Rivoluzione o riforme? Un confronto. A cura di Franz Stark

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Rivoluzione o riforme? Un confronto. A cura di Franz Stark

Table of contents :
Indice......Page 62
Frontespizio......Page 5
LE TESI......Page 8
LA BIOGRAFIA « POLITICA » H. Marcuse......Page 10
LA BIOGRAFIA « POLITICA » K. Popper......Page 14
LA NUOVA SOCIETÀ’: CRITICA E PROPOSTE PROGRAMMATICHE H. Marcuse......Page 18
LA NUOVA SOCIETÀ’: CRITICA E PROPOSTE PROGRAMMATICHE K. Popper......Page 29
I PRESUPPOSTI TEORETICI H. Marcuse......Page 38
I PRESUPPOSTI TEORETICI K. Popper......Page 43
TIRANDO UN BILANCIO......Page 49
1......Page 51
2......Page 52
3......Page 56
HERBERT MARCUSE......Page 58
SCRITTI DI H. MARCUSE......Page 59
KARL POPPER......Page 60
SCRITTI DI K.R. POPPER......Page 61

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Ben lungi dall’essere dittature mascherate, queste democrazie sono sempre pronte a dubitare di se stesse: esse sanno benissimo che molte cose non sono come dovrebbero essere. Solo in una società aperta le idee hanno l’opportunità di affermarsi. E i marxisti, i quali credono che le democrazie siano solo dittature mascherate, non vedono che tutte le dittature, di destra o di sinistra, sono sostanzialmente identi‐ che. Tutto ciò è conseguenza di false teorie che impediscono di vedere l’importanza della libera battaglia delle idee, della discussione critica ».

METODOLOGIA DELLE SCIENZE E FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO 1

Questa collana di Metodologia delle scienze e di filosofia del linguaggio nasce dalla esigenza di offrire al pubblico italiano nuovi documenti per una riflessione sui problemi che negli ultimi cinquant'anni hanno assunto un ruolo di primo piano, e non solo all'interno della filosofia. La collana si articola in due serie di documentazioni: 1. TESTI sui punti di maggior rilievo nello sviluppo della filosofìa del linguaggio, della metodologia delle scienze, della teoria della storiografia e della teoria dell'ermeneutica. 2. SAGGI critico-informativi di autori stranieri e italiani sullo stato teorico raggiunto in questi ultimi anni nelle problematiche analitico-linguistiche. In tempi, nei quali la forza dell’analisi è purtroppo sostituita assai spesso da espressioni emotive, mantenere viva ed arricchire la tradizione razionale del pensiero occidentale significa quindi proporsi anche una finalità altamente etico-politica. E’ urgente insomma portare avanti una tradizione intessuta di problemi oggettivi, di teorie temerarie, di critiche severe, e regolata da standard quali la verità delle asserzioni e la validità delle argomentazioni. I volumi della collana, diretta da DARIO ANTISERI

dell’Università di Padova, sono stati concepiti quali agili strumenti di lavoro per chi intenda approfondire tematiche essenziali nel dibattito culturale contemporaneo, per le Università come per le ultime classi delle nostre Scuole secondarie superiori.

Direttore della collana: DARIO ANTISERI Segretaria di redazione: ROSSANA LORETELLI

HERBERT MARCUSE/KARL POPPER

RIVOLUZIONE O RIFORME? UN CONFRONTO

a cura di FRANZ STARK

ARMANDO ARMANDO EDITORE - ROMA

Titolo originale Revolution oder Reform? Herbert Marcuse und Karl Popper. Eine Konfrontation Herausgegeben von Franz Stark Testo integrale ed ampliato di una documentazione televisiva della Società Radiofonica Bavarese del 5.1.1971. In collaborazione con l’Unione Editoriale GmbH di Monaco. © 1971 by Kösel-Verlag GmbH & Co., München Traduzione di PAOLO MASSIMI © 1977 Editore Armando Armando Via della Gensola, 60-61 - Roma

SOMMARIO

Le tesi La biografia « politica » / HERBERT MARCUSE La biografia « politica » / KARL POPPER La nuova società: critica e proposte programmatiche / HERBERT MARCUSE La nuova società: critica e proposte programmatiche / KARL POPPER I presupposti teoretici / HERBERT MARCUSE I presupposti teoretici / KARL POPPER Tirando POPPER

un

bilancio

/

HERBERT

MARCUSE-KARL

Conclusione / FRANZ STARK Herbert Marcuse: Note bio-bibliografiche Karl Popper: Note bio-bibliografiche

LE TESI

HERBERT MARCUSE - La società capitalistica avanzata è la più ricca e tecnicamente più progredita società della storia. Essa offre - o dovrebbe offrire -le maggiori concrete possibilità di una pacifica e libera esistenza umana. Ma al tempo stesso è la società che reprime con estrema efficacia queste possibilità di pacificazione e di liberazione. Tale atteggiamento repressivo pervade oggi l'intera società e perciò può essere eliminato solo mediante una radicale modificazione della sua struttura. KARL POPPER - In tutti gli ordinamenti sociali di cui abbiamo conoscenza sono esistite ingiustizia e oppressione, povertà e miseria, e anche gli ordinamenti delle nostre società democratiche occidentali non costituiscono un'eccezione. Ma le nostre società combattono questi mali. Ed io credo che in esse vi siano meno ingiustizia ed oppressione, meno povertà e miseria che in qualsiasi altro tipo di società di cui ci sia nota l’esistenza. Gli ordinamenti delle nostre società democratiche occidentali sono dunque assai imperfetti e abbisognano di correzioni, ma sono i migliori che siano esistiti fino ad oggi. Di ulteriori miglioramenti vi è urgente bisogno. Ma tra tutte le idee politiche, il desiderio di rendere gli uomini perfetti e felici è forse la più pericolosa. Il tentativo di realizzare il paradiso sulla terra ha sempre prodotto l'inferno.

LA BIOGRAFIA « POLITICA »

Io SONO NATO a Berlino e per qualche ragione questo ancora oggi mi fa piacere. Probabilmente a causa del celebre humour berlinese o forse anche per qualche altro motivo. Ma la mia esperienza personale comincia nel 1918 con la rivoluzione tedesca. Nel 1918 fui per breve tempo membro di un comitato di soldati a Berlino-Reinickendorf. Ne uscii poco dopo quando si cominciò ad includervi indiscriminatamente gli ex ufficiali. Ho poi assistito a Berlino alla repressione della rivoluzione: in parte fu repressione, in parte tradimento. Da Berlino mi trasferii a Friburgo per completare gli studi e, tranne l'interruzione di un periodo di lavoro non molto redditizio a Berlino, vi ho studiato dal 1928 al 1932 sotto la guida di Husserl e di Heidegger. INTERVISTATORE - Lei da allora non ha più militato in alcuna organizzazione comunista. Perché? H. MARCUSE - Non ho più militato in nessuna di tali organizzazioni, è vero, e se lei mi chiede il perché, debbo confessare a mio disdoro che non sono in grado di rispondere. Semplicemente non lo so. Quando nel 1919 da Berlino mi trasferii a Friburgo, la vita in questa città era del tutto priva di tensioni politiche. Allorché poi tornai a Berlino, il partito comunista era già disgregato. Vi appariva ben riconoscibile l'influenza straniera, l’influenza russa, che io non ritenevo davvero molto stimolante, e questa può essere una delle ragioni della mia mancata adesione. Tuttavia in questo periodo il mio

interesse per la politica cresceva sempre di più. Era evidente che vi sarebbe stato l'avvento del fascismo e ciò mi indusse ad uno studio intensivo di Marx e di Hegel. Lo studio di Freud l’ho intrapreso un po’ più tardi. Tutto ciò nell’intento di capire perché mai in un'epoca in cui esistevano realmente le condizioni di un’autentica rivoluzione, questa rivoluzione era fallita o era stata repressa, le vecchie forze tornavano al potere e tutto ricominciava daccapo in una forma peggiorata. Nel 1933, o più esattamente alla fine del dicembre 1932, emigrai: mi era stato offerto un posto nell'Istituto di Ricerca sociale diretto da Horkheimer in Svizzera, e trascorsi circa un anno in questo paese; successivamente, nel luglio del 1934, mi trasferii negli Stati Uniti, dove lavorai alla Columbia University, tenendovi anche corsi di lezioni. Nel 1940 mi recai a Washington per lavorare in questa città, cioè per fare, in poche parole, quanto potevo, nei limiti delle mie forze, per collaborare alla sconfitta del regime nazista. INTERVISTATORE - Alcuni critici le hanno rimproverato la sua collaborazione di allora al servizio segreto americano dell'OSS *. Che cosa faceva esattamente? H. MARCUSE - Mi occupavo di analisi politica. L'OSS, in particolare il settore in cui lavoravo, era una specie di istituto di ricerca che aveva il compito di indagare sugli sviluppi politici dei paesi coinvolti nella guerra. Io ero addetto all’Europa centro-occidentale. Se i critici mi rimproverano questa attività, ciò dimostra soltanto la totale ignoranza di tali critici, i quali hanno evidentemente dimenticato che allora si trattava di una guerra contro il fascismo e che l’ultima cosa di cui debbo vergognarmi è di aver dato il mio contributo a questa guerra. Aggiungerò subito che anche dopo la guerra sono rimasto a Washington. La ragione principale fu che la mia prima moglie era ammalata di cancro e questo ci impedì di muoverci. Durante questo periodo, all’incirca tra il 1945 e il 1949,

ho lavorato in uffici nei quali io e i miei amici abbiamo fatto tutto il possibile per contrastare una politica che diventava sempre più palesemente anticomunista. Ancora una volta i miei critici sembrano aver dimenticato che in tale periodo gli attacchi di MacCarty erano rivolti proprio contro questi gruppi operanti nel Dipartimento di Stato. Non perché fossero troppo nazionalisti, ma perché secondo lui erano comunisti. Solo dopo la guerra ho svolto una regolare attività di insegnamento, dapprima nella Brandeis University, poi nell’Università di San Diego in California. Durante questi ultimi anni, pressappoco a partire dal 1963-64, la mia filosofia e il mio atteggiamento sono diventati sempre più radicali, perché vedo, almeno così mi sembra, che sta rinascendo l’antico pericolo, che anche in questo paese la politica tende sempre più verso l'estrema destra e la democrazia va progressivamente degradandosi, che la oppressione delle minoranze sta crescendo e che si segue una politica estera aggressiva, la quale ha già trovato espressione in due cosiddette « guerre minori ». Ho ritenuto mio dovere di intellettuale combattere contro questa tendenza nella misura del possibile, e ciò mi ha fatto assumere un certo ruolo nel movimento studentesco, ruolo che ancora oggi mi viene riconosciuto, sebbene in una misura assai ridotta: ma di questo riparleremo in seguito. Nel 1969 ho rinunciato al mio incarico universitario, perché mi era già chiaro che non sarebbe stato approvato. Del 1969/70, anzi già dal 1968/69, ho ricevuto quasi regolarmente lettere di minaccia, persino minacce di morte. Tale fenomeno è addirittura cresciuto in questi ultimi tempi, in connessione col caso di Angela Davis, che è stata mia alunna. Ma io per il momento intendo rimanere qui e scrivere e fare tutto quello che mi è possibile scrivere e fare.

