L’attesa della verità. A cura di Sabina Moser 9788811142041

"Viviamo in una società che è diventata una macchina per infrangere i cuori, per schiacciare gli spiriti, per fabbr

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L’attesa della verità. A cura di Sabina Moser
 9788811142041

Table of contents :
Indice......Page 326
Frontespizio......Page 3
Presentazione......Page 2
1. Il senso di un libro......Page 5
2. La vita......Page 7
3. Il pensiero......Page 19
4. La fortuna......Page 40
NOTA BIBLIOGRAFICA......Page 43
QUATTRO LETTERE A PADRE PERRIN......Page 49
1. Esitazioni davanti al battesimo......Page 51
2. (Stesso argomento)......Page 58
3. A proposito della sua partenza118......Page 63
4. Autobiografia spirituale......Page 65
L’«ILIADE» POEMA DELLA FORZA......Page 84
L’AMORE DI DIO......Page 112
Appunti sull’amore di Dio......Page 115
Riflessioni senza ordine sull’amore di Dio......Page 121
L’amore di Dio e l’infelicità......Page 130
ALCUNE RIFLESSIONI INTORNO ALLA NOZIONE DI VALORE......Page 147
PENSIERI ANTOLOGIA DAI «CAHIERS»......Page 159
Amor fati......Page 162
Attenzione......Page 165
Attesa......Page 175
Azione non agente......Page 178
Bellezza......Page 183
Bene......Page 189
Compassione......Page 201
Contraddizione......Page 208
Decreazione......Page 215
Distacco......Page 220
Giustizia......Page 228
Grazia......Page 235
Grosso animale......Page 243
Libertà......Page 248
Meccanismo soprannaturale......Page 252
Necessità......Page 256
Obbedienza......Page 266
Ordine......Page 274
Tempo......Page 279
Umiltà......Page 288
Verità......Page 293
Vuoto......Page 302
Note......Page 309

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«Viviamo in una società che è diventata una macchina per infrangere i cuori, per schiacciare gli spiriti, per fabbricare incoscienza, stupidità, corruzione, ignavia, e soprattutto vertigine»: così scriveva nel 1934 la venticinquenne Simone Weil. In questo nostro tempo di grande disagio, dove sono morte le ideologie ed è venuta meno la capacità di interpretare i segni e il linguaggio della tradizione cristiana, solo la ricerca della verità, fine autentico della vita umana, può dare una risposta allo smarrimento e all’angoscia dell’uomo. La riscoperta della Weil, di cui si propongono alcuni dei testi più noti insieme a una scelta di pensieri dai Cahiers ordinati per temi in una sorta di itinerario filosoficospirituale, è un validissimo aiuto per intraprendere quel cammino interiore che può condurre l’uomo a ritrovare sé stesso, le sue radici e il senso del suo esserci. Sabina Moser è studiosa del pensiero weiliano, cui ha dedicato: Uno sguardo nuovo. Il problema del male in Etty Hillesum e Simone Weil (con B. Iacopini, 2009), La fisica soprannaturale. Simone Weil e la scienza (2011), Il «credo» di Simone Weil (2013).

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www.illibraio.it In copertina: Limiti della ragione di Paul Klee (1927). Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Sammlung Moderne Kunst in der Pinakothek der Moderne ISBN 978-88-11-14204-1 © 2014, Garzanti Libri s.r.l., Milano Gruppo editoriale Mauri Spagnol Prima edizione digitale: 2014 Quest'opera è protetta dalla Legge sul diritto d'autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

INTRODUZIONE

«Bisognerebbe scrivere di cose eterne per essere certi che saranno attuali» Lettera ai genitori, Londra 1943

1. Il senso di un libro A molti anni ormai dalla sua morte, avvenuta nel 1943, dopo tanto silenzio da parte di una cultura spesso attenta a prodotti mediocri e distratta invece nei confronti di testi e autori davvero capaci di fare riflettere, il pensiero di Simone Weil comincia ad avere la diffusione che merita. Questa antologia si prefigge in primo luogo di contribuire alla sua divulgazione, nella certezza che esso venga profondamente incontro al bisogno dell’uomo contemporaneo di trovare un punto di riferimento valido, in questo tempo in cui «mai l’individuo è stato così completamente abbandonato a una collettività cieca e mai gli uomini sono stati più incapaci non solo di sottomettere le loro azioni ai loro pensieri, ma persino di pensare»,1 dal momento che «viviamo in un mondo dove nulla è a misura dell’uomo; c’è una sproporzione mostruosa tra il corpo dell’uomo, lo spirito dell’uomo e le cose che costituiscono attualmente gli elementi della vita umana; tutto è squilibrio».2 Infatti, come Simone scrive ancora, «la vita moderna è in balia della dismisura. La dismisura invade tutto, azione e pensiero, vita pubblica e privata».3 Con questa espressione la Weil vuole indicare quella che gli antichi chiamavano ýbris, ossia la tendenza a espandere senza limiti la propria potenza, il proprio ego, in tutte le direzioni, andando

incontro a quella mancanza di equilibrio da cui fatalmente deriva il disordine, personale e sociale. In questo nostro tempo di grande disagio, dove da un lato sono morte le ideologie, dall’altro si è ormai incapaci di interpretare i segni e i simboli della tradizione cristiana, come pure di intenderne il linguaggio, la lettura della Weil può essere un validissimo aiuto per intraprendere quel cammino interiore che aiuti l’uomo a ritrovare sé stesso, le sue radici4 e il senso del suo esserci. Certo, le pagine weiliane sono impegnative e per certi versi scomode perché ci mettono di fronte, spietatamente, alla situazione nella quale viviamo e suonano come un appello a fare tutta la nostra parte per rivoluzionare la nostra «architettura interiore», per modificare questo stato di cose, personale e sociale. Noi viviamo infatti in una società che è diventata «una macchina per infrangere i cuori, per schiacciare gli spiriti, una macchina per fabbricare incoscienza, stupidità, corruzione, ignavia, e soprattutto vertigine».5 Il cammino interiore che la Weil propone è per tutti: non richiede abitudini religiose o credi dogmatici, ma muove anzi da un vivere e pensare laico, libero, che sinceramente cerca ciò che ha davvero valore. È questa, infatti, l’idea sottesa all’espressione «classici dello spirito», fra i quali Simone Weil può essere senz’altro annoverata; essa ben si accorda con l’invito weiliano a non cedere al fascino delle idolatrie, figlie delle mode di cui è così ricca la nostra epoca, ma a concentrare invece l’attenzione su ciò che, solo, ha valore per l’essere umano, indipendentemente dal tempo in cui egli vive. Questo è l’unico compito che è in potere dell’uomo svolgere, ma è anche quello che apre le porte alla grazia divina. Come Simone scrive: «Non tocca all’uomo cercare Dio o credere in lui: egli deve semplicemente rifiutarsi di amare quelle cose che non sono Dio. Un tale rifiuto non presuppone alcuna fede».6

In secondo, ma non secondario luogo, il presente volume è stato concepito come una raccolta di testi che aiutino il lettore a seguire un itinerario spirituale, avvalendosi dell’esperienza di pensiero e di vita che fu della Weil; sono stati perciò privilegiati gli scritti particolarmente utili a questo fine. 2. La vita 2.1 L’ambiente familiare Simone Weil nacque il 3 febbraio 1909, a Parigi, in una famiglia della medio-alta borghesia, dove poté respirare, fin da piccolissima, caldo affetto, attenzione per la formazione di una cultura vasta e profonda, libertà di pensiero e di spirito critico, vivacità e forte senso dell’umorismo, culto dell’amicizia. Qui ricevette una rigorosa formazione morale, ispirata a un ideale stoico, secondo la quale, di proposito, non veniva dato spazio se non a ciò che era ritenuto essenziale per l’educazione dell’essere umano ai valori più alti: il senso della giustizia, l’onestà del pensiero, la sincera ricerca della verità, la generosità. A far crescere in un simile ambiente i due straordinari fratelli, André (1906-1998) e Simone (1909-1943) furono due genitori, anch’essi fuori dal comune: il padre Bernard (18721955) – che i figli e la moglie chiamavano affettuosamente Biri – medico, discendente da una famiglia alsaziana di commercianti e uomini d’affari, uomo mite, gentile, modesto, sensibile, generoso e schietto, «d’una franchezza a volte senza riguardi»;7 la madre Salomea Reinherz (1879-1965) – che si faceva però chiamare Selma e Mime in casa – proveniente da una famiglia di origine russa e austriaca. Donna vivace, molto intelligente e colta (conosceva diverse lingue, moderne e antiche), era anche dotata di capacità artistiche straordinarie (suonava molto bene il pianoforte e

cantava). Avrebbe voluto studiare medicina, ma all’epoca, essendo donna, ciò non le fu permesso. Era, allo stesso tempo «meravigliosa e terribile»,8 perché aveva una forte personalità e sapeva esercitare la sua autorità in maniera discreta ma irresistibile, dolce e affascinante.9 Aveva inoltre una sorta di «genio pratico» e organizzativo, cui tutti i componenti della famiglia sottostavano. Con loro visse, finché non morì (nel 1928), anche la nonna materna di Simone, Mme Reinherz. «I coniugi Weil erano la coppia più unita che si potesse immaginare»10 e trascorsero la loro vita a fremere per quella figlia di cui desideravano rispettare la libertà ma a cui volevano anche assicurare, senza soffocarla, la loro protezione, vista l’indifferenza con cui trattava la sua persona, la scarsa propensione che aveva per la vita pratica quotidiana e la rischiosità delle imprese in cui spesso si avventurava senza calcolarne la pericolosità. La loro grandezza fu proprio quella di riuscire ad esserle sempre vicini, rispettando le sue scelte e lasciandola libera di essere quello che era. Nonostante assecondassero in tutto quella figlia così singolare, che pareva nata per condividere le sofferenze e le sventure altrui, rimase in loro l’amarezza che traspare dalle parole pronunciate dalla madre di Simone: «Avrei tanto preferito che fosse felice!». Simone ebbe, comunque, un’infanzia meravigliosa e crebbe insieme al fratello André, unita a lui da un legame fortissimo di affetto e solidarietà e da una grande ammirazione per le sue qualità straordinarie, tanto che lo imitava in tutto.11 Quel ragazzo aveva un’intelligenza fuori dal comune, era precoce e brillante e avanzava a passi rapidi nel campo del sapere: eccelleva nelle discipline matematiche (a otto anni si era impadronito del libro di un cugino – Géometrie di Émile Borel – la cui lettura lo entusiasmò, mettendolo in grado di risolvere problemi difficili), ma conosceva anche molto bene il greco – tanto che a dodici anni leggeva Platone, in lingua originale – suonava il violino,

imparò prestissimo il sanscrito. Divenne un grande matematico, uno dei più grandi del Novecento. Oltre a essere un fratello amato, egli fu senz’altro, per Simone, un incomparabile compagno intellettuale.12 Con al fianco un tale fratello non c’è perciò da sorprendersi se l’altrettanto straordinaria Simone soffrì, soprattutto negli anni della prima adolescenza, di un complesso di inferiorità nei suoi confronti, che la fece molto patire. Lei non era veloce e brillante nell’apprendere, come André, era più lenta, aveva bisogno di più tempo, e doveva impegnarsi molto per raggiungere i traguardi desiderati. Fu però proprio questo lavoro su di sé, questo esercizio costante, tenace e appassionato della sua volontà che le permise di scendere in profondità nell’interiorità dell’anima umana. 2.2 La personalità Tutto questo influì molto sulla formazione del carattere di Simone, che non era certo quel che si dice un «tipo semplice». Era eccessiva, provocatoria, inquieta, spesso inopportuna, animata dal «sacro fuoco» di spendersi per realizzare, laddove possibile, la giustizia su questa terra e cancellare l’ingiustizia. Colpiscono e non finiscono mai di stupire il coraggio e il furore con cui visse la sua dismisura, ossia la sua tendenza verso l’illimitato e l’infinito. Perduta in una dimensione eroica e cavalleresca, si proibiva qualunque debolezza. Era perciò estremamente esigente con sé stessa, rifiutava di usufruire di qualsiasi privilegio e tendeva ad assumere comportamenti e stili di vita ultraspartani, che occorreva moderare. Questo rigore e intransigenza nei confronti di sé stessa si accompagnavano d’altro canto a una commovente generosità e disponibilità verso gli altri, per i quali era pronta a sacrificarsi in ogni momento, soprattutto per i più deboli e i più bisognosi.

Sebbene non fosse facile esserle amica, per il suo fare in un certo senso distante e temibile, quasi «disumano», sentiva molto forte il senso dell’amicizia che, considerava, aristotelicamente, una virtù e una sorta di miracolo.13 Acuta, tagliente, razionale, consapevole del proprio valore, ma, al tempo stesso, compassionevole, appassionata, umile, era, potremmo dire, un chiaro e raro esempio di contraddizione vivente, una persona impossibile da etichettare, uno spirito veramente libero. La sua forte personalità e la sua granitica volontà dovevano combattere, però, con la gracilità del suo corpo e la fragilità della sua salute. Quest’ultima, infatti, fu sempre molto cagionevole e dette costantemente a Simone problemi più o meno grandi, soprattutto quando, a partire dal 1930, cominciò a soffrire di fortissime crisi di emicrania, di cui nessun medico seppe mai capire la causa. 2.3 La formazione Per quanto riguarda l’educazione religiosa, è importante sottolineare che i suoi genitori, sebbene provenissero entrambi da famiglie ebree, di comune accordo educarono i figli nell’agnosticismo più assoluto. Il cammino religioso fatto da Simone fu perciò del tutto autonomo: non subì influenze di alcun genere e non fu il prodotto di abitudini apprese in casa o negli ambienti che frequentava. Sul versante dell’istruzione, invece, fu la signora Selma che ebbe sempre molta voce in capitolo nella formazione culturale dei due figli: la sua felice intuizione fu quella di svilupparne i doni senza obbligarli né snaturarli, destando in essi le aspirazioni verso ciò che rappresenta il meglio della vita e facendoli affiancare da insegnanti molto qualificati.14 Inizialmente, infatti, i coniugi Weil scelsero per i figli il sistema educativo delle lezioni private (anche a causa dei loro continui trasferimenti per seguire il dottor Weil, allora

mobilitato come ufficiale medico per la guerra del 1914-18); fu solo in un secondo tempo che i fratelli Weil fecero il loro ingresso nelle scuole pubbliche. In particolare, Simone iniziò a frequentare regolarmente la scuola solo all’età di dieci anni, prima al Liceo Fénelon dal 1919 al 1921 e, in seguito, al Liceo Victor Duruy dal 1924 al 1925, dove seguì le lezioni del filosofo Le Senne e ottenne il baccalaureato in filosofia. L’esperienza però per lei più significativa fu senz’altro l’incontro al Liceo Enrico IV (che frequentò negli anni 19251928 per prepararsi al concorso di ammissione alla Normale) con il filosofo Alain (pseudonimo di Émile Chartier, 18681951), che ella riconobbe come suo unico maestro e al quale rimase legata tutta la vita. Questi ebbe su di lei una grande influenza, oltre che per quanto riguarda l’acquisizione di un metodo di studio e di lavoro (che lei adotterà, a sua volta, quando sarà insegnante), anche per quanto riguarda la conquista di quello stile rigoroso, sintetico, asciutto ed essenziale che caratterizza l’esposizione del pensiero filosofico di Simone.15 Una volta terminato il liceo, frequentò, da esterna, i corsi alla Normale (1928-30), che terminò conseguendo, nel 1930, il diploma di studi superiori con una tesi su Cartesio (Scienza e percezione in Cartesio). 2.4 L’insegnamento e l’attività sindacale In seguito a regolare concorso ottenne la sua prima cattedra di insegnante di filosofia al liceo femminile di Le Puy (1931). Qui iniziò la sua attività di docente, che si protrarrà solo fino al 1938, a causa dell’aggravarsi delle sue crisi di emicrania. In questi anni, dopo Le Puy, insegnò in altri licei di provincia: Auxerre, Roanne, Bourges, SaintQuentin. L’attività di insegnante non fu però l’unica a cui si dedicò

Simone in questi anni. Animata dal proposito di impegnarsi concretamente per realizzare un ideale di giustizia a favore dei sofferenti e degli sventurati, si profuse con grande impegno e passione nelle attività del sindacalismo rivoluzionario, tanto che l’appellativo di «vergine rossa» che le era stato attribuito ai tempi della Normale fu quello con cui divenne nota in questo ambiente. Guidò il movimento dei disoccupati, partecipò ai loro scioperi, distribuì loro parte del suo stipendio, e, convinta com’era che l’acquisizione della cultura fosse l’unica vera forma di rivoluzione sociale, organizzò per loro, come per i minatori, corsi serali gratuiti in varie materie; scrisse articoli collaborando al giornale del sindacato autonomo, «L’Effort». Ben presto dovette accorgersi, però, con grande delusione, che anche i sindacati, come del resto i partiti politici,16 sono soprattutto centri di forza, che hanno come scopo primario quello di detenere il potere piuttosto che quello di lottare per la giustizia. Decise perciò di abbandonare ogni forma di attività politica, salvo che per la ricerca teorica. Fu così che, nel 1934, mise a frutto l’esperienza che si era fatta a contatto con gli operai e i lavoratori preparando uno studio (Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale) volto a scoprire il meccanismo in base al quale si instaura l’oppressione dell’uomo sull’uomo e, innanzitutto, della macchina sull’uomo, allo scopo di capire come abolirla, studio importante anche per la lucida critica al marxismo che vi è espressa. 2.5 L’esperienza in fabbrica Sempre nello stesso anno ella diede corso alla coraggiosa decisione, maturata da tempo, di andare a lavorare in fabbrica come operaia. Lavorò solo per alcuni mesi (dal dicembre 1934 all’agosto 1935), finché resisté, prima in una

delle officine della Alsthom e poi alla Renault. Voleva sperimentare in prima persona la miseria morale dei ceti più poveri e oppressi della società, in modo da poter avere piena consapevolezza della loro condizione, poiché – sosteneva – «l’uomo è fatto in maniera tale che chi schiaccia non sente nulla, contrariamente a chi viene schiacciato. Finché non ci si è messi dalla parte degli oppressi per sentire con loro, non lo si può capire.».17 Questa esperienza fu per lei importantissima ma devastante, perché la mise a diretto contatto con la sventura umana e le impresse il marchio della schiavitù, segnandola profondamente nel corpo e nell’anima. Di questi nove mesi circa di lavoro in fabbrica, nei quali fu licenziata più volte, tenne – con le poche energie intellettuali che le restavano – una specie di diario, che poi fu pubblicato con il titolo La condizione operaia. 2.6 La guerra civile spagnola Intanto nel 1936 era scoppiata la guerra civile spagnola e Simone decise di parteciparvi, combattendo a fianco dei repubblicani. Partì, perciò, con un gruppo internazionale di combattenti incaricato di missioni pericolose, ma fu proprio durante una di queste che si bruciò una gamba con olio bollente e dovette rientrare in Francia per curare la brutta ferita. L’esperienza della guerra, per quanto breve, fu comunque per lei molto significativa. Si rese conto di come la forza acciechi chiunque la usa e porti tutte le parti, la buona come la cattiva, a una uguale insensibilità nei confronti dell’altro, del «nemico». La leggerezza, l’indifferenza, per esempio, con cui si fucilavano i prigionieri la turbò profondamente: lo dice con chiarezza nella lettera allo scrittore Georges Bernanos, che aveva riscontrato lo stesso comportamento nella parte avversa, ma anche nello splendido saggio su L’«Iliade»

poema della forza non è difficile avvertire dell’esperienza terribile della guerra di Spagna.

l’eco

2.7 L’esperienza religiosa Dopo tutte queste vicende estremamente coinvolgenti, nelle quali aveva messo a dura prova sé stessa, Simone cadde in uno stato di grande affaticamento, di deperimento e prostrazione, per risolvere il quale i suoi genitori, sempre molto vigili, decisero di portarla a fare un viaggio, prima in Portogallo e poi in Italia, con tappe a Milano, Firenze, Roma, Assisi. Entrambi i viaggi furono per lei occasione di entrare in contatto con il cattolicesimo, dando inizio alla sua inaspettata esperienza religiosa. Il primo contatto avvenne in Portogallo quando, assistendo in un piccolo paese a una processione in onore del santo patrono, fatta dalle mogli dei pescatori che intonavano canti molto antichi e di una tristezza straziante, ella ebbe d’improvviso la certezza che «il cristianesimo è per eccellenza la religione degli schiavi, e che gli schiavi non possono che aderirvi», e lei con loro. Il secondo contatto avvenne invece ad Assisi, nella cappella di Santa Maria degli Angeli: Simone avvertì che una forza più grande di lei l’aveva costretta, per la prima volta in vita sua, a inginocchiarsi. Tale improvvisa e inattesa iniziazione al cammino spirituale cristiano ebbe poi il suo compimento attraverso un terzo e definitivo contatto, che culminò in quella che possiamo definire un’esperienza mistica. Questo terzo contatto avvenne nel 1938, anno in cui Simone aveva deciso di passare la settimana santa presso l’abbazia benedettina di Solèsmes, famosa per il canto gregoriano. Qui conobbe un giovane inglese il cui volto risplendeva di una luce angelica dopo essersi comunicato e questo fatto le diede, per la prima volta, l’idea della virtù soprannaturale dei sacramenti. Egli le

fece conoscere inoltre i poeti metafisici del ’600, in particolare una poesia di George Herbert, Love, che Simone imparò a memoria prendendo l’abitudine di recitarla tutte le volte che era in preda alle sue crisi di emicrania. Fu proprio durante una di queste, che Simone riferì – con grande pudore e soltanto a due persone con le quali aveva un rapporto di particolare confidenza spirituale18 – che Cristo era disceso e l’aveva presa (era circa la metà di novembre 1938). L’esperienza si ripeté poi più volte19 e tutte le volte ella riferisce di aver sentito «una presenza più personale, più certa, più reale di quella di un essere umano, inaccessibile ai sensi e all’immaginazione», pur consapevole di non aver fatto assolutamente niente per procurarsi tale condizione. Questa esperienza inaugurò un nuovo periodo della sua vita, sia per quanto riguarda la sua ricerca interiore, sia per quel che attiene ai suoi interessi conoscitivi, tanto che Simone cominciò a occuparsi molto seriamente di religione, con vaste letture sull’argomento che spaziavano dalla tradizione cristiana alle religioni antiche, a quelle orientali, al folklore. Per poter leggere la Bhagavadgītā e le Upaniṣad nel testo originale, senza l’influenza e la mediazione di traduzioni, si mise anche a studiare il sanscrito. 2.8 La partenza da Parigi Intanto la situazione storico-politica dell’Europa stava diventando estremamente preoccupante: nel 1939 Hitler invase la Cecoslovacchia, dando inizio al suo piano di espansione e di conquista. Simone, che con lungimiranza e capacità di penetrazione della portata degli eventi cui assisteva era stata capace di prevedere il pericolo del nazismo, comune del resto a ogni sistema totalitario, e ne aveva scritto,20 fu costretta, suo malgrado, a rivedere la sua convinta posizione pacifista di fronte al pericolo hitleriano, giudicando che fosse necessario arrestare l’avanzata di

Hitler. Nel 1940 i tedeschi, che avevano ormai occupato la Francia, il 14 giugno entrarono a Parigi. Simone, che inizialmente non voleva saperne di lasciare il suo paese e di «fuggire» di fronte alle avversità, decise all’improvviso di andarsene, per portare in salvo gli amati genitori. Proprio alla vigilia dell’ingresso dei tedeschi a Parigi, i coniugi Weil e Simone, che erano usciti insieme per fare acquisti, videro nelle strade gli avvisi che dichiaravano «Parigi città aperta»; non ripassarono neppure da casa a prendere le valigie, andarono alla Gare de Lyon e riuscirono a prendere l’ultimo treno che partiva. Da questo momento cominciò, però, il tormento di Simone, che non poteva sopportare l’idea di essersi sottratta alla sventura, neppure per la buona causa che l’aveva mossa a compiere questa scelta. Da allora in poi non ebbe più pace se non promettendo a sé stessa che avrebbe fatto di tutto per ritornare in Francia a combattere per la libertà del suo paese e a condividere la sorte di coloro che non erano potuti fuggire. Bernard, Selma e Simone Weil andarono dunque nella Francia non occupata dai tedeschi, prima a Vichy (dove rimasero due mesi)21 e poi a Marsiglia, città in cui si stabilirono fino alla partenza per gli Stati Uniti, dove già si trovava André.22 2.9 Il periodo marsigliese Il periodo marsigliese, nonostante la sofferenza cui abbiamo accennato,23 fu estremamente fecondo sotto tutti i punti di vista: Simone scrisse moltissimo,24 tenne conferenze, fece incontri importanti, due dei quali furono particolarmente significativi per lei. Alludiamo alla conoscenza del padre domenicano Joseph-Marie Perrin, con il quale instaurò un dialogo spirituale molto intenso (con lui affrontò la delicata e problematica questione del battesimo)

e a quella del filosofo autodidatta Gustave Thibon, del quale divenne amica e presso il quale lavorò come operaia agricola, dato che egli possedeva terre nella regione dell’Ardèche. A entrambi affidò i suoi scritti quando, il 14 maggio 1942, lasciò definitivamente la Francia per trasferirsi negli Stati Uniti, facendo tappa a Casablanca per poi raggiungere New York. 2.10 Il soggiorno negli Stati Uniti Qui giunta, fece di tutto per ottenere il visto per tornare quanto prima in Europa: voleva andare in Inghilterra per lavorare nella resistenza francese e poi tornare a morire in Francia (aveva addirittura in mente di farsi paracadutare in patria, partecipando a una missione pericolosa). Le cose, però, non andarono come aveva desiderato e sperato. Prima di ottenere il visto per l’Inghilterra passarono diversi mesi, durante i quali Simone, che non si rassegnava a quell’attesa, scomodò tutti quelli che potevano avere una qualche influenza per riuscire ad assecondare i suoi progetti. Nel frattempo, pur nello stato di grande prostrazione in cui si trovava, frequentava biblioteche studiando il folklore dei popoli, andava spesso in chiesa e continuava a interrogarsi sulla questione del battesimo25 e a scrivere i suoi Quaderni. Finalmente, riuscì a ottenere il permesso di partire e il 10 novembre, dopo aver raccomandato i genitori al fratello André, li salutò per sempre imbarcandosi su un mercantile svedese, con destinazione Londra.26 2.11 Il periodo londinese Nei pochi mesi in cui rimase nella capitale britannica, Simone lavorò nel movimento della resistenza francese France libre, che faceva capo al generale De Gaulle.

Sebbene il suo più grande desiderio fosse quello di essere impiegata in missioni operative, il compito che le fu assegnato fu, invece, quello di esaminare i progetti di riorganizzazione del paese, dopo la sconfitta di Hitler, che i comitati di resistenti elaboravano inviandoli a Londra. Lavorò moltissimo, facendo di necessità virtù: sollecitata da quelle pagine a esprimere le proprie idee sulle questioni che vi erano trattate, scrisse un’incredibile quantità di testi, poi raccolti e pubblicati negli Scritti di Londra e nell’opera, non conclusa, La prima radice. Il lavoro condotto con ritmi massacranti, la stessa afflizione che l’aveva consumata a New York di sentirsi «fuori posto», schiacciata dal rimorso per aver lasciato la Francia, la sua ostinazione a nutrirsi poco (ovvero non più di quanto era consentito dal razionamento del cibo ai francesi rimasti in patria) accelerarono l’evolversi della tubercolosi, da cui era probabilmente affetta già negli Stati Uniti. Per guarire, avrebbe dovuto riposarsi e nutrirsi adeguatamente. Cosa che non fece. Possiamo congetturare che, per le sue dichiarate simpatie per il catarismo, si sia abbandonata al tipo di morte – l’endura – che per essi rappresentava il segno di una perfezione raggiunta, la liberazione dello spirito dalla materia.27 Il suo rifiuto di nutrirsi era comunque dovuto ormai alla incapacità di ingerire alimenti solidi e al maturato atteggiamento di totale consenso e obbedienza alla morte.28 Il 24 agosto 1943 Simone si spense serenamente nel sanatorio di Ashford, nel Kent: aveva solo 34 anni. Fu sepolta nel New Cemetery di Ashford, nella sezione riservata ai cattolici. La morte sopravvenuta riapre la questione circa il suo battesimo: Simone si era fatta battezzare o no? Effettivamente sembra che, qualche giorno prima di morire, l’amica Simone Deitz, che l’assisteva, l’abbia battezzata con acqua del rubinetto. L’evento, comunque, non ha tutto il valore che qualcuno gli ha attribuito dopo la scoperta. Quello che più conta è, invece, che Simone aveva fatto, anche della

sua vita da non battezzata, un’autentica testimonianza di vita cristiana. 3. Il pensiero 3.1 I quattro «punti cardinali» La difficoltà di presentare il pensiero di Simone Weil in maniera coerente e articolata deriva innanzitutto dal fatto che esso non è sistematico e non può, perciò, essere descritto come un insieme in cui sono noti il punto di partenza e quello di arrivo. Inoltre, esso abbraccia un ventaglio di tematiche straordinariamente ampio, che riflette i molteplici interessi di questa giovane e vulcanica intellettuale, mossa da un’insaziabile curiosità di sapere cui non era estraneo alcun aspetto della realtà. Il pensiero della Weil investe non a caso tutti gli ambiti della conoscenza: la storia, la politica, la sociologia, la letteratura, la scienza, la religione, la filosofia, evidenziando, con il suo carattere enciclopedico, la stretta connessione tra vita e riflessione teorica. Si deve, infine, tener presente che il pensiero della Weil è incompiuto, a causa della morte troppo precoce che le impedì di proseguire e approfondire le sue già ampie ricerche e, forse, anche di dar loro una maggiore organicità. Ciò premesso, può tornare utile fornire al lettore una sorta di «bussola» con cui orientarsi nel mare delle riflessioni weiliane, per precisare meglio, in un secondo momento, il percorso che si è deciso di seguire nella scelta dei testi di questa antologia. È opportuno indicare subito quelli che si potrebbero definire come i quattro punti cardinali, ovvero i punti di riferimento da tener presenti per comprendere il pensiero della Weil: il suo legame con il platonismo, con lo stoicismo, con il cristianesimo e con le religioni orientali (in particolare l’insegnamento induista della Bhagavadgītā e delle

Upaniṣad, quello taoista del Tao-te-Ching, quello buddhista dello Zen). 3.1.1 Il platonismo Simone è costantemente in dialogo con Platone, questo gigante del pensiero che ella interpreta in modo nuovo e originale, ovvero come filosofo religioso che anticipa, in chiave mistica, le verità cristiane.29 Ne è un esempio eccellente l’idea – sviluppata in modo esemplare soprattutto nel Simposio, ma anche in altri dialoghi – di attribuire all’amore il ruolo di mediatore tra l’uomo e Dio, idea che troverà poi la sua incarnazione storica nel protagonista del Vangelo di Giovanni:30 il lógos eterno, che si fa carne e viene a porre la sua tenda in mezzo a noi, viene infatti per rivelare all’uomo che la sola forma dell’amore che può neutralizzare e vincere la pesanteur, liberando l’uomo dal suo peccato d’origine, è la grazia. Accoglierla significa rispondere all’appello di Dio con la compassione, ma per poter far questo – diceva, appunto, Platone – l’uomo deve conoscere la propria miseria e convertirsi, ovvero far morire il proprio radicamento nelle cose sensibili, che nascono e periscono, e dunque mutano, e volgere il suo sguardo verso Dio che, invece, è imperituro ed eterno. Così – commenta la Weil – «il distacco totale è la condizione dell’amore di Dio e, quando l’anima ha compiuto il movimento di distaccarsi totalmente da questo mondo per volgersi tutta intera verso Dio, è illuminata dalla verità che discende da Dio in lei. Questa è la nozione stessa che si trova al centro della mistica cristiana»31 ed è anche il cammino dell’anima magistralmente descritto da Platone nel mito della caverna. Secondo la Weil il postulato teologico che sta alla base della filosofia platonica corrisponde a ciò che Cartesio ha chiamato la prova di Dio mediante l’idea di perfezione,32

ovvero al postulato cristiano che assume l’esistenza di Dio a partire dall’idea della sua perfezione (la cosiddetta «prova ontologica»). Ma c’è un’altra prova di Dio che già Platone descrive nelle sue pagine, ed è la prova mediante l’ordine del mondo. Essa si serve dell’idea di bellezza: come «una statua greca ispira con la sua bellezza un amore che non può avere per oggetto la pietra» così «il mondo con la sua bellezza ispira un amore che non può avere per oggetto la materia»:33 è la prova di Dio mediante l’amore, l’unico mezzo per entrare in contatto con lui che, solo, è il Bene. Ora, poiché «questo bene puro ha due riflessi, l’uno nella nostra anima, che è la nozione di bene, l’altro nel mondo, che è la bellezza»,34 quest’ultima viene considerata addirittura come una sorta di trappola posta da Dio perché l’anima dell’uomo si accorga di lui: dal momento in cui l’anima viene irretita dalla bellezza del mondo, infatti, non potrà più sottrarsi al desiderio della trascendenza e «il suo errare senza meta da un fine all’altro per trovare un senso all’esistenza avrà finalmente un termine».35 Il Timeo è il dialogo platonico che affronta questo tema e deve essere letto, secondo il parere della Weil, come una storia della creazione, che si realizza attraverso la collaborazione tra un Operaio (il «demiurgo»), il Modello della creazione e l’Anima del mondo.36 Anche in questo caso è facile intravedere l’anticipazione di due verità cristiane basilari: la creazione del mondo e la Trinità.37 Come si vede, per la Weil vi sono sufficienti elementi per ritenere che il pensiero platonico sia ispirato; infatti, ella sostiene che «l’amore di Dio è la radice e il fondamento della filosofia di Platone».38 Ma oltre a tutto ciò, cioè oltre a vedere in Platone il «padre della mistica occidentale»39 – perché egli non ha appreso queste verità attraverso la mediazione della rivelazione biblica, ma direttamente – la Weil si rifà costantemente al filosofo ateniese perché condivide con lui due convinzioni di fondamentale importanza. Innanzitutto l’insegnamento che bisogna amare

la verità più della vita40 e ricercare, perciò, sia nell’attività del pensiero sia nella propria esistenza (giacché le due cose non sono separate) la Giustizia e la Verità. Questa aspirazione, che fu l’assoluto della vita di Simone, ella la manifestò – come sappiamo – percorrendo sia la strada delle lotte politiche, sociali, sindacali, ispirata da una sorta di prassi rivoluzionaria contro ogni forma di ingiustizia, sia la strada della carità evangelica, tanto da costringere gli altri a pensare a lei quasi come a una santa. La espresse inoltre in modo chiaro e significativo scrivendo in una lettera all’amico Maurice Schumann: «Per me la vita non ha nessun altro senso, né in fondo ha mai avuto altro senso, se non l’attesa della verità».41 Con Platone Simone condivide anche la convinzione che il Bene, in quanto sta al di sopra dell’essere, perché lo trascende, non è presente in questo mondo, ma assente. Esso è fuori dell’ambito dei fatti, dato che vi è una distanza infinita tra il mondo governato dalla necessità, dove tutto avviene ed è spiegabile con il meccanismo di causa-effetto, ovvero dove ogni fatto è collegato e dipendente da un altro (legge di causalità), e il Bene puro, assoluto, che invece non dipende da alcunché, proprio perché trascendente.42 Esso – che, pure, costituisce l’aspirazione più profonda di ogni uomo e lo costringe in qualche modo a ricercare un ordine sia individuale sia sociale, spingendolo ad agire correttamente e a formulare leggi giuste – può essere, in realtà, solo desiderato e atteso, ma non conquistato, neppure con lo sforzo di volontà o con un cammino etico. Ecco dunque la necessità di imparare ad attendere, pazientemente, quel che non può essere prodotto da noi stessi o essere frutto dei nostri successi e delle nostre conquiste. Occorre imparare l’evangelica hypomoné, «l’immobilità vigile e fedele che dura all’infinito e nessun evento può scuotere».43 Occorre, insomma, diventare capaci di non agire ma, piuttosto, di attendere, ricevere, perché «l’atteggiamento da

cui viene la salvezza non ha nulla a che fare con l’attività».44 In questo consiste, appunto, quell’azione-non-agente che ci rende patiens piuttosto che agens, ovvero umili e recettivi, pronti ad accogliere in qualsiasi momento il Bene; esso verrà a noi quando si creeranno le condizioni giuste per questa discesa, secondo un meccanismo spirituale che funziona in modo del tutto simile alla legge di gravità. La condizione assolutamente indispensabile perché questo accada è che si sia fatto il vuoto dentro di noi, ossia che ci si sia resi disponibili a ricevere, annullando la nostra volontà, che fa da ostacolo a questa naturale capacità. Per raggiungere questo traguardo è dunque necessaria la morte dell’io, ossia quella che Simone chiama de-creazione, una sorta di disfacimento in noi della creatura: risposta dell’uomo alla ab-dicazione che Dio compie nell’atto della creazione. Ciò è possibile solo se si è imparata quella virtù dell’obbedienza che ci porta direttamente al secondo dei punti cardinali del pensiero della Weil: lo stoicismo. 3.1.2 Lo stoicismo A questo proposito va detto che, oltre ad aver ricevuto in famiglia – come abbiamo accennato – un tipo di educazione improntata allo stoicismo, la Weil si era anche nutrita di letture che si ispiravano a tale corrente filosofica. Sappiamo, per esempio, che una delle sue preferite erano i Pensieri di Marco Aurelio. Cosa ha appreso Simone dagli stoici? La risposta non è univoca perché dallo stoicismo la Weil recupera molte idee che fa proprie e che diventano fondamentali per il suo pensiero. La prima è l’idea che esista una provvidenza impersonale (lógos) che governa l’universo e alla quale anche l’uomo è sottomesso. La Weil la esprime attraverso il concetto di necessità. Questa viene sentita come nemica solo per l’uomo

che dice «io», ovvero finché l’uomo pensa in prima persona45 e vede, dunque, in essa un ostacolo all’esercizio della propria libertà. Per l’uomo che, invece, si è liberato dal proprio io, essa viene percepita come manifestazione della volontà divina. La seconda è l’idea che l’universo sia da considerarsi una patria per l’uomo, una patria che Dio ci ha dato da amare: «I figli di Dio non devono avere quaggiù altra patria se non l’universo stesso, con la totalità delle creature dotate di ragione che esso ha compreso, comprende e comprenderà. Questa è la città natale che ha diritto al nostro amore».46 La terza è l’idea che l’amore sia autentico quando si compie nell’indifferenza verso sé stessi, ossia nella misura in cui siamo capaci di fare quello che si deve fare, qualunque prezzo si debba pagare; in sostanza, quando – per esprimerci, appunto, con il linguaggio stoico – si pratica l’atarassia, segno di un amore che è distacco. Solo allora, infatti, non esiste più alcuna ribellione della volontà nei confronti di ciò che accade, nel mondo come nella propria vita, e si diventa capaci di amor fati, ossia di accettare con gioia tutto quello che è, che avviene, perché esso è semplicemente ciò che deve essere. La Weil esprime tutto questo parlando soprattutto di obbedienza alla necessità, intesa come «velo di Dio»,47 ossia come manifestazione della sua volontà: «Il dovere di accettare la volontà di Dio, qualunque fosse, si è imposto al mio animo come il primo e più necessario di tutti, quello al quale non ci si può sottrarre senza disonorarsi; e tale mi parve fin da quando lo trovai esposto in Marco Aurelio sotto la forma dell’amor fati stoico».48 Come si vede, la Weil interpreta l’insegnamento stoico come gemello di quello cristiano49 perché lo rilegge in un’ottica cristiana, dando vita a un modo di pensare le cose in cui l’aspetto personalistico del cristianesimo viene rimosso, a beneficio di un impersonalismo sovrannaturale. Così l’obbedienza alla volontà di Dio, centrale nel

cristianesimo, diventa accettazione di tutto ciò che è e che accade, in quanto necessario, e ciò ci permette di trovare tutto perfettamente bello e buono, dolore compreso.50 Secondo la Weil, l’insegnamento stoico è estremamente importante proprio perché è il luogo d’incontro tra lo spirito della grecità e l’autenticità del messaggio cristiano,51 tanto che ella arriva a sostenere che se il cristianesimo vuol essere veramente «incarnato», se cioè vuol essere un modo di vivere e di pensare e non soltanto una dottrina astratta, deve far proprio il pensiero stoico.52 Compare qui il terzo punto cardinale del pensiero weiliano: il cristianesimo. 3.1.3 Il cristianesimo Come si è già accennato, soprattutto dopo la «svolta» religiosa, la riflessione della Weil ruota attorno a temi che hanno grande rilievo nell’esperienza cristiana: l’amore di Dio, la grazia, la carità, la compassione, l’umiltà, per citare solo alcuni dei più importanti. Quel che Simone rimprovera al cristianesimo, nella forma che ha assunto attraverso il precisarsi della sua dottrina mediante i dogmi, è proprio il fatto di aver puntato troppo sui concetti di persona, libertà e storia, anziché su quelli di impersonale, necessario ed eterno. Ciò, a suo avviso, ha creato una grande distorsione del messaggio originario di Cristo. Quando Egli, infatti, insegna che per essere suoi seguaci è necessario «rinunciare a sé stessi», intende dire che la condizione essenziale per essere cristiani è l’abdicazione a tutto ciò che è personale, ossia particolare e contingente. È la rinuncia alla volontà propria, nella quale si radica il nostro io, per metterci nelle mani della volontà divina. Occorre dunque capire, attraverso l’umiltà, che finché non ci spogliamo del tutto dal nostro attaccamento all’io personale, sempre storicamente determinato, non

potremo mai essere liberi davvero, né essere capaci di amare veramente, disinteressatamente, così come Cristo ha amato noi. Rimanere legati all’io, alla persona, alla volontà, ci condanna dunque a essere sempre agiti dalla pesanteur, subendone il peso fino a esserne schiacciati, ridotti in schiavitù. Ciò risulta particolarmente evidente quando è la «bestia sociale» – il «grosso animale» platonico – ossia uno dei prodotti della dimensione sociale, a imporci come dobbiamo essere per servire ora questa moda, ora questa ideologia, ora qualunque altro idolo del momento. Ebbene, solo quando si è fatta esperienza di tutta questa catena di condizionamenti, si affaccia chiaramente la consapevolezza di esserci illusi sul nostro valore e la nostra libertà, si capisce di essere un nulla;53 si prende cioè coscienza della miseria della condizione umana e si aspira sinceramente alla salvezza. Questa può essere data solo dall’intervento della grazia, che, appunto, è gratuita, non condizionata; essa viene a sostituire le tenebre in cui ci troviamo e a illuminarci sulla seguente verità: «due forze regnano sull’universo: luce e pesantezza».54 La grazia discende dall’alto perché è, propriamente, «la legge del movimento discendente»,55 ed è l’unica in grado di farci ascendere: essa è infatti «l’ala che solleva in alto ciò che è pesante».56 Una volta poi che si è ascesi – ovvero che siamo stati liberati dal particolarismo e dalla piccolezza dell’io – lo sguardo si allarga, la visione diventa più ampia, il mondo assume un altro aspetto, un aspetto più armonico e ordinato, non conflittuale. Allora, e solo allora, diventa possibile la pratica dell’amore verso il prossimo come verso sé stessi, perché nel prossimo non vediamo più qualcuno più o meno fortunato di me che, comunque, si oppone a me, perché sostanzialmente diverso da me, bensì qualcuno che condivide con me la miseria della condizione umana, dunque qualcuno in cui mi ri-conosco: «Amare il prossimo come sé stessi non è diverso dal contemplare la miseria umana in sé e negli altri. Il

prossimo è per noi uno specchio in cui troviamo, se l’amiamo come noi stessi, la conoscenza di noi stessi. La conoscenza di sé è amore di Dio».57 Ciò perché «quando si ha freddo e fame per necessità, si ha sempre un poco di pietà di sé stessi, per quanto si sia spiritualmente elevati. La compassione per chi ha freddo e fame implica la capacità di concepire e immaginare sé stessi in qualunque circostanza sociale e materiale, e di conseguenza la spoliazione dalle circostanze in cui ci si trova. È la nudità».58 Questa condizione è fondamentale perché, portata al suo stato di perfezione, comporta una fede implicita nell’incarnazione: la capacità, cioè, di «concepire e d’immaginare un uomo perfetto – un Dio incarnato – che si trova in qualunque stato di sventura».59 Perciò «la nudità di spirito non è solo una condizione dell’amore di Dio; è una condizione sufficiente; è amore di Dio. Vuoto».60 Proprio nel concetto di vuoto incontriamo il quarto punto cardinale del pensiero della Weil: il richiamo alle religioni orientali e, più in generale, all’esperienza mistica presente in tutte le religioni, dato che «la verità mistica è una come la verità aritmetica o geometrica».61 3.1.4 Le religioni orientali La forza spirituale presente nelle tradizioni religiose orientali è dovuta proprio al fatto che esse sottolineano, con il loro insegnamento, l’importanza del vuoto, del distacco, dell’azione-non-agente, della rinuncia ai frutti delle azioni, della pazienza e, in ultima analisi, di un diverso rapporto della vita umana con la dimensione del tempo. Tutti aspetti che appartengono, del resto, anche alla tradizione della mistica speculativa cristiana, ma che il cristianesimo istituzionale ha perlopiù occultato, facendone prevalere altri.62 Il riferimento alle religioni orientali ci aiuta così a

riscoprire la non-centralità del soggetto, l’«impersonalità» dello spirito, tutto questo attraverso quel cammino di decentramento che crea le condizioni per il satori (la «illuminazione» nel buddhismo Zen), il riconoscimento dell’armonia del tutto nel Tao (taoismo), il ricongiungimento dell’ātman con il brahman (induismo), la discesa di Dio nell’anima, ovvero l’ingresso nella dimensione della grazia (cristianesimo). Per la realizzazione di questa dimensione è determinante, però, uscire da una logica utilitaristica e finalistica (l’agire per un utile, un fine determinato) e, più in generale, da quella logica che si basa sul principio di identità e non contraddizione ed è perciò incapace di riconoscere l’armonia e l’unità dei contrari. Occorre, dunque, per prima cosa estinguere il desiderio (buddhismo) e imparare a desiderare e agire «a vuoto»,63 senza un perché64 calcolato per ottenere qualche vantaggio sotto qualsiasi profilo – materiale, morale, spirituale – ma solo in quanto, in quella determinata circostanza, il mio «possibile» si impone a me come il necessario, come una forma di dovere che in quel momento sono io a poter compiere. Non è il mio io, insomma, a essere determinante, bensì il fatto che ciò che deve essere – il Bene – si compia, non ha importanza a opera di chi. Esiste infatti un ordine che prevale su tutto, una legge cosmica che non può essere in alcun modo ostacolata né alterata dalla volontà umana, la quale, anzi, se tenta questa sciocca operazione ottiene solo l’effetto di pagar caro, in prima persona, il proposito di recare danno o modifica a ciò che le pre-esiste (legge del karman). Ciò che è mutevole, la nostra volontà, infatti, non può interferire con ciò che è immutabile ed eterno e cambiarlo.65 Capire questo aiuta non solo a prendere coscienza dell’impermanenza dell’io, ma anche a dissolverlo e a far cadere il principio di identità insieme a quello di non contraddizione, adottando un altro modo di pensare, un’altra

logica, che la Weil chiama dell’assurdo o del 66 soprannaturale. Ella chiama così questo modo-altro di pensare perché esso ammette la contraddizione senza aggirarla67 e rende in tal modo possibile l’accesso alla rivelazione del «grande segreto»,68 ovvero di ciò che siamo soliti chiamare mistero: «La nozione di mistero è legittima quando l’uso più logico, più rigoroso dell’intelligenza porta in un vicolo cieco, a una contraddizione inevitabile, nel senso che la soppressione di un termine rende l’altro vuoto di senso e porre un termine costringe a porre l’altro. Allora la nozione di mistero, come una leva, trasporta il pensiero dall’altra parte del vicolo cieco, dall’altra parte della porta che non è possibile aprire, al di là dell’ambito dell’intelligenza, al di sopra. Ma per pervenire al di là dell’ambito dell’intelligenza, bisogna averlo attraversato fino in fondo, e seguendo un percorso tracciato con rigore irreprensibile. Altrimenti non si è al di là, ma al di qua».69 La contraddizione è dunque «la leva della 70 trascendenza», che consente a un tempo di liberarsi dalla prigione della logica oppositiva – che tiene separati uomo e Dio, necessità e Bene – e di fare esperienza dell’unità dello Spirito, che i mistici di tutte le tradizioni religiose sono concordi nel descrivere come il più alto risultato cui un uomo possa giungere nella vita, ossia come l’apice della pienezza del cammino di vita umano che, attraverso il dolore e l’annullamento di sé, porta alla nascita di una vita nuova e alla beatitudine. 3.2 L’itinerario filosofico-spirituale Dopo aver indicato i punti di riferimento generali entro i quali si muove la riflessione weiliana, tentiamo adesso di tracciare, più in particolare, una sorta di itinerario filosoficospirituale che riproduca, almeno in parte, le tappe salienti

del cammino interiore di Simone e che giustifichi anche la scelta dei testi e delle voci dei Quaderni presenti in questa antologia. Innanzitutto è bene ribadire che per la Weil il filosofare, ovvero l’attività del pensare, non fu l’esercizio di un mestiere, ma il modo per avvicinarsi il più possibile alla verità, avvertita come l’urgenza assoluta della vita. Sappiamo, infatti, che la vocazione alla «probità intellettuale» era diventata chiara a Simone fin da giovanissima, fin da quando, cioè, in un periodo di profonda crisi vissuto nell’adolescenza, aveva temuto, a causa della sua mediocrità, di «non poter sperare di entrare in quel regno trascendente dove entrano solamente gli uomini di autentico valore, e dove abita la verità».71 Già a quell’epoca (era appena quattordicenne) aveva la consapevolezza di non poter vivere senza di essa, perché essa costituiva l’orientamento e il senso di tutta la sua vita. Finalmente – ci riferisce – dopo alcuni mesi passati in questo stato di smarrimento e di disperazione ebbe «d’improvviso e per sempre la certezza che qualsiasi essere umano, anche se le sue facoltà naturali sono pressoché nulle, penetra in questo regno della verità riservato al genio, purché desideri la verità e faccia un continuo sforzo d’attenzione per raggiungerla».72 Quello che Simone capì, insomma, è che la verità non si nega a nessuno, ma per incontrarla occorre essere disposti a riconoscerla come l’unico bene, occorre cioè dedicarle la vita e concentrare l’attenzione solo su di essa, sforzandosi di rimuovere tutte le distrazioni che, in vario modo, tentano di distoglierci da questo orientamento. Ecco dunque l’importanza dell’attività del pensiero: essa deve semplicemente creare le condizioni per l’attesa di questo incontro, facendo, per così dire, «pulizia filosofica» degli infiniti prodotti della nostra immaginazione, che altro non sono se non le proiezioni dei desideri del nostro io, i quali trovano la loro espressione concreta nelle credenze –

ideologiche, religiose, rivoluzionarie, scientifiche – e negli idoli (gli assoluti mondani prodotti dal «grosso animale»73 sociale) ai quali di momento in momento affidiamo l’orientamento – seppur contingente – della nostra vita. L’attività del pensiero condotta con onestà ci fa capire, insomma, che lasciar lavorare liberamente l’immaginazione può essere pericoloso, perché l’immaginazione «che colma vuoti è essenzialmente menzognera» e «lavora continuamente a chiudere tutte le fessure dove la grazia potrebbe passare».74 Perciò, se non vogliamo rischiare di vivere nella menzogna e nell’illusione dobbiamo decretare la fine dell’immaginazione non prestandole più ascolto e, anzi, smascherando il suo gioco ingannevole. Il realismo weiliano ci insegna che possiamo riuscire in questo compito solo spostando la nostra attenzione dai bisogni dell’io alla realtà, regno della necessità. Essa è per l’uomo una grande maestra. Lo costringe, infatti, a prendere atto della «durezza» dei fatti, contro i quali egli nulla può, e lo rende, di conseguenza, consapevole dell’inutilità di fuggire da essa per trovare rifugio nel sogno e nell’illusione. Nello stesso tempo lo costringe a prendere coscienza della miseria della condizione umana, per il fatto che anche l’uomo è sottoposto, come le cose, alla pesanteur, cioè schiacciato dalla «forza di gravità», che lo obbliga ad andare verso il basso, ossia a sentir gravare su di sé il peso del limite, dovuto al dominio che la natura esercita su tutto ciò che esiste. La necessità può essere inoltre conosciuta dall’uomo anche attraverso il volto anonimo della sventura,75 che può colpirlo in ogni momento come e quando vuole, eliminando in lui ogni certezza, spazzando via ogni sua sicurezza, e riducendolo a essere una «cosa» fra le cose, annientando così di fatto il suo valore. La sventura ha insomma il tremendo potere di ridurre l’uomo a qualcosa di impersonale, di ridurlo a materia inerte e inanimata, come la

pietra, imprimendogli il marchio della schiavitù. La Weil ha conosciuto questo stato dolorosissimo, facendone esperienza sulla propria pelle, quando lavorò in fabbrica e quando fu costretta a sopportare le sue tremende crisi di emicrania, che le impedivano di svolgere qualunque attività e di opporre qualsiasi tipo di resistenza a quella sofferenza. In quelle occasioni ella si rese conto di essere completamente vittima di una situazione, che è poi quella propria dell’essere umano, e comprese perciò che la sua contingente esperienza poteva essere estesa alla condizione umana in generale, presentata nella sua più brutale nudità, ossia conosciuta nella sua più limpida verità. Per questo motivo il tema della sventura è uno dei temi più importanti della riflessione weiliana ed uno di quelli cui ha dedicato alcune tra le sue pagine più belle: esso ci permette di scoprire, senza veli, la verità sulla condizione umana, una volta che essa sia stata spogliata dei riconoscimenti sociali, dell’orgoglio, delle ipocrisie che il grosso animale, invece, costantemente alimenta, traendoci in inganno. Certo, prendere atto di tutto ciò è molto doloroso, perché comporta la morte dell’io, che non viene più riconosciuto come un valore, perché il suo valore è stato negato. Ma c’è anche un’altra conseguenza importante che deriva da questa «morte» e che causa altrettanto dolore: il prendere coscienza che la libertà, intesa come libertà dalla necessità, ossia come la possibilità della volontà di fuoriuscire dal meccanismo di causalità, per il quale «tutto ciò che accade accade secondo ragione, e di necessità», come diceva Democrito, non esiste, è soltanto un’illusione. Anche la presunta libertà dell’io, che si traduce nelle scelte del libero arbitrio, infatti – dice la Weil – è frutto della medesima legge di causalità che rende il nostro io, presunto soggetto della libertà individuale, sempre condizionato da una serie infinita di fattori: culturali, sociali, di ambiente, di educazione… che ne determinano intenzioni e scelte. Se però davvero

esercitiamo l’attenzione – che è una forma di preghiera perché è volontà di verità – possiamo facilmente renderci conto che quando scegliamo, scegliamo sempre in base a dei «perché» condizionati e dobbiamo perciò onestamente concludere che: «Dire “io sono libero” è una contraddizione, perché a dire “io” è ciò che non è libero in me».76 Far risiedere la grandezza e il valore dell’uomo nella sua libertà, ossia nella sua volontà, non ci porta perciò da nessuna parte, perché anch’essa è un’illusione: «Scelta illusoria. Quando si crede di poter scegliere, in realtà si è incoscienti, prigionieri dell’illusione, e si diventa un balocco. Si cessa di essere un balocco elevandosi al di sopra dell’illusione, fino alla necessità, ma allora non c’è più scelta, un’azione è imposta dalla situazione stessa chiaramente percepita».77 Ecco, però, che qui ci troviamo di fronte a un paradosso che apre la porta a nuove prospettive: proprio questa situazione di schiavitù, ovvero il non poter scegliere liberamente in prima persona, suggerisce quale sia l’unica via d’uscita possibile da questo labirinto esistenziale. È l’obbedienza, ossia il consenso alla necessità, che viene indicata come l’unico atto veramente libero che all’uomo è concesso di compiere. Esso è un atto puramente interiore, semplicissimo e insieme difficilissimo, perché richiede il distacco da tutto ciò che è personale, ossia richiede la morte dell’io. D’altra parte, la pratica del distacco è possibile soltanto se si è esercitata la virtù dell’umiltà, che è regina di tutte le virtù, perché ci ricorda costantemente quello che tendiamo sempre a dimenticare, dato che fatichiamo ad accettarlo pienamente: il fatto che siamo nulla. Dare il consenso alla necessità comporta però anche un altro passaggio importante: arrivare a riconoscere giusto quello che è, in quanto espressione dell’ordine del mondo, un ordine che finalmente abbiamo imparato ad amare (amor fati) invece di metterlo costantemente in discussione, perché confidiamo che in esso si esprima la divina provvidenza

impersonale che tutto guida verso il bene. Secondo la Weil, infatti: «La divina provvidenza non è un turbamento o una anomalia nell’ordine del mondo. O meglio è il principio ordinatore di questo universo. È la saggezza eterna, unica, dispiegata attraverso l’universo intero in una sovrana rete di rapporti».78 L’operazione del distacco permette, dunque, anche a noi, di vivere e agire impersonalmente, senza scopi o fini precisi o voluti dal nostro «io», nella fiducia che quello che si fa rientri in un ordine già dato, che corrisponde a ciò che è bene che sia: «Il distacco consiste nel fare tutto ciò che si fa, non in vista di un bene, ma per necessità, e nell’assumere il bene solo come oggetto dell’attenzione».79 Una volta capito questo, il compito dell’uomo diventa perciò soltanto quello di purificare il proprio sguardo togliendo via tutto ciò che inquina la sua attenzione, fino a renderlo completamente trasparente, come quello di un vero pittore che, a forza di attenzione, diventa ciò che egli guarda. E nel frattempo la sua mano, che termina in un pennello, si muove.80 Naturalmente questo richiede la rinuncia non solo ad attuare progetti, riflesso dei nostri desideri, ma anche ai frutti stessi dell’azione, esige cioè la rinuncia ad attendersi una ricompensa per il nostro impegno e la nostra fatica nell’attuarli. La Weil spiega, infatti, con grande finezza, che la frase del Padre Nostro «rimettere i nostri debiti» significa proprio rinunciare «alla riconoscenza per il bene che pensiamo di aver fatto, e in genere a tutto ciò che crediamo ci sia dovuto, la cui mancanza ci darebbe la sensazione di essere stati frustrati. Sono tutti i diritti che noi crediamo che il passato ci dia sull’avvenire», secondo una legge universale della nostra anima: «Tutte le volte che qualcosa è uscito da noi, abbiamo assolutamente bisogno che almeno l’equivalente ritorni in noi e, poiché ne abbiamo bisogno, crediamo di averne diritto. Nostri debitori sono tutti gli esseri, tutte le cose, l’universo intero. E noi crediamo di avere crediti verso tutte le cose; ma tutti questi presunti

crediti sono sempre crediti immaginari del passato verso l’avvenire: è a questo che dobbiamo rinunciare»,81 perché rinunciare a questo equivale a rinunciare alla «continuazione della nostra personalità».82 Occorre, in sintesi, imparare a desiderare a vuoto, ossia apprendere l’arte di lasciarsi muovere da un desiderio di bene puro, che non ha contenuti precostituiti, ma che si manifesta di volta in volta attraverso la necessità, chiaramente percepita, di doversi comportare in un certo modo. Questo è possibile perché «quando l’impersonale si è radicato nell’anima e vi cresce, attira a sé tutto il bene»,83 secondo un meccanismo soprannaturale che, per così dire, «obbliga» la grazia a intervenire: «Dio può compensare soltanto gli sforzi che sono rimasti senza compenso quaggiù. Gli sforzi compiuti a vuoto; il vuoto attira la grazia».84 Come si vede, creare la condizione di vuoto è indispensabile perché si inauguri la stagione dell’attesa, che, a sua volta, è premessa per la discesa del dono di grazia; soltanto esso può riempire la nostra vita di gioia e beatitudine, perché è l’unico capace di sollevarci sul piano trascendente: «Notte oscura. In ogni cosa, solo ciò che viene dal di fuori, gratuitamente, di sorpresa, come un dono della sorte, senza averlo cercato, è gioia pura. Parallelamente, il bene reale non può venire che dal di fuori, mai dal nostro sforzo. Noi non possiamo mai, in nessun caso, fabbricare qualcosa che sia migliore di noi. Dunque lo sforzo realmente teso verso il bene deve fallire; è solo dopo una tensione lunga e sterile in cui si finisce col disperare, quando non ci si attende più niente, che dal di fuori, dono gratuito, meravigliosa sorpresa, viene il dono. Questo sforzo ha distrutto una parte della falsa pienezza che è in noi. Il vuoto divino più pieno della pienezza è venuto a installarsi in noi».85 Cogliamo, in queste righe, la familiarità della Weil con il linguaggio mistico, che, appunto, fa della notte oscura una

tappa fondamentale del cammino che l’anima deve compiere per arrivare a consumare le nozze spirituali con Dio.86 Simone si esprime, in realtà, con un linguaggio più filosofico, per chiarire lo stesso concetto spirituale: parla cioè di de-creazione, come di quella serie di operazioni volte a «disfare» in noi la creatura. Questa è, infatti, un concentrato di «particolarità» che, come tale, fa da schermo tra Dio e noi, illudendoci di essere qualcuno, qualcuno che è diverso e separato da Dio.87 La decreazione è insomma il doloroso ritirarsi dell’io – che avrebbe la tendenza a propagarsi ovunque – in un punto infinitamente piccolo, che è il centro della nostra anima, quel centro che è il solo a essere libero da ogni condizionamento psicologico, sociale, culturale, e in cui il creato passa nell’increato. La virtù soprannaturale dell’umiltà ha proprio il compito di guidarci in questo itinerario perché, grazie a essa, possiamo arrivare a capire, anche esperienzialmente, che siamo nulla e «una volta capito che si è nulla, il fine di tutti gli sforzi è di diventare nulla».88 Questa comprensione ci permette altresì di rivedere e trasformare il nostro rapporto con il tempo: da paradigma del nostro limite invincibile e nostra unica miseria, quindi da nemico contro il quale lottare, esso diventa misura dell’infinita pazienza di Dio che mendica il nostro amore: «Dio attende con pazienza che io voglia infine acconsentire ad amarlo. Dio attende come un mendicante che se ne sta in piedi, immobile e silenzioso, davanti a qualcuno che forse gli darà un pezzo di pane. Il tempo è questa attesa. Il tempo è l’attesa di Dio che mendica il nostro amore».89 Così anche noi, umilmente, dobbiamo imparare a non divorare il tempo – per impossessarcene – con la nostra smania di agire, imprimendo in esso i segni della nostra personalità, nell’illusione di prolungarla indefinitamente: «l’umiltà è infatti “un certo rapporto dell’anima col tempo. È un’accettazione dell’attesa”90 che richiede pazienza, il diventare, come già abbiamo detto, patiens invece che

agens, ovvero rinunciare a imporre la propria volontà, abdicare al proprio io».91 L’attesa, la vigilanza evangelica, l’azione non-agente, passiva, è, infatti «il fondamento della vita spirituale», perché stancando Dio con la nostra pazienza, lo costringiamo a scendere in noi e a trasformare così il tempo in eternità.92 È proprio grazie a essa, non a caso, che avviene il miracoloso incontro: una scintilla di assoluta novità si accende nell’anima al contatto con il trascendente permettendole di fare un’esperienza93 gravida di conseguenze. Nell’incontro con l’eterno, infatti, il pathos divino viene comunicato all’anima: nasce in lei la compassione, la forma perfetta dell’amore, che ha come fonte non più l’ego, ma il disinteresse, ovvero il bene incondizionato: «L’amore ha come oggetto il bene. Per amare incondizionatamente un comune essere umano, bisogna aver percepito in lui un bene incondizionato. Non c’è bene incondizionato in alcun uomo che non sia arrivato all’unione mistica, a parte la possibilità di arrivarvi».94 Questo amore incondizionato e universale è propriamente la carità, espressione della grazia all’opera, ovvero opera della grazia, che libera dalla contraddizione in cui sempre si dibatte l’amore umano: «Ciò che chiediamo all’amore umano è una impossibilità, una contraddizione viziosa. Noi non vogliamo essere amati condizionatamente. Chi dicesse: “Ti amerò finché sei in buona salute; se ti ammali, non ti amerò più” verrebbe respinto con collera. D’altra parte non vogliamo saperne di un amore che ci confonde con la massa. Chi dicesse: “Amo tutte le donne bionde, te né più né meno che le altre”, oppure: “Amo tutte le parigine”, sarebbe ugualmente respinto. Noi vogliamo essere preferiti incondizionatamente. Ma tutti gli attributi che ci distinguono dagli altri sono condizionati e possono sparire. Incondizionatamente noi meritiamo solo il grado di attenzione accordato alla creatura più miserabile, cioè un

infinitamente piccolo. Tuttavia è vero che noi meritiamo di essere non solo preferiti, ma amati in modo unico, esclusivo. Ma ciò che in noi lo merita è la parte increata dell’anima, che è identica al Figlio di Dio. Quando l’io composto di attributi è distrutto e quella parte emerge, “io non vivo più in me, ma il Cristo vive in me”;95 chiunque ama un uomo che è giunto a tanto, ama sotto la sua forma il Cristo. È un amore impersonale. Amare una persona impersonalmente significa amare Dio».96 Attuare questo amore è possibile però soltanto per chi ha davvero reso il suo essere creaturale così trasparente da permettere a Dio di riconoscersi e amarsi attraverso di sé. E questo perché soltanto Dio può amare Dio. Ma quali sono i modi attraverso i quali si può giungere a tanto? La Weil ne individua tre, che chiama «forme dell’amore implicito di Dio», ossia espressioni umane di un amore che ha come fonte e oggetto Dio, ma che ancora non ha raggiunto la consapevolezza di questo. Esse sono: le cerimonie religiose, il prossimo, la bellezza del mondo. Ora, dato che realisticamente si constata che nella nostra epoca, nei paesi di razza bianca, «l’amore e il rispetto delle pratiche religiose sono rari anche tra coloro che si accostano ad esse con assiduità, e quasi inesistenti per gli altri» e che «l’uso soprannaturale della sventura, della compassione e della gratitudine – che caratterizzano l’amore del prossimo e, in generale, la pratica dell’autentica giustizia97 – non solo è rarissimo, ma, oggi, è diventato quasi incomprensibile»,98 ecco che l’amore per la bellezza del creato rimane la sola via che permetta a Dio di penetrare in noi e di trasformarci. Perciò, «la tendenza naturale dell’anima ad amare la bellezza è la trappola più frequente di cui si serve Dio per aprirla al soffio che viene dall’alto».99 È una sorta di labirinto nel quale, una volta entrati, si è costretti a percorrere la via che conduce al centro, all’incontro con Dio, grazie al quale veniamo intimamente trasformati e, anzi, assimilati a Lui: «La bellezza del creato è l’entrata del labirinto.

L’imprudente che vi entra, dopo pochi passi non sarà più capace di trovare l’uscita. Sfinito, senza nulla da mangiare né da bere, circondato dalle tenebre, separato dai suoi e da tutto ciò che ama e conosce, cammina alla cieca, senza speranza, incapace perfino di rendersi conto se veramente cammina o se gira su sé stesso. Ma questa sventura è nulla in confronto al pericolo che lo minaccia. Se non si perde d’animo, infatti, se continua a camminare, arriverà senza dubbio al centro del labirinto. E qui Dio lo attende per divorarlo. In seguito ne uscirà, ma cambiato, trasformato, poiché sarà stato mangiato e digerito da Dio. Resterà allora vicino all’entrata, per spingervi con dolcezza coloro che vi si accostano».100 Così, percorrendo la via della bellezza, all’anima è data la possibilità di cogliere la presenza reale del bene nella materia e di essere perciò da questo sedotta e rapita. La bellezza, come i miracoli, possiede infatti la capacità di catalizzare l’attenzione umana a tal punto da poter essere considerata, in sostanza, una disposizione provvidenziale in grado di istruire spiritualmente l’uomo alla verità e alla giustizia: «Il bello consiste in una disposizione provvidenziale grazie alla quale la verità e la giustizia, non ancora riconosciute, richiamano in silenzio la nostra attenzione. La bellezza è veramente, come dice Platone, una incarnazione di Dio. La bellezza del mondo non è distinta dalla realtà del mondo».101 La bellezza è, insomma, l’anello di congiunzione che mette in comunicazione la realtà soprannaturale (il bene) e quella sensibile (il regno della necessità), è la porta che ci permette di accedere al «grande segreto».102 Come tale, essa è anche «la prova sperimentale della possibilità dell’incarnazione»103 e anche quella che meglio esprime, a parere della Weil, l’urgenza di un cristianesimo che sia veramente incarnato. L’esperienza estatica che la bellezza fa vivere cambia, infatti, la direzione dello sguardo, che è ciò in cui consiste

propriamente la salvezza.104 Tale esperienza è simile a ciò che accade dopo un risveglio, quando la realtà che ci circonda, pur essendo sempre la stessa, ci appare ricca di novità. È come nascere una seconda volta, come essere rigenerati, e vedere la vita con occhi nuovi che ce la presentano, appunto, «trasfigurata».105 È l’esperienza della beatitudine, che è esperienza, nel tempo, di ciò che è eterno, ovvero esperienza di finalità che non contiene alcun fine. Questo la distingue da tutti quei beni terreni che noi scambiamo per fini, ma che non sono che mezzi. È questo il motivo per cui essa soltanto può darci quel senso di pienezza e di gioia, che solo ciò che è davvero reale può trasmettere. 4. La fortuna Durante la sua breve vita, come abbiamo avuto modo di dire, Simone Weil scrisse moltissimo, ma ben pochi furono i lavori da lei stessa destinati alla pubblicazione. Quando i suoi genitori, ignari della malattia che stava consumando la figlia a Londra,106 appresero la notizia della sua morte, ne rimasero sconvolti e trovarono la forza di affrontare quel dolore immenso dedicandosi a far conoscere al mondo, attraverso i suoi scritti, quel «deposito di oro puro» che Simone aveva la convinzione di avere dentro di sé e di dover trasmettere. Quando, dunque, i coniugi Weil tornarono a Parigi dopo la parentesi americana, si dettero subito da fare per recuperare i lavori di Simone, che erano rimasti custoditi presso amici fidati a Marsiglia, Parigi e Londra, al fine di farli pubblicare. In particolare, oltre a raccogliere questo materiale e a integrarlo con gli scritti portati dagli Stati Uniti, gli anziani genitori si dedicarono, con pazienza certosina, a trascrivere i sette Quaderni d’America e gli Scritti di Londra di Simone, consacrando anni a quel compito che era per essi, oltre che morale, anche affettivo. Dato che,

infatti, era stato loro impossibile recarsi a Londra per «raggiungere quella figlia e ripararla, perché il mondo intero si era messo contro per impedirglielo, la ricopiavano. Mantenendola in vita e continuando a vivere con lei».107 Con l’aiuto di Albert Camus, che a quell’epoca stava organizzando per l’editore Gallimard la collana Espoir, Selma e Bernard Weil riuscirono a dare alle stampe i lavori della figlia che erano in loro possesso, mentre, parallelamente e quasi contemporaneamente, padre Perrin e Gustave Thibon curavano la pubblicazione, in forma antologica, dei manoscritti che Simone aveva loro affidato, prima di lasciare definitivamente la Francia. Così, attraverso questi due canali, negli anni Cinquanta il pensiero della Weil cominciò a entrare in circolazione e, grazie a intellettuali come Franco Fortini e Cristina Campo, che furono dei pionieri in questo ambito, anche a essere tradotta e pubblicata in Italia (l’iniziativa della stampa fu merito del coraggioso direttore della casa editrice Comunità, Adriano Olivetti). A tutti loro dobbiamo esser grati se il nostro paese, insieme alla Francia, è stato il primo a comprendere il valore dei suoi scritti e a pubblicarli. In particolare va segnalato il lavoro di Giancarlo Gaeta, che ha curato in modo molto competente gran parte delle edizioni italiane delle opere di Simone, nei decenni successivi agli anni della scoperta della Weil e fino ai nostri giorni. Negli anni Ottanta la fama della Weil, oltre a essersi estesa ad altri paesi europei, ha varcato gli oceani: i suoi scritti sono stati tradotti in Brasile, Messico, Stati Uniti, Canada, Russia, e perfino in Giappone. Dal punto di vista delle interpretazioni e degli studi specifici volti ad approfondirne aspetti dell’opera, si può dire, in generale, che l’interesse per la Weil ha seguito principalmente tre indirizzi: quello biografico, quello sociopolitico e quello religioso; a questi si sono aggiunti, più di recente, quello estetico, letterario, filosofico e logicoepistemologico.

