con buona verosimiglianza, quelle contenute nelle postille fatte copiare dal Convivio del Maggi, naturalmente sfoltendole in ragione delle numerose coincidenze presenti fra le sue e quelle dell’amico marchese. Secondo la ricostruzione cronologica che a nostro giudizio appare più credibile, perciò, la cessione al Monti degli studi sul Convivio, oltre che sulla Vita nuova e sulle Rime, dovette avvenire l’anno precedente (1822), dal momento che nella lettera al Federici dell’aprile 1823 ne viene scritto in termini di circostanza ormai passata : è probabile che il Trivulzio abbia semplicemente trasmesso al Monti i postillati del Convivio di sua proprietà (almeno i due conosciuti),2 che il poeta trattenne presso di sé, tanto che nell’aprile del 1823 il Trivulzio dichiarava al Federici di non esserne più in possesso. Se questo è vero, la postillazione montiana deve a sua volta risalire a una fase anteriore alla collaborazione con il Trivulzio attestata qualche giorno prima della fine del 1822, al Betti, come fatto consolidato : significa che essa andrà datata ben a monte di quel momento, probabilmente al periodo 1820-1821, come abbiamo ipotizzato in precedenza, quando il  







poeta, tra gli oneri della Proposta e le angustie congiunte della salute e dello stato economico incerto, postillò l’esemplare del Maggi (del 1741) e fece copiare in un diverso esemplare (del 1760) le proprie annotazioni sul testo del Convivio ; infine, la ricollocazione dell’esemplare del Convivio nella biblioteca del Maggi (7 gennaio 1823), qualora non fosse l’esito di un mero lapsus memoriae, segnala tuttavia non la fine del lavoro individuale fornito dal Monti, ma soltanto una restituzione tardiva del volume fra le mani di chi gliel’aveva prestato ; in data imprecisabile tornarono anche nella biblioteca del Trivulzio i postillati del Convivio di sua proprietà. In questa maniera, oltre a recuperare una coerenza di massima fra i dati testimoniali, è giustificato avvicinare nella scalarità cronologica le postille del Monti a quelle del Trivulzio, ponendo – come finalmente ci pare plausibile – le prime a ridosso delle seconde. Un elemento indiziario che corrobora la nostra ipotesi è del resto fornito da una dichiarazione esplicita, sulla base della quale sembra legittimo ritenere che il Monti si sia accostato al Convivio, all’inizio, spinto dalla necessità di consolidare tramite esso alcune dichiarazioni presenti nel De vulgari eloquentia, nei momenti in cui reazioni contrastanti e a tratti aspre accompagnavano la diffusione delle teorie linguistiche del Perticari, come accadde nel 1818 ; proprio di quell’anno è una lettera del Monti al genero, nella quale il poeta, risentito per gli « abbaiamenti » della « Biblioteca puttana » contro la Proposta, avverte per la prima volta che « le dottrine sviluppate nella Volgare Eloquenza erano già state da lui [Dante] gittate e fondate nell’opera del Convito ». 3 Una sinossi parziale delle annotazioni montiane (M) e di quelle del secondo postillato del Trivulzio (T, esemplare del Convivio nell’edizione del 1741) rivela la loro sostanziale congruità, sia nei luoghi che sono bersaglio dell’intervento di correzione, sia nel genere di scioglimento correttorio che viene avanzato. Offriamo una tabella riepilogativa che riguarda le prime otto pagine del Convivio veneziano del 1741 (primo trattato, capitolo i) : 4  



















B Siccome dice il Filosofo prima Filosofia

T M Trattato primo. Cap. 1. Trattato i, cap. i V. pag. 87. ove la Metaf. è chiamata prima prima filosofia : cioè Metafisica. Vedi p. 87 ove scienza torna a chiamarla col nome di prima Scienza

puote essere sie, che Veramente da questa nobilissima è impedito l’uno Le due di queste cagioni, cioè la prima dalla parte di fuori, non sono da vituperare

p. sia o sia p. così p. tuttavia, è il veruntamen de’ lat. di f. impedimento f. Le due prime f. cioè la prima della parte di dentro e la prima della parte di fuori cibo da tutti p. cibo comune in signif.o di perciocché dalla loro mensa C.T. di quello C.T. orecchi C.T.



sia di questa nobilissima o impedimenti Le due prime di queste cagioni, cioè la prima della parte di dentro, e la prima della parte di fuori da esso non sono Nota : cibo da tutti, per dire : cibo comune perciocché

cibo da tutti acciocché da loro cade per la dolcezza, che io sento in quello, che la quale agli occhi loro ho loro mostrato mostrato, lo quale da loro non potrebbe essere mangia- da loro non potrebbe essere mangiata a queta : 5 e a questo Convito, di quello pane degno, sto Convito ; di quello pane degno a cotale cotal vivanda qual’io intendo vivanda, qual’io intendo  







1   ASCMi, Acquisti e doni, cart. 32, fasc. x, 8 (G. G. Trivulzio a F. Federici, 26 aprile 1823). 2   Il precedente (supra, nota 8, p. 137) e un secondo, conservato anch’esso in BTMi, Triv. Dante 83 : Dante Alighieri, Prose e rime liriche, v, parte i, Venezia, Zatta, 1760 ; cfr. Angelo Colombo, La philologie dantesque à Milan et la naissance du Convito, i, cit., pp. 320-327. 3   Vincenzo Monti, Epistolario, v, cit., p. 118, n. 2141 (V. Monti a G. Perticari, fine settembre 1818). 4   Indichiamo con B la vulgata di Anton Maria Biscioni (Prose di Dante Alighieri e di messer Gio. Boccacci, Firenze, Tartini e Franchi, 1723, da dove il Convivio è riprodotto identico nelle edizioni veneziane, già citate, del 1741 e del 1760, utilizzate dal Trivulzio e dal Monti), con T la postilla del Trivulzio nel suo esemplare (o l’esito della correzione, quando si tratti di semplice  



intervento sulla punteggiatura), con M la postilla del Monti edita dal Pizzagalli. I lemmi posti in corsivo appaiono sottolineati (linea continua, eventualmente ripassata in colore rosso, oppure a tratteggio) o biffati (testo o postilla), mentre sono naturalmente già in corsivo in M ; nella colonna T, le abbreviazioni « f. », « p. » e « p.e. » significano rispettivamente « forse », « per » e « prima edizione » (l’incunabolo del Convivio di Dante Alighieri fiorentino, in Firenze, per Francesco Bonaccorsi, 1490 : BTMi, Triv. Dante Inc. 18) ; la sigla « C.T. » indica il testimone manoscritto del Convivio di cui il Trivulzio disponeva nella propria biblioteca. Si correggono tacitamente refusi o imprecisioni presenti nell’edizione di M. 5   Nel margine destro della stessa pagina compare anche la postilla «f. che», in seguito biffata, di collocazione non chiara.  

































per l ’ edizione critica del saggio di vincenzo monti sul convivio di dante B indarno essere ministrata disposto ; perocché né denti, né lingua ae, né palato ; né alcuno assettatore di vizj sicché mia vivanda la farò loro, e gustare, e patire intendo mostrare : che se il Convito non fosse tanto splendido, quanto conviene alla sua grida ; che, non al mio volere, ma alla mia facultate imputino ogni difetto  







Nel cominciamento rusticamente stanno a fare di sé perché per sé è da lasciare di parlare e laido, nella punta delle parole Che parole sono fatte una cagione igualmente improperio del falso veramente al principale lo parlare di sé è conceduto di sé medesimo parlare sotto protesto di consolazione lo quale fu di buono in buono asemplo per sì vero testimonio desiderio, di dottrina dare

T M f. sarà o sarebbe sarebbe : oppure potrebbe essere (perocché né denti, né lingua ae, né palato) (perocché né denti, né lingua ae, né palato) alalcuno assettatore di vizj cuno assettatore di vizj mai C.T. p. digerire intendo mostrare. Su questi due che è da vedersi la nota dell’Ab. Colombo ad un passo del Decamerone, g. 2, n. 8. pag. 222 ed. Parm., dove incontrai bell’esempio del medesimo pleonasmo, e giova qui l’avvertirlo, perché nel Convito è frequente Cap. 2. 2. Nel cominciamento a fare parola di sé stanno a fare parola di sé a fare di sé per a trattare di sé o a parlare di sé in signif.o di per lo che f. loda (canc.) è loda Che le (canc.) Che le parole ugualmente p.e. f. fallo qui pure per tuttavia essere conceduto a parlare p.e. pretesto pretesto malo lo quale fu di malo in buono esemplo p.e. f. più vero per più vero desiderio di dottrina dare  

Rari – come osserviamo per inciso – ma non per questo trascurabili appaiono gli emendamenti ope codicum, assenti sul versante montiano e sorretti dalla collazione della vulgata con il testimone manoscritto del Convivio di cui il Trivulzio era fornito in quel momento (avrebbe acquistato un secondo testimone, avvalendosene di fatto in misura limitata, quando l’edizione del 1826 era ormai pervenuta a uno stadio molto avanzato, come egli asserisce in una lettera indirizzata al Betti). 1 Il rapporto fra il testo del Biscioni, le postille del Trivulzio e quelle del Monti è, invece, più complesso di ciò che un quadro sinottico possa davvero significare, poiché in alcune occorrenze l’emendamento si carica di un effetto dinamico di maggiore intensità, quando l’intuito dei correttori e le rispettive mani si succedono o si sovrappongono attorno al medesimo passo dando vita a una discussione virtuale. Ci limitiamo al caso emblematico della diffrazione emendatoria offerta dal capitolo iii, primo trattato, dove il Biscioni aveva letto « perché la stima oltre la verità si sappia » : in un primo momento, il Trivulzio sottolinea il lemma « sappia » e inserisce, nel margine destro della pagina, la variante sostitutiva « f. si amplia », che collima intuitivamente con la postilla di mano montiana, benché non chiarissima, « oltre la verità si ampia » ; 2 infine, il Trivulzio torna sui propri passi e con maggiore sicurezza annota nell’interlinea, sopra il lemma che intende sostituire, la voce « sciampia », che è la lezione consolidata in seguito tanto nel Saggio, quanto nel Convito. 3 La seconda correzione  

















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addotta dal Trivulzio è senz’altro databile alla tarda estate o all’autunno del 1819, poiché una nota del Convito milanese dimostra che la variante proviene dal « Cod. primo Marc. », 4 vale a dire dagli spogli dei testimoni marciani del Convivio richiesti con impazienza, in servizio dei propri studi, dal Trivulzio al Francesconi nella primavera e nell’estate del 1819. Le postille sono rivolte in alcuni casi all’obiettivo polemico definito con maggiore insistenza nel futuro Saggio, vale a dire il Vocabolario della Crusca, come accade quando il Monti precisa « la Crusca sotto la voce riportamento allega il presente [esempio], e con grossolano errore legge dilettazione », o, in seguito, « Vedi nel Vocabolario soverchiatore coll’errore di lezione che qui si emenda », oppure « Così penso si debba leggere, né mi fa caso se la Crusca tien ferma la lezione trasmutatore », o infine « La Crusca non ragionando, né considerando che qui conviene leggere non mentitori, ma menatori, perché parlasi di coloro che essendo ciechi ai ciechi si fanno guida e così cadono gli uni e gli altri nella fossa, ha portato questo passo, scorretto com’è, nel Vocabolario V. soprannotato ». 5 I rilievi montiani confluiscono, con la stessa energia d’urto, nella prima delle quattro sezioni in cui si articola il Saggio (« Saggio di abbagli presi dagli Accademici della Crusca nelle citazioni del Convito di Dante »), 6 dove anzi si moltiplicano le ragioni del disaccordo e si affinano gli strumenti linguistici di una vivace schermaglia con « Messer Frullone ». Numerose annotazioni riguardano i cosiddetti glossemi, come si vede ad esempio nel capitolo x del primo trattato, dove il Monti chiosa con un perentorio « glossema di copisti » i lemmi « (ciò fu Taddeo Ipocratista) », analogamente a quanto si verifica con un altro inciso « (cioè quello gigante) » che nel secondo trattato, capitolo vi, è liquidato tramite la formula sbrigativa « Anche questo è un puerile glossema » ; 7 en 





























1

  Gian Giacomo Trivulzio, Lettere […] al cav. Salvatore Betti, « Giornale arcadico di scienze, lettere ed arti », cxxvii, Roma, 1852, p. 150, n. xiv (G. G. Trivulzio a S. Betti, 15 novembre 1826). Sui due manoscritti del Convivio (Triv. 1089 e Triv. 1090) cfr. Dante Alighieri, Convivio, i, a cura di Franca Brambilla Ageno, Firenze, Le Lettere, 1995 (« Le opere di Dante Alighieri. Edizione Nazionale a cura della Società Dantesca Italiana », iii), pp. 24-25. 2   Angelo Maria Pizzagalli, Vincenzo Monti e il Convito di Dante, cit., p. 30. Non siamo in grado di stabilire se la postilla sia stata correttamente edita, restando il sospetto che « ampia » sia un semplice refuso di stampa per « amplia ». 3   BTMi, Triv. Dante 97/3 : Dante Alighieri, Delle Opere, i, cit., p. 11 ; Monti, Saggio, p. 39 e Dante, Convito, p. 17.  



































4

  Dante, Convito, p. 17, nota 2.   Angelo Maria Pizzagalli, Vincenzo Monti e il Convito di Dante, cit., pp. 31-32, 34. Correggiamo il refuso « diportamento » in « riportamento ». 6   Monti, Saggio, pp. 37-39 ; pp. 41-46. 7   Angelo Maria Pizzagalli, Vincenzo Monti e il Convito di Dante, cit., pp. 33 e 40. 5











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trambi gli esempi riportati tornano naturalmente nella terza parte del Saggio, che ai glossemi è interamente consacrata. 1 Lo sforzo più significativo riguarda tuttavia la collazione del testo dantesco con passi paralleli di altri autori o di Dante stesso, secondo un genere di intervento che nei postillati trivulziani appare meno frequente, anche se non privo di trovate felici : l’Eneide, le Satire di Giovenale, la Scrittura, il De consolatione Philosophiae, la Commedia, persino il Convivio fiorentino del 1723 (l’« edizione Tartini ») nei pochi luoghi in cui essa diverge dall’edizione del 1741 che egli annota. 2 Anche nel caso in cui la correzione proposta dal Monti coincida con quanto osservato dal Trivulzio, l’accuratezza del primo dà luogo a postille più esaurienti e circostanziate, come si vede nel caso della lezione « annumerare » (« la fanno più annumerare ch’essa medesima », primo trattato, capitolo x), di cui il marchese dubita scrivendo a margine « f. ammirare », mentre il Monti corregge (« la fanno più ammirare ») e dilata il rilievo annettendo un passo parallelo della Commedia (Par xv, 101-102) quale ulteriore garanzia di congruenza : « A questa lezione fa luce quel passo del Paradiso c. 15. Non donne contigiate, non cintura che fosse a veder più che la persona ». 3 Nel Saggio e nel Convito il nucleo della postilla si espande in un’argomentazione di ampiezza maggiore, nella quale l’emendamento è  

























sorretto anche da una testimonianza manoscritta di conferma. 4 Questa strategia di progressivo sconfinamento materiale e cognitivo dei semplici marginalia è la via che prelude alla nascita del Saggio, il quale non fa che sviluppare e arricchire, integrandoli mediante ulteriori proposte, gli appunti fissati dal Trivulzio e dal Monti nelle pagine degli esemplari che essi postillavano. Le annotazioni del Monti e del Trivulzio si collocano con sicurezza al punto d’origine del Saggio del 1823 : ne sono, per così dire, lo schedario preliminare e la sede di una riflessione che non possiede ancora un traguardo certo, distinto dal momento o dallo spazio fisico e concettuale in cui essa si esprimeva. L’atto concreto da cui scaturisce l’elaborazione del Saggio si colloca invece a ridosso della consegna all’amico poeta, da parte del Trivulzio, dei propri materiali di lavoro : un gesto che è stato documentato in precedenza (tramite la lettera del Trivulzio al Federici, del 1823) e un processo di allestimento per il quale abbiamo avanzato una cronologia almeno provvisoria (il 1822), 5 che andrà precisata mediante ulteriori deposizioni testimoniali. 6  





1

  Monti, Saggio, pp. 92-93 ; pp. 93-94.   Angelo Maria Pizzagalli, Vincenzo Monti e il Convito di Dante, cit., pp. 26, 31, 32, 35, 41, 42, 44. 3   Milano, Biblioteca Trivulziana, Triv. Dante 97/3 : Dante Alighieri, Delle Opere, cit., p. 39 ; Angelo Maria Pizzagalli, Vincenzo Monti e il Convito di Dante, cit., pp. 33-34.  

2





4

  Monti, Saggio, p. 6 ; Dante, Convito, p. 48, nota 1.   Verosimile post quem è la visita effettuata dal Monti con il Perticari, in Veneto, nel tardo autunno del 1821, ma andrà scontata la pausa indotta dalla morte improvvisa del genero (26 giugno 1822), nei mesi di luglio e di agosto del 1822 (quando il Monti si trattenne a Pesaro, presso la figlia), con le conseguenze e gli strascichi di cui quella scomparsa si rivelò foriera (anche a carico della salute fisica del poeta) nei primi mesi autunnali. 6   Rinviamo all’Introduzione della nostra edizione critica del Saggio, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 2012 («Collezione di opere inedite o o rare», 168), pp. vii-cvi). 5



ANGELO MARIA RICCI E LA GEORGICA DE’ FIORI Maria Cristina Albonico

I

l poemetto Georgica de’ Fiori di Angelo Maria Ricci, pubblicato a Pisa nel 1825, è composto da ventiquattro canti in terzine dantesche ; ogni canto è corredato da note con osservazioni di carattere botanico, meteorologico e naturalistico. 1 Come si evince fin dalla dedica alla principessa Maria Beatrice d’Este, l’opera è rivolta allo « stabilimento di delizioso giardino all’istruzione, all’utile, al diletto ». L’intento programmatico è chiaro : nel solco della ricchissima poesia didascalica, Ricci richiama apertamente il precetto oraziano dell’insegnamento ottenuto grazie all’unione di contenuti didattici e di argomenti esornativi ; il « miscere utile dulci » (Ars poetica, v. 143) è dunque il modello ispiratore, come si legge anche nel Discorso preliminare che introduce la seconda edizione del poemetto. Questo Discorso è un’interessante riflessione non soltanto sulla lirica georgica, ma anche su quella didascalica in generale ; dopo aver brevemente accennato ai principali autori classici del genere, come Esiodo, Arato, Lucrezio, Virgilio, Ovidio e Orazio, l’autore osserva che  



poco si distinguerebbe da un Trattato scientifico esposto in versi, se dovesse attenersi ad un metodo stretto e formale, ricusando gli ornamenti che in quello producono inutili distrazioni, ed in questo soavissimo diletto, come sono gli Episodj, che portano nel Poema didascalico il vero carattere d’un’arte ispirata, la quale cessa di esistere quando non parli al cuore. 6













Uno de’ meriti fondamentali d’ogni Poema didattico è riposto nel portar le dottrine per sè stesse astratte ad un certo grado di pittorica evidenza, in guisa che col soccorso de’ numeri e del colorito poetico facciano una doppia impressione sull’intelletto, sulla fantasia, e sulla memoria agevolata dal ritmo. E qui appunto la difficoltà principale sta nel vestire le idee astratte di colori sensibili applicati per tal modo e proporzione ad un velo dilicato che perde la sua trasparenza per far travedere la loro originaria sottigliezza, senza dare ad esse troppa consistenza, e l’aria d’un pesante rilievo, onde cangiata in loro natura, si allontani quel verosimile di convenzione, onde il Poeta parla al Filosofo, e ne dipinge il pensiero. 2

Ricci inoltre mette in rilievo il rischio, insito nel genere dei poemi didattici, di « tradire la Scienza, o la Poesia » : 3 talora infatti può accadere che un poeta, per spiegare fenomeni scientifici, faccia ricorso ad artifici che giungono a snaturare l’oggetto della descrizione, allontanandosi sia dalla verosimiglianza sia dalla vera lirica. In tal senso Ricci difende dagli eventuali critici la sua scelta di uniformarsi alla teoria dei Romantici da lui citata, cioè « che il Poeta debba mostrarsi sempre al livello delle cognizioni scientifiche del suo secolo ». 4 Tuttavia, non viene rinnegata l’aspirazione alla bellezza : l’autore infatti con fermezza dichiara che si è fatto un dovere di uniformarsi « al sentimento de’ Classici nel colorire le nuove idee coll’antico linguaggio mitologico pittorico » ; 5 inoltre, constatata la convenzionalità di tale linguaggio, Ricci specifica di non aver compilato per spiegarlo note erudite, per dare spazio invece a note di botanica eventualmente utili a giardinieri e fioristi. Per giustificare l’utilizzo di abbellimenti, oltre a rimandare ai modelli della classicità, Ricci specifica che il poema didattico  





In merito alla Georgica de’ Fiori, l’autore precisa che « il soggetto medesimo in cui mette capo tutta la Mitica festiva ed immaginosa degli antichi, ha voluto che io riguardo all’invenzione, mi attenessi piuttosto ad Esiodo che a Virgilio, onde gli ornamenti sbuccino dal seno stesso della cosa ». 7 Per questo nel poemetto si alternano indicazioni per la coltivazione e « fole graziose di tante metamorfosi avvenute ne’ fiori », 8 « regole generali per lo stabilimento d’un giardino qualunque » 9 e vicende di personaggi mitologici, come Flora, Borea, Zeffiro. Ogni canto è introdotto da una breve sintesi del contenuto ed è arricchito da note che forniscono dettagliate indicazioni sulle caratteristiche degli alberi e dei fiori citati nel testo, sugli insetti e sugli animali che possono favorire o danneggiare la vegetazione, sulle condizioni climatiche adatte per la crescita delle piante. Fa eccezione la prima nota dell’opera, volta a « fissare l’intelligenza del linguaggio poetico ed allegorico adottato » ; 10 l’autore infatti spiega il ruolo delle principali divinità mitologiche che, nella tradizionale poesia classica, influiscono sulla vegetazione : ecco dunque citati il Sole, Rea Opi ovvero la terra, Giunone cioè l’atmosfera, Zeffiro « motor dell’amore nelle piante », 11 Flora regina dei fiori e Clori, sorella e sostituta di Flora nella stagione invernale ; vi sono poi le divinità minori, come le Najadi, protettrici delle acque, le Driadi, viventi sotto le cortecce degli alberi, le Amadriadi, che danno vita all’albero da loro abitato, le Napee, animatrici di fiori ed erbe. Dopo la dedica e la dichiarazione dell’argomento  























Quale si debba ai fior governo e cura A Te, Sovrana Beatrice, io canto, Che arridi al bello, onde gioì Natura ; Nè da Te riportar chieggio altro vanto Che quello ond’hanno i fior vita sì corta, Passeggiera lusinga e breve incanto. (i, 1-6)















1   Angelo Maria Ricci nacque nel 1777 a Massolino, nel Regno di Napoli, fra l’Aquila e Rieti ; studiò a Roma, nel Collegio Nazareno, e fin dalla giovinezza mostrò predisposizione per l’attività letteraria e per le scienze naturali : tra le prime opere, infatti, pubblicò a Napoli il poemetto latino De Gemmis (1796) e a Roma la Cosmogonia Mosaica fisicamente sviluppata e poeticamente esposta (1802), in cui tenta di conciliare le teorie filosofiche con le tradizioni bibliche. Fu nominato da Gioachino Murat professore di eloquenza nell’Università di Napoli e fu scelto anche come precettore dei figli del re ; Ricci celebrò le opere civili di Murat nel poema Fasti di Gioachino Napoleone (Roma, 1813). Tra le numerose opere si ricordano il poema epico L’Italiade (Livorno, 1813) sulla figura di Carlo Magno e i componimenti didascalici L’orologio di Flora. Scherzi botanici (Pisa, 1827) e Le conchiglie (Roma, 1830). Morì a Rieti nel 1850. 2   Angelo Maria Ricci, Discorso preliminare, in Idem, La Georgica de’ Fiori, Milano, per Nicolò Bettoni,1828, pp. 5-16 : 13. Tutte le successive citazioni 3   Ivi, p. 14. sono tratte da questa edizione. 4 5   Ibidem ; il corsivo è nel testo.   Ibidem.

il i Canto si apre con l’invocazione alle diverse divinità e la spiegazione dei loro ruoli ; a loro il poeta si rivolge per ricevere l’ispirazione :  



Voi filatrici de’ soavi stami, In cui la speme d’ogni fiore è viva Nel dolce tempo che ad amar lo chiami, Voi la non rude pastoral mia piva D’Iblei succhi irrorate, onde fuor n’esca Qual ch’ella siasi melodìa nativa, Qual dalla scorza irrugiadata e fresca Tragge industre pastor cotal concento, Che forse alla Città neppure incresca (i, 49-57)













Il resto del i Canto è dedicato alla dimostrazione di come l’ec6

7   Ivi, p. 10.   Ivi, pp. 11-12. 9   Ivi, p. 12.   Ibidem. 10   Angelo Maria Ricci, La Georgica de’ Fiori, cit., p. 21. 11   Ivi, p. 22. 8

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cessiva umidità e i luoghi paludosi siano dannosi e di come invece la vegetazione sia rigogliosa ove siano corsi d’acqua :

…ubertoso e florido verziere Nel dolce aspetto d’un eterno Aprile Dee le menti allettar le più severe (iii, 112-114)



…non colà dove impaluda e giace Najade sonnacchiosa in bassa chiostra, Ma dove passa, e nel passar non tace, Pieno di vita ogni bel fior si mostra. (i, 151-154)

Emerge così la concezione alla base dell’opera : il giardino non è semplicemente il locus amoenus della tradizione classica, dove un’eterna primavera regna incontrastata : è invece un luogo in cui appare decisivo l’intervento dell’uomo, dove le stagioni si susseguono, apportando continui cambiamenti che il giardiniere deve in parte assecondare e in parte cercare di limitare, a seconda del suo progetto. Si prospetta dunque un’idea di giardino ‘innaturale’, poiché se è vero che l’uomo deve assecondare le necessità delle varie colture, appare altresì chiaro che il « florido verziere » (v. 112) interviene sugli elementi naturali, con la finalità ben precisa di  

La teoria esposta è argomentata mediante il ricorso a un racconto mitologico, basato sulla rivalità tra Najadi e Napee. Anche il ii Canto si apre con una favola mitologica : Opi, la dea della Terra sposa di Saturno, grazie ad Amore genera i diversi tipi di terreno adatti per le differenti coltivazioni ; è lo spunto per una disamina dei vari terricci e degli accorgimenti che il giardiniere deve adottare per incrementare la fertilità del suolo. Nella prima parte dell’opera, infatti, l’autore illustra « le regole generali per lo stabilimento di un giardino qualunque », 1 oltre a indicare il calendario delle fioriture e dei lavori da compiersi ogni mese. Così il iii Canto è dedicato alla descrizione di come potrebbe essere un giardino coltivato a fiori ; non manca una digressione sulle ville inglesi, ove si cerca di imitare lo stile italiano :  











…lusingar d’un’anima gentile I cari sogni, onde i caduchi giorni D’una vita mortal non hansi a vile (iii, 115-117)







Vero è che l’Anglo, di cui l’orme adora L’età novella, in bel disordin tenta La Natura atteggiar libera ancora, E in lunga visüal protrar s’attenta Breve spazio, ed in breve angusto sito Finger del Po le rive e della Brenta. Ed or sentier silvestre ed or fiorito Dischiude al passaggier che gira e vede Or sentiero selvaggio, ed or fiorito ; Ma l’occhio illude, e non inganna il piede E sol conviensi di Nettuno ai figli Aereo campo che le stelle eccede (iii, 7-18)

L’ideale estetico si pone così come lo scopo da raggiungere : l’armonia di un giardino, sia naturale sia ottenuta artificialmente, viene intesa come una via per rasserenare l’anima, favorendone i « cari sogni » (v. 116). L’ideale settecentesco di regolarità di linee e di forme, applicato negli ambiti delle diverse arti, tra cui quella topiaria, nell’opera di Ricci si colora di sfumature preromantiche : la bellezza di un giardino infatti non soltanto appaga il senso estetico, ma svolge anche una funzione consolatoria, perché nutre le illusioni che rendono la vita sopportabile. I primi nove canti dell’opera sono dedicati agli aspetti tecnici della cura del giardino, sia pure con frequenti inserzioni mitologiche : Ricci espone con precisione quali regole si debbano osservare nella scelta del terreno adatto per le differenti coltivazioni e nella sua preparazione, come si possa difendere dagli insetti nocivi, come si possano riconoscere i segni di un cambiamento climatico dall’atmosfera e dal comportamento degli animali, quali siano le temperature ottimali per le varie piante. Appare significativo per la scientificità che lo caratterizza il Canto viii, dedicato alla descrizione degli strumenti scientifici utili per l’osservazione e le sperimentazioni sui fiori : sono « o in vetro o in fino acciaro / Vario temprati gracili strumenti » (vv. 38-39), dalle lenti alle cesoie, agli specilli e alle fiale ; in particolare Ricci si sofferma sulla  











Ecco allora dei consigli sulla dislocazione delle diverse colture in luoghi ombrosi o soleggiati, e sulla creazione di laghetti per le piante acquatiche affinché …d’abbondante umor sempre rintegri Le rigogliose fluttuanti foglie, Le capellute barbe, e i germi integri (iii, 70-72)

Molto particolareggiata poi la descrizione dei possibili disegni che si possono realizzare sul parterre, ossia sul piano del giardino, leggermente inclinato per favorire lo scolo delle acque ; come ricorda il poeta, vi è chi, con siepi o mattoni, ha riprodotto la carta geografica dell’Italia, coltivando nelle diverse zone le piante specifiche della regione corrispondente ; si potrebbe anche realizzare una sorta di orologio, in cui i fiori sboccino a seconda del trascorrere delle ore, oppure suddividere il giardino in quattro zone, ove le aiuole fioriscano a seconda della stagione : è qui inevitabile il riferimento al vii libro dell’Odissea, in cui Omero descrive il giardino di Alcinoo, dove vi sono alberi di ogni specie, che fruttificano in ogni stagione. 2 Ma per Ricci, in realtà, l’ideale è far sì che le fioriture delle varie specie si alternino nel corso dell’anno :  







…vitrea lente, che più grande e chiaro Faccia al guardo l’obbietto, o che il rimandi Sulla parete effigïato al paro, Onde in proporzïon più chiare e grandi Si mostri atomo breve, o scuro insetto (viii, 40-44)









Lo stesso autore spiega in nota che si tratta di « lenti semplici, lenti microscopiche per ingrandire, microscopio solare che dipinge al muro immensamente ingranditi gli oggetti minuti » ; 3 tale enumerazione riecheggia la descrizione della stanza dedicata alle scienze nelle Delizie della villa di Pietro Verri : idealmente, essa avrebbe dovuto contenere « un esattissimo pendolo astronomico, un quadrante, vari telescopi e cannocchiali, sfere, macchine in somma le più perfette di tutta la fisica ». 4 La finalità di tali studi è spiegata da Ricci nei versi successivi :  







1

  Angelo Maria Ricci, Discorso preliminare, cit., p. 12. 2   Se numerosi sono i rimandi letterari al mito di una ininterrotta fioritura, anche quale simbolo di una situazione edenica, non mancano altresì riflessioni filosofiche, per cui il giardino non è soltanto luogo e occasione di otium, ma anche di speculazioni estetiche, come nel caso di Francis Bacon : il filosofo inglese infatti « polemizzando per primo contro tradizioni italiane, proponeva un locus amoenus come ritorno verginale a un paesaggio d’incorrotta innocenza, dove la sapienza del dotto avrebbe scorto la fascinazione del sublime nel molteplice della creazione. Idea metafisica che si manifesta nel concetto splendido di una rotazione floreale negli orti legata al ritmo delle stagioni, destinate a riprodurre, nel loro splendore, un Eden perduto, quel Paradise Lost inquisito anche dalla poesia sacrale di Milton » (Bruno Basile, L’Elisio effimero. Scrittori in giardino, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 113-114).  











3

  Angelo Maria Ricci, La Georgica de’ Fiori, cit., p. 65.   Pietro Verri, Le delizie della villa, in « Il Caffè » : 1764-1766, i, a cura di Gianni Francioni e Sergio Romagnoli, Torino, Bollati Boringhieri, 1993, p. 168. 4



   

143 angelo maria ricci e la georgica de ’ fiori puramente estetico diventa pratico : la natura non deve essere Scoprire io vo’ di Flora i santi riti soltanto apprezzabile e godibile per il piacere dei sensi, ma E le nettaree fonti onde amor beve, deve essere fruibile e produttiva. E come fiore a fior ben si mariti, Con netto cambio di prospettiva, il ix Canto si apre con la Com’ella accolga in sen figli non veri, descrizione delle perturbazioni meteorologiche provocate da E come un fior si sposi ad altri liti Giunone, invidiosa di Opi : (viii, 50-54)  



Infatti, il poeta prosegue spiegando con esattezza come si riproducono i fiori e come si possono moltiplicare, anche attraverso innesti ; a questo argomento sono dedicate ben trentacinque terzine del canto, in cui l’autore mescola abilmente nozioni scientifiche e abbellimenti poetici. Vengono in effetti descritti con precisione gli stami che dal « calice del fior sorgono alteri » (v. 57), che « fan maschio il fior, sterile ognora / Per sè medesmo » (vv. 58-59), come il pistillo che « Verde fialetta di sottili fori / S’erge trapunta, e bianche ova ha nel fondo » (vv. 62-63). La naturale fecondazione dei fiori può essere alterata dall’uomo per ottenere nuove varietà di fiori :

Che val mite e benigna aver la Terra, Se Giuno irata dalla stessa cuna, E fin dalle lor nozze ai fior fa guerra ? Inesorabil Dea, che tante aduna Ne’ fior memorie de’ traditi amori, Invida sempre dell’altrui fortuna ; E pioggia e neve e grandine su i fiori Versa, o contro di loro Eolo scatena, Cieco ministro a’ ciechi suoi furori (ix, 1-9)  



















Quindi l’arte dell’uom piegando ardita Fin la stessa natura in grembo ai fiori Osa per la beltà falsar la vita ; E insinuando ne’ secreti fori D’un fior, che ad altra età si rinnovella, Altra polve chiamata ad altri amori, Stringe non chieste nozze, onde a novella Beltà lo stesso fior poi riprodotto Svolge (e il perchè non sa) forma più bella. (viii, 82-90)

Ma lo sfondo mitologico è soltanto lo spunto per una descrizione accurata dei pronostici del tempo atmosferico, osservabili dalla specola all’ultimo piano della costruzione che, nel giardino, è adibita a scopi scientifici : se una parte era riservata agli strumenti per la dissezione e l’analisi dei vegetali, un’altra è adibita appunto all’osservazione dell’atmosfera e degli astri, per trarne delle previsioni utili alla coltivazione. È questa l’esortazione del poeta al giardiniere :  





Certo sono inevitabili i rimandi a Zeffiro e alle Amadriadi, ma in questa sezione del poema prevale l’aspetto prettamente didascalico ; in questi versi infatti Ricci descrive anche le diverse tecniche di innesto, quale possibile modalità « di riproduzione, e di miglioramento nel regno vegetabile », 1 come egli stesso lo definisce nelle annotazioni : l’intervento dell’uomo, dunque, appare chiaramente finalizzato non soltanto all’imitazione di ciò che accade in natura, ma proprio a rendere la natura stessa più bella. Dopo aver descritto come da una pianta madre se ne propaghino altre naturalmente, il poeta si rivolge a una fanciulla, Fille, e la esorta ad agire intervenendo su una pianta :  







Donde scoprendo dell’azzurra reggia Gli aspetti, i mutamenti, a tempo a loco Cultore attento al suo giardin proveggia. (ix, 19-21)

Ecco allora i segni che indicano l’approssimarsi della pioggia : « bianche nuvolette » (v. 22) che mutano colore, « Varj Soli brillar con doppia spera » (v. 26) ovvero quando sembra che la luna o il sole siano doppi, l’atmosfera più trasparente del solito e « la Luna, o il Sol cinto affacciarse / D’una corona tremula e leggiera » (vv. 29-30) ; anche l’arcobaleno, se troppo brillante, annuncia che la pioggia si prolungherà :  











Sarà anche possibile fare in modo che una pianta selvatica, mediante innesto, sia resa fruttifera :

Mente ancor l’Iri da più vivi rai Al tuo giardino promettendo pace, Se ne’ natii color risplende assai (ix, 46-48)

Dopo aver descritto i fenomeni che annunciano un clima soleggiato, come « auree nubi » (v. 56) e « l’umil nebbia » (v. 59) vicino al terreno, con un’inserzione mitologica il poeta esorta a non fidarsi della luna, bugiarda « ancor che bella / Si mostri, e ai vaghi fior sorrida amica » (vv. 79-80) ; sulle considerazioni scientifiche, per descrivere la luce riflessa della luna prevale la liricità :  

Emerge da questi versi una visione ottimistica del rapporto che intercorre tra uomo e natura, coerentemente con le teorie fisiocratiche : la natura può e deve essere resa migliore dall’intervento dell’uomo, perché una maggiore fecondità determina un incremento della produttività e, quindi, della resa economica delle coltivazioni. Il discorso, in questo caso, da  









Beve i casti suoi raggi, è ver, dal Sole, Ma dal riflesso ardor forza non ave Da ricreare i fior, di che si dole ; E su quei che la notte odor soave Mandan dinanzi a lei, qualche sospiro Versa come colei che amando pave. (ix, 85-90)  

La Luna è personificata come colei che soffre per non poter nutrire i fiori : ha tuttavia la forza di provocare le maree, poiché  

…sorbe il salso umor cui Teti impera, Per cui l’onda vêr lei quasi propensa Levansi, e bacia i lidi e torna ov’era (ix, 94-96)

Infine, Ricci descrive il comportamento di alcune specie animali al mutare del clima : rondini, anatre, pecore, api, ma anche corvi, moscerini e pipistrelli annunciano, a chi li sa osservare, i segni del tempo ; il giardiniere deve infatti sapere se e quando pioverà, perché « il buon cultor soltanto al Sol s’affida » (v. 151).  





1

  Angelo Maria Ricci, La Georgica de’ Fiori, cit., p. 66.









Or se de’ novellini ramicelli Fia vuoto alcun della midolla dura, E in sembianza di calamo lo svelli, Indi il combaci con industre cura Sul ramoscello d’arboscel silvestro Fatto già nudo di sua scorza oscura, Vedrai rude figliuol di balzo alpestro Fatto dal bacio altrui gentile arbusto Dar di frutta e di fior colmo canestro. (viii, 133-141)







…se tu stessa con accorti modi Da lei recidi i teneri rampolli Che ad altro sito maritar poi godi, Un dì gli rivedrai d’umor satolli, Fitte in altro terren le lor radici, Di vita pieni, e di rugiada molli (viii, 118-123)





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Si conclude così la sezione del poemetto dedicata alle opere necessarie per la preparazione di un giardino, mentre dal x Canto lo si suppone già realizzato ; per descrivere in modo esaustivo le più varie specie di fiori, Ricci ricorre a un artificio : immagina un viaggio di Flora che, durante i mesi dell’anno, scorra tutte le stagioni. In tal modo il poeta crea la possibilità di soffermarsi sulle fioriture tipiche di ogni mese e sui lavori di giardinaggio necessari nei vari periodi. Così, iniziando da gennaio « ognor tremante / Al cieco imperversar de’ sordi venti » (x, v. 27), Ricci delinea con ricchezza di particolari il perenne trasformarsi della natura e l’assidua cura del giardiniere. I personaggi mitologici sono pertanto lo spunto per fornire precisi consigli di carattere botanico ; in questo caso, se l’autore talora indugia nella descrizione di ninfe e divinità, ha lo scopo di alleggerire e di rendere più piacevole il dettato poetico, senza per questo farlo diventare meno scientifico. Dopo aver citato i fiori che sbocciano in gennaio, come anemoni, ranuncoli, garofani, ciclamini e giacinti, e averne ricordato le principali caratteristiche, il poeta esorta al lavoro il giardiniere, nonostante la stagione invernale :  



Il verso conclusivo del Canto xii, dunque alla metà del poemetto, riecheggia chiaramente il dantesco « Amor, che a nullo amato amar perdona » (Inf v, 103). Altrettanto aulico è l’incipit del Canto xiii, che si apre con il saluto alla Primavera che torna quando compare la costellazione dell’Ariete :  





Salve, o del giovinetto anno speranza, Primavera gentil, fausta a noi torna ; Che a te seggio è la terra, il cielo è stanza ; Tra ’l verde serto, ond’hai la chioma adorna Veggo, qual gemma rilucente e bella, Del sidereo Monton brillar le corna (xiii, 1-6)  









La raffigurazione della Primavera come di colei che lascia cadere i fiori da un canestro è tradizionale, ma non è priva di una certa vivacità, data dal cromatismo e dalla sfumatura realistica degli aggettivi diminutivi :  

Dal ritondetto alabastrino braccio Di giunchi un cestellin colmo di fiori Le pende avvinto da purpureo laccio. (xiii, 10-12)



Cultor che i fiori amò non ha riposo Nel Gennajo altrui pigro, ed ei prepàra Nuovi talami a Flora ed allo sposo ; E lavora, e concima, e sarchia, ed ara Il terren fortunato in cui previene L’aspro rigor della stagione avara (x, 103-108)

Dopo un ampio excursus dedicato alla favola di Narciso, invano amato da Eco, il poeta ritorna ad esortare al lavoro :  



Ma già s’avanza primavera, ed oltra Sparge i tesori suoi ; cura fia nostra Or le vie preparar per cui s’inoltra (xiii, 79-81)  

Le opere del giardiniere proseguono in febbraio : annaffiature, innesti di rose e anche trapianti :  



Poi nelle care al Sole ore beate, In cui di nuova luce Opi s’ammanta Per la speranza di più bella etate, Il superbo garofano trapianta, Ma parte seco dell’antica terra Tragga ove molto amò l’esule pianta (xi, 37-42)



Or d’altra terra figli e d’altra luce Cultor che ben provvede i fior sementa, Ch’India, od Affrica, o America produce (xiii, 85-87)

Particolarmente aggraziata appare comunque la raffigurazione dei figli di Zeffiro, gli Zeffiretti che, ansiosi di vedere sbocciare i fiori, scherzano con Opi, la Terra ; questa li accontenta, permettendo che spuntino alcuni fiori :  



…susurrando han per costume Querelarsi con Opi, onde sì lente Mettano i fior le fronde, essi le piume : Ella che ai vivi pargoli acconsente, Fa qual suole amorosa passeretta De’ dolci nati al pigolar frequente, Che per quetarli il nido or ne rassetta, Or grata esca riporta, ed or sovr’essi Tepida stende l’una e l’altra aletta : Così dolce raccheta Opi gli spessi Zeffiretti fanciulli e gli consola, Offrendo alcun fioretto ai loro amplessi ; Le mammole lor mostra e la vïola, Che modesta precede e non lontana L’ancor verde ritrosa famigliuola. (xi, 73-87)  





Ma ormai si sta avvicinando la Primavera, già nutrice e ora nunzia di Flora ; al di là della finzione mitologica, fervono i lavori. Trapianti, potature, seminagioni, annaffiature, ogni azione secondo le esigenze ben precise di ogni pianta, affinché tutto sia pronto per la stagione primaverile :  



…La porporina Datemi tosto imperïal corona, Date altri fior… Colei già s’avvicina Che a nïuno de’ fior fiorir perdona. (xii, 148-151)

Tra le varie colture non dovranno mancare anche piante originarie di paesi esotici :

Giunge quindi il mese di maggio, che vede la fioritura di innumerevoli specie, dalle peonie ai gelsomini, dal sambuco ai gladioli ; ma al di sopra di ogni fiore vi è la rosa, a cui è dedicata gran parte del Canto xiv :  



Ma sull’ara immortal non voglio eretto Marmoreo simulacro ; ivi reina De’ fior risplenda, come in seggio eletto, Solo la Rosa in sua beltà divina, Che bebbe dell’aurora il primo lume, Che gli Dei per beltà sola avvicina (xiv, 67-72)  

Il poeta, per esaltare la bellezza della rosa, ne ricorda le varie qualità che dovranno essere coltivate nel giardino :  

…vi sia quella in un che si circonda Di virgineo rossor, che si raddoppia Or nella bianca, or nella crocea fronda, Vi sia l’altra che l’ostro al croco accoppia, O che in piccolo velo è più vezzosa, O che nell’irto spino umìl si sdoppia. (xiv, 85-90)

Naturalmente, la pianta della rosa necessita di cure particolari, non soltanto nella « stagion de’ fiori » (v. 114), ma anche in autunno, come ammonisce il poeta, dedicando ben dieci terzine ai trattamenti che le devono essere riservati. La supremazia della rosa sugli altri fiori era già stata celebrata da Pietro Guadagnoli nel poemetto in cinque canti Le Rose, del 1785 :  





È la Rosa un dei Fior, che in bel Giardino Pingon superbi l’odorate foglie, E che di Flora per voler divino Accolti sono in custodite soglie. Sò ben, che Rose da silvestre spino

angelo maria ricci e la georgica de ’ fiori Nascono, e spiegan le gentili spoglie ; Ma più nobile oggetto a’ carmi miei, Pompa d’almo Giardin, Rosa, tu sei. […] Tu sei Rosa, quel Fior, cui Primavera Al varìar della stagion produce ; Anzi dei lieti dì sei messaggiera, In cui risorge il Mondo a nuova luce. Potrebbe, è ver, la Violetta altera Nunzia di April, che Amor ne riconduce, A te contender così eccelsa dote, Ma regger nò, che al paragon non puote. (Le Rose, Canto i, ottave i ; xlvi) 1

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Nel poemetto dunque si alternano, spesso giustapposti, versi dedicati alla classicità ad altri di carattere prettamente botanico : l’accostamento, come nel caso del giacinto, appare talora forzato, come se il rimando alla mitologia fosse un omaggio dovuto alla tradizione poetica ; lo stesso artificio, con risultati più armoniosi, è messo in atto dall’autore per spiegare la tecnica della fecondazione artificiale dei garofani e di altri fiori. Ricci infatti immagina che tale operazione venga svolta da una Ninfa, « una Napèa / Che lucide cesoje aveva in mano » (vv. 77-78). Questa figura è presentata in un’atmosfera di sogno :  













Anche il tema dell’innesto è trattato da entrambi i poeti ; per Ricci, la rosa

Il Sol che in grembo a Tetide scendea Tingeale il volto d’un color che tale Sembrava per beltà tra donna e Dea ; Da un fiore all’altro, ma di stirpe eguale Or veniva or tornava, e un Zeffiretto Seguiane i passi senza muover l’ale. (xvi, 79-84)



Talor si riproduce verginetta Da’ riposti suoi semi, e la ferita Soffre che ad altro amor dolce l’alletta ; Or nell’inculta siepe si marita, Or testimonio di secreti amori Entro vase gentil vive romita. (xiv, 106-111)





Tuttavia, l’ambientazione fiabesca non impedisce che la tecnica sia descritta in modo esatto e minuzioso :  

Più ampio il discorso di Guadagnoli, poiché l’intera sua opera è dedicata esclusivamente alle rose :

Ella da questo fior lo stame eletto Intercidendo, ne traea frattanto D’aurea polve sottil qualche atometto, Che in più d’un vago fior tien gli usi e ’l vanto Del miglior sesso, e del maschil vigore Alla sua verde feminetta accanto ; E ogni atometto, che traeane fuore, Con lucid’ago in argentata conca Come reliquia riponea d’amore ; Poi su quell’altro fior, recisa e tronca La più cara di lui parte virile, Onde la virtù maschia era in lui monca, Riversava il polviscolo sottile Altrui rapito, e gli atometti rari, In cui celarsi amor non ebbe a vile. (xvi, 85-99)



E meglio fia, che a disvelar mi appresti L’arti, cui debba Giardinier vegliante In uso por pei dilicati Innesti, Come varie fra lor fieno le Piante : Non si adatta una forma a quelli, a questi Tronchi trascelti a far pompa brillante Dei pregi lor : destrezza usar conviene, Che ne assicuri il disìato bene. […] Altri su quella Pianta, onde vuol torre L’Innesto, a suo piacer la scorza incide ; Indi a quell’altra, in cui la vuol riporre, Fa simil piaga, ove si serri, e annide : A suo piacer ; che nella scorza accorre Può, qual figura a lui più giova, e arride : Sia quadrata, cilindrica, o rotonda, Sempre avverrà, che al suo disìo risponda. Ma d’uopo è ben, che la corteccia amata Abbia di fresca gemma il caro pondo : E che sia di tal modo indi tagliata Da unirsi appunto al preparato fondo : D’uopo è, che resti in guisa tal legata, Che non s’imprima in lei solco profondo, Nè si offenda la gemma, che mostrare Fuor si dovrà, qual tumidetta appare. (Le Rose, Canto iii, ottave xxxv ; lii-liii)























L’opera di Ricci prosegue, nel Canto xv, con una lunga enumerazione dei fiori tipici del mese di giugno ; il poeta utilizza una terminologia botanica molto precisa, per citare ad esempio « le lichnìdi, e l’ocimòide e gl’irti / Epicrisi piumati, e l’effemèro » (vv. 16-17), ma anche la digitale, il falangio, la saponaria, la nigella, la jacca, la matricaria e « il crinisparso e molle crisantemo » (v. 25) : non mancano l’oleandro, la peonia, il pelargonio, l’anemone e il giacinto. Per quest’ultimo, la precisione lascia spazio a un ampio inserto sulla sua origine, che qui si fa risalire al suicidio di Ajace Telamonio :  













In petto il ferro ei si cacciò… nè vinto Da duolo atroce lo ritrasse fuora, Ma fuor del sangue suo venne respinto. E le arene bagnando in ampia gora, Un fior v’ingenerò, che al Sol s’innostra Del vivo sangue di giacinto ancora (xv, 121-126) 1

  Questa e le successive citazioni sono tratte da Pietro Guadagnoli, Le Rose. Canti cinque, Arezzo, Presso Caterina Bellotti, e Figlio Stamp. Vesc., 1785.

La mescolanza di precisione scientifica e di liricità è pertanto difficile : non sempre, infatti, il poeta riesce a conciliare armoniosamente le esigenze estetiche con l’esattezza botanica, poiché nell’opera sembra prevalere talora il semplice accostamento dei diversi momenti, più che una fusione dei due intenti. Nel mese di agosto, se Flora riposa nell’antro di Opi, invece « L’abbronzato cultor mai non ha posa » (Canto xvii v. 27) : deve infatti provvedere ad innaffiare, con la giusta quantità d’acqua, i rosai e gli innesti, trapiantare gli elitropi, raccogliere i semi e sistemare nel terreno adatto le piante bulbose e le tuberose. Dopo la calura estiva, Flora si risveglia e « i languid’occhi gira » (Canto xviii v. 7) : ecco che intorno a lei la natura pare ridestarsi, per renderle omaggio :  















Di qua passar dovrà colei che inchina Sotto i suoi passi i fiori, e leggi e norme Prescrive a ciò che a rifiorir destina : Or dovunque ella porti i passi e l’orme, Su cui Zeffiro un bacio imprime e vola, Spargerò i germi delle belle forme, Il garofano, il thlaspi, e la vïola Vo’ seminare, il croco, e le nigelle, E il tulipano altero in varia stola. (xviii, 22-30)  

Ecco così fornito lo spunto per la descrizione dei lavori tipici del mese di settembre : nuove semine, trapianti, innesti, potature e tosature di parterre. Queste opere continuano nel mese di ottobre, quando inoltre si piantano rosai e mirti, oltre ai semi autunnali ; è anche il momento di preparare i diversi terreni per i vari tipi di piante bulbose e di sistemare nelle serre le piante esotiche. Con estrema precisione, il poeta indica gli  



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accorgimenti da osservare per la cura di alcune piante : la volkameria, la lobelia cardinale, la giorgina, la fucsia e l’ortensia ; ma, data la stagione autunnale, non poteva mancare il corteo di Bacco, formato dai Satiri che invitano Flora a seguirli, poiché ormai è tempo che si sposti in zone più calde :  



dere che nell’impero di Flora alcune piante siano annuali o biennali :  

…su gli empi Venti imprecando, alle Amadriadi ancelle Distribuite pe’ diversi tempi, Itene, disse, e finchè l’auree stelle Una o due volte corsa abbian la via, In che l’anno floral si rinnovelle ; Ite, e nella mortal scorza natìa V’imprigionate delle piante amiche, Nè di stagion temete iniqua e ria. (xxii, 70-78)



Chi s’inerpica lieto ai salci agresti, Chi si getta nel rio tornando a guazzo, Chi tinto ha il volto ed umide le vesti. Chi muove un salto, e chi caprigno lazzo ; È in mezzo ad essi il vecchiarel Sileno Del festoso drappel mastro e sollazzo. Tutti godendo del tempo sereno Nella stagion che ogni sudor corona, Vengono ad invitar de’ boschi in seno La Diva, che ormai tacita abbandona Le già fiorenti sue provincie, e fama È che vada a bear più mite zona (xix, 10-18)







In novembre infatti Flora « lascia i suoi regni ; e il bosco e il colle / Al color la ravvisa, ed all’andata » (Canto xx vv. 2-3) ; in questa stagione tuttavia si potranno trovare ancora l’elleboro e l’amaranto, ma è giunto il momento di ritirare al coperto i vasi che devono essere protetti dal gelo :  

Dopo l’eziologia favolosa delle piante annuali e biennali, il poeta ne elenca numerose specie che, nei climi temperati, possono essere coltivate a cielo aperto, annotando con esattezza le loro principali caratteristiche ; questo stesso accostamento di invenzione e di scientificità caratterizza il Canto xxiii, in cui Ricci raffigura Zeffiro, che insiste perché sempre vi siano piante fiorite ; Opi allora invia alcune Driadi, affinché vivano perennemente in alcuni arbusti :











E disse, o figlie, se desìo vi punge Di goder sotto il Sol perenne Imene, Che dal mio casto sen non vi disgiunge, Figlie nudrite ognor dalle mie vene, Ite a fiorir per sempre in caldo in gelo Sotto l’azzurra Giuno in varie arene ; Itene ad abitar perenne stelo, A viver sempre, a frondeggiar felici, Che Giuno a voi farò propizia e il cielo. (xxiii, 22-30)



O pianticelle tenere, che al foco D’altro Sol già bevete aura migliore, Venite a ricovrarvi in chiuso loco, Rare semente, che provaste in fiore L’ingrato autunno, io vi raccolgo e spero Che ad altro Sole mi farete onore. Voi, culti vasi, in cui rivive il vero Germe de’ fior, venite in parte almeno U’ non stenda il rio verno il crudo impero. (xx, 121-129)



Nell’ultimo canto, sulle intenzioni didascaliche prevale nettamente l’intento estetico : Ricci immagina infatti che le Driadi e le Napèe subiscano una metamorfosi e siano trasportate da Zeffiro sulle piante a cui daranno vita perenne :  

I freddi mesi invernali saranno animati dalla speranza del ritorno della Dea :  



Quelle si raccorciaro ad una ad una In vario-pinti gracili atometti, Come in raggio solar polve s’aduna, E quasi a volo da un sospir diretti Poi s’adattâr di Zeffiro alle piume Tutti distinti di colori eletti : Spiccossi intanto il disîoso Nume A riveder le stelle, e di più monti Traversò l’ime bolge impervie al lume, Ed al segreto gorgogliar de’ fonti Per gli antri immensi riconobbe il calle, Onde al purissim’aere si sormonti. Or poichè emerse in un’aperta valle ; Come al primo tepor d’aura vitale Vedi sbucciar le tenere farfalle ; Così Driadi e Napèe con volo eguale, Di farfallette angeliche in sembiante, Del Nume si staccàr dalle bell’ale, E si gittàr sulle diverse piante Ciascuna aspersa del gentil colore, Onde il fior proprio in sua stagion s’ammante. Sentiro il Nume dal diffuso odore I fior tremanti ai fuggitivi amplessi, Qual per secreto brivido d’amore. Ei fuggendo un sospir lasciò sovr’essi, E sulle penne dal desìo portate Tornò ne’ placidissimi recessi. (xxiv, 91-117)

L’anno vegnente gli vedrà fiorenti Levarsi all’aure, e in tanta gioia umìle Sbucciarne il fiore a profumare i venti. Ma mentre io canto, ah ! che i miei carmi a vile Prende forse la Diva, e a noi sol resta La tarda speme del venturo aprile. Ve’ come or volge pensierosa e mesta Il volto indietro… e tra i sparuti fiori Lo sguardo alquanto, e non il piede arresta ? (xx, 103-111)  





Nel xxi canto, per descrivere il cambio della stagione, sull’aspetto scientifico prevale la raffigurazione mitologica :





Borea soffiò… di Zeffiro ogni accento In un susurro tremulo vanìo. Qual se da lato opposto insorge il vento, Qua tutto ammorza, e là porta veloce Ronzìo di pecchie, ovver lontan concento ; Poi Borea con villano impeto atroce Racchiuso in fosco nugolo d’arena Del rivoluto mar corse alla foce : Abbrividito dalla cruda scena Restò Zeffiro intanto, il giovinetto Imperator della verzura amena, E raccogliendo con ansante petto La parola su i labbri, ed il respiro Dall’oltraggio, e dal palpito intercetto ; Se ne andò quasi a vol del suo sospiro Opi a trovar nelle caverne annose, Donde sospinge il suo grand’orbe in giro, Tutte librando le terrene cose. (xxi, 110-127)









Negli ultimi canti dell’opera, Ricci immagina che Zeffiro si lamenti con Opi delle offese arrecate da Borea e del fatto che i fiori abbiano una vita tanto breve ; ecco allora Opi conce 

Queste terzine appaiono dense di riferimenti danteschi : il « riveder le stelle » (v. 98), le « ime bolge » (v. 99), il « calle » (v. 101), così come il verso « sulle penne dal desìo portate » (v. 116) riecheggia « Quali colombe dal disio chiamate » (Inf v, 82). Dunque la proprietà del linguaggio botanico ha fatto spazio alla pura invenzione ; proprio sul difficile equilibrio tra intento didattico e lirismo si era espresso Ippolito Pindemonte, che aveva privilegiato la finalità estetica della poesia didascalica :  

























angelo maria ricci e la georgica de ’ fiori Sarà dunque fine di questi poemi, benché didascalici si chiamino, il diletto, e non già l’ammaestramento come vuolsi comunemente. Perciocché se lo scrittore dee colorire, animare, illuminar tutto, e servirsi d’un parlar figurato, che spesso mal può accordarsi con la precision filosofica […] con qual coscienza potremo noi affermare, che abbia per fine l’ammaestramento ? Ed io non già sostengo, che nulla s’impari in tali opere : sostengo, che tanto è lungi, che un lettore possa addottrinarsi in ciò, di cui trattano, che poco anzi le intenderà, se in ciò, di cui trattano, non si sarà addottrinato prima. E scarso diletto anche ne trarrà. 1  



Lo stesso Ricci affronta tale questione : dopo aver precisato nel Discorso preliminare che non ha ritenuto necessario spiegare con note il linguaggio mitologico, osserva che  

Un’altra difficoltà non lieve insorge nel Poema didattico dal dovere ornare e rilevare a certo grado di dignità e di bellezza […] alcune 1   Ippolito Pindemonte, Elogio del Marchese Giovambatista Spolverini, in Idem, Elogi di letterati, ii, Verona, Tipografia Libanti, 1825-1826, pp. 5-76 : 15-16.  

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cose o basse per loro stesse, ovver dall’uso avvilite, ed eccoci discesi a parlare dello stile. Esso dovrebbe conservare in questo genere di Poesia l’andamento d’una modesta eleganza, e d’una limpida e bella semplicità. 2

Secondo Ricci, seguirono questi precetti Esiodo e Arato, mentre i moderni hanno privilegiato la vivacità e l’eleganza dello stile ; in merito alla propria opera, sembra quasi chiedere la complicità del lettore, poiché egli ha almeno cercato di trasmettere nei suoi versi il « calore », ovvero la sincerità del sentimento, dimostrandosi in tal modo poeta vicino alla sensibilità romantica :  







Forse la tempra stessa del mio debole ingegno mi tenne su i limiti di un’onesta mediocrità. Comunque sia, io sperai d’ottener compatimento per certa facilità ingenua, onde traspira quel calore (seppur ve ne ha ne’ versi miei) che tacitamente raccomanda gli Scrittori, i quali mostrano più di sentire che di pretendere. 3 2 3

  Angelo Maria Ricci, Discorso preliminare, cit., p. 15.   Ivi, p. 16.

MAZZINI TRA LETTERATURA E STORIA. APPUNTI DI LETTURA Fulvio Salimbeni

Q

 est’anno, celebrandosi il 150° anniversario dell’Unità u d’Italia, s’assiste a un diffuso ritorno d’interesse per il nostro Ottocento, in genere, però, rivisto e riproposto nella sua più tradizionale dimensione politica, diplomatica, militare e istituzionale, riduttiva del ben più complesso e significativo fenomeno ch’è stato quella che già Adolfo Omodeo giustamente definì la « civiltà del Risorgimento ». Non è certo un caso che essa trovi un ideale inizio nella celebre prolusione pavese del 22 gennaio 1809 del Foscolo, Dell’origine e dell’ufficio della letteratura, in cui il poeta esortava gli italiani ‘alle storie’, per riscoprire e rimeditare in funzione pedagogica il loro glorioso passato, riprendendo temi che, del resto, erano già presenti nei Sepolcri. Difficile, inoltre, sarebbe immaginare il processo di rigenerazione, rinnovamento o rinascita nazionale – per usare il pregnante lessico politico del tempo, d’evidente matrice religiosa – prescindendo dall’opera del Manzoni, del Berchet, del Giusti e di autori di romanzi storici come il d’Azeglio, il Guerrazzi e il Nievo, che ha saputo sintetizzare in modo mirabile il processo d’unificazione nella lapidaria frase « Io nacqui Veneziano… e morrò per la grazia di Dio Italiano », oltre, naturalmente, al Verga, al De Roberto e al De Amicis di Cuore, per finire con il De Sanctis della Storia della letteratura italiana – vera e propria storia civile degli italiani tramite i loro letterati – e il Carducci delle Letture del Risorgimento italiano, 1749-1870, concepite espressamente per la scuola, così da fornire ai futuri cittadini un’idonea educazione civica ; a ragione, pertanto, Giuseppe Langella, attuale direttore del Centro di ricerca dell’Università Cattolica di Milano Letteratura e Cultura dell’Italia Unita, la cui stessa denominazione è già un preciso programma di lavoro, ha potuto intitolare Amor di patria : Manzoni e altra letteratura del Risorgimento, la sua raccolta di studi in materia, pubblicata nel 2005 con la novarese Interlinea. Analogo discorso, d’altronde, può farsi in merito alla questione della lingua, vista la centralità d’essa nel definire l’identità d’un popolo, donde gli interventi in materia, a parte l’autore dei Promessi sposi, del Leopardi, dell’Ascoli, del Bonghi e del Tommaseo, la cui monumentale impresa del Dizionario della lingua italiana riuscirebbe incomprensibile fuori da una siffatta prospettiva d’impegno patriottico, oltre che filologico, senza dimenticare il deamicissiano L’idioma gentile. Ciò s’è voluto sommariamente ricordare solo per meglio intendere l’attenzione che Giuseppe Mazzini dedicò sin dagli esordi della propria attività, quando ancora non era ricercato dalle polizie e poteva operare alla luce del sole, alla letteratura e ai suoi principali esponenti. Il patriota genovese, lungi dall’essere soltanto un cospiratore e un infaticabile tessitore di trame rivoluzionarie, quale veniva dipinto un tempo, oggi, grazie alle meritorie indagini di Salvo Mastellone, che ha riscoperto e rivalutato i suoi Pensieri sulla democrazia, uno dei testi capitali della cultura politica ottocentesca, scritti nell’esilio londinese e di tale pregnanza e spessore da essere oggetto dell’implicita e puntuale contestazione da parte di Marx ed Engels nel ben più noto Manifesto del partito comunista, è considerato uno dei maggiori intellettuali europei del suo tempo, dotato, inoltre, d’una cultura vastissima e spaziante su orizzonti oltremodo ampi, del che diede prova già in uno scritto giovanile, che qui si vuole richiamare all’attenzione, essendo in genere trascurato sia dagli studiosi di letteratura sia dagli storici risorgimentali, vale a dire il saggio D’una letteratura europea, apparso nell’« Antologia » del novembre-dicembre 1829,  















a firma ‘Un Italiano’. Non è, d’altro canto, da trascurare il fatto che già nel 1827 (anche se tali prime note apparvero a stampa appena nel 1837) egli si sia occupato Dell’amor patrio di Dante, riprendendo l’esempio del Foscolo, che negli anni inglesi s’era dedicato agli studi danteschi in dichiarata funzione patriottica – e Mazzini se ne sarebbe occupato attivamente, impegnandosi per diffonderli tra un più vasto pubblico, nel decennio (1837-1847) della permanenza a Londra –, oltre che per far conoscere il poeta fiorentino oltre Manica. Né si può dire che quest’attenzione al versante culturale sia propria solo del periodo iniziale dell’impegno politico, quando si trattava di definire il proprio percorso ideologico e di mettere a fuoco gli obiettivi verso cui indirizzare ‘pensiero e azione’, perché poco dopo, nel 1830, componeva il saggio Del dramma storico, ispirato dal Don Carlos di Schiller, mentre del 1832 sono i Pensieri. Ai poeti del xix secolo, che riprendono temi e motivi precedenti, che troveranno una più precisa sistemazione teorica nella trattazione Della filosofia della musica, del 1836, e nel saggio, del 1841, sulla pittura moderna in Italia, che attestano varietà e ampiezza degli interessi artistici dell’apostolo ligure, i cui interventi in tali ambiti, peraltro, sono sempre segnati da un’istanza di pedagogia nazionale, né, come da taluni sostenuto, sarebbero nient’altro che uno scaltro tentativo di fare politica senza attirare troppo l’attenzione della censura, giudizio limitativo ed erroneo, che misconosce la sua geniale comprensione delle nuove forme della comunicazione politica. Teatro lirico, pittura, letteratura essendo i canali privilegiati per raggiungere il pubblico e formarlo ai nuovi ideali nazionali, era naturale per un intellettuale quale Mazzini occuparsene e discutere contenuti e forma di tali strumenti comunicativi, donde l’attenzione per Rossini – quello, s’intende, del Guglielmo Tell –, per Hayez, per Foscolo – per lui simbolo dello scrittore militante – e per Manzoni così come per Goethe e Schiller. L’autore de I doveri dell’uomo non era, né voleva essere un critico, ma, ben comprendendo il valore delle arti per plasmare la coscienza dei fruitori e per trasmettere precisi messaggi patriottici, riteneva doveroso trattarne con il dovuto impegno, come, del resto, per le medesime ragioni, contemporaneamente facevano Marx ed Engels, autori essi pure di Scritti sull’arte, consultabili nell’edizione laterziana, curata da Carlo Salinari, del 1967. è per tali motivi che Lucio Villari ne Il Risorgimento. Storia, documenti, testimonianze. iii. 1831-1846 : Mazzini, Gioberti e le idee d’Italia (Milano, L’Espresso, 2007), ha inserito numerosi passi di interventi culturali del fondatore della Giovine Italia e della Giovine Europa, che ben documentano la sua attenzione anche per tale versante della lotta politica e la modernità del suo operare politico, che trova esemplare conferma proprio nel già menzionato saggio D’una letteratura europea. In esso si riscontrano, infatti, tanto il respiro europeo della sua concezione politica, tutt’altro che angustamente nazionalista – al riguardo, d’altronde, sarebbe sufficiente leggerne le posteriori Lettere slave, del 1857 –, quanto la dimensione culturale del suo ragionamento politico. Foscolianamente per lui la letteratura essendo l’espressione più autentica dell’anima d’un popolo e il letterato il portavoce naturale delle sue esigenze e istanze, ne conseguiva il radicale rifiuto dei verseggiatori cortigiani dei ‘secoli bui’ delle dominazioni straniere e di quelli arcadi, cantanti gli amori di ninfe e pastori, e l’elogio, invece, di quegli scrittori come Parini, Alfieri e lo stesso Foscolo, che con la propria opera, e con l’esempio di coerenza  

mazzini tra letteratura e storia. appunti di lettura agli ideali professati, avevano cercato di scuotere e risvegliare le coscienze assopite dei concittadini, proponendo esempi di virtù eroica e di dedizione alla causa della patria e del bene comune, non senza il prevedibile richiamo al precedente dantesco e agli scrittori civili dell’età umanistica, in cui rientrava il recupero del Petrarca ‘politico’, della Canzone all’Italia, delle speranze riposte nell’esperienza romana di Cola di Rienzo e delle rimostranze contro l’esilio avignonese, su cui di recente belle pagine sono state scritte prima da Fabio Cossutta e poi da Simone Volpato illustrando gli interessi petrarcheschi in un’ottica nazionale dal patrizio triestino Domenico Rossetti. Da qui, pertanto, l’attenzione per il romanzo storico – ritenuto strumento ideale per divulgare tra i lettori gli ideali patriottici – e per la nuova letteratura romantica di qua e di là dalle Alpi – in ispecie per quella dei popoli slavi, affatto senza storia e allora essi pure risorgenti, il cui valore già Herder aveva messo in adeguata luce –, collocando quella italiana nel più generale contesto europeo, di cui la vedeva parte integrante e costitutiva e di cui ricostruiva per sommi capi, ma con sostanziale correttezza critica e storiografica, le secolari rela-

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zioni con quella continentale, vista ormai come un tutt’uno, in una realtà in cui i progressi della scienza e della tecnica, avvicinando i popoli, ne favorivano la reciproca conoscenza e l’affratellamento (grande parola del lessico mazziniano), dando origine, pur nella diversità delle lingue, a una comune cultura, in cui Shakespeare, Cervantes, Goethe, Schiller e perfino Puskin (notare che allora lo scrittore russo era ben poco conosciuto fuori dai confini dell’impero zarista, eppure il patriota ligure lo menziona con cognizione di causa), oltre a Dante, Petrarca, Machiavelli, Muratori, Cesarotti – di cui è rilevata l’importanza quale traduttore – si ritrovano senza più distinzioni nazionali, essendo patrimonio comune dell’umanità, che è un concetto ripreso con ancor maggiore decisione e approfondimento circa un secolo dopo da Stefan Zweig negli scritti e discorsi per una comune civiltà europea del ventennio tra le due guerre mondiali. Tali convinzioni pochi anni dopo, nel 1834, avrebbero trovato compiuta espressione nella fondazione della Giovine Europa, ideale cui Mazzini sarebbe sempre rimasto fedele, ma che trova la prima esplicitazione proprio in un documento in apparenza letterario.

LEOPARDI : PARADOSSO DI SPIRITUALITÀ  

Raffaele Cavalluzzi

I

l deposito stratificato di radicalità religiosa nello spirito leopardiano è innanzitutto testimoniato dall’educazione rigidamente cattolica della famiglia, in primo luogo del padre, e dalle pratiche comuni di fede, a lungo, ancorché in diversa misura e con sempre più incerta continuità, dal poeta conservate nelle abitudini private. Del resto, anche la sua biografia è stata avvicinata sempre più nella sua complessa interiorità e individualità ‘spirituale’. 1 E una sorta di verticalizzazione analitica è promossa dalla proposta dello spazio del ‘privato’ leopardiano come luogo strategico di interpretazione critica impegnata a limare possibili persistenze deterministiche, come avviene, ad esempio, già nel 1991, in Leopardi e l’immagine antica di N. Bonifazi, 2 a partire dalla constatazione della « mancanza di un amore reale » coadiuvata da un trauma edipico : si affrontano, così, e si sciolgono, almeno in parte, gli intrecci metaforici luttuosi che compongono l’inconfondibile cifra di una poesia che resta malgrado tutto ‘malinconica’. Ma, ancor più rilevanti, sono alcuni fattori della personalità di Giacomo che emergono in varie occasioni : essa è costituita, non a caso, da una forma stellare di elementi, assai spesso in contrasto tra loro, e talora anche distanti dall’articolata vicenda del suo pensiero, sicché il materialista convive con l’insistente sistema delle pascaliane ‘ragioni del cuore’. Perciò, in primo luogo, val la pena di considerare il senso dell’estremo e dell’equivalente ansia di assoluto che la ricerca intellettuale di Leopardi conservò con costanza e inflessibilità : non c’è ambito delle sue innumerevoli scoperte mentali che non conduca a una estremizzazione senza compromessi. Inoltre, nonostante l’impianto sempre più visibilmente antimetafisico della sua visione delle cose, la bussola della sua esplorazione della ‘natura’ si trova fissata quasi sempre sulla « prima o quasi prima ragione », cioè su un sistemico Principio unico. E, nel tempo stesso, contrastano con il suo materialismo, e il senso che ne consegue della finitezza del mondo, cose e fenomeni di una condizione che appare quasi sempre divorata dalla tensione all’infinito. In altri termini, ‘estremo’, ‘Principio semplice’, ‘infinito’, appaiono costitutivi di un carattere spirituale, e presupposti di un metodo cognitivo comunque poi portati a misurarsi con la grave immanenza. E non lontani, d’altro canto, da quella forma di religiosità intransigente e rigorosa che quasi cent’anni prima di lui aveva caratterizzato il modo di approccio di Blaise Pascal alla fede rivelata. Appunto il perdersi dell’anima nel naufragio dell’idillio è un soprassalto mistico e assoluto della vita interiore, anche perché, come è stato recentemente rilevato, « Annegare, naufragio, perdersi, insieme a immensità, mare, annullarsi, dissolversi, fondersi, sono parole tipiche del linguaggio mistico cristiano e islamico, e di quella contraffazione del linguaggio mistico (accompagnato da ‘estasi’ e ‘rapimenti’) che è la scrittura di Rousseau » (Citati, p. 181). Esemplare resta peraltro il perdersi del poeta in una sua particolare mistica quando esalta « l’amor spirituale e fantastico : quello provato, in sogno per Benedetta Brini o per la donna di cui raccontava a Jacopssen, o per lo spettro apparsogli nel crepuscolo dell’alba o per la donna che non si trova » (Citati, p. 134, a proposito del Sogno, uno dei suoi componimenti più misteriosi). Del resto, per lui « niente come  

























1   Da Storie di casa Leopardi di Mario Picchi, Milano, Rizzoli, 1990, al suggestivo Leopardi di Pietro Citati, Milano, Mondadori, 2010 (d’ora in poi Citati sarà richiamato più volte nel testo dalle pagine del suo saggio, cui questo contributo deve molto). 2   Neuro Bonifazi, Leopardi e l’immagine antica, Torino, Einaudi, 1991.

l’eros rivela il sacro… La bellezza è una folgore che non appartiene al tempo : un’irruzione improvvisa, che sconvolge e fa battere il cuore » (Citati, p. 136). Una paradossale asseverazione del divino è peraltro il rousseauiano ‘paese delle chimere’ (« non c’è niente di bello tranne ciò che non esiste »), che Leopardi riprende in un passo dello Zibaldone del 7 maggio 1829 : se ne può dedurre forse che ciò che chiamiamo Dio sia il trionfo del possibile, o entità di riferimento di « cose che non sono cose ». 3 Dal suo canto, come prova di quello che Massimo Cacciari chiama, nella modernità, l’impossibilità di risolvere in senso sintetico la crisi del sistema classico-dialettico, il saggio su La questione romantica di Sergio Givone 4 va alla radice della tesi circa il carattere schematicamente sentimentale e regressivo del Romanticismo, per negarla drasticamente. La sua convinzione, grazie alla rivitalizzazione di una linea Novalis-Nietzsche, è invece che il Romanticismo è esso la radice della modernità, e perciò della scienza e della tecnica (ovvero di un destino che – avverte lo studioso – dobbiamo accogliere con la disposizione medesima che caratterizzava l’atteggiamento verso il proprio dell’eroe della tragedia classica). 5 Infatti, nel periodo in cui, perfino nel senso comune e negli stereotipi di civiltà, si contaminano maggiormente ragione e mito, ragione e poesia, a fondare la prima – la conoscenza scientifica e tutto quello che nella modernità ne consegue – è proprio la facoltà immaginativa e inventiva – schlegeliana –, poiché per propria natura differenziatrice, e perciò anche liberatrice, e tragicamente libera dal principio di non contraddizione. È peraltro interessante poi notare che, per Givone, « il valore di verità del linguaggio mitopoietico » consente, nell’estrema fase della secolarizzazione, addirittura una ripresa del problema di Dio come problema filosofico, dopo il lungo equivoco di « contenuti di una fede nata dall’ebraismo » e invece « pensata per mezzo di categorie fondamentalmente greche ». 6 Il che – si può allora aggiungere a mo’ di corollario, per quel che ci preme – riesce a rimettere in primo piano, in una storia intellettuale come quella di Giacomo Leopardi, anche le questioni per molti aspetti tutt’altro che risolte sia della ‘politica’ che della ‘religione’. E si pensi, nel primo caso, al rapporto tra leggi fisiche e libertà riproposto dall’assolutezza tragica di una dimensione del divino che torna a spiazzare le regole della necessità ; o, nel secondo, all’insostenibile rimozione, patita dalla cultura razionalistica (e dall’‘ideologia’ materialistica), del nesso tra dolore ed espiazione, 7 il cui valore teorico ogni addebito pragmatico-spregiativo per la cosiddetta ‘etica del sacrificio’ non sembra in grado sino in fondo di annientare. Per Leopardi, del resto, a riprova della persistente serietà di tali ambiti problematici, più volte può significativamente registrarsi, sia pure in margine, lo sforzo di non pochi teso quasi a sorvolare sul fermento mai dissipato della ‘scommessa pascaliana’ (se non altro, innegabile, e poco formale, nella particolare tensione densificante della prosa meditativa del  



























3   Giacomo Leopardi, Zibaldone, ii, a cura di Rolando Damiani, Milano, Mondadori, 1997, p. 2735 (22 Aprile 1826). 4   Sergio Givone, La questione romantica, Roma, Laterza, 1992. 5   Cfr., intervista a «L’Unità-libri», 17 febbraio 1992. 6   Sergio Givone, Quanto rumore per seppellire Dio, « La Repubblica », 11 luglio 1992. 7   Cfr. di Luigi Pareyson, in « Annuario filosofico », un puntuale rinvio negli anni Novanta, per questo, a Dostoevskij, ma anche il saggio monografico da Pareyson dedicato poi al grande scrittore russo per i tipi di Einaudi.  







leopardi: paradosso di spiritualità Recanatese) ; o sul deposito di radicalità religiosa – come s’è detto – trasferito sempre indenne nella consequenziale evoluzione del suo pensiero strenuamente negativo ; ovvero, ancora sul problema della ‘gnosi’ che chiaroscura costantemente in lui morale e telos. A proposito, Mario Rigoni nel capitolo Il materialista e le idee, 1 pur con molte riserve, 2 questa segnalazione di cultura ‘gnostica’ nel fondo leopardiano la ritiene non a caso esatta. Leopardi è platonico e antiplatonico ad un tempo, e il critico ne sottolinea per questo il valore, apprezzando il saggio – bellissimo – di Ceronetti, 3 nonché l’Introduzione e le Note di C. Galimberti alla sua edizione delle Operette morali. 4 E Mario Marti, in un breve contributo raccolto in Il pensiero storico e politico di Giacomo Leopardi, 5 nella terza osservazione dedicata alla distinzione, nel ’32, del Tristano dall’insieme delle Operette morali, l’affianca all’abbozzo del ‘tremendo inno’ Ad Arimane per ricordare la circostanza a proposito e in rapporto critico con le posizioni degli studiosi impegnati sull’‘ateismo’ leopardiano : « Sicché – scrive Marti – alla concezione materialistica e meccanicistica dell’universo fa riscontro in Leopardi una segreta, negata, ma insopprimibile spinta finalistica e teleologica, per così dire alla rovescia, antiprovvidenziale, nei confronti di un mondo ordinato al male, alla distruzione, alla morte. Arimane è il momento in cui meglio si rivela il remoto e forse persistente bisogno leopardiano di una trascendenza comunque, che la ragione per contro drasticamente e drammaticamente nega ». 6 Probabilmente la crisi religiosa e ideologica del ’21-’23 lascia allora « sedimentazioni impalpabili di questa insopprimibile realtà », che « è probabile che sian da cogliere fino alla morte, magari sotterraneamente avvertite ». 7 Del resto, per il poeta, contraddittoriamente con il potere di conoscenza della ragione, la natura è Dio (« La natura è lo stesso che Dio. Quanto più attribuisco alla natura, tanto più a Dio : quanto più tolgo alla ragione, tanto più alla creatura. Quanto più esalto e predico la natura, tanto più Dio. Stimando perfetta l’opera della natura, stimo perfetta quella di Dio »). 8 E la stessa vicenda del peccato originale è letta da lui « con gli occhi del serpente e di Dio, o almeno con quelli della Genesi » (Citati, p. 162), tanto che in lui « il senso della colpa è fortissimo : colpa della natura, colpa della ragione, colpa di Dio, colpa di Leopardi verso sé stesso e verso quella natura incontaminata, a cui aveva dato le spalle sia consapevolmente sia inconsapevolmente » (ibidem). Lo scrittore vede così l’uomo perdere « per sempre la felicità che desiderava tanto ; e acquistare la ragione, che non amava o amava in modo perverso ». Ma « quello della ragione è uno strano trionfo. Quando essa si vede sparire dagli occhi la natura, comprende che la sua vittoria avrebbe distrutto la vita e il mondo : pensa che  











































1

  Mario Rigoni, Saggi sul pensiero leopardiano, Napoli, Liguori, 1984, pp. 55-72. 2   Cfr. Sebastiano Timpanaro posto a contrasto con Vivenzo Cilento, per i rispettivi saggi Il Leopardi e i filosofi antichi, in Classicismo e Illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa, Nistri-Lischi, 1969, e Leopardi e l’antico, in Studi di varia umanità in onore di Francesco Flora, Milano, Mondadori, 1963. 3   Guido Ceronetti, Intatta luna, in Idem, Difesa della luna, Milano, Rusconi, 1971. 4   Giacomo Leopardi, Operette morali, introd. e note di Cesare Galimberti, Napoli, Liguori, 1978. 5   Mario Marti, Riflessioni, in Il pensiero storico e politico di Giacomo Leopardi, Atti del convegno di studi Leopardiani, Firenze, Olschki, 1989. 6 7   Mario Marti, Riflessioni, cit., p. 346.   Ibidem. 8   Giacomo Leopardi, Zibaldone, i, cit., p. 361.

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sia un trionfo assurdo, e si spaventa di se stessa. Allora giunge la morte : ‘l’imperio della morte’, come Leopardi dice con le parole di san Paolo » (Citati, p. 163). Infine, ecco con le parole della parafrasi di Citati, la parabola dell’apparizione e della scomparsa di Dio all’immaginazione del poeta così come si manifesta nell’Inno ai Patriarchi :  





Dopo aver conosciuto nel testo biblico innumerevoli rivelazioni di Dio, Abramo siede ignoto, nell’ora di mezzogiorno, all’ombra della casa vicino alle rive del fiume, che alimentano il suo gregge : tipico tocco patriarcale che Leopardi aveva sognato nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica. La Genesi (18, 2) diceva che Jahvè apparve ad Abramo nella figura di tre uomini : per la tradizione cristiana erano tre angeli, o Dio insieme a due angeli, o la Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo. Leopardi non ha esitazione. Quegli uomini non erano né Dio, né la Trinità, né angeli veri e propri, ma angeli in veste di pellegrini. Sebbene Leopardi avesse un appassionato interesse per le rivelazioni del sacro, Dio non si rivela mai nei Canti in modo diretto : o è invisibile, come Artemide in Alla Primavera, o lo intravvediamo nelle figure di tre stranieri, sia pure dotati di una sapienza divina. Dopo questa luce velata, Dio si nasconde completamente. “Cresciute le colpe e l’infelicità degli uomini” dice l’abbozzo “tacque la voce viva di Dio, e il suo sembiante si nascose agli occhi nostri, e la terra cessò di sentire i suoi piedi immortali, e la sua conversazione con gli uomini fu troncata”. Dio scompare agli occhi degli uomini : Leopardi lo ricorda solo una volta in tutti i Canti, proprio nell’Inno ai Patriarchi, nella sua funzione demiurgica, come “eterno Degli astri agitator” (vv. 3-4) (Citati, p. 209).  







Dopo il tempo dei miti la ragione astratta dei greci aveva allontanato gli uomini dalla natura che viveva, fino ad allora, come mito assoluto. E la ragione analitica e negativa dei moderni, svelando la natura, ha reso intollerabile la vita. Tuttavia, per Leopardi, filosofia e religione collaborano a farcela accettare : di qui, contrapponibile al nichilismo vitale di Nietzsche, una sorta di post-nichilismo leopardiano in quanto, soprattutto, poeta delle rimembranze, della dolce sofferenza del ‘pensiero poetante’ in cui tornano a parlare le ragioni del cuore. Derivando da Pascal e da Rousseau codeste ragioni, Leopardi coltiva un singolare, eccezionale « albero dei ricordi » (Citati, p. 328), che sprofonda, a riconoscere Dio, nell’infinito (Citati, p. 177) : e subito se ne ritrae. Egli, in realtà è chiuso come Pascal negli spazi infiniti ; 9 e da Pascal, nella fenomenologia esistenziale, mutua forse l’idea di noia : « Noia. Niente è tanto insopportabile per l’uomo come il rimanere in un riposo assoluto, senza passione, senza affari, senza divertimento, senza applicarsi. Allora avverte il proprio nulla, l’abbandono, l’insufficienza, la dipendenza, l’impotenza, il vuoto. Dal fondo della sua anima uscirà quanto prima la noia, l’orrore, la tristezza, il dolore, il dispetto, la disperazione ». 10 Ma ne mutua anche una forma di convinzione morale omogenea al suo post-nichilismo : una religione – con lo stoicismo di Epitteto – né di crudeltà (biblico-controriformistica) né di piacere (modernoromanticheggiante).  

















9   « Vedo questi spaventosi spazi dell’universo che mi rinchiudono, e mi trovo fissato a un angolo di questa vasta distesa, senza sapere perché sono collocato in questo luogo piuttosto che in un altro né per quale motivo questo poco di tempo che mi è dato da vivere mi sia assegnato in questo punto piuttosto che in un altro di tutta l’eternità che mi ha preceduto e di tutta quella che mi segue. Non vedo che infinità da tutte le parti ; esse mi rinchiudono come un atomo e come un’ombra che dura solo un istante senza ritorno » (da un famoso pensiero pascaliano tradotto nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis). 10   Blaise Pascal, Pensieri, Milano, Garzanti, 2008, pp. 252-253.  





RISORGIMENTO E LETTERATURE DIALETTALI. NOTE PER UNA RICERCA Massimiliano Mancini

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el suo ‘canone’ degli autori e dei testi riferibili, per contenuti ideologici e per impegno etico-civile, ai temi e alle questioni del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, lo storico Alberto Mario Banti non ha incluso alcuno scrittore dialettale. 1 Per la poesia abbiamo i testi di Berchet e del toscano Giusti, le canzoni patriottiche di Leopardi, i Sepolcri di Foscolo, l’inno di Mameli e l’ode Marzo 1821 del Manzoni, il poemetto L’Esule di Pietro Giannone, l’inno Il Risorgimento di Alessandro Poerio ; per la narrativa, i romanzi epistolari di Foscolo e Cuoco e quelli storici di Guerrazzi e D’Azeglio ; per la tragedia, la Francesca da Rimini del Pellico, oltre alle due opere manzoniane ; tra i saggi storici, le opere di Cuoco, Botta e Colletta, e tra gli scritti politici quelli di Balbo, Gioberti e Mazzini (oltre al Misogallo alfieriano) ; per la memorialistica, Le mie prigioni di Pellico e le Memorie di Guglielmo Pepe. Vi figurano poi i libretti dei melodrammi di Rossini, Mercadante, Bellini, Donizetti e, soprattutto, Verdi. Il canone non si basa, naturalmente, sulle scelte critiche o sui gusti letterari del Banti, ma è il risultato di una ricognizione statistica intorno alla ricezione e alla fortuna che quei testi e quegli autori hanno avuto presso una generazione di giovani lettori e futuri patrioti del Risorgimento (Pepe, Balbo, Pellico, D’Azeglio, Tommaseo, Guerrazzi, la Trivulzio Belgiojoso, Montanelli, Mazzini, Garibaldi, De Sanctis, Abba e altri) i quali scoprirono in essi – « proiettata su un piano emotivo e simbolico » – l’idea di nazione italiana e l’impulso a lottare per realizzarla, e fissarono nelle loro memorie il momento e le fonti di questa « illuminazione ». 2 Il canone dello storico è ricavato dunque dalla memorialistica ottocentesca, che annovera, registrandone la diffusione e la fortuna, quelle opere e quegli scrittori che offrirono ai patrioti italiani il repertorio mitografico di parole d’ordine, di stilemi retorici, di immagini topiche su cui si venne costruendo e articolando il «discorso risorgimentale» dai primi moti liberali all’Unità. Un canone siffatto non può che selezionare testi in lingua di tradizione illustre (alla quale si rifanno i nostri poeti romantici) o di larga fruizione popolare su tutta la penisola (come i melodrammi o i romanzi) e non può includere, di conseguenza, la scrittura dialettale. Ma se provassimo a immaginare un canone più ampio e generale, anzi una sorta di capitolo di storia letteraria che non solo comprenda tutti gli scrittori, in lingua e in dialetto, che abbiano pronunciato in senso – diciamo così – positivo il «discorso risorgimentale», contribuendo in varia misura e in diverse forme a creare la mitografia nazionale e unitaristica, ma anche tutti quegli altri scrittori, in lingua e in dialetto, che abbiano declinato quel discorso in una prospettiva – diciamo ancora così – negativa, secondo modi di rappresentazione critica, anche fortemente corrosiva, del mito risorgimentale, allora il numero degli autori e dei testi si infoltirebbe non poco, come si arricchirebbe la polifonia delle voci e la varietà dei punti di vista (sul piano delle ideologie, naturalmente, ma anche su quello dell’invenzione letteraria). Fra gli stessi autori in lingua è possibile – com’è noto – disegnare una linea di pensiero problematica, comunque non mitografica, nei confronti del movimento risorgimentale. Proprio due scrittori capitali del canone stilato dal Banti stanno a testimoniarlo. Accanto al  















1   Alberto M. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Bologna, Il Mulino, 2006, pp. 3-55. 2   Ivi, pp. 44-45.

Leopardi «patriottico» basterà ricordare il lirico della Ginestra o il satirico della Palinodia, di alcune Operette e dei Paralipomeni (pensiamo all’infernale risata che sommerge, nell’ultimo canto del poemetto, le illusioni politiche del liberale Leccafondi). E per quanto riguarda la poesia civile del Manzoni, parte della critica tende ora a sottovalutarne la valenza e l’effettiva intenzionalità politica e militante per rimarcarne invece l’impianto profondamente religioso e teologico: tanto che, di recente, uno studioso molto sensibile alle filigrane scritturali intessute nella trama semantica degli Inni Sacri, delle odi civili e dei cori tragici come Valter Boggione giunge ad affermare che il coro della battaglia di Maclodio è soprattutto una lirica religiosa e corale, una « preghiera comunitaria » come lo sono gli Inni Sacri, nella quale « il singolo fatto storico acquista pienezza di verità solo quando viene osservato sub specie aeternitatis, e viene posto in relazione con gli archetipi biblici di cui costituisce il corrispettivo in un tempo e in un luogo diverso » ; e che di conseguenza il coro del Carmagnola non è una lirica politica come non lo è il primo coro dell’Adelchi, che malamente interpretato come un invito al «risveglio» degli oppressi Italiani, è invece « uno sconsolato bilancio del fallimento dei moti risorgimentali ». 3 Se, dunque, proviamo ad aprire il canone a quanti elaborarono, tradussero e pronunciarono il proprio «discorso risorgimentale» nelle forme linguistiche e stilistiche dei loro dialetti di origine, non avremo eccessive difficoltà a reperire autori e testi sia per il versante – come si è detto per intendersi – positivo, sia per quello negativo. Indubbiamente una ricognizione ampia e approfondita di tutte le scritture (sia colte sia popolari) che abbiano avuto ad argomento, fra il 1820 e il 1870, le questioni e i fatti del nostro Risorgimento, non è stata ancora compiuta se non parzialmente, ma intanto, in attesa che alcune iniziative di ricerca recentemente progettate si avviino a realizzazione, basterà aprire qualcuna fra le antologie di poesia dialettale più note per cominciare a segnare dei nomi. Quelli del primo versante sono autori che danno in vario modo il loro contributo al rinnovamento politico e civile coi loro testi o anche partecipando direttamente all’azione come patrioti militanti. Incontriamo così il piemonese Angelo Brofferio, che partecipò giovanissimo ai moti liberali del 1831, fece parte della setta massonica dei ‘Cavalieri della libertà’, fu incarcerato con l’accusa di congiura nel 1831 e continuò poi la sua attività politica tra le file dei Democratici, in opposizione al moderatismo cavouriano ; e che fissò quell’esperienza di politica militante, oltre che nelle sue memorie, anche nelle canzoni e poemetti in piemontese, dove possiamo leggere, ad esempio, questa satira feroce di una figurina d’antico regime come il Sor Baron :  

















S’as nomina pr’asar Lamarque ò Demarçais Villemain Roijer-Collar ò Casimir Perier 3   Valter Boggione, Modelli dell’innografia ottocentesca : Manzoni e Tommaseo, in Politica e cultura nel Risorgimento italiano. Genova 1857 e la fondazione della Società Ligure di Storia Patria, Atti del Convegno (Genova, 4-6 febbraio 2008), a cura di Luca Lo Basso, Genova, Società Ligure di Storia Patria, 2008, pp. 369396. Si veda pure Gilberto Lonardi (nella Postfazione ad Alessandro Manzoni, Adelchi, Venezia, Marsilio, 1992, p. 157 sgg.), il quale richiama la volontà di attualizzazione storica e l’ispirazione patriottica presenti nella prima stesura della tragedia, ma ricorda anche che nel passaggio alla redazione definitiva venne meno – come, del resto, nell’ultima stesura della Pentecoste – ogni accenno alle lotte per l’indipendenza e unità nazionale.  

risorgimento e letterature dialettali. note per una ricerca

intensi dell’epica risorgimentale in vernacolo, che significativamente venne molto apprezzato dal Carducci. Basterà citare, ad esempio, i sonetti dove viene vividamente rappresentato l’eroismo dei fratelli Enrico e Giovanni Cairoli, nella battaglia svoltasi appunto nei pressi e all’interno di Villa Glori, alle porte di Roma, durante il tentativo di insurrezione del 1867 :

a sauta a pista a braja con d’ fotre e d’ bosaron. Tireve ’n là gheusaja, fè largo a sor Baron. Al cafè Florio as conta ch’ s’ al fussa d’ sërvel mat, chiel ten la sela pronta për core a salvè ’l Stat, a l’à na spa ch’a taja le teste com i mlon : tireve ’n là gheusaja, fè largo a sor Baron. 1











El governo in ste cosse no ’l se perde : ma me l’ha dito l’oselin bel verde, che queli che va avanti e che sta saldi xé le camise rosse, e Garibaldi. El me l’ha dito in réchia e per mi solo, che presto o tardi se sarà in Tirolo, ma el me g’ha dito che no femo chiassi, perché el governo vòl tegnirne bassi, e no ’l vorìa dar ombra a certa zente che dise, dise, ma non fa mai gnente. 2  







1   « Se si nomina per caso Lamarque o Dumarsais, Villemain, Royer-Collard, o Casimir Périer, salta in pista e strilla con delle parolacce e degli improperi. Fatevi indietro plebaglia, fate largo al signor Barone. Al Caffè Florio [il Caffè dei nobili] si racconta che se ci fossero dei cervelli matti [i rivoluzionari], lui tiene la sella pronta per correre a salvare lo Stato, ha una spada che taglia le teste come i meloni : fatevi indietro plebaglia, fate largo al signor Barone » : in Poesia dialettale dal Rinascimento a oggi, i, a cura di Giacinto Spagnoletti, Cesare Vivaldi, Milano, Garzanti, 1991, p. 38 [con alcune correzioni mie nella versione italiana]. 2   « Il governo in queste cose non si perde, ma me l’ha detto l’uccellin belverde, che quelli che vanno avanti e che stanno saldi, sono le camicie rosse, e Garibaldi. Me l’ha detto in un’orecchio e solo a me, che presto o tardi si sarà in Tirolo, ma mi ha detto che non dobbiamo far chiasso, perché il governo vuole mantenerci bassi, e non vorrebbe dar ombra a certa gente, che dice, dice, ma non fa mai niente » : ivi, pp. 328-329 [con alcune correzioni mie nella versione italiana]. 3   Poesia dialettale del Novecento, a cura di Mario Dell’Arco, Pier Paolo Pasolini [1952], Prefazione di Giovanni Tesio, Torino, Einaudi, 1995, p. cxxi.  































Se avremo dubbi a includere il friulano Pietro Zorutti nel canone, ancorché Pasolini accennasse a un suo « romanticismo “da gazzetta” ; non austriacante, a dire il vero – e come forse ci si aspetterebbe – ma molto flebilmente risorgimentale », 3 vi inseriremo sicuramente il sacerdote marchigiano Giuseppe Mancioli, liberale e anticlericale, lettore e imitatore di Belli e di Giusti, autore di testi di satira politico-civile (editi, come il Prodigioso specifico di Dulcamara, il Discorso della corona ai begli umori, Lu tammurrì, o inediti, come i numerosissimi sonetti). E possiamo annoverarvi l’umbro Eugenio Torelli, liberale militante, che nel 1860 fece parte del corpo di spedizione che liberò Perugia ; e poi, scendendo lungo la penisola, il pugliese Francesco Saverio Abbrescia, canonico, letterato e accademico della Pontaniana e dell’Arcadia, che fu processato per la sua partecipazione al moto del ’48 e alla Dieta di Bari ; o il calabrese Vincenzo Ammirà, che seguì l’impresa dei Mille e fu più volte incarcerato. Se poi vogliamo allargare lo sguardo anche alle generazioni di poeti dialettali immediatamente successive all’Unità, sarà facile indicare in Villa Gloria (oltre che in alcune sezioni di Storia Nostra), del romano Cesare Pascarella, uno dei momenti più



Nun sparate che quanno so’ vicini. – E intanto che veniva un battajone, se vedevano l’antri papalini che saliveno in su pe’ lo stradone. – Perdio ! Nun se spregamo li quatrini ! – strillava Giovannino. – Attenti. Unione. Nun sparate che quanno so’ vicini. Fermi. Fermi, perdio ! Fermi. Attenzione … – E intanto che le truppe s’avanzaveno, che se pô di’ che stamio facia a faccia, le palle, fio de Cristo furminaveno. Ma quanno che ce corse tanto poco, che quasi je potemio sputà’ in faccia, Ninetto urlò : – Viva l’Italia ! Foco ! E lì ner mejo der combattimento de lotta a corpo a corpo davicino, ecco Erigo fuggenno come er vento ; guarda la posizione un momentino, e strila, dice : – Addietro, sacramento !, ché ve fregheno. Addietro, Giovannino … Addietro, ché restate chiusi drento prigionieri. De corsa ! Giù ar casino ! – Lì a la mejo facessimo er quadrato, e vortassimo in giù pe’ lo stradone dietro a Righetto a passo scellerato. E arrivati ar casale s’agguattassimo tra le rose e le piante de limone, e accucciati lì sotto l’aspettassimo. Allora, dopo questo, li sordati che nun capirno ch’era ’na finzione, credennose che fossimo scappati, vennero pe’ pijà’ la posizione. E mentre stamio tutti radunati, li sentimio venì’ pe’ lo stradone urlanno come ossessi scatenati ; ma Righetto che stava inginocchione avanti a tutti, fece : – Attento ! Attento ! – E quanno che ce stiedero davanti, Righetto ch’aspettava quer momento, buttò via la berretta, fece un sarto, strillò : Viva l’Italia ! e corse avanti, e noi dietro je dassimo l’assarto. 4  

Incontriamo poi il ligure Luigi Michele Pedevilla, mazziniano ; il lombardo Giovanni Rajberti, che scrive I barricat, sulle Cinque Giornate di Milano ; e il veneto Francesco dall’Ongaro, patriota e garibaldino, poeta ‘civile’ sia in lingua che in vernacolo, il quale così celebrava, in 16 luglio 1866 (uno dei componimenti della raccolta dialettale Alghe della laguna), il deciso ed efficace attivismo delle ‘camicie rosse’, durante la terza guerra d’indipendenza, in contrapposizione agli indugi politici e militari del governo sabaudo :



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Una ricognizione filologicamente e criticamente adeguata dei testi dialettali (colti e popolari) che accompagnano tutto lo svolgimento del processo risorgimentale – lungo l’intero percorso che portò prima all’Unità, imperfetta, del 1861 e poi al completamento dell’unificazione territoriale e dell’indipendenza nazionale con l’annessione del Veneto nel 1866, la presa di Roma nel 1870 e la conquista di Trento e Trieste nella guerra del ’15-’18 – farà pure emergere la presenza di una linea ‘antirisorgimentale’ : generata da ragioni prettamente ideologiche, come quelle, ad esempio, che animavano il reazionario poeta ligure Martin Piaggio o il marchigiano Giambattista Tamanti, antiliberale e antiunitario ; o più profondamente originata e sostanziata da prospettive ideali e culturali ben più complesse, problematiche e sofferte. A questa seconda specie di autori dialettali da annoverare lungo il versante ‘negativo’ del canone, appartengono – rappresentandone proprio il mo 



4   Cesare Pascarella, Villa Gloria (sonetti xiv-xvi), in Idem, Tutte le poesie romanesche, Introduzione di Giovanni Gigliozzi, Roma, Newton, 1996, pp. 69-70.

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massimiliano mancini

mento iniziale e quello finale – due vertici della letteratura dialettale di ogni tempo, il romano Giuseppe Gioacchino Belli e il milanese Delio Tessa. Fra i due grandi poeti, quello di meno perspicua interpretazione è certamente il Belli. Dicevo poco sopra che la ricostruzione del panorama dei rapporti fra letteratura dialettale e ‘discorso risorgimentale’ è complesso : sicuramente sul piano filologico e testuale, perché si tratterà di raccogliere ordinatamente testi spesso inediti, oppure editi malamente, o diffusi clandestinamente o affidati a tradizione orale (come nel caso dei testi popolari) ; ma anche sul piano dell’analisi e del commento critici, quando si abbia a che fare con componimenti testualmente sicuri, ma di controversa interpretazione del messaggio. È questo, appunto, il caso del poeta romano. Com’è noto, gli elementi caratterizzanti della mitografia risorgimentale, anzi gli stessi elementi costitutivi della mitografia romantica non sono certo motivi ispiratori del Belli romanesco, se non per subire in varia misura un procedimento di desublimazione attraverso le armi del comico : il mito della guerra eroica si dissolve nell’assoluto pacifismo di sonetti come Li sordati bboni e altri di analogo argomento ; l’emblema plutarcheo della virtù antica si sfalda nel ridicolo dei numerosi «quadretti» sull’« istoria romana » ; il culto delle «rovine» del glorioso passato diviene tema da opera buffa nei sonetti «archeologici». Il giudizio negativo intorno ai grandi ideali che accendevano gli animi degli intellettuali-patrioti sembrerebbe netto e chiaro nel Commedione. Ma non dobbiamo dimenticare che Belli iscrive il suo messaggio in una complicata strategia enunciativa fondata sull’istituzionale nascondimento dell’autore (e del suo pensiero) e su procedimenti antifrastici talora di difficile disambiguazione. 1 Questo problema critico riguarda anche quel non piccolo gruppo di sonetti che svolgono tematiche risorgimentali, e che, in parte, sono stati analizzati di recente in un libro del Ripari. 2 Lo studioso correttamente individua la prospettiva ironica che li governa : il popolano che parla nel testo, perlopiù, è un reazionario e odia i « giacubbini », ma il suo discorso è in genere presentato dal poeta in modo tale che esso sia interpretabile nel senso opposto, e dunque nel senso corrispondente a quello che parrebbe essere il vero pensiero politico del Belli, un pensiero di ispirazione liberale e progressista. Ma le cose in letteratura, e specialmente in un’arte letteraria così raffinata come quella del Belli, non sono così semplici. Tutta la meticolosa organizzazione testuale e paratestuale dei Sonetti tende a configurare il singolo componimento come citazione di discorso altrui. E sarà qui opportuno ricordare quanto scrive Raimondi, in un suo prezioso volumetto sui rapporti fra letteratura e Risorgimento, appunto sullo statuto della citazione : « La citazione, come frammento di pensiero, sottrae un testo al suo contesto, alla sua totalità. Spetta al lettore scavare in quella zona straniante, per stabilire delle ipotesi e completare il quadro. È una lettura […] problematica, nella quale gli interrogativi sono continui ». 3 Non si sottrae a questo statuto anche un sonetto come L’arberone, dove il pensiero dell’autore sembrerebbe coincidere con quello del locutore popolano (abbattere il potere temporale del papa con la rivoluzione), il quale peraltro non fa che citare a sua volta un pensiero altrui :

Talora i liberali sono dipinti secondo lo stereotipo reazionario di profittatori (come li vedeva, ad esempio, il Tamanti), con marcati idiotismi plebei :  

La bballa de sti poveri cardei vò scopà li soprani e ffalli fori pe ddì poi sscirpa e ffà le carte lei ; 5







e a volte la retriva opposizione a novatori e progressisti sembra manifestarsi seriamente e credibilmente (per il lettore) in una ruganza fosca e minacciosa :  

Chiameli allibberàli o fframmasoni, o ccarbonari, è ssempre una pappina : è ssempre canajjaccia ggiacubbina da levàssela for de li cojjoni. […] Perché è mmejjo a scannà cquarch’innoscente, de quer che ssia c’una caroggna sola resti in ner monno a impuzzolì la ggente ; 6  





















ma la condanna dei liberali sembra rovesciarsi (per antifrasi) in solidarietà, se a pronunziarla è la voce di uno specialista di forche :  

Bast’abbino l’idea de frammasone pe mmannalli a impiccà ttutt’in un mazzo. E ppe nnun fà a cchi fijjo e a cchi ffijjastro, a le mojje bbollateje la sorca, e a li fijji appricateje l’incastro. Si a ddà un essempio a sta canajja porca poi manca er boja, sò cqua io pe mmastro, che sso ccome se sta ssott’a la forca. 7

E tuttavia, anche quando la voce di un « patriotto » pare quella più condivisibile (da autore e lettore), essa finisce per confondersi, grazie all’accorto gioco polifonico degli enunciati, in un calderone di storpiature e di spropositi linguistici, sottraendo ogni serietà alla comunicazione :  



Dunque la fin der pranzo nu la sai ? Un po’ ppiù sse pijjaveno a ccazzotti. Pe ’na mezza parola se sò rrotti che gguai a llui si cciaritorna, guai ! « Nò, » strillava er padrone, « nò, mmai, mai : caluggne de vojantri patriotti : li Dottori sò stati ommini dotti, e Ggesucristo j’è obbrigato assai. » E cquello risponneva : « Eh, Monziggnore, abbadi come parla. Io nun zò aretico, ma ppoteva sbajjà ppuro un Dottore. » « Che ? » rrepricava l’antro : « ggnente, ggnente : lei, siggnore, è un gismatico, e un asscetico, un uteràno marcio, un biscredente. » 8  





1   Per il dibattito critico sulla questione cfr. Massimiliano Mancini, Oscenufreggi. Di Belli e belliani, Manziana, Vecchiarelli, 2007. 2   Edoardo Ripari, L’accetta e il fuoco. Cultura storiografica, politica e poesia in Giuseppe Gioachino Belli, Roma, Bulzoni, 2010. 3   Ezio Raimondi, Letteratura e identità nazionale, Milano, B. Mondadori, 1998, p. xiv. 4   Giuseppe Gioachino Belli, L’arberone, in Idem, Tutti i sonetti romane-















   









In più di un frammento di discorso popolare (citato e proposto alla riflessione del lettore) torna un motivo topico della presa in giro degli intellettuali e militanti liberali, quello della moda di portare baffi e barbe, quasi a insegne della loro ideologia :  

Ma cche ppoi, pe pportà cquer zu’ porcile de pelacci a la bbocca e ar barbozzale, com’adesso è l’usanza de lo stile,



Ma un Carbonaro amico mio me disce che nnun c’è antro che ll’accetta e ’r foco, perché er canchero sta in ne la radisce. 4











schi, a cura di Marcello Teodonio, Roma, Newton & Compton, 1998, n. 1060, vv. 12-14. 5   L’ommini der Monno novo, ivi, n. 361, vv. 9-11 ; annotando, come di consueto, la propria «citazione» dai « popolari discorsi », al termine scirpa il Belli spiegava : « Parola che pronunziata dal volgo nell’impadronirsi manescamente di alcuna cosa, la rende secondo essi irrepetibile ». 6   Li rivortosi, ivi, n. 1982, vv. 1-4 e 12-14. 7   Li bbaffutelli, ivi, n. 197, vv. 7-14. 8   L’urtimo bbicchiere, ivi, n. 1729.  











risorgimento e letterature dialettali. note per una ricerca m’àn buttaa via la rusca, scalcen a salt de cuu, scappen, sti sacradio, mollen el mazz, me disen, mollen i arma, slisen de tutt i part, el Zio me l’à pettaa in del gnàbel longh quatter spann e stàbel, l’è el dì di Mort e dio ! Passen i tramm ch’hin negher gent sora gent... lingera... tosann e banch de fera ! ... « Oh i bej coronn ! » « Alegher ! » « oh i bej lumitt ! » «oh i pizzi, le belle tende, oh i pizzi ! » « L’è el dì di Mort... alegher ! ». 4

s’abbi mó da chiamallo un libberale, questa è ccaluggna da ggentaccia vile, ciarle de quelli che jje vonno male.1 […] Sto pasticcetto è ffiglio d’un curiale, studia filosofia, porta il cappello bbianco, ha li bbaffi... Inzomma è un libberale. 2

Converrà qui notare come lo stesso motivo compaia nel finale di uno dei maggiori testi del Leopardi ‘comico’, la Palinodia al marchese Gino Capponi, dove, alla sarcastica lode ai « barbati eroi » (« Cresci, cresci alla patria, o maschia certo / moderna prole. All’ombra de’ tuoi velli / Italia crescerà, crescerà tutta / dalle foci del Tago all’Ellesponto / Europa, e il mondo poserà sicuro »), segue l’argutissima esortazione ‘virgiliana’ ai loro figli neonati affinché riconoscano col riso gli « ispidi genitori » e non abbiano paura dell’« innocuo nereggiar de’ cari aspetti », poiché da grandi essi avranno la fortuna di « veder gioia regnar, cittadi e ville, / vecchiezza e gioventù del par contente, / e le barbe ondeggiar lunghe due spanne ». 3 Una ghignante, livida ironia pervade la ‘rapsodia’ che il milanese Delio Tessa dedicava al momento più tragico di quella guerra che segnò la fase conclusiva del lungo e tormentato processo di unificazione nazionale : un’ironia che potremmo definire belliana (più che portiana), sfruttando una suggestione critica di Pasolini, il quale, prima di altri recenti interpreti della poesia tessiana, accostava il radicale pessimismo e il violento espressionismo dei due poeti ; non tanto – s’intende – del Belli piuttosto farsesco della satira contro gli « allibberali », quanto di quello tragico dei sonetti esistenziali. Durante la festività dei Morti, in una Milano autunnale e nebbiosa, giungono le notizie della disfatta di Caporetto e della ritirata delle nostre truppe ; queste notizie si mescolano e confondono con altri lacerti di frasi e di discorsi registrati nel movimento caotico della folla metropolitana, in un ibrido e straniante pastiche di morte e di allegria, secondo una cifra inventiva e stilistica di sapore indubbiamente belliano :  

































L’è el dì di Mort, alegher ! Sotta ai topiett se balla, se rid e se boccalla ; passen i tramm ch’hin negher de quij che torna a cà per magnà, boccallà : scisger e tempia... alegher fioeuj, che semm fottuu ! I noster patatocch a furia de traij ciocch, de ciappaij per el cuu, de mandaij a cà busca  



   





   

   

   







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Nel corso della sua « rapsodia » (l’autore la definiva pure « sonada quasi ona fantasia ») alla voce narrante del poeta, che torna dalla mesta visita al cimitero, se ne intersecano, in modo paritetico e senza alcuna gerarchizzazione sintattica, mille altre, con un montaggio di ‘inquadrature’ proprio della tecnica cinematografica (ben nota e praticata dal Tessa) : richiami di venditori ambulanti ; allarmanti notizie sull’avvicinamento dell’esercito austriaco ; vecchie canzoni militari in versione ‘disfattista’ ; bollettini di guerra falsamente ottimistici ; insulti e lodi per Cadorna ; gli alterchi fra le opposte fazioni politiche ; i canti rivoluzionari socialisti. E sullo sfondo scene di ansia e di paura delle famiglie di contadini che si apprestano ad abbandonare le campagne con masserizie e bestiame : sino al finale, dove – come scriveva Isella – « la tragedia del paese in rovina, dissanguato nella sua miglior gioventù mandata al macello, si sovrimpressiona in un paesaggio di periferia (campate di stabilimenti di guerra, ciminiere, magazzini), sui bagliori rossastri di un precoce tramonto novembrino ». 5 È dunque un grande testo dialettale a fissare il momento di maggior disfacimento e degenerazione di quel mito nazionale, e poi nazionalistico, che aveva generato e sostenuto il percorso storico verso l’unificazione e l’indipendenza italiana. E ci si può certo stupire, insieme all’Isella, « che un evento come la rotta di Caporetto, così drammatico per la storia del nostro paese, non abbia trovato, se non nel Tessa, una risonanza adeguata nella poesia italiana ». 6 Curiosamente, proprio in quel 1917, l’editore Carabba dava alla luce un’edizione arricchita (rispetto alla remota Le Monnier del 1852) dei versi di Alessandro Poerio, poeta e ‘martire’ del Risorgimento.  



































4   « È il dì dei Morti, allegri ! Sotto le pergole si balla, si ride e si tracanna ; passano i tram neri di quelli che tornano a casa per mangiare e sbevazzare : ceci e tempia... allegri figlioli, che siamo fottuti ! I nostri fantaccini a furia di intontirli, di prenderli per il culo, di mandarli a prender botte hanno gettato la divisa, scalciano a salti di culo, scappano, questi sacrati, hanno mollato, mi dicono, buttano le armi, se la svignano da tutte le parti, lo Zio ce l’hanno schiaffato nel deretano lungo quattro spanne e stabile, è il giorno dei Morti e dio ! Passano i tram neri gente su gente... teppa... ragazze e bancarelle da fiera ! ... “Oh le belle corone !” “Allegri !” “oh i bei lumini !” “oh i pizzi, le belle tende, oh i pizzi !” “È il dì dei Morti... allegri !” » : Delio Tessa, Caporetto 1917, in Idem, L’è el dì di Mort, alegher ! – De là del mur, a cura di Dante Isella, Torino, Einaudi, 1999, pp. 55-57. 5 6   Ivi, p. xix.   Ibidem.  



   





1

  Don Micchele de la Cantera, ivi, n. 1394, vv. 9-14. 2   La spia a l’udienza, ivi, n. 1305, vv. 12-14. 3   Giacomo Leopardi, Palinodia al marchese Gino Capponi, vv. 266-279, da liz, Letteratura Italiana Zanichelli, cd rom a cura di Pasquale Stoppelli, Eugenio Picchi, Bologna, Zanichelli, 1993.



















LA PSICHE DELLA CULTURA INDUSTRIALISTA. LETTERATURA E ALTRE ARTI PER UN’ICONA DEL CONTEMPORANEO Michele Rak

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 esto studio riguarda il trattamento dell’icona di Psyu che e della favola di Apuleio nella cultura industrialista che circola in Europa in misura crescente dalla metà dell’Ottocento. È una cultura che ricicla anche i materiali delle culture antiche nella nuova logica della comunicazione orientata dall’immaginario delle folle metropolitane e dalle loro domande e consumi di figure e intrecci e di nuove clausole dell’esperienza amorosa. Le mentalità, il costume, le tradizioni che controllano, organizzano, delimitano il conflitto sociale hanno usato ed usano anche icone di altre culture per produrre quelle parole d’ordine che qui di seguito chiamiamo ‘idee’. Questo processo consente di osservare la migrazione di modelli e tecniche tra i linguaggi d’arte. 1. Tra vari modelli di rappresentazione Nel caso osservato in queste pagine, la contiguità tra un racconto – un segmento dell’Asino d’oro di Lucius Apuleius intitolato correntemente La favola di Amore e Psiche – e varie forme di rappresentazione è funzionale ad una riarticolazione complessiva dell’immaginario europeo prodotta dalla cultura industrialista. È consigliabile che queste pagine siano lette da chi conosca già questo racconto e sia disposto a vederne le raffinate figurazioni con cui altri linguaggi lo trattano nei decenni indicati. Non è sufficiente aver provato dolori d’amore. 2. Due pericolosi interlocutori Una delle specialità di questa fanciulla selvaggia, ficcanaso ed erotica è di incontrare personaggi pericolosi a parte l’imprevedibile e furioso innamorato Eros e la riluttante e invidiosa suocera Venere. Un’opera può essere usata per segnalare una svolta nel trattamento dell’icona di Psyche nel corso dell’Ottocento. In un marmo del 1857, Pan consola Psiche dopo la fuga di Eros (Reinhold Begas, Pan Comforting Psiche, 1857, 132 x 101 x 67 cm., Alte Nationalgalerie, Berlin, Fig. 1) o la consola protettivo (cfr. Edward Burne-Jones, Pan and Psiche, 18721874, Fogg Art Museum, Harvard University ; Alex Rothaug, Pan and Psiche, Kulturhistorisches Museum Barockhaus, Görlitz). L’icona di Pan circola in varie rappresentazioni : questo semidio terrestre con la fiammella della conoscenza tra le corna e lo zoccolo caprino, devastatore dei sensi, allevatore delle pecore e delle api, emblema dell’eros bestiale e della musica primordiale e carnale suonata con il suo strumento a 7/9 canne (la siringa) che è il corpo trasformato, in una canna, della ninfa da lui amata, inseguita e perduta. Pan compare nel racconto di Apuleio come consigliere in uno dei momenti di sconforto di Psyche. Ma la scelta di rappresentare Pan e Psiche ha una tonalità ambigua. L’immagine dei due esseri è divergente, l’uno è l’emblema della pulsione sessuale senza freni e l’altra dell’amore incorporeo come prova suprema di un corpo, peraltro ben tornito come quello di Venere. Due icone non facili da comporre nella stessa opera. Pan è di solito rappresentato come predatore di ninfe dei boschi e il suo corpo scuro e irsuto frequentemente accostato a corpi candidi e riluttanti. Rappresentazioni di questo tipo approfondiscono il solco tra le due varianti dell’icona di Psiche, da una parte  



Fig. 1.

sempre più munita di ali a segnale della sua levità estranea al peso della terra e nello stesso tempo sempre più munita di carni virginali e appetibili a segnale della sua celebrata bellezza terrena, comparabile con quella celeste di Venere, e per questo a contatto, sia pure temporaneo, con Pan. Qualche anno dopo Psiche incontra anche un altro pericoloso personaggio nel suo viaggio negli Inferi imposto da Venere : Caronte ( John Roddam Spencer Stanhope, Charon and Psiche, 1883). 1 Nella più mitica delle storie d’amore circolano le icone dell’eros bestiale e della morte e suggeriscono al visitatore i sensi limitrofi di questa storia d’amore con la carne e la sua dissoluzione nell’ombra.  

3. Per Brahms Intorno al 1860 i nuovi linguaggi adatti alle folle metropolitane cominciano a riciclare tra le nuove icone della cultura industrialista anche l’iconografia dei miti. Le 46 incisioni ad acquaforte/acquatinta di Opus v che illustrano la favola di Apuleio (Max Klinger, Monaco, 1880) 2 dedicate a Johannes 1

  1829-1908.   Amor und Psyche. Ein Märchen des Apulejus. Aus dem Lateinischen von Reinhold Jachmann. Illustrirt in 46 Original-Radirungen und ornamentirt von Max Klinger. E.-F. Opus 5, Mûnchen, Theo. Stroefer’s Kunstverlag, 1880, (Biblioteca Nazionale Centrale, Firenze) ; cfr. Wilhelm Löwinger, Der goldene Esel. Ein Roman aus dem Altertum nach den antiken Quellen / neubearbeitet von Wilhelm Lowinger. Mit Bildern und Buchschmuck von Alexander Rothaug, Wien, Artur Wolf Verlag, 1919, con 8 tavv. f.t. in litogr. a colori di Alexander Rothaug 2



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Figg. 2-3-4. Max Klinger, Opus v, 46 acqueforti.

Brahms, amico di Klinger, frammentano l’intreccio in una serie di quadri che in parte si rifanno ai colonnati e alle tuniche della corrente iconografia della cultura latina, di fatto ne teatrano alcuni tratti attingendo al taglio grafico delle nuove forme di comunicazione – manifesti pubblicitari, fotografie e disegni per i periodici. Venere indica la troppo bella Psiche laggiù sulla terra al suo pericoloso figlio alato e con un inconsueto taglio grafico le ali occupano gran parte della tavola. Eros è tra le braccia (abbraccia le ginocchia ?) di Giove per impetrare un aiuto che il primo degli dèi non può negare a un così pericoloso soggetto che lo fa innamorare di così tante fanciulle terrestri (Figg. 2-5, Max Klinger, 1 incisioni da Opus v. Amore e Psiche, 1880). Durante un viaggio in Grecia (1894) Klinger veniva a conoscenza della scoperta della policromia dei marmi antichi, una scoperta che avrà influenza sul gusto del trattamento dell’Antico. Le incisioni non hanno più il gelido bianconero del suo noto kamasutra parigino ma drammatizzano la scena della favola affollandola di posture e paesaggi, vesti bianche e barbe e posizionano tutto nell’Antico e nella sua epica vita quotidiana.  

4. Prendere, rapire Man mano che ci si addentra nella cultura industrialista Eros e Psiche sono sempre più rapidi, spettacolari, drammatici e per questo comunicativi. Nel 1871 le figure sfumate e passionali di Edward Burne-Jones (Cupid Delivering Psiche, 1871, Oil (1870- ?), pittore, illustratore e decoratore nei teatri di Francoforte, Graz, Norimberga e Vienna. Il dipinto Pan e Psiche è nel Museo di Görlitz (nel frontespizio motivi della pittura vascolare antica e dello stile di Franz von Stuck) ; Hans Wolfgang Singer, Max Klingers Radierungen, Stiche und Steindrucke. 1878-1903, Berlin, Amsler & Ruthardt, 1909 (San Francisco, 1991) ; Max Klinger (1857-1920) : incisioni del ciclo Amore e Psiche, Milano, Studio d’arte grafica, 1982 (Catalogo della Mostra, Milano, 1-30 ottobre 1982) ; Hans Wolfang Singer, Max Klinger. Etchings Engravings and Lithographs, 1878-1903, San Francisco, Alan Wofsky Fine Arts, 1991 ; Carl Beyer, Max Klinger. Das Graphische Werk, 1909-1919, San Francisco, Alan Wofsy Fine Arts, 1997 ; Max Klinger, Opus fabulosum : sogno, mito e realtà : opere grafiche della Fondazione Antonio Mazzotta, Milano, Mazzotta, 2000 (Catalogo della mostra, San Donato Milanese, 2000) ; Dal sogno al segno l’opera grafica di Max Klinger, a cura di Mauro Corradini, [Brescia], Gam, 2002 (Catalogo della mostra, Chiari, 5-27 ottobre e Mantova, 1 dicembre 2002 – 6 gennaio 2003) ; Max Klinger : opera grafica, a cura di Sandro Parmiggiani, Scandiano, Comune, [2003], (Catalogo della mostra, Aceto, Scandiano, 2003) ; Max Klinger : sogni e segreti di un simbolista. a cura di Alessandra Tiddia, Lana, Tappeiner, [2005] (Catalogo della mostra, Trento, 2005). 1   Lipsia, 1857 – Grossjena, 1920.  















Fig. 5. Max Klinger (Lipsia, 1857 – Grossjena, 1920), Psiche errante, da Opus V. Amore e Psiche, 1880, foglio 8, acquaforte e acquatinta cm. 20,2 x 12,5 Singer 91.













on canvas, Sheffield Art Gallery, Sheffield, uk; vd. Figg. 6-7) sono ormai lontane dai lineari movimenti a scatti degli dèi di Canova e di David. La favola ha ormai una sua autonomia rispetto all’Asino d’oro e le sue rappresentazioni o svolgono in forma narrativa o di figura tutto l’intreccio selezionando gli episodi considerati più tragicamente ambigui o scelgono segmenti del racconto esaltando il loro valore attimale.

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michele rak stampato in edizione numerata (questo è il n. 1010) che utilizzava le tavole della Manifattura Joseph Dufour. Queste grandi scene dipinte (panoramas e papiers peints panoramiques) venivano stampate da quasi un secolo. Erano composte da strisce di carta stampata, con la tecnica dell’incisione su legno (xilografia), monocrome o a più colori. Potevano così essere abolite le decorazioni architettoniche sulle pareti con suggestivi effetti spaziali e narrativi. Era un prodotto economico e facilmente rinnovabile o spostabile, rispetto all’affresco e all’arazzo. Un décor di grande fortuna nella prima metà dell’Ottocento in Francia e in America. Le due manifatture francesi – Joseph Dufour a Parigi, Jean Zuber in Alsazia – stamparono tra il 1800 e il 1850 paesaggi esotici e racconti storici o romantici con un linguaggio di vivaci cromatismi. I Papiers si diffusero in parallelo ai panorami, una serie di disegni e pitture disposta in edifici circolari, con luce zenitale e piattaforma centrale, in modo da consentire al pubblico una visione ‘naturale’ a 360°. Questi ambienti consentivano allo spettatore di immergersi nella scena, storica o naturalistica. Il pittore inglese Joseph Baker considerava il suo ‘panorama’ uno strumento per ‘cogliere la natura a colpo d’occhio’. A Parigi i primi panoramas furono aperti al boulevard Montmartre nel 1800. Dufour aveva visto le illustrazioni del romanzo di Jean de la Fontaine, Les amours de Psiche et Cupido, ed aveva pubblicato le sue tavole nel 1815. Le aveva poi presentate all’Exposition publique des produits de l’industrie française (Paris, 1819). 1 Questo décor aveva fatto vincere alla manifattura Dufour la medaglia d’argento. Nella stessa stanza c’è un grande letto, una specchiera stile direttorio chiamata ‘psiche’ e il quadro Elena e Paride di Jean Jacques David. 6. Il triangolo della Belle Époque Nel corso del secolo l’immagine di Psiche cambia più volte funzione e senso. Il racconto si flette a seconda della cultura che ne

Fig. 6.

5. Papiers peints In una stanza nel Museo delle Arti decorative di Parigi, su tre pareti e in 12 grandi tavole di carta stampata, c’è la storia di Eros e Psiche. Sono state stampate dalla Manifattura Des Fosses et Karth, suo successore, nel 1872. È un décor panoramico

1   Jean-Gabriel-Victor de Moléon [pseud. de Tuleu ( Jean-Gabriel Victor, autre pseud. Montdejoli)], Louis-Sébastien Le Normand, Description des expositions des produits de l’industrie française, faites à Paris depuis leur origine jusqu’à celle de 1819 inclusivement ; renfermant les noms et les adresses de tous les exposants tant nationaux qu’étrangers (servant d’introduction aux Annales de l’industrie nationale et étrangère), Paris, Bachelier, 1824.

Fig. 7.



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Fig. 9.

8. Forse innocenti Fig. 8.

fa uso, che ne privilegia un senso anche non previsto nell’originario programma narrativo e certamente remoto rispetto al percorso di senso del testo classico. Ma l’industrialismo segmenta l’intreccio, ritaglia e spettacolarizza alcune azioni, sempre più lontano dall’itinerario sofferto e graduale della Bellezza verso l’Olimpo, privilegia i flash dell’avventura amorosa come eventi : il rapimento, il volo, l’estasi da amplesso. Psiche è sempre più corporale e spettacolare. Appartiene interamente al mondo dei corpi, che sono l’entità e la merce che tutti intendono, usano, guardano, decifrano e al loro livello pubblico : l’insieme dei generi dello spettacolo richiesto e articolato in misura crescente per comunicare con le folle. Una serie di rappresentazioni della favola si muove tra i tre registri del gusto corrente : la primordiale innocenza dell’eros, le sue pratiche alla moda, l’improvviso irrefrenabile rapimento dei sensi.  





7. Cinque varianti dell’eros In una serie di quadri (William-Adolphe Bouguereau, 18251905) sono leggibili alcune posizioni della storia di Eros e Psiche, che è tortuosa, sensuosa, connessa a una forma della bellezza della carne che ha nello stesso tempo a che fare con l’astrattezza dell’Olimpo, l’unico luogo in cui ha senso parlare della Bellezza che è assoluta. Il punto di contatto è dato dall’acclarata contiguità della Letteratura con le altre Arti, rappresentata in un sontuoso quadro che accosta solennemente l’arte della Scrittura all’arte della Visione (W. Bouguereau, Art and Literature, 1867, Arnot Art Museum, New York). Da questa prossimità la favola – che è in forma di scrittura – può prendere molti variabili aspetti, in forma di altre arti.

L’Eros è bambino e tempestosamente innocente (W. Bouguereau, 1875). Cupido e Psiche sono bambini che giocherellano con i loro corpi inconsapevoli (W. Bouguereau, 1889) e si scambiano un primo bacio, versione capziosa di un contatto e conflitto tra eros e bellezza (Fig. 8, W. Bouguereau, The first kiss, 1889, olio su tela, cm. 119.5 x 71, Collezione privata). Cupido può minacciare una fanciulla con la sua temibile freccia, forse per scherzo ma è già una metafora di un’attrazione e di un contatto carnale, sanguinoso e doloroso (Fig. 9, W. Bouguereau, Young Girl Defending Herself from Eros, 1880, North Carolina Museum of Art, Wilmington). L’accostamento di una donna e di un qualunque bambino può anche essere criptata come tentazione (W. Bouguereau, Temptation, 1880). Ma Eros può anche apparire nella forma di torbido adolescente (Fig. 10, W. Bouguereau, Eros adolescente, 1875). 9. L’innocenza periclitante Nello stesso tempo viene iconizzata l’innocenza periclitante : l’attesa timorosa ma presaga degli eventi così turbinosi per una fanciulla per il momento inconsapevole del suo destino terreno e celeste. Psiche è sola, composta, vestita una volta tanto, mentre gli dei dell’Olimpo, gli ammiratori, le sorelle invidiose, il caso incombono su di lei (W. Bouguereau, 1892 ; W. Bouguerau, L’innocence, 1893). Ma è anche una fanciulla che, nella sua veste bianca, percepisce il fremito delle ali di un amorino invisibile (W. Bouguereau, Work Interrupted, 1891, Mead Art Museum, Amherst College ; e cfr. i tre quadri di Guillaume Seignac, 1870-1924 sul soggetto Cupid and Psiche).  





10. Nel bagno termale Messa da parte l’innocenza, il corpo femminile viene ostentato nella bellezza carnale dei gloriosi corpi della Belle Epoque.

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Fig. 10. Eros adolescente, 1875.

Ne Il bagno di Psiche (Fig. 11, W. Bouguereau, 1890) le colonne ioniche, il drappo bianco e l’ambiente termale vanno lette nella crescente moda del termalismo d’élite e nella riscoperta dei valori curativi di molte sorgenti ma anche dell’orientalismo altrettanto di moda con le sue storie di harem e di corpi femminili pigri, abbandonati e subalterni. 11. Rapimento e amplesso Un’altra serie di quadri tratta del rapimento. Eros solleva Psiche e la trascina via in un gesto proprio del nuovo culto della velocità, in più versioni : il dirompente trascinamento verso il cielo, nel momento del salvataggio dalla morte e dell’ascesa verso l’Olimpo (Fig. 12, W. Bouguereau, Psiche abduct, 1895, n. 1) con qualche accentuazione coloristica ad accentuare un volo che è quasi un amplesso (W. Bouguereau, Psiche abduct, 1895, n. 2 – Fig. 13). È un’icona che ha dato luogo ad un mercato dei cloni destinati all’arredamento – su carta fotografica, su tela e su altre materie.  

12. Carnale e innocente fino a un certo punto Queste immagini rappresentano un’attrazione e un contatto carnale ma innocente. L’ascesa al cielo di Psiche nelle braccia di Cupido, che ha questa volta l’aspetto deciso di un Eros virile, è stata resa celebre dalla diffusione in forma di manifesto e di icona utilizzata per vari tipi di decorazioni su oggetti d’uso comune o souvenir. Una soluzione che trova il mercato per molti tipi di cloni in forma di dipinto e di manifesto, di incisione e di calco (Fig. 14, copia da W. Bouguerau). Nei quadri dell’ascesa i due sono corpi che si toccano, senza conflitti, legati da un amore segnato dall’infanzia e culminato con la vita eterna in cielo. Psiche si abbandona tra le braccia di Eros in

Fig. 11.

volo tra le nuvole e gli azzurri verso l’Olimpo, via dalle pianure e le montagne della terra con i lunghi capelli al vento, i panni viola e bianchi che si slacciano e svolazzano, le colorate ali da farfalla e le mani sul seno con una sensualità già liberty.

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Fig. 12.

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Fig. 13.

13. Altri rapimenti Tuttavia nel racconto di Apuleio, Psiche viene circondata da angiolotti, forse minacciosi, forse presaghi (Fig. 15, W. Bouguereau, Invading Cupid’s Realm, 1892), o viene portata via in volo, soprattutto da Zefiro. Forse come tutte le anime ? Forse come tutti i corpi travolti dai sensi ? Un volo verso un altrove indefinito – il Palazzo di Eros, l’Olimpo, il Cielo ? – che ha qualcosa delle anime che fuggono i loro corpi (Fig. 16, W. Bouguereau, A Soul Brought to Heaven, 1878, Musée du Perigord). Questa ambiguità fa di questi quadri del volo il soggetto di innumerevoli manifesti per tutto il secolo.  





14. Altre inquietanti vicinanze Il contatto tra Eros e Psiche viene sviluppato ulteriormente in abbracci nei quali Psiche è sempre più coperta da veli rivelatori (Lionel Noel Royer, 1852-1926), osservata nel sonno dal suo inquietante innamorato, cacciatore bendato e senza pietà (E. C. Burne-Jones, La caccia di Cupido, 1885) nel consueto e altrettanto ambiguo momento nel quale dorme e l’osservatore non sa se è il momento nel quale Eros la vede per la prima volta o è il momento nel quale la vede avvinta dall’ultimo sonno per aver violato le consegne di Venere e di Proserpina (E. C. Burne-Jones, Cupido incontra Psiche). Psiche viene introdotta nei sogni preraffaelliti, pieni di fiori, a metà tra il Quattrocento italiano, il Medioevo e il nebbioso mondo del Nord (Fig. 17, E. C. Burne-Jones, 1833-1898). Ma è anche accompagnata

Fig. 14. Psiche e cupido. Olio su tela eseguito a mano da maestri copisti.