* Ufficio Servizi Strategici.

LA BIOGRAFIA « POLITICA »

DIVENTAI MARXISTA nel 1915, all’età di 13 anni, e antimarxista nel 1919, quando ne avevo quasi 17. Ma rimasi socialista fino all’età di 30 anni, sebbene nutrissi dubbi crescenti sulla possibilità di vedere associati libertà e socialismo. Ebbe importanza decisiva un’esperienza che fece di me un antimarxista. Il fatto accadde a Vienna, mia città natale. Nel corso di una dimostrazione di giovani operai socialisti e comunisti disarmati si giunse ad una sparatoria in cui furono colpiti alcuni dimostranti. Provai orrore e sdegno verso la polizia, ma anche verso me stesso, poiché sentii che come marxista, almeno in linea di principio, ero corresponsabile del tragico avvenimento. Infatti la teoria marxista postula l’inasprimento e l'acutizzazione della lotta di classe. Essa sostiene che al socialismo si giunge tanto più rapidamente quanto più si fa dura la lotta di classe; che la rivoluzione richiede certamente delle vittime, ma che il capitalismo fa ogni giorno più vittime che non l’intera rivoluzione socialista. Questo dice il marxismo. Ma io mi chiedevo se fossimo davvero in grado di sapere realmente una cosa simile. Cominciai a leggere Marx criticamente e mi resi conto quanto poco fossero fondati i convincimenti marxisti circa la malvagità del sistema sociale vigente, circa il tardo capitalismo e l’avvento storicamente necessario del socialismo. Ciò che realmente esisteva erano gli uomini con i loro dolori e con le loro gioie. Io ero individualista nel senso che è tra singoli individui che deve esistere un rapporto di

giustizia e che concetti come quello di umanità o persino di classe sono astrazioni che talora possono diventare assai pericolose. Che dire infatti di quei marxisti pronti a sacrificare alla Felicità di un’astratta umanità individui concreti? E che sono convinti che per la rivoluzione, e quindi per l’umanità, le cose vadano meglio quanto peggio vanno per gli uomini? Certo esistevano acuti conflitti di interesse, ma era assai diffìcile dire se l’inasprimento di questi conflitti avrebbe condotto ad una società migliore o ad una peggiore, per esempio ad una società fascista. Questa critica del marxismo non scosse in un primo tempo la mia fede socialista. Il socialismo era per me un postulato etico: nient’altro che l’idea della giustizia. Un ordinamento sociale in cui esistevano grande ricchezza e grande povertà mi appariva ingiusto e intollerabile. Però, quando ai miei occhi divenne sempre più chiaro che il Socialismo di Stato rendeva quest’ultimo opprimente e che faceva i burocrati troppo potenti nei confronti dei cittadini, abbandonai le mie convinzioni socialiste: da allora non ho più creduto che il socialismo sia compatibile con la libertà. A 28 anni ottenni un posto di insegnante nella scuola primaria superiore, a Vienna. A quell’epoca avevo già scritto molto, ma non avevo pubblicato quasi niente. Esortato da amici, scrissi due libri. Il secondo, intitolato Logica della scoperta scientifica (Logik, der Forschung), fu pubblicato nel 1934. Esso mi apriva l’accesso alla vita accademica. In Austria imperava allora una dittatura fascista e d’altra parte era chiaro per me che ben presto Hitler avrebbe costretto l’Austria all’annessione. Poiché ero di ascendenza ebraica, decisi di emigrare. Il mio libro mi valse un invito a tenere lezioni in Inghilterra. E nel 1936, proprio la sera della vigilia di Natale, mi venne offerta una cattedra in Nuova Zelanda. Quando in questo paese, nel 1938, appresi che Hitler aveva occupato l’Austria, mi decisi a pubblicare la mia critica del fascismo e del marxismo, cioè La società aperta e

i suoi nemici. Nella primavera del 1945 fui invitato a tornare dalla Nuova Zelanda in Inghilterra, e dal 1946 al 1969 ho insegnato nell'Università di Londra. Nel frattempo ero stato visiting Professor in America e, per breve tempo, anche in Austria, in Giappone e in Australia. Da un anno sono stato messo, come si usa dire, a riposo, ma in realtà lavoro più che mai.

LA NUOVA SOCIETÀ’: CRITICA E PROPOSTE PROGRAMMATICHE

Si È SOSTENUTO, anzi è stata attribuita a me l’affermazione che la società tardo capitalistica avanzata è ormai una società senza classi, che il contrasto tra ricchi e poveri si è attenuato e che in generale la lotta di classe non esiste più; che si è giunti ad un sistema in cui è possibile eliminare o comunque controllare i conflitti interni messi in luce da Marx. Questo non è affatto vero, né io l'ho mai sostenuto. In realtà il contrasto tra poveri e ricchi negli ultimi anni è diventato maggiore di quanto fosse nel passato. In realtà le contraddizioni interne del sistema capitalista continuano effettivamente a sussistere. Esse si esprimono con particolare acutezza, più fortemente che in passato, nella più generale contraddizione tra la smisurata ricchezza sociale, che realmente renderebbe possibile una vita senza povertà né lavoro alienato, e il modo repressivo e distruttivo in cui questa ricchezza viene impiegata e distribuita. Anche la lotta di classe prosegue. E solo per il momento ancora in forma puramente economica: rivendicazioni salariali, richieste di migliori condizioni di lavoro, istanze che finora possono ancora essere soddisfatte entro il quadro del sistema capitalistico, sebbene il soddisfarle all'interno di tale quadro divenga sempre più difficile, come dimostrano i grandi scioperi degli ultimi anni e l’inflazione. D’altro canto è vero che la società tardo capitalistica mostra rispetto ai periodi precedenti differenze decisive, e tali differenze consistono sostanzialmente in ciò che ho

chiamato integrazione della maggioranza della classe lavoratrice nel sistema vigente. Un’integrazione, però, che vorrei comunque limitare nella sua forma più sviluppata alla società degli Stati Uniti. Questa integrazione della classe lavoratrice, che talora è così avanzata da render lecito di designare tale classe come un sostegno del sistema - specialmente per quanto concerne i suoi dirigenti sindacali e l'appoggio alla politica estera americana -questa integrazione, dicevo, non è affatto puramente superficiale o ideologica. Essa poggia su motivi assai concreti. Il tardo capitalismo è riuscito, soprattutto grazie alla smisurata crescita della produttività del lavoro, a sollevare il tenore di vita della maggioranza della popolazione. Oggi la maggior parte degli operai, specialmente quelli qualificati, sta molto meglio che in passato. Essi partecipano di fatto a gran parte degli agi della cosiddetta società consumistica, ed è del tutto comprensibile, del tutto logico, e non dovuto a indottrinamento propagandistico o a « lavaggio del cervello », che essi non siano disposti a rinunciare a questi relativi vantaggi per un’alternativa di « socialismo », che o appare loro nella sua purezza come un’utopia o con quell’aspetto in cui concretamente oggi si presenta appunto nell'Unione Sovietica e nei suoi stati satelliti. A ciò si aggiunge che, sulla base di questa crescente produttività del lavoro e della sempre maggiore ricchezza di beni, si instaura una manipolazione, un’orientazione della coscienza e dell’inconscio, che per il tardo capitalismo sono diventate uno dei più indispensabili meccanismi di controllo. Occorre cioè stimolare senza tregua nuovi bisogni, persino bisogni indotti, per indurre gli uomini a comperare le merci continuamente prodotte, per persuaderli che essi hanno davvero bisogno di queste merci, e che esse soddisfano effettivamente questo bisogno. La conseguenza è che gli uomini vengono completamente assoggettati al feticismo del mondo mercificato e in tal modo

proprio con i loro bisogni riproducono il sistema capitalistico. Le merci debbono essere comperate perché anche tutti gli altri le comperano e perché in effetti il bisogno di tali merci è stato destato e stimolato. Ma questo significa che esse debbono essere pagate e perciò diventano sempre più care, ciò significa altresì che la lotta per l’esistenza diventa in realtà sempre più dura, sebbene una razionale divisione del lavoro e della ricchezza sociale potrebbe effettivamente ridurla e facilitarla in una forma fino ad oggi impossibile. Ma è esattamente la tendenza opposta che predomina nella società tardo capitalistica. Proprio a causa della ricchezza sociale esistente la lotta per l'esistenza diventa più dura e non più facile. L'integrazione dei lavoratori sussiste. Ma secondo me, come ho già detto, si va indebolendo. Io ritengo che i contrasti interni emergano oggi con più forza che un anno fa, e persino tra le cosiddette classi medie, tra la borghesia, sempre più si diffonde la consapevolezza che la relativa prosperità esistente nella cosiddetta società consumistica viene forse pagata ad un prezzo troppo alto. Il prezzo troppo alto non consiste soltanto in forme di lavoro disumano che realmente mortificano il corpo e la mente, forme di lavoro richieste dall'attuale industria altamente meccanizzata e in parte automatizzata, nella quale un operaio per otto ore di seguito non fa altro che avvitare lo stesso bullone, premere lo stesso pulsante, fissare lo stesso pezzo ad un altro pezzo. Queste forme di lavoro che mortificano il corpo e la mente rappresentano davvero un prezzo troppo alto, se si considera che una cosiffatta lotta per l’esistenza oggi non è più necessaria, che grazie alla ricchezza sociale esistente e alla possibilità di sfruttare e distribuire razionalmente le risorse disponibili la maggior parte di questo lavoro può essere soppresso. Ciò comporterebbe d’altro canto la eliminazione pressoché totale dell’insensato spreco, tipico della società consumistica, a vantaggio dell’obiettivo più urgente, la soppressione della povertà e della miseria,