Per gli aggiornamenti sulle novità degli studi weiliani lo strumento di riferimento è, a Parigi, dal 1978, la rivista trimestrale «Cahiers Simone Weil» (CSW), edita dalla Association pour l’étude de la pensée de S.W. In Italia le opere della Weil sono state quasi tutte tradotte; i saggi che la riguardano hanno raggiunto un numero più che ragguardevole, grazie al contributo degli studiosi che sono riusciti a diffondere, nel tempo, l’interesse per l’opera di questa giovane donna, la cui fama era inizialmente dovuta soprattutto alla sua vita tanto singolare e coraggiosa quanto intensa. Al valore del suo pensiero sono dedicati da anni corsi monografici universitari, sia in Europa sia negli Stati Uniti, e convegni di studio. Si moltiplicano, inoltre, le organizzazioni culturali che a lei si richiamano. Nonostante ciò, si deve constatare che i manuali di storia della filosofia che ne riportano il pensiero sono, a tutt’oggi, pochissimi, e ciò priva i giovani che frequentano le scuole superiori della conoscenza di una delle esperienze filosoficospirituali più profonde del nostro tempo.

NOTA BIBLIOGRAFICA

Le Œuvres complètes di Simone Weil sono in corso di pubblicazione presso l’editore Gallimard, Paris, in un’edizione diretta prima da A.A. Devaux e F. de Lussy (1988-1997), poi da F. de Lussy (2002 -2012) e, dal 2012, da Robert Chenavier. Traduzioni italiane delle opere di Simone Weil Quaderni, voll. I-IV, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1982-1993. La Grecia e le intuizioni precristiane, tr. it. di M. Harwell-Pieracci e C. Campo, Borla, Torino 1967. La rivelazione greca, a cura di M.C. Sala e G. Gaeta, con un saggio di G. Gaeta, Adelphi, Milano 2014. L’amore di Dio, tr. it. di G. Bissaca e A. Cattabiani, con un saggio introduttivo di A. Del Noce, Borla, Torino 1968. J. Bousquet-S. Weil, Lettere della guerra, a cura di L. Coppola, La Locusta, Vicenza 1988. La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri verso la creatura umana, tr. it. di F. Fortini, Edizioni di Comunità, Milano 1954 (SE, Milano 1990). Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1983. Attesa di Dio, Rusconi, Milano 1972 (nuova edizione a cura di M.C. Sala, con un saggio di G. Gaeta, Adelphi, Milano 2008). L’ombra e la grazia, tr. it. di F. Fortini, Rusconi, Milano 1985 (Bompiani, Milano 2002). Sulla scienza, introduzione di V. Cappelletti, Borla,

Torino 1971. Venezia salva, a cura di C. Campo, Adelphi, Milano 1987. Cinque lettere a uno studente, La Locusta, Vicenza 1990. Morale e letteratura, a cura di N. Maroger, ETS, Pisa 1990. La condizione operaia, tr. it. di F. Fortini, Edizioni di Comunità, Milano 1952 (Mondadori, Milano 1990). Sulla Germania totalitaria [1932-39], a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1990. I catari e la civiltà mediterranea, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1996. Lezioni di filosofia 1933-1934, a cura di M.C. Sala, Adelphi, Milano 1996. Primi scritti filosofici, a cura di M. Azzalini, Marietti, Genova 1999. Manifesto per la soppressione dei partiti politici, tr. it. di F. Regattin, con presentazione di A. Breton, Castelvecchi, Roma 2008. Poesie, a cura e con un saggio di R. Carifi, Le Lettere, Firenze 1993 (Mondadori, Milano 1998). Lettera a un religioso, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 2008. Una costituente per l’Europa. Scritti londinesi, a cura di D. Canciani e M.A. Vito, Castelvecchi, Roma 2013. Studi Si segnalano qui i principali studi su Simone Weil utilizzati in questo lavoro. La bibliografia weiliana è ormai sterminata e cresce di anno in anno. Un’adeguata informazione si può trovare nei «Cahiers Simone Weil», rivista trimestrale pubblicata dalla Association pour l’étude de la pensée de Simone Weil, con sede sociale a Parigi. AA.VV., Simone Weil. Scendere verso l’alto, a cura di

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QUATTRO LETTERE A PADRE PERRIN

Le quattro lettere che qui proponiamo, composte fra il gennaio e il giugno 1942,108 hanno tutte lo stesso destinatario: il domenicano Joseph-Marie Perrin, che Simone conobbe a Marsiglia tramite l’amica Hélène Honnorat.109 Con lui Simone ebbe numerosi incontri, volti a chiarire e ad approfondire quale fosse la situazione spirituale in cui ella si trovava in quel momento così delicato della sua esistenza, posto tra l’esperienza mistico-religiosa avuta attraverso i «tre contatti» con il cattolicesimo (che descrive nella lettera intitolata Autobiografia spirituale e che furono poi seguiti da un approfondito studio dell’ambito religioso), e la decisione assai sofferta di lasciare prima Parigi (dichiarata ormai «città aperta») e poi la Francia. In queste lettere Simone cerca di chiarire al suo interlocutore e a sé stessa la specificità della sua vocazione alla probità intellettuale, che la costringe a cogliere l’esigenza di un cristianesimo veramente incarnato, cattolico, cioè universale, non solo di nome ma anche di fatto, che la conduce a «passare fra gli uomini e i diversi ambienti umani»110 in modo anonimo (senza etichette che la identifichino con un credo, un gruppo, una comunità…) per poterli conoscere come sono e amarli come sono senza tuttavia farne parte, pronta a mescolarsi in qualsiasi momento con l’umanità comune. Per questo ella si sente costretta a starsene «sola, straniera e in esilio rispetto a qualsiasi ambiente umano, senza eccezioni»,111 la chiesa compresa, della quale teme soprattutto l’aspetto sociale (ovvero i sentimenti collettivi), perché nel sociale ella vede irrimediabilmente il dominio del demonio, ovvero la presenza di una falsa imitazione del divino, di un suo surrogato. È convinta, infatti (e ne ha fatto esperienza diretta) che le collettività non pensano affatto, mentre è certa che il suo compito specifico è proprio quello di essere al servizio di Dio e della fede cristiana nell’ambito dell’intelligenza, per il cui esercizio è necessaria una libertà totale, un’assoluta autonomia. Ecco così delinearsi la sua paradossale posizione della soglia, che esprime la situazione-limite di lontananza e vicinanza nei riguardi della chiesa,112 ossia la sua vocazione di «essere cristiana fuori della chiesa»,113 per rimanere in attesa nel punto di intersezione fra il cristianesimo e tutto ciò che esso non è. Ebbene, proprio questa attesa testimonia che Simone ha fatto suo l’atteggiamento di vigilanza che Gesù raccomanda nel Vangelo: l’essere sempre pronti a fare, non la propria, ma la volontà di Dio. Perciò ella scrive: «Se la volontà di Dio è che io entri a far parte della chiesa, egli me la imporrà nel preciso momento in cui meriterò che me la imponga. In caso contrario, se è sua volontà che io non ne sia parte, come potrei entrarvi?»114. E conclude: «Perché darmi pensiero, dunque? Non è compito mio pensare a me stessa. Il mio compito è pensare a Dio. Spetta a Dio pensare a me».115 Del resto è inutile rendere la faccenda tanto problematica, poiché – Simone ne è convinta – «segreto e silenzioso è il cammino della grazia nei cuori».116

I

Esitazioni davanti al battesimo

19 gennaio 1942 Caro Padre, mi decido a scriverle… per chiudere – almeno fino a nuovo ordine – le nostre conversazioni circa il mio caso. Sono stanca di parlarle di me, un misero argomento. Ma vi sono costretta dall’interesse che, per effetto della sua carità, nutre nei miei confronti. In questi giorni mi sono interrogata sulla volontà di Dio, chiedendomi in cosa consista e in che modo vi si possa conformare completamente. Le dirò cosa ne penso. Bisogna distinguere tre ambiti. Innanzitutto, ciò che non dipende assolutamente da noi, ossia tutti i fatti avvenuti nell’universo intero in questo preciso istante e tutto ciò che è in via di compimento o che è destinato a compiersi al di fuori della nostra portata. In quest’ambito, in realtà, tutto ciò che si produce è la volontà di Dio, senza eccezione alcuna. In quest’ambito, dunque, bisogna amare assolutamente tutto, nel suo insieme e in ogni dettaglio, compreso il male in tutte le sue forme; in particolare, i propri peccati passati, posto che lo siano (poiché bisogna odiarli nella misura in cui la loro radice è ancora presente), le proprie sofferenze passate, presenti e future e – cosa di gran lunga più difficile – le sofferenze degli altri, a condizione che non si sia chiamati ad alleviarle. In altri termini, bisogna sentire la realtà e la presenza di Dio attraverso tutte le cose esteriori senza eccezioni, con la stessa chiarezza con cui la mano sente la consistenza della carta attraverso il portapenne e la penna. Il secondo ambito è quello posto sotto il dominio della

volontà: comprende le cose puramente naturali, vicine, facilmente rappresentabili tramite l’intelligenza e l’immaginazione, tra le quali possiamo scegliere, disporre e combinare dal di fuori determinati mezzi in vista di fini determinati e conclusi. In quest’ambito bisogna eseguire senza cedimenti né indugi tutto ciò che appare palesemente come un dovere. Quando nessun dovere appare palesemente, bisogna talvolta osservare regole scelte più o meno arbitrariamente ma fisse e talvolta seguire l’inclinazione, ma in misura limitata. Infatti, una delle forme più pericolose del peccato, se non la più pericolosa, consiste nel mettere qualcosa di illimitato in un ambito essenzialmente finito. Il terzo ambito è quello delle cose che, pur non essendo poste sotto il dominio della volontà né relative ai doveri naturali, non sono tuttavia interamente indipendenti da noi. In questo ambito subiamo una costrizione da parte di Dio, a condizione che meritiamo di subirla e nella misura esatta in cui la meritiamo. Dio ricompensa l’anima che pensa a lui con attenzione e amore, e la ricompensa esercitando su di essa una costrizione rigorosamente, matematicamente proporzionale a quell’attenzione e a quell’amore. Bisogna abbandonarsi a questa spinta, correre fino al punto preciso in cui conduce e non muovere un solo passo di più, nemmeno verso il bene. Al tempo stesso, bisogna continuare a pensare a Dio con amore e attenzione via via maggiori, ottenendo così di essere sospinti sempre di più, di essere oggetto di una costrizione che si impadronisce di una parte sempre crescente dell’anima. Quando la costrizione si è impossessata di tutta l’anima, si è nello stato di perfezione. Ma, in qualsiasi grado ci si ritrovi, non bisogna compiere niente di più di ciò a cui si è irresistibilmente spinti, nemmeno a fin di bene. Mi sono interrogata pure sulla natura dei sacramenti, e anche di questo le dirò cosa penso. I sacramenti hanno un valore specifico che costituisce un

mistero, dal momento che implicano una specie di contatto con Dio, contatto misterioso ma reale. Al tempo stesso hanno un valore puramente umano in quanto simboli e cerimonie. Sotto quest’ultimo aspetto non differiscono essenzialmente dai canti, dai gesti e dalle parole d’ordine di certi partiti politici; almeno, non ne differiscono essenzialmente di per sé; tuttavia, ne differiscono infinitamente per la dottrina a cui fanno riferimento. Credo che la maggior parte dei fedeli entri in contatto con i sacramenti solo in quanto simboli e cerimonie, compresi quanti sono convinti del contrario. Per quanto sia stupida, la teoria di Durkheim117 che confonde il religioso con il sociale racchiude tuttavia una verità: ossia che il sentimento sociale somiglia talmente a quello religioso da trarre in inganno. Vi somiglia come un diamante falso somiglia a un diamante vero, così da trarre in inganno quanti non possiedono il discernimento sovrannaturale. Del resto, la partecipazione sociale e umana ai sacramenti in quanto cerimonie e simboli è cosa eccellente e salutare, come tappa, per tutti quelli il cui cammino è tracciato su questa via. Eppure, non si tratta di una partecipazione ai sacramenti in quanto tali. Credo che solo quanti sono al di sopra di un certo livello di spiritualità possano prendervi parte. Chi né è al di sotto, a rigore non fa parte della chiesa fino a che non lo ha raggiunto, qualsiasi cosa faccia. Quanto a me, penso di essere al di sotto di questo livello. Ecco perché l’altro giorno le ho detto che mi considero indegna dei sacramenti. Un pensiero che non nasce, come lei ha creduto, da un eccesso di scrupolo. Da una parte si fonda sulla consapevolezza di colpe ben precise nell’ordine dell’azione e dei rapporti con gli esseri umani, colpe gravi e perfino vergognose, che certamente lei giudicherebbe tali, e per giunta frequenti; dall’altra parte, e ancor di più, su una sensazione generale di inadeguatezza. Non mi esprimo così per umiltà. Perché se possedessi la virtù dell’umiltà, forse la più bella delle virtù, non mi troverei in questo stato miserabile di inadeguatezza.

Per finire con quanto mi riguarda, dico questo. La specie di inibizione che mi trattiene al di fuori della chiesa è dovuta sia allo stato d’imperfezione in cui mi trovo, sia al fatto che la mia vocazione e la volontà di Dio vi si oppongono. Nel primo caso, non posso rimediare direttamente a questa inibizione, ma solo indirettamente, diventando meno imperfetta, se la grazia mi soccorre. A tal scopo bisogna solamente, da una parte, sforzarsi di evitare le colpe nell’ambito delle cose naturali, dall’altra porre sempre più attenzione e amore nel pensiero di Dio. Se la volontà di Dio è che io entri a far parte della chiesa, egli me la imporrà nel preciso momento in cui meriterò che me la imponga. In caso contrario, se è sua volontà che io non ne sia parte, come potrei entrarvi? So bene quello che mi avete spesso ripetuto, ossia che il battesimo è la via comune alla salvezza – almeno nei paesi cristiani – e che non c’è assolutamente alcun motivo perché io segua una via eccezionale. Questo è evidente. Tuttavia, nel caso in cui di fatto non mi toccasse di passare per quella via, cosa potrei farci? Se fosse concepibile trovare la dannazione ubbidendo a Dio e la salvezza disubbidendogli, sceglierei comunque l’ubbidienza. Mi sembra che la volontà di Dio non sia che io entri a far parte della chiesa, al momento. Perché, gliel’ho già detto, ed è ancora vero, l’inibizione che mi trattiene non si fa sentire con meno forza nei momenti d’attenzione, d’amore e di preghiera che in altri momenti. E tuttavia ho provato una grandissima gioia nel sentirle dire che i miei pensieri, per come glieli ho esposti, non sono incompatibili con l’appartenenza alla chiesa, e che quindi non le sono estranea nello spirito. Non posso impedirmi di continuare a chiedermi se, in questi tempi in cui una parte così grande dell’umanità è sopraffatta dal materialismo, Dio non voglia che vi siano uomini e donne che, pur essendosi donati a lui e al Cristo, rimangano fuori dalla chiesa. A ogni modo, quando mi immagino come concreto e

imminente l’atto attraverso cui entrerò nella chiesa, nessun pensiero mi arreca più dolore che quello di separarmi dalla massa immensa e infelice dei non credenti. Sento il bisogno essenziale, e credo di poter dire la vocazione, di passare tra gli uomini e i diversi ambienti umani confondendomi con essi, assumendone il colore, almeno nella misura in cui la coscienza non vi si oppone, svanendo tra loro, affinché si mostrino per ciò che sono e senza dissimularsi al mio sguardo. Desidero conoscerli per poterli amare per ciò che sono. Perché se non li amo per come sono non sono loro ciò che amo, e il mio amore non è vero. Non parlo di aiutarli, poiché di questo, sfortunatamente, sono ancora assolutamente incapace. Penso che non entrerò mai in un ordine religioso, perché non voglio che un abito mi separi dalle persone comuni. Vi sono esseri umani per cui questa separazione non comporta seri inconvenienti, poiché la naturale purezza della loro anima li separa già dalle persone comuni. Io al contrario, credo di averglielo detto, porto in me stessa il germe di tutti i crimini o quasi. Me ne sono accorta in special modo durante un viaggio, in circostanze che le ho raccontato. I crimini mi facevano orrore ma non mi sorprendevano; ne avvertivo in me la possibilità; è proprio perché ne avvertivo in me la possibilità che mi facevano orrore. Questa disposizione naturale è pericolosa e molto dolorosa ma, come tutte le disposizioni naturali, può servire al bene se, con il soccorso della grazia, se ne fa l’uso appropriato. Essa implica la vocazione a restare in qualche modo anonimi, capaci di mescolarsi in qualsiasi momento con la pasta della comune umanità. Ora, ai giorni nostri, lo stato degli spiriti è tale che esiste una barriera più marcata, una separazione più netta fra un cattolico praticante e un non credente che fra un religioso e un laico. So che il Cristo ha detto: «Se qualcuno si vergognerà di me davanti agli uomini, io mi vergognerò di lui davanti al Padre mio». Ma vergognarsi del Cristo forse non significa

per tutti e in tutti i casi non aderire alla chiesa. Per alcuni può significare soltanto non attuare i precetti del Cristo, non irradiarne lo spirito, non onorarne il nome quando se ne presenta l’occasione, non essere pronti a morire per restargli fedeli. Le devo la verità, a rischio di offenderla e benché sia estremamente doloroso per me farlo. Amo Dio, il Cristo e la fede cattolica quel tanto che è concesso amarli a un essere così miseramente inadeguato. Amo i santi attraverso i loro scritti e i racconti concernenti le loro vite – a parte alcuni che mi è impossibile amare pienamente o considerare santi. Amo i sei o sette cattolici dalla spiritualità autentica che il caso mi ha fatto incontrare nel corso della vita. Amo la liturgia, i canti, l’architettura, i riti e le cerimonie cattoliche. Ma non ho in alcun grado amore per la chiesa propriamente detta, se non per i suoi rapporti con tutte quelle cose che amo. So andare d’accordo con quanti nutrono questo amore, ma io non lo provo. So bene che tutti i santi lo hanno provato. Ma erano anche quasi tutti nati e cresciuti in seno alla chiesa. A ogni modo, non si prova amore per volontà propria. Tutto ciò che posso dire è che se quest’amore costituisce una condizione del progresso spirituale, cosa che ignoro, o se fa parte della mia vocazione, desidero che un giorno mi venga accordato. Può darsi che una parte dei pensieri che le ho appena esposto sia illusoria e cattiva. Ma in un certo senso poco importa: non voglio indagare oltre, perché dopo tutte queste riflessioni sono arrivata a una conclusione, e cioè alla pura e semplice decisione di non pensare più in alcun modo alla questione del mio eventuale ingresso nella chiesa. È oltremodo possibile che dopo settimane, mesi o anni senza mai avervi pensato, un giorno io avverta improvviso l’impulso irresistibile di chiedere immediatamente il battesimo, e che quindi mi affretti a farlo. Poiché segreto e silenzioso è il cammino della grazia nei cuori. Può darsi anche che la mia vita avrà fine senza che io

abbia mai provato tale impulso. Ma una cosa è assolutamente certa: se arriverà il giorno in cui amerò Dio abbastanza da meritare la grazia del battesimo, la riceverò infallibilmente quel giorno stesso, nella forma che Dio vorrà, vale a dire per mezzo del battesimo propriamente detto o in qualunque altra maniera. Perché darmi pensiero, dunque? Non è compito mio pensare a me stessa. Il mio compito è pensare a Dio. Spetta a Dio pensare a me. Questa lettera è molto lunga. Ancora una volta le ho portato via molto più tempo di quanto non fosse opportuno. Le chiedo perdono. La mia giustificazione è che costituisce, almeno provvisoriamente, una conclusione. La prego di credere alla mia più viva riconoscenza. Simone Weil

II

(Stesso argomento)

Caro Padre, questo è un poscritto alla lettera che le dicevo essere una conclusione provvisoria. Spero per lei che rimanga l’unico. Temo davvero di infastidirla. Se è così, però, deve prendersela con sé stesso. Non è colpa mia se credo di doverle dare conto dei miei pensieri. Gli ostacoli di ordine intellettuale che fino agli ultimi tempi mi avevano trattenuta sulla soglia della chiesa si possono considerare a rigore rimossi, dal momento che lei non rifiuta di accettarmi per quella che sono. Tuttavia, ne rimangono alcuni. Tutto considerato, credo si riducano a questo: ciò che mi fa paura è la chiesa in quanto cosa sociale. Non solo a causa delle sue macchie, ma proprio perché, tra gli altri, ha questo carattere sociale. Non che io sia di indole particolarmente individualista. Ho paura per il motivo opposto: nutro una forte inclinazione gregaria. Sono estremamente influenzabile per disposizione naturale, influenzabile all’eccesso, soprattutto in fatto di cose collettive. So che se in questo momento avessi davanti una ventina di giovani tedeschi che intonano in coro canti nazisti, una parte di me diverrebbe immediatamente nazista. È una grandissima debolezza, ma è anche il modo in cui sono fatta. Credo non serva a nulla combattere direttamente le debolezze naturali. Occorre farsi violenza per agire come se non le si avesse nelle circostanze in cui un dovere lo esiga imperiosamente; e nel normale corso della vita bisogna conoscerle bene e tenerne conto con prudenza e sforzarsi di farne buon uso, poiché sono tutte

suscettibili di un uso corretto. Mi fa paura il patriottismo della chiesa che vige presso gli ambienti cattolici. Per patriottismo intendo il sentimento che si accorda a una patria terrena. Ne ho paura perché temo di contrarlo per contagio. Non che la chiesa mi sembri indegna di ispirare un tale sentimento. Solo, non voglio provare un sentimento del genere. Il termine «volere» è improprio. So, sento con certezza che qualsiasi sentimento simile, quale che ne sia l’oggetto, è per me funesto. Diversi santi hanno approvato le crociate, l’inquisizione. Non posso non ritenere che abbiano avuto torto. Non posso ricusare la luce della coscienza. Se penso che su un certo punto vedo con più chiarezza, io che sono talmente inferiore, sono costretta ad ammettere che su quel punto sono stati accecati da qualcosa di molto potente. E questo qualcosa è la chiesa in quanto cosa sociale. Se questo qualcosa ha fatto del male a loro, quanto ne farebbe a me, che sono particolarmente vulnerabile agli influssi sociali e infinitamente più debole? Non si è mai detto né scritto nulla che sia andato così lontano come le parole del diavolo al Cristo sui reami di questo mondo riferiteci da san Luca: «Ti darò tutta questa potenza e la gloria di questi regni, perché è stata messa nelle mie mani e io la do a chi voglio». Ne consegue che il sociale è irriducibilmente il dominio del diavolo. La carne spinge a dire io e il diavolo spinge a dire noi; o, per meglio dire, io in un’accezione collettiva, alla maniera dei dittatori. E, conformemente alla propria missione, il diavolo fabbrica una falsa imitazione del divino, un suo surrogato. Per sociale non intendo tutto ciò che si riferisce a una città, ma solo i sentimenti collettivi. So bene che è inevitabile che la chiesa sia anche una cosa sociale: altrimenti non esisterebbe. In quanto cosa sociale, però, appartiene al principe di questo mondo. È proprio perché è un organo di conservazione e di trasmissione della verità che, quanti come me sono eccessivamente vulnerabili

alle influenze sociali, corrono un grave pericolo: perché in tal modo ciò che c’è di più puro e ciò che c’è di più sudicio, essendo simili e confusi sotto le stesse parole, compongono un intreccio quasi indistricabile. C’è un ambiente cattolico pronto ad accogliere con calore chiunque entri a farne parte. Ma io non voglio essere adottata da un ambiente, abitare in un ambiente in cui si dice «noi» ed essere parte di questo «noi», né sentirmi a casa in un qualsiasi ambiente umano. Dicendo che non voglio mi esprimo male, perché invece lo vorrei eccome: sarebbe delizioso. Sento però che non mi è permesso. Sento che è necessario e obbligatorio che io sia sola, straniera e in esilio rispetto a qualsiasi ambiente umano, senza eccezioni. Questo sembra in contraddizione con ciò che le scrivevo sul mio bisogno di fondermi – fino a sparire – con ogni ambiente umano in cui mi ritrovo; ma in realtà è il medesimo pensiero; sparirvi non significa farne parte, e la capacità di fondermi con tutti implica che io non sia parte di alcuno. Non so se riesco a farle comprendere queste cose, quasi inesprimibili. Sono considerazioni che riguardano questo mondo e che paiono miserabili se poste di fronte al carattere sovrannaturale dei sacramenti. Ma ciò che temo in me è proprio l’impura mescolanza del sovrannaturale con il male. La fame ha con il cibo un rapporto certamente molto meno completo ma altrettanto reale dell’atto del mangiare. Forse non è inconcepibile che in un essere che abbia tali disposizioni naturali, un tale temperamento, un tale passato, una tale vocazione, e via dicendo, il desiderio e la privazione dei sacramenti possano costituire un contatto più puro della partecipazione. Ignoro del tutto se per me sia così o meno. So bene che sarebbe qualcosa di eccezionale, e pare che vi sia sempre una folle presunzione nell’ammettere di poter rappresentare un’eccezione. Ma l’eccezionalità può benissimo procedere da un’inferiorità rispetto agli altri, piuttosto che da una

superiorità. E penso che questo sarebbe il mio caso. Sia quel che sia, come le ho già detto, al momento non mi reputo in alcun modo capace di un vero contatto con i sacramenti, ma solo del presentimento che un simile contatto è possibile. A maggior ragione, adesso non posso sapere con certezza quale tipo di rapporto mi si confarebbe. In certi momenti sono tentata di rimettermi per intero a lei e di chiederle di decidere per me. Ma in fin dei conti non posso. Non ne ho il diritto. Credo che nelle cose molto importanti gli ostacoli non vadano superati. Bisogna fissarli a lungo, per tutto il tempo che occorre finché, nel caso in cui derivino da potenze illusorie, non si dissolvono. Ciò che chiamo ostacolo è cosa diversa da quella specie di inerzia che bisogna superare a ogni passo mosso in direzione del bene. Ho sperimentato questa inerzia. Gli ostacoli sono tutt’altro. Se li si vuole superare prima che siano spariti, si rischiano quei fenomeni di compensazione ai quali allude, credo, il passaggio del Vangelo sull’uomo che, scacciato il demone che lo abitava, se ne ritrova poi in corpo altri sette. Il solo pensiero di poter provare un giorno, anche soltanto per un istante, un solo moto interiore di rammarico per essere stata battezzata con disposizioni diverse da quelle appropriate mi fa orrore. Se anche avessi la certezza che il battesimo è condizione assoluta per la salvezza, non vorrei mai correre questo rischio per la mia. Sceglierei piuttosto di astenermene finché non avessi la convinzione di non correrlo. E una tale convinzione si ha solo quando si pensa di agire per obbedienza. Solamente l’obbedienza è invulnerabile al tempo. Se avessi la salvezza eterna qui, davanti a me, su questo tavolo, e non dovessi far altro che tendere la mano per ottenerla, non lo farei finché non pensassi di averne ricevuto l’ordine. Almeno mi piace crederlo. E se invece della mia salvezza ci fosse quella di tutti gli esseri umani passati, presenti e a venire, so che bisognerebbe agire allo stesso

modo. In quel caso farei fatica. Se in gioco ci fossi solo io, però, mi sembra quasi che non ne farei, giacché altro non desidero che l’obbedienza stessa nella sua totalità, vale a dire fino alla croce. Tuttavia non ho il diritto di parlare in questo modo. Così parlando, mento. Se infatti desiderassi tutto questo, l’otterrei; e in realtà mi capita continuamente di tardare giorni e giorni nell’adempimento di doveri evidenti che sento come tali, di facile e semplice esecuzione di per sé stessi, e importanti per le possibili conseguenze sugli altri. Ma sarebbe troppo lungo e privo di qualsivoglia interesse intrattenerla con le mie miserie. E senza alcun dubbio non servirebbe a nulla, se non a impedirle di commettere un errore sul mio conto. Creda sempre alla mia più viva riconoscenza. Lei sa, penso, che non si tratta di una formula. Simone Weil

III

A proposito della sua partenza118

16 aprile 1942 Padre, salvo imprevisti, fra otto giorni ci vedremo per l’ultima volta. Devo partire alla fine del mese. Sarebbe bene se riuscisse a organizzare le cose in maniera da poter parlare con comodo di quella scelta di testi. Suppongo, però, che non sarà possibile. Non ho voglia di partire. Partirò con angoscia. I calcoli probabilistici che mi spingono a farlo sono così incerti da non sorreggermi granché. Il pensiero che mi guida – e che dimora in me da anni, tanto che non oso abbandonarlo malgrado le esigue possibilità di realizzarlo – è abbastanza vicino al progetto per il quale lei mi ha aiutato pochi mesi or sono con grande generosità, e che non è poi andato a buon fine. In fondo la principale ragione che mi spinge è che, dati l’accelerazione e il concorso delle circostanze, la decisione di rimanere mi sembrerebbe piuttosto un atto di volontà da parte mia. E il mio più grande desiderio è perdere non solo ogni volontà ma l’intero mio essere. Mi sembra che qualcosa mi dica di partire. Essendo del tutto sicura che non è la sensibilità, mi ci abbandono. Se anche mi sbagliassi, spero che questo abbandono mi conduca infine a un buon porto. Quella che chiamo buon porto, lei lo sa, è la croce. Almeno quella del buon ladrone, se non mi sarà concesso un giorno di meritare di spartire quella del Cristo. Tra tutti gli altri citati nel Vangelo, oltre al Cristo, il buon ladrone è di

gran lunga quello che invidio di più. Essere stato al fianco del Cristo e nel suo stesso stato durante la crocifissione mi pare un privilegio molto più invidiabile che sedere alla sua destra nella gloria. Benché la data sia prossima, la mia decisione non è ancora presa in maniera irrevocabile. Dunque, se per caso avesse un consiglio da darmi, questo sarebbe il momento. Ma non stia a rifletterci troppo. Ha cose molto più importanti a cui pensare. Una volta partita, mi sembra poco probabile che un giorno le circostanze mi permetteranno di rivederla. Quanto a eventuali incontri in un’altra vita, sa che non immagino le cose in questo modo. Ma poco importa. All’amicizia che nutro nei suoi confronti è sufficiente che lei esista. Non potrò impedirmi di pensare con viva angoscia a quanti avrò lasciato in Francia, e in particolar modo a lei. Ma anche questo non importa. Credo che lei sia tra coloro a cui non potrà mai capitare alcun male, accada quel che accada. La distanza non impedirà al debito che ho verso di lei di crescere con il tempo, giorno dopo giorno, poiché non mi impedirà di pensare a lei. Ed è impossibile pensare a lei senza pensare a Dio. La prego di credere alla mia amicizia filiale. Simone Weil P.S. Lei sa che per me questa partenza è tutt’altro che una fuga da sofferenze e pericoli. La mia angoscia scaturisce precisamente dal timore di fare, mio malgrado e a mia insaputa, quello che sopra ogni altra cosa non vorrei fare – ovvero fuggire. Finora qui si è vissuti in assoluta tranquillità. Se questa tranquillità svanisse subito dopo la mia partenza, per me sarebbe orribile. Se avessi questa certezza, credo che resterei. Se lei sa qualcosa che consente di fare previsioni, conto sul fatto che me ne informi.

IV

Autobiografia spirituale

P.S. Da leggere come prima cosa. Questa lettera è spudoratamente lunga ma, visto che non c’è motivo di rispondere – tanto più che sarò senza dubbio partita – ha a disposizione anni per prenderne visione, se vuole. Comunque la legga, un giorno o l’altro. [Da Marsiglia, 15 maggio circa] Padre, prima di partire voglio parlarle ancora, forse per l’ultima volta, poiché da laggiù non potrò certo che mandarle mie notizie, di tanto in tanto, per riceverne di sue. Le ho detto del mio enorme debito verso di lei. Cercherò di spiegarle con esattezza e onestà in cosa consiste. Penso che se lei potesse davvero comprendere la mia situazione spirituale non proverebbe alcun dolore per non avermi condotta al battesimo. Non so però se questo le sia possibile. Lei non mi ha dato né l’ispirazione cristiana né il Cristo: quando l’ho incontrata, infatti, non ve n’era più bisogno, perché ciò era già avvenuto senza l’intervento di alcun essere umano. Se così non fosse stato, se non fossi stata già presa, in maniera non solo implicita ma anche cosciente, lei non mi avrebbe dato nulla, perché nulla avrei accolto da lei. La mia amicizia nei suoi confronti sarebbe stata per me un motivo per rifiutare il suo messaggio, perché avrei avuto paura della possibilità di errori e illusioni che l’influenza umana implica nel dominio delle cose divine. Posso dire che in tutta la mia vita non ho mai, in nessun momento, cercato Dio. Forse per questo motivo, senza dubbio troppo soggettivo, è un’espressione che non amo e

che mi sembra falsa. Fin dall’adolescenza ho pensato che il problema di Dio fosse un problema di cui quaggiù mancano i dati e che l’unico metodo certo per evitare di risolverlo in maniera errata – cosa che mi sembrava il peggiore dei mali – fosse quello di non porselo. Così non me lo ponevo. Non affermavo e non negavo. Mi sembrava inutile risolvere questo problema, perché pensavo che, trovandoci in questo mondo, il nostro compito fosse quello di adottare il miglior atteggiamento riguardo ai problemi di questo mondo, e che tale atteggiamento non dipendesse dalla soluzione del problema di Dio. Era vero almeno per me, perché non ho mai esitato nella scelta di un atteggiamento; ho sempre adottato come unico atteggiamento possibile quello cristiano. Sono per così dire nata, cresciuta e rimasta sempre all’interno dell’ispirazione cristiana. Mentre il nome stesso di Dio non aveva alcuna parte nei miei pensieri, nei confronti dei problemi di questo mondo e di questa vita avevo una concezione esplicitamente e rigorosamente cristiana, con le nozioni più specifiche che essa comporta. Alcune di queste nozioni sono in me dal tempo remoto cui risalgono i miei primi ricordi. Quanto alle altre, so quando, in quale maniera e sotto quale forma mi si sono imposte. Per esempio, mi sono sempre proibita di pensare a una vita futura, ma ho sempre creduto che l’istante della morte sia la norma e il fine della vita. Pensavo che per quanti vivono come si conviene sia l’istante in cui per una frazione infinitesimale di tempo la verità pura, nuda, certa, eterna entra nell’anima. Posso dire di non aver mai desiderato per me altro bene. Pensavo che la vita che conduce a questo bene non sia definita solo dalla morale comune, ma che per ciascuno consista in una successione di atti e di avvenimenti rigorosamente personale e talmente obbligatoria che chi se ne discosta manca la meta. Questa era per me la nozione di vocazione. Individuavo il criterio delle azioni imposte dalla vocazione in un impulso essenzialmente e palesemente

diverso da quelli che procedono dalla sensibilità o dalla ragione, e non seguire un simile impulso quando sorge, anche se ordina cose impossibili, mi sembrava la più grande delle disgrazie. È così che concepivo l’obbedienza, e ho messo alla prova questa concezione quando sono entrata in fabbrica e ci sono rimasta, sebbene mi trovassi in quello stato di dolore intenso e ininterrotto che le ho recentemente confessato. La più bella vita possibile mi è sempre parsa quella in cui tutto è determinato sia dalla costrizione delle circostanze sia da tali impulsi, e dove non c’è mai posto per alcuna scelta. A quattordici anni sono piombata in una di quelle disperazioni senza fondo dell’adolescenza e, a causa della mediocrità delle mie facoltà naturali, ho seriamente pensato alla morte. Le doti straordinarie di mio fratello, che ha avuto un’infanzia e una giovinezza paragonabili a quelle di Pascal, mi obbligavano a prenderne coscienza. Non rimpiangevo i successi esteriori quanto il fatto di non poter sperare di accedere in alcun modo a quel reame trascendente in cui entrano solo gli uomini autenticamente grandi e in cui dimora la verità. Avrei preferito morire piuttosto che vivere senza di essa. Dopo mesi di tenebre interiori ho avuto improvvisamente e una volta per tutte la certezza che qualsiasi essere umano, anche se le sue facoltà naturali sono quasi nulle, penetra in questo reame della verità riservata al genio, se solo desidera la verità e compie un perpetuo sforzo d’attenzione per raggiungerla. Diventa egli stesso un genio, anche se per mancanza di talento questo genio non può essere visibile all’esterno. Più tardi, quando i mal di testa hanno fatto pesare sulle mie sparute facoltà una paralisi che molto presto ho supposto essere definitiva, questa certezza mi ha spinto a perseverare per dieci anni in sforzi d’attenzione non sorretti quasi da alcuna speranza di risultato. Sotto il nome di verità includevo anche la bellezza, la virtù e ogni specie di bene, così che per me si trattava di una

concezione del rapporto tra grazia e desiderio. La certezza acquisita era che quando si desidera un po’ di pane non si ricevono pietre. Ma all’epoca non avevo ancora letto il Vangelo. Come ero certa che il desiderio possiede di per sé un’efficacia nel dominio del bene spirituale in tutte le sue forme, così lo ritenevo inefficace in ogni altro dominio. Quanto allo spirito di povertà, non ricordo momenti in cui non sia stato in me, nella misura, sfortunatamente esigua, in cui tutto questo era compatibile con la mia imperfezione. Da quando conosco san Francesco, sono innamorata di lui. Ho sempre creduto e sperato che un giorno il destino mi avrebbe costretta in quello stato di vagabondaggio e mendicità da lui liberamente scelto. Non pensavo di arrivare all’età che ho senza esserci almeno passata. Lo stesso, d’altronde, vale per la prigione. Sin dalla prima infanzia ho inoltre acquisito la nozione cristiana della carità verso il prossimo, alla quale davo il nome, così bello, di giustizia che essa ha in diversi passi del Vangelo. Lei sa che su questo punto, da allora, ho gravemente mancato diverse volte. Il dovere di accettare la volontà di Dio, quale che fosse, si è imposto al mio spirito come il primo e il più necessario di tutti i doveri, quello al quale non si può venir meno senza macchiarsi l’onore, sin dal giorno in cui l’ho trovato espresso in Marco Aurelio nella forma dell’amor fati stoico. La nozione di purezza, con tutto ciò che il termine può implicare per un cristiano, si è impossessata di me a sedici anni, dopo che avevo attraversato per qualche mese le inquietudini sentimentali proprie dell’adolescenza. Questa nozione mi si è rivelata contemplando un paesaggio di montagna, e si è imposta poco alla volta in maniera irresistibile. Certo, sapevo fin troppo bene che la mia concezione della vita era cristiana. Ecco perché non mi è mai venuto in mente di poter «entrare» nel cristianesimo: avevo l’impressione di

essere nata al suo interno. Ma aggiungere a questa concezione della vita il dogma stesso, senza esservi costretta da un’evidenza, mi sarebbe sembrata una mancanza di probità. Avrei creduto di mancare di probità ponendomi come un problema la questione della verità del dogma, o semplicemente desiderando di giungere a una convinzione sull’argomento. Ho della probità intellettuale un’idea estremamente rigorosa, al punto che non ho mai incontrato nessuno che non mi abbia dato l’impressione di esserne privo sotto più di un aspetto; e temo sempre di esserne priva io stessa. Astenendomi così dal dogma, una sorta di pudore mi impediva di entrare in una chiesa, sebbene mi piacesse farlo. Ho avuto però tre contatti davvero importanti con il cattolicesimo. Dopo l’anno trascorso in fabbrica, prima di riprendere l’insegnamento, i miei genitori mi avevano condotta in Portogallo, dove li lasciai per recarmi da sola in un piccolo villaggio. Avevo l’anima e il corpo a pezzi. Quel contatto con la sventura aveva ucciso la mia giovinezza. Fino ad allora non avevo avuto esperienza dell’infelicità se non della mia che, proprio in quanto mia, mi sembrava di scarsa importanza e che, d’altronde, non era che una mezza infelicità, essendo biologica e non sociale. Sapevo bene che c’era molta infelicità nel mondo, ne ero ossessionata, ma non l’avevo mai conosciuta direttamente attraverso un contatto prolungato. In fabbrica, confusa agli occhi di tutti e ai miei con la massa anonima, l’altrui infelicità mi è entrata nella carne e nell’anima. Nulla me ne separava, dal momento che avevo dimenticato il mio passato e non mi aspettavo alcun avvenire, trovando difficile immaginare di poter sopravvivere a quelle fatiche. Ciò che ho subito lì mi ha segnato in una maniera così duratura che ancora oggi, quando un essere umano, chiunque egli sia e in qualsiasi circostanza, mi parla senza brutalità, non posso non avere l’impressione che ci sia un errore, destinato purtroppo a dissiparsi. Lì ho ricevuto

per sempre il sigillo della schiavitù, come la marchiatura a fuoco che i romani imprimevano sulla fronte degli schiavi più disprezzati. Da allora mi sono sempre considerata una schiava. In questo stato d’animo e in una condizione fisica miserevole, sono così arrivata da sola, sotto la luna piena, in occasione della festa del patrono, in quel villaggio portoghese – ahimè – altrettanto miserevole. Mi trovavo in riva al mare. Le donne dei pescatori andavano in processione intorno alle barche, portando dei ceri e intonando canti di certo molto antichi, di una tristezza straziante. Non c’è nulla che possa restituirne un’idea. Non ho mai udito niente di così struggente, se non il canto dei battellieri del Volga. Là ho avuto improvvisamente la certezza che il cristianesimo è per eccellenza la religione degli schiavi, e che gli schiavi non possono non aderirvi, io tra gli altri. Nel 1937 ho trascorso due splendide giornate ad Assisi. Lì, sola nella piccola cappella romanica del XII secolo di Santa Maria degli Angeli, incomparabile meraviglia di purezza, dove tanto spesso ha pregato san Francesco, qualcosa di più forte di me mi ha obbligata, per la prima volta in vita mia, a inginocchiarmi. Nel 1938 ho passato dieci giorni a Solesmes, dalla domenica delle Palme al martedì di Pasqua, seguendo tutte le funzioni. Soffrivo di violenti mal di testa, e ogni suono mi stordiva come una percossa; tuttavia, un estremo sforzo d’attenzione mi permetteva di uscire da questa carne miserabile, di lasciarla sola a soffrire, pigiata nel suo angolo, e di trovare una gioia pura e perfetta nella bellezza inaudita del canto e delle parole. Quell’esperienza mi ha permesso per analogia di comprendere meglio la possibilità di amare l’amore divino attraverso la sventura. Va da sé che nel corso di quelle funzioni il pensiero della passione del Cristo sia entrato in me una volta per tutte. Lì un giovane cattolico inglese mi ha dato per la prima volta l’idea di una virtù sovrannaturale dei sacramenti,

grazie allo splendore veramente angelico di cui sembrava circonfuso dopo aver preso parte alla comunione. Il caso – giacché preferisco sempre chiamarlo così piuttosto che Provvidenza – ne ha fatto per me un autentico messaggero, perché è stato lui a farmi conoscere quei poeti inglesi del XVII secolo che vengono definiti metafisici. Più tardi, leggendoli, ho scoperto la poesia119 di cui le ho letto una traduzione purtroppo assai scadente. Si intitola Amore,120 l’ho imparata a memoria. Spesso, al culmine delle violente crisi di mal di testa, mi sono esercitata a recitarla applicandovi tutta la mia attenzione e aderendo con tutta l’anima alla tenerezza che racchiude. Credevo di recitarla solamente come una bella poesia, ma a mia insaputa quell’esercizio aveva la virtù di una preghiera. È stato nel corso di una di queste recitazioni che, come le ho scritto, il Cristo stesso è disceso e mi ha presa. Nelle mie riflessioni sull’insolubilità del problema di Dio, non avevo previsto la possibilità di un contatto reale, da persona a persona, quaggiù, tra un essere umano e Dio. Avevo sentito vagamente parlare di cose del genere, ma non vi avevo mai creduto. Le storie di apparizioni nei Fioretti mi ripugnavano, più che altro, così come i miracoli nel Vangelo. D’altronde, in quell’improvviso sentirmi presa dal Cristo né i sensi né l’immaginazione avevano avuto parte; ho solamente avvertito, tramite la sofferenza, la presenza di un amore analogo a quello che si legge nel sorriso di un volto amato. Non avevo mai letto i mistici, perché non avevo mai avvertito nulla che mi ordinasse di farlo. Anche nelle letture mi sono sempre sforzata di praticare l’obbedienza. Non c’è nulla di più favorevole al progresso intellettuale, perché per quanto possibile non leggo che ciò di cui ho fame, quando ne ho fame, e allora non leggo: mangio. Dio mi aveva misericordiosamente impedito di leggere i mistici, perché mi fosse evidente che quel contatto assolutamente inatteso non era opera mia. Tuttavia, ho rifiutato ancora per metà, non il mio amore,

ma la mia intelligenza. Perché mi pareva certo, e lo credo tuttora, che si può resistere a Dio se lo si fa per puro amore della verità. Il Cristo vuole che gli si preferisca la verità, perché, prima di essere il Cristo, egli è verità. Se ci si allontana da lui per andare verso la verità, non si percorrerà molta strada prima di finire tra le sue braccia. È stato dopo tutto questo che ho sentito che Platone è un mistico, che l’intera Iliade è immersa nella luce cristiana e che Dioniso e Osiride sono in un certo senso il Cristo stesso; e il mio amore ne è stato raddoppiato. Non mi chiedevo mai se Gesù sia stato o meno un’incarnazione di Dio; di fatto, però, non ero in grado di pensare a lui senza pensarlo come Dio. Nella primavera del 1940 ho letto la Bhagavadgītā.121 Stranamente, è stato leggendo quelle parole stupende dal suono così cristiano, messe in bocca a un’incarnazione di Dio, che ho sentito con forza che alla religione si deve ben altro che l’adesione accordata a un bel poema. Le si deve un genere di adesione ben più categorica. Eppure, credevo di non potermi nemmeno porre la questione del battesimo. Sentivo di non potere onestamente abbandonare i miei sentimenti riguardo alle religioni non cristiane e a Israele – e infatti il tempo e la meditazione non hanno fatto che rafforzarli – e credevo che questo fosse un ostacolo assoluto. Non immaginavo la possibilità che un prete potesse anche solo pensare di accordarmi il battesimo. Se non avessi incontrato lei, non mi sarei mai posta la questione del battesimo come un problema pratico. Durante tutto questo percorso spirituale non ho mai pregato. Temevo il potere di suggestione della preghiera, il potere per cui Pascal la raccomanda. Il metodo di Pascal122 mi sembrava uno dei peggiori per arrivare alla fede. Il contatto con lei non mi ha convinto a pregare. Al contrario, il pericolo mi pareva tanto più temibile per il fatto di dover diffidare anche del potere di suggestione della mia amicizia nei suoi confronti. Al tempo stesso, ero molto

imbarazzata dal fatto di non pregare e di non dirglielo. E sapevo di non poterglielo dire senza indurla completamente in errore sul mio conto. In quel momento non avrei potuto farle comprendere. Fino al settembre scorso non mi era mai successo in vita mia di pregare, neanche una volta, almeno nel senso letterale del termine. Mai avevo rivolto parole a Dio, né ad alta voce né mentalmente. Mai avevo pronunciato una preghiera liturgica. Mi era successo talvolta di recitare il Salve Regina, ma solo come una bella poesia. L’estate scorsa, facendo un po’ di greco con T…, gli avevo tradotto il Pater in greco parola per parola. Ci eravamo ripromessi di impararlo a memoria. Credo che lui non l’abbia fatto. Neanch’io, lì per lì. Ma qualche settimana dopo, sfogliando il Vangelo, mi sono detta che, dal momento che l’avevo promesso a me stessa e che era un bene, dovevo farlo. Così l’ho fatto. La dolcezza infinita di quel testo greco mi ha presa a tal punto che per alcuni giorni non ho potuto fare a meno di recitarlo in continuazione. Una settimana dopo ho iniziato la vendemmia. Recitavo il Pater in greco ogni mattina, prima del lavoro, ripetendolo molto spesso anche nella vigna. Da allora mi sono imposta come unica pratica di recitarlo una volta ogni mattina con attenzione assoluta. Se durante la recitazione la mia attenzione si smarrisce o si assopisce, fosse anche in maniera infinitesimale, ricomincio da capo fino a ottenere un’attenzione assolutamente pura. Mi succede così talvolta di ripeterlo per puro piacere, ma solo se mi sospinge il desiderio. La virtù di questa pratica è straordinaria e mi sorprende ogni volta, perché, sebbene la sperimenti giorno dopo giorno, supera puntualmente le mie aspettative. Talvolta le prime parole strappano già il pensiero dal mio corpo per trasportarlo in un luogo fuori dallo spazio dove non c’è prospettiva né punto di vista. Lo spazio si apre. All’infinità dello spazio ordinario della percezione subentra

un’infinità alla seconda o, talora, alla terza potenza. Al tempo stesso, quest’infinità d’infinità si riempie da parte a parte di silenzio, un silenzio che non è assenza di suono ma oggetto di una sensazione positiva, più positiva di quella di un suono. I rumori, se ve ne sono, non mi raggiungono se non dopo aver attraversato questo silenzio. A volte, durante questa recitazione o in altri momenti, il Cristo è presente di persona, ma con una presenza infinitamente più reale, più struggente, più tersa e più traboccante d’amore di quella della prima volta in cui mi ha presa. Mai avrei potuto sobbarcarmi il peso di dirle tutto questo se non fossi dovuta partire. E siccome parto con il pensiero di una morte probabile, mi sembra di non avere il diritto di tacere queste cose. Perché, in fin dei conti, non si tratta di me. Si tratta di Dio e basta. Io non c’entro affatto. Se si potessero supporre errori in Dio, penserei che tutto ciò mi sia piombato addosso per errore. Ma forse a Dio piace servirsi dei rifiuti, dei pezzi difettosi, degli scarti. Dopo tutto, anche ammuffito, una volta che il sacerdote l’ha consacrato il pane dell’ostia diventa comunque il corpo di Cristo. Solo che il pane non può rifiutarsi, mentre a noi è concesso di disobbedire. A volte mi sembra che, essendo io trattata in maniera così misericordiosa, qualsiasi mio peccato debba essere un peccato mortale. E ne commetto senza posa. Le ho detto che per me lei è un padre e un fratello. Ma queste parole esprimono solo un’analogia. Forse, in fondo, corrispondono soltanto a un sentimento d’affetto, di riconoscenza e ammirazione. Quanto alla guida spirituale della mia anima, infatti, penso che Dio stesso l’abbia presa in mano fin dall’inizio e la mantenga. Questo non mi impedisce di avere nei confronti di lei il più grande debito che io abbia contratto con un essere umano. Ecco esattamente in cosa consiste. Per prima cosa, una volta lei mi ha rivolto parole – ci conoscevamo da poco – che mi hanno toccata nel profondo:

«Stia bene attenta, sarebbe un peccato se per colpa sua si perdesse qualcosa di grande». Quelle parole mi hanno fatto cogliere un aspetto nuovo del dovere di probità intellettuale. Fino ad allora l’avevo concepito solo in contrasto con la fede. Sembrerà orribile, ma non lo è. Anzi: dipendeva dal fatto che sentivo tutto il mio amore rivolto verso la fede. Le sue parole mi hanno spinta a pensare che, a mia insaputa, in me potessero esserci pregiudizi, abitudini e impurità d’ostacolo alla fede. Dopo essermi detta per tanti anni nient’altro che: «Forse tutto questo non è vero», ho sentito che avrei dovuto non tanto cessare di dirmelo – ho cura di farlo spesso ancora adesso –, quanto aggiungere a tale formula quella contraria: «Forse tutto questo è vero», alternandole. Al tempo stesso, presentandomi la questione del battesimo come un problema d’ordine pratico, lei mi ha costretto a guardare in faccia – a lungo, da vicino, con piena attenzione – la fede, i dogmi e i sacramenti come cose verso le quali avevo obblighi che dovevo discernere e ottemperare. Non lo avrei mai fatto altrimenti, per quanto mi fosse indispensabile. Ma il più grande beneficio ricevuto da lei è d’altro genere. Conquistando la mia amicizia con una carità di cui non avevo mai incontrato eguali, lei mi ha fornito la fonte d’ispirazione più potente e più pura che si possa trovare fra le cose umane. Perché nessuna di queste è più efficace dell’amicizia verso gli amici di Dio per mantenere lo sguardo fisso su Dio con intensità sempre crescente. Niente mi consente di misurare la grandezza della sua carità meglio del fatto di avermi tollerato così a lungo e con tanta dolcezza. Ho l’aria di scherzare, ma non è così. Vero è che lei non ha gli stessi motivi che ho io (quelli di cui le ho scritto l’altro giorno) per provare odio e repulsione nei miei confronti. Eppure la sua pazienza verso di me mi sembrava poter provenire solo da una generosità soprannaturale. Non ho potuto fare a meno di provocarle la più grossa

delusione che potessi darle. Fino a ora, però, sebbene mi sia spesso posta la questione durante la preghiera, nel corso della messa o alla luce di quell’irradiamento che al termine della messa permane nell’anima, non ho avuto nemmeno una volta, nemmeno per un secondo, la sensazione che Dio mi voglia in seno alla chiesa. Non ho mai avuto nemmeno la minima incertezza. Allo stato presente, credo di poter concludere che Dio non mi vuole nella chiesa. Non abbia dunque alcun rimpianto. Perlomeno, non lo vuole fino a ora. Ma, salvo errori, mi pare sia sua volontà che io ne resti fuori anche in futuro, tranne forse al momento della morte. Tuttavia, sono sempre pronta a obbedire a qualsiasi ordine. Obbedirei con gioia perfino all’ordine di raggiungere il centro stesso dell’inferno e di restarvi in eterno. Non voglio dire, beninteso, di avere una preferenza per ordini di tal fatta. Questo tipo di perversità non mi appartiene. In quanto cattolico, il cristianesimo deve contenere in sé tutte le vocazioni senza eccezione. Di conseguenza, anche la chiesa. Ai miei occhi, però, il cristianesimo è cattolico per diritto e non di fatto. Tante cose ne rimangono escluse, tante cose che amo e che non voglio abbandonare, tante cose che Dio stesso ama, perché altrimenti non esisterebbero. L’immensa distesa dei secoli passati, eccetto gli ultimi venti; i paesi abitati da razze di colore; la vita profana nei paesi di razza bianca; e, nella storia di questi ultimi, le tradizioni accusate di eresia, come la manichea e l’albigese; i frutti del rinascimento, troppo spesso degradati ma non privi di valore. Essendo il cristianesimo cattolico per diritto e non di fatto, ritengo legittimo da parte mia essere membro della chiesa per diritto e non di fatto, e non soltanto per un periodo ma, all’occorrenza, per tutta la vita. Ma non è soltanto legittimo. Finché Dio non mi darà la certezza che mi ordina il contrario, lo considero per me un dovere.

Io penso, e lo pensa anche lei, che l’obbligo dei prossimi due o tre anni – obbligo talmente rigido da non potersi disattendere senza tradimento – sia quello di mostrare pubblicamente la possibilità di un cristianesimo veramente incarnato. Mai, in tutta la storia conosciuta, c’è stata un’epoca in cui le anime fossero in pericolo come oggi in tutto il globo terrestre. Bisogna innalzare di nuovo il serpente di bronzo, perché chiunque posi lo sguardo su di lui sia salvo. Ma tutto è talmente interconnesso che il cristianesimo non può essere davvero incarnato se non è cattolico nell’accezione che ho appena definito. Come potrebbe diffondersi attraverso la carne delle nazioni europee se non contenesse in sé tutto, assolutamente tutto? Tranne la menzogna, beninteso. Ma in tutto ciò che esiste c’è quasi sempre più verità che menzogna. Provando un sentimento così intenso, così doloroso di questa urgenza, tradirei la verità, ovvero l’aspetto della verità che colgo, se abbandonassi il punto in cui mi trovo fin dalla nascita, lì dove il cristianesimo si interseca con tutto ciò che cristianesimo non è. Sono sempre rimasta in quel preciso punto, sulla soglia della chiesa, ferma, immobile, ἐν ὑπομονῇ (una parola talmente più bella di patientia!); solo adesso il mio cuore è stato trasportato, spero per sempre, nel Santo Sacramento esposto sull’altare. Come vede, sono molto lontana dai pensieri che H… mi attribuiva con ottime intenzioni. E lo sono altrettanto dal provare qualsiasi tormento. Se sono triste, ciò deriva innanzitutto dalla tristezza permanente che la sorte ha impresso per sempre sulla mia sensibilità, alla quale le gioie più grandi, più pure, possono soltanto sovrapporsi, e solo al prezzo di uno sforzo dell’attenzione; e poi dai miei miserabili e continui peccati; e infine da tutte le sventure dell’epoca presente e di tutti i secoli passati.

Comprenderà dunque come io le abbia sempre resistito; sempre che, in quanto prete, possa ammettere che una vocazione autentica impedisca di entrare nella chiesa. Altrimenti rimarrà tra noi una barriera d’incomprensione, non importa se per colpa mia o sua. E questo, per l’amicizia che le porto, mi farebbe male, perché in tal caso il bilancio degli sforzi e dei desideri suscitati dalla sua carità verso di me sarebbe deludente. E se anche non fosse colpa mia, non potrei impedirmi di accusarmi di ingratitudine. Poiché, ancora una volta, il mio debito nei suoi confronti è incalcolabile. Vorrei richiamare la sua attenzione su un punto. Ovvero su un ostacolo assolutamente insormontabile all’incarnazione del cristianesimo. È l’uso delle due parole anathema sit. Non tanto la loro esistenza, quanto l’uso che se n’è fatto finora. È anche questo che mi impedisce di varcare la soglia della chiesa. Rimango al fianco di tutte le cose che, per via di quelle due parole, non possono entrare nella chiesa, ricettacolo universale. Rimango tanto più al loro fianco dal momento che la mia intelligenza stessa è in quel novero. L’incarnazione del cristianesimo implica una soluzione armoniosa del problema delle relazioni fra individuo e collettività. Armonia in senso pitagorico: giusto equilibrio dei contrari. Questa soluzione è proprio ciò di cui oggi hanno sete gli uomini. La condizione dell’intelligenza è la pietra di paragone di quest’armonia, perché l’intelligenza è qualcosa di specificamente e rigorosamente individuale. Quest’armonia esiste ovunque l’intelligenza, rimanendo al proprio posto, agisca senza intralci adempiendo completamente la sua funzione. È ciò che san Tommaso dice mirabilmente di tutte le parti dell’anima del Cristo a proposito della sua sensibilità al dolore durante la crocifissione. La funzione propria dell’intelligenza esige una libertà totale, che implica il diritto di negare tutto, e, al tempo

stesso, l’assenza di dominio. Ovunque essa usurpi un comandamento, lì c’è un eccesso di individualismo. Ovunque essa si trovi a disagio, lì ci sono una o più collettività oppressive. La chiesa e lo stato devono punirla, ciascuno nella maniera che gli compete, quando consiglia atti che disapprovano. Quando rimane nel dominio della speculazione puramente teorica, inoltre, hanno il dovere, all’occorrenza, di mettere in guardia il pubblico, con tutti i mezzi efficaci, contro il pericolo di un influsso pratico che certe speculazioni possono avere sulla condotta di vita. Però, quali che siano queste speculazioni teoriche, la chiesa e lo stato non hanno il diritto né di cercare di soffocarle né di infliggere ai loro autori alcun danno materiale o morale. In particolare, non bisogna privare costoro dei sacramenti, se li desiderano. Perché qualsiasi cosa abbiano detto, quand’anche avessero negato pubblicamente l’esistenza di Dio, potrebbero forse non aver commesso alcun peccato. In un caso del genere, la chiesa deve dichiararli in errore, senza però esigere da loro qualcosa che assomigli a una sconfessione di ciò che hanno detto, né privarli del pane della vita. Una collettività è custode del dogma; e il dogma è un oggetto di contemplazione per l’amore, la fede e l’intelligenza, tre facoltà strettamente individuali. Da ciò deriva un malessere dell’individuo nel cristianesimo, fin quasi dalle sue origini, e in particolare un malessere dell’intelligenza. Non lo si può negare. Se il Cristo stesso, che è la verità, parlasse davanti a un’assemblea, per esempio un concilio, non userebbe il linguaggio che utilizzava a quattr’occhi con l’amico prediletto, e certamente confrontando alcune sue frasi lo si potrebbe verosimilmente accusare di contraddizione e menzogna. Per una di quelle leggi naturali che Dio stesso rispetta, in quanto da lui volute per l’eternità, esistono due linguaggi assolutamente distinti, benché composti dalle

stesse parole: il linguaggio collettivo e il linguaggio individuale. Il consolatore inviatoci dal Cristo, lo spirito di verità, parla ora l’uno ora l’altro secondo i casi, e per necessità di natura non c’è concordanza. Quando autentici amici di Dio – come fu a mio avviso Meister Eckhart – ripetono parole udite in segreto, nel silenzio, durante l’unione d’amore, parole che non concordano con l’insegnamento della chiesa, ciò è semplicemente dovuto al fatto che il linguaggio della pubblica piazza non è quello della camera nuziale. Tutti sanno che non c’è conversazione davvero intima se non fra due o tre persone. Quando si è già in cinque o in sei il linguaggio collettivo prende il sopravvento. Ecco perché si cade in un completo controsenso applicando alla chiesa le parole: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sarò in mezzo a loro». Il Cristo non ha detto duecento, o cinquanta, o dieci. Ha detto due o tre. Ha detto esattamente di essere sempre il terzo nell’intimità di un’amicizia cristiana, l’intimità del faccia a faccia. Il Cristo ha fatto delle promesse alla chiesa, ma nessuna di queste ha la forza dell’espressione: «Il Padre Vostro, che è nel segreto». La parola di Dio è la parola segreta. Se anche aderisce a tutti i dogmi insegnati dalla chiesa, chi non ha mai udito questa parola è lontano dalla verità. La funzione della chiesa come conservatrice collettiva del dogma è indispensabile. Essa ha il diritto e il dovere di punire con la privazione dei sacramenti chiunque l’attacchi espressamente nel dominio specifico di questa funzione. Così, sebbene io ignori quasi tutto della questione, sono in via provvisoria incline a credere che abbia avuto ragione di punire Lutero. Tuttavia, commette un abuso di potere quando pretende di costringere l’amore e l’intelligenza ad assumere il suo linguaggio come norma. Quest’abuso di potere non procede da Dio. Deriva dalla tendenza naturale di tutte le collettività, senza eccezioni, agli abusi di potere.

L’immagine del corpo mistico del Cristo è molto seducente. Ma considero l’importanza che oggi si accorda a quest’immagine come uno dei segni più gravi della nostra decadenza. Perché la nostra vera dignità non risiede nell’essere parti di un corpo, fosse anche mistico, fosse anche quello del Cristo. Consiste piuttosto nel fatto che, nello stato di perfezione, che è la vocazione di ognuno di noi, non viviamo più in noi stessi, ma il Cristo vive in noi; così che attraverso questo stato il Cristo nella sua integrità, nella sua unità indivisibile, diviene in un certo senso ognuno di noi, com’è tutto intero in ogni ostia. Le ostie non sono parti del suo corpo. L’importanza attualmente attribuita all’immagine del corpo mistico mostra come i cristiani siano miseramente cedevoli agli influssi esterni. Si prova certo una viva ebbrezza nell’essere membri del corpo mistico del Cristo. Ma oggi molti altri corpi mistici, che per testa non hanno il Cristo, procurano ai loro membri ebbrezze a mio avviso della stessa natura. Mi è dolce, finché avviene per obbedienza, essere privata della gioia di far parte del corpo mistico del Cristo. Se Dio infatti vorrà soccorrermi, testimonierò che anche senza questa gioia è possibile restare fedeli al Cristo fino alla morte. I sentimenti sociali hanno oggi un tale ascendente, elevano così bene fino al grado supremo dell’eroismo nella sofferenza e nella morte, che credo sia giusto che qualche pecora rimanga fuori dall’ovile per testimoniare che l’amore del Cristo è davvero tutt’altra cosa. Oggi la chiesa difende la causa dei diritti inalienabili dell’individuo contro l’oppressione collettiva, della libertà di pensiero contro la tirannia. Ma sono cause che abbracciano volentieri quelli che momentaneamente non si trovano a essere i più forti. È il loro unico mezzo per ridiventarlo forse un giorno: è risaputo. Forse quest’idea la offenderà. A torto, però. Lei non è la chiesa. Nei periodi in cui la chiesa commetteva i più atroci

abusi di potere, dovevano pur esserci preti come lei. Se pure fosse condivisa da tutto il suo ordine, la sua buona fede non è una garanzia. Lei non può prevedere come andranno le cose. Perché l’atteggiamento attuale della chiesa sia efficace e penetri veramente come un cuneo nel corpo della società, essa dovrebbe dire apertamente che è cambiata o che intende farlo. Altrimenti, chi potrebbe prenderla sul serio ricordando l’inquisizione? Le chiedo scusa se parlo dell’inquisizione; la mia amicizia per lei, e che tramite lei si estende al suo ordine, mi rende molto doloroso il doverla evocare. Tuttavia, è esistita. Dopo la caduta dell’impero romano, che era totalitario, è stata la chiesa a instaurare per prima nell’Europa del XIII secolo, dopo la guerra agli albigesi, un modello di totalitarismo. Quell’albero ha prodotto molti frutti.123 E la molla di quel totalitarismo era l’uso di quelle due parole: anathema sit. D’altronde, è per una giudiziosa trasposizione di quest’uso che sono stati forgiati tutti i partiti che ai giorni nostri hanno instaurato regimi totalitari. È un aspetto della storia che ho studiato in modo approfondito. Devo darle l’impressione di un orgoglio luciferino, parlando così di molte cose che sono troppo elevate per me e delle quali non ho il diritto di comprendere nulla. Non è colpa mia. Certe idee vengono a posarsi su di me per errore; poi, riconoscendo l’errore, vogliono assolutamente uscirne. Non so da dove vengano né quanto valgano, ma a ogni buon conto non credo di avere il diritto di impedire il loro operare. Addio. Le auguro ogni bene possibile, tranne la croce; poiché non amo il mio prossimo come me stessa, e in particolar modo lei, come avrà capito. Ma il Cristo ha accordato al suo amico prediletto, e probabilmente a tutti i suoi discendenti spirituali, di arrivare a lui non già attraverso la degradazione, la corruzione e lo sconforto, ma nella gioia, nella purezza e nella dolcezza ininterrotte. Ecco

perché posso permettermi di augurarle che, se anche un giorno le venisse accordato l’onore di morire di una morte violenta per il Signore, questo si compia nella gioia e senza angoscia alcuna; e che a lei si applichino solo tre delle beatitudini (mites, mundo corde, pacifici). Le altre implicano quale più quale meno delle sofferenze. Questo augurio non è dovuto solo alla debolezza dell’amicizia umana. Per qualsiasi altro essere umano considerato singolarmente, trovo sempre motivi per concludere che la sventura non gli si addice, sia nel caso in cui mi sembri troppo mediocre per una cosa così grande, sia che al contrario mi paia troppo prezioso per esserne distrutto. Non c’è modo di mancare più gravemente al secondo dei due comandamenti essenziali. Quanto al primo, vengo meno in modo ancor più orribile, perché tutte le volte in cui penso alla crocifissione del Cristo commetto peccato d’invidia. La prego di credere, più che mai e per sempre, alla mia amicizia filiale e teneramente riconoscente. Simone Weil

L’«ILIADE» POEMA DELLA FORZA

Questo saggio è uno dei rarissimi articoli di Simone Weil, di argomento non politico, sociale o legato all’attualità storica, pubblicati durante la sua vita. La stesura risale con ogni probabilità al 1939, ma ci sono buone ragioni per ritenere che le idee fondamentali qui espresse risalgano a qualche anno prima e precisamente al periodo in cui Simone insegnava a Saint-Quentin.124 In realtà, l’intenzione della Weil era quella di pubblicarlo sulla rivista «La Nouvelle Revue Française», ma a causa – pare – dell’eccessiva lunghezza dell’articolo e del tergiversare del direttore della rivista, esso apparve invece soltanto tra il dicembre1940 e il gennaio 1941 sulla rivista «Cahiers du Sud» di Marsiglia, diretta da J. Ballard.125 Il lavoro testimonia del grande amore di Simone per l’Iliade (un amore, almeno in parte, ereditato dal suo maestro Alain) e del suo progetto di studiarne a fondo il contenuto poetico e umano. Va detto, infatti, che il saggio è oltremodo prezioso: sia letterariamente, perché corredato di numerosi brani tradotti personalmente da Simone, che si impegnò per conservare l’ordine originario della parole conseguendo in tal modo importanti risultati,126 sia filosoficamente, perché l’interpretazione che ella dà del poema è assolutamente nuova e originale. L’idea di fondo è che – come la Weil afferma in apertura – il vero protagonista dell’Iliade è la forza, che ha il potere di trasformare in cosa chiunque le sia sottomesso: di fronte a essa ogni anima umana è debole; «essa finisce coll’apparire esteriore a colui che la esercita come a colui che la soffre; nasce allora l’idea di un destino sotto il quale carnefici e vittime sono del pari innocenti, vincitori e vinti sono fratelli nella stessa miseria».127 Forza e cosa sono dunque le due parole-chiave dell’Iliade, ma ce n’è una terza che deve essere aggiunta alle prime due e che la cultura occidentale ha purtroppo perduto: essa è nemesi, il concetto greco di un destino che punisce automaticamente l’uso della forza e che la Weil mette perciò in stretto rapporto con la nozione indiana di karma. La guerra di Troia, narrata nell’Iliade, risulta così essere, a ben vedere, la rappresentazione dell’operare della nemesi nella storia, ovvero la rivelazione dell’equilibrio tra l’intensità della forza distruttiva esercitata dagli uomini e l’intensità della forza riparatrice che si attiva di conseguenza. È una giustizia impersonale, insomma, che compensa la sottomissione sventurata di ogni uomo (sia vinto sia vincitore) a quella necessità che lo abbandona in balia della forza e fa sì che l’anima di chi subisce la brutalità sia pietrificata tanto quanto l’anima di chi la esercita. La Weil sottolinea come la straordinaria equità e imparzialità che ispira l’Iliade ne metta in luce il tono di amarezza mista a tenerezza di fronte alla comune condizione di miseria umana, la sola che permette all’uomo di sviluppare un sentimento di amore e di giustizia per gli altri uomini: «Colui che ignora fino a qual punto la volubile fortuna e la necessità tengono ogni anima umana alla loro mercé – scrive – non può considerare suoi simili né amare come sé stesso quelli che il caso ha separato da lui come un abisso».128 Proprio perché accomunati dal sentimento della miseria umana, che è il marchio del genio greco, la Weil arriva a vedere uno stretto collegamento tra il poema greco e il Vangelo: la bellezza di entrambi risiede proprio nel fatto che sono opere di grande lucidità sulla condizione umana, ma anche di grande umanità, giustizia e carità.