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michele rak nel suo funereo corteo matrimoniale verso il mostro che la divorerà secondo quanto predetto dall’Oracolo (E. C. BurneJones, Le nozze di Psiche, 1895). 15. Una storia di sguardi In forma di scrittura nulla può essere più nudo di Psiche, essenza dell’anima e dell’amor spirituale. Tuttavia quando Psiche prende la materia del marmo, così simile alla carne come aveva scoperto e curato Canova, assume una essenza carnale dirompente. Ha la forma perfetta, le dimensioni auree, la consistenza immaginaria e desiderabile della persona, come aveva scoperto ai suoi tempi Pigmalione. Non si dimentichi che la storia di Eros e Psiche è una storia di visioni. Eros vede la fanciulla dall’Olimpo, la guarda addormentata prima di volarsene via dopo le notti d’amore, l’osserva durante le sue dolorose peripezie, la scorge immersa nel sonno sull’orlo dell’Oltretomba. A sua volta Psiche vede Eros che dorme alla luce della sua lampada e del luccichio del suo coltello, lo vede fuggire via offeso dal suo sguardo vietato, lo vede al suo risveglio, quando esce dal sonno finale e, spesso ad occhi chiusi, viene trascinata lassù sull’Olimpo. 16. Nudità La Psiche dipinta (Fig. 18, Gorge Frederic Watts, 1817-1894, Psiche) a questo punto si alza senza veli dal letto. A gara il suo corpo altrettanto nudo di marmo non può che dare l’illusione della sua tangibilità (Fig. 19, Salvatore Albano, 18411893, Cupid and Psiche, 1881, marmo 70 x 117.8 cm., Collezione privata). 17. Alla fine del secolo

Fig. 15.

Mentre questi due emblemi dell’amore possibile volano verso l’Olimpo, che hanno peraltro già raggiunto nei secoli precedenti ma nell’allegria finale delle nozze durante il

Fig. 16. W. Bouguereau, A Soul Brought to Heaven (1878), (43k), Musée du Perigord.

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Fig. 17. Sir Edward Burne-Jones, Cupid Delivering Psyche, c. 1871. Oil on canvas. Sheffield Art Gallery, Sheffield, uk.

Fig. 19.

Fig. 18.

Fig. 20.

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michele rak la favola dall’ingresso nel Palazzo d’Amore all’Assunzione all’Olimpo. L’edizione è aperta dalla celebre scena della fanciulla che illumina con la lampada un Eros bambino ed è chiusa da due colombe rosse che su un ramo di vischio si baciano sotto il motto Les vrais amants ne se soucient que de leur amour (Figg. 20-21). 18. In forma di coboldo Eros, si sa, è un dio capriccioso, ma quando lo spettatore accorto e colto si siede a teatro può anche riconoscerlo in forma di coboldo, lo spiritello malvagio delle tradizioni dell’Europa del Nord. In particolare in una scena dell’opera Le Kobold, opéra-comique en 1 acte de Charles Nuitter et Louis Gallet, musique de Ernest Guiraud [Paris, Opéra-Comique, 26 juillet 1870], Paris, E. Dentu, 1870, dove ci sono tutti i personaggi della favola di Apuleio : la vecchina che tesse la lana e intanto racconta la sua favola alla fanciulla ignara e il dio che vola verso di lei con le ali colorate che sono proprio quelle che lei stessa indosserà quando da fanciulla bellissima del mito diventerà emblema dell’amore eterno (Fig. 22).  

Fig. 21.

19. La psiche delle folle

convivio degli dèi, le loro icone circolano in varie forme, anche in forma di illustrazioni. Un’edizione Parigi 1899 di Les Amours de Psyché et de Cupidon di La Fontaine fa circolare il colorismo dei nuovi stili tipografici (Paris, Librairie Théophile Belin, 1899) riutilizzando le 26 tavole di Antoine Borel, disegnatore di vari erotismi (1743-1810) per raccontare

La crescente diffusione della cultura industrialista con la sua domanda di partecipazione delle folle – esigenza primaria del mercato degli oggetti e delle macchine e delle nuove regole di convivenza discontinue in quell’aggregato crescente che sarebbe stato chiamato metropoli, descritto in varie opere dopo la Prima Guerra, quando il macchinismo avrebbe pienamen-

Fig. 22.

la psiche della cultura industrialista te investito la cultura europea : dal romanzo Metropolis (Thea von Harbou, 1926) al film Metropolis (Fritz Lang, 1927). 1  

20. L’altra psiche Gradualmente anche l’immagine della psiche elaborata dall’emergente codice della psicoanalisi 2 comincia a inter-

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ferire con la rappresentazione della favola, ne moltiplica le varianti ma mantiene costante il motivo dell’irrefrenabile spinta dell’eros. Il nucleo teorico della favola matrimoniale – che appartiene alla tradizione delle idee e del loro continuo riallineamento con il mutamento sociale – viene così gradualmente scomposto per arrivare – nell’individuo e nelle folle – al suo gradiente dominante : è l’eros che muove il mondo e i suoi percorsi di contatto, distacco, prove, sofferenze, felicità, piacere. Quello che il Novecento non riesce a decrittare e a criptare è il suo ambiguo e discontinuo contatto con la Bellezza e con le pulsioni della riproduzione. Per questo si continua a dire, si sa, che l’eros è cieco.  

1

  Erwin Rohde, Psiche : The coult of souls and the belief in immortality among the Greeks, London, Routledge and Kegan Paul, 1925 (trad. it : Psiche. Culto delle anime e fede nell’immortalità presso i Greci, prefazione di Sergio Givone, Roma, Laterza, 2006). 2   Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni, 1899, ma datata 1900 per contrassegnare il carattere di svolta epocale.  



LE ORIGINI DI CAPITAN FRACASSA Giovanni R. Ricci

L

e Capitaine Fracasse (Il Capitan Fracassa) è notoriamente uno dei capolavori della produzione narrativa di Théophile Gautier. L’idea di questo romanzo è nata per la prima volta in Gautier negli anni in cui studiava gli autori minori del Seicento, indagine che confluirà nel saggio Les Grotesques (1844). Più precisamente, il progetto risale al 1834-1835 e, già nel 1836, l’editore parigino Renduel annunciò sul suo catalogo la prossima uscita de Le Capitaine Fracasse : in realtà Gautier non scrisse allora questo romanzo che rimandò per anni, pur non cessando « jamais de hanter l’imagination de son auteur ». 1 Di fatto solo il 25 dicembre 1861, Gautier iniziò finalmente a pubblicare a puntate Le Capitaine Fracasse su « La Revue nationale et etrangère » ; l’ultima uscì il 18 giugno 1863. A fine anno l’opera, uscita a Parigi in due volumi per i tipi dell’editore Charpentier, fu disponibile nelle librerie : il successo fu enorme ed anche una parte della critica, solitamente unita nel criticare i testi di Gautier, fu, questa volta, favorevole. 2 Affascinato dalle compagnie teatrali del primo Seicento e, più in generale, dal regno di Luigi XIII, 3 Gautier amava in particolare Le roman comique 4 di Paul Scarron e volle scrivere un romanzo dello stesso genere. 5 Per il nome del protagonista ricorse al personaggio che più lo aveva colpito fra quelli raffigurati da Callot e, forse, da Bosse : Capitan Fracassa,  















1   René Jasinski, Genèse et sens du Capitaine Fracasse, « Revue d’histoire littéraire de la France », xlviii, 2, 1948, pp. 131-156 : 131. 2   Per queste notizie sulle vicende editoriali de Le Capitaine Fracasse cfr. René Jasinsky, art. cit. Nel 1866 Charpentier ne pubblicò una pregevole edizione in ottavo che fu illustrata da Gustave Doré e che divenne « bien connue de bibliophiles » (René Jasinski, art. cit., p. 138). 3   Le Capitaine Fracasse, come si è visto, è dapprima uscito sotto forma di feuilleton e « se plie aux lois du genre : intrigues, drames, enlèvements, duels, reconnaissances extraordinaires (la bague d’Isabelle), amours flamboyantes, parfois coquines [sic], souvent tragiques. Par certains côtés, le roman reste un de ces romans de cape et d’épée qui fleurirent – ou qui pullulèrent – dès la naissance de feuilleton […]. Le Capitaine Fracasse est donc l’héritier des Mousquetaires. D’ailleurs Gautier, ami de Dumas, n’avait-il pas eu des parents mariés au château d’Artagnan et n’était-il pas familier de cette Gascogne où il fait naître et vivre, lui aussi, son héros, Sigognac ? Tout comme d’Artagnan, Sigognac est devenu un redoutable escrimeur ; tout comme lui, il va tenter de conquérir la gloire, et l’amour dans le Paris de Louis XIII. Mais la ressemblance s’arrête là. Pour Gautier, ce Paris-là [sic] est plus qu’un simple décor : il est le lieu, idéal, d’une époque, idéale, l’époque Louis XIII. Cette époque, qui va, en gros, de la fin du règne d’Henri IV aux débuts de celui de Louis XIV, Gautier en a rêvé. Il la connaît intimement par ses études sur les ‘Grotesques’ […], qui fourniront à Rostand son Cyrano, il s’en est approprié la langue, le style, les mœurs. Il y voit une sorte de lieu mythique où les hommes étaient plus nobles et les femmes plus belles que dans le monde louis-philippard étriqué où il vit » (Claude Aziza, Préface, in Théophile Gautier, Le Capitaine Fracasse, Paris, Pocket, 1998, pp. 7-15 : 12-13). Si ricordi, inoltre, che Gautier era stato concepito « non loin de Tarbes, au château d’Artagnan, alors propriété des Montesquious, protecteurs des Gautier » (René Jasinski, art. cit., p. 136). 4   La prima parte di questo romanzo uscì nel 1651, la seconda nel 1657. 5   Gautier ha dedicato a Scarron diverse pagine del suo Les grotesques. Conosceva inoltre il Wilhelm Meister di Goethe (cfr. René Jasinski, art. cit., p. 142) il cui protagonista si unisce a una compagnia di attori. Questo romanzo goethiano richiama, per certi aspetti, il Roman comique di Scarron ma « en même temps le génie de Goethe créait de nouveaux personnages, approfondissait la psychologie : c’est ainsi que Philine pourra susciter Zerbine, que la comtesse s’éprend de Wilhelm comme la marquise de Léandre, que la belle et fière amazone annonce Yolande de Foix, que la sauvagerie de Mignon et son éveil à l’amour inspireront pour une large part le personnage de Chiquite » (art. cit., pp. 142-143). Allo stesso modo « La Fiancée de Lammermoor [The Bride of Lammermoor, 1819] de W. Scott, popularisée par la Lucie de Lammermoor [Lucia di Lammermoor, 1835] de Donizetti, n’est pas moins mise à contribution : maitre Pierre doit beaucoup au fidèle Caleb, et la réception de miss Ashton avec son père dans la vieille tour, la noble misère de Ravenswood, sa sombre et chevaleresque passion aident à romantiser Sigognac et le château de la misère » (art. cit., p. 144). Per altre fonti letterarie de Le Capitaine Fracasse si veda op. cit., pp. 143-144.  







































appunto. Nella Prefazione, introdotta nell’edizione in due volumi, Gautier 6 scrive, infatti, del suo romanzo : « Les personnages s’y présentent comme dans la nature par leur forme extérieure, avec leur fond obligé de paysage ou d’architecture. Leur costumes sont décrit, leur gestes dessinés ; et quand ils parlent, ils emploient la langue de leur époque. Figurez-vous que vous feuilletez des eaux-fortes de Callot ou des gravures d’Abraham Bosse historiées de légendes ». 7 Le incisioni di Callot, peraltro, ci mostrano, quasi sempre, figure grottesche ed i vari capitani non fanno eccezione. Ed anche Le Capitain Fracasse (1635 circa) raffigurato in un’acquaforte forse di Bosse è evidentemente caricaturale. 8 Il romanzo di Gautier è, invece, decisamente realistico, 9 così come nulla ha di grottesco il suo protagonista. Da questo punto di vista le scene realistiche seicentesche di Bosse – ove troviamo anche diversi capitani 10 – possono aver dato a Gautier un’immagine verosimile del regno di Luigi XIII. Questo artista, infatti, ha dedicato centinaia di acqueforti a raffigurare, con precisione estrema, nobili, borghesi e contadini nonché i loro abiti, gesti, atteggiamenti, edifici, mobilio, suppellettili ecc. delineando un quadro documentato e veristico della Francia del primo Seicento. Come si sa, in Le Capitaine Fracasse, il giovane barone di Sigognac, 11 ridotto in miseria, si aggrega ad una compagnia di  







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  L’autore ha datato questa Prefazione : « Octobre 1863 ».   Théophile Gautier, Le Capitaine Fracasse, texte complète (1863) avec une introduction et des notes par Adolphe Boschot, nouvelle édition revue, Paris, Garnier, [1961], p. 503. Questa importante edizione del romanzo, dalla quale trarrò anche le prossime citazioni, riporta l’« Avant-propos de 1863 » alla nota iii (ivi, pp. 501-503). 8   Si vedano la fig. 106 e il relativo commento (di Maxime Préaud), in Abraham Bosse savant graveur : Tours, vers 1604-1676, Paris, Bibliothèque Nationale de France / Musée des Beaux-Arts de Tours, 2004, pp. 144-145. Abraham Bosse (Tours, 1604 circa-Paris, 1676) raffigura quasi sempre personaggi realistici, ma l’acquaforte citata, se è sua, fa eccezione : si tratta di uno spagnolo involontariamente ridicolo che, di profilo, avanza con alterigia verso sinistra ; il suo volto caricaturale ha vistosi baffi a punta ritorta, sotto un naso schiacciato su cui è una verruca pelosa ; dalle sue labbra strette esce un fumo che allude ai cibi piccanti di cui gli spagnoli erano ritenuti essere ghiotti ; il collo del personaggio è celato da un’enorme gorgiera e, mentre la sua mano sinistra regge una spada, nella destra tiene delle rape o dei peperoncini. Come ho accennato, è dubbio che questa acquaforte sia di Bosse, non essendo firmata. Di essa esiste un secondo esemplare allora stampato da un editore tedesco : presenta varianti significative e non se ne conosce l’autore. Préaud osserva che Bosse può aver copiato la stampa tedesca oppure le due versioni devono risalire a un modello comune (cfr. ivi, p. 144) ; ma Bosse si è probabilmente incontrato con Callot nel 1629 e, in ogni caso, ne divenne amico ispirandosi anche alle sue tecniche, come quella del vernis dur, una vernice fine e priva di grassi che migliorò la tecnica dell’acquaforte ; in definitiva, gli autori di quelle due stampe raffiguranti Le Capitain Fracasse, sia o no Bosse l’esecutore di quella francese, possono benissimo essersi ispirati agli omonimi, e già editi, personaggi di Callot (v. oltre). 9   Anche se, « da autentico funambolo, Gautier sa sfruttare ogni risorsa della lingua francese ; per ricreare atmosfere e linguaggi, impiega con grande disinvoltura il vocabolario di Rabelais, di Saint-Amant, dei poeti burleschi, il gergo popolare. Le sue descrizioni sono quadri dal disegno nettissimo, ma dal punto di vista di un poeta che sa scegliere il proprio universo di realtà » (Lanfranco Binni, La vita e le opere, in Théophile Gautier, Racconti fantastici, Milano, Garzanti, 2006², p. xxiii). 10   Cfr. le figg. 100-105 in Maxime Preaud, Abraham Bosse savant graveur, cit., pp. 142-144. 11   Un barone di Sigognac è menzionato nel terzo capitolo della seconda parte del Roman comique di Scarron : qui, una sera, l’attrice Mademoiselle de la Caverne racconta all’amica e collega Mademoiselle de l’Étoile un evento accadutole quando era una bambina di dodici anni ; i suoi genitori erano anch’essi attori e la loro compagnia era entrata nella regione del Périgord ; ma, all’improvviso, erano stati aggrediti da un gruppo di ubriachi ; in realtà erano stati scambiati per zingari ed il signore del castello, appreso che si trattava di attori, li ospitò nella sua casa ; questo nobile era il barone di Sigognac, un individuo « fort riche, plus craint qu’aimé dans tout le pays, violent dans  

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le origini di capitan fracassa comici dell’arte, interpretandovi appunto il ruolo di Capitan Fracassa dopo che è morto congelato l’attore che interpretava la parte del Capitaine Matamore. 1 Il nobile, dunque, condivide le vicende della compagnia e s’innamora d’una bellissima attrice, Isabelle. 2 L’autore, modernamente, non avrebbe voluto il lieto fine, ma questo gli fu consigliato dall’editore e dai familiari, ed egli si convinse. Sigognac e Isabelle - intanto lei è risultata essere la figlia di un principe 3 – si sposano, la fanciulla fa al suo sposo la sorpresa di fargli trovare il cadente castello dei Sigognac 4 integralmente restaurato e, in aggiunta, trovatoutes ses actions comme un gouverneur de place frontière, et il avait la réputation d’être vaillant autant qu’on pouvait l’être » (Paul Scarron, Le Roman comique, ii, Paris, Librairie de la Bibliothèque Nationale, 1885, p. 7) ; egli, in effetti, appariva come « un vrai tyran de Périgord » (ibidem) ; dinanzi a Sigognac, ed a « force [= beaucoup de] noblesse perigourdine » (ibidem), la compagnia recitò Roger et Bradamante di Robert Garnier (ossia la sua tragicommedia Bradamante, edita nel 1582) e le rappresentazioni si protrassero per un mese ; la madre di Mademoiselle de la Caverne, intanto, era rimasta vedova e il barone se ne innamorò, divenendo più amabile ed offrendosi di sposarla ; ma l’attrice temette che si trattasse di un inganno e, comunque, anche se il barone l’avesse sposata, avrebbe col tempo potuto pentirsi di avere per sposa un’attrice ; ma, a questo punto della narrazione, siamo in piena notte e, desiderando dormire, Mademoiselle de la Caverne « remit la fin de son histoire à quelque autre temps » (ivi, p. 16) ; Scarron, tuttavia, non ci narra la prosecuzione della vicenda ; a farlo è un’edizione del Roman comique uscita a Lione nel 1662 (o nel 1663), pochi anni dopo la morte di Scarron (1660), presso l’editore Antoine Offray ; questa edizione fu ampliata con una terza parte, forse redatta dallo stesso Offray ; è qui che la madre di Mademoiselle de la Caverne, approfittando del fatto che Sigognac si è ammalato di mal d’amore, aiutata da un curato, riesce a fuggire con la figlioletta. Di fatto il barone di Gautier e quello di Scarron condividono solo il titolo nobiliare e l’appellativo. 1   Si ricordi che il citato Scarron ha scritto anche Les boutades du Capitan Matamore (1647). Gautier conosceva inoltre L’illusion comique (1635-1636) di Pierre Corneille ove il capitan Matamore è il personaggio interpretato da uno degli attori della compagnia di Clindore. 2   Isabelle rimanda a una persona reale : la grande ballerina ed eccellente cantante italiana Carlotta Grisi (1819-1899), su cui cfr. Gino Tani, voce Grisi, Carlotta, in Enciclopedia dello spettacolo, v, Roma, Le Maschere, 1958, coll. 1790-1795 ; per lei Gautier ha scritto il libretto dei celeberrimi balletti Giselle ou Les Willis (1841) e La Péri (1843) ; conosciutisi nel 1841, l’amore di Gautier nei suoi riguardi – pur fra lunghe pause e malgrado abbia convissuto more uxorio con la di lei sorella, la mezzosoprano Ernesta (1816 ca.-1895) – è durato nel tempo, di fatto fino agli ultimi giorni di vita dello scrittore : dall’epoca di Giselle, lei per lui « sarà la Musa idolatrata di ‘Émaux et Camées’ (Caerulei oculi, La Nue, La Fleur qui fait le printemps, Le Merle, Ode à Bathilde, Dernier vœu), l’ideale della danza nella sua ‘chaste volupté’, la ‘divina Carlotta’ invocata al suo letto di morte (1872) e l’ultima parola da lui scritta » (Gino Tani, op. cit., coll. 1791-1792). Che Carlotta sia il modello di Isabelle è attestato anche da come Gautier le descrive entrambe : di Carlotta ha scritto fra l’altro, all’epoca di Giselle : « Charlotte, malgré sa naissance et son nom italiens, est blond ou du moins châtain clair [sic], elle a les yeux bleus, d’une limpidité et d’une douceur extrêmes. Sa bouche est petite, mignarde, enfantine, et presque toujours égayée d’un frais sourire naturel, bien différent de ce sourire stéréotypé qui fait grimacer ordinairement les lèvres d’actrices. Son teint est d’une délicatesse et d’une fraîcheur bien rares : on dirait une rose thé qui vient de s’ouvrir » (Théophile Gautier, Portraits contemporains, Paris, Charpentier et Cie, 1874, p. 415) ; anche quando nel 1840 l’aveva vista danzare e sentita cantare ventunenne in Zingaro, ne aveva già ammirato i « beaux yeux bleus d’une douce naïveté » (Théophile Gautier, Souvenirs de théatre, d’art et de critique, Paris, G. Charpentier, 1883, p. 95). Ed ecco alcune citazioni da Le Capitaine Fracasse, dove l’autore parla di Isabelle e dove si potrà cogliere la somiglianza fisica, anche se non caratteriale, fra le due donne (Isabelle, sebbene attrice, è timida e pudibonda) : « Elle avait le visage mignon, presque enfantin encore, de beaux cheveux d’un châtain soyeux, l’œil voilé par des longs cils, la bouche en cœur et petite, un air de modestie virginale, plus naturel que feint » (Théophile Gautier, Le capitaine Fracasse, cit., p. 26) ; ha, inoltre, gli « yeux bleus » (ivi, p. 253 e 255) ; quanto ai capelli, Gautier ci informa che ella ha i « cheveux blonds » (ivi, p. 397) ; anche il padre che l’ha ritrovata, cioè il « prince de Vallombreuse », dice a Isabelle : « les têtes blondes ne jugent pas toujours comme le têtes grises » (ivi, p. 485). A mio avviso, comunque, Gautier, per la scelta del nome di Isabelle, può essersi rifatto a quello della più celebre attrice della commedia dell’arte : la celebrata e, dopo la sua morte, universalmente compianta Isabella Andreini (1562-1604). 3   In quanto tale, ha il titolo di ‘comtesse de Lineuil’. 4   Si ricordi che, nel romanzo, il castello si trova in Guascogna, ‘sur le revers d’une de ces collines décharnées qui bossuent les Landes, entre Dax et Mont-de-Marsan’ (Théophile Gautier, Le capitaine Fracasse, cit., p. 1). Per questo edificio Gautier ha preso come modello lo « château de Castillon (à Arengrosse, près de Morcenx, à vingt-huit kilomètres de Mont-de-Marsan), demeure déchue et délabrée » (René Jasinski, art. cit., p. 136) ; vi viveva una  

































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no anche un tesoro. 5 Invece, nel primitivo abbozzo, Sigognac uccide in duello il fratello di Isabelle ; a questo punto, non può più sposarla ; così, disperato, torna al suo castello, intenzionato a morire : e infatti scende nella cripta in rovina e si siede sull’orlo d’un sepolcro, ove si lascerà morire di fame. 6 Quanto a Jacques Callot, nato in una famiglia nobile di Nancy, l’amore per l’Italia lo ha accompagnato fin dall’infanzia, quando i genitori cercarono di ostacolare in tutti modi la sua propensione artistica. Due giovanili viaggi nella penisola sono di veridicità incerta. Sicuro è però che nel 1610, a diciassette-diciotto anni circa, 7 si trova a Roma, nella bottega dell’incisore e stampatore francese Philippe Thomassin. Dal 1612 si trasferisce a Firenze, 8 ove rimane nove anni. Poi torna in Francia, « ma le sue carte sono piene zeppe di appunti presi in Toscana » mentre « la sua mente s’aggira ancora sulle rive dell’Arno, dove ha compiuto, si può dire, tutte le sue esperienze ». 9 Ed è proprio a Firenze, oltre che in altre città come Napoli, che Callot ha assistito a spettacoli di commedia dell’arte. Concepite e disegnate già a Firenze nel 1615-1617 e realizzate a Nancy nel 1621, subito dopo il suo ritorno, le ventiquattro stampe ad acquaforte 10 dei Balli di Sfessania o Cucurrucu, raffigurano, solitamente in modo grottesco o caricaturale, personaggi della commedia dell’arte da lui realmente visti recitare. Fra di essi vi sono anche i ‘capitani’ 11 che erano in primo luogo, com’è noto, la raffigurazione satirica degli eserciti di occupazione in Italia, in primis quello spagnolo : nei Balli troviamo Cerimonia, Spessa Monti (ossia Spezzamonti), Zerbino, Bombardon, Grillo, Coccodrillo, Csgangarato, Malagamba, Bellavita, Babeo, Cardoni, Scaramucia (ossia Scaramuccia), Taglia Cantoni e, infine, proprio Fracasso (o Fricasso). Questi, in una delle due stampe che lo raffigurano, duella con Taglia Cantoni ; ha « un costume da ‘Pantalone’ », un cappello a due piume dall’ampia tesa ed impugna una spada mentre il suo avversario indossa « un costume da ‘Zanni’ », 12 un cappello a due punte e tiene un fioretto. L’altra stampa mostra Fricasso  

























































































vedova, la baronessa d’Ismer, che Gautier andò a trovare durante il suo viaggio in Guascogna del 1844. Ma l’edificio simboleggia anche la psicologia di Gautier mentre scriveva il romanzo : « Lorsqu’il dépeint dans toute sa tristesse le délabrement du château de la misère, il ne fait que matérialiser sous forme de vision sa propre découragement, la ruine de ses rêves, l’accablant ennui qui l’isole comme oublié de tous et perdant le goût de vivre, à l’écart d’un siècle irrémédiablement étranger » (ivi, p. 152). 5   L’unico momento in certa misura triste del finale è dato dalla morte, per indigestione, del gatto Béelzébuth cui Sigognac era affezionatissimo (ed anche Gautier amava moltissimo i gatti) ; scavandone la fossa, sufficientemente profonda perché gli animali selvatici non la scavino per divorare i resti della bestiola, il barone trova un forziere contenente un tesoro. Parlando poi con Isabella definisce Béelzébuth « le bon génie de Sigognac » (Théophile Gautier, Le capitaine Fracasse, cit., p. 500). 6   Cfr. René Jasinski, art. cit., pp. 139-140. 7   L’iscrizione latina sulla sua tomba recita che è morto nel marzo 1635, a quarantatre anni. Dunque era nato nel 1592 o nel 1593. 8   Era nato un contrasto col Thomassin che sospettava vi fosse una relazione fra la sua giovanissima e bella moglie ed il Callot stesso. 9   Alfredo Petrucci, I maestri incisori, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1953, p. 89. 10   Includo nel computo il frontespizio eseguito ad acquaforte e ritoccato a bulino. 11   Fra i capitani della commedia dell’arte, il più famoso non faceva parte di quegli attori di basso livello che Callot ha avuto modo di veder recitare : mi riferisco, ovviamente, al teatrante e scrittore pistoiese Francesco Andreini (1548-1624), sposo della citata Isabella, che interpretò la maschera, da lui inventata, di Capitan Spavento per la quale scrisse Le bravure del Capitan Spavento (la prima edizione uscì nel 1607). Naturalmente i capitani della commedia dell’arte hanno un loro primo modello nel Pyrgopolinices del Miles gloriosus di Plauto, « rénovée en France même à la fin du Moyen Âge par le Franc archer de Bagnolet » (René Jasinski, art. cit., p. 132). 12   Jacques Callot, Stefano Della Bella, dalle collezioni di stampe della Biblioteca degli Intronati di Siena. Catalogo della mostra (Siena, Palazzo Pubblico, 9 agosto-15 ottobre 1976), a cura di Paola Ballerini, Simonetta di Pino Giambi, Maria Paola Venturini, Firenze, Stiav, 1976, p. 94. La stampa in questione la si veda, ad esempio, in Jacques Callot (1592-1635). Actes du colloque organisé par le Service culturel du musée du Louvre et la ville de Nancy à Paris et à Nancy (les 25, 26 et 27 juin 1992), sous la direction scientifique de Daniel Ternois, Paris, Klincksieck-Musée du Louvre, 1993, p. 252, fig. 8.  

















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giovanni r. ricci

(senz’altro è il Fracasso di cui sopra) e Scaramucia 1 che si volgono le spalle, tenendo la spada levata. Dunque vi era un attore, di cui non sappiamo il nome, che in arte si faceva chiamare Capitan Fracasso o Fricasso. Da dove aveva ricavato questo nome ? Si ritiene, in genere, che derivi da quello dal gigante Fracassus (o Fracassonus), personaggio del Baldus di Teofilo Folengo. 2 Fracassus, discendente della razza di Morgante, 3 è certo un personaggio comico, ma, nell’universo narrativo del Baldus, la sua forza smisurata è reale, non millantata (come, in genere, quella dei Capitani della commedia dell’arte). C’è, invece, un riferimento storico forse più puntuale. Infatti, fra quindicesimo e sedicesimo secolo, è realmente esistito un Gaspare Sanseverino (1450 ca.-1519), 4 detto Capitan Fracassa (o Fracasso) per la sua vigoria in guerra. 5 Era figlio del conte di Caiazzo e condottiero Roberto Sanseverino 6 (1417-1487), la cui madre era a sua volta sorella del duca di Milano Francesco Sforza. Dalle sue tre mogli, 7 Roberto ebbe dodici figli, di cui una sola femmina : i maschi, a parte due che divennero sacerdoti, furono, secondo il desiderio del padre, condottieri. Fin da giovane, Gaspare seguì il padre in numerosi impegni guerreschi. I Sanseverino erano, come ho detto, strettamente legati ai duchi di Milano e spesso Gaspare combatté per gli Sforza, ma anche per Venezia e per Papa Innocenzo VIII. Il 10 agosto 1487, il padre, ormai settantenne, nel combattere per Venezia contro Sigismondo, conte del Tirolo, rimase ucciso (battaglia di Calliano) ; fu sepolto in un primo momento a Trento, 8 poi nella milanese chiesa di S. France 





sco. 9 Da Milano Gaspare ottenne numerosi feudi e il titolo di marchese. 10 Nell’anno 1500, ferito e fatto prigioniero dai francesi, durante il fallito tentativo di Ludovico il Moro11 di riconquistare il ducato milanese, Gaspare fu estradato in Francia insieme al duca. Ma il re di Francia lo apprezzava sì che presto, pagato un riscatto, Capitan Fracassa tornò in libertà. Nel 1502, dopo un periodo di prigionia ad opera dei fiorentini, passò al servizio di Cesare Borgia, il duca Valentino, figlio del papa Alessandro VI. Non ne condivise però la disfatta, perché presto tornò a lavorare per Venezia e, arma ducem. / Ter proceres Veneti bello petiere Tridentum / Ter victi. Hic victus ecce Robertus adest » (Gioacchino Maruffi, Viaggio in Terra Santa fatto e descritto per Roberto Sanseverino, Bologna, presso Romagnoli Dall’Acqua, 1888, p. xviii). Essa è così traducibile : « Roberto della stirpe sanseverina, vincitore d’Italia, sperimentò nelle armi il duca Sigismondo. Tre volte i nobili [nel senso di ‘illustri’] veneziani mossero armati su Trento, tre volte furono vinti. Ecco qui vinto giace Roberto ». Intorno al bordo della lastra fu incisa una scritta tedesca, anch’essa in caratteri gotici : « nach christi mcdlxxxvii jar an sand / laurentzii tag hat überwundn der durchleuchtig furst ertzhertzog sigmund von osterreich die / venediger und jr haubtman senior robert ligt hie / begraben dem got genaddeig sey ». Eccone la traduzione : « L’anno 1487 nel giorno di S. Lorenzo l’illustre principe arciduca Sigismondo d’Austria sconfisse i veneziani il cui comandante, il signor Roberto, giace qui sepolto. Che Dio abbia pietà di lui ». Come si è detto, la costruzione della tomba fu commissionata da un nemico di Roberto, Massimiliano I, che « volle, per quanto possibile, farne un monumento alla vittoria sui Veneziani più che una onoranza all’avversario caduto in battaglia » (Nicolò Rasmo, L’armatura di Roberto da Sanseverino, in Armi e cultura nel Bresciano 1420-1870. Atti del Convegno (Brescia, 28-29 ottobre 1980), Brescia, Ateneo di Brescia, Accademia di scienze, lettere ed arti, Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura, 1981, pp. 205-220 : 210). Infatti Roberto nella lastra tombale è raffigurato mentre regge con la destra lo stendardo veneziano che è tuttavia capovolto ed ha l’asta spezzata. Della tomba, oggi cenotafio (v. oltre), sono rimasti « l’effigie tombale del Sanseverino e due lastre che evidentemente costituivano i due lati corti del sarcofago » (Marco Collareta, Ritratti, stemmi e iscrizioni. Il contributo dell’arte della memoria ai defunti, in Il Duomo di Trento, ii, Pitture, arredi e monumenti, a cura di Enrico Castelnuovo et alii, Trento, Temi, 1993, pp. 63-87 : 71) mentre la lapide con la citata iscrizione è « posta oggi alla base della lastra principale » (Michelangelo Lupo, scheda n. 9 relativa al Monumento funebre di Roberto Sanseverino, in Il duomo di Trento, cit. pp. 103-105 : 104), quella cioè che raffigura il condottiero. La tomba, negli ultimi anni dello scorso secolo, è stata restaurata : cfr. Roberto Codroico, Adamo d’Arogno - Roberto di Sanseverino nel duomo di Trento. Due services del Rotary Club di Trento, Rovereto, Osiride, 1999. 9   Cfr. Huguette Girauds, op. cit., p. 16. Nel 1498 i figli di Roberto ne reclamarono le spoglie ; Massimiliano I, che nel 1493 aveva sposato una nipote di Ludovico il Moro, Bianca Maria Sforza, acconsentì ; così, nonostante le proteste della comunità tedesca di Trento, la tomba fu svuotata e, come molti altri personaggi, anche Roberto Sanseverino fu « con funerali da imperatore collocato nella chiesa di S. Francesco [a Milano] e, precisamente, a detta del Corio, nella cappella, ch’egli aveva fatto costrurre per sé » (Gioacchino Maruffi, op. cit., p. xviii) ; già il milanese Bernardino Corio (1459-1519 ca.), che Maruffi menziona, aveva ricordato, nella sua Patria Historia (1503), che il Sanseverino « fu ad imperatorie funerale portato a Milano e posto nel tempio dil [sic] divo Francesco ne la capella [sic] constructa per lui » (Bernardino Corio, Storia di Milano, ii, a cura di Anna Morisi Guerra, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1978, p. 1470). Il San Francesco in questione è la Basilica dei Santi Naborre e Felice, eretta nei primi secoli del Cristianesimo ; essa fu concessa nel 1256 ai Padri Minori Conventuali e reintitolata a S. Francesco ; rifabbricata nel 1688 dopo che ne erano cadute le volte, fu sconsacrata nel 1798 da un decreto della Repubblica Cisalpina che soppresse anche l’annesso convento francescano ; la chiesa fu allora convertita in ospedale militare, poi in magazzino, quindi in orfanatrofio ; infine, durante il regno italico napoleonico, fra il 1806 e il 1813 circa, la chiesa ed il convento furono abbattuti e, sulla loro area, fu eretta una amplissima caserma : cfr. Vincenzo Forcella, Iscrizioni delle Chiese e altri edifici di Milano dal secolo viii ai giorni nostri, iii, Milano, Tipografia Bortolotti di Giuseppe Prato Editrice, 1890, p. 65, nota 1 ; Paolo Rotta, Passeggiate storiche ossia le Chiese di Milano dalla loro origine fino al secolo xix, Milano, Tipografia del Riformatorio patronato, 1891, pp. 113-115 ; Federico Cavalieri, San Francesco Grande, in Le Chiese di Milano, a cura di Maria Teresa Fiorio, Milano, Electa, 1985, pp. 57-59. Oggi tale edificio, che è al n. 5 di piazza S. Ambrogio, ospita la Caserma Garibaldi ove hanno sede l’Ufficio Personale ed i Servizi Tecnico-Logistici della Polizia. 10   La famiglia Sanseverino, considerando tutti i suoi membri, fu titolare di oltre trecento feudi ed ottenne quaranta contee, nove marchesati, dodici ducati, dieci principati. 11   Era, com’è noto, il soprannome di Ludovico Sforza, figlio di Francesco I Sforza e di Bianca Maria Visconti (la denominazione ‘Moro’, probabilmente, non alludeva a una caratteristica fisica, ma si riferiva al gelso, in milanese “moron”, pianta da poco introdotta in Lombardia e simbolo della prudenza).  

























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  Scaramucia « ha un costume da ‘Pantalone’ con un cappello a due punte con una lunga tesa » (Jacques Callot, Stefano Della Bella, dalle collezioni di stampe della Biblioteca degli Intronati di Siena, cit., p. 90). Si veda questa stampa in Jacques Callot (1592-1635), cit., p. 252, fig. 7. 2   Il Baldus del mantovano Teofilo Folengo (1491-1544), scritto in esametri latini e uscito fra il 1517 e il 1552 in quattro redazioni successive, uscì sotto lo pseudonimo di Merlin Cocai. Il poema, intenzionalmente burlesco, scritto in un linguaggio composito di latino classico e forme plebee, narra le avventure di Baldus, discendente per parte di padre dal paladino di Francia Rinaldo mentre la madre è figlia del re di Francia ; egli è accompagnato dal brigante Cingar, dal velocissimo Falchettus (metà uomo e metà cane) e, appunto, dall’erculeo gigante Fracassus. 3   « Huius [di Fracasso] progenies Morgante calavit ab illo / qui bacchioconem campanae ferre solebat » (Teofilo Folengo, Baldus, a cura di Emilio Faccioli, Torino, Einaudi, 1989, p. 118 [libro iv, vv. 79-80]). Morgante, naturalmente, è il gigante buono che dà il titolo al poema (1483) di Luigi Pulci, testo ben conosciuto da Folengo. 4   I Sanseverino erano una nobile famiglia napoletana che fu tra le più eminenti d’Italia. Su di essa cfr. Giuseppe Travali, Sanseverino, in Vittorio Spreti, Enciclopedia Storico-Nobiliare Italiana, vi, Milano, Edizioni dell’Enciclopedia Storico-Nobiliare Italiana, 1932, pp. 104-110. 5   Ne ha raccontato la storia Huguette Girauds nel suo breve, ma denso saggio Gaspare Sanseverino. Il “mio” Capitan Fracassa, Firenze, L’Autore, 2004. Ma, stranamente, la Girauds, malgrado il titolo che ha dato a questo libro, non fa alcun riferimento né al Callot né al Capitaine Fracasse di Gautier. Resti dell’armatura da giostra del Sanseverino, risalente al periodo in cui era l’ambasciatore milanese ad Innsbruck presso la corte di Massimiliano I d’Asburgo, sono conservati alla Waffensammlung di Vienna (pezzo B2) : sono stati realizzati verso il 1490 dall’officina milanese di Antonio Missaglia e se ne può vedere la fotografia in Le tems revient. ’l tempo si rinuova. Feste e spettacoli nella Firenze di Lorenzo il Magnifico. Catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Medici Riccardi, 8 aprile – 30 giugno 1992), a cura di Paola Ventrone, Milano, Silvana, 1992, p. 98 (cfr. anche Mario Scalini, Il ‘ludus’ equestre nell’età laurenziana, in Le tems revient. ’l tempo si rinuova. Feste e spettacoli nella Firenze di Lorenzo il Magnifico, cit., pp. 75-102 : 99). 6   Fu Ferdinando I d’Aragona a investirlo, nel 1461, della contea di Caiazzo. 7   Elisabetta Della Rovere (non del ramo principale di questa famiglia), la correggese Giovanna, vedova di Roberto Malatesta, e la senese Lucrezia de’ Malvoli. 8   Dapprima fu sepolto presso l’altar maggiore, forse dietro di esso, in una tomba che era sovrastata da una statua equestre in legno che indossava l’armatura portata dal Sanseverino nella battaglia (dal 1806 tale armatura è conservata nel Kunsthistorisches Museum di Vienna). Sei anni dopo, nel 1493, su commissione del re di Germania e imperatore di fatto Massimiliano I, lo scultore tedesco Lucas (o Lux) Maurus di Kempten gli eresse, nel transetto sud, una tomba che avrebbe dovuto essere definitiva. Su di essa fu posta questa epigrafe latina in due distici elegiaci, scritti con caratteri gotici : « Italiae victor Severina stirpe Robertus / Sigismundum australem sensit in  



























































le origini di capitan fracassa l’11 aprile 1513, prese parte, a Roma, ai festeggiamenti seguiti all’elezione a papa, col nome di Leone X, del cardinale Giovanni de’ Medici : era « rivestito di un drappo dorato, a cavallo di uno splendido destriero e con dodici staffieri al seguito, anch’essi sfarzosamente abbigliati ». 1 Nel 1515 fu assunto come consigliere da Lorenzo II de’ Medici. Rientrato per l’età anziana a Roma, morì nel 1519, all’età di quasi settant’anni. 2 Del suo appellativo vi sono attestazioni sicure. Ad esempio, ne Il diario romano di Gaspare Pontani, 3 che narra, praticamente in diretta, i fatti avvenuti a Roma fra il 30 gennaio 1481 e il 25 luglio 1492, i riferimenti al Sanseverino non mancano : sono gli anni 1485-1486 e Roberto con alcuni suoi figli (fra cui Gaspare) sono dalla parte del Papa contro la famiglia ribelle degli Orsini. 4 Sabato 24 dicembre 1485 « entrorno a Roma trenta squadre de cavalli del signor Roberto tra le quali ce furno cinque figlioli del detto signore, cioè doi [= due] legitimi et tre bastardi : li legitimi furno lo Fracasso et Antonio-Maria ; entrorno ch’era circa un’hora e meza di notte 5 et lo Fracasso alloggiò a’ Monte-Giordano 6 e l’altre genti per Roma, cioè a Santo Ianni, Santa Maria Maiore et altri lochi ». 7 Mercoledì 28 dicembre, 8 nella cosiddetta battaglia di Ponte Lomentano, Gaspare è ferito alla bocca dall’archibugiata di un addetto alla bombarda : « gionsero le bombarde grosse al ponte 9 et furno piantate, ma non tirorno perché lo ponte fu preso per battaglia di mano, 10 datoli tre volte la scaramuccia, volse dire l’assalto, et non possendo più, quelli da dentro si resero a discretione et calorno giù a basso ; et perché lo bombardieri havea tratto di un archibuscio et dato al signor Fracasso nella bocca et feritolo malamente, gli furno tagliate le mano, et gli altri soi compagni, vedendo tagliar la mano al bombardieri, cinque se ne buttorno in fiume ; allhora li Roberteschi 11 ne tagliaro a pezzi una brigata, et delli cinque del fiume doi ne annegorno et tre ne furo ammazzati, et tra tutti, nove furno ammazzati, doi annegati et cinque camporno, 12 et l’altri, fino al numero de 20, che stavano nel ponte restorno feriti et spogliati ». 13 Martedì 14 febbraio 1486 « fu certo remore [= rumore] che quelli de Fracasso havevano rubbate certe vitelle de quelli dello Bufalo 14 et bastoniati li vaccari, adeo che quelli dello Bufalo fecero gente et andaro a casa del Fracasso et furono alle mani con loro, ma non se fecero male ». 15 L’ultima menzione di Gaspare da parte di Pontani riguarda lunedì 27 febbraio, quando a  

























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Roma « fu corso un palio de broccato d’oro da Campo di Fiore fino a San Pietro ; hebbelo Fracasso ». 16 Altri esempi di menzione di Fracassa (o Fracasso) sono nel Memoriale dall’anno 1494 sino al 1502 del pisano Giovanni Portoveneri, 17 ove a un certo punto si legge : « E a di 16 di settembre ditto [1496], vene in Pisa el signore Guaspari figliolo fu del signore Ruberto da Sanseverino, sopranome Fracassa, capitano di gente d’arme, el quale fu mandato dalla Lega, 18 cioè : Veneziani, Duca di Milano, 19 Papa, Re di Napoli, 20 Imperadore, 21 Re di Spagna, 22 S. Giorgio di Genova ». 23 Ed anche successivamente, in tutto il Memoriale, Portoveneri menziona spesso Gaspare chiamandolo sempre « il Signor Fracassa » o semplicemente « Fracassa ». Anche il Guicciardini, nella sua celebre Storia d’Italia, dapprima chiama Gaspare « Guasparri da San Severino detto il Fracassa » 24 o « Guasparri da San Severino cognominato [= soprannominato] il Fracassa » ; 25 poi semplicemente « il Fracassa » 26 o, in due occorrenze, « Fracassa », 27 senza l’articolo a precedere il nome, o, in un solo caso, « il Fracasso ». 28 Peraltro Gaspare, almeno nelle sue missive presenti all’Archivio di Stato di Firenze, non si firma mai in questo modo. 29 Il suo soprannome, comunque, circolava comunemente in Italia, come attestano Guicciardini, Pontani, Portoveneri, Sanudo ed altri autori. È dunque assai probabile che, dopo la morte di Gaspare, un comico dell’arte di bassa lega si sia appropriato dell’appellativo ‘Capitan Fracassa’ (o ‘Fracasso’), magari richiamandosi anche al Fracassus del Folengo, e che Callot abbia visto recitare questo attore, raffigurandolo poi, con un surplus di grottesco, nelle due stampe citate. L’appellativo ha potuto così essere ripreso da Gautier per il suo barone di Sigognac. Gaspare Sanseverino era, infatti, detto Fracassa per il suo coraggio in guerra ; ma questo nome, con quel tanto di baldanza che implica, poté ben essere ripreso da un non esimio attore di commedia dell’arte raffigurante un classico capitano burbanzoso e codardo. Sigognac, poi, congiunge in sé un’arroganza pusillanime come personaggio in scena ed uno spontaneo ardimento nella vita reale.  

















































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  Huguette Girauds, op. cit., p. 21.   Nel già menzionato Il ‘ludus’ equestre nell’età laurenziana di Mario Scalini si legge erroneamente che Gaspare è morto nel 1510 : cfr. op. cit., p. 99. 3   Rerum Italicarum Scriptores, iii, parte ii, Gaspare Pontani, Il diario romano, già riferito al Notaio del Nantiporto, 30 gennaio 1481-25 luglio 1492, a cura di Diomede Toni, Città di Castello, Lapi, 1907-1908. 4   Gli Orsini erano tradizionalmente nemici dei Colonna, ma in questo caso si posero in conflitto con il Papato. 5   Allora, secondo un uso in certi luoghi sopravvissuto almeno fino al Settecento, il computo delle ore iniziava dal tramonto. 6   Località nel rione romano di Ponte. Quest’ultimo prendeva nome dal Ponte S. Angelo e fa parte oggi del rione Borgo. 7   Rerum Italicarum Scriptores, cit., p. 53. L’espressione « Santa Maria Maiore » indica, naturalmente, la zona della basilica di S. Maria Maggiore mentre per « Santo Ianni » probabilmente Pontani intende S. Giovanni in Laterano. 8   L’anno è ancora il 1485, ma Pontani indica il 1486 perché usa la datazione a Nativitate. 9   È il Ponte Nomentano (una volta detto Lomentano) che traversa l’Aniene a nord-est del centro di Roma. 10   Cioè a livello di fanterie e non di artiglieria. 11   Le truppe papali comandate da Roberto Sanseverino. 12   Scamparono, ossia riuscirono a fuggire. 13   Rerum Italicarum Scriptores, cit., p. 54. 14   La famiglia Del Bufalo. 15   Rerum Italicarum Scriptores, cit., p. 57. 2











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  Ivi, p. 58.   Lo si veda in Giovanni Portoveneri, Memoriale di Giovanni Portoveneri dall’anno 1494 sino al 1502, « Archivio storico italiano », vi, parte ii, 1845, pp. 281-360. 18   Gaspare si unì alla Lega Santa promossa, nel marzo 1495, da Papa Alessandro VI contro il re di Francia Carlo VIII. 19   Il citato Ludovico il Moro. 20   Ferdinando II, detto Ferrandino. 21   Massimiliano I d’Asburgo. 22   Ferdinando d’Aragona e la sua sposa Isabella di Castiglia. 23   Giovanni Portoveneri, op. cit., p. 324. A proposito della Casa di S. Giorgio, ringrazio la Dott.ssa Paola Caroli e la Dott.ssa Giustina Olgiati dell’Archivio di Stato di Genova per le seguenti notizie : « La Casa di San Giorgio nasce nel 1407 con la finalità di consolidare in un’unica istituzione il debito pubblico della Repubblica di Genova ; diventa poi una vera e propria banca, con gestione di ‘conti correnti’ (...). Quanto alle truppe, San Giorgio non dispone, come del resto la Repubblica, di truppe stabili, ma le assolda quando necessario. Allo stesso modo prende a nolo da privati le navi che servono a trasportare tali truppe. Anche la Repubblica, che nel xv secolo non dispone più di una flotta di Stato, si comporta nello stesso modo » (comunicazione personale). Nel caso della Lega Santa, san Giorgio partecipò ‘in proprio’, come attesta Portoveneri proseguendo la frase citata con le parole : « e San Giorgio ci ha al presente molta fanteria », (ibidem) ; in altri casi esso si limitava ad anticipare le spese per conto della Repubblica genovese. 24   Francesco Guicciardini, Opere, ii, Storia d’Italia, libri i-x, a cura di Emanuela Scarano, Torino, Unione Tipografico Editrice Torinese, 1981, 25   Ivi, p. 262 (libro ii, cap. ix). p. 147 (libro i, capitolo viii). 26   Ivi, pp. 284 (libro ii, cap. xii), 296 (libro iii, cap. i), 321 (libro iii, cap. iv), 407 (libro iv, cap. iv), 411 (ibidem), 412 (ibidem), 482 (libro iv, cap. xiv), 834 (libro ix, cap. iii). 27   Ivi, pp. 809 (libro viii, cap. xiii) e 838 (libro ix, cap. iii). 28   Ivi, p. 808 (libro viii, cap. xiii). 29   Le si vedano in Huguette Girauds, op. cit., pp. 27-35. 17





















SULLE MEMORIE DI LUIGI LA VISTA Milena Montanile

Q

 este memorie che Luigi La Vista, tra i più giovani u allievi del De Sanctis, appuntò dal novembre del 1846 alla vigilia della morte, costituiscono indubbiamente un caso interessante, per certi aspetti singolare, di scrittura della memoria, a metà strada tra autobiografia e diario. 1 Del diario conservano il carattere di scrittura pro memoria che è anzitutto memoria oggettivata, comunicazione con se stessi nel tempo : « il punto in cui ciascuno di noi vive in certo modo l’ultimo momento del mondo, in solitudine o in sincronia con altri, e fissa la sua ultima esperienza ». 2 Per questo aspetto esse sembrano richiamare in qualche modo il modello delle Confessioni, non a caso individuate come « il prototipo e il testo seminale dell’autobiografia moderna » ; 3 un testo, è da aggiungere, che il giovane amò profondamente e che non esitò a giudicare « più dilettevole d’ogni romanzo, e più utile d’ogni ammaestramento », giacché, scrive, « mai l’uomo non vi si è mostrato più nudo ; mai non si è fatto più compatire e perdonare ; mai più disprezzare ed amare ». 4 In una nota del novembre del 1847 assume esemplarmente ad epigrafe dei suoi pensieri un aforisma tratto dalle Confessioni, 5 qualificando subito il suo stato di cupa malinconia come effetto di quella strana malattia dello spirito condivisa da un’intera generazione di intellettuali : « la mia malattia non è descritta in nessun libro [... ]. Della mia malattia sono morti molti giovani, spariti prima di essersi rivelati ». 6 Il fluire delle memorie, seppure allestite in forma di diario, non spezza la continuità dei pensieri, né viene meno nelle pause riflessive la segmentazione progressiva che sistema in maniera discontinua – come discontinuo è il flusso della vita – la registrazione diaristica. Perfettamente congruente con questo tipo di impostazione la consuetudine frequente di registrare il tempo del suo lavoro annotando scrupolosamente giorno e mese a margine dei suoi scritti. Ebbene, considerato lo stato dei manoscritti che il Villari, come sappiamo, donò nel 1871 alla Biblioteca Universitaria di Napoli, 7 risulta arduo ipotizzare l’esistenza, seppure in stato di abbozzo, di una struttura consapevole di diario. Indubbiamente un materiale ampio, e soprattutto composito : in tutto 46 blocchi di carte, sistemati in forma di fascicoli o di quadernetti, quasi sempre titolati e datati sul foglio bianco  





























di guardia, 8 ugualmente datati sono pure i fascicoli che contengono le ‘memorie’ : si tratta di appunti o scritti mescolati a confessioni intime, a considerazioni personali sulla vita e sull’uomo, a ricordi che mostrano una fisionomia provvisoria e a tratti discontinua 9 più vicina a un abbozzo di scrittura autobiografica come per altro fu chiaro al Villari che ben a ragione rubricò queste pagine a carattere più propriamente intimistico, come ‘pensieri’, ‘impressioni’, o, appunto ‘memorie’. 10 I fascicoli che contengono questi ‘appunti’ sono in tutto nove.11 Quanto al resto si tratta per lo più di riflessioni critiche che il giovane La Vista, appena ventenne, fermò sulla carta « solo per dire a se stesso i propri pensieri » e che il Villari, come sappiamo, tenendo fede a una promessa, riunì in volume insieme ad altri scritti che il giovane « pieno d’ardore e di generoso entusiasmo » lesse nella sua scuola o compose « a tempo avanzato, fra una lezione e l’altra », con il preciso intento di sottrarli all’oblio e alla dispersione, e quasi a vendicarne « l’ingiuria della fortuna » e l’ingiusta morte. 12  

















«Negli ultimi due anni della sua vita» scriveva «egli lesse, con una rapidità singolare, una moltitudine infinita di libri ; e leggendo, gettava sulla carta, con uguale rapidità, le sue impressioni e i suoi giudizii. Senza correggere, senza rileggere». 13  

Sappiamo con quanta amorevole cura il Villari raccolse, dopo i tragici fatti del ’48, carte e manoscritti trafugati. 14 Il lavoro di raccolta e di sistemazione lo impegnò a lungo fino alle estenuanti trattative editoriali che si conclusero con la pubblicazione per i tipi di Le Monnier del volume di Memorie e scritti, edito nel 1863. Certo un’occasione per onorare la memoria dell’amico ma anche per restituire una precisa valenza storica alla figura del giovane patriota, veicolandone a unificazione avvenuta l’esemplare messaggio. Il Villari raccolse questi scritti rispettando l’ordine e la successione originaria delle carte, ma conservando anche le titolazioni dei singoli fascicoli ; si trattava in ogni caso di materiali diversi, predominante sicuramente la produzione saggistica : e dunque saggi storici e letterari, riflessioni filosofiche, ap 





1   Il diario, come sappiamo, « ha ricevuto la sua impronta moderna decisiva » fra Sei e Settecento aprendosi ad un rapporto proficuo con la scrittura autobiografica ; cfr. Jean Starobinski, La maschera e l’uomo, Milano, Casagrande, 1990. 2   Cfr. Gianfranco Folena, Premessa a Le forme del diario, Atti del Convegno, «Quaderni di retorica e poetica», 2, 1985, p. 6 ; poi in Idem, Scrittori e scritture, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 281 3   Cfr. Gianfranco Folena, Premessa a L’autobiografia. Il vissuto, il narrato, Atti del Convegno, «Quaderni di retorica e poetica», 1, 1986, p. 6 ; poi in Idem, Scrittori e scritture, cit., p. 290. 4   Cfr. Luigi La Vista, Pensieri ed impressioni, 4 novembre 1846, in Memorie e scritti di Luigi La Vista raccolti e pubblicati da Pasquale Villari, Firenze, Le Monnier, 1863, p. 5. 5   « Toujours errant, rêvant, soupirant », ivi, p. 182. 6   Ibidem. 7   Il Villari accompagnò il dono dei mss. con una lettera al cav. G. Minervini, bibliotecario dell’Università, datata 17 settembre 1871 : « sebbene », scriveva, « io durassi molte fatiche per salvarli dopo che egli venne il 15 maggio 1848, trucidato, sebbene il tenerli presso di me era un conforto, pure io credetti sempre che il luogo più adatto e degno a conservarli fosse la Biblioteca dell’Università di Napoli […]. La Vista fu l’immagine vera, la più bella personificazione dello studente napoletano » ; cfr. Biblioteca Universitaria di Napoli, mss. 85, fasc. 1. Nella Biblioteca Comunale di Venosa si conserva una copia apografa, senza data, del ms. napoletano.  

























8   Il primo fascicolo datato è il n. 2, segnato con l’indicazione : gennaio 1846 ; l’ultimo fascicolo, il n. 46, è l’edizione a stampa dello Studio sui primi due secoli della letteratura italiana, Napoli, Stabilimento Tipografico All’Insegna dell’Ancora, 1848. 9   Giuseppe Paladino ha pubblicato alcuni brani di memorie, non compresi nei mss. napoletani, cfr. « Rassegna critica della letteratura italiana », xxiii, 1918, pp. 1-17. 10   È dunque un’evidente forzatura immaginare, come pure è stato fatto, queste pagine all’interno di un disegno complessivo e consapevole di diario, con tutti i rischi che un’operazione di questo genere inevitabilmente comporta ; cfr. Luigi La Vista, Diario, Venosa, Osanna, 1987. 11   Il fascicolo 3, Mie letture, di cc. 10 (4 novembre 1846), il fascicolo 8, Memorie, di cc. 18 (luglio 1847 – agosto 1847), il fascicolo 9, Memorie, di cc. 19 (agosto 1847), il fascicolo 10, Memorie, di cc. 40 (settembre 1847 – ottobre 1847), il fascicolo 13, Mie letture, di cc. 15 (novembre 1846 ; il fascicolo 14, Mie letture, di cc. 10 (novembre 1849 [sic]) ; il fascicolo 16, Note e pensieri, di cc. 15, il fascicolo 17, Memorie, di cc. 23 (novembre 1847) ; il fascicolo 38, Pensieri, di cc. 25 (28 marzo 1848). 12   Cfr. Pasquale Villari, Prefazione agli scritti di Luigi La Vista, in Luigi La Vista, Memorie e scritti, cit., p. i ; ora in Francesco De Sanctis, La Giovinezza. Memorie postume seguite da testimonianze biografiche di amici e discepoli, a 13   Ibidem. cura di Gennaro Savarese, Torino, Einaudi, 1961, p. 312. 14   « Noi avevamo concepito di lui così straordinarie speranze […]. E per molti anni successivi, ci siamo andati ricordando la promessa fatta, quasi sul cadavere del nostro adorato amico. Ma come si poteva allora mantenerla ? Noi eravamo ben presto tutti sparsi pel mondo e divisi, chi in esilio, chi in prigione […] e le carte del nostro Luigi erano trafugate di casa in casa, per tema che la polizia borbonica venisse a distruggere l’ultimo avanzo della sua vittima […]. Pure finalmente io riuscii ad averle in Firenze », cfr. ibidem.  























sulle memorie di luigi la vista punti di letture appena compiute, brevi medaglioni biografici, osservazioni su autori e personaggi storici di ogni epoca ; certo un materiale ampio, spesso farraginoso che negli intenti del giovane autore doveva costituire la base di partenza, una sorta di schema generale per più organiche riflessioni, finalizzate alla costruzione di una storia della letteratura o di una raccolta di biografie di martiri politici. Il volume risultò alla fine un appassionato monumento alla memoria dell’amico, fino a proporsi, a parere dello Zumbini, come una sorta di romanzo, misto più o meno di storia, « di fatti cioè non immaginati ma veri […] la breve storia di un uomo vissuto solo ventidue anni, e che basta ad onorare la storia di un popolo ». 1 Il ritratto spingeva decisamente verso la creazione del mito, ne è prova il discorso commemorativo tenuto a Napoli dallo stesso Zumbini nel 1884, in occasione della prima solenne commemorazione dei fatti del ’48, Zumbini non esitava a cogliere nell’esistenza del giovane i segni precoci di una vita romanticamente protesa al martirio e al sacrificio :  







«Quanto il La Vista facesse, pensasse o sognasse» scriveva «tutto pareva dovesse apparecchiarlo a quella grandezza eroica, a quel volontario martirio, per cui quella vita che sin allora era stata pur bella, divenne santa». 2

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in cui, « nella vecchia sala del Vico Bisi, alla fioca luce della lampada che pende dalla volta » 10 ascoltava rapito le lezioni del Maestro. Il De Sanctis aveva coltivato da tempo l’idea di un lavoro « intorno a questo subbietto» : 11 « sto da lungo tempo fantasticando un lavoro sopra di lui », 12 scriveva ancora al Villari, e al Villari continuava a sollecitare, seppure con garbo, i manoscritti del giovane, da lui fortunosamente recuperati all’indomani della morte, o quanto meno una copia delle sue Memorie. Ma il Villari, come sappiamo, fu di fatto restio a soddisfare quella richiesta. Molti anni dopo, da Zurigo, il De Sanctis lamentava il silenzio dell’amico intorno a quelle memorie : « È doloroso – scriveva – che non abbia potuto ancora avere le Memorie del nostro perduto Luigi ». Ma il desiderio di « scrivere sopra di lui », di fissarne il ritratto, cresceva sempre di più ; in una lettera da Zurigo del 3 maggio 1856 informava l’amico De Meis di aver dato inizio ad un « romanzetto sopra Luigi La Vista ». 13 Il proposito incontrò la risposta immediata e compiaciuta del De Meis : « godo, scriveva, che vi occupiate di Luigi La Vista, ma se volete [...] perché non far la vita […]. Villari […] dice che le sue memorie sono stupende, perché ci si vede non solamente lui, ma il giovine napolitano, con tutte le sue alte e forti passioni ». 14 Gli eventi straordinari di una vita breve ma intensa che si era alimentata, appunto di « alte e forti passioni », costituivano per De Sanctis l’ingrediente principale per una biografia che fosse soprattutto storia di un’anima, com’egli stesso chiariva al Villari, 15 ben convinto « che un buon libro di memorie è quello che presenta un uomo vivo che ti parla, così scolpita vi è dentro la sua personalità ». 16 L’attenzione alla sfera intima, in sostanza l’interesse per la scrittura come forma, o meglio, espressione privilegiata dell’io, avrebbe consentito al De Sanctis di intravedere nella Commedia dantesca una sorta di diario « nel quale giorno per giorno vedi scritta la storia intima [dell’autore] in tutta la sua violenza ». 17 E in questa accezione, propriamente romantica, risiede la specificità di queste memorie nelle quali la vocazione autobiografica si specifica più che nella scrupolosa registrazione crono-diaristica, in una disposizione al racconto di sé, alla ricerca delle ragioni intime del proprio essere e del proprio operare : « la scrittura autobiografica », ha scritto Starobinski, altro non è che « la traccia vivente di quell’azione che è la ricerca di sé ». 18 Dalla natia Venosa il La Vista era giunto a Napoli intorno alla fine del ’44 dopo gli studi fatti a Molfetta, in quello che il Villari definì un cattivo seminario di provincia, 19 e dei  



















































Luigi che tanto amavate è morto. Era questo l’avvenire che a lui prometteano tanti studi e tanto ingegno ? […]. Sfortunato giovane ! E la gloria a cui sospiravi ti è fuggita davanti, e come il tuo cadavere, il tuo nome sarà presso i posteri inonorato ed ignoto. 9  









Dal canto suo il De Sanctis, che nella Giovinezza lo ricorda tra gli allievi più cari, da Cosenza dove si era rifugiato per sfuggire alla repressione, continuava a volgere i suoi pensieri a quell’« adorato giovane, che ancora mi par vivo, raggiante di speranza e di avvenire », 3 – certo il più romantico per temperamento e per destino, come pure gli apparve – « giovine valoroso e di animo alto e gentile » 4 – che l’impressione vivissima dell’eroica morte, il 15 maggio per mano dei soldati borbonici, contribuiva a far risplendere nella luce del mito. De Sanctis, come si sa, fu in quella occasione a capo dei suoi giovani, e vide cadere tra gli altri « sfracellato uno de’ suoi discepoli […] preso dagli Svizzeri » e fucilato, sotto gli occhi del « povero padre », al largo della Carità. 5 La morte di quel giovane « fu la tragedia della sua scuola », 6 e in quella scuola i discepoli si riunirono insieme al maestro per rendere « pietoso ufficio di lagrime » 7 all’amico scomparso. E anche in quella occasione il ritratto che il De Sanctis offrì ai giovani raccolti intorno a lui servì ad accentuarne i tratti più suggestivi (il genio precoce, la cupa malinconia, il desiderio di gloria, la morte eroica) funzionali all’edificazione del mito : 8

























10   Cfr. Pasquale Villari, Dedica del libro postumo delle Memorie del De Sanctis ad Angelo Camillo De Meis, in Francesco De Sanctis, La Giovinezza, cit., p. 336. 11   « Ho scritto a Napoli per avere i manoscritti del nostro La Vista, volgendo in animo un lavoro intorno a questo subbietto » ; cfr. Lettera di Francesco De Sanctis a Pasquale Villari, Torino, 5 ottobre 1853, in Francesco De Sanctis, Epistolario (1836-1856), cit., p. 174. 12   Cfr. Lettera di Francesco De Sanctis a Pasquale Villari, Torino, 15 settembre 1856, in Francesco De Sanctis, Epistolario (1856-1858), a cura di Giovanni Ferretti, Muzio Mazzocchi Alemanni, Torino, Einaudi, 1965, p. 148. 13   Cfr. Lettera di Francesco De Sanctis a Angelo Carlo De Meis, [Zurigo], 3 maggio [1856], ivi, p. 40. 14   Cfr. Lettera di Angelo Carlo De Meis a Francesco De Sanctis, 7 maggio [18]56, ivi, p. 50. 15   « Luigi La Vista ? Vorrei una copia delle sue Memorie. Se la stampa è possibile, sarà meglio : me ne manderai un esemplare. Come fare la storia della sua anima ? Dovrei leggere prima le sue memorie » ; cfr. Lettera di Francesco De Sanctis a Pasquale Villari, Zurigo, 12 luglio 1856, in Francesco De Sanctis, Epistolario (1856-1858), cit., p. 104. 16   Cfr. Francesco De Sanctis, Saggi critici, ii, a cura di Nino Cortese, Napoli, Fiorentino, 1930, pp. 56-57. 17   Cfr. Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di Niccolò Gallo, introduzione di Natalino Sapegno, con una nota introduttiva di Carlo Muscetta, Torino, Einaudi, 1981, voll. viii-ix. 18   Cfr. Jean Starobinski, La trasparenza e l’ostacolo, Milano, Mondadori, 1982, p. 309. 19   Cfr. Pasquale Villari, Prefazione agli scritti di Luigi La Vista, in Luigi La Vista, Memorie e scritti, cit. p. vii, ora in Francesco De Sanctis, La Giovinezza, cit., p. 315.  

Sono ricordi che tornano nella Giovinezza e in tanti suoi scritti e rendono più struggente il ricordo del giovane nel tempo 1   Cfr. Bonaventura Zumbini, Luigi La Vista. 15 maggio 1848, Napoli, Pier2   Ibidem. ro, 1892, p. 11. 3   Cfr. Lettera di Francesco De Sanctis a Nicola Mazza e Liborio Menichini, [Cosenza], 22 novembre 1849, in Francesco De Sanctis, Epistolario (1836-1856), a cura di Giovanni Ferretti, Muzio Mazzocchi Alemanni, Torino, Einaudi, 1956, p. 74. 4   Cfr. Francesco De Sanctis, Un’Accademia funebre, in Idem, Purismo, illuminismo, storicismo. Scritti giovanili e frammenti di scuola, a cura di Attilio Marinari, Torino, Einaudi, 1975, p. 73. 5   Cfr. Enrico Amante, Frammento biografico, in Francesco De Sanctis, La Giovinezza, cit., p. 274. 6   Cfr. Nicola Marselli, Giudizi e ricordi su Francesco De Sanctis, in Francesco De Sanctis, La Giovinezza, cit., p. 297. 7   Cfr. Nicola Gaetani-Tamburini, Francesco De Sanctis. Cenno biografico, in Francesco De Sanctis, La Giovinezza, cit., p. 491. 8   In questa chiave va letta la suggestiva epigrafe che il maestro dettò per lui, in occasione della morte : « Non dubitò di dare alla patria, più che la vita, il suo avvenire » ; cfr. Francesco Fiorentino, Francesco De Sanctis, in Francesco De Sanctis, La Giovinezza, cit., p. 516. 9   Cfr. Francesco De Sanctis, L’ultima ora, in Idem, Purismo, illuminismo, storicismo, cit. p. 110.  























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milena montanile

« tormenti » di quella « barbara e bieca educazione » 1 si ritrova più di una traccia in queste memorie, il giovane insofferente agli studi imposti in seminario, segnato da un profondo sconforto, « datosi a leggere scrittori antichi e moderni, cominciò subito ad educarsi da sé », 2 in questo periodo, scrive il De Sanctis « spregiava indocile i comuni libri, tormento dei suoi pazienti compagni, e si ritirava solitario e sdegnoso a piangere e a fremere sul divino Leopardi », 3 Leopardi, dunque, ma anche Byron, autori che definirono le sue scelte di gusto, e che furono la base forte della sua educazione ; autori che precocemente e a lungo si era fermato a leggere e meditare. Il De Sanctis nel discorso commemorativo ci ha lasciato un ritratto suggestivo del discepolo nel momento in cui, quasi colto da sacro furore, affascinava con la sua parola il maestro e i suoi stessi condiscepoli, fino a cogliere nell’esaltazione del suo spirito l’espressione di un’autentica sensibilità romantica capace di trascolorare anche nei tratti del volto, nel suono della voce :  



















Prima ch’ei parli, un vivo rossore gli colora le guance, la voce esce timida e rimessa ed incerta […] Ma come un pensiero ardito gli brilla davanti, come la natura si colora innanzi alla sua fantasia ; vedi la sua voce atteggiarsi a’ diversi affetti, malinconica, soave, cupa, fremente, passionata sempre ; sul volto mobile scolpirsegli l’anima diversamente agitata, e tener gli occhi rivolti inverso il cielo, quasi volesse attingere nella sua luce natìa quella idea che velata gli ondeggia davanti. 4  



E il Villari dal canto suo :  





De Sanctis per molti non è ancor nulla ; per alcuni vecchi è una speranza ; per me e per pochi miei amici è una gloria, e potrebbe essere una immortalità. Egli ha il grave torto di farsi amar tanto da far parere esagerata ogni lode !. 10  





Il Villari, compagno di studi, e poco più giovane di lui, ne lodò l’ingegno precoce, le letture ampie e disparate ; egli stesso descrive con efficacia l’ambiente letterario negli anni in cui il giovane giunse a Napoli :  



A Napoli venne tardi, quando già aveva diciannove anni, e più tardi ancora io lo conobbi […]. Le condizioni degli studi letterari a Napoli erano allora assai singolari. V’era entrato come uno spirito di setta e di partito, per cui quelli che seguivano un maestro, riguardavano come perduti coloro che ne seguivano un altro.11

Il riferimento è ai guasti che aveva provocato quella sorta di « setta letteraria » costituita dai peggiori epigoni del Puoti. Ma ancora più suggestivo è il ritratto che il Villari ci ha lasciato di quella scuola :  





Maestro e scolari ci amavamo tanto, lavoravamo con tanto ardore, che per molti di noi, quelli sono restati sempre fra i giorni più belli della vita. Era uno studio fioritissimo di giovani, che s’aiutavano a vicenda, si spronavano e si correggevano amandosi, diretti da un professore eloquente che, solo e primo, aveva osato sostenere principii liberi e ragionevoli in fatto di lettere […]. E tra noi sorgeva, ammirato da tutti, da nessuno invidiato, Luigi La Vista. Quando egli leggeva o parlava, i compagni lo ascoltavano quasi con devozione ; un silenzio profondo si faceva nella scuola, ed il maestro, immobile sulla cattedra, lo guardava con una compiacenza che non poteva nascondere. La sua parola armoniosa, chiara, eloquente manifestava un intelletto pronto a salire nelle più alte speculazioni della filosofia, innamorato del bello coll’ardore d’un poeta. E la bontà dell’animo suo, che traspariva dagli occhi, dal volto, da tutto ; dava ai suoi pensieri un certo affettuoso entusiasmo, che ci rapiva prepotentemente. 12  

A vedere quel giovane di venti anni, che già aveva l’aspetto di uomo maturo, pallido e scarno ; ma pur d’un colore accensibile e mutabile per mille gradazioni, a seconda delle idee o degli affetti che lo agitavano ; l’occhio azzurro illuminato quasi di luce elettrica ; la biondissima capellatura che circondava il suo volto come un’aureola di luce ; noi restavamo estatici. Timido e confuso nel principio, il suo sguardo si volgeva incerto nello spazio ; ma s’accendeva poi ad un tratto, per subito entusiasmo : le parole, le idee, le immagini si seguivano con portentosa fecondità […]. Allora noi leggevamo sulla sua fronte, un avvenire di cui andavamo tutti superbi. 5  











Nel 1845 per compiacere il padre, aveva cominciato a frequentare i corsi di giurisprudenza tenuti da Roberto Savarese, corsi che ben presto disertò 6 per dedicarsi completamente agli studi letterari che furono la sua passione più autentica e più vera : « Si riapre », scrive nel 1846, « lo studio del De Sanctis, ed io vi rientro per il terzo anno, e vi entrerò finché l’avidità della vita e lo sparire della gioventù non mi sforzeranno ad uscirne ». 7 In quella scuola il giovane si distinse subito, fu sicuramente fra i discepoli più dotati, « il più ingegnoso, il più ammirato », 8 e forse il più adatto a raccogliere l’eredità del Maestro. Il De Sanctis lo ricorderà, in occasione della morte, « come un gio 



vine valoroso, e di animo alto e gentile », 9 e il giovane, dal canto suo appuntava, fin dal 1846, nel suo libro di memorie :















Il giovane La Vista, stimolato dall’insegnamento del maestro, si era gettato con ardore nello studio, sottoponendosi a un intenso e spesso estenuante lavoro intellettuale che rischiò di minarlo anche nel fisico : 13 allo studio e alla meditazione dei classici aveva aggiunto la lettura dei grandi illuministi, senza nascondere la sua predilezione per gli storici, soprattutto gli storici della rivoluzione, e per la grande letteratura romantica, italiana ed europea. E di queste letture aveva preso a fermare sulla carta impressioni e giudizi : « perché io scrivo queste carte solamente per me », annotava nel diario, quasi a ribadire il carattere individuale e spontaneo delle sue riflessioni critiche ; si trattava indubbiamente di appunti di letture, ch’egli lasciò ‘informi’ e ‘rozzi’ così com’erano sorti : « noto le mie osservazioni », scriveva, « come un viaggiatore le sue impressioni. V’ha del serio, dell’allegro, del malinconico, del bizzarro ; è un giornale, un diario ». 14 Ma al di là di questi appunti che fermano le impressioni delle sue letture, affiorano nella mole dei suoi scritti ampi squarci di registrazione diaristica nei quali  



















1

  Cfr. Luigi La Vista, Memorie e scritti, cit., pp. 168-170.   Cfr. Pasquale Villari, Prefazione agli scritti di Luigi La Vista, in Luigi La Vista, Memorie e scritti, cit., p. vii, ora in Francesco De Sanctis, La Giovinezza, cit., p. 315. 3   Francesco De Sanctis, L’ultima ora, in Idem, Purismo, illuminismo, stori4   Ibidem. cismo, cit., p. 111. 5   Pasquale Villari, Prefazione agli scritti di Luigi La Vista, in Luigi La Vista, Memorie e scritti, cit., p. vii, ora in Francesco De Sanctis, La Giovinezza, cit., p. 325. 6   In realtà fin dalla fine del ’44 aveva iniziato a frequentare la scuola di Vico Bisi ; nel novembre del 1846 scriveva : « Dimani comincieranno lezioni di giurisprudenza […]. Addio filosofia, storia, letteratura ; addio discussioni, conversazioni, passioni letterarie e filosofiche. Dimani, una mano sul cuore, una maschera sul volto ; innanzi a me il Corpus Iuris, il codice, i quaderni della scuola. Piangerei, se non fossi da lungo tempo avvezzo a separarmi pazientemente dai miei carissimi studi » ; cfr. Luigi La Vista, Pensieri ed impressioni, 4 novembre 1846, in Idem, Memorie e scritti, cit., p. 4 7   Luigi La Vista, Pensieri ed impressioni, in Idem, Memorie e scritti, 4 novembre 1846, cit., p. 7. 8   Cfr. Francesco Fiorentino, Francesco De Sanctis, in Francesco De Sanctis, La Giovinezza, cit., p. 516. 2

















9   Cfr. Francesco De Sanctis, Un’Accademia funebre, in Idem, Purismo, illuminismo, storicismo, cit., p. 73. 10   Cfr. Luigi La Vista, Memorie e scritti, cit., p. 103. 11   Cfr. Pasquale Villari, Prefazione agli scritti di Luigi La Vista, cit., p. vii, 12   Ivi, p. 325. ora in Francesco De Sanctis, La Giovinezza, cit., p. 315. 13   « Questa vita che vivo non può durar lungamente ; io mangio, dormo, passeggio pochissimo ; studio dalle sei del mattino alle dodici della sera, parte a casa e parte in iscuola ; nello stesso tavolino pranzo, scrivo, leggo, tutto in un tempo » ; cfr. Pensieri, [s.d.], in Memorie e scritti, cit., p. 67. E ancora : « Dopo lunghe ore di studio », scriveva, « il mio povero cervello è per scoppiare, e mi sento affogare, e mi assalgono le vertigini. Lo studio m’ha logorato il corpo, la vista, lo stomaco ; m’ha indebolito il cervello […]. Ho spasimi agli occhi ed al capo […]. Io impazzo », cfr. Carlo D’Addosio, Luigi La Vista, cit., pp. 27-28. 14   Cfr. Luigi La Vista, Pensieri ed impressioni, 4 novembre 1846, in Idem, Memorie e scritti, cit., p. 2.  























sulle memorie di luigi la vista

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al diario, come registrazione e memoria di eventi quotidiani, si affiancano, sotto la stessa data, o magari senza alcuna indicazione di data, pagine più propriamente autobiografiche nelle quali il La Vista racconta se stesso registrando le molte sue pene, i rari momenti di esaltazione, insieme agli sconforti della sua anima inquieta e tormentata. Nel susseguirsi di queste memorie la registrazione cronodiaristica segue un andamento frammentario e piuttosto discontinuo : le memorie occupano uno spazio ben circoscritto della sua vita, dal novembre del ’46, come si diceva, al maggio del ’48, si interrompono cioè appena pochi giorni prima della morte. Certo anni cruciali per la storia civile e politica del paese, anni in cui si consumano speranze e illusioni, nello stesso momento in cui si ricompone quell’offensiva unitaria antiaustriaca che avrebbe portato ai moti insurrezionali del 15 maggio, spenti, come sappiamo, nel sangue. Il La Vista affida a queste memorie la sua testimonianza, quasi a trovare conforto da quella « strana malattia dello spirito » che lo rendeva perennemente infelice, turbato dallo spettacolo di abusi e superstizioni, mali dilaganti, e a suo parere responsabili della servitù dei popoli : « Nel nostro regno la conquista fu il perpetuo stato delle nostre sorti », scriveva, amareggiato dal triste destino che vedeva apparecchiarsi per l’Italia. E ancora :

stituiscono con efficacia tutta la sofferenza del giovane frustrato nel suo desiderio di gloria (« mi sento oscuro », scriveva, « ma non sono nato per l’oscurità »), 2 spinto da un bisogno impetuoso di operare, di fare, ma costretto all’inazione (« io son nato per muovermi, per operare : lo studio è passione per me, ma la mia vera passione è la tribuna o la cattedra o la rivoluzione »). 3 Sono questi i tratti di un’autentica sensibilità romantica, e i temi che affiorano sono quelli consueti : dal desiderio di gloria alle amare riflessioni sull’uomo, sulla natura, al culto della patria ; dalla meditazione sull’amore e sulla morte alla religione degli affetti, al desiderio insoddisfatto d’amore, al ripiegamento deluso su se stesso. L’autore ricompone così tracce o frammenti di memorie, solo in parte sistemati in forma di diario, nel tentativo di fissare, attraverso la registrazione crono-diaristica, un legame progressivo con la storia presente, oggettivandone la memoria che è anche un modo per assicurare a sé una permanenza nel tempo della scrittura nel momento stesso in cui sente prossima la fine : « io morrò – scriveva – prima di essere conosciuto » ; o ancora, nel novembre del 1847 :

Società non abbiamo avuta, che quella impostaci dagli stranieri, politica non altra, che quella impostaci dai dominatori […]. Fra noi il popolo è peggio che nulla, è istupidito dai preti e dalle superstizioni ; esso bacia i ceppi che gli sono imposti con l’acqua santa, e perdona a chi lo emunge, benedicendolo. 1

Il dilatarsi dei pensieri oltre i confini della memoria riconferma il criterio della memoria selettiva, la memoria che filtra gli eventi presenti nella forma della ‘cronaca intima’ in un percorso di ricerca identitaria, essa stessa elemento di una coscienza individuale e politica e di una memoria storica collettiva.

















E le annotazioni che si susseguono in queste memorie ci re1

  Cfr. Luigi La Vista, Memorie e scritti, cit., p. 35.





























Questo principio di anno mi tormenta con sconforti ineffabili, e con isperanze sterminate […]. E tanta inquietudine, tanta agitazione di spirito mette capo in un pensiero, che oggi mi pare un presentimento […] il pensiero, che io morrò prima assai dei trent’anni. 4

2   Luigi La Vista, Appunti, 11 maggio 1848, in Idem, Memorie e scritti, cit., p. 194. 3 4   Cfr. Luigi La Vista, Memorie e scritti, cit., p. 44.   Ivi, p. 182.

LA « REINCARNAZIONE DEGLI ASTRATTI ». CRITICA E SOGGETTIVITà DA DE SANCTIS A SERRA  



Cristina Terrile Quando ricerco le ragioni della mia preferenza con calma di critico, trovo un punto in cui il rationabile vien meno ; scopro l’anima nuda. Li amo perché son fatto per amarli : qui finisce la critica. Renato Serra    

Q

 ando nel 1913 Renato Serra, nell’ultimo capitolo delu le Lettere, afferma che, per la nuova generazione, « quel che importa non è l’argomento, ma il lavoro del critico, a cui l’opera è appena un pretesto », il suo tono è quello di chi sa di annunciare « una vera e propria rivoluzione, e non soltanto letteraria ». 1 Mentre sulle colonne delle « Cronache letterarie » si erano da poco spenti gli ultimi echi della « polemica carducciana », i principali rappresentanti della nuova critica italiana rivendicavano, nel porsi rispetto ai loro predecessori, un’esigenza di soggettività, di partecipazione umana al fatto artistico che era non soltanto una violenta scomunica delle aride pedanterie filologiche, ma anche un attacco contro la pretesa di universalità del crocianesimo imperante. Il dibattito che, nel corso della polemica carducciana, aveva opposto i « critici-artisti » ai « critici-filosofi », era apparso a molti come uno scontro fra soggettività e oggettività del giudizio. L’origine del contendere risaliva, come è noto, ad un « soffietto » di Prezzolini apparso sulle « Cronache letterarie ». 2 Prezzolini, del tutto contro corrente rispetto allo spirito della rivista, salutava in Croce il nuovo maestro che, con lo studio della filosofia, aveva rinnovato il metodo critico, disancorando la formulazione del giudizio da ogni sorta di soggettivismo più o meno sentimentale e retorico. La critica di oggi, scrive Prezzolini, « vuole escire dal dominio del gusto e stabilire […] dei valori assoluti ». Ma l’oggettività che difendeva Prezzolini era, al tempo stesso, un nuovo modo di affermazione del soggetto, orientato verso l’universalità :  





































Oggi una critica fatta di ruggiti e di spasimi, di ammirazioni e di proclami, non condotta passo passo con le debite cautele d’un pensiero estetico, è una critica che lascia il tempo che trova. Commuoverà, è vero, questa o quell’anima […]  ; ma non s’impadronirà degli spiriti con la saldezza che hanno le convinzioni riflesse e maturate, scaturite non da una sensibilità personale ma tendenti a valori impersonali.3  

Il solco si scavava così, sin dalle prime battute della polemica, sul terreno del personalismo critico. L’opposizione fra « sensibilità personale » e « valori impersonali » ricalcava lo scontro fra intuizione e raziocinio che Romagnoli, da opposta sponda, aveva già enfatizzato. 4 Sulla scia della polemica carducciana, che si prolungò per oltre un anno, la questione della soggettività critica si impose come un discrimine fondamentale rispetto al quale presero posizione e si determinarono le figure critiche più importanti dei primi decenni del Novecento. Contro il pontificare dei discepoli di un Croce freddamente rispet 







1   Renato Serra, Critica letteraria, in Idem, Le lettere, Roma, Bontempelli, 1914, p. 154 e 149. 2   Giuseppe Prezzolini, Benedetto Croce, « Cronache letterarie », i, 17, 14 3   Ibidem. agosto 1910, p. 1. 4   Ettore Romagnoli, Per Giosué Carducci, « Cronache letterarie », i, 5, 22 maggio 1910, p. 1. Nell’articolo, Romagnoli prende la difesa di Carducci che Thovez, in un suo libro, aveva, seppure piuttosto timidamente, attaccato, e si scaglia contro « le menti fredde e razionali che arrivano o presumono arrivare alla intelligenza dell’arte attraverso il raziocinio e non per diretta intuizione ».  











tato e percepito come inimitabile, la nuova critica opponeva l’irruenza di un giudizio « incarnato », che continuava ad avere in Carducci il suo più venerato rappresentante. Per combattere l’aborrita universalità degli astratti, il poeta-critico indicava la via di una soggettività esegetica vibrante, che legge con calore e, leggendo, ricrea, facendo dell’atto critico un incontro, per così dire, da uomo ad uomo. Il principio della « ricreazione » cosciente del fatto artistico era certo stata una delle più sentite esigenze desanctisiane. Tuttavia, per la nuova generazione critica, De Sanctis, con il suo sempre ricercato equilibrio fra oggettività e buon gusto, fra lettura riflessa e lettura spontanea, non costituiva più un ideale. Di fatto, l’opposizione fra crociani e carducciani rifletteva il dissolversi della sintesi desanctisiana, la quale veniva sbilanciata verso due tipi opposti di soggettività : da un lato, una soggettività filosofica che ricercava l’universale nella singolarità dell’opera ; dall’altro, una soggettività affettiva, che voltava le spalle all’universale perdendosi nella singolarità. Sotto questa luce, la critica carducciana e quella crociana non vanno intese in senso antitetico, ma appaiono come le due facce di uno stesso fenomeno. Certo, i carducciani difendevano il primato dell’arte e della « tecnica », prerogativa quasi esclusiva del poeta che, come Carducci, impegnava la propria soggettività nel giudizio estetico per illuminare la lettura degli altri, mentre i crociani, opponendo al personalismo della critica carducciana l’oggettività del filosofo, propugnavano la liberazione dell’esercizio critico dal peso dell’io empirico. Eppure la concezione crociana della critica, chiamata a « superare e rischiarare di nuova luce la fantasia », distinguendo ciò che è arte da ciò che non lo è, allontanava il critico dal confronto con la specificità formale dell’oggetto indagato e assolutizzava idealisticamente, insieme all’opera, il ruolo dell’io giudicante. Si ponevano così, da due lati opposti, i fondamenti di un primato del soggetto critico sulla materia indagata che avrebbe avuto un lungo seguito durante tutto il Novecento : soggettività carducciana e idealismo crociano convergevano nel sacralizzare il ruolo euristico del critico, cui spettava il compito di accendere con la propria intuizione, con la propria sensibilità o con il proprio intelletto, il valore individuale dell’opera letteraria. Ora, a fare le spese di questa singolare convergenza critica sarebbe stata, in Italia, la cosiddetta critica pura, attenta agli aspetti formali, 5 che aveva avuto, in De Sanctis, al tempo stesso, l’ultimo difensore e il primo attentatore.  





















5   Il critico puro, con le sue « fredde e aborrite analisi pedantesche degli elementi tecnici », subiva gli attacchi congiunti delle opposte tendenze critiche. Morello cita, sull’argomento, lo stesso Carducci : « In Italia il letterato puro, uno cioè, il quale professi di non sapere fare altro che scrivere e discorrere più o meno male di letteratura più o meno amena, senza che abbia nulla di suo, né un ufficio né un esercizio civile, in Italia, dico, un tale uomo è novantanove per cento, un cattivo arnese o almeno un ozioso, che, tratta senz’arte né parte la gioventù, cerca di sgabellarla pel resto a spese del pubblico ». Cfr. Vincenzo Morello, Per la critica letteraria e per gli scrittori delle « Cronache », « Cronache letterarie », i, 34, 11 dicembre 1910, p. 2.  

















la «reincarnazione degli astratti». critica e soggettività da de sanctis a serra

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spiega De Sanctis, con essa « nasce un giudizio di poco valore come scienza, monco per rispetto all’arte, ma che è esso medesimo una vera rappresentazione, un lavoro d’arte ». 6 Allo stesso modo, la storia letteraria di Lamartine, dichiaratamente affidata ad impressioni soggettive, era senz’altro da preferire alle analisi pur precise degli « estetici », « possessori di tre o quattro formole », i quali, lamenta De Sanctis, « pensando al concetto, perdono il sentimento ». 7 Tuttavia la soggettività dell’io giudicante, pur ottimo presupposto dell’esercizio critico, doveva rimanere, per De Sanctis, al servizio del testo, funzionale ad una comprensione che fosse, al tempo stesso, completamento della parola del poeta.  Indovinando, da poche sillabe, i sentimenti da cui sorge l’azione, il pensiero che precede il gesto, il critico si faceva « simile all’attore » :  

1. Francesco De Sanctis : « Il critico è simile all’attore »  







Nelle sue numerose prese di posizione sul compito del critico letterario, De Sanctis aveva cercato di circoscrivere i confini della soggettività critica, situandola idealmente a metà strada fra la necessaria precisione filologica, figlia dell’oggettività, e l’altrettanto necessario buon gusto, qualità più soggettiva del critico. Il compito del critico doveva essere diverso da quello del compilatore, eminentemente dottrinario e passivo, ma anche da quello dell’artista, spontaneo e irriflesso : « La critica è la coscienza o l’occhio della poesia, la stessa opera spontanea del genio riprodotta come opera riflessa dal gusto. Ella non deve dissolvere l’universo poetico ; dee mostrarmi la stessa unità divenuta ragione, coscienza di sé stessa ». 1 Una tale prospettiva collocava saldamente il critico nel cuore del fatto artistico, affidandogli un ruolo non puramente esegetico, ma propriamente ermeneutico. Una riflessione capace di riprodurre, senza smembrarla, l’unità spontanea del testo artistico, supponeva un nuovo impegno della soggettività critica che, nell’affrancarsi dalla sterile compilazione erudita, non doveva tuttavia sconfinare nello « stupido subiettivismo di menti superficiali » le quali, incapaci di immedesimarsi nel lavoro dell’artista, antepongono all’opera che hanno di fronte la propria individualità emotiva. Sotto questa luce, Lamennais offriva a De Sanctis un perfetto controesempio del suo ideale critico, perché, da un lato, decomponeva l’universo dantesco in elementi sparsi (religione, politica, morale, filosofia, ecc.), perdendo di vista l’unità poetica dell’opera, quindi la sua unicità, dall’altro, si abbandonava ad impressioni soggettive che occultavano l’oggetto della critica : « Talvolta l’impressione dell’autore è tanto vivace, che oltrepassa la poesia, la continua a suo modo e le aggiunge sentimenti ed immagini che rimangono fuori di lei : non ha più Dante innanzi, ma sé stesso. La poesia è oblio dell’anima nell’oggetto della sua contemplazione ; la critica è oblio dell’anima nella poesia ». 2 Il principio desanctisiano di « oblio dell’anima » è da intendersi, in primo luogo, come monito contro il malinteso soggettivismo di certa critica romantica. Così, nel suo aspro giudizio contro la Storia della letteratura italiana di Cantù, De Sanctis insiste sul principio dell’arte come sintesi indissociabile di forma e contenuto, 3 per poi passare, con un significativo glissement, dall’oggettività della teoria estetica alla soggettività dell’approccio critico : ad uno scarso concetto della letteratura, Cantù associa una totale « insufficienza del sentimento artistico », che lo porta a confondere la critica con un inetto « biasimare ». 4 Eppure, fra i due mali della critica, l’arido dottrinarismo che decompone l’universo dell’artista e lo straripare dell’anima critica sull’opera studiata, De Sanctis si mostrava senz’altro incline a preferire quest’ultimo. La sua idea di una critica che potesse talvolta, in quanto « magnifica rappresentazione », competere con l’arte stessa, lo induceva a perdonare le inesattezze di un Settembrini che, col suo « buon senso illuminato dall’impressione e guidato dal gusto », si esponeva nel giudizio in prima persona, senza parsimonia. 5 Dinnanzi all’idea « luminosa » di chi folgora il Boccaccio come « pittore della voluttà », non ci si interroga più sulla pertinenza delle analisi, perché,  





































entrambi non riproducono semplicemente il mondo poetico, ma lo integrano, empiono le lacune. Il dramma ti dà la parola, ma non il gesto, non il suono della voce, non la persona ; indi la necessità dell’attore. Togliete alla poesia drammatica la rappresentazione e rimarrà un genere monco ed imperfetto. Il simile è della critica. 8  

L’esigenza desanctisiana di una « incarnazione » dell’atto critico sarebbe rimasta comunque sempre rigorosamente delimitata da una precisa coscienza della funzione etica ed estetica del critico, che interpreta a beneficio del lettore e con tutta la « timida riverenza » dovuta agli autori. 9 Il passaggio dal criticoattore desanctisiano al dramma spirituale serriano sarebbe avvenuto attraverso una profonda revisione del concetto di soggettività critica. L’ideale critico di De Sanctis conobbe in effetti un seguito che, attraverso alcune forzature interpretative, ne avrebbe pregiudicato l’equilibrio originario. La disputa fra critici-filosofi e critici-artisti, fra crociani e carducciani, era il riflesso di un ormai irrimediabile divorzio fra « valori impersonali » e « sensibilità personale ». Ora, nonostante l’apparente opposizione degli approcci, la successione di De Sanctis avvenne nel nome di un comune rafforzamento del peso del soggetto giudicante rispetto alla materia indagata.  















































1   Francesco De Sanctis, La Divina Commedia, versione di F. Lamennais, con una introduzione sulla vita, le dottrine e le opere di Dante, « Cimento », iii, 6, luglio 1855. Successivamente in Idem, Saggi critici (1866), i, a cura di Luigi 2   Ivi, p. 156. Russo, Bari, Laterza, 19794, p. 145. 3   In Cantù, recrimina De Sanctis, « il pensiero preso in sé stesso è […] il principale e la forma rimane un accessorio ». Francesco De Sanctis, Una Storia della letteratura italiana di Cesare Cantù (1865), in Idem, Saggi critici, ii, 4   Ivi, p. 204. cit., p. 202. 5   « tutto è luce, tutto è lui ; la sua anima è tutta fuori, in vista di tutti, e naturalmente, senza che egli lo voglia o lo sappia, fino nelle sue più minute inclinazioni ». Francesco De Sanctis, Settembrini e i suoi critici (1869), in Idem, Saggi critici, ii, cit., p. 313.  













2. Benedetto Croce : l’io giudicante ipostatizzato  

Nella lettura crociana di De Sanctis, si afferma la vocazione idealistica ad assolutizzare la poesia, intesa come sintesi indissociabile di forma e contenuto, cui accostarsi con strumenti non logici, ma intuitivi. De Sanctis, spiega Croce, aveva ritagliato per l’Italia uno spazio ermeneutico al tempo stesso morale e antiformalistico, tentando la sintesi di una critica « movente sempre dalla schietta impressione e dalla diretta apprensione dell’opera nella sua individualità, ma cauta a non confondere le impressioni estetiche con quelle non estetiche ». 10 Nel metodo desanctisiano, che muoveva dalla « schietta impressione » soggettiva, Croce riconosceva la forza di una fusione degli opposti, nella quale coesistevano fianco a fianco, temperandosi fra di loro, « la dimenticanza del pro 









6   Ivi, pp. 315-316. Non siamo lontani, come si vedrà, dalla benevola disposizione che Renato Serra avrebbe mostrato nei confronti di Carducci, dei suoi « episodi del giudizio » sentiti come « divers[i] forse dal vero », ma pur sempre nobili : « identica e santa la intenzione ; i suoi errori stessi sono gloriosi ». Renato Serra, Per un catalogo (1910), in Idem, Scritti letterari, morali e politici. Saggi e articoli dal 1900 al 1915, a cura di Mario Isnenghi, Torino, Einaudi, 1974, p. 193. 7   Francesco De Sanctis, Cours particulier de littérature par M. de Lamartine, in Idem, Saggi critici, ii, cit., p. 81. 8   Ivi, p. 84. L’io critico colma le lacune del mondo poetico con la sua « sicurezza d’occhio », grazie a quello che deve essere, in primo luogo, un « lavoro spontaneo ». 9   Parlando di Gustavo Planche, che aveva trattato con sprezzo e disinvoltura Lamartine, De Sanctis sbotta : « Bella cosa fare il critico ! Sedere a scranna tre gran palmi più su che tutto il genere umano ; i più grandi uomini, a cui noi altri plebei ci accostiamo con timida riverenza, vederteli sfilare dinanzi come umili vassalli, e tu che palpi loro la barba familiarmente, e con aria di sufficienza dici a ciascuno il fatto suo ! » (ivi, p. 78). 10   Benedetto Croce, Il De Sanctis e il pensiero tedesco (1912), in Idem, Una famiglia di patrioti ed altri saggi storici e critici, Bari, Laterza, 1919, p. 283.  































   

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cristina terrile

prio io nell’oggetto, e l’aneddoto e il ricordo personale ». 1 In Carducci, invece, nella sua contraddizione 2 « tra il giudizio estetico, che sarebbe individuale e relativo all’individuo (cioè privo di ogni altro valore che non sia quello di un semplice mi pare e non mi pare) e il lavorio razionale da cui dovrebbe pur nascere », Croce avvertiva senz’altro il dissolversi di quella sintesi desanctisiana da cui muoveva l’idea di un’arte cui abbandonarsi « con animo vergine per giudicarla con mente speculativa ». 3 Nell’ambito dell’estetica crociana, il metodo desanctisiano dell’« impressione ingenua » veniva rigorosamente separato da quello del « sentire individuale ». 4 Calando quella che De Sanctis chiamava l’« estetica della forma » nel calco della « pura intuizione », Croce liberava il campo della pura esperienza estetica da qualunque soggettività singolare e aneddotica. Il concetto crociano di arte come intuizione presupponeva una critica capace di « rendere percezione l’intuizione », di riprodurre e oltrepassare l’immagine ricevuta dall’opera, facendosi « grande di fronte a lei grande, e, in un certo senso, sopra lei ». 5 Per Croce, l’intuizione estetica della forma era solo il primo grado dell’approccio critico, la materia soggettiva che il critico doveva riflettere attraverso i concetti e non determinare a partire dai concetti. L’esercizio critico desanctisiano, fondato su principi storiografici e comparativi delle diverse forme d’arte, veniva trasformato in un incontro individuale fra un philosophus additus artifici e un’opera d’arte, intesa come « universale individuato ». In tal modo, la critica crociana ipostatizzava l’intuizione dell’io giudicante al quale, chiuso in un singolare huit clos con l’opera d’arte, spettava il compito di discernere fra arte e non arte, poesia e non poesia. Il crociano « encomio dell’individualità » neutralizzava di fatto quel « sentimento letterario » e quell’« istinto della critica » che De Sanctis aveva indicato come qualità essenziali dell’atto ermeneutico. Il genio inventivo del critico, il suo « sentimento artistico », in virtù dei quali De Sanctis era pronto a perdonare le inesattezze di Settembrini, si stemperano, in Croce, in quella facoltà di immedesimazione soggettiva, ma non singolare, individuale, ma già universale, che sola è data all’« intendente di poesia » : 6  



























































L’intendente di poesia va diritto a quel cuore poetico e ne risente il battito nel suo ; e, dove quel battito tace, nega che vi sia poesia, quali e quante siano le altre cose che ne tengono il luogo […]. Il non intendente di poesia si svia dietro queste cose, e l’errore non è che egli le ammiri, ma che le ammiri chiamandole poesia. 7  

L’atto critico non è creazione o ricreazione dell’opera, ma sforzo per elevare la soggettività all’altezza dell’universalità dell’opera, che viene contemplata, poi esaltata attraverso il concetto. La questione della soggettività viene così circoscritta entro un quadro assai rigido, che separa definitivamente il giudizio emotivo e volatile del profano, libero di apprezzare

soggettivamente un’opera, 8 e la responsabilità dell’« intendente di poesia » che, nell’emettere un giudizio estetico, deve trascendere la propria individualità singolare per « risolvere una questione universale ». Come riconosceva lo stesso Croce in un’intervista a Luigi Ambrosini : « Anch’io, naturalmente, ho degli scrittori le mie impressioni ; ma dalle impressioni voglio cavare una lezione astratta. In ogni individuo mi propongo di risolvere una questione universale ». 9 Ora, l’approdo crociano ad una critica che, liberata dal peso dell’io empirico, puntava ad una percezione dell’opera – cioè ad un’intuizione pensata attraverso i concetti – ben distinta « da ciò che si sente e subisce, dall’onda o flusso sensitivo, dalla materia psichica, come forma », 10 escludeva, al tempo stesso, l’interesse per le caratteristiche formali dell’opera. I principi della critica formale, predefiniti, ereditati dalla tradizione, conducevano a dedurre la forma dell’opera da un concetto esterno ad essa, allontanando il critico dalla percezione dell’essenza. Il rifiuto crociano dei generi letterari portava così ad una concezione del romanzo e della poesia che, determinando una pratica di lettura orientata verso la ricerca di una sorta di essenza immutabile, destoricizzava il giudizio critico e fissava le opere nell’eternità del canone estetico.  



















3. Serra : la critica come « dramma spirituale »  





Contro « la comprensione intellettiva della poesia » imputata a Croce, ma soprattutto contro le generalizzazioni universalizzanti dei suoi discepoli, una parte della giovane critica trovò nell’irruente soggettivismo carducciano il contrappeso ideale. La critica, sosteneva Renato Serra, non è soltanto analisi che riduce le impressioni di lettura a definizioni, ma attività creatrice di valori nuovi, che traduce il bisogno « di restituire più profondamente la vivacità e la ricchezza di quelle stesse impressioni ». 11 Ora, questa tendenza, che Serra chiama della « reincarnazione degli astratti », appare in primo luogo come esigenza di restituire all’io critico la concretezza che aveva perso lungo le strade un po’ aride dell’idealismo crociano e della sua « impersonalità indifferente » : « Lo schema della nostra critica è un altro : è il dramma spirituale ». 12 Immerso nella materia dell’opera, materia egli stesso, il critico impegna allora tutto il suo essere, la sua individualità, in quella « seconda creazione » che gli compete, in un’operazione che riguarda più la sua persona che l’autore studiato :  





























Si tratta non tanto di intendere con precisione e con chiarezza, quanto di ricostruire con forza dialettica. Gli elementi astratti devono essere dedotti l’uno dall’altro, in modo da formare un quadro composto e drammatico, ricco di contrasti violenti, di chiaroscuri e d’antitesi, che si compongono e poi si rinnovano in dissidi sempre più strazianti ; si vede la lotta del bene e del male, del nuovo e del vecchio, la felicità di ciò che arriva ad esprimersi e l’oscuro travaglio delle cose che restano chiuse ; si sente il peso di tutta la soma misera e mortificata che aggrava nel buio cieco il volo dello spirito trionfante.13  



1   Benedetto Croce, Francesco De Sanctis (1911), in Idem, La letteratura della nuova Italia. Saggi critici, i, Roma-Bari, Laterza, 1973, p. 349. 2   Per dimostrare la natura della contraddizione, Croce citava un passo del poeta : « La critica letteraria ai giorni nostri non può né deve consistere in altro che nell’applicare a un fatto nuovo, […], la osservazione storica ed estetica, individuale ad ogni modo e relativa, ma che pure acquista valore da chi la faccia e dal fondamento che ella abbia in una lunga e razionale esperienza di esami e raffronti tra più fatti consimili e diversi ». Benedetto Croce, Il Carducci pensatore e critico (1909), in Idem, La letteratura della nuova Italia. Saggi critici, ii, cit., p. 90. 3   Benendetto Croce, Francesco De Sanctis, cit., p. 338. 4   La distinzione riguarda Settembrini, che Croce accusa di confondere il metodo desanctisiano dell’« impressione ingenua » con quello della « prima impressione » o del « sentire individuale ». Benedetto Croce, Luigi Settembrini, in Idem, La letteratura della nuova Italia. Saggi critici, i, cit., p. 327. 5   Benedetto Croce, Breviario di estetica, in Idem, Breviario di estetica. Aesthetica in nuce, a cura di Giuseppe Galasso, Milano, Adelphi, 20056, p. 103. 6   Sotto questa luce, Croce, allontanandosi da De Sanctis, fissava, accanto ad un canone inteso come selezione di opere, un canone inteso come selezione di spiriti critici eletti, i soli capaci di distinguere poesia e non poesia. 7   Benedetto Croce, Aesthetica in nuce, cit., p. 197.  

















8   Il divario fra l’« intendente di poesia » e il profano appariva già nelle prime pagine del Breviario di estetica : « Alla domanda : “che cosa è l’arte” si potrebbe rispondere celiando (ma non sarebbe una celia sciocca) : che l’arte è ciò che tutti sanno che cosa sia ». Il problema, per Croce, sorge quando, dal piano del senso comune, dal « tutti », si passa a quello della riflessione estetico-filosofica. Fra la cameriera, che può dare una folgorante definizione dell’arte, e il filosofo, la differenza, per Croce, sta nel fatto che il filosofo riesce a « risolvere in modo adeguato tutti i problemi che sono sorti, fino a quel momento, nel corso della storia, intorno alla natura dell’arte ». 9   La lettera di Prezzolini è riportata in Ettore Romagnoli, Polemica carducciana, Firenze, La Rinascita del libro, 1911, pp. 47-55. La citazione del Croce è tratta da un’intervista con Luigi Ambrosini apparsa sul « Marzocco », 4 ottobre 1908. 10   Benedetto Croce, Estetica, a cura di Giuseppe Galasso, Milano, Adelphi, 1990, p. 16. 11   Renato Serra, Critica letteraria, cit., p. 156. La nuova critica ambisce a « ripensare addirittura o ricostruire tutto l’universo artistico e morale » ; la sua è insomma una « revisione dei valori », non solo letterari (ivi, pp. 148 e 153). 12 13   Ivi, p. 155.   Ivi, pp. 155-156.  



































la «reincarnazione degli astratti». critica e soggettività da de sanctis a serra Al centro del nuovo schema campeggia il dramma spirituale e personalissimo del critico, che scalza, al tempo stesso, il puntiglio del filologo e l’ambizione universalistica del filosofo. Il guadagno si calcola allora in termini, per così dire, di efficacia dello spettacolo : « Quel che può esser perduto di meschina precisione, si acquista di pathos ». 1 Il pathos è splendore tragico, solennità enfatica che restituisce calore ai principi astratti ; quasi un ritoccar Croce con d’Annunzio. 2 La via che De Sanctis aveva già indicato, quella del criticoattore che empie le lacune del testo poetico, integrandone il senso, conosce qui un radicale sbilanciamento verso la soggettività e l’autonomia dell’atto critico. La critica non è soltanto indagine dell’opera, ma opera essa stessa, dramma in corso, racconto di un travaglio, di una vita, di una passione individuale nei confronti di alcuni autori preferiti ad altri : « Quando ricerco le ragioni della mia preferenza con calma di critico, trovo un punto in cui il rationabile vien meno ; scopro l’anima nuda. Li amo perché son fatto per amarli : qui finisce la critica ». 3 Il modello di un tale approccio non poteva essere né l’intelligenza critica crociana, animata dalla « purità degli interessi universali », né l’approccio storico di De Sanctis, percepito « come un autore da ammirare più che come un maestro ». 4 Soltanto chi, come Carducci, aveva il dono di ammirare una poesia « fino alle lacrime », appariva esente da ogni sospetta neutralità. Dietro la sua lettura dei testi, vibravano un uomo, un temperamento, un pathos inconfondibili e coinvolgenti. Nel serrato confonto fra i « maestri » affidato allo scritto Per un catalogo, Serra rivendicava un metro di giudizio rivolto non all’intelligenza critica, 5 ma all’umanità viva e dolorosa che si esprime nell’atto critico : « Il Carducci – Serra non ha dubbi – ha delle angustie che Croce non conosce ». 6 L’esperienza personale diventa così il vaglio più adatto di una critica che si fa avventura umana, incontro con individui le cui qualifiche biografiche, o addirittura fisiognomiche, non sono mai esornative, ma appaiono come elementi indispensabili di una valutazione umana globale : « l’uno era padovano e l’altro è laico ». 7 Trasformando l’atto critico da atto disinteressato del com 













































1

  Ivi, p. 156.   Serra allude ammiccante al commento di un ipotetico pedante, dal quale tuttavia non sembra volersi distinguere : « Un pedante vorrebbe dire che qui insieme con Croce si trova D’Annunzio : abitudine stilistica di risolvere le impressioni in principi astratti, pur conservando pathos e calore » (ibidem). 3   Citato da Giuseppe De Robertis, Coscienza letteraria di Renato Serra, introduzione a Scritti di Renato Serra, Firenze, Le Monnier, 1958, p. xiii. 4   Renato Serra, Come e che cosa dovrebbe leggere un giovane (1911), in Idem, Scritti letterari, morali e politici, cit., p. 253. 5   « Qui non è possibile fare paragone col Croce, dell’intelligenza, come se uno ne abbia più, e l’altro meno ». Renato Serra, Per un catalogo, cit., p. 193. 6   Ivi, p. 190. 7   Ivi, p. 185. In Croce « le abitudini del bibliofilo e del napoletano » sono da annoverarsi, insieme a « certi cattivi gusti del letterato », fra i principi contingenti e negativi, – i soli del resto imitabili in un critico che « è pensiero puro, e non si può imitare » (ivi, p. 191). 2

























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prendere e del definire in dramma spirituale, capace di promuovere una « nuova forma di umanità che potesse servir di esemplare nuovo e ragione morale », 8 Serra si inscriveva entro una più generale personalizzazione del canone critico che, in quegli anni, conosceva, in Italia, diverse espressioni. È pur vero che, nel rifarsi al modello carducciano, Serra prendeva le distanze da chi, come Borgese, spingeva la personalizzazione troppo in là, mettendo la propria soggettività al servizio di una critica approssimativa, che sacrificava il gusto all’ingegnosità. 9 Troppo attento all’effetto che esercitava sul pubblico, Borgese aveva « tendenza a fare della questione letteraria una questione personale ». 10 Eppure una tale accusa, che appare paradossale in quanto rivolta contro un allievo di Croce, giudicato peraltro affetto da certo dottrinarismo, è di quelle che Serra è disposto a rovesciare, almeno in parte, in benevola disposizione. Certo, non si chieda a Borgese « l’animo quieto del lettore », perché « per lui D’Annunzio è parte troppo viva della sua propria storia » ; 11 ma una critica così empatica, che fra odii ed entusiasmi, si fa « soggiogata e quasi ebbra » del suo autore, trova in definitiva, nel carducciano Serra, un’incondizionata adesione. 12 I tempi, comunque, erano cambiati. Se l’indulgenza desanctisiana nei confronti di Settembrini costituiva un’eccezione in seno ad una critica intesa comunque come operazione cosciente di comprensione dell’opera, solidamente fondata nell’oggettività dei dati storiografici, dopo Serra l’« obbligo nuovo di crear formule e valori » sembra invadere tutti i campi della critica. All’ingegnosità stilistica o dialettica ambivano ormai tutti, compresi alcuni insospettabili cattedratici. Le tradizionali categorie critiche tendevano a fondersi, dando un tipo di critico spurio del quale emergevano – e del quale Serra stesso cercherà – la « personalità espressa », la « natura quasi d’artista » o le bruschezze di temperamento. Si affermava così, in quegli anni, una duplice tendenza che avrebbe fortemente condizionato la successiva critica italiana : da un lato, la condivisa avversione nei confronti di una critica pura, da « letterati », attenta agli aspetti formali dell’opera –, avversione che avrebbe impedito a gran parte della critica italiana del periodo di interessarsi a quella duttilità delle forme che, ovunque in Europa, accompagnava il rinnovamento dei generi letterari. Dall’altro, diversamente espressa ma non meno tenace, una tendenza al soggettivismo « militante » che pone l’opera giudicata, se non in posizione subalterna, almeno sullo stesso piano dell’io giudicante, per il quale l’atto critico è incontro fra uomini e, nell’incontro, espressione di sé.  











































8

9   Ivi, p. 192.   Ivi, pp. 181-183.   Cfr. Renato Serra, Di Gabriele D’Annunzio e di due giornalisti, in Idem, Scritti letterari, morali e politici, cit., p. 230. 11   Ibidem. 12   « Rade volte un lavoro di critica può dar tanta gioia di un uomo abbracciato dominato penetrato realizzato nella varietà dei suoi movimenti più intimi. Si sente la passione personale contro tutte quelle maschere di moralità e intellettualità e eroismo e arte pura che tante illusioni avevano suscitato » (ivi, pp. 231-232). 10





LA RIVINCITA DEL FANTASTICO Guido Mura

L

aletteratura fantastica in Italia non ha goduto, sin dall’Ottocento, di una vasta fortuna, né tra i produttori di letteratura, né, soprattutto, presso il pubblico di elevata o media cultura, che costituiva il maggior bacino di lettura. Nel Novecento, come se la creazione intellettuale volesse procedere in direzione opposta, si è registrata una fioritura di scrittori d’élite che hanno abbracciato il fantastico come loro cifra congeniale, fino ad assistere alla nascita anche nel nostro Paese di una consistente produzione di carattere fantastico, particolarmente orientata, negli ultimi anni, verso il genere fantasy, che pare essere il più recente sottoprodotto di una cultura della globalizzazione. Se noi oggi possiamo giustamente chiederci perché non potessero svilupparsi in Italia i Poe e gli Stevenson, Hoffmann, ma nemmeno Jules Verne e Jean de La Hire, già nel secondo Ottocento qualcuno si poneva invece un quesito ancora più generale e categorico, e si domandava perché addirittura il romanzo, come genere letterario, non apparisse congeniale agli italiani, ai lettori come agli scrittori. Perché mai l’Italia è, fra le culte nazioni di Europa, quella che piglia la parte minore in quel tutto moderno, e così caratteristico movimento della vivente letteratura, che si manifesta sotto la forma del Romanzo ? – Mentre la Germania, l’Inghilterra, la Francia veggono ogni settimana uscire dalle loro tipografie a dozzine, a centinaia i volumi di novelle, di racconti, di leggende, perché mai l’Italia conta a stento due o tre pubblicazioni di questa fatta nel giro di più anni, ed è costretta a contentarsi di millantare, forse un tantino più del dovuto, i tre o quattro lavori comparsi in sul cominciare della presente generazione ? – E quando nei romanzi delle altre nazioni noi veggiamo riprodursi, come in fedele specchio, il loro speciale carattere, talché la storia, i costumi, le tendenze, i vizi, la civiltà della Francia, della Gran Bretagna, della Germania appariscono sovente assai meglio dai libri dei Dumas e dei Sue, dei Thackeray e dei Dickens, degli Tschokke e degli Auerbach, che non dalle voluminose biblioteche dei loro eruditi e dei loro statisti, come mai non esiste una scuola romantica veramente italiana e quel tanto che ci ammanniscono i nostri romanzieri non è, con poche, pochissime eccezioni, fuorché una magra, sbiadita ripetizione, una fredda e povera rimaneggiatura di forme e di tipi d’oltremonte e d’oltremare ? 1  





I motivi, secondo lo studioso, sono la divisione politica, la mancanza di una lingua familiare, adatta alla prosa, l’eccesso di erudizione pseudoclassica, il credere meno prestigiosa la narrazione di vita comune rispetto alla tragedia o al poema ; al massimo se si scrive prosa si compilano romanzi storici, ricchi di note erudite. Inoltre, manca l’incentivo economico, che in paesi come l’Inghilterra nasce da un pubblico che richieda il romanzo. Già il Boccardo quindi identificava il romanzo italiano (almeno quel poco che riusciva a svilupparsi, date le difficoltà culturali e sociali) con il romanzo storico, mentre l’opera di fantasia, anche orientata in senso realistico, veniva ritenuta meno dignitosa e meno degna di un valido letterato. Naturalmente, nei decenni successivi, il romanzo inizia ad avere una certa fortuna anche tra gli scrittori italiani, ma tende ad accentuare le istanze realistiche, rispetto a quelle di pura immaginazione, e il lettore sembra alimentare e privilegiare questa scelta. Il sostanziale rifiuto del fantastico è dovuto nel lettore a una sorta di paura dell’indeterminato, del déplacement. Il let 

1   Gerolamo Boccardo, Il romanzo in Italia e gli scritti di A. G. Barrili, in Anton Giulio Barrili, Capitan Dodero, Milano, Treves, 1869, pp. 5-6.

tore italiano, in particolare, ama essere rassicurato dalla presenza di avvenimenti e personaggi reali, ama addirittura riconoscere le radici della propria cultura, anche dal punto di vista etnico, attraverso marcatori chiari come ad esempio i termini dialettali, disseminati abilmente nel discorso. Anche quando l’autore gioca e finge, come il Gadda del Pasticciaccio, usando termini di una realtà per lui lontana, il lettore verrà ugualmente coinvolto dal calore, dal riconoscimento di una realtà strutturata, definita dal suo onnipresente dialetto. L’autore deve essere un fornitore di certezze : Camilleri deve usare termini siciliani, Grazia Deledda parole sarde, come faranno poi Ledda e Nifoi. In ogni scrittore si ama riconoscere le sue radici, che ci tranquillizzano sulla realtà e razionalità della nostra esperienza terrena. L’uso di segni culturali geograficamente localizzati aumenta le prospettive di successo di un’opera letteraria.  

Il rapporto tra il mondo della narrativa italiana e il suo lettore è tradizionalmente viziato da una sostanziale ipoteca realistica, superata episodicamente solo da alcuni autori. Col romanzo storico si afferma la presunzione di raccontare la realtà, facendo riferimento a pretesi documenti, presentando situazioni drammatiche, ma verosimili, nel loro contesto temporale e mescolando personaggi realmente vissuti con figure immaginate dall’autore. La moda del romanzo storico, la scelta realistica del romanticismo italiano e il successivo affermarsi del verismo sono elementi che hanno condizionato la tradizione letteraria del nostro paese. Di conseguenza, la narrazione di fatti e avvenimenti reali era e forse è ancora ritenuta, a torto o a ragione, di maggior rilievo e valore, rispetto alle creazioni di pura fantasia. Per lo più il fantastico rimaneva relegato nel mondo delle fiabe, un mondo che ha minore dignità letteraria rispetto alla narrazione storica o verista, oppure era utilizzato nella poesia. La poesia si addentra nel fantastico fino a sviluppare soluzioni importanti e di successo, come la Leggenda di Teodorico, 2 col tema del cavallo infernale, caro al Poe di Metzengerstein. 3 Uno degli scrittori più fecondi del secondo Ottocento, il genovese Anton Giulio Barrili, azzarda qualche avance nell’universo fantastico ; ma sente la necessità di giustificarsi, precisando che la narrazione tratta di leggende, in definitiva. Infatti la narrazione è presentata con naturale distacco, e le storie hanno sapore di antico e di recupero del fantastico medievale, evitando ogni ambiguità ; deve essere ben chiaro che quella descritta è una realtà lontana e fiabesca. Servono a questo scopo gli stilemi caratteristici del grottesco, che l’autore utilizza a piene mani. Le sue avventure di terra e di mare (Il merlo bianco) sanno più di Münchhausen 4 che di Salgari o di Boussenard, autore di pagine come quelle dei Cacciatori di cautciù, che più che alla letteratura fantastica sembrano rifarsi al Grand-Guignol. Ogni tanto si manifesta qualche bizzarria, anche nell’Ottocento, ma come bizzarria viene letta e interpretata. Gli scapi 



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  Giosue Carducci, Rime Nuove, Bologna, Zanichelli, 1961, pp. 318-323.   Edgar Allan Poe, Metzengerstein, in Collected works of Edgar Allan Poe. Tales and sketches 1831-1842, edited by Thomas Ollive Mabbott, Cambridge, Mass.; London, Belknap press of Harvard University Press, 1978, pp. 15-30. 4   Gottfried August Bürger, Le meravigliose avventure del Barone di Münchhausen, Milano, Garzanti, 2006. 3

la rivincita del fantastico gliati sono un po’ l’emblema di quest’amore per il bizzarro e l’inusuale. Possiamo affermare quindi che in Italia, in un ambiente dominato da un gusto realistico, il filone fantastico, legato alla tradizione anglosassone o tedesca, a Poe, Chamisso, Hoffmann, Stevenson, Mary Shelley, si sviluppa come un rivolo minore e bizzarro, in autori come Tarchetti e in altri esponenti della cosiddetta scapigliatura milanese. Nel Novecento, sull’onda dello sperimentalismo italiano ed europeo, alcuni scrittori di rilievo inserirono sempre più spesso elementi fantastici nella narrazione, con esiti eccellenti, ma senza quel riscontro di pubblico che arriderà poi ai campioni del fantastico italiano nel declinante secolo passato. Basti ricordare che Il Dialogo dei massimi sistemi di Landolfi venne pubblicato nel 1937 in duecento copie numerate. 1 Sono precedenti i racconti fantastici di Papini, riuniti per la prima volta in volume, sotto il titolo Il tragico quotidiano, nel 1906. Bontempelli scrisse La scacchiera davanti allo specchio intorno al 1922, Miracoli negli anni 1923-1929: tutte opere più note ai critici che ai lettori. Si può notare che questi stessi scrittori ebbero nel corso della loro attività letteraria un rapporto particolare e ambiguo con la narrazione realistica. Bontempelli approdò a quella forma di rappresentazione raffinata e postdecadente che è nota come realismo magico o novecentismo. Landolfi finirà col realizzare un gruppo di opere di intonazione diaristica che esprimono una realtà spesso esasperata o meglio teatralizzata, in cui la letteratura (l’artificio letterario) finisce per costituire la nota dominante. 2 Poi, nel secondo Novecento, il fantastico esce dai circuiti della lettura colta e penetra nel mondo della lettura popolare, sia perché gli spazi di questa lettura si ampliano, con l’avvento di una cultura di massa, sia perché modelli e motivi legati al fantastico penetrano in modo massiccio nell’immaginario delle classi medie attraverso l’importazione dall’estero di prodotti dell’industria culturale, come i film e i fumetti di argomento fantastico e fantascientifico. 3 Si assiste, in definitiva, alla rivincita dei generi legati al fantastico nei confronti del realismo, che finisce per trasformarsi in cronaca, traendo esempio dalla realtà e andando ad alimentare il copioso repertorio degli autori noir, di tipo chandleriano o di gusto splatter. Descrive molto bene questa trasformazione del gusto Libero Bigiaretti nel breve racconto che apre una raccolta di racconti italiani di fantascienza pubblicata negli anni Sessanta. 4 Il romanzo di fantascienza era entrato da poco tempo nelle abitudini di Giovanni Corsetti ; aveva sempre letto, la sera, prima di addormentarsi, romanzi storici, piacevoli biografie romanzate, e anche qualche serio libro di storia, di cui raramente arrivava alla fine… Da qualche tempo alla sua passione per le cose del passato era subentrato un vivo interesse per quelle del futuro, una morbosa curiosità per l’ignoto. 5  

Giovanni Corsetti diventa il prototipo del lettore italiano di media cultura, le cui nuove inclinazioni sono però scarsamente condivise, sia dai colleghi d’ufficio, sia dalla moglie. La moglie invece ascoltava, ma non poteva fare a meno di rimproverargli la sua passione per quelle stupidaggini e la sua indifferenza per le cose serie. Cioè le cose inerenti alla loro figlia, alla disperante 1   Cfr. nota a Tommaso Landolfi, Dialogo dei massimi sistemi, Milano, Rizzoli, 1975. 2   Giorgio Caproni, Il diario di Landolfi, in Idem, La scatola nera, Milano, Garzanti, 1996, p. 165. 3   Bisogna ricordare che un’azione di decisa divulgazione di contenuti fantascientifici venne attuata già nel primo Novecento da pubblicazioni quali « Il romanzo mensile », in cui trovavano spazio ad esempio i romanzi di fantascienza di Jean de La Hire. 4   Libero Bigiaretti, Abitava altrove, in I labirinti del terzo pianeta, a cura di Gilda Musa e Inisero Cremaschi, Milano, Nuova Accademia, 1964, pp. 15-23. 5   Ivi, p. 16.  



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improbabilità che ella si maritasse, con tutti gli oneri relativi, alle difficoltà che creava loro con la sua condotta. 6

Bigiaretti mette in evidenza un’altra particolarità del pubblico di quegli anni, rivelando che erano soprattutto le donne a sentirsi legate a un’interpretazione realistica dell’immaginario, proprio per la loro abitudine a misurarsi quotidianamente con i problemi reali, della famiglia e della vita. Il fantastico inoltre è ritenuto caratteristico della cultura popolare, che viene trattata con qualche condiscendenza dagli autori, che ovviamente prendono le distanze dall’interpretazione fornita dai propri personaggi. Un curioso, ma sintomatico esempio di tale atteggiamento lo troviamo in un gradevole testo della Marchesa Colombi, Il folletto, 7 in cui una superstizione popolare diventa realmente il motore dell’azione. Il racconto è in realtà un capitolo aggiunto alla terza edizione del romanzo In risaia, storia legata a tematiche veriste ed elaborata con garbo dalla scrittrice. Anche nel Barrili vi è un’accentuazione della distanza tra il narratore e la storia narrata, che rimane inserita in un ambito favoloso. Nulla di tutto questo invece in Tarchetti, come più tardi avverrà nel suo principale discendente, Tommaso Landolfi. Landolfi è uno scrittore perversamente e volutamente complesso, capace però di usare uno stile piacevole al di là dei preziosismi linguistici, che sono in parte orpelli legati alle sue frequentazioni toscane. Certo, ostico è il linguaggio, come spesso è avvenuto in tanti innovatori o (come in questo caso) restauratori della produzione letteraria. Pare che gli scrittori italiani abbiano spesso sentito la necessità di qualificarsi attraverso il linguaggio, attraverso la creazione (o il recupero) di un linguaggio aulico o mediante l’adozione di un codice che comprende e rielabora elementi dialettali, a seconda delle loro predilezioni e frequentazioni. Il preziosismo linguistico, che è una connotazione del Landolfi, diviene parte di quel suo interloquire e divagare da aristocratico dei secoli andati. Nella moglie di Gogol il discorso si arruffa e si aggroviglia, quasi che l’autore prendesse esempio dallo stile dei suoi amati scrittori russi (e in particolare dello stesso Gogol), che abilmente traduceva, e dal comportamento dei loro personaggi ; ma quello che più il lettore odierno nota è il gusto costante per gli arcaismi o i termini rari quali ‘meco’, ‘talquali’, ‘risultanze’, ‘sì bell’opera’, ‘mancipia’, ‘acariastra’, ‘seco medesimo’, ‘cascia’, nella sua ricerca di una lingua senza tempo. L’ossessione landolfiana per il linguaggio lo spinge a mitizzare, e reinventare, un arcaismo periferico, che a lui pare di riconoscere nella parlata dell’aristocrazia di provincia: « L’esaltante provincia, dico, dove non esistono soluzioni ‘pratiche e razionali’, e dove disumanamente e nobilmente si muore per un puntiglio, e ci si può perdere per una parola ; dove tutto importa, dove il linguaggio stesso è un’eco di tempi meno volgari ». 8 Ma al di là dell’artificio necessario e consapevole9 si riscontra in Landolfi un’autenticità che costituisce forse il suo maggior fascino e che ritroviamo in tutti quegli scrittori che usano la funzione mitopoietica dell’immaginario umano per esprimere allusivamente, metaforicamente, i propri tormenti e la loro concezione dell’esistenza. Una strana consonanza si rivela tra Landolfi e un altro grande creatore di miti, Lovecraft, anche lui portatore di ricordi e  







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  Ivi, pp. 18-19.   Il folletto, in La Marchesa Colombi, In risaia : racconto di Natale, 3ª ed. riveduta e con l’aggiunta di un capitolo, Milano, Galli, 1889, pp. 217-232. 8   Tommaso Landolfi, Ombre, Milano, Adelphi, 1994, p. 52. 9   Filippo Secchieri, L’artificio naturale : Landolfi e i teatri della scrittura, Roma, Bulzoni, 2006. 7





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sofferenze (la perdita precoce del padre in Lovecraft, della madre nello scrittore italiano), anche lui amante del gusto e del sapere arcaico, che si esplicita eminentemente nell’uso di un linguaggio ricco di termini desueti o (in Lovecraft) di derivazione classica. In entrambi appare la mitizzazione della casa, perduta in Lovecraft, violentata in Landolfi. Sicuramente c’è in entrambi gli autori la consapevolezza di creare opere di fantasia ; ma al di là di questo operare cosciente del letterato si rivela un oscuro basamento che rimanda a personali e tormentate esperienze e, ancora più in profondità, al retaggio di una tradizione segreta e antichissima.  

Il mar delle blatte può sembrare a una lettura disattenta un’innocua parodia delle avventure di mare alla Verne o alla Salgari, magari considerate alla luce della lente deformante del Barrili di Capitan Dodero e del merlo bianco, se non fosse che nel racconto appaiono elementi, forse di derivazione onirica, che riemergeranno più tardi in differenti e più drammatici contesti. Già in questa storia assurda, raccontata con piglio goliardico, troviamo il segno di quelle surreali fantasticherie che sfociano in un torbido erotismo nel Landolfi più maturo. La vita è spesso l’inferno dei desideri irrisolti e questo inferno può essere la più profonda fonte d’ispirazione degli scrittori, che riversano nei loro libri le loro più acerbe e assurde ossessioni. Con Il mar delle blatte alcuni temi ossessivi entrano a far parte del repertorio landolfiano : sadomasochismo e pedofilia, la fanciulla vergine e madre, con l’immagine del seno tormentato, da cui fluisce il latte, l’oscurità che qui è generata dai milioni di blatte che ricoprono la superficie del mare, un mondo di animalità oscura e perversa. In Racconto d’autunno è la casa-utero a nascondere reminiscenze di violenza e depravazione, la casa che attrae e dà ricetto, ma contemporaneamente terrorizza, covo di una nobiltà erede di una cultura precristiana, misterica e orgiastica. A questo sentimento di antica paganità, di una natura dominata da forze preumane, si richiama La pietra lunare. Il fantastico con le sue forme teriomorfe, esposte in modo caricaturale nel mar delle blatte, sembra derivare dalle mitologie dei popoli antichi, un mondo primordiale in cui ancora la civilizzazione non ha imposto le sue regole e i suoi tabù. A infrangere queste regole si dedica la letteratura, in modo oscuro e contorto. L’amore ambiguo del narratore per Lucia, immagine di una morta e rappresentazione di una figura materna, che riappare, quasi resuscitata, nella figlia che ha lo stesso nome, è una forma velata d’incesto, che viene punito dal mondo reale ed esterno che si manifesta con l’arrivo dei soldati. Incesto dichiarato è invece quello che si sviluppa in Un amore del nostro tempo tra Sigismondo e Anna, fratello e sorella, proiettati al di là delle convenzioni umane. Nel complesso Landolfi sembra partire da una narrazione che paga un forte contributo al realismo, un realismo però che ha già sviluppato le sue realizzazioni macchiettistiche o caricaturali con Cagna, Vassallo-Gandolin, Palazzeschi. La pietra lunare, che già nel sottotitolo Scene della vita di provincia fa presupporre un repertorio di derivazione francese (Murger), è il suo punto di partenza con la descrizione d’autore della vita di paese. I segni distintivi del superamento dei canoni del realismo sono l’uso di artifici retorici propri della poesia o comunque di una narrazione che intende seguire uno stile alto : « grigi fauni parevano costoro da lontano », 1 dove all’inversione sintattica si unisce la trasfigurazione della realtà attraverso il richiamo a immagini classiche, e « Il risucchio verso la chiesa era quasi finito, le campane s’erano taciute, la messa  









Nel secondo Novecento si colloca la produzione dello scrittore che si è affermato come l’autore di narrativa fantastica più letto in Italia, dopo un inizio di ambiente e gusto neorealista. Ma anche in un autore in cui il registro fiabesco è predominante, il legame con la realtà, identificabile con la storia, risulta inevitabile. « Il romanzo storico non m’interessava (ancora) », 4 afferma Calvino, parlando del suo Visconte dimezzato. La storia doveva invece entrare, di prepotenza, già nel suo secondo ‘antenato’, Il barone rampante. 5 Questa tematica storica, il richiamo ad ambientazioni e a circostanze reali, se pur connotate in modo fiabesco e infiltrate in una vicenda dichiaratamente inverosimile, appare fondamentale nella letteratura italiana. Persino la poesia contemporanea si lascia sedurre dal fascino inquietante della storia. Viene da pensare, immediatamente, a Caproni e al suo conte di Kevenhüller, collocato, come il barone calviniano, in un Settecento, fiabesco per la distanza che da quegli anni ci separa, ma storico per i riferimenti, vicenda della bestia compresa, che era poi il miroir italiano della Bestia di Gevaudan. 6 Storico è, almeno nelle premesse, anche Il cavaliere inesistente, con la figura di Carlo Magno che passa in rassegna i cavalieri. Paradossalmente, tra questi, il più reale di tutti risulta proprio Agilulfo, prototipo del funzionario pubblico, inesistente a tutti gli effetti e sconosciuto persino ai suoi capi. La narrazione fantastica di ambito romantico o postromantico è sorretta da una forte partecipazione interiore dello scrittore, che esprime in essa le sue specifiche fantasie e ossessioni, il suo personale tormento. Nemmeno nei racconti grotteschi di Poe o di Hoffmann manca questa sostanziale e individuale partecipazione alla creazione fantastica. Se leggiamo invece Il cavaliere inesistente, non riscontriamo nulla di tutto questo. Sembra a sprazzi di leggere Eco o Voltaire, perché, anche se il nome dello scrittore è differente, lo stesso gusto irriverente e lo stesso spirito laico intervengono a dominare il racconto.  







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era cominciata », 2 in cui appare uno strumento caratteristico della retorica, il tricolon. A complicare il tutto subentra la descrizione di una realtà magica, ma antropomorfizzata, in cui le rocce, i luoghi, sono assimilati a forme umane : la Zenna, il deretano di una vecchia, e dove, come sempre in Landolfi, è l’immagine femminile che prevale in questa rassegna della natura umanizzata. A dire il vero, già nell’Ottocento il verismo cerca di integrare e recuperare il fantastico (Profumo di Capuana) e il neorealismo piomba nella stessa contraddizione. Un esempio di fantastico inserito in una cornice neorealistica è Luna piena, di Michele Prisco, 3 in cui il tema della licantropia è narrato con modalità realistiche come descrizione di una sorta di psicopatologia, il che lo rende probabilmente più appetibile ai lettori dell’epoca. Spesso lo strano, il perturbante vengono visti come se fossero deformati da una lettura popolare dei fatti. Ma sappiamo che il Neorealismo, anche quello cinematografico, può avere approdi fantastici (Miracolo a Milano) e la deriva fantastica dell’immaginativo felliniano, come si concretizzerà in 8 e ½ e soprattutto in Giulietta degli spiriti. Una particolare esplicitazione del gusto fantastico come esito esasperato del realismo si ha in Maria Antonietta Torriani, alias la Marchesa Colombi.

  Cfr. Tommaso Landolfi, La pietra lunare, Milano, Rizzoli, 1990, p. 87.