ma è proprio questo spreco che nella società capitalistica avanzata continua a sussistere e ad essere senza tregua riprodotto. Un altro aspetto che mostra come il prezzo da pagare per la società dei consumi sia troppo alto è il fatto oggi sempre più manifesto che la stabilità e la prosperità negli Stati Uniti sono necessariamente associate a nuove guerre coloniali e all’impoverimento e alla devastazione di gran parte del terzo mondo. Questa è una critica alla società dei consumi che mostra precisamente come l’analisi marxista sia ancora oggi valida, ma come d’altra parte alcuni concetti base di tale analisi, in particolare quello di proletariato, andrebbero formulati diversamente. C'è poi un altro argomento, e indubbiamente di gran peso a prima vista, a difesa della società capitalistica avanzata, cioè che essa mantiene in vita la democrazia e in ogni caso assicura un elevato grado di pluralismo. Ora bisogna ovviamente riconoscere, poiché è una realtà di fatto, che la libertà negli U.S.A. è ancora oggi maggiore che per esempio nell'Unione Sovietica, e certamente di gran lunga più grande che nelle nuove dittature fasciste e semifasciste sorte dappertutto nel mondo. D’altra parte non si può ignorare in che misura questa democrazia è per l’appunto una democrazia manipolata e limitata. In effetti in questo paese non esiste alcuna reale opposizione, cioè un’opposizione che possa disporre dei mezzi di comunicazione di massa. Ad esempio non c’è alcun giornale realmente contestatario, come ce ne sono in Francia e in Italia. La sinistra, la sinistra radicale, non ha in genere un accesso adeguato ai suddetti mezzi di comunicazione, semplicemente perché non possiede l’enorme quantità di denaro necessario per procurarsi un'eguale porzione di spazio nelle catene televisive e radiofoniche. La sinistra in questa democrazia è svantaggiata in partenza. Inoltre vi è la ben nota circostanza che il processo politico democratico è qui per l’appunto monopolizzato dalle gigantesche macchine dei due grandi

partiti democratico e repubblicano, che questi partiti perseguono in sostanza obiettivi identici e che perciò non è il caso di parlare per questo paese di una reale democrazia effettivamente alimentata dal basso. Questa tendenza a distribuire la democrazia tra due partiti dominanti e sostanzialmente identici nei loro fini e nella loro politica trova in verità la sua espressione più avanzata negli Stati Uniti, ma ritengo che essa stia facendosi strada anche in Europa, soprattutto in Inghilterra e verosimilmente anche nella Repubblica Federale Tedesca. INTERVISTATORE - Qual è dunque il modello alternativo di società? H. MARCUSE - La questione dell’alternativa mi è sempre apparsa e mi appare tuttora assai facile. Ciò che i giovani oggi vogliono è una società senza guerra, senza sfruttamento, senza oppressione, senza povertà e senza sprechi. La società industriale avanzata possiede attualmente le risorse tecniche, scientifiche e naturali che sono necessarie per soddisfare e tradurre in realtà tali aspirazioni. Ciò che impedisce una siffatta liberazione sono semplicemente il sistema esistente e gli interessi che operano senza sosta in difesa di esso impiegando a tale scopo mezzi sempre più potenti. Mi sembra così che il modello alternativo non sia troppo difficile a determinarsi. Quanto alla sua fisionomia concreta, è un'altra questione. Ma credo che sulla base di un’eliminazione della povertà e dello smisurato spreco di risorse si possa trovare una forma di vita in cui gli uomini riescano realmente a determinare essi stessi la propria esistenza. INTERVISTATORE - E qual è la strada per giungere a una tale società? H. MARCUSE - La strada per giungervi è naturalmente qualche cosa che si può concretizzare solo nel processo della lotta necessaria per porre in essere tale società. Va però subito precisata una cosa: tale strada sarà assai diversa nei

diversi paesi a seconda del loro grado di sviluppo, dell’evoluzione delle loro forze produttive, della loro coscienza, delle loro tradizioni politiche, ecc. Vorrei comunque limitare le mie indicazioni agli Stati Uniti, perché sono il paese che conosco meglio e perché come ho rilevato all’inizio, la situazione della Francia e dell'Italia, ad esempio, è assai diversa. Esiste ovviamente il problema del soggetto della trasformazione, cioè l'interrogativo: chi è il soggetto rivoluzionario? Per me questo è un problema senza senso, poiché il soggetto rivoluzionario può svilupparsi solo nel processo stesso della trasformazione. Non è alcunché di preesistente e che si debba solo rintracciare in questo o in quel luogo. Il soggetto rivoluzionario scaturisce nella prassi, nello svilupparsi della coscienza, nello svilupparsi dell’azione. INTERVISTATORE - Questo soggetto potrebbe essere oggi la classe operaia? H. MARCUSE - Mi è stato rimproverato di aver sostenuto che la classe operaia non sarebbe più un soggetto rivoluzionario. Questa naturalmente è una contraffazione di ciò che ho detto. Io ho detto che la classe operaia degli Stati Uniti oggi non è un soggetto rivoluzionario. Questo non è un mio personale giudizio di valore, ritengo che sia semplicemente una « constatazione di fatto ». E, torno a ripeterlo, la situazione è assai diversa in Francia e in Italia, dove esiste una forte tradizione politica della classe operaia, dove il livello di vita non ha ancora raggiunto l’altezza di quello statunitense e dove il potenziale radicale della classe operaia è molto più forte di quanto non sia negli Stati Uniti. INTERVISTATORE - Lei ha sempre dato gran rilievo al ruolo degli studenti. Quale ruolo esplicano per una trasformazione della società? H. MARCUSE - Non ho mai sostenuto che il movimento studentesco sostituisca oggi il movimento operaio come possibile soggetto rivoluzionario. Ho detto invece che il movimento studentesco funge oggi da catalizzatore, da

stimolo preparatorio del movimento rivoluzionario, e questo oggi è un ruolo di straordinaria importanza. Tutte le affermazioni disfattistiche fatte in proposito, cioè che un movimento limitato principalmente alle università e alle scuole non possa essere realmente rivoluzionario, che sia un movimento di intellettuali, di una cosiddetta élite, non tengono conto dei dati di fatto. In particolare del fatto che nelle università, nelle scuole, vengono oggi educati e formati i quadri della società futura e che perciò lo sviluppo della coscienza, del pensiero critico nelle università e nelle scuole è un compito decisivo. INTERVISTATORE - Da dove dovrebbe scaturire oggi la scintilla della rivoluzione? Non più dal crescente impoverimento, è da supporre, almeno nei paesi industriali progrediti. H. MARCUSE - La risposta a tale quesito dipende unicamente dai diversi paesi. In quelli in cui predomina la povertà, questa esplicherà ovviamente un ruolo capitale. In altri paesi no. Verosimilmente il più importante carattere differenziale della rivoluzione del XX o del XXI secolo risiede nel fatto che essa non nasce primariamente dal bisogno, ma, diciamolo pure, dalla generale disumanizzazione, dalla nausea del superfluo e dello spreco tipici della cosiddetta società consumistica, dal disgusto per la brutalità e l’ignoranza degli uomini; e perciò la principale esigenza di questa rivoluzione sarà, per la prima volta nella storia, attuare un’esistenza veramente degna dell’uomo e costruire forme di vita interamente nuove. Non si tratta dunque di una trasformazione quantitativa, ma realmente qualitativa. INTERVISTATORE - Una rivoluzione che nasce dalla nausea, non è un concetto assai poco marxista? H. MARCUSE - Non è affatto vero, poiché la nausea si trova appunto ad avere basi fortemente oggettive e sociali. La nausea è proprio l’espressione della contraddizione, della sempre più forte contraddizione che pervade la società capitalistica: quella cioè tra la smisurata ricchezza sociale e

il suo sciagurato e distruttivo impiego. E tale contraddizione si esprime ad un elevato grado di coscienza come nausea nei confronti della società esistente. INTERVISTATORE - Professore, non è davvero possibile realizzare una società umana, emancipata, attraverso riforme? H. MARCUSE - Si può e si deve tentare la via delle riforme. Tutto ciò che può servire ad attenuare la povertà, la miseria e l'oppressione dev’essere tentato. Ma lo sfruttamento e l'oppressione appartengono proprio all’essenza della produzione capitalistica, così come le appartengono la guerra e la concentrazione del potere economico. Ora ciò significa che presto o tardi si giungerà al momento in cui le riforme cozzeranno contro i limiti del sistema, in cui la prosecuzione delle riforme taglierà alla base le radici della produzione capitalistica: cioè il profitto. Questo è il momento in cui il sistema lotterà anche contro le riforme, in cui dovrà lottare contro di esse per la propria sopravvivenza, e a questo punto emerge la domanda: è possibile la rivoluzione? INTERVISTATORE Quale sarà, grosso modo, l'organizzazione della società emancipata, postrivoluzionaria? Si può ad esempio ristrutturare la complessa società dei paesi industriali occidentali secondo il sistema dei soviet conservando nonostante ciò la sua efficienza e il suo standard tecnologico? H. MARCUSE - Non possiamo stabilire concretamente fin da oggi quale sarà la forma organizzativa della società postrivoluzionaria. Sarebbe assurdo farlo. Noi non siamo liberi e certamente non possiamo in tali condizioni di illibertà determinare in anticipo in che modo degli uomini liberi costruiranno la loro vita e la loro società. Possiamo tuttavia delineare sommariamente alcune delle istituzioni di base. Il « sistema dei soviet » è un concetto su cui grava fortemente il peso di un passato appartenente alla storia. Credo però che nella sua sostanza sia ancora valido. Ho detto che in