Il vero eroe, il vero argomento, il centro dell’Iliade, è la forza. La forza adoperata dagli uomini, la forza che piega gli uomini, la forza dinanzi alla quale si ritrae la carne degli uomini. L’anima umana vi appare continuamente modificata dai suoi rapporti con la forza: travolta, accecata dalla forza di cui crede disporre, si curva sotto l’imperio della forza che subisce. Chi aveva sognato che la forza, grazie al progresso, appartenesse ormai al passato, ha voluto vedere in questo poema un documento; chi sa discernere la forza, oggi come un tempo, al centro di ogni storia umana, vi trova il più bello, il più puro degli specchi. La forza è ciò che rende chiunque le sia sottomesso una cosa. Quando sia esercitata fino in fondo, essa fa dell’uomo una cosa, nel senso più letterale della parola, poiché lo trasforma in un cadavere. C’era qualcuno, e un attimo dopo non c’è nessuno. È un quadro che l’Iliade non si stanca di presentarci. «...i cavalli scotevano i vuoti carri sulle vie della guerra, in lutto dei loro aurighi senza macchia. Essi per terra giacevano, agli avvoltoi più cari assai che alle spose».

L’eroe è una cosa trascinata dietro un carro nella polvere: «...tutto intorno, i capelli neri erano sparsi e la testa intera nella polvere giaceva, or ora incantevole; ora Zeus ai nemici aveva concesso avvilirla sulla sua terra natale».

L’amarezza di uno spettacolo simile l’assaporiamo pura, senza che nessuna finzione confortante venga ad alterarla: nessuna immortalità consolatrice, nessuna scialba aureola di gloria o di patria. «La sua anima fuor delle membra volò, se ne andò alla casa di Ade, piangendo il suo destino, lasciando giovinezza e vigore».

Più crudele ancora, a causa del contrasto doloroso, è l’evocazione improvvisa, subito cancellata, di un altro mondo: il mondo lontano, precario e toccante della pace, della famiglia, quel mondo dove l’uomo è, per coloro che lo circondano, ciò che conta di più: «Ella gridava alle sue ancelle dai bei capelli per la dimora di porre al fuoco un tripode, ché vi fosse

per Ettore un bagno caldo al ritorno dalla battaglia. O ingenua! Non sapeva che ben lungi dai bagni caldi l’ha piegato il braccio d’Achille, causa Atena dagli occhi glauchi».

Certo, era ben lungi dai bagni caldi, lo sventurato. E non era il solo. Quasi tutta l’Iliade si svolge lontano dai bagni caldi. Quasi tutta la vita umana si è sempre svolta lontano dai bagni caldi. La forza che uccide è una forma sommaria, grossolana della forza. Quanto più varia nei suoi procedimenti, quanto più sorprendente nei suoi effetti l’altra forza, quella che non uccide, cioè quella che non uccide ancora! Ucciderà sicuramente, o ucciderà forse, ovvero è soltanto sospesa sulla creatura che da un momento all’altro può uccidere; in ogni modo, muta l’uomo in pietra. Dal potere di tramutare un uomo in cosa facendolo morire, procede un altro potere, e molto più prodigioso: quello di mutare in cosa un uomo che resta vivo. È vivo, ha un’anima; e nondimeno è una cosa. Strana cosa una cosa che ha un’anima; strano stato per l’anima. Chi sa quale sforzo le occorre ad ogni istante per conformarsi a ciò, per torcersi e ripiegarsi su sé medesima? L’anima non è fatta per abitare una cosa; quando vi sia costretta, non vi è più nulla in essa che non patisca violenza. Un uomo inerme e nudo sul quale si punti un’arma diventa cadavere prima di esser toccato. Per un istante ancora pensa, agisce, spera: «Egli pensava, immobile. L’altro, perduto, s’accosta, ansioso di toccargli i ginocchi. Voleva, nel suo cuore, scampare alla morte malvagia, al destino nero... E con un braccio gli stringe, supplice, i ginocchi, con l’altro trattiene la lancia acuta, senza lasciarla...».

Ma ben presto intuisce che l’arma non devierà da lui e, mentre ancora respira, non è più che materia; anche se è ancora un essere pensante, non può pensare più nulla: «Così parlò quel figlio di Priamo, così fulgido, in supplici detti. E udì una parola inflessibile... Disse; all’altro mancarono i ginocchi ed il cuore; lascia l’asta e cade seduto, le mani tese, le due mani. Achille sguaina la spada acuta, colpisce alla clavicola, rasente il collo, e intera

immerge la lama a due tagli. Lui, faccia a terra, giace disteso e il sangue nero sgorga umettando la terra».

Quando, al di fuori di ogni battaglia, uno straniero debole e senz’armi supplica un guerriero, non è necessariamente condannato a morire; ma un attimo d’impazienza da parte del guerriero basterebbe a togliergli la vita. Basta questo perché la sua carne perda la principale proprietà della carne viva. Un pezzo di carne viva rivela la vita soprattutto nel sussulto: una zampa di rana, sotto la scarica elettrica, sussulta; l’apparizione vicina o il contatto di una cosa orribile o terrificante fa sussultare qualsiasi fascio di carne, di nervi e di muscoli. Solo un tale uomo supplicante non trasale, non freme; non ne ha più la possibilità; le sue labbra toccheranno l’oggetto che per lui è il più carico d’orrore: «Non fu veduto entrare il grande Priamo. Si arrestò, serrò i ginocchi di Achille, baciò le sue mani tremende, omicide, che gli avevano massacrato tanti figlioli...».

Lo spettacolo di un uomo ridotto a questo grado di sventura agghiaccia pressappoco come la vista di un cadavere: «Come quando la dura sventura colpisce un uomo che al suo paese ha ucciso, ed egli alfine arriva alla dimora di qualche ricco e un brivido afferra chi lo vede, così Achille fremette vedendo il divino Priamo. E anche gli altri fremettero, guardandosi l’un l’altro».

Ma non è che un momento; subito dopo la presenza dello sventurato è dimenticata: «Disse. L’altro, pensando a suo padre, bramò di piangerlo. Afferrandolo al braccio, spinse un poco il vegliardo. Entrambi rammentavano: l’uno Ettore, uccisore d’uomini, e si scioglieva in lagrime ai piedi di Achille, faccia a terra; ma Achille piangeva suo padre, e a momenti anche Patroclo; e i loro singhiozzi riempivano la dimora».

Non è certo per insensibilità che Achille, con un gesto, ha spinto a terra il vegliardo avvinto alle sue ginocchia; le parole di Priamo, facendogli ricordare il suo vecchio padre, l’hanno commosso fino alle lagrime. Semplicemente, egli si sente libero di muoversi e di spostarsi, come se invece di un supplicante fosse un oggetto a toccargli le ginocchia. Gli

esseri umani che vengono a trovarsi intorno a noi hanno, grazie alla loro sola presenza, un potere (che appartiene soltanto a loro) di arrestare, reprimere, modificare ciascuno dei movimenti che il nostro corpo abbozza; un passante devia il nostro cammino per una strada in un modo diverso da quello di un cartello; quando siamo soli non ci alziamo, non camminiamo, non stiamo in una stanza nello stesso modo in cui lo si fa quando c’è un visitatore. Ma questo influsso indefinibile della presenza umana non è esercitato da quegli uomini che un moto di impazienza può privare della vita prima ancora che un pensiero abbia avuto il tempo di condannarli a morte. Dinanzi a questi uomini gli altri si muovono come se essi non esistessero; ed essi a loro volta, nel pericolo di essere ridotti al nulla in un attimo, imitano il nulla. Spinti, cadono; caduti, restano a terra fin quando il caso non faccia passare nello spirito di qualcuno il pensiero di rialzarli. Non credano, però, dopo essere stati rialzati e onorati di parole cordiali, di prendere sul serio questa resurrezione, di osare esprimere un desiderio: una voce irritata li ridurrebbe subito al silenzio: «Disse, e il vegliardo tremò e obbedì».

I supplici almeno, una volta esauditi, ridiventano uomini come gli altri. Ma vi sono altri esseri più sventurati ancora che, senza morire, sono divenuti cose per tutta la loro vita. Nelle loro giornate non vi è alcuno spazio, alcun vuoto, alcun campo libero per qualcosa che proceda da loro. Non si tratta di uomini che vivano più duramente di altri, posti socialmente più in basso di altri; si tratta di un’altra specie umana, un compromesso tra l’uomo e il cadavere. Che un essere umano possa essere una cosa è, da un punto di vista logico, una contraddizione; ma quando l’impossibile è divenuto realtà la contraddizione diventa strazio nell’anima. Questa cosa aspira ogni momento ad essere un uomo, una donna, e in nessun momento vi riesce. È una morte che si allunga, si stira per tutto il corso di una vita; una vita che la morte ha raggelato molto prima di averla soppressa.

La vergine, figlia di un sacerdote, subirà questa sorte: «Non la restituirò. L’avrà prima sorpresa vecchiezza nella mia casa d’Argo, lontana dalla sua patria, a correre innanzi al telaio, a muovere verso il mio letto».

La subirà la giovane donna, la giovane madre, sposa del principe: «E forse un giorno in Argo tesserai per un’altra la tela, porterai l’acqua della Mèsside o d’Iperea, ben tuo malgrado, sotto l’imperio di dura necessità».

La subirà il fanciullo, l’erede dello scettro regale: «Esse di certo se ne andranno in fondo alle concave navi, io fra di loro; tu, mio bambino, o con me mi seguirai, a fare avvilenti cose, penando sotto gli occhi di un padrone senza dolcezza...».

Agli occhi della madre una tal sorte è altrettanto paurosa per suo figlio quanto la morte stessa; lo sposo si augura di perire prima di sapervi ridotta sua moglie; il padre invoca tutti i flagelli del cielo sull’armata che vi sottomette sua figlia. Ma in coloro sui quali si abbatte, un destino a tal punto brutale cancella le maledizioni, le rivolte, i paragoni, le meditazioni sull’avvenire e sul passato, quasi il ricordo. Non è da schiavo essere fedele alla propria città, ai propri morti. Quando soffre o muore uno di quelli che gli hanno fatto perdere tutto, che hanno devastato la sua città, massacrato i suoi sotto i suoi occhi, allora lo schiavo piange. Perché no? Soltanto allora il pianto gli è concesso. Gli è addirittura imposto. Ma in schiavitù le lagrime non sono forse pronte a scorrere, non appena possano farlo impunemente? «Ella disse piangendo; e le donne a gémere, col pretesto di Patroclo, ciascuna i propri affanni».

In nessuna occasione lo schiavo ha il permesso di esprimere qualcosa, se non ciò che può piacere al padrone. Ecco perché, se in una vita così tetra un sentimento può germogliare e animarla un poco, non potrà essere se non l’amore per il padrone; ogni altro cammino è sbarrato al dono d’amare, così come a un cavallo attaccato al carro le stanghe, le redini, il morso sbarrano tutte le vie tranne una. E se per miracolo si mostra la speranza di ridiventare un

giorno qualcuno per un atto di grazia, allora la riconoscenza e l’amore verso uomini, il cui passato più che recente dovrebbe ispirare orrore, giungeranno a un grado incredibile. «Il mio sposo, al quale mi diedero mio padre e mia madre onorata, l’ho visto, innanzi alla mia città, trafitto dal bronzo acuto. I miei tre fratelli, che a me partorì una sola madre, così cari! incontrarono il loro giorno fatale. Ma tu non mi lasciasti – quando il mio sposo dal rapido Achille fu ucciso, e distrutta la città del divino Minete – versare lagrime; e m’hai promesso che Achille, il divino, mi farebbe sposa legittima, mi condurrebbe nelle sue navi a Ftia, per celebrare le nozze tra i Mirmìdoni. Così senza tregua ti piango, o tu sempre dolce».

Non si può perdere più di quanto perda lo schiavo; egli perde ogni vita interiore. Ne ritrova un poco soltanto quando si manifesti la possibilità di mutar destino. Tale è l’imperio della forza: un imperio che arriva lontano quanto quello della natura. Anche la natura, quando entrano in gioco i bisogni vitali, cancella ogni vita interiore, persino il dolore di una madre: «Poiché anche Niobe dai bei capelli pensò a mangiare, lei, a cui dodici figli nella sua casa perirono, sei figlie e sei figlioli nel fiore dei loro anni. Essi, Apollo li uccise con il suo arco d’argento, nella sua collera contro Niobe; esse, Artemide, amante delle frecce. Poich’ella si era eguagliata a Latona di belle guance dicendo: “Ella ha due figli; io assai di più ne partorii”. E i due, seppur due soli, li fecero tutti morire. Per nove giorni giacquero nella morte; nessuno venne a sotterrarli. Le genti erano impietrite per volere di Zeus. E il decimo furon sepolti dagli dèi dell’Olimpo. Ma ella pensò a mangiare, quando fu stanca di lagrime».

Mai fu espressa con tanta amarezza la miseria dell’uomo, che lo rende incapace persino di sentire la sua miseria. La forza usata dagli altri è imperiosa sull’anima come la fame estrema, quando consiste in un potere perpetuo di vita e di morte, ed è un imperio altrettanto freddo, altrettanto duro come se fosse esercitato dalla materia inerte. L’uomo che si rivela il più debole è solo nella città quanto, se non più di quello sperduto in mezzo a un deserto.

«Due tini si trovano sulla soglia di Zeus, coi doni che egli concede: cattivi nell’uno, buoni nell’altro... Colui cui fa doni funesti, egli lo espone agli oltraggi; l’orrendo bisogno lo incalza per tutta la terra divina; egli erra, e non lo rispettano gli uomini né gli dèi».

Tanto spietatamente la forza stritola, tanto spietatamente essa inebria chiunque la possieda o creda di possederla. Nessuno la possiede veramente. Nell’Iliade gli uomini non sono divisi in vinti, schiavi, supplici da un lato, vincitori e capi dall’altro; non vi si trova un solo uomo che a un certo momento non sia costretto a piegare sotto la forza. Né i soldati, benché siano liberi e armati, evitano di subirne i comandi e gli oltraggi: «Ed ogni popolano ch’egli vedesse gridare, lo colpiva con il suo scettro, lo rampognava così: “Sta’ quieto, miserabile, ascolta parlare gli altri, tuoi superiori. Tu non hai né coraggio né forza, non conti nella battaglia, non conti nell’assemblea”».

Tersite paga care certe parole, d’altronde perfettamente ragionevoli e che somigliano a quelle pronunziate da Achille: «Lo colpì; ed egli si incurvò, le sue lagrime scorsero rapide, un tumore sanguigno gli si formò sul dorso sotto lo scettro d’oro. Sedette ed ebbe paura. In dolore e stupore si asciugava le lagrime. Gli altri, sebbene in pena, n’ebbero gioia e risero».

Ma Achille stesso, l’eroe orgoglioso, invitto, ci si è mostrato all’inizio del poema piangente di umiliazione e di dolore impotente, dopo che gli hanno rapita sotto gli occhi la donna che voleva fare sua sposa, senza ch’egli abbia osato opporsi. «…Ma Achille piangendo sedette in disparte, lontano dai suoi, all’orlo delle onde canute, lo sguardo sul mare vinoso».

Agamennone ha umiliato mostrare che è lui il padrone:

Achille

di

proposito,

per

«...Saprai così che posso più di te; e ogni altro dovrà esitare a trattarmi da pari, a misurarsi con me».

Ma qualche giorno dopo il capo supremo piange a sua volta, è costretto a umiliarsi, a supplicare, e ha il dolore di farlo invano.

Neppure l’onta della paura è risparmiata ai combattenti. Gli eroi tremano come gli altri. Basta una sfida di Ettore per costernare tutti i Greci senza eccezione, tranne Achille e i suoi, che sono assenti. «Disse, e tutti si tacquero, serbarono il silenzio, vergognosi di rifiutare, paurosi di accettare».

Ma appena s’avanza Aiace, la paura muta campo: «Un brivido di terrore sciolse le membra ai Troiani; a Ettore, anche a lui, balzò il cuore nel petto; ma non gli era più dato tremare né cercare rifugio...».

Due giorni più tardi è Aiace a provare il terrore: «Zeus padre, dall’alto, infuse la paura ad Aiace. Egli s’arresta perduto, si lascia dietro lo scudo di sette pelli, trema, guarda sgomento la folla, come una bestia...».

Persino ad Achille capita una volta di tremare e gemere di paura, davanti a un fiume, è vero, non davanti a un uomo. Tranne lui, tutti gli altri ci vengono mostrati per qualche istante vinti. A determinare la vittoria non contribuisce il valore quanto il destino cieco, figurato nella bilancia d’oro di Zeus: «In quell’attimo, Zeus padre spiegò la bilancia d’oro, vi pose due fati della morte che falcia ogni cosa, uno per i Troiani domatori di cavalli, uno pei Greci bardati di bronzo. La prese nel mezzo, e fu il giorno fatale dei Greci a calare».

A forza d’esser cieco, il destino stabilisce una sorta di giustizia, cieca anch’essa, che punisce gli uomini armati con la pena del taglione; l’Iliade l’ha formulata molto tempo prima del Vangelo e quasi negli stessi termini: «Ares è equanime e uccide quelli che uccidono».

Che tutti siano destinati, nascendo, a patire violenza, è una verità a cui l’imperio delle circostanze chiude gli spiriti degli uomini. Il forte non è mai assolutamente forte, né il debole assolutamente debole, ma l’uno e l’altro lo ignorano. Essi non si credono della medesima specie. Né il debole si considera il simile del forte, né da lui è considerato suo simile. Colui che possiede la forza avanza in un ambiente privo di resistenza senza che nulla, nella materia umana intorno a lui, sia di natura tale da suscitare, tra l’impeto e l’atto, quel lieve intervallo ove si inserisce il pensiero. E dove

non ha dimora il pensiero, non ne ha la giustizia né la prudenza. Perciò quegli uomini armati agiscono duramente e follemente. La loro spada affonda in un nemico inerme ai loro ginocchi; trionfano di un moribondo descrivendogli le offese che subirà il suo corpo; Achille sgozza dodici adolescenti troiani sopra il rogo di Patroclo con la stessa naturalezza con cui noi tagliamo fiori per una tomba. Usando del loro potere, essi non dubitano mai che le conseguenze dei loro atti li faranno a loro volta piegare. Quando con una sola parola si può far tacere, tremare, obbedire un vegliardo, si riflette forse che le maledizioni di un sacerdote hanno importanza agli occhi degli àuguri? Ci si astiene forse dal togliere la donna amata ad Achille, quando si sappia che l’uno e l’altra non potranno far altro che obbedire? Quando Achille gode a veder fuggire i miseri Greci, può forse immaginare che quella fuga, che durerà o finirà a suo piacere, farà perdere la vita al suo amico e a lui stesso? Ecco in qual modo coloro a cui la forza è prestata dal destino periscono per troppa sicurezza. Non possono non perire. Essi infatti non considerano la propria forza come una quantità limitata, i loro rapporti con gli altri come un equilibrio tra forze impari. Dato che gli altri uomini non impongono ai loro movimenti quella battuta di arresto da cui solo può nascere il rispetto verso il prossimo, essi concludono che il destino ha dato a loro ogni diritto e nessuno ai loro inferiori. Da quel momento essi vanno al di là della forza di cui dispongono. È inevitabile, perché ignorano che quella forza ha dei limiti. Sono allora abbandonati al caso senza rimedio e le cose non gli obbediscono più. Talvolta il caso li serve, talvolta li danneggia; eccoli esposti nudi alla sventura, senza quella corazza di potenza che proteggeva la loro anima, senza più nulla ormai che li separi dalle lagrime. Tale castigo, di un rigore geometrico, che punisce automaticamente l’abuso della forza, fu il primo oggetto della meditazione dei Greci. Esso costituisce l’anima

dell’epopea; sotto il nome di Nemesi è la molla delle tragedie di Eschilo; i Pitagorici, Socrate, Platone ne fecero il loro punto di partenza per pensare l’uomo e l’universo. La nozione ne è divenuta familiare ovunque sia penetrato l’ellenismo. Forse, proprio questa nozione greca sussiste, sotto il nome di kharma, in paesi d’Oriente impregnati di buddismo; ma l’Occidente l’ha perduta e non ha neppur più, in nessuna delle sue lingue, parola che la esprima; le idee di limite, di misura, di equilibrio, che dovrebbero determinare la condotta della vita, non hanno più che un impiego servile nella tecnica. Noi siamo geometri solo di fronte alla materia; i Greci furono prima di tutto geometri nell’apprendimento della virtù. Il corso della guerra nell’Iliade non è altro che questo gioco pendolare. Il vincitore del momento si sente invincibile, anche se ha conosciuto la disfatta qualche ora prima; dimentica di usare la vittoria come una cosa destinata a passare. Al termine della prima giornata di combattimento narrata dall’Iliade, i Greci vittoriosi potrebbero ottenere benissimo l’oggetto dei loro sforzi, Elena e le sue ricchezze; almeno ove si supponga, come Omero, che l’esercito greco avesse ragione di credere Elena in Troia. I sacerdoti egizi, che dovevano saperlo, assicurarono più tardi a Erodoto che lei si trovava in Egitto. In ogni modo, quella sera, i Greci non ne vogliono più sapere: «“Non si accettino ora né le ricchezze di Paride né Elena; ciascuno, anche il più ignaro, vede che Troia è all’orlo della sua perdita”. Disse: e tutti acclamarono tra gli Achei».

Ciò che essi vogliono è nientemeno che tutto. Tutti i tesori di Troia come bottino, tutti i palazzi, i templi e le case ridotti in cenere, tutte le donne e tutti i bambini come schiavi, tutti gli uomini come cadaveri. Hanno scordato un particolare: che non tutto è in loro potere, poiché non sono in Troia. Forse vi saranno domani; forse non vi saranno. Ettore, lo stesso giorno, si abbandona allo stesso oblio. «Poiché so bene questo, nelle mie viscere e nel mio cuore:

giorno verrà che la santa Ilione perisca, e Priamo e la nazione di Priamo, di buona lancia. Ma più che al dolore che si prepara ai Troiani, più che ad Ecuba stessa ed a Priamo, il re, e ai miei fratelli che numerosi e audaci cadranno nella polvere sotto i colpi nemici, penso a te, quando un Greco dalla corazza di bronzo ti trascinerà in lagrime, togliendoti la libertà... Ma ch’io sia morto e m’abbia ricoperto la terra prima ch’io senta i tuoi gridi, ti veda trascinata!».

Che cosa non offrirebbe in quel momento per stornare gli orrori che crede inevitabili? Ma tutto ciò che può offrire è vano. Due giorni dopo i Greci fuggono miseramente e Agamennone in persona vorrebbe riprendere il mare. Ettore, che cedendo ben poco potrebbe ottenere facilmente la partenza del nemico, non vuole più neppure farlo partire a mani vuote: «Ardano ovunque fuochi e s’innalzi al cielo il bagliore, affinché nella notte i Greci dai lunghi capelli non si gettino in fuga sul largo dorso dei mari... Che più d’uno si porti a casa un colpo da smaltire, sicché·tutto il mondo tema di portare la guerra luttuosa ai Troiani domatori di cavalli».

Il suo desiderio è esaudito; i Greci restano, e l’indomani, a mezzogiorno, fanno di lui e dei suoi un oggetto pietoso: «Essi per la pianura fuggivano, come vacche cacciate da un leone venuto a mezzo la notte... Così li inseguiva Agamennone, il possente Atride, senza tregua uccidendo l’ultimo; ed essi fuggivano».

Nel corso del pomeriggio Ettore riprende il sopravvento, si ritira di nuovo, rimette i Greci in fuga, poi è respinto da Patroclo e dalle sue truppe fresche. Patroclo, spingendo il proprio vantaggio al di là delle proprie forze, finisce per trovarsi esposto, senza armatura e ferito, alla spada di Ettore, e la sera Ettore, vittorioso, accoglie con rampogne il prudente avviso di Polidamante: «“Ora che ho ricevuto, dal figlio di Cromo l’astuto, la gloria presso le navi, ridotto i Greci alla riva, non proporre, imbecille! al popolo tali consigli. Non ti ascolterà alcun Troiano; io glielo impedirò”. Così parlò Ettore, e i Troiani acclamarono...».

L’indomani

Ettore

è

perduto.

Achille

l’ha

fatto

retrocedere per tutta la pianura e sta per ucciderlo. È stato sempre il più forte dei due in combattimento; e ora lo è molto di più dopo settimane di riposo, inferocito dalla vendetta e dalla vittoria contro un nemico stremato! Ecco Ettore solo davanti alle mura di Troia, completamente solo, ad attendere la morte e a tentare di risolvere la sua anima ad affrontarla. «Ahimè, se scivolassi dietro la porta e il bastione, Polidamante primo mi coprirebbe d’onta... Ora che per la mia follia ho perduto i miei, temo i Troiani e temo le Troiane dai veli fluenti e sentir dire da meno prodi di me: “Ettore, troppo certo della sua forza, ha perduto il paese”. Pure, se io posassi il mio scudo convesso, il mio buon elmo e, appoggiando la mia lancia al bastione, andassi verso l’illustre Achille, ad incontrarlo? Ma perché dunque il mio cuore mi dà tali consigli? Non mi accosterò a lui; non avrebbe pietà né rispetto; mi ucciderebbe, se fossi così nudo, come una donna...».

Ettore non sfugge a nessuno dei dolori e delle vergogne che sono retaggio degli sventurati. Solo, spogliato di ogni prestigio di forza, il coraggio che l’ha sorretto fuor delle mura non lo preserva dalla fuga: «Ettore, nel vederlo, fu preso da un tremito. Non seppe risolversi a rimanere... ...Non per una pecora od una pelle di bove si sforzano essi, compenso usato alla corsa; per una vita essi corrono, quella di Ettore, domatore di cavalli».

Ferito a morte, egli accresce con vane suppliche il trionfo del vincitore: «T’imploro per la tua vita, pei tuoi ginocchi, per i tuoi genitori...».

Ma gli uditori dell’Iliade sapevano che la morte di Ettore avrebbe dato breve gioia ad Achille, e la morte di Achille breve gioia ai Troiani, e la caduta di Troia breve gioia agli Achei. Così la violenza stritola quelli che tocca. Essa finisce coll’apparire esteriore a colui che la esercita come a colui che 1a soffre; nasce allora l’idea di un destino sotto il quale

carnefici e vittime sono del pari innocenti, vincitori e vinti sono fratelli nella stessa miseria. Il vinto è causa di sventura per il vincitore come il vincitore per il vinto. «Un figlio solo gli nacque, a breve vita; e, di più, invecchia privo delle mie cure, ché ben lungi dalla mia patria, io resto davanti a Troia, a nuocere a te e ai tuoi figli».

Un uso moderato della forza, che solo consentirebbe di sfuggire all’ingranaggio, richiederebbe una virtù più che umana, non meno rara che una costante dignità nella debolezza. D’altronde, neppure la moderazione è sempre senza pericolo; giacché il prestigio, che per più di tre quarti costituisce la forza, è fatto, prima di tutto, della superba indifferenza del forte per i deboli, indifferenza contagiosa al punto da comunicarsi a coloro che ne sono l’oggetto. Ma di solito non è un pensiero politico a consigliare l’eccesso. È proprio la tentazione dell’eccesso a essere irresistibile. Nell’Iliade si pronunziano qualche volta parole ragionevoli; quelle di Tersite lo sono al massimo grado, quelle di Achille, irritato, del pari: «Nulla mi vale la vita, neppure i tesori che dicono contenere Ilione, la città così prospera... Poiché puoi conquistare i bovi, i grassi montoni... Una vita, perduta, non la riprendi».

Ma le parole ragionevoli cadono nel vuoto. Se le pronuncia un inferiore, viene punito e tace; se è un capo, non vi conforma i suoi atti. E, al bisogno, c’è sempre un Dio a consigliare la demenza. Alla fine, l’idea stessa che si possa voler sfuggire all’occupazione data in retaggio dalla sorte, quella di uccidere e di morire, dispare dallo spirito: «...noi, a cui Zeus dalla gioventù alla vecchiezza assegnò di penare in dolorose guerre, fino a perire dal primo all’ultimo».

Già quei combattenti, come più tardi quelli di Craonne, si sentivano «tutti condannati». Sono caduti in questa situazione grazie alla più semplice delle trappole. Alla partenza il loro cuore è leggero, come sempre quando si ha con sé una forza e contro di sé il vuoto.

Le armi stanno nelle loro mani; il nemico è assente. Se l’animo non è già abbattuto dalla reputazione del nemico, si è sempre assai più forti di un assente. Un assente non impone il giogo della necessità. Nessuna necessità si mostra ancora allo spirito di coloro che se ne vanno così, ed ecco perché se ne vanno come a un gioco, come a una vacanza dalla stretta del quotidiano. «Dove sono le vostre millanterie, le prodezze, quelle che a Lemno vanitosi declamavate, ingozzandovi delle carni dei bovi di corna diritte, bevendo nelle coppe traboccanti di vino? A cento, a duecento di quei Troiani ciascuno terrebbe testa in battaglia; ed ecco che uno è già troppo!».

Persino quando sia conosciuta e provata, la guerra non cessa immediatamente di apparire un gioco. La necessità propria alla guerra è terribile, molto diversa da quella legata alle opere della pace; l’anima non vi si sottomette se non quando non può più sfuggirvi; e finché vi sfugge, trascorre giorni vuoti di necessità, giorni di gioco, di sogno, arbitrari e irreali. Il pericolo allora è una astrazione, le vite che si distruggono sono simili a balocchi spezzati da un bambino e non meno indifferenti, l’eroismo è un atteggiamento teatrale e contaminato di millanteria. Se inoltre, per un momento, un afflusso di vita viene a moltiplicare la potenza di azione, ci si crede irresistibili in virtù di un aiuto divino che garantisce contro la sconfitta e la morte. Allora la guerra diventa facile ed è bassamente amata. Ma nella maggior parte delle persone tale stato non dura. Viene un giorno nel quale la paura, la sconfitta, la morte dei compagni amati fa piegare l’anima del soldato sotto la necessità. La guerra cessa allora di essere un gioco o un sogno; il guerriero comprende alfine ch’essa esiste realmente. È una realtà dura, infinitamente troppo dura per poter essere sopportata, poiché racchiude la morte. Il pensiero della morte non lo si regge se non per lampi, non appena si sente che la morte è effettivamente possibile. Certo, ogni uomo è destinato a morire e un soldato può

invecchiare tra le battaglie; ma per coloro, la cui anima è sottomessa al giogo della guerra, il rapporto fra la morte e l’avvenire non è lo stesso che per gli altri uomini. Per gli altri la morte è un limite imposto in anticipo all’avvenire; per essi è l’avvenire stesso, l’avvenire assegnato loro da una professione. Che uomini abbiano per avvenire la morte è contro natura. Non appena la pratica della morte ha reso sensibile la possibilità di morte che ogni minuto racchiude, il pensiero diviene incapace di passare da un giorno al suo domani senza traversare l’immagine della morte. Lo spirito è teso, allora, come può soffrire di esserlo solo per brevissimo tempo, ma ogni nuova alba riconduce la stessa necessità; i giorni aggiunti ai giorni formano anni. L’anima patisce violenza tutti i giorni. Ciascun mattino l’anima si mutila di ogni aspirazione, perché il pensiero non può viaggiare nel tempo senza traversare la morte. Così la guerra cancella ogni idea di scopo, fino all’idea stessa degli scopi della guerra. Cancella il pensiero stesso di metter fine alla guerra. La possibilità di una situazione a tal punto violenta è inconcepibile finché non vi si abita; ma quando vi si abita è inconcepibile che abbia fine. Così non si fa nulla per procurare quella fine. Le braccia non sanno smettere di tenere e di maneggiare le armi alla presenza di un nemico armato; lo spirito dovrebbe architettare qualcosa per trovare una via d’uscita: ma ha perduto ogni capacità di architettare qualcosa a tale scopo. È occupato interamente a farsi violenza. Sia in servitù sia in guerra, le sventure intollerabili durano in virtù del loro stesso peso e sembrano così, dal di fuori, facili da sopportare; durano perché privano delle risorse necessarie a uscirne. Nondimeno, l’anima sottomessa alla guerra invoca liberazione; ma la liberazione stessa le appare sotto una forma tragica, estrema, sotto la forma della distruzione. Una fine moderata e sensata rivelerebbe al pensiero dell’uomo un’infelicità così violenta da non poter esser patita neppure come ricordo. Il terrore, il dolore, lo stremo, i massacri, i

compagni distrutti: tutte queste cose passate continuano ad aggredire l’anima, a meno che l’ebbrezza della forza non sia venuta a sommergerle. L’idea che uno sforzo senza limiti possa aver procurato solo un profitto nullo o limitato, fa male. «Che? Si lascerà Priamo, i Troiani, vantarsi d’Elena Argiva, per cui tanti Greci perirono dinanzi a Troia, ben lungi dalla terra natale? Che? Tu vorresti la città di Troia, dalle ampie vie, risparmiata, per cui soffrimmo tanti mali?».

Che importa Elena a Ulisse? Che importa persino Troia, piena di ricchezze che non compenseranno la rovina d’Itaca? Troia ed Elena importano soltanto come causa del sangue e delle lagrime dei Greci; solo col signoreggiare si potrà signoreggiare anche gli orrendi ricordi. L’anima, che l’esistenza di un nemico ha forzato a distruggere in sé ciò che vi aveva posto la natura, crede di poter guarire soltanto distruggendo quello stesso nemico. Al contempo, laa morte dei compagni diletti suscita una cupa emulazione di morte: «Ah! subito morire, se il mio amico ha dovuto soccombere senza il mio aiuto! Ben lungi dalla patria egli è perito, e non m’ebbe vicino a stornargli la morte... Io parto a cercare il carnefice di una testa sì cara, Ettore; e la morte riceverò nel momento che Zeus la vorrà compiere, e tutti gli altri dèi».

La stessa disperazione, allora, spinge a perire e a uccidere. «Lo so che il mio destino è di morire qui, lontano da mio padre e da mia madre amati; tuttavia non cesserò se i Troiani non siano saziati di guerra».

L’uomo abitato da questo doppio bisogno di morte appartiene, finché non sia divenuto altro, a una razza diversa da quella dei viventi. Quale eco può trovare in simili cuori la timida aspirazione della vita, quando il vinto implora che gli si consenta di rivedere il giorno? Già il possesso delle armi da un lato, la privazione delle armi dall’altro, tolgono a una vita minacciata quasi ogni importanza; come potrebbe mai, colui che ha distrutto in sé stesso il pensiero che vedere la luce è

dolce, rispettare l’identico pensiero in quel lamento umile e vano? «Sono ai tuoi piedi, Achille; abbi riguardo per me, abbi pietà; sono qui come il supplice, o figlio di Zeus, degno di onore. Poiché da te per primo mangiai il pane di Dèmetra, quel giorno in cui mi prendesti, nel mio podere ben coltivato... E tu mi hai venduto, mandandomi lontano da mio padre e dai miei, a Lemno santa; e ti diedero per me un’ecatombe. Per tre volte di più fui riscattato; quest’aurora è per me la dodicesima da quando sono tornato a Ilio, dopo tanti dolori. Eccomi ancora tra le tue mani per sorte funesta. Debbo essere odioso a Zeus padre che di nuovo a te mi abbandona. Per poca vita mia madre mi ha partorito, Laotòe, figlia di Alte il vegliardo...».

Quale risposta accoglie quella tenue speranza! «Via, amico, muori anche tu! Perché tanti lamenti? Anche Patroclo è morto, e valeva assai meglio di te. Ed io, non vedi quanto io sia bello e grande? Sono di nobile stirpe, mia madre è una dea; ma anche su me sta la morte: è il duro destino. Sia l’aurora, o la sera, o il mezzo del giorno, quando anche a me, con le armi, si strapperà la vita...».

Quando si è dovuta distruggere ogni aspirazione di vita in sé stessi, per rispettare in altri la vita è necessario uno sforzo di generosità da spezzare il cuore. Fra i guerrieri di Omero non è lecito supporne alcuno capace di un tale sforzo, se non forse colui che in certo modo si trova al centro del poema, Patroclo, che «seppe esser dolce con tutti» e nell’Iliade non commette nulla di brutale o di crudele. Ma in più millenni di storia, quanti uomini conosciamo che siano stati capaci di dimostrare una così divina generosità? È dubbio che se ne possa nominare due o tre. Mancando di tale generosità, il soldato che vince è come un flagello della natura; posseduto dalla guerra, è divenuto, non meno dello schiavo sebbene in tutt’altro modo, una cosa, e le parole sono prive di potere su di lui come sulla materia. L’uno e l’altro, al contatto della forza, ne subiscono l’effetto infallibile che è di rendere quelli che tocca o muti o sordi. Tale la natura della forza. Il potere ch’essa possiede, di trasformare gli uomini in cose, è duplice e si esercita da

ambo le parti: essa pietrifica diversamente, ma ugualmente, le anime di quelli che la subiscono e di quelli che la usano. Tale proprietà tocca il più alto grado in mezzo alle armi, dal momento nel quale una battaglia si orienta verso una decisione. Le battaglie non si decidono tra uomini che calcolano, combinano, prendono una risoluzione e la attuano, ma tra uomini spogliati di queste facoltà, trasformati, caduti al livello della materia inerte che non è che passività, come cieche forze che non sono che impeto. È questo il segreto ultimo della guerra, e l’Iliade lo esprime paragonando i guerrieri all’incendio, alla inondazione, al vento, alle bestie feroci, a qualsiasi causa cieca di disastro, oppure agli animali paurosi, agli alberi, all’acqua, alla sabbia, a tutto ciò che è mosso dalla violenza delle forze esterne. Da un giorno all’altro, a volte da un’ora all’altra, Greci e Troiani subiscono di volta in volta le due trasmutazioni: «Come da un sanguinario leone sono assalite mucche al pascolo in una vasta prateria acquitrinosa a migliaia…; tutte esse tremano, così allora gli Achei furono dispersi in panico da Ettore e Zeus padre, tutti… Come quando il fuoco devastatore cade sul fitto di un bosco; per tutto roteando il vento lo porta, ed i fusti sbarbati cadono allora, al premer del fuoco violento, così l’Atride Agamennone faceva cadere le teste dei Troiani fuggenti…».

L’arte della guerra altro non è che l’arte di produrre tali trasmutazioni, e la materia, i modi, la morte stessa inflitta al nemico non sono che mezzi per ottenere questo effetto; esso ha come vero oggetto l’anima stessa dei combattenti. Ma queste trasmutazioni costituiscono sempre un mistero, e autori ne sono gli dèi, essi che toccano l’immaginazione degli uomini. Sia come sia, questa doppia proprietà di pietrificazione è essenziale alla forza, e un’anima posta al contatto della forza non vi sfugge se non per una qualche sorta di miracolo. Tali miracoli sono rari e brevi. La leggerezza di coloro che maneggiano senza rispetto quegli uomini e quelle cose che sono o sembrano essere alla

loro mercé, la disperazione che costringe il soldato a distruggere, lo stritolamento dello schiavo e del vinto, i massacri, tutto contribuisce a formare un quadro uniforme d’orrore. Esso ha un eroe solo: la forza. Ne risulterebbe una tetra monotonia, se non vi fossero, disseminati qua e là, momenti luminosi, momenti brevi e divini nei quali gli uomini hanno un’anima. L’anima che così si risveglia un istante, per riperdersi poco dopo sotto l’imperio della forza, si desta pura e intatta; non vi appare alcun sentimento ambiguo, complicato o torbido; vi hanno posto solo il coraggio e l’amore. Talora un uomo trova così la sua anima mentre delibera con sé stesso, quando tenti, come Ettore dinanzi a Troia, senza il soccorso degli uomini o degli dèi, di affrontare da solo il destino. Gli altri momenti in cui gli uomini trovano la loro anima sono quelli in cui amano; non c’è quasi forma pura dell’amore tra gli uomini che sia assente dall’Iliade. La tradizione dell’ospitalità, anche dopo diverse generazioni, ha la meglio sull’accecamento della battaglia: «Così per te sono un ospite amato nel seno di Argo... Storniamo l’uno dall’altro le lance, pur nella mischia».

L’amore del figlio per i genitori, del padre e della madre per il figlio è sempre indicato in modo breve quanto toccante: «Ella rispose, Teti, effondendo lagrime: “Mi sei nato a una breve vita, figlio mio, come dici…”».

Così l’amore fraterno: «I miei tre fratelli, che a me partorì una sola madre, così cari...».

L’amore coniugale, condannato alla sventura, è di una sorprendente purezza. Lo sposo, evocando le umiliazioni del servaggio che attendono la donna amata, omette quella il cui solo pensiero macchierebbe la loro tenerezza. Nulla è più semplice delle parole rivolte dalla sposa a colui che morrà: «...meglio per me, se ti perdo, esser sottoterra; non avrò più ricorso, quando tu abbia incontrato il tuo destino, solo sventure...».

Non meno toccanti le parole rivolte allo sposo morto:

«Mio sposo, sei morto anzi tempo, così giovane; e me, la tua vedova, lasci sola nella mia casa, il nostro bambino ancor piccolo che avemmo tu ed io, sventurati. E non penso che mai sarà grande ... Poiché morendo non m’hai teso dal tuo letto le mani, non m’hai detto una savia parola, ché sempre io vi pensi giorno e notte, piangendo ».

La più bella amicizia, quella tra compagni di battaglie, è il tema degli ultimi canti: «...Ma Achille piangeva, pensando al compagno diletto; ed il sonno non lo prese, che tutto doma; si rigirava qua e là...».

Ma il trionfo più puro dell’amore, la grazia suprema delle guerre, è l’amicizia che sale al cuore dei nemici mortali. Essa fa sparire la fame di vendetta per il figlio ucciso, per l’amico ucciso; cancella, miracolo ancor più grande, la distanza tra benefattore e supplice, tra vincitore e vinto: «Ma quando fu placato il bisogno di bere e mangiare, prese allora il Dardànide Priamo ad ammirare Achille, com’era grande e bello; aveva il volto di un dio. E a sua volta il Dardànide Priamo fu ammirato da Achille che gli guardava il bel volto e ascoltava la sua parola. E quando si furon saziati di contemplarsi l’un l’altro...».

Tali momenti di grazia sono rari nell’Iliade ma bastano a far sentire con estremo rimpianto ciò che la violenza fa e farà perire. Eppure una tale accumulazione di violenze sarebbe fredda senza un accento di amarezza inguaribile che si fa sentire continuamente, anche se indicato spesso da una sola parola, spesso addirittura da un taglio di verso, da un rimando. Proprio in questo l’Iliade è una cosa unica: in questa amarezza che procede dalla tenerezza e che si stende su tutti gli umani, eguale come il chiarore del sole. Il tono non cessa mai di essere intriso d’amarezza, non si abbassa mai al lamento. La giustizia e l’amore, che non possono esistere in questo quadro di estreme e ingiuste violenze, lo bagnano con la loro luce facendosi sentire solo indirettamente, attraverso l’accento. Nulla di prezioso, sia o no destinato a perire, è disprezzato, la miseria di tutti è esposta senza dissimulazione o disdegno, nessun uomo è

posto al di sopra o al di sotto della condizione comune a tutti gli uomini, tutto ciò che è distrutto è rimpianto. Vincitori e vinti sono egualmente prossimi, sono i simili, allo stesso titolo, del poeta e degli uditori. Se una differenza c’è, è che la sventura dei nemici viene sentita forse più dolorosamente. «Così egli cadde là, fasciato da un sonno di bronzo, lo sventurato, lontano dalla sua sposa, in difesa dei suoi...».

Quale accento per evocare la sorte dell’adolescente venduto da Achille a Lemno! «Undici giorni il suo cuore gioì tra quelli che amava, ritornando da Lemno; di nuovo, il dodicesimo, Dio l’ha dato in mano di Achille, di colui che doveva inviarlo alla casa di Ade, benché riluttante a partire».

E la sorte di Euforbio, colui che ha visto un solo giorno di guerra: «Il sangue gli intride i capelli, simili a quelli delle Grazie...».

Quando si piange Ettore, «... custode delle spose caste e dei piccoli bimbi», bastano queste parole per evocare la castità contaminata con la forza e i bambini abbandonati alle armi. La fontana alle porte di Troia diventa un oggetto di trafiggente rimpianto, quando Ettore la oltrepassa correndo per salvare la sua vita condannata: «Là si trovavano i larghi lavatoi, d’accanto, belli, tutti di pietra, dove le vesti splendenti lavavano le donne, le figlie di Troia così belle, un tempo, nei giorni di pace, prima che i Greci arrivassero. Oltre quelli essi corsero in fuga, e l’altro dietro a inseguire...».

L’intera Iliade sta sotto l’ombra della sventura più grande che possa scendere fra gli uomini, la distruzione di una città. Sventura che non apparirebbe più straziante se il poeta fosse nato a Troia. Ma il tono non è diverso quando si tratta degli Achei che periscono lontano dalla patria. Le brevi evocazioni del mondo della pace fanno male, tanto quell’altra vita, la vita dei viventi, appare calma e piena: «Sin che durò l’aurora ed il giorno saliva, dai due lati gli strali colpirono, gli uomini caddero. Ma all’ora che il legnaiolo va a preparare il suo pasto nei valloni delle montagne, quando ha sazie le braccia

di abbattere i grandi alberi e al cuore gli sale un disgusto, e il desiderio del cibo soave lo afferra alle viscere, a quell’ora, col loro valore, i Dànai ruppero il fronte».

Tutto ciò che è assente dalla guerra, tutto ciò che la guerra distrugge o minaccia è avvolto di poesia nell’Iliade; i fatti di guerra, mai. Il passaggio dalla vita alla morte non è velato da alcuna reticenza: «Allora gli saltarono i denti, gli salì dai due lati il sangue agli occhi, il sangue che per le labbra e le nari rendeva, a bocca aperta; la morte nella sua nera nube l’avvolse».

La fredda brutalità dei fatti di guerra non è mascherata da nulla perché né i vincitori né i vinti sono ammirati, spregiati, odiati. Della sorte mutevole delle battaglie decidono quasi sempre il destino e gli dèi. Dentro i limiti assegnati dal destino, gli dèi dispongono sovranamente della vittoria e della disfatta; sono sempre loro a provocare le follie e i tradimenti grazie ai quali la pace è ogni volta impedita; la guerra è affar loro ed essi non hanno moventi che non siano il capriccio e la malizia. Quanto ai guerrieri, i paragoni che li fanno apparire, vincitori o vinti, come bestie o cose, non possono far provare né ammirazione né disprezzo, ma unicamente il rimpianto che uomini possano essere trasformati a tal punto. La straordinaria equità che ispira l’Iliade ha forse esempi a noi sconosciuti, ma non ha avuto imitatori. A malapena ci si accorge che il poeta è greco e non troiano. Il tono del poema sembra portare testimonianza diretta dell’origine delle parti più antiche, la storia forse non ci darà mai chiarimenti su questo punto. Se si crede con Tucidide129 che, ottant’anni dopo la distruzione di Troia, gli Achei soffersero a loro volta una conquista, ci si può chiedere se quei canti, dove il ferro non è nominato che raramente, non siano i canti di quei vinti, tra i quali alcuni forse presero la via dell’esilio. Costretti a vivere e morire «ben lungi dalla patria», come i Greci caduti dinanzi a Troia, perdute come i Troiani le loro città, ritrovavano sé stessi sia nei vincitori, che erano i loro

padri, sia nei vinti, la cui miseria somigliava alla loro: la verità di quella guerra ancora vicina poteva mostrarsi loro attraverso gli anni, non velata dalla ebrietà dell’orgoglio né dall’umiliazione. Potevano figurarsela insieme da vinti e da vincitori e conoscere in questo modo ciò che mai né vincitori né vinti hanno conosciuto, gli uni e gli altri essendo accecati. Tutto questo non è che un sogno; non si può che sognare su tempi tanto remoti. Sia come sia, questo poema è una cosa miracolosa. In esso l’amarezza verte sull’antica giusta causa di amarezza: la subordinazione dell’anima umana alla forza, vale a dire, in fin dei conti, alla materia. Questa subordinazione è la stessa in tutti i mortali, sebbene l’anima la porti diversamente secondo il grado di virtù. Nessuno vi si sottrae nell’Iliade, così come nessuno vi si sottrae sulla terra. E nessuno di coloro che vi soccombono è per questo considerato spregevole. Tutto ciò che all’interno dell’anima e nei rapporti umani sfugge all’imperio della forza è amato, ma amato dolorosamente per quel pericolo di distruzione continuamente sospeso. Tale lo spirito della sola autentica epopea che l’Occidente possieda. L’Odissea non sembra essere che un’eccellente imitazione, ora dell’Iliade ora di poemi orientali; l’Eneide è una imitazione che, brillante finché si vuole, è disabbellita dalla freddezza, dalla declamazione, dal cattivo gusto. Le chansons de geste non seppero raggiungere la grandezza per mancanza di equità: la morte di un nemico non è sentita, dall’autore e dal lettore della Chanson de Roland, come la morte di Rolando. La tragedia attica, almeno quella di Eschilo e di Sofocle, è la vera continuazione dell’epopea. Il pensiero della giustizia la illumina senza mai intervenirvi; la forza vi appare nella sua fredda durezza, sempre accompagnata dagli effetti funesti ai quali non sfugge né colui che la usa né colui che la soffre; l’umiliazione dell’anima sotto gli effetti della forza non vi è né mascherata né avvolta di pietà facile, né proposta al disprezzo; più di un essere ferito dalla degradazione della

sventura è offerto all’ammirazione. Il Vangelo è l’ultima e meravigliosa espressione del genio greco, come l’Iliade è la prima; lo spirito della Grecia vi traspare non soltanto nel fatto che esso comanda di ricercare, a esclusione di ogni altro bene, «il regno e la giustizia del nostro Padre celeste», ma anche perché vi è esposta la miseria umana, e questo in un essere divino al tempo stesso che umano. Le sequenze della Passione mostrano che uno spirito divino, unito alla carne, è alterato dalla sventura, trema dinanzi alla sofferenza e alla morte, si sente, nel fondo del suo abbandono, separato dagli uomini e da Dio. Il sentimento della miseria umana dà loro quell’accento di semplicità che è il marchio del genio greco, e che è tutto il pregio della tragedia attica e dell’Iliade. Certe parole rendono un suono stranamente affine a quello dell’epopea, e l’adolescente troiano inviato alla casa di Ade, sebbene riluttante a partire, torna alla mente quando il Cristo dice a Pietro: «Un altro ti cingerà e ti menerà dove tu non vuoi». Tale accento non è separabile dal pensiero che ispira il Vangelo; infatti il sentimento della miseria umana è una condizione della giustizia e dell’amore. Colui che ignora fino a qual punto la volubile fortuna e la necessità tengono ogni anima umana alla loro mercé, non può considerare suoi simili né amare come sé stesso quelli che il caso ha separato da lui con un abisso. La diversità delle costrizioni che pesano sugli uomini fa nascere l’illusione che vi siano tra di loro specie distinte cui non è dato comunicare. Non è possibile amare né essere giusti se non si conosca l’imperio della forza e non lo si sappia rispettare. I rapporti dell’anima umana e del destino, in qual misura ciascun’anima modelli la propria sorte, che cosa una impietosa necessità trasformi dentro un’anima secondo il capriccio della sorte mutevole, che cosa per effetto della virtù e della grazia possa rimanere intatto, è una materia in cui la menzogna è facile e seducente. L’orgoglio, l’umiliazione, l’odio, lo sprezzo, l’indifferenza, il desiderio di

dimenticare o di ignorare, tutto contribuisce a offrirne la tentazione. In particolare, nulla è più raro di una giusta espressione della sventura; dipingendola, si finge quasi sempre di credere ora che la sconfitta sia una vocazione innata dello sventurato, ora che un’anima possa reggere la sventura senza riceverne il marchio, senza che la sventura ne muti tutti i pensieri in un modo che solo le è proprio. Il più delle volte i Greci ebbero la forza d’animo che consente di non mentire a sé stessi; ne furono ricompensati e seppero toccare in ogni cosa il più alto grado di lucidità, di purezza e di semplicità. Ma lo spirito che si è trasmesso dall’Iliade al Vangelo, passando per i pensatori e i poeti tragici, non ha valicato i confini della civiltà greca; e, da quando si distrusse la Grecia, non ne restano che riflessi. Tanto i Romani quanto gli Ebrei si credettero sottratti alla comune miseria umana, i primi quale nazione prescelta dal destino a essere padrona del mondo, i secondi grazie al favore del loro Dio e nella misura esatta in cui gli obbedirono. I Romani disprezzavano gli stranieri, i nemici, i vinti, i loro sudditi, i loro schiavi; per questo non ebbero né epopea né tragedie. Sostituivano le tragedie con i giochi del circo. Gli Ebrei vedevano nella sventura il segno del peccato: dunque un motivo legittimo di disprezzo; guardavano i nemici vinti come se Dio stesso li avesse in orrore e li condannasse a espiare delitti, ciò che rendeva lecita e addirittura indispensabile la crudeltà. Per questo nessun testo dell’antico Testamento rende un suono paragonabile a quello dell’epopea greca, se non forse talune parti del poema di Giobbe. Romani ed Ebrei sono stati ammirati, letti, imitati negli atti e nelle parole, citati tutte le volte che c’era da giustificare un crimine durante venti secoli di cristianesimo. Inoltre lo spirito del Vangelo non si trasmise puro alle successive generazioni cristiane. Fin dai primi tempi si credette di scorgere un segno della grazia nei martiri, per il fatto che essi pativano le sofferenze e la morte con gioia, quasi che gli effetti della grazia potessero arrivare più

lontano negli uomini che nel Cristo. Chi pensò che Dio stesso, divenuto uomo, non poté avere davanti agli occhi il rigore del destino senza tremarne di angoscia, avrebbe dovuto comprendere che apparentemente al di sopra della miseria umana possono levarsi solo gli uomini che mascherano ai propri occhi il rigore del destino con il soccorso dell’illusione, dell’ebbrezza o del fanatismo. L’uomo, che non è protetto dalla corazza di una menzogna, non può patire la forza senza esserne colpito fino all’anima. La grazia può impedire che questa percossa lo corrompa, ma non può impedire la ferita. Per averlo troppo dimenticato, la tradizione cristiana non ha saputo ritrovare se non molto di rado quella semplicità che rende lacerante ciascuna frase delle sequenze della Passione. D’altronde, il costume delle conversioni forzate ha velato gli effetti della forza sull’anima di coloro che la maneggiano. Nonostante la breve ebbrezza causata al tempo del Rinascimento dalla scoperta delle lettere greche, il genio della Grecia non è risorto nel corso di venti secoli. Ne traspare qualcosa in Villon, Shakespeare, Cervantes, Molière, e una volta in Racine. La miseria umana è messa a nudo, a proposito dell’amore, in L’école des femmes, in Phèdre; strano secolo d’altronde, nel quale, contrariamente all’età epica, non era concesso percepire la miseria dell’uomo se non nell’amore, mentre gli effetti della forza nella guerra e nella politica dovevano essere sempre circonfusi di gloria. Si potrebbe, forse, fare altri nomi. Ma nulla di quanto hanno prodotto i popoli d’Europa vale il primo poema conosciuto che sia apparso presso uno di essi. Ritroveranno forse il genio epico quando sapranno credere che nulla è al riparo dalla sorte, quindi non ammirare mai la forza, non odiare i nemici, non disprezzare gli sventurati. È dubbio che ciò sia prossimo ad accadere.

L’AMORE DI DIO

I due brevi scritti – Appunti sull’amore di Dio, Riflessioni senza ordine sull’amore di Dio – e il saggio più ampio – L’amore di Dio e l’infelicità – furono tutti pubblicati per la prima volta nel 1962 con il titolo Pensées sans ordre concernant l’amour de Dieu e, in italiano, nel volume intitolato L’amore di Dio (Borla, Torino 1968). L’ultimo scritto, in realtà, è compreso anche, in parte, in Attesa di Dio e riguarda, infatti, argomenti ampiamente sviluppati in quest’opera. Risalgono tutti, con buona probabilità, al periodo marsigliese, anche se quello che ha carattere di saggio fu presumibilmente terminato dalla Weil nel corso del viaggio in mare verso New York. Pur nella loro diversa e specifica articolazione, i lavori sono tutti accomunati dal trattare uno dei temi centrali della Weil: la riaffermazione del soprannaturale attraverso il tema dell’amore di Dio. Ciò che preme a Simone è sottolineare che l’amore di Dio non è oggetto di una fede, intesa come credenza, ma è, invece, frutto di una conoscenza assolutamente certa, la cui fondatezza – come avviene per la conoscenza scientifica – deriva dall’esperienza. Superando tutti i dissidi che vogliono vedere la fede come opposta alla scienza e facendo tesoro della lezione cartesiana, la Weil arriva addirittura a sostenere che lo spirito umano deve conservare sempre la capacità e il dovere di dubitare, perché il dubbio gioca sempre a favore della verità: il suo ruolo, infatti, se se ne fa un uso metodico, è quello di distruggere la certezza illusoria delle cose incerte e di confermare la certezza delle cose certe. In contrasto con le più radicate convinzioni, che presentano l’uomo come essere libero, la Weil ritiene che la sola scelta possibile per l’essere umano sia quella di rivolgere o meno il proprio amore alle cose di quaggiù; la sola autentica opzione, insomma, è tra l’idolatria e la verità, come del resto già insegnava Platone quando consigliava di «distogliersi con tutta l’anima da tutto ciò che è transitorio». La sola libertà consentita all’uomo e il solo suo compito, dunque, consiste nell’orientare il proprio sguardo; quest’ultimo, se rivolto e fissato costantemente su Dio, lo fa discendere fino a noi e ci fa fare esperienza di questo contatto: «quando Dio è disceso fino a noi, ci solleva, ci dà le ali». L’unica «attività» valida per l’uomo è perciò semplicemente quella di rimuovere tutti gli ostacoli che impediscono al nostro sguardo di rivolgersi a Dio; per il resto, dobbiamo soltanto imparare ad attendere, con pazienza, che l’energia solare di Dio (immagine della grazia) ci faccia ascendere verso l’alto, come accade per le piante che, in contrasto con la legge di gravità, crescono dal basso verso l’alto, manifestando l’accadere di una sorta di miracolo quotidiano. Come fa notare la Weil, la grazia è la sola sorgente di energia capace, nell’uomo, di fare da contrappeso alla sua pesantezza morale, alla sua tendenza al male, che lo spinge a vivere e a comportarsi unicamente secondo la legge di gravità, la quale lo trascina talmente in basso fino a confonderlo con la materia. In questo caso egli può arrivare a sperimentare la schiavitù e la sofferenza irriducibile dell’infelicità, che è sofferenza fisica, sconforto dell’anima e degradazione sociale; ma è anche, se si cambia ottica, se si assume uno sguardo de-centrato, «un miracolo della tecnica divina». Essa si serve infatti dell’infelicità e della sventura per rendere consapevole l’uomo che, soltanto conservando nel punto più recondito della sua anima, anche attraverso l’orrore, la capacità di amare disinteressatamente, quello che sembrava solo cieco e anonimo meccanismo della necessità si rivela invece come disegno sapiente

dell’obbedienza a Dio da parte della materia, cui anche l’uomo ora liberamente acconsente. Esiste, infatti, una perfetta analogia tra i rapporti meccanici che costituiscono l’ordine del mondo e le verità divine. Questa scoperta è resa possibile proprio dal cambiamento del punto di vista, da ego-centrico a de-centrato: come non siamo noi, con la nostra volontà e i nostri sforzi, a produrre l’energia solare, giacché possiamo solo riceverla, così è anche per la grazia, che possiamo solo accogliere, allorché discende a seppellirsi nelle tenebre dell’anima nostra, fino a trasformarsi in forza ascendente. «Dio solo è la forza ascendente e viene a noi quando teniamo lo sguardo fisso su di lui. Guardare Dio significa amarlo». Come è evidente, l’orientamento dello sguardo torna qui a essere fondamentale: quel che occorre unicamente sapere, infatti, è che «l’amore è unicamente un orientamento e non uno stato d’animo».

APPUNTI SULL’AMORE DI DIO

Credere in Dio non dipende da noi, ma dipende da noi non accordare il nostro amore a false divinità. In primo luogo, non dobbiamo credere che l’avvenire porti con sé un bene tale da appagare completamente la nostra ansia di felicità. L’avvenire è fatto della stessa sostanza del presente. È cosa nota che la ricchezza, il potere, la stima, le conoscenze, l’amore di coloro che amiamo, la buona sorte di chi ci è caro, eccetera, non sono mai riusciti ad appagarci veramente. Tuttavia ci ostiniamo a credere che il giorno in cui ne avremo un po’ di più, saremo finalmente felici. Lo crediamo perché mentiamo a noi stessi. Infatti, se riflettessimo anche solo per qualche istante, ci accorgeremmo che non è vero. Egualmente, quando soffriamo a causa di una malattia, della miseria o perché siamo infelici, siamo convinti che il giorno in cui verrà a mancare la causa del nostro dolore saremo felici. Ma in fondo qualcosa ci dice che non è vero, che il giorno in cui ci saremo abituati alla mancanza di quel dolore incominceremo a desiderare qualche altra cosa. In secondo luogo, non dobbiamo confondere il bisogno con il bene. Vi sono molte cose di cui crediamo di aver bisogno per poter vivere. Spesso non è vero; infatti riusciremmo a sopravvivere anche se ci fossero tolte. E, quand’anche fosse vero, quand’anche la loro scomparsa ci facesse morire o per lo meno affievolisse la nostra energia vitale, non per questo motivo sarebbero dei beni. Nessuno infatti si accontenta puramente e semplicemente

di vivere. Desideriamo continuamente cose nuove. Vogliamo vivere per qualche cosa. È sufficiente non mentire con noi stessi per sapere che non c’è nulla su questa terra per cui si possa vivere. Proviamo ad immaginare che tutti i nostri desideri vengano esauditi: dopo un po’ di tempo saremmo di nuovo insoddisfatti. Desidereremmo altre cose e ci sentiremmo infelici al pensiero di non sapere che cosa vogliamo. Dipende da ciascuno di noi tenere sempre presente questa verità. Ad esempio, se i rivoluzionari non mentissero con sé stessi, saprebbero che il felice esito della rivoluzione li renderebbe infelici, perché avrebbero perso la loro ragione di vita. Avviene la stessa cosa per ogni altro desiderio. La vita, così come è data agli uomini, è sopportabile solo grazie alla menzogna. Coloro che rifiutano la menzogna e preferiscono sapere che la vita è intollerabile, senza ribellarsi tuttavia al destino, finiscono per ricevere dall’esterno, da un luogo situato fuori del tempo, qualcosa che permette loro di accettare la vita così com’è. Tutti avvertiamo la presenza del male, ne proviamo orrore e vorremmo liberarcene. Il male non è né la sofferenza, né il peccato; è l’una e l’altro insieme, è una realtà comune all’una e all’altro, poiché sofferenza e peccato sono strettamente collegati: il peccato fa soffrire e la sofferenza rende l’uomo cattivo. Questa unione indissolubile di sofferenza e di peccato costituisce il male, quel male in mezzo al quale dobbiamo vivere, nostro malgrado, provando orrore per il fatto che vi siamo invischiati. Proiettiamo parte del male che è in noi sulle cose che sono oggetto della nostra attenzione e del nostro desiderio. E queste cose rifrangono quel male su di noi, quasi ne fossero la fonte. Per questo motivo odiamo e proviamo disgusto per i luoghi in cui ci troviamo sommersi dal male. Ci sembra che gli stessi luoghi ci tengano prigionieri del male.

Ecco perché i malati odiano la loro camera e le persone che li circondano, anche se queste sono persone care, e gli operai odiano la loro fabbrica. Se però l’oggetto della nostra attenzione e del nostro desiderio, sul quale proiettiamo parte del male che è in noi, è perfettamente puro, non potrà essere contaminato da quel male; resta puro, non rinvia a noi il nostro male. In tal modo riusciamo a liberarci del male. Noi siamo esseri finiti ed anche il male che è in noi è finito; quindi, se la vita umana durasse molto più a lungo, saremmo certi con questo metodo di essere liberati, ad un certo momento, da ogni male su questa terra. Le parole del Pater sono perfettamente pure. Se recitiamo il Pater con la sola preoccupazione di prestare attenzione ad esse con tutta la concentrazione di cui siamo capaci, è certo che ci libereremo di una parte del male che è in noi. Avviene la stessa cosa se guardiamo il Santissimo Sacramento, meditando esclusivamente sul fatto che in esso vi è Cristo. Quaggiù, di perfettamente puro non vi sono che gli oggetti ed i testi sacri, la bellezza della natura contemplata di per sé e non come sfondo dei nostri sogni e, ad un livello inferiore, gli esseri umani in cui abita Dio, e le opere d’arte nate da un’ispirazione divina. Ciò che è perfettamente puro non può essere altro che Dio stesso presente quaggiù. Se fosse qualche cosa diversa da Dio, non potrebbe essere pura. Se Dio non fosse presente su questa terra, non potremmo mai essere salvati. Nell’anima in cui è avvenuto un tale contatto con la purezza, tutto l’orrore per il male che essa porta in sé si trasforma in amore per la purezza divina. Per questo motivo Maria Maddalena e il buon ladrone furono dei privilegiati dell’amore. Il solo ostacolo alla tramutazione dell’orrore in amore è l’amor proprio che rende difficile l’operazione per mezzo della quale portiamo la nostra macchia a contatto con la purezza. Possiamo trionfare del male solo quando nutriamo

una specie di indifferenza nei confronti della nostra contaminazione, quando riusciamo ad essere felici al solo pensiero che esiste qualcosa di puro, senza ripiegarci su noi stessi. Il contatto con la purezza provoca una trasformazione nel male. La mescolanza indissolubile della sofferenza e del peccato non può essere distrutta che da questo contatto. Grazie ad esso la sofferenza cessa di accompagnarsi al peccato e il peccato si trasforma in semplice sofferenza. Questo processo soprannaturale è ciò che noi chiamiamo pentimento. Quando ci pentiamo, illuminiamo con la nostra gioia il male che portiamo in noi. È bastato che un essere perfettamente puro si trovasse presente sulla terra perché diventasse l’Agnello Divino che toglie i peccati del mondo e perché la maggior parte possibile del male diffuso intorno a lui si concentrasse in lui sotto forma di sofferenza. Egli ha lasciato come ricordo di sé cose perfettamente pure, nelle quali cioè è rimasto presente; se non fosse presente in esse, la loro purezza svanirebbe, prima o poi, a forza di essere a contatto con il male. Tuttavia noi non viviamo continuamente nelle chiese; sarebbe quindi desiderabile che questa operazione soprannaturale del trasporto del male fuori di noi potesse compiersi nei luoghi in cui viviamo la nostra vita quotidiana e specialmente nei luoghi in cui lavoriamo. Ciò è possibile solo grazie a un particolare tipo di simbolismo che ci permette di leggere le verità divine nelle circostanze della vita quotidiana e del lavoro, allo stesso modo in cui scopriamo, attraverso le lettere che compongono una frase, il significato di quest’ultima. È necessario però che i simboli non siano arbitrari, ma siano iscritti per effetto di un disegno provvidenziale nella natura stessa delle cose. Le parabole del Vangelo sono l’esempio di questo simbolismo. Infatti esiste un’analogia fra i rapporti meccanici che costituiscono l’ordine del mondo sensibile e le verità divine:

la forza di gravità, che regola sulla terra i movimenti della materia, è l’immagine dell’attaccamento alla carne che domina le tendenze della nostra anima. La sola potenza capace di vincere la forza di gravità è l’energia solare. Assorbita dalle piante, penetra nel mondo e permette alle piante di crescere verticalmente dal basso in alto. Attraverso l’atto di mangiare penetra negli animali e in noi; essa sola ci permette di tenerci in piedi e di sollevare dei pesi. Anche le sorgenti d’energia meccanica, i corsi d’acqua, il carbone e molto probabilmente anche il petrolio, scaturiscono dall’energia solare; è il sole che fa girare i nostri motori, che solleva i nostri aerei, così come è lui che solleva gli uccelli. Ma non siamo noi che andiamo a cercare l’energia solare: possiamo solo riceverla. È lei che discende a noi. Penetra nelle piante, viene sepolta col seme sotto terra, nelle tenebre, ed è là che raggiunge la pienezza della fecondità e suscita il movimento dal basso all’alto, che fa crescere il grano e l’albero. Anche in un albero morto, in una trave, è sempre lei che mantiene la linea verticale; grazie a lei possiamo costruire le nostre case. Essa è l’immagine della grazia che discende a seppellirsi nelle tenebre delle nostre anime abitate dal male; in essa è la sola sorgente d’energia che faccia da contrappeso alla pesantezza morale, alla nostra tendenza al male. Il lavoro del contadino non consiste nell’andare a cercare l’energia solare e nemmeno nel captarla, ma nel disporre le cose in modo che le piante, capaci di captarla e di trasmettercela, la ricevano nelle migliori condizioni possibili. Lo sforzo che prodiga in questo lavoro non proviene da lui, ma dalla energia che il nutrimento ha creato in lui, cioè da quella stessa energia solare racchiusa nelle piante e nella carne degli animali, nutriti dalle piante. Analogamente noi non possiamo fare altro sforzo verso il bene se non quello di disporre la nostra anima a ricevere la grazia, e l’energia necessaria a questo sforzo ci è fornita dalla grazia stessa. Il contadino è sempre simile ad un attore che interpreti

una parte in una «sacra rappresentazione» dei rapporti fra Dio e il creato. Non solo la sorgente dell’energia solare è inaccessibile all’uomo, ma lo è anche il potere che trasforma questa energia in nutrimento. La scienza moderna considera la sostanza vegetale chiamata clorofilla come la sede di questo potere. Gli antichi la chiamavano «linfa »: in realtà è la stessa cosa. Come il sole è l’immagine di Dio, così la linfa vegetale che capta l’energia solare, che fa crescere gli alberi diritti vincendo la forza di gravità, che è offerta a noi per essere sminuzzata e distrutta onde sostenere la nostra vita, questa linfa è l’immagine del Figlio, del Mediatore. Tutto il lavoro del contadino consiste nel servire questa immagine. È necessario che una tale poesia circondi il lavoro dei campi di una luce d’eternità. Se una tale poesia non è avvertita, quel lavoro può diventare talmente monotono da condurre all’abbrutimento, alla disperazione, alla ricerca di soddisfazioni grossolane; infatti la mancanza di finalità, che è la disgrazia di ogni condizione umana, si rivela nel lavoro dei campi in modo troppo evidente. L’uomo si sfinisce con il lavoro perché deve mangiare, mangia per avere la forza di lavorare, e dopo un anno di pena tutto è esattamente come prima. Il cerchio si chiude per poi riaprirsi monotonamente. La monotonia può essere sopportata dall’uomo solo grazie ad un’illuminazione divina. Ma proprio per questo motivo una vita monotona è più favorevole alla salvezza.