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  Ibidem.   In Michele Prisco, Fuochi a mare, Milano, Rizzoli, 1957, pp. 104-117.   Prefazione a Italo Calvino, I nostri antenati, Torino, Einaudi, 1960, 5   Edito da Einaudi nel 1957. p. xi. 6   Sulla storia della Bestia, nella sua espressione italiana, cfr. Giornale circostanziato di quanto ha fatto la Bestia feroce nell’Alto Milanese, In Milano, A spesa dello Stampatore Bolzani, s.d. [1792], consultabile anche in versione digitale sul sito della Biblioteca Nazionale Braidense. 3

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la rivincita del fantastico Si sente che l’autore, che può utilizzare un narratore intermediatore, è spaventosamente distante dalla vicenda e appare, con tutto il peso della sua coscienza sociale e politica, solamente in episodi realistici, come quello del saccheggio del villaggio da parte dei Cavalieri del Gral, che esprimono la condanna sostanziale di quel mondo fiabesco, in cui si realizzava l’oppressione del popolo da parte dei poteri dell’aristocrazia armata, sia pure celata sotto la spoglia ipocrita di elevate e pretestuose motivazioni spirituali. Tra le principali opere di argomento fantastico del Novecento, ma anch’essa collocata in una precisa dimensione storica, merita una citazione il grosso romanzo di Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca, 1 che fa riferimento sia al già citato mito della Bestia che, per lo stile e l’ispirazione, all’Ulisse di Joyce, ma difficilmente potrebbe essere collocato in un quadro di rinascita del fantastico, in quanto quest’opera ostica e faticosa, per l’autore come per il lettore, può rientrare invece tra i casi di opere sorrette dalla critica e dai letterati, ma non particolarmente popolari e diffuse. In questo privilegiato rapporto tra racconto e storia si colloca anche l’invenzione narrativa di Alessandro Baricco. In Castelli di rabbia (1991) la narrazione di Baricco ha un sapore di antico, ma l’esposizione è realistica, nel senso che non avvengono fatti magici, che i personaggi sono uomini e non esseri sovrannaturali, che gli avvenimenti si svolgono secondo criteri di verosimiglianza. La collocazione in un altro, definito, tempo, fa acquisire al romanzo una dimensione storica, il che soprattutto per il lettore italiano è un valore aggiunto. Di realismo dunque si tratta, ma la realtà a cui fa riferimento lo scrittore è una realtà alternativa. La sua storia è quella dei viaggi straordinari : vi si sente l’alito di Jules Verne, di Robida, di uno straordinario che è sì fantastico, ma che potrebbe essere reale. E reali sono gli uomini, se pur stravaganti, con le loro particolarità e le loro manie. Il libro è un inno alla creatività umana, a quella creatività-genialità che confina con la follia (come sosteneva Lombroso, proprio nell’Ottocento positivista). Il debito di Baricco verso la tradizione italiana del romanzo storico è rappresentata dalla storicità di alcuni fatti, come la gara per la costruzione del Crystal Palace per l’esposizione Universale di Londra del 1851, e di alcuni personaggi. Quello che distingue Baricco dalla tradizionale narrazione storica e realistica è la sua prosa. La prosa si disfa, si fa lirica, continua a descrivere fatti e situazioni che spesso non hanno nulla che possa farli percepire come elementi fiabeschi o meravigliosi, ma che, di fatto, lo sono, anche grazie a quella prosa. Se non è realismo magico, questo ! Vita morte di Adria e dei suoi figli, di Bontempelli, non presenta la stessa realtà stralunata e liricamente trasposta ? Realtà magica che però, in Bontempelli, vive di vita propria, autonoma ; non così quella di Baricco. L’abilità dello scrittore consiste invece nel far convivere, e rendere credibili, personaggi fantastici e personaggi storici, anche se perfettamente adeguati all’ambiente, come l’architetto sognatore Horeau ; ma questa compresenza non è anche questa un portato del romanzo storico, non è presente anche nell’affresco secentesco dei Promessi sposi manzoniani ? Nel mondo fantastico di Quinnipak, con i suoi bizzarri personaggi, fa quindi capolino la storia, quella di Hector Horeau, finito pazzo e auto recluso in manicomio, come il principe Zarlino di Palazzeschi. La storia fornisce quindi gli strumenti per ancorare a un’epoca precisa lo spazio fiabesco di un luogo inesistente e impossibile, come il paesino di Quinnipak. Ma Baricco riesce a creare una nuova frontiera del realismo,  











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e insieme del fantastico, nella scena, incredibilmente complessa, del ritorno dell’architetto a Quinnipak, una scena in cui appare quello che si potrebbe definire un flusso di coscienza collettivo. Una scena in cui si intrecciano vita e morte, sesso e disillusione, un insieme corale in cui si riflette l’infinito. Per inciso, verrebbe da sottolineare l’astuzia narrativa dell’autore, che mescola argutamente diversi piani narrativi, lirismo e volgarità, drammaticità e umorismo, così da catturare il massimo numero possibile di lettori. Solo nel finale, duplice, si scopre che la dimensione più genuina dell’opera è l’invettiva, la corposa e scoppiettante invettiva del pazzo Horeau nei confronti del mondo reale, 2 dei suoi ultramaledetti contemporanei, invettiva del genio incompreso nei confronti della Storia, che pare riproporre il nichilismo intellettuale del Perelà di Palazzeschi. Ma non così deve concludersi l’opera. Il lettore non potrebbe sopportare il peso di una così assurda ingiustizia. Ed ecco che il narratore scocca in avanti una freccia, creando un ponte, in qualche misura consolatorio, verso il futuro, rappresentato dall’America, sogno e fantasticheria dell’Europa ottocentesca. Tutto nuovo ? Innanzi tutto, evidente è il richiamo alla buona letteratura fantastica italiana, quella che ha come ineludibile precedente Calvino. Da Calvino deriva la predilezione per la storia, per rendere storico anche il sogno ; dallo stesso Calvino sembrano derivare i bizzarri personaggi. Una sostanziale filiazione si manifesta tra i Trelawney (nome stevensoniano) o i Gurdulù calviniani e i paralleli caratteri di Baricco, tutti talmente strani e incredibili da porsi al di là di qualsiasi processo di identificazione. Baricco riesce però in qualche momento a superare il gioco intellettuale per dare spessore drammatico alle sue creazioni, umanizzandole e inserendo la loro particolare follia in una sorta di follia collettiva, che è la sua più specifica rappresentazione della realtà.  



Per arrivare ai giorni nostri, un altro libro che si può proporre tra gli esempi recenti di narrazione fantastica è La misteriosa fiamma della regina Loana, di Umberto Eco. Si tratta, è giusto dirlo, di un libro imperfetto, se lo si paragona a Il nome della rosa e alla sua ineccepibile costruzione. Il suo maggior difetto è probabilmente la voluta prolissità nella parte centrale, dopo un buon inizio in cui si mantiene un ritmo accettabile. Qui la narrazione diventa catalogo e scoraggia il lettore meno introdotto nel raffinato ambiente dei bibliofili. Al lavoro di Eco si può però accreditare un’autenticità imprevista, in uno scrittore così colto e cerebrale, per cui il testo guadagna in sincerità e partecipazione quello che certamente perde in complessità intellettuale e stilistica. Nell’intero volume fantastico e reale s’inseguono, e anche qui, come in tanti esempi di narrazione fantastica italiana, realismo significa racconto storico, anche se si tratta di storia contemporanea, così vicina da rasentare la trattazione memorialistica. La particolare condizione di coscienza del narratore protagonista, dapprima privo di memoria, poi immobilizzato in un sonno-sogno indotto dal coma, sviluppa una serie di immagini che si aggrovigliano, utilizzando spesso il registro grottesco, per raggiungere infine una inarrestabile liricità. Si può pensare a un’influsso felliniano, probabilmente voluto e cosciente, dapprima, nella condizione vigile e realistica, accostabile ad Amarcord, poi, nel finale da passerella, insieme buffonesco e lirico, a 8 e ½ ; ma qui l’esito è profondamente e inevitabilmente tragico. Il protagonista narratore passa dalla contemplazione onirica alla morte, prima di scoprire il volto dimenticato del suo antico amore perduto. Al suo posto appare e si diffonde un « leggero fumifugium color topo » e il  



1   L’opera esce nel 1975 nella versione definitiva ; ma due capitoli di una prima versione, I fatti della fera, erano già stati pubblicati sul periodico « Il Menabò », ii, 3, 1960.  







2   Alessandro Baricco, Castelli di rabbia, Milano, Feltrinelli, 2010, pp. 204205.

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sole si fa nero. 1 È l’unica conclusione possibile, insieme lirica e tragica, anche se il lessico usato tende a dissacrare l’esito inevitabile e liberatorio della morte imminente e fa presupporre che, in fondo, la lunga e affannosa ricerca del protagonista sia quella di un uomo che per tutta la vita abbia inseguito, senza rendersene conto, un sogno di morte, il volto della fanciulla Lila, morta a 18 anni in Brasile, un volto cercato invano in tutte le donne vere o immaginarie che aveva avuto occasione di conoscere. Termino qui questo breve percorso tra gli autori di narra1   Umberto Eco, La misteriosa fiamma della regina Loana, Milano, Bompiani, 2004, p. 445.

zione fantastica nella produzione letteraria italiana contemporanea. Naturalmente molto ci sarebbe ancora da scrivere e riferire, approfondendo un tema che altri hanno trattato in modo più ampio e che meriterebbe ulteriori indagini. Vorrei concludere però con un dubbio. Leggendo i prodotti e lo sviluppo tematico ed esistenziale dei principali autori di libri dedicati al fantastico, viene da chiedersi se veramente abbia un senso considerare il fantastico come modalità narrativa opposta al realismo o se invece esso non ne sia che uno degli esiti spontanei e necessari, così come il sogno è una delle presenze, delle dimensioni possibili della realtà quotidiana e come l’epifania dell’invisibile (o del diversamente visibile) è una delle manifestazioni possibili del reale.

IL VERISMO ‘PRIVATO’ DI VERGA E I MALAVOGLIA (IN MARGINE AD ALCUNE LETTERE) Giuseppe Savoca

L

a situazione del vasto epistolario lasciato da Giovanni Verga è allo stato alquanto frammentaria, e c’è forse da attendersi l’uscita di altre sezioni provenienti da fondi privati. Essendo imminente (a cura di Antonio Di Silvestro e mia) la pubblicazione di un nutrito corpus di lettere verghiane ai familiari in gran parte inedite, ho piacere di proporne, in amichevole omaggio al carissimo Giorgio, una prima lettura, corredata da un piccolo florilegio di citazioni. In linea generale mi sento di potere rilevare come le lettere alla famiglia siano per noi di estremo interesse, più che per la biografia concreta dello scrittore – ma sulla quale dalle nuove lettere apprendiamo particolari e circostanze finora ignorati, specie sulla composizione di certe opere e sulle trattative con gli editori –, per la ricostruzione del suo mondo e della sua visione della vita, per l’individuazione e l’apprezzamento dei suoi valori personali (con la ‘religione della famiglia’ in primo piano) e, cosa finora molto poco indagata nelle lettere note, per comprendere meglio la formazione dei temi della sua stessa narrativa. Uno scrittore verista è per antonomasia (ma anche per autodefinizione) un autore che si eclissa dalla sua opera, salvo a far valere (da parte dei lettori), per lui come per tutti, il legame ineliminabile della creazione con il suo creatore, come quello che c’è tra il figlio e il padre (e in questo senso Verga, il 7 maggio del 1874, scrivendo alla « carissima mamà » di Aporeo – poi Eros –, potrà parlare di « affetto paterno »). Ora le lettere alla famiglia ci possono dare, come in parte quelle già pubblicate ci hanno dato nella sfera semipubblica dei rapporti di Verga con i suoi corrispondenti più noti (dal Capuana al Paola, dal Treves al Cameroni, al Rod, ecc.), elementi utili per definire meglio, tra l’altro, i caratteri della sua poetica soprattutto nella dimensione polemica di fronte alla ‘scuola’ romantica e psicologizzante (così, tra l’altro, il 28 luglio del 1874, a proposito di un giudizio negativo sulla Nedda apparso sul « Secolo », egli può scrivere alla madre « ch’è quistione di partito letterario, di scuola come si dice, ma i miei libri almeno non passano sotto silenzio – la peggiore delle critiche – Più mi farò avanti e più cresceranno gli amici e i nemici, questo lo so, e non mi spaventa, anzi è una necessità per lottare con più energia » ; e il 6 marzo dell’anno seguente, con Eros già uscito, accennerà con orgoglio e sfida agli « avversarj della scuola » – non meglio precisata – a cui egli appartiene). Com’è noto, e come documentano esplicitamente numerose dichiarazioni, le convinzioni veriste di Verga maturano dentro I Malavoglia e intorno ad essi negli anni 1878-1882. Lo scrittore insiste spesso sull’« ideale artistico » di una « osservazione coscienziosa » in cui l’« ottica », l’« angolo visuale » del narratore siano quelli di chi si sforza di « guardare al microscopio le piccole cause che fanno battere i piccoli cuori », e di rappresentare i suoi personaggi mettendoli nell’« ambiente vero », cogliendoli « ciascuno nella sua azione ». Per lui, narratore e lettore debbono da subito porsi « in mezzo » ai personaggi in azione, e la narrazione deve dare « l’illusione della realtà », portare in sé l’impronta di « cosa avvenuta », mentre « la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile » (introduzione all’Amante di Gramigna, 1880). In termini narratologici ciò si può realizzare riducendo il peso e il ruolo visibili del narratore fino a farlo scomparire dalla superficie e dall’impianto dell’opera, la quale dovrà sem 

































































brare « essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sorta spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore ». Come Verga dirà, tra l’altro in una lettera al Rod (14 luglio 1899), nei Malavoglia egli volle « mettersi nella pelle dei suoi personaggi, vedere le cose coi loro occhi ed esprimerle colle loro parole ». Così, nel concreto della pagina, l’azione narrativa non passa attraverso il filtro di un narratore palese, ma viene affidata alle parole dei personaggi, e ogni scena viene rappresentata secondo il punto di vista interno di singoli attori o anche di tutto il ‘coro’. Ne segue che gran parte del fascino della macchina narrativa dei Malavoglia consiste nella mobilità e nella rotazione dei punti di vista per cui il lettore vede, ad esempio, il mondo di Aci Trezza con gli occhi dei Malavoglia, mentre questi sono visti a loro volta con lo sguardo degli abitanti del paese. Rifiuto del narratore onnisciente e scelta di un tipo di narrazione attoriale sono dunque i cardini di questa poetica veristica di Verga. Teoricamente forse il suo ideale estremo sarebbe stato quello di un racconto assolutamente neutro, il quale prevederebbe la rigorosa abolizione di ogni registrazione del discorso interiore (pensieri e sentimenti) dei personaggi. Fortunatamente, nei Malavoglia lo scrittore, in contraddizione con i suoi stessi princìpi, si introduce manzonianamente nell’intimo dei personaggi, per coglierne, e in fondo quasi condividerne, pensieri, dolori e speranze. Ma questo non accade con tutti, bensì solo con i vinti (i Toscano – cioè i Malavoglia – e i loro affini). Credo di avere dimostrato in altra sede (con lo studio Chi pensa nei « Malavoglia » ? del 1989) come Verga, vedendo il mondo con gli occhi dei suoi Malavoglia, pensando con loro, calandosi al livello dei loro sentimenti, si sia schierato in fondo dalla loro parte, con ciò contravvenendo al primo canone verista della rappresentazione ‘obiettiva’. Il che, in altri termini, significa che se per l’arte si può sempre parlare di componente autobiografica, più o meno consapevole o più o meno esplicita, questo vale anche per il romanzo verista per eccellenza che sono I Malavoglia. Sulla strada dell’autobiografia verghiana la critica si è sempre mossa con prudenza, riconoscendo però francamente una dimensione autobiografica nella prima stagione, a partire almeno da De Roberto e da Russo (in Giovanni Verga del 1919), per il quale i romanzi giovanili presentano « realtà e letteratura, autobiografia e sogno, passione ed artificio mescolati insieme ». Sempre Russo ha parlato di un Verga verista « senza sapere del verismo » e di un suo « verismo istintivo ». Ancora, nella prefazione a un’edizione scolastica del Mastro-don Gesualdo, il critico afferma nettamente che lo scrittore « esordì con dei romanzi autobiografici, che documentano della sua immediata passione di vita e del suo nativo senso di osservazione realistica ». Lo dico un po’ ex abrupto : io credo che il vero romanzo ‘autobiografico’ di Verga siano I Malavoglia. E ciò, più che nel senso generico per cui ogni opera è ‘autobiografica’, in quello proprio di un ‘trasferimento’ di temi biografici privati nella storia narrata e nei personaggi (specie in quelli dei quali lo scrittore assume il punto di vista identificandosi con essi perché vi entra dentro), e nell’altro dell’adozione di un metodo di narrazione delle ‘cose avvenute’ nella quotidianità e ‘banalità’ concrete della vita dello scrittore quale la vediamo raccontata ‘veristicamente’ nelle lettere ai familiari.  































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giuseppe savoca

Non posso, ovviamente, sviluppare qui una compiuta analisi dimostrativa che confermi queste osservazioni. Tuttavia, in estrema sintesi, accenno a qualcosa di significativo, a partire dal dato, solo in apparenza casuale della composizione della famiglia. In effetti, i fratelli Verga erano cinque (tre maschi : Giovanni, Mario e Pietro ; due ragazze : Rosa e Teresa), come (nello stesso rapporto di genere) i figli di Bastianazzo e della Longa (’Ntoni, Luca e Alessi, con le due sorelle Mena e Lia). Il padre di Verga muore (il 5 febbraio 1863) prima della storia ‘ufficiale’ di Giovanni, così come Bastianazzo, la cui morte è collocata nell’antefatto delle vicende del romanzo, che prendono avvio da quella disgrazia e dai debiti conseguenti. Per Verga, sappiamo da alcune lettere degli anni sessanta che la morte paterna ha lasciato la famiglia in « estreme ristrettezze » (lettera allo zio Salvatore dell’11 aprile 1864, in cui il nipote confessa l’« impossibilità » di pagare quanto gli viene chiesto da taluno, anche con citazione giudiziaria accolta dalla famiglia con « il rossore di vedere il nostro nome trascinato in cause di tal fatta »). Sappiamo anche da tarde lettere al fratello Mario che Giovanni, ormai anziano, aveva dato in garanzia di certe cambiali anche la sua quota della casa familiare di via S. Anna ; ma particolarmente intensa (e molto significativa perché risalente al tempo della stesura dei Malavoglia) è una lettera alla madre (da « Milano, 8 Maggio 78 » ; la madre morirà nel dicembre dello stesso anno, e nel romanzo viene, come si sa, rappresentata la morte della madre che è la Longa) in cui il figlio esprime tutta la sua preoccupazione per la grave situazione economica della famiglia, ed esorta i suoi a fare scelte coraggiose per « purgare la casa dai debiti », e così potere avere tutti un po’ di pace :  































Carissima Mamà Sento con piacere dalla cartolina N. 50 di Pietrino ricevuta ieri sera che state tutti bene, e che Maro ha finalmente dato principio alle operazioni per Mineo. Questo è l’affare che vi raccomando sopra ogni altro, perché da esso dipenderà il regolare convenientemente tutti gli altri affari nostri, e il toglierci di tanti imbarazzi. Io mi stimerò ricco, quando non avrò, e non vi saprò, più preoccupazioni per la testa, e quando potrò dedicarmi tutto, e con calma, e senza fretta al lavoro che mi darà venti volte il fruttato che potrebbe darmi Arcidiacona. Però siamo tanto disgraziati che non mi lusingo di riuscirci. Ma credetemi che il partito più necessario ed utile da prendere senza ritardi è di purgarsi la casa dai debiti. Si venda all’occorrenza la casa del Fortino, se a vendere Mineo non riusciamo, ma mettiamoci nel caso di non dovere più niente a nessuno ; e di potere attendere con animo riposato ai nostri affari. Quando non avremo più un soldo di debiti, e avremo dato la dote alla sorella io mi reputerò l’uomo più ricco del mondo quando non mi restasse nemmen cinque lire di proprietà, ma soltanto quelle due camerette di Battiati o di Nuovalucello, dove potrei attendere a lavorare per tutti noi da un canto, mentre Pietrino attenderebbe dall’altro a far fruttare Nuovalucello. Ve lo ripeto, se non si viene a vendere Arcidiacona procurate di vendere le case al Fortino, io spero che esse basteranno a saldare tutti i nostri debiti, e avanzerà qualche cosa che si potrebbe impiegare reluendo Nuovalucello o altrimenti. Pensateci ! Pensateci ! e credetemi che è del nostro più grande interesse di pensarci. Io me ne ritornerò con certezza gli ultimi di questo mese, o il 1° di Giugno. Il mio lavoro mi lascia soddisfatto grandemente, e viene quale io l’ho desiderato perfetto. Riguardo ai miei affari ed interessi qui, procurerò di assestare le cose in modo da poter pagare tutto io stesso, anche nel caso che non si potesse pubblicare il romanzo prima della stagione morta, e se si dovesse aspettare l’Ottobre. Di salute sto benone. Quanto al ritornare a Milano, non lo farò mai più se prima non avrò per lo meno due manoscritti in pronto, in modo da aver denaro subito, e non esser costretto a torturarmi e a torturarvi come adesso per denaro.  





bero cavati d’imbarazzo » (cap. 9). Anche il nesso tra eliminazione dei debiti e dote alla sorella (« Quando non avremo più un soldo di debiti, e avremo dato la dote alla sorella… ») porta ai Malavoglia, alla dote di Mena (ad esempio – cap. 8 –, il nonno pensava che « adesso che tenevano nel canterano qualcosuccia per pagare il debito […] colla salatura delle acciughe si sarebbe pagato Piedipapera, e la casa restava libera per la dote della nipote »). Quasi superfluo accennare al tema malavogliesco centrale della vendita della casa familiare, nella lettera privata immaginata come perduta a favore di « due camerette » in campagna dove finalmente trovare quiete. Ma quello che è soprattutto dentro il mondo del romanzo (sulla linea positiva della religione della famiglia incarnata dal nonno) è il sentimento dell’unità familiare a cui si associa il proposito di lavorare « per tutti ». Sull’altro fronte, quello del coro, nelle lettere private appare una dicotomia oppositiva radicale tra nucleo familiare e mondo esterno, com’è il paese di Vizzini, malevolo e ostile, quale può vedersi, ad esempio, nella lettera milanese alla madre del 18 giugno 1874 :  



















mi ha fatto un gran dispiacere quello che mi scrive Maro delle istigazioni malevoli che ipocritamente e sotto diversi velami gli son stati fatti, riguardanti tutti o qualcuno della nostra famiglia. Conosco il paese, e gli abitanti, e so purtroppo che di queste manovre sarà usato ed abusato da falsi amici, nemici ed anche semplici invidiosi o maligni per non aver meglio da fare, e mi trema il cuore che se uno di noi fosse di carattere più debole, più credulo e più facile a farsi menare pel naso, o a farsi montar la testa fosse alterata, anche menomamente, la fiducia e l’affetto scambievole che forma l’unico tesoro della nostra famiglia. Io maledirei Vizzini – che vi confesso non digerisco molto, e chi ci mise la prima pietra. Per carità, giudizio tutti ! ché siamo circondati da nemici ! e pensate bene alle mie parole. Quanto all’affare della zia Margherita non capisco, e non voglio capirlo, il contegno dello zio. Ella avrà tutti i torti, sarà la peggiore imbrogliona del mondo, ma infine non imbroglia che per la roba sua, ha diritto a vivere, è vecchia, ed è ingiusto prestar mano ad uno stato di cose che le fa menare una vecchiaia miserrima.  



E ancora, il 7 luglio seguente, Giovanni si preoccupa di avvisare i suoi di mandargli i soldi richiesti prima della loro partenza da Vizzini per « non far sapere i fatti nostri alla gente », consigliando inoltre di non rivelare niente di una critica negativa su Nedda apparsa sull’« Opinione » perché egli pensa con dispetto « al piacere che ne avrebbero avuto i nemici e gl’invidiosi, e ai commenti che vi avrebbero fatto su, specialmente in un paese piccolo come il nostro, ché qui è tutt’altro mangiare ». La dicotomia amici/nemici è espressione di un motivo più ampio qual è quello della lotta per l’esistenza che nei Malavoglia informa in profondo le vicende del romanzo, ma viene esplicitato solo nella prefazione con le espressioni di « lotta per i bisogni materiali », « lotta per l’esistenza », « campo della lotta ». Nelle lettere ai familiari questo tema è più volte apertamente declinato, come si può rilevare, ad esempio, in una lettera fiorentina alla madre (12 giugno 1869) quando il figlio scrive : « Dovrò lavorare e lottare ma spero di riuscire a qualche cosa » ; e ancora (Milano, 12 febbraio ’74), sempre alla madre : « resta poi il lato materiale della carriera, ed in questo sento ancora che ho da lottare e da vincere ». Ma che questa sia una costante antica, originaria, nell’universo verghiamo è attestato da ciò che Giovanni scrive allo zio Salvatore l’11 aprile del 1864 sulle relazioni « fra nemico e nemico » che possono instaurarsi fra la famiglia e gli estranei. Nelle lettere è chiaramente espressa, in rapporto diretto con la lotta (dalla quale Giovanni pensa di uscire « glorioso, pieno di fama, e anche un po’ di quattrini »), la dicotomia tra amici e nemici (che è uno degli assi contenutistici dei Malavoglia) : « Più mi farò avanti e più cresceranno gli amici e i nemici, questo lo so, e non mi spaventa, anzi è una necessità per lottare con più energia » (lettera alla madre del 28 luglio ’74).  













































Elementi di precisa concordanza lessicale e tematica tra questa lettera e passi dei Malavoglia si riscontrano, ad esempio, nel desiderio di « toglierci di tanti imbarazzi », equivalente alla speranza di padron ’Ntoni che, con il lavoro di tutti, si « sareb 











il verismo ‘ privato ’ di verga e i malavoglia (in margine ad alcune lettere) 185 Giovanni Verga sa anche che per lottare e vincere nella batdelle sue spese, o non faccia riferimento al costo (o al prezzo taglia occorre investire danaro, e il risultato della vittoria (come pagato) di qualunque cosa lo riguardi (la colazione, l’affitto, i si può rilevare tra l’altro da una lettera milanese alla madre del guanti, le scarpe, i vestiti, le mutande, il biglietto del vapore o 22 marzo 1874) sarà dato da un maggior guadagno futuro, ridel teatro, una valigia, il ricavato di una novella, la somma che spetto a quello modesto che si potrebbe avere subito : intende chiedere agli editori in un contratto da stipulare, ecc.). A sua volta, il campo semantico del denaro è subordinaVi prego di perdonarmi se per coteste ragioni sarò forse costretto ad to a una categoria superiore qual è quella degli « affari ». La indugiare qui qualche mese dippiù, e a spendere qualche cosa dipparola-concetto affare copre uno spazio vastissimo, in quanto più ; ma capisco perfettamente che adesso sono in un punto decisivo essa è, per così dire, la mascheratura socializzata della realtà della mia vita, che si tratta di combattere la più grande battaglia per belluina di « lotta per l’esistenza » su cui si fonda la vita stessa trionfare decisivamente, e che perciò devo presentarmi armato di tutte le mie armi. Voi mi comprenderete. Per questa stessa ragione di ogni uomo. In altri termini, il parlare di affari non riguarda non ho voluto mettermi a scrivere il lavoretto pel Museo di Famiglia solo gli ambiti economici del guadagnare o perdere denaro o che mi avrebbe fruttato un 300 lire, perché in questo momento sono l’altro dell’amministrazione di un bene, ma si applica a tuttutto invaso e penetrato del soggetto che ho fra le mani, né vorrei ti gli aspetti del vivere sociale, tanto in quello ristretto della distoglierne l’attenzione e farne sbollire l’entusiasmo per mettermi famiglia (dove ci sono sì gli affari comuni di casa, ma anche ad un altro lavoro. Voglio finire prima questo, e finirlo tutto d’un quelli più puntuali di ciascuno : gli affari di Mario, come l’afgetto. Voi stessi mi approverete. Adesso si tratta non di vivacchiare fare della sua laurea, ma anche l’affare della cucina – spostabuscandosi 3 o 400 lire dippiù o di meno, ma di riuscire ben in alto, e mento di un ambiente –, l’affare del vestito – tutte cose che tutto di un colpo. Il resto verrà in seguito. comportano interazione con altri, ecc.), quanto, soprattutto, In realtà, la battaglia con il mondo esterno è solo per il dein quello dei rapporti con gli altri (anche famiglie di parenti, naro : o semplici estranei). In questo senso, gli affari di cui si tratta nelle lettere riguardano molte liti giudiziarie della famiglia Certo che metter fuori un 3000 lire, dopo le 300 dell’Eva, gli verrà (l’affare Barbagallo, l’affare Nuovalucello, l’affare di Mineo, duro, e avremo qualche battaglia, ed io stesso non so capacitarmi come il Treves, che non è un minchione, m’abbia dato egli stesso le ecc.), i rapporti con le banche, con le cambiali, con sensali, armi in mano, dicendomi che paga gli scritti per il Museo di Famiglia contadini, affittuari, ecc. in regime di 100 franchi il foglio. Ma battaglia o no, gli venga duro Quasi superfluo appare accennare alla rilevanza degli affari o no, non potrà ragionevolmente farmi alcuna seria obbiezione alle in tutto il mondo rappresentato nell’opera verghiana. Per limie pretese se il lavoro gli piace ; e una volta che avrò stabilito questo mitarsi ai soli Malavoglia basterà ricordare che è stato « l’affare prezzo di 100 franchi il foglio, per gli scritti futuri, io credo d’aver dei lupini » a portare la famiglia Malavoglia alla rovina, come fatto un ottimo affare perché non ci sarà bisogno di fare tira e molun affare sarebbe il fidanzamento di Mena con Brasi (« fra lui la per i lavori avvenire (a meno che la fortuna non mi permetta di e padron ’Ntoni c’era stata qualche parola di maritar la Mena elevare le mie pretese fra qualche anno) e stando a casa mia, senza con suo figlio Brasi, e se il negozio dei lupini andava bene, la esser costretto di andar fuori altro che per diletto, potrò intendermi Mena avrebbe avuto la sua dote in contante, e l’affare si sarebfacilmente con lui pei lavori avvenire, e fra i suoi giornali e pubblicazioni a parte potrò comodissimamente, e senza la menoma fatica, be concluso presto. », cap. 2). guadagnarmi un 500 franchi al mese, poiché cinque fogli di stampa Se la ‘lotta’ è il movente antropologico ed esistenziale di li scrivo al più in 10 giorni comodamente, quando ho già in testa ogni ‘affare’, nel concreto della vita sociale il ‘lavorare’ è la maturo il disegno. Vedremo. (Milano, 30 aprile 1874) dimensione socialmente accettata del ‘lottare’. Giovanni Verga nelle lettere dimostra una chiarissima consapevolezza della Il denaro è fine e strumento di lotta anche nel mondo dei sua scelta lavorativa di essere scrittore ‘a tempo pieno’ (« non Malavoglia, ma soprattutto dalla parte del coro, del paese. I ho a rimproverarmi un’ora di quella destinata al mio lavoro membri della famiglia non assolutizzano il suo potere. Essi che sia andata perduta », 19 maggio ’74). I resoconti che egli fa lo cercano e lo risparmiano per soddisfare i bisogni elemencostantemente ai suoi familiari sullo stato dei nuovi « lavori » tari e per riconquistare la casa. Alla partenza di Luca per fare (come spessissimo chiama i suoi scritti) hanno anche la funzioil soldato, Verga attribuisce al nonno ’Ntoni, memore delle ne di comunicare che egli non si risparmia nessun ‘sacrificio’ fastidiose lettere del nipote ’Ntoni (tanto più scialacquatore (è altra parola tematica di questo campo) pur di non rendere e irrequieto del fratello minore), il pensiero che « Questo qui vano l’investimento economico (« sacrificio » grave anch’esso) non scriverà per danari, quando sarà laggiù » (cap. 7). Anzi, ad che la famiglia ha fatto e continua a fare su di lui. inizio del capitolo ottavo, veniamo a sapere che Luca scriveva Il lavoro è il primo e il più forte fondamento della religione poco per risparmiare i soldi dei francobolli, e che, quando podella famiglia che viene celebrata nei Malavoglia, dove il lavoteva, inviava alla famiglia addirittura dei soldi. ro è pienamente accettato da tutto il nucleo familiare (tranne Giovanni Verga che scrive alla famiglia fa esattamente il che da ’Ntoni) come attività squisitamente umana, capace di contrario di Luca : scrive spessissimo e non manda mai soldi, rendere vivi e operanti i vincoli di sangue e di solidarietà su ma sempre ne chiede per potersi mantenere decentemente e cui si fonda la famiglia. non sfigurare nel confronto inevitabile con gli esponenti del Come ’Ntoni, Giovanni Verga sa che deve andare via : dal mondo nel quale egli si vuole inserire (con la metafora dei ‘lavoro’ che era stato di suo padre ed è dei suoi fratelli, dal Malavoglia questo mondo è il « campo della lotta » nel quale egli è impegnato a cimentarsi e a vincere). progettato ‘lavoro’ di avvocato (con l’abbandono degli studi). Ma come Luca egli ben conosce il valore del denaro e, se Egli, da giovanissimo, ha scelto un altro lavoro, quell’appapuò, lo risparmia anche nella corrispondenza, limitando, anrente non lavoro, incerto e spesso improduttivo, che è l’atche contro il desiderio materno, il numero delle lettere, riutività dello scrittore. Morto il padre, egli, come ’Ntoni il nendone due o tre in una, spedendo più giornali in un unico maggiore di cinque fratelli, imposta il suo lavoro di elezione invio e utilizzando (quando le notizie possono sintetizzarsi) le su un ritmo annuale che prevede la sua assenza da casa per meno costose cartoline postali. Al « risparmio di spese postali » parecchi mesi. Ogni volta però la sua partenza (specie fino (29 gennaio 1874) egli accenna numerose volte nelle lettere. alla fine del ’78, quando, il 5 dicembre, muore la madre) sarà Così egli consiglia ai familiari, nella gestione della corrisponcarica di rimorsi e accompagnata, nelle lettere, da frequenti denza, la stessa economia che egli si impone. tentativi di giustificazione. I motivi di colpevolizzazione sono, Il tema dei soldi, in tutte le lettere ai familiari, è assolutamenalmeno in superficie, due : l’abbandono dei fratelli e l’abbante centrale e, si direbbe, ossessivo. Non c’è nessuna lettera in cui dono della madre. Si tratta in fondo di uno stesso tema, che è Verga non chieda ai familiari invio di denaro, o non li informi quello dell’allontanamento di un membro della famiglia, così  























































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ben rappresentato nei Malavoglia, con poche parole rispetto ai fratelli (cap. 11), e molto più centralmente come dolore della Longa per la temuta partenza di ’Ntoni. Nel Verga dei Malavoglia il tema del viaggio si connette intimamente al tema dell’addio (quello di ’Ntoni che va a fare il militare, cap. 1 ; quello di Luca, cap. 7 ; quello di Alfio e Mena, cap. 8 ; quello di Alessi a ’Ntoni che, morta la madre, se ne va, cap. 11 ; quello ultimo di ’Ntoni ai fratelli : « Addio, perdonatemi tutti. », cap. 15), e inevitabilmente al tema della morte, che è per la Longa un partire « per un viaggio nel quale si riposa per sempre, sotto il manto liscio della chiesa ; e doveva lasciarli tutti per via, quelli cui voleva bene, e gli erano attaccati al cuore ». Nelle lettere la connessione tra viaggio e morte non è mai esplicitata, e semmai sta al fondo di un tema più generale qual è quello della separazione dai propri cari, la madre in primo luogo. Ed è alla prima e dolorosissima (per la madre e per il figlio) partenza che il vecchio Verga, accomunando sé e il fratello vivente ai propri morti, ripensa, in una lettera a Mario del 4 ottobre 1920 scritta dopo la sua nomina a senatore :  





















Ma con te solo, fratello mio, se questo senatoriato ti fa piacere, io voglio rammentare con le lagrime di gratitudine agli occhi, il nostro eroico Padre, che con cinque figli e senza risorse per sbarcare tanto lunario, e con gli occhi chiusi in quell’epoca e in quelle condizioni mi recò avanti oltre i limiti del suo orizzonte limitato. La nostra cara Madre, che fece tanto essa pure, e s’impose il maggiore sacrificio per una mamma, e in queste condizioni, di lasciarmi partire a conquistare il mio ideale, aiutandomi in ogni modo come poteva.

Andando indietro, alle prime partenze di Giovanni Verga, si può cogliere esplicitamente più di una volta, e sempre al fondo di ogni lettera il dolore del distacco dai suoi, e soprattutto il dispiacere per la sofferenza causata alla madre, che acconsente tuttavia all’allontanamento del figlio, il quale, a sua volta, al contrario di ’Ntoni, chiede lui alla madre di non farlo partite (lettera al fratello Mario da Firenze, 7 maggio 1869) :  

È verissimo che stavolta io ho partito assai triste per la ragione doppia di vedere la mamà così angustiata per la mia partenza e pel pensiero di andare a spendere molto denaro chi sa forse inutilmente. Ti giuro che il dispiacere della mamà mi toccava il cuore e più di una volta risolsi, anzi la pregai di postergare e rimettere ad altra epoca la mia partenza. Ti raccomandai perciò, e raccomando a tutti della famiglia di procurare di tranquillizzarla e farla stare allegra e non darle mai la minima occasione di dispiacere. Fu questo pensiero anche che mi fece decidere di non passare mai per l’avvenire più di 4 mesi l’anno a Firenze e di limitare per questa volta la mia lontananza a tutto agosto. Anzi se prima mi desidera la mamà prima verrò.

La vera speranza di Giovanni è stata sempre quella di tornarsene a casa dopo ogni viaggio, ‘vittorioso’ e ricco. Andando al

romanzo, sappiamo dalle stesse parole di ’Ntoni che, partendo per paesi lontani come aveva fatto il nonno di Cipolla, il suo scopo, sempre frustrato, è quello di diventare ricco. Nemmeno Giovanni Verga tornava ricco. Ma sappiamo dalla lettera dell’8 maggio 1878, prima ampiamente riportata, che egli si sarebbe ritenuto ricco anche senza cinque lire in tasca pur di stare con i suoi e di potere lavorare per essi, rigorosamente fedele a quella ‘religione della famiglia’ a cui egli ha da sempre creduto. Lo dico in conclusione, e senza qui dimostrarlo (dimostrazione che credo di avere avviato con il mio recente saggio Il « Cristo siciliano » di Verga tra parole, opere e vita), ma credo che per comprendere meglio lo scrittore nella sua totalità occorrerà mettere in conto il tema della sua fede segreta. Nei Malavoglia alla volontà di Dio si rimettono ciecamente i personaggi ‘buoni’ : la cugina Anna, rimasta vedova ma senza perdere la fiducia in Dio (« Alla volontà di Dio ! concluse la cugina Anna », cap. 2), la Mena (« era avvezza a fare la volontà di Dio, come la cugina Anna », cap. 15), e soprattutto il nonno che, di fronte ai segni della tempesta imminente, si affida (come fa in tutte le cose) a Dio : « La vela ! ordinò padron ’Ntoni ; il timone al vento verso greco, e poi alla volontà di Dio » (cap. 10). Una rapida inchiesta condotta su tutto l’epistolario verghiano ci porta a rilevare una notevole occorrenza di formule desunte dal linguaggio religioso (« se Dio vuole », « Dio mio », « Dio non voglia », « grazie a Dio », « e se Dio m’ajuta » – ripetuta spesso –, « Dio non ne domandi conto », « e spero che Dio gli levi di tesa la brutta idea », « coll’aiuto di Dio », « e se Dio ci aiuta », « e se Dio m’aiuta nella riuscita », « per l’amor di Dio », « e che Dio sa », « Se Dio m’aiuta vedrete », « Che Dio me la mandi buona », « la cosa è adesso nelle mani di Dio », « Tutto invece è nelle mani di Dio », « grazie al Cielo », « Voglia il Cielo », ecc.), le quali indicano una interiorità di fede raramente esplicita, ma non per questo meno radicata e sentita. Nelle lettere al fratello Mario, più di una volta Giovanni Verga dice « Prego Dio », ma è in quelle alla madre che egli manifesta più apertamente il suo sentirsi dentro la fede materna. Così egli può dirle : « Mia cara Madre, se Dio ci benedice, e arriveremo tutti i fratelli a farci una certa posizione, cesseranno queste angustie continue » (lettera da Firenze del 14 luglio 1869). E ancora : « Vi auguro Buona Pasqua e felicissima al possibile. Vi abbraccio e vi bacio uno ad uno. State contenti, che pare che Dio voglia aiutarci » (lettera da Firenze del 1° aprile 1874). In queste lettere appare anche la speranza nella comunione familiare tra vivi e morti : « accetto queste tue parole come una benedizione materna simile a quella che mi avrebbe dato il mio adorato genitore, se fosse in vita, e che mi darà forse dal Cielo » (lettera da Milano del 10 marzo 1874).  























































































































LA MEMORIA LETTERARIA NEL BEL PAESE DI ANTONIO STOPPANI Federica Millefiorini

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l Bel Paese, 1 l’opera più nota dell’abate Antonio Stoppani (Lecco, 1824 - Milano, 1891), 2 uno dei migliori testi di divulgazione scientifica e uno dei libri più letti del tardo Ottocento, 3 si proponeva, come dichiarato dall’autore nell’introduzione, di illustrare agli italiani la conformazione fisica del proprio paese, nella convinzione che la conoscenza scientifica della propria terra fosse elemento fondamentale per far crescere la coscienza di sé che un popolo deve avere. Far conoscere l’Italia significava infatti secondo Stoppani instillare negli italiani l’amore per la patria e contribuire alla formazione della coscienza nazionale del neonato stato italiano. Questa finalità politica si sposa a pieno con il patriottismo che caratterizzò lo scrittore lecchese sin da quando partecipò alle Cinque Giornate di Milano nel 1848 e che lo indusse a svolgere il ruolo di cappellano militare durante la terza guerra d’Indipendenza. Sottesa a questi scopi divulgativi e patriottici era però una motivazione profondamente morale, che non è mai disgiunta dall’agire e dallo scrivere dell’autore lecchese. Egli afferma infatti, sempre nell’introduzione rivolta Agli institutori, che « cercherà di eccitare il sentimento del bello e del bene morale, nella convinzione che chi scrive un libro popolare non debba mai dimenticarsi che il bene morale è la base della vera libertà e del benessere di un popolo ». 4 È per questo che egli ripetutamente incita i nipoti che compongono l’uditorio (come dirà nella Serata I) ai buoni sentimenti e ricorda a loro e al lettore la grandezza di Dio, resa palese e tangibile dalla bellezza della natura. Anche attraverso un’opera di divulgazione scientifica quindi l’abate, pur senza fanatismi, anzi con grande moderazione, « giunge a fare l’apologia della fede in Dio », 5 in quanto la grandiosità della natura, in Italia e altrove, rivela l’infinita bontà di Dio. Il suo profondo rigore morale lo induce poi ad attenersi ad un’assoluta fedeltà al vero. Analogamente a Manzoni, suo conterraneo e suo grande modello, non solo in materia di scelte stilistiche e di programma linguistico, egli dichiara infatti di non volersi scostare « nemmeno d’una linea dalla verità » :  













Egli [l’autore] ha inteso di scrivere un libro strettamente scientifico, cioè rigorosamente vero. Il verisimile n’è affatto escluso. Se c’è invenzione, essa, è tutta di forma ; consiste cioè nell’avergli dato la forma antichissima di un dialogo, dividendolo in tante serate […]. Anzi non si può dire che questo tenga all’invenzione nemmeno per  

1   L’opera fu pubblicata dall’editore Agnelli di Milano, probabilmente nel 1876, ma la datazione è tuttora discussa. Per la cronologia della princeps si veda Anna Pastore, Il Bel Paese di Antonio Stoppani : Serata i, « Rivista di letteratura italiana », xviii, 2-3, 2000, pp. 298-299. L’autrice, dopo aver spiegato che la maggior parte delle fonti ottocentesche colloca l’opera all’altezza del 1875 e che una seconda tradizione, meno accolta, parla del 1873 come anno di pubblicazione, adduce prove convincenti a favore del 1876. Questa viene ritenuta la data più probabile anche da Luca Clerici, nella sua Introduzione a Antonio Stoppani, Il Bel Paese, a cura di Luca Clerici, Torino, Aragno, 2009, p. lxi. Nel presente studio si farà riferimento proprio a tale edizione, che è la più recente e riproduce quella datata 1876. Per tutte le citazioni da quest’opera ci si limiterà a indicare la serata, seguita dal numero di pagina. 2   Per la biografia dell’autore si veda : Angelo Maria Cornelio, Vita di Antonio Stoppani. Onoranze alla sua memoria, Torino, Unione tipograficoeditrice, 1898. 3   Cfr. Federica Bertoni, Da scienziato a letterato : Stoppani e la divulgazione, in Antonio Stoppani tra scienza e letteratura. Atti del Convegno Nazionale di Studi (Lecco, 29-30 novembre 1991), a cura di Gian Luigi Daccò, « Materiali. Monografie Periodiche dei Musei Civici di Lecco », vi, 1, 1991, p. 66. 4   Agli institutori, p. 6. 5   Giovanni Landucci, L’occhio e la mente. Scienze e filosofia nell’Italia del secondo Ottocento, Firenze, Olschki, 1987, p. 17.  



Coerente con questo manzoniano richiamo al ‘santo vero’ è il fatto che Stoppani, sin dalla prima pagina dell’opera, espliciti il suo modello, facendo riferimento per ben tre volte ai Promessi sposi : mentre riconosce che « il mondo fisico non desterà mai quell’interesse che desta il mondo morale », 7 cita infatti Lucia inginocchiata ai piedi dell’Innominato, la madre di Cecilia che consegna il corpo della figlioletta ai monatti e il quadro del Lazzaretto come esempi di passi che sanno muovere l’animo del lettore molto più di qualsiasi testo scientifico. In tal modo egli ammette l’inferiorità della sua opera e della letteratura di divulgazione in generale rispetto ai testi letterari che parlino di sentimenti umani, ma una simile professione di umiltà nulla toglie all’altezza della missione di quegli uomini di scienza che vogliano mettersi al servizio del popolo italiano, per offrirgli dei buoni libri popolari. Il Bel Paese dunque si apre sotto il magistero di Manzoni, che viene anche nominato esplicitamente laddove l’abate polemizza con Jules Verne, le cui opere a suo dire « hanno inondato l’Italia » : egli le critica aspramente perché presentano « una mostruosa miscela di vero e di falso » - parole che sembrano uscite dalla penna manzoniana -, mirano a « dilettare l’imaginazione piuttosto che ad arricchire la mente » e infine perché « non possiam dire certamente che il romanzo scientifico abbia trovato il suo Manzoni ». 8 Nell’introduzione l’autore lecchese, oltre a Manzoni e al mulcere utile dulci di oraziana memoria, 9 non manca di citare modelli più specifici per la letteratura scientifica, come l’italiano Paolo Lioy e lo svizzero Eugenio Rambert, autore di Les Alpes Suisses. Del resto in un’opera di divulgazione scientifica non potevano mancare i riferimenti a illustri ascendenti nel campo delle scienze naturali ; nel corso delle serate ne verranno nominati molti (tra gli altri i francesi Quatrefage e Berthelot, rispettivamente naturalista e chimico, il biologo, eploratore e botanico Alexander von Humboldt e il geologo Otto von Abich, entrambi tedeschi, il geologo scozzese Charles Lyell, ricordato per i suoi studi sull’Etna), ma il più citato ed elogiato sarà sicuramente il gesuita e biologo Lazzaro Spallanzani. 10 Non manca neppure l’autoreferenzialità, giacchè Stoppani rinvia talvolta alle proprie opere scientifiche, come le Note ad un corso di geologia 11 e il Corso di geologia. 12  





































la forma ; poiché l’autore non fa qui che esporre, conversando, ciò che conversando ha narrato tante volte e suol narrare a fanciulli e non fanciulli, in famiglia e fuori. […] L’autore crede d’insistere su questo punto della fedeltà al vero, perché ne ha fatto il dogma fondamentale della sua professione di scrittore. 6

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  Agli institutori, p. 7. 8   Ivi, p. 3.   Ivi, p. 5.   Ivi, p. 8. Sull’unione fra dilettare e istruire, Stoppani tornerà in apertura della Serata vi, pp. 103-104 : dopo aver insistito sul tema manzoniano del vero da narrare ai ragazzi, precisa : « penso infine che tra il dilettarli senza istruirli, e l’istruirli senza dilettarli sia da scegliersi il secondo ». 10   Lazzaro Spallanzani (Scandiano, 1729-Pavia, 1799), considerato il padre della fecondazione artificiale, viene citato da Stoppani in merito alla fosforescenza marina (Serata xi, p. 215), per spiegare alcune caratteristiche dei pipistrelli (Serata xx, p. 372) e riguardo alla descrizione dello Stromboli (Serata xxv, p. 450). 11   Antonio Stoppani, Note ad un corso annuale di Geologia dettate per uso degli ingegneri allievi del Reale Istituto tecnico Superiore di Milano, Milano, Bernardoni, 1865-1870 (3 voll.). Stoppani ne parla nella Serata xxii, p. 412. Per la bibliografia delle opere di Stoppani si veda Luigi Servolini, Antonio Stoppani : saggio di bibliografia, Lecco, E. Bartolozzi, 1955. 12   Si tratta di un’edizione rifatta delle Note ad un corso annuale di Geologia : Antonio Stoppani, Corso di Geologia, Milano, Bernardoni e Brigola, 1871-1873 (3 voll.). Cfr. Serata xviii, pp. 349-350. 7

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Se tutto ciò non stupisce, perché rientra nella strategia di diffondere presso un pubblico ampio le conoscenze acquisite dagli scienziati più noti del periodo, può invece destare sorpresa il fatto che il nome più frequentemente riaffiorante alla memoria di Stoppani insieme a quello di Manzoni sia quello di Dante. In realtà la commistione di fonti scientifiche e memorie letterarie è pienamente comprensibile quando si ricordi che l’abate ha avuto una formazione classica, nei Seminari di Castello sopra Lecco, poi di S. Pietro Martire, quindi in quello di Monza e infine a Milano, seminari nei quali all’epoca, oltre alla preparazione religiosa e teologica, veniva fornita un’istruzione centrata sulla letteratura italiana e latina, mentre veniva lasciato poco spazio alla fisica e alla matematica, addirittura nessuno alle scienze naturali. 1 La compresenza dei saperi e quella sorta di ‘sincretismo’ tra modelli scientifici e letterari è poi un lascito della cultura enciclopedica settecentesca, rimasta viva nella borghesia lombarda dell’Ottocento, alla quale il Nostro apparteneva. 2 Per Stoppani, convinto assertore dell’unità dello scibile (sulla quale avrebbe pronunciato un discorso nel 1877), era quindi del tutto naturale fare appello all’autorità tanto di scienziati quanto di letterati, che rientravano parimenti nel suo bagaglio culturale, e che potevano nobilitare la sua scrittura. Le citazioni di autori classici infatti valgono a fornire spessore e autorevolezza a un testo di divulgazione scientifica, che si inseriva nell’ambito della letteratura didascalica, genere poco frequentato dagli autori italiani e ritenuto inferiore rispetto alla letteratura colta. Stoppani stesso negli anni giovanili aveva provato una sorta di rimorso per i suoi interessi scientifici, essendo convinto che la storia naturale avesse una dignità inferiore rispetto allo studio dei classici antichi e moderni. 3 È chiaro quindi che il dialogo costante con i testi dei maggiori autori del passato dovesse ai suoi occhi essere un fattore nobilitante, capace di elevare la sua opera. Inoltre gli echi provenienti da varie fonti letterarie consentono a Stoppani di rendere il testo meno monotono, introducono un elemento di varietas nel racconto ai nipoti. Altra funzione delle citazioni è poi quella di far conoscere, insieme alle bellezze fisiche e naturali del nostro paese, anche le ‘glorie’ letterarie italiane. Non a caso gli autori più letti dall’abate e a cui più spesso fa riferimento nel Bel Paese sono Dante e Manzoni, autori imprescindibili per la neonata nazione, sia perché modelli linguistici per l’Italia unita, 4 sia perché esempi di integerrima fede patriottica. Pertanto Ernesto Travi ha giustamente parlato di due « numi della […] dimensione umana e letteraria » 5 di Stoppani, riferendosi proprio a Dante e Manzoni. Prova ne sono due pubblicazioni che intendevano essere un omaggio dell’abate ai suoi auctores, modelli di vita e di stile : nel 1865 infatti, in occasione del sesto centenario dantesco, egli aveva dato alle stampe, per i tipi di Giuseppe Bernardoni di Milano, Il sentimento della natura e la Divina Commedia, 6 precisando che  





1   Cfr. Angelo Maria Cornelio, Vita di Antonio Stoppani. Onoranze alla sua memoria, cit., pp. 23-24. 2   Per questi aspetti si veda il capitolo Antonio Stoppani nella cultura scientifica lombarda dell’800, in Carlo G. Lacaita, Sviluppo e cultura : alle origini dell’Italia industriale, Milano, Franco Angeli, 1984, pp. 188-199. 3   Cfr. Serata xxix, p. 522. 4   In questa sede non ci soffermiamo sugli aspetti linguistici, per i quali si rinvia a Silvia Morgana, Antonio Stoppani dall’educazione scientifica all’educazione linguistica, in L’Accademia della Crusca per Giovanni Nencioni, Firenze, Le Lettere, 2002, pp. 253-283. Il contributo è fondamentale anche perché ridimensiona il presunto manzonismo linguistico di Stoppani, sul quale aveva insistito il nipote biografo Cornelio. 5   Ernesto Travi, « Narro ciò che ho visto », in Antonio Stoppani tra scienza e letteratura, cit., p. 151. 6   Poi ristampato, insieme ai Discorsi accademici e alle Necrologie, in Antonio Stoppani, Trovanti, Milano, Giacomo Agnelli, 1881 ; ne è ora disponibile una copia digitale (consultabile su http ://www.archive.org/texts/flipbook/ flippy.php ?id=trovantiilsenti00stopgoog). In seguito Stoppani sarebbe tornato ad occuparsi di Dante in Dante Alighieri precursore delle moderne scoperte geologiche (Verona, s. e., 1882).  











gli italiani, da poco riuniti in uno stato, « si affisano nel sommo Italiano, creatore della loro favella, e viva espressione del genio e delle aspirazioni della loro nazione » ; 7 per lo stesso editore, nel 1874, aveva pubblicato I primi anni di Alessandro Manzoni. Spigolature, amorevole raccolta di notizie sugli anni giovanili del grande scrittore. 8 Può essere lecito allora, trattando della memoria letteraria nel Bel Paese, concentrare l’attenzione su questi due autori, pur non dimenticando che anche altri nomi, di grandi e di minori, 9 di classici (quali Plinio il Vecchio e Tito Livio) e di contemporanei (ad esempio il Grossi dei Lombardi alla prima crociata e il Giusti), hanno lasciato traccia nei testi del geologo lecchese e sono oggetto talvolta di semplici allusioni, talaltra di citazioni dirette. Quanto alle citazioni manzoniane, esse sono diffuse in tutta l’opera, ma sono più insistite nelle prime serate. Molto spesso però Manzoni non viene citato esplicitamente : Stoppani allude argutamente a passi noti dei Promessi sposi, che, per assiduità di lettura, sono entrati nel cuore e nel ‘repertorio’ dell’abate. Egli ad esempio, parlando dei membri della comitiva che avrebbe dovuto attraversare il passo dello Zebrù e ha abbandonato il progetto a causa del maltempo, osserva che si beccano tra loro « come i capponi di Renzo ». 10 Più volte rievoca Don Abbondio intento ad interrogarsi sull’identità di Carneade ; anzi nella Serata vii Stoppani, con fare ironico, paragona se stesso al curato : « sedetti alla scrivania in quell’acconciatura e in quell’atto a un dipresso, in cui se ne stava don Abbondio almanaccando sopra Carnèade » ; e fa seguire una nota in cui spiega ai nipotini che compongono l’uditorio chi fosse costui, in modo che – conchiude col suo sorriso sornione e bonario – ne sapessero « una di più che don Abbondio ». 11 Le frasi manzoniane sono entrate così profondamente nell’uso che Stoppani le ‘mette in bocca’ anche ai nipoti, i quali, per porre una domanda allo zio, esclamano proprio « Chi era costui ? », 12 alla maniera di don Abbondio nell’incipit del capitolo viii dei Promessi sposi. L’abate dà per scontato che anche i lettori conoscano bene il romanzo, come si nota nella Serata viii, dove accenna ai fatti raccontati nel capitolo xxx dei Promessi sposi, limitandosi però ad una sintetica allusione di poche righe (chiusa solo dai puntini di sospensione), colorita dalla solita benevola ironia. Per spiegare il nome della caverna detta Tomba dei Polacchi che si trova in Valle Imagna, egli ipotizza :  

































forse quando i lanzichenecchi invadevano la casa di don Abbondio, il quale intanto, per questione di sicurezza personale si dilettava di studî topografici proprio sull’opposto pendio dell’Albenza, dove era il castello dell’Innominato, forse allora… vattel’a pesca !... 13  

L’ironia ruota sul fatto che vengono chiamati « studi topografici » i brevi sopralluoghi con i quali don Abbondio ‘studiava’, dall’alto del castello dell’Innominato, l’esistenza di passi o sentieri dove cercare un nascondiglio nel caso fosse scoppiato qualche parapiglia. Una simile ironia però può essere intesa solo da un lettore avveduto, che ricordi bene il passo del romanzo, e Stoppani ritiene evidentemente che il suo uditorio e i suoi lettori abbiano tale competenza. Echi manzoniani si sentono in moltissime pagine stoppa 



7   Antonio Stoppani, Il sentimento della natura e la Divina Commedia, in Idem, Trovanti, cit., p. 5. 8   Antonio Stoppani, I primi anni di Alessandro Manzoni. Spigolature, con aggiunta di alcune poesie inedite o poco note dello stesso A. Manzoni, Milano, Tipografia Bernardoni, 1874. Dopo altre due edizioni, nel 1923 uscì I primi e gli ultimi anni di Alessandro Manzoni, che contiene I primi anni di Alessandro Manzoni di Stoppani e le Memorie manzoniane di Cristoforo Fabris (Milano, Cogliati). 9   Significativo il fatto che nella Serata xiii (pp. 252 e 254-257) si affianchino la citazione dal carme xiii di Catullo e quella dei versi satirici del poeta cia10   Serata v, p. 95. battino Domenico Stromei. 11   Serata vii, p. 130 e ivi, p. 130, nota 8. 12   Serata vi, p. 105. Un riferimento a Don Abbondio e Carneade si trova 13   Serata viii, p. 161. anche nella Serata xxii, p. 399.

la memoria letteraria nel bel paese di antonio stoppani niane e sono talvolta precisi calchi lessicali, determinati però non tanto da smania imitativa, quanto da profonda consonanza di sentimenti. Un esempio su tutti è quello che si legge ancora nella Serata viii ; e varrà la pena notare – per inciso – che spesso all’interno delle stesse serate o nel giro di poche pagine si affollano i riferimenti letterari, quasi che ‘citazione chiamasse citazione’, che la memoria dell’autore, dopo aver citato un passo, venisse trascinata a citarne un altro tratto dalla medesima fonte oppure uno affine ma di fonte diversa. Nella serata dedicata a Le caverne di Vall’Imagna dunque Stoppani riecheggia chiaramente, seppur senza menzionarlo, il celeberrimo « Addio, monti » che Manzoni immagina pronunciato in cuor suo da Lucia costretta ad abbandonare Pescarenico :  







Oh ? i più bei giorni della mia gioventù io li ho passati in queste care valli della Lombardia, su quelle cime ineguali indorate dal sole, su quei monti al cui piede si distende l’ubertoso piano, che sfuma tra le nebbie leggere del lontano orizzonte, ove si disegnano talvolta, come nubi sospese nella zona più bassa dell’atmosfera, le creste ondeggianti dell’Appennino. 1  

La vistosa ripresa di « cime ineguali » è la spia di una vicinanza ben più profonda tra i due passi : entrambi esprimono, pur nella evidente disparità degli esiti, l’accorato saluto dell’autore (giacché l’addio di Lucia è in fondo anche quello di Manzoni), carico di rimpianto, alle montagne e ai luoghi dove visse l’infanzia felice. 2 Gli echi manzoniani poi provengono da tutta la produzione dell’autore milanese, non solo dal romanzo. Troviamo infatti una citazione letterale del notissimo « ponte che cupo sonò » (primo coro dell’Adelchi) laddove Stoppani dice di aver attraversato il Ticino 3 e la ripresa del 5 Maggio quando l’autore parla del proprio viaggio in treno da Ancona a Brindisi : per rendere l’idea dello spostamento veloce, egli utilizza una successione di coppie bimembri aggettivo-nome, separate dalle virgole, ma fa propria anche la celeberrima espressione « con vece assidua », 4 che in Manzoni significava il rapido susseguirsi degli avvenimenti voluti dalla Provvidenza per Napoleone (« cadde, risorse e giacque »). Molto meno scontata è la citazione dell’Urania, il poemetto giovanile d’argomento mitologico, composto da Manzoni nel 1808 e pubblicato nel ’09. Stoppani dimostra così di conoscere pure le opere minori del suo modello, anche se va detto che egli cita i due versi incipitari, dunque uno dei luoghi sui quali più frequentemente si concentra la memoria. All’inizio della serata dedicata alle salse del modenese l’abate fa una lunga digressione sul clima piovoso a Milano, e parlando del selciato della città lombarda dice che è composto da pietre provenienti dalle Alpi, arrivate « prima che sorgessero le favolose mura della nostra città », 5 e proprio qui colloca la citazione degli endecasillabi manzoniani : « Su le populee rive e sul bel piano / Da le insubri cavalle esercitato ». 6 In questo caso Stoppani dichiara la sua fonte in una nota esplicativa, perché non poteva pretendere dal suo uditorio una simile competenza letteraria. Egli cerca quindi di far conoscere quest’opera ai nipoti, ai quali subito dopo spiega i tipi di roccia da cui è composto il selciato di Milano, e proprio l’accostamento di tematiche (letteratura  





























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e geologia) e registri così diversi dimostra l’abilità dell’autore nel rendere varia e sempre interessante la narrazione. Un’altra opera manzoniana presente alla mente dell’abate sono gli Inni sacri : Stoppani cita infatti tre versi tratti da Il Natale (1813) : « Use sull’empia terra, / Come cavalli in guerra / Correr davanti a Te ». 7 In un passo che descrive una tempesta vissuta dal geologo lecchese mentre si trovava in mare, durante una traversata da Genova a Livorno, il pensiero dell’autore corre ai vv. 103-105 dell’inno manzoniano, nei quali il poeta chiede alle tempeste che non osino svegliare Gesù, il Fanciullo Celeste che dorme nel presepe. La citazione non rimane però fine a se stessa, ma si inserisce in una profonda meditazione stoppaniana : egli descrive l’uomo annientato dalla furia degli elementi, che prova il senso del sublime di fronte alla grandezza della natura, rappresentata dalla tempesta, ma da un’immagine di stampo romantico l’autore trascorre subito a una riflessione religiosa, poiché l’uomo è l’unico essere capace di sollevarsi al di sopra della natura, di contemplarla e di rivolgersi a Dio per ringraziarLo di ciò che ha creato. Per Stoppani, come per Manzoni, ogni elemento della natura rinvia al suo Creatore e anche quelli spaventosi, che potrebbero distruggere l’uomo, devono in realtà far riflettere sulla superiorità morale dell’uomo rispetto alle altre creature. La citazione dei versi del Manzoni da poco convertito, che rende lode alla grandezza di Gesù fatto uomo, è quindi pienamente coerente con la riflessione dell’abate. Più rapsodiche sono le citazioni manzoniane nella seconda parte del Bel Paese. Ciononostante le riflessioni del grande romanziere sono un punto di riferimento costante nel discorso stoppaniano : anche da brevi accenni o allusioni percepiamo che l’autore lecchese ha sempre presente il suo modello. Un esempio su tutti : nella Serata xxviii, parlando dell’ascesa all’Etna, il nostro geologo menziona una cascina chiamata ‘Casa del Bosco’, la quale sarebbe « il luogo dove si passa dall’estate all’inverno come sopra una scena dove non si rispetti l’antica legge dell’unità di tempo ». 8 Come egli spiega in una nota, essa era una delle regole della tragedia classica, una delle cosiddette unità aristoteliche, secondo la quale una tragedia doveva svolgersi interamente nell’arco di ventiquattro ore. Stoppani doveva aver ben presente il dibattito su queste regole, che erano state contestate dal Manzoni, perché non verosimili, nella nota lettera a Monsieur Chauvet ; ora egli decontestualizza quel riferimento e lo utilizza in chiave ironica. Poche pagine dopo tornerà un’altra implicita allusione ai dogmi manzoniani, laddove don Antonio dichiara ai nipoti di non poter raccontare niente del cratere dell’Etna, perché non lo ha visto, aggiungendo : « mi piace descrivervi sempre quello che ho visto io stesso ». 9 Appressandosi alla conclusione della sua opera divulgativa, l’autore sente allora il bisogno di richiamare, circolarmente, i principi dichiarati nell’introduzione Agli institutori e ribaditi in numerose serate, principi che derivano dalla lezione manzoniana della fedeltà al vero, oltre che dalla sua profonda moralità. Accanto a Manzoni spicca il nome di Dante, considerato, oltre che modello di stile, maestro inarrivabile nelle descrizioni di paesaggi. Stoppani infatti ne Il sentimento della natura e la Divina Commedia afferma che « Nella descrizione della natura non solo, ma nella creazione di una natura che risponda alla situazione dell’animo sta uno dei principali segreti dell’arte rappresentativa e della drammatica, e sta, per questo lato, il sublime della Divina Commedia ». 10 I paesaggi danteschi sono per Stoppani appropriati ai personaggi che ospitano, tanto che fanno subito intuire ai lettori quale stato d’animo  



























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  Serata viii, p. 150. 2   È interessante notare che Stoppani commentò il passo manzoniano che chiude il capitolo viii del romanzo anche in Il sentimento della natura e la Divina Commedia (op. cit., p. 12), segnalandolo come esempio del fatto che il sentimento della natura e l’amore per i luoghi natii determinano molte delle bellezze artistiche del capolavoro. La presenza dei riferimenti a Manzoni nell’opera dedicata a Dante sembra sancire una volta di più l’inscindibilità 3   Serata vii, p. 132. dei due modelli. 4   Serata ix, p. 166 : « Ridenti colline, fantastiche rupi, castelli pittoreschi, storiche ruine, deliziose città, sfilano con vece assidua e con perenne incanto, 5   Serata xvi, p. 287. sotto gli occhi del viaggiatore ». 6   Per il testo manzoniano facciamo riferimento a Alessandro Manzoni, Tutte le poesie, introduzione di Pietro Gibellini, note e premesse di Sergio Blazina, Milano, Garzanti, 2005, p. 114.  







7   Serata x, p. 196. Per il testo manzoniano cfr. Alessandro Manzoni, Tutte le poesie, cit., pp. 141-146. 8 9   Serata xxviii, p. 501.   Serata xxviii, p. 507. 10   Antonio Stoppani, Il sentimento della natura e la Divina Commedia, cit., p. 20.

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proveranno davanti ai protagonisti che incontreranno, e sono pienamente rispondenti al sentire del poeta. Peraltro la realtà descritta da Dante è sì quella del mondo ultraterreno, ma la descrizione è così vivida, efficace, concreta e quasi tangibile perché il sommo poeta si è ispirato ad ambienti e fenomeni reali, spesso oggetto della sua effettiva osservazione nel mondo terreno. 1 Una simile considerazione viene fatta da Stoppani in merito al noto episodio di Pier della Vigna (Inf xiii, 40-42) : egli commenta infatti che « Dante, quand’era fanciullo, era stato le mille volte, come voi, a badare a quei legni verdi, che mentre ardono da una estremità, gemono dall’altra e si coprono di bava », 2 e così si pone in linea con molti dantisti, tra i quali lo Spitzer, che hanno definito la poesia di Dante visiva, perché in essa la fantasia prende spunto da fatti realmente osservati. Era naturale allora che l’autore lecchese attingesse al patrimonio di descrizioni paesaggistiche fornito dalla Commedia, per offrire degli efficaci paragoni al suo giovane pubblico. Sovente infatti, nel descrivere un paesaggio del Bel Paese, Stoppani si ricorda di versi danteschi che risuonano nelle sue orecchie e che offrono mirabili quadri di paesaggi affini. La memoria fonica e quella visiva cooperano e determinano una fittissima trama di citazioni dalla Divina Commedia. È quanto avviene nella Serata iii, nella quale Stoppani, raccontando un’escursione nell’alta valle del Cordévole, osserva una frana, che stimola la citazione di Inf xii, 4-10, versi nei quali viene descritta la « ruina » che porta al settimo cerchio (paragonata a uno scoscendimento presso Trento), alla sommità della quale sta sdraiato il Minotauro. I versi danteschi sono ricordati per la somiglianza tra le due frane, entrambe malagevoli per chi debba scendere, ma probabilmente essi erano rimasti impressi nella memoria di Stoppani anche per ragioni stilistiche. In effetti l’abate elogia l’efficacia del suo modello, che ritiene inimitabile : « Vi ricordate quei versi di Dante ?... che gusto a prenderne un momento a prestanza la penna divina, proprio quando la nostra ci si arresta fra le dita, come la lingua tra le fauci di un muto ». 3 Tuttavia il geologo sembra interpretare erroneamente il passo « ch’alcuna via darebbe a chi su fosse », giacché in nota spiega che quello scoscendimento « non presenterebbe alcuna via per discendere a chi fosse sull’alto della rovina », 4 mentre Dante proprio per quella via sarebbe sceso dal sesto al settimo cerchio. Poche righe dopo l’autore cita nuovamente dei versi della prima cantica, paragonando gli alpinisti giunti al lago di Àlleghe, che si imbarcano su sei barchette, alle anime dei dannati che si gettano dal lido nella barca di Caronte. Egli ironizza sul termine « foglie », facendo notare che gli alpinisti non erano certo leggeri come le « foglie che si levan d’autunno » e dunque rischiavano di far affondare le imbarcazioni – quelle sì esili come foglie ! Stoppani quindi cita liberamente Inf iii, 112, salvo poi riportare in modo più ampio e fedele il passo in nota, dove trascrive i vv. 112-116. 5 Si nota anche qui, come si è già osservato a proposito degli echi manzoniani, che spesso le citazioni dantesche si affollano in una stessa serata o si ‘chiamano a vicenda’ nel giro di poche righe. Nel caso della Serata iii si può ipotizzare che la citazione dei versi del canto xii che preludono alla presentazione del Minotauro, « l’infamïa di Creti » (Inf xii, 12) che sta a guardia  







































1   « Il Poeta non va mendicando le immagini, le similitudini, fuori di un campo che non è il suo ; ei le trova nella natura che lo circonda » ; ivi, p. 29. 2 3   Serata xvii, p. 323.   Serata iii , p. 43. 4   Ibidem. In sostanza Stoppani dà ad « alcuna » il significato di ‘nessuna’, come aveva fatto il Monti, ma questa interpretazione è stata smentita dalla maggioranza degli esegeti. 5   Si noti che Stoppani segue un’edizione che al v. 114 reca la lezione « rende alla terra tutte le sue spoglie » (Serata iii , p. 44), mentre il testo critico curato dal Petrocchi opterà per la lezione « vede » (Cfr. La Commedia secondo l’antica vulgata, ii, Inferno, a cura di Giorgio Petrocchi, Firenze, Le Lettere, 1994, p. 53).  



















del settimo cerchio, abbia fatto correre la memoria a un altro dei terribili guardiani dell’Inferno : Caronte, il traghettatore delle anime sull’Acheronte. Va poi rilevato che le citazioni dal poema, disseminate in tutto il Bel Paese, sono tratte prevalentemente – come già osservato da Travi 6 – dalla prima cantica e in misura molto inferiore dalle altre due. 7 Tuttavia, mentre nel saggio Il sentimento della natura e la Divina Commedia Stoppani dichiara di seguire per « le citazioni del Divin Poema […] il testo nuovissimo, intitolato La Commedia di Dante Allighieri raffermata nel testo giusta la ragione e l’arte dell’autore da Giambattista Giuliani » 8 (Firenze, Le Monnier, 1880), nel Bel Paese non fa una analoga preliminare dichiarazione sul testo di riferimento. Parlando però dei pipistrelli e osservando che i diavoli vengono abitualmente raffigurati con le ali dei cheiropteri, l’abate nomina esplicitamente l’edizione della Commedia « colle meravigliose illustrazioni del Dorè », 9 che è arricchita da molte immagini di diavoli alati. Essa in effetti, in particolare per le illustrazioni relative all’Inferno, deve aver suggestionato profondamente l’immaginario e la memoria stoppaniana. Trascurando allora i casi in cui Stoppani si limita a veloci allusioni a passi o versi danteschi, come quando parla delle rane congelate per esperimenti scientifici e, con tono leggero e scherzoso, dice che « facevano la figura dei traditori nella Giudecca, creazione terribile della fantasia di Dante », 10 e omettendo anche le citazioni letterali, che hanno però prevalentemente una funzione ‘coloristica’ 11 o che alleggeriscono la narrazione introducendo un elemento di varietas, 12 ci si soffermerà sulle citazioni dantesche che più apertamente svelano l’influenza delle immagini di Gustave Doré. In particolare le incisioni poste dall’illustratore francese a commento dei canti xxi, xxxiii e xxxiv dell’Inferno sono estremamente suggestive ; e forse non è un caso che proprio questi canti siano ricordati due volte ognuno nel Bel Paese. Indimenticabili sono ad esempio le tre incisioni che raffigurano il conte Ugolino rinchiuso nella torre pisana della Muda insieme ai figli (nella realtà storica due figli e due nipoti) inserite da Doré a corredo del canto xxxiii (Figg. 1-3). Stoppani deve essersi ricordato di quei visi stravolti dalla fame e dalla disperazione, che l’illustratore francese aveva ritratto in scene dal forte impatto drammatico, e ne parla ai nipoti quando descrive i volti stralunati dei viaggiatori del battello Conte Baciocchi afflitti – ben più prosasticamente – dal mal di mare.  















Giunti, come vi dicevo, in quel salotto, potei verificare ciò che avea supposto ; vedere cioè, come il Conte Ugolino, « Per quattro visi, il mio aspetto istesso ». 13  





Il ricordo di quel canto determina, poche pagine dopo, un’altra citazione stoppaniana dal medesimo canto xxxiii. Rievocando infatti la navigazione da Genova a Livorno, l’autore descrive l’avvistamento della Gorgona e non può fare a meno di citare i notissimi versi di Inf xxxiii, 82-84 : « Movansi la Ca 

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  Ernesto Travi, « Narro ciò che ho visto », cit., p. 151.   A parte i dantismi disseminati in tutta l’opera e le perifrasi dantesche ormai entrate nell’uso, si contano ben 19 citazioni dall’Inferno, mentre tanto il Purgatorio quanto il Paradiso vengono citati due sole volte. 8   Antonio Stoppani, Il sentimento della natura e la Divina Commedia, cit., p. 2. 9   Serata xx, p. 370. Si allude evidentemente a La Divina Commedia di Dante Alighieri illustrata da Gustavo Dorè e dichiarata con note tratte dai migliori commenti, a cura di Eugenio Camerini, Milano, Sonzogno, 1868. 10   Serata iv, p. 78. 11   Cfr. Serata v, p. 90, dove un montanaro viene paragonato a una lumaca citando Inf xxv, 132. 12   Cfr. Serata vi, p. 120, dove si cita Inf i, 22-26 : l’autore, sopravvissuto alla discesa dal passo del Sobretta e giunto a un torrente, paragona se stesso a Dante uscito dalla selva, che si volge indietro a guardare il luogo da cui è sfuggito. 13   Serata x, p. 192. La citazione dantesca è da Inf xxxiii, 57. 7







la memoria letteraria nel bel paese di antonio stoppani

Fig. 1. «Queta’mi allor per non farli più tristi», Inferno xxxiii, 64.

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Fig. 2. «“Padre mio, ché non m’aiuti?” Quivi morì», Inferno xxxiii, 69-70.

rappresentano il corredo iconografico predisposto da Doré per i canti dei barattieri (xxi-xxiii). In particolare il canto xxi dell’Inferno viene citato due volte, la prima nella Serata xii, dedicata al petrolio, laddove Stoppani osserva che il lago di pece bollente in cui Dante tiene immersi i barattieri è uguale a quello di Trinidad :  

Oh se Dante avesse potuto leggere le memorie di Nugent, Jameson, Val, non sarebbe ito certamente nell’arsenale dei Veneziani a ritrarre il tipo della quinta bolgia, dove Tal, non per foco ma per divina arte, Bollia laggiuso una pegola spessa, Che ‘nviscava la ripa d’ogni parte. 5

Fig. 3. «e due dì li chiamai, poi che fur morti», Inferno xxxiii, 74.

praja e la Gorgona, / E faccian siepe ad Arno in su la foce, / Sì ch’egli anneghi in te ogni persona ». 1 In questo caso il geologo si fa esegeta dantesco per spiegare il passo ai nipoti, stimolato dall’intervento di Giannina, la più attiva tra gli interlocutori di sesso femminile che fanno parte dell’uditorio, la quale confessa di non aver « mai inteso che volessero significare » quei versi. 2 Lo zio commenta allora :  







Hai però inteso come Dante abbia voluto, con quella poetica imprecazione, segnare con marchio di eterna infamia l’inumanità dei Pisani, i quali, condannando il Conte Ugolino, come traditore, a morir di fame, gli associarono nell’orrendo supplicio gl’innocenti suoi figli. L’indignata fantasia del poeta, maledicendo a tanta barbarie, vorrebbe che le due isolette, la Capraja e la Gorgona, sorgenti dal Mar Tirreno, in faccia alle foci dell’Arno, venissero a porsi, come diga, allo sbocco del fiume, sicché, sotto l’Arno rigurgitante, Pisa rimanesse affogata. 3

Dopo questa limpida illustrazione dei versi danteschi, Stoppani abbassa il tono e inclina verso la sua consueta garbata ironia, osservando che mentre egli si trovava sul bastimento, la Gorgona, « per l’ondeggiar del vascello, pareva che si movesse, quasi accingendosi a mettere in effetto la terribile imprecazione ». 4 Non meno suggestive per la memoria stoppaniana sono poi le immagini dei diavoli alati, armati di uncini (Figg. 4-5), che  



Stoppani dunque fa riferimento alle memorie scientifiche di naturalisti che, nella prima metà dell’Ottocento, avevano descritto il fenomeno di Trinidad, ma vi accosta subito una citazione letteraria, dimostrando a pieno il sincretismo culturale di un erede della cultura enciclopedica settecentesca, e ottenendo l’effetto di rendere meno monotona per i nipoti la descrizione delle sorgenti naturali di petrolio. La lunga similitudine dantesca, che si sviluppa ben al di là dell’analogia tra la pece bollente dell’arsenale veneziano e quella della quinta bolgia, creando un quadro vivo delle attività svolte dai marinai durante l’inverno, ha spinto alcuni esegeti a ipotizzare, sulla base del mirabile realismo descrittivo, che Dante avesse visto personalmente l’arsenale di Venezia. Stoppani sembrerebbe abbracciare tale ipotesi, smentita però dalla maggior parte dei critici, poiché utilizza l’espressione « ito », riferita a Dante che sarebbe andato nell’« arzanà de’ Viniziani » (Inf xxi, 7) a ritrarre il tipo della quinta bolgia. In realtà però le sue parole potrebbero significare solo che, se Dante avesse letto le descrizioni di Trinidad, non avrebbe avuto bisogno di parlare della pece impiegata nell’arsenale veneziano, senza che quell’« ito » implichi necessariamente l’esistenza di un viaggio dantesco a Venezia. Ancor più interessante è il fatto che l’abate, subito dopo aver citato una delle similitudini più note del poema, rilevi con amarezza che pochi han letto Dante ed esclami « Peccato ! ». 6 In tal modo, seppur velatamente, egli critica la formazione scolastica contemporanea e cerca al contempo di invogliare i nipoti alla lettura del sommo poeta. A questo scopo egli riassume i due canti xxi e xxii, omettendo il riferimento a Lucca (Inf xxi, 38-42), che secondo Dante sarebbe stata città ben fornita di barattieri, ma non trascurando l’efficace similitudine con i cuochi che tengono la carne immersa nel brodo bollente. Stoppani non parla delle trattative di Virgilio con i diavoli  











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  Serata x, p. 197.   Ivi, pp. 197-198.

  Ibidem.   Ivi, p. 198.



  Serata xii, pp. 232-233. La citazione dantesca è da Inf xxi, 16-18.   Ivi, p. 233.

   

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Fig. 4. «Poi l’addentar con più di cento raffi», Inferno xxi, 52.

Fig. 5. «Nessun di voi sia fello!», Inferno xxi, 72.

Fig. 6. «Lo duca e io per quel cammino ascoso intrammo a ritornar nel chiaro mondo», Inferno xxxiv, 133-134.

Fig. 7. «E quindi uscimmo a riveder le stelle», Inferno xxxiv, 138.

e dei timori di Dante, ma elenca ai nipoti i curiosi nomi dei diavoli, anche se ne tralascia qualcuno, probabilmente perché cita a memoria, senza il testo dantesco davanti. L’autore ricorda invece la figura di Ciampolo di Navarra (canto xxii), che « volendo pigliare almeno una boccata d’aria, cacciò il muso fuori : ma gli furono addosso quei demonî e volevano farne filacce coi loro uncini », e riferisce dell’inganno con il quale il personaggio, « mariolo anche in inferno », aveva distratto i diavoli per tuffarsi nuovamente nel lago.1 Il geologo quindi rievoca soprattutto le scene più vivaci e visive, per dimostrare ai nipoti che quando leggeranno il poema si divertiranno. In tal modo Stoppani coglie pienamente la particolarità dei canti dei barattieri, che hanno suscitato discussioni tra i critici in merito all’esistenza di un Dante comico, e al contempo ottiene l’effetto di incuriosire il pubblico e indurlo a leggere un testo che egli ritiene imprescindibile per la formazione della gioventù e che gli appare capace di unire l’utile al dilettevole (come Stoppani stesso sta cercando di fare nel Bel Paese). Il canto xxi viene poi citato una seconda volta nella Serata xvi, laddove si parla delle Salse di Nirano (nei dintorni di Modena) e per descrivere un laghetto bollente Stoppani fa di nuovo riferimento alla « pegola spessa » di cui Dante aveva parlato in Inf xxi, 17-18, e che evidentemente era rimasta impressa nella memoria del geologo.2

Si conferma anche in questo caso che gli echi letterari si addensano nelle medesime serate, giacché nella stessa Serata xvi, l’autore chiosa una lunga digressione sulla sua visita alle miniere di carbon fossile di Dudley, con l’ultimo verso dell’Inferno (« E quindi uscimmo a riveder le stelle »).3 La chiusa della prima cantica deve aver suggestionato in modo particolare l’abate, dato che i vv. 133-134 di Inf xxxiv vengono citati anche per ‘salutare’ con soddisfazione l’uscita da una grotta abitata da pipistrelli (« per quel cammino ascoso / Entrammo a ritornar nel chiaro mondo »).4 Certo la clausola è sempre un luogo che si fissa nella memoria del lettore, ma in questo caso è significativo notare che Doré aveva apposto il suo commento iconografico proprio ai vv. 133-134 e 139, mediante due incisioni suggestive e dal gusto romantico, che non potevano lasciare indifferente Stoppani (Figg. 6-7). L’autore lecchese mostra quindi di avere una buona conoscenza del testo dantesco, ma indubbiamente la memoria letteraria appare supportata da quella visiva. Questo meccanismo non si attiva invece col testo manzoniano, che forse Stoppani conosce meglio e che presume più noto ai suoi lettori. Le citazioni dai due auctores sono comunque perfettamente integrate nel tracciato narrativo del Bel Paese, contribuendo a renderlo più vario e piacevole, e pienamente funzionali al suo intento morale e pedagogico.













1

  Ibidem.



2

  Serata xvi , p. 299.









3

  Ivi, p. 313.

4

  Serata xix, p. 361.

DA VICTOR HUGO AD ARRIGO BOITO, DA PADovA A VENEZIA : ULTIMO CANTO DELLA ‘GIOCONDA’  

Deirdre O’Grady i. Premessa

E sogno un’Arte eterea Che forse in cielo ha norma, Franca dei rudi vincoli Del metro e della forma. Piena dell’Ideale Che mi fa batter l’ale E che seguir non so. (Dualismo, vv. 77-80) 7 E sogno un’Arte reproba Che smaga il mio pensiero Dietro le basse imagini D’un ver che mente al Vero. (Dualismo, vv. 92-95) 8

Q

 esto studio indaga le implicazioni dello spostamento u d’ambiente da Padova a Venezia nell’adattamento della tragedia Angelo Tyran de Padoue (Victor Hugo 1835), 1 attuato da Arrigo Boito per l’opera La Gioconda di Amilcare Ponchielli (1876). 2 Scritto sotto lo pseudonimo Tobia Gorrio, un primo incontro con il libretto rivela l’inversione del nome del poeta librettista Arrigo Boito, 3 indicazione di invenzione e di originalità nonché di una nuova visione del testo originale attraverso gli occhi dell’anticonformismo della Scapigliatura milanese. 4 Il libretto di Boito racconta la storia di Gioconda cantatrice veneziana. Al posto dei giardini e palazzi padovani dell’originale francese di Hugo ci si trova in presenza dello splendore decadente della Repubblica Veneziana. La Gioconda rimane un libretto poco studiato dai critici boitani. Quindi intendo dimostrare che ‘lo scapigliato per eccellenza’, l’anno stesso del successo della seconda versione del Mefistofele (1876), prima della revisione di Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi (1881) e della continuata collaborazione con Verdi (Otello, 1887 e Falstaff, 1893), utilizzò il testo per musica per conferire nuove sfumature poetiche e interpretive al suo ‘dualismo scapigliato’. La Scapigliatura milanese, oltre ad insistere sulla rottura totale con il passato, promuove l’associazione fra letteratura, musica e arti figurative. Nella poesia Dualismo (1864), 5 che è riconosciuto come manifesto del movimento, il poeta, mettendo in contrapposizione « luce »/ « ombra », « angelica farfalla »/ « verme immondo », « caduto cherubo »/ « demone che sale » crea una nuova sequenza di concetti e un’associazione di contrasti che coesistono nella persona del poeta. L’artista cerca il suo ‘dualismo’ attraverso due canti : l’uno che porta all’Ideale, conformandosi alla verità assoluta, e l’altro che ribellandosi dalla convenzione si realizza in un’altra verità che nega il suo precursore. È proprio il contrasto luce/ombra, bene/male 6 che lo spinge verso l’analisi filosofica dell’assoluto e il rapporto di esso con gli sforzi eterni del genere umano :  

























Queste contraddizioni diventano l’argomento centrale dell’opera La Gioconda di Ponchielli. Con lo spostamento dell’azione da Padova si fa presente una nuova prospettiva : una visione di Venezia splendida nella sua decadenza, pervasa da un’oscurità suggestiva che nasconde intrighi politici, legami amorosi nonché il vero mestiere della ‘cantatrice errante’. Nel corso di questo studio proverò a dimostrare come Gioconda emerga in qualità di cantante protagonista del suo melodramma, come simboleggi l’Arte del canto, mentre la parola canto assume un significato simbolico. Non dimentichiamo che Gioconda, lieta e bionda, è figlia della Cieca, che vive nell’eterna oscurità, una figura che non ha parte attiva nel dramma di Hugo. Vale la pena anche di notare che la terza giornata della prima parte di Angelo s’intitola Le blanc pour le noir. Mi pare valido a questo punto fare riferimento anche alla poesia Lezione d’anatomia di Boito, che porta la data 1865 ed è inclusa nel suo Libro dei versi (1877). In questa poesia il simbolismo conferito sulla figura femminile ci permette di interpretare la donna come Arte, in questo caso la ‘poesia’ :  



Fanciulla pia, Dolce, purissima, Fiore languente Di poësia ! 9



1   Per il testo della tragedia si veda Victor Hugo, Théâtre i, a cura di Anne Ubersfeld, Paris, Laffont, 1985, pp. 1187-1313. 2   Si vedano : Nino Albaroso et alii, Amilcare Ponchielli (1834-1886) saggi e ricerche nel 150 anniversario della nascita, Cremona, Cassa rurale e artigiana di Casalmorano, 1984 ; Amilcare Ponchielli, a cura di Graziella di Florentiis, Milano, Nuove Edizioni, 1985 ; The Cambridge Companion to Grand Opera, a cura di David Charleton, Cambridge, Cambridge University Press, 2003. 3   Una bibliografia completa di Arrigo Boito si trova in Arrigo Boito, Opere letterarie, a cura di Angela Ida Villa, Milano, Edizioni Otto/Novecento, 2003, pp. 41-44. Si vedano anche : Deirdre O’Grady, Piave, Boito, PirandelloFrom Romantic Realism to Modernism, New York/Lampeter, The Edwin Mellen Press, 2000 ; Costantino Maeder, ‘Il reale fu dolore e l’ideal sogno’ : Arrigo Boito e i limiti dell’arte, Florance, Cesati, 2002. 4   Michele Dell’aquila, L’esperienza lirica della scapigliatura, Bari, Adriatica, 1972 ; Giuseppe Farinelli, La Scapigliatura, Roma, Carocci, 2003 ; Roberto Carnero, La poesia scapigliata, Milano, Rizzoli, 2007 ; Scapigliatura, a cura di Annie-Paul Quinsac, Venezia, Marsilio, 2009. 5   Arrigo Boito, Opere letterarie…, cit., pp. 53-55. 6   Si ricorda che nella tragedia Le Roi s’amuse (1832) di Victor Hugo Blanche, giovine, bella, e bionda è figlia del buffone Triboulet che è vecchio, brutto e malevolo. Questo ‘dualismo’ viene portato sul palcoscenico italiano da Piave/Verdi in Rigoletto (1851), possibile fonte del pensiero boitano. Per uno studio dettagliato dell’argomento si vedano i miei saggi : Piave, Boito, Pirandello : From Romantic Realism to Modernism, cit. ; The Shattered Self : Piave and Boito as Sources of Pirandello’s Il berretto a sonagli, « Pirandello Studies », xxii, 2002, pp. 56-75 ; From Deformity to Madness : from Deconstruction of Form to Re-Form-Hugo, Piave, Boito and Pirandello, « Testo », xxvi, 50, 2005, pp. 33-49.  







































L’etica defunta e rimasta in servizio alla scienza non è che la poesia sezionata, analizzata al servizio della critica letteraria. Gioconda, protagonista dell’opera La Gioconda, funziona nel testo come ‘cantatrice errante’, ma assume un altro ruolo, diventato evidente al momento in cui l’azione sta per concludersi in un canto d’orrore. Bisogna soffermarsi su diversi aspetti del ‘canto’ della Gioconda : come si armonizza e si disarmonizza poeticamente, drammaticamente e musicalmente riguarda altri personaggi del dramma. Alla fine ci rendiamo conto che si tratta di un canto che la rende una solitaria spettatrice della decadenza intorno a sé, e che le permette di offrire al vero amato soltanto ‘l’amore di sorella’. A mio parere ‘canto’ è la parola chiave nella interpretazione del testo boitiano. Non funziona soltanto come tema centrale e simbolico, ma rende questo testo un’espressione del dualismo drammatizzato per musica, prima del capolavoro Otello scritto per Giuseppe Verdi. 10 Nell’ultimo atto la conclu 

7

  Arrigo Boito, Opere letterarie…, cit., p. 54. 9   Ivi, p. 55.   Ivi, p. 76. 10   Il libretto Otello può anche essere considerato insieme ad un’altra opera di Boito : la novella L’alfier nero. Queste due opere occupano parte di un mio studio in corso. 8



194

deirdre o’grady

sione shock, (trovata anche nella fine della Lezione d’anatomia) ci rivela una nuova Gioconda protagonista del suo proprio dramma. ii. Da Tisbe a Gioconda : da comédienne a cantante  

Victor Hugo rimane l’influenza francese più marcata su Arrigo Boito e sulla Scapigliatura. Appena scritta l’opera giovanile Re Orso, Boito nel 1864 ne spedisce una copia a Hugo e a Verdi, due figure destinate a essere legate allo scrittore per ispirazione e collaborazione. La collaborazione con Verdi non è ancora realizzata, ma Hugo risponde con il riconoscimento della presenza di ‘filosofia e chimica’ nell’opera. Angelo Tyran de Padoue è ambientato nella Padova del Cinqucento sotto dominio veneziano. Andò in scena nel 1835 ed esprime la stessa comprensione e pietà verso le cortigiane trovate nel Balzac (Splendeurs et miséres des courtesans) del 1847 e nel Dumas fils (La Dame aux camélias), diventato tragedia nel 1852. Questi splendori e miserie arrivano sulla scena italiana con il capolavoro di Verdi/Piave La traviata del 1853. Non passa inosservata a questo punto la fama dell’artista Giuseppina Strepponi (18151897), cantante, compagna e moglie fedele del compositore dal 1849 fino alla morte nel 1897. Lei spesso viene identificata con Violetta, grazie alle parole di Verdi stesso in una lettera al suocero ; lettera in cui rappresenta Giuseppina come una donna indipendente, quale Violetta si rivela a Germont Père nel secondo atto dell’opera. 1 Mentre insistiamo sulla grande differenza fra artista e prostituta, si nota però che la Tisbe di Hugo, confessata prostituta, viene sostituita da Gioconda cantante nel libretto di Boito. L’artista padovano porta il pubblico dalla prosa per teatro al mondo dell’opera. Gioconda come ‘cantatrice’ è protagonista di un melodramma che usufruisce di tutte le convenzioni drammatiche e sceniche del teatro lirico fra il romanticismo e il verismo. Alla fine della tragedia Tisbe, non meno di Violetta Valéry, verrà a spiegare l’angoscia della sua situazione. Hugo in Angelo Tyran de Padoue spiega nella Prefazione alla tragedia il contrasto dualistico creato fra le due figure femminili e le due figure maschili centrali all’azione : sono Caterina e Tisbe, Angelo e Rodolfo. Secondo il drammaturgo gli aspetti contrastanti che riguardano la donna portano in evidenza la figura femminile assoluta, un’idea certamente sviluppata da Boito. Ci indica anche che la donna, per quanto buona e religiosa sia, può anche possedere delle qualità di sgualdrina. Dichiara l’intenzione con le parole seguenti :  





Mettre en presence, dans une action toute résultante de coeur, deux graves et doleureuses figures, la femme dans la société, la femme hors de la société ; c’est a dire, en deux types vivants, toutes les femmes, toute la femme. 2  

Queste due figure vengono completate da due figure maschili, il sovrano e il fuorilegge :  

En regard de ces deux femmes ainsi faites poser deux hommes, le mari et l’amant, le souvran et le proscrit. 3

Nelle prima scena della tragedia Tisbe si presenta come un’attrice, una comédienne. Racconta la sua storia :  

Ah ! Je ne suis qu’une pauvre comédienne de théâtre, on me permet de donner des fêtes au sénateurs… 4 Vous savez qui je suis, rien, une fille du peuple, une commediénne, une chose que vous caressez aujourd’hui et que vous briserez demain. Toujours en jouant. 5  

1   Si veda Giuseppe Verdi, Lettere 1835-1900, a cura di Michele Porzio, Milano, Mondadori, pp. 39-41. 2 3   Victor Hugo, Théâtre i …, cit., p. 1189.   Ibidem. 4 5   Ivi, p. 1194.   Ivi, p. 1195.

Alla fine dell’opera si rivela prostituta, fuori della società che non comprende il suo dramma :  

On n’a pas beaucoup de pitié de nous autres, on a tort. On ne sait pas tout ce que nous avons souvant des vertus et de courage… Et puis a seize ans, je me suis trouvée sans pain. J’ai été ramassée dans la rue par des grands seigneurs. Je suis tombée d’une fange dans l’autre. La faim ou l’orgie. 6

I sopraccitati brani costituiscono un autoritratto della protagonista della tragedia francese. Nel suo saggio eloquente e interessante Considerazioni sull’opera La Gioconda, Giuseppe Tintori 7 riferisce dell’atteggiamento socio-morale della borghesia italiana dopo l’unificazione, incapace di accettare il messaggio finale di Tisbe, che difende la sua scelta di prostituzione. Tintori scrive che nell’opera di Ponchielli la protagonista non è più prostituta, e perciò rimane inspiegabile e assurdo il suo comportamento :  

Annullando tutti i riferimenti e le punte polemiche dell’originale approdò a un drammone davvero e interamente assurdo e a quell’azione incredibile e ingiustificabile che conosciamo. 8

Infatti l’atteggiamento di Gioconda verso Laura (nonostante la presenza del rosario), il sacrificio d’amore, gli sforzi compiuti per unire Enzo al suo rivale, la sua continua presenza solitaria, senza rifletterci troppo, indicano una fortezza d’anima singolare. Alla cortigiana veneziana, che viveva fuori della società, inserirsi socialmente rimaneva impossibile. Tintori continua con l’affermazione che Arrigo Boito fu figlio di una borghesia che « peccava in segreto e in pace »,9 Boito non poteva, o non voleva confrontare il problema della prostituta in piazza, e la trasforma in una bella e castissima bionda, la figlia della Cieca (una figura fra santa e strega) che « ci guarda, ci vede ». Risulta problematico il fatto che Boito non poteva offendere la buona borghesia o affrontare un problema umano nel quadro ristretto del melodramma. Basti pensare a certi brani del Re Orso, che propongono il Male come sostituzione del Bene, Litania che risulta una parodia della Litania dei Santi, nonché immagini del mondo manzoniano e leopardiano alla rovescia. Mi riferisco al ‘viaggio del verme’, che sembra il capovolgimento del viaggio di Renzo, e la personificazione della luna come una cieca, che annega il mondo inargentato di Leopardi. Il diavolo filosofo e il culto del male nel Mefistofele sono altri esempi della sua guerra contro la società convenzionale, corretta e cattolica. Per me deve esistere un’altra spiegazione. Il mondo di La Gioconda è un mondo, una città (Venezia) di due cantanti : Gioconda e Barnaba, una copia legata nell’Odio, che non si conclude che con il suicidio della Gioconda. Il canto è un tema ricorrente nel dramma, lega i personaggi. Se nel libretto La Gioconda Boito avesse evitato il simbolismo e l’unione dei contrasti, sarebbe stato un caso unico per lui. Io invece preferisco vedere Gioconda come cortigiana veneziana, il canto come metafora per il suo ‘mestiere’ e la sua grande indipendenza e immensa solitudine (presente anche nelle illustrazioni dell’epoca), il prezzo che paga per la vita nel demi-monde. La Gioconda si sviluppa come melodramma dominato dai temi di Amore e Odio, in una Venezia sospesa fra Carnevale e Inquisizione, tradimento e fedeltà. Alla fine Venezia, nella sua bellezza notturna, diventa testimone all’effetto shock del finale dell’opera. Boito ci dipinge un’immagine mascherata di Gioconda e il suo mestiere canoro. Nella mia opinione la  









6

  Ivi, p. 1280.   Giampiero Tintori, Considerazioni sull’opera La Gioconda, in AmilcarePonchielli, cit., pp. 55- 66. 8 9   Ivi, p. 56.   Ibidem. 7

da victor hugo ad arrigo boito, da padova a venezia: ultimo canto della ‘ gioconda ’ Ed essa canta a Dio parola ‘canto’ è la chiave che apre la porta alla vita dell’eroina Le sue sante orazioni… nel suo palazzo diroccato sulla Giudecca.

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(atto i, scena v)

iii. Gioconda e il simbolismo del canto L’opera andò in scena alla Scala di Milano l’8 aprile 1876, col testo di Tobia Gorrio derivato da Hugo. Lo stesso argomento era stato già musicato da Mercadante col testo di Rossi, nel 1835, col titolo Il giuramento, ambientato nella Siracusa del Trecento. Nel testo di Boito Gioconda non è più ovviamente comédienne/prostituta, ma « cantatrice errante » nelle parole di Barnaba nel primo atto, e il dramma si sviluppa intorno al canto, cantanti, cantilene, serenate e canzoni. In un dramma di contrasti cominciando e finendo con Amore e Odio il canto come semantica esprime sentimenti religiosi, amorosi nonché sprezzanti. Il canto dell’acqua e della natura si combinano a facilitare la fuga di Laura e Enzo. Canto e risa echeggiano nell’aria di festa collettiva in onore della repubblica veneziana che si svolge nel cortile del Palazzo Ducale. Lo spostamento da Padova a Venezia permette la presenza scenica della città lagunare, che viene soltanto descritta nell’opera di Hugo. La maschera fisica e simbolica di Gioconda viene complementata da maschere carnevalesche di ogni sorta : Arlecchini, Pantaloni e Baütte. Il primo coro di marinai e popolo esalta la festa e la città in lode al riso e al canto :  







Il canto corale che conclude il primo atto rappresenta un dualismo di attività cittadine, quella festosa del Carnevale, e quella religiosa che si svolge all’ora del Vespro all’interno della Chiesa di San Marco. La tematica poetica luce/ombra viene integrata nella preghiera corale dei devoti : me tibi commissum/ nocte illumina È il momento in cui madre e figlia condividono dolore in un gesto di solidarietà : « un sol facciam di due dolor ». Il primo atto si apre con il canto di festa e si conclude con il canto del Vespro. Il secondo atto inizia con un coro di pescatori. È notte e lo spazio immenso fra cielo e mare diventa una metafora per la vita, un mistero oscuro che nasconde Gioconda, un’ombra mascherata nella ricerca della vendetta per amore. Lo stesso spazio accompagnato dalla Serenata Laura/Enzo al quarto atto trasformerà la vita in un canto d’amore. La concorrenza fra le due donne nel secondo atto si trasmette per mezzo di due poetiche diverse : quella di Laura è fine, raggiante e aristocratica : « L’amo come il fulgor del creato... come il sogno celeste e beato... ». La voce di Gioconda risuona violenta, feroce e animalesca : « io l’amo come il leone ama il sangue ». Nonostante la diversità di atteggiamento e di rango sociale fra le due donne, esse cantano la stessa melodia con inflessioni dinamiche e drammatiche diverse. Qui più che mai ci si rende conto che l’amore di Gioconda si basa sull’aspetto fisico del rapporto e non abbraccia un legame totale che ammette anche il sentimento poetico e religioso. A questo punto il dramma individuale della Gioconda si converte in melodramma. Ella diventa sempre più simbolo di esagerazione melodrammatica illuminata dalla scena splendida e decadente di Venezia. Al terzo atto dell’opera, nel Palazzo Ca’ D’Oro, nel corso di feste, balli e tradimenti, la vendetta di un marito s’accompagna al suono di una canzone che indica la fine della nobildonna. La morte del suono dovrebbe coincidere con il momento della morte di Laura. Vita e canzone si identificano e il Coro commenta sul significato della canzone :  





















Noi cantiam. Chi canta è libero ; Noi ridiam. Chi ride è forte. (atto i, scena i) 1  

Barnaba, spia/cantastorie che fila una ragnatela per intrappolare la farfalla Gioconda, contempla l’arrivo di madre e figlia. Fra due colonne tesse la sua ragna Barnaba, il cantastorie ; e le sue file (Guarda e tocca la sua chitarra) Sono le corde di quest’apparecchio (atto i, scena ii)  

L’importanza dello strumento è comunicata chiaramente nel senso drammatico e poetico dall’inizio dell’opera. La prima indicazione che il canto di Gioconda possa avere un significato simbolico viene comunicata dalla madre :  

Cieca: Figlia Tu canti agli uomini le tue canzoni, Io canto agli angeli le mie orazioni, (atto i, scena iii)

I versi sono ripetuti da Gioconda :  

Tu canti agli angeli le tue orazioni, Io canto agli uomini le mie canzoni... (atto i, scena iii)

È chiaro che Gioconda canta per gli uomini, piuttosto che per tutti. È una popolana, una donna sola, innamorata di Enzo e protegge la madre che occupa una dimora umile descritta in termini sprezzanti da Barnaba :  

Suo covo è un tugurio – laggiù alla Giudeca, Tien sempre quell’orrido – zendàdo, (atto i, scena iv)

Più tardi, quando Gioconda difende la madre davanti ad Alvise, dichiara che cantano per vivere, mettendo in rilievo un contrasto sottile fra l’atteggiamento sacro della Cieca e quello profano di lei :  

Viviamo cantando ed io Canto a chi vuol le mie liete canzoni, 1   Tutte le citazioni seguenti sono tratte da Arrigo Boito, La Gioconda, in Idem, Tutti gli scritti, a cura di Piero Nardi, Milano, Mondadori, 1942.



La gaia canzon Fa l’eco languir, E l’ilare suon si muta in sospir. […] La, la, la... la gaia canzone... Con vago miraggio Riflette la luna L’argenteo suo raggio Sull’ampia laguna (atto iii, scena ii)

I fidi cantori di Gioconda aspettano. Loro saranno testimoni della trasformazione della canzone. Ogni gesto di Gioconda va accompagnato dal coro, la cui canzone si perde eventualmente nella notte : « l’estrema sua nota / si perde nel ciel ». Con la fuga della coppia Enzo / Laura la musica della notte diventerà un canto di gioia. La canzone della morte sarà quella della fortuna :  







Gioconda : Questa canzone ti rammenti o Laura ? È la canzone della tua fortuna. (atto iii, scena iv)  



Al momento della salvazione il canale si apre in mare, spazio infinito in cui la vita diventa canto. La canzone diventa serenata, canzone d’amore per Enzo e Laura. L’acqua del mare purifica portando all’Ideale, mentre quella dei canali veneziani nasconde una realtà che non può più essere vissuta da Gioconda, e che si risolve con il suicidio.

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deirdre o’grady prima donna di un melodramma ? Per ricevere Barnaba, Gioconda presenta il suo spettacolo che si svolge in chiave parodica : la direzione chiede simulando : Gioconda ride e Ponchielli introduce l’unico passo d’agilità dell’opera per la soprano :  

Ten va’, cantilena, Per l’onda incantata. Udite le blande Canzoni vagar, Il remo ci scande Gli accordi sul mar Il canto è la vita, Di sogni si pasce. (atto iii, scena iv )







Il comportamento di Gioconda verso Laura, una volta identificata come la salvatrice della madre, va oltre ogni dovere e senso di lealtà. Un pubblico contemporaneo o moderno accetta con difficoltà il fatto che il suo amore per Enzo si estenda al punto di aiutarlo a fuggire con la rivale, come dichiara Tintori. In più promette di accettare l’amore di Barnaba in cambio della vita di Enzo. Sono situazioni melodrammatiche che diventano sempre meno convincenti nel periodo preverista. Una possibile, e secondo me probabile, spiegazione è la seguente : Gioconda è una cortigiana. Lo spostamento dell’azione a Venezia rende questo fatto più convincente. La ‘cantatrice’ è in possesso di un’indipendenza che la destina alla solitudine. Essa da cortigiana non ha dritto al ‘serio amore’. È condannata a vivere fuori delle strutture sociali e rimane spettatrice della felicità di altri.  

Vo’ farmi più gaia – ah, ah, ah – Più fulgida ancora Per te voglio ornare la bionda mia testa Di porpora e d’or (Va ad ornarsi) (atto iv, scena vi)

Al ritorno in scena presenta la sua performance :  

Con tutti gli orpelli Sacrati alla scena Dei pazzi teatri coperta già son. Ascolta di questa sapiente sirena, Ascolta la dolce canzon... (atto iv, scena vi)

L’ultimo canto tramite la parodia presenta una sirena bella, bionda, ridente ed adornata da attrice di teatro. Proprio in ogni particolare rappresenta l’immagine della cortigiana. La canzone si descrive « dolce » da « sapiente sirena ». La seduzione, da ‘sapiente’ è di un alto livello. Barnaba la stringe e le ultime note intonate da vendicatrice vengono urlate al pubblico :  









Volesti il mio corpo, dimon maledetto ? E il corpo ti do ! (atto iv, scena vi)  

iv. L’ultimo canto della Gioconda



Nell’ultimo atto dell’opera, sull’isola della Giudecca la protagonista viene presa dal senso di orrore di tutto quello che le si muove intorno. Gioconda ha ceduto Enzo alla ‘rivale’, si è promessa a Barnaba e sente la sua vera condizione. Dal canale arrivano voci che portano notizie di morti trovati nel Canal Orfano :  

Orrore ! Orrore ! Orrore ! ! ! Sinistre voci ! illuminata a festa Splende Venezia da lontano...In core Già si ridesta la mia tempesta Immane ! Furibonda ! O amore ! amore ! ! Enzo ! pietà… (atto iv, scena ii)  



     









   

Gioconda di Tobia Gorrio / Arrigo Boito appartiene a una serie di personaggi sfortunati, capaci del sacrificio estremo per ‘il serio amore’ che rimane loro sempre negato in una società che non sa e non vuole perdonare. Prende il suo posto fra Tisbe, Alphonsine Plessis / Marguerite Gautier, e Violetta Valéry, creazioni di Victor Hugo (Angelo tyran de Padoue, 1835), Honoré De Balzac (Splendeurs et miseres des courtesans, 1847), Alexandre Dumas fils (La Dame aux camélias, 1852) e Francesco Maria Piave/Giuseppe Verdi (La traviata, 1853). Gioconda porta in sè l’universalità della propria condizione e i segreti oscuri del cuore umano.



Conclusione

Il testo comunica l’emozione, il suono di altre voci, l’immagine di Venezia, la disperazione della donna e il grido all’amore, tutto nello spazio di otto versi. Gioconda assume una nuova teatralità. Con il suono della voce di Laura appena svegliata dall’effetto del narcotico chiede alle tenebre di nasconderla. Mentre gli amanti si ritrovano, i cantori riprendono il loro canto, il canto diventato il canto della fortuna. Esso ha compiuto il suo scopo, dalla scena ne Ca’ D’Oro fino alla partenza per il Canal Orfano ha accompagnato il sacrifizio di Gioconda. Non potendo più fuggire da Barnaba si prepara per l’ultima sua scena, il suo ultimo canto. Gioconda diventa regista della propria tragedia : ha preparato la scenografia del suo addio. Tutto è compiuto, esclama : « Ora posso morire. Tutto è compiuto ». Di massima importanza nell’ultimo atto rimane la descrizione scenica della dimora di Gioconda : « l’atrio di un palazzo diroccato. Dietro un paravento un letto, un tavolo, un canapè. Sul canapè vari adornamenti scenici di Gioconda » (atto iv). È un vano che ci lascia abbastanza perplessi : è residenza tipica di cortigiana, con tutti gli oggetti di abbellimento o di scena necessari per completare il quadro. Una domanda ci si presenta : a una ‘cantatrice errante’ a che servono questi orpelli di scena ? Non sono più adatti all’attrice di teatro, alla  



















Rimane da aggiungere un’osservazione finale : in altri studi ho interpretato la bella bionda di Lezione d’anatomia come la Poesia lacerata dal critico letterario, Desdemona (Otello), seppure uccisa, sopravvive nella sua bellezza poetica : è Arte. Sostengo che il testo stesso, una volta creato non si elimina più e con esso sopravvive il personaggio. L’opera La Gioconda si svolge intorno al tema del canto : in questo senso Gioconda è sublime cantante che si lega come protagonista del dramma a tutta la tematica del testo. Il suo canto porta un significato particolare. La sua espressione poetica si estende dal lirico al drammatico, dal tragico al melodrammatico. La sua forza interpretativa diventa sempre più potente finché non arriva a diventare la personificazione di se stessa, simbolo del melodramma, ambientato nello splendore decadente di una Venezia secentesca. I canti d’Amore e Gioia si trasformano in Odio e Vendetta. Gioconda, oltre al suo ruolo dentro il testo del dramma musicale, diventa il Canto Lirico o più precisamente il Melodramma. Quindi Gioconda cortigiana veneziana ? Un effetto shock che ricorda certe conclusioni poetiche scapigliate ? E in comune con altri personaggi boitiani simboleggia la forma d’arte in cui figura ? Credo di sì. Colpo di scena dualistico di Tobia Gorrio.  











IL TEMA DELLA ZOLFARA NEGLI SCRITTORI SICILIANI Lia Fava Guzzetta

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l tema della zolfara è molto presente nell’opera degli scrittori siciliani tra Ottocento e Novecento soprattutto in coloro che si collocano geograficamente in quel territorio definito da Sciascia « la diagonale Girgenti – Catania », la quale, secondo lo scrittore, dallo stesso Goethe, che nel 1787, trovandosi ad attraversare la zona tra Agrigento e Caltanisetta coltivata a frumento e a orzo, ne aveva ammirato « le stupende messi », sarebbe stata qualche decennio dopo riconsiderata con nuova, ben più intensamente sollecitata attenzione : « i dorsi delle colline sarebbero apparsi tarlati da pozzi, gallerie e “calcheroni” e intorno rosseggiami di “ginisi” ; e nei pendii e nelle valli le messi non sarebbero più state di quella incredibile nettezza, né di intenso verde nel rigoglio o di caldo oro nella maturazione : ma stente, gracili, malate – bruciate dal fondo acre dei “calcheroni”, e nel mutato paesaggio si sarebbe iscritta una nuova, più atroce e al tempo stesso più libera condizione umana. La Zolfara, insomma (o come allora si diceva, la solfatara) : la nuova realtà della Sicilia interna ».1 Ecco già presente in questa pagina saggistica sciasciana, dai toni descrittivi che ben figurerebbero anche in un testo decisamente letterario se non addirittura narrativo, alcuni connotati di uno scenario possibile connesso alla zolfara, mentre il riferimento ad una cronologia puntualmente indicato – qualche decennio dopo il 1787 – suggerisce un rimando di approfondimento delle dimensioni di contesto storico in cui il fenomeno viene collocato. Vale la pena forse avvalersi di qualche recente indagine storiografica relativa alla Sicilia, soprattutto in rapporto al binomio cruciale economia-società, in riferimento anche alla lunga elaborazione del processo di realizzazione dello Stato unitario, per ricostruire i termini in cui si colloca la letteratura relativa alla zolfara. Mi sono rifatta ad un noto intervento di Maurice Aymard 2 il quale rende conto di un secolo e mezzo di storia italiana e siciliana, proprio partendo dagli anni intorno all’Unificazione, la quale non a caso, risulta un utile punto di partenza, perché in realtà proprio lo Stato unitario contribuisce e spinge verso scelte economiche non sempre adeguate in Sicilia alla soluzione di problemi sociali, spesso preesistenti alla stessa Unità nazionale. Tali problemi che si delineano via via, non si collocano solo nel limitato contesto nazionale, ma anche in un più vasto orizzonte europeo e mondiale ; rispetto al quale forse le responsabilità stesse dello Stato unitario possono anche essere state più indirette che dirette. È proprio questo il caso della breve parabola della zolfara. La Sicilia infatti, peraltro, da sempre, e ancora negli ultimi secoli del Medioevo, come ricorda opportunamente lo stesso Aymard, è in effetti integrata « nell’internazionale economia degli scambi », 3 basata essenzialmente sull’esportazione di materie prime agricole e minerarie (grano, agrumi, zolfo), e sull’importazione di prodotti industriali (tessuti, prodotti metallici) e coloniali (caffè etc.). Per quanto concerne il grano, ad esempio, la Sicilia, antico ‘granaio del Mediterraneo’, con l’avvento dei nuovi potenti paesi produttori Russia e Stati Uniti d’America, già dal secolo sedicesimo in poi vive una forte e progressiva crisi ; mentre lo zolfo, che ne prende il posto, con  

























una notevole affermazione nel decennio 1890-1899, anch’esso, vedrà pian piano estinguersi la sua positiva parabola ed esaurirsi la sua favorevole stella. « Il ciclo dello sfruttamento dello zolfo, infatti afferma Maurice Aymard sembra bruciare le tappe, per conchiudersi giusto in due secoli. Ben avviato a partire dalla metà del secolo xviii, esso progredisce in effetti con rapidità solo dopo il 1815. [...] Ben presto i progressi rapidi e straordinari dello zolfo dovevano essere segnati da una successione di boom, inframmezzati da fasi di sovrapproduzione, di crollo dei prezzi e di accumulo di quantità invendute, che mostrano il carattere speculativo di un mercato allo stesso tempo di monopolio e di oligopsonio ». 4 Nel volume dal titolo Potere e società in Sicilia nella crisi dello stato liberale, di autori vari, Giuseppe Barone afferma : « ancora nel 1894 la produzione isolana (dello zolfo) copriva quasi l’80 % dell’intero fabbisogno mondiale », 5 ma « gravi problemi di ordine strutturale e organizzativo erano destinati nel tempo a mettere fortemente in crisi questa unica grande risorsa extragricola presente nell’isola ». 6 Il principale problema derivava dal fatto che i proprietari della terra e del relativo sottosuolo, non potendo in proprio occuparsi delle zolfare, le concedevano in gabella ricevendo, a pagamento del canone, una parte dello zolfo, che immettevano di fatto sul mercato disordinatamente, e senza preoccuparsi del prezzo di vendita. Ciò si realizzava attraverso un sistema feudale che si basava su una persistente gerarchizzazione nella divisione del lavoro. Esisteva infatti una sorta di piramide costituita dal proprietario, dal gabelloto-imprenditore, dal picconiere, dai vari soprastanti, dai carusi, mentre, come dice Barone « del tutto anacronistica risultava l’organizzazione commerciale e di vendita, dominata dalle manovre speculative di sborsanti, magazzinieri, esportatori ». 7 Nel percorso di una storia economica legata alla zolfara, la letteratura, in un tempo di scritture realiste e di romanzi più o meno ‘storici’ o ‘post-storici’, o ‘anti-storici’, registrerà puntualmente le principali problematiche e i più suggestivi riflessi sulla vita dei vari personaggi che vivono ed operano nella geografia della zolfara, restituendo l’immagine di una Sicilia attraversata e tormentata da abusi, soprusi e violenze, cui nemmeno la Stato unitario saprà porre rimedio. Ancora una volta la formula manzoniana della stretta connessione fra storia e invenzione troverà sulla pagina letteraria dei grandi scrittori siciliani, una vitalità di proposte contenutistiche e una capacità innovativa degli stessi strumenti retorici e degli orizzonti affabulatorii. Il primo grande tema che viene posto all’attenzione del lettore, nell’ultimo scorcio dell’Ottocento nell’ambito della narrativa della zolfara, è senza dubbio quello dell’organizzazione del lavoro nelle cave e nelle zolfare, e specificamente lo sfruttamento del lavoro minorile, sul quale la prima sconvolgente testimonianza letteraria è quella del grande Verga con la novella Rosso Malpelo, la cui prima stesura vede la luce nell’agosto del 1878 sul « Fanfulla della domenica » per poi avere altre due stesure, come ci ha bene indicato Luperini. 8 In realtà un acceso dibattito è in corso, in quei primi anni  























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  Leonardo Sciascia, La corda pazza, Torino, Einaudi, 1970, p. 136 (ma l’articolo è datato 1963). 2   Maurice Aymard, Economia e società : uno sguardo d’insieme, in Storia d’Italia. Le rergioni dall’Unità ad oggi. La Sicilia, a cura di Maurice Aymard, Giuseppe Giarrizzo, Torino, Einaudi, 1987, p. 4 sgg. 3   Maurice Aymard, op. cit., p. 7.  

  Ivi, pp. 12-13.   Giuseppe Barone, Ristrutturazione e crisi del blocco agrario. Dai fasci siciliani al primo dopoguerra, in Potere e società in Sicilia nella crisi dello stato liberale, prefazione di Gastone Manacorda, Catania, Pellicanolibri, 1977, p. 42. 6 7   Ivi, p. 43.   Ivi, p. 43. 8   Romano Luperini, Verga e le strutture narrative del realismo, Padova, Liviana, 1976. 5

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dello Stato unitario, tanto sul lavoro minorile quanto sul lavoro della donna, ed una prima inchiesta ministeriale viene avviata da Depretis nel 1877 relativa proprio a tale problema, mentre già un anno prima, nel 1876, la famosa inchiesta di Franchetti e Sonnino conteneva, com’è noto, in appendice, un capitolo sul lavoro dei fanciulli nelle zolfare siciliane. Il testo verghiano, se letto con la dovuta attenzione nell’ottica allargata di una letteratura della zolfara, rivela la sua caratteristica di vero archetipo di tale filone letterario, soprattutto perché contiene da una parte i tratti documentari di una analisi destinata poi a ripetersi in altri autori, e dall’altra anche alcuni tratti simbolici dei quali, anche successivamente, altri scrittori, con contributi personali ulteriori, s’impadroniranno. Alcuni dati documentari sono perfettamente riscontrabili nella pubblicistica del tempo, i dati per esempio relativi alle paghe (ridotte al minimo per i ‘carusi’ rispetto a quelle degli adulti), o i dati concernenti gli orari di lavoro, con relativo sfruttamento tanto dei ragazzi, quanto dei vecchi, dei malati (vedi, ad esempio, nella novella, la storia di Ranocchio che continuerà a lavorare anche essendo malato, fino quasi al giorno della morte), o perfino dei condannati al carcere (vedi l’episodio relativo, sempre nella novella). Nel rispetto di un rigoroso metodo veristico, il testo verghiano fornisce anche notizie fondamentali che registrano la permanenza settimanale – giorno e notte – in miniera, e che riguardano la stessa pericolosità delle cave (episodio esemplare quello della morte del padre di Rosso e della scomparsa dello stesso Malpelo che chiude il racconto), mentre le relazioni interpersonali, specie quelle con i soprastanti, si arricchiscono di particolari sfumature e dimensioni attraverso il racconto letterario : « Era avvezzo a tutto lui, – si dice di Malpelo – agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di badile, o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire sui sassi, colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro ; anche a digiunare era avvezzo, allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra ». 1 Ma ciò che darà al testo verghiano il valore di fondamento e di modello per la narrativa della cava e della zolfara, sarà, per altro verso, l’orizzonte dei grandi contrasti simbolici che si accampano grandiosi nel racconto : i binomi giorno-notte, luce-buio, paradiso-inferno, perfino, trovano in questo testo la loro originaria formulazione, dando origine ad un orizzonte di campi semantici destinati a permanere fino al Novecento : « Fuori della cava il cielo formicolava di stelle, e laggiù la lanterna fumava e girava al pari di un arcolaio » ; 2  

















Certamente egli avrebbe preferito di fare il manovale, e lavorare cantando sui ponti, in alto, in mezzo all’azzurro del cielo, col sole sulla schiena – o il carrettiere, come compare Gaspare che veniva a prendersi la rena della cava, dondolandosi sonnacchioso sulle stanghe, colla pipa in bocca, e andava tutto il giorno per le belle strade di campagna – o meglio ancora avrebbe voluto fare il contadino che passa la vita fra i campi, in mezzo al verde, sotto i folti carrubi, e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa. 3

L’esistenza della zolfara, invece, rende ineludibile la riflessione su un mondo sotterraneo contrapposto a quello della superfice :  

descriveva come l’intricato laberinto delle gallerie si stendesse sotto i loro piedi dappertutto, di qua e di là sin dove potevano vedere la sciara nera e desolata, sporca di ginestre riarse, e come degli uomini ce n’erano rimasti tanti, o schiacciati o smarriti nel buio, e che camminano da anni e camminano ancora senza poter scorgere lo spiraglio del pozzo pel quale sono entrati e senza poter udire le strida disperate dei figli, i quali li cercano inutilmente. 4

Nella contrapposizione dei due mondi, sopra e sotto la terra, che ripropongono il mito dell’alternanza vita-morte, fra qual1

  Giovanni Verga, Tutte le novelle, Milano, Mondadori, 1979, p. 179. 3 4   Ivi, p. 175.   Ivi, p. 181.   Ibidem.

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che anno si collocheranno anche i personaggi pirandelliani di Ciàula e di Zi’ Scarda. E a leggere parallelamente tali novelle, sull’orizzonte della tematica della zolfara, si colgono dei richiami speculari fra i due autori siciliani. Anche qui, nel testo pirandelliano, si gioca una vicenda di poteri e soprusi, c’è in atto all’esordio del racconto una sorta di braccio di ferro tra i picconieri e il sovrastante, il quale addirittura si presenta ‘con la rivoltella in pugno’, quasi a volere alzare il tiro dell’esibizione della violenza rispetto al testo di Rosso Malpelo. Si tratta di un mondo duro, senza spiragli, senza luce, dove le persone si sono totalmente assimilate alla pietra, a contatto della quale vivono le loro giornate. Dice il testo pirandelliano : « Nelle dure facce quasi spente dal buio crudo delle cave sotterranee, nel corpo sfiancato dalla fatica quotidiana, nelle vesti strappate, avevano il livido squallore di quelle terre senza un filo d’erba, sforacchiate dalle zolfare, come da tanti enormi formicai ». 5 Attraverso una sorta di assimilazione personaggio/ambiente dello zolfo, la zolfara si presenta qui come la vera padrona di queste vite, tanto che per Ciàula è il mondo di fuori che crea sgomento, la « sterminata » « impalpabile vacuità di fuori » « il silenzio nero » – come dice il testo con una felice sinestesia – ‘il silenzio nero’ che egli avrebbe trovato uscendo dalle viscere della terra, mentre  

















della tenebra fangosa, delle profonde caverne, ove dietro ogni svolta stava in agguato la morte, Ciàula non aveva paura ; né paura delle ombre mostruose, che qualche lanterna suscitava a sbalzi lungo le gallerie, né del subito guizzare di qualche riflesso rossastro qua e là in una pozza, in uno stagno d’acqua sulfurea ; sapeva sempre dov’era ; toccava con la mano in cerca di sostegno le viscere della montagna ci stava cieco e sicuro come dentro il suo alveo materno. 6  





È una sorta di discesa agli inferi, dunque, quella che si realizza nel testo pirandelliano, o forse ancor più, una sorta di rivisitazione di un mondo ctonio, nel quale si crea una situazione di fascinazione delle origini buie e misteriose della vita, in cui la zolfara si trasforma a poco a poco in una grande madre protettiva, terribile e avvolgente, che rischia di inghiottire Ciàula, attutendone l’angoscia a patto di determinare e realizzare in lui una formidabile regressione in cui egli può venire collocato, come dice esplicitamente il testo, « cieco e sicuro ». Da tale rischio lo libererà solo « la luna col suo ampio velo di luce, nel momento in cui egli verrà fuori dal profondo, nero buco del sottosuolo ». « Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva ». 7 Secondo Sciascia questa novella costituisce « l’unico momento dell’opera pirandelliana in cui affiori un sentimento di pietà per la gente della zolfara, e più precisamente per uno di quei “carusi” il cui impiego, ai giorni nostri sostituito da quello dei vagoncini a trazione elettrica, costituisce una delle più dolorose e vergognose pagine nella storia della sfruttamento umano », 8 ma forse il giudizio di Sciascia risulta troppo limitativo, perché altri testi pirandelliani esibiranno la pietà di Pirandello non solo per la ‘gente della zolfara’ in senso stretto, ma per tutto un mondo in cui la tragedia della zolfara si espande e lancia riflessi dolorosi e distruttivi. Anzi si potrebbe dire che Pirandello, forse perché direttamente e personalmente coinvolto nel mondo della zolfara fin da quando, nel 1886, viene distratto dai suoi studi a Palermo con l’invito ad aiutare il padre proprio nella gestione della zolfara da lui presa in affitto, ed in seguito con le note vicende relative alla propria moglie, abbia messo in rilievo delle implicazioni zolfara/uomo/ambiente di particolare interesse, divenendo forse anche, a mio parere, la voce di testimonianza più accorata e complessa nella letteratura della zolfara siciliana.  















5   Luigi Pirandello, Ciàula scopre la luna, in Idem, Novelle per un anno, i, Milano, Mondadori, 1962, p. 1273. 6 7   Ivi, p. 1275.   Ivi, p. 1278. 8   Leonardo Sciascia, La corda pazza, cit., pp. 137-138.

il tema della zolfara negli scrittori siciliani Già nella novella II no di Anna uscita, prima che in volume, sulla « Gazzetta letteraria » del 18951, viene fissato quasi in sordina, nelle pieghe di una apparente neutra descrizione, il dramma del progressivo inquinamenteo/stravolgimento ambientale connesso al traffico dello zolfo, nel paese di Vignetta già proteso a divenire quasi città, ‘in continuo fermento’ a causa di tale commercio, e colto dal narratore in un confronto tra un prima e un dopo che il repentino mutamento rende inevitabile.  



Trillavano i grilli nella placida sera di settembre sulla spiaggia lunga e stretta, tutta ingombra di alte cataste di zolfo. La spiaggia, fino a mezzo secolo addietro era seno di mare, il quale veniva a battere alle mura del borgo nascente. Inarenato il seno, subito il commercio aveva invaso quel breve lembo sabbioso, per comodo del carico dello zolfo. […] Di giorno Vignetta è in continuo fermento. Ogni mattina, all’alba, i tre appelli d’un banditore la destano : – O uomini di mare, alla fatica ! E già comincia lo strider dei carri di zolfo, carri senza molla, ferrati, rotolanti nel brecciale fradicio dello stradone polveroso, popolato di magri asinelli a frotte, bardati, che arrivano anch’essi con due pani di zolfo a contrappeso, uno per ciascun lato. Le spigonare, con la gran vela triangolare ripiegata a metà sull’albero, assiepano la riva ; mentre già a pie’ delle cataste s’impiantan le stadere, sulle quali lo zolfo è pesato, e quindi caricato sulle spalle degli uomini di mare protette da un sacco commesso alla fronte. Gli uomini di mare scalzi, in calzoni di tela, recano il carico alle spigonare, immergendosi nell’acqua fino all’anca ; poi le spigonare ripiene, sciolta la vela, recano alla loro volta il carico ai vapori mercantili ancorati nel porto o fuori. [...] La sera, dopo tanto frastuono, [...] i grilli strillano sulla spiaggia, tra le cataste di zolfo, e qualche cane di guardia abbaia di quando in quando, mentre il mare, dentro il porto, dorme tranquillo come un lago, con la selva oscura delle navi quasi protette dal faro, di cui le acque nere riflettono il verde lume. 2  







Come si vede lo scrittore intende registrare con apparente oggettività la situazione in evoluzione di un borgo che si va commercializzando, attraverso il traffico dello zolfo, ma il concludersi della descrizione sull’immagine della ‘selva oscura’ delle navi, con la sua suggestione dantesca, non può non richiamare analogicamente un clima da anticamera dell’inferno che giustificherà di qui a poco l’angosciosa presentazione delle due protagoniste collocate nell’atmosfera asfissiante di quel borgo causata proprio dallo zolfo : « Quella relegazione nella cittaduzza di Vignetta, a causa del commercio dello zolfo a cui il padre s’era dato, aveva alterato l’indole, prima gaia e aperta, di Rita », 3 mentre anche Anna, l’altra protagonista, si trova ad avere vissuto una giovinezza segnata dallo zolfo, in quanto suo padre,  





morto quattr’anni addietro, aveva buttato a piene mani tutto l’aver suo nelle buche delle solfare, preso dalla mania di trovar filoni di zolfo in ogni montagna del circondario. E aveva sventrato montagne, fatto scavar buche fino a duecento metri di profondità senza trovar mai nulla : acqua soltanto, e allora, impianti di macchine a vapore per votar le buche, o costruzioni sotterranee per deviar l’acqua. Così migliaia e migliaia di lire aveva egli lasciato ingoiare alle buche voraci senza alcun frutto. 4  

Viene molto chiaramente messa in evidenza qui la tragedia di questa febbre dello zolfo che ha coinvolto e travolto tanti protagonisti della vicenda economica della zolfara in Sicilia, e non è difficile comprendere come una vicenda storica di tale vorticoso, breve e tumultuoso destino, abbia acquistato in letteratura un forte rilievo metaforico creando quasi un mito. Un’altra novella pirandelliana dal titolo, per molti versi emblematico, Il « fumo », 5 ripropone i termini di tale mito nelle sue caratteristiche devastanti e distruttive, che prendono corpo proprio se confrontate e relazionate alla vitalità dinamica e costruttiva dell’aperta campagna. La novella infatti, che, fra  



l’altro, si apre proprio con una pietosa considerazione pirandelliana per la gente della miniera (quasi a smentire ancora una volta la valutazione restrittiva sciasciana), si svolge interamente sulla specularità miniera/campagna, avvalorando quell’orizzonte simbolico spazio aperto/spazio chiuso cui s’è fatto cenno all’inizio. Tanto il lessico quanto l’uso insistito dei deittici, danno l’idea di un serrato confronto campagna-zolfara, che conferisce a tutta la novella un andamento bipolare teso ad inscenare sulla pagina una contrapposizione simbolica, una sfida, uno scontro inevitabile e incombente fino alla fine, fra il mondo infernale della zolfara, cieco e tenebroso, e il mondo luminoso, verde e solare della superficie. Appena i zolfatari venivan su dal fondo della “buca” col fiato ai denti e le ossa rotte dalla fatica, la prima cosa che cercavano con gli occhi era quel verde della collina lontana, che chiudeva a ponente l’ampia vallata. Qua, le coste aride, livide di tufi arsicci, non avavano più da tempo un filo d’erba, sforacchiate dalle zolfare come da tanti enormi formicai e bruciate tutte dal fumo. Sul verde di quella collina, gli occhi infiammati, offesi dalla luce dopo tante ore di tenebra laggiù, si riposavano6

mentre, a loro volta, « i contadini della collina, all’incontro, perfino sputavano : – Puh ! guardando a quelle coste della vallata. Era là il loro nemico : il fumo devastatore ». 7 Inizia così una rassegna minuziosa delle dimensioni dannose della zolfara e una denuncia/difesa ambientale che oggi non esiteremmo a definire ecologica. Lo scrittore parla del vento che reca « il lezzo asfissiante dello zolfo bruciato » e di « quei pazzi » che « non contenti d’aver devastato la vallata, quasi invidiosi di quell’unico occhio di verde, avrebbero voluto invadere coi loro picconi e i loro forni, anche le belle campagne », 8 mentre con vera coscienza del bene comune (come oggi potremmo dire) si sottolinea il valore di una resistenza da parte dei proprietari della collina alla tentazione di lucrosi guadagni derivanti dalla vendita dei suoli :  



  Ora in Luigi Pirandello, Novelle per un anno, ii, cit., p. 995 sgg. 3   Ivi, p. 996.   Ivi, p. 997. 5   Ivi, p. 997 sgg.   Ivi, i, p. 96 sgg.





















“La campagna era lì, stesa al sole, che tutti potevano vederla : soggetta sì alle cattive annate, ma compensata poi anche dalle buone ; la zolfara, all’incontro cieca, e guai a scivolarci dentro. [...] Queste considerazioni, che ciascuno di quei proprietarii della collina ribadiva di continuo nella mente dell’altro, volevano essere come un impegno per tutti di resistere uniti alle tentazioni, sapendo bene che se uno di loro avesse ceduto e una zolfara fosse sorta là in mezzo, tutti ne avrebbero sofferto ; e allora cominciata la distruzione, altre bocche d’inferno si sarebbero aperte e, in pochi anni, tutti gli alberi, tutte le piante sarebbero morti, attossicati dal fumo, e addio campagne ! 9  







C’è un allarme, dunque, che serpeggia in tutto il racconto, anzi un terrore, del quale è preda più di tutti Mattia Scala, il protagonista. Egli teme che tutta quella bella campagna divenga una zolfara e contro questa prospettiva combatte perfino nelle conversazioni con i compaesani, sul perenne argomento dello zolfo. Tutte le problematiche relative alla zolfara vengono affrontate in queste conversazioni che forniscono anche sul piano documentario delle preziose indicazioni, sui danni delle imprese minerarie, sui prezzi, sulla sovrapproduzione, sui costi di gestione, sugli affitti delle zolfare sui prestiti e sull’usura. Tutto ciò che ruota intorno alla zolfara insomma, viene fuori come argomento di conversazione nel paese, finché perfino il senso stesso e l’uso dello zolfo vengono messi in discussione e appare nella sua nudità l’assurdo della zolfara, nell’amara ironia della gente di Sicilia. Ma, del resto, voi don Nodo che avete studiato, e tu Tino Làbiso : sapreste dirmi che diavolo sia lo Zolfo e a che cosa serva ? [...] Oh bella [...] Serve serve per ... inzolfare le viti, serve. – E... e anche per... già, per i fiammiferi di legno, mi pare, aggiungeva Tino Làbaso [...] – Mi pare mi pare... – si metteva a sghignazzare don Mattia Scala. – Che vi pare ? È proprio così ! Questi due soli usi ne conosciamo noi. Doman 





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  Ivi, p. 96.   Ivi, p. 97.