una società libera sono gli uomini a determinare la loro vita, la loro esistenza. Ciò significa innanzi tutto che saranno essi stessi a determinare in che modo sia da dividere il lavoro socialmente necessario e a quali fini debba essere indirizzato. E ciò presumibilmente può essere deciso in modo ottimale da organi locali e regionali: assemblee, comitati, soviet, o come altro si vorrà chiamarli, poiché questi stando sul posto sapranno meglio di chiunque altro quali siano le priorità da rispettare e come vada ripartito il lavoro socialmente necessario. INTERVISTATORE - Ma chi garantisce che la soppressione del modo di produzione capitalistico conduca ad una società in cui l’individuo è libero e può realizzare pienamente se stesso? Le società socialiste esistenti non giustificano comunque questa fiducia. H. MARCUSE - Su questo non esiste alcuna garanzia. La storia non è un istituto di assicurazione: è impossibile aspettarsi delle garanzie. A tal riguardo si può dire soltanto che la soppressione della società capitalistica in ogni caso offrirà, potrà offrire i presupposti fondamentali su cui sviluppare una società libera. INTERVISTATORE - Come deve operare in concreto oggi la Nuova Sinistra? Lei sarebbe favorevole a una politica di alleanza di questi gruppi con altre forze critiche, ma non marxiste? Ad esempio, anche con forze parlamentari? H. MARCUSE - A tale domanda si dovrà rispondere in modi diversi a seconda del grado di sviluppo dei paesi capitalisti. Dove opera già la controrivoluzione, una politica di alleanze è necessaria. Ma per la Nuova Sinistra essa può essere soltanto temporanea e non può costituire un principio politico. Inoltre può soltanto avere obiettivi specifici in specifiche situazioni, ad esempio dimostrazioni, elezioni locali, ecc. E poi? Io credo che ogni opposizione radicale sia oggi extraparlamentare. INTERVISTATORE - E' lecito alla Nuova Sinistra nelle sue azioni extraparlamentari ricorrere anche alla violenza contro

il sistema imperante? H. MARCUSE - In verità credo che questo problema non possa essere discusso in una pubblica conversazione televisiva, ma solo con gli interessati, nell'ambito della loro cerchia, ed orientato secondo le concrete situazioni particolari. Sul problema della violenza in generale posso solo ripetere quanto ho già detto, che nella società attuale la violenza è istituzionalizzata in misura addirittura spaventosa, e la questione principale è stabilire innanzi tutto da chi procede la violenza. In ogni caso, secondo me, nel periodo dell'incipiente controrivoluzione, si può dire che la violenza ha origine in primo luogo proprio dalla società esistente e che sotto questo aspetto l’opposizione si trova di fronte al problema della violenza difensiva, non certamente di fronte a quello della violenza aggressiva. INTERVISTATORE - Un’ultima domanda: lei non presuppone, con la sua società emancipata, una nuova struttura antropologica dell’uomo? Di un uomo che opera sempre nel modo giusto, sempre mosso da spirito di solidarietà? H. MARCUSE - No, non credo. Ciò che presuppongo non è un uomo che operi sempre in modo giusto e con spirito di solidarietà, ma un uomo che innanzi tutto e forse per la prima volta nella storia abbia la possibilità di operare davvero con spirito di solidarietà e di bontà. Io ritengo che grazie alle conquiste della società industriale esista la possibilità di emancipare ampiamente gli impulsi repressi nell’interesse dell'autorità, e sulla base di questi impulsi emancipati - in sostanza gli impulsi di vita, non quelli distruttivi - possa effettivamente diventare realtà per la prima volta nella storia ima sorta di solidarietà. Giacché gli impulsi di vita si oppongono a quelli distruttivi ed effettivamente contengono in germe la possibilità e le condizioni necessarie per un miglioramento della vita, per un maggior godimento della vita, cioè per goderla non contro gli altri, ma insieme con gli altri.

LA NUOVA SOCIETÀ’: CRITICA E PROPOSTE PROGRAMMATICHE

NEGLI ANNI 1935-36 mi recai per la prima volta in Inghilterra. Io venivo dall'Austria, dove era al potere una dittatura relativamente mite, che però era minacciata dal vicino paese nazionalsocialista. Nella libera atmosfera dell'Inghilterra potevo tirare un sospiro di sollievo. Era come se fossero state aperte le finestre. L’espressione « società aperta » trae origine da questa esperienza. Quali sono per me le caratteristiche di una società aperta? Vorrei indicarne due aspetti: in primo luogo, in una società aperta è possibile la libera discussione e questa discussione esercita un'influenza sulla politica. In secondo luogo, esistono istituzioni per la protezione della libertà e degli svantaggiati. E consideriamo anzitutto questo secondo aspetto. Lo Stato protegge i suoi cittadini mediante istituzioni giuridiche e sociali dall’oppressione del potere come forza bruta e può anche proteggerli dall'abuso del potere economico. Questo intervento protettivo si verifica già oggi e può essere migliorato. Dobbiamo altresì costruire istituzioni sociali che proteggano il cittadino economicamente debole da quello economicamente forte, cioè istituzioni per la protezione dallo sfruttamento. Infatti il potere politico può controllare quello economico. I marxisti sottovalutano le possibilità della politica e in particolare di quella che essi chiamano « libertà formale ». Pongo dunque l’accento sul ruolo centrale delle istituzioni

politiche per la riforma sociale. Ciò che importa, per essere precisi, non è tanto chi governa, ma in che modo coloro che governano possono essere influenzati e controllati. Con ciò torno al primo aspetto da me indicato, all’importanza della pubblica discussione. Tra i paesi con un ordinamento sociale più o meno aperto gli Stati Uniti sono il più importante: dal loro destino dipendono tutti gli altri. Sono passati appena poco più di cento anni dalla soppressione della schiavitù in America, da quella cruenta guerra civile, quasi quinquennale, tra Nord e Sud. Fu una crisi tremenda per il paese, una crisi di coscienza. Oggi gli Stati Uniti si trovano ad attraversare una analoga crisi di coscienza, e precisamente ancora una volta a proposito del problema dei negri e al tempo stesso per il Vietnam. Qui vediamo chiaramente qual è la cosa più importante perché una società possa dirsi aperta: la libertà di opinione, l’esistenza di un’opposizione. I maggiori giornali, i più influenti commentatori della radio e della televisione sono su posizioni di acuto dissenso. L’opposizione reclama il ritiro delle truppe americane dal Vietnam e sotto il peso della sua influenza il Governo accetta tale ritiro inserendolo nel suo programma. Questo è un avvenimento unico nel suo genere e concepibile soltanto in una società aperta: dopo una guerra durata anni il governo attraverso la pubblica discussione viene costretto a riconoscere che la guerra è stata un grave errore e che bisogna porvi termine al più presto possibile. Naturalmente non intendo erigere qui la democrazia americana a modello ideale. L'America è un paese dove si commettono troppe violenze e troppi delitti. Dopo l'assassinio del presidente Kennedy l'America è cambiata in modo straordinariamente rapido. Prima predominava uno stato d’animo pieno di speranza. Ma adesso il paese si trova in uno stato di depressione, che è stato aggravato dagli assassini di Martin Luther King e di Robert Kennedy e dalla guerra del Vietnam. Gli americani non sono più sicuri che il loro paese e la loro forma di governo siano i migliori.

Questi fatti di violenza sono forse in parte una conseguenza della tradizione americana, ma non sono una conseguenza della forma di governo o del cosiddetto sistema di potere. In realtà le forme di vita e le convinzioni mutano in America con grande rapidità: le società aperte non sono molto stabili, proprio perché sono esposte alla discussione critica. Le dittature sono più stabili, e a maggior ragione le utopie, che per l'appunto vengono sempre descritte come sta tiche. INTERVISTATORE - Lei afferma che lo Stato, attraverso le istituzioni politiche, può difendere i suoi cittadini anche dalla violenza economica. Certamente potrebbe, ma i marxisti sostengono al contrario che queste istituzioni sono tenute in pugno dai gruppi dominanti e perciò perdono ogni efficacia. K. POPPER - Considero questa come un'enorme esagerazione. Naturalmente in una democrazia ogni istituzione è ora nelle mani di un gruppo ora nelle mani di un altro. Questo è abbastanza evidente. Ma l’idea che le istituzioni in una democrazia siano permanentemente accaparrate, per così dire, dalla borghesia, è soltanto un'altra forma della favola marxista della dittatura di classe, cioè della tesi che ogni stato è dittatoriale e che la cosiddetta democrazia formale non è altro che una dittatura di classe. Come ho già detto, considero questa una favola. INTERVISTATORE - Ma non appaiono almeno gli elementi di una società divisa in classi quando, ad esempio nella Repubblica Federale Tedesca, alla minoranza dei piccoli gruppi professionali indipendenti affluisce il 70% delle risorse di nuova formazione, mentre i gruppi sette volte più numerosi dei prestatori di lavoro si devono accontentare del restante 30% ? Quando il sistema fiscale privilegia unilateralmente una ristretta categoria sociale? Quando il proprietario di capitale senza alcuno sforzo personale accumula sempre nuove ricchezze, mentre il grosso dei lavoratori è costretto a consumare il suo intero reddito e così

non può mai diventare proprietario di capitale? K. POPPER - Lei sta ponendo più domande in una sola volta. Il termine « classe » può avere molti significati svianti. I marxisti sostengono che tutte le democrazie sono dittature di classe mascherate, ma questa affermazione ha poco a che fare con l’esistenza di grandi differenze di ricchezza tra i singoli. E' infatti pensabile una libera società, con eguali possibilità per tutti - tutti ricevono la medesima educazione e l’imposta di successione distribuisce in modo uniforme i patrimoni -ma nella quale emergono tuttavia grosse differenze nella formazione di nuovo reddito. Finché non c'è povertà, non è il caso di vedere in ciò un inconveniente: le grandi ricchezze vengono quasi completamente destinate all’investimento e rendono possibile tentare innovazioni sperimentali. In una tale società potrebbero esservi però non solo dei ricchi, ma anche dei poveri, e questo sarebbe un grave inconveniente; ma in tal caso i poveri e i ricchi non costituirebbero in alcun modo delle classi nel senso marxista del termine. Ma la sua osservazione si riferiva alla Repubblica Federale Tedesca a cui lei rimprovera che il reddito di nuova formazione sia distribuito in modo assai ineguale. Ciò dice ben poco sul suo carattere di classe e non dimostra affatto l’esistenza di una dittatura classista. Lei sostiene anche che il sistema fiscale privilegia unilateralmente una ristretta categoria. Se davvero è così, esistono rimedi in una democrazia, come è possibile vedere nel sistema fiscale inglese e persino in quello americano. In Gran Bretagna molto più della metà del reddito nazionale finisce nelle casse dello Stato sotto forma di imposte: imposte sul reddito, sulle società, imposte indirette. Ma verosimilmente proprio per questo la pressione fiscale è così grande che ne soffre l’intera economia, ivi comprese le categorie a più basso reddito. Ciò mostra l'insostenibilità della teoria marxista secondo la quale tutte le democrazie sono dittature mascherate. E