RIFLESSIONI SENZA ORDINE SULL’AMORE DI DIO

In ogni istante il nostro essere ha come stoffa e sostanza l’amore che Dio nutre per noi. L’amore creatore di Dio che ci tiene in vita non è solo generosità sovrabbondante: è anche rinuncia, sacrificio. Non solo la passione, ma anche la creazione è rinuncia e sacrificio da parte di Dio. La passione ne è solamente la conclusione. Già come creatore, Dio si svuota della sua divinità, prende la forma di uno schiavo, si sottomette alla necessità, si abbassa. Il suo amore mantiene nell’esistenza, in un’esistenza autonoma e libera, degli esseri diversi da lui, diversi dal bene, degli esseri mediocri. Per amore li abbandona all’infelicità e al peccato: senza un tale abbandono essi non esisterebbero. La sua presenza li priverebbe dell’essere come una fiamma brucia una farfalla. La religione insegna che Dio ha creato gli esseri finiti a livelli diversi di mediocrità. Noi, creature umane, constatiamo che ci troviamo al limite, all’estremo limite oltre il quale non è più possibile né concepire né amare Dio. Sotto di noi vi sono soltanto gli animali. Noi siamo mediocri e lontani da Dio quanto lo può essere una creatura ragionevole; e questo è un grande privilegio. È per noi che Dio deve fare il cammino più lungo se vuole giungere fino a noi. Quando ha preso, conquistato e trasformato i nostri cuori, tocca a noi fare il cammino più lungo per giungere a nostra volta fino a lui. L’amore è proporzionato alla distanza. È stato un amore inconcepibile a spingere Dio a creare degli esseri così lontani da lui. E grazie a questo amore inconcepibile egli discende fino a loro. È per un amore altrettanto inconcepibile che essi in seguito risalgono fino a

lui. Si tratta dello stesso amore: essi possono risalire a Dio solo grazie all’amore che Dio ha immesso in loro quando egli stesso è andato a cercarli. Ed è lo stesso amore che ha fatto sì che egli li creasse così lontani da sé. La passione non è concepibile senza la creazione. Anche la creazione è passione. La mia stessa esistenza è come una lacerazione di Dio, una lacerazione che è amore. Più io sono mediocre, più è evidente l’immensità dell’amore che mi mantiene nell’esistenza. Il male del mondo, che noi vediamo dovunque sotto forma di infelicità o di delitto, è un segno della nostra distanza da Dio. Ma questa distanza è amore e come tale deve essere amata. Non dico che si debba amare il male. Ma bisogna amare Dio attraverso il male. Quando un bambino, giocando, rompe un oggetto prezioso, la madre non è contenta di questa distruzione. Se però in seguito il figlio va lontano o muore, la madre ripenserà a quell’incidente con una tenerezza infinita e vedrà in esso soltanto una manifestazione dell’esistenza del suo bambino. In tal modo noi dobbiamo amare Dio attraverso tutte le cose buone e cattive, indistintamente. Finché lo amiamo nelle cose buone, ci illudiamo soltanto di amarlo; in realtà amiamo qualcosa di terreno a cui diamo il nome di Dio. Non dobbiamo tentare di trasformare il male in bene, cercando dei compensi o delle giustificazioni al male. Dobbiamo amare Dio attraverso il male che c’è nel mondo, unicamente perché tutto quel che avviene è reale e dietro ogni realtà si trova Dio. Certe realtà sono più o meno trasparenti; altre sono del tutto opache ma dietro ad ognuna di esse, senza distinzione, c’è Dio. Noi dobbiamo esclusivamente preoccuparci di volgere i nostri sguardi verso il punto in cui egli si trova, sia o no visibile. Se non vi fosse nessuna realtà trasparente, non avremmo nessuna idea di Dio. Ma se tutte le realtà fossero trasparenti, noi ameremmo soltanto la sensazione della luce divina e non Dio. Quando non vediamo Dio, quando la realtà di Dio non appare sensibilmente ad alcuna parte della nostra anima,

per poterlo amare dobbiamo sforzarci di uscire da noi stessi. Questo significa amare Dio. Perciò dobbiamo tenere lo sguardo costantemente rivolto a Dio, senza muoverci mai. Altrimenti come potremmo individuare la giusta direzione quando un paravento opaco s’interpone fra noi e la luce? Dobbiamo stare assolutamente immobili. Restare immobili non vuol dire astenersi dall’azione. Si tratta di una immobilità spirituale, non materiale. Ma non bisogna di propria volontà né agire né astenerci dall’agire. Innanzitutto dobbiamo fare soltanto ciò a cui siamo costretti da un’obbligazione vera e propria; poi ciò che riteniamo onestamente che Dio voglia da noi; infine, se rimane un settore indeterminato, ciò a cui ci spinge la nostra inclinazione naturale, a condizione che non si tratti di cosa illegittima. Non bisogna fare sforzi di volontà, nell’ambito dell’azione, se non per gli obblighi necessari. Gli atti determinati dall’inclinazione non costituiscono ovviamente uno sforzo. Quanto agli atti d’obbedienza a Dio, li compiamo in uno stato di passività: quali che siano le pene che li accompagnano, essi non esigono dei veri e propri sforzi, cioè sforzi attivi, ma piuttosto la pazienza e la capacità di sopportare e di soffrire. La crocifissione di Cristo è il modello di quanto dico. Anche se dall’esterno pare che l’atto di obbedienza sia accompagnato da un atteggiamento attivo, in realtà nell’anima non vi è che sofferenza passiva. È necessario senza dubbio uno sforzo, uno sforzo durissimo, che però non riguarda l’azione concreta. Esso consiste nell’impegno di fissare lo sguardo costantemente su Dio, di riportarvelo allorché si è distolto da lui, di renderlo ancora più attento in certi momenti con tutta l’intensità di cui si è capaci. E questo sforzo è molto duro perché la parte mediocre di noi stessi, che corrisponde quasi totalmente a noi stessi, che è noi stessi, che è ciò che chiamiamo il nostro io, si sente condannata a morte da questo atto di concentrazione su Dio. Non vuole morire. Si ribella. Inventa

ogni genere di menzogne per distogliere lo sguardo da Dio. Una di queste menzogne sono i falsi dèi che chiamiamo Dio: ci illudiamo sovente di pensare a Dio mentre in realtà amiamo delle creature che ci hanno parlato di lui o un certo ambiente sociale, o alcune abitudini, o la pace dell’anima, una qualsiasi sorgente di gioia sensibile, di speranza, di conforto, di consolazione. In questi casi la parte mediocre dell’anima è completamente al sicuro: la preghiera stessa non la minaccia. Un’altra menzogna è costituita dal piacere e dal dolore. Noi sappiamo molto bene che certe omissioni o certe azioni causate dal desiderio del piacere, o dal timore della sofferenza, ci spingono a distogliere il nostro sguardo da Dio. In questi casi noi crediamo di essere stati vinti dal piacere o dal dolore; ma molto spesso si tratta solo di un’illusione. Molto spesso essi sono soltanto un pretesto, di cui si serve la parte mediocre di noi per allontanarci da Dio. Di per sé stessi non sono tanto potenti. Non è infatti molto difficile rinunciare ad un piacere, per quanto inebriante, o accettare un dolore, anche se violento. Lo si vede fare quotidianamente da gente molto mediocre. Ma è infinitamente difficile rinunciare anche a un leggerissimo piacere o esporsi anche a una leggerissima pena solo per Dio, per il Dio vero, colui che è in Cielo e non altrove. Infatti, quando lo si fa, non è alla sofferenza che ci si vota, ma alla morte, una morte più radicale della morte carnale e che fa altrettanto orrore alla natura: la morte di ciò che in noi dice «io». Qualche volta la carne ci allontana da Dio; ma spesso, quando noi siamo convinti che le cose si svolgano in questo modo, si verifica in realtà proprio il contrario. L’anima, incapace di sopportare la presenza martirizzante di Dio, questa bruciatura, si rifugia dietro la carne, si serve della carne come di uno schermo. In questo caso non è la carne che ci allontana da Dio: è l’anima che cerca di dimenticare Dio, nascondendosi in essa. Non si tratta quindi di

debolezza, ma di tradimento; e la tentazione di questo tradimento è sempre presente nella misura in cui la parte mediocre dell’anima prevale sulla parte pura. Errori di per sé poco gravi possono essere l’espressione di un tale tradimento; pertanto essi diventano infinitamente più gravi di quegli errori, di per sé gravi, commessi per debolezza. Si evita il tradimento non con uno sforzo, o facendo violenza a noi stessi, ma con una semplice scelta. Basta guardare come estranea e nemica la parte di noi stessi che vorrebbe sottrarsi allo sguardo di Dio, anche se essa si identifica quasi con il nostro io, anche se è il nostro stesso io. Bisogna invece aderire continuamente a quella parte del nostro io che reclama Dio, anche se è infinitamente piccola. Nella misura in cui noi aderiamo a questo infinitamente piccolo, esso cresce in progressione geometrica, analoga alla serie 2, 4, 8, 16, 32, ecc., così come cresce un seme; e la sua crescita avverrà senza una nostra partecipazione attiva. Noi possiamo arrestare questa crescita, rifiutando di aderirvi; possiamo rallentarla, non usando la volontà contro gli impulsi disordinati della parte carnale dell’anima. Tuttavia, quando la crescita avviene, avviene in noi senza di noi. Lo sforzo mal diretto verso il bene, verso Dio, è ancora una insidia, una menzogna della parte mediocre di noi, che tenta di evitare la morte. È molto difficile comprendere che si tratta di una menzogna e perciò è molto pericoloso. Tutto avviene come se la parte mediocre di noi pretendesse di conoscere molto più di noi le condizioni della salvezza; il che ci spinge ad ammettere l’esistenza di qualche cosa che corrisponde al demonio. Vi sono persone che cercano Dio allo stesso modo di chi saltasse a piedi giunti, convinto che, saltando ogni giorno più in alto, riuscirà prima o poi a non ricadere più sulla terra e a salire verso il cielo: questa speranza è vana. Nel racconto Il piccolo sarto coraggioso di Grimm, l’autore descrive una sfida tra il piccolo sarto e un gigante. Il

gigante lancia una pietra così in alto, che essa impiega molto tempo a ricadere. Il piccolo sarto, che ha un uccello in tasca, dice di potere fare molto di meglio, che le pietre che egli lancerà non ricadranno più, e lascia volare il suo uccello. Ciò che non possiede ali finisce sempre per ricadere. Le persone che saltano a piedi giunti verso il cielo, assorbite da questo sforzo muscolare, non guardano il cielo. E lo sguardo è la sola forza efficace in questo ambito, poiché è lui che fa discendere Dio fino a noi. E quando Dio è disceso fino a noi, ci solleva, ci dà le ali. I nostri sforzi muscolari servono semplicemente ad eliminare tutti quegli ostacoli che impediscono al nostro sguardo di rivolgersi a Dio: hanno una funzione negativa. La parte dell’anima capace di guardare Dio è circondata da cani che abbaiano, mordono e sconvolgono tutto. Bisogna prendere una frusta per domarli. Nulla impedisce, però, quando è possibile, di usare lo zuccherino al posto della frusta. Ad ogni modo, o con la frusta o con lo zuccherino – in realtà sono necessari ambedue in una proporzione variabile secondo i temperamenti – ciò che importa è domare questi cani, costringerli all’immobilità e al silenzio. Questa è una condizione dell’ascesa spirituale, condizione che tuttavia non costituisce di per sé stessa una forza ascendente. Dio solo è la forza ascendente e viene a noi quando teniamo fisso lo sguardo su di lui. Guardare Dio significa amarlo. Non esiste altra relazione fra Dio e l’uomo al di fuori dell’amore. Ma il nostro amore per Dio deve essere come l’amore della donna per l’uomo, amore cioè che non osa tentare nessuna avance, amore che è pura attesa. Dio è lo sposo e tocca allo sposo avanzare verso colei che egli ha scelto, parlarle, condurla con sé: la sposa deve solo attendere. La frase di Pascal: «Tu non mi cercheresti se non mi avessi già trovato», non rende compiutamente il senso reale della relazione fra l’uomo e Dio. È molto più profondo Platone quando consiglia di «distogliersi con tutta l’anima da tutto ciò che è transitorio». Non tocca all’uomo cercare Dio e

credere in lui: egli deve semplicemente rifiutarsi di amare quelle cose che non sono Dio. Un tale rifiuto non presuppone alcuna fede. Si basa semplicemente sulla constatazione di un fatto evidente: che tutti i beni della terra, passati, presenti e futuri, reali o immaginari, sono finiti e limitati, radicalmente incapaci di soddisfare quel desiderio di un bene infinito e perfetto che brucia perpetuamente in noi. Questo ogni uomo lo sa, e molte volte nella vita, per un istante, ha dovuto riconoscerlo; ma subito dopo egli mente a sé stesso perché avverte che se continuasse a sapere, non potrebbe più vivere. La sua sensazione è esatta; quella conoscenza uccide, ma infligge una morte che ci dà la risurrezione. Purtroppo questo non lo sappiamo prima di averlo sperimentato: sentiamo soltanto la minaccia della morte. Eppure è necessario scegliere fra la verità e la morte o la menzogna e la vita. Se facciamo la prima scelta, se vi perseveriamo, se continuiamo a rifiutare il nostro amore alle cose che non ne sono degne, cioè a tutte le cose della terra senza alcuna eccezione, abbiamo compiuto il necessario. Non esistono problemi da risolvere o ricerche da compiere. Se un uomo persiste in questo rifiuto, un giorno o l’altro Dio verrà a lui. Come Elettra130 per Oreste, così l’uomo vedrà, capirà, stringerà Dio nella certezza di una realtà irrecusabile. Non per questo sarà libero dal dubbio: lo spirito umano conserva sempre la capacità e il dovere di dubitare; ma il dubbio, prolungato indefinitamente, distrugge la certezza illusoria delle cose incerte e conferma la certezza delle cose certe. Il dubbio riguardante la realtà di Dio è un dubbio astratto e verbale per chiunque sia stato afferrato da Dio, molto più astratto e verbale che non il dubbio riguardante la realtà delle cose sensibili; ogni volta che un tale dubbio si presenta, basta accoglierlo senza restrizioni mentali per accorgersi di quanto sia astratto e verbale. Perciò il problema della fede non si pone affatto. Finché un essere umano non è stato conquistato da Dio, non può avere fede, ma solo una semplice credenza; e che egli abbia o no una simile

credenza, non ha nessuna importanza: infatti egli arriverà alla fede anche attraverso l’incredulità. La sola scelta che si pone all’uomo è quella di legare o meno il proprio amore alle cose di quaggiù. Egli deve rifiutarsi di legarlo ad esse e rimanere immobile, senza cercare, senza muoversi, in attesa, senza nemmeno cercare di sapere ciò che aspetta: è certo che Dio farà tutto il cammino fino a lui. Colui che cerca rende difficile l’operazione divina, invece di facilitarla. Colui che Dio ha preso non cerca affatto Dio, nel senso in cui Pascal pare servirsi del termine cercare. Come potremmo cercare Dio, dato che egli si trova in una dimensione che noi non possiamo percorrere? Noi possiamo avanzare solo orizzontalmente. Se camminiamo orizzontalmente cercando il nostro bene, nel momento in cui otteniamo il frutto dei nostri sforzi, ci accorgiamo che ciò è illusorio: ciò che avremo trovato non sarà Dio. Un bambino che non vede più sua madre nella strada accanto a lui, corre di qua e di là, ma facendo così sbaglia. Se egli infatti avesse sufficiente ragione e forza d’animo per arrestarsi ed attendere, la madre lo troverebbe più in fretta. Dobbiamo solo attendere e chiamare. Non chiamare qualcuno, dato che non sappiamo ancora se c’è qualcuno. Dobbiamo gridare che abbiamo fame e che vogliamo del pane. Grideremo più o meno a lungo, ma finalmente saremo nutriti e allora non soltanto crederemo ma sapremo che esiste veramente del pane. Quando ne abbiamo mangiato, quale prova più sicura potremmo desiderare? Fintanto che non ne abbiamo mangiato, non è necessario e nemmeno utile credere nel pane. L’essenziale è sapere che si ha fame. Non è una credenza, questa; è una conoscenza assolutamente certa che non può essere oscurata che dalla menzogna. Tutti coloro che credono che vi è o vi sarà un nutrimento prodotto quaggiù, mentono. Il nutrimento celeste non fa solo crescere in noi il bene: esso distrugge il male, cosa che i nostri sforzi personali non potrebbero mai fare.

La quantità del male che è in noi può essere diminuita soltanto dallo sguardo rivolto ad un oggetto perfettamente puro.

L’AMORE DI DIO E L’INFELICITÀ

Nel campo della sofferenza l’infelicità è un dolore a parte, specifico, irriducibile. È una cosa ben diversa dalla semplice sofferenza. S’impadronisce dell’anima e la segna, fino in fondo, con un segno suo proprio, il segno della schiavitù. La schiavitù, così come era nell’antica Roma, è soltanto la forma estrema dell’infelicità. Gli antichi, che conoscevano bene la questione, dicevano che un uomo perde la metà della propria anima il giorno in cui diventa schiavo. L’infelicità è inseparabile dalla sofferenza fisica, tuttavia ne è completamente distinta. Nella sofferenza tutto ciò che non è legato al dolore fisico è artificiale, immaginario e forse eliminabile con una conveniente disposizione del pensiero. Anche l’assenza o la morte di un essere amato ci procura un dolore la cui parte irriducibile è qualcosa di simile a un dolore fisico: una difficoltà a respirare, una morsa stretta intorno al cuore, un bisogno insoddisfatto, una fame, un disordine quasi biologico determinato dalla brutale liberazione d’una energia fino in quel momento orientata su quella persona ed ora priva di direzione. Un dolore che non sia raccolto intorno a questo nocciolo irriducibile è puro e semplice romanticismo, è letteratura. Anche l’umiliazione è uno stato violento a cui è sottoposto tutto il nostro essere fisico, il quale vorrebbe scatenarsi a causa dell’oltraggio, mentre è costretto a dominarsi, bloccato dall’impotenza o dalla paura. Viceversa un dolore esclusivamente fisico è ben poca cosa e non lascia tracce nell’anima. Il mal di denti costituisce un esempio: alcune ore di dolore violento causato da un dente guasto, una volta passate, non sono più nulla.

Diversa invece è una sofferenza fisica lunga o molto frequente. Ma spesso una tale sofferenza non è una sofferenza pura e semplice: è un’infelicità. L’infelicità è uno sradicamento dalla vita, un equivalente più o meno attenuato della morte, sradicamento che è reso irresistibilmente presente nell’anima dal fatto che essa è colpita direttamente dal dolore fisico. Se il dolore fisico è del tutto assente, non c’è infelicità per l’anima, perché il pensiero si sposta verso altri oggetti. Il pensiero rifugge dall’infelicità così prontamente, così irresistibilmente quanto un animale fugge la morte. Su questa terra solo il dolore fisico è in grado di incatenare il pensiero, a patto che si assimilino al dolore fisico certi fenomeni difficili da descrivere, comunque corporei e che gli sono rigorosamente equivalenti. La percezione del dolore fisico è di questa specie. Quando il pensiero è costretto dal dolore fisico, anche leggero, a riconoscere la presenza dell’infelicità, si verifica in noi uno stato violento, simile a quello di un condannato a morte costretto a guardare per alcune ore la ghigliottina con cui gli taglieranno il collo. Ci sono esseri umani che vivono vent’anni o cinquanta in questo stato di violenza. Passiamo accanto a loro senza accorgerci di nulla. Ma quale uomo è capace di capirli, se non è Cristo a guardare con i suoi occhi? Vediamo soltanto che a volte essi hanno un comportamento strano, e biasimiamo tale comportamento. C’è veramente infelicità solo se l’avvenimento che ha colpito una vita e l’ha sradicata, l’ha toccata direttamente o indirettamente in tutti i suoi aspetti: sociale, psicologico, fisico. Il fattore sociale è essenziale. Non c’è vera infelicità se non quando essa comporta in qualche modo una caduta sociale o la percezione di questa caduta. Fra l’infelicità e le preoccupazioni che, anche se sono molto violente, molto profonde e durano a lungo, sono molto diverse dall’infelicità vera e propria, vi è nello stesso tempo continuità e separazione da un certo punto, come nella

temperatura d’ebollizione dell’acqua. C’è un limite al di là del quale e non al di qua, inizia il regno dell’infelicità. Questo limite non è puramente oggettivo: una varietà infinita di fattori personali entrano in gioco. Uno stesso avvenimento può precipitare un determinato essere umano nell’infelicità e non causare nulla di simile in altri. Il grande enigma della vita umana non è la sofferenza, ma l’infelicità. Non stupisce che degli innocenti siano uccisi, torturati, cacciati dal loro paese, ridotti in miseria o in schiavitù, rinchiusi in campi o in prigioni, poiché esistono criminali capaci di compiere queste cose. Non stupisce nemmeno che la malattia costringa a lunghe sofferenze che paralizzano la vita e fanno di essa un’immagine della morte, poiché la natura è sottomessa a un gioco cieco di necessità meccaniche. Ciò che stupisce è il fatto che Dio abbia permesso all’infelicità di afferrare l’anima degli innocenti e di impadronirsene totalmente. Nel migliore dei casi, colui che è colpito dall’infelicità non conserverà che la metà della sua anima. Coloro che sono stati colpiti da uno di quegli avvenimenti dopo i quali un uomo si dibatte sulla terra come un verme tagliato a metà, non hanno parole per esprimere ciò che succede loro. Fra le persone che li incontrano, coloro che, pur avendo molto sofferto, non hanno mai avuto un contatto con la vera infelicità, non hanno alcuna idea del loro stato d’animo. Si tratta di qualcosa di specifico, di irriducibile ad ogni altra cosa, come l’idea del suono per un sordomuto. E coloro che sono stati mutilati dall’infelicità non possono portare soccorso a nessuno e sono quasi incapaci di desiderarlo. Quindi la compassione verso gli infelici è un sentimento impossibile. Quando essa si rivela, si tratta di un miracolo più sorprendente del camminare sull’acqua, della guarigione dei malati e della stessa risurrezione dei morti. L’infelicità ha indotto Cristo a supplicare d’essere risparmiato, a cercare delle consolazioni presso gli uomini, a credersi abbandonato dal Padre suo. Ha costretto un giusto

a gridare contro Dio, il giusto più perfetto che la natura umana possa produrre, forse ancora più perfetto, sempre che Giobbe sia un personaggio storico e non un semplice simbolo di Cristo. «Egli ride dell’infelicità degli innocenti». Non è una bestemmia, è un grido autentico strappato al dolore. Per quanto riguarda l’infelicità, tutto ciò che si allontana da questo modello è più o meno falso. L’infelicità rende Dio assente agli occhi degli uomini per un certo tempo, più assente di un morto, più assente della luce in una prigione oscura. Una specie di orrore sommerge tutta l’anima. Durante questa assenza non trova nulla che possa amare. E se in queste tenebre, in cui non vi è nulla da amare, l’anima smette di amare, l’assenza di Dio diventa definitiva: è terribile solo a pensarci. È necessario che l’anima continui ad amare a vuoto, o per lo meno a voler amare, anche soltanto con una parte infinitamente piccola di sé stessa. Allora un giorno Dio stesso viene a rivelarsi a lei e a mostrarle la bellezza del mondo, come avvenne per Giobbe. Ma se l’anima cessa di amare precipita già qui sulla terra in uno stato quasi equivalente all’inferno. Ecco perché coloro che gettano nell’infelicità gli uomini che non sono preparati a riceverla, uccidono letteralmente delle anime. D’altra parte, in un’epoca come la nostra, in cui l’infelicità è sospesa su tutti, un vero aiuto alle anime è efficace soltanto se le prepara realmente a sopportare l’infelicità. Il che non è certo poco. L’infelicità indurisce l’uomo e lo rende disperato poiché, come un ferro rovente, imprime fino in fondo alla sua anima una sensazione di disprezzo, di disgusto e di schifo di sé stesso, di colpevolezza, di macchia morale, che solo il crimine dovrebbe logicamente produrre, ma che non produce. Infatti il male è presente nell’anima del criminale, ma egli non è consapevole della sua presenza. Tale presenza invece è avvertita dall’innocente infelice. È come se lo stato d’animo, che dovrebbe essere tipico del criminale, fosse

stato separato dal crimine e unito invece all’infelicità, e facesse soffrire l’innocente in proporzione alla sua innocenza. Se Giobbe grida la sua innocenza con accenti disperati, ciò è dovuto al fatto che nemmeno lui riesce a credervi, che la sua anima accetta il giudizio dei suoi amici. Implora la testimonianza di Dio stesso poiché non sente più la testimonianza della propria coscienza: per lui essa è soltanto un ricordo astratto e morto. La natura carnale dell’uomo è comune a quella dell’animale; le galline si precipitano a colpi di becco sulla gallina ferita: è un fenomeno meccanico come la gravità. Tutto il disprezzo, tutta la repulsione, tutto l’odio che la nostra ragione sente per il crimine, la nostra sensibilità lo sente per l’infelicità. Eccetto coloro nella cui anima Cristo trionfa completamente, tutti gli uomini disprezzano più o meno gli infelici, benché quasi nessuno abbia coscienza di questo disprezzo. Questa legge della nostra sensibilità vale anche nei confronti di noi stessi. Il disprezzo, lo schifo, l’odio di fronte all’infelicità, si ritorcono contro lo stesso infelice, penetrano nel cuore della sua anima, e da quel punto si diffondono fino a colorare con la loro tinta avvelenata tutto l’universo. L’amore soprannaturale, allorché riesce a sopravvivere, può impedire questo secondo effetto, ma non il primo. Il primo è l’essenza stessa dell’infelicità: non esiste infelicità dove non si rivela. «Egli è stato fatto maledizione per noi». Non è solamente il corpo di Cristo sospeso alla croce che è stato fatto maledizione, ma tutta la sua anima. Allo stesso modo qualsiasi innocente, prigioniero dell’infelicità, si sente maledetto. Succede la stessa cosa a coloro che sono caduti nell’infelicità e poi ne sono usciti per un mutamento di sorte, ma sono stati colpiti profondamente da essa. Un’altra conseguenza dell’infelicità è quella di rendere a poco a poco l’anima sua complice, iniettandovi un veleno di

inerzia: chiunque sia stato infelice a lungo, è complice della sua infelicità. Tale complicità rende vano ogni sforzo che l’infelice potrebbe fare per migliorare la sua sorte, ostacola la ricerca dei mezzi idonei a liberarsi dell’infelicità, giunge addirittura a uccidere in lui il desiderio di liberarsene. L’infelice allora resta imprigionato nell’infelicità, tanto che gli altri possono pensare che sia soddisfatto della sua situazione. Questa complicità può addirittura spingerlo, malgrado la sua volontà, a sfuggire i mezzi per liberarsene: essa si nasconde allora sotto pretesti talvolta ridicoli. Anche in colui che non è più attualmente infelice, ma che è stato per sempre ferito dall’infelicità fino in fondo all’anima, vi è un sentimento oscuro che lo risospinge verso l’infelicità, come se questa si fosse installata in lui alla maniera di un parassita e lo guidasse verso i suoi fini. A volte un tale impulso lo trattiene da ogni tentativo di essere felice. Se l’infelicità è terminata grazie all’intervento di qualcuno, può provocare una forma di odio nei confronti del benefattore: questa è l’origine di certi atti di ingratitudine selvaggia che sono apparentemente inspiegabili. Qualche volta è facile liberare un infelice dall’infelicità attuale, ma è difficile liberarlo dalla sua infelicità passata. Dio solo può farlo. La stessa grazia di Dio non guarisce su questa terra la natura irrimediabilmente ferita: il corpo glorioso di Cristo portava ancora i segni delle ferite. Non si può accettare l’esistenza dell’infelicità se non vedendola come una distanza. Dio ha creato grazie ad un atto d’amore e per amore. Dio non ha creato altro che l’amore stesso e i mezzi dell’amore. Ha creato tutte le forme dell’amore. Ha creato degli esseri capaci di amare a tutte le distanze possibili. Egli stesso è andato, dato che nessun altro avrebbe potuto farlo, alla distanza massima, la distanza infinita. Questa distanza infinita fra Dio e Dio, strappo supremo, dolore a cui nessun altro è paragonabile, meraviglia dell’amore, è la crocifissione. Nulla può essere più lontano da Dio di ciò che

è stato fatto maledizione. Questo strappo, sopra il quale l’amore supremo pone il legame dell’unione suprema, risuona perpetuamente attraverso l’universo, al fondo del silenzio, come due note separate e fuse insieme, come un’armonia pura e sconvolgente. Un’armonia simile è la parola di Dio, e la creazione intera non ne è che una vibrazione. Quando la musica umana, nei momenti di più intensa purezza, ci attraversa l’anima, è quell’armonia che avvertiamo. Quando noi abbiamo imparato ad ascoltare il silenzio, è quell’armonia che cogliamo più distintamente attraverso di esso. Coloro che perseverano nell’amore avvertono quell’armonia anche nella caduta in cui li ha precipitati l’infelicità. A partire da quel momento essi non possono più avere alcun dubbio. Gli uomini colpiti dall’infelicità stanno ai piedi della croce, lontano, quanto più è possibile, da Dio. Non bisogna credere che il peccato rappresenti una distanza maggiore fra l’uomo e Dio. Il peccato non è una distanza. È un orientamento sbagliato dello sguardo. C’è, è vero, un legame misterioso fra questa distanza e una disobbedienza originale. Infatti fin dall’origine, così ci è stato detto, l’umanità ha distolto lo sguardo da Dio e ha camminato nella direzione sbagliata, andando il più lontano possibile. Significa che allora poteva camminare. Noi invece siamo inchiodati al nostro posto, liberi soltanto dei nostri sguardi, sottomessi alla necessità. Un meccanismo cieco che non tiene affatto conto del grado di perfezione spirituale, sballotta continuamente gli uomini e ne getta qualcuno ai piedi della croce. Dipende dagli uomini, e solo da loro, tenere o no gli occhi rivolti a Dio attraverso le scosse: è proprio la sua Provvidenza che ha voluto la necessità come meccanismo cieco. Se il meccanismo non fosse cieco, non ci sarebbe infelicità. L’infelicità è prima di tutto anonima, priva le sue

vittime della loro personalità e le trasforma in cose. È indifferente, ed è il freddo di questa indifferenza, un freddo metallico, che gela fino in fondo l’anima di coloro che tocca. Essi non ritroveranno mai più il calore, non crederanno mai più di essere qualcuno. L’infelicità non avrebbe questo potere se non si mescolasse in parte al caso. Coloro che sono perseguitati a causa della loro fede, e lo sanno, non sono infelici, qualsiasi cosa debbano soffrire. Cadono nell’infelicità solo se la sofferenza o la paura invadono la loro anima al punto da far dimenticare la causa della persecuzione. I martiri che, abbandonati alle belve, entravano nelle arene cantando, non erano infelici. Cristo era un infelice. Egli non è morto come un martire. È morto come un criminale di diritto comune, in mezzo ai ladroni, solo un po’ più ridicolo di quelli. L’infelicità infatti è ridicola. Soltanto la necessità cieca può gettare gli uomini all’estrema distanza possibile da Dio, accanto alla croce. I crimini umani, che sono la causa della maggior parte dell’infelicità, fanno parte della necessità cieca, poiché i criminali non sanno quel che fanno. Ci sono due forme di amicizia: l’incontro e la separazione. Sono indissolubili. Racchiudono ambedue il medesimo bene, l’unico bene: l’amicizia. Infatti, quando due esseri che non sono amici sono vicini, non c’è incontro; quando sono lontani non c’è separazione. Racchiudendo il medesimo bene, le due forme di amicizia sono ugualmente buone. Dio crea sé stesso e si conosce perfettamente allo stesso modo in cui noi costruiamo e conosciamo miserevolmente degli oggetti fuori di noi. Ma prima di tutto Dio è amore. Prima di tutto Dio ama sé stesso. Quest’amore, questa amicizia in Dio è la Trinità. Fra i termini uniti da questa relazione di amore divino, c’è qualcosa di più che una vicinanza: c’è vicinanza infinita, identità. Ma a causa della creazione, dell’incarnazione e della passione, c’è anche una distanza infinita. La totalità dello spazio, la totalità del tempo

interpongono il loro spessore e pongono una distanza infinita fra Dio e Dio. Gli amanti e gli amici desiderano due cose: di amarsi al punto di entrare l’uno nell’altro e diventare un solo essere e di amarsi al punto che la loro unione non ne soffra quand’anche fossero divisi dalla metà del globo terrestre. Tutto ciò che l’uomo desidera invano quaggiù, è perfetto e reale in Dio. Tutti i nostri desideri impossibili sono il segno del nostro destino e diventano buoni per noi proprio nel momento in cui non speriamo più di realizzarli. L’amore fra Dio e Dio, che è esso stesso Dio, è questo legame che possiede una virtù duplice; questo legame che unisce due esseri al punto che essi non sono più separabili e sono realmente un essere solo; questo legame che annulla la distanza e trionfa della separazione infinita. L’unità di Dio, in cui sparisce ogni pluralità, e l’abbandono in cui crede di trovarsi Cristo pur non cessando di amare perfettamente il Padre, sono due forme divine dello stesso Amore, che è Dio stesso. Dio è essenzialmente amore al punto che l’unità, la quale è in un certo senso la sua stessa definizione, è un semplice effetto dell’amore. All’infinito potere unificatore dell’amore corrisponde l’infinita separazione di cui esso trionfa. Questa separazione è la creazione, che si spiega nella totalità dello spazio e del tempo, fatta di materia meccanicamente brutale, posta fra Cristo e il Padre. A noi uomini la nostra miseria offre il privilegio infinitamente prezioso di essere partecipi di questa distanza tra il Padre e il Figlio. Ma questa distanza è una separazione solo per coloro che amano. Per coloro che amano, la separazione, per quanto dolorosa, è un bene, perché è amore. L’angoscia stessa del Cristo abbandonato è un bene. Non può esserci per noi quaggiù bene più grande del fatto di essere partecipi di questa distanza. Su questa terra Dio non può essere perfettamente presente a noi, a causa della carne. Ma può diventare quasi perfettamente assente

nell’infelicità estrema. Questa è per noi, sulla terra, l’unica possibilità di perfezione. Ecco perché la croce è la nostra unica speranza: «Nessuna foresta porta un tale albero, con questo fiore, con queste foglie e questo seme». L’universo in cui viviamo, di cui siamo una particella, è la distanza posta dall’amore divino tra Dio e Dio. Noi siamo un punto in questa distanza. Lo spazio, il tempo e il meccanismo che governa la materia sono questa distanza. Tutto ciò a cui diamo il nome di male rientra in questo meccanismo. Dio ha voluto che la sua grazia, allorché penetra nel cuore dell’uomo ed illumina tutto il suo essere, gli permetta, senza violare le leggi di natura, di camminare sulle acque. Ma, nel momento stesso in cui un uomo si allontana da Dio, cade in potere della pesantezza. Egli è convinto di volere e di scegliere, ma in realtà è solo più una cosa, una pietra che cade. Se guardiamo da vicino, con uno sguardo veramente attento, le anime e le società umane, vediamo che dovunque la forza della luce soprannaturale è assente, tutto obbedisce a leggi meccaniche così cieche e così precise quanto quelle della caduta dei corpi. Sapere questo è utile e necessario. Coloro che noi chiamiamo criminali non sono altro che tegole che sono state staccate dal vento e cadono a caso. La loro sola colpa è la scelta iniziale che ha fatto di loro delle tegole. Il meccanismo della necessità si attua a tutti i livelli, restando simile a sé stesso nella materia bruta, nelle piante, negli animali, nei popoli, nelle anime. Visto dal nostro punto di vista, secondo la nostra prospettiva, è completamente cieco. Ma, se trasferiamo il nostro cuore fuori di noi stessi, fuori dell’universo, fuori dello spazio e del tempo, là dove c’è il nostro Padre, e se di là osserviamo questo meccanismo, ci apparirà ben diverso. Ciò che sembrava necessità diventa obbedienza. La materia è completa passività, quindi completa ubbidienza alla volontà di Dio. Essa è per noi un modello perfetto.

Non può esistere altro essere all’infuori di Dio e di ciò che obbedisce a Dio. Per la sua obbedienza perfetta la materia merita di essere amata da coloro che amano il suo Padrone, come un amante guarda con tenerezza la spilla che è stata adoperata dalla donna amata che è morta. Noi avvertiamo questa profonda verità grazie alla bellezza del mondo. Nella bellezza del mondo la necessità bruta diventa oggetto d’amore. Nulla è bello quanto la forza di gravità fra le pieghe fuggitive delle ondulazioni del mare o fra le pieghe quasi eterne dei monti. Il mare non diventa di certo meno bello ai nostri occhi al pensiero che a volte delle navi colano a picco. Anzi, diventa ancora più bello. Se il mare modificasse il movimento delle sue onde per risparmiare una nave, sarebbe una creatura dotata di discernimento e di scelta e non un fluido perfettamente ubbidiente a tutte le pressioni esteriori. È in questa perfetta obbedienza che consiste la sua bellezza. Tutti gli orrori di questo mondo sono simili alle pieghe impresse alle onde del mare dalla forza di gravità. Per questo motivo essi racchiudono in sé una certa bellezza. Talvolta un poema, come l’Iliade, rende questa bellezza sensibile. L’uomo non può svincolarsi dall’obbedienza a Dio. Una creatura non può fare a meno di ubbidire. La sola scelta offerta all’uomo come creatura intelligente e libera è di desiderare o di non desiderare l’obbedienza. Se non la desidera, è costretto ad obbedire egualmente, perpetuamente, in quanto creatura sottomessa alla necessità meccanica. Se la desidera, resta, è vero, sottomesso alla necessità meccanica; ma ad essa si sovrapporrà una nuova necessità; una necessità costituita dalle leggi proprie alle cose soprannaturali. Di conseguenza, certe azioni gli diventeranno impossibili, altre si realizzeranno attraverso di lui e talvolta quasi malgrado lui stesso. Allorché la nostra coscienza ci avverte che in una determinata circostanza abbiamo disobbedito a Dio, vuol

dire semplicemente che per un determinato periodo di tempo abbiamo smesso di desiderare l’obbedienza. Naturalmente le azioni di chi ubbidisce volontariamente a Dio sono diverse da quelle di colui che non desidera obbedire; allo stesso modo una pianta cresce in maniera diversa secondo che si trovi esposta alla luce o nelle tenebre. La pianta non esercita alcun controllo né fa alcuna scelta per quanto riguarda la sua crescita. Noi siamo simili a delle piante che abbiano la sola possibilità di esporsi o di non esporsi alla luce. Cristo ci ha proposto come modello la docilità della materia, consigliando di osservare i gigli dei campi che non lavorano né tessono. Cioè essi non si sono proposti di rivestirsi di questo o di quel colore, non hanno fatto qualcosa per ottenerlo: semplicemente, hanno accolto tutto ciò che la necessità naturale offriva loro. Se ci sembrano infinitamente più belli dei tessuti più ricchi, ciò è dovuto non al fatto che siano più ricchi, ma alla loro docilità. Il tessuto è altrettanto docile, ma docile all’uomo, non a Dio. La materia è bella non quando è docile all’uomo, ma quando lo è a Dio. Se talvolta in un’opera d’arte essa sembra bella quasi quanto lo è nel mare, nelle montagne o nei fiori, lo deve al fatto che la luce di Dio ha colmato l’artista. Per trovare belle le cose costruite da uomini non illuminati da Dio bisogna aver compreso con tutta l’anima che anche quegli uomini sono soltanto materia che obbedisce inconsciamente. Per chi abbia capito questo, allora tutto sulla terra, assolutamente tutto, diventa bello. In tutto ciò che esiste, in tutto ciò che avviene egli scopre il meccanismo della necessità e nella necessità assapora la dolcezza infinita dell’obbedienza. Questa obbedienza delle cose nei confronti di Dio è simboleggiata per noi uomini nella trasparenza di un vetro esposto alla luce. Dal momento in cui sentiamo questa ubbidienza di tutto il nostro essere, vediamo Dio. Quando teniamo un giornale al contrario, vediamo le

strane forme dei caratteri di stampa. Quando lo raddrizziamo, non vediamo più dei caratteri, leggiamo delle parole. Il passeggero di una nave sballottata dalla tempesta, avverte in ogni scossa della nave lo sconvolgimento del suo stomaco. Il capitano vi coglie soltanto la complessa combinazione dell’azione del vento, della corrente, dell’ondata con la posizione della nave, la sua forma, la sua velatura, i suoi strumenti di guida. Come impariamo a leggere o impariamo un mestiere, così possiamo imparare ad avvertire in ogni cosa, prima di tutto e quasi unicamente, l’obbedienza dell’universo a Dio. Si tratta di un vero e proprio apprendistato. Come ogni tirocinio, richiede sforzi e tempo. Chi vi riesce non avverte più alcuna differenza fra le cose e gli avvenimenti, così come colui che sa leggere non la coglie, anche se una stessa frase viene scritta più volte con inchiostri di colore differente, oppure viene stampata in caratteri diversi. Colui che non sa leggere, coglie invece solo delle differenze. Per chi sa leggere tutto ciò è equivalente, perché la frase è la stessa. Per colui che è giunto alla fine del tirocinio, le cose e gli avvenimenti sono dappertutto e sempre le vibrazioni della stessa parola divina infinitamente dolce. Ciò non vuol dire che egli non soffra. Il dolore è ciò che dà un determinato colore agli avvenimenti. Di fronte ad una frase scritta con l’inchiostro rosso, sia colui che sa leggere sia l’analfabeta vedono il rosso, ma la colorazione in rosso non ha la stessa importanza per l’uno e per l’altro. Quando un apprendista si ferisce o si lamenta per la fatica, gli operai, i compaesani, hanno un bellissimo e significativo modo di dire: «È il mestiere che gli entra nel corpo». Ogni volta che noi subiamo un dolore, possiamo dire in verità che è l’universo, l’ordine del mondo, la bellezza del mondo, l’obbedienza della creazione a Dio a entrarci nel corpo. E allora come non benedire con la più tenera riconoscenza l’Amore che ci invia questo dono?

La gioia e il dolore sono doni ugualmente preziosi, che bisogna assaporare interamente, ciascuno nella sua purezza, senza cercare di confonderli. Con la gioia, la bellezza del mondo penetra nella nostra anima; col dolore ci entra in corpo. Con la sola gioia non potremmo mai diventare amici di Dio, così come non si diventa capitani studiando soltanto dei manuali di navigazione. Il corpo deve avere la sua parte in ogni tirocinio. Al livello della sensibilità fisica, solo il dolore ci mette in contatto con la necessità che costituisce l’ordine del mondo, poiché il piacere non riesce a trasmetterci l’impressione della necessità. Solo la parte più elevata della sensibilità umana è in grado di avvertire la necessità nella gioia, grazie unicamente al sentimento del bello. Affinché il nostro essere possa un giorno diventare completamente sensibile a questa obbedienza che è la sostanza stessa della materia, affinché si formi in noi questo senso nuovo che permette di intendere l’universo come vibrazione della parola di Dio, è indispensabile la funzione mediatrice e trasformatrice sia del dolore che della gioia. Bisogna aprire il centro stesso dell’anima sia all’uno che all’altra, allorché si presentano, come si apre la porta ai messaggeri dell’essere amato. Che importa ad un’amante che il messaggero sia educato o brutale, se parta un messaggio? Ma l’infelicità non è il dolore. Essa è ben altro che uno strumento pedagogico di Dio. L’infinità dello spazio e del tempo ci separa da Dio. Come lo potremmo cercare allora? Come potremmo andare a lui? Quand’anche camminassimo lungo tutti i secoli, non faremmo altro che girare intorno alla terra. Anche con un aereo, non potremmo fare diversamente: a noi non è concesso di avanzare in verticale, noi non possiamo fare un solo passo verso il cielo. È Dio che attraversa l’universo e viene fino a noi. Al di sopra dell’infinità dello spazio e del tempo, l’amore infinitamente più infinito di Dio viene ad afferrarci. Viene

alla sua ora. Noi possiamo semplicemente acconsentire ad accoglierlo o rifiutarlo. Se restiamo sordi, egli ritorna continuamente come un mendicante, ma un giorno, proprio come un mendicante, non ritorna più. Se acconsentiamo, Dio getta in noi un piccolo seme e se ne va. Da quel momento Dio non ha più niente da fare e nemmeno noi, se non attendere. Dobbiamo soltanto non pentirci del consenso accordato, del sì nuziale. Ciò non è facile come sembra, poiché la crescita del seme in noi è dolorosa. Inoltre, per il solo fatto che accettiamo questa crescita, non possiamo fare a meno di distruggere ciò che la metterebbe in difficoltà, cioè di strappare le cattive erbe, la gramigna; purtroppo la gramigna fa parte della nostra stessa carne; quindi queste cure da giardiniere sono un’operazione violenta. Tuttavia il seme, nonostante queste cure, cresce da solo. Viene il giorno in cui l’anima appartiene a Dio; quel giorno l’anima non solo acconsente all’amore, ma amerà veramente, effettivamente. Allora lei dovrà a sua volta attraversare l’universo per andare a Dio. L’anima non ama Dio come una creatura, con un amore creato. In lei quest’amore è divino, increato, poiché è l’amore di Dio per Dio che passa attraverso di lei. Dio solo è capace di amare Dio. Noi possiamo solo acconsentire a perdere i nostri sentimenti personali per lasciare nella nostra anima il passaggio libero a questo amore. Questo significa rinnegare noi stessi. Non siamo stati creati che per questo consenso. L’amore divino ha attraversato l’infinità dello spazio e del tempo per andare da Dio a noi. Ma come può rifare il tragitto in senso inverso quando il punto di partenza è dato da una creatura finita? Quando il germe dell’amore divino deposto in noi è ormai cresciuto e diventato albero, come possiamo, noi che lo portiamo, riportarlo alla sua origine, fare in senso inverso il viaggio che Dio ha fatto verso di noi, attraversare la distanza infinita? Sembra impossibile, ma un mezzo c’è e questo mezzo noi lo conosciamo bene. Sappiamo bene a che cosa somiglia

quest’albero che è cresciuto in noi, quest’albero così bello, su cui gli uccelli del cielo si posano. Noi sappiamo qual è l’albero più bello di tutti: «Nessuna foresta ne ha uno così bello». L’albero più bello, addirittura il più sconvolgente di qualsiasi potenza umana, è quell’albero il cui seme è stato posto in noi da Dio, senza che sapessimo neppure quale fosse. Se noi l’avessimo saputo, non avremmo detto di sì al primo momento. È quest’albero che è cresciuto con noi, che non possiamo più sradicare. Solo un tradimento può sradicarlo. Quando si picchia con un martello su un chiodo, il colpo, ricevuto dalla testa del chiodo, viene trasmesso interamente alla punta, senza che nulla vada perduto, benché essa non sia che un punto. Se il martello e la testa del chiodo fossero infinitamente più grandi avverrebbe la stessa cosa: la punta del chiodo trasmetterebbe al punto nel quale essa è applicata questo colpo infinito. L’estrema infelicità, che è insieme dolore fisico, stanchezza dell’anima e degradazione sociale, è questo chiodo. La punta è applicata al centro stesso dell’anima. La testa del chiodo è tutta la necessità sparsa attraverso la totalità dello spazio e del tempo. L’infelicità è una meraviglia della tecnica divina. È un dispositivo semplice e ingegnoso che fa entrare nell’anima di una creatura finita l’immensità della forza cieca, brutale e fredda. La distanza infinita che separa Dio dalla creatura si concentra interamente in un punto per colpire l’anima nel suo centro. L’uomo, al quale succede una cosa del genere, non ha nessuna funzione in questa operazione. Si dibatte come una farfalla che viene infilzata viva con uno spillo su un album. Ma egli può continuare a voler amare anche attraverso l’orrore. Non è impossibile, non ci sono ostacoli e neppure difficoltà perché nemmeno il dolore più grande, quando si trova al di qua del punto di svenimento, può colpire l’anima al punto da impedirle di orientarsi. Ma è necessario sapere che l’amore è un orientamento, non uno

stato d’animo. Se lo ignoriamo, piombiamo nella disperazione non appena ci colpisce l’infelicità. L’uomo, la cui anima rimane orientata verso Dio, mentre è trafitta da un chiodo, si trova inchiodata al centro stesso dell’universo. Esso è il vero centro, che non è nel mezzo, ma fuori dello spazio e del tempo, che è Dio. Secondo una dimensione che non appartiene allo spazio, che non è il tempo, che è una dimensione completamente diversa, quel chiodo ha aperto un passaggio nella creazione, perforando lo spessore dello schermo che separa l’anima da Dio. Grazie a questa dimensione meravigliosa l’anima può, senza abbandonare il luogo e l’istante in cui si trova il corpo a cui essa è legata, attraversare la totalità dello spazio e del tempo e giungere alla presenza stessa di Dio. Essa si trova nel punto di intersezione fra creazione e Creatore: questo punto d’intersezione è il punto d’incrocio dei due bracci della croce. San Paolo pensava forse ad una cosa del genere quando diceva: «State radicati nell’amore, per essere capaci di capire qual è la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere ciò che va oltre ogni conoscenza: l’amore di Cristo»131.

ALCUNE RIFLESSIONI INTORNO ALLA NOZIONE DI VALORE

Concepito come risposta puntuale alle considerazioni che Paul Valéry132 aveva esposto nella lezione inaugurale del corso di poetica al Collège de France,133 questo scritto breve, risalente al 1941, incompleto e di redazione incompiuta è rimasto fino a oggi inedito, probabilmente proprio per queste ragioni. È comunque un testo importante, addirittura un testo chiave, di non facilissima comprensione. Con la perfetta nudità del suo stile, tanto conciso quanto scarno e preciso, Simone Weil espone ciò che le stava particolarmente a cuore: la sua concezione della filosofia, intesa come stile di vita caratterizzato da conversione continua (perché riflessione sulla vita che si alimenta della stessa esperienza di vita) e, secondariamente, della storia della filosofia, intesa come la manifestazione di una tradizione filosofica antica quanto l’umanità, che si ispira a una sorgente comune (lo spirito) e non subisce progresso perché è una ed eterna. In quanto la filosofia non è un mero esercizio di astrattezza intellettuale e neppure un’attività che consiste nel costruire sistemi logici coerenti privi di ogni contraddizione, alla Weil preme sottolinearne l’indiscusso e intrinseco valore, proprio perché essa è specificamente l’unico sapere che si occupa dei valori. A differenza, infatti, del sapere scientifico, che oggi è egemone perché dà all’uomo l’illusione del progresso (gli fa credere cioè di fare «passi avanti»), la filosofia non consiste semplicemente in un’acquisizione di conoscenze, ma «in un mutamento di tutta l’anima», ossia in una continua conversione che è possibile mettere in moto tramite il distacco, il valore più alto, concepito dalla Weil come una sorta di miracolo che risolve il circolo vizioso in cui si dibatte l’esercizio della riflessione quando esso rimane legato alla condizione puramente umana, orizzontale. Il circolo vizioso consiste in questo: lo spirito, che è tensione verso un valore, deve stabilire una gerarchia di ordine tra i valori, dato che avere un criterio dei valori è di massima necessità per ogni uomo. Ma per far questo lo spirito deve, ogni volta che giudica e classifica un valore, distaccarsene, e per potervi riuscire deve considerare lo stesso distacco come il valore supremo. Ora, però, per vedere nel distacco un valore superiore a tutti gli altri, bisogna che lo spirito sia già distaccato da tutti gli altri. Sorge allora la domanda: come si esce da questo circolo vizioso, da questa contraddizione, che costituisce il dramma fondamentale di ogni essere umano? In effetti – dice la Weil, traducendo la questione in termini più «esistenziali» – in ogni istante la nostra vita si orienta verso qualche sistema di valori. Ma se la conoscenza è solo condizionale, allora dobbiamo ammettere che i valori non sono suscettibili di essere conosciuti, perché un valore è qualcosa che si ammette incondizionatamente. Eppure non possiamo rinunciare a conoscerli, perché questo vorrebbe dire rinunciare a credervi, il che è impossibile, dato che la vita non può non essere orientata. Siamo, insomma, di fronte a una contraddizione. Come fare, allora? Cosa dobbiamo concludere? Possiamo solo prendere atto che tutto ciò che si può prendere per fine (ciò a cui attribuiamo valore, appunto) sfugge a ogni definizione. E qui entra in gioco il carattere miracoloso che la parola grazia porta con sé: essa è ciò che ci fa uscire dal circolo vizioso di causa-effetto, o di mezzo-fine, dove l’effetto o il fine diventano a loro volta causa o fine di qualcos’altro, secondo un meccanismo che non porta da nessuna parte, perché rimane prigioniero di sé stesso. La grazia è

appunto il prendere atto che non si può spiegare tutto con questo meccanismo, che il fine ultimo è qualcosa di gratuito che possiamo solo ricevere e non conquistare. Ecco che il distacco si configura perciò come «una rinuncia a tutti i fini possibili, rinuncia che mette un vuoto al posto dell’avvenire (come farebbe l’incombere della morte)». È per questo – scrive la Weil – che da sempre «il distacco è stato paragonato alla morte e l’iniziazione alla sapienza considerata come una specie di passaggio attraverso la morte». Anzi, possiamo addirittura sostenere che «tutta la ricerca della saggezza è orientata verso la morte». Va sottolineato, comunque, che «il distacco di cui parliamo non è privo di oggetto; il pensiero distaccato ha infatti per oggetto – come abbiamo visto – l’istituzione di una gerarchia di valori, ossia ha per oggetto un modo di vivere, una vita migliore, non altrove, ma in questo mondo e subito, giacché i valori messi in ordine sono valori di questo mondo». Come si vede, il discorso legato all’investigazione filosofica risulta perciò non solo di estrema attualità, ma anche dotato di un tale rigore e di una tale certezza, che le scienze non gli si avvicinano neppure da lontano. La filosofia, conclude dunque la Weil, non è una mera raccolta di congetture e astrazioni ma è, anzi, un orientamento verso la vita, un indirizzarsi alla vita attraverso la morte. La vita diventa così il terreno di verifica dei valori che si sono adottati, ovvero il banco di prova dei valori creduti, per così dire, «filosoficamente validi».

La nozione di valore è al centro della filosofia. Ogni riflessione che verta sulla nozione di valore, su una gerarchia di valori, è filosofica; ogni sforzo di pensiero che verta su un oggetto che non sia il valore è, se lo si esamina bene, estraneo alla filosofia. Perciò il valore della filosofia stessa è fuori discussione. Infatti la nozione di valore è sempre presente allo spirito di tutti gli uomini; ogni uomo orienta sempre i suoi pensieri e le sue azioni verso qualche bene, e non può fare altrimenti. D’altra parte il valore è esclusivamente un oggetto di riflessione; non può essere un oggetto di esperienza. In un certo senso la legge della vita umana è: prima filosofare, poi vivere. Infatti la scelta tra la vita e la morte, in una situazione determinata, implica di per sé stessa una comparazione di valori. Quasi mai, è vero, gli uomini indirizzano la loro riflessione sui valori che orientano i loro sforzi; ma il fatto è che credono di avere dei motivi sufficienti per adottarli. Un criterio dei valori è per ogni uomo la massima necessità; ma il fatto è che nessun uomo lo può raggiungere. Infatti tutta la conoscenza umana è ipotetica; le dimostrazioni procedono da teoremi precedentemente dimostrati o da assiomi, i fatti constatati grazie agli organi di senso non sono ammessi come fatti se non in quanto sono legati ad altri fatti; ma il valore non può essere materia di ipotesi. Un valore è qualcosa che si ammette incondizionatamente. Infatti, in ogni istante la nostra vita si orienta secondo qualche sistema di valori; un sistema di valori, nel momento in cui orienta una vita, non è accettato a condizione, ma è puramente e semplicemente accettato. Essendo la conoscenza condizionale, i valori non sono suscettibili di essere conosciuti. Ma non possiamo rinunciare a conoscerli, poiché questo vorrebbe dire rinunciare a credervi, il che è impossibile, dato che la vita umana non può non essere orientata. Così al centro della vita umana c’è una contraddizione. Queste considerazioni sembrano astratte per la difficoltà di

esprimerle attraverso il linguaggio. Tuttavia questa contraddizione costituisce continuamente, sotto diverse forme, il dramma essenziale di ogni essere umano, ed è facile darne tanti esempi concreti quanti se ne vogliono. Così ogni artista sa che non può esserci alcun criterio che permetta di affermare con certezza che un’opera è più bella di un’altra. Tuttavia ogni artista sa che c’è una gerarchia di valori estetici e che vi sono delle cose più belle di altre, o che ci sono cose che sono belle ed altre che non lo sono. Se non lo sapesse non farebbe lo sforzo necessario per realizzare un’opera, non la migliorerebbe, non continuerebbe affatto. Questa condizione dell’artista, costretto a tendere senza posa verso una bellezza che egli ignora, mette una sfumatura d’angoscia in ogni sforzo di creazione artistica. Ogni situazione umana può diventare oggetto di un’analisi analoga. Tutto ciò che si può prendere come fine sfugge così ad ogni definizione. I mezzi come la potenza e il denaro si lasciano facilmente definire e per questo motivo tante persone si orientano esclusivamente verso l’acquisizione dei mezzi. Ma allora cadono in contraddizione, perché c’è contraddizione a prendere come fini dei semplici mezzi. [Qui frammento di manoscritto mancante] Cosa può chiedere di più uno spirito che stabilisce un tale ordine tra i valori? Si deve ancora rispondere alla domanda: è sicuro che qualcosa abbia un valore? Non è che forse tutto sia ugualmente senza valore? Una domanda siffatta è priva di senso, non soltanto per il fatto che non ci può essere alcun metodo per cercarne la risposta, ma per una ragione più profonda. La facoltà di porre una tale domanda si fonda completamente sulla facoltà di mettere insieme delle parole; ma effettivamente lo spirito non può porre questa domanda; esso non può essere davvero incerto se la nozione di valore è o no qualcosa di fittizio. Perché lo spirito è essenzialmente e sempre, qualunque sia la sua disposizione, una tensione verso un valore; non può

considerare come incerta la nozione di valore, senza considerare incerta la sua stessa esistenza, cosa che gli è impossibile. Quanto all’ordine stesso stabilito tra i valori attraverso la riflessione, quale incertezza possiamo sollevare? Il principio stesso di questo ordine impedisce che se ne possa sollevare alcuna. Infatti, dal momento che un ordine mi appare tra i miei pensieri, tale che il valore di un certo giudizio sia una condizione del valore di tutti gli altri, ad eccezione di quelli che lo precedono e che io conosco, cosa chiedere di più? Posso io supporre qualche altra idea, da me ignorata, più vera di quelle che ho messo al primo posto nella graduatoria e che forse le contraddice? Ma un paragone di valore tra due idee implica uno stesso spirito che le pensa tutte e due; l’idea supposta deve dunque essere concepita come se potesse essere pensata da me; ma allora la concepirei come se potesse essere classificata nella gerarchia delle idee, dopo le prime, e non avrebbe più valore di esse. Dato che il valore è una caratteristica del mio pensiero, la gerarchia che percepisco tra i valori è certa; niente di ciò che è esteriore al mio pensiero potrebbe smentirla; niente di ciò che è esteriore al mio pensiero può intervenire nella nozione di valore. E per vedere bene la portata di ciò, bisogna ricordarsi che la verità è un valore del pensiero. La parola verità non può avere altro senso. Così il rigore e la certezza dell’investigazione filosofica sono tanto grandi quanto possono esserlo; le scienze non le si avvicinano neppure da molto lontano. Bisogna concludere che la riflessione filosofica è infallibile? Sì, è infallibile nella misura in cui viene esercitata. Ma la condizione umana rende l’esercizio della riflessione, nel senso rigoroso del termine, quasi impossibile. Perché, dal momento che lo spirito è una tensione verso qualche valore, come farà a distaccarsi dal valore verso cui tende per considerarlo, giudicarlo e classificarlo in rapporto agli altri? Questo distacco esige uno sforzo e ogni sforzo dello spirito è una

tensione verso un valore. Così per operare questo distacco, lo spirito deve considerare lo stesso distacco come il valore supremo. Ma per riuscire a vedere nel distacco un valore superiore a tutti gli altri, bisogna essere già distaccati da tutti gli altri. C’è in questo un circolo vizioso che fa apparire l’esercizio della riflessione come un miracolo; la parola grazia esprime questo carattere miracoloso. L’illusione del distacco è frequente giacché si prende spesso per distacco un semplice cambiamento di valore. Il giocatore nella piena eccitazione del gioco, affannato e angosciato, non si domanda perché desidera vincere, in quale misura ha ragione di desiderare di vincere; non se lo può chiedere. Dopo alcune ore di questa angoscia, tale questione appare forse al suo spirito; questo non significa che egli si sia distaccato, ma che per l’effetto della spossatezza il valore è diventato per lui il riposo e non più la vincita. Il distacco che la riflessione filosofica esige consiste nel distaccarsi non soltanto dai valori adottati un’ora fa, ieri, un anno fa, ma da tutti i valori senza eccezione, ivi compresi quelli verso i quali si tende attualmente. Se un giocatore mettesse, nel momento stesso in cui è affannato nell’attesa della vincita, tale vincita sullo stesso piano del riposo, del piacere di mangiare bene, del lavoro ben fatto, dell’amicizia, o non importa di qual altro oggetto di desiderio possibile, e paragonasse imparzialmente questi diversi oggetti, tale sarebbe l’immagine del distacco. Si tratta davvero di un miracolo. Così si vede chiaramente che la filosofia non consiste in un’acquisizione di conoscenze, come la scienza, ma in un mutamento di tutta l’anima. Il valore è qualcosa che è in rapporto non soltanto con la conoscenza, ma anche con la sensibilità e l’azione; non c’è riflessione filosofica senza una trasformazione essenziale nella sensibilità e nella prassi di vita, trasformazione che ha una egual portata sia nelle circostanze più ordinarie sia nelle più tragiche della vita. Non essendo il valore altro che un

orientamento dell’anima, porre un valore e orientarsi verso di esso non sono che una sola e medesima cosa. Se si pensano due valori insieme, cosa che può produrre una lacerazione, ci si orienta maggiormente verso quello a cui attribuiamo il primo posto. La riflessione suppone una trasformazione nell’orientamento dell’anima che noi chiamiamo distacco; essa ha per oggetto lo stabilire un ordine nella gerarchia dei valori, dunque ancora un nuovo orientamento dell’anima. Il distacco è una rinuncia a tutti i fini possibili senza alcuna eccezione, rinuncia che mette un vuoto al posto dell’avvenire come farebbe l’incombere imminente della morte; è per questo che negli antichi misteri, nella filosofia platonica, nei testi sanscriti, nella religione cristiana e molto probabilmente sempre e dappertutto, il distacco è sempre stato paragonato alla morte e l’iniziazione alla sapienza considerata come una specie di passaggio attraverso la morte. Questa idea si trova nei testi più antichi che possediamo riguardanti il pensiero umano, quelli egiziani, ed è indubbiamente tanto antica quanto l’umanità. Così tutta la ricerca della saggezza è orientata verso la morte. Ma il distacco di cui parliamo non è privo di oggetto; il pensiero distaccato ha per oggetto l’istituzione di una gerarchia di valori, di tutti i valori; esso ha dunque per oggetto un modo di vivere, una vita migliore, non altrove, ma in questo mondo e subito, giacché i valori messi in ordine sono valori di questo mondo. In questo senso la filosofia è orientata verso la vita, si indirizza alla vita attraverso la morte. Ma l’ordine dei valori stabilito attraverso la riflessione non è stabilito una volta per tutte; l’anima non vi si sofferma che nella misura in cui lo pensa e non lo pensa che attraverso uno sforzo di riflessione. Così la saggezza è una pulsazione continua dalla morte verso una vita migliore e da una vita migliore verso la morte; senza questa pulsazione vi sarebbe decadenza. L’affermazione che la riflessione filosofica è infallibile è assolutamente contraria all’opinione comune; in genere non

si vede nella filosofia altro che congetture. Ciò che motiva questa opinione, sono le contraddizioni tra i sistemi e all’interno di ciascun sistema. In genere si crede che ogni filosofo abbia un sistema che contraddice tutti gli altri. Al contrario, esiste una tradizione filosofica verosimilmente antica quanto l’umanità e che, bisogna sperarlo, durerà quanto essa; a questa tradizione, come a una sorgente comune, s’ispirano non tutti, è vero, quelli che si dicono filosofi, ma molti di essi, così che i loro pensieri sono pressappoco equivalenti. Platone è certamente il rappresentante più perfetto di questa tradizione; anche la Bhagavadgiītā vi si ispira e si potrebbero facilmente aggiungere testi egizi e cinesi. In Europa, nell’età moderna, bisogna citare Descartes e Kant; fra i pensatori più recenti, Lagneau e Alain in Francia, Husserl in Germania. Questa tradizione filosofica è ciò che noi chiamiamo qui la filosofia. Non le si possono rimproverare le sue variazioni perché essa è una, eterna e non suscettibile di progresso. L’unico rinnovamento di cui sia capace è quello dell’espressione; il che si verifica quando un uomo la esprime a sé stesso e a quelli che lo circondano in termini che hanno rapporto con le condizioni dell’epoca, della civiltà, dell’ambiente in cui egli vive. È auspicabile che una trasformazione del genere si compia in tutte le epoche, ed è la sola ragione per cui valga la pena di scrivere su un simile argomento dopo che l’ha fatto Platone. L’identità profonda di queste filosofie è nascosta dalle apparenti differenze che dipendono da difficoltà di vocabolario. Il linguaggio non è fatto per esprimere la riflessione filosofica; la riflessione non può utilizzare il linguaggio altro che attraverso un adattamento delle parole che ne trasforma il senso, senza che il loro nuovo significato possa essere esso stesso definito attraverso le parole; tale significato non appare altro che grazie all’insieme di formule con cui l’autore esprime il suo pensiero. Bisogna dunque non soltanto conoscere tutte queste formule, ma percepirle come un insieme e, a questo

scopo, considerarle dallo stesso punto di vista dell’autore, mettersi al centro del pensiero dell’autore. Per un’opera filosofica è come per certi dipinti; essi non sono altro che un ammasso informe di colori fino al momento in cui non ci si collochi in un certo punto dal quale tutto si ordina. Allo stesso modo, paragonare le affermazioni di autori differenti non ha alcun senso; se si vogliono paragonare, occorre mettersi al centro del pensiero di ciascuno e allora ci si renderà conto se le loro opere procedono o no dallo stesso spirito. Ora, questo sforzo un filosofo può certamente non farlo nei confronti dei suoi predecessori e, di conseguenza, ignorare di essere simile a loro. Ma il fatto che l’ignori o lo sappia non importa affatto. È vero che ci sono degli autori che non si ispirano a questa tradizione; ciò non ha nulla di sorprendente, dato che la riflessione filosofica implica il distacco e il distacco è una sorta di miracolo. Molti autori che si credono e si sono creduti filosofi sono incapaci di riflessione, nel senso rigoroso del termine, o non ne sono capaci in modo sufficientemente costante perché la loro opera vi si ispiri; tuttavia alcuni tra questi autori sono quasi di prim’ordine e le loro opere meritano il più grande interesse. D’altronde gli stessi autori che praticano la riflessione non vi si ispirano continuamente e in tutti i punti. Il loro pensiero ha delle debolezze, e tali debolezze causano talvolta le divergenze tra pensatori dello stesso genere. Quanto alle contraddizioni, ogni pensiero filosofico ne contiene; ma ciò non è un’imperfezione del sistema filosofico, ne è anzi una caratteristica essenziale, senza la quale non vi è che una falsa apparenza di filosofia. Poiché la vera filosofia non costruisce niente; il suo oggetto le è già dato e sono i nostri pensieri; essa, come diceva Platone, ne fa soltanto l’inventario; se nel corso dell’inventario trova delle contraddizioni, non dipende da lei sopprimerle, sotto pena di mentire. I filosofi che cercano di costruire dei sistemi per eliminare queste contraddizioni sono quelli che

giustificano in apparenza l’opinione che la filosofia sia qualche cosa di congetturale; perché tali sistemi possono essere variati all’infinito, e non c’è nessuna ragione per preferirne uno piuttosto che un altro. Ma dal punto di vista della conoscenza, questi sistemi sono addirittura al di sotto della congettura, perché le congetture sono pensieri inferiori, e questi sistemi non sono affatto pensieri. Non si possono pensare. Non è possibile perché, se si potessero pensare, sia pure per un istante, si eliminerebbero durante quell’istante le contraddizioni in questione, invece non è possibile eliminarle. Le contraddizioni che la riflessione trova nel pensiero quando ne fa l’inventario sono essenziali al pensiero, anche al pensiero di coloro che fabbricano i sistemi; essi sono consapevoli di tali contraddizioni mentre elaborano o espongono i loro sistemi, ma fanno un uso delle parole che non è conforme al loro pensiero, e ciò per un eccesso di ambizione. Così quelli che negano la realtà del mondo esteriore, nel momento in cui dicono di negarla, hanno della realtà del loro tavolo e della loro seggiola la stessa coscienza di un contadino qualunque; fanno, tra le loro percezioni e i loro sogni, la stessa differenza che fa un contadino qualunque. Per fare un esempio ancora più chiaro; dire che una linea ha una certa lunghezza e nello stesso tempo contiene un numero infinito di punti implica contraddizione; è pensare la stessa cosa come finita e come infinita. Ma i Greci che dicevano che una linea è composta da un numero finito di punti erano spinti soltanto dal desiderio di eliminare questa contraddizione; non pensavano affatto quel che dicevano, non lo si può pensare. Non si può pensare una parte di linea ripetuta nella linea un numero finito di volte altro che come una lunghezza; non si può pensare una lunghezza indivisibile. La contraddizione che si voleva eliminare, ricompariva, e sarebbe stato meglio esporla. Si farebbe un progresso decisivo se ci si decidesse a esporre onestamente le contraddizioni essenziali al pensiero invece di cercare inutilmente di evitarle; in tal modo un gran

numero di formule prive di senso scomparirebbero non soltanto dalla filosofia, ma anche dalle scienze, ivi comprese le più esatte. Quanto ai sistemi completi costruiti con l’intenzione di eliminare tutte le contraddizioni essenziali del pensiero, si comprenderebbe che, se hanno un valore, non può essere altro che poetico; e in questo l’affermazione di Valéry è assolutamente giusta.