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  Ivi, p. 97.   Ivi, p. 97 [il corsivo è nel testo].

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datene a chi volete : nessuno vi saprà dire per che altro serve lo zolfo. E intanto lavoriamo, ci ammazziamo a scavarlo, poi lo trasportiamo giù alle marine, dove tanti vapori inglesi, americani, tedeschi, francesi, perfino greci, stanno pronti con le stive aperte come tante bocche a ingoiarselo ; ci tirano una bella fischiata e addio ! Che ne faranno, di là, nei loro paesi ? Nessuno lo sa ; nessuno si cura di saperlo ! E la ricchezza nostra intanto, quella che dovrebbe essere la ricchezza nostra, se ne va via così dalle vene delle nostre montagne sventrate, e noi rimaniamo qua, come tanti ciechi, come tanti allocchi, con le ossa rotte dalla fatica e le tasche vuote. Unico guadagno : le nostre campagne bruciate dal fumo. I quattro amici, a questa vivace, lampantissima dimostrazione della cecità con cui si esercitava l’industria e il commercio di quel tesoro concesso dalla natura alle loro contrade e intorno a cui pur ferveva tanta briga, tanta guerra di lucro, insidiosa e spietata, restavano muti, come oppressi da una condanna di perpetua miseria. [...] Quando lo Scala terminava di parlare e i vicini si alzavano per tornarsene alle loro abitazioni rurali, la luna, alta e come smarrita nel cielo, quasi non fosse di quella notte, ma la luna d’un tempo lontano lontano, dopo il racconto di tante miserie, illuminando le due coste della vallata ne faceva apparir più squallida e più lugubre la desolazione. E ciascuno avviandosi, pensava che là, sotto quelle coste così squallidamente rischiarate, cento, duecento, metri sottoterra, c’era gente che si affannava ancora a scavare, a scavare, poveri picconieri sepolti laggiù, a cui non importava se su fosse giorno o notte, poiché notte era sempre per loro. 1  













agli speculatori, forse fuori della Sicilia. E la zolfara in sé è lei stessa a divorare danaro. 3 Tutto ciò viene denunciato dagli scrittori i quali evidenziano pure le condizioni di arretratezza nelle quali vengono lasciate sia le cave, sia lo stesso sistema commerciale. Nella novella Lontano 4 del 1902, Pirandello metterà in bocca allo straniero Lars Cleen, e sotto il suo occhio distaccato e giudicante di ‘diverso’ in quanto straniero, la situazione di evidente sottosviluppo e degrado strutturale in cui si svolgevano i lavori di trasporto e d’imbarco dello zolfo. Si recava sulla spiaggia tutta ingombra di zolfo accatastato, e con un senso di amarezza e di disgusto assisteva alla fatica bestiale di tutta quella gente sotto la vampa del sole. Perchè coi tesori che si ricavavano da quel traffico, non si pensava a far lavorare più umanamente tutti quegli infelici ridotti peggio delle bestie da soma ? Perchè non si pensava a costruire le banchine su le due scogliere del nuovo porto, dove si ancoravano i vapori mercantili ? da quelle banchine non si sarebbe fatto più presto l’imbarco dello zolfo, coi carri e coi vagoncini ? Non ti scappi mai di bocca una parola su questo argomento ! – gli raccomandò don Paranza, una sera, dopo cena. – vuoi finire come Gesù Cristo ? Tutti i ricchi del paese hanno interesse che le banchine non siano costruite, perchè sono i proprietarii delle spigonare, che portano lo zolfo dalla spiaggia sui vapori. Bada, sai ! Ti mettono in croce. Sì, e intanto su la spiaggia nuda, tra i depositi di zolfo, correvano scoperte le fogne, che appestavano il paese ; e tutti si lamentavano e nessuno badava a provvedere d’acqua sufficiente il paese assetato. A che serviva tutto quel denaro con tanto accanimento guadagnato ? Chi se ne giovava ? Tutti ricchi e tutti poveri ! Non un teatro, né un luogo o un mezzo di onesto svago, dopo tanto e così enorme lavoro. Appena sera, il paese pareva morto, vegliato da quei quattro lampioncini a petrolio. E pareva che gli uomini, tra le brighe continue e le diffidenze di quella guerra di lucro, non avessero neanche tempo di badare all’amore, se le donne si mostravano così svogliate, neghittose. Il marito era fatto per lavorare ; la moglie per badare alla casa e far figliuoli. – Qua ? pensava il Cleen, – qua per tutta la vita ? E si sentiva stringere la gola sempre più da un nodo di pianto. 5  













La pietas pirandelliana mi pare venga ben fuori da queste parole, certo mista ad altre sensazioni, sfiducia, ironica amarezza, senso di abbandono e di solitudine, critica paradossale, quasi sfida o anche rabbia forse, come la stessa conclusione della novella testimonia, presentandoci il protagonista che incendierà con le sue stesse mani quella campagna amatissima pur di non vederla ridotta in Zolfara. Il sole era al tramonto. Per lo stradone polveroso don Mattia s’imbattè in una lunga fila di carri carichi di zolfo, i quali dalle lontane zolfare della vallata, di là dalla collina che ancora non si scorgeva, si recavano, lenti e pesanti, alla stazione ferroviaria sotto il paese. Dall’alto della giumenta, lo Scala lanciò uno sguardo d’odio a tutto quello zolfo che cigolava e scricchiolava continuamente agli urti, ai sobbalzi dei carri senza molle. Lo stradone era fiancheggiato da due interminabili siepi di fichi d’india, le cui pale, per il continuo transito di quei carri, eran tutte impolverate di zolfo. Alla loro vista, la nausea di don Mattia si accrebbe. Non si vedeva che zolfo, da per tutto, in quel paese ! Lo zolfo era anche nell’aria che si respirava, e tagliava il respiro, e bruciava gli occhi. Finalmente, a una svolta dello stradone, apparve la collina tutta verde. Il sole la investiva con gli ultimi raggi. Lo Scala vi fissò gli occhi e strinse nel pugno le briglie fino a farsi male. Gli parve che il sole salutasse per l’ultima volta il verde della collina. Forse egli, dall’alto di quello stradone, non avrebbe mai più riveduto la collina, come ora la vedeva. Fra vent’anni, quelli che sarebbero venuti dopo di lui, da quel punto dello stradone, avrebbero veduto là un colle calvo, arsiccio, livido, sforacchiato dalle zolfare. [...] E guardò attorno gli alberi, con la gola stretta d’angoscia : quegli olivi centenarii, dal grigio poderoso tronco stravolto, immobili, come assorti in un sogno misterioso nel chiarore lunare. Immaginò come tutte quelle foglie ora vive, si sarebbero aggricciate ai primi fiati agri della zolfara, aperta lì come una bocca d’inferno ; poi sarebbero cadute ; poi gli alberi nudi si sarebbero anneriti, poi sarebbero morti, attossicati dal fumo dei forni. L’accetta lì, allora. Legna da ardere, tutti quegli alberi... Una brezza lieve si levò, salendo la luna. E allora le foglie di tutti quegli alberi, come se avessero sentito la loro condanna di morte, si scossero quasi in un brivido lungo, che si ripercosse su la schiena di don Mattia Scala, curvo su la giumenta bianca. 2  







La zolfara dunque determina una sorta di odio perché si presenta più nei suoi connotati distruttivi che come reale fonte di benessere. Ed in realtà essa non lo è né per il popolo degli operai né forse per gli stessi proprietari e per coloro che hanno in affitto le zolfare. Il denaro dello zolfo va altrove, forse 1

  Ivi, pp. 105-107.

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  Ivi, pp. 129-131.













L’analisi come si vede, collocata con l’ausilio dell’indiretto libero, nel punto di vista di chi viene da fuori, è feroce ed investe tutto il problema del sottosviluppo che è ancora più colpevole in quanto tocca tutti gli aspetti della vita, determinando uno stretto rapporto di privazione di qualità e di adeguamento alle condizioni di miseria materiale e spirituale assolutamente assimilabili all’asfittico clima della zolfara. La quale è la metafora estrema dell’umano degrado. Pirandello, a mio parere, non solo non ha affidato la sua protesta all’unico momento di Ciàula, ma ha toccato quasi tutti gli aspetti delle implicazioni drammatiche dell’uomo siciliano nell’impatto coll’ambiente della zolfara arrivando a descrivere anche situazioni estreme e paradossali come ad esempio quelle raccontate nelle novelle Lo spirito maligno, 6 Formalità,7 Il libretto rosso,8 Fuoco alla paglia,9 che qui non c’è il tempo di analizzare. Si vede comunque, come gli spunti offerti dalla tematica della zolfara siano molteplici, e si può dire che man mano che l’evoluzione economica relativa alla zolfara si svolge e muta, si registra parallelamente in letteratura un arricchirsi e moltiplicarsi dei motivi tematici. Sul finire degli anni ’90, dopo il decennio di boom dello zolfo, alla tematica dello sfruttamento minorile che ha percorso tutto il decennio o al costante confronto zolfara/campagna con l’attenzione all’impatto ambientale che in verità attraversa l’intero arco della letteratura sulla zolfara, si affacciano altre tematiche specifiche connesse con la crisi dell’economia zolfifera. Il tema del ribasso dei salari dovuto alla minore richiesta di zolfo da parte del mercato, s’incrocia col tema del 3   Vedi la stessa novella Il fumo, in Luigi Pirandello, Novelle per un anno, i, cit., pp. 104-106. 4 5   Ivi, p. 800 sgg.   Ivi, pp. 838-839. 6 7   Ivi, p. 1037 sgg.   Ivi, p. 169 sgg. 8 9   Ivi, ii, p. 454 sgg.   Ivi, i, p. 324 sgg.

il tema della zolfara negli scrittori siciliani lavoro, degli scioperi, e con più ampi movimenti come quello dei Fasci siciliani. Troviamo testimonianze di tutto ciò sia nella poesia dialettale ad esempio di Alessio Di Giovanni sia anche nella commedia La zolfara 1 di Giuseppe Giusti Sinopoli, o nel romanzo verghiano Dal tuo al mio 2 e naturalmente nel romanzo pirandelliano I vecchi e i giovani. 3 Pur restando persistente il grande lamento per l’inquinamento atmosferico, che fa sempre da sfondo, si introduce nei testi il tema della lotta operaia, e quello relativo allo scontro ideologico tra produttori e lavoratori. Si consuma anche la liquidazione non incruenta di una classe al potere : il proprietario/nobile/latifondista. Ma si registra anche il passaggio della ricchezza/potere o del potere/ricchezza da una mano all’altra, in un gattopardesco cambio di classi, e spesso lo scenario di sfondo è proprio la zolfara. Ancora una volta Verga con Dal tuo al mio offre un significativo affresco che, mentre registra il decadere di una classe aristocratica, guarda al nuovo innesto in essa di soggetti provenienti dal popolo. È il caso di Luciano, l’intraprendente operaio capopopolo che sposa la figlia del barone, e in piena lotta sindacale (come oggi si direbbe), si ritrova a difendere i diritti di sua moglie che putacaso sono i diritti della zolfara. Emerge ormai chiara la conflittualità di classe come tema forte, e il lessico comincia a fare spazio a nuove parole : ‘sciopero’, ‘scioperanti’ (« una cosa nuova che la chiamavano sciopero » si dirà in una battuta di Dal tuo al mio), ma la vicenda della zolfara, che non a caso costituisce ancora nucleo scatenante di conflitti sociali e proposta di materiali affabulatori, risulta sempre più coinvolta e connessa, anche dagli stessi narratori, a più ampie vicende politiche ed economiche che riguardano il Sud e la stessa Unità Nazionale che spesso appare sostanzialmente ancora irrealizzata. Si sottolinea sovente l’incapacità e l’inadeguatezza della soluzione politica unitaria rispetto alle persistenti arretratezze sociali e ingiustizie economiche. Ne La zolfara di Giusti Sinopoli ad esempio, sul finire del secolo, quando si tocca il problema dei fanciulli si dice anche che sono i genitori che in qualche modo vendono alla zolfara i loro figli perché non li possono mantenere 4 e ne I vecchi e i giovani di Pirandello, pur nella sottolineatura delle ragioni dei minatori, si mette in luce, a livello della fabula, e dello svolgersi della trama, il rischio dello sfociare nella violenza. Indimenticabile l’episodio in cui viene evidenziata la responsabilità e la colpevolezza dei minatori nei confronti dell’ingegner Costa e di sua moglie che, accorsi per dare aiuto, diventano invece le vittime della loro cieca ferocia. Tali scenari li troviamo ancora presenti anche nei più recenti racconti intorno alla zolfara, come ad esempio ne II filo di fumo di Andrea Camilleri, che fin dal titolo gioca sui vari sensi cui rimanda l’immagine del fumo (interessante, anche da un punto di vista intertestuale, nel suo muoversi fra Pirandello e Madama Butterfly, peraltro citata in epigrafe). Qui Camilleri riprende vari temi legati alla zolfara, riproposti e ricomplicati modernamente secondo il suo stile intrigante. Ma la ricchezza dei piani del racconto e la complessità della materia non impediscono a Camilleri di offrire toccanti pagine che danno conto della condizione sub-umana del lavoro, dentro e fuori dalla miniera, con particolare riferimento al « traffico che si pratica in Vigàta, nel carico e nella discarica dello zolfo » che « secondo quanto aveva scritto il professor Baldassare Manilio nel suo pregevole volume Vigàta nelle probabili origini, nello sviluppo, nell’attività e nei suoi bisogni, [...] è tutto da rifare per rimetterlo  











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più consono alla dignità dell’uomo ». 5 L’ironia dolorosa e disincantata di Camilleri riporta in superfice il vero problema della zolfara : l’offesa della dignità dell’uomo, o, come anche esplicitamente ribadito dallo scrittore, « l’affronto al sentimento di solidarietà umana ». 6 Malgrado tutta la saggistica meridionalistica, non solo moderna, ma anche coeva a quel periodo storico (Colajanni etc.) cui amaramente fa riferimento anche Camilleri (con un ammiccare di sapore perfino autoriflessivo), e malgrado le rivendicazioni e le lotte, la problematica della zolfara si rivela sempre più al centro di tale quantità di problemi e di crescenti tensioni che gli stessi scrittori non possono fare altro che darne dolorosa testimonianza. Come felicemente ha rilevato Mario Sipala 7 « la ricezione della conflittualità di classe rimane controversa nella letteratura della zolfara ». Nel testo di Alessio Di Giovanni, Gabrieli lu carusu, 8 il protagonista viene ucciso dagli esasperati zolfatari, mentre egli, che ama la padrona, tenta di difenderla. Ecco : i motivi si complicano e si intrecciano. È come se i dati della realtà si vadano facendo più complessi mentre ci si avvicina cronologicamente alla fine del secolo. Ed è vero forse che i problemi socio-economici si vanno complicando all’inizio del Novecento. La zolfara stessa sembra venire travolta anch’essa da una più complessa realtà che la sovrasta, pur rimanendo presenti tutti i suoi scenari costituiti dalle rivendicazioni, dagli scioperi, dalle condizioni di sfruttamento dei deboli. Nel 1911 Rosso di San Secondo, con Il re della zolfara, 9 ci presenta un padrone che oppressso dalla sua stessa situazione economica di padrone, difficile ormai da gestire, riesce a placare l’ira degli accesi, anche se meritevoli, zolfatari, col racconto della proprie difficoltà ed essi vengono presi da una sorta di pietà oggettiva per i suoi guai. C’è ormai un fantasma sullo sfondo della storia europea, il fantasma di una diffusa crisi politica ed il fantasma della prima grande guerra mondiale. Forse solo con una fantasia poetica si potrà tentare di salvare l’uomo e di salvare la stessa zolfara, come metafora di lotta e di liberazione, questa volta, dall’universale catastrofe. A qualche anno dalla fine della prima guerra mondiale, nel 1924, con L’avventura terrestre, Rosso di San Secondo tenterà di proporre una prospettiva di salvezza con un canto di fratellanza. E non sarà un caso che si tratti di un coro di zolfatari, i quali proprio per avere di più patito, possono indirizzare un invito di solidarietà al mondo intero.  













O genti ca girati pi lu munnu Firmativi a guardari ‘sta cuntrata Nun c’è paisi cchiù beddu e giucunnu Pi l’anima cchiù afflitta e cchiù addugghiata Ma la zurfara ne oggi ne ajeri Sappi lu suli o lu celu stillatu Li zurfarara nun hannu quartieri lu cori è suttu lu sterru appinatu. 10

Ci sono due mondi dunque : quello sopra e quello sotto la terra. Forse è una metafora perenne : la zolfara ! I forti e i deboli ! L’ingiustizia ! La realtà umana e disumana ! Può forse chiudersi qui questo veloce excursus nel mondo letterario della zolfara siciliana. Lasciando alla nostra riflessione un’infinità di problemi.  













1   Giuseppe Giusti Sinopoli, La Zolfara, in Teatro verista siciliano, a cura di Alfredo Barbina, Bologna, 1970. 2   Giovanni Verga, Dal tuo al mio, Milano, Serra e Riva, 1982. 3   Luigi Pirandello, I vecchi e i giovani, in Idem, Tutti i romanzi, Milano, Mondadori, 1973. 4   Interessante a tale proposito il film di Aurelio Grimaldi dal titolo La discesa di Aclà a Floristella, del 1992.

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  Andrea Camilleri, Il filo di fumo, Palermo, Sellerio, 1997.   Ivi, p. 76 sgg.   Mario Sipala, “Una cosa strana che la chiamavano sciopero”, Ideologia e letteratura nella Sicilia del primo novecento, in Storia d’Italia. Le regioni, ... cit., p. 841. 8   Alessio Di Giovanni, Gabrieli lu carusu. Dramma siciliano in tre atti, Palermo, Abbate, 1910. 9   In Pier Maria Rosso di San Secondo, Teatro, Roma, 1976. 10   Ivi, p. 510 : « O genti che girate per il mondo / Fermatevi a guardare questa contrada / Non c’è paese più bello e giocondo / Per l’anima più afflitta e più appenata / Ma la zolfara né oggi e né ieri / ha conosciuto il sole e il cielo stellato / Gli zolfatari non hanno quartiere / Il loro cuore è sotto lo sterro addolorato ». 6 7







PADRE CRISTOFORO A MALTA : IL MODELLO MANZONIANO DEL PERSONAGGIO DEL FRATE NEL ROMANZO STORICO MALTESE UN MARTIRE DI RAMIRO BARBARO  

Sergio Portelli

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’i ntroduzione a Malta del romanzo storico nella prima metà dell’Ottocento fu dovuta soprattutto alla presenza sull’isola di esuli intellettuali quali gli scrittori forlivesi Tommaso e Ifigenia Zauli Sajani, il poeta senese Lorenzo Borsini e lo scrittore messinese di racconti storici Michelangelo Bottari. Fuggiti dagli stati italiani per le loro idee politiche, tali letterati si rifugiarono a Malta dove potevano godere della protezione britannica e di una relativa libertà d’azione sia politica che intellettuale. Inoltre, la concessione della libertà di stampa ai maltesi nel 1839 permise agli esuli non solo di guadagnarsi da vivere, ma anche di esporre le proprie idee e di diffonderle sia sull’isola, sia in Italia, dove i fogli maltesi venivano diffusi perlopiù in modo clandestino. 1 Oltre alle loro idee politiche, che trovarono terreno fertile nel ceto istruito e perfino in alcuni esponenti del clero, gli scrittori italiani introdussero sull’isola il romanticismo attraverso le proprie opere letterarie e teatrali, e indubbiamente anche attraverso i rapporti personali instaurati con i maltesi colti, non molto numerosi ma quasi tutti formatisi culturalmente e professionalmente presso le scuole e gli atenei italiani. Di conseguenza, l’ambiente letterario isolano, ancora legato ai modelli classicheggianti, scoprì grazie agli esuli una prospettiva nuova – quella appunto romantica – che permetteva agli scrittori maltesi di scoprire un linguaggio nuovo, più adatto alla nuova realtà venutasi a creare dopo gli sconvolgimenti derivanti dalla partenza dei Cavalieri, dalla breve e drammatica occupazione francese e dal successivo passaggio sotto la dominazione britannica nel breve arco di tre anni, dal 1798 al 1800. Il romanticismo italiano, caratterizzato da una forte componente patriottica, si attagliava perfettamente alle esigenze di quei maltesi che erano rimasti delusi dal modo in cui le autorità imperiali britanniche avevano rinnegato le promesse fatte agli isolani all’epoca dell’istituzione del protettorato su Malta, trattando invece la popolazione come se fosse una scomoda e tollerata presenza in quella che i dominatori consideravano esclusivamente come una fortezza militare. Nello specifico, il genere del racconto o romanzo storico permetteva di rievocare l’illustre passato dell’isola e gli eroi locali per accrescere nei maltesi un orgoglio patriottico che potesse essere diretto verso l’ottenimento dei diritti auspicati dalla popolazione, soprattutto quello della rappresentanza nell’amministrazione civile. L’avvicinamento dei maltesi alle opere dei romanzieri lombardi Manzoni, Grossi e Cantù, del toscano Guerrazzi e del piemontese D’Azeglio venne accompagnato dalla pubblicazione a Malta di tre romanzi storici scritti da Ifigenia Zauli Sajani, intitolati Gli ultimi giorni dei Cavalieri di Malta (1841), Il ritorno dell’emigrato (1842) e Beatrice Alighieri, racconto storico del secolo xiv (1847). Dieci anni dopo, Michelangelo Bottari iniziò la pubblicazione dei suoi racconti storico-patriottici in appendice al quotidiano da lui diretto, il « Corriere mercantile maltese » (Giammaria ovvero l’ultimo dei baroni Cassia, Blasuccio

Alagona, La sposa della Musta e Giorgio il Piloto). La Zauli Sajani e Bottari ambientarono alcune delle proprie opere a Malta, e ciò costituì un ulteriore sprone agli scrittori isolani per cimentarsi nel nuovo genere letterario. Difatti, a partire dal 1861 – anno di pubblicazione dell’Alessandro Inguanez di Nicola Zammit – vennero dati alle stampe diversi racconti storici a forti tinte patriottiche in lingua italiana. La produzione di racconti storici in italiano da parte di scrittori maltesi durò per mezzo secolo, fino alla pubblicazione di Notte di dolore da parte di Gaetano Gauci nel 1915. Il primo romanzo storico in maltese apparve invece nel 1878 (Toni Bajjada di Ġużè Muscat Azzopardi), inaugurando una lunga tradizione affievolitasi soltanto dopo l’ottenimento dell’indipendenza di Malta nel 1964. Il racconto storico-patriottico maltese in lingua italiana – così come quello in maltese – presenta le medesime caratteristiche del romanzo storico italiano. La vicenda viene collocata in un contesto storico turbolento, nel quale i patrioti reagiscono alle vessazioni degli stranieri che dominano l’isola a dispetto della volontà dei maltesi, che a loro volta vengono presentati come coraggiosi, umili e fortificati da una fede profonda. Nella trama viene inoltre inserita una storia d’amore, il cui esito più o meno felice viene condizionato dagli eventi storici in cui i personaggi si trovano coinvolti. In tale contesto, il capolavoro manzoniano aveva un ruolo preminente come modello sia narrativo che stilistico. Come osserva Oliver Friggieri, l’influenza dei Promessi sposi è identificabile nei romanzi maltesi « nella concezione, nel senso profondo della presenza di Dio nella storia, nella distinzione fondamentale tra buoni e cattivi, e nei vari aspetti della stilistica, particolarmente nel tono classicheggiante di alcune parti e di avviamento verso il realismo di altre ». 2 Il principale romanzo storico-patriottico maltese in lingua italiana, sia sul piano narrativo che su quello della caratterizzazione dei personaggi, è senz’altro Un martire. Romanzo storico maltese del secolo xvi di Ramiro Barbaro, pubblicato in Italia nel 1878. 3 Nato nel 1840 in un’antica famiglia nobiliare dell’isola, Barbaro crebbe a Napoli dove intraprese la carriera militare nell’esercito borbonico. In seguito allo sbarco di Garibaldi in Sicilia, egli tornò a Malta dove entrò ben presto in contatto con l’ambiente degli esuli liberali italiani. Si cimentò con grande entusiasmo nel giornalismo e nell’attività politica in seno alla fazione filo-liberale che si batteva per il riconoscimento dei diritti dei maltesi, e contro la propaganda legittimista e l’influenza politico-culturale della fazione vicina ai gesuiti. Nei primi anni Settanta dell’Ottocento, Barbaro era il personaggio politico più votato nelle elezioni per il banco di minoranza a cui avevano accesso i maltesi nel Consiglio di Governo, ed il giornale da lui diretto, il già citato « Corriere mercantile », aveva nel 1875 una circolazione di mille copie, una cifra davvero ragguardevole considerando l’esiguo parco lettori della stampa periodica in quell’epoca (cfr. « La Croce di  













1   Vedi Sergio Portelli, La stampa periodica in italiano a Malta, Malta, Malta University Press, 2010, p. 68 sgg.

2   Oliver Friggieri, La cultura italiana a Malta. Storia e influenza letteraria e stilistica attraverso l’opera di Dun Karm, Firenze, Olschki, 1978, p. 22. 3   Ramiro Barbaro, Un martire. Romanzo storico maltese del secolo xvi, Città di Castello, Lapi, Raschi e Co., 1878.

padre cristoforo a malta Malta », del 25 agosto 1875). Tuttavia, nel 1877 si trovò coinvolto in una serie di vicende giudiziarie intentate contro di lui dal governo e da altri personaggi noti per la loro vicinanza all’amministrazione coloniale, e decise di intraprendere la via dell’esilio volontario in Italia. Dopo aver lavorato come giornalista presso la « Gazzetta d’Italia » di Firenze, Barbaro vinse la cattedra di letteratura italiana all’accademia Humboldt di Berlino. Nella capitale tedesca egli intrattenne rapporti con numerosi intellettuali tedeschi e si dedicò anche alla produzione letteraria e alla pubblicazione di manuali per l’insegnamento della lingua italiana, pur mantenendo rapporti di collaborazione con giornali italiani e stranieri. Tornato a Malta nel 1912 per motivi di salute, rimase attivo negli ambienti culturali fino alla morte avvenuta nel 1920. 1 La vicenda di Un martire è temporalmente collocata tra il 1558 e il 1560, pochi anni prima del Grande Assedio di Malta operato dai Turchi nel 1565. Ne è protagonista Matteo Callus, un giovane medico leale e coraggioso caratterizzato da un forte amor di patria e da un profondo senso di amicizia. Per le sue qualità morali e il suo patriottismo si ritrova a capo di un gruppo di patrioti maltesi intenti a inviare al Re Filippo di Spagna un memoriale in cui si denunciano le angherie commesse dai Cavalieri ai danni della popolazione maltese. Matteo è innamorato della bella Imperia, figlia di un eminente patriota che in punto di morte esorta i fidanzati a unirsi in matrimonio. La ragazza cade però nelle mire di due personaggi malvagi, il traditore rodiota Gaspare Dallas e un suo amico-rivale, il giovane cavaliere francese Amaury di Vernon, noto libertino. Dallas, roso dall’invidia per essere stato rifiutato da Imperia, si finge amico di Matteo per introdursi nel gruppo dei cospiratori, e dopo il matrimonio dei due giovani maltesi denuncia i patrioti al Gran Maestro. Matteo viene arrestato e impiccato, Dallas viene ucciso dai patrioti per vendetta e Imperia fugge in esilio in Sicilia. Il Cavaliere di Vernon, da parte sua, viene ucciso da un marito maltese tradito. Barbaro scrisse il suo romanzo nel primo anno di volontario esilio in Italia, ancora fortemente amareggiato per il modo in cui lo scrittore riteneva di essere stato costretto ad allontanarsi dalla sua amata patria. Probabilmente prendendo spunto dal romanzo Il ritorno dell’emigrato di Ifigenia Zauli Sajani del 1842, in cui si racconta proprio di un esule maltese in Italia, lo scrittore isolano traccia un parallelismo tra la sua condizione di esule politico e l’allontanamento dei personaggi fuggiti dall’isola natìa. Difatti, tutto il romanzo costituisce un parallelismo tra l’episodio storico romanzato di Matteo Callus e la vicenda personale di Barbaro. L’autorità nel romanzo, ovvero la teocrazia dell’ordine dei Cavalieri di San Giovanni, viene paragonata all’amministrazione inglese nell’atteggiamento vessatorio tenuto nei confronti dei maltesi, di cui l’autore sottolinea il coraggio, la lealtà e la fede religiosa. Tale parallelismo viene evidenziato nell’appendice, nella quale Barbaro include ‘annotazioni e schiarimenti’ a beneficio dei lettori non maltesi. Un martire appartiene pertanto al filone patriottico del romanzo storico, rifacendosi in modo particolare al modello dell’Ettore Fieramosca di Massimo D’Azeglio, con il quale condivide quello che il Tellini definisce « l’entusiasmo per l’azione patriottica », il ritmo sostenuto del racconto e l’assenza di lunghe digressioni storiche. 2 Ciò nonostante, già ad una prima lettura, risaltano le affinità tra Un martire e i Promessi sposi in alcuni elementi della narrazione, nonché nella caratterizzazione di alcuni personaggi. Alcuni di tali elementi sono comuni ai romanzi storici dell’epoca : le digressioni storiche e  











1   Per una biografia più dettagliata si rimanda a Giulio Cesare Ferrari, Ramiro Barbaro di S. Giorgio (1840-1920), « Archivio storico di Malta », ix, 3, 1937, pp. 351-369. 2   Gino Tellini, Il romanzo italiano dell’Ottocento e Novecento, Milano, B. Mondadori, 1998, p. 41.  



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il paragone tra passato e presente, il ricorso all’analessi per fornire informazioni su personaggi nuovi, sul passato dei personaggi in modo da spiegare il loro comportamento e la loro funzione nel romanzo, oppure su eventi occorsi contemporaneamente o antecedentemente ad altri già narrati, e la presenza del narratore all’interno del romanzo per spiegare o per dare maggiore risalto a episodi o aspetti della vicenda. Tuttavia, in alcuni personaggi come Imperia, fra Giovanni e il Cavaliere di Vernon, così come in certi espedienti narrativi a cui si accennerà più avanti, i parallelismi con il capolavoro manzoniano non passano inosservati. A differenza dei fittizi protagonisti dei Promessi sposi, inseriti in un quadro storico e in avvenimenti realmente accaduti, quello del Barbaro è realmente vissuto, ma mancano totalmente gli elementi di contorno. Come nel caso del capolavoro manzoniano, anche nel romanzo maltese l’autore dichiara di prendere spunto da alcune fonti storiche da cui trae la vicenda, tra le quali vi è un manoscritto del Cinquecento di proprietà di un amico dell’autore. Nel documento si accenna a tale Matteo Callus, un medico impiccato dalle autorità isolane per aver cercato di spedire al Re di Spagna un documento a nome dei maltesi senza l’autorizzazione del Gran Maestro. Le notizie su questo tragico avvenimento sono scarse, e lo stesso autore cita altre fonti successive che fanno cenno all’accaduto senza fornire altri dettagli. Al luttuoso fatto storico viene intrecciata una vicenda sentimentale fittizia ed è proprio in tale intreccio che si possono osservare le affinità con il racconto manzoniano. Gli elementi narrativi in comune tra Un martire e i Promessi sposi sono facilmente identificabili nella trama : Matteo è il ‘promesso sposo’ di Imperia, una ragazza sulla quale getta lo sguardo il giovane cavaliere Amaury di Vernon. Protetto da suo zio, l’altolocato Balì di Vernon, Amaury vive in modo dissoluto e seduce diverse donne locali, fanciulle o sposate, nonostante il voto di celibato che da Cavaliere dell’Ordine gerosolimitano dovrebbe osservare scrupolosamente. Un giorno, il giovane cavaliere ha modo di notare la grazia della giovane Imperia e le si avvicina, ma la fanciulla se ne allontana pudicamente. Provocato dall’amico-rivale Gaspare Dallas e da altri giovani cavalieri debosciati durante una serata di grandi bevute, Amaury accetta la scommessa fatta dai compagni e decide di rapire Imperia. Man mano che si avvicina il momento del rapimento, Amaury comincia ad avere delle remore, ma il timore di essere fatto oggetto degli sbeffeggi degli amici lo convince a procedere nei suoi intenti, con l’aiuto interessato del Dallas. Il ratto di Imperia fallisce in quanto – durante la fuga – si imbattono nel cavaliere italiano Litta che risponde all’invocazione di aiuto della disperata Imperia, salvandola appena in tempo. Litta è un giovane cavaliere perdutamente innamorato di una ragazza maltese, un amore impossibile a causa del rifiuto delle autorità ecclesiastiche di scioglierlo dai voti religiosi. Le corrispondenze tra i personaggi principali del romanzo maltese e quelli del capolavoro manzioniano risaltano subito già ad una prima lettura : la promessa sposa Imperia ricorda la manzoniana Lucia, Matteo – il promesso sposo – ricorda Renzo, il cavaliere Amaury di Vernon, giovane rampollo aristocratico viziato e protetto, corrisponde a Don Rodrigo, il Balì di Vernon al Conte Zio. Sono immediatamente percepibili anche alcune affinità di tipo narrativo, tra le quali l’espediente dell’avvicinamento del malvagio che brama l’altrui promessa sposa. Infatti, così come nei Promessi sposi Don Rodrigo nota Lucia e le si avvicina (Capitolo iii), così capita a Imperia ben due volte. La prima quando il traditore Dallas cerca inutilmente di dichiararle il proprio amore (Parte Prima, Capo iii), e la seconda quando la giovane viene importunata dal Vernon, un approccio che si conclude con la scena grottesca del cavaliere preso per il collo e rinchiuso in una stanza dagli amici di Matteo (Parte Prima, Capo vi). Chiaramente ispirate al romanzo  



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manzoniano sono le motivazioni del giovane cavaliere libertino dietro al rapimento di Imperia : la resistenza pudica ma ferma della ragazza ai tentativi di sedurla da parte del Vernon rende quest’ultimo più deciso a vincere la scommessa fatta con i propri amici, soprattutto per il timore di essere deriso dai compagni se avesse rinunciato all’impresa (Parte Seconda, Capo i ; Parte Terza, Capo ii). Tali motivazioni ricalcano molto da vicino quelle di Don Rodrigo nei capitoli v, vi e xi del romanzo manzoniano. 1 Nel presente intervento tuttavia, intendiamo soffermarci sul personaggio di fra Giovanni, il frate francescano che aiuta spiritualmente e materialmente i due protagonisti e altri personaggi perseguitati nelle loro traversie. L’ispirazione per la figura del frate che si schiera apertamente dalla parte dei deboli e contro i prepotenti, e che si porta dietro il fardello di un errore giovanile, è identificabile nel personaggio manzoniano di fra Cristoforo, personificazione della carità cristiana e del sacrificio personale per il bene altrui. Nel romanzo del Manzoni, si fa menzione del personaggio di fra Cristoforo nel Capitolo iii, quando Lucia manda a chiamarlo per mezzo di fra Galdino. Fin da subito l’autore si premura di contrapporre fra Cristoforo al frate cercatore, ovvero – nelle parole del Russo – la « figura ieratica e solenne » del primo, a quella caratterizzata da « una innocenza che rasenta spesse volte il comico » del secondo. 2 Nel suo primo accenno diretto al personaggio, il narratore rileva subito il valore spirituale e la considerazione in cui era tenuto il frate : « nessun si pensi che quel Cristoforo fosse un frate di dozzina, una cosa da strapazzo. Era anzi uomo di molta autorità, presso i suoi, e in tutto il contorno ». 3 La presentazione del personaggio, quasi una difesa a priori da parte del narratore, è un espediente per creare una distinzione qualitativa tra fra Cristoforo e fra Galdino. Quest’ultimo, che nelle parole di Russo « rappresenta la parte più ingenua e il candido egoismo » 4 del mondo conventuale secentesco che premette la propria sopravvivenza ad ogni altra considerazione, funge da contrasto con la figura di fra Cristoforo, che il lettore vedrà essere caratterizzata da una carità sorretta da una totale abnegazione di sé. Fra Cristoforo appare nel romanzo nel Capitolo iv, mentre lascia il convento di Pescarenico dirigendosi verso la casa di Lucia. Il Manzoni però interrompe la narrazione per fornire una descrizione fisica e per raccontare il passato del personaggio, una digressione analettica che occupa il resto del capitolo, gettando luce sulla figura del frate e ‘intrattenendo’ il lettore mentre fra Cristoforo raggiunge la propria destinazione. In questo modo, già dal Capitolo iv il lettore si trova fornito degli elementi necessari per capire il comportamento del frate nelle vicende in cui sarà coinvolto nel romanzo. In realtà, il carattere e la personalità di fra Cristoforo emergono fin dalla suddetta descrizione fisica, grazie alla felicissima metafora dei cavalli bizzarri per illustrare i lampi di fierezza nello sguardo del frate : « Due occhi incavati eran per lo più chinati a terra, ma talvolta sfolgoravano, con vivacità repentina ; come due cavalli bizzarri, condotti a mano da un cocchiere, col quale sanno, per esperienza, che non si può vincerla, pure fanno, di tempo in tempo, qualche sgambetto, che scontan subito, con una buona tirata di morso ».5  





























1   Per un’analisi comparativa tra i personaggi di Imperia e Lucia vedi Sergio Portelli, I Promessi sposi a Malta : l’influenza su Un martire di Ramiro Barbaro di San Giorgio, in Tempo e memoria nella lingua e nella letteratura italiana. Atti del xvii Congresso a.i .p.i . (Ascoli Piceno, 22-26 agosto 2006), ii, Associazione Internazionale Professori d’Italiano, 2009, pp. 257-269 (pubblicazione ipertestuale nella seguente pagina web : http ://www.infoaipi.org/attion/ ascoli_vol_2.pdf – ultimo accesso 14 dicembre 2010). 2   Luigi Russo, Personaggi dei Promessi sposi, Roma-Bari, Laterza, 20025, p. 336. 3   Per le citazioni dal testo ci si è avvalsi dell’edizione : Alessandro Manzoni, I Promessi sposi, a cura di Lanfranco Caretti, Milano, Mursia, 1987. La citazione specifica è tratta da p. 64. 4   Luigi Russo, Personaggi dei Promessi sposi, cit., p. 336. 5   Alessandro Manzoni, I Promessi sposi, cit, p. 67.  







Il personaggio di fra Giovanni appare fugacemente per la prima volta nel romanzo maltese nel Capo ii. Lo troviamo al capezzale del padre di Imperia, il patriota Paolo Cassar, che si trova in punto di morte. Tuttavia, l’autore si limita a rilevare, accanto al letto del moribondo, la presenza di « un vecchio frate, intento a mormorare all’orecchio dell’agonizzante le parole di pace e di perdono, con cui la chiesa cristiana suol consolare gli ultimi istanti del fedele ». 6 In un primo momento sembra si tratti di una figura marginale, un personaggio anonimo inserito sullo sfondo della vicenda. Tuttavia, il personaggio riappare all’inizio del Capo iv come superiore di « tre o quattro frati » che prestano servizio nell’ospedale del sobborgo della città capitale, e che abitano nel convento adiacente di San Francesco. Fra Giovanni viene presentato come « un santo vecchierello, tutto inteso al servizio di Dio ed al bene del prossimo – un cuore pio e misericordioso ». 7 È tenuto in grande rispetto dai fedeli per la sua santa vita ; in tanti lo cercano per riceverne direzione spirituale e conforto nelle loro tribolazioni. Eppure – a differenza dell’inquieto fra Cristoforo manzoniano, perennemente in lotta contro la propria indole – fra Giovanni si presenta come un sereno pastore di anime nell’immagine del vecchio frate seduto alla porta del convento a godere i raggi del sole, attorniato da bambini a cui non fa mancare un « atto affettuoso e scherzevole ». L’immagine che ne dà l’autore è quella di « un patriarca, quale ce lo fanno supporre i Sacri Libri ». Fra Giovanni è un uomo di Dio « col sorriso della bontà sulle labbra, con quell’aria santamente gioviale, che lo rendeva gradito ad ognuno ». 8 Barbaro accenna a non meglio precisate amare esperienze nel passato del frate (« Il dabben uomo, alieno dalle ambizioni di questo mondo in cui pare avesse trovato, negli anni della giovinezza, disinganni e dolori senza fine, a altro non pensava, se non al bene altrui » 9), ma non vi si sofferma. Tuttavia, fra Giovanni presenta anche dei tratti in comune con il frate cappuccino del Manzoni. Entrambi i personaggi riescono a stento a domare i propri moti di fierezza e a mantenere un contegno umile consono alla propria vocazione spirituale. Per mettere in risalto tale aspetto caratteriale del suo personaggio, Barbaro fa riferimento allo sguardo del frate a imitazione del Manzoni, benché non riesca a svilupparla altrettanto felicemente. Nella sua presentazione di fra Giovanni, l’autore maltese fa riferimento agli occhietti « vivaci e modesti » del vecchio frate, ma quando quest’ultimo reagisce alle parole arroganti del traditore Gaspare Dallas sull’importanza preminente del denaro, « un lampo di fierezza » gli appare negli occhi. Subito dopo, però, « egli si ricompose presto alla solita espressione di mansuetudine ». 10 Un altro tratto che accomuna fra Giovanni a fra Cristoforo è l’abnegazione nella cura delle anime. Il frate manzoniano non solo è un predicatore rinomato, ma si pone concretamente al servizio degli umili e dei bisognosi noncurante della propria fragilità fisica. Egli accorre senza indugio da Lucia nel Capitolo iv, entrando nell’impegno di aiutare i promessi sposi a superare le difficoltà presentate dalla prepotenza di Don Rodrigo. Fra Cristoforo non si limita alla funzione di direttore spirituale e di consigliere, ma si adopera in prima persona ad aiutare i giovani sventurati, prima andando personalmente da Don Rodrigo ed esponendosi all’arroganza di quest’ultimo, poi organizzando la fuga a Monza di Lucia e Agnese. Tuttavia, è a partire dal Capitolo xxxv che il frate manzoniano raggiunge il culmine della sua vita al servizio dei deboli. Lo troviamo mentre si prodiga instancabilmente nel lazzaretto di Milano tra infermi e moribondi, « il portamento curvo e stentato ; il viso scarno e smorto », esausto e malfermo, ma determinato a compiere la propria missione di frate cappuccino  















































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  Ramiro Barbaro, Un martire, cit., p. 18. 9   Ivi, p. 92.   Ivi, p. 29.

  Ivi, p. 28.   Ivi, p. 31.

padre cristoforo a malta fino in fondo. Nonostante la debolezza fisica che lo condiziona, fra Cristoforo mantiene intatta la propria forza morale e la propria tensione verso la santità, ben consapevole dell’approssimarsi della morte ma anche dell’ottenimento della grazia lungamente chiesta a Dio di finire i suoi giorni « in servizio del prossimo ». 1 Egli ha un ruolo centrale nell’esito positivo della vicenda di Renzo e Lucia : facilita il ritrovamento di Lucia da parte di Renzo, aiuta quest’ultimo a liberarsi dal peso del sentimento di odio nei confronti di Don Rodrigo attraverso il perdono, e scioglie Lucia dal voto fatto alla Madonna nello stato di angoscia che l’aveva pervasa nel castello dell’Innominato. Il suo percorso di vita si conclude in umiltà e in santità nel lazzaretto entro i limiti temporali della narrazione, ed è appropriato che sia Lucia – il personaggio che rappresenta l’ideale cristiano come concepito dal Manzoni – a darne notizia a Renzo (e al lettore) nel Capitolo xxxviii. Il personaggio di fra Giovanni nel romanzo maltese dimostra la medesima disponibilità al sacrificio di sé che caratterizza il fra Cristoforo manzoniano. In fra Giovanni, al già menzionato aspetto patriarcale viene abbinata l’umiltà propria dell’uomo di Dio, sempre schierato dalla parte dei deboli e degli oppressi attraverso il servizio offerto in prima persona :  







Fare il bene pel bene, e non curarsi delle conseguenze : ecco la divisa dell’ottimo vecchio. Il quale, non guardando nemmeno a disagi, intollerabili all’età sua, anche nottetempo accorreva al capezzale dei moribondi, per porgere loro, all’ultimo istante, il viatico della parola consolatrice di Dio, e per soccorrere di consiglio e di mezzi i superstiti. 2  

Difatti, come già visto, il frate maltese appare nel romanzo per la prima volta al capezzale del moribondo Paolo Cassar, padre di Imperia. Inoltre, come fra Cristoforo, egli non esita ad andare contro la volontà dei potenti per proteggere i perseguitati. Come il frate del convento di Pescarenico aiuta Renzo, Lucia e Agnese a sfuggire a Don Rodrigo dopo « la notte degl’imbrogli e de’ sotterfugi » (Capitolo viii) nei Promessi sposi, così fra Giovanni nasconde nel proprio convento il giovane patriota Paolo Xara, appena fatto fuggire di prigione dove era tenuto senza processo per aver osato criticare l’amministrazione dei Cavalieri. Nel Capo v della Parte Seconda, il vecchio religioso maltese non esita a mettere a repentaglio la propria vita quando Dallas e i ‘birri’ del Capitano della Verga irrompono nel convento alla ricerca del fuggiasco. Ciò nonostante, quando il tentativo del traditore fallisce ed egli – assieme ai ‘birri’ – cade nelle mani del popolo accorso in aiuto dei frati, fra Giovanni ricorre alla propria autorità morale per proteggere i malvagi dal linciaggio. La debolezza fisica del frate (« sulla soglia comparve fra Giovanni Cuzcheri, sorretto da altri frati ») costituisce un netto contrasto con la sua autorità spirituale :  









– Chi è che osa profanare – egli gridò – la magione dell’Altissimo ? […] Alla voce dell’uomo venerato, tutte le teste si piegarono, tutti gli occhi divennero ossequiosi – imperocchè le passioni, dato luogo al rispetto ed alla prudenza, si erano calmate quasi per incanto. I popolani piegarono il ginocchio. Nel tempio di Dio, regnò profondo silenzio. 3  

La drammatica esperienza vissuta durante l’irruzione debilita fra Giovanni tanto che il sant’uomo si ritrova in punto di morte. Curato dal protagonista del romanzo, il medico Matteo Callus, egli si riprende e torna a donare se stesso in carità al servizio degli altri. Tuttavia, la presenza del personaggio nella terza ed ultima parte del romanzo diminuisce notevolmente. Fra Giovanni è presente in tre momenti importanti della 1

  Alessandro Manzoni, I Promessi sposi, cit., p. 553.   Ramiro Barbaro, Un martire, cit., p. 112.   Ivi, p. 127.

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vicenda specifica di Matteo e Imperia ; egli celebra le nozze tra il patriota e la sua promessa sposa (Capo iv), è presente durante l’arresto di Matteo (Capo vii), e infine accompagna Imperia a visitare Matteo in carcere nel Cap. viii. Da quel momento in poi, il personaggio viene del tutto accantonato e – a differenza di quanto accade per fra Cristoforo nel capolavoro manzoniano – il lettore non ne viene a sapere più nulla. Fra Giovanni adempie così ai propri ruoli di guida spirituale, di soccorritore dei perseguitati e di consolatore degli afflitti, ma il suo personaggio non ha nulla della profondità e della complessità del fra Cristoforo dei Promessi sposi. Di conseguenza, la sua vicenda personale non necessita di uno sviluppo in senso compiuto, come il percorso verso la santità del personaggio manzoniano descritto dalla conversione in gioventù fino alla morte in servizio degli altri ottenuta come premio ambìto di una vita. La differenza nell’importanza dei due protagonisti nella narrazione dei rispettivi romanzi emerge anche dalla natura del loro ‘giovanile errore’. Il personaggio del frate nel romanzo storico è spesso caratterizzato da un passato turbolento che l’autore rende sovente funzionale alla vicenda narrata. Così, fra Cristoforo nei Promessi sposi si fa frate cappuccino dopo aver ucciso il signore « arrogante e soverchiatore di professione », fra Buonvicino entra nell’ordine degli Umiliati dopo essere stato rifiutato da Margherita Pusterla nell’omonimo romanzo del Cantù, e fra Mariano si rifugia nel convento domenicano di Barletta dopo essere stato un seguace del Savonarola nell’Ettore Fieramosca del D’Azeglio. Il fra Giovanni di Ramiro Barbaro ha anch’esso un passato doloroso alle spalle, che lo sprona a fare del bene al prossimo. Il passato del frate maltese viene inserito nel romanzo in modo differente rispetto ai personaggi dei romanzi italiani sopra menzionati. In questi ultimi, infatti, i fatti riguardanti i religiosi vengono esposti dal rispettivo narratore non appena vengono introdotti nella vicenda narrata attraverso il procedimento dell’analessi interna eterodiegetica, in cui viene narrata una storia il cui contenuto diegetico è diverso da quello della narrazione principale. 4 Al passato di Fra Cristoforo è dedicato l’intero Capitolo iv dei Promessi sposi, mentre alla delusione sentimentale e alla successiva conversione di fra Buonvicino il Cantù dedica due capitoli interi, il secondo e il terzo del Margherita Pusterla. Decisamente più breve – appena due paragrafi – è l’accenno al passato di fra Mariano nel romanzo del D’Azeglio. Barbaro, invece, utilizza un procedimento narrativo diverso, ovvero quello dell’analessi mista. Egli infatti fa narrare il passato direttamente al personaggio dopo l’episodio dell’irruzione dei ‘birri’ nel convento, nel Capitolo vii della Parte Seconda. 5 Inoltre, la vicenda del frate si estende e si conclude nel tempo della narrazione principale. Sentendosi ormai prossimo alla morte dopo le traversie della notte dell’irruzione, fra Cristoforo racconta il proprio segreto al medico Matteo Callus. Brevemente, si tratta di una storia d’amore giovanile in cui Giovanni, innamorato perdutamente di una ragazza di nome Dolores, scopre che quest’ultima ama invece Publio Xara, padre del già menzionato Paolo ricercato dai ‘birri’. Accecato dalla gelosia, Giovanni tenta di pugnalare il rivale ma accidentalmente colpisce Dolores, ferendola alla spalla. Dopo tre anni di prigionia, Giovanni entra in convento e prende i voti. A questo punto, il vecchio frate fa leggere a Matteo una lettera mai aperta scrittagli da Dolores quindici anni prima. Il messaggio della donna, nel frattempo morta, è una richiesta di perdono in cui raccomanda se stessa e i suoi due figli alle preghiere di Giovanni, che da parte  





4   Cfr. Gérard Genette, Narrative Discourse. An Essay in Method, trad. Jane E. Lewin, Ithaca, Cornell University Press, 1983, p. 50 sgg. 5   Si tratta del capitolo che inizia a pagina 151, che sarebbe in realtà l’ottavo della seconda parte visto che due capitoli precedenti, che iniziano rispettivamente a pagina 136 e 147, portano erroneamente una numerazione identica.

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sergio portelli

sua scoppia in un lungo pianto. La vicenda raggiunge il suo compimento con l’arrivo del vecchio rivale che – saputo delle gravi condizioni del frate – viene a chiedere anch’egli il suo perdono. I due si abbracciano commossi e si salutano per l’ultima volta. L’introduzione dell’analessi patetico-sentimentale nella narrazione principale di Un martire è del tutto estranea al tono e allo scopo del capolavoro manzoniano. Essa infatti è collegabile piuttosto al modello offerto dal Cantù nel Margherita Pusterla, il romanzo storico italiano più marcatamente patetico tra quelli sopra citati. Tuttavia, nel personaggio e nella vicenda di fra Giovanni emerge il procedimento attraverso il quale Barbaro attinge e mette insieme diversi elementi dai

propri modelli per arricchire il racconto. Egli parte dal modello manzoniano di fra Cristoforo per poi svilupparlo secondo la propria sensibilità artistica, inserendovi l’elemento sentimentale che era ormai diventato irrinunciabile nel romanzo storico italiano di metà Ottocento. È soprattutto per tale procedimento che Un martire va considerato un’opera di primaria importanza nell’ambito della letteratura comparata italo-maltese. La popolarità del romanzo di Barbaro nella versione originale e nella traduzione maltese ha fornito agli scrittori isolani che nei decenni successivi si sono cimentati nel racconto storico-patriottico, un modello locale, ispirato a sua volta ai modelli italiani, al quale hanno attinto fino a ben oltre la metà del Novecento.

ROBERTO SACCHETTI E IL SUO ROMANZO RISORGIMENTALE ENTUSIASMI Giuseppe Farinelli 1. Roberto Sacchetti



R

ob erto Sacchetti, la cui famiglia era originaria di Montechiaro d’Asti, nacque a Torino il 7 giugno 1847. Cresciuto nel decennio di preparazione ai moti risorgimentali sfociati nella costituzione dello Stato unitario, seguì come volontario Garibaldi durante la campagna del Trentino del 1866. Trascorse la sua breve ma intensa vita culturale tra la città natale, da lui chiamata, con comprensibile esagerazione, « la Mecca d’Italia », Napoli, dove conseguì la laurea in Giurisprudenza, Milano e Roma. Fece all’inizio esperienza professionale a Torino nello studio legale di Giacinto Giacosa, padre di Giuseppe, con il quale fu assiduo alla Dante Alighieri, un circolo che sorse per iniziativa di Baldassarre Cerri e che teneva le riunioni pubbliche nella sala dell’anfiteatro clinico di San Francesco da Paola. Lì Sacchetti, con altri giovanissimi addottorati di fresco, mostrò di voler essere più amante dell’arte che dell’attività avvocatesca, discutendo assiduamente di teatro, di letteratura e di pittura. Luigi Capuana ricorda che egli in quel tempo « ragionava così nebulosamente di estetica trascendentale » da non riuscire poi a capire ciò che lui stesso aveva scritto e detto. 1 Stabilitosi a Milano dopo la morte dei genitori e abbandonato completamente il precedente lavoro, si diede con moderazione alla politica (Sacchetti, certo, non può essere considerato un appartenente alla Scapigliatura democratica, sebbene fosse per nulla estraneo alle prime avvisaglie della questione sociale e fosse altresì lontano da ogni linea ottusamente reazionaria), al giornalismo e alla letteratura, non nascondendo a nessuno la sua predilezione per Balzac. In un suo articolo dal titolo L’epistolario di Balzac, pubblicato sulla « Illustrazione italiana » del 21 gennaio 1877, definì senza mezzi termini il romanziere francese unico nel suo genere, incredibilmente operoso e interamente consacrato all’arte. A Roberto Sacchetti si deve la Vita letteraria a Milano (1881), uno dei più affettuosi e arruffati resoconti della Scapigliatura in cui, stabiliti e accettati i diritti di primogenitura di Cletto Arrighi, si sottolineano i rapporti di Praga e Boito con alcuni autori piemontesi e contestualmente viene tentata una delle prime sistemazioni storiche del movimento. Confinante con il giardino dei conti Cicogna c’era, sempre a Milano, un’ ortaglia che si chiamava il Vivaio, dove veramente si riuniva un vivaio, sono parole dello stesso Sacchetti, « d’intelligenza e d’avvenire ». Soprattutto nei suoi anni milanesi, spinto anche da necessità familiari, si sottopose a un lavoro snervante : fu cronista teatrale e giudiziario, corrispondente, acuto autore di profili di personalità famose (ho sottocchio, per esempio, il profilo di Carlo Botta, rappresentante di quella letteratura civile, che ebbe il merito « di scoprire l’Italia »), 2 biografo, critico, recensore e narratore. Sorvolando le puntuali osservazioni di Sacchetti su Valsolda di Fogazzaro, su Tre racconti di De Amicis, su Racconti e scene di Farina e su Eros di Verga, non giudicata « immorale », 3 merita almeno un accenno, stando ai suoi interventi più piccoli da nessuno ricordati, quanto egli ebbe a sottolineare di Alessandro Dumas, perché è speculare  

























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  Luigi Capuana, Rassegna letteraria, « Corriere della sera », 1-2 dicembre 1879. 2   Roberto Sacchetti, Carlo Botta, « Nuova illustrazione italiana », 12 settembre 1875. 3   Rispettivamente su « Il Pungolo » del 14-15 febbraio 1876, del 6-7 maggio 1876, del 16-17 giugno 1878 e sulla « Rivista minima » del 21 marzo 1875.  















al suo modo di intendere il lavoro del letterato che « deve dire la verità, tutta la verità e dirla con garbo », anche se tratta « le passioni, i vizi, i caratteri e i problemi sociali » ; il letterato deve altresì essere ben attento a non escludere « dalla scena certi personaggi e certi costumi che hanno ed avranno una così grande influenza sul mondo contemporaneo ». 4 Che Sacchetti appartenesse alla schiera dei romanzieri veristi o avesse, se non altro, un indirizzo verista fu già allora ammesso da Felice Cameroni, per sua natura non tenero verso i chiari di luna e le sdolcinature sentimentali, e da Eugenio Torelli Viollier. Il quale, sotto lo pseudonimo di Doctor Minimus, lo ‘inchioda’ con una definizione che a me pare azzeccata : vero realista, che « s’introduce anche lui in luoghi scabrosi », pur restando « un compagno di garbo ». 5 C’è qui da osservare che Sacchetti dimostrò in ogni occasione una sensibilità innata, uno spiccato senso della misura, una rara considerazione per l’amicizia che raggiunse punte di disinteressato affetto. Basta leggere il suo commosso ricordo del povero Emilio Praga, conosciuto a Torino, che vedeva girare per Milano « meditabondo » e che ascoltava mentre commentava i suoi schizzi « con profonda eloquenza », le sue caricature, i suoi disegni, le sue vignette e i suoi acquerelli. 6 E basta leggere, in aggiunta, il suo più articolato ricordo di Tranquillo Cremona :  































Il pittore che ieri abbiamo perduto era un grande e profondo artista. […] La sua originalità non era bizzarria, ma un intimo ideale […]. Cremona mi disse una volta d’essersi fatto sullo studio dei pittori veneziani. Forse dell’antica scuola veneta egli prese una sola cosa : il modo di modellare, di avviluppare con delle successive, infinite velature il primo abbozzo. In ciò stava il segreto di quella sua insuperabile trasparenza di tinte ; ma sotto l’epidermide delle sue figure correva il sangue, palpitava la vita e sfolgorava l’idea. I suoi intimi sanno quanto gli costassero i suoi quadri. Egli se ne separava sempre malvolentieri : se lo lasciavano fare li teneva degli anni sul cavalletto. Ecco perché i suoi lavori pagati eccezionalmente, lo erano appena quanto bastava per ripagarlo dalle spese. Questo ignoravano coloro che proverbiavano sul suo trascurato vestire e lo chiamavano bohémien : ignorando il sacrificio della sua vita e illusi dalla piacevolezza del suo carattere, credevano che egli si compiacesse del disordine. […] La vera ragione di questa estrema semplicità non era il cinismo ; ma la povertà. Una povertà che egli prendeva con una serenità grande, perché la sua vera vita, i suoi veri bisogni erano tutti nell’arte, un arte ideale sempre volta al bello perfetto. […] In Italia tutti dal più al meno siamo un po’ aristocratici : e la bohème da noi il più delle volte non è altro che rassegnazione alla povertà. 7  











Non a caso ho abbondato nella citazione, perché in specie nella parte finale c’è la traccia con la quale Sacchetti conduce i personaggi principali dei suoi due romanzi : Cesare Mariani ed Entusiasmi. In questi due romanzi a giocare in campo aperto c’è l’ideale di un’arte senza compromessi che non ti dà scampo. Se vuoi seguirlo ad ogni costo devi caricarti del peso della povertà se non della miseria. Altrimenti, per vivere, ti tocca  

4   Roberto Sacchetti, Il discorso di Alessandro Dumas all’Accademia, « Il Pungolo », 16 febbraio 1875. 5   Doctor Minimus, Conversazione letteraria, « Illustrazione italiana », 21 aprile 1878. 6   Roberto Sacchetti, Chiacchiere, « Il Pungolo », 3-4 aprile 1876. Fu proprio lui, che assistette Praga nei suoi ultimi giorni, a portare a termine il romanzo Le memorie del presbiterio, che sarebbe poi stato pubblicato sullo stesso giornale. 7   Roberto Sacchetti, Tranquillo Cremona, « Il Pungolo », 11-12 giugno 1878.  















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giuseppe farinelli

fare il ‘mestiere’, correre di qua e di là, sottometterti alle esigenze degli altri. Lo sapeva bene lo stesso Sacchetti, che letteralmente si consumò al tavolo del lavoro letterario o nelle redazioni dei giornali per mantenere la sua famiglia. L’ideale dell’arte lo mantenne per Leopoldo e per Guido (li conosceremo fra poco), che però sappiamo come sono finiti. La critica, e alludo in particolare al parere di Gaetano Mariani, 1 si è chiesta se il Sacchetti possa essere annoverato tra gli scapigliati, dando poi una risposta non positiva, condivisa per di più da Calogero Colicchi, 2 il più attento curatore di Entusiasmi. Non sono di questo parere a meno che si parli di una Scapigliatura senza specificazioni, che è di per sé un’astrazione o al massimo una caotica associazione di nomi, inclusi negli elenchi di una eterogenea cooperativa, che la divulgazione letteraria ha portato fino a noi. Tanto per essere chiari Sacchetti non può essere inserito, lo ripeto, nella Scapigliatura democratica, quella del duro impegno politico e della contestazione, che per consuetudine storica è stata articolata, pur con i pericoli della schematizzazione, in libertaria o refrattaria o perduta (Pinchetti, Bizzoni e Cameroni), in costituzionale (Cavallotti, Ghinosi e Billia) e in ideologica (Valera). Può però essere inserito, anzi deve, nella Scapigliatura-bohème, costruita sulla delicata falsariga di Murger, quella insomma ‘Ufficiale’, che prevede nei suoi ranghi un giovane né violento, né isolato, né « bevitore d’acqua », cioè chiuso nel suo ideale e di esso tanto orgoglioso da restare insensibile ai piaceri di questo mondo (tali saranno i già citati Leopoldo e Guido, creati dallo stesso Sacchetti e spenti nella valle delle disillusioni e delle sofferenze), né dilettante ricco, raggelato per assaggio nelle fredde stanze di soffitta, ma un giovane attivo, noto nell’ambiente artistico, ambizioso, incurante del lusso, teso al successo con passione e dedizione. Questa Scapigliatura-bohème non porta al fallimento o alla tragedia ; prelude, anzi, all’accademia nel senso che lo scapigliato-bohémien, dopo aver speso il credito della giovinezza, rientra nei ranghi della società e del vivere comune. È appunto il caso, con i dovuti accorgimenti critici, di Sacchetti, come è il caso di Boito, di Farina, di Fontana, di Dossi, di Perelli, di Barbieri e di Ghislanzoni. La distinzione tra le due Scapigliature non è campata per aria, come ho dimostrato altrove 3 e come attentamente già allora la avvalorarono giornalisti della statura di Filippi, di Fortis e di Torelli Viollier. Ci sarebbe anche, per la precisione, una Scapigliatura ‘fallita’ o ‘sfortunata’, che conduceva all’ospedale o all’obitorio. Nelle righe di striminziti necrologi si concedeva a simile Scapigliatura un tardivo perdono, la remissione dei peccati, la commiserazione verso esistenze sciupate : « povero Tarchetti », « povero Rovani », « povero Praga », « povero Uberti ». È indubbio che Sacchetti non solo visse il clima della Scapigliatura a cominciare dal suo periodo napoletano e torinese : ne subì gli influssi, non disdegnò di stemperare sulla pagina i colori del realismo, fu compagno di una generazione scapigliata che non vide tramontare, perché la morte lo colse nei suoi anni migliori. Una affettuosa memoria di lui, stroncato dal tifo il 26 marzo 1881 (e lascio stare quelle altrettanto affettuose di Giovanni Faldella e di Giuseppe Giacosa che accorse al suo capezzale), fu dettata da Leone Fortis che lo ebbe caro e che non è possibile perdere :  



























Povero Sacchetti ! Anche lui ! Così giovane ! Un altro amico che abbiamo perduto, un altro lutto pel nostro giornale e per me un altro dolore quasi domestico. […] Aveva trent’anni, lascia una famiglia che adorava, a cui aveva consacrata intera la sua vita modesta, laboriosa e onesta. […] Lo abbiamo avuto compagno fedelissimo, affettuosissi 





mo per cinque anni nella direzione del «Pungolo» e il giorno in cui ci siamo separati, perché egli cedeva alle lusinghe purtroppo non fedeli di un migliore avvenire, sapevamo io e lui che questa separazione non divideva le nostre anime. […] Egli portava in ogni questione una nota serena, un consiglio retto, tranquillo, confortatore. Letterato colto, scrisse novelle e romanzi pieni di cuore e di fantasia. Critico d’arte, amava il progresso delle nuove idee, ma serbando intatto il culto delle grandi tradizioni artistiche del passato. Pubblicista politico, la sua politica riassumeva in un affetto ardentissimo, che lo serbava imparziale e sereno anche fra il battagliare dei partiti, l’amore per l’Italia, la fede nel suo avvenire. Lavoratore assiduo, instancabile per l’affetto immenso che portava alla sua famiglia, sapeva trarre dal lavoro le compiacenze del dovere compiuto e di un sentimento appagato. Venne a Milano ignorato, peritoso, timido e dopo cinque anni [a Roma fu corrispondente della « Gazzetta piemontese »] ne partì amato e stimato da tutti […] e questo ottenne con due virtù che rare volte danno la fama : la modestia e la laboriosità. 4  



Sacchetti collaborò, a volte con lo pseudonimo di Giunio, a molti giornali e riviste, come la « Gazzetta letteraria », l’« Illustrazione letteraria », « L’Illustrazione popolare », « Il Momento », « Il Pungolo », la « Rivista minima », « Il Risorgimento di Torino », di cui fu direttore, il « Museo di famiglia », le « Serate italiane », « La Perseveranza » e la « Gazzetta piemontese », per la quale lasciò Milano per Roma. Fu l’autore di due volumi di racconti, Tenda e castello (1878), di tendenza garbatamente verista e patetico-sociale, e Candaule. Vigilia di nozze. Riccardo il tiranno. Da uno spiraglio (fra i critici di area non scapigliata lo recensirono Matilde Serao sulla « Gazzetta illustrata » il 6 aprile 1879 e Luigi Capuana sul « Corriere della Sera » il 9-10 giugno). Dei tre romanzi che Sacchetti scrisse, Cesare Mariani (1876), Vecchio guscio (1879) ed Entusiasmi (1881, postumo) mi dedico in particolare a questo per le sue implicazioni risorgimentali, dopo aver sostato un poco sui primi due a cominciare dal secondo, perché il primo ha chiare coincidenze tematiche con l’ultimo. In Vecchio guscio la rappresentazione di beghe paesane, di intrighi familiari e di matrimoni osteggiati si svolge in prevalenza a Murialdo d’Asti, che è la sede originaria di una numerosa schiera di personaggi rozzi come Placido o solitari come Camillo. Nelle intricate vicende spicca Anna, bella e sensitiva, una piccola Bovary, mite e insieme testarda, che dedica la sua esistenza all’amore intensamente desiderato. Il romanzo manca di rielaborazione anche se la scrittura si fa di pagina in pagina più sciolta ; da questo lavoro affiora comunque un quadro reale e fedele del Piemonte ottocentesco, campagna e città, nelle quali vive senza pace gente del popolo, della borghesia e della nobiltà decaduta con i suoi problemi quotidiani e con la sua piccola storia inumata nel privato e già rassegnata all’oblio. In Cesare Mariani, ambientato a Napoli (certe descrizioni della città e dei suoi abitanti echeggiano alla lontana quelle stupende di Renzo Striano che leggi nel romanzo Il resto di niente) ed evocativo di quella Bohème letteraria che si raccoglieva nei caffè vicino ai teatri, c’è la tragedia del genio che avverte su di sé la solitudine sociale ed esistenziale – è questo un tema non isolato : lo si vede, per esempio, nel romanzo quasi coevo Povera vita ! di Cesare Donati –. Ma, mentre Cesare, di fronte all’assedio delle difficoltà economiche e all’impatto con le effettive esigenze del vivere giornaliero, rese più pesanti dal matrimonio a cui non basta la promessa di un amore perenne condito con pane e cipolla, cerca in verità con ben  







  Gaetano Mariani, Storia della Scapigliatura, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1967, p. 539. 2   Calogero Colicchi, Introduzione, in Roberto Sacchetti, Entusiasmi, Bologna, Cappelli, 1968, p. 7. 3   Giuseppe Farinelli, La Scapigliatura. Profilo storico, protagonisti, documenti, Roma, Caroccci, 2003.



















































4   Leone Fortis, Roberto Sacchetti, « Il Pungolo », 27-28 marzo 1881. Per una puntuale fonte di notizie sul nostro autore cfr. Rosetta Sacchetti, La vita e le opere di Roberto Sacchetti, Milano, Treves, 1922. Indispensabile, per le intelligenti annotazioni storiche, critiche e bibliografiche è anche il lungo capitolo, dal titolo Roberto Sacchetti : la lezione della storia, che Zaccaria dedica a Sacchetti : Giuseppe Zaccaria, Tra storia e ironia. “Regione” e “Nazione” nella narrativa piemontese postunitaria, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1981.  

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roberto sacchetti e il suo romanzo risorgimentale entusiasmi poca voglia, forse non comprendendo appieno che è saggezza tentare solo il possibile, un lavoro a scapito del suo puro concetto dell’arte, Leopoldo, il secondo protagonista, fa di questo puro concetto l’unico suo mito che, in quanto tale, non può essere offuscato da compromessi. Fatalmente l’indole romantica spinge Leopoldo al suicidio, consumato dal male dell’arte, dimentico dell’ammonizione di Goethe, che la riteneva soltanto una serena compagna della vita, e impreparato ad affrontare le delusioni derivanti dall’incomprensione della gente e, con più dolore e stupore, della madre, ciecamente ostile nella sua previdenza pecuniaria a ogni vocazione artistica. Cameroni, che riteneva Sacchetti un esponente della scuola del Bersezio, del Farina, del Barrili e del Carcano, senza però le sue svenevolezze, recensendo Cesare Mariani sul « Sole » del 5-6 giugno 1876, lo giudica discendente da « quel capolavoro di osservazione inesorabile e sconfortante, che ha per titolo Un jeune homme de province à Paris » di Balzac, e dal famoso romanzo di Murger (su un’altra sponda sono invece I refrattari di Vallès « pallidi, muti, dimagrati, battenti con le ossa dei loro martiri una marcia funebre »). Non solo : rimarca che l’opera dell’autore piemontese era la prima, ad eccezione di quella di Ghislanzoni dedicata agli artisti da teatro, a riprodurre con cura e precisione giornalisti, narratori, poeti, pittori e musicisti scapigliati quali effettivamente circolavano agli inizi dello Sato unitario. Certo, se in Cesare Mariani c’è per Cameroni una spiccata tendenza alla tristezza « nei caratteri, nelle situazioni e nella scelta dei colori », essa non degenera mai in stucchevoli querimonie o in convenzionali e interminabili lamenti. Sacchetti portò nel giornalismo le ingenuità e i candori dell’artista. In qualità di critico non si oppose alla scuola verista ; ma non dimenticò mai il valore della nostra grande tradizione letteraria. Dalle sue recensioni e dai suoi articoli di attualità si intuisce che egli riteneva essere compito inderogabile del narratore, che però doveva guardarsi dalla presunzione di avere qualcosa di assoluto da dire, l’esporre con buon senso aspetti e momenti veritieri della vita individuale con le sue passioni e i suoi drammi e della vita collettiva con i suoi problemi sociali. Sacchetti intese la scrittura letteraria come fonte di bellezza e di utilità insieme : insomma una sintesi armoniosa di forma e di contenuto, di idealismo e di verismo. Per lui la letteratura e più in generale l’arte erano nelle peculiarità dei loro modi espressivi aristocratiche : se esse potevano sposare dei teoremi scientifici e morali, non potevano affatto dimenticare che occorreva aggiungere all’osservazione l’immaginazione e la fantasia.  























2. Entusiasmi Entusiasmi fu pubblicato per la prima volta in appendice alla « Gazzetta piemontese » (settantacinque puntate) dal 10 novembre 1879 al 16 febbraio 1880 e poi nel 1881 in due volumi dai Fratelli Treves editori in Milano. Sacchetti, già ammalato, vide le bozze di questa edizione ; ma non gli fu possibile effettuare una attenta revisione. Il romanzo fu ristampato sempre dai Treves nel 1883 senza alcuna modifica, sebbene fosse graficamente scorretto e pieno di refusi. Anche la ristampa curata dal Croce nel 1948 per i tipi di Garzanti è poco affidabile, perché ripete quella del 1881 e per di più risulta non di rado arbitrariamente ammodernata soprattutto nelle forme verbali. Affidabile è invece la ristampa del romanzo allestita con criteri filologici nel 1968 da Calogero Colicchi (salvaguardia delle peculiarità linguistiche dello scrittore, avveduta correzione degli errori tipografici, attenta collazione del testo del 1881 con il testo della « Gazzetta piemontese », ecc.). Il titolo del romanzo Entusiasmi, che di per sé significa una esaltazione dell’anima nei confronti di particolari prospettive di vita, è illusorio, perché la sequenza degli avvenimenti narrati produce appena uno stato di vane esaltazioni e di scon 









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nessi tentativi senza esito. Infatti il triplice ideale del protagonista Guido – « arte, donna, patria » – si contrappone senza molti successi alla dura realtà oggettiva, concreta, ed esiste solo nel suo pensiero. Dopo aver messo in campo questo triplice ideale, che era poi quello di tanti giovani scapigliati della generazione di Guido, Sacchetti conduce l’intero sviluppo delle vicende del romanzo sul registro di un velato scetticismo. Per Guido, pittore, l’arte resta appena una chimera ed anzi, nell’impossibilità di raggiungere una piena libertà di espressione, oppresso da difficoltà economiche e circondato da continue incomprensioni, gli acuisce un acuto senso di impotenza e di alienazione ; la donna Desolina, una sbadata attricetta di tante parole e di poco sugo, lo tradisce vedendo in lui quasi un procacciatore di stenti se non di miserie ; la patria, dopo le gesta eroiche delle Cinque giornate, lo rinchiude tragicamente nel ‘come prima’, cioè nel ritorno degli austriaci a Milano. Entusiasmi è un romanzo corale, stracolmo di personaggi ben più del Cesare Mariani. Alla morte della madre Marina Loredan, di nobile famiglia veneziana, Guido Torre, in aperto contrasto con il padre e con i fratelli borghesucci Napo e Martino (la sorella Beatrice è un essere mite e insignificante), consigliato dallo zio filosofo Loredan, voce del buon senso e della cautela politica, insomma una specie di coscienza critica, trova ospitalità presso donna Elodia, mente e cuore di un gruppo eterogeneo di patrioti carbonari. Suo marito l’architetto Fontana, che vive pacificamente separato da lei, è nemico di ogni idealismo, sebbene non sia indifferente ai fermenti rivoluzionari che giungono al suo orecchio. All’inizio Guido esercita o meglio cerca di esercitare senza frutto la sua attività di pittore. Non riuscendo a campare con il ricavato del suo saltuario lavoro, è invitato dall’amico Gaetano, incisore di professione, a darsi alla litografia che ha qualche mercato. Ma per Guido l’arte è una religione, pura e indipendente allegoria dell’esistente, mentre la litografia è soltanto un mestiere. Eppure Guido non è un isolato. Al funerale della madre è circondato da amici che la polizia austriaca giudica così pericolosi da ammonirlo. L’ammonizione è per lo stesso Guido un fugace successo patriottico che si risolve appena in un risvolto mondano, da ‘pacche sulla spalla’, non sufficiente a farlo un perseguitato politico. Sono, questi, i capitoli del romanzo più strettamente legati alla vita privata di Guido, che trascorre a margine della sua partecipazione, peraltro non costante e nemmeno decisamente impegnata, ai preparativi rivoluzionari. Con finezza psicologica Sacchetti descrive qui il suo incontro con Desolina, una mima di teatro, che ha in Rovetta il suo assillante tutore e che avrà in Balestra il suo cinico e superbo amante. Tra le figure restanti meritano un accenno Gaetano e Carolina con il loro tormentante rapporto che salta continuamente a galla ; il maestro di musica Favaro, disposto a diventare combattente per necessità dopo essere stato, sempre per necessità, reazionario e confidente della polizia ; don Celestino, figlio dello stesso Favaro, che sulla barricata di corso Monforte spara, colpisce un croato e poi, incurante del pericolo, pietosamente lo assiste : arrestato e liberato dal carcere, sarà ucciso nel bresciano da un fucilata austriaca al ritorno dalla sfortunata spedizione del Trentino, disordinatamente effettuata per estendere l’Italia fino ai confini naturali. Le Cinque giornate di Milano del 1848, città che il piemontese Sacchetti dimostra di conoscere bene anche nei suoi angoli più appartati o più famosi come i teatri, le piazze e i parchi (assai bella è la descrizione di Sant’Ambrogio e della fiera dei bei oh bei), costituiscono la parte centrale del romanzo. Lo zoccolo duro della famosa sommossa – dal 18 al 23 marzo, giorno in cui gli austriaci abbandonano Milano alle tre del mattino – è il popolo. I capi del governo provvisorio Gabrio Casati e Carlo Cattaneo sono nel romanzo appena nominati ed hanno una funzione di  













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giuseppe farinelli

retroguardia anche in seguito al fallimento della campagna del Trentino, che dura dal 10 al 21 aprile 1848. In questa campagna Guido è presente e registra la scarsa utilità dei ‘suoi’ volontari indisciplinati, nonostante le schegge di individuale valore, e il disaccordo tattico con l’esercito piemontese. Deluso, stanco e zoppicante, torna a Milano e passa per spia e disertore. Impotente assiste alla capitolazione di Carlo Alberto, che aveva dichiarato guerra il 23 marzo 1848 all’impero absburgico, 1 e al rientro degli austriaci a Milano il 6 agosto. Sebbene sia amareggiato per il tramonto anche del suo ideale di patria – l’ideale dell’arte e della donna sono già sfumati –, tenta ancora di tenerlo stretto, di portarlo via con sé e con un gesto tragicomico e quasi da umorismo pirandelliano incontra la morte :  

S’alzò, uscì dall’abbaino sul tetto della chiesa di S. Damiano, salì per la breccia ch’era rimasta dal marzo in poi nel fianco del campanile fino alla cella [campanaria] : rimaneva là dimenticata una piccola bandiera tricolore issata nei giorni della rivoluzione, ripiegata dentro dal vento. Si affacciò ; tutto il lungo naviglio a sinistra era occupato dai soldati austriaci ; le bianche uniformi si avanzavano anche a destra della via Monforte e passavano il ponte lentamente ; la banda li precedeva. […] Guido, preso da furore grande, irresistibile, afferrò la bandiera agitandola e sporgendosi fuori sulla strada, gridò due volte : - Viva l’Italia ! Quell’ultima voce di ribellione che partiva dal campanile, che per il primo aveva sonato la campana a martello per la rivoluzione, fe’ alzare il viso ai soldati spauriti. Poi uno alzò la canna del fucile e sparò. Guido cadde bocconi sul davanzale : il sangue che gli sgorgava dal petto rigò la parete del campanile, la bandiera gli cadde di mano e precipitò in istrada, dove i soldati la fecero a brani. L’inno seguitava lento e solenne nel silenzio profondo della città atterrita. 2  













Scrive giustamente Colicchi :

di modernità che legano il Sacchetti al tempo suo. Del resto, se già la sostanza di cui fruisce il romanticismo di Guido, che non evade dal mortificante logorio di una realtà quotidiana non priva di giorni vuoti e spesso vanamente impegnati a cercare una accettabile estrinsecazione di sé, è a volte intaccata da corrosioni di impasto decadente, si può ben comprendere, nell’ambito di una complessa articolazione di caratteri, di situazioni e di ruoli, la defezione, che a me pare evidente, dalle nozioni e dalle regole della tradizione letteraria del primo Ottocento. Il triplice ideale romantico ha compiuto il suo ciclo. Sarebbe ingenuo e criticamente parziale credere che Sacchetti applichi in Entusiasmi uno schema automatico, di lettura, artificiosamente ricevuto dal passato ; assorbendo le istanze della sua temperie culturale, egli è in grado di incrinare in Guido il solito triplice ideale con un intervento non troppo inconsciamente dilatorio. Guido è pronto a rinunciare ad ogni posizione e ad ogni tranquillità sociale, è pronto a fuggire con Desolina senza rendersi conto che essa è già fuggita con un altro, è pronto, nella sua disperazione, a scendere in campo e a morire. Pronto a morire ; ma la morte, quando avviene, non è per suicidio a differenza di Leopoldo del Cesare Mariani, rivalsa repentina del cuore amareggiato. La crisi, che sommerge Guido, non lo rende però un completo inetto, perché alla fine trova la forza, contro ogni ragionevole prudenza e opportunità (ormai gli austriaci, vincitori, sono a Milano) di un gesto eroicamente solitario, estrema espressione di una volontà ancora legata almeno all’ideale della patria. Se dunque Guido, incompreso paladino dell’onore, dell’onestà e dell’amore, anzi di più amori, deve morire, la sua morte sia per la patria in un’estrema donazione di sé : la patria fatta anch’essa sul momento causa metastorica, cioè esistenziale. Al tempo della pubblicazione di Entusiasmi, la critica parlò di un romanzo che si giovava della storia per distinguersi e per separarsi in un certo senso dalla moda o anche dall’esigenza di proporre cronache di attualità. Dimenticava però che l’esaltazione delle Cinque giornate in senso popolare non era qui disgiunta dal sospetto, alimentato dal movimento scapigliato a cui, a suo modo, apparteneva Sacchetti, di un Risorgimento tradito e monopolizzato da ricorrenti retoriche e da trame affaristiche. Convinto che « la sorte degli uomini dipende in gran parte dalla loro indole forse più che dalle condizioni sociali che li attorniano », 4 lo scrittore piemontese non può esimersi dallo studio psicologico del suo protagonista. Scrive Giuseppe Zaccaria :  







Due furono […] le conseguenze della scoperta sacchettiana : da un lato, sul piano ideologico, la demitizzazione del Risorgimento, che viene presentato come opera di uomini comuni, non esenti da colpe e da errori ; uomini affatto privi di qualità eccezionali, ma che trovandosi al punto seppero scegliere la strada giusta ; dall’altro, sul piano letterario, una nuova dimensione narrativa, che sa porre in primo piano i moti d’anima dei personaggi […] senza ricorrere ad effusioni o ad indugi descrittivi, con un linguaggio ricco di dialoghi serrati e scabri, esemplato sulla lingua parlata. 3  





In Entusiasmi il triplice ideale del protagonista sussiste come elemento romantico, però corroso nel suo più autentico significato. Il mito del Risorgimento, che c’è ancora, è trattato dal Sacchetti con punte sottilmente polemiche che intaccano l’organizzazione e la speculazione politica delle Cinque giornate di Milano. Ad agire non sono le personalità che i trattati storici ci hanno tramandato : è la gente anonima, entusiasta, attiva e incurante dei rischi e dei pericoli. Veramente per Sacchetti le Cinque giornate sono il frutto di un movimento popolare non preventivamente organizzato a differenza di ciò che sarebbe stata la sommossa mazziniana del 6 febbraio 1853, soffocata nel sangue proprio nel giorno del carnevale milanese. In Entusiasmi Sacchetti non si stacca completamente dal filone romanticorisorgimentale ; se c’è qualche accenno a problemi che apparterranno alla questione sociale, il romanzo non ha né la struttura, né la materia con le quali è costruito il cosiddetto romanzo contemporaneo, quello per intenderci di un Cletto Arrighi, di un Cesare Tronconi o di un Achille Bizzoni. Eppure non fa una operazione di retroguardia. Certo la trama del romanzo è storica ed è per di più esposta con una attenzione minuta ai particolari che risultano cronologicamente corretti ; tuttavia la stessa trama, non immune da aspetti ironici, non sfugge a quei criteri  





1   Carlo Alberto era entrato in guerra contro l’Austria, perché temeva che il movimento rivoluzionario delle Cinque giornate potesse risolversi in senso repubblicano. Del resto è noto che non tutti i milanesi furono favorevoli all’intervento piemontese. 2   Roberto Sacchetti, Entusiasmi, cit., p. 438 sg. 3   Calogero Colicchi, Introduzione, cit., p. 22.







la figura di Guido, pittore uscito da una sgangherata famiglia borghese con pretese aristocratiche – ironizzate in apertura del libro – si inserisce in una linea di ascendenze flaubertiane ; e la sua storia, pur nei limiti di un apprendistato teorico e provinciale (il discorso va ovviamente riferito all’autore e al suo entroterra culturale), è di fatto la storia di una éducation sentimentale destinata a concludersi con un completo fallimento. Sacchetti ripropone in Entusiasmi una somma di motivi […] già esperiti nel Cesare Mariani e qui ripresi nella tendenza dominante di un velleitarismo e di un vagheggiamento eroici e passionali, secondo una gradazione di intensità che va imputata anche alle diverse epoche riflesse nei romanzi e allo spazio che esse accordano alle possibilità e alle fantasie individuali. L’impotenza disadattata di Cesare si trasforma pertanto, in Guido, nell’illusoria convinzione, secondata dall’ambiente che lo circonda, delle proprie capacità di riuscita. 5  

In aggiunta al tema della partecipazione popolare ai moti risorgimentali, che ignora le elitarie cospirazioni a tavolino, la breve esistenza di Guido si nutre di un individualismo marcato, che se non produce positivi effetti alla sua persona, testimonia una qualche tenuta romantica se non altro dei valori patriottici visti a margine della storia ufficiale. 4

  Rosetta Sacchetti, La vita e le opere di Roberto Sacchetti, cit., p. 151.   Giuseppe Zaccaria, Tra storia e ironia di Roberto Sacchetti, cit., p. 77.

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AMORI E LETTORI. UN NOME PROSAICO DI CARLO COLLODI Paola Ponti

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n nome prosaico di Carlo Collodi apre a buon titolo gli scritti raccolti in Macchiette. Il testo anticipa infatti le principali tematiche del volume – l’amore, il matrimonio, i tradimenti – ed offre al contempo un saggio delle implicazioni metaletterarie e intertestuali sottese alla scrittura collodiana per adulti. Dotato di una brillante architettura umoristica, Un nome prosaico racconta la storia di un matrimonio contrastato per ragioni onomastiche, che si conclude con una separazione. Cinque i momenti fondamentali della vicenda : la vita precedente il primo innamoramento del protagonista, Prosdocimo Govelli (i), l’innamoramento di Prosdocimo per Fatima e le prime difficoltà onomastiche al coronamento delle nozze (ii-v), il commento scettico del narratore sull’amore, il matrimonio e le donne (vi-vii), il matrimonio di Fatima e Prosdocimo, e i primi cedimenti di Fatima ai corteggiamenti di Raullo (ix-x), la separazione dei coniugi, a cui segue una lettura dell’accaduto da parte di Govelli (xi). Il valore del testo appare riconducibile assai più alle modalità narrative della storia che al suo esito fallimentare, prevedibile conferma di una legge riconosciuta, secondo cui il marito è balzacchianamente un essere « minotaurizzato ». Del resto, Prosdocimo è nelle Macchiette in buona compagnia, dato che anche altri protagonisti – Armando, Paolo, Maurizio – hanno mogli non proprio devote. Con le disavventure di Prosdocimo Govelli, Collodi dà una rappresentazione satirica dell’istituto matrimoniale servendosi di una serie di evidenti citazioni dal melodramma e da romanzi dell’epoca, che i commenti di Daniela Marcheschi e Fernando Molina Castillo hanno opportunamente messo in luce. 1 Nel nuovo contesto umoristico, tali rimandi sollecitano il pubblico a una riflessione sull’attendibilità della letteratura e sulle sue possibili modalità di fruizione. La storia di Govelli infatti non si presenta solo come una disincantata riflessione sulla pretesa eternità dell’amore – soprattutto se coniugale –, ma come un itinerario esemplare ad uso del lettore. Non meno di Prosdocimo, questi è implicitamente invitato a passare dal miope coinvolgimento emotivo nei testi a una modalità fruitiva più consapevole e smaliziata, in grado di istituire dei nessi tra le storie teatrali e romanzesche e la vita vissuta. L’interesse di Un nome prosaico e il « filo di refe » che lo lega alle Macchiette va quindi ricercato nella regia del narratore e nel suo punto di vista diagnostico sui casi del giovane Govelli : l’articolata fenomenologia del riso, in cui si imbattono protagonista e lettore, invita entrambi all’acquisizione di un salutare scetticismo verso l’idealizzazione delle passioni letterarie (e reali).  











propria storia, afferma di aver conosciuto Prosdocimo come conosce i suoi lettori (« Io l’ho conosciuto, come conosco voi »). 2 Govelli è presentato come un giovane diciassettenne, « caro », « fortunato » e benestante, non particolarmente dotato a scuola e nello studio della musica, ma per nulla disturbato dai suoi risultati tutto sommato modesti. Dietro l’apparente facilità della descrizione iniziale, Collodi intesse – già nelle prime righe del racconto – un preciso rapporto con il suo lettore : l’incipit, ricco di frasi formulari, non ha lo scopo di confermarne le attese, ma di rivelargli lo sguardo disincantato del narratore verso la tipologia incarnata dal suo protagonista. Il trattamento riservato a Prosdocimo appare infatti molto chiaro se lo si confronta con quello riscontrabile nel v capitolo dei Misteri di Firenze, dove viene descritta Eugenia di Santa Fiora. Non è difficile ravvisare evidenti parallelismi con la descrizione della ragazza, dovuti sia alla consueta pratica collodiana del riuso, sia al fatto che le situazioni di Prosdocimo ed Eugenia sono molto simili : si tratta infatti di personaggi giovani e spensierati, perché vissuti al riparo dalle insidie del mondo esterno, l’amore in primis. Le due descrizioni si richiamano vicendevolmente anche grazie ad alcuni passaggi che, in modo quasi identico, precisano l’inconsapevolezza dei due personaggi verso gli aspetti deludenti del mondo, il loro armonioso rapporto con la natura e, infine, la predilezione per la bella musica.  















I Misteri di Firenze (Eugenia) 3 a) « ignara dei mali e delle privazioni che toccano in retaggio a tutta la figliolanza di Adamo » b) « La natura e il cielo le sorridevano d’intorno coll’ineffabile incanto d’un’eterna primavera – ed ella, in gentil ricambio, sorrideva amorosamente al cielo e alla natura » c) « Eugenia amava la musica – ma la musica allegra, mossa, vivace. I notturni, le melodie, le romanze, le fantasie sentimentali, la mettevano di mal umore e la disturbavano, come la vista d’un abito abbrunato, come l’aspetto d’una stanza umida e senza luce »  











Macchiette (Prosdocimo) a) « era entrato nella nostra valle di lacrime per un sentiero tutto rallegrato di luce, di sorrisi, di fiori » b) « La natura e il cielo gli sorridevano a gara d’intorno : ed egli, con gentile ricambio, sorrideva amorosamente al cielo e alla natura » c) « La musica era la sua gran passione ; s’intende bene, la musica mossa, vivace, allegra. I notturni, le melodie, le romanze e le fantasie sentimentali lo annoiavano e lo mettevano di mal’umore, come la vista di un panno abbrunato, come l’aspetto di una stanza umida e senza luce » 4

















« Io l’ho conosciuto, come conosco voi » : Prosdocimo e i sentieri dorati della fanciullezza  





La descrizione del protagonista viene introdotta da una premessa del narratore che, volendo conferire attendibilità alla 1

  Per i riferimenti collodiani ad altri autori, in particolare Verdi e Rovani, si è fatto riferimento ai commenti contenuti in : Carlo Collodi, Macchiette, a cura di Fernando Molina Castillo, Prefazione di Ernesto Ferrero, Introduzione di Renato Bertacchini, Firenze, Fondazione Nazionale Carlo Collodi – Giunti, 2010 (II vol. dell’Edizione Nazionale delle Opere di Carlo Lorenzini, d’ora in poi M) e a Idem, Opere, a cura di Daniela Marcheschi, Milano, Mondadori, 1995 (indicato con la sigla O).  

Tuttavia, mentre Eugenia è un personaggio modellato sulla tipologia della giovinetta indomita, passionale ed emotiva, che Collodi descrive rendendo credibile questa caratterizzazione, nel caso di Prosdocimo il narratore ha un atteggiamento più distaccato, volto a evidenziare la convenzionalità della sua rappresentazione e a incrinarla con alcune spie dissonanti, per esempio paragonando Prosdocimo a « un paggio di Francia  

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  M, p. 41.   Carlo Collodi, I Misteri di Firenze. Scene sociali, a cura e con introduzione di Roberto Randaccio, Firenze, Giunti, 2010, pp. 273-274 (I vol. dell’Edizione Nazionale delle Opere di Carlo Lorenzini, d’ora in poi MF). 4   M, p. 41. 3

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paola ponti

con la romanza in bocca », o ricordando la sua scarsa propensione al rispetto dell’ortografia e alle esecuzioni musicali : « A dieci anni sapeva leggere e scrivere quasi correntemente : a sedici sonava il pianoforte, un poco più di un dilettante, e un po’ meno del canonico Listz ». 1 Il lettore, equiparato al protagonista della storia all’inizio del testo (« Io l’ho conosciuto, come conosco voi »), 2 non è dunque sollecitato verso una forma di consolatoria immedesimazione, ma è spinto a far proprio da subito il punto di vista distaccato e ironico del narratore. La fase dell’innamoramento inizia con l’incontro di Fatima, figlia del cavaliere Ipsilon Della-Zeta. La descrizione fisica della giovane si limita a pochi incisivi tratti, che ne sintetizzano l’avvenenza e la caratterizzazione opposta rispetto a quella di Prosdocimo : « diciott’anni, capello corvino, occhi di fuoco e due sopracciglia lunghissime e profilate, come se fossero disegnate con la matita di Faber dalla mano di un grande artista ». 3 La fisionomia di Fatima si accompagna a un’intraprendenza solo convenzionalmente maschile, di cui molte donne collodiane sono depositarie privilegiate. Non è un caso che la fanciulla debba insistere affinché Prosdocimo l’accompagni al pianoforte e che gli attribuisca, attraverso un proverbio, una ritrosia tipica del gentil sesso : « Rammentatevi che il proverbio dice che “tutte le belle si fanno pregare”. Non fate che si debba dire altrettanto dei belli… ». 4 Collodi rappresenta una scena classica della buona società, che si diletta a interpretare brani al pianoforte, offrendo ai giovani un’occasione di vicinanza, conversazione e corteggiamento. L’esecuzione musicale è il pretesto affinché Prosdocimo e Fatima possano conoscersi e conversare. Fedele al trattamento già riservato in sede introduttiva al suo personaggio (i), il narratore non rinuncia a rappresentarlo nell’atto dell’esecuzione della sinfonia a quattro mani. Attraverso la percezione disgregata e allucinata dello spartito sotto i suoi occhi, vengono tradotti gli effetti confusionali suscitati dalla vicinanza della « graziosa compagna » non meno che dalla musica.  





























raggioso e disposto al sacrificio di sé – misura implicitamente l’antitesi tra prosa e poesia, cioè la distanza tra la realtà che Collodi vuole raccontare nelle sue dinamiche antiromanzesche e l’idealizzazione melodrammatica sui cui si modellano le aspettative del pubblico. Il richiamo implicito ai Normanni, musica galeotta, non si giustifica quindi solo in ossequio alla moda dell’epoca, ma è coerente con l’impostazione umoristica di tutto lo scritto dove, per dirla con Nencioni, c’è un sistematico « disaccordo tra la vita reale e l’ideale umano ». 7  



Dal « riso che non si cuoce » al « riso convulso »  







Nel terzo capitolo comincia a delinearsi l’ostacolo al coronamento del neonato amore. Collodi svuota di credibilità uno schema tragico e romanzesco assai diffuso riducendo la rappresentazione dell’« avverso fato » a un risibile problema onomastico. 8 Al centro dell’attenzione sta non tanto il destino di Prosdocimo, quanto la rappresentazione letteraria dell’amore e l’apporto che essa può dare alla comprensione di tale fenomeno. Fatima non esita a esprimere le sue riserve su chi ha ricevuto in sorte un antroponimo privo di fascino : è un disgraziato, non ha nessuna possibilità di essere amato e quindi deve vivere segregato facendosi frate. Pensando che il suo interlocutore si stia inventando un nome eccentrico solo per risultare simpatico, la giovane si esprime apertis verbis, senza alcuna cautela nel ridergli in faccia. Questo atteggiamento è ben coerente con i personaggi femminili collodiani che sono in genere autoreferenziali e volubili, incapaci di porsi simpateticamente in una condizione emotiva estranea alla propria. Non è un caso che venga attribuita a una donna una delle essenziali condizioni affinché sia possibile il riso, che – come avrebbe argomentato Bergson nel 1899 – ha il « suo centro naturale » nell’« indifferenza » e « il suo più grande nemico » nell’« emozione », cioè nell’affetto e nella pietà. 9 Fatima infatti, precisa il testo, non si avvede affatto delle « orribili pene che cagionava al suo giovine interlocutore ». 10 Il nome risulta decisivo nel bagaglio di caratteristiche socialmente importanti. Fatima equipara infatti un brutto antroponimo a un difetto del corpo, entrambi parte di un involucro esteriore toccato in sorte : « Vedete ! per me un nome brutto o ridicolo è quasi peggio di un difetto fisico ». 11 Tuttavia, ancor più del ragionamento dell’incauta giovane, ha effetto sul suo interlocutore la « smodata intemperanza » con cui ride di lui. Per tutta la prima parte del testo, infatti, la vicenda amorosa è sottesa da un’articolata fenomenologia del riso che ne mostra gli effetti socialmente inibitori e la posizione contigua rispetto al pianto. Va però notato che, mentre l’ilarità di Fatima nasce solo dal suono sgraziato e desueto del nome, il lettore ride anche perché intuisce una relazione con la « natura spirituale »12 del personaggio che lo porta, innocuo ma sprovveduto e incapace di fronteggiare la superficialità dell’amata. Il valore fonico-tim 























Fin dalle prime battute, il cuore del giovine pianista era in preda a uno strano sussulto. I suoi occhi abbarbagliati da una specie di vertigine vedevano le note staccarsi dal libro e corrersi dietro, le une alle altre, scherzando, roteando, mulinando e mescolandosi insieme fra loro, come un brulichìo di moscerini lungo una striscia di sole. 5

L’interpretazione della sinfonia tratta dai Normanni a Parigi segna l’inesorabile annebbiarsi della facoltà razionale di Prosdocimo e la sua progressiva perdita di serenità emotiva e lucidità mentale (il « cuore […] in preda a una strano sussulto », « il cervello in visibilio »). Il testo musicale si anatomizza nelle sue parti e ognuna di loro comincia a muoversi in modo autonomo fino a creare un rimescolio vorticoso che mima non solo le scomposte sollecitazioni a cui è sottoposto il protagonista, ma anche, e soprattutto, la sua incapacità di conservare una distaccata e unitaria visione d’insieme. A questa descrizione è affidata la presa d’atto che il giovane ha perso l’autosufficiente serenità dei suoi primi anni. Il narratore non mancherà di dolersene, ironizzando su una situazione solo apparentemente innocua : « Ahimé, quanti poveri giovani hanno dovuto piangere, in questo mondo, sulle tristi conseguenze di una sonata a quattro mani ! ». 6 Sarà forse da notare, solo per inciso, che l’ambientazione borghese e brillante della scena rappresenta il versante leggero della classica fenomenologia dell’amore come forza devastante e foriera di sofferenza. Prosdocimo ne è una vittima moderna e risibile. Già la distanza tra l’impaccio del protagonista collodiano e l’eroico sentimentalismo sotteso alla vicenda dei Normanni – Osvino, uno dei giovani protagonisti, è nobile, co 











   

1

  M, p. 41.   Ibidem.

4

2

3

5

6

  Ibidem.   Ibidem.

  M, p. 42.   M, p. 43.



















7   Enrico Nencioni, L’umorismo e gli umoristi, « La Nuova antologia », vol. xliii, fasc. ii, 15 gennaio 1884, pp. 193-211 : 194. 8   Sull’onomastica collodiana, con riferimento a Un nome prosaico, cfr. Roberto Randaccio, La “legge shandiana del nome” nei personaggi di Carlo Collodi, « rion », iv, 1, 1998, pp. 59-69 ; Enzo Caffarelli, Roberto Randaccio, Collodi onomasta e i nomi toscani delle Avventure di Pinocchio, « il Nome nel testo », vii, 2005, pp. 209-227. Una possibile suggestione relativa alla scelta collodiana del nome Prosdocimo può essere ravvisata nel Turco in Italia di Rossini su libretto di Felice Romani, dove Prosdocimo interpreta il personaggio del poeta. Andrà forse notato che Fatima è un antroponimo di origine araba. 9   Henri Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico, introduzione di Fabio Ceccarelli, Milano, Rizzoli, 20013, p. 39. 10 11   M, p. 45.   M, p. 44. 12   Vladimir Ja. Propp, Comicità e riso. Letteratura e vita quotidiana, a cura di Giampaolo Gandolfo, Torino, Einaudi, 1988 (i ediz. 1976), p. 34 : « La comicità quindi non sta nella natura fisica dell’uomo e neppure nella sua natura spirituale, ma in una loro correlazione, dove la natura fisica mette a nudo i difetti della natura spirituale ».  





















amori e lettori. un nome prosaico di carlo collodi brico del nome Prosdocimo, incontestabilmente sgradevole, rivela l’impaccio del protagonista e la sua posizione fuori chiave rispetto a una corretta decodifica della realtà che lo circonda (realtà sulla quale il narratore non manca di offrire, a uso del pubblico, la propria illuminante lettura). Il protagonista passa quindi dal « sorridere amorosamente al cielo e alla natura » (i) al « riso che non si cuoce » (iii), secondo un’espressione proverbiale riferita a chi ride senza essere contento, dissimulando il proprio disagio. 1 L’effetto dell’atteggiamento di Fatima è più forte delle argomentazioni razionali che Prosdocimo riordina mentalmente nel monologo del capitolo iv, ripensando che aveva ereditato il suo nome dal nonno e non l’aveva scelto (« È un nome che mi hanno dato quand’ero piccolo, e io non ci ho colpa !… »). 2 Parlando tra sé e sé, il giovane continua a interrogarsi sulle ragioni dell’irrisione subita (« Perché dunque quella risata sul viso ?… […] Perché, allora, divertirsi a ridere di me ?…e in quel modo sguaiato ? ») 3 e non ha più il coraggio di pronunciare per esteso il nome Prosdocimo. Si limita alla sola prima sillaba, « Pros… », replica quasi completa – e certo non casuale – della parola ‘prosa’. Il riso quindi smaschera la vera radice del problema onomastico, facendolo emergere nella sua evidenza letterale. È proprio a questo punto che si inserisce la possibilità di una svolta improvvisa, che chiama in causa l’autorevolezza dei testi letterari. Il protagonista ricorda di aver letto un romanzo nel quale un personaggio si chiamava Prosdocimo, segno della legittimità di tale antroponimo.  











ta dall’amata e manifestazione liberatoria di quel « riso che non si cuoce », che aveva dovuto sostenere in presenza di lei. Vistosi costretto dal verdetto romanzesco a una forma di emarginazione forzata – senza possibilità di vendetta o di riscatto –, Prosdocimo ora ride sfogando contemporaneamente le proprie lacrime di amarezza. Quando l’armonioso rapporto con il mondo esterno, che aveva avviato il racconto, si è ormai incrinato per sempre, il riso sconfina irrimediabilmente nel pianto.  



Se lei ride di me, oh ! non dubiti, anch’io riderò di lei…altro se riderò !...Voglio ridere tutta la notte : sì, sì, sì. E quel povero diavolo credeva in buona fede di ridere, e non s’accorgeva che invece piangeva di rabbia e piangeva come una vite tagliata. 5  







« Una malattia come tutte le altre » : terapie d’amore  















Un momento ! un momento !...Ora che ci ripenso bene, il mio nome non dev’essere poi tanto il diavolo, perché mi ricordo di averlo trovato in un romanzo…Sissignori, precisamente in un romanzo che devo avere a casa. Un Pros…in quel romanzo, c’è di certo. Dunque, dico io, se il romanziere lo ha scelto per metterlo a uno de’ suoi personaggi, è segno che non è poi un nomaccio così buffo da far ridere la gente. 4  



Alla letteratura quindi viene riconosciuta la facoltà di fornire criteri di valutazione affidabili, in grado di sconfessare le ragioni di Fatima e di invalidare la sua irrisione. Quando Prosdocimo scoprirà che il personaggio del romanzo è un « ex frate zoccolante della regola di San Francesco », la sua delusione sarà doppia : non solo infatti il testo narrativo dà ragione alle riserve di Fatima, ma appare chiaro che le direttive amorose della ragazza rispondono a precisi modelli letterari che non prevedono eccezioni. La letteratura riflette e, al tempo stesso, condiziona i gusti e le aspettative amorose, divenendo una sorta di vademecum in ambito sentimentale. Va però notato che la pagina del romanzo in cui compare il frate Prosdocimo è citata come fosse tratta testualmente dall’opera che il giovane sta consultando. Il brano tuttavia non è una citazione da un romanzo reale. Collodi infatti, noto per la capacità di appropriarsi di testi altrui, mette sotto gli occhi del suo personaggio una pagina citata da un libro inesistente. In questo senso appare chiara la doppia lettura sottesa all’episodio. Mentre Prosdocimo, affidandosi incautamente all’assoluto verdetto della letteratura, trova in essa la conferma della propria inaccettabilità sociale, Collodi si guarda bene dall’offrire al lettore una conferma in tal senso. Non esiste infatti alcun Prosdocimo ex frate zoccolante, passato agli annali della storia letteraria, che possa avvalorare le opinioni di Fatima. Ciò non impedisce al giovane protagonista di cominciare a ridere di un « riso convulso », effetto tardivo dell’umiliazione subi 









1   Del riso forzato, ricorda Lapucci, si dice « un riso che non cuoce, un riso a denti stretti » (Carlo Lapucci, Dizionario dei proverbi italiani, Firenze, Le 2   M, p. 46. Monnier, 2006, voce ridere, p. 1001, 554). 3 4   Ibidem.   Ibidem.  



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A questo punto della storia, il narratore interviene in terza persona per rendere chiaro il punto di vista più corretto dal quale osservare l’accaduto. Il suo sguardo è qui distaccato e scientifico nell’intento di evidenziare alcune costanti della fenomenologia d’amore, nelle quali Prodocimo rientra appieno in qualità di innamorato senza speranza. Mutando prospettiva, è possibile trovare un rimedio efficace alle sofferenze del giovane. Basta appunto abbandonare una concezione letteraria dell’amore come unica fonte di realizzazione e felicità, per vederne gli aspetti debilitanti e addirittura patologici. Eppoi l’amore lo chiamano una cosa divina ! Quanto a me, gabellatemi di buona grazia lo sproposito, io l’ho creduto sempre, e lo credo anch’oggi, una malattia come tutte le altre. 6  

L’attitudine scettica verso l’Amore totalizzante è anche una presa di distanza dalla letteratura che lo enfatizzava in modo incondizionato, facendo leva sull’aspetto prevalentemente emotivo della fruizione letteraria. L’intervento del narratore intende quindi suggerire al lettore la prospettiva più corretta per inquadrare la situazione di Prosdocimo : si tratta infatti non di immedesimarsi nelle sue vicende, ma di guardarle con il giusto distacco. A questo proposito, è utile tener presente un passaggio apparentemente minore del testo nel quale si fa riferimento alla rappresentazione della Traviata. Durante lo spettacolo, il narratore parla con una donna che sta assistendo al melodramma verdiano.  

– Avete mai amato ? – mi domandava una sera, fra un atto e l’altro della Traviata, una graziosa donnina, tutta pelle e spirito, vedendomi ridere sotto i baffi alle amorose smanie di Alfredo e Violetta. – Mai ! …e voi ? – Mai neppur io – rispose sospirando la mia diafana interlocutrice. – Il medico me l’ha proibito. 7  





Il narratore-personaggio e la « graziosa donnina » rappresentano due atteggiamenti diversi nei confronti dello spettacolo a cui stanno assistendo : l’uno è emotivamente distaccato e ride dell’enfatico amore contrastato di Alfredo e Violetta, l’altra invece si immedesima e sospira del loro avverso fato. Affermando di non poter replicare nella propria vita l’esperienza drammatizzata sulla scena, la giovane non fa che dare ragione allo scetticismo del suo interlocutore che, a differenza sua, si astiene volontariamente dalle pene d’amore, senza bisogno del divieto del medico. Va inoltre considerato che l’equazione amore-malattia, non riprende solo un topos letterario notissimo, ma richiama esplicitamente un importante passo dei Cento anni di Rovani, che Collodi conobbe a Milano. 8  





5

6 7   M, p. 48.   M, pp. 48-49.   M, p. 49 (corsivi nostri).   I primi dieci libri dei Cento anni sono usciti a puntate sulla « Gazzetta di Milano » nel 1857-58 (Giuseppe Rovani, op. cit., nota al testo, p. xxix). Nel 1858 Collodi fu a Milano e frequentò anche Rovani (O, Cronologia, p. lxxxix). 8





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paola ponti

Nell’ottavo capitolo del i libro dei Cento anni, il lettore viene ammonito sui rischi connessi all’esperienza dell’amore passionale secondo una modalità affine a quella adottata da Collodi. Riscontriamo infatti non solo la medesima definizione presente in Un nome prosaico (« L’amore è una malattia ; una delle più temibili malattie del genere umano, in quanto i nove decimi degli uomini ne devono essere flagellati almeno una volta nella vita »), ma una modalità di riflessione, dotata di valore metaletterario e suffragata dal ricorso a precise citazioni, diffusa anche nelle Macchiette collodiane e già presente in Un romanzo in vapore. Nel caso dei Cento anni, tale riflessione parte dalla celebre definizione di Victor Hugo « l’amore è il sole dell’anima » (« L’amour, c’est le soleil de l’âme »), contenuta nel dramma Le roi s’amuse (atto ii, scena iv) e ripresa anche nel Rigoletto di Verdi su libretto di Piave. 1 Il narratore contesta l’affermazione di Hugo, giustificandola in ragione del suo precoce matrimonio che ha funzionato come antidoto agli effetti crudeli del morbo d’amore. E per convincere gli scettici, innamorati di una concezione idealizzata dell’amore, non manca di elencare una serie di amanti infelici, a partire da Fedra e Didone, Medea e Saffo. Consapevole dell’insidiosa prepotenza della passione e delle sofferenze (cavalcantiane) di cui è foriera, Rovani invita ad una prudente, strenua difesa che dovrebbe evitare ai lettori il « tetano mortale » di cui, nei Cento anni, era affetta donna Clelia :  



















O giovinetti, o giovinette, o donne o uomini, che versate in qualche periglio amoroso, o voi tutti adunque che mi ascoltate, se mai il quadro che v’ho delineato fosse atto a produrre alcun effetto, fate buon pro dell’avviso, e ringraziatemi ; chiudete i vostri cuori in fretta, come quando si chiudono le persiane al comparir dell’uragano. 2  

Il narratore di Un nome prosaico, che ride delle sofferenze di Violetta e Alfredo e si astiene dal simularne le passioni, sembra dunque ben allineato ai consigli rovaniani al punto da riproporli testualmente a uso dei propri lettori, con declinazioni varie nel corso delle Macchiette. Troviamo, com’è noto, una dinamica atta a sliricizzare le suggestioni amoroso-letterarie tra romanzo e melodramma anche in Un’antipatia. Qui la protagonista legge e prende ad esempio per la scelta del marito il romanzo La Signora delle camelie di Dumas figlio – dal quale Verdi aveva tratto ispirazione per La Traviata – salvo poi imbattersi nella classica noia coniugale e trovarsi come amante proprio l’uomo ‘comune’ che aveva sempre disdegnato. L’intreccio dei personaggi collodiani con le trame letterarie di notevole popolarità si incarica di misurare la distanza del lettore da quelle trame, ponendo davanti a suoi occhi l’impaccio dell’uomo normale alle prese con lo schema dell’amore fatalmente contrastato e l’inadeguatezza di tale schema nella vita reale. Le storie amorose di carattere patetico e sentimentale molto diffuse tra il pubblico sono quindi l’alimento dell’umorismo collodiano che se ne serve per svelarne ai lettori la traduzione prosaica e quotidiana, di cui Prosdocimo è l’emblema onomastico. Vi è però una differenza rilevante rispetto al passo rovaniaSi veda per il riscontro testuale, la nota di Molina Castillo, M, p. 235-236, n. 23. Per un inquadramento dell’autore, con riferimento anche alla tematica amorosa e matrimoniale, Ermanno Paccagnini, Giuseppe Rovani, in Giuseppe Farinelli, Antonia Mazza Tonucci, Ermanno Paccagnini, La letteratura italiana dell’Ottocento, Roma, Carocci, 2002, pp. 167-173. Per il rapporto amore-malattia, seppur all’interno di una diversa visione della donna, va anche segnalato per la grande diffusione L’amour di Michelet (si veda, per esempio, il capitolo La femme est une malade). 1   Nel libretto di Francesco Maria Piave troviamo lo stesso passaggio, anche se di poco variato, proprio nel momento in cui il Duca di Mantova sta circuendo l’inesperta Gilda, fingendosi un povero studente innamorato di lei. Ecco il passaggio testuale : « È il sol dell’anima – la vita è amore, / sua voce è il palpito – del nostro core » (atto i, scena xii). 2   Giuseppe Rovani, op. cit., p. 53.  





no di cui si è parlato : il narratore di Un nome prosaico interagisce non solo coi lettori, illustrando il senso dell’azione che si sta svolgendo, ma anche con il personaggio, consigliando a Prosdocimo un rimedio al suo male. Non si tratta quindi di un commento a latere della storia, ma di un consiglio che orienta l’agire del suo protagonista. Se non è più possibile astenersi dalla passione-malattia, è però auspicabile curarla (in fondo anche Hugo aveva fatto così) :  



Non sai dunque che il matrimonio è uno specifico infallibile per tutte le malattie di cuore ? Non sai che è un calmante prodigioso, un sedativo per eccellenza, un depurativo degli umori sentimentali e romantici senz’uguale ? […] Il matrimonio, amico mio, è un cerotto antico, e può vantarsi di aver fatto delle cure radicali, incredibili, miracolose. 3  



La concezione del matrimonio, come miracoloso sciroppo Pagliano delle pene di cuore, offre una conferma della polarità tra istituto coniugale e vissuto passionale. 4 Si tratta di una visione che già Balzac nella Fisiologia del matrimonio aveva ampiamente messo in luce, come ha più volte opportunamente sottolineato Daniela Marcheschi. È verosimile che Collodi, con la definizione di « cerotto antico », richiami implicitamente, risignificandola, anche l’idea del « remedium concupiscentiae » legata all’insegnamento paolino : « melius est nubere quam uri » (1 Cor. 7, 9). Lo stesso motto « il matrimonio è la tomba dell’amore » non fa che suffragare, attraverso la saggezza popolare, l’effetto soporifero della vita coniugale. L’ammaestramento del narratore però non si limita a ridimensionare drasticamente l’idea delle nozze come coronamento della felicità di coppia, ma trova il suo necessario completamento nella descrizione fisiologica dell’essere femminile, definito « un grazioso rebus su due piedi ». 5  





















« La ragione è un dono che Iddio fece all’uomo soltanto »  



Collodi, com’è noto, ama definire l’essere umano un « mammifero » non ragionevole, un animale a cui Dio si è dimenticato di fare la coda. Poiché la ratio è prerogativa solo maschile – per quanto ben poco sfruttata –, la donna ne è costituzionalmente sprovvista. La sua indole è infatti caratterizzata solo dal ‘sentire’ e del tutto priva del correlativo ‘meditare’. Balzac nella Fisiologia del matrimonio dice delle donne : « per queste creature appassionate, vivere significa sentire: dal momento in cui non provano più nulla, sono morte ». 6 E Collodi in modo non dissimile conclude così il capitolo vii :  











La donna, insomma, come la intendo io, deve chiacchierare, ridere, piangere, cantare, ballare, sonare e innamorarsi ;…ma in quanto a mostrarsi ostinatamente ragionevole, è una noia, una seccatura che non tocca a lei. La ragione è un dono che Iddio fece all’uomo soltanto : e l’uomo, bisogna rendergli questa giustizia, non ne ha mai abusato. 7  



Questo commento, che può trasversalmente essere utilizzato per la gran parte delle donne collodiane, trova puntualmente conferma nel comportamento di Fatima. Nel capitolo viii, infatti, la ragazza viene invitata dal padre a prendere in considerazione Prosdocimo come un partito allettante, in virtù della bellezza e soprattutto del patrimonio. Fatima rifiuta dapprima la visione utilitaristica, e in fondo tra3

  M, p. 49.   Sul tema, si veda l’utile Introduzione di Fabio Danelon, Né domani, né mai. Rappresentazioni del matrimonio nella letteratura italiana, Venezia, Marsilio, 2004, pp. 9-37. Pagliano inventò uno sciroppo molto noto, alla cui misteriosa ricetta depurativa Collodi assimilò anche la formula del romanzo sociale (si veda il capitolo xix di Un romanzo in vapore). 5   M, pp. 50-51. Vedi analoga definizione in ZZTZZ [Carlo Lorenzini], Manuale per uso dei giovanetti di primo pelo, O, p. 739. 6   Honoré de Balzac, La Fisiologia del matrimonio, Torino, Einaudi, 1987, 7   M, p. 51. p. 101. 4

amori e lettori. un nome prosaico di carlo collodi dizionale, del padre, più sensibile alle ragioni del portafoglio che a quelle del cuore. La risposta della giovane però non viene formulata con parole proprie, ma grazie a una citazione tratta dal Rigoletto di Verdi, atto i, scena xii, nel punto in cui Gilda, la giovane figlia di Rigoletto, confessa alla sua custode Giovanna di essersi innamorata di uno studente povero. L’amore di Gilda, richiamato testualmente da Fatima con ben altra convinzione, è appunto sentimento nobile e privo di interesse : « Signor né principe – io lo vorrei ; / sento che povero – più l’amerei ». Inutile dire che anche questa visione troverà adeguata risposta al termine del volume collodiano delle Macchiette, ne L’amore sul tetto, dove il narratore si incaricherà di mostrare la scarsa attendibilità del detto « Due cuori e una capanna », rivelando impietosamente come l’amore si nutra di benessere materiale e vada sostanziato con regali e allettamenti a beneficio dell’amata. Convinta che « a sposare un Prosdocimo non c’è poesia », Fatima non tarda però a cambiare idea. È evidente quindi che la citazione dal Rigoletto, assume qui una valenza ben diversa dall’originale. Infatti, se la giovane non ritiene l’aspetto economico un motivo sufficiente per convolare a nozze, convinta – come la Margherita di Un’antipatia – che l’amato debba proporre di sé un’immagine modellata sulle trame letterarie, certo il suo contegno è assai lontano da quello nobile e coerente fino alla morte della figlia di Rigoletto. Si direbbe anzi confermi, con il suo repentino cambio di idea, la famosa aria del melodramma verdiano, nella quale il Duca di Mantova afferma : « La donna è mobile /qual piuma al vento, / Muta d’accento – e di pensier » (atto iii, scena ii). Il registro tragico e melodrammatico viene quindi continuamente richiamato da Collodi, con allusioni più o meno scoperte. Ad esse va riconosciuta la funzione di evocare un simulacro dell’ideale, che poi la realtà narrata si incarica di correggere verso il basso o di smentire, affinché il lettore possa trarre una visione attendibile delle dinamiche che la vita reale propone. Visto dai due sposi come il coronamento dell’amore, dal cavaliere Ipsilon Della-Zeta come un buon affare e dal narratore come il modo migliore per guarire dai patimenti di cuore, il matrimonio viene annunciato in una sola riga (« Lo stesso giorno delle nozze, i due sposi novelli partirono per una loro villa ») e subito coniugato alla noia, che apre nuove possibili triangolazioni sentimentali. Ecco dunque riapparire uno spasimante della giovane Fatima, incaricato di renderle presenti quelle ragioni letterarie e sentimentali alle quali sembrava aver abdicato sposando il bravo Prosdocimo. È chiaro che un nome così prosaico doveva essere bilanciato da un correlativo poeticissimo (altrettanto improbabile), che trova una felice conferma all’apparire di Raullo, « giovine maestro di musica ». 1 L’opposizione Prosdocimo-Raullo si incarica di rendere visibile, in chiave onomastica, la doppia configurazione dell’uomo ideale sognato dalla donna media : bravo, affidabile e di buona famiglia, da una parte, ma anche eccentrico, romantico e artista, dall’altra. Del resto un altro Raullo spasimante deluso, che crede ingenuamente nell’« eternità dell’amore », è presente già nel capitolo vii dei Misteri di Firenze. 2 Il narratore sembra tenere una forma di equidistanza da entrambi i suoi personaggi maschili che, pur nella loro opposta caratterizzazione, sono troppo coinvolti e incapaci di vedere se stessi con un opportuno senso di distacco. Ciascuno, quindi, è ortisianamente immerso nel proprio sentimento di amore e di delusione e non pare capace di individuare nella propria vicenda un andamento paradigmatico e prevedibile. Raullo non tarda a manifestare a Fatima la propria devozione « con accento drammatico e appassionato », presentandosi  





































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secondo lo stereotipo ben noto dell’amante privo di ogni speranza. Inutile dire che parola e gesto concorrono a delineare un effetto di forte enfasi e di eccesso retorico che, suscitando il riso del lettore, gli impediscono di immedesimarsi nella scena :  

Che il cielo pietoso, Fatima, non vi faccia mai provare lo spasimo più crudele di tutti, quello di amare senza la speranza di essere riamati !… La fanciulla dei miei pensieri o non si avvide o non volle avvedersi della funesta passione che mi logorava la vita !.... 3  



Per dimostrare a Raullo che il suo amore era stato, in un primo tempo, corrisposto senza che lui se ne fosse accorto, Fatima gli legge una poesia d’amore, composta dal cugino per l’occasione. Anche il genere lirico interviene quindi come supporto necessario alla configurazione dell’amore offerta dalla letteratura. Infatti, come l’innamoramento di Prosdocimo scocca grazie all’esecuzione a quattro mani di un brano tratto dalla tragedia lirica di Mercadante, così il sentimento per Raullo viene espresso tramite un testo poetico. In entrambi i casi, la mediazione musicale e letteraria è elemento necessario e decisivo. Il componimento, di sette strofe miste di endecasillabi e settenari, è una citazione autoironica di Collodi che riprende, con minime variazioni, alcuni versi da lui composti nel 1848 e pubblicati nel 1862.4 Modesto dal punto di vista letterario, il testo mostra una situazione di innamoramento (e una concezione dell’amore) complementare a quella descritta dal narratore a proposito di Prosdocimo. La fanciulla della poesia, infatti, « così lieta e sorridente in pria » (v. 5) – cioè prima di innamorarsi – alle avvisaglie della cotta diventa « mesta », e scopre subito come amore rimi con dolore. Tuttavia, conclude il poeta, è « Miser chi non amò ! », confermando la necessità della passione. Siamo quindi ben lontani dalla visione ‘terapeutica’ del capitolo vi, in cui il narratore equipara amore e malattia. L’incontro di Fatima con l’alter ego del marito ha anche un’altra valenza, che crea un secondo effetto di rima con l’episodio di apertura in cui Fatima e Prosdocimo si conoscono. Qui infatti sul registro enfatico e melodrammatico della scena, nella quale l’amante in ginocchio implora l’amata di poterla almeno adorare in segreto, si innesta il consueto ribaltamento collodiano. Nel momento in cui Fatima pronuncia il nome di Prosdocimo temendo che il marito stesse per sorprenderla, Raullo scoppia in una risata sguaiata e sonora, incredulo che un tale nome abbia potuto ammaliare la bella giovane. Fatima dunque, che con il suo riso smodato aveva creato un complesso nel suo incredulo ammiratore (Prosdocimo), diventa ora a sua volta oggetto di riso ilare e denigratorio del suo potenziale amante (Raullo). Un riso che è alla base dell’esito fallimentare del matrimonio. Come si è anticipato, infatti, Collodi inserisce una coda alla storia affidandole il senso ultimo del racconto. Si tratta di un finale negativo perché le riserve sulla prosaicità del nome hanno la meglio sul vincolo affettivo e coniugale, diventando il pretesto per determinarne la rottura. La vicenda tuttavia non riflette solo lo sguardo disincantato che Collodi riserva sempre alle dinamiche matrimoniali, ma ha come esito più specifico l’acquisizione da parte di Prosdocimo di una diversa, seppur tardiva, consapevolezza. L’ultima scena vede infatti il protagonista annegare i propri dispiaceri nell’alcool e sfogarsi delle proprie disavventure amorose con un altro cliente, al quale confessa : « Ebbene, o signore : se oggi io sono…quello che sono, la colpa, credetelo, non è mia e…nemmeno di mia moglie. Compiangetemi !...io mi chiamo Prosdocimo !... ». 5 Il nome quindi viene ancora ritenuto la causa del rifiuto e del  







   











3

  M, p. 55 (corsivi nostri).   Cfr. il commento di Molina Castillo, M, p. 238, n. 34. 6   M, p. 59.   Ibidem.

4 1

  M, p. 53.

2

  MF, p. 293.

5







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paola ponti

tradimento della moglie, fino al momento in cui la risposta del vicino, consente di adottare una nuova prospettiva :  

-Ebbene, o signore : anch’io mi trovo nel vostro caso ! Anch’io pur troppo sono…quel che sono !...ma molto più infelice, molto più disgraziato di voi !... -Perché ?... -Perché, non ho nemmeno la scusa di chiamarmi Prosdocimo !... 1  











Attraverso queste parole, che non a caso il lettore percepisce in forma di battuta, Prosdocimo fa propria la visione del narratore, passando dal patimento amoroso alla disincantata comprensione razionale, con un effetto curativo e lenitivo che il testo non manca di sottolineare : « Questa rivelazione inattesa fu, diciamolo pure, un vero balsamo per l’anima del  

povero Govelli ». 2 Il narratore quindi non lascia il personaggio al proprio destino di cornuto inconsapevole, ma gli riserva l’inattesa comprensione del proprio stato come una condizione fisiologica propria di (quasi) tutti i mariti. La conclusione di Govelli in forma interrogativa, che ha certo il tono della domanda retorica, coinvolge direttamente il pubblico in quanto potenziale protagonista di un’analoga storia : « sarebbe dunque vero che tutti i mariti, dal più al meno, si chiamassero un po’ Prosdocimi dinanzi alla propria moglie ?… ». Anche il lettore, come Prosdocimo, può allora lasciarsi alle spalle i sorrisi fiduciosi e i pianti sconsolati, per incarnare – almeno una volta – la condizione di « mammifero ragionevole ».  









2

  M, p. 60.







L’ANIMA DEL BURATTINO : RILETTURA DI PINOCCHIO  

Pietro Gibellini

C

aro Giorgio, lo diceva anche Manzoni : i vecchi rileggono più volentieri dei libri nuovi quelli che hanno letto da giovani. O che da bambini, aggiungo, hanno ascoltato accoccolati sulle ginocchia di un’amorevole lettrice. Non ti dispiaccia dunque se ti propongo una rilettura adulta di Pinocchio. Col tono conversevole autorizzato da una stagionata amicizia, e senza costellarlo di rinvii bibliografici, spero di toccare alcuni punti non scontati di questo piccolo capolavoro. Lo stimolo di partenza l’ha offerto un fascio di lettere di Benito Jacovitti all’editrice La Scuola, scampato al bombardamento che colpì anche altri edifici di Brescia, nell’ultima guerra. La casa editrice cattolica, che aveva suggerito al « Vittorioso » di ingaggiare quel giovanissimo talento, propose a Jacovitti di illustrare il libro di Collodi nel cuore della guerra, le cui traversie dilazionarono fino al 1945 l’uscita della storia del burattino, allora illustrata in bianco e nero (più tardi il maturato artista avrebbe prodotto una nuova edizione con vignette a colori). Proprio una sua progettata figura finale, poi sostituita da quella che rappresenta il burattino ormai inanimato accasciato su una sedia, ha guidato l’idea di fondo. Ma procediamo con ordine...  





1. Pinocchio salvato dai bambini L’autore di Pinocchio è Collodi, non c’è dubbio. Ma forse non solo lui. La sua storia non sembra forse dettata, all’agiografo ispirato, dal puer universale che accomuna tutti i bambini del mondo e che, come il fanciullino pascoliano, resta dentro gli adulti a ricordare loro che sono un po’ poeti ? In effetti, quando stende le prime pagine della sua favola, Carlo Lorenzini non deve avere in mente un progetto preciso. Mandando le prime quattro cartelline a Guido Biagi, che ha invitato il cinquantacinquenne poligrafo a scrivere un racconto per ragazzi, le accompagna con un biglietto : « Ti mando questa bambinata. Fanne quello che ti pare, ma se la pubblichi vedi di pagarmela bene per farmi venir la voglia di seguitarla ». La stessa irregolarità con cui esce a puntate sul neonato « Giornale per i bambini » di Ferdinando Martini (fra il 7 luglio 1881 e il 25 gennaio 1883), è il segno del procedere a singhiozzo della Storia di un burattino, al punto che, al termine del cap. XV, nel 1882, l’autore scrive la parola « fine », lasciando il protagonista penzolante dalla grande quercia, impiccato dagli assassini : « E non ebbe fiato per dir altro. Chiuse gli occhi, aprì la bocca, stirò le gambe e, dato un grande scrollone, rimase lì come intirizzito ». Figuratevi i piccoli lettori ! Tempestato dalle proteste e dalle suppliche, Collodi riprende la Storia del suo burattino con le Avventure di Pinocchio, concluse ovviamente dal lieto fine, con la trasformazione della marionetta in « ragazzino perbene ». L’autore si rimette all’opera, senza però rispettare le scadenze, forse sviato dall’inquieto personaggio o incapace di seguirne il passo veloce. Un’altra lunga pausa si ha dopo il cap. xxix, quando Pinocchio va a letto con il proposito di diventare bambino l’indomani, quasi che l’autore, affezionatosi troppo al burattino, non riesca a congedarsene.  



























2. Un successo mondiale Furono insomma i bambini a ridare vita al protagonista, e a decretare poi il formidabile successo del libro. Nel febbraio 1883, pochi giorni dopo l’uscita dell’ultima puntata sulla rivista, è già in libreria il volume dell’editore fiorentino Paggi, Le avventure di Pinocchio, primo dei tanti illustrati. Il titolo pre-

scelto, relega quello primitivo, Storia di un burattino, al rango di sottotitolo. Un cambiamento non da poco, che sposta l’attenzione dallo scrittore, che muove i fili di un’anonima marionetta, al personaggio, designato con il suo nome, che guadagna la ribalta come protagonista delle proprie avventure, sciolto da ogni vincolo con il suo padre letterario. Sicché Collodi, come Geppetto, si vede scappar via la sua creatura. Pinocchio, si sa, è sempre di corsa, e anche la sua corsa editoriale è travolgente. A partire dalla versione tedesca del 1905, il libro viene tradotto in quasi tutte le lingue del mondo, compreso il latino (per insegnarlo ai giovani con diletto, o forse per rendere il mondo fiabesco con la nostra lingua-nonna, due modi di ritornare all’infanzia). Il burattino galoppa dalle Alpi alle Piramidi, dalla Cina alle Ande, tracciando una ecumene pinocchiesca che gli fa assumere talvolta le fattezze di maschere del folclore locale. Del resto, nella seconda intercopertina del Pinocchio illustrato per l’editrice La Scuola, Jacovitti lo rappresenta « festeggiato da tutti i ragazzi del mondo », come scrive il 12 dicembre 1943 a Vittorio Chizzolini, guida intellettuale e spirituale della casa editrice bresciana. La tesi volutamente provocatoria di una paternità ‘corale’, soprasoggettiva, può essere avvalorata dal carattere eccezionale del libro, unico smeraldo fra i tanti vetri colorati dello scrigno collodiano. Chi, del Lorenzini, ricorda più le scialbe commedie, o il romanzo-polpettone I misteri di Firenze (scritto a emulazione del best-seller di Eugène Sue) ? Chi le Macchiette e gli altri bozzetti umoristici, o i suoi testi per la scuola ? Ed è soltanto nella scia del capolavoro che è avvenuto il recupero, nostalgico o snobistico, di altri suoi scritti per l’infanzia : Giannettino, Minuzzolo, e i Racconti delle fate tradotti dal francese.  