sebbene si possa forse, come fa lei, parlare di « elementi di una società classista », è anche possibile affermare che le diverse democrazie realizzano gradi diversi di avvicinamento ad una società senza classi. INTERVISTATORE - Non crede che la struttura politica delle democrazie formali possa acquistare un contenuto vitale solo se trova corrispondenza nella sfera economica? K. POPPER - Lei vuol sapere se la struttura politica delle democrazie formali possa acquistare un contenuto vitale solo in quanto trovi corrispondenza nella vita economica. Forse posso tradurre la sua domanda in una forma più semplice: la coesistenza di ricchezza e povertà non è un male sociale insopportabile? Rispondo che la povertà è un grave inconveniente e che diventa ancora più grave quando si trova a coesistere con la ricchezza. Ma un male ancora peggiore della contrapposizione tra ricchezza e povertà è la contrapposizione tra illibertà e libertà, tra una nuova classe, cioè la dittatura al potere, e i concittadini sgraditi messi al bando nei campi di concentramento o altrove. Io ravviso dunque il più alto valore di una democrazia nella possibilità di una libera e razionale discussione e nella capacità di questa discussione critica di incidere sulla politica. Ciò mi pone in acuto contrasto con coloro che credono nella violenza: in particolare coi fascisti. In modo assai simile i marxisti rivoluzionari o anche i neomarxisti sostengono che non esiste alcuna discussione « obiettiva »: prima di accettare di discutere con qualcuno occorre sapere se l'interlocutore ha un atteggiamento marxista rivoluzionario nei confronti della società, vale a dire se egli rifiuta radicalmente l'attuale società cosiddetta « capitalistica ». Ciò significa che una discussione sui problemi fondamentali è impossibile. I fascisti anti-intellettuali e i rivoluzionari marxisti sono dunque d'accordo sul principio che con l’avversario non si può e non si deve discutere. Entrambi rifiutano una discussione critica delle loro posizioni.

Ma si rifletta su ciò che tale rifiuto comporta. Esso implica che, se si conquista il potere, ogni opposizione sarà soppressa. Essa comporta il rifiuto della società aperta, il rifiuto della libertà e l’accettazione di una filosofìa della violenza. Sotto l’influsso di queste idee i marxisti e i neomarxisti sono anche ciechi di fronte alle conquiste della democrazia, che sola permette ad essi di diffondere le loro idee. La loro teoria insegna che la libertà politica è sostanzialmente priva di valore, poiché non è altro che una dittatura mascherata. Ma questo è assolutamente contrario alla realtà, come si può capire anche soltanto dal fatto che la più recente reviviscenza del marxismo si è verificata in tutte le società aperte dell’Occidente, e solo in queste. Le democrazie sono sempre aperte alle idee e specialmente a quelle provenienti dall'opposizione. Ben lungi dall’essere dittature mascherate, queste democrazie sono sempre pronte a dubitare di se stesse: esse sanno benissimo che molte cose non sono come dovrebbero essere. Solo in una società aperta le idee hanno l’opportunità di affermarsi. E i marxisti, i quali credono che le democrazie siano solo dittature mascherate, non vedono che tutte le dittature, di destra o di sinistra, sono sostanzialmente identiche. Tutto ciò è conseguenza di false teorie che impediscono di vedere l’importanza della libera battaglia delle idee, della discussione critica. INTERVISTATORE - Professore, la sua « società aperta » presuppone un pluralismo delle forze, una eguaglianza di opportunità per tutti, che indubbiamente esiste nelle costituzioni delle democrazie occidentali, ma non necessariamente nella loro realtà politica. Lei crede che la « società aperta » esista già o che si debba cominciare innanzi tutto col costruirla? K. POPPER - Io credo che essa sia al tempo stesso una realtà e un ideale. Esistono cioè, ovviamente, gradi diversi di apertura. In una democrazia la società sarà più matura, più

sviluppata e più aperta che in un’altra democrazia. In che misura essa sia buona o cattiva, dipende da molteplici fattori: dai suoi precedenti storici, dalla sua tradizione, dalle sue istituzioni politiche, dai suoi metodi di educazione; e infine dagli uomini che conferiscono a queste istituzioni il loro contenuto vitale. Io proporrei di tracciare una linea di demarcazione abbastanza precisa tra democrazie e dittature. Si vive in democrazia quando esistono istituzioni che permettono di rovesciare il governo senza ricorrere alla violenza, cioè senza giungere alla soppressione fisica dei suoi componenti. E’ questa la caratteristica di una democrazia. Ma quando la democrazia esiste, essa apre la via per giungere ad una società realmente aperta. Si tratta di una cosa graduale. Io credo nella ragione, credo cioè che dobbiamo tutti adoperarci per assumere un atteggiamento come quello che ho descritto. Non credo naturalmente che ciò sia facile o che tutti gli uomini siano sempre ragionevoli: lo sono solo di rado. Non credo neppure nella violenza della ragione o nella forza della ragione. Credo piuttosto che noi abbiamo la scelta tra ragione e violenza, che la ragione sia l’unica alternativa all’impiego della violenza e che sia delittuoso un impiego della violenza evitabile. Ma i marxisti non credono nella ragione, poiché ritengono che dietro tutti gli argomenti si nascondano soltanto gli interessi egoistici dell’uomo. Naturalmente è esatto che gli interessi degli uomini, in particolare gli interessi economici, hanno una grande rilevanza nella politica. Ma è del tutto evidente che anche altri elementi esplicano un ruolo, ad esempio il desiderio di essere giusti. La prassi marxista si basa su una teoria speculativa molto accorta e per questo non è completamente anti-intellettuale come la prassi fascista. Ma giunge esattamente allo stesso risultato: è anti-intellettuale e antirazionale nella sua attuazione pratica, sebbene riposi su una teoria altamente

sofisticata. La violenza genera sempre maggiore violenza. E le rivoluzioni violente uccidono i rivoluzionari e corrompono i loro ideali. I sopravvissuti sono soltanto i più abili specialisti dell’arte di sopravvivere. Ciò che una rivoluzione di sinistra sicuramente produrrebbe, è la perdita della libertà di criticare, di fare opposizione. Se la dittatura che ne risulterà sarà di destra o di sinistra, ciò dipende dal caso ed è comunque sostanzialmente una differenza di nomenclatura. Io sostengo che solo in una democrazia, in una società aperta, abbiamo la possibilità di eliminare ogni inconveniente. Se distruggiamo questo ordinamento sociale con una rivoluzione violenta, non solo siamo responsabili dei pesanti sacrifici della rivoluzione stessa, ma creeremo una situazione che rende impossibile eliminare i malanni sociali, l'ingiustizia e l'oppressione. Io sono per la libertà individuale e odio come pochi la strapotenza dello Stato e l'arroganza delle burocrazie. Ma purtroppo lo Stato è un male necessario; è impossibile farne completamente a meno. E purtroppo è vero: più sono gli uomini, più c’è bisogno dello Stato. Con la violenza si può facilmente annientare l’umanità. Ciò che è necessario è lavorare per una società più razionale, in cui in sempre maggior misura i conflitti siano risolti razionalmente. Dico: « più razionale »! In verità nessuna società è razionale, ma ce n’è sempre una più razionale di quella esistente e verso la quale abbiamo perciò il dovere di tendere. Questa è un'aspirazione realistica e non un'utopia!

I PRESUPPOSTI TEORETICI

INTERVISTATORE - Professore, alla base del suo programma scientifico vi è certamente la piattaforma di una determinata teoria scientifica. Parliamone brevemente. Innanzi tutto: le norme eticosociali sono in generale giustificabili in termini puramente scientifici oppure si basano su scelte soggettive di valore, indubbiamente meditate, ma in definitiva non più giustificabili in termini di pura razionalità? H. MARCUSE - Non si basano certamente su scelte di valore soggettive. Tutto dipende da ciò che lei intende per « scienza » e « scientificità ». Se lei crede che quello delle scienze naturali sia l'unico modello della scientificità, allora le scienze sociali e le norme o i valori in esse prevalenti non sono scientifici. Ma io ritengo che l’identificazione della scientificità con il modello delle scienze naturali sia una pretesa unilaterale o più semplicemente che sia falsa. C’è una scientificità che riposa sull’analisi critica dei fatti e comprende campi che sono del tutto inaccessibili al metodo delle scienze naturali e alla sua quantificazione. Potrei anzi affermare che la scientificità che regna o almeno dovrebbe regnare nelle scienze sociali è in certo senso addirittura più rigorosa ed esatta di quanto non sia il modello delle scienze naturali. INTERVISTATORE - Vi sarebbero dunque procedimenti scientifici oltre il controllo empirico e la logica deduttiva? H. MARCUSE - Oltre il controllo empirico e la logica deduttiva! Ma questo abbraccia già tutta la sfera della conoscenza immaginabile. Quel che vorrei dire è che la

scientificità delle scienze sociali riposa, lo ripeto ancora, su un’analisi critica dei fatti, la quale include in sé anche un’analisi critica di tendenze, di possibilità storiche, che in qualche modo sono dimostrabili. E questo è il quadro in cui procede il metodo delle scienze sociali. INTERVISTATORE - Dalla sua risposta debbo forse dedurre che lei, diversamente dai marxisti tradizionali, non attribuisce valore a una cosa come la « dialettica », che sarebbe una seconda modalità della logica da ritenersi superiore alla logica deduttiva? H. MARCUSE - Esattamente! Non ha alcun senso per me costituire la dialettica come una disciplina « a se stante » nel quadro del lavoro accademico. INTERVISTATORE - Che cos'è il rapporto tra teoria e prassi? Significa soltanto che lo scienziato, il teorico, deve anche prendere posizione sui problemi politici, o è qualche cosa di più? H. MARCUSE - Come lo ha formulato lei, quello tra teoria e prassi è un legame personale, privato. Io credo che fra teoria e prassi vi sia un legame oggettivo e sostanziale. Ad esempio ritengo che i concetti di libertà, di giustizia, di umanità, se realmente analizzati e sviluppati, implichino la lotta contro l’attuale illibertà, contro l’attuale sfruttamento, contro l’attuale disumanità. Il rapporto tra teoria e prassi è dunque sostanziale e intrinseco. In altri termini: i concetti teorici divengono falsi se non includono in sé la sfera della prassi. INTERVISTATORE - Ancora un altro punto! La concezione « borghese » della democrazia, l’opzione della democrazia rappresentativa, parte dal presupposto che in politica non esista una verità oggettiva, o assai di rado, e che perciò si deve mantenere il sistema aperto a nuove idee. Il marxismo, che ritiene dimostrabili non solo i fatti, ma anche norme, valutazioni politiche e morali, potrebbe forse ostacolare l'emergere di nuove idee. Non si annida in esso una tendenza dogmatica, per non dire totalitaria?