PENSIERI ANTOLOGIA DAI «CAHIERS»

I 17 quaderni, tutti uguali, di circa 100-150 pagine ciascuno, che Simone Weil riempì in maniera quasi febbrile nel periodo forse più delicato e difficile della sua vita (l’arco di tempo di circa un anno e mezzo – dai primi mesi del ’41 all’ottobre ’42 – che comprende il periodo di Marsiglia e quello americano) sono forse il suo capolavoro e anche uno dei capolavori della filosofia del ’900. Non sappiamo se, scrivendoli, lo scopo della Weil fosse quello di raccogliere spunti e temi da utilizzare poi, eventualmente, per la redazione di saggi, oppure, semplicemente, quello di annotare pensieri e riflessioni in questa sorta di diario del pensiero. Quel che è certo è che questa sterminata raccolta di appunti costituisce per noi una preziosa eredità. Leggerli è un po’ come addentrarsi nel suo mondo interiore, come fare un viaggio nella sua interiorità. Scritti in forma aforismatica – forse la forma letteraria più congeniale alla Weil – essi si presentano al lettore come una «massa non ordinata di frammenti» (l’espressione è della stessa Weil) riguardanti i più svariati argomenti, che testimoniano la straordinaria varietà dei suoi interessi e il tentativo di interpretare la realtà utilizzando chiavi di lettura differenti (scientifica, spirituale, filosofica, poetico-letteraria, psicologica, matematica, sociologica...) che lascino emergere tutta la complessità e anche la contraddittorietà di cui è intessuto il reale. I Cahiers offrono un materiale talmente vasto, profondo e, in un certo senso, caotico, da richiedere implicitamente una «luce» per essere compresi, luce che può comparire solo quando si è abbandonata la presunzione di chiarire logicamente tutto ciò che pare assurdo o scollegato. Sono – potremmo dire – una sorta di «preghiera del pensiero» che mostra, più che dimostrare, come gli infiniti aspetti del mondo, della vita, della storia, non abbiano nessun senso e non portino a nessuna vera conoscenza se non sono accompagnati dall’apertura al trascendente, ovvero da quell’illuminazione che rende visibile e chiaro ciò che prima non lo era. Interessante anche la complessa vicenda editoriale dei Cahiers, che riassumiamo brevemente. Nel 1947 è Gustave Thibon a pubblicare sotto il titolo La pesanteur et la grâce i primi testi tratti dai Cahiers, da lui scelti e riuniti tematicamente in forma antologica. Successivamente, nel 1950, Albert Camus (che l’anno precedente aveva pubblicato per Gallimard, nella collana «Espoir» da lui diretta, l’Enracinement ) pubblicò invece i soli Quaderni d’America e il Taccuino di Londra, con il titolo La connaissance surnaturelle. La scelta di pubblicare solo parzialmente i quaderni weiliani fu dovuta all’impossibilità di recuperare in quel momento i restanti quaderni, quelli scritti a Marsiglia e affidati a Thibon, che poi apparvero in tre volumi con il titolo Cahiers tra il ’51 e il ’56, presso l’editore Plon. In seguito, poiché entrambe queste edizioni erano prive di apparato critico e assai lacunose, negli anni 1970-74 si cercò di rimediare a queste carenze con una seconda edizione dei Cahiers, curata questa volta dall’amica e biografa Simone Pétrement e da André – il grande matematico, fratello di Simone – che, oltre alla correzione degli errori e al completamento delle lacune, ebbe il merito di restituire finalmente l’organizzazione generale dell’opera così come l’aveva pensata l’autrice. Va detto, a questo proposito, che Simone aveva avuto la premura di numerare e, in gran parte, datare i suoi quaderni. Ebbe però qualche ripensamento, cosicché tornò due volte sulla numerazione escludendo infine il primo quaderno, perché composto in un

periodo precedente rispetto agli altri. Rimaneva, comunque, ancora in sospeso la riunificazione delle due parti dell’opera e la revisione de La connaissance surnaturelle. L’edizione italiana di Adelphi, curata da Giancarlo Gaeta, è stata la prima al mondo a proporre una lettura integrale e unitaria dell’opera, sulla base di un testo criticamente stabilito, direttamente controllato sui manoscritti. In particolare, i primi tre volumi (Milano 1982; 1985; 1988) corrispondono ai Quaderni di Marsiglia, mentre il quarto volume (Milano 1993) ai Quaderni d’America e al Taccuino di Londra. In Francia, è in corso la pubblicazione delle opere complete (Œuvres complètes) della Weil, diretta prima da A.A Devaux e Florence de Lussy e, dal 2012, da Robert Chenavier, che comprende, ovviamente, anche i Cahiers. La scelta fatta in questa antologia di raccogliere tematicamente, attraverso 22 voci, alcuni dei pensieri sparsi nei Cahiers deriva dalla volontà di delineare un percorso filosofico-spirituale, sostanzialmente corrispondente a quello presentato nell’Introduzione generale (par. 3.2). Questo al fine di fornire al lettore, che per la prima volta si accosta alla lettura dei Cahiers una guida per orientarsi nel mare magnum delle ricerche e delle riflessioni weiliane in ogni ambito del sapere.

AMOR FATI

Amor fati. Estenderlo ai propri atti passati e a venire. Non ho mai sovvertito l’ordine del mondo, né mai lo farò. Che importanza ha dunque il mio destino? Ma lo sovverto adesso in me stessa non amandolo completamente. Ordine del mondo. Macrocosmo e microcosmo (amor fati, ponte tra i due). Un universo ordinato è una condizione di esistenza per un corpo ordinato, e un corpo ordinato lo è per uno spirito unito alla carne. Non soltanto penso l’universo che mi annienta: lo amo. Amare l’imparzialità di Dio (la bilancia d’oro) significa privarsi di una complicità con il destino, limitarsi a ciò che si è nello spazio e nel tempo. E in questa limitazione si trova l’Ātman. Piano divino, disegno divino, che cosa vorrà mai dire? Un piano è la subordinazione di tal cosa (in quanto mezzo) a tal’altra (in quanto fine), di determinate cose come parti ad altre come insieme. E tutto è uguale per Dio. Il mondo è bello solo per chi prova l’amor fati e, di conseguenza, l’amor fati è per chi lo prova una dimostrazione sperimentale della realtà di Dio. Avere l’anima vulnerabile alle ferite di ogni carne, senza eccezione, come a quelle della propria, né più né meno. A ogni morte come alla propria. Significa trasformare ogni dolore, ogni sventura subita (e che si vede subire – e che s’infligge) in sentimento della miseria umana. Per un singolare mistero, questo sentimento è prossimo a quello del bello e implica l’amor fati.

C’è identità tra: Dio vuole questo, e: questo è. A essa corrisponde in noi l’identità tra l’amore soprannaturale e la credenza. L’amore soprannaturale, che è obbedienza, è ciò che corrisponde in noi alla volontà in Dio. Dobbiamo essere indifferenti al bene e al male ma, essendo indifferenti, proiettando cioè su entrambi la luce dell’attenzione in egual misura, il bene prevale per un fenomeno automatico. È questa la grazia essenziale. Ma è anche la definizione, il criterio del bene. Un’ispirazione divina opera infallibilmente, irresistibilmente, se non le si nega l’attenzione, se non la si rifiuta. Non è questione di compiere una scelta in suo favore: è sufficiente non rifiutare di riconoscere che essa è. L’«estinzione del desiderio» (buddhismo) – o il distacco – o l’amor fati – o il desiderio del bene assoluto – è sempre la stessa cosa: svuotare il desiderio di qualsiasi contenuto, la finalità di qualsiasi contenuto. L’accettazione del tempo e di tutto ciò che può portare, senza eccezione alcuna (amor fati), è l’unica disposizione dell’anima condizionata dal tempo. Racchiude l’infinito. Qualsiasi cosa accada… Dio ha dato alle sue creature finite il potere di proiettarsi nell’infinito. La matematica ne è l’immagine. Se si desidera una cosa, ci si sottomette alla schiavitù della concatenazione delle condizioni. Se si desidera la concatenazione stessa delle condizioni, invece, la soddisfazione di quel desiderio è incondizionata. Per questo l’unica liberazione è amare l’ordine del mondo. Fiaba albanese della principessa andata in moglie a un serpente. Variante di Psiche. Le fiabe del genere vanno divise in due tipi. Nel primo, la principessa è Dio, l’uomoanimale l’anima; nel secondo, il contrario. Li ritroviamo perlopiù fusi in una stessa fiaba. La fiaba in questione è del secondo tipo. Il serpente è figlio di un re degli inferi e,

venuto sulla terra, ha assunto la forma di un principe straordinariamente bello. Ma può assumere questa forma solamente di notte. Le cognate bruciano la sua pelle di serpente; egli deve sparire. Per ritrovarlo, la principessa discende agli inferi e ottiene il permesso di ricondurlo sulla terra. Dovrà però passare davanti a una strega, chiedere dell’acqua e bere qualsiasi liquido rivoltante le venga offerto dicendo che è squisito. È l’amor fati.

ATTENZIONE

Il corpo si addestra mediante il dolore. Tutte le volte in cui si sorprende una delle proprie miserie (nel primo senso), soffrendone il corpo apprende qualcosa. Ma bisogna soltanto fissarvi la propria attenzione e soffrirne, senza irrigidirsi e prendere decisioni, alibi che diminuisce il dolore e, di conseguenza, l’effetto dell’addestramento. L’attenzione dev’essere sempre diretta verso l’oggetto (la colpa, in questo caso), mai verso sé stessi (arciere dei taoisti); essa viene da sé. La sola cosa reale che si possa fare dopo una colpa è contemplarla; l’irrigidimento è immaginario. Se ci si punisce, lo si faccia solo per contemplarla con più completa attenzione. Se io sentissi più intensamente che ciascuna delle mie piccole colpe un giorno verrà punita, in circostanze decisive, con una grande colpa analoga, non ne commetterei mai. Letture. La lettura – senza una certa qualità di attenzione – obbedisce alla pesantezza. Si leggono le opinioni suggerite dalla pesantezza. Con una maggiore qualità di attenzione, si legge la pesantezza stessa, e diversi sistemi possibili di equilibrio. Brutto modo di cercare. Attenzione fissa su un problema. Ancora un fenomeno di orrore del vuoto. Non si vuole che i propri sforzi vadano perduti. Accanimento nella caccia. Non è indispensabile voler trovare. Come nel caso di un’eccessiva abnegazione, si diventa dipendenti dall’oggetto dello sforzo. Si ha bisogno di una ricompensa esteriore, che a volte il caso procura e che si è pronti a ricevere al prezzo di una deformazione della verità. «Se il chicco di grano non muore…». Deve morire per

liberare la materia vivente e l’energia che reca in sé, così da poter prendere forma in altre combinazioni. Anche noi dobbiamo morire per liberare l’energia che si radica in noi. […] Che l’energia sia ripartita in conformità a ciò che consiglia la vera intelligenza. Quanto ne sono lontana! Si libera in sé dell’energia – poi un po’ di più – poi un po’ di più. Ma essa torna a radicarsi senza posa. Come liberarla tutta? Bisogna desiderare che ciò avvenga in noi. Desiderarlo davvero. Desiderarlo e basta, senza tentare di realizzarlo. Pensarci solamente. Perché ogni tentativo in questo senso è vano e costa caro. In questo processo, tutto ciò che chiamo «io» dev’essere passivo. Mi si richiede solo l’attenzione, quell’attenzione tale da far sparire l’«io». Privare tutto ciò che chiamo «io» della luce dell’attenzione e trasferirla sull’inconcepibile. L’attenzione, nel suo grado più elevato, è preghiera. Presuppone fede e amore. Vi è legata una libertà diversa da quella di scelta, che agisce a livello della volontà. Vale a dire, la grazia. Prestare attenzione a un punto tale da non avere più scelta. Allora si conosce il proprio dharma. πίστιϛ. Discernimento del divino in noi (ispirazioni divine) e intorno a noi. Per un tale discernimento occorre un cuore puro. E scartare, in primo luogo, tutto ciò che è manifestato (san Giovanni della Croce). Inoltre, πίστιϛ è una virtù, un potere (spostare le montagne). Regime dell’attenzione? L’amore di Dio è puro quando gioia e sofferenza ispirano gratitudine in egual misura. Stretta di mano di un amico rivisto dopo lunga assenza. Nemmeno considero se per il tatto sia un piacere o un dolore; come il cieco sente gli oggetti direttamente sulla punta del suo bastone, così io sento direttamente la presenza dell’amico. Lo stesso con le circostanze della vita, quali che siano, e con Dio. Ciò implica che non bisogna mai cercare una consolazione

al dolore. Perché la felicità è al di là del dominio del dolore e della consolazione: ne è al di fuori. È percepita con un altro senso, così come la percezione degli oggetti sulla punta di un bastone o di uno strumento differisce dal tatto vero e proprio. Quest’altro senso si forma per uno spostamento dell’attenzione tramite un apprendistato a cui partecipano l’anima intera e il corpo. Nel dominio dell’intelligenza, la virtù d’umiltà non è altro che attenzione. Essere costretti a fare la volontà di Dio è il premio per chi pensa a lui con attenzione e amore sufficienti. Per converso, la volontà di Dio è ciò che non si può non fare quando si è pensato a lui con attenzione e amore sufficienti. Stoici: il bene è ciò che fa il saggio. Attenzione: azione non agente della parte divina dell’anima sull’altra. Verità profonda nella confessione cattolica: a cancellare il peccato non è la risolutezza accompagnata da irrigidimento interiore, il dispendio di energia, ma il pentimento, ossia la luce dell’attenzione, e questo con la ripetizione e la durata. Ogni momento di luce ne estingue un po’, finché esso non è del tutto esaurito – a patto che non ci si getti mai volontariamente. L’accettazione non è altro che una qualità dell’attenzione. Quando si soffre nella propria carne non si può distogliere il pensiero da questa sofferenza; se si aspira a farlo, si tende la catena. Giobbe: «Dio, cessa solo per un istante di occuparti di me!».134 Chi accetta di soffrire punta la luce dell’attenzione sulla sofferenza. Per le sofferenze altrui, si può scegliere. Gli amici di Giobbe lasciavano agire dentro di loro l’immaginazione compensatrice; crimine. È una maniera di distogliere lo sguardo. Anche Ivan Karamazov lo fa; distrazione. (Se in conclusione dicesse: «Non accetto – e non scorrerà una sola lacrima in più di quelle che mi sarà assolutamente impossibile impedire», avrebbe allora l’amore implicito di Dio – ma per quale meccanismo?).

La contemplazione attenta della miseria, senza compensazione né consolazione, spinge fino al soprannaturale, e allora diventa impossibile non amarne la fonte. L’unico rapporto di Dio con il mondo consiste nella possibilità che il soprannaturale esista nel mondo, in un’anima umana. Un problema di geometria o di aritmetica va risolto; è sufficiente considerarlo. Un testo latino, greco o sanscrito va tradotto; è sufficiente considerarlo. Allo stesso modo, una miseria va trasfigurata se la si considera attraverso il soccorso della grazia con l’attenzione che accompagna l’amore soprannaturale. Come ogni minuto di attenzione anche imperfetta verso l’alto comporta una piccola ascesa, così fa ogni atto compiuto con la stessa attenzione. Nessun bene va mai perduto. Si ricade soltanto nella misura in cui si è convinti di essersi elevati più di quanto non lo si sia fatto realmente. Se compiuto con un’attenzione ben diretta, ogni atto obbligatorio cui la natura oppone un ostacolo erode parte dell’ostacolo stesso. Un numero sufficiente di atti del genere lo rimuove, lo fa sparire. Se prima di aver accumulato questo numero si crede, solo per essere riusciti a compiere l’atto, che l’ostacolo sia scomparso, si resta molto sorpresi nel «ricadere», tanto da credere di non avanzare; il che, a causa della perversità legata alla mancanza di speranza, basta a far retrocedere. Per non smarrirsi d’animo, è sufficiente sapere che l’ostacolo è finito e che può essere rimosso rosicchiandolo. Chi non lo sa è condannato al supplizio delle Danaidi. L’amore soprannaturale e la preghiera altro non sono che la forma più alta d’attenzione. Metodo per comprendere le immagini, i simboli ecc. Non cercare d’interpretarli, ma fissarli fino a far scaturire la luce. […] In generale: metodo per esercitare l’intelligenza consistente nel fissare. […]

Applicazione di questo metodo per distinguere il reale dall’illusorio. Nella percezione sensibile, se non si è sicuri di ciò che si vede ci si sposta (si gira intorno, per esempio) tenendo lo sguardo fisso fino a che non si manifesta il reale. Nella vita interiore, il tempo sostituisce lo spazio. Con il tempo si viene modificati e, se attraverso le modificazioni si mantiene lo sguardo orientato su una determinata cosa, alla fine l’illusione si dissipa e il reale si manifesta. La condizione è che l’attenzione sia uno sguardo e non un attaccamento. L’attaccamento fabbrica illusioni, e chiunque voglia il reale dev’essere distaccato. Il vuoto che si afferra con le pinze della contraddizione è incontestabilmente quello verso l’alto, poiché lo si afferra tanto meglio quanto più si acuiscono le facoltà naturali d’intelligenza, volontà e amore. Il vuoto rivolto in basso è quello in cui si cade lasciando atrofizzare le volontà naturali. Noi siamo esseri conoscenti, volenti e amanti, e, nel momento in cui portiamo l’attenzione sugli oggetti della conoscenza, della volontà e dell’amore, riconosciamo in modo evidente che non ce ne sono di impossibili. Solo la menzogna può velare quest’evidenza. La coscienza di questa impossibilità ci forza a desiderare continuamente di afferrare l’inafferrabile attraverso tutto ciò che desideriamo, conosciamo e vogliamo. L’impossibilità – l’impossibilità radicale, chiaramente percepita, l’assurdità – è la porta verso il soprannaturale. Non si può fare altro che bussare. È qualcun altro ad aprire. È buona l’azione che si può compiere mantenendo l’attenzione e l’intenzione totalmente orientate verso il bene puro e impossibile, senza velare con menzogna alcuna né la desiderabilità né l’impossibilità del bene puro. Si può pensare che è perché scorgevano nella geometria l’immagine dell’Incarnazione (immagini divine, riflessi della realtà), che i greci vi hanno introdotto la quantità, l’intensità di attenzione, l’attenzione religiosa che ha loro permesso

d’inventare la DIMOSTRAZIONE (λόγοϛ). Che pensiero frastornante… [L’attenzione estrema è quella che costituisce nell’uomo la facoltà creatrice, e non esiste attenzione estrema se non religiosa. La quantità di genio creatore in una data epoca è rigorosamente proporzionale alla quantità di attenzione estrema, dunque di religione autentica, in quell’epoca. (? E il XVIII secolo?)] Il poeta produce il bello fissando l’attenzione sul reale. Così l’atto d’amore. Sapere che quell’uomo, che ha fame e freddo, esiste veramente quanto me, e ha veramente fame e freddo: tanto basta, il resto viene da sé. I valori autentici e puri del vero, del bello, del bene nell’attività di un essere umano si producono tramite un solo e medesimo atto, una certa applicazione all’oggetto nella pienezza dell’attenzione. L’insegnamento non dovrebbe avere per unico fine che quello di preparare la possibilità di un simile atto attraverso l’esercizio dell’attenzione. Tutti gli altri vantaggi dell’istruzione sono senza interesse. L’attenzione rivolta con amore verso Dio (o, a un livello inferiore, verso tutte le cose autenticamente belle) rende certe cose impossibili. Tale è l’azione non agente della preghiera nell’anima. Ci sono comportamenti che velerebbero quest’attenzione, qualora si producessero, e che viceversa quest’attenzione rende impossibili. Se i preti mostrassero ai giovani meccanici immagini delle più alte verità religiose nel loro mestiere? Solo questa concezione mistica della matematica ha potuto fornire il grado di attenzione necessario agli esordi della geometria. (Non si riconosce d’altronde che l’astronomia nasce dall’astrologia, la chimica dall’alchimia? Tuttavia, s’interpreta questa filiazione come un progresso, mentre c’è degradazione dell’attenzione. L’astrologia e

l’alchimia trascendenti sono la contemplazione di verità trascendenti in simboli forniti dagli astri e dalle combinazioni delle sostanze. L’astronomia e la chimica ne costituiscono delle degradazioni. L’astrologia e l’alchimia in quanto magie ne rappresentano degradazioni ulteriori. Non vi è pienezza di attenzione che nell’attenzione religiosa.) Non solo questo mondo visibile è irrecusabilmente bello, ma, via via che lo si studia attraverso la scienza, si rivela come una fonte inesauribile di bellezza. Dio è la fonte della luce; questo vuol dire che tutte le specie di attenzione sono soltanto forme degradate dell’attenzione religiosa. È solamente a Dio che si può pensare con pienezza di attenzione. Viceversa, è solamente con pienezza di attenzione che si può pensare a Dio. Quanti sono incapaci di una simile attenzione non pensano a Dio, anche se chiamano Dio ciò a cui pensano. Se si rendono conto che non pensano a Dio e desiderano farlo veramente, però, la grazia li aiuta a prestare sempre più attenzione, e ciò a cui pensano si fa sempre più prossimo a Dio. L’estasi più alta è la pienezza dell’attenzione. È desiderando Dio che si diventa capaci di attenzione. Dio è la fonte della realtà; questo vuol dire che l’essenza della realtà è bellezza o conformità trascendente. La via ascendente della REPUBBLICA è quella dei gradi di attenzione. L’occhio dell’anima è l’attenzione. L’attenzione rivolta verso ciò che può essere presente senza attenzione è confusa; vi è mescolanza di attenzione e impressione. L’attenzione assolutamente pura, l’attenzione che altro non è che attenzione, è l’attenzione rivolta verso Dio, perché egli non è presente che nella misura in cui vi è attenzione. Come il bene che altro non è che bene, che altro essere non ha che l’essere bene, è Dio, così l’attenzione che altro non è che attenzione è preghiera. Ciò che coglie la realtà è l’attenzione: più il pensiero è attento, più l’oggetto si colma d’essere.

I rapporti matematici non sono gran cosa senza attenzione (ma sono pur sempre qualcosa; solo Dio è niente senza attenzione). Ancor più i rapporti tra questi rapporti (pensare alla coincidenza tra due proprietà del cerchio avendo in mente la loro dimostrazione). E così di seguito secondo un’architettura fatta di disegni sovrapposti verticalmente. Quando si è così raggiunto il limite dell’attenzione, fissare lo sguardo dell’anima su questo limite desiderando ciò che è al di là. (Non è questa la soglia della caverna?) La grazia farà il resto. Farà salire e uscire. L’attenzione è legata al desiderio. Non alla volontà, ma al desiderio. (Più precisamente al consenso. Essa è consenso: ecco perché è legata al bene). L’Amore istruisce dei e uomini, perché nessuno apprende se non desidera farlo. La verità è cercata non in quanto verità ma in quanto bene. Ogni cosa è cercata non in sé stessa, ma in quanto bene. Solo il bene è cercato in sé stesso. Solo il bene è dunque assoluto. L’attenzione esige una durata; ecco perché non si può prestare attenzione a ciò che cambia. Studi e fede. Dal momento che la preghiera non è altro che attenzione nella sua forma pura, e che gli studi costituiscono una ginnastica dell’attenzione, ogni esercizio scolastico dev’essere una rifrazione di vita spirituale. A condizione, però, che vi sia un metodo. Una certa maniera di svolgere una versione latina, una certa maniera di risolvere un problema di geometria, e non una maniera qualsiasi, costituiscono una ginnastica dell’attenzione in grado di renderla più adatta alla preghiera. Spiegare agli studenti veramente cristiani come iniziare a preparare in sé, tramite l’esercizio scolastico dell’attenzione, lo sviluppo della facoltà di contemplazione. Lo Spirito è attenzione. Per effetto del medesimo istinto di conservazione,

l’attenzione rifugge la sventura come rifugge il vero Dio; entrambi gli oggetti costringono l’anima a percepire il proprio nulla e a morire mentre il corpo è ancora in vita. Solo un’anima già annientata da un vero contatto con il vero Dio (anche qualora, per via di un uso errato del linguaggio, si ritenesse atea) può fissare la sua attenzione sulla sventura. Nemmeno uno sventurato presta attenzione alla sventura; se il suo stato gli impedisce di prestare attenzione ad altro, egli non presterà attenzione affatto. La totale incapacità di concentrazione e di continuità è una caratteristica degli stati di estremo decadimento sociale (prostitute, pregiudicati). Quest’incapacità è al tempo stesso causa ed effetto del decadimento. La stessa incapacità di prestare attenzione alla sventura che impedisce la compassione nel vedere uno sventurato impedisce la gratitudine nello sventurato soccorso. La gratitudine presuppone la capacità di uscire da sé e contemplare da fuori la propria sventura in tutta la sua bruttura. È una cosa troppo spaventosa. Solamente l’amore incondizionato può costringere l’anima a esporsi alla morte morale, e l’amore incondizionato non ha altro oggetto che il bene incondizionato, che è Dio. Ecco perché è assolutamente certo che solo un’anima annientata, coscientemente o no, dall’amore di Dio, può prestare veramente attenzione alla sofferenza degli sventurati. Solo l’universale è vero, ma l’uomo non può rivolgere la sua attenzione che al particolare: difficoltà all’origine dell’idolatria. Nella rappresentazione autentica della sventura, ciò che ispira bellezza è la luce della giustizia nell’attenzione di chi ha tracciato il disegno, attenzione che la bellezza rende contagiosa… Società in cui i due poli siano l’obbedienza e l’attenzione – il lavoro e lo studio. Prima metà del Pater.

«Sia santificato il tuo nome.» Tramite il nome di Dio possiamo orientare la nostra attenzione verso il vero Dio, posto al di fuori della nostra portata, non concepito. Senza questo dono avremmo soltanto un falso Dio terreno, da noi concepibile. Solo questo nome permette che nei Cieli, di cui nulla sappiamo, si abbia un Padre. Un vero pittore è, a forza di attenzione, ciò che guarda. Intanto la sua mano, che termina in un pennello, si muove.

ATTESA

Se ciò che si attende finisce per arrivare, talvolta si viene colmati. Come se si ricevesse dall’esterno l’energia concentrata durante l’attesa. Non spetta all’uomo di dover andare verso Dio, ma a Dio di andare verso l’uomo. Questi deve solo fissare lo sguardo e attendere. Il carattere irriducibile della sofferenza, che fa sì che non si possa provare orrore nel momento in cui la si subisce, ha per esito quello d’arrestare la volontà, come l’assurdità arresta l’intelligenza, come l’assenza, la non esistenza arresta l’amore. Perché, giunto al limite delle proprie facoltà, l’uomo tenda le braccia, s’arresti, fissi lo sguardo e rimanga in attesa. Lo sguardo e l’attesa: ecco l’atteggiamento che corrisponde al bello. Finché è possibile concepire, volere, desiderare, il bello non si manifesta. La correlazione rappresentabile dei contrari è un’immagine della correlazione trascendente dei contraddittori. Le correlazioni di contrari sono come una scala. Ciascuna di esse ci eleva a un piano superiore in cui abita il rapporto che unisce i contrari. Finché giungiamo in un luogo nel quale dobbiamo pensare insieme i contrari, senza poter accedere al piano in cui sono legati. Quello è l’ultimo gradino della scala. Oltre non possiamo più salire, dobbiamo fissare lo sguardo, disporci all’attesa e amare. E Dio discende. Così è per il pensiero e per l’azione, per il vero e per il bene. I solidi simmetrici e la quarta dimensione ne sono

un’immagine. Lo schiavo attenda il padrone fino alla resa completa del corpo. Quest’attesa può avere la forma di un’azione estenuante. L’immobilità in questione è quella dell’anima, che può aver luogo nella più grande agitazione. Pescare tutta la notte senza prendere niente. La pazienza dei pescatori è una forma, una bella immagine di pazienza… Implorare è attendere da fuori la vita o la morte. In ginocchio, a capo chino, nella posizione che meglio consente al vincitore di recidere il collo con un fendente di spada; la mano che tocca le ginocchia (ma è probabile che in origine fosse levata più in alto) per ricevere dalla sua compassione, come dal seme di un padre, il dono della vita. Trascorre così nel silenzio qualche istante d’attesa. Il cuore si svuota di tutti i suoi legami, raggelato dal contatto imminente della morte. Si riceve una vita nuova, fatta di pura misericordia. Così andrebbe pregato Dio. L’attesa è il fondamento della vita spirituale. Attendere è passività estrema. Vuol dire obbedire al tempo. La sottomissione totale al tempo costringe Dio a inviare l’eternità. Attendere e obbedire. L’attesa implica tutta la tensione del desiderio senza però quest’ultimo: una tensione accolta in eterno. Dio attende con pazienza che io acconsenta infine ad amarlo. Attende in piedi, come fosse un mendicante immobile e silente davanti a qualcuno che forse gli darà un tozzo di pane. Il tempo è questa attesa. Il tempo è l’attesa di Dio che mendica il nostro amore. Gli astri, le montagne, il mare, tutto ciò che ci parla del tempo testimonia la supplica di Dio. L’umiltà nell’attesa ci rende simili a Dio. Dio e l’umanità sono come due amanti che si sono fraintesi circa il luogo dell’appuntamento. Sono entrambi in

anticipo, ma in due posti diversi, e attendono, attendono, attendono. Il primo è in piedi, inchiodato immobile per l’eternità dei tempi. L’altra è svagata e impaziente. Sventurata se, avutone abbastanza, se ne va! Perché, nella quarta dimensione, i due posti in cui si trovano sono il medesimo… La crocifissione del Cristo è l’immagine di questa fissità di Dio. Dio è attenzione senza distrazione. Bisogna imitare l’attesa e l’umiltà di Dio. Fiaccare la pazienza di Dio a furia di pazientare. A chi rimane immobile, attendendo con pari docilità il bene, il male o la loro assenza, Dio non può riservare che bene. Per le giovani, la parabola delle vergini sagge.135 Ogni giovane donna vive nell’incertezza, nell’attesa, pronta per il momento in cui lascerà la casa paterna e comincerà una vita nuova e sconosciuta. Lo stesso avviene per ogni anima umana. L’arrivo dell’amato è la grazia o la morte. È piuttosto la grazia. Il metodo proprio della filosofia consiste nel concepire chiaramente i problemi insolubili nella loro insolubilità e nel limitarsi dunque a contemplarli in modo fisso, instancabile, per anni, senza nessuna speranza, nell’attesa.

AZIONE NON AGENTE

Scrivere – come tradurre – negativo: scartare le parole che velano il modello, la cosa muta che dev’essere espressa. Lo stesso per l’agire. Agire non già per qualcosa, ma perché non si può fare altrimenti. Bilancia giusta; è il corpo stesso la bilancia, perché a ogni istante non può compiere che un’azione. Ed è una bilancia giusta quando l’attenzione è costante. Chuang tzu: «Non facendo nulla, non c’è nulla che Egli non faccia». Senza stimoli, il lavoro è come una morte. Agire rinunciando ai frutti dell’azione. La rinuncia al frutto degli atti prevale su tutto. Fare solamente ciò che non si può non fare. Azione non agente. Anche la non resistenza va accostata al non agire. Meccanica umana; equilibrio di forze. È pericoloso dare a un essere, a una causa ecc. più di quanto non si sia in grado di dare con naturalezza e senza sforzo. Se si oltrepassa questo limite, si rischia di prenderli in odio. E di diventarne dipendenti, dal momento che ci si attende un equivalente di ciò che si è dato in eccesso, equivalente che può venire solo dalla fonte a cui si è dato. (Così l’ingratitudine fa davvero male al benefattore). La fonte può allora diventare tiranna, perché si dà sempre di più nella speranza di essere a propria volta ripagati, cosa che non avviene mai. Si ha sempre bisogno di ricevere in cambio di ciò che si dà. Non bisogna mai oltrepassare questo limite.

In che modo? Legge del lavoro indiretto su sé stessi. Code per gli alimenti. La stessa azione è più semplice se il movente è basso che non se è elevato. I moventi bassi racchiudono più energia di quelli elevati. Problema: come trasferire ai moventi elevati l’energia di quelli bassi? Motore immobile, azione non agente. L’esistenza, a una certa altezza (in particolare sociale), di un essere che non agisce. Distacco dai frutti dell’azione. Sottrarsi a questa fatalità. In che modo? Agire non per un oggetto ma per una necessità. Non posso fare diversamente. Non è azione, ma una sorta di passività. Azione non agente. Lo schiavo è in un certo senso un modello. (Il più basso… Il più alto…; sempre la stessa legge.) La materia è in un certo senso un modello. Acqua dei taoisti. È ciò che i santi intendono per obbedienza. Ciò che il male viola non è il bene, perché questo è inviolabile; si viola solo un bene degradato. Ma non è questa la vera ragione. Il bene è essenzialmente altro dal male. Il male è molteplice e frammentario, il bene è uno; il male è appariscente, il bene misterioso; il male consiste in azioni, il bene in non azione o in azione non agente ecc. Gītā. Rinunciare all’azione non produce un vuoto. Rinunciare non già all’azione quanto al suo frutto; lì c’è il vuoto. Solo lo sforzo senza desiderio (non ancorato a un oggetto) racchiude infallibilmente una ricompensa. ὁ πατὴρ ἐν τῷ κρυφαίῳ.136 Gli unici sforzi puri sono quelli senza scopo, ma sono umanamente impossibili. Come conoscere la volontà di Dio? Se si fa silenzio dentro

di sé, se vengono messi a tacere tutti i desideri, tutte le opinioni, e si pensa con amore, con tutta l’anima e senza parole «γενηθήτω τὸ θέλημά σου»,137 ciò che in seguito si sente di dover fare senza incertezze (anche se per certi aspetti potrebbe essere un errore) è la volontà di Dio. Perché se gli si chiede del pane, egli non elargisce pietre. Platone. L’intelligenza domina la necessità tramite la persuasione.138 Immagine dell’ordine interiore? Azione non agente su di sé. Non violenza verso sé stessi. Azione non agente. [Fuori dai doveri naturali,] non compiere mai un passo al di là di ciò verso cui si è spinti irresistibilmente, dal momento che il bene stesso non è più tale se non è compiuto per obbedienza. Attenzione: azione non agente della parte divina dell’anima sull’altra. L’idea di miracolo impedisce di concepire l’azione non agente. Dio non ama un determinato avvenimento come mezzo in vista di un altro come fine, ma l’uno e l’altro allo stesso titolo. Così anche noi: Dobbiamo essere perfetti come il nostro Padre celeste. L’intelligenza è obbligata a disporre i mezzi in vista dei fini, ma l’amore deve attaccarsi agli uni e agli altri allo stesso titolo. Amare l’atto di spazzare quanto la stanza spazzata. (Questo non significa necessariamente provarvi piacere.) Rinuncia al frutto. [Sentimento, dovuto alla fatica, di tempo insormontabile. Il fatto di provarlo spesso è un favore che ci viene reso.] Amore senza prospettiva. Rappresentarsi Dio onnipotente significa rappresentare sé stessi nello stato di falsa divinità. L’uomo non può essere uno con Dio se non unendosi a Dio, spogliato della sua divinità (svuotato della sua divinità). Io sono la Via. Il Tao, l’azione non agente, è una forma equivalente. Non cercare il bene nell’azione: ecco l’insegnamento della

Gītā. Ma… Credi che non ti batterai, però le motivazioni che ti spingono a combattere sono in questo momento più forti. Non è tramite la scelta di un comportamento che ci si può elevare. Una volta che si è compreso di essere niente, lo scopo di ogni sforzo è diventare niente. A tal fine si soffre con accettazione, a tal fine si agisce, a tal fine si prega. Mio Dio, concedimi di diventare niente. Via via che divento niente, Dio si ama attraverso di me. Dio è tutto, ma non in quanto persona. In quanto persona è niente. Ὁμοίωσιϛ θεῷ[Assimilazione a Dio].139 (Personale e impersonale.) (Vangelo: la perfezione di Dio è il non-intervento.) Non lottare contro la pesantezza tramite l’azione, ma attraverso il pensiero; conoscendone gli effetti in sé e desiderando le ali o, piuttosto, amando la direzione ascendente o, meglio ancora, ciò che è al di là del più alto. L’attenzione rivolta con amore verso Dio (o, a un livello inferiore, verso tutte le cose autenticamente belle) rende certe cose impossibili. Tale è l’azione non agente della preghiera nell’anima. Ci sono comportamenti che velerebbero quest’attenzione, qualora si producessero, e che viceversa quest’attenzione rende impossibili. La cristianità è divenuta totalitaria, conquistatrice, sterminatrice, perché non ha sviluppato la nozione dell’assenza e della non azione di Dio quaggiù. Si è attaccata a Iehova così come al Cristo, ha concepito la Provvidenza alla maniera dell’Antico Testamento. Azione non agente. Lo Spirito è il legame di questi contrari, che si separano quando esso si ritrae dal Cristo. L’Amore è dal lato della non azione, dell’impotenza. L’Amore consiste nell’amare che qualcosa sia, nel non volerci mettere la mano. È così che ci ama Dio; altrimenti cesseremmo immediatamente di esistere. Saremmo annientati. Acconsentire per amore a non essere più, vale a dire ciò che

dobbiamo fare, non significa annientamento, ma trasporto verticale nella realtà superiore all’essere. Amore di Dio e «azione non agente». Passo di Tucidide.140 Per Dio, la creazione non è consistita nell’estendersi ma nel ritrarsi. Egli ha cessato di «comandare ovunque ne aveva il potere». Essere distaccati dai frutti dell’azione. A tal fine è necessaria un’architettura nel profondo dell’anima. La parte dell’anima che agisce, infatti, dev’essere appassionatamente tesa verso il frutto dell’azione. Un’altra parte dev’essere distaccata. Bisogna arare e seminare non per raccogliere, ma per pura obbedienza. Agire rinunciando ai frutti dell’azione.

BELLEZZA

Il bello è l’unico criterio di valore nella vita umana. Il solo che si possa applicare a tutti gli uomini. Altrimenti non resta che il benessere… Le condizioni di un’esistenza piena si equivalgono per tutti gli uomini ma, beninteso, sotto forme differenti. Il bello è ciò che si può contemplare. Una statua, un quadro che si può ammirare per ore. Il bello è qualcosa verso cui si può rivolgere l’attenzione. Il bello: arresto dell’immaginazione fabbricatrice. Il bello. Impossibile darne una definizione psicologica, perché la pienezza della contemplazione estetica esclude l’introspezione. L’ordine estetico non può perciò essere definito come condizione di esistenza per la produzione del sentimento estetico. È un ordine che non costituisce una condizione di esistenza (…Ma una condizione della contemplazione). La prova dell’esistenza di Dio tramite l’ordine del mondo, così com’è solitamente presentata, è miserabile. Ma si può dire: il fatto che l’uomo possa passare allo stato di contemplazione estetica davanti a uno spettacolo naturale come davanti a una statua greca è una prova di Dio. Un’opera d’arte ha un autore; e tuttavia, se essa è perfetta, possiede qualcosa di essenzialmente anonimo. Imita cioè l’anonimato dell’arte divina. Così la bellezza del mondo fornisce la prova di un Dio al tempo stesso personale e impersonale, e né l’uno né l’altro. La bellezza è l’armonia del caso e del bene. Come in generale il bello è l’immagine del bene, così la purezza è l’immagine dell’umiltà.

Trasfigurare la sensibilità attraverso l’illuminazione dell’universale. Il bello vi riesce. Così pure la compassione senza predilezioni. Non è possibile concepire il bene senza passare per il bello. Messi a tacere tutti i motivi e i moventi, resta l’energia, sospesa a Dio. Ed essa, in quanto azione, agisce. E agisce nel particolare, in quanto energia fisica (si può anche dire psicologica). Di questo mistero, solo il bello consente di farsi un’idea. Il bello. Materia che attraverso i sensi rende sensibile la perfezione spirituale. Materia che costringe la parte trascendente dell’anima a manifestarsi. È la stessa facoltà dell’anima, cioè l’amore soprannaturale, a essere in contatto con il bello e con Dio. L’amore soprannaturale è in noi l’organo dell’adesione alla bellezza, e il senso della realtà dell’universo è in noi uguale a quello della sua bellezza. L’esistenza piena e la bellezza si confondono. La gioia (la gioia pura è sempre gioia del bello) è il sentimento del reale. Il bello è la presenza manifesta del reale. L’anima freme e vuole afferrare il bello. Ma questo bello è una trappola. Una trappola di Zeus. Non appena l’anima si avvicina al bello, Dio la cattura. Dio s’impossessa dell’anima in due operazioni. Prima, attraverso la trappola della bellezza la rapisce di sorpresa e con mera violenza, assolutamente contro la sua volontà e senza che essa sappia dove va; poi, con un miscuglio di sorpresa, coercizione e seduzione, le strappa il suo consenso facendole gustare per un istante la gioia divina. Allora essa è presa per sempre. Il bello eccita sempre, in maniera misteriosa e a vuoto, i sensi che non sono occupati a coglierlo; così la pittura eccita a vuoto l’udito e il tatto ecc. I valori autentici e puri del vero, del bello, del bene

nell’attività di un essere umano si producono tramite un solo e medesimo atto, una certa applicazione all’oggetto dell’attenzione nella sua pienezza. È rischioso leggere o guardare una cosa bella quando si è mal disposti; la bellezza ne viene completamente intaccata e diventa inaccessibile. È meglio allontanarsene. Ma la bellezza assolutamente autentica e pura, se per una volta vi entriamo in contatto, possiamo utilizzarla come un fuoco contro le nostre impurità; l’impurità che noi vi riversiamo, essa la brucia senza restarne intaccata; ciò non può accadere, perché assolutamente pura, perché presenza reale di Dio. Queste sono le parole del Pater; questa è la preghiera. Il bello è prima di tutto rispondenza tra armonia e necessità, senza che vi sia alcun intervento dell’una nel dominio dell’altra. Solo questa rispondenza definisce per noi la pienezza della realtà. La bellezza nasce dalla rinuncia alla concupiscenza. Il valore del bello è quello di essere una finalità priva di fine. L’immaginazione è sempre legata al desiderio, cioè al valore. Solo il desiderio privo di oggetto è vuoto d’immaginazione. Il bello è nudo, non velato d’immaginazione. C’è presenza reale di Dio in tutte le cose non velate d’immaginazione. Tra le altre unità di contrari, il bello include quella dell’istantaneo e dell’eterno (ecco spiegata la potenza dei tramonti e delle albe). In tutte le arti. Solo il bello consente di essere soddisfatti di ciò che è. L’unione al di sopra della distanza è la molla del bello. Restare immobili e unirsi a ciò che si desidera e a cui non ci si avvicina. In tal modo ci si unisce a Dio. Non ci si può avvicinare a lui. La distanza è l’anima del bello. Questo mondo rifiuta la finalità perché è bello. I mezzi si

adattano ai mezzi, ma senza nessun fine a regolare questo adattamento. La necessità è il bello in quanto privo di fine; è il bello in rapporto alle parti. Vi sono solo due specie di necessità. Quella che corrisponde a fini rappresentabili e quella che corrisponde al bello. I fini rappresentabili sono fini al livello della necessità ma, al tempo stesso, non sono fini. Sono mezzi. Gli altri sono trascendenti rispetto alla necessità. L’estetica, generalmente considerata come una disciplina particolare, è piuttosto la chiave delle verità soprannaturali. L’idea di necessità è quella di condizione. Essa implica quindi finalità. Ogni fine rappresentabile è tuttavia un mezzo. Non c’è finalità se non trascendente rispetto alla causalità. Ed è il bello. Per amore, l’Amore è disceso in questo mondo sotto forma di bellezza. L’oggetto della scienza è l’esplorazione del bello a priori. Tre presenze di Dio: di creazione, di ordine, d’ispirazione. Bello = presenza manifesta del reale. Τὸ ὄν.141 Gioia, sentimento del reale. Essere spinti da Dio verso il prossimo come la matita è poggiata da me sulla carta. La spada ugualmente cattiva (o buona) all’impugnatura e in punta. Venise sauvée. Un ordine è un intermediario tra una molteplicità [di condizioni] e una cosa. Nell’ordine del mondo – nell’ordine estetico – qual è questa cosa? Il vuoto. Dio. Allo stesso modo: azione sospesa soltanto a Dio. Non si può passare per il bene se non passando per il bello. Il bello oltrepassa l’intelligenza, e tuttavia ogni cosa bella ci offre qualcosa da comprendere, non solo in lei stessa ma nel nostro destino. Ordine come condizione d’esistenza. L’ordine estetico è

una condizione d’esistenza solo per sé stesso. Ma ogni cosa è condizione per sé stessa; il che non ha senso. Qual è quella cosa che è scissa da sé stessa tramite la relazione di condizione d’esistenza? Immagine di Dio. È questa la presenza reale di Dio nel bello. La presenza della bellezza nel mondo è la prova sperimentale della possibilità dell’incarnazione. La gioia, adesione totale e pura dell’anima alla bellezza del mondo, è un sacramento (quella di san Francesco). (Così pure la bellezza matematica). Sentimento del bello, sentimento sensibile alla parte carnale dell’anima (e al corpo) che questa necessità, che è costrizione, è anche obbedienza a Dio. Immagine dei misteri della fede nella matematica. Matematica, scienza razionale e astratta, scienza concreta della natura, mistica. Universo, massa compatta di obbedienza con punti luminosi. Tutto è bello. La bellezza e l’amore carnale. La bellezza è la figura del «sì» eterno. La bellezza è l’eternità sensibile. Il bello è il contatto del bene con la facoltà sensibile (il reale è la stessa cosa). La bellezza è rispetto alle cose ciò che la santità è rispetto all’anima. Dio ci consente di volgere il nostro amore verso di lui in due modi, attraverso la bellezza e a vuoto. Il bello consiste in una disposizione provvidenziale grazie alla quale la verità e la giustizia, non ancora riconosciute, richiamano in silenzio la nostra attenzione. La bellezza è davvero, come sostiene Platone, un’incarnazione di Dio. La bellezza del mondo non è distinta dalla realtà del mondo. Ma la bellezza è una trappola di Dio per farci accettare l’obbedienza a cui egli ci riconduce attraverso la coercizione. Per chi ha cultura artistica e poetica, e un vivo

sentimento del bello, le analogie estetiche sono le meno ingannevoli per illustrare le verità spirituali.

BENE

Solo il bene è senza contraddizione, ma abbacinante. Lo spirito non può posare il suo sguardo che sulla contraddizione, illuminata dal bene. Mistero del bene nelle azioni. L’unico criterio di valore per un’azione è l’effetto che essa comporta sull’anima, ma è assolutamente impossibile giudicarla attraverso l’introspezione. O ancora (ma è la stessa cosa, vista la precisione rigorosa della retribuzione nel campo spirituale), l’unico criterio di valore per un’azione è la fonte che nell’anima ne procura il movente; ma nemmeno questo è possibile giudicarlo attraverso l’introspezione. Ogni cosa che possiede proprietà non è soltanto bene, ma anche altro. E dunque non è un bene completo, né è bene sempre e sotto tutti gli aspetti. Tutto ciò che possiede proprietà è miscuglio di bene e male. Il bene non ha alcuna proprietà, se non quella di essere il bene. È il vuoto? È negativo? Sì, finché non vi orientiamo la nostra totale attenzione. Ma non essendo possibile farlo, dato che serve un lungo apprendistato, per tutto questo tempo esso è negativo, vuoto, e noi orientiamo l’attenzione verso il negativo e il vuoto: è la notte oscura di san Giovanni della Croce, presente anche in Platone. Alla fine questo vuoto si manifesta come l’unica realtà veramente reale, e già durante la notte oscura se ne avverte a tratti il presentimento. Ma quali stimoli si hanno in questa notte? Solo l’insufficienza di ogni bene. Educare l’attenzione è la cosa più importante. Se il bene è l’unione dei contrari, il male non è il contrario del bene. Ricerca del Bene in Platone. Noi siamo sostanziati da un

movimento verso il bene. Sbagliamo però a ricercare il bene in una determinata cosa. […] Il bene è solo nel nostro movimento stesso. Tuttavia, non possiamo afferrarlo. Non siamo Dio. Possiamo solo lasciarlo a vuoto. Noi non vogliamo che il bene. Non vogliamo l’oro in quanto oro, ma solo in quanto bene. Ci illudiamo in proposito, se non possediamo né sappiamo usare la nozione di rapporto, di relatività. Crediamo di volere l’oro in quanto oro. E l’esito di questa convinzione è che l’oro in quanto oro ci risulta non buono, ma necessario. E ci sentiamo così rinsaldati, perché confondiamo il necessario e il bene. Convinti di non poter vivere se un ladro ci sottrae quest’oro (noi, cioè Arpagone), crediamo che esso sia buono in senso assoluto (Arnolfo e Agnese, Napoleone, Stato…). Il concetto di rapporto è quindi necessario alla liberazione. Occorre aderirvi con tutta l’anima. I libri sesto e settimo della Repubblica hanno per oggetto il distacco. […] Non volere incondizionatamente che il bene, qualunque esso possa essere, cioè nessuna cosa in particolare. Volere la vita se dev’essere un bene, la morte se…, la gioia se…, il dolore se…; e ciò sapendo di ignorare che cosa sia il bene. In ogni volere, qualunque esso sia, al di là dell’oggetto particolare, volere a vuoto, volere il vuoto. Perché questo bene che non possiamo né raffigurarci né definire è per noi un vuoto. Che però è per noi più di ogni pieno. Se si arriva a questo punto, non bisogna più preoccuparsi, perché Dio ricolma il vuoto. Non si tratta in alcun modo di un processo intellettuale nel senso in cui oggi intendiamo il termine. L’intelligenza non ha nulla da trovare, deve far pulizia. È adatta ai compiti servili. Non possiamo che amare a vuoto. Dal momento però che abbiamo bisogno di oggetti sensibili, amiamo le cose e gli esseri finiti, limitati, che ci circondano. E non perché degni

di amore, ma perché indegni: «Chi non odierà…».142 L’amore privo di oggetti sensibili è immaginario («Se non ami tuo fratello che vedi, come potrai amare Dio che non vedi?»143). L’amore che vela l’assenza di bene tra le creature non giunge a Dio. Ecco perché bisogna sapere «quanto differiscono l’essenza del necessario e quella del bene».144 Tutto ciò che esiste, senza eccezioni, è subordinato alla necessità; anche le manifestazioni del soprannaturale, in quanto manifestazioni. Qui tutto è necessità, contaminato dalla forza e, dunque, indegno di amore. Questo mondo è la porta chiusa. È una barriera e, al tempo stesso, il varco. Se non vogliamo che il bene assoluto, se respingiamo cioè come insufficiente ogni bene esistente o possibile, sensibile, immaginario o concepibile, destinatoci dalle creature, se a tutto questo preferiamo piuttosto niente, allora (con il tempo), orientati verso ciò che non possiamo assolutamente concepire, ne riceviamo una rivelazione. La rivelazione che questo nulla è la pienezza suprema, sorgente e principio di ogni realtà. Allora si può davvero sostenere di aver fede in Dio. La complicazione sta nel fatto che i beni limitati – abitudini di vita, soddisfazione dei bisogni materiali, famiglia, amici ecc. – ci sono necessari; da essi traiamo energia vitale. Sono nutrimento, e una qualsiasi carenza genera realmente fame. È difficile comprendere come ciò che ci è necessario possa non essere per questo un bene. L’idea centrale, fondamentale di Platone è quella del Bene: «Il Bene è ciò che ogni anima cerca, ciò per cui agisce in tutte le sue azioni, presentendo che esso è qualcosa (di reale), ma nell’incertezza e incapacità di cogliere sufficientemente ciò che esso è».145 Esso risiede in questo stesso movimento. Comprenderlo è la salvezza. L’idea centrale, essenziale delle Upaniṣad è quella dell’Ātman. «Si ama la propria donna a causa dell’Ātman, i propri figli a causa dell’Ātman, le proprie ricchezze a causa dell’Ātman…

Solo l’Ātman è prezioso». è esattamente, identicamente la stessa idea. La tradizione greca e quella indù sono un’unica, medesima cosa. Cogliere l’identità delle diverse tradizioni, non accostandole tramite ciò che le accomuna ma afferrando l’essenza di ciò che ciascuna di esse ha di specifico. È un’unica, medesima essenza. Notte oscura. In ogni cosa, solo ciò che ci arriva da fuori, gratuitamente, di sorpresa, come un dono del destino, non cercato, è gioia pura. Analogamente, il bene reale non può arrivare che da fuori, mai da un nostro sforzo. Non ci è possibile mai, in nessun caso, creare qualcosa migliore di noi. Lo sforzo realmente volto al bene deve quindi fallire; è solo dopo una tensione lunga e sterile, in cui si finisce nella disperazione, quando non ci si aspetta più nulla, che da fuori, meravigliosa sorpresa, arriva il dono. Lo sforzo ha annientato parte della falsa pienezza che è in noi. Il vuoto divino più pieno della pienezza è venuto a insediarsi in noi. L’illusione concernente le cose di questo mondo non concerne la loro esistenza, ma la loro finalità e il loro valore. L’immagine della caverna si rapporta alla finalità. Non abbiamo che ombre di imitazioni di bene. È altresì in rapporto al bene che siamo passivi, incatenati (attaccamento). Accettiamo i falsi valori che ci appaiono e, quando crediamo di agire, siamo in realtà immobili, perché rimaniamo nel medesimo sistema di valore. […] In tutto questo il problema della conoscenza, se non la conoscenza del bene, non è posto. Conoscere non riveste alcun interesse, al di fuori della conoscenza del bene. Si tratta di ordinare i beni in rapporto al nostro desiderio, cosa per cui bisogna aver fissato la pienezza dell’attenzione al nostro desiderio puro, vuoto. […] Solo che non possiamo fissare la nostra attenzione sul nostro desiderio, non più di quanto possiamo vedere la nostra vista. Non possiamo vedere che oggetti illuminati

dalla luce del sole. Allo stesso modo, non possiamo che slegare il nostro desiderio da tutti i beni e attendere. L’esperienza mostra che quest’attesa è colmata. Un bene supremo, un bene che racchiude cioè tutti i beni possibili. È l’ipotesi del Filebo. Ovvero, che non esiste incompatibilità tra i beni. Non si rinuncia quindi a un bene particolare o accessorio per il bene supremo. Bisogna però rinunciare a perseguire e a desiderare tutti i beni che non siano il bene supremo; quindi, tutti i beni rappresentabili, senza eccezioni. Non solo il bene supremo comprende tutti i beni, ma i beni sono tali solo in quanto ombre del bene supremo. Quando l’impersonale è attecchito nell’anima e vi cresce, richiama a sé tutto il bene. Quando si raggiunge l’assoluto, ci si esprime solo per identità – «il bene è il bene», «io è io» (Ātman) – perché solo un’identità esprime l’incondizionato. Tutto il bene è generato da Dio. È la verità essenziale e non riconosciuta. Tutto ciò che è bene è di origine divina e soprannaturale, procede per via diretta o indiretta dalla fonte celeste e trascendente di ogni bene. Tutto ciò che procede da un’altra fonte, tutto ciò che è di origine naturale, è avulso dal bene. Dio solo è il bene, e dunque Egli solo è degno di essere oggetto di cure, di attenzione, di preoccupazioni, di desideri, di slanci del pensiero. Egli solo è degno di essere oggetto di quelle pulsioni dell’anima che concernono un qualche valore. Egli solo ha affinità con quel moto verso il bene, quel desiderio di bene che è il centro stesso del mio essere. Quanto a quella creatura che si chiama io, essa non è il bene, e dunque mi è altrettanto estranea e indifferente di qualsiasi altra cosa al mondo. Credere che il desiderio del bene venga sempre

ricompensato: è questa la fede, e chiunque l’abbia non è ateo. Credere in un Dio che può lasciare nelle tenebre chi desidera la luce, o il contrario, vuol dire non aver fede. La fede è la certezza di un dominio diverso dall’inestricabile amalgama di bene e male che costituisce questo mondo, un dominio in cui il bene non genera altro che bene, il male non genera altro che male. Discernere un qualche bene come bene, e attribuirgli come origine il male, è peccato contro lo Spirito, e non verrà perdonato.146 Il bene e il male, è questo il centro del problema: e la verità essenziale è che la loro relazione non è reciproca. Il male è il contrario del bene, ma il bene non è il contrario di alcunché. Il Bene è fuori di questo mondo. Grazie alla saggezza di Dio, che vi ha posto il contrassegno del bene sotto forma di bellezza, è possibile amare il Bene attraverso le cose di qui. Sostanza della fede: è impossibile desiderare davvero il bene e non ottenerlo. Oppure, al contrario: ciò che è possibile desiderare davvero senza ottenerlo non è davvero il bene. È impossibile ricevere il bene se non lo si è desiderato. […] Non è possibile procurarsi il bene da sé stessi, né lo si può mai desiderare senza ottenerlo. Ecco perché la nostra situazione è in tutto simile a quella dei bambini che gridano la loro fame e ricevono il pane. Ecco perché i supplici di ogni specie sono sacri, e sacra è la supplica. Si ha il dovere di concedere tutto ciò che non si ha il dovere di rifiutare. In questo mondo, Dio ha disgiunto il bene dalla forza, tenendo per sé il primo. È per i falsi beni che desiderio e possesso divergono; per il bene vero, non c’è alcuna differenza. Dunque Dio è perché io Lo desidero; questo è certo

quanto è certo che io esisto. Mi ritrovo in questo mondo con un desiderio attaccato a cose che non sono beni, che non sono né buone né cattive. Devo strapparlo via, a costo di sanguinare. Non fa meraviglia che il desiderio diverga dal possesso finché è attaccato a queste cose, perché esso ha bisogno del bene ed esse non sono beni. Appena si stacca per volgersi al bene, diventa possesso. Questo, però, non avviene di colpo per il desiderio dell’anima. Accade prima solo per una parte infinitesimale. Pure, questo granello di desiderio, che è possesso, è più forte di tutto il desiderio rimanente, che è vuoto. Se desidero soltanto desiderare il bene, desiderandolo sono colmata. Il bene cinge gli uomini da ogni parte, donandosi di continuo, ma la volontà più forte, gli sforzi più violenti non permettono di afferrarne nemmeno una briciola. Che Dio sia il bene è certo. Che Dio, in una qualche maniera – che ignoro – sia realtà, lo è altrettanto. Questo non è materia di fede. Ma che ognuno dei pensieri con cui desidero il bene mi avvicini al bene, questo è oggetto di fede. Posso farne esperienza solo con la fede. Nondimeno, neppure dopo averne fatto esperienza diventa oggetto di constatazione, ma soltanto di fede. Poiché possedere il bene consiste nel desiderarlo, l’articolo di fede in questione – l’unico articolo di vera fede – ha per oggetto la fecondità, la facoltà di automoltiplicazione di ogni desiderio di bene. Per il solo fatto che un’anima desidera veramente, puramente, esclusivamente il bene con una parte di sé stessa, in un momento successivo desidererà il bene con una parte più grande di sé – a meno di negare il consenso a tale trasformazione. Credere questo significa aver fede. Anche i materialisti pongono fuori di sé un bene che li supera di molto e che da fuori li aiuta, un bene verso il quale

il loro pensiero si orienta con un moto di desiderio e preghiera. Per Napoleone, la sua stella. Per i marxisti, la Storia. Solo che essi lo pongono in questo mondo, come i giganti del folklore che mettono il loro cuore (o la loro vita) in un uovo che è in un pesce che è in un lago custodito da un drago, fino a che non muoiono. E, per quanto le loro preghiere vengano spesso esaudite, c’è da temere di doverle considerarle preghiere rivolte al demonio. Nessun essere umano scampa alla necessità di concepire un bene fuori di sé al quale rivolgere il pensiero in un moto di desiderio, di preghiera e di speranza. Dunque, si può scegliere solo tra l’adorazione del vero Dio e l’idolatria. Ogni ateo è idolatra – a meno che non adori il vero Dio sotto il suo aspetto impersonale. La maggior parte della gente pia è idolatra. Per ogni spirito che crea (poeta, compositore, matematico, fisico ecc…) la sorgente sconosciuta dell’ispirazione è il bene a cui si rivolge un desiderio implorante. Ognuno sa per esperienza continua di ricevere l’ispirazione. Si può anche ragionare in questi termini: com’è possibile che da me esca più bene di quanto non ve ne sia? Se progredisco nel bene, devo subire l’influenza di un bene esterno. Se il desiderio del bene è possesso del bene, il desiderio del bene è creatore di bene, cioè creatore di desiderio di bene. Fuori di me c’è un bene a me superiore e che m’influenza in favore del bene ogniqualvolta io desideri il bene. Non essendo possibile porre alcun limite a questa operazione, il bene fuori di me è infinito: è Dio. Anche qui non si tratta di credenza, ma di certezza. È impossibile pensare il bene senza pensare tutto questo, ed è impossibile non pensare il bene. Non essendoci alcun limite a questa operazione, l’anima deve infine cessare di essere per assimilazione totale a Dio.

Se discosto il mio desiderio da tutte le cose di qui in quanto falsi beni, ho la certezza assoluta, incondizionata, di essere nel vero. So che non sono beni, che niente qui può essere considerato un bene se non per mezzo di menzogna, che tutti i propositi di qui deperiscono da sé. Discostarmene è tutto, non serve altro. È la virtù della carità nella sua pienezza. Me ne discosto, infatti, perché li giudico falsi di fronte all’idea di bene. Distolgo la totalità del mio desiderio e del mio amore per le cose terrestri per rivolgerli verso il bene. Mi si dirà, tuttavia: esiste questo bene? Che importa? Le cose di qui esistono, ma non sono il bene. Che il bene esista o non esista, non c’è altro bene che il bene. E cos’è questo bene? Non ne so nulla. Che importa? È ciò il cui solo nome, se vi concentro il pensiero, mi dà la certezza che le cose di qui non sono beni. Se non so altro che questo nome, nemmeno ho bisogno di sapere altro, se solo ne so fare questo uso. Dal momento che nessuna soddisfazione è un bene, nessuna privazione è un male. Non esiste il contrario del bene. Si può chiamare male l’attaccamento del desiderio alle cose terrestri. Finché permane questo attaccamento, permane l’illusione di una coppia di contrari, bene-male. Il consenso all’assenza totale ed eterna di ogni bene è l’unico moto incondizionato dell’anima. È l’unico bene. […] Accettare di non essere vuol dire accettare la privazione di ogni bene, e questa accettazione rappresenta il possesso del bene totale. Solo che non lo si sa. Se lo si sa, il bene svanisce. […] Dio visita l’anima, ma essa dorme. Se fosse sveglia, l’unione spirituale avrebbe luogo senza prova, senza sforzo. Certi santi sono forse stati così? Egli se ne va, lasciando traccia del suo passaggio, lasciandoci presagire che ci attende. Bisogna guardare il male, arrivare al termine del male, per raggiungerlo. Ci si

attacca al proprio peccato, si taglia, si tronca; ma esso ricresce più in fretta. Non c’è alcuna speranza con questo sistema. Bisogna passare al di sopra del peccato. È un percorso doloroso, lento, ma possibile. Si avanza realmente e si arriva al termine. Cosa sta a indicare questo modo di procedere al di sopra del male, come un uomo che va dalla cima di un albero all’altra? Non si cerca di annullare il male in sé, ma di arrivare al suo termine. Attraverso tutti i peccati pensare al bene. Non pensare al male da annientare, ma al bene. Due verità incondizionate, che né i miei crimini né le mie sventure hanno potuto, possono, potranno mai insidiare. Il Bene è reale. L’universo intero e tutte le sue parti, compresa me stessa, obbediscono perfettamente ed esclusivamente al Bene. Quando l’anima, per una volta, ha ricevuto un atomo d’amore di Dio, non deve fare altro che attendere e lasciar crescere. Bisogna soltanto vegliare, come il contadino sul suo campo. Chiedere a Dio di piantare un seme nell’anima e di spargervi luce e pioggia. La mietitura è la morte spirituale. Quando il seme si è moltiplicato, quando la spiga è pronta, per quanto possa essere grande, allora Dio si adopera per trasformare il bene finito in infinito. Gli manda la morte spirituale, quella dopo la quale un uomo non vive più, ma Dio vive in lui. Il male che è in noi ci tiene celato il Bene assoluto. Finché il pensiero è rivolto alla lotta contro il male, però, ogni frazione di male che annientiamo riemerge immutata. Bisogna che il pensiero sia orientato con desiderio, attraverso il male, verso il bene infinitamente lontano. «Ama il tuo prossimo come te stesso» vuol dire amarlo

incondizionatamente; perché l’amore di sé stessi è incondizionato. Se anche ci facciamo orrore, non smettiamo di amarci. L’amore ha come oggetto il bene. Per amare incondizionatamente un comune essere umano, bisogna avvertire in lui un bene incondizionato. Non c’è bene incondizionato in nessun uomo che non sia giunto all’unione mistica, a parte la possibilità di giungervi. Per amare incondizionatamente gli uomini bisogna scorgere in essi pensieri sottomessi alle leggi meccaniche della materia, ma che hanno per vocazione il bene assoluto. Nell’ordine della materia, cose che non differiscono in nulla tra loro possono essere differenti. Per esempio, è possibile concepire in astratto due sassi identici. Nell’ordine del bene, però, ciò che è identico è uno. Due cose sono due solo se differiscono. Un uomo perfetto è dunque Dio. Nell’ordine del bene, però, c’è solo discesa e non ascesa. Dio è sceso per abitare in quest’uomo. Punto fondamentale del cristianesimo (e del platonismo): solo il pensiero della perfezione genera il bene – un bene imperfetto. Se ci si propone qualcosa d’imperfetto, si compie il male. Ci si può proporre davvero la perfezione solo nel caso in cui essa sia realmente possibile; è dunque questa la prova che quaggiù esiste la possibilità della perfezione. Dio è il solo bene. Tutti i beni racchiusi nelle cose hanno un equivalente in Dio. Dio è l’unica misura di valore. «Padre, dammi la parte che mi spetta»147 (parabola del figliol prodigo). La parte che mi spetta è l’autonomia. Io la spendo con le prostitute. «Gli schiavi nella casa di mio Padre hanno del pane.»148 Il pane è il bene. Gli schiavi sono materia inerte. Desideriamo diventare materia inerte per smettere infine di disobbedire. Vi si giunge solo al termine di un processo di sfinimento che chiede tempo. Il giovane ha innanzitutto dissipato il

proprio denaro. Solo dopo aver speso tutto ed essersi ridotto alla fame desidera essere uno degli schiavi di suo padre. Una volta consumate le capacità delle facoltà naturali che si possiede (volontà, intelligenza, disposizione naturale ad amare) per la produzione del bene, una volta riconosciutisi incapaci di bene, solo allora si cade prosternati al cospetto di Dio. L’egoista non ama sé stesso. Solo il saggio o il santo arriva ad amare sé stesso. L’egoista pensa che la propria prospettiva sia il mondo stesso, e non una prospettiva, e in funzione di tale prospettiva concepisce il bene. Così, mobili confortevoli, una tavola ben fornita ecc. gli appaiono come beni assoluti a cui tutto va subordinato. Ma questi beni sono sempre differenti da lui.