3. Collodi e Geppetto Non vorremmo però esagerare, e ridurre Collodi al rango di padre putativo del burattino, come Geppetto. È vero, al contrario, che quel gioiello è opera di un prosatore ormai maturo (nasce nel 1826, muore nel 1890), capace di scrivere con mano leggera ma intingendo la penna nel proprio calamaio interiore, nell’inchiostro dell’esperienza vissuta e delle emozioni profonde. Come da due specchi giustapposti, raggi di luce rimbalzano dalla vita dell’autore al suo capolavoro. Carlo crebbe nella miseria, primo dei dieci figli di un cuoco, mantenuto dall’ago e dal filo di una madre santa (la ripagherà prendendo come pseudonimo il nome del paese nativo di lei, presso Pistoia) : ecco dunque Geppetto vendere la giacca per comperare l’abbecedario a Pinocchio, ecco il burattino mangiarsi il torsolo della pera già sdegnosamente rifiutato, eccolo piegarsi a lavorare per un cavolo condito. Pensi all’anomala famiglia formata da Pinocchio, da Geppetto e dalla Fata Turchina, e ricordi che i genitori dello scrittore dovettero stare a lungo separati per sbarcare il lunario, e che Collodi, celibe, abitò con la madre vedova. E contraddizioni, cadute e recuperi accomunano autore e protagonista : gli ardori mazziniani e i ripiegamenti sabaudi, le intemperanze satiriche ma anche il coraggioso arruolamento nella Prima e nella Seconda Guerra d’Indipendenza dell’uno ; dell’altro, sappiamo…  





4. Una scrittura parlata Ma oltre a questo, nella favola, Lorenzini mette di suo quello che uno scrittore deve mettere. A partire dalla lingua, che è quella viva, conforme all’uso toscano, secondo l’auspicio

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di Manzoni, una lingua che si andava incarnando, pardon incartando, nei dizionari di Giorgini e Broglio e di Fanfani e Rigutini. Di quel Giuseppe Rigutini, di cui Collodi fu collaboratore e amico, che del Giannettino non mancò di lodare « la buona e sana lingua », aliena dal ribobolo stucchevole e « in gran parte comune all’Italia e destinata ad unificare o prima o poi nell’idioma tutte le province italiane, prendendo a mano a mano il posto del dialetto e del vernacolo ». Dopo il purismo, tramonta anche il toscanismo municipale alla Giusti, e da Firenze capitale si guarda ormai all’Italia, proprio come fa l’autore di Pinocchio. Per raggiungere i suoi giovani lettori, dal Monviso a Cariddi, egli strappa la lingua all’amorfa scrittura e, per restituirla allo spessore della voce, vi stende sopra sobrie pennellate toscane (« l’ovo » e le « formicole », il « grullerello » e lo « strillio da levar di cervello », il « personalino » e il « ciuchino », « lo spedale » e la « salute cagionosa »). Non si tratta di dialetto, no, poiché nel libro quel termine è riservato al « dialetto asinino » dei neo-quadrupedi, ma di segni di una pronuncia, di suoni di una parola viva, detta, gridata (« Gli è il mì babbo ! gli è il mì babbo ! »). Del resto, che cosa dice lo stesso Collodi, nelle Note gaie ? « Io sono uno che scrive alla buona, come parlo ». Ed è vero. La scrittura di Pinocchio è parlata, anche nelle parti narrative dove, nella filigrana dei passati, irrompe spesso il presente : « La platea, tutta attenta, si mandava a male dalle grandi risate […] quando all’improvviso, che è che non è, Arlecchino smette di recitare ». Con la scelta del ritmo incalzante e delle battute brevi, come quelli del teatro dei burattini, Lorenzini spazza via la sintassi subordinativa di Boccaccio, e pure quella di Manzoni, facendosi intendere dai bambini del suo tempo e apprezzare dagli adulti di cent’anni dopo, che trovano moderno quel periodare e quel lessico (se si tolgano le poche eccezioni legate agli sviluppi della tecnologia, come « il velocipede »,« l’abbecedario », e poco altro). Scrittura parlata, dunque. Non solo i dialoghi, ma tutta la pagina di Pinocchio vibra di oralità : anche nelle parti descrittive e narrative, non troviamo mai il classico distacco oggettivante – altra cosa quello prodotto dall’ironia e dall’umorismo, quelli, sì, sparsi a piene mani – ma una partecipazione affettuosa e stupita, misurabile nell’abbondanza degli alterati, diminutivi e vezzeggiativi (tegamini e leprottini, vecchietti e galletti, vestitucci e cantucci), peggiorativi (omacci e grullacci del malaugurio, nottatacce e ragazzacci), accrescitivi (mascheroni, cagnoni, nasoni) e superlativi (solennissimi e capacissimi, grandissimi e piccolissimi – anche nella fresca variante iterativa : mogi mogi, fitti fitti, pian pianino). Calato nei suoi personaggi e nei suoi piccoli lettori, di cui emula lo stupore e la commozione, lo scrittore di tanto in tanto se ne stacca per far emergere la coscienza della fictio letteraria o per adottare la tecnica dialogica propria del racconto orale delle fiabe : basti pensare al celebre attacco e al suo effetto straniante (« C’era una volta... – Un re ! – diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno »), oppure a uno dei riassunti introdotti nell’edizione in volume, quello del cap. xxv (« Pinocchio ritrova in corpo al Pesce-cane... Chi ritrova ? Leggete questo capitolo e lo saprete »). Come un nonno che mescola alla lettura il proprio commento, Lorenzini aggiunge l’effetto-voce all’effetto-immagine già presente nella princeps di uno dei testi forse più illustrati al mondo, facendone un libro virtualmente multimediale. Contemporaneamente, in questi inserti metanarrativi, Collodi, imitando il suo Pinocchio, fa uno sberleffo alle convenzioni letterarie : assume il genere della fiaba, ma ne canzona l’incipit canonico, e ribalta la funzione del riassunto sacrificandolo all’effetto di suspense (allo stesso modo, egli manipola il proverbio sulle bugie dalle gambe corte e, inventando quelle dal naso lungo, crea un motivo-cardine del libro).  















































   































5. Miscuglio di generi Parodia di convenzioni ? Infrazione di generi ? Il fatto è che Pinocchio, come la critica ha osservato, non appartiene a un preciso genere letterario, ma a molti e a nessuno, ed è anche questa una ragione della sua riuscita, presso lettori grandi e piccini, candidi e callidi. È una fiaba ? Sì, Pinocchio è una fiaba, col suo bravo attacco, « C’era una volta », con la fata e la magìa, con gli animali parlanti antropomorfi o meno (il grillo, il gatto e la volpe, il corvo, il gufo e la civetta, il colombo, il delfino) ; e lo è anche nella struttura, che corrisponde a quella schematizzata da Propp, con gli oppositori e gli aiutanti, terreni o soprannaturali, che ostacolano o favoriscono la quête del burattino animato. Ma il libro è altresì una fabula che recupera e reinventa figure mitologiche tratte dall’antichità o dal folklore, come gli orchi cannibali (Mangiafoco, ciclope dal cuore tenero, il Pescatore verde, il Tritone vorace), l’Ippogrifo (in forma di colombo), l’Idradrago (il Serpente dalla coda fumante) ; e poi la metamorfosi asinina di Apuleio, il biblico Giona nel ventre della balena (qui in forma di Pesce-cane, per la confusione tra selaci e cetacei dura a morire)… Certi critici hanno letto il libro come romanzo d’avventura, giusta l’indicazione del titolo e il frenetico errare del burattino, che nella sua odissea vaga per terra per mare e per cielo, di luogo in luogo e di rischio in rischio (e qui le peripezie s’intrecciano con l’epos del viaggio, l’odissea, appunto). Ma mentre nei racconti d’avventura il protagonista si muove nello spazio e nel tempo restando sostanzialmente uguale a sé, nel suo errare Pinocchio va anche alla ricerca della propria identità attraverso la seconda nascita, la nascita di sé a sé. Non è questa l’essenza del romanzo di formazione ? Nel suo Bildungsroman il burattino semicosciente, curioso e giocherellone, attraverso accidenti negativi e positivi, passaggi esterni e interiori, diventa finalmente uomo laborioso e responsabile – poiché tale può considerarsi, fatte le dovute proporzioni, il « ragazzino perbene », pronto magari a cominciare la formativa lettura del Cuore deamicisiano con il quale, fatta l’Italia, si pensava di fare gli Italiani. Altri l’hanno accostato al genere picaresco, pensando alle continue disavventure del personaggio e soprattutto alla sua fame intermittente e poderosa (trippa alla parmigiana, cavolfiore condito coll’olio e coll’aceto, e la cuccagna di quattrocento panini « imburrati di sopra e di sotto »). E non sono mancati paralleli con il genere umoristico e persino con il romanzo gotico, per episodi come quello in cui il burattino muore appeso all’albero (nel primo finale della Storia) e per altre epifanie funebri : la morte della Fata dai capelli turchini, i neri conigli con la bara… Black humour, per un lettore adulto, per un bambino quel tanto di paura che è spesso il condimento essenziale delle fiabe, e il presupposto del loro effetto catartico.  





























6. Un romanzo di formazione ?  







Dal Bildungsroman al conte philosophique il passo è breve. Nel libro le polarità etiche e le contrapposizioni sociali sono chiare e frequenti : bugia/verità, obbedienza/disobbedienza, onestà/corruzione (sì, Melampo e le faine), lavoro/imbroglio, scuola/teatro, casa/osteria, borgo natìo/villaggio di Acchiappacitrulli, Paese delle api industriose/Paese dei balocchi. Un elenco che non richiede commenti. Altrettanto breve il passo dal romanzo di idee all’allegoria esoterica e sapienziale, e persino cristologica. In effetti, pur con le necessarie cautele, è difficile sottrarsi alla tentazione di leggervi suggestive analogie : la duplice morte e resurrezione del burattino, la prima, imposta dai piccoli lettori, dopo l’impiccagione del finale provvisorio, la seconda che segue all’affogamento del ciuco, di cui i pesci inviati dalla Fata divorano la pelle. Si aggiunga  



l ’ anima del burattino: rilettura di pinocchio che Pinocchio, dispettoso sì, ma capace di offrirsi in sacrificio a Mangiafoco per salvare le altre marionette, ha come padre putativo un falegname di nome Geppetto, ovvero Giuseppe, e una madre ideale e celeste, la Fatina dai capelli turchini, colore tipicamente mariano. E potremmo spingerci fino a vedere in Lucignolo il nomen-omen di un piccolo Lucifero tentatore, nel convoglio dell’Omino di Burro un carro infernale, nella permanenza nel buio ventre del Pesce-cane una discesa agli inferi, nel grillo un angelo custode che si rivela immortale. Cum grano salis, s’intende. Non possiamo certo attribuire a Collodi, un giornalista e poligrafo che interruppe presto gli studi, una cultura compatta e una consapevolezza letteraria di vasto respiro, anche se gli va riconosciuta un’erudizione a tutto campo, acquisita con l’aiuto dell’amico don Zipoli, un sacerdote professore di liceo. Lorenzini, che lavorava in libreria e bazzicava nella Firenze popolare, fu lettore di un gran numero di opere alte e basse, antiche e moderne, profane e sacre, e un conoscitore di testi orali, dal teatro dei burattini alle fiabe toscane (compresa quella dell’Omino di legno ricordata da Papini).

Bimba millenaria dai capelli turchini sono certamente figure parentali, fra loro concordi nell’affetto e nella fermezza verso il burattino, anche se accuratamente separate e caste. Che ne direbbe il dottor Freud ? L’ambiguità di Pinocchio è dunque il segreto del suo incanto. Incerta è la sua età (e la psiche), che corre fra gli otto e i quattordici anni (come quella dei ragazzi ospitati nel Paese dei balocchi), un’indeterminatezza che ha permesso una grande libertà d’interpretazione, non solo ai lettori ma anche agli illustratori, da Enrico Mazzanti, che nella princeps lo disegnò come un magro adolescente, al nostro Jac, con il suo bambino pre-disneyano, contrapposto a un Lucignolo lungagnone. E ambigua è anche la conclusione. Se, rispetto alla provvisoria impiccagione, la metamorfosi del burattino in ragazzino può considerarsi un lieto fine, questa comporta il triste epilogo di un’affascinante avventura, e nel contempo la malinconia per la perdita dell’eden dall’infanzia (la sindrome di Peter Pan).  

8. Il sugo della storia Ma è proprio questo il « sugo della storia » ? Vuoi vedere che Pinocchio cessa di essere un animatissimo bambino di legno per diventare un perfetto burattino di carne ? L’ipotesi è ardita, ma certo il libro ci insegna che qualcosa dello stupefatto e amabile monello dal naso lungo deve essere salvaguardato dal ragazzo che cresce, se non vuol diventare un rassegnato automa. All’editore che gli ha offerto la possibilità di disegnare il suo primo libro, il ventenne Jacovitti scrive di dover cambiare, a malincuore, la progettata vignetta finale, « un Pinocchio trasformato con l’ombra di un Pinocchio burattino », perché l’idea era già stata realizzata in un volume della Salani. E schizza il disegno, Jac, lì fra le righe della lettera del 31 dicembre 1943, donde lo traiamo come sigillo iconico del nostro discorso.  

7. Realismo e fantasia

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Fiaba, racconto fantastico, storia avventurosa, Bildungsroman, narrazione filosofica, allegoria misteriosofica, sì. Ma non dimentichiamo che la stagione in cui nasce Pinocchio è quella del bozzettismo toscano, del pieno realismo e del nascente verismo, di cui profuma ogni pagina del libro. E in Pinocchio l’attenzione alla realtà si mescola continuamente al meraviglioso, il quotidiano al fiabesco, il familiare all’esotico, il materiale all’immaginario, in una contiguità e ambiguità percepite dal lettore adulto come ironico controcanto al sublime, e dai piccoli lettori di tutto il mondo come attraente sintesi del proprio mondo mentale. Come per il fanciullino pascoliano, il loro stupore nasce dalle piccole cose concrete e l’immaginazione ha il peso e lo spessore della realtà : che cosa importa, allora, se Arlecchino riconosce Pinocchio senza mai averlo visto prima ? Se il burattino risuscita da morte come un personaggio dei cartoons ? Se Geppetto dice d’esser stato nel ventre del Pesce-cane due anni, un tempo superiore a quello che risulta dalla narrazione ? (qualcuno l’ha anche misurato : un anno, cinque mesi e ventun giorni). Il fatto è che il tempo degli affetti si allunga e si accorcia, come sa Pinocchio (« E due ore, a questa serataccia, diventano più lunghe di due anni ») e come sa anche Geppetto (« due anni, Pinocchio mio, che mi son parsi due secoli ! »). Anche lo spazio ha misure elastiche, e mescola luoghi riconoscibilmente toscani a terre immaginarie, magicamente cangianti. Vi è, a ben vedere, la stessa logica del mondo onirico, dove il prodigioso coesiste con il razionale. E certo Collodi (o il puer Pinocchio che gli dittava dentro) conosce bene il cuore dei ragazzi : la tentazione della bugia e la curiosità conoscitiva, il fascino dell’homo ludens e la prosaicità del faber, la chimera dei facili guadagni e la paura di un cane mastino. La sua sonda scende anche negli strati più profondi, dove serpeggiano il terrore d’essere divorato dagli adulti-giganti, il sentimento di amore e nel contempo di insofferenza verso i genitori. Perché il vecchio Geppetto e la





















   



Devono pensarla così anche Jacovitti e Chizzolini, quando, nel 1943, cominciano a lavorare al Pinocchio che uscirà due anni dopo. Nel loro piccolo carteggio appare qua e là il riflesso di quegli anni drammatici : il bombardamento che ha colpito la casa editrice bresciana (« Prego il Signore che vi dia aiuto »), il cenno al padre recatosi da Firenze a Roma per portare le tavole al « Vittorioso » e tornato a piedi camminando per cinque giorni « col continuo rischio di lasciarci la pelle ». Ma prevale, a dispetto di tutto, la gioia di dare forma al burattino, con la sua allegra vitalità e la sua forza speranzosa : « Fremo d’impazienza », confessa il giovane artista, certo che il lavoro sarà una « cosa fantastica ».  























LA PROVINCIA NEL ROMANZO REALISTA DI FINE OTTOCENTO : TORRIANI, ZUCCARI, SERAO  

Patrizia Zambon

I

l contributo attinge a tre romanzi : Un matrimonio in provincia di Maria Torriani, 1885 ; Teresa di Anna Zuccari, 1886 ; Il paese di cuccagna di Matilde Serao, 1891. Circoscrive cioè, nell’ampiezza e significatività del tema, l’area della linea d’autrice, dell’estetica realista, dell’articolazione cronologica dentro il tempo breve di un lustro – non ultimo del valore testuale, dato che per tutte e tre le scrittrici si tratta dell’opera ‘capolavoro’. La relazione, la dialettica e/o l’antinomia città-provincia appare in tutti e tre i romanzi perno narrativo importante, se sulla prima si strutturano/sognano le opportunità vitali che la seconda invece racchiude e realizza ; oppure se, come avviene nel romanzo seariano per il personaggio di Bianca Maria Cavalcanti, il percorso dell’esclusione si definisce al contrario nella perimetrazione cittadina di uno spazio claustrofobico, al quale invano si contrappone la serenità salvifica della arcadia campestre. Ma comunque sia – e più significativamente, semmai, nella varietà degli ambienti, degli usi, delle appartenenze sociali – la forza oppositiva dello spazio aperto-chiuso, tumultuante-spento, attivo-immobile, agito-bloccato, enunciato nel tramite nell’interpretazione e nella raffigurazione del tema della provincia, racconta significativamente e con intensità una variabile di un tema principe della letteratura ottocentesca, riflesso qui in identità femminile. 1  







Una caratteristica peculiarmente italiana del romanzo realista tardoottocentesco è la precipua appartenenza alle ambientazioni, chiamiamole, periferiche. Il romanzo realista italiano, nella sua eccellente valenza post-unitaria, inizia, infatti, e ha la sua acme con I Malavoglia. È vero, i distinguo, le articolazioni, sono numerosi e possibilissimi, alcuni anche decisamente condivisibili, ma a volte è utile usare i concetti cardine, e, come dirà Calvino ad ottant’anni di distanza per impostare il suo discorso su realismo e neorealismo nella prefazione ’64 di Il sentiero dei nidi di ragno, il romanzo che fonda la linea contemporanea del genere è quello dei verghiani pescatori di Aci Trezza. In Italia, cioè, pur subito al di là dell’esperienza milanese della Scapigliatura, sulla quale, come noto, studi critici importanti esercitano ormai da tempo una lettura sensibilmente orientata a valorizzare istanze e ragioni cittadine – Gli Scapigliati e la letteratura della « metropoli » europea titolava un suo « materiale » Roberto Tessari già nel 1975 2 – il romanzo realista non si fonda, zolianamente (o baudelairianamente, né su scie alla Murger, per la verità), sui pullulanti quartieri della città moderna, e nasce dentro l’alveo di un meridionalismo che ha nel margine una – una – delle sue intense significanze.  







1   I romanzi uscirono a Milano, Un matrimonio in provincia e Teresa presso Giuseppe Galli, Il paese di cuccagna per la Fratelli Treves. Le citazioni indicate in questo intervento rimandano a Maria Torriani, Un matrimonio in provincia, a cura di Laura Oliva, Lanciano, Carabba, 2007 ; Anna Zuccari, Teresa, a cura di Benedetto Croce, nella silloge Neera, Milano, Garzanti, 1943 ; Matilde Serao, Il paese di cuccagna, a cura di Giulio Cattaneo, ivi, 1981. 2   Ho citato Roberto Tessari, La Scapigliatura. Un’avanguardia artistica nella società preindustriale, Torino, Paravia, 1975 ; poi, nel tempo, si vedano più specificamente le osservazioni di Giovanna Rosa in Il mito della capitale morale, Milano, Edizioni di Comunità, 1982 e in La narrativa degli Scapigliati, Roma-Bari, Laterza, 1997 ; da una particolare prospettiva : Alberto Carli, Anatomie scapigliate. L’estetica della morte tra letteratura, arte e scienza, Novara, Interlinea, 2004.  









A metà degli anni ottanta, mentre ancora in fase di gestazione è il quadro affocato e impietrito della cinica società cittadina e della lavorata, possente campagna del Mastro-don Gesualdo (’89), lontana ancora di quasi un decennio la Catania opulenta e barocca dei Viceré (’94), più vicine ma ancora tacite la Milano tormentata e indifferente del Demetrio Pianelli (’90), la Roma aristocratica e ornatissima di Il piacere (’89), e solo Fogazzaro sta già – del tutto coevo – pervenendo alla socialità insieme quotidiana elitaria ed emozionale del Daniele Cortis (’85), Maria Torriani pubblica Un matrimonio in provincia, 1885, e Anna Zuccari pubblica Teresa, 1886. Due dei più bei romanzi del realismo italiano, nei quali la figurazione della società della provincia italiana, come aveva indicato il grande ‘prototipo’ di Flaubert,3 si costruisce attorno ad una vicenda di donna. Un matrimonio in provincia è ambientato a Novara :  

È difficile immaginare una gioventù più monotona, più squallida, più destituita d’ogni gioia della mia – esordisce l’opera –. Ripensandoci, dopo tanti e tanti anni, risento ancora l’immensa uggia di quella calma morta, che durava, durava inalterabile, tutto il lungo periodo di tempo, da cui erano separati i pochissimi avvenimenti della nostra famiglia. 4

La voce interna al testo è quella della giovane protagonista che agisce nel romanzo, Denza Dellara, la figlia del notaio Dellara della quale la vicenda narrativa racconta – autodiegetica – dieci anni di vita ; e come era stato nelle Confessioni d’un Italiano di Nievo, il racconto della giovinezza è compiuto dalla protagonista al di là della soglia che ne ha definito la conclusione, il tempo consapevole della maturità si mescola a quello incerto della vita che delinea le sue forme nella successione dei giorni, e le abbozza e le consolida in un disegno che solo dalla sponda temporale del percorso concluso è possibile riconoscere, e che tuttavia alla voce che ora narra è chiaramente noto, cosicché la parola che ne deriva suona sempre di stratificato spessore, insieme inconscia e scaltrita, emozionata e critica, tenera ironica descrittiva, e così singolarmente rammemorante. Torriani sceglie la vicenda della ‘donna senza eccezionalità’ : il perimetro del realismo, per lei, è quello della quotidianità, della vita ordinaria e comune – più di quanto non avvenga nella complessa storia famigliare dei Malavoglia, e certo incomparabilmente di più di quanto non avvenga nell’epopea imprenditoriale, e senza paragone, del Mastro ; ma il tema non è certo quello, indubitabilmente novecentesco, della crisi e dello straniamento dell’uomo contemporaneo, nella quotidianità Torriani racconta un’identità che proprio perché è pianamente umana è al centro di un interesse alto, merita che le si ponga attenzione partecipe e fattiva (l’operoso, consapevole, realismo lombardo). 5  





3   E in effetti nel 1882 Verga pubblica Il marito di Elena ; ma anche con il tramite della capuaniana Giacinta (1879, 1886) o, ben mutata l’appartenenza sociale, della derobertiana L’illusione (1891) si potrebbero fare alcune considerazioni interessanti. Quando invece, per quanto più tardi, nel 1930, Giuseppe Antonio Borgese chiederà a Grazia Deledda di tradurre uno dei grandi romanzi dell’Ottocento francese per la collana di traduzioni d’autore, la « Biblioteca Romantica », che redige per Mondadori, la scrittrice sceglierà la Eugenia Grandet di Balzac. 4   Maria Torriani, Un matrimonio in provincia, cit., p. 41. 5   Probabilmente a questa altezza della nostra storia letteraria sarebbe più corretto dire settentrionale ; Torriani, comunque, nata a vissuta a Novara per  







la provincia nel romanzo realista di fine ottocento: torriano, zuccari, serao Al centro del romanzo è il tema, così esplicitamente proprio alla tradizione letteraria del nostro Ottocento, del contrasto tra sogno e realtà, della forza vitale che appartiene all’illusione, e per essa all’età giovane della vita, e del modo in cui l’apparir del vero richiede la caduta delle illusioni ; ma il tema qui non è di ordine filosofico, o poetico ; anzi, nell’orizzonte realistico e attivo che alla scrittrice appartiene, è esplicitamente ‘storico’, sociale, quindi. La storia è quella di una giovane donna – quando il romanzo si apre Denza Dellara ha sedici anni – e della sua lunga attesa d’amore, che durerà per dieci anni, vagheggiando il progetto di un matrimonio che alcuni segnali, troppo poveri in realtà, di interesse manifestati dal giovanotto di un occasionale incontro, che lei nell’immaginazione incrementa e trasfigura, le fanno pensare solido e tangibile, e che deve al contrario infrangersi senza remissione il giorno in cui lui le preferirà, tranquillo, una sposa dalla dote più ricca. Non un romanzo ad intreccio, quindi, come si può ben vedere, né una passione del fait divers, come si sarebbe dato nei percorsi della tradizione francese del realismo ; questo è il tema dello « spaccato di vita » che cerca esplicitamente – e se vedo bene è uno dei primissimi esempi nella tradizione del romanzo italiano – il tempo e lo spazio della quotidianità. Il romanzo ha proprio nella normalità il fulcro del suo interesse. La vita che vi è narrata, come è anche nella vicenda, pur di più denso spessore, di Teresa, si muove tutta nella pacata normalità di un’educazione domestica : il cibo da preparare e la casa da gestire, le nozioni di economia da apprendere, le lunghe ore pomeridiane dei rammendi, della calzetta, del piccolo cucito, la cura dei fratellini ; e poi i piccoli riti di società, pochissimi e sempre uguali, ricevere qualche amica nell’immutabile salotto dai rigidi sofà, uscire di casa accompagnate e composte, quasi solo per partecipare alle funzioni religiose, un eccezionale invito ad una gita in campagna o a uno spettacolo nel teatro della piccola città : 1 le linee dimesse, un po’ goffe, un po’ aspre, lungamente ripetitive, la prosaicità concreta e ruvida di un’esperienza già definita, ordinata dalle ragioni del padre, dalla brutale concretezza della matrigna, alla quale compete, le ragazze vengono istruite dalle donne, di inverarne le forme ; in Teresa dalla inerzia della madre. Non è un motivo manzoniano, però ; la prevaricazione non si determina nel pregiudizio dinastico e nell’autoritarismo disumano che violenta la volontà di Gertrude e ne deforma la giovinezza ; non è neanche un motivo verghiano, l’uomo imbelle e la matrigna interessata che sacrificano la povera capinera al prioritario, o oppressivo, valore della roba. Questo è un padre affettuoso, sinceramente appassionato delle sue figlie (Denza ha una sorella di poco maggiore, Titina) ; e la matrigna è altrettanto sinceramente orientata ad agire con positività, nel loro interesse. È che il bene di Denza si fa per essi nell’adesione proficua alla forma che la socialità (patriarcale) ha elaborato per la sua realtà di giovane donna, che avrà costruito il suo futuro quando si sarà sistemata, avrà dato alla sua vita la forma solida e risolutiva di uno stato matrimoniale, nel quale solo può avere identità la sua collocazione nel mondo. E questo è anche il pensiero di Denza : bisogna trovare marito, questa è una necessità prioritaria e ossessiva, perché altrimenti non  

























tutto il periodo della formazione, si trasferì a Milano attorno ai ventisei anni, e nella capitale editoriale d’Italia svolse pressoché per intero la sua attività professionale. 1   La scena di una di queste ambientazioni di società sarà ripresa, e nel suo contesto ridefinita, dal Verga di Mastro-don Gesualdo, nel capitolo iii della Parte prima, nella sequenza che fa incontrare Bianca con Gesualdo (e con Ninì Rubiera) in casa Sganci, sul balcone stipato degli invitati « venuti per vedere la processione del Santo patrono » ; si veda l’incontro di Denza con Mazzucchetti che avviene sul ballatoio di casa Bonelli durante la processione della prima domenica di ottobre, la festa del Rosario, nel sobborgo di San Martino, pp. 84-90. Sul piano documentario, per il tema della conoscenza reciproca, si veda 29 inediti Verga-Torelli Viollier, a cura di Gino Raya, « Biologia culturale », xiv, 3, 1979.  









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c’è vita, c’è la quotidianità mortificata e senza luce della zia che è rimasta in casa, zitella, e vive le sue giornate obbedendo alla cognata entrata in casa, e vive le sue solitudini dietro il paravento che nella cucina delimita lo spazio umiliato che a lei può appartenere. È anche il tema narrativo dell’autrice. Nella sua realtà di intellettuale di successo – scrittrice di prestigio, signora dei salotti, professionista nel dinamico ambiente culturale milanese (quello raccolto attorno al « Corriere della sera », prima di tutto, che il marito di Torriani dirige, e per il quale lei lavora con i suoi contributi) – l’attenzione torna più volte, con simpatia, a riflettere sui dolori sottaciuti di chi la vita sconfigge, passando oltre ; ma lo sguardo non assume, non vuole assumere, la perforazione senza scampo della prefazione verghiana : Maria Torriani si muove nel perimetro positivo della sua fattività settentrionale, la scrittura che riflette e interpreta guarda in faccia direttamente la sua giovane protagonista, e nel suo tramite stranito e esemplare, denuncia il limite che ne condiziona l’esistenza. Che è limite interiore, certo, e rimanda alla passione fantasticante delle giovinezze sfogliate/ consumate in provincia (quanto esteso e quanto significativo, e articolato, e variegato, sarà questo tema nella narrativa del Novecento), ma è anche, indubitabilmente, limite storico, sociale. La giovane vita femminile è oppressa nel cerchio di una sottomissione che è definita dalle forme di una società che volontariamente si struttura/si è strutturata sulla sua subordinazione, che ne disattende insieme le potenzialità, i bisogni e i diritti, ne distorce l’espansione vitale, e trasforma la realtà, l’adesione alla realtà, in una perdita. 2 Certo comunque preferibile al sogno, perché la sua assunzione ha comunque un valore operativo mentre la permanenza nell’illusione inceppa ed estromette, assai più di quanto non consoli o sostituisca, ma comunque compressa da un limite che ne definisce la restrizione, le ali tagliate dell’essere. Di questo limite l’ambientazione provinciale è figura di potente efficacia. È la provincia minuta e dignitosa dell’Italia settentrionale che fa con questo romanzo, e con il contiguo romanzo di Zuccari, la sua comparsa nella letteratura italiana, e si svilupperà poi nella Brianza di De Marchi, fors’anche, in certi tratti, nella Vicenza del Fogazzaro di Piccolo mondo moderno e di Leila ; ed è così diversa dalla provincia aridificata del meridione di Verga (e di Pirandello), quella sorta di pozzo recluso nel quale macinano la loro sconfitta fatica e le stigmate del loro anelito i personaggi del grande maestro. Così diversa anche probabilmente da quella ‘ciabattona’ di Cagna – per non parlare di quella di Dossi, poi, delle sue di forme di corrosione – o da quella emarginata di Bersezio, perché guardata qui con uno sguardo che anche quando è divertito, o ironico, e la Torriani è davvero una grande interprete delle forme dell’ironia, contiene in fondo una sorta di affettivo interesse allo spessore umano dei suoi riti, di cordiale rispetto per le vite che nelle sue forme si espletano, cordialmente sorrise, non irrise. Forse solo il Verga di certe pagine ‘milanesi’, 3 ma meglio ancora della riduzione in pièce di In portineria (che peraltro è appunto del 1885) sta compiutamente bene accanto a questa sequenza.  









2   Con gli scrittori della generazione successiva, nella dimensione d’autobiografismo e disarticolazione narrativa che costituisce la cifra più singolarmente riconoscibile della prosa, inquieta dibattuta e sperimentale, della stagione primonovecentesca, la provincia come noto diverrà tema in figurazione – e penetrazione – ideologica nell’analisi serrata e riflessiva di Sibilla Aleramo in Una donna, 1906. 3   E non intendo solo quelle di Per le vie ; di specifico interesse in questa prospettiva mi pare anche la prima delle raccolte di novelle verghiane, Primavera, 1876 ; su questo tema ho scritto nel saggio La città industriale nelle novelle di Giovanni Verga, capitolo di Il filo del racconto. Studi di letteratura in prosa dell’Otto/Novecento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2004. Meno compiutamente, e con la percezione di uno scorrimento temporale che non è certamente trascorso invano, di uno specifico interesse in questa prospettiva mi paiono anche certi toni del Praga di Memorie del presbiterio (1869) e dell’insospettabile Rajberti del Viaggio di un ignorante (1857).  



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Disincantata e solida, ripetitiva ma non banalmente svuotata, rituale certo, e soffocantemente pre-stabilita, ma assai diversa dal feroce conformismo della provincia che è messa a nudo in certe pagine criticissime della narrativa novecentesca, la Novara di Torriani disegna l’orizzonte di una quotidianità che ha in sé stessa la sua forza narrativa, che vale proprio perché non ha eccezionalità d’opera, perché non si avvale dello scarto, né verso l’alto né verso il basso, per assumere potenza narrativa, perché il suo valore sta nel raccontare la calda vita che sta dentro alla vita di tutti – di una ragazza che nel susseguirsi dei giorni compie il suo di percorso dentro le forme della vita. Ma il suo di viaggio ha binari definiti, e quindi atmosfere grigie e solo ingannevolmente vaste, come vaste sono le campagne attorno alla città, lunghe a perdita d’occhio le strade, « larghe, diritte, bianche l’inverno di neve, e l’estate di polvere » sulle quali si cammina « senza scelta, senza scopo » ; 1 la sua avventura di vivere, unica e irripetibile, perché questa è l’identità della vita e della letteratura, ha un’esemplare normalità. Il romanzo di Zuccari, Teresa, che a distanza di un solo anno esce per lo stesso editore, ha, come si diceva, una linea tematica contigua, e una identità certamente indipendente. La vicenda è assai simile, anche Teresa racconta la giovinezza della sua protagonista, dal tempo sorgivo dei quindici anni che presentono l’apertura alla stagione delle scelte vitali, al tratteggiarsi, definirsi e consolidarsi degli anni giovanili che stabiliscono le forme della vita adulta, e poi al loro progrediente sfiorire, doloroso perché dentro ad uno spreco vitale che si è costretti a sapere irrecuperabile. Anche per Teresa, poi, la forma di vita che fa argomento nel romanzo è quella del matrimonio ; ma quello qui preconizzato è un matrimonio vero, un progetto d’amore contro il quale si accampano ostili la volontà paterna, che vuole salvaguardare tutto intero il piccolo patrimonio famigliare alla carriera del figlio maschio, la remissività sconfitta della madre, l’ottusità condivisa e soffocante della cittaduzza in cui Teresa Caccia vive. Siamo ancora nell’Italia settentrionale, nella pianura cremonese, e le linee della piccola città (altro tema di straordinario sviluppo novecentesco, questo della ‘piccola città’) sono definite con un’attenzione minuta di densa atmosfera : le case che si affacciano sulla via hanno impresse nelle forme le vite di coloro che le abitano, ognuno è noto all’altro e regge nella persistenza riconoscibile della sua immagine, e nelle densità stratificate attraverso gli anni, il senso di un tempo che è sempre uguale e sempre scorrente, la vita che non si evolve eppure muta, scema e si consuma. Teresa abita nella via San Francesco, che riconosce in ogni gesto e in ogni dettaglio - come sarà via del Corno. La prima volta che le viene data forma nel romanzo, la strada è raffigurata nell’atmosfera sospesa di un nebbioso mattino autunnale ; 2 lo spazio è definito dal carretto del fruttivendolo ambulante che la percorre con le sue pere calde, unica forma in movimento sulla quale può appoggiarsi lo sguardo di Teresa al di là dei vetri della finestra :  

















La via di S. Francesco era affatto spopolata, tutte le case silenziose, un vapore grigio nell’aria, ancora qualche cosa di tenebroso e di addormentato. Caramella si fermò dal tabaccaio, abbandonando la carriola sul marciapiede, ed entrò a bere un bicchierino di grappa. [...] 1

  Maria Torriani, Un matrimonio in provincia, cit., p. 44.   Ma è il secondo ‘movimento’ nel romanzo ; il primo tempo di Teresa, le pagine di apertura, sono concitate e incalzanti, la società del paese è portata in scena in piena azione, anzi in straordinaria azione, la notte nella quale tutti sono sull’argine del fiume a scongiurare – tentare di scongiurare – le conseguenze della piena minacciosa del Po ; Verga un paio d’anni dopo assumerà lo stesso schema, e aprirà il Mastro-don Gesualdo con il quadro del paese in fermento, nella notte, a scongiurare le possibili conseguenze dell’incendio scoppiato a palazzo Trao. Per la documentazione dei rapporti tra Giovanni Verga e Anna Zuccari si vedano le lettere edite in Giovanni Verga e Neera : un carteggio (con due lettere di Eleonora Duse), a cura di Antonia Arslan, Rita Verdirame, « Quaderni di filologia e letteratura siciliana », vi, 5, 1978. 2











Al palazzo Varisi, [...] non guardò neppure ; e non guardò la casa attigua, dove stava la Calliope, quella stramba nemica degli uomini, ai quali faceva gli sberleffi, come un monello, dietro le ferriate del piano terreno. Si fermò invece dirimpetto all’abitazione del pretore e bussò alla porta come uomo sicuro. Là difatti gli comperavano sempre le sue pere [...]. Anche nel palazzo Portalupi, l’emulo del palazzo Varisi, lo zoppo aveva le sue entrate libere ; forniva la dispensa dei signori Portalupi, marito e moglie, ricconi, con tre ragazze da marito ; e serviva la vecchia Tisbe, una cameriera in ritiro, alla quale i Portalupi avevano ceduto due camerette al secondo piano. Niente da fare con don Giovanni Boccabadati, don Giovanni di nome e di fatto, la cui vita misteriosa ed equivoca lo additava alla curiosità delle donne e all’invidia degli uomini. Nella casa dove egli viveva solo, con un vecchio servitore, si vedevano qualche volta entrare ed uscire ombre femminili, sulle quali la vecchia Tisbe appuntava i suoi occhiali, e che le tre ragazze Portalupi guardavano sdegnosamente, mordendosi le labbra. Fra la casa Boccabadati e quella del pretore stavano i Caccia [...]. Teresina, alla finestra, seguiva coll’occhio la carriola ; e quando non la vide più, rimase ancora a guardare la strada lunga, colle sue case allineate – quella bianca della Calliope ; quella dei Varisi, annerita, e dei Portalupi, tutta gialla, colle cimase delle finestre ad uso marmo ; la casaccia larga e bassa, dipinta di rosa, dove abitava il pretore colla sua numerosa famiglia ; la casina misteriosa di don Giovanni colle gelosie verdi e la porticina stretta ; e poi tutte le altre, in fila, serrate, perdentesi a destra ed a manca, sotto la linea irregolare dei tetti, nella striscia di cielo pallido che appariva in alto. 3  















Nel perimetro di questa via, che si squarcia di tanto in tanto verso aperture di campagna, respiri larghi e luminosi che solo un’occasione inattesa e portata da fuori, da una qualche azione esterna – l’invito di una zia, ad esempio – rendono possibili ; di più, spesso proprio nella figurazione del perimetro della casa, e del balcone dal quale ci si affaccia sulla via, è data l’immagine tangibile della vicenda di Teresa. Eppure il personaggio non è soffocato o compresso ; è tale il rilievo della scrittura di Zuccari, la sua capacità di esplorazione dell’animo della sua protagonista, la determinazione a riconoscere a questa figura di donna, sacrificata da una socialità tanto volontaristicamente perbene quanto oggettivamente crudele, uno spessore d’alto profilo, una intensità di significanza umana che è intensità di forza artistica, da trascendere linee di tipo mimetiche, riproduzioni di soffocata oggettualità. Il piccolo paese, la provincia, è nel romanzo di Teresa il luogo intimo e profondo in cui vivono gli ‘umili’ – ma il concetto si è mutato, notevolmente mutato nello svolgersi della storia del romanzo dei paesi di Lombardia, 4 l’orizzonte si è ristretto, la profondità storica ha distillato solo percezione di socialità, riti, comportamenti, abitudini, non figurazione e interpretazione delle sue grandi campiture ; e ad opprimere ‘le’ umili non si muove più l’arbitrio capriccioso e dispotico, la prepotenza esercitata e comandata ; bastano le convenzioni. Quelle che la città progredita e attiva limita e smussa, qualche volta infrange, spesso disperde, quasi sempre relativizza ; ma che la provincia, invece, arcaica, statica, pettegola, fissa ed esalta. E iscrive, quando il narratore è di alto livello com’è l’autrice in questo romanzo, nelle forme di un realismo ottocentesco dal timbro irripetibile : Teresa dà un ritratto femminile che per  











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  Anna Zuccari, Teresa, cit., pp. 18-20.   Mediante la figura della ragazza sottoposta alla violenza della realtà, lei e non altri, ‘metafora’ narrativa perfettamente adeguata a raccontare l’ingiustizia della storia, si potrebbe in un certo senso persino raccontare la storia – un filo della storia – del romanzo della linea lombarda nell’Ottocento : Lucia (1827, 1840) e la prevaricazione strutturale e sconfitta dei potenti ; la carcaniana Angiola Maria (1839) e il modello esemplare, patetico e conservativo ; la sconfitta Paolina di Tarchetti (1866) e il volontarismo della denuncia sociale della Scapigliatura ; la sacrificata Teresa (1886) della Zuccari, e la densità significante della pagina realista, il peso della convenzione sociale ; l’Arabella (1893) di De Marchi e l’inquietudine oscura (decadente) che i sentimenti disattesi, negati, repressi scavano nell’essere. 4











la provincia nel romanzo realista di fine ottocento: torriano, zuccari, serao capacità di penetrazione, rilevanza di significati, intensità di atmosfere, sobrietà letteraria dei mezzi (si salda felicemente in questo caso l’autodidattismo della formazione d’autrice con la realtà del soggetto, che dalle stesse chiusure è definito, Zuccari riesce a dotarsi di un linguaggio di notevole efficacia narrativa), ha pochi uguali nella storia del romanzo italiano d’Ottocento. 1 Il paese di cuccagna, il grande romanzo di Matilde Serao è invece, in significativa diversificazione dalle autrici settentrionali (ma anche da Verga, dal Capuana delle Paesane), di ispirazione serratamente cittadina : una Napoli tumultuante, variegata, veramente iridescente, nella quale una gamma frantumata – ma non infinita – di facce si rispecchiano e riverberano illuminandosi reciprocamente, dando davvero l’impressione di un prisma che irradi figurazioni, compatto e solido, però ; tanto costruito sulla forza immaginosa, perfino barocca, dell’inesausto accumulo figurativo questo di romanzo, quanto Torriani e Zuccari lavorano invece sulla scarnificazione, sulla compenetrazione. 2 Ma il movimento anche qui non compete alla riscrittura che fa Serao del personaggio che abbiamo assunto a tema. La giovane donna sottomessa alla autorità/arbitrio patriarcale è qui Bianca Maria Cavalcanti, ed anche per essa la forma data alla vita dalle ragioni del padre è una dispersione dei giorni, un gocciolìo senza fine del tempo di giovinezza, che qui però, nelle istanze più determinatamente romanzesche di Serao, non ha nemmeno un esito, si conclude solo con la consumazione della morte. Bianca peraltro è di appartenenza aristocratica, la sua consunzione è anche decadimento e decadenza, nell’affresco dilatato della corruzione profonda che porta nelle vite di tutti i personaggi del Paese di cuccagna il tarlo mostruoso della passione per il gioco d’azzardo, è la vittima estrema, la figurazione che è posta al vertice del ritmo ascendente (discendente, per la verità) con il quale è costruito questo bel romanzo ; e nel padre è raffigurata una follia, più che la definizione di un’istituzione di dominio, sebbene proprio nel dovere d’obbedienza della figlia alla volontà paterna in fondo quella follia si procuri gli strumenti per agire.  





1   Anna Zuccari fece seguire a Teresa, che costituisce certamente il vertice della sua non omogenea produzione letteraria, altri due romanzi di timbro realista, con i quali costituire una sorta di ciclo dedicato al tema della donna giovane, Lydia, nel 1887, e L’indomani, nel 1889 (anch’essi con la Casa editrice Galli) ; meno riuscito il primo, certamente bel romanzo il secondo. Sul tema dell’interesse che ha per il critico di oggi lo studio delle particolarità stilistiche delle scrittrici di tardo Ottocento mi permetto di rimandare al mio Leggere per scrivere. La formazione autodidattica delle scrittrici tra Otto e Novecento, capitolo di Letteratura e stampa nel secondo Ottocento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1993. In effetti, già nel 1910 Sibilla Aleramo aveva significativamente annotato : « è notevole il fatto che le più forti scrittrici in Italia oggi sono tutte autodidatte : Matilde Serao, Ada Negri, Neera e Grazia Deledda si sono imposte sopra tutte le altre al pubblico per il loro temperamento artistico schietto, per il loro personale accento non derivante da alcuna maniera » : Sibilla Aleramo, Appunti sulla psicologia femminile italiana, in La donna e il femminismo, a cura di Bruna Conti, Roma, Editori Riuniti, 1978, pp. 159-160. 2   È una scelta di stile, e d’arte, che una scrittrice come Paola Drigo – un’altra settentrionale, dunque, e nella generazione successiva – dichiarerà più volte esserle esplicitamente necessaria nella composizione di un romanzo dello spessore di Maria Zef (un’altra ragazza, dunque). Lo dichiara nella sua corrispondenza con Diego Valeri : « Quanto al romanzo, [...] l’accingermi ad una tela vasta, e che vorrei al contempo bella, chiara, viva e durevole, mi sgomenta. D’altronde sono più portata alla rapidità, alla concisione, alla linea retta sicura e incisiva, al gettare il superfluo per lasciare in vita solo l’essenziale, che al gonfiare, al deviare, al diluire. Ne deriva una semplicità che io non disprezzo, anzi amo, poiché la semplicità in arte - Lei lo sa meglio di me, - significa ricchezza, scelta, austera disciplina, coscienza dei propri limiti » (Paola Drigo a Diego Valeri, tardo autunno 1930 : Venezia, Fondazione Giorgio Cini) ; lo ribadisce scrivendo a Berenson : « Vorrei finire il manoscritto entro la prima metà di Dicembre, ma non so se potrò. Io sono lentissima, o piuttosto incontentabile ; severissima giudice di me stessa ; proclive sempre a togliere, a sfrondare, a disabbellire. Quando ho finito, mi pare che tutto sia da distruggere e da ricominciare da capo. È così difficile saper rimanere all’essenziale, rifiutarsi ai facili successi della retorica ! » (Paola Drigo a Bernard Berenson, 30 novembre 1935 : Fiesole, Villa I Tatti (Harvard University), Archivio Berenson).  



























   





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Bianca Maria Cavalcanti vive nello spazio racchiuso del palazzo avito, nelle grandi stanze che l’impoverimento ha progressivamente svuotato, che l’ossessione paterna ha incupito e oscurato, che il tempo ha ricoperto colla sua distruzione – e sono tuttavia le grandi stanze piene d’ombra della sua antica tradizione aristocratica. Il silenzio che le aggrava segnala ancora il tema di un’esclusione che è definita questa volta da un velo impalpabile e tuttavia tanto tenace quanto è quello dell’ottusità del padre che imprigiona Teresa ; ed è intessuto dal senso di un dovere figliale che non ammette deflessioni, più stringente ancora, se possibile, della causa tangibile e riconoscibile delle due protagoniste di socialità piccoloborghese, perché in un certo qual modo autoimposto, sostenuto dalle ragioni dell’interiorità, sebbene, come si diceva, assai bene germinate, e dipanate, dalla consapevole opera paterna. Quando compare in scena, terzo quadro nella gradazione della scala sociale che Serao assume a strutturazione, dopo quello popolare di Carmela, l’operaia di dolente miseria che si consuma nel suo amore sfruttato e misconosciuto, dopo quello borghese di Luisella Fragalà, la forte donna della prospera famiglia di commercianti che la debolezza del marito riempirà di debiti e cambiali, Bianca è – « prostrata sul bruno e vecchio inginocchiatoio di legno scolpito, coi gomiti appoggiati sul cuscino di velluto, con la testa lievemente chinata e il volto nascosto fra le mani » 3 – nella cappella gentilizia di palazzo Cavalcanti.  





Immersa nella sua meditazione, Bianca Maria, che aveva la consuetudine di quella cappella, non ne sentiva né il freddo, né la tetraggine. [...]. Nell’anticamera, un servitore vecchio, nella livrea azzurro cupo filettata di bianco, di casa Cavalcanti, leggeva un vecchio giornale, alla luce di uno di quegli antichi lumi di ottone, a tre becchi, che si vedono ancora nelle provincie e nelle case molto aristocratiche. [...]. Mentre si aggirava, solitaria, nell’ampio salone illuminato malamente da un lume a petrolio, cercando il panierino del suo lavoro serale, non trovandolo, passandovi venti volte accanto senza vederlo, ella si pentiva ancora, amaramente, di aver interrogato quel servo : poiché attraverso il sempre crescente decadimento della sua famiglia, quello che più l’amareggiava era quando innanzi ai servi, agli estranei, ella era costretta, dalle loro parole, a giudicare suo padre. Invano ella chiudeva gli occhi per non vedere, passava le sue giornate fra la sua stanza, la cappella e il convento delle Sacramentiste, dove aveva una zia ; invano ella taceva, cercando di non udire i discorsi altrui, le esclamazioni di Margherita, la cameriera, moglie di Giovanni, le domande inquiete della sua stessa zia monaca, le allusioni di alcuni vecchi parenti che ogni tanto capitavano a trovarla [...]. Ora, quietata un poco, seduta presso un tavolino quadrato, coperto di panno verde, un tavolino da giuoco dove era posato il solo lume a petrolio del salone, lavorava a un suo finissimo merletto, sul tombolo, agitando con un movimento vivace i leggeri bastoncelli del filo, intorno agli spilli del disegno. 4  



E così via, in una densità ed estensione di figurazione che si dipanerà senza sosta, anzi aggravandosi, fino alla mortuaria immagine finale. In questo contesto la provincia, la vera e propria campagna, è, secondo tradizione letteraria, il polo alternativo, il luogo risanante della luce e dell’aria, lo spazio liberato dall’ossessione nel quale si potrebbero ritrovare le forze, anzi di più, davvero riemergere alla vita : dalla provincia, la terra di Campobasso, viene Antonio Amati, l’uomo sano e generoso, il medico che offre a Bianca Maria il suo amore, e con esso il pertugio aperto alla salvezza. Anzi, esplicitamente, più e più volte, quando l’atmosfera torbida e opprimente rende ben riconoscibile la capacità di minare alla radice la forza vitale di Bianca, e la sua salute diventa progressivamente sempre più fragile, il giovane  

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  Matilde Serao, Il paese di cuccagna, cit., p. 60.   Ivi, pp. 62-64.

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patrizia zambon

scienziato chiede come via di guarigione (via di fuga, prima di tutto) di portarla fuori da palazzo Cavalcanti, dalla madre, in campagna – idillio impossibile, ma pur distesamente (convenzionalmente) evocato. Impossibile, appunto. Lo spazio così nettamente delimitato della realtà paterna/patriarcale non apre alcuna via alla femminilità giovane. Bianca Maria soccombe, come, assai più malamente per la verità, soccombe Gertrude ; come soccombe Mena, come Lia Malavoglia, come Teresa Uzeda, come Arabella Pianelli, e Bice Del Balzo, e Clara di Fratta, diverse altre ancora. Ma non soccombono Denza e Teresa, la loro vicenda non finisce nel vuoto tacitato dei giorni tutti uguali, del quale abbiamo parlato. Non soccombe Teresa, che alla fine della sua lunga attesa, compiuto tutto intero il suo dovere di dipendenza e di accudienza del padre, che assiste fino alla morte, rimasta sola nella ormai vuota casa di famiglia, se ne chiude significativamente la porta alle spalle, lascia il mondo di provincia  

che ha costituito il luogo della sua vita di zitella, e raggiunge a Milano l’uomo tanto a lungo negatole ; e non soccombe Denza, che accetta il matrimonio possibile, sposa l’agiato notaio che le viene proposto e va a vivere con lui nella comoda casa in cui affluiscono le rendite « de’ suoi fondi a Borgo Vercelli », forte ora di una capacità ragionevole e ironica di guardare alla realtà, che non bara certo sul dolore delle illusioni conculcate, sulla sottrazione amara delle ragioni del cuore, ma anche non accetta la consunzione letteraria come esito e necessità. Entrambi i personaggi riescono a superare il limite che le restringe ; per il tramite di una perdita certo, ma anche per il tramite di una assunzione di responsabilità, che è volontaria consapevolezza, non adeguamento alle attese loro assegnate – nemmeno a quelle, tra formalismo, velleità, inabissamento e sogno, che avrebbero accompagnato per molti decenni ancora la lettura di mano d’autore del tema della donna in provincia. In questi intensi romanzi di mano d’autrice, la provincia non è abitata da Madame Bovary.  







« UNA TROTTOLINA CHE GIRA, SENZA SAPER PERCHÉ ». SCHEDA PER PIRANDELLO POETA  



Enrico Elli

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l luogo più noto in cui Pirandello ci presenta l’immagine della Terra come quello di una trottola lanciata a girare senza senso nell’immensità dell’universo è la pagina della Premessa seconda (filosofica) a mo’ di scusa del Fu Mattia Pascal (1904), là dove il protagonista, dialogando con don Eligio Pellegrinotto, lancia il famoso grido « Maledetto sia Copernico ! » :  

   



– Eh, mio reverendo amico, [...] In considerazione anche della letteratura, come per tutto il resto, io debbo ripetere il mio solito ritornello : Maledetto sia Copernico ! – Oh oh oh, che c’entra Copernico ! – esclama don Eligio, [...] – C’entra, don Eligio. Perché, quando la Terra non girava... – E dàlli ! Ma se ha sempre girato ! – Non è vero. L’uomo non lo sapeva, e dunque era come se non girasse. Per tanti, anche adesso, non gira. L’ho detto l’altro giorno a un vecchio contadino, e sapete come m’ha risposto ? ch’era una buona scusa per gli ubriachi. 1 [...] Siamo o non siamo su un’invisibile trottolina, cui fa da ferza 2 un fil di sole, su un granellino di sabbia 3 impazzito che gira e gira e gira, senza saper perché, senza pervenir mai a destino, [...] Copernico, Copernico, don Eligio mio, ha rovinato l’umanità, irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell’infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell’Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni ; 4 [...] Storie di vermucci ormai, le nostre. Avete letto di quel piccolo disastro delle Antille ? [...] Parecchie migliaja di vermucci abbrustoliti. 5 [...] Chi ne parla più ? Don Eligio Pellegrinotto mi fa però osservare che, per quanti sforzi facciamo nel crudele intento di strappare, di distruggere le illusioni che la provvida natura ci aveva create a fin di bene, non ci riusciamo. [...] Il che vuol dire, in fondo, che noi anche oggi crediamo che la luna non stia per altro nel cielo, che per farci lume di notte, come il sole di giorno, e le stelle per offrirci un magnifico spettacolo. 6 Sicuro. E dimentichiamo spesso e volentieri di essere atomi  

















Ho voluto citare con ampiezza il passo perché esso risulta, in qualche modo, sinteticamente e artisticamente riassuntivo delle principali riflessioni che Pirandello pone a fondamento del suo pensiero intorno alla condizione dell’uomo e al suo rapporto con l’universo e la natura. Riflessioni che trovano in Leopardi la fonte diretta. 9 Tuttavia, volendo limitare l’indagine, almeno per il momento, all’immagine della trottola, occorre subito segnalare che essa ha una sua persistenza nell’opera pirandelliana, soprattutto in poesia : viene da lontano, fin dalle liriche di Mal giocondo (la prima raccolta, del 1889), ed è ancora attuale in Fuori di chiave (l’ultima raccolta, pubblicata nel 1912). Canzone Allegra, infatti, pubblicata nel 1887 nella rivista « Ebe », divenuta poi la iv lirica della sezione Allegre di Mal giocondo, definisce il nostro pianeta « questa sciocca enorme trottola / che ci porta in su ‘l groppone ». 10 In Triste viii l’espressione torna pressoché alla lettera : « questa enorme trottola sciocchissima / per gli spazî lanciata a raggirarsi / in eterno ». 11 Basti per ora sottolineare che la trottola è ancora molto grande (« enorme »), mentre poi diverrà piccolissima, oltre che insignificante. Già fin d’ora, però, da un lato, essa trasporta l’uomo nel suo viaggio terreno (viaggio ugualmente privo di scopo) ; 12 dall’altro, è descritta come lanciata nello spazio e, quindi, destinata a perdersi nel confronto con l’infinita sua grandezza. Al termine della parabola poetica pirandelliana, poi, cioè in Fuori di chiave, l’immagine torna nella poesia in 





















lume dì e notte » (Luigi Pirandello, Arte e coscienza d’oggi, in Spsv, p. 895) ; « [gli uomini] della Luna fanno caso di notte come del Sole di giorno » (Luigi Pirandello, Informazioni sul mio involontario soggiorno sulla terra, in Spsv, p. 1109). La fonte, anche in questo caso, è leopardiana : « [gli uomini] s’immaginavano che le stelle e i pianeti fossero, come dire, moccoli da lanterna piantati lassù nell’alto a uso di far lume alle signorie loro » (Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo ; cito da Giacomo Leopardi, Le poesie e le prose, in Idem, Tutte le opere, i, a cura di Francesco Flora, Milano, Mondadori, 19658 (19401), p. 842) ; « [il sole dice :] sono stanco di questo continuo andare attorno per far lume a quattro animaluzzi » [i ‘vermucci’ pirandelliani] (Il Copernico ; ivi, p. 989). 7   Mi pare abbastanza evidente il ricordo di Dante, per il quale la Terra è « L’aiuola che ci fa tanto feroci » (Par xxii, 151). 8   Luigi Pirandello, Tutti i romanzi, i, a cura di Giovanni Macchia, Milano, Mondadori, 201013, pp. 322-324 ; il corsivo è dell’autore. 9   Come per altro è già stato autorevolmente segnalato. Ricordo soltanto, tra i contributi essenziali : Marco Boni, La formazione letteraria di Luigi Pirandello, « Convivium », xvii, fasc. iii-iv, 1948, pp. 321-350 ; Umberto Bosco, Cammino di Pirandello, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1969 ; Davide De Camilli, Leopardismo pirandelliano, in Studi in onore di Alberto Chiari, i, Brescia, Paideia editrice, 1973, pp. 345-364 ; Gilberto Lonardi, Leopardismo, Firenze, Sansoni, 1974 ; Roberto Salsano, Pirandello novelliere e Leopardi, Roma, Lucarini editore, 1980 ; Beatrice Stasi, Apologie della letteratura. Leopardi tra De Roberto e Pirandello, Bologna, Il Mulino, 1995 ; Luca Serianni, La lingua poetica di Luigi Piandello, in Idem, Viaggiatori, musicisti, poeti. Saggi di storia della lingua italiana, Milano, Garzanti, 2002, pp. 254-281. 10 11   Spsv, p. 461.   Spsv, p. 499. 12   Nella quarta parte della poesia Il pianeta Pirandello scrive : « Facciam conto una vettura / questa nostra Terra sia, / sempre in giro, alla ventura, / su cui far dobbiam la via. // Postiglione, il vecchio Tempo ; / passegger’ precarii, noi : / [...] / E il viaggio costa assai, / e si sta scomodi bene ; / si va sempre innanzi e mai / a destin non si perviene ». Egli è salito in vettura « troppo tardi » e ci sta « male » : « D’aspettar così mi resta, / pazïente passeggere, / ch’abbia fine per me questa / strana gita di piacere » (Spsv, p. 629). A me ricorda, pur nella diversità espressiva, il Congedo del viaggiatore cerimonioso di Caproni.  

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  L’immagine verrà ripresa in uno degli ultimi scritti, le Informazioni sul mio involontario soggiorno sulla terra : gli uomini « la sentono ferma [la Terra] sotto i piedi (a meno che non siano ubriachi) »; ora in Luigi Pirandello, Saggi, poesie, scritti varii, a cura di Manlio Lo Vecchio-Musti, Milano, Mondadori, 19733 (19601), p. 1109 ; d’ora in poi, per brevità, Spsv, seguito dal numero di pagina. 2   « Ferza » è anche nella poesia Il pianeta, di Fuori di chiave. Cfr. Dante Alighieri, Par xviii, 42 : « E letizia era ferza del paleo » ; il « paleo » sarebbe, secondo il commento di Benvenuto da Imola, « instrumentum quoddam ligneum, quo pueri ludunt Florentiae » : una trottola, appunto (riprendo da Giacomo Magrini, La trottola di Rebora, « Paragone », xxxix, 10, 1988, pp. 28-39). L’immagine della trottola sarà, infatti, anche in Rebora (Canti anonimi, viii), ma con significato tutto positivo e diametralmente opposto a quello pirandelliano : « Gira la tròttola viva / Sotto la sferza, mercè la sferza ; / [...] / La sferza Iddio, la sferza è il tempo : / Così la tròttola aspira / Dentro l’amore, verso l’eterno » ; vd. Filippo Secchieri, Dentro i Canti anonimi. Tròttole, deserti e altre ‘imagini’, in Clemente Rebora (1885-1957) nel cinquantenario della morte, Atti del Convegno (Rovereto, 10-11 maggio 2007), a cura di Mario Allegri, Antonio Girardi, Rovereto, Accademia Roveretana degli Agiati, 2008, pp. 149-168. 3   La fonte è Leopardi, che nell’operetta Il Copernico parla della Terra proprio come di un « granellino di sabbia », e nella Ginestra di « oscuro / granel di sabbia ». Per Pirandello « granellino infimo » è la Terra nella novella Berecche e la guerra. 4   Nella lirica d’apertura di Mal giocondo, A l’eletta, si citano il telegrafo, le navi a vapore, le industrie ; Jacopo Maraventano, nella novella Pallottoline !, dichiara : « l’uomo ha il coraggio di dire : “Io ho inventato la ferrovia !”. E che cos’è la ferrovia ? », quanto a velocità, a confronto con quella della luce o della rotazione terrestre... (Luigi Pirandello, Novelle per un anno, iii, a cura di Mario Costanzo, Milano, Mondadori, 1997, p. 193). 5   Ovvio il rimando all’eruzione del Vesuvio nella Ginestra leopardiana. 6   « s’aggirino / sole ed astri a lei [la Terra] d’attorno / per offrirle uno spettacolo / e far lume notte e giorno » (Luigi Pirandello, Il pianeta, 1901, poi in Idem, Fuori di chiave, in Spsv, p. 629) ; « il sole, gli astri s’aggiravan continuamente intorno a lei [la Terra] quasi per offrirle uno spettacolo e farle  

































infinitesimali per rispettarci e ammirarci a vicenda, e siamo capaci di azzuffarci per un pezzettino di terra 7 o di dolerci di certe cose, che, ove fossimo veramente compenetrati di quello che siamo, dovrebbero parerci miserie incalcolabili. 8





































   



















































































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titolata Il pianeta, 1 riferita a tutti i corpi celesti e associata a quella di Dio che con essi gioca :  

Gira, gira... Nello spazio tante trottole. Ci scherza Dio. Talvolta con la trottola di man sfuggegli la ferza, 2 ed in cielo allor si vedono le comete... 3



Malinconico posto però questo che la scienza ha assegnato all’uomo nella natura, in confronto almeno a quello ch’egli s’imaginava in altri tempi di tenervi. Un poeta umorista potrebbe trovare in ciò motivo a qualche suo canto.4 Era un giorno la terra l’ombelico d’una sconfinata creazione. Tutto il cielo, il sole, gli astri s’aggiravan continuamente intorno a lei quasi per offrirle uno spettacolo e farle lume dì e notte. Poteva ogni onesto mortale con le mani intrecciate sul ventre godersi beatamente quest’immenso spettacolo e lodarne in cuor suo il Signore Iddio, che aveva creato per lui tante cose belle. [...] Sappiamo tutti, purtroppo, a che mai essi [i filosofi] han ridotto ora la terra, questa povera nostra terra ! Un atomo astrale incommensurabilmente piccolo, una trottoletta volgarissima lanciata un bel giorno dal sole e aggirantesi intorno a lui, così, per lo spazio, su immutabili orme. 5 Che è divenuto l’uomo ? Che è divenuto questo microcosmo, questo re dell’universo ? Ahi povero re ! 6  







È un passo « densissimo », nel quale Pirandello « fissa i contorni di un’icona dell’uomo della modernità che diventerà una chiave ermeneutica fondamentale (ed eccezionalmente resistente) dei suoi scritti ». 7 Ciò che, in definitiva, risulta essenziale ricordare a margine di questo sintetico percorso, è il fatto che l’immagine della trottola, come si è visto, rientra nel più ampio discorso pirandelliano sul motivo dell’infinita grandezza dell’universo e, di contro, l’infinita piccolezza della Terra e – di conseguenza – la perdita totale di dignità dell’uomo, che passa da re del cosmo ad atomo insignificante. Tutto ciò è frutto delle scoperte della scienza e dei filosofi, a partire dal capovolgimento drammaticamente ironico di ogni coordinata fisica e mentale portato da Copernico, « uno dei più grandi umoristi, senza saperlo », perché « smontò non propriamente la macchina dell’universo, ma l’orgogliosa immagine che ce n’eravamo fatta », come scrive Pirandello nel saggio sull’umorismo. E subito aggiunge, per ancorare esplicitamente l’affermazione ad una fonte autorevole : « Si legga quel dialogo del Leopardi che s’intitola appunto dal canonico polacco ». 8 Il riferimento è all’operetta morale Il Copernico (composta nel 1827), nella quale il sole, stanco del « continuo andare attorno per far lume a quattro animaluzzi, che vivono in su un pugno di fango » e « correre alla disperata [...] intorno a un granellino di sabbia », 9 chiede al ‘canonico polacco’ di rovesciare radicalmente la visione dell’universo che hanno gli uomini. Gli effetti di tale mutamento sconvolgeranno « i gradi delle dignità delle cose, e l’ordine degli enti », scambieranno « i fini  







Leopardi, dunque, lasciava in eredità a poeti e filosofi la sua ben radicata convinzione di un profondo mutamento antropologico e culturale, determinato dalla rivoluzione copernicana e dalle sue imprescindibili implicazioni. Era, il suo, qualcosa di più di un lascito stilistico : apriva un percorso che, arricchito di nuove riflessioni e di una più moderna sensibilità, si sarebbe rivelato portatore di profonde conseguenze nelle età successive, a partire proprio da Pirandello e dal « Maledetto sia Copernico ! » di Mattia Pascal. Il tema cosmico, pertanto, percorre l’intera opera pirandelliana, sempre in stretto collegamento con il pensiero di Leopardi : la Terra non è altro che un « granellino », un « atomo » che si perde nell’immensità dello spazio astrale ; tanto piccolo da risultare invisibile appena ci si allontani un poco da lei. Già nel dialogo leopardiano Il Copernico il sole ricordava che gli uomini (« animaluzzi ») « vivono in su un pugno di fango, tanto piccino, che io, che ho buona vista, non lo arrivo a vedere » ; 12 e nella Ginestra le stelle  



   







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  Pubblicata per la prima volta nella « Rivista d’Italia », ottobre 1901.   «ferza» è anche nel brano citato del Fu Mattia Pascal. 3   Spsv, p. 629. 4   Il riferimento è chiaramente autobiografico ; del resto, nel ‘93 Pirandello ha già scritto poesie intenzionalmente ‘umoristiche’ nella direzione che sarà poi teorizzata nel saggio famoso. 5   Cfr. Momentanee v (in Mal giocondo) : la Terra « ora prosegue per lo spazio il vano / fatale andar su l’immutabil orme » (Spsv, p. 486). 6   Spsv, pp. 895-896. 7   Antonio Sichera, Ecce homo ! Nomi, cifre e figure di Pirandello, Firenze, 8   Spsv, p. 156. Olschki, 2005, p. 41. 9   Giacomo Leopardi, Tutte le opere, i, cit., pp. 991-992.  

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sembrano un punto, e sono immense, in guisa che un punto a petto a lor son terra e mare veracemente ; a cui l’uomo non pur, ma questo globo ove l’uomo è nulla, sconosciuto è del tutto ; [...] . . . . . . . .al pensier mio che sembri allora, o prole dell’uomo ? E rimembrando il tuo stato quaggiù, di cui fa segno il suol ch’io premo ; e poi dall’altra parte, che te signora e fine credi tu data al Tutto, e quante volte favoleggiar ti piacque, in questo oscuro granel di sabbia, il qual di terra ha nome. 13

























Una prova in mille di quanto influiscano i sistemi puram. fisici sugl’intellettuali e metafisici, è quello di Copernico che al pensatore rinnuova interam. l’idea della natura e dell’uomo concepita e naturale per l’antico sistema detto tolemaico, rivela una pluralità di mondi mostra l’uomo un essere non unico, come non è unica la collocaz. il moto e il destino della terra, ed apre un immenso campo di riflessioni, sopra l’infinità delle creature che secondo tutte le leggi d’analogia debbono abitare gli altri globi in tutto analoghi al nostro, e quelli anche che saranno benchè non ci appariscano intorno agli altri soli cioè le stelle, abbassa l’idea dell’uomo, e la sublima, scuopre nuovi misteri della creazione, del destino della natura, della essenza delle cose, dell’esser nostro, dell’onnipotenza del creatore, dei fini del creato ec. ec. 11



























Nel mezzo, per così dire, occorrerà dare rilievo ad un passo del saggio Arte e coscienza d’oggi (pubblicato su « La Nazione letteraria » di Firenze nel settembre 1893), in cui si trovano anticipate e nello stesso tempo sintetizzate tutte le riflessioni intorno al tema. Per quanto riguarda la Terra, essa viene qui definita « trottoletta volgarissima » :  

delle creature » e porteranno « un grandissimo rivolgimento anche nella metafisica ». Dal canto loro, gli uomini « si troveranno essere tutt’altra roba da quello che sono stati fin qui, o che si hanno immaginato di essere » : non rimarrà loro che contentarsi « di essere quello che sono ». 10 Sono riflessioni presenti anche nello Zibaldone :

Pirandello, a proposito degli uomini che si sono scoperti essere nient’altro che « atomi in cielo », 14 nella poesia Il globo esclama : « il guajo è, che il grandissimo lor mondo / a cento passi, ahimé, più non si vede ! ». 15 E Jacopo Maraventano, protagoni 







   

10   Ivi, p. 997. Sulla caduta delle speranze giovanili che si scontrano con l’apparir del vero basti ricordare A Silvia. Sul contrasto tra la fantasia degli antichi, creatrice di poetiche benefiche illusioni, e la scienza dei moderni, che tali illusioni distrugge, si può rimandare al Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica. 11   Zibaldone, 84 : cito da Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, i, edizione critica e annotata a cura di Giuseppe Pacella, Milano, Garzanti, 19911, p. 101. 12   Giacomo Leopardi, Tutte le opere, cit., p. 989. 13 14   Ivi, pp. 123-124.   Spsv, p. 629 : Il pianeta, v. 16. 15   Pubblicata su « La Nazione letteraria », giugno 1893, col titolo Globo : 6 quartine ; poi in « La Riviera ligure », agosto 1905, 4 strofe soltanto, in gran  















«una trottolina che gira, senza saper perché». scheda per pirandello poeta sta della novella Pallottoline ! (1902), cerca di convincere moglie e figlia, incredule, che i grandi pianeti del nostro sistema solare non sono altro che « pallottoline » :  





scoprire il gioco all’uomo, che ora non può più credere alle ‘favole antiche’ :  

O savio antico, teco or più non posso io credere che la terra l’ombelico sia del mondo e che s’aggirino sole ed astri a lei d’attorno per offrirle uno spettacolo e far lume notte e giorno. Se sapessi con che fervido indefesso acuto zelo ci siam messi noi medesimi a scoprirci atomi in cielo ! 6



Trasportate nello spazio il nostro mondo [...] non sarebbe più, insomma, che una stellina in mezzo alle altre stelle [...] Pallottoline, care mie, pallottoline ! Quanto a noi, alla nostra Terra, non se ne sospetterebbe nemmeno l’esistenza. 1  

Infatti « questa molecola solare, chiamata Terra » è « addirittura invisibile fuori del sistema planetario » ; e i suoi abitanti, « questi polviscoli infinitesimali chiamati uomini », 2 non possono presumere di avere alcun valore nel contesto dell’infinito universo. Il tema di Pallottoline ! è ripreso da Pirandello anche in Berecche e la guerra del 1914 : Federico Berecche, a sera, guarda le stelle e  











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le vede per gli spazi senza fine, come forse nessuna o appena forse qualcuna di quelle stelle la può vedere, questa piccola Terra che va e va, senza un fine che si sappia, per quegli spazii di cui non si sa la fine.3

E ancora, nelle poche pagine della Seconda stesura dell’esordio delle Informazioni sul mio involontario soggiorno sulla terra, Pirandello dirà, a proposito di « questa invisibile Terra » :  





L’uomo moderno, novello Amleto vittima del dubbio da cui era esente Oreste, ha messo in discussione ogni tradizionale verità, ha acquisito una visione problematica e tormentosa del reale, è divenuto consapevole di essere una particella infinitesimale del cosmo e di costituire un’insignificante presenza nell’universo. Soltanto coloro che non avvertono l’angosciosa condizione dell’uomo contemporaneo, che agiscono come marionette, protetti da un cielo senza strappi, non provano perplessità angosciose, né ritegni, né intoppi, né ombre, né pietà : nulla ! E possono attendere bravamente e prender gusto alla loro commedia e amare e tener se stesse in considerazione e in pregio, senza soffrir mai vertigini o capogiri, poiché per la loro statura e per le loro azioni quel cielo è un tetto proporzionato. 7  



Sono già da un pezzo convinto che vera grandezza, in una così piccola stella come la Terra, non si può avere se non a patto di sentirsi piccolissimi ; [...] di tutte le cose che gli uomini affermano di sapere sull’infinita grandezza dell’Universo e, per conseguenza, infinita piccolezza della Terra, dànno poi prova di non far più conto, proprio come se più non le sappiano o totalmente le abbiano dimenticate, [...] perché tutti occupati e impegnati come sono di continuo nella costruzione d’un mondo lor proprio, che è quasi un altro a parte sulla Terra. 4  

Ma l’osservazione era già nel Primo foglietto di appunti per le stesse Informazioni :

Analoga situazione viene descritta nella poesia Richiesta d’un tendone.8 In essa anche il buon Pirandello sembra essersi rassegnato al conformismo della società borghese : ossequioso « alle chiese ; alla bandiera », « ai vivi, ai morti », obbediente « alle leggi dello Stato », se ne va « tronfio, per le strade / di Roma », sforzandosi  

















a provar vero quanto ha di sé l’uomo ognor detto – microcosmo e re della natura – 9



Ma fuori del sistema solare, chi potrà interessarsi d’un pianeta che nessuno ha mai veduto nelle regioni del cielo anche più prossime e di cui non si sospetta nemmeno l’esistenza ? 5





Si tratta, perciò, a ben vedere, di una riflessione che accompagna l’intero percorso esistenziale, e non solo poetico e narrativo, dell’agrigentino, come momento costante e centrale nel suo pensiero, fino alla vigilia o quasi della morte. Tutto è iniziato dal guaio provocato dal ‘maledetto’ umorista Copernico, colpevole, in ultima analisi, di aver fatto

ma, ahimé, « dictum quam re / facilius » : la cosa è più facile a dirsi che a farsi... Scoperto il gioco non è più possibile illudersi, a meno di invocare, come appunto fa il poeta in questi versi, un tendone che nasconda alla vista il fatale squarcio che ha svelato la vera realtà. Meglio sarebbe continuare a rimanere schiavo del pregiudizio e vivere – diremmo dantescamente – come un ‘bruto’ e non inseguire la conoscenza ; rimanere nel gregge e seguirne le orme senza porsi domande di alcun genere, come la « greggia » leopardiana del pastore errante, che ben pasciuta si riposa e vive felice senza provare il fatale « tedio ». Non a caso Richiesta di un tendone si apre proprio con un’immagine di questo tipo :  







parte rifatta (le due versioni si leggono ora in Spsv, pp. 786-787 ; cito dalla versione del ‘93). In realtà, il globo di cui si parla nella poesia è un mappamondo : una « palla di cartone / che gira intorno a un breve asse di rame », col quale l’uomo gioca (come fosse un dio) facendolo « girare con un dito » fino a quando, stanco, decide di distruggerlo : « preparo il finimondo per dimani » (Spsv, p. 786). Ricorda molto il dialogo leopardiano di Ercole e Atlante che con il mondo giocano a palla ; ma anche, a mio avviso, il Faust di Goethe, là dove si dice (parte prima, La cucina della strega) : « Ecco il mondo : sale e scende, rotola senza posa ; tintinna come vetro ; che roba fragile ! È cavo. [...] Il mondo è fatto di creta e si frange » (cito da Wolfgang Goethe, Faust, trad. di Barbara Allason, introduzione di Cesare Cases, Torino, Einaudi, 19673, p. 68). Pirandello, com’è noto, studiò in Germania e tradusse le Elegie romane di Goethe. Tuttavia, una ulteriore suggestione potrebbe essergli giunta attraverso il Mefistofele di Arrigo Boito (la versione definitiva è del 1875) ; nella Notte del sabba del secondo atto, Mefistofele, con un globo di vetro in mano, canta : « Ecco il mondo, / vuoto e tondo, / scende, s’alza, / gira, balza, / [...] / Sul suo grosso / curvo dosso / v’è una schiatta / sozza e matta, / [...] / Questa razza / stolta e pazza, / [...] / gonfia, gonfia / nel fangoso globo immondo / del reo mondo ». E alla fine getta con forza il globo di vetro che si infrange (Arrigo Boito, Opere, a cura di Mario Lavagetto, Milano, Garzanti, 1979, pp. 185-186). L’immagine giunge fino al film di Charlie Chaplin Il grande dittatore, il quale, in una scena famosa, gioca danzando con un palloncino-mappamondo, che alla fine gli scoppia tra le mani. 1   Luigi Pirandello, Novelle per un anno, iii, cit., pp. 190-191. Una « pallottola » è definita la Terra nell’operetta morale già ricordata di Ercole e Atlante. 2 3   Ivi, p. 190.   Ivi, p. 595. 4 5   Spsv, pp. 1108-1109.   Spsv, p. 1103.  

























M’ero già fatto della terra schiavo ; entrato nell’armento, per cui la sola verità ch’esista è l’erba che gli cresce sotto il mento. 10

































L’ultimo verso si trova ripetuto, come un ossessivo ritornello, in più luoghi della produzione pirandelliana in versi e in prosa, anche a distanza di tempo, quasi a segnare un’amara constatazione di una realtà che non può essere scalfita dal dubbio sistematico che l’autore sempre vi oppone. L’immagine si accampa già nei giovanili anni ’80, nel poemetto Belfagor (La visita), là dove il buon diavolo consiglia agli 6

  Spsv, p. 629 : Il pianeta, vv. 6-16.   Luigi Pirandello, Tutti i romanzi, i, cit., p. 468. 8   Pubblicata nella « Riviera ligure », maggio 1907, e in « Nuova antologia », 16 agosto 1910 ; ora in Spsv, pp. 621-622. 9 10   Ibidem.   Spsv, p. 621.  

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uomini di non perdersi in chiacchiere e arrovellarsi a chiedere il perché delle cose (per esempio, se l’anima è immortale o no, e problemi simili...) :  

Ma imitate il savio armento, per cui il vero è l’erba tenera, che gli cresce sotto il mento ! 1

E nel ’93, nel saggio Arte e coscienza d’oggi, si ribadisce che l’uomo « non si sentì d’imitare il savio bestiame, per cui la sola verità, ch’esista, è l’erba che gli cresce sotto il mento ». 2 Infine, nella novella Dal naso al cielo Dionisio Vernoni rispondendo al senatore Romualdo Reda conferma stizzito : « Qual è per le pecore la sola verità che esista ? L’erba. L’erba che cresce loro sotto il mento ». 3 Avvenuta la frattura, dunque, da Copernico in poi, la situazione non è più rimediabile. Il poeta, dagli « spazî vani », per « le vie de l’infinito » in cui volava un tempo, ridiscende sulla terra e tra gli uomini fatto dolorosamente consapevole dell’infinita piccolezza e relatività della condizione sua e del mondo intero : « tutta dolorando appresi / nostra miseria vera ». 4  



























La lirica Prima e ora (pubblicata in « Rivista di Roma » il 15 febbraio 1903 e poi accolta in Fuori di chiave col titolo Bolla e palla) a me pare riprendere e sviluppare una situazione analoga. Se un tempo il poeta riusciva a liberare in alto il suo pensiero e la Terra era per lui una « bolla » leggera ch’egli poteva soffiare di qua e di là a suo piacimento, ora invece la sente « come ferrea / palla di galeotto » 5 che lo tiene irrimediabilmente ancorato a sé, nell’ « impossibilità di affrancarsi dal meccanicismo » 6 positivistico. Da « enorme trottola » ai tempi di Mal giocondo a « trottoletta » nel saggio Arte e coscienza d’oggi e finalmente « trottolina » nella pagina del Fu Mattia Pascal citata in apertura e alla quale occorre ritornare come sintesi conclusiva artisticamente più valida, la persistenza e l’evoluzione dell’immagine ben definisce ciò che è diventata la Terra nella modernità, dopo la rivoluzione scientifica introdotta da Copernico, e coagula intorno a sé tutte le altre immagini e le riflessioni che sviluppano e completano il motivo comico, segnando un filo rosso conduttore (o almeno : uno dei tanti) col quale ripercorrere, a partire dalla poesia, l’intera parabola dell’opera di Pirandello.





2   Spsv, p 701.   Spsv, p. 897.   Luigi Pirandello, Novelle per un anno, ii, cit., p. 429. 4   Momentanee vii, in Mal giocondo ; ora in Spsv, pp. 486-487.

























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  Spsv, p. 637.   Davide De Camilli, Leopardismo pirandelliano, cit., p. 348.

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El sì alla poesia italiana. Giuseppe Sabalich una voce lirica dalla Dalmazia Anna Bellio

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 esta indagine su Giuseppe Sabalich è innanzi tutto u un affettuoso omaggio riconoscente al collega e amico Giorgio Baroni, al quale il presente volume è dedicato ; dalmata per origini familiari, profugo e affetto da ‘mal di Dalmazia’, Baroni è cresciuto succhiando, insieme al latte materno, la linfa dell’anima dalmata, da lui orgogliosamente vantata in molteplici occasioni, appena se ne presentava l’opportunità. Il Sabalich, non solo poeta, bensì infaticabile indagatore e raccoglitore delle memorie della sua terra, esprime emblematicamente la forza dell’amor patrio, l’energia fattiva che da esso sprigiona e l’influenza che può esercitare sulla parola e sulle fatiche letterarie. La sua poesia parla zaratino, oltre che italiano, dice di Venezia e di Zara, scrive ricordi e usanze, crea bozzetti di vita popolare, concepisce scherzi di malinconica ironia, rievoca pagine di storia più o meno eroica e mai perde la coscienza della propria identità culturale e politica italiana. Popolata dai liburni (stirpe illirica che con i giapodi, gli istri e i veneti occupava l’arco settentrionale dell’Adriatico), romana già dal iii secolo a.C. e colonia fortificata sotto Augusto, Iadera (antico nome di Zara), ai tempi della tarda Repubblica, era un fiorente municipio di Roma. Alla caduta dell’Impero romano d’occidente, rimase autonoma e indipendente ; 1 fu libero comune con proprie leggi costruite sulla lezione del diritto romano fino alla fine del primo millennio, quando iniziò il potere veneziano sulla costa adriatica orientale. 2 Dopo otto secoli di quasi ininterrotta partecipazione alla Repubblica Serenissima di Venezia, dal 1813 Zara e gran parte della Dalmazia divennero parte dell’Impero asburgico fino alla conclusione della prima guerra mondiale. 3 Il 29 ottobre 1918 la città inalberò il tricolore e invocò l’Italia liberatrice. Il trattato di Rapallo del 12 novembre 1920 mortificò le speranze della Dalmazia di essere italiana : di tutta la Dalmazia si assegnò all’Italia, pur vittoriosa, ma rinunciataria nelle trattative, solo Zara con l’acquedotto e il camposanto, la piccola isola di Lagosta e, più a nord, le isole di Cherso e Lussino insieme alle isolette minori annesse. Con la seconda guerra mondiale finì di compiersi il tragico destino della città. Abbandonata militarmente a se stessa dopo il 1943, distrutta tra il novembre del 1943 e il novembre del 1944 da oltre cinquanta bombardamenti aerei angloamericani, fu occupata dalle truppe partigiane dei comunisti slavi di Tito, che vinsero la sua eroica e strenua resistenza ; quella parte di abitanti che era riuscita a sopravvivere nei ruderi e nelle cantine di una città totalmente distrutta fu

indotta con la violenza e i soprusi ad andarsene. Dopo che il trattato di pace di Parigi ebbe assegnato Zara alla Iugoslavia, gli italiani rimasti erano qualche centinaio : tutti gli altri sparsi ed esuli nella patria italiana o migranti nel mondo, mentre a ripopolare la città provvedevano i croati con migrazioni interne verso la ribattezzata Zadar. A Zara nasce dunque, il 13 febbraio 1856, Giuseppe Diodato Sabalich, storico, studioso di folclore, critico d’arte e di teatro, drammaturgo, poeta, fondatore e collaboratore di periodici (quasi un centinaio), scrittore versatile e dalla prolifica produzione, spirito d’artista refrattario alla carriera notarile verso la quale lo indirizzava la laurea in giurisprudenza ottenuta a Graz, animato, nei suoi interessi culturali e letterari, da due grandi mai traditi amori : Venezia (dove visse fino al 1866 e dove tornò nel 1887 per un breve periodo) e Zara. Severo e scrupoloso ricercatore di documenti con i quali ricostruire la storia zaratina, affida ai versi in lingua e in dialetto l’estro della raffigurazione affettuosa, certo brio nel tratteggio di tipi e luoghi cittadini, le dichiarazioni d’amore alla sua Zara. La poesia è pausa ricreativa entro l’impegno della solerte attività di ricerca storica, che diventa spesso, in lui, motivo di malinconici rimpianti, dispiaceri per il presente, timori per il futuro. Condivide con altri due zaratini, Edgardo Maddalena e Riccardo Forster, la passione per il teatro, che profonde in un’opera pubblicata, lungo vent’anni, in dispense : La cronistoria aneddotica del Nobile Teatro di Zara (1781-1871). 4 Scrive numerosissime commedie, atti unici, monologhi ; sono testi ricchi di arguzia, commenti satirici, giochi di parole, dalla vivacità e incisività linguistica ; si leggono volentieri, ma non gli danno gloria. Non di rado la fortuna di un artista prende vie inattese : 1891, a Zara il nome di Giuseppe Sabalich vola sulle cantabili note di una canzonetta patriottica in ottave di senari, alternati a quinari (versi quarto e ottavo) e a un settenario (verso quinto) ; il testo, assai semplice quanto ad impianto metrico e ritmico, è di intenso impatto emotivo per la decisa dichiarazione di italianità che lo caratterizza già nel titolo. 5 El sì, musicata dal maestro triestino Leone Levi e ancor oggi intonata dagli esuli dalmati nei loro annuali raduni, canta l’orgoglio di appartenere alla patria di Dante e di parlarne la lingua nel bel paese sulla sponda orientale dell’Adriatico, « là dove ’l sì suona » 6 ancora, nel xix secolo, superate molte vicissitudini militari e politiche e nonostante le difficoltà legate alla variegata

1   Con alterne vicende e con i cambiamenti portati dal diffondersi del cristianesimo visse florida fino al 600 quando, al sopraggiungere dei ferocissimi àvari, conobbe un periodo di desolazione. Si salvò, insieme alle isole dalmate e a Traù, grazie alla sua posizione sulla penisoletta di fronte alla costa. 2   Sospinti dagli àvari, alle spalle dei municipi dalmati, erano avanzati gli slavi. Divenuti cristiani e subìto il fascino della civiltà romana convivevano pacificamente con i comuni dalmati, ma una parte di loro non battezzata (i narentani), raccolta sull’arcipelago di Curzola, sulla terraferma di fronte e nel canale della Morlacca, infestava con continui atti di pirateria le rive dalmate. Fu allora, per liberare la costa, che intervenne Venezia ; il doge Pietro Orseolo distrusse i narentani e si fregiò del titolo di dux Dalmatiae. 3   Già nel 1797 il turbine napoleonico aveva trasformato Zara in una provincia austriaca dal momento che, col trattato di Campoformio, Venezia, consegnatasi al Bonaparte, era stata ceduta all’Austria ; c’era poi stata una breve parentesi di dominazione francese dal 1805 al 1813 durante la quale Zara e la Dalmazia fecero parte del Regno d’Italia. Le truppe austriache, aiutate per mare dalla flotta inglese, la riconquistarono l’8 dicembre 1813, dopo 32 giorni di assedio.

4   « il Sabalich creò un capolavoro del genere, minuzioso e originale, non inferiore a tante cronistorie di celebri teatri italiani ; la originalità dell’opera consiste soprattutto nella fusione della vita del teatro alla vita della cittadina, donde risalta un quadro perfetto e piacevole d’un ambiente ottocentesco in tutte le sue liete e tristi vicende. È il gustoso romanzo della vita sociale d’una città di provincia, in fondo calma e serena, in un secolo tormentato. », Marco Perlini, La patria dalmata, Venezia, Scuola dalmata dei SS. Giorgio e Trifone, 2010, p. 111. 5   Giuseppe Sabalich, El sì, « Zara », 30 aprile 1891, n. 17. Gastone Coen, esaminando le carte manoscritte (Carte Sabalich, Ms 1102/ii-4, Poesie), custodite presso la Biblioteca scientifica Zara (ex Paravia), riferisce che la poesia nacque come poesia d’amore intitolata Dime de sì e che il ritornello della versione amorosa recita così : « Scoltime mi / Scoltime mi / Bionda butemose ! / Dime de sì ». Si veda Gastone Coen, Sabalich sconosciuto, in Atti e memorie della società dalmata di storia patria, Roma, Il Calamo, 2006, p. 96. 6   Dante Alighieri, Inf xxxiii, 80, in Idem, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di Giorgio Petrocchi, Inferno, Edizione Nazionale a cura della Società Dantesca Italiana, Firenze, Le Lettere, 1994, p. 571.

















































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composizione etnica (italiani, serbo-croati, albanesi, austriaci, di altra parlata). Il testo esce dalla città, si canta, con alcune varianti, anche a Spalato e nei centri della Dalmazia. 1 Nella Zara austriaca del secolo che declina, l’irredentismo acquista voce, ora sommessa, ora spiegata : Sabalich, il raccoglitore scrupoloso di memorie dei luoghi natii, libera, dalle chiuse stanze delle biblioteche, il suo amor di patria. La vena poetica si scioglie gioiosa nell’amato dialetto zaratino, tra affetti e ricordi d’infanzia condivisibili dai concittadini :  



Do basi a chi trova parola più bela, più dolçe de quela che a mi’ m’ha imparà da picolo el santolo, la nona, mia mare, la Gigia comare e ’l barba soldà. [...] Se ciucia in te’l late sto sì co se nasse, co’l sì, in te le fasse, se ga scominçià ; co’l sì se ziogatola co’l sì se va a scola, co’l sì la parola de onor se se dà [...] Co’l sì se marida le done coi omini co’l sì i galantomini discore in çità : el cor de sto popolo del sì xe geloso ; le mure va zoso ma’l sì restarà !

rappresentativo, è accompagnato da allusioni e malizia politica appena accennate (« Ocio fradei / za me capì », « no val le ciacole ») e si rafforza nella raccomandazione finale : « restemo quei / gente del sì ! ». La canzonetta è diventata « l’inno della zaratinità e della venezianità dalmata, minacciata da coloro che negavano l’esistenza d’una “stirpe italiana” autoctona in Dalmazia, considerandola corpo estraneo da estirpare, e che volevano bandire la lingua italiana dalle scuole ». 3 Sabalich sembra presagire quel fenomeno politico culturale che nel secondo Novecento si è rafforzato, che ai giorni nostri è in piena evoluzione e che consiste nella croatizzazione della cultura artistico-letteraria veneziana e italiana della Dalmazia. Egli soffre per questo, tanto che, nei Soneti zaratini, nel secondo della coppia di sonetti intitolati Carriera diplomatica, fingendo il colloquio tra una mamma entusiasta del proprio figlio e un interlocutore che la interroga sulle doti culturali del ragazzo, scrive ironicamente :  









   









ma per far conti el ga ’na gran bravura, el conosse el sistema decimal... per el tedesco, po’, no ’l ga paura: co lu ghe parla el par un caporal. – Slavo ?... – no ’l lo sa ben, ma, co la fiaca, la lengua oggi o doman salo, se aquista ; se deventa croati come gnente ! 4











Modesto d’indole, quasi timoroso, ma, nel profondo della coscienza e della riflessione, fermo e deciso, sicuro portavoce, negli scritti, della storia di Zara e determinato sostenitore della sua italianità, Giuseppe Sabalich lega dunque il suo nome alla poesia El sì : sì al passato italiano, alle tradizioni, all’amor patrio, alla speranza di pace e serenità, agli studi sull’ambiente cittadino, sì alla poesia in lingua e in dialetto, sì, infine, nel tentativo di esorcizzare nostalgie e timori, allo scherzo e all’humor, al brio e alla battuta pronta, nei versi come negli studi critici e storici. In Parlo ciaro il poeta mette alla berlina lo sporco gioco politico dei voltafaccia, che aderiscono al programma di snazionalizzazione tentato dai croati sostenuti dal governo di Vienna, mentre dichiara la propria dirittura morale, garantita, si badi, dalla estraneità alla logica dei partiti, e ribadisce il desiderio di rimanere « zaratin » ; qualifica che è per lui, ‘che sa quel che dice’, salvaguardia del proprio essere italiano e della cultura secolare della città :  





È probabile che l’autore non si aspettasse tanta popolarità da questa composizione ; egli affidava speranze di riconoscimenti a opere maturate in zelanti e scrupolose ricerche d’archivio o nate da più complessa genialità creativa come i testi teatrali, le varie poesie o certi bozzetti, opere tutte composte in spirito di umile servizio alla verità storica e omaggio alla città martoriata nel corso dei secoli. Tale impegno anima comunque anche il ritornello, dal tono allegro e scanzonato, che agile va di strofa in strofa :  











Scolteme ’mi scolteme ’mi, no val le ciacole, ghe vol el sì ! Ocio fradei, za me capì, restemo quei gente del sì ! 2

Tuti i me dixe : – buta zo un soneto su le nostre miserie citadine, su le disgrazie che ne xe vicine e su i volponi che ne fa ‘l zogheto. Scrivi che Zara xe sul cataleto, che no se zapa che su le rovine, che ghe xe poche rose e trope spine, che ghe manca del sal in tel paneto.. – ... Cossa ? ! dir mal de Zara ?... fussi mato ! co i partiti, savè, no me ne intrigo, e el portavose mai mi no l’ò fato ! Se mi canto, vol dir che go ’l morbin, parlo el dialeto, ma so quel che digo, son stomegà, ma resto zaratin !.. – 5  





Il richiamo a poche ciance e alla manifestazione della propria identità nazionale attraverso il solo « sì », vocabolo breve, ma  

   









1

  Si cantava insieme a un’altra canzonetta patriottica (che spesso la tradizione critica ha confuso con El sì del Sabalich), quella del triestino Giulio Piazza, che si presentò nel 1891 a un concorso bandito a Trieste dal Teatro Politeama Rossetti ottenendo un immediato successo di pubblico. I versi, affermazione calorosa della lingua italiana, dicevano tra l’altro : « E che i fazzi pur dispetti / Ne la patria de Rossetti / No se parla che italian ». A Gorizia Rossetti era sostituito da Favetti, a Fiume da Peretti e a Zara giravano modificati gli ultimi versi : « E che i fazzi pur la spia / Ne la patria de Paravia / No se parla che italian ». Cfr. Alberto Manzi, La canzone della italianità in Austria, « La Lettura », xv, 5, 1915, pp. 415-422. 2   El sì, come riprodotta in Marco Perlini, La patria dalmata, Venezia, Scuola dalmata dei SS. Giorgio e Trifone, 2010, p. 140. La canzone, con un numero maggiore di strofe e alcune varianti nella seconda parte del ritornello (« I nostri fioi, / za me capì / pasta e fasioi, / ma sempre el sì ! » oppure « No bassilè, / scoltème mi ! / fin ch’el ghe xe / tegnimo ’l sì »), si legge in Zara cantava così, a cura di Giuliano De Zorzi, Trieste, Fondazione scientifico culturale Rustia Traine, 2003, p. 160.  



















   







L’autore si schermisce dalle sollecitazioni a comporre versi che cantino « le miserie » cittadine ; vuol dire in sostanza ai suoi lettori che il poeta non è colui che mortifica lo spirito, ma colui che lo libera dalle scorie della realtà e che ne mantiene freschi i ricordi e gli ideali. L’ultima terzina sintetizza la poetica del Sabalich nella vitalità dell’insostituibile « morbin »  







3

  Gastone Coen, op. cit., p. 96.   Giuseppe Sabalich, Soneti zaratini, Zara, Nani, 1889, p. 4.   Ivi, p. 7.

4 5



el sì alla poesia italiana. guseppe sabalich una voce lirica dalla dalmazia (« se mi canto, vol dir che go ’l morbin »), termine dialettale che potrebbe rinviare alla settecentesca definizione della poesia come di un sogno che si fa in presenza della ragione ; nel caso del « morbin » zaratino la ragione appare guidata dal sentimento piuttosto che guida dello stesso, tanto che il nostro, a dispetto di ogni deludente considerazione (« son stomegà »), ‘resta’ « zaratin » ed è proprio per questo entusiasmo che scrive versi. Come, d’altronde, non provare affezione per la calle larga di Zara, per la riva, per la piazza dei Signori, non ricordare consuetudini, non descrivere le « maciete », non rimpiangere le belle giovinette un poco audaci ? Alla Cale larga Sabalich dedica quattro sonetti, che la descrivono con la semplicità della parlata zaratina e con la schiettezza della sua sorridente arguzia, e raccontano, con qualche cedimento alla malinconia, scenette di vita ordinaria :  

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Se mai me la vedè, la mia moreta, che m’à dado un bel giorno el benservio, [...] [...] Parlèghe vu, muri, vetrine, piere De la mia cale larga benedeta ! 1

























i La cale larga xe una cale a man ; streta, xe vero, e longa come un fuso, ma ...passigh’ogi e passighe doman, no ti la trovi sto gran bruto buso. Là ti incontri el foresto, ma el vilan te digo mi che non ’l ghe fica el muso, ghe xe el Maneti che parla toscan col Boniceli che ghe ride suso. Co vien la piova, là no ti la senti, no te sventola mai la levantéra e la bora no vien che per momenti. Insoma !...quel che i dixe : bomboniera; un longo coridor coi paraventi da passegiar su e zo matina e sera !...















































In questi quadri di vita cittadina il dialetto manifesta al meglio la forza della sua espressività, che coinvolge sia il lessico, sia il realismo delle rappresentazioni, unite qui in un felice movimento circolare dell’immaginazione ; essa trascorre dai particolari realistici del luogo : « longa come un fuso », « longo coridor coi paraventi », « un vecio marciapie » e dei comportamenti : « el vilan / [...] no ’l ghe fica el muso », « andar su e zo », « un struconçin de man el xe sicuro », alle emozioni : « no ghe xe buso, no ghe xe canton, / che no te diga al cor una parola », ai desideri : « per quèla mostra che go amà en scondon » e alle soddisfazioni di coloro che lo frequentano : « co vien la piova, là no ti la senti » per tornare alla concretezza della calle : « nissun, mia cale larga, t’à slargà », « Parlèghe vu, muri, vetrine, piere ». I sonetti rivelano la cura compositiva del loro autore che solitamente mira alla varietà delle rime nelle terzine ; gli accenti prevalenti di sesta e decima facilitano lo scivolare del ritmo, che corre su suoni vocalici aperti propri dello zaratino. Il Sabalich lo propone ai lettori nella versione più fedele al parlato popolare e alla dizione freschissima della classe artigiana ; nell’introduzione ai Soneti zaratini dichiara : « credo di aver conservato fedelmente la dizione popolare nostra, cercando di porre in evidenza in special modo i vocaboli che diversificano affatto dal dialetto veneziano ». 2 L’influenza che per otto secoli dominò con la repubblica di San Marco è comunque evidente nella sovrabbondanza delle forme venete, nei traslati, nella concisione, nei motti stessi. La breve serie dedicata alla calle larga, che ha uno strascico comico realistico in un altro sonetto della raccolta (Co le scarpie), si chiude sulle due invocazioni che aprono le quartine nell’ultimo sonetto ; il primo vocativo è come un respiro liberatorio : ora il poeta si scioglie e parla di sè. Il secondo vocativo avvia un dialogo amichevole tra il poeta e i muri che conoscono la sua giovanile vicenda d’innamorato respinto. Ritroviamo, resi popolari dall’uso del dialetto, i motivi della lirica classica, che non sono frequenti nel Sabalich. Egli è infatti vicino al Carducci, più che al lirismo del secondo Ottocento, ed è sensibile sostenitore, dalle pagine delle « Scintille », la rivista da lui fondata nel 1886 e diretta col motto « Poca favilla gran fiamma seconda » (Par i, v. 34), della nuova poetica del naturalismo francese e del verismo italiano. 3 Un tono canzonatorio anima i versi di Gite in Dalmazia, due sonetti che ironizzano sui « foresti » : viennesi e veneziani arrivano in città. I primi, trenta architetti ben pasciuti (sciogliendo la metafora significa tronfi ), non possono disconoscere l’antichità di Zara, e cioè la sua storica dignità, i secondi, « de quei che le caene no li tien », si svelano subito « bontemponi..., mincioni..., alegroni..., baloni » ; la loro rappresentazione è affidata all’eloquente gioco della rima che si rincorre tra il primo, il quarto, il sesto e il settimo verso. A questa si appoggia pure il ritratto degli « architeti » venuti da Vienna « per veder se xe Zara una çità / [...] za se sa ; // [...] i ga girà / [...] i à dichiarà ». 4 Anche nello scherzo Sabalich maschera a stento un fondo di amarezza e di malinconia che, col trascorrere del tempo e col mutare delle situazioni storiche e personali, si fa più evi 





























ii La nostra cale larga xe un bombon ; se la te tira più no la te mola : no ghe xe buso, no ghe xe canton che no te diga al cor una parola. Domàndighe a le tose del bon-ton se quel andar su e zo no ghe fa gola, [...] se dei morosi no la xe la scola! [...] Ma de festa, cussì, fra ‘l ciaro e ‘l scuro, se t’incontri la mula che camina, un struconçin de man el xe sicuro !  















iii Co me ricordo cossa che te ieri, o cale larga mia, trent’ani indrio, no fazzo che pensar, corpo de bio, al stomego dei veci botegheri. Bordel de marangoni e calegheri ; canai scoverti con el ben-di-Dio, [...] Ogi, invezze, vernise e caravela t’à cambiado de trinco la fazzada, [...] Capisso che la roda s’à voltà, ma, za, per quanto ben che la sia andada, nissun, mia cale larga, t’à slargà !  



iv Mia cale larga !...Vera tentazion, dove go fato tanti giri e tanti, dove go consumado e scarpe e guanti per quèla mostra che go amà in scondon !... Muri !... che l’avè vista a sbrindolon, co ’drio de ela ghe ne andava tanti, vetrine, che quei oci de brilanti gavè speciado e ’l viso cocolon...



































1

2   Ivi, pp. 9-12.   Ivi, Nota.   « io preferisco la forza del naturalismo del Byron all’impotenza del Platen [...] ; la sincerità di madame Bovary all’ipocrisia di René de Chateaubriand [...], la sensualità della Giacinta del Capuana al misticismo di Daniele Cortis del Fogazzaro » (« Scintille », 5 marzo 1886), vedi Gastone Coen, Sabalich sconosciuto, cit., p. 99. 4   Giuseppe Sabalich, Soneti zaratini, cit., p. 13. 3











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dente. Vi è un’opera sua, le Campane zaratine, polimetro dialettale pubblicato postumo nel 1931, che bene illustra e riepiloga la ricca personalità di questo autore figlio dell’italianissima Zara, impegnato costantemente a rievocarne la storia, l’arte, la leggenda con sentimento mai soffocato dall’erudizione. Nella voce varia delle campane della sua Zara, ha raccolto secoli, millenni di storia in una forma popolarissima ; anzi ha fatto raccontare dal popolo stesso le vicende or triste or liete della sua città [...]. Nulla d’affettato, di pretenzioso, di manierato in questa limpida narrazione, permeata di una vena fresca e sottile di quell’ humor che è una prerogativa speciale del poeta. 1

di artistico e di tradizionale della vita cittadina vedeva irrimediabilmente mutare, è « preoccupato della sorte delle patrie memorie » 3 come recitano i versi di San Grisogono :  



Ah ! ciesa, piena de care memorie, dove xe sepelie tute le nostre storie, co i secoli sparie. 4  



Nei versi del Domo Sabalich ricorda il cordoglio dei concittadini dopo Campoformio quando sulla piazza e le mura di Zara si levarono le bandiere austriache e contemporaneamente quelle della Repubblica veneta furono portate alla cattedrale e deposte sull’altare maggiore :  

qua i nostri à saludà la sua bandiera, radunandose qua la çità intiera, e gh’à sonado a morte el campanon, e, tuti in zenocion, ne l’ultima funzion, i gh’à puzà, sora la santa piera de san Marco el glorioso gonfalon ; e jera un sospirar e jera un pianzotar [...] San Marco ! San Marco ! [...] E sempre, su, in alto, piantà su i bastioni, el parla el ne çiga. [...] Pieghè ‘sta bandiera de i mari parona ! [...] strenzeve con mi ! se’ forti, se’ dalmati ! Idio vol cussì ! 2  



Con la storia di tutti il poeta sente sparire anche la propria :  

e xe passado tuto in t’un momento, sepelindo la nostra gioventù, che no la torna più !... No pensemoghe su !  



ma, se per il caso personale trova una consolazione distraendo il pensiero dalle malinconie, a fatica dimentica i brutti tempi passati dall’amata città, neppure i momenti bui che hanno messo a rischio i « veci » monumenti, per i quali prega nella Madonna del Castello affinché non vadano a picco, come è successo alla potenza marinara di Venezia. La luce umbratile del tramonto veneziano quale si legge in Tramonto storico si allunga sul costante presentimento, vivo nel poeta, che anche sullo scenario italiano della Dalmazia stia per calare il sipario.  









La conclusione ribadisce e difende con orgogliosa energia l’identità del popolo di Zara variamente minacciata dal premere di diverse etnie e dal mutare, sotto l’urto del tempo, dell’arte, dei costumi, dei caratteri più tipici della vita cittadina. Era da poco conclusa la prima guerra mondiale e lo scrittore delle Campane zaratine, sempre più angustiato perché vede smarrirsi la generazione degli autentici dalmati, può apparire un conservatore nostalgico ; in realtà è preoccupato di quanto  

1   Tommaso Nediani, Prefazione a Giuseppe Sabalich, Le campane zaratine. Polimetro dialettale in sette parti con illustrazioni storiche, Trieste, Libero Comune di Zara in esilio, 1979, p. 11. 2   Giuseppe Sabalich, El Domo, in Idem, Le campane zaratine, Trieste, Libero Comune di Zara in esilio, 1979, pp. 46-48.



Dorme Venezia fra le morte genti, senza lusso di larve o di pugnali, non più mori in catene, e trionfali vittorie, e feste ai popoli plaudenti !... [...] Su le storiche antenne, ventilato da le brezze de ‘l mar, più non volteggia il drappo rosso di San Marco in festa. Non di arlecchini il Molo rumoreggia, e l vecchio doge, col suo corno in testa, da ’ gallico Florian sorbe il gelato.5







Questa poesia in lingua, dallo stile classico pur nei quadri pittoreschi, dai movimenti ritmici nitidi, conclusi su sequenze d’immagini a ogni finir di strofa, genera una sensazione d’immobilità, che interpreta l’ineluttabile destino al quale è dovuta soccombere la città lagunare trascinando con sé la terra dalmata. L’infaticabile Sabalich non poteva interrompere il corso degli eventi, non bastava il suo fervente patriottismo ; non lo rassicurava neppure la distrazione poetica, ancor meno avrebbe potuto rasserenarlo la dolce consolazione di un sorbetto che si scioglie al suono di una rima (« ventilato...gelato ») amaramente comica nella distanza degli oggetti che accomuna.  





3   Narciso Detoni, Giuseppe Sabalich poeta e storico zaratino, « La Rivista Dalmatica », Roma, 3-4, p. 262. 4   Giuseppe Sabalich, Le campane zaratine, cit., p. 19. 5   Giuseppe Sabalich, Acquarelli veneziani, Zara, Woditzka, 1898, p. 32.  



PIRANDELLO A COLLOQUIO CON VERGA, CAPUANA E DE ROBERTO Sarah Zappulla Muscarà

T

alora accade per i libri come per gli « oggetti tenui, labili, minuscoli, di nessun valore, un pezzettino di carta velina colorata, un chicco di vetro, un bottone di camicia di finta madreperla » : 1 si smarriscono, si distruggono, si danno via, si ignorano. Malinconico destino gravato in parte anche sulla biblioteca di Luigi Pirandello, dove residuano pubblicazioni, manoscritti, documenti che poco ci dicono delle assidue e aggiornate letture del suo illustre proprietario, del particolare, intimo rapporto che lo scrittore intrattenne con i libri, narrando piuttosto dei saccheggi che nel tempo inevitabilmente hanno subito, della esibita ‘noncuranza’ di Pirandello lettore. « Non sono punto bibliofilo. Le edizioni rare e preziose non mi dicono nulla. Anche nel libro quello che conta, quando c’è, è lo spirito. Il resto è carta che ingombra. Non credo di possedere tutti i libri che ho stampati e che mi sono stati tradotti » e ancora « oramai non tengo a conservare specialmente nulla ! Non ho più casa mia. Vado da un paese all’altro... Viaggio. Sono un viaggiatore senza bagagli » 2 e l’amico Corrado Alvaro, anni dopo, ribadiva : « Non possedeva neppure tutte le sue opere. Era inutile cercarvi i segni di un’abitudine o di una preferenza. Tutto vi era casuale, e tutto gli era estraneo ». 3 Quella estraneità dal mondo che dal giovanile progetto, intriso di romantico furore, di bruciare in limine vitae tutte le sue carte (« Io scrivo e studio per dimenticar me stesso, per distormi dalla disperazione. Brucerò tutto prima di morire » e « Ho bruciato tutte le mie carte, la forza della mia giovinezza. Nulla ora mi rimane » 4) alle ultime volontà da rispettare (« Bruciatemi. E il mio corpo, appena arso, sia lasciato disperdere ; perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me » 5), da leggere come ostinata volontà di annientamento e indefettibile tensione ad evadere dalle claustrali forme della materia, avvalora i volumi superstiti caricandoli di profondo significato. Nel tormentato itinerario letterario e umano di Pirandello due grandi amori : il libro-anima e la Sicilia, « bel fior tra tre mari sbocciato », di cui, appena ventiduenne, « uccello senza nido », scrive alla sorella Annetta da Bonn :  















































Che tutte codeste mie anime (scusate, volevo dire : codesti miei libri) debbano subire la stessa sorte ? Bada, Annetta mia, io proibisco recisamente che un libro esca anche per un giorno solo da casa nostra. Se non son sicuro di questo, io perderò del tutto la pace. Amo i miei libri quanto me stesso. [...] Salutatemela, codesta mia terra natale, nel cui grembo, quando che sarà, vorrò riposare per sempre, senza un nome che mi rammenti su un sasso agli uomini, i quali forse un giorno potrebbero venire a disturbarmi. 6  



Le infinite possibilità di essere hanno dunque radici lontane e profondamente avviluppate ai tanti libri di cui carpisce lo spi1   Luigi Pirandello, Il guardaroba dell’eloquenza, in Idem, Novelle per un anno, i, Milano, Mondadori, 1969, p. 403. 2   Così in un’intervista rilasciata a Giulio Caprin, « La Lettura », Milano, 1º marzo 1927. 3   Corrado Alvaro, Prefazione a Luigi Pirandello, Novelle per un anno, i, cit., p. 15. 4   Luigi Pirandello, Lettere giovanili da Palermo e da Roma 1886-1889, introduzione e note di Elio Providenti, Ro­ma, Bulzoni, 1994, pp. 148 e 194. 5   Luigi Pirandello, Mie ultime volontà da rispettare, in Idem, Saggi. Poesie. Scritti varii, a cura di Manlio Lo Vecchio-Musti, Milano, Mondadori, 1965, p. 1289. 6   Luigi Pirandello, Lettere da Bonn 1889-1891, introduzione e note di Elio Providenti, Roma, Bulzoni, 1984, p. 57.  



rito. L’agrigentino fagocita, assimila, ricrea l’opera d’arte che, strappato il « cielo di carta », pirandellianamente uccide il suo autore andando alla ricerca di chi può farla ancora consistere in una veste nuova e così all’infinito come l’energia vitale. Poco dunque ci può dire la biblioteca di Pirandello delle sue frequentazioni letterarie, molto l’opera sua nella quale sono confluite – succus et sanguinis – le esperienze di una millenaria cultura, in primo luogo quella siciliana. Erma bifronte che guardando all’epico realismo verghiano ne denuncia la ‘dolorosa’ estenuazione, la Sicilia di Pirandello, avverte Antonio Gramsci, non ha origini libresche, dotte, filosofiche ma è « connessa a esperienze storico-culturali vissute con apporto minimo di carattere libresco ». I personaggi di Pirandello non sono « “intellettuali” travestiti da popolani », « popolani che pensano da intellettuali » ma « reali, storicamente, regionalmente, popolani siciliani, che pensano e operano così, proprio perché sono popolani e siciliani ». 7 E Leonardo Sciascia, a proposito del tragico giuoco dialettico con cui Pirandello tradusse in poesia lingua, costumi, storia, tradizioni del popolo siciliano :  





















Essenziale carattere della vita che riconosciamo e diciamo “siciliana” è una forma esasperata di individualismo in cui agiscono, in duplice movimento, le componenti della esaltazione virile e della sofistica disgregazione. 8

La Sicilia, dunque, inesauribile fonte dell’immaginario pirandelliano, « silva antropologica » e « hortus letterario » 9 dove ha inizio e si conclude l’« involontario soggiorno sulla terra » liricamente sublimato : « Caddi come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna d’olivi saraceni affacciata agli orli d’un altipiano d’argille azzurre sul mare africano » ; 10 quell’« olivo saraceno grande, in mezzo alla scena » che domina da ’A giarra ai Giganti della montagna, quella campagna di Girgenti, « lu vuscu di lu Càvusu », l’empedocleo Kaos « mescolanza di tutte le cose », dove vorrà tornare in un’urna cineraria murata in una « rozza pietra ». Una Sicilia contraddittoria eppure in grado di esercitare vari livelli di fascinazione, primitiva ma anche modello politico, sociale, culturale di prestigio ; compromissoria per le grommosità morali che si accompagnavano alla crescita di un ceto borghese avido ; inquieta per la sanguinosa strategia della mafia che umiliava il progresso urbano e civile e le denunce di connivenze e collusioni ; prigioniera di un’immagine favolosa, mitica, enigmatica, nonostante l’eccezionale egemonia di una cultura che travalicava i confini nazionali, i fermenti rivoluzionari, i molti punti di forza. ‘Centro del mondo’, categoria dello spirito, sede di conflittualità esacerbate, ancestrale e onirica, omerica e quotidiana, rigogliosa ed aspra, a tratti lussureggiante, a tratti riarsa dal sole e bruciata dalla lava, l’isola trasformava se stessa per non piegarsi alla storia secondo l’autore de I Vicerè « monotona ripetizione ». Immobilismo sul quale Tomasi di Lampedusa stenderà l’amaro corollario de Il Gattopardo : « Se vogliamo che  

















































7   Antonio Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi, 1954, pp. 48, 50 e 51. 8   Leonardo Sciascia, Pirandello e la Sicilia, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1968, p. 16. 9   Gianvito Resta, La stagione eroica del teatro siciliano, in Angelo Musco e il teatro del suo tempo, a cura di Enzo Zappulla, Catania, Maimone, 1990, p. 11. 10   Luigi Pirandello, Informazioni sul mio involontario soggiorno sulla terra, in Idem, Saggi. Poesie. Scritti varii, cit., p. 1105.

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tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi ». Una Sicilia narrata, letterariamente storicizzata nelle opere di Verga, Capuana, De Roberto con le quali Pirandello è inevitabilmente chiamato a confrontarsi. Ne derivò un fruttuoso dialogo all’interno del quale veniva precisandosi l’identità poetica del suo universo creativo. Verga, con il quale si apparenta per avere recuperato da illustre ‘emigrante’ un più autentico rapporto con l’isola amata e sofferta – ma è così pure per Capuana e De Roberto come poi lo sarà per Brancati e Patti – è punto di riferimento obbligato, sin dalle giovanili riflessioni teoriche sulla Prosa moderna scaturite, come suona il sottotitolo, dalla lettura del Mastrodon Gesualdo. 1 E molti anni dopo, scrittore già famoso, nel discorso celebrativo per gli ottant’anni del magnifico ‘vecchio’, dichiara di averne « sempre seguito fedelmente e con orgoglio il costume come quello d’un maestro non tanto d’arte (che non si fa per scuola) quanto di vita ». 2 Nonostante l’orgogliosa rivendicazione di diversità, però, « il più grande » dei contemporanei, della « famiglia degli scrittori di cose » (dal « sapore idiotico, proprio, dialettale ») nella quale egli stesso si colloca, in contrapposizione al dannunziano « stile di parole » (dalla « lingua letteraria, retorica, doviziosa » degli esseri di lusso), aveva informato del suo stile « nuovo e necessario » la narrativa pirandelliana, e non solo quella d’impronta regionale, là dove ambienti, temi, motivi, lingua sembrano desunti dal ricco patrimonio verghiano. A Verga competono pure quelle passioni archetipe e quelle arcaiche inquietudini, prive della paludata retorica delle « matrone periodesse », degli « anacronismi filologici », delle forme e dei nessi sintattici vieti (« lingua dei morti » la chiamerà Enrico IV), che avrebbero dato l’abbrivio all’esasperato intellettualismo di tanti corrosivi e dolenti personaggi pirandelliani. Si pensi, solo per fare un esempio, al percorso scrittorio-esistenziale tracciato da Tararà a Quacquèo per giungere alla lucida follia di don Nociu Pàmpina ne ’A birritta cu ’i ciancianeddi. Poche testimonianze tuttavia residuano di questa fondamentale presenza nella biblioteca di Pirandello. 3 Di Verga si conservano soltanto I Malavoglia (nella tarda edizione Treves del 1919), – ma non Mastro-don Gesualdo –, Don Candeloro & C.i (Milano, Treves, 1909), Novelle (Milano, Treves, 1914), Cavalleria rusticana ed altre novelle (Milano, Treves, 1917) ed il Teatro (privo del frontespizio e del primo sedicesimo). Si conserva inoltre la monografia di Luigi Russo dedicata a Verga (Napoli, Ricciardi, 1920). Nel discorso su Verga del 1920 il giovane studioso siciliano (nato a Delia, in provincia di Caltanissetta nel 1892, aveva quindi a quell’epoca appena ventisette anni) non è mai nominato (è indicato solamente come « un giovane di alto e sicuro avvenire »), eppure Pirandello ne riprende qua e là le tesi, talora con tono polemico e risentito, come allorquando smentisce che l’autore de I Malavoglia possa definirsi « umorista » liquidando così il capitolo centrale del saggio sull’umorismo del Verga. I richiami, seppur indiretti, a Russo saranno eliminati nella successiva rielaborazione del discorso catanese del 1931 (residua solo una battuta). Anche Russo, allorché pubblicherà la ‘nuova redazione’ del suo Verga (Bari, Laterza, 1934), che manca nella biblioteca, non citerà mai Pirandello proseguendo la tacita polemica a distanza. Di Pirandello nella biblioteca di Verga troviamo soltanto Il fu Mattia Pascal (Roma, « Nuova antologia », 1904). « Fino a tutto il 1892 non mi pareva possibile che io potessi  





















































scrivere altrimenti che in versi. Devo a Luigi Capuana la spinta a provarmi nell’arte narrativa in prosa » : 4 così Pirandello nella Lettera autobiografica indirizzata a Filippo Sùrico, 5 riconoscendo un debito che era stato più esplicitamente dichiarato nella lettera dedicatoria della prima edizione in volume, datata Roma dicembre 1907, del romanzo L’Esclusa, poi eliminata, quasi un rifiutare il maestro d’un tempo, nella « nuova ristampa riveduta e corretta » del ’27 per i tipi dell’editore Bemporad di Firenze. Era stato Ugo Fleres, poeta, romanziere, pittore, musicista, a favorire l’incontro tra il giovane e sconosciuto Pirandello, a Roma di ritorno da Bonn, poeta e pubblicista, ancora lungi dalla svolta narrativa e drammaturgica, e il vecchio e autorevole Capuana che lo avrebbe introdotto negli ambienti letterari e giornalistici romani raccomandandolo calorosamente, come emerge dal commosso ricordo di Pirandello tracciato da Ugo Ojetti lo stesso giorno della scomparsa, 10 dicembre 1936 :  









Bel giovane, con lo sguardo e la voce velata. Capuana lo difendeva così : “Ma guardategli gli occhi. Cannocchiali sono”. Noi non si capiva, e quello, stupito del nostro poco comprendonio, commentava : “Lontano vedono, lontanissimo”. 6  



A Capuana Pirandello non deve soltanto la nota « spinta » e le molteplici suggestioni letterarie, ma pure il primo autorevole riconoscimento critico. Il 6 giugno 1892 a Gaetano Miranda, direttore del settimanale napoletano « La Tavola rotonda », da Roma il mineolo scrive :  









Intanto vi mando una bella cosa. Luigi Pirandello sta scrivendo una bizzarra fantasia umoristica intitolata Belfagor : questo è il primo capitolo-primo canto. Pubblicatelo ; farete piacere a me e ai lettori della « Tavola rotonda ». Si tratta d’una vera opera d’arte. Pel compenso, mi rimetto a voi. Se non intendete dare un qualche compenso, non lo pubblicate. E io vi dico che avrete torto. Mandate, nel caso affermativo, le stampe. Dirigetele a me. Pirandello viene tutti i giorni in casa mia. 7  







Capuana che, nell’incomprensione quasi generale, segnalava il « caso » Verga rilevandone la « semplicità quasi nuda » del mondo artistico e dava il battesimo letterario all’esordiente De Roberto, additava pure, ai contemporanei distratti da più vistose presenze, il corregionale Pirandello destinato ad uscire presto dall’ombra. Dal sodalizio sarebbe scaturita una fervida attività letteraria ed esegetica, infaticabilmente patrocinata dal famoso scrittore, e quindi la definitiva consapevolezza della crisi del naturalismo che era maturata anche in virtù delle sollecitanti ‘trasgressioni’ capuaniane : il progressivo dissolversi della razionale Weltanschauung verista nell’irrazionale oscuro labirinto della coscienza alla conquista di spazi esplorativi inconsueti, l’interesse per i fatti patologici ed anomali, le scienze esoteriche, parapsicologia, occultismo, spiritismo. Larga parte dell’opera capuaniana (e derobertiana) costituisce infatti l’incunabolo degli inusitati « casi » psicologici e naturalisticogrotteschi della narrativa pirandelliana. A documentare il rapporto amicale e l’assidua frequentazione, fra l’altro, l’omaggio a Pirandello, nel gennaio 1894, di una plaquette di dodici poesie dal titolo Le Istantanee in occasione delle nozze, affettuose dediche reciproche, scambi di recensioni, che coprono un arco di tempo che va dal 1896 al 1907, da cui emergono  















4   Pirandello aveva pubblicato in pro­sa unicamente, a diciassette anni, il bozzetto siciliano : Capannetta, « Gazzetta del popolo della domenica », Torino, 1° giugno 1884. 5   Apparsa sulle colonne del periodico romano « Le Lettere » il 15 ottobre 1924, ripubblicata sullo stesso periodico il 28 febbraio 1938, ora nel volume citato di Saggi. Poesie. Scritti varii. 6   Ugo Ojetti, Con Pirandello, « Corriere della sera », Milano, 31 dicembre 1936 (poi in Idem, Cose viste (1934-1938), vii, Milano, Mondadori, 1934). 7   Sarah Zappulla Muscarà, Luigi Capuana e le carte messaggiere, i, Catania, c.u.e.c.m., 1996, p. 264.  

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  Luigi Pirandello, Prosa moderna (Dopo la lettura del Mastro-don Gesualdo), « Vita nuova », Firenze, 11 ottobre 1890 (già apparso due mesi prima, senza il sottotitolo e con leggere varianti, in « Psiche », Palermo, 30 luglio 1890). 2   Il discorso, tenuto il 2 settembre 1920, per l’ottantesimo compleanno di Verga, al Teatro Bellini di Catania, appare su « Il Mondo » di Giovanni Amendola del 28 settembre 1922. 3   Sulla quale cfr. Alfredo Barbina, La biblioteca di Luigi Pirandello, Roma, Bulzoni, 1980.  























pirandello a colloquio con verga, capuana e de roberto la generosa sollecitudine e disponibilità di Capuana nei confronti del geniale conterraneo ancora « in cerca d’editore », del quale intuisce le doti, e di contro l’‘interessata’ attestazione di stima iniziale di Pirandello che, via via nel tempo, soprattutto sotto lo pseudonimo di Giulian Dorpelli, non gli risparmia, con giovanile baldanza, pur tra gli apprezzamenti, giudizi severi. Una progressiva presa di distanza dall’opera di Capuana al quale, si affretta a sottolineare in privato, lo lega « soltanto un’amicizia personale », documentata pure dalla lettera del 1º maggio ’98 di risposta a Ugo Ojetti che lamentava, con la stroncatura del suo romanzo Il vecchio da parte di Fleres, Capuana e Pirandello, la saldezza compatta delle loro opinioni estetiche. 1 Eppure non pochi motivi capuaniani si trovano disseminati nella sua produzione narrativa (ma suggestioni ed influenze dialetticamente trascorrevano dall’uno all’altro scrittore) nella quale « non sarebbe difficile né inutile ricercare quali esempi abbiano influito su Pirandello : e in quale misura, e fino a qual punto certi atteggiamenti della sua forma novellistica derivino da altri » giacché, prosegue Capuana lucidamente, « egli ha saputo assimigliarsi accenni, svolgimenti, espressioni, e ridurli talmente suoi, dirigendoli a scopi più precisi, da far temere che, dopo di aver evitato il pericolo dell’imitazione, dovesse incorrere in quello della “maniera”, che è una specie d’imitazione di se stesso ». 2 Numerosi anche i prelievi alla lettera come quello dell’aforisma « la vita o si scrive o si vive » da Rassegnazione, il « disgraziato romanzo » (così lo definisce lo stesso Capuana scrivendone a Cesareo l’8 febbraio 1907) sul quale Pirandello aveva espresso non poche riserve. E l’autore se ne doleva, insieme al « mancato invio di L’Esclusa », in una lettera malinconica (anche per l’umiliazione di tardive restituzioni di prestiti) del 3 aprile 1908. 3 Più numerosi di quelli di Verga i volumi di Capuana presenti nella biblioteca di via Antonio Bosio (sebbene risalti anche in questo caso la mancanza dei romanzi fondamentali, Giacinta e Il marchese di Roccaverdina, 4 e di alcuni dei volumi recensiti) : Le paesane (Catania, Giannotta, 1894), Malia (Catania, Giannotta, 1894), Mondo occulto (Napoli, Pierro, 1896), Fausto Bragia e altre novelle (Catania, Giannotta, 1897), 5 Il braccialetto (Milano, Brigola, 1898, con dedica : « A Luigi Pirandello affettuosamente, Luigi Capuana »), 6 Gli « ismi » contemporanei (Catania, Giannotta, 1898, con dedica : « A Luigi Pirandello per fraternità d’arte e di critica »), Il benefattore (Milano : Aliprandi, 1901), Il Decameroncino (Catania, Giannotta, 1901), La scienza della letteratura (Catania, Giannotta, 1902), Arte e Scienza (Catania, Galati, 1904), Coscienze (Catania, Battiato, 1905), 7 Rassegnazione (Milano, Treves, 1908), Il nemico è in noi (Catania, Giannotta, 1914), Teatro Dialettale Siciliano (Catania, Giannotta, 1920 e 1921). Ancora meno consistente la quantità dei testi pirandelliani nella biblioteca di Capuana a Mineo negli anni sempre più depredata prima dell’attuale sistemazione ad opera del Comune : Elegie Renane (Roma, Tip. dell’Unione Coop. Editrice, 1895) ; L’epilogo (dramma in un atto, estratto, collezione dell’« Ariel »,  

















































   





1   Luigi Pirandello, Carteggi inediti (con Ojetti - Albertini - Orvieto - Novaro De Gubernatis - De Filippo), a cura di Sarah Zappulla Muscarà, Roma, Bulzoni, 1980, pp. 21-22. 2   Luigi Capuana, Cronache letterarie : « Erma bifronte », « Gazzetta del popolo », Torino, 9 gennaio 1907. 3   In Sarah Zappulla Muscarà, Luigi Capuana e le carte messaggiere, ii, cit., pp. 773-774. 4   « Un’analisi minuta, particolare, potente [...] questo romanzo del Capuana può ravvicinarsi al capolavoro del Dostoevskij » : così scrive Pirandello recensendo il romanzo su « Natura e arte » (Roma-Milano) del 1º luglio 1901. 5   Recensito, con lo pseudonimo di Giulian Dorpelli, sulla « Rassegna settimanale universale », Roma, 9 maggio 1897. 6   Recensito, con lo pseudonimo di Giulian Dorpelli, sulla « Rassegna settimanale universale », Roma, 5 dicembre 1897. 7   Recensito sulla « Nuova antologia », Roma, 16 giugno 1906.  































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1898) ; Il fu Mattia Pascal (Roma, Ed. di « Nuova antologia », 1904, con dedica : « a Luigi Capuana con l’antico affetto Luigi Pirandello ») ; Bianche e nere (Torino, Streglio, 1904, con dedica su un foglietto incollato sulla copertina : « a Luigi Capuana, come a maestro, Luigi Pirandello ») ; Erma bifronte (Milano, Fratelli Treves Editori, 1906, con dedica : « a Luigi Capuana, come a maestro : il sempre suo Luigi Pirandello Roma, 30 ottobre 1906 ») ; Arte e Scienza (Roma, W. Modes Libraio-Editore, 1908, con dedica : « a Luigi Capuana, con l’antico, immutabile affetto, Luigi Pirandello »). Non c’è traccia invece di Mal giocondo (Palermo, Libreria Internazionale L. Pedone Lauriel di Carlo Clausen, 1899, con dedica : « a Luigi Capuana, affettuosamente, Luigi Pirandello »). 8 Scomparso Capuana, in Adelaide Bernardini, impegnata a gestire e promuovere l’opera del marito, trascurato dalla critica, ed insieme a trovare, impresa sempre più difficile, spazi editoriali e teatrali alla propria, sollecitando, spesso con tono astioso, collaborazioni e messe in scena, lievitava il risentimento contro Pirandello e non sfuggivano a qualche frecciatina gli stessi Verga e De Roberto, come documenta la corrispondenza con Nino Martoglio con cui pure il rapporto fu spesso conflittuale. 9 In una lettera aperta, apparsa il 20 novembre 1922 su « Il Giornale d’Italia », la vedova di Capuana accusava lo scrittore di aver plagiato nel primo atto di Vestire gli ignudi il racconto Dal taccuino di Ada della raccolta Il braccialetto 10 (ricordandone la dedica : « A Luigi Pirandello affettuosamente, Luigi Capuana » che « “allora” lusingò molto il suo amor proprio di scrittore quasi ignoto »), lamentando inoltre la denunzia di qualche mese prima di essere « indegna proprietaria di alcuni autografi preziosissimi » (l’autografo de I Vicerè, da lei poi restituito a De Roberto, e quello de I Malavoglia, ceduto agli eredi di Verga per seimila lire). 11 Pirandello dichiarava di non aver nulla da rispondere al riguardo, pure, in data 21-22 novembre 1922, « Il Giornale d’Italia » pubblicava una difesa d’ufficio del drammaturgo in cui si sosteneva che non si può definire plagio la trattazione diversa di un medesimo argomento. Nella stessa data, in un’intervista apparsa su « Epoca », Pirandello riconosceva di essersi servito per l’« antefatto » del suo dramma di alcuni « documenti umani », di cui erano stati testimoni in passato altri amici – Lucio D’Ambra, Ugo Fleres, Salvatore Saya –, letti nella cronaca estiva di un giornale romano prima di essere narrati in una novella da Capuana con modi diversi dai suoi. Nessun rapporto, neppure lontano, aggiungeva, esiste tra il romanziere Ludovico Nota e Luigi Capuana. 12 Nessun plagio quindi, sebbene Ludovico Nota rinvii a Luigi Capuana, nel reperire dalle cronache il « germe » narrativo secondo il metodo di rappresentazione verista. Piuttosto Pirandello rendeva, a suo modo, omaggio all’antico maestro siglando l’ultimo atto di una relazione fondamentale nella sua esperienza scrittoria. Soltanto di pochi anni più anziano, Federico De Roberto, ampliando l’area della ricerca tematica verista, era pervenuto ad esiti straordinari quando Pirandello, dibattendosi tra la lusinga della poesia e la vocazione alla prosa, veniva elaborando la sua deflagrante diagnosi della realtà, passata di necessità attraverso l’implacabile analisi dell’autore de I Vicerè, il pode 

















































































8   Di cui dà notizia Gino Raya, Bibliografia di Luigi Capuana (1839-1968), Roma, Ciranna, 1969, p. 82. 9   Cfr. al riguardo : Sarah Zappulla Muscarà, Luigi Capuana e le carte messaggiere, ii, cit., pp. 549-743. 10   « Bella e commovente, soprattutto, m’è sembrata la novella Dal taccuino di Ada », scrive Giulian Dorpelli sulla « Rassegna settimanale universale » del 5 dicembre 1897. 11   Sull’intera polemica cfr. Sarah Zappulla Muscarà, Capuana e De Roberto, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1984, pp. 27-33. 12   La vicenda è riassunta, col titolo Pirandello e l’accusa di plagio rivoltagli dalla vedova Capuana, sul « Corriere della sera » (22 novembre 1922) ; e, con toni ironici, in Pirandello plagiario, su « La Vedetta artistica » di Catania (29 novembre 1922).  



