H. MARCUSE - Può essere che la democrazia rappresentativa parta dal presupposto che il sistema dev’essere mantenuto aperto alle nuove idee. Ma come si presentano le cose in realtà? Se questo assunto è concepito seriamente, allora non basta offrire libertà di pensiero, di lettura, di stampa, si devono anche offrire o costruire le condizioni oggettive e soggettive per la comprensione e la diffusione delle idee. Negli Stati Uniti si può dire e pubblicare pressappoco tutto quello che si vuole. Ma, innanzi tutto, la sanzione non si fa aspettare molto: perdita del posto di lavoro, rifiuto di una promozione, sorveglianza, all’occorrenza polizia e tribunale. Inoltre la pressione dei mass-media monopolistici e la generale integrazione sono così efficaci che la libertà di parlare e di divulgare può essere concessa senza timori, il che depone per la chiusura del sistema, e non per la sua apertura. E tuttavia dobbiamo naturalmente apprezzare e difendere questa libertà di parola e di stampa: essa rimane il presupposto della nostra battaglia e dell'obiettivo da ragggiungere. Per quanto concerne poi una società realmente socialista: essa sarà aperta alle nuove idee oppure non è socialista. INTERVISTATORE - Professore, lei condivide l'opinione che il marxismo sia un sistema di pensiero chiuso, in cui tutte le conoscenze e tutti i postulati sono derivabili con metodo strettamente deduttivo dai principi fondamentali del materialismo dialettico e storico? Oppure il marxismo si può interpretare anche come una summa di postulati etico-politici, che sarebbero bensì dimostrabili scientificamente, ma che possono pure essere separati dai loro tradizionali fondamenti filosofici? H. MARCUSE - Il marxismo non è un « sistema di pensiero chiuso ». La sua oggettività o validità universale è quella della storia, nella quale esso stesso è una forza attiva e in cui esso si trasforma, senza rinunciare al suo fondamento concettuale. Tale fondamento è l’analisi dialettica del processo sociale, dalla quale scaturisce la

necessità umana - non già « naturale » - di trasformare la società.

I PRESUPPOSTI TEORETICI

INTERVISTATORE - Nella Logica della ricerca scientifica e in Congetture e confutazioni lei ha spiegato la sua dottrina scientifica: il « razionalismo critico ». Potrebbe delinearne ancora una volta in questa sede i principi fondamentali? K. POPPER - Socrate, in un passo della sua celebre Apologia, dice: « Io so di non sapere niente, e soltanto questo. Eppure l’oracolo di Delfi mi ha definito il più sapiente degli uomini ». E dopo alcune riflessioni Socrate giunge alla seguente spiegazione: « Io sono consapevole della mia ignoranza. Forse è questa consapevolezza dei miei gravi limiti che mi rende un poco più sapiente degli altri uomini, i quali non sanno neppure di non sapere ». Socrate diceva anche che un politico o uomo di stato deve essere sapiente. Con ciò intendeva: « Un politico dovrebbe, più degli altri uomini, essere consapevole della sua ignoranza. Infatti pesa su di lui una grave responsabilità. Questa responsabilità dovrebbe indurlo alla comprensione dei propri limiti e quindi alla modestia intellettuale ». Io sono d’accordo con Socrate. E qui posso formulare nel modo migliore il mio rimprovero fondamentale a tutti i marxisti moderni: i marxisti credono di sapere molto. Mancano completamente di modestia intellettuale. Amano fare sfoggio del loro sapere e di una roboante terminologia. Il rimprovero non vale per Marx o Engels. Essi erano pensatori grandi e originali, che avevano nuove idee, spesso difficili a formularsi. Chi ha da dire qualche cosa di nuovo e di importante ci tiene a farsi capire. Farà perciò tutto il possibile per scrivere in modo semplice e comprensibile.

Niente è più facile dello scrivere difficile. Ma io accuso i moderni marxisti rivoluzionari di abusare di paroioni, di tentare di impressionarci con poche idee e molte parole. Niente è loro più estraneo della modestia intellettuale. Non sono davvero andati alla scuola di Socrate e neppure di Kant, ma a quella di Hegel. Io dunque credo, al pari di Socrate, che noi non sappiamo niente o molto poco. La nostra ignoranza è illimitata. Ma questo ovviamente non è tutto. Non è lecito, beninteso, ignorare le scienze naturali e i loro grandiosi successi. Tuttavia, se guardiamo un po' più da vicino queste scienze, scopriamo che esse non consistono in un sapere positivo o sicuro, ma in ardite ipotesi che noi, attraverso una critica spietata, costantemente correggiamo o eliminiamo del tutto. Così si realizza un processo di graduale avvicinamento alla verità. Ma non abbiamo nessun sapere stabilito, sicuro. Abbiamo un sapere per l’appunto ipotetico. E innanzi tutto c’è il fatto stesso del progresso scientifico. Infatti la discussione critica delle nostre ipotesi valuta queste ultime sempre dal punto di vista che noi preferiamo tra esse quelle che ci sembrano maggiormente avvicinarsi alla verità e che meglio resistono ai nostri tentativi di confutazione. Anche nella scienza, dunque, non c'è nessun punto stabile, un punto di cui si possa dire: adesso abbiamo raggiunto la verità. Ma ci sono solo ardite teorie ipotetiche, che noi tentiamo di criticare e di superare con altre migliori. Nella scienza vige dunque la regola: quante più rivoluzioni scientifiche, tanto meglio. E per la storia della scienza ha perciò reale valore il grido di guerra marxiano: rivoluzione permanente! Per questa ragione mi hanno rimproverato di essere incoerente, perché una teoria scientifica così rivoluzionaria avrebbe dovuto fare di me un rivoluzionario anche in politica. Ma questo è un brutto equivoco. Proprio il radicalismo nel campo intellettuale, l’ardita invenzione di

nuove teorie rivoluzionarie e il rivoluzionario rovesciamento delle teorie vecchie, proprio questo ci rende possibile evitare nel campo della prassi ogni violenza. Per rendere meglio comprensibile questa tesi, voglio paragonare la lotta per l’esistenza nel mondo degli animali e delle piante con la « lotta per l’esistenza » delle nostre ipotesi. Piante ed animali producono trasformazioni o mutazioni, e le mutazioni che consentono un migliore adattamento alle condizioni di vita saranno prescelte attraverso la selezione naturale. Ciò non significa altro se non che le mutazioni meno adatte o cattive vengono eliminate in quanto quegli animali e quelle piante che ne sono portatori vengono soppressi: non sopravvivono o il loro tasso di riproduzione è così scarso che alla fine si estinguono. Un’ipotesi si può paragonare a una mutazione. Invece di produrre nuove mutazioni, gli uomini producono talora nuove ipotesi o teorie. Se gli uomini sono privi di spirito critico, i portatori di ipotesi disadatte o cattive vengono eliminati. Ma la discussione razionale, critica, ci rende possibile criticare le nostre ipotesi ed eliminarle come false, senza annientare gli inventori o rappresentanti delle ipotesi non buone. Questa è la grande conquista del metodo critico. Esso rende possibile riconoscere e condannare delle ipotesi come errate, senza condannarne i portatori. Il metodo della discussione critica fa morire al posto nostro le nostre ipotesi; mentre il metodo anticritico dei fanatici ci porta a prendere in veste di martiri il posto delle nostre ipotesi. Se sono cattive, andiamo in rovina con esse. Il giudizio critico, il controllo critico delle nostre ipotesi si sostituiscono dunque alla lotta violenta per l’esistenza. E parimenti il rovesciamento rivoluzionario delle nostre idee, teorie o ipotesi può subentrare in luogo delle rivoluzioni violente, che hanno richiesto tante vittime umane. E' interessante notare che di recente in Germania mi è stata applicata l’etichetta di positivista, da persone che evidentemente non comprendono molto bene ciò di cui

parlano. I positivisti sono filosofi che si volgono contro le teorie speculative: essi vogliono per quanto possibile restare aderenti al dato, al percepibile. Ora io sono stato sempre ostile ad ogni dogmatismo e fin dalle mie prime pubblicazioni ho avversato questo positivismo. Mentre esso prescrive: « Non ti discostare dalla realtà sensibile », il mio insegnamento è del tutto diverso: « Sii audace nel costruire ipotesi speculative, ma spietato poi nel sottoporle a critica e a controllo! ». INTERVISTATORE - Professore, lei auspica dunque la rivoluzione nella scienza, nel pensiero, ma non nella prassi politica! E la stessa scienza non potrebbe mai darci un sapere sicuro, ma solo ipotesi che provvisoriamente non sono ancora confutate. Questa posizione trova riscontro nel campo sociale? K. POPPER - Perfettamente! Anche nel campo sociale abbiamo idee e teorie. Elaboriamo teorie per eliminare i mali della società, tentiamo di valutarne le conseguenze e in base a queste giudichiamo poi le teorie formulate. INTERVISTATORE - Ma che cosa significa « mali della società »? Definirli come tali è possibile solo in base a postulati di valore concernenti la vita sociale. Come si è in grado di dimostrare quali tra questi postulati sono giusti e quali no? K. POPPER - Questo non è possibile dimostrarlo. Proprio allo stesso modo in cui nulla può essere dimostrato nelle scienze naturali. Ma si può discuterli. Ed è possibile confrontare tra loro i diversi atteggiamenti sociali e le loro conseguenze. In ultima analisi l’accettazione o il rifiuto di un simile valore sociale è una questione di decisione. INTERVISTATORE - Dunque i principi sociali, i principi della politica, non si potrebbero dimostrare: è solo possibile assumere personalmente posizione a favore o contro di essi ! In definitiva la sua idea della « società aperta » si basa anch’essa interamente su una cosiffatta scelta di fondo: cioè sulla scelta della razionalità anche nel campo sociale. Può

chiarire meglio questa posizione? K. POPPER - Il razionalismo attribuisce valore all’argomentazione ragionata e alla teoria, e al controllo in base all'esperienza. Ma questa decisione a favore del razionalismo non può a sua volta essere dimostrata mediante argomentazione ragionata ed esperienza. Sebbene la si possa sottoporre a discussione, essa riposa in ultima analisi su una decisione irrazionale, sulla fede nella ragione. Ma questa scelta a favore della ragione non è di ordine puramente intellettuale, bensì di ordine morale. Essa condiziona tutto il nostro atteggiamento verso gli altri uomini e verso i problemi della vita sociale. Ed è strettamente connessa ad una fede nell’unità razionale dell’uomo, nel valore di ogni uomo. Il razionalismo può accompagnarsi ad un atteggiamento umanitario meglio di quanto non lo possa l’irrazionalismo con il suo rifiuto della eguaglianza dei diritti. Certo i singoli individui umani sono disuguali sotto molti aspetti. Ma ciò non è in contrasto con l’esigenza che tutti siano trattati allo stesso modo, che tutti abbiano eguali diritti. L’« eguaglianza dinanzi alla legge » non è un fatto, è un’istanza politica che riposa su una scelta morale. La fede nella ragione, anche nella ragione degli altri, implica l’idea di imparzialità, di tolleranza, di rifiuto di ogni pretesa autoritaria.