COMPASSIONE

La compassione soprannaturale è un’amarezza senza consolazione, che avviluppa però il vuoto in cui discende la grazia. Amare il prossimo come sé stessi implica leggere in ogni essere umano la stessa combinazione di natura e di vocazione soprannaturale. Lo spirito in una bottiglia. Il pensiero incatenato. Questa lettura va contro la pesantezza, è soprannaturale. Amare il prossimo come sé stessi non differisce dal contemplare la miseria umana in sé e negli altri. A condizione di amarlo come noi stessi, il prossimo è uno specchio in cui troviamo la conoscenza di noi stessi. La conoscenza di sé è amore di Dio. Perché? Il silenzio di Dio ci costringe al silenzio interiore. Quando si ha freddo e fame per necessità, si prova sempre un po’ di pietà per sé stessi, non importa quanto si sia spiritualmente elevati. La compassione per chi ha freddo e fame implica la capacità di concepirsi e immaginarsi in qualsiasi circostanza sociale e materiale e, di conseguenza, la spoliazione dalle circostanze in cui ci si trova. È la nudità; per lo meno una nudità parziale. [È, di conseguenza (perché di conseguenza?), la capacità di concepire e immaginare un uomo perfetto – un Dio incarnato – in uno stato di sventura qualsiasi.] «Tutto ciò che avete fatto…».149 Significa che una compassione perfetta e pura sottintende una fede implicita nell’incarnazione. Perché? Passaggio al limite.

«Affinché voi siate uno in me come io sono uno con il Padre».150 È il rifiuto di accettare per sé la possibilità di soffrire a impedire la compassione. È il rifiuto di riconoscersi nella miseria altrui, che è brutta. (Mancanza di umiltà; la compassione non è mai pura senza umiltà.) Dire che questo mondo non vale niente, che questa vita non vale niente, adducendo il male come prova, è assurdo; se infatti non vale niente, di cosa ci priva il male? Così la sofferenza nella sventura e la compassione per gli altri sono tanto più pure e più intense quanto meglio si concepisce la pienezza della gioia. Di cosa la sofferenza priva colui che è senza gioia? E se si concepisce la pienezza della gioia, la sofferenza è ancora in rapporto alla gioia come la fame al cibo. La compassione è il riconoscimento della propria miseria negli altri. Il riconoscimento della propria miseria nella sventura degli altri. Compassione e umiltà sono connesse. L’umiltà è la radice di tutte le virtù autentiche. Per esempio la castità. La temperanza. La pazienza. La compassione è naturale per l’uomo se l’ostacolo del sentimento dell’io è soppresso. Non la compassione è soprannaturale, ma questa soppressione. Soltanto l’umiltà rende le virtù illimitate. La misericordia è un attributo propriamente divino. Non esiste una misericordia umana. La misericordia implica una distanza infinita. Non si prova compassione per ciò che è prossimo. La misericordia discende da ciò che non soffre a ciò che soffre. Per essere misericordiosi, bisogna custodire dentro di sé un punto dell’anima impassibile. E avere tutto il resto esposto e indifeso agli accidenti del caso. La compassione provata per gli sventurati è la stessa che

la parte impassibile della propria anima prova, nella sventura, per la parte sensibile. La compassione che il Cristo provava per sé stesso quando diceva: «Padre mio, allontana questo calice… Dio mio, perché mi hai abbandonato?».151 La compassione muta del Padre per il Cristo. Questa compassione per sé stessi è ciò che un’anima pura prova nella sventura. Ed è la stessa che prova davanti alla sventura degli altri. L’amore che lega il Cristo derelitto sulla Croce a suo Padre attraverso una distanza infinita alberga in ogni anima santa. Un punto di quest’anima risiede presso il Padre. «Dove un uomo ha il suo tesoro, lì ha il suo cuore.»152 La compassione ha come presupposto che la parte spirituale dell’anima sia emigrata in Dio e che la parte carnale rimanga nuda, esposta ai colpi senza vesti né armatura. Per via di questa nudità, la semplice presenza di uno sventurato rende sensibile la possibilità della sventura. Si può amare il prossimo solo con un amore di compassione. È l’unico amore giusto. […] La compassione rende l’amore uguale per tutti. Per provare compassione nei confronti di uno sventurato, occorre che l’anima sia scissa in due. Una parte assolutamente preservata dal pericolo di ogni contagio. Una parte contaminata fino all’identificazione. Questa tensione è passione, com-passione. La Passione del Cristo è questo fenomeno in Dio. Finché nell’anima non c’è un punto di eternità preservato da ogni contagio di sventura, non si può avere compassione degli sventurati. O la differenza delle situazioni e la mancanza d’immaginazione tengono a distanza, oppure, nel caso in cui ci si accosti veramente, la pietà si mescola a orrore, ribrezzo, timore e a un’insopprimibile ripulsa. Ogni moto di pura compassione in un’anima è una ridiscesa in terra del Cristo per essere crocifisso. Le anime compenetrate in Dio che non provano

compassione per l’umana miseria sono in fase di ascesa, non di discesa (anche se si dedicano a opere buone). Un solo pezzo di pane offerto a un affamato è – se offerto nel modo giusto – sufficiente a salvare un’anima. Non è facile donare con la stessa umiltà che serve quando si riceve. Donare con l’atteggiamento di un mendicante. Compassione per ogni creatura, perché essa è lontana dal Bene. Infinitamente lontana. Abbandonata. Dio abbandona tutto il nostro essere, carne, sangue, sensibilità, intelligenza, amore, alla brutale necessità della materia e alla crudeltà del demonio, eccetto la parte eterna e soprannaturale dell’anima. La Creazione è abbandono. Nel creare ciò che è altro da Lui, Dio l’ha necessariamente abbandonato, tenendo sotto la sua custodia solo ciò che nella Creazione è Lui – la parte increata di ogni creatura. È questa la Vita, la Luce, il Verbo. È la presenza dell’unigenito Figlio di Dio quaggiù. Acconsentire a quest’ordine è sufficiente. In che modo il consenso si unisce alla compassione? Come può essere un atto d’amore unico, quando ciò sembra inconciliabile? Saggezza, insegnamelo. Dio è assente dal mondo, se non per l’esistenza di coloro in cui vive il Suo amore. Essi devono dunque essere al mondo tramite la misericordia. La loro misericordia è la presenza visibile di Dio quaggiù. Nel mancare di misericordia, separiamo con violenza Dio da una sua creatura. Tramite la misericordia possiamo mettere in comunicazione con Dio la parte creata, temporale di una creatura. È una meraviglia simile all’atto stesso della creazione. […] La misericordia riempie l’abisso tra Dio e creatura originatosi con la creazione. È l’arcobaleno.

La misericordia deve avere la stessa dimensione dell’atto creatore. Non ci può essere eccezione per nessuna creatura. Amare sé stessi solo con un amore di compassione. Ogni cosa creata è oggetto di compassione perché è limitata. Se ci si rappresenta il sole – lontano, perfettamente imparziale nell’irradiazione della luce, assolutamente obbligato a un corso determinato – come un essere senziente e pensante, quale migliore rappresentazione di Dio si può trovare? Quale migliore modello da imitare? Se il sole vedesse i nostri crimini e le nostre sventure, quale impotente e perfettamente pura compassione farebbe discendere su di noi? Il sole così concepito è un equivalente dell’Incarnazione. Migliore per certi aspetti, meno per altri, perché distante dalla forma umana. Lode a Dio e compassione per le creature. Non vi è contraddizione dal momento che, nell’atto di creare, Dio ha abdicato. Bisogna approvare l’abdicazione creatrice di Dio e rallegrarsi di essere una creatura, una causa seconda, che ha il diritto di operare in questo mondo. Uno sventurato giace in strada, mezzo morto di fame. Pur avendone misericordia, Dio non può donargli del pane. Ma là ci sono io, che per fortuna non sono Dio e posso dargliene un pezzo. È la mia unica superiorità rispetto a Dio. «Avevo fame, e mi avete nutrito.»153 Dio può implorare un po’ di pane per gli sventurati, ma non può darne loro. Solo la compassione consente di contemplare la sventura. Perché dalla propria sventura si è stritolati, non la si contempla. La sventura degli altri non è sventura se non c’è compassione. La nostra sensibilità è naturalmente universale; ma, radicandosi in essa, il nostro desiderio la rende egoista. Il desiderio interamente rivolto al Bene infinito che è fuori di noi esclude ogni ritorno su di sé e, dunque, ogni egoismo. Per questo si ritiene che la sventura sia un male che uccide in sé la compassione naturale.

Quest’ultima è soffocata dall’istinto di conservazione. Solo se l’anima è interamente posseduta dall’amore soprannaturale il suo libero gioco viene restituito alla compassione naturale. Non ho ancora compreso appieno questo mistero. È un mistero analogo a quello del bello. Non c’è uomo, per quanto duro di cuore, che non provi compassione per le sventure che vede inscenare a teatro. Poiché non cerca niente, non tenta di ottenere niente e non deve temere alcun pericolo né alcuna contaminazione, si immedesima nei personaggi. Sapendo di non trovarsi di fronte alla realtà, dà libero sfogo alla sua compassione. Se si trattasse della realtà, diventerebbe freddo come ghiaccio. Molti cristiani che nei secoli hanno pianto per la crocifissione del Cristo sarebbero rimasti insensibili se lo avessero visto in croce. Le lacrime non sono loro servite a niente. Colui il cui desiderio si è riversato per intero nel bene è continuamente disposto alla compassione come uno spettatore a teatro. Il suo pensiero non fugge davanti all’immagine della sventura, perché sa che questa non è un male. Tuttavia ne soffre, perché sa che è dolorosa. E la sofferenza lo spinge a cercare di darvi rimedio. Tutto qui. Non c’è altro. È così semplice che, nel momento stesso in cui lo fa, la sua mano destra ignora ciò che fa la sinistra. La compassione consiste nel prestare attenzione allo sventurato e nel trasporsi in lui col pensiero. Se questi ha fame, lo si nutre automaticamente, come si nutre sé stessi quando si ha fame. Il pane che gli si offre è semplicemente l’effetto e il segno della compassione. È allora che si riceve il ringraziamento del Cristo. Il fatto è che, come il dono del pane è semplicemente l’effetto e il segno della compassione, così la compassione è

l’effetto e il segno dell’unione d’amore con Dio. Perché la vista di uno sventurato scaccia ogni attenzione che non sia passata attraverso il contatto con Dio. Solo Dio può prestare attenzione a uno sventurato. Il desiderio è sempre sofferenza, perché insoddisfatto. Viceversa, ogni sofferenza è insoddisfazione di un desiderio. L’amore che aderisce al desiderio degli altri è la compassione. Non è possibile compatire ogni desiderio se non abbiamo contemplato le nozioni pure, universali, di desiderio e di bene. In altre parole, se non si è contemplato Dio. Il Cristo sulla croce ha avuto compassione della propria sofferenza in quanto sofferenza dell’umanità in lui. Il suo grido: «Mio Dio, perché mi hai abbandonato?»154 è stato gridato in lui da tutti gli uomini. Quando questo grido erompe dal cuore di un uomo, il dolore ha ridestato nel profondo della sua anima la parte in cui risiede, sepolta sotto i crimini, un’innocenza pari a quella del Cristo. Il Cristo sulla Croce ha sofferto con compassione la sofferenza dell’umanità intera in sé stesso. Il suo grido («Mio Dio…»155) è stato emesso in nome dell’umanità intera.

CONTRADDIZIONE

I due aspetti essenziali della dialettica platonica: contraddizione e analogia. Ambedue mezzi per sottrarsi al punto di vista. «Non dualismo.» Contemplazione di tutte le contraddizioni che attirano l’anima verso l’unità. Unità che non scioglie le contraddizioni, di cui le contraddizioni sono l’assenza. Dualità rifiutata. Dualità significa opposizione, contraddizione; cos’altro potrebbe significare? Se vi è una seconda cosa, l’ignoriamo. Per noi non appartiene nemmeno al nulla. Legame tra assoluto fuori luogo e contraddizione. Considerando come assoluto ciò che è relativo, si cade nella contraddizione. Viceversa, partendo da una contraddizione accettata (una contraddizione di bassa lega, allo stesso livello), s’incontra un assoluto. Einstein. Le contraddizioni in cui s’imbatte lo spirito: uniche realtà, fondamento del reale. Non vi è contraddizione nell’immaginario. La contraddizione è la prova della necessità. Applicazione a tutti i domini. Se si pensa che Dio ha creato per essere amato, che non può creare qualcosa che sia Dio e che non può essere amato da qualcosa che non sia Dio, Egli si trova dunque in una contraddizione. La contraddizione racchiude la necessità. D’altro canto, ogni contraddizione si scioglie attraverso il divenire. Dio crea un essere finito, che dice io, che non può amare Dio. In virtù della grazia, poco per volta l’io svanisce e Dio si ama attraverso la creatura che si fa vuoto, che si fa niente. Quando essa è svanita… Egli continua a crearne di

nuove, aiutandole poi a decrearsi. Il tempo si manifesta nel divenire implicito in questa contraddizione. La necessità racchiusa in questa contraddizione è tutta la necessità in un nucleo. L’assimilazione dell’uomo a Dio è dunque la scoperta di una mediazione. La contraddizione è la mediazione. Il bello: necessitàbene. L’incarnazione: uomo-Dio. Il giusto perfetto: unione della giustizia estrema con l’apparenza dell’estrema ingiustizia. Il Cristo non ha semplicemente sofferto, ha sofferto una sofferenza penale, il trattamento dei criminali. Non è stato trattato da martire, come i santi, ma da criminale comune. La giustizia estrema unita all’apparenza dell’estrema ingiustizia è un esempio della contraddizione che conduce a Dio. La contraddizione è il nostro cammino verso Dio perché noi siamo creature e la creazione stessa è contraddizione. È contraddittorio che Dio, che è infinito, che è tutto, e a cui nulla manca, faccia qualcosa che è fuori di lui, che non è lui, per quanto da lui proceda. (Il panteismo, che è soppressione di un termine della contraddizione, è un passaggio utile a far percepire la contraddizione.) La contraddizione suprema è la contraddizione creatorecreatura, e il Cristo è l’unione di questi contraddittori. Essa giunge al suo culmine allorché la creatura è ridotta alla quantità stessa di materia che la costituisce, quando è privata delle risorse esterne e dell’energia supplementare, poi anche dell’energia vegetativa, nella pienezza dell’abbandono a cui segue morte lenta. […] Oltre a questa contraddizione, nel Cristo dimora la più grande contraddizione possibile sul piano della creatura, vale a dire quella tra la pienezza della virtù e la parvenza di ultimo fra i criminali. Nelle fiabe, principi dietro la parvenza di schiavi.

L’unione dei contraddittori è smembramento. L’unione dei contraddittori è per sé stessa passione, e dunque impossibile senza estremo soffrire. La sventura è contraddizione (per questo è sentita così vivamente come impossibile; e, d’altronde, lo stesso vale anche per la gioia pura, il cui carattere d’impossibilità, dovuto al fatto che essa è una contraddizione, appare così manifestamente nel momento in cui la si prova) quando s’abbatte, finché non ha plasmato l’anima e in tal misura. L’incoscienza è un riparo da questa contraddizione e, quindi, dalla sofferenza stessa. Da ciò deriva il carattere insostenibile, negli sventurati, dei momenti in cui si realizza un lampo di coscienza. L’adattamento completo alla sventura per logoramento annienta completamente e per sempre nell’anima la possibilità di provare la contraddizione, uccidendone di conseguenza la parte divina. È l’effetto della schiavitù. Finisce per rendere incapaci sia di gioia sia di dolore autentici. La grandezza suprema del cristianesimo si deve al fatto che non cerca un rimedio soprannaturale alla sofferenza, ma un uso soprannaturale di essa. Bisogna far uso della sofferenza in quanto contraddizione provata. Quest’uso la rende mediatrice e, dunque, redentrice. Bisogna farne uso in quanto smembramento. Il bello è l’apparenza manifesta del reale. Il reale è essenzialmente la contraddizione. Il reale è infatti l’impedimento, e l’impedimento di un essere pensante è la contraddizione. In matematica il bello risiede nella contraddizione. L’incommensurabilità, λόγοι ἄλογοι,156 è stata il primo scintillio del bello in matematica. Il reale nella percezione non è lo sforzo (Maine de Biran) ma la contraddizione provata attraverso il lavoro. La contraddizione non è pensata senza uno sforzo di attenzione. Senza questo sforzo si pensa infatti l’uno o l’altro dei contrari, non entrambi insieme, e soprattutto non entrambi insieme nella loro contraddizione. D’altro canto, la

contraddizione è ciò di cui il nostro pensiero cerca di liberarsi invano. Viene dal di fuori. È reale. I casi di coscienza incoraggiano la scissione spirituale. Bisogna pensare i possibili atteggiamenti contrari insieme alle rispettive ragioni, con la più grande pienezza d’intensità; allora, mentre il vertice del pensiero è fisso su tale contraddizione, la natura, incapace di tollerare i contraddittori, pende da una parte. Lo spirito, se non sostiene in sé stesso la realtà dell’idea simultanea dei contraddittori, viene scosso dal meccanismo delle compensazioni naturali da un contrario all’altro. È ciò che intende la Gītā con l’«aver superato lo smarrimento dei contrari». È il principio stesso del concetto di dharma, riconoscibile anche nella magnifica formula di Anassimandro. È il principio del concetto di Nemesi, di cui è la trasposizione in campo psicologico. È un pensiero essenzialmente pitagorico. È una verità di fondamentale importanza per la condotta della vita. Dio e la creazione sono uno, Dio e la creazione sono infinitamente distanti; questa contraddizione fondamentale si riflette in quella del necessario e del bene. Percepire la distanza significa smembramento, crocifissione. Essere sempre coscienti dell’impossibilità del bene, ovvero «di quanto differiscono l’essenza del necessario e quella del bene».157 Il bene non è che soprannaturale. Ogni bene autentico comporta condizioni contraddittorie: dunque, è impossibile. Chi mantiene la propria attenzione veramente salda su quest’impossibilità, agendo farà il bene. Allo stesso modo, ogni verità comporta una contraddizione. La contraddizione è il vertice della piramide. Una montagna, una piramide, la guglia di una chiesa rendono tangibile la trascendenza del cielo, fanno sentire come la materia pesante possa giungere solo fin lì e non più in alto. L’anima è fatta di materia pesante. La nostra vita è impossibilità, assurdità. Tutte le cose a

cui aneliamo sono in contraddizione con le condizioni o le conseguenze connesse, tutte le affermazioni che facciamo sottintendono il loro opposto, i nostri sentimenti sono inscindibili dai loro contrari. Siamo contraddizione in quanto creature, in quanto Dio e infinitamente altri da Dio. Solo la contraddizione ci fa provare che non siamo tutto. La contraddizione è la nostra miseria, e il sentimento di questa miseria è il sentimento della realtà. Perché non siamo noi a creare la nostra miseria: essa è vera. Per questo bisogna amarla. Tutto il resto è immaginario. Il male è l’ombra del bene. Qualsiasi bene reale, dotato di solidità e spessore, proietta del male. Solo il bene immaginario non lo fa. Allo stesso modo, il falso è l’ombra del vero. Ogni affermazione vera è un errore se non è pensata contemporaneamente al suo contrario, e non le si può pensare contemporaneamente. La contraddizione provata fino al fondo dell’essere è la lacerazione, è la Croce. Il mistero della Croce del Cristo risiede in una contraddizione, perché è a un tempo dono volontario e punizione subita suo malgrado. Se vi si scorgesse solo il dono, si potrebbe volere lo stesso per sé. Non si può volere, invece, una punizione subita malgrado sé. Compito urgente, essenziale: creare una logica dell’assurdo. Definire per quanto possibile il fondamento del vero e del falso nel dominio trascendente in cui la contraddizione è legittima, il dominio del mistero. In questo dominio, serve più rigore che in matematica. Un rigore nuovo, di cui oggi non si ha idea. Il fondamento è che un’assurdità vera è un riverbero, una trasposizione, una traduzione di una delle assurdità irriducibili della condizione umana. Bisogna dunque sondare queste assurdità irriducibili. La contraddizione – l’impossibilità – è il segno del soprannaturale.

La contraddizione è legittima quando la soppressione di un termine porta ad annullare o a svuotare della sua sostanza l’altro termine. Quando essa è, cioè, inevitabile. In ogni logica, il criterio supremo è la necessità. Solo la necessità pone lo spirito a contatto con la verità. L’intelligenza discorsiva si annulla attraverso la contemplazione delle contraddizioni chiare e inevitabili. Kōan. Misteri. La volontà si annulla attraverso l’adempimento di compiti impossibili. Prove sovrumane delle fiabe. Quando una contraddizione è un vicolo cieco assolutamente impossibile da aggirare, se non tramite la menzogna, allora sappiamo che in realtà è una porta. Occorre fermarsi e bussare, bussare, bussare, instancabilmente, in uno spirito di attesa tenace e umile. In chi persegue la verità, l’umiltà è la più essenziale delle virtù. Ciò che chiediamo all’amore umano è un’impossibilità, una contraddizione viziosa. Noi non vogliamo essere amati in maniera condizionata. Chi dicesse: «Ti amerò finché sei in salute; se ti ammali, non ti amerò più», verrebbe respinto con rabbia. D’altro canto, non vogliamo un amore che ci confonda con la massa. Chi dicesse: «Ti amo come amo tutte le donne bionde», oppure: «Amo tutte le parigine», sarebbe respinto allo stesso modo. Vogliamo essere preferiti in maniera incondizionata, per quanto tutti gli attributi che ci differenziano dagli altri siano condizionati e passibili di sparire. Noi meritiamo incondizionatamente solo il grado di attenzione concesso alla creatura più miserabile, cioè un infinitamente piccolo. Tuttavia, è vero che meritiamo di essere non solo preferiti, ma amati in maniera unica, esclusiva. Ciò che in noi lo merita, però, è la parte non creata dell’anima, identica al Figlio di Dio. Quando l’io composto di attributi è annullato e quella parte emerge, «io non vivo più in me, ma il Cristo vive in me»;158 chiunque ama un uomo giunto a tanto – e proprio perché è giunto a tanto – ama sotto quella forma il

Cristo. È un amore impersonale. Amare una persona di un amore impersonale significa amare in Dio.

DECREAZIONE

Anche se io muoio, l’universo continua. Questo non mi consola se sono altra cosa rispetto all’universo. Se però l’universo è come un altro corpo per la mia anima, ecco che la mia morte cessa d’avere per me maggiore importanza di quella di uno sconosciuto. Così pure le mie sofferenze. Che l’universo intero sia per me, in rapporto al mio corpo, ciò che il bastone è, per un cieco, in rapporto alla sua mano. Invero, la sua sensibilità non è più nella mano, ma sulla punta del bastone. [Lettura]. Serve un apprendistato. Si tratta cioè di smarrire la prospettiva. Rinuncia. Rinunciare ai beni materiali: forse che alcuni tra essi non rappresentano però la condizione per certi beni dello spirito? Si è forse in grado di pensare nello stesso modo quando si ha fame, si è spossati, sconfortati e senza considerazione? Occorre quindi rinunciare anche a questi beni dello spirito. Che cosa resta quando si è rinunciato a tutto ciò che dipende dall’esterno? Forse niente? Allora si è veramente rinunciato a sé stessi. Nudità spirituale. Tutto ciò che in me ha un valore proviene, senza eccezione, da un altro luogo che non sono io; non già come un dono, ma come un prestito da rinnovare incessantemente. Tutto ciò che è in me, senza eccezione, è assolutamente senza valore. Tra i doni venuti da fuori, tutto ciò di cui mi impossesso diventa immediatamente senza valore. Rinuncia. Imitazione della rinuncia di Dio nella creazione. Dio rinuncia – in un certo senso – a essere tutto. È l’origine

del male. Dobbiamo rinunciare a essere qualcosa. Non c’è per noi altro bene. La creatura è niente e si crede tutto. Per essere tutto, essa deve credersi niente. Equilibrio fra l’apparire e l’essere; al crescere dell’uno, l’altro decresce. Apparire niente, imitazione di Dio, azione non agente; effetto dell’amore. All’uomo è stata data una divinità irreale perché se ne spogliasse, come ha fatto il Cristo della sua divinità reale. Ciò che in noi è basso scenda, così che ciò che è alto possa salire. Siamo infatti rovesciati: è così che nasciamo. Ripristinare l’ordine vuol dire disfare in noi la creatura. Io sono niente. Questo implica l’inferno per coloro i quali l’io coincide con l’essere (io proiettato su cose finite). Vedere la propria miseria non come una cosa individuale, e dunque inessenziale, ma come la miseria della creatura in sé. Vedere la propria miseria come qualcosa d’impersonale; strappare l’io al peccato vuol dire sradicarlo, sottrargli il nutrimento vitale. Ecco perché l’eccessivo scrupolo, il rammarico, l’esame di coscienza troppo minuzioso ecc. sono cattivi. L’unica miseria che mi appartiene è l’essere niente. È il nulla. Ma il sentimento del peccato non è il sentimento del nulla. È il sentimento di un essere negativo. È la sventura a suscitare il sentimento del nulla, e solo nella misura in cui esso non è percepito né come un’espiazione né come una prova. Dio non ama che sé stesso. Il fatto che ci ami significa soltanto che vuole, con la nostra collaborazione, amarsi attraverso noi. La gioia trascendente: la si può (forse?) toccare tramite la sensibilità solo per effetto di una sofferenza estrema e pura. Sapere con tutta l’anima che sono niente. Per trovare la realtà nella sofferenza è necessario aver ricevuto – con la gioia – la rivelazione della realtà. Diversamente, altro non è la vita che un sogno più o meno brutto.

È necessario approdare a una realtà ancora più piena nella sofferenza, che è nulla e vuoto. È necessario altresì amare molto la vita, per amare ancor più la morte. Se si consegue la pienezza della gioia nel pensiero che Dio è, bisogna conseguire uguale pienezza nella conoscenza che l’io non è, perché è lo stesso pensiero. E questa conoscenza è estesa alla sensibilità solo attraverso la sofferenza e la morte. Chi si ribella alla sventura vorrebbe essere qualche cosa. Nemmeno si dev’essere però causa di sventura, poiché ciò vorrebbe dire ugualmente essere qualcosa. La gioia si volge verso un oggetto. Provo gioia per il sole, o la luna sul mare, o una bella città, o un essere umano ammirevole; non c’è io nella pienezza della gioia. Al contrario l’io soffre. La gioia è coscienza di ciò che non è io in quanto essere. La sofferenza è coscienza di me stesso in quanto nulla. Due aspetti connessi della stessa cosa. Tuttavia, nel secondo vi è lacerazione. Io posso dimenticarmi, non pensarmi come niente. Più mi sforzo, però, e più mi adatto alla gioia pura. Quando soffro non posso dimenticare che sono, né posso non sapere che sono niente. Nella sofferenza, ciò che è irriducibile è l’io. Soffrendo si consuma l’io, per annientarlo quando la sofferenza si spinge fino alla morte. L’io si consuma anche con la gioia accompagnata da intensa attenzione. La compassione pura deve rendere più – e non meno – adatti alla gioia pura. In che modo? Il male è la distanza tra la creatura e Dio. Debellare il male significa decreare: ma questa è una cosa che Dio può fare solo con la nostra collaborazione. La distruzione è l’estremo opposto della decreazione. Bisogna cercare di comprenderlo con chiarezza.

Tutto ciò che io faccio è cattivo, senza eccezioni, compreso il bene, perché l’io è cattivo. Più io svanisco, più Dio si fa presente nel mondo. Non sono io a dover amare Dio. Che Dio si ami attraverso me. Dobbiamo imitare il Cristo perché la nostra vocazione è quella di mediatori. Mediatori tra Dio e la realtà il cui tessuto sono le nostre sensazioni. La creatura non si è creata da sé, e non le è concesso annientarsi. Può solo acconsentire al proprio annientamento per opera di Dio. L’uso corretto della volontà che ci è stata data è solo negativo. Essa non deve discostarsi dalla ragione e dal dovere per come sono mostrati dalla luce naturale, perché in tal modo essa taglia i desideri sgorgati dall’io e che sono in noi ciò che non acconsente all’annientamento soprannaturale. La volontà può solo tagliarli, non sradicarli. E, come per la gramigna, è sufficiente tagliarli di frequente; sebbene all’inizio sembrino rinascere più vigorosi, è assolutamente provato che ripetere l’operazione un certo numero di volte basta a far seccare la radice. Decreazione come perfezionamento trascendente della creazione; ammollamento in Dio che dà alla creatura annullata la pienezza dell’essere, di cui è priva fintanto che esiste. Dio mi ha creata come un non essere che ha parvenza di esistere perché, rinunciando per amore a questa esistenza apparente, la pienezza dell’essere mi annienti. Dio si è svuotato della sua divinità, colmandoci di una falsa divinità. Svuotiamoci di essa. Quest’atto è il fine dell’atto che ci ha creati. In questo stesso momento, tramite la sua volontà creatrice, Dio mi mantiene nell’esistenza perché io vi rinunci. Ciascun uomo, ponendosi nella prospettiva di Dio creatore, deve considerare la propria esistenza come un sacrificio di Dio. Io sono l’abdicazione di Dio. Più io sono, più

Dio abdica. Se io scelgo la causa di Dio invece che la mia, devo dunque considerare la mia esistenza come uno sminuimento, una diminuzione. Il Cristo s’insedia nell’anima di chiunque vi riesca. Verso di me devo riprodurre in senso inverso l’abdicazione di Dio, rifiutare l’esistenza offertami, e rifiutarla perché Dio è buono. Verso gli altri, devo imitare nello stesso senso l’abdicazione di Dio, accettare di non essere perché essi siano, e malgrado siano cattivi. Ecco perché bisogna servire gli altri nei loro bisogni carnali, nella misura in cui questi sono legittimi. Perché bisogna servirli in quanto creature. Dissolvendosi, il nostro io deve diventare un foro attraverso il quale Dio e la creazione si guardano. Se ho fatto del bene a qualcuno, è sufficiente che in seguito me ne ricordi – anche solo una volta e in solitudine – perché il debito cambi parte e, ormai, nella verità, egli sia il creditore e io il debitore. Così è senza dubbio anche se qualcuno mi ha fatto del male. Se ho debitori, forse è solo a mia insaputa. A chi rimetterò dunque un debito? Quanto a me, io non ho debiti, io sono un debito. Il mio stesso essere è un debito. Dio può rimetterlo solo facendo in modo che io cessi di essere. Che io cessi di essere fin da quaggiù, ancora in vita. E vedendo quanto resta dopo l’annullamento della persona, perché questo serva da nutrimento alle creature. Dio ci ha creati a sua immagine, ci ha dato cioè il potere di abdicare in suo favore come egli ha fatto per noi.

DISTACCO

Distacco nei riguardi di ciò che si è stati (προτετύχθαι ἐάσομεν159) e di ciò che si sarà. Attendere ciò che si farà, il modo in cui ci si comporterà, come una cosa istruttiva su sé stessi. Quando si perde qualcosa si soffre per un tempo finito. Si attraversa un tempo finito, una quantità finita di sofferenza (benché sul momento sembri infinita). Quantità irriducibile; nessun ragionamento, nessun atto di volontà la diminuisce. Dopo di che, un legame viene reciso. Per il distacco, non bisogna forse attraversare anche questa quantità di dolore irriducibile, uguale, per ogni cosa, a ciò che si subirebbe se la si perdesse? In tal caso, per il distacco totale, l’anima deve realmente subire l’equivalente di ciò che ha provato Giobbe, o il Cristo sulla croce (che era una vera croce, con chiodi non simbolici). Non basta la sventura, serve una sventura senza consolazione. Οὐαὶ αὐτοῖϛ, ὅτι τῆν παράκλησιν ἔχουσιν.160 Bisogna che non ci sia consolazione. Nessuna consolazione rappresentabile. (È allora che discende la consolazione ineffabile.) Distacco, indifferenza (in senso elevato). Si dice: se non ho più moventi, come agirò? Perché agirò? Ma è proprio questo il miracolo del soprannaturale. Fa’ tacere in te tutti i motivi, tutti i moventi, e agirai comunque, mosso da una fonte di energia diversa da motivi e moventi. Ma in quest’azione, non causata da alcun motivo né da alcun movente, converge una pluralità di motivi e di moventi. Nel momento in cui il dovere comanda di agire come se si

fosse distaccati da un determinato oggetto, non lo si può fare se non si è davvero distaccati; non è possibile recidere il legame nel momento in cui il dovere si presenta; recidere il legame richiede tempo. Non lo si recide, a dire il vero: lo si sgretola poco per volta. Solo se è quasi interamente eroso si è in grado di seguire il dovere a prezzo di una violenza su sé stessi. Altrimenti non si fa che tirare e farsi del male, serrando la corda intorno alle proprie membra. Questo lavoro di erodere il legame non può essere portato avanti che nei periodi in cui non si tira. (Legge e grazia.) Il dolore che non distacca è dolore perduto. Dolore non accettato. Il dolore perduto, niente di più tremendo; freddo deserto, anima accartocciata. Ovidio. Schiavi di Plauto. Amare con distacco. Sopportare il pensiero che coloro che amiamo, a cui pensiamo con amore, sono mortali, sono forse morti nell’istante stesso in cui pensiamo a loro. È un dolore. Non cercare consolazione a questo dolore; sopportarlo. Quanto più si ama, tanto meglio si sopporta il pensiero. Non pensare mai a un essere umano, se non lo si ha a fianco, senza pensare che forse è morto. «Attraverso il distacco godi.»161 Più in generale, non pensare mai a una cosa che non si ha sotto gli occhi senza pensare che forse è andata distrutta. Che questo pensiero non dissolva il sentimento della realtà, ma lo renda più intenso. Ogni volta che si dice «γενηθήτω τὸ θέλημά σου»,162 rappresentarsi nel loro insieme le sventure possibili. La sventura che costringe a orientare l’attaccamento su oggetti miserabili mette a nudo il carattere miserabile dell’attaccamento. Così, la necessità del distacco diviene più chiara. Se si rimane attaccati, se ne esce prostrati. Santa Caterina da Siena. I beni di questo mondo sono come fiori che mantengono il loro profumo e la loro bellezza solo finché non vengono colti. Cfr. «Attraverso il distacco godi.»163

L’albero del mondo, il fico eterno le cui radici vanno recise con la scure del distacco (Gītā). È l’energia vegetativa. La croce è di legno, ma è fatta con un albero tagliato. Adamo ha mangiato il frutto dell’albero. (Due uccelli… L’uno mangia il frutto…)164 Bisogna tagliare l’albero e il proprio corpo morto dev’essere il frutto. Strappare l’energia vegetativa. L’estrema difficoltà che provo spesso nell’eseguire la minima azione è un favore che mi viene reso. Perché così, con azioni ordinarie e senza attirare l’attenzione, posso recidere qualche radice dell’albero. Per quanto si sia distaccati dall’opinione, le azioni straordinarie, una volta presa una risoluzione, racchiudono uno stimolo esteriore che non lascia scampo. Questo stimolo è del tutto assente dalle azioni ordinarie. Trovare una difficoltà straordinaria nel compiere un’azione ordinaria è un favore di cui bisogna essere riconoscenti. Non si deve chiedere la sparizione di questa difficoltà. Occorre desiderare ardentemente, occorre implorare la grazia di farne uso. In generale, non auspicare la sparizione di nessuna delle proprie miserie, ma la grazia che le trasfiguri. Pratica tibetana: giungere, dopo anni di meditazione, all’apparizione corporea di una divinità, che sembra più reale del resto del mondo materiale. Comprendere poi che quest’apparizione non è che una fantasmagoria – e che, di conseguenza, lo è anche l’universo.165 (Ma non è forse che una tappa?) Esercizio di distacco attraverso l’intelligenza. Non si è attaccati a ciò che non esiste. È l’attaccamento a produrre in noi la falsa realtà (realtà surrogato) del mondo esteriore. Bisogna abolire in noi la realtà surrogato per raggiungere la vera realtà. E questo, meglio ancora di tutte le pratiche, forse, lo

produce la sventura estrema (Giobbe. La croce.) La realtà del mondo, per noi, è fatta del nostro attaccamento. È la realtà dell’io che trasferiamo alle cose. Non è per niente la realtà esteriore. Questa non è percepibile che attraverso il distacco totale. Se ne resta anche solo un filo, c’è ancora attaccamento. Giobbe. Anche l’arte è una purificazione fondata sui trasferimenti d’immaginazione. Arte greca. Il bello: realtà senza attaccamento. Metodo per comprendere le immagini, i simboli ecc. Non cercare d’interpretarli, ma fissarli fino a far scaturire la luce. […] In generale: metodo per esercitare l’intelligenza consistente nel fissare. […] Applicazione di questo metodo per distinguere il reale dall’illusorio. Nella percezione sensibile, se non si è sicuri di ciò che si vede ci si sposta (si gira intorno, per esempio) tenendo lo sguardo fisso fino a che non si manifesta il reale. Nella vita interiore, il tempo sostituisce lo spazio. Con il tempo si viene modificati e, se attraverso le modificazioni si mantiene lo sguardo orientato su una determinata cosa, alla fine l’illusione si dissipa e il reale si manifesta. La condizione è che l’attenzione sia uno sguardo e non un attaccamento. Dall’istante in cui si sa che qualcosa è reale, non ci si può più attaccare. Chi desidera la propria salvezza non crede sul serio alla realtà della gioia in Dio. «Attraverso il distacco godi.» Nulla è più letteralmente vero. Distacco e rinuncia: spesso sinonimi in sanscrito, non lo sono nella Gītā, dove «rinuncia» (saṃnyāsa) è la forma inferiore che consiste nel farsi eremita, sedersi ai piedi di un albero e non muoversi più, mentre «distacco» (tyāga) è «usare di questo mondo come se non se ne usasse».166 La correlazione dei contraddittori è distacco.

L’attaccamento a una cosa particolare non può essere distrutto che con un attaccamento a essa incompatibile. Da cui: «Amate i vostri nemici…»167 (pur considerandoli come nemici); «Chi a causa mia non odia suo padre e sua madre… e la propria anima…»168 Quando l’attenzione fissata su qualcosa ne ha reso manifesta la contraddizione (poiché al fondo di ogni pensiero, di ogni sentimento, di ogni volontà c’è contraddizione), avviene come uno scollamento. Perseverando su questa via si perviene al distacco. Non c’è castità senza distacco. Castità, povertà e obbedienza sono inseparabili. Sposare la povertà; è l’immagine più bella. L’Amore di Platone, che ha per compagna la privazione. Desiderio senza oggetto. Il desiderio è impossibile; distrugge il suo oggetto. Gli amanti non possono essere uno, né Narciso essere due. Don Giovanni, Narciso. Perché desiderare qualcosa è impossibile, bisogna desiderare nulla. L’avaro, desiderando il suo tesoro, se ne priva. Se è possibile riporre senza restrizione tutto il proprio bene in una cosa nascosta nella terra – perché non in Dio? Ma quando Dio è diventato altrettanto pieno di significato del tesoro per l’avaro, ripetersi con forza che non esiste. Provare che lo si ama anche se non esiste. È lui che, tramite l’operazione della notte oscura, si ritira, per non essere amato come un tesoro da un avaro. La povertà di san Francesco era il desiderio di gioire puramente della creazione. «Di tutto ciò nutriti attraverso il distacco.» Ogni attaccamento a un oggetto è emissione di energia (come ha luogo quest’emissione, fisiologicamente, negli attaccamenti che non siano quelli propriamente amorosi?); l’oggetto restituisce una parte dell’energia emessa su di esso (forse degradata?). Quando l’oggetto sparisce, l’energia, mantenendo lo stesso orientamento, viene emessa a vuoto,

nel vuoto che è in basso, il vuoto irreale, il nulla. È una morte parziale. Il distacco è l’emissione della totalità dell’energia verso Dio. Il distacco consiste nel fare tutto ciò che si fa, non in vista di un bene, ma per necessità, e nel considerare il bene solo come oggetto dell’attenzione. Sono le cose come valori a essere per noi irreali. Ma i valori menzogneri sottraggono realtà alla percezione stessa tramite l’immaginazione che la ricopre, perché i valori non sono dedotti, ma letti direttamente nella sensazione a cui sono legati. Solo il distacco perfetto consente dunque di vedere le cose nude e senza questa nebbia di valori menzogneri. Ecco perché Giobbe ha avuto bisogno delle ulcere e del letame perché gli si rivelasse la bellezza del mondo: perché non c’è distacco senza dolore. E non c’è dolore sopportato senza odio e senza menzogna che non comporti anche distacco. Τῷ πάθει μάθοϛ.169 Le affermazioni contenute nella matematica sono tutte contestabili. La matematica come fatto è incontestabile. Considerata come immagine, conduce alle certezze. Bisogna contemplarla tramite il distacco. La fame (la sete ecc.) e ogni desiderio della carne sono orientamenti del corpo verso il futuro. Tutta la parte carnale della nostra anima è orientata verso il futuro. La morte la gela. La privazione somiglia lontanamente alla morte. La carne vive orientata verso il futuro. La concupiscenza è la vita stessa, il distacco una morte. «Terit carni superbiam – potus cibique parcitas.»170 La superbia della carne consiste nel credere che questa tragga la vita da sé stessa. La fame e la sete le ricordano che dipende dall’esterno. Il sentimento di dipendenza la rende umile. Ciò che noi chiamiamo desiderio costituisce il possesso. Il possesso è camuffato da desiderio, come la principessa del

folklore indossa abiti da serva. Riconoscerlo significa trovare, come dice l’Upaniṣad, il luogo in cui dimorano i desideri che sono realtà ma che il falso vela.171 Che sono realtà, cioè possesso. Se desidero vedere un amico, desidero non già l’incontro, ma il bene che presumo ne scaturisca. Se separo questo desiderio, se lo strappo via, se lo volgo verso il bene puro, esso stesso diventa un bene molto più grande di quello che mi attendevo dall’incontro. Ecco perché «tutto quanto voi abbandonerete per me lo ritroverete centuplicato sin da quaggiù».172 L’abbandono stesso è questo cento volte tanto. Il desiderio impotente si separa dai suoi oggetti e ritorna su sé stesso. La nozione di bene puro, incondizionato – nozione ineffabile – entra così nell’anima. E allora l’anima vi aderisce oppure no. Questa scelta rimane un mistero. Se vi aderisce, implora poi di non avere mai più scelta. Il problema diventa allora quello di consacrare la totalità dell’energia a questo bene di cui altro non si sa che il nome. Il pensiero della morte conferisce il colore dell’eternità agli eventi della vita. Se ci fosse data qui la vita eterna, nel guadagnarla la nostra vita terrestre perderebbe l’eternità che la illumina in controluce. «Di questo tutto, mediante il distacco, nutriti.»173 È il distacco a rendere eterna ogni cosa. In ogni affetto di una certa forza è coinvolta la vita. Si può amare di amore puro solo rinunciando a vivere. Chiunque ami la sua vita ama il prossimo e gli amici come Ugolino i propri figli. Niente è reale per chi ama in tal modo. La realtà si manifesta solo a chi accetta la morte. Dunque: «Di questo universo nutriti, attraverso la rinuncia».174 Quale dono più grande della morte poteva essere dato alle creature? Solo la morte ci insegna che non esistiamo, se non come

una cosa tra tante altre. Possono essere salvati solo quanti sono costretti da qualcosa a trattenersi nel momento in cui vorrebbero accostarsi a quelli che amano. Coloro nei quali il sentimento del bello ha posto la contemplazione. Forse per questo Platone dice che solo la bellezza è discesa quaggiù dal cielo per salvarci. Qui, guardare e mangiare sono due. Si deve scegliere l’uno o l’altro. Sono entrambi chiamati «amare». Solo coloro a cui capita a volte di restare per un po’ a guardare senza mangiare hanno qualche speranza di salvezza. «L’uno mangia i frutti, l’altro lo guarda.»175 La parte eterna dell’anima si nutre di fame. Quando non si mangia, l’organismo digerisce la propria carne e la trasforma in energia. Anche l’anima. L’anima che non mangia digerisce sé stessa. La parte eterna digerisce la parte mortale dell’anima e la trasforma. La fame dell’anima è difficile da tollerare, ma non esiste altro rimedio per la malattia. Far morire di fame la parte peritura dell’anima, mentre il corpo è ancora in vita. Così un corpo di carne passa direttamente al servizio di Dio. È possibile trasferire la sessualità su qualsiasi oggetto: collezione, oro, potere, partito, gatto, canarino, Dio (ma allora non è il vero Dio). È possibile annientare la sessualità e operare una trasmutazione dell’energia che le era destinata. Questa operazione è il distacco. Ogni attaccamento ha la stessa natura della sessualità. In questo Freud ha ragione (ma solo in questo). Un’energia supplementare ci è stata affidata in custodia da Dio. È il talento della parabola.176 Alcuni la tirano fuori con l’aggiunta di voluttà. Altri la danno in pasto alla parte migliore della loro anima.

GIUSTIZIA

Non ritenere di avere diritti. Ovvero, non oscurare o deformare la giustizia, ma non ritenere che ci si possa legittimamente aspettare che le cose avvengano conformemente a essa; tanto più che noi stessi siamo ben lungi dall’essere giusti. Sovrapposizione verticale. Vi è un cattivo modo di ritenere di avere diritti e un cattivo modo di ritenere di non averne. Bisogna sempre aspettarsi che le cose avvengano conformemente alla pesantezza, se non per intercessione del soprannaturale. Occorre essere riconoscenti se si viene trattati con giustizia. Al contrario, non bisogna mai cercare di fare al prossimo altro bene che trattarlo con giustizia. Per provare una gratitudine pura (oltre che nel caso dell’amicizia), ho bisogno di pensare che mi si tratti bene, non per pietà, o per simpatia, o per capriccio, a titolo di favore o di privilegio, e neppure per un esito naturale del temperamento, ma per desiderio di operare secondo giustizia. Chi mi tratta così si augura che quanti sono nella mia situazione vengano trattati allo stesso modo da tutti quelli che sono nella sua (ma non necessariamente obbligati da coercizione, perché può succedere che simili coercizioni abbiano conseguenze più pericolose che utili). Leggere Dio in ogni manifestazione, senza eccezione, ma in base al corretto rapporto di manifestazione specifico di ogni apparenza. Sapere in che modo le apparenze non sono Dio. Fede, dono della lettura.

Il dono della lettura è soprannaturale, e senza di esso non vi è giustizia. Intelligenza di quella realtà suprema che è l’assenza di quell’oggetto che è l’oggetto dell’amore, e lettura di tale realtà negli oggetti considerati tutti insieme e ciascuno singolarmente. Condizione dell’obbedienza, che è la giustizia. Non giudicare. Tutte le colpe sono uguali. Non c’è che una colpa: essere incapaci di nutrirsi di luce. Essendo questa capacità assente, infatti, tutte le colpe sono possibili e nessuna è evitabile. «Il mio nutrimento è fare la volontà di colui che m’invia.»177 Non vi è altro bene che tale capacità. La giustizia di Dio è, forse, rigorosa (ma celata) nel dominio spirituale. Qui, il bene è sempre ricompensato con esattezza, il male sempre esattamente punito. (Karman?) L’amore (ajgavph) è una disposizione della parte soprannaturale dell’anima. La fede è una disposizione di tutte le parti dell’anima – e anche del corpo –, ognuna delle quali riserva all’oggetto dell’amore l’atteggiamento che si confà alla sua natura. Giustizia secondo Platone. (Anche la Scrittura accosta sempre fede e giustizia.) La speranza è la fede orientata verso il futuro. È l’equivalente soprannaturale della risoluzione a perseverare nella virtù. Fede, giustizia; senso di giusta disposizione interiore e senso di lettura. È la disposizione interiore a rendere la lettura corretta, non esiste altro criterio. [I nomi delle quattro virtù greche indicano virtù naturali – qualità che hanno conservato nella tradizione cristiana – oppure soprannaturali; così, la saggezza corrisponde approssimativamente alla carità, la giustizia alla fede, il coraggio alla speranza. La temperanza non ha equivalente (potrebbe essere l’obbedienza? Ma questa è molto di più.

Benché dopo tutto σωφροσύνη…178)]. Non giudicare. Come il Padre celeste, che non giudica; tramite lui gli esseri si giudicano. Lasciare che tutti gli esseri vengano a noi, e che si giudichino da sé stessi. Essere una bilancia. Allora, divenuti immagine del vero giudice, che non giudica, non verremo giudicati. La passione è l’esistenza attuale della giustizia perfetta senza contaminazione alcuna di apparenza. La giustizia è essenzialmente non agente. Occorre che essa sia trascendente o sofferente. È la giustizia puramente soprannaturale, assolutamente spogliata di ogni soccorso sensibile, perfino dell’amore di Dio nella misura in cui è sensibile. È una sorta di empietà supporre che si tratti di una fantasia, di una semplice visione dello spirito, quando la giustizia impura esiste. A meno che non si consideri tale giustizia impura come non contenente in realtà nessuna partecipazione alla giustizia, se non l’apparenza. La Trinità è indispensabile alla nozione greca e cristiana della giustizia. [Notare che se si considera Dio in sé, lo Spirito è la relazione tra il Padre e il Figlio; se si considera in rapporto al mondo, il Figlio è la relazione tra il Padre e lo Spirito]. Dio come autore del necessario. Dio come autore del bello. Dio come autore del bene. Padre, Verbo e Spirito. Il bello è il necessario che, pur rimanendo conforme alla sua legge e solo a essa, obbedisce al bene. La giustizia incarnata, ecco cos’è veramente il bello, poiché non vi è nulla nella carne che sia in rapporto con la giustizia. La distanza tra il necessario e il bene è la distanza stessa tra la creatura e il creatore. Per essere giusti bisogna essere nudi e morti. Senza immaginazione. Ecco perché il modello della giustizia dev’essere nudo e morto. Solo la Croce non è suscettibile

d’imitazione immaginaria. Affinché si possa avvertire la distanza tra noi e Dio, occorre che Dio sia uno schiavo crocifisso. Infatti, non avvertiamo che la distanza verso il basso. È molto più facile sostituirsi con l’immaginazione al Dio creatore piuttosto che al Cristo crocifisso. Non è mangiando un frutto, come credeva Adamo, che si diventa uguali a Dio, ma passando per la Croce. È evidente che il modello puro di giustizia da imitare non deve possedere nulla di ciò che le circostanze accordano o tolgono. Deve ricevere dalle circostanze solo ciò che non possiamo desiderare. Così, la somiglianza che desideriamo avere con lui non riguarda in alcun modo le circostanze. Se questo modello fosse un re giusto, desidereremmo essere re, non giusti. Con l’immaginazione ci si regala tutto ciò che si desidera. Non si desidera la Croce. Contemplando la nostra miseria nel Cristo, l’amiamo con tenerezza. Idea dal discorso di Agatone nel Simposio: l’Amore è assolutamente scevro di ogni ingiustizia, perché non fa né patisce violenza. Non conquista con la forza, né con la forza lo si conquista. Questo non vale che per il consenso segreto e muto dell’anima. C’è qualcosa in noi che sfugge completamente ai rapporti di forza, che non tocca la forza e non ne viene toccato, ed è il principio soprannaturale della giustizia, perché la forza è ingiustizia. La forza è il male. Regna dovunque, ma non insudicia mai l’Amore con il suo contatto. Idea squisitamente greca, splendida. Statue greche. Il punto di equilibrio su cui la pesantezza non ha presa, sebbene sia rispettata. L’Amore del Simposio. I greci avevano orrore della forza e sapevano che tutto è forza, tranne un punto. L’equilibrio, rapporto di pesi, è sottratto alla gravità. La santità e le virtù contrapposte (idea di P.P.179). Idea pitagorica. La giustizia è un’armonia. L’armonia è l’unità dei contrari (Filolao). Ciò che è simile non ha bisogno di

armonia. (Epinomide: assimilazione dei numeri non simili per natura). La bilancia, antico simbolo egiziano, ne è l’immagine. L’equilibrio è il possesso simultaneo di virtù incompatibili. In tutto ciò che è sociale c’è forza. Solamente l’equilibrio annulla la forza. Se si è consapevoli delle ragioni dello squilibrio sociale, bisogna fare ciò che è nei propri mezzi per aggiungere peso sul piatto troppo leggero. Se anche il peso fosse il male, adoperandolo con questa intenzione, forse, non ci si macchierebbe. Ma bisogna aver concepito l’equilibrio ed essere sempre pronti a cambiare fronte, come la giustizia, questa «fuggitiva dal campo dei vincitori». L’equilibrio è la media proporzionale tra la pesantezza e la non pesantezza. La giustizia è media proporzionale tra libertà soprannaturale e forza. Tutti i crimini sono un trasferimento del male da colui che li perpetra a colui che li subisce. L’amore illegittimo come l’omicidio. Quando c’è una quantità uguale di male nell’uno e nell’altro, allora il crimine si riduce alla violenza o all’indecenza fisica. In secoli di contatto con i malfattori senza la compensazione di un principio purificatore, l’apparato della giustizia penale è stato così contaminato dal male che molto spesso una condanna sfocia in un trasferimento di male dall’apparato penale al condannato, in un crimine contro il condannato, e questo anche se egli è colpevole e la pena non è proporzionata. I criminali incalliti sono i soli a cui l’apparato penale non possa nuocere. Agli innocenti fa un male orribile. Solo Dio può subire l’ingiustizia senza che questo gli rechi alcun male. Per essere perfettamente giusti, si deve poter subire l’ingiustizia senza riceverne alcun male. Diversamente, sotto il peso dell’oppressione si diventa presto ingiusti. Solo Dio incarnato può essere il giusto perfetto.

Giustizia soprannaturale, operazione affine a quella che supera la prospettiva. Nessun centro nel mondo, solo fuori dal mondo. Per amore di Dio, rinunciare al potere illusorio (da egli concesso) di poter dire: «Io sono». Assurdo. In Dio, i limiti del volere e del potere coincidono. Egli vuole solo ciò che può, e se non può di più è perché non lo vuole. E via di seguito, all’infinito, in cerchio. Il cerchio è la proiezione della verità divina. Lo stesso vale per misericordia e giustizia. La sua giustizia gli impone di accordare misericordia a chiunque è in grado di riceverla, e così anche ogni forma di bene. La sua misericordia gli impone di negare il perdono e ogni forma di bene a quanti non li vogliono. Nel pensare a Dio, è infantile distinguerne la misericordia e la giustizia. E la distinzione non è legittima nemmeno se si pensa all’uomo, perché di quest’assurdità non si può fare alcun uso, contrariamente ad altre. Almeno così mi pare. Gli attributi di Dio non si superano a vicenda. Hanno lo stesso limite, l’abdicazione costruita dall’atto creatore di Dio. Noi cancelliamo questo limite abdicando a nostra volta alla nostra esistenza di creature. La subordinazione consentita di tutte le facoltà naturali dell’anima all’amore soprannaturale è la fede. Nella Repubblica, Platone la chiama giustizia. In san Paolo fede e giustizia sono regolarmente individuate: «La sua fede gli è stata imputata a giustizia, la sua fede lo ha giustificato» ecc. In una diversa accezione, la giustizia è l’esercizio dell’amore soprannaturale. È la stessa cosa, perché quest’ultimo si esercita, si effonde negli atti solo se le altre facoltà dell’anima diventano sue servitrici, e il corpo stesso, per mezzo di esse, suo servitore. Ogni facoltà naturale deve avere nella propria natura un motivo sufficiente che la costringa a subordinarsi all’amore

soprannaturale, eccetto mentire. L’anima posta al di fuori della giustizia – al di fuori della fede – mente a sé stessa. Dire «io» è mentire. «Non abbiamo compiuto molti miracoli nel tuo nome?» «Allontanatevi da me, voi i cui atti sono illegittimi.»180 L’unico criterio è dunque la giustizia. Il Cristo va riconosciuto come Dio perché giusto, non perché ha compiuto miracoli. Tra le questioni politiche, la prima è il modo in cui gli uomini di potere trascorrono le loro giornate. Se le trascorrono in condizioni tali da rendere materialmente impossibile un elevato sforzo di attenzione mantenuto a lungo, nessuna giustizia è possibile. Per poter fare a meno dell’attenzione umana, si è tentato di affidare la giustizia a determinati meccanismi. Non si può. La Provvidenza di Dio vi si oppone. Solo l’attenzione umana esercita legittimamente la funzione giudiziaria.

GRAZIA

Impara a ricusare l’amicizia o, piuttosto, il sogno dell’amicizia. Desiderare l’amicizia è una grave colpa: essa dev’essere una gioia gratuita, come quelle elargite dall’arte o dalla vita (come le gioie estetiche). Poiché appartiene all’ordine della grazia, per essere degni di riceverla bisogna rifiutarla. Vita e morte degli altri. Gioire del fatto che vi siano esseri pensanti, oltre a noi; grazia essenziale. Desiderare la morte di un essere umano significa rifiutare questa grazia (Cfr. Creonte). Ma gioire anche del fatto di essere tutti mortali; per noi stessi e per gli altri, in egual misura. Non desiderare mai la propria morte, ma accettarla. Concepire l’idea e la possibilità del male, senza immaginarlo; ecco il senso di Ulisse legato e dei suoi marinai con le orecchie piene di cera. Non è così per il bene (?). Se lo si concepisce con chiarezza, e se con chiarezza se ne concepisce la possibilità, lo si compie. Tale è la grazia concessa all’uomo. Due modi di rinunciare ai beni materiali. Privarsene in vista di un bene spirituale. Concepirli e sentirli come condizioni dei beni spirituali (per esempio la fame, la fatica, l’umiliazione ecc. appannano l’intelligenza e disturbano la meditazione) e tuttavia rinunciarvi. La rinuncia della seconda specie è pura nudità di spirito. Nondimeno, presentandosi da soli e non connessi ai beni spirituali, i beni materiali sarebbero ben poco pericolosi. Rinunciare a tutto ciò che non è grazia e non desiderare quest’ultima.

Rinnegamento di san Pietro. Proclamarsi fedeli al Cristo significava già rinnegarlo, perché si presumeva la fonte della fedeltà in sé stessi e non nella grazia. Il Cristo ha avuto ogni miseria umana, tranne il peccato. Ma ha avuto tutto ciò che rende l’uomo capace di peccato, ovvero il vuoto. Tutti i peccati sono tentativi di colmare un vuoto. Così, la mia vita piena di macchie è vicina alla sua perfettamente pura, e questo vale anche per le esistenze più infime. Per quanto in basso io possa cadere, non mi allontanerò molto da lui. Se cado troppo, però, non ne sarò più consapevole. Potrò tornare a esserlo, un giorno, solo attraverso la grazia che in quel giorno riceverò. Il pensiero della morte reclama un contrappeso che – grazia a parte – non può essere che una menzogna. Per l’uomo, niente di più insostenibile della coscienza della propria modificabilità. È la miseria essenziale e, per contemplarla con sguardo fisso, serve la luce della grazia. Talvolta una violenza esterna produce un sentimento di vuoto. Morte improvvisa, tradimento, assenza di un essere caro, repentina perdita di qualcosa a cui il pensiero dell’avvenire era avvinghiato. Oscillazioni. È un vuoto vero e proprio, perché l’energia non orientata dell’anima si dissipa allora in movimenti disordinati. Perpetrare una violenza simile a sé stessi? Occorre che sia la grazia a farlo. Senza oscillazioni, però. La grazia colma, ma può penetrare solo là dove a riceverla c’è un vuoto, e anche questo vuoto è opera sua. Il fico infecondo. L’anima toccata dalla grazia deve dare frutti soprannaturali o disseccarsi (Giuda). Non le è più concesso dare semplicemente frutti naturali. Rinunciare all’energia ricavata dalle spinte. Al contrario, bisogna opporre loro energia. Serve quindi un’energia di diversa provenienza. (N.B.: Kant conduce alla grazia.) La fede si riferisce alla lettura, la carità alla pesantezza. Non ci si può impedire di amare, ma si può scegliere cosa

amare. Bisogna amare ciò che è assolutamente degno d’amore, non ciò che è degno per certi riguardi, indegno per altri (Platone). Nulla di ciò che esiste è degno d’amore in senso assoluto. Bisogna perciò amare ciò che non esiste. Ma quest’oggetto d’amore che non esiste non è privo di realtà, non è una finzione. Le nostre finzioni, infatti, non possono essere più degne d’amore di noi stessi, che non lo siamo. La fede. Credere che niente di ciò che possiamo afferrare sia Dio. Fede negativa. Ma credere anche che ciò che non possiamo afferrare sia più reale di ciò che possiamo afferrare. Che il nostro potere di afferrare non sia il fondamento della realtà ma che, al contrario, tragga in inganno. Credere infine però che, per quanto nascosto, l’inafferrabile si manifesti. La grazia è un mistero grande quanto l’incarnazione. L’eternità che discende per incunearsi nel tempo. L’incarnazione è il momento decisivo di questa interserzione. I rapporti tra l’uomo e Dio, tra il tempo e l’eterno, il relativo e l’assoluto, sono tuttavia impenetrabili. Non vi è grado d’impenetrabilità; in questa materia, tutto è altrettanto impenetrabile dell’Eucarestia. Rivelazione e ragione, fede e ragione: la ragione è sempre l’unico strumento. Vi sono cose, però, che la ragione coglie soltanto nella luce della grazia. Dio invia la sventura a buoni e cattivi, senza distinzione, così come la pioggia e il sole (non ha riservato la croce al Cristo): Egli non stabilisce un contatto con l’individuo umano se non attraverso la grazia puramente spirituale che corrisponde allo sguardo rivolto verso di lui, cioè nella misura esatta in cui l’individuo cessa di essere tale. Nessun evento è un favore di Dio; soltanto la grazia lo è. Visioni dei santi ecc. Quantunque legate all’ardore della fede, esse riguardano l’umana debolezza. Mirabile è la vita

di un santo; più ancora lo sarebbe, però, se fosse stata ciò che è stata senza visioni né voci. Ma, anche nei santi, l’umana debolezza non ne è mai (o quasi mai) capace. Il Cristo, invece… non ha avuto né visioni né ha udito voci al monte degli Ulivi o sulla croce. Le visioni e le voci scaturiscono dall’immaginazione, che prende parte all’amore soprannaturale un po’ più di quanto non sia strettamente legittimo. Non è perché Dio ci ama che dobbiamo amarlo. È perché ci ama che dobbiamo amarci. Come amare sé stessi senza questo motivo? [Al di fuori di questo percorso, l’amore di sé è precluso all’uomo.] «Egli ci ha amati per primo.»181 Ciò non è vero che in un senso. Poiché solo l’amore soprannaturale ci fa credere in lui, egli è altresì una condizione, non un effetto, di questo nostro credere nel suo amore. Una grazia che ci consente l’amore disinteressato. La grazia è la legge del movimento discendente. L’ascendente è naturale, il discendente soprannaturale. È Dio che si affanna a cercarci. La Grazia. Per giungere a noi, Dio attraversa lo spessore del mondo. Chi crede in Dio o, più in generale, nel soprannaturale, corre il rischio di un’ancor più grande e fatale illusione; quella, cioè, di attribuire alla grazia ciò che è essenzialmente un effetto di natura meccanica. È male credere che io sia l’autore di ciò che la natura opera meccanicamente in me. Peggio, però, è credere che ne sia autore lo Spirito Santo. Ci si allontana ancor più dalla verità. Quanti non hanno lo sguardo interiore orientato verso la fonte della grazia così da riceverne la luce possono ugualmente stabilire un vero contatto con Dio se, per un incontro meraviglioso, sono oggetto di un’azione da parte di una creatura diventata una semplice mediatrice grazie alla

perfetta obbedienza. La grazia rapisce (estasi), quindi seduce. L’anima non si offre, viene presa. Spinta dalla gioia, l’anima si promette senza saperlo. Quando ritorna alla carne, non può più appartenerle. L’unione di virtù contrapposte come effetto esclusivo del soprannaturale e segno distintivo della grazia. È la trasposizione nel comportamento dell’uso logico delle proposizioni contraddittorie per raggiungere le verità divine. Trascendenza divina. Il bello ne costituisce un’applicazione (in che modo?). La creazione è una risultante del movimento discendente della pesantezza, del movimento ascendente della grazia e del movimento discendente della grazia alla seconda potenza (è forse questo ciò che nella Gītā è al di là dei guṇa, dunque dello stesso sattva?). I greci sono stati assillati dall’idea della grazia. Il rapimento di Core. Χάριϛ βίαιοϛ182 di Eschilo (καὶ παρ῝ἄκονταϛ σωφρονεῖν183). Caverna e Fedro di Platone. La morte, lo stupro, due immagini dell’azione dello Spirito Santo sull’anima. L’assassinio e lo stupro sono crimini in quanto imitazioni illegittime di Dio. O si sottomettono i contrari (con la grazia), o si viene sottomessi da essi. Non possiamo sottomettere i contrari a noi stessi; possiamo sottometterli in sé stessi a Dio. Come la matita per me quando, gli occhi chiusi, tasto il tavolo con la punta:184 essere questo per il Cristo. Abbiamo la possibilità di essere mediatori tra Dio e la parte di creazione a noi affidata. Affinché egli percepisca la sua creazione tramite noi serve il nostro consenso. È con il nostro consenso che egli opera questa meraviglia. Se solo fossi capace di ritirarmi dalla mia anima, il tavolo che ho davanti avrebbe l’incomparabile fortuna di essere visto da Dio. Dio non può amare in noi che questo consenso a ritirarci per lasciarlo passare, come egli stesso, creatore, si è ritirato per lasciare

che noi fossimo. Questa doppia operazione non ha altro senso che l’amore, così come il padre dona al figlio ciò che consentirà al figlio di fargli un dono per il suo compleanno. Dio, che non è che amore, non ha creato altro che amore. La nozione di grazia, così viva nel pensiero dei greci, era legata alla loro visione della miseria umana. Si potrebbe affermare che la visione della miseria umana può condurre altrettanto bene alla disperazione. No: la disperazione si trasforma irrimediabilmente in menzogna. Non può esserci contemplazione della miseria umana nella sua verità se non alla luce della grazia. L’Iliade, rappresentazione dell’assenza di Dio. Prova ontologica sperimentale. Io non ho in me un principio di ascensione. Non posso scalare l’aria fino al cielo. Solo orientando il mio pensiero verso qualcosa migliore di me questo qualcosa mi solleverà. Se vengo realmente sollevata, ciò che mi solleva è reale. Nessuna perfezione immaginaria può sollevarmi di un solo millimetro. Mentre la immagino, infatti, una perfezione immaginaria si trova matematicamente al mio stesso livello, né più in alto, né più in basso. A sollevare è l’orientamento del pensiero verso una perfezione reale: «Colui che, il pensiero rivolto a lui, celebra la gloria di Zeus, quegli otterrà la pienezza della saggezza.» (Eschilo.)185 Questo effetto dell’orientamento del pensiero non è affatto paragonabile alla suggestione. Se ogni mattina mi dico: «Sono coraggiosa, non ho paura», posso diventare coraggiosa; ma di un coraggio conforme a ciò che nella mia attuale imperfezione mi rappresento con questa parola e che, quindi, non andrà oltre questa imperfezione. Si tratterà di una modificazione sullo stesso piano, non di un cambiamento di piano. La contraddizione è il criterio. Non ci si può procurare per suggestione cose incompatibili. Solo la grazia può farlo. I nostri desideri sono infiniti nelle pretese, ma limitati per via dell’energia da cui procedono. Perciò è possibile

dominarli con l’aiuto della grazia, e consumarli fino a distruggerli. Compreso ciò con chiarezza, essi sono virtualmente vinti, a patto di mantenere l’attenzione su questa verità. Siccome non ci si può attendere che un uomo privo di grazia sia giusto, serve una società organizzata in modo tale che le ingiustizie si puniscano a vicenda in un’eterna oscillazione. Il genio, come la grazia, è l’ala che solleva ciò che è pesante. Non possiamo captare l’energia solare. È lei che si trasmuta da sé, assumendo una forma tale che ci consente di afferrarla. È una grazia. Noi possiamo solo disporre le cose in modo che vi discenda. Non facciamo nulla. Ambiguità del demoniaco e del divino. Quando il soprannaturale penetra in un essere che non ha abbastanza amore per riceverlo, diventa un male. Qualsiasi progresso esige che si riceva il soprannaturale in misura maggiore dell’amore che si ha. Da questo derivano le tentazioni dei santi. Per vincerle è sufficiente mantenere l’orientamento verso Dio. Altrimenti tutta la grazia si trasforma in odio; come attraverso la conversione tutto il male si trasforma in amore. In fatto di trascendenza c’è un’architettura delle rappresentazioni e delle nozioni. Alcune vanno messe in primo piano, altre vanno accolte nella parte dell’anima muta, segreta, sconosciuta alla coscienza. Alcune vanno ospitate nell’immaginazione, altre nell’intelligenza astratta, altre ancora in entrambe ecc. Quest’architettura fine e articolata, che opera anche nei cosiddetti semplici quando si accostano alla santità, è ciò che edifica un’anima pronta alla salvezza. Non è l’uomo a metterla in atto: ciò avviene per effetto della grazia, se questa non viene contrastata. In genere, colui in cui si mette in atto non se ne avvede o quasi. Tale è la grazia di Dio che a volte ci fa cogliere una certa

bellezza perfino nella sventura: è la rivelazione di una bellezza più pura di quella conosciuta fino ad allora. Giobbe. La parabola del seminatore dimostra che Dio effonde continuamente la sua grazia in modo assolutamente uguale su tutti; la parabola degli operai dell’undicesima ora dimostra che Dio accorda una ricompensa assolutamente uguale a tutti quelli che rispondono al suo appello consacrando il loro corpo all’obbedienza. Come si osa dunque postulare una sua ineguaglianza in materia spirituale? La si constata quaggiù; ma la causa dev’essere attribuita agli uomini, e Dio la cancella in coloro che cela in lui. Non dimenticare che una pianta vive di luce e acqua, non di sola luce. Sarebbe perciò sbagliato contare soltanto sulla grazia. Serve anche l’energia della terra. Il vuoto serve solo alla grazia. Bisogna quindi eliminarlo per quanto possibile dalla vita sociale, perché la società non è fatta di santi. Ce ne sarà sempre abbastanza per gli eletti. Il vuoto è meglio dell’equilibrio che arriva dall’esterno. Ma questo equilibrio è meglio di quello fabbricato dall’immaginazione. L’immaginazione lavora senza sosta per sigillare anche le minime fenditure da cui passerebbe la grazia.