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roso affresco della decadenza della nobiltà siciliana sorpresa nel precipitare degli eventi che corrono dalla spedizione dei Mille all’Italia umbertina da cui l’agrigentino avrebbe tratto l’architettura narrativa de I vecchi e i giovani. L’alienante maschera individuale e sociale, la risibilità dei processi storici, la deformazione della realtà nella direzione dell’umorismo, del paradosso, del grottesco, patrimonio dell’opera di De Roberto, saranno da Pirandello esasperati nei termini di un più radicale pessimismo. Una suggestiva, forte corrispondenza dunque che prescindeva dalla frequentazione personale. Tra i due scrittori soltanto un breve ma significativo scambio di ignorate recensioni da cui emerge l’intransigenza critica di Pirandello e di contro la benevolenza di De Roberto, scrittore già affermato, nei confronti del conterraneo ai suoi esordi narrativi. L’8 agosto 1897, sotto lo pseudonimo di Giulian Dorpelli, Pirandello rivolgeva sulla « Rassegna settimanale universale » gli strali della sua giovanile severità 1 contro Spasimo di De Roberto. Una lettura non benevola in cui si rimproverano a De Roberto l’insistita presenza di Bourget e Dostoevskij, il cosmopolitismo dei personaggi « montati e combinati » piuttosto che « vivi e veri », l’arida e smaniosa propensione per l’indagine psicologica, l’abuso delle frasi interrogative che nuoce alla forma per altro « accurata, sobria, penetrante ». Ma quante consonanze di temi con Pirandello : dalla consapevolezza dell’umana follia all’impossibile conquista della verità. Non s’avvide il giovane critico che l’organizzazione strutturale e tematica tanto manierata scaturiva dall’esigenza di conciliare in un romanzo d’appendice le ragioni della letteratura popolare con quelle dell’arte. Una conciliazione difficile sperimentata sulla propria pelle anni dopo dallo stesso Pirandello allorché, scelta la via dell’arte tout-court, si vedrà respingere da Renato Simoni e Alberto Albertini il romanzo a cui darà poi il titolo Si gira... perché divenuto via via, nel corso dell’elaborazione, sempre più filosofico e sempre meno d’azione al punto da risultare inadatto per il vasto ed eterogeneo pubblico di una rivista (« La Lettura ») : « Quand’anche il mio romanzo fosse stato nojoso... ma non è, non è nojoso ! tutt’altro » scrive Pirandello ad Ojetti il 10 aprile 1914. 2 Il 18 dicembre 1897 sulla rivista « Ariel » appare una feroce stroncatura de Gli Amori di De Roberto, firmata Prospero. Con tono graffiante e ironico Pirandello, biasimando la mancata citazione del Bourget – ma quante citazioni mancate nella sua opera ! –, sottolinea « plagi » e segna errori come una zelante e acrimoniosa maestrina dalla penna rossa. Due gli sembrano particolarmente gravi : « il premettere l’aggettivo al nome » e la facile « conquista del simbolico regno delle lettere majuscole ». E indirettamente alludendo al romanzo dell’inviso abruzzese, l’irriverente Prospero conclude : « per il Piacere d’imitare e di contraffare questo e quello, si compra il Disgusto dei lettori ! Ah ! un gran disgusto davvero : majuscolo ! ». È la memoria de I Vicerè, « uno dei libri più solidi dell’arte narrativa contemporanea », a rendere severo il giudizio di Pirandello, mai così impietoso, su un’opera certamente da iscrivere fra gli sperimentalismi e le esercitazioni pseudo-scientifiche, come avverte lo stesso autore nella prefazione : « Io non ho fatto e non ho voluto fare opera di fantasia ma di osservazione ». Eppure ancora una volta nella scepsi sistematica de Gli  



























































   











Amori la tesi di fondo è prepirandelliana. Quei confidenti di cui narra De Roberto che forniscono agli scrittori « una quantità di documenti umani » perché « tramandino ai posteri i rari e fatali avvenimenti » della loro tragica esistenza non anticipano le pirandelliane udienze ai personaggi in cerca d’autore ? Anni dopo sarà De Roberto a recensire Pirandello sulle pagine del « Corriere della sera » : Quand’ero matto (15 febbraio 1903), Beffe della morte e della vita (29 giugno 1903), Bianche e nere (16 luglio 1904), Il fu Mattia Pascal (9 novembre 1904). Essenziali note esegetiche – data la natura della rubrica dal taglio volutamente rapido cui sono destinate –, nelle quali, mostrando di non serbare rancore per le passate strigliate, De Roberto esprime il proprio apprezzamento per il conterraneo « più che ironista […] umorista, nel senso esotico della parola. Studioso, anzi padrone della letteratura tedesca, i maestri dell’umorismo germanico gli sono familiari » e, generosamente dimentico dell’inclemente requisitoria contro aggettivi e maiuscole, ne sottolineava la « rara padronanza » lessicale e la « forma molto efficace nella sua originalità ». Nella breve ma articolata nota sulla nuova serie delle Beffe della morte e della vita il critico definisce, ancora una volta, come farà pure per Il fu Mattia Pascal, Pirandello « umorista, nel senso esotico della parola », indica in Il marito di mia moglie la migliore novella del volume per « l’arguzia sottile, pungente, tagliente, efficacissima » ma trova « più gustoso ancora Il vitalizio, degno di Maupassant ». A distanza di un anno è la volta di Bianche e nere, novelle che gli appaiono non più frutto di fantasia (come quelle di Quand’ero matto) ma scaturite dall’osservazione del reale, « drammatiche e tragiche – nere, come dice il titolo, per opposizione alle bianche, alle semplici e tutte ironiche », in ognuna l’autore tuttavia « s’indugia a cogliere con particolare compiacimento il lato ridicolo che, a ben cercarlo, non manca mai ». L’ultimo intervento di De Roberto dedicato a Pirandello è quello relativo al « felice » romanzo Il fu Mattia Pascal dalla cui « gustosa invenzione » l’autore « ritrae alcuni effetti veramente bellissimi, ma anche altri che hanno poco sapore » giacché « la stravaganza delle avventure è talvolta fine a sé stessa e di qualche episodio sfugge il significato » allora, conclude il critico, « si è tentati di dar ragione al protagonista, il quale trova da sé nella sua storia una favola assurda, un sogno insensato ». Di De Roberto nella biblioteca di Pirandello non residuano che tre volumi : La morte dell’amore (Napoli, Pierre, 1892) ; Come si ama (Milano, Roux e Viarengo, 1900) ; La messa di nozze (Milano, Treves, 1911). Nessuna traccia de I Vicerè di cui I vecchi e i giovani, scaturiti dallo stesso scetticismo ideologico, dalla stessa delusione storica per il naufragio degli ideali risorgimentali, sono la continuazione, nessuna traccia al pari de Gli avvenimenti di Sicilia e le loro cause di Napoleone Colajanni, fonte diretta, talora testuale, del romanzo pirandelliano. Neanche un libro di Pirandello fa registrare quanto resta della biblioteca di De Roberto. « Lavoro capitale », fortemente polemico, sia nei riguardi del parlamentarismo che del sindacalismo, in cui è naufragata la tensione risorgimentale, I vecchi e i giovani, ambientato tra Girgenti e Roma, nel torbido triennio 1892-’94, dove memoria storica e memoria privata si fondono a tessere un unico totale fallimento, è romanzo particolarmente caro a Pirandello, che a donna Caterina Laurentano (personaggio ispirato dalla madre Caterina Ricci Gramitto), delusa ed amareggiata per la condizione politica e morale dell’Italia unificata, farà esclamare : « Povera isola, trattata come terra di conquista ! Poveri isolani, trattati come barbari che bisogna incivilire ! ». 3  













































































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  « Caro Ugo, èccoti il Nro della Rassegna, in cui la tua Viltà è onestamente recensita. Come vedi, è proprio il Nro d’oggi ; e a compagno t’ho dato Federico De Roberto, trattato però maluccio. Degli altri tre non ti parlo. Costoro certamente diranno che, se di Minosse in Dante non si sa con che razza di coda giudicasse, si sa invece che Giulian Dorpelli giudica con una coda d’asino. Ma non bisogna farsene : questi sono i proventi più sicuri del mestiere del critico » (Luigi Pirandello, Carteggi inediti, cit., p. 13). Ulteriore conferma, di prima mano, che « Giulian Dorpelli » è l’anagramma di Luigi Pirandello. 2   Luigi Pirandello, Carteggi inediti, cit., p. 79.  

















   

3   Il 29 dicembre 1908, l’indomani del terribile terremoto di Messina e Calabria, all’editore Emilio Treves, cui propose di pubblicare il romanzo, « opera d’arte, e a modo mio, com’Ella vedrà : d’arte esclusivamente », scrive : « Rappresenta il complesso e tristissimo dramma della Sicilia dopo il 1870. Povera Sicilia ! Mi giungono in questo momento le orribili notizie della cata 











pirandello a colloquio con verga, capuana e de roberto La lezione dei tre grandi maestri ha alimentato senza posa il disincantato, amarissimo umanesimo pirandelliano. E per quanto i loro libri, in gran parte, non si allineino più negli scafstrofe immane ! Povera Sicilia ! » (Sarah Zappulla Muscarà, Povera Sicilia ! Una lettera inedita di Luigi Pirandello, « La Sicilia », Catania, 7 gennaio 1992).  

   







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fali di casa Pirandello, è possibile evocarli i tanti « libri-anima », fervida officina del suo immaginario, dalle sue opere nelle quali i personaggi, « meno reali ma più veri », si eternano. Tutte le infinite, misteriose, oniriche creature dell’arte aleggiano sui resti della biblioteca concedendo intime udienze ai lettori anch’essi « fatti della stessa sostanza dei sogni ».  











SGUARDI E IMMAGINI NE IL VESPRO DI GABRIELE D’ANNUNZIO E FORSE UN MATTINO DI EUGENIO MONTALE Patrizia La Trecchia Per me le immagini sono sempre più importanti della storia o forse dovrei dire che molto spesso la storia non è altro che un pretesto per raccontare immagini. Wim Wenders

N

ell’accingersi al non facile compito di tentare di fornire un’analisi dell’opera di un autore, benché non ne esista un’unica lettura e le possibilità interpretative siano sempre molteplici e sia arduo esaurirle tutte, non ci si può esimere dal tracciare un ritratto dell’uomo, della sua personalità, del suo modo di essere e di vedere la vita e non si può, quindi, ignorare l’importanza fondamentale e le ripercussioni che tali aspetti hanno sulla sua opera. Fatta questa premessa, bisogna aggiungere che nel caso di d’Annunzio risulta complesso, se non impossibile, scindere le opere dalla vita. Personaggio intrigante, eccessivo, effervescente, esasperato, poseur, esteta, trasformista, mondano e interprete d’eccezione di una vita non ordinaria, che visse molto pubblicamente tra scandali continui e amori clamorosi, usando spesso le sue vicende personali come espediente per attirare l’attenzione su di sé e sulla sua opera, specialmente agli esordi. Scrive una poesia sensuale, quasi fisica, tattile, sonora, visiva, ritmata, piena di slanci, fatta di un lessico tutt’altro che ordinario, piuttosto raro, scelto con un gusto quasi maniacale per la parola ; una poesia che si abbandona alle suggestioni dei sensi e al culto della bellezza, ma non priva di contrasti e di turbamenti interni. Forma e contenuto sono sempre legati e intrecciati, la forma diviene quasi un modo, forse il modo per eccellenza, per suscitare contenuti, motivi, idee, epifanie e illuminazioni. Il poeta è sempre protagonista e partecipe della sua poesia, la vive in prima persona senza il distacco che, invece, si nota nelle liriche montaliane dove l’io narrante si lascia percepire un po’ distante, lontano, non identificabile, così da permettere forse una più immediata immedesimazione da parte del lettore. Una poesia, quella montaliana, fatta di oggetti, immagini, situazioni, allusioni, metafore e di un lessico insolito, di parole aspre ed enigmatiche che vogliono quasi indagare la realtà ; una poesia difficile da decifrare, densa di suggestioni che rimandano all’inconscio e a una realtà altra. Una personalità quella del Montale molto diversa da quella del d’Annunzio. Un uomo ritroso e riservato che, alla notizia dell’assegnazione del Premio Nobel, ebbe a dire : « Mi è venuto un dubbio : nella vita, di solito trionfano gli imbecilli. Lo sono diventato anch’io ? ». E, ancora, sempre nella stessa occasione : « Non mi sono mai divertito tanto : i fiori, i telegrammi. Mi sembrava di assistere, da vivo, al mio funerale ». 1 Affermazioni ironiche, sempre all’insegna del paradosso, un modo di fare che lo porta a minimizzare le cose grandi e importanti e che contrassegna una personalità schiva che non ama parlare della sua poesia : « Io non attribuisco nessun particolare privilegio alla posizione dell’artista nella società, nessun merito speciale. L’idea classicistica del poeta che vive in mezzo agli uomini normali con l’alloro in testa, mi sembra un relitto di cui bisogna assolutamente liberarsi ». 2  

























Due personalità opposte e contrastanti, come si può arguire da questi pochi accenni, due figure di grande rilievo nel panorama poetico italiano e, dunque, di fondamentale importanza per il linguaggio poetico, che hanno contribuito a segnare con la loro azione. Montale, come lui stesso ebbe a dire, dovrà per forza di cose ‘attraversare’ il d’Annunzio e fare i conti con la sua eredità poetica. La poesia di d’Annunzio che qui si esaminerà è tratta dalle Elegie romane, raccolta poetica del 1892 che prende spunto dalla relazione amorosa del poeta con Barbara Leoni. I modelli letterari sono Goethe, Carducci e Shelley. Di quest’ultimo d’Annunzio aveva scritto : « Nessuno come lui sente e manifesta la vita occulta delle cose ». 3 Anche il metro adottato, il distico elegiaco, proviene decisamente dalla tradizione classica e ‘barbara’ ed era stato adottato anche dal Carducci. Quarta nell’ordine cronologico di composizione, ma posta in apertura del Libro primo, Il vespro è una lirica estremamente sensuale in cui lo slancio interiore del poeta trova volutamente una puntuale corrispondenza e partecipazione nel paesaggio romano. Il binomio tra amore sensuale e fascino di Roma ritorna anche in altre liriche dannunziane, si veda l’esempio di Romanza, poesia tutta giocata sulla descrizione dell’atto sessuale e Il piacere, in cui ricorrono non solo le stesse descrizioni della Roma umbertina, uno scenario splendido di una città che rivela in ogni angolo la sua eternità e atemporalità, ma anche la stessa aspirazione del protagonista, Andrea Sperelli, a un amore più grande, che, come si vedrà, si ritrova anche ne Il vespro. È l’ora del tramonto e il poeta ha appena lasciato la casa della donna amata con i sensi ancora storditi dopo l’incontro amoroso (« le vene mi tremano pur di dolcezza »). Camminando per le strade di Roma ancora brulicanti di vita (« de’ sonanti carri, de’ rauchi gridi »), ha come una visione, « un fallace sogno », perde il senso del tempo e del luogo (« Non era in me certezza dell’ora, dei luoghi ») e le cose che lo circondano, la realtà che gli sta attorno gli appare trasfigurata. Il suo pensiero è ancora all’amplesso con l’amata e alle sensazioni che ha appena provato e, nel camminare, le traspone nella realtà materiale dello spazio che attraversa. Così come accadeva in Romanza dove « febbraio moriva dolcemente » come una donna bionda in preda a un orgasmo e Piazza di Spagna, di rimando, ne usciva quasi sessualizzata, anche qui le fantasie del poeta sono proiettate sulla realtà e la sua anima/fallo si alza cupidamente attraverso le anguste mura a fendere/penetrare l’infuocata zona/genitali femminili ( ?) che il tramonto autunnale accende su Roma. Il poeta attinge a piene mani alla simbologia sessuale fino a connotare gli oggetti di significati che non sono loro propri : i cieli divengono « umidi » e infuocati, « ignei » e i versi divengo 







































1

  Giulio Nascimbeni, Ritratto di Montale, in Eugenio Montale, a cura di Annalisa Cima, Cesare Segre, Milano, Bompiani, 1977, p. 4. 2   Ivi, p. 6.

3   Commemorazione di P. B. Shelley, « Il Mattino », 4-5 agosto 1892, in Gabriele d’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, a cura di Annamaria Andreoli, Niva Lorenzini, Introduzione di Luciano Anceschi, Milano, Mondadori, 1982 (« I Meridiani »).  







sguardi e immagini ne il vespro di gabriele d ’ annunzio e forse un mattino di eugenio montale 239 no anche in questo caso, una metafora, abbastanza esplicita Forse un mattino è contenuta nella raccolta di liriche Ossi di seppia del 1925, opera prima di Montale la cui struttura ruota viste le associazioni improprie o quanto meno forzate, dell’atintorno a un centro, la sezione Ossi di seppia, che dà, appunto, to sessuale. il titolo al volume. Poesia brevissima, due quartine che duraL’ambiente circostante sembra quasi prestarsi all’operaziono un attimo, l’attimo di una visione (o allucinazione) e che ne di riscrittura dannunziana in termini corporei, le analogie lascia un senso di angoscia nell’animo. si moltiplicano e persino la punteggiatura molto fitta e marIl poeta cammina un mattino in « un’aria di vetro », si pocata sembra evocare i tempi concitati della passione amorosa trebbe intendere, tersa, chiara, ma l’uso di due qualificazioni e dell’atto sessuale. Le nubi fiammeggianti al tramonto assucosì insolite (« arida », oltre a « di vetro ») insospettisce. Il vetro mono forme inaspettate e sembrano grondare rivi vermigli di rimanda allo specchio, il vetro è in sé qualcosa che riflette e/o sangue, come se fossero « occisi mostri », mostri feriti a morte. una pellicola che copre/nasconde lasciando solo intravedere, Le nuvole che poco prima erano state associate con i genitali e già questo basta a creare un mistero freddo e tagliente (il vefemminili, ora si sono trasformate anch’esse in mostri attratro può anche ferire). L’uso del termine « arida » comunica un verso l’immaginazione poetica. senso di desolante sterilità e fa sentire l’ostile estraneità della Più avanti si intensifica la nuova metafora delle nuvole viste natura, delle cose che circondano il poeta, forse la realtà della come mostri e il poeta si figura una « strage » per le vie ripide vita fatta di vuoto e di nulla. dei cieli e la paragona alle imprese di un arciere implacabile Il mattino è, per antica tradizione, l’ora della rivelazione, nei boschi che hanno preso fuoco forse per via delle sue frecce della rinascita, della conoscenza di una verità assoluta che infuocate (altra allusione ?). Ma la fontana del Tritone a Piazrinnova lo spirito, l’ora della verità e della speranza. Si noti za Barberini porge verso quei fuochi ( ?) lo « stel »/fallo/getto l’esordio della lirica, pacato, lento e l’avverbio « forse », che d’acqua che si spande come una chioma di capelli sciolti. Forsembra già alludere assieme al sostantivo « mattino » a una se in quest’ultimo distico l’allusione all’atto sessuale è nuovapossibile speranza, ma già il gerundio che segue, « andando », mente esplicita attraverso l’uso di vocaboli, chiaramente derelativo a una ricerca continua, senza meta, comunica un senrivanti dalla simbologia fallica, come « stel » e acqua/liquido so di perdita, di sfiducia, così l’entusiasmo iniziale si smorza seminale ( ?) che si sparge. e si spenge. 1 Le vetrate di Palazzo Barberini rosseggiano alla luce del Il poeta spera di volgersi e di vedersi compiere il miracolo. tramonto « accesa di porpora al sommo ». Si noti come tutta Il miracolo che il poeta si aspetta, si noti che non si parla di la lirica sia dominata dal colore rosso vermiglio : il colore del un miracolo, ma del miracolo, quello che il poeta aspetta da tramonto che inonda/riflette sulla città e il colore della passempre con ansia (« vedrò »), è la visione del nulla dietro le sione che si traduce in erotismo esasperato evocato/incarnafalse parvenze della realtà, dello squallore del tutto. to nel paesaggio. La rivelazione sarà terribile e il poeta proverà un « terrore Palazzo Barberini diviene nell’immaginazione del poeta un da ubriaco », lo stesso terrore di un ubriaco che vede le cose luogo eletto, privilegiato, la dimora ideale per ospitare la sua mutare il loro aspetto consueto e assumere forme distorte e passione, ed egli già si figura con l’immaginazione « superbi allucinanti. Anche il poeta, come un ubriaco, non riesce più a amori » in quello sfondo (« fulgidi amori e lussi mirabili e ozii distinguere la realtà delle cose e, per un attimo, sarà tentato profondi ; una più larga forza, una più calda vita »). di credere a un incubo. Al colmo dell’eccitazione dei sensi il poeta in un crescendo Ma la visione dura un attimo e le cose (« alberi case colli ») parossistico desidera ancora di più, « la folle Chimera », cioè il s’accamperanno « di gitto », si risistemeranno nelle loro posisuo desiderio inappagato desidera ancora « più dolci frutti » e zioni solite, come su uno schermo (forse il vetro della quarti« altri ignorati beni ». Il poeta vuole assaporare nuove sensana iniziale), per ingannarci come sempre, spingendoci a crezioni e implora gli « occhi soavi » dell’amata di concedergli « la dere realtà le loro parvenze illusorie. « Ma sarà troppo tardi » mai goduta ebrezza, lo sconosciuto bene ». L’allusione qui è e il poeta non si lascerà illudere una seconda volta, quando chiarissima. Si sta cercando di adoperare una chiave di lettura avrà compreso la verità, non vi scenderà a patti, per dolorosa che si è dimostrata proficua nel caso di altre liriche dannunziache essa sia. ne. Tuttavia, non si vuole in questa sede rischiare di dare una Nell’intuizione di quell’attimo egli conoscerà l’illusorietà lettura del testo che possa risultare in qualche modo viziata delle cose e terrà gelosamente custodito in sé tale segreto, da un approccio univoco e totalizzante, perciò si lasciano in respingendo le vane speranze che cercheranno nuovamente sospeso quelle allusioni di contenuto sessuale che paiono non di attrarlo nel loro « inganno consueto ». Una volta comprechiare ed esplicite. sa la verità, egli saprà farne tesoro, se ne andrà zitto col suo Le fontane che ridono argute rimandano alla Chiesa di Trisegreto che non vorrà rivelare, la porterà chiusa in sé « tra gli nità dei Monti che ride in Romanza e in quella sede l’allusione uomini che non si voltano » a considerare l’illusorietà delle era all’amata. Qui, l’anima/fallo, che prima si era innalzata cose, come invece ha fatto lui. cupidamente, « balza » : si è al climax della poesia e dell’atto Si tratta di una poesia apparentemente tutta nel segno della sessuale. L’ultimo distico sembra cambiare di tono, qualcosa negazione, sia nel tema, che nella forma, se si esclude l’esordio. è appunto accaduto, e l’animo del poeta sembra finalmente L’immagine evocata è desolata e squallida e il paesaggio arido, pacificato e soddisfatto. Sente gli effluvi provenienti dai giarquasi apocalittico, senza vita, a parte gli « uomini che non si dini del Quirinale e vede la Chiesa di Santa Maria Maggiore. voltano », che sembrano delle presenze/assenze inanimate. Il rosso che aveva predominato per tutta la lirica, in chiusura I versi sembrano la traduzione immediata dell’assurdo e del diviene « rosa » e si attenua, la passione è scemata. nulla narrato. Anche qui la forma e il contenuto si intrecciano. In questa lirica il paesaggio da inanimato è divenuto corEppure la sterilità e l’aridità di questo paesaggio richiamano, poreo e con esso e su di esso il d’Annunzio ha inscritto il suo per via negativa, il movimento e la vita. Proprio come accadesiderio in maniera sfrenata e lo ha disseminato di significadeva in Non chiederci la parola in cui, nell’epoca della fine dei ti altri, generando una notevole confusione tra significante/ pensieri totalizzanti, l’io si è dissolto, è divenuto molteplice e significato. Quando la poesia si integra diegeticamente col non esistono verità ultime, l’uomo ha ancora la possibilità di paesaggio essa tende a controllare lo spazio e a renderlo funesprimersi attraverso la negazione. zionale alla narrazione. Le immagini, che divengono apparentemente in tal modo meno complesse, attraverso questo 1 impoverimento e riduzione acquisiscono una ricchezza so  Si confronti in Meriggiare pallido e assorto il timbro dello stesso gerundio vraccaricandosi di senso agli occhi del lettore. « e andando nel sole che abbaglia ».  



































































































































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patrizia la trecchia

Le due poesie analizzate sono contenutisticamente e stilisticamente quasi contrapposte. Il punto di contatto è dato dalla narrativa di una contemplazione visiva che le sottende : per entrambe si tratta di una passeggiata o, più esattamente, di un movimento attraverso un luogo, la città di Roma per il d’Annunzio, la natura o una qualsiasi periferia, un luogo indefinito e astratto per Montale. I momenti in cui questo attraversamento avviene sono antitetici : mattino nell’una e tramonto nell’altra, così da coprire assieme l’arco di un giorno. Ma la poesia montaliana dura un attimo, l’attimo della visione ; quella dannunziana occupa un tempo più ampio, si dilata forse nel lasso di tempo di un tramonto. In entrambe le poesie si giunge a uno scopo : nella poesia montaliana il poeta acquista una consapevolezza che lo renderà diverso dagli altri uomini, in quella dannunziana il poeta più prosaicamente prolunga e protrae l’ebbrezza dei sensi provata con l’amata e la trasferisce su un altro piano di lettura. In conclusione, si tratta di due stati d’animo, di due movimenti percettivi diversi. Come si vede in Romanza, per citare  







un esempio calzante, d’Annunzio non riesce a stabilire un contatto reale con la realtà, ma trasforma tutto ciò che vede attraverso i giochi dell’immaginazione. Al contrario, nella poesia di Montale, il poeta vede con chiarezza la realtà sensibile, la percepisce come essa appare ai nostri sensi e come essi la percepiscono, cioè con sembianze ingannevoli e illusorie, ma spera di vederla nella sua essenza, di scoprire il mistero che giace sotto di essa di cui ha sempre avuto sentore. Il poeta stesso, infatti, in un’intervista a Giuliano Dego, quando gli viene chiesto :  

Ho sempre avuto l’impressione che lei abbia questa sensazione di cose al di là delle cose che si vedono, che si possono vedere, di cose irraggiungibili..., aveva replicato : Beh, forse ho sempre avuto un certo senso... Le cose reali, compreso l’uomo, mi sono sembrate sempre poco probabili, poco probabili, ecco. Insomma, probabilmente le accettavo, perché se uno non accetta le cose cessa di esistere, ma un certo senso di improbabilità, specialmente sulla costituzione fisica del mondo, l’ho sempre avuta. Questo sentimento, direi quasi un senso tattile. In un certo senso il mondo mi appariva poco reale....  

Si può tentare di schematizzare come segue :  

OCCHIO D’ANNUNZIO Superficie (Sopra)

REALTÀ OGGETTIVA

SPECCHIO (? )

APPARENZE ESTERIORI Profondità (Sotto)

OCCHIO MONTALE Si noti come l’occhio dannunziano non veda immagini concrete, realistiche, ma con il suo soggettivismo estremo le trasformi in simboli. Egli si pone in uno stadio che considera superiore alla realtà, quello dell’illusione, come accadeva anche con i decadenti. Montale, parte anch’egli dalla realtà, ma ne

coglie le parvenze illusorie e ne vuole scoprire l’essenza oltre la superficie. Per cui, si ha, ancora :  

1

24.

  Giuliano Dego, Il bulldog di legno, Roma, Editori Riuniti, 1985, pp. 23-

sguardi e immagini ne il vespro di gabriele d ’ annunzio e forse un mattino di eugenio montale

IO
REALTÀ D’ANNUNZIO


REALTÀ

MONTALE

d’Annunzio trasfigura attraverso il suo sentire e il suo io la realtà. È l’io del poeta, il suo stato d’animo a compiere la trasformazione. La realtà e l’io interagiscono. L’io montaliano e la realtà, al contrario, sono e restano separati. Montale aspetta che la realtà si trasfiguri e mostri la sua vera consistenza ai suoi occhi, che ne hanno intuito il gioco di specchi illusorio, si ricordi l’aria di vetro e lo schermo, entrambi metafore dello specchio. È un guizzo, un lampo, che il suo occhio allenato riesce a percepire. Non c’è, dunque, interazione vera e propria, ma solo la percezione di una realtà che rimane estranea e ostile. Se in d’Annunzio si verifica una corrispondenza tra l’io del poeta e il mondo che partecipa alla sua gioia, al contrario, in Montale il mondo che lo circonda partecipa invece a un inganno. Questo complesso gioco dei punti di vista mette in evidenza, nella percezione del lettore, la dialettica di due movimenti e momenti simultanei che, anche se discordanti, divengono uno strumento per ripensare il mondo attraverso lo sguardo poetico. Forse un mattino Forse un mattino andando in un’aria di vetro, arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo : il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me, con un terrore di ubriaco. Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto alberi case colli per l’inganno consueto. Ma sarà troppo tardi ; ed io me n’andrò zitto tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.  



Il vespro Quando (al pensier le vene mi tremano pur di dolcezza) io mi partii, com’ebro, dalla sua casa amata,

su per le vie che ancora fervean dell’estreme diurne opere, de’ sonanti carri, de’ rauchi gridi, tutta sentii dal cuore segreto l’anima alzarsi cupidamente, e in alto, sopra le anguste mura, fendere l’ignea zona che il vespro d’autunno per cieli umidi, tra nuvole vaste, accendea su Roma. Non era in me certezza dell’ora, dei luoghi. Un fallace sogno teneami ? O tutte della mia gioia consce eran le cose e in torno rendevano insolito lume ? Io non sapea. Le cose rendevan lume. Tutte le nubi ardeano immote : qual sangue da occisi mostri, rompea da’ loro fianchi un vermiglio rivo. Lieta crescea la strage per l’erte de’ cieli, sì come per infiammati boschi gesta d’immite arciero. Agile dalle gote capaci il Tritone a que’ fochi dava lo stel dell’acqua, che si spandea qual chioma. Tremula di baleni, accesa di porpora al sommo, libera in ciel, la grande casa dei Barberini parvemi quel palagio che’eletto avrei agli amori nostri ; e il desio mi finse quivi superbi amori : fulgidi amori e lussi mirabili ad ozii profondi ; una piu’ larga forza, una piu’ calda vita. – Sonvi – dicea la folle Chimera il cuor mio [torcendo – sonvi piu’ dolci frutti, altri ignorati beni ! – – Datemi – il cuor dicea – voi datemi, occhi soavi, la mai goduta ebrezza, lo sconosciuto bene ! – Alta dal cuor balzavami l’anima. A sommo dell’erta, in su ‘l quadrivio, argute risero le fontane. Freschi dal Quirinale co’l vento mi giunsero effluvi : rosea m’apparve, al fondo, Santa Maria Maggiore.  

















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« ALTRA GRAZIA NON AVEA NEL VISO / CHE LO SPLENDOR DEGLI OCCHI SOVRUMANI » : ADA NEGRI TRA CORPO E ANIMA  





Cristina Tagliaferri «

P

erché non si può essere né donna, né uomo, ma un semplice spirito ? ». 1 La giovanissima Dinin – alter ego di Ada Negri – si pone questo interrogativo in un episodio rievocato dall’autrice nel breve ‘romanzo’ autobiografico, istintivo e lirico, dal titolo Stella mattutina (1921). 2 La protagonista, non più fanciulla e neppure ancora donna, vive con angoscia il momento cruciale di passaggio dallo stato infantile a quello adulto, marcato dalla comparsa di un elemento dalla forte valenza simbolica : il sangue. 3  







Non è più lei, da qualche tempo. Fiacca negli studi, svogliata in tutto, opaca nel comprendere, e più tarda nel ritenere, giallognola nei toni del viso, con occhiaie talmente addentrate nella carne, da sembrar cicatrici. Si sveglia, in piena notte, di soprassalto, per sogni paurosi di pozzi nei quali affoga e di muraglie frananti sotto le quali soffoca. Il cibo le ripugna, alcune volte, con sensazioni di nausea intollerabili. Le dice la madre, serena, senza falsi pudori : « Non è nulla ! Tu sei sana come un corallo ! Sarai vicina allo sviluppo. Uno di questi giorni, oppure fra qualche mese, vedrai… Non t’inquietare. Sai pure cos’è. ». Sì : ella crede di saperlo. Ne ha parlato con altre fanciulle ; l’ha intravisto, dietro frasi sapientemente velate, in certe pagine di romanzi. Ma, quando giunge per lei la crudeltà della rivelazione fisica, il vero l’atterra [corsivo mio]. […] Ed ecco, si sente davvero inabissare in acque profonde. Quanti minuti rimane così, abbandonata sulla sedia, senza conoscenza ? Non sa. Ripresi i sensi, s’avvede, con uno spavento che la ragione non può dominare, della maturazione avvenuta in lei. Il suo sangue. Non l’aveva ancora né sentito, né veduto. Il suo corpo ne è dunque tutto pieno ? Dentro, non ha che sangue ? Purpureo, denso, caldo, con un odore che non assomiglia a nessun altro, un odore che la rende quasi folle. Dai piedi al cervello è il suo padrone. Se esce fino all’ultima goccia, la lascia morta. E se stesse per perderlo tutto davvero ?  





















1   Ada Negri, Stella mattutina, prefazione di Gianguido Scalfi, Milano, La Vita Felice, 2008, p. 45. In questo contributo si useranno nella stessa accezione i termini ‘anima’ e ‘spirito’, benché in alcune filosofie sussista una distinzione che fa del secondo qualcosa di più astratto e universale, tendente all’espansione. 2   In Stella mattutina, scritto dalla Negri all’età di cinquant’anni, la narrazione è volta in terza persona, ma è significativo che il romanzo si apra con un Io : « “Io vedo – nel tempo – una bambina”. La necessità di inventare uno spazio nel quale Dinin e Ada – protagonista e autrice – possano convivere, la costringe a contraddire le regole di entrambi i generi letterari. Non pienamente romanzo né dichiarata autobiografia, Stella mattutina si lascia interpretare intimamente da chi, avendo memoria di tutto ciò che in prosa e in poesia l’autrice ha scritto prima, non cerca la verità del vero ma la sua verosimiglianza, non la realtà della persona che scrive ma piuttosto il suo fantasma » (Anna Folli, Postfazione, ivi, p. 107). Fra i contributi più recenti sul tema cfr. Maria Grazia Cossu, Lo specchio di Venere. La scrittura autobiografica di Neera, Ada Negri, Marina Jarre e Lalla Romano, Sassari, Editrice Democratica Sarda, 2009. 3   Nel corso dei secoli, il sangue, specialmente quello legato al menarca, ha assunto diversi significati psichici, culturali, storici e sociali, per lo più con connotazioni negative, secondo le epoche e le zone geografiche del mondo (in occidente ne è derivata ad esempio la credenza della donna pericolosa, sporca, impura). Per quanto riguarda la reazione femminile, soggettiva, rispetto a tale vissuto corporeo, la psicoanalisi ha spiegato l’avversione per il ciclo mestruale da parte della donna adolescente con il complesso di castrazione. Sul menarca come ferita simbolica si veda Bruno Bettheleim, Ferite simboliche, Firenze, Sansoni, 1973.  





[…] Ha schifo di sé. Pensa che quella novità fisica la metta al pari di Tereson [la governante del vicino di casa, il signor Antonio]. Anche lei, ma sì… ma sì… ! uguale alla Tereson. Tanto male, tanta vergogna, tanta schiavitù, fino ai cinquant’anni, fino a quando una donna è vecchia, cioè non esiste più… Perché non si può essere né donna, né uomo, ma un semplice spirito ? Un crudo bisogno di evadere dal proprio corpo le fa graffiar con le unghie la coperta. Sottostare alle leggi della carne le è odioso supplizio [corsivo mio] ; e morde il cuscino e si contorce sul letto singhiozzando, in preda a spasmi di ribellione isterica. A poco a poco i singulti si fanno più radi, più stanchi : l’esasperazione dei nervi si esaurisce in se stessa, strema di forze, la creatura umiliata s’addormenta. E solo nel sonno può evadere. 4  







Le suggestioni sono soprattutto quelle ispirate da Émile Zola e dai romanzi nauralisti, 5 quando il positivismo offriva nuovi modelli antropologici e culturali destinati ad influenzare – almeno sino al primo Novecento – molti testi letterari oltre che scientifici, sulla base di lavori capitali, divenuti presto popolari, quali ad esempio gli Studi sull’isteria di Freud (1895), la Fisiologia della donna di Mantegazza (1893) o La donna delinquente, la prostituta e la donna normale di Lombroso e Ferrero (1893) : Ada Negri, che oltretutto nasce povera e conosce i tanti risvolti del disagio sociale e dell’emarginazione, a distanza di anni assimila e rielabora – come altre scrittrici della sua generazione – questi e altri motivi connessi alle acquisizioni scientifiche sul corpo femminile, talvolta contrastando le concezioni più limitanti, stereotipate e repressive nei confronti della donna. 6 Al di là di questo pur interessante aspetto, si vuole qui evidenziare come la difficoltà, se non il rifiuto, dello spirito a definirsi nel corpo sia di per sé un elemento cruciale per comprendere il mondo interiore e poetico dell’artista lodigiana, 7 che sinora è stato intuito e identificato soprattutto in rapporto ad una tematica di più ampio respiro quale il suo sentimento religioso, ma non ancora specificamente indagato come leit-motiv dotato di una sua ricorrenza e tipicità. Ancora da Stella mattutina, vale allora la pena ricordare altri due momenti in cui quest’intimo conflitto sembra emergere appieno. In entrambi i casi si tratta di un sogno : condizione privilegiata affinché l’inconscio affiori in tutta la sua schiacciante verità. Il primo, suscitato dall’annuncio di una gravidanza inaspettata da parte della fidanzata dell’ancor giovane e irresponsabile fratello Nani, la rende protagonista di una inspiegabile quanto inquietante maternità virginale :  





Ha un bambino accanto a sé, in una culla, tutto nudo che vagisce. Sa che è suo. Come l’ha avuto ? e da chi ? e quando ? Non ricorda nulla. Nella carne, si sente intatta e sigillata : un frutto verde. Eppure il bambino è lì, che si lamenta, stringendo i pugnetti ; e il padrone è lui. Ella non potrà, non dovrà più fare altro che cullarlo, nutrirlo,  









4

  Ada Negri, op. cit., pp. 43-45.   Un esplicito riferimento a Zola si trova anche in ivi, p. 19.   È quanto ha dimostrato Cristina Mazzoni nell’evidenziare la ricezione della teoria delle influenze materne in altre pagine di Stella mattutina, nel suo saggio Impressive Cravings, Impressionable Bodies : Pregnancy and Desire from Cesare Lombroso to Ada Negri, « Annali d’Italianistica », xv, 15, 1997, pp. 137-157 : 150-154. 7   Si legga ancora Ada Negri, op. cit., p. 19. 5

6









ada negri tra corpo e anima servirlo, allevarlo. Un’implorazione piena di dolore trema in quel vagito che fende l’ombra e trapassa i muri. “Io non volevo venire al mondo” pare che gema “guardate come son misero. Siete voi che mi avete chiamato ; e adesso, adesso come si fa ?” Per calmarlo se lo prende in braccio. Ma non sa tenere in braccio un bambino da poco nato. Quelle membra le sembrano di vetro, le fanno quasi ribrezzo ; teme di lasciarlo cadere, e che si rompa in terra : nulla di quell’essere risponde al suo sangue. E lui piange ; ma il mugolio sconsolato si tramuta in un balzellante, sardonico sghignazzamento di Nani : « Ah, c’è da morir dal ridere ! La vita è questa, è questa, Dinin ». 1  

















Nel sogno, l’affermazione di Nani ribalta la convinzione razionale della sorella, che prima di sprofondare nel sonno rifuggiva dall’idea che anche lei, potenzialmente in grado di generare, potesse avere un amante e un bambino. 2 Quello della maternità, come altrove è già stato dimostrato, è di fatto un tema assai rilevante nella produzione (come nella vita) di Ada Negri, e al nostro discorso offrirà ulteriori spunti di riflessione in virtù della pregnanza che anche in esso acquista l’espressione del corpo, dal quale, per analogia, la poetessa deriverà il motivo della Madre terra « magica sorgente / di vita ». Nel secondo episodio onirico, la « scarna portinaretta » si (ri) vive come l’esclusa ; 3 troppo diversa (fisicamente e per temperamento, ma anche per condizione sociale) dalle altre coetanee « dalla carne felice », ella preferisce pensare che il destino non le riserverà probabilmente neppure l’amore autentico di un uomo. 4 Posto che un’opera come Stella mattutina (nella quale la componente poetica prevale su quella autobiografica) contiene certamente trasfigurazioni della realtà, i passaggi riportati sono comunque emblematici di un vissuto che per la giovane Ada-Dinin significa esperienza di sé nel mondo, lungo un processo di individuazione che si concluderà con l’approdo alla coscienza, e da ultimo – secondo un cammino in progressione – all’intima comunione con Dio. Qui come in altre pagine la prosa assorbe e ripensa ciò che la poetessa ha già scritto in versi. Nel componimento Il giardino dell’adolescente (in Dal profondo, 1910), articolato in dodici sezioni, ciascuna a segnare una tappa di un vero e proprio itinerario di formazione, è chiaramente riconoscibile lo schema del romanzo, a partire dall’incipit che con sapiente effetto attinge alla tradizione lirica illustre :  















mettervi gli occhi ; e non potrà, più tardi, aver memoria del proprio viso di allora. (Stella mattutina, cit., p. 13).  

Laddove in apertura a Stella mattutina l’autrice opta per una rievocazione di sé suggestiva e inusuale (tacendo i dettagli del viso ci invita alla scoperta della propria interiorità, così che da quello specchio la protagonista sembra imparare a diffidare del proprio corpo e della sua forma sensibile), nella poesia l’accento è esplicitamente posto sugli occhi, per antonomasia specchio dell’anima, qui emblematicamente « sovrumani », splendenti e lucenti di intuizione e di ricchezza spirituale, vero elemento distintivo rispetto al volto altero. 6 Essi le permettono di vedere, pascolianamente, ciò che agli altri non è accessibile.  



Io vedo – nel tempo – una bambina. Scarna, dritta, agile. Ma non posso dire come sia, veramente, il suo volto : perché nell’abitazione della bambina non v’è che un piccolo specchio di chissà quant’anni, sparso di chiazze nere e verdognole ; e la bambina non pensa mai a  



1

2 3   Ivi, p. 51.   Ivi, p. 50.   Ivi, pp. 100-101.   In ivi, cfr. anche le pp. 32, 42, 57, 99. A questo proposito, si legga pure la brillante interpretazione di Elisabetta Rasy, nella sua biografia romanzata sulla Negri in Eadem, Ritratti di signora, Milano, Rizzoli, 1995, pp. 105-177. 5   Tutte le poesie citate sono tratte dal volume Poesie di Ada Negri, Milano, Mondadori, 1956 (di seguito indicato solo con Ada Negri, seguito dal titolo della poesia e dal rispettivo numero delle pagine). 4



Farà esperienza di vita e dovrà curarsi anche lei le lividure : non è così per tutti ? Non è giusto che sia così ? Prova una strana volontà di soffrire, pur di sapere. Ma vuole soffrire con gli occhi aperti, con l’anima attenta. La libertà dell’anima non gliela potrà toccare nessuno (ivi, p. 98).  





È l’aspirazione ad una dimensione ‘altra’ : gli occhi si nutrono della bellezza terrena suggerendo alla giovane Ada fantasie e domande sull’essere nel mondo ; l’evasione la condurrà alla poesia, l’ambizione al riscatto personale e sociale (« e velavan le ciglia un sogno enorme »). Lungo tale processo di trasformazione, tornando alla poesia del Giardino dell’adolescente, in un’atmosfera rarefatta e visionaria si colloca il già evidenziato motivo del sangue : « denso, caldo, gagliardo, veemente, / sola ricchezza nella sua miseria » ; 7 anticipando l’episodio di Stella mattutina, ma con una connotazione più positiva, esso rappresenta una sorta di ingrediente rituale implicato nella percezione e comprensione di sé rispetto a un ‘prima’ (il periodo dell’innocenza e della fanciullezza) e a un ‘dopo’, al momento ignoto e vagheggiato, ma che poi si concretizzerà con la partenza (reale e metaforica) verso altre strade e destini. Ada Negri conoscerà fama, agio e benessere, ma nell’animo rimarrà sempre Dinin. « Non si mente al proprio sangue », afferma la poetessa in Un fratello, riconoscendo in un ragazzo di strada il suo stesso cuore «di zingara». 8 In questo medesimo orizzonte di senso, il sangue è la parte per il tutto, laddove l’autrice in più liriche autoreferenziali vi si identifica integralmente, come accennato – quasi in atto di pentimento, ormai all’epilogo dell’esistenza terrena – in Fons Amoris : « Troppo mi piacque abbandonarmi al sole / con tutto il mio sangue », chiedendo alla notte rifugio e pace spirituale. 9 Vivendo di quello che nella concezione cristiana assurge a simbolo di sacrificio, 10 ma anche di vincolo, legame dell’uomo al proprio corpo nell’ordine del sensibile concreto e perituro, e riconoscendosi in esso, la Negri anela non senza sofferenza alla liberazione dell’anima, secondo un vero e proprio « itinerarium animae in Deum ». 11 È infatti il rosso del liquido che scorre nelle vene, per lei simbolo di vita ma anche di dolore e di morte, uno dei colori dominanti della sua produzione poetica, specialmente quella del primo periodo (da Fatalità a Tempeste a Maternità), al quale nelle raccolte successive faranno da contrappunto la trasparenza del cielo e la luminosità del sole e delle stelle. Così in Tempeste (1895), una silloge esuberante  



















La fanciulla ch’io sveglio in questi vani versi, altra grazia non avea nel viso che lo splendor degli occhi sovrumani. Nessun sguardo sostener potea lo sguardo di quegli occhi, ove una fiamma più intensa della vita era : l’idea. Lucean per rogo interno fra l’oscura massa di ricci, ammorbidendo il grave profilo e il taglio della bocca pura. Ogni raggio ogni fiore ogni diversa beltà di cieli e di terrene forme vi si specchiava come in acqua tersa, e velavan le ciglia un sogno enorme. (Il giardino dell’adolescente. Gli occhi, p. 385). 5

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6   Significativa è anche la poesia Occhi (ivi, p. 779), nella quale la Negri insiste sulla valenza espressiva di questo particolare del volto, pur riferendosi ad altra persona. 7   Ada Negri, Il giardino dell’adolescente. Il sangue, pp. 388-389. 8   Eadem, Un fratello, pp. 355-356. 9   Eadem, Notte, dolce notte, p. 888. 10   Da Vespertina, si legga la lirica Il sangue (ivi, pp. 729-730), in cui l’autrice, cantando l’affetto per la nipote Donata, accenna al senso escatologico delle piaghe di Cristo : « Diverrà donna. Imparerà, ma solo / allora, e non da me, che sulla terra / non si cancella il sangue di Gesù ». 11   L’espressione è usata da Pietro Zovatto, La ‘religiosità’ nella poesia di Ada Negri, in Ada Negri. « Parole e ritmo sgorgan per incanto ». Atti del Convegno Internazionale di Studi (Lodi, 14-15 dicembre 2005), a cura di Giorgio Baroni, Pisa-Roma, Giardini, 2007, p. 77.  









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cristina tagliaferri

ancora pervasa di ideali sociali e umanitari, nonché di sentimenti di sfida e di autoaffermazione (come in Ego sum), la giovanissima maestrina di Lodi inneggiava all’immortalità, cantando la gioia dell’esistere (« Pel labbro mio che beve le dolci aure serene, / pel vigoroso sangue che m’arde ne le vene, / pel bacio e pel desir, / […] // fato, mi vo’ immortal ! »), 1 negli anni del giovanile amore deluso e non corrisposto, combattuto a suon di versi impetuosi e violenti :  

   



Il nostro amor, l’ho ucciso. Troppo mi torturava. E l’ho calpesto, l’ho sfigurato in viso, l’ho morso ; l’ho ridotto in cento brani, l’ho ucciso, ecco ! Or tace, finalmente. Tace. Più lento per le vene scorre il sangue prepotente : posso dormir, la notte ; e più non piango, te chiamando, affannosa. 2  







Rammenta come egli seppe da te crearti più bella e più giovine, […] e come tu amasti e godesti il dolore che ti venne da lui : e che una volta un suo morso t’aperse nel labbro una piccola piaga, e tu guarir non volevi di quella dolcissima stimmate per cui tutto serbavi in tua bocca il sapor del tuo amore. Sapore di sangue : e il tuo amore spirava in un fiotto di sangue che ti sprizzò sino agli occhi ; e tu, sei ancor viva.3  





Per lei – la donna e la poetessa – il corpo è comunque Vita, che sia esperito o sublimato nella materia lirica, goduto, accettato o conflittualmente avversato. E poi – ci parla ancora di sé la Negri di Stella mattutina – « non c’è l’Altra ? Di che può temere, se c’è l’Altra ? » :  



L’Altra, la Vera, che nessuno vedrà nel viso, nemmeno la mamma, inviolabile, inviolata, senza principio, senza fine : ricca d’inestinguibile calore al pari delle correnti sotterranee. Disgrazie, umiliazioni d’ogni sorta possono accadere alla pallida, povera Dinin ; ma l’Altra, la Vera, è al di sopra di tutto e di tutti, è la regina in incognito, che nulla può ledere. La sente, a volte, rivelarsi e sovrapporsi alla persona circoscritta respirante camminante, con la potenza di un getto di lava ; e ciò accade generalmente quand’ella, vagabondando sola, segue, lungo oscure straducole urbane, il suono degli organetti. […] ma non è più quella la musica : è armonia di parole uscenti dalla bocca dell’Altra. Parole che lei ancora non sa : ne sente soltanto la sonorità melodiosa, la struggente e consolatrice dolcezza, che cerca i cuori degli uomini, e li fascia li bacia li penetra li sommerge. Quando il manubrio dell’organetto si ferma, […] Dinin ridiventa Dinin.  









L’Altra sta all’anima, fonte creativa di versi e di armonie, come Ada-Dinin sta al corpo. L’unico strumento di riconciliazione, si rivela, ad un certo punto, la poesia :  

Al tavolo di cucina, scrive versi. Sono la sua liberazione, quando ha





3

  Eadem, Il ricordo, p. 580.





















4   Ada Negri, op. cit., p. 82. La poesia citata è parte della raccolta Fatalità 5   Ibidem. (1892). 6   Eadem, Tu sola, p. 297. 7   « Tu mi sposerai, noi commetteremo come milioni di altri questa orribile convenzionalità », lettera di Ada Negri ad Ettore Patrizi, 22 gennaio 1894 ; « No, no, io non posso. Non puoi obbligarmi a questa vita […]. Io ho bisogno dell’ambiente calmo, dell’ambiente libero e mio », 25 novembre 1893. E ancora, rifuggendo la mediocrità quotidiana della vita familiare, ella appariva ormai consapevole del fatto che il suo vero destino sarebbe stato quello artistico : « ma io non la chiedo, non la voglio », perché fatta soprattutto di « lotta per il guadagno, di pettegolezzi di serve e di grida di bambini », 22 febbraio 1894. Le 99 missive inviate al Patrizi, dal 1892 al ’96, sono conservate presso la Biblioteca Civica Laudense. 8   Appartiene a questa tematica un nutrito gruppo di liriche : Insieme, Martha, Eliana, « Vengo, Ninì », È partita, L’abbandonato. 9 10   Ada Negri, Maternità, p. 235.   Ibidem. 11   Si legga anche la poesia Autopsia (ivi, p. 14), che secondo la Rasy « può essere letta come una sorta di anti-exergo al celebre trattato lombrosiano » (Elisabetta Rasy, op. cit., p. 174). Cfr. quanto sostiene Julia Kristeva a proposito della testualizzazione del corpo da parte delle scrittrici nella prefazione al libro di Elisabetta Rasy, La lingua della nutrice : percorsi e tracce dell’espressione femminile con una introduzione di Julia Kristeva, Roma, Edizioni delle donne, 1978.  































1

  Ada Negri, Immortale, p. 149.   Eadem, Non tornare, p. 166.





Al sangue e alle vene fanno da corollario, nelle raccolte della Negri, altri numerosi riferimenti al cuore, alla « viva carne », alla bocca, alla gola o alla saliva (dunque inerenti la fisiologica condizione del ‘pulsare’, e in quanto tali fortemente umanizzanti nella sfera dei sentimenti e delle passioni), in una scrittura assai espressiva ricca di aggettivazione, di metafore e di metonimie. Particolarmente rappresentativi di questa palpabile corporeità negriana rimarranno i versi lunghi del Libro di Mara (1919), dominato dalla sofferenza d’amore che ferisce nel fisico e nell’anima, pur recando in sé una piacevole fonte di godimento, nell’estasi dei sensi :

2

Lo spirito ribelle si è arreso al corpo stemperandosi nell’atto creativo. La madre Vittoria, operaia ferita nelle ore di duro lavoro, che alla figlia ha ispirato l’argomento della lirica, in quelle strofe « diventa giovine, bionda, bellissima ; e la mano vien troncata di netto », 5 così che nel gioco della deformazione, pur nella brutalità dell’episodio, la verità possa farsi meno tragica. Quanto contasse, per Ada, la figura materna, nel segno di un legame addirittura simbiotico, è ormai cosa nota. Un rapporto che si rinnova, di figlia in figlia, attraverso il miracolo della maternità, « Corona di spine e di raggi, / martirio invocato con baraccia protese, con supplice cuore », 6 al quale l’autrice dedica un’intera raccolta (Maternità, 1904), dominata dalla dolcezza dell’attesa e dalla gioia per l’arrivo della figlioletta Bianca e dai sereni aspetti domestici, dai travagli fisici e interiori che la nascita di una nuova vita comporta, dai terribili drammi familiari e sociali vissuti da genitori e fanciulli poveri e derelitti, nonché dal dolore personale per la perdita della secondogenita Vittoria, cui si accompagnano i primi turbamenti causati dalle incomprensioni con il coniuge – l’industriale biellese Giovanni Garlanda – destinate a sfociare in una definitiva separazione fra i due (un sorriso amaro nasce a questo proposito dalla lettura delle profetiche confidenze di Ada all’ingegner Ettore Patrizi, nei confronti del quale, in gioventù, venne gradatamente a sfumarsi sia la passione amorosa che la possibilità di una convivenza di coppia). 7 Per una poetessa dalla vena tragica come la Negri, non stupisce che in questa silloge il parto sia evocato come un evento lacerante – anche drammatico, laddove foriero di morte – 8 in una commistione di echi biblici (« È sacro il germe… / sia benedetto il ventre che il partorirà con dolore » ; « In verità vi dico, le supplici braccia tendendo : / non vi rendete indegni del seno che apriste nascendo ») 9 e scapigliati, a restituirci l’immagine di un fisico agonizzante (« quando il materno corpo si sfascia, di sangue grondante » ; « noi tutti uscimmo ignudi da un grembo di madre squarciato ») ; 10 forse con una certa velata aria di sfida nei confronti della scienza medica e della cultura del tempo – caratterizzate, come si è detto, da modelli antropologici e da teorie stereotipanti nei confronti del corpo e della psicologia femminili – nonché del potere d’espressione dello stesso loro linguaggio, fatto appunto di organi, di umori e di viscere. 11 Più distesa l’atmosfera di Gèrmina, una poesia autoreferenziale in cui la donna in dolce attesa benedi 





















il cuore gonfio. Le pulsa, il cuore, fino alla fontanella della gola : ai polsi sente la morsa di due braccialetti di fuoco. Scrive, quella sera, per bollare a sangue un’ingiustizia : compie un atto di necessità. Mano nell’ingranaggio è il titolo della poesia. 4

ada negri tra corpo e anima ce la vita ponendosi in atteggiamento di religiosa accoglienza (« L’anima veglia e prega : / e su la vita informe / che nel mio grembo dorme / si piega » // […] Porto io forse un messaggio / d’amore ?... // Di pace un senso pio / per ogni vena io sento. / Sono io forse strumento di Dio ?... »), 1 forte nella tempra e nel fisico (« Io sembro inerte. E pure / son come zolla al sole. / S’aprono in me viole /oscure » ; « rompi, potente seme, / la zolla inturgidita. / Benedirem la vita insieme »). 2 La similitudine della « zolla al sole » introduce un motivo destinato a rimanere sempre caro alla Negri, ossia quello dell’amore per la terra natìa, che in Maternità è esplicitamente cantato come richiamo alla « terra madre », « magica sorgente / di vita », nel segno di una spiritualità già lontana dal sensualismo panico delle prime due raccolte, 3 perché permeata di rapporto col divino cristianamente inteso. Come entità benevola innanzi ai propri figli dispersi (il tema è quello tradizionale del conflitto tra campagna e città, dietro il quale però si celano reminiscenze bibliche), 4 essa « chiama », « piange », « grida » con bocca di profeta (« … Gonfie di vizio e d’oro / cadranno a fascio, in un boato immane / di ruina ciclopica, le insane / città, vinte dal loro // orgoglio. – Io sola e grande / resterò […] »), 5 generosa e gravida di spirito ultraterreno (« o figli del mio grembo nero » ; « chini sovra il mio cuore / dal ritmo innumerevole » ; « – E dal mio possente / seno gonfio di germi e di dolore / zampillerà per quelle bocche in fiore / la magica sorgente // di vita »). 6 Dalla sua ‘personificazione’ (in Contadina è invece la donna, coi suoi morbidi fianchi che « dan figli / come il solco dà la spica », ad essere accomunata alla terra), 7 si può notare come Ada Negri giunga, nelle successive raccolte, all’‘identificazione’ di sé con essa e con la natura circostante, fino a risolversi – da Vespertina in poi – in un sentimento di piena ‘immedesimazione’ che troverà il suo vertice in quello di ‘trasfigurazione’ celeste, traducendo una mutata condizione psicologica e interiore ; certo operando in lei una fede sempre più robusta e consapevole con esiti addirittura mistici : per questa via, cioè, credo possa dirsi risolto quel rifiuto dello spirito a definirsi del corpo, che don Pietro Zovatto ha identificato in termini religiosi, affermando che la Negri ha distinto  









































































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sempre più lievi nell’aria, sempre più immersi nel cielo, fino a quando la notte ci assuma ai suoi vasti sepolcri di stelle. 10

Indubbiamente, caratteristica di molta lirica della Negri è la progressiva « presa di coscienza della terrestrità e della spazialità, che vicendevolmente si richiamano e fondono nell’unica istanza cosmica di comunione col creato », 11 dove « il senso della terra nasce e si sviluppa nella poetessa contemporaneamente e parallelamente col sentimento, anzi, ‘sensazione’, del cielo » : 12 ebbene, il motivo della ‘terra’ non mi pare semicamente disgiunto da quello del ‘corpo’, così come il cielo è il regno ideale dello ‘spirito’ ; negli uni è la materializzazione della ‘vita’ e del ‘presente’, negli altri è l’intuizione dell’‘eternità’. Solo nell’ora della solitudine, quando il tormento dell’essere si placa in un momento di profondo abbandono, è armonia di sensi e di spirito :  











Serenamente or mi contempla vivere : ondeggia il ritmo del mio sangue al ritmo dell’ore in terra, delle stelle in cielo : carne son io che si fa luce ed aria, puro elemento dell’eternità.13  



Se qui – i versi appartengono ancora al periodo di Dal profondo – ci troviamo in presenza di una dimensione tutta interiore, priva di riferimenti e di confini spazio-temporali, in Vespertina (1931) il sentimento del ricordo e del distacco, vissuto in una prospettiva già ultraterrena, si fonde con quello di piena immedesimazione nella natura, fino a che il corpo giunge a dissolversi in essa :  

spirava il vento, con piegar di steli tutto il prato nel sol trascolorava. Io pur, tuffando i pie’ leggeri in quella Freschezza, e piena l’anima di fonti canore, io pur trascoloravo al vento che non sapea s’io fossi stelo o donna. 14

Il sentimento primordiale delle proprie origini si rafforza nella coscienza di ritrovarsi, rigenerata, nella terra, tutt’uno con essa :  

sempre in sé un dualismo antropologico cristiano, o meglio il paradosso pascaliano, sulla scia di quello paolino caratteristica della tradizione cristiana nella dualità antagonista di anima e corpo tra loro in dissidio permanente sulle loro esigenze spirituali e nobili quanto umane e terrene. 8

Terra mia, solo terra : al tatto, rude : al cuor, soave : ricca di segreto : colma di forze, e se fra mano un pugno ne raccolgo, una parte di me stessa stringere credo : la più scura e fonda. 15

Già nel Libro di Mara, nella sezione Pace, la donna alter ego della poetessa lasciatasi alle spalle tutto ciò che concerne i sensi, può immergersi nelle ‘cose del cielo’ : 9

come in un ritorno al grembo materno :



E di quello che fu della carne, nulla verrà ricordato. E di quello che fu del dolore, nulla verrà ricordato. E quel che è della vita eterna farà pieno di canti il silenzio. Non io tua, non tu mio : dello spazio : radendo la terra con ali invisibili,  



1

2   Ada Negri, Gèrmina, p. 237.   Ibidem.   In questo senso già in Tempeste, nella lirica Terra, si trova un riferimento alla Natura fecondatrice, di cui la Negri celebra le energie rinnovatrici (ivi, p. 124). 4   Riferimenti alla terra madre di tutti si trovano ad esempio in Siracide 40, 1, ma l’appellativo di « madre feconda » è attribuito alla nuova Gerusalemme restaurata e ripopolata dopo l’esilio (Is 54). Sulla benevolenza di Dio verso Israele nonostante la sua infedeltà v. Es 34, 6 ; 2Re 13, 23 ; Is 30, 18 ; Gr 12, 15 ; 30, 18. 5 6   Ada Negri, Madre terra, pp. 345-346.   Eadem, p. 344. 7   Eadem, Contadina, p. 412. 8   Pietro Zovatto, Il percorso spirituale di Ada Negri, con inediti a Silvio Benco, a Giulio Barsotti e di Giuseppe De Luca, prefazione di Cristina Benussi, Trieste, Centro Studi Storico-Religiosi del Friuli Venezia Giulia, 2009, p. 41. 9   Definito da Michele Scherillo un « delirante poema d’amore », nella sua tensione sensuale e insieme spirituale, il Libro di Mara apre prospettive di profonda religiosità, ponendosi come un vero e proprio spartiacque lungo l’itinerario esistenziale e poetico dell’autrice. 3































Ha di mia madre il volto augusto : e serra gelosamente in sé le mie radici. 16  

Appartiene allo stesso sentimento tattile della terra risanatrice e al gusto di affondarvisi, in un’accezione spirituale prima ancora che fisica la similitudine dell’« aratro abbandonato », nella raccolta Il dono (1935) :  





Buttarmi, stesa, sulla scura terra d’un solco che dal vomere scoperto sia questa mane, al sol d’ottobre : fresca sentirla contro le mie membra, fresca schiacciarla sulla gola e sul costato fin ch’essa arrivi a rinfrescarmi il cuore. Io non so come, il suo contatto placa del sangue il torbido ardere. La sua compattezza gioiosa, io non so come, risana anima e carne. […]  

10

  Ada Negri, Domani, p. 625.   Ada Ruschioni, Terra e cielo nella poetica di Ada Negri, in Eadem, Dalla Deledda a Pavese, Milano, Vita e Pensiero, 1977, p. 46. 12   Ibidem. 13 14   Ada Negri, Ora piena, p. 364.   Eadem, Il prato, p. 704. 15 16   Eadem, Atti di grazie. La terra, p. 764.   Ibidem. 11

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cristina tagliaferri Distendermi in un solco ; e là obliarmi come un aratro abbandonato. 1  

Il destino che la Negri riserva al suo essere, nella prefigurazione della morte, risolve solo parzialmente quel dualismo o conflitto di cui si è parlato :  

Segnato è il giorno in cui la fiamma, accesa in me da Dio, diverrà cielo ; e il corpo che quella luce in sé contenne, terra. 2  

perché solamente partecipando pienamente della stessa Luce di Dio, anzi ritornando ad essa, in un senso religioso di trasfigurazione celeste e di amore cosmico, può dirsi definitivamente superata e annullata qualsivoglia dicotomia o umana debolezza :  

1

  Eadem, Amor di terra, p. 793.

2

  Ibidem.

Vissi, innanzi d’aver questa mia forma fuggitiva : lo so. Vissi nel sole. da quando Iddio che lo creò gl’impose : « Risplendi e regna ». Arsi, incorrotto spirito, nel sole. Fui luce e calore, innanzi d’incarnarmi nel corpo che domani spento sarà. Troppo mi dài tormento, sangue che rechi in te sì gran memoria del sole antico. Lasciami, ch’io voglio tornare a lui, ridiventar favilla della sua vampa, raggio della sua luce – e, perduta in armonie di luce, cantar la gioia dell’amor che allaccia la terra al cielo, l’universo a Dio. 3  







3

  Eadem, Luce, p. 852.

Nora e le altre Vanna Zaccaro

I

n una pagina del capitolo xvii di Una donna Sibilla Aleramo racconta il suo incontro, a teatro, con Ibsen, con la Nora di Casa di bambola, avvenuto in un momento di svolta della sua vita, quando doveva dare spazio a se stessa, e quella « povera bambola di sangue e di nervi » che « si rendeva ragione della propria inconsistenza, e si proponeva di diventar una creatura umana, partendosene dal marito e dai figli » 1 veniva a confermarla sulle sue scelte. Questo incontro, « alla giovine solitaria che salutava il sorger del Novecento, aveva illuminato il senso di sé, della propria individualità, e dei doveri verso se stessa » ; « senza quella voce ottocentesca, – scrive in una nota del racconto di sé che consegna al diario, datata 24 nov. 1940 – forse non sarei “divenuta quella che sono” ». 2 Ma già nel 1911 l’Aleramo aveva scritto in Apologia dello spirito femminile : « In quella Casa di Bambola […] io vedo ancora, come quindici anni sono, il preludio simbolico dell’immane sforzo che le donne, le quali vogliano vivere una vita loro, sono e saranno destinate a compiere. Sforzo di ricerca di sé medesime, lungi da tutto ciò ch’esse hanno amato e in cui hanno creduto : tragicamente autonome ». 3 Uno sforzo di ‘svelamento’, di autorappresentazione in cui è impegnata la generazione di donne che tra ’800 e ’900 pratica lo spazio della politica e della cultura per affermare la propria libertà ed autonomia. « L’individuazione fantastica di Ibsen come il primo dei suoi classici risale al tempo della nuova nascita : Ibsen le aveva confermato, - come sostiene Marina Zancan - in quel testo incontrato al “momento giusto”, i doveri verso se stessa che il padre, per primo, le aveva indicato ». 4 « Ibsen giungendo laggiù fino alla mia tragica coscienza – scrive ancora Sibilla nel diario 5 – non mi prometteva gioia, ma solamente l’accordo con me stessa : e chiamandomi ad assumere intero il peso del mio atto, e ad ubbidire ferocemente alla mia legge, fece sì ch’io mi trovassi poi ad esistere come una persona nuova, una neonata adulta ». In una nota di diario del 26 gennaio 1941 6 la Aleramo, ricostruendo il suo percorso umano e artistico anche attraverso i suoi ‘auctores’, accosta il nome di Ibsen a quelli di Nietzsche e di Whitman (ma suoi modelli sono anche Alessandrina Ravizza, Anna Kuliscioff, Eleonora Duse), a riconoscimento definitivo del ruolo che avevano svolto nel suo lungo e tormentato percorso. In Una donna la rappresentazione dell’incontro con Ibsen è seguita dalla constatazione che la ‘verità’ di quel testo teatrale non era stata riconosciuta dal pubblico che lo applaudiva (« il pubblico, ammirando per tre atti, protestava con candido zelo all’ultima scena. La verità semplice e splendente nessuno, nessuno voleva guardarla in faccia ! » 7) ; ma anche dall’invito alle donne di rivendicare a se stesse il compito di riconoscersi e farsi riconoscere : « ero più che mai persuasa che spetta alla donna di rivendicare se stessa, ch’ella sola può rivelar l’essenza vera della propria psiche, composta, sì, d’amore e di maternità e di pietà, ma anche, anche di dignità umana ! » 8). Il testo di Ibsen è dunque fonte e modello per Rina/Sibilla, ma – ritiene la Zancan – « di una  







































   







   



1   Sibilla Aleramo, Una donna. Romanzo, con prefazione di Maria Corti, Milano, Feltrinelli, 1994, p. 158. 2   Eadem, Un amore insolito. Diario 1940-1944, a cura di Alba Morino, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 14. 3   Eadem, Andando e stando, Firenze, Bemporand, 1922, p. 61. 4   Marina Zancan, Una donna di Sibilla Aleramo, in Letteratura italiana, Le opere, iv, diretta da Alberto Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1995, p. 130. 5   Sibilla Aleramo, Un amore insolito…, cit., p. 15. 6   Ivi, p. 41. 7 8   Sibilla Aleramo, Una donna…, cit., p. 158.   Ivi, p. 159.

storia immaginaria che rimane a monte del suo libro, opera di verità, in cui lei stessa, la persona nuova, avrebbe per prima rivelato l’essenza vera dell’animo femminile al mondo intero e ne avrebbe avuto l’atteso riconoscimento ». 9 Ibsen, sappiamo, era venuto in Italia verso la metà di giugno del 1864 10 e in Italia scrive i suoi lavori forse più importanti, che cominceranno a essere portati sulle scene da noi a partire dagli anni ’90. L’editore milanese Max Kantorowicz nel 1894 pubblica col numero 8 nella nota « Biblioteca Ibsen » la traduzione italiana di Casa di bambola, curata da Luigi Capuana – un’opera di traduzione fondamentale per la diffusione del drammaturgo norvegese in Italia – ed effettuata su quella dal francese di Maurice Prozor col titolo Bambola. Capuana, del resto, era sensibile al tema : aveva scritto nel 1879 il romanzo Giacinta, storia di un caso ‘patologico’, di una donna vittima di un destino avverso, secondo un cliché collaudato, le cui vicende – come quella di tante donne di Capuana, donne malate di una malattia ‘globale’, fisica e morale, come nella galleria tracciata in Profili di donne, del ’77 – erano presentate come un percorso drammatico da un trauma subito nell’infanzia verso una follia autodistruttiva. Lo scrittore aveva poi ridotto per la scena il suo romanzo negli ultimi mesi del 1887, con tutte le difficoltà che la trasposizione scenica dell’intreccio psicologico di un personaggio complesso come la sua protagonista comportava, di una storia la cui trattazione poteva condurre a cedimenti al melodramma alla francese, alla Augier e alla Dumas giovane, e a puntare più su un dramma passionale, che avrebbe incontrato le attese e il gradimento del pubblico dei teatri. 11 Una virata dello scrittore verso i temi rusticani è rappresentato da Malìa (1891) in cui le passioni si mescolano alle superstizioni, alla malìa, al magico appunto. Jana, la protagonista, è una donna appassionata che nella sua credulità contadinesca cede alla fascinazione dell’occulto per giustificare la sua passione divoratrice per Cola, sposo promesso della sorella. Ancora una donna/natura, che « per la sua condizione di elemento tradizionalmente passivo nella vicenda d’amore, e per il rigore del costume che le impedisce di assumere iniziative realistiche in questo dominio, si affida più facilmente al piccolo mondo dei complotti magici, dei filtri amorosi, delle pratiche augurali e divinatorie », 12 restandone vittima. La traduzione di Casa di bambola si pone all’altezza di queste due opere : Capuana ha mutato i suoi referenti, e il suo materialismo scientifico, la sua ricerca del vero piegano ormai allo spiritualismo e all’idealismo. La traduzione di Capuana è portata a teatro il 9 febbraio del 1891 dai Filodrammatici di Milano. Lo scrittore, conoscendo bene i gusti, la composizione sociale, la domanda del pubblico italiano che frequentava i teatri, aveva mostrato perplessità circa l’impatto che su tale pubblico poteva avere l’esito del dramma (« questa fantastica scandinava ci turba, ci sconvolge, così troppo diversa da noi »). Lo stesso Ibsen intervenne nella polemica dichiarando che l’intero dramma era scritto proprio in funzione dell’ultima scena e che Capuana si sbagliava temendo che il pubblico  

















9

  Marina Zancan, Una donna di Sibilla Aleramo, cit., p. 131.   Per la biografia di Ibsen abbiamo utilizzato fondamentalmente le indicazioni di Franco Perrelli, Cronologia della vita e delle opere, in Idem, Introduzione a Ibsen, Bari-Roma, Laterza, 1988. 11   Per l’intera questione cfr. Gianni Oliva, Giacinta dal romanzo al dramma, in Idem, Capuana in archivio, Caltanisetta-Roma, Sciascia, 1979, pp. 67-103. 12   In Ernesto De Martino, Sud e Magia, Milano, Feltrinelli, 1966, p. 17. 10

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vanna zaccaro

italiano non fosse in grado di capire o accettare il suo lavoro nella forma originale. 1 Come sappiamo, aveva ragione Capuana. A vestire i panni di Nora era stata chiamata Eleonora Duse, l’attrice « divina », che stava vivendo una stagione di profondo rinnovamento del suo repertorio, come leggiamo in una sua dichiarazione : « Ah, sono stanca, sono stanca, di dover assiderare la creatura umana nel legno e nello stucco della pupattola da scena ». 2 Lei, che aveva rifiutato di interpretare Giacinta, accetta il ruolo di Nora propostole da Capuana, 3 nonostante il parere contrario di Boito, perché, spiega, « Io voglio sentirla la donna che vivo sulla scena », 4 riconoscendo nella protagonista ibseniana i segni del cambiamento che si stavano realizzando nel femminile e nel sociale e che il teatro, come gli è proprio, riusciva ad ‘accoglierli assumendoli’, ‘interpretarli’ e ‘trasferirli’ al pubblico. Eleonora ‘riscrive’ Nora : eliminando la scena del ballo della tarantella e presentandosi vestita da Arlecchina – danza con il tamburello, ma come una marionetta che si libera dei gesti obbligati – nella messa in scena milanese, 5 volendo sottolineare così che la marionetta Nora stava trasformandosi in essere umano 6 ed enfatizzando il finale del colpo di porta con cui si chiude il sipario, la Duse crea una inedita regia attraverso la sua scelta/identificazione. 7 Il suono della porta che si chiude alle sue spalle (Nora sbatte la porta così forte da ‘far tremare’ la casa coniugale, come scrive Strindberg nella sua introduzione a Miss Julie), che non è solo un simbolo, quanto piuttosto un vero e proprio segno linguistico, non sconvolge solo Torvald, ma anche il pubblico di fine Ottocento. Soprattutto quello femminile, ormai avviato nel difficile percorso di emancipazione, che in quella vicenda si riconosce. 8 La Duse è l’« attrice del nuovo secolo » : appartiene infatti a quella generazione di attrici che nella dimensione espressiva, nella gestualità, interpreta fino in fondo il senso moder 





















1   Pure, Ibsen nel costruire la vicenda di Nora non era guidato da intenzioni ‘femministe’, come leggiamo in un discorso a Kristiania del maggio 1898 presso l’Unione Norvegese per i diritti della donna in cui lo scrittore dichiara : « non mi è neppure ben chiaro che cosa sia la questione femminile […]. Mio fine è stato descrivere esseri umani […] la mia missione è stata di dipingere caratteri ». Nella stessa occasione Ibsen dice : « Sono le donne che risolveranno il problema dell’essere umano. Lo faranno da madri. E solo così potranno farlo. Ecco un grande compito per le donne », assegnando alle donne essenzialmente il ruolo di madre. Henrik Ibsen, Vita dalle lettere, a cura di Franco Perrelli, Milano, Iperborea, 1995, pp. 174-175. Sul ‘femminile’ in Ibsen, cfr. Franca Angelini, Il femminile in Ibsen, in Claudio Magris, Ibsen in Italia, Torino, Aragno, 2008. 2   Intervista del dicembre 1887 citata in Olga Signorelli, Eleonora Duse, Roma, Casini, 1955, pp. 94-95. 3   Sulla questione cfr. Lanfranco Caretti, Capuana, Ibsen e la Duse, in L’illusione della realtà. Studi su Luigi Capuana, a cura di Michelangelo Picone, Enrica Rossetti, Roma, Salerno, 1990, pp. 191-195. 4   Cfr. Lanfranco Caretti, La tarantella di Nora, in La didascalia nella letteratura teatrale scandinava : testo drammatico e sintesi scenica, a cura di Merete Kjoller Ritzu, Roma, Bulzoni, 1987, pp. 37-49. A proposito della tarantella ballata da Nora travestita da odalisca – Ibsen testimonia con questa scelta di conoscere il tarantismo e la simbologia di ribellione attribuita al tamburello – , il drammaturgo assegna alla scena una funzione di rottura, di rivelazione. Dice infatti la protagonista : « mi tolgo il costume […]. Ho vissuto delle piroette che eseguivo per te […] tu non mi hai mai capita […] ho vissuto per otto anni con un estraneo, dal quale ho avuto tre figlioli ». 5   Cfr. « L’arte drammatica » del 21 febbraio 1891. 6   La lodoletta che trilla, lo scoiattolo che ruzza, la testolina vuota, la fringuelletta, l’uccellino : sono i nomignoli con cui Torvald si rivolge alla moglie, negandole identità e autonomia. 7   Cfr. Clotilde Barbarulli, “Si prega di non discutere Casa di bambola”, in Canonizzazioni, in Grafie del sé. Letterature comparate al femminile, ii, a cura di Monica Farnetti, Bari, Adriatica ed., 2000, p. 21. 8   Scrive la Barbarulli : « Con Nora, l’identità femminile che sfumava in altre identità, in un gioco complesso tra la teatralità e la dimensione della vita, creava un rimando fra donne reali ed immaginate, trasfigurando la realtà e tracciando un nuovo modello per le tante spettatrici in crisi. L’eccezionalità poteva legittimare la diversità, sottoponendo a domande i criteri di lettura ed i giudizi tradizionali : il teatro corrispondeva così al bisogno profondo di una donna diversa “nuova”, in una società trasformata », in Clotilde Barbarulli, “Si prega di non discutere Casa di bambola”, cit., p. 26-27.  

































no dei tempi attraverso una rappresentazione della nevrosi contemporanea che ha come esito il dolore che è ritenuto da lei come ontologicamente consustanziale alla vita, come categoria dell’anima sentito, vissuto e interpretato attraverso una recitazione che Cesare Molinari definisce un « complesso tessuto di stilemi alle cui estremità si ponevano da una parte il dominante movimento automatico, frequente, disattento, e dall’altro il silenzio gestuale, ma che comprendeva anche episodi di tradizionale espressività, scoppi di movimento furioso, quel vago e dilatato agitar delle braccia che pareva non aver alcun senso determinato, e perfino la posa plastica ». 9 Proprio il suo « spirito religioso » – come le riconosce Piero Gobetti – le avrebbe consentito di esprimere « l’incanto e il tormento » di una ricerca dell’Uno-tutto, di una impossibile pienezza che è in Ibsen. Attrice dannunziana, 10 (mise in scena con Zacconi Sogno di un mattino di primavera, 1897 ; La Gioconda e La gloria, 1899 ; La città morta, 1891), quando il sodalizio con il poeta-vate, che comprendeva anche motivazioni commerciali, ha termine per varie ragioni (amorose, invadenza del Talli, etc.), la Duse ritorna a Ibsen, che diviene ora il suo autore prediletto. Porta sulle scene con grande successo Rosmersholm Hedda Gabler e La signora del mare, Spettri, fino alla sua ultima stagione, che va dal 1921 al 21 aprile 1924, quando muore durante una tournée. Ma Ibsen era presente con i suoi testi sulla scena italiana anche per merito di un altro grande mattatore : Ermete Zacconi, attraverso cui si afferma un nuovo tipo di drammaturgia, più disponibile a nutrire un linguaggio della scena che alternava istanze naturalistiche e tensioni simbolistiche. Spettri di Ibsen – ce lo indica Gigi Livio – ne fu un esempio emblematico : cavallo di battaglia di Ermete Zacconi, fu anche sintomatico di quel processo di addomesticamento a cui fu sottoposta la drammaturgia di Ibsen allo scopo di renderla più disponibile a soddisfare le aspettative e i gusti del pubblico, da un lato, e le esigenze del linguaggio della scena, dall’altro, e permetterne così un assorbimento indolore, all’interno del nostro teatro di fine Ottocento. 11 Ma Ibsen è presente sulla scena italiana non solo con i suoi testi, ma anche attraverso quei testi che da lui hanno preso ispirazione. La drammaturgia di quegli anni in Italia era fortemente orientata dalle poetiche del naturalismo innanzitutto, il cui documentarismo, che si riteneva oggettivo e scientifico, inclinava ormai verso il pre-intimismo (come testimoniano i testi di Giacosa, di Di Giacomo, di Bracco, fino a Praga) contaminato dalle coloriture patetiche, psicologiche e nervose degli attori di fine ’800. Molti sono gli epigoni di Ibsen e non sempre degni del maestro, secondo Capuana, che sviluppa una riflessione, spesso di tipo polemico, che consegna ad interventi di critica militante, intorno agli effetti di questa presenza sulla scena italiana. Se infatti Capuana riconosce in Ibsen un caposcuola e un innovatore, un artista capace di tradurre in azione drammatica, di dare forma ai suoi fantasmi poetici (« Ibsen irrompe sul palcoscenico spingendosi innanzi una folla di creature della sua Norvegia, strane, malate d’ideali, con la coscienza sconvolta dai problemi religiosi e sociali che colà lavorano sordamente i cuori e le teste ; nature complicate, nevrotiche, che soffrono e fanno soffrire » 12), non può però non condannare l’astrattismo cosmopolita, il dilagante epigonismo ibseniano che si erano prodotti nel nostro teatro ad  

























9   Cesare Molinari, L’attrice divina. Eleonora Duse nel teatro italiano fra i due secoli, Roma, Bulzoni, 1985, p. 124. 10   « Ineluttabile », come sostiene Livio, l’incontro con d’Annunzio : Gigi Livio, Il teatro del grande attore e del mattatore, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, diretta da Roberto Alonge e Guido Davico Bonino, Torino, 11   Ivi, pp. 663-664. Einaudi, 2000, p. 673. 12   Luigi Capuana, Gli « ismi » contemporanei, Catania, Giannotta, 1898, p. 23.  









nora e le altre opera dei suoi imitatori i quali si erano limitati nella maggior parte dei casi, compreso certo teatro di Bracco e di Butti, a ‘norvegizzare’ le loro creature, creando personaggi privi di caratteri propri, astratti, al contrario delle creature di Ibsen che, evidenzia Capuana, sono animate dai problemi vivi nella loro temperie culturale, nella loro condizione sociale. Capuana è comunque il primo a lasciarsi influenzare nella sua scrittura da Ibsen. Per il teatro i suoi modelli sono Becque e Ibsen, appunto, pur se mancano nell’autore italiano la coscienza critica e sociale, l’accusa polemica contro la società del tempo e la sua indagine è più di tipo psicologico. Così è per Castigo, dramma scritto e rappresentato nel 1899, in cui Leonia, che ha dedicato tutta se stessa al suo uomo, uno scrittore alla moda, che l’ha resa madre, ripudiata e scacciata per noia dal marito, che predicava « una legge inebriante : la libertà dell’amore, della passione ; il trionfo dei sensi, l’amore che santifica tutto, la passione che giustifica tutto, i sensi che assolvono tutto » (scena iv). « Buttata nel fango », – ora è Sofonia la folle – accetta di vivere nel degrado morale per annullare in lei ogni istinto materno. Rinuncia alla figlia, presentata per contrasto come modello di rigore morale 1 nella consapevolezza che il suo esempio, la sua presenza possano essere nocivi per lei. Dove il modello di Nora è fin troppo evidente. Come è evidente che Leonia è modello poi per la Fulvia di Come prima, meglio di prima, di Luigi Pirandello (1921), costretta a non rivelarsi come madre, perché indegna, quando rientra a casa, nel nucleo famigliare, assumendo il ruolo di ‘seconda’ moglie. Sempre nel 1899 Capuana scrive e porta sulle scene Serena, che segna il suo ritorno ad un teatro di ispirazione ‘borghese’, in cui, come dichiara nella premessa Ai lettori, non intende proporre soluzioni di alti problemi sociali e morali, non vuole dimostrare nessuna tesi, ma presentare caratteri e casi ordinari, collocati in grigi ambienti quotidiani, guardati con un disincanto, una amarezza che fa pensare alla malinconica poesia del Giocosa di Tristi amori. Protagonista ancora una volta una donna, Serena, che contraddice nel suo carattere inquieto, nel groviglio psicologico che la possiede, nel sentimento del tragico che la anima, il nome che per contrasto l’autore ha voluto attribuirle. Attraverso la sua storia l’autore analizza le lacerazioni dell’istituto famigliare. A lei affida, nella V scena del terzo atto, le nuove parole che la nuova donna, pur tra mille contraddizioni legate a mille condizionamenti sociali, psicologici e culturali, riesce a pronunciare :  













Ci sono tante ragazze al mondo che vivono solitarie, perché nessuno si è mai curato di loro ; che hanno amato silenziosamente e non sono mai state amate, o che non hanno mai avuto tempo di amare, avendo dovuto pensare a più urgenti bisogni della vita ; ragazze che invecchiano e muoiono sole, sole, dopo aver sofferto senza lamentarsi, senza disperarsi … Io voglio essere una di loro, per elezione, per convinzione ! 2  





Così Maria della Buona vendetta (1912), la buona e brava moglie dell’alta borghesia romana che da sempre sa di essere tradita e sempre ha taciuto e sopportato, se accoglie con benevolenza la confessione dell’amica di famiglia con cui il marito aveva una relazione (« ragioneremo tranquillamente, come discutono anche di gravissime cose le persone bene educate ») e sembra confermarsi nel suo ‘buonismo’ di marca intimistica e crepuscolare (si vedano i semitoni, la sbiadita ambientazione, la malattia), rivendica poi la sua libertà di agire e la sua autonomia quando affronta il marito (« Ora però voglio vivere : ne  







1   « Le due donne – scrive Pullini – messe l’una di fronte all’altra, non hanno trovato conciliazione : e, drammaticamente, proprio questa inconciliabilità costituisce un requisito, perché il confronto è efficace e lascia aperta la sua irriducibilità », in Giorgio Pullini, Luigi Capuana : il teatro in lingua, « Lettere italiane », xlv, 1, 1992, p. 64. 2   Luigi Capuana, Serena, in Teatro italiano, i, a cura di Gianni Oliva e Luciana Pasquini, Palermo, Sellerio, 1999, p. 212.  











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ho il diritto : Vivere a modo mio, libera, come tu hai creduto di poter fare […]. Ho voluto provarti che non ero una bambola » 3), ma finisce, attraverso una scontata riconciliazione, per riguadagnare la mediocrità, la consolante banalità di un tiepido, rassicurante ménage coniugale. Capuana, insomma, tende a ricomporre i drammi della quotidianità, a far rientrare nella ‘normalità borghese’ le spinte ‘sovversive’ al riconoscimento della dignità e dell’autonomia della donna, che pure riconosceva come legittime. Che poi queste spinte rivendicative fossero collocate all’interno di dinamiche famigliari, e in particolare del cosiddetto ménage à trois, era cosa consueta sulle scene teatrali. Anche in Italia la drammaturgia di fine Ottocento propone infatti il tema del ‘triangolo’, centrale in tutta la drammaturgia europea, specie secondo il trattamento cosiddetto ‘alla francese’. Tristi amori (1887) di Giacosa e La moglie ideale (1890) di Praga ne sono un esempio. In Tristi amori viene portato sulla scena uno squallido interno provinciale segnato dall’ipocrisia famigliare : attraverso Giulio, un avvocato consacrato al lavoro, alla carriera e al denaro, la miopia dell’etica borghese dell’Italietta umbertina ; con Emma (occorre richiamare la Bovary ?) l’irrequietezza di una donna che, pur tutta dentro le dinamiche domestiche del lesso da preparare e dei conti della spesa da far quadrare, non si rassegna ad essere solo moglie e si lascia tentare da illeciti piaceri, e con Fabrizio, l’amante, la decadenza e il flaccidume di una nobiltà che aspira ormai solo ad omologarsi al sistema dei valori borghesi. La passione dei due amanti, la loro ‘pazzia’ erotica, è destinata però a spegnersi : è finito il tempo dei grandi amori, l’epoca del tragico, cui servono, come dichiara la stessa Emma, « uomini oziosi e donne inutili », 4 ora vince la responsabilità verso i figli (in Emma la madre prevale sulla donna, rinuncia all’amore, a fuggire con Fabrizio per restare accanto alla figlia), la deontologia coniugale (Giulio accetta la convivenza con una donna, che però non può perdonare e amare, perché madre di sua figlia, « trascinando disperatamente » la loro routine matrimoniale), l’etica del lavoro. La vicenda non è quindi trattata come nella pochade : infatti, scrive Sergio Colomba, 5 è « un triangolo tutt’altro che convenzionale, nient’affatto in linea con la casistica cara al teatro ed al romanzo del tempo » - ma già critici contemporanei come Giovanni Pozza 6 ne avevano colto l’originalità – in cui i protagonisti segnalano nel loro triste dramma lo sfaldamento di sicurezze e certezze borghesi. Certo – lo segnala Alonge 7 – le parole finali di Giulio inchiodano l’uomo e la donna ai rispettivi ruoli nel lavoro e in casa, e la didascalia che chiude il lavoro del drammaturgo li fissa nella loro glaciale immobilità, ma « Giacosa non è Ibsen » – lo sostiene Catalano 8 – e « non pare in grado di darci la poesia della decadenza del self made man, ma la prosa avvilente della partita doppia », la grigia prosa per una grigia drammaturgia che riflette la gracilità della società dell’Italia umbertina. In La moglie ideale Praga dà vita ad un personaggio femminile astuto e vincente, che coniuga abilmente, in un ‘calcolo ragionevole’, il ruolo di moglie e madre affettuosa e quello di amante appassionata, che si destreggia abilmente nella partita doppia della pubblica virtù e del vizio privato, così come vuole la ‘virtù’ nel mondo affaristico metropolitano di Praga, la società borghese di una Milano umbertina. « Voi siete la  



































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  Idem, La buona vendetta, in Teatro italiano, cit., p. 539.   Giuseppe Giacosa, Tristi amori – Come le foglie, Milano, Mondadori, 1987, p. 139. 5   Sergio Colomba, Introduzione a Giuseppe Giacosa, Tristi amori, cit., p. 37. 6   Giovanni Pozza, Cronache teatrali (1886-1913), a cura di Gian Antonio Cibotto, Vicenza, Neri Pozza, 1971, pp. 60-63. 7   Roberto Alonge, Teatro e spettacolo nel secondo Ottocento, Bari, Laterza, 1988, p. 169. 8   Ettore Catalano, Delitti innocenti : la scena pirandelliana tra veleni ed emblemi femminili, Bari, Laterza, 1998, p. 18. 4



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donna moderna che ragiona » : 1 è la battuta che Praga affida a Costanzo, l’amico di famiglia, che bene definisce l’ideale femminile per lo scrittore che Giulia incarna. È una donna volitiva e insieme cinica, consapevole delle proprie pulsioni sessuali, convinta della necessità di assecondarle, della sua superiorità strategica, ma che finisce per accettare il ‘lieto fine’ della riconciliazione coniugale, pur non rinunciando a nuovi amanti. A Giulia, come Praga stesso osserva, « non si addice il dramma ». 2 E Giulia, commenta Alonge, forse non è ancora un personaggio degno di stare con le eroine di Ibsen o di Strindberg, tuttavia non è privo di una certa complessità. 3 Il dramma si addice invece, per parafrasare Praga, alle donne di Pirandello. Ma siamo a ben altra altezza storica, culturale, immaginativa. La ‘maledizione femminile’, intesa come presenza dell’immoralità nel regno etico dei fini, secondo la definizione di Otto Weininger, il loro ‘ruffianesimo’, hanno sconvolto e ridisegnato i rapporti tra i sessi in un mondo che ha rinunciato all’assoluto ed è in preda ai fantasmi pluralizzati del negativo, e ormai incombono come ‘temibile spettro’ 4 anche sulla scena teatrale europea. Alle eroine ibseniane si sono aggiunte quelle di Strindberg, ma anche di Wedekind, e quelle di Pirandello. La donna è letta come oggetto sessuale e proiezione inquietante della destabilizzazione del maschio, sempre più in crisi di identità – da don Giovanni a Parsifal – e impaurito da un femminile che pure tra tabù e coscienza, (per riprendere un felice titolo della Nozzoli), fatica a trovare la sua, ad uscire – sostiene Massimo Castri – dai cattivi miti culturali dell’invidia del pene o del rimpianto di non essere uomo, come succede a Hedda Gabler. 5 Ed ecco le donne di Pirandello, che conosce bene Ibsen (ricordiamo l’edizione diretta da Pirandello del testo di Ibsen – dal 1926 al 1928 – La signora del mare in cui Marta Abba è una Ellida misteriosa ed enigmatica, una riduzione tutta riferita e piegata al mondo pirandelliano e alla sua passione, teatrale e non, per Marta, l’attrice/musa che aveva scatenato nel drammaturgo un complesso e contraddittorio sentimento d’amore). Silia Gala che danza nuda e si propone lei, con esibizionismo sfrontato, come oggetto di desiderio agli sguardi cupidi dei maschi che vorrebbero possederla. Tuda, « modella di meravigliosa bellezza », la donna-oggetto che si offre, che dichiara il suo desiderio ed è rifiutata in quanto le viene negata la sua fisicità in nome di un amore platonico, di un eros sublimato, e si vendica scatenando il conflitto generazionale tra i maschi, provocando una tragedia, un delitto. Marta, che pur essendo la migliore delle mogli possibili, disprezza il matrimonio, irride i maschi. È, riprendendo il giudizio di Catalano, « una donna contraddittoria e tentante, che rifiuta d’essere soltanto un oggetto sessuale ed ambirebbe a farsi compagna dell’uomo, amante e madre insieme, che si batte perché gli uomini maturino una diversa visione della donna, non il modello vamp (« frivola, civetta, sfrontata, provocante, smorfiosa, quasi nuda, truccata occhi e labbra, con la sigaretta in bocca » 6), non la donna bizzosa ed invitante (come la vede il Padre nei Sei personaggi), ma una donna completa  

















che, se appare intangibile come una santa da adorare, 7 certo non vuole rimanere soltanto sull’altare ». 8 L’Ignota di Come tu mi vuoi (scritto tra il 1929 e il 1930), altra maschera teatrale creata per Marta Abba, in cui la contaminazione tra il suo mondo e quello di Ibsen è più rilevato. L’ossessione antimatrimoniale dei grandi personaggi femminili ibseniani si ripropone in questo dramma. Una storia di identità sconvolta : l’Ignota, vittima di uno stupro di massa, della brutale violenza del maschio, consuma la propria esistenza dissociata, straziata tra il gusto masochistico dell’annientamento e della degradazione sessuale, prostituendosi per scelta vendicativa, ma anche nell’ansia di riscatto che, in una sconvolgente volontà di purezza, la conduce, per rinascere, a darsi il nome dell’uomo che dice di essere suo marito, ad essere come un uomo vuole che sia. Ma scopre la vera violenza : dell’interesse, del calcolo meschino, dell’ipocrisia. E torna allo strazio della vita di prima, a Berlino, la metropoli dissoluta e agonizzante. Ibsen insomma produsse un forte impatto sulla nostra cultura, sul nostro teatro, provocando interventi di critica militante, di intellettuali, di registri. 9 Ne indichiamo alcuni. Silvio Benco, critico acuto e ‘consapevole’, come testimoniano le recensioni che puntualmente pubblica sulle messe in scena delle opere ibseniane, già all’indomani della morte del drammaturgo sul « Piccolo della Sera » di Trieste riconosce che, al di là del suo valore artistico, è « l’urto di quell’arte nuova », da cui era stata colpita la sua generazione, segnata da Nietzsche e dal nichilismo, a costringerla a « mutare, riordinare, ricomporre tutti i valori per far posto a quel valore nuovo che la penetrava », un’arte che aveva saputo rappresentare la trasformazione epocale, radicale che si stava vivendo. Anche Michelstaedter ‘legge’ Ibsen 10 come colui che ha annunciato la verità – si veda la prefazione a La Persuasione e la Rettorica – e che, se pure ha subito la sorte riservata alla letteratura di edulcorare la verità rendendola esteticamente fruibile, resta una radicale voce di verità contrapposta al nichilismo di Nietzsche. Beatrice Speraz (Bruno Sperani) su « Vita intima » del 10 febbraio del 1891, dopo la prima di Casa di bambola, commenta – da giornalista militante – che l’aver portato sulle scene italiane la storia di Nora è « un vero miracolo » e che per questo la Duse merita molta lode. Scipio Slataper, autore di una fondamentale monografia su Ibsen, 11 in cui anticipa con acume critico le relazioni tra l’opera di Ibsen e la cultura contemporanea, partendo da questo appunto scritto da Ibsen mentre lavorava agli Spettri : « Quando l’uomo vuol vivere e svilupparsi umanamente, cade nella megalomania », individua il punctum della riflessione ibseniana : l’impossibile dovere di sviluppare la propria personalità, la propria ‘poesia del cuore’, nella società contemporanea. Pretendere di vivere, di essere se stessi, è necessario ma impossibile, è un dovere e insieme una hybris : è un dissidio senza catarsi, come sostiene Federico Sternberg. Intorno a questo dissidio costruisce i suoi personaggi. Slataper quindi riconosce in Nora una psicologia ricca e complessa – parla di ‘tipo noriano’ – in cui si possono individuare le due nature dell’uomo, la maschile e la femminile, l’essere e il dover essere, esemplificate in lei e nel marito. L’insolubilità del dissidio ibseniano è al centro anche dell’analisi di Benedetto Croce che osserva come questo impeto, questo desiderio dello « straordinario, dell’intenso, del  





































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  Marco Praga, La moglie ideale : commedia in tre atti, in Il teatro italiano. La commedia e il dramma borghese dell’Ottocento, iii, a cura di Siro Ferrone, 2   Ivi, p. 188. Torino, Einaudi, 1979, p. 187. 3   Cfr. Roberto Alonge, Teatro e spettacolo nel secondo Ottocento, cit., p. 172. 4   Roberto Alonge, Solitudine dei maschi e mitologemi femminili. Alle origini della drammaturgia moderna, Genova, Costa e Nolan, 1996. 5   Massimo Castri, Ibsen postborghese, Milano, Ubulibri, 1984, p. 104. 6   Cfr. Luigi Pirandello, L’amica delle mogli, a cura di Roberto Alonge, Milano, Mondadori, 1993, p. 49.  

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  Ivi, p. 41.   Ettore Catalano, Delitti innocenti. La scena pirandelliana tra veleni ed emblemi femminili, cit., p. 87. 9   Cfr. Claudio Magris, Ibsen in Italia, cit., a cui facciamo riferimento per molte delle testimonianze che qui riportiamo. 10   Già dal 1908 dichiara che Ibsen è l’unico autore capace di « farlo fremere e vibrare come un accordo al minimo soffio » perché, come Tolstoj, grida in faccia alla società il suo bisogno di verità ! 11   Scipio Slataper, Ibsen, Torino, Bocca, 1916, poi Firenze, Vallecchi, 1977. 8







nora e le altre sublime, dell’inconseguibile » non si realizzi se non come autodistruzione, cioè come tragedia. Il sublime – che in Ibsen non è un assoluto, è la vita nella sua concretezza, in ogni suo attimo – è anche pulsione di morte. Quanto poi a Casa di bambola, nel 1922 scrive :  



Chi ha ragione in Casa di bambola ? Il marito ? Ma è un egoista. La moglie ? Ma non ha senso morale […]. E non è meraviglia che questi problemi insolubili dessero popolarità a quei drammi, e che vi s’interessassero particolarmente i poco critici cervelli femminili, e i meno critici tra essi, quelli delle femministe, e presto li rendessero, col loro psicologico e moralizzante o moralizzante discettare, uggiosi e odiosi a segno che alcune famiglie scandinave s’indussero (l’aneddoto è noto), nell’inviare inviti per le loro serate, ad aggiungere a piè del cartoncini la raccomandazione : “Si prega di non discutere di Casa di bambola”.  







In generale i critici condannano la ‘immoralità’ del testo di Ibsen, accendendo discussioni ‘furibonde’ : 1 Nora, allontanandosi dal « focolare domestico luminoso e tiepido » finisce per ‘perdersi’ nella notte. 2 Si distingue Giovanni Pozza, critico del quotidiano « Corriere della Sera » dal 1886 al 1913. 3 Lettore acuto di Ibsen e sostenitore di una lunga ed encomiabile campagna a favore dell’ibsenismo in Italia (ii, 926), colse perfettamente il rovesciamento prodotto da Ibsen nell’operazione teatrale : il teatro non è più il luogo in cui i grandi problemi sono trattati per mezzo della farsa o del patetico, del comico, per divertire o distrarre un pubblico che va a teatro per celebrare un rito mondano ; il teatro diventa lo specchio critico della società, il luogo in cui le grandi questioni delle dinamiche famigliari, delle professioni, della scalata sociale vengono dibattute, rappresentate, denunciate. E con il sociale, il privato : istinti aggressivi, pensieri inconfessabili, desideri proibiti vengono analizzati, confessati con crudeltà, estorti con tecniche di dialogo simili a interrogatori, con domande trappole, esibiti in salotti più simili ormai a camere di tortura. Pozza ha lucida consapevolezza di questa strategia : « non situazioni commoventi, inaspettate, ingarbugliate ; non una scena d’amore, di disperazione ; neppure un pizzico di adulterio », 4 ma è anche un non meno acuto lettore dell’arte attorica, e conduce una lunga ed encomiabile campagna a favore di Eleonora Duse, nel momento in cui molti preferivano il gran cantabile, fino ad allora imperante. È Antonio Gramsci a consegnarci in Letteratura e vita nazionale una interpretazione di Ibsen come scrittore ‘sociale’, interpretazione che era di gran lunga la più accreditata  

























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in Europa, 5 a legare questo testo al ‘popolare’ e a collocarlo nella categoria ‘teatro di idee’, in cui la rappresentazione delle passioni è legata ai costumi e le cui soluzioni drammatiche rappresentano una ‘catarsi progressiva’ Gramsci ammira, in chiave polemica e antiborghese, Casa di bambola, che dice essere molto gradita al popolo delle città. 6 Questa riflessione è svolta da Gramsci negli anni che vanno dal 1933 al 35 (periodo di Formia) e si legge nel suo diciassettesimo quaderno dal carcere ; ben altra quella consegnataci in una recensione a Casa di bambola, rappresentata al Carignano di Torino nel ’17 da un’altra grande Nora, Emma Gramatica :  



Perché il pubblico è rimasto sordo, perché non ha sentito alcuna vibrazione simpatica dinanzi all’atto profondamente morale di Nora Helmar che abbandona la casa, il marito, i figli per cercare solidariamente se stessa, per scavare e rintracciare nella profondità del proprio io le radici robuste del proprio essere morale, per adempiere ai doveri che ognuno ha verso se stesso prima che verso gli altri ?... È avvenuta semplicemente una rivolta del nostro costume (e voglio dire del costume che è la vita del pubblico italiano), che è abito morale tradizionale della nostra borghesia grossa e piccina, fatto in gran parte di schiavitù, di sottomissione all’ambiente, di ipocrita mascheratura dell’animale uomo. 7  

Giudizio che risulta ancor più duro se accostato a quello che esprime a proposito della commedia di Fraccaroli Non amarmi così !, proposta al Carignano qualche tempo dopo Casa di bambola, cui il pubblico borghese questa volta aveva decretato il successo perché l’autore, « uomo di spirito », capace quindi di far ridere, aveva previsto un lieto fine ad una vicenda simile a quella raccontata da Ibsen, offrendo in tal modo « un brillantissimo esempio del come l’uomo di spirito riduce per il lieto sollazzo dei suoi clienti le cose serie ». La commedia ripropone la vicenda di una donna incompresa che si ribella : « un genio drammatico, Ibsen, – commenta Gramsci – avrebbe dato a questo dramma il suggello definitivo della sua fantasia poetica. Ma Ibsen non era un uomo spiritoso, era un artista, che viveva profondamente la vita delle sue creature ; perciò egli non ha avuto fortuna nei salotti e nei teatri che ne sono l’ingrandimento peggiorato. Arnaldo Fraccaroli ha corretto Ibsen, lo ha reso piacevole e amabile, lo ha latinizzato. Margherita di Fraccaroli è ben più facile a comprendersi di Nora ; le motivazioni dell’urto tra marito e moglie sono in Fraccaroli alla portata di tutte le anime incipriate ». La sua Margherita è una « bambola seccante », è noiosa, accetta la corte di un « imbecille » per mascherare un altro finto amante, e non si capisce bene perché. Ma è questo mistero che porta al lieto fine. 8  



























1   Come mette in rilievo Enrico Annibale Butti : « Chi parlava d’inverisimiglianza, chi si scandolezzava della catastrofe immorale (che diavolo ! Una madre che lascia tre bambini per un capriccio !) », in Enrico Annibale Butti, Né odi, né amori. Divagazioni letterarie, Milano, Dumoland, 1893. 2   Cfr. « Nuova Antologia », 16 aprile 1898 e 1 ottobre 1906. 3   Sue le recensioni a Casa di bambola sul Corriere teatrale del quotidiano milanese del 10-11 e 12-13 febbraio 1891 in cui riferisce che il pubblico aveva assistito a tutto lo spettacolo – cosa ‘improbabile’ fino a qualche anno prima –, manifestando con pochi ‘mormorii di ribellione’ la propria disapprovazione per l’abbandono di Nora della casa coniugale. 4   Giovanni Pozza, Cronache teatrali (1886-1913), cit., p. 214.  













5   Ibsen infatti, ce lo ricorda Alonge nella sua monografia, era visto come osservatore meteorologico della crisi della civiltà contemporanea, come in Russia, da Belyi o da Blok. 6   Antonio Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi, 1966, pp. 112-113. 7   Idem, La morale e il costume (« Casa di bambola » di Ibsen al Carignano), « Avanti ! » del 22 marzo 1917, ora in Idem, Letteratura e vita nazionale, cit., pp. 278-281. 8   Idem, « Non amarmi così ! » di Fraccaroli al Carignano, « Avanti ! », 5 aprile 1917, ora in Idem, Letteratura e vita nazionale, cit., pp. 284-286.  





   



   



   

LA NEGAZIONE E IL RESTO. SAGGIO SULL’ONTOLOGIA DI SVEVO Mauro Caselli Dovetti ripetermi, ciò ch’è noioso perché si ripete male.

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ascrittura di Italo Svevo, nel suo stile piano, si mostra particolarmente aliena dal coagularsi in frasi isolate, apoftegmi, aforismi, è difficile trovare punti ben definiti nei quali il pensiero trovi compiuta dimora. A tutto ciò è forse legata la ben nota diffidenza sveviana nei confronti della speculazione sistematica – la filosofia tradizionalmente intesa – e verso tutta quella espressività che opera nell’opacità della parola – la poesia. Questo assestamento su di un linguaggio di basso impatto – beninteso, tutt’altro che concettualmente neutro – il suo comporsi in un rapporto confidente con il reale ha un effetto anche nel lavoro critico su questo autore, che molto spesso si è arenato nelle secche dell’indagine psicologica. Si tratta in effetti di un taglio interpretativo molto rischioso, l’interazione fra fattori letterari ed extraletterari porta con sé un margine d’errore molto grande, il movimento di commutazione fra biografia e opera una volta avviato si mostra difficilmente controllabile. Nonostante ciò, alcuni risultati sono molto interessanti – si pensi soprattutto ai lavori di Eduardo Saccone e Elio Gioanola. 1 Il presente saggio propone una lettura dell’opera di Svevo, soprattutto dei romanzi, complementare a quella succitata. In esame viene posto unicamente il testo, la sua forma, al fine di delineare la struttura del reale sveviano al di qua di ogni psicologismo e poterne tracciare così una mappa ontologica. In altre parole, si cercherà di indicare nello stile della scrittura di Svevo, più in generale nella forma espressiva, la sua posizione di fondo rispetto agli enti, alle cose del mondo. i. Una giustapposizione delle opere di Svevo, eseguita seguendo il criterio temporale di composizione, consente di evidenziare una sensibile variabile diacronica nella sua scrittura. Tra i primi due romanzi – Una vita e Senilità – e La coscienza di Zeno si possono notare delle differenze importanti, in quanto, su una prospettiva esistenziale sostanzialmente invariata viene a raffinarsi un linguaggio che su di essa si sovrappone, che assume un ruolo esso stesso ontologico, di riduzione delle fratture che fanno del mondo sveviano un insieme problematico. In effetti, la fenomenologia del reale appare qui strutturata su di un costante sforzo di definizione – in aderenza col significato primo di questa parola, cioè quello dello stabilire dei limiti. Ecco allora che la scrittura assume qui la valenza di Sorge, di una cura intesa in termini heideggeriani, proprio in forza della sua potenza espressiva. Si tratta di quella posizione - che Svevo riesce a far sua lentamente, mano a mano che va a comporre la sua opera - che egli stesso definisce ‘letteraturizzazione’, dove realtà e descrizione entrano in tensione sul piano della veridicità. È un’idea che avrà molto seguito nel Novecento ; inizialmente celata tra gli espedienti del freudismo – come nel nostro – e sviluppando poi uno statuto a sé stante, fino ad una vera e propria teorizzazione con Maurice Blanchot.  

ii. Il personaggio di volta in volta centrale delle opere di Svevo – nel quale si concentra, ma non si esaurisce l’autorappre1   Si veda Eduardo Saccone, Commento a “Zeno”. Saggio sul testo di Svevo, Bologna, Il Mulino, 1973 ; e Elio Gioanola, Un killer dolcissimo. Indagine psicanalitica sull’opera di Italo Svevo, Genova, Il Melangolo/Università, 1979, (poi Milano, Mursia, 1995).  

sentazione – presenta il tratto comune di un evidente spaesamento. La figura è sempre fuori contesto, l’ambiente che lo circonda non gli perviene. L’effetto è quello di un accentuarsi della diastasi fra soggetto e mondo, il manifestarsi di una situazione vissuta come isolamento. Non c’è relazione fra l’uomo e ciò che lo circonda, l’abisso è profondo e – in quella che possiamo definire la prima fase dell’opera di Svevo e che si conclude grosso modo col secolo – il linguaggio che avrebbe il compito di superarlo, di eccepire, rafforza questa distonia. La manifestazione forse più vistosa di tutto ciò, può essere vista in una tematica apparentemente anodina e pure molto presente in Svevo, quella del tradimento. Esso viene inteso sostanzialmente come la disattenzione nei confronti di una norma di condotta, come una variazione imprevista e non condivisa della rete relazionale, che si dà in quella zona trascendente tra gli enti, in quel ‘non luogo’ che li separa. Da qui nelle pagine sveviane la presenza sovrabbondante, di peso non puramente fenomenico, del tema dell’adulterio :  

Non solo ti tradisco ma ti tradisco con la tua sarta. Tu non ti degnasti di guardare ma ti degni di condannare, di uccidere. Oh ! Avessi tu guardato ! Avresti visto che quella donna non era e non poteva essere la tua sarta. Né magra, né alta, né elegante. Un piccolo elefante. E non bionda… (La verità). 2  



In Svevo tutto questo si compone ontologicamente in una tensione fra qualità differenti, senza che l’intervento di una qualche misura consenta il passaggio da un elemento all’altro. Il suo è un mondo frammentato, un mosaico – certo non un crogiolo – e il fenomeno relazionale si configura come soluzione paradossale, inspiegata, della continuità, come suo attraversamento inopinato. Tuttavia, da Senilità – che raffina lo stile di Una vita, in direzione di una maggiore pulizia strutturale – a La coscienza di Zeno, in quei poco più di vent’anni si registra un cambiamento, orientato verso il superamento della neutra narratività ottocentesca. Il linguaggio non si limita più a descrivere i chiaroscuri, le forti opposizioni che hanno contrassegnato l’estetica letteraria quel secolo, ma anzi abbandona il ruolo di semplice medium per farsi parte in causa. Da un punto di vista espressivo, ma prima ancora speculativo, nel nostro autore ciò accade, come si vedrà, attraverso una trasformazione della negatività in differenza. Si tratta di un’esplorazione che negli ultimi anni di vita di Svevo viene svolta anche in filosofia e che vede la sua migliore formulazione in Essere e tempo, di Martin Heidegger. Per quanto lontane nell’intenzione, tra le posizioni di questi e di Svevo si può individuare un rapporto chiastico quando si nota che, se il pensiero dello studioso tedesco esprime la negazione come differenza ontologica, nello scrittore triestino l’ontologia è tesa a negare la differenza dell’espressione. iii. Nel primo romanzo di Svevo, Una vita, la linea di separazione è molto pronunciata, e si colloca fra il protagonista e l’ambiente circostante. Lo sviluppo della vicenda va a compiersi in linea con l’inevitabile conseguenza dell’autismo esistenziale, con l’invalicabilità della divisione. In Senilità il fron2   Italo Svevo, La verità. Comedia in un atto, in Idem, Teatro e saggi, a cura di Federico Bertoni, Milano, Mondadori, 2004, p. 386.

la negoziazione e il resto. saggio sull ’ ontologia di svevo 253 te è interno, e va a segnare una divisione nel soggetto stesso. Da qui forse derivano quelle caratteristiche endemiche che mettono in fibrillazione il paesaggio sveviano e che la critica Il passaggio da un ente all’altro è più agevole che nel romanzo ha identificato nei temi del doppio, dell’ambiguità, dell’incerprecedente, ed anzi viene a porsi come il tema speculativo tezza, dell’indecidibilità, in un rapportarsi con il reale che i della vicenda. 1 In questo romanzo i collegamenti fra autore greci definivano dipsuchia : ed opera risultano più scoperti, il vissuto penetra nella pagina e va a decantarsi lungo quelle linee di confine di cui si parlava, Non posso ! Non posso ! Ma perché non potrei ? Nessuno piú di me formando un certo chiaroscuro del senso che va a stemperare ha dimostrato di poterlo. Ah ! Non posso ! Dice che non posso ! Io la freddezza della prospettiva quantizzante. Ne La coscienza potrò quando saprò, quando non avrò piú dubbi. (Un marito) 4 di Zeno si dà il compimento, la risoluzione di questo processo Nella scrittura la percezione desultoria della realtà assume di interiorizzazione. Compaiono i riferimenti freudiani, che qui un suo rilievo ontologico per l’attenzione verso l’immiall’apparenza fungono da schema di fondo, ma in realtà rapnenza – intesa nel suo significato relazionale – che tiene inpresentano l’occasione per portare allo scoperto i rapporti pasieme e collega le cose. Ciò che importa è pertanto lo spazio radossali fra la teoria e la nuda vita. Zeno è il soggetto che ‘si interstiziale e il suo superamento. Questo luogo è ‘interesse‘ sa’ frammentato, ed è con questa consapevolezza che compo– ciò che sta in mezzo – che separa e allo stesso tempo unisce ne la propria coscienza. In tutto ciò le parole sono l’evidenza forma e contenuto, ad un livello più concreto, ciò che condel confine, il mezzo e il messaggio – per sua natura traditosente la relazionalità dei qualia. È qui che si mostra ciò che re – della discrezione del reale. Anche tra autore ed opera si può essere considerata la trascendenza di Svevo, che si espone gioca con l’effetto di promiscuità, eppure mai si avverte nella come mistero, come una forma resistente di inconoscibilità pagina una catarsi, mai Svevo si riduce all’idioletto. L’impordeterminante. Da tutto questo procede l’attenzione per la patanza della Coscienza, la sua permanente vitalità, sta forse in rola, intesa come presenza tra le cose del mondo, per la sua questa ‘imminenza’ della parola letteraria sul mondo, in uno « magia », per la capacità illocutiva che la lega al referente, ma sbilanciamento della compostezza di Senilità ai fini d’un affonanche per la mobilità del senso che questo spazio consente e do nel piano del referente. che è all’origine d’ogni fenomeno di connotazione. In seno a  











iv. Nella prima fase dell’opera di Svevo, quella caratterizzata da Una vita e Senilità, l’uomo si pone quindi come soggetto e insieme oggetto di impossibilia, dove gli estremi confliggono nel dar luogo ad un insieme. L’uomo quindi come dividuum, in cui dissidio e distanza, differenza e assenza sono poli di un dinamismo esistenziale omeostatico. Da un punto di vista speculativo, il rapporto tra essere e significato perde la sua ovvietà e si mostra piuttosto come una zona liminare, una distanza nella quale, con Nietzsche, si può identificare l’epicentro di un certo pathos. 2 Il termine ‘malattia’ viene impiegato dall’autore – in maniera invero incostante e con eccesso di simbolismo - proprio per definire questa situazione di incertezza ontologica, ponendo in una nuova prospettiva il tradizionale dilemma della verità. Con Svevo – e nel cosiddetto ‘secolo del linguaggio’ - la distinzione qualitativa tra essere ed apparire si ritrae in effetti nel mondo del dire. Avviene così che nello scrittore triestino forma e contenuto mostrino reciproca complicità. Le conseguenze non sono solo di ordine linguistico in quanto, attraverso una Sprachgefühl così poco ‘rumorosa’ e tuttavia tanto efficace, Svevo individua i punti di torsione in cui ironia ed ipocrisia si scambiano le parti :  

Ora che sapeva che non c’era più pericolo che i beneficati ignorassero il suo sagrificio si sentiva bene ad agire come se avesse voluto celarlo. (Una vita) 3

L’effetto quindi non si riduce ad un gioco di parole, a un pensiero che nella concisione esaurisce la propria forza, in quanto va a toccare – come già era accaduto con il pensiero di Schopenhauer e più in profondità poi con Nietzsche – il nervo scoperto dell’impalcatura morale costituito dalla mancanza di valore assoluto. v. Importa rilevare a questo punto come la struttura interpretativa espressa da Svevo mostri una costante tendenza a considerare le cose del mondo come il risultato del rapporto fra le parti che le compongono. Ciò che più importa d’un ente, di un oggetto, è pertanto la sua articolazione interna.







tale dinamica ha buon aggio la deviazione della componente dialettale nella lingua di Svevo, tema critico importante e che certo inopportunamente ha tanto angustiato l’autore. Tuttavia, se alla consapevolezza di una reale presenza del linguaggio nel mondo, del suo ingombro, Svevo giunge subito, devono passare degli anni perché egli diventi in grado di padroneggiare la potenzialità eversiva che vi si collega. Nel rapporto che Svevo presenta con i nomi propri, si segnala il movimento di cui si è detto. A ragione Roland Barthes sostiene che « il nome proprio è un nome che rinvia all’incomparabile ». 5 In Svevo si verifica una tendenza contraria, verso la contestualizzazione. Basti pensare ai collegamenti che in questo modo vengono costruiti fra alcuni personaggi (Emilio e Amalia), fra un nome e un specifico ruolo (Angiolina, Samigli, Achille, Bianca), o i casi di omonimia tra personaggi di differenti opere, per non citare tutto il complesso lavorio di dissimulazione dell’autore nei propri personaggi. A questo proposito, è qui opinione che l’autoriferimento lavori nella pagina sveviana con sensibile rifrazione. Ma certo questa erotica della distanza fra nome proprio e mondo in Svevo è maggiormente visibile nell’uso dello pseudonimo, su cui non è necessario soffermarsi, data l’evidenza. 6  



vi. Nella pagina sveviana del primo periodo il senso ineffabile, la trascendenza immanente costituita dalla distinzione degli enti – in sostanza, l’alterità assoluta – viene resa attraverso la negazione. Già per Severino Boezio essa era quella forma grammaticale vòlta a dividere, mentre in tempi più recenti Chaïm Perelman e Lucie Olbrecths-Tyteca ne hanno sottolineato la funzione argomentativa, dialettica.7 L’impiego che Svevo fa di essa si mostra funzionale allo stile della sua scrittura, e di conseguenza, almeno inizialmente, con la forma del mondo che tale stile configura. Ben lontana dalla teoresi 4   Italo Svevo, Un marito. Comedia in tre atti, in Idem, Teatro e saggi, cit., p. 332. 5   Roland Barthes, Comment vivre ensemble : cours et séminaires au Collège de France (1976-1977), Paris, Seuil, 2002, p. 142. 6   Va ricordato che il nom de plume Italo Svevo fu preceduto da Erode, Ettore Samigli, Ettore Muranese. Jean Starobinski scrive che scegliere uno pseudonimo al posto del nome anagrafico « equivale all’assassinio del padre ed è la forma meno crudele dell’uccisione in effigie » ( Jean Starobinski, L’occhio vivente, trad. di Giuseppe Guglielmi, Torino, Einaudi, 1975, p. 161, i edizione 1961). 7   Chaïm Perelman, Lucia Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione : la nuova retorica, trad. di Carla Schick, Maria Mayer, Elena Barassi, Torino, Einaudi, 2001, p. 163 (i edizione 1958). Boezio tratta della negazione nel De interpretatione, 17a 26.  



1

  A questo proposito forse è l’esatta sovrapposizione di struttura espressiva e senso comune che ha potuto spingere la critica più avveduta a vedere in questo testo una certa perfezione formale. 2   Friedrich Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli. Come si filosofa col martello. Scorribande di un inattuale [1888], Milano, Adelphi, 1983 (aforisma 37). 3   Italo Svevo, Una vita, in Idem, Romanzi e « continuazioni », a cura di Nunzia Palmieri e Fabio Vittorini, Milano, Mondadori, 2004, p. 371.  







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mauro caselli

hegeliana, la negazione qui pare avvertire la funzione devastante che presenta in Nietzsche, il quale individua il punto in cui essa diviene permutabile con il suo contrario, con l’affermazione, delineando così – ma in Svevo rimanendone al di qua – l’orizzonte mobile e paradossale del nichilismo. Sul finire del xix secolo in letteratura la scuola del Naturalismo è molto influente. Svevo ne esperisce la temperie soprattutto attraverso la lettura delle opere di Émile Zola. Nonostante l’ammirazione per lo scrittore francese, egli tuttavia non fa suo il modello. Svevo è consapevole che la differenza fra parole e cose non solo non è annullabile, ma sa anche quanto essa giochi un ruolo fondamentale nell’espressione, quanto la conseguente funzione connotativa vada in effetti vista come una presa di distanza del linguaggio da se stesso, nella scoperta dell’ordito di una semantica che sfuma il senso stabilito.1 Il compito della negazione in Svevo è quindi di indebolire l’affermazione, in un costante formarsi d’una distinzione, di un’obiezione al senso che tuttavia non giunge mai a livello di antitesi. Ecco alcuni esempi, desunti da un elenco molto ampio :  

qualità, dove non c’è contrapposizione come nella Auf hebung di Hegel. 8 Ma oltre a questo diniego assoluto, privo di alternativa, Svevo adotta altri espedienti per dare la propria tinta al mondo. Interessanti sono i casi in cui il senso viene messo in movimento dagli avversativi :  

Ella pregò e minacciò ma con voce dolce e si difese, ma le braccia puntellate mollemente sul suo petto non impedivano nulla. Egli però non s’era atteso a resistenze e per deboli che fossero lo irritarono. (Una vita, p. 221) L’altro fu gentile ma distrattamente. (Una vita, p. 310) Rideva molto, ma ubbidiva. (Senilità, p. 450) Non era più abbandonata senza parole ; era vilipesa. Ma la forza non era fatta per lei, e durò poco. Emilio giurò : il Balli non gli aveva mai parlato di Amalia in modo da far capire che credesse d’esserne amato. Ella non gli credette, ma il debolissimo dubbio ch’egli le aveva messo nell’animo le tolse la forza, e si mise a piangere : – Perché non viene più in casa nostra ? (Senilità, p. 516)  







Ricordo tutto, ma non intendo niente. (La coscienza di Zeno, p. 654)

egli non avrebbe avuto né sorpresa né dolore se anche non piacere. (Una vita, p. 228) ed infatti egli non aveva creduto in nessuna delle felicità che gli erano state offerte ; non ci aveva creduto e veramente non aveva mai cercato la felicità. (Senilità) 2 Giulio non s’accorgeva quanto Mario gli andasse somigliando nella prudenza e nella lentezza, come se avesse avuto la gotta anche lui, e Mario non vedeva che il vecchio fratello ormai non poteva dargli consigli, non avrebbe mai detto cosa che non fosse stata spiata dal suo proprio desiderio. (Una burla riuscita) 3 Non era stata detta da lei una sola parola che avesse manifestata la sua avversione per me ed io intanto chiusi gli occhi per non vedere quei piccoli atti che non mi significavano una grande simpatia. Eppoi io stesso non avevo detta la parola necessaria e potevo persino figurarmi che Ada non sapesse ch’io ero là pronto per sposarla e potesse credere che io – lo studente bizzarro e poco virtuoso – volessi tutt’altra cosa. (La coscienza di Zeno) 4 Non si era né buoni né cattivi come non si era tante altre cose ancora. (La coscienza di Zeno) La miglior prova ch’io non ho avuta quella malattia risulta dal fatto che non ne sono guarito. (La coscienza di Zeno, p. 1049) Avevo detto di stimare mia moglie, ma non avevo mica ancora detto di non amarla. Non avevo detto che mi piacesse, ma neppure che non potesse piacermi. (La coscienza di Zeno, pp. 836-837) Non sospettava che cosa fosse la vita e non se ne curava, come se egli alla vita non avesse appartenuto. (Corto viaggio sentimentale) 5 Il ladro poteva essere preso in flagrante, ma non c’era una prova così risolutiva per il non ladro. Era come la prova Wassermann. La negativa non era mai sicura. 6 (Corto viaggio sentimentale, p. 543)

Una coordinazione di questo genere ha anche il compito di segnalare un contrasto nell’apparenza che si collega con una certa idea del bello :

Si tratta di un modello argomentativo distribuito lungo l’intera opera di Svevo e che col tempo va raffinandosi. 7 È il fulcro d’una negazione senza replica, una tensione fondata sulla

La donna a me non piaceva intera, ma... a pezzi ! (La coscienza di Zeno, cit., p. 638)



1   Per una concisa argomentazione del tema si veda l’insostituibile Roland Barthes, Elementi di semiologia, trad. di Andrea Bonomi, Torino, Einaudi, 1966, pp. 79-83 (i edizione 1964). 2   Italo Svevo, Senilità, in Idem, Romanzi e «continuazioni», cit., p. 502. 3   Italo Svevo, Una burla riuscita, Idem, in Racconti e scritti autobiografici, a cura di Clotilde Bertoni, Milano, Mondadori, 2004, p. 210. 4   Italo Svevo, La coscienza di Zeno, Idem, in Romanzi e «continuazioni», cit., p. 709. 5   Italo Svevo, Corto viaggio sentimentale, Idem, in Racconti e scritti autobiografici, cit., p. 544. 6   A questo proposito, la prova Wassermann non è un test della verità come qualche critico l’ha definita, ma un test per l’identificazione del morbo della sifilide. 7   In realtà a partire da un uso molto frequente della negazione, si nota una sua sensibile diminuzione già con Senilità. Si riscontra poi un suo netto recupero nelle opere prossime alla Coscienza. Va ricordato che in queste domina la narrazione in prima persona, con una lingua più vicina al parlato, più predisposta ad accogliere le modalità di manifestazione indiretta della realtà.



Aveva quattordici anni, ma la sua carne abbondante bianca e rosea da bambino e la statura bassotta gli davano l’aspetto di decenne appena. (Una vita, p. 13) lo si diceva cinquantenne, ma, con la sua figura magra e slanciata, la pelle asciutta e senza rughe, non mostrava di avere più di trent’anni. (Una vita, p. 64) di qualche anno più giovane di lui, ma più vecchia per carattere o forse per destino. (Senilità, p. 403) mi ripugnava con quel suo aspetto da vecchia e gli occhi giovanili e mobili come quelli di tutti gli animali deboli. (La coscienza di Zeno, p. 645)

In Svevo è infatti possibile desumere una teoria estetica abbastanza evidente, che si mostra congruente con l’ipotesi qui presentata. In più occasioni il senso della bellezza, il sorprendente nell’aspetto, scaturisce attraverso la catalisi di un elemento scoordinante, Unheimlich. La sensazione è che tale elemento sia proprio ciò che più importa, ente percepito non tanto nelle sue caratteristiche proprie, quanto per la relazione che instaura con il contesto. l’originalità di quella figura e la sua bellezza erano precisamente formate da ciò ch’egli aveva qualificato per difetti. (Una vita, p. 123)

e tale percezione è resa possibile dalla visione parcellizzata del reale di cui si è parlato :  



È proprio questa componente merologica – declinazione ontologica del nebeneinander di Magris e Ara 9 – che sta alla base della visione del mondo sconnesso di Svevo, e che richiede l’uso della negazione intransitiva come forma primaria di espressione. Delle volte però il movimento di obiezione esce da ogni schema precostituito. Ciò accade quando la parola pare prendere il sopravvento, quasi a determinare la realtà descritta :  

8   Un certo influsso di Hegel in Svevo non va tuttavia trascurato. Anzi, il suo interesse per il pensiero di Schopenhauer può essere visto come presa di distanza – nella forma di una Verwindung – da quella struttura speculativa a forma chiusa, costituita dalla dialettica hegeliana, che aveva in buona misura condizionato la cultura ottocentesca. 9   Vedi Angelo Ara, Claudio Magris, Trieste : un’identità di frontiera, Torino, Einaudi, 1982.  

la negoziazione e il resto. saggio sull ’ ontologia di svevo 255 nei, legati prevalentemente al parlato, ma consaputi nella loro A me pareva doloroso, ma molto logico. Perciò non protestai, ma potenzialità espressiva. finsi di non sentire. (Vino generoso) 1 Ciò che più importa sottolineare di questa nuova modalità espressiva in Svevo è che si tratta sostanzialmente dell’impiego Egli credeva d’essere un uomo che desiderava tante cose non permesse e che – visto che non erano permesse – le proibiva a se stesso, di figure di ripetizione. Gabriel Tarde, intellettuale di ampio lasciandone però vivere intatto il desiderio. Egli poi non ne parlava respiro vissuto al tempo di Svevo, scrive che la ripetizione neppure e stava facendo delle asserzioni che dovevano celare meglio – negandoli – quei desiderii. (Corto viaggio sentimentale, pp. 549-550) Verrà il momento in cui egli non ci sarà ed allora non gl’importerà come non gl’importa mai quando non c’è. (Argo e il suo padrone)2 Da me la virtù non fu grande, ma il desiderio ne fu eccessivo. (Confessioni del vegliardo) 3

Si tratta, nello scrittore triestino, di un movimento semantico tipico, che connota il senso attraverso il diniego, o meglio che denota un « altrove » dal senso evidente. Anche in assenza di coordinazioni successive con congiunzioni o avverbi che attribuiscono all’insieme una funzione affermativa – come, ad esempio, « non colui che visse ma colui che descrissi » – ci si trova di rado di fronte a vere e proprie esclusioni ; non è quindi casuale che in Svevo vi siano in numero limitato iperboli, eufemismi e antifrasi. Se è vero che « il modo in cui formuliamo il nostro pensiero manifesta alcune delle sue modalità », 4 si può notare come la forma della negazione miri in Svevo ad evidenziare un certo insieme attraverso l’articolazione del suo interno. E se, in generale, nell’affermazione viene esposta una qualità isolata dallo sfondo, con la negazione si mantiene un riferimento al contesto, a ciò che si pone in alternativa. 5 L’infrazione endemica dell’insieme, la constatazione della natura intransitiva degli enti, l’articolazione drammatica del reale costituiscono il modello attraverso il quale Svevo esperisce l’esistenza, e che rimane sostanzialmente percepito allo stesso modo lungo l’intero arco della sua vita. Di fronte a tutto ciò egli attiva dei processi speculativi invero di corto respiro, la cui validità si limita a una strategia di difesa al cui centro sta l’idea di malattia, di cui si è fatto cenno. Effetto non voluto, collaterale e pure efficace, è che Svevo trova nella matericità del ‘dire’ quella parentesi di redenzione di cui ha bisogno, quella situazione che gli consente di contenere l’esistenza.  













vii. I primi due romanzi stilisticamente seguono un impianto in cui la parola scorre nella stessa direzione del mondo, e la sua funzione si limita alla resa passiva di quella struttura fatta di enti a sé stanti. È una specie, se si vuole, di naturalismo trasversale, questo, che accorda mondo e parola a livello formale. Passano due decenni, e qualcosa accade, perché ne La coscienza di Zeno il linguaggio presenta delle novità importanti. 6 La scrittura viene a porsi qui in un deciso tentativo di superare l’assoluta alterità nel mondo. Pur restando la Weltanschauung la stessa, la parola si rapporta ora al referente in maniera differenziale. Si riduce l’imminenza trascendente della negazione sveviana e compare un elaborato impiego delle figure del discorso, al fine di attraversare la vertenza tra gli enti e dare effetto alla loro relazione. Si tratta di modelli sponta-

est un procédé de style bien autrement énergique et moins fatigant que l’antithèse, et aussi bien plus propre à renouveler un sujet. 7

Gilles Deleuze, dal canto suo, sviluppa l’idea di Tarde osservando come la più grande differenza vada vista nell’opposizione. 8 La scrittura di Svevo è sullo stesso piano ma, ponendosi nella prospettiva dell’espressione, declina la ripetizione come forma minima di negazione. 9 Essa va inoltre ad assumere qui anche il ruolo di assorbire la componente di trascendenza che prima aveva espresso lo iato ontologico fra gli enti. 10 Anche l’ironia di Svevo può essere collegata al fenomeno di reiterazione, perché la ripetizione appartiene allo humor e all’ironia ; essa è per sua natura trasgressione, eccezione, poiché esibisce sempre una singolarità contro i particolari sottomessi alla legge, un universale contro le generalità che fanno legge. 11  

Svevo ora procede verso una contesa con il reale attuata attraverso lo sfumarsi della contesa stessa. Del resto, in lui il discorso rimane al di qua di ogni consapevolezza concettuale, e la sua rimane una ripetizione ‘vestita’, elaborata attraverso un uso irriflesso delle forme retoriche. Ecco alcuni esempi del suo impiego di figure di ripetizione, trascelti da un corpus consistente :  

Anafora :  

assentí alla prima malsicura promessa, assentí riconoscente alla seconda e assentí anche al mio terzo proposito, sempre sorridendo. (La coscienza di Zeno, p. 824)

Epifora :  

Avevo perduto un momento favorevole e sapevo benissimo che certe donne ne hanno per una volta sola. A me sarebbe bastata quella sola volta. (La coscienza di Zeno, p. 904)

Epanadiplosi :  

Ella esitò. Evidentemente ella esitò. (Senilità, p. 445)

Anadiplosi :  

Io rimasi apparentemente lieto anche quando la malattia mi riprese intero. Lieto come se il mio dolore fosse stato sentito da me quale un solletico. (La coscienza di Zeno, p. 790)

Epanadiplosi e anadiplosi :  

Avevo presa e violentemente abbandonata per ben due volte una donna ed ero ritornato due volte a mia moglie per rinnegare anche lei per due volte. (La coscienza di Zeno, p. 861)

Polittoto :  

Quando si muore si ha ben altro da fare che di pensare alla morte. (La coscienza di Zeno, p. 678)

Epanortosi :  

Io sapevo, io credevo di sapere. (La coscienza di Zeno, p. 726)

Antimetabole :  

1   Italo Svevo, Vino generoso, in Idem, Racconti e scritti autobiografici, cit., p. 143. 2   Italo Svevo, Argo e il suo padrone, in Idem, Racconti e scritti autobiografici, cit., p. 106. 3   Italo Svevo, Le confessioni del vegliardo, in Idem, Romanzi e « continuazioni », cit., p. 1147. 4   Chaïm Perelman, Lucia Olbrechts-Tyteca, op. cit., p. 162. 5   Sempre Perelman e Olbrechts-Tyteca scrivono che « la negazione è una reazione ad una affermazione reale o virtuale di altri », (ivi, p. 163). 6   La tracciatura di questo sviluppo attraverso la disamina delle opere composte durante il « periodo di latenza » in Svevo, che va grosso modo dal 1898 al 1919, non può essere seguita nel presente saggio per motivi di spazio. Va detto comunque che l’apporto non può che essere limitato, in quanto il ruolo determinante per l’autore della forma « romanzo » riduce di molto quello della restante produzione narrativa.  















La parola aveva rilevato l’atto e l’atto la parola. (La coscienza di Zeno, p. 866)

7   Gabriel Tarde, L’opposition universelle. Essai d’une théorie des contraire, Paris, Alcan, 1897, p. 69. 8   Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione, trad. Giuseppe Guglielmi, Milano, Cortina, 1997, p. 46 (i edizione 1968). 9   Se per Svevo il rapporto fra differenza e ripetizione rimane esperito nelle sue implicazioni espressive, va ricordato che solo molti anni dopo il processo di significazione ad esso sotteso verrà messo in luce attraverso il concetto di différance di Jacques Derrida. 10   Si ricorda ancora Deleuze, quando scrive che « se la ripetizione è possibile essa inerisce al miracolo piuttosto che alla legge » (ivi, p. 9). 11   Ivi, p. 12.  



256

mauro caselli

Sillessi :  



Mio padre, a quell’ora, era piú vicino alla morte che a me. (La coscienza di Zeno, p. 667)

Polittoto e antitesi :  

Per la brutta fanciulla che m’amava, avevo tutto il disdegno che non ammettevo avesse per me la sua bella sorella, che io amavo. (La coscienza di Zeno, p. 724)

Da un punto di vista ontologico, l’attenzione di Svevo è ora più che mai rivolta al bordo, al limite. Attraverso un significato egli allude ad un altro, il che ha come effetto quello di indebolire entrambi. Conta il movimento, la considerazione di un passaggio, di una transazione qualitativa, e quindi la statuizione di quel luogo paradossale che è il confine. Il vuoto, la mancata transizione di senso, lascia il posto ad un’azione non oppositiva, ma piuttosto di temperamento. È questa la base su cui poggia la tonalità ironica di Svevo, molto presente nelle ultime opere. La quale può essere vista come un’eversione misurata, un movimento che prende la strada del nichilismo per attestarsi però alla decostruzione. Con il padroneggiamento della tonalità ironica la « doppiezza » di Svevo si trasforma in nicodemismo, in un rapporto paradossale con la propria opera, di distanziamento e al contempo di prossimità, distacco ed adesione, che consente di mantenere la tensione d’indecidibilità fra due posizioni. Evidentemente si tratta di una misura, e quindi di una valutazione quantitativa. In Svevo il cerchio del reale viene così a chiudersi proprio grazie al lavoro di scrittura, con l’avvento della letteraturizzazione.  



viii. Nell’ironia – si ricorda che in essa Gyorgy Lukács vede il principio formale del romanzo tout court – si può evidenziare come il linguaggio contenga già in sé una certa teatralità, una finzionalità scoperta atta a veicolare un senso intenzionalmente malcelato. 1 non potevo lasciare la città quando non ero ancora certo che nessuno sarebbe venuto a cercarmi. Quale sventura se fossero venuti e non m’avessero trovato ! (La coscienza di Zeno, p. 728)  

Del resto si tratta di un effetto, come è già stato detto, che viene ad esaltarsi nell’oralità, nella pronuntiatio, 2 che agisce a livello relazionale dell’implicito. 3 Anche questa è una caratteristica presente sin dai primi lavori in Svevo, che nel tempo viene ad assumere sempre più importanza :  

usciva non appena deposto il libro e dopo quell’ora passata con gl’idealisti tedeschi, gli sembrava che le cose lo salutassero. (Una vita, p. 71)

L’ironia nello scrittore triestino non si presenta mai nel suo aspetto classico, quello d’inversione semantica. Essa si assume piuttosto il compito di indicare una differenza dal senso proprio, più che un’opposizione ad esso. In questo si mostra nel suo carattere dialogico, in una semantizzazione che rimane nella parola stessa, come sottolineato da Marina Mizzau. 4 Ed 1   Alla luce di tutto ciò andrebbe indagato il motivo per il quale il teatro di Svevo non sia stato in grado di raggiungere il livello delle opere narrative. 2   Heinrich Lausberg, Elementi di retorica, trad. Lea Ritter Santini, Bologna, Il Mulino, 2001, p. 107 (i edizione 1949). Va detto che nel teatro di Svevo questo particolare uso della negazione è poco presente. 3   Luigi Anolli, Rita Ciceri, Maria Giaele Infantino, Stili della comunicazione ironica in funzione della variabilità indessicale, « Ricerche di psicologia », 3, 1999, pp. 97-122 : 97. 4   Marina Mizzau, L’ironia : la contraddizione consentita, Milano, Feltrinelli, 1984, p. 68. Sull’ironia da un punto di vista strettamente retorico si veda Heinrich Lausberg, op. cit., pp. 128-129 e pp. 237-240.  