TIRANDO UN BILANCIO

INTERVISTATORE - Qual è in definitiva il movente morale che induce il filosofo Herbert Marcuse a impegnarsi così a fondo a favore di una politica radicale? H. MARCUSE - Impegnarsi? Vede, per me non si tratta affatto di uno speciale impegno. E' una cosa del tutto naturale, del tutto spontanea. Semplicemente io oggi non posso pensare senza abbracciare automaticamente col pensiero quel che capita intorno a me, ciò che accade nel mondo. E cioè non soltanto nel mio ambiente immediato, ma nei ghetti esistenti negli Stati Uniti, nell’Asia sudorientale, nell’America latina, dovunque la miseria, la crudeltà, l’oppressione ci si mostrano; persino se uno non vuole vedere queste cose, le sente, le legge, le sa. Direi che questo per me non è un modo speciale di impegnarmi, è la naturale espressione della mia esistenza. INTERVISTATORE Professore, per concludere, riformuliamo ancora una volta la sua posizione di principio: la rivoluzione, vale a dire l’affermazione violenta di ciò che è riconosciuto migliore, è per lei inconcepibile? K. POPPER - Qui bisogna distinguere tra rivoluzione contro una democrazia, ivi compresa quella che i marxisti definiscono democrazia puramente formale, e rivoluzione contro un’autentica dittatura, che purtroppo di rado riesce ad eliminare la dittatura stessa. Anche il termine « rivoluzione » può significare rovesciamento non violento oppure violento. Il marxismo ha lasciato aperta questa ambiguità. E la conseguenza voluta del rovesciamento violento è spesso la dittatura. Così fu

nella rivoluzione inglese del XVII secolo, che portò alla dittatura di Cromwell; nella rivoluzione francese, che portò a Robespierre e a Napoleone; e nella rivoluzione russa, che ha portato a Stalin. E’ dunque chiaro che gli ideali rivoluzionari e i loro sostenitori finiscono quasi sempre con l’essere vittime della rivoluzione. Le trasformazioni non violente sono del tutto diverse. Esse ci rendono possibile prestare attenzione alle conseguenze non volute e non desiderate delle misure da noi adottate e di modificare tempestivamente queste ultime se le suddette conseguenze si manifestano. In tal modo esse creano un'atmosfera in cui l’aperta critica delle condizioni sociali esistenti non è repressa con la violenza e nel cui contesto si rendono possibili ulteriori riforme.

CONCLUSIONE

1 HERBERT MARCUSE e KARL POPPER, i due « grandi decani » delle due grandi correnti filosofiche del nostro tempo che mirano ad un cambiamento della società, hanno avuto solo rari e fuggevoli incontri. Non ci sono state tra loro serie e approfondite discussioni e non è prevedibile che ce ne siano in futuro. Eppure un loro confronto è necessario. Solo una teoria della società che tenga conto delle contraddizioni esistenti tra un socialismo rivoluzionario e un riformismo sociale orientato verso un’evoluzione e che magari superi da una parte e dall’altra tali contraddizioni, può essere realmente critica. La Radio bavarese ha cercato di organizzare tramite la televisione quel confronto tra Marcuse e Popper che non ha mai avuto luogo direttamente. Il curatore dei testi qui presentati ha intervistato separatamente nelle loro residenze i due esperti di filosofia politica procedendo poi a un « montaggio » contrappuntistico delle loro risposte. Ottenere la partecipazione di Marcuse non è stato facile. Solo dopo un colloquio preliminare durante una sua visita in Germania e il successivo invio di una dozzina di lettere da Monaco a La Jolla, il sobborgo di San Diego in California dove risiede Marcuse, l'ormai settantaduenne studioso si è lasciato indurre ad un’autopresentazione documentaria della sua vita e della sua filosofia politica. Quando però nel

novembre del 1970 l'équipe televisiva ha potuto incontrare Marcuse nel suo modesto chalet non lontano dal campus della sua vecchia università, in posizione dominante sull’alta costa rocciosa dell’Oceano Pacifico, egli ha dato prova di un grande spirito di collaborazione e si è rivelato un maestro nell’utilizzare questo fondamentale strumento di comunicazione. Karl Raimund Popper, « in pensione » dal 1969 come il suo antagonista, ha invece accettato subito il progetto. Lo studioso conduce vita appartata con la moglie a Penn, nella contea inglese del Buckinghamshire. Di quattro anni più giovane di Marcuse e, diversamente da questi, in condizioni di salute non eccellenti, egli deve aver sentito come molto gravose le costrizioni tecniche imposte dal mezzo televisivo. Mentre Marcuse, verso la metà degli anni sessanta, ha conosciuto una rinomanza mondiale come teorico del movimento internazionale di protesta della Nuova Sinistra, Karl Popper è poco noto al di fuori del mondo accademico. E ciò sebbene Sir Karl Popper - il titolo nobiliare gli è stato attribuito nel 1965 - sia forse il più influente filosofo del mondo culturale anglosassone e scandinavo. Nella Repubblica Federale Tedesca la notorietà di Popper si diffuse anche tra gli studenti solo dopo la sua disputa con Theodor Adorno nel 1961, con la quale egli riaccendeva nella sociologia tedesca il cosiddetto Positivismusstreit (controversia sul positivismo). Che in seguito a ciò i dialettici della « scuola di Francoforte » gli affibbino l’etichetta di positivista è assurdo. Popper stesso, come teorico della scienza, ha formulato la più recisa e più acuta critica del neopositivismo a proposito di Rudolf Carnap e del Circolo di Vienna.

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Più libertà, più giustizia, più umanità per la società democratica occidentale e naturalmente per tutte le società del mondo: è questo il tema di entrambi i filosofi. Se si esaminano comparativamente i loro due panorami così contrastanti, ci si imbatte innanzi tutto nella diagnosi della società attuale, nell’accertamento analitico. Herbert Marcuse, che non si richiama più esclusivamente, come il marxismo tradizionale, all’economia politica e alla situazione di classe di questa società, ma alla struttura della coscienza e degli istinti dell’« uomo unidimensionale », ne traccia un quadro spaventoso. Ma la nostra società è veramente così repressiva come afferma il neomarxista? Il fatto che la stragrande maggioranza degli individui non la senta come tale, non costituisce per Marcuse un’obiezione valida. Il frenetico sviluppo della tecnica e della produttività e conseguentemente anche del livello di vita degli stessi ceti svantaggiati nasconderebbero all’interno e all’esterno i concomitanti fenomeni barbarici del tardo capitalismo e addormenterebbero la coscienza di questi individui al punto che essi perdono ogni capacità di capire la loro obiettiva situazione. Qualunque simpatia si possa nutrire per tale tesi, in che modo Marcuse acquisisce i criteri che consentono di distinguere la « giusta » coscienza dalla « falsa » coscienza? Però, se la critica annientatrice di Marcuse fosse giustificata anche solo parzialmente, susciterebbe sfiducia nei confronti del quadro ancora relativamente ottimistico che il Popper traccia di questa società. Certo il Popper vede nitidamente le ingiustizie e i condizionamenti che in essa esistono. Ma è convinto che la democrazia rappresentativa parlamentare sia sostanzialmente in grado di difendere i cittadini più deboli da quelli più forti mediante istituzioni statali e sociali. Il secondo momento del quadro disegnato dai due filosofi è l’obiettivo della società auspicata e la via per giungervi. Marcuse non ha alcun dubbio che la sua « nuova società » sarà socialista e che la via per attuarla passa per

l’eliminazione rivoluzionaria del sistema tardo capitalistico. Però, differenziandosi anche qui dal marxismo tradizionale, Marcuse postula in primo luogo una radicale trasformazione della coscienza, cioè della « sovrastruttura », come presupposto per giungere ad una trasformazione rivoluzionaria della « base » economica. Un socialismo dal fondamento biologico, si potrebbe dire: Karl Marx arricchito con l’apporto di Sigmund Freud. L’obiettivo cui mira qui Marcuse è niente di meno che la costruzione di un uomo nuovo: un uomo orientato verso la gioia, che non conosce il micidiale concetto di concorrenza del capitalismo, che ha perduto la sua aggressività ed opera invece con spirito di solidarietà; un uomo che nutre l'odio più profondo contro la guerra. Un’utopia dall’aspetto seducente, alla quale ci si abbandonerebbe fin troppo volentieri. Però molti interrogativi restano aperti: come dovrà essere organizzata la società tenuto conto delle condizioni proprie di un’economia industriale? E l'auspicata rivoluzione permanente della coscienza dell'uomo non avrebbe come conseguenza una politicizzazione di tutte le interazioni sociali che sottrae all’individuo quasi ogni spazio di libertà? Inoltre, si può essere sicuri che la rivoluzione di Marcuse non produca una dittatura, anche se egli non la vuole? Il neomarxista risponde: « Su questo non vi è alcuna garanzia. La storia non è un istituto di assicurazione ». E come in sede di diagnosi della società attuale, anche per quanto attiene il progetto della « nuova società » sorge l'interrogativo: quali criteri permettono di accertare la « giustezza » di questa società e in che modo si reperiscono tali criteri? Non si nasconde qui, in ultima analisi, un’impostazione elitario-dogmatica: « l’idea di un accesso privilegiato alla verità per i portatori della scienza della salvezza » (Hans Albert)? Karl Raimund Popper, viceversa, non rivolge il suo sguardo verso l’utopia. Il suo obiettivo, la « società aperta », è uno sviluppo progressivo della esistente democrazia