GROSSO ANIMALE

«Colui a cui poco è rimesso ama poco.»186 Si tratta di colui nel quale la virtù sociale occupa un posto importante. In lui, la grazia trova poco spazio. L’obbedienza al grosso animale conforme al bene: questa è la virtù sociale. Il grosso animale è sensibile al prestigio. La sola virtù cui nella morale del grosso animale non corrisponde alcuna immagine è l’umiltà. Per obbedienza al grosso animale, l’uomo virtuoso si fa farisaico. Il grosso animale è una bestia: è sensibile alla forza e calpesta la debolezza. Ai suoi occhi l’umiltà non è una virtù. Dio, perfettamente presente e perfettamente assente rispetto alla creazione. Il grosso animale ci nasconde la sua assenza. Il concetto di Provvidenza, nel cattolicesimo, discende dal grosso animale. L’uomo è un animale sociale, e il sociale è il male. Non possiamo farci niente, e ci è vietato accettarlo, se non vogliamo rimetterci l’anima. La vita non può essere dunque che lacerazione. Questo mondo è inabitabile, bisogna fuggire nell’altro. Ma la porta è chiusa. Quanto bisogna bussare prima che si apra! Per entrare davvero, per non restare sull’uscio, bisogna cessare di essere sociali. Nella società, l’individuo è l’infinitamente piccolo. L’equilibrio è la subordinazione di un ordine a un altro ordine trascendente il primo e presente nel primo sotto forma di infinitamente piccolo. Una vera monarchia sarebbe così la città perfetta. Nella società, ognuno è l’infinitamente piccolo che

rappresenta l’ordine trascendente il sociale e infinitamente più grande. Stoici: anche se schiavo, il saggio è sempre re. L’uomo in contatto con il soprannaturale è essenzialmente re, in quanto presenza, sotto forma d’infinitamente piccolo, di un ordine trascendente il sociale. Del tutto indifferente è il posto che occupa nella gerarchia sociale: in quel posto, egli è centro di gravità. Non può agire, o agisce in qualità d’infinitamente piccolo: la sua è un’azione infinitamente piccola. Solo la sua presenza è infinitamente, transfinitamente grande. Quanto al grande nell’ordine sociale, vi è suscettibile solo chi ha intercettato una grande parte dell’energia del grosso animale. Ma in tal caso non può aderire al soprannaturale. Roma è il grosso animale ateo, materialista, che adora solo sé stesso. Israele è il grosso animale religioso. Nessuno dei due è amabile. Il grosso animale è sempre rivoltante. Non vi è spiritualità se non là dove il grosso animale si dissolve; e allora, inevitabilmente, grande è la fragilità davanti ai pericoli esterni. Per purificare il male, non c’è che Dio o la Bestia sociale. L’Anticristo è l’incarnazione della Bestia sociale. La purificazione consiste nell’arbitrio senza limiti. Tutto è concesso per servire la Bestia, come anche per servire Dio. Ma non si può servire Dio, che è altrove, nei cieli. Servire il falso Dio (la Bestia sociale sotto qualsiasi personificazione) purifica il male rimuovendone l’orrore. Al servitore nulla sembra male o, almeno, nulla deve più sembrar male, se non le inadempienze nel servizio. Servire il vero Dio lascia vivo, e perfino acuisce, l’orrore del male. Questo male di cui si ha orrore è al contempo amato in quanto emanazione della volontà divina. L’idolatria nasce quando, nonostante la sete del bene assoluto, non si possiede l’attenzione soprannaturale; e non si ha la pazienza di lasciarla nascere. Per vivere, il grosso animale ha bisogno dell’intelligenza inseparabile dall’individuo. Ecco perché l’uomo intelligente

può tenere sotto ricatto il grosso animale, se solo lo vuole. Lo sciopero dovrebbe essere l’arma per eccellenza di coloro la cui professione implica il pensiero. Ci sono due beni che, pur avendo lo stesso nome, sono completamente diversi; quello che è il contrario del male, e quello che è l’assoluto (che non può essere, cioè, altro che il bene). L’assoluto non ha contrario. Il relativo non è il contrario dell’assoluto, ne discende con un rapporto non commutativo. Ciò che noi vogliamo è il bene assoluto. Ciò a cui possiamo giungere è il bene correlativo del male. Per un abbaglio lo prendiamo per quel che vogliamo. Il principe in procinto di amare la serva invece della padrona. Sono gli abiti la causa dell’abbaglio. È il sociale a colorare di relativo l’assoluto. Anche l’amore e l’ingordigia risentono dell’influenza sociale (moda). Il rimedio è nell’idea di relazione. La relazione nasce con violenza dal sociale. È monopolio dell’individuo. I beni sociali sono beni convenzionali. Il grosso animale è il solo oggetto d’idolatria, il solo succedaneo di Dio, la sola imitazione di un oggetto che è infinitamente distante da me e che è me. Non esistono che cristianesimo e idolatria. E, sotto svariati aspetti, il sociale è l’unico idolo. (E Gide, il surrealismo ecc.? Anche l’io può essere idolo.) Il sociale e l’io sono i due idoli. Roma e Israele hanno travasato nel cristianesimo, confuso con lo Spirito del Cristo, quello della Bestia. Israele è esattamente la figura della chiesa come la intende sant’Agostino, Israele che ha ucciso il Cristo. Condannando un infedele che nutre un affamato, non ha peccato contro lo Spirito? La Bestia è l’idolatria sociale, l’idolatria del grosso animale di Platone. E dice: «…anathema sit». L’amore incondizionato della Chiesa è idolatria. Si ha il diritto di amare incondizionatamente solo ciò che è incondizionato, ovvero Dio e la presenza infusa di Dio – sia essa in atto in un santo, o potenziale in ogni altra creatura

pensante. Di incondizionato, nella chiesa, vi è unicamente la presenza del Cristo nell’Eucarestia. La chiesa in quanto società che esprime opinioni è un fenomeno di questo mondo, condizionato. Dio ha instillato in ogni essere pensante la capacità di luce necessaria per accertare la verità di ogni pensiero. Il Verbo è la luce che illumina ogni uomo.187 Quale testo più categorico si potrebbe desiderare? L’autorità della chiesa dispone a buon diritto solamente dell’attenzione. Per ciascuna verità in particolare, l’adesione non può che scaturire da un’illuminazione interiore dell’intelligenza e dell’amore. L’adesione incondizionata e globale a tutto ciò che la chiesa insegna, ha insegnato e insegnerà, e che san Tommaso chiama fede, non è fede, ma idolatria sociale. Una moltitudine di uomini per la maggior parte imperfetti non può certo enunciare la verità che Dio consegna in segreto, sotto forma di silenzio, a un essere perfetto in contemplazione. Insieme, ebrei e romani hanno crocifisso il Cristo. Ma gli hanno fatto di peggio allorché il cristianesimo è diventato religione dell’impero con il Vecchio Testamento come testo sacro. Il falso profeta con corna di agnello e lingua di serpente non potrebbe essere la chiesa così costituita? Tutto ciò che non è stato sempre e ovunque a disposizione di chiunque desideri la verità è cosa diversa dalla verità. È per difetto di fede che si avverte il bisogno di associarvi la credenza sociale. Per questo si accetta l’usurpazione sociale della chiesa. L’inquisizione ci difende dalla tentazione del dubbio. Sapendo che in caso di dubbio si verrà uccisi, non si dubiterà. Il diavolo è il collettivo (è la divinità di Durkheim). È quanto esprime apertamente l’Apocalisse con la bestia, che è in tutta evidenza il grosso animale di Platone.

L’orgoglio, attributo distintivo del diavolo, è una cosa sociale, πλεονεξία.188 L’orgoglio è l’istinto di conservazione sociale. L’umiltà è l’accettazione della morte sociale. Il diavolo è padre del prestigio, e il prestigio è sociale: «L’opinione, regina del mondo». L’opinione è quindi il diavolo, principe di questo mondo.

LIBERTÀ

Possibilità. Concetto che non ha alcun senso, poiché trasferisce nel tempo le dimensioni dello spazio, e di cui non possiamo tuttavia fare a meno. Causa di tutti i paralogismi riguardanti la libertà, genera differenza tra futuro e passato. Nelle disposizioni con noi stessi siamo costretti a impiegare di continuo un concetto assurdo e contraddittorio. […] L’esistenza appartiene al tempo, il valore all’eternità. In che modo potrebbe non esserci lacerazione? La possibilità implica questa contraddizione. Senza possibilità non vi è necessità né libertà. Non ci è permesso sciogliere queste contraddizioni. Definizione concreta di libertà: quando il pensiero dell’azione precede l’azione. Sofocle. L’uomo è sempre (come in Eschilo) preda del destino, ma esteriormente. Non interiormente. […] Sofocle ha scelto i miti più terribili (Edipo, Oreste) per portarvi la serenità. La lezione delle sue tragedie è: non c’è chi possa sottrarre ad altri la libertà interiore. I suoi eroi conoscono la sventura, non l’ossessione. Gītā. Notare che il dharma, in quanto dipendente dalla casta, quindi dalla nascita, quindi dall’incarnazione precedente, dipende da una scelta anteriore. Non è che non si abbia scelta: piuttosto, se ci si colloca in un determinato momento, non si ha più scelta. Non si può più fare diversamente; è vano sognare di farlo, ma è bene elevarsi al di sopra di ciò che si fa. Così si sceglie qualcosa di meglio per il futuro. Scelta illusoria. Quando si crede di scegliere, si è di fatto

inconsapevoli, prigionieri dell’illusione, e si diventa un trastullo. Si cessa di esserlo elevandosi al di sopra dell’illusione fino alla necessità, ma allora non c’è più scelta, un’azione è imposta dalla situazione stessa percepita con chiarezza. Non vi è altra scelta che quella di ascendere. L’immaginazione che colma il vuoto si attacca ai segni e non al significato, che non è oggetto d’immaginazione. La libertà in quanto tale non è oggetto di fantasia. «Io sono libero» è una contraddizione, perché ciò che non è libero in me dice «io». Lucifero. La sola esistenza di esseri altri da Dio sottintende la possibilità del peccato. Questa possibilità non è in relazione alla libertà (in quanto non esiste per Dio) ma all’ESISTENZA. L’esistenza separata. (Il Cristo non poteva peccare): creando, Dio ha creato la possibilità del peccato. Creazione, rinuncia. Restaurare la libertà spirituale. La chiesa ha sbagliato a separare libertà e spiritualità: il Rinascimento, nel suo bisogno di libertà, ha abbandonato la spiritualità. Si è intriso di Grecia, trascurando la spiritualità greca. L’intelligenza ha bisogno di una libertà totale, comprendente la possibilità di negare Dio; di conseguenza, la religione è questione legata all’amore e non all’affermazione o alla negazione. Nessuna cosa buona, infatti, può recare danno all’intelligenza. Sebbene non abbia la funzione di affermare, l’amore soprannaturale rappresenta tuttavia un modo di cogliere la realtà più pieno di quello dell’intelligenza, e questo è conosciuto tramite l’intelligenza stessa, nell’anima in cui esiste l’amore soprannaturale; poiché, se non esiste, l’intelligenza non può pronunciarsi in proposito. Tramite l’intelligenza sappiamo che ciò che l’intelligenza non coglie è più reale di ciò che coglie. L’esperienza del trascendente; per quanto ciò appaia contraddittorio, il trascendente può essere conosciuto solo attraverso il contatto, poiché le nostre facoltà non possono

fabbricarlo. Libertà e peccato. Possedere un tesoro contiene in sé la possibilità di perderlo; tuttavia, perdere una perla non significa avere una perla. Il peccato è uno spreco di libertà. Dio ci ha creati liberi e intelligenti perché rinunciassimo alla nostra volontà e alla nostra intelligenza. Rinunciarvi significa prima di tutto, nell’ordine della rappresentazione, esercitarle correttamente (in conformità a regole corrette) e nella loro pienezza. In secondo luogo, sapere che la realtà del rappresentabile è irreale in confronto a quella del non rappresentabile. Nel rinascimento vi è stato un movimento ben orientato, e una duplice incapacità. Quella degli assetati di libertà spirituale, che hanno ripudiato la chiesa e, quindi, quasi subito, la spiritualità. Quella della chiesa, che a quella sete di libertà spirituale non si è aperta. Al mondo non possediamo nulla – giacché il caso può toglierci tutto – se non il potere di dire io. Questo è ciò che bisogna dare a Dio, cioè distruggere. Nessun atto libero ci è in alcun modo permesso, se non la distruzione dell’io. La libertà soprannaturale (non ce n’è altra) è un infinitamente piccolo nell’anima. L’amore soprannaturale è libero. Forzandolo, gli si sostituisce un amore naturale. D’altro canto la libertà senza amore soprannaturale, quella del 1789, è assolutamente vuota, una pura astrazione senza possibilità di farsi mai reale. La libertà soprannaturale deve esistere, ma questa esistenza è un infinitamente piccolo. Nel mondo, ogni realtà soprannaturale è un infinitamente piccolo che aumenta in maniera esponenziale. Un bambino che sotto gli occhi della madre si ribella, disobbedisce, si comporta in maniera imprudente perché reputa la sua presenza una garanzia contro ogni possibile conseguenza nefasta, lontano da lei ha paura della libertà.

Allo stesso modo i fedeli a cui si concedesse sempre, in materia spirituale, tutto ciò che chiedono, comincerebbero a temere e a cercare rifugio in Dio.

MECCANISMO SOPRANNATURALE

Leva. Salire abbassando. Forse non ci è permesso di farlo se non così. […] La forza di gravità è la costrizione che patiamo, la catena; salire è soprannaturale; il cielo è il luogo in cui non andiamo. Scienza e tecnica. È possibile concepire anche una scienza della natura orientata verso una tecnica di perfezionamento interiore. Necessità di una ricompensa, per l’equilibrio; di ricevere l’equivalente di quanto si dà;189 se però, facendo violenza a questa necessità forte come la pesantezza, si lascia un vuoto, si genera come un risucchio d’aria, sopraggiunge allora una ricompensa soprannaturale. Essa non si manifesta se si ha un altro salario; è questo vuoto a crearla. (Tuttavia, probabilmente, bisogna non averla desiderata.) Così per la «remissione dei debiti » (che non riguarda solo il male fattoci dagli altri, ma anche il bene che si è fatto loro). Anche qui, si accetta un vuoto in sé stessi. Accettare un vuoto in sé stessi è soprannaturale. Dove trovare l’energia per un atto senza contropartita? L’energia deve arrivare da un’altra parte. Bisogna però che avvenga prima una lacerazione, qualcosa di disperato: che si produca un vuoto. Vuoto: notte oscura. […] Bisogna rimanere per un certo tempo senza nessuna ricompensa, naturale o soprannaturale. Notte oscura. Bisogna attendersi sempre che le cose avvengano conformemente alla gravità, a meno che non intervenga il soprannaturale.

Leva. Abbassare quando si vuole sollevare. Analogamente, «chi si abbassa sarà elevato». (Anche nell’ambito della grazia vi sono una necessità e delle leggi.) «La misura con la quale misurate sarà quella con cui sarete misurati.»190 Grazia subordinata a leggi. Per quanto gratuita, la grazia non è arbitraria. Mistero. La meccanica è nata quando il prodotto peso-altezza è stato riconosciuto come invariante irriducibile. Allo stesso modo la chimica ecc. Non c’è nelle modificazioni dell’anima un invariante irriducibile che, riconosciuto, potrebbe fare da principio per abolire le illusioni che ostacolano il progresso spirituale? Incarnazione. Movimento discendente come condizione di un movimento ascendente. Analogia con la termodinamica. Incarnazione. Dio è debole perché è imparziale. Azione non agente. Egli sparge il sole e la pioggia sui buoni e sugli empi. Questa indifferenza del Padre trova correlazione nella debolezza del Cristo. Assenza di Dio. Il regno di Dio è come un granello di senape… Dio non modifica nulla. Il Cristo è stato ucciso per rabbia, perché non era che Dio. Anche nell’anima, movimento discendente come condizione preliminare di un movimento ascendente. Abbassatevi e sarete elevati. Spogliarci di quella somiglianza con Dio che ci rende sovrani e padroni del mondo attraverso il pensiero, spogliarci dell’immaginazione. Abbassarsi vuol dire salire in quanto a pesantezza morale. La pesantezza morale ci fa cadere verso l’alto. Cercare di analizzare il ruolo del dolore (in particolare del dolore fisico) nel meccanismo della grazia. La causalità, nel dominio puramente spirituale, è l’unica a riferirsi direttamente a Dio. Tuttavia, vi è anche una sorta di meccanismo della spiritualità: ma, forse, solo per via delle condizioni determinate dal legame tra spirito umano e corpo. […] Il legame tra spirito umano e corpo, però, fa sì che la

grazia comporti necessariamente effetti fisici. Giudizio. Un meccanismo rigoroso governa le cose spirituali. Nondimeno, esso è nascosto. Noto soltanto al Verbo… Legge della leva nelle cose spirituali. Quando si pensa a Dio con attenzione e amore, egli ricompensa esercitando sull’anima una coercizione esattamente proporzionale all’attenzione e all’amore (è un po’ l’equivalente spirituale di un automatismo). Nello stato di perfezione, questa coercizione è assoluta. Al di sotto, parziale. Bisogna compiere solo ciò a cui si viene irrimediabilmente spinti da tale coercizione. La salvezza non si realizza con movimento ascendente ma discendente. Tutto ciò che accade è subordinato alla necessità. È la necessità del meccanismo spirituale a far sì che sia possibile distinguere i casi di santità autentica da quelli immaginari. L’uomo si limita in realtà a subire la forza; non la manipola mai, in nessuna situazione. L’esercizio della forza è un’illusione. Nessuno la possiede; essa è un meccanismo. A capo di questa illusione è il diavolo (san Luca). La forza è pura concatenazione di condizioni. Tutti gli uomini sottostanno al peso dell’universo intero. Solo l’altro mondo può fare da contrappeso. La croce è la bilancia. Simbolismo dell’albero. L’energia del sole discende su un albero e lo fa salire. Chi si abbassa si eleva. Ciò significa che il punto nullo è quello in cui posso essere in rapporto con Dio. Nel pensiero del soprannaturale, qui o dopo la morte, non va ricercato un cedimento delle catene della necessità. Il soprannaturale è più preciso, più rigoroso del rozzo meccanismo della materia. Si somma a questo meccanismo senza modificarlo. Sono catena su catena, una catena di acciaio su un’altra di ottone. Il concetto di mistero è legittimo quando l’uso più logico,

più rigoroso dell’intelligenza conduce a un vicolo cieco, a una contraddizione inevitabile in cui la soppressione di un termine rende l’altro privo di senso e porre un termine costringe a porre l’altro. È il concetto di mistero, allora, a trasportare come una leva il pensiero dall’altra parte del vicolo cieco, oltre la porta che non è possibile aprire, al di là del dominio dell’intelligenza, al di sopra. Per oltrepassare il dominio dell’intelligenza, però, bisogna averlo attraversato fino in fondo, e lungo un percorso tracciato con rigore irreprensibile. Altrimenti non si è al di là, ma al di qua. La contraddizione è la leva della trascendenza. C’è una meccanica spirituale le cui leggi sono altrettanto rigorose di quelle dell’altra, ma differenti.

NECESSITÀ

Un male che non posso scongiurare di compiere, se non compiendone uno più grande, non sono io a compierlo, è la necessità. [All’uomo non è concesso di compiere il bene, solo di allontanare dal male.] Bilancia d’oro di Zeus, duplice simbolo. Simbolo della necessità cieca e della decisione del giusto. Unione di questi due simboli, mistero. In un determinato momento non si è liberi di fare qualsiasi cosa. Bisogna accettare anche questa necessità interna. Accettare ciò che si è, in un determinato momento, come un fatto; anche la vergogna. Senza la necessità non si può concepire il divino da solo, né afferrarlo, né aderirvi in qualsiasi altro modo. Bisogna cercare la causa divina in vista della felicità e la causa necessaria in vista della causa divina. La virtù suprema è l’obbedienza. Amare la necessità. La necessità e il dharma sono un’unica cosa. Il dharma è la necessità amata. Rispetto all’individuo, la necessità è ciò che sta più in basso – costrizione, forza, «una dura necessità»191 – la necessità universale libera da essa. Pensare il dharma non come dovere, ma come necessità, significa elevarsi al di sopra. Affinché il bene si riversi nell’esistenza, bisogna che sia causa di ciò che è già interamente causato dalla necessità. Di questo, la geometria e la scienza devono essere un’imitazione. Cogliere la necessità è un rimedio sia al desiderio sia alla paura. La morte deve apparire all’uomo come effetto o di un meccanismo cieco o del karman. La volontà arbitraria degli

altri si mostra, a chi sa, come un meccanismo cieco; non così a chi ignora. Accrescere l’ignoranza in chi ignora è un crimine; per costoro, la morte violenta [se è consentita] non deve rappresentare altro che il riflesso su loro stessi della loro violenza, sia in una condanna giudiziaria, sia in una guerra, quando la loro aggressione è respinta. Non così nell’Antico Testamento. Impotenza di Dio. Il Cristo è stato crocifisso; suo Padre l’ha lasciato crocifiggere; due aspetti della stessa impotenza. Dio non esercita la propria onnipotenza; se lo facesse, noi non esisteremmo e non esisterebbe niente. Creazione: Dio che s’incatena alla necessità. L’anima mortale è soggetta alla necessità. Ritenere libera dalla necessità la parte mortale dell’anima è un errore. Una necessità rigorosa, che esclude ogni arbitrio, ogni caso, governa i fenomeni naturali. Nelle cose spirituali, per quanto libere, arbitrio e caso sono ancor meno possibili. Lasciare agire in sé la necessità (rinuncia alla propria volontà). Tutto è bene per chi sa che tutto è bene (e tuttavia: perché mi hai abbandonato…). Dio vuole tutto ciò che si genera allo stesso titolo, non certe cose come mezzi e altre come fini. Così pure vuole allo stesso titolo l’insieme e le parti, ogni porzione, ogni traccia che si può mettere in moto nella realtà continua. Ciò è descrivibile nel seguente modo: egli vuole la necessità. La volontà di Dio non può essere per noi oggetto d’ipotesi. Per conoscerla dobbiamo soltanto prendere atto di ciò che accade: ciò che accade è la sua volontà. Non si deve dire che Dio vuole la sofferenza di un santo per il progresso verso la perfezione di quest’ultimo, ma che vuole la sua sofferenza e vuole il suo progresso, e vuole il legame tra i due – e infiniti altri legami ancora. Non devo amare la mia sofferenza in quanto utile, ma in quanto È. La necessità è il velo di Dio.

Non è con la mediazione dell’idea di utilità che possiamo pervenire a contemplare con amore ogni cosa, ma con la mediazione dell’idea di necessità, che esclude ogni bene rappresentabile. L’idea di necessità, l’unica a consentire di soffrire accettando la sofferenza, è anche l’unica a consentire di trasferire il proprio io tramite il pensiero in uno sventurato. Insieme e parti rispetto a Dio… Solo la Necessità (condizione di esistenza) dà all’intelligenza una risorsa su questo punto. La Necessità implica in sé causalità e finalità. La necessità, immagine afferrabile per comprendere l’indifferenza, l’imparzialità di Dio. La comune nozione di miracolo è dunque una sorta di empietà. (Un fatto che non avrebbe una causa seconda ma, solamente, una causa prima.) Distinzione tra quanti rimangono nella caverna, chiudono gli occhi e immaginano il viaggio, e quanti lo intraprendono. Reale e immaginario anche nel dominio spirituale, e anche qui la necessità fa la differenza. Non semplicemente la sofferenza. Vi sono sofferenze immaginarie. Anche degli sforzi. Quanto al sentimento interiore, nulla di più illusorio. La necessità è essenzialmente estranea all’immaginario. Lo stesso nel dominio spirituale. Vi si trovano i correlativi della fantasia, dell’illusione e della percezione, e questa ha per essenza l’ansia della necessità del rapporto. Principio del reale. È la necessità, sempre, in ogni ordine di realtà. Diverse sono le strade che conducono a Parigi. Ma esse hanno tutte qualcosa in comune. Per esempio, devono correre a lungo a oriente, o attraversare la Loira. […] (Necessità diversa dalla necessità matematica, e affine.) La distanza tra il necessario e il bene. Da contemplare all’infinito. La grande scoperta della Grecia. Forse la caduta di Troia aveva loro insegnato questo? Identità del reale e del bene. Necessità come principio del

reale. Distanza tra il necessario e il bene. Dipanare questo: è della massima importanza. Sta qui la radice del grande segreto. Due sono le incarnazioni della seconda persona divina. Una come Verbo ordinatore del mondo (anima del mondo), da cui deriva la bellezza. Essa richiede la docilità della necessità al bene, docilità miracolosa. Ne facciamo continua esperienza. L’altra richiede lo stesso miracolo e non un altro: non è più stupefacente. L’analogia tra macrocosmo e microcosmo (a quando risale?) racchiude questa duplice incarnazione. La necessità implacabile, la miseria, l’angoscia, il peso schiacciante del bisogno e del lavoro che sfianca, la crudeltà, le torture, la morte violenta, la costrizione, il terrore, le malattie – tutto questo è amore divino. È Dio che per amore si ritrae da noi perché possiamo amarlo. Se invero fossimo esposti ai raggi diretti del suo amore, senza la protezione dello spazio, del tempo, della materia, evaporeremmo come l’acqua al sole, non avremmo abbastanza io per amare, per abbandonare l’io per amore. La necessità è lo schermo posto tra Dio e noi perché possiamo essere. Sta a noi attraversare lo schermo per cessare di essere. Non lo attraverseremo mai se non sappiamo che Dio è al di là a una distanza infinita, e che solo in Dio dimora il bene. Dio può ridurre la sventura degli uomini pur restando lontano dalle creature solo tramite la mediazione di coloro che l’amano e che per amore suo non desiderano più essere. Dio non sparge dolori e sventure come prove, ma lascia alla Necessità di distribuirli secondo il proprio meccanismo. Altrimenti non si sarebbe ritirato dalla creazione, com’è necessario perché noi si possa essere e accettare, così, di non essere più. I rari contatti tra Dio e le creature tramite l’ispirazione sono meno miracolosi della sua eterna assenza e sono una prova d’amore meno meravigliosa. L’assenza di Dio è la testimonianza più meravigliosa d’amore perfetto; ecco perché la pura necessità, la necessità

palesemente diversa dal bene, è tanto bella. L’abbandono nel momento supremo della crocifissione; quale abisso d’amore da entrambe le parti. Bisogna conoscere l’assenza di Dio, salvo nei rari momenti di parziale annientamento dell’io. Credere che possa essere vicino senza che tale vicinanza annienti l’io vuol dire ignorare completamente ciò che egli è. Tutto ciò che rende manifesta questa assenza è bello. La Necessità è un’immagine, un’imitazione, della Realtà (τὸ ὄν192). Ciò che nella percezione è reale non è la sensazione ma la necessità che vi è insita. L’impossibilità di conseguire insieme i comportamenti incompatibili necessari a compiere il bene – o, più in breve, l’impossibilità del bene, ha per la volontà la stessa funzione che l’assurdità dei dogmi ha per l’intelligenza. La prova di tale impossibilità trasmuta la volontà in amore. Essere sempre coscienti dell’impossibilità del bene, cioè «di quanto differiscono l’essenza del necessario e quella del bene».193 Il bene è unicamente soprannaturale. L’esistenza è solo un’ombra di realtà. La necessità è una realtà solida. L’impossibilità è una realtà evidente. Essendo condizionale, la necessità lascia posto ai «se». L’impossibilità s’impone. La necessità è un’immagine un po’ degradata dell’impossibilità; l’esistenza, della necessità. Per uscire dal sogno bisogna toccare l’impossibilità. Nel sogno non c’è impossibilità. Nel sogno c’è soltanto impotenza. L’essenza apparente di Dio nel mondo è la realtà di Dio. Questo vale per tutto: ciò che è nell’apparenza è non realtà. L’apparenza ha la pienezza del reale, ma in quanto apparenza. In quanto altro dall’apparenza, è abbaglio. Il mondo, in quanto completamente vuoto di Dio, è Dio stesso. La necessità, in quanto assolutamente altra dal bene, è il bene stesso.

Ecco perché, nella sventura, qualsiasi consolazione allontana dall’amore e dalla verità. È il mistero dei misteri. Quando lo si tocca si è al sicuro. Il reale è trascendente; è questa l’idea essenziale di Platone. L’intelligenza della necessità è un’imitazione della creazione. Ignorare «…quanto differiscono l’essenza del necessario e quella del bene»: è esattamente questo il crimine di idolatria, e noi tutti lo commettiamo, di continuo; il più grande dei crimini. Solo l’amore soprannaturale contempla la necessità nuda, che cessa così di essere un male. Mistero: la necessità è fatta di condizioni, dunque di possibilità, e tuttavia è il fondo del reale. Tutta la vita umana è intessuta di misteri altrettanto impenetrabili di quelli della religione. Nulla è più essenziale dell’indagine della percezione e dello svelamento dei misteri che essa racchiude. Questo mondo, regno della necessità, non ci concede assolutamente nient’altro che mezzi. Il bene relativo è il mezzo. Il nostro volere è costantemente rimandato da un mezzo all’altro come una palla da biliardo. La necessità è l’essenza della realtà delle cose di qui. In altre parole, la loro essenza è condizionale. La loro essenza è quella di non essere dei fini. La loro realtà è che non sono dei beni. Essendo Dio un bene che non è altro che bene, la materia non è altro che non bene. In Dio risiede il correlativo di ogni bene umano, anche dell’obbedienza. È il gioco che egli lascia in questo mondo alla necessità. Non è ciò evidente – testimonianza della scienza a parte – nella tentazione del Cristo? La scienza pura è contemplazione dell’ordine del mondo in quanto necessità. Affinità evidente tra idea di necessità e obbedienza. Il

rapporto tra padrone e schiavo è la necessità nelle relazioni umane. Necessità, nemica dell’uomo che dice io. Schiava nell’illusione (e attraverso il dominio sociale). Padrona brutale nella sventura. Equilibrio naturale apparente nel punto ottimale dell’azione metodica (così anche tre rapporti tra uomini). Congiunto alla giustizia naturale, tale equilibrio sarebbe la felicità naturale. Obiettivo del legislatore. […] Nella prova pratica della necessità, illusioni sempre attaccate all’esercizio della volontà. La necessità è pensata pura solo come teorica e condizionale: l’uomo è assente, se non per l’operazione stessa del pensiero. Ogni conoscenza concreta dei fatti, anche umani, è riconoscimento in essi di una necessità matematica o analoga. (In una forma ogni volta specifica. Analogia con l’incarnazione.) Rapporto, quindi, della necessità all’uomo, non di padrone a schiavo, o di eguali, ma di quadro a sguardo. In tale sguardo sorge la facoltà soprannaturale del consenso. Non si acconsente alla forza in quanto tale (giacché essa costringe), ma in quanto necessità. L’intelligenza pura si trova all’intersezione tra natura e soprannaturale. Questo consenso è una follia conforme alla triplice follia di Dio (Creazione, Incarnazione, Passione) ma, innanzitutto, alla prima. λόγοϛ, nome della Necessità, dato al Beneamato – Luce e pioggia nel Vangelo, stoicismo. Necessità, mediatrice tra la parte naturale in noi e il consenso soprannaturale. Dio pensa la necessità. Essa è perché egli la pensa. Il pensiero di Dio è suo Figlio. L’ordine del mondo in Dio è l’ordinatore. In Dio tutto è soggetto. Noi dobbiamo privilegiare, in tutto il passato, il

compimento della volontà di Dio. Nel futuro, la speranza del bene puro emanato da Dio sotto forma d’ispirazione alle creature pensanti. Il presente è intermediario. Esso non è oggetto di accettazione né di speranza, ma di contemplazione. Contemplazione della Saggezza divina nella bellezza del mondo in cui si congiungono i due contrari, la necessità e il bene. I fatti compiuti erano necessari, il bene futuro si attende. Tutto ciò che esiste è subordinato alla necessità. Vi è però una necessità carnale in cui l’opposizione tra bene e male non interviene, e una necessità spirituale interamente subordinata a tale opposizione. Il concetto stesso di redenzione implica una necessità spirituale. Soltanto la necessità è un oggetto di conoscenza. Null’altro può essere colto dal pensiero. La necessità viene appresa con l’esplorazione, con l’esperienza. La matematica è una specie di esperienza. La necessità è ciò con cui viene a contatto il pensiero umano. L’amore di Dio non è altro che un intermediario tra l’amore naturale e l’amore soprannaturale delle creature. È solo a causa della crocifissione che la fede nel Cristo può, come dice san Giovanni, essere un criterio. Accogliere come dio un condannato di diritto comune, vergognosamente suppliziato e messo a morte, vuol dire proprio vincere il mondo.194 (Perciò egli non parla di resurrezione.) Vuol dire rinunciare a qualsiasi protezione temporale. Vuol dire accogliere e amare la necessità. Quando il sentimento della necessità s’impossessa dell’anima con forza, spesso uccide il desiderio, anche quello più naturale. È dunque questo il segreto. Recidere i desideri con l’obbedienza come con una spada. Tutte le volte in cui nell’anima nascono pensieri quali: «Bisogna che io sia felice», «Bisogna che io mangi», «Bisogna che io venga alleviato da questo dolore», «Bisogna

che io mi riscaldi», «Bisogna che io scampi a questo pericolo», «Bisogna che io abbia notizie di quella persona cara», insomma, tutti i pensieri del tipo «Bisogna che…», rispondersi freddamente: «Non ne vedo la necessità». È a causa dell’ordine del mondo, a causa della necessità che domina sovrana, riducendole a essere condizionate, che le cose che amiamo non meritano amore. La necessità sottrae qualsiasi oggetto al nostro amore. Essa è la nostra sola nemica. Ecco perché bisogna trasferire proprio su di essa questo amore. Il nostro amore ha due oggetti. Da una parte ciò che è degno di essere amato ma che, nel senso che l’esistenza ha per noi, non esiste. È Dio. Dall’altra, ciò che esiste ma non contiene nulla che possa essere amato. È la necessità. Occorre amarli entrambi. Quando l’energia vegetativa è a nudo, l’universo svanisce, il bisogno è l’universo. Tutto l’universo è intento a lanciare il grido dell’anima: «Ho fame!», «Ho male!», «Questo deve aver fine!». Non esiste più alto bene al mondo dell’appagamento immediato del bisogno. Rispondere in quel momento: «Non ne vedo la necessità» significa strappare brutalmente la parte eterna dell’anima all’io e inchiodarla al non io. Dio è concepito come causa indiretta di tutto, ma come causa diretta solo dello spirituale puro. Così, secondo la causalità indiretta è onnipotente; ma l’onnipotenza è definita come un’abdicazione volontaria in favore della necessità. Secondo la causalità diretta, il potere di Dio nel mondo è un infinitamente piccolo. «Sia fatta la tua volontà»; la tua volontà è abdicazione in favore della necessità. Con questa richiesta si dà il proprio consenso all’esistenza del mondo. Necessità: compromesso tra Dio e la materia. È vero, letteralmente vero, come Platone mette in bocca a Socrate nel Fedone, che la Provvidenza, e non la necessità, è l’unica spiegazione all’universo. La necessità è una delle

disposizioni eterne della Provvidenza. Dio ha tracciato la sua firma nella necessità.

OBBEDIENZA

Lavorare – quando si è spossati – significa assoggettarsi al tempo come alla materia. Il pensiero è costretto a passare da un istante al successivo. Questo significa obbedire. Obbedienza e morte. «Obbediente fino alla morte.»195 La materia obbedisce. Noi siamo materia. Pitagorici: trovandoci in un luogo di punizione, siamo dunque puniti. L’obbedienza è il solo movente puro, l’unico a non implicare a nessun livello una ricompensa per l’azione, lasciandone per intero la cura al padre che è celato, che celato vede. (τῷ πατρί σου τῷ ἐν τῷ κρυφαίῳ…196 ὁ πατήρ σου ὁ βλέπων ἐν τῷ κρυφαίῳ…197) Purché si obbedisca a una necessità, non a una coercizione (vuoti terribili negli schiavi). Quanto agli atti di virtù, compiere solo quelli a cui non ci si può sottrarre, quelli che è impossibile non compiere; ma aumentare di continuo, tramite un’attenzione ben applicata, il numero di quelli che è impossibile non compiere. Obbedienza: ce n’è di due tipi. Si può obbedire alla pesantezza o ai rapporti tra le cose. Nel primo caso si fa ciò a cui spinge l’immaginazione che colma il vuoto. Vi si può apporre, spesso in maniera plausibile, qualsiasi etichetta, compresi il bene e Dio. Sospendendo il lavoro dell’immaginazione che colma e fissando l’attenzione sul rapporto tra le cose, ecco manifestarsi una necessità a cui non si può non obbedire. Fino ad allora, non si possiede la nozione della necessità, né il sentimento dell’obbedienza. Se anche l’obbedienza fosse perfetta (e non lo è quasi mai), non si può provare orgoglio per ciò che si compie –

almeno nel momento in cui lo si compie – finché ci si limita a obbedire: anche se si compissero meraviglie. Ciò che si compie per pura obbedienza, non importa con quanto sforzo e pena, non genera alcun bisogno di ricompensa. (Eppure sì, in un dato momento: quello della morte di un uomo vecchio. Si uccide l’uomo vecchio lavorando a vuoto.) La legge è cattiva perché chiama in causa un’obbedienza che mette in gioco la volontà. Si tratta di azioni, non di uno stato. Statera facta corporis.198 Il corpo crocifisso è una bilancia giusta, è il corpo ridotto al suo punto nel tempo e nello spazio. Attraverso l’obbedienza si acquisisce il potere di giudicare. «Il mio giudizio è giusto, perché io non faccio la mia volontà, ma la volontà di colui che mi invia.»199 Che cosa mi consente di distinguere la sua volontà dalla mia? La visione della necessità. Facendo posto a Dio nello spirito, la carne viene abbandonata alla necessità. Obbedienza, virtù suprema della creatura. Tutti i moventi particolari sono errori. L’unica energia buona è quella che non proviene da un movente. L’obbedienza a Dio, ossia al nulla, nella misura in cui non possiamo concepire, immaginare, né rappresentarci Dio. Questo è al contempo impossibile e necessario. In altri termini: soprannaturale. Si può obbedire a Dio in due modi, come materia e come spirito. Fare il male vuol dire obbedire come materia. Non c’è nulla in noi che non obbedisca a Dio. Di conseguenza, se gli obbediamo come materia, lo spirito è assente e Dio in noi è morto. Vangelo. Nei confronti di Dio, l’amore non è diverso dall’obbedienza.

Dio vuole la salvezza delle anime. Bisogna obbedire a Dio. Vi sono due modi di legare queste due certezze (nel senso della fede). Obbedire a Dio perché egli vuole la nostra salvezza, oppure orientarsi verso la salvezza per mera obbedienza. Il secondo è il più puro. Obbedienza, unico passaggio dal tempo all’eternità. Ogni creatura pensante approdata all’obbedienza perfetta rappresenta una manifestazione singolare, unica, inimitabile, insostituibile della presenza, della conoscenza e dell’azione di Dio nel mondo. Per approdare all’obbedienza perfetta bisogna esercitare la propria volontà, compiere uno sforzo fino a esaurire in sé stessi la quantità finita della specie d’imperfezione che corrisponde allo sforzo e alla volontà. Lo sforzo della volontà deve limare questa imperfezione finita come una mola lima un pezzo di metallo. Dopo, non c’è più né sforzo né volontà. Tutto ciò che al livello della volontà sembra resistenza da vincere, inerzia, fatica, desiderio inferiore, una volta varcata una certa soglia diventa sofferenza subita passivamente; e i movimenti non sono azioni più di quanto lo sia l’immobilità. È arrivati a questo punto che c’è davvero obbedienza. Ciò che limita è Dio. «Dio è la misura di ogni cosa.»200 Dio impedisce al mare di spingersi più lontano di quanto esso non debba. Dobbiamo fare come lui per il nostro mare interiore. Dobbiamo essere obbedienza perfetta proprio perché non siamo Dio. Il Cristo non è stato altro, come uomo, che obbedienza perfetta. In noi l’illimitato dev’essere docile al limite, come il mare. Il limite viene da altrove. Le opere. Finché si è orientati verso l’obbedienza, non ci si può esimere, quando lo si vorrebbe, dal portare a termine quelle a cui si è spinti da un’ispirazione. La fonte essenziale della bellezza matematica è la docilità degli enti matematici. Non ci resistono per capriccio, ma per

docilità alla loro legge. Docilità dove non c’è alcuna forza, alcuna coercizione. Obbedienza. Imitare quest’obbedienza. Osservazione dei limiti e dei domini. La materia imita quest’obbedienza. E la forza non è più forza. Musica? L’impero della matematica sulla materia è un impero di dolcezza (legame tra matematica e amore). Questa stessa necessità brutale, l’essenza stessa della sua brutalità, è l’obbedienza. Tutto ciò che mi colpisce, tutto ciò che mi pesa, obbedisce a Dio. Anche tutto ciò che mi sorride. Anche l’albero che si veste di fiori. La funzione penale della legge dovrebbe esserne un’imitazione. La matematica è la prova che ogni cosa obbedisce a Dio. L’obbedienza della materia non ha bisogno di legge. Tuttavia, noi abbiamo bisogno di leggi per rappresentarcela. Senza, la prenderemmo per un capriccio, dato che l’incontriamo con i nostri desideri, verso i quali è indulgente o contraria. L’ordine del mondo è costituito per noi, per renderci accettabile la sofferenza, e si estende a ciò che non conosciamo, perché possiamo farne uso solo nella misura in cui è fuori di noi, indifferente a noi. Giobbe. Se ci reputiamo come il fine del mondo, il mondo risulta caotico e senza finalità. Astraendola da noi, la finalità del mondo è manifesta; ma non c’è un fine. L’unico fine è Dio. Solo che non è in nessun modo un fine, non dipendendo da alcun mezzo. Tutto ciò che ha Dio per fine è finalità priva di un fine. Tutto ciò che ha un fine è privato di finalità. Ecco perché dobbiamo trasformare la finalità in necessità. E questo tramite il concetto di obbedienza. La sofferenza congiunta alla necessità ci conduce alla finalità priva di un

fine. Ecco perché lo spettacolo della miseria umana è bello. Non esiste, per noi, altra sorgente di gioia che il bello. L’uso della ragione rende le cose trasparenti allo spirito. Ma il trasparente non si vede. Si vede l’opaco attraverso il trasparente, l’opaco che era celato quando il trasparente non era tale. Si vede la polvere sul vetro o il paesaggio dietro al vetro, mai il vetro. Eliminare la polvere non serve che a vedere il paesaggio. La ragione non deve esercitare la sua funzione dimostrativa se non per giungere a scontrarsi con i veri misteri, con i veri indimostrabili, che sono il reale. Il non compreso cela l’incomprensibile e, per questo, dev’essere rimosso. Caverna. Gli oggetti illuminati sono opachi. A forza di guardarli, sarà possibile penetrare con lo sguardo la sorgente pura della luce. L’intelligenza si esercita all’obbedienza fronteggiando l’inintelligibile. Orientare la scienza verso l’obbedienza e non verso il potere. Tale orientamento, però, è quello della scienza pura, che è contemplazione della necessità. La potenza è obbedienza degradata. L’io ci tiene serrati nella necessità come tra la volta del cielo e la superficie della terra. Noi la cogliamo nel suo aspetto di dominio brutale. La rinuncia all’io ci fa passare dall’altra parte, fa scoppiare l’uovo del mondo. Allora la cogliamo nel suo aspetto di obbedienza. Figli di famiglia, amiamo la docilità dello schiavo. Ciò che nell’uomo è immagine di Dio è qualcosa legato al fatto di essere una persona, ma non è la persona. È la facoltà di rinunciare alla persona. È l’obbedienza. Tra uomo e uomo, lo schiavo non diventa simile al padrone obbedendogli. Al contrario, più è sottomesso, più è diverso da chi lo comanda. Tra l’uomo e Dio, per rendersi, nella misura in cui le è concesso, del tutto simile all’Onnipotente, come un figlio a

un padre, come un’immagine a un modello, la creatura deve solo farsi perfettamente obbediente. Questa conoscenza è soprannaturale. «Nessuno sa se egli è degno di amore o di odio.» Questione del tutto inutile. Il dramma della salvezza ha luogo dietro il sipario. Non è possibile accertare la presenza dell’amore di Dio, se lo si possiede. Egli non è oggetto di conoscenza. Perché è Dio in noi che ama Dio, e Dio non è un oggetto. Quanto al prossimo, gli atti di beneficenza di cui ci ricordiamo non figureranno nei ringraziamenti del Cristo, perché ricordandocene abbiamo «ricevuto la nostra ricompensa».201 Quelli di cui non ci ricordiamo, non sappiamo per definizione se sono mai avvenuti. Viceversa, del male si ha conoscenza certa. Nel fare qualcosa che si ritiene contraria alla volontà di Dio, è certo che si è colpevoli di disobbedienza, anche se si tratta, di fatto, di una cosa innocente. Quando ci si ricorda degli sventurati a cui si è mancato di prestare soccorso, si è certi di non averli soccorsi. Per principio, bisogna dunque ammettere che in caso di Giudizio saremo senza dubbio passibili di condanna. Tuttavia, a ciò non va attribuita alcuna importanza: occorre essere indifferenti e avere come unico desiderio la perfetta obbedienza a Dio nell’intero arco di tempo che separa l’istante presente da quello della morte. Il resto non ci interessa. Non avere altra coscienza di sé che di una cosa votata all’obbedienza. Nella condotta di vita, è ancora il limite a condurre dal tempo all’eternità, il «mai». […] Se frutto dell’obbedienza, le rinunce volontarie sono di questa natura e conducono all’eternità. Sono invece inutili se frutto di una decisione. La conseguenza di una decisione dura un giorno, otto giorni, vent’anni, più di una vita umana, ma non in eterno. Nessuna decisione conduce all’eternità.

Ecco perché i voti dei religiosi sono utili alla salvezza solo quando sono la mera espressione di una vocazione; vale a dire, una mera espressione di obbedienza, l’«eccomi! eccomi!» del servo al richiamo del padrone. Se esprimono la decisione di osservare la castità, la povertà, l’obbedienza, sono inutili e persino deleteri alla salvezza. Solo il comando di Dio è eterno. La sottomissione del mio io, della mia anima, del mio corpo, di tutti i miei desideri a limiti inflessibili è un oggetto di contemplazione da cui scaturisce una gioia segreta che ricolma. Così altri uomini, quando con l’immaginazione installo in essi il mio io. La soddisfazione di un desiderio rende sensibile questa sottomissione se le cause sono evidenti, evidentemente estranee al desiderio stesso, se la soddisfazione è avvertita come transitoria. Ecco che mangiare un pezzo di pane quando si ha fame diventa così una comunione con l’universo e il suo Creatore. La sventura rende questa sottomissione molto più sensibile, ammesso che il meccanismo delle cause sia evidente. Da ciò deriva la selvaggia bellezza della sventura. In questo consiste imparare l’obbedienza alla maniera del Cristo. […] L’unica parte della nostra anima che non dev’essere soggetta alla sventura è quella posta nell’altro mondo. Su essa la sventura non ha presa – forse perché, come dice Meister Eckhart, è increata – ma ha il potere di strapparla violentemente alla parte temporale dell’anima, cosicché, sebbene l’amore soprannaturale risieda nell’anima, non se ne avverte la dolcezza. È allora che si leva il grido: «Dio mio, perché mi hai abbandonato?».202 Tutto il desiderio che la natura ha instillato nell’anima umana e che è legato al nutrimento, al bere, al riposo, al

benessere fisico, ai piaceri degli occhi e delle orecchie, agli esseri umani, va sottratto a queste cose e orientato esclusivamente verso l’obbedienza a Dio. Le cose di qui sono legittimi oggetti di piacere e di dolore, non di desiderio o di ripulsa. E l’obbedienza a Dio, unico oggetto di tutto il desiderio dell’anima, è inconoscibile. Ignoro ciò che Dio mi ordinerà domani. Inoltre, so che se anche mi rifiuto di obbedirgli, o se anche la mia debolezza me ne rende incapace, gli obbedisco lo stesso, perché qui non avviene nulla che Egli non voglia. Questo desiderio è dunque certo di realizzarsi. È già realizzato. È una fame già saziata, e che lo sarà sempre; tuttavia, grida perennemente nell’anima come se non potesse mai esserlo. È un grido a vuoto, un’invocazione senza risposta. Quest’invocazione non è altro che la lode della gloria di Dio. Le nostre grida d’angoscia Lo lodano. Il Cristo sulla croce dice: «Mio Dio, perché mi hai abbandonato?». È questa la lode perfetta della gloria di Dio. Gridare così durante il nostro breve e interminabile, interminabile e breve soggiorno quaggiù, poi svanire nel nulla – questo basta: cosa chiedere di più? Se Dio concede di più è affar suo; noi lo sapremo in seguito. Io preferisco pensare che anche nel migliore dei casi Egli non conceda che questo. Perché in questo sta la pienezza della soddisfazione – se solo, da ora fino al momento della morte, potesse non esserci altra parola nella mia anima che questo grido ininterrotto nel silenzio senza fine.

ORDINE

Anche la prova dell’esistenza di Dio tramite l’ordine del mondo è più che strana. Ordine come condizione di esistenza di cosa? Dell’uomo? Significherebbe porci al livello di Dio, se non sopra. Se lo scopo della creazione siamo noi, si tratta di uno scopo ben misero. Condizione di esistenza di Dio? Più che assurdo. L’idea stessa di ordine del mondo è più che strana. E tuttavia: cosmo.203 Ci sono ordini che non sono condizione di esistenza; o, almeno, ciò di cui sono condizione si confonde con essi. Così l’ordine interiore dell’anima e della virtù. L’ordine estetico e il bello. Un ordine simile è un’imitazione di qualcosa di non rappresentabile che non è più un ordine. Musica: ordine dei suoni che imita il silenzio. Autore e ordine. Anche la necessità (relazioni matematiche e meccaniche) è un ordine senza autore. Ordine e disordine. Ogni ordine presume un relativo disordine, nel senso che l’ordine è parziale per natura, e dunque la prova dell’esistenza di Dio tramite l’ordine del mondo (in forma volgare) è anche una prova contro l’esistenza di Dio. Non così per il bello: il bello è un ordine perfetto. Anche l’anima del tutto obbediente è in un ordine perfetto. Un ordine sottintende una persona come autore, un fine particolare, un piano in vista di questo fine, dei materiali che sono a un tempo mezzi e ostacoli e che sono coinvolti in una pluralità di relazioni al di fuori della loro relazione con quest’ordine. Per esempio, un orologio. Tutto ciò svanisce in una cosa bella, sebbene opera

umana. In riferimento al mondo, non ha alcun senso. Molti problemi risulterebbero semplificati (almeno nei dati) se si assumesse come principio il seguente: Dio non confonde gli ordini, agisce in modo soprannaturale nel dominio del soprannaturale, e secondo natura (cioè, in un certo senso, non agisce affatto) nel dominio della natura. La creazione è questo rispetto degli ordini. Egli non disfa la creazione, è la creazione che si disfa da sé. Le storie di miracoli ingarbugliano tutto. Una soluzione è negarli completamente: quasi impossibile. Un’altra è trovar loro posto tra i fenomeni della natura. La scienza non l’ha fatto perché dove vige una concezione scientifica del mondo non vi sono miracoli; viene così meno l’occasione di studiarli. Alla scienza è avvenuto per i miracoli quanto è avvenuto alla chiesa per l’astronomia e la critica. Poiché essi appartengono ad ambienti sociali estranei alla scienza, questa ha assunto nei loro confronti un atteggiamento avverso, confermando così l’errore della chiesa. Un miracolo è un fenomeno naturale che si produce solo in un uomo che versa in tale o talaltro stato. Gli stati suscettibili di questi fenomeni sono la santità, l’isteria, la padronanza di sé dovuta a un’ascesi e, forse, altri ancora. Ordine del mondo, condizione di esistenza di una creatura pensante. La scienza, l’arte e la religione sono legate dall’idea di ordine del mondo, idea che abbiamo completamente smarrito. Νόησιϛ νοή¥σεωϛ νόησιϛ.204 Il senso della Trinità è che Dio è pensiero. Ciascun pensiero ha un soggetto e un oggetto. Il Padre pensa la sua parola. Questo pensiero è amore. Questa parola è ordine. Quest’ordine è immagine di questo pensiero, di questo amore. Letture sovrapposte: leggere la necessità dietro la

sensazione, l’ordine dietro la necessità, Dio dietro l’ordine. È necessario amare tutti i fatti, non per le loro conseguenze, ma perché in ciascuno di essi è presente Dio. Ma questo è tautologico. Amare tutti i fatti equivale a leggere Dio in essi. È necessario amare i propri nemici perché esistono. È necessario (se se ne presenta l’occasione e se non vi si oppone alcun inconveniente grave) far loro del bene per amarli. Non sono gli insegnamenti a dover essere messi in pratica, quanto la pratica a essere indicata per l’intelligenza dei precetti. Sono come scale. Non si suona Bach senza aver eseguito delle scale. Né, tuttavia, si eseguono scale per sé stesse. Cfr. Upaniṣad; Lao Tzu. L’idea della Provvidenza sminuisce la purezza dell’amore di Dio. Siate perfetti come lo è il Padre vostro celeste. Vuol dire amare tutte le cose in egual misura. Il Padre è allo stesso titolo il creatore di ogni cosa. Ma, a un altro titolo, è il creatore dell’ordine del mondo. Il Verbo, silenzio in Dio, parola nella creazione. L’essenza di Dio non è né soggetto né oggetto, ma pensiero (il νόησιϛ-attributo205). Macrocosmo e microcosmo. Come il Cristo, secondo san Tommaso, lasciava svolgere a ogni parte del proprio essere la pienezza della sua funzione – es. per la sensibilità, la sofferenza sulla croce – così Dio nel mondo. La materia vi mostra tutto il suo accecamento, i cattivi vi compiono tutto il male che fa parte di loro, i buoni tutto il bene che fa parte di loro. Negli ordini di causalità c’è un rigore assoluto, anche là dove c’è combinazione di bene e male (dove il bene e il male si condizionano a vicenda). Nell’universo il male è affine alla sofferenza, non al peccato. Il peccato interessa l’individuo. Buoni e cattivi sono allo stesso titolo parti dell’ordine del

mondo. Solo i perfetti ne costituiscono tuttavia l’immagine. La bilancia e il setaccio. Gli uomini la cui ragione supera la sensibilità sono inferiori all’uomo perfetto. Parimenti, il dio che intervenisse provvidenzialmente nel mondo sarebbe inferiore a Dio. L’uomo si vota sempre a un ordine. Tuttavia, salvo illuminazione soprannaturale, quest’ordine ha per centro sé stesso o un essere particolare (anche un’astrazione) nel quale si è trasferito (Napoleone per i soldati dell’Impero, la Scienza, il Partito ecc.). Ordine prospettico. Λόγοϛ206 è l’ordine divino e, per trasposizione analogica verso il basso, ogni specie di rapporto. Πνεῦμα è l’energia spirituale, l’energia soprannaturale, e, per trasposizione analogica verso il basso, ogni tipo d’energia. Gli stoici avevano una concezione del mondo basata sull’energia. Ζεύϛ, λόγοϛ e Πνεῦμα sono le tre divinità degli stoici. Esplorazione a priori dell’ordine del mondo. Un ordine è necessariamente a priori. Fabbricato da noi. Nella loro applicazione, le matematiche sono uno strumento di esplorazione dell’ordine del mondo. Un ordine esclude il caso, ovvero l’esterno e, dunque, anche il tempo. L’insieme delle condizioni è determinato. L’ordine del mondo è provvidenziale: non ci istruisce che su Dio. La necessità è un ordine. Ordine di condizioni. E tuttavia «…quanto differiscono l’essenza del necessario e quella del bene».207 Per coglierne l’unità, bisogna sapere quanto differiscono. Un ordine è qualcosa che creiamo noi, ma non in maniera arbitraria. Per la precisione, tutto ciò che noi non creiamo è per noi arbitrario: può accadere qualsiasi cosa. Rimuovere l’arbitrario impone il possesso della totalità delle condizioni. Che ci sia sorpresa là dove non c’è nulla di arbitrario; è questo lo shock del reale. Un limite è un infinitamente piccolo. Il limite è la presenza in un ordine, sotto forma d’infinitamente piccolo,

dell’ordine trascendente. Il limite è trascendente rispetto a ciò che è limitato. La legge, l’ordine sociale. Qualcosa che stia a tutti i rapporti sociali come il cubo agli aspetti del cubo. Un equilibrio. L’ordine sociale non può essere che un equilibrio di forze. Solo un equilibrio annienta la forza, annulla la forza. La bilancia. Il mondo è un equilibrio di forze. Ordine del mondo. Platone non propone il sole [quale rappresentazione di Dio],208 ma l’ordine stesso del mondo e, soprattutto, degli astri. Un essere – l’ordine del mondo – che ha per corpo il mondo e per anima la perfezione. Se si adora Dio in un uomo, occorre allora che quest’uomo diventi una cosa a forza di passività, che soffra una passione e la soffra in silenzio. Oppure che sia un sacerdote (Melchisedec) asservito nelle cerimonie a un ordine altrettanto fisso di quello degli astri. La cerimonia è un’imitazione dell’ordine del mondo e del silenzio delle cose. Il Padre dei cieli, che abbandona suo Figlio e osserva il silenzio; il Cristo abbandonato, inchiodato nel silenzio; due divinità impersonali che si riflettono l’una nell’altra e fanno un solo Dio. L’immagine della potenza indifferente di Dio è l’obbedienza passiva della creatura. Dio crea Dio, Dio conosce Dio, Dio ama Dio – e Dio comanda a Dio che gli obbedisce. La Trinità implica l’Incarnazione e – quindi – la Creazione. Il pane soprasostanziale: Dio lo offre continuamente all’universo per preservarvi l’ordine del mondo. Perché non a noi, se lo desideriamo, per nutrire e preservare il nostro? Esso è quotidiano, ha per testimone il cerchio diurno delle stelle.

TEMPO

Oggetto dell’arte: renderci lo spazio e il tempo sensibili. Erigere per noi uno spazio, un tempo umani, fatti dall’uomo, pur rimanendo tuttavia il tempo, lo spazio. Tutto ciò che agita l’uomo lo agita nel suo sentimento del tempo. Potere su di sé = potere sul modo di percepire il tempo. Es. avvenire. Nel caso in cui si venga fucilati l’indomani, essere capaci di alterare la durata così che vi sia ancora un avvenire da colmare. In un certo senso, spazio e tempo non sono che pensieri e, insieme, ciò che incatena l’essere pensante senza possibilità di affrancamento. Il contatto con la forza, da qualsiasi parte avvenga (impugnatura o punta della spada), priva di Dio per un istante. Da ciò, la Bhagavadgītā. La Bhagavadgītā e il Vangelo si completano. […] L’infinito nell’uomo è alla mercé di un pezzo di ferro. Questa è la condizione umana: ne sono causa lo spazio e il tempo. Impossibile maneggiare quel pezzo di ferro senza sminuire bruscamente l’infinito nell’uomo a un punto sulla punta, a un punto sull’impugnatura, a prezzo di un dolore lacerante. Impossibile non maneggiarlo. Per un istante, l’essere intero è colpito; non rimane alcun posto per Dio, neppure nel Cristo, quando il pensiero di Dio si riduce a una privazione. Bisogna spingersi fin qui perché vi sia incarnazione. L’essere intero diventa privazione di Dio; come andare oltre? Dopo, non vi è altro che la resurrezione. Per spingersi fin qui, serve il freddo contatto del ferro nudo. Il tessuto del mondo è il tempo…

[…] Differenza infinita fra le ore trascorse davanti a un automa e quelle trascorse davanti a un affresco di Giotto. Il rapporto tra il tempo e me è il tessuto della mia vita, ed è possibile sancirvi una differenza infinita. Il tempo fa violenza; è l’unica violenza. Un altro ti cingerà e ti condurrà dove tu non vuoi andare;209 il tempo conduce dove non si vuole andare. Mi si condanni perfino a morte: ebbene, non sarò giustiziato se, frattanto, il tempo si ferma. Per quanto sia tremendo ciò che deve accadere, si può desiderare che il tempo si fermi, che le stelle si fermino? La violenza del tempo lacera l’anima; è attraverso questa lacerazione che penetra l’eternità. Sottrarsi al tempo, peccato. Il tempo non esiste davvero (se non il presente in quanto limite), e tuttavia vi siamo sottomessi. Tale è la nostra condizione: siamo sottomessi a ciò che non esiste. Che sia durata sofferta passivamente – dolore fisico, attesa, rimpianto, rimorso, paura – o tempo regolato – ordine, metodo, necessità – ciò a cui siamo sottomessi non esiste. Esiste però la nostra sottomissione. Siamo realmente costretti da catene irreali. Il tempo, irreale, vela ogni cosa e noi stessi d’irrealtà. Gravità e tempo. Gravità inscindibile dal tempo. Forza di gravità, tempo, male. Quando si cade, non ci si può fermare. In ciò risiede la costrizione. In una caduta non vi è punto di fermata nel tempo. Il tempo ci conduce – sempre – dove non vogliamo andare. Amare il tempo. Rimettere i debiti. Accettare il passato senza chiedere, per esso, compensazione al futuro. Significa altresì accettare la morte. Arrestare il tempo all’istante presente. Tutti i problemi si riducono al tempo. Accettare di essere anonimi, di essere materia umana (Eucarestia). Rifiutare il prestigio, la considerazione. Vuol dire rendere testimonianza alla verità, al fatto cioè di essere

materia umana, al fatto di non avere diritti. Spogliarsi di ogni ornamento, sostenere la nudità. Come conciliare però tutto questo con la vita sociale e con le convenzioni? È sempre un rapporto con il tempo. Perdere l’illusione di possederlo. Incarnarsi. L’uomo deve fare l’atto d’incarnarsi, perché è disincarnato dall’immaginazione. Ciò che in noi proviene da Satana è immaginazione. La rinuncia è subordinazione al tempo. Il dolore fa filtrare tempo e spazio nel corpo. Ciò che Satana prometteva era immaginario.210 La ricchezza, la potenza sono immaginarie. Armature immaginarie. Nudità, verità del legame tra anima e corpo. L’anima mortale è soggetta alla necessità. Ritenere la parte mortale dell’anima affrancata dalla necessità è un errore. Tre aspetti dell’eternità percepita attraverso il tempo. La creazione. Già tutto compiuto per atto della volontà di Dio. La decreazione. Il termine del tempo. L’immortalità (amṛta) nella pienezza del presente. Solo il passato e il futuro intralciano l’effetto salutare della sventura prestando campo illimitato ad ascese immaginarie. Ecco perché la prima rinuncia ha per oggetto passato e futuro. Il tempo è un’immagine dell’eternità, ma ne è anche un surrogato. I sacramenti riguardano la natura del tempo. L’eternità penetra nel tempo attraverso gli istanti. Si può delimitare un istante solo tramite circostanze materiali. Quando queste circostanze risalgono all’unione dell’eternità e del tempo, all’incarnazione, cosa c’è di più sacro? (Non è forse così per quasi tutte le tradizioni…???) Si è pesati su quest’istante. Chi è abbastanza leggero passa nell’eternità, almeno con una parte dell’anima. Bastone da cieco per toccare l’eternità. A uccidere l’anima è il corso distruttore del tempo. Ma questa morte è un’ordalia. L’anima che non trabocca

d’amore perisce di una brutta morte. Sopprimere l’io. Accordare la mia anima al corso del tempo. Uso corretto del tempo. Nulla è più importante. Accettare il tempo, discendere nel tempo. Cosa c’è di più penoso per il pensiero? È necessario. La fantasia è un surrogato dell’eternità. Gli svariati modi in cui l’anima, vergognandosi della sua nudità, si nasconde. La fantasia. Le soddisfazioni carnali (anche elementari e legittime) ecc. Le occupazioni quotidiane, il mestiere… Far penetrare il tempo nella mia anima come una croce, come dei chiodi. Uso delle tentazioni. Dipende dal rapporto tra anima e tempo. Contemplare un male possibile (possibile nel vero senso della parola), a lungo, senza compierlo, ha per effetto una sorta di transustanziazione. Se vi si resiste con un’energia finita, tale energia si consuma in un determinato tempo, finito il quale si cede. Se si resta immobili e attenti, è la tentazione a consumarsi (se ne raccoglie allora l’energia ri-gradata?). Similmente, se si contempla un bene possibile allo stesso modo – immobile e attento –, anche in questo caso si ha per effetto una transustanziazione dell’energia, grazie alla quale il bene in questione si compie. La transustanziazione dell’energia consiste nel fatto che per il male arriva il momento in cui non è possibile compierlo, e per il bene il momento in cui non è possibile non compierlo. Cosa da cui deriva anche un principio del bene e del male. Quando si contempla un quadro di prim’ordine per tre ore, in questo lasso di tempo la contemplazione cambia natura. «La quantità si muta in qualità.» Si applica eminentemente alla durata. È la grazia tramite cui il tempo conduce fuori dal tempo.

Il tempo è la croce. Il dolore fisico è la costrizione del tempo avvertito dall’anima. Portare la propria croce. Portare il tempo. […] Dio vuole ugualmente tutte le cose che sono. Il tempo e lo spazio rendono sensibile quest’uguaglianza. Il corpo del Cristo non occupava maggiore spazio di un qualunuqe tronco d’albero, ed è sparito anch’esso per effetto del tempo. Le arti hanno per materia lo spazio e il tempo, e per oggetto la rappresentazione di questa indifferenza. L’infinità dello spazio nelle sue tre dimensioni e l’infinità del tempo contraddistinguono la distanza tra Dio e noi. Essa può essere valicata solo discendendo, non ascendendo. Che Dio possa valicarla è la prova del fatto che è creatore. Dobbiamo attraversare – e Dio per primo, così da giungere fino a noi, poiché egli viene per primo – l’infinito spessore del tempo e dello spazio. L’amore è qui, se possibile, più grande. Quanto la distanza da superare. Perché l’amore sia il più grande possibile, più grande possibile è la distanza. Dio si esaurisce attraversando lo spessore infinito del tempo e dello spazio per prendere l’anima, afferrarla; poiché essa fa resistenza e fugge, egli deve spesso ricominciare; talvolta di sorpresa, talaltra con la forza, altre volte ancora con la seduzione della gioia, egli cerca di farle mangiare un chicco di melagrana. Se essa si lascia strappare, anche solo per un attimo, un consenso puro e totale, allora Dio la conquista di fatto. E, quando infine è divenuta cosa interamente sua, allora egli l’abbandona. La lascia tutta sola. Ed essa deve a sua volta attraversare, ma a tastoni, l’infinito spessore del tempo e dello spazio per congiungersi a ciò che ama. È questa la Croce. Un dolore fisico che giunge fino al limite estremo, privo di qualsiasi consolazione perché accompagnato da un completo sconforto morale, è la totalità del tempo e dello spazio che in pochi attimi penetra l’infima estensione di un corpo, lacerando l’anima. È così e non in altro modo che l’anima

intraprende in senso inverso il viaggio che Dio ha compiuto fino a lei. Solo l’eterno è invulnerabile al tempo. Perché un’opera d’arte possa essere ammirata per sempre, perché un amore, un’amicizia possa durare un’intera vita (o anche solo mantenersi pura per un’intera giornata), perché un’opera d’arte possa essere contemplata per ore e giorni di seguito, perché un’idea della condizione umana possa restare immutata attraverso molteplici esperienze e le peripezie del caso occorre un’ispirazione che discenda dal mondo posto dall’altra parte del cielo. Trascorrendo, il tempo logora e annienta ciò che è temporale (purtroppo anche molte cose essenzialmente eterne, poemi e statue greche, religione dei druidi ecc.): c’è infatti più eternità nel passato che nel presente, così pure per tutte le cose uguali quanto al resto, o piuttosto meno temporalità e di conseguenza una proporzione più forte di eternità. Valore della storia bene intesa, analogo a quello del ricordo in Proust. Così il passato ci offre qualcosa che è a un tempo reale e migliore di noi, che può tirarci verso l’alto, cosa che il futuro non fa mai. La temporalità ha senso solo attraverso e per lo spirituale, senza che però vi si mescoli. Deve condurre a esso per nostalgia, per superamento. È la temporalità come ponte. È la vocazione greca e provenzale. Basiamo la nostra attività coordinata nel tempo su ciò che resiste al tempo. Sul rapporto di condizione. Le tre idee, prima di tutto dell’annientamento nel senso degli atei, secondariamente della reincarnazione e del purgatorio, quindi del paradiso e dell’inferno, tutte indispensabili per considerare la morte, possono essere benissimo accolte come vere e concepite contemporaneamente se si tiene conto che la morte è all’intersezione tra tempo ed eternità. Si rivelano inconciliabili solo perché non possiamo fare a meno di rappresentarci l’eternità come durata. C’è bisogno di tutt’e

tre. La reincarnazione e il purgatorio offuscano la verità del fatto che questa vita è unica, ineluttabile, la sola nella quale possiamo perderci o salvarci. Il paradiso e l’inferno offuscano la verità del fatto che la salvezza appartiene solo alla perfezione e la dannazione solo al tradimento, e che l’anima imperfetta, ma orientata al bene, non è suscettibile né dell’una né dell’altra. L’idea materialista dell’annientamento scarta la verità essenziale, primaria, del fatto che l’unico bisogno dell’anima è la salvezza e che il senso dell’intera vita è prepararci all’istante della morte. La fede nell’immortalità dissolve la pura amarezza e la realtà stessa della morte, che per noi è il dono più prezioso della Provvidenza divina. Non possiamo rappresentarci l’esistenza solo nel tempo, ragion per cui non c’è differenza dalla nostra prospettiva tra l’annullamento e la vita eterna, se non nella luce. Un annullamento che è luce, è la vita eterna. L’istante della morte, intersezione tra tempo ed eternità, punto d’incontro dei bracci della croce. Istante che sta agli altri come il Cristo agli uomini. Bisogna tenere lo sguardo del pensiero fisso su quell’istante, e non sulla vita mortale, neppure sull’eternità, perché la nostra ignoranza circa l’eternità fa sì che, pensando a essa, l’immaginazione corra senza alcun freno. In questo miscuglio di tempo ed eternità, la gioia coincide con un accrescimento del secondo fattore, l’eternità; il dolore con una preponderanza del primo fattore, il tempo. Come mai, quindi, attraversare il dolore sensibilizza alla bellezza? Dobbiamo scegliere tra tempo ed eternità. In un certo senso, questo corrisponde a scegliere tra gioia e dolore. […] La gioia ci inchioda all’eternità e il dolore al tempo. Ma desiderio e timore ci incatenano al tempo e il distacco infrange le catene. Cercare la gioia ci tiene legati al tempo. La gioia è la

nostra evasione fuori dal tempo. Il dolore ci inchioda al tempo, ma l’accettazione del dolore ci trasporta al termine del tempo, nell’eternità. Così erodiamo la lunghezza infinita del tempo, la superiamo. Nuova nascita. Come il seme serve a generare un altro essere, essa serve a generare una seconda volta lo stesso essere. L’eternità si trova al termine di un tempo infinito. Il dolore, la fatica, la fame colorano il tempo d’infinito. Dio stesso non può fare in modo che ciò che è stato non sia stato. Esiste prova migliore del fatto che la creazione è un’abdicazione? Esiste più evidente abdicazione di Dio se non il tempo? Noi siamo abbandonati nel tempo. Dio non è nel tempo. La creazione e il peccato originale non sono altro che due aspetti, per noi differenti, di un un unico gesto di abdicazione da parte di Dio. Allo stesso modo, lo sono anche l’Incarnazione e la Passione. Non c’è santo che abbia ottenuto da Dio di cancellare il passato, né d’invecchiare di dieci anni in un giorno, né d’invecchiare di un giorno in dieci anni, né… Non c’è miracolo che possa alcunché contro il tempo. Contro il tempo, nulla può la fede che sposta le montagne. Dio ci ha abbandonati nel tempo. L’abbandono in cui ci lascia Dio è il suo modo di accarezzarci. Il tempo, nostra sola miseria, è il tocco stesso della sua mano. È l’abdicazione tramite cui ci fa esistere. Il tempo è il nostro martirio. L’uomo non tenta che di sfuggirvi; tenta cioè di sfuggire al passato e al futuro sprofondando nel presente, o di crearsi un passato e un futuro alla sua maniera. Si sfugge al tempo tenendosene al di sotto – la carne ce ne dà modo – oppure passando al di sopra, nell’eternità. Per poter passare, però, bisogna attraversare il tempo per

intero, nella sua infinità, e noi non viviamo che un istante. Dio dà modo di farlo a quanti lo amano. Bisogna aver attraversato l’eternità dei tempi in un tempo finito. Affinché questa contraddizione sia possibile, occorre che la parte dell’anima all’altezza del tempo, la parte discorsiva, la parte che misura, venga distrutta. Può essere distrutta solo dalla sventura accettata o da una gioia tanto intensa da precipitare nella contemplazione pura. Per la parte dell’anima posta sotto il tempo, una durata finita è infinita, così come un metro racchiude un’infinità di punti. Se, annientando la parte discorsiva, si mette a nudo lo strato inferiore dell’anima, se in tal modo l’eternità è attraversata in un tempo finito, se nel corso di quest’eternità l’anima resta rivolta verso la luce eterna, alla fine la luce eterna avrà forse pietà e accoglierà l’anima intera nella sua eternità. Un cero è l’effigie di un essere umano che attimo per attimo offre a Dio la combustione interiore, l’usura interiore di tutti gli attimi di cui è fatta la vita vegetativa. Questo significa offrire il tempo a Dio. Questo significa salvezza.