è questa studiosa a dare una definizione del fenomeno che molto si avvicina al suo uso nello scrittore triestino :





L’ironia sopperisce alla finitezza qualitativa del repertorio di parole e frasi a nostra disposizione, alle restrizioni orizzontali della lingua, introducendo le variazioni verticali date dalla stratificazione delle intenzioni. 5

Va detto inoltre che in Svevo il rapporto fra i due termini, quello proprio e quello connotato, non è simmetrico, e il lavoro dello scrittore non si riduce ad una semplice contaminazione semantica. 6 Il senso di partenza conserva la sua canonicità, l’indicazione di un suo differenziarsi è certo manifestazione di una sorta di trascendenza immanente, ma anche più banalmente si pone come l’eco letterario della componente borghese di Svevo, affrancata da necessità materiali. Non va dimenticato, infatti, che il senso dell’altro diviene possibile quando la propria esistenza viene data per ovvia, in una sua statuizione indisturbata. Del resto, il dolore letterario è sempre un sentimento evocato. Il suo essere in Svevo sostanzialmente un effetto diminuito, attenuato, indebolisce un’altra caratteristica dell’ironia, la sua potenzialità illocutiva, mirando essa piuttosto ad attestare l’uomo in una « zona d’incertezza psicologica ». 7 Non ci sono significati assoluti, il senso certo si pone stabilmente per un tempo determinato, ma prima o poi rovina. Quella negative capability che John Keats aveva visto come caratteristica suprema in Shakespeare, l’essere in grado di vivere nel caos del reale senza farne una ragione, non è più una qualità elettiva per Svevo, ma destino. Accettare lo stato delle cose si pone in lui come sola cura per la malattia esistenziale : l’ironia, ogni altra operazione di distanziamento costituisce una presa d’aria, niente di più. Il processo d’accettazione del destino, il far proprio il sentimento dell’amor fati è ravvisabile nello stesso sviluppo intellettuale dello scrittore, in quella promessa d’umorismo presente nella sua ironia.  





ix. Queste considerazioni consentono di mettere in evidenza quanto l’opinione di Joyce, diventata canonica, di una fondamentale costanza nell’opera di Svevo, l’aver cioè lui scritto tre volte il medesimo romanzo, sia vera solo in parte. Se la forte coesione del tessuto testuale contrappunta ad una narrazione di fatti scarsamente incisi, se la ricorrenza di ben precise situazioni rende conto di una componente invariabile a livello macrostrutturale, il testo sveviano mostra altresì una linea di sviluppo sensibile, e anzi ripida e importante non solo per l’autore. In effetti, i poco più di vent’anni che separano la composizione di Senilità e de La coscienza di Zeno segnano una decisa trasformazione della narratività. La sostanziale differenza tra queste opere mostra una capacità di agire in profondità sull’intero orizzonte del lavoro letterario, dal livello lessicale fino all’architettura del testo. È proprio questo che ha consentito a Svevo sia di portare a compimento la struttura chiusa del romanzo ottocentesco, che d’inaugurare poi quello stile d’infrazione che caratterizzerà la gran parte della produzione letteraria del Novecento. 5

  Marina Mizzau, op. cit., p. 10.   A questo proposito va ricordato che l’ironia in quanto tropo non ha avuto una vita facile. Del resto, Lausberg (Heinrich Lausberg, op. cit., pp. 237-240), e prima di lui Pierre Fontanier, le conferisce uno statuto a parte per il suo risultare un effetto tonale polifonico, dovuto cioè all’impostazione di un intero enunciato. 7   Il termine è in Guido Almansi, Amica ironia, Milano, Garzanti, 1984, p. 22. Si tratta di un interessante saggio che evidenzia il carattere elusivo, l’impossibilità di proporre una tassonomia plausibile per l’ironia. 6

“L’ENCYCLOPÉDIE” DI ITALO SVEVO. SPERICOLATE INDAGINI SULLA BIBLIOTECA PERDUTA DELLO SCRITTORE TRIESTINO Riccardo Cepach

I

l 20 febbraio del 1945, nel corso dell’ultima ondata di bombardamenti alleati su Trieste una bomba incendiaria squarcia il tetto della villa Veneziani, ultima dimora di Italo Svevo, e devasta completamente l’edificio. 1 La villa sorge nella immediata prossimità della fabbrica Veneziani, il colorificio di proprietà dei suoceri in cui Svevo lavora per tutta la seconda metà della sua vita, nel distretto industriale di Chiarbola che i bombardieri colpiscono duramente (soprattutto in confronto alla relativa salvaguardia del centro cittadino, privo di obiettivi strategici). È l’ultimo colpo, sommamente triste perché arriva quasi al cessato pericolo, che la seconda guerra mondiale infligge alla famiglia di Svevo già orribilmente segnata dalla morte dei tre nipoti dello scrittore, Piero, Sergio e Paolo. Nulla di quanto è conservato nella villa sopravvive al rogo e gli scarsi oggetti e documenti che oggi costituiscono il nucleo del Museo Sveviano di Trieste sono fra le poche cose che la famiglia Veneziani-Svevo, rifugiatasi ad Arcade nel trevigiano, riesce a mettere in salvo. 2 La previdente azione della vedova, Livia, e della figlia Letizia ci ha conservato l’inestimabile patrimonio dei manoscritti letterari e dell’epistolario dello scrittore, oltre 200 fotografie e pochi, simbolici oggetti fra cui la preziosa penna d’oro. 3 Ma ben poco ha potuto per la salvaguardia della preziosa – e immaginabilmente vasta – biblioteca di Svevo : i volumi che ci sono stati tramandati sono una quarantina in tutto. 4 Provengono forse da quel nucleo di  

1   In quel medesimo torno di tempo Trieste subisce ancora due pesanti incursioni aeree : una poco prima, il 17, e una il giorno dopo, il 21, di quello stesso febbraio. Sono indirizzate anche queste prevalentemente alla zona industriale e al vicino quartiere di Servola e del passeggio di Sant’Andrea, che conduce alla villa. Un’immagine del bombardamento del 17, indicato in modo impreciso in didascalia come quello in cui viene colpita la villa, si può vedere nel volume Iconografia Sveviana, a cura di Letizia Svevo Fonda Savio, Bruno Maier, Pordenone, Studio Tesi, 1981, p. 132, in cui c’è anche un’immagine panoramica della villa e della fabbrica dei Veneziani (p. 73) ; sul bombardamento cfr. anche la testimonianza di Fulvio Anzellotti, La villa di Zeno, Pordenone, Tesi, 1991, in particolare le pp. 129-130, in cui si vede anche una fotografia dei ruderi della dimora dopo il rogo (p. 135). 2   Cfr. la testimonianza di Livia Veneziani Svevo, Vita di mio marito, Trieste, Lo Zibaldone, 1958, pp. 181-182 : « Sono rimaste intatte le sue opere. Sono rimasti i suoi inediti che io, travolta dalla bufera della persecuzione razziale, portai in salvo nell’agosto 1943 fuggendo da Trieste nel rifugio di Arcade, in provincia di Treviso. Erano con me Letizia e Sergio, e in un grande baule portavamo con noi, gelosamente custoditi, i manoscritti, le lettere, gli inediti, i libri e le traduzioni ». 3   Il celebre violino che era stato del fratello Elio e che ora fa mostra di sé al Museo Sveviano, citato spesso nelle lettere e protagonista della Coscienza di Zeno, all’epoca del bombardamento si trovava invece a New York, a casa della nipote Ortensia (detta Tenci), moglie di Otocaro Weiss, fratello dello psicanalista Edoardo. Glielo aveva donato lo stesso Svevo che, negli ultimi anni, non lo utilizzava più per i suoi sempiterni esercizi. Fra gli oggetti del museo che vengono dalla casa di Svevo, oltre a due portatovaglioli in argento, bisogna naturalmente ricordare anche il suo armadio-libreria, di cui mi occuperò in seguito. 4   Per la precisione sono i 41 i volumi attribuiti, nella collezione del Museo Sveviano, alla sezione sv i che individua, appunto, i libri appartenuti personalmente allo scrittore. A essi bisogna aggiungere la preziosa edizione dei Dubliners di James Joyce, London, Grant Richards, 1914, con la dedica « To Hector and Livia Schmitz / James Joyce / 25 June 1914 », volume che è stato invece inserito nella sezione sv iii a, che individua un piccolo nucleo di opere dello scrittore irlandese o relative a lui. D’altro lato nella sv i è compresa anche la pubblicazione (Blüthen und Ranken edler Dichtung, augewählt von A. v. Wyl, Nürnberg, Strefer, 1895) sulle cui pagine Svevo ha vergato il cosiddetto Diario per la fidanzata, il che ne fa un documento dalla duplice natura che forse sarebbe stato più opportunamente trattato come manoscritto ; così come  















Fig. 1.

libri trasferiti ad Arcade, secondo le parole già ricordate di Livia Veneziani, o forse da quelli messi al sicuro in un rifugio antiaereo ricavato sotto il colorificio, secondo la testimonianza di Letizia ripresa da Palmieri, 5 o da entrambi. Certo è che non costituiscono una significativa rappresentazione della biblioteca stessa perché gli eredi hanno privilegiato i volumi impreziositi da dediche e annotazioni manoscritte 6 a scapito degli altri. Intendiamoci : si è trattato di una scelta assolutamente opportuna e per certi versi dovuta, che ci ha trasmesso documenti che sono, per vari rispetti, di importanza capita 

vi si trova La novella del buon vecchio e della bella fanciulla stampato dall’editore milanese Morreale, che a rigore fra i libri appartenuti a Svevo non può proprio essere annoverato (uscì nel 1929, un anno dopo la morte dello scrittore). È chiaro che nella catalogazione del fondo librario si è preferito attribuire un valore anche alla collocazione originariamente data al materiale in casa degli eredi Svevo, preservandone l’ordine. 5   Cfr. Giovanni Palmieri, Schmitz, Svevo, Zeno. Storia di due “biblioteche”, Milano, Bompiani, 1994, p. 7, nota 1. 6   Di cui, a quanto pare, ci sono stati trasmessi praticamente tutti gli esemplari che erano conservati a casa di Letizia Fonda Savio, secondo quanto risulta dal confronto con l’inventario a schede dattiloscritte redatto dalla stessa Letizia o dal marito Antonio Fonda Savio, a sua volta entrato oggi a far parte del patrimonio del Museo. Con due sole eccezioni : il volume Cose e ombre di uno di Carlo Stuparich (Roma, Quaderni della voce, 1919) lì schedato come esemplare « con dedica autografa di Giani Stuparich », e Al vento dell’Adriatico di Giovanni Comisso (Torino, Ribet, 1928) « con dedica autografa », mai arrivati al museo.  









258

riccardo cepach

le. 1 E tuttavia è giocoforza osservare che, in una scala così ridotta che ogni titolo diventa importante, il privilegio assoluto conferito ai volumi con dedica ci permette di individuare con precisione alcune delle letture dell’ultimissimo Svevo, in particolare del ’27-’28 (tutte quelle relative ai contatti con uomini di lettere che in quegli anni aveva avviato), ma ci lascia completamente privi di indicazioni per quasi tutto ciò che riguarda gli anni precedenti e non ci permette di seguire le tracce dei percorsi di lettura personali dello scrittore che più di tutto ci interesserebbero. Lo studioso sveviano è quindi orfano di quella misteriosa biblioteca sulla quale soltanto avare occhiate gli è concesso di gettare, come quella che gli offre la memoria di Giacomo Debenedetti che ci racconta una sua visita a Villa Veneziani in compagnia di Saba :  

Il “buon vecchio” parlava di Parigi : il banchetto al Pen-Club, Crémieux, gli scrittori francesi e magari, con una punta di civetteria, le sue gaffes d’uomo non ancora avvezzo a trovarsi tra i letterati. Ecco : adesso aveva tutte le opere di Jules Romains – e additava i dorsi bianchi rossi e neri dei volumi “N.R.F.” nello scaffaletto in fondo alla stanza, allineati accanto a quello, “N.R.F.” anch’esso, del suo Zeno francese – ma a Parigi non le conosceva ancora e, alle cortesie del cher confrére, non aveva neppure potuto rispondere con una citazione. 2  



Uno sguardo di sfuggita che ricorda l’altro, ben più celebre e significativo – soprattutto perché riguarda le letture giovanili di Svevo, lo scaffale dei libri della sua formazione – che ci concede il fratello Elio nelle pagine del suo Diario in cui ci parla delle letture del suo talentuoso fratello durante il periodo del collegio di Segnitz :  

I classici tedeschi furono da lui tutti studiati e cercò di approfondirsi il più possibile in essi. Mi ricordo che coi suoi risparmi si fece una biblioteca. Ed ancora adesso veggo in quello scaffale, disposti in bell’ordine – l’unica cosa che sia in bell’ordine in stanza nostra – lo Schiller, il Hauff, il Korner, l’Heine ed altri. Manca però il Goethe. Lo aveva comperato, lo lesse, lo commentò e poi ne fece una lotteria fra gli scolari, e col ricavo di questa si comperò il Shakespeare, tradotto in tedesco. Quando ebbe questo libro in mano, rimase alzato tutta la notte e, sempre curvato su questo, passò molte notti insonni. 1   Basti pensare alle edizioni dei tre romanzi con le postille autografe in vista delle ri-edizioni, o alle altre rarissime prime edizioni di opere e critica (il numero ‘sveviano’ della rivista francese « Le Navire d’Argent » curato da Crémieux e Larbaud e una copia dell’Omaggio a Italo Svevo della rivista « Il Convegno » del 1929). Per non parlare dei libri che rappresentano pietre miliari della biografia dello scrittore (penso allo Shakespeare con la dedica autografa di Anna Herz, la contesa nipote di Samuel Spier, direttore del collegio bavarese di Segnitz frequentato dai giovani fratelli Schmitz, o all’edizione bilingue – inglese-tedesco – del manuale di corrispondenza commerciale, che ci rimanda alla lunga permanenza di Svevo allo scrittoio della filiale triestina della viennese Banca Union in veste di corrispondente con l’estero ; senza contare due volumi che riportano le dediche autografe di Svevo alla fidanzata e poi moglie Livia : le Opere varie di Alessandro Manzoni e Il Mistero del poeta di Antonio Fogazzaro, che testimoniano minuziosamente le tappe dell’avvicinamento dei futuri coniugi). Ma penso anche alle opere che mai avrebbero potuto essere ricondotte a lui coi soli strumenti della critica testuale (il manuale di psicologia intitolato Suggestion et autosuggestion, del terapeuta francese Charles Baudouin, la copia della traduzione italiana di Cuore di Tenebra di Conrad, i 4 volumi delle Opere di Felice Cavallotti), e naturalmente a tutti quei volumi con dedica che testimoniano delle numerose, importanti relazioni con letterati che Svevo intreccia negli ultimi anni della sua vita : opere di Bonaventura Tecchi, Cesare Vico Lodovici, Enrico Pea, Benjamin Crémieux, Carlo Linati, Ivan Goll, Jacques Spitz, Martin Maurice, Arturo Loria, Leo Ferrero, Giacomo Debenedetti e altri. Sui quarantuno volumi della sezione sv i, sui legami biografici di cui sono testimonianza e sulle loro implicazioni critiche sto preparando un saggio che spero di pubblicare a breve. 2   Giacomo Debenedetti, Lettera a Carocci intorno a “Svevo e Schmitz”, in Idem, Saggi, Milano, Mondadori, 1999, p. 452. Il particolare relativo a Romains è ricordato anche da Livia Veneziani in un passo della sua già ricordata biografia di Svevo (Vita di mio marito, cit. p. 144). L’omaggio, da parte di Debenedetti, di una copia di Amedeo ed altri racconti (Torino, Baretti, 1926) che è fra i libri di Svevo superstiti in grazia della dedica « A Italo Svevo, omaggio devotissimo di Giacomo Debenedetti, Settembre 1926 », è precedente alla visita qui descritta, che si ebbe nell’aprile del 1928. Della collezione delle opere di Romains appartenute a Svevo e del suo Zeno in edizione « Nouvelle Revue Française » non è rimasta traccia fra i libri superstiti.  





















Lo studiò a memoria, divenne pallido e la sua ciera divenne cattiva. Finito l’Amleto che sapeva a memoria, voleva continuare col Re Lear, ma, ahimè, venne all’orecchie del signor Spier questo fatto ed egli, senza apporvi i sigilli, sequestrò il volume. Ettore non lesse il Re Lear, ma pensò tanto all’Amleto che non dormì per molte notti consecutive, sempre pensando all’« Essere o non essere ». Io vedeva con dispiacere che esso s’affezionava tanto alla letteratura tedesca, tralasciando affatto la letteratura italiana : ed una sera gli dissi che dovrebbe leggere un po’ il Dante o Petrarca, che sono molto migliori dello Schiller e del Goethe. Mi rise in faccia. « Schiller è il più gran genio del mondo », mi rispose. 3  









Alla stessa stregua siamo grati anche ad altri fra i famigliari e gli amici di Svevo che ci offrono qua e là suggerimenti importanti, a partire dalla moglie Livia che ci ricorda la continua presenza nella libreria del marito dell’‘opera completa’ di Schopenhauer che egli teneva sempre a portata di mano, 4 dandoci testimonianza degli ‘amori letterari’ di Svevo, come li definisce, a partire da questo primo, mai tradito, fino a quell’ultimo, Kaf ka, su cui si riprometteva « di scrivere un saggio e un profilo ». 5 Ma naturalmente la più ricca messe di informazioni utili a ricostruire ‘l’enciclopedia’ delle letture sveviane, ci viene dagli scritti stessi di Svevo : dalle recensioni sull’‘Indipendente’ e dagli altri scritti giornalistici, dalle citazioni nell’epistolario, da quelle esplicite e implicite contenute negli scritti letterari, nelle commedie, negli appunti, negli scritti privati ecc. Un passo celebre del discusso Profilo autobiografico – al netto delle questioni autoriali che in questo caso hanno scarso peso e, oso dire, anche di quelle, più spinose ancora, dell’attendibilità delle testimonianze autobiografiche sveviane 6 – ci accompagna dentro la Biblioteca Civica di Trieste (dove, appunto, oggi trova posto il Museo Sveviano) e ci permette di sedere accanto a Ettore Schmitz, impiegato di banca col pallino della letteratura :  







La vita d’Italo Svevo alla Banca è descritta accuratamente in una parte del suo primo romanzo Una Vita. Quella parte è veramente autobiografica. Ed anche le due ore serali di ogni giorno passate alla Biblioteca Civica vi sono descritte. Si trattava finalmente di conquistarsi un po’ di cultura italiana. Per varii anni passò quelle ore con Machiavelli, Guicciardini e Boccaccio. Poi fu introdotto nei suoi studii un qualche ordine dalla conoscenza delle opere di Francesco De Sanctis. Ed intanto anche i contemporanei ebbero grande influenza su lui : il Carducci specialmente. Forse per l’influenza del Carducci – e se ne dichiarò amaramente pentito – non amò in quell’epoca, quando si sentiva abbastanza giovanile per apprendere ancora, il Manzoni. Ma anche la passione per il romanzo francese non gliene lasciò il tempo. Una Vita è certamente influenzato dai veristi francesi. Lesse molto Flaubert, Daudet e Zola, ma conobbe molto di Balzac e qualche cosa di Stendhal. Nelle sue letture disordinate si fermò lungamente al Renan. Però il suo autore preferito divenne presto lo Schopenhauer, e forse fu al grande filosofo che si deve il pseudonimo di Italo Svevo che per la prima volta apparve sulla copertina di Una vita. 7  

3   Elio Schmitz, Diario, Palermo, Sellerio, 1997, p. 97. Le indicazioni di Elio sono state riprese e approfondite dagli studiosi, anche dal punto di vista bibliografico ; cfr., ad esempio, John Gatt-Rutter che, a proposito dell’edizione tedesca di Shakespeare acquistata col sacrificio di Goethe, commenta : « senza dubbio la famosa edizione di Schlegel e Tieck » (Alias Italo Svevo. Vita di Ettore Schmitz, scrittore triestino, Siena, Nuova Immagine, 1991, p. 54). 4   Anche questa facilmente identificata dagli studiosi a partire dall’esplicito cenno contenuto nell’articolo Giordano Bruno giudicato da Arturo Schopenhauer (in Italo Svevo, Teatro e Saggi, Milano, Mondadori, 2004, p. 1025) che permette di individuarla come « la prima edizione delle Sämtliche Werke di Schopenhauer curate da Julius Frauenstädt ed edite a Lipsia fra il 1873 e il 1877 » (Giovanni Palmieri, Leopardi in Svevo. Risonanze e fonti, in “Quel libro senza uguali”. Le Operette morali e il Novecento italiano, a cura di Novella Bellucci, Andrea Cortellessa, Roma, Bulzoni, 2000, p. 44, n. 5). 5   Livia Veneziani Svevo, Vita di mio marito, cit., pp. 144-145. 6   La prima versione del testo era stata stesa dall’amico giornalista Giulio Cesari, ma Svevo l’aveva quasi completamente riscritta. Per tutte le questioni relative rimando alla ricca nota al testo dell’edizione mondadoriana dei Racconti e scritti autobiografici di Svevo, Milano, Mondadori, 2004. 7   Italo Svevo, Profilo Autobiografico, in Idem, Racconti e scritti autobiografici, cit., pp. 800-801. Approfondisce meglio la questione John Gatt-Rutter nel  











“ l’encyclopédie ” di italo svevo. spericolate indagini sulla biblioteca perduta dello scrittore 259 Questo richiamo a letture fatte fuori dall’ambito familiare, Insomma la biblioteca perduta di Svevo turba le notti degli lontano dalla libreria domestica, non può che portarci ad apsvevisti ed è per questo – per dare pubblica testimonianza di profondire la riflessione sulla ricostruzione della biblioteca tale turbamento e per aggiungere il mio modesto contributo dell’autore, a chiederci quale biblioteca si vorrebbe ricostruia questa ricerca – che ho pensato di comunicare qui il risultare : ci si occuperà di risuscitare ‘lo scaffale’ nella sua realtà stoto di una mia piccola indagine. Poca cosa, ne avverto subito, forse più interessante per il metodo che per i risultati ma, inrica così come era nello studio dello scrittore, con i libri che somma, pur sempre qualcosa. fisicamente vi erano conservati, oppure si andrà alla ricerca Nel Museo Sveviano, in cui passo buona parte del mio temuna nozione di biblioteca più ampia e più sfumata, più attenpo, fra gli oggetti che, dicevo, ci sono stati conservati dalla ta alle dinamiche di lettura che a quelle dell’approvvigionaprevidente cura della moglie e della figlia di Svevo, fa bella mento librario ? E in tale ultimo caso, quali devono essere i mostra di sé anche l’armadio-libreria che reca sul vetro delle confini della intuizione, della suggestione e del lavoro critico ante le iniziali intrecciate del proprietario. 4 Come tutte le cose vero e proprio ? Non ci si dovrà piuttosto limitare ai dati pienamente riscontrabili, alle informazioni certe riguardo opere che si hanno costantemente davanti agli occhi anche il mobile, ben identificabili, magari anche dal punto di vista editoriale ? che attira l’attenzione di ciascun visitatore, ha rischiato di finire per me in quella zona sub-liminale dell’attenzione in cui le E poi l’idea stessa di biblioteca d’autore va incontro ad aporie cose perdono di consistenza e di importanza. Eppure, quando e crisi definitorie quando ci si cominci a interrogare sull’aumi è capitato di interrogarmi su qualche mistero della bibliotore stesso di cui si vorrebbe conoscere la biblioteca : quateca perduta di Svevo, ho levato talvolta gli occhi a osservarlo le Svevo vogliamo conoscere in questo modo ? Quello che chiedendomi quali libri avesse mai contenuto in origine. 5 Finnei primi anni novanta dell’Ottocento lavorava al suo primo romanzo o quello che negli anni venti del secolo successivo ché, a un tratto, ho capito che forse si sarebbe potuta ricavare si chiedeva se fosse il caso di rivederlo per una nuova ediqualche informazione dall’unica testimonianza (materiale) zione ? Quello giovanissimo che sognava la sua futura gloria dell’epoca che ancora non avevamo interrogato. Esistono due ritratti fotografici, scattati verosimilmente a pochi istanti letteraria dai banchi di un collegio in uno sperso paesino di l’uno dall’altro, che mostrano Svevo di fronte al suo armadioBaviera o quello vegliardo che ricominciava a sognarla dallo libreria : sono istantanee del 1911 circa e ci mostrano lo scrittoscrittoio di una fabbrica di vernici in Anchor and Hope Lane, a Londra ? re seduto in poltrona con l’eterna sigaretta nella mano destra. La prima, in cui offre il profilo alla macchina fotografica, lo Questi dubbi sono ben presenti a chi si accinge a tali mesguardo perso nella lontananza, non fa purtroppo più parte ritorie intraprese come risulta chiaro, ad esempio, dal breve del patrimonio del Museo (risulta mancante a partire da una saggio di Natalia Vacante Una biblioteca perduta : i libri e la forverifica effettuata nell’anno 2000, smarrita o sottratta). 6 La semazione di Italo Svevo, 1 che si sforza di porre sul terreno tutte le questioni e le scelte preliminari emerse nella predispoconda invece, scattata dalla medesima angolazione e, come sizione di « uno specifico programma, impostato e in parte ho detto, a pochi istanti dalla precedente (ne fa fede anche la sigaretta, non ancora consumata del tutto), ce lo mostra col già avviato da un gruppo di ricerca dell’Università di Bari ». 2 volto girato a favore della camera ed è ancora in nostro posE naturalmente sono ben presenti a chi forse ha lavorato più sesso. Si tratta di un rettangolo di cartoncino molto sottile di di tutti sulla ‘biblioteca perduta’ in prospettiva ermeneutica 9 per 12 centimetri, in discrete condizioni di conservazione. 7 e cioè il Giovanni Palmieri del già ricordato Schmitz, Svevo, Zeno. Storia di due “biblioteche”, che non a caso virgoletta il suo Non è certo uno dei migliori ritratti di Svevo che vi figura oggetto di studio fin dal titolo e, a ogni buon conto, chiarisce con un’espressione un po’ instupidita e sorpresa ma – ciò che subito che « ‘Biblioteca’ però è una metafora, e il termine va conta – nel mobile alle sue spalle si intravedono alcuni dorsi di libri. Non sarebbe forse possibile, mi sono chiesto, ingrandire inteso nel senso borghesiano di un babelico labirinto epistel’immagine abbastanza da riuscire a leggerne i titoli ? mico che non coinvolge solo i libri materialmente posseduti da Svevo ; piuttosto, per noi, ‘biblioteca’ designa un insieme di Mi sono dato da fare : dopo un inutile tentativo con una conoscenze, documentabili testualmente, che possono anche lente di ingrandimento ho assunto la fotografia in formato risultare da letture fatte altrove o, più spesso, essere fonti di digitale con un buono scanner alla massima risoluzione posseconda mano. Si tratterà di specificare caso per caso ». 3 sibile (3600 dpi) e ho cominciato a esaminarne i dettagli. Ne è emersa subito una buona notizia, perché a questo livello di ingrandimento ci si rende facilmente conto che il fotografo – suo Alias Italo Svevo (cit., p. 72) che va a spulciare i registri storici delle consulprobabilmente non un professionista anche in considerazione tazioni e dei prestiti della Biblioteca Civica : « Fino al 1880 la Biblioteca Civica del fatto che l’immagine è stata scattata in casa di Svevo e non tiene un registro dei libri rilasciati in prestito, e troviamo sei prestiti fatti ad Ettore Schmitz, sempre di sera, meno l’ultimo, seguiti dalla sua firma che è in uno studio come la maggior parte dei ritratti compresi nel quasi uno sgorbio. A partire dal 15 novembre 1878 fino al 5 marzo successivo, fondo fotografico – ha messo a fuoco imperfettamente il sogprende in prestito quattro volte la Merceologia di un autore che una volta figetto e ha invece focalizzato nitidamente l’armadio alle sue gura come Führtal e un’altra come Vierthal. La prima volta è accompagnato spalle. I dorsi più promettenti sembravano essere quelli che da Elio che ritira la Storia di Trieste del Cavalli. Il 7 dicembre 1878 Ettore porta fuori un volume di Shakespeare, dal titolo a malapena decifrabile G. Werke si intravedono dietro al fianco destro dello scrittore (per chi  





































(Opere complete) curate dal Fink. Probabilmente non è in grado di leggere l’originale regalatogli da Anna Hertz ; è curioso però che gli preferisca una traduzione tedesca a una italiana. Nel marzo 1879, è in Biblioteca tre sere di seguito, il 3, 4, 5. Il 3, oltre alla solita Merceologia, segna sul registro il volume B-Bzo della Nuova Enciclopedia, e la sera successiva un tomo, identificato con elementare scorrettezza semplicemente Boccaccia. Poi la firma Schmitz sparisce per quasi un anno, per riapparire una sola volta, la mattina del 7 febbraio, 1880, per il prestito delle Storie del Giovio, che serviva forse per lo sfondo della commedia Ariosto governatore che Ettore andava scrivendo in quel mese ». 1   In Il canone e la biblioteca. Costruzioni e decostruzioni della tradizione letteraria italiana, a cura di Amedeo Quondam, Roma, Bulzoni, 2002, pp. 513-518. 2   Programma o progetto di ricerca che, mi si dice, ha subito battute di arresto ma è ancora vivo, tanto che si attende una sua ripresa a breve. 3   Giovanni Palmieri, Schmitz, Svevo, Zeno…, cit., p. 8. L’attenzione per il rebus bibliografico dei libri di Svevo è, a ogni modo, ben viva in Palmieri, come si è visto nel caso dell’edizione schopenhaueriana e come conferma questo altro passo del medesimo saggio su Leopardi in Svevo (p. 46) : « è tuttavia probabile che Svevo possedesse i seguenti volumi di Leopardi : Prose,  









scelte e annotate a uso delle scuole dal professor R. Fornaciari, Barbera, Firenze, 1882 ; I Canti, commentati da Alfredo Straccali, Biblioteca scolastica di classici italiani diretta da Giosue Carducci, Firenze, Sansoni, 1985 (2a ed. riveduta e corretta) ». 4   La ‘E’ e la ‘S’ di Ettore Schmitz, naturalmente, non la ‘I’ e la ‘S’ di Italo Svevo. 5   Ora, nel vetusto mobile, conserviamo oltre ai 41 volumi citati della sezione sv i e ad alcuni altri documenti di famiglia, l’imponente collezione dei cosiddetti ‘quadernacci’ : gli albi di grande formato in cui Livia prima e Letizia poi hanno diligentemente incollato tutti i ritagli di giornale, le pagine dei saggi e gli articoli di rivista riguardanti Svevo su cui sono riuscite a mettere le mani. Una inestimabile risorsa per i ricercatori. 6   Se ne può vedere tuttavia una riproduzione alla pagina 92 della citata raccolta Iconografia sveviana. 7   Corrisponde al numero di inventario 254880/168 e ha collocazione sv f 168.  





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riccardo cepach

guarda) : volumi di piccolo formato, probabilmente monografie. In gran parte sono celati nell’ombra dell’anta o nascosti dal monogramma stesso cui ho accennato, ma ne restano un paio in buona luce. Ho ingrandito ancora, riconosciuto alcune lettere, ma compitare un titolo completo restava impossibile. Quindi ho eseguito tutte le operazioni che un buon programma di elaborazione fotografica consente : ho agito sulla messa a fuoco, sul contrasto, sui colori, ho provato alterando la luminosità, ho separato i canali rosso giallo e blu e ho provato ad agire separatamente su ciascuno di essi, ho eliminato le informazioni sul colore per osservare l’immagine in una scala di grigi, ho provato con la negativa, indagato i gradienti, tentato ogni possibile via, opzionato ogni possibile opzione : niente. Allora ho provato ad isolare quel singolo particolare, scannerizzando nuovamente quella sola piccola porzione di immagine, sempre alla massima risoluzione possibile, e quindi ho riprovato ancora tutti gli espedienti appena descritti : niente. Il mistero resiste. La piccola stampa semplicemente non contiene quel dettaglio di immagine e non ci può quindi restituire l’informazione che non possiede. Mi sono rivolto allora ai volumi che si vedono sopra la testa di Svevo e dove la luce piena e il grande formato promettevano qualcosa di più. Anche qui ho dovuto scartare i libri degli scaffali posti più in alto, immersi nell’ombra, ma sui dorsi di quelli che attorniano il cranio lucido dello scrittore si possono facilmente leggere le lettere stampate in oro che formano il titolo La grande Encyclopédie, e su un volume alla destra dello scrittore (sempre per chi guarda), qualcosa in più : l’indicazione dei due lemmi, iniziale e conclusivo, del volume : « maomoisson », e il numero d’ordine : « 23 ». A quel punto non è stato difficile risalire alla pubblicazione di cui si trattava : 1 erano i 31 volumi de La grande Encyclopédie Larousse, stampata a Parigi fra il 1886 e il 1906 di cui, ho immediatamente appreso, conservavamo una copia da lungo tempo inutilizzata nei capaci depositi della Biblioteca Civica di Trieste : non mi restava che recuperarla e porla quindi al sicuro nell’armadio di Svevo, nell’esatta posizione della illustre sorella. Il risultato, l’ho detto subito, non è clamoroso e una punta di delusione per l’esito di questa eccitante – per me – invenzione investigativa, non tenterò di nasconderla. E tuttavia, mi sono detto, varrà forse la pena di fare qualche piccolo carotaggio in questa miniera di informazioni alfabeticamente ordinate che rappresenta una delle summe della cultura occidentale dell’epoca. In fondo, ho pensato, quando uno ha un enciclopedia in casa di tanto in tanto la consulta, per lo meno per una prima informazione. Così, per lo meno, fa Zeno nella Coscienza, quando il cognato Guido gli parla per la prima volta del morbo che affligge la sempre amata cognata Ada :  



























Il giorno appresso l’ostetrico, che curava Ada, domandò l’assistenza del dottor Paoli il quale subito pronunziò la parola ch’io non avevo saputo dire : Morbus Basedowii. Guido me lo raccontò descrivendomi con grande dottrina la malattia e compiangendo Ada che soffriva molto. Senz’alcuna malizia io penso che la sua compassione e la sua scienza non fossero grandi. Assumeva un aspetto accorato quando parlava della moglie, ma quando dettava delle lettere a Carmen manifestava tutta la gioia di vivere e insegnare ; credeva poi che colui che aveva dato il suo nome alla malattia fosse il Basedow ch’era stato l’amico di Goethe, mentre quando io studiai quella malattia in un’enciclopedia, m’accorsi subito che si trattava di un altro. 2  



« In un’enciclopedia » dice Zeno. Vado a controllare la Larousse ed eccoli lì, uno sopra l’altro, i due Basedow : il primo è Jean-Bernard (come lo chiama la Larousse che gallicizza il nome Johann Bernhard secondo l’uso del tempo), nato ad  





Amburgo nel 1724 e morto a Magdeburgo nel 1790, il pedagogo amico di Goethe con cui Guido si confonde, e il secondo Karl Adolph von Basedow (Dessau, 1799 – Merseburg, 1854), medico e scopritore del morbo eponimo. Il passo del romanzo, uno di quelli in cui i tre proprietari di ‘biblioteca’ Schmitz, Svevo e Zeno, secondo la suggestione di Palmieri, tendono a sovrapporsi,3 mostra che alla Larousse poteva essere affidato appunto un compito di prima informazione che poi, nel caso di un lettore veloce, onnivoro e curioso come Svevo, poteva venir integrato da più approfondite letture, come del resto fa ancora lo stesso Zeno che sviluppa il suo studio della ‘importante malattia’ di Basedow attraverso ‘varie monografie’ :  

Grande, importante malattia quella di Basedow ! Per me fu importantissimo di averla conosciuta. La studiai in varie monografie e credetti di scoprire appena allora il segreto essenziale del nostro organismo. Io credo che da molti come da me vi sieno dei periodi di tempo in cui certe idee occupino e ingombrino tutto il cervello chiudendolo a tutte le altre. Ma se anche alla collettività succede la stessa cosa ! Vive di Darwin dopo di essere vissuta di Robespierre e di Napoleone eppoi di Liebig o magari di Leopardi quando su tutto il cosmo non troneggi Bismark ! Ma di Basedow vissi sol io ! 4  







E se questa era davvero anche la prassi del romanziere Italo Svevo, come pare probabile, 5 non è escluso che spulciare l’anziana, polverosa Larousse quando si è alla ricerca di possibili fonti sveviane, soprattutto in campi in cui egli rimaneva più propriamente un dilettante, possa portare qualche risultato. Per parte mia ho fatto fin qui un solo sondaggio, ancora in quel campo medico di cui egli era massimamente appassionato e, appunto, dilettante in sommo grado. Nello stimolante studio di Giuseppe Langella La dolce malattia, 6 dedicato al chimerico diabete che Zeno, ipocondriacamente beato, attende di vedersi diagnosticato dal dottor Paoli dopo il suo abbandono della cura psicanalitica, il caso viene investigato con curiosità e dottrina. Langella indaga a fondo le fonti che Svevo poteva aver consultato per trarne le informazioni sulla malattia e in questo modo individua diversi riscontri sicuri. 7 Tuttavia è costretto ad arrendersi di fronte a certe incomprensibili asserzioni di Zeno : da dove può aver mai tratto – si chiede Langella – la notizia che il diabetico può mangiare e bere quanto vuole ? Tutta la letteratura medica dell’epoca – come quella odierna quanto a questo – non fa che suggerire al malato dieta e moderazione. 8 Ma qui, appunto, soccorre l’enciclopedia Larousse che alla voce diabète insiste molto sulla sete divorante – « sa soif est impérieuse ; sa bouche et sa langue sont toujours sèches, surtout la soir et la nuit »  









3   Sì, in questo caso c’entra anche l’industriale Ettore Schmitz che alla stregua dei suoi eteronimi Svevo e Zeno usa a buon diritto la loro stessa ‘enciclopedia’, magari per un controllo sull’esatto significato di un termine tecnico, l’importanza commerciale di un porto o le proprietà di un elemento chimico. Nella sua edizione della Coscienza di Zeno (Firenze, Giunti, 1994, pp. 299-300, n. 2), Palmieri suggerisce che l’enciclopedia di cui parla Zeno fosse la Nuova Enciclopedia Italiana Utet di proprietà del suocero Gioacchino Veneziani, ma la ‘scoperta’ della Larousse, io credo, fa di quest’ultima la maggiore indiziata. 4   Italo Svevo, La Coscienza di Zeno, cit., p. 597. 5   Del resto anche le già ricordate ricerche di Gatt-Rutter alla Biblioteca Civica di Trieste ci mostrano un giovane Svevo nell’atto di consultare un volume di una enciclopedia ‘universale’ (cfr. Alias Italo Svevo, cit. , p. 72). 6   La “dolce malattia”. Intorno a una pagina di Svevo, « Lettere italiane », xlvii, 2, 1995, pp. 271-289. 7   Cfr. a p. 276, dove identifica il Traité de médecine, celebre e tradotto anche in Italia, in cui Paul Le Gendre scrive il capitolo sulle ‘malattie della nutrizione’, come fonte circa le « turbe propriocettive e locomotorie » cui vanno incontro i diabetici e lo Charcot delle Leçons du mardi à la Salpêtriere come origine delle notizie sulla loro tendenza alla claudicazione intermittente. 8   « Se c’è insomma un permesso che ben difficilmente un malato di diabete si sarebbe sentito accordare dal proprio medico curante, è proprio quello su cui Zeno fa tanto assegnamento, di mangiare e bere a volontà. Arnaldo Cantani, autore di una delle diete più decantate ai temi di Svevo, non aveva esitato ad imporre “che il diabetico mangi piuttosto poco, in nessun caso mangi molto : la credenza che il diabetico debba mangiar molto per evitare il progressivo deperimento, è un insano pregiudizio” » (ivi, p. 285).  







1

  Ancor più facile per me che potevo ricorrere alla grande competenza ed esperienza della collega Orietta Deluca che mi ha messo sulla strada giusta con l’aria di dire un’assoluta ovvietà. A lei va quindi il mio ringraziamento. 2   Italo Svevo, La Coscienza di Zeno, in Idem, Romanzi e «continuazioni», Milano, Mondadori, 2004, p. 957.







“ l’encyclopédie ” di italo svevo. spericolate indagini sulla biblioteca perduta dello scrittore 261 – e sulla gran fame che affligge il diabetico : « il existe aussi une rano il 19 maggio del 1910 in cui mi sembra ci sia l’origine exagération du besoin de manger, polyphagie, conséquence des perdell’idea letteraria – quante idee letterarie e soluzioni narratites énormes en sucre, en urée et en sels. Elle n’est pas constante, mais ve Svevo sperimenta nel suo epistolario e, in particolare, nelle elle peut devenir de la boulimie qui, à la longue, fatigue l’estomac et lettere alla moglie ! – dell’interscambiabilita dei sintomi delle produit des troubles digestifs qui marquent le début de l’amaigrismalattie, ovvero della capacità di certe malattie di simularne sement ». E più avanti ritorna sul concetto sostenendo che nel altre e, in particolare, dell’ambiguo statuto dei sintomi del diabete cui facilmente si può attribuire un’origine nevrotica diabete i casi di dispepsia sono assai rari nonostante « l’enorme o che, come in questo caso, possono venir simulati dal più quantité d’aliments et de boissons ingérés ». 1 È pur vero che Zeno innocuo degli inconvenienti : dice di aver letto la descrizione della sua malattia « in un libro di medicina », ma è anche vero che non dice, come pensa LanMurano, 19.5.1910 gella, che al malato è permesso mangiare e bere ciò che vuoCarissima Livia, le e quanto vuole (e questo nessun manuale al mondo glielo [...] avrebbe detto) ma che « Il malato mangia e beve molto », 2 ciò Oggi sono stato molto male. Ero colto da una debolezza enorme, che, appunto, gli spiega senz’altro la sua fida Larousse. Che tale che pensavo addirittura di cessare il non grande lavoro che faccio. Per fortuna m’avvidi di sudare continuamente. Levai la maglia egli associasse strettamente e direttamente l’idea dell’abbone nel pomeriggio sto molto meglio. Ho dormito come un tasso e danza di cibo al diabete, del resto, lo si capisce anche da un mangiato una quantità enorme di cose. Non capivo la debolezza se divertente passo di una lettera alla moglie Livia scritta da Mu3  





















non pensando al diabete. Invece era la maglia.

1

  La grande Encyclopédie, cit., ad vocem.   Italo Svevo, La coscienza di Zeno, cit., p. 1063.

2

3

  Italo Svevo, Epistolario, Milano, Dall’Oglio, 1966, pp. 537-538.

UNO STORICISMO INTERMEDIO. TORRACA, CROCE E L’EREDITÀ DI DE SANCTIS Fabio Moliterni

L

’es emplarità di Francesco Torraca come oggetto di studio per una ricostruzione del panorama culturale tra fine Ottocento e primo Novecento risiede nella capacità di sollecitare o suggerire un supplemento di indagine su un’ampia serie di problemi che investono non solo la critica letteraria, ma più in generale il contesto storico-ideologico della cultura italiana post-unitaria. È un dato, storicamente determinato, che proviene dalla natura sostanzialmente ‘ancipite’ della sua posizione nel campo intellettuale, dal protagonismo di tipo ‘intermedio’ su cui si soffermava Giancarlo Mazzacurati nel definire il significato reale di questa esperienza – nelle diramazioni storiche che assume la collocazione di Torraca all’interno degli schieramenti intellettuali del periodo :  

Quale particolare atteggiamento critico, o personale o di scuola, può meglio qualificare la posizione di Francesco Torraca in quell’antitesi tra metodo storico e metodo estetico che nella prospettiva dei dibattiti critici appare ancora il più evidente contrassegno dei primi venti anni di secolo ? […] Nel suo interno, l’apparente anacronismo di tante posizioni intermedie non cesserà mai di sorprenderci, finché non ne sarà stata fatta o rifatta la storia […]. In esse l’interna componente desanctisiana agisce sempre, in maggiore o minor misura, come elemento moderatore ; […] come consapevolezza di una storica validità e vitalità di quei modi di ricerca che in essa erano confluiti. Su di un piano oggettivo di tradizioni, questa consapevolezza consentì la sopravvivenza, forse in alcuni decenni un po’ umbratile, di un ricco patrimonio di cultura e di metodo che altrimenti sarebbe andato disperso nella reazione idealistica. 1  



Stretto o diviso tra le influenze del positivismo e la necessità di una inevitabile verifica dell’eredità di De Sanctis (la « seconda scuola »), coinvolto in pieno dalla crisi della funzione intellettuale e dalla dispersione metodologica a cavallo dei due secoli (tra « critica storica » e « critica estetica », burocratizzazione o degradazione funzionariale del lavoro intellettuale) ; 2 osservatore e testimone passivo della strategia di penetrazione del ‘sistema’ crociano nella cultura italiana di primo Novecento, ma anche protagonista delle tendenze passatiste all’insegna di un nazionalismo culturale pronto a dialogare organicamente con gli apparati politici e istituzionali fiorenti nell’età giolittiana fino ai primi anni del fascismo (scuola, Università, Accademie), 3 il profilo di Torraca si presta a incarnare le co 













1   Giancarlo Mazzacurati, La critica del Torraca e la « seconda scuola » del De Sanctis, in Letteratura italiana. I critici, ii, diretta da Gianni Marzorati, Milano, Marzorati, 1969, pp. 1066-1067, 1072-1073. Per un profilo complessivo dell’attività intellettuale di Torraca si rimanda, tra gli altri riferimenti possibili, al contributo di Marcello Aurigemma incluso nella stessa collana della Marzorati dedicata ai critici, Francesco Torraca, ivi, pp. 1047-1066 ; e alla monografia di Nicola D’Antuono, Francesco Torraca, Salerno, Edisud, 1989 (in particolare la bibliografia ivi contenuta, pp. 159-179). 2   « Nella crisi del ceto intellettuale già tendenzialmente burocratizzato nella scuola di Stato e nelle altre pubbliche istituzioni […] passava una nuova articolazione del sapere […], in una società fortemente condizionata dal passato, tuttavia disposta ad organizzare una resistenza più attiva e […] elitaria alle minacce di un presente mediocremente appiattito sulle “illusioni” del materialismo e della democrazia », Arcangelo Leone de Castris, Estetica e politica. Croce e Gramsci, Milano, Franco Angeli, 1989, pp. 35, 40. 3   « L’interventismo come aveva accomunato militanti e accademici […] così aveva anche preparato e consacrato l’avvento di una linea egemone, quella politico-nazionalista, che, in nome e sotto la veste della difesa e del completamento della nostra unità, emerge chiaramente anche e soprattutto all’interno della compagine universitaria in modo ufficiale e programmatico », Francesco Mattesini, La cultura accademica : le facoltà letterarie tra critica, poesia e società (1900-1915), in Cultura e società in Italia nel primo Novecento (1900-1915), Atti del secondo Convegno Letteratura e cultura dell’Italia unita, Milano, Vita e Pensiero, 1984, p. 349.  















ordinate principali di quella complessa fase storica e culturale che accompagna lo sviluppo tortuoso della società unitaria, insieme alle vicende del ceto intellettuale durante la lunga crisi dello Stato post-risorgimentale. Si presenta la necessità di adottare una disponibilità metodologica indispensabile per restituire uno spaccato preciso della storia degli intellettuali italiani che va ben oltre il piano ideologico dello scontro tra schieramenti e metodi nel campo dell’attività critico-letteraria, e riguarda invece la storia delle idee (l’egemonia, il « trapasso » e il declino dei sistemi di pensiero, tra idealismo, positivismo e crocianesimo ; le vicende della capillare « intersezione » dello storicismo crociano nella cultura italiana) ; 4 la storia dei generi e delle forme – l’analisi dei modelli retorici che permeano la scrittura critica e l’impegno saggistico del tempo ; e più in generale la storia sociale della cultura in età liberale, all’indomani dell’Unità fino alle emergenze primo-novecentesche della società di massa. Voglio dire che, per tentare di seguire o di mappare l’arco eterogeneo e ‘spurio’ nel quale si distende l’attività di Torraca e degli altri gruppi intellettuali a partire dalla fine dell’Ottocento – nel settore specifico del lavoro critico e più in generale nel campo della riflessione estetica –, sarà vitale il ricorso strategico a una pluralità di fonti capaci di documentare una dinamica assai mobile e flessibile di scambi tra le generazioni, tra i gruppi intellettuali, tra la cultura accademica e la critica militante ; i contatti e i rapporti di forza tra i centri e le istituzioni culturali della nazione (Università, editoria accademica e manualistica scolastica, riviste e collane, Istituti e Società di Storia Patria, eccetera). È lo sfondo ricchissimo e ad ampio raggio che, non per caso, occupa gli studi ormai classici sulla cultura letteraria post-unitaria : dalle campionature di Lucchini e Bigazzi (e Melis) sulla scuola storica e la letteratura verista, alle ricognizioni organiche di Dionisotti e Garin, dai sondaggi di Giammattei e Mangoni fino alle sistemazioni di Asor Rosa, nella linea tracciata da Luigi Russo (per quanto attiene alla cultura meridionale post-desanctisiana) e naturalmente a partire dall’‘enciclopedismo’ di Benedetto Croce. Si tratta di una gamma diversificata e vastissima di approcci e letture ricostruttive che tuttavia sono accomunate, mi pare, dall’esigenza di squadernare di volta in volta un largo ventaglio di strumenti e fonti di indagine, per disegnare i contorni di una fase culturale ‘sincretistica’ e comunque frastagliata – dai carteggi alle prolusioni accademiche, dalla produzione saggistica alla pubblicistica del settore –, tra ritrovamenti di inediti e scandagli interminabili negli archivi o nelle pagine delle riviste del periodo. Nel caso di Torraca, accanto a una bibliografia critica discontinua, diseguale ma corposa, alle pubblicazioni disponibili e ad alcune recenti ristampe di opere o commenti, 5 si potrebbe tentare il recupero di un saggio piuttosto trascurato in sede critica, che pare assumere uno spazio significativo proprio nell’orizzonte di quella laboriosa esigenza di riposizionamento che coinvolge lungo gli ultimi decenni dell’Ottocento l’intellettualità italiana, orfana nel campo dell’attività critica del magistero di De Sanctis e rivolta a un confronto dialettico  

















4   Cfr. Emma Giammattei, Retorica e idealismo. Croce nel primo Novecento, Bologna, Il Mulino, 1987. 5   Cfr. ad esempio Francesco Torraca, Commento alla Divina Commedia, a cura di Valerio Marucci, Roma, Salerno editrice, 2009.

uno storicismo intermedio. torraca, croce e l ’ eredità di de sanctis 263 con le forme del pensiero positivista (e con le prime sortite teorico-programmatiche del giovane Croce). Mi riferisco allo 1. L’eredità di De Sanctis scritto intitolato Arte, Storia e metodo storico che Torraca sceL’analisi dell’eredità culturale del passato, secondo il Gramsci glie di stampare nel corso del 1896 su « L’Opinione liberale ». 1 dei Quaderni, impegnato in una rilettura complessiva delle vi2 Come è stato ricostruito a partire dal carteggio con Croce, cende nazionali dalla formazione alla crisi dello Stato liberale, l’intervento funge da risposta pubblica – con i toni sostenuti è il banco di prova per sondare il campo oggettivo e dinamico che vorrebbero segnare le distanze tra il più anziano « maedei rapporti di forza nella storia sociale e culturale dell’Italia stro » e il giovane critico – alla memoria crociana del 1893, Il post-risorgimentale : concetto di Storia nelle sue relazioni col concetto dell’Arte. Si tratta, come è noto, di uno dei primi interventi deputati a corrodere “La critica del De Sanctis”, dirà il teorico della filosofia della prassi, “è la critica di un periodo di lotte culturali, di contrasti tra concezioi presupposti teorici e la tenuta del metodo storico, in funni antagonistiche della vita […]. Nel Croce vivono gli stessi motivi zione anti-positivista e come preludio alle sistemazioni succulturali che nel De Sanctis, ma nel periodo della loro espansione e cessive che porteranno, dopo l’opuscolo del 1896 su La critica del loro trionfo ; continua la lotta, ma per un raffinamento della culletteraria. Questioni teoriche, all’edificazione dell’Estetica. tura (di una certa cultura), non per il suo diritto di vivere ; la passione Torraca dà conto degli esordi eruditi del giovanile impegno e il fervore romantico si sono composti nella serenità superiore e crociano, per poi soffermarsi sul significato di quel ‘volumetnell’indulgenza piena di bonomia…”. 6 to’ : « Un dubbio mi nasce : metteva conto di spender tanta fatiGramsci intuisce come le trasformazioni che investivano il sica in dispute di questa specie ? A tanta dottrina, a tanto lavoro stema culturale e la stessa organizzazione sociale dello Stato mentale, corrisponde il risultato, che si riduce, in sostanza, unitario – transizione dagli ideali progressisti alle logiche para una definizione ? ». Collegandosi alla fase « eroica » e al rimlamentari e trasformistiche della ‘nuova’ borghesia post-risorpianto per la seconda scuola desanctisiana, l’autore riduce la gimentale, prove di imperialismo e repressioni sociali, mitoportata dell’intervento di Croce a una replica sterile di quelogie nazionaliste, trionfo e crisi della scuola storica, capillare stioni già risolte e dibattute durante quel « pasto intellettuale penetrazione del nuovo idealismo crociano e reazione antiavidamente, eppure metodicamente introdotto al nostro cerpositivista –, fossero da intendere nel quadro del progressivo vello ; le questioni, intorno a cui tanto si affatica il Croce, noi impoverimento che la ricezione e l’eredità della lezione dele avevamo bell’e risolute. […] Che, dunque, la Storia, possa e sanctsiana (l’ethos che essa incarnava) subivano nella cultura debba essere rappresentazione e per ciò Arte, […] noi Italiani, italiana e nel ‘senso comune’ lungo gli ultimi decenni dell’Otnoi Napoletani sapevamo da gran tempo ». L’autocitazione tocento. 7 Era un’aporia già presente nella produzione finale da un suo articolo del 1875 vale come giudizio senza appello 3 di De Sanctis, impegnato sì nell’ultima battaglia di carattere sulle presunte novità introdotte dalla proposta crociana. La pedagogico-civile sul fronte del dibattito intorno al realismo problematica del rapporto tra arte e storia veniva già data per e alle nuove istanze del materialismo positivista, 8 ma con una definita lungo il lavoro ‘alacre’ che, in una continuità embletensione sempre più turbata e irrisolta, priva di proiezione o matica, stringe insieme per Torraca il modello di De Sanctis di spinta verso il futuro, invischiata nelle « incertezze e [ne]lle (l’esempio di Vico, il peculiare storicismo di derivazione roambiguità del tempo presente » : mantica e risorgimentale che aveva permeato l’humus della cultura meridionale del secondo Ottocento) alle più recenti Non una storia che raccoglie monumenti, […] ma una storia in cui teorizzazioni di area positivista (Spencer) : il progresso, da una parte, è possibile, iscritto nel nostro passato e  











































Che Benedetto Croce, intelligenza aperta, viva, colta tratti Herbert Spencer, una delle più forti menti del secolo nostro, peggio di come quei suoi Lazarus e quei suoi Droysen trattano Giambattista Vico, io, davvero, non so comprendere. Il Vico divinava le verità ; lo Spencer alle verità arriva dopo lungo studio ; personificano e quasi non dissi simboleggiano piuttosto che due epoche, due modi diversi d’intendere e di trattare la scienza, modi entrambi degni di rispetto ; ma il secondo praticamente più sicuro e più efficace del primo. 4  





Compaiono, forse per la prima volta in misura così vistosa, l’eclettismo ‘conciliativo’ e l’ibridismo teorico-metodologico che sembrano costitutivi dell’identità intellettuale di Torraca5. È un dato che andrebbe correttamente inquadrato nel contesto più ampio delle traiettorie culturali del suo tempo, ovvero in un’ottica di negoziazioni e influenze reciproche (sincretistiche) tra metodi critici, scuole e sistemi di pensiero. Il terreno sul quale si misura quella tensione comune al riposizionamento e all’autoidentificazione intellettuale è costituito in prima istanza dalla verifica dell’eredità di De Sanctis.

moralmente obbligante, dall’altra parte, è problematico, minacciato da pericoli di ricaduta nei vecchi mali, sempre sul punto di svuotarsi, di divenire insostanziale, di trasformarsi in apparenza. 9

Dentro un complesso sistema di spinte e controspinte, anche di carattere generazionale, che agivano nel settore dell’attività critica (nei nessi strutturali tra produzione saggistica, impegno critico-erudito e apparati dell’educazione nazionale, centri e istituzioni culturali, Università e formazione), 10 a emergere è una dinamica articolata e assai mobile che coinvolge i gruppi intellettuali del periodo, divisi tra cenacoli, singole individualità e scuole più o meno coese. Sull’eredità 6   Antonio Gramsci, cit. in Sergio Landucci, Cultura e ideologia in Francesco De Sanctis, Milano, Feltrinelli, 1964, pp. 20-21. Di Gramsci si dovrebbero compulsare le pagine del Quaderno 12 (xxix), Appunti e note sparse per un gruppo di saggi sulla storia degli intellettuali (1932) ; e Quaderno 10 (xxxiii), La filosofia di Benedetto Croce (1932-1935), in Idem, Quaderni del carcere, a cura di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi, 1975. 7   Cfr. Arcangelo Leone de Castris, Estetica e politica. Croce e Gramsci, cit., pp. 109-111 passim. 8   « Gli anni fiorentini di De Sanctis non possono quindi ridursi ad un orientamento verso il positivismo come filologia o ad una crisi metodologica […] superata col capolavoro della Storia ; proprio la Storia conferma invece che la crisi consegue ad una rinnovata visione del mondo la quale nella filosofia positiva ha trovato già a buon punto la strategia adatta alla sua urgenza d’azione, tutt’altro che limitata alla tattica critica » ; vedi Roberto Bigazzi, I colori del vero. Vent’anni di narrativa : 1860-1880, Pisa, Nistri-Lischi, 1969, p. 113. 9   Guido Guglielmi, L’ultima pagina della Storia della letteratura italiana del De Sanctis, in Idem, La parola del testo. Letteratura come storia, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 61. 10   Cfr. Mario Berengo, Intellettuali e centri di cultura nell’Ottocento italiano, « Rivista storica italiana », lxxxvii, 1, 1975 ; Marino Raicich, Scuola cultura e politica da De Sanctis a Gentile, Pisa, Nistri-Lischi, 1981, fino a Franco Cambi, Cultura e pedagogia nell’Italia liberale (1860-1921). Dal positivismo al nazionalismo, Milano, Unicopli, 2010.  



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  Il contributo esce in due puntate, « L’Opinione liberale », xlix, 24, 1896 e 25, 1896. 2   Cfr. Carteggio fra Benedetto Croce e Francesco Torraca, a cura di Ettore Guerriero, Galatina, Congedo, 1979 (in particolare la lettera di Croce datata « [Napoli], 25 gennaio 1896 » : « Vi accennerò brevemente che cosa io abbia da opporre a quel che voi dite  : 1º) mi pare che voi non assegniate la conveniente importanza alle quistioni filosofiche… », pp. 63-64). 3   Cfr. la ricostruzione di Ettore Guerriero, Introduzione a Carteggio fra Benedetto Croce e Francesco Torraca, cit., p. 17. 4   Francesco Torraca, Arte, Storia e metodo storico, « L’Opinione liberale », xlix, 24, 1896. 5   Di « ibridismo critico » riferito a Torraca parla, tra gli altri, Gianfranco Contini, Memoria di Alfredo Schiaffini, ora in Idem, Ultimi esercizî ed elzeviri (1968-1987), Torino, Einaudi, 1988, p. 376.  





































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fabio moliterni

del ‘discorso’ di De Sanctis – sul terreno di una contesa per assimilarne il portato ideologico, per custodirne la ‘tradizione’ ovvero per rinnovarne il senso ideale e gli orientamenti metodologici – si misuravano i rapporti di forza tra il metodo storico e gli esponenti della seconda scuola desanctisiana, come Torraca ; tra i gruppi intellettuali legati al clima culturale del positivismo italiano, il resistente modello di Carducci e le premesse dell’Estetica (del progetto teorico) che Croce andava istituendo nello stesso arco di tempo. In un quadro volubile e in continua evoluzione, che vede avvicendarsi, nel giro di qualche decennio, i condizionamenti egemonici del modello culturale carducciano, il massimo punto di espansione della scuola storica (l’inaugurazione del « Giornale Storico » è del 1883) e insieme il suo arretramento sotto i colpi della militanza ‘strategica’ di Croce, restava sostanzialmente inevaso il nodo culturale e storico della lezione di De Sanctis. 1 Molto è stato detto sulle ragioni di quel processo di « mutilazione » con il quale si riduceva il complesso impianto del pensiero desanctisiano a una mera « lettura metodologica ». 2 La mancata storicizzazione del modello si dà prevalentemente nell’orizzonte di una « conservazione passiva », protesa alla perpetuazione dogmatica o alla tutela di una « classicità tipizzata ». E coinvolge non tanto il disegno egemonico che Croce sta avviando per penetrare nel sistema culturale nazionale, e segnatamente nel campo degli studi storici e letterari 3 – lasciando alla cultura accademica il privilegio ‘separato’ e subalterno dell’arroccamento in difesa di antichi valori, privandola di reale e capillare egemonia. Ma interessa in primo luogo l’area disomogenea dei gruppi intellettuali che restavano legati alla tradizione di De Sanctis secondo una dialettica aperta di ammodernamento e conservazione, ne avevano innestato procedimenti e tensioni ideali in una lettura parziale e compromessa con le istanze del positivismo, anch’esso svuotato di un approfondimento organico a livello teorico (il « positivismo come filologia »). 4 La « congiura del silenzio » che circonda la ricezione del modello-De Sanctis nell’ultimo scorcio del secolo, stante le interpretazioni che da Contini (Russo) e Dionisotti arrivano a Landucci e Lucchini, 5 va riletta all’altezza di una crisi che non è soltanto metodologica, ma è « storica » e culturale tout court, e attraversa lo scenario italiano ed europeo nel tempo dell’incipiente società di massa. 6 Il senso di stallo e il disagio che operano nel campo « filoso 



































ficamente disarmat[o] » della scuola storica, e riguardano soprattutto gli allievi di De Sanctis, come Torraca, è un risvolto significativo di questa formidabile crisi di identità che coinvolge la coscienza intellettuale tra i due secoli. 7 È un processo difensivo di rimozione, all’insegna della damnatio memoriae o della salvaguardia sterile, improduttiva, di un modello ideologico e culturale ormai inservibile per il presente, dentro un panorama frastagliato di contatti e scambi, mediazioni e compromessi che va inteso come il segno più visibile di una fase di impasse dell’attività critico-erudita. E si riflette, a livello retorico e testuale, nel diffuso eclettismo e nella sostanziale separazione dei momenti critici, tra una iper-tecnicizzazione empirica o esasperata degli accertamenti filologici, l’innesto di letture impressionistiche e l’applicazione esteriore di uno storicismo ridotto ai minimi termini, senza possibilità di sintesi armoniche (tra « critica storica » e « analisi estetica »). 8 Su questo sfondo, mentre Croce reagisce alla crisi o all’« assenza di filosofia » (al clima asfittico del lavoro intellettuale nel tempo finale del suo lungo apprendistato) proprio con il « risveglio della filosofia » e dell’estetica, e cioè con l’edificazione graduale e capillare del suo progetto teorico-pedagogico a largo raggio, al di là degli schieramenti e fuori dalla « media culturale vigente » ; 9 Torraca consumava il congedo dal tempo storico e culturale che aveva alle spalle – i « pasti » e la palestra intellettuale spesa tra Settembrini e De Sanctis – in un’operazione sostanzialmente illusoria e perdente, tentando di neutralizzare la coscienza di quella crisi, che investiva il campo del lavoro critico, nell’ipotesi (nel « desideratum ») di una fusione non verificata, conciliativa ed ecumenica tra metodi e tradizioni culturali difformi. È la proposta che emerge dalle due prolusioni tenute a distanza di anni per celebrare la memoria desanctisiana, entrambe pubblicate in volume nel 1910. 10 Tra ricordi e riepiloghi autobiografici, in una geografia letteraria via via più paludata che spazia da Firenze a Napoli, da Bologna a Torino, affiora una galleria di esperienze diversificate che secondo Torraca si pongono in palese continuità con il « verbo » di De Sanctis, in un arco eclettico e indifferenziato che comprende la « duttilità » metodologica di Zumbini e Carducci insieme all’« alacrità muratoriana » di D’Ancona, gli interpreti della « propaganda scientifica » di stampo positivista e gli allievi della seconda scuola; il « tipo di novissimi critici » che include Monaci e Ascoli, Bartoli e Comparetti, D’Ovidio e Parodi, ma anche Capuana e Croce : « Forse nessuno ha così ben compreso il De  



  « Resta che, per l’anzidetta dissociazione dalla filosofia e dalla scienza, la scuola storica non fu incline ad affrontare questioni di metodo nel periodo del suo pieno sviluppo : ad affrontarla fu costretta da ultimo, senza successo, di fronte alla scuola promossa da Benedetto Croce » : Carlo Dionisotti, Scuola storica, in Dizionario critico della Letteratura italiana, iv, diretto da Vittore Branca, Torino, utet, 1986², p. 139. Ma su questo punto si rimanda naturalmente agli scritti di Benedetto Croce, da Francesco De Sanctis e i suoi critici recenti (1898) a La critica erudita della letteratura e i suoi avversari (1911) a La fortuna del De Sanctis (in Idem, Una famiglia di patrioti ed altri saggi storici e critici, Bari, Laterza, 1949³, pp. 301-302 sgg.) ; e di Luigi Russo, La critica letteraria contemporanea, i, Dal Carducci al Croce, Firenze, Sansoni, 1977 ; Domenico Consoli, La scuola storica, Brescia, La Scuola, 1979. 2   Cfr. Sergio Landucci, Cultura e ideologia in Francesco De Sanctis, cit., pp. 22-23. 3   Sull’« attività desanctisiana » di Croce : « la complessità e la “tipicità” di quel processo di impoverimento […] discendono dalla circostanza che tale fenomeno riguarda in generale tutta la nostra cultura nazionale […]. Ma […] negli scritti dedicati dal Croce a De Sanctis è indubbia una macroscopica sproporzione tra l’interesse per le sue riflessioni estetiche […] e l’interesse, decisamente marginale, per il suo pensiero etico-politico », ivi, p. 12. 4   Si leggano i rilievi di Carlo Dionisotti sulla « prevalenza » negli esponenti della scuola storica di un « massicci[o] » filologismo estrinseco e dogmatico « piuttosto che di un’esigente filologia », al di là della « norma igienica dell’erudizione » come eredità virtuosa del « metodo » poi ripresa organicamente da Croce (Scuola storica, cit., p. 148). 5   Cfr. Guido Lucchini, Metodo storico e critica estetica : la scuola storica e De Sanctis, in Idem, Le origini della scuola storica. Storia letteraria e filologia in Italia (1866-1883), Pisa, ets, 2008, pp. 7-42. 6   È l’ottica che sostiene l’analisi di derivazione gramsciana di Arcangelo Leone de Castris, Estetica e politica. Croce e Gramsci, cit., p. 11 sgg.

















































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7   « Alla denuncia del Croce, che inizialmente si era appuntata proprio sulla critica letteraria […] e sulla rivalutazione del De Sanctis, la Scuola storica, filosoficamente disarmata, incurante delle questioni metodologiche, ultimamente afflitta dal suo isolamento nella società e letteratura contemporanea, non poté né volle reagire risolutamente, puntando i piedi sul terreno », Carlo Dionisotti, Scuola storica, cit., p. 148. 8   Cfr. Giancarlo Mazzacurati, La critica del Torraca e la « seconda scuola » del De Sanctis, cit., pp. 1073-1077 : « Mentre […] sul piano teorico, avevano sempre consapevolmente mirato ad una sintesi di esperienze, nell’applicazione pratica questa sintesi si trasformava piuttosto in una moltiplicazione pratica e in una separazione di momenti critici » (p. 1074). 9   Cfr. Gianfranco Contini, La parte di Benedetto Croce nella cultura italiana, Torino, Einaudi, 1989², pp. 3-4 sgg. Per i rapporti tra Croce e Torraca si rinvia al Carteggio fra Benedetto Croce e Francesco Torraca, a cura di Ettore Guerriero, cit. (cfr. la testimonianza di Mario Sansone, Il carteggio Croce-Torraca, « Rivista di studi crociani », xvii, 2, 1980, ora in Idem, Saggi di ermeneutica crociana, a cura di Vitilio Masiello, Bari, Adriatica, 2002, pp. 347-367). 10   Francesco Torraca, Per Francesco De Sanctis, Napoli, Perrella, 1910. Il volume riunisce un discorso commemorativo del 1883 (già edito in Saggi e rassegne, Livorno, Vigo, 1885, pp. 382-394), insieme al contributo intitolato Francesco De Sanctis e la sua seconda scuola, come « Prolusione al corso di Letteratura comparata, detta nella R. Università di Napoli il 3 dicembre 1902 », in rivista nella « Settimana. Rassegna di lettere arti e scienze », diretta da Matilde Serao, i, 33, 7 dicembre 1902, pp. 401-416 ; ora anche in Francesco De Sanctis, La giovinezza (Memorie postume seguite da testimonianze biografiche di amici e discepoli) (Opere, i), a cura di Gennaro Savarese, Torino, Einaudi, 1972, pp. 460-472. Si cita per comodità dall’antologia di Aldo Borlenghi, La critica letteraria postdesanctisiana, Milano, Cisalpino Goliardica, 1972.  



























uno storicismo intermedio. torraca, croce e l ’ eredità di de sanctis 265 Sanctis come Benedetto Croce che – felix culpa ! – era troppo « bozzetti, [le] novelle e [i] romanzi » della giovane narrativa giovane per poter essere nostro condiscepolo ». 1 verista 4 – viene stemperata e corretta dall’adesione espressa nei confronti di modelli narrativi più tradizionali come il reEra una posizione di terza forza, moderata e conciliativa ; alismo inglese (Dickens) e dall’attenzione partecipe prestata occultava i conflitti storico-ideologici e livellava le dinamiche all’opera di Fogazzaro. 5 generazionali, mascherava le divergenze metodologiche oscillando tra mediazioni e distinguo, auspici e rettifiche : « Codesta « Conciliazione » e « compimento », « fusione » e « accordo » analisi estetica s’immaginano alcuni sia nemica mortale della sono del resto tra i concetti più ossessivamente ricorrenti critica storica : invece (ormai non dovrebbe esservi più bisonel vocabolario critico di Torraca, 6 nelle innumerevoli vagno di avvertirlo) la compie. Il desideratum della critica in Italia rianti lessicali sparse in un corpus disomogeneo di scritti che è, oggi, l’accordo delle scuole, la fusione (passi la metafora) trascorrono in questi anni dal genere della polemica criticodei due indirizzi ». 2 È il 1883, l’anno della morte di De Sanctis : erudita (o « pseudo-metodologica ») ai discorsi ufficiali, proai primi evidenti segnali di crisi, di fronte alle mutazioni che lusioni e commemorazioni ; dall’intervento sulla narrativa investivano il campo magmatico del lavoro critico – tra lotte contemporanea alla costante attività saggistica di area danteper l’egemonia e resistenze passatiste – Torraca sceglieva di sca e di taglio accademico (gli studi su Sannazaro e la cultura rispondere con una tattica difensiva e di corto respiro, invinapoletana del Quattrocento, i Precursori della Divina Commeschiata in una querelle che nascondeva in realtà aporie e condia, le dispute d’attribuzione). 7 Fino alla stesura del Manuaflitti più complessi e significativi. le della letteratura italiana (1886-1910), 8 che insieme alla destinazione scolastica del Commento dantesco (1905-1906), indica 2. I due tempi di Torraca la dimensione istituzionale che assume progressivamente il suo impegno intellettuale, sempre più organico alle esigenGli Scritti critici di Torraca escono nel 1907 per l’editore Perrelze pedagogico-educative (e alle ipoteche conservatrici) della la di Napoli. Il volume raccoglie interventi e saggi degli anni retorica accademica e umanistica. Erano tendenze circolanti 1877-1890, configurandosi come un’auto-antologia (un bilancon successo negli ambienti della scuola storico-erudita che, cio riepilogativo) che restituisse alla prima parte della sua attitra fine Ottocento e primo Novecento, si dimostravano più vità critica una collocazione precisa nel contesto culturale del sensibili al « ri-uso » di un’ideologia di derivazione classicistica tempo. Con una sistemazione inedita e con qualche revisione, e carducciana, patriottica e nazionalista. 9 l’autore sceglie di proporre alcuni contributi già presenti nella Proprio nel segno di Carducci, in un discorso commemoraccolta del 1885, Saggi e rassegne, tra i quali spicca la famosa rativo raccolto dai discepoli negli Scritti vari (1928), restava recensione ai Malavoglia pubblicata in due versioni sul « Diritimpresso il significato del ‘secondo tempo’ lungo il quale si to » (9 maggio 1881) e sulla « Rassegna Settimanale » (il 7 agosto consuma la sua parabola di « intellettuale-funzionario », tutto dello stesso anno). L’intervento è stato ampiamente analizrivolto, nell’attività erudita e nel ventennio trascorso all’Atezato in sede di critica verghiana e in particolare negli studi neo napoletano (1902-1928) – ovvero negli apparati egemonidi Melis che consentono di ricostruire la natura del dialogo ci delle istituzioni politiche e culturali del Regno (dal Mini3 instaurato con la letteratura verista, e soprattutto permettono di mettere in circolo gli aspetti di questo primo tempo 4 dell’attività di Torraca con il clima culturale del positivismo   Cfr. Francesco Torraca, I Malavoglia, in Idem, Scritti critici, cit., p. 376 italiano, documentando tutta una serie di scambi e contatti sgg. 5   Cfr. Francesco Torraca, Malombra, in Idem, Scritti critici, cit., p. 391 che denotano, sin dalla genesi, la natura « sincretistica » e spu: « È un romanzo italiano, è un romanzo lungo, eppure non annoia… ». sgg ria, « intermedia » e ambivalente del suo habitus intellettuale Ma sul fondo « sincretistico » e moderato circolante nella « militanza verista » – gli esordi sotto l’egida di Settembrini e De Sanctis, i rappordi questo primo tempo, si rimanda all’articolata e lucida ricostruzione di ti con il meridionalismo liberale di Giustino Fortunato e la Rossana Melis, La bella stagione del Verga, cit., pp. 95-225. 6   In un senso opposto, et pour cause, a quello che la parola assume nel critica « militante » sui contemporanei, ma anche la « conversistema crociano e nell’ultimo De Sanctis : « Ma la parola [“conciliazione” o sione » e le frequentazioni con il metodo storico-erudito. Sono l’equivalente “eclettismo”] ha nel De Sanctis una notevole estensione semani contorni di una vivacissima e poliedrica attività critica che tica, uno statuto assai mobile. Essa può assumere un significato pienamente spazia, nello stesso arco di tempo, da un confronto stabilito positivo e corrispondere alla parola “critica”. In questo caso il suo denotato è : ampliamento della sfera della coscienza, sviluppo o progresso del contecon i nuovi orientamenti del pensiero positivista alla collabonuto », Guido Guglielmi, L’ultima pagina della Storia della letteratura italiarazione a quotidiani e periodici impegnati nella ricerca sociale na del De Sanctis, cit., pp. 54-55. 7 o nella cronaca politica, nel solco di De Sanctis (« Libertà » e   Come testimonianze del profilo che andava assumendo l’attività intellettuale di Torraca in quell’arco di tempo, cfr. le notizie o i contributi moil « Pungolo », il « Diritto » e la « Rassegna », spesso in presenza nografici di Vincenzo Della Sala, F. T., in Idem, Profili meridionali, Roma, del fratello Michele). L’interesse per le nuove discipline tese a Verdesi, 1886, pp. 55-71 ; Luigi Tonelli, La critica letteraria italiana negli ultimi valorizzare storicamente la cultura popolare e il folklore (la cinquant’anni, Bari, Laterza, 1914 ; oltre ai riferimenti più o meno analitici demologia comparata, l’etnologia di Giuseppe Pitrè, i lavori sparsi nelle pagine di Benedetto Croce, da Francesco De Sanctis e i suoi critici recenti (1898) alla Vita letteraria a Napoli dal 1860 al 1900 (1909), ora in Idem, La di Rajna e Comparetti) si accompagna all’applicazione « emletteratura della nuova Italia, Bari, Laterza, 19647, pp. 276-368 ; e di Luigi Russo, pirica » del programma del metodo storico : il « culto dei fatti » Francesco De Sanctis e la cultura napoletana, Firenze, La Nuova Italia, 1928¹. e lo scavo « muratorian[o] » nelle fonti, il recupero filologico 8   Il Manuale della letteratura italiana compilato da F. Torraca ad uso delle scuole dell’attività letteraria delle « origini », la dialettica tra erudiziosecondarie, ideato per l’insegnamento della storia letteraria negli Istituti Tecnici, esce in tre volumi per la casa editrice Sansoni tra il 1886 e il 1887, con ne locale, cultura nazionale e contesto letterario europeo. Si un’Appendice del 1910 che conteneva « notizie e saggi degli scrittori della sesovrapponeva a questo sostanziale eclettismo teorico e metoconda metà del secolo xix ». dologico il fondo moderato, spirituale e moraleggiante che 9   Intorno alla progressiva chiusura del lavoro critico « ufficiale » o istituziosembra costitutivo di un’identità intellettuale in formazione, nale, riconducibile alla scuola storica, dentro i confini asfittici dell’« erudizione storico-letteraria nazionale », sull’esempio di Carducci e come riflesso delnella quale l’eredità dell’impegno ‘militante’ di De Sanctis – le le traiettorie ideologiche che agiscono nella cultura letteraria postunitaria : emergenze sociali nel « rovescio oscuro » del progresso post« [In questo contesto] si spiega che la cultura italiana facesse leva sulla poesia unitario e il problema del realismo nelle ricognizioni tra i piuttosto che sulla prosa, sul Carducci piuttosto che sul Verga, e che la scuola  



























































































































































1

  Francesco Torraca, Francesco De Sanctis e la sua seconda scuola, in Aldo Borlenghi, La critica letteraria postdesanctisiana, cit., p. 258. 2   Ivi, pp. 240-241. 3   Rossana Melis, La bella stagione del Verga. Francesco Torraca e i primi critici verghiani (1875-1885), Catania, Biblioteca della Fondazione Verga, 1990.

pur tenendo aperta la porta alla filologia tedesca, tenesse anche bene aperti gli occhi contro ogni rischio di sopraffazione e sempre più si preoccupasse del patrimonio nazionale proprio » (Carlo Dionisotti, Scuola storica, cit., p. 145). Si rinvia anche a Domenico Consoli, La scuola storica, cit., pp. 15-19 ; sul resistente « carduccianesimo » di Torraca (cfr. la commemorazione di Francesco Torraca, Giosuè Carducci, Napoli, Perrella, 1907), Nicola D’Antuono, Francesco Torraca, cit., pp. 126-127.  







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fabio moliterni

stero della Pubblica Istruzione alle Accademie, dalle Società di Storia Patria al Senato) –, all’edificazione solitaria di una forma di « solenne » o « terrorizzato » antiquariato. 1 Qui, con i toni severi e « tipizzati » che rimandano all’eloquenza esortativa di stampo desanctisiano, il rovello etico e civile che, secondo Torraca, è possibile scorgere al fondo dell’esperienza « monumentale » di Carducci si combina con l’enfasi patriottica e con il ricorso insistito a una (ritrovata) retorica nazionalista :  

















Lo hanno definito il poeta della terza Italia ; e, non v’ha dubbio, il suo verso, talora festante, più spesso aspramente e fieramente sdegnoso, accompagnò le vicende or liete, ora luttuose del nostro risorgimento. Tra la vittoria di S. Martino e la presa di Roma, la sua voce espresse le speranze trepide, le esultanze rapide e brevi ; ma dopo – dopo,  



1   Francesco Torraca, Giosuè Carducci, come Discorso per l’inaugurazione del busto nella Villa di Napoli, in Idem, Scritti vari raccolti a cura dei discepoli, Milano, Genova, Società editrice Dante Alighieri, 1928, pp. 443-449.

essa gli parve troppo disforme da quella, che aveva vagheggiata e adorata nella sua mente, brancolante tra errori, miserie, piccolezze e viltà. Alla terza Italia, egli non sciolse inni di lode, bensì segnò la via e indicò la meta. Fortunata lei, se quella sappia seguire, e questa valga a raggiungere ! 2  

Sono le forme residue che si offrivano al « discepolo-custode » di De Sanctis come strategie discorsive funzionali alla promozione sociale, al restauro nostalgico e alla sopravvivenza fittizia di un antico privilegio della cultura umanistica : baedeker o strumento difensivo per l’intellettuale deluso della « terza Italia », così « bisognoso di valori per il futuro »3– di mitologie e « primati » necessari per rimuovere la conflittualità storica di un presente « disforme » – da doversi rivolgere inevitabilmente alla « gloria » (in)sepolta del passato.  





















2





  Ivi, p. 447.   Cfr. Arcangelo Leone de Castris, Estetica e politica. Croce e Gramsci, cit., p. 86. 3

STENDHAL DI MATILDE SERAO Enza Biagini

A

cc ade che a certe letture meno ovvie si arrivi per vie traverse, quasi per caso, inseguendo altri itinerari, nella fattispecie stendhaliani : così è avvenuto per l’incontro con il testo di questa conferenza di Matilde Serao, L’Italia di Stendhal. Un testo che mi sembra valga la pena di proporre ad un’attenzione meno datata e, tutto sommato, meno severa. Effettivamente, a muovere la mia prima curiosità è stato il commento, misto di critica ed elogi, letto nella nota d’archivio di uno tra i maggiori studiosi dello scrittore francese, Luigi Foscolo Benedetto, il quale, nel suo fondamentale volume Bilancio dello stendhalismo italiano a cent’anni dalla morte dello Stendhal, apre l’anno 1898 con una scheda su questa rapsodica lettura che Matilde Serao ha dedicato a Stendhal a più di un cinquantennio dalla morte (avvenuta nel 1842). Scrive Benedetto :  



È una conferenza tenuta a Firenze nell’aprile del 1897. È nel suo genere, uno dei gioielli della letteratura stendhaliana. Sono pagine per cui sarebbe un grossolano errore adottare i criteri di giudizio comune. È assente da esse qualunque anche minima erudizione stendhaliana. L’Autrice si è astenuta, e ben si vede, da qualsiasi lettura preparatoria (ha ridato un’occhiata al massimo, all’art. famoso del Panzacchi nella Nuova Antologia del 1885). Non si è preoccupata nemmeno d’informarsi quali fossero le opere dello St. che trattassero dell’Italia. Si è limitata alla Chartr. De Parme : alla Chartr. come le restava impressa nella sua memoria (che non l’abbia per l’occasione, riaperta, risulta tra l’altro dal fatto che ricompare nel suo saggio l’errore Del Drago invece che Del Dongo che deturpa l’art. del Panzacchi). La S. ricama liricamente sulle reminescenze di una lettura ormai lontana. Ma sono le reminescenze di una scrittrice d’ingegno, dal cuore caldo e dall’intuizione viva, per cui quella lettura è stata una gioia, un avvenimento. Lo studio della S. va messo accanto a quello del Balzac. Come il famoso art. di quest’ultimo esso ci dice l’impressione che la Chartr. può fare su un confrère intelligente che si abbandoni alla lettura come un lettore comune. La S. non ammira certo le stesse cose che il Balzac ammira. Ma penetra forse meglio del Balzac la segreta poesia del libro. 1  

Nella lunga nota di commento, il celebre studioso, pur tralasciandone alcune (come il nome errato di Sanseverino, invece di Sanseverina), segnala impietosamente queste ed altre pec-

che nel testo della conferenza (« Stupisce » – scrive a un certo punto Foscolo Benedetto – « il leggere che dal cimitero di Montmartre è sparita, ‘nel 1887’, la famosa scritta tombale di Arrigo Beyle »). D’altronde, anche il contributo del Panzacchi, indicato quale fonte di errori, pur essendo salutato come il « primo articolo italiano sullo Stendhal, che meriti il nome di saggio », viene, allo stesso modo, impietosamente passato al crivello a causa dell’approssimazione dei giudizi e per le « superficiali ed errate notizie biografiche ». 2 Gli stendhalisti potranno condividere, nel bene e nel male, la misura o l’oltre misura della valutazione che si trova formulata nella scheda del voluminoso Regesto. In realtà, a pesare sfavorevolmente, più che la voce propria di Luigi Foscolo Benedetto, mi pare sia la registrazione del giudizio senza appello di un altro notissimo e indefesso beylista : Gian Piero Lucini. E Benedetto, pur valutando che l’opinione sulla Serao fosse espressa « con troppa severità », stimava che il suo « verdetto merit[asse] di essere conosciuto ». Ecco la sua citazione del parere di Lucini a proposito della famosa conferenza :  



























Vediamovi un Beyle d’immaginazione ; romantico tra il Lara ed il Werter ; entusiasta e parolaio ; ciarlatanescamente passionale. Sorge una maschera che se non fosse irreale sarebbe grottesca ; eccolo imparruccato di lunghi capelli lamentare, paggio, sotto al verone della dama e lacrimare platoniche sirventesi […]. Vi incontrerete … in fioriture che vi faranno sorridere e piangere sinceramente quando pensiate ad una fredda mente che tutto cerebrava e che in tutto trovava la parte della ironia, sì che credé poco in se stesso e nulla negli altri. È questo idillico incompreso colui che trovava la più acuta soddisfazione nel sapersi notomizzare straziandosi, onde tra il sangue, le lacrime e le grida trovi in se stesso un nuovo fatto morale, una curiosa e profittevole esperienza dell’arte ?… Altra era la sua passionalità ardita ed ampiamente pagana ; la critica voltairiana non lo abbandonò mai, e se patì d’amore e sentì il Weltschmerz precedendo di poco Heine fu ridendo così da stordirsi e se pensò d’uccidersi lo pensò freddamente come facendo un calcolo di probabilità e dandosi dello sciocco perché lo pensava e del pauroso perché non operava invece di pensare. Ma perché senza preparazione e senza studi profondi si turba la vita dei morti illustri gettandoli alla curiosità dell’annoiato snobismo dalle cattedre delle conferenze ? 3  













1

  Luigi Foscolo Benedetto, Arrigo Beyle milanese. Bilancio dello stendhalismo italiano a cent’anni dalla morte dello Stendhal, Firenze, Sansoni, 1942, p. 146. « Scheda n. 216 : Serao (Matilde). – L’Italia di Stendhal. – Nel vol. La vita italiana nel Risorgimento (1815-1830). Parte III, Lettere e Scienze ed Arti, Firenze, R. Bemporad e figlio, 1898, pp. 73-99 (Il ms. è conservato nella collezione Primoli a Roma) ». Il volume contiene scritti di Enrico Panzacchi (Il Romanticismo), Romualdo Bonfantini (Alessandro Manzoni), Giuseppe Colombo (Alessandro Volta), Corrado Ricci (Musica e Belle Arti). Il Regesto segnala in altra scheda, datata 1902, una ristampa, con titolo mutato Un innamorato dell’Italia (« La Settimana », Napoli, vol. iii, 23, 28 sett. 1902, pp. 241-258) (Ivi, p. 174). Mentre nel Regesto non è data notizia della probabile ultima ristampa, quella del 1904, segnalata nell’ottimo volume di Marie-Gracieuse MartinGistucci, L’oeuvre romanesque de Matilde Serao, Grenoble, Presses Universitaires, 1973. Si veda : « 1898. L’Italia e Stendhal : in Vita italiana del Risorgimento, vol. iii, Firenze. Réimprimé par Giannotta (Catane) et 1904 en même temps que la conférence Santa Teresa, sous le titre Un innamorato dell’Italia, Conférence prononcée à Florence en 1897. Éd. consultée : Catania, Giannotta. Le titre de la conférence est L’Italia di De Stendhal » (Ivi, p. 581). La descrizione del documento si può leggere ora nel Catalogo del fondo Stendhal della Biblioteca Primoli, ii, a cura di Massimo Colesanti, Valeria Petitto, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 2006 (« Quaderni di Cultura francese », 39), p. 493. Ecco la nota : « 2.4. – L’Italia di Stendhal. Di Matilde Serao. [Napoli, 16 aprile 1898]. Ms 32x 22,5 cm ; 13 ff. num., scritti ad inchiostro nero solo sul recto, con numerose correzioni, cancellature, anche di inchiostro di colore diverso e a matita. Pubb. nel vol. La Vita italiana nel Risorgimento (1815-1931), Parte iii, Lettere, Scienze ed Arti, Firenze, Bemporad e figlio, 1898, pp. 73-99 ; poi, con il titolo : Un innamorato dell’Italia, in « La Settimana », Napoli, vol. iii, n. 23, 28 sett. 1902, pp. 241-258 ».  

















Non credo che la scrittrice napoletana abbia mai avuto sentore di questo colpo di frusta d’incerta collocazione (Benedetto indica il riferimento ad alcune « note inedite di letteratura italiana relativa al Beyle »). D’altro canto sarebbe stato difficile sfuggire a un critico come Lucini (eguagliato tra i contemporanei, nella sua passione beylista, forse solo dal Conte Primoli), che aveva elevato Stendhal a mito, non risparmiando nessun lettore della sua opera, a partire dai primi biografi francesi, tra cui i pur noti Chuquet e Alberet. È possibile pensare, però, che la Serao non si sarebbe poi stupita troppo : era abituata a ben altre critiche, da un certo punto di vista più gravi, perché rivolte proprio alla sua attività creatrice. Queste le dovevano essere familiari, visto che venivano da fonti a lei vicine e domestiche, se si tiene fede alla maggiore e insupe 



























2   Si veda la scheda n. 114 : « Panzacchi (Enrico). – De Stendhal (Enrico Beyle). – Nuova Antologia, Roma. xx, vol. lxxxiv (liv della serie ii), fasc. xxii, 1° dic. 1885, pp. 377-395 » (Luigi Foscolo Benedetto, Arrigo Beyle milanese. Bilancio dello stendhalismo italiano a cent’anni dalla morte dello Stendhal, cit., pp. 111-113. La scheda si chiude con questa frase : « Tra i molti errori di stampa che deturpano il saggio ce n’è uno che ricompare con insistenza e che è strano che non sia stato corretto : Fabrizio Del Drago invece di Fabrizio Del Dongo ». Segnalo che Matilde Serao ripete una sola volta il nome errato !) 3   Ivi, p. 148.  















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enza biagini

rata biografa di Matilde Serao, Anna Banti (e come non tener fede a lei e a tutti gli studiosi che ricordano l’anneddoto ?) che cita la nota sentenza emessa da Scarfoglio : « Matilde non sa scrivere », trasformata, per altro, in titolo di un suo intervento, dedicato alla scrittrice. Ma si veda Anna Banti :  









il primo colpo mancino della critica essa lo ebbe da una constatazione che parve e pare tuttora naturalissima. La troviamo, chiara e tonda, in quel passo scanzonato di una lettera di Edoardo Scarfoglio a Ugo Ojetti che molti conoscono e citano : « Matilde non sa scrivere. Che ci posso fare io ! Gliel’ho detto prima di sposarla, gliel’ho detto ora. Si consola : nessuno sa più scrivere in italiano ». 1  









Ma è ancora alla Banti e alla corposa biografia in cui ha ricostruito, da par suo, le tracce del vissuto della « laboriosissima scrittrice », « anno per anno », ripercorrendo « la specie di florilegio e episodi banali – sempre i medesimi e instancabilmente riferiti – al cui centro una donna tozza, brutta, ridanciana gesticolava e motteggiava », per circuire, senza addolcirla, la leggenda non « benigna che circondava il suo nome », 2 che occorre rivolgersi anche per trovare qualche notizia utile degli eventi dell’anno 1897, che qui interessa in particolar modo. Sono i mesi che vedono Matilde impegnata a schivare i trabocchetti politici, le censure e le grane giornalistiche, non disdegnando la pratica dell’omaggio ai regnanti, nella fattispecie alla Regina Margherita (al fine di attenuare, dice la Banti, le intemperanze politiche del marito) :  

















Salutata la fine del 1896 – l’« anno terribile », come lo chiamava Scarfoglio [appena tornato dall’Africa] – con l’articolo di circostanza Le due carità […] la Serao ricompare sul giornale dal 17 al 20 gennaio ’97 con una serie di articoli di fondo, dal titolo Eterno femminino politico [...]. Tessendo, a puntate, del senso politico della sovrana [la regina Margherita], la scrittrice aveva forse il compito di alleggerire la pesantezza degli attacchi scarfoglieschi dell’anno precedente : un incarico che, senza dubbio, assunse volentieri […]. In marzo si fanno le elezioni, di nuovo Di Rudinì è al potere : il 31 marzo il « Mattino » è sequestrato e lo sarà il 2 aprile per un commento all’attentato al re da parte di un fabbro disoccupato, Pietro Acciarito. Bisogna andare cauti, Scarfoglio è la pecora nera del ministero e malveduto anche dalla Corte : ed ecco Matilde belare teneramente, il 15 giugno, perché i Principi Sposi, in gita a Napoli, non si sono fermati che lo stretto necessario : una pretesa un po’ curiosa dopo la mazzata di Le nozze coi fichi secchi [quelle dell’ultimo regnante di Casa Savoia con la principessa Elena di Montenegro]. Prestazioni d’ufficio sono sbrigate, mentre il Gibus annunzia, coll’anticipo di una quindicina, che la signora Serao terrà a Firenze una lettura su L’Italia di Stendhal e a Napoli, al West-End Hotel (svelti ad acquistare i biglietti) un’altra conferenza dal titolo suggestivo, Nel sogno. La gente mormora che Donna Matilde esagera con tutta questa autopubblicità ? Di rimbalzo, quel birbone di Gibus [Serao] si sfoga col lettore : con questa signora non ci si capisce niente, oggi proibisce a muso duro che ci si occupi di lei, domani predica che la cultura va propagandata con ogni mezzo. Le conferenze, s’intende, hanno un immenso successo. 3  















Alla data del 2 aprile 1897, sulla « Nazione » di Firenze, i let 

1   Anna Banti, Matilde non sa scrivere [1949], in Eadem, Opinioni, Milano, Il Saggiatore, 1961, p. 110. Ma si veda il rinvio bantiano ad una lettera, inviata a Primoli e citata in Cose Viste di Ugo Ojetti : « Io che sono stata tanto accusata di scrivere in una lingua imperfettissima, io che anzi confesso di non sapere scrivere bene, ammiro in ginocchio chi scrive bene… Ma se la mia lingua è scorretta, se io non so scrivere vi confesso che se per caso imparassi a farlo, non lo farei. Io credo con la vivacità del linguaggio incerto e di quello stile rotto, di infondere nelle opere mie il calore, e il calore non solo vivifica i corpi ma li preserva dalla corruzione del tempo. Questo io penso. Le altre opere (e sono poche) redatte nel linguaggio purissimo, gelido, vivranno ? Noi quattro (intendo Verga, De Roberto, me, e un po’ di Capuana) accusati di scorrettezza, abbiamo un pubblico che ci segue e ci legge : perché nella posterità dovremmo morire ? » (Anna Banti, Matilde Serao, Torino, utet, 1965, p. 216). 2   Ivi, p. ix. Ma per un richiamo più recente alla jattura dei luoghi comuni sulla vita e l’opera della scrittrice napoletana, si veda Graziella Pagliano, Tra le pieghe degli stereotipi, in Album Serao, a cura di Donatella Trotta. Prefazione di Pasquale Nonno, Napoli, Francesco Fiorentino, 1991, pp. 23-55 (Si veda : « Bozzettismo, realismo, produzione di consumo sono i termini utilizzati sovente dalla critica per caratterizzare la narrativa di Matilde Serao », ivi, p. 23). 3   Anna Banti, Matilde Serao, cit., pp. 219-220.  







   







Parole di fervido plauso intorno alla conferenza su St. tenuta al Palazzo Riccardi di Firenze da Matilde Serao […]. Si loda la scrittrice per la passione comunicativa con cui ha saputo vivificare dinanzi al suo pubblico la figura di Arrigo Beyle, presentandola nella luce più suggestiva e più simpatica. 5

Anna Banti, invece, non aggiunge altro commento : neppure nell’anno successivo (il 1898), anno della pubblicazione nella miscellanea Vita italiana nel Risorgimento. Gli avvenimenti notevoli, oltre le « grane giornalistiche » del « Mattino » e di Scarfoglio e quelle politiche, registrate a proposito dell’opera della Serao, riguardano i successi delle traduzioni francesi di Terno secco e del Paese di Cuccagna (ad opera dell’amica francese Minnie Bourget). Chiuso l’argomento Stendhal. Il che fa pensare che neppure la Banti abbia dato eccessiva importanza alla performance fiorentina. La Serao a Firenze non era dunque un avvenimento ? Forse no. Le occasioni di visita nella città toscana non mancavano : vi capitava anche per ragioni private (per accompagnare i figli al Cicognini di Prato, ad esempio) e vedere amici (Enrico Nencioni, Carlo Placci e d’Annunzio). 6 Comunque, c’è da pensare che le sviste indicate dalla critica siano da attribuire effettivamente ad una preparazione frettolosa e di seconda mano (Panzacchi !) e, forse, anche ad un eccessivo senso di fiducia nelle proprie doti di conversatrice brillante, colorita e avvincente. Si tenga conto, inoltre, che in quegli anni Matilde Serao era veramente circondata dalla fama : l’epoca della presunta crisi inventiva era ancora di là da venire. 7  























tori trovano l’annuncio, piuttosto laconico, della conferenza per il giorno seguente (sabato 3 aprile). 4 Nel corso del mese, non mi sembra che il quotidiano proponga altri commenti. È certo che la conferenza fu un successo. Lo si deduce anche da un breve trafiletto anonimo, presente nel prezioso spoglio di Benedetto :



4   Sulla Cronaca di Firenze si legge il seguente comunicato senza firma :« Matilde Serao a Firenze. La illustre scrittrice, Signora M. S., farà sabato a ore 15 la promessa lettura nella sala di Luca Giordano [Palazzo Medici-Riccardi, attuale sede della Provincia] e parlerà dell’Italia quale era al principio del nostro secolo, secondo i libri di tanto originale osservazione che ne scrisse H. M. Beyle, già noto sotto il nome di Stendhal. Vi è una grande aspettativa per questa lettura » [sono grata alla Dottoressa Lucia Chimirri, della Biblioteca Nazionale di Firenze, per il prezioso ausilio nella laboriosa ricerca della notizia]. 5   Luigi Foscolo Benedetto, Arrigo Beyle milanese. Bilancio dello stendhalismo italiano a cent’anni dalla morte dello Stendha, cit., p.145. « Scheda n. 213. Palazzo Riccardi. –, Il Marzocco, Firenze, a. ii, n. 10, 11 apr. 1897], cit. p. 145. A quasi dieci anni di distanza, il Regesto reca un’altra segnalazione. Si veda : « in Italia il nome e l’opera dello St. sarebbero rimasti del tutto ignoti fino all’art. del Panzacchi del 1885. Il risorgimento della sua fama compiutosi in Francia sarebbe rimasto senza alcuna ripercussione tra noi […]. L’A. ricorda, per prova, che ancora nel 1902, quando ci fu alla sala Ginori in Firenze la conferenza della Serao su L’italia di Stendhal, « la maggior parte degl’intervenuti s’andavan ripetendo l’un l’altro il famoso Chi era costui ? » [Scheda n. 391 : « Lazzerini-Melani (Ettore). – Note stendhaliane. – Nuova Rass. di letterature moderne, Firenze, a. iv, nn. 5-6, maggio-giugno 1906, pp. 392-397 ; nn. 7-8, luglio-agosto 1906, pp. 559-568], ivi, p. 211. Il fatto curioso è che l’autore dà per avvenuta, nel 1902, la conferenza fiorentina ; la svista della data è forse da riferirsi, invece, alla prima ristampa, segnalata da Benedetto, del testo pubblicato nel 1898, come si può intuire dalla scheda n. 289 che recita : « Serao (Matilde) – Un innamorato dell’Italia – La settimana (Rass. di Lettere, Arti e Scienze), Napoli, vol. iii, n. 23, 28 sett. 1902, pp. 241-258 ». Il commento segnala : « È la riproduzione pura e semplice della conferenza fiorentina L’Italia di Stendhal, di cui al nostro n. 216 ». 6   Il nome Carlo Placci figura, per altro, nella « Società fiorentina di pubbliche letture ». Una società fondata nel 1890, diretta da un comitato di letterati e uomini di cultura : Guido Biagi, Angelo Bruschi, G. O. Corazzini, Tommaso Corsini, Carlo Ginori, Francesco Gioli, Ernesto Masi, Carlo Placci, Arnaldo Pozzolini, Piero Strozzi. Le conferenze si tenevano nel salone Luca Giordano, in Via Ginori. 7   Si veda Anna Banti : « Il grande argomento di chi depennò la Serao dal rispetto dei posteri fu il decadere della sua produzione – è il caso di usar questo termine commerciale – dal 1904 al 1907. Nel 1904 la Serao aveva quarantotto anni e aveva cominciato a lavorare intorno al 1878. Quando uno scrittore può contare a suo credito un’attività artisticamente efficiente quasi trentennale, non so che altro si potrebbe chiedergli » (Anna Banti, Matilde non sa scrivere, cit., p. 109).  













   

































stendhal di matilde serao Un testo da buttare via dunque ? Certo è uno scritto meno visibile, sebbene non tralasciato dalle bibliografie degli studiosi della Serao. 1 Tuttavia, il testo, a differenza di quello della conferenza napoletana (Nel sogno), più celebre, più studiato e più volte edito, mi sembra non figurare nell’ottimo catalogo dei documenti della Biblioteca Nazionale di Napoli. 2 L’evento, però, non è stato del tutto ignorato : ne dà cenno la Banti, nei termini veloci ma precisi che ho indicato ; ne parla diffusamente in un’altra appassionata biografia, dedicata a Matilde Serao, Marie-Gracieuse Martin-Gistucci :  







C’est en juillet 1897 qu’elle prononce cette conférence à Florence, remportant un immense succès. Le titre même indique dans quelle perspective elle a vu Stendhal : la conférence s’intitule L’Italia di Stendhal. En 1904, Giannotta l’édite avec d’autres conférences de la Serao, sous le titre Un innamorato di Firenze. C’est en effet du Stendhal amoureux de l’Italie qu’il s’agit. Arrigo Beyle milanese ; dès les premières lignes, c’est le Stendhal italien qui est évoqué, et c’est ensuite l’Italie de Stendhal. Il s’agissait pour Serao de ne pas dépayser son public, de ne pas l’humilier par un didactisme trop évident. Aussi marie-t-elle à merveille l’art d’enseigner sans y paraître. Nous n’entreprendrons pas ici la critique du fond de cette conférence, qui, certes, ne bouleverse pas les études stendhaliennes. Nous ne relèverons pas non plus l’abondance des points d’exclamation (ils devaient faire bel effet, à la fin des périodes, roulés par la voix sonore et un peu rauque de Matilde Serao). 3  



Oltre al suggestivo riferimento della nota di vita vissuta (la voce rauca di Matilde !), non si può dire che il commento della studiosa francese abbia mancato di focalizzare i motivi di interesse, presenti nella lettura di Stendhal, da parte della Serao. Non c’è ombra di severità o d’ironia neppure nel riferimento all’assenza di ‘sconvolgimento’ nel contesto degli « studi stendaliani ». Credo che gli stendhalisti di oggi si mostrerebbero altrettanto indulgenti nei confronti dell’« enfasi » e della manifestazione di « povertà culturale dell’autrice » (rilevate con severità da Lucini). Penso anche che potrebbero mostrare una qualche curiosità nel rileggere questo testo e qualcuno sarà sensibile, come lo fu, del resto, Luigi Foscolo Benedetto, al profilo, elogiativo e partecipe, che la Serao disegna di Stendhal. E, soprattutto, attraverso la descrizione dell’empatico sentimento d’italianità dello scrittore francese, qualche lettore ritroverà lo scenario ancora vivo dell’Italia pre-risorgimentale (uno scenario già destinato ad oscurarsi negli anni della Serao, con la caduta dei miti del Risorgimento). Un sentimento di appartenenza e di condivisione, su cui, per altro, la scrittrice richiama i suoi contemporanei (si veda : « Poveri, poveri noi, se non vediamo il paese nostro come egli lo ha visto, in mezzo alle vicende amare del secolo, ma bello,  

















1   Questo mio breve contributo non ha intenti di ‘invasione’ nel campo delle ricche e vivaci ricerche dedicate alla scrittrice napoletana. I miei riferimenti bibliografici sono dunque limitati alla verifica di un piccolo angolo di visuale ; la mia parzialità potrà ora essere ampiamente corretta dai contributi, tutti preziosi, presenti in un recente volume che rinnova il punto sull’opera della scrittrice. Si veda Matilde Serao. I giorni e le opere. Atti del Convegno di studi (Napoli, 1-4 dicembre 2004), a cura di Angelo R. Pupino, Napoli, Liguori, 2006. 2   Qui il rinvio va al volume Matilde Serao 1856-1927. Mostra bibliografica, fotografica e documentaria. (Biblioteca Nazionale di Napoli, maggio-ottobre 1977), coordinatore Gianni Infusino, a cura di Pasquale Florio, Anna Guidone, Antonio Laurino, Maria Moscarelli Angarano, Casoria, Polisud, 1977. Per convincersi del maggiore interesse nei confronti della conferenza napoletana rinvio alle pagine dedicate al testo da Rosa Pisano, Nel sogno…, in Matilde Serao. I giorni e le opere, cit., pp. 263-278. 3   Marie-Gracieuse Martin-Gistucci, Matilde et le monde des lettres. Matilde et la France -Influences-, in Eadem, L’oeuvre romanesque de Matilde Serao, Grenoble, Presses Universitaires de Grenoble, 1973, p. 479. Nella nota bibliografica (a p. 581, si legge : « 1898 : L’Italia e Stendhal : Vita italiana del Risorgimento, vol. iii, Firenze. Réimprimé par Giannotta (Catane) en 1904 en même temps que la Conférence Santa Teresa, sous le titre Un innamorato dell’Italia, Conférence prononcée à Florence en 1897. Éd. consultée : Catania Giannotta. Le titre de la Conférence est L’Italia di De Stendhal »), proprio dove si indica la fonte consultata, sta forse la chiave della differenza nella sequenza delle date (luglio invece di aprile) e del titolo della conferenza.  













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ma giovane, ma amoroso, ma capace di vivere per un puro sogno e di morire per un nobile sogno : poveri noi, se l’Italia idolatrata da Stendhal, non è anche la nostra Italia ! »). È vero che, tutto sommato, lo slancio, l’entusiasmo, l’adorazione, l’empatia manifestati per il calore, l’arte, gli amori, la vita italiana, che incantarono Stendhal, evocati con foga da Matilde Serao, possono apparire come l’aspetto più prevedibile della conversazione ; quello che appare meno scontato, invece, ma accade molto spesso agli scrittori, è l’occasione che si ha per osservare che, nella filigrana, il ritratto di Stendhal (« troppo grasso, troppo piccolo ») sembra essere stato sentito come quello di un proprio alter ego al maschile, non fosse che per quel comune penchant di seguire soprattutto i « moti del cuore » (oltre alla mania della maschera degli pseudonimi). Ma si veda più efficacemente Martin-Gistucci :  

   













Le portrait physique de Stendhal que nous donne Serao, tout en étant exact, est résolument subjectif. Comme ces peintres qui peignent leurs modèles à leur propre ressemblance, elle souligne chez Stendhal les traits qui le rapprochent d’elle même : « Laid et pourtant doué d’une âme étincelante comme un joyau, presque toujours mal vêtu, souvent gauche, presque toujours sans argent, trop gros, trop petit… ». 4  





Veramente all’ipotesi e alla suggestione che ogni scrittore non possa parlare se non di sé, si può rinunciare poco. Questa corrispondenza segreta non si può certo immaginarla valevole per le esperienze vissute da Stendhal al seguito di Napoleone, né per la sua ideale « chasse au bonheur », né per il suo linguaggio o i tratti degli eroi da lui creati : i motivi d’incontro, invece, affiorano in punti precisi della conferenza, quando la scrittrice cambia tono, esce dall’enfasi commemorativa del vissuto biografico per riflettersi nel ritratto dell’autore o interrogarsi sulla sua intenzione. E proprio quest’ultimo è un ulteriore punto d’incontro (rilevato anche dalla Martin-Gistucci), 5 dove si vede che Matilde Serao, nell’esaminare la natura del romanzo stendhaliano e il rapporto tra persone storiche e personaggi fittizi della Chartreuse de Parme, pare chiedersi con lui : « Chi lo sa, se Enrico Beyle ha avuto questa intenzione, scrivendo il suo libro. Chi lo sa ! Spesso, bene spesso, un romanziere di grido, in un romanzo che solleva la curiosità, è accusato di aver copiato perfettamente dal vero un uomo, un caso, un ambiente : e il romanziere si difende sì e no, da quest’accusa che, talvolta, lo sorprende, talvolta lo lusinga ». Evidentemente, in tutto lo sforzo di mostrare che, per il romanziere, « dopo il primo accenno di realtà, il fantasma si fa artistico, il fantasma vive […] è già un’altra persona e un’altra cosa », la Serao non sta solo spiegando che Fabrizio del Dongo non è Stendhal, ma sta perorando, pro domo sua, la causa del mescolarsi, nella creazione, di realtà, memoria e finzione, che le fa quasi gridare : « tutta la verità mai ! ». Insomma, quella riconosciuta capacità del romanziere di immaginare il « segreto latente » di ogni individuo (un « segreto di cui sente il peso, ma di cui non afferrerà giammai la fisionomia e l’entità »), è una prerogativa indubbiamente anche sua. È la capacità che i critici e i lettori di Matilde Serao conoscono bene e che, ogni volta, sorprendeva anche Anna Banti, quando, dinanzi a certe scene immaginate, vedeva sconfitta l’osservazione e notava lo « sperpero » dell’esperienza, arrivan 























   













4

  Ivi, p. 480.   Molto opportunamente, la studiosa francese, in un altro capitolo del suo profilo, dove tratta del Ritratto di uno scrittore e del suo ‘mestiere’, segnala un’autocitazione da parte della Serao. Si veda : « ‘Nos fantômes sont plus vivants et plus forts que nous !’, soupire Matilde dans Lettere di una viaggiatrice. ‘À peine les avons-nous tirés de la plus pure essence de notre âme qu’ils se mettent à palpiter, à s’agiter, à frémir, à nous prendre, nous entraîner, nous submerger […]’. Et cette idée se retrouve dans la conférence sur Stendhal : ‘Le fantôme aime, souffre, meurt, il a une existence qui lui est vraiment propre, qui n’est qu’à lui, qui lui est toute personnelle’ » (Marie-Gracieuse Martin-Gistucci, Portrait d’un écrivain. Le métier, les dons reçus e partage. Mission de l’écrivain, in Eadem, L’oeuvre romanesque de Matilde Serao, cit., p. 354). 5











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enza biagini

do ad evocare il potere divinatorio della Serao. Accenno almeno al pensiero che commenta il racconto Ballerina (1899) :  

In altri termini l’occhio ha osservato e la memoria ha conservato, ma già in questa Ballerina si rileva un montaggio più accorto del frammento documentario sullo scheletro narrativo premeditato […]. Ed eccoci, ad esempio, dietro le quinte del San Carlo, nel locale squallido dove un corpo di ballo arrembato si ricovera per truccarsi e cambiare costume […]. Involontariamente il pensiero corre ai pastelli delle danseuses di Degas, ai loro crudi visucci illuminati di sotto in su, che certo nessuno a Parigi fece notare a Matilde. Eppure l’asprezza con cui essa descrive la miseria fisica di quelle ragazze è la medesima che guidava l’occhio del grande francese. Non le vediamo negli esercizi alla sbarra, chissà come e dove hanno imparato i loro sgambetti : ma la così limitata esperienza della scrittrice-giornalista ha indovinato come frizzi la luce delle fiammelle a gaz sul cerone delle canailles, sulle anemiche nudità, sulle tarlatane a buon mercato. Dopo aver sommariamente presentate, in pochi tratti, ma una per una, le ballerine (valga per tutte « Checchina Cozzolino, una dal volto gonfio, scialbo, dai piccoli occhi cinesi che eran tirati verso le tempie, nera di capelli ») la Serao riprende il quadro d’insieme. 1  





Questi aspetti del suo stile e della sua creazione, come non sono sfuggiti ad Anna Banti, non sono stati tralasciati dai lettori e dagli specialisti di Matilde Serao. La falsariga dell’empatia tra scrittori è del resto una cartina di tornasole avvincente : non è forse vero che anche quest’interpretazione della Banti, tutta giocata com’è sul rapporto tra osservazione della realtà storica, ‘tale e quale’, e immaginazione (pittorica), può essere letta, questa volta, secondo la prospettiva della condivisione metapoetica con la Banti stessa ? Ma, ad insistere su questo terreno rischio di passare sotto silenzio l’ampio orizzonte dei modelli, delle amicizie e delle ambizioni francesi (George Sand, Zola, Bourget, Georges Hérelle…) coltivate dalla scrittrice napoletana. Contatti e aspirazioni, per altro ben evidenziati dalla Martin-Gistucci che, pur ancorando le sue osservazioni sulla linea del confronto soggettivo e metapoetico, ha, infatti, abbracciato nelle sue considerazioni un quadro meno limitato e aperto alla temperie culturale della polemica antifrancese, vissuta allora da Matilde Serao :  





Ainsi, le jeune Beyle de Matilde Serao porte un peu trop les couleurs de la romancière et de la journaliste ; il n’empêche que Serao a aimé et admiré Stendhal. Stendhal était pour elle un ami, et c’est pourquoi elle s’est servie de lui pour se situer par rapport à la France, pour  

1

  Anna Banti, Matilde Serao, cit., pp. 239-240.

se justifier tout à la fois de n’etre pas aussi anti-française que son appartenance à l’équipe du « Mattino » semblait l’impliquer et d’être assez Italienne pour prendre subtilement ses distances avec le génie français. Elle y parvient en reconnaissant en Stendhal le meilleur poète d’une Italie blessée et humiliée mais pourtant capable de s’emparer d’un coeur d’homme et d’y supplanter la patrie d’origine. 2  



Il rinchiudersi dello scenario sugli intrighi storici del momento aggiunge un dettaglio non banale a questo ritratto di Stendhal, descritto come un giovane « amato e ammirato » dalla scrittrice napoletana. Ed è questa, infine, l’occasione che mette alla prova tale ammirazione : salvo alcuni riferimenti, 3 questa è, infatti, la lettura più impegnativa che Matilde Serao abbia dedicato all’opera di Stendhal, in tempi ancora precoci per la tradizione del beylismo italiano (fino al 1898, il Regesto di Luigi Foscolo Benedetto non è così fitto di discepoli ed adepti). 4 Mi chiedo se alla Banti sia sfuggito questo contributo, se lo avrebbe letto o giudicato con severità oppure sarebbe stata d’accordo nell’accoglierne il valore di documento ; considerandolo importante in sé, come testimonianza ulteriore e non trascurabile, nella mole degli scritti di Matilde, della sua operosità e in quanto traccia comunque di rilievo nella cospicua letteratura critica su Stendhal. Forse non sbaglio ad immaginare che, alla stregua di Benedetto (e evitando, forse, i toni severi di Lucini), avrebbe, tuttavia, tentato di dosare, anche per questo documento, l’impulso diviso tra irritazione e consenso ammirato. 5  







2   Marie-Gracieuse Martin-Gistucci, Matilde et le monde des lettres, cit., p. 481. 3   Si veda, ad esempio, il rinvio della Serao a Stendhal e a Bourget, nella lettura dedicata a Roberto Bracco (La fine dell’amore, in Matilde Serao giornalista : con antologia di scritti rari, a cura di Wanda De Nunzio Schilardi, Lecce, Milella, 1986, p. 176). 4   Devo spiegare che questo piccolo intermezzo sulla Serao rappresenta una sorta di aggiunta ad un lavoro (dal titolo Notes en marge de la critique italienne à la réception de ‘Rome Naples et Florence en 1817’) intorno al tema dello stendhalismo italiano, elaborato diversi anni addietro per il Professor Victor Del Litto e prodotto, in parte, solo di recente, in occasione des Journées d’études des 7 et 8 juin 2006, svolte presso il Centre d’Études Stendhaliennes et Romantiques dell’Università di Grenoble diretto da Marie-Rose Corredor (pubblicato su « Comparatistica », annuario italiano, xiv, 2005 [2007], pp. 85-111). Segnalo che, per ovvie ragioni di spazio, il testo della conferenza sarà pubblicato in altra sede. 5   Mi riferisco alla confessione di Anna Banti, quando, nello spiegare i motivi della sua biografia, scrive : « La curiosità, in seguito, e l’occasione, nel ’44, dell’antologia garzantiana prefata de Pietro Pancrazi, mi fecero accostare più largamente alla scrittrice : spesso con irritazione, talvolta con ammirazione » (Anna Banti, Matilde Serao, cit., p. ix).  













MISTERIOSA VITTORIA AGANOOR Anna Folli Ad Antonia Arslan

1. La bella bimba dai capelli neri

La bella bimba dai capelli neri La bella bimba dai capelli neri è là sul prato e parla e gioca al sole. Io so quei giochi e so quelle parole ; rido quel riso e penso quei pensieri. Son io la bimba dai capelli neri. Ed anche io vedo una fanciulla bruna gli occhi sognanti al ciel notturno fisi. Quante chimere e quanti paradisi negli occhi suoi ! te li rammenti, o Luna, gli occhi febei della fanciulla bruna ? Ora è stanca ; la penna ecco depose e la man preme su le ciglia nere. Di quanti sogni e quante primavere vide sfiorir le immacolate rose ? Ora è stanca ; la penna ecco depose. (Nuove Liriche, Roma, Nuova antologia, 1908) 3

L’autunno dice alla foglia : mai più. Quel giorno che t’apristi al sole, è morto, morto il maggio e l’estate, e una pallida donna che passa dice : parole tenere e commosse, parole bisbigliate al tuo orecchio come un soffio, non le udirai mai più… Vittoria Aganoor, Nostalgie (Carte sparse, frammento s.d. inedito)  





V



ittoria Aganoor appartiene a una famiglia antica e nobile il cui albero genealogico risale al diciassettesimo secolo, una famiglia migrante dall’Armenia alla Persia all’India all’Europa : « Noi siamo sudditi inglesi, e noi tutte ancora (noi non sposate) siamo rimaste tali ». 1 Perciò, mi spiega Antonia Arslan, la pronuncia corretta del suo cognome è « Aganùr ». Sofferente da tempo, nel marzo 1910 è operata di tumore.  













Bianca mia, dall’indirizzo che vedi quà su, capirai subito che chi ti scrive è qualcuno che si riaffaccia appena alla vita dopo aver quasi varcata la soglia del formidabile silenzio. Dovetti subire una gravissima operazione di cisti ovarica, enorme, con aderenze intestinali (bada che mia sorella Maria non sa nulla !) e puoi figurarti le sofferenze che ancor non son finite. Ma, se Dio vuole, pare che tutto finirà bene. Il mio cuore intanto sopportò la narcosi… da quel bravo cuore che è. Dunque evviva ! 2  



Ma poi, in seguito a un secondo disperato intervento muore, la notte del 7 maggio. Fedele a un loro giuramento, col proposito « d’andarla subito a raggiungere e accompagnarla sottoterra » il giorno dopo il marito si spara un colpo di rivoltella. Il clamore che suscita la vicenda è immenso e grande anche il cordoglio. Il suicidio dell’onorevole Pompilj presso il cadavere della moglie Vittoria Aganoor. L’amore nella morte, oltre la morte, contro la morte è il titolo con cui esce il « Giornale d’Italia » il 9 maggio 1910. Un giorno aveva detto che la bontà della Regina nei suoi confronti era « turbatrice ». Alle esequie solenni a Roma la sua bara è coperta dai fiori di Margherita.  











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* Gli scartafacci poetici di Vittoria Aganoor, in gran parte inediti, sono perduti. Queste pagine sono un anticipo dello studio che ho condotto sulle fotocopie che mi donò molti anni fa Paola Pimpinelli, cara amica italianista dell’Università di Perugia, fine studiosa di Vittoria. 1   A Guido Pompilj, Epifania 1901. Minuta di lettera. Carte sparse. 2   A Bianca Belinzaghi, lettera s.d. intestata « Roma – Via degli Scipioni 130 – Clinica Pampersi ». L’ultima cartolina è del 29 aprile : « Cara Le mie notizie non sono quali vorrei ti giungessero. Molte piccole sofferenze ritardano la mia convalescenza, e puoi credere che io ne sono molto rattristata. [...] Vogliatemi bene tutte ; il bene riscalda, consola e fa guarire ». Imola, Biblioteca Comunale Legato Sfinge, Cartone 5. Tutta la vicenda è documentata da Lucia Ciani (Aganoor, la brezza e il vento, Bologna, Nuova S, 2004) e Adriana Chemello : “La tua felicissima. Fadette”. Primi sondaggi tra le lettere inedite di V. A. a Guido Pompilj, « Crocevia », i, 1, 2005, pp. 106-133. Vedi inoltre : Inediti aganooriani (« Quaderni veneti », 7, 1988, pp. 7-30) di Antonia Arslan e Patrizia Zambon dove sono pubblicate le lettere lasciate da Guido Pompilj alla cognata Angelica Aganoor Guarnieri prima del suicidio ; Una leggenda eterna. Vita e poesia di Vittoria Aganoor Pompilj di John Butcher (Bologna, Nuova S1, 2007).  















Le tre strofe di endecasillabi così nitidamente disposti sono il risultato di un lavorìo che si vede bene nell’autografo. Primi di marzo 1901. Su una pagina di Quaderno ora smembrato Vittoria verseggia con facilità la piccola scena di memoria infantile. Ecco il prato, il canto, il riso, le parole : « Paro io [quella] bimba dai capelli neri ». Riscrive, per calibrare meglio il gioco dei richiami e meglio definire quell’io : « Son io la bimba dai capelli neri ». Rifà per l’ultima volta. Con gli incroci quasi a rimalmezzo (« parla – gioca /giochi – parole ») la strofa è quella che leggiamo. Andare avanti è difficile. Passando da un Quaderno all’altro, si sforza di circoscrivere un focus dal quale lei oggi, donna poeta, può guardare la sua stessa favola. Vaga lungamente tra il solito Aprile, le stelle, le sere che mandano ‘avvisi’ ma infine l’attacco è di slancio : « Ed anche io vedo una fanciulla bruna » ; e il lume febeo negli occhi belli è volto già alla Musa. La terza strofa dev’essere un autoritratto d’artista : « Eccola è qui che scrive » > « Ed ora è qui che scrive » > « Ed ora è qui. La penna ecco depose ». Segnata con doppio frego a margine, l’ultima versione si discosta un poco dalla definitiva : « Ora è stanca. La penna ecco depose ; / vela una man le sue pupille nere… / di quanti sogni e quante primavere / vide sfiorir le immacolate rose ? / Ora è stanca. La penna ecco depose. ». Nonostante l’apparenza disordinata la fattura di questi versi si impunta solo due volte, prima nella ricerca di aggettivo alle rose poi nella descrizione fisica della donna che scrive, trascinata da un tentativo all’altro e alla fine lasciata cadere. «Immacolate» sono le « rose di jeri » di dannunziana memoria, bianche come la neve, ma il soffrire tormentoso per ciò che il tempo deteriora le appartiene profondamente. 4 Nel 1896 Neera ha pubblicato una breve prosa lirica intito 





















































Ogni volta che penso alla biografia di Vittoria mi vengono in mente questi suoi versi.













3   La lirica è scritta in parte su due facciate di foglio di un quaderno perduto, in parte su quello scolastico a righe che ci è arrivato integro : lo chiameremo semplicemente Quaderno. «Febeo» è aggettivo classico, che forse Vittoria deriva dal Parini. Lo usa in una lirica della primavera 1894 che manda a Enrico Nencioni, intitolata appunto Poiesis (Leggenda Eterna, Milano, Treves, 1900, pp. 255-259) e nel sonetto Gloria (ivi, pp. 130-131). 4   Gabriele d’Annunzio, Le rose di jeri, « La Tribuna », 15 Maggio 1888 : « (rose) bianche simili a pezzi di neve odorante » ; e foglie di rose « simili a falde di neve » sono anche nel Piacere (luglio-dicembre 1888). Ma certo Vittoria ha in mente il « candor di nevi intatte », la « bianchezza immacolata » di una poesia letta e riletta. Cfr. Gabriele d’Annunzio, Alla nutrice, in Idem, Poema paradisiaco (1893).  

























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anna folli

lata La vecchia. « Che cosa tragicamente bella quella sua ultima composizione che lessi sul Marzocco ! Quanto e come è poeta lei ! E come e quanto è inutile il ritmo e la rima per fare della vera e forte e tremenda poesia ! » le ha scritto allora Vittoria. 1 Lo fa anche adesso mentre cincischia su quelle parole : rugose mani, capelli bianchi, chino il bel capo, la donna è stanca e stanche sembrano a lei tutte le cose… « Io sono ormai una vecchia donna – dice – che può ispirare dell’amicizia, nient’altro, ed io mi accontenterei ormai d’un po’ di pace, ma anche questa, pare, mi sarà negata fino alla morte. […] Per di più c’è qui la Primavera che porta anch’essa il suo tributo di melanconie nelle vecchie anime dolorose » (6 Marzo 1901). Siamo abituati all’autobiografismo di questa poesia, sempre nostalgico anche quando si esprime al presente, magari in forma di diario come in questa dedica : « Qui, sulla bianca pagina / fermo quest’ora ; un’ora della mia / vita : risplende il sole, i campi ridono, / ma d’un sorriso di malinconia ». 2 Così su un limitare, non sai se di veglia o d’attesa, lascia la donna che scrive. « Ah sì, questo te lo confesso, sono in me momenti di ribellione e una sete […] Scegli tra i tuoi ammiratori (tu dici) un uomo semplice, di cuore, che sappia apprezzarti e che ti ami – […] Io non ho che qualche raro ammiratore letterario, ma gente che mi ami nessuno ». (A Neera, cit.) Nel marzo 1899 è morta la madre. Vittoria combatte con la desolazione e col pensiero fisso dell’irrevocabile.  





   





















Io mi sto curando e bevo latte e mando giù ova e faccio lunghe passeggiate e lunghe dimore nell’amaca tra gli abeti a pensare e ricordare […] Tutte le persone che non sono più, folla cara e amarissima, ci si stringono intorno […] poi spariscono […] e restiamo, attoniti e smarriti, nel pensiero dell’irrevocabile a guardare le erbe inconscie, le piante inconscie, che seguitano a venir su verdi e fresche, come prima, come allora, indifferenti e felici della loro vita senza pensiero e senza ricordo (Carte sparse, autunno 1899).

Di notte si confessa nel Quaderno, brevi sfoghi lirici, preludi di poesie che non scriverà.

una sorella, ed è in gran parte irresponsabile del male che fa ») sogna la libertà e la fuga. Poiché sposarsi è l’unica via, tutto il 1900 è dedicato all’impresa. Si lascia alle spalle ammiratori focosi, come Domenico Gnoli o Francesco Cimmino, che pur spasimando i suoi baci non ne vogliono sapere né di sindaco né di parroco. Dal 25 luglio agli Stabilimenti Idroterapici di Varallo, utilizza il libro appena uscito – Leggenda Eterna – per la sua strategia. 3  

Cinematografo dello Stabilimento 28 Luglio 900 Pochi passi insieme, nel quieto vespero, per una strada fra i monti e subito mi parve di scoprire curiose affinità fra noi . So che i nostri discorsi si fecero a mano a mano più amichevoli e io mi trovai a parlarle di tante cose care e lontane ed Ella accennò alla sua lieta infanzia tra i fiori e il verde romano. Non oso ancora chiamarmi sua amica, ma sento che certamente la vicinanza ci legherebbe ben presto d’un’amicizia salda. Io invece tornerò alla mia (bella e) triste Venezia, Ella alla sua magnifica Roma. (Vorrei ad ogni modo non esser dimenticata) Il piccolo volumetto ad ogni modo raccomandi quest’ombra di pellegrina alla sua memoria. (Minuta di lettera a un ignoto)

In autunno è a Tarcento ospite della sorella Elena. Scribacchia qualche rima banale : « Quando tramonta il sol piglio i sentieri / della montagna eretta sul torrente / e a cercar men vo tacitamente / del giorno innanzi i mobili pensieri » (13 settembre). Si abbandona al rimpianto della madre : « O Mamma cara, per cui vivevo, per cui pensavo, per cui speravo, tu lo vedi ora, io non ho più ragione di pensare, di sperare né di vivere. L’inverno è alle porte ». Sono due facciate di prosa, la stessa prosa fervida e veloce di certi racconti giovanili, alla quale cerca poi di imprimere un ritmo : « Creatura per cui vivevo, pensavo, speravo, ora ben vedi invano (vivo) / adesso m’aggiro fra i vivi e niente adesso spero ormai ». A Venezia alla fine di ottobre, lavora a una Visione di « rupi nere d’intorno ad un angusto lago, e in alto rotte come muraglie d’un castel vetusto ». La poesia riesce breve e alquanto artificiosa, ma la pubblica ugualmente. La intitola Effetto di luna e la manda a Guido Pompilj che conosce da poco. 4 Dal dicembre 1900 il Quaderno è lo scartafaccio di questa relazione. Convinta da sempre che lo stile epistolare debba essere un parlare sulla carta, la donna che scrive sa affascinare il suo destinatario da vera allumeuse, toccandolo qua e là volubilmente. Pagine e pagine di riflessioni intelligenti, acquiescenti, profonde. Confessioni umiliate fin nei dettagli. Qualche alzata di testa, qualche sarcasmo a denti stretti appuntato a margine o chiuso tra parentesi. Abbandoni che restano segreti e sono i momenti più forti. Per quale ragione – chiede lui che predilige la poesia di Alinda Bonacci Brunamonti – il suo volumetto dovrebbe essere messo « col Carducci e col Panzacchi » ? Vittoria non batte ciglio : « Ci siamo conosciuti nell’Eliso prima di nascere e senza quel volumetto non ci saremmo incontrati. Fu la mamma ? ». E in un angolo a matita : « dove ? chi sa ? certo non ora // Vi rammentate quando fu ? per nome mi chiamaste / io risposi ; è certo antico / quel tempo né più so fervido amico (perché allora o dolce amico avea brune ora ho candide le chiome) ». L’ha urtato abbreviando « il periodo convenzionale della co 





















La Veglia Vado pensando come trovar tregua all’inquietudine dell’insonnia, che cosa potrebbe scotere la mia atonìa e darmi pace. Non trovo e mi ripeto desolata : più niente ! Più niente e sento lente lagrime scendermi lungo le gote. Terribile cosa non sperare più nulla per la morte d’ogni desiderio e intanto il pensiero della morte mi sgomenta come la minaccia d’un perfido tradimento perché se non spero e non desidero più nulla, non ho però scordato le magnifiche speranze e i magnifici desideri della giovanezza. Di che cosa eran fatti ? Io non so più, ma certo di sole e di gioia e di dominazione, qualche cosa di raggiante e grandioso e sterminato come un’aurora sulle alpi, come una grande fiorita di clivi digradante alle meraviglie del mare. E su tutto questo, prima la nebbia crescente, i miasmi infetti, i vapori pesanti e febbrili del dolore, poi scenderebbe il sipario nero della morte ? Così ? O divina porta della Fede, io sono qui implorante, qui nel gelo e nel deserto e nella tenebra della desolazione : spalancati ! (30 Gennaio 1900)  













Sola nel palazzo di Venezia con la Mary (« un essere malato che mi tormenta la vita, sì, ma che pure è del mio sangue,  































1   Lettera da Venezia, 23 novembre 1896. Cfr. Antonia Arslan, Un’amicizia tra letterate : Vittoria Aganoor e Neera, « Quaderni veneti », 8, 1988, pp. 50-51. Neera stampa due volte questa paginetta : la prima volta la dà ad Angiolo Orvieto per il « Marzocco » (8 Novembre 1896) ; in seguito a F. T. Marinetti per « Poesia », ii, 9-12, 1907. La vecchiaia femminile, soprattutto della donna sola, è un tema molto sentito da Neera che lo mette al centro di una novella indimenticabile : Zia Severina (1893) ; come del resto sarà caro ad Ada Negri nelle Solitarie. Cfr. Neera, Monastero e altri racconti, a cura di Antonia Arslan, Anna Folli, Milano, Scheiwiller, 1987. 2   Vittoria Aganoor, Per Album, dedicata alla contessa Maria Moceniga Mocenigo, in Eadem, Nuove Liriche, cit., pp. 43-44, s.d. [1904]. Ma l’ha già detto : « qui noto e fermo questa mia/Ora di vita : aggiorna ; i campi ridono/Ma d’un sorriso di melanconia » (Pagina di diario, in Eadem, Leggenda Eterna, cit., pp. 94-95 [s.d., ma 1895]).  































3   Leggenda Eterna esce nel maggio 1900 stampato da Treves ed è il suo primo libro di poesie. 4   Col titolo Effetto di luna manda la lirica a Salvatore di Giacomo per il primo numero di « Mezzogiorno artistico » (Gennaio 1901) ; a Pompilj vorrebbe farla avere all’inizio di dicembre ma aspetta fino all’11 gennaio 1901. Cfr. Vittoria Aganoor, Magìe lunari, in Eadem, Nuove Liriche, cit., p. 135. A Di Giacomo manda poi La bella bimba dai capelli neri chiedendogli però di non pubblicarla. Si è appena fidanzata e teme che la gente commenti : « Ora che è stanca di vivere si sposa ! » (8 Ottobre 1901). Questa corrispondenza (conservata nella Biblioteca Lucchesi Palli di Napoli) è pubblicata da Rosa Pisano. Cfr. Salvatore Di Giacomo settant’anni dopo, a cura di Elena Candela, Angelo Raffaele Pupino, Napoli, Liguori, 2007, pp. 371-408.  







   



misteriosa vittoria aganoor noscenza complimentosa » ? D’ora in avanti gli scriverà « solo quando ne darà licenza ». Lui la vuole « tanto buona » ?  