parlamentare mediante riforme sociali. Ogni rivoluzione, per il neoliberale, contiene in sé il pericolo di « uccidere i rivoluzionari e di corrompere i loro ideali ». Le riforme invece si possono correggere se determinano conseguenze non desiderate. Qui si pone però come fondamentale il quesito se sia in genere possibile attuare di fatto la « società aperta », qualora la diagnosi marchiana del tardo capitalismo cogliesse anche solo in parte nel segno. Popper auspica inoltre una composizione razionale dei conflitti sociali. Ma le valutazioni e gli atteggiamenti politici nc n sono per lo meno influenzati dalle condizioni sociali esistenti? La « società aperta » di Popper, anche questo è degno di nota, non è caratterizzata precisamente quanto al suo contenuto. Il democratico liberale Popper non possiede alcun modello della società « giusta ». Egli indica soltanto le regole del giuoco che si debbono rispettare nelle controversie sociali e le garanzie istituzionali che debbono funzionare. Quali obiettivi politici siano poi da perseguire attraverso il rispetto delle indicate regole del giuoco dev’essere sempre nuovamente riconsiderato e definito (in via provvisoria) attraverso la discussione critica. Ma come è possibile pervenire a questo consenso in una società in cui esistono interessi antitetici? Certo soltanto attraverso la decisione della maggioranza. Alla fine riemerge qui il dubbio, seminato da Marcuse, sull'autonomia della coscienza degli individui in regime di tardo capitalismo. Che la « società aperta » di Popper resti in definitiva vuota di contenuti è una logica conseguenza del suo orientamento filosofico in materia di teoria della scienza. Mentre per Marcuse la scienza « include un’analisi di tendenze, di possibilità storiche », e le norme sociali, le valutazioni politiche sono pertanto dimostrabili scientificamente, per Popper non esiste nessuna conoscenza certa, neppure nel campo delle scienze naturali. Il nostro sapere è un tirare a indovinare sorretto dalla critica. Noi

disponiamo di ipotesi per far luce sui problemi, e il compito dell’uomo di scienza consiste nel tentare costantemente di confutarle. Noi incliniamo ad accordar fiducia a quelle ipotesi e teorie che più a lungo resistono a simili tentativi di confutazione. Esse hanno avuto provvisoriamente conferma. Però possono essere superate in qualsiasi momento e noi dovremmo dedicarci senza tregua al tentativo di tale superamento. Il contrasto tra Marcuse e Popper, tra il neomarxista e il social-liberale, il « razionalista critico », come egli stesso si definirebbe, affonda dunque, e soprattutto, le sue radici in una diversa teoria della scienza, in un’opposta maniera di concepire la scienza e il suo compito nei riguardi degli uomini.

3 NELLA MIA QUALITÀ di contemporaneo, che la consapevolezza dell’immoralità e della disumanità dell’ordinamento sociale capitalista non ha tuttavia convertito al marxismo, credo di poter dire che non solo Marcuse è criticabile attraverso Popper (per esempio attraverso la convincente teoria della scienza propria del razionalista critico), ma anche Popper attraverso Marcuse (ad esempio con la sua più concreta e sottile diagnosi della nostra società e delle opportunità che essa offre all'autodeterminazione e all'autorealizzazione, anche se tale diagnosi può apparire esagerata). Non sono certo se sia possibile attuare una reale sintesi tra i contrastanti progetti di Marcuse e di Popper. Ma credo che la teoria che sarà alla base di una società più libera e più giusta deve trarre elementi dal pensiero di entrambi questi filosofi. Articolare teoreticamente i due contrapposti progetti, per mettere in piena luce i punti sui quali si

potrebbe impostare un tentativo di sintesi, è lo scopo del presente confronto. Monaco, marzo 1971. FRANZ STARK

NOTE BIO-BIBLIOGRAFICHE

HERBERT MARCUSE E' NATO a Berlino il 19 luglio del 1898, da una famiglia ebraica appartenente all’alta borghesia. Nel 1918 fa parte di un comitato di soldati a Berlino-Reinickendorf. Studia, dal 1919 al 1922, presso le Università di Berlino e Friburgo. E qui si laurea con Heidegger nel 1922 discutendo sul tema « Der deutsche Künstlerroman ». Lavora per un breve periodo presso una casa editrice berlinese. Dal 1922 al 1932 prosegue i suoi studi a Friburgo sotto la guida di Husserl ed Heidegger. Al 1928 risalgono i suoi « Beiträge zu einer Phänomenologie des Historischen Materialismus ». Si abilita con il lavoro: Hegels Ontologie und die Grundlegung einer Theorie der Geschichte. Agli inizi degli anni trenta cominciano le sue relazioni con l’Institut für Sozialforschung di Francoforte. Collabora all'opera Autoritàt und Familie. Emigra nel 1933: prima a Ginevra presso l’Institut für Sozialforschung, su invito di Horkheimer; e dal luglio del 1934 negli Stati Uniti. Qui insegna presso la Columbia University e collabora all’Institute of Social Research. Dal 1942 al 1950 ha lavorato preso l'Office of Strategie Services. E' stato collaboratore scientifico del Russian Research Center della Harvard University (19531954). Nel 1954 è passato ad insegnare Scienza politica alla Brandeis University. Ha tenuto due corsi (1959 e 1961-1962)

all’Ècole Pratique des Hautes Etudes di Parigi. Lasciata, per i motivi accennati nell’intervista che precede, la cattedra alla Brandeis University, ha poi accettato l’offerta dell’University of California, San Diego (La Jolla). Gastprofessor nel 1964 a Francoforte. Nel 1966 è stato nominato professore onorario alla Freie Universität di Berlino

SCRITTI DI H. MARCUSE 1. Marxismo e rivoluzione. Studi (1929-1932), trad. it. A. Solmi, intr. di G.E. Rusconi, Einaudi, Torino 1975. 2. L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità (1932), trad. it. di E. Arnaud, pres. di M. Dal Pra, la Nuova Italia, Firenze 1969. 3. Cultura e società. Saggi di teoria critica 19331965, trad. di C. Ascheri, H. Ascheri, Osterlow e F. Cerutti, Einaudi, Torino 1969. 4. Autorità e famiglia (1936), a cura di M. Horkheimer, trad. it. di A. Cinato, A. Marietti Solmi e C. Pianiola, intr. di F. Ferrarotti, UTET, Torino 1973. 5. Ragione e rivoluzione. Hegel e il sorgere della teoria sociale (1941), tra. it. di A. Izzo, introd. di A. Santucci, Il Mulino, Bologna 19742. 6. Eros e civiltà (1956), trad. it. di L. Bassi, introd. di G. Jervis, Einaudi, Torino 1964. 7. Critica della tolleranza. La forma attuale della tolleranza: un mascheramento della repressione (1955), (con R.P. Wolff, B. More jr.), trad. it. di D. Settembrini e L. Codelli, Einaudi, Torino 1968. 8. Psicanalisi e politica (1957), trad. di L. Ferrari degli Uberti, Laterza, Bari 1968. 9. La prospettiva del socialismo nella società ad alto sviluppo industriale (1967), trad. it. di C. Mainoldi, in «

Problemi del Socialismo », VII, 1955, 1. 10. Soviet Marxism (1958), trad. it. di A. Casiccia, Guanda, Parma 1968. 11. L’uomo ad una dimensione (1964), trad. it. di L. Gallino e T. Giani Gallino, Einaudi, Torino 19676. 12. Logica dell’utopia (1963), trad. it. di S. Vertone, Laterza, Bari 1968. 13. Saggio sulla liberazione (1969), trad. it. di L. Lamberti, Einaudi, Torino 1969.

KARL POPPER E' NATO a Vienna nel 1902. Ed è professore emerito di filosofia presso l’Università di Londra. Pubblica nel 1934 la Logik der Forschung, punto di riferimento per ogni studioso che da allora si è interessato ai problemi di epistemologia. Coll'approssimarsi della annessione dell’Austria alla Germania nazista, Popper - che è di origine ebraica - emigra nel 1936 in Nuova Zelanda, dove ha insegnato fino alla fine della guerra presso l'University College di Christchurch. Nel 1945, anno di pubblicazione della Società aperta e i suoi nemici, Popper accetta l’invito a passare alla London School of Economics and Politicai Sciences, dove fu fatto ordinario nel 1948. Visiting Professor presso le Università di Harvard, di Stanford, di Berkeley, del Minnesota e dell'Indiana, Popper è membro delle più prestigiose accademie scientifiche internazionali. Di recente è stato eletto Fellow della Royal Society. Vive in Inghilterra nei pressi di Londra. Teorico del fallibilismo nella teoria della conoscenza, Popper, nella teoria della politica, è tra i più illustri difensori contemporanei della democrazia o, per usare una sua espressione, della società aperta.

SCRITTI DI K.R. POPPER 1. Logica della scoperta scientifica (1934), trad. it. di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1970. 2. Scienza e filosofia (1956-1966), trad. it. M. Trincherò, Einaudi, Torino 1969. 3. Congetture e confutazioni (1963), trad. di G. Pancaldi, Il Mulino, Bologna 1969. 4. Miseria dello storicismo (1944), trad. it. di C. Montaleone, Feltrinelli, Milano 1975. 5. Epistemologia, razionalità e libertà (1966-1967), trad. it. di D. Antiseri, Armando, Roma 1972. 6. La società aperta e i suoi nemici (1945), vol. I: Platone totalitario; vol. II: Hegel e Marx, falsi profeti, trad. it. di R. Pavetto a cura di D. Antiseri, Armando, Roma 19731974. 7. Conoscenza oggettiva (1972), trad. it. di A. Rossi, Armando, Roma 1975. 8. La ricerca non ha fine: autobiografia intellettuale (1974), trad. it. di D. Antiseri, Armando, Roma 1976.

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Frontespizio

6

LE TESI

9

LA BIOGRAFIA « POLITICA » H. Marcuse LA BIOGRAFIA « POLITICA » K. Popper

11 15

LA NUOVA SOCIETÀ’: CRITICA E PROPOSTE PROGRAMMATICHE H. Marcuse

19

I PRESUPPOSTI TEORETICI H. Marcuse

39

LA NUOVA SOCIETÀ’: CRITICA E PROPOSTE PROGRAMMATICHE K. Popper I PRESUPPOSTI TEORETICI K. Popper TIRANDO UN BILANCIO CONCLUSIONE 1 2 3 NOTE BIO-BIBLIOGRAFICHE HERBERT MARCUSE SCRITTI DI H. MARCUSE KARL POPPER SCRITTI DI K.R. POPPER

30 44 50 52 52 53 57 59 59 60 61 62