UMILTÀ

Ciò per cui si prova orgoglio è sempre ciò di cui si può essere privati dalle circostanze. Dunque l’orgoglio è un inganno. Prendere coscienza di questo inganno è la virtù dell’umiltà (nudità di spirito). Sfuggono alle circostanze solo i doni della grazia, e per questi doni non si può provare orgoglio; almeno non nel momento in cui li si riceve. L’umiltà consiste nel sapere che ciò che chiamiamo «io» non ha alcuna fonte d’energia che consenta di elevarsi. Allora non ci si meraviglia più della pochezza umana, compresa la propria, più di quanto non ci si meravigli di non vedere gli uomini camminare sui laghi; eppure, è risaputo che la vocazione propria dell’uomo è quella di camminare sui laghi. Umiltà; considerarsi al di sotto degli altri. Cosa che di per sé non ha senso. È operazione analoga a quella con cui Descartes nega per arrivare al dubbio. Bisogna considerarsi al di sotto degli altri per arrivare a considerarsi uguali a loro e a non preferirsi. Poiché non ci si può impedire d’immaginare una gerarchia, una scala tra gli esseri umani (e la perfezione sta nel non immaginarla), è necessario porsi all’ultimo gradino per evitare di essere collocati al di sopra di qualche essere umano nella propria stima. Perseverando nel mantenersi all’ultimo gradino, la scala svanisce. Nell’ordine dell’intelligenza, l’umiltà non è altro che attenzione. In generale, l’umiltà è amore senza ritorno su di sé. Accordare valore in me solo al trascendente, ossia a ciò

che mi è ignoto in me stesso, che non è me. E a null’altro, senza alcuna eccezione. L’umiltà è la consapevolezza di essere nulla in quanto essere umano e, più in generale, in quanto creatura. L’intelligenza vi riveste una parte importante. Bisogna concepire l’universale. L’umiltà è l’unica virtù del tutto soprannaturale, a cui non corrisponde cioè alcuna virtù naturale che la imiti. L’umiltà ha come oggetto la soppressione dell’immaginario nel progresso spirituale. Nessun inconveniente a ritenersi molto meno avanti di quanto si è: non per questo la luce produce in minor misura i suoi effetti, che non si originano nell’opinione. Molti gli inconvenienti a ritenersi più avanti, perché in tal caso è l’opinione ad avere effetto. Nel tempo, la luce provoca un’assuefazione che fa sì di poter ricevere ancora più luce, e così di seguito. Progressione esponenziale delle grazie. L’umiltà è una purificazione attraverso la rimozione in sé del bene immaginario. Niente è più prossimo alla vera umiltà dell’intelligenza. Non si può provare orgoglio per la propria intelligenza nel momento in cui la si esercita realmente. E quando la si esercita non si è attaccati a essa. Se anche si diventasse idioti il momento dopo e per il resto della vita, infatti, la verità non cesserebbe di essere. Dio mi ha donato l’essere perché io glielo renda. È come una di quelle prove simili a trappole che s’incontrano nelle fiabe o nelle storie d’iniziazione. Se accettato, questo dono è cattivo e fatale. La sua virtù si manifesta nel rifiuto. Dio mi consente di esistere come altro da lui. Sta a me rifiutare questa concessione. Fiaba Maria d’oro e Maria di catrame, e altre simili. L’umiltà è il rifiuto di esistere. Regina delle virtù. L’umiltà non è una cattiva opinione su sé stessi rispetto ad altri. È un’opinione radicalmente cattiva su sé stessi

rispetto a ciò che in sé è impersonale. La contemplazione del tempo è la chiave della vita umana. È il mistero irriducibile su cui nessuna scienza fa presa. L’umiltà è inevitabile quando non si è sicuri di sé per l’avvenire. Si consegue la fermezza solo abbandonando l’io, soggetto al tempo e mutabile. Bisogna sapere di non essere e, al tempo stesso, non voler essere. L’umiltà è la radice dell’amore. L’umiltà ha un potere irresistibile su Dio. Dio sarebbe inferiore a noi se, nella persona del Cristo, non fosse stato umiliato. In tal modo, fiaccando Dio con la nostra pazienza, lo costringiamo a tramutare il tempo in eternità. Una pazienza capace di fiaccare Dio deriva da un’umiltà infinita. L’umiltà ci dà potere su di Lui. Solo il nulla perfettamente vuoto può congiungersi all’essere perfettamente coeso. Solo attraverso l’umiltà possiamo essere perfetti come il Padre nostro. Per questo occorre un cuore completamente stritolato. Una preghiera a gesti, come quella della formica che sale e ricade, è ancora più umile di una preghiera espressa a parole o grida anche interiori o con un desiderio segretamente diretto. Vuol dire sapere che non si può nulla, consumandosi tuttavia in sforzi riconosciuti come inutili, in umile attesa del giorno in cui forse questo sarà osservato dalla Potenza che non si osa supplicare. Non c’è condotta più umile dell’attesa muta e paziente. È la condotta dello schiavo pronto a qualsiasi ordine del padrone, o all’assenza di ordini. L’attesa è la passività del pensiero in atto. L’attesa tramuta il tempo in eternità. «Porteranno frutti nell’attesa.»211 Il grido dell’orgoglio è «il futuro mi appartiene», non importa in quale forma si presenti.

L’umiltà è la conoscenza della verità opposta. Se mi appartiene solo il presente sono niente, perché il presente è niente. Il pane trascendente è il pane di oggi; è anche il nutrimento dell’anima umile. Il peccato è un tentativo di sfuggire al tempo. La virtù è subire il tempo, è premervi contro il proprio cuore fino che questo non rimane stritolato. Allora si è nell’eterno. La sventura raggela l’anima riducendola al presente malgrado lei. L’umiltà è il consenso a questa riduzione. L’umiltà è il consenso a ciò che terrorizza la natura, al nulla. La compassione rivolta verso sé stessi è umiltà. L’umiltà è l’unica forma lecita di amore di sé. Lode a Dio, compassione per le creature e umiltà per sé stessi. Senza umiltà, tutte le virtù sono finite. Solo l’umiltà le rende infinite. L’umiltà nell’attesa ci rende simili a Dio. Dio non è che il bene. Ecco perché è là e attende in silenzio. Chiunque si faccia avanti o apra bocca usa un po’ di forza. Il bene che è soltanto bene non può essere che là. I mendicanti pudichi sono Sue immagini. L’umiltà consiste in un determinato rapporto dell’anima con il tempo. È accettazione dell’attesa. […] L’umiltà partecipa all’attesa di Dio. L’anima perfetta attende il bene con altrettanto silenzio, immobilità e umiltà che Dio stesso. Tenersi al di sotto di quanto compiuto dagli altri, sapendolo e senza desiderare di eguagliarli, è un sistema per infrangere lo spirito di primato. Almeno se si è abbastanza orgogliosi da percepire che quanto è inferiore a ciò che gli altri hanno è privo di valore… Perché c’è un uso dell’orgoglio per l’umiltà.

Anche quando Dio non fa il nostro bene, credere che egli voglia e possa farlo. Questo è contraddittorio: è la fede. L’umiltà genera questa meraviglia. Tuttavia, nell’ordine del bene vi è solo discesa, mai ascesa. Dio è disceso per dimorare in quest’uomo. In quest’operazione, il nostro potere è limitato a una tecnica simile alla magia simpatica. Gli stregoni australiani versano l’acqua a terra per invocare la pioggia. Allo stesso modo, noi possiamo discendere per indurre Dio a discendere in noi. Tale è la virtù dell’umiltà. Solo i movimenti discendenti sono in nostro potere. I movimenti ascendenti sono illusori. La virtù dell’umiltà è incompatibile con il sentimento di appartenenza a un gruppo sociale scelto da Dio (ebrei, romani, tedeschi ecc.) o a una chiesa. Il legame tra umiltà e vera filosofia era noto già nell’antichità. Tra i filosofi socratici, cinici, stoici, il subire ingiurie, colpi e perfino schiaffi accettando tutto senza il minimo scatto istintivo di dignità era parte del dovere professionale. Essendo l’apostolato cristiano una professione simile o identica a quella del filosofo, il precetto di Cristo ai discepoli, «porgere l’altra guancia»,212 va considerato alla stessa stregua, come un dovere della particolare funzione di apostolato, e non solo della vita cristiana. L’umiltà è prima di tutto una qualità dell’attenzione. L’umiltà assoluta è il consenso alla morte, che ci rende un nulla inerte. I santi sono coloro i quali, ancora in vita, hanno realmente dato il loro consenso alla morte.

VERITÀ

Amare la verità significa tollerare il vuoto e, quindi, accettare la morte. La verità è dalla parte della morte. Non si può amare la verità con tutta l’anima senza strappi. Una verità è il punto innominabile (ἄλογοϛ) rispetto al quale si possono ordinare, ponendole correttamente al loro posto, tutte le opinioni possibili su un soggetto. Logica. Classificare quelle verità che per loro natura finiscono distrutte nel momento in cui vengono affermate (es. la grazia inclusa nel peccato), perché esse non sono vere sul piano delle opinioni affermate (in cui è vero il contrario), ma su un piano superiore. Esse sono percepibili come vere solo agli spiriti atti a pensare contemporaneamente su molteplici piani verticali sovrapposti, del tutto incomunicabili agli altri. Credere. Accezioni molto diverse. 2+2=4 oppure: ho in mano questa penna. La credenza è qui il sentimento dell’evidenza. Io non posso, per definizione, credere in questo modo a un mistero. Ma credo che i misteri della religione cattolica siano una fonte inesauribile di verità sulla condizione umana. (Inoltre, essi sono per me oggetto d’amore.) Nulla m’impedisce però di credere la stessa cosa riguardo ad altri misteri, né di credere che alcune di queste verità siano state rivelate altrove in maniera diretta. Adesione dello spirito analoga a quella suscitata da un’opera d’arte (l’arte veramente grande). L’intolleranza deriva da una confusione tra i modi di credere. La carità e l’ingiustizia si definiscono solo tramite letture – sfuggendo così a ogni definizione. Il mistero del buon

ladrone non fu tanto l’aver pensato a Dio, ma l’averlo riconosciuto nel suo vicino. Prima che il gallo cantasse, Pietro non riconobbe più Dio nel Cristo, altrimenti non l’avrebbe rinnegato. Altri si fanno ammazzare per falsi profeti, falsi autori di miracoli – falsi autori di veri miracoli, forse? – nei quali leggono erroneamente Dio. Il loro sacrificio non li conduce al regno di Dio. Chi può vantarsi di leggere correttamente? Perciò bisogna implorare la verità. (Se la Provvidenza desse a ognuno quanto merita, saremmo certi di leggere sempre correttamente? No.) Si può essere ingiusti per volontà di offendere la giustizia o per un’errata lettura della giustizia. Ma è quasi sempre (o sempre?) il secondo caso. Quale amore della giustizia pone al riparo da un’errata lettura? Criterio della fede: credere a dispetto delle apparenze. «Che cos’è la verità?»213 A cosa si deve credere o non credere? Niente di umano è pensabile se non si considera il passato, e il passato non è mai verificabile. Non è oggetto d’indagine. Riprodotto per pura congettura. Celato dalla menzogna. Come sfuggire dunque al pericolo di commettere le peggiori ingiustizie? La funzione dell’intelligenza – la parte che in noi afferma e nega, che formula opinioni – è soltanto la sottomissione. Tutto ciò che sento come vero è meno vero delle cose di cui non posso sentire la verità, ma che amo. Ecco perché san Giovanni della Croce parla della fede come di una notte. In coloro che hanno ricevuto un’educazione cristiana, le parti inferiori dell’anima si attaccano a questi misteri senza averne alcun diritto. Perciò essi hanno bisogno di una purificazione di cui san Giovanni della Croce ci descrive le tappe. Ateismo e incredulità rappresentano gli equivalenti di questa purificazione. Non cogliere i misteri come verità, cosa impossibile, ma

riconoscere la subordinazione di tutto ciò che cogliamo come verità ai misteri che amiamo. L’intelligenza può riconoscere tale subordinazione provando che l’amore di questi misteri è fonte dei pensieri che essa può cogliere come verità. Tale sarebbe il rapporto tra fede e carità. Nel campo dei rapporti tra l’uomo e il soprannaturale va ricercata una precisione più che matematica. Serve cioè maggiore precisione che nella scienza. Questo dev’essere uno degli usi della scienza. I misteri della fede non possono essere affermati o negati, ma posti al di sopra di ciò che affermiamo e neghiamo. Trovandoci di fatto in un’epoca d’incredulità, perché tralasciare l’uso purificatore di quest’ultima? Io lo conosco sperimentalmente. La fede è esperienza del fatto che l’intelligenza è illuminata dall’amore. La verità come luce del bene; il bene superiore alle essenze. L’organo grazie al quale vediamo la verità è l’intelligenza; l’organo grazie al quale vediamo Dio è l’amore. «Gli occhi dell’anima sono le dimostrazioni stesse.»214 Per le verità. Ma l’occhio dell’anima per la contemplazione del divino è l’amore. Solo l’intelligenza deve riconoscere con i propri mezzi, ossia la constatazione e la dimostrazione, il primato dell’amore. Essa deve sottomettersi solo sapendo il perché con assoluta chiarezza e precisione. Altrimenti la sottomissione è un errore, e ciò a cui essa si sottomette è, nonostante l’etichetta, cosa diversa dall’amore soprannaturale (per esempio, l’influenza sociale). India. Letture sovrapposte. Bisogna amare Dio impersonale attraverso Dio personale (e dietro ancora Dio in quanto l’uno e l’altro, e dietro ancora Dio in quanto né l’uno né l’altro), così da evitare di concepirlo come una cosa, come talvolta fa Spinoza. Solidi simmetrici e quarta dimensione. Allo stesso modo la rappresentazione delle verità contraddittorie attira l’anima

verso il non rappresentabile. La matematica è la capacità di ragionare rigorosamente sul non rappresentabile. Ma i segni (se se ne abusa) sviliscono questa meraviglia e ne impediscono l’uso mistico. Persone senza valore. Dev’esserci stato un momento nella loro vita, magari all’età di quattro anni, in cui hanno ricusato la verità. L’anima non vuole unirsi alla verità che di notte, nell’incoscienza. Se scorge un barlume di verità, fugge per volgersi verso la carne. Per ottenere accesso all’anima, la verità deve cercarla e sedurre la carne. Ma l’anima dorme. Se solo si sveglia un istante, si volge verso l’unione legittima. La prima unione con la verità ha luogo di notte. Il Bene è sotto l’aspetto della creazione una persona, ovvero l’autore del mondo. Anche la Verità, ovvero il modello che vive eternamente, il vivente spirituale. Anche l’Essere, ovvero l’Anima del mondo. La verità scaturisce dal contatto tra due proposizioni nessuna delle quali è vera; è il loro rapporto a essere vero. C’è nell’anima come una fagocitosi; tutto ciò che in noi è temporale secerne menzogna per non morire, e in proporzione al pericolo di morte. Ecco perché non c’è amore della verità senza consenso totale, senza riserve alla morte. La Croce del Cristo è l’unica porta della conoscenza. L’oggetto della scienza non è il vero, ma il bello. Ciò che ha per oggetto il vero è la filosofia. Sono poche le certezze interiori veramente, legittimamente assolute. Una di queste è il sentimento del male in sé stessi. Quando si avverte il male in sé, si è assolutamente sicuri che c’è, per quanto ci si possa sbagliare nel localizzarlo. Poiché Dio è verità, però, questa certezza è contatto con Dio. Bisogna essere felici che ci venga concessa. La verità soltanto distrugge il male in noi. Questa certezza del male è distruttrice del male, a condizione però che sia pensata come

tale. Il presupposto della mitologia è che l’universo è una metafora delle verità divine. Postulato: l’inferiore dipende dal superiore. Non c’è che un’unica sorgente di luce. La penombra non dipende da raggi provenienti da un’altra sorgente, semioscura: è la stessa luce degradata. Analogamente, la mistica deve fornire la chiave di tutte le conoscenze e di tutti i valori. L’armonia è la chiave (Filolao). Il Cristo è la chiave. Ogni geometria procede dalla Croce. Il bello è il contatto del bene con la facoltà sensibile (il reale è la stessa cosa). Il vero è il contatto del bene con l’intelligenza. Tutti i beni di qui, tutte le bellezze, tutte le verità sono aspetti diversi e parziali di un unico bene. Di conseguenza, sono beni da mettere in ordine. I puzzle sono un’immagine di tale operazione. Tutto questo, colto da un punto di vista corretto e messo correttamente in relazione, dà vita a un’architettura che consente di comprendere il bene unico e inafferrabile. La Verità – la bellezza dell’universo – è il segno che esso è reale. Per il Padre, Dio è il Figlio. Per il Figlio, Dio è il Padre. Hanno entrambi ragione, e si tratta di un’unica verità. Essi sono dunque due persone e un unico Dio. Il Padre è creazione dell’essere, il Figlio è rinuncia all’essere; questo doppio sussulto è un atto unico che è Amore o Spirito. Quando l’umiltà ci rende partecipi di esso, la Trinità è in noi. Lo scambio di amore tra Padre e Figlio passa attraverso la creazione. Non ci è richiesto altro né di più che acconsentire a questo passaggio. Noi non siamo che questo consenso. C’è una ragione soprannaturale. È la conoscenza, gnosi,

γνῶσιϛ, di cui il Cristo è la chiave, la conoscenza della Verità il cui soffio è inviato dal Padre. Ciò che è contraddittorio per la ragione naturale non lo è per quella soprannaturale, che però non ha che il linguaggio dell’altra. Tuttavia, la logica della ragione soprannaturale è più rigorosa di quella della ragione naturale. […] La ragione naturale applicata ai misteri della fede genera l’eresia. I misteri della fede slegati completamente dalla ragione non sono più misteri, ma assurdità. La ragione soprannaturale, però, esiste solo nelle anime che ardono dell’amore soprannaturale di Dio. (Gli scienziati credono alla scienza come la maggior parte dei cattolici alla Chiesa, ovvero alla Verità cristallizzata in opinione collettiva infallibile; si dispongono a credervi nonostante il continuo mutare delle teorie. In entrambi i casi è per mancanza di fede in Dio.) Un cattolico orienta il suo pensiero in modo che sia prima di tutto conforme alla dottrina della Chiesa, e solo in secondo luogo lo volge verso la verità. Lo stesso fa uno scienziato, ma qui non si tratta di una dottrina sancita, quanto di un’opinione collettiva in formazione; egli orienta il suo pensiero seguendo una certa corrente percepita intuitivamente in maniera più o meno felice, con maggiore o minore prescienza. Dal punto di vista dell’onestà intellettuale, è peggio. È un freno all’intelligenza anche peggiore. La morte di un essere umano è tremenda perché rivela la verità sulla natura dell’amore che si nutriva per lui. Perché rivela come quell’amore non fosse più forte della morte. La ragione suprema per cui il Figlio di Dio si è fatto uomo non è salvare gli uomini ma testimoniare la verità. Testimoniare che l’amore tra Padre e Figlio è più forte

della distanza tra Creatore e creatura. Che il pensiero dei pensanti separati è uno. Testimoniare la verità. Quale verità? C’è solo una verità che valga di essere fatta oggetto di testimonianza. Che Dio è Amore. Il Figlio si è separato dal Padre per testimoniare che si amano. Testimoniare a chi? A sé stessi. Dio testimonia davanti a Dio che egli ama Dio. L’analogia così stretta tra Platone e san Giovanni della Croce, che non si spiega certo con un influsso diretto e, probabilmente, nemmeno indiretto, dimostra che la verità mistica è una come la verità aritmetica o geometrica. Il bene comincia al di là della volontà, come la verità comincia al di là dell’intelligenza. Come il Cristo, tutti noi siamo stati inviati in questo mondo per testimoniare la verità;215 e, qualsiasi cosa faremo, testimonieremo. Una volta compreso questo, non si può più aver paura di disobbedire a Dio. Sappiamo per esperienza che la verità è esclusivamente universale e che la realtà è esclusivamente particolare, e tuttavia esse sono inseparabili. Anzi: sono un’unica cosa. Non possiamo sfuggirvi. Nel microcosmo come nel macrocosmo, nell’anima come nell’universo, il bene puro e autentico è totalmente nascosto. Dunque, si è nella verità solo se ci si condanna in maniera assoluta. Un uomo può avere in sé del bene autentico forse solo se ignora di averlo. Il dominio della fede è il dominio delle verità create dalla certezza. In questo modo la fede è legittima. In questo è una virtù. Una virtù creatrice di verità. Tre sono i misteri, quaggiù, tre le cose incomprensibili: bellezza, giustizia e verità. Sono le tre cose universalmente riconosciute come norme di tutto. L’incomprensibile è la norma di ciò che è conosciuto. È impossibile che la verità nella sua pienezza non sia

presente in ogni tempo, in ogni luogo, a disposizione di chiunque la desideri. «Chi chiede pane.»216 La verità è pane. È assurdo immaginare che per secoli nessuno o quasi abbia desiderato la verità e che in seguito, per secoli, popoli interi l’abbiano desiderata. Quelli che non hanno avuto la verità, come gli ebrei prima di Nabucodonosor, i romani e altri ancora, non l’hanno voluta. Per via di un ordine provvidenziale, la verità e la sventura sono mute entrambe. A causa di questo mutismo la verità è sventurata. Poiché l’eloquenza soltanto è felice, qui. A causa di questo mutismo, la sventura è vera. Non mente. Per via di un altro ordine provvidenziale, la verità e la sventura hanno entrambe una bellezza. Di conseguenza, nonostante il loro mutismo, l’attenzione può fissarsi su di esse. La verità che diventa vita: ecco la testimonianza dello Spirito. La verità trasformata in vita. L’amore reale esige un oggetto reale, e conoscerne la verità, e amarlo nella sua verità, ma di uno spirito di verità nell’amore. Esso è sempre presente nell’amore reale e puro. Lo Spirito di verità – il suo alito igneo, la sua energia – è a un tempo Amore. C’è un altro amore bugiardo. Quaggiù è possibile amare solo gli uomini e l’universo, ossia la giustizia e la bellezza. Di conseguenza, la verità è una qualificazione del giusto e del bello. Le cose che vengono da Dio hanno come fondamento quello di mostrare tutti i caratteri della follia, tranne la perdita dell’inclinazione a discernere la verità e ad amare la giustizia. C’è grande differenza tra una verità compresa come tale, e in questa qualità immessa, accolta in uno spirito, e una verità che si trova nell’anima allo stato attivo e ha la virtù di

annientarvi gli errori evidentemente incompatibili con essa. Si potrebbe credere che sia la stessa cosa, ma di fatto non è così. L’osservazione degli uomini lo comprova tutti i giorni. La virtù agente della verità è il πνεῦμα ἅγιον,217 l’energia divina.

VUOTO

In fondo i piaceri dei sensi, in quanto tali, sono tutto ciò che c’è d’innocente (contrariamente a quanto pensava SaintCyran). Piaceri della vista (colori, forme), dell’udito (suoni dolci), dell’olfatto (profumi dolci), del tatto (contatti dolci), del gusto (cibi saporiti, bevande). Piaceri di tutto il corpo (benessere). Piaceri dei muscoli in azione. Tutto questo è sano finché l’anima non cerca di smarrirvisi per colmare un vuoto. Sapere (in ogni cosa) che esiste un limite, e che non lo si supererà senza aiuto soprannaturale, o che lo si supererà di poco e in seguito lo si sconterà con un terribile cedimento. Non dimenticarlo in nessuna circostanza. Πάτηρ ἡμῶν ὁ ἐν[τοῖϛ] οὐρανοῖϛ – τὸν ἄρτον ἡμῶν τὸν ἐπιούσιον δὸ ϛ ἡμῖν σήμερον.218 Bisogna spingersi fino a questo limite. Qui si tocca il vuoto («Aiutati e il cielo ti aiuterà»). Essere determinati a morire, accettare il vuoto, stessa cosa; solo questo consente che, in determinate situazioni, la menzogna non sia una necessità vitale. Gli uomini lavorano d’immaginazione per sigillare i buchi da cui passerebbe la grazia; per questo – a costo di una menzogna – si fabbricano idoli, cioè beni relativi intesi come al di fuori di ogni relazione. Se li si considera relativi si genera vuoto, perché ai livelli di fatica in cui il pensiero delle relazioni (che è conoscenza del secondo genere) perisce, bisogna produrre sforzo senza interruzione. Allora la fonte di energia non può essere che il pane soprannaturale (indispensabile tutti i giorni). L’idolatria è dunque una necessità vitale. Pensare le

relazioni vuol dire accettare la morte. […] Gītā. Rinunciare all’azione non produce alcun vuoto. Rinunciare non all’azione, ma al suo frutto; questo produce vuoto. Sospendere continuamente in sé stessi il lavoro dell’immaginazione che compensa i vuoti e gli squilibri. Se si accetta un qualsiasi vuoto, quale colpo della sorte può impedire di amare l’universo? (Si è sicuri che, qualunque cosa accada, l’universo è pieno. Pūrṇam.) Tutto ciò è così difficile che il tempo è limitato alla giornata. Per questo: «Dacci oggi…», «A ogni giorno basta la sua pena».219 Non è possibile (forse?), anche con la grazia, tollerare il vuoto per più di un giorno. In qualsiasi situazione, se si arresta l’immaginazione che compensa, si ottiene il vuoto. (Poveri in spirito.) Questo sentimento d’impossibilità è il sentimento del vuoto. Contemplarlo a lungo con accettazione vuol dire aprire un varco alla grazia. Vuoto. Il vuoto è la suprema pienezza, ma l’uomo non ha il diritto di saperlo. Prova ne è che il Cristo stesso, per un istante, l’ha completamente ignorato. Una parte di me deve saperlo, ma le altre no; perché, se lo sapessero alla loro maniera bassa, non ci sarebbe più vuoto. Rifiutare le credenze che colmano i vuoti, che addolciscono le amarezze. Quella nell’immortalità. Quella nell’utilità dei peccati, etiam peccata.220 [È utile che questi siano manifesti.] Quella nella natura provvidenziale degli eventi. (In breve, le «consolazioni» spesso cercate nella religione.) «Soffrire in questo modo è impossibile.» Tale sentimento d’impossibilità è il sentimento del vuoto. Accompagna ogni vera sofferenza e affiora non appena l’immaginazione che colma si arresta un istante. Così anche il sentimento

d’irrealtà nella sventura. L’uomo non sfugge alle leggi di questo mondo se non per la durata di un baleno. Istanti di immobilità, di contemplazione, d’intuizione pura, di vuoto mentale, di accettazione del vuoto morale. Grazie a questi istanti egli è capace di soprannaturale. Chi regge per un attimo il vuoto, riceve il pane soprannaturale oppure cade. Rischio terribile, ma che va corso e, per un attimo, anche senza speranza. Futuro che colma i vuoti. A volte anche il passato riveste questo ruolo (io ero… io ho fatto…). [Forse un passato fittizio? In questo caso, forse sempre fittizio? Chissà]. In altri frangenti, la sventura rende insostenibile il pensiero del passato; essa priva allora lo sventurato del suo passato (o si tratta degli stessi frangenti?). Non esercitare tutto il potere di cui si dispone vuol dire sopportare il vuoto. Solo il sentimento della morte forse prossima rende la conservazione della vita il più potente degli stimoli. «Niente è più dolce agli sventurati della vita, proprio nel momento in cui essa non è in nulla preferibile alla morte.» Fenomeno di vuoto. L’orrore del vuoto e il lavoro dell’immaginazione nel ricordo e nella previsione. Sprecare energia perché tutto si ritrovi nello stato di prima: insostenibile. In che senso il peccato ci rende debitori? [Testo del Pater.] Abbiamo lasciato che l’energia andasse persa (si degradasse). Siamo amministratori infedeli. Occorre ricreare il vuoto in noi. Rimettere i debiti ai nostri debitori. Non solo gli uomini, ma le cose. Non fissare su cose ed esseri l’energia spesa per essi (compresa quella che consente di far fronte alla sofferenza). Il desiderio di vendetta è come l’attaccamento dell’avaro al suo tesoro.

Rimetti a noi i nostri debiti. Rendici l’energia sprecata. Solo da te, e non dalle creature, aspettiamo quest’energia. Se mi si fa del male, aspetto qualcosa da chi mi ha fatto male, come l’avaro aspetta qualcosa dal suo tesoro («soddisfazione»). In compenso, far male agli altri vuol dire riceverne qualcosa; ma cosa? Cosa si guadagna (e cosa si dovrà ripagare) facendo del male? Ci si estende, ci si dilata: si colma un proprio vuoto creandolo negli altri. Accettiamo il male che ci viene fatto come rimedio (non ce n’è altro) a quello fatto da noi. Se non venissimo offesi, non potremmo essere perdonati. Come il gas, l’anima tende a occupare tutto lo spazio concessole. Un gas che si ritraesse, lasciando così un vuoto, sarebbe contrario alla legge dell’entropia. Tucidide: «Ciascuno esercita tutto il potere di cui dispone». Ognuno si espande quanto può. Arrestarsi, trattenersi significa creare vuoto in sé. Da un lato, l’immaginazione compensa i vuoti; dall’altro, è incatenata allo stato presente; a volte oscilla tra queste due condizioni. Quando può soddisfare i bisogni senza impedimenti, ci si sente a proprio agio. Così essa imbastisce cattive interpretazioni per quegli individui condannati dall’opinione, se non si è per qualche verso legati a costoro. È piacevole. Imbastisce virtù per i forti, crimini per gli sventurati. O il contrario, se forza e sventura sono remote; in entrambi i casi, compensazione. Il Cristo si è svuotato della sua natura divina per assumere quella di schiavo. Si è abbassato fino alla croce – fino alla separazione da Dio (padre mio…). In che modo dobbiamo imitarlo? Le soluzioni offerte ai problemi che non ci si è posti sono decisive nella condotta di vita. Bisogna porseli tutti. E, con tale intento, svuotarsi. «Egli si è svuotato della sua divinità.»221 Svuotarsi del mondo. Rivestire la natura di schiavo. Ridursi al punto che si occupa nello spazio e nel tempo. A niente.

Rimettere i debiti vuol dire fermarsi al presente: acquisire il senso dell’eternità. Allora, in effetti, i peccati sono rimessi. Spogliarsi della regalità immaginaria del mondo per ridursi al punto che si occupa nello spazio e nel tempo. Solitudine assoluta. Allora si possiede la verità del mondo. «Sarete come dei.»222 Il peccato è desiderare di essere altri dei in altro modo che partecipando alla divinità di Dio. Veniamo al mondo con questo peccato. È il peccato luciferino. Voler essere divini in quanto creature. Necessità del mediatore perché l’adorazione di Dio sia un’imitazione, e perché tale imitazione sia pura. Si è svuotato della sua divinità. Dobbiamo svuotarci della falsa divinità con cui siamo venuti al mondo. Impedire loro di mangiare dell’albero della vita. Impedirci di essere falsi dei. La morte ci ammonisce che non siamo dei. Per questo, finché non l’abbiamo pienamente compreso, ci risulta così dolorosa. San Giovanni della Croce: le virtù conseguite nell’aridità mettono radici nell’anima. Dove c’è una virtù, ci sono tutte; dove ne manca una, mancano tutte. L’anima spiritualmente sposata pensa sempre a Dio, anche quando non se ne avvede – Crescita esponenziale nelle grazie. Vi è un periodo in cui l’anima è già distaccata dal mondo senza potersi ancora aggrappare a Dio; vuoto, orribile angoscia (notte oscura). Sono gli sforzi a vuoto a definire la sofferenza. Chi ha mal di testa, si sforza continuamente di liberarsene, invano. L’accettazione della sofferenza diventa dunque accettazione del vuoto. Rinunciare ai frutti significa condurre un’esistenza fatta interamente di sforzi a vuoto. Per questo è scritto nel Vangelo: «Io vi dico che essi hanno ricevuto la loro ricompensa».223 Non c’è bisogno di compensazione. È il vuoto nella sensibilità a condurmi oltre la sensibilità. La religione in quanto fonte di consolazione fa da

impedimento alla fede autentica, e in questo senso l’ateismo è purificatore. Devo essere atea con la parte di me che non è fatta per Dio. Tra gli uomini la cui parte soprannaturale non si è risvegliata, hanno ragione gli atei e torto i credenti. La nudità di spirito non è solo una condizione dell’amore di Dio; è una condizione sufficiente; è amore di Dio. Vuoto. La quiete della materia intesa come caso particolare del movimento, due movimenti che si annullano. La materia è ciò che si muove. La quiete, come il vuoto, è spirituale. Negli atti di preghiera e di contemplazione l’anima intera deve tacere e soffrire il vuoto perché solo la parte soprannaturale sia attiva (a vuoto), sospesa al vertice più elevato di tutta l’energia dell’anima. Negli altri periodi, Dio dev’essere a un tempo presente e assente nelle parti naturali dell’anima colte al di fuori, così come lo è nella creazione. Il metodo zen primitivo sembra essere una ricerca a vuoto così intensa da sostituirsi a tutti gli attaccamenti. Essendo a vuoto, però, non può costituire un oggetto di attaccamento se non in quanto è perseguita attivamente; l’attività di questa ricerca inutile si prosciuga. Quando il prosciugamento è molto vicino, un qualsiasi shock produce il distacco. Così come ci sono due vuoti, due silenzi ecc. – quello dall’alto e quello dal basso – può anche darsi, se la morte è annientamento, che vi siano due annientamenti, quello nel nulla e quello in Dio. Il desiderio terrestre, l’attaccamento, è una direzione, un orientamento in linea retta. L’essere intero è proiettato in linea retta verso un oggetto particolare, il tesoro per l’avaro, una donna per l’amante. Non così il bambino: è disponibile, è orientato e non è orientato verso qualcosa. Orientato a vuoto. Ecco perché fuggiamo il vuoto interiore: perché Dio vi si potrebbe insinuare. La ripugnanza a compiere un’azione buona è segno della

sua autentica bontà. Questa ripugnanza non va superata. Bisogna provare ripugnanza per l’azione e compierla. L’immaginazione è sempre legata al desiderio, cioè al valore. Solo il desiderio senza oggetto è vuoto d’immaginazione. Il bello è nudo, non velato d’immaginazione. Dio ha abdicato alla sua onnipotenza divina e si è svuotato. Abdicando alla nostra piccola potenza umana diveniamo, nel vuoto, uguali a Dio. Se a un uomo serve uno sforzo violento per comportarsi nella maniera che ci si attende da lui come naturale – vuoto, amarezza senza fondo. Pentimento. Contemplare un male passato, già commesso, irreparabile, riconoscendolo come tale, senza cercare scuse, significa sopportare un vuoto. Allo stesso modo, se il male è riparabile, il lavoro di riparazione è un lavoro a vuoto. Tutto serve, etiam peccata. Non crederlo troppo, perché è un pensiero che guarisce dall’amarezza, che riempie un vuoto, come la fede nell’immortalità o nella natura provvidenziale degli eventi. Il vuoto è la suprema pienezza, ma l’uomo non ha il diritto di saperlo, e la prova è che il Cristo stesso, per un istante, l’ha completamente ignorato. Una parte dell’uomo deve saperlo, ma non le altre, perché potrebbero saperlo solo in modo infimo, immaginario, e così lo rovinerebbero. Le parti basse di me stessa devono amare Dio, ma non troppo, altrimenti non sarebbe lo stesso Dio.

Note

1

S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1983, p. 108. 2 Ibidem. 3 S. Weil, Quaderni, vol. I, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1982, p. 164. 4 Il concetto di radicamento (enracinement) – come, del resto, quello di sradicamento (déracinement) – è particolarmente importante nella riflessione weiliana. A esso è dedicata, infatti, la sua opera postuma, La prima radice. 5 Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, cit., p. 108. 6 S. Weil, Riflessioni senza ordine sull’amore di Dio, in L’amore di Dio, Borla, Torino 1968, p. 111. 7 S. Pétrement, La vita di Simone Weil, Adelphi, Milano 1994, p. 15. Simone gli somigliava fisicamente. 8 G. Hourdin, Simone Weil, Borla, Roma 1992, p. 225. Nel libro Casa Weil, Lantana, Roma 2013, scritto dalla nipote di Simone, Sylvie Weil (figlia di André), l’autrice definisce la nonna un personaggio teatrale, «capace di immedesimarsi nei ruoli più svariati e di interpretarli tutti perfettamente» (p. 113), una madre troppo perfetta e opprimente, addirittura una «madre lupa». 9 G. Hourdin, op. cit., p. 14. 10 S. Pétrement, op. cit., p. 16. 11 Da bambini, André e Simone non avevano giocattoli, ma si divertivano inventando di continuo giochi: per esempio, essendosi sviluppata in loro la passione per la letteratura, recitavano insieme intere scene di Corneille e Racine;

oppure giocavano alle rime obbligate, o anche al gioco degli uomini famosi. In pratica, qualsiasi svago veniva trasformato da Simone e André in un gioco intellettuale che richiedeva delle conoscenze ed essendo, appunto, i loro giochi pieni di allusioni letterarie, essi erano incomprensibili per gli altri bambini; solo la madre era ammessa nel loro universo (cfr. S. Pétrement, op. cit., pp. 22-23). 12 Cfr. G. Hourdin, op. cit., p. 165. 13 «L’amicizia non va cercata, né sperata, né desiderata. L’amicizia si esercita (è una virtù)» (Quaderni, vol. I, cit., pp. 156-157). «L’amicizia è il miracolo per il quale un uomo accetta di guardare da lontano, e senza accostarsi, un essere che gli è necessario quanto il nutrimento» (Forme dell’amore implicito di Dio, in S. Weil, Attesa di Dio, Rusconi, Milano 1972, p. 159). Il miracolo consiste nell’essere profondamente unito a un altro da un legame affettivo conservando la propria autonomia e quella dell’altro. 14 Cfr. G. Hourdin, op. cit., p. 16. 15 Alain faceva infatti scrivere sovente ai suoi allievi brevi saggi su vari argomenti, i Propos, costringendoli così ad argomentare e a sviluppare il loro pensiero. Sosteneva, infatti, che «imparare a scrivere bene vuol dire imparare a pensare bene» (S. Pétrement, op. cit., p. 45). 16 Significativo, a tale proposito, il breve saggio che ella scrisse sull’argomento: S. Weil, Manifesto per la soppressione dei partiti politici, Castelvecchi, Roma 2008. 17 S. Weil, Lezioni di filosofia, Adelphi, Milano 1999, p. 155. 18 Ci riferiamo a Padre Joseph Marie Perrin e a Joë Bousquet, scrittore, grande invalido della guerra del ’14, che dal 1918 viveva paralizzato, inchiodato nel letto, torturato da sofferenze fisiche. Simone lo andò a trovare a Carcassonne, dove viveva, ed ebbe con lui uno scambio epistolare. 19 Ciò avvenne all’epoca in cui Simone lavorava come operaia agricola e aveva preso l’impegno di recitare il Padre Nostro in greco ogni mattina con attenzione totale, prima di

iniziare il lavoro. 20 Sono numerosi gli articoli e i saggi sull’argomento, riuniti nel volume Sulla Germania totalitaria, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1990. 21 Fu in questo periodo che Simone lavorò alla stesura della tragedia Venezia salva, che trae spunto dal racconto di César Vichard de Saint-Réal, Conjuration des Espagnols contre la République de Venise (1674). 22 André si trovava negli Stati Uniti insieme alla moglie Éveline fin dal marzo 1941 e si adoperò perché i suoi familiari potessero raggiungerlo. 23 Ne è, almeno in parte, testimonianza l’elaborazione del Progetto di una formazione di infermiere di prima linea, la cui prima versione risale a questo periodo, ma che fu poi rimaneggiato negli Stati Uniti e che è stato pubblicato negli Scritti di Londra. Simone lo scrisse pensando a coloro che cadevano feriti sui campi di battaglia e che erano destinati a un’agonia solitaria. Questo pensiero le era intollerabile. Perciò sostenne la necessità della formazione di un piccolo gruppo di infermiere, disposte a sacrificare la loro vita assistendo e curando feriti e moribondi, in pieno combattimento. Lei stessa voleva farne parte. Purtroppo, con grande delusione di Simone, nessuno credette tale progetto realizzabile (il generale De Gaulle lo giudicò addirittura «folle»). 24 Oltre ai Quaderni di Marsiglia, scrisse anche almeno otto dei saggi raccolti postumi nei due volumi intitolati Attesa di Dio e L’amore di Dio. 25 Su indicazione di Maritain, fece la conoscenza di padre Couturier, un domenicano al quale indirizzò una lunga lettera, poi pubblicata con il titolo Lettera a un religioso, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1996. 26 Le ultime parole di Simone nel lasciarli furono: «Se avessi molte vite, ve ne consacrerei una, ma non ho che questa» (S. Pétrement, op. cit., p. 614). 27 Le testimonianze di M.me Rosin e dell’amico Maurice

Schumann concordano nel dire che appariva «eterea, trasparente, quasi del tutto priva di materia», «uno spirito quasi liberato dalla carne, il Verbo» (S. Pétrement, op. cit., p. 650). 28 Fin da bambina, Simone espresse il suo timore di «mancare la sua morte» (S. Pétrement, op. cit., p. 35 e p. 642). 29 Nello scritto intitolato Dio in Platone la Weil si chiede: «Chi è dunque Platone? Un “mistico”, erede di una tradizione mistica in cui la Grecia intera era immersa» (in La Grecia e le intuizioni precristiane, Borla, Torino 1967, p. 46). 30 A questo proposito Maurizio Zani fa notare che «il cristianesimo utilizza la figura di Cristo proprio nel senso richiesto dal postulato platonico dell’indispensabilità di un modello etico ideale come mediazione tra Dio e l’uomo» (M. Zani, Invito al pensiero di Simone Weil, Mursia, Milano 1994, pp. 82-83). 31 Dio in Platone, cit., p. 66. 32 Cfr. ivi, p. 98. 33 Ibidem. 34 Ibidem. 35 M. Zani, op. cit., p. 78. 36 Dio in Platone, cit., p. 99. 37 L’Operaio corrisponde al Padre, l’Anima del mondo al Figlio e il Modello allo Spirito Santo (cfr. ivi, p. 100). 38 Ivi, p. 60. 39 Ivi, p. 48. 40 Cfr. Forme dell’amore implicito di Dio, in Attesa di Dio, cit., p. 164. 41 Lettera a Maurice Schumann, in S. Weil, Una costituente per l’Europa. Scritti londinesi, a cura di D. Canciani e M.A. Vito, Castelvecchi, Roma 2013, p. 66. 42 «L’identità del reale e del bene» e, insieme, la «distanza tra il necessario e il bene» è quello che la Weil chiama «la radice del grande segreto» (cfr. Quaderni, vol. II, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1985, p. 330), «la grande scoperta

della Grecia» (ivi, p. 327). 43 Forme dell’amore implicito di Dio, in Attesa di Dio, cit., p. 152. La parola greca compare in Lc 8,15: «Porteranno frutti nell’attesa», o «nella pazienza», come Simone preferirebbe tradurre. 44 Ibidem. Interessante anche il brano seguente: «L’uomo non sfugge alle leggi di questo mondo se non per la durata di un lampo. Istanti di arresto, di contemplazione, d’intuizione pura, di vuoto mentale, di accettazione del vuoto morale. Grazie a questi istanti egli è capace di soprannaturale» (Quaderni, vol. II, cit., p. 47). 45 Cfr. Quaderni, vol. III, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1988, p. 412. 46 Attesa di Dio, cit., p. 67. Come anche: «Amiamo la patria terrena. Essa è reale e resiste all’amore. È lei che Dio ci ha dato da amare; e ha voluto che ciò fosse difficile, ma possibile» (ivi, p. 137). 47 S. Weil, L’ombra e la grazia, Rusconi, Milano 1985, p. 113. 48 Attesa di Dio, cit., p. 39. 49 Cfr. S. Weil, La prima radice, Edizioni di Comunità, Milano 1980, p. 248. 50 Cfr. B. Iacopini e S. Moser, Uno sguardo nuovo. Il problema del male in Etty Hillesum e Simone Weil, San Paolo, Cinisello Balsamo 2009, p. 160. 51 Ivi, p. 215. 52 «Il cristianesimo non sarà incarnato fino a quando non avrà fatto suo il pensiero stoico» (Attesa di Dio, cit., p. 134). E ancora: «Il giorno in cui il cristianesimo si è separato dallo stoicismo […] si è condannato a un’esistenza astratta e separata» (Ibidem). 53 «Noi non possediamo niente al mondo – perché il caso ha il potere di toglierci tutto – se non il potere di dire io. Questo è ciò che bisogna dare a Dio, cioè distruggere. Non c’è assolutamente nessun altro atto libero che ci sia permesso, se non la distruzione dell’io» (Quaderni, vol. II,

cit., pp. 295 sgg.). 54 L’ombra e la grazia, cit., p. 15. A questo proposito riportiamo anche il seguente brano significativo: «L’universo tutto intero non è altro che una massa compatta di obbedienza. Questa massa compatta è disseminata di punti luminosi. Ciascuno di questi punti è la parte soprannaturale dell’anima di una creatura ragionevole che ama Dio e che consente ad obbedire. Il resto dell’anima è prigioniero nella massa compatta ed oscura. Anch’essi sono tutti interi obbedienza, ma solo al modo d’una pietra che cade. Anche la loro anima è materia, materia psichica, sottoposta a un meccanismo altrettanto rigoroso quanto quello della forza di gravità. Anche la loro credenza nel proprio libero arbitrio, le illusioni del loro orgoglio, le loro sfide, le loro rivolte, tutto ciò non sono che fenomeni altrettanto rigorosamente determinati quanto la rifrazione della luce.» (Discesa di Dio, in La Grecia e le intuizioni precristiane, cit., pp. 249 sgg.). 55 Quaderni, vol. II, cit., p. 261. 56 Quaderni, vol III, cit., p. 219. Si veda anche: «La forza di gravità è la costrizione che noi subiamo, la catena; salire è soprannaturale; il cielo è il luogo dove noi non andiamo» (Quaderni, vol. I, cit., p. 296); e ancora: «Ci sono individui che cercano di elevare la loro anima come un uomo che salti continuamente a piedi uniti, nella speranza che a forza di saltare più in alto, un giorno, invece di ricadere, riuscirà a salire fino in cielo. Ma mentre è tutto preso da questi tentativi egli non può guardare il cielo. Noi non possiamo fare nemmeno un passo verso il cielo: la direzione verticale ci è preclusa. Ma se guardiamo a lungo il cielo, Dio discende e ci rapisce. Ci rapisce facilmente. Come dice Eschilo, “ciò che è divino è senza sforzo”» (Forme dell’amore implicito di Dio, in Attesa di Dio, cit., p. 151). 57 Quaderni, vol. II, cit., p. 225. 58 Ibidem. 59 Ibidem. 60 Ivi, p. 226.

61

Quaderni, vol. IV, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1993, p. 280. 62 È per questo motivo che la Weil arriva a scrivere: «È come se, sotto la medesima denominazione di cristianesimo e all’interno della stessa organizzazione sociale, vi fossero due religioni distinte: quella dei mistici e l’altra. Io credo che la religione vera sia la prima» (Lettera a un religioso, cit., p. 42). 63 «L’estinzione del desiderio (buddhismo), o il distacco, o l’amor fati, o il desiderio del bene assoluto, è sempre la stessa cosa: svuotare di ogni contenuto il desiderio, la finalità, desiderare a vuoto, desiderare senza nessuna aspirazione. Distaccare il nostro desiderio da tutti i beni e attendere. L’esperienza prova che questa attesa è esaudita. Si raggiunge allora il bene assoluto» (L’ombra e la grazia, cit., pp. 26-27). 64 «Sans pourquoi», «Zonder Warumbe», «senza perché», è, ricordiamolo, una delle cifre essenziali della mistica speculativa, dalle beghine fiamminghe come Hadewijch di Anversa, a Meister Eckhart e Margherita Porete. Alla rosa «senza perché» è dedicato il celebre distico del Pellegrino cherubico di Angelus Silesius: «La rosa è senza perché; fiorisce perché fiorisce, / a sé non bada, che tu la guardi non chiede». 65 «La volontà di Dio non può essere per noi un oggetto d’ipotesi. Per conoscerla noi dobbiamo solo constatare ciò che accade: ciò che accade è la sua volontà» (Quaderni, vol. II, cit., p. 205). 66 «L’intelligenza discorsiva si distrugge mediante la contemplazione delle contraddizioni chiare e inevitabili. Kōan. Misteri. La volontà si distrugge mediante l’apprendimento di compiti impossibili. Prove sovrumane delle fiabe» (Quaderni, vol. IV, cit., p. 227). 67 «La contraddizione, l’impossibilità è il segno del soprannaturale» (ivi, p. 155). 68 Vedi supra, nota 42.

69

Ivi, pp. 164-165. Ivi, p. 169. 71 Autobiografia spirituale, in Attesa di Dio, cit., p. 38. 72 Ibidem. 73 Cfr. Platone, Repubblica 493c. 74 L’ombra e la grazia, cit., p. 30. 75 Il termine francese malheur, composto da mal (cattivo, funesto, mortale) e heur (presagio, sorte, fortuna) può essere tradotto, in italiano, sia con sventura che con infelicità. Designa, nel linguaggio della Weil, uno stato contraddistinto da un’improvvisa e intensa condizione di sofferenza sia fisica che psicologica, che non si sa se avrà un termine e che, pertanto, suscita profondo sgomento, come chi si trovasse preso di mira, appunto, da una sorte malvagia, senza conoscerne il perché. È una sorta di oppressione. A proposito del termine malheur, la stessa Weil commenta: «Parola mirabile; senza equivalenti in altre lingue. Non se n’è tratto profitto» (Quaderni, vol. I, cit., p. 192). 76 Quaderni, vol. II, cit., p. 74. 77 Quaderni, vol. I, cit., p. 275. 78 La prima radice, cit., p. 244. 79 Quaderni, vol. II, cit., p. 258. 80 Quaderni, vol. IV, cit., p. 396. 81 A proposito del Pater, in Attesa di Dio, cit., p. 173. 82 Ivi, p. 144. 83 Quaderni, vol. IV, cit., p. 64. 84 La prima radice, cit., p. 228. La citazione prosegue con la precisazione che «gli sforzi a vuoto sono l’operazione che Cristo chiama “accumulare tesori in cielo”». 85 Quaderni, vol. III, cit., p. 238. 86 L’espressione notte oscura rimanda, infatti, inequivocabilmente, al linguaggio di Giovanni della Croce, mistico spagnolo del Cinquecento, una dei più grandi nella storia della spiritualità. Simone lesse le sue opere, avute in prestito dall’amico Thibon, e ne fece tesoro. Qui apprese che l’esperienza della notte oscura è strettamente legata a quella 70

di morte dell’anima: come la notte, il buio, fa fare alla parte sensibile dell’anima l’esperienza del nulla, così anche l’esperienza del distacco, ossia della morte dell’anima, fa prendere coscienza all’anima del suo essere nulla: «Quando l’anima si sarà ridotta a nulla, avrà cioè raggiunto il massimo grado dell’umiltà, allora si compirà l’unione spirituale tra l’anima e Dio – unione che costituisce il più grande e il più alto stato cui si possa pervenire in questa vita» (Salita del Monte Carmelo, II, 7, 11). Nel brano che segue, Simone applica il discorso alla figura biblica di Giobbe, il giusto che, attraverso la sventura e l’amore a vuoto, arriva a cogliere la presenza di Dio anche nella condizione della sua assenza: «Giobbe, al termine della sua notte oscura, attraversata senza consolazione, vede chiaramente la bellezza del mondo. Bisogna essere passati attraverso la miseria totale. […] Per quanto avanti questo amore sia, c’è un momento di rottura in cui esso soccombe, ed è il momento che trasforma, che strappa il finito verso l’infinito, che rende trascendente nell’anima l’amore dell’anima per Dio. È la morte dell’anima» (Quaderni, vol. II, cit., p. 197). 87 «Bisogna sapere che siamo niente, che l’impressione d’essere qualcuno è solo un’illusione, e spingere la sottomissione fino ad acconsentire non solo a essere niente, ma anche, nello stesso tempo, ad essere nell’illusione» (Quaderni, vol. IV, cit., pp. 303-304). 88 L’ombra e la grazia, cit., p. 46. 89 Quaderni, vol. IV, cit., p. 177. 90 Ivi, p. 177. 91 S. Moser, Il «credo» di Simone Weil, Le Lettere, Firenze 2013, p. 65. 92 Quaderni, vol. IV, pp. 125-126. 93 «Il trascendente non può essere conosciuto se non mediante il contatto, poiché le nostre facoltà non possono fabbricarlo» (Quaderni, vol. II, cit., p. 172). «Il passaggio al trascendente avviene quando le facoltà umane – intelligenza, volontà, amore umano – cozzano contro un limite, e l’essere

umano resta sulla soglia, al di là della quale non può fare un passo, e questo senza lasciarsene distogliere, senza sapere ciò che desidera e teso nell’attesa» (Quaderni, vol. IV, cit., p. 363). 94 Ivi, p. 333. 95 Gal 2,20. 96 Quaderni, vol. IV, cit., pp. 332-333. 97 A questo proposito la Weil fa notare che «Il Vangelo non fa alcuna distinzione fra l’amore del prossimo e la giustizia. […] Siamo noi che abbiamo inventato la distinzione fra giustizia e carità […]. Soltanto l’assoluta identificazione della giustizia con l’amore rende possibile nello stesso tempo sia la compassione e la gratitudine, sia il rispetto, da parte propria e degli altri, della dignità della sventura in chi ne è colpito» (Attesa di Dio, cit., p. 104). 98 Forme dell’amore implicito di Dio, in Attesa di Dio, cit., p. 123. 99 Ivi, p. 124. 100 Ibidem. 101 Quaderni, vol. IV, cit., p. 371. 102 Vedi supra, nota 42. 103 Quaderni, vol. III, cit., p. 406. 104 Scrive la Weil: «Una delle verità capitali del cristianesimo, oggi misconosciuto da tutti, è che la salvezza sta nello sguardo» (Forme dell’amore implicito di Dio, in Attesa di Dio, cit., p. 149). Lo sguardo indica, infatti, l’orientamento del nostro essere, esprime la direzione del nostro più profondo desiderio; se questo, perciò, è rivolto verso Dio, allora la nostra anima è liberata da tutto ciò che la tiene incatenata e le impedisce l’incontro con Lui. 105 Cfr. S. Moser, Il «credo» di Simone Weil, cit., p. 103. 106 Simone aveva mentito per non dare motivo di preoccupazione ai suoi. Quando venne ricoverata in ospedale e poi in sanatorio, occultò il suo indirizzo in modo che essi non potessero avere il minimo sospetto del luogo in cui si trovava. «Continuerà a parlare degli amici, del lavoro e di ciò

che vede a Londra. Le sue lettere saranno una lunga bugia piena di tenerezza» (S. Pétrement, op. cit., p. 648). 107 Sylvie Weil, op. cit., p. 28. L’espressione «riparare» fa riferimento al fatto che Simone in una delle lettere, scritte ormai da malata, paragona sé stessa a un oggetto rotto, che, nel migliore dei casi può essere reincollato, così da poter funzionare ancora per un po’. Ella esprime la convinzione che anche questo reincollaggio provvisorio può essere compiuto soltanto dai suoi genitori e non da altri (cfr. S. Pétrement, op. cit., p. 658).

Quattro lettere a padre Perrin 108

Si trovano pubblicate nella raccolta di testi che Simone Weil consegnò a padre Perrin prima di lasciare la Francia e che egli volle intitolare Attesa di Dio, per sottolineare, già nel titolo, l’importanza che Simone attribuiva all’atteggiamento di vigilanza evangelico. La prima edizione italiana è apparsa nel 1972, pubblicata da Rusconi, con una breve introduzione di padre J.-M. Perrin; la seconda è invece del 2008, edita da Adelphi, curata da Maria Concetta Sala e con un saggio di Giancarlo Gaeta. 109 Hélène era sorella di Pierre Honnorat, collega di André Weil. 110 Cfr. la lettera Esitazioni davanti al battesimo, p. 49. 111 Cfr. infra, p. 58. 112 La soglia indica il luogo «più vicino possibile quando se ne resta fuori» (J.-M. Perrin, G. Thibon, Simone Weil, come l’abbiamo conosciuta, Ancora, Milano 2000, p. 61). 113 G. Gaeta, Sulla soglia della Chiesa, in Lettera a un religioso, Adelphi, Milano 1996, p.118. 114 Cfr. la lettera Esitazioni davanti al battesimo, p. 52. 115 Cfr. infra, p. 55. 116 Ivi, p. 54. 117 Émile Durkheim (1858-1917) è il sociologo francese

che riconduce la religione a «cosa eminentemente sociale». 118 A tormentarla era l’idea che la partenza per l’America l’avrebbe allontanata dai pericoli dell’imminente occupazione della zona libera. Per lei non era questione di «pericoli» ma di «servizio». A New York si sarebbe consumata «per il dolore» nell’impazienza di trasferirsi a Londra. Nel profondo, aspirava a questa missione pericolosa (anzi, di sabotaggio) che l’avrebbe precipitata nell’infelicità e nella morte. Più che un semplice tratto del suo carattere, vi scorgeva una vocazione. «Sono fuori dalla verità; niente di umano può trasportarmici; e ho la certezza interiore che Dio lo farà solo in quel modo. Una certezza della stessa specie di quella che è alla radice di una vocazione» (Lettera a Maurice Schumann). La partenza era quindi per lei una questione di coscienza da cui presagiva sarebbero dipese la sua vita e la sua morte. Morte che, sopra ogni altra cosa, non voleva mancare. 119 La poesia è di George Herbert (1593-1633), sacerdote anglicano, fratello del filosofo Lord Edward Herbert di Cherbury. 120 Così annotava la Weil: «Ecco il testo di questa poesia in una traduzione che mi hanno fatto: Amore Amore mi accolse; ma l’anima mia si ritrasse macchiata di polvere e di peccato. Ma Amore, lungimirante, vedendomi esitare fin dal mio primo entrare, mi si fece vicino e dolcemente mi chiese se di qualcosa mancassi. “Un ospite”, risposi, “degno di essere qui.” “Sarai tu”, disse Amore. Io, il misero, l’ingrato? Ah, mio amato, non posso guardarti. Amore mi prese la mano e sorridendo rispose: “Chi fece questi occhi, se non io?”. “È vero, Signore, ma li macchiai; vada là dove merita

la mia vergogna.” “E non sai tu”, disse Amore, “chi su di sé ne prese il biasimo?” “Allora, mio amato, servirò.” “Bisogna che tu sieda”, disse l’Amore, “per gustare le mie pietanze.” Così mi sedetti e mangiai». 121 Bhagavadgītā («Il canto del beato»), parte del grande poema epico Mahābhārata, è uno dei testi spirituali più importanti dell’India. In esso il dio Krishna rivela all’eroe, Arjuna, le diverse vie della salvezza. 122 Simone si riferisce ai Pensieri di Pascal sulla abitudine, capace di rendere cristiani (cfr. per es. il pensiero n. 156 della edizione Einaudi, 1975, a cura di P. Serini, n. 252 secondo la edizione Brunschvicg). 123 Simone si riferisce al versetto Lc 8,15 («portano frutti nell’attesa»), da lei più volte citato.

L’Iliade poema della forza 124

Nell’anno scolastico 1937-38 Simone fa leggere l’Iliade alle sue allieve. Sulla base di un quaderno di una di loro, il biografo weiliano J. Cabaud sostiene che nel corso delle sue lezioni Simone ha già abbozzato le idee che poi daranno vita al saggio L’«Iliade» poema della forza (cfr. J. Cabaud, Simone Weil: a fellowship in love, Harvill Press, London 1964). 125 Il testo fu pubblicato nei «Cahiers du Sud» sotto lo pseudonimo di Émile Novis (una sorta di anagramma di Simone Weil). Fu poi ripubblicato nel volume intitolato La source grecque (1953), unitamente a una raccolta di testi su Platone estratti dai «Quaderni di Marsiglia» e dai «Quaderni d’America». 126 Mentre di solito non si ricordano di questo poema che quadri di azioni eroiche, i brani tradotti da Simone riescono

a far risaltare la pienezza e la pietà umana di cui è intessuta l’Iliade. 127 Cfr. pag. 101. 128 Cfr. pag. 114. 129 Cfr. Tucidide, Storie, I, 12.

L’amore di Dio 130

Il riferimento è all’Elettra di Sofocle, in particolare al episodio, nel quale Oreste si rivela infine alla sorella. 131 Cfr. Ef 3,18.

IV

Alcune riflessioni intorno alla nozione di valore 132

Paul Valéry (1871-1945) poeta e saggista, frequentatore degli ambienti letterari parigini e professore al Collège de France. Può essere considerato erede di Mallarmé (di cui fu amico) e maestro del simbolismo. 133 Grazie alla frequentazione del gruppo di intellettuali della rivista «Les Cahiers du Sud», a cui collaborò, Simone Weil scoprì la rivista di poesia «Yggdrasill», dove poté leggere le annotazioni prese da un ascoltatore del corso di poetica di Valéry, che provocatoriamente metteva in rapporto il valore di un testo con il «corso» che regola gli «scambi» tra un autore produttore e un lettore consumatore.

Pensieri. Antologia dai Cahiers 134

Gb 7,19; cfr. 10,20; 14,6. Cfr. Mt 25,1 sgg. 136 «Il Padre nel segreto…» (Mt 6,18). 137 «Sia fatta la tua volontà» (Mt 6,9). 138 Timeo 48a. 135

139

Platone, Teeteto 176b. Tucidide, Storie v, 105. Il passo è citato subito dopo dalla Weil. 141 L’essere. 142 Cfr. Lc 14,26. 143 Gv 4,20. 144 Platone, Repubblica 493 c. 145 Platone, Repubblica 505 e. 146 Allusione a Mc 3,29 e paralleli. 147 Lc 15,12. 148 Ivi, 15,17. 149 Mt 25,40. 150 Cfr. Gv 17,21-23. 151 Mt 26,42; 27,46 e paralleli. 152 Mt 6,21; Lc 12,34. 153 Mt 25,35. 154 Mc 15,34 e paralleli. 155 «Mio Dio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34 e paralleli). 156 Ragioni irrazionali (o rapporti senza rapporto). 157 Platone, Repubblica 493c. 158 Gal 2,20. 159 «Quel che è stato lasciamolo andare» (Iliade XVI, 60; XVIII, 112; XIX, 65; trad. di R. Calzecchi-Onesti). 160 Guai a loro, perché hanno la consolazione (Cfr. Lc 6,24: «Guai a voi, perché avete vostra la consolazione»). 161 Īśā Upaniṣad I,1. 162 «Sia fatta la tua volontà» (Mt 6,10.). 163 Īśā Upaniṣad I,1. 164 Muṇḍaka Upaniṣad III,1,1: «L’uno mangia il frutto… l’altro guarda senza mangiare». 165 Citato da A. David-Neel, Mystiques e magiciens du Thibet, Plon, Paris, 1929, pp. 277-280. 166 Distinzione capitale per intendere la concezione religiosa indotta dalla Gītā nel pensiero indù, concezione che S. Weil fa sua. 140

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Mt 5,44; Lc 6,27.35. Lc 14,26. 169 «Mediante la sofferenza la conoscenza» (Eschilo, Agamennone, 177). 170 «La moderazione nel bere e nel cibo consuma la superbia della carne». 171 Chāndogya Upaniṣad VIII, 3,1. 172 Si veda Mc 10,29-30. 173 Īśā Upaniṣad, 1. 174 Īśā Upaniṣad, 1. 175 Cfr. Muṇḍaka Upaniṣad III, 11. 176 Cfr. Mt 25,14 ss. 177 Gv 4,34. 178 Temperanza. 179 Probabilmente padre Perrin. [n.d.t.] 180 Mt 7,22-23. 181 Gv 6,19. 182 «Grazia violenta » (Agamennone, 182). 183 «Saggezza entrata in essi loro malgrado» (Ivi, 180181). 184 Nell’originale, per un probabile lapsus della Weil, la frase è «tasto la punta con il tavolo». [n.d.t.] 185 Agamennone, 174-175. 186 Lc 7,47. 187 Riferimento a Gv 1,9. 188 Cupidigia, desiderio di avere di più, di oltrepassare. 189 Il riferimento è a Mt 6,2. 190 Mt 7,2; Lc 6,38. 191 Iliade VI, 458. 192 Ciò che è. 193 Platone, Repubblica 493c. 194 Si veda Gv 5,1 sgg. 195 Fil 2,8. 196 «Al Padre tuo, che è nel segreto» (Mt 6,18). 197 «Il Padre tuo, che vede nel segreto» (ibidem) 198 «Divenuta bilancia del corpo» (Inno Vexilla regis). 168

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Gv 6,30. Platone, Leggi 716c. 201 Cfr. Mt 6,5. 202 Si veda Mt 27,46 e paralleli. 203 Cosmo significa al contempo mondo e ordine. 204 «Il pensiero è pensiero di pensiero» (Aristotele). 205 «L’attributo pensiero» (espressione di Spinoza). 206 Verbo. 207 Platone, Repubblica 493c. 208 N.d.T. 209 Gv 21,18. 210 Si vedano le «tentazioni» di Gesù. 211 Lc 8,15. 212 Mt 5,39; Lc 6,29. 213 Gv 18,38. 214 Spinoza, Etica V, XXIII, scolio. 215 Allusione a Gv 18,37. 216 Cfr. Mt 7,9. 217 Spirito Santo. 218 «Padre nostro, che sei nei cieli, / dacci oggi il nostro pane trascendente (o soprannaturale)». 219 Mt 6,34. 220 Anche i peccati. 221 Fil 2,6-7. 222 Gn 3,5. 223 Mt 6,2.5.16. 200

Indice

INTRODUZIONE 1. Il senso di un libro 2. La vita 3. Il pensiero 4. La fortuna NOTA BIBLIOGRAFICA QUATTRO LETTERE A PADRE PERRIN 1. Esitazioni davanti al battesimo 2. (Stesso argomento) 3. A proposito della sua partenza118 4. Autobiografia spirituale L’«ILIADE» POEMA DELLA FORZA L’AMORE DI DIO Appunti sull’amore di Dio Riflessioni senza ordine sull’amore di Dio L’amore di Dio e l’infelicità ALCUNE RIFLESSIONI INTORNO ALLA NOZIONE DI VALORE PENSIERI ANTOLOGIA DAI «CAHIERS» Amor fati Attenzione Attesa Azione non agente Bellezza Bene Compassione Contraddizione Decreazione Distacco

Giustizia Grazia Grosso animale Libertà Meccanismo soprannaturale Necessità Obbedienza Ordine Tempo Umiltà Verità Vuoto Note