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S’Ella per esperienza ha ottant’anni e un certo dono d’osservazione onde capisce e intuisce anche quando non sa, e se ha letto i miei versi, saprà se sono buona o cattiva. Sì, è forse una forma di civetteria anche il dipingersi peggio del vero, ma – la mia fisionomia nel ritratto è dura ? Io non sono punto dolce ? qualcuno mi ha detto che ho gli occhi dolci – ma un cattivo cuore non credo di averlo. Se ho molto cuore ? la mia povera Mamma diceva di sì ; ma che cosa non trovava di buono nei figliuoli la buona Mamma ? La Mamma mi diceva spesso : Dio ti dia tutto il bene che fai alla tua vecchia Mamma. Ma io non capivo…  











Il deputato perugino Guido Pompilj è persona rigida. Dimostra una costante attitudine pedagogica, è refrattario all’ironia, si appella spesso alle « supreme regole ». Non gradisce la civetteria dello pseudonimo. « Fadette non Le piace ? si trova in una deliziosa novella della Sand : La petite Fadette. Era tanto buona. Bisogna dire che anche il povero Nencioni mi credesse buona ». Il deputato ha un anno meno di lei (« Quando si arriva a un certo punto della vita, ogni anno, ogni mese, fa molto ») e un aspetto giovanile (« Lei ha sempre mostrato meno anni di quelli che aveva e io sempre di più, da bambina avevo già delle rughe sulla fronte »). Assorbito com’è dagli impegni parlamentari (« Viaggia anche la notte per non perdere il giorno ! ») disapprova la stanchezza di cui lei si lamenta : « Perché mi dico sempre stanca ? perché lo sono ! Di che ? di vivere inutilmente. Ella non può capire questo Ella che trova corte le sue giornate al lavoro suo. Ma se potesse provare come è faticoso sentirsi fiacchi e trascinare ecc ecc… ». Cupo per il « fardello di pena e di travagli » che lo opprime, si dichiara pessimista leopardiano : « Io spero di non viver molto più. Come ? e perché dice questo ? lei che ecc ecc e io allora, non ho ragione di dire ecc ecc… ». Dopo un incontro di fine anno a Venezia, Vittoria lo inonda di ‘papiri’ che lo terrorizzano. Il suo spirito gli appare « recalcitrante, aspro, duro, superbo, ingiusto, esclusivo, prepotente, precipitoso, assorbente ». La pregherà per molto tempo di non scrivergli « ogni momento […] di non fargli tante domande », sempre minacciando di non rispondere e sempre irretito. Il pomeriggio del 2 gennaio 1901, in seguito a un telegramma molto atteso, Vittoria scrive « una lirichetta appassionata in prosa » che gli manda tutta ripulita (6 gennaio 1901). Ma sul Quaderno rimane ben altro.  





















Ma pure dicendovi, confessandovi cose che non mi fan punto onore io provo (se poteste capire !) come un’infinità di dolcezza che quasi mi lava dal mio peccato. Perché è un grande e vero peccato non è vero il mio ? questo desiderio sfrenato di essere tutto, e questo feroce risentimento contro la sorte per non essere niente. 1  



Nel greve peso di vita vissuta che si sente addosso, le duole il ricordo di Enrico Nencioni, il loro primo incontro a Firenze. « Venire a Firenze ? Ah mio buon amico ! Vi fui in un maggio lontano e ne ho ancora la paradisiaca visione negli occhi e nell’anima… Fu nel 93. […] da rompere il cuore ! » (Ad Angiolo Orvieto, 18 Marzo 1898). Subito dopo, dalla casa della sorella Angelica a Cava dei Tirreni, aveva mandato a Eugenio Checchi una lettera intrisa di pensiero ‘nencioniano’ : sulla fiducia nel proprio ingegno, sulla certezza di non essere una mediocrità, sul trionfo che attende la « poesia muta », un giorno, altrove. 2 Mentre si prepara all’inaugurazione del suo monumento nel piccolo cimitero di San Felice a Ema gli dedica una Visione. In primo piano la figura femminile che lo evoca : « Tacita, con mano / che tremò, depose / sulla tomba un fiore. / Sull’erboso piano / cumuli di rose / colte pel dolore // si sfogliavano lente » (Gennaio 1900). 3 Ora, mortificata dall’uomo chiuso e « rude », la nostalgia di quella intellettualità adorante le fa concepire due pagine di magnifica superbia.  





   

















   







































Ella disse – io vorrei bendarvi gli occhi con le mie mani, io vorrei mettere le mie mani sui vostri orecchi perché voi mai mai non vedeste la bellezza che vi passa accosto, e non udiste le parole i richiami la musica che vengono a voi dalle anime alte, dagli ingegni forti, dai cuori appassionati. È una ferocia di egoismo brutale, lo so ; ma così è, ma questo è vero, capisce ? è terribilmente e spaventosamente vero. Io vorrei esser solo nel mondo per voi, io vorrei esser tutte le bellezze, tutti gli splendori, tutte le armonie della terra, e nessun palpito vostro, nessun vostro pensiero si rubassero gli altri, mi rubassero gli altri. Scioccherie, pazzie tormentose ; io mi faccio pietà talora tanto mi sento assurda, ingiusta, atrocemente esclusiva. E quanti esseri nel mio essere ! come mi sento buona talora, rassegnata, contenta d’ogni briciola, pronta ad ogni rinuncia ! e talora che ribellioni selvagge e laceranti, come chi ad ogni costo voglia uscire da una prigione ferrea insanguinandosi le mani e ansando di fatica e di disperazione. Ah ! ce n’est pas deux moi qui sont en moi ! C’est dix, Cent, mille, des milliers ! Venus de quels jadis ; A travers quels fourrés d’anciennes aventures, Vers quels châteaux chantant d’espérances futures, Lourds de quels souvenirs, riches de quels butins, Poussés par quels espoirs qu’ éveillent quels matins, Courant à quel triomphe ou vers quelle déroute ? Je ne sais ; mais ils sont, ils vivent, ils font route, Et heurtés, pêle-mêle, à remous écumant, Frénétiques, ils sont en marche éperdument. Ma volonté, parfois, se croit leur souveraine...  



Oh in certi momenti se voi sapeste come mi pare una povera cosa una inutile cosa anche l’arte ; i versi, i poeti. Vi è talora una così formidabile grandezza, una così terribile forza nella mia anima, ed è appunto allora che mi sarebbe impossibile dirvi e allora dico, cioè penso : – e dunque ? – Io non so dire ma voi forse intendete. Vi hanno esseri che amano tante cose, che hanno entusiasmi e adorazioni per tanta gente, io no. Io sono una piccola anima che non può far questo, una piccola anima ostinata ed esclusiva, che può accendersi, tremare, esalarsi ma per una sola idea, per una sola adorazione, per un solo atomo dell’universo che per me (o per essa) lo compendia tutto, per cui lo intendo, lo sento, lo adoro nella sua bellezza nel suo infinito affascinante mistero. Io non so dire e questo appunto mi manca, altrimenti pochi davvero potrebbero rivelare miracoli di sentimento e d’intuizione simili ai miei. Ma non importa, io sono orgogliosa della mia poesia muta, che certo un giorno al di là avrà il suo trionfo. Per ora ubbriaca come sono di un solo pensiero sragiono naturalmente e dico delle scioccherie ma anche di questo non m‘importa. Io so che mi farò giudicare da lei una presuntuosa mediocrità. Ma io so che non sono una mediocrità. – Avessi anche scritto dei versi peggiori ; non ne avessi mai scritto ; fossi sembrata al mondo una stupida pretensiosa e peggio, io so che non sono una mediocrità. Ne dubitai in passato ; ora non più ; vi è in me qualcosa che non potrà mai rivelarsi a nessuno (che il mondo e Lei stesso non saprà mai) ma così forte, così bello, così grande che mi fa superba. E l’arte ha ben poco a che fare con tutto questo davvero, e mi potrebbe far tremare più facilmente una stretta di mano d’una cara mano che un canto di Dante.  













La primavera si annuncia amara. L’ipocondriaco Pompilj è ammalato, scrive poco e senza espansione. « Speriamo nella calma » – annota Vittoria – « benché, fintanto che nel nostro cuore perdura qualche viva forza inutile e nel nostro pensie 























1   In corsivo le parti che sul Quaderno sono segnate in diagonale da tratti di cancellatura. Nel ms. i versi francesi sono scritti di seguito, su riga, con la maiuscola a distinguere il capoverso. Ho preferito dare evidenza strofica per una leggibilità più immediata. Cfr. Jean Richepin, Mes Paradis, Dans les Remous, Paris, Charpentier et Fasquelle, 1894, p. 187. 2   La lettera a Eugenio Checchi è datata 1° Giugno 1893. Di « poesia muta » Nencioni scrive in un articolo (Proserpina, « Fanfulla della domenica », 23 Maggio 1886) poi in una conferenza raccolta in volume da cui Vittoria cita alla lettera (Cfr. Enrico Nencioni, La lirica del Rinascimento, Milano, Treves, 1893). Pico della Mirandola – colui che dopo aver distrutto i suoi versi « restò poeta nella vita, nel sentimento, nell’intelletto » – è una figura emblematica del suo estetismo. 3   Vittoria Aganoor, Visione, « Il Marzocco », 13 Gennaio 1900, numero interamente dedicato alla memoria. Cfr. Vittoria Aganoor, Poesie complete, a cura di Luigi Grilli, Firenze, Le Monnier, 1912, p. 394 (Rime sparse). Cito dall’autografo firmato (Fondo Nencioni della Biblioteca Marucelliana di Firenze). L’inaugurazione del monumento funebre, più volte rimandata, avviene il 9 maggio 1900.  















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anna folli

ro qualche visione di gioia irragiungibile, la calma non può trovar posto ». Vuol persuadersi della necessità della rinuncia, della necessità di abituarsi alla vecchiaia fantasticando sulla morte. Resiste alla suggestione del veleno : « una goccia di qualche pietoso liquore riposante per questa nostra mortale stanchezza, per questa nostra insanabile disperazione ». 1 Su questa scia appunta un nucleo lirico tutto autobiografico :  









Dormivo e qualcuno mi scosse dicendomi Su via, risvegliati, senti ancora di vivere, spera ancora con tutta l’anima tua. Io mi ridestai dunque alla vita, e sperai ancora, e amai ancora con tutta l’anima, con l’ardore disperato dell’ultima volta. E allora udii quella stessa voce che m’avea tolto al mio letargo, mi disse : – Ora sappi che vano è lo sperare e più vano l’amare quando la giovanezza è morta. – Ed io guardai con tenerezza guardai ancora chi mi aveva comandato di risvegliarmi, ed io baciai la mano che m’avea scossa dal mio letargo. 2  

La disperata è il titolo che sceglie sviluppando la prima idea in terza persona : « Dormiva ed una man ecco le sfiora ». A questo punto nel Quaderno c’è una data : 19 Marzo ’901. Un titolo : Sesostri. Poche righe : « Dentro il fondo sarcofago / sotto il superbo asilo di granito / tu sentivi i millenni / passare sulle vaste ali del mito / né alcuna voce il mistico / sogno turbava delle tue vittorie ». 3 Qui si perde l’immagine fascinosa del faraone sotto il suo tempio a Karnak. Ritornano le antiche ossessioni. L’Immortale Primavera è accolta con scherno, arriva con faccia bianca di malata, stufa delle solite rime : « Li sa li sa, gli eterni madrigali / di rose e d’ali – di brezze – e di raggi, / i secolari omaggi / dei vati innamorati e sospirosi ». Ma nella versione definitiva l’ultima strofa è funerea : « Sa che il sonno ritorna. Ella il profondo / morbo del mondo – non vince o consola / che per un’ora sola. / Poi di nuovo le febbri arse del cielo / estivo, e l’agonia d’autunno, e il forte / urlo dell’Aquilone, il buio, il gelo, / e lo squallore, l’inverno, la morte ». 4 Finalmente si realizza il tanto sospirato viaggio in Umbria. Qualche giorno a Perugia e qualche ora a Orvieto bastano a Vittoria per chiedere a Pompilj di sposarla. Il 9 maggio in treno da Roma verso Napoli stende in prosa le prime immagini di quella che sarà la lunga tormentata ode Trasimeno. Il 16 riceve una lettera che la agghiaccia : « È meglio non abbandonare il contegno e lo stile fin qui usati, perché se, per sorte, il problema da Lei posto potesse risolversi favorevolmente, avrà tempo di sfogare la poesia dell’animo, e nel caso contrario, Ella stessa sarà contenta e mi ringrazierà ch’io abbia saputo contenere lo slancio e onestamente impedirle qualunque cosa di cui avesse comunque a pentirsi ». A Napoli tutto il mese di giugno presso la sorella Virginia, tra il 4 e 5 luglio è raggiunta da Pompilj che si reca a Portici a visitare la madre. Benché i rapporti permangano cauti il matrimonio è deciso. In luglio è ospite della principessa Antonia di Moliterno e Tricase, dama della Regina Margherita,  

































1

  « Una goccia, una sola […] Perché non bevi, se l’oggi e il passato, / che sul tuo cuore premon così grevi, / e del dubbio il tormento, / e il tedio, tarlo infaticato e lento, / cenere diverranno con te, se bevi ? » (Vittoria Aganoor, La suggestione del veleno, in Eadem, Nuove Liriche, cit., pp. 23-24 [1901]). 2   Luigi Grilli pubblicandola nelle Sparse data la poesia al 1904, probabilmente avendo a disposizione una versione definitiva corretta, come in altri casi, e la intitola semplicemente dal capoverso : Dormiva…,Vittoria Aganoor, Poesie complete, cit., pp. 396-397. 3   Vittoria sta riprendendo uno spunto di qualche anno prima : « Dentro il fondo sarcofago / tutta ravvolta in funerali bende giace ; ma non è morta e fra le palpebre ancora una scintilla splende » (Quaderno, Sabato 20 Marzo 1897). Inutile pensare alla Donna del sarcofago del Poema paradisiaco, lontanissima come ispirazione. 4   Col titolo Primavera (ma prima : Aprile), in Eadem, Nuove Liriche, cit., pp. 15-16, molto modificata. « Una delle liriche che a me paiono fra le migliori di questo volume è Primavera – quella che incomincia : E ancora l’aspettata, ecco, discende… ecc. – Ma nessun critico, ch’io mi sappia, vi si è soffermato » (Ad Anna Manis, Perugia, 26 Marzo 1909). Carte Luigi Grilli. Archivio privato.  

   













a Castellammare di Stabia dove si trattiene fino al 19 agosto (e questa è la data che mette alla poesia Villa Antonietta – poi Villa Moliterno – che le costa molta fatica). 5 Continua a preparare le lettere a Pompilj sul Quaderno, ricopiando i punti salienti di quelle che riceve. In data « Venerdì – 26 Luglio – Sant’Anna » mette sul telaio un vero e proprio contratto accettando a capo chino le sue imperiose condizioni. Promette di vivere per lui e secondo lui, senza reclamare nulla per sé. Di adattarsi a ogni sua abitudine : « L’abitudine di lavorare a modo mio e nelle ore mie e di andare a letto presto che mi ha conservato la mente e il corpo. Mi fo tagliar tutto quando mangio e suono ogni momento e fo venire per ogni piccola cosa la Maria » (E qui postilla : « Mi metterà là e poi se ne andrà a Roma »). E invece in bella vista : « Fadette di tutto buon grado si acconcerà alle tue assenze siano pur lunghe e frequenti, vedrai. Sarà tanta la gioia dei ritorni ! E poi io intanto studierò, scrivero dei bei versi (belli per quanto potrò) e pensando alla ricompensa cara d’una tua approvazione. Fadette di quelle assenze richieste dal lavoro, dal dovere, dagli ideali proseguiti non sarà mai scontenta, né dubiterà né si urterà mai ; e ciò farà con semplice adesione spontanea, perché il lavoro, il dovere, gli ideali di G. saranno cose sacre e care e proseguite con l’animo da Fadette ».  

























– “il timbro della voce – modificherò”. – “Non manca nessun dente – gialli sì, ma furon sempre così – solidissimi mi disse il dentista – farseli pulire – è inutile perché ecc. Fumerò meno anzi non fumerò più. Far sparire la lacuna sarà difficile. Se il dente non vi fosse capirei, ma così come si fa ? Proverò ad ogni modo [Ami i modi naturali del migliorarsi, ma mettere un dente falso è naturale ?] – La punta dei capelli sulla fronte – sparirà. – Sì, la gioia e la contentezza del cuore potranno ringiovanirmi – non altro credo. – Prometto d’esser tanto fuori quanto in casa elegante a tuo gusto, cioè chiederò a te sempre ecc ecc – Sono perfettamente d’accordo riguardo i vestiti di non farne molti. – Seguiterò a scrivere e studiare ecc ecc la nostra casa sarà un ritrovo intellettuale vedrai. – Nessuna lingua oltre l’italiano e il francese parlo ; studio l’inglese e lo capisco a leggere ma non lo parlo, lo ristudierò volontieri. Il latino cominciai a studiarlo ma avendo poca memoria lasciai stare. Riprenderò certo il piano, la musica che conosco ecc. – Perché non presi marito ? Te ne dissi già in parte le ragioni. Alcuni che mi volevano non piacevano a me per nulla ; altri che mi dettero un sentimento piuttosto forte o non avrei potuto sposare (come il Nencioni) o morirono (come il povero Avogadro) e di qualcuno m’accorsi che mi piaceva solo perché era bello ma non buono… – Gli anelli che porto [“Poco valore e gusto !”]. La mia turchina è splendida – ricordi particolarmente cari. – Che ragione c’è per es. di chiamarlo sempre orologettaccio ? È il modo che è in te sempre aspro.  













Tutto il mese di luglio è appesantito dai contrasti. Vittoria odia e teme la bonne Maria che sospetta innamorata del padrone e che al primo vederla le ha dato cinquant’anni : « Anche da bimba io avevo un visetto serio serio e tutti mi credevano e mi credettero in seguito e mi credono ora, maggiore di mia sorella Virginia che ha due anni e mezzo più di me. Un viso di vecchina dunque ho avuto sempre ». Addirittura il fidanzamento rischia di andare a monte perché ha adoperato il verbo ‘amare’. « Ho adoperato il verbo amare parlando di Maria perché questa parola se è angusta è pure larga e vuol dire tante cose ». Ora Pompilj che aspetta da lei i versi di Trasimeno – versi belli con dentro la civiltà, l’avvenire e un po’ di socialismo – fa le bucce a quelli già scritti con una certa sicumera pedante. Ma Vittoria è persa nelle sue ossessioni di vecchiaia e reagi 















5   Vittoria Aganoor, Villa Moliterno (Quisisana), in Eadem, Nuove Liriche, cit., pp. 53-54. Cfr. « Corriere di Napoli », 3 Ottobre 1901 ; « Regina », 30 Maggio 1905.  









misteriosa vittoria aganoor sce drammaticamente, gli dà del crudele, ripiglia Nencioni, Browning, fa valere la supremazia delle « improvvise inconseguenze » sulla « logica processione delle idee, svolgentesi con composto incesso di cappuccini e di prelati ».  







Ho già detto che non mi sento proprio disposta bene a scrivere bei versi ; e tu dovresti capire lo stato dell’animo mio e non impormi una tortura sproporzionata alle mie forze. Non posso non posso non posso. Vedo e riconosco giusto quel che mi dici sulla bruttezza e piccolezza dei versi scritti ma ho la mente turbata e in burrasca per tanti pensieri, per tanti sentimenti, per tante cose che non saprei nemmeno dire. […] Con tutto questo io proverò e riproverò ancora. Mi pareva che Annibale tu lo volessi lasciar da banda come anche troppo tirato in ballo sempre e però avevo solo accennato alla sua venuta con quella strofa che tu chiami artefatta e barocca, mentre mi pare molto semplice e non banale. Suonare a stormo non vuol dire avvi pericolo ? Ebbene dire che la sorte suona a stormo mi pare sia chiaro. (31 Luglio – 2 Agosto 1901)  

netto, il cui titolo per molti anni rimane comunque Trasimeno, infine Le ire del Lago. Adesso, come liberata, la penna corre : « Ecco : odo il tuo nome e si perde / nel memore sogno il pensiero : / un legno ti solca veloce / incontro ad un’ isola verde » eccetera. Però poi le emozioni di questo avvio – sperdimento e volo – Vittoria le lascia nel Quaderno, ripiegando su un paesaggismo di maniera che si accorda meglio alla retorica dell’encomio, degli eroi e delle sorti progressive.  













































Trasimeno Il dolce ricordo si perde nel sogno. Ecco siede la scorta a poppa, e la barca mi porta incontro ad un’isola verde che attira con taciti inviti di pace ai suoi ceruli seni. Intorno i bei colli sereni d’ulivi e di querci vestiti.



Il fatto è che Pompilj sente il richiamo di certe figure, come Annibale che con la sconfitta di Zama si presta a metafore efficaci : « il Trasimeno si vendica a Zama » è la preferita. 1 Vittoria si documenta, ricopia il canto xi del Paradiso dove « Perugia sente freddo e caldo / da Porta Sole ». Rilegge nel iv canto del Childe Harold’s Pilgrimage di Byron le strofe dedicate all’Umbria e al Trasimeno. Ricorda che la biografia di S. Francesco fatta da S. Bonaventura narra di una sua gita al Lago. Prova e riprova. « D’Annibale la vana ombra scompare » > « E al ricordo dei vinti aditi a Zama / d’Annibale la vana ombra scompare » > « Ma quando l’ombra in chiarità s’adegua / e al ricordo dei vinti aditi a Zama /d’Annibale la vana ombra dilegua » > « E al suon dei trionfanti aditi a Zama / d’Annibale la fosca ombra scompare » > « Ma il Lago ecco si placa. Erompe il Sole / che vide i trionfanti aditi a Zama / l’ampia ombra d’Annibale scompare ». E via di questo passo, inutilmente. Allora abbandona l’approccio storico e si lascia andare a una dolce visione di paesaggio dove gli eventi antichi appaiono lontani come sognati : « Folti d’elci, e d’ulivi e di robusti roveri, al Lago discendenti in molli ondeggiamenti, i perugini colli… ma talora aquilon fuga la brezza e quasi dalla gonfia onda rampolli… improvvisi impeti folli ». Ne viene un bel so-

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Questa specie di Trasimeno maggiore è un monumento a Guido Pompilj, il forte soldato del bene cui l’Italia deve la bonifica del Lago ceruleo. E nello stesso tempo è l’esordio di una nuova vena tematicamente composita che Vittoria ormai matura controlla con scioltezza. A metà ottobre l’ode è conclusa, il 16 Novembre esce sulla « Nuova antologia ». Con la mente al sommo Carducci ricopia l’Ave Maria dalla Chiesa di Polenta e la sesta strofa di Su Monte Mario. 2 Sono le ultime pagine del Quaderno, tutte dedicate al matrimonio imminente (Napoli, 28 Novembre).  



Venezia, 18 Ott. 1901 Illustre Senatore – Poco può importarLe che io mi sposi o non mi sposi naturalmente, ma importa a me moltissimo che mi venga da Lei, forte e altissima anima, un augurio di bene. Non me lo neghi e s’abbia fin d’ora i miei ringraziamenti vivissimi. Sposo Guido Pompilj, un suo devoto ed entusiastico ammiratore tra i più caldi e schietti. Non mi dimentichi e mi sappia sempre sua devotissima davvero Vittoria Aganoor 3 2   « Diman morremo, come ier moriro/quelli che amammo : via da le memorie,/via da gli affetti, tenui ombre lievi/dilegueremo ». Su Monte Mario è un’ode saffica delle Terze odi barbare (1889) ispirata da una gita fatta nel gennaio 1882 con alcuni amici, tra cui la poetessa Adele Bergamini. In gioventù bella e intraprendente ora povera e sola, la Bergamini vive della carità dei generosi tra i quali anche Vittoria. 3   Casa Carducci, Carteggio Carducci, i, 27. Sempre magnanimo, il Poeta risponde con un augurio che la onora. « Commossa e riconoscente Le bacio la mano gloriosa » telegrafa Vittoria (25 Ottobre 1901). Ho utilizzato il carteggio di Vittoria con Carducci in : Giosue Carducci, Annie Vivanti, Addio caro Orco. Lettere e ricordi, saggio introduttivo e cura di Anna Folli, Milano, Feltrinelli, 2004.  

1

  Discorsi e conferenze di Guido Pompilj sono raccolti (Città di Castello, Casa Tip. Ed. S. Lapi, 1911). Cfr. ii, p. 131. Il riferimento storico è alla Seconda Guerra Punica, quando le truppe di Annibale massacrano quelle romane al Lago Trasimeno (217 a. C.) e sono poi sconfitte a Zama, vicino a Cartagine (202 a. C.). Nel Quaderno Vittoria ricopia dieci volte, ritoccando la poesia che è venuta, così intera, di getto. Non cambia il titolo fino al 1908, fino all’autografo pulito di Nuove Liriche. Poi Ancora Trasimeno e solo sulle seconde bozze Le ire del Lago. Il testo con le ultime varianti porta la data del 27 ottobre 1904. Cfr. Paola Pimpinelli, Vittoria Aganoor Pompilj, « Quaderni della biblioteca », 1, Perugia, 1991. Dell’ode Trasimeno nel Quaderno ci sono tredici quartine su ventidue.  













TRA CRONACA E MISTICISMO : NEL PAESE DI GESÙ DI MATILDE SERAO  

Wanda De Nunzio Schilardi

N che

el 1894 Matilde Serao, in un’intervista rilasciata a Ugo Ojetti, prende le distanze dal naturalismo affermando

la scienza, l’abuso della scienza, ha così prostrato la fantasia e anche l’arte, che l’ha fatta serva sua. Ora, dopo molti anni sentiamo che la scienza non è bastata […] o almeno non ci è bastata ; […] Quest’orgia di vero, questo abuso di materialismo e di naturalismo ci spinge al misticismo, se volete, all’Idealismo. 1  

Uno dei problemi più dibattuti in quegli anni di fine secolo, come è noto, era quello della morte del naturalismo e dell’affermazione del nuovo movimento neomistico, i cui riconosciuti caposcuola erano Antonio Fogazzaro e Matilde Serao. In un articolo apparso l’8 luglio 1894 sulle colonne del supplemento letterario del « Mattino » di Napoli, la scrittricegiornalista si era fatta promotrice, insieme a Giulio Salvadori, di quella forma di revanchismo idealistico denominato I Cavalieri dello Spirito che aveva a modello i tre romanzieri francesi Pierre Loti, Paul Bourget, Maurice Barres, nei quali la tendenza allo spiritualismo aveva preso consapevole forma artistica.  



La Serao tuttavia dichiara nella richiamata intervista all’Ojetti di non sentirsi completamente cattolica perché la scienza che mi ha messo su questo inquieto viaggio verso il dubbio, ormai me lo nega, senza pur darmi in compenso altre certezze conduttrici. Ma la figura di Cristo è una figura somma, superumana ; e il mio viaggio in Palestina ha ribadito questo mio pensiero, il quale necessariamente mi sospinge fuori dell’umanità, in un desiderio di infinito, di ignoto, di soprasensorio. 2  

Un anno prima dell’intervista, si era recata in Palestina e aveva già pubblicato sul « Mattino supplemento » ampi segmenti di quel reportage di viaggio che nel 1899 vedrà la luce a Napoli per l’editore Tocco col titolo Nel Paese di Gesù. Ricordi di un viaggio in Palestina. La sua appare una convinta conversione spiritualista, e tuttavia non tutti malevolmente prestano fede a queste aspirazioni misticheggianti ; lo stesso Fogazzaro confessa all’Ojetti di non credere alla sincerità di tutti quegli scrittori che gravitavano attorno al giornale della Serao, « il loro moto – dichiara lo scrittore – è sorto o per via di reazione o per causa di moda ; non è naturale, originario, istintivo, vitale ». Una diversa natura e un diverso valore riconosce orgogliosamente al proprio misticismo :  













Oh, io sono cattolico rigido, severo, convinto. Alla mia fede non concedo dubbi od oscillazioni. Io non mi foggio una religione comoda e mia, ma accetto sottomesso il cristianesimo cattolico, e ne sono entusiasta. 3

Anche il Verga definiva la tensione spiritualistica della Serao « un nuovo genere di sport », « la corsa all’al di là » e Federico De Roberto la considerava una « prurigine dell’anima », per non parlare poi di Benedetto Croce che aveva liquidato la fase mistica della Serao come un « improvviso e inopportuno ghiribizzo in cui curiosamente si mescolano influssi francesi e  













fogazzariani e reminiscenze di religione popolare o piccolo borghese napoletana ». 4 Non è qui il caso di indugiare su questo problema critico controverso sul quale, in altre occasioni e in altri studi, ho avuto modo di esprimere la mia posizione. 5 Viceversa mi pare significativo sottolineare quanto non regga più la lettura dicotomica che riconosce due fasi distinte dell’opera seraiana, la prima verista e la seconda spiritualista. La critica più sorvegliata è concorde piuttosto nell’individuare anche nella produzione verista una certa tendenza all’idealismo e sinanco al misticismo, in un intricato rapporto che resiste a qualsiasi tentativo critico di scomposizione. E basterà richiamare i numerosi riferimenti alla religione e alle suggestioni mistiche presenti sia nel Ventre di Napoli che nel Paese di Cuccagna, autentici capolavori della fase verista. Leo Spitzer, in un saggio del 1914, poco noto agli studiosi, ma significativa testimonianza per la storia della fortuna critica seraiana, 6 parla di ingenuo miscuglio di paganesimo e di cattolicesimo nella religiosità della scrittrice, insomma da una napoletana lietamente pagana sarebbe nata una ‘nazarena’, lungo un percorso irregolare e di non breve durata al punto che, a distanza di oltre un quarto di secolo dalla pubblicazione di Nel paese di Gesù, prima opera del filone mistico, la scrittrice diede alle stampe nel 1921 il libro Preghiere, nel quale con « spirito di servizio » intendeva rispondere alle esigenze religiose di coloro che volevano rivolgersi direttamente a Dio non con le preghiere tradizionali, bensì con le « dirette espressioni disadorne dei suoi sentimenti ». Una lunga stagione dunque ed un’ampia produzione quella mistico-spirituale, a lungo marginalizzata dalla critica e viceversa suscettibile di approfondimento perché, al di là dell’autenticità o meno del suo sentimento religioso o dello scarso approfondimento storico della materia teologica trattata, 7 si incontrano pagine di grande valore letterario. Basterà richiamare il bel romanzo Suor Giovanna della Croce 8 in cui il sentimento religioso, lo spiritualismo, lo psicologismo, ma anche l’inquietudine propria del primo ’900, si integrano in felice armonia con il verismo e il naturalismo. 9 In un momento difficile della sua vita di donna, tempo di bilanci e di progetti durante il quale la religione cominciava ad apparirle consolatrice, Matilde Serao è pronta ancora una volta a lanciare una sfida a se stessa e ai suoi lettori, a rimettersi in gioco. Intraprende un lungo viaggio in Palestina che dura dall’aprile al giugno 1893 imbarcandosi sul piroscafo India. Il volume, come già richiamato, vide la luce nel 1899. Nell’Introduzione la Serao distingue tre diverse tipologie di  









4   Benedetto Croce, Matilde Serao, in Idem, La Letteratura della Nuova Italia, Bari, Laterza, 1921, p. 33. 5   Cfr. il mio volume L’invenzione del reale. Studi su Matilde Serao, Bari, Palomar, 2004. 6   Leo Spitzer, Matilde Serao (Eine Carakteristik), « Germanish-Romanisch Monatsschrift », 2, 1914, pp. 573-584. 7   Marie-Gracieuse Martin Gistucci, L’oeuvre romanesque de Matilde Serao, Grenoble, pug, 1973. 8   Matilde Serao, L’anima semplice : Suor Giovanna della Croce, a cura di Clara Borrelli, Lecce, Manni, 2005. 9   Cfr. Wanda De Nunzio Schilardi, Suor Giovanna della Croce, in Matilde Serao. Le opere e i giorni. Atti del Convegno di Studi (Napoli, 1-4 dicembre 2004), a cura di Angelo R. Pupino, Napoli, Liguori, 2006, pp. 331-345.  





1   Testimonianza inclusa in Ugo Ojetti, Alla scoperta dei letterati, a cura di Pietro Pancrazi, Firenze, Le Monnier, 1946, pp. 279-280. 2 3   Ivi, pp. 280-281.   Ivi, p. 93.

tra cronaca e misticismo: nel paese di gesù di matilde serao viaggiatore. Dapprima parla del viaggiatore comune, talvolta anche simpatico nella sua frivolezza, ma che visita i luoghi del mondo con un’attività instancabile, soffermandosi sugli aspetti più frivoli, superficiali o mondani :  

sempre coi segni della più vivace curiosità sul volto, compie le gite più faticose, azzarda i luoghi più rischiosi, stanca la pazienza di qualunque compagno di viaggio, si fa maledire da qualunque cicerone, e ritorna costantemente da tutti i punti del globo, da lui minuziosamente visitati, manifestando la soddisfazione più sincera […] è il viaggiatore numeroso come gli astri del firmamento, ed ha la più completa rassomiglianza con uno dei suoi eleganti bauli. 1

Vi è poi un secondo tipo di viaggiatore, il curioso, che vuole sapere tutto del luogo che visita, senza però soffermarsi su nulla in particolare conservando un ricordo confuso del suo viaggio :  

un viaggiatore meno comune ma non raro, […] che domanda continuamente il pittoresco, in ogni breve tappa del suo vagabondaggio : i suoi occhi e la sua fantasia hanno sete di linee, di colori, di tinte sempre sorprendenti ; il suo spirito non è che un panorama di cui egli desidera sempre cambiare le immagini. 2  



Ma c’è un altro viaggiatore, diverso da tutti gli altri, viaggiatore sentimentale e bizzarro, che attraverso i costumi e i paesaggi, le fogge e i colori, oltre le leggende della fantasia e le memorie della storia, chiede qualche cosa di più intimo ai paesi che attraversa :  

singolare pellegrino del cuore questo viaggiatore, animato da un’unica e grande curiosità, vuole vedere palpitar l’anima nei paesi che attraversa. Ogni paese ha un’anima, […] inafferrabile e pure reale, fuggitiva e pure onnipresente, fluttuante fluida. 3

La Serao si assimila a questa ultima tipologia di viaggiatore. Il suo viaggio in Terra Santa tende a sentirne vibrare l’anima, a cogliere il « soffio spirituale che vi lasciò una Grande Vita ». 4 Ma non manca una componente emancipativa, tenuto conto che la Serao ha sempre individuato nella donna il lettore ideale a cui inviare il suo messaggio di libertà, privilegiando nel reportage figure ed esistenze di donne ; si leggano le pagine dedicate alla madre di Gesù e a Maria di Magdala. Nell’epigrafe alle Lettere d’una viaggiatrice, altra opera significativa della dimensione odeporica della narrativa seraiana, si legge : « Non è necessario di vivere, amica mia, è necessario di essere liberi e il viaggio contiene l’illusione sublime della libertà ». 5 La trascrizione del viaggio è dunque, per la scrittrice, luogo di evasione, di sogno, di immaginazione, che materializza questa libertà, la rende esperienza possibile. Alla Serao pellegrina nel ‘paese di Gesù’ non tanto interessa la minuziosa descrizione dei luoghi sacri, quanto registrare le sensazioni suscitate da questi luoghi, ancora pervasi dal soffio vitale di Cristo. Già nel 1877, nella recensione al libro di viaggio di Edmondo De Amicis, Costantinopoli, apparsa il 2 giugno sul « Giornale di Napoli », la Serao aveva chiarito quali fossero le sue idee rispetto alla letteratura odeporica orientate su un duplice binario, quello oggettivo della descrizione dei luoghi e quello soggettivo legato alle impressioni dello scrittore-viaggiatore :  

















non si possono chiamare tali [libri di viaggio] quelli che con un’aridità meravigliosa vi fanno passare davanti agli occhi istupiditi paesi, campagne, capitali, costumi, popoli, tutto visto dal finestrino di un vagone di prima classe, o nella sala di un albergo […] Noi vogliamo nel libro di viaggio vedere anche lo scrittore e conoscere le sue impressioni ; vogliamo rimanere per un capitolo intiero davanti al portico di una chiesa o all’imboccatura di un fiume […] Vogliamo vivere

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– nel libro – della vita del paese che si descrive, sminuzzare le bellezze dei luoghi ed intendere, apprezzare le persone che vi abitano. 6

Dedicato al figlio Antonio, il reportage va via via assumendo un taglio più intimo e personale che rende lo sguardo del viaggiatore soggettivo e parziale. Nella pagina finale l’autrice dichiara di aver scritto il libro senza intenti artistici, con umiltà e con speranza, da cristiana, per umili e speranzosi cristiani. Tuttavia l’opera, prima di vedere la luce, ha richiesto una lunga revisione formale che attesta una tensione artistica molto forte. La scrittrice tende sinanco ad uno stile elaborato e complesso, ricco di ampie strutture sintattiche e di ricercate corrispondenze musicali che talvolta sfociano in retorica verbosità e in compiaciuti accumuli di nomi esotici. La Serao attribuiva all’opera anche un grande valore educativo. In una lettera al Primoli del 12 ottobre 1899 confidava di poterla offrire personalmente a sua Santità e si dichiarava convinta che l’opera avrebbe avuto un grande successo, non tanto per il suo valore artistico e letterario quanto per la sincerità del sentimento religioso. La dimensione edificante del libro è confermata dal desiderio di cercare la Palestina biblica, ripercorsa attraverso le pagine dei testi sacri e la devozione di chi ritiene necessaria solo la vita dello spirito. Il libro si articola in diverse sezioni, secondo un procedimento a stazione tipico del realismo meridionale, ma anche secondo la migliore tradizione del reportage di viaggio. Le sezioni sono nove, corrispondenti alle varie tappe del viaggio 7 e consentono di cogliere il ritmo ascendente di un itinerarium mentis collegato alle occasioni del percorso ; tuttavia il continuo intrecciarsi del profano col sacro, dell’estasi religiosa con l’informazione pratica toglie al quadro omogeneità ascetica. Al misticismo a volte greve e pietistico si alterna la visività e la ricerca del particolare ; la Serao correda l’opera di una lunga serie di aneddoti, di fatti, di incontri, di personaggi (donne, bambini, monaci, mercanti, beduini) utili a ricreare l’atmosfera dei luoghi, ma anche a variare una materia esposta al rischio della monotonia. L’inizio del viaggio si colora di tonalità diverse e contrastanti, paura dell’ignoto e nostalgia della propria terra, improvvisi entusiasmi e dubbi momentanei vengono oggettivati a livello espressivo in situazioni concrete e insieme trasformati in simboli. Il primo capitolo, Navigando verso Sorìa, si apre con una pagina di grande intensità lirica. La Serao esplicita il suo amore per la terra che sta per lasciare e insieme la paura per l’ignoto verso il quale si sta avviando. La marina napoletana le appare in tutto il suo splendore, placida e rassicurante :  





Nella sera odorosa di maggio, mentre sul battello tiravano faticosamente l’ancora per salpare, l’aspetto di Napoli assumeva una seduzione anche più acuta. Migliaia e migliaia di lumi brillavano lungo la costa, salivano alle colline, quasi inseguendosi, palpitando di luce, scintillando vivamente, come se le stelle fossero persino discese, dal cielo notturno, a dare un incanto siderale alla città. Il frontone di una chiesa, sopra una collina, era illuminato a festa, celebrandosi il santo di quel giorno e si delineava nettamente, più alto, quasi sfolgorante. 8

Viceversa, il battello verso il quale la viaggiatrice si sta avviando è circondato da acqua nera, gorgogliante nell’ombra « con riflessi smorti e cupi, dove errava qualche lumicino fioco di  



1   Matilde Serao, Introduzione a Eadem, Nel Paese di Gesù, Milano, Treves, 2   Ivi, p. x. 1923, p. ix. 3 4   Ivi, pp. x-xi.   Ivi, p. xi. 5   Matilde Serao, Lettere d’una viaggiatrice, Napoli, Perrella, 1908.

6   Matilde Serao, Costantinopoli, in Wanda De Nunzio Schilardi, Matilde Serao giornalista (con antologia di scritti rari), Lecce, Milella, 1986, p. 156. 7   I titoli delle sezioni sono i seguenti : Navigando verso Sorìa ; Sciolto il voto ; Jerusalem, Jerusalem ! ; La Via Dolorosa ; Nell’idillio ; Quattrocento metri sotto il mare ; In Galilea ; San Francesco in Palestina ; L’ultimo giorno. 8   Matilde Serao, Nel Paese di Gesù, cit., p. 4.  

   















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wanda de nunzio schilardi

una barca, rompente l’onda tranquilla, con un ritmo eguale e monotono. Sul battello, tutto pareva nero, meno nero e più nero ». 1 L’anafora del dato cromatico è evidente richiamo ad uno stato d’animo di angoscia e inquietudine proprie di chi si accinge ad intraprendere un viaggio verso mete lontane e avvolte dall’ombra leggendaria. Lungo il viaggio, la giornalista viaggiatrice non è attratta tanto dalla storia dei luoghi e dall’imponenza dei monumenti, quanto dal dato antropologico-sociale e degli abitanti e dei turisti pellegrini. L’imponenza delle Piramidi, ad esempio, più che suscitarle emozione ed ammirazione per la grande civiltà che le ha prodotte, diviene occasione per soffermarsi sui tratti somatici e sulla vivacità dei beduini :  



Ora, un beduino delle Piramidi è, per lo più, un uomo molto alto e molto snello, di un colorito bruno dorato dai grandi occhi allungati e pensosi, e dalle bocche sinuose, senza sorrisi […] : le sue mani e i suoi piedi hanno una eleganza natìa : e in quanto alla testa, essa riassume tutte le figurazioni poetiche, che il mondo si è creato intorno alla bellezza maschile […] sono vestiti tutti di bianco, con un gran mantello nero e un turbante bianco : ma questi abiti bianchi sono così candidi, e sono drappeggiati con una grazia tanto naturale, con una inconscia e pur sapiente intenzione di arte, che quel semplice bianco e quel semplice nero formano sempre un quadro. 2  





Cattura l’attenzione della viaggiatrice l’impresa del giovane Moahmed che offre prova della sua atleticità scalando velocemente per pochi scellini la piramide più alta :  

Moahmmed [il più giovane dei beduini], agilissimo, offrì di fare l’ascensione e la discesa della più alta piramide in dieci minuti. Essa è alta quattrocento piedi inglesi, è tagliata esternamente a grandi sassi che formano gli scaglioni ; e Moahmmed voleva tre scellini, prezzo consueto. Gli furono concessi. Pretese che si cavasse l’orologio per contare precisamente i minuti. Poi, gittò il mantello : e in un battito, io lo vidi saltare, tutto bianco, sul primo sasso e sempre più piccolo arrampicarsi, sempre più piccolo, lassù, lassù, divenuto un cencio bianco, un fazzoletto bianco, un punto bianco. Giunto alla cima aveva impiegato cinque minuti e mezzo : immediatamente, rifece la via, scendendo, saltando, abbassandosi, torcendosi, ridiventando più grande, sino a che, trionfalmente, egli mi capitò innanzi, anelante, senza fiato, è vero, ma indicandomi l’orologio. Aveva impiegato tre minuti e mezzo per discendere, in tutto nove. Volle un altro scellino per quel minuto di meno, glielo diedi [...]. 3  





A volte la pagina si vivacizza con ricordi autobiografici o con attente notazioni realistiche e non mancano aperture umoristiche che alleggeriscono l’austerità devozionale del viaggio. Si legga la gustosa scena della discesa dal monte Tabor, nella quale la scrittrice dà prova di un’arguta autoironia :  

Da tutte le parti della bella Galilea, il Thabor vi appare dominante l’orizzonte ; esso ha una piacevole forma rotonda e vi accompagna, in tutte le escursioni alle vostre spalle, o innanzi a voi, facendo capolino a destra, sinistra, riapparendo sempre, come un faro fedele. La sue linee sono seducenti, arrotondate con delicatezza : più vi avvicinate e più vi appare tutto boscoso di alberi grandi e piccoli. E, a mano a mano, un desiderio vivo vi assale di imprendere quella salita. […] Per salire sul Thabor, ci vogliono quarantacinque minuti, a parte il lungo cammino in pianura : quarantacinque minuti indimenticabili per le ossa dell’ascensionista. […] La discesa comincia a piedi. Discesa ? non si discende dal Thabor, ci si dirupa. Invano, cercate andare lentamente, con precauzione : un moto precipitoso vi prende […] Il moto è così rapido, così vertiginoso che diventa meccanico, che diventa incosciente e si scende e si gira e si gira. […] scivolando, sdrucciolando, pericolando a dritta, pericolando a sinistra […] accovacciandosi, rialzandosi, cadendo un paio di volte, con una completa assenza di volontà come una trottola di cui non si possa più fermare il meccanismo […] Giù : il piano ! Sedersi sopra un macigno, pigliarsi la povera testa fra le mani e domandarsi se si è vivi, completamente vivi. Risposta semiviva, ma favorevole. 4  











Lasciato alle spalle il Nilo, l’anima dell’Egitto, paese ardente e voluttuoso, dove lo spettacolo della vita ha l’incantesimo della grandezza e della bellezza, la pellegrina naviga verso Sorìa, l’antico e poetico nome della Palestina, e le affiorano gli echi delle vecchie ballate conosciute nell’infanzia i cui personaggi, « cavalieri vestiti di ferro, sollevanti lo spadone pesante », 5 sacrificarono la loro vita per il Santo Sepolcro. Ritornano alla sua memoria i canti immortali della Gerusalemme Liberata, il « poema di quell’infelice e sventurato poeta che cantò i cristiani guerrieri ». 6 Slanci gioiosi e struggenti malinconie, sensazioni di idillica pace ed incubi di foschi presagi si alternano nella descrizione delle rive del Giordano o del Monte degli Ulivi o lungo la desolata valle di Giosafat o attraversando i dolci paesaggi di Betlemme e di Nazareth ; sgomento e orrore si impongono al pensiero che sotto le acque del Mar Morto giacciono le città corrotte e maledette da Dio per cui lo squallore del luogo assurge a simbolo del peccato e della punizione divina :  









le acque punitrici si sono chiuse su quella devastazione e niuno le indagherà, giammai più. Dio volle che questo paesaggio del Mare Morto, fosse quel che è : l’immagine del peccato e del castigo. Ma chiunque ha vissuto nell’errore e ha idolatrato l’errore, ha visto sommergere l’anima sua sotto un orribile lago di Asfaltide. 7  

Tutto il reportage si muove sul doppio registro, religioso e pittoresco, edificante e turistico e in esso si intrecciano momenti descrittivi e riflessioni morali, meditazioni misticheggianti e credenze popolari, particolareggiate informazioni giornalistiche, quasi da guida turistica ed immagini fantastiche, estenuanti patetismi ed abbandoni lirici. Né mancano, nel Paese di Gesù, ampie digressioni che costituiscono veri e propri racconti nei quali la Serao dispiega le sue doti di narratrice e di attenta osservatrice di ambienti e di personaggi. E si leggano le belle pagine dedicate alla descrizione della figura sofferente della monaca malata di tisi, incontrata a Gerusalemme il giorno del Corpus Domini :  

Questa monaca […] era alta e snella, così snella che le pieghe della sua veste fluttuavano larghe, sotto la pazienza, a ogni passo lento che dava. Il suo andare indicava la persona vinta da una stanchezza mortale : giacchè ad ogni passo che dava, si fermava, come se non potesse andare avanti : e ogni volta che si muoveva di nuovo, pareva che dovesse crollare in terra : crollare non violentemente, ma dolcemente, svenire, svanire, sparire. Di lei non si vedevano che il volto e le mani. Volto giovane, molto : non doveva avere più di ventidue anni ; ma così consunto, così pallido, così trasparente, che pareva vi fosse passato sopra tutto il dolore umano. Gli occhi oscuri erano pieni di una lassezza indicibile, guardanti intorno senza vedere, incerti, malinconici, talvolta velati di lacrime ; la bocca pallidissima, dalle labbra fini, aveva, in certi momenti, una espressione straziante. E quelle mani, mani diafane, dalle vene già troppo violacee, mani di donna che piange, che soffre, che agonizza, che muore. 8  











È forte il richiamo a Suor Giovanna della Croce, la monaca protagonista dell’omonimo romanzo, considerato dalla critica una delle opere più riuscite della maturità artistica della Serao. 9 Speculare all’inizio del viaggio è la sua conclusione : la viaggiatrice-pellegrina, che aveva lasciato Napoli con struggimento e con una forte inquietudine di ignoto, sta per ripartire ; prova un dolore profondo nell’abbandonare Gerusalemme, vuol portare con sé l’immagine della Città Santa :  







Era finito. Finito. Provavo l’immenso, invincibile dolore della fine. Un dolore profondo, sgorgante dall’anima spasimante vide il vagone

1

2

5

3

3

8

  Ivi, p. 5.   Ivi, p. 25.



  Ivi, pp. 22-23.   Ivi, p. 240.

  Ivi, p. 238.   Ivi, pp. 129-130.

6

  Ibidem.

7

  Ivi, p. 177.   Cfr. note n. 8 e 9, p. 276.

9

tra cronaca e misticismo: nel paese di gesù di matilde serao della piccola ferrovia che doveva strapparmi, velocemente, per sempre, da Gerusalemme. Guardavo, guardavo dal finestrino con occhi fissi e desolati, Sionne, alta sui suoi colli, come si guarda il viso di chi non si vedrà mai più […] Guardavo. Impregnavo la mia vista e il mio cuore dell’ultima visione di Gerusalemme : cercavo di portarne meco ogni linea, ogni colore, ogni particolare, per poterla evocare, sempre, nella lontananza, nell’esilio […] Tutto io volevo trasportare nei miei sensi, nella mia immaginazione, nell’anima mia, di quegli aspetti e di quell’ora. Il fischio stridente attraversò l’aria e il treno si mosse. Tutto era finito. Gerusalemme spariva, innanzi ai miei occhi avidi, desolati, che sempre cercavano vederla, mentre il treno affrettava i suoi giri di ruota. 1  

1

  Matilde Serao, Nel Paese di Gesù, cit., pp. 318-319.

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Matilde Serao riconosce al suo viaggio una forte valenza per la sua personale vocazione letteraria e giornalistica ma anche per la sua condizione di donna. Strappa a se stessa una promessa e la consacra :  

io feci un giuramento e feci un voto. Giurai che, per Gesù, per la sua fede e per il suo paese, benedetto e consacrato dalla sua vita, e dalla sua morte, avrei scritto un libro. 2

Lontana dal sepolcro di Cristo, ‘esiliata’ nella propria terra, non rimaneva che l’atto risarcitorio della scrittura, della testimonianza, e tener fede al solenne giuramento. 2

  Ivi, p. 319.

« NÉ IN CIELO NÉ IN TERRA ». IL DECAMERONCINO DI CAPUANA FRA SCIENZA, PSEUDOSCIENZA E LETTERATURA  



Maria Isabel Giabakgi

C

he all’alba del Novecento Luigi Capuana attribuisse al genere novellistico un alto profilo culturale è ampiamente testimoniato dalla sua vastissima produzione. È, infatti, di questo periodo il parallelo impegno in sede teorica, volto alla difesa della novellistica, che pure registrava un progressivo disinteresse di pubblico. 1 Il timido affacciarsi, nell’ambito della società italiana, di una classe medioborghese – peraltro poco ricettiva nei confronti del linguaggio verista – provocò un rapido cambiamento di rotta verso nuovi e più suggestivi lidi tematici. All’inizio del Novecento Capuana vira decisamente verso motivi fantastici e fantascientifici, 2 ambiguamente corroborati dal suo interesse verso lo spiritismo ‘da salotto’ 3 e da motivi parapsicologici, come mesmerismo e telepatia. Nel 1881 Capuana pubblica a Milano la raccolta Un bacio e altri racconti. 4 Tra i sette compresi nel volume, due sono racconti fantastici : 5 Il dottor Cymbalus, la sua prima novella, uscita su rivista già nel 1867, 6 e Un caso di sonnambulismo, inedito, che reca in calce la data del 25 marzo 1873. Sono i testi d’esordio di una fertile vena carsica che, mescolando il fantastico con la parapsicologia, riaffiorerà con autorevolezza nella proteiforme produzione novellistica dello scrittore di Mineo. Partendo da un’esperienza diretta di ‘fatti’ legati a manifestazioni del sovrasensibile, 7 Capuana tenterà di sfruttare la flessibilità del genere novellistico per piegarlo verso le regole del nuovo salotto borghese, 8 avido di questioni pseudoscientifiche, irridente verso l’insondabilità delle nuove teorie che, all’inizio del Novecento, avrebbero provocato un’autentica conflagrazione della fisica tradizionale e, molto spesso, facilmente accondiscendente verso le forme più spicciole e plateali delle « misteriose forze della nostra psiche ». 9  





1   Così Capuana risponde, nella lettera A Edoardo Rod datata 5 aprile 1902, alla domanda retorica « Il romanzo già uccide la novella ? » : « La novella è il sonetto dell’arte narrativa. E Voi non mi accuserete di esagerazione se affermerò che è più facile lo scrivere un mediocre romanzo anche di cinquecento pagine, che non un’eccellente novella di dieci paginette soltanto ». Luigi Capuana, Delitto ideale, Milano, Sandron, 1902, p. i. 2   Cfr. Anna Stordi Abate, Introduzione a Capuana : ix. Ultima produzione, Bari, Laterza, 1989, pp. 126-127, 142. 3   È proprio in quegli anni (1904) che Pirandello, nel cap. 14 del Fu Mattia Pascal, ritrae questa moda del ‘salotto spiritico’, di chiara ascendenza tardosettecentesca, peraltro sottilmente rievocata attraverso l’uso di quel « vagolando » d’indubbio sapore foscoliano : « Il tavolino scricchiolava, si moveva, parlava con picchi sodi o lievi ; altri picchi s’udivano sulle cartelle delle nostre seggiole e, or quà or là, su mobili della camera, e raspamenti, strascichii e altri rumori ; strane luci fosforiche, come fuochi fatui, si accendevano nell’aria per un tratto, vagolando, e anche il lenzuolo si rischiarava e si gonfiava come una vela » (cfr. Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Milano, Baldini & Castoldi Dalai, 2009, p. 219). 4   Luigi Capuana, Un bacio e altri racconti, Milano, Ottino, 1881. 5   Per la ricostruzione del complesso universo del fantastico capuaniano si rimanda alle preziose pagine dell’Introduzione di Andrea Cedola a Luigi Capuana, Novelle del mondo occulto, Bologna, Pendragon, 2007, pp. 7-61. 6   Il 3, 5, 8, e 9 ottobre, su « La Nazione ». 7   Cfr. i saggi Spiritismo ?, Catania, Giannotta, 1884, e Mondo occulto, Napoli, Pierro, 1896. In essi più volte Capuana definisce se stesso uno studioso « dilettante » dei fenomeni spiritici (dichiaratamente antiscientifico, anche se scrupoloso osservatore). I due testi sono consultabili nel volume curato da Simona Cigliana, Mondo occulto, Catania, Prisma, 1995, particolarmente prezioso per l’indagine su questo aspetto dello scrittore di Mineo. 8   Cfr. Bruno Capaci, Salotto, in Luoghi della Letteratura italiana, a cura di Gian Mario Anselmi, Gino Ruozzi, Milano, Bruno Mondadori, 2003, p. 325. 9   Luigi Capuana, Un vampiro, in La tentazione del fantastico. Racconti ita 

   





La figura del medico-manipolatore della natura, schiavo del suo delirio di onnipotenza, di chiara ascendenza shelleyana, trova il proprio naturale contrappunto nel giovane eroe temerario. Numerosi e tutti di consolidata tradizione sono i topoi sperimentati da Capuana nei propri racconti : dal tema del ‘doppio’ ai fantasmi, dal vampiro alla fascinazione, dal ritratto vivente all’essere invisibile, alle pratiche mesmeriche 10 care a Poe e archetipizzate nella Verità sul caso del signor Valdemar. 11 Come sostiene Cedola : « si tratta, nel complesso, di temi convenzionali, da tempo codificati in ambito europeo e americano (e penetrati fino al livello della letteratura e dell’immaginario popolari) : un repertorio cui attinge, circa negli stessi anni postunitari, anche gran parte della narrativa fantastica italiana ». 12 Alla fantascienza più propriamente intesa appartengono molti dei racconti compresi nel Decameroncino (1901) e in Voluttà di creare (1911), oltre a novelle sparse quali quelle del 1908, raccolte nel volume curato da De Turris Quattro viaggi straordinari, 13 e del 1913 – tra gli ultimi testi scritti da Capuana – sotto il titolo Novelle inverosimili : L’uomo senza testa e L’acciaio vivente. 14 Il Decameroncino 15 è strutturato, sulla falsariga del modello boccacciano, narrando la storia del salotto borghese della baronessa Lanari, i cui frequentatori sono amabilmente intrattenuti dal medico ottantaseienne Maggioli 16 che, nei limiti di una conversazione elegante e leggera, fanno da interlocutori e da contrappunto al narratore. Le circostanze narrative sono rapsodiche e poco o nulla hanno a che fare con la precisa scansione temporale del Decameron. L’anziano e scaltro affabulatore si diverte a porre questioni spesso limitrofe alla scienza e a esporre teorie anticonvenzionali, sospese fra le meraviglie del progresso e l’insondabilità dei misteri della psiche, fino agli estremi del paradosso e della fantascienza, di cui le novelleaneddoto, che lo vedono per lo più protagonista o testimone, sarebbero l’illustrazione. Non mancano, tuttavia, esplicite forme di ‘autocritica’ alla  







































liani da Gualdo a Svevo, a cura di Antonio D’Elia et alii, Cosenza, Pellegrini, 2007, p. 393. 10   Il mesmerismo, detto anche magnetismo animale, trae il nome dal medico tedesco Franz Mesmer (1734-1815), ideatore di tale teoria. 11   Titolo originale The Facts in the Case of M. Valdemar. Questo racconto, apparso sul numero di dicembre 1845 del « The American review » di New York, è dal Poe anche menzionato col titolo Mesmerism in articulo mortis. La storia che vi è narrata apparve a molti lettori resoconto di un avvenimento autentico e l’autore stesso dovette confermarne l’invenzione. 12   Cfr. Andera Cedola, Introduzione a Luigi Capuana, Novelle del mondo occulto, cit., p. 8. Preziosa la nota 8 della stessa pagina, per una ricostruzione della bibliografia sull’argomento. 13   Luigi Capuana, Quattro viaggi straordinari, a cura e con introduzione di Gianfranco de Turris, Chieti, Solfanelli, 1992. 14   Uscite, rispettivamente, il 5 aprile e l’11 agosto 1913, nel « Giornale d’Italia ». 15   Edito per la prima volta da Giannotta, a Catania, nel 1901. In questo lavoro si tiene presente Luigi Capuana, Il Decameroncino, a cura di Alberto Castelvecchi, Roma, Salerno, 1991. 16   La figura di Maggioli – che dei casi esposti nelle novelle è al tempo stesso narratore e interprete – rappresenta, come scrive Enrico Ghidetti nella Nota introduttiva alla raccolta (in Luigi Capuana, Racconti, ii, Roma, Salerno, 1973-1974, p. 259), « una proiezione sia del dottor Follini, allievo di De Meis, di Giacinta, che del dottor Mola di Profumo, dei quali riassume certi tratti caratteristici fondamentali […] ma in una connotazione generale di senilità ormai distaccata ed ironica, esperta del giuoco mondano ».  











«né in cielo né in terra». il decameroncino di capuana fra scienza, pseudoscienza e letteratura 281 professione medica, come quella contenuta nella novella La spina. Giornata sesta, 1 che vede protagonista un medico che non teme di morire « stoicamente », nel tentativo di salvare un paziente dalla febbre tifoidea, ma che ha il ‘vizio’ di procrastinare fraudolentemente le cure ai pazienti facoltosi ed avari, per ottenerne copiose prebende. Il chirurgo in questione – vera incarnazione del potere dello scienziato di scegliere tra l’azione virtuosa e i risvolti più turpi dell’abuso della creduloneria popolare – serve a Maggioli per confondere ulteriormente le idee al lettore, circa le sue personali posizioni di narratore dei ‘fatti’. Il titolo della raccolta si aggancia maliziosamente non alla science fiction anglosassone, ma alla grande tradizione della novellistica italiana. Il riferimento a Boccaccio è troppo evidente per essere tralasciato o frettolosamente liquidato come banale escamotage unificatore. 2 In realtà proprio nell’uso del diminutivo alludente all’opera boccacciana è insito un sottofondo ironico che costituisce anche la caratteristica precipua della fantascienza ‘all’italiana’, cui Capuana si aggancia. Un’ironia che si ritrova, ad esempio, anche nello Specifico del dottor Menghi (1904), suggestiva incursione nella science fiction di Italo Svevo. È più che scontata la presenza, alle spalle del bonario Maggioli, dell’‘eminenza grigia’ Capuana, delle sue osservazioni condotte al limite fra la scienza e i territori dell’ignoto. Ciò è particolarmente evidente nell’atteggiamento apparentemente neutrale che l’anziano medico mantiene su ogni fatto narrato, scegliendo di non fornire – nella maggior parte dei casi – una spiegazione scientifica univoca, ma utilizzando, piuttosto, la tattica della ‘sospensione del giudizio’, per indurre il proprio uditorio a commentare la vicenda. Tutt’altro che sospeso è invece il giudizio etico, che da ogni novella scaturisce. 3 Ovviamente da non prendere mai troppo sul serio. Il fantastico di Capuana compie spesso incursioni nel campo delle macchine impossibili (ma verosimili), sviluppo estremo ed assurdo dell’operosità umana. Per lo scrittore siciliano la differenza tra visibile e « invisibile esistente », tra materia e spirito (« questa essenza che non sappiamo affatto che cosa sia »), 4 proviene da un’imperfezione dei nostri sensi e dei nostri mezzi : un’imperfezione che alcuni personaggi delle sue novelle intendono superare con l’invenzione mostruosa di apparecchi in grado di manipolare le forme dell’invisibile. ‘Cristallizzando’ il suo sviluppo fisico, attestandosi su una sorta di ‘grado zero’ anatomofisiologico, l’uomo ha creato la condizione necessaria per un’illimitata evoluzione esterna, fatta di utensili, protesi del proprio corpo, farmaci. 5 È il caso dell’Eròsmetro, 6 ordigno protagonista dell’omonima novella, narrata nella Giornata nona. Il tema dell’amore – sentimento ormai del tutto menzo 













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  Luigi Capuana, Il Decameroncino, cit., pp. 63-70.   Cfr. l’opinione di Pieter De Meijer, La prosa narrativa moderna, in Letteratura italiana. Le forme del testo. La prosa, iii, t. ii, Torino, Einaudi, 1984, p. 750 : « Nel Decameroncino di Luigi Capuana il diminutivo del titolo […] dà all’insieme un’organicità appena superiore a quella di una semplice raccolta ». 3   Eccone alcuni esempi : « Non vi fate ingannare dalla réclame dei profumieri » (Americanata) ; « I milioni, creati in fretta, erano spariti più in fretta » (Il giornale mobile) ; « Enrico Strizzi – entrato in un convento di frati trappisti – vi medita ancora, nel silenzio, la vanità della scienza e attende, espiando, la morte ! » (La creazione) ; « Questa morte è così bella da scancellare qualunque macchia ! » (La spina). 4   Cfr. la novella intitolata Il sogno di un musicista, in Luigi Capuana, Il Decameroncino, cit., p. 73. 5   Quella che Svevo definisce una « evoluzione fuori del proprio organismo », fatta di « ordigni [...] tutti adatti al povero organismo [umano] che perciò si cristallizzò senza che da lui morisse l’anima », in Italo Svevo, L’apologo del Mammut, in Idem, Racconti e scritti autobiografici, ii, ediz. critica con commento di Clotilde Bertoni, saggio introduttivo e cronologia di Mario Lavagetto, Milano, Mondadori, 2004 (« I Meridiani »), p. 888. 6   È lo strumento, creato dallo scienziato protagonista del racconto omonimo (in Luigi Capuana, Il Decameroncino, cit., pp. 91-98), per misurare i gradi e la qualità dell’amore. 2























   





   













gnero – occupa la conversazione della penultima ‘giornata’. L’infelice strumento, occultato in un innocuo braccialetto d’oro da far indossare all’amata, ha in realtà la perversa funzione di quantificare e monitorare l’intensità del suo amore, con l’infelice (ma del tutto prevedibile) risultato di suscitare le ire della donna e la conseguente fuga di lei. Potente la connotazione ironica del finale, codificata nell’autodistruzione del sentimento amoroso, che viene innescata ancora una volta dall’elemento ‘macchina’, vera protagonista negativa, capace di potenziare improduttivamente gli aspetti più deteriori dell’animo umano. Ciò che resta al protagonista della sua smodata gelosia e della sua invenzione è soltanto una sconfinata solitudine. Ma accanto allo ‘strano scientifico’ – così prossimo ai territori del mondo occulto – Capuana sviluppa un’ampia, notevole produzione riconducibile più propriamente al ‘meraviglioso scientifico’ che cerca di coniugarsi alla necessità umana. Le ragioni del pubblico e dei suoi gusti, legati in ultima analisi alla spendibilità commerciale del genere novellistico, sono ambiguamente occultate dallo scrittore ‘sotto il velame’ del giornalismo di rotocalco, nel Giornale mobile. Giornata quarta, 7 dove « si parlava delle trasformazioni avvenute nel giornale in questi ultimi anni, e un giornalista di professione aveva espresso il suo convincimento che altre e più importanti modificazioni sarebbero imposte dalle circostanze a quest’organo della pubblica opinione. [...] Il giornale non è soltanto un mezzo di discussione e d’informazione – egli diceva – ma è anche, e soprattutto, un digestivo o un soporifero, secondo l’ora della sua pubblicazione ». Maggioli espone il ‘caso’, di cui si dichiara testimone diretto (« Io ho assistito alla sua nascita e alla sua morte... apparente »), della nascita di un periodico « in strisce », autocomponibile dal lettore, in base alle personali curiosità. In questo modo, un accadimento in apparenza ‘meraviglioso’ approda nei territori di un’enigmatica tecnologia del superfluo, ma recante le insidie di un perfido gioco parcellizzante e permutatorio del sapere e dell’informazione. Ancora una volta, il regno della futilità possibile viene spostato in America, luogo dove « un venditore di fiammiferi di legno è diventato “Re delle ferrovie” ». L’ambientazione polemicamente « yankee » 8 si era del resto palesata sin dalla Prima giornata, attraverso quell’Americanata che, anche quando Capuana si accosta alla fantascienza (qui nella sua accezione, potremmo dire, di vera e propria ‘fantacosmetica’), 9 conserva invariabilmente la sua squallida spinta propulsiva legata ai facili guadagni e alla vera e propria ossessione – serpeggiante un po’ in tutta la raccolta – per l’invenzione che stravolga positivamente le finanze e l’esistenza di chiunque sia ad essa correlato. Persino nella scelta delle improbabili cavie – degli oggetti 10 – su cui praticare la prima sperimentazione è da leggere una polemica feroce contro la reificazione del soggetto umano, che dovrebbe essere il fruitore ultimo di una ricerca scientifica condotta con metodi virtuosi. L’ordine naturale stravolto detta inevitabilmente i suoi canoni di mostruosità e all’incauto inventore non resta che guardare « i canini conficcarsi come chiodi nel palato e nelle mascelle ; e le molari crescere crescere e tener spalancata la bocca, facendo forza per spingere in su e in giù, come leve, poggiate l’una  























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  Luigi Capuana, Il Decameroncino, cit., pp. 43-52.   Si veda, in proposito, come già nel 1891 Oscar Wilde avesse ampiamente sottoposto a satira feroce l’incosciente ignoranza degli americani, nel Fantasma di Canterville. 9   L’idea è quella alquanto surreale di due preparati in grado di sbiancare i denti e infoltire le chiome. Il sogno dell’inventore si sgretola di fronte ad un maldestro scambio dei due prodotti, con conseguente trasformazione mostruosa dell’amata-cavia. 10   « Ho la prova assoluta » proclama trionfante il maldestro ‘scienziato’ « la mia dentifricia ha imbianchito, come latte, un bastone di ebano ; la mia rigeneratrice ha reso vellosa una vecchia valigia di cuoio su cui l’ho adoprata un solo mese di seguito ! ». 8









   

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maria isabel giabakgi

su l’altra ! ». Spettacolo oltremodo orrendo, ricomponibile soltanto attraverso una catartica, suicida revolverata al cervello. Com’è facile intuire, il contesto è quello delle critiche al positivismo che, già nel corso degli ultimi due decenni dell’Ottocento, aveva conosciuto un progressivo affievolirsi del fondamento unitario del sapere scientifico, dovuto a fattori interni allo sviluppo stesso delle scienze, giungendo a mettere in dubbio il paradigma positivista dell’osservabilità diretta del dato fenomenico e del raggiungimento di verità assolute. Nella novella Presentimento, 1 narrata nella Giornata Terza risultano di particolare interesse gli spunti offerti nella cornice circa l’attendibilità della psicologia, evidenziati dal narratore Maggioli : « La psicologia non è ancora scienza positiva ; le manca una delle più vitali condizioni : l’esperimento. Essa studia certi fenomeni, certi fatti, ma non può riprodurli a piacere per sottometterli all’esame provando e riprovando ». La sostanziale inspiegabilità del fenomeno straordinario insinua il dubbio, l’incertezza essenziale del fantastico, tuttavia « i fatti non esistono meno per questo, e rimangono là irremovibili, attendendo una spiegazione, che forse non verrà mai ». Inspiegabile, infatti, è la premonizione della propria morte, come accade al protagonista del racconto, che ne ‘intuisce’ ineffabilmente la data e l’ora esatta. Detto per inciso, questa è l’unica novella in cui sono presenti riferimenti temporali ben precisi (« Tu morrai nel 1883, il quarto giovedì di maggio, alle cinque di sera » ; « Ho vent’anni davanti a me ; siamo nel 1867 »), generalmente assenti dal resto della raccolta. In questo caso, la messa a fuoco è tutta sulla reazione soggettiva, sulla dinamica psichica del personaggio che sperimenta l’indifferenza di fronte ai pericoli della vita, certo del suo immodificabile destino ; l’appuntamento con la morte, che sopraggiunge puntuale, nella sua repentina naturalezza, non fa che strappare i fatti narrati dall’area gnoseologica del fantastico per riposizionarli verso una più esplicita dimensione allegorica. Anche nel Marchese di Roccaverdina – che uscirà nello stesso anno del Decameroncino, il 1901 – don Silvio, l’umile sacerdote che in confessione aveva raccolto il terribile segreto omicida del Marchese, spirerà dopo aver rivelato a sua sorella la premonizione del momento esatto della dipartita, « allo scocco di ventun’ora ». 2 L’idea di governare gli eventi della vita attraverso l’assoluta disponibilità del proprio dominio esistenziale (partendo a ritroso, proprio dal momento dell’exitus) ripercorre, di fatto, la riflessione sul ‘tempo interiore’ e sul concetto di ‘durata’ di Bergson che si ricollegano alla tradizione dello spiritualismo (Materia e memoria è infatti del 1896). Per non tacere del concetto di irreversibilità del tempo che di lì a poco sarebbe stato messo in discussione da Einstein. Intorno al tema dell’inconscio e dei sogni ruota la novella della Giornata settima, intitolata Il sogno d’un musicista. 3 Maggioli è il testimone e narratore che ricorda un episodio risalente agli anni universitari, in cui era a pigione con il compositore viennese Volgano Brauchbar. 4 Durante un sogno egli è trasportato in un mondo di abbacinante estraniazione, nel quale ode una musica sublime, ma non completamente eseguibile nello stato di veglia, pena il decesso. Mentre Volgano ascolta il « coro divino », come Dante 5 si augura di conservarne la memoria : « Signore, Signore, fate che io me ne    









































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  Luigi Capuana, Il Decameroncino, cit., pp. 35-42.   Luigi Capuana, Il marchese di Roccaverdina, Milano, Treves, 1901, p. 95. 3   Luigi Capuana, Il Decameroncino, cit., pp. 71-80. 4   La situazione ricorda quella in cui si trova il personaggio tarchettiano Riccardo Waitzen, ispirato e guidato dall’anima della moglie morta. Del racconto di Tarchetti, Capuana riprende anche la scena finale, con la morte al piano del protagonista. Cfr. l’Introduzione (pp. x, xiv) di Piero Pieri al volume, da lui curato insieme a Nunzia D’Antuono, Igino Ugo Tarchetti, Racconti fantastici, Bologna, Millennium, 2003. 5   Cfr. i vv. 69-71 di Par xxxiii : « e fa la lingua mia tanto possente, / ch’una favilla sol de la tua gloria / possa lasciare a la futura gente ». 2







ricordi ! ». Il protagonista di questa novella è invaso da una allucinazione artistica che è quasi un patto faustiano ; sedotto da una « dolcissima voce », ode le condizioni (l’oblio o la morte) che lo condurranno a liberarsi dal rischio di precipitare nella stagnazione sensuale di un imminente matrimonio con una « giovane italiana di forme giunoniche, fior di bellezza e di salute ». A spingerlo verso il patto demoniaco è insomma una sorta di repulsione verso le gioie della sessualità coniugale : descritto come « biondo, bianco, esile e di una timidità infantile », Volgano si ritrova nel sogno « in mezzo a una fitta nebbia, illuminata da una luce bianca bianca, assai più bianca della luce lunare », che sembra quasi essere il suo ambiente naturale, di lui, angelo malato, consacrato alla musica, che un destino perverso sta conducendo fra le braccia della futura moglie. La morte giunge, dunque, dal ‘suo’ mondo, a preservarlo per sempre da una ‘deflorazione’ artistico-estetica, prima ancora che fisica. In questo caso, Maggioli non formula alcuna ipotesi : delibera il sogno come esistenza parallela, coniugandolo con il fertile filone ottocentesco e hoffmaniano legato al tema della ‘musica maledetta’. 6 Ma gli ultimissimi anni dell’Ottocento sono caratterizzati anche da una copiosa quantità di studi di filosofia del linguaggio, condotti da Frege, Whitehead e a Cambridge da Russel, Moore e Wittgenstein. Si va così delineando anche il dato di fatto che la filosofia è sempre più un’analisi del linguaggio, tanto da poter addirittura costituire una chiave d’accesso ai segreti della mente, con finalità terapeutiche. In tal senso, la novella intitolata L’aggettivo. Giornata seconda 7 sembra restituire un riflesso bonario e ironico di un più intenso dibattito, in tal caso circoscritto al rapido modificarsi della struttura del linguaggio letterario. Evidente è la disomogeneità della novella rispetto al resto della raccolta ; al punto da lasciar maliziosamente pensare ad una sorta di ‘riempitivo’, obbediente ad una logica esclusivamente editoriale. Mancano infatti i consueti riferimenti introduttivi e conclusivi al salotto della baronessa Lanari e l’enunciazione della circostanza dell’evento quale ‘ricordo’ di Maggioli, se si esclude quel fugace « riprese il dottore » delle primissime battute. Tuttavia, la sostanza del racconto possiede una cifra metaletteraria che, nella circostanza, affronta una questione più propriamente relativa al concetto di ‘canone’, in un momento in cui l’irruzione di opere e modelli d’Oltralpe (peraltro esplicitamente chiamati in causa dal protagonista, alla strenua ricerca di preziosismi linguistici « nei volumi dei poeti stranieri, specialmente francesi ») stava rinvigorendo quel rigurgito genericamente neospiritualista, neomistico e irrazionalista, manifestatosi nei primissimi anni del xx secolo. Protagonista della vicenda è un poeta che, dietro sollecitazione del suo non meglio precisato ‘maestro’, deve inventare (nel senso letterario di inventio) un « aggettivo comprensivo », in grado cioè di racchiudere in sé una potenza significante derivatagli dalla rarità, e catalizzatrice potente delle attenzioni del lettore. Dopo una titanica ricerca, il poeta (che in questo caso assomiglia piuttosto ad uno scienziato in laboratorio o ad un alchimista alle prese con il suo fumigante atanòr) giunge alla messa a punto di un « aggettivo vergine », cioè mai usato prima. Ma la scoperta ha conseguenze catastrofiche sulla stabilità psichica del maldestro inventore, che « declamava, anzi mugolava suoni incomposti, parole senza senso, povera vittima dell’aggettivo ! ». In altri termini quasi un’anticipazione dadaista della mente che annega nell’illogico non-senso del linguaggio, impegnata in una sorta di strenua, ironica difesa    











































   

6   I racconti musicali di Hoffman (a cominciare dal Ritter Gluck, del 1908) suggerirono il tema a scrittori fantastici anche italiani : oltre al Riccardo Waitzen di Tarchetti, La canzone di Weber (1868) di Luigi Gualdo. 7   Luigi Capuana, Il Decameroncino, cit., pp. 27-34.  

«né in cielo né in terra». il decameroncino di capuana fra scienza, pseudoscienza e letteratura 283 di uno degli elementi morfosintattici che più saranno bistrattati dal futurismo. 1 L’allusione all’esperienza crepuscolare, specialmente quella degli ambienti romani, vicini a Sergio Corazzini, appare, a mio avviso, evidente da diversi elementi. Anzitutto il nome del poeta-protagonista, quello Jello Albulo (« che, veramente, si chiamava Nino Bianchi, ma che aveva firmato così due volumetti di versi, e non voleva essere chiamato altrimenti »), che richiama tanto l’abitudine (quasi ‘arcadica’) dello pseudonimo latineggiante, che portò un poeta come Umberto Bottone a ribattezzarsi Auro d’Alba. 2 In secondo luogo non va trascurata la descrizione iniziale dell’ambiente in cui si svolge la conversazione ‘iniziatica’ fra il « maestro e il discepolo », quello che viene definito, non a caso, un « santuario » o « cenacolo », caratterizzato da quell’atmosfera greve di oggetti ed asfissiante di certa poesia di Maeterlinck, già ampiamente utilizzate da Huysmans nella costruzione del bric-à-brac ambientale nel quale era immerso Des Esseintes :  

















Nello studio (dovrei dire nel santuario o nel cenacolo) – riprese il dottore – si soffocava. I profumi che bruciavano negli incensieri d’argento sospesi alla volta, il fumo delle sigarette consumate dal maestro e dal discepolo durante la lettura dell’Idillio cromatico, avevano già formato una densa nuvola che rendeva indistinti, nella penombra in cui era tenuta la stanza, le stoffe delle pareti, i quadri, gli oggetti di arte, gli armadi finamente intagliati in vecchio stile, e la coppa di cristallo opalino dove languivano in mucchio rose bianche, giacinti e alzalee senza nessuna foglia verde che ne menomasse il simbolico candore. 3

C’è poi il palese riferimento all’uso, da parte dei crepuscolari di ‘osservanza’ corazziniana, di pubblicare su rivistine di provincia (cosiddette di ‘amena lettura’) : 4 « il maestro, che ogni due anni raccoglieva le poesie parsimoniosamente sparse in riviste e giornali, e ne faceva volumi dove il bianco immacolato delle pagine era appena velato da poche strofe distribuite con pensata eleganza tra larghi spazi e margini ancora più larghi ». Tuttavia, sulla questione si dispiega ancora una volta il velo dell’ironia capuaniana, che travolge il velleitario protagonista ostinato nel cantare « la sua Liliana [...] ma [che] i parenti di lei continuavano, con vivo sdegno del giovane poeta, a chiamar[e] borghesemente Giuseppina ». Tanto la novella Creazione. Giornata quinta, 5 quanto In anima vili. Giornata ottava 6 rappresentano un preciso e meditato incontro di Capuana con la discussione sui termini dei confini dell’essere umano, inteso tanto nella sua sostanza di ‘creatura’, quanto nel suo desiderio di sperimentare il ruolo di ‘creatore’. La spinta propulsiva è sempre quella che attraversa tanta letteratura fantascientifica ottocentesca, che discute i termini del ‘costruire’ e del ‘creare’, della figura solitaria e disumana dello scienziato che si barcamena tra il prevedibile e l’imprevedibile dell’indagine scientifica. È un percorso che si snoda attraverso alcune figure chiave, espressione del desiderio dell’uomo di mettere mano alla propria evoluzione, 7  









di immergersi nel flusso magmatico della vita per forgiare qualcosa che rispecchi la propria immaginazione, e che ha i suoi archetipi nel romanzo Frankenstein, o il Prometeo moderno di Mary Wollstonecraft Shelley, del 1818, ma ancor più, nel nostro caso, nella Eva futura (1886) di Villiers de l’Isle-Adam. 8 Tutte creature scaturite dalla necessità dell’uomo non tanto di rispecchiarsi quanto di proiettarsi in qualcosa di esterno a se stesso, simile ma non uguale, mimetico nella forma del corpo o nel pensiero, ma differente. Nella fattispecie, la creazione dell’altro da sé raggiunge il suo culmine ontologico quando la creatura artificiale è rappresentata da una donna o su di essa lo scienziato-maschio interviene utilizzandola come cavia. In questo caso l’evento simbolico della creazione si vena di un torbido erotismo, che vede la cavia/creatura preda recalcitrante dello scienziato. In gioco è la dinamica fra i due sessi e l’incerto predominio dell’uno sull’altro, ma anche la sempre imperfetta riducibilità dell’universo femminile alla egocentrica tecnocrazia dell’uomo. Nei numerosi motivi pseudoscientifici e paranormali presenti nell’opera di Capuana, Creazione propone la nascita artificiale di una Eva, « una donna ideale perfetta », ma che, proprio come effetto collaterale della sua idealità, incarna ogni pregio ed ogni difetto del suo sesso al massimo grado ; in essa « tutto era riuscito estremo ». Per raggiungere il bizzarro obiettivo, Capuana ricorre alla teoria teosofica degli elementali9 ; essi sono : « granuli, atomi viventi, sparsi nell’aria, capaci di ricevere, da chi ne ha il potere, la virtù di esplicarsi in una forma determinata. Bisognava afferrare uno di questi atomi, assoggettarlo, incubarlo, trarne insomma la creatura nuova, la donna perfetta che egli intendeva creare per sé ». L’ambizioso obiettivo è sempre quello di creare l’homunculus, un essere artificiale antesignano dell’androide. Anche Frankenstein era stato educato sia come alchimista che come scienziato moderno, ponendosi, di fatto, come una forma ibridante che intercetta quasi esclusivamente i connotati ‘disumanizzati’ dell’uno e dell’altro, finalizzandoli ad una nuova forma di letteratura, la fantascienza appunto. Ma nello scrittore siciliano non manca mai un solido aggancio con l’ascissa storica della letteratura italiana, quasi la giocosa volontà di sfidare il suo lettore sul terreno di una serpeggiante intertestualità. Si legga, in proposito, la descrizione del buio ambiente della camera-laboratorio di Enrico Strizzi che evoca la rarefatta atmosfera del sogno in cui a Dante appare la ‘sua’ donna, in Vita nova iii [iii] : 10  



















Poi cominciai a distinguere la luce dei vetri rosso cupi di parecchie lanterne, e, finalmente, in un angolo, aguzzando lo sguardo, potei discernere una forma biancastra, vaporosa, che oscillava lentamente per aria. prodotto un primo animale e da esso, per trasformazioni e perfezionamenti, siamo venuti fuori noi. Siamo figli di scimmia, animali come gli altri animali. [...] Animalissimi ! Solamente, invece dell’istinto, abbiamo la ragione ; ed è la stessa cosa. Con la scusa della ragione, facciamo però tante cose irragionevoli ». Luigi Capuana, Il marchese di Roccaverdina, cit., p. 115. 8   Lo scienziato Thomas Alva Edison diviene personaggio letterario, genio folle e dai connotati stregoneschi : egli realizza per lord Ewald un androide, una replica fedele della sua amata, in cui insufflare l’intelligenza per arrivare a creare la donna ideale da sostituire a quella imperfetta e reale. 9   Secondo questa teoria, ascrivibile all’alchimia medievale, un ‘elementale’ è una porzione di essenza elementare vivente in modo autonomo, che abita ciascun elemento o parte costituente di una sostanza fisica. È possibile operare una sommaria classificazione delle diverse specie di essenza elementale secondo le categorie di materia che esse abitano, e cioè solida, liquida, gassosa, eterica, supereterica, subatomica, atomica. 10   « E pensando di lei mi sopragiunse uno soave sonno, ne lo quale m’apparve una maravigliosa visione, che me parea vedere ne la mia camera una nèbula di colore di fuoco, dentro a la quale io discernea una figura d’uno segnore di pauroso aspetto a chi la guardasse […]. Ne le sue braccia mi parea vedere una persona dormire nuda, salvo che involta mi parea in uno drappo sanguigno leggeramente ; la quale io riguardando molto intentivamente, conobbi ch’era la donna de la salute, la quale m’avea lo giorno dinanzi degnato di salutare ».  





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  Al punto 3 del Manifesto tecnico della letteratura futurista si legge : « si deve abolire l’aggettivo, perché il sostantivo nudo conservi il suo colore essenziale. L’aggettivo avendo in sé un carattere di sfumatura, è inconcepibile con la nostra visione dinamica, poiché suppone una sosta, una meditazione ». Filippo Tommaso Marinetti, Manifesto tecnico della letteratura futurista, in Idem, Teoria e invenzione futurista, a cura di Luciano De Maria, Milano, Mondadori , 1998, p.46. 2   Tuttora preziosissime sono, in tal senso, le pagine che Angela Ida Villa dedica al Cenacolo di Via Principe Amedeo, in Idem, Neoidealismo e rinascenza latina tra Otto e Novecento. La cerchia di Sergio Corazzini. Poeti dimenticati e riviste del crepuscolarismo romano (1903-1907), Milano, led, 1999, pp. 611-674. 3   Luigi Capuana, Il Decameroncino, cit., p.27. 4   Anche in questo caso cfr. Angela Ida Villa, Neoidealismo..., cit., p. 612. 5   Luigi Capuana, Il Decameroncino, cit., pp. 53-62. 6   Ivi, pp. 82-90. 7   Si rileggano, in proposito, le parole del Cavalier Pergola, nel Marchese di Roccaverdina, che alludono chiaramente ad un uso distorto della ragione con finalità pseudoscientifiche : « Non ci ha creato nessuno ! La Natura ha  



















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maria isabel giabakgi

« Eccola ! » mi sussurrò all’orecchio. Sembrava la proiezione di una bella statua rappresentante una dormente, fatta col mezzo della lanterna magica, sul nero del drappo che rivestiva le pareti e la volta. Se non che quel corpo aveva una trasparenza maggiore di quella dell’alabastro ; […] e quando passava davanti a uno di quei vetri rossi delle lanterne, si coloriva di un rosso tenero, inesprimibile. 1  

   



Soltanto uno ‘scrittore-medium’ può scorgere il nesso tra il baratro dell’ignoto scientifico e il baratro dei misteri della passione erotica ; egli soltanto può rappresentare pienamente tutta la carica morbosa – persino incestuosa – dello scienziato visto come padre di una ‘figlia’ destinata a soddisfare le sue voglie, ma che è pronta a scatenargli contro la sua riottosità per ripristinare un ordine naturale che è affettivo, prima ancora che biologico. Non si discosta di molto l’esperimento in anima vili praticato da un amico di Maggioli « che è stato tra i primi a introdurre nella psicologia il metodo puramente sperimentale », e che si fonda sull’interrogativo – molto in voga nella cultura scientifica del secondo Ottocento – se « la rassomiglianza fisica di alcuni individui implic[hi] pure una rassomiglianza morale ». Non manca, anche in questo caso, la sottolineatura ironica di Maggioli-Capuana, riconducibile direttamente al Leopardi delle Operette morali, che vede l’incauto scienziato « morto da un pezzo, e i suoi manoscritti forse […] andati a finire presso qualche salumaio ». Ancora una volta la cavia è una donna, ‘colpevole’ di assomigliare troppo alla moglie dello scienziato. A suffragio di tale bizzarria vengono citati « il Gall 2 e il Lavater » 3 e la dottrina pseudoscientifica della frenologia, oltre che gli studi sui gemelli. La somiglianza fisica delle due donne sembra ricalcare anche una marcata somiglianza comportamentale fino però al drammatico epilogo, che inficia la prevedibilità dell’esito finale dell’esperimento di induzione al suicidio. Lo scienziato non riuscirà a fermare la mano autolesionista della sosia perché ella aveva scelto un metodo diverso da quello di sua moglie. Ed è legata ancora al suicidio la singolare figura dello ‘iettatore’, protagonista di Un uomo felice. Giornata decima. 4 Un  

















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  Luigi Capuana, Il Decameroncino, cit., p. 59.   Il medico tedesco Franz Joseph Gall (1758-1828) propugnò una dottrina pseudoscientifica, nota come frenologia. Ventisette ‘regioni’ cerebrali costituirebbero la sede naturale di determinate funzioni psichiche ; ogni alterazione morfologica del cranio sarebbe spia certa di peculiarità psichiche e comportamentali. Gall si guadagnò una fama sinistra a causa della sua abitudine di collezionare crani umani. 3   La fisiognomica di Johann Kaspar Lavater, esplicitata nel suo Von der physiognomik, del 1772, e poggiava su basi etnologiche, che si evidenziavano attraverso l’asserzione della duplice connotazione – sociale e naturale – dell’essere umano. Il fine ultimo era la bellezza fisica nella morale cristiana. Il pastore Lavater asseriva un’idea della fisiognomica teologico-etnologica, in cui si poteva trovare ovvia corrispondenza tra bellezza morale e fisica in un’ottica assolutisticamente cristiana. 4   Luigi Capuana, Il Decameroncino, cit., pp. 99-107. 2



uomo al quale la vita non ha mai riservato gioie, ma destinato, in fondo, alla sua buona dose di immunità da ‘eccesso’ di sventura : « Una volta, dopo un gran delusione, tentai anche di suicidarmi. Avevo preso ogni precauzione per non sbagliare nel finirla. Tu non lo crederai ; mi andò a male anche il suicidio per eccesso di precauzioni », sino al grottesco epilogo che lo vede investito da una carrozza il giorno del ritrovamento di un biglietto vincente della lotteria. « Eccezione che conferma la regola ». La costruzione del personaggio è, ovviamente, paradossale e, in apparenza, lontano dall’ambientazione scientifica della maggior parte delle novelle della raccolta. In realtà, egli è un’ulteriore maschera dell’autore e dei suoi poliedrici interessi, un ‘rifugiato’ della cultura umanistica, un professore di lettere morbosamente attratto dalla scienza medica e dalla dissezione anatomica del « cadavere di una bella ragazza », che ha rifiutato di laurearsi in medicina soltanto per provocare danni minori. Ma è evidente che l’umanista-iettatore si comporta come scienziato alla ricerca di ‘leggi’ che governano la vita umana ; specie quando asserisce, quasi cartesianamente, che « riguardo a questo mondo, abbiamo sufficienti indizi della sua realtà », oppure quando si ostina a trovare la ‘legge’ che governa la sua malasorte : « legge di compensazione. Mirabile legge ! Occorre di essere disgraziati per raggiungere l’estremo possibile limite della vita ». La Conclusione 5 della raccolta vede, infatti, una sorta di passaggio del testimone fra il ‘narratore’ Maggioli alle prese con la seduzione della scrittura e il ‘trascrittore’ Capuana. L’anziano medico confessa di aver provato, una volta, la frenesia « di cominciare un esperimento », di dar vita ad una novella e a dei personaggi, senza mai riuscire a finirla, a causa di strane allucinazioni persecutorie che lo vedono ‘pirandellianamente’ assediato dai protagonisti che reclamano il compimento del proprio destino : « O dunque ? Ci lascia così ? Né in cielo, né in terra ? ». Nella Conclusione ritroviamo un’interessante notazione, circa il processo di ‘lavorazione’ di una novella : « Se avessi dovuto raccontare in conversazione questa scena, il dialogo mi sarebbe uscito dalle labbra quasi senza che io me ne accorgessi. 6 Ora, invece, mi sentivo impacciato dal maledetto verismo o naturalismo, dalla maledettissima teorica dell’osservazione diretta ». A Maggioli non resta che liberarsi dei suoi fantasmi letterari tracciando il gesto apotropaico della parola « Fine ! ».  





















































   

5   Luigi Capuana, Il Decameroncino, cit., pp. 108-119. In questo ‘metaracconto’ – quasi una dichiarazione di poetica – Capuana-Maggioli rappresenta il processo creativo, l’ispirazione, alla stregua di una allucinazione medianica, in termini simili a quelli utilizzati dall’autore nelle pagine, citate, di Spiritismo ?, cit., n. 43 e n. 49. 6   Ancora una volta evidente è il rimando a Vita nova, xix [ii] : « Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa ».  







L’ESORDIO TEATRALE DI ROSSO DI SAN SECONDO E GLI SPERIMENTALISMI PROTO-NOVECENTESCHI Flora Di Legami

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o sconvolgimento figurativo promosso dal futurismo, con l’esaltazione di flussi dinamici e avventure irrituali, ha inaugurato un ciclo artistico di cui i protagonisti avevano euforica coscienza e ha attivato forme di narrabilità dell’esistente che ancora ci riguardano. Resta da chiedersi se abbia senso sostare sui tumultuosi movimenti che hanno riformulato lo spazio letterario agli inizi del Novecento, in tempi in cui l’idea stessa di sperimentalismo, dopo i fuochi degli anni Sessanta, sembra aver saturato se stessa. Si potrebbe rispondere che la ripresa dei nodi culturali e perfino degli ingorghi estetico-politici, inaugurati in quegli anni, aiuta a comprendere i processi liquidi e complessi del nostro tempo, permette di rintracciare, insieme ai fili delle trame letterarie e teatrali che hanno segnato i linguaggi del secolo scorso, alcuni tratti salienti, se non identitari, della modernità. A cominciare dal rapporto tra scoperte scientifiche e codici ipertestuali, 1 smaliziati assemblages di tessere verbali e visuali, 2 giochi di forme letterarie e strumenti informatici, segni, riformulati, dello sperimentalismo proto-novecentesco. Se la stagione delle avanguardie primonovecentesche si caratterizza per un libero movimento di teorie e posizioni di radicale cambiamento, spetta al futurismo il posto di maggiore visibilità e incidenza per via di dichiarazioni e statuti che promuovono un’estetica del moderno. Ma la complessità delle trasformazioni in atto, tra fine Ottocento e primo decennio del Novecento, si sottrae con forza a prospettive univoche e non può esonerarci dal cogliere segnali interessanti e decisivi, per i codici in formazione, anche là dove il nuovo si presenta in singolari impasti di materiali della tradizione con la forza significante di punti di vista inediti, in progetti appartati, ma non per questo meno radicali e determinanti. Senza riprendere l’annoso dibattito sulla maggiore incisività artistica, in proiezione diacronica, di avanguardie o sperimentalismi, penso sia opportuno considerare il fertile terreno di tangenze e scarti tra le diverse modalità di ricerca, determinatosi alla svolta del secolo xx. Significativo in tal senso il rapporto, sul piano teatrale, tra le rumorose sovversioni teorico-pratiche di Marinetti e le innovazioni di Rosso di San Secondo, che tuttavia, in analogia al demone del suo cognome, sembra ancora destinato ad una circolazione secondaria, dopo i successi degli anni Venti. 3 Il teatro, alla svolta dei due secoli in esame, è il centro nodale di pratiche espressive avanzate e di soluzioni stilistiche che sostengono le novità poetiche in corso. In tempi di radicali

insofferenze per positive sistemazioni logiche e di attenzione crescente per simultanee percezioni spazio-temporali, diventa impraticabile l’idea di una statica riproduzione del reale. Ad essere messo in discussione è lo statuto mimetico dell’arte, cardine del naturalismo, con vistosi movimenti d’abrogazione o con strategie d’ironica e/o fantastica erosione. La sfida a cui si sentono chiamati gli artisti è la formalizzazione di un molteplice caotico e frammentario, riguardato ora con la coscienza della discordanza – nelle riflessioni di Pirandello 4 – ora con l’idea di potenzialità dinamiche e vitali, nelle proposte di Marinetti e compagni. 5 Alla riduzione di criteri realistici si accompagna un significativo incremento di tracciati simbolici e analogici, quali saranno celebrati da Marinetti nel Manifesto tecnico della letteratura futurista. 6 Non è difficile osservare che molti dei progetti artistici del primo Novecento, nel sovvertire orizzonti predefiniti con slanci immaginativi o con affondi analitici, inaugurano corrispondenze figurali con l’ordine culturale di riferimento e con i linguaggi in formazione. Svagati flaneurs (da Baudelaire a Walser), ironici saltimbanchi (da Palazzeschi a Folgore), malinconici pierrots lunaires (da Corazzini a Govoni), viandanti perplessi o esploratori della notte materica e metaforica (Campana, Rosso), ci vengono incontro con tratti parodici e colori fauves, tra choc e fascino della modernità, mentre bambole e marionette stranianti inaugurano inedite avventure di sdoppiamento ed astrazione. Sembra che, in sintonia con le forme, proprio le immagini raccontino la materia intellettuale e inventiva che le genera, rendendo visibile la costruzione di una sintassi spaziale e di un alfabeto stilistico disposti su fili analogici. La facies di duplicità insita in molte di queste figure segnala una funzione sintagmatica di mescidanza, allude ad un reticolo di intersezioni e incroci in cui si deposita, a prescindere 4   « Non mai credo, la vita nostra eticamente ed esteticamente fu più disgregata. [...] A me la coscienza moderna dà l’immagine di un sogno angoscioso attraversato da rapidi larve d’una mischia notturna ». Luigi Pirandello, Arte e coscienza d’oggi, in Idem, Saggi, poesie e scritti vari, a cura di Manlio Lo Vecchio-Musti, Milano, Mondadori, 1960, p. 75. 5   « È stupido voler spiegar con una logica minuziosa tutto ciò che si rappresenta, quando nella vita non ci accade mai di afferrare un avvenimento interamente, la realtà ci vibra attorno con raffiche di frammenti di fatti combinati tra loro, [...] confusi aggrovigliati, caotizzati [...] È stupido rinunziare al dinamico salto nel vuoto della creazione totale fuori da tutti i campi esplorati ». Filippo Tommaso Marinetti, Emilio Settimelli, Bruno Corra, Il teatro futurista sintetico, 11 gennaio-18 febbraio 1915, ora in Marinetti e i futuristi, a cura di Luciano De Maria, Milano, Garzanti, 1994, p. 168. Sul teatro futurista si veda : Teatro italiano d’avanguardia : Drammi e sintesi futuriste, a cura di Mario Verdone, Roma, Officina, 1970 ; Umberto Artioli, La scena e la dynamis, Bologna, Cappelli, 1975 ; Théatre futuriste italien, a cura di Giovanni Lista, Lausanne, L’âge d’homme, 1976 ; Anna Barsotti, Futurismo e avanguardie nel teatro italiano fra le due guerre, Roma, Bulzoni, 1990 ; Mario Verdone, Avanguardie teatrali : Da Marinetti a Joppolo. Critica e antologia, Roma, Bulzoni, 1991 ; Teatro futurista sintetico, a cura di Guido Davico Bonino, Genova, Il Melangolo, 1993 ; Laura Dondi, Qualche cenno sulla storia del teatro futurista, in Marinetti e i futuristi, cit., pp. lv-lxiii ; Marco Ariani, Giorgio Taffon, Scritture per la scena. La letteratura drammatica del Novecento italiano, Roma, Carocci, 2001 ; Paolo Puppa, Il teatro dei testi. La drammaturgia italiana del Novecento, Torino, utet, 2003 ; Roberto Salsano, Trittico futurista : Buzzi, Marinetti, Settimelli, Roma, Bulzoni, 2006. 6   « Per avviluppare e cogliere tutto ciò che vi è di più fuggevole e di più inafferrabile nella materia, bisogna formare delle strette reti d’immagini e analogie che verranno lanciate nel mare misterioso dei fenomeni », Filippo Tommaso Marinetti, Manifesto tecnico della letteratura futurista, 11 maggio 1912, ora in Marinetti e i futuristi, cit., p. 81.  







1   Cfr. George P. Landow, L’ipertesto. Tecnologie digitali e critica letteraria, Milano, B. Mondadori, 1998. 2   Cfr. Luigi Ballerini, La piramide capovolta. Scritture visuali e d’avanguardia, Venezia, Marsilio, 1975 ; Arte, architettura, spettacolo, grafica, letteratura, a cura di Enrico Crispolti, Milano, Mazzotta, 2001. 3   Per una bibliografia ragionata si veda, Paola Daniela Giovannelli, La critica e R. S. Secondo, Bologna, Cappelli, 1977 ; Francesco Callari, Correzioni, aggiunte e aggiornamenti alla bibliografia sansecondiana, in Il Teatro di R. S. Secondo, Firenze, Cesati, 1985. Per il teatro cfr., Giovanni Calendoli, Il teatro di R. S. Secondo, Roma, Vito Bianco, 1957 ; Luigi Ferrante, Rosso di San Secondo, Bologna, Cappelli, 1959 ; Pier Maria Rosso di San Secondo, Teatro, a cura di Luigi Ferrante, con Introduzione di Francesco Flora, Roma, Bulzoni, 1976, voll. 3 ; Anna Barsotti, Rosso di San Secondo, Firenze, La Nuova Italia, 1978 ; Paolo Puppa, La morte in scena : Rosso di San Secondo, Napoli, Guida, 1986 ; Roberto Salsano, L’immagine e la smorfia. Rosso di San Secondo e dintorni, Roma, Bulzoni, 2001. Per uno studio dei testi narrativi, rinvio al mio : Flora Di Legami, Un viandante della notte. La narrativa di Rosso di San Secondo, Palermo, La Palma, 2000.  















































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dai destini artistici dei singolo, il senso sperimentale che accomuna scritture differenti, nel segno di un’incessante mobilità. Forse non è senza significato che Apollinaire assegni un ruolo fondante al « Nomadismo epico esploratorismo urbano Arte dei viaggi e delle passeggiate » 1 quale elemento fondante di rinnovate tecniche letterarie. Dinnanzi alla densità magmatica di modelli teorici, proposte artistiche ed eventi eterogenei, si ha l’impressione di trovarsi in una virtuale piazza di ‘destini incrociati’, ove i diversi fili istituiscono imprevedibili connessioni e giochi formali. Nella dialettica di pienezza e assenza, stasi e movimento, riduzione della soggettività e spinte centrifughe, si va componendo un tessuto figurativo fondato su dinamiche contrastive. Si pensi allo stilema nicciano di apollineo e dionisiaco, al bergsoniano élan vital e al simultaneo intreccio di materia e memoria, all’impasto di ironia e bellezza in chi, come Baudelaire, scrive versi nel tempo desolato del moderno, al fondo di vitalità e pathos in bambole, marionette e fantocci, da Craig ad Artaud, dai futuristi a Rosso di San Secondo e Pirandello, per quanto attiene figure e linguaggi della Scena moderna. L’estetica teatrale delle avanguardie novecentesche inaugura strategie di duplicità che valorizzano tanto la figuratività astratta quanto la centralità performativa dei corpi. L’attrazione di espressionisti e futuristi per colori, luci, linee in movimento, l’attenzione per i segni frettolosi o incantati della vita cittadina, la consapevole esigenza di nuovi linguaggi di comunicazione per coinvolgere le masse nei progetti artistici in corso, finisce per assegnare un ruolo di assoluta centralità al teatro ; si fa urgente la necessità di rinnovarne forme e strutture, di rimodularne spazi e personaggi. L’insofferenza per decori e scenari realistici detta stilemi astrattizzanti, mette in moto procedimenti che, pure nell’assumere materiali quotidiani, li priva di valenze mimetiche e assegna a questi funzioni trasfiguranti. È in simili procedimenti bifocali, che si dispongono i primi segni di un processo di duplicazione, tra superficie e profondità, destinato a fecondi e complessi sviluppi nel corso del ventesimo secolo. Da Marinetti a Chiarelli, da Rosso di San Secondo a Pirandello, si guarda al teatro come al luogo più idoneo ad ospitare progetti e linguaggi, la cui energia eversiva si alimenta del rapporto immediato, tumultuoso e irriverente, con il pubblico. Spazio dinamico, ove le performances artistiche mettono in gioco, più che le parole, il corpo degli attori, i quali si offrono come materia di scandali programmati secondo strategie di stupore e di urto giunte fino agli attuali linguaggi pubblicitari, tanto commerciali quanto culturali. Di là dalla provocazione, la questione del corpo, centrale nella drammaturgia di tutto il Novecento, evidenzia sia il nesso materia-pensieri, sia lo sdoppiamento di un soggetto e il suo rapporto con la coscienza. Da qui il progressivo intensificarsi di elementi e stili translinguistici, come documenta la vivace cartografia delle serate futuriste. Un ruolo di primo piano, nell’organizzazione di esperienze e forme simultanee, assume la Sintesi, punto centrale e qualificante, nell’ottica dei futuristi, del teatro dinamico e moderno. Non può non destare attenzione che negli anni in cui, tra Parigi e Milano, si affermano i manifesti e i testi teatrali di Marinetti, uno scrittore siciliano, Rosso di San Secondo, entra nella scena letteraria del nuovo secolo con stilemi drammaturgici d’insolita energia innovativa, capaci di azzerare di colpo logori triangoli borghesi, vaudevilles, tragedie, lirismi e realismi di maniera, presentando un’idea della scena di respiro europeo. E se Marinetti, con Roi Bombance e Poupeés electriques – rappresentati a Parigi tra il 1905 e il 1909 – ha già posto alcuni nuclei dei moderni codici scenici, è con Rosso che si assiste ad  





una programmatica sperimentazione di linguaggi essenziali, di scene visionarie, alla figurazione di spinte discordi in quadri sintetici e aperti. Colpisce, nello scrittore nisseno, la costruzione di testi in cui il superamento deciso del tradizionale codice « prolisso, analitico, pedantescamente psicologico » – di cui scriverà Marinetti nel Teatro futurista sintetico – si realizza in scene scarne, capaci di stringere « in pochi minuti, in poche parole e in pochi gesti […] idee, sensazioni, fatti e simboli ». 2 Nelle sintesi drammatiche, pubblicate nel 1911, lo stesso anno in cui si diffonde il Manifesto dei drammaturghi futuristi, si dispongono soluzioni formali in linea con le ricerche in corso di espressionisti e futuristi. Si pensi alla centralità dell’attimoframmento, all’opzione per procedimenti derealizzanti, alla caduta di qualsiasi forma narrativa, al taglio antisentimentale delle fabulae, alla circolazione di pulsioni subconscie e ansie metafisiche, insieme a luoghi e fatti del quotidiano, al prevalere di un linguaggio analogico e alla ricerca di complicità con lo spettatore. Sono questi alcuni degli elementi formalizzati, poco dopo, nei manifesti e nelle sintesi del 1915. 3 Resta da vedere quali siano i fili – nell’intricata matassa teatrale primonovecentesca – in grado di accostare autori molto diversi quali Rosso di San Secondo e Marinetti, all’altezza degli anni 1909-1913. Il drammaturgo nisseno non compare nei cataloghi o proclami degli artisti che insieme a Marinetti vanno costruendo l’edificio estetico del futuro, non figura tra i militanti della ‘pattuglia azzurra’, né tra i seguaci di complemento, giusto il catalogo di presenze fondative stilato da Apollinaire nel 1913 in L’antitradizione futurista. Ma gli itinerari, pur nell’autonomia di opzioni e linguaggi diversi, si incrociano e svelano interessanti punti d’intersezione, o almeno significative contiguità culturali. Si tratta di scrittori provenienti da lontane periferie (Alessandria d’Egitto l’uno, Caltanissetta l’altro), pronti allo sconfinamento di barriere istituzionali, interessati alla scena del mondo in trame ludiche e fantastiche, inclini a linguaggi irriverenti. Si pensi al marinettiano Roi Bombance, memore delle graffianti scene di Jarry o alla sintesi sansecondiana La Fuga, in cui il pathos della fanciulla sedotta ed abbandonata si ribalta nei toni irridenti di un carrettiere che azzera possibili scorie di dramma borghese con uno sguardo fumiste sul destino, ancorché desolato, della giovane. Le tracce stilistiche dannunziane, evidenti nei testi di Marinetti e di Rosso, assumono presto, nella scrittura del nisseno, una valenza deformante, funzionali come sono alla costruzione di silenzi incurabili, assurde passioni, attese misteriose e sperdimenti di morte. 4 Tali scenari sono supportati da movimenti spezzati, luci chiaroscurali e linee sospese, con cui il drammaturgo costruisce inediti spazi di ‘alterità’ nella scena novecentesca. Si consideri La Sintesi, ove il linguaggio lirico, oltre che segnalare il mistero della vita e della morte, dichiara l’insufficienza del codice vigente e la ricerca di partiture espressive con cui rappresentare l’‘oltre’.  







il pastore (senza aprire gli occhi, biascicando le parole, mentre la saliva… gli riga da un lato il mento) Va’ [...] va’ non mi fare… morire… disperato. la moglie [...] Come posso farlo. Come posso lasciarti qua ? Come ? il pastore Mi fai morire disperato. Sì […] più tardi io muoio e tu resti qui, nella notte e [...] Dio mi ha fatto la grazia di lasciare te [...] così. Io sento che in questo modo continuo a vivere […] Così io non muoio ! Presto via […] fai questo ultimo sacrificio per me. Presto, il sole non aspetta. 5  





2   Filippo Tommaso Marinetti, Emilio Settimelli, Bruno Corra, Il teatro futurista sintetico, cit., pp. 164-165. 3   « È stupido curarsi della verosimiglianza [...] Il teatro futurista saprà esaltare i suoi spettatori… scaraventandoli in un labirinto di sensazioni improntate alla più esasperata originalità e combinate in modi imprevisti ». Ivi, pp. 166-170. 4   Sul tema si veda l’ottimo Paolo Puppa, La morte in scena : Rosso di San Secondo, cit. 5   Pier Maria Rosso di San Secondo, La Sintesi, in Idem, Teatro, i, cit., pp. 88-89.  





1   Guillaume Apollinaire, L’Antitradizione futurista, 29 giugno 1913, in Marinetti e i futuristi, cit., p. 121.

l ’ esordio teatrale di rosso di san secondo e gli sperimentalismi proto-novecenteschi Il tema del silenzio, 1 col variegato ventaglio di timbri, già nelle Sintesi, comporta la caduta di una parola argomentata e la messa in opera di una strategia di dissolvenza suggerita dai segni grafici di sospensione o dalle indicazioni prossemiche con cui, nella Notte, si chiude la scena. Quei tre corpi affranti – fra le ombre fantastiche che le cose proiettano sul pavimento e sulle pareti – sembra siano stati lì sbattuti da una tempesta ora chetata. Il lucignolo crepita, ha qualche guizzo, si spegne L’uomo non risponde. Ella cade riversa con il viso contro i guanciali entro cui muore il singhiozzo. Silenzio. Il sonno vince. Si odono i tre respiri di ritmo diverso e diversamente affannosi. Il tempo passa. (La Notte, p. 60)

Allo stesso tema, negli anni Trenta, Marinetti dedicherà una sintesi radiofonica, La costruzione di un silenzio. Pur nel contatto con i fermenti sperimentali di espressionismo 2 e futurismo, Rosso non dismette il patrimonio mitico e folclorico della cultura isolana e da questa trae figure e luoghi capaci di suggerire il mondo contemporaneo con strategie metaforiche e reinvenzioni mitiche, da La bella addormentata a Lazzarina tra i coltelli, da La danza su di un piede al Delirio dell’Oste Bassà. Ma i personaggi del mito – è noto – quando si intrufolano nella storia, specie quella novecentesca, vestono panni dimessi e scoloriti, talvolta grotteschi, hanno movenze febbrili o sonnamboliche, e tuttavia quei profili esprimono una inquieta energia figurale. Rosso, al pari dei futuristi, avverte il fastidio per un soggetto eccedente ed organizza una scena fondata su tecniche di oggettualità allegorica, su spazi di alterità e metamorfosi, opta per soluzioni formali in cui la centralità di corpi, oggetti e voci si lega all’inedito inventario di desideri e ansie, mentre il lavorio del linguaggio esibisce il corpo-testo della parola tra vuoti ed ingorghi, intenti deformanti e dinamismi visionari con cui rendere i nodi di detto, interdetto e non dicibile. Brevità dinamica, densità metaforica dei frammenti, non finito, sono nelle Sintesi gli elementi di un linguaggio che indica, per duplicazione, la costruzione di una Scena oltre l’apparato decorativo, attua la sospensione di azioni e spazi determinati oltre i confini del reale. Ed è su tali scelte che si possono individuare alcune convergenze con le ricerche di Marinetti, il quale porrà l’accento sulla necessità di costruire il nuovo teatro con « tutte le scoperte (per quanto bizzarre ed antiteatrali) che la nostra genialità va facendo nel subcosciente, [...] nella fantasia pura ». 3 E tuttavia Rosso è ben lontano da entusiasmi tecnologici o serate rumorose, incline piuttosto a rappresentare la caduta d’identità del soggetto e gli smarrimenti logici o psichici che si annidano nella coscienza dell’uomo comune. Lo scrittore, che si è nutrito dei vitali fermenti dell’umorismo pirandelliano, non ha tentennamenti nell’adottare come materia e criterio stilistico di un nuovo discorso teatrale la forza corrosiva di un fantastico immerso nel pathos. Nella scelta della complicità di gioco e profondità, si pone la dimensione critica del suo progetto inventivo. L’esercizio di un doppio ilare e tragico, concettuale e sensorio, l’adozione di un analogismo straniante, di una prospettiva soggettiva/oggettiva, sono modalità destinate a innovare il codice teatrale preesistente. E quando Marinetti, nel Teatro di Varietà, va puntellando il codice del ‘meraviglioso’  



teatrale, è difficile non cogliere affinità con taluni stilemi della scrittura di Rosso: « ironie impalpabili e deliziose ; simboli avviluppanti e definitivi ; […] tutte le nuove significazioni della luce, del suono, del rumore e della parola, coi loro prolungamenti misteriosi e inesplicabili nella parte più inesplorata della nostra sensibilità [...]. Il Teatro di Varietà è dunque la sintesi di tutto ciò che l’umanità ha raffinato finora [...] per divertirsi ridendo del dolore materiale e morale ». 4 Con i teorici della modernità lo scrittore nisseno condivide l’interesse per una scena anti-naturalistica, pronta a trascendere l’oggettività e figurare inquieti flussi psichici, in analogia con le posizioni dei pittori futuristi che dichiaravano : « Bisogna rendere l’invisibile che si agita e che vive di là dagli spessori, ciò che abbiamo a destra, a sinistra e dietro di noi ». 5 Che vi sia una significativa vicinanza con i principi dei pittori non deve stupire dal momento che entrambi i codici, il pittorico e il teatrale, si fondano sulla funzione di uno sguardo d’autore che mette in forma progetti innovativi. 6 I fantasmi e le ombre del non visibile, nelle variabili di dolore e desiderio, le ‘linee sussultanti’ di corpi, emozioni e pensieri, sono i veri protagonisti delle Sintesi consegnati ad una scrittura metaforica. Lungo i sentieri dell’esperienza mondana (L’anniversario), della memoria personale e letteraria della propria terra (La fuga, Il re della zolfara), del mistero embricato nel quotidiano (Monelli, La sintesi) e della Notte, Rosso costruisce spazi e linguaggi che, nel mimare i ritmi della vita, dislocano l’azione sui piani dell’indecidibile. Nei testi del drammaturgo siciliano la ridotta misura spazio temporale delle scene ideate, più che assorbire o limare le tensioni, ne dilata le forze fino all’esplosione urlata o alla sospensione metafisica, lasciando in primo piano, insieme alla discontinuità e alla frammentazione angosciosa propria del moderno, una sorta di straniamento dell’autore che, nel rappresentare frammenti di stati d’animo, finisce per raccontare l’ambiguità tanto dei fatti quanto della parola che li rappresenta, in modalità che si ritrovano in successive sintesi futuriste. Penso a lavori come Giallo e nero di Chiti, Ombre + fantocci + uomini di Folgore, Il paradiso artificiale di Ginna, Sintesi delle sintesi firmata da Jannelli e Nicastro. 7 Una retorica dello slittamento, nelle Sintesi drammatiche, sostiene interessanti cortocircuiti simbolici. In La Notte, Monelli, La fuga, il Re della zolfara, il confine tra stabile e provvisorio, lineare e simultaneo, agisce da catalizzatore dell’azione, è il cardine intorno a cui si snodano i contrasti figurali che qualificano il piano espressivo e scenografico. Emblematica, in tal senso, la pièce con cui si aprono le Sintesi, l’Occhio chiuso, capace di sovvertire con slancio ogni tipologia naturalista e simbolista, ibridandone i codici e formulando una soluzione estetica del doppio, visivo e visionario, di grande intensità.  









  Cfr. Heidi Grundmann, La géométrie du silence, in Connexions. Art réseaux media, textes réunis et présentés par Annick Bureaud, Nathalie Magnan, Paris, École Nationale Supérieure des Beaux-Arts, 2002. 2   Oltre il sempre valido Ladislao Mittner, L’espressionismo, Bari, Laterza, 1965, importanti i contributi di Paolo Chiarini, Il teatro tedesco espressionista, Bologna, Cappelli, 1959, Idem, Caos e geometria : per un regesto delle poetiche espressioniste, Firenze, La Nuova Italia, 1964 ; Teatro dell’espressionismo. Atti unici e drammi brevi, a cura di Horst Denkler, Lia Secci, Bari, Laterza, 1973 ; Paolo Chiarini, L’espressionismo tedesco, Roma-Bari, Laterza, 1985. 3   Filippo Tommaso Marinetti, Il teatro futurista sintetico, cit., pp. 170-171.  









l’occhio

Chiuditi, o palpebra, ormai è tempo. La notte è avanzata.

4   Filippo Tommaso Marinetti, Il teatro di Varietà, « Daily-mail », 21 novembre 1913, ora si legge in Marinetti e i futuristi, cit., pp. 112-113. 5   Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Giacomo Balla, Gino Severini, Les exposants au public, in Les peintres futurists italiens, catalogo della mostra, 15-25 febbraio 1912, ora in Per conoscere Marinetti e il futurismo, a cura di Luciano De Maria, Bologna, Il Mulino, 1977, pp. 58-66. 6   « La prospettiva com’è intesa dalla maggioranza dei pittori ha per noi lo stesso valore che essi attribuiscono a un progetto d’ingegneria. La simultaneità degli stati d’animo nell’opera d’arte : ecco la meta inebriante della nostra arte [...]. Bisogna che il quadro sia la sintesi di quello che si ricorda e che si vede [...] Non solo noi abbiamo abbandonato [...] il motivo interamente sviluppato secondo il suo movimento fisso e quindi artificiale, ma tagliamo bruscamente e a piacere ogni motivo con uno o più altri motivi di cui non offriamo mai lo sviluppo intero ». Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Giacomo Balla, Gino Severini, Prefazione al Catalogo delle Esposizioni di Parigi, Londra, Berlino, Bruxelles, Monaco, Amburgo, Vienna, ecc., febbraio 1912, in Marinetti e i futuristi, cit. pp. 64-65. 7   Queste ed altre sintesi sono state raccolte da Mario Verdone, Teatro italiano d’avanguardia. Drammi e sintesi futuriste, Roma, Officina, 1970.  





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flora di legami

la palpebra Io sento voci e risate qua sotto. Giungono dalla taverna. l’occhio Gente di taverna veglia a quest’ora o gente irrequieta. Dormono quelli che hanno l’anima in pace. la palpebra E quest’uomo non è in pace. l’occhio Lo so. Ma tu chiuditi. la palpebra Questi mi tormenta. l’occhio Sforzati. la palpebra Ma perché tanto interesse ? l’occhio Quando ti chiudi, io mi rivolgo e guardo dentro. la palpebra Che vedi ? l’occhio L’angoscia di quest’uomo, raffigurata in ombre, in persone, in gesti. la palpebra È evidente ! l’occhio Io rido. la palpebra Perché ? l’occhio Vedo un essere che si tormenta per nulla. …………………….. Ti chiudi ? Va bene. Ecco ! Incomincia... (Occhio chiuso, p. 55)  











Il lettore odierno non può non seguire ammirato la levità ironica-fantastica con cui lo scrittore nisseno sperimenta la forza disvelante di uno sguardo-parola immerso nel magma di tensioni contrastanti, secondo uno statuto parodico teorizzato di lì a poco da Marinetti nel Teatro di Varietà, ‘divertirsi del dolore materiale e morale’, ed esposto da Palazzeschi nel Controdolore : « Bisogna abituarsi a ridere di tutto quello di cui abitualmente si piange… Maggior quantità di riso un uomo riuscirà a scoprire dentro il dolore, più egli sarà un uomo profondo ». 1 Per raccontare le antinomie della modernità Rosso lavora ad una idea di teatro come anamorfosi delle contraddizioni culturali ed esistenziali del tempo ; per costruire un nuovo linguaggio attinge alla carica mitica della ‘caverna’ platonica che gli consente un ventaglio espressivo cangiante ; per tal via introduce lo spettatore alla pluralità segnica della scena. Tramite la cortina-sipario della palpebra, Rosso delinea uno spazio di straordinaria modernità, iperdeterminato da sensi e tropi metaforici, da una brevità incisiva e da un linguaggio disposto oltre la linea comunicativa delle parole. Non si dimentichi – giusta l’osservazione di Barthes – che « Quello che accade all’occhio [...] non può venire assimilato a un’invenzione comune [...] quella scena non può essere che l’immaginazione stessa : non il suo prodotto, ma la sua sostanza ». 2 Il filtro bifocale, enunciato nell’Occhio chiuso, sembra risemantizzare il mitico sguardo di Ermes, la sua figurale levità nell’inquadrare azzardi ed enigmi, ibridata con l’energia dionisiaca dei sensi, in modi di fertile ambivalenza. Il testo si presenta come un singolare laboratorio di materiali inventivi, funzioni mitiche, criteri metonimici e paradigmi sintetici, in corrispondenza con quanto, in quel giro di anni, sperimentavano le avanguardie europee. Con avvertita sensibilità delle trasformazioni poetiche in atto nei teatri europei, Rosso di San Secondo punta con decisione su una figuratività astratta, e colloca il ‘meraviglioso’ antisublime nello spazio ideativo dell’altrove e nei tratti stilistici dell’ironia. Da dove scaturisce l’idea di sintesi in Rosso ? Difficile rispondere con certezza, in mancanza di riscontri epistolari o teorici affidabili. È probabile che al fondo di tale progetto vi sia la lezione verghiana dell’atto unico come scena essenziale di un conflitto ; una sensibile attenzione ai linguaggi analogici dei futuristi e l’influenza degli stilemi espressionisti, asciutti e tesi, per cui colori, suoni, oggetti, avanzano come luoghi dello spaesamento dei personaggi. Ma non è da escludere che nel laboratorio inventivo del nisseno abbia agito la memoria trasfigurante di una pagina narrativa di Pirandello, già dotata  



















1   Aldo Palazzeschi, Il Controdolore, « Lacerba », 29 dicembre 1913, si legge ora in Marinetti e i futuristi, cit., pp. 131-132. 2   Roland Barthes, La metafora dell’occhio, in Idem, Saggi critici, Torino, Einaudi, 1976, pp. 5-6.  



di un assetto stilistico da sintesi, in cui l’agrigentino figurava la metamorfosi del teatro con marionette in procinto di cambiare connotati e diventare personaggi moderni, dubbiosi e problematici. 3 Il nesso tra concretezza e astrazione, essenziale nella genesi di un teatro novecentesco di pensiero, è funzionale in Rosso alla rappresentazione di un campo referenziale non ancora familiare, di cui contribuisce a fissare i tratti. Non è senza significato che su analoghi fili di colorata astrazione sia tessuta la sintesi Accampamento di Luciano Folgore, a conferma se non di una diretta conoscenza, certo di una storica sintonia di ideazioni e linguaggi tra i testi di Rosso e le ricerche dei futuristi. Basti pensare ai singolari protagonisti della pièce, cuore e cervello, deputati a svagate connessioni fantastiche, in ‘brevi monologhi’ di emozioni e pensieri. 4 Lo sdoppiamento mentale-materico oggettivato in bambole e marionette torna in tante scene di Rosso da Marionette, che passione ! a La bella addormentata, da Lazzarina tra i coltelli a Una cosa di carne e si pone come isotopia di un asse inventivo incardinato sulla coscienza della frattura fra ragione e pulsioni profonde e ancor più sull’ambivalenza di una parola legata a cose o fatti, ma spinta verso le regioni dell’inconscio e del mistero. Ed è per tal via che Rosso, con le sintesi e con i successivi testi teatrali, intercetta l’Assenza e l’Altrove, in scene dotate di novità sperimentale. La dinamica di logiche diurne e allarmati brusii notturni, visibile ed invisibile, frasi e balbettamenti, fa delle ‘sintesi’ la prima tappa di un’opera tesa al sovvertimento di azioni e spazi naturalisti in vista di una scena astratta. Un immaginario sottratto alla logica del reale, che « non potrebbe succedere in nessun caso salvo appunto nella regione tenebrosa o ardente dei fantasmi, regione che [l’occhio] è il solo a poter designare ». 5 La costruzione drammaturgica della Notte è realizzata con i materiali della tradizione, ma tramata con i colori fauves e i ritmi stridenti della modernità. L’ambiente è verghianamente connotato in tratti essenziali, il tema dell’adulterio è quello del teatro borghese, le linee della fabula, in superficie, sono esemplate su modelli naturalistici. Di fatto il processo mimetico si spezza, per l’irrompere sulla scena di un senso imperscrutabile che smaglia la linearità dell’evento ripreso e lascia sospesa la scena. Con geniale intuizione del nuovo che si andava costruendo in Europa, i personaggi della sintesi non hanno volto né nome, ma solo corpi e voci in cui si condensa il nodo di passioni quotidiane e attese insondabili. Il taglio scenografico è asciutto e dinamico : non v’è spazio per il racconto del tradimento, sono le cose quotidiane – tavola, sedia, letto, canterano – a condensare le tensioni in atto con  







3   « – La tragedia d’Oreste in un teatrino di marionette !.. – La tragedia d’Oreste ? – Già ! D’après Sophocle, dice il manifestino. Sarà l’Elettra. Ora senta un po’ che bizzarria mi viene in mente ! Se nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe ? Dica lei. – Non saprei. – Ma è facilissimo. Oreste rimarrebbe [...] sconcertato da quel buco nel cielo. – E perché ? – Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gli impulsi della vendetta […] ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo […] e si sentirebbe cadere le braccia. Oreste, insomma diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure : in un buco nel cielo di carta », Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, in Idem, Opere, i, Milano, Mondadori, 1973, pp. 467-468. 4   « primo cuore – Riceverò un cartoccio di lacrime. cervello agile – Tra poco la solita scalinata di parole per salire dolcemente al belvedere dei baci. Ma ci fumerò sopra una sigaretta morbida […] cervello vagabondo – Mi parleranno di città elettriche. Amo le vetrine del lusso. Adoro le improvvisate del mondo in rotazione continua. Ho bisogno di ricordi multicolori. […] cuore oscillante – Come deve essere bella l’altalena dell’adulterio per chi non soffre il capogiro ». Luciano Folgore, Accampamento (Attesa di posta), in Mario Verdone, Teatro italiano d’avanguardia. Drammi e sintesi futuriste, cit., p. 74. 5   Roland Barthes, La metafora dell’occhio, cit., p. 334.  





















l ’ esordio teatrale di rosso di san secondo e gli sperimentalismi proto-novecenteschi

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un rilievo, la cui funzione è già quella di un moderno correlativo oggettivo.

città dorme. Una fine pioggerella sbatte sui vetri. Il buio lo atterrisce ; torna indietro) Anna, va’ a letto. (La notte, p. 59).

la donna Sì, Ninetta, fo fatto tardi… (L’uomo torna alla finestra. La donna cade su d’una sedia accanto al canterano e resta immobile. Un lungo silenzio affannoso in cui il minimo rumore fa sussultare : […] Nella penombra sul guanciale gli occhioni della bambina brillano impauriti da una visione misteriosa, poi a poco poco si velano e le palpebre lentamente li ricoprono) (La Notte, p. 58)

Nell’imploso-esploso della scena la lingua procede ora allusiva e sospesa, ora incalzante e tesa, per captare e figurare, insieme a dubbi e silenzi, il senso che sfugge. Non « l’amplificazione e trasfigurazione di vibrazioni emesse dalla materia » secondo quanto annoterà Marinetti nel manifesto futurista La radia, 2 ma parole e gesti scorciati per figurare vibrazioni emotive e ansie metafisiche. Si rilegga la sintesi I monelli.



La parola recitata è prosciugata al limite di un azzeramento radicale, in modi propri di una drammaturgia da Novecento avanzato, mentre il linguaggio prossemico, 1 tra indicazioni gestuali e dati narrativi, segnala la costruzione di una scena tesa ad evocare orizzonti trasognati, capace di esprimere, nella brevità della didascalia, la pluralità di emozioni e pensieri che si annodano a gesti e movimenti corporei. l’uomo (le guarda i capelli scarmigliati sul capo chino e negli occhi gli luccica l’innumerevole riverbero delle interne passioni cozzanti : la rivede bambina al paesello natio... ; la rivede giovinetta e risente la tenerezza del primo amore ; la vede donna e risente la gioia del lavoro e del matrimonio ; la vede madre e risente la sacra venerazione). Finito ! Finito ! (Un impeto nuovo di afferrare quel corpo che gli stava davanti, di spezzarlo, di frantumarlo, gli fa protendere le mani.) la donna (con un sorriso pieno di lacrime, con una sete immensa di dolore, porgendo il capo al marito) Sì, sì, le tue mani... [...] l’uomo (per l’affanno d’una giornata ch’è stata un secolo, casca stanco sulla sedia presso il letto. La voce di lei gli risuona nell’anima : « Perché ? » Non sa nemmeno lui il perché ! Guarda ancora la donna e la vede qual è realmente : un piccolo corpo fragile che sussulta ad ogni singhiozzo. Egli, che spasima di dolore, comprende quale schianto interno ella sentirà ad ogni sussulto. Pensa alle insidie della vita ; pensa all’eterno rimescolio della strada dove, costretto a lavorare, ha sentito più volte le acuminate punte dell’invidia, dell’odio, del livore, del disprezzo pungergli il cuore ; vede l’intricato turbinio dell’umanità, ne sente il brulichio, ne vede l’incomposto serpeggiare delle passioni. Si sforza di pensare quella donna, quell’esile creatura peccatrice, sola in mezzo al mondo. Si alza ; va verso la finestra. La  



































2° monello Non ti piacerebbe morire senza accorgertene ? 1° monello (pensa un momento) Sì. 2° monello E quelli morirebbero senza accorgersene. 1° monello Non è lo stesso. 2° monello Scusa : perché non dovrebbero essere contenti ? Perché stanno al caldo a sentire musica ? [...] 1° monello Hai mangiato stasera ? 2° monello Io ? Perché ? 1° monello Hai mangiato ? 2° monello No [...] 1° monello E dunque ? 2° monello Dormo lo stesso 1° monello Dove ? 2° monello Dovunque 1° monello (si ferma, si stacca dal compagno, lo guarda in faccia, e poi) Di’ c’è Dio ?. 2° monello C’è. (pp. 86-87)  





















Una complessa rifrazione di certo ed illusorio, razionale ed emozionale, corrode lo statuto mimetico della fabula e progetta una macchina teatrale fondata su climi surreali e dispositivi stranianti. Scene come questa, al pari delle sequenze della Notte o dell’Occhio chiuso, svelano la forza di anticipazione della scrittura di Rosso sul teatro dell’assurdo. E se il pathos si mescola ad una pungente polemica verso l’ethos borghese, la novità drammaturgica è data da profili prototipici e scheggiati, da strategie di abbassamento parodico del tragico, da tecniche di sospensione tese ad accentuare il non senso del vivere. Figure e stilemi onirici cooperano, in Rosso, alla costruzione della più significativa drammaturgia novecentesca, quella incardinata su procedimenti di attesa, estraneità radicale o sul consumo febbrile di desideri e fobie, legati ad oggetti e luoghi comuni, quale si disporrà in Giorni felici di Beckett o La cantatrice calva di Ionesco. 2   Filippo Tommaso Marinetti, Pino Masnata, La radia, « La Gazzetta del popolo », 22 settembre 1933, ora in Filippo Tommaso Marinetti, Teoria e invenzione futurista¸ a cura di Luciano De Maria, Milano, Mondadori, 20015, pp. 205-210.  

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  Per un approfondimento del tema, si veda Roberto Salsano, Introduzione alle didascalie della sintesi drammatica La Notte di R. S. Secondo, Roma, Palombi, 1982 ; Idem, L’immagine e la smorfia. Rosso di San Secondo e dintorni, cit.  



LA POESIA FUTURISTA E L’IMMAGINE Edoardo Esposito

I

l rapporto che il futurismo stringe fra immagini e poesia è cosa non solo nota ma scontata anche per il largo pubblico, ed è parte consustanziale, del resto, di quella rivoluzione e commistione fra le arti che ai primi del Novecento era in atto non solo nell’ambito del movimento di Marinetti, ma quanto meno nella Parigi che vedeva muoversi sulla sua scena personaggi come Pablo Picasso, Wyndham Lewis, il coreografo russo Diaghilev e molti altri. Del resto, poesia e pittura, arti ‘sorelle’ da sempre, hanno spesso trovato artisti che le praticassero entrambe in modo eccellente, e altrettanto spesso è accaduto che fossero i letterati a farsi sostenitori e banditori dei nuovi artisti mettendo a loro disposizione la propria capacità di dominio della parola. È nota l’attività di Baudelaire in questo senso, mentre per gli anni che riguardano lo stesso futurismo basterà ricordare il libro di Apollinaire del 1913 su Les peintres cubistes. A Parigi si era sviluppato il simbolismo, il decadentismo ; e proprio Baudelaire nel famoso sonetto delle Correspondances aveva proclamato che « Les parfumes, les couleurs et les sons se répondent », Rimbaud nel non meno famoso Voyelles aveva illustrato i colori delle vocali, e se Verlaine aveva cercato di dissolvere le parole nella musica (« De la musique avant toute chose »), Mallarmé aveva realizzato negli ultimi anni della sua vita, con il poema Un coup de dés, qualcosa che Valéry avrebbe descritto in questo modo :  











Era un poema fatto espressamente per dare al lettore seduto accanto al fuoco l’impressione di uno spartito d’orchestra. Mallarmé aveva riflettuto a lungo sui vari accorgimenti letterari che consentissero, sfogliando un fascicolo con caratteri tipografici, di ritrovare quello stato che ci comunica la musica di un’orchestra ; e, attraverso una combinazione estremamente studiata, estremamente sapiente degli strumenti materiali della scrittura, attraverso una disposizione assolutamente nuova e profondamente meditata degli spazi bianchi, dei pieni e dei vuoti, dei diversi caratteri, delle maiuscole, delle minuscole, dei corsivi ecc., egli era arrivato a costruire un’opera dall’aspetto veramente straordinario. È certo che scorrendo questo spartito letterario, seguendo il movimento di questo poema visivo, in cui certe parole e certi passaggi, per il fatto di essere stampati nello stesso carattere, si rispondono e si richiamano a distanza proprio come dei motivi o dei suoni in un brano di musica, si coglie, si crede di udire una sinfonia di tipo assolutamente nuovo. 1  

Proprio questa sperimentazione doveva costituire un punto di riferimento essenziale per Marinetti, che tra l’altro si farà traduttore in italiano proprio di alcuni testi di Mallarmé. Basterà guardare a una pagina fra le tante della sua attività letteraria, che scegliamo da un testo pubblicato nel 1919 per le Edizioni futuriste di « Poesia » e intitolato 8 anime in una bomba, per trovare esempi come questo (Fig. 1). Sia pure con una nuova veemenza, gli elementi tipografici si innalzano qui, come nel caso di Mallarmé, a dati significativi per l’interpretazione o il godimento del testo. E ci si può stupire, semmai, che il Manifesto tecnico della letteratura futurista, che Marinetti redige nel 1912, non prenda minimamente in considerazione, fra le tante ipotesi formulate per liberare la scrittura dalla sua staticità, appunto questa possibilità di movimento e alleggerimento dato dalla organizzazione tipografica del testo. L’unico accenno, del tutto marginale, è in questo senso costituito dall’invito a usare i segni matematici  



1   Cito da Poesia francese del Novecento, a cura di Vincenzo Accame, prefazione di Carlo Bo, Milano, Fabbri-Bompiani-Sonzogno-etas, 1985, pp. xvixvii.

Fig. 1.